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Siamo certi che il problema siano le spese militari?

Siamo certi che il problema siano le spese militari?

Nel 2023 (non si hanno ancora dati affidabili per il 2024), la spesa militare dei paesi NATO è stata circa 13 volte superiore a quella della Russia. Considerando solo i paesi europei membri della NATO, la spesa è risultata circa 4 volte quella della Russia.

Tuttavia, ci viene ripetuto che per garantire la sicurezza è necessario spendere molto di più. In realtà si tratta di propaganda e di una strategia di marketing delle industrie militari. È sufficiente visitare le loro pagine web per rendersene conto. Già l’espressione “investire nella difesa” è fuorviante.

L’ideologia secondo cui più armi portano sicurezza non è sostenibile, soprattutto dopo il fallimento della politica di invio di armi in Ucraina, che ha buttato benzina sul fuoco, non ha fermato l’invasore, ha prolungato la guerra, ha contribuito a distruggere un popolo e indebolito e diviso l’Europa.

In effetti, più armi e forze armate forti non garantiscono la sicurezza; al contrario, producono instabilità e insicurezza, favorendo l’insorgere di conflitti armati.
D’altronde, come dimenticare la resistenza nonviolenta della Danimarca al nazismo! Resistenza che ha causato poche vittime e ha permesso di salvare in proporzione il più alto numero di ebrei tra i paesi europei.

Più armi non portano alla pace, ma alla guerra.
È una grande menzogna affermare che la guerra porta alla pace!

La vera sicurezza e la pace si raggiungono investendo in dialogo e cooperazione, attraverso un ripensamento radicale delle attuali politiche, percorsi che rimangono sconosciuti agli attuali leader europei.

Oggi di tutto abbiamo bisogno tranne di più armi!

Ormai siamo in una Europa per la guerra, ma non per questo dobbiamo rinunciare al nostro ideale di una Europa per la Pace, un’Europa dei popoli, non quella dei burocrati e delle banche.

Europe for Peace

L’idea di realizzare questa campagna è nata a Lisbona nel Forum umanista del novembre 2006, durante i lavori di un tavolo sul tema della pace. Partecipavano diverse organizzazioni e le differenti opinioni convergevano con molta chiarezza su un punto: la violenza nel mondo, la ripresa del riarmo nucleare, il pericolo di una catastrofe atomica e quindi la necessità di cambiare con urgenza la direzione degli avvenimenti. Ci risuonavano nella mente le parole di Gandhi, di M. L. King e di Silo sulla importanza della fede nella vita e della grande forza che è la non-violenza. Ci siamo ispirati a questi esempi. La dichiarazione è stata presentata ufficialmente a Praga il 22 febbraio 2007 durante una conferenza organizzata dal Movimento Umanista. La dichiarazione è il frutto del lavoro di piu’ persone e organizzazioni e cerca di sintetizzare le opinioni comuni e concentrarsi sul tema degli armamenti nucleari. Questa campagna è aperta a tutti e tutti possono dare il proprio contributo per svilupparla. www.europeforpeace.eu

UCRAINA, IL TEMPO DELLA FORZA

Ucraina, il tempo della forza

Sembra proprio che ci sia toccato di vivere, ahinoi, in un tempo basato sulla menzogna, sulla forza e sull’interesse.

Abbiamo visto la scena in mondo visione dello scontro del presidente Usa, Donald Trump, che insieme al suo vice, JD Vance, venerdì 28 febbraio scorso nello studio ovale della Casa Bianca a Washington, hanno umiliato il presidente ucraino Volodymir Zelenskyj.

Una cosa mai vista, un tranello, un agguato, una trappola tesa in piena regola a tiro di telecamere e microfoni.

Sono solo alcune definizioni usate per definire quell’incontro completamente deragliato dai binari della diplomazia.

Si è detto che Trump, con i suoi modi rozzi da cowboy, che pare uscito da una stalla e perennemente con il broncio, avrebbe solo tolto il velo di ipocrisia a una politica che non è mai stato uno sport per signorine.

Forse, però, c’è molto altro in quello che stiamo vedendo da quando egli è diventato il presidente numero 47 degli Stati Uniti.

C’è, per esempio, un ricorso sistematico alla menzogna fino all’iperbolica cifra che gli Usa avrebbero sborsato fra aiuti e armi per sostenere l’Ucraina in questi tre anni di guerra, quando anche i più distratti sanno che la somma reale è inferiore a quella sostenuta dagli europei, Gran Bretagna compresa.

Falsità ripetute milioni di volte sui social ci trasportano nel mondo della post-verità, come si dice con espressione elegante.

Dunque, benvenuti nel mondo delle falsità, verrebbe da dire, senza contare che questo potrebbe essere solo un assaggio in attesa che l’intelligenza artificiale faccia il suo corso.

C’è, poi, il tema dell’interesse.

Sulla trattativa statunitense cucinata per chiudere la partita con Mosca, passa in secondo piano costruire una pace sicura, durevole e giusta. Quel che conta, da un lato, è il banchetto delle terre rare ucraine e presentare il conto della spesa, anche se è assai poco elegante.

Dall’altro lato, c’è da assicurare all’impero a stelle e strisce una fornitura sicura di materie prime, nella sfida strategica globale che si gioca sulla scacchiera della Tavola di Mendeleev.

Il fatto che nel conflitto iniziato nel febbraio di tre anni fa ci sia chiaramente un aggressore e un aggredito, non ha importanza.

Conta poco anche il Memorandum di Budapest, come ricorda Francesca Mannocchi a Propaganda Live, siglato il 5 dicembre 1994 con Russia, Regno Unito e Usa, col quale l’Ucraina si impegnava a smantellare il suo arsenale nucleare (il terzo al mondo) in cambio di sicurezza, indipendenza e integrità territoriale, perché ciò che conta adesso sono gli affari.

E se questo deve implicare una sbalorditiva riammissione di Vladimir Putin sulla scena internazionale, responsabile dell’invasione ucraina per inseguire il suo disegno imperiale di Novorossiya, includendo Russia Bianca (Bielorussia) e Kiev (che sta a Mosca -Terza Roma come Gerusalemme sta alla Città Eterna), qualcuno se ne farà una ragione.

Gli affari sono affari e Trump è stato rieletto alla Casa Bianca per fare quelli degli Usa: la nuova età dell’oro, appunto.

Infine, c’è il tema della forza. Dice bene Nadia Urbinati (Il Domani, 4 marzo) che, secondo la logica del “palazzinaro di New York”, “non ci si mette in guerra con uno più forte. La colpa è dei deboli che si mettono in testa di resistere ai forti e causano la guerra”.

A Otto e mezzo da Lilli Gruber (3 marzo), è stato detto che al fondo di questa logica glaciale c’è una partita imperiale a tre: Usa, Cina e Russia. Il resto sono dettagli.

I tre colossi della Terra hanno paura a sfidarsi in campo aperto e porterebbero avanti la loro cinica mano di poker in un pericoloso equilibrio fatto di sfere d’influenza, come le ha richiamate alla memoria Sergio Mattarella nel suo discorso-monito a Marsiglia il 5 febbraio scorso.

In particolare, secondo il punto di vista di Trump ci sarebbe il tentativo di rilanciare un rapporto con Mosca per allontanarla dalla Cina. Strategia simile, ma di segno opposto, a quella messa in atto dagli Usa quando cercarono di allontanare Pechino dall’allora Unione sovietica.

Il dunque della questione ucraina è quasi una cartina tornasole.

La strategia di armarla nella convinzione di vincere la guerra e fiaccare la Russia pare tramontata e di fronte a un probabile disimpegno americano la strada si infila in un vicolo cieco.

Ha senso poi continuare il massacro, magari con il solo aiuto europeo, quando lo stesso presidente Zelenskyj sta ammettendo che non ci sarà vittoria?

L’Europa, appunto.

Come ha detto Lucio Caracciolo dalla Gruber, potrebbe essere il quarto giocatore al tavolo mondiale, l’unico rimasto a calare le carte delle libertà, dei diritti, della giustizia e della democrazia, per un equilibrio diverso dalla deriva.

Ma troppo tempo è stato perso, troppe le divisioni, e l’Ue dimostra di non avere la consapevolezza, la statura (vedi il governo dell’immigrazione), né la forza di reggere da sola il compito di dimostrare la ragione dell’aggredito (il debole) e il torto dell’aggressore (prepotente).

Altrimenti questo diventa, agli occhi del mondo intero, un pesante ed ennesimo precedente.

Se, per esempio, si materializzasse nello scenario ucraino il disimpegno americano, diventerebbe a forte rischio la sola copertura satellitare che l’Europa, indietro di 10 anni, non è in grado di sostituire. Con tutte le conseguenze del caso.

È come un brusco risveglio quello in un mondo nel quale anche la terra della nuova frontiera americana, in una sorta di torsione autoritaria, si affida consensualmente ai pilastri della menzogna, della forza e degli affari.

Un ordine-disordine che si regge su questi presupposti non è per niente chiaro a quali equilibri possa condurre, ma questa, a quanto pare, è la spiacevole realtà.

È il poco che questo tempo a corto di speranza sembra offrire, come se ci stesse presentando il conto dei troppi errori commessi da tanti nel passato.

Un’ultima cosa si può aggiungere.

Davanti alla scena dei ministri del governo Usa in preghiera attorno al loro presidente, si contrappone l’immagine di un pontefice sempre più senza respiro in una stanza di ospedale nel lanciare i suoi appelli alla pace, tutti inascoltati.

Forse l’urgenza di questo tempo che spaventa richiederebbe che le grandi religioni monoteiste del ceppo semita (Cristianesimo, Ebraismo e Islam) si prendessero per mano e, condividendo il secondo comandamento biblico in un sussulto ecumenico, intimassero alla politica, qualunque essa sia: “non nominare il nome di Dio invano”.

Per leggere gli articoli di Francesco Lavezzi su Periscopio clicca sul nome dell’autore

 

Parole a capo /
Nicoletta Zucchini: «Tre poesie per non dimenticare»

Nicoletta Zucchini: «Tre poesie per non dimenticare»

Quando il potere dell’amore supererà l’amore per il potere il mondo potrà scoprire la pace.
(Jimi Hendrix)

…e all’improvviso

…e all’improvviso
nella canicola estiva
il gelato divenne amaro
e il gusto si tramutò in disgusto
come potevo godere
di quell’innocente piacere
quando bimbi inermi
a migliaia
erano cinti e sono cinti d’assedio
fino alla carestia totale
fino alla morte per fame?
…e all’improvviso
non potevo più dire
non ho visto, non sapevo…

(10 agosto 2024)

 

Teniamo presente

Noi educati alla religione della memoria
delle efferatezze dei regimi passati
teniamo presente
che anche il presente
diverrà presto passato
e il nostro silenzio sull’oggi
diverrà memoria
di tempi futuri
e sulle nostre pietre tombali
sarà inciso:
hanno taciuto sulla verità
della menzogna
evidente ad ogni giusto di cuore,
hanno taciuto sulla propaganda quotidiana
spacciata per obiettività di notizie
dove, ogni parola
scelta con cura
risuonava mendace
come il suono
di una campana fessa
e la banalità del male
ancora una volta
galleggiava sulla memoria.

 

Le vestali della guerra

Le vestali della guerra non dormono mai,
dalla notte dei tempi sotto le ceneri
custodiscono carboni ardenti.
Sotto montagne di carta stampata
celebrano testarde
la tortura perpetua della pace
innalzano canti strabici
ai fautori di verità parziali.
La pace langue e geme
in ogni cuore sincero
che sa la verità
che non abita in una parte sola
né sui teleschermi:
la verità è pudica, si mostra a chi
ha desiderio autentico di giustizia.
Una giustizia che non abita in una parte sola.
Giustizia va reclamando e urlando
chi, impostore, si mantiene cieco
alle sofferenze dell’altro.
E si perpetuano le morti dei figli
da una e dall’altra parte.
Le vestali della guerra non dormono mai
insonni fabbricano verità parziali
utili ad incendiare le pire funebri
dei figli dell’una e dell’altra parte.
Le vestali della guerra
amano il chiacchiericcio
che con la scusa di discernere
testimonianze false da quelle vere
alimentano alte e orride fiamme.
La pace giace abbracciata alla morte
e la ragione si stringe stretta
all’interesse di parte.
La storia avanza cieca
e non trova pace duratura.
Le vestali della guerra non dormono mai
usano armi “intelligenti” di distrazione di massa.
Le vestali della guerra sono i sacerdoti,
della difesa armata ad oltranza.

(30/10 2024)

 

Nicoletta Zucchini Sono nata in campagna a metà del secolo scorso. Dopo alcune parentesi lontano da Ferrara, sono ritornata, fortunatamente, a vivere in campagna. Ho trascorso tutta la mia vita lavorativa ad insegnare nella scuola primaria. A chi mi chiede cosa insegnavo, rispondo: “Insegnavo tutto, i primi dieci anni pensavo di dover essere io a pagare lo Stato, facevo ciò che mi realizzava con grande piacere. Poi le cose iniziarono a mutare, ma mutò soprattutto l’organizzazione, poi mutò il clima antropologico/culturale. Nel Tempo Pieno insegnavo le materie letterarie, poi nel Tempo Prolungato (i Moduli) a volte materie letterarie e finito un ciclo, per mantenere vivo il mio interesse, sceglievo le materie scientifiche.” Se nutrito di curiosità e sperimentazione attiva, tutto il conoscere è meraviglioso. Stimolare il desiderio di conoscere e narrare mi risulta naturale, così dopo il pensionamento mi sono ritrovata a percorrere vie simili, ma ora le percorro insieme ad altri adulti.”

Ha pubblicato La crosta e la mollica, ovvero le avventure di Cesarino, NUOVE CARTE ed. 2013.
Ha pubblicato sull’Ippogrifo rivista del Gruppo scrittori ferraresi Aps recensioni, racconti e poesie.

NOTA: “Parole a capo” è una iniziativa dell’Associazione culturale “Ultimo Rosso”. Per rafforzare il sostegno al progetto invito, nella massima libertà di adesione o meno, a inviare un piccolo contributo all’IBAN: IT36I0567617295PR0002114236

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica. 

In copertina: foto di Gerd Altmann da Pixabay.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 274° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.
Siamo certi che il problema siano le spese militari?

Siamo certi che il problema siano le spese militari?

(Foto di Elaborazione Europe for Peace)

Nel 2023 (non si hanno ancora dati affidabili per il 2024), la spesa militare dei paesi NATO è stata circa 13 volte superiore a quella della Russia. Considerando solo i paesi europei membri della NATO, la spesa è risultata circa 4 volte quella della Russia.

Tuttavia, ci viene ripetuto che per garantire la sicurezza è necessario spendere molto di più. In realtà si tratta di propaganda e di una strategia di marketing delle industrie militari. È sufficiente visitare le loro pagine web per rendersene conto. Già l’espressione “investire nella difesa” è fuorviante.

L’ideologia secondo cui più armi portano sicurezza non è sostenibile, soprattutto dopo il fallimento della politica di invio di armi in Ucraina, che ha buttato benzina sul fuoco, non ha fermato l’invasore, ha prolungato la guerra, ha contribuito a distruggere un popolo e indebolito e diviso l’Europa.

In effetti, più armi e forze armate forti non garantiscono la sicurezza; al contrario, producono instabilità e insicurezza, favorendo l’insorgere di conflitti armati.
D’altronde, come dimenticare la resistenza nonviolenta della Danimarca al nazismo! Resistenza che ha causato poche vittime e ha permesso di salvare in proporzione il più alto numero di ebrei tra i paesi europei.

Più armi non portano alla pace, ma alla guerra.
È una grande menzogna affermare che la guerra porta alla pace!

La vera sicurezza e la pace si raggiungono investendo in dialogo e cooperazione, attraverso un ripensamento radicale delle attuali politiche, percorsi che rimangono sconosciuti agli attuali leader europei.

Oggi di tutto abbiamo bisogno tranne di più armi!

Ormai siamo in una Europa per la guerra, ma non per questo dobbiamo rinunciare al nostro ideale di una Europa per la Pace, un’Europa dei popoli, non quella dei burocrati e delle banche.

Europa per la Pace

Cover: Caccia della Nato in volo sull’Europa, foto L’indipendente con licenza Wikimedia Commons.

Trump-Zelensky, il pasto nudo:
l’istante, raggelato, in cui si vede quello che c’è sulla punta della forchetta

Trump-Zelensky, il pasto nudo: l’istante, raggelato, in cui si vede quello che c’è sulla punta della forchetta

Chi ha rivisto i 49 minuti del dialogo in mondovisione tra Trump e Zelensky avrà notato che nei primi 30 minuti c’era un clima apparentemente disteso, che sembrava portare alla firma di un pre-accordo sullo sfruttamento comune sulle terre rare ucraine e un passo deciso verso il cessate il fuoco. Ad un certo punto però Zelensky ha sostenuto che voleva delle garanzie di sicurezza e cioè che gli Stati Uniti garantissero una copertura aerea delle zone di confine, onde evitare future invasioni russe. Una richiesta che i russi non vogliono accettare. Ciò ha fatto infuriare Trump e Vance, che hanno visto sfuggire la possibilità di un rapido cessate il fuoco, anche perché Zelensky ripeteva (in mondovisione) che Putin è un criminale e non rispetta gli accordi.

Lucio Caracciolo, fine analista geopolitico, afferma che la “rissa” non era stata certo programmata, che Zelensky ha fatto un errore tattico, in quanto rompere con gli Stati Uniti pone l’Ucraina in una situazione di ulteriore debolezza, tanto più se gli Stati Uniti dovessero interrompere gli aiuti in corso. Quasi tutta l’élite europea si è schierata a favore di Zelensky e in particolare i paesi che più hanno sostenuto l’Ucraina: Inghilterra, Polonia, paesi confinanti con la Russia. Il primo ministro inglese, nonostante sia uscito dall’Unione Europea, ha convocato Zelensky per assicurare il suo sostegno incondizionato (altri 2 miliardi) e intende svolgere un ruolo di coordinamento degli europei a sostegno dell’Ucraina.

Le domande a questo punto sono le seguenti:

se Trump, come appare, non intende più sostenere spese a favore dell’Ucraina, trova consenso tra gli americani?

se gli USA non aiutano, riusciranno inglesi ed europei da soli a sostenere l’Ucraina? E per quanto?

Alla prima domanda è facile rispondere: Gallup sonda gli americani periodicamente e prima delle ultime elezioni il consenso all’invio di armi in Ucraina era ulteriormente sceso (dal 45% dell’inizio della guerra al 40%). Consenso che è sempre stato minoritario.

Anche alla seconda domanda è facile rispondere. Inglesi ed europei non sono in grado in pochi mesi (neppure in pochi anni) di sostituire gli aiuti militari americani, tantomeno di produrre le munizioni e il resto degli armamenti che si consuma ogni giorno nella guerra. Gli ucraini si trovano in enorme difficoltà – anche a reperire giovani che vadano al fronte – e si va ampliando giorno dopo giorno la sproporzione di forze sul campo. Il tempo non gioca a favore dell’Ucraina. Se quindi Trump non riuscisse a fermare la guerra per trarre benefici per gli americani dal cessate il fuoco e si profilasse una prosecuzione della guerra con un sostegno più diretto dell’Europa (ma con meno supporto militare), il rischio sarebbe il cedimento del fronte ucraino e che la Russia conquistasse anche l’ambita Odessa, che impedirebbe all’Ucraina l’accesso al Mar Nero. Non credo sia interesse della Russia conquistare tutta l’Ucraina perché dovrebbe sostenerne l’intera ricostruzione avendo, peraltro, una popolazione in maggioranza ostile: ma Odessa è sicuramente ambita.

Per capire alcuni risvolti della rivoluzione geopolitica che è in atto – in cui gli Stati Uniti sono intenzionati a ridefinire le aree di influenza nel mondo con un accordo diretto con Cina e Russia, da cui trarre vantaggi per gli americani, lasciando ai margini l’Europa e gli altri alleati occidentali – riportiamo alcuni estratti  di una recente intervista resa a un giornale tedesco da Michael von der Schulenburg, membro del Parlamento Europeo, una carriera da diplomatico per ONU e OSCE.

Chi parla di moralità finisce in guerra, chi parla di interessi cerca una soluzione

Dalla sconfitta in Vietnam i cittadini americani sono sempre stati contrari, in larga maggioranza, alle guerre condotte dai propri Governi. La democrazia americana pare sia in crisi per i nostri media, ma per alcuni aspetti mi pare che non lo sia affatto e che i cittadini americani siano più saggi dei propri Governi e forse non sono i soli (vale per l’Italia e credo anche per la Russia). Peccato che su questi dati ci sia un’ampia censura da parte dei nostri media, i quali criticano la “democrazia” quando i cittadini fanno scelte che certi direttori dei giornali non condividono.

Nella sua lunga carriera diplomatica ha mai assistito a uno sconvolgimento così rapido come quello che sta avvenendo attualmente per quanto riguarda la guerra in Ucraina?

Sono stato molto tempo in Iran e Iraq; i negoziati per il cessate il fuoco per la prima guerra del Golfo si sono svolti nella mia casa a Teheran. Per molto tempo si è detto che la guerra sarebbe stata sicuramente vinta. Poi le cose si sono susseguite molto rapidamente: in quel momento, non era prevedibile che Khomeini un giorno avrebbe cambiato idea e avrebbe improvvisamente deciso di accettare la risoluzione di cessate il fuoco del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Tuttavia, le azioni degli Stati Uniti in relazione alla guerra in Ucraina mi ricordano di più le dinastie del XVIII secolo, quando arrivava un nuovo re e all’improvviso cambiava qualcosa di fondamentale.

Vuoi dire che Re Donald Trump, il Secondo, sostituirà Re Joe Biden, il Primo?

Sì, hanno opinioni molto diverse sugli interessi internazionali degli USA. Joe Biden era un neoconservatore che voleva proteggere il mondo in modo unilaterale controllando questo ponte tra Asia ed Europa. Gli Stati Uniti lo fanno fin dai tempi di George Bush Junior. All’improvviso arriva qualcuno e dice: No, non è affatto questo che ci interessa. Ho vissuto questa esperienza in Afghanistan, conosco le persone coinvolte lì, come il negoziatore afghano prima del ritiro degli Stati Uniti e l’allora presidente Ashraf Ghani: gli americani sono giunti alla conclusione che non potevano vincere la guerra con questo governo, che avevano installato loro stessi e che non era stato realmente eletto liberamente. Poi hanno iniziato a negoziare con i talebani. Il presidente Ghani ne venne a conoscenza dal giornale, così come gli europei. Gli americani sono molto egoisti in questo senso, dicono che è troppo costoso per noi e che non ne verrà fuori più nulla. E’ successo anche in Ucraina: la svolta è iniziata con Biden, quando gli ucraini cominciarono stupidamente ad attaccare gli impianti nucleari russi. Era troppo e sapevano che non potevano fidarsi degli ucraini e che non avrebbero potuto vincere la guerra con loro senza rischiare una guerra mondiale. Tutto è cambiato da un giorno all’altro. E ora i grandi perdenti sono gli ucraini, i tedeschi, gli europei.

