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La Super Estate di Baltimora

Da noi l’estate è tempo di vacanze e di centri ricreativi estivi dove appoggiare i figli quando ancora si lavora e le ferie sono lontane. È soprattutto l’idea che con la scuola si chiude, sia fisicamente che mentalmente.
La città di Baltimora, nello stato del Maryland (Usa), è invece all’avanguardia per l’apprendimento estivo. Qui la riflessione è mossa dall’attenzione e dalla preoccupazione per gli apprendimenti dei ragazzi. Certo, l’estate è un’occasione spensierata per i giovani, ma rappresenta anche un momento in cui gli studenti possono perdere saperi e importanti competenze apprese durante l’anno scolastico.
Quando tornano a scuola in autunno, impiegano, in media, un mese per recuperare il livello di preparazione a cui erano giunti alla fine dell’anno scolastico. Si verifica cioè quello che è definito come “caduta di apprendimento”.
Il fatto è che essa colpisce soprattutto gli studenti più fragili, i quali perdono almeno due o tre mesi in più rispetto agli altri, soprattutto nel recupero della lettura. Tutto ciò diviene una catena che porta ad accumulare ritardi e svantaggi che finiranno, con l’andare del tempo, per produrre insuccesso, quindi mortificazione e sfiducia in sé, fino all’abbandono scolastico.
Ma gli studenti che partecipano all’apprendimento estivo e alle altre attività di arricchimento possono trascorrere l’intera giornata nella loro scuola e progredire nell’apprendimento, così, quando inizia il nuovo anno scolastico, sono pronti per imparare e affrontare nuove sfide educative, non mancano viaggi, attività sportive e occasioni di divertimento.
L’idea che ha funzionato è stata quella di mettere insieme le risorse della città, scuole, istituzioni, privati, associazioni no-profit per migliorare e aumentare l’offerta di programmi e di servizi a disposizione dei giovani durante l’estate, dalle elementari alle superiori, di offrire loro attività di apprendimento diverse e alternative a quelle scolastiche, spesso routinarie.
L’arricchimento estivo spazia dalla alfabetizzazione alla robotica, dal recupero dei crediti, ai corsi di apprendimento accelerato.

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Ragazzi al Baltimore super summer

A queste iniziative, patrocinate dal “Baltimore city public schools” (Bcps), oggi partecipano oltre cinquemila studenti e l’80% di questi segue programmi come “Leggi per riuscire meglio!” e “Pensare insieme”.
Le attività di “Super summer”, così si chiama l’iniziativa dell’apprendimento estivo, sono pubblicizzate durante tutto il corso dell’anno attraverso lettere a casa, manifesti e volantini, fiere dedicate all’apprendimento, pubblicità sugli autobus, spot radiotelevisivi, oltre al sito web e a un call center dedicato.
I dati delle iscrizioni, sondaggi e focus group hanno evidenziato che per i genitori ciò che più conta è la sicurezza dei figli, il controllo, il cibo e il trasporto, le relazioni socio-affettive, ma soprattutto la qualità delle esperienze di sostegno agli apprendimenti scolastici e che le attività coprono l’intera giornata.
Nel 2012, per la prima volta, sono stati offerti programmi estivi “ponte”, di preparazione cioè al passaggio dalla scuola primaria alla secondaria di primo grado, alle superiori e al college, oltre a programmi di avviamento al lavoro.
L’obiettivo di questa super estate, condivisa da tutta la città, è fare delle scuole e della esperienza scolastica dei giovani qualcosa che riguarda e appartiene a tutti. La scuola è così sempre aperta, la scuola e il successo scolastico di ogni singola ragazza e di ogni singolo ragazzo non è affare e interesse privato, ma impegno e interesse di tutta la comunità.
Il comitato Baltimore super summer, che programma e coordina l’estate d’apprendimento, inizia a cercare partner e a pianificare le proprie attività appena l’estate termina, in modo che già a marzo sia possibile l’iscrizione dei giovani.
Non solo le scuole sono importanti per la buona riuscita di questo progetto, ma negli anni è cresciuto il numero di aziende e società private che concorrono a sostenerla, offrendo attività, materiali, sponsorizzazioni.
Le attività della super estate per gli organizzatori non sono né scuola né dopo scuola, ma un modo per partire dagli interessi dei ragazzi, per favorire nuovi apprendimenti, per promuovere interazioni tra loro e scambiare informazioni, per rendere le scuole strutture pienamente disponibili, coinvolgendo genitori e insegnanti in occasioni di riflessioni sulla scuola, sulla didattica, sui curricoli.
La perfetta integrazione tra le offerte estive e i programmi delle scuole consente agli studenti di disporre per tempo di un catalogo dove poter scegliere tra le diverse opzioni di studio e di attività, inoltre la frequenza della Super summer ha dimostrato di avere un effetto positivo sulla loro frequenza scolastica per comportamento, atteggiamento e rendimento.
A noi questa Super estate di Baltimora sembra l’espressione di una buona e auspicabile alleanza tra scuola e territorio.

L’ANALISI
L’articolo e le altre parti
del discorso: elementi
per una grammatica dei diritti

Parliamoci chiaro, l’unico reale punto di discussione attorno all’art. 18 delle Statuto dei lavoratori riguarda la disciplina dei licenziamenti per motivi economici.
Non c’entra nulla la discriminazione, per il semplice motivo che le norme che la vietano in tutte le forme possibili sui luoghi di lavoro, licenziamento incluso, sono da tempo parte della legislazione comunitaria (direttiva 2000/78/Ec) obbligatoriamente recepita nel nostro ordinamento (Dlgs. 9 luglio 2003, n. 216). Licenziamenti emanati per ragioni di sesso, orientamento sessuale, razza, religione, età e convincimenti personali sono quindi nulli, anche indipendentemente dallo Statuto, e valgono per tutti i lavoratori, compresi quelli che lo Statuto non protegge.
Si tenga presente che i licenziamenti su base economica (cosiddetto giustificato motivo oggettivo), vale a dire per esempio quando una ristrutturazione aziendale rende superfluo un posto di lavoro senza che il lavoratore possa essere ricollocato altrove all’interno dell’azienda, erano possibili già prima delle modifiche all’articolo 18 dello Statuto introdotte dalla legge Fornero. In caso di ricorso da parte del lavoratore è l’azienda ad avere l’onere della prova: a fronte dell’insussistenza parziale o totale delle motivazioni addotte, questa è la novità introdotta dalla legge, è il giudice a decidere se ordinare, come era in precedenza, il reintegro del lavoratore o, invece, stabilire un indennizzo economico per quest’ultimo. E’ importante ricordare questo particolare, perché praticamente tutti quelli che ora gridano alla “svendita dei diritti” che avverrebbe con l’intervento del governo, votando la legge Fornero in Parlamento, avevano già accettato il principio che il licenziamento senza giustificato motivo potesse essere compensato con un risarcimento. Oltretutto tale legge non definisce alcun criterio in base al quale il giudice “può” obbligare il reintegro, lasciando quindi la decisione esclusivamente al suo personale convincimento.
La proposta di legge del governo vuole introdurre nel nostro ordinamento, limitatamente ai nuovi assunti, il concetto di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, secondo il quale all’aumentare dell’anzianità lavorativa il costo per l’azienda del licenziamento senza giusta causa cresce. La risoluzione del rapporto di lavoro durante i primi tre anni di impiego può invece avvenire senza alcun indennizzo, fatto salvo l’obbligo per il datore di lavoro di restituire gli incentivi ricevuti per l’assunzione a tempo indeterminato, ma solo dietro congruo preavviso al lavoratore. I parametri che definiscono l’indennizzo dovranno essere stabiliti dai decreti delegati che il governo deve emanare dopo l’approvazione della legge. E’ evidente che la loro quantificazione influisce in modo significativo sull’effettivo potere deterrente della legge.
Per stabilire se questa normativa costituisca un passo avanti o meno è opportuno, oltre al piano astratto dei diritti, fare riferimento alla situazione reale del Paese. Secondo l’Istat (dati 2010) in Italia “il 95% delle imprese ha meno di 10 addetti e impiega il 47% dell’occupazione totale”, se si considera che l’articolo 18 vale per le imprese con più di 15 dipendenti si comprende come già oggi più della metà dei lavoratori non ne sia tutelata; vale a dire che, in termini pratici, possono essere licenziati in qualsiasi momento. Non godono inoltre di alcuna tutela gli oltre 3 milioni di lavoratori precari, in gran parte giovani. Detto in altri termini, a fronte di circa 22 milioni di occupati, l’articolo 18 ne tutela, con tutti i limiti visti sopra, assai meno di 10.
Inoltre, il provvedimento del governo va inserito nel contesto più generale della riforma del mercato del lavoro e del welfare, che ha l’obiettivo di introdurre in Italia per chi perde il lavoro, come ormai quasi ovunque nel mondo, strumenti attivi di sostegno, sia economici che finalizzati alla ricerca di una nuova occupazione. Questi strumenti, di carattere universale, cioè disponibili per tutti coloro in cerca di occupazione, andrebbero a sostituire le diverse forme di cassa integrazione straordinaria e in deroga, che sono invece legate ai singoli posti di lavoro, non coprono i lavoratori delle imprese più piccole e vengono decisi caso per caso con modalità a volte assai poco trasparenti. I meccanismi attuali hanno inoltre il grave limite di vincolare il destino occupazionale dei lavoratori minacciati da licenziamento alla sopravvivenza dell’azienda, innescando molto spesso lunghi e costosi quanto inutili tentativi di “salvare” realtà produttive strutturalmente destinate alla chiusura, che non di rado vanno ad arricchire speculatori senza scrupoli.

Sono tutte questioni, queste, di cui in Italia si discute in termini spesso molto accesi da qualche decennio, senza che vi sia stata la capacità di introdurre riforme sostanziali, ideate sulla base di un ripensamento dei meccanismi di tutela e del welfare che fosse più rispondente alla realtà attuale: il poco che è stato fatto è il risultato di risposte emergenziali, come la citata legge Fornero, affrettate e senza alcuna pretesa di organicità, perché concentrate su obiettivi di brevissimo periodo.

LA STORIA
La prima street artist donna di Kabul, Shamsia Hassani

Essere donna in Afghanistan non è sicuramente facile. Se poi si hanno 26 anni, bombolette spray e sogni, e si dipinge sui muri fatiscenti della città…

Classe 1988, Shamsia Hassani, vanta il primato di essere la prima donna graffitista in una realtà complessa e chiusa come quella afghana e, per questo, di essere diventata, oggi, vera e propria portavoce dei diritti delle donne.

shamsia-hassaniNata in Iran, da rifugiati afgani originari del Kandahar, Shamsia è impossibilitata a iniziare i suoi studi artistici a causa della nazionalità afghana. Rientra, allora, a Kabul, dove si iscrive, nel 2006, alla facoltà di Arte. In questo periodo, inizia anche a dedicarsi all’arte contemporanea. Nel 2009, viene selezionata come uno dei migliori dieci artisti del Paese. Il gruppo si unirà in un’associazione, Rohsd (che in arabo significa crescita), che si dedicherà all’arte contemporanea.
Shamsia ha un nome bellissimo, che significa “sole”, e sole sia allora, perché intensi raggi di luce e di speranza giungono dalle sue opere.

Questa giovane artista ha iniziato a dipingere su tela, ma, nel 2010, ha scoperto il potere comunicativo della street art, durante un workshop tenuto a Kabul da un graffitista inglese, Wayne “Chu” Edwards (classe 1971, uno dei più noti graffiti artist in 3D, attivo dagli anni ’80 e nato come sviluppatore di giochi per computer come Aladino per la Game Boy). Quell’esperienza fu per Shamsia una seducente rivelazione.

shamsia-hassaniE così, iniziò a realizzare graffiti per arrivare al cuore (e alla mente) delle persone. Come ha detto in alcune interviste, attraverso i graffiti vuole parlare al popolo mediante immagini, portare l’arte nei luoghi del degrado, sulle pareti di edifici danneggiati dalla guerra e dai bombardamenti. E lasciare che mura abbandonate e sporche accolgano la rigenerante vitalità della pittura.
I colori sono in grado di coprire i cattivi ricordi della guerra, di rimuoverli dalle menti delle persone. Secondo Shamsia inoltre, il popolo afghano – e in particolar modo quello residente a Kabul – non ha una grande cultura artistica e non è avvezzo a visitare mostre (spesso non ne ha nemmeno la reale possibilità), dunque il messaggio insito in un’opera esposta in galleria rischia di andar perso o di restare confinato a stesso, mentre un dipinto murale è qualcosa che non si può evitare di vedere, se gli si passa accanto. Arriva prima della scelta stessa di vederlo, diretto e senza chiedere. E tale immediatezza visiva era, ed è, proprio ciò che Shamsia cercava, perché le immagini sono più forti e immediate delle parole.

shamsia-hassanishamsia-hassaniNella periferia di Kabul, Shamsia ha realizzato numerosi graffiti, al fine di coprire le brutture della guerra e, allo stesso tempo, di portarle a memoria, e ha invaso la sua città di burqa color cielo, simbolo di libertà, tonalità che più la mette a proprio agio. Sui muri di Kabul giganteggiano, allora, sagome in burqa dai color vividi, fatte con spray e spesso con colori acrilici e pennelli, in assenza di bombolette di buona qualità, che sul mercato locale si trovano a fatica. L’artista progetta l’immagine da realizzare e poi, velo in testa e mascherina sulla bocca, inizia a lavorare. Rischia ogni giorno molestie o aggressioni; spesso, mentre lavora, le vengono gettati dei sassi.

shamsia-hassanishamsia-hassaniAllora si ferma, rientra a casa e rielabora al pc, in Photoshop, ogni dettaglio dell’intervento urbano momentaneamente interrotto dall’ignoranza.
“Di solito – dice in un’intervista – dipingo donne con il burqa ma in una versione più moderna. Voglio raccontare le loro storie e trovare un modo per salvarle dal buio, […] aprire le loro menti, per apportare qualche cambiamento positivo”.
Le sue figure sono imponenti, austere, arrivano fino alle nuvole e sono disegnate con una linea di contorno che curva sulla testa e si fa spigolosa in prossimità delle spalle; immagini quasi titaniche nel loro sforzo di presentarsi, dominare, farsi riconoscere e accettare. E di urlare. Accanto ai loro corpi si stagliano belle linee curve e arricciolate – quasi bolle o onde del mare (ancora l’azzurro) – che accentuano il valore simbolico del lavoro di Shamsia.

shamsia-hassanishamsia-hassaniQuei riccioli e quelle bolle sono l’emblema di parole non dette, ingoiate, taciute, che le donne afghane non hanno mai avuto il diritto di pronunciare. Donne che, in quel paese, sono ancora proprietà degli uomini, che servono principalmente a tenere in ordine la casa, a procreare, a obbedire e tacere. La corazza del burqa è imposta ma, ovviamente, la questione non è solo questa. Si tratta di combattere una mentalità di pietra, per la sua pesantezza ma anche per la sua inaccettabile e incredibile arretratezza.

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Un graffito di Hassani affianco alla ‘Bambina con il palloncino’ di Bansky
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Graffito di Hassani, donna in burqa seduta su reali gradini

Uno dei suoi graffiti più noti a Kabul ritrae una donna in burqa seduta sui reali gradini di un’abitazione diroccata.
Secondo Shamsia è la rappresentazione dell’incertezza femminile odierna che vive, quindi, l’eterna esitazione nella totale restrizione: non sa se si riuscirà a “salire” recuperando una posizione più dignitosa all’interno della società, o se subirà un più disastroso crollo.

Ma, intanto, aspetta, fiduciosa, seduta sulla sua domanda. Fiduciosa come Shamsia, che ora è docente di scultura presso la Facoltà di Belle Arti di Kabul e continua a serbare in cuore sogni e tenacia. Oggi espone in India, Iran, Germania, Italia e nelle ambasciate estere di Kabul, ma il suo più grande desiderio è quello di fondare una scuola per graffitisti per diffondere il “verbo” visivo per le strade della sua città e, un giorno, di collaborare con Banksy.

Per parlare, gridare, protestare, lottare per il bene, per la libertà, per il rispetto, cambiare le cose: perché in fondo l’arte è sempre stata questo: comunicazione e rivolta. E a volere questa rivoluzione è proprio una donna: Shamsia Hassani.

L’INTERVISTA
“Io, ebreo scisso fra sogno messianico e la realtà
dello Stato di Israele”

La settimana scorsa si è tenuta a Berlino, di fronte alla neoclassica Porta di Brandeburgo, un’imponente manifestazione contro l’antisemitismo, che è emerso in modo particolarmente virulento nei giorni dell’ultimo conflitto israeliano-palestinese. Tra i vari manifestanti si sono distinti quasi da subito due schieramenti all’interno dei numerosi israeliani: un gruppo di israeliani “sionisti” e un gruppo di israeliani “antisionisti.” Se la circostanza non fosse stata comunque drammatica, avrebbe quasi fatto sorridere questa divisione così particolare e complessa da decifrare – quasi un omaggio ad una famosa barzelletta sulla proverbiale litigiosità ebraica (un ebreo resta sperduto per cinque anni in un’isola deserta e quando viene ritrovato gli chiedono perché abbia costruito due sinagoghe e risponde: una è la sinagoga che frequento, l’altra è la sinagoga in cui non metterei mai piede!).

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Tomer Dreyfuß

In quest’occasione ho rivisto un mio compagno di lettura di filosofia, un giovane studente israeliano e blogger, Tomer Dreyfuß, il quale si è lasciato intervistare anche su temi piuttosto scottanti, persuaso forse dal suono un po’ folcloristico del mio “giudeo-italiano,” forse dalla reciproca familiarità, per aver condiviso molte ore sugli stessi testi.
In effetti, fuori dalle pagine di filosofia, ho scoperto un’altra faccia di Tomer. Non condivido alcune delle sue opinioni ma apprezzo molto l’integrità e l’onestà intellettuale di questo giovane, atipico israeliano che ama mettere in discussione anche quei principi identitari, come il “sionismo,” che si danno comunemente per scontati e che anzi si credono difesi strenuamente con la violenza e le bombe, mentre invece hanno esattamente bisogno di questo: una discussione appassionata sui principi fondanti dello Stato d’Israele, senza alcun sospetto distruttivo bensì, come recita il profeta, “per amore di Sion non tacerò” (Is 61:1). Cominciamo, dunque.

Ciao Tomer. Ti puoi presentare brevemente? Sei un israeliano e studi filosofia a Berlino. Posso chiederti perché hai deciso di fare filosofia e perché hai deciso proprio di studiarla in Germania? C’è una qualche connessione?
Studio letteratura e filosofia a Berlino. È stata una decisione che ho preso all’ultimo momento, prima di presentare i documenti in ufficio. Non ero venuto in Germania per studiare. Volevo studiare e volevo andare in Germania: le due cose hanno semplicemente coinciso. Ero qui prima di cominciare con gli studi e forse ci resterò anche quando avrò finito. Penso che quello che si insegna in classe in Germania sia relativamente compatibile con i miei interessi. Nei paesi di lingua inglese predomina invece la filosofia analitica e questo la fa assomigliare un po’ alla matematica. Penso che la filosofia, nonostante tutti i tentativi da parte della scuola analitica, riguardi proprio tutti i settori pratici delle vita, questioni esistenziali, di genere, politica, economia, psicologia e critica letteraria, ad esempio. La filosofia abbraccia tutte queste questioni e vi pone delle domande “dall’esterno,” domande che non si possono porre “dall’interno.” Anche in Germania c’è una attrazione per l’America, in tutti i settori, anche lì, nella filosofia. Peccato… In ogni caso trovo gli studi relativamente appaganti e soddisfacenti.

Quindi ami la filosofia continentale… Pensi che l’educazione filosofica influenzi la tua concezione della tua “identità ebraica,” oppure preferiresti chiamarla “identità israeliana”? Ti pare che ci sia una differenza tra “l’identità ebraica” e “l’identità israeliana” visto che sei un ebreo nato e cresciuto in Israele?
Preferisco vedermi come “ebreo” e non come “israeliano.” Si tratta di una definizione con cui mi sento più in pace. La definizione come “israeliano” mi sembra problematica e manchevole. Questa manchevolezza è dovuta soprattutto dalla discussione che si fa sulla questione dell’identità (israeliana). I miei nonni erano nati in Europa. L’educazione che ho ricevuto è “ebraica.” Sono un laico ma comunque sono ebreo. Quindi non so davvero che cosa sia l’identità “israeliana.” Secondo me, si tratta degli ebrei che vivono nella terra di Israele. Se non è così, non sento di farne parte. Sono un “ebreo diasporico” e ne sono fiero.
Secondo me, il fatto di aver assegnato al popolo ebraico una vera e propria estensione territoriale geografica… (a questo punto noto come Tomer stia cercando una lunghissima circonlocuzione per evitare di pronunciare la parola aretz, “terra”, Ndr) l’ha fatto sbarellare. Questo è un popolo che era sopravvissuto per migliaia d’anni solo struggendosi per una terra e, secondo me, questo struggimento ha forgiato proprio quei concetti che hanno reso tale il popolo ebraico. Ad esempio, l’attesa del messia. I cristiani hanno Gesù, i musulmani hanno Maometto. Non abbiamo il messia. È la nostra unicità, proprio il fatto che il nostro messia non sia arrivato e che non arriverà… Una sorta di figura astratta che ci lascia proprio in condizione di guardare al futuro che verrà. Quei popoli di cui è già arrivato “il loro messia” non guardano avanti bensì indietro. Al momento in cui è arrivato loro, alle cose che ha detto e che ha fatto.
Penso che uno Stato ebraico in Israele sia proprio una specie di metafora simile. Qualcosa che non è detto che arrivi sul serio. Qualcosa che forse dovrebbe restare nelle nostre preghiere. A Sion. Per duemila anni abbiamo pregato per Sion e in questo dolore eravamo tutt’uno. Ora abbiamo Sion. Quindi perché pregare? Un ebreo che si strugge per Sion… basta che salga su un aereo e voli fin lì. Lo Stato di Israele gli dà addirittura un passaporto. Non voglio nemmeno addentrarmi in altre questioni fin troppo chiare, cioè che lo Stato di Israele sta traviando la via spirituale del popolo ebraico, che lo sta spingendo ad occupare territori, una condizione che lo corrompe ogni minuto che passa.
Ma c’è dell’altro. Penso che “israeliano” ed “ebraico” al giorno d’oggi, su spinta dello Stato di Israele, siano uno in contraddizione con l’altro. Israele assilla gli ebrei non israeliani, li tratta con disprezzo e razzismo. Se sei un ebreo americano oppure francese che ha deciso di trasferirsi in Israele, sei benvenuto! Abbiamo bisogno di te e dei tuoi sforzi. Ma tutti quegli ebrei che non possono giovare ad Israele vengono gettati giù per le scale… Questo è lo stesso disprezzo e razzismo che Israele ha avuto nei confronti dei miei nonni quando arrivarono dalla Shoah, gli ebrei che arrivarono a pezzi dalle rivolte nei paesi arabi negli anni Cinquanta e Sessanta, ebrei che arrivarono dall’Etiopia negli anni Ottanta o i rifugiati politici dall’Unione Sovietica (persino sopravvissuti dalla Shoah) – che assorbirono tutto il razzismo istituzionale, da quel momento in poi, da parte dello Stato israeliano.

