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E’ nata a Ferrara Officine Europa: con essa la prima edizione del Festival della Progettazione Europea.

C’è una nuova realtà a Ferrara, Officine Europa, l’associazione il cui obiettivo è promuovere le iniziative culturali, didattiche e formative di promozione e sostegno della cittadinanza europea e dei suoi valori, singolarmente o in collaborazione con individui, organizzazioni, reti internazionali. L’associazione lancia la prima edizione del Festival della Progettazione Europea, che si terrà a Ferrara dal 4 al 6 aprile.

Officine Europa, che già dal nome denuncia la volontà di essere una fucina di progettualità e costruzione, forma e sostanza a un’idea di Alexandra Storari. Anche nel logo, la cui elaborazione è stata curata da ESMA Creative Studio, è chiaro il richiamo agli elementi creativi: il design si ispira ai dettagli geometrici dei piccoli oggetti industriali, come i bulloni nella “O” di Officine, e alle forme di legno utilizzate dai bambini nei loro giochi, nella lettera “E” di Europa, celebrando la cultura e la progettazione europea in un contesto giocoso e ispiratore.

L’european project manager ferrarese ha fondato questa Aps a convinta trazione femminile insieme a un solido gruppo di amiche e colleghe: Susanna Tartari, Eleonora Storari, Annalisa Ventura, Simona Perinati, Amber Brewster ed Elisabetta Storari.

“Officine Europa rappresenta per me il lungo percorso, professionale e personale di tutti questi anni – spiega Alexandra Storari -. Racchiude la mia idea di Europa, di essere cittadina italiana ed europea, racchiude il sentimento che provo quando viaggio per questo meraviglioso continente, ricco e sfaccettato, che è ovunque casa mia. Perché qui trovo sempre le tracce della storia, della nostra storia, i fili di luoghi e paesaggi, la rete di connessioni e scontri, che sono in primo luogo le tracce di cosa siamo stati e di cosa siamo, e in secondo luogo i valori che ereditiamo e che dobbiamo rinvigorire, rinsaldare, proiettare nel futuro”.

L’Associazione, costituita a inizio gennaio, è già operativa. Ha ideato la prima edizione del Festival della Progettazione Europea, che si terrà a Ferrara dal 4 al 6 aprile.

Il grande evento diffuso vuole riunire le persone di ogni Paese d’Europa interessate a conoscere, discutere, approfondire le scelte e le sfide del futuro dell’Unione. La tre giorni di incontri, dibattiti, laboratori ed eventi porterà dunque l’Unione Europea al centro della città, fornendo l’opportunità unica di informarsi e formarsi, fare rete, scambiare idee e progetti, condividere esperienze.

Fondatrici di Officine Europa, a destra, seduta, Alexandra Storari

 

Alcune domande al signor Luca Caprini sui fatti di Pisa

Art.17 della Costituzione:

I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi. Per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso. Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica.

Alcune domande al signor Luca Caprini sui fatti di Pisa

Non facciamo in tempo a metabolizzare lo sgomento e la rabbia di fronte alle immagini e alle testimonianze provenienti da Pisa e da Firenze, che a Ferrara – non esattamente una piazza immacolata nella storia degli abusi delle forze dell’ordine –  il consigliere comunale, e segretario regionale del Sindacato Autonomo Polizia, Luca Caprini sente il bisogno di fare alcune dichiarazioni pubbliche:
“Se si vuole sostenere che nelle manifestazioni di piazza sia possibile fare tutto ciò che si vuole sull’altare della libertà di espressione allora non serve il servizio d’ordine, la polizia sta bene anche a casa, ci vadano questi ‘soloni’ a tutelare l’ordine pubblico”. Aggiunge Caprini che nella manifestazione di Pisa “sono state violate le prescrizioni e il personale di servizio è dovuto intervenire”. Inoltre, che “diversi esponenti politici e istituzionali stanno aggredendo verbalmente e delegittimando l’operato delle forze dell’ordine”. Questi sarebbero comportamenti “assolutamente irresponsabili” e che “rischiano solo di provocare il caos”.
Le forze dell’ordine, sostiene infine Caprini, “non hanno colore politico” e questa polemica andrebbe fatta “in altri luoghi e in altri contesti“.
Alcune di queste affermazioni suonano contemporaneamente impegnative e generiche. Vorremmo capirle meglio e quindi rivolgiamo al signor Caprini queste domande:
– Potrebbe indicare con precisione chi ha sostenuto che nelle manifestazioni di piazza è possibile fare tutto ciò che si vuole?
-Visto che appare bene informato, può specificare quali prescrizioni sono state violate nel caso specifico?
– Dopo aver specificato quali prescrizioni sono state violate, può dirci se, a suo giudizio, in base agli elementi video ed alle testimonianze pubbliche disponibili, la reazione dei poliziotti sia stata proporzionale alla violazione?
– Potrebbe indicare con precisione quali sono gli esponenti politici e istituzionali che stanno delegittimando l’operato delle forze dell’ordine?
– Visto che le forze dell’ordine “non hanno colore politico”, è d’accordo o in disaccordo con il fatto che la polizia italiana è un corpo di pubblica sicurezza che agisce nel rispetto delle regole costituzionali edificate sulla pregiudiziale antifascista?
Dal momento che il signor Caprini ha deciso di intervenire nel dibattito pubblico su fatti di una gravità estrema, siamo fiduciosi che altrettanto pubblicamente vorrà precisare le sue affermazioni rispondendo a queste domande.

Photo cover: blitz alla Scuola Diaz di Genova, 2001, tratta dal sito infodifesa.it

Parole e figure /
La vita è una cosa meravigliosa

Definire la nostra vita è difficilissimo. Lo spagnolo Raúl Guridi Nieto, in “Che cos’è la vita”, edito da Kite, ci accompagna in una storia poetica che in poche parole cerca di raccontarla. Sublime.

Arduo, davvero arduo definire la vita, breve, lunga o intensa che sia. Difficile soprattutto perché è fatta di momenti, di contraddizioni, di certezze che diventano dubbi, di conquiste e di tante malinconie. Di incontri che ci cambiano per sempre. Vita che chiama vita.

In questo percorso a volte tortuoso ma affascinante e sinuoso che è la vita ci accompagna oggi un albo di qualche anno fa ma sempre bellissimo, un evergreen di poche righe: “Che cos’è la vita”, di Raúl Guridi Nieto, già incontrato con “Parole”.

Le strade della vita sono tante, in questo albo si contorcono come un serpente, tutto vi gira intorno: paesaggi, luoghi, persone, parole, poesie. I sentieri divergono, a volte sono semplicemente paralleli, magari ad un certo punto convergono. Chissà.

Nella vita ci sono la curiosità, i pericoli, le decisioni che ne cambiano corso e direzione, i dubbi ragionevoli e irragionevoli. A volte questa vita scorre veloce, a volte è lenta, troppo. È costellata da momenti oscuri, da casualità che fanno incontrare o fare qualcosa di inaspettato, da difficoltà più o meno insormontabili, da impedimenti, disparità, differenze, e, soprattutto, da inversioni obbligatorie, spesso a U. la vita è fatta di silenzi, alcuni necessari, altri intollerabili. Ma spesso succede qualcosa, che comporta un’altra cosa. Ci si segue e ci si accompagna, bello se e quando arriva l’amore. L’amor che tutto muove.

Ci sono gesti teneri, fantasia, sogno e realtà, fragilità, tratti dipinti che sono carezze, in queste pagine. Attimi. Incontri. Linee invisibili e dolci che legano le vite, l’una all’altra.

Tutto qui è pura poesia, tutto è amore. Ognuno alla ricerca della sua strada. Perché la vita è un dono, è meravigliosa. Semplicemente meravigliosa.

Raúl Guridi Nieto, Che cos’è la vita, Kite, Padova, 2018, 36 p.

Raúl Guridi Nieto si è formato alla Facoltà di Belle Arti di Siviglia. Dal 1995 ha lavorato e sperimentato professionalmente quasi tutti i campi di immagine, design e pubblicità. Il suo lavoro è molto apprezzato in Spagna, ma è anche riconosciuto internazionalmente.
Ha pubblicato più di 60 libri, alcuni dei quali sono stati pubblicati negli Stati Uniti, in Francia, Germania, Italia, Libano. Dal 2010 si dedica ai libri per bambini per i quali ha ottenuto vari premi e riconoscimenti internazionali.

 

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandriin collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara

Ma la cultura a Ferrara non è solo Ferrara Arte

Ma la cultura a Ferrara non è solo Ferrara Arte

Un momento significativo della campagna elettorale per le prossime elezioni amministrative è stata la presentazione, a consuntivo di una legislatura, della attività promossa e condotta dall’Assessorato alla Cultura del Comune. ‘Arte a Ferrara 2019 – 2024’ è stata una accurata iniziativa che ha enfatizzato linee e modi di intervento. Una, finta, occasione di partecipazione perché non è stato previsto alcun confronto, perché su molti temi si è taciuto, perché le cifre sono state presentate in modo ambiguo.
Ad esempio i magnificati 1milione e duecentomila visitatori nei cinque anni si riducono a duecentomila presenze annue – cifra non comparabile, ad esempio, con gli oltre seicentomila della vicina Ravenna per il solo 2023.

Una conferenza stampa nella quale non era possibile porre domande. La sala ‘Estense’ dove si è tenuto l’incontro era piena in tutti gli ordini di posti: una prova che l’argomento è molto sentito dalla cittadinanza, che la ricerca di informazioni non è solo degli addetti ai lavori. Un pubblico attento, pronto alla verifica: per l’amministrazione resta il rischio che la autocelebrazione si riveli controproducente.

Sono naturalmente da apprezzare gli interventi di restauro, di digitalizzazione dei materiali, la riapertura dei musei: impegni amministrativamente obbligati.

La scelta prioritaria è stata quella delle esposizioni affidate a Ferrara Arte, ogni altra presenza è passata in secondo piano. Non sono stati indicati i progetti triennali, obbligati da statuto. Continueranno le mostre conseguenti a quella dedicata a Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa. Una occasione importante per criticamente rivedere una stagione che tocca due secoli, dal XV al XVI: il limite, pesante, già riscontrato è che si ripropone in maniera piatta una metodologia obsoleta che non tiene conto delle committenze, delle iconografie, del collezionismo, delle tecniche, delle collocazioni, dei punti di visione.

La dichiarata preferenza per le esposizioni, dai ferraresi all’arte contemporanea, alla fotografia, ha escluso momenti di studio e di analisi, ha impedito attenzione per la città, per la sua storia, per i modi e le forme di una presenza che non può essere limitata ai soli duecento anni del vicariato estense.

L’affidarsi all’ ‘insostituibile Vittorio Sgarbi’ spiega carenze metodologiche e di informazione; gli esecutori sono il direttore di Ferrara Arte direttore della ‘Fondazione Cavallini Sgarbi’.

Molte sono le cose delle quali si è taciuto.  Non si è parlato di biblioteche, di teatro, di cultura musicale che pure fanno parte del settore; è stata l’esaltazione di Ferrara Arte, apparsa come unico strumento di azione culturale. Forse una obbligata difesa nei confronti di coloro che ne contestavano chiarezza di comportamenti e opacità di fini.

Faccio alcuni esempi di cose non dette che riguardano la conoscenza di Ferrara.
L’assenza da anni del ‘Bollettino dei Musei’, dei cataloghi delle raccolte, la mancanza di progetti di ricerca, la notizia del patrimonio diffuso in città, ad esempio le chiese di proprietà civica S. Antonio in Polesine, Corpus Domini, Madonnina, S. Francesco:
Il rapporto con l’Università di Ferrara, l’inesistenza di acquisti –
 valga per tutti l’episodio dei taccuini Ghedini già all’Ariostea, perduti, segnalati all’assessore il quale ha preferito all’interesse del patrimonio quello di un collezionista privato: il dottore Sgarbi.
Alcune informazioni errate come la dichiarazione che a Schifanoia non esisteva un’ aula didattica: presente invece al piano terreno almeno fino al 1985, eredità dell’ Università e ampiamente utilizzata. Si è parlato come se esistesse un ‘sistema musei’: mai costituito, nonostante la legge regionale.

Nulla si è detto della sorte di Palazzina Marfisa, definitivamente indicata come luogo espositivo distruggendo l’allestimento Barbantini, una testimonianza unica a Ferrara di museologia storica cancellata dalla incultura di chi gestisce il patrimonio.

Nulla della proposta di istituire il ‘Museo della Città’; nulla sulla istituzione di una biblioteca di storia dell’arte. Strumenti necessari se si vuole fornire occasioni di studio e di conoscenza.

Molto altro si potrebbe aggiungere. Un consuntivo deludente che testimonia una visione culturale angusta ed incapace di corrispondere agli interessi della città

Cover: Interno Palazzina Marfisa d’Este. I lavori di recupero dell’immobile iniziarono nel 1906 e, dopo varie interruzioni, si conclusero con gli efficaci interventi di Nino Barbantini che si occupò del restauro interno e dell’allestimento; il recupero dell’edificio fu completato grazie all’acquisizione, finanziata dalla Cassa di Risparmio di Ferrara, di mobili e dipinti che ricrearono le suggestive atmosfere di una dimora signorile del Rinascimento, offrendo un percorso espositivo idoneo ad una casa-museo. Fu inaugurata nel 1938.

Per leggere gli altri articoli e interventi su Periscopio di Ranieri Varese clicca sul nome dell’autore.

RIEDUCARE UNA BABY GANG
Ritrovare la consistenza di un luogo  

RIEDUCARE UNA BABY GANG. Ritrovare la consistenza di un luogo

Con il termine baby gang (letteralmente ‘banda di bambini’) si fa riferimento ad un fenomeno di microcriminalità che vede per protagonisti minori.  Di solito il fenomeno si sviluppa in contesti urbani e ha come epicentro le periferie delle città.

I minori si riuniscono in gruppi più o meno organizzati, con il preciso scopo di commettere reati: atti di vandalismo, bullismo, soprusi, aggressioni, furti, rapine e spaccio di stupefacenti. Una baby gang è quindi una banda di ragazzini/e responsabile di azioni di microcriminalità.

Tra le motivazioni che possono indurre un minore a entrare in una banda di questo tipo possiamo includere il bisogno di crearsi un’identità, di colmare il senso di solitudine e di appagare un desiderio di appartenenza, rendendo possibile la condivisione di interessi comuni ed esperienze di vita.

Inoltre, all’interno di una gang, si può riscoprire la protezione e la sicurezza che non si trova da altre parti e partecipare a quell’aspetto ‘ludico’ che induce a provare esperienze sanzionate dalla legge.  Si assiste così alla manifestazione di una voglia di partecipazione al gruppo che, realizzata con quelle modalità, attesta la sua problematicità e la sua incapacità ad assurgere ad un sano mondo adulto.

Ci sono molte teorie che provano a spiegare il fenomeno delle baby gang e, come quasi sempre, credo che la verità stia nel mezzo e cioè che ciascuna teoria spieghi una parte di questo fenomeno complesso, mettendo in luce facce diverse dello stesso prisma dai colori tetri.

Secondo alcune teorie, le azioni criminose delle baby gang si ricollegano al contesto familiare e affettivo in cui sono cresciuti i minori. Genitori che non sono stati dei buoni esempi e che avendo comunque scatenato processi identificatori con i propri figli, sono diventati modelli distorti di ciò che è bene e di ciò che non lo è.

Un secondo filone è quello delle teorie che potremmo definire ‘razionaliste’, che sostengono che l’adesione ad una baby gang è volontaria e spontanea e che non è strettamente collegata all’universo familiare di riferimento. Esiste comunque un condizionamento valoriale in grado di orientare l’azione del singolo che sceglie la gang per ottenerne un guadagno tangibile. Tale guadagno può essere sia materiale (soldi) sia immateriale (aumento dell’autostima).

Infine, vi sono le teorie più di stampo ‘analitico’, che fanno leva sul concetto di aggressione-frustrazione. In questo senso, il fenomeno delle baby gang avrebbe origine nella psiche di soggetti frustrati. E quando la fonte di una frustrazione non può essere controllata, l’aggressività si rivolge verso un obiettivo debole.

Non so se l’insieme di queste teorie esaurisce le possibili motivazioni di tale adesione, ma scuramente ne attesta la complessità e le diverse angolature attraverso le quali il fenomeno va analizzato e ricomposto in un universo di significati plurimi.

La baby gang sono al centro del Rapporto realizzato da Transcrime, il polo di ricerca sulla criminalità delle università di Milano, Bologna e Perugia, in collaborazione con il Servizio Analisi Criminale del Dipartimento della Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno e il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità del ministero della Giustizia.

Dal rapporto emerge che le gang giovanili sono attive nella maggior parte delle regioni italiane, ma è un fenomeno più presente al Centro-Nord rispetto al Sud. Secondo le forze dell’ordine, negli ultimi anni sono aumentate. Il rapporto individua fondamentalmente quattro tipi principali di gang presenti in Italia con caratteristiche differenti e una diversa distribuzione sul territorio.

Gruppi privi di una struttura definita. La loro è una violenza occasionale (risse, percosse e lesioni). Sono sparse per tutte le macroaree del Paese, sono il tipo maggiormente rilevato e più consistente numericamente. Questi gruppi sono caratterizzati da legami deboli, una natura fluida, l’assenza di una organizzazione definita e spesso non presentano fini criminali specifici.

Gruppi che si ispirano ad organizzazioni criminali italiane. Sono presenti specialmente nel Sud e in contesti urbani in cui vi è una presenza mafiosa. Sono composti quasi totalmente da italiani. Spesso i membri del gruppo sono legati dalla volontà di accrescere il proprio status criminale con l’auspicio di entrare a fare parte dell’organizzazione criminale vera e propria (le potremmo definire, con molta tristezza, bande pre-mafiose).

