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Guanxi: altri modi per dire reciprocità

Guanxi è un termine cinese che sta ad indicare l’insieme delle relazioni sociali utili ad un individuo nella propria vita. Il termine indica un sistema di relazioni profonde, una trama di rapporti sociali ed economici, che si forma sin dalla scuola: i genitori, infatti, scelgono una scuola dove il figlio potrà inserirsi in un gruppo su cui trovare punti d’appoggio in età adulta. A questo network un individuo può fare riferimento per velocizzare pratiche burocratiche, ottenere informazioni importanti o conseguire altri favori. Non necessariamente le guanxi devono essere dirette, ma possono essere mediate da quelle di altri.
Il concetto, rilevante per il funzionamento delle relazioni sociali in Cina, può essere accostato a quello di capitale sociale, consolidato da tempo nella letteratura sociologica ed economica, ma ne accentua la dimensione fiduciaria.
In Cina l’enfasi sulle guanxi scaturisce dall’assenza di uno spazio pubblico e dall’assenza di istituzioni che garantiscono un funzionamento trasparente della società. Così le persone, non potendo contare su regole, cercano di sopperire attraverso rapporti personali stretti.
Nei contesti in cui il sistema delle istituzioni pubbliche non è abbastanza solido e trasparente, il singolo deve contare su relazioni dirette, basate sull’attesa di reciprocità. Questo stesso criterio impronta anche i rapporti di mercato: chi ha fatto esperienza del mercato cinese, ha sperimentato che le relazioni personali e di fiducia sono fondamentali per operare in quel contesto. Non a caso, una recente ricerca, condotta da un gruppo di studiosi dell’Università di Hong Kong, propone il termine guanxi, come emblematico della capacità di costruire, attraverso le piattaforme social, legami con i clienti. Il caso citato riguarda TaoBao, la più grande piattaforma di e-commerce cinese. TaoBao è l’unica piattaforma di business online ad aver raggiunto un tasso di fedeltà tra i propri clienti del 71%, tipica soltanto della vendita face-to-face. E ciò sembra avvenuto grazie alla compenetrazione tra il sistema delle guanxi con le moderne tecnologie sociali. Non è un caso che Ebay – in Cina con il nome di EachNet – sottovalutando l’aspetto social delle transazioni commerciali, abbia ottenuto soltanto lo 0,1% del mercato on line rispetto al 96% di TaoBao. Vi è da scommettere che il concetto sintetizzato dal termine guanxi diventerà una nuova linea guida per il marketing.
Due riflessioni, più spostate sul versante dei fenomeni sociali. La prima riguarda la capacità delle tecnologie sociali di costruire on line durevoli rapporti di fiducia. Diverse ricerche sembrano sottolineare la capacità dei social network di sedimentare capitale sociale e di dare vita a relazioni prossime a quelle scaturite dai contatti quotidiani in presenza. Un linguaggio intimo, l’uso delle immagini e di contenuti emozionali, tendono a produrre empatia ed identificazione. I social network sono in grado di trasformare i rapporti on-line tra persone che non si conoscono, in relazioni personali tra amici, sia pure virtuali, e aumentano la percezione di agire per interessi comuni.
La seconda riflessione riguarda il tema della supplenza di legami personali – da qualunque fonte essi siano alimentati – per fare fronte all’assenza di solidi riferimenti nel funzionamento della vita pubblica. Un contesto istituzionale inaffidabile e corrotto spinge a cercare sostegno nelle reti personali, ma contribuisce a generare un meccanismo perverso di sfiducia nell’azione pubblica e di mancanza di trasparenza che non giova alla vita civile e, certo, neanche al mercato.