L’hai sempre pensata così oppure le tue opinioni politiche sono cambiate quando hai deciso di studiare e vivere in Germania?
Quando ho lasciato Israele mi si è liberata la mente. Prima c’era costantemente un lavaggio del cervello da parte dello Stato, dei media, le scuole, l’esercito, ovunque e sempre. Sono stato in grado di vedere le cose dal di fuori. Ho capito quanto fossero assurde le cose. I media israeliani sono davvero spaventosi. Fanno solo costantemente propaganda. Vedo come gli lavano il cervello. Ora, di recente, hanno deciso di promuovere anche lo “studio della Shoah” nelle scuole. Penso che proprio l’idea di studiare la Shoah al di fuori delle lezioni di storia sia una perversione (sussulto per un momento, trascinato dalle mie idiosincrasie accademiche: Tomer ha usato il termine sotah, generalmente usato per indicare una donna adultera, un termine ora usato nello slang israeliano per indicare un’“adulterazione” di qualcosa. Ndr). Si tratta di una concezione di una cultura comune che affonda le basi sulla morte orribile, sull’orrore e sulla malattia mentale che hanno passato intere generazioni del nostro popolo. È assai problematico che sempre più israeliani vedano la Shoah come una componente centrale della loro identità ebraica. Come se non ci fosse un ebraismo prima del 1939…
Ti metti in disparte e vedi che ogni bambino sa recitarti a memoria i nomi dei campi di sterminio ma non c’è uno di loro ce sia capace di dirti chi siano Rambam (ovvero Maimonide, il grande filosofo medievale, Ndr) o Ramhal (ovvero il grande rabbino italiano e cabalista Mosè Luzzatto, Ndr), che cosa succeda nel libro di Daniele o quale sia il pensiero di Mendelsohn, Gershom Scholem, o in che anno sia avvenuta l’espulsione degli ebrei dalla Spagna.
Questo è uno “Stato ebraico”? Questo è uno Stato il cui tratto distintivo è la Shoah. Lo vedi bene dall’esterno. Questa paranoia nazionale, maniaco-depressiva, collettiva. Dall’esterno vedi che è una gabbia di matti in cui non metteresti la tua testa sana.

In quanto ebreo e in quanto israeliano che opinioni hai sulla Germania e sulla sua colpa storica durante la Shoah?
Secondo me la questione è se l’indagine storica della Shoah debba essere un fatto singolare oppure un evento universale. Se la Shoah è un evento singolare, allora la sua morfologia è unica. Si è realizzata perché i tedeschi erano così e così e perché gli ebrei erano così e così e perché l’Europa era così e così precisamente nell’anno 1939 eccetera eccetera. Secondo questo approccio ovviamente penso che la Shoah non possa ripetersi perché non ci sono più le medesime condizioni e questo è il modo più semplice e irresponsabile per risolvere la cosa. Non si può ridurre la Shoah ad un evento del genere bensì va considerata in relazione al degrado morale della società, come conseguenza di istigazioni al razzismo, ridefinendo costantemente i criteri quotidiani per assolvere ad un compito.
Ad esempio, non credo chela maggior parte dei tedeschi volesse uccidere gli ebrei nei campi di concentramento. Credo che i tedeschi volessero “dare una mano al Paese” (un’espressione che oggi sentiamo ovunque) e qualcuno è andato ad arruolarsi nell’esercito per combattere al fronte e così via. Del resto non credo, contrariamente alla maggior parte della sinistra europea, che la maggior parte degli israeliani voglia opprimere i palestinesi. Penso che la maggior parte di loro voglia essere “buoni cittadini,” Il problema è che è proprio chi sta al governo a decidere che cosa significa essere dei “buoni cittadini.” E queste persone sono razziste e pericolose. Proprio perché hanno il potere.
Per ritornare alla responsabilità dei tedeschi, in ogni caso, questo è ciò che gli è successo alla fin dei conti. Penso che le persone qui siano davvero brave a scrivere ovunque con lo spray “Via i nazisti!” oppure “Contro i nazisti!”, ma non sono poi così bravi a discutere davvero su che cosa significhi essere nazisti.
Un nazista è necessariamente un tedesco? Una vittima del nazismo deve essere per forza un ebreo? Credo di no. Non accuso i tedeschi di oggi per cose che hanno compiuto altre persone settant’anni fa. Li accuso di non trarre le conclusioni da tutto ciò:che ogni forma di razzismo è pericolosa.
Anche il razzismo contro i musulmani è pericoloso. Anche quello verso i Rom. Li accuso di fare manifestazioni contro l’antisemitismo nello stesso momento in cui bruciano le moschee e in cui gli studi mostrano che i Rom sono la minoranza più odiata in Germania. Li incolpo chi tappezza la superficie di monumenti invece di ripulire dalla violenza razzista tutto ciò che sta sotto la superficie.

Se ti consideri un “ebreo e israeliano non sionista,” pensi che sia una buona idea manifestare simili idee estreme (se pensi che siano idee estreme) in un paese così importante e così negativo per gli ebrei, come è la Germania? Non pensi che simili idee potrebbero compromettere la legittimità di esistere e vivere in pace dello Stato di Israele?
Non credo che le mie idee possano mettere in pericolo lo Stato di Israele. Al contrario, penso che Israele dovrebbe sottoporsi ad un piano di riabilitazione. Proprio come i sopravvissuti della Shoah che soffrivano di disturbi psichici hanno avuto bisogno di un trattamento psicologico, quindi così vale lo stesso anche su scala nazionale.
Ma quando la Germania sostiene la politica di Israele viola i diritti umani e perpetua la situazione di conflitto in Israele per la qualche chiede di sacrificare i suoi figli, questa non è riabilitazione. Questo non è sostegno. Questo è come avere un amico alcolista e invece di costringerlo a sottoporsi ad una terapia, gli si acquista dell’altra vodka. Penso che dovremmo sottoporci ad una terapia. Penso che questa sarebbe una vera amicizia. Anche da parte della Germania, anche dell’Italia, anche da parte di qualsiasi Stato – che non metta in pericolo l’esistenza di Israele, che lo salva da se stesso.

Non pensi sarebbe meglio evitare di parlare in pubblico di questioni politiche come queste?
Anzi, più se ne parla, meglio è. Chi meglio di te – come italiano – sa quanto sia pericoloso che una sola parte dello schieramento politico abbia risalto sui media. È importante far sentire anche l’altra parte dello schieramento. Alla fin fine, vogliamo tutti il meglio per l’umanità e non credo che ci siano opinioni che andrebbero censurate.

Come sono state accolte le tue opinioni sul sionismo da parte della comunità ebraica tedesca?
Non penso che nessuno della comunità ebraica in Germania mi conosca personalmente… In ogni caso, credo che la comunità ebraica tedesca abbia molte difficoltà con queste prese di posizione, in particolare prese di posizione contro la singolarità della Shoah. Gli fa molto comodo accusare esclusivamente la Germania. Le loro scuole trovano fondi, ogni loro progetto viene sostenuto solidamente da ogni partito tedesco… È molto comodo così. Disturberebbe molto se qualcuno saltasse su e dicesse, “non bisogna chiedere perdono per la Shoah solo per quanto riguarda gli ebrei ma anche per tutti coloro che hanno sofferto per il razzismo”. Prova a paragonare il budget della Comunità ebraica tedesca con il budget della Comunità Rom oppure la Comunità islamica… È una vergogna. E il fatto che per la smania dei capi della Comunità ebraica tedesca non si è rinunciato al monopolio della “colpa tedesca” porterà alla fin fine a maggior antisemitismo. Le persone sono stanche, c’è una natura corrotta.

Vuoi dire anche qualcos’altro prima di terminare la nostra intervista?
Vorrei far notare che non troppi anni fa, in termini storici, settanta o ottant’anni fa, il mondo ebraico era pieno di idee e di movimenti politici. In parte sionisti, in parte non sionisti. Una volta c’era l’organizzazione Bund (“legame”), ad esempio. Una delle più grandi ingiustizie che la Germania e Israele stanno facendo oggi agli ebrei è quella di diffondere un unico diffondere solo un unico parere ebraico nel mondo. Come se non potessimo pensare in termini non nazionalisti. E come se tu dicessi che tutti gli italiani la pensano “Forza Italia.” Questa è un’affermazione razzista. Il mondo ebraico ha bisogno di far ricrescere diversità politica all’interno di esso e ha bisogno che (capisca che) il sionismo degenera quando elimina i suoi avversari, sfrutta la Shaoh e il resto del mondo. Persino anche nelle le espressioni tedesche attuali “antisionista” significa “antisemita,” come se “sionista” e “ebreo” fossero la stessa cosa.
Questo fenomeno è pericoloso anche dal punto di vista pratico visto che Israele e la Germania (e l’Occidente) mescolano volutamente i termini “ebreo”, “Israele” e ​​“sionismo”. Penso che sia un’ipocrisia pericolosa se questi termini, “ebreo” e sionismo, “non vengono tenuti separati e se Israele continuerà ad agire violando i diritti umani, bombardando i quartieri residenziali e molto di più: si prevede per gli ebrei un antisemitismo di nuovo tipo.
Se il precedente antisemitismo era immediato (“odio per gli ebrei perché sono ebrei”), allora questo sarà mediatissimo. Se Israele finge di assumersi la responsabilità per gli ebrei di tutto il mondo, dovrà valutare seriamente la situazione in cui li pone…

La nostra conversazione si conclude così. Guardo un po’ sorpreso Tomer. Sapevo delle sue posizioni radicali, ma non l’avevo mai sentito parlare così esplicitamente. Non mi sarei aspettato che questo mite studente di filosofia, amante dell’Italia e fervido lettore di Hegel, Benjamin e Platone, potesse essere animato da convinzioni così risolute e forti. Ci salutiamo con un abbraccio e ci diamo appuntamento alla prossima lettura comune di filosofia, visto che a volte l’astrazione offre un tenue asilo dalle brutture del mondo.

L’OPINIONE
Con una banca pubblica ogni anno l’Italia risparmierebbe
70 miliardi di interessi

Moneta: mezzo di scambio per la compravendita, rappresentato da un dischetto metallico. Questo recita il dizionario. La moneta è un mezzo. Purtroppo si è invece da tempo diffusa l’idea di moneta come merce. Questa è una delle tante distorsioni della macroeconomia che stanno influenzando noi, i nostri governanti e di conseguenza le politiche economiche, le decisioni dell’Unione Europea.

E’ necessario capire, a questo proposito, il meccanismo attraverso cui gli stati dell’Ue ottengono il ‘mezzo monetario’: con l’articolo 123 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea – uno dei documenti non sottoposti a referendum nazionale – si afferma che la Banca Centrale Europea (Bce), organo incaricato dell’attuazione della politica monetaria per 18 dei 28 Paesi dell’Unione europea che hanno aderito all’euro (Eurozona), non può prestare direttamente agli Stati, ma deve prestare a enti creditizi privati (banche) che, a loro volta, prestano poi la moneta, con tassi d’interesse variabili, agli Stati dell’Unione. Parliamo di numeri ed esempi concreti: la Bce presta la moneta alle banche private (fra cui Unicredit, Mps, Banca Intesa, altri) ora allo 0,05% di interesse, queste prestano denaro agli Stati applicando tassi determinati da criteri di mercato: fino a qualche settimana fa, quando ancora il tasso era dello 0,15%, la Germania ha ottenuto la moneta euro a circa l’1% di tasso d’interesse, l’Italia al 4.75%, la Spagna circa al 7%, fino ad arrivare alla Grecia con il tasso record del 17% (nei momenti più difficili).

E’ fin troppo chiaro che gran parte delle difficoltà economiche in materia di risorse e debito pubblico sono causate anche da un’impostazione distorta dell’Eurozona. E capiamo altrettanto bene che in questo modo la moneta non è considerata più un mezzo sovrano per dare corso a progetti di sviluppo a beneficio dei cittadini ma una merce, soggetta a speculazioni finanziarie dei colossi privati grazie all’applicazione dei tassi d’interesse. L’adozione della moneta unica euro, nel 1999 con il governo D’Alema, ha determinato l’asservimento dell’Italia ai parametri prima descritti. Proviamo ad immaginare la moneta come ossigeno e la Banca d’Italia, con cui l’Italia aveva ancora diretto controllo sul proprio credito (in “soldoni” poteva decidere quanta moneta emettere), il polmone. La classe dirigente (italiana ed europea) d’allora ha deciso di privare l’Italia e ogni Paese aderente all’Eurozona del proprio polmone e di attaccarsi ad un polmone artificiale estero (Bce) su cui l’Italia non avrebbe avuto più controllo. Perché privarsi del proprio polmone e attaccarsi ad un meccanismo estero, che potrebbe un giorno non essere più dalla parte dei cittadini ma potrebbe favorire esclusivamente gli interessi dei colossi della finanza? Questo è un meccanismo estremamente pericoloso perché ci espone agli interessi delle banche private che decidendo con l’appoggio politico di speculare sui tassi d’interesse, sul prestito della moneta (l’ossigeno), sulle ‘crisi’ dei paesi più deboli, drenando beni reali in cambio di moneta creata dal nulla ed emessa nel sistema. E’ questa scarsità di presenza del mezzo monetario nell’economia reale (le immense e disastrose iniezioni che Draghi, descritto dalla stampa economica mondiale come il peggior banchiere centrale di tutti i tempi, restano nelle banche, che non erogano credito in situazione di ‘crisi’) che non permette la fondamentale remunerazione della laboriosità del nostro Paese e distrugge la capacità d’acquisto del cittadino e lo Stato sociale italiano. Quindi non si stupisca chi legge che il tasso di disoccupazione è arrivato al 12% (che è solo una media) o che l’Italia è nella famigerata deflazione.

Ripetiamolo allora, perché gli euroburocrati e i politicanti del nostro Paese non vogliono, o non hanno l’interesse a capirlo:

  • Il denaro non è una merce, ma una convenzione sociale, un mezzo.
  • Lo Stato dispone del credito, non è quindi necessario che si indebiti. Deve semplicemente spendere a deficit con moneta sovrana (anche l’euro andrebbe benissimo se lo diventasse), per remunerare la produttività di famiglie e imprese in azioni e progetti concepiti per lo sviluppo della collettività (non certo per arricchirsi in modo fraudolento).
  • Questi i capisaldi postulati da Ezra Pound, pensatore statunitense, nel 1933, ma condivisi da economisti del calibro dei premi Nobel Paul Krugman, Joseph Stiglitz, Milton Friedman e tanti altri.
  • Lo Stato deve quindi riacquistare la propria sovranità monetaria, ottenendo nuovamente il diritto di decidere sulla propria politica monetaria, calibrando l’iniezione monetaria nel Flusso circolare (J.M. Keynes) con tasse e finanziamenti.

Ma, se gli italiani non volessero uscire dall’Eurozona, anche dopo aver capito le distorsioni e le menzogne del sistema euro, si può fare ancora qualcosa.
C’è una soluzione? Sì, ce la suggerisce il comma 2 dell’articolo 123 del Tfue: il governo può creare una banca di proprietà statale che lo finanzi. Il sistema è semplice: la Bce crea il denaro (dal nulla, va ribadito) e lo presta alla banca pubblica allo 0,05% e la banca pubblica lo presta allo Stato magari anche con un interesse dello 0,50%, ma non con l’attuale tasso del 4% (nel caso dell’Italia). Su 2.000 miliardi di debito pubblico nel nostro paese arriveremo a risparmiare 70-80 miliardi l’anno. Così funziona già da tempo in Germania e in Francia con banche pubbliche create ad hoc che sostengono l’economia reale, gli investimenti della rete di imprese nazionali, mentre in Italia nonostante sussistano le condizioni per operare in questo senso, non si è fatto ancora alcun passo… Perchè?
Conflitti di interesse? Strapotere degli Istituti di credito e delle lobby finanziarie? Forse a pensar male non si fa peccato (diceva un vecchio “signore” della politica italiana), sta di fatto che proprio in questi ultimi mesi l’ex ministro all’Economia Vittorio Grilli (governo Monti) è approdato in JP Morgan, uno dei più grandi istituti finanziari, gli stessi che poi speculano sulla crisi indotta. E’ solo uno dei tanti casi di assunzioni, o meglio ‘promozioni’ di esponenti politici e manager pubblici. Le strade per uscire dallo stato letale di recessione (in realtà ci stiamo avviando al processo di deflazione) sono molteplici: banca nazionalizzata o uscita dall’euro, la scelta è politica, ma almeno si faccia qualcosa per le nostre aziende che non hanno risorse e per i cittadini che devono fare i conti con l’Euro, ogni giorno.

L’ANALISI
Giornalismo web, regole
della buona informazione in rete

Negli ultimi anni, il numero dei giornalisti della carta stampata tradizionale (parliamo, in particolare, dei quotidiani) è diminuito sensibilmente, ad esempio, negli Stati Uniti è passato da 54mila nel 2006 a 38mila nel 2012, ovvero una riduzione del 30%. Lo stesso è avvenuto per i periodici, con una diminuzione, negli ultimi 10 anni, di circa il 26% (fonte: American society of newspaper editors, Pew research center). Al contrario, la stampa sul web ha conosciuto un forte incremento, con l’aumento anche dei posti di lavoro, soprattutto nelle piccole strutture con vocazione “locale”, ossia in realtà che non coprono ogni tipo d’informazione ma che si concentrano sulla volontà di colmare le lacune della stampa locale e, talora, del giornalismo d’investigazione. I nuovi media sul web non esitano ad assumere giovani, scommettendo sulla loro conoscenza delle nuove tecnologie e la loro apertura e naturale predisposizione alle innovazioni. Gli “anziani”, ovviamente, continuano ad apportare la loro fondamentale esperienza e devono correttamente integrarsi con i primi, in un proficuo scambio reciproco. La formazione dei giornalisti tradizionali non sembra più adatta e adattata a ciò che il pubblico ricerca su internet, e per questo bisogna investire, bene e molto. Per troppo tempo, poi, i media hanno considerato Internet come secondario rispetto al cartaceo e hanno, pertanto, trascurato questo nuovo (e affascinante) mondo (ancora oggi certe redazioni hanno team separati per il web e il cartaceo). Questo non ha certamente aiutato a prepararsi a una rete che oggi conduce i giochi e occupa la scena in maniera preponderante. Ma anche a essa bisogna prestare la dovuta attenzione e prendere con cautela quello che, ormai, strumenti come Google ci preconfezionano, in termini di notizie e non solo.
Quando si usa e si lavora con un motore di ricerca, bisogna sapere che spesso articoli e notizie non sono state oggetto di adeguata analisi e controllo da parte dell’autore (tanto per contenuto che per fonti) e che, spesso, il redattore che prepara un testo “adatto” alla rete si basa principalmente sul numero di richieste e ricerche fatte, da parte degli utilizzatori di Google, per una determinata serie di parole chiave, e, sulla base di ciò, pubblicherà per avere visibilità sulla rete e migliorare la sua “referenzialità”. Fino quando Google avvantaggerà la quantità di pubblicazioni rispetto alla loro qualità, il giornalismo web sarà questione di robot e l’informazione di scarso livello. Carefully, dunque. Tutti noi che scriviamo.

giornalismo-web-regole-futuro
Smart phone e tablet sono i supporti più utilizzati per leggere i giornali

Allora, quale potrà essere l’avvenire del giornalismo sul web e quali le regole per assicurarne qualità e pari dignità con quello cartaceo? A nostro avviso, il futuro di questo tipo di scrittura può essere davvero roseo, a condizione che le redazioni tengano conto di alcuni principi basilari. Eccone alcuni, ma la riflessione resta, ovviamente, aperta.

LA TECNOLOGIA. Il mondo del giornalismo web può cogliere una grande opportunità dalla tecnologia, soprattutto in termini d’interattività dei contenuti che rendano i testi più dinamici e vivaci. La creatività avrà un ruolo fondamentale in questo, perché non si tratterà più solo d’informare ma di trattare l’informazione con originalità.

L’ORIGINALITA’, dunque. Questa va ricercata nei contenuti, nelle forme e nelle immagini. Una buona comunicazione innovativa tramite belle immagini e video potrà stimolare l‘attenzione dei lettori che solitamente consultano rapidamente le notizie. La fotografia di qualità potrà aiutare molto e accompagnare i testi. Un team ampio, composito e variegato può essere poi un fattore importante di successo di una testata. Ma allora, non ci orientiamo forse verso un’informazione di nicchia? Non vale la pena riflettere sempre di più all’idea di “glocal”, ossia nel voler creare informazioni e servizi per un mercato globale-internazionale ma modificate e adattate alla nostra cultura e ai bisogno locali?

