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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


Agnese poteva morire, ma è tornata a vivere
questa è la storia non di una, ma di tante donne

Cronaca di un femminicidio sociale. Questa è la storia non di una, ma di tante donne che, come lei, in un giorno di sole, di candide nubi o di pioggia violenta, hanno visto spegnersi la fiamma della vita di fronte ad un bivio: scegliere di morire o di lasciarsi perire.

Agnese, la chiamiamo così per non renderla riconoscibile tra le pieghe di questo racconto, in un anno come un altro, ma in un giorno di un caldo estivo che sa di mare e di vacanza, riceve una comunicazione: è stata denunciata e non potrà continuare a prendersi cura delle sue due figlie. La sabbia su cui poggia i piedi si fa bollente, il sole troppo forte e il suo momento di quiete in famiglia un inferno che deve lasciare. Con la sua auto accompagna le bambine al loro padre biologico, così come le viene indicato di fare. Cinquecento chilometri per raggiungerlo ed elaborare dentro e fuori l’idea di doversi separare da loro, il ricordo di un passato di abuso di alcol che ritorna presente e che si fa un dolore tanto intenso da trasformarsi in un desiderio di morte. Inizia un viaggio attraverso l’Italia con il pensiero che l’unica possibilità sia scegliere un ponte da cui gettarsi.

È il 14 agosto, un giorno di caldo torrido che sa di inferno, non c’è alcun Servizio aperto a cui potersi rivolgere, nessuna Istituzione a cui porre domande, a cui richiedere informazioni.

Uno spiraglio di luce e di speranza viene dal contatto con una comunità terapeutica che, anni prima, l’aveva accolta e sostenuta nel suo percorso di cura dall’abuso di alcol e dal suo quadro di bulimia, aiutandola a ricostruirsi il suo presente fatto di una quotidianità serena, dedita alla crescita delle due figlie. È con questa realtà che riesce a mettersi in contatto per richiedere aiuto.

Il suo passato da alcolista le resta addosso come una cicatrice. Agnese ha un altro figlio più grande, che complice del padre e da lui probabilmente sedotto, ha testimoniato ai Servizi Sociali dichiarando l’inaffidabilità della madre. Ed ecco che è da qui che giunge la decisione di affidare al padre le bambine, un padre che non si è mai saputo prendere cura di loro. Col tempo si aggiungono dettagli, che pian piano aiutano a delineare un puzzle che rende il quadro della vicenda chiaro e completo, delineandone una complessità la cui unica certezza sembra essere il legame autentico e l’affetto sincero che lega la madre alle sue figlie.

Agnese quello stesso amore non l’ha vissuto per se stessa perché ha alle spalle un’infanzia di abusi, che l’hanno intrappolata da adulta nel circuito della violenza, che è violenza relazionale, sessuale, che la tiene legata in situazioni in cui l’abuso si perpetua in molteplici forme. È sfruttata sul lavoro, non si sente mai all’altezza, la sensazione di inadeguatezza non esce che rafforzata dall’indifferenza della sua famiglia rispetto alla sua storia traumatica, che non conosce accoglienza e cure adeguate.

È una donna con una vita diversa da tante, che si ritrova, per dirla con le parole di Winnicott, a dover cercare con tutta se stessa di dimostrare di essere una “madre sufficientemente buona”. Nel frattempo, anche il contesto circostante la mette a dura prova. Non può lavorare, ma servono un’occupazione, risorse economiche consistenti e una casa per potersi meritare la crescita delle figlie e pagare nel frattempo le consulenze del tecnico d’ufficio richieste dal tribunale. Un’abitazione ce l’ha, l’unica prova che giocherebbe a suo favore, ma lì continua a risiedere abusivamente l’ex compagno, che la costringe alla decisione di venderla.

Accadono intanto altre vicissitudini, che continuano a complicare il quadro. La sua possibilità di essere sostenuta dalla comunità terapeutica che l’aveva accolta in passato, e che ne conosce e accoglie la storia, viene meno perché l’ASL competente sul territorio di sua residenza revoca la retta che le consente di continuare a curarsi in un momento di estrema fragilità e necessità, in cui la gestione delle dinamiche con la Giustizia la mette ancora una volta in grande difficoltà. La famiglia d’origine perpetua anch’essa dinamiche già conosciute e disconosce la sua sofferenza, dunque, la sua patologia da cui essa trae origine.

Nei passaggi di congiunzione tra le tessere di un puzzle intricato il sistema incontra un cortocircuito, che ne rende visibilmente fragile l’impalcatura. Non è un uomo che uccide Agnese, né violento non riconosciuto come tale, né “bravo ragazzo” confuso come tale, così come dai fatti di cronaca siamo soliti sentire le narrazioni dei femminicidi.
La storia di Agnese è quella di un femminicidio sociale, in cui persi tra le trame di riconnessione tra le Istituzioni e nella definizione delle aree e dei confini di competenza, una donna si è trovata di fronte alla scelta di uccidersi o lasciarsi perire, trovando al posto del contenimento e dell’affetto che situazioni come la sua richiedono, un sistema confuso che in una sorta di bystandereffect rimane immobile, incapace di impedire il perpetuarsi dell’abuso.

Oggi Agnese sta meglio, è sfuggita alla morte grazie alla sua forza nel portare avanti un percorso terapeutico reso possibile anche grazie all’impegno da parte della comunità terapeutica che l’ha accolta.
Ha cambiato residenza, trovando cosi altri servizi territoriali che le consentono di proseguire le cure con il pagamento della retta della comunità. Conduce una vita regolare, sana e rispettosa. Ha trovato un’occupazione a tempo indeterminato, dove è molto apprezzata per la sua disponibilità e l’empatia nei confronti delle persone con cui entra in relazione. Ha un’abitazione idonea ad accogliere le sue figlie due volte a settimana. Permane per lei il divieto di accompagnarle in auto.

Questa è la storia non di una, ma di tante donne che, come lei, potrebbero farcela o non farcela a sfuggire a un femminicidio sociale, in cui il finale del racconto non dovrebbe dipendere dall’essere donne dalla forza straordinaria e sovrumana, ma da un funzionamento delle istituzioni che richiede di essere ripensato.

L’ultima ideologia

L’ultima ideologia

Alcuni sostengono che il secolo scorso sia stato il secolo delle ideologie; altri hanno parlato, a fine secolo, della fine delle ideologie. Certo è che esse sono state protagoniste della politica moderna e hanno caratterizzato il conflitto nelle società di massa in tutta l’epoca industriale. Tra queste le varie forme di socialismo (comunismo, socialdemocrazia, etc.) e le varie forme di fascismo (nazionalsocialismo, franchismo, peronismo, etc…).

Per certi versi le forme ideologiche etichettate frettolosamente come “destra” e “sinistra”, sono sorte in occidente nell’ambito e – per certi versi – come reazione al capitalismo e alla teoria politica sul quale esso si fonda, diventata a sua volta ideologia: il liberalismo (nelle sue varie declinazioni). In quanto forma ideologica esso stesso, il liberalismo appunto, si è dimostrato il più aderente al determinismo della modernità con il suo sogno di sottomettere il mondo alla ragione umana: oggi si presenta ancora – o meglio: viene esibito dal pensiero mainstream –  come l’ideologia unica e apparentemente senza rivali che intende, vuole e deve dominare il mondo.

L’ideologia vincente: il liberalismo

Il cosiddetto crollo delle ideologie ha dunque, in realtà, lasciato campo libero ad un’unica ideologia che oggi, in occidente, è talmente pervasiva da essere data non solo per assolutamente scontata ma addirittura coincidente con la realtà fattuale che ognuno sperimenta quotidianamente.

Questa grande ideologia, fortemente radicata nell’economia grazie alla decantata superiorità dei mercati, così come descritta negli ultimi decenni dalla teoria economica neo-liberista forgiata dai Chicago boys,  si è posta dopo il crollo del muro di Berlino e ancora si pone per molti come l’unica via possibile, l’unico approccio “razionale e scientifico”, l’unico baluardo democratico, per garantire il futuro del mondo; una narrazione che non ammetteva e per molti non ammette ancora, alcuna possibile alternativa  (come sosteneva la Thatcher: “there is no alternative”, non ci sono alternative).

La forza e la pervasività di questa ideologia è stata (ed è) tale, da aver penetrato ogni ambito sociale fino alla sua radice antropologica; in questa forma culturale è diventata per molti un habitus, un terreno dal quale sorgono le idee comuni care al mainstream, un flusso che investe l’umanità, apportando cambiamenti che ne mettono in discussione la stessa sua natura.

La società mercato

Tutto ha un prezzo, tutto può essere venduto o scambiato, la società stessa è un mercato fatto di imprese e di una sterminata massa di singoli individui la cui unica virtù è quella di consumare: “la società non esiste, esistono solo gli individui” (è un altro asserto famoso attribuito alla Thatcher).
Non è un caso che – in assenza di ideologie alternative credibili a questa forma di liberalismo – ogni idea contraria che in qualche modo si contrapponga a tale narrazione viene ricondotta rozzamente al fascismo o al comunismo sconfitti (e quindi fatti fuori dalla storia con disonore), quando non immediatamente squalificata, e bollata come complottismo o dietrologia:  in assenza di un’ideologia alternativa manca infatti una cornice alternativa capace di mostrare i “fatti” da una differente e più che lecita prospettiva.

Non è un caso che, con la caduta del muro, Francis Fukuyama ipotizzasse, in un celebre saggio, la “Fine della storia”: titolo forte che altro non significava se non che la fine delle ideologie comportava il trionfo definitivo ed irreversibile delle democrazie liberali (occidentali) ovvero l’instaurarsi a livello globale di una ideologia unica e definitiva. Fukuyama, a onor del vero, metteva anche in risalto – lucidamente – i grandi rischi connessi a questa trasformazione; noi possiamo solo ricordare che, per definizione, ogni ideologia dominante è, e non può essere altro che, l’ideologia della classe dominante.

In estrema sintesi, il liberalismo che ha penetrato la cultura a livello globale può essere (oggi) inteso da un lato, come una dottrina economica-sociale che tende a fare del mercato autoregolato il paradigma di tutti i fatti sociali; dall’altro, una dottrina che si fonda su un antropologia individualista che descrive l’uomo non come essere fondamentalmente sociale ma come essere orientato egoisticamente.
L’applicazione di questi due dettami teorici alla vita politica e sociale è fortemente riduzionista: tende a limitare il politico, riducendolo, di fatto, alle regole di funzionamento dei mercati; tende a limitare il sociale riducendolo alla mera logica dello scambio commerciale.

Spinta alle estreme conseguenze, questa ideologia risolve l’intera società nell’economia che a sua volta cade sotto il dominio pieno della finanza: di fronte a questo mostro impersonale e razionale, sempre più digitalizzato e automatizzato, sta (o dovrebbe stare) il singolo individuo: egoista si, e libero consumatore di tutto, ma ormai sempre più disconnesso dai legami identitari capaci di generare senso e appartenenza,  siano essi la cultura, la storia, la nazionalità, la comunità, la religione, la famiglia o il genere stesso.

Individualismo egoista e diritti umani (astratti)

La dottrina astratta e ideologizzata dei diritti umani (universali) è il necessario corollario dell’individualismo egoista (astratto) su cui si fonda il liberalismo con la sua narrazione dominante: accettato l’uno diventa indispensabile l’altra per garantire un minimo di fiducia in un mondo sempre più incapace di generare identità forti e autodeterminate, mondo iper competitivo (homo homini lupus) regolato dai mercati e gestito attraverso la logica impersonale del diritto e del contratto commerciale.

Onnipresenza del libero mercato e pervasività degli astratti diritti umani universali rappresentano le due facce della stessa medaglia che ben descrive l’essenza dell’ideologia liberalista oggi ancora dominante, seppure in drammatica crisi; l’uno e l’altro sono intesi come astrazioni disincarnate, calcolabili e razionalizzate, ben lontane dalla concreta densità dei rapporti umani vissuti e delle concrete relazioni personali che essi hanno svuotato e sostituito nel corso dello sviluppo della modernità. Un vuoto che le ideologie sconfitte, di destra e di sinistra, avevano riempito con l’idea dell’uomo nuovo, della società giusta, della razza superiore, della tradizione, dei valori eterni, del sol dell’avvenire

Rispetto a tutto questo, le ideologie sconfitte (di destra e di sinistra) conservavano – bene o male – alcuni aspetti di ordine ancora comunitario e comunque sociale:
l’idea di classe, dell’unione tra i lavoratori animati da valori comuni e uno scopo condiviso da un lato (comunismo);
l’idea di una identità storica e culturale tra gli abitanti di un dato territorio dall’altro (fascismo).
Il liberismo ha eliminato completamente l’uno e l’altro proponendo e creando un mondo di individui mobili e non radicati a nulla, ma portatori di diritti astratti e generali.
Un mondo che pretende di essere unico, globale, calcolabile e uniformato dalla fede cieca nel mercato impersonale, nel progresso e nella “scienza”.

Destra e Sinistra, le ideologie sconfitte

Eppure, destra e sinistra – o meglio: persone con ideologie di destra e di sinistra – continuano ad esistere e non mancano di mettere in scena, scontrandosi e accusandosi ferocemente, le loro presunte differenze, i loro conclamati valori. Destra e sinistra attuali che, in qualche modo, sono eredi deboli di quelle ideologie sconfitte e, in Italia, pallide e dubbie prosecuzioni delle due grandi narrazioni che avevano caratterizzato il dopoguerra (quella bianca di impronta cattolica e quella rossa, di matrice comunista) mantengono oggi un loro peso nella distribuzione del potere politico secondo una retorica conflittuale che è pero superficiale e non sostanziale. In altre parole, esse, nel contesto culturale liberalista e liberista, non possono più presentarsi come possibili modalità alternative di organizzazione della società basate su differenti principi.
Le forze politiche (partiti) che si auto-definiscono Destra e Sinistra possono ascendere al potere parlamentare se e solo se accettano a priori l’ideologia liberalista e il dogma economico che ne è corollario; se si piegano, in altre parole, alla narrazione liberista e al potere dei mercati e, dunque, delle élites transnazionali che li gestiscono.

In tale situazione Destra e Sinistra – non potrebbe essere altrimenti –  contribuiscono ad implementare l’agenda liberalista, occidentale, mondialista e globalista sviluppandone alcune componenti essenziali.
La narrazione di destra, mediamente,  sostiene e ha promosso, a parole, il primato del libero mercato, la competizione, il liberismo economico, il merito, il primato delle imprese e del privato sul pubblico, la superiorità culturale occidentale e l’esportazione della democrazia, la famiglia e la tradizione; sostiene al contempo la difesa dei confini e lo stato (nazione) ignorando o facendo finta di non sapere che i mercati, per come si sono sviluppati su scala globale, non accettano confini di sorta.
La narrazione di sinistra, mediamente, sostiene e ha promosso a parole i diritti universali, l’Agenda 2030, la tutela delle minoranze, le libere migrazioni, il diritto di scelta di genere, di inizio e fine vita: così facendo contribuisce alla demolizione di ogni confine e di ogni identità, favorisce la distruzione di ogni legame tradizionale che potrebbe opporsi al libero dispiegarsi del mercato, che può così penetrare in zone sempre più intime dell’umano, con enormi margini di profitto.

A livello globale, se negli anni ’80 era stata la destra a sostenere fortemente l’agenda liberalista con le privatizzazioni forzate, la deregolamentazione, lo smantellamento dello stato sociale e l’esportazione violenta delle democrazie liberali (Con Reagan, Thatcher e quindi i Bush) in nome di una presunta superiorità culturale e morale, in questo particolare periodo storico è la sinistra con le sue istanze culturali ad essere assolutamente funzionale al pieno dispiegarsi dell’ideologia liberalista, mondialista ed economicamente neo-liberista.

Osservate spassionatamente, destra e sinistra (in Italia), appaiono dunque (oggi) come sovrastrutture organizzate per acquisire potere locale, ma incapaci di esprimere una reale alternativa al modello dominante, dal quale dipendono pienamente: entrambe vengono giudicate in base agli indici finanziari ed economici posti da forze esterne che in ogni momento possono attaccarle e travolgerle con un mirato attacco finanziario;  entrambe, più o meno consciamente, stanno sostenendo nei fatti l’ideologia liberalista accettando pienamente i meccanismi e i poteri economici e finanziari che ne stanno a fondamento.
Lo scontro politico  tra destra e sinistra in realtà si gioca tutto nel quadro ideologico e culturale del liberalismo e, in ultima istanza, contribuisce a rafforzarlo.

Una nuova grande narrazione

Ora, non si può non vedere come il Liberismo (e Neoliberismo) – quel modello che Fukuyama vedeva come (probabilmente) definitivo – sia oggi in drammatica crisi.
Restando in Italia, sul versante interno lo attestano i populismi di destra e di sinistra,  la profonda crisi di valori, la delusione di molti, l’impoverimento delle classi medie, la percezione sempre più netta che esso non sia in grado di mantenere gli impegni e le aspettative che ha costruito e diffuso.
Sul versante esterno, a livello geopolitico, lo attestano al di là di ogni dubbio le guerre che insanguinano il mondo e la presenza di potenze nazionali che non vogliono piegarsi alla cultura liberalista e al libero mercato gestito dall’occidente; a livello antropologico lo confermano i miliardi di persone che se ne stanno fuori dal sistema occidentale subendone concretamente gli effetti perversi; masse sterminate che si pongono di fronte alla grande ideologia con la pura e semplice potenza biologica del numero, con la forza bruta della demografia che tanto spaventa l’occidente.

Ora più che mai, a fronte di tutto questo, servirebbe una nuova grande narrazione, realmente indipendente, veramente democratica, per orientare verso un diverso cambiamento; servirebbe forse un’utopia capace di dare speranza al futuro e dignità al presente.
Purtroppo, una grande narrazione si sta oggi imponendo, ma non viene democraticamente dal basso:  viene invece imposta dall’alto, con tutta la potenza dei media e delle nuove tecnologie, confezionata in modo mirato dagli stessi poteri che pretendono di guidare il mondo al di fuori di ogni reale controllo democratico.

Per leggere gli altri articoli di Bruno Vigilio Turra pubblicati da Periscopio, clicca sul nome dell’autore.

Per la pace in Palestina il sionismo deve essere sconfitto

Per la pace in Palestina il sionismo deve essere sconfitto

C’è una sola vera condizione perché si possa parlare di pace in Palestina ed è che Israele venga sconfitto. Naturalmente non ci riferiamo ad una sconfitta militare, quanto piuttosto ad un isolamento diplomatico e ad una sconfitta politica, ma anche “etica” e “culturale”. Un modo di passare alla gogna della storia attraverso un giudizio di condanna definitivo ed irreversibile per il genocidio portato avanti ormai da più di settant’anni nei confronti del popolo palestinese. Esattamente come è avvenuto per la Germania nazista e per il Sudafrica dell’apartheid. Capitoli chiusi (si spera) per sempre, e dai quali la stessa Germania e lo stesso Sudafrica sono rinati a nuova vita come potrebbe anche avvenire, con la sconfitta dell’attuale Stato di Israele, per le comunità ebraiche che lo costituiscono.

Se questo è il solo e vero obiettivo per ottenere la pace, allora ci sono almeno due orientamenti politici, spesso (ma non sempre) sostenuti in perfetta buona fede, che vanno ripensati con attenzione.

La prima è la posizione di chi si schiera (senza altra precisazione) per la pace, contro ogni forma di violenza e a fianco di tutte le vittime. Posizione ineccepibile sul piano di principio. Siamo tutti sostenitori della Nonviolenza (volutamente con la maiuscola). Ma la Nonviolenza è innanzitutto una postura etica ed ideale, che è nostro compito fare diventare usuale pratica politica. Se però, nell’immediato, si usa questa aspirazione come elemento discriminante per giudicare di ogni conflitto, allora il rischio è di mettere Israele ed Hamas sullo stesso piano perché entrambi usano la forza armata. Allo stesso modo si sarebbe potuto accumunare il nazismo a chi lo combatteva in armi, finendo così per giustificarlo. Oppure di fronte al razzismo del Sudafrica si sarebbe potuto dire che anche Mandela era un terrorista (per chi non lo sapesse Nelson Mandela era stato il fondatore dell’ala armata del African National Congress, il partito dei neri sudafricani).