Gruppi che si ispirano a organizzazioni criminali o gang estere. Sono presenti in aree urbane del Nord e Centro e composti in prevalenza da stranieri di prima o seconda generazione. Fra le attività criminali più spesso associate a questo tipo di gang emergono le risse con percosse e lesioni, atti vandalici e disturbo della quiete pubblica.

Gruppi con una struttura definita, ma senza riferimenti ad altre organizzazioni specifiche. Sono presenti in tutte le macroaree del Paese e composti in prevalenza da italiani. Compiono spesso reati appropriativi, come furti o rapine, ma anche reati violenti. Queste gang non sono solitamente dotate di simbologie particolari né hanno interesse a pubblicizzare le proprie azioni.

Il fenomeno è davvero complesso e in continuo mutamento in termini di numero, componenti, età, collocazione geografica, modalità di azione delle gang, ma lo è anche perché, in quanto fenomeno sociale, accende la luce sulle modalità con cui lavorano le nostre istituzioni. La presenza di una o più baby gang attesta la crisi di agenzie importanti come famiglia, scuola, chiesa, Stato. Dove i minori delinquono abbiamo sicuramente sbagliato qualcosa, se non tutto.

Un problema, che sicuramente sta attraversando la nostra penisola e che credo vada messo in relazione al fenomeno delle baby gang con maggiore convinzione e con un livello di studio e di approfondimento più rilevante di quanto sia stato fatto fin ora, è quello della dematerializzazione delle nostre aree urbane.

Lo spazio dell’abitare sembra dipendere sempre meno dal fattore ‘luogo’ e si sta riorganizzando secondo nuove logiche che uccidono la memoria e la tradizione. Si tratta di logiche che portano all’apertura incondizionata e senza confini. La mobilità di capitali, merci e informazioni e la logica dei luoghi, fatta di permanenza e cultura, si scontrano rischiando di creare problemi al tessuto sociale.

Questa tensione genera nuove strategie dell’abitare che portano con sé nuovi assetti sociali. L’assenza di forti canali di mediazione tra ‘flussi’ e ‘luoghi’ fa sì che le zone abitate siano sottoposte a importanti tendenze stressogene.

La città protesa verso l’esterno per attirare l’attenzione dei circuiti globali, si lacera al suo interno, rischiando di diventare un sistema di opportunità che rinuncia alla convivenza sociale. Basti pensare alla costruzione di quei quartieri d’élite connessi col mondo intero tramite le reti internet, ma accessibili ‘fisicamente’ solo da persone che possono godere di un reddito molto alto.

Ad esempio, ci sono zone d’Italia dove il prezzo medio di vendita di un immobile si attesta sugli 8.000 euro a metro quadro, sicuramente non accessibile a persone con reddito medio basso, che vengono quindi escluse da quel mondo, da quel modo di vivere e dalle opportunità che là si trovano.

In una situazione di questo tipo la deriva di alcuni gruppi sociale diventa facile e la proliferazione delle baby gang è possibile sia dentro il circuito d’élite che fuori, perché in entrambi i casi è stato eretto un muro, che distrugge un tessuto sociale di prossimità per creare un mondo di connessioni possibili, dematerializzate e fragili.

È altresì vero che di fronte a consapevolezze di questo tipo, si possono individuare strade rigenerative che dovrebbero attenuare molte derive sociali. Provo ad enumerarne alcune senza pretesa di esaustività e con la consapevolezza che la loro realizzazione prevede una mobilitazione collettiva, che coinvolge le istituzioni, ma anche le singole persone adulte, attraverso il recupero di un senso di comunità, che non necessariamente è stato una consapevolezza della nostra giovinezza.

Tra le strategie migliorative attuabili annovererei:

  • Riportare le città dentro i ‘luoghi’ del vivere collettivo (le piazze, le strade, le sale civiche, gli oratori) e non solo dentro i ‘flussi’;
  • Ridare consistenza ai luoghi fisici, in modo particolare quelli che hanno una storia;
  • Creare ancoraggi valoriali, che permettono una appartenenza ad un contesto sociale che ha una storia, delle tradizioni e delle regole di convivenza;
  • Pensare che il senso di comunità sia una dimensione da istruire e mantenere;
  • Costruire relazioni non opportuniste;
  • Essere testimonial di fiducia e solidarietà;
  • Non rinunciare mai alla possibilità che la devianza ‘rientri’ e diventi supporto a delle buone relazioni;
  • Ricordarci che storia, memoria, tradizione e arte sono un veicolo di protezione;
  • Aiutare i giovani garantendo loro la possibilità sia di ‘fare’ che di ‘imparare’.  A questo proposito gli oratori, i centri sportivi, le scuole e la capacità di queste istituzioni di trasmettere valori collettivi, possono essere fronte di vita sana per tutti.

Infine, da persona che abita in un piccolo borgo e ad essa è molto affezionata, mi verrebbe da pensare che sarebbe importante ridare linfa vitale ai paesi e provare a ricordarci che delle relazioni sociali protettive sono più facili nei piccoli contesti che nelle metropoli inconsistenti dei flussi informativi dematerializzati.

Per leggere gli altri aricoli di Catina Balotta su Periscopio clicca sul nome dell’autrice

Lo stesso giorno /
Bologna, 26 febbraio 1872, piovono rane

Bologna, 26 febbraio 1872, piovono rane

Nella ricca e affascinante cultura popolare dell’Emilia Romagna, un evento singolare e a dir poco curioso si è verificato lunedì 26 febbraio 1872: una pioggia di rane si è abbattuta sulla città di Bologna.

Immaginate la sorpresa degli abitanti: il cielo, plumbeo e carico di pioggia, improvvisamente ha scatenato una cascata di piccoli anfibi, che guizzavano e saltellavano per le strade, creando un pandemonio di grida e risate.

Le cronache dell’epoca raccontano che la pioggia di rane durò circa mezz’ora, interessando principalmente il centro storico della città. Le rane, di dimensioni variabili, caddero dai tetti, dai cortili e persino dai camini, destando stupore e confusione.

L’evento ha dato vita a un proverbio dialettale bolognese: “A piov rane” (piovono rane), usato per indicare situazioni caotiche e confuse. (Com’è la situazione mondiale? A piov rane, N.d.R.Inoltre, la pioggia di rane bolognese è stata immortalata in una poesia di Giovanni Pascoli, intitolata “La rana” (scritta nel 1891 fa parte della raccolta “Myricae”)

La spiegazione più plausibile, tuttavia, è che la pioggia di rane sia stata causata da una tromba d’aria. Il vortice d’aria, infatti, avrebbe potuto sollevare le rane da un vicino specchio d’acqua e trasportarle per alcuni chilometri, prima di scaricarle sulla città.

Ancora oggi, a distanza di oltre 150 anni, la pioggia di rane del 1872 rimane un evento memorabile nella storia di Bologna, un enigma affascinante che alimenta la tradizione e la cultura popolare della regione.

La memoria di questo evento singolare è custodita anche nel Museo di Palazzo Poggi di Bologna (consiglio una visita), dove è conservato un barattolo di vetro che contiene alcune delle rane cadute dal cielo quel lontano 26 febbraio 1872.

Il 1872, rane a parte, è incredibilmente ricco di importanti eventi. Giusto per citarne alcuni, ricordiamo l’eruzione del Vesuvio che causa una tempesta di pesci (difficile collegarla all’evento di Bologna vista la distanza), l’inaugurazione del Metropolitan Museum of Art a New York e quella del Parco nazionale di Yellowstone, il primo parco nazionale del mondo, nasce inoltre la prima Latteria Socio Cooperativa in Italia a Canale d’Agordo.

In copertina e nel testo: due sale del Museo di Palazzo Poggi di Bologna, ricchissimo di reperti, rane comprese. 

Per leggere gli articoli di Nicola Gemignani clicca sul nome sull’autore o sulla rubrica Lo stesso giorno.

La strage di Addis Abeba
Nel ricordo di Yekatit 12, l’olocausto nero

La strage di Addis Abeba. Nel ricordo di Yekatit 12, l’olocausto nero

Il 19 febbraio 1937, durante una cerimonia pubblica in onore della nascita di Vittorio Emanuele di Savoia tenutasi ad Addis Abeba nel giorno Yekatit 12 -Festa della Purificazione della Vergine, secondo il calendario copto e da allora Giornata di Lutto Nazionale Etiope in memoria delle vittime dei massacri- un commando composto da due guerriglieri eritrei, Abraham Debotch e Mogus Asghedom, lanciò contro il palco otto bombe a mano uccidendo quattro carabinieri italiani, tre zaptiè (carabinieri reclutati tra le popolazioni indigene) e ferendo una cinquantina di presenti, tra cui lo stesso Viceré d’Etiopia Maresciallo Rodolfo Graziani, colpito da 350 schegge.

Il fallito attentato diventò l’occasione per scatenare una feroce rappresaglia, ordinata da Mussolini, passata alla storia come olocausto nero.

Harold J. Marcus, professore di Storia e di Studi Africani alla New York State University, parla del clima post-attentato in questi termini: ”Poco dopo l’incidente, il comando italiano ordinò la chiusura di tutti i negozi, ai cittadini di tornare a casa e sospese le comunicazioni postali e telegrafiche. In un’ora, la capitale fu isolata dal mondo e le strade erano vuote. Nel pomeriggio il partito fascista di Addis Abeba votò un pogrom contro la popolazione cittadina. Il massacro iniziò quella notte e continuò il giorno dopo. Gli etiopi furono uccisi indiscriminatamente, bruciati vivi nelle capanne o abbattuti dai fucili mentre cercavano di uscire. Gli autisti italiani rincorrevano le persone per investirle col camion o le legarono coi piedi al rimorchio trascinandole a morte. Donne vennero frustate e uomini evirati e bambini schiacciati sotto i piedi; gole vennero tagliate, alcuni vennero squartati e lasciati morire o appesi o bastonati a morte. Esercito e camicie nere si riversarono in strada, non tanto per stanare e arrestare i responsabili, quanto per terrorizzare e colpire in maniera indiscriminata i nuovi sudditi dell’Italia imperiale, colpevoli di essersi ribellati agli invasori. Oltre ai militi e ai fascisti organizzati, si lanciarono entusiasti nella caccia al nero anche operai, burocrati e impiegati coloniali. Prigionieri e semplici passanti – colpevoli soltanto di essere africani – vennero uccisi a bastonate, a badilate, oppure pugnalati, fucilati, impiccati, investiti con automezzi, bruciati vivi nelle loro case. Centinaia di persone furono sequestrate, deportate e rinchiuse nei campi di detenzione di Danane, in Somalia, e Nocra, in Eritrea, dove Graziani ordinò che avessero minime quantità d’acqua e di cibo”.

Il medico ungherese Ladislav Shaska così ricorda le azioni condotte dal Federale Guido Cortese: “Il maggior massacro si è verificato dopo le sei di sera… In quella notte terribile, gli etiopi vennero ammucchiati nei camion, strettamente sorvegliati dalle camicie nere armate. Pistole, manganelli, fucili e pugnali furono usati per massacrare gli etiopi disarmati, di tutti i sessi, di tutte le età. Ogni nero incontrato era arrestato e fatto salire a bordo di un camion e ucciso o sul camion o presso il piccolo Ghebi. Le case o le capanne degli etiopi erano saccheggiate e quindi bruciate con i loro abitanti. Per accelerare gli incendi vennero usate in grandi quantità benzina e petrolio. I massacri non si fermarono durante la notte e la maggior parte degli omicidi furono commessi con armi bianche e colpendo le vittime con manganelli. Intere strade erano bruciate e se gli occupanti delle case in fiamme uscivano in strada erano pugnalati o mitragliati al grido “Duce! Duce Duce!”. Dai camion, in cui gruppi di prigionieri erano stati portati per essere massacrati vicino al Ghebi, il sangue colava letteralmente per le strade, e da questi camion si sentiva gridare “Duce! Duce! Duce!. …Non dimenticherò mai quello che ho visto fare quella notte dagli ufficiali italiani che passavano con le loro auto lussuose per le strade piene di cadaveri e sangue, fermandosi nei luoghi dove avrebbero avuto una migliore visione delle stragi e degli incendi, accompagnati dalle loro mogli, che mi rifiuto di definire donne!”

Dopo che venne data alle fiamme, davanti agli occhi di Cortese, la chiesa di San Giorgio, il 28 febbraio Graziani arrivò addirittura a proporre di “radere al suolo” la parte vecchia della città di Addis Abeba “e accampare tutta la popolazione in un campo di concentramento”, ma Mussolini si oppose per paura delle reazioni internazionali, pur riconfermando l’ordine di passare per le armi tutti i sospetti e la rappresaglia divenne anche di matrice religiosa.

Percorrendo il sentiero del ‘repulisti’ tracciato da Mussolini in persona, il Vicerè ordinò una spedizione punitiva verso Debrà Libanòs -centro del potere spirituale e cuore secolare della chiesa cristiana ortodossa copta fondato nel XIII secolo a 150 km da Addis Abeba, nella regione dello Shoa- città santa i cui residenti erano ritenuti colpevoli di fomentare le ribellioni e di proteggere gli insorti.

Nel tragitto, le truppe italiane e somale comandate da Pietro Maletti, vennero incendiati 115.422 tucul e tre chiese e furono ben 2.523 i partigiani etiopi giustiziati.

Non sazia del sangue versato, la colonna imperiale proseguì il suo viaggio e dopo aver incendiato il convento di Gulteniè Ghedem Micael ed averne fucilato tutti i monaci, il 19 maggio i soldati occuparono Debrà Libanòs.

Il grande monastero fondato dal santo cristiano Tecle Haymanot era formato da due grandi chiese e da tremila modeste abitazioni dove vivevano monaci, preti, diaconi, studenti di teologia e suore. I residenti furono trucidati in circa una settimana; l’ultimo giorno del massacro vennero fucilati anche centoventisei giovani diaconi che erano stati inizialmente risparmiati.

Graziani, forte dell’approvazione di Mussolini, rivendicò “la completa responsabilità” di quella che definì trionfante la “tremenda lezione data al clero intero dell’Etiopia” come ”romano esempio di pronto, inflessibile rigore sicuramente opportuno e salutare”, compiacendosi di “aver avuto la forza d’animo di applicare un provvedimento che fece tremare le viscere di tutto il clero, dall’abuna all’ultimo prete o monaco, che da quel momento capirono la necessità di desistere dal loro atteggiamento di ostilità a nostro riguardo, se non volevano essere radicalmente distrutti”.

Nel 1946 Hailè Selassiè, per conto del Governo etiopico, presentò alla Conferenza di Pace di Parigi un memorandum che segnalava queste spaventose perdite umane, ma nessun italiano venne mai punito per i massacri, favorendo la rimozione collettiva e la mancanza di presa di coscienza, tuttora persistente, dei crimini compiuti durante le guerre coloniali fasciste in Etiopia.

Massacri di civili e religiosi del Yakitit 12-19 febbraio 1937: 30.000

Persone morte a causa della distruzione dei loro villaggi: 300.000

Donne, bambini e infermi uccisi dalle bombe: 17.800

Patrioti morti nei campi di lavoro a causa di privazioni e maltrattamenti: 35.000

Patrioti uccisi dalle corti marziali: 24.000

Patrioti uccisi in battaglia: 76.000

Totale esseri umani assassinati: 760.300.

Addis Abeba, obelisco al centro di piazza Yekatit

Il doloroso significato che assume la data del Yekatit 12, giornata di Lutto Nazionale celebrata nella Repubblica Federale Democratica di Etiopia in memoria delle vittime dei massacri compiuti dal colonialismo italiano, deve essere considerato come la faccia oscura o l’altra metà del 25 Aprile italiano.

La nascita, l’affermazione, la sconfitta e le conseguenze politico-sociali imposte dal regime dittatoriale fascista continuano ad essere ricordate solo a metà e solo a livello nazionale, con il risultato che le dominazioni in Libia, Etiopia, Eritrea e Somalia non sono mai entrate nel dibattito pubblico e che il popolo italiano è rimasto l’unico a non fare i conti con il proprio passato coloniale, razzista e militarista.

Il 23 ottobre 2006 un piccolo gruppo di deputati ha presentato alla camera una proposta di legge -non approvata- per istituire un “Giorno della memoria in ricordo delle vittime africane durante l’occupazione coloniale italiana”, in riferimento alle oltre 700mila vittime della dominazione.

La Risoluzione del Parlamento Europeo del 26 marzo 2019, ha poi indicato che è indispensabile ”riconoscere ufficialmente e a celebrare le vicende delle persone di origine africana in Europa, tra cui figurano anche le ingiustizie e i crimini contro l’umanità del passato e del presente, quali la schiavitù e la tratta transatlantica degli schiavi, o quelli commessi nell’ambito del colonialismo europeo”.

La Mozione 156, approvata il 6 ottobre 2022 dall’Assemblea Capitolina, che istituisce il 19 febbraio, giorno di inizio della Strage di Addis Abeba nel 1937, quale “Giornata in memoria delle vittime del colonialismo italiano” ha avviato un processo di ri-significazione -attraverso interventi di contestualizzazione e didascalie, azioni di guerriglia odonomastica, performance, reading, trekking urbani, installazioni e incontri- degli odonimi della città di Roma, riferendoli agli episodi storici, in gran parte criminali, a cui la loro intitolazione fa riferimento.

Roma, con oltre 150 odonimi, è sicuramente il luogo d’Italia maggiormente connotato dall’esperienza storica coloniale, ma il nutrito programma di iniziative, in corso da febbraio a maggio 2024, proposte dalla neonata Rete Yekatit 12 – 19  in collaborazione con la Federazione delle Resistenze, include Bologna, Firenze, Milano, Modena, Napoli,  Padova, Reggio Emilia, Ravenna, Siena, Bari.