LE FONTI. Il web ha dimostrato recentemente che spesso l’assenza di controllo delle fonti può comportare conseguenze importanti. I siti “hoax” (bufala o satirici) oltre che la manipolazione dell’informazione a fini propagandistici (si vedano il caso Isis-infibulazione obbligatoria per le donne che si è dimostrata una “bufala” della rete partita da un non ben identificato tweet) possono essere molto pericolosi se non gestiti con attenzione. Il giornalista che opera sulla rete deve, pertanto, prestare particolare cura alla verifica delle fonti e non basarsi unicamente sulle agenzie stampa o le notizie sul web. D’altra parte, non deve perdere la sua buona abitudine a partecipare agli avvenimenti direttamente e in prima persona.

LA FORMAZIONE. Come già accennato, la sfida attuale del giornalista è anche quella dal formazione alla scrittura sul web. Bisogna essere capaci di redazione efficace anche per la “referenzialita” ma senza perdere il proprio stile. Pur con regole che sostanzialmente non cambiano, va oggi assicurato il tandem fondamentale qualità tecnica e qualità redazionale.

IL CONSUMATORE. Bisogna concentrarsi sempre più su di esso e comprendere le esigenze del lettore e fornire un giornale adeguatamente pensato (il caso, ad esempio, dei giornali gratuiti per i passeggeri dei mezzi pubblici).

IL MODELLO ECONOMICO. Se i media online creano posti di lavoro, il modello economico adeguato per supportare le redazioni web è ancora difficile da identificare. Il contenuto editoriale, il community management e i costi di gestione del sito richiedono investimenti importanti. Bisogna spostarsi gradualmente verso fonti diverse dalla pubblicità, dalla quale i media dipendono ancora per circa il 70% e diversificare le entrate. Alcuni hanno trovato la soluzione nel crowdfunding, che spesso permette di finanziare reportage, articoli e lo sviluppo di certe piattaforme. Ma da sola questa fonte non basta. Alcune testate hanno provato la formula degli abbonamenti a pagamento, ma solo i giornali a grande diffusione e noti possono permettersi questa scelta. L’ultima strategia è pubblicare inserti pubblicitari in forma di articoli, ossia individuare attività di grande interesse per la collettività e produrre servizi che fungano anche da promozione per l’azienda, ente, associazione, ecc., naturalmente evitando il rischio di confondere il confine che separa la pubblicità dal giornalismo. Andrebbe riflettuto sulla nozione di servizio, forse, e diversificare le entrate con nuove idee.

IL BUON USO DEI SOCIAL NETWORK. I social network vanno utilizzati in maniera intelligente per evitare la saturazione del lettore e quella che qualcuno definisce “infobesità”. La distribuzione dell’informazione va, dunque, dosata in termini di qualità e quantità. Non va dimenticato che il cittadino-lettore oggi fa parte, ormai, di quello che viene chiamato il “giornalismo cittadino” o “sociale”, contribuendo lui stesso a fare la notizia e a influenzarla. Il sistema di commenti e suggerimenti dei social (da Facebook a Twitter) si è, poi, dimostrato uno strumento molto utile per fidelizzare gli internauti. Si può anche ragionare sulla creazione di un social network proprio alla testata che non sia, tuttavia, una semplice raccolta di commenti ricevuti.

I TABLET. Il numero dei tablet è in forte aumento: nel 2017, ne saranno in circolazione circa 383 milioni. Le edizioni vanno adattate a questo formato e la fidelizzazione del lettore tablet va studiata e migliorate. Siamo sempre più abituati ormai a leggere notizie, libri e testi vari suo nostri ipad o samsung, fra un aereo e l’altro, un treno e l’altro, al bar in pausa davanti a un cappuccino, su una panchina al parco. Dobbiamo avere fantasia, inventare, pensare.

Bisogna sempre mantenere alte le parole chiave del giornalista, informare, interpretare e divertire (aggiungerei incuriosire), ma cambiando il modo di lavorare. Altre idee?

Il futuro non è più
quello di una volta

Qualche giorno fa Benigni, intervenendo in un noto talk show televisivo, ha invitato ad avere fiducia nel futuro. Penso che un tale messaggio sia giunto come rassicurante, supportato dalla buona reputazione di un personaggio che ha saputo costruirsi un’immagine positiva anche dosando la sua presenza sulla scena mediatica.
Credo che la prima condizione per guardare al futuro con fiducia sia quella di restare in sintonia con il tempo presente, non per assecondarne ogni piega, ma per comprenderlo. Non vi è dubbio che questa condizione è più difficile oggi, perché il salto che distingue questo tempo da quello che hanno abitato le generazioni mature è rilevante. La differenza investe non ‘banalmente’ questioni di valori, quanto nodi strutturali, a partire dal fatto che viviamo in uno scenario globale che amplifica la competizione tra Paesi e culture e produce nuovi conflitti.
La seconda questione, che amplifica gli effetti della prima, è rappresentata dalle tecnologie della comunicazione che fanno del mondo un piccolo villaggio interconnesso. Gli effetti delle tecnologie vanno ben oltre la diffusione rapida delle informazioni, ma investono tutti i nostri ambienti di vita, mettono in crisi tecniche e competenze, con i ben noti effetti sulla occupazione, sfidano schemi di pensiero, modelli di trasmissione del sapere e contesti dell’apprendimento e molto altro. Le tecnologie generano un’attesa di strumenti di previsione e nel frattempo enfatizzano la delusione circa la stessa di possibilità di controllare quanto accade. Cresce l’incertezza, paradossalmente fondata proprio sul mito prometeico del controllo.
Intanto, in primo piano gli individui con il loro carico di attese soggettive, di desideri di protagonismo, di istanze di visibilità e che talvolta scambiano la possibilità di esprimere opinioni e di partecipare al mondo della chiacchiera in rete, con la capacità di interpretare gli accadimenti. I commenti sul referendum in Scozia ne sono un esempio. Galleggiamento e pressapochismo non ci aiutano a ricostruire la fiducia in un futuro che davvero non è quello di una volta, per riprendere una vecchia battuta.
La percezione di una discontinuità con il passato credo che sia stata sempre vissuta: tutte le generazioni probabilmente hanno avuto una percezione simile del cambiamento intervenuto durante il loro tempo di vita. Tutte hanno considerato il cambiamento come espressione del degrado intervenuto rispetto ad un’età migliore (quella della loro infanzia). Persino Socrate tuonava contro la scrittura in quanto imbrigliava la capacità del pensiero di esprimere, in quanto vivo e non solidificato nel linguaggio scritto, tutto lo spessore di una riflessione che deve restare aperta.
Oggi, però, è vero che il futuro non è più quello di una volta, forse come poche altre volte è accaduto nella storia. Il web è diventato il nostro nuovo ambiente di vita. Non è una faccenda che riguarda il tempo libero, né solo il lavoro, ma investe il rapporto tra immaginazione e funzioni cognitive, tra tempo e spazio e molto altro. Di questo cambiamento almeno gli educatori dovrebbero avere consapevolezza.

Maura Franchi (sociologa, Università di Parma) è laureata in Sociologia e in Scienze dell’educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing e Web Storytelling, Marketing del prodotto tipico. I principali temi di ricerca riguardano: i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@gmail.com

Po e canapa trainano lo sviluppo dell’economia ferrarese
prima dell’Unificazione

STORIA DELL’INDUSTRIALIZZAZIONE FERRARESE (TERZA PARTE)

Dopo la caduta del dominio napoleonico e con la restaurazione della potestà pontificia, l’economia ferrarese sembrò valorizzarsi grazie alla felice collocazione della città sul nuovo confine del Po. Basti pensare al porto di Pontelagoscuro, che vide intensificarsi sensibilmente il traffico di burchi da trasporto che scendevano e risalivano il fiume con vari prodotti agricoli e minerali.
Nel 1850, il segretario della Camera di Commercio Filippo Maria Deliliers pubblicò i suoi “Cenni statistici della provincia di Ferrara”, una interessante ed esaustiva indagine sull’economia e sulla società ferraresi, che andava ad aggiungersi alle analisi date alle stampe nel 1845 da Andrea Casazza nel suo “Stato agrario economico del Ferrarese”. I Cenni statistici del Deliliers riportano alcuni elementi di novità, in merito alla condizione economica ferrarese, che vale la pena di ricordare: «Il mondo agricolo ferrarese era ormai in pieno movimento, nonostante le tendenze economiche generali del periodo della Restaurazione non fossero favorevoli e volgessero piuttosto al ristagno. L’amministrazione comunale aveva accolto in qualche misura le istanze di progresso che si levavano dalla borghesia agraria e si era fatta promotrice della fondazione di un Istituto agrario, con annesso podere sperimentale, e di una Società agraria che, sotto il titolo di Conferenza Agraria, raccoglieva oltre un centinaio di soci»*.
Piuttosto modeste erano al contrario le attività manifatturiere, sebbene non mancassero segnali incoraggianti, come ad esempio l’impianto di una fabbrica di vetri e cristalli realizzata dal piemontese Giovanni Battista Brondi e di un’altra di cremor tartaro fondata da Costantino Bottoni, divenuta, quest’ultima, in breve tempo la terza per importanza nell’intero Stato pontificio. Grande successo riscosse invece l’opificio di Pontelagoscuro, costruito dal triestino Carlo Luigi Chiozza, per la produzione di saponi da toeletta. Ma la più eclatante novità, per la crescita dell’economia ferrarese, fu la straordinaria espansione del mercato interno ed estero relativamente alla coltivazione e alla lavorazione della canapa. Lo smercio di tale prodotto si allargò, soprattutto per merito della Comunità israelitica locale, fino alla Germania, all’Inghilterra, all’Impero asburgico. Il principale centro di produzione canapicola divenne il comune di Cento, per quantità e qualità del prodotto e per quantità degli operatori dediti alla filatura e alla tessitura.
__________
* F. Cazzola, Economia e Società (XIX-XX secolo), in F. Bocchi (a cura di), La Storia di Ferrara, Poligrafici Editoriale, Bologna 1995.

L’INTERVISTA
Da Aldro a Ingrao, news e docufilm le passioni di un reporter atipico

di Valerio Lo Muzio

“Meno male è lunedì”. A pronunciare questa frase può essere solo uno stakanovista oppure un amante del suo lavoro, come Filippo Vendemmiati, giornalista ferrarese, dal 1987 in forza alla Rai Emilia Romagna e da qualche anno regista di documentari, tra cui ‘E’ stato morto un ragazzo’ e ‘Non mi avete convinto’. A dire “Meno male è lunedì” sono però , anche un gruppo di detenuti della Dozza di Bologna, protagonisti del nuovo film di Vendemmiati, la cui uscita è prevista in autunno. Il regista, già premiato in carriera con il David di Donatello, ci apre le porte ad una realtà innovativa in Italia: la palestra del carcere diventa un’azienda specializzata, è il progetto Fid (Fare impresa alla Dozza) nata dall’idea di tre aziende bolognesi (Gd, Ima e Marchesini group). Così, per 13 detenuti è scattata un’assunzione a tempo indeterminato.E grazie ad alcuni operai in pensione che fanno loro da tutor, imparano a produrre componenti meccaniche ad alta tecnologia destinate al packaging.

Ha vissuto un’esperienza inedita durante le riprese del tuo ultimo documentario “Meno male è Lunedì”, non capita a tutti di passare del tempo con i detenuti, cosa le è rimasto dopo questo incontro?
E’ stata un’esperienza umana molto forte, sapevamo che da parte loro c’erano delle paure nel farsi riprendere, e invece poi questa diffidenza si è sciolta e si è creato con loro un rapporto solido, contagioso. Non mi sono trovato di fronte dei detenuti bensì dei colleghi di lavoro in uno spazio di libertà molto particolare che è questa officina all’interno del carcere.

Ha girato un film su Pietro Ingrao, potendo conoscere da vicino un simbolo del Pci. Dietro il personaggio che uomo si è trovato di fronte?
Non avevo mai conosciuto personalmente Pietro Ingrao, è una figura che ho sempre visto da lontano, ho letto i suoi libri, avevo ascoltato i suoi comizi. Ho sempre avuto la percezione di una persona dotata di una grandissima umanità e di una grandissima capacità di ascolto. Durante il nostro incontro, mi ha colpito quanto Ingrao fosse capace di ascoltare, tanto da trasformare l’intervista in un dialogo, voleva sapere se i suoi ragionamenti, le sue parole mi convincevano oppure no. Caratteristica poco comune nei politici di oggi, che parlano e che promettono, ma che purtroppo, ascoltano molto poco. Mi ha stupito trovare di fronte una persona che nonostante l’età, è così attenta ed acuta nei ragionamenti , molto curiosa e piena di dubbi, che non ragiona per sicurezze. Quando gli abbiamo comunicato il titolo del film: “Non mi avete convinto, Pietro Ingrao un eretico”, lui era molto contento, sentirsi definire un eretico per lui è un elemento che da valore al suo pensiero non è un offesa.

Lei ha vinto il premio David di Donatello per “E’ stato morto un ragazzo”, da ferrarese cosa ha significato questo film?
Mi sono limitato a raccontare quello che è successo e quello che la giustizia aveva accertato. Non è un’inchiesta giornalistica, lo considero il racconto di una tragedia in 90 minuti. E’ un lavoro che mi è rimasto molto dentro e che giudico importante per la storia e non per me. Credo di aver dato un piccolo contributo alla dignità di un ragazzo e alla definitiva affermazione della verità, seppur con molti contrasti. Per questo ho rifiutato altre proposte che in qualche modo intendevano proseguire questo tipo di lavoro, su Aldrovandi stesso o su altre vicende analoghe. Mi hanno proposto di ricavarne una sceneggiatura cinematografica, ma il forte livello di coinvolgimento personale su questa storia e il forte rapporto di fiducia reciproca con la famiglia Aldrovandi mi hanno suggerito di evitare questa strada.

Quali sono i prossimi progetti di Filippo Vendemmiati?
Nel mio cassetto ci sono tanti progetti, alcuni in fase di stallo, altri già scritti e in fase più avanzata, ma non sempre i progetti e le idee si realizzano. Siamo in un periodo in cui fare cinema e fare documentari è tremendamente difficile. Avere un’idea, scrivere una sceneggiatura oggi è il problema minore, il problema è poi riuscire a distribuirlo ad ottenere visibilità nei festival del cinema , ad avere contratti con le reti televisive. Un mercato difficilissimo. Il mio prossimo progetto è terminare “Meno male è lunedi” e quindi accompagnarlo in giro per l’Italia e per festival.

Quanto è difficile oggi, con la crisi economica che ha colpito anche il mondo dei media, approfondire certe tematiche e decidere di fermarsi per raccontare una storia?
Le forme di diffusione oggi sono aumentate grazie alla rete, ma questo non corrisponde a fruibilità maggiore, anzi sono convinto che questo flusso di offerta alla fine si traduca in un grande minestrone in cui tutti i settori sono uguali e fai fatica a distinguere le inchieste documentate, che richiedono mesi di lavoro, da altre che spesso si rivelano bufale vere e proprie, c’è un mercato molto inquinato. Per fare un’inchiesta occorrono mezzi, ma soprattutto tempo. La velocità con cui oggi si muove l’informazione televisiva e della carta stampata, è nemica dell’approfondimento e dell’onestà, ma soprattutto è nemica della chiarezza.

Ha dichiarato in un’intervista rilasciata al Blog di Beppe Grillo che il giornalista è “un lavoro che ti piace sempre meno”, perché?
Premetto che non è il mio intento, quello di stabilire delle regole e dare dei giudizi, ci sono giornalisti bravissimi che fanno il loro lavoro con grande serietà, alcuni dei quali perdono anche la vita per questo mestiere. La mia è una critica che deriva dalla mia posizione, sono molti anni che faccio questo mestiere e sono un po’ stanco, delle dinamiche e di come si è trasformato in particolare il giornalismo televisivo.

Provi a spiegarsi meglio, cosa non le va giù?
Le racconto un aneddoto, il film di Aldrovandi è nato anche dall’esigenza di trovare gli strumenti, degli spazi e dei tempi diversi, dal normale lavoro di cronaca, per raccontare una storia che secondo me meritava di essere conosciuta. Un produttore Rai a quel tempo mi disse: “Ma che cosa vuoi che interessi alla gente di una piccola storia successa a Ferrara?”. Si sbagliava clamorosamente, perché il documentario continua ad essere visto, continuano a chiedermi di mandarlo in giro, e da quando è liberamente fruibile su Youtube e su Vimeo, abbiamo avuto tantissime visualizzazioni. Tutto ciò dimostra che non è solo una “piccola storia successa a Ferrara”.

A proposito di Ferrara, che rapporto ha con la sua città natale?
Ho ancora un legame molto forte, è la città dove sono cresciuto, ancora oggi quando qualcuno mi chiede dove abito rispondo a Ferrara, anche se sono 30 anni che vivo a Bologna, ho ancora questo lapsus. Andare a casa per me significa tornare a Ferrara e quando ci vado, ho sentimenti molto contrastanti. La giudico una città di una bellezza straordinaria da un punto di vista architettonico, ma anche una città molto chiusa e molto difficile. Dove molte persone, anche intellettuali di livello, non sono riusciti ad avere i riconoscimenti che meritavano e che han trovato in altre città, penso al mio grande amico recentemente scomparso Stefano Tassinari. Anche nel caso Aldrovandi è una città che ha risposto con una sua verità, l’allora sindaco e le istituzioni, hanno dimostrato di essere civili, più aperti e più attenti di una parte della sua popolazione, che ha vissuto questa storia come pubblicità negativa.

Parliamo di un suo grande amore: il pallone e la Spal, come si vive il calcio in provincia?
Per dirla alla Arrigo Sacchi: “la Spal è la cosa più importante tra le cose meno importanti della mia vita”. Ho una malattia vera nei confronti di questa squadra e di questi colori. Ho saltato solo un anno, subito dopo il fallimento, era davvero troppo per me. Poi non sono riuscito a restarne lontano, e lo scorso anno, ho vissuto con grande patema la promozione in Lega Pro girone unico, giunta all’ultima partita. Amo i campionati minori, se la Spal fosse in serie A, per me sarebbe come rompere un giochino perfetto. Anche se il calcio moderno purtroppo, è arrivato a rovinare anche i campionati minori, assistiamo al cosiddetto calcio spezzatino anche in serie C (sì, so benissimo che si chiama Lega Pro, ma preferisco continuare a chiamarla così) non si sa più quando si gioca: alle 17 del venerdì, o il sabato alle 12, è un affronto, una vigliaccheria nei confronti dei tifosi. La domenica pomeriggio era un momento sacro per vivere lo stadio, è come se il Papa, decidesse che la messa non si fa più la domenica mattina, ma il lunedì. Per giunta alle tre del pomeriggio, è assurdo.

[© www.lastefani.it]

Il profumo della verità

Pietro Fenoglio è un uomo di dettagli e sensazioni. Il maresciallo Pietro Fenoglio è uno sbirro che cerca la verità, spesso mutevole, e le va incontro, come uno scrittore con una storia. Sì perchè il buon investigatore si muove come chi scrive, entrambi hanno in mano, cioè in testa, una storia, lo scrittore la deve forgiare e l’investigatore la deve immaginare e ri-costruire. Lo scrittore gioca di fantasia e l’investigatore pure, se non avesse fantasia non potrebbe ipotizzare ciò che non sa, pensadolo plausibile a partire dagli indizi, per poi andare a caccia di conferme. Regola di indagine e di vita per Fenoglio, è mai smettere di fare domande, agli altri e a se stessi.
Il maresciallo Pietro Fenoglio di indizi ne ha, c’è un giovane sospettato quasi indifendibile, una testimone credibile, l’arma del delitto sporca di sangue e le impronte digitali. Eppure questa verità non appare completa, Fenoglio sente che manca qualcosa, c’è una “sensazione sfuggente” che scombussola il quadro d’insieme.
Sembra l’indagine perfetta, tutto si incastra, ci si potrebbe anche fermare lì, se non fosse per “quel disagio” che il maresciallo prova, come quando sembra che manchi la parola giusta o che ci sia un odore nell’aria già sentito, ma difficile da definire, quasi inafferrabile.
Pietro Fenoglio procede così, è uno che cambia il ritmo, difficile per gli altri seguirlo, alla verità ci arriva anche tramite un profumo che gli rimane impresso, perchè il bravo sbirro non solo vede, ma percepisce, ascolta, coglie.
Guai se un investigatore si innamorasse della sua ipotesi senza cercare tutto ciò che potrebbe anche confutarla, oltre a tutte le prove per confermarla.
È bastato, a Fenoglio, cogliere il tono, l’inclinazione della voce nelle poche parole pronunciate dalla ragazza durante l’interrogatorio per procedere nella direzione di ciò che era fuori posto, prendere la strada giusta, quella della verità, e scoprire tutto l’amore che ci stava dietro a quello squallido omicidio.

Una mutevole verità di Gianrico Carofiglio (Einaudi Stile Libero, 2014) è stato scritto in occasione del bicentenario dei Carabinieri, la storia è vera e il maresciallo Pietro Fenoglio, quando è andato in pensione, si è iscritto all’università.

L’INCHIESTA
Partiti & partecipazione:
la logica del ‘do ut des’

SEGUE – La partecipazione è questione connessa a uno slancio che proietta l’individuo in un movimento, o comunque in una dimensione collettiva; rimanda al senso di responsabilità soggettivo e presuppone la coscienza di un sé come parte di una totalità, implica la volontà di essere protagonisti attivi nello spazio pubblico, luogo del confronto e delle scelte. Si misura quindi in prima istanza attraverso la mobilitazione e l’impegno che ciascuno, giorno per giorno, profonde nel sociale, non solo e non necessariamente nella politica e nei partiti (oggi, poi, meno che in passato).