Alcuni osservatori affermano che fin dall’inizio gli Stati Uniti non avevano l’interesse primario o la convinzione di poter vincere militarmente questa guerra.

No, non credo proprio. Sono stato coinvolto nel processo di negoziazione di Istanbul 2022, un processo che è stato bocciato da inglesi e americani. All’epoca pensavano che sarebbe stato facile sconfiggere i russi. Non bisogna dimenticare come si parlava della Russia prima della guerra, quando i media europei scrivevano che la Russia non era un paese ma una stazione di servizio, o i resoconti sulla lentezza dell’esercito russo: la gente pensava che sarebbe stato molto facile vincere. … Ma il fatto che le cose siano andate in questo modo è anche dovuto al fatto che l’Ucraina è stata sopravvalutata.

Cosa dicevano le bozze del trattato dell’aprile 2022 poi naufragato?

Dal punto di vista dell’ONU, non c’è altro esempio, dopo la Seconda guerra mondiale, in cui i paesi in guerra, chiunque l’abbia iniziata, abbiano concordato sui punti importanti di un trattato di pace nel giro di un mese. Tutti questi trattati di pace sono registrati presso l’ONU e se chiedete ai colleghi ONU vi diranno: non abbiamo mai visto niente di simile, con quale rapidità e qualità i russi e gli ucraini abbiano raggiunto un accordo. In quel momento gli ucraini non cedettero un solo metro quadrato di terra. Hanno ammesso solo che la Russia può controllare la Crimea per 15 anni prima di risolvere la questione diplomaticamente. Ciò avrebbe ovviamente significato che la Crimea sarebbe rimasta russa, ma tutti gli altri territori no. Putin l’ha accettato, Zelensky l’ha accettato, entrambe le parti l’hanno siglato, come si fa prima di stipulare un trattato di pace. Sarebbe stata una cosa grandiosa, un’Ucraina neutrale entro i confini del 1991, ad eccezione della Crimea. L’Ucraina avrebbe tratto grandi vantaggi dalla neutralità e avrebbe svolto la funzione di ponte tra l’UE e i paesi BRICS, il che avrebbe potuto avere effetti molto positivi dal punto di vista economico. Tutto questo è ormai perduto, non accadrà più e la colpa del saccheggio di questi dieci punti di Istanbul ricade esclusivamente sull’Occidente, che voleva continuare la guerra. Le guerre non riguardano la moralità, riguardano gli interessi. All’ONU abbiamo sempre detto che quando una parte parla di moralità, si finisce in guerra, mentre chi parla di interessi cerca una soluzione. I negoziati di pace sono così: sono duri.

In che misura è nell’interesse della Russia condurre negoziati di pace, data la sua posizione vantaggiosa sul campo di battaglia?

In genere, chi vince è felice di negoziare, mentre chi perde non ha molta voglia di farlo, finché riesce a sopportarlo. La Russia è molto interessata a questo. Inoltre, Trump darà ai russi tutto ciò che vogliono. Ma l’interesse russo è sempre stato chiaro. Quando si negozia, si cerca di verificare se tutte le parti si comportano in modo razionale. Il più razionale è Putin perché sa esattamente cosa vuole e si comporta di conseguenza. Durante le negoziazioni è sempre difficile confrontarsi con persone che non sanno esattamente cosa vogliono e non si comportano in modo chiaro. Putin non vuole la NATO o gli americani in Ucraina, vuole assicurarsi l’accesso al Mar Nero attraverso la Crimea e si tratta di coloro che nell’Ucraina orientale parlano russo e circa il 70% dei quali ha votato per partiti filo-russi. Ciò che trovo interessante ora è che Trump non si aspetta che ci sia un cessate il fuoco finché non sarà firmato tutto. In realtà, questa è una pratica comune. Posso anche spiegarvi il perché: questo gioca a favore dei russi, che sono in avanzata.

Chi può garantire l’Ucraina su un confine lungo più di 2.000 chilometri?

Forse un contingente dell’ONU.

Con vari paesi dei BRICS?

Si, in quanto i BRICS si sono schierati con la Russia: all’incontro a Kazan, in Russia, c’erano 22 capi di governo. Non vogliono un’espansione della NATO. La Turchia ora è un membro dei BRICS: anche loro non vogliono gli americani nel Mar Nero. In Germania, ci piace pensare che se siamo di nuovo gentili con i russi, loro torneranno ad abbracciarci perché amano molto i tedeschi, ma non credo che accadrà. Perché la Russia ha un’alternativa. Prima noi avevamo la tecnologia e l’industria e loro le materie prime e tutto si incastrava. Ma ora hanno i paesi BRICS, il gasdotto per la Cina è terminato e sicuramente presto ne avranno anche uno per l’India. La Russia si è orientata verso le regioni in crescita dell’Asia, dove si registrano più innovazioni rispetto al gruppo G-7. E pagheremo un prezzo incredibile per tutto questo. Trump costringerà Ursula von der Leyen a una rapida ammissione dell’Ucraina nell’UE facendo sì che l’Europa paghi per la ricostruzione…. Lo so dall’Afghanistan, dall’Iraq. Noi europei siamo chiacchieroni. Nessuno ha mai vissuto la guerra o un figlio che sia stato in guerra. L’Unione Europea è nata come progetto di pace. Poi scoppia la guerra e fino ad oggi non c’è stata alcuna proposta di pace da parte dell’Europa. Nulla che riguardi diplomazia e negoziati. E’ una violazione del diritto internazionale. L’ONU afferma che dovremmo prevenire le guerre attraverso i negoziati. E una volta che ci sono, negoziare il più velocemente possibile per porvi fine. Questo è ciò che hanno fatto la Russia e l’Ucraina. Invece Friedrich Merz (attuale Presidente della CDU) pensa di usare i missili Taurus per ricattare un paese dotato di 6mila armi nucleari!

Cosa dovrebbe fare l’Europa?

Dire che ha commesso un errore e che da ora in poi agirà diversamente. Vogliamo davvero spendere così tanti miliardi in armamenti, crediamo seriamente a questa assurdità secondo cui la Russia ci attaccherà? Dovremmo finalmente capire che le guerre riguardano gli interessi e l’America ormai ha perso il suo interesse, all’improvviso ci ritroviamo soli e ne pagheremo le conseguenze. Ora dobbiamo cambiare la nostra politica. Uno dei risultati di questi negoziati sarà che la Russia controllerà l’intero confine, dal Mare di Barents fino al Mar Nero. Ora controllano l’accesso all’Asia per conto nostro. Eppure, rispetto alla rotta transatlantica, questa rotta transasiatica è per noi molto più importante: per le materie prime, per i mercati, per il dinamismo. E lo abbiamo tagliato! Poi ci auto-applaudiamo e facciamo un ulteriore passo avanti con le nostre sanzioni. Come possiamo liberarci dalle sanzioni? La ragione consiglierebbe di cercare di confrontarsi con la realtà nella politica estera e di sicurezza e non con argomenti ideologici o moralistici.

Vede qualche possibilità che si possano instaurare relazioni pacifiche e prospere tra Germania e Russia nel prossimo futuro?

Dovremmo ricostruire i nostri rapporti con la Russia. Ne abbiamo più bisogno noi di quanto ne abbia bisogno la Russia. Dobbiamo liberarci di tutta questa moralità, di tutta questa arroganza, di questo guardare dall’alto in basso. Entro il 2050, l’UE rappresenterà solo il 4,5% della popolazione mondiale e la nostra quota nell’economia globale scenderà al 9%. Non ci rendiamo conto di non essere più al centro del mondo. Pagheremo per questa arroganza.

Come valuta la prospettiva dell’annuncio di Donald Trump di negoziare con Cina e Russia sul disarmo, in particolare quello nucleare?

Penso che le prospettive siano buone. Per la Cina, la pace con la Russia è inizialmente una cosa positiva, poiché non voleva assolutamente un’espansione militare degli USA e della NATO in Ucraina e nel Mar Nero, cioè alle sue spalle. Anche Taiwan imparerà una lezione dal fiasco ucraino, ovvero che in ultima analisi non può fare affidamento sugli Stati Uniti, e in futuro agirà con più moderazione. Trump aveva invitato il vicepresidente cinese al suo insediamento. Penso quindi che sia giunto il momento per la Cina di parlare con gli Stati Uniti di sicurezza comune. Inoltre, una costellazione USA-Cina-Russia non sarebbe schiacciante per la Cina: i negoziati si svolgerebbero su un piano di parità.

Per leggere gli articoli di Andrea Gandini su Periscopio clicca sul nome dell’autore.

 

Le voci da dentro /
La Corte Costituzionale e una sentenza calpestata, minimizzata, trattata come carta straccia

La Corte Costituzionale e una sentenza calpestata, minimizzata, trattata come carta straccia.

Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti e presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, ha curato i testi che seguono sul tema dei colloqui intimi in carcere. Questo aspetto degli affetti negati alle persone ristrette, come tutti quelli che riguardano il carcere, appartengono alla cosiddetta sfera della complessità e mi rendo conto che, per chi è abituato ad ascoltare con la pancia, sia difficile affrontarli e condividerli. In questa situazione, purtroppo diffusa, può diventare utile cambiare i modi dell’ascoltare e provare a pensare in termini di umanità. Comunque ci proviate, buona lettura.
(Mauro Presini)

 
Da più di un anno nelle carceri si spera che le disposizioni impartite dalla Corte Costituzionale in tema di diritto ai colloqui intimi diventino vita vera e affetti non più negati. Ma quella speranza sta diventando delusione, sconforto che serpeggia tra le persone detenute, che si erano illuse che nel volgere di poco tempo si riuscisse a dare soluzione a un problema che si trascina da decenni.

Gentile ministro Nordio,
quando le è stato chiesto in un’interrogazione parlamentare se, in relazione alla sentenza 10/2024 della Corte Costituzionale, non ritenesse necessario «adottare le necessarie immediate misure di competenza volte a dare piena esecuzione alla decisione della Consulta», Lei ministro ha risposto di aver istituito il 28 marzo 2024 a questo fine “un apposito gruppo di studio multidisciplinare con il compito di elaborare una proposta coerente con il sistema vigente, anche in considerazione delle diversità strutturali che connotano gli istituti penitenziari sul territorio nazionale”. 

Ha inoltre spiegato che “è stato effettuato un minuzioso monitoraggio, a livello nazionale inteso a verificare la sussistenza, all’interno delle strutture penitenziarie del territorio, di spazi adeguati e funzionali a garantire le condizioni più favorevoli alla piena espressione di detto diritto all’affettività, in termini di dignità e riservatezza dei detenuti.

In collaborazione con il dipartimento di architettura dell’università di Napoli Federico II, si è lavorato poi per verificare le potenzialità di spazi inutilizzati o sottoutilizzati, fino alla sperimentazione progettuale su spazi ad oggi mancanti.

Il Gruppo di Studio si è occupato inoltre di determinare durata, frequenza e modalità con cui detti colloqui riservati possono svolgersi, in quanto profilo chiaramente incidente sul numero degli spazi ritenuti idonei, che andrà garantito in misura adeguata a rendere davvero effettivo quel diritto.

(…) Le attività del gruppo di studio sono, dunque, il segno tangibile dell’atteggiamento propositivo assunto dal Dicastero all’indomani della pronuncia della Consulta, la cui attuazione richiederà un adeguamento, anche strutturale, del sistema carcerario, che dovrà conciliarsi con l’incomprimibile esigenza di salvaguardare le condizioni di sicurezza all’interno degli istituti di pena”.

Da allora sono passati altri mesi, e questi risultati del Gruppo di studio ancora non li abbiamo visti. Nel frattempo, nelle carceri si continua a star male, e non c’è niente che attenui la sofferenza provocata da condizioni detentive sempre meno a misura d’uomo.

Ma perché, gentile ministro, non provate a far fronte alla “desertificazione affettiva”, come la definisce la Corte Costituzionale, prodotta dalla galera partendo proprio da un po’ di amore in più, come impone con forza la Corte Costituzionale?

Il magistrato di Sorveglianza Fabio Gianfilippi, che aveva sollevato la questione di incostituzionalità rispetto ai mancati colloqui intimi nelle carceri italiane, in assenza di una risposta chiara da parte delle Istituzioni, che sono del tutto latitanti oggi rispetto al diritto all’intimità negato, ha risposto al reclamo di una persona detenuta, che chiedeva di fare colloqui riservati con la sua compagna, stabilendo che la Casa circondariale di Terni, dove si trova il detenuto, debba procedere, entro 60 giorni dalla comunicazione del provvedimento, a individuare degli spazi adeguati per garantire la riservatezza e l’assenza di controlli visivi durante gli incontri.

Lo stesso ha fatto la magistrata di Sorveglianza Elena Banchi dell’Ufficio di Sorveglianza di Reggio Emilia, che, alla richiesta di un detenuto di Parma, di poter fare colloqui intimi, acquisiti rapporti dell’equipe trattamentale e note della Direzione, ha sostenuto che il diniego del carcere è immotivato e che “il reclamo deve, pertanto, essere accolto, poiché dal rigetto della Direzione della Casa di reclusione di Parma deriva al detenuto un grave e attuale pregiudizio all’esercizio del diritto all’affettività, nella sua espressione attraverso colloqui intimi con la propria moglie”.
E adesso, che succede?

Solo chi l’ha provata può capire la profondità della sofferenza cagionata alle persone a cui vengono negate le relazioni affettive più intime. A questa sofferenza si somma ora la sensazione di essere stati presi in giro e la delusione per una sentenza, che quasi nessuno sembra voler applicare.

Ma noi vogliamo essere, come ci ha consigliato una persona amica della redazione, dei “sognatori prudenti” e sperare che siano proprio i direttori degli istituti di pena a pretendere di ospitare, nelle strutture che dirigono, i colloqui intimi.

Quelle che seguono sono alcune riflessioni di persone detenute che vorremmo giungessero direttamente al ministro.

Da quando sono in carcere ne ho viste tante di famiglie distrutte
di Ignazio Bonaccorsi, Ristretti Orizzonti

Egregio ministro Nordio, chi le scrive è un detenuto che sta scontando la pena dell’ergastolo, sono in carcere da 33 anni ininterrottamente e so bene cosa significa stare tutto questo tempo senza poter avere nessun contatto fisico con la moglie e con i figli, se non in quell’ora di colloquio alla settimana, sempre per chi lo può effettuare, non tutti possono affrontare un viaggio costoso, specialmente chi deve venire, come i miei famigliari, dalla Sicilia a Padova, dove mi trovo io. Questo quindi significa ancora meno contatti con la famiglia, e le posso assicurare che da quando sono in carcere ne ho viste tante di famiglie distrutte, separazioni, matrimoni andati in frantumi e di tutti questi disastri le conseguenze le subiscono i figli.

Ora quello che voglio dire è questo: c’è una sentenza dalla Corte Costituzionale che dice che un detenuto ha il diritto di usufruire dei colloqui intimi con la moglie o la compagna, ma da un anno non ne sappiamo più niente. Ci hanno detto che c’è un tavolo con diverse figure istituzionali che se ne sta occupando, ma niente si muove, per sapere qualcosa di positivo quanto dobbiamo aspettare? Perché quando vengono fatte nuove leggi restrittive “contro di noi” entrano subito in vigore e vengono rispettate, quando invece sarebbero a nostro favore si blocca tutto?
Secondo me prima verrà applicata la sentenza e meno matrimoni si sfasceranno, la speranza è che ci sia qualcosa di positivo finalmente per i nostri cari, anche perché siamo persone che abbiamo una età avanzata e non ci possono togliere anche questo diritto a un po’ di amore in più.

Mio figlio mi chiede perché non può avere un fratello o una sorella
di Salvatore Fani, Ristretti Orizzonti
  
Per me il carcere vero non è la struttura detentiva con tutti i suoi problemi, la mia prigione e quello che mi mette davvero in difficoltà è come faccio a spiegare a un bambino di cinque anni quelle scelte delle Istituzioni che non capiamo nemmeno noi: privarci degli affetti è vergognoso, mio figlio cresce solo con la mamma, loro due se la devono cavare da soli negli affetti, soli nelle paure. Io non so rispondere a mio figlio quando mi chiede perché non può avere un fratello o una sorella. Mi domando perché mi tolgono la gioia di fare qualcosa per la mia famiglia, la possibilità di stare bene per persone che reati non ne hanno mai commesso, è molto triste che una pena venga scontata anche da loro, dai miei cari.

Gentile Dottor Nordio, quando la Corte Costituzionale si è espressa a favore dei colloqui intimi ho incominciato a programmarmi il futuro e guardando mio figlio negli occhi gli ho promesso un fratello con cui crescere. Ma questo suo e anche nostro desiderio di mantenere il nostro legame famigliare, di restare uniti anche se separati dal carcere, dopo poco più di un anno buio ha ricevuto un’altra porta in faccia.

Che delusione vedere che non si fa niente per permetterci i colloqui intimi, mi sento come da bambino quando mi hanno rubato l’infanzia e il futuro, sono un uomo adulto, responsabile, genitore, marito che non può fare progetti per la sua famiglia, si sente un fallito e inizio a chiedermi se il cambiamento è davvero possibile, se ne vale la pena, visto che il nostro futuro è sempre ostacolato. È difficile superare quest’altra delusione, a mi viene voglia di mollare tutto e tornare a fare quello che so fare, non quello che dovrei fare, ma non voglio fermarmi su questi pensieri.

Chi sconta una pena è già privato della libertà, non penso sia umano distruggergli la famiglia
di Mattia Griggio, Ristretti Orizzonti

Mi chiamo Mattia, sono detenuto presso la Casa di reclusione di Padova da un anno. Quando sono entrato era appena stata emessa la sentenza della Corte Costituzionale che rendeva i colloqui intimi un diritto, e devo dire che mi sono quasi commosso.

Questa è la mia terza carcerazione, ho tre bambini piccoli e sono per loro “l’unico genitore possibile” a causa di gravissime vicissitudini. Ricordo con sofferenza per me e per loro le ultime due carcerazioni, l’angoscia della loro madre, la mia ex compagna, nel non poter godere con me di qualche momento di intimità sia da soli sia con i nostri figli.

Ora che sono un padre single, e che purtroppo, vedo i miei figli solo ogni due o tre settimane per appena due ore, in una stanza piccola dove ci sentiamo e siamo controllati, comprendo ancora di più il loro disagio. Io sono osservato 24 ore su 24 qui dentro, ma loro cos’hanno fatto per meritarsi di non esser mai a loro agio quando incontrano chi amano?

Mi chiedo come possa la politica restare ferma da decenni di fronte a tutto questo. Non voglio nemmeno citare la Costituzione, che è chiarissima in merito alla tutela degli affetti e delle famiglie, ma semplicemente il buon senso comune. Ora c’è una sentenza che prevede di attuare gli incontri intimi nelle carceri, mi auguro che lo Stato, con la stessa velocità con cui applica leggi peggiorative per noi, applichi questa legge “migliorativa”.

Poter disporre di incontri intimi con il proprio partner credo sia un diritto scontato e necessario, e uno Stato normale dovrebbe tutelarlo e basta. Chi sconta una pena è già privato della libertà, ma non penso sia umano distruggergli la famiglia che si è creato con amore e fatica.

Io attualmente non ho una compagna, ma poter restare qualche ora con i miei figli una volta alla settimana senza avere alcun controllo ridarebbe loro un po’ di affetto “sincero” ed umanità, e soprattutto farebbe da grandissimo deterrente ai rischi del loro problematico sviluppo psicologico. Quanti minori sono cresciuti con problemi psicologici dovuti alla carcerazione dei padri? E questi non divengono un costo ulteriore per la società?

C’è poi un problema enorme nelle nostre carceri: i suicidi a cui assistiamo. Aprire agli incontri intimi come tutti i paesi civili sarebbe certamente una risposta a tutta questa gratuita sofferenza. Credo che chi è autore di reati comuni, se è in carcere per essere rieducato e scontare la sua pena, dovrebbe poter incontrare anche ogni giorno i propri familiari in un luogo appartato. Questa è semplicemente normalità, nulla di più.

È un nostro diritto poter dare e ricevere affetto dalle nostre mogli
di Jody Garbin, Ristretti Orizzonti

Mi chiamo Jody Garbin, sono detenuto nella Casa di reclusione di Padova dal 2019. Nel 2022, dopo 14 anni di convivenza con la madre dei miei due splendidi figli, ci siamo separati perché io ho una condanna a 18 anni di carcere e non si può pretendere che una moglie stia con il proprio marito per anni vedendolo per un totale di solo tre giorni all’anno e avendo come unico segno di affetto un abbraccio e un bacetto.

Vede signor ministro, ormai la mia famiglia si è distrutta perché prima non c’erano altre possibilità di vedersi se non quelle misere sei ore al mese di colloquio in uno spazio rumoroso condiviso con tante altre famiglie, però ora che c’è una sentenza che dice chiaramente che è un nostro diritto poter dare e ricevere affetto dalle nostre mogli, speravamo che le cose cambiassero, ma è già passato un anno e siamo sempre nelle stesse condizioni di prima.

Io vorrei che chi ha il potere e il dovere di applicare la sentenza si desse una mossa perché non è giusto che altre famiglie vadano distrutte e i nostri figli debbano soffrire per questi motivi, noi abbiamo sbagliato ed è giusto che paghiamo, ma le nostre famiglie non hanno fatto nulla di male e non capisco parchè debbano pagare pure loro per i nostri sbagli.

Cover: https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

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MEDITERRANEA DI NUOVO IN UCRAINA PER SOSTENERE CHI FUGGE DALLA GUERRA

MEDITERRANEA DI NUOVO IN UCRAINA PER SOSTENERE CHI FUGGE DALLA GUERRA

Continua l’impegno della rete solidale italiana a sostegno della popolazione ucraina. Il 1° marzo è partita dalla regione Emilia-Romagna la diciottesima missione umanitaria dell’associazione di promozione sociale Mediterranea Saving Humans, diretta a Leopoli per consegnare alcune tonnellate di aiuti essenziali.

La spedizione, composta dagli equipaggi di terra delle principali città dell’Emilia-Romagna tra cui anche Ferrara, attraverserà l’Europa con un convoglio di mezzi carichi di beni di prima necessità, medicinali e attrezzature sanitarie, destinati a strutture e comunità locali che operano in condizioni sempre più difficili a causa del protrarsi del conflitto. Da Ferrara gli attivisti sono partiti con un furgone messo a disposizione dalla parrocchia Sant’Agostino, e trasporterà beni di prima necessità destinati ai rifugiati accolti in diversi centri nell’oblast di Leopoli, situati lontano dai teatri di guerra sul confine orientale. Il rientro in Italia è previsto per il 10 marzo.

