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Il web e le nuove forme
di partecipazione
alla vita pubblica

Nelle reti sociali gli individui costruiscono la propria identità anche esprimendo punti di vista e posizioni su temi che investono la vita pubblica. Il web è un grande palcoscenico, uno spazio che definisce un immaginario collettivo, un luogo popolato di oggetti che raccontano le nostre visioni del mondo. Come i muri delle città sono popolati di simboli che delineano lo scenario in cui abitiamo, così le pagine della rete, propongono e manifestano contenuti e immagini che assurgono al ruolo di simboli con cui identificarsi.
Le tecnologie digitali hanno contribuito a determinare un’ibridazione tra la sfera pubblica e quella privata, delineando uno spazio di contiguità tra i due campi che hanno in comune azioni e battaglie per il riconoscimento, a partire dal riconoscimento di sé come individui. Nel web si costruiscono nuovi modi di cittadinanza in senso lato: la socialità contiene una intrinseca dimensione normativa, propone modelli di identità e modi di abitare il mondo. Tutto ciò cambia la vita pubblica? E come? Accenno a quattro punti.
La prima tendenza, di lungo periodo, è la tendenza alla disintermediazione. Internet offre la possibilità di scavalcare i canali tradizionali della formazione di opinioni, saltare la mediazione di apparati istituzionali e strutture di partito e di costruire relazioni dirette tra gli attori politici e cittadini. L’accesso dei cittadini alle reti comunicative non implica, però, una effettiva possibilità di partecipazione ai processi decisionali e deliberativi.
La seconda tendenza riguarda il rapporto tra informazione e formazione del giudizio. La discussione in rete si svolge all’interno di gruppi assai meno aperti di quanto un giudizio superficiale farebbe pensare. È vero che si creano forme di mobilitazione di tipo orizzontale e che il web consente l’espressione di opinioni alternative rispetto ai gruppi dotati di maggiore peso. Tuttavia, in rete si va alla ricerca dei propri simili: la costruzione di gruppi di affinità e interesse identifica uno degli effetti principali dei social media. Spesso all’interno dei social si riproducono gruppi già esistenti nella vita reale. Le discussioni in rete su temi politici rispondono a logiche di comunità, all’esigenza di avere conferme piuttosto che di trovare antagonisti che le smentiscono. Questo spiega il rinforzo reciproco che le discussioni propongono o, al contrario, la totale impermeabilità delle posizioni.
La terza riguarda la carica emozionale implicita nella viralità. La condivisione in pubblico delle opinioni segue le logiche della viralità. Se migliaia di persone inviano un articolo ai lori amici per mail, se mettono il link su piattaforme di social network e spingono amici a condividerlo a loro volta, l’articolo diventa virale. Che cosa spinge alla viralità? Ciò che rende virale, ad esempio, un video o una immagine, è la risonanza emotiva, la capacità di suscitare emozioni forti: collera, paura, dolore, gioia. In questa condivisione è contenuta ben poca razionalità. La rete opera sulla base di istanze prevalentemente emozionali. Inoltre la condivisione esprime sempre una strategia di gestione della propria immagine, così tendiamo a selezionare contenuti che ci rappresentino. Accanto alla ormai nota e universale pratica del selfie, il ritratto di noi stessi, si afferma il shelfie, l’immagine metaforica della nostra libreria, che si compone attraverso la dichiarazione dei nostri riferimenti culturali e ideali.
La quarta riguarda il mito della trasparenza. Il web può consentire una maggiore diffusione delle informazioni sui contenuti implicati nelle decisioni, ma di per sé non implica una maggiore trasparenza nel processo decisionale e, soprattutto, non sostituisce la necessità di solide competenze per l’istruttoria rispetto a temi sempre più complessi.
Quattro questioni solo accennate che meriterebbero di essere discusse, certo per un ripensamento serio dell’idea di spazio pubblico, anche in relazione al web, ma sfatando alcuni stereotipi e nuovi luoghi comuni.

Maura Franchi (sociologa, Università di Parma) è laureata in Sociologia e in Scienze dell’educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Marketing del prodotto tipico, Social Media Marketing e Web Storytelling. I principali temi di ricerca riguardano i mutamenti socio-culturali correlati alle reti sociali, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@gmail.it

Don’t stop the music! Oggi per RockaFe dalle 17 alle 24 una maratona musicale non stop con le migliori band ferraresi

da: staff RockaFe

Don’t stop the music! E’ il grido che parte unanime dalle band che si alterneranno sul palco di RockaFe per una maratona senza pause dalle 17 alle 24 dopo l’indovinata ed apprezzata parentesi della Macchina del Tempo. A dare il fuoco alla miccia saranno i Maniax N’90. Provenienti da Argenta e dintorni, i cinque musicisti insieme dal 2010 che rispondono ai nomi di Giulio Verlato alla voce, Diego Montanari e Michele Checcoli alle chitarre, Elia Casoni al basso e Roberto Toschi alla batteria propongono un’interessante produzione inedita di ispirazione metal rock.
A seguire i Royal Guard di Lugo. La band HARD ROCK ravennate è composta da Mattia, Diego, Davide, Taba e Simo. Dopo un’avventura punk rock durata circa una decina d’anni tra svariati palchi italiani ed europei, decidono di rimettersi in gioco intraprendendo un nuovo percorso musicale che prenderà sempre più forma orientandosi verso uno stile Hard Rock Blues, sempre con brani di propria produzione.
A prendere il testimone saranno poi i Freeraggio di Pieve di cento. Nell’estate del 2012 esce il loro album SKY HI-FI, un lavoro di 13 tracce naturalmente tutte inedite, autoprodotto. Alla base del nuovo progetto c’è l’idea di provare ad unire la psichedelia degli anni ’70 (Pink Floyd, etc) con sonorità della vecchia e nuova elettronica avventurandosi in una fuga dalla realtà, in un viaggio nel profondo spazio alla ricerca dell’ignoto che c’è dentro ad ognuno di noi. Il nuovo corso dei FREERAGGIO vede alla voce Selene Recca, alle chitarre Andrea Cludi, al basso Alberto Banzi, alla batteria Alessandro Gallerani e, solo in studio, synth e sequenze Tiziano Marchetti. In cantiere un nuovo album con sonorità molto più vicine al blues con piccole virate verso il funk sempre condite con abbondante elettronica.
A seguire i Liquid Shades da Ferrara. Il progetto nasce nel 2007 con l’intento di formare una band per comporre brani inediti ispirandosi al rock progressive anni ’70 unendo al contesto sperimentazioni più moderne e psichedeliche. Dal 2009 la band ha all’attivo due EP autoprodotti contenenti 4 brani inediti ciascuno e una lunga serie di date live in tutta la provincia di Ferrara spostandosi spesso anche in Veneto e nel bolognese. Propongono un repertorio di brani inediti composti e arrangiati autonomamente, e una serie di cover di artisti quali PFM, King Crimson, Jethro Tull, Genesis e altri. Il cospicuo line up è composto da Marco Gemetto alla chitarra e voce, Matteo Tosi alla voce, Enrico Taddia al basso, Lorenzo Checchinato al sax e corno, Emanuele Vassalli al piano e sintetizzatori, Diego Insalaco alla chitarra e tromba, Guglielmo Campi alla batteria ed infine Donato di Lucchio al flauto.
Toccherà poi all’energico e coinvolgente pop rock dei bolognesi Morgana proseguire la lunga maratona di questa ventunesima edizione di RockaFE, come sempre nel Parco della Fondazione F.lli Navarra a Malborghetto di Boara, quest’anno in una nuova veste più intima e raccolta. Già ospiti della manifestazione e vincitori del premio rete Alfa nel 2010, sono Marco Poli chitarra e voce, Giuseppe Capriati alla batteria, Luca Noferini alle chitarre e Marco Mirri al basso.
In chiusura i concittadini Label 27. Il gruppo di recente formazione nasce, come spesso accade, come cover band per poi avvicinarsi alla produzione di brani propri. D’ispirazione rock classica, aggiungono ai loro lavori sonorità più moderne, sapienti pennellate di punk, tocchi più heavy e testi introspettivi. Intensa l’attività live dl quartetto che è composto da Mattia Negrelli alla chitarra, Andrea Macchioni alla batteria, Maria Claudia Farina al basso e Tommy Civieri alla voce. Tutti gli aggiornamenti su www.rockafe.it e su tutti i social.

Il Palio di Ferrara: una gara, un’emozione, uno spettacolo

da: ufficio stampa Ente Palio città di Ferrara

Un Palio bello e colorato, che non ha mancato di dispensare emozioni e colpi di scena quello appena conclusosi a Ferrara. Soddisfatti gli organizzatori, sia per il risultato di pubblico che per la bella festa offerta e vissuta. Gremite in ogni ordine di posti le tribune in Piazza Ariostea, con qualche spettatore che è persino rimasto senza poltroncina: a questi l’Ente Palio rimborserà l’acquisto del tagliando non utilizzato e regalerà un biglietto per la prossima edizione della manifestazione.
Emozioni senza soluzione di continuità nell’Anello dunque: dopo il Corteo delle Contrade, la premiazione di Borgo San Giovanni e Rione Santa Maria in Vado rispettivamente per il Premio Visentini (per il miglior Corteo) e il Casati (per il miglior Spettacolo di Corte) , il Palio ha ricevuto il premio per la 22esima tappa del Giro d’Italia in 52 weekend, promosso da weekendagogo.it.
Nella gara dei putti per il palio di San Romano, la vittoria è andata a Borgo San Giovanni con Matteo Ferroni, che dopo aver recuperato l’avversario di Rione San Benedetto, Dario Berveglieri, ha dominato nei due giri di pista senza particolari incertezze, portando al popolo “della Lince” il 42 Palio.
Avvincente la corsa delle putte, vinta da Borgo San Giorgio – che porta a casa il suo primo Palio di San Paolo dopo 46 anni. L’atleta con la casacca giallo-rossa, Polina Grossi, ha saputo difendere bene la sua pole position, mantenuta per quasi l’intera gara ma contrastata da Caterina Mangolini di Borgo San Giovanni che, dopo l’ultima curva, ha tentato la rimonta mollando solo negli ultimi 15 metri di gara.
La corsa delle asine, vinto dal Rione di San Benedetto con Laura Zanghirati su Santino Rocchitto, ha riservato emozione e …. attesa. Dopo 6 false partenze la diciassettenne staffiera biancoazzurra si è portata in vantaggio e ha saputo amministrare la gara, resistendo ai tentativi di Francesco Ferrari su 100lire per Santa Maria in Vado di passarle avanti. Alla fine del secondo giro di pista 100lire si è praticamente fermata e la Zanghirati ha potuto tagliare il traguardo in tranquillità. “E’ una ragazza straordinaria – ha raccontato Luca Accorsi, massaro di Rione San Benedetto – Fa le gare di pony game e ha fatto un mese di allenamento sul somaro con una passione tale che questa vittoria è davvero tutta sua. Se ce ne fossero di più di ragazze determinate e speciali come lei il mondo sarebbe un posto diverso.”
Dopo la dovuta pausa per riassettare la pista per la gara dei cavalli, sono state estratte le palline per l’ordine della mossa e si è corsa la competizione più attesa, quella per il palio dorato di San Giorgio. Il mossiere Gennaro Milone non ha avuto particolari problemi di disciplina nel gestire la mossa: gli otto cavalli sono partiti senza alcuna falsa partenza e ad avere da subito la meglio è stato “Grandine”, al secolo Sebastiamo Murtas, su Novanta. Il ventiquattrenne di Ghilarza (OR), fantino con un curriculum “di rispetto”, ha portato a Rione San Paolo il primo palio di San Giorgio dal 1987.

L’obiettivo del marziano

Lo guardavano come un marziano, lo guardavano da sotto i portici di piazza San Pietro, dove avevano trovato riparo dal temporale. Tutti a cercare di capire cosa ci faceva quell’uomo armato di macchina fotografica sotto la pioggia, cosa trovava di così interessante in quelle pozzanghere, che indagava chinandosi, girandovi attorno e scattando come fosse ispirato da visioni invisibili agli occhi altrui. Performance o follia? Né l’una nell’altra, bensì il lavoro di un artista fotografo, Adolfo Brunacci. Ha scattato 500 immagini, novanta delle quali raccolte in un libro da cui prende il nome la sua mostra “Rumon – all’inizio fu l’acqua’, in svolgimento dal 4 giugno al 4 luglio allo stadio Domiziano di Roma. I trenta scatti in esposizione sono un omaggio alla bellezza, un esercizio di stile sui riflessi restituiti dalla pioggia imprigionata nei tanti avvallamenti delle strade e dalle fontane romane. Alla fisarmonica di Daniele Mutino è stata affidata l’inaugurazione (alle 18.30 del 4 giugno), le note del compositore, diffuse in uno degli spazi archeologici ed espositivi tra i più suggestivi della città, collocato proprio sotto la più moderna piazza Navona, sono il preludio di un viaggio per immagini dalle quali emerge lo splendore eterno dell’Urbe sottolineato, a tratti, dai versi della poetessa Luci Zuvela.

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Il fotografo Adolfo Brunacci

Brunacci racconta una città senza tempo, cresciuta intorno all’acqua del Tevere, illuminata da una luce speciale, unica al mondo. “Ho fatto chilometri a piedi aspettato il momento giusto per cogliere tra la pioggia e le improvvise schiarite il lato estetico più affascinante. Dentro a una pozza c’è un mondo, c’è il viaggio di un viandante allo scoperta di Roma”, racconta Brunacci, toscano d’orgine romano d’adozione, abituato per anni a costruire in studio immagini che gli hanno fruttato l’etichetta di fotografo pittorealista – surrealista, definizioni coniate dalla critica specializzata per descriverne le opere. Ma è passato tanto tempo da allora e lui, chi lo conosce sa, è un artista ‘in progress’ e a piedi. Pronto a fare chilometri per carpire segreti on the road. “Da allora il mio modo di fotografare è cambiato, l’estetica resta l’obiettivo della ricerca, ma tutto si è spostato sulla strada – spiega – Un tempo fotografavo quello che pensavo, ora quello che vedo”. Per Brunacci, conosciuto nel mondo della foto ‘glam’ italiana e straniera, della pubblicità, per anni firma di punta di Playboy con una solida esperienza di graphic design e video clip, la macchina fotografica resta il mezzo per creare quello che il cuore, la mente e la cultura riescono a plasmare. Ieri come oggi.

“La mostra, tratta dal libro arricchito dalle poesie di Luci Zuvela, che hanno saputo richiamare la voce antica del Tevere e le sue leggende, racconta la parte migliore di Roma – spiega – Le buche, della cui mancata manutenzione i romani sono i primi a lamentarsi, assumono un significato diverso. Sono mondi a se stanti, da esplorare, da inquadrare e fermare in un gioco di luce e stati d’animo”. In poche parole, bisogna saper cercare la bellezza nei luoghi inaspettati. Roma è ricca di spunti, carica di contraddizioni, popolata dalle etnie più diverse, animata dalle più strane proposte e contemporaneamente stritolata tra nuove e vecchie povertà che, neanche a farlo apposta, vivono in strada. Il regno creativo di Adolfo Brunacci da tempo impegnato nel declinare i tanti volti di un progetto di cui “Rumon- all’inizio fu l’acqua” è il primo tassello. Di strada.