Ma la partecipazione si realizza, concretamente, pure attraverso l’esercizio del diritto al voto. Anche l’indice di affluenza alle urne è, dunque, un buon termometro. E la febbre è alta, rivelatrice di una patologia grave.
La percentuale dei votanti in Italia è calata dal 92,2% delle prime elezioni libere, nel 1948 (voto per la Camera) al 75,2 delle ultime politiche 2013. Sino alla fine degli anni Settanta è oscillata fra il 92 e il 94% (picco più alto il 93,8 del 1953), per scendere a un – comunque ragguardevole – 90,6% del 1979. Nel trentennio successivo si è scivolati progressivamente dal 88% del ’83, al 80,5 del 2008. Il punto più basso invece è quello, già menzionato, del 2013, con il 75,2%. E nelle consultazioni amministrative la situazione peggiora.

Fanno impressione, fra gli altri, i dati relativi agli ‘astenuti’ (schede bianche e nulle) che, sino al 1976, si mantengono fra gli 874mila del 1958 e il milione 211mila del 1968. Ma nel 1979 già superano il milione e mezzo (1.571.610) e nel 1983 sono 2.282.177. Il picco in salita si ha nel 2001, con oltre 2milioni 962mila.
Da notare che nel 1993 decade l’obbligo del voto: ciò che da un lato rappresentava un diritto, fino ad allora era stato contestualmente anche un dovere, la cui infrazione era sanzionata per legge, con annotazione ai trasgressori. La modifica della legge avrebbe verosimilmente potuto determinare, come conseguenza, che coloro che sino ad allora erano andati alle urne solo per adempiere al dovere (scegliendo verosimilmente scheda bianca o nulla), in assenza dell’obbligo se ne restassero a casa, alimentando la schiera dei non votanti. Invece, nel ’94 si ha solo un lieve calo nel numero dei votanti, pari all’un per cento dell’elettorato (poco meno di mezzo milione di cittadini) e ancora un aumento di schede bianche e nulla, 600mila in più rispetto al ’92.
Un sorprendete e inspiegabile calo delle schede non valide (bianche e nulle) si registra invece nel 2006, quando il dato scende a un milione 145mila, con un calo addirittura di un milione e 800 mila dal 2001, l’anno del massimo picco, allorquando bianche e nulle furono quasi tre milioni.
Un tentativo di interpretazione lo fornisce il giornalista Enrico Deaglio con il suo docufilm, ‘Uccidete la democrazia’, in cui ipotizza un tentativo di ‘golpe elettorale’ ai danni del candidato premier Romano Prodi (che vinse, come si ricorderà, con lo scarto minimo dei famigerati 25mila voti, dovuti alle preferenze accordate dagli italiani all’estero), consumato, in ipotesi, attraverso un meccanismo di broglio informatico che avrebbe tradotto le schede bianche in voti al Popolo delle libertà. Ma, alla luce degli esiti del 2008 e del 2013 in cui il numero di bianche e nulle è oscillato fra il milione e 265mila delle più recenti consultazioni e il milione 417mila delle precedenti, la tesi vacilla.
Resta comunque l’evidenza di un tragico calo di affluenza alle urne: di circa 47 milioni di aventi diritto in Italia (tre milioni e mezzo sono i connazionali residenti all’estero) circa 13 milioni non votano, oppure nell’urna inseriscono scheda bianca o nulla.

Nel frattempo i partiti hanno preso ad assomigliare sempre più agli autobus: si sale o si scende secondo convenienza. Un tempo, ricorda un vecchio militante, si aderiva per dare qualcosa al partito. Oggi invece si sceglie il partito in funzione di ciò che lui può dare a me.
Così si giustificano i frequenti cambi di casacca, così si spiegano le stizzite uscite di scena, spesso goffamente mascherate da ragioni di principio.
Gli esempi si sprecano e sono sotto gli occhi di tutti. Per citare un paio di casi recenti e a noi vicini, che sollevano il sospetto di decisioni non proprio disinteressate, ricordiamo come l’ex assessore Luciano Masieri, dopo cinque anni da consigliere comunale e altrettanti da assessore, se ne sia andato piccato, causa la mancata riconferma nel ruolo in Giunta e non abbia rinnova la tessera del Pd, dichiarando alla Nuova Ferrara che “la politica dovrebbe essere servizio, mentre nel Pd si perseguono più gli interessi personali dei singoli che quelli generali del partito”… Però questo l’afferma quando è lui personalmente ad essere escluso.

Qualcosa di analogo sostanzialmente succede in questi giorni con Angelo Storari, del Movimento 5 stelle: viene escluso dalle liste dei candidati per il Consiglio regionale e lui s’indigna e sbatte la porta. Ma, spiega, lo fa perché… ‘c’è del marcio in Danimarca’: “Qualche giorno fa – scrive Storari, che fu fra i fondatori dei Grilli estensi, in una lettera aperta – avevo inviato la mia candidatura online. Oggi scopro che la mia candidatura non è presente”. Assicura di non volerne fare “un fatto personale” ma, spiega, “ciò che trovo inaccettabile e che mi fa arrivare oggi a decidere di chiudere definitivamente la mia avventura politica, è il fatto che alcune piccole lobbies, interne all’M5s, potremmo definirle cricche, con veti e controveti, decidono le sorti di questo o quello. Le antipatie personali, le accuse di protagonismo, ad esempio verso il sottoscritto, erano e restano motivate da una sola cosa, invidia e gelosie». Ecco, dunque, il capo d’imputazione: invidie, gelosie… Che però inducono l’indignato di turno a trarne le conseguenze solo quando ne subisce le conseguenze.

2. CONTINUA 

LEGGI LA PRIMA PARTE DELL’INCHIESTA

Fascinose imperfezioni
delle rose di settembre

A settembre anche le rose moderne, quelle grandi, un po’ spigolose sui loro gambi dritti, assumono un’aria di particolare dolcezza. Sarà il peso dell’estate che le ha sfinite per il troppo sole o per la troppa pioggia, sarà perché alla fine della stagione vegetativa emergono i caratteri genetici più nascosti, e così anche le rose moderne mettono allo scoperto qualcosa delle parenti più antiche, un po’ come quando invecchi e ti accorgi di assomigliare alla tua bisnonna. Le ultime fioriture dell’anno hanno qualcosa di imperfetto, un languore polveroso che fa pensare ai quadri del pittore francese Henry Fantin-Latour.
Fantin-Latour visse in Francia nei decenni di passaggio tra ‘800 e ‘900. Come tutti gli artisti vissuti in quel periodo contribuì a cambiare il linguaggio delle arti figurative, ma lo fece in modo poco appariscente scegliendo, come firma personale, di dipingere quasi esclusivamente nature morte con vasi di fiori. Da secoli le accademie avevano stilato una lista dei cinque soggetti appropriati alle arti figurative, e in cima alla graduatoria c’erano i soggetti storici e mitologici, molto adatti a simboleggiare i valori civili più alti come la gloria della nazione o la giustizia. La natura morta con fiori e frutti era l’ultima voce in lista perché non poteva essere associata a nessun valore. Le rose dipinte da Fantin-Latour erano un semplice piacere per gli occhi, arte per l’arte senza pretese educative, questo fatto lo rendeva artista al di fuori dei giri accademici e gli garantì comunque una vita agiata, grazie al mercato anglosassone che apprezzava il suo lavoro.
Fantin-Latour stimava e conosceva gli Impressionisti, suoi amici e coetanei, ma preferì dipingere con le tecniche e i colori dei maestri del XVIII secolo, in particolare di Jean-Baptiste Chardin, ripetendo per decenni e in modo quasi ossessivo quadri in cui ritraeva vasi di fiori. Le sue opere sono dei veri e propri ritratti floreali, soprattutto nel caso in cui le rose vengono specificate per la loro varietà. Già da un secolo, in Francia, la coltivazione delle rose era al centro del mercato florovivaistico, un mercato fiorente e all’avanguardia che muoveva soldi a palate, favorito da un delirio che aveva portato le poche centinaia di varietà esistenti, raccolte e collezionate da Giuseppina Bonaparte nel parco della Malmaison, alle migliaia create dai vivaisti francesi e presenti sul mercato europeo alla fine del XIX secolo. Rose, dunque, già protagoniste dei giardini, e poi rappresentate da Fantin-Latour in modo assolutamente classico. In questo modo il soggetto è il solo protagonista della tela, assume qui la solennità di un vero ritratto e il soggetto non viene sopraffatto dalla ricerca di nuovi stili o tecniche pittoriche, come avveniva in quegli anni di grandissime sperimentazioni artistiche. Cosa significa? lo capiamo confrontando un vaso di rose dipinto da Fantin-Latour con uno, per esempio di Monet, o Van Gogh: per loro era più importante dipingere la luce vibrante sui petali, era prioritario il modo di dipingere il fiore rispetto al fiore stesso.
Se i disegni di Pierre-Joseph Redouté avevano fatto conoscere la bellezza della rosa descrivendo le precise differenze tra le forme delle varietà antiche, Fantin-Latour consacra la rosa come fiore protagonista del suo tempo, fiore della modernità, come i treni a vapore, i teatri, le larghe strade urbane, immortalate dagli impressionisti. Rosa ripetuta come soggetto, cambiando solo i dettagli delle composizioni, attraverso un lavoro che possiamo paragonare ad una specie di minimalismo musicale riportato sulla tela.
Fiori morbidi e aperti, colti nel momento perfetto della rosa matura ma non ancora sfatta. Rose dai colori forti, ma sempre smorzati da un velo di polvere di cipria, come fossero sempre illuminati da un luce velata di nuvole, da una luce di settembre.

Emicrania e dolori muscolari? Spesso è colpa dei denti

Sempre più di frequente la scienza, e in particolare quella osteopatica, riconosce il legame tra la zona denti-bocca-mascella e la salute del resto del corpo. Tutte le parti del corpo sono interconnesse e un’anomalia in un punto del corpo, anche se apparentemente irrilevante, non può più essere considerata in modo isolato rispetto al resto. Una mandibola sbilanciata o temporo mandibolare, ossia un disturbo caratterizzato dal malfunzionamento dell’articolazione che collega la mandibola superiore e inferiore, può influenzare, per esempio, la colonna vertebrale.
I disturbi dell’articolazione temporo-mandibolare (Atm) possono essere acuti o cronici, ma solo una piccola percentuale di persone sviluppa significativi problemi a lungo termine. Le donne tendono ad essere colpite da disturbi dell’Atm più spesso degli uomini.

Tra le cause dei problemi articolari vi sono l’artrite, le lesioni e le lussazioni dell’articolazione, oppure un morso non correttamente allineato o una certa iper-mobilità articolare. Stringere e digrignare i denti (anche noto come bruxismo) può causare notevole stress ai muscoli della bocca e delle articolazioni. Le persone che soffrono di stress cronico e ansia, o apnee del sonno, a volte stringono i denti durante il giorno e digrignano i denti durante il sonno, con conseguente dolore muscolare e, naturalmente, danni ai denti.
Assumere una posizione corretta della mascella è fondamentale affinché il resto del corpo funzioni correttamente. Se si soffre di frequenti mal di testa, la causa potrebbe avere origine dai muscoli facciali e da quelli che circondano l’articolazione temporo-mandibolare. Questo dolore muscolare può, in definitiva, portare ad uno squilibrio della posizione della testa sulla colonna vertebrale, generando una postura ricurva o in sovraccarico.

Il peso medio della testa umana è tra i 3,6 e i 4,5 chili, e poggia sulla parte superiore della colonna vertebrale. Quando una persona è curva o inclinata in avanti, porta di conseguenza la mandibola stessa in avanti. Questo si traduce in una modificazione del morso, con i denti che occludono non più correttamente. Il risultato del disallineamento dei denti è che la mandibola è sotto stress.
Il peso della testa in questa posizione in avanti mette a dura prova i muscoli di spalle, schiena, collo e testa. Nel corso del tempo, la cattiva postura e il conseguente squilibrio nei vari gruppi muscolari della testa e del collo, possono portare a un’infiammazione dei muscoli facciali e mandibolari.

Specificando meglio, il disturbo dell’ATM è una condizione in cui non funzionano correttamente le articolazioni mandibolari, che quindi causano stress e dolore nei tessuti circostanti, tra cui i muscoli e nervi del viso, della testa e del collo.
Questi giunti, chiamati articolazioni temporo-mandibolari (ATM), collegano la mandibola inferiore al cranio. Il minimo squilibrio nelle vostre dell’articolazioni temporo-mandibolare, può provocare, in definitiva, una cattiva postura del corpo, una diminuzione della forza e della flessibilità, compromettere la respirazione, ecc.
Facciamo un altro esempio: la lingua è collegata alla mandibola, quando il morso non è allineato la lingua agisce come un cuscino, rimanendo indietro e bassa. Uno squilibrio nel morso influisce sulle dimensioni della bocca, alterandola fino a non essere più adatta alla propria lingua. Se la lingua riposa troppo indietro nella bocca, bloccherà in una certa misura l’aria in entrata nei polmoni e la deglutizione. Una mandibola disallineata inizierà a mostrare segni di usura sui denti, cambiando il morso. Poi iniziano i denti a sfregare uno contro l’altro e si finisce con i denti accorciati, recessione gengivale e una perdita di verticalità.

Di seguito, i sintomi più specifici dell’Atm:
• mal di testa o dolori a mascella, orecchie, collo, spalle e schiena;
• ronzio nelle orecchie;
• un “clic” o un blocco quando si apre o si chiude la bocca;
• difficoltà a mordere;
• gonfiore del viso;
• vertigini.

Quando non si dispone di un morso equilibrato, gli effetti negativi a catena si fanno strada lungo tutto il corpo. Consiglio di rivolgersi ad un osteopata di fiducia che, insieme allo gnatologo o all’ortodontista, valuteranno e opereranno in sintonia per la risoluzione del problema.

L’INTERVISTA
Lo ‘Zucchero’ di Sateriale:
“Ferrara dolcissima, pigra
e contenta di esserlo”

Da una settimana “Tutti i colori dello zucchero” è in libreria. E domani, per festeggiare idealmente l’evento e presentarlo ai lettori, in libreria (da Ibs alle 18, con Guido Barbujani e Marco Contini) ci sarà anche il suo autore, Gaetano Sateriale.

Dopo la saggistica ti sei ora cimentato anche nell’arte del romanzo, con una vicenda però che di fittizio – scrivi nella prefazione del libro – ha solo i nomi. Come ti sei trovato nei panni del narratore?
Mi sono divertito a ricordare e raccontare un’epoca ormai lontana. Scoprendo, questo è un fatto non previsto, che mi ricordavo molte più cose di quanto pensassi. Le vicende descritte sono in gran parte vere. La loro rappresentazione letteraria è comunque una deformazione soggettiva. Come sempre, direi. Però mi sono divertito, lo ammetto. E anche emozionato. Ma quello che conta è il giudizio del lettore.

L’epopea degli zuccherifici coincide con una fase – della tua vita e della nostra storia – di forte spinta al cambiamento. Perché non si è riusciti a realizzarlo?
L’epopea degli zuccherifici è molto più lunga delle vicende dell’autunno caldo e dei primi ’70. Me ne parlava mio nonno descrivendomi quelle montagne di zucchero bianco che avrei visto dal vivo molti anni dopo… Il cambiamento nelle fabbriche e nella società c’è stato davvero. Basti pensare alle riforme delle pensioni, della sanità, alla scolarizzazione di massa e al fatto che allora un figlio di operai poteva diventare professore universitario, come è capitato a diversi miei amici… Non c’è stato cambiamento della politica, se non molti anni dopo… E non sempre in meglio. Non possiamo giudicare quegli anni pensando solo alla spinta al rinnovamento. Ci sono state anche reazioni potenti al cambiamento come lo stragismo prima e poi il terrorismo degli anni di piombo.

Molti dei tuoi compagni di lotta di allora (ops, dei compagni di lotta di Enrico, il protagonista) hanno tolto le tute blu e indossato giacca e cravatta, tanti occupano oggi le stanze dei bottoni. Indice della fragilità dei loro ideali di allora e della vulnerabilità dell’individuo alle lusinghe del potere o naturale propensione dell’esser umano ad elevar se stesso? Insomma, questione politica o antropologica?
Mi pare una mitizzazione. La gran parte dei miei compagni di allora sono insegnanti. Hanno mantenuto tutti una forte sensibilità sociale e li puoi trovare in associazioni, movimenti, strutture di volontariato… qualche volta in Consiglio comunale. Ma nelle stanze dei bottoni e che stiano nei ruoli di punta dei grandi partiti politici ne conosco pochi. Anche Enrico, in fondo (tranne una breve parentesi), lavora in Cgil…

Ripensando a quei tempi, quali sentimenti prevalgono in te?
Non ho nessuna nostalgia, se era questa la domanda. Certo, tutti eravamo più giovani, più entusiasti, disposti a metterci in gioco di giorno e di notte per le nostre battaglie e le idee, ma eravamo anche più ingenui. L’atmosfera cupa degli anni di piombo successivi mi impedisce di pensare con nostalgia agli anni del movimento. Certo, a vent’anni eravamo più adulti e più autonomi di quanto non fossero o non siano i nostri coetanei successivi. Ma credo sia capitato a tutte le generazioni che hanno vissuto grandi conflitti collettivi.

Il romanzo ruota anche attorno al caso di un operaio morto sul lavoro e al clima di omertà che circonda la vicenda. E’ il prologo-metafora di altri casi e di altri complici silenzi?
Non direi omertà, rassegnazione forse… Ma anche la convinzione che professionalità voleva dire anche saper trattare un lavoro impegnativo e rischioso senza “farsi male”. Le grandi battaglie sindacali per la sicurezza e la salute sui luoghi di lavoro cominciano proprio in quegli anni anche se le conquiste arrivano qualche anno dopo. Ma già i saccariferi avevano smesso di scambiare rischi con indennità retributive. La campagna saccarifera però era un momento particolare dove tutto era più intenso e orientato a massimizzare la produzione. Tutto il resto passava in secondo piano…

Titolo del libro è “Tutti i colori dello zucchero”, ma qual è la tonalità prevalente?
Le tonalità prevalenti in fabbrica erano il grigio scuro degli impianti, il color giallo scuro della melassa e il blu degli indumenti di lavoro. E il bianco dello zucchero raffinato. Anche il rosso dei tramonti che si vedevano dalle finestre… O il rosso antico delle grandi lotte che c’erano state.

Mettiamola così… Dolce lo zucchero, amara la città: è questa la morale?
Ferrara è una città dolcissima, perché amara? Bellissima, decadente, nostalgica, pigra e contenta di esserlo. Non credo che il Principe di Salina conoscesse Ferrara, altrimenti la sua famosa frase sui siciliani avrebbe potuto anche dirla dei ferraresi.

Allora ci correggiamo sulla morale: tutto resta sempre uguale a prima. Che a ben vedere, forse, è un altro modo per dire la stessa cosa…

LA NOVITA’
Adolescenti in scena,
a Ferrara prima scuola
per chi sogna
di diventare attore

E’ al 71 di via Borgoleoni che dal 18 ottobre gli aspiranti attori possono trovare risposta ai loro desideri, imparare e capire se il loro futuro può essere plasmato sulla scena. La prima scuola di recitazione per adolescenti, il Cpa (Centro preformazione attoriale), patrocinata dal Giffoni Film Festival, dal Centro Sperimentale di Cinematografia e per il momento finanziata dal Comune, rappresenta una novità assoluta in tutta Italia.
Due anni di corso, 20 ore di lezione al mese, un saggio finale e al termine del biennio un corto da proiettare al Giffoni festival. Senza contare la possibilità di collaborare con altre realtà europee grazie alle materie insegnate che vanno da dizione, recitazione, danza, canto, improvvisazione a storia del teatro all'”incontro” con la macchina da presa davanti alla quale sono in molti a restare paralizzati se dietro non c’è, appunto, il lavoro d’attore. “Il progetto è nato da un’idea condivisa con un mio ex allievo, l’attore Stefano Muroni che ne sarà il direttore artistico”, racconta Massimo Malucelli dell’Associazione FonèScuoladiTeatro, da oltre 20 anni sulla piazza ferrarese, dove ha formato attori e compagnie con un impegno sfociato in quattro classi di differenti livelli, la prima delle quali comincia il 30 settembre.
“L’obiettivo del Cpa è preparare i ragazzi ai provini delle grandi scuole, dove spesso arrivano senza disporre di una reale grammatica espressiva, ma solo dell’entusiasmo e della fantasia che ne anima i sogni”. Senza neppure rendersene conto, Ferrara si ritaglia ancora una volta un primato da catalogare alla voce cultura sostenuta essenzialmente da chi ha fatto di un’arte e delle sue tante declinazioni il proprio mestiere. “La nostra idea è quella di creare una compagnia che possa uscire dalla scuola e trovare nuovi spazi– spiega – E’ un po’ quello che sta accadendo con gli allievi dell’anno passato con cui saremo al Teatro 900 di Tresigallo, dove inauguriamo la stagione con un mio spettacolo sulla seconda guerra mondiale e i bombardamenti intitolato Siamo nati proprio adesso“. C’è entusiasmo nella sua voce quando parla delle prove, dell’emozione, della forza di un giovanissimo cast alle prese con una prima importante destinata, nella peggiore delle ipotesi, a restare una pietra miliare nel vissuto di ciascun aspirante attore. Chi ha calcato la scena almeno una volta nella vita, lo sa e a distanza di anni sorride nel ricordare quei momenti. Recitare è un’esperienza forte, impone una disciplina, dà piacere, scava nell’anima, costringe a fare i conti con i propri limiti e porta a galla un’inaspettata ricchezza interiore. Recitare è scommettere sulla magia. E, a quanto pare, la nostra silenziosa città non disdegna di puntare sulla creatività, le esperienze teatrali, come ricorda Malucelli, negli anni si sono moltiplicate. E’ un fatto. Ed è accaduto nonostante l’assottigliarsi dei budget dedicati alla cultura e alla sua didattica.