Naturalmente si può discutere di quali siano i modi politicamente migliori, ma anche eticamente più corretti, per portare avanti la resistenza, purché sia chiaro che la resistenza palestinese è giusta e che il fine resta la sconfitta di Israele nei modi e nel senso che abbiamo detto.

L’altra questione da evitare, forse meno pericolosa, ma ugualmente fuorviante, è quella pletora di discussioni sui possibili assetti istituzionali che dovrebbero caratterizzare un futuro pacificato.

Vi sono innanzitutto i sostenitori della vecchia tesi dei due popoli in due Stati, che ovviamente si scontra con l’espansionismo israeliano e col milione e mezzo di coloni che circondano Gaza e la Cisgiordania.
Vi è poi la tesi di due popoli in un solo Stato, che vede un ottimistico superamento di tutti gli scontri e gli odi accumulati in più di settant’anni di storia di soprusi.
Vi è infine anche l’ipotesi di una organizzazione sociale di tipo orizzontale che ricalchi in qualche modo, l’esperienza rivoluzionaria del Confederalismo democratico attualmente portata avanti dai Curdi nel Rojava (e che, in linea di principio, è quella alla quale ci sentiamo più vicini).

In ogni caso, che il futuro sia rappresentato dalla creazione di due Stati, o di un solo Stato che appartenga a tutti, o anche da una comunità orizzontale, democratica e senza Stato, è cosa che non sta a noi decidere, e che comunque è discorso ozioso se prima non si afferma la pace.

Ma la pace ha una sola e vera condizione: la sconfitta di Israele, o meglio la sconfitta del progetto genocida di Israele.  Tutto il resto viene dopo.   

 

Antonio Minaldi
Militante nei movimenti fin dal 68. Esponente del movimento studentesco del 77 e fra i fondatori dei COBAS SCUOLA nell’87. Si occupa di attualità politica e di studi di filosofia collaborando con varie riviste.

Cover: Truppe Corazzate Israeliane (Foto di Lior34, Wikimedia Commons)

Storie in pellicola /
Svelati trailer e manifesti di “Lala”, il film sul diritto di cittadinanza

Esce al cinema, il 25 gennaio, “Lala” di Ludovica Fales, film su una generazione invisibile che si confronta sul diritto di cittadinanza. Vi presentiamo il trailer

Svelato il trailer e il manifesto di “Lala”, opera prima di Ludovica Fales al cinema dal 25 gennaio. Il film su una generazione invisibile e dai diritti negati che si confronta sul diritto di cittadinanza ha vinto il premio del pubblico mymovies alla quarantunesima edizione del Bellaria Film Festival.

Lala, Samanta e Zaga hanno la stessa età, condividono gli stessi desideri e sogni. Sono tre giovani italiane, che l’Italia non riconosce perché i loro genitori sono nati altrove.
Le loro storie prendono forma, e si intrecciano in un racconto collettivo di una e tante adolescenti senza documenti portandoci, tra i paradossi della legge, attraverso i piani d’indagine in cui il film si snoda: verità, realtà e verosimiglianza.

Lala si muove tra i frammenti della sua identità sospesa. Incrocia la storia di Samanta, l’interprete non professionista che la incarna, e quella di Zaga, la ragazza vera che ha ispirato il film. In uno stato fluido tra messa in scena e realtà, Lala intraprende un viaggio collettivo alla ricerca della identità di un’intera generazione dai diritti indefiniti. In un caleidoscopio di storie che si intersecano, il film diventa il manifesto di una generazione, un mosaico di voci di ragazze e ragazzi e che sono tutte e tutti “Lala”.

“Lala” è una produzione Transmedia production (Italia), Staragara (Slovenia), con il contributo di Fondo Audiovisivo del FVGMiC – DG Cinema (tax credit), FVG Film CommissionRegione LazioSlovenian Film Centre (Tax rebate), sviluppo Biennale College Cinema. Special Track musicale Assalti Frontali. Il film ha vinto la menzione speciale per il documentario alla XV edizione di Ortigia Film Festival. Lala è distribuito da Transmedia production.

Per un’intervista a Ludovica Fales

Il Comune chiude Fedro: uno strumento in meno per l’ascolto e la partecipazione dei cittadini

UN PASSO INDIETRO DEL COMUNE SULLA STRADA DELL’ASCOLTO E PARTECIPAZIONE DEI CITTADINI

Ricevo per e-mail dal Servizio Sistemi Informativi, Digitalizzazione, Agenda Digitale, Città Intelligente del Comune di Ferrara la comunicazione che il portale Fedro è stato chiuso e che il nuovo portale delle segnalazioni è: https://protezionecivile.comune.fe.it/it/new-issue .

Sono uno di quei cittadini che quanto vedeva buche pericolose nei marciapiedi o nelle strade, piante o arbusti che invadevano la carreggiata, illuminazione stradale rotta o insufficiente, caditoie delle fogne intasate, ciclabili impraticabili, strade con passaggi pedonali dove le macchine sfrecciavano molto oltre il limite, segnaletica stradale danneggiata ecc. ecc. lo segnalava attraverso Fedro.

Il nuovo “portale” per le segnalazioni è in realtà solo un modulo on-line da compilare, dove mancano molti dei pregi che aveva Fedro. Con Fedro avevamo una tracciabilità delle segnalazioni, potendo consultare sia le proprie segnalazioni, sia quelle inviate da altri cittadini. C’era così la possibilità di condividere una segnalazione fatta da altri, associandosi alla stessa segnalazione o ripetendola. In Fedro si potevano inoltre verificare lo stato della segnalazione ( aperta, chiusa, in lavorazione ) e soprattutto le risposte dell’amministrazione . Non che rispondessero a tutte le segnalazioni, ma quando capitava che una segnalazione non avesse un seguito, c’era la possibilità di ripeterla, quasi a farne un implicito sollecito. Tutto questo non è possibile con il nuovo “portale”. Anche Fedro aveva i suoi limiti, ma il principale era probabilmente il fatto che fosse uno strumento, canale di comunicazione col Comune, poco conosciuto.

Nonostante le quasi 9000 segnalazioni inviate negli ultimi anni, in realtà i fruitori della piattaforma erano relativamente pochi. Il Comune ha evidentemente favorito l’utilizzo di altri canali/strumenti di ascolto dei cittadini. Abbiamo visto anche gli URP mobili nelle frazioni. Resta il fatto che in un’era in cui la comunicazione attraverso il web ha sempre un maggior peso, come dimostra la martellante presenza sui social della politica locale e non, la scelta di disattivare un canale di ascolto dei cittadini sostituendolo con uno molto meno efficace e funzionale sembra dettata dalla precisa volontà di tenere i cittadini alla larga dalla stanza dei bottoni. Si parla tanto di percorsi partecipativi e di e-democracy, ma in questo caso ho l’impressione che a Ferrara stiamo facendo passi indietro.

L’Italia è una Repubblica fondata … sui Profitti

L’Italia è una Repubblica fondata … sui Profitti

L’ultimo rapporto Inapp (Istituto Nazionale Analisi Politiche Pubbliche) sull’occupazione riporta informazioni utili a capire i processi storici in atto nel nostro paese. Il primo aspetto riguarda la crescita degli occupati che ha raggiunto il massimo a ottobre 2023 (23,694 milioni). Ha inciso il gigantesco investimento aggiuntivo del PNRR europeo che si protrae fino al 2027. Non sappiamo però a quanto ammonta il monte ore lavorate: anche in passato, accanto ad un numero maggiore di occupati, erano aumentati i part-time, gli stagionali, i tempi determinati per cui il monte ore lavorate retribuito scendeva.

Un dato eclatante è che l’Italia non riesce ad aumentare la massa salariale. Una conferma viene dalla quota % dei salari e dei profitti sul PIL al costo dei fattori, che indica come la quota % dei salari sia in calo dal 1960 al 2022. Quando la Repubblica è nata, questa quota % dei salari sulla ricchezza nazionale prodotta era dell’80% e il 20% andava ai profitti. Era quindi corretto quanto era scritto nella Costituzione: “L’Italia è una Repubblica fondata sul Lavoro”. Dopo 70 anni i profitti sono raddoppiati e i salari sono diminuiti. Sta diventando dunque una Repubblica fondata sul Capitale? Come mai avviene questo?

Da un lato la produttività del lavoro non cresce più dalla fine degli anni ’90, dall’altro i salari reali (post-inflazione) sono cresciuti solo dell’1% (+7% nominali), mentre nella media dei paesi Ocse sono cresciuti in termini reali del 32,5%, per cui l’Italia è passata in 30 anni dal 9° posto del 1992 (per livello dei salari) al 22° nel 2022 (sui 35 paesi Ocse): un arretramento vistoso.

I dati sono una media, dietro la quale è possibile scorgere alcuni settori che la alzano: specie nella manifattura al nord le nostre imprese vanno bene, esportano sempre più e crescono anche i salari reali dei loro dipendenti (il 9% usufruiscono di premi di produttività a bassa tassazione). Ci sono poi alcune imprese che hanno capito quanto sia importante valorizzare il cosiddetto “capitale umano” (le persone più ancora della tecnologia fanno la differenza) e distribuiscono benefici salariali, di riduzione di orario e anche di compartecipazione ai profitti che rappresenta, a mio avviso, un modo per ridimensionare il ruolo del capitale finanziario nella nostra società e creare una vera condivisione dei profitti creati da una impresa. Ma per la maggioranza dei dipendenti i salari perdono inesorabilmente potere d’acquisto.

L’Italia ha sofferto molto dopo la crisi finanziaria del 2009-12 e nel 2020 col Covid. L’ingresso nel mercato unico europeo, a partire dal 2004, di 100 milioni di lavoratori dei paesi dell’est ha “requisito” i principali benefici del grande mercato unico europeo. Una ulteriore espansione dell’Europa ai Balcani e all’Ucraina, comporterà di fatto per i nostri lavoratori un altro indebolimento (gli allargamenti vanno fatti con gradualità).

Il tasso di assunzioni maggiore per classe di età riguarda gli over 65 (+20%), a conferma di quanto sarebbe strategico incentivare il part-time degli anziani negli ultimi 3 anni, pagato pieno, e assumere un giovane a tempo pieno (come ha fatto Luxottica). Un fattore che limita le possibilità da parte di Stato, Regioni, Comuni di creare occupazione aggiuntiva (il PNRR lo vieta perché devono essere solo spese per servizi o investimenti) è l’elevata evasione fiscale a cui si aggiunge l’elusione – legale – dovuta a vari benefici, tra cui l’assenza di tassazione sulle grandi eredità e sui guadagni da trading e speculazione finanziaria. Lo stesso rapporto Inapp si rende conto che un limite del capitalismo è l’incapacità di creare piena occupazione. Per questo economisti come Hyman Minsky propongono politiche keynesiane di aumento della spesa pubblica per contrastare il deterioramento ambientale, il degrado urbano, la diseguaglianza di genere; politiche che aumentano la massa salariale e danno l’ opportunità di far affiorare le persone che non lavorano. Ma l’Italia si trova in una “trappola” tra le richieste di austerità dell’Europa (in parte mitigate e rinviate al 2027) di ridurre il suo debito e la necessità opposta di aumentare occupati e salari. Difficile pensare che senza svolte radicali si possa uscire da questo pantano, che allontana sempre più i cittadini dalle elezioni e mina le basi stesse della democrazia, incapace di dare una prosperità diffusa, come avvenne nei primi 30 anni del secondo dopoguerra.

La crisi dei consultori: un allarme per i diritti delle donne in Italia

La crisi dei consultori: un allarme per i diritti delle donne in Italia

di Alessandra Vescio
tratto da Valigia blu del 18 dicembre 2023
 

Alle 5,30 di martedì 5 dicembre, il consultorio autogestito di Catania Mi Cuerpo Es Mio e lo Studentato 95100 che lo ospitava sono stati sgomberati dalla polizia. Il palazzo in cui avevano sede, di proprietà delle Biblioteche Riunite Civica e A. Ursino Recupero, era occupato dal 2018. A febbraio di quell’anno infatti diversi studenti universitari risultarono “idonei non assegnatari” di borse di studio e posti letto, per cui, nonostante ne avessero diritto, di fatto non potevano accedere a questi benefici che avrebbero garantito loro di intraprendere e proseguire gli studi. La causa di ciò era la mancanza di fondi della regione Sicilia, la cui cattiva gestione delle risorse venne denunciata da quegli stessi studenti che a quel punto decisero di occupare uno stabile della città ormai in disuso da anni, a cui diedero il nome di Studentato 95100.

Dal 2018 lo spazio ha accolto studenti e studentesse che altrimenti non avrebbero avuto la possibilità di vivere e studiare in città, e inoltre ospitava le assemblee del collettivo transfemminista Non una di meno di Catania e il consultorio autogestito Mi Cuerpo Es Mio. Attivo dal 2019, il consultorio offriva vari servizi di assistenza e supporto, come uno sportello di primo ascolto psicologico, consulenze sulla sessualità e una rete di mediche, avvocate, psicologhe, neonatologhe, educatrici e assistenti sociali che sostenevano le donne nei percorsi di fuoriuscita da relazioni violente.

“Abbiamo adibito uno spazio abbandonato rendendolo un luogo sicuro per le donne, in cui potessero essere accolte e ascoltate”, hanno detto le attiviste e gli attivisti dello studentato che fin dalla mattina del 5 dicembre hanno organizzato un presidio permanente e ricevuto la solidarietà della comunità, di associazioni locali e di una parte della politica del territorio.

Lo sgombero dello studentato e del consultorio di Catania è avvenuto a pochi giorni dalle manifestazioni del 25 novembre e praticamente nelle stesse ore in cui si svolgevano i funerali di Giulia Cecchettin, vittima di femminicidio, la cui morte ha riacceso il dibattito in Italia su cosa fare per contrastare la violenza di genere: per gli attivisti e le attiviste catanesi, la risposta istituzionale locale è stata quella di ignorare le proposte di dialogo da loro avanzate negli ultimi sei anni e “decidere di sgomberare uno dei pochi posti che si oppone e contrasta la violenza di genere sul territorio, in cui giovani e meno giovani si organizzano contro il patriarcato”.

Secondo il sindaco di Catania Enrico Trantino (Fratelli d’Italia), invece, lo studentato avrebbe svolto attività a scopo di lucro mentre il consultorio non era operativo dal 2021, e lo stabile è stato sgomberato perché occupato illegalmente. A questo ha aggiunto che l’ente Biblioteche Riunite Civica e A. Ursino Recupero, di cui lui stesso è presidente, “ha intenzione di assegnarlo ad associazioni che si occupano della tutela delle vittime di violenza di genere e delle vittime di ogni violenza”, in quello che appare come un tentativo di marginalizzare e invalidare il ruolo svolto dal consultorio per la comunità in tutti questi anni.

Un’operazione già vista, questa, anche con altri spazi sociali, autodeterminati e creati dal basso presenti in Italia che, oltre a offrire servizi di valore per la collettività e il territorio, colmano le profonde lacune dello Stato. È di questi giorni infatti la notizia che la Casa delle Donne Lucha y Siesta, luogo di cultura, spazio transfemminista e centro antiviolenza, è nuovamente minacciata dal rischio di chiusura, in un paese in cui i CAV non vengono finanziati in maniera adeguata e sostenibile.

I consultori nel resto d’Italia

Il consultorio catanese non è l’unico a essere sotto attacco: anche Trieste potrebbe vedere dimezzati i suoi presidi. Negli ultimi mesi infatti si è iniziato a discutere della possibilità che, in un’ottica di riorganizzazione dei servizi territoriali, l’azienda sanitaria accorpi i consultori e di fatto ne chiuda 2 su 4.

Questo ha generato una serie di mobilitazioni da parte di cittadine e cittadini e la fondazione del Comitato di partecipazione dei Consultori che, insieme a Non Una di Meno Trieste, sta portando avanti le attività di protesta: “Vogliamo che tutti i consultori di Trieste rimangano aperti e che ne aprano altri; che quelli che ci sono vengano migliorati, finanziati adeguatamente e aperti alla partecipazione effettiva della popolazione”, ha spiegato il Comitato.

A novembre 2021 invece tutti i 7 consultori presenti nell’area della Locride in Calabria erano a rischio chiusura, tra carenza di personale, locali fatiscenti e mancanza di strumentazioni e apparecchiature mediche. Al consultorio di Stilo, ad esempio, lavorava una sola ostetrica due volte a settimana, in un edificio le cui pareti erano impregnate di muffa, i servizi igienici inagibili e la maggior parte delle prese elettriche non funzionanti a causa dell’umidità. È stato grazie al movimento spontaneo Riprendiamoci i Consultori composto da operatrici, cittadine e cittadini del territorio che questa situazione è stata portata alla luce.

“La situazione nella Locride era disastrosa”, hanno detto le attiviste del movimento calabrese a Valigia Blu. “Le persone giovani non sapevano più se esistessero i consultori, se fossero attivi, quale fosse la loro funzione. Abbiamo fatto dei sondaggi nelle nostre cerchie di amici e conoscenti e ci siamo rese conto che nell’immaginario ricorrente il consultorio era un ambulatorio ginecologico o un luogo di cura di bassa qualità”. In sostanza, si stava assistendo alla loro “scomparsa dal dibattito pubblico”.

“La situazione attuale è leggermente migliorata nell’ultimo anno”, confermano le attiviste: “Non c’è ancora un consultorio che può essere definito completo, ma nell’organico totale di base sono subentrate psicoterapeute, ginecologhe e ostetriche”. Inoltre, il consultorio di Stilo è stato trasferito in una nuova struttura a pochi chilometri di distanza, precisamente a Bivongi: “Senza il nostro pressing sarebbe stato sicuramente chiuso in maniera definitiva”, dicono dal movimento.

La storia, il ruolo e l’evoluzione dei consultori

L’importanza dei consultori è legata tanto alla funzione che svolgono – o dovrebbero avere la possibilità di svolgere – quanto alla loro storia. Istituiti nel 1975 con la legge 405, questi presidi infatti sono nati in un periodo storico di grandi cambiamenti culturali e sociali, come il referendum sul divorzio, le prime denunce di violenza ostetrica e la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza. In questo contesto si inseriscono anche i consultori, nati per fornire assistenza alle donne attraverso il supporto psicologico, la prevenzione e la tutela della loro salute.

Il modello era quello dei consultori autogestiti che gruppi di attiviste femministe avevano aperto in diverse diverse città d’Italia negli anni Settanta. In questi luoghi, si metteva in discussione una visione patriarcale e paternalistica della medicina e si restituivano alle donne gli strumenti della conoscenza del proprio corpo e della propria sessualità.

Nonostante i numerosi punti di contrasto tra ciò che il movimento femminista chiedeva e auspicava e ciò che poi la legge ha sancito (come l’esclusione delle donne nella gestione di questi presidi in alcune regioni, le possibili sovvenzioni a consultori privati e religiosi, e un interesse più verso la coppia e la famiglia che verso la donna), i consultori familiari hanno rappresentato nel tempo un importante luogo di confronto, ascolto e cura.

Con un approccio multidisciplinare e accesso libero e gratuito, questi spazi infatti hanno lo scopo di promuovere la tutela della salute della donna in senso ampio e in ogni fase della vita, tenendo in considerazione anche gli aspetti sociali e relazionali e il contesto culturale in cui ogni donna si muove. Supporto psicologico, contraccezione, prevenzione, assistenza nell’interruzione volontaria di gravidanza, accompagnamento nel percorso nascita e accoglienza e aiuto alle donne che hanno subito violenza di genere, sono alcuni dei servizi di competenza dei consultori.

Negli anni però i consultori sono stati riorganizzati e depotenziati al punto che oggi la loro presenza sul territorio risulta carente, disomogenea e spesso inadeguata alle necessità. Ad esempio, mentre la legge prevede che ci sia una struttura ogni 20mila abitanti, in Italia in media ve n’è una ogni 32mila circa, e questo a causa della progressiva riduzione negli anni delle sedi disponibili e attive. Per quanto riguarda il personale sanitario, poi, ogni consultorio dovrebbe prevedere almeno quattro figure centrali, ovvero ginecologo, psicologo, ostetrica e assistente sociale, ma solo in una sede su due lavora un’equipe al completo. Inoltre, solo un’Azienda sanitaria o distretto su due ricorre alla consulenza di un mediatore culturale, nonostante i consultori debbano garantire accesso libero e gratuito anche alle donne straniere e ai loro figli.