Ferrara, piccolo viaggio
nella geografia del Palio

Il visitatore che in questi giorni attraversa la città di Ferrara trova bandiere di colori diverse appese sui palazzi publici e privati, lungo le vie del centro e in quelle un po’ più periferiche. Sono le bandiere delle contrade del Palio. L’evento – in città molto sentito, ma magari meno celebre di altri analoghi – vanta il primato mondiale storico tra queste antiche gare. La prima corsa di fanti e fantesche, somari e cavalli per le vie della città risale infatti al 1259, mentre quello di Siena ha probabili origini tardo-duecentesche, ma è nel 1656 che viene preso in carico dal Comune senese in maniera sistematica.
Ma perché a Ferrara in piazza del Duomo sventola la bandiera giallo-viola con l’unicorno, mentre nella confinante piazza Municipale è issata la bandiera bianco-nera con l’aquila? Per il Palio, il territorio della città di Ferrara è diviso in otto quadranti: corrispondono ai territori delle contrade e ognuno contiene un pezzettino di storia. I quattro quadranti che si trovano tutti all’interno delle mura della città sono i “rioni”, mentre sono chiamati “borghi” quelli fuori dalla cinta muraria. Ecco la mappa, percorsa da nord ovest in senso orario.

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Mappa delle contrade del Palio di Ferrara

Rione San Benedetto. Colori bianco e azzurro per la contrada che abbraccia il territorio cittadino, che va dai confini nord delle mura cittadine fino alla Porta degli Angeli, chiusa a est da corso Ercole d’Este e a sud dall’asse di viale Cavour. L’impresa è quella del diamante sull’anello episcopale, avvinghiato da due foglie di garofano rosso. Adottato da Ercole I, simboleggia la potenza raggiunta dagli Estensi attraverso la politica matrimoniale e il legame con lo Stato Pontificio.

Rione Santo Spirito. Giallo e verde per la contrada che rientra nel territorio dell’Addizione Erculea con il fulcro della festa nella sua piazza Ariostea, dove vengono corse le gare del Palio di Ferrara. Il confine sud è segnato da corso Giovecca. L’impresa è quella della granata svampante, il proiettile, simbolo guerresco di Alfonso I.

Rione Santa Maria in Vado. Giallo e viola per la contrada che occupa un quarto della città entro le Mura, tra il centro con il Duomo e tutte le vie acciottolate della parte medioevale. L’impresa è quella dell’unicorno, animale mitologico raffigurato nell’atto di purificare le paludose acque ferraresi con il suo corno miracoloso.

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Unicorno della contrada di Santa Maria in Vado

Rione San Paolo. Bianco e nero per il territorio della contrada, che si sviluppa intorno al castello estense. Arriva fino al confine sud del porto fluviale di via Darsena e delle mura di Rampari di San Paolo, dove è il Museo dell’ebraismo e dove si affacciano i parcheggi ex Mof e quello di viale Kennedy. L’impresa è quella estense dell’aquila sulla ruota.

Borgo San Giacomo. Blu e giallo sulle bandiere di questa contrada, che ingloba la parte interna delle mura del vecchio Acquedotto e una vasta zona periferica che va fino all’antico borgo di Mizzana. La sua impresa è un’aquila bianca, stemma originario degli Este.

Borgo San Giovanni. Il rosso e il blu sono i colori della contrada, il cui territorio si estende verso nord est al di fuori delle mura cittadine, spingendosi fino al confine dell’area comunale. L’impresa è quella della lince bendata: l’animale simbolo della vista acuta è emblema del primo vero principe estense, Niccolò III, morto avvelenato; suo figlio Leonello ereditandolo vuole rappresentare l’animale con la benda in omaggio al padre e alle sue idee inascoltate.

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L’idra, impresa della contrada di San Giorgio

Borgo San Giorgio. Rosso e giallo per il territorio fuori dalle mura, che è stato il fulcro iniziale della storia cittadina. Come impresa, la mitologica idra: mostro dalle sette teste draghesche che si contorce nel fuoco.

Borgo San Luca. Rosso e verde per il territorio di uno dei primi nuclei di insediamento sul ramo del Po che attraversava Ferrara. L’impresa è quella dello steccato detto anche “pararuro”: una zucca avvolta e legata a fior d’acqua allo steccato, con la funzione di idrometro per indicare ai guardiani il livello delle acque.

Stemmi e mappa de Palio – che si corre oggi in piazza Ariostea – sono tratti dal sito ufficiale www.paliodiferrara.it

Gli Estensi e il territorio:
le bonifiche del ‘400 preludio
al trionfo dell’agricoltura

AMMINISTRAZIONE DEGLI ESTENSI A FERRARA/1

A partire dall’epoca di Leonello (1441-1450) e Borso d’Este (1450-1471), la spaventosa contingenza demografica ed economica che attanagliava l’intero Ducato di Ferrara cominciò a segnare un’inversione di tendenza. Ma già dal dominio di Nicolò III (1402-1441), gli Estensi, mediante la concessione gratuita di zone incolte e paludose a importanti famiglie (loro fedeli) di area locale, avevano dato l’avvio alle bonifiche e alla valorizzazione del territorio ferrarese. Con le famiglie insediate nelle possessioni, gli Estensi mantennero rapporti consuetudinari, salvo il fatto che questi coloni da loro direttamente nominati godevano di vari privilegi fiscali. Lo stesso Borso promulgò nel 1456 gli Statuti, pubblicati a stampa vent’anni dopo, che regolavano le caratteristiche del rapporto fra i coloni e i proprietari.
Nella seconda metà del Cinquecento, le campagne si presentavano ben ripopolate e la città, sotto la reggenza di Alfonso II, registrò una invidiabile espansione demografica che portò al numero di 30.000 circa gli abitanti. Tuttavia, a fine secolo, una tremenda carestia mise a nudo la fragilità di quell’agricoltura premoderna di fronte alle avversità climatiche. Comunque, la congiuntura “positiva” era ormai innescata e la crescita della domanda provocata dall’incremento demografico suscitava molteplici opportunità di arricchimento, con il conseguente aumento dei prezzi dei terreni agricoli.
«I documenti del tempo, e in particolare gli atti dei notai ferraresi documentano assai bene l’emergere di un nuovo ceto di uomini d’affari che investono nella terra i loro capitali e di imprenditori, talvolta dalle umili origini, che assumono la conduzione in affitto di possessioni e di castalderie del patriziato cittadino o dei maggiori enti ecclesiastici […]. Un ceto di affittuari, composto da fattori arricchiti, da mercanti cittadini, da commercianti di grano e di seta, da pescatori e usurai, da appaltatori d’imposte pubbliche, si lancia sulla terra per ricavare profitto dalla vendita dei suoi prodotti […]. Con gli inizi del secolo XVII in effetti è tutta la società rurale ferrarese ad avere cambiato fisionomia. La partenza degli Estensi per Modena non farà che rimarcare che la ricchezza di Ferrara risiede ormai quasi esclusivamente nelle sue fertili campagne»*.

*F. Cazzola, “L’agricoltura nel XIV-XVI secolo”, in F. Bocchi (a cura di), La storia di Ferrara, Poligrafici Editoriale, Bologna 1995, pp. 126-8.

Il rovescio delle storie

Rita Gabrielli prova a mettere sottosopra le facili convinzioni, quelle consolidate dai luoghi comuni più comodi. La raccolta di racconti Sottosopra (Festina Lente edizioni, 2014) della ferrarese Rita Gabrielli contiene dodici storie attraversate da uno sguardo che non smette mai di essere positivo, anche di fronte ai drammi.
Leggendo i racconti si percepisce il tentativo di fare incontrare poli opposti, come quando un sotto e un sopra si sfiorano.
“E’ così, ho provato ad affrontare le situazioni da un punto di vista non convenzionale, quello dell’altro, spesso dei deboli, degli anonimi. Credo non ci si debba mai fermare alla prima occhiata, il rovesciamento ci fa scoprire cose nuove e che le persone sono diverse”.
Le donne sono grandi protagoniste dei suoi racconti. Donne che riescono, alla fine, a prendere in mano la propria vita dal niente, avviare una trasformazione e sognare ancora. Come ci riescono?
“Sono donne solo apparentemente fragili, devono superare difficoltà e trovano sempre grande forza, spesso nell’aiuto degli altri. A portare mutuo soccorso sono altre donne e, non a caso, molto diverse, magari di altre culture, di altra estrazione. Nascono così incontri e osmosi nell’unione di vite distanti, ma che sanno capirsi”.
Racconti di fantasia o la realtà le ha dato qualche spunto?
“Ho messo insieme pezzi di realtà, fatti di cronaca, parte del mio vissuto, ricordi del passato, storie che mi sono state raccontate e soprattutto valori in cui credo”.
Alcuni valori emergono molto bene, come l’importanza dei legami familiari, l’attaccamento alle radici…
“Non solo, trovo importante il recupero della memoria che aiuta a non lasciare andare sempre tutto così in fretta e poi il valore del cibo che, per me, è un linguaggio, un modo per comunicare e per prendersi cura di sé e degli altri. Il mio intento, codificando tali valori semplici ma positivi, è lasciare un messaggio a chi è più giovane e sta vivendo immerso nella precarietà”.
Nei racconti, viene dato spazio anche al paesaggio. Che importanza assume?
“Il paesaggio è il nostro, quello padano e ferrarese a me molto caro. Accanto alla profondità dei sentimenti che ho voluto esplorare, il paesaggio rappresenta la parte esterna, il luogo dell’incontro fra le persone e della conoscenza”.

Nota sull’autore: Rita Gabrielli, 57 anni, una laurea in Lettere, lavora alle poste di Bologna. Sposata, ha un figlio di 33 anni, Marcello.

Dolore cervicale: spesso
la vittima è lo stomaco

Sappiamo che l’artrosi comporta una sofferenza di tipo degenerativo, ossia peggiora con il trascorrere degli anni e con l’avanzare dell’età; le cartilagini che ricoprono le articolazioni si logorano, i legamenti e le capsule che ricoprono le giunture (spalle, polsi, gomiti, anche, ginocchia e caviglie) s’ispessiscono e si induriscono. Uno dei punti che per primo accusa sofferenza è la colonna vertebrale. Tipica, in questo caso, è la localizzazione nella zona cervicale (che interessa, cioè, le articolazioni poste fra le vertebre del collo) con la presenza di sintomi anche neurologici come radicoliti e nevriti, tutte espressioni dello stiramento, dell’irritazione e della compressione dei tronchi nervosi che escono dal midollo spinale, tra una vertebra e l’altra. Si può a questo punto fare menzione ad un nervo particolare: il nervo vago. Il nervo vago è il decimo, il più lungo, il più ramificato dei nervi cranici ed è il principale componente della sezione parasimpatica del sistema nervoso autonomo. Il vago esce dal midollo allungato, attraversa il collo e il torace, raggiunge l’addome e invia rami alla maggior parte degli organi del corpo umano (la laringe e la faringe, la trachea, i polmoni, il cuore e buona parte dell’apparato digerente). Il nervo vago esercita la sua azione liberando una sostanza particolare chiamata acetilcolina che determina il restringimento dei bronchi e il rallentamento della frequenza cardiaca. Inoltre stimola la produzione dell’acido gastrico, l’attività della colecisti e la peristalsi, cioè i movimenti compiuti dallo stomaco e dall’intestino durante la digestione. Quando la funzionalità del nervo vago viene in qualche modo compromessa dalla presenza di un processo degenerativo articolare, come per esempio l’artrosi cervicale, può determinarsi una serie di sintomi che coinvolgono tutti i principali organi del corpo e che sembrano avere poco a che fare con una malattia delle articolazioni quale l’artrosi.

Ecco i sintomi imputabili al nervo vago:

NAUSEA – E’ un disturbo tipico, connesso alla degenerazione artrosica della cervicale, che colpisce spesso al mattino, appena svegli, e sembra più frequente durante i cambi di stagione, quando i disturbi come l’artrosi si fanno più frequenti e incalzanti. Non è connesso all’assunzione di cibo, anzi, in questi casi l’appetito non viene compromesso. Si associa spesso a salivazione abbondante (il vago stimola la produzione di saliva) e a un senso di oppressione alla nuca e alle orbite intorno agli occhi (perioculari).

ACIDITA’ DI STOMACO – Bruciori di stomaco e rigurgiti acidi sono spesso associati alla nausea e dipendono dall’aumento della produzione di acido gastrico da parte del vago.

ROSSORI IN VISO – Sono quasi sempre connessi alla sensazione di nausea e vengono originati dalla stimolazione del nervo vago causata da una compressione delle vertebre e delle articolazioni a livello cervicale.

CRAMPI – Tra stomaco e intestino tenue, sono da ricollegarsi all’aumentata attività del vago e anche della sua compromissione a livello cervicale.

TACHICARDIA – Il vago innerva il cuore e, se stimolato eccessivamente, può dar luogo a un aumento dei battiti che si traduce in una frequenza cardiaca superiore ai cento battiti al minuto.

DISTURBI DELLA DEGLUTIZIONE – Il fastidioso senso di “gola chiusa” deriva sempre dall’infiammazione del vago che innerva organi come la faringe e la trachea. Questo disturbo, insieme ai ronzii auricolari, alle vertigini e ai dolori alla nuca, è indice della cosiddetta sindrome di Neri, Barrè e Lioeu (dal nome dei tre medici che per primi la identificarono ) tipica nell’artrosi cervicale.

Con Listonemag in piazza
dal 5 all’ 11 giugno
un grande esperimento
di narrazione collettiva

da: responsabile comunicazione progetto Backup di una piazza

Una settimana per ascoltare, raccogliere, fotografare, filmare le storie dei ferraresi e della loro piazza: la redazione di Listonemag, da giovedì 5 a mercoledì 11 giugno 2014, si trasferirà nella piazza Trento e Trieste di Ferrara, sul listone da cui prende il nome, per mettersi a disposizione di chi vorrà contribuire a questo piccolo grande esperimento di narrazione collettiva, primo nel suo genere in città.

L’operazione sarà il cuore del progetto “Backup di una piazza”, vincitore del bando “Giovani per il territorio”, promosso dall’Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna, per la valorizzazione del patrimonio culturale e artistico locale. Obiettivo del progetto: raccontare la società che nel passato e nel presente ha vissuto e vive la piazza cittadina come luogo privilegiato d’incontro e di scambio.

Da febbraio a giugno la redazione si è impegnata in uno stimolante lavoro di ricerca storica, alla quale chiunque ha potuto contribuire inviando i propri ricordi o quelli della propria famiglia attraverso immagini e racconti. Adesso è il momento di occuparsi del presente! Durante l’intensa settimana che li aspetta redattori, fotografi e videomaker under35 di Listone Mag saranno impegnati a raccogliere e condividere le voci e i volti della piazza cittadina attraverso interviste e reportage, coinvolgendo passanti, turisti, lavoratori, studenti, musicisti di strada: tutto il variegato mondo che ogni giorno popola la piazza.

Peculiarità di questa iniziativa sono il coinvolgimento attivo della cittadinanza e la multimedialità. Sarà una “ricognizione” particolare, ricca di iniziative collaterali e collaborazioni, orientata a far dialogare passato e presente, listone fisico e Listone virtuale, vecchie e nuove tecnologie.
La classe 4 G del Liceo Scientifico Statale A.Roiti, coinvolta nel progetto, scriverà alcuni articoli; i ragazzi del workshop video realizzato nei mesi scorsi presso il centro comunale Area Giovani si occuperanno di svolgere originali produzioni audiovisive. Gli iscritti al corso di alfabetizzazione informatica “Pane e Internet” parteciperanno a un’originale lezione pratica per imparare a connettersi a “wi-fe”, la rete gratuita del Comune di Ferrara, supportati dagli adolescenti coinvolti nell’iniziativa.
La chiacchiera volatile della piazza sarà “cinguettata” attraverso il live tweeting, che sarà possibile seguire sull’account Twitter di Listone Mag o attraverso l’hashtag #backupdiunapiazza.