“Il servizio tv delle Iene demonizza Israele e stravolge la realtà di Gaza”

Lettera aperta inviata ai curatori del programma ‘Le iene’

Abbiamo avuto modo di vedere il servizio girato da Nina a Gaza e ci stupisce e rattrista che una trasmissione della vostra caratura che ha sempre garantito un servizio ai cittadini, permetta la messa in onda di un filmato che nulla ha a che vedere con la realtà. Se aveste veramente voluto rendere un servizio, avreste dovuto mandare la corrispondente dai capi di Hamas, chiedendo loro, per esempio, perchè nonostante i milioni di euro ricevuti dalla Comunità Europea, dagli Stati Uniti e da infiniti altri donatori da tutto il mondo, quello arabo in particolare, a Gaza vi è l’energia elettrica solo perchè viene erogata gratuitamente dalla società elettrica israeliana. Avreste magari potuto chiedere loro di farvi visitare qualche tunnel e farvi spiegare sulla loro utilità. Avreste potuto andare a visitare qualche scuola o ospedale e cercare di capire perchè al loro interno, come ampiamente testimoniato da vari reporter, presenti sulla Striscia di Gaza e già denunciato dalla stessa UNRWA, l’ente dell’ Onu per i rifugiati palestinesi, dove vi sono stivati interi arsenali di guerra.

Avreste dovuto, almeno per dovere di cronaca, raccontare che i territori israeliani, che confinano con la Striscia, da oltre dodici anni sono sotto il fuoco giornaliero dei mortai e dei missili palestinesi che mirano solo e soltanto alla popolazione civile israeliana.

Avreste dovuto, sempre per dovere di cronaca, raccontare che Israele durante la guerra, ha organizzato un ospedale da campo a ridosso del confine per assistere malati e feriti della Striscia che chiedevano aiuto, come altresì avreste dovuto raccontare quanti sono i malati che ogni giorno superano il confine, con il tanto odiato Israele, per farsi curare nei suoi ospedali. Caso unico nella storia di una nazione che si prende cura dei civili del suo nemico.

Avreste dovuto raccontare che anche durante la guerra i valichi di Israele erano aperti per permettere il passaggio dei generi di prima necessità, notizie filmate e confermate che voi avete volutamente ignorato.

Avreste potuto fare queste e altre cose, avete invece preferito prendere la via della menzogna, organizzando una messinscena degna delle finte vittime che fanno da comparsa ai filmati che i palestinesi ci propinano e ai quali molta gente, ingenua o molto furba, crede.

Avreste potuto fare queste e altre cose ancora, in tutta sostanza avreste potuto fare bene il vostro lavoro. In questa occasione avete dimostrato di fare anche voi parte del coro di demonizzazione di Israele, che si basa su pochissime realtà e un mare di menzogne e oltre a non aver portato rispetto alla completezza della verità, non lo avete portato nè ai vostri telespettatori né alla testata che rappresentate.

Michael Sfaradi- giornalista presso Tel-Aviv Journalists’ Association
Flaminia Sabatello
Laura Rossi
a cui seguono centinaia di firme italiane, israeliane e di altre nazioni

IL FATTO
Emergency, vent’anni dopo.
La lettera di Cecilia Strada

Emergency ha festeggiato i suoi primi 20 anni e lo ha fatto nella laboriosa, ricca, luccicante e avanguardista Milano, città dove è nata. Si sono riuniti il pubblico, i volontari, i medici, gli infermieri e tutti coloro che si sono, in qualche modo, spesi per l’attività dell’associazione nei Paesi più difficili del pianeta. Paesi colpiti da guerre, miseria, malattie, disperazione, bisogno di aiuto. Perché dove la paura, la disperazione e i conflitti chiamano, Emergency risponde. Ora come allora.
Al Mediolanum Forum di Assago, sabato 13, in occasione dell’anniversario, si sono incontrate centinaia di persone, per ascoltare la storia di Emergency, i suoi programmi in Afghanistan, Repubblica Centrafricana e Iraq. Negli scenari più spaventosi, tristi e abbandonati del mondo. Il tutto si è concluso con un concerto al quale hanno partecipato Elisa, la Pfm, Cristiano De André, Fiorella Mannoia, Casa del Vento, Nada e Teresa Mannino. Insieme alla musica, si sono avvicendati e mescolati tanti ricordi, idee e riflessioni, in uno spirito di totale e continua opposizione alla guerra e alla sua logica di sopraffazione.
Cultura di pace, uguaglianza e rispetto dei diritti umani sono le linee conduttrici di questa associazione, nata nel 1994 per fornire assistenza alle vittime civili dei conflitti, menomate da ordigni bellici come le mine antiuomo, ma anche dalla malnutrizione e da mancanza di cure mediche, per addestrare personale locale a far fronte alle necessità mediche, chirurgiche e riabilitative più urgenti, nata per caso intorno a un tavolo di cucina, forse apparecchiata. Da allora Emergency ha costruito ospedali e centri sanitari (ma anche centri pediatrici, di riabilitazione e posti di primo soccorso) e ha combattuto affinché chiunque avesse diritto a essere curato.
Missione dopo missione, progetto dopo progetto, è aumentato il numero delle persone che hanno scelto di sostenere il suo lavoro, chi con donazioni, chi con il proprio tempo. Per non voltarsi mai di fronte alla sofferenza, per aiutare chiunque avesse bisogno, per tendere una mano a chi l’aveva persa, per dare una speranza a chi l’aveva vista annegare in un acquitrino scavato dalla guerra. E così gli anni hanno scritto questa bella storia, fatta di sacrifici, di coraggio, di amore per il prossimo, di uomini, di pionieri dell’essere l’altro. In più di 16 Paesi, aiutando oltre 6 milioni di persone.
Ricordo bene, nel 1994, quando, ai suoi inizi, Emergency ha lanciato la campagna contro le mine antiuomo, che ha poi portato l’Italia a metterle al bando. Da allora sono successe tante cose. Nel 2001, poco prima dell’inizio della guerra all’Afghanistan, l’associazione ha chiesto ai cittadini di esprimere il proprio ripudio della guerra con uno “straccio di pace”. Le adesioni sono state tante. Nel settembre 2002, ha lanciato la campagna “Fuori l’Italia dalla guerra” perché l’Italia non partecipasse alla guerra contro l’Iraq. Nel 2008, insieme ad alcuni paesi africani, ha elaborato il Manifesto per una medicina basata sui diritti umani per rivendicare una sanità basata sull’equità, sulla qualità e sulla responsabilità sociale.
Emergency è stata giuridicamente riconosciuta Onlus nel 1998 e Ong nel 1999. Dal 2006 Emergency è anche riconosciuta come Ong partner delle Nazioni unite – Dipartimento della pubblica informazione.
Rammentiamo che il suo fondatore, Gino Strada, è nato a Milano dove si è laureato in medicina, ramo chirurgia d’urgenza, ed è diventato chirurgo di guerra per scelta, prima lavorando con la Croce rossa internazionale e poi creando un’associazione a favore delle vittime delle guerre civili. Strada è stato, tra l’altro, iscritto nella lista dei possibili candidati al Nobel per la pace nel 2001. La figlia Cecilia, presidente dell’associazione, e sempre molto attiva e impegnata per la causa della stessa, ha recentemente diffuso una lettera su questi 20 anni, basata sulla bellissima intuizione di una scatola di ricordi.
Ve la riportiamo integralmente, perché merita una lettura.
Buon compleanno, coraggiosa Emergency, vero emblema della dignità umana.

Lettera di Cecilia Strada. Settembre 2014

Cari amici, Emergency compie vent’anni. Se questi vent’anni fossero una scatola, sarebbe piena di ricordi dei sedici Paesi in cui abbiamo portato aiuto. Dentro ci sarebbe una punta di lancia. Viene dal Ruanda: 1994, il primo intervento di Emergency. Siamo entrati nell’ospedale di Kigali, che era stato abbandonato, abbiamo riaperto il reparto di ostetricia, dove 2.500 donne hanno ricevuto assistenza e fatto nascere i loro bambini, e quello di chirurgia d’urgenza, curando 600 feriti di guerra. La punta di lancia l’abbiamo trovata entrando nell’ospedale abbandonato. Era vicino a un paziente: era stato ucciso nel proprio letto. Questa è la guerra. Poi l’abbiamo vista in tanti paesi: diverse le armi, diverso il colore della pelle, ma sempre tragicamente uguali le vittime civili. Dovrebbe essere una scatola molto grande, per poter contenere le migliaia di disegni che i nostri piccoli pazienti hanno colorato: magari stesi per terra nelle sale giochi degli ospedali, magari in giardino, il giorno delle dimissioni, per farci un regalo prima di tornare a casa. Sarebbe una scatola piena delle pulitissime divise del nostro personale, simbolo di lavoro, formazione, riscatto sociale. Insieme ai nostri professionisti internazionali, oggi più di 2.200 persone locali lavorano nelle strutture sanitarie di Emergency in sei Paesi. Un posto particolare nella scatola lo avrebbero le foto delle nostre colleghe: è un’altra cosa di cui possiamo andare fieri. Riusciamo a dare loro un’istruzione e a farle lavorare insieme agli uomini anche nei contesti più difficili per le donne. L’orgoglio e la determinazione con cui ogni giorno queste donne entrano in ospedale è uno dei successi di questi vent’anni. Nella scatola ci sarebbe anche una tempesta di sabbia del deserto sudanese, dove il Centro Salam di cardiochirurgia ripara cuori di adulti e bambini che altrimenti non avrebbero possibilità, ci sarebbe la giungla cambogiana dove abbiamo curato troppi feriti da mina, ci sarebbero le arance che crescono nel nostro poliambulatorio a Palermo, il sole della Sierra Leone che batte sul Centro chirurgico e pediatrico, ci sarebbero i metri di neve che le nostre ostetriche e infermiere attraversano, in mezzo a una montagna dove non ci sono strade, per dare un’opportunità di cura alle donne incinte e ai neonati che vivono lì. Se questi vent’anni fossero una scatola, sicuramente ci sarebbe dentro una maglietta con il logo rosso: una per tutte le magliette di Emergency che sono state indossate, regalate, consumate, comprate, vendute. In quelle magliette c’è un modo concreto per contribuire a curare persone, ma c’è anche un’idea che cammina: l’idea che i diritti umani debbano essere, semplicemente, garantiti a tutti. Che cosa metteremo dentro la scatola, nei prossimi vent’anni? Continueremo a riempirla, insieme, di medicina e diritti. Grazie: per i vent’anni passati, e per i prossimi che costruiremo.

Misurare le ‘performance’ con indici e indicatori: vantaggi e rischi

L’ideologia manageriale nata nelle aziende si è diffusa nell’intera società sostenuta da una filosofia, da metodi, strumenti e riti: essa è fondata sul calcolo, sull’efficienza, sul rapporto costi-benefici, sulla misurazione continua della performance, sull’uso sistematico di indicatori e di indici che sostituiscono di fatto il rapporto diretto con le persone. E’ fuor di dubbio che questo approccio porti dei vantaggi per le organizzazioni ma, insieme a questi, porta anche numerosi rischi e veri e propri problemi patologici che emergono con forza quando saperi, nati e cresciuti nel mondo delle grandi imprese orientate al profitto, vengono applicati con poco discernimento nelle piccole e medie imprese dei distretti industriali, nel mondo del non profit e nella Pubblica amministrazione.

Che forma assume questo sapere quando viene applicato al problema delle persone che lavorano in un’organizzazione o, meglio, al cosiddetto tema della gestione delle risorse umane? Che relazione ha tutto questo con la qualità dell’offerta e il perseguimento dei fini dell’organizzazione?
La disciplina del management, si sa, è molto semplificatrice, orientata al concreto; adotta spesso un’immagine di essere umano riduttiva ed eccessivamente schematica. In questa prospettiva l’azione gestionale cerca di definire i comportamenti umani usando regole e norme, e si sforza di influenzarli attraverso meccanismi basati su incentivi e disincentivi, il cui scopo ultimo è quello di stimolare la motivazione ed aumentare le performance.

Questo tipo di strategia si regge su due semplici assunti:
• il lavoro comporta sforzo e fatica e le persone tendono a farlo controvoglia;
• la motivazione principale delle persone, se non l’unica, è rappresentata dal guadagno o dal timore di perderlo.

Negli ultimi decenni dispositivi fondati su questi assunti sono entrati a far parte del senso comune (si trovano citati perfino sui giornali sportivi e di moda) ed hanno trasformato profondamente le relazioni umane contribuendo grandemente a sostenere il passaggio dalla logica del dovere, dell’onore derivante dall’applicazione impeccabile delle proprie capacità, del gusto derivante dal lavoro ben fatto, alla logica asettica degli obiettivi e della performance basata su indici e incentivi. L’esperienza dimostra però che queste procedure, così apparentemente razionali, spesso falliscono: gli uomini e le donne che vi sono sottoposti infatti, modificano il proprio comportamento ma non necessariamente nel senso immaginato dagli “astuti” pianificatori.

Perché questo accade? Che effetti causano queste strategie razionali che sembrano nascondere ad un tempo una straordinaria presupponenza ed una altrettanto grande ingenuità? Perché malgrado tutto, tanto gli apostoli dell’ordine manageriale con i suoi metodi di gestione, azione e valutazione, quanto la vulgata comune continuano a credere nell’assoluta necessità di misurare e premiare il merito?
Per dirimere almeno in parte la questione, conviene concentrare l’attenzione sulla motivazione (che è l’altra faccia del bisogno) e sull’ambiente di regole in cui le persone agiscono.

Contrariamente ad alcuni pregiudizi, le persone agiscono in base ad (almeno) due tipi di motivazione molto diverse tra di loro:
• la motivazione intrinseca legata al gusto di fare qualcosa che piace e dà soddisfazione;
• la motivazione estrinseca connessa al posporre la soddisfazione e sostituirla con guadagni successivi solitamente di tipo monetario.

Questi due tipi di motivazione rispondono a bisogni personali molto differenti e non sono sommabili tra di loro: azioni come il dono, l’altruismo, il volontariato o il rispetto delle norme sociali, la responsabilità verso l’ambiente e il rispetto verso le culture, sono fondate su motivazioni intrinseche delicate e complesse. Introdurre la remunerazione economica in tale sistema – come mostrano esemplarmente le ricerche condotte da Bruno Frey – è non solo inutile ma anche dannoso: un po’ di azione interessata immessa in un sistema disinteressato è sufficiente a distruggerlo.

Un’organizzazione è composta da più persone; al suo interno tuttavia le modalità con cui queste interagiscono sono diverse:
• in alcuni casi lavorano in gruppo (con altre persone);
• in altri casi in relativa autonomia (accanto ad altre persone).

Costruire indici e meccanismi di misurazione della performance nei due casi è molto diverso. Sembrerebbe logico affermare che il lavoro di squadra richieda incentivi collettivi (evitando con cura quelli personali) mentre per l’altro tipo di lavoro meglio si adattino incentivi individuali. Tuttavia non è detto che i due sistemi funzionino sempre. Per quanto riguarda il primo, la letteratura è concorde nel mettere in risalto come nel gruppo possa annidarsi il “passeggero clandestino” che approfitta degli sforzi degli altri ed è del pari noto il fenomeno della regressione della “performance” verso la media, dove i più capaci abbassano la propria prestazione e si adattano a fare meno di quello che potrebbero o perdere addirittura la propria motivazione.

Un incentivo è una forma premiante che implica regole ed una certa competizione; tuttavia per vincere il premio:
• si può correre più forte degli altri;
• si può sabotare l’azione degli altri concorrenti.

Nelle organizzazioni a volte è l’eccesso di concorrenza che mette le persone a lavorare le une contro le altre, distruggendo quella fiducia che è indispensabile al lavoro di squadra. E’ quello che accade quando, non essendo possibile confrontare performance in rapporto a prestazioni specifiche ed oggettive, si confrontano le persone per ordinarle lungo una graduatoria: una strategia che impatta pesantemente sulle emozioni e che tende a distruggere lo spirito di squadra e a favorire l’imbroglio.

Indici ed incentivi vengono sempre inglobati nelle strategie personali dei diversi attori sociali e vengono considerati come vincoli ed opportunità; in tale situazione:
• alcuni tendono a spostare l’attenzione dalla reale qualità del lavoro alla massimizzazione degli indici stessi e
• alcuni ad eliminare quelle componenti del lavoro che non sono espressamente riconosciute dalle misurazioni.

Si tratta di un rischio gravissimo che investe proprio quelle mansioni multitasking (per loro natura complesse e difficili) che riguardano gran parte dei processi di lavoro che sono tipici del mondo dei servizi e, più in generale, dei nuovi contesti lavorativi.

Di fronte a queste difficoltà potrebbe sembrare buona cosa ridare valore al giudizio dei capi, a quello dei superiori. Questo giudizio tuttavia è particolarmente soggettivo, non verificabile ed è esposto agli inganni dei furbi e ai raggiri degli adulatori e dei ruffiani (yes men). Senza nulla togliere all’utilità potenziale della valutazione basata su indici e su incentivi, il quadro che emerge è tutt’altro che chiaro ed omogeneo come mostra esemplarmente la raccolta di casi riportata nel saggio “Le strategie assurde” della sociologa aziendale Maya Beauvallet (le cui tesi sono qui liberamente riprese). Si intuisce piuttosto l’esistenza di un pregiudizio meccanicista, retaggio della vecchia cultura industriale e burocratica, che rappresenta un po’ il trionfo della logica della gestione su quella della leadership. Emerge insomma (e con molta chiarezza) che il tema della misurazione della performance per il riconoscimento di incentivi in grado di contribuire a migliorare la qualità del servizio (o prodotto) offerto è tutt’altro che di facile soluzione.

Prima di predisporre un meccanismo di incentivi o un indice è importante dunque considerare gli effetti imprevisti e quelli perversi che può produrre in varie parti del sistema e, inoltre, gli effetti collaterali che possono gravare anche sui soggetti non direttamente interessati come i cittadini e i pazienti, i clienti, gli utenti dell’organizzazione che attiva il sistema di indici ed incentivi.

Se sei un manager o un dirigente, prima di farlo, pensaci bene! Passaparola!

La storia ecclesiale italiana
dalla caduta della Dc ad oggi

SEGUE – Fu la fine della Dc (18 febbraio 1994) ad imprimere una nuova accelerazione al modello di presenza della Chiesa nel paese. Finisce l’epoca dello strumento politico per antonomasia dell’unità dei cattolici e che ha tramutato da diffidenza in accettazione l’atteggiamento della Chiesa verso la democrazia. Troppo a lungo si è creduto che quel tempo straordinario fosse l’ordinario e così si aprono orizzonti nuovi e sconosciuti, di fronte ai quali la Chiesa italiana si trova impreparata. La tendenziale trasformazione in senso bipolare del contesto politico nazionale scoperchia definitivamente il principio dell’unità politica dei cattolici, ormai ridotto a una formula vuota. Qui la strategia di Ruini prende contorni sempre più definiti. La scelta della Cei si fa duplice: distanza formale dai nuovi soggetti politici e parallelo accentramento delle dinamiche e decisioni in seno alla Chiesa, per togliere terreno alle divisioni ad intra. Un riposizionamento ecclesiale espresso chiaramente nel discorso di Giovanni Paolo II al convegno di PalermoIl Vangelo della carità per una nuova società in Italia” (1995): “La Chiesa non deve e non intende coinvolgersi con alcuna scelta di schieramento politico”. Il tema dell’unità si sposta sul piano dei principi morali e su quello culturale. Prende corpo in questo clima il “Progetto culturale” di Ruini, con lo scopo di far riprendere alla Chiesa il peso e il ruolo che le spettano e voltando definitivamente pagina con la scelta religiosa e le sue seguenti interpretazioni. Non potendo più contare sul laicato, ormai declinato sempre più al plurale, la Cei diventa interlocutore diretto della vita italiana e lo stesso Ruini lo è in prima persona. Se non vi è sul piano dell’analisi del Progetto culturale un rifiuto a priori del mondo contemporaneo, la critica è però decisa nel mettere in guardia sulle conseguenze della razionalità tecnico-scientifica, che rischia di mettere in crisi le radici antropologiche dell’uomo, su cui la Chiesa riafferma il proprio ruolo di essere portatrice di un messaggio di verità. Le critiche maggiori mosse a questo disegno sono di una Chiesa che cerca il rilancio di una egemonia sulla società come surrogato al buco lasciato dall’unità politica dei cattolici. D’ora in poi parola chiave di questa strategia è “missione” e “Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia” è il nuovo piano pastorale del primo decennio del 2000. Durante il periodo ruiniano l’ossessione è rappresentata dalla sproporzione fra la vitalità delle iniziative del cattolicesimo e la capacità di incidere nella società italiana. Volgarmente: di passare all’incasso. Una nuova unità del mondo cattolico è ricercata non tanto sul piano confessionale, quanto culturalmente sulle nuove sfide antropologiche. Su questo asse si cercano interlocuzioni esterne con le componenti moderate della società italiana, in una visione del cattolicesimo stile religione civile e come modello identitario nazionale. Si potrebbe dire che sta prendendo forma il modello interpretativo che diverrà dirimente in modo definitivo con la formulazione dei valori non negoziabili. Criterio in base al quale stabilire il dentro e fuori dalla Chiesa e perciò dalla verità. In questa prospettiva è letto l’impegno diretto nella campagna referendaria del 2005 (per l’abolizione della legge sulla fecondazione assistita) e nel Family day del 2007. Esattamente come il progressivo mutamento dell’atteggiamento di equidistanza dall’assetto bipolare italiano, che vira decisamente verso un avvicinamento allo schieramento del centro-destra, anche se al suo interno tutt’altro che immune da spinte secolarizzanti e sia pure al prezzo di reciproche strumentalizzazioni.