Secondo gli attivisti di Mediterranea Saving Humans, questa nuova missione rappresenta un ulteriore tassello nel costante impegno umanitario portato avanti dall’associazione sin dai primi mesi dell’invasione russa. “Non possiamo restare indifferenti di fronte alla sofferenza delle persone che vivono sotto i bombardamenti e nella precarietà assoluta. La nostra presenza sul campo vuole essere un segnale di solidarietà concreta”, hanno dichiarato i volontari “specialmente in tempi in cui l’attenzione è rivolta più alle terre rare che agli esseri umani”.

Negli ultimi due anni, l’organizzazione ha effettuato numerosi viaggi verso l’Ucraina, garantendo il trasporto di aiuti e collaborando con realtà locali per la distribuzione diretta alle persone più vulnerabili, tra cui sfollati interni, bambini e anziani. L’Emilia-Romagna si conferma così un territorio attivo nella mobilitazione civile a favore della popolazione colpita dal conflitto, grazie al contributo di decine di volontari e volontarie che, ancora una volta, metteranno a disposizione il loro tempo e le loro competenze per sostenere chi ha più bisogno.

Tra i volontari in partenza, sono presenti anche alcuni attivisti del progetto Music and Resilience, un’iniziativa attiva dal 2013 che utilizza la musica come strumento di supporto psicologico e di aggregazione per le persone colpite da situazioni di crisi. Attraverso laboratori e attività musicali, i musicoterapeuti cercheranno di portare un momento di sollievo e normalità nelle vite di chi vive in condizioni di forte stress e vulnerabilità.

Mediterranea Saving Humans, nota anche e soprattutto per le sue missioni di soccorso nel Mar Mediterraneo, ha ampliato negli ultimi anni il proprio raggio d’azione, intervenendo in diverse crisi umanitarie e dimostrando che la solidarietà non conosce confini. Con il conflitto ancora in corso e una situazione umanitaria sempre più critica, la diciottesima missione umanitaria dell’associazione rappresenta un nuovo importante gesto di vicinanza e aiuto concreto al popolo ucraino. Mediterranea continua così a ribadire il valore dell’azione diretta e della solidarietà internazionale come strumenti per non voltare le spalle alle vittime della guerra.


PS ti sei già associato a MEDITERRANEA Saving Humans APS?
Contattaci per tesseramento 2025 (prima iscrizione o rinnovo) quota associativa 10 euro annui.

In copertina: MED ER Missione Ucraina

 

«Origine», i bambini indigeni raccontano il loro popolo

«Origine», i bambini indigeni raccontano il loro popolo.

Nata nel 1982 a Parigi, Nat Cardozo lavora come illustratrice in Uruguay. Ha viaggiato e vissuto a lungo tra America, Europa e Australia, per realizzare su pannelli di legno i ritratti dei bambini incontrati.

Nat Cardozo, Origine, L’ippocampo edizioni, 2024.

“Origine”, l’opera prima di Nat Cardozo, è un libro favolosamente illustrato, frutto di un lavoro di molti anni, sui popoli indigeni che abitano la Terra, che dà voce a 22 bambini di popolazioni di tutti i continenti. Questi bambini ci raccontano le loro abitudini, leggende e credenze.

Uno sguardo ecologico, umanistico e spirituale che comprende umanità e natura, rendendo omaggio alla resistenza e alla saggezza di culture secolari che hanno molto da insegnare sulla cura del nostro pianeta, vivendo in armonia con la Natura e con “tutto ciò che cresce sotto l’immenso cielo“.

Dai Moken delle isole Surin agli Evenki che allevano le renne nella Siberia orientale, passando per i Kung che leggono le orme degli animali nel deserto del Kalahari: ognuno racconta una storia diversa narrando un’origine comune.

Tutti i popoli indigeni raccontano di un “diluvio universale” come di quando eravamo polvere di stelle, ma soprattutto tutti – dall’Amazzonia alla prateria degli Cherokee – venerano e benedicono i sette punti cardinali: il nord, il sud, l’est, l’ovest, il sopra, il sotto e il centro.

Un’immersione di sensazioni, di umanizzazione, di sentimenti, di “democrazia delle culture” come la chiamerebbe Raimon Panikkar, e soprattutto di desiderio di gioire per la ricchezza di ciò che si è e si ha già senza aggiungere nient’altro.

MOSUO
SAMI
ARANGU

Un’educazione al tempo, un eterno qui-e-ora lontano da fretta, frenesia e mancanze, dove tutto sparisce e si può solamente vivere in pace.
Perché, come diceva Hehaka Sapa (Alce Nero), grande Wichasha Wakan Lakota Sioux: “È ignorante colui che vede più cose laddove ce n’è Una”.

INUIT

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frammento sull’amore

frammento sull’amore
fragment uber die liebe
L’equazione pianto
Infelicità
È stato un infelice
Gesto
Del senso comune
Non un matematico
Non si sarebbe mai
spinto a tanto
L’infelicità
Produce
secchezza di fauci
Labbra sperdute
Io ho pianto
Per te
Con te
Non ero infelice
Non lo sono
non si è mai
tutto o niente
L’amore
Non sa nulla
Della felicita
L’amore
Non è mai
a posto
Non ha un posto
Non si prenota
L’amore
è Raro
Non è nemmeno un faro
Non segnala la scogliera
È sempre in alto mare
L’amore prima
o poi
Fa sempre piangere
L’unica forza
Che dribbla
la morte
non fa mai gol
In copertina: Faro di Goro (Ferrara) – Foto di Valerio Pazzi,
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New York: inaugurata la settimana per l’abolizione delle armi nucleari

di Sandro Ciani

La Nuclear Ban Week in New York è iniziata domenica 2 marzo con un incontro degli attivisti membri di ICAN presso l’iconica Riverside Church, a New York un giorno prima del 3MSP (Conferenza degli Stati Parte) presso le Nazioni Unite.

Tale incontro si prefigge di preparare gli attivisti dell’ Campagna Internazionale per l’Abolizione delle Armi Nucleari (ICAN) ad una settimana di eventi ad alto livello per fronteggiare l’urgente minaccia costituita da tali armi.

La direttrice esecutiva di ICAN Melissa Parke, dando un saluto caloroso ai quasi 300 attivisti ICAN presenti (quasi il triplo rispetto al precedente incontro del 2023), ha paragonato le atroci sofferenze che vengono inflitte ai bambini palestinesi a quelle che ricevettero gli attuali Hibakusha, bambini sopravvissuti alle terribili esplosioni atomiche di Hiroshima e Nagasaki nel 1945, sottolineando come il diritto internazionale nonché i diritti umani siano oggi costantemente e continuamente calpestati ed umiliati.

La parola viene data ad Hideo Asano, un giovane attivista giapponese che si sta impegnando a far firmare e ratificare il trattato al Giappone, con lo scopo di mediare gli incontri pianificati nella mattinata con alcuni attivisti o membri ICAN.

Dopo un breve cenno sulla storia degli ordigni nucleari da parte di Ivana Nikolić Hughes la parola viene data al Dr. Lee Taejae un Hibakusha sudcoreano di seconda generazione presente nella delegazione Nihon Hidankyo – vincitrice del Premio Nobel per la Pace nel 2024 – ed a Hinamoeura Morgant-Cross, che aveva appena 7 anni quando sulla Polinesia Francese fu eseguito nel 1996 l’ultimo test atomico. Entrambi sono testimoni viventi dei gravi impatti sulla salute delle esplosioni atomiche: il Dr. Lee Taejae è costretto ad operarsi regolarmente per rimuovere i carcinomi che si formano a seguito delle radiazione delle due bombe sganciate sul Giappone, mentre la famiglia di Hina è stata quasi tutta sterminata sempre dal cancro a seguito dei test nucleari francesi.

Il loro impegno è quello di trasmettere alle nuove generazioni il loro vissuto per tenerne vivo il ricordo: i loro interventi si concludono con il seguente grido unanime che si alza dalla platea: no more Hiroshima, no more Nagasaki, no more Hibakusha!!

Per dialogare sui 5 miti della deterrenza nucleare, ossia “il mantenimento della sicurezza e della pace, il suo utilizzo solo a scopo difensivo, la normalità di conviverci e la convinzione che tutto il genere umano creda nella sua efficacia”, vengono invitati sul palco Sven Clement, deputato del Partito dei Pirati in Lussemburgo, Molly McGinty, direttrice internazionale di IPPNW, Marthinus Van Schalkwyk, rappresentante del Sudafrica presso l’ONU, Edwick Madzimure, direttrice internazionale della WILPF, ed il Dr. Rhys Crilley, accademico di Glasgow che studia l’ansia atomica nelle nuove generazioni.

Sven Clement, invita tutti gli attivisti presenti nei vari Paesi a rivolgersi alle proprie classi politiche utilizzando tutti i mezzi legali possibili per convincerli dell’assurdità delle deterrenza nucleare argomentandola anche dal punto di vista economico: si spendono al momento circa 18$ al minuto per tali armamenti!

Molly McGinty lavora a stretto contatto con i medici per spiegare agli studenti le catastrofiche conseguenze sulla salute delle esplosioni nucleari e delle relative radiazioni.

Marthinus Van Schalkwyk considera la deterrenza una follia priva di senso ed il trattato di non proliferazione un fallimento: il Sudafrica lavora alacremente all’universalizzazione del TPAN e al suo ampliamento tra tutti i Paesi che non hanno ancora firmato e/o ratificato.

Il Sudafrica si conferma uno dei Paesi più virtuosi al mondo!

Il Dr. Rhys Crilley enfatizza il ruolo delle nuove generazioni, se saranno in grado di utilizzare i social media come mezzo di propaganda per uscire dall’era atomica.

Infine Edwick Madzimure ci mette in guardia proprio dai social media, in quanto ci sono gruppi che inneggiano all’uso di ordigni nucleari per risolvere controversie come quelle tra Russia e Ucraina e/o Israele e Palestina: occorre evitare che la deterrenza venga usata per giustificare qualsiasi equilibrio geo-politico, in quanto nel genere umano sta aumentando la percentuale di coloro che non hanno una percezione del pericolo legato ad una detonazione nucleare.

Nel pomeriggio il programma di ICAN prevede due sessioni simultanee in stanze separate nella stessa fascia oraria:

  • Nuclear Justice

  • Connecting Campaigns

a seguire:

  • Stigmatizing of nuclear weapons

  • Universalization and implementation

In tutte e quattro le sessioni, gli incontri avevano lo scopo di creare un momento di condivisione tra i vari gruppi di attivisti, in piccole sessioni di 10’, su azioni e temi sviluppati nel proprio lavoro di associazioni riguardo ai 4 temi elencati sopra: le domande poste dai moderatori di Ican volevano spingere gli attivisti ad essere pro-attivi nelle tematiche legate alle sessioni per portare alla luce le proprie esperienze e renderle condivise.

Queste condivisioni e riflessioni sono state una dimostrazione di quanto siano importanti il confronto e la valutazione dei molteplici punti di vista altrui rispetto al proprio e di quanto sia questo l’unico esercizio importante da attuare ogni giorno, per poter affrontare ogni tipo di conflitto: il dialogo.

La giustizia, la connessione delle attività, la stigmatizzazione di tali armi, l’universalizzazione e l’implementazione del trattato necessitano del dialogo e del riconoscimento dell’altro.

Si è parlato anche del nuovo studio dell’UNGA sugli effetti della guerra nucleare e del 80° anniversario dell’invenzione delle armi nucleari. Ai partecipanti viene chiesto di condividere i loro piani per l’anno a venire, momenti specifici da celebrare al fine di considerare i modi in cui si possono sfruttare queste opportunità per promuovere gli sforzi di ciascuno. Uno dei temi più discussi è stata l’importanza del ruolo economico, il quale si profila come “il” problema centrale in relazione alla difficoltà di gestione delle armi che il TPAN vuole contrastare; interventi europei, messicani e americani hanno enfatizzato il problema dell’ambiente, nello specifico di quanto gli effetti chimici delle armi nucleari compromettano la sicurezza delle persone a livello globale. Dunque ambiente e sicurezza sono diventati aghi della stessa bilancia.

La deterrenza tra i Paesi nucleari e gli affiliati tramite il nuclear-sharing costituisce un impedimento all’universalizzazione e all’implementazione del trattato: in particolare i Paesi europei interessati al trattato, ma membri della NATO, si trovano con le mani legate; ho chiesto personalmente al moderatore ICAN quali strategie si potrebbero mettere in atto per rimuovere tale problematica e la risposta risiede nell’uso delle vie legali, ossia riferirsi all’ottimo lavoro degli avvocati di IALANA International Association of Lawyers Against Nuclear Arms.

L’incontro si chiude verso le 16:30 con l’arrivo del Presidente designato a presiedere i lavori del 3MSP, l’ambasciatore del Kazakhstan Akan Rakhmetullinil quale accende l’entusiasmo dell’intera platea annunciando l’imminente incremento sia dei Paesi firmatari che di quelli ratificanti.

Vedremo nei prossimi giorni di chi si tratta: vi anticipo che senza sorpresa anche questo anno l’Italia ha declinato l’invito come Paese osservatore, confermandosi come uno dei Paesi meno virtuosi.

Sandro Ciani
, membro della delegazione italiana

Cover: New York, 2 marzo 2025, l’incontro dell’ICAN inaugura la Nuclear Ban Week (Foto di Screenshot da MSP-TV)

 

Zelensky cambi rotta: dal conflitto militare (perdente) alla resistenza civile nonviolenta

Zelensky cambi rotta: dal conflitto militare (perdente) alla resistenza civile nonviolenta

Lo scontro tra Donald Trump e Volodymyr Zelensky offre uno spunto di riflessione importante su un conflitto armato che, dopo tre anni, appare sempre più avvitato in una dinamica militare sbilanciata a favore della Russia e senza sbocchi reali per l’Ucraina. È importante notare che Trump, pur essendo un personaggio politicamente inquietante e discutibile sotto molti aspetti, abbia chiarissimo un punto cruciale: la strategia attuale non sta portando alla pace, ma solo a un prolungamento del conflitto a danno della stessa Ucraina.

L’azzardo di Zelensky

Abbiamo più volte documentato su PeaceLink come Zelensky abbia giocato con il fuoco, spingendo per un coinvolgimento diretto della NATO, come dimostrato dalla sua richiesta di una no-fly zone che, se accettata, avrebbe significato il rischio di uno scontro diretto tra potenze nucleari. È stato lo stesso Biden a trattenere l’Ucraina dal compiere mosse ancora più azzardate.

Trump, rimproverato per la sua apparente morbidezza con Putin, ieri ha replicato con una frase emblematica: “Vuoi che sia duro? Posso essere più duro di qualsiasi essere umano tu abbia mai visto, potrei essere durissimo, ma così non otterrai mai un accordo, ecco come stanno le cose”.
Qui Trump coglie un dato di fatto: se non si inverte la rotta, l’Ucraina rischia di arrivare al tavolo delle trattative in una posizione di debolezza ancora maggiore di quella attuale.

La guerra simmetrica favorisce il più forte

Questo ci porta al nodo centrale del problema: un conflitto militare simmetrico tra un forte e un debole vede sempre vincitore il più forte. La Russia ha una capacità militare superiore, una produzione bellica che non si esaurisce e il tempo gioca a suo favore. L’Ucraina, invece, si trova in un logoramento crescente, con risorse che si assottigliano e un Occidente sempre meno efficace nel sostenere una guerra senza prospettive.
A questo punto la domanda è: ha senso proseguire su tale linea?

Se l’Ucraina avesse dalla sua un forte consenso popolare ma una intrinseca debolezza militare, allora la soluzione potrebbe non essere la guerra simmetrica, bensì un cambio strategico verso la strategia di resistenza civile diffusa. E qui entra in gioco la riflessione sulla resistenza nonviolenta, che ha dimostrato storicamente di funzionare meglio della risposta armata quando si ha un forte sostegno popolare.

Dalla logica militare a quella della resistenza civile

La strategia militare di Zelensky sta portando l’Ucraina verso un vicolo cieco.
L’alternativa sarebbe trasformare il conflitto simmetrico in uno asimmetrico spostandolo dal piano militare a quello della resistenza civile
e della delegittimazione dell’occupante.
Non è un discorso astratto: esistono numerosi esempi storici di lotte nonviolente che hanno sconfitto eserciti più potenti senza ricorrere alla guerra convenzionale. Se Zelensky avesse il consenso potrebbe pensare a una “intifada” nei territori occupati, esponendo ovunque la bandiera ucraina e facendo sit-in popolari dimostrativi sotto le telecamere in mondovisione. Sempre che vi sia consenso verso Kiev nelle zone occupate.

Il problema è che il modello dominante è ancora quello della guerra tradizionale, con una narrazione che impedisce di pensare fuori dagli schemi classici, in questo caso perdenti. Ed è proprio su tale punto che il movimento pacifista può essere efficace per proporre un’alternativa credibile alla guerra.

L’Ucraina oggi ha due strade davanti a sé: continuare un conflitto bellico che la sta logorando rendendola sempre più debole o rivendicare una soluzione che possa fermare la distruzione e aprire a una vera trattativa. Zelensky sembra voler proseguire sulla prima, ma la storia insegna che la seconda potrebbe essere l’unica via per salvare davvero il suo paese.

Che fare?

Quale strada rivendicare? Quella di un ritorno agli accordi di Minsk per dare autonomia alle aree contese e di conflitto.
Occorre far votare le popolazioni e sostituire i colpi di cannone con le schede elettorali. Tutte le soluzioni devono essere basate sul consenso e non sulla logica del più forte. E anche se vincesse “genuinamente” il più forte con le schede elettorali, senza brogli elettorali, occorre che il più debole venga tutelato dallo spirito di autonomia che era alla base degli accordi di Minsk. Il debole ha diritto alla sua lingua, alla sua cultura, alle sue tradizioni, alla sua storia e alla sua visione della storia.

Bisogna porre fine alla cancellazione culturale dell’avversario e ripristinare la convivenza e il pluralismo. La vera prospettiva non è la guerra giusta ma la giusta convivenza fra popoli in conflitto. Perché, lo si voglia ammettere o no, quella in Ucraina è principalmente una guerra civile.

Questo articolo è uscito con il titolo “La lite fra Trump e Zelensky” su PeaceLink l’1 marco 2025 

In Copertina: Zelensky in visita al fronte – foto licenza Creative Commons

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Un’Europa spiazzata e schiacciata tra le democrature

Un’Europa spiazzata e schiacciata tra le democrature

Donald Trump ha determinato un enorme disorientamento nelle élite che guidano l’Europa. Un figlio (in questo caso 27 figli) con un genitore che, anziché proteggerlo, lo traumatizza. In un prima fase un individuo ripensa alla propria identità e al suo rapporto col mondo esterno per non andare in “frantumi”. L’ideale sarebbe cambiare, andare via di casa, cambiare relazioni e darsi vita nuova in un ambiente diverso. Però la possibilità di trovare luoghi diversi per l’Europa non esiste.

Nella psicoanalisi il primo passo dopo un trauma è “prendere atto della realtà”. Per l’Europa significherebbe prendere atto che l’idea coltivata (ispirata da americani e inglesi) di sconfiggere la Russia si è rivelata sbagliata. Quello che Beppe Severgnini diceva nell’estate 2022: che è impossibile per un paese povero come la Russia prevalere contro 40 democrazie ricche e avanzate, avendo, peraltro, un Pil 30 volte inferiore. Sappiamo com’è andata a finire. Perché? La Russia ha non solo 6mila testate nucleari, ma un popolo che crede nei suoi valori e disposto a battersi al fronte.

Già questo basterebbe a suggerire all’Europa che, per ripensarsi, la via del riarmo non è proprio l’ideale. Semmai imparare a dialogare in un mondo multipolare, in cui esercitare un ruolo importante non sulla base delle armi ma delle idee, della cultura, dei diritti sostanziali (prima che formali), avviando anche una profonda rivisitazione di quello che non va da noi. Che poi significa spiegare ai propri cittadini come mai un sistema basato sul denaro e sull’accumulazione predatoria della Natura dia sempre più infelicità ai suoi 440 milioni di residenti.

Problema che hanno anche gli americani, le cui condizioni non sono mai state giudicate da loro stessi così insoddisfacenti. Gallup infatti ci informa qui che nelle settimane che hanno preceduto l’elezione di Trump, il tasso di soddisfazione degli americani (calcolato su svariati indicatori) mai era giunto ad un livello così basso (38%); nel 2001 era al 54%. Una discesa costante durante tutte le “magnifiche sorti e progressive della globalizzazione” che si è accentuata proprio negli ultimi 4 anni di Biden. Altro che neo liberalismo trionfante.

Vediamo di cosa soprattutto si lamentano gli americani (tra parentesi la percentuale su 100 di cittadini soddisfatti): il modo in cui sono distribuiti il reddito e la ricchezza negli Stati Uniti (29%), la disponibilità di assistenza sanitaria a prezzi accessibili (29%), l’importo che gli americani pagano in tasse federali (26%), la dimensione e l’influenza delle grandi aziende (25%), la qualità dell’istruzione pubblica nel Paese (24%), il clima morale ed etico (22%), gli sforzi della nazione per affrontare la povertà (16%). Esisteva ed esiste quindi ampia possibilità per un partito che vorrebbe dirsi “democratico” per vincere le prossime elezioni, in quanto, come ha ampiamente spiegato Emmanuel Todd, gli Stati Uniti sono molto più fragili di quello che crediamo, non solo per i fondamentali dell’economia (il grande deficit commerciale e il debito pubblico, la scomparsa della manifattura), ma perché hanno una società civile in via di crescente disgregazione. La reazione di Trump nel post voto indica la ricerca di vie nuove (vedremo quanto efficaci) per ridare fiducia agli americani, a costo di danneggiare gli altri.

L’Europa invece appare incapace di ripensarsi. Le elezioni in Germania porteranno ad una riedizione dell’alleanza CDU-SPD che ha la maggioranza dei seggi (328 su 630, 52%), ma la Große Koalition è giunta alla fine della sua parabola (una volta governava col 70-80% dei voti) e deve la sua fortuna al fatto che BsW, il nuovo partito di sinistra (che vuole dialogare con Russia e limitare l’afflusso di immigrati illegali) ha mancato il quorum per lo 0,03% (4,97%) e ciò consente agli altri partiti di redistribuirsi i circa 37 deputati persi da BsW per un soffio. Con BsW in parlamento non sarebbe stato possibile infatti il riarmo voluto da CDU-SPD. La destra di AFD inoltre ha raddoppiato i voti ed è il primo partito in tutta la Germania est.

Come mai? Per ragioni soprattutto economiche: la Germania ha frenato la domanda interna e puntato su una riduzione del debito pubblico (da 80% del Pil del 2012 al 60% di oggi) per favorire la bilancia dei pagamenti (meno importazioni, più esportazioni). A fronte del surplus commerciale e corrente la posizione netta della Germania verso l’estero è divenuta creditoria, fino alla somma abnorme di 3,7 trilioni di dollari, oltre il 70% del Pil. Gli operai, delusi, hanno mollato la Spd: i salari, specie nell’industria, sono stati calmierati dai tanti, odiati immigrati disposti ad accettare bassi salari. Nella Germania est lo scadimento degli investimenti pubblici ha invertito la tendenza alla riduzione del divario rispetto alla Germania Ovest (oggi il reddito medio pro capite a Est non arriva al 60% di quello a Ovest), favorendo AFD e BsW che vogliono dialogare con la Russia, memori che buona parte dei tedeschi dell’Est sa quanto l’Ostpolitik li abbia aiutati.