Guardando un po’ più nel dettaglio, poi, in Basilicata, Molise e nella provincia autonoma di Trento le condizioni strutturali dei consultori sono tra quelle più critiche, mentre soprattutto al sud e nelle isole la presenza di barriere architettoniche limita o impedisce l’accesso ai consultori a una parte della popolazione. Accessibilità vuol dire anche vicinanza: il Progetto Obiettivo Materno Infantile (POMI) varato nel 2000 suggeriva ad esempio che, per una migliore tutela della salute delle donne e dei loro figli, nelle zone rurali e semiurbane ci fosse un consultorio ogni 10mila abitanti.

La Locride stessa “è terra difficile”, spiegano le attiviste di Riprendiamoci i Consultori, perché “non esistono collegamenti pubblici con l’unico ospedale a nostra disposizione e un’elevata percentuale di donne non ha la patente o non lavora, il che significa che interi nuclei familiari vivono con un solo stipendio e completamente dipendenti da una sola persona che guida”. Chiudere uno o più consultori, non garantire facile accesso a questi presidi, non tenere in considerazione le difficoltà di spostamento e di contesto che le residenti di una determinata area possono avere vuol dire limitare il loro diritto alla salute e all’autodeterminazione.

Al sud è anche meno frequente la partecipazione dei consultori a una rete antiviolenza, mentre non tutti i consultori presenti sul territorio italiano prevedono attività pensate per i più giovani e circa la metà delle strutture non si occupa di questioni relative alla comunità LGBTQIA+. Counselling e visite mediche a donne in menopausa vengono invece offerte in quasi tutti i centri, ma solo un consultorio su 4 al nord e al centro e meno della metà di quelli al sud e nelle isole propongono campagne informative su questa fase della vita.

Sebbene poi la quasi totalità dei consultori familiari dichiarino di occuparsi del percorso nascita, l’adozione di un protocollo per la valutazione del rischio psicosociale e di un eventuale disagio psichico durante e dopo la gravidanza è in media piuttosto rara, con il pericolo dunque di non rintracciare per tempo eventuali fattori di rischio e segnali di depressione perinatale. Anche l’ecografo, strumento necessario per una serie di prestazioni sanitarie e diagnosi, non è disponibile in tutti i consultori.

Per quanto riguarda invece l’assistenza per interruzione volontaria di gravidanza, il 68,4% dei consultori italiani nel 2021 ha dichiarato di offrire counselling pre-IVG e di rilasciare i certificati per l’intervento. Un numero ancora insufficiente è quello relativo ai controlli e dunque al supporto post-IVG. Dal 2020 è inoltre possibile accedere all’aborto farmacologico anche nei consultori ma, stando alle ultime analisi, solo in alcune città italiane è possibile usufruire di questo servizio.

Tra le motivazioni, vi è la carenza di strutture e spazi adeguati tanto quanto di personale, oltre che l’alto numero di operatori sanitari obiettori negli stessi consultori e l’opposizione di una parte della politica. A pochi mesi dalla pubblicazione della circolare ministeriale che aggiornava le linee guida sull’aborto farmacologico, ad esempio, la Regione Piemonte (Centrodestra) ne ha vietato l’accesso nei consultori. A inizio 2021, invece, l’assessora alla Sanità dell’Abruzzo Nicoletta Verì (Lega) ha chiesto a tutte le ASL che l’interruzione di gravidanza con metodo farmacologico venga “preferibilmente” effettuata in ospedale e non nei consultori.

Cover: Catania in piazza contro lo sgombero del Consultorio autogestito Mi Cuerpo es Mio (foto da daytalianews)

Ex Gkn: Fiom vince il ricorso, licenziamenti scongiurati

Ex Gkn: Fiom vince il ricorso, licenziamenti scongiurati

da redazione di Collettiva

Il tribunale del lavoro dà ragione ai metalmeccanici Cgil, la condotta dell’azienda era antisindacale: “Ora affrontare il rilancio produttivo del sito”

“La sentenza – spiega il sindacato – conferma la correttezza delle nostre posizioni e il comportamento antisindacale tenuto dalla controparte dall’inizio dell’intera vertenza. È la riconferma di quanto già accaduto con l’articolo 28 dello Statuto contro Gkn, che ha visto il reintegro determinato per rimediare a un ingiusto licenziamento collettivo”.

Il giudice ha anche riconosciuto l’impegno a tutela dello stabilimento che la comunità fiorentina e non solo ha dimostrato stringendosi attorno alla vertenza. “Questo è l’ennesimo atto concreto – precisano il segretario generale Fiom Cgil Michele De Palma e il segretario generale Fiom Cgil Firenze Prato e Pistoia Daniele Calosi – a tutela di tutti i lavoratori che da quasi tre anni sono in lotta per la difesa del proprio posto di lavoro: scioperi, manifestazioni, di una vertenza diventata simbolo che va oltre i cancelli dello stabilimento”.

La Fiom Cgil rileva che, insieme alle lavoratrici e ai lavoratori, ha messo in campo “tutte le iniziative a difesa dell’occupazione e per la ripresa produttiva in quello stabilimento” e continuerà a farlo, ricordando che “i lavoratori metalmeccanici delle provincie di Firenze, Prato e Pistoia hanno fatto 12 ore di sciopero per sostenere questa battaglia”.

Adesso occorre guardare al futuro: “Ora è il momento di affrontare la fase di rilancio produttivo del sito, favorire la nascita di un condominio industriale, analizzare profondamente il piano industriale della cooperativa dei lavoratori e farne una reale possibilità di garanzia, utilizzando il tempo in più che il tribunale di Firenze ci ha concesso, forti dell’esito del ricorso che abbiamo presentato. Ci sono tutti gli strumenti per farlo, sia statali sia regionali: nessuno può più accampare scuse”.

De Palma e Calosi ringraziano l’avvocato Andrea Stramaccia dello studio legale Bellotti e l’avvocato Franco Focareta della Consulta giuridica nazionale Fiom Cgil che hanno “patrocinato il nostro ricorso e che oggi ci hanno informato che il giudice ha accolto in senso positivo il nostro ricorso”. I due dirigenti così concludono: “La Fiom Cgil ha messo in campo iniziative sindacali, legali e sociali per riaffermare la giustizia, tutto questo è stato possibile con la determinazione dei delegati. Attendiamo ora la deposizione della sentenza per conoscere più nel dettaglio le decisioni del giudice”.

Parole a capo
Maria Teresa Coppola: poesie edite e inedite

Devo liberarmi del tempo e vivere il presente giacché non esiste altro tempo che questo meraviglioso istante.
(Alda Merini)

Il tempo vola, io no.
Ho appeso al rampicante
che anela alla persiana
l’ anello di lattina che allegrava
un dito di bambina,
richiamo per le gazze
là sul pino nano,
una per la tristezza,
l’ altra per la gioia
di sillabe chioccolanti
che mettano le ali
al mio presente inerte
che non sa passare.

*
Non mi sottrarre
alla mia compagnia.
Mi è costata tempeste.
Riempimi come fa il mare
quando tra scogli emersi
si accoccola nelle pozze
e si acquieta,
placato inanella cristalli di sale.
Indosserò i tuoi gioielli
nel silenzio che mi contiene.
*
Dacci oggi i nostri fiori quotidiani
e il mare e le tempeste
il cielo i lupi e le foreste,
le pergole di rose in fiamme
e le cantine
 quando il sole è insolente,
il fuoco-conforto
se il gelo stringe,
gli abbracci nei giorni
in cui l’anima si perde
e hai perso anche le mappe
per ritrovarla da sola,
dacci bicchieri e posate
che fanno casa,
la ragnatela che rinasce,
le fusa dei gatti
e gli occhi autunnali dei cani,
geosmina e maestrale
e panni caldi
quando è ancora notte,
e le bugie che salvano,
l’ intuizione, l’ emozione
di accorgerci di vivere,
le risorse di un nome sbagliato,
dacci
libertà, paura, utopia,
botteghe d’arte e maestri e teatri,
Gavroche, Huck Finn, Vincenzo Gemito,
spartiti in cui il tempo si ferma.
Conservaci, se puoi,
le cose che oggi
non amiamo abbastanza.
*
Dal fondo degli occhi cespugliosi
il vecchio osserva
il tempo, gli alberi, la piazza.
Puntella in silenzio
la sua quota di universo.
Finché rimarrà lì
non svanirà.
Ma il sindaco
 ha rimosso la panchina:
clochards e africani
insidiano il decoro.
Ha rimosso anche il vecchio
e il mite puntello del suo sguardo.
Non passo più di lì.
Ho paura
che anche la piazza sia svanita.
*
Quando mi parli
fai veliero la mente,
la carichi di spugne
ad assorbire ricordi
che nulla sfugga
e tutto si conservi
per berti dopo,
quando non ci sei
e Bacco mi presta
redini colorate a guidare
la sua coppia di linci.
E mentre racconti
e aspetti che rida,
di pane speziato
mi inondi la stanza,
sterline d’oro nascondi
che possa
trovare più tardi,
a ogni morso
masticando lontananze.
Maria Teresa Coppola, salentina di nascita, pisana di adozione, si laurea in giurisprudenza a Pisa dove vive tuttora. La poesia le è familiare sin da piccola. A casa del poeta Girolamo Comi frequenta letterati quali Alfonso Gatto, Diego Valeri, Oreste Macrì. Seguono in Toscana anni di affettuosa contiguità con il poeta e critico d’arte Raffaele Carrieri. Varie sue liriche sono presenti in più antologie e nel collettaneo “Argeste 2023″ di Aletti editore. Con la silloge “Sottovoce” ha vinto il premio speciale della giuria del Premio Casentino 2023. Ha pubblicato la nuova silloge “C’è di più” ed. Aletti nel settembre 2023. Ha ricevuto il premio della giuria del Premio Internazionale di arte letteraria “Il canto di Dafne” il 25 novembre ’23 e  il terzo premio alla sesta edizione del Concorso Nazionale di Poesia dell’ Accademia Casentinese il 17 dicembre u.s.
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

La PUMA ritira la sponsorizzazione del calcio israeliano

La PUMA ritira la sponsorizzazione del calcio israeliano

Quest’articolo è disponibile anche in: IngleseFranceseGreco

Il movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni) ha ottenuto un’importante vittoria: la PUMA è stata costretta a rinunciare alla sponsorizzazione dell’Associazione calcistica israeliana.

La Campagna palestinese per il boicottaggio accademico e culturale di Israele (PACBI), parte fondante del movimento BDS, accoglie con favore la notizia che la PUMA non rinnoverà il suo contratto con la Israel Football Association (IFA).

Dal 2018 la PUMA è bersaglio di una campagna BDS globale per il suo sostegno all’apartheid israeliano che opprime milioni di palestinesi. L’IFA gestisce e sostiene le squadre in insediamenti israeliani illegali su terre palestinesi rubate.

Le e-mail interne trapelate hanno rivelato che la PUMA ha subito enormi pressioni per ritirare il contratto.

Mentre Israele porta avanti il suo genocidio contro 2,3 milioni di palestinesi nella Striscia di Gaza occupata e assediata, uccidendo finora più di 18.000 persone, tra cui decine di calciatori, la pressione del boicottaggio è aumentata.

Gli anni di implacabile pressione globale del BDS sulla PUMA e il danno alla sua immagine dovrebbero essere una lezione per tutte le aziende che sostengono l’apartheid israeliano: la complicità ha delle conseguenze. È anche una lezione per la FIFA, profondamente complice e dominata dall’Occidente, che continua a proteggere Israele dalle sue responsabilità anche se le azioni dei coloni violano i suoi statuti.

Ringraziamo le centinaia di gruppi di solidarietà di base, atleti e squadre di tutto il mondo che hanno sostenuto l’appello di 215 squadre palestinesi a sfidare la PUMA. Questa vittoria del boicottaggio è amara perché la pulizia etnica dei palestinesi da parte di Israele continua, ma ci dà speranza e determinazione nel ritenere responsabili tutti i sostenitori del genocidio e dell’apartheid, finché tutti i palestinesi non potranno vivere in libertà, giustizia e uguaglianza.

Fonte: BDS con l’aiuto di BDS Grecia

Traduzione dall’inglese di Thomas Schmid.
Revisione di Anna Polo

Cover: Puma Wall FinalPhoto from BDS. (Foto di BDS)

Diario in pubblico /
Notizie dall’altro mondo

Diario in pubblico. Notizie dall’altro mondo

Condannato alla visione televisiva, mi concentro sull’esito finale di un programma ballereccio che spopola e assisto all’esibizione finale di due signore che, ansimanti e apparentemente felici, concludono la loro- come ripete fino allo sfinimento un bardata dama conduttrice del programma- “performance”: Uanda Nara e Simo Ventura.

Subito mi domando sentendo il ritmo selvaggio degli ammiratori della Nara: “perché Uanda e non Wanda?” Ai miei tempi la signora del musical e della discesa delle scale si chiamava Wanda anche con il mitico cognome Osiris come il dio egiziano.

Qui no. La Uanda dotata di un rispettabilissimo lato b, a differenza della sua concorrente, lo usa con sapienza e proprietà, salutata dal delirante abbraccio dei suoi 5 figli e del marito che la osannano in un improbabile italiano. La Simo però ha fatto il colpo dell’anno, quando un ennesimo futuro marito le chiede in diretta di sposarlo; marito che a sua volta è concorrente impacciatissimo. Ma scherziamo?

Quanto a pubblicità siamo al livello della venditrice di pandori e uova di Pasqua. Ecco le tre dive al cui confronto spariscono giornaliste serie come la didattica Selvaggia e perfino la sbandata Lilli, mentre sempre più spalanca l’occhio apparentemente stupefatto la Berlinguer. Chino il capo e mi rifugio tra le righe che scrive l’intramontabile Natalia Aspesi, sogghignando alle vecchie battute comunque efficaci della Concita de Gregorio.

Allora, possiamo affermare che le donne abbiano raggiunto la parità di genere? Ma va là! Siamo ancor lontani; mentre studio le mosse (si fa per dire) delle signore della politica. Prime fra tutte come dicono i miei amici al bar la Giorgia e la Elly, nonostante che gran parte di loro rimanga un po’ deluso da quell’improbabile nome Ely, di cui tutti vorrebbero sapere provenienza, che suona in realtà come Elena Ethel Schlein, nata in Svizzera con cittadinanza statunitense.

Ma poi si aggiungano le altre brave signore europee. Tra implacabile sole e temperature quasi tropicali mi avventuro nel centro di Frara per degustare dolci e dolcetti, guardare le vetrine fornitissime ma vuote all’interno, mentre sfuggo con un manto di silenziosa riprovazione agli stentati sforzi di opporre candidata/o di sinistra all’odierno governo della città, che hanno prodotto (quasi una nemesi), un pasticciaccio brutto non di via Merulana, come suona l’immortale libro dello scrittore, ma di piazza Municipio.

Libri e libretti mi sfilano sotto il naso, mentre attendo, sempre più rassegnato, all’improbabile decisione del Comune di ospitare i libri che vorrei donare alla Biblioteca Ariostea e riguardanti Leopoldo Cicognara, Canova e la cultura ferrarese di primo Ottocento. Vedremo. Anche se vedere sembra eccessivo in questa ferrarese nebbia di compiti e attribuzioni.

Così mentre osservo rapito la danza di Bolle nella Baiadera mi rifugio sempre di più in un sogno per ora irrealizzabile di tornare all’amatissima Parigi.

Sarà possibile? Mia nonna sentenziava: “Chi vivrà, vedrà”.

Per leggere gli altri articoli di Diario in pubblico la rubrica di Gianni Venturi clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Lettera: Abbiamo perso lo spirito del Natale

Abbiamo perso lo spirito del Natale

di Riccardo Mancin

Credo proprio che se domani uscissi di casa e passeggiando sottoponessi i passanti che incrocio ad una intervista in cui chiedo “Cosa rappresenta per lei il Natale?” la maggior parte delle persone mi risponderebbe così: luci e decorazioni, l’albero, i regali, la festa, le riunioni di famiglia, cene e pranzi di rito, una vacanza. Una minoranza ci aggiungerebbe probabilmente una connotazione più religiosa menzionandomi la Santa Messa ed il presepe ma i più sono convinto che si indirizzerebbero su aspetti prevalentemente commerciali. Del resto questa tendenza ha origini lontane e deriva dal fatto che molte delle tradizioni che oggi sono associate al Natale hanno in realtà una storia molto antica, che addirittura precede la celebrazione del Natale vero e proprio come i Saturnali, una festa pagana dell’epoca romana dove per la settimana dal 17 al 23 dicembre ci si regalava cibo, monete, candele e dove ci si lasciava andare a comportamenti meno formali e si poteva tollerare anche chi alzava il gomito in onore del dio Saturno. I Cristiani nel tempo li trasformarono nel Natale, una festività molto sentita anche nel Medioevo dove vi era un grande fermento nelle case dei ricchi e dei poveri, complice la sospensione del lavoro agricolo durante l’inverno. Natale, dunque, nei secoli ha sempre fatto rima con abbondanza, gioia, prosperità e condivisione. Ricordo bene gli aneddoti che quando ero bimbo mi raccontava mio nonno sul Natale vissuto nella sua epoca. Erano racconti che mi affascinavano perché ricchi di particolari che dipingevano nitidamente uno spaccato di vita rurale di provincia padana in anni veramente difficili, quando le famiglie erano numerose e patriarcali e i sacrifici di tutti erano rivolti essenzialmente alla sopravvivenza. “Fratelli e sorelle dormivano appiccicati per combattere il freddo in case fatte di canna palustre ma a Natale non è mai mancato del cibo. I più grandi infatti lavoravano sodo tutto l’anno per garantirlo – diceva con una punta di orgoglio – Non c’erano eccessi, non c’era il superfluo. E di regali gran pochi, solo cose semplicissime e utili.” Cibo semplice, spesso barattato, stagionale, locale, autoprodotto e genuino, zero imballaggi, niente grande distribuzione e niente sprechi. Nulla diventava rifiuto, quello che poteva essere riusato veniva sfruttato. Pur essendo una festività vissuta in maniera scarna e minimalista era quindi il trionfo della circolarità e della sostenibilità ambientale, all’epoca condizione praticamente obbligatoria per una resilienza fatta di sacrifici. Non mancava mai comunque la genuinità dei valori e l’atmosfera ed il significato di fondo della festa veniva sempre onorato e tramandato. Sulla scia di questi capisaldi ho vissuto anch’io con felicità e trasporto i periodi natalizi della mia infanzia. Ricordo grandi tavolate dove tutti portavano qualcosa da mangiare, c’era il calore di famiglie unite che portava a stemperare anche qualche tensione o attrito accaduto nei mesi precedenti. Tanti argomenti e risate, ore spensierate trascorse a giocare a tombola,  per i piccini l’ansia del momento del regalo da scartare che quasi mai era quello che si sperava ma che si concentrava in un momento che valeva comunque la pena di essere vissuto. Negli anni successivi, corrispondenti agli inizi della mia adolescenza, il benessere economico è diventato diffuso e ha letteralmente stravolto le nostre vite rinchiudendole in gabbie dorate all’interno delle quali perseguire quasi ossessivamente le chimere di un consumismo senza freni. Non è cambiato il Natale ma la società e dunque noi stessi, il nostro modo di viverlo e concepirlo. Ci siamo fatti travolgere dal marketing selvaggio bombardati dai media, facendoci risucchiare nel vortice dello shopping compulsivo e dell’acquisto inutile, dettato solo da dinamiche distorte di moda e tendenze, di competizione e corsa sfrenata per accaparrarsi quanto più possibile; dalle decorazioni dentro e fuori casa all’abbigliamento costoso da sfoggiare solo per quella occasione, dai tanti regali spesso senza senso al cibo fuori stagione e in quantità pantagrueliche, magari di lusso e ricercato anche solo per stupire e vantarsi con gli ospiti esponendolo sulla tavola. Ebbene questo approccio ha generato mostri: il Natale moderno è sempre più una festa che ha perso i suoi valori basilari ed è volta perlopiù al soddisfacimento indiscriminato di bisogni non essenziali. La conseguenza diretta e ovvia è l’insostenibilità sociale ed ambientale, con la prima che vede una forbice sempre più netta e intollerabile tra abbienti e non e con la seconda che vede invece il pianeta letteralmente soffocare dall’inquinamento per l’assurda quantità di oggetti prodotti e venduti nonché per l’abuso e lo smaltimento non corretto di materiali deleteri per gli ecosistemi. Vale la pena fare qualche esempio a supporto dei miei pensieri. Secondo uno studio dell’Università di Manchester le abitudini alimentari natalizie della sola società occidentale causerebbero la stessa impronta di carbonio di un’auto che compie il giro del mondo per seimila volte. Su svariati milioni di euro spesi ogni anno per i regali di Natale circa il 10% per cento di questo dispendio economico e di prodotti viene semplicemente buttato via perché non gradito. Per non parlare dei maglioni di Natale, quelli spesso rossi con le renne o i fiocchi di neve per intenderci. Se ne vendono tantissimi ma la maggior parte derivano dal fast fashion (già discutibili di per sé per lo sfruttamento umano di chi li produce) e sono di acrilico dunque di natura sintetica e dal grande impatto ambientale. Basti pensare che uno studio della Plymouth University evidenzia che l’acrilico è responsabile del rilascio di quasi 730mila microplastiche per lavaggio, cinque volte di più rispetto a un tessuto misto poliestere-cotone e quasi una volta e mezzo rispetto al poliestere puro. Secondo l’Unep, il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, circa il 16% delle microplastiche rilasciate negli oceani a livello globale proviene dal lavaggio di tessuti sintetici. Per l’Europa, dove la maggior parte delle famiglie è collegata a un sistema di trattamento delle acque reflue, si stima che ogni anno vengano rilasciate nelle acque di superficie 13mila tonnellate di microfibre tessili, ovvero 25 grammi per persona, pari all’8% del totale delle emissioni di microplastica in acqua. Non c’è bisogno di trasformarsi in Scrooge – il protagonista egoista del racconto Canto di Natale di Charles Dickens – e smettere di fare regali o ricevere amici e parenti a cena, ma se tutti tenessimo bene a mente queste cifre forse riusciremmo a tenere i consumi un po’ più bassi. Noto che spesso si tende a decantare la “decrescita felice” come approccio risolutivo alla questione o si ripete come un mantra la frase retorica “Si stava meglio quando si stava peggio” ma a mio modesto parere in generale c’è ben poco da invidiare ai tempi dei nostri nonni se rapportati al presente. Occorre invece, come in tutte le cose, equilibrio, misura, buonsenso ma occorre senz’altro fare di più e meglio. Se vogliamo che il Natale futuro delle nuove generazioni diventi una festività che racchiude la giusta proporzione tra valori religiosi, sociali e ambientali è necessaria ed urgente una profonda riflessione che porti ad un concreto cambiamento. Serve un connubio indispensabile tra un moderno Umanesimo e a un Ambientalismo inteso nella sua accezione più pura ossia lo sviluppo della coscienza sociale per la difesa delle risorse naturali e per lo sviluppo sostenibile. Serve cioè quello che io chiamo, coniando un nuovo termine nato dalla fusione dei due concetti, un Ambientalesimo globale. Sarà la vera sfida dei prossimi anni, una sfida prioritaria e imprescindibile a cui siamo chiamati tutti indistintamente ad impegnarci e a dare il massimo. Plastic Free come sempre c’è e ci sarà, al fianco di cittadini e istituzioni, divulgando buone pratiche e sensibilizzando, per un mondo migliore.