Si giunge così al convegno di Verona (2006) “Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo”, quando sulla cattedra di Pietro è salito Benedetto XVI. Si chiude l’era Ruini e si inaugura quella dell’arcivescovo di Genova, Angelo Bagnasco, arrivato alla guida della Cei col singolare mandato dal segretario di stato, card. Tarcisio Bertone, di riservare alla Santa sede i rapporti Stato-Chiesa. Gli anni successivi vedono il progressivo tramonto di Berlusconi sulla scena politica e l’ufficiale presa di distanza di Bagnasco dai “comportamenti licenziosi e le relazioni improprie che ammorbano l’aria”. Anche se tutto ha dovuto passare attraverso gli imbarazzi della contestualizzazione della bestemmia e l’epurazione di Dino Boffo, direttore dell’Avvenire (il giornale della Cei), reo di prese di posizione contro il Cavaliere, dopo una spietata campagna mediatica inaugurata da Vittorio Feltri su Il Giornale (28 agosto 2009). Il nuovo decennio del 2000 segna per i vescovi italiani un ritorno alla formazione e un rilancio della catechesi, con i nuovi orientamenti pastorali “Educare alla vita buona del Vangelo”, mentre “In Gesù Cristo il nuovo umanesimo” è il titolo scelto per il convegno ecclesiale a Firenze. Tema scelto da papa Ratzinger, ma evento che si svolgerà con il nuovo pontefice Bergoglio. A questo punto sono molto puntuali le questioni sollevate da Brunelli alla vigilia del quinto appuntamento per la Chiesa italiana. Prima questione: la crisi di legittimazione della democrazia. Firenze si svolge in un tempo nel quale sono venuti meno tutti i punti di riferimento della Chiesa e forse non ha più senso neppure parlare di questione cattolica. Anzi, per tanti versi l’arcipelago cattolico rischia addirittura l’insignificanza. Però sullo sfondo c’è l’eterna incompiuta di un quadro politico istituzionale fragile, che quasi affoga in una perenne ed asfissiante provvisorietà e che confonde continuamente l’emergenza con l’ordinario. Crisi della democrazia vuol dire tante cose: crisi di legittimazione, somma tra crisi economica e sociale, crisi del modello istituzionale (parlamentare, presidenziale, gli enti locali), del rapporto Stato-società, pubblico-privato, dello sviluppo demografico con annesso il grande problema dell’immigrazione. Qui Brunelli fa spazio alla necessità di andare oltre la malattia infantile del binomio progressismo-integrismo, per riscoprire una nuova alterità ecclesiale che riparta dalle coscienze dei singoli. Un po’ quello che dice papa Francesco, quando sposta l’asse dalle formulazioni dottrinali, dai principi e dalle strutture, alla necessità di incontrare le persone. Seconda questione: la secolarizzazione. Si è passati, nelle analisi sociologiche, dall’eclissi del sacro a quella della secolarizzazione. Nel senso che c’è, ovunque, una ripresa della religione contrariamente a tante previsioni che l’hanno data per spacciata dall’incalzare progressivo della razionalità scientifica. Però pare una ripresa più alla Padre Pio e Radio Maria, che del sentimento ecclesiale. In tanti credono in Dio ma non nella Chiesa, spesso percepita come la casta del versante religioso.E qui Brunelli vede un problema di nuova evangelizzazione. Come direbbe San Pietro, di dare ragione della speranza cristiana. Terza questione: il moderno, anzi il post-moderno, sta portando cambiamenti culturali che da sola la griglia dei valori non negoziabili non riesce ad arginare. La società liquida di Bauman comprime il passato (si sente la necessità delle giornate della memoria), cancella il futuro (come dice il Nietzsche della Gaia Scienza) e dilata a dismisura il presente. Così diventa il mondo del tutto e subito, dell’emozione, dell’attimo, dei sentimenti alla Grande Fratello, di una socialità che evapora in una simultanea ma virtuale comunità da social network e smartphone. Nel quale persino il discorso politico si riduce a poco più di un cinguettio. Se non c’è più differenza fra libertà e responsabilità, fra tempo e tempo, se legittimo diventa tutto ciò che è possibile, allora io sono sempre e comunque il mio esperimento. “Ecco – continua il direttore de Il Regno – la cifra dell’umanesimo attuale, o meglio la sua torsione nichilista. Un sistema della libertà senza l’ermeneutica della libertà”. Ultima questione: il tema del laicato. Spesso lo si è confuso con movimenti, associazioni, organizzazioni. Ma tanti non ne fanno parte e allora sarebbe consigliabile tornare alla formula conciliare del “Popolo di Dio”, per una Chiesa che si ridefinisce, come affermato nella Costituzione Lumen Gentium del Vaticano II, a partire dall’economia sacramentale e non dalle strutture. Laddove Popolo di Dio è quello formato dal sacramento del Battesimo, mentre è nel contesto sociologico-giuridico che si delineano le organizzazioni. Anche in questo caso pare la traduzione dell’invito di Bergoglio alla Chiesa di uscire da sé, dal proprio narcisismo, per incontrare le persone sulla base di un ritorno alla Parola sine glossa. Evangelizzazione, coscienze, formazione, dissodare il terreno in un nuovo incontro infra-umano a partire dal livello intersoggettivo e con in mano unicamente il Vangelo. Certamente i tempi sono cambiati e sono diventati più difficili, ma molte di queste intuizioni non sono nuove. Troppe volte sono state semplicemente interrotte, stoppate, sacrificate, per obiettivi che poi si sono rivelati delle sonore sconfitte. Resta da capire se il corso di Bergoglio sarà una ricreazione in attesa di tornare in classe, come qualcuno tempo fa ha detto parlando del Vaticano II, oppure se rappresenta una svolta nell’ordinamento scolastico ecclesiale.

2. FINE

[LEGGI LA PRIMA PARTE]

LA STORIA
Vita da mecenate:
Vittorio Cini, il Costabili del Novecento

Da ferraresi ci sentiamo particolarmente coinvolti dalla figura di Vittorio Cini, nostro conterraneo, imprenditore e grande collezionista di opere d’arte, fondatore e mecenate della Fondazione Giorgio Cini di Venezia. Come abbiamo già scritto sulle pagine di questo giornale, ha da poco riaperto al pubblico la Galleria di Palazzo Cini a Venezia [vedi], che raccoglie meravigliosi capolavori toscani e del Rinascimento ferrarese. Non abbiamo resistito, e siamo andati ad ammirare quelle opere strepitose, guidati da Alessandro Martoni, uno degli storici dell’arte della Fondazione. Di seguito, vi proponiamo un viaggio affascinante in questo prezioso scrigno che è la collezione Cini, con un occhio tutto particolare alle opere della scuola ferrarese.

La recente riapertura della Galleria di Palazzo Cini
La Galleria di Palazzo Cini è stata inaugurata il 21 settembre del 1984, in seguito alla donazione da parte di una delle eredi, la terzogenita Yana Cini Alliata di Montereale. E’ in occasione infatti del trentennale che se ne è voluta la riapertura. Al nucleo originario, dal 1989 si aggiunse la collezione dei dipinti ferraresi che è in deposito fiduciario presso la Galleria per gentile concessione di un’altra delle figlie, Ylda Cini Guglielmi di Vulci.

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Palazzo Cini, in Campo San Vio a Venezia

Dopo alcuni anni di chiusura, o meglio di aperture temporanee collegate ad eventi quali la Biennale o mostre allestite a Palazzo Cini, si è avviata un’operazione di riqualificazione dell’edificio, comprendente un innovativo sistema di illuminazione a led realizzato appositamente per il museo, e un intervento di restauro su alcune opere della collezione, ma mantenendo sostanzialmente inalterata la fisionomia originaria data alla Galleria all’atto di battesimo. A parte qualche scultura lignea portata dalla Fondazione che si trova sull’isola di San Giorgio, e qualche piccolo spostamento atto a rendere più fruibile la collezione, la fisionomia che si può vedere trent’anni dopo è identica a quella dell’84.
Martoni ci spiega che, sul versante artistico, in questi mesi gli storici dell’Istituto di storia dell’arte stanno lavorando con il prof. Andrea De Marchi e il prof. Andrea Bacchi per catalogare scientificamente l’intera raccolta e aggiornare i due cataloghi, quello sui dipinti toscani e gli oggetti d’arte e quello sui dipinti ferraresi, editati rispettivamente nel 1984 e 1990 da Neri Pozza, con l’obiettivo di pubblicare un unico catalogo aggiornato per l’intera collezione, con nuovi riferimenti bibliografici e la rilettura di alcune opere fatta alla luce delle nuove scoperte.

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Galleria Cini, Sala dei polittici

Il corpus della collezione Cini e la raccolta presente nella Galleria
Della strepitosa e ricchissima collezione d’arte del conte Cini, la Galleria ne è testimonianza significativa, raccogliendo nuclei mirabili tali da confermare che Vittorio Cini sia stato uno dei più grandi collezionisti del Novecento. Collezionista avido nel senso positivo del termine, caratterizzato da una fame di opere d’arte antica in tutto lo spettro tipologico di manufatti, dagli specchi agli smalti, dalle armi agli arazzi, ai disegni e ai dipinti, privilegiava il tardo Medioevo e Rinascimento, secondo i valori e una visione evolutiva delle arti di matrice ‘berensoniana’, legata ai gusti del mondo anglosassone.

Vittorio Cini (Ferrara, 20 febbraio 1885 – Venezia, 18 settembre 1977)
Vittorio Cini (Ferrara, 20 febbraio 1885 – Venezia, 18 settembre 1977)

Ma non mancavano nella sua raccolta straordinarie opere del Settecento veneziano, come le magnifiche tele di Canaletto e Guardi, o alcune importanti tele tiepolesche; anche l’arte napoletana del ‘600 e del Settecento era presente, con pezzi di tutto rilievo’. La nostra guida ci racconta che una parte della raccolta è stata venduta, alcune opere rimangono agli eredi, altre sono ospitate in altri musei, come per esempio un mirabile nucleo di tavole marchigiane, oggi alla Galleria Nazionale delle Marche a Urbino, o la bella “Madonna Avvocata” duecentesca, attribuita a Niccolò di Giovanni, che oggi si trova a Roma, alla Galleria Nazionale di Arte Antica a Palazzo Barberini, e altri pezzi forse tra i più antichi della collezione Cini. Una parte cospicua della collezione si trova invece presso il Castello di Monselice, ristrutturato nel 1935 e allestito ad hoc per accogliere parte della collezione, ma passato in gestione alla Regione Veneto nel 1981. Un numero rilevante e pregiato di pezzi si trova nell’isola di San Giorgio, come la raccolta delle miniature e di libri antichi, ma anche dipinti, sculture, arazzi, maioliche.
Importantissima in questo senso è stata la figura di Nino Barbantini, nato a Ferrara anch’esso, sodale e amico d’elezione, interprete e stratega dell’anima collezionistica e culturale di Vittorio Cini, che ne ha convogliato gli interessi e il gusto. Figura chiave della prima metà del Novecento veneziano, Barbantini è stato l’uomo del rinnovamento culturale-artistico di Venezia, organizzatore delle mostre di Ca’ Pesaro a partire dal 1910, di Ca’ Rezzonico, e tanto altro.

La Sala dell’anticamera, il gusto di Cini per le arti decorative
Prima di illustrarci alcune delle più preziose opere esposte, Martoni ci anticipa che in questa sala emerge il gusto massiccio, profondo e radicato, di Cini per le arti decorative. Se si guardano le fotografie degli anni, Sessanta, continua, ci si accorge che le stanze erano ornate riccamente da un profluvio di bronzi, bronzetti, avori, porcellane, tutto il sapere della creatività umana raccolto in una collezione.

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Manifattura veneziana del XVI secolo, piatto in rame smaltato

In particolare sottolinea la presenza dei bellissimi e rari smalti rinascimentali di manifattura veneziana, di cui il Louvre possiede un altro corpus importante. Grazie proprio alla collaborazione con il Louvre, la Fondazione ha in programma un convegno scientifico “I rami smaltati del Rinascimento italiano. Geografia artistica, collezionismo, tecnologia” che si terrà dal 16 al 18 ottobre, con il quale avvieremo una catalogazione di tutti gli oggetti di questa manifattura esistenti al mondo, poi si spera una mostra.
Importante, dice, anche la teca degli avori gotici, in particolare i quattro pezzi provenienti dalla bottega degli Embriachi, la più importante bottega tra ‘300 e ‘400 di lavorazione dell’avorio e dell’osso, e la raccolta delle croci, come la croce processionale del XIII secolo attribuita a Giunta Pisano e dipinta sui due lati, e la “Crocefissione” del senese Pietro di Giovanni Ambrosi.

La Sala dei polittici, alcune novità e restauri d’altissimo livello
In occasione della riapertura della Galleria sono state restaurate due sculture lignee, la “Madonna col Bambino” del grande Nino Pisano, scultore e orafo di grande raffinatezza e la “Madonna col Bambino” in legno di pioppo nero ad opera di un’artista della cerchia del senese Francesco di Valdambrino. Entrambe queste sculture erano collocate alla Fondazione e sono quindi una novità per la Galleria.

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Nino Pisano, ‘Madonna con il Bambino’

La Madonna di Pisano, ci racconta Martoni, ha subito un restauro molto impegnativo perché era in condizioni terribili, irriconoscibile: si presentava con un pasticcio di ridipinture; evidentemente pulito con la soda caustica a inizio Novecento, appariva decoeso, collassato il supporto, condizioni che ne offuscavano completamente la lettura.
Con l’intervento di restauro ad opera di Milena Dean, specialista negli interventi sui manufatti lignei, è stato tolto tutto ciò che si poteva rimuovere, mantenendo solo alcune ridipinture sei e settecentesche, per non scarnificarlo, e con un sottotono si sono andate a riempire quasi tutte le lacune, cercando di restituire una tessitura cromatica che agevolasse la lettura. Lo storico ci confessa che all’Istituto sono tutti molto soddisfatti perché è venuto fuori un ottimo lavoro d’intaglio che rende di nuovo visibili tutta una serie di caratteri originali dell’opera, come il Gesù togato, nutrito di una forte dose di classicismo.

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Seguace di Francesco di Valdambrino, ‘Madonna con il Bambino’

Il restauro sulla Madonna del seguace di Valdambrino, eseguito dalle ottime restauratrici Stefania Sartori ed Enrica Colombini, ha portato anche ad una scoperta che ha molto emozionato tutto lo staff: dalle indagine radiografiche effettuate, pare che la scultura sia stata intagliata da un unico tronco, con un ramo che è servito ad intagliare il bambino.

Di tutti i restauri effettuati in vista della riapertura, quello di cui vanno più orgogliosi è il restauro del polittico raffigurante la “Madonna con il Bambino in trono e i santi Antonio Abate, Lorenzo, Giovanni, Battista e Agata” di Lorenzo di Niccolò datato 1404. Un restauro rispettosissimo, dice, uno dei migliori interventi della Fondazione, compiuto ad opera di una bravissima restauratrice veneziana Claudia Vittori e dal restauratore Roberto Saccuman, specialista di supporti lignei.

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Lorenzo di Niccolò, polittico con ‘Madonna con il Bambino in trono e santi’

Si è trattato di un restauro molto delicato perché il dipinto si presentava opaco e annerito, con la pellicola molto decoesa, spaccata nelle aree di connessione delle assi e completamente sollevata rispetto al supporto. Si è quindi proceduto ad un intervento di consolidamento del supporto e di pulitura: si sono dovuti togliere uno strato di vernice completamente alterata e uno strato di gomma lacca, probabilmente applicato nell’Ottocento per consolidare. Fortunatamente la situazione del dipinto originale era molto buona, quindi con una semplicissima operazione di ricucitura delle poche lacune presenti, sono riusciti a ripristinare la calda cromia originale che ora si può finalmente riammirare. Martoni ci tiene a dire che il restauro è stato totalmente finanziato da uno degli eredi, Giovanni Alliata di Montereale, figlio della donatrice e nipote di Vittorio Cini, personaggio molto attivo, che segue tutte le attività della Fondazione con grande attenzione, in memoria del nonno e della madre.

Sala del Rinascimento, i capolavori toscani
Martoni premette che qui la conservazione delle opere esposte è perfetta, sono tutte in ottime condizioni: la “Madonna col Bambino” di Piero della Francesca, “Il giudizio di Paride” del Botticelli; anche la “Sacra conversazione”, una splendida tavoletta di Filippo Lippi, l’opera del Rinascimento toscano più antica esposta, si presenta integra.

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Pontormo, ‘Doppio ritratto di amici’

Uno dei capolavori della sala, tra le opere più richieste in prestito, è sicuramente il Piero di Cosimo, “Madonna col Bambino e due santi”. Di Cosimo, ci spiega Martoni, fu uno dei primi eccentrici rispetto alla pura linea raffaellesca, artista che seppe fare una sintesi tra Raffaello e Leonardo, con una forte attenzione all’arte fiamminga e alla linea elegantissima di Filippino Lippi: l’angelo accovacciato in primo piano che accorda lo strumento, rimanda per certo agli studi leonardeschi, la composizione alle madonne fiorentine di Raffaello, come la Madonna Canigiani di Monaco.
Altra opera richiestissima è il “Doppio ritratto di amici” del Pontormo, capolavoro della ritrattistica italiana, esposto proprio di recente alla mostra “Pontormo e Rosso Fiorentino” a Palazzo Strozzi a Firenze.

La documentazione sulle opere, le schede inventariali
La Fondazione Giorgio Cini possiede un archivio di schede inventariali molto puntuali di tutte le opere della collezione, che riportano l’approvvigionamento antiquariale di tutto l’ampio spettro di provenienze. Tra l’altro, molto ben documentate sono le provenienze delle opere ferraresi che provengono dalle collezioni Contini Bonaccossi, Gualtiero Volterra, Marcello Sestieri di Roma, Salocchi di Firenze e, prima fra tutte, la straordinaria collezione Costabili. Giambattista Costabili Containi fu un altro collezionista ferrarese instancabile; recentemente lo storico dell’arte Gianluca Tormen, durante una delle Conversazioni d’arte che la Fondazione organizza in Galleria, ha accostato la collezione ferrarese di Costabili alla collezione ferrarese Cini, suggerendo in modo evocativo che in un certo senso Cini sia l’alter ego nel Novecento del grande collezionista ferrarese Giovanni Battista Costabili Containi.

La Sala dei ferraresi, le origini
Questa è l’ultima sala della Galleria e, se si vuole, dice Martoni, anche la più emozionante, proprio in virtù dell’amore di Vittorio Cini per la propria città d’origine, che passa attraverso l’acquisizione di capolavori del Rinascimento estense. Ferrara allora era una fucina straordinaria. Ci arrivano tutti a Ferrara in quel periodo, da Leon Battista Alberti a Piero della Francesca, da Donatello ai pittori fiamminghi, tanto che non ci si deve sorprendere se questo fervore produce poi gli ingegni della Scuola ferrarese. Nel 1933 al Palazzo dei Diamanti a Ferrara viene allestita la memorabile “Mostra dei pittori del Rinascimento locale”, curata da Nino Barbantini, mostra dalla quale hanno avuto inizio i moderni studi su quel periodo. L’eco dell’operazione si deve in particolare alle intuizioni del grande storico dell’arte Roberto Longhi che, recensendo la mostra, utilizzò per primo il termine “Officina ferrarese”. L’ “Officina” poi, aggiunge la nostra guida, divenne un’opera importantissima, edita nel 1934 e aggiornata a varie riprese, attraverso la quale gli storici dell’arte riescono ancora oggi a ripercorrere l’analisi critica longhiana di questi pezzi Cini.

Le opere ferraresi, lettura critica e provenienza dei capolavori di Ercole de Roberti, Cosmè Tura, Dosso Dossi e Mazzolino
I due “San Giorgio”, quello di Cosmè Tura e quello di Ercole de Roberti, provengono dalla collezione Costabili e vengono acquistati da Cini entrambi il 20 aprile del 1954, dall’antiquario toscano Gualtiero Volterra.

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Ercole de’ Roberti, ‘San Girolamo’

Le due tavolette di Ercole de Roberti, “Santa Caterina d’Alessandria” e “San Gerolamo”, provengono invece dalla raccolta Contini Bonacossi, sono stati acquistati da Cini nel 1940, e rappresentano i primi due pezzi ferraresi della collezione.
Le tre tavolette di de Roberti, di cui abbiamo appena parlato, facevano parte del polittico di cappella Griffoni in San Petronio a Bologna, realizzato in collaborazione con Francesco del Cossa. Martoni contestualizza, ricordandoci che il sodalizio tra i due artisti nacque sui ponteggi di Schifanoia, per poi diventare una vera e propria collaborazione in quest’opera capitale che i due ferraresi producono attorno al 1472-73 nella città di Bologna e nella cappella di famiglia di Floriano Griffoni. Purtroppo il polittico fu smembrato e venduto tra 1725 e 1731, quando la cappella passò ai Cospi.

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Ercole de’ Roberti, ‘Santa Caterina d’Alessandria’

Le dodici tavolette che, assieme alle tre di Palazzo Cini, andavano a formare le cornici laterali del polittico, sono oggi conservate (tranne alcune che rimangono disperse), in vari musei: al Louvre, al Boymans-van Beuningen di Rotterdam, e una tavoletta, il “San Petronio”, si trova anche a Ferrara alla Pinacoteca nazionale.
Anche le altre parti del polittico hanno avuto la stessa sorte, e ora si trovano Pinacoteca di Brera, alla National Gallery di Washington, a Londra come la parte centrale dedicata al santo domenicano S. Vincenzo Ferrer.

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Ercole de’ Roberti, San Giorgio

Le opere esposte sono straordinarie. Nella vetrina delle opere più antiche, c’è un po’ il cuore dell’ “Officina” longhiana, con le opere di Cosmè Tura e Ercole de Roberti.
Martoni parte dal “San Giorgio” di Ercole de Roberti, che rivela la cifra peculiare della sua pittura, ossia una straordinaria acribia, nella perfetta resa della prospettiva, nella qualità del dettaglio, nella lumeggiatura dell’armatura, tutti aspetti collegati alla miniatura coeva e in particolare a Cosmè Tura. In questo senso, continua, forse Ercole de Roberti fu quello che più recepì il rovellio formale di Tura, condividendo con quest’ultimo l’attenzione alla qualità intrinseca dei materiali e ai valori tattili e formali degli smalti, delle pietre dure e dell’intaglio dei preziosi; ecco dunque la genialità dell’espressione di Longhi, che con il termine ‘officina’ evoca il mondo della sapienza artigianale e il ruolo dell’artista come ‘artifex’, di matrice ancora medievale.