I prossimi 5 anni (sempre che la coalizione duri) saranno difficili: sia perché i due partiti alleati la pensano in modo diverso su molte cose, sia perché col riarmo aumenterà l’impoverimento dei ceti più deboli in cui pescano sia AFD che BsW. Per armarsi inoltre bisogna indebitarsi (a carico delle generazioni future) e il paradosso è che la Germania ha inserito nella Costituzione il Schuldenbremse (freno all’indebitamento). Non potrebbe quindi fare deficit, se non con il voto di 2/3 del Parlamento. Ma ciò significherebbe avere il voto di AFD. Il resto dell’Europa sarà al traino e si creerà così un’Europa molto più armata nel 2029, quando sarà possibile che le destre vincano le elezioni. A quel punto… “che Dio ce la mandi buona”: é già avvenuto con Biden che ha tirato la volata a Trump.

I re magi venivano da est e si orientavano con la stella d’oriente (la saggezza), il disorientamento viene da ovest con il denaro (la stupidità). Gli Stati Uniti sono stati per 200 anni la principale democrazia al mondo e sono diventati nel XX secolo il nuovo imperatore: ricchi, belli, bianchi e liberal. Ma negli ultimi decenni si sono lentamente trasformati in una sorta di democratura, in cui il “capo” (ricco e bianco) comanda e decide sulla base di una logica d’affari e di potere su altri paesi – all’interno ci sono invece balance and rules, sempre meno efficaci per la verità. I media e molti analisti attribuiscono questo fenomeno all’ascesa di Trump ma, a ben vedere, in questo processo Trump sembra più l’effetto che la causa.

La “buona America” è sparita negli ultimi 40 anni. “Buona” fu quella del coraggioso presidente Roosevelt che dopo 4 anni di crisi (1929-1933) lanciò il New Deal seguendo le indicazioni dell’ economista progressista Keynes, facendo uscire finalmente il suo paese dalla grande crisi con un rilancio degli investimenti pubblici. “Buona” fu l’America della vittoria sui nazisti (insieme ai russi) nella 2^ guerra mondiale e quella del dopoguerra che tassava i ricchi con un’aliquota del 92% sui redditi annui oltre 400mila dollari e che farà dire al miliardario Walt Disney “se non ci fossero state le tasse, poveri come me non sarebbero stati aiutati e non sarei diventato ricco”. L’America della società aperta accoglieva gli immigrati che hanno fatto grande quel paese, cresciuto dai 150 milioni di abitanti del 1950 agli attuali 334. Come si può ben capire, la popolazione statunitense è più che raddoppiata non per la fertilità delle donne americane ma per la straordinaria immigrazione.

Paradossalmente la “buona” America ha resistito, in mezzo a contraddizioni enormi – razzismo, maccartismo – nel periodo in cui (1945-1991) doveva competere con il comunismo reale e dimostrare che la società liberale e capitalistica era meglio del comunismo. Da quando l’URSS è crollata, è come se fosse venuto meno un contrappeso, per cui gli Stati Uniti hanno allentato tutti i “freni” trasformandosi (attraverso la globalizzazione e l’hybris della finanza) in un sistema di oppressione non solo verso l’esterno ma verso la loro stessa popolazione: sempre più povera, infelice, depressa e obesa, nonostante l’enorme ricchezza accumulata. L’Occidente non nutre più alcuna speranza nell’ avvenire, se non quella di fare delle guerre. La stessa Europa, che ha una cultura invidiabile, che ha costruito nel dopoguerra un welfare che non ha pari nel mondo (per le lotte dei lavoratori e delle donne), seguendo la via americana del consumismo e dell’individualismo sta gradualmente azzerando la propria dimensione sociale, spirituale e valoriale per cui oggi, ancor più degli Stati Uniti, si trova traumatizzata in un mondo che le appare sempre più ostile e incomprensibile.

Tra i media, politici e intellettuali si è andata affermando la logica materialistica e individualistica che il “dio PIL” poteva sostituire il Dio trino (la religione zero di cui parla Todd). Un nuovo Dio quattrino, oggi impersonato sia dal prezzo dell’oro (in forte ascesa), sia dalle criptovalute digitali di cui i comuni mortali non capiscono il reale controvalore, ma che comunque comprano, se è vero che le possiedono 30 milioni di europei.

Le società occidentali liberali hanno coltivato il mito della libertà senza limiti e dell’hybris consumistica individuale, “allontanandosi dalla via indicata… Mosè ridisceso dal monte bruciò il vitello d’oro col fuoco e la sua polvere gettò nell’acqua che dovettero poi bere (il fuoco dell’iniziativa e dell’amore e l’acqua dell’accoglienza e dell’armonia). Gridò poi di usare la spada per uccidere ognuno il proprio fratello, ognuno il proprio amico, ognuno il proprio parente e in quel giorno perirono circa tremila uomini del popolo”. Una rappresentazione dei nostri tempi, in cui alla sconfitta, la nostra società risponde non in base a valori (pace, dialogo, sviluppo umano per tutti) ma con il riarmo (la spada) che porterà solo ad uccidere il nostro fratello.

Con lo scudo atlantico dell’invincibilità americana è caduta anche la superiorità dei valori occidentali e liberali che si pensava fossero migliori di quelli degli altri.  Procediamo così, incapaci di riflettere sugli errori, verso un “suicidio assistito”. La crescita dell’autocoscienza negli occidentali e la crescente “ricchezza” individualistica fa crescere dentro di noi la paura. Paura di morire (la religione zero), paura di perdere il tenore di vita acquisito, paura della solitudine, paura dell’altro (enfatizzato dal Covid).

E’ in crisi lo stesso liberalismo, che alcuni pensavano essere l’unica ideologia sopravvissuta al comunismo e nazismo e l’unico modo giusto di vivere e produrre su questa terra. E’ vero che non sappiamo ancora cosa ci sia di meglio, come diceva Keynes, ma è probabile che qualcosa prima o poi emergerà, visto che questo sistema “liberale” produce guerre su guerre, ovviamente in nome della democrazia e del “benessere”. In tal senso il folle Trump potrebbe essere una grande opportunità di svegliarsi, di pensare e di cambiare.

 

Photo cover: riproduzione dell’opera “Democratura” di Fabrizio Loschi

 

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Sarai un sufi o non sarai nessuno. Rumi: «l’intero oceano in una goccia»

Sarai un sufi o non sarai nessuno.
Rumi: «l’intero oceano in una goccia»

Là fuori
oltre a ciò che è giusto e sbagliato
esiste un campo immenso.
Ci incontreremo lì.

sufi, sufismo
Una pagina del libro al-Munqidh min al-dalal di Al-Ghazali

 

La brezza del mattino ha segreti da dirti.
Non tornare a dormire.

L’anima è come uno specchio nitido,
il corpo è la polvere che lo ricopre.

Non si distingue la bellezza che è in noi
perché siamo sotto la polvere.

Il modo in cui ami è il modo in cui Dio sarà con te.
Solo dal cuore puoi toccare il cielo.

Felice il momento quando sediamo io e te nel palazzo,
due figure, due forme, ma un’anima sola, tu e io.

Nel momento in cui accettiamo i problemi
che ci sono stati assegnati,
le porte si aprono.

Non sei una goccia nell’oceano.
Sei l’intero oceano in una goccia.

L’oceano a Nazarè (Portogallo). Foto Pina Guarino.

In un giorno in cui il vento è perfetto,
basta solo spiegare le vele e il mondo si riempie di bellezza.

Oggi è un giorno come quello.
Se hai la passione per la sacra felicità,
getta via la tua arroganza e diventa un ricercatore di cuori.
Muoviti, ma non muoverti nel modo in cui la paura ti muove.

La luce della luna inonda l’intero cielo da un orizzonte all’altro;
quanto può riempire la tua stanza dipende dalle tue finestre.

Sei nato con ideali e sogni.
Sei nato con la grandezza. Sei nato con le ali.

Non sei stato concepito per strisciare, quindi non farlo.
Hai le ali. Impara a usarle e volare.
Diventa cielo.

Prendi un’ascia e rompi le pareti della tua prigione.
Fuggi.

Quando io sono con te, stiamo svegli tutta la notte.
Quando non sei qui, non riesco a dormire.
Ringrazio Dio per queste due insonnie
e per la differenza fra le due.
Ogni volta che riusciamo ad amare senza aspettative,
calcoli e negoziazioni, siamo davvero in paradiso.

Ieri ero intelligente, così ho voluto cambiare il mondo.
Oggi sono saggio, così sto cambiando me stesso.

Gialal al-Din Rumi

Leggere questo componimento lascia incantati. Non solo per la finezza della costruzione poetica, la bellezza delle sue immagini e l’arditezza delle sue metafore. C’è un messaggio filosofico ed esistenziale, prima ancora che religioso, che sembra interpretare la perdita di “un centro di gravità permanente”, di uno spaesamento che è la cifra più evidente della condizione del nostro tempo e della nostra vita. Oggi riceviamo posta, la lettera che Rumi ha scritto 8 secoli fa.

Gialal al-Din Rumi (1207 – 1273) è stato un poeta e mistico persiano. Nato nell’odierno Afghanistan, fu l’ideatore del sufismo , non una religione ma una corrente di pensiero musulmana nonviolenta, che apparenta l’esperienza mistica dei musulmani a quella di tutte le altre religioni, con un’apertura modernissima, ma oggi poco seguita in quel mondo, come nel nostro.

Rumi scrisse moltissimo, più di trentamila versi, oltre a sei libri contenenti 40.000 strofe; per trovare un paragone, la Commedia è composta (solo) di ventimila versi, divisi in terzine.

E’ interessante notare come la vita del grande Rumi, mistico e poeta del luminoso medioevo persiano. si intrecci idealmente con quella delle due figure più eminenti del medioevo europeo: San Francesco e Dante Alighieri. Rumi nasce infatti nel 1207, dieci anni prima della morte di Francesco di Assisi (1226), e muore nel 1273, otto anni dopo la nascita di Dante (1265). E forse Rumi li compendia e li supera entrambi, perchè Francesco, figlio di mercante, mistico e pauperista, era quasi analfabeta (anche il suo magnifico Cantico delle Creature è trascritto dai suoi primi compagni) mentre il sommo poeta Dante Alighieri rimane ancorato alla filosofia tolemaico-aristotelica e non può esplorare oltre i suoi cieli e le stelle fisse.

Cover: L’oceano dalla spiaggia di Nazarè (Portogallo). Foto Pina Guarino.

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Per certi Versi /
Sorda la vita

Sorda la vita


La vita era assorta

non ti ha visto piangere

era distratta

non ha sentito la tua voce

 

Ha proseguito sorda senza di te

 

scrupoloso l’amore

è tornato indietro a prenderti

perché non avevi chiuso gli occhi

alla bellezza

Scriveva Amedeo Modigliani a un amico: «Quando conoscerò la tua anima, dipingerò i tuoi occhi» – In copertina una delle sue prime opere parigine, particolare del volto.

Nel 2025 la storica rubrica domenicale di poesia Per certi versi è affidata a Maria Mancino 

Presto di mattina /
Ispirazione, pietra e porta

Presto di mattina. Ispirazione, pietra e porta

Le Beatitudini per rincuorare e ravvedersi

Alla messa vespertina di due sabati fa a S. Francesca vi erano insieme scout e lupetti del Ferrara 5°, i grandi e i piccoli proprio in prima fila. Al vangelo erano di scena le beatitudini secondo Luca. Gesù rivela alla folla radunatasi nella pianura chi, agli occhi del Padre suo, fossero da considerarsi felici e chi invece sfortunati: Beati voi… poveri affamati piangenti e perseguitati. Guai a voi… ricchi, sazi, gaudenti, e davanti a tutti i lodati − perché Dio ha scelto da che parte stare e veglia − ha riconosciuto i suoi familiari, gli eredi come il Figlio del regno.

Nella prima lettura poi si parlava del tamarisco nella steppa dalla nerissima scorza, che quando vede venire il bene non lo riconosce perché come chi confida solo in se stesso non ha occhi se non rivolti verso se stesso, dallo sguardo tenebroso. Si diceva poi dei confidenti in Dio, di coloro che hanno in lui l’unica risorsa, attendono da lui aiuto. A differenza del tamarisco, questi sono detti simili agli alberi piantati lungo corsi d’acqua, verso cui stendono le radici. Non hanno paura del caldo, rimangono verdi le loro foglie anche nella siccità, continuando a produrre frutti.

Così coloro che vengono messi in guardia: “guai a voi”, coloro che tengono lontano il cuore da Dio e confidano solo nei loro simili hanno la loro controfigura e di che specchiarsi nel tamarisco per rinsavire; gli altri sono rincuorati e consolati per riconoscersi negli alberi che daranno frutti a suo tempo.

L’ispirazione da chi ti è venuta?

L’omelia, una manciata di minuti, ma per dire cosa? E da dove iniziare? Sono rimasto nell’inquietudine e nell’attesa ascoltando il diacono proclamare il vangelo dall’ambone. Poi, inattese, non so da dove sono emerse le parole del libro di Giobbe: «A chi hai rivolto le tue parole e l’ispirazione da chi ti è venuta?» (26, 4)

Ed ecco, come un vagito nascente l’assist che aspettavo: Ispirazione, il soffio che ha increspato le vele verso il largo.

Così ho domandato: «Secondo voi da dove nasce la poesia?» La prima risposta scontata, provocando ilarità nell’assemblea, è stata: «dal poeta». In risposta ho rilanciato con un’altra domanda: «e da dove viene nel poeta la parola?» E, dopo convulsi sommovimenti di grandi e piccoli e mani alzate tra i banchi arriva, quasi una piccola ‘ola’, anche la riposta: dall’ispirazione.

Così sospirando continuai: «Ma da dove sono venute a Gesù le beatitudini: Ispirazione, ispirazione, ispirazione…» fu, scontata, la risposta quasi corale. Insistetti ancora: «ma cos’è l’ispirazione?» E di nuovo silenzio: «da dove deriva questa parola?», come lanciando una cima di salvataggio. «Da spirare dice uno, respirare un altro e soffiare anche; dal soffio dello spirito» disse alla fine un quarto.

«Sì è proprio così» risposi subito, lo spirito che dimorava in Gesù, che sussurrava al suo cuore e abitava i suoi pensieri, animando il suo corpo e lo stesso che ha fatto gemmare le beatitudini, lo stesso Spirito del Padre suo, Spirito d’amore che li tiene uniti e che anche stasera si è riversato, spirando su di noi come onde miti sulla vela”. E la barca, quella sera, aveva raggiunto l’altra sponda del lago.

L’ispirazione: sconosciuta fonte

L’ispirazione per il poeta non è emozione effimera o esercizio di fantasia ma conoscenza, un sapere oltre, specchio riflettente di ciò che è inabissato nelle profondità del reale e dentro di lui. È sommovimento improvviso della coscienza e insieme dell’immaginazione, che determinano una scoperta, un dis-velamento seguito da un capovolgimento di prospettiva, un inatteso orizzonte, che è straniamento e poi familiarità del sentire come un vuoto nel pieno dapprima e nell’assenza intravede infine affiorare una presenza.

L’ispirazione messaggera dello spirito è come il vento «soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito» (Gv3,8). L’ispirazione è portatrice del Pneuma, lo Sconosciuto dentro e oltre noi stessi. Essa avvicina al fondo della realtà, al fondo dell’abisso che è l’altro, un abisso al pari di te: svelamento e velamento insieme: una ri-velazione appunto.

L’ispirazione è creatrice di parole primigenie direbbe il teologo Karl Rahner, matrice misteriosa, perché attinge alla loro essenza, al lievito madre dello spirito, generando parole in azione che danno forma a ciò che non ha forma, parole in presenza come traccia, impronta dell’indicibile.

«Se vuoi trovare la sorgente,
devi proseguire in su, controcorrente»

Bracconiere come Michel de Montaigne, (1533-1592), scrittore del Rinascimento francese, anch’io vado cercando parole d’altri e, citando un suo aforisma, dico: «Faccio dire agli altri quello che non so dire bene, talvolta per la debolezza del mio linguaggio, altre volte per la debolezza della mia intelligenza».

Così mi sovvengono le parole di Karol Wojtyla: «L’ispirazione, in maniera più o meno oscura, conduce il poeta e l’artista su quell’orlo abissale al mistero della tua scaturigine… Se vuoi trovare la sorgente, devi proseguire in su, controcorrente» (La sorgente, in Giovanni Paolo II, Trittico romano. Meditazioni, Città del Vaticano, Libr. Ed. Vaticana, 2003, 15).

Nel suo Discorso agli artisti: “A quanti cercano nuove epifanie per farne dono al mondo” (4 aprile 1999) il papa poeta così scrive: «La Sacra Scrittura è diventata così una sorta di “immenso vocabolario” (P. Claudel) e di “atlante iconografico” (M. Chagall), a cui hanno attinto la cultura e l’arte cristiana.

Lo stesso Antico Testamento, interpretato alla luce del Nuovo, ha manifestato filoni inesauribili di ispirazione… Ogni autentica ispirazione, tuttavia, racchiude in sé qualche fremito di quel “soffio” con cui lo Spirito creatore pervadeva sin dall’inizio l’opera della creazione.

Presiedendo alle misteriose leggi che governano l’universo, il divino soffio dello Spirito creatore s’incontra con il genio dell’uomo e ne stimola la capacità creativa. Lo raggiunge con una sorta di illuminazione interiore, che unisce insieme l’indicazione del bene e del bello, e risveglia in lui le energie della mente e del cuore rendendolo atto a concepire l’idea e a darle forma nell’opera d’arte. Si parla allora giustamente, se pure analogicamente, di “momenti di grazia”, perché l’essere umano ha la possibilità di fare una qualche esperienza dell’Assoluto che lo trascende» (nn. 5; 15).

Ispirazione:
carezza dall’altra parte,
sommovimento di gestante,
pietra tombale divelta.

È quel soffio lieve che increspa l’orizzonte del silenzio, così il cammino delle parole ripiglia, anche se è notte. È quel sommovimento di linfa che preme, gemme spinte fuori dal solco di dura corteccia anche se è inverno ancora. Ispirazione è quella pietra tombale divelta delle parole sepolte, dall’altra parte lo sguardo del loro volto pasquale.

Una carezza disfìora
la linea del mare e la scompiglia
un attimo, soffio lieve che vi s’infrange e ancora
il cammino ripiglia
(E. Montale, Ossi di seppia, Einaudi, Torino 1943, 103).

Sotto le scorze, e come per un vuoto,
Di già gli umori si risentono,
Si snodano, delirando di gemme:
Conturbato, l’inverno nel suo sonno
(G. Ungaretti, Vita d’uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1996, 157).

Dall’altra parte della mano tesa
Del petalo della foglia della rosa
Dell’aria azzurrina e del nembo
Del fulmine sghembo tra la pioggia
tutto è pazienza e attesa
che ribalti la pietra pasquale
il lato tombale delle cose
dall’altra parte il vero disegno
il volto luminoso
il regno il regno il regno!
(B. Cattafi, “Dall’altra parte”, in Tutte le poesie, Le Lettere, Firenze, 2020, 422).

È soffio di conchiglia

È l’ispirazione “soffio di conchiglia” per usare un’immagine ungarettiana che dà corpo all’infinito mistero. L’immagine esprime bene il pensiero di Karl Rahner (1904-1984) per il quale la conchiglia è simbolo efficace per dire «l’infinità presente nella finitudine della parola… L’intuizione sensibile guida non alla definizione delle cose, cioè alla conoscenza scientifica, ma verso una intensa evocazione, verso una conoscenza simbolica e dunque più «oscura».

Così commenta Antonio Spadaro introducendo i diversi saggi dedicati da Rahner alla poesia e alla parola poetica, ora raccolti in una nuova edizione: L’arte della Parola. Opere scelte, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, [MI] 2024, 32-33).

Scrive Rahner: «Il cristiano dunque, quale parola deve essere abilitato, esercitato e dotato di grazia ad ascoltare, per poter udire la parola del messaggio di Dio? Deve saper ascoltare la parola, attraverso la quale il muto mistero è presente, deve saper percepire la parola che colpisce il cuore nel suo più intimo, deve essere iniziato nella grazia umana ad ascoltare la parola che unisce e la parola che nel suo senso limitato e preciso è la corporeità dell’infinito mistero. Ma come si può chiamare una tale parola? Essa è la parola poetica; questo saper ascoltare è frutto dell’aver udito la parola poetica, alla quale l’uomo si abbandona in umile prontezza, affinché essa gli apra l’udito dello spirito e gli penetri nel cuore…

È vero perciò che la capacità e l’esercizio di percezione della parola poetica è un presupposto per sentire la parola di Dio. Può bene la grazia crearsi questo presupposto, ci possono ben essere molti uomini, ai quali la poesia dell’esistenza eterna penetra nell’orecchio e nel cuore soltanto nel messaggio cristiano, però tutto ciò non toglie, secondo la nozione acquisita, che il dire e l’ascoltare la poesia appartenga così intimamente all’essenza dell’uomo, che nel caso in cui questa capacità del suo cuore venisse distrutta, l’uomo non possa più ascoltare la parola di Dio in parola umana. Ciò che è poetico nella sua ultima essenza è presupposto per il cristianesimo…

Il coltivare la poesia è in ogni caso una parte dell’esercitazione al saper sentire la parola della vita e, viceversa, quando un uomo nel profondo del suo cuore impara ad ascoltare le parole del Vangelo veramente come parola di Dio, data da Dio stesso, allora incomincia a diventare un uomo che non può più essere completamente insensibile a ogni parola poetica» (ivi, 114-115; 117).

È pietra su cui edificare, porta per continuare oltre

«Poesia come fedeltà all’ispirazione». È questa la traccia di fondo, l’itinerario carsico che sottende la poetica di Bartolo Cattafi (1922-1979). Ne è convinto Raoul Bruni nell’introduzione alle sue poesie, che rileva pure nell’autore un’idea di poesia come “condizione umana”:

«La storia dei miei versi non può che coincidere con la mia storia umana… Quella del poeta è per me una pura e semplice condizione umana, la poesia appartiene alla nostra più intima biologia, condiziona e sviluppa il nostro destino, è un modo come un altro di essere uomini» (Tutte le poesie, VIII-IX).

Pietra bianca
conchiglia calcare
con teneri bordi di colore
che sorte e acrocoro mandano
a un livello di mare
nella vasta pianura
percorsa da opliti
marinai mercanti inconsapevoli
isola emersa
misconosciuta itaca
sotto i piedi d’un gregge polveroso
(ivi, 563).