Maura Franchi (Sociologa, Università di Parma) è laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing e Web Storytelling, Marketing del prodotto tipico. I principali temi di ricerca riguardano: i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@unipr.it

Lo sterco del diavolo

L’onorevole Zoggia parlamentare veneziano del Pd esterna stupore ed un malcelato nervosismo perché uno dei tanti indagati dell’ennesimo scandalo, il Mose, l’ha accusato di aver ricevuto un contributo elettorale di 65.000 euro elargitogli nel 2008 in una delle tante “cene” che impegnano duramente gli aspiranti alla medaglietta parlamentare. “E’ tutto contabilizzato”, dichiara serafico il Nostro.
“Dove sta il reato? Di che parliamo”. È la risposta secca ed anche scocciata. “Un normale contributo” dichiarano i suoi difensori.
Ha ragione lui. Il reato non c’è. Si passi oltre. No caro onorevole! Penalmente Lei non ha nulla da temere, ma è sufficiente questo? E la Politica (quella che tanti a sinistra chiedono e rivendicano), i valori di cui deve essere sempre permeata non sono forse stati violati da un convivio in cui brillavano tra i presenti e probabili finanziatori diversi amministratori della famigerata cupola Consorzio Venezia Nuova? C’era persino quel Pier Giorgio Baita, allora presidente della Mantovani (impresa già attenzionata dalla Magistratura anni prima), che ora confessa di aver distribuito oltre un miliardo di euro in tangenti e regalie. Una banda di noti filantropi che non si muove mai a caso. E’ “normale” tutto questo o anche a sinistra ha prevalso la pratica del “pecunia non olet”. Queste frequentazioni interessate stridono con l’etica politica e segnalano un relativismo valoriale da condannare. Un esame del sangue ai tuoi commensali caro Zoggia andrebbe sempre fatto, preventivamente. Ti dichiari per la politica onesta e pulita, per la trasparenza? Bene allora evita aziende che hanno fondato sulla corruzione le loro fortune. Non solo. Ma anche quelle che hanno falsificato i bilanci, hanno inquinato l’ambiente (vedi i centomila euro dati al Pd dall’Ilva di Taranto) o sono state condannate perché colpevoli di gravi incidenti sul lavoro… E’ fare demagogia chiedere almeno questo a chi si dichiara ad ogni piè sospinto militante e dirigente di una “nuova sinistra”?
Abolire le “cene” elettorali non sarebbe una gran perdita. Credo. Disciplinare gli ormai “famigerati” contributi “personali” sarebbe un bene per i candidati ed il partito che li esprime. So bene che i tempi sono cambiati. Nel confronto elettorale i partiti eccitano la personalizzazione quasi sempre per mascherare le loro manchevolezze. Cercano una plusvalenza politica nella “personalità” che indicano, ma la correlazione partito-candidato rimane, per fortuna, ancora molto intrecciata. Se questi toppa sul piano morale o dell’etica pubblica il danno per chi lo ha espresso è enorme. L’opinione pubblica radica il suo giudizio sul “son tutti eguali” e Grillo gongola. Che fare quindi? Trasparenza pubblica assoluta sui finanziamenti di cui però si deve assumere controllo e quindi responsabilità anche il partito in questione. Vietato il libero arbitrio sull’uso dei fondi avuti dopo che organismi collettivi politici ne hanno accertato la liceità non solo penale ma anche morale.
Caro Zoggia la magistratura non avrà nulla da eccepire sui 65.000 euro, io si e con me – ne
sono sicuro – tanti che vorrebbero continuare a votare Pd senza turarsi il naso.