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Cosmè Tura, ‘San Giorgio’

Poi passa al “San Giorgio” di Cosmé Tura, dai dettagli e dalle linee perfetti: ci prega di osservare le bandelle dell’armatura che oscillano per l’uccisione del drago, la sottigliezza delle ali del drago e l’ultimo colpo di coda sinuoso dell’animale morente, i movimenti aggraziati da schermidore e ballerino e la tessitura vibrante delle vesti. I colori delle colonnette, il bianco, il rosso e il nero, potrebbero rappresentare i colori araldici degli Este. Grazie agli studi longhiani, ci rivela, si è potuto accostarlo ad altre due tavolette: il “San Maurelio”, altro Patrono ferrarese, custodito al Poldi-Pezzoli di Milano e “L’Annunciata” della collezione Colonna di Roma. In virtù di tutto questo, si ipotizza che la committenza fosse proprio estense. Di Cosmè Tura a Ferrara rimangono solo i due tondi sul Giudizio di San Maurelio alla Pinacoteca, e le bellissime ante d’organo dipinte del Museo della cattedrale, scomparsa ogni altra opera a cominciare dallo straordinario Polittico Roverella (diviso tra i musei di Londra, Parigi, San Diego, Boston, New York, Cambridge, Roma).

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Baldassarre d’Este, ‘Ritratto di Tito Vespasiano Strozzi’

Nel 1951 Cini acquisisce il “Ritratto di Tito Vespasiano Strozzi” di Baldassare d’Este, opera su tela proveniente dalla collezione Costabili, come a commemorare una delle figure centrali della corte estense: Tito Vespasiano, come sappiamo, fu tra l’altro governatore di Rovigo e dei territori della Romagna estense, e l’autore della “Borsiade”, opera encomiastica dedicata al duca Borso. Ritrattista, medaglista e frescante, Baldassare era figlio naturale di Niccolò III d’Este. Altro sua opera molto importante è il più famoso “Ritratto di Borso d’Este” che si trova nei Musei civici del Castello Sforzesco di Milano.

 

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Dosso Dossi, ‘Scena allegorica’

Nella raccolta Cini non poteva mancare un’opera del più importante artista attivo alla corte estense nella prima metà del Cinquecento: Dosso Dossi. Alfonso I d’Este gareggia letteralmente con la sorella Isabella (che si fa mandare a Mantova le opere dei più grandi artisti del tempo), e si fa promotore di una delle più importanti commissioni del Rinascimento maturo, ingaggiando artisti come Bellini, Tiziano, Antonio Lombardo, Dosso Dossi per i cosiddetti ‘camerini d’alabastro’ sulla via coperta (celebre il camerino dei Baccanali, con i capolavori giovanili di Tiziano). La tavola acquisita da Cini è una delle scene allegoriche che componevano il soffitto dei camerini di Alfonso I d’Este, eseguito da Dosso Dossi intorno al 1526, e smembrato in seguito alla devoluzione del ducato estense allo Stato Pontifico nel 1598; molte di queste sono conservate alla Galleria Estense di Modena.

Per finire, i tre capolavori di Mazzolino. Ludovico Mazzolino nacque e morì a Ferrara e probabilmente studiò presso Lorenzo Costa, perfezionandosi da Dosso Dossi e Cosmè Tura. La maggior parte dei suoi lavori furono commissionati dal duca di Ferrara Ercole I d’Este.

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Ludovico Mazzolino, ‘Pietà’

La “Pietà” è un’opera splendida, ci spiega emozionato Martoni: le braccia della Madonna alzate al cielo aumentano la drammaticità del soggetto, il volto di Cristo di profilo con la testa completamente abbandonata all’indietro sul punto di liquefarsi, il tema del tramonto collegato all’iconografia devozionale della Pietà di origini nordiche (Vesperbild). E poi la qualità della pittura: una tessitura minutissima e il tipico modo di Mazzolino di dipingere le aureole con sottilissime pennellate d’oro, quindi senza utilizzare la foglia d’oro ma sfiorando con la punta di pennelli sottilissimi.

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Ludovico Mazzolino, ‘Circoncisione’

Nella “Circoncisione” e nella “Presentazione di Gesù al tempio” emergono con grande evidenza la qualità miniaturistica unita al tema della cultura antiquaria: i bassorilievi del tempio in oro e monocromo bianco con i temi dei sarcofagi antichi, qui sono proprio citati temi di sarcofagi romani che si trovano al Roma, e poi le amazzonomachie, la cultura della Domus Aurea, delle grottesche, tutti elementi culturali fortemente presenti nella cultura antiquaria alla fine del ‘400 e per tutto il Cinquecento.
Mazzolino è geniale quando dipinge queste piccole tavolette che sono vere e proprie miniature, oggetti che, tra l’altro, incontravano decisamente il gusto dei collezionisti, che immaginiamo intenti a osservarli con attenzione, magari con l’ausilio di una lente d’ingrandimento; è proprio immerso in questo raffinato contesto d’amatore umanistico che ci immaginiamo il cardinale Ippolito d’Este, al quale con tutta probabilità appartenne la tavoletta Cini con la “Circoncisione”, mentre osserva ammirato questi prodigi minuti, in cui la grande tradizione del classicismo italiano si fonde con le luci vespertine dei pittori fiamminghi e danubiani.

La viaggio alla scoperta dei tesori di Palazzo Cini si conclude qui. Non vi rimane che andare di persona a visitare la Galleria che è aperta fino al 2 novembre, dalle 11 alle 19 (chiuso il martedì), in Campo San Vio, Dorsoduro 864.

Per ulteriori informazioni, visitare il sito della Galleria di palazzo Cini [vedi]

 

Si ringraziano infinitamente per la collaborazione Elena Casadoro dell’Ufficio stampa e Alessandro Martoni dell’Istituto di storia dell’arte della Fondazione Giorgio Cini.

Foto per gentile concessione della Fondazione Giorgio Cini.

Smetto quando voglio: meglio “ricercati” che ricercatori…

Ironia, divertimento, simpatia, azione, fantasia, spirito di sopravvivenza ma anche un tocco di amarezza. Questi gli ingredienti del primo lungometraggio di Sydney Sibilia, regista classe 1981, uscito nei cinema italiani lo scorso febbraio. Eccoci allora di fronte a una banda di ricercatori universitari per i quali avere la laurea a pieni voti è un vero problema. Non c’è lavoro, in Italia, per chi è troppo qualificato, non ti accettano a lavorare in un’officina meccanica, nemmeno se fingi di essere un uomo di strada con esperienza di vita, quando il lessico che usi ti tradisce.

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locandina del film

Ecco allora la banda dei sette ricercatori: due pluripremiati latinisti, Mattia e Giorgio (Valerio Aprea e Lorenzo Lavia), che lavorano come benzinai, sotto padrone cingalese, scagliandosi vicendevolmente improperi nell’antica lingua di Cicerone (esilarante); un brillante antropologo che tenta invano di farsi assumere presso un meccanico (Andrea, un Pietro Sermonti con la faccia da bravo ragazzo trasformato in improbabile ragazzaccio dal forte accento romanesco); un genio della chimica computazionale che lavora come lavapiatti in un ristorante cinese (Alberto, Stefano Fresi); un competente archeologo (Arturo, Paolo Calabresi), precario da undici anni, che non ha nemmeno i soldi per il pranzo al sacco (e che divora il panino con la frittata offertagli dai colleghi, divertente); un economista (Bartolomeo, Libero di Rienzo), che di mestiere conta le carte a poker; e poi c’è lui, Pietro (il brillante Edoardo Leo), l’ispiratore dell’intera iniziativa, che, dopo l’ennesima frustrazione alla facoltà di Neurobiologia ed una pasticca mal digerita, scopre la nuova vocazione di produttore e spacciatore di droghe sintetiche. Pietro, allora, appena licenziato dall’università, disegna la molecola, assolutamente legale (perché non nella lista delle sostanze proibite dal Ministero della salute), il chimico, adesso cameriere, la sintetizza abilmente.

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una scena del film

E il tutto si trasforma in una situazione che sa dell’inverosimile: ex-accademici senza speranze che si ritrovano tra luccicanti discoteche alla moda, escort di lusso (l’ambientazione romana ricorda un po’ quella de La Grande Bellezza) e temuti boss della malavita (il mitico e sfregiato Er Murena, un grande Neri Marcorè anch’esso laureato, un ingegnere). E, per finire, ciliegina sulla torta, una fidanzata, Giulia, che lavora proprio, guarda a caso (ironia della sorte), al recupero dei giovani tossicodipendenti.

Il tutto condito da colpi di scena, come in un vero film d’azione, da paradossi, suspense adrenaliniche, strane capriole. La critica sociale, affilata e non banale, e le risate a gogo, che a volte tolgono il fiato, convivono con grande naturalezza in questa bella commedia italiana. Difetti italiani messi sotto una brutale lente d’ingrandimento: l’assenza di meritocrazia, la ricerca di una “spintarella”, la voglia di una “bustarella”, la ricerca di un guadagno facile a volte per necessità a volte per inclinazione, la truffa, l’essere sempre più intelligenti e furbi degli altri.
Un sorriso amaro, quindi, ci scappa, se pensiamo davvero al retroscena, ossia a una società dove il lavoro sembra sempre di più un privilegio e dove non tutti paiono averne pieno diritto. Soprattutto se plurilaureati, preparati, svegli, intelligenti e, “ancor peggio”, se meritevoli.

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di Sydney Sibilia, con Edoardo Leo, Valeria Solarino, Stefano Fresi, Paolo Calabresi, Pietro Sermonti, Neri Marcorè, Valerio Aprea, Lorenzo Lavia, Libero di Rienzo, Italia, 2014, 100 mn.

L’OPINIONE
Il premier e l’eredità democristiana

“Abbiamo respirato, anche se pur in superficie, la visione di un “nuovo” cattolicesimo dove il sentimento vede il mondo diviso tra il bene e il male, tra il giusto e l’ingiusto, tra deboli e forti, tra ricchi e poveri”.

Questa la parte conclusiva di un editoriale del Corriere della sera, uscito alcuni mesi fa, dedicato al premier e all’eredità democristiana, e che pare abbia interessato non pochi.
Anche negli ultimi tempi si sono sentiti alcuni allineamenti: come il rivivere la vicenda degasperiana nella prossima Festa nazionale dell’Unità; come il dare una fortissima discontinuità alla futura presidenza in Emilia Romagna alle prossime elezioni regionali; come rimettere in discussione il vecchio modello che gli amministratori sindaci, ancora timbrati, resistono a mantenere e che potrebbe essere facilmente rimosso (basterebbero due decreti e regolamenti attuativi immediati) accorpando Comuni, Municipalizzate e partecipazioni ed assimilabili.
Se quei quaranta punti dicono qualcosa, e lo dicono perché raccolti col consenso popolare, forse si può dire, con dei rivoluzionari atti di governo, che da qui inizia la nuova sinistra del Pd.
Questo Pd sembra somigliare in tutto alla Dc: l’ampia base sociale, un interclassismo ammodernato, un pluralismo post-ideologico, democrazia, giustizia, crescita e solidarietà nello stesso largo contenitore, l’attenzione agli ultimi e agli esclusi, un partito nazione, ritrovate convergenze tra moderati e riformisti, un nord con il sud ed altro ancora.

Forse è e potrà essere anche così. La sintesi, forse, supera la soglia perché le storie dei due partiti sono diverse: il quadro internazionale è andato oltre la caduta del Muro di Berlino, ci sono stati profondi cambiamenti economici e sociali, la Chiesa di Francesco ha un volto e uno sguardo più aperto sul mondo, ed altro ancora.
Il paragone, però, non deve essere visto come un male, come non è un male che la storia degli ultimi cinquant’anni abbia collocato l’Italia tra i primi cinque Paesi al mondo per crescita, benessere, ricchezza, reddito e sviluppo diffuso.
Certo, anche quando si cresce moltissimo e con disordine possono anche sorgere ingiustizie, disuguaglianze, torti sociali, vizi pubblici e privati, dualismi geopolitici, sacche di povertà e perdite di valori e di solidarietà. E’ stato un tempo lungo e complesso, anche per le vicende degli uomini, dei gruppi dirigenti del Paese, di storture e malversazioni, di privilegi e delinquenze, di attività malavitose anche diffuse, di conflitti tra i popoli e le nazioni, di guerre e del contesto post bellico con la Guerra fredda e della divisione del mondo in due blocchi, anche con il terzomondismo.
Non è una giustificazione, ma solo l’elenco di pezzi di storia vissuta, di cui ognuno di noi porta il peso, la responsabilità, ma anche le tantissime virtù e i nostri radicati umanesimi. Se in questo spaccato proviamo a ricercare i punti forti che uniscono, per poter guardare oltre, forse quel confronto tra Pd e Dc potrà essere lasciato ai politologi e, certamente, il parlarne ci può aiutare nell’andare avanti.

Si dice che oggi occorre “deglobalizzare” e “riglobalizzare”, in altri termini bisogna ricondurre alcune questioni politiche alle scelte dei territori e, contemporaneamente, ricercare una maggiore equità fra nord e sud del mondo.
Ciò non significa contrapporre la nostra storia e la nostra sensibilità a quella degli altri, ma si tratta di animare il dibattito politico e le realtà locali con l’operosità e l’attenzione ai principi che ci sono propri, consapevoli della responsabilità di tradurli nella mediazione culturale e politica.
Ben sette decenni di storia, partendo da Camaldoli, come lo stesso Papa Francesco ha sottolineato recentemente, dimostrano il grande valore di quelle elaborazioni di alta cultura politica che ancora oggi, con gli opportuni ammodernamenti, possono essere di grande utilità al Paese e all’Europa intera.

Oggi, pur nelle diverse condizioni storiche, siamo di nuovo a un passaggio d’epoca, ad un nuovo riformismo. Le sollecitazioni sociali, economiche, la dimensione sovranazionale dei problemi, le straordinarie accelerazioni dell’universo tecnologico e scientifico richiedono un cambio di paradigma dello sviluppo. E il primo degli impegni deve essere un ricominciare insieme, sostituendo a egoismi e furbizie la generosità e l’intelligenza.
Sappiamo, infine, che anche altre storie, altri umanesimi, altre culture politiche possono e debbono stare in quel ricominciare insieme, un messaggio che speriamo possa essere accolto.

L’INTERVISTA
L’incomodo Balzani:
“L’Emilia deve tornare
a pensare in grande”

Balzani, come possiamo definire la sua candidatura a presidente della Regione? Solo coraggiosa, di testimonianza o si pone obiettivi più ambiziosi?
Non credo assolutamente che sia di testimonianza, le primarie sono imprevedibili, l’ho sperimentato a Forlì, la mia città, nel 2008. Corro per vincere, oggi come allora, e ho già dichiarato che non sono interessato né a un posto da assessore regionale né da consigliere. Ho invece un progetto politico: quello di ristabilire un contatto tra uno spazio civile ed economico, molto cambiato negli ultimi anni, e la politica. Superando l’autoreferenzialità e la gestione del potere fine a se stessa che ha contraddistinto in questi anni la nostra Regione. Vorrei che si tornasse ad una Regione come ad un ente di progettazione e di programmazione, come fu alle origini l’Emilia-Romagna di Guido Fanti. Un’era grandiosa.

Per tanti anni l’Emilia-Romagna è stata addirittura un modello europeo. Il famoso riformismo emiliano fondato sui servizi sociali, su di un welfare ammirato e copiato ovunque, sulla progettazione urbanistica, sulla programmazione territoriale, eccetera. Da un po’ di tempo non si pensa e non si progetta più in grande e la nostra regione oggi arranca in molti settori. E’ cosi?
Sì. Ed è il vero motivo per cui mi candido. Occorre recuperare la grande dimensione culturale che aveva questo riformismo. E’ la caratura culturale di una classe dirigente che mette insieme diversità o interessi apparentemente contrastanti, evitando una negoziazione che quasi sempre avviene al ribasso. Sono i progetti, le ampie visioni che possono consentire il rilancio ed autentiche unità. Occorre ricreare un nuovo modello per la nostra regione.

Cosa la divide da Bonaccini, dato quasi unanimente per vincente?

Ci sono differenze che derivano dalle esperienze di vita, assai diverse. Io non sono un politico di professione. Credo che la politica non debba divenire mai una professione, anche quando viene esercitata per molti anni. Penso ad essa come ad un ruolo di servizio reso ai cittadini. Il mio obiettivo è di essere l’interlocutore non di un ceto politico ma di una vasta opinione pubblica, da un lato, e di un mondo di attori economico sociali, dall’altro.

La grandezza dell’Emilia Romagna si è sempre sostenuta sulla piccola e media impresa, ricca di tante eccellenze e di un mondo del lavoro responsabile e qualificato, e ha beneficiato dell’iniziativa di un ceto politico intelligente e credibile per capacità e respiro culturale. Condivide?
Sono d’accordo. Non esiste una buona politica e quindi una buona classe dirigente priva di cultura. Per il resto, nella mia esperienza da sindaco sono sempre stato vicino alle imprese e al mondo del lavoro. L’impresa vera, quella che esporta, che produce reddito, che fa ricerca e che conquista mercati, ha sempre potuto contare sulla mia collaborazione. Purtroppo, lo debbo dire, talvolta il mondo economico ha prodotto poi istituzioni che sono diventate parapolitiche anch’ esse e sono talvolta state di ostacolo ad un dialogo ed un confronto più ampio ed aperto.

Oggi però i temi all’ordine del giorno sono la riforma del lavoro e quella sulla giustizia. Temi caldissimi. Sul lavoro si rischia un’ulteriore precarizzazione specie per i giovani, la ventilata riforma della giustizia non convince. Lotta alla corruzione, rafforzamento della legalità, non sono affrontati con la dovuta fermezza. Lei peraltro si candida in un momento in cui anche l’Emilia è coinvolta in vicende non esemplari. Che ne pensa del ‘riformatore’ Renzi? E che ne pensa delle ventilate riforme di Renzi?
Sulle riforme istituzionali, la complessità delle società moderne e i grandi cambiamenti (si pensi al crollo dei partiti di massa, per esempio), pongono problemi non più rinviabili. La nostra pur bella Costituzione va aggiornata avviando una modernizzazione consona ai tempi. Trovo efficace la comunicazione politica di Renzi su alcuni temi, apprezzo la sua voglia di fare. Sulla giustizia, la riforma di Orlando sta su di un crinale particolare. Guarda anche ad una parte del Parlamento che non è certo quella del centrosinistra storico. Personalmente, credo che nel nostro Paese il ruolo della magistratura sia importante e vada tutelato. Sul lavoro, il confronto rischia di essere distorto dalla politicizzazione in atto sull’articolo 18. La vera posta in gioco sta nell’evitare la precarizzazione, soprattutto per i giovani. Ravviso la necessità di entrare più e meglio nel merito, perché il lavoro oggi non è più garantito per nessuno. Lavoro e diritti non possono essere scissi.

L’ultima domanda è quanto mai di attualità. Se lei fosse raggiunto da un avviso di garanzia, che farebbe?
A suo tempo, da sindaco, fui indagato per una strana cosa: peculato immateriale. Avevo partecipato ad una trasmissione televisiva. Se fossi stato rinviato a giudizio mi sarei dimesso immediatamente. Resto di quell’idea.

IL REPORTAGE
Passaggio a nord-est: Grecia, terra di frontiera al confine d’Europa

di Valentina Cioni

Entrare nelle acque verde smeraldo di Batis, appoggiando di tanto in tanto i piedi sulle pietre grandi e lisce che ricoprono il fondale. Alzare il capo e vedere come il sole taglia il profilo delle montagne verdi di Thassos, enorme macigno, che sembra galleggiare sul mare. Vedi perfino i profili dei pini sulle colline, ti illudi di non essere né vivo, né morto, ma di rimanere sospeso così, nell’eternità che è la Grecia.

È un momento idilliaco, che si interrompe mentre mi volto verso riva: ecco Batis Beach. Moderno stabilimento balneare, pieno di famiglie all’inverosimile in questa cacofonica domenica di fine estate. C’è chi cena al ristorante piantato sulle rocce, chi rimane sotto all’ombrellone a discutere con amici e parenti; chi saltella al piano bar con il disk jokey che propone pezzi di Battisti cantati da Lavredis Maheristas. “La canzone del sole” che più o meno doveva essere intitolata “Sinnefiorame ne mou oura”, mi ha fatto passare cinque minuti di risate e nostalgia.
Quando mi è stato chiesto il perché del mio attacco convulso di risate, ho cercato di spiegare che Battisti, artista italiano, era il famoso cantante della melodia.
E niente, mi faceva strano sentirla qui, a Kavala. A duecento chilometri dalla Turchia. In quel momento il dj ha iniziato a battere le mani, cantando “Un’avventura” (in idioma greco, s’intende). Ho capito che era il momento di abbandonare la compagnia e rientrare in città col bus.

Dopotutto, erano già le sette e non volevo rischiare di perdere l’ultimo mezzo che mi avrebbe portato indietro. La fermata è nel parcheggio dello stabilimento, al di sotto di una curva a gomito che gli autisti affrontano con estrema destrezza. L’autobus arriva in orario – nonostante nessun orario sia affisso – e, salendo, timbro il biglietto davanti all’autista, passando per i tornelli. Mi affretto a prendere il posto più simpatico, quello dietro al cestino per l’immondizia e al secchio per le pulizie. È, a mio parere, il posto più simpatico, dato che mi aspetto sempre che questi attrezzi possano cadere – ahimè, mai successo – e perché è sempre bello vedere la civiltà delle persone che buttano i biglietti usati e le cicche alla vaniglia, centrando il cesto con l’autobus in pieno movimento.

È bello prendere il bus anche di sabato, qui, a Kavala. Dal quartiere di Vyronas, attraverso una via silenziosa circondata dalle case degli operai turchi e mi fermo al palo della luce: la fermata del bus. Di solito, ci sono già due o tre vecchiette, che, vedendo il mio zaino da trekking sulla schiena, mi fermano, chiedono se sono una turista, per poi sbattere i bastoni da passeggio (o scuotere i carrellini a due ruote per la spesa) urlando: “Qui è il Congo! I nostri figli lavorano all’estero, in Germania! I Greci sono retrogradi, ma anche l’Italia non se la passa mica bene, eh!”.