La porta
Non posso ancora aprirla
non vedo il muro
il varco nei mattoni
il legno immateriale
la misteriosa maniglia.
Ad ogni sbatter di fronda
di ciglia
di finestre furiose
di chiarissima
onda
di pesce fuor d’acqua
d’ali sulla preda
con speranza mi volgo.
Che sia Tu ad aprirla
Nelle Tue cose?
(ivi, 644).

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Cosa dice il Nuovo Piano Pandemico 2025-2029?

Cosa dice il Nuovo Piano Pandemico 2025-2029?

La nuova versione del Piano pandemico 2025-2029, trasmessa oggi alla conferenza delle Stato-Regioni per l’approvazione e, è un testo di 150 pagine in cui vengono presi in esame le varie fasi di risposta all’emergenza, dalla pianificazione e il finanziamento fino al coordinamento, il controllo, l’organizzazione dei servizi sanitari e formazione del personale. Il principio guida del Piano, si legge, è “l’efficacia”. Gli interventi prospettati “sono fondati su un solido razionale scientifico e metodologico”, e dovranno essere “motivati da una condizione di necessità. Per tale motivo  ogni intervento è guidato anche dai principi di precauzione, responsabilità, proporzionalità e ragionevolezza”.

Il nuovo Piano nazionale pandemico illustra la strategia messa a punto dal governo Meloni in caso di emergenze come quella causata dal Covid-19. Una prima bozza era circolata il mese scorso, ma il testo è stato modificato nelle parti considerate più “delicate”.

Il testo infatti contiene alcuni importanti cambiamenti rispetto alla precedente bozza:

  • solo una legge (e non un Dpcm) potrà disporre un lockdown in caso di pandemia;
  • i vaccini, seppur ritenuti “efficaci”, “non potranno essere considerati gli unici strumenti” di contrasto;
  • e si ispira “ai valori fondativi del nostro Servizio sanitario nazionale”, in particolare “la giustizia, l’equità, la non discriminazione e la solidarietà”.

In caso di pandemia, “il conflitto che potrebbe eventualmente insorgere tra la sfera privata e quella collettiva rende necessario operare in ottemperanza al principio di trasparenza”. Per questo, “le informazioni saranno divulgate dalle istituzioni preposte, tanto al personale medico-sanitario quanto ai non addetti ai lavori, in maniera tempestiva e puntuale, attraverso piani comunicativi pubblici e redatti in un linguaggio semplice e chiaro. Ogni persona deve essere informata sulla base di evidenze scientifiche in merito alle misure adottate”, si precisa.

Di fronte ad un reale e grave rischio per la salute pubblica, “sarà necessario disporre di misure combinate che includano test, isolamento dei casi, tracciamento dei contatti e la messa in quarantena degli individui esposti”, ma occorrerà “aggiornare o modificare le decisioni o le procedure qualora emergano nuove informazioni rilevanti e fondate su evidenze scientifiche”.

Il testo esclude “l’utilizzo di atti amministrativi per l’adozione di ogni misura che possa essere coercitiva della libertà personale o compressiva dei diritti civili e sociali”. Nel caso di una pandemia di carattere eccezionale, come il coronavirus (di cui il 20 febbraio del 2020, esattamente cinque anni fa, si scopriva il paziente 1 a Codogno) “si può presentare la necessità e l’urgenza di adottare misure relative ad ogni settore e un necessario coordinamento centrale, valutando lo strumento normativo migliore e dando priorità ai provvedimenti parlamentari”.

Dunque, non sarà possibile ricorrere a interventi coercitivi se non tramite “leggi o atti aventi forza di legge” che “nel rispetto dei principi costituzionali” potranno prevedere “misure temporanee straordinarie ed eccezionali in tal senso”.
In sostanza, il nuovo Piano proibisce l’uso di atti come i Dpcm, usati durante il governo Conte per disporre i vari lockdown – contestati parzialmente da Meloni, ma molto profondamente da gran parte dell’opinione pubblica, da tanti attivisti per i diritti umani e da critici della militarizzazione della pandemia – che ora non potranno più essere utilizzati. Solo una legge o un atto con la stessa forza (un decreto legge ad esempio) potrà prevederlo.

Il nuovo Piano riconosce l’importanza dei vaccini seppur con un importante passo indietro rispetto a quanto inserito nella prima bozza. Se la prima bozza li considerava le misure “preventive più efficaci” per contrastare simili emergenze sanitarie, ora il testo recita: “i vaccini approvati e sperimentati, risultano misure preventive efficaci” e “contraddistinte da un rapporto rischio-beneficio significativamente favorevole”Finalmente, dopo anni, viene puntualizzato che i vaccini “non possono essere considerati gli unici strumenti per il contrasto agli agenti patogeni, ma vanno utilizzati insieme ai presidi terapeutici disponibili” in quanto non sono una panacea a tutti i mali e non possono sostituire la prevenzione primaria e la medicina territoriale (cose sostenute per altro proprio dai movimenti di lotta per il diritto alla salute in Italia e dallo stesso Vittorio Agnoletto).

Un’ apertura non di poco conto
per un governo come quello di Meloni che, sui temi dell’obbligatorietà vaccinale, del Green Pass e della violazione delle libertà costituzionali durante le politiche pandemiche, si è sempre mantenuto equidistante. Non dimentichiamoci che Giorgia Meloni, proprio sul Green Pass, quando non era ancora in vigore, dichiarò: “Penso al tema del certificato verde digitale. Siamo stati i primi a sostenerlo, ci auguriamo che venga adottato il prima possibile in un orizzonte di totale reciprocità con tutti gli altri Stati europei” (https://www.editorialedomani.it/video/il-video-della-polemica-quando-giorgia-meloni-era-favorevole-al-green-pass-uhvzkzct)

È la stessa Meloni che ha nominato Ministro della Salute il prof. Orazio Schillaci, rettore dell’Università di Roma Tor Vergata e docente ordinario di Medicina nucleare che ha fatto parte del Comitato tecnico scientifico sull’emergenza Covid, chiamato proprio dal suo predecessore Speranza (1).

Tutte le istituzioni coinvolte nella risposta a un’eventuale emergenza sanitaria “devono essere dotate di risorse necessarie e impiegarle in maniera efficiente ed efficace, rendicontando pubblicamente il proprio operato”, riporta la bozza. Si evidenzia che “la preparazione e la necessaria pianificazione operata punta a ridurre al minimo l’eventualità che si verifichi una scarsità di risorse in caso di evento pandemico”. Se questo dovesse accadere, “ogni scelta di allocazione  deve essere trasparente e guidata dal principio deontologico e giuridico della uguale dignità di ogni essere umano, dall’assenza di ogni discriminazione e dal principio di equità”, viene ribadito.

Quanto al finanziamento, l’ultima legge di bilancio “ha autorizzato, per l’attuazione delle misure del piano pandemico nazionale per il periodo 2025-2029, la spesa di 50 milioni di euro per l’anno 2025, di 150 milioni di euro per l’anno 2026 e di 300 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2027”.

Il testo rivolge l’attenzione anche alle categorie più fragili: “In base alle rispettive competenze statali e regionali  gli interventi di sanità pubblica mirano ad essere inclusivi e rispettosi delle caratteristiche di ogni contesto sociale, nella piena consapevolezza che ogni tipo di misura possa gravare in maniera differente su gruppi di popolazione diversi tra loro per tratti sociali, economici, culturali, clinici”.

Tra le popolazioni particolarmente fragili e vulnerabili cui è opportuno prestare specifica attenzione vi sono: “i grandi anziani, coloro che sono ospitati all’interno di Rsa, le persone affette da patologie rare, psichiatriche, oncologiche, da comorbidità severe o immunodeficienze, le persone che vivono in condizioni di particolare fragilità sociale o economica, le persone migranti e le persone in regime di detenzione”. In ogni caso “risulta assolutamente centrale la sensibilizzazione delle persone attraverso una comunicazione semplice ed efficace dei benefici e dei rischi correlati”, si sottolinea. E “in nessun modo – si avverte – la campagna di informazione dovrà utilizzare toni drammatici, generare discriminazioni e stigma sociale”.

Che dire? Seppur l’invito è di rimanere vigilanti, non ci resta da sperare finalmente che questo nuovo piano pandemico sia un presupposto importante per attuare finalmente l’articolo 32 della nostra costituzione che afferma: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.”

Note :
(1) Squillaci
è sempre stato un convintissimo sostenitore del Green Pass, considerandolo indispensabile per “garantire la sicurezza nelle aule universitarie”. Durante la Covid-19, Squillaci si è distinto, nella sua università, per livelli maniacali di controllo, in cui “oltre ad inquadrare ogni singolo QrCode, gli studenti vengono obbligati a firmare un foglio per segnalare ulteriormente la propria entrata nel complesso e il possesso di pass”.

Cover: COVID-19 Coronavirus outbreak financial crisis help policy, company and business to survive concept, businessman leader stand safe by cover himself with big umbrella from COVID-19 Coronavirus pathogen (Foto di Teknoring)

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Il futuro è rosa …
Se sei uomo, benestante e in coppia

Il futuro è rosa …  Se sei uomo, benestante e in coppia

C’è un significativo divario di genere nella percezione delle preoccupazioni economiche. Gli uomini sono sistematicamente più ottimisti delle donne. Sono disuguaglianze da affrontare con misure mirate, per permettere una adeguata pianificazione economica.

Stress da insicurezza economica

Stress e ansia sono esperienze comuni e molto diffuse. Si parla ancora poco, però, di quanto la sicurezza economica influisca su di esse. Ci sono persone che faticano ad arrivare a fine mese e altre che temono per il futuro dei propri risparmi. Queste condizioni sono determinate sia da fattori oggettivi sia da elementi soggettivi, poiché, anche quando si parla di stress finanziario, è la percezione individuale a fare la differenza. Misurare questi aspetti nelle scienze sociali è fondamentale per comprendere meglio le dinamiche tra benessere economico ed emotivo, così da progettare politiche sempre più efficaci per ridurre l’insicurezza finanziaria e migliorare l’impatto sociale.

Una recente indagine curata dal Museo del Risparmio ha raccolto ulteriori evidenze. Condotta a metà ottobre 2024 su un campione rappresentativo della popolazione italiana tra i 18 e i 74 anni (3.868 partecipanti), la ricerca ha portato alla luce un tratto sistematico: le donne mostrano una propensione maggiore al pessimismo e un livello più elevato di preoccupazione economica rispetto agli uomini. Le differenze di genere non si riflettono solo in aspetti economici e lavorativi, ma emergono anche nelle percezioni soggettive di ottimismo, felicità e preoccupazione per il futuro.

Figura 1

Nota: Livello di ottimismo misurato secondo scala Likert 1-15 da valori più bassi a più alti

Figura 2

Reddito e percezione del benessere

I dati mostrano una netta disparità nella distribuzione del reddito netto mensile: le donne sono più concentrate nelle fasce inferiori, mentre gli uomini prevalgono tra coloro che godono di redditi più elevati. La differenza si riflette direttamente nella percezione del benessere: molti uomini definiscono il proprio stile di vita come “alto” o “molto alto”, mentre le donne tendono a collocarsi nelle categorie “medie” o “basse”. Il potere economico, dunque, non solo migliora le condizioni materiali, ma contribuisce a ridurre la percezione del rischio e a favorire un approccio più ottimista verso il futuro.

Figura 3

Figura 4

Felicità e ottimismo: un divario persistente

La valutazione della felicità su una scala da 0 a 10 evidenzia punteggi più alti tra gli uomini, mentre le donne risultano più presenti nelle fasce intermedie e basse. L’ottimismo segue un andamento simile, invertendosi con il pessimismo, che si manifesta in modo sistematicamente maggiore tra le donne. Lo scenario, amplificato dall’esperienza post-Covid, suggerisce che le aspettative sociali e il ruolo culturale attribuito a ciascun genere possano influenzare notevolmente la percezione del futuro.

Figura 5

Preoccupazione e gestione dell’incertezza

Un indicatore particolarmente rilevante è la percentuale di chi ha provato preoccupazione nelle ultime 24 ore: il 54,1 per cento delle donne contro il 41,7 per cento degli uomini. La differenza non solo evidenzia una maggiore sensibilità femminile alle incertezze economiche, ma mette in luce la necessità di strumenti specifici per gestire lo stress finanziario e favorire una maggiore serenità, soprattutto in un contesto di instabilità globale.

A Flourish chart

Il ruolo dell’istruzione

Che ruolo svolge l’istruzione? In generale, un più alto livello di istruzione è associato a un incremento della felicità. Tuttavia, mentre l’effetto positivo si riscontra in entrambi i generi, l’impatto sull’ottimismo è divergente: tra le donne, le più istruite risultano meno ottimiste, probabilmente a causa di una maggiore consapevolezza delle sfide economiche e sociali; per gli uomini, invece, il reddito, che aumenta con l’istruzione, sembra compensare eventuali effetti negativi.

A Flourish table

Influenza dello stato civile e del lavoro

Essere in coppia e avere un lavoro fuori casa si configurano come fattori chiave per la gestione delle preoccupazioni quotidiane. La vita di coppia, infatti, offre un supporto emotivo che può attenuare l’ansia: risulta particolarmente benefica per gli uomini, per i quali il matrimonio incide positivamente sia sull’ottimismo che sulla felicità. Al contrario, per molte donne il lavoro, pur rappresentando una fonte di autonomia economica, è spesso accompagnato da pressioni e aspettative sociali che possono accentuare una visione pessimistica.

A Flourish table

Prospettive future

Oltre ai fattori esaminati, è fondamentale considerare il ruolo della cultura e delle politiche sociali nella configurazione delle differenze. Un approccio integrato che favorisca l’equilibrio tra vita lavorativa e privata, investa in programmi di sostegno economico e promuova la formazione continua potrebbe contribuire a ridurre le asimmetrie. Inoltre, sono necessarie ulteriori ricerche, anche qualitative, per esplorare in profondità le cause dei divari, considerando variabili regionali e le evoluzioni delle dinamiche familiari e sociali.

L’indagine descrive un significativo divario di genere nella percezione di felicità, ottimismo e preoccupazione economica, legato a fattori come reddito, istruzione e status relazionale. Affrontare queste disuguaglianze richiede politiche economiche e sociali mirate, capaci di garantire sicurezza finanziaria e un supporto adeguato alla pianificazione economica, soprattutto per le donne. Solo così sarà possibile favorire un futuro più equilibrato e migliorare il benessere complessivo della società.

Gli autori

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

Sopravvivere alla stagione delle arance:
le condizioni di vita dei braccianti stranieri nella Piana di Gioia Tauro

Le condizioni di vita e lavoro dei braccianti stranieri nella Piana di Gioia Tauro

Medici per i Diritti Umani (MEDU) da 12 anni opera nella Piana di Gioia Tauro con la sua clinica mobile, portando avanti il progetto “Campagne aperte: laboratorio di pratiche territoriali per promuovere la dignità della vita e del lavoro”.

12 anni di attività ininterrotta, durante i quali è stata fornita assistenza medica, migliaia di persone sono state informate sui propri diritti e portando all’attenzione delle istituzioni e le precarie condizioni di vita e di lavoro dei migranti impiegati nella raccolta agrumicola sono state rese note all’opinione pubblica.
Durante l’ultima stagione, da novembre 2024 a febbraio 2025, Medici per i Diritti Umani hanno fornito assistenza medica e socio-legale a 371 persone attraverso uscite regolari, tre volte a settimana, presso la tendopoli di San Ferdinando, il casolare di contrada Russo a Taurianova e Largo Bruniani a Rosarno.

Si tratta prevalentemente di uomini di età compresa tra 31 e 50 anni (61%), provenienti da quasi tutti i Paesi dell’Africa occidentale, ma anche dal Maghreb (Tunisia, Marocco, Mauritania), dal Sudan, dal Camerun e dalla Bulgaria. La  gran parte di questi lavoratori (87%) possiede un permesso di soggiorno regolare,  il 25% è titolare di protezione sussidiaria, il 17% di permesso per lavoro subordinato e il 17% di protezione speciale. Solo il 10% delle persone intervistate da MEDU si trovava in condizioni di irregolarità per il soggiorno e il 3% non ha fornito informazioni. Circa il 78% vive poi in Italia da oltre tre anni e si dedica prevalentemente al lavoro agricolo, spostandosi durante l’anno tra diverse regioni.

Le condizioni lavorative, a 15 anni dalla “rivolta di Rosarno”, continuano ad essere di inaccettabile sfruttamento.
Nonostante molti braccianti (70% delle persone che hanno fornito indicazioni in merito) abbiano un contratto di lavoro a breve termine (di una settimana, uno, due o tre mesi) – si legge nella nota di MEDU . essi si trovano spesso a subire riduzioni in busta paga, salari inferiori a quelli contrattuali, riposi e ferie ridotti o addirittura inesistenti. I braccianti senza contratto (30% delle persone che hanno fornito informazione sul contratto) sono ovviamente ancor più esposti a condizioni di sfruttamento. Tutti, indipendentemente dalla condizione contrattuale, sono accomunati dallo stato di bisogno, che li espone a una condizione di ricattabilità, con orari di lavoro estremamente elastici e salari che non corrispondono a quanto pattuito.”

Per quanto riguarda la remunerazione dei lavoratori, su 66 lavoratori, il 35% riceve il salario esclusivamente in contanti, il 33% tramite bonifico e il restante 32% con una modalità mista. Ma il 58% ha dichiarato di non ricevere la busta paga e solo una ha affermato di raggiungere le 102 giornate necessarie per la richiesta della disoccupazione.
MEDU ha denunciato poi che anche quest’anno i braccianti sono stati costretti a vivere in strutture alloggiative assolutamente inidonee, di estrema precarietà in contesti periferici, abusivi e insalubri. Mentre resta particolarmente preoccupante la condizione dellex tendopoli ministeriale di San Ferdinando, il più grande insediamento informale della Calabria, creata originariamente come presidio temporaneo per ospitare circa 500 persone e diventato oggi un ghetto in continua espansione, con la costruzione di baracche e strutture precarie. Anche gli spostamenti quotidiani verso i luoghi di lavoro avvengono inoltre in condizioni pericolose, con strade dissestate e scarsa illuminazione, fattori che aumentano il rischio di incidenti.

Ci sono stati tentativi da parte delle istituzioni di allestire strutture adeguate, come il Villaggio della Solidarietà di Rosarno, che ha accolto i braccianti precedentemente ospitati nel campo container di Testa dell’Acqua, e il Polo Sociale di Taurianova, che offre accoglienza a circa 96 persone in 24 moduli abitativi. “Tuttavia, a Rosarno – sottolinea MEDU –  un progetto finanziato con oltre 3 milioni di euro di fondi europei per la creazione di una rete di accoglienza abitativa e inclusione sociale per i lavoratori migranti e le loro famiglie, che prevedeva la costruzione di sei edifici per un totale di 36 appartamenti, è rimasto bloccato per oltre 12 anni. Attualmente, gli appartamenti restano inutilizzati in attesa dei fondi necessari per l’arredamento. Solo dopo il completamento di questa fase sarà pubblicato il bando per l’assegnazione, aperto anche ai migranti in possesso dei requisiti richiesti.”

Condizione abitativa che unita allo sfruttamento incidono profondamente sulla salute dei lavoratori. Tra i problemi di salute riscontrati, le malattie dell’apparato osteoarticolare e dell’apparato digerente sono le più frequenti, seguite da problemi odontoiatrici e malattie del sistema respiratorio. Non meno rilevanti sono le malattie della pelle oltre che malattie del sistema cardio-circolatorio e i disturbi del sistema genito-urinario.

MEDU ribadisce la necessità di interventi tempestivi e coordinati per affrontare in modo strutturale le criticità legate alle condizioni abitative e lavorative dei braccianti agricoli stranieri e l’urgenza di intervenire per garantire condizioni di vita più dignitose nella tendopoli di San Ferdinando, attraverso il miglioramento dei servizi essenziali: raccolta dei rifiuti, disponibilità di acqua calda, regolarità del servizio elettrico e la presenza costante di un presidio dei vigili del fuoco.

Qui per approfondire: https://mediciperidirittiumani.org/sopravvivere-alla-stagione-delle-arance/.

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Stangata

L’ULTIMA STANGATA

L’ULTIMA STANGATA

Nelle settimane passate sono emerse all’onore della cronaca le scelte dell’Amministrazione comunale di Bologna e della Giunta regionale dell’Emilia-Romagna relativamente alla manovra per far fronte ai tagli del trasporto pubblico locale, nel caso di Bologna, e della sanità a livello regionale.

Il sindaco di Bologna Lepore ha annunciato che dal 1° marzo scatterà l’aumento del biglietto della corsa singola dei bus da 1,5 a 2,3 €, la rimodulazione del costo degli abbonamenti e un rincaro della sosta a pagamento per gli autoveicoli. Dalla Regione sono uscite le indicazioni per incrementare l’addizionale Irpef, in modo progressivo, per i redditi sopra i 28.000 €, aumentare l’IRAP, il bollo auto e far pagare i tickets sanitari sopra i 35.000 € di reddito ISEE.

Entrambe queste impostazioni sono sbagliate. Pur nella differenza di ambiti e di specifici interventi, esse vanno in una direzione non condivisibile per almeno tre ragioni.

La prima è che, guardando al merito delle stesse, produrranno effetti seriamente negativi rispetto alla difesa del sistema di Welfare, di cui le politiche dei trasporti e quelle della salute sono cardini importanti. L’incremento del costo dei biglietti del bus e delle linee extraurbane produrranno inevitabilmente un disincentivo all’utilizzo del trasporto pubblico, mentre sia le politiche della mobilità sia quelle relative alla riduzione delle emissioni climalteranti ci dicono che occorre andare in tutt’altra, anzi, opposta direzione.

Il modello cui fare riferimento non è quello messo in campo da questo e dai precedenti governi che spingono ad innalzare le tariffe, definanziando il Fondo nazionale trasporti, ma semmai quello di Montpellier, città media francese paragonabile a Bologna con i suoi 300.000 abitanti, che dalla fine del 2023 ha deciso di rendere gratuito il trasporto pubblico urbano e che, dai primi dati a disposizione, ha visto crescere di circa il 20% i passeggeri che usufruiscono di tale servizio.

Allo stesso modo, l’intenzione di legare l’importo dei tickets sanitari al reddito – che però andrà vista meglio quando verranno rese note e precisate le modalità – restringe l’area dell’universalismo della prestazione e incentiva a non ricorrere al servizio pubblico, proprio quello che, a parole, la Giunta regionale dichiara di voler contrastare.

Il secondo punto fortemente critico di queste manovre è che vanno a colpire in particolare le classi medio-basse. Infatti, già di per sè l’utilizzo delle tariffe ( costo dei biglietti e tickets) ha un effetto regressivo, per il semplice fatto che le tariffe, a differenza dell’uso della fiscalità ( e in questo, in verità, l’intervento sull’addizionale IRPEF regionale ha meno questo segno), pesano di più in termini proporzionali sui redditi medio-bassi. Soprattutto, però, l’innalzamento del contributo a carico dei cittadini sul trasporto pubblico e sulla sanità, va ad aggiungersi al forte incremento tariffario relativo agli altri servizi pubblici (gas, elettricità ed acqua in primis) che si sta registrando da alcuni anni qua e che ha già letteralmente falcidiato i redditi medio-bassi.