Un’accettazione più ampia nella nostra coscienza di un passato scomodo da digerire come invasori, colonizzatori e imperialisti, oltre che di fascisti, forse ci darebbe la volontà di guardare al presente e al futuro del nostro paese con occhi diversi e ci consentirebbe di comprendere che l’oppressione è un meccanismo perverso, biunivoco e onnivoro che non finisce quando la vittima se la scuote di dosso, ma quando la ripudia anche il carnefice.

https://www.cnca.it/la-rete-yekatit-12-19-febbraio-chiede-di-istituire-una-giornata-sui-crimini-del-colonialismo-italiano/

https://www.cnca.it/wp-content/uploads/2023/02/Appello-19-febbraio-Colonialismo.pdf

https://www.cnca.it/wp-content/uploads/2024/02/rete-Yekatit12-19Febbraio_PROGRAMMA-FEBBRAIO-MAGGIO-2024.pdf

In copertina: Etiopia – Giorno dei martiri

Per leggere tutti gli articoli e gli interventi di Franco Ferioli su Periscopio cliccare sul nome dell’autore o sulla rubrica Controcorrente.

Per certi versi /
Il silenzio inaudito

Il silenzio inaudito

Il silenzio
Lo scriverò
Non sempre
È bello
Non sempre
Trattiene
La polvere
Delle parole
A volte
È il loro rifugio
Inaudito
la tomba
Il fiume carsico
Il granaio
Degli inverni
Ghiacciati
Stupore
Meraviglia
Dolore
Togliti le vesti
Silenzio
Dona i resti
Delle parole
Amiche
Ai sordi
Che mai
Vogliono sentire

Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.

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Cancel… plasticulture

Cancel… plasticulture

Quarantacinque anni fa, precisamente il 2 maggio del 1979, moriva Giulio Natta, il genio chimico che ha “inventato” il Moplen, dando inizio all’era della plastica. Quell’era che oggi “sembra” volgere al termine e che si è intrecciata – e continua a farlo – alla vita di questa città.

Come ricordato dallo storico del cinema Paolo Micalizzi, nel 1979 a Ferrara, il regista Marco Ferreri girò alcune scene del film Chiedo asilo proprio nei luoghi dove il Moplen era stato prodotto: nel film il protagonista, Roberto Benigni che interpreta il ruolo di un maestro d’asilo, si introduce, clandestinamente, dentro il petrolchimico ferrarese, con i suoi piccoli allievi per spiare i loro i genitori al lavoro.

Dopo Ferreri anche Federico Fellini realizzò presso “la città magica e marziana” come lui stesso definì il petrolchimico, un servizio televisivo di 3 minuti e successivamente tanti altri registi e giornalisti hanno contribuito a documentare questa stretta relazione, antropologica e culturale, esistente tra la città di Ferrara e “il mondo alieno”…sbarcato dopo l’invenzione di Giulio Natta.

Come si sa Natta è stato l’unico italiano a ricevere il premio Nobel per la Chimica. Ricordiamo che in ambito scientifico il nostro Paese si è visto assegnare 12 Nobel (dei 20 totali): 6 per la medicina/fisiologia, 5 per la fisica e 1, appunto, per la chimica.

Giulio Natta fu genio precoce – a 16 anni aveva già un diploma; a 21 una laurea –  e nella sua carriera ha firmato oltre 4000 brevetti. Uno di questi – l’invenzione per cui poi andò a ritirare la medaglia a Stoccolma e che ha rivoluzionato l’industria petrolchimica mondiale del dopoguerra – è proprio quello relativo alla plastica di cui è fatta la maggior parte degli oggetti d’uso quotidiano e anche di tanti altri meno noti: si spazia in ambiti di applicazione che vanno dal biomedicale all’autotrasporto, dall’edilizia al comparto casalingo e a oggetti di design.

Natta fu uno sperimentatore di frontiera, molto sensibile alle ricadute pratiche che potevano avere le ricerche in campo chimico. Si deve a lui appena ventiseienne, nel 1929, un nuovo sistema di sintesi del metanolo (che mise fine, tra l’altro, al monopolio tedesco su quel tipo di reazione). Poi fu la volta della sintesi della formaldeide per l’azienda Montecatini, quella del butadiene per la Pirelli e di varie altre molecole per la Bombrini Parodi Delfino.

Tra la fine degli anni Venti e l’inizio dei Trenta, poi, c’era una parola che andava molto di moda nel mondo internazionale della chimica: polimero. Natta era venuto in contatto con questi ambienti e visto che era uno dei pochi che si intendeva di raggi X, aveva cominciato a interessarsi alla struttura delle macromolecole sintetiche.

La sua carriera accademica fu veloce: a 24 anni, nel ’29, era libero docente, nel ’33 era all’Università di Pisa, nel ’35 alla Sapienza di Roma, nel ’37 al Politecnico di Torino. Infine, nel ’38 lo troviamo là dove aveva cominciato come studente, al Politecnico di Milano. Era già così noto che il CNR gli aveva affidato, per il solo biennio 1937-38, il 70% del finanziamento pubblico per la chimica (200 mila lire) da utilizzare per condurre specifiche ricerche sull’ idrogeno.

Persa la Seconda Guerra Mondiale, l’Italia contava proprio sugli ingegneri chimici come Natta per risollevarsi: le materie plastiche erano sempre più ricercate, l’industria chimica italiana cominciò a svettare nel panorama mondiale e, grazie ai rapporti con l’azienda Montecatini, il ricercatore mise in piedi una scuola di menti brillanti presso il Politecnico sfruttando e potenziando le aree industriali presenti nel Paese tra le quali quella di Ferrara.

Giulio Natta, 1960

Nel 1952, ci fu l’incontro che aprì la strada al Nobel (e allo “scolapasta” in plastica, ai mattoncini Lego e tanto altro ancora): quello con il chimico Karl Ziegler. Il tedesco aveva trovato dei catalizzatori al titanio per ottenere la solidificazione del gas etilene, ovvero il polietilene (PE). Solo Natta ne intuì l’importanza. Invitò Ziegler a Milano e convinse la Montecatini a investire la modica cifra di un milione di dollari per collaborare e contribuire a quelle ricerche. Natta così cominciò a sperimentare la tecnica su altri gas, tra cui il propilene, con in mente l’obiettivo di riuscire a sintetizzare la gomma sintetica (l’altro marchio di eccellenza del…made in Italy chimico: il Dutral).

Il polipropilene isotattico (PP) ottenuto da Natta e collaboratori si rivelò essere un polimero con una straordinaria versatilità e possibilità di lavorazione: il PP infatti può essere termoformato per riempire e riprodurre stampi di qualunque forma; può essere soffiato per generare bottiglie e flaconi; può essere filmato per riprodurre fogli e può essere filato in fili e tessuti (come ad esempio le mascherine chirurgiche che ci hanno protetto dalla trasmissione del Covid).

Il polipropilene diventò così “il materiale ideale per la… modernità” tanto che nel 1985, proprio la dirigenza Montecatini di allora, chiese a Italo Calvino un contributo per esaltare l’essenza del “materiale moderno” per eccellenza che, incidentalmente, riprendeva e riproduceva concretamente i temi delle sei lezioni americane che il grande scrittore stava terminando in quello stesso periodo, poco prima della sua morte.

La Scuola di Natta lavorò freneticamente proprio per sfruttare al massimo tutte le potenzialità del nuovo materiale. Ne seguì la richiesta di numerosi brevetti e la pubblicazione di articoli e frequenti comunicazioni sulla prestigiosa rivista Journal of the American Chemical Society. Era il 1954 e tre anni più tardi, nel maggio del 1957, la Montecatini avviò a Ferrara la produzione commerciale del PP di Natta e del PE di Ziegler.

Il premio Nobel arrivò a entrambi nel 1963, l’anno in cui fu pubblicato Il giardino dei Finzi Contini di G. Bassani (sì, nel romanzo è presente anche il polo chimico di Ferrara). Solo un anno prima la produzione della Montecatini aveva raggiunto le 250mila tonnellate l’anno e la Rai trasmetteva il Carosello con il tormentone di Gino Bramieri che incitava le signore casalinghe con il famoso «e mo’ e mo’… Moplen!».

Non è da oggi comunque che questo “mondo” da molti sia ritenuto, “politicamente scorretto” e suscettibile dunque di quell’atteggiamento di colpevolizzazione, espresso oggi più che mai tramite i social media attraverso pochi e inesatti frammenti di “informazioni”, per la maggior parte funzionali solo alla cosiddetta cancellazione culturale: una sorta di cancel plasticulture che va tanto di moda  e che colpisce nel segno…sbagliato.

E tanto più lo fa quanto più si dimentica della storia e…della scienza del Paese e, soprattutto – strano a dirsi – dimentica il futuro della nostra città.

Questo articolo è già uscito il 13 febbraio 2024 sul sito del CDS Cultura

In copertina: Gino Bramieri nel celebre Carosello per la pubblicità dei prodotti Moplen, premiati dal Nobel.

Inoki: La pace è la risposta

La pace è la risposta

Il testo di “La pace è la risposta” di Inoki

Vogliono la guerra, vogliono tutti la guerra, la guerra è il loro habitat, vogliono la violenza, vogliono il dissing

Serio, vuoi un diss? Vuoi il bis?
Vuoi il maestro delle barre su di te
Dopo che ti ho devastato
Distrutto, cucinato da ogni lato
Vuoi ancora una palata di mazzate sopra i beats?
Le tue canzoncine, le tue hits: cioccolato
Le sciolgo, prenditi i confetti di metriche col piombo
Fatte andare nel ragù col tuo sangue
Rime da mafioso, mezze trap fuori moda
Ancora fare guerre immaginarie dalla villa, dalla disco
Ancora coca, ancora tu?
Mollami, io cerco baci

Amo, amo, ancora che dissi ‘sto sfigato?
Quattro mesi fa gli hai fatto dieci minuti di diss, basta. Parla di qualcosa di più serio, no?
Va bene, provo a parlare di qualcosa di leggermente più serio…

RIT.
C’è chi la cerca e c’è chi ci capita
La guerra è di Satana, non è il mio habitat
La pace è il mio habitat
C’è chi la vuole, poi c’è chi l’ha imposta
La guerra è la vostra, la pace è la sola risposta

Chiedilo a Motaz Azaiza, fotografo sopra la Striscia
Chiedigli come ha perso le ventidue anime care della sua famiglia
Dopo che l’esercito di Tel Aviv gli ha chiesto di chiudere il suo profilo
Soltanto un reporter, gli ha chiesto di smettere
Lui ha continuato da Instagram a raccontare quei giorni di Gaza
Per questo che lui ha perso tutto, gli hanno bombardato la casa
Chiedilo ad Haya Abu Nasser, venticinque anni e due lauree
Una grande fortuna, un visto per uscire dalla Palestina
Il 17 di ottobre, ma il 7 è iniziato il massacro
La valigia è rimasta sul letto
Insieme al suo sogno mai realizzato
Chiedilo a Yasser, non conosciamo il cognome
Uno skater dei nostri, un sedicenne, un futuro campione
Telefono spento, nessuna notizia, abitava giù al porto
Lui come tanti dispersi, sotto una bomba al secondo
Chiedilo a Randa Harara, le donne di Gaza a cui era cara
Col suo sportello antiviolenza che ora non ha più una casa
Niente più lezioni di arte, niente più laboratori
Solo macerie, lacrime e fango per chi ora è lì fuori
Chiedi a Mohamed Alamarin, uno chef che ha imparato da noi
L’arte della cucina per aprire la sua pizzeria in Palestina
Ristorante Milano, così si chiamava quel posto
Adesso è distrutto e noi lo sentiamo anche nostro
Chiedi a Jumana Shahin, un futuro d’attrice davanti
Pluripremiata in un film, ora in aiuto di tanti
Sopra un carretto trainato da un asino aiuta le madri
Le conforta nei pianti, le stringe in abbracci
Chiedi a Sami Abu Omar, è raro una persona anziana
Perché vent’anni la prospettiva di vita a casa
Come deve essere stato per lui avere in faccia i soldati
Perché distribuiva il cibo ai sopravvissuti sfollati

RIT.
C’è chi la cerca e c’è chi ci capita
La guerra è di Satana, non è il mio habitat
La pace è il mio habitat
C’è chi la vuole, poi c’è chi l’ha imposta
La guerra è la vostra, la pace è la sola risposta

Basta con ’sti dissing, ragazzi, basta con ‘ste guerre inventate. C’è la gente che vive la guerra veramente. La guerra è il loro habitat, non è il nostro habitat. Noi siamo persone fortunate
Ringraziamo per ogni giorno che siamo qua, blessing

Inoki bio

Fabiano Ballarin, in arte Inoki o Inoki Ness, è un rapper e produttore italiano, nato il 2 ottobre 1979 a Roma.
Il suo nome deriva dall’unione di un personaggio dell’Antico Testamento e antenato di Noé, Enoch, e Ki, nome orientale che simboleggia l’energia interna, mentre il suffisso Ness simboleggia l’espansione nella lingua inglese.
In seguito al trasferimento a Bologna entra in contatto con la cultura hip hop e si avvicina a writing e rapping: fondamentali sono l’influenza degli Assalti Frontali e l’intesa con il breaker Gianni KG e il writer Paniko, entrambi co-fondatori del primo collettivo di Inoki, la Porzione Massiccia Crew.
In seguito forma anche la Flick Flack Mobb con Joe Cassano e nel 1998 partecipa a Giorno e Notte, brano presente in Novecinquanta di Fritz da Cat e nell’album postumo di Joe Cassano. Nello stesso anno viene pubblicato il primo mixtape della Porzione Massiccia Crew, Demolizione 1, e solo nel 2001 vede la luce il suo primo disco solista autoprodotto, 5° Dan.
Nel 2004 La Porzione Massiccia Crew collabora con i Club Dogo per il mixtape PMC VS Club Dogo – The official mixtape, e nello stesso anno Fabiano è il conduttore del programma RAI Hip Hop Generation.
Nel 2005 esce il suo secondo disco, quello della maturità artistica: Fabiano detto Inoki, con produzioni di Shablo, Dj Shocca e Don Joe, e ospiti come i Club Dogo. Poco dopo collabora con Shablo per The NewKingzTape Vol. 2, un mixtape composto da 29 tracce e ricco di ospiti di rilievo come Gué Pequeno, Co’Sang, Bassi Maestro e One Mic.
Nel 2007 esce Nobiltà di strada, primo disco per la Warner Music Italy, che complice una buona campagna marketing -la circolazione della versione non definitiva di un singolo- e l’aiuto dell’emittente televisiva MTV, riesce a raggiungere un buon successo a livello nazionale.
Negli anni successivi, scaduto il contratto con la Warner, torna all’autoproduzione: tra le varie attività spiccano il mixtape Pugni in faccia, con Mad Dopa, la partecipazione in Profondo Rosso degli Assalti Frontali e la creazione dell’etichetta indipendente Rap Pirata.
Nello stesso periodo conduce una critica contro l’industria musicale italiana e inizia dei dissing con alcuni rapper rei, a suo avviso, di essersi venduti alle major. Tra questi spiccano Gué Pequeno, SalmoMarracash e Fedez.
Nel febbraio 2014 esce L’antidoto, un disco sperimentale con forti critiche verso il consumismo e la superficialità della società contemporanea, mentre nel 2016 esce il mixtape Basso profilo – The Mixtape.
Nel 2018 compare in Don, album di Vacca, e nel disco d’esordio di L’Elfo, Gipsy Prince. Nel 2019 collabora con En?gma nel suo disco Booriana per la traccia Apatia.
Il 13 marzo 2020 esce Trema, singolo prodotto da Stabber che preannuncia un nuovo disco in uscita per Asian Fake.

Uscire dal modello neoliberista per progettare il futuro: gli ingredienti, le difficoltà, le occasioni

Uscire dal modello neoliberista per progettare il futuro: gli ingredienti, le difficoltà, le occasioni

Riprendo il ragionamento svolto in un primo articolo su Periscopio [vedi qui], dove sottolineavo che il tema emergente è che il neoliberismo sta volgendo verso soluzioni di comando, di carattere reazionario e anche verso la guerra, provando a cimentarmi con quello che possiamo mettere in campo, quali possono essere i perni di una risposta possibile per invertire questa tendenza regressiva e distruttiva.

La premessa, ovvia, è che non esiste una ricetta già confezionata, altrimenti non ci troveremmo a questo punto, né ho la pretesa di delinearla in queste poche righe, visto che essa non può che essere il prodotto di una ricerca e di una riflessione collettiva.

Alcuni riferimenti importanti, però, penso sia possibile tracciarli.

La pace al primo posto

Il primo è che si tratta di ricostruire un’ “ideologia forte” e un progetto di trasformazione radicale che la possa tradurre in scelte concrete.
Parlo di ideologia, intesa come visione di un mondo diverso e alternativo al neoliberismo e al capitalismo, una volta preso atto che il comunismo concreto e la redistribuzione socialdemocratica non aiutano più per andare in questa direzione. E di un progetto che non può che partire da mettere al primo posto la pace e la lotta per affermarla.

Mettere la pace al primo posto è tutt’altro che un punto di vista generico o, peggio, una sorta di appello agli uomini e alle donne di buona volontà. In realtà, ciò significa proporre un approccio radicale e in contrasto totale con quanto sta succedendo, se solo pensiamo che la spesa militare europea oggi è arrivata a 380 miliardi di dollari, mentre erano 230 nel 2014, oppure alla moltiplicazione delle prese di posizione che ideologicamente ci preparano alle guerre prossime venture, in primis quella del capo dell’esercito inglese, che parla tranquillamente dell’attuale popolo britannico come di una “generazione prebellica” che deve prepararsi a combattere una guerra che la Russia scatenerà nei prossimi anni o, ancora, all’incredibile dichiarazione di questi giorni del Commissario UE Gentiloni, che afferma tranquillamente che “emettere eurobond per finanziare la difesa europea è un’ottima idea” ( sic!).