Poi salgono sul bus, mentre io non ho neanche dato quattro tiri alla sigaretta, che mi vedo costretta a buttarla. Alzo gli occhi, e vedo l’anziana signora che abita nella casa di fronte che scuote la testa tra le sue rose: spesso, la mattina, mi dice che l’autobus sta scendendo dalla montagna. Io non so mai se crederle o meno: non ci sono orari alle fermate. Di solito scelgo di non crederle così accendo la sigaretta, l’autobus scende, e io sono costretta a buttarla. E lei a credermi fessa.

Ripeto: è sabato. Non è un giorno come un altro. È giorno di mercato. Le donne, giovani e anziane, affollano il bus sempre più, urlando a squarciagola: “Moussakà!”, “Fao!”, “Tellio!”.
Di solito sono le parole che sento più spesso. Ruotano tutte attorno al cibo. I piatti sono intrisi di olio, sciroppi zuccherini, aceto. Si mangia alle due del pomeriggio, se si vuole fare presto. Si mangia alle tre per normalità. Si rimane a tavola un’ora, due. Vietato alzarsi. Vietato rifiutare qualunque piatto ti venga propinato. Pena la rabbia silenziosa, degli occhi verde acquamarina delle massaie greche.

Il mercato, ricorda a detta di molti i bazaar in Turchia. A me non li ricorda molto. Sembra solo una versione più povera e priva di giacche borchiate della “montagnola” di Bologna. I banchetti delle giacche sono sostituiti da infinite casse di pesche, bamies (delle specie di zucchine), biscotti, bastoncini di sesamo e chi più ne ha più ne metta. Il tutto, a prezzi stracciati.

Il greco, oggigiorno, ha due scelte per fare la spesa low budget: Lidl o mercato. Mentre dribblo gli tsigani (i rom) e le trecce d’aglio che spuntano un po’ ovunque, penso al fatto che tra questi banchi, non servono alcolici. Gli alcolici sono nei supermercati come il Carrefour ed hanno prezzi, per noi italiani, esorbitanti.
La tassazione sugli alcolici, che ne ha fatto lievitare i prezzi, ha reso di lusso avere il piano bar a casa. Come anche l’angolo doccia. Come anche gli alimenti serviti a tavola.
In ogni angolo della città, sorgono mini market di frutta e verdura. A prezzi più o meno concorrenziali. Il resto, è non proprio off-limits, ma abbastanza ai limiti del prezzo abbordabile.

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Anziani al bar che giocano al ‘tavli’

Esco dal mercato, carica di dolci che non avrò il fegato di mangiare e vado al porto. Il porto è un lungomare pedonabile dove sorgono bar coi tavoli all’aperto dai nomi vagamente familiari: “Vento Lounge Bar”, “Venezia”, “Da Giorgio”. Vado da Giorgio: il caffè greco al tavolo, da lui, costa “solo” due euro. Sono circondata da anziani, come sempre. Mi guardano tutti, come sempre. Giocano a tavli, da bravi.
Io li imito, rimango un’ora ferma al bar, a sorbire caffè e fumare sigarette. I miei polmoni, però implorano pietà: il tabacco greco, dagli aromi che hanno risvegliato la mia più cupa dipendenza, interrompe questa sessione di araliki greco.

Sulle colline attorno a Drahma, vicino al teatro di Filippi, si coltivava tabacco: la grande ricchezza della regione fino agli anni sessanta. Durante il boom edilizio, vennero abbandonate le fabbriche che sorgevano in città. Nascevano farmacie e studi di dottori. Le piccole case neoclassiche venivano abbattute per costruire condomini in cemento armato. Un boom durato una decina di anni, fino a quando gli ingegneri non trovarono più le famiglie disposte a vendere un pezzo di terra in cambio di appartamenti lussuosi. Passando per il centro città, rimangono i cadaveri di questi edifici, chiusi con delle assi di legno marcite oppure convertiti in centri per lo shopping.

Le case indipendenti e gli appartamenti greci, sono costruiti con materiali spesso, preziosi; la moglie di un diplomatico britannico, ha la casa nella zona residenziale, la più bella della regione. Qui, tutte le case sono foderate in marmo di Carrara, in colonne doriche, in minimalismo chic. Così chic, che quelle case furono costruite poiché in una zona all’epoca di scarso valore. L’investimento ha portato i suoi frutti negli anni Novanta: erano diventate le case dei ricchi, poiché vicine ad una spiaggia incontaminata, che ne aveva fatto schizzare il valore alle stelle. Ora nessuno le può più mantenere. Sono vendute ai russi, ai tedeschi. Con scarsa sopportazione, e un filo di odio. La moglie del diplomatico ha una borsa di Michael Kors. E’ un lusso, per molti qui. Nessuna donna gira in Louis Vuitton, nessuna Audi ultimo modello sfreccia per le strade.

C’è un contenimento spasmodico su tutto. Una donna, al cui marito, guardia di finanza, sono stati decurtati cinquecento euro di stipendio al mese, continua a ripetermi che: “Noi vogliamo essere come voi europei, abbiamo il complesso dell’Europa. Per noi è bella e di lusso la camicia di Zara, ostentiamo le possibilità che ci dà la vita, perché, cos’altro abbiamo?”.
Non è la prima persona che mi parla di “complesso dell’Europa”. In ogni istituto, sono appesi i corsi e le graduatorie dell’attestato “Proficency” di Inglese. La corsa all’imparare le lingue, segna la carriera di ogni cittadino. Un ragazzo delle superiori di Atene, parlerebbe meglio l’inglese di un universitario italiano.

A parte gli anziani, tutti parlano l’inglese fluentemente. Molti, visitano Roma. Tanti, detestano Atene. Ne criticano la sporcizia, la corruzione, l’immigrazione.
Ma guai, per le critiche dello straniero: scattano tutti in piedi, gli occhi lampeggiano. Solo il greco, può detestare e criticare il proprio Paese. Solo lui lo può mettere a processo, decretarne le crudeltà e condannarlo. Come il ferrarese con la sua città.

Mi alzo dal tavolo quando arriva lo scontrino. Viene portato sempre al tavolo. La legge vuole che gli esercizi commerciali emettano sempre le ricevute. Se il cliente non riceve “il conto”, può non pagare ed andarsene.
Gli anziani lanciano le pedine al tavli e mi fissano senza imbarazzo: tanto loro, si schioderanno di lì solo per pranzo.

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la taverna ‘Araliki’

Araliki è un termine rude usato per indicare il rilassarsi. C’è anche un locale, nella città vecchia, che si chiama così. È una taverna, sulla cui tettoia vi è, evidentemente, un posto riservato a pochi eletti.
Sono proprio qua davanti a riprendere fiato. Nascosta sotto l’ombra del portone dell’Imaret. Qui, nella città vecchia, dove tutto torna ad essere una salita, lo spettacolo è irreale. E’ mezzogiorno, ci sono 33° e il silenzio regna sovrano. Non viene interrotto neppure dai tedeschi in vacanza. Anche loro passeggiano con la bocca sigillata.

Le case turco-egiziane, sono dipinte in colori brillanti, ma molte sono abbandonate. Rimangono così dei muri scrostati, con piani sorretti da tremolanti pali in legno. Sotto l’architrave di alcuni ingressi, si possono trovare delle croci nere, bruciate sulla calce bianca: con un brivido, ricordo che sono state apposte per scacciare il diavolo.

L’Imaret, invece, non posso dire se è bello o brutto. Lo hanno trasformato in hotel dei privati egiziani, dopo un lungo contenzioso. Ora, lo possono vedere solo i ricchi clienti, lasciando cinquecento euro a notte. E’ una struttura egiziana, color pesca, con tante cupole. Una volta in ogni cupola, vi era una stanza. In ciascuna di essa abitava una famiglia greco-ortodossa: i rifugiati dalla Turchia, con i loro grembiuloni neri. Ora, in ogni cupola, vi è una camera singola e letti candidi come la neve. Dove una volta sorgevano minareti, ora rimane il vuoto, la scogliera, il mare al di sotto.

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scogliera

Più in alto, rimangono una chiesa ortodossa ed una lunga discesa che parte da un campo scuola spelacchiato. Gli anziani scendono due, trecento gradini, con cappellino e telo sotto braccio. Poi vanno a nuotare, a pescare polpi.
Le chiese ortodosse sono sempre piene di fedeli. La spiritualità è per molti dono innato, tempra l’animo. Ai sacrari, per esempio, c’è chi piange, chi appoggia la testa alla vetrina, chi rimane immobile e con lo sguardo vuoto.

Io penso allo sguardo vuoto del bambino che ha cercato di vendermi le rose a piazza Aristoutelous a Salonicco. Mia zia non ha voluto dargli dei soldi, e lui se ne è andato ondeggiando, con le mani sui fianchi. Era un bambino greco.
Ed io, ora, sono sulla corriera che mi porta a casa, anzi no, sono già a casa, ma vedo ancora il cartello stradale nostalgico con la scritta: “Kostantinopolis – 680 km”. Lo vedevo dal finestrino del pullman, ricordavo il patriarca ortodosso che predicava come Istanbul fosse dei Greci di diritto e mi si ferma il respiro perché, a volte, non è vero che il tempo non passa mai.

LA STORIA
Lady Pink forever

Lady Pink, nome d’arte di Sandra Fabara, è nata ad Ambato, in Ecuador, nel 1964, ed è cresciuta a New York, fin dall’età di 7 anni (arrivata nella Grande Mela con la madre e la sorella, fa parte di quegli emigranti di prima generazione, come ricorda lei in alcune interviste). Ha iniziato a dipingere vagoni della metropolitana nel 1979, dopo la perdita del suo ragazzo, mandato a vivere a Porto Rico dopo che era stato arrestato. Sandra aveva esorcizzato il grande dolore diffondendo il nome del suo ragazzo per tutta la città, come se fosse un’etichetta da stampare e imprimere sui muri. Poco dopo, aveva iniziato a firmarsi come Lady Pink, nome legato alla sua passione per le storie romantiche e a lieto fine, per l’Inghilterra, il suo periodo vittoriano e l’aristocrazia.

lady-pinklady-pinkLady Pink ha studiato alla High School of Art & Design di Manhattan, dove ha iniziato a conoscere il favoloso mondo dei graffiti, e dopo che aveva cominciato a scrivere fin dall’età di 15 anni. Ha colorato i treni della metropolitana di New York, dal 1979 al 1985. Negli anni Settanta, poche donne si dedicavano all’arte dei graffiti (tanto più che, all’epoca, avevano ancora un ruolo da rivendicare) e per questo motivo fu presto definita come la “prima donna dei graffiti”.
Nel 1980, partecipa all’evento newyorchese “Gas: Graffiti art success”. Giovane, alla mano e una delle poche donne di quel mondo colorato, Lady Pink diventa presto una delle artiste di graffiti più fotografate e intervistate dell’epoca. Nel 1983, appare in teatro, nel ruolo di Rose, nel film hip-hop Wild Style, di Charlie Ahearn. Grazie a esso diventa un’icona della cultura hip-hop. Nello stesso anno, lavora a una serie di grandi dipinti con Jenny Holzer, espone con artisti come Keith Haring e Jean-Michel Basquiat, incontra Andy Warhol.

Fin dalle scuole superiori espone nelle gallerie d’arte e, a soli 21 anni, allestisce la sua prima mostra personale, “Femmes-Fatales”, al Moore College of Art & Design di Philadelphia.
Dal 1987, Lady Pink prende la distanza dall’arte di strada ma vi ritorna nel 1993, quando conosce il futuro marito, l’artista leggendario e stravagante SMITH, con il quale collabora nella realizzazione di murales e di opere a carattere più commerciale. Quasi in simbiosi.

lady-pinklady-pinkI suoi dipinti, che spesso contengono ancora immagini dei treni della metropolitana di New York (ricordo cui resta molto affezionata), sono stati ampiamente esposti negli Stati Uniti e all’estero. Come esponente dell’arte dei graffiti, molte sue creazioni sono entrate a far parte d’importanti collezioni d’arte del Whitney Museum of American Art, del Metropolitan Museum of Art di New York, del Brooklyn Museum e del Groningen Museum of Holland. I collezionisti sono spesso alla ricerca delle sue belle opere, considerate sempre più preziose.

lady-pinkOggi, Lady Pink continua a creare nuovi dipinti su tela che esprimono la sua unica e originale visione personale e gestisce una piccola azienda con il marito, creando enormi opere in giro per New York. Mobilita gli artisti per donare arte pubblica nelle comunità culturalmente trascurate, e condivide i suoi quasi trent’anni di esperienza tenendo seminari e lezioni sui murales ad adolescenti e studenti universitari. Cerca pure di dire ai bambini che si sta lavorando anche per loro e con loro, e di spiegargli quanto sarà meraviglioso e sorprendente crescere.

LA RIFLESSIONE
Il cibo e la politica

L’abbinamento cibo-politica sembra ormai un dato acquisito con tutto il senso un po’ untuoso o appiccicoso delle performances più note: dalla mortadella in parlamento, ai cibi grevi scambiati in piazza a Roma ai tempi di Alemanno sindaco, ai gelati offerti coram populo dal presidente del Consiglio attuale. Non dimentichiamoci che in questa stagione del nostro scontento è d’obbligo il rifugio in sagre, incontri mangerecci plurimi dove si spettacolarizza di tutto e di più: pesce, carne, anatre, tartufi, “pinzini” richiestissimi ancora, come ai miei tempi, nelle feste dell’Unità dove volonterosi volontari stringono mani e abbondano in sorrisi al politico di turno per cui diventa obbligatorio da parte di quest’ultimo soffermarsi negli stand in cui si cucina. L’ossessione attuale e mediatica che fa leva sull’istinto primario del cibo sembra adombrare l’angoscia di una reale minaccia per cui il cibo non sarà più scelta e attrazione ma unicamente bisogno non sempre soddisfatto: la spesa degli italiani in default. La televisione d’altra parte, spettacolarizza i master chefs proponendoli come divinità padrone del destino umano. Anche chi vi scrive ha le sue colpe (o i suoi meriti) essendo stato per anni socio della prestigiosa e antica Accademia della cucina italiana per la quale ha ripubblicato testi rinascimentali di cucina e divagato anche sulle proprietà e nascita nientemeno che della salama da sugo oggi orrendamente chiamata con un ipercorrettismo degno di miglior causa “salama da succo” (brrr…). Poi il destino e le scelte lo hanno di fatto allontanato dai profumati pranzi e cene per avviarlo più convincentemente verso i banchetti della mente; quei simposi dove il cibo intellettuale, direbbe Dante, è il “pan degli angeli”.

Torniamo all’importanza del cibo in politica. Ieri una “Amaca” di Michele Serra su “La Repubblica” parla di questa metaforica sazietà del cibo abbinato alla politica che si conclude con una riflessione non solo letterariamente bella ma che ci induce anche ad assaporare un retrogusto di sazietà che fa bene a un’etica della politica. Scrive Serra che il connubio politica – cibo “lascia perplessi” proprio per l’abuso della “promiscuità tra microfono e pistacchio, tra discorso programmatico e brodo, un sentore di macchie d’unto sulle austere carte, di briciole sulla cravatta, e un’ostentazione pubblica di allegro appetito non è neanche tanto opportuna, via…”

Dunque se non è più tanto sollecitante scoprire come in segreto si mangino torte tra i politici, anzi, che la gravezza del post -prandium potrebbe essere solo riscattata dalle passeggiate che il commissario Montalbano fa fino al faro per digerire così , come in un transfert, lo scrittore Camilleri rinuncia alle sue fantasie mangerecce per affidarle al suo personaggio il quale alla fine proprio per quelle scorpacciate riporta la moralità e la giustizia là dove sono state offese e irrise.
Questo succede anche alla politica politicante? Lascio al lettore il giudizio.

Mi arriva appena edito un volumetto di un caro amico, lo scrittore Hans Tuzzi che è diventato famoso per i suoi romanzi polizieschi e per le inchieste condotte dal commissario Melis che lo hanno fatto conoscere al grande pubblico ma che è anche autore di un importante romanzo di natura etico-politica Vanagloria ambientato nella “Milano da bere”. Il titolo del libriccino è Zaff&rano e altre spezie, editore Slow Food, quindi in regola con l’attuale mania del cibo. Eppure questo racconto complesso e affascinante fa del cibo non qualcosa che lascia il sapore di unto sui vestiti e in bocca ma si rivela una lirica evocazione affidati a due “djinn dei deserti” due Folletti che si chiamano Zaff e Rano. La storia di questa spezie si affida alla rivelazione della prozia Augusta, unica e somma ministra dei misteri della cucina. Il cibo diventa dunque la possibilità di un’evocazione lirica che traduce in parole sapori e memorie. Bellissimo! Le tradizioni materne della cucina austriaca e paterne italiane si fondono e diventano quella “passione civile” assente nella casa dell’autore ma che l’autore oggi rivive proprio alla luce del racconto di memorie che sono, come ci è stato detto dai grandi scrittori non un fedele ricordo ma una menzogna letteraria. C’è un passo che spiega tutto questo e che vale la pena riportare. La memoria riporta alla mente (e alla scrittura) un’Italia diversa che l’autore ricostruisce ben sapendo che in quel caso non è quella della sua infanzia ma una finzione. Eppure quell’Italia anni Cinquanta: “ Aveva già come il seme la pianta, tutto il degrado etico civico culturale e ambientale che ci devasta oggi. Ma era l’Italia della mia infanzia, e se oggi le rimpiango entrambe – Italia e infanzia- sono consapevole di mentire a me stesso, perché è solamente nel mio rimpianto che la complice magia dell’inverno succedeva innocente e perfetta dell’assorta immobilità dell’estate”

Sapranno i politici locali e nazionali difronte a salama e “pinzin”, “taiadel” e “torta ad taiadel” capire e ritrovare il giusto rapporto tra politica e cibo?

Tanto è un maschio

Ho sentito spesso mamme riferirsi al loro bambino con l’espressione “tanto è un maschio”. La frase suona in apparenza come una svalutazione del maschio rispetto alla femmina. In realtà la frase e l’idea di differenza che la sostiene, pone il bambino fin dalla prima infanzia, in una posizione di superiorità, dispensandolo da certi compiti.
Occorrerebbe trattarlo come si tratterebbe una figlia. Soprattutto nel caso in cui si abbiano un maschio e una femmina è evidente la differenza che fanno sia le madri che i padri nel rapportarsi con uno o con l’altra. L’educazione è permeata da stereotipi culturali che condizionano il tipo di messaggio passato da una generazione all’altra. Basta osservare i giochi per le bambine e i bambini per accorgersi di quali significati veicolano gli uni e gli altri. I giochi per le bambine abituano a un gioco fin da subito più sul piano del simbolico, i giochi per i bambini coinvolgono di più solitamente il corpo e l’azione.
Ho ascoltato troppo spesso mamme mentre raccontavano di come chiedevano solo alla figlia femmina di sparecchiare dopo cena, lasciando andare il maschio a guardare la tv. Per poi stupirsi successivamente di come il figlio non le aiutasse mai in casa. Bisognerebbe insegnare l’uguaglianza nei diritti, ma soprattutto nei doveri fin da piccoli. Solo così si potrà far capire al figlio maschio fin da subito, ad esempio, che occuparsi della casa è una fatica che andrà condivisa con la persona che amerà.
Non bisognerebbe usare frasi come “non piangere che è da femminuccia”, perché così non si abitua il bambino a verbalizzare le emozioni e a saperci fare con esse da adulto. Possono crescere così maschi non in grado di manifestare le emozioni nel modo corretto fino ad arrivare a casi estremi in cui le emozioni vengono espresse attraverso atti violenti. È importante educare alla verbalizzazione fin dall’infanzia per non avere adolescenti incapaci di esprimere emozioni e di provarle oppure adulti non in grado di gestire la rabbia ad esempio.
Bisogna parlare coi figli e chiedere di parlare, non in modo intrusivo certo ma mostrando una disponibilità all’ascolto attivo. Non archiviare tutto con un «è un maschietto, certe cose se le tiene dentro». I pregiudizi sul maschile e femminile veicolano significanti che condizionano e strutturano il comportamento successivo. Occorre insegnare ad aprire un dialogo, a chiarirsi, a confrontarsi. Far capire com’è importante usare le parole, l’intelligenza, anche la furbizia, al posto della violenza. Spiegare come «stendere» una persona con un discorso, non con un pugno. E fare capire che la violenza si combatte con il dialogo, con le domande, con la comprensione, non con altra violenza. Altro punto fondamentale è il posto dato al figlio all’interno della famiglia. Il figlio maschio non può essere messo, come spesso purtroppo accade, al posto dell’uomo: non è un fidanzato o un marito. È un figlio, e un giorno dovrà andare via e amare altre persone. Bisogna spingerlo ad andarsene un pochino ogni giorno. E’ sicuramente emozionante sentire il tuo bambino che ti dice «ti amo», ma poi, ad un certo punto, dovrà dirlo ad un’altra persona. E non potrà cambiare improvvisamente: dovrai essere tu, mamma, giorno dopo giorno, a fargli capire che c’è un mondo là fuori che aspetta lui e tutto il suo affetto. Una madre non deve apparire perfetta agli occhi del figlio, perché non lo è e non lo deve essere, anche perché altrimenti il confronto con le altre donne diventa sempre perso in partenza perché mai nessuna sarà all’altezza della MAMMA. Le nuove famiglie pongono altre questioni che rimando ad un prossimo articolo.

Chiara Baratelli, è psicoanalista e psicoterapeuta, specializzata nella cura dei disturbi alimentari e in sessuologia clinica. Si occupa di problematiche legate all’adolescenza, dei disturbi dell’identità di genere, del rapporto genitori-figli e di difficoltà relazionali.
baratellichiara@gmail.com