Terza ragione che mi fa dire che siamo in presenza di un’impostazione sbagliata è che assistiamo al paradosso per cui è in primo luogo il governo nazionale di destra a portare la responsabilità di attaccare pesantemente il sistema pubblico e il Welfare, puntando esplicitamente ad una loro privatizzazione, e i governi locali devono farsi carico di coprire i tagli che da lì derivano, magari rispolverando, a partire dai governi di centrosinistra, il desueto e ormai autolesionista “senso di responsabilità”. Non rendendosi conto (voglio sperare, perchè altrimenti, sarebbe ancora peggio) che, così facendo, si alimenta il già troppo diffuso sentimento per cui le persone ritengono che “tutti sono uguali”, che tanto la politica, intesa in modo indifferenziato e generalizzato, non fa altro che gravare sulle tasche dei cittadini. Producendo, alla fine, un ulteriore distacco tra le persone e l’agire politico e acuendo l’idea della mancanza totale di rappresentanza, di cui la crescita dell’astensionismo elettorale e il calo della partecipazione alle scelte pubbliche sono già una buona testimonianza. In più, si rischia di rendere poco plausibile e scarsamente coerente una linea per cui l’opposizione di centrosinistra, a livello nazionale, denuncia i tagli al Welfare e poi, a livello territoriale, si fa carico delle loro conseguenze.

Ovviamente, è più che legittimo che qualcuno avanzi il rilievo relativo al fatto di poter percorrere altre strade possibili. Il mio parere è che se ne potevano e se ne possono individuare almeno due, più efficaci ed eque.

La più radicale, ma anche quella per me preferibile, è quella di sottrarsi alla “trappola del debito”, ovverossia decidere di non coprire i buchi di bilancio dell’azienda dei trasporti di Bologna e delle aziende sanitarie regionali e aprire una vertenza con il governo centrale perchè sia lo stesso ad intervenire per incrementare le risorse del Fondo nazionale trasporti e del Fondo sanitario nazionale. Una strada che non sta nelle corde solo di chi, invece, come purtroppo è successo al centrosinistra egemonizzato dall’ideologia neoliberista da diversi decenni in qua, continua ad essere preda dell’ “ossessione del debito”, visto come male in sé.

Giuseppe Dozza, sindaco di Bologna dal 1945 al 1966 (Biblioteca Sala Borsa)

Del resto, fare debito a livello locale e rivendicare che sia il governo centrale a farvi fronte è una scelta già compiuta in passato, proprio dalle Amministrazioni locali emiliane, in particolare negli anni ‘60 del secolo scorso, e ciò fu proprio la leva con cui si costruì il Welfare in questa terra e si fondò il “modello emiliano”.

In proposito, può essere utile ricordare che tale approccio venne utilizzato a partire dal lontano 1961 dallo storico sindaco di Bologna Giuseppe Dozza, che all’epoca, nella sua relazione al bilancio preventivo affermava che una prima sommaria e prudenziale valutazione delle esigenze attuali della città…è già sufficiente a misurare i termini, politici prima ancora che finanziari, del divario esistente tra i bisogni della collettività cittadina e le possibilità effettive che sono lasciate attualmente all’ente locale di soddisfarli…”. Da qui la conclusione che “si può prevedere sin d’ora la necessità che il prossimo bilancio presenti un disavanzo”.

Si può obiettare che erano altri tempi, che il livello complessivo del debito pubblico non era così elevato e che erano gli anni di una rilevante crescita economica; ciò non toglie che, seppure in un diverso contesto, una politica di utilizzo efficace del debito pubblico è assolutamente realizzabile anche oggi. Certo, ciò presuppone una visione di politica economica e sociale alternativa all’esistente, ma anche a quella messa in campo dai governi di centrosinistra da molti decenni in qua. Se però non si passa da qui, ci si ritrova condannati alla subalternità alle politiche di destra e a non riuscire a prospettare una reale alternativa, credibile agli occhi delle persone.

In subordine rispetto all’opzione che ritengo fondamentale, quella della non copertura del debito e dell’apertura di una vertenzialità forte nei confronti del governo, si potrebbe perlomeno ri-orientare la manovra, ragionando sul fatto di utilizzare la leva fiscale decentrata e non quella tariffaria (aumento biglietto del bus e tickets), salvaguardando i redditi bassi e medi, affermando così una scelta di progressività del prelievo ben più forte di quella finora prospettata. Anche qui, peraltro, si tratta di uscire dal paradigma per cui la forte disuguaglianza di reddito andata avanti negli ultimi decenni era praticamente inevitabile e un portato “naturale” dei processi economici-sociali indotti dalla globalizzazione.

Infine, mi interessa sviluppare un ulteriore ragionamento a supporto delle tesi che ho avanzato. Detto in parole povere, a me pare chiaro che la battaglia per uscire dal ricatto del debito o, perlomeno, per costruire una forte inversione nell’attuale distribuzione dei redditi e dei patrimoni diventerà sempre più attuale rispetto allo scenario delle scelte che si apriranno davanti a noi.
Come si può pensare di opporsi all’aumento delle spese militari che appaiono “ necessitate” dal contesto geopolitico aperto dal trumpismo e dal conseguente ridimensionamento della spesa sociale, in primis istruzione, sanità e gli altri beni comuni, se non si cambia radicalmente l’approccio che anche il centrosinistra ha prodotto negli anni della sua subalternità al pensiero unico dominante, s
e non si rivede proprio l’idea che il fardello del debito pubblico, il Patto di stabilità europeo, la crescita delle disuguaglianze sono tabù intoccabili e che, invece, occorre promuovere una linea completamente alternativa di politica economica e sociale?

Per questo, rivedere in modo forte le scelte di Lepore e di De Pascale non sono solo un fatto contingente e limitato, ma diventano una cartina al tornasole del futuro che si tratta di mettere in campo. E che occorre affrontare con la radicalità che l’oggi e il domani ci reclamano.

Cover: Maxi aumento biglietti autobus bologna (immagine ètv Rete7)

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Parole a capo
Carla Forza: «Xènia» e altre poesie inedite

Carla Forza: «Xènia» e altre poesie inedite

Xènia  

“Potete respingere, non riportare indietro,
è cenere dispersa la partenza, noi siamo sola andata.”
(
Erri de Luca, Solo andata)

Conturbante silenzio
sul limitare piovoso
del vano
Muti figuri occupano
tutto lo spazio sbarrato
Non cigolano i cardini
oliati dalla vergogna
mendace
Feritoie retratte
come lingue d’acqua
fanno fare pace
Ingombranti sgomenti
appuntellati agli immacolati
cancelli
piagano l’animo

– Prego, entrate –
sillaba a cenni l’Occaso

 

*

 

Eterno ritorno

 

Andirivieni di esegesi multiple
intorno al corpo
in un balletto indispettito
di veti e dinieghi incrociati
Nella sabbia acida
dei reflussi la metamorfosi
mistificatoria degli Stati
soffoca la crasi
Pudica – in relazione –
la grazia piena di chi coniuga
l’inviolabilità equa della norma
all’umanità dei casi

Libertà traluce infinitezza
sebbene i ceppi
la incatenino alla tolda

 

*

 

Fragore

 

Nell’ocra riarso si incide
l’involontario verdetto
apparentando le idee
in scenari di senso
Effigi a rilievo perdurano
impari nell’eredità degli occhi
e poi si disfano in frame
inclini al dispregio
accanto a un carretto
dalle stanghe esplose

Permangono sagome
di sgomento
a nidificare nel grembo

 

*

 

E dentro, e fuori

 

Mi raccolgo in un angolo
candido di paradiso
come trillo d’uccelli al ceruleo
Levità sacra che distende
luce e la disperde
in volo
Ma su questo prato
screziato d’ombre

                          melliflue nel folto

si allungano
le mani dei bimbi
di Gaza
insinuandosi nel verde
dove le tenebre
tradiscono l’innocuo

Carla Forza. Nata in Toscana nel 1964, dopo la maturità classica si è laureata in Filosofia della Storia all’Università di Pisa. Attualmente vive in Lombardia e lavora, come docente di Materie letterarie, in un Istituto tecnico. Figura tra gli autori delle Antologie dei Premi Rebèlde, Voci dai Murazzi, Le Occasioni e dell’Agenda poetica Ed. Ensemble 2024. Suoi testi inediti sono comparsi su blog e riviste online quali L’Altrove – Appunti di poesia, La rosa in più, Margutte e Argo. «Grandina disgrazia e noi restiamo ciechi» è la sua silloge d’esordio (4 Punte Ed. 2024) presentata a Roma alla Fiera Più libri più liberi.

“Parole a capo” è una iniziativa dell’Associazione culturale “Ultimo Rosso”.
Per rafforzare il sostegno al progetto invito, nella massima libertà di adesione o meno, a inviare un piccolo contributo all’IBAN: IT36I0567617295PR0002114236

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 273° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.
Foto di copertina hosny salah da Pixabay.

La colonizzazione della Luna e dello spazio, «la guerra tra i soli»

La colonizzazione della Luna e dello spazio, «la guerra tra i soli»

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(Foto di AstroPills)

Ad oggi, nonostante gli anni di ambiguità, sappiamo con certezza che l’allunaggio è stato – se c’è stato (1) – un evento circoscritto alla Guerra Fredda. Gli USA dovevano dare un segnale al mondo che anche loro stavano pensando allo spazio come meta da raggiungere, dopo che l’Unione Sovietica portò a termine con successo la propria missione il 12 aprile 1961 con la messa in orbita del cosmonauta Jurij Gagarin a bordo della Vostok 1, segnando una pietra miliare nella corsa allo spazio.

Fino a quel momento solo i russi avevano ottenuto successi e quindi gli USA dovevano fare scacco matto. L’allunaggio, per gli USA, ebbe una valenza politica e geopolitica enorme. L’atterraggio di Neil Armstrong del 20 luglio 1969 costò 120 miliardi di dollari: il 4% dell’interno bilancio federale venne devoluto all’allunaggio per battere l’URSS. Percentuale che poi negli anni scese almeno dell’1% per poi in seguito scendere definitivamente allo 0,4‰.

“Perché sulla Luna non ci siamo più andati? Perché, con le capacità tecnologiche di oggi, non si è più ripetuto un allunaggio di quel tipo?” – sono domande che si sentono lecitamente spesso nell’opinione pubblica e che in parte trovano come risposta logica il fatto che gli Stati non hanno più investito quelle ingentissime risorse per la corsa allo spazio.

“Perché oggi si parla tanto della corsa allo spazio e ad un secondo allunaggio?” – ci si chiede – O, come in molti sostengono, “non si potrebbero spendere soldi per servizi più utili?”. A rispondere a queste domande indirettamente era stata l’astrofisica italiana Simonetta Di Pippo – che dal 23 marzo 2014 al 22 marzo 2022 è stata Direttrice dell’Ufficio per gli Affari dello Spazio Extra-Atmosferico delle Nazioni Unite (UNOOSA) con sede a Vienna – in una puntata del programma Quante Storie su Rai3.

Secondo l’astrofisica la corsa allo spazio e alla Luna oggi sarebbe “fondamentale” proprio in vista dell’agenda ONU 2030 e sui “17 obiettivi sostenibili” (o almeno così spacciati) che non sarebbero raggiungibili senza l’utilizzo dello spazio. Oggi infatti si inizia a parlare di “missioni lunari e spaziali” perché sembra essere un ottimo affare. Come ha dichiarato molto tempo fa Elon Musk, la corsa allo spazio è “la più grande opportunità commerciale dalla scoperta dell’America a oggi”.

Le sonde americane, russe, cinesi, giapponesi ed indiane hanno scoperto che la Luna è ricchissima di giacimenti minerari di ogni tipo: titanio, alluminio, ferro, litio, immense riserve di elio3 (isotopo rarissimo sulla Terra ed abbondantemente presente sulla Luna che potrebbe servire per i futuri reattori a fusione), oltre a metalli rari e 17 elementi essenziali per lo sviluppo economico e la “transizione energetica sulla Terra” che oggi vengono estratti esclusivamente in Cina. Come si può ben capire, laddove c’è estrattivismo non c’è nulla di sostenibile e le ragioni di questa corsa sembrano essere puramente economiche: la famosa space economy.

Se ai tempi della Guerra Fredda vi era una lotta incentrata su un “celodurismo” tecnologico con la conseguente lotta per il dominio della tecnica, oggi lo sviluppo tecno-scientifico ci ha portato a dire che la Luna e lo spazio sono importanti perché potrebbero servire all’essere umano sia economicamente sia per espandere la presenza umana su altri pianeti od oggetti del sistema solare. Viene da chiedersi su che basi reali, alla luce dei fatti, la Luna possa diventare un “laboratorio di pace”, come sosteneva l’astrofisica Di Pippo, in quanto lo scenario che appare è bene diverso.

Qui nasce una prima domanda che, più che politica, è filosofica e bioetica: di chi sono la Luna e lo spazio? Quale diritto abbiamo di sfruttarli?

A normare questo tipo di attività è l’Outer Space Treaty – ovvero il Trattato sullo Spazio Extra-Atmosferico – firmato a Londra il 27 gennaio 1967 e concepito come trattato multilaterale che costituisce la struttura giuridica di base del diritto internazionale aerospaziale.

All’articolo 4, il Trattato consente l’utilizzo della Luna e degli altri corpi celesti esclusivamente per scopi pacifici e ne proibisce invece espressamente l’uso per effettuare test su armi di qualunque genere, condurre manovre militari, o stabilire basi militari, installazioni o fortificazioni.

Il trattato, inoltre, proibisce espressamente agli Stati firmatari di rivendicare risorse poste nello spazio, quali la Luna, un pianeta o altro corpo celeste, poiché considerate «patrimonio comune dell’umanità»: l’articolo 2 del trattato afferma, infatti, che «lo spazio extra-atmosferico non è soggetto ad appropriazione nazionale né rivendicandone la sovranità, né occupandolo, né con ogni altro mezzo».

La maggior parte degli esperti in materia di Diritto aerospaziale internazionale affermano che la Luna ricade sotto il concetto giuridico di res communis, il che significa che la Luna appartiene ad un gruppo di persone, può essere usata da ogni membro del gruppo, ma nessuno se ne può appropriare.

È lo stesso concetto giuridico applicato anche alle acque internazionali (es: Convenzione ONU sulla Legge del Mare), con la sola differenza che le acque internazionali sono materia terrestre, mentre la Luna è materia extraterrestre. Viene quindi da chiedere con quale diritto di proprietà possiamo solo minimamente considerare la Luna come un «patrimonio comune dell’umanità» se abbiamo lo abbiamo reso lecito con un’autoconcessione, ovvero un’appropriazione.

Nonostante ciò, il fine del trattato è quello di impedire ogni diritto di proprietà privata allo stesso modo in cui il diritto del mare impedisce a chiunque l’appropriazione del mare (2). Però, a differenza di altri trattati sulle res communes (acque internazionali, spazio aereo, Antartide), l’Outer Space Treaty si limita a una breve esposizione di principi, espressi peraltro in termini molto generali.

Per fornire un esempio, l’art. 9 del trattato proibisce espressamente le attività aventi “conseguenze pericolose” (harmful consequences), ma non chiarisce in alcun modo cosa si debba intendere esattamente per “pericolose”. A questo va aggiunto anche il fatto che, per quanto la responsabilità delle attività svolte nello spazio da privati enti e cittadini sia espressamente riferita in capo agli Stati, l’estensione del concetto di “activities” non è ulteriormente specificato, né da una definizione, né attraverso un elenco.

I principi espressi dal Trattato sullo Spazio Extra-atmosferico sono stati successivamente ripresi e riaffermati da altre norme internazionali: Accordo sul Soccorso (1968), Convenzione sulla Responsabilità (1972), Convenzione sulle Registrazioni (1975), e in particolare il Trattato sulla Luna (1979), accordo che presiede alle attività degli Stati sulla Luna o sugli altri corpi celesti ed inteso come il seguito del Trattato sullo Spazio Extra-atmosferico.

Il Trattato sulla Luna è estremamente interessante nel contenuto e contribuisce a chiarire molti concetti dell’Outer Space Treaty. Per esempio vieta l’alterazione dell’ambiente dei corpi celesti e richiede che gli Stati prendano misure adatte ad evitare contaminazioni accidentali; vieta ogni uso militare dei corpi celesti, inclusi i test di armi o l’insediamento di basi militari; vieta ad ogni organizzazione o persona il possesso di qualsiasi proprietà extraterrestre, a meno che l’organizzazione non sia internazionale e governativa; vieta ad ogni Stato di dichiarare la propria sovranità su qualsiasi territorio dei corpi celesti; e richiede che tutte le estrazioni e allocazioni di risorse siano svolte sotto regime internazionale in trasparenza per evitare sovrapposizioni.

Proprio per questo è forse stato ratificato solo da 13 sui 193 Paesi ONU: Australia, Austria, Belgio, Cile, Filippine, Kazakistan, Libano, Marocco, Paesi Bassi, Pakistan, Perù e Uruguay, mentre 4 Paesi (Francia, Guatemala, India e Romania) l’hanno solo firmato e non ratificato. Non essendo ratificato da alcuna delle principali potenze aerospaziali (Cina, USA, Russia) e non firmato dalla maggioranza di queste, purtroppo ha una scarsa rilevanza diretta sulle attuali attività spaziali.

Ciò permette alle grandi potenze di poter continuare non solo a violare il già problematico concetto di spazio come res communis, ma anche di proseguire la strada di quello che il saggista Cobol Pongide ha definito capitalismo multiplanetario o capitalismo spaziale: una corsa imperialista allo spazio e al possesso della selenografia (3) australe lunare da parte delle grandi potenze tecno-capitaliste facilitata dalla deregulation del libero mercato neoliberista.

Oggi assistiamo alla creazione di due schieramenti geopolitici nello spazio: il Programma Artemis della NASA sostenuto da 30 Paesi e l’asse Cina-Russia a cui appartengono anche altri gruppi. Questo conflitto non si figura come scontro tra nazioni, ma bensì tra gruppi monopolistici. Molti sono anche i privati che hanno interessi sulla Luna. Non dimentichiamo il primo volo commerciale sub-orbitale avvenuto l’11 luglio 2021, il decollo inaugurale di New Shepherd il 20 luglio 2024 ad opera di Blue Origin di Jeff Bezos, per non parlare di Starlink del miliardario tecnofascista Elon Musk.

Se pensiamo all’atterraggio su Marte; sappiamo tutti benissimo che dietro questa nuova corsa spaziale ci sono Elon Musk, Amazon, Virgin Airlines, Google e i grandi colossi tecnofili della Terra, che vedono lo spazio extra-atmosferico come una nuova frontiera da depredare e non tanto da scoprire e conoscere. Ciò che sta accadendo nello spazio è transumanesimo puro che riproduce le logiche del colonialismo del Cinquecento quando l’Occidente imponeva il suo sistema-mondo alle popolazioni native del pianeta armato di scienza e Bibbia.

I Colombo contemporanei si impossessano della Luna e dello spazio nello stesso modo in cui Cristoforo Colombo considerava l’Abya Yala una terra nullius. Chi ha detto che la Luna deve essere per forza essere “patrimonio dell’umanità” e non debba solo appartenere a sé stessa? Chi ha detto che la Luna debba per forza essere usata dall’umanità per i suoi scopi? A chi abbiamo chiesto il permesso di usarla? È stata un’autoconcessione, quindi tutti i presupposti del suo sfruttamento sono irrazionali. Non ci basta già il lavoro che fa per noi, come guidare i raccolti e le maree? Vogliamo di più, sempre di più.

Queste visioni detengono in sé da un lato un esplicito approccio colonialista e patriarcale (nel suo significato predatorio e di imposizione del dominio) di cui sono portatori gli astropreneur spaziali di matrice neoliberista; dall’altro un approccio anti-ecologico oltre ad una mentalità antropocentrica ed estrattivista, che guarda esclusivamente agli interessi umani al fine di estrarre materia prima ad uso e consumo del suo modello di sviluppo, di consumo e di produzione insostenibile. Una mentalità colonialista e riduzionista che non si fa scrupoli nel dover sfruttare addirittura altri pianeti dopo aver sfruttato fino all’estremo il pianeta Terra.

Non si può negare che ciò che concepisce la corsa allo spazio, alla Luna e a Marte è una mentalità industrialista ed imperialista vestita del nuovo abito moderno quanto trendy del capitalismo avanzato: si avalla senza problemi questo modello tossico di produzione arrivando ad espandere il suo sistema di sfruttamento. Una mentalità privatistica per cui, sebbene la Luna non sia di proprietà di nessuno, tutti la possono sfruttare per i propri scopi.

Se è vero che l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari dello Spazio Extra-atmosferico (UNOOSA) supervisiona i programmi spaziali dei vari Paesi (le autorizzazioni di utilizzo del suolo lunare) e tiene il registro degli oggetti spaziali lanciati nello spazio (razzi, di sonde e navicelle), come possiamo essere sereni di fronti ai potenziali conflitti d’interesse visto il grande peso che rivestono privati come Musk? È giusto che un singolo privato possa accaparrarsi il diritto di usufruire dello spazio?

I nuovi colonialisti vanno nello spazio, sulla Luna, persino su Marte e dimenticano la Terra, gli animali, le foreste, gli ecosistemi sia terrestri che extra-terrestri, le biodiversità sia terrestri che extraterrestri, le relazioni umane e i rapporti di cura. Forse stiamo già lavorando per la fine della vita sulla Terra e l’inizio di quella su Marte.

Si sta andando verso una mentalità superomista e terribilmente futurista – incrementata ora dal peso geopolitico di Donald Trump sostenuto dal miliardario transumanista Elon Musk – volta a travalicare qualunque limite non sia stato già travalicato.

Un celebre canzone di Pierangelo Bertoli intonava: “e presto la chiave nascosta di nuovi segreti così copriranno di fango persino i pianeti vorranno inquinare le stelle la guerra tra i soli i crimini contro la vita li chiamano errori”. Non stiamo dando troppa importanza a ciò di cui non abbiamo bisogno per salvare l’umanità e la Terra?