Chiunque potrà partecipare all’iniziativa con i propri racconti e i propri ricordi.
Listone Mag sarà sul listone tutti i giorni nei seguenti orari:

Giovedì 5, dalle 9 alle 13
Venerdì 6, dalle 17 alle 23
Sabato 7, dalle 9 alle 19
Domenica 8, dalle 9 alle 19
Lunedì 9, dalle 15 alle 19
Martedì 10, dalle 15 alle 19
Mercoledì 11, dalle 17 alle 23

A settembre l’intero percorso di backup sarà raccolto in una pubblicazione in duplice formato – cartaceo ed ebook – e presentato a settembre assieme a una mostra fotografica e a un evento di storytelling.

Partner del progetto: sono tante e diverse le realtà che hanno già voluto aderire al progetto: l’Istituto di storia contemporanea, l’Archivio comunale, le Biblioteche comunali, il liceo scientifico Roiti, il centro Area Giovani con il progetto Imagina(c)tion, i docenti e gli alunni del corso di alfabetizzazione informatica Pane e Internet, il comitato Commercianti Centro Storico.

Concerto verdiano
della mezzosoprano
che sposò Massari

Musica “a casa di…”. E’ bella questa idea del Conservatorio di Ferrara di abbinare un concerto di personalità legate alla città con le pareti di un luogo cittadino dove quei suoni in qualche modo hanno risuonato e vissuto. Oggi, in particolare, è più che mai attraente l’idea di potere ascoltare brani di una cantante che porta il nome di Maria Waldmann Massari. Maria, nata a Vienna nel 1844, è stata la mezzosoprano preferita di Giuseppe Verdi. La sua capacità di interpretazione era quella che al grande compositore piaceva di più per il ruolo di Amneris nell’Aida. Ed è proprio pensando ai ricchi colori del timbro di Maria, che Verdi compone l’aria del “Liber scriptus” del Requiem, da lei interpretato per la prima esecuzione nella chiesa di San Marco di Milano nel maggio del 1874, esattamente 140 anni fa, e scritto per celebrare l’anniversario della morte di Alessandro Manzoni.

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Maria Waldmann Massari

Cosa c’entrano con la città di Ferrara – verrà, però, da chiedersi – questa grande cantante di origine austriaca e il più celebre compositore italiano? Un indizio ce lo dà il cognome acquisito da Maria Waldmann che, dopo il matrimonio, prende anche il nome di Massari. A 31 anni una delle voci più importanti dei teatri europei esce di scena perché sposa il duca Galeazzo Massari. Si ritira e si trasferisce nel palazzo con il parco che porta ancora il nome della famiglia ferrarese, in corso Porta Mare. La casa dove Maria ha abitato per tutto il resto della sua vita e dove ha continuato a tenere rapporti e scrivere lettere a Giuseppe Verdi e a sua moglie è ora la sede dei musei civici di arte dedicati all’opera di Giovanni Boldini, Filippo De Pisis e dell’800. Le scosse del terremoto del maggio di due anni fa hanno reso necessari lavori di restauro nel palazzo che confina con il parco Massari. Per questo il concerto sarà nel salone del Museo archeologico. L’iniziativa, curata da Maurizio Pagliarini, è alle 17.30 di oggi – sabato 31 maggio – in via XX settembre 122. Un’occasione per ascoltare le voci e la musica del pianoforte delle allieve del conservatorio Frescobaldi e rivivere un pezzettino di una storia così importante eppure così intima, che la città ha accolto tra le mura di spazi domestici senza che tanti lo sapessero.

Il concerto è gratuito, ma l’accesso richiede il pagamento del biglietto del Museo.

Tipi di sinistra

Questo non è un commento sul risultato delle elezioni. Tanti ce ne sono già stati che credo abbiano ormai esaurito la materia: chi vince, chi perde, chi guadagna, chi arretra con tanto di flussi in ingresso e in un uscita e di motivazioni sociologiche volte a cercare di spiegare un fatto così eclatante.
No, qui vorrei cercare di seguire la traccia più debole e per ora, mi pare, quasi inesplorata degli effetti a caldo dei risultati elettorali sulle persone che compongono le varie anime del grande, variegato e storicamente litigioso popolo della sinistra. Trascurerò quindi le dichiarazioni dei leader, gente esperta a dissimulare ciò che non è bene traspaia, ma mi occuperò esclusivamente delle reazioni dei militanti e dei semplici elettori. Ovviamente non farò nomi e cognomi, ma quanto segue è stato ispirato dalle conversazioni reali e virtuali che ho avuto o a cui ho assistito in questi ultimi giorni.
Lo spettro di reazioni che ho avuto modo di cogliere è molto ampio, molto più di quanto l’eccezionalità dell’evento potrebbe far pensare. A prima vista infatti si sarebbe portati a ritenere che una vittoria elettorale con quasi il 41% dovrebbe mettere tutti d’accordo, ma in realtà non è per niente così. Cominciamo, così ce li togliamo di torno, con i due soli concetti comuni a tutti i commenti: lo stupore per le dimensioni del risultato, del tutto inaspettato, ed il senso di scampato pericolo se per caso avesse vinto il populismo. Di questo sono tutti più o meno esplicitamente grati al Pd, anche chi se ne colloca decisamente al di fuori.

Poi arrivano le differenze ed i distinguo più o meno sottili, fino a lasciar intravedere anche segni di reale disagio. Prima di addentrarmi nell’elencazione delle categorie che mi è parso di poter identificare, una premessa è comunque d’obbligo: le tipologie di reazioni che seguono hanno una consistenza numerica fra loro molto diversa ed alcune sono del tutto marginali. Ma qui, come detto, conta il campionario. Possiamo perciò identificare:
1. I soddisfatti senza se e senza ma. Nel Pd sono in massima parte sostenitori di Renzi fin dal congresso, se non prima; fra gli esterni al partito sono soprattutto coloro che mai avevano votato a sinistra.
2. Quelli del “troppa grazia Sant’Antonio”. Cioè quegli iscritti ed elettori del Pd che avrebbero sì voluto un’affermazione del loro partito, ma decisamente più contenuta di quanto non sia stato. Il timore per loro è che un successo così ampio possa indebolire le loro ragioni di opposizione al nuovo corso. Ad essi, animati da sentimenti pressoché analoghi, si aggiungono molti di quelli che hanno votato per la lista Tsipras.
3. I “grillini pentiti”. Persone che non hanno votato per il M5S (semmai si erano schierate entusiasticamente l’anno scorso) perché in profondo disaccordo con la linea portata avanti dai fondatori e che hanno invece votato per il Pd, per evitare che quella linea potesse affermarsi definitivamente. La loro reazione denota qualche senso di colpa rispetto al risultato che hanno contribuito a determinare, preoccupati che “il movimento”, che per loro continua a restare il partito politico di riferimento, possa risentire troppo negativamente della batosta subita.
4. Gli “antagonisti”. Quelli convinti che in realtà abbia vinto la Dc, anche perché solo la Dc in questo Paese può vincere con quelle percentuali, a cui la vera sinistra non potrà mai aspirare. Sono l’altra parte dei sostenitori della lista Tsipras.
5. I reticenti. Tipicamente preferiscono parlare d’altro e di solito commentano laconici con un “mah, vedremo”. Spesso sono persone in aperta rotta di collisione con il Pd di cui semmai hanno fatto parte fino a poco tempo fa. Si scorge nelle loro reazioni anche un celato dispiacere di non poter gioire per una vittoria così inusitata. Questo li rende a volta ancora più ostili nei confronti di chi adesso guida il partito.
6. Gli astenuti. Gente che non ha proprio votato, perché nessuna proposta li convinceva, ma che comunque ritiene che il risultato uscito dalle urne sia preferibile ad altri.
7. I grillini “di sinistra”. Sono quella parte di elettorato del M5S, di solito non attivisti, che ritengono che il movimento sia in realtà un’espressione della sinistra, nonostante le decise affermazioni di segno contrario dei suoi leader. Costoro hanno votato per Grillo, sulla cui linea e gestione del partito esprimono comunque significative perplessità, e a risultati acquisiti sono, se non contenti, almeno un po’ meno tristi di quelli che invece erano sdraiati sulla linea ufficiale.

Sarebbe cosa molto gradita che, se qualcuno avesse individuato altre tipologie di reazioni, le segnalasse di seguito…

A lezione in un grande giardino

Il giardino di Villa Pisani a Stra (Venezia) è un esempio classico di giardino storico. Possiamo considerarlo come il completamento naturale di un ricco palazzo che ai nostri occhi può apparire sproporzionato al suo contesto, se non si considera il fatto che la riviera del Brenta, tra XVII e XVIII secolo, era il proseguimento del Canal Grande e le famiglie veneziane importanti facevano il possibile per avere delle residenze prestigiose su queste vie d’acqua. Su questa scia, nel primo decennio del 1700, i fratelli Pisani, commissionarono a Girolamo Frigimelica la costruzione di un palazzo con un giardino degno delle corti europee. Entrando nel palazzo, si attraversa l’androne monumentale che inquadra la vista del giardino: una splendida prospettiva chiusa dall’elegante facciata delle scuderie. Lo stampo tardo seicentesco è leggibile nella geometria e nei percorsi principali, che sembrano partire da punti casuali dell’area centrale, ma che all’origine, avevano una corrispondenza nelle tessiture delle aiuole di gusto francese. I sentieri disegnavano una rete di percorsi verso statue e architetture creando sorprese e interesse. Al posto delle aiuole fiorite, abbiamo un grande prato al cui centro si trova una vasca d’acqua di forme classiche, costruita solo un secolo fa dall’Istituto per le ricerche idrotecniche, per fare delle simulazioni nautiche con modellini di navi.
La famiglia Pisani vendette il palazzo ai Francesi, e Napoleone lo regalò al figlio di Giuseppina, Eugenio Beauharnais, che vi abitò per lunghi periodi tra il 1807 e il 1814. Beauharnais lasciò il segno, sostituendo le alte siepi di carpini che fiancheggiavano l’area centrale con viali alberati, e iniziò la costruzione del boschetto romantico vicino alle scuderie. La successiva dominazione austriaca (1814-1866) segnò il momento di massimo splendore del giardino, che venne arricchito con agrumi e piante esotiche secondo la moda del collezionismo botanico. Le forme delle piantagioni, gli arredi, le statue, le raffinate costruzioni che punteggiano il giardino, come l’esedra, le abitazioni dei giardinieri, la coffee-house, le serre, la vasca d’acqua e il famoso labirinto di bosso, creano un testo in cui la matrice diventa un capitolo di una sequenza di trasformazioni. La prima importante lezione che ci insegna un giardino “storico” è proprio questa: la sua storia è una successione di eventi che contribuiscono a creare un insieme vivo, che continua a vivere anche quando il racconto prosegue verso un epilogo triste. La decadenza del giardino cominciò nel momento in cui fu dichiarato monumento nazionale nel 1882. Frequentato saltuariamente dai Savoia e utilizzato per scopi scientifici, fu ripulito solo in occasione di una visita ufficiale di Hitler, perché Mussolini considerava i giardini all’italiana come uno dei gioielli di famiglia e non perdeva occasione per mostrarli e vantarsi della loro bellezza. Da quel momento, l’incuria ridusse questo luogo a una selva, fino agli anni ’80, in cui fu avviato un intelligente progetto di restauro curato dall’architetto Giuseppe Rallo della Sovrintendenza di Venezia. Questo restauro è considerato uno dei migliori realizzati in Italia negli ultimi decenni per due motivi, innanzitutto comprende la complessità del giardino cercando di rendere visibili tutti i passaggi della sua storia, ma soprattutto, considera prioritarie le esigenze del presente: pochi soldi per la manutenzione e grande afflusso di pubblico. Fino al 2007, il giardino poteva contare su fondi pubblici annuali che permettevano la presenza di tre giardinieri. I tagli recenti hanno tolto molto a quelle poche risorse, e lo stato del giardino ne risente, ma se non fossero state fatte delle scelte previdenti al momento del restauro, il degrado attuale sarebbe decisamente superiore. Per questo ho approfittato dei miei contatti con l’Università di architettura di Cesena (Bologna), per proporre una gita a Villa Pisani a un gruppo di studenti del secondo anno. Passeggiare nel giardino è stato un momento per fare una serie di riflessioni generali sul progetto del giardino, e non solo sulla lettura dei vari stili e della loro convivenza all’interno di un sito. La vita di un giardino comincia quando si spengono i riflettori: un bel disegno e la sistemazione delle piante non costano molto, quello che costa è il lavoro per mantenerli. Progettare in funzione della manutenzione, oggi non è un fattore secondario, anzi, costituisce la grande sfida di un buon progetto.

Roma-Mosca: un asse di sviluppo fra due grandi capitali

Nel 2012, più di 15,3 milioni di turisti russi si sono recati all’estero, 6% in più rispetto al 2011. I flussi turistici in uscita sono i primi, per entità, nell’ambito dei Paesi Brics: i russi fanno 1,3 volte più viaggi all’estero dei cinesi, 3,4 rispetto agli indiani e 4,6 in più dei brasiliani. Il numero dei viaggiatori è aumentato negli ultimi cinque anni del 50%, (rispetto al 41% dei cinesi). Il margine di crescita del mercato rimane ancora ampio, poiché, attualmente, solo il 15% dei 141 milioni di abitanti della Russia viaggia all’estero. I dati sono contenuti in un rapporto diffuso dal ministero degli Esteri italiano e redatto in collaborazione con l’Agenzia nazionale del turismo. Secondo la Banca d’Italia, la spesa turistica russa nel nostro Paese nel 2012 è stata pari a 1,191 miliardi di euro (nel 2011 era stata di 925 milioni). In questa cornice, nei giorni scorsi i sindaci di Roma (Ignazio Marino) e di Mosca (Sergei Sobyanin) hanno siglato a Roma, un protocollo d’intesa che legherà le due capitali, puntando su un futuro sviluppo dei rapporti reciproci in materia di turismo, economia e trasporto. Roma è una meta in crescita e, oggi, cercata e voluta anche dal turista russo. In precedenza Italia e Russia avevano già dichiarato il 2013-2014 ‘Anno del turismo incrociato italo-russo’, con l’obiettivo di aumentare i flussi turistici nelle due direzioni.
Quello che si è rinsaldato è dunque un percorso comune di cooperazione e amicizia, iniziato nel 1996, che accompagnerà le due amministrazioni fino al 2017. I settori del commercio, dell’urbanistica e dell’architettura, della cultura, del turismo, del potenziamento del servizio pubblico e della sicurezza degli spazi pubblici saranno tutti, allo stesso modo, oggetto di rinnovata sinergia.
L’Italia è il quarto partner economico della Russia e l’intesa sottoscritta va nella direzione del rafforzamento delle relazioni commerciali e culturali fra i due Paesi. I dati sul turismo russo fanno ben capire l’importanza dell’evento romano e di iniziative analoghe.

Va poi detto che la sigla del protocollo ha avuto luogo in concomitanza con la manifestazione intitolata “Giornate di Mosca a Roma”, che ha visto svolgersi un ricco programma di eventi, sia nella capitale che a Milano.
Sobyanin ha visitato la mostra in 3D che riproduce un’ambientazione di epoca romana nel Foro di Augusto, il centro congressi “Nuvola” dell’architetto Massimiliano Fuksas, ha incontrato la Comunità russa e partecipato all’inaugurazione della mostra dei documenti d’archivio intitolata “Mosca-Roma: legami storici” presso il Centro russo di scienza e cultura. L’esposizione ripercorre i rapporti di amicizia e di collaborazione tra le due capitali, inclusi i contatti di politica estera, nei periodi dello Stato moscovita e dell’Impero russo dal XVI al XX secolo. Gli ospiti hanno potuto ammirarvi le immagini e gli autografi dei personaggi di maggiore rilevanza, tra cui uomini di Stato, del popolo e grandi politici: Ivan IV il Terribile, l’imperatore Pietro I, l’imperatrice Caterina II, i consoli italiani a Mosca, i sindaci di Mosca. Sono esposti, inoltre, i documenti della Camera di commercio russo-italiana, materiali sulla collaborazione tra Mosca e Roma nelle materie umanistiche, le fotografie inedite della permanenza a Mosca del regista Tonino Guerra e degli incontri tra Yuri Gagarin e Gina Lollobrigida, quelle di Sofia Loren e Marcello Mastroianni durante le riprese del film “I Girasoli”.