Gli Estensi e la cultura: vivacità intellettuale, lungimiranza e progettualità

AMMINISTRAZIONE DEGLI ESTENSI A FERRARA/2

Nel XV secolo, grazie soprattutto ai grandi artisti che diedero vita alla celebre “officina ferrarese”, Ferrara si connotò come uno dei più importanti centri rinascimentali italiani. All’ombra della casa d’Este operarono, sin dalla prima metà del Quattrocento, artisti come il Pisanello e Iacopo Bellini. L’illuminato Leonello creò infatti le condizioni per lo sviluppo del grande rinascimento estense, ospitando ad esempio l’umanista Flavio Biondo, Guarino Guarini, Leon Battista Alberti, Andrea Mantegna, Piero della Francesca e altri artisti, letterati e filosofi. Ma fu con Borso che si affermò la scuola pittorica ferrarese, per merito di Cosmè Tura (1430-1495), Francesco del Cossa (1436-1478) ed Ercole de Roberti (1450-1496). E in campo letterario si alternarono, tra la fine del Quattrocento e la fine del Cinquecento, i grandi poeti Matteo Maria Boiardo (1441-1494), Ludovico Ariosto (1474-1533) e Torquato Tasso (1544-1595).
Leonello d’Este, durante il suo poco meno che decennale principato, tenne Ferrara lontana dalle guerre, migliorando così le condizioni economiche dei cittadini, esentati dalle spese militari. Egli fu il primo della dinastia Estense a perseguire con coerenza il consenso della popolazione, in specie tramite gli sgravi fiscali, l’investimento di capitali per dare impulso all’economia, la realizzazione delle bonifiche, la promozione di provvedimenti finalizzati ad alleviare gli stenti dei poveri e degli ammalati. Borso fu di certo più pragmatico di Leonello, preferì le arti “minori” (si pensi alla famosa Bibbia) e si dedicò prevalentemente all’attività edilizia e urbanistica.
In seguito, con la reggenza di Ercole I d’Este, i ferraresi assistettero al raddoppiamento della città generato dal grande piano dell’Addizione Erculea (peraltro intrapreso anche per rispondere, con massicce domande di manovalanza, all’indigenza che ancora regnava nei ceti più bassi), videro sorgere le chiese e i palazzi, mettere in scena le commedie dei classici latini, allestire i tornei, il Palio, le cerimonie. I costi di tali opere, frutto in larga parte del genio di Biagio Rossetti, finirono per pesare anche e soprattutto sulle tasche dei cittadini. Solo più tardi divenne a tutti palese (oggi vanto) la lungimiranza con cui tali imprese furono progettate e realizzate. E che qualificarono Ferrara come la prima città moderna d’Europa: per la sua sobria bellezza, per l’efficacia delle soluzioni urbanistiche adottate, per il potenziale sviluppo socioeconomico che la sua struttura lasciava intuire.

Sette buoni motivi per tenersi in movimento

Meglio correre o camminare? La domanda tormenta medici e sportivi da almeno trent’anni anni. Diversi studi recenti hanno chiarito alcuni punti: a parità di sforzo, la camminata è più salutare mentre la corsa fa dimagrire più in fretta.

L’attività motoria fa bene alla salute. Basta anche solo mezz’ora di moderata attività fisica per cinque giorni alla settimana per guadagnare il 19% di aspettativa di vita in più. Questo il risultato di un’altra ricerca condotta dai ricercatori dell’Università di Cambridge e pubblicata sull’ International Journal of Epidemiology.
“Camminare fa bene al cervello” titolava il 18 ottobre scorso il Corriere di Milano, riprendendo all’uopo uno studio pubblicato sulla rivista Neurology da un gruppo di ricercatori dell’Università di Pittsburgh secondo cui, percorrendo circa un chilometro al giorno, il rischio di andare incontro a compromissione cognitiva si dimezza.
Un principio della scienza osteopatica dice “la vita è movimento”.

Di seguito almeno sette buoni motivi per cui vale la pena dedicare almeno mezz’ora al giorno al movimento fisico.

Patologie cardiovascolari: sia la corsa che la la passeggiata, entrambe migliorano la salute, abbattendo significativamente i rischi legati alle patologie cardiovascolari; come vedremo l’attività fisica giova alla circolazione, al metabolismo, al buon funzionamento del sistema nervoso, ma prima di tutto è necessario per una buona ossigenazione del sangue e aiuta a mantenere la pressione arteriosa ed il colesterolo entro limiti normali.

Osteoporosi: camminare fa bene perché permette la rigenerazione ossea, dunque previene l’osteoporosi. Se le ossa sono “in carico”, in movimento, generano una vibrazione che stimola le cellule a riprodursi. Le ossa del nostro sistema scheletrico subiscono un ricambio continuo per tutta la vita e si rigenerano ogni 48 ore. A tale proposito, una curiosità: dopo un periodo prolungato in assenza di gravità, per gli astronauti si verifica una condizione di “osteopenia”, una riduzione della massa ossea data dalla assenza di carico a causa della mancanza della forza di gravità.