Riccardo Mancin
Coordinatore Nazionale Plastic Free ODV Onlus

Cover: illustrazione da Canto di Natale di Charles Dickens

Natale a Gaza, sotto le bombe degli aerei costruiti in Italia e venduti a Israele

Natale a Gaza, sotto le bombe degli aerei costruiti in Italia e venduti a Israele

il 25 dicembre 2023, alcuni attivisti del “Comitato varesino per la Palestina” e di “Abbasso la Guerra OdV” hanno voluto ricordare cosa significa celebrare il Natale nella palestinese Striscia di Gaza, dove dal 7 ottobre terribili bombardamenti aerei hanno massacrato oltre 24.000 civili, prevalentemente bambini (10.000!) e donne.

Un’azione dimostrativa è stata svolta sotto il velivolo militare MB326, prodotto anni fa da Aermacchi ed esposto alla rotonda di Tradate lungo la strada provinciale Varesina SP233. Sotto il velivolo è stata adagiata la sagoma di un neonato palestinese coperto di sangue.

L’MB326 è un piccolo cacciabombardiere che viene venduto sia nella versione di addestratore che di attacco armato ed è stato esportato, in oltre 800 esemplari, anche a paesi come il Sudafrica dell’apartheid e alle dittature militari del Brasile e dell’Argentina.  Il luogo è stato scelto per denunciare le responsabilità italiane nelle stragi di oggi.

Fra le terribili macchine di morte che stanno devastando Gaza e i suoi abitanti ci sono anche quelle costruite a casa nostra da Leonardo spa (ex AleniaAermacchi), come i 30 aerei militari M-346 prodotti a Venegono Superiore, nell’ambito dell’accordo di cooperazione militare (coperto dal segreto, tanto che neanche il Parlamento ne conosce i dettagli) sottoscritto da Berlusconi nel 2003, e ratificato con la legge n° 95 del 2005.  La cooperazione è stata confermata da tutti i governi italiani successivi, in accordo con tutti i governi israeliani, non solo con quello di Netanyahu.

I piloti israeliani che stanno bombardando Gaza con gli F-35, gli F15 e gli F16 si sono formati e addestrati a bordo dei 30 velivoli M346 venduti nel 2012 a Israele, facilmente armabili per trasformarli in jet d’attacco.

I primi due caccia furono consegnati nel 2014, pochi giorni prima dell’aggressione militare sulla Striscia di Gaza denominata “Margine protettivo”, un massacro che ha sterminato oltre 2.200 persone, di cui 531 bambini. Anche i piloti degli elicotteri d’attacco, che bombardano persino ospedali, si sono formati sugli elicotteri Agusta concepiti da Leonardo a Samarate, sempre in provincia di Varese e prodotti negli USA.
Partecipati cortei di attivisti pacifisti e antimilitaristi furono tenuti in quegli anni per manifestare contro l’accordo di esportazione di questi velivoli a Israele e fu depositata anche una denuncia contro di esso. Inutilmente, e oggi ne vediamo purtroppo i risultati.

Anche il nostro territorio è coinvolto, a è tutta l’Italia a essere complice attiva del genocidio in corso con le sue navi nel Mar Rosso, i suoi aerei nei cieli di Gaza e le sue vergognose astensioni sul cessate il fuoco all’ONU.

Diciamo basta!

Comitato Varesino per la Palestina
Abbasso la Guerra OdV

Questo testo è stato pubblicato il 26.12,2023 da pressenza

Cover: L’azione dimostrativa messa in atto il giorno di Natale da Comitato Varesino per la Palestina e Abbasso la Guerra OdV

Parole e figure /
Di giorno e di notte

Åsa Lind ed Emma Virke, in “Di giorno, di notte”, edito da Iperborea, catturano l’atmosfera dell’ultimo giorno d’estate in questo magico libro illustrato che conduce nella luce del giorno e poi nella notte e nelle sue stelle brillanti.

“Qualcuno gridò: Facciamo il bagno! E corsero così forte che rimbombava tutto. Come un cuore dentro la terra. Gli altri però sapevano nuotare senza braccioli. Fino alla piattaforma. E tutte le risate li seguirono. E io sulla spiaggia. Sola. Come invisibile. Eppure, no”.

Una piccola e delicata opera d’arte che, nel suo formato a fisarmonica (il leporello che tanto ci piace), può essere letta in due direzioni: da una parte la storia e il ritmo del giorno, dall’altra le preoccupazioni di oggi si dissipano nei sogni della notte ispirati a Pollicina.

I piccoli posti ospitano una vita che proprio lì diventa più grande, la lontananza dal rumore rende più quieti, apre al richiamo del cuore e della tenerezza. Ci sono solo sensi e sogni, sentimenti di serenità e amore per la natura, di libertà e leggerezza. Resta sempre quell’essere avvolti dalla notte che accende le stelle.

Con un sensuale e forte senso della natura, sia nella tranquilla contemplazione della luce del giorno che nell’oscurità drammatica della notte, la storia approda nella trionfante certezza del risveglio. Punti fermi.

Un libro per tutte le età, contro le paure e per le speranze, tra i limiti della realtà e le ali magiche e leggere dell’immaginazione.

Asa Lind

Åsa Lind (1958) è un’autrice svedese per bambini e ragazzi. Ha scritto una ventina di libri, tradotti in tutto il mondo, tra cui Lupo sabbioso (Bohem Press, 2009), ormai diventato un classico moderno della letteratura per ragazzi. Ha ricevuto la targa Nils Holgersson nel 2003. La sua scrittura è poetica e filosofica, e affronta alcune delle domande più grandi che un bambino può avere in modo semplice ma senza mai ricorrere a risposte ovvie.

Åsa LIND, Di giorno, di notte, traduzione di Laura Cangemi, illustrato da Emma Virke, Iperborea, Milano, 2023, 30 p.

 

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti. Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara

La Tigre nera si aggira per le edicole.
L’intramontabile Tex diventa Sherlock Holmes

“La Tigre nera”: indagini poliziesche, colpi di scena e spunti umoristici in una girandola di avventure mozzafiato

È in edicola dal 29 novembre il trimestrale “La Tigre nera”, edito Bonelli, sceneggiatura di Claudio Nizzi con disegni e copertina di Claudio Villa.

Si tratta di un volume corposo, di 322 pagine, che non riuscirete ad abbandonare, almeno fino alla fine dell’ultima “inquadratura”. L’albo qualitativamente si distingue per l’estrema varietà di toni, “ingredienti”, coloriture e colpi di scena sapientemente dosati durante tutto il corso dell’avventura.

La novità dell’albo è costituita dalla forte spinta “poliziesca”, a tratti noir, che sostanzia la vicenda; in quanto ranger, il nostro eroe spesso si ritrova ad accertare situazioni poco chiare o a indagare circa losche vicende e crimini efferati. Qui però Tex sfodera capacità deduttive e logiche degne di Sherlock Holmes e riesce, passaggio dopo passaggio, nonostante il clima stagnante omertoso della cittadina in cui opera, a ricostruire tutta l’intricata trama dell’organizzazione criminale devota al principe malese Sumankan.

Assassini, agguati, dialoghi intensi e indizi rivelatori puntellano una galoppata davvero emozionante, in cui i due pards più di una volta rischiano di non farcela. Addirittura Tex e Carson vengono malmenati da due bestioni che successivamente riusciranno a domare con la loro perfida ma necessaria furbizia, in una situazione degna di Davide contro Golia, ingenerando effetti, per certi versi, irresistibilmente esilaranti, secondo modalità old school che i “texiani” da sempre sicuramente apprezzeranno. In effetti la spinta comica di certe scene diverte e arricchisce il racconto di spunti umoristici, in cui il vecchio cammello, in grande spolvero per l’occasione, eccelle.

Le tavole, i soggetti e le sequenze elaborate da Villa sono davvero eccellenti: gli sguardi ironici dei due pards, l’orrore nel viso di chi sta per essere giustiziato, le scene a cavallo molto plastiche e le esplosioni dinamitarde sono rese con efficacia incredibile. Soprattutto il volto alterato dall’odio e sicuramente da qualche patologia mentale della Tigre nera rimane impresso per l’icasticità. Indubbiamente, un antagonista squilibrato, come nella tradizione dei grandi villains Bonelli, ma “degno” di Tex.

Da non perdere!

Presto di mattina /
Natale invocazione d’identità

Presto di mattina. Natale invocazione d’identità

Natale, ricerca d’identità

Il Natale è come un seme, semente di una identità data, compiuta in sé e tuttavia di nuovo principiante, luce nascente verso un’identità a venire. Il Seme di luce adagiato da Maria sulla nostra terra scura è qui ora, e non altrove, ancora tirocinante della luce, in cerca di quel passante promesso: la sua e nostra Pasqua di luce. In ogni maternità/identità che volge al termine, che si compie; in ogni parola proferita, detta, se ne concepisce e germoglia una nuova, incamminata verso un ulteriore compimento.

Così fin dal suo nascere, la luce è precorritrice e compagnia nel viaggio alla ricerca di un di più di coscienza di sé, rivelatrice di un’eccedenza insperata eppure attesa d’identità che la rende una fissità in movimento, identità in trasformazione, radicata e, al tempo stesso, in espansione.

L’identità di colui che è nato a Betlemme e la nostra stessa identità si svelano attraverso un processo di relazione che si origina nell’incontro, in un’alternanza dall’io al tu, al noi, di progressione e regressione, sosta e ripresa fatta di luci ed ombre che oscurano o rivelano, mortificano o accrescono sempre di nuovo la coscienza della nostra identità.

Un viaggio terreste e celeste, suggerisce Mario Luzi in un suo testo poetico (Il viaggio terreste e celeste di Simone Martini, Garzanti, Milano 1994). Come quello di un seme in cerca del suo fiore, del suo frutto, è infatti quell’itineranza che fa anche di noi cercatori della luce, quella scaturita da una pienezza di amore: «fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio» (Ef 3,17-19).

Così l’incontro con la terra, l’aria, l’acqua, nonostante la trascuratezza e il disamore degli uomini, a contatto con la pioggia, il sole, la neve, il freddo e il caldo, in profondità e altezza, in lunghezza e larghezza fanno del seme brunito e introverso una spiga tra spighe lucenti estroverse ondulanti nel vento. «E Gesù diceva: “Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa. Poiché la terra produce spontaneamente, prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga”, (Mc 4,27-28).

Sempre di sostanza in sostanza
dove la sorte ci precorse o il numero,
la legge o la necessità diffusa,
fummo la fissità nel movimento,
identità soggiunta a identità,
tempo nel tempo vivendo.

Ed i giorni rinascono dai giorni
l’uno dall’altro, perdita ed inizio,
cenere e seme, identità nel cielo.
Solo a volte ne esorbita un pensiero
come palla lanciata troppo in alto
non ritorna, sparisce nella gronda.
(Mario Luzi, Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1993, 181; 182).

Il percorso poetico di Mario Luzi (1914-2005) può essere immaginato come il venire alla luce di una semente gettata nella terra e chiusa ermeticamente nel suo guscio, ben protetta nella sua resistente pelle, ma poi costretta ad uscir fuori dal richiamo di forze amiche: «da forze buone, miracolosamente accolti che attendono confidenti qualunque cosa accada» (D. Bonhoeffer), non senza smarrimenti di sentieri entro l’intricata foresta del vivere nel mondo.

Natività, invocazione d’identità

E m’inoltro sospeso, entro nell’ombra,
dubito, mi smarrisco nei sentieri.
E nel ceppo non so che avviene, rigido
nel vortice di foglie macerate
e divise dai rami e dalla terra.

È la nostra foresta inestricabile,
ascoltane le foglie vive, i brividi
e la remota vibrazione, il timbro
d’arpa di cui percuotano le corde.
E questa la foresta inestricabile
dove cadono i semi, dove allignano,
genti che cercano il sole, viluppi
ciechi prima di attingere la luce,
prima di giungere al vento repressi.
Vieni tu portatrice di colori,
tentane con le mani caute i pruni,
estirpa i rovi, medica le scorze,
ma ferisciti, sanguina anche tu,
soffri con noi, umiliati in un tronco.

Che vuoi dirmi ancora, ancora farmi conoscere?
Chiuso nella sua pelle d’ombra
molto, è vero, deve finire
ma altro sgranarsi in pieno sole.
(ivi, 179-180; 492).

È da questo sprofondo avviluppato, cieco, chiuso nel legno, luogo di sementi cadute, di radicate genti, è nell’ombra scura, magmatica e vorticosa del reale che scaturisce il desiderio della luce, invocazione pure perché dispieghi i suoi colori a trasformare uno schizzo in paesaggio, l’abbozzo in un’immagine in movimento.

Se da un lato la poesia di Luzi è una discesa nell’abisso della realtà umana e delle sue storie disumane sino a incontrare il non senso, il patire e le angosce disperanti nondimeno, in modo simile, si aprono in essa brecce tra queste dure zolle, interstizi e fessure in cui entra la luce a schiarire le parole assimilate, sedimentate e oscurate poi nella memoria.

Così la discesa si muta in ascesa, da terrestre diviene celeste: sussulto, zampillo di luce è quel principiare ancora creativo, un’onda di luce che porta su in superfice parole finite, dimenticate che nel venire di un soffio di luce ridestano ancora senso e movimento, si sgranano e si riaggregano in altri pensieri e suscitano un altro sentire, uno sguardo altro in noi e fuori di noi.

L’identità come la poesia è fiotto di luce sgorgante dall’oscurità della coscienza rappresa, resa nuovamente ospitale ad una nuova natività.

Come la parola poetica così l’identità non è data una volta per sempre, ma rimane possibilità in divenire, creatività risorgente, infinita, di nuovo dono e conquista anche drammatica della luce sull’ombra. Essa srotola la sua raggiante oscurità, parola dopo parola, luce da luce, essa porta ad ampliare la verità su se stessi, sugli altri, sul reale come aurora risorgente dall’oscurità.

Identità aperta all’inverarsi e al trasalire del mistero

Chi sei? non so, ma certo qualcuno come te m’apparve altrove
in lembi di città visti e perduti
dietro un velo di pioggia o sotto un cielo
diviso tra una nuvola e un sorriso.
E silenzio e clamore d’un popolo che lotta ti fa ala.
(ivi, 251).

Ai versi di Mario Luzi fanno eco le parole di Giovanni Battista al Giordano che viene interrogato da scribi e farisei: «“Chi sei tu?”. Egli confessò e non negò, e confessò: “Io non sono”» e annuncia loro: “In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete”» (Gv 1,19; 26).

Giovanni e Gesù: l’Avvento e il Natale, la Voce e la Parola, la Lampada e la Luce, il precursore e la Via, l’Acqua e lo Spirito del battesimo, l’amico dello sposo e lo Sposo, il profeta e il Messia: vite in relazione, identità nascenti e convergenti, svelamento d’identità ignote, identità corrispondenti nel vincolo di un medesimo martirio di amore:

«Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo. E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio» (Gv 1,33-34).

Così scoprendo l’identità del Figlio amato, il Battista scopre la sua identità e missione in relazione al Cristo. È il testimone della luce, e al tempo stesso indica presente nel mondo la luce dell’Agnello (Ap. 21, 23). «Fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’agnello di Dio!» (Gv 1, 36) colui che strappa la tenebra dell’empietà, ed è venuto alla luce nell’“anteluce” del mondo direbbe Mario Luzi:

Fermo nell’anteluce
Immane
sopra di lui quel blocco
d’attesa e di silenzio,
gradinato dal suo verso,
scalato dal suo canto.
Non ha limite. Sempre
gli si riforma intorno, cresce
a dismisura, cuba quella montagna.
Non c’è nota così alta
che tutta la sormonti.
Storia dell’uomo
scesa tutta quanta
al seme, inclusa nell’ embrione
della sua doppia potenza –
Covano
male e bene
muti
in sospensione, all’incrocio degli eventi.
(Luzi, Il viaggio terreste e celeste, 32).

Chi sei tu?

Luce s’illuminò da luce,
fu ogni oscurità, la mia non meno,
abbagliata fino a quando … oh verità …
(ivi, 121)

“Sono colui che sarà”. È questa la risposta dell’apostolo Giovanni circa l’identità: «Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è» (1Gv 3,2). Sarà la stessa identità ricordata da Paolo svelando il grande mistero della vera religiosità in una lettera a Timoteo: immagine e somiglianza a Colui che

Fu manifestato in carne umana
e riconosciuto giusto nello Spirito,
fu visto dagli angeli
e annunciato fra le genti,
fu creduto nel mondo
ed elevato nella gloria.
(1Tm 3, 16)

“Ma voi, chi dite che io sia?”

L’identità nostra è come un sussulto sussultorio: inveramento e trasalimento di luce. Come l’alba fatica a nascere avviluppata e stretta nel buio grembo della notte che la trattiene al nascere, tutti aspettano il mutamento delle sorti, il miracoloso avvento al venire della luce: le genti insonni nei loro luoghi e il paesaggio, cime e precipizi, attendono il venire della luce nuova, luce vera «quella che illumina ogni uomo» (Gv 1,9).