Per questo, affermare la pace comporta almeno la condivisione di 3 principi di fondo e azioni conseguenti:
– la centralità
dell’iniziativa diplomatica e l’opposizione all’idea che le guerre possono intervenire per risolvere i conflitti internazionali e che occorre respingere fermamente la retorica della “vittoria”;
– la necessità che si proceda ad un disarmo progressivo e sostanziale, arrivando all’eliminazione delle testate nucleari e, perlomeno, come primo passo, ad una grande riduzione della spesa militare;
– il rifiuto
dell’impostazione per cui un modello di difesa europeo non p che basarsi sul possesso delle armi atomiche e sul riarmo e, invece, guardare ad un modello non armato e non violento.

La conversione ecologica

Il contrasto al cambiamento climatico e la conversione ecologica dell’economia sono un altro punto fondamentale per progettare il futuro ed evitare la distruzione del pianeta e della specie umana: anche qui non è possibile ragionare in termini neutri, perché scegliere quest’opzione significa pensare di abbandonare l’economia del fossile, uscire dalla dittatura delle imprese Oil&Gas, spingere sulle fonti rinnovabili e sulle filiere industriali che le sostengono.
Del resto, economia di guerra e rilancio delle imprese della filiera fossile marciano di pari passo: secondo la Ong Global Witness, dall’invasione russa dell’Ucraina del 2022 ad oggi le 5 più grandi società del settore ( BP, Shell, Chevron ExxonMobil e Totalenergies) hanno guadagnato ben 281 miliardi di dollari, grazie all’aumento dei prezzi delle materie prime energetiche, frutto della combinazione di guerra e speculazione finanziaria.

La diseguaglianza sociale

Terza questione fondamentale è quella relativa ad abbattere la diseguaglianza sociale, che è in corso e si sta ampliando in tutto il mondo e anche nei Paesi “sviluppati”, giungendo al punto per cui, nel 2020-2021, l’1% più ricco del pianeta si è appropriato di quasi i 2/3 della ricchezza prodotta nel medesimo periodo.

Pace, contrasto al cambiamento climatico e lotta alle disuguaglianze costituiscono i pilastri su cui costruire un altro modello produttivo, sociale ed ambientale, basato sulla centralità di un nuovo intervento pubblico nell’economia e sull’estensione del potere decisionale delle comunità e delle persone. Che si porta dietro, conseguentemente, un’altra idea di Europa, la consapevolezza di dover lavorare per un mondo multipolare e l’affermazione della democrazia, l’apertura delle frontiere e la realizzazione di di una politica di accoglienza per i migranti, una politica fiscale che ricostruisca progressività e colpisca i grandi patrimoni, l’ampliamento dei diritti sociali e civili, a partire da quello ad un lavoro dignitoso, l’affermazione dei beni comuni, contrastando alla radice il potere dei grandi monopolisti digitali, la lotta contro il patriarcato.

Non c’è bisogno di dire che percorrere questa strada implica l’idea di uscire dal modello neoliberista e dal capitalismo, che hanno come basilare riferimento l’idea che il mercato sia unico regolatore economico e sociale e che il profitto non solo muove il mondo, ma che produce l’interesse collettivo.
Al posto della società del profitto va costruita la “società della cura”, intesa come quella che valorizza l’insieme delle persone e del mondo che ci ospita, appunto l’ “ideologia forte” di cui abbiamo bisogno, quella che potremmo definire di una nuova sinistra adeguata ad affrontare le questioni del nostro secolo.

Una sinistra politica arretrata e subalterna

Arrivati a questo punto, diventa ineludibile la domanda di quale può essere il soggetto che porta avanti queste istanze, che si fa carico di quest’impresa assolutamente non semplice. Nella situazione attuale, certamente non si intravedono nella rappresentanza politica, a parte limitate eccezioni, forze politiche che si collocano coerentemente in quest’orizzonte.

Lasciamo ovviamente da parte la destra, che ha un’idea di modello sociale e produttivo sostanzialmente autoritario e nazionalista, ingredienti che incorporano il ricorso alla guerra come fatto normale, guidato dal mercato e dai poteri forti, anche quando ammantato da varie dosi di populismo, fortemente orientato da un’impostazione negazionista rispetto al cambiamento climatico e ostile alla conversione ecologica.

Purtroppo anche nel campo “progressista” (che non mi sento di definire di sinistra, sulla base dei concetti sopraesposti) siamo decisamente lontani dalla condivisione dei temi di fondo su cui costruire la “società della cura”.
Anche nel panorama italiano, come in gran parte di quello internazionale, sia da parte del PD che del M5S (sia pure con differenze e caratteristiche specifiche), non si riesce ad uscire da una sostanziale subalternità al neoliberismo e al capitalismo, non ci si discosta dall’idea che è il mercato a forgiare il sistema economico e che va tutt’al più corretto da un blando intervento pubblico quando esso diventa troppo rapace e distruttivo.
Non a caso – come accade nella fase che è di fronte a noi –  quando il neoliberismo inclina pericolosamente verso la guerra, non si è capaci di prospettare un’alternativa seria a questa deriva e ci si allinea agli orientamenti prevalenti negli USA e in quest’Europa. Né va meglio se guardiamo a cosa si propone per aggredire alla radice il tema della disuguaglianza – parlare di imposta patrimoniale o di maggiore progressività nell’imposizione fiscale sembra equivalga ad una bestemmia- o per prefigurare un’uscita importante e rapida dall’economia del fossile.

Nella società per costruire la Via Maestra

Per fortuna, le cose vanno un po’ meglio se ragioniamo su quello che si muove nella società, intendendo con essa l’insieme di movimenti, soggetti associativi e organizzazioni sociali che ne compongono la trama più viva e pulsante.

Certamente, non c’è un’iniziativa ancora adeguata e forte per mettere in discussione gli attuali equilibri sociali e politici, che anzi si muovono scientemente per spoliticizzarla e frantumarla in spezzoni corporativi e anche confliggenti tra loro.
Nello stesso tempo, però, è possibile vedere presenti e attivi soggetti che, nei territori e anche a livello nazionale, si battono per una prospettiva di pace, contrastano le iniziative disumane contro i migranti, provano a delineare ipotesi alternative per realizzare una vera conversione ecologica, lottano per rendere dignitoso e valorizzare il lavoro e altro ancora.

Non si tratta di mitizzare tutto quanto si muove nella società, sia perché siamo in presenza anche di mobilitazioni piegate a fini regressivi (vedi la vicenda dei “trattori”), sia perché le mobilitazioni esistenti oggi fanno fatica ad andare oltre ad una logica di resistenza alle scelte sbagliate e pesanti che provengono in primo luogo dal governo di destra. Emerge una difficoltà non solo a connettere i vari soggetti sociali tra loro, ma ancor più a costruire una piattaforma di orizzonte generale che renda solidi i legami reciproci, ingredienti entrambi indispensabili per produrre il salto di qualità necessario.

Ciò non toglie che è su questo terreno che si può costruire una nuova soggettività politica (non di rappresentanza politico-elettorale), non solo in Italia (per esempio, non è un caso che le grandi mobilitazioni in Germania contro le derive di destra e fascistoidi siano state promosse in primo luogo da un tessuto largo di Associazioni e soggetti sociali, ben prima delle forze politiche). Che sia possibile, per usare un’espressione felice avanzata da Gaetano Azzariti nei giorni passati su Il Manifesto, “ almeno affiancare al moderno principe gramsciano ( il partito) un centro sociale plurale”.
Da questo punto di vista, l’esperienza de “La Via Maestra”, composta dalla CGIL e da un centinaio di Associazioni e realtà sociali che lavorano sui temi dell’inclusione sociale, dell’ambiente e delle riforme istituzionali, dopo aver promosso lo scorso anno manifestazioni nazionali importanti per la sanità pubblica e contro l’autonomia differenziata e il premierato, sta iniziando un percorso significativo per strutturare e dare continuità alla propria iniziativa, sia a livello territoriale che nazionale, e può costituire una possibilità reale per compiere quei passaggi indicati prima.

Questi ragionamenti non significano, peraltro, mettere da parte il tema della rappresentanza politica ed elettorale. Sono convinto che anche qui sia importante avanzare un processo, nei territori e anche nazionalmente, che punti a ristrutturare il sistema politico oggi bloccato e incapace di dare rappresentanza alle istanze che vogliono cambiare il mondo. Con la consapevolezza che esso non può che iniziare, se non assumendo un nuovo paradigma di pensiero e di progetto.  e che ciò non si darà se non riusciremo a dar corpo ad una robusta iniziativa sociale, alla ripresa del rapporto diretto con le persone e a un nuovo reinsediamento nella società.

Insomma, ce n’è quanto basta per dare corso ad un nuovo impegno collettivo, che chiama anche alla responsabilità di ciascuno di noi per farlo avanzare.

In copertina: Roma, 7 ottobre 2023: Striscione al al grande corteo di La Via Maestra

Taser a Ferrara: il diavolo è nei dettagli

Taser a Ferrara: il diavolo è nei dettagli

Il Taser è una pistola che non spara proiettili, ma lancia due dardi uncinati, a seconda della cartuccia utilizzata, da 4,5 fino a circa 11 metri, collegati ad un generatore di alta tensione da un sottile filo conduttore isolato. Il Taser trasmette una scarica elettrica ad alto voltaggio e bassa intensità che interrompe il controllo dei muscoli, inducendone una contrazione involontaria. Ciò accade anche se i dardi raggiungono solo gli indumenti della “vittima” .

Il sito ferraratoday.it ha ospitato un botta e risposta sull’introduzione di una dotazione di taser alla polizia locale di Ferrara. Potete leggere l’intervento dell’associazione Cittadini del Mondo qui e la risposta del sindacato Sulpl (Sindacato Unitario Lavoratori Polizia Locale) qui.

Riporto sull’argomento l’estratto di un interessante articolo pubblicato sul sito Valigia Blu (integralmente leggibile qui):

“Nel 2015 Washington Post scriveva che circa una persona la settimana era morta quell’anno in episodi in cui era stato utilizzato un taser, e in almeno una dozzina di casi l’arma era stata individuata come una delle cause dirette del decesso.Da diversi anni il garante per i diritti dei detenuti Mauro Palma ha messo in guardia sui rischi dell’introduzione del taser, e oggi ribadisce che si tratta di un’arma a tutti gli effetti, su cui fare molta attenzione. “… Prima di dotare le forze di polizia dei taser, sono stati organizzati corsi teorici e pratici, ma questo non basta: c’è bisogno di continuare a fare formazione. Una perplessità rimane sugli agenti di polizia municipale: i vigili urbani saranno davvero preparati a usare queste armi? Che tipo di formazione hanno ricevuto?”.

Evito appositamente di riportare le considerazioni di Amnesty, di Antigone, e di tutte quelle associazioni che, secondo una parte dell’opinione pubblica e degli operatori di polizia, sono animate da un’ideologia che pone grande attenzione ai diritti dei “cattivi” e trascura i diritti dei  “buoni”. Personalmente, sia chiaro, non sono d’accordo con questa opinione. Tuttavia, in questa sede preferisco sposare, per quanto mi è possibile, l’ottica degli operatori, di chi lavora sulla strada, ed è per questo che l’estratto che ho riportato mi sembra significativo: perché le considerazioni ivi fatte si appuntano molto sui temi dell’addestramento e della formazione.

So bene che un conto è mettere sulla bilancia gli interessi e i diritti astrattamente intesi, un altro conto è trovarsi nella situazione concreta e dover prendere delle decisioni immediate in presenza di rischi, anche potenziali, per sè o altri – compresa la persona da “contenere”. Sotto questo profilo però debbo rilevare che alcune affermazioni del Sulpl sono viziate da un pregiudizio ideologico, come minimo, uguale e contrario a quello che rimproverano a Cittadini del Mondo. Tipo questa:  “allo stato attuale il taser appare davvero come l’unica alternativa possibile allo scontro fisico diretto, ben più pericoloso per tutti gli attori in campo (possibilità di lesioni anche importanti, sia per gli operatori di polizia che per il soggetto da contenere, contenziosi legali, gogne mediatiche e onnipresenti accuse di abuso provenienti dalle fonti più disparate).”

Mi domando: perchè una pistola che manda scariche elettriche dovrebbe essere considerata l’unica alternativa allo “scontro” fisico? Se un operatore di polizia è correttamente formato e addestrato, la contenzione fisica di una persona disarmata dovrebbe essere la regola. I “contenziosi legali, la gogna mediatica, le onnipresenti accuse di abuso” evocano l’ennesima polemica postuma su qualcosa che non corrisponde ai fatti acclarati. A meno che le sentenze definitive della magistratura – su casi che conosciamo, tra i quali uno che ha segnato la storia della nostra città – non vengano considerate alla stregua di “gogna mediatica”. Il ricorso ad un’arma propria che, nella maggior parte dei casi, pone in una situazione sproporzionata in partenza tra azione e reazione – in cui la sproporzione è della reazione contro l’azione – non può essere la scorciatoia per ovviare a carenze di addestramento. Essere addestrati per contenere fisicamente, in più di uno, una persona disarmata che fa resistenza o dà in escandescenze, dovrebbe essere parte del bagaglio professionale del poliziotto. Altrimenti si chiede l’autorizzazione a scambiare un deficit formativo con la dotazione di un’arma.

Ma il problema, anche trascurando la sproporzione “istituzionalizzata” tra azione e reazione, è ancora una volta di formazione e di addestramento. Della Polizia Municipale fanno sicuramente parte anche addetti che non hanno dimestichezza con le armi in generale. Corrisponde certamente a una distribuzione inefficiente delle risorse dare una cerbottana a Chris Kyle (famoso cecchino celebrato da un film di Clint Eastwood). Siccome però in Polizia (municipale in particolare) non ci sono cecchini, è altrettanto inefficiente, oltre ad essere pericoloso, dare un taser in mano a un vigile che non ha mai sparato un colpo nemmeno al poligono: come consegnare le chiavi di una Ferrari ad uno che non ha la patente.

In sostanza, se manifesti cattive intenzioni verso qualcuno che, per difendersi, ti spara col taser, “prendi la scossa”. Ma non la prendi da un dito: ti arriva una botta che ti paralizza. Del resto è questa la funzione deterrente: paralizzare un aggressore. Peccato che dove ti spara il tutore dell’ordine non sia indifferente per le conseguenze che puoi subire. Se ti prende al petto invece che alle gambe? Potresti essere un cardiopatico. Potresti essere in uno stato di alterazione chimica che, combinato alla scossa, provoca effetti gravi.

“Troviamo preoccupante che una multinazionale direttamente coinvolta a livello commerciale intervenga, al posto delle istituzioni, nel dibattito sulla sicurezza della nostra città. E’ ora di aprire una discussione informata e imparziale, una discussione non deviata dalle pulsioni punitive di un ministro o di un sindacato di parte. Vogliamo conoscere le implicazioni più ampie di questa tecnologia, potenzialmente così pericolosa.”  Cittadini nel Mondo ha chiesto solo un dibattito trasparente e imparziale su questo argomento. Aggiungo che il dibattito dovrebbe riguardare soprattutto gli addetti ai lavori, in particolare i sindacati più rappresentativi dei lavoratori della polizia, rispetto ai quali non conosco come si collochi il Sulpl: il quale ha tutto il diritto di esprimersi, con l’autorevolezza e il peso che gli deriva anche da quante persone rappresenta. Questo, volenti o meno, è quanto previsto negli stati a ordinamento democratico.

Concludo dicendo che “fare le cose bene”, con un adeguato livello di organizzazione e di addestramento del personale, dovrebbe essere interesse primario proprio dei lavoratori della sicurezza, essendo la prima forma di tutela dei lavoratori stessi nei confronti degli infortuni, degli errori, delle negligenze o degli abusi dei quali potrebbero essere chiamati a rispondere nell’esercizio delle loro funzioni. L’esperienza insegna che spesso (oserei dire quasi sempre) l’errore umano è favorito da una cattiva organizzazione e da un’ insufficiente formazione; le quali in campo penale non rientrano tra le scriminanti.

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Aspettando il giorno X: dopo l’udienza finale: che ne sarà di Julian Assange?

da pressenza del 21 febbraio 2024

All’uscita dall’Alta Corte londinese, dove Julian Assange ha affrontato, in absentia per motivi di salute, forse la sua ultima possibilità di contrastare l’estradizione negli Stati Uniti, la sua avvocata Jennifer Robinson ha dichiarato: “I giudici hanno chiesto a entrambe le parti ulteriori chiarimenti scritti da consegnare loro entro il 4 marzo; solo dopo aver esaminato questi scritti, annunceranno la loro decisione”.  Ovvero, la decisione se dare a Julian la possibilità di riaprire il suo caso contro l’estradizione oppure dichiararlo chiuso.

Nella seconda eventualità, Julian potrebbe essere estradato negli USA seduta stante, senza lasciare al suo team legale nemmeno il tempo di far intervenire la regola 39 prevista dalla Corte Europea dei Diritti Umani – cioè, il divieto temporaneo di estradizione, per dare alla Corte il tempo di valutare se, nel caso in questione, ci siano state violazioni dei diritti umani.

Per Julian, l’estradizione “significherebbe una condanna a morte”, ha dichiarato sua moglie Stella Moris Assange il 21 febbraio dal palco eretto all’uscita dell’Alta Corte, davanti ad una gigantesca folla venuta per questo “Giorno X” da ogni parte del mondo – tra cui più di 60 attivisti pro-Assange arrivati dall’Italia.