Tra gli altri eventi che hanno animato queste “Giornate di Mosca” vanno, infine, ricordati anche il concerto di gala dell’orchestra di Vladimir Spivakov “Virtuosi di Mosca” presso l’Auditorium Parco della Musica, e l’esibizione del famoso jazzista Igor Butman presso la Casa del jazz; l’esposizione di “Street art” con i murales di un artista moscovita; una conferenza sull’influenza reciproca delle culture russa e italiana presso l’Università “La Sapienza” e la mostra “La pace di Dio attraverso gli occhi di un bambino” nella chiesa ortodossa di Santa Caterina.
Il giorno prima è stato firmato, a Cerveteri, un accordo di cooperazione culturale per organizzare le “Settimane internazionali di studio”, a partire dal 2015, dedicate alle future classi dirigenziali russe e italiane. L’accordo trilaterale di cooperazione culturale e scientifica è stato concluso tra l’Università cattolica del Sacro cuore, l’Accademia internazionale Sapientia et Scientia e Università di Stato delle relazioni internazionali di Mosca (Mgimo).
Dopo la firma del protocollo del 27 maggio, Sobyanin ha consegnato al primo cittadino della capitale una lettera originale scritta da Vittorio Emanuele II allo zar russo, mentre il sindaco di Roma gli ha donato una scultura raffigurante la tradizionale Lupa capitolina che allatta i mitici Re di Roma, Romolo e Remo.

‘Le piccole idee’ crescono

Con le piccole idee si possono fare storie e rivoluzioni. Con le piccole idee si cresce e si cammina, si corre. Quattro episodi di famiglie italiane alle prese con svariate difficoltà economiche, ambientati al nord e centro Italia, presentati da bravi attori non professionisti. Storie di oggi, storie di famiglie e di amici. Spaccati di vita.

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Una scena del primo episodio, ‘L’idea dell’orco’

Nel primo episodio, “L’idea dell’Orco”, siamo in una piccola e tranquilla cittadina, dove un padre, insegnante universitario separato, percepisce uno stipendio dignitoso, che però non gli consente alcuna spesa extra. Si destreggia fra alimenti e spese per l’affitto, ma adora la piccola figlia. Quest’ultima vorrebbe da lui, per il compleanno, una nuova bicicletta rosa, quella costosa delle Winx, e il tenero papà affettuoso decide di costruirgliela con pezzi di scarto e dipingendola del colore da lei preferito. La bici non piacerà molto alla figlia, ma forse si può provare a creare un modo più semplice e coinvolgente di giocare e divertirsi insieme. Con pazienza e grande amore.

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La locandina del film

Nel secondo episodio, “L’idea di guardarsi negli occhi”, un imprenditore fallito del Veneto (le scene sono girate a Valdobbiadene e a San Pietro di Feletto) prova a convincere i suoi ex dipendenti a organizzare una grigliata in fabbrica. Costretto, dalla crisi che colpisce tutto e tutti, a chiudere la sua storica attività di famiglia, il protagonista cerca di credere ancora nei rapporti umani. Perché bisogna guardarsi in faccia quando le cose vanno male, aiutarsi, stare uniti e non da soli, affrontare insieme la sfida, sorreggersi l’un l’altro, anche con il cuore. I suoi dipendenti gli girano le spalle quando lo incontrano per strada, ma qualcuno rimane…

Nel terzo episodio, “L’idea di abbracciarsi”, la scuola media sequestra il diploma di una ragazzina, i cui genitori non hanno i 170 € necessari a pagare le spese arretrate della mensa. Ma il diploma è obbligatorio per l’iscrizione al liceo romano, non se ne può davvero fare a meno. Superare l’orgoglio e la vergogna, vendere qualche cosa con fatica e impegno, e chiedere aiuto a un vicino, saranno le sfide da superare. Per evitare che, a 13 anni, si finisca a lavorare come apprendista parrucchiera, quando si hanno ancora le potenzialità per studiare e per fare qualcosa di diverso.

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Una scena del quarto episodio, ‘L’idea di farli ballare’

Nel quarto episodio, infine, “L’idea di farli ballare”, un tecnico informatico viene licenziato dopo trent’anni di duro lavoro. Il trauma è forte, inizia a bere e diventa aggressivo con la figlia e con la moglie, che pure ama. Le due donne gli trovano un ruolo all’interno della Banca del T
tempo, lì ha la possibilità di mettere a disposizione degli altri le proprie competenze recuperando, intanto, la fiducia e la stima in se stesso.
La carezza alla figlia e il ballo romantico di un tempo con la moglie avvieranno un nuovo inizio, suggellato da un tenero e spontaneo abbraccio fatto di sguardi complici.
In generale, il film ci mostra, quasi spietatamente, come il nostro Paese stia attraversando una prova durissima e come il ceto medio e la gente normale paghino oggi il prezzo più alto. La perdita del lavoro, l’incertezza nel futuro, l’impossibilità di arrivare alla fine del mese sono problemi che riguardano sempre più italiani. Purtroppo.
Questo film ci parla della gente comune costretta ad affrontare problemi che all’interno della crisi economica che stiamo vivendo diventano sempre più grandi e difficili da accettare, a volte apparentemente insormontabili. Ma, spesso, grazie all’intervento di una piccola idea illuminante e illuminata, che germina solitaria piano piano, queste stesse situazioni si possono gestire con pazienza, creatività e originalità. Queste scene ci portano a riflettere tutti sul necessario, il superfluo, il ruolo della famiglia e degli amici. Su cosa è davvero bello, importante e serio, su come sopravvivere e, a volte, risollevarsi.
Siamo forse arrivati a un punto di non ritorno?
La crisi può portarci a ridisegnare in qualche modo i nostri valori, il nostro credo, il nostro stile di vita?

Le piccole idee, film di Giacomo Faenza, con: Angelo Giotta, Luisa Mauri, Mara Romani, Mario Vigiak, Luca D’Alessandro, Gea dall’Orto, Giulia Cardarilli, Armando Cardarilli, Teresa Scozzi. Italia, 2011, 95 minuti.

La lingua di Gesù e il nodo di Israele

“Per la lingua si langue,” recita uno dei più antichi proverbi italiani, testimoniato già dallo scrittore seicentesco Giulio Varrini. Insomma, a parlare troppo si rischia di parlare a sproposito e si finisce col dire stupidaggini. Dovremmo prendere questo proverbio alla lettera per descrivere il goffo scambio di battute tra il primo ministro israeliano Benjamin Netaniayhu e Papa Francesco: a parlare a sproposito della lingua (di Gesù) si finisce per dire stupidaggini. E infatti così è stato.
Tutte le agenzie di stampa hanno riportato nei giorni scorsi uno scambio di battute tanto breve quanto fulminante:
“Gesù era su questa terra e parlava ebraico” – ha detto Netanyahu;
“Aramaico” – l’ha corretto Papa Francesco;
“Parlava aramaico ma conosceva l’ebraico” – ha concluso Netanyahu.

Se non fosse per i due illustrissimi interlocutori, difficilmente una simile disputa teologica in miniatura troverebbe ospitalità nei maggiori quotidiani del mondo ma più verosimilmente rischierebbe di appassionare solo “un pio, un teorete, un Bertoncelli e un prete” – e anche il sottoscritto che non appartiene a nessuna di queste categorie.
Eppure non dovrebbe sorprendere che sia stato proprio l’altrimenti non troppo sottile primo ministro israeliano Netanyahu a sollevare una simile questione proprio di fronte ad un interlocutore così illustre, tra l’altro non sorprendentemente assai meglio informato di lui.
Quindi, perché mai intavolare un discorso simile, con una simile evidente sproporzione di forze intellettuali?

Tralasciando plausibili spiegazioni come la stupidità o l’insipienza, potremmo arrischiarci ad ipotizzare che il primo ministro israeliano tentasse di fare politica. Più precisamente di retrodatare di duemila anni il suo sionismo nazionalista.
La questione della lingua di Gesù infatti non è linguistica ma politica.
Non c’è quasi bisogno di ricordare che nella Palestina di duemila anni fa, sotto dominazione romana, si praticassero almeno quattro lingue principali: il greco (come lingua dell’amministrazione), il latino (come lingua politica del dominatore straniero), aramaico giudaico palestinese (parlato dal popolino) e anche l’ebraico post-biblico (conosciuto e forse anche parlato dall’élite intellettuale giudaica). Una ricchezza linguistica splendidamente descritta dallo scrittore Bulgakov nel sontuoso micro-racconto su Gesù all’interno del celebre Il Maestro e Margherita.

Le numerose lingue nella Palestina romana di duemila anni fa non sono un problema. Ciò su cui gli studiosi dibattono è la diffusione dell’ebraico come semplice lingua scritta oppure anche come lingua parlata. Infatti, se è indubbio che l’ebraico post-biblico venisse sicuramente praticato come lingua scritta, non è chiaro se questo fosse anche una lingua parlata e, se effettivamente lo era, se venisse usata come lingua quotidiana, come lingua dell’élite intellettuale oppure (probabilmente l’ipotesi più verosimile) esclusivamente come lingua liturgica. Insomma, una condizione assai simile a quella degli ebrei ortodossi americani odierni, che parlano quotidianamente lo yiddish (e l’inglese) ma che non parlano l’ebraico che considerano una lingua santa e che destinano solo all’uso consacrato: liturgia e lettura dei testi religiosi.

La questione infatti non è che lingua parlasse Gesù bensì per quale motivo Netanyahu pensi che l’ebraico dovesse essere la lingua che Gesù parlava quotidianamente.
La prima ipotesi (“Gesù era su questa terra e parlava ebraico”) non reclama alcuna paternità ebraica su Gesù bensì fa di Gesù una sorta di un prototipo sionista: un ebreo che parlava ebraico già nella Terra di Israele di duemila anni fa. Si tratta tuttavia di una “pia illusione,” nel senso proprio del termine: la proiezione di aspettative sioniste in un passato di duemila anni fa.
La seconda ipotesi (“Parlava aramaico ma conosceva l’ebraico”) è plausibile ma presuppone sempre che ci sia una continuità tra l’ebraico post-biblico di duemila anni fa e l’ebraico moderno, parlato attualmente in Israele.

Alcuni autorevoli linguisti israeliani (Shlomo Izreel e Gilad Zuckermann) polemizzano con questa idea e ne denunciano gli aspetti non troppo velatamente ideologici. NOn a caso chiamano l’ebraico moderno ivrit chadash, “neo-ebraico,” oppure ivrit israelit, “ebraico israeliano.” L’ebraico moderno, dunque, non sarebbe infatti nemmeno più una lingua semitica come i suoi numerosi predecessori (ebraico biblico, ebraico post-biblico, aramaico) bensì un mishmash, un “guazzabuglio,” una lingua ibrida, nata dall’incrocio di più lingue: una sorta di di yiddish postmoderno, dalla sintassi e dalla grammatica slava-indoeuropea e da un tono e un vocabolario velatamente semiti.

Se Netanyahu fosse pronto a riconoscere almeno in parte queste rivendicazioni di noiosissimi nonché autorevoli linguisti forse potrebbe riconoscere, con ciò, la complessità etnica e culturale dell’Israele d’oggi. Magari la sua politica potrebbe avere un altro corso. Ma, appunto, “per la lingua si langue.”

studenti unife

Università, il carovita spaventa 7 studenti ferraresi su 10

da: Found Comunicazione [Il testo contiene anche informazioni di natura pubblicitaria]

Cresce la preoccupazione tra gli studenti estensi per la situazione economica sempre più precaria. Gli effetti della crisi si riflettono anche sulla sfera emotiva di molti universitari che, scoraggiati dal costante peggioramento della qualità della vita, desidererebbero un maggiore aiuto da parte del governo (51%) e più sostegno dalle aziende (35%).
Carovita, aumento del prezzo del materiale didattico, costo del trasporto pubblico in aumento, difficoltà nel trovare lavori part-time che gli permettano di mantenersi gli studi: sono queste le maggiori problematiche che affliggono gli universitari degli atenei ferraresi, sempre più scoraggiati. A peggiorare la situazione ci si mettono pure la frustrazione e la rassegnazione che questa situazione genera, e le energie da utilizzare per reagire sono sempre di meno. Per loro la situazione è piuttosto grigia: adattarsi a lavori molto umili e faticosi per resistere al carovita (51%), affidarsi al portafoglio di mamma e papà (49%) o, come ultima possibilità, sudare sette camicie sui libri per assicurarsi una sempre più rara borsa di studio (27%). E a cosa si ispirano i giovani studenti italiani, come possibile antidoto per uscire dalla crisi? Ai primi tre posti spiccano la solidarietà’ (70%), la meritocrazia (59%) e l’onestà (58%), valori ai quali aggrapparsi nei momenti di debolezza.

E’ quanto emerge da uno studio promosso da Ottica Avanzi con metodologia Woa (Web opinion analysis) condotto su circa 100 studenti universitari di Ferrara, compresi tra i 19 ed i 26 anni, attraverso un monitoraggio on line sui principali social network – Facebook, Twitter e YouTube – blog, community e forum, realizzato per verificare lo stato d’animo degli studenti residenti in città e capire le loro principali problematiche. Lo studio è stato condotto in occasione della campagna ‘Sconto al merito’ con la quale vengono premiati in maniera meritocratica gli studenti italiani attraverso uno sconto sull’acquisto di un paio di occhiali da sole, o di due confezioni di lenti a contatto, pari al voto ricevuto durante l’ultimo esame. Per ogni voto espresso in trentesimi, un punto percentuale in meno sul prezzo dell’occhiale.

Qual è l’atteggiamento dei giovani estensi rispetto al futuro che li attende? Quasi la metà (49%) si definisce pessimista, soprattutto riguardo la latitanza di stabilità. Un terzo del campione (32%) è preoccupato invece perché non riuscirà a raggiungere le aspettative di carriera che si era prefissato nel corso della scelta dell’indirizzo accademico. In costante diminuzione invece coloro che nutrono speranze nel riuscire comunque ad emergere grazie alle proprie qualità (16%) e di coloro che rimangono fiduciosi nonostante tutto nel futuro e nelle istituzioni (5%).

Cosa manca agli studenti durante il percorso di studi? Per 7 studenti ferraresi su 10 (69%) il bisogno principale è quello di una sufficiente somma di denaro. Questa necessità è da ricondurre principalmente al caro affitti (41%), all’aumento del costo dei libri (35%), alle spese di viveri e per quelle indirizzate alle attività sportive (25%) e al caro trasporti (23%). Poco più della metà (51%) pensa inoltre che il tempo libero a sua disposizione sia troppo poco. Il 44% degli studenti soffre altresì di nostalgia della famiglia e del paese natio. Questo genera, a livello di stile di vita, una forte riduzione di spese legate alla propria persona (81%), ovvero per l’acquisto di abiti (75%), scarpe (60%) e accessori vari (49%) – come borse ed occhiali – seguiti da prodotti hi-tech (39%), da regali per amici e famigliari (37%) e vacanze (29%).