Alba, quanto fatichi a nascere!
stretta
al suo nero impedimento,
non vuole tu ti sciolga
la notte
dal suo buio grembo.
O sono io non pronto
ancora
al tuo miracoloso avvento …
Ti aspettano con me –
lo sento – i profili montuosi,
le cime,
I precipizi
Ti tiene
alcuno
del luogo e della mente
nella plebe degli insonni
e anche
nelle gallerie dell’anima

e le acque
che aprono
il loro borbottio notturno
a un più vetrato
e cristallino canto
e gli uccelli
che smaniano e non tengono
nella gorga il loro verso,
tutti,
alba, ti aspettiamo
sapendo e non sapendo
quel che porterai con te
nella tua ripetizione antica
e nel tuo immancabile
antico mutamento.
(ivi, 95-96).

Una risposta attende ancora

La luce attende una luce, la mia. Risposta non d’altri, ma nostra, proprio e solo nostra. È questa che manca ancora. È quella che sola ci farà davvero pronti al suo miracoloso avvento. Egli oggi non può parlare ancora – La Parola è senza parole, solo silenzi, vagiti nel pianto e nella gioia abbracciato – in tutto simile a noi, eccetto la violenza che mortifica e spegne la luce che vive nei fratelli e nelle sorelle, il male oscuro che sfigura e dissolve la primitiva immagine dell’identità nostra.

Ma vi è stato un giorno narrato nel vangelo pieno di domande e risposte, così ricorda l’evangelista Marco: «Gesù saliva a Gerusalemme, là dove un centurione, un pagano sotto la croce, avrebbe riconosciuto la luce più segreta e più intima della sua identità di Unigenito: «Poi Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: “La gente, chi dice che io sia?”. Ed essi gli risposero: “Giovanni il Battista; altri dicono Elia e altri uno dei profeti”. Ed egli domandava loro: “Ma voi, chi dite che io sia?”. Pietro gli rispose: “Tu sei il Cristo”. E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno» (Mc 8,27-30).

Non basta la risposta d’altri. Nemmeno quella di Pietro che parla a nome di tutti. Per balbettante o silenziosa che sia occorre dare una risposta anche ora, per non rendere finita un’identità infinita, come quella di un bambino appena nato: almeno due mani protese, due occhi stupiti e lieti e pur increduli di fronte l’ignoto, allo straniero che è venuto alla luce, luce da luce ai nostri sguardi rapiti.

Come ceri vacillanti tra due abissi

Sì, una risposta è attesa, che potrà essere anche lunga come un viaggio tra due abissi, terreste e celeste, non importa quanto, e in questa itineranza si sta “come cero vacillante tra due mondi”.

L’espressione è di Marie Nöel scrittrice e poetessa francese praticamente sconosciuta in Italia; nata nel 1883 e morta il 23 dicembre 1967; amica e sorella degli animi turbati dal dubbio, segnati da un’incredula fede di fronte al mistero di Dio e quello inquietante e drammatico della condizione umana.

«Quando Dio ha soffiato sul mio fango per infondergli la mia anima, Egli ha certo soffiato troppo forte. Non mi sono mai ripresa da questo soffio di Dio. Non ho mai cessato di tremare come un cero vacillante tra due mondi… Galleggiare nell’ombra come uno che è per metà affogato e che, di tanto in tanto, riemerge in superficie. E mi riafferro come posso agli sparsi relitti della mia fede» (Diario segreto, trad. Adriana Zarri, Sei, Torino 1961, 27).

«Talvolta Dio mi è dolce e io sono portata da Lui come una piccola nube del buon tempo, come lanugine dalla brezza. Ma, talvolta, è terribile; quando in Lui non vedo più viso né cuore, né Figlio né Padre, niente altro che notte senza limiti, altezza di tenebre senza scale, che mozza il mio respiro» (ivi, 82);

«Mio Dio, abbiamo sofferto l’uno per l’altro. Voi della mia piccolezza, della mia infermità, del mio errore e del mio difetto. Io della vostra grandezza» (ivi, 170);

«O Cristo, imprudente per Amore, Tu sei venuto per morire, con noi, per noi… Nella Notte della Natività Egli viene a cercarci dove siamo, nella nostra bassa umanità, per guidarci a Dio attraverso le nostre strade. Nel giorno dell’Ascensione Egli ci trascina dove è Lui, nella sua alta Divinità e ci attira a Dio attraverso la sua strada» (ivi, 280; 287).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Appuntamento con Cosetta.
(Un racconto di Natale)

Appuntamento con Cosetta

Un  racconto  di Carlo Tassi

Verso le dieci della sera di una passata vigilia di Natale.

«Aiuto… aiuto… aiuto… per favore…» La voce stridula rompeva il silenzio della stanza di continuo, da oltre un’ora.

«Aiuto… aiuto… aiuto… vi prego…» Non c’era modo che la smettesse, e nessuna comprensione in chi l’ascoltava.

«Venite ad aiutarlo, santiddio!» esclamò qualcuno dal letto a fianco. «Verrà mai nessuno in questo posto senza misericordia?» chiedeva esasperato.

L’uomo pigiò il pulsante dell’emergenza. Quel lamento del vecchio che insisteva e non lo faceva dormire era un tormento che gli sollevava la pelle, come un’unghia che graffia una lavagna. Poi il tormento divenne uno strazio che lentamente iniziò a bruciargli nel petto, nello stomaco, nelle tempie.

“Dove sei finita Cosetta? Perché non vieni? Mi son cacato addosso, mi brucia tutto il sedere, mi fa male il tubo, m’impedisce di fare pipì, mi sento scoppiare…” Il pensiero restava imprigionato dentro, nessuno lo poteva sentire. Usciva solo un filo di voce stridula, affannata, rantolosa, che ripeteva sempre la stessa cosa: «Aiutatemi per favore… aiuto, aiuto… per favore, vi prego…»

Arrivò un’infermiera a passo veloce, e accese il neon della stanza. Il paziente che aveva chiamato le diede un’occhiataccia. «Ho suonato io. Sarà un’ora che implora e si lamenta!» spiegò.

«C’è stato il cambio turno. Ora ci penso io, lei cerchi di dormire.» rispose l’infermiera. «Che c’è Ginetto cosa c’è che non va?» disse rivolgendosi all’altro.

“Perché gli parla se sa che non la può capire? A che serve? Certo, quando domattina se ne tornerà a casa le seccature di stanotte se le dimenticherà in un attimo…” pensò il paziente del letto 52 a fianco. «Non gli può dare qualcosa per farlo dormire?» chiese all’infermiera.

Il paziente del 52 era stanco, avvilito. Avrebbe voluto stare in un’altra stanza ma erano tutte piene. Si sentiva in trappola, esattamente come l’altro, anzi peggio. Perché lui la testa non l’aveva mica persa, lui il cervello ce l’aveva ancora a posto.

L’infermiera non replicò, stava controllando il monitor dei parametri vitali di Ginetto, e Ginetto la guardava ma non la vedeva. “Ho sete, mi brucia la gola. Nessuno mi dà da bere. Chiedo solo un sorso d’acqua, perché nessuno mi aiuta?” Il pensiero era intrappolato e s’attorcigliava dentro quel fragile corpo implorandone i bisogni. «Ho sete… ho sete… ho sete…» riuscì a sussurrare Ginetto. La sua voce era un rantolo, ma sembrava che l’arrivo dell’infermiera gli avesse restituito un attimo di senno.

«Non posso darti da bere Ginetto, non riusciresti a mandarla giù l’acqua. Ti stiamo idratando con le flebo, stai tranquillo!» disse la donna mentre regolava la valvola della sacca appesa al trespolo sopra il letto.

“Ma che gli parlo a fare se tanto non capisce?” si chiedeva la donna tra sé, e anche il paziente del 52 se lo chiedeva. Ginetto era in preda al delirio e loro lo sapevano. Soffriva di demenza senile da due anni e ormai la sua vita era appesa a un filo. Da alcune settimane i rimasugli di lucidità di Ginetto s’erano tutti esauriti, e anche l’energia vitale si stava consumando velocemente.

Magari rivolgergli la parola serviva a mantenere una parvenza di normalità, a fingere che fosse tutto a posto o quasi. Lo imponeva la coscienza di chi gli stava intorno, chissà. La verità è che a volte le cose si fanno e basta, senza tanto chiedersi il perché.

«Ma dateglielo questo sonnifero così s’addormenta e finalmente si respira tutti quanti!» sbottò il paziente del 52. Avrebbe voluto un po’ di tregua, un po’ di silenzio per poter riposare e tornare ai suoi svagati pensieri, interrompere quello strazio insomma.

«Rosati, non possiamo dargli sonniferi, non li sopporterebbe, è rischioso.» gli rispose l’infermiera.

«Allora datelo a me, non riuscirò a dormire stanotte se quello continua a lamentarsi.»

«Neanche lei può prendere altri sonniferi, il medico è stato chiaro.»

«E allora domani chiedo che mi mettano in un’altra stanza. Sono cinque notti che non chiudo occhio a causa dei suoi lamenti.»

«Rosati, domani è Natale, ci sarà solo il medico di turno e tutti i letti sono occupati. Il responsabile per queste cose lo troverà solo il ventisette. Porti pazienza Rosati… A proposito, buon Natale!» chiarì l’infermiera.

«Sì sì, buon Natale!» rispose lui, anche se quell’augurio suonava più come un’imprecazione. Si domandava cosa mai avesse fatto di male per subire questa ennesima ingiustizia. S’era rassegnato da tempo a dover passare le feste in ospedale, ma si chiedeva perché mai dovesse scontare tutta questa angoscia proprio il giorno di Natale. Sentire i rantoli e le suppliche continue di quel poveretto era diventato insopportabile e non riusciva a darsene pace.

Dopo che ebbe finito di sistemare Ginetto, l’infermiera diede una rapida occhiata alla scheda con le terapie da somministrare a Rosati, poi, con un accenno di sorriso, se ne andò.

“Cosetta, vieni… Cosetta, vieni dai. Vieni dai… Cosetta dove sei? Sono solo e nessuno mi aiuta. Cosetta amore mio, non ti ho detto mai quanto ti amo? Ho sete e nessuno mi dà da bere, ho la pipì e non me la fanno fare. Voglio tornare a casa da te Cosetta. Mi brucia il sedere e non riesco a muovermi, non riesco a fare niente e non viene nessuno ad aiutarmi. Nessuno mi aiuta…” Il pensiero si agitava in quel corpo inerme, urlava oltre lo spazio e il tempo, oltre le altrui ragioni.

Ottantacinque anni di pelle e ossa. Le gambe rattrappite, immobili, piegate su se stesse. I polsi legati e le braccia sottili e inferme, troppo deboli per liberarsi da quella gabbia a forma di letto. Gli occhi infossati che roteavano nel buio delle palpebre chiuse come sigilli. La bocca spalancata, senza denti e con la lingua seccata e gonfia che vibrava affannosamente ad ogni rantolo. La voce rauca, stridula, che con bizzarra tenacia sfidava il silenzio nonostante l’ormai chiara mancanza di una lucida e autentica volontà.

Privato di tutto. Senza più mutande, senza più dignità. Ridotto a un fantoccio senza più nemmeno una faccia da ricordare, giusto da compatire. No, non era questa la fine che s’era immaginato.

Ogni respiro in più pareva una scommessa, eppure non smetteva. Non voleva cessare di battere questo suo cuore testardo, non ancora.

Così, disperso nei suoi perduti ricordi come per aggirare il presente, oltre quel letto maledetto, oltre quel corpo irriconoscibile, inutile, insignificante, Ginetto chiamò i suoi morti. Chiese aiuto a loro perché loro se ne stavano tutti lì dentro di lui, ben al riparo nei suoi pensieri. E lui adesso stava insieme a loro e non si sentiva più solo. I suoi occhi erano opachi, s’erano spenti da tanto tempo. Ma a che serviva la luce di fuori, con quelle ombre che si muovevano tutt’attorno farfugliando cose che non riusciva a capire? A che serviva se ora poteva vedere nel buio dentro di sé? Un buio che stava per illuminarsi e colorarsi sfidando l’incomprensibile?

Ora da quel buio qualcuno era arrivato.

Qualcuno che conosceva bene e che aveva nominato spesso e a lungo.

Qualcuno che amava e aveva amato da sempre.

“Cosetta, amore mio, finalmente! Ho sete, tanta sete. Portami da bere, portami a casa, portami con te!” era il suo pensiero a parlare ancora.

Lui la vedeva, giovane e bella come un tempo, come sempre. E fu come un tuffo al cuore, come fosse del tutto normale.

In quell’istante nessuno sentì o vide nulla. Rosati dormiva perché, grazie al cielo, il suo compagno di stanza aveva smesso di lamentarsi.

In quell’istante Cosetta gli parlò: “Gino sono qui, sono venuta a prenderti, a portarti via con me…”

 

È Natale. Forse Cosetta se l’era ricordato e gli aveva finalmente dato retta, chissà.

Il fatto è che ora erano di nuovo insieme, proprio come voleva lui.

È Natale, Gino, ora anche per te!

Dal satellite.
(un racconto di Natale)

Dal satellite

Un racconto di Silvia Tebaldi

C’è quella canzone, il tizio che dice Ad un tratto so che devo lasciarti, tra un minuto me ne andrò: il minuto è passato, Tizio, sei ancora qui? In silenzio morderai le lenzuola, so che non perdonerai, ma figuriamoci, quién te conoce a vos! Vai, vai. Mentre va la musica, nella stanza di là. Mai stati indispensabili, voi, tizio. Che qui lo sappiamo da millenni, cos’è davvero importante: la notte stellata dentro di noi.

Poi la musica è cambiata. Nell’appartamento di là, nello stereo dei vicini. Ma ora ascolto motori in lontananza, il compressore del frigo, il buio. Ci son più cose in cielo e in terra, tizio, di quante tu ne sogni. E da qui, dal satellite, da qui vedo lo spazio e i suoni.

Di mattina aiuto un’anziana poi torno qui, in questa casa in prestito, e lo spazio si espande fino all’alba. Vengono a portar via gli scatoloni, le cose dei padroni di casa: la venderanno, intanto si fa sempre più spaziosa. Già ora senti tutto. I pensieri. I vuoti tra i pensieri. Oliveros, Panaiotis e Dempster che suonano in una cisterna vuota sotterranea. Un karaoke in via degli Ostaggi, i camion, il ronzio delle luminarie di Natale. I passi. I respiri.

Da qui, dal satellite, vedo il tempo e le porte dell’aurora. Cassiopea, M42, la stella centrale. Da qui, dal quinto piano, si domina la valle. Il satellite ai bordi del mattino.

Una che abita qui accanto, non quella dello stereo, un’altra vicina,  ieri mi ha chiesto come va, ogni giorno così, e come sta la vecchia. Tutto passa, le dico. Lei ci prova a farmi parlare, ma no. Nessuna afflizione. Rabbia sì, dolore sì, ma nessuna afflizione. Non parlo spesso di politica. Li inghiottirà la terra, quelli che hanno tradito chi lavora, che hanno messo le bestie in schiavitù. Chi brutta la terra, chi affama la gente, chi inganna brucerà nel fuoco. Stavo piegando le lenzuola e le dico ecco, non piove più come una volta, ma ci son certi cieli. Albe come in Antartide. Guarda. Li inghiottirà la terra, ma una luce.

Il Satellite è un sobborgo alle porte di Ferrara. Vivo da tanti anni altrove, mille chilometri lontano, ma in questa città ci sono nata. In un luogo che aveva nome gli Orti della Consolazione. Qualcosa vorrà dire. Tutto passa.

L’anziana l’ho portata dalla parrucchiera, là  in fondo a via Gandini, poi al bar. L’insegna si vede bene, bar Satellite, dalla strada che va verso Bologna. E le chiedo Teresa, lo sai perché si chiama Villaggio Satellite? Certo, mi risponde, perché eravamo persi nello spazio.

Poi ho piegato e inscatolato certi golf, certe tovaglie. Tutto passa, le cose cambiano di mano finché servono poi ritornano polpa, muffa e polvere. Come noi. E ora sto qui seduta, al buio, guardo fuori ed è notte. Me le ricordo queste notti, le più lunghe dell’anno, ai tempi della Consolazione. Il cielo denso come vino, il brusio dei pianeti.

L’ultima luna. Rigel, gemma di Orione, che si specchia in un fosso.

Tra due giorni è Natale e tutto passa, tutto è qui.

Non importa chi sono o chi son stata. Se fui nell’Aleph, nella mente del memorioso Funes, nel Ciclo dell’Impero o in un meschino impero di quaggiù, di queste terre emerse. Sono una che piega le tovaglie, che accompagna in bottega la Teresa. Storie non ne ho mai scritte, in vita mia, ma quante ne ho ascoltate. Sono una voce, ecco tutto.

A un certo punto il tizio che cantava ha detto che torna a casa, dalla sua donna che starà dormendo, ha detto che il suo posto è là. Vai vai, gli ho detto, fottiti. Poi ho acceso la luce, dovevo andare in bagno e il corridoio è pieno di scatoloni.

E cosa c’era. Cosa ho visto. Trovato. E ora posso scrivere una storia. Finalmente. Con questa voce qui.

Ho questa voce, qualcosa vorrà  dire.

Quando Natale sarà passato e toglieranno le luminarie dalla strada, la ruota panoramica dal parcheggio, quando ritornerà il vuoto dei giorni, allora avrò finito di riempire gli scatoloni. E allora ti racconterò. I giorni saranno ognuno un po’ più lungo del giorno prima, le notti una dopo l’altra più brevi, la volta celeste avrà altre stelle. Ma prima sarà Natale, la rivoluzione di un bambino. Natività. E allora pace in terra e buone feste a chi le merita.

Ascolta.

E’ quasi giorno.