Infatti, un’estradizione negli Stati Uniti – un’infausta eventualità che potremmo chiamare Giorno Y – si tradurrebbe in un processo farsa presso la corte di Alexandria (Virginia) e la condanna alla reclusione per il resto della vita in una cella di isolamento di una orrenda “supermax” (prigione di massima sicurezza USA).  Julian ha già fatto capire che, piuttosto che subire un tale destino, si toglierebbe la vita.  Peraltro, nelle supermax, le morti per suicidio sono il doppio rispetto alle prigioni normali.

E se in vece i due giudici dell’Alta Corte, letta la documentazione scritta da loro richiesta, decidessero di riaprire il caso?

Questo significherebbe soprassedere per ora alla richiesta di estradizione negli Stati Uniti e portare il caso davanti a un nuovo giudice distrettuale, per valutare la fondatezza del verdetto di primo grado emanato nel gennaio 2021 dall’allora giudice distrettuale Vanessa Baraitser.

I legali di Julian avevano avanzato 16 motivi per invalidare la richiesta di estradizione fatta dagli Stati Uniti; Baraitser non ha voluto esaminarli in dettaglio, ma li ha semplicemente rigettato in blocco, opponendosi all’estradizione di Julian negli Stati Uniti per gli evidenti rischi di suicidio comportati da tale decisione.  Verdetto poi rovesciato undici mesi dopo dall’Alta Corte, dopo aver ricevuto promesse, da parte del Dipartimento di Giustizia USA, che Assange, se imprigionato, avrebbe ricevuto un trattamento carcerario meno severo di quello solito e che pertanto i rischi di suicidio sarebbero stati minori.

Ma quei 16 motivi per rigettare la richiesta di estradizione che Baraitser non ha considerato sono validi o no?  Per riaprire il caso un nuovo giudice distrettuale dovrebbe rispondere a quella domanda, dando agli avvocati di Julian la possibilità di dimostrare – a prescindere dal merito delle accuse – che la sola pretesa di estradizione è irregolare e irricevibile e pertanto che Julian deve uscire subito dal regime di carcere preventivo nella prigione di Belmarsh e tornare un uomo libero.

Purtroppo, non sappiamo quanto durerebbe il nuovo processo qualora fosse concesso – sicuramente anni.  E durante tutto questo tempo, Julian Assange rimarrebbe nella prigione di Belmarsh in una cella di isolamento di soli tre metri per due, in mezzo agli orrori che ha descritto nella sua lettera al Re Carlo III – vedete la versione audiovisiva, in italiano, al link www.bit.ly/julian-3 .

Certo, avrà evitato l’incubo dell’incarcerazione in una prigione “supermax” statunitense, ma rimane pur sempre ingiusto che il suo regime di carcere preventivo duri all’infinito.  Infatti, ciò equivale alla detenzione senza giusto processo.

Nell’eventualità di una riapertura del caso, dunque, i sostenitori di Julian devono battersi perché le autorità britanniche sostituiscano la carcerazione preventiva con un regime di detenzione domiciliare – magari insieme alla famiglia.  In fondo, l’hanno concesso al sanguinario dittatore cileno Augusto Pinochet mentre decidevano in merito alla sua estradizione – peraltro, domiciliari signorili in una villa di lusso con tanto di servitù.

Gli attivisti pro-Assange hanno dunque davanti alcune settimane durante il quale definire le loro future azioni, a seconda della decisione dei giudici.  Dopo le udienze del Giorno X, , celebre attivista e giornalista britannico, si è dichiarato piuttosto fiducioso che non ci sarebbe stato un Giorno Y.  Anche Rebecca Vincent di Reporter senza frontiere, uscendo dal tribunale, ha espresso sorpresa e apprezzamento per la cura con la quale i due giudici avevano seguito il dibattito – in contrasto con la freddezza e la sbrigatività del giudice Jonathan Swift nel rigettare la richiesta di appello di Julian il 10 giugno dell’anno scorso.  “Il loro comportamento mi ispira un leggero ottimismo”, ha aggiunto la Vincent.

Se i giudizi di Medhurst e di Vincent sono corretti, allora i sostenitori di Julian Assange potranno sin da ora iniziare a prepararsi per esigere, durante la riapertura del caso, i domiciliari per Julian e quindi la fine degli orrori di Belmarsh. Altrimenti, se estradizione ci sarà, bisognerà rimboccarsi le maniche davvero per una lotta senza quartiere, con azioni nonviolente di disubbidienza civile di massa.  In particolare azioni che costano danaro, non a chi ci governa (perché quei soldi sarebbero semplicemente quelli delle nostre tasse), ma a chi detta l’agenda di chi ci governa.
Il Giorno Y deve significare una svolta nel tipo di attivismo per Julian Assange condotto finora.

Patrick Boylan
Patrick Boylan, già professore di Inglese per la Comunicazione Interculturale all’Università “Roma Tre”, si è laureato nella sua nativa California e di nuovo alla Sorbona di Parigi, dove ha anche insegnato come visiting professor. Ora co-dirige il Journal of Intercultural Mediation and Communication (Cultus), svolge training interculturali, ed è attivista per la Rete NoWar e le associazioni PeaceLink e Statunitensi per la pace e la giustizia.

L’Arte che cura /
TERRA 3. Cenere, grembo, tomba. Nascita, vita, morte e rinascita

TERRA 3
Cenere, grembo, tomba. Nascita, vita, morte e rinascita

 

Vedi anche su Periscopio:
TERRA 1. Le potenzialità generative della creta nella Psicoterapia Espressiva integrata all’Arte
TERRA 2. Maschile-Femminile, la duplice natura della Terra Madre

Eros e Thanatos

Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai
Genesi, 3,19

Il simbolismo della terra ci rivela un ulteriore volto della Grande Madre, essa è contemporaneamente grembo e tomba, essa riceve contemporaneamente i semi e i morti”.
Largilla, polvere miscelata ad acqua, se di questa viene privata, ritorna polvere.

Nel Giorno delle Ceneri la liturgia cristiana ricorda:Memento homo qui pulvis es et polvere reverteris (ricorda uomo che polvere eri e polvere ritornerai) a testimonianza che homo e humus provengono da unoriginaria identità.

In modo particolare, le civiltà di coltivatori hanno sviluppato un complesso ideologico-religioso in cui vengono a trovarsi in costante connessione la morte, la fecondità umana e la fertilità agraria; ed è qui che si trova in taluni casi, la prospettiva di una rigenerazione mediante l’identificazione della sorte umana con quella del seme che, come un morto, viene seppellito, ma poi torna a vivere in una nuova pianta.

Per la filosofia cinese, la polarità calda (Yang) e fredda (Yin ) determinano lalternanza delle stagioni. Questa ciclica alternanza dellEnergia essenziale, manifestata attraverso le stagioni, rappresenta ciò che avviene nel corso della vita delluomo, soggetto all’influenza della loro particolare manifestazione di energia. La primavera è il movimento germinativo, lestate la crescita, la terra la maturità e la sintesi, lautunno la decomposizione, linverno il riposo.

C. donna 14 anni

C. sceglie di lavorare con l’argilla, dopo averla manipolata per un po’ per prenderne confidenza decide di creare questa libellula. Plasma singolarmente le parti che la compongono, le assembla e infine la decora. C. è all’inizio della sua adolescenza e viene da me perché ha alcuni dubbi sulla sua identità sessuale ed anche perché ha problemi di sovrappeso.

Dalle sue mani quindi sta per librarsi una libellula ed è interessante questa scelta: un insetto che ha ali allungate dai colori vivaci e brillanti, il corpo sottile e snello. C. all’opposto è una ragazza bella ma imponente e veste sempre di nero. Il suo lavoro quindi rimane nell’ambiguità, il soggetto richiama qualità idealizzate ma la realizzazione, così materica, ripropone solidità più che leggerezza. A livello simbolico, legato alla sua ricerca di identità, questa scultura riporta a un simbolo fallico. Rispetto alla biologia ricorda che sta attraversando un periodo di trasformazioni. Le libellule, come lei, solo dopo aver superato vari stadi di sviluppo, sfarfallano sotto forma di individui adulti. Lavoreremo proprio su questo passaggio, la trasformazione, il passaggio dall’età dell’adolescenza all’età adulta. Dare significato ai dubbi, alle amicizie ambigue, all’eccessiva sicurezza che ostenta, superare la confusione di sé per scoprire la propria autenticità.

Da un semplice uovo alla bellezza della libellula che diventerà.

Tornando al punto precedente. Seguendo gli studi di Marija Gimbutas, si può affermare che nellEuropa antica il grembo femminile costituiva uno dei più potenti temi funerari. Secondo la prospettiva ciclica del continuum vitale, la nuova vita sorgeva dalla morte seguendo un modulo a spirale di nascita, vita, morte e rinascita.

La tomba stessa per gli abitanti dellEuropa antica era anche un grembo dal quale emanava la nuova vita. Queste tombe non erano, perciò, solo il luogo dove riposavano i morti; esse ospitavano anche rituali, alcuni avevano significati stagionali, altri, forse erano di tipo iniziatico e curativo.

Spesso la tomba-santuario assumeva la forma della dea. Alcuni santuari avevano forma triangolare, a evocazione del triangolo pubico che è una stilizzazione della dea; molte tombe antico-europee incorporavano un lungo corridoio centrale che probabilmente evocava il canale del parto; ancora, molte tombe assumevano la forma di uteri o di uova anchessi simboli di rigenerazione.

 

Domus de janas – Sardegna

 

Tomba – Malta
La casa tomba

L’autrice A, donna, vuole creare una casa. Si industria per darle verticalità e una base. Quando la guarda dice “sembra una tomba”. Sta elaborando un lutto complesso, l’idea della casa è uno spunto interessante, la creazione di un luogo posseduto, che favorisce l’ancorarsi a situazioni piacevoli, a ricordi e a nuove opportunità, miscelando il tempo, nel vivere in continuità passato, presente e futuro. Il risveglio dopo la realizzazione la porta invece a pensare ad una tomba, l’immagine in effetti ricorda una lapide inconsapevolmente porta alla luce il suo problema e l’oggetto realizzato potrà permetterci di iniziare una elaborazione.

Nelle tombe di Malta, Sardegna e di alcune zone della Francia, gli scheletri giacciono in posizione fetale poiché, dentro il grembo-tomba della terra, coloro che venivano sepolti intraprendevano il transito per una nuova vita.

“Il gatto raggomitolato”, G. donna, 52 anni

Dormire in posizione fetale, è un istinto primordiale che ci portiamo dietro dalla nascita. Può indicare un grande desiderio di protezione e nostalgia per il grembo materno, dove il feto resta avvolto raggomitolato, confortato e rassicurato dal calore della mamma. G, l’autrice possiede una personalità un po’ fragile  ed è anche una persona molto coscienziosa, che tende a preoccuparsi eccessivamente e a rimuginare sulle cose, quindi con tratti ansiosi.

Questa rappresentazione, può essere considerato un autoritratto del suo mondo interiore in cui il gattino, animale noto per la sua sensibilità e riservatezza, prende le sue veci.

In psicoanalisi, Eros e Thanatos sono rispettivamente la pulsione di vita e la pulsione di morte che Sigmund Freud tratta in Al di là del principio di piacere scritto nel 1920.2

Eros tende a creare organizzazioni della realtà sempre più complesse e armonizzate, Thanatos tende a far tornare il vivente a un a forma d’esistenza inorganica. Queste le pulsioni, sono rispettivamente le dinamiche intrapsichiche e i conflitti tra esse spiegano in parte la formulazione del conflitto psicologico in termini dualistici.

Egon Schiele, “La madre morta”- Vienna, Leopold Museum

In questo dipinto in cui il grembo appare come un lugubre mantello che racchiude il neonato viene sintetizzata da Schiele la parabola esistenziale.

” tutto ciò che vive è anche morto, porta in sé il suo esistenziale compimento, fin dall’istante del concepimento” 3

Madre amorosa e Madre terribile

La dea madre buona, impersonificata da Artemide, è stata nel tempo trasformata in matrigna, la Gorgone. .

La dea Artemide

Nanno Marinatos 4, esaminando un certo numero di rappresentazioni iconografiche ha messo in evidenza una sorta di involuzione dellimmaginario legato ad Artemide.
Due i contrassegni principali:
Il primo, la trasformazione da deaselvaggiaa dea terribile e pericolosa, raffigurabile nella Gorgone.
Il secondo, il ruolo della verginità intesa comeanti maternità.
“Non toccata dagli uomini e, ciò che più conta, senza alcuna esperienza di maternità, la femminilità della divinità diventa pericolosamente potente.()

Il femminile non procreativo è una anticipazione della morte e provoca la rappresentazione del mostruoso. Ne sono esempi le immagini della Medusa o le rappresentazioni delle orchesse e delle streghe divoratrici di bambini.

Benvenuto Cellini, Perseo con la testa fi Medusa, particolare – Firenze

Nella tradizione greca la leggenda di Lamia illustra lamore materno la cui forza è tale che può diventare mostruoso. Lamia, amante di Zeus, avendo subito a causa della gelosia di Era la perdita di tutti i figli che ha avuto dal dio, si trasforma in un mostro orrendo che va a prendere e divora i bambini appena nati o in tenera età delle altre donne.

Oltre che nellantichità anche i miti posteriori, le leggende e le favole oppongono spesso labuonamadre allacattivamadre. Questultima è frequentemente rappresentata dalla matrigna, madre sostitutiva e non affettuosa, in una situazione di rivalità con la figlia leroina ( la fiaba più famosa che descrive questo conflitto è sicuramente Biancaneve ).

Nellimmaginario mitico o favolistico, il fatto che non sia la madre a essere cattiva ma la matrigna o qualunque altra figura materna sostitutiva, non è di segno neutro, è la spia del tabù della cattiva madre. Nellimmaginario collettivo, la madre genitrice ha il dovere di essere buona e latteggiamento contrario non è ammesso. Mentre il padre (genitore) può essere vile o meschino, la madre non è mai posta in questo ruolo. Se ella non adempie al proprio ruolo, è perché è morta. Gli eroi orfani di madre sono numerosi nei miti e nelle favole, allegoria della difficoltà suprema, fra tutte quelle che costellano la loro esistenza.

La matrigna, allegoria della cattiva madre, materializza anche le pulsioni incestuose. Ella ha tutti quanti i difetti e la sua bellezza, se esiste, è fredda, glaciale, senzanima.

Max Ernst, “Virgin Mary Spanking the Christ Child”
Mantegna, “Madonna con bambino”

Nel dipinto di fig 15 Max Ernst rappresenta una Madonna che prende ferocemente a sculacciate Gesù Bambino; stravolgendo l’iconografia classica, ci dà una dimostrazione della consapevolezza dell’ambivalenza nel rapporto madre bambino.

La conciliazione degli opposti

Ogni azione che si intraprende provoca un effetto costruttivo che, a sua volta, stimola una reazione distruttiva, la quale produce di nuovo unazione costruttiva, e così via. La vita comporta la morte, la morte implica la vita, eccetera.

Luomo è allinterno di questo sistema dinamico e per condurre la propria esistenza usando al massimo il potenziale dellEnergia essenziale ed evolutivo che possiede dalla nascita, dovrebbe comprendere e cercare di non ampliar troppo gli estremi perché il suo sviluppo armonico dipende dallequilibrio e non dagli eccessi.

Contrapposizione e confronto costituiscono anche una tecnica terapeutica che attraverso temi metaforici si pone l’obiettivo di evocare due aspetti antitetici della vita per esplorare aspetti consapevoli ed altri più nascosti con l’ obiettivo di di attivare un dialogo fra elementi opposti.

Note:

2 Sigmund Freud, Al di là del principio di piacere (1920) , in Opere di Sigmund Freud (OSF) vol .9.L’Io e l’es e altri scritti 1917-1923,Torino, Bollati Borlinghieri,1986
3 Marco Vozza, “Il senso della fine nell’arte contemporanea”, in L’Apocalisse nella storia, Humanitas 54 p,885
4. Nanni Marinatos, riportato in Marija Gimbutas, op cit, pag. 14.

In copertina: Necropoli di Montessu – Sardegna
Per leggere gli  altri interventi  della rubrica L’Arte che Cura di Giovanna Tonioliclicca sul nome della rubrica o su quello dell’autrice.

Parole a Capo /
Daniel Origlio: “Fare canestro con le parole”

L’adolescenza è una riserva per gli anni in cui la fantasia avrà cessato di parlare.
(Giorgio Bocca)

 

RICORDO

Lo Ricordo
quella mattina che me lo dissero

Lo Ricordo – con una chitarra
seduto alla cattedra

Era amante della montagna
ma quella mattina
molto nevosa e scivolosa

Era vicino
A quel buco buio e profondo
senza via di ritorno

É dolore
riprendere la chitarra tra le mani

É musica
ciò che mi rimane di lui


*

 

BASKET

Lo ricordo
quel momento che mi innamorai

Lo ricordo
rimbalzante nel campetto

Ero spensierato in quel momento
in cui pensavo a come mi sono innamorato

Ero lì che aspettavo quella palla a spicchi rotonda e
arancione come un evidenziatore nelle mie mani

È fantasia
quella che si può usare nel parquet

È Pace
quella che porta questo sport emozionante.

*

L’EMOZIONE DI UNA PARTITA

Lo sento
nella mia testa i rumori, i battiti del cuore!

Lo sento
che accelerano sempre di più

Ero lì che aspettavo di sforzarmi e
di alzarmi da quella panchina
pian piano di soppiatto avvicinarmi al tavolo dei cambi

Ero là in quel momento
con due piedi nel parquet
in cui si deve essere spensierati e senza pesi nella nuca,
la palla batte sul campo,
il cuore accelera, l’ansia sale!