Quali sensazioni e quali emozioni vengono a crearsi nella mente degli studenti? Frustrazione (44%) e rassegnazione (39%) sono le più diffuse, mentre una buona quota di universitari (30%) non si arrende di fronte ai problemi e cerca di reagire attingendo a tutte le risorse di cui può disporre, sia fisiche che mentali. Per quanto concerne invece i valori a cui gli studenti s’ispirano troviamo ai primi tre posti la solidarietà’ (70%), la meritocrazia (59%) e l’onestà (58%), valori ai quali aggrapparsi nei momenti di debolezza.

In quanti raggiungono l’indipendenza dalla famiglia durante il percorso accademico? Il 51% degli studenti della città emiliana si propone di affrontare in modo autosufficiente le spese economiche, mentre il rimanente 49% attinge ancora al portafoglio di mamma e papà. Chi si autofinanzia cerca perlopiù lavoretti part time (34%), mentre i più dediti allo studio si impegnano nell’avere voti alti per usufruire di borse accademiche (27%) o ricercano ogni giorno offerte e promozioni dedicate al mondo degli studenti universitari (18%).

Da chi si aspettano di ricevere maggior sostegno gli studenti? Se i genitori rimangono il punto di riferimento principale per la metà degli studenti (45%), una considerevole quota di milanesi ritiene che siano le aziende a doversi mostrare maggiormente sensibili verso di loro (35%). Da considerare la poca fiducia nei confronti delle istituzioni; solo il 14% degli studenti si aspetta riforme e manovre rivolte a loro.
Cosa dovrebbero fare le istituzioni per venire incontro alla difficile situazione degli universitari estensi? Le richieste avanzate dagli studenti alle istituzioni sono principalmente indirizzate verso l’aspetto economico dello studio, in primo piano in questo periodo di difficoltà legate alla crisi globale: al primo posto c’è appunto la necessità di una maggiore attenzione al diritto allo studio (51%), con particolare attenzione al numero e al valore delle borse di studio in costante calo e agli incentivi per le fasce meno abbienti, seguita dal bisogno di tutela contro gli affitti in nero (26%) e dalla richiesta di una maggiore severità finanziaria nei confronti degli atenei privati a vantaggio di quelli pubblici (21%).

L’uomo che guida col cappello

L’uomo che guida col cappello per gli altri automobilisti è da sempre emblema di pericolo. Da lui ci si può attendere di tutto: vederselo svoltare a sinistra dopo che ha diligentemente messo la freccia a destra, oppure cambiare direzione d’improvviso senza alcun segnale preventivo: nel dubbio di sbagliare meglio la freccia non usare… Vanno messi nel conto il costante presidio della linea di mezzeria, gli stop senza preavviso, l’andatura a passo d’anatra zoppa. Il top lo raggiunge al semaforo: al passaggio dal rosso al verde ha un momento (un lungo momento) di travaglio esistenziale, che fare? La decisione di mettere mano al cambio e inforcare la ‘prima’ giunge di norma in simultanea con il passaggio dal verde al giallo: egli affronta così, impavido, l’incrocio quando già si sta affollando di veicoli provenienti da ogni direzione. Ma la sua coraggiosa risoluzione è premiata, come ai matrimoni, dal soave saluto dei clacson degli automezzi rimasti per suo merito al palo (semaforico) in attesa del prossimo verde.
La spiegazione a questa bizzarra corrispondenza (cappello uguale incapacità al volante) è tutta di natura psicologica: chi porta un cappello, cosa fa appena arriva a casa? Se lo toglie. ‘L’uomo col cappello’ quando entra in macchina invece se lo tiene, in ogni stagione: è a disagio, non ha familiarità con l’auto, non si sente a casa sua, quindi si protegge. E autoprotettiva è la sua guida: preso da sgomento, ogni tanto frena, senza alcun motivo, così giusto per prudenza…

Il suo antagonista è il tizio che in macchina si comporta come se fosse in un bunker, inaccessibile persino allo sguardo. E che per questo dà spettacolo pubblico: si pettina davanti allo specchietto, si dà – con l’unghia – una ripassatina ai denti e all’occorrenza si trapana con l’indice il naso e con il mignolo l’orecchio. E’ quello che, se ha caldo, al primo semaforo si cambia al volo la camicia. Lui sì che è perfettamente a suo agio in auto, totalmente calato in un ambiente domestico e protettivo, incurante o inconsapevole della proprietà di talune materie d’esser trasparenti: la mente ha grandi inesplorati poteri e la sua lo ha convinto che quelli della sua vettura sono vetri unidirezionali…

Decerebralizzati

Il nome del signor Renzi fa parte del lessico della mia famiglia. Mio padre amava scherzare con la zia Olga, sorella della mamma, bolognese puro sangue e, ogni volta che ci s’incontrava – Natale, Pasqua, eccetera – immancabilmente papà, nel mezzo dei discorsi che si facevano, diceva “ma sai, Olga, chi ho visto e ti saluta?” e lei, incuriosita, “chi?” e papà “il signor Renzi”. Il signor Renzi non esisteva , era una semplice invenzione di mio padre per sorprendere ogni volta la zia e prenderla bonariamente in giro: “Ma Dio! – diceva la zia – basta prendermi in giro e io che ci casco sempre!” Era un modo bonario per esprimere il reciproco affetto. Infatti lo sketch finiva sempre in una risata da parte di tutta la famiglia. Con il tempo il signor Renzi è venuto a significare il signor Nessuno: chi avrebbe immaginato che sarebbe arrivato, e così in fretta, fin lassù? Ora il signor Renzi dovrà pur ringraziare chi l’ha votato, ma soprattutto dovrà ringraziare le sue due stampelle, Bugia Berlusconi e Ingiuria Grillo, chè, se non ci fossero stati loro e dargli addosso forse gli italiani non l’avrebbero votato in modo travolgente: infatti, Berlusconi è in precipitosa caduta libera e gli italiani non amano chi perde, perdere in Italia è un errore insanabile, e la precipitosa discesa del mezzo cavaliere è cominciata, io credo, proprio nel momento in cui, per imitare Ingiuria Grillo, è andato giù di testa con gli insulti, mettendo insieme (no, Mussolini non l’ha toccato) Hitler, Stalin, Robespierre, in una baraonada storico-politica che soltanto una mente non allenata allo studio avrebbe potuto immaginare. Cavoli suoi. E cavoli nostri che l’abbiamo dovuto ascoltare, nonostante una inutile, inascoltata, insolente (per noi) condanna. L’altro, Ingiuria Grillo, – confessiamolo – ha un pochino esagerato con le contumelie. Lui, Ingiuria, ha detto “non siamo violenti, ma cattivi si”, no, caro Ingiuria, non cattivo, ma poco intelligente. Non ci hai dato un solo progetto socio-politico , non ci hai detto una sola parola sulla tua idea di società: di sinistra, di destra? Ah, scusa queste sono vecchie categorie di pensiero che tu e il tuo amico, quello con tutti quei capelli (sporchi?) e il viso da funerale, avete cancellato. Basta ideali, basta partiti figli degli ideali avete detto, noi siamo il nuovo, unico verbo da ascoltare, noi siamo dio (lo scrivo con la “d” minuscola), avete puntato sulla decerebralizzazione a cui sono stati condannati negli ultimi vent’anni berlusconiani quasi sessanta milioni d’italiani. Troppo impegnati a guardarvi allo specchio e alle registrazioni televisiva, ma non vi siete accorti che il paese si era stancato anche degli insulti. Meno male.

Rock in Idro approda a Bologna, attesa per gli Iron Maiden

di Giulia Echites

A Bologna torna il Rock. Quello elettronico di Fatboy Slim e quello metal degli Iron Maiden, in città per la loro unica data italiana, ma anche il punk rock dei Pogues e l’indie dei Queens of the Stone Age.
A due anni di distanza dall’ultimo Indipendent Day, il parco Nord, oggi arena Joe Strummer, si prepara di nuovo per ospitare, da domani (venerdì 30), uno dei più importanti festival del panorama internazionale, Rock in Idro, che da quest’anno lascia Milano per approdare nel capoluogo emiliano.

E se da un lato gli organizzatori strizzano l’occhio alla tradizione festivaliera europea, dall’altro sanno quanto è difficile realizzare questo tipo di eventi in Italia; da qui la decisione di investire aggiungendo due giornate di eventi (quattro in tutto), prolungando così la durata tradizionale di un festival, e variando il genere musicale durante i quattro giorni. Il risultato è che in fase di prevendita sono stati acquistati biglietti da tutta Italia e pullman dalla Slovenia e dalla Croazia sono stati organizzati appositamente per l’evento. «Siamo vicini a raggiungere le 40mila presenze – dicono gli organizzatori – domenica, con gli Iron Maiden, riempiremo l’arena».

Quest’anno, però, nel costruire lo spazio per il Rock in Idro, si è scelto di «privilegiare comfort e qualità – come spiega Lele Roveri, direttore artistico dell’Estragon – rispetto ai grandi numeri». Dunque una capienza massima di 20mila spettatori e un’area vip riservata a chi vuole godersi lo spettacolo seduto o con un drink: una sorta di terrazzo costruito ad hoc sull’arena, che può accogliere fino a 200 persone, a cui si può accedere pagando 30 euro in più rispetto al costo del biglietto. Solo per la giornata degli Iron Maiden poi, verrà allestita un’area pit di fronte al palco che ospiterà 2700 persone. Il pacchetto aggiuntivo per l’ingresso all’area pit, acquistabile con 20 euro, è andato subito esaurito.

Sul palco (grande quasi 400 metri quadrati) saranno installati maxischermi laterali e per ogni artista sono previsti giochi di luce diversi. Alcune band, come gli Iron Maiden e i Queens of the Stone Age, provvederanno a portare parte della loro scenografia.
«Bologna sta dimostrando la sua capacità di costruire eventi musicali come questo, rilevanti a livello europeo, e più piccoli, ma comunque di qualità», commenta l’assessore alla Cultura Alberto Ronchi, che poi però aggiunge «se tutti lavorassimo nella stessa direzione e se ci fosse qualche investimento in più da parte dei privati, si otterrebbero risultati molto interessanti per la città al punto di vista dell’indotto».

[© www.lastefani.it]

acqua

H2O cresce ed emigra a Bologna

Per oltre dieci anni con cadenza biennale in questo periodo si è tenuta a Ferrara la Fiera Internazionale dell’Acqua. Il crescente successo della iniziativa ha portato gli organizzatori di BolognaFiere a spostare la prossima edizione a Bologna. Ne parliamo con il referente scientifico della parte convegnistica, l’ingegner Andrea Cirelli, già direttore di Federambiente.
Dunque H2O emigra a Bologna?
Purtroppo sì, perché era ormai da anni un appuntamento tradizionale per Ferrara e molto atteso: per i contenuti proposti e per l’ospitalità offerta dalla nostra bella città, assai apprezzata soprattutto dai relatori stranieri. Ma la rassegna di anno in anno è lievitata di importanza: l’ultima edizione, che si è tenuta subito dopo il terremoto, ha avuto oltre 7000 visitatori da tutto il mondo. Servivano spazi e servizi differenti.
Un successo che paradossalmente penalizza Ferrara che l’ha propiziato…
E’ vero, però credo che molti relatori e visitatori per l’abitudine e per la vicinanza sceglieranno ancora di pernottare e cenare a Ferrara. L’evento è riconosciuto come il principale in Italia sul tema complesso e delicato dell’acqua. Ogni edizione si arricchisce e suscita sempre maggior interesse. Anche per questo motivo, con l’obiettivo di divenire evento ancor più importante a livello nazionale ed internazionale, gli organizzatori hanno deciso di cambiare sede e date trasferendosi nel quartiere fieristico di Bologna. Quest’anno l’appuntamento è dal 22 al 24 ottobre, in concomitanza con altre due importanti manifestazioni: Smart City Exhibition, dedicata alla città e Saie dedicata al mondo delle costruzioni. Si conferma quindi essere una occasione importante per gli addetti ai lavori e gli esperti del settore.
Quali saranno i temi principali che affronterete?
Il settore dell’acqua continua ad essere di grande interesse industriale e soprattutto di grande importanza ambientale. Noi su questi temi intendiamo impegnarci sempre di più e il riconosciuto successo di H2O delle passate edizioni ci spinge a cercare di fare sempre meglio. La presenza delle maggiori associazioni di categoria e di settore, dei migliori centri studi e universitari, delle più grandi aziende del settore ci conforta. Ci saranno in contemporanea dodici sale con seminari tutti e tre i giorni e la presenza di ottocento relatori provenienti da tutto il mondo. Oltre ai temi classici di interesse generale sulla regolazione, sulle innovazioni tecnologiche e sugli aspetti economici, finanziari e gestionali. Cercheremo di approfondire alcune tematiche attuali, tra cui la attuazione della direttiva-quadro comunitaria sulle acque, il risparmio della risorsa, i beni comuni, l’analisi delle acque e la loro qualità, la dinamica degli investimenti e dei finanziamenti, la regolazione tariffaria e analisi ricorsi… Poi come sempre sono previsti dei focus specifici su protezione sistemi idrici, telecontrollo e automazione, misuratori di portata, analisi reti fognarie, gestione sistemi informativi e molto altro.
Tratterete anche il rapporto fra mondo della ricerca e impresa?
Ci aspettiamo, al riguardo, importanti contributi anche dal mondo universitario. Da sempre la facoltà di Ingegneria della Università di Ferrara offre un contributo scientifico importante per mezzo del Cssi (sempre ben coordinato dal professor Franchini) a cui fanno riferimento importanti facoltà di ingegneria di diversi atenei. Sarà affrontato il tema del rapporto tra Università e mondo dell’industria, ragionando sulle possibili collaborazioni e iniziative di trasferimento tecnologico (sui temi del risanamento ed efficienza delle reti di distribuzione attraverso la realizzazione dei distretti idrici, sulla gestione delle pressioni e delle perdite nella rete idrica, sulla diagnosi dei sistemi di adduzione nelle reti idriche mediante transitori, sul monitoraggio delle infrastrutture fognarie, sul Global Vulnerability Assessment of Water Distribution System, sul Sistema di supporto alla decisione per la gestione delle risorse idriche e molto altro ancora).
Cosa pensa del futuro del settore?
Sul tema dell’acqua molte stanno cambiando a tutti i livelli: internazionale, nazionale e regionale. Si tratta di un buon segnale che indica come stia crescendo la sensibilità generale su questo fondamentale tema. Posso provare a citare alcune questioni importanti a partire dalla constatazione che è di quest’ultimo periodo il frequente richiamo istituzionale e dell’opinione pubblica sull’emergenza idrica; è necessario avviare iniziative per ridurre i prelievi di acqua e incentivarne il riutilizzo. La situazione delle infrastrutture idriche e della gestione dell’acqua è fortemente critica; per tentare un superamento della cronica debolezza strutturale sono necessari ingenti investimenti; è opportuno valutare dove e come reperire queste risorse
Inoltre un approccio moderno e sostenibile al problema della qualità deve fare riferimento alla natura dei corpi recettori, sia in senso generale, sia in funzione della specificità degli usi; bisogna incentivare la riduzione degli sprechi, migliorare la manutenzione delle reti di adduzione e di distribuzione, ridurre le perdite, favorire il riciclo dell’acqua ed il riutilizzo delle acque reflue depurate.
E gli utenti?
Vanno sensibilizzati al risparmio nell’utilizzo dell’acqua per uso domestico, ma anche a contenere e ridurre lo spreco di acqua – anche potabile – negli usi produttivi e irriguo, in particolare bisogna incoraggiare e sostenere “anche con incentivi economici” specifiche ricerche e studi per migliorare l’utilizzo dell’acqua nei processi produttivi.
Come ci si può riuscire?
Attraverso lo sviluppo di una cultura economica dei servizi pubblici ambientali, maggiore attenzione sia a livello di costi che soprattutto di prezzi e dunque di tariffe; implica un percorso di civiltà, ma anche il necessario sviluppo di una cultura economica dei servizi pubblici locali.
E ciò comporta anche agire sulla molla delle tariffe?
Il sistema tariffario è uno degli aspetti fondamentali e forse più critici nel sistema di gestione dei servizi ambientali: il valore, il costo ed il prezzo del servizio devono essere tra loro collegati e interdipendenti.
Cosa significa?
Intendo dire che il “giusto prezzo”, dell’acqua è un importante incentivo per incoraggiare un utilizzo sostenibile dell’acqua stessa: una accurata politica tariffaria regola infatti i consumi e soprattutto da il giusto valore al bene. Nello stesso tempo bisogna trovare forme di incentivazione anche per il gestore che favorisce la riduzione dei consumi. Viceversa potrebbe essere dissuaso se il suo interesse restasse unicamente connesso al consumo dell’acqua.
Bisogna inoltre incentivare e remunerare la qualità esplicita ed implicita – con idonei strumenti tariffari – e nel contempo penalizzare ritardi e disservizi (le carte dei servizi devono diventare uno strumento contrattuale di regolazione e non servire come documento d’immagine). Gli incrementi tariffari non devono essere solo collegati alla copertura dei costi del servizio, ma anche a parametri di qualità.