Cover: Fotogramma da Blade Runner

Antichi amici.
(un racconto di Natale)

Antichi amici

Un racconto di Francesco Monini

Vorrei che tu venissi da me in una sera d’inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse (insieme senza saperlo).
Dino Buzzati

Nevicava forte da tre giorni e tre notti ma Knulp nemmeno se n’era accorto. Le grandi finestre della sua casa erano protette da strati di tende, spesse e scure. Non era una neve a casaccio, era quello il luogo e il tempo stabilito, la sua stagione, ma era esattamente la stagione che più dispiaceva a Knulp.
Knulp quella vecchia storia del Natale non l’aveva mai capita. E siccome non la capiva, gli provocava una sorda irritazione. Era in discussione la posizione in classifica del magnate Knulp, se fosse nei primi dieci o nei primi trenta, ma le classifiche contano quello che contano, e per il plutocrate Knulp non contavano un bel niente. Knulp contava solo i suoi soldi. Per dirla in breve, aveva tanti soldi che, per precauzione, non aveva famiglia né figli né amici.
Non che fosse solo, al contrario, era sempre in compagnia, e anche quella sera di Vigilia era impegnato nella sua usuale e prediletta occupazione, contare e ricontare i suoi denari, calcolare i suoi incassi, numerare i suoi averi, organizzare spostare moltiplicare i suoi investimenti nelle borse di mezzo mondo.
Grazie al suo Mac di ultima generazione e a Nostra Signora della Banda Larga, Knulp aveva diradato al massimo le sue uscite. Da più di un mese Knulp non metteva il naso fuori dall’uscio di casa. Non gli piaceva il freddo, non gli piaceva la neve, soprattutto non gli piaceva il Natale. Non capiva perché dovesse esistere nel calendario un giorno diverso da tutti gli altri. Un giorno all’incontrario, dove il buio diventa luce, l’avaro si scopre generoso, il cattivo si tramuta in buono. Quella bella storia, quella dolce leggenda, era una balla colossale, una bugia adatta per i gonzi, una truffa.
Il poderoso Knulp, la vecchia volpe della finanza internazionale, non cedeva all’inganno del Natale.
E, come gli capitava negli affari, lo affrontava in campo aperto e a muso duro, seduto comodamente sulla sua enorme poltrona Frau, affrontava il Natale da solo, senza seguito, senza esercito e senza amici. Lui di amici non sentiva proprio la mancanza, nemmeno a Natale.
“Eh, che dici?, che almeno a Natale servono gli amici?”, Knulp guardò dritto negl’occhi il signor Natale e si limitò a fare no con la testa. Lui di amici non ne aveva punto, Non ne aveva mai avuti, proprio per questo era arrivato lassù, in classifica tra i primi dieci o i primi trenta. A pensarci bene, e quella notte senza sonno sembrava fatta a posta per collezionare ricordi, molti anni addietro un amico lo aveva avuto. Ma con i ricordi, forse solo con quelli, l’impareggiabile Knulp non era proprio un campione.
Come si chiamava il suo amico? Knulp pensa, preme una mano sulla fronte, ma quel nome non gli viene. Si chiamava Paul? Sì, forse, no, non si chiamava Paul. Knulp si alza di scatto dalla poltrona, cammina in tondo nella grande sala.
Eppure lui e Paul, anche se non si chiamava Paul, stavano insieme tutti i pomeriggi dopo la scuola. Tutti i giorni, nel vento d’aprile, sotto le nuvole antropomorfe di giugno, calpestando le foglie d’autunno o facendosi largo nel bianco del Natale.
Già, lui quella storia trita e ritrita del Natale non la capiva proprio. Ma allora, quanti anni prima? Diciamo cinquanta per amore di un numero tondo, lui e il suo amico erano inseparabili. Due veri gemelli. Tutti i giorni insieme, compreso il giorno di Natale. Ma che facevano? Parlavano parlavano parlavano, anche se Knulp non ricordava una parola, nemmeno una parola dei loro discorsi infantili. E camminavano, giocavano, ridevano.
Ridevano? Probabilmente sì, ma perché, e di cosa, che avevano da ridere quei due bambini lontani e irriconoscibili? A dir la verità, per quanto in quella notte insonne si spremesse le meningi, per quanto socchiudesse gli occhi per raggiungere gradualmente il buio assoluto e cercasse in quel buio di tornare indietro nel tempo, per la verità questi esercizi di mnemotecnica non sortivano alcun effetto.
Nel silenzio assoluto della sua memoria Knulp sente le campane. Come, esistono ancora le campane? Conta meccanicamente i rintocchi: mezzanotte; per Knulp è un’ora come un’altra. Ma per dio, qual era il nome del suo antico e unico amico? Si avvicina a una grande finestra, scosta a fatica le tende e le spalanca.
In quell’esatto momento scende dal cielo l’ultimo enorme fiocco di neve. Cade proprio in testa a Knulp che si porge pieno di meraviglia, la bocca aperta contro la sua volontà. Ha smesso di nevicare e il grande giardino è illuminato a giorno. La luce lo acceca. Deve coprirsi gli occhi con le mani.
“Vorrei dare un’occhiata alla nostra matita magica.”
Knulp si volta e vede un ragazzino seduto sulla sua amata poltrona. Non è proprio seduto; sta accovacciato, le scarpe da tennis, i calzoncini corti e la maglietta bianca.
“Sono qui per la matita, ma anche per quell’altra cosa, il nostro appuntamento, ricordi?”
Knulp non riesce a parlare, sente le gambe molli e l’acqua nello stomaco.
“Allora, dov’è la nostra preziosa matita? Te l’avevo lasciata perché tu la tenessi al sicuro. Dove l’hai nascosta? Hai una cassaforte in questa tua grande casa?”
Knulp cerca di ricapitolare. Non c’è dubbio, quello è un fantasma; ma è un fantasmino giovane, un fantasma apparentemente innocuo.
Ma è proprio lui, è il suo amico Nicolas. Ecco come si chiamava, Nicolas. Finalmente la sua memoria aveva ricominciato a funzionare.
“Sei un po’ strano Knulp, non sembri nemmeno tu. Sei meno scattante, te ne stai lì fermo, come un chiodo piantato su una porta. E non capisco, non sembri nemmeno contento di vedermi.”
Nicolas va verso di lui, senza bisogno di camminare. E continua:
“Certo, se non venivo io, tu da solo la pentola non la troveresti mai, campassi cent’anni. Mi sembri un baccalà sotto sale, ma non sai quanto sia felice di rivedere il tuo muso. Era talmente tanto tempo…”
Knulp cerca dentro di sé un po’ di coraggio e prova a rispondere alla sua maniera, attaccando a testa bassa.
“Se è uno scherzo mi pare sia durato abbastanza. Ma di quale diavolo di matita parli? E quale caspita di pentola?”. Abbassa la voce e si fa più conciliante: “Lo ammetto, sei il ritratto sputato del mio vecchio amico Nicolas, ma non devi prenderti gioco di me. Dovresti sapere che personaggio sono diventato mentre tu… Mentre tu non lo so, ma non sei diventato niente, sei uguale identico ad allora.”
Nicolas fece una risatina cristallina: “Bella forza caro Knulp, io sono morto cinquant’anni fa.”
Knulp: “Appunto, caro Nicolas, allora perché mi vieni a disturbare dopo tanto tempo? E perché proprio questa notte?”
Nicolas: “Perché è Natale, lo capirebbe anche un bambino. E anche per dare un’occhiata alla nostra matita magica. E naturalmente per il nostro appuntamento con la pentola.”
Va bene, pensò Knulp, tanto vale assecondarlo.
Se ricordo bene, e davvero stava incominciando a ricordare, Nicolas è sempre stato tremendamente cocciuto. Ma di che matita parlava? In un lampo rivide la scena con assoluta chiarezza. Avevano sette anni lui e Nicolas e per terra avevano trovato una splendida matita rossa e blu, di quelle che usavano una volta le maestre per correggere i compiti. Era nuova fiammante, mai adoperata. Era stato Nicolas a battezzarla: “Sarà la nostra matita magica.”
Corse alla scrivania e, dopo cinquant’anni esatti, la estrasse dal fondo dell’ultimo cassetto.
“Eccola”, disse trionfante a Nicolas, e fece una gran risata. La prima, dopo cinquant’anni esatti.
“Bravo Knulp, ma ora è arrivato il momento. Si fa tardi, andiamo in giardino.”
Nicolas si avviò verso il portone di Noce.
“Aspetta, sono in camicia, lasciami prendere il cappotto.”
“Dai Knulp, non c’è più tempo. Sarà questione di un attimo.”
Il giardino è pieno di una luce bianca e morbida. Knulp cammina nella neve, Nicolas vola. “Dove andiamo?”, chiede Knulp. Nicolas indica col dito il fondo del grande giardino: “Là, non lo vedi?”
I due strani amici sono arrivati. Knulp tocca con le mani l’arcobaleno di ghiaccio. Ne stacca un pezzo di un rosso vivo, lo mette in bocca e sente il sapore di fragola. Un arcobaleno d’inverno? In piena notte? E proprio nel suo giardino?
Nicolas sta frugando con le mani nella neve fresca, proprio ai piedi dell’arcobaleno.
“Eccola!”, grida, “vedi Knulp, non era una stupida leggenda.”
Eccola la loro pentola d’oro.
Dovevate esserci per gustarvi la scena. Ora il grande, il poderoso, l’invincibile Knulp rideva come un bambino piccolo, batteva le mani e lanciava urla come un capo indiano.
Arrivò all’improvviso. Sentì un dolore secco, un artiglio che gli penetrava dentro il petto. Si piegò in avanti e cercò con gli occhi il suo antico e unico amico:
“Ho paura Nicolas. Ho molta paura.”
Il ragazzino fantasma gli sorrise: “Non farà tanto male.”
Allora Knulp si distese a terra. Sentì che un fiocco di neve si era posato proprio sul suo naso e gli venne ancora da ridere. La luce del giardino si era spenta. Riprendeva a nevicare.
Alcuni giorni dopo un gruppo di bambini che giocava a palla di neve trovò il suo corpo. Discussero a lungo e animatamente se fosse un uomo o una statua distesa.
Una minuziosa quanto doverosa inchiesta non riuscì a chiarire  alcune strane circostanze del decesso del senatore Knulp. Perché avesse deciso di scendere da solo in giardino in una notte di gran gelo. Perché ci fosse andato in quello stato, in maniche di camicia e a piedi scalzi. Il corpo non presentava nessuna ferita, ecchimosi o lesione. La faccia gelata di Knulp aveva un ghigno strano, pareva quasi sorridere.

Bianco Natale.
(un racconto di Natale)

Bianco Natale

Un racconto di Simonetta Sandri

“La neve è una poesia. Una poesia che cade dalle nuvole in fiocchi bianchi e leggeri. Questa poesia arriva dalle labbra del cielo, dalla mano di Dio. Ha un nome. Un nome di un candore smagliante. Neve”. Maxence Fermine, “Neve”

Inverno, con il suo bianco, con il suo candore, con il suo freddo che è anche tepore, con la sua magia di favola e la sua voglia di casa. Inverno, che arriva piano piano, quatto quatto e, che, con cautela e immensa delicatezza, ci porta al Natale. Al bianco Natale. Quel bianco che non sempre arriva e che tutti aspettiamo, per sognare un po’.

Il bianco della neve c’è, però basta volerlo, basta immaginarlo per vederlo.

Dalle tendine candide finemente ricamate, scorgiamo fiocchi di neve danzanti, alcuni si prendono per mano altri si abbracciano un po’ più stretti. L’unione fa la forza, sempre.

Talora, se ci troviamo in una rigida città del nord Europa, nella favolosa e imperiale Russia o, semplicemente, alle pendici delle nostre belle Dolomiti, la distesa bianca avvolge tutto.

Noi siamo dietro quelle tendine della nonna, però, al caldo, abbracciati a un orsacchiotto di peluche o al nostro grande amore di sempre, e ringraziamo Madre Natura per il dono di tanta immensa bellezza, mentre ci godiamo il teporino di un fuoco rossastro e scoppiettante. È sempre bello sognare, e non solo a Natale.

La neve scende, quando decide di volerlo, ammanta pensieri e preoccupazioni, dolori, tristezze e sventure, cerca di ammansire le nostre paure di fronte a un mondo che non capiamo più così tanto. Ci culla.

La neve abbraccia i giochi dei bambini, li aiuta a inventarsi un pupazzo trasparente, magari con le sembianze di un nonno che fu ma sempre presente o di una famiglia felice che sia proprio la loro.

La neve cancella i peccati, spazza via i dispettosi capricci di re e imperatori, per un attimo mette tutti sullo stesso piano, al riparo o allo scoperto. Una specie di livella. Isola e separa ma unisce e rafforza. Chiude e rabbuia un po’ ma apre e ridà anche tanta luce. Avvolge con cura, come un mantello lanoso caldo e protettivo, come una stretta calorosa.

La neve è magica, ha un animo di carillon. Suona melodie gentili, d’altri tempi.

La neve è il mistero della natura che fa germogliare nella testa una goccia di poesia, che risveglia l’anima e le dà ancora più bellezza di quella che già non abbia di per sé stessa. Permette di viaggiare e volare senza muoversi, solo con la fantasia, il gioco e l’amore, di diventare poeti, senza parlare, di guardar fuori e trovare l’ispirazione per scrivere e sognare, di abbellire tutto quello che può essere abbellito ma anche ciò che difficilmente lo è, in circostanze normali.

La neve ci dà la possibilità di ritirarci dal mondo, per un lungo o breve ma potente attimo, per meglio sbalordirsene. Ci dà respiro. Ci fa scappare lontano, se solo lo vogliamo.

La neve ci sveglia un bel mattino, e guardandola scendere lentamente ci fa prendere il tempo dovuto per osservarci vivere. La Natura ci vuole avvertire della necessità di guardare dentro e fuori di noi, con altri occhi, con purezza e libertà, con spensieratezza e magia. Con la leggerezza che oggi manca al mondo.

Quando quel manto delicato cade, c’è un pezzo di universo vestito di bianco, là fuori, che non vede le orme lasciate su di esso, quelle orme di chi cammina senza meta, di chi cerca di non lasciare tracce troppo pesanti del suo passaggio, di chi si muove senza far rumore.

Ogni cristallo di neve è diverso dall’altro, ognuno è unico e originale, proprio come ciascuno di noi. Ognuno cade solo, ma, alla fine, immancabilmente unito agli altri nello stesso destino. Tempestivo, puntuale, preciso, implacabile, sicuro, ma, talvolta, fiorito. Tutto è bianco. Tutto riposa, tutto ispira serenità e tranquillità. Tutto tace.

Il bianco è puro, è semplice candore, è quello che ricopre i rami secchi di un albero che svettano verso il cielo, alla ricerca di una luce che li illumini e li guidi, è quello delle ali di un gabbiano che vola lontano, leggero e libero, fra le nubi e le gocce di rugiada. È quello di una nuvola, del cuore di un’orchidea o di una rosa che si schiude al tepore del mattino.

Bianche sono la stella alpina, il fiore delle montagne, simbolo di coraggio, la calla, il fiore delle spose, simbolo di purezza e d’inizio di nuova vita, l’acacia bianca, che si regala all’innamorata, simbolo di amore platonico. E, ancora, candide sono le camelie, le rose, i tulipani, le gerbere, le margherite, i gigli, i gelsomini, le dalie, i glicini, le arcangeliche.

Nel giardino botanico di Mosca mi sono imbattuta in un’ombrellifera affascinante, imponente e dall’aria protettiva. Pulsante. Al bianco delle sue grandi ali, si può riposare, guardando lontano, tranquillamente e serenamente. Senza troppi pensieri.

Bianche sono le ali degli angeli, bianchi sono i petali dei fiori, bianche sono le pellicce degli orsi, bianche sono le cime delle montagne, bianche sono le code delle comete.

Bianca è la superficie del lago ghiacciato, che nasconde gli errori della nostra stagione precedente, che porta lontano con dubbi, rimorsi, pensieri e sogni, ma che è pronto a rinascere l’estate successiva. Con forza, determinazione e certezza.

La natura, con questo colore, ci guida alla fase vitale, all’inizio di tutto, al nostro io più profondo. Bianco è speranza per il futuro, fiducia nel mondo e nella sua purezza, voglia di cambiamento e di un nuovo inizio, raccoglimento, protezione, candore, innocenza, trasparenza, silenzio, freddo ma anche caldo, perché il bianco ci accoglie, sempre.

Bianco è l’amore e la pazienza. Bianca è la natura, il foglio intarsiato sul quale siamo stati creati, vergine, puro, leggero, trasparente, intonso e libero, sul quale poter scrivere giorni, mesi e anni. A noi provare a mantenere quel candore, sapendo che, comunque, qualche macchia sarà inevitabile. Ma guardando la neve, fuori, cadere libera, provocante e leggera potremo tentare di capire, insieme a lei, come provare a scrivere su quel foglio senza troppe sbavature. Teneramente abbracciati.

Un singolo fiocco di neve può piegare una foglia di bambù. Proverbio cinese.

Foto in evidenza e altre nel testo, San Candido, Simonetta Sandri

La vigilia.
(un racconto di Natale)

La vigilia

Un racconto di Simona Baldanzi

Il responsabile della farmacia, dopo mesi dalla mail che aveva inviato, aveva ottenuto finalmente l’incontro col direttore generale del grande centro commerciale. Il buio era calato da un pezzo sulla piana e l’enorme parcheggio si era quasi del tutto svuotato. La torre ricolma di scritte sfidava la luna.

L’appuntamento era stato segnato in agenda come ultimo della giornata, il che non prometteva niente di buono. Mentre l’uomo dal camice bianco prendeva l’ascensore stringendo una cartellina, il direttore si guardava allo specchio del bagno nel suo ufficio. La fortuna di essere biondo, gli permetteva di non farsi la barba ogni giorno, ma avrebbe preferito un viso dai lineamenti più duri. Gli occhi celesti e l’incarnato chiaro lo facevano assomigliare troppo a un bravo ragazzo, piuttosto che al responsabile di settantamila metri quadri di vetrine, luci e soldi che girano e si appiccicano addosso come moscerini d’estate. Sua mamma continuava a chiamarlo il mio angelo e lui proprio non lo sopportava. Non era più un bambino timido che quando pisciava a letto si prendeva delle grosse ripassate dal padre. Aveva fatto carriera e in poco tempo aveva riscattato l’intero mutuo di casa sua e di quella dei genitori, così non dovevano più preoccuparsi di tenere i conti delle misere pensioni. Quando sentì bussare, tirò su la lampo dei pantaloni, sistemò i lembi della giacca, si diede un piccolo sbuffo sulle guance più come gesto scaramantico prima di ogni incontro di lavoro che per darsi una svegliata, chiuse la porta del bagno e andò verso la scrivania dicendo deciso – Avanti –

Il farmacista, dopo aver stretto una mano, dopo essersi seduto, sapendo di non avere molto tempo, aprì la cartellina e andò dritto al cuore del discorso.

– I dati sono allarmanti. In questo supermercato le vendite di antidepressivi, stabilizzatori dell’umore e ansiolitici vanno ben oltre la norma. Sono soprattutto le commesse a farne uso e sotto le feste ci sono dei picchi clamorosi. Si avvicina il Natale e forse bisognerebbe…

– Mi spiace interromperla. Come me sarà stanco dell’intera giornata per cui non voglio farle perdere tempo. Ho letto il suo dossier. Molto interessante. Ma non crede che vada oltre il suo ruolo dentro questo luogo? Si immagina l’attenzione della stampa, il dibattito che ne seguirebbe, la rogna dei sindacati, di tutti quelli che vogliono fare la morale?

– Ho ben presente la morale nei secoli dei secoli.

– Lei usa delle espressioni strane alle volte. Anche nella sua mail, sa? Eppure nutro una certa simpatia nei suoi confronti.

– È sempre stata la mia rovina avere gente come lei dalla mia parte.

Le pupille nere dentro gli occhi azzurri si dilatarono. Doveva liberarsi di quel rompiscatole arrogante.

– Se è così, può chiudere quella cartellina e andarsene.

Da sotto la scrivania un vento gelido avvolse le gambe del direttore. Ebbe un tremore. Diede un colpo d’occhio a finestre e porte, ma tutto era chiuso. Guardò l’uomo che aveva davanti a sé che non si era scomposto. Gli prese una strana tosse che a tratti gli impediva di respirare. Il farmacista gli avvicinò la bottiglietta di plastica che stava sulla scrivania. Quando il volto d’angelo smise di essere paonazzo disse: – Lo vede? Il freddo e il caldo, ci sono i mali di stagione. Lei faccia il suo mestiere, che io faccio il mio.

Certo che farò il mio mestiere, pensò il farmacista chiudendo la porta dietro di sè. Mentre percorreva la tangenziale col camice bianco ripiegato sul seggiolino, l’uomo guardava il mostro dietro di sé dallo specchietto. Quella torre luminosa si era piantata lì oltre un decennio fa. Una colonna magnifica e potente adorata più di un tempio. Contemporaneamente due fulmini strapparono il cielo fotografando Montemorello, la Calvana e tutta la piana. Il farmacista sorrise e esplose il temporale.

Le decorazioni delle feste scintillavano come tutti gli altri anni. Il rosso e l’oro erano i colori predominanti nelle vetrine e sulle ghirlande che calavano lungo i due corridoi dell’immensa galleria. Nel parcheggio ogni alberello luccicava come una piccola torcia. Il farmacista si dava un gran da fare nel lavoro, che come previsto aumentava. Con lui era cresciuto anche il reparto erboristico e omeopatico, curava dosi e confezioni, dispensava consigli. Cercava di essere sempre presente nonostante le altre due sue collaboratrici perché sapeva che le commesse al cambio turno si fermavano volentieri a parlare proprio con lui. Stanche e stressate, tiravano fuori ricette e racconti, sapevano che con lui non era necessario sorridere per forza. Quell’uomo aveva una voce profonda e sensuale e si era conquistato una fiducia d’acciaio fra lavoratori e clienti del centro commerciale, anche se era lì da pochi mesi. Il 24 di dicembre, quando si aprirono le porte scorrevoli e i primi carrelli scivolarono sul marmo più splendente del solito, un profumo speziato e fresco si diffuse ovunque. Il direttore aveva ascoltato i consigli dell’equipe di marketing che, spezzando la noia della periodica riunione, avevano sentenziato “anche gli odori incidono sui consumi”. Era rimasto estasiato da dati, slide e risultati di alcuni esperimenti, nonché dall’odore della crema della consulente che gli stava seduta di fianco. Aveva ordinato confezioni di diffusori, incensi, spray deodoranti e detergenti per pavimenti, vetrate e specchi direttamente da una profumeria francese specializzata. Quel giorno voleva battere ogni record di vendite, quel giorno non doveva esistere crisi e grafici con curve in discesa. In pochi minuti corridoi, negozi e supermercato erano ricolmi di donne, uomini, bambini. Le casse in ogni negozio, in ogni reparto, facevano linguacce di scontrini continuamente. Anche quelle della farmacia. Il responsabile aveva messo un bel cartello. Fatevi viziare. Sono arrivate le pillole della libertà di essere voi stessi. Più sincerità, più amore, più partecipazione, più condivisione, più serenità. Tutto naturale.