È paura
di non essere all’ altezza
quella che si ha su una
semplice piattaforma con delle linee

È spensieratezza
che porta quella palla e ha quel cesto
a forma di cerchio rosso acceso.

 

Daniel Origlio  (Ferrara) Studente. E’ nato il 11/04/2007, quindi sta per compiere 17 anni. Gioca a basket. Da un po’ ha scoperto che con la poesia ci si può esprimere.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

“Il sistema dei diritti umani è l’obiettivo ultimo dell’attacco contro Julian Assange”. Intervista a Sara Chessa

Sara Chessa: “Il sistema dei diritti umani è l’obiettivo ultimo dell’attacco contro Julian Assange”

Intervista a Sara Chessa, giornalista indipendente che ha seguito il caso Assange, ed ha pubblicato con Castelvecchi editore il volume “Distruggere Assange. Per farla finita con la libertà di informazione”.

Nel dicembre 2023 l’Alta corte di giustizia di Londra ha deciso di esaminare quello che potrebbe essere in Gran Bretagna l’ultimo appello di Julian Assange contro la sua estradizione negli Stati Uniti. Sono stati fissati due giorni di udienza per il 20 e 21 febbraio 2024. In questo disperato tentativo di difesa da parte di Assange, i giudici dovranno decidere se egli ha ancora qualche possibilità di appellarsi a qualche Corte britannica oppure avviare le pratiche per un’imminente estradizione. Per parte sua Assange ha già trascorso quasi cinque anni nella prigione londinese di Belmarsh, ove è detenuto in attesa di giudizio dall’aprile 2019, detenzione che Amnesty International ha ritenuto per gran parte arbitraria.

Il 6 giugno del 2023 l’Alta Corte del Regno Unito ha rigettato il primo appello di Assange contro il mandato di estradizione, firmato dall’allora Ministra dell’Interno Priti Patel nel giugno 2022. Se venisse estradato, Assange potrebbe passare il resto della vita in carcere per l’accusa di aver pubblicato nel 2010 documenti segretati resi noti tramite Wikileaks. Assange si trova, quindi, in un momento critico della sua vicenda giudiziaria. Se dovesse perdere l’appello, tutte le vie legali nel Regno Unito sarebbero concluse e dovrebbe presentare formale ricorso alla Corte europea dei diritti umani per opporsi all’estradizione. Non è tuttavia chiaro se tale Corte vorrà garantire delle “misure ad interim” per fermare l’estradizione prima che la sua istanza sia giudicata ammissibile e poi valutata nel merito. L’offerta da parte degli Stati Uniti di una “rassicurazione diplomatica” potrebbe bloccare l’adozione di tali misure e in tal caso Assange correrebbe il rischio di un’immediata estradizione e conseguente detenzione negli Usa.

La pubblicazione da parte di Wikileaks di documenti rivelati all’organizzazione da altre fonti rientra nella condotta che giornalisti investigativi ed editori possono legalmente tenere nell’ambito della loro attività professionale. Le accuse di spionaggio e di frode informatica contro Assange sono motivate politicamente e violano il diritto alla libertà di espressione. Inoltre, possono avere una “grave ricaduta” sulla libertà dei media a livello globale, spingendo giornalisti ed editori ad autocensurarsi per evitare il rischio di denunce.

In vista di questi giorni di udienza, fondamentali, fissati per questo 20 e 21 febbraio, abbiamo deciso di intervistare Sara Chessa, giornalista che si occupa di diritti umani e di libertà di informazione che ha seguito da vicino il Caso Assange raccontandone fatti e retroscena su testate come Independent Australia MicroMega, autrice tra l’altro per Castelvecchi editore del libro “Distruggere Assange. Per farla finita con la libertà d’informazione (con introduzione di Antonio Cecere e un’intervista inedita a John Shipton padre di Julian Assange)”.

 Quanto è alto il rischio che Julian Assange possa essere estradato negli USA, e cosa comporterebbe?

Se consideriamo solamente la battaglia legale, mi sento di dire che il rischio è alto. Il team legale di Assange si è mosso molto bene per difenderlo dall’estradizione, ma il sistema giudiziario britannico ha sistematicamente evitato di riconoscere e affrontare i motivi chiave per cui la richiesta di estradizione degli Stati Uniti dovrebbe essere bloccata, primi tra tutti i rischi che essa comporterebbe per la libertà di stampa, essenziale per garantire il diritto alla conoscenza e mettere le persone in grado di valutare se i governi stiano perseguendo o meno l’interesse pubblico.

Questioni come queste avrebbero dovuto essere centrali nel negare l’estradizione; invece, si è finto di non vederle. Ora, giunti all’ultimo capitolo della vicenda giudiziaria di Assange nelle corti inglesi, l’esitazione mostrata finora dal sistema giudiziario a toccare i punti chiave porta molti a pensare che anche quest’ultima occasione che esso ha per fermare l’estradizione verrà persa. Se accadrà – se la possibilità di fare appello contro l’estradizione gli verrà negata anche questa volta – il team legale di Assange presenterà tempestivamente ricorso alla Corte Europea dei Diritti Umani, che, tuttavia ha tempi lunghi per giungere a una decisione. La speranza è che, con una misura basata sulla Regola 39, la Corte europea possa temporaneamente fermare il trasferimento negli Stati Uniti fino a quando non avrà preso una decisione sul caso. Se invece, al di là di quella legale, consideriamo la battaglia diplomatica, mi sento di dire che le probabilità di estradizione possono potenzialmente diminuire. L’amministrazione Biden, se opportunamente sollecitata dai suoi alleati, potrebbe archiviare le accuse anche subito. Una sollecitazione in tal senso è già stata compiuta dall’Australia.

Le proteste pacifiche di questi giorni mirano a portare altri governi occidentali a pronunciarsi sulla questione e domandare l’archiviazione delle accuse. Se la nostra mobilitazione è seria, se spingiamo affinché i governi facciano a Biden questa richiesta fondamentale, la probabilità di estradizione diminuiranno. In altre parole, la società civile gioca un ruolo fondamentale. Abbiamo il potere di ridurre, con la protesta pacifica, quel rischio di estradizione che ho definito “alto”.

Qualora, come ci auguriamo, Assange non venisse estradato, potrebbe tornare subito in libertà o vi è il rischio che sia costretto a rimanere in carcere per altro tempo?

Quando il 20 febbraio i giudici riesamineranno la questione del permesso di appello potranno presentare un verdetto dopo qualche settimana oppure alla fine della giornata di martedì. Se permetteranno ad Assange di fare appello, sarà molto probabile che lui resti in carcere fino al nuovo processo. È già accaduto dopo il primo “no” all’estradizione: gli avvocati fecero domanda per gli arresti domiciliari, ma la richiesta fu rigettata dalla giudice. Se stiamo invece parlando della auspicata archiviazione completa delle accuse da parte degli Stati Uniti, in tal caso Julian Assange sarebbe subito libero.

Cosa rappresenta il caso di Assange in merito alla violazione dei diritti umani e in particolare alla messa in discussione della libertà di stampa? Quale ricaduta potrebbe avere una sua estradizione, o continuo internamento in carcere, verso tutti quei giornalisti che si battono per il diritto all’informazione?

Il sistema dei diritti umani è l’obiettivo ultimo dell’attacco contro Julian Assange. Il processo sull’estradizione ha visto la continua violazione di diritti fondamentali. Primo tra tutti, il diritto ad un processo equo. Dal momento che i servizi segreti statunitensi spiarono Assange quando era rifugiato presso l’ambasciata dell’Ecuador e che tale stato permise all’intelligence americana di entrare in possesso dei documenti legali lasciati da Assange stesso nella sede diplomatica dopo l’arresto, gli Stati Uniti sono stati a conoscenza della sua strategia legale fin dall’inizio del processo. Questo avrebbe portato qualunque giudice di buon senso a stabilire che il processo sull’estradizione non dovesse neppure iniziare, in quanto un procedimento giudiziario non può essere considerato equo se una delle parti ha spiato le conversazioni avute dalla controparte con i propri difensori.

Riguardo poi alla libertà di stampa, sarebbe irrimediabilmente messa a rischio da una possibile estradizione, in quanto quest’ultima creerebbe un precedente internazionale in virtù del quale ogni giornalista che abbia rivelato fatti reali che imbarazzano una grande potenza potrebbe vedersi destinatario di una richiesta di estradizione da parte della stessa. Questo genererebbe un effetto deterrente nei giornalisti investigativi e la paura di subire persecuzioni simili a quella attraversata da Assange si farebbe più forte, ostacolando il servizio nei confronti del diritto alla conoscenza del pubblico che il giornalismo è chiamato a compiere. E, se gli operatori dell’informazione non si sentono liberi di indagare, non possiamo dire di essere realmente in democrazia, perché quest’ultima ha alle proprie fondamenta proprio il giornalismo libero che non avremmo più, quello capace di aiutare i cittadini a comprendere se i governi stiano perseguendo l’interesse pubblico o spasimando dietro interessi particolari. L’estradizione di Assange svuoterebbe la democrazia del significato che da sempre le abbiamo dato e aspiriamo a poterle dare.

Lei ha scritto un libro molto importante, avendo seguito il caso Assange molto da vicino. Per la sua esperienza personale come si è posta la stampa estera, quella australiana nei suoi confronti rispetto a quella italiana? Ha trovato più sensibilità e vicinanza verso Assange?

Il mio sindacato, la National Union of Journalists britannica, si è da subito schierata contro l’estradizione nell’aprile 2019. C’è voluto poi del tempo perché la sensibilità crescesse oltre i membri più attivi del sindacato stesso. Nell’epoca in cui la campagna diffamatoria contro Assange era più forte, anche i giornali britannici a internazionali ne erano condizionati. Per esempio, nonostante le accuse di stupro ricevute in Svezia e poi archiviate non fossero mai diventate capi di imputazione (sono rimaste sempre a livello di indagini preliminari), alcuni media parlavano di lui come di un “imputato per stupro”, cosa che non corrispondeva al vero. Negli anni attorno al 2018 e 2019 questi comportamenti erano molto frequenti e, come ho raccontato nel mio libro, un gruppo di attivisti si organizzò per censirli e combatterli chiedendo sistematicamente rettifiche a chi descriveva il caso in modo non rispondente a verità. Oggi la situazione qui nel Regno Unito è cambiata. Non conosco testate importanti che si mostrino favorevoli all’estradizione di Assange. Il Guardian, proprio ieri, ha pubblicato ancora una volta un articolo in cui sottolinea i rischi di questa estradizione per tutti noi ed ha ospitato anche un intervento di Reporter senza Frontiere.

Riguardo al Paese di cui Assange è cittadino, la testata per cui ho seguito il processo, Independent Australia, ha mostrato sempre interesse per il caso. Ritengo che lo stesso abbiano fatto molti altri media australiani.

Nel suo libro riporta una sua intervista al padre di Assange. Cosa può dirci di lui e della sua famiglia in generale? Come stanno vivendo questa difficilissima situazione?

Il momento che stanno attraversando non potrebbe essere più drammatico: Julian rischia di essere trasferito in un luogo in cui tutti i suoi diritti fondamentali potranno essere violati senza timore che qualcuno lo documenti, magari per tutta la vita. Una possibile vita di torture è l’orizzonte che questa famiglia disperata vede davanti a Julian. Nel 2021, i giudici del processo in secondo grado hanno capovolto il “no” all’estradizione e pronunciato un “sì” in virtù di alcune “rassicurazioni diplomatiche” in cui gli Stati Uniti promettevano di non porre Julian nelle misure amministrative speciali, un sistema di detenzione che moltissimi esperti di diritti umani equiparano a tortura o trattamento degradante. Agnes Callamard di Amnesty International, l’ex relatore Onu Nils Melzer e altre figure autorevoli hanno detto che le promesse degli Stati Uniti sono scritte in maniera tale da permettere loro di retrocedere in qualsiasi momento da quanto promesso. I giudici dell’Alta Corte hanno invece deciso di considerarle affidabili. Chi ha sentito i testimoni del processo in primo grado descrivere cosa siano le misure amministrative speciali non ha dubbi sulla loro disumanità. Neppure la famiglia di Julian può averli. E immaginare Julian in quel tunnel oscuro è un dolore immenso. Nonostante questo, l’amore è più forte della paura, e continuano a lottare senza sosta per vedere Julian – e il sistema dei diritti umani – vincere la battaglia assieme a tutti noi.

In Copertina: striscione-Assange-Bring-him-home (Foto di https://twitter.com/AssangeCampaign)

Giuliano Sansonetti:
un pomeriggio per ricordare il grande studioso

Giuliano Sansonetti: un pomeriggio per ricordare il grande studioso

Appuntamento il 24 febbraio a Casa Cini con diverse testimonianze

Non è mai venuta meno, in questo anno, la gratitudine nei confronti di Giuliano Sansonetti, tornato alla Casa del Padre il 6 febbraio 2023 all’età di 80 anni.

L’affetto di familiari, colleghi e amici ora si concretizza in un pomeriggio a lui dedicato, in programma sabato 24 febbraio a Ferrara. Si inizia alle ore 15.30 a Casa Cini (via Boccacanale di Santo Stefano, 24/26) con gli interventi di tre colleghi, moderati da Piero Stefani, sugli studi e le pubblicazioni di Sansonetti. Interverranno Piergiorgio Grassi, professore ordinario di Filosofia della Religione e docente di Sociologia della Religione nell’Università degli studi di Urbino; Silvano Zucal, professore di Filosofia Teoretica e di Filosofia della Religione all’Università di Trento; Ilario Bertoletti, filosofo esperto in problematiche dell’Editoria, Direttore Editoriale della Morcelliana e della rivista Humanitas.
A seguire, vi saranno testimonianze di altri colleghi e studenti, fra cui Nicola Alessandrini, Mirella Tuffanelli, Tommaso La Rocca, Roberto Formisano, Giovanni Albani, Caterina Simoncello.

Alle 18, S. Messa nella vicina chiesa di S. Stefano presieduta da mons. Massimo Manservigi e accompagnata dall’Accademia Corale “Vittore Veneziani”, che eseguirà la Messa di Roveredo dello stesso maestro Veneziani.

Chi era Giuliano Sansonetti

Giuliano Sansonetti

Dopo la laurea conseguita nel 1965 all’Università di Urbino, Sansonetti è stato dal 1966 al 1995 professore di Filosofia e Storia nei Licei (fra cui il Liceo Classico “Ariosto)”, poi in diverse università italiane e al nostro Istituto di Scienze Religiose. Attivo nel MEIC (Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale) di Azione Cattolica e nella CISL, fu tra i primi presidenti del CDS (Centro Documentazione Sindacale) di Ferrara e negli ultimi anni Presidente dell’Accademia corale “V. Veneziani”.

Dall’ottobre 1978 al novembre 1989, ha fatto parte dell’Ufficio di Presidenza del Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione. Dal 1989 ha iniziato l’insegnamento universitario prima presso la Facoltà di Magistero di Urbino dove è rimasto fino al 2006, dedicandosi agli studi di Bioetica. Dal 2006, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Ferrara, dove già da diversi anni teneva per supplenza l’insegnamento di Storia della Filosofia contemporanea, dedicandosi agli studi e all’insegnamento di Filosofia morale. Nei suoi studi si è occupato principalmente della fenomenologia e dall’ermeneutica contemporanee di area francese e tedesca, con alcune incursioni nella filosofia tedesca tra Settecento e Ottocento. Fra i filosofi che ha maggiormente studiato, Heidegger, Levinas, Gadamer, Henry. Lo scorso giugno per Scholé è uscito il volume collettaneo “Le sfide etiche e sociali del cambiamento climatico” con contributi di Sansonetti, Battiston, Giraud, Natoli, Forte, Bellavite Pellegrini.

Ufficio stampa diocesano

Su Giuliano Sansonetti leggi su Periscopio:
Andrea Serbini, Le beatitudini sono impronte da seguire
Tiziano Tagliani, Giuliano Sansonetti: una testimonianza di impegno civile, religioso e culturale

Lettera. Politica e vangelo:
riflessioni sugli attacchi alla Chiesa ferrarese

Politica e vangelo: riflessioni sugli attacchi alla Chiesa ferrarese

In questi mesi ho letto articoli che riportano le polemiche tra alcune forze politiche, Lega e Fratelli d’Italia, contro l’arcivescovo Gian Carlo Perego.

Come molti altri credenti, sono rimasta piuttosto turbata per l’arroganza con cui è stato attaccato l’arcivescovo: penso che sia un segno dei tempi, di una Chiesa che non gode più del rispetto per quello che annuncia e che opera. Ieri ero a fare una passeggiata in montagna con un gruppo di persone e mi è stata rivolta la domanda: “Ma a te piace questo Papa?”. Non sono riuscita a rispondere subito perché ho colto una strumentalizzazione e perché il mio cuore mi ha detto che era una domanda stupida. Perché mi deve piacere il Papa? Perché mi deve piacere il mio Arcivescovo? E mi sarebbe piaciuto Gesù? Come se tutto si possa basare su un giudizio superficiale e personale, su una posizione individualista e populista.

Sento nel profondo un gran disagio e una tristezza, legata a queste dinamiche su cui si fonda la propaganda odierna e a cui abboccano molte persone, anche credenti convinti. Giudizi impietosi che si basano sulla supponenza di avere la verità in tasca e soprattutto sulla convinzione che si possa dividere il mondo in chi ha ragione e chi ha torto.

Abbandono queste riflessioni e mi arriva in dono il Vangelo del giorno che mi annuncia:

Dal Vangelo secondo Matteo

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra.
Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”.
Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.
Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”.
Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”. E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna».
Parola del signore.