Questa sera, a Ferrara, il Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah apre in notturna

da: ufficio stampa Ferrara Fiere Congressi

L’apertura si tiene in omaggio alle vittime di Bruxelles ed in supporto al Museo Ebraico del Belgio. La cultura non si ferma.

Il Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah apre straordinariamente la sua sede giovedì 29 maggio dalle ore 19,30 alle ore 22,00.
Il museo compie un gesto di solidarietà verso le famiglie delle vittime dell’attentato avvenuto sabato a Bruxelles, un segno di vicinanza verso il Museo Ebraico del Belgio e in particolare con i volontari che donano il loro tempo alla cultura e con gli operatori che si impegnano con passione.
L’apertura straordinaria nasce in seguito all’appello rivolto dalla Fondazione per i Beni Culturali Ebraici in Italia ha rivolto ai Musei ebraici italiani affinché aprissero le loro porte, accogliendo gratuitamente tutta la cittadinanza in un giorno di questa settimana, immediatamente precedente a quella in cui ricorrono sia la celebrazione della festa della Repubblica nata dalla Resistenza al nazifascismo sia la Festa ebraica di Shavuot, giorno in cui venne concessa la Torah al popolo ebraico.
Il Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah si impegna, anche attraverso questo gesto simbolico, a testimoniare il valore della cultura nella società, conscio che l’odio si può fermare attraverso la trasmissione del patrimonio di conoscenze, idee e testimonianze sulla presenza storica degli ebrei in Italia.
Per questo motivo hanno accolto l’appello l’Assessore alla Cultura della Regione Emilia-Romagna e Consigliere della Fondazione MEIS, Massimo Mezzetti, il Presidente della Provincia di Ferrara, Marcella Zappaterra, il Sindaco del Comune di Ferrara, Tiziano Tagliani, il Vice Sindaco del Comune di Ferrara e Consigliere della Fondazione MEIS, Massimo Maisto.
L’invito a partecipare è esteso a tutta la cittadinanza.
Giovedì 29 maggio apriranno gratuitamente al pubblico in diversi orari i musei ebraici di Firenze, Siena, Bologna, Livorno, Milano, Ferrara e Venezia con un messaggio forte e condiviso: La cultura non si ferma.

#LaCulturaNonSiFerma #OpenJewishMuseums

Per informazioni
MEIS – Fondazione Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah
0532 769137 • info@meisweb.it • www.meisweb.it
334 9138981 • comunicazione@meisweb.it

L’esperienza del cattolicesimo democratico italiano e la dottrina sociale della Chiesa

Il mensile della Lega democratica ‘Appunti di cultura e di politica’ è stato uno strumento fondamentale dei “saperi” del cattolicesimo democratico nel nostro Paese, e ha fondato le sue origini nella dottrina sociale della Chiesa, a partire dal Concilio vaticano II.

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Lorenzo Biondi

A testimoniare la validità della rivista e dell’esperienza nel suo complesso, è stato di recente presentato il libro di Lorenzo Biondi La Lega democratica. Dalla Democrazia cristiana all’Ulivo: una nuova classe dirigente cattolica* e, al riguardo, ci preme stralciare alcune considerazioni di Pierluigi Castagnetti: “La Lega democratica è stata un’associazione di intellettuali cattolici che, a dieci anni dalla conclusione del Concilio, sentirono la necessità di elaborare modalità e contenuti contemporanei di impegno nella società e nella politica.”
L’idea nacque all’interno del gruppo dei “cattolici del no”, al referendum per l’abrogazione della legge istitutiva del divorzio, nel 1974. Fu l’esito di quel referendum, e la lettura che per primo Aldo Moro ne fece al consiglio nazionale della Dc nel luglio 1974, contribuì ad illuminare la dimensione della secolarizzazione già intervenuta nella società italiana e, dunque, l’esigenza per i cattolici di prendere atto della loro minorità e della necessità di capire come poter diventare interlocutori della nuova realtà.
C’era in loro, da un lato la convinzione di aver fatto nel referendum una scelta giusta, e dall’altro la mai pienamente superata sofferenza per un gesto di disubbidienza che aveva creato amarezza e qualche incomprensione nella comunità ecclesiale. Si trattava perciò di riprendere il discorso, per dare conto delle motivazioni profonde di quel gesto e per sollecitare la necessità di pensare su basi nuove la presenza politica dei cattolici.
Nacque così la Lega, come cenacolo fra intellettuali, e tale rimase sino alla fine. I veri promotori furono Pietro Scoppola, Ermanno Gorrieri e Achille Ardigò. Scoppola, in quegli anni, stava “scoprendo” la straordinaria personalità di De Gasperi e sentiva l’esigenza di riproporne il modello di laicità-spirituale; Gorrieri riteneva di dover “approfittare” della segreteria Zaccagnini per un ultimo tentativo di rinnovamento della Dc, aiutandolo sul piano delle idee; Ardigò, interessato e conquistato dalle grandi trasformazioni sociali e scientifiche in atto, avvertiva l’esigenza di un luogo che riproducesse il clima e gli stimoli della vecchia comunità dossettiana di Cronache sociali.
Il gruppo ben presto si allargò. C’erano i bresciani (Luigi Bazoli e Leonardo Benevolo), i romani (Nicolò Lipari, Paola Gaiotti, Paolo Giuntella, Michele Dau), i bolognesi (Nino Andreatta, Paolo, Giorgio e Romano Prodi, Roberto Ruffilli, Luigi Pedrazzi), i milanesi (Luciano Pazzaglia, Piero Bassetti), i sindacalisti (Pierre Carniti, Carlo Borgomeo, Luigi Paganelli), i giovani della Fuci (Ronza, Novelli, Tonini, Ceccanti, Tognon) e tanti altri ancora.
Il dibattito era animato fondamentalmente dai tre promotori, dalle loro sensibilità ed esperienze, dalle loro ricerche, dalla loro diversa attitudine a pensare politicamente. Scoppola a me pareva particolarmente efficace nell’indicare la strada di un impegno nella storia dei cristiani, alla luce delle indicazioni conciliari e delle esperienze di De Gasperi e di Moro.
Ardigò era il più suggestivo quando indicava la necessità di una dilatazione di orizzonte per il pensiero cattolico. Gorrieri ebbe il merito di portare al centro della riflessione l’esigenza di un ampio ripensamento del modello di welfare, degenerato in forme di deresponsabilizzazione soggettiva e di profonda ingiustizia distributiva, che contribuivano alla progressiva perdita di attenzione all’interesse collettivo e all’unità del corpo sociale.
Nacque un dibattito aperto ai maggiori economisti, sociologi, sindacalisti, imprenditori (quelli che gravitavano attorno al Mulino e alla nascente Arel), che mise sotto accusa il modello di governo e di acquisizione del consenso della Dc, oltreché della sua cultura tendenzialmente socialdemocratica o tardo-dossettiana, come si diceva allora.
Sta di fatto che quei confronti a spettro culturale ampio e ambizioni riformistiche alte, generarono la legittima aspirazione ad esercitare un’influenza sul sistema politico che si realizzò solo in parte, sia per il vezzo un po’ troppo elitario di ritenere che il pensiero bastasse a cambiare le cose, sia per le altalenanti vicende congressuali della Dc che provocarono periodicamente fasi di apertura e fasi di chiusura verso tali stimoli.
De Mita sembrò il segretario del radicale rinnovamento (Scoppola e Lipari accettarono di entrare al Senato come indipendenti nelle liste della Dc), ma la sconfitta elettorale del 1983 e le vicende successive provocarono non solo una forte delusione, ma la convinzione di una certa “irreformabilità” del sistema.
L’esperienza della Lega, però, che pure durò solo dodici anni, lasciò il segno nella definizione di un impegno laicale serio e moderno sul terreno della mediazione fra cristianesimo e storia, della necessità per la politica di passare dalla cultura del progetto alla cultura della complessità, dell’accettazione da parte del credente delle contraddizioni della storia, coltivando dentro di sé una “spiritualità del conflitto”, della modalità di essere membri consapevoli e utili di quel Popolo di Dio che è Chiesa, della possibilità infine di fecondare la società con quei valori miti e solidi della tradizione cristiana che l’aiutano a diventare comunità.
Per queste ragioni, riccamente documentate da Lorenzo Biondi, nonostante l’apparente sconfitta politica, la Lega democratica restò a lungo un fecondo segno di contraddizione, contestato e osteggiato da gran parte della gerarchia e da gran parte dell’establishment politico. Ma da quei materiali sarà bene ripartire se si vuole ancora oggi dare un senso all’impegno dei credenti nella storia.
Si è pensato, nella circostanza, di richiamare lo scritto di Pierluigi Castagnetti, ultimo segretario del Partito popolare italiano e cofondatore sia dell’Ulivo che del Pd, per dire che chi dice, come in questi giorni è apparso su alcuni quotidiani italiani, che il cattolicesimo democratico è una sorta di cattocomunismo, è consapevole di affermare il falso, anche se si è in tempi di campagna elettorale.
Chi lo sostiene, non ha mai incontrato e sentito qualcuno che associasse le due parole, anche perché non stanno insieme, e chi è stato apostrofato di cattocomunismo sa che non è nelle corde e neppure nei pensieri avanzati della teologia della liberazione.
Avendo, poi, frequentato molti luoghi in Strada Maggiore a Bologna, ogni riferimento ai cattocomunisti è nell’immaginazione e nella fantasia di contenuti che alla dottrina politica non risultano; ma purtroppo quando il falso viene ripetuto decine e decine di volte, si finisce per crederci e per far credere che sia una verità. Peccato.

* Lorenzo Biondi, La Lega democratica. Dalla Democrazia cristiana all’Ulivo: una nuova classe dirigente cattolica, Viella ed., Roma, 2013

Sveta, ritratto di donna

Da MOSCA – Svet in russo significa luce, e Sveta luce è, luce è stata, luce sarà.
La guardiana del mio palazzo, anziana dai capelli corti bianchi come la neve, o babushka (la nonnina, in senso affettivo) come la chiamerebbero qui, ha le mani ruvide, grinze e affaticate ma lunghe, eleganti e affusolate. Deve essere stata molto bella, da giovane.
Con lei fatico a parlare, la lingua è una barriera quasi insormontabile. Le poche parole di russo che ho imparato non mi permettono certo di avere una conversazione decente e di capire correttamente quello che vorrei sapere e chiedere. Ma la mia curiosità non ha limite. Accorsa in mio aiuto la mia amica Olga, che mi traduce tutto in inglese o francese, riesco finalmente ad avere gli elementi chiave di un ritratto che volevo fare da tempo.
Sveta ha visto la guerra, ha sofferto la fame, ha vissuto in povertà quasi tutta la vita. Durante il periodo sovietico ha raggiunto un benessere minimo, fatto di mobili marroni, di tappeti polverosi, di fiori finti e di pareti anonime ma anche di pane sicuro, di kacha molle al sapore di cereali, di patate lessate sempre dello stesso sapore, colore e odore, di carote bollite.
Era felice, allora, quando il suo Vladimir era ancora accanto a lei, quando i figli crescevano nell’allegria. Poi uno di loro, Valery, è partito per gli Stati Uniti, ed è diventato professore in una prestigiosa università americana dal nome per lei impronunciabile. E’ arrivato il successo accademico e con esso qualche soldo in più, ma la lontananza, per lei, non aveva prezzo.
Poi un giorno anche Vladimir l’ha lasciata, scivolato nel nero di una miniera. Lei si è ritrovata in cerca di lavoro. Sola. Si ricorda il pranzo in fabbrica, le giovani amiche che le sedevamo accanto e le raccontavano di fidanzati innamorati e di viaggi lontani. Si ricorda il buio e la paura.
Ma Sveta era luce e nel gabbiotto del palazzo di questa via elegante da ricchi ci si era trovata bene, immersa nell’odore di cavolo bollito che proveniva dal primo piano, nel vocio dei bambini che correvano per le scale, nel cinguettio di un canarino di una coppia anglo-finlandese, persa a guardare la televisione mentre sorseggiava un tè caldo e sgranocchiava un dolcetto.
E poi leggeva leggeva e ancora leggeva, ora poteva farlo. Anche se la vista calava ogni giorno, si perdeva nei romanzi d’amore, quelli che un tempo non si potevano leggere, immersa in quelle storie romantiche che aveva sempre sognato.
Sveta era bella, un tempo, mi mostra una foto dei suoi vent’anni a San Pietroburgo, sorridente e felice, con un vestito fiorito e un colorito roseo. E’ la settimana prima di sposarsi, ha i capelli intrecciati, biondi, avvolti sul suo capo come una corona. Una piccola Cenerentola aggraziata.
Sveta è bella, anche oggi, con i suoi capelli corti, bianchi come il latte, come la neve, come il candore della sua bontà, mentre mi sorride e mi porge un biscotto che ha sicuramente preparato domenica pomeriggio. Mi ricorda la mia nonna materna, Sveta, forse per questo le voglio bene.
Ancora un dobre utra un dasvidaniya e ogni volta che la incrocio sono felice.
Una storia come tante, forse, ma questa è sotto i miei occhi, ogni mattina, ogni sera, ogni giorno, una storia che mi accompagnerà non solo finché sarò qui ma sempre, anche quando un giorno sarò rientrata nel mio bel Paese.

Il destino secondo Tiziano Terzani

di Daniele Lugli

‘Un’idea di destino’ è una raccolta di scritti tratti dai diari degli ultimi vent’anni di Tiziano Terzani, di cui ricorre il decennale della morte. E’ l’ultimo grande dono che la moglie, Angela Staude, ha voluto condividere. Invito a leggerlo e insieme a leggere e rileggere anche altro di Terzani.

Qui abbiamo la possibilità di uno sguardo più intimo, che mette in moto pensiero e sentimento assieme. Siamo introdotti ai viaggi che Tiziano ha compiuto nei luoghi più pericolosi e sconosciuti del mondo e dell’anima. Un piccolo esercizio che Terzani ha proposto in un momento importante della vita sua e dei suoi cari: “Niente succede mai per caso. Se siamo qui deve esserci motivo. Vedere come ognuno di noi ha una ragione di esserci e rintracciare che cosa ci ha portato qui è un bellissimo esercizio di umiltà e d’ammirazione per quell’Intelligenza che tiene assieme il mondo.” E’ un esercizio che si raccomanda anche a chi su quest’Intelligenza mantiene forti dubbi.