Non si è mai capito esattamente cosa successe perché le testimonianze di quella giornata di vigilia al supermercato sono diventate una sommossa di racconti. Tanti che erano lì hanno detto che non facevano troppo caso a quello che accadeva intorno, perché si sentivano bene, si sentivano liberi e non pensavano altro al momento che stavano vivendo. Non si erano sentiti affatto in una situazione di follia generale o messi in pericolo da qualcosa o qualcuno. Molti testimoniarono in commissariato e a leggere i verbali c’era da non credergli, anche se lo stato dei settantamila metri quadri confermava ogni dettaglio. I bambini avevano preso d’assalto i reparti dei giochi e dei dolci, impilavano mattoncini, vestivano bambole, scartavano cioccolatini e caramelle, guidavano macchinine telecomandate. I più grandi organizzavano tornei di giochi in scatola e di ping pong. Palloni, aquiloni, frisbee, vassoi di torte, volava di tutto. Intorno ai dolci c’erano anche tanti adulti e in tutto il reparto cibo, si erano distese tovaglie in terra come tanti pic-nic dove tutti assaggiavano tutto. Si brindava, si affettava il pane, si cucinava polli e astici servendosi di fornellini da campeggio. Si scambiavano ricette e ingredienti. Nel reparto del verde centinaia di balle di terriccio avevano ricoperto un’intera zona. Uomini e donne piantavano alberelli e fiori camminando scalzi sulla terra. Nei negozi di scarpe e abbigliamento le commesse sfilavano insieme ai clienti, si guardavano allo specchio e ridevano. Si improvvisarono concerti nel negozio di musica, tante anziane si misero a insegnare a cucire e a fare la calza vicino allo scaffale della lane e delle stoffe, per non parlare del grande negozio del fai da te, che divenne un enorme laboratorio. Lì si sono rinvenuti quadri, sculture, sedie che camminano, luci che parlano, composizioni degli oggetti più impensabili. Le file di te e caffè e tisane sono state frequentatissime nel pomeriggio. Al reparto dei libri si sono alternate letture mandate in filo diffusione e molte delle poltrone o dei divani in vendita sono stati ritrovati intorno a quegli scaffali. Nel reparto di mobili da giardino si consumavano pennichelle e meditazione. Nel negozio sportivo c’era chi saltava la corda, chi correva sui tapis roulant, chi sudava facendo step o giocando a pallavolo. Nei reparti e nei negozi di intimo donne e uomini si spogliavano, si guardavano, si corteggiavano, si toccavano. Carezze, baci, orgasmi si sono consumati un po’ ovunque, ma soprattutto nei negozi di biancheria, visto che c’erano letti comodissimi e lenzuola e coperte da cambiare ce ne erano a volontà. C’è chi l’ha fatto seduto sui surgelati, chi sulle scale mobili, chi sul pavimento rotolando sulla farina, chi circondato da decine di schermi, chi l’ha fatto da solo servendosi di manichini o di altri oggetti. Sempre ricostruendo i racconti, nessuno ha subito violenza. Tutti hanno dichiarato che era da tempo che non facevano l’amore godendo in pieno a quel modo.

Una cosa sola fu registrata senza ombra di dubbio: da mezzogiorno in poi, le casse non avevano più funzionato. Non era stato battuto più niente, non era stato venduto più niente. Anche le tabaccherie, i bar, l’edicola. Niente. Persino le macchinette del gioco avevano smesso di funzionare e il bello era che nessuno se ne era accorto o ne sentiva la mancanza. E cosa ancora più strana, non c’era stato nessuno scasso, ai giochi, ai distributori, al bancomat, nessuna auto rubata. Solo la farmacia continuava a fare affari. Le pillole si stavano esaurendo e anche i preservativi erano a buon punto.

Al direttore, guardando dai monitor nel suo ufficio, gli era preso una tosse incredibile. Appena si era ripreso, aveva chiamato la polizia. I primi poliziotti erano stati inutili. Entrando senza protezione erano stati contagiati da quell’atmosfera. Ci vollero molte pattuglie, prima che arrivassero i corpi speciali e le telecamere di tutto il mondo. Al direttore era stato consigliato di non scendere, ma lui non aveva saputo resistere. Voleva fermare quell’inferno. Fu ritrovato in ginocchio mentre teneva la mano ad una donna delle pulizie. L’aveva amata dal primo giorno che l’aveva vista, ma non aveva mai avuto il coraggio di non mentire a se stesso.

Il farmacista fu arrestato. Tutto era chiaro: lui era l’unico che aveva fatto affari in quel degenero. Avrà alterato gli psicofarmaci, poi quelle pillole e anche sugli incensi, sui profumi e sui detergenti c’aveva messo lo zampino di sicuro, visto che il magazzino della farmacia era adiacente a quello della ditta di pulizie. Quando però arrivarono a analizzare profumi e pozioni non ci trovarono niente di strano, anche dall’analisi del sangue sui testimoni, nessuna sostanza. Anzi, erano mesi che vendeva a tutti caramelline al limone e alla menta e i profumi erano a base di spezie e lavanda. Di lui, l’uomo affascinante dal camice bianco, nessuna traccia. Quando aprirono il furgone dove lo avevano rinchiuso, trovarono solo le manette. Prima che tutti i mezzi dei corpi speciali lasciassero l’enorme parcheggio diventando un lombrico nero di sirene, una bambina aveva indicato il cielo, dicendo che era scappato lassù. In aria c’era solo un palloncino a forma di Babbo Natale. Ad averla guardata meglio quella macchia rossa che si allontanava e si confondeva nelle nuvole accese dal tramonto, si sarebbero notate delle corna e una coda che sembrava salutare tutta la piana e questo mondo.

Questo racconto è tratto dalla raccolta: Decameron 2013A cura di Marco Vichi, editore Felici, 2013.

Conciati per le feste.
(un racconto di Natale)

Conciati per le feste.
[Che Natale è senza De André]

Un racconto di Piergiorgio Paterlini

Da quel giorno lontano diffido delle comete. Decisamente, quel primo Natale, il Natale dei Natali, non era nato sotto una buona stella. Cometa o no. Diciamo anzi che quella storia era cominciata male e tutto lasciava presagire che sarebbe finita peggio. Come poi andò.

Ma ancora prima della nascita del bambino, c’erano stati un bel po’ di casini. Quella ragazza giovanissima rimasta incinta in un modo a dir poco miracoloso, il marito anziano che torna dopo tanto tempo, costretto alla lontananza dal lavoro.

L’angelo, va bene, il miracolo, miracolo miracolo miracolo. Io credo ai miracoli, ne ho ricevuti, ci credo per forza, ma sempre mi lasciano anche molta inquietudine.

Passi la gestazione bella strana, ma stai per nascere e subito devi farti un viaggio assurdo perché un tiranno, l’Imperatore di un Paese e di un esercito di occupazione, decide che bisogna fare un censimento. Non trovi posto per dormire neanche a pagare, e – diciamolo – quella grotta, quanto ad attrezzature e comfort, somiglia molto a un ospedale di Gaza oggi, e più o meno siamo da quelle parti, del resto, poche decine di chilometri. Non c’è acqua cibo luce riscaldamento, non c’è niente di niente.

Arrivano in tre, tre personaggi stranieri importanti, ma sempre una piccola minoranza, a rendere omaggio, a capire che lì sta succedendo qualcosa di grosso che vale la pena vedere con i propri occhi al prezzo di un altro lungo viaggio. Ma si sa nessuno è Profeta in patria, e soprattutto quelli “strani” fin da piccoli piacciono a pochi e in genere da lontano. Arrivano, stanno giusto il tempo per scambiarsi i doni (li portano solo loro, ma la famiglia di Giuseppe ha ben altro a cui pensare che ai regali di Natale), poi se ne tornano via e tu rimani lì, e ti senti solo, anche quando le folle ti acclamano, quando vengono a cercarti per i loro problemi, quando trovi un gruppo di amici per la pelle, ma la pelle è solo la loro, da mettere in salvo appena si sente puzza di bruciato. La storia la fanno i vincitori, tu sei riuscito a farla da vinto, uno dei pochissimi, sì, eri strano un bel po’.

Ciò che non uccide rafforza, no? E così il bambino – da quel Natale scombiccherato – cresce in fretta, i miracoli li fa davvero fin da piccolo, all’inizio poco più che giochi di prestigio per far colpo sui compagni, poi cose serie, moltiplicazione del vino e del cibo, guarigioni, resurrezioni addirittura. Scappa dai suoi già a dodici anni e va a fare il sapientone fra i Sapienti del Tempio. È una testa calda e finirà come sappiamo, giovanissimo.

Eppure la dolcezza del Natale – che c’è, c’è – la dolcezza del Natale è nel prima, il sabato è sempre meglio della domenica, l’abbiamo capito, e la vigilia di Natale è il giorno per eccellenza, la cena della Vigilia, la messa di mezzanotte.

La dolcezza del Natale la racconta Fabrizio De André nella Buona Novella. E, appunto, sta tutta nel prima. Anticonformista con anticonformista,  il Natale De André lo salta addirittura, non lo menziona neanche, lo lascia immaginare (che l’immaginazione è sempre meglio della realtà), ma la dolcezza no, non la salta, anzi. E sta tutta nei genitori. La dolcezza di Maria, la tenerezza soprattutto del vecchio Giuseppe che lavora come un mulo, si ritrova con una sposa troppo giovane, torna, la trova incinta (e spaventata, poteva nascerne un femminicidio bello e buono) e tutto diventa, appunto, dolcissimo più di un Pandoro.

Ci sono due voli nel racconto “natalizio” per eccellenza, quello della Buona Novella. Il volo di Maria tra sogno e realtà in compagnia dell’Angelo e il volo molto più concreto sempre di Maria tra le braccia di Giuseppe.

Il primo volo:

poi, d’improvviso, mi sciolse le mani / e le mie braccia divennero ali, / quando mi chiese – Conosci l’estate – / io, per un giorno, per un momento, / corsi a vedere il colore del vento. / Volammo davvero sopra le case, / oltre i cancelli, gli orti, le strade, / poi scivolammo tra valli fiorite / dove all’ulivo si abbraccia la vite. / Scendemmo là, dove il giorno si perde / a cercarsi da solo nascosto tra il verde, / e lui parlò come quando si prega, / ed alla fine d’ogni preghiera / contava una vertebra della mia schiena.

Il secondo volo:

E lei volò fra le tue braccia / come una rondine, / e le sue dita come lacrime, / dal tuo ciglio alla gola, / suggerivano al viso, /

una volta ignorato, / la tenerezza d’un sorriso, / un affetto quasi implorato. / E lo stupore nei tuoi occhi / salì dalle tue mani / che vuote intorno alle sue spalle, / si colmarono ai fianchi / della forma precisa / d’una vita recente, / di quel segreto che si svela / quando lievita il ventre. / E la parola ormai sfinita / si sciolse in pianto, / ma la paura dalle labbra / si raccolse negli occhi / semichiusi nel gesto / d’una quiete apparente / che si consuma nell’attesa / d’uno sguardo indulgente. / E tu, piano, posasti le dita / all’orlo della sua fronte / i vecchi quando accarezzano / hanno il timore di far troppo forte.

Anche Giuseppe crede ai miracoli, e forse soprattutto ai sogni, la dolcezza di quel sogno che annuncia e preannuncia il Natale, il primo e comunque l’unico che conti per lui, la nascita del suo primogenito. Più Natale di così.

Il racconto “Conciati per le feste” di Pier Giorgio Paterlini è uscito sul quotidiano la Repubblica il giorno 19 dicembre 2023.

Cover: Marc Chagall, il mondo sottosopra, 1919, particolare

Per un miracolo.
Una poesia di Natale di Iosif Brodskij

Per un miracolo, quali gli ingredienti? Il vello
del pastore, un pizzico appena di presente, un briciolo
di ieri, e alla manciata del giorno che verrà aggiungi
a occhio una fetta di cielo più quell’assaggio di pura vastità.
E si compie il miracolo. Perché i miracoli,
attratti dalla terra, serbano gli indirizzi,
anelando talmente a svolgere la prescritta funzione
da giungere a destinazione perfino nel deserto.
E se vai via di casa – accendi, al momento
del commiato, le quattro candele di una stella
perché illumini un mondo vuoto di realtà,
mentre ti segue con lo sguardo per l’eternità.

Iosif Brodskij, da Poesie di Natale  Adelphi editore

Il mio presepe è vuoto

Il mio presepe è vuoto

L’8 dicembre, Festa dell’Immacolata, è per tradizione il giorno in cui molti preparano l’albero di Natale o il presepe. Anch’io sono tra quelli.
Prendo le scatole che contengono le cose che servono per il presepe ma sono bloccata.

Tengo nella mano la statuina del Bambin Gesù ma penso che non posso metterlo nella grotta: il bambinello è morto. Forse è nato prematuro perché Maria, la madre, è traumatizzata dai bombardamenti e non c’è energia per le incubatrici, forse fa parte dei duemila bambini che sono morti sotto il fuoco incessante dei bombardamenti, forse ancora è il frutto di uno stupro accaduto durante una grande festa e la mamma è stata violentata e il padre, Giuseppe, preso in ostaggio e se non sono stati uccisi ne riparleremo il prossimo anno.

No, non posso metterlo nel Presepio.

Allora penso metterò nella capanna Maria e Giuseppe piangenti vicino alla culla vuota. Ma no! Sono stati colpiti insieme a tanti, ventimila persone, nel tentativo di scappare alle bombe e ai missili. O sono in quella colonna interminabile obbligata a spostarsi al Sud di Gaza.

Ripongo nella scatola la Sacra Famiglia.

Devo pensare a qualcosa almeno di simbolico per il mio presepe. Metterò la grotta in cui forse troveranno rifugio. Sì. È un buon simbolo.

Tu scendi dalle stelle
E vieni in una grotta al freddo e al gelo

O Bambino mio, io ti vedo qui a tremar
Mancano panni e fuoco”

Ma che dico! Tutto il paese è diventato un cumulo di macerie, le case gli ospedali le scuole sotto la raffica dei colpi compresa la taverna in cui la sacra famiglia avrebbe chiesto ospitalità, stalla compresa.

Nella scatola ci sono il bue e l’asinello ma … servono per spostare i carri con le poche cose per l’esodo forzato di migliaia di palestinesi. Questo è l’imperativo di Israele. Come allora quando in tanti dovevano spostarsi per il censimento imposto dai Romani. E poi non c’è bambinello da scaldare.

Penso allora di costruire un paesaggio con i pastori, le pecorelle, le botteghe: quella del falegname, del fabbro, la lavandaia, la donna che cuoce il pane, il macellaio, il venditore di ricotta e formaggio, il pollivendolo, il venditore di uova, il venditore di pomodori e frutta, il vinaio, il pescivendolo. Ma di nuovo dimentico che tutti tranne i ventimila che sono morti stanno fuggendo, sperando di non essere colpiti dai carri armati o dai raid aerei. Che non c’è cibo, che la farina è finita, che non c’è acqua.

Perciò neanche le botteghe e i personaggi del presepe trovano posto.

Le stelle che i pastori vedono, che li avrebbe destati sorpresi dal sonno per l’adorazione del Bambino Gesù non sono quelle per arrivare al presepio, sono le luci accompagnate da fragori terribili e assordanti. Splendono sì, e la loro luce è più forte delle stelle di Natale.

Rimane il paesaggio: sarà vuoto ma bellissimo. Il cielo pieno di stelle, il ruscello, le montagne

Le stelle brillano ma sono sempre le scie delle bombe, l’acqua non c’è in queste strade polverose. Che senso avrebbero le montagne che circondano il nulla?

Nella scatola del presepe mi rimangono gli angeli.
Me li ricordavo eterei piumati sorridenti e dolci e invece li ritrovo spaventati e incapaci a oltrepassare il fuoco di colpi che attraversano il cielo.

Alla fine trovo i Re Magi, di solito li metto lontani perché sono in viaggio e arriveranno per l’Epifania. I re magi non riescono a passare i confini, trovano chiusa ogni via di collegamento,

La stella cometa che li guidava

Astro del ciel

Luce dona alle menti
Pace infondi nei cuor

anche lei era la scia di una bomba.

I Re Magi si sono fermati. Sono Tre perché era il numero dei continenti allora conosciuti, oggi ce ne sarebbero di più ma non cambierebbe niente. Eppure loro potrebbero fare qualcosa ma riportano i doni a casa. Rimangono ai confini immobili e inutili.

Quest’anno il mio presepe è vuoto, anzi è pieno solo di ruderi, di rovine, di sudari.

Aspetterò il prossimo Avvento:

(…) un felice Natale
e un meraviglioso anno nuovo
speriamo che sia davvero un buon anno
senza alcuna paura

la guerra è finita, se lo vuoi
la guerra è finita, adesso

John Lennon, Happy Xmas (War Is Over)


Cover: Gaza, dicembre 2023

Per certi versi /
Un Natale immaginavo

Un Natale immaginavo

Un Natale immaginavo
Senza senso
Di colpa
Per la grassa
Società
Lo immaginavo
Da talpa
Senza vedere
Le magnifiche
Luci
Della città
Lo immaginavo
In un cunicolo
Di sale
Lungo
Più lungo
Dei gasdotti
Più lungo
Delle file
Dei corrotti
Del petrolio
Di quei generi
Di armi
E il loro cenacolo
Di affari
Lo immaginavo
Lungo lungo
Fino a Betlemme
Fluido
Senza uno scoglio
Poi
Prima di uscire
chiedere a Turner
Dieci minuti
Dieci ore
Dei suoli occhi
Vedere la luce
Lemne lemme
Svanire
Senza luci
Il Natale
Sporco di sangue
Dei Cristiani
Di Palestina

(Dedicata a Matteo Marabini)

Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

“Ci Sto? Affare Fatica”.
Il riscatto di Umarèl

“Ci Sto? Affare Fatica”. Il riscatto di Umarèl

l mio biglietto di auguri natalizi porta la data del 10 luglio scorso, quando è iniziata per me la settimana più brillante e luminosa dell’anno.

Faceva un caldo boia, ricordate? Mi trovavo in riva alla Darsena, sotto il solleone crudele, con un pennello e un secchio di liquido puzzolente, ma ero il pensionato più felice del mondo: stavo dirigendo nientemeno che una squadra di dieci addetti con l’incarico di trattare le sedute di legno fissate lungo la passeggiata con due mani generose di impregnante.

Indossavamo tutti la maglietta rossa col logo di “Ci Sto? Affare Fatica”.

E per me era il giorno glorioso del riscatto dell’umarèl: avevo ricevuto dal Comune l’investitura ufficiale di Capomastro di Lavori pubblici.

La squadra era composta da dieci studenti delle superiori, due ragazze e otto ragazzi accompagnati da una giovane tutor, che avevano dato la loro disponibilità ad eseguire lavori utili alla comunità durante le vacanze estive. E in quello scorcio d’estate del 2023, i giovani volontari così organizzati in città sono stati sessanta (e altre decine sono rimasti in lista d’attesa), seguiti da “handyman” reclutati come me tra pensionati volenterosi con un minimo di pratica manuale.

Dunque i miei auguri emozionati vanno a Thomas, Federico, Martina, Leonardo, Mirco, Cassandra, Antonio, Jacopo, Pietro, Marco e alla tutor Martina Pozzati che mi hanno regalato gioiosità, impegno, leggerezza, collaborazione.
Hanno reso semplice il mio lavoro, addomesticato la mia preoccupazione di umarèl carico di responsabilità inaspettata. Non si conoscevano tra loro, hanno fraternizzato in poche ore, si sono impadroniti di attrezzi mai usati e hanno seguito i miei consigli fino a raggiungere una autonomia non solo nella esecuzione, ma anche nella visione responsabile dell’intera operazione. Dopo la prima giornata in Darsena, siamo passati alla scuola materna del Villaggio Satellite, dove abbiamo dato due mani di bianco ai muri di una delle sezioni del plesso.