Il brano è lungo, penso sia giusto riportarlo per intero.
Parto dalla fine: “Parola del Signore”, non parola del Papa o dell’Arcivescovo!
All’inizio, invece, mi colpisce la differenza tra pecore e capre e questo mi riporta ad uno strano personaggio pubblico che è diventato famoso con il termine capra… povere capre! D’altronde il Vangelo spiega bene perché le capre saranno trattate duramente: perché non hanno accolto, nutrito, curato ed in generale non hanno donato, hanno voluto tenere per sé. Forse perché non hanno riconosciuto nell’altro la figura di Gesù. Non credo ci sia bisogno di altre parole, il Vangelo come sempre ci parla in modo chiaro e ci chiede, ancora di più in questo inizio di Quaresima, di convertirci, di cambiare il nostro cuore, di operare per il bene degli altri.

Riprendo in mano alcuni articoli di giornale e ritorno alle polemiche di questi mesi: si parla di soldi non di persone, si cercano pretesti per attaccare l’altra persona. Anche nel Vangelo molte persone attaccano con pretesti Gesù e lo mandano in croce con argomentazioni ben costruite.

Rifletto dunque sul fatto che queste dinamiche non sono nuove. Mi chiedo dunque: come è possibile che persone che credono nel Vangelo riescano a fidarsi e a supportare personaggi politici così arroganti e senza rispetto per le posizioni altrui, senza cogliere un contrasto con il Vangelo?
E soprattutto come è possibile che molti credenti siano convinti che sia giusto dare prima una casa ai Ferraresi? O che chi arriva da un altro paese e ci chiede accoglienza trovi un giusto rifiuto, motivato da argomentazioni molto logiche ed egoistiche che nulla hanno a che fare con il Vangelo?

Come credente non posso fare che pregare per chi si assume la responsabilità di portare avanti un messaggio così negativo, perché il giudizio arriva per tutti, benedetti e maledetti.

Navalny ucciso, Assange in bilico

Navalny ucciso, Assange in bilico

Quattro giorni fa l’omicidio di Stato di Alexei Navalny. Era un uomo segnato, perseguitato, condannato e incarcerato più volte. Doveva finire così, lo Zar l’aveva deciso da tempo, aspettava solo il momento buono, si stava divertendo a giocare al gatto col topo, ma ora il topo era catturato, chiuso in una gabbia piccola piccola, lontana lontana, ora era arrivato il tempo di ammazzare quel topo, di spegnere anche quella luce. Mentre il corpo pieno di lividi non viene ancora restituito alla madre e alla moglie – una fonte racconta che ci vorranno almeno due settimane – è già tremenda l’immagine della sua ultima prigione, un fabbricato basso assalito dal vento e dalla neve. Un inferno di ghiaccio.

La Siberia, l’abbiamo tutti nella memoria, è un simbolo dell’era zarista e staliniana, un luogo abbandonato, spoglio di uomini e di cose, esposto a una natura matrigna. Penso a Navalny, il blogger provocatorio e creativo, lo rivedo sorridere e ammiccare in tanti video che bypassavano i controlli e la censura e arrivavano in Occidente. Allora mi era sembrato quasi un uomo allegro, divertito dal tiro che era riuscito a mettere a segno contro lo Zar.

Ma Alexei Navalny non era un personaggio in grado in nessun modo di contendere il potere di Vladimir Putin, probabilmente nemmeno ci pensava. Era diventato famoso in Occidente, seguito e apprezzato tra i giovani di Mosca e San Pietroburgo, ma era sconosciuto nella sterminata provincia russa. Era un oppositore, non un rivale.

A meno di un mese dalle prossime (finte) elezioni presidenziali, Putin gode di oltre l’80 per cento dei consensi. Perché allora tanta crudeltà? Perché annientare e poi eliminare fisicamente un uomo come Alexej Navalny? Per quale ragione, perché era necessario rinchiuderlo in una gelida trappola per topi e dargli il colpo di grazia? In realtà, la verità, è che Navalny, come tutti gli altri “nemici” di Putin (oligarchi, militari, ministri, giornalisti) negli ultimi dieci anni non sono stati eliminati perché rappresentavano un pericolo, ma solo per ribadire l’onnipotenza del Lider Maximo e rispondere alla sua ansia paranoica ormai fuori controllo.

Così in Oriente, nell’ex superpotenza, nell’impero del male dove i diritti, tutti i diritti, sono sospesi. In Occidente è invece passata la Rivoluzione Francese, in Occidente tutte le Costituzioni proclamano i diritti fondamentali, la libertà di associazione e di espressione. Avrebbe quindi tutte le ragioni l’Occidente a condannare l’Oriente: in effetti lo fa tutti i giorni, tre volte al giorno. Peccato che in Occidente, negli Stati Uniti in primis, ma anche nella vecchia Europa, assistiamo a una progressiva compressione dei diritti costituzionali. La lunga scia del nazionalismo, dell’integralismo, del populismo, la crescita e l’avvento al governo delle destre, il successo elettorale dei partiti fascisti e postfascisti, sono tutti fattori di quella che è ormai diventata una vera e propria “crisi della democrazia”. 

Il calvario umano e giudiziario di Julian Assange, fondatore Wikileaks e campione del giornalismo libero, è una macchia nera nell’anima dell’Occidente. È rinchiuso da anni in un carcere di sicurezza britannico, senza nessuna condanna e senza una imputazione precisa, il suo fisico è allo stremo.
Oggi 21 febbraio è un giorno decisivo. L’Alta Corte di Londra deciderà con sentenza definitiva sulla sua estradizione negli Stati Uniti, dove lo aspetta un processo che lo vede imputato per la pubblicazione di 700mila documenti secretati con la prospettiva di 170 anni di carcere. Sarebbe una condanna a morte, ha dichiarato la moglie di Assange.

A Londra e in oltre 60 città, in tutto il mondo, ma soprattutto in Europa, si scende in piazza per la libertà di Julian Assange e per la libertà di espressione e di informazione. Chi manifesta? Le solite minoranze, i piantagrane, i pacifisti, i nonviolenti… Silenzio assoluto dai governi e dai capi di stato. Due righe non di più sui giornali mainstream.

Hanno ucciso Navalny. Ora stanno uccidendo Assange. Per noi di Periscopio due uomini hanno lo stesso peso. Lo stesso peso sulla bilancia dell’Oriente cattivo e dell’Occidente che crede di esser buono..

Cover: elaborazione grafica di Carlo Tassi per Periscopio.

Per leggere gli articoli di Francesco Monini su Periscopio clicca sul nome dell’Autore

La Resistenza CPS risponde al Comune:
Il “degrado” è voler cancellare un’esperienza decennale

La Resistenza risponde al Comune: Il “degrado” è voler cancellare un’esperienza decennale

Siamo le volontarie e i volontari del CPS La Resistenza. Abbiamo appreso stamani di alcune dichiarazioni a mezzo stampa della Giunta Comunale rispetto al fatto che la stessa non avrebbe ricevuto da parte nostra il progetto richiestoci ai fini dell’Ordinanza 1069/2023 di chiusura del CPS (prorogata successivamente con l’Ordinanza 1488/2023).

E finalmente ci siamo!

Non hanno nemmeno letto le mail!!

Quanto è credibile sostenere di non aver ricevuto una PEC inviata il 16 Novembre 2023 a ben sette  indirizzi mail/pec istituzionali?

Ipotizzando per assurdo che la PEC contenente il progetto che ci è stato richiesto non sia stata ricevuta per problemi informatici (altro attacco hacker?!), perché non ci è stata data, comunque, una risposta ad altre tre precedenti PEC contenenti una richiesta di accesso agli atti e una comunicazione fondamentale, inoltrata in data 03/09/2023, in cui si riportava un resoconto dettagliato dei sopralluoghi da noi svolti con l’invito a un incontro urgente con l’Amministrazione e i tecnici comunali?

Ancora una volta, ipotizzando per assurdo che nessuna di queste PEC sia pervenuta, è successo forse lo stesso con le altre sei mail ordinarie (tra agosto 2023 e gennaio 2024) che in calce richiedevano un incontro urgente e chiarimenti?

Alla nostre numerose richieste poi bisogna sommare anche le pec inviate da ANCESCAO Provinciale (il 19/10/23 ed il 13/11/23) che non hanno ricevuto alcuna risposta (forse a questo punto nemmeno una lettura).

Alleghiamo in calce a questa lettera le copie delle PEC inviate dal CPS e qualche foto del “degrado”,  pre e post ordinanze comunali, a confronto.

La Resistenza prima dell’ordinanza
Dopo l’Ordinanza di Chiusura del Sindaco

Pensiamo tuttavia che il punto focale di questa vicenda non sia stato sufficientemente tenuto in considerazione: si parla di una APS scalzata dalla propria sede che, per amore delle proprie attività, raccoglie e offre più di 16000€ all’Amministrazione per svolgere dei lavori in uno stabile di proprietà del Comune stesso. Indifferenza e silenzio.

Questo è il vero “degrado”: sputare sopra un’esperienza solida con una storia ultradecennale con il solo scopo di cancellarla senza offrire alternative di sede, provare a ostacolare con metodi ostruzionistici gli sforzi profusi dalle volontarie e dai volontari del CPS e, in ultima, snobbare le soluzioni proposte.
Ci è sempre stato detto di non limitarci alla polemica, ma di essere costruttivi e propositivi: così abbiamo fatto, eppure ancora oggi l’Amministrazione continua imperterrita a diffondere notizie inesatte e a dimostrare una mancanza totale di responsabilità istituzionale.

Le volontarie e i volontari del CPS “La Resistenza”

In copertina: un pranzo a La Resistenza prima dell’ordinanza di chiusura comunale

Navalny

Navalny

La paura dei despoti
Una paura in
Cancrena
Anche
di una
Sola vena
 dissidente
Chissà come
Non è indifferente
Come l’hanno
Liquidato
Il principe Navalny
Lui Anna e tutti
Tutte le altre
La verità
Da quelle parti
È come i mammuth
Dipende
Dal disgelo
In copertina Alexei Navalny nella sua ultima prigione in Siberia, pochi giorni prima della morte.

L’Europa tradita di Ventotene e la sudditanza senza fine all’alleato padrone

L’Europa tradita di Ventotene e la sudditanza senza fine all’alleato padrone

Come doveva essere l’Europa secondo i suoi fondatori?

Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, nel Manifesto di Ventotene  -isola in cui erano stati confinati- fatto rocambolescamente uscire nel 1941, l’anno più nero, quando il nazismo (e il fascismo a ruota) dominavano l’Europa, con visione profetica indicarono le “condizioni” di edificazione dell’Europa post bellica: “socialista” (oggi diremmo di progresso o democratica). Non secondo l’approccio della collettivizzazione sovietica, ma un continente in cui “le forze economiche non debbono dominare gli uomini ma essere da loro sottomesse, guidate, controllate affinchè le grandi masse non ne siano vittime. Al tempo stesso le forze di progresso che scaturiscono dall’interesse individuale non vanno spente…ma esaltate, estese offrendo loro una maggiore opportunità di sviluppo…vanno consolidati e perfezionati gli argini che le convogliano verso gli obiettivi di maggior vantaggio per tutta la collettività”. Di qui la formulazione secondo cui “la proprietà privata deve essere abolita, limitata, estesa, caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio”. Seguono alcuni presupposti indispensabili:

a) non si possono più lasciare ai privati le imprese che, svolgendo un’attività monopolistica, sono in condizione di sfruttare la massa dei consumatori;

b) occorre eliminare i ceti parassitari e perciò “distribuire le ricchezze accumulate nella mani di pochi privilegiati” per effetto del “diritto di proprietà e di successione”, il che dovrebbe “accadere durante una crisi rivoluzionaria in senso egualitario”;

c) “i giovani vanno assistiti con le provvidenze necessarie per ridurre al minimo le distanze tra le posizioni di partenza nella lotta per la vita”;

d) occorre “assicurare a tutti, con un costo sociale relativamente piccolo, il vitto, l’alloggio, il vestiario col minimo di conforto necessario per conservare il senso della dignità umana”;

e) “la liberazione delle classi lavoratrici può aver luogo solo realizzando le condizioni accennate nei punti precedenti”.

A ben vedere la Costituzione Italiana ha preso spunto dai propositi di Spinelli e Rossi, che ritroviamo negli articoli 3 (dignità della persona), artt. 42 e 43 (limitazioni della proprietà privata in funzione della utilità sociale). Per venire ai temi di oggi ci sono spunti anche per il “salario minimo”, già auspicato, peraltro, dal fascismo del 1919 e per un sussidio di cittadinanza ai più poveri che si può desumere dal punto d).

Agli “europeisti” si potrebbe far notare che la crescita delle destre è dovuta ad un’ Europa dell’euro e della moneta incentrata sul libero mercato e su quella “dittatura del denaro” molto lontana dai nobili propositi dei suoi fondatori. Un’ Europa che ridimensiona il Welfare a colpi di quel “Patto di Stabilità” che anche Mario Draghi critica nel suo intervento a Washington del 14 febbraio alla Nabe Economic Policy Conference, quando dice: “…la UE agisca unita per cambiare l’azione delle banche centrali…serve un debito comune per fare investimenti sociali…occorre una difesa comune…se vogliamo preservare la democrazia…le banche centrali dovranno essere più attente alle politiche di riequilibrio se vogliamo difendere i nostri valori sociali europei… di fronte alla globalizzazione non gestita,…facilitare aiuti di Stato ove giustificati,…coordinare la difesa…una politica di bilancio più significativa…che vuol dire deficit pubblici persistentemente più alti,…affrontare le disuguaglianze… ”. Sembra un discorso da socialista. Fa una certa impressione, perché Draghi non ha supportato queste politiche quando lui era al Governo, se si esclude il 2012 quando alla BCE, per difendere l’euro, avviò il “whatever it takes”, cioè una politica di deficit spending keynesiana (seppure in ritardo di 3 anni sulla Federal Reserve Usa). Ammetterà che il suo Governo non è “riuscito” a tassare i superprofitti di banche e imprese, né a tassare le successioni dei ricchi…

Draghi dice solo una mezza verità: omette di aggiungere che le cose che racconta sarebbero realizzabili se l’Europa diventasse autonoma dagli Stati Uniti, se oltre alla difesa si dotasse di una sua propria politica estera, ma ciò sarà possibile (come afferma anche Lucio Caracciolo) quando Germania e Italia daranno vita a nuovi accordi che modifichino quelli siglati nel secondo dopoguerra nell’ambito degli aiuti del Piano Marshall, che ci imponevano di seguire gli Usa per cent’anni in politica estera.

L’Europa (con Inghilterra e Russia entrambe fuori) è diventata, soprattutto negli ultimi 20 anni di “globalizzazione non gestita”, la 52^ stella degli Stati Uniti, incapace di darsi una propria politica estera e di perseguire al proprio interno il progetto social-egualitario di Spinelli e Rossi.

A giugno avremo le elezioni europee. Le destre avanzano ma non saranno ancora capaci di governare col PPE. A novembre nelle elezioni americane potrebbe vincere Trump, eventualità considerata disastrosa da molti analisti. Di certo arriverebbe uno “scossone” che potrebbe, però, spingere l’Europa a scelte finora sempre rinviate, come una difesa comune e la propria edificazione come polo autonomo capace di vere politiche sociali.

Photo cover: Altiero Spinelli e la moglie Ursula Hirschmann

Morti sul lavoro: una strage che deve finire

Morti sul lavoro: una strage che deve finire

I tragici fatti di Firenze pongono come prioritario il tema delle morti sul lavoro.
E’ urgente intervenire per scongiurare queste evenienze sapendo che non sono fatalità’.

Le tante morti sul lavoro sono l’effetto ultimo di una riduzione dei controlli sul sistema degli appalti e dei subappalti, sulle condizioni di lavoro degli operai assunti, sulla affidabilità’ delle imprese coinvolte nei progetti, sul rispetto delle leggi.

La città’ metropolitana di Roma ed altre città’ hanno stipulato protocolli con i Sindaci ed i Prefetti che prevedono la certificazione delle imprese e dei lavoratori contro l’illegalità’ ed i rischi sul lavoro. Anche a Ferrara sono in corso confronti tra Istituzioni e sindacati per aumentare la trasparenza del sistema degli appalti e la sicurezza sul lavoro nei cantieri che si apriranno per realizzare il PNRR.

Auspichiamo che i confronti portino quanto prima ad un protocollo che coinvolga le massime Autorità’ cittadine, i sindacati e le imprese per il bene della città’ e dei lavoratori.

La Comune di Ferrara

In copertina: immagine di Radio Onda d’Urto

Anselmo: per battere Fabbri non servono polemiche, ma proposte

Anselmo: per battere Fabbri non servono polemiche, ma proposte

Mille intrepidi follower possono bastare per cacciare i Borboni da Napoli, ma non per strappare Ferrara ad Alan Fabbri. Eppure lo fanno sembrare possibile. A una settimana dalla grande presentazione/convention/pellegrinaggio che ha radunato all’Apollo centinaia di sostenitori di Fabio Anselmo, finalmente e ufficialmente candidato per il centrosinistra, l’impressione generale è un po’ questa: la destra è ancora avanti, probabilmente lo resterà, ma adesso almeno c’è gara. E finché c’è gara, direbbe Sinner, ogni pronostico si può ribaltare.

Tra una polemica e l’altra, alla fine il Pd è riuscito a mettere in campo un candidato interessante, molto noto e con un’immagine di serietà e competenza trasversale, grazie alle sue battaglie per i diritti civili combattute non nelle piazze ma all’interno delle istituzioni. Un passato che lo mette potenzialmente in ottima luce sia per quell’elettorato che premia l’impegno su temi umanitari e diritti civili, sia per quello più pragmatista e interessato alle competenze tecniche dei propri rappresentanti. Insomma: apparentemente uno di quei rarissimi personaggi capaci di mettere insieme le due diverse anime della sinistra, quella dei grandi ideali progressisti e quella dell’efficiente governo delle masse.