Il primo servizio che si deve al prossimo è quello di ascoltarlo, ci ricorda Dietrich Bonhoeffer. E ad ascoltare, vedere, sentire, interpretare, Terzani era bravissimo, dovendo poi riferire, secondo la prepotente vocazione che lo caratterizza. La sua è una straordinaria applicazione delle sette regole d’oro dell’arte di ascoltare, ricordate da Marianella Sclavi:

1. Non avere fretta di arrivare a delle conclusioni. Le conclusioni sono la parte più’ effimera della ricerca.
2. Quel che vedi dipende dal tuo punto di vista. Per riuscire a vedere il tuo punto di vista, devi cambiare punto di vista.
3. Se vuoi comprendere quel che un altro sta dicendo, devi assumere che ha ragione e chiedergli di aiutarti a vedere le cose e gli eventi dalla sua prospettiva.
4. Le emozioni sono degli strumenti conoscitivi fondamentali se sai comprendere il loro linguaggio. Non ti informano su cosa vedi, ma su come guardi.
5. Un buon ascoltatore è un esploratore di mondi possibili. I segnali più importanti per lui sono quelli che si presentano alla coscienza come al tempo stesso trascurabili e fastidiosi, marginali e irritanti, perché incongruenti con le proprie certezze.
6. Un buon ascoltatore accoglie volentieri i paradossi del pensiero e della comunicazione interpersonale. Affronta i dissensi come occasioni per esercitarsi in un campo che lo appassiona: la gestione creativa dei conflitti.
7. Per divenire esperto nell’arte di ascoltare devi adottare una metodologia umoristica. Ma quando hai imparato ad ascoltare, l’umorismo viene da sé…

Capitini mi ha insegnato (è il motto dei suoi centri di orientamento sociale) che chi può parlare ascolta più profondamente e molto profondo è l’ascolto di Terzani che sente il dovere di riferire su quanto ha direttamente sperimentato.
Anche a noi è dovuto servizio di ascoltarci profondamente. Già ne ‘L’ultimo giro di di giostra’ a questo particolare ascolto Terzani ci aveva introdotto. Il diario lo approfondisce ulteriormente. E’ un ascolto che accompagna nelle esplorazioni di Paesi vasti e sconosciuti (a me totalmente Usa e India), in percorsi tra scienza e religione, salute e malattia, medicina e guarigione, tra mondo che sta fuori e mondo, non meno misterioso e decisivo, che sta dentro.

Ci passano davanti venti anni, dai primi anni ottanta ai primi del duemila, nei quali molte speranze di una società migliore e più giusta sono ricomparse, magari in nuova veste, e assieme ricadute, dentro e fuori d’Italia. I diari si aprono con l’espulsione dalla Cina, un Paese molto amato da Terzani e ci accompagnano in Giappone, Thailandia, Birmania, Urss, Indocina, Asia centrale, India, Pakistan – e qualcosa ho di certo dimenticato – e anche negli Usa, per curarsi dal cancro, e passaggi in Italia, dove trascorrerà gli ultimi tempi. Gli stessi vent’anni terribili anche per chi non ha viaggiato. Già qui moriva la repubblica negli anni ‘70. Un poeta Mario Luzi se n’era accorto.

Muore ignominiosamente la repubblica.
Ignominiosamente la spiano
i suoi molti bastardi nei suoi ultimi tormenti.
Arrotano ignominiosamente il becco i corvi nella stanza accanto.
Ignominiosamente si azzuffano i suoi orfani,
si sbranano ignominiosamente tra di loro i suoi sciacalli.
Tutto accade ignominiosamente, tutto
meno la morte medesima – cerco di farmi intendere
dinanzi a non so che tribunale
di che sognata equità. E l’udienza è tolta

E’ un’agonia che non sembra terminare mai, considerato anche la bassezza e volgarità che hanno caratterizzato la campagna elettorale appena conclusa. Nei diari si coglie proprio in un suo passaggio in Italia nel 2001 tutta l’indignazione e tristezza per le condizioni in cui la democrazia e convivenza sono precipitate nel nostro Paese e la tentazione di tornare ad occuparsi di politica, mentre è nel pieno di un suo percorso di ricerca spirituale sulle pendici dell’Himalaya, non più Tiziano Terzani ma Anam, il Senza nome. Ancora una volta è completamente immerso nella sua esperienza come quando, “cinese”, si chiama Deng Tiannuo. E’ una tentazione alla quale fortunatamente non resiste regalandoci le ‘Lettere contro la guerra’, preziose nel momento in cui non solo Oriana Fallaci con ‘La rabbia e l’orgoglio’ (titolo più appropriato sarebbe stato ‘L’odio e il rancore’) ma molti intellettuali sostengono e incoraggiano, dentro e fuori d’Italia, la vendetta americana nella disastrosa guerra afghana dopo l’11 settembre. Sono lettere ancora e sempre basate sulla presenza nei luoghi, nonostante il disagio, la malattia, i pericoli. Dello svilupparsi dell’estremismo islamico e delle responsabilità nell’alimentarlo in ogni modo da chi ora ne vuole l’annientamento, e invece lo rafforza, aveva da anni documentato l’ascesa.

Perché Terzani è uno straordinario giornalista, penetrante, documentato, sincero. Questo gli ha permesso di divenire un “permanentista”, secondo l’invito che l’orientalista Tucci gli aveva rivolto. I suoi primi articoli o rapporti mostrano le sue doti veramente straordinarie e precedono il mestiere di giornalista iniziato nel ’70 ne ‘Il giorno’ di Italo Pietra e Giorgio Bocca (niente a che vedere con il giornale che di quell’esperienza ha mantenuto solo il titolo).
Ho ritrovato i suoi articoli su l’Astrolabio, la modesta, straordinaria pubblicazione, diretta da Parri, nata quindicinale il 25 marzo 1963, già settimanale quando Terzani comincia a scriverci nel ’66 e tornato quindicinale quando Terzani smette alla fine del ’70. Spesso i suoi pezzi ne ispirano le copertine, a partire dal primo Rapporto dal Sud Africa: Natale negro del 25 dicembre 1966. Ricordo bene l’attesa e il piacere della lettura dei suoi articoli, una lettura proseguita poi sul Giorno e quindi su Repubblica e l’Espresso, non ahimè sul Corriere. Ho ritrovato su Astrolabio anche due articoli di Angela del 1969 e mi rammarico di non avere mai letto suoi libri. Vedrò di colmare questa lacuna.

Se il periodo de l’Astrolabio è quello delle idee belle e chiare, che permettono di capire i problemi e di individuarne le soluzioni, gli anni dei diari sono quelli della disillusione a partire dalla Cina, che si rivela non il paradiso che lo studente Terzani aveva creduto (e con lui molti altri) ma l’inferno per i lavoratori e per la grande maggioranza dei cinesi, mentre lo slogan Servire il popolo si trasforma in Arricchirsi è glorioso. Così la tragedia della Cambogia e i deludenti esiti della guerra di liberazione del Vietnam, la situazione degli altri Paesi orientali molto amati e frequentati da Terzani non sono certo incoraggianti. Un Terzani che preferisce Mao a Gandhi ha al termine del suo percorso mutato pensiero, con la capacità di dirlo in modo netto e senza che questo tolga valore alle cose dette e scritte prima, che mantengono le positive caratteristiche di cui si è detto. Rilette ci dicono di possibilità diverse che non hanno avuto sviluppo, introducono a osservazioni più approfondite, sono esperimenti con la verità, secondo la bella espressione gandhiana, utili a spezzare pregiudizi, compito più difficile che spezzare l’atomo, ammonisce Einstein. Qualche disillusione avrebbe (avremmo) potuto risparmiarcela considerando che ‘Un fine che ha bisogno di mezzi ingiusti non è un fine giusto’. Non è Gandhi, è Marx, citato da Camus.

Il giornalista Terzani si volge al saggio, al piacere del racconto, a una scrittura, che meglio renda l’incerto mondo intravvisto al di là delle apparenze, pur tra ciarlatani, truffe e pure superstizioni, come è in ‘Un indovino mi disse’. Proprio a conclusione di qual libro sta l’incontro con John Coleman, il meditatore della Cia, maestro di vipassana che gli consegna qualcosa di più di una tecnica (posso confermare che al termine di una seduta ben condotta la lettura della ‘Lettera ai Corinti’ è particolarmente bella).
La meditazione, in varie forme, lo accompagnerà nell’incontro con la malattia implacabile, occasione di svolta radicale di cui riferisce ne ‘L’ultimo giro di giostra’. Con ‘Lettere contro la guerra’ sono questi i libri che aggiungono a ‘La porta proibita’, ‘In Asia’ e ‘Buonanotte signor Lenin’, tutti realizzati nel periodo coperto dai diari.

Dalla lettura a me sono giunte diverse suggestioni, anche molto personali, sulla malattia, la vecchiaia, nei rapporti, e nella loro difficoltà, con le persone più care. La sua ricerca spirituale, la sua visione mi ha ricordato Capitini e la compresenza, termine che ha sostituito il ‘Dio senza nome’ di primi scritti: “Ho insistito per decenni ad imparare e a dire che la molteplicità di tutti gli esseri si poteva pensare come avente una parte interna unitaria di tutti, come un nuovo tempo e un nuovo spazio, una somma di possibilità per tutti i singoli, anche i colpiti e annullati nella molteplicità naturale, visibile, sociologica. Questa unità o parte interna di tutti, la loro possibilità infinita, la loro novità pura, il loro «puro dopo» la finitezza e tante angustie, l’ho chiamata la compresenza.” Non mi pare di aver trovato traccia di contatti, come invece per Balducci, La Pira, Spini, Ceronetti, a vario titolo in rapporto con Capitini. Né so se abbia avuto contatti con un altro “viaggiatore leggero” Alex Langer, con il quale pure riscontro affinità, stremato fino a morirne dallo scavalcare muri e fossati, che dividono i popoli, dal costruire ponti e rapporti, contatti rispettosi delle differenze. Così mi pare Tiziano Terzani, cinese e poi indiano, ma sempre e più profondamente “fiorentino, un po’ italiano, europeo”, di un’Europa che sappia accogliere culture diverse, nella convivenza pacifica, accogliendone anche i portatori.
L’esperienza profonda dell’Advaita, della Nonseparazione, non lo ha reso indifferente alle sorti dei suoi simili; se mai lo ha reso più sensibile alla “orribile meraviglia che è la nostra razza: l’umanità”.

L’esercizio che ho proposto all’inizio è l’avvio dei suoi appunti per il discorso del matrimonio della figlia (l’ultimo in pubblico, nel 17 gennaio del 2004). Più avanti leggiamo: “Mai il mondo si è trovato dinanzi a scelte più drammatiche. Noi, gli umani, siamo in mezzo a una fase di grande decivilizzazione. In nome della civiltà il mondo occidentale, guidato da una superpotenza che non ha ancor imparato la lezione della Storia – che tutte le superpotenze sono transitorie, impermanenti, effimere come ogni altra cosa -, sta distruggendo la pace raggiunta attraverso un incivilimento che era stato lungamente meditato e per il quale si era combattuto. Nel giro di un anno si è visto questo smantellamento, questo disfacimento delle Nazioni Unite con la crisi irachena, dell’Europa, della sua costituzione, del piano di pace per il Medio oriente, del Trattato di non proliferazione nucleare, nonché la rinuncia ai trattati che già erano stati firmati, come quello di Kyoto per la protezione dell’ambiente. In un mondo così instabile occorre che le sue componenti fondamentali siano salde. L’umanità aveva lavorato con enormi difficoltà, dopo le due più catastrofiche guerre del secolo scorso, per rendere illegale la guerra, e trovare altri modi di risolvere i conflitti internazionali, al punto che molti Stati hanno incluso questo principio nelle loro costituzioni. Oggi la guerra è tornata ad essere un fatto accettato. La guerra non è più un tabù non soltanto per coloro che hanno deciso di romperlo, ma – fatto ancora più inquietante – per i tanti cosiddetti intellettuali, diventati lacchè dei potenti, che provano gusto a lodare la guerra; o per quelli che si servono della guerra e in nome del realismo godono della sconfitta di quelli che continuano a credere nella possibilità della pace. Per loro il pacifismo è una degenerazione dell’uomo, di cui dicono che è bellicoso per sua natura, che sempre è stato e sempre sarà violento. Ma vi prego, vi prego, riflettete su tutto ciò e rendetevi conto che non c’è futuro nella violenza. Vi esorto a educare i vostri figli alla nonviolenza, a educarli al rispetto alla vita, a tutta la vita…”

Sì la nonviolenza: apertura al vivente, alla sua esistenza, alla sua libertà, al suo sviluppo. La nonviolenza è il punto di applicazione più profondo per il sovvertimento di una realtà inadeguata. Così a Verona un mese fa nel giorno della Liberazione abbiamo detto che oggi Resistenza è Nonviolenza, Liberazione è Disarmo. Non saremmo dispiaciuti a Terzani, purché poi ci comportassimo coerentemente.

L’uomo è un legno storto

Siamo ancora tutti coinvolti nell’effetto emotivo provocato dai risultati delle recenti elezioni europee. E se ne comprendono le fondate ragioni. Personalmente li considero positivi, sia per alcuni evitati pericoli, che per qualche segnale di speranza. Noto però il permanere di una generale aspettativa verso il voto di tipo palingenetico o risolutore che non si addice alla normalità di una pratica democratica. Per questo motivo vorrei dedicare qualche considerazione più distaccata al tema della democrazia.
Immanuel Kant, il fondatore della morale laica, ricordava che “l’uomo è un legno storto”. Se il Novecento avesse tenuto presente questa massima ci saremmo evitate la grandi tragedie dei totalitarismi che provarono a raddrizzare quel legno con mezzi violenti e crudeli. Dopo millenni di esperimenti sociali siamo arrivati a considerare la democrazia come il regime ideale per gli uomini e le donne considerati uguali e liberi. Il cammino è stato lungo, difficile, contrastato. Basta fare due esempi.
Nella nostra tradizione occidentale facciamo risalire la nascita della democrazia all’Atene di Pericle, nel V secolo a.C. Bisognerebbe, però, avere chiaro che le istituzioni della democrazia moderna non hanno nulla a che vedere con ciò che nella Grecia classica si designava con questo termine. Lo Stato di diritto, il pluralismo, la divisione dei poteri, i Parlamenti, la libertà e i diritti degli individui, il suffragio universale: tutto ciò era sconosciuto alla democrazia degli antichi.
Il secondo esempio riguarda il suffragio universale: non tutti sanno che esso fu realizzato quasi 2500 anni dopo la nascita della democrazia classica. E, per dare un’idea del difficile rapporto con il suffragio universale da parte di un Paese all’avanguardia nella storia del liberalismo come l’Inghilterra, è significativo registrare che dalla famosa Magna Charta Libertatum del 1215, arriva al suffragio universale soltanto nel 1928.