È stata l’Unità operativa Nuove Generazioni del Comune, d’intesa con i Lavori Pubblici e con l’ufficio Patrimonio a sviluppare a Ferrara, per il secondo anno consecutivo, una idea nata a Bassano del Grappa e diffusa poi in una rete di numerose altre città come “buona prassi civica” col titolo “Ci Sto? Affare Fatica”. La cooperativa Open Group ha gestito efficacemente la parte organizzativa e i rifornimenti. A tutti quanti va la mia riconoscenza per il valore di questa iniziativa, che favorisce l’incontro di giovani e adulti in un impegno gratuito per la comunità, mescolando sudore, divertimento, creatività, responsabilità e amicizia.

E se in ogni quartiere della città e nelle frazioni nascessero tante squadre così, pronte non solo in estate a dare una mano per piccoli lavori utili a tutti?

Lo sportello n. 7
L’avventura di una signora ordinaria quasi in pensione

Lo sportello n. 7   

Che la signora Antonia fosse una persona per bene nessuno lo aveva mai messo in dubbio. Ecco perché chi la conosceva si chiedeva come mai fosse capitato proprio a una come lei. Questa era solo la prima delle domande senza risposta che affioravano alla mente di costoro. La seconda domanda era: forse la signora Antonia aveva fatto qualcosa, di cui nessuno tuttora è a conoscenza, per meritarsi un destino così particolare?

Molti sostengono che porre domande alle quali nessuna risposta è possibile sia da cretini. I più pragmatici dicono: ormai è andata così, arrovellarsi sulle colpe presunte, sulla doppia personalità e sul perché proprio lei è un esercizio insensato. Di che aiuto può ormai esserci? Perciò, per non incorrere nell’obiezione dei pragmatici rischiando di fare la figura dei cretini, sarà meglio lasciar perdere e cominciare dall’inizio.

I vicini di casa le mostravano da tempo una tiepida simpatia di maniera, il marito dimostrava una totale mancanza di solidarietà per la semplice ragione che era morto da tre anni e in mancanza di figli, fratelli, parenti stretti e amici degni di questo nome non le erano rimasti altro che i vicini di casa e qualche negoziante dalla  scarsa  clientela disposto ad ascoltare la sua storia e a sopportare le sue vanterie.

Tra i vicini di casa c’era una mia sorella maggiore, sposata da tempo con un colonnello dei carabinieri, che un giorno ha deciso di mettermi al corrente delle vicende della signora Antonia. Questo è quanto sono venuto a sapere da mia sorella Ada in un ventoso pomeriggio di autunno avanzato.

“Vedi Giorgio – ha iniziato lei mentre folate impetuose scuotevano i rami della vecchia quercia che sovrasta l’ingresso della mia casa di campagna – al mondo non c’è giustizia.”

Di fronte a questa osservazione potevo solo tacere. Ada era capace di rovesciarti addosso ovvietà a un ritmo impressionante, ma io le volevo bene, nonostante fosse la mia sorella maggiore.

Mi raccontò che la signora Antonia, dopo trent’anni di duro lavoro come maestra d’asilo e poi come insegnante di scuola primaria in una scuola della periferia nord di Roma aveva deciso che era giunto il momento di informarsi sulla sua posizione contributiva. Aveva sessantadue anni e cominciava davvero a essere stanca di correre dietro a quella pipinara chiassosa e insolente.

“Ce l’aveva messa tutta, capisci? Si era laureata a cinquantatré anni per poter fare il concorso come maestra elementare. Ora poi, chissà perché, la chiamano scuola primaria! – esclamò Ada quasi scandalizzata – e poi era riuscita a vincerlo. E lo aveva vinto senza raccomandazioni! Chi potrebbe oggi vincere un concorso statale senza raccomandazioni? Solo una persona speciale come la signora Antonia. Capisci?”

Ada aveva anche la brutta abitudine di chiedere ‘Capisci?’ oppure ‘Capito?’ dopo aver pronunciato una delle sue banalità provocando così doppia irritazione nell’ascoltatore, il quale oltre a perdere tempo veniva trattato da idiota. E poi   raccontava le storie della vita in un modo spiazzante, ti faceva supporre che la vicenda sarebbe finita in un modo completamento diverso da come poi realmente si erano svolti i fatti. Inutile chiederle ‘Dove vuoi andare a parare?’, perché era evidente che se ne era dimenticata, viveva ogni avvenimento come un frammento di presente scollegato dal passato e dal futuro.  Ma era mia sorella, e io continuavo ad avere pazienza e a volerle bene.

“Se avesse avuto una raccomandazione pensi che te l’avrebbe confessato?” non potei però trattenermi dal chiederle.

“Bè, caro Giorgio, sei proprio maligno! – tagliò corto Ada, sempre abile nel sottrarsi alla logica – Insomma dopo tanti sforzi e dopo avere perso il marito (‘Davvero una brava persona!, questo nessuno lo può negare, uno come i carabinieri di una volta’), insomma si meritava anche lei un po’ di tranquillità. E’ pur vero che non avendo figli aveva sfogato il suo istinto materno verso i bambini, ma nonostante questo era davvero stanca. E così  decise di ricongiungere i contributi versati al Comune come maestra d’asilo con quelli versati allo Stato come insegnante elementare per poter accedere alla sua meritata pensione. Insomma, era proprio arrivato il momento giusto, ecco.”

Intanto l’idea che si possa ‘sfogare’ l’istinto materno verso dei poveri bambini innocenti, definiti da Ada “pipinara insolente”, contiene un sottofondo minaccioso che mi sembrò ingiusto. Ada usava spesso parole e verbi impropri. Ma soprattutto mi rendo conto che se dovessi riferire quanto raccontato da mia sorella con tutte le sue divagazioni inutili, i ‘Capisci?’ e i suoi commenti fuorvianti ne nascerebbe un romanzo incredibilmente insulso di almeno centottanta pagine. Perciò sarà meglio che le tolga la parola e prenda in  mano le redini della storia. Sì, sarà meglio che la racconti a modo mio.

Antonia – eliminiamo la parola ‘signora’ – si recò alla sede INPDAP di Roma nord per avere informazioni sulla sua posizione pensionistica. Non aveva idea di cosa l’attendeva, nessuno l’aveva avvertita. Sul cartello attaccato alla porta a vetri dell’ingresso c’era scritto ‘Martedì e giovedì si riceve il pubblico per le pensioni’.

“Bene! – si disse – Sono fortunata, meno male che oggi è giovedì”.

Dopo aver strappato dalla macchinetta di plastica il suo numerino di carta controllò sul display: davanti a lei 5 persone attendevano di essere ricevute allo sportello n. 4.

Sospirò, si sedette e si guardò intorno. Un ufficio nuovo, grigio ma abbastanza luminoso e piuttosto elegante, il display in alto e i computer dietro le vetrate plastificate degli sportelli davano la sensazione di un luogo efficiente, moderno, uno di quei luoghi dove i problemi vengono risolti in fretta da impiegati gentili e competenti. Unica nota stonata: un massiccio poliziotto di sorveglianza vagava su e giù per l’atrio con in vista un gigantesco revolver che pendeva dal cinturone.

“Che bisogno ci sarà di un poliziotto privato, per giunta armato?” si chiese. Ma poi pensò ad altro e cominciò a fantasticare sul suo futuro da pensionata.

Quando lo squillo elettronico annunciò il suo turno, Antonia si affrettò a raggiungere lo sportello n. 4. Si accomodò su una confortevole sedia di morbida stoffa e si rivolse all’impiegato protetto dal plexiglas con un cordiale “Buongiorno”, subito ricambiata con altrettanta cordialità.

“Sono un’insegnante elementare. Vorrei conoscere la mia posizione pensionistica – dice lei – devo fare un ricongiungimento dei contributi versati al Comune con quelli versati al Ministero dell’Istruzione.”

“Lei da quanto è in pensione?” chiede l’impiegato sempre cordialissimo, pulito e profumato. Perfino bello, pensò Antonia, da sempre sensibile al fascino maschile, ancor più da vedova.

“Io non sono in pensione. Voglio andare in pensione, ho maturato i requisiti minimi  e vorrei sapere da voi quanto verrò a prendere mensilmente e quanto di liquidazione, se è possibile. Così posso regolarmi se mi conviene lavorare ancora per un paio di anni oppure no.”

“Cara signora, lei ha delle belle pretese! – fa il tipo diventato di colpo scostante – E in ogni caso io non posso fare nulla per lei. Oggi è giovedì e questo tipo di informazioni le diamo soltanto il mercoledì allo sportello n.2.”

“Mi scusi, ma sul cartello attaccato alla porta c’è scritto che il martedì e il giovedì ricevete il pubblico per le pensioni.”

“Certo. Infatti il martedì e il giovedì riceviamo per dare informazioni ai pensionati.”

“Ma sul cartello è scritto “per le pensioni”, non “per i pensionati”. Quindi dovreste darle anche ai pensionandi, cioè a quelli come me che hanno diritto a una pensione. Senza contare che sono trenta anni che ogni mese voi vi prendete una bella fetta del mio stipendio e vorrei sapere che fine fanno i miei quattrini.”

“Torni mercoledì prossimo e sicuramente un mio collega le dirà quello di cui ha bisogno. Oggi riceviamo solo i pensionati.”

“Allora dovete cambiare il cartello. Dovete scrivere che ricevete i pensionati e non che si riceve il pubblico per le pensioni. C’è qualcuno qui dentro che conosce l’italiano? – e comincia a guardarsi intorno e ad alzare la voce – Qualcuno ci sarà, spero. Io ho perso quaranta minuti più un’ora di viaggio tra andata e ritorno in autobus per nulla.”

“Mi dispiace, signora. Se adesso lascia libera la sedia posso chiamare il prossimo visitatore.”

“Io non lascio libero un fico secco. Io da qui non me ne vado se non mi vengono date le informazioni a cui ho diritto. Me ne vado, forse, se nel frattempo cambiate il cartello in ingresso. Forse. Mi riservo di decidere dopo che avrete corretto la scritta.”

L’impiegato si alza in piedi e fa un cenno in direzione della guardia giurata. Quello si avvicina caracollando con la faccia da feroce sceriffo texano.

“La signora qua ci sta impedendo di lavorare. Non se ne vuole andare e blocca la fila. Che vogliamo fare?”

“Mi scusi signora guardia, io voglio solo delle informazioni sulla mia posizione pensionistica, ma il signore qui si rifiuta di darmele. Sul cartello è scritto che il giovedì si danno informazioni sulle pensioni ma lui dice che si danno solo ai pensionati. Se sul cartello fosse stato scritto quello che dice lui non sarei rimasta qui quaranta minuti a fare la fila. Ma c’è scritto informazioni sulle pensioni. E allora? Che vogliamo fare lo chiedo io. Chi mi risarcisce di tutto questo tempo perso solo perché voi non sapete scrivere un cartello in italiano corretto? E lei, cara guardia, perché mi guarda così? Vuole forse spararmi addosso con quel suo pistolone, per caso?”

La guardia giurata cambia espressione. Sospira. Da duro superpoliziotto si trasforma in un bonario contadino ciociaro quale probabilmente è.

“Signora, facciamo così. Se lei ha da fare dei reclami ne ha diritto. Vada pure allo sportello n. 7 dove c’è il vicedirettore che si occupa di queste faccende e la ascolterà volentieri.”

“Certo – fa l’impiegato elegante – Vada allo sportello n. 7. Io qua devo continuare il mio lavoro e non se la deve prendere con me. Non sono io il responsabile dell’organizzazione.”

Antonia li guarda entrambi, cerca di capire se la stanno turlupinando o no ma da quelle facce da poker, allenate da tempo a dissimulare i giochi perfidi della PA, c’è poco da ricavare.

“D’accordo. Farò come dite voi e vediamo come va a finire.”

Si avvia verso il fondo della grande sala dove da un angolo della parete pende un  cartello con su scritto: n. 7. Una grande scrivania dietro il divisorio di plastica trasparente e una poltrona di foggia antica, una specie di pezzo di antiquariato, colpiscono l’osservatore per la loro imponenza quasi regale. Unico problema: su quella poltrona non è seduto nessuno. Lì intorno, vicino a lei, due uomini di una certa età passeggiano nervosamente. Antonia si rivolge a quello che le pare meno nervoso: “E’ qui che bisogna rivolgersi per fare dei reclami?”

Quello la guarda con i suoi occhi dalle sclere arrossate. Ha pochi capelli, lunghi e sporchi, barba grigiastra di almeno tre giorni e l’abbigliamento falso giovanile tipico dell’insegnante furibondo giunto al limite ultimo della sopportazione. La piega delle labbra denota disprezzo, non si capisce se verso se stesso o verso l’umanità tutta o verso entrambi, disprezzo acido misto a idealismo di facciata ormai fuori moda e genuina esasperazione. Deve essere uno di quelli capaci solo di tacere ribollendo o di urlare, quelli che non conoscono vie di mezzo.

“Già! – risponde a voce troppo alta – Peccato che sto aspettando da tre quarti d’ora. E quella non si vede.”

Antonia si allontana da quel tizio pericoloso. Preferisce aspettare una decina di minuti e poi si rivolgerà a un qualche straccio di sindacato per far valere i suoi diritti. Però aspetta, ha una piccola  speranza ma anche una curiosità acuta di vedere chi sarà mai ‘quella’ dello sportello n. 7.

Mentre attende nota un carabiniere di mezza età seduto di fronte a uno sportello – il numero 6 – sul quale è scritto ‘chiuso’. Sbirciando, scopre che il carabiniere sta conversando piacevolmente con un impiegato il quale, chissà perché, pare disposto ad ascoltarlo anche se lì è appeso il cartello con su scritto ’chiuso’. Si avvicina per origliare, senza darlo a vedere, e da alcuni frammenti di dialogo capisce che il carabiniere sta prendendo informazioni sulla futura pensione della moglie, anche lei insegnante elementare. All’orecchio di Antonia giungono parole del tipo ‘riscatto della laurea’, ‘montante contributivo’, ‘periodo calcolato col sistema retributivo’ e giungono perfino delle cifre come ‘circa millequattrocento euro se lascia il prossimo anno’ e ‘liquidazione in due rate perché supera sicuramente la somma di cinquantamila euro’.

Lo sdegno la assale e comincia a picchiarle in testa, si sente avvampare come ai tempi della menopausa. Vorrebbe intervenire, ma con uno sforzo enorme di autocontrollo capisce che è meglio farlo quando il carabiniere se ne sarà andato via. Dopo qualche minuto – intanto la poltrona dello sportello n. 7 è sempre implacabilmente vuota e al gruppetto dei furiosi in attesa si è aggiunta una signora elegante di evidenti pretese eccessive – il carabiniere ringrazia, quasi si inchina, e tutto contento si allontana. Antonia si precipita e blocca l’impiegato dello sportello n. 6 prima che se ne vada anche lui.

“Ho bisogno di qualche informazione sulla mia posizione pensionistica. So che lei è in grado di farlo, ho ascoltato prima mentre parlava con il carabiniere. Sia gentile, in fondo è un mio diritto.”

L’impiegato si guarda intorno con l’espressione dell’animale in trappola. Poi ritorna a sedersi e sussurra ad Antonia che lui può darle qualche informazione, ma solo in modo generico. “Sa, sono calcoli molto complicati. Se vuole delle cifre esatte si presenti una di queste mattine nella sede di questo sindacato – e si sfila dal taschino della giacca un biglietto da visita – e chieda un appuntamento con la dottoressa Genziana Benetuo. Senz’altro le darà una consulenza. Se si iscrive al sindacato le farà pagare solo la tariffa minima per le consulenze. Si può fidare, è una persona seria. Glielo posso garantire perché è mia moglie.” conclude, e dopo un sorriso carico di orgoglio coniugale si congeda con una stretta di mano.

Antonia rimane lì, con il biglietto da visita in mano. Si sofferma per un po’ a osservare il gruppetto di disperati che ronza intorno allo sportello n. 7 e per un attimo, per una volta nella sua vita, si sente quasi furba. Più furba di quanto mai nessuno avrebbe immaginato.

 

Il martedì successivo si incontra a mezzogiorno in punto nella sede del sindacato con la dottoressa Genziana Benetuo. Nello spazio di poco più di mezz’ora Antonia viene a sapere che una volta sistemata la pratica di ricongiunzione dei periodi lei potrà lasciare il lavoro l’anno prossimo e andare in pensione con un assegno mensile di milleseicentoventi o milleseicentocinquanta euro – “centesimo più centesimo meno” – e una liquidazione di circa settantaquattromila euro, ‘centesimo più centesimo meno’. Siccome Antonia non ha voglia di iscriversi a nessun sindacato perché pensa che a conti fatti ‘sono tutti solo dei parassiti’, parole sue, paga la consulenza della dottoressa Benetuo settanta euro senza ricevuta.

“In fondo ne valeva la pena – pensa – adesso so come posso organizzarmi.”

“Povera signora Antonia! – sospira mia sorella Ada – Non aveva proprio capito niente di come va il mondo!”

“Avanti, non mi tenere in sospeso – la incalzo io – Come va a finire tutta questa storia?  Senza farla tanto lunga.”

“E’ andata a finire che quando lei è tornata alla sede INPDAP, nel frattempo inglobata nell’INPS, per ringraziare l’impiegato dello sportello n. 6 del prezioso suggerimento ricevuto, ha visto che seduta sulla poltrona regale dello sportello n. 7, quello dei reclami, bè, indovina chi ci stava lì, su quella poltrona?”

“Forza, chi ci stava?”

“Su quella poltrona era seduta in pompa magna proprio la dottoressa Benetuo. La cosa non le è piaciuta affatto, ha fiutato l’inghippo, ma alla fine ha preferito lasciar correre. Ormai desiderava soltanto aspettare il 1 settembre dell’anno successivo e andare tranquillamente in pensione.”

“E ci è riuscita?”

“No”

“Non mi dire che è morta la notte tra il 31 agosto e il 1 settembre dell’anno successivo.”

“No. Non è affatto morta, anzi, è ancora viva e lotta insieme a noi.”

Ogni tanto Ada fa delle battute veramente stupide, ma io continuo a volerle bene.

“Insomma! – grido esasperato – Che diavolo è successo a questa Antonia?”

“E’ successo che l’INPS, dove aver accorpato l’INPDAP, si è accorta che non ce la facevano a occuparsi delle pensioni dei lavoratori privati più tutta l’assistenza, la cassa integrazione e le pensioni degli statali, e così il governo ha deciso di ricreare l’INPDAP per gli statali (adesso ha un altro nome che non ricordo). E per riorganizzare tutto quanto, dal trasferimento dei dati, dei fascicoli, all’allestimento di nuove sedi, si sono presi altri due anni di tempo per occuparsi delle pensioni degli statali.”

“Quindi tutto congelato per due anni?”

“Due anni per iniziare. Poi per arrivare alla liquidazione delle pratiche un altro annetto buono.”

“E la signora Antonia?”

“La signora Antonia ha creato un’associazione di pensionandi statali furiosi, si è iscritta a un partito politico che appoggia il governo ma minaccia tutti i giorni di farlo cadere, ha  chiamato l’associazione ‘Sportello n. 7’ e si è fatta eleggere rappresentante sindacale. Ha ottenuto perfino il distacco dall’insegnamento e quando andrà in pensione pare che oltre alla pensione come insegnante ne riscuoterà anche un’altra speciale riservata ai sindacalisti che hanno ottenuto il distacco. E’ diventata cara amica della dottoressa Genziana Benetuo, è tutta contenta, piena di energia e combatte come una leonessa contro le disfunzioni del nostro sistema pensionistico. Come niente fra un po’ la candidano alla Camera dei deputati.”

Ancora una volta non potevo fare altro che tacere. Questa sì che era una lezione di vita.

“Insomma, caro Giorgio, la morale della storia è semplice. Al mondo ci sono i furbi e poi gli imbecilli come me e come te.”

Che Ada potesse essere definita imbecille non sarò io a impedirlo, ma onestamente non mi piaceva essere inserito nella sua stessa categoria. E mentre riflettevo e cercavo di obiettare qualcosa a quell’ennesima banalità mi sono reso conto che non ci riuscivo. Inutile lambiccarsi il cervello. Ecco perché alla fine mi sono dovuto arrendere al fatto che a volte quelle che ci appaiono come ovvietà, luoghi comuni e banalità sono semplicemente solide, indiscutibili verità. Ecco perché a voler fare troppo i sofisticati può capitare di finire in compagnia degli imbecilli mentre i furbi procedono per la loro strada senza curarsi di apparire banali.

In copertina: Arturo Martini, Il poeta Cechov, terracotta, 1921-1922

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