Note

(1) Nel 2001 Philippe Lheureux pubblicò un libro dove sosteneva che le foto prese dagli astronauti statunitensi sulla Luna fossero in realtà dei falsi semplicemente realizzati sulla Terra. Le sue teorie analizzano alcune supposte anomalie riscontrate sulle foto diffuse dalla NASA. Un libro più volte annunciato dall’ente spaziale per rispondere a questi interrogativi e commissionato a Jim Oberg, esperto in questioni aerospaziali, non è mai stato pubblicato, secondo alcuni esperti per evitare di dare credibilità alle teorie critiche sull’allunaggio, anche se le ragioni reali non furono mai rese pubbliche http://news.bbc.co.uk/2/hi/science/nature/2424927.stm.
Nel 2017 è uscito American Moon, un controverso documentario che con fonti, pareri di fotografi professionisti di fama internazionale ed attingendo dalla letteratura scientifica legata all’astronomia e all’astrofisica, accosta l’allunaggio ad una “false flag” circoscritta alla Guerra Fredda. American Moon non ha ancora avuto nessuna smentita scientifica. https://www.youtube.com/watch?v=IOVK1gAvo8A

(2) Purtroppo questi principi sono spesso messi in discussione dalla follia di coloro che rivendicano la facoltà di vendere diritti di proprietà sulla Luna e su altri corpi celesti, ma questa rivendicazione non è mai stata verificata fortunatamente in nessuna aula di tribunale.

(3) Inaugurata da Galileo, la selenografia venne definendosi come una nuova scienza rigorosa grazie al contributo di numerosi ricercatori che ne fissarono progressivamente lo statuto. Alla fine del Seicento, le mappe lunari presentavano un aspetto che non sfigura troppo rispetto alle moderne fotografie del volto della Luna. Man mano che la sua morfologia veniva definendosi, gli astronomi si impegnarono nello sforzo di introdurre una nomenclatura omogenea, che consentisse di identificare le molteplici caratteristiche geografiche della Luna.

Fonti:

Questo articolo è uscito con altro titolo su Pressenza del 5 febbraio 2025

Per leggere gli articoli di Lorenzo Poli pubblicati su Periscopio clicca sul nome dell’autore

A volte scrivono bei romanzi … Vittorio Sandri, un autore nato a Ferrara

A volte scrivono bei romanzi … Vittorio Sandri, un autore nato a Ferrara 

Vive e lavora in Irlanda, come recita la quarta di copertina dell’ultimo libro, ma è nato a Ferrara e a Ferrara torna per ritrovare famiglia e amici. Dal 2022 anche per presentare i suoi libri.

Infatti L’educazione di Giulia è uscito tre anni fa, mentre La profezia dell’Azero è recentissimo essendo uscito nel dicembre 2024.

So pochissimo di lui quando vado a sentire la presentazione di quest’ultimo a fine dicembre, alla Biblioteca Luppi. Poi vengo coinvolta insieme al Prof. Alberto Andreoli nella presentazione di inizio febbraio alla Biblioteca Ariostea e dunque leggo entrambi i suoi romanzi andando in ordine inverso alla loro pubblicazione.

Cerco le recensioni già uscite, trovo quella pubblicata alla fine di maggio del 2022 su questo giornale e ne traggo un utile spunto di riflessione sul significato di quel di Giulia che è nel titolo. Sull’Azero non trovo  commenti in rete, se non nella forma di frasi lapidarie accompagnate da un certo numero di stelline.

Mi piace come Vittorio Sandri scrive. Credo di riconoscere nella sua scrittura alcuni tratti della narrativa italiana contemporanea di buon livello. A partire dall’utilizzo della prima persona, che vuol dire scandaglio interiore, vuol dire narrare esponendosi al lettore in un rapporto io – tu che intriga.

Nell’Educazione Marco è un affermato professionista che vive nella capitale con la bella famiglia. È notte e nella quiete della sua casa lo riafferra un tempo diverso dentro il quale ha vissuto: agli anni ’90 risale la storia d’amore giovanile con Giulia, un amore che è rimasto incistato nel profondo dell’uomo che Marco è ora.

Nella Profezia siamo nei primi anni 2000: è il trentenne Carl a ricordare gli anni che ha vissuto a Berlino, mentre il suo presente è a Parigi: se ne è dovuto andare da Kreuzberg  per non incorrere nella vendetta di una banda di malviventi e ora nella capitale francese vive un presente anonimo, che è rimasto come lo ha abbozzato all’arrivo qualche anno prima e non ha avuto sviluppo. Se non per quell’atto dello scrivere una storia che a Berlino gli è stata raccontata dall’Azero, dentro al suo fumoso locale.

I due protagonisti ripercorrono il proprio vissuto spostandosi su piani temporali sfalsati: non si tratta solo di inserire dei flash back nel corso della narrazione, direi che l’alternanza tra prima e ora è un vero e proprio tratto costitutivo dei due libri e richiede scelte stilistiche diverse e perfino caratteri grafici distinti.

Ai capitoli centrati sul presente si alternano i capitoli incardinati sul passato, scritti in corsivo: l’io del protagonista vi si specchia e unisce il riverbero della persona che è stato all’uomo che è ora. Due fasi dell’io che sono come scatole cinesi: la scatola più grande contiene il presente, in quella immediatamente più piccola c’è un passato che con l’esercizio tenace del ricordo sembra espandersi e premere contro l’involucro esterno.

Quando la fusione avviene, si completa per i protagonisti il loro romanzo di formazione.

L’educazione di Giulia comincia così: in seguito a una telefonata che ha ricevuto nel corso della notte, Marco è in grado di cercare e ritrovare Giulia dopo molti anni. Mentre la notte passa e con la luce del nuovo giorno ha avvio il viaggio per andare da lei, Marco ripercorre gli anni della sua giovinezza e risale fino all’oggi. La storia si conclude con il loro incontro a Milano, ma noi lettori non sappiamo cosa sia accaduto esattamente, non quali parole si siano scambiati.

Marco ne esce pacificato e finalmente capace di mettere a fuoco la propria vita senza specchi che gliela deformino col rimpianto dell’altra possibile vita accanto a Giulia. Quanti anni tuttavia, come accadeva nei riti di iniziazione alla vita adulta, è rimasto nella foresta, in solitudine, a mettersi alla prova? Una formazione atipica, dal momento che ha impiegato qualcosa come trent’anni a spegnere il desiderio verso Giulia e a smettere di sottostimare ciò che è venuto dopo di lei.

D’altro canto Carl trova il suo momento di crescita consapevole attraverso il lento processo della scrittura, raccontando la storia che gli ha rivelato l’Azero e vive la possibile pubblicazione del libro come il riscatto dagli errori del passato e dalla piattezza della vita che conduce a Parigi.

Ha un modesto lavoro in un ristorante,  trascina le sue giornate come un inetto ai margini della bella società parigina.  Anche la sua formazione ha un aspetto originale, in quanto si completa per una imposizione che viene dal contesto esterno più che da una spinta interiore.

Che il libro venga o no pubblicato, che la sua storia d’amore con Erin, troncata ma mai sopita per lui, possa avere uno sbocco sono determinati da una sorta di coalizione tra alcune figure del passato e del presente.

Tuttavia è ancora giovane e la avvenuta formazione pare attrezzarlo come uomo per il futuro che gli resta. Mentre Marco, chiudendo il cerchio rimasto aperto per troppi anni sulla figura così attrattiva, così enigmatica di Giulia, rientra dentro un presente già formato, che gli ha dato sicurezze e abitudini e che ora riesce a vedere in una luce diversa e giusta per lui.

Due romanzi che sanno coinvolgere, il lettore è attratto dall’invito a guardare e a guardarsi dentro, si rende docile ai salti temporali del racconto, si ritrova a cucire tra loro le parti per ottenere l’intero che è il protagonista, mentre lui per primo tira le somme su di sé.

Ecco tornato il gioco di specchi a cui mi fa pensare quella educazione di Giulia col suo senso ancipite: se significa da Giulia verso Marco esprime la lunga convivenza col ricordo di lei a cui lo ha costretto andando a vivere a Milano. Realizza la incapacità di lui, nelle successive scelte di vita, a prescindere dal sapore di quell’amore intenso e finito bruscamente.

Se invece intende l‘educazione che riguarda Giulia, il senso si sposta sulle tante variabili che l’hanno fatta crescere, e tra queste ci può stare la storia con Marco. Giulia ha tratto dalla vita a Milano gli ingredienti della sua maturità, si è fatta adulta lontana da lui e ora, dopo trent’anni, che donna sarà? Vittorio Sandri non dà la risposta, scegliendo un efficace non-detto: sappiamo soltanto che pronuncia il suo nome non appena se lo trova davanti.

Nota bibliografica:

  • Vittorio Sandri, L’educazione di Giulia, Faust Edizioni, 2022
  • Vittorio Sandri, La profezia dell’Azero, Edizioni Efesto, 2024

La cover ritrae Vittorio Sandri accanto ad Anna Lodi Sansonetti, sua docente di materie letterarie al Liceo Ariosto, e con Roberta Barbieri

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Crimini e le vittime del colonialismo italiano: una storia tutta da raccontare a partire da Yekatit 12 የካቲት ፲፪

Crimini e  vittime del colonialismo italiano: una storia tutta da raccontare a partire da Yekatit 12 የካቲት ፲፪

Questo vale in particolare per il caso italiano, per l’epoca fascista e la sua lunga coda, nonché per gli efferati crimini compiuti in Africa e a oggi ampiamente negati, sminuiti, tenuti lontani dai percorsi scolastici e collettivamente rimossi sul suolo europeo. Mentre su quest’ultimo i nazionalismi crescono in maniera esponenziale, il Governo italiano si affanna nel tentativo di costruire e alimentare il proprio rispolverando le antiche pratiche di vanagloria nazionalpopolare da testare altrove.

Tra questo, rientrano nello schema, per esempio, quelle che passano dalla sperimentazione di pratiche al di là di qualsiasi razionalità usando l’Albania come unico e – si spera – ultimo avamposto nel quale rilanciare le pratiche coloniali del presente associate all’esternalizzazione e alla seduzione dei club di potere esclusivi ed escludenti, come quelli delle élite occidentali assetate di controllo di frontiere ma al tempo stesso a caccia tacita di manodopera a basso costo e senza tutele da tutte le latitudini dei quali lo stesso Governo italiano ambisce ad autoproclamarsi quale portavoce nel tentativo disperato di guadagnare una referenzialità mai realmente detenuta.

Nel frattempo, il mese di febbraio già da diversi anni rappresenta il culmine delle iniziative dedicate alle vittime del colonialismo italiano e al recupero della memoria dei crimini perpetrati dal regime fascista con il consenso e finanche l’orgoglio di gran parte della popolazione dell’epoca.

Anche quest’anno, le associazioni, i movimenti, i gruppi di attivisti e singoli accademici, cosi come le università e le biblioteche che fanno riferimento alla rete “Yekatit 12 -19 febbraio” hanno costruito una programmazione intensa e diversificata di iniziative finalizzate a promuovere la conoscenza e consapevolezza del passato affinché anche in Italia la memoria del colonialismo e dei crimini perpetrati dal Regno d’Italia, in particolare nel corno d’Africa, possa essere accessibile e al centro di un lavoro di decostruzione della retorica fascista e del mito degli “Italiani brava gente”.

Quest’ultimo risulta, infatti, ancora fortemente radicato persino in altre lingue europee e nei relativi immaginari che associano un ruolo mistificato di benevolenza ai criminali di guerra responsabili di atroci massacri e persino di uno dei primi genocidi perpetrati e riconosciuti come tali nella storia contemporanea ovvero il “genocidio in Libia”, noto in Libia con il termine ‘Shar’ (in Arabo: شر o ‘diavolo’), ovvero lo sterminio sistematico della popolazione araba e della cultura libica, nel quale si stima l’uccisione di un numero compreso tra 20.000 and 100.000 persone da parte delle autorità coloniali italiane che rispondevano al regime fascista di Benito Mussolini e la deportazione di circa la metà della popolazione della Cirenaica in campi di concentramento.

Se nel dibattito pubblico l’immaginario coloniale è stato relegato nell’oblio fin dal secondo dopoguerra e solo negli ultimi decenni la storiografia ha iniziato a riscoprirlo, le città italiane conservano tracce evidenti di quel passato che tra statue, targhe, monumenti, e soprattutto nomi di vie e interi quartieri rimuove quei crimini nell’alterazione o nella totale assenza di didascalie.

Un esempio emblematico è il quartiere che si sviluppo ai lati di corso Trieste del II Municipio di Roma, noto come “Africano”, non per la particolare composizione multiculturale di richiamo continentale, bensì per i 49 condomini legati alla geografia coloniale, trasformando la toponomastica in stimolo narrativo e ricordando l’urgente necessità di risemantizzazione collettiva, nella capitale così come altrove.

Similmente, la zona di Bologna denominata “Cirenaica” nel quartiere San Donato-San Vitale ricorda la deportazione di centomila civili dalla regione nord-orientale della Libia nei primi campi di concentramento moderni, presi a modello per la costruzione di quelli nazisti.

A Parma, la stazione ferroviaria, una statua di Vittorio Bottego, a capo dell’occupazione di Asmara e di altre pagine nere del colonialismo italiano ma passato alla storia come “eroe esploratore” proveniente dalla provincia, è posta ancora fieramente e in bella vista all’uscita della stazione ferroviaria con tanto di presunti indigeni prostrati ai suoi piedi.

A Modena, nella centralissima piazza Giacomo Matteotti, una targa celebra Guglielmo Ciro Nasi, comandante delle truppe coloniali, nonostante il suo nome figuri nella lista dei criminali di guerra denunciati dall’Etiopia alle Nazioni Unite e siano state presentate numerose petizioni per chiederne la rimozione.

Negli ultimi anni, le passeggiate decoloniali, organizzate da numerose associazioni e gruppi di artisti e anche da accademici stanno registrando un crescente interesse e ampia partecipazione, segno del bisogno di approfondire le capacità e gli strumenti per la lettura critica di interi quartieri che portano ancora segni visibili delle colonie e dei crimini connessi alle operazioni di conquista e di repressione che in alcuni casi, come per esempio in quello somalo, sono sopravvissute persino alla caduta del fascismo e si sono protratte fino agli anni Sessanta del secolo scorso.

Tra i simboli e i luoghi di glorificazione di alcuni degli autori e dei responsabili dei più efferati crimini del colonialismo italiano, mai stati processati per tali fatti, come Rodolfo Graziani, noto come “macellaio del Fezzan” o “il macellaio di Addis Abeba”, in onore del quale la Regione Lazio ha eretto un mausoleo ad Affile, Pietro Badoglio il cui comune natale, Grazzano Monferrato nel Basso Monferrato Astigiano in Piemonte, è stato rinominato “Grazzano Badoglio” nel 1938, toponimo finora mai cambiato e il cui municipio ostenta ancora, anche nella comunicazione istituzionale, l’effigie del “maresciallo d’Italia”, promuovendo la visita del Museo storico badogliano allestito nella casa in cui lo stesso maresciallo fascista aveva iniziato prima della sua morte a esporre cimeli provenienti dalle campagne militari, spiccano anche monumenti apparentemente poco visibili come quello ai Caduti di Dogali nei pressi della Stazione Termini di Roma.

Si tratta di una colonna realizzata prendendo in prestito un obelisco egizio eretto a Heliopolis da Ramsete II nel XIII secolo a.C. e trasportato a Roma nel I secolo d.C. che dopo essere stata sottratto alla valorizzazione (o, ancor meglio, alla restituzione) della quale avrebbe potuto godere essendo stato ritrovato nel 1883 nei pressi della chiesa di Santa Maria sopra Minerva è stata incorporata nella composizione del primo monumento eretto a Roma nel momento in cui divenne capitale del Regno di Italia dedicato a 500 soldati caduti nella piana di Massaua in Eritrea durante la Battaglia di Dogali.

Nel corso degli ultimi anni è diventato un luogo di ritrovo e di denuncia collettiva proprio in occasione di “የካቲት ፲፪ Yekatit 12”, che nel calendario copto ed etiope corrisponde al 19 febbraio, ovvero all’anniversario della strage di Addis Abeba compiuta tra il 19 e il 21 febbraio 1937 per mano di civili italiani, militari del Regio Esercito e squadre fasciste contro civili le cui stime più recenti fanno riferimento ad almeno 20.000 vittime.

Le commemorazioni organizzate negli ultimi anni sotto l’obelisco sono state ispirate dalle necessità di estendere il ricordo delle 500 vittime di Dogali alle oltre 500.000 (stimate per difetto) vittime del colonialismo, del fascismo e dell’imperialismo italiano in Eritrea, Etiopia, Libia e Somalia e rinominare piazza dei Cinquecento in “Piazza delle Cinquecentomila vittime del colonialismo italiano in Africa”, per riprendere il filo della proposta di legge dal 2006, ripresentata poi nel 2023, anziché continuare a glorificare la segregazione imposta dal fascismo italiano in particolare nel Corno d’Africa che fu poi il modello delle leggi razziali del 1938 e dei campi di concentramento nazisti.

Oltre a Dogali (1887), alla strage di Adua (1896), all’utilizzo dei gas chimici (tra cui l’iprite, in violazione delle convenzioni internazionali) in Etiopia (1935-1936) alla strage di Debre Libanos (1937), alle operazioni di sterminio contro le popolazioni Oromo e Amhara, e alla repressione della rivolta del Wadi al-Shati (1930), Yekatit 12 è considerato uno dei crimini più violenti del colonialismo italiano, parte di un passato imperialista che è stato costantemente arginato, fino a essere quasi totalmente rimosso, nel dibattito pubblico in lingua italiana, nei testi scolastici e persino nelle voci enciclopediche.

La scelta del mese di febbraio, e in particolare quella della giornata del 19 febbraio, richiama quella che è tuttora giornata di lutto nazionale in Etiopia oltre a essere anche il nome della piazza di Addis Abeba dove un obelisco ricorda l’eccidio, e oggi è anche il nome della rete Yekatit 12 – 19 febbraio, costituita da decine di soggetti e associazioni impegnate contro la rimozione dalla memoria del colonialismo italiano e dei suoi crimini, con uno sguardo anche al razzismo contemporaneo, soprattutto quello istituzionale, alla xenofobia e discriminazioni multiple nei confronti delle persone afrodiscendenti.

Oltre alla proposta di estendere il ricordo dei morti di Dogali a tutte le vittime del colonialismo italiano nei paesi del continente africano, in particolare in Etiopia e in Eritrea, le organizzazioni della società civile, in particolare quelle che fanno riferimento alla rete Yekatit 12 – 19 febbraio, hanno organizzato numerose iniziative per tutto il mese di febbraio, in luoghi diversi che vanno dalla biblioteca “Guglielmo Marconi” di Roma, alla Libreria GRIOT, alla Scuola di giornalismo “Lelio Basso” fino alle aule consiliari e agli Istituti per la Memoria e per la Storia di numerosi comuni italiani, che oltre alle passeggiate decoloniali stanno ospitando anche tavole rotonde, presentazioni di libri, esposizioni, concerti e proiezioni, tra cui quella del documentario Pagine nascoste di Sabrina Varani promossa dal Comune di Ravenna nell’ambito del Festival delle Culture 2025.

Sin dal 2023, la stessa rete Yekatit 12 – 19 febbraio sostiene, inoltre, la presentazione di una nuova proposta di legge per l’istituzione del “Giorno della Memoria per le vittime del colonialismo italiano”, dopo un precedente tentativo rimasto in giacenza sin dal  dal 2006, che vede questa volta quale prima firmataria l’Onorevole Laura Boldrini e chiede che Repubblica italiana di riconoscere il giorno 19 febbraio, data di inizio dell’eccidio della popolazione civile di Addis Abeba compiuto nel 1937, come un giorno di commemorazione pubblica istituzionale dedicato a tutte «le vittime del colonialismo italiano» in Africa.

La proposta, che non ha ancora avuto un seguito concreto, è stata sostenuta anche da diversi Consigli comunali come quello del Comune di Torino che, con la mozione del 2024, aveva chiesto alla Giunta di fare appello al Parlamento italiano affinché approvasse tale proposta di legge.

Le commemorazioni in corso e gli sforzi volti all’approvazione della proposta di legge, al di là dell’intento celebrativo, mirano a sensibilizzare in maniera concreta l’opinione pubblica sui crimini coloniali italiani e a promuovere una riflessione collettiva sulle derive discriminatorie e xenofobe che formano ancora parte integrante della società e della politica italiana, nonostante gli atti di rimozione e di minimizzazione.

In tale ottica, le iniziative organizzate in occasione del 19 febbraio o የካቲት ፲፪ Yekatit 12, rappresentano anche un momento significativo di Aufarbeitung, ovvero atto di «elaborazione» del passato ancora respinto dalla memoria ufficiale e dalla presa di coscienza collettiva della popolazione.

Il concetto di «elaborazione» – che riprendo dai testi di Paolo Jedlowski sulla memoria storica – si riferisce in questo contesto a una modalità del ricordo che sostituisce ai processi di oblio (che tendono a scartare tutto ciò che è problematico o inquietante) e ai meccanismi deliberati della volontà politica il confronto consapevole con ciò che il passato ha di più difficile a sostenersi, dando luogo così a un processo che può condurre a un’assunzione di responsabilità nei confronti della propria storia, soprattutto quella che si tende a nascondere e a proteggere dal giudizio del presente.

Nota di redazione: i caratteri che vedete sono aramaico, così come li hanno diffusi gli organizzatori delle iniziative.

  • Sul medesimo argomento vedi anche su Periscopio gli articoli di Franco Ferioli;

Il San Paolo di Pasolini: Qui e Ora

Il San Paolo di Pasolini: Qui e Ora

Partiamo dalla fine: l’arrivo a New York dell’apostolo Paolo così come viene descritto da Pier Paolo Pasolini nell’ultima parte del suo abbozzo di sceneggiatura per un film su San Paolo (P.P. Pasolini, San Paolo, Einaudi, Torino, 1977):

Apparizione di New York per mare. Il transatlantico dove è imbarcato Paolo – accompagnato dalle guardie – attracca alla banchina del porto e Paolo scende. Ad attenderlo sulla banchina è una delegazione di Giudei domiciliati a Roma: le strette di mano tra Paolo e loro non sono solo cortesi, ma anche commosse e fraterne. Poi il gruppo si perde tra l’immensa folla del porto”.

Ci si sposta dunque a Manhattan, nel West Side, posto apocalittico e poverissimo. A questo punto, nella sceneggiatura, Pasolini scrive:

Ma con particolare amore la macchina da presa inquadrerà proprio l’alberghetto in cui è alloggiato Paolo: che ha una curiosa e commovente somiglianza con l’alberghetto dove è stato ucciso Martin Luther King. Un poliziotto americano (nero) cammina tranquillo e dolce su e giù per il ballatoio del secondo piano, su cui si affaccia la porta che dà all’appartamento di Paolo”.

La sceneggiatura poi continua con la descrizione, in successione, del discorso di Paolo davanti ai Giudei (praticamente la Lettera agli Ebrei), della deposizione davanti al tribunale, del ritorno a Roma e ancora dell’ultimo viaggio a New York dove Paolo prende alloggio in un altro alberghetto che “… assomiglia straordinariamente a quello della prima volta; solo che stavolta è assolutamente identico a quello dove è stato assassinato Martin Luther King”.

Qui, nello stesso luogo ed alla stessa maniera di Martin Luther King, il Paolo di Pasolini verrà ucciso.