Raccolto e sondato l’entusiasmo, ora però il candidato deve mettere in campo idee, proposte e magari anche qualche nome. L’evento all’Apollo infatti ha dato sicuramente un segnale positivo ad Anselmo, ma forse meno su Anselmo: tolta una prima parte di presentazione forse un pelino ridondante (sfido a trovare uno tra i presenti che non conoscesse i casi Cucchi e Aldrovandi) e una seconda fase tutta all’attacco di Fabbri/sindaco ologramma, Lodi/vero sindaco e Balboni/damnatio familiae, da parte di Anselmo non sono state avanzate particolari idee alternative per la città. Il raduno si è focalizzato sui problemi di Ferrara, alcuni anche di lunghissima data come la sudditanza del Comune verso Hera, l’età media avanzata della popolazione o lo scarso trasporto pubblico nelle frazioni, senza un’effettiva parte dedicata alle proposte.

La mia sensazione da un po’ di tempo a questa parte è che quando la sinistra si fossilizza sui difetti dell’avversario va incontro alla sconfitta. Per almeno due motivi, almeno in questo caso. Il primo è che l’elettorato in questione è umanamente e culturalmente diverso da quello di Lega o Fratelli d’Italia: il clima di polemica continua, gli attacchi strumentali e i colpi bassi all’avversario che hanno fatto la fortuna elettorale di Naomo Lodi non aiuteranno mai allo stesso modo un candidato di centrosinistra. Anzi, a volte lo danneggiano. Un fatto evidente ma che spesso sfugge a chi prova a combattere il vicesindaco sul suo stesso terreno.

Il secondo motivo, forse ancora più difficile da digerire per qualche storico attivista, è che bisognerebbe riflettere più lucidamente sulle colpe e i meriti dell’amministrazione leghista, senza bocciare tutto di netto e indistintamente. Perché a volte si rischia di andare contro a decisioni che sono state apprezzate anche dal proprio elettorato. Molti potenziali sostenitori di Anselmo non condividono i giudizi sprezzanti verso alcune politiche dell’attuale amministrazione su eventi musicali estivi, riqualificazione dei parchi, dotazione di armi alla polizia locale, ampliamento delle distese dei bar o altre scelte magari controverse o discutibili ma non necessariamente autoritarie o ‘di estrema destra’ come ricalcato un po’ troppo spesso dall’opposizione.

Se Anselmo non vuole ripetere gli stessi errori della chiassosa e litigiosa ciurma di cui ha appena preso il comando, credo che dovrà cercare di portare il dibattito a un livello più alto e pragmatico rispetto a quanto visto in questi anni, anche a rischio di scontentare chi vede nello scontro frontale con Lodi l’unico modo per portare avanti una campagna elettorale. La verità è che questi quattro anni e mezzo di amministrazione leghista hanno fatto ricredere molti ferraresi: non c’è stata la catastrofe tanto temuta a sinistra, ma neanche la gloriosa rinascita annunciata a destra. Di fronte a un leggero ma effettivo calo del degrado nelle periferie, altri fenomeni di criminalità comune sono in notevole aumento e l’economia locale è più in difficoltà che mai, come mostra la più che mai drammatica conta delle serrande che vengono chiuse. Il petrolchimico dove cinque anni fa – questo lo ricorderanno in pochi – Fabbri aveva inaugurato la sua campagna elettorale, promettendo di non abbandonarlo al proprio destino, sembra ormai destinato a un lento ma progressivo declino, e rischia di essere lo specchio di buona parte del comparto industriale. Inizia insomma a insinuarsi il sospetto che l’amministrazione Fabbri, nonostante l’abilità ad autopromuoversi, abbia servito più fumo che arrosto e che nei prossimi anni possano venire a galla problemi più decisivi di qualche cuoricino di dubbio gusto sulla Torre della Vittoria.

Se Anselmo vuole avere una speranza di ribaltare i pronostici deve evitare il più possibile il clima di polemica in cui ha galleggiato in questi anni la sinistra, concentrarsi sulle criticità più evidenti e meno ideologiche dell’amministrazione Fabbri. E soprattutto iniziare a mettere in campo idee e progetti per Ferrara, quartiere per quartiere, con qualche nome in grado di portarle avanti. Le mille persone che lo hanno applaudito all’Apollo avevano già deciso da tempo da che parte votare. Ora bisogna parlare anche agli altri.

Parole e figure /
I migranti negli occhi dei bambini

Uscito in libreria il 26 gennaio, l’albo “I migranti” di Marcelo Simonetti e Maria Girón, edito da Kalandraka, affronta l’incontro con l’altro con umorismo e intelligenza, attraverso lo sguardo curioso e innocente dell’infanzia. Perché i bambini non vedono differenze.

L’annuncio dell’arrivo di due migranti desta sorpresa e curiosità nel bambino narratore e in sua sorella. Nel momento stesso in cui la maestra Alicia comunica la notizia, al suono della campanella escono dall’aula di corsa. Vogliono arrivare a casa il prima possibile, li aspetta il risolatte della nonna, ma quell’annuncio frulla loro in testa.

I due fratellini tentano di immaginare cosa si celi dietro quella parolona ma dopo buffi tentativi (forse i migranti sono un tipo di dolce, forse sono degli animaletti carini tipo i ricci, o magari somigliano a giochi di parole), e anche se vorrebbero spiegare alla mamma li loro timori, la smettono per andare a giocare con i nuovi compagni di classe. Che sono, semplicemente, nuovi compagni di risate e giochi.

Una maniera delicatissima di spiegare ai bambini che dietro parole a loro incomprensibili non ci sono né spiriti maligni o spettri che li costringono a lasciare la luce accesa, né brutte sorprese. Che la curiosità e la gentilezza vincono su tutto. A loro che non vedono differenza fra essere umani, nemmeno se la immaginano.

Libro meraviglioso, per le scuole e non solo.

“Siamo entrati in classe con una fifa blu, aspettandoci il peggio, però non era ancora arrivato nessun dei compagni, c’erano solo due bambini nuovi seduti in fondo all’aula”. (…)

Marcelo Simonetti, Maria Girón, I migranti, Kalandraka Italia, 2024, 36 p.

Marcelo Simonetti sito web e pagina Instagram

Maria Girón pagina Instagram web

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara

Perfect days (3)
Il miracolo delle ombre e delle luci, dei sogni e delle veglie, del dolore subito e inflitto

Perfect days (3). Il miracolo delle ombre e delle luci, dei sogni e delle veglie, del dolore subito e inflitto

Ogni scrittore, ogni regista, ogni artista sa che, messa in circolazione la propria opera, questa smette di appartenergli e acquista una vita propria, interpretata dagli occhi del pubblico che le attribuisce significati molteplici, che vanno a volte al di là delle intenzioni coscienti dell’autore.

Tanto più quando si tratta di un capolavoro come Perfect Days, le penne si mettono in moto, attestando il grande successo di critica  e di pubblico sortito dal film. Ai bellissimi articoli di Giuseppe Ferrara [Qui] e Francesco Monini [Qui] vorrei aggiungere il mio sguardo femminil-femminista che, da quando  hanno concesso di scrivere anche a noi donne ( e non sono molti secoli) coglie l’occasione  di esprimersi come un dono, da restituire puntuale e implacabile alle figure maschili.

Anch’io ho visto Perfect days due volte, mi sono confrontata molto con chi l’ha visto con me, affascinata dal film, ma specialmente da Hirayama, il protagonista pulitore di bagni.
Data la drammaticità della crisi maschile occidentale
attestata dai quotidiani fatti di cronaca, dai social e dai media, che riflettono maschi narcisisti maligni, manipolatori, stalkers, assassini e stupratori di gruppo, nella migliore delle ipotesi casi umani, Wim Wenders mette finalmente  in scena una mascolinità sana. Hirayama è infatti un uomo equilibrato e sereno, silenzioso e solitario, ma profondamente relazionale nel suo stare al mondo.

Chiedendo venia del mio sguardo prosaico, ammetto che mi sono innamorata prima di tutto di come Hirayama pulisce i bagni pubblici. Non si tratta solo di zelo nel compiere il proprio lavoro, di meticolositá, di concentrazione dell’uomo realizzato, lui pulisce i bagni con passione. Auspicando un effetto imitativo anche da parte maschile, che in buona parte ha ancora il problema di una buona mira nel centrare la tazza, ho cominciato a guardare il mio bagno con altri occhi, a cercare prodotti e attrezzi, trascinata dall’entusiasmo di trasformare un’operazione obbligatoria e noiosa nella soddisfazione di pulire con piacere e di rendere migliore il mio bagno.
Solo la passione sortisce questi effetti sconvolgenti su chi assiste, non essendo io infatti da sempre una cultrice dei lavori domestici.

Oltre che un pulitore più unico che raro, che qualsiasi donna si augurerebbe al fianco, Hirayama è un uomo indipendente: non cerca la relazione, ma dalla relazione si fa comunque trovare, quando capita. La sua rottura con la famiglia di provenienza,  probabilmente agiata e più che benestante, come si è già scritto, comporta un cambiamento di status: Hirayama vive in un mondo povero, ma non è povero di mondo, per usare un’espressione di Heidegger. È invece molto ricco nei tanti mondi che lui vive, alcuni collegati, altri no, come dice Hirayama stesso nel film. È questa costruzione di mondi che rende le sue giornate, pur nella loro ritualità metodica, assolutamente uniche, irripetibili.  Il protagonista  vive  infatti un mondo nella partita a tris che gioca con un anonimo sconosciuto attraverso bigliettini lasciati nei bagni che pulisce,  un mondo nella sua piccola serra che aumenta di una  nuova pianticina raccolta nel parco dove consuma il suo panino,  un mondo nella nuova foto alle chiome degli alberi scattata con la sua macchina fotografica analogica Olympus, che va ad aggiungersi alle altre, raccolte meticolosamente in contenitori ermetici. Un’altro mondo a lui caro è quello della musica ascoltata in macchina ancora in cassette: la migliore musica anni 70, da  Lou Reed a Van Morrison, passando per Patty Smith e  la trionfale Feelin good di Nina Simone.  Accetta la relazione con il suo collega, in apparenza superficiale e sfaticato, arrivando a dargli i suoi ultimi soldi per permettergli di uscire con una fidanzata improbabile, più affascinata dalla Patty Smith ascoltata da una cassetta di Hirayama, che da lui.

La rottura con il passato, la scelta filosofica di vivere dell’essenziale, apre a nuovi mondi inaspettati, insoliti, offerti dall’universo stesso e colti al volo da Hirayama, nel suo “adesso è adesso e un’altra volta è un’altra volta”, di sapore lievemente Zen, Il suo pianto dopo l’incontro con la sorella fa finalmente giustizia, non solo degli abbandonati , ma anche di  chi la rottura ha avuto il coraggio di compierla, al dolore che ha provato nel lasciare chi amava, alla durezza che si è imposto per non tornare indietro.

Anche chi lascia soffre, paga il prezzo che ogni scelta comporta, accettando in silenzio la solitudine di chi non può condividere la sofferenza, proprio  con chi si ama di più, perché lo deve lasciare per compiere il proprio percorso. Le parole prenditi cura di lei pronunciate dall’ex marito della proprietaria del ristorante in cui va abitualmente, probabilmente al corrente della simpatia reciproca fra i due, delicata e silenziosa, sono parole d’amore, dell’amore di chi ha abbandonato, scelto altro, in questo caso un’altra donna.
Parole che non leggo come dettate dal senso di colpa, ma da quella sollecitudine verso la donna, la cui perdita è il prezzo più alto pagato dal femminismo: anche i migliori uomini sono spesso caduti nell’inconscia sanzione da infliggere alle donne, a causa del perduto ruolo di protettore  e del non del tutto innocente fraintendimento che una donna indipendente non abbia più bisogno di niente.

E’ ancora il pianto di Hirayama, alternato al suo fantastico riso-sorriso che nell’ultima scena del film, sintetizza il miracolo delle ombre e delle luci, dei sogni e delle veglie, del dolore subito e inflitto, di cui la nostra vita unica e irripetibile come i nostri giorni, non sempre perfetti, ma profondamente nostri, è composta,

Perfect days (2) Anche i giorni perfetti hanno un’ombra

Perfect days: anche i giorni perfetti hanno un’ombra

Dice Marion, la trapezista de Il cielo sopra Berlino, di cui si innamora senza speranza l’angelo Damiel:  “Non sono mai stata solitària: né da sola con qualcun altro. Ma mi sarebbe piaciuto, in fondo, essere solitaria. Solitudine significa: finalmente sono tutto..”. Ho visto due volte in 4 giorni Perfect Day, l’ultimo film di Wim Wenders, e tornerò a vederlo, come capita quando ti accorgi di essere di fronte a un capolavoro, che vorresti capire più a fondo, che continua a interrogarti.
Un film, com’è noto, nato quasi per caso. Al grande regista tedesco, da sempre innamorato della cultura giapponese (Tokyo-Ga, il documentario dedicato al regista Yasujirō Ozu è del 1985), era stato commissionato un docufilm per “raccontare” e celebrare gli splendidi e fantasiosi bagni pubblici realizzati da alcuni famosi architetti in un quartiere residenziale di Tokio. Da qui, in sole tre settimane di riprese, è miracolosamente uscito Perfect Day, un film perfetto appunto, di una precisione assoluta, un ritmo circolare, una fotografia intensa, e con al centro una grande prova d’attore, Kōji Yakusho, nel film Hirayama.

Il pulitore di bagni pubblici Hirayama, proprio come la trapezista Marion, sceglie di vivere solo. É una scelta esistenziale, o come giustamente la definisce Giuseppe Ferrara su queste stesse colonne [Vedi qui], una scelta filosofica, che non spiega, ma di cui nel film ci sono chiari segni: “Un’altra volta è un’altra volta, questa volta è questa volta” ripete (e insegna) alla nipote, apparsa all’improvviso, che vorrebbe raggiungere il mare in bicicletta.
Vive da solo Hirayama, in un misero locale di periferia, infilato in una umile routine quotidiana, ma non è un uomo solo. E non solo perché da un’altra vita (di quale vita si tratti si intuisce solo verso la fine del film) si è portato i suoi libri e le sue vecchie cassette degli anni ’70, ma soprattutto perché quella sua nuova vita lui se l’è scelta.

La scelta di cambiare vita lascia sempre un’ombra dietro di sé – ci sono tante ombre in  Perfect days, nella veglia come nei sogni – significa infatti abbandonare la vecchia vita, luoghi, persone, affetti.  Nella nostra ex vita rimangono gli orfani, gli abbandonati. Così, quando la sorella di Hirayama va a riprendersi la figlia che ha fatto una scappatella per andare a vedere dove era finito lo zio, scende da una lussuosa Mercedes e gli dice che il padre “non è più lui”, un implicito invito a tornare indietro, al vecchio mondo, ad una vita che si presume agiata e privilegiata. Un altro abbandonato è il marito della cantante: a lui Hirayama propone un gioco infantile: ancora ombre che si sovrappongono, senza che una possa mai catturare o annullare l’altra.

Il sociologo Franco Cassano, in Partita doppia (Bologna, il Mulino, 1993) scrive proprio dell’ombra che accompagna ogni scelta di cambiare strada, pone cioè attenzione non a chi abbandona, ma a chi di quell’abbandono è vittima. E prende in esame per primo un caso esemplare, paradigmatico, quello della “chiamata” di San Francesco, della scelta di povertà, del momento esatto del distacco, così come viene rappresentato da Giotto per ben due volte nel ciclo della Basilica Superiore. “Nell’affresco di Assisi – scrive Cassano – dal cielo si affaccia una mano che da lassù attira gli occhi e l’anima di Francesco. Sul lato sinistro, al di là del baratro che ormai lo separa dal figlio, c’è Bernardone che tiene sul braccio sinistro i vestiti che Francesco ha lasciato cadere e che, nell’affresco più tardo tenta in modo ancora più drammatico di afferrare il figlio, di non farlo andar via“. 

Lo sappiamo bene, la sequela sarà per Francesco un cammino complicato, non privo di momenti di crisi e di buio interiore, ma quella è pur sempre la strada che ha deciso di percorrere, la nuova vita che ha scelto lui stesso di imboccare. Ma ecco che, dietro la sua grande luce, c’è un’ombra che fatichiamo a vedere. Bernardone e Donna Pica sono le vittime di quel distacco, volevano che il loro Francesco, quel figlio strambo ma amatissimo, rimanesse con loro.

Se quindi vogliamo trovare il significato del film – ma trattandosi di un intellettuale europeo come Wenders dovremo parlare di “uno dei significati” – dovremo aggiungerne uno, un argomento nascosto, che, così almeno ho inteso, lo stesso Wenders ha voluto coprire con un’ombra.

Hirayama, l’eroe saggio e gentile, è sempre in primo piano. Lo seguiamo momento per momento nelle sue giornate tutte uguali, il suo lavoro umile e perfetto, i brevi incontri, quando ripone il libro e spegne la abat jour e quando si sveglia alla luce dell’alba per ricominciare da capo. È un uomo visibilmente sereno Hirayama, parla poco, guarda, sorride. È la stessa vita a sorridergli. Perché è ridotta all’essenziale, si è liberata di pesi, orpelli, obblighi sociali, ma soprattutto, perché è esattamente la vita che ha scelto di vivere. In fondo Hirayama è un privilegiato: molti, quasi tutti gli altri, la vita non possono o non riescono a scegliersela.

Vicino, o appena più lontano, appena accennate in qualche inquadratura, nascoste da un’ombra, ci sono le vittime di Hirayama, le persone che ha lasciato nell’altra vita. Per loro, anche un ieratico pulitore di toilette, non potrà soffocare il pianto.

Cover: sequenza daPerfect days”

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