Torniamo al rapporto tra l’affermazione di Kant e la democrazia. Possiamo dire che, concettualmente, la democrazia comprende sia l’accettazione degli individui come sono, sia la volontà di cambiarli.
Oggi il paradosso è che la democrazia ha vinto nel mondo ma, nello stesso tempo, sta attraversando una grave crisi di consenso, perché le sue pratiche si rivelano inefficienti rispetto alla soluzione dei problemi che le società del tempo globale devono risolvere. Per evitare che la democrazia diventi un involucro vuoto, occorre prendere sul serio i motivi della disaffezione nei suoi riguardi, che poi sono riconducibili a quelle che Norberto Bobbio chiamava le “promesse non mantenute” della democrazia. Ne voglio richiamare solo una ricorrendo non ad un feroce bolscevico, ma ad uno dei padri del liberalismo costituzionale moderno: Montesquieu. Nella sua opera principale, “Lo spirito delle leggi” (1748), afferma che ogni forma politica ruota attorno a un principio che ne regge il funzionamento: nella repubblica è la virtù, nella monarchia l’onore e nel dispotismo la paura. Quale è la virtù che riguarda la repubblica democratica? Montesquieu la considera talmente importante che ne spiega il significato già nell’introduzione dell’opera: “Ciò che io chiamo virtù nella repubblica è l’amore per l’eguaglianza”. E prosegue dicendo che le leggi devono operare per mantenere l’eguaglianza, perché non appena si sviluppa la ricchezza sfacciata da una parte e la miseria dall’altra la repubblica democratica è condannata a dissolversi.
Sul tema scriverà qualche anno dopo un altro grande padre della democrazia moderna: J.J Rousseau con il suo “Discorso sull’ineguaglianza” (1754).

E’ inutile aggiungere che attorno al nodo del rapporto tra libertà ed eguaglianza si è consumata una lotta durissima nei secoli che seguiranno, alternando conquiste e tragedie. Oggi abbiamo qualche idea più chiara su come sciogliere e non tagliare questo nodo, ma è anche vero che il mondo si è fatto più complicato rispetto all’aurora della storia della democrazia. Soprattutto, abbiamo imparato che eguaglianza e libertà, diritti e doveri, non coincidono necessariamente. E che il voto in quanto tale (diritto fondamentale), ad esempio, non garantisce la libertà e può addirittura condurre alla dittatura. Mai dimenticare la vittoria di Hitler nelle elezioni del 1933 e il fatto che quel 44% dei suffragi raccolti dal partito nazista includeva un gran numero di voti di operai e impiegati che nelle elezioni precedenti avevano votato per partiti democratici, socialisti, comunisti e liberali. Per evitare questi esiti occorre l’accordo di tutti i protagonisti della vita politica nel mantenere la democrazia come una casa di vetro, in modo che ogni cittadino sia messo nelle condizioni di controllare e, se lo ritiene, partecipare con coscienza e conoscenza. In questo modo la democrazia vive tutta la settimana e non solo la domenica quando si vota.

Fiorenzo Baratelli è direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara

Tory e Labour sottobraccio alla sconfitta. In Gran Bretagna vincono gli indipendentisti

di Emilia Graziani

Da LONDRA – Queste elezioni europee segnano in Gran Bretagna un inatteso cambiamento. Apparentemente siamo stati testimoni di uno sconvolgimento così eclatante che persino i solitamente rigorosi giornali e le reti televisive della nazione si sono visti obbligati a scegliere titoli a effetto che chiamavano in causa “terremoti politici” (The Guardian), “vittorie destinate ad entrare nella storia” (BBC News) e “partiti terrorizzati dai risultati elettorali” (The Telegraph).
Quanto ci sia di vero e quanto sia stato ingigantito per dare rilevanza alla voce “Europa”, è discutibile. Che agli inglesi i dibattiti sull’Europa interessino meno delle accese discussioni su quante zollette siano ammesse per tazza di the, è ampiamente testimoniato dalla scarsa affluenza alle urne. Infatti, nonostante le elezioni europee siano state anticipate al 22 maggio per farle coincidere con le local elections e i cartelloni pubblicitari che incitavano i cittadini al voto fossero onnipresenti, solo il 36% dei 46 milioni di elettori si è effettivamente presentato ai seggi. Quasi 10% in meno della media europea.
Il risultato, però, non è sembrato affatto sconfortante ai media britannici che immediatamente hanno cantato le lodi del popolo inglese per aver alzato di ben 1,3 punti la percentuale delle elezioni 2009 e aver così spezzato la catena che vedeva l’affluenza alle europee in continuo declino dalla prima elezione nel 1979.
Famosi per il loro pungente senso dell’umorismo, gli inglesi non hanno deluso le aspettative: quei pochi che si sono interessati all’Europa, lo hanno fatto per uscirne decretando la vittoria dell’Ukip, il Partito per l’Indipendenza del Regno Unito di Nigel Farage, con quasi 28 punti percentuali.
Il programma dell’Ukip prevede l’abbandono dell’unione politica con l’Europa (ma non commerciale, ovviamente), chiusura all’immigrazione, uscita dalla Corte Europea dei Diritti Umani per avere più libertà giuridica contro gli immigrati e una generica (e alquanto astrattamente motivata) riduzione delle tasse.
Sia che lo si definisca un voto di protesta o che si dia la colpa all’ignoranza inglese sulla legislazione europea il risultato parla chiaro e, ancora una volta, la Gran Bretagna si dimostra orientata verso la stretta protezionistica.
E’ un risultato forte, ma per ora solamente simbolico. Infatti, sebbene questa sia la prima volta in 100 anni che sia Tory che Labour vengono sconfitti, concretamente l’Ukip non ha una significativa rappresentanza politica nazionale potendo vantare solo tre rappresentanti alla Camera dei lord e nessuno alla Camera dei comuni.
Le conseguenze che è possibile aspettarsi dalla vittoria anti-europea dell’Ukip riguardano più che altro la direzione politica che dovranno prendere Tory e Labour per evitare che un risultato del genere si ripeta alle elezioni nazionali del 2015.
Il Primo Ministro David Cameron, leader dei Tory, dopo averlo promesso a lungo dovrà effettivamente trovare un modo per frenare l’immigrazione e sottrarsi al Parlamento Europeo senza compromettere le relazioni internazionali; mentre pare più facile il lavoro di Ed Milliband, nuova guida dei Labour, che ancora una volta dovrà far leva sul supporto degli immigrati per ottenere i voti necessari a sconfiggere Cameron.
Niente di rivoluzionario, insomma.
Un risultato elettorale del genere di certo fa notizia, ma onde non fare la proverbiale fine di Pierino col lupo sarebbe meglio valutare le conseguenze concrete di questo segnale politico prima di parlare di terremoti politici, vittorie storiche e risultati terrificanti.

Renzi e Tagliani, buon vento ai naviganti: le nubi sono già più in là

Le nubi si addensano sull’isola del sogno, ma Formentera é corrucciata non si sa per qual suo misterioso pensiero. Forse mi costringe a restare fisso a guardare la televisione con i risultati delle elezioni europee, mentre un vento circolare investe l’isola, cacciando il non piú giovane turista a trovare rifugio tra i commenti sapientucci dei nostri opinionisti intenti e volenti a dire cose perlomeno che suonino intelligenti. Ma la sera in uno splendido ristorante diretto da una signora che sembra uscita pari pari da un film di Almodovar, un discorso serio che la dama comincia e che rivela come anche qui – anzi piú che in Italia- la risposta non poteva essere che quella da molti auspicata: una necessitá di credibilitá e di fierezza contro il catastrofismo degli euro scettici e le tinte cupe di una discesa inarrestabile tra le maledizioni, i ghigni e le minacce dei 5 stelle. Diciamo che, a questo punto, la mia scelta sembra configurarsi – almeno questa é la mia convinzione – come una costante attenzione a un partito a cui va la mia fiducia e che ha espresso un leader che, pur non condividendone le scelte, ha portato a una vittoria che sembrava impossibile ottenere. Allora onore al vincitore, soprattutto perché ha salvato e rilanciato “un’idea di sinistra” o almeno il partito a cui va la mia scelta politica. E di questi tempi non é poco. Saremo vigili affinché le promesse siano mantenute e saremmo lieti se gli amici mi diranno che ho sbagliato. Ma non é questo che voglio e desidero. É ancora la necessitá di proteggere e di lottare per un’idea etica della politica. Si squarciano le nubi sopra il mare che trascolora con riflessi di perla, e mi arrivano le prime notizie di una probabile vittoria al primo turno di Tiziano Tagliani, come si scriverebbe nel vocabolario ripetititivo e poco fantasioso dei politici, “senza sí e senza ma”. Ne sono lieto e sollevato, anche perché la minaccia grillina, cosí cavalcata anche dalla “Ferrara bene”, sembra essersi sgonfiata in una protesta i cui segni si misurano nella eccessivitá degli insulti e delle urla. Fra poco non sentiró piú il vento pettinare le chiome delle palme e non vedró piú i fichi d’India carichi di fiori dai colori prepotenti e decisi; non passeggeró piú su spiagge candide e il mare – “carogna – non mi leccherá piu i piedi” (la citazione è da una frase di Pavese al confino a Brancaleone Calabro). Sará triste, anche perché il mio destino di viaggiatore é stato quello di scoprire e vedere i mari piú belli del mondo senza amarli. Questa volta é diverso. L’Eden mi ha fatto credere o illudere che la follia umana, in fondo, può placarsi in uno scatto di reni e che, purtroppo, non potremmo mai piú vivere nel paradiso. Che resta e deve restare un’utopia e una speranza.

Il triangolo di ferro

Quello che si muove nelle politiche scolastiche di casa nostra pare sempre più non essere tutta farina del nostro sacco. Il triangolo di ferro, usato come metafora per la prima volta dagli analisti politici americani, si è allargato a macchia d’olio nel mondo, fino al mercato dell’istruzione globale.

I triangoli sono i più forti, i più solidi, i più resistenti tra le forme geometriche di base. I cerchi scivolano via, i rettangoli vacillano e i parallelogrammi crollano alla minima provocazione. Ma i triangoli tengono inesorabili ad ogni cambiamento. Ecco perché lo sgabello a tre gambe è robusto, il triciclo stabile e l’antica piramide un trionfo dell’architettura. Se poi il triangolo è di ferro è ancora più duro, più forte e potente. Non a caso per gli analisti politici è la metafora del potere.
Il triangolo di ferro racchiude uno spazio che è praticamente impossibile da penetrare per la gente comune, in modo che le decisioni politiche a favore dei gruppi che contano non siano influenzate dalla pressione esterna del pubblico che ne potrebbe mettere a repentaglio l’efficace conseguimento.
Curiosamente, la metafora del triangolo di ferro è raramente applicata alla politica scolastica, all’istruzione, alla conoscenza. Ma sarebbe davvero da miopi non avvedersi dei segnali che ormai in diversa misura vanno disegnando i sistemi scolastici del mondo globalizzato, sempre più ingabbiati in un triangolo di ferro dalle dimensioni mondiali.
«Grazie del vostro interesse per il principale marchio dell’industria dell’istruzione!»
Così si presenta nel proprio sito web l’Educate, Inc. La compagnia che incorpora politici, universitari e finanzieri privati, di vario genere e provenienza, nel nuovo mondo dell’industria dell’istruzione, della conoscenza, dell’editoria e dell’informazione.
Quali sono le conseguenze dell’enorme crescita di queste compagnie multinazionali?
Solo alcuni anni fa poteva essere ancora difficile misurarne i reali effetti, limitandoci a intuire i prevedibili esiti. Oggi sono sotto gli occhi di tutti, sono quelli di un triangolo di ferro che nell’era della globalizzazione erode spazi ai governi dei singoli paesi, all’autonomia delle scuole, ai diritti degli studenti e delle loro famiglie.
Tutta l’industria della conoscenza globale manifesta chiaramente un unico e inequivocabile indirizzo, quello di uniformare il più possibile l’istruzione e la cultura, in funzione dei profitti da ricavare sul mercato scolastico, dall’uso e dalla produzione internazionale di test, di banche dati, dalla pubblicazione dei libri di testo per il mercato mondiale.
Assistiamo alla crescita di un commercio sempre più controllato dalle corporazioni del profitto scolastico. In definitiva il mercato globale della scuola, dell’editoria, dell’informazione e gli interessi delle compagnie che lo gestiscono finiscono per incidere prepotentemente sulle scelte e sulle politiche dei singoli Stati, che rischiano di restare stritolati tra i lati del triangolo di ferro.
La Pearson, multinazionale angloamericana dei media, leader mondiale dell’editoria e delle banche dati per l’istruzione, ha sede in Inghilterra. Con lo slogan ”Imparare sempre” e con oltre ventinovemila dipendenti è presente in sessanta paesi, tra cui l’Italia. Del gruppo Pearson fanno parte il Financial Times e giganti dell’editoria mondiale come Penguin, Dorling Kindersley, Scott Foresman, Prentice Hall, Addison Wesley e Longman, ampiamente conosciuti anche da noi, almeno attraverso i loro siti internet.
La Pearson fornisce test e software per l’apprendimento agli studenti di tutte le età e di tutto il mondo, esercita, inoltre, un ruolo rilevante nel mondo dell’Ocse-Pisa.
Oggi, secondo la descrizione fornita dalla stessa azienda, i suoi test servono l’industria delle tecnologie dell’informazione e della certificazione professionale, la concessione delle licenze e i controlli di mercato. Dai centri operativi degli Stati Uniti, del Regno Unito, India, Giappone e Cina, l’azienda offre una varietà di servizi per il mercato della valutazione elettronica.
Si va dai test on line per l’ammissione a college e università, ai test per la patente, fino all’occupazione, alle risorse umane e sicurezza, ai servizi finanziari, alla medicina e sanità. Ancora le assicurazioni, i servizi legali, immobiliari, perizie, controlli e monitoraggi.
La Pearson edita The Learning Curve, il rapporto annuale sull’andamento dell’apprendimento nel mondo dall’infanzia all’età adulta, redatto dall’Economist Intelligence Unit. Un’indagine comparativa condotta fra i sistemi scolastici di oltre 50 paesi.
Il valore di mercato che l’istruzione può fornire attraverso l’apprendimento delle competenze è enorme. L’ Ocse stima che la metà della crescita economica dei paesi sviluppati negli ultimi dieci anni discende dall’ aumento delle competenze. Individuare il modo migliore per fornire le abilità di base agli studenti è, quindi, per il mercato mondiale una questione di rilevante importanza.
The Learning Curve 2014, pubblicato lo scorso otto maggio, fa il punto su cosa devono apprendere i paesi per inculcare nei loro studenti le competenze rilevanti per l’economia, come mantenerle e accrescerle negli adulti.
Per il mercato sono vincenti i sistemi educativi che mandano a scuola i bambini presto e dove è alta la pressione delle famiglie e della comunità sociale sulla riuscita del loro rendimento. Anche quando l’istruzione primaria è di alta qualità, le competenze declinano in età adulta, se non sono utilizzate regolarmente. Ciò che conta sul mercato del lavoro non è il numero degli anni trascorsi sui banchi di scuola, ma la qualità delle competenze apprese, che dipende dalla preparazione degli insegnanti.
I paesi asiatici come la Corea del sud, il Giappone, Singapore e Hong Kong che hanno scalato la classifica del Learning Curve Index 2014, scalzando dalla vetta la Finlandia, hanno sistemi scolastici fondati sull’apprendimento meccanico. Gli alunni della Corea del sud, due volte a semestre, sostengono esami che per essere superati richiedono di mandare a memoria da sessanta a cento pagine di nozioni.
Di fronte a questi dati, per tornare alle vicende di casa nostra, sorge il sospetto che l’intenzione annunciata dal nostro ministro Giannini, di anticipare a cinque anni l’ingresso nella scuola primaria e quella, condivisa con il ministro Carrozza, di ridurre a quattro il curricolo delle scuole superiori, anziché essere l’esito di una rigorosa e approfondita ricerca sulle reali necessità del nostro sistema formativo, sia invece espressione della dipendenza anche del nostro Paese dal potere pervasivo del triangolo di ferro che ormai conduce il gioco dell’istruzione mondiale. Non ci resta che attendere il ritorno all’apprendimento a memoria.