Così si conclude la sceneggiatura di quel film (mai girato) che nell’intenzione dell’autore avrebbe dovuto completare il percorso iniziato con Il Vangelo secondo Matteo (1964) ma che, soprattutto, avrebbe dovuto rappresentare il clima storico-politico degli anni ‘70 del Novecento, nel quale maturarono le riflessioni, le visioni e le… profezie di Pasolini costantemente attraversate da una certa idea di “sacro”.

Per effetto della sua identificazione con l’apostolo Paolo, nella sceneggiatura sembra aleggiare una tragica premonizione. Pasolini, credendo che fosse finalmente giunto il momento della realizzazione del film, nel 1974, riprese e modificò la sceneggiatura iniziale. L’anno dopo, come si sa, verrà ucciso in circostanze simili a una scena descritta minuziosamente proprio nell’abbozzo di sceneggiatura.

L’intera vicenda di Paolo viene trasposta ai nostri giorni per costringere lo spettatore, dice Pasolini, a pensare che “…San Paolo è qui, oggi, tra noi e che lo è quasi fisicamente e materialmente. Che è alla nostra società che egli si rivolge; è la nostra società che egli piange e ama, minaccia e perdona, aggredisce e teneramente abbraccia”.

È per questo che le capitali del mondo antico, centri indiscussi di potere, cultura e ricchezza, vengono sostituite con le odierne capitali. L’antica Gerusalemme, ad esempio, inizialmente identificata con la Parigi negli anni della Seconda Guerra Mondiale, nella revisione del 1974 viene sostituita con Roma e pertanto il Vaticano diventa il palazzo del Gran Sacerdote di Gerusalemme.

Il film si sarebbe dovuto strutturare in quattro momenti importanti della vita del protagonista: la morte di Stefano, cioè del primo martire cristiano, avvenuta proprio per opera di Paolo; la conversione sulla via di Damasco e, per finire, la predicazione e il martirio.

Pasolini con questo film intendeva raccontare l’evangelizzazione dell’apostolo dei Gentili nel modo più fedele possibile, cioè utilizzando proprio le sue parole calate nella contemporaneità. L’Italia di quegli anni era caratterizzata da un conformismo incarnato in due ben precisi aspetti; il primo religioso ipocrita e convenzionale e il secondo laico liberale e materialista: qui l’analogia con i Giudei e i Gentili dell’epoca dell’apostolo è del tutto evidente.

E dunque non poteva essere certo Roma, la capitale del colonialismo e dell’imperialismo moderno, ma appunto New York con Washington, la cui società replicava gli stessi elementi che diedero potenza alla capitale dell’Impero Romano (e per inciso  questo è ancora più vero oggi con la “restaurazione imperiale” a cui stiamo assistendo, dove la spartizione del mondo è sempre e solo un affare di poche potenze).

Proprio per evidenziare l’attualità di questi problemi, Pasolini lascia parlare i suoi personaggi con un linguaggio tipico della sua contemporaneità (che è lo stesso, praticamente anche oggi seppure più diffuso, capillarmente e velocemente, attraverso i social). Così le domande che gli evangelizzatori pongono all’apostolo o le critiche degli intellettuali borghesi  sono del seguente tenore:

C’è qualcosa che non va dentro di lui: qualcosa di orribile. Ammazzava lui stesso i prigionieri, quand’era nazista. Cose così non si cancellano più da una vita, ne sono una componente. E, infatti continua a essere fanatico. Il suo moralismo è atroce…”

Le parole di San Paolo sono al contrario esclusivamente religiose, formulate cioè con quello stesso linguaggio universale giunto fino a noi attraverso le sue Lettere. Grazie a questo espediente Pasolini era sicuro di far risaltare la profonda tematica del film e cioè la contrapposizione fra attualità e santità , cioè tra “…il mondo della storia, che tende, nel suo eccesso di presenza e di urgenza, a sfuggire quel mistero…”, il sacro, limitandosi a relegarlo nell’astrattezza e nel puro interrogativo, e “… il mondo del divino che, nella sua religiosa astrattezza, al contrario…” opera concretamente.

Proprio in una scena del San Paolo, come si è detto, Pasolini sembra presagire la sua fine: l’invenzione poetica pare precedere la realtà; la letteratura anticipare con eventi simbolici, ciò che accadrà realmente.

Nella scena San Paolo tiene un discorso nella periferia di Roma; intorno a lui si assiepano gli ascoltatori che sono usciti “…da quei caseggiati incolori, scrostati e immensi che dentellano l’orizzonte. Qui c’è un ciglio di erba tisica; un ponte; un immondezzaio; uno sterro desolato…”. Mentre l’apostolo parla un gruppo di teppisti lo assale e assistiamo a un “…pestaggio freddo e macabro, da cui è dissociato ogni sentimento umano”.

La descrizione è vivida: il suo corpo resta inerte a terra con “… il volto ricoperto di sangue e polvere…”, scrive Pasolini, “…insopportabile alla vista e irriconoscibile”. Pasolini è morto così.

Ancora oggi quelle e queste parole risuonano forti; le parole di un poeta che ripete amplificandole (se fosse possibile) le parole di un apostolo.

Ma quanti ancora sentono le parole e quanti davvero le ascoltano le parole come quelle di Paolo VI che convinsero Pasolini, in quegli anni ’70 del Novecento, ad abbozzare la sceneggiatura per un film sull’apostolo Paolo?

In un’intervista del 1974 sui motivi della realizzazione del film Pasolini infatti risponde così:

Lo faccio… proprio perché il Papa Paolo ha fatto un discorso di contrizione terribile […] Dice chiaramente che ormai la società non ha più bisogno della Chiesa , la società provvede da se stessa ai suoi bisogni; e quindi dove interviene la Chiesa? Quali sono gli interventi che la Chiesa può fare in favore di qualcuno? […] La conclusione, poi, è misera: cioè, come ovviare a tutto questo? Pregando. E va bene, ma chi prega se la situazione si è messa in modo tale che nessuno prega più?

Allora quello che mi fa rabbia è questo: ora che il potere… la esclude con tanto cinismo dopo essersi appoggiato su di lei per un secolo… la Chiesa dovrebbe cambiare radicalmente politica e passare decisamente all’opposizione…perché l’opposizione al nuovo potere non può che essere anche di carattere religioso… Una “sacra” opposizione, nonostantela mancanza di senso di sacro dei miei contemporanei”.

Ed è ancora tutto qui e ora il rovello di Pasolini tra attualità e santità ben racchiuso in queste taglienti e, ancora una volta, profetiche parole di uno degli apostoli durante la predicazione di Paolo a Parigi:

il nostro è un movimento organizzato… Partito. Chiesa…”- chiamatelo come volete – “Si sono stabilite delle istituzioni anche fra noi, che contro le istituzioni abbiamo lottato e lottiamo. L’opposizione è un limbo. Ma in questo limbo già si prefigurano le norme che faranno della nostra opposizione una forza che prende il potere: e come tale [dovrebbe] essere un bene di tutti. Dobbiamo difendere questo futuro bene di tutti, accettando, sì, anche di essere diplomatici, abili, ufficiali.

Accettando di tacere su cose che si dovrebbero dire, di non fare cose che si dovrebbero fare, o di fare cose che non si dovrebbero fare. Non dire, accennare, alludere. Essere furbi. Essere ipocriti. Fingere di non vedere le vecchie abitudini che risorgono in noi e nei nostri seguaci – il vecchio ineliminabile uomo, meschino, mediocre, rassegnato al meno peggio, bisognoso di affermazioni e di convinzioni rassicuranti. Perché noi non siamo una redenzione, ma una promessa di redenzione…”.

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referendum

Si avvicinano i Referendum: i fuori sede vogliono votare

Si avvicinano i Referendum: i fuori sede vogliono votare

Redazione di Collettiva
pubblicato il 22 febbraio 2025

 

 

 

“L’unica cosa che manca realmente – aggiungono – è la volontà politica di garantire il diritto costituzionale a 5 milioni di italiani, casualmente in concomitanza dei referendum di questa primavera. Per questo, oggi eravamo in piazza a manifestare la nostra posizione” dichiara Anna Tesi, delegata al voto fuori sede per l’Unione degli universitari.

“Oltre a Malta, siamo l’unico paese di tutta l’Unione Europea a non dotarsi di una legge per il voto fuori sede: è inaccettabile oltre che ridicolo essere fanalino di coda anche in questa tematica, quando basterebbe guardare come funziona in tutti gli altri paesi per colmare questa lacuna gravissima. Vogliamo una legge per tutti i 5 milioni di cittadini fuori sede, studenti e lavoratori.” dichiara Paolo Notarnicola, coordinatore della Rete degli studenti medi.

Il ministro ha dichiarato i risultati della sperimentazione delle scorse europee non soddisfacenti. Ma la soluzione per gli studenti non fermare tutto, bensì cercare di “capire cosa è andato storto. Se il governo si ritiene realmente impegnato nel contrasto all’astensionismo, come dichiarato, è inaccettabile fare passi indietro, abbiano l’umiltà di sedersi ad un tavolo con le parti sociali e ascoltare tutte le criticità della scorsa sperimentazione”.

D’altra parte la sperimentazione messa in piedi dal ministero per le scorse europee “faceva acqua da tutte le parti: ad essere considerati fuori sede erano soltanto gli studenti fuori regione, i tempi per fare richiesta erano molto ristretti e mancava uniformità tra i comuni nel rilascio dell’attestazione di ammissione al voto. Sono molte infatti le testimonianze di studenti che non hanno mai ricevuto l’attestazione nonostante ne abbiano fatto richiesta”, concludono gli studenti.

 

Trump e i BRICS verso il Novus Ordo: e l’Europa resta fuori 

Trump e i BRICS verso il Novus Ordo: e l’Europa resta fuori 

L’avvio dei negoziati sull’Ucraina tra Stati Uniti e Russia (da soli, senza Europa e Ucraina) e le dichiarazioni di Trump e dei suoi collaboratori hanno gettato nel panico tutta l’élite europea che si è trovata di colpo del tutto spiazzata da un “principe” protettore che la esclude; e si ritrova così nuda, un mero mercato senza potere politico, auto illusa e dissanguata (ha speso più degli americani, 135 miliardi vs. 114) da una guerra che pensava di vincere contro la Russia.
Il nuovo segretario di Stato americano Marco Rubio ha dichiarato che l’ordine mondiale uscito dalla 2^ guerra mondiale è “ormai obsoleto e dopo 80 anni di dopoguerra la convivenza internazionale merita una nuova architettura politica…il sistema democratico in cui viviamo è ormai un’arma contro di noi (gli USA)”.

Se consideriamo poi le principali dichiarazioni fatte da Trump su Canada, Groenlandia, Panama, Gaza, la stessa Ucraina (“tra anni potrebbe essere russa”) e del suo vice Vance alla conferenza di Monaco, e come Trump sta procedendo alla chiusura della guerra in Ucraina e a quella tra Israele ed Hamas a Gaza, appare chiaro che gli Stati Uniti intendono realizzare un grande cambiamento nel mondo da cui trarre nuovi vantaggi, a costo di dare spazio a Cina e Russia; cosa che non volevano assolutamente Biden e la stessa Europa che hanno coltivato per 25 anni una strategia neocon di allargamento ad est della Nato, convinti che ciò avrebbe portato, prima o poi, all’implosione della Russia. Questa strategia è stata imposta all’Europa, autoconvintasi che il prezzo che pagavano i paesi del Sud Europa (Italia, Spagna, Grecia, Portogallo) per la rinascita di quelli dell’Est (Polonia, etc.) avrebbe nel lungo periodo pagato. La Polonia e gli altri ad est sono cresciuti in modo impressionante, se si pensa il reddito reale dei polacchi è cresciuto di 8 volte dal 1991 al 2023. E ciò spiega l’americanismo dei tutti i paesi dell’est che hanno sempre contrastato il dialogo tedesco-russo dell’epoca Merkel, riarmandosi in modo impressionante: dal 2000 al 2020 la Polonia passa da 5,7 miliardi a 27 (a valori costanti) e l’Ucraina da 1,7 a 7,4 miliardi (per memoria: l’ Italia non cresce ed è ferma a 33 miliardi). Ciò che colpisce è il “suicidio” della Germania, che sapeva che senza un dialogo commerciale con Russia e Cina avrebbe subito un danno enorme: la sua produzione manifatturiera è infatti crollata, dal 2019 al 2024, del 10,4% (al confronto: Italia -4,7%, Francia -4,8%).
Ora, la nuova amministrazione americana considera quel tipo di politica come un capitolo chiuso.

Fine del mondo bipolare

Finisce così anche l’idea di un mondo governato solo dagli USA dopo la dissoluzione dell’URSS. Troppo forti sono oggi i veri competitor: Cina, Russia e Brics. Anche la globalizzazione spinta finisce in soffitta in quanto ha portato profitti enormi alle fasce ricche del pianeta (e alle multinazionali americane) ma ha anche distrutto la manifattura americana, mandando alle stelle sia il deficit commerciale che il debito pubblico USA. Il deficit commerciale Usa è 980 miliardi di dollari nel 2024 (295 con Cina, 172 con Messico, 123 con Vietnam, 87 con Irlanda, 85 con Germania, 74 con Taiwan, 68 con Giappone, poi seguono altri 4 paesi e al 12° posto c’è Italia con 44 miliardi, fonte Bea).

Jeffrey Sachs, economista alla Columbia University, uno dei principali consiglieri economici del Papa, lo dice senza giri di parole: “Trump ha rotto con la tradizione neoconservatrice USA incentrata dagli anni ’90 sull’espansione ad est della Nato, che è la principale preoccupazione della Russia, e ciò consente un ripristino di normali relazioni tra USA e Russia…ed arrivare alla pace in Ucraina…L’Europa si è tagliata fuori da sola, rifiutando la diplomazia e schierandosi sulla linea neocon ha gettato al vento la storia delle relazioni diplomatiche tra Russia ed Europa…la quale dovrebbe riallacciare rapporti con Mosca”.

Il passato americano degli ultimi 40 anni è una sfilza di gravi errori (altro che “fine della storia”): invasione del Vietnam, dell’Iraq, bombardamento su Belgrado e Kosovo, intervento in Libia, cambio di regime in Libia e Ucraina, crescita gigantesca delle spese militari (+62% dal 2000 al 2023, fonte Sipri, da 543 a 880 miliardi a valori costanti), globalizzazione spinta dal 1999 che produrrà non solo la crisi finanziaria 2007-2008 ma l’esplosione del debito pubblico USA (121% sul Pil e +6,3% nel solo 2024) e l’attuale gigantesco deficit commerciale dovuto alla delocalizzazione di gran parte della manifattura americana che oggi importa merci prodotte da aziende americane delocalizzate in Cina, Vietnam, Messico, Irlanda, …

L’allargamento ad est della Nato in Europa, voluto dai neocon americani, dagli inglesi e da alcuni paesi europei (e purtroppo accolto dall’élite europea) si è infine tradotto in guerra aperta con la Russia, finita così nelle braccia della Cina, la quale si è, in questi ultimi anni, ulteriormente rafforzata (proprio per via della guerra in Ucraina) nelle aree dell’Asia centrale, come ha rivelato un documento russo pubblicato dal Financial Times intitolato “La perdita di posizioni in Asia centrale della Russia a favore della Cina”.
Nel frattempo la Cina ha costruito un formidabile e sempre più ampio fronte di opposizione mondiale (BRICS) agli Stati Uniti, che punta nel medio periodo ad erodere il potere del dollaro, reso più fragile
dall’enorme crescita del suo debito pubblico e dal più grande disavanzo commerciale al mondo.
Per non parlare della disgregazione interna della società americana, oggi divisa come non mai, con
lavoratori senza incrementi di salario reale negli ultimi 40 anni, un calo della speranza di vita  – caso unico al mondo tra i paesi avanzati – e disuguaglianze spaventose “per cui nel 1980 un operaio guadagnava un sessantesimo del loro padrone e oggi 60mila volte meno” (Abhijit Banerjee, premio Nobel 2019 indo-americano).

Tutti questi fenomeni sono stati celati dalla narrazione della crescita del PIL americano, che ancora oggi molti analisti prendono come indicatore di sviluppo umano: invece si tratta di un vecchio arnese, inventato in tempo di guerra per calcolare la produzione e che dice pochissimo della realtà profonda di un paese. Lo hanno scoperto a loro spese gli ucraini, mandati al macello dai paesi europei più oltranzisti e dal Regno Unito (più ancora che dagli americani), che credevano di vincere una guerra contro la Russia, in quanto gli era stato raccontato che l’Occidente aveva un Pil trenta volte superiore e che la Russia aveva una debolissima economia.
Ora però, come afferma Xi Jinping, “l’Asia sta crescendo e l’Occidente sta calando” sia come forza
economica che sociale. Trump, da uomo d’affari, ne prende atto, decidendo di “governare il mondo” nel XXI secolo non più da solo (troppo costoso, troppi potenziali conflitti) ma trovando accordi con chi conta nel mondo sulla base di quelli che sono i principali parametri del potere:

-Sovranità

-Forza economica

-Forza militare

-Finanza

-Materie prime

che tradotto in nazioni significa:

Cina, Russia, Arabia Saudita, India.

L’Europa: un mero mercato

In questo elenco non c’è l’Europa, perché non è uno Stato sovrano ma un mero mercato, con meccanismi di potere e decisione interni farraginosi e autobloccanti.
L’obiettivo di Trump è trarre il massimo vantaggio per gli Stati Uniti dalla nuova situazione reale, giocando su più tavoli e in cambio della cessione anche di “sfere di influenza politica” ai competitor (Russia, Cina, Arabia). Per i vassalli senza potere (Europa, Canada,…) ci sono solo oneri.

Siamo lontani da un mondo ideale in cui c’è fratellanza senza potere, ma è anche vero che è sempre stato
così e non possiamo nasconderci come Occidente che abbiamo governato il mondo fino ad oggi (dal
1492) e che in ballo non c’è la “democrazia”, ma il nostro tenore di vita e quello degli altri, che lo
reclamano. Sul biglietto da un dollaro americano campeggia, onde evitare equivoci, la piramide del potere con l’occhio che tutto controlla e la scritta “Novus ordo seclorum”. Quell’ordo sta cambiando.

Con Trump, la Russia potrebbe avere un ruolo maggiore nell’euro-asia, la Cina nell’indo-pacifico, con incursioni americane nelle altre due aree. La Groenlandia potrebbe ricevere l’appoggio degli Usa in modo da svolgere un ruolo con Russia e Cina nella nuova rotta artica, che prevede 23 giorni anziché 44 (passando per il canale di Suez) per le merci cinesi dirette in Europa. A Panama Trump vuole togliere ai cinesi di Hutchinson Holdings il controllo dei porti ai due estremi del canale e garantire un transito gratuito alle navi Usa. Gaza potrebbe essere ristrutturata dai paesi arabi (dove l’Arabia Saudita cerca un porto) incaricando gli arabi di trovare una soluzione ai palestinesi, in cambio della pace con Israele. In Ucraina acquisire gran parte delle terre rare (come ha già proposto a Zelenskij il segretario del tesoro USA) lasciando oneri e cocci della ricostruzione agli europei.

In questo contesto chi ci perde sono i vassalli. In primis l’Europa, che in 25 anni non è riuscita a costruirsi come Stato sovrano (federale), gettando alle ortiche l’enorme ruolo che avrebbe potuto svolgere nel mondo se lo fosse diventata, anziché sprecare le proprie risorse nell’allargarsi verso Est (provocando la Russia) e diluendosi in un condominio a 27 dove basta un voto contrario per bloccare tutto.
Lucio Caracciolo, intervistato su Il Fatto, prevede un futuro infausto per l’Europa che verrà.Per motivi che non riesco a spiegarmi, l’Ucraina si è affidata alle promesse europee e americane pensando di poter entrare nella NATO e conservare territori ingaggiando una guerra di lunga durata. Un’operazione di dissanguamento in vista di obiettivi che non si potevano raggiungere. Questo spiega la crisi dell’autorità politica di Zelensky, così come il rifiuto dei giovani ucraini di andare al fronte e la massiccia fuga verso l’estero di milioni di ucraini. Questo è il vero problema: non tanto il 20% di territori perduti, ma l’80% che è in condizioni disperate”. Che alternativa aveva Zelensky? “Firmare l’accordo dell’aprile 2022 sponsorizzato dalla Turchia che avrebbe dato condizioni nettamente migliori di quelle di oggi e risparmiato centinaia di migliaia di morti e feriti e milioni di rifugiati. Ma in quel frangente sono stati soprattutto gli inglesi e alcuni europei, più che gli USA, a spingere gli ucraini a combattere assicurando loro che si sarebbe potuto vincere”.  A questo punto per la UE che strada si apre: quella della disgregazione o una sua rifondazione? “Non credo ad una rifondazione, l’Unione è una fondazione americana, conseguenza della decisione USA di restare in Europa dopo la 2^ guerra mondiale e di organizzarla militarmente tramite la Nato. Ma nel momento in cui ci lasciano noi torneremo a quello che siamo sempre stati, paesi in conflitto, sperando che questo non comporti una guerra tra noi, com’è sempre successo”.

Non c’è dubbio che sia quindi comprensibile lo stato di choc in cui si trova oggi l’élite europea, simile a 27 nani illusi di avere una Biancaneve che li proteggeva, e che si trovano di fronte a maga Circe che li
trasforma in porci (per fortuna dei compagni di Ulisse, non bevve il vino Euriloco che lo avvisò e li salvò. Ma per ora non si vede in Europa alcun Ulisse).

La prima reazione dell’élite che governa l’Europa è quella di un riarmo, escludendo le spese militari dal Patto di stabilità. Da un lato questa decisione mostra quanto sia aleatorio e fasullo il principio del “non fare debito”, perché se ci sono investimenti che non si autofinanziano sono proprio quelli militari; dall’altro, se l’idea era di liberarsi dalla tutela americana, i nuovi investimenti dovrebbero concentrarsi su progetti solo europei, anche per sfruttare i potenziali ritorni dello sviluppo tecnologico militare sulla produzione civile, mentre oggi il 73% delle armi è acquistato fuori UE (e il 63% negli USA) in quanto l’industria europea degli armamenti è poco sviluppata rispetto a quella statunitense e totalmente frammentata. E sarebbe l’ennesimo favore agli Stati Uniti.
Solo uno Stato Europeo Sovrano (federale) può organizzare una difesa comune, ma con questa Unione Europea il riarmo sarebbe inutile, costoso e inefficace.
Per l’Italia, il riarmo significa salire da 33 a 45-50 miliardi all’anno (cioè +12/15 miliardi) da sottrarre ulteriormente a scuola e sanità. Di fatto significa una trasformazione dell’Europa dal welfare al warfare, ma per fare la guerra a chi? Si continua con una logica mercantile di una Europa mero mercato. Nel caso poi di una guerra sarà curioso vedere quali giovani europei e di quali paesi saranno disposti ad andare al fronte e chi guiderà i droni (Starlink di Musk?). Se l’Europa seguirà questa strada non farà altro che accelerare la sua fine.

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