Circolazione periferica: il movimento e l’attività fisica consentono al flusso sanguigno di irrorare gli organi periferici. Probabilmente, se avete le mani ed i piedi sempre freddi, conducete una vita troppo sedentaria. Le persone che soffrono di gonfiore alle caviglie, senso di pesantezza alle gambe la sera, comparsa di varici, peggiorano se conducono una vita sedentaria. Camminare, invece, svolge una benefica azione preventiva.

Metabolismo: spesso mangiamo più di quanto effettivamente serva al nostro organismo. Il movimento ci aiuta a consumare energia. Il corpo in attività utilizza i depositi di acidi grassi contenuti nelle cellule adipose, ed è per questo che lo sforzo favorisce la perdita di tessuto adiposo. In particolare l’attività fisica regolare agisce direttamente sulla corticotropina (CRF), che induce una riduzione delle calorie introdotte e un aumento del consumo di energia.

Depressione: il sistema ortosimpatico, insieme a quello enterico e parasimpatico, è una delle tre parti del sistema nervoso autonomo. La sua azione generale è quella di mobilitare le risorse del corpo sotto stress, per indurre all’azione, a prendere decisioni. L’attività fisica permette di attivare il sistema ortosimpatico e di reagire a condizioni di tensione quotidiana trasformando questa energia in azione.
Camminare è un antidepressivo naturale. Quando i muscoli si attivano, producono molecole importanti come le endorfine e la serotonina che aumentano il tono dell’umore. Chi cammina con regolarità nota una diminuzione dello stress e della depressione, dorme meglio e vede la vita mentalmente ed emotivamente in modo più positivo.

Attività cognitive: camminare migliora le attività cognitive, anche più di faticosi esercizi o dello stretching. Lo ha evidenziato uno studio condotto su 124 persone sedentarie, dopo un allenamento basato sullo walking per 45 minuti, 3 volte la settimana, per 6 mesi. Questa attività, stimolando le funzioni cardiorespiratorie, aumenta l’irrorazione di sangue al cervello, migliorandone di conseguenza le funzioni. Si impara a respirare meglio: inspirare ed espirare col naso migliora la capacità respiratoria in sé.

IMMAGINARIO
Al cinema “Tass, storia
di Stefano Tassinari”

Tass, la storia di Stefano Tassinari (Italia/2014/90′) di Stefano Massari sarà proiettato al cinema Arlecchino di Bologna, via Lame 57, mercoledì 11 giugno alle 19,30 nell’ambito del BiograFilm festival 2014 [vedi il trailer ufficiale]

 

Coniugava la passione politica con il rigore etico e concepiva la cultura non come privilegio di casta ma strumento di emancipazione per tutti. Stefano Tassinari, figura eclettica del panorama culturale italiano, è mancato due anni fa (l’8 maggio 2012), ma di lui e della sua opera si continua a parlare attraverso continue iniziative che testimoniano l’affetto di coloro che lo hanno conosciuto e il bisogno di coltivare il suo pensiero.

Scrittore, giornalista e politico ferrarese trapiantato a Bologna, ma sempre intimamente legato alla propria città, Tassinari è stato un intellettuale a tutto tondo, che ha concepito l’impegno culturale come essenza di un progetto politico di profonda trasformazione della società.

Il suo agire era orientato da una ben precisa e connotata concezione politico-sociale movimentista, sempre attenta e sensibile ai fermenti e ai mutamenti sociali. Non a caso Stefano Tassinari è apprezzato e riconosciuto interprete letterario delle istanze partecipative e degli impulsi di radicale trasformazione che in Italia hanno avuto il loro acme fra il 1968 e il 1977. Di quella mancata rivoluzione democratica si ritrovano significative tracce e illuminanti interpretazioni praticamente in tutta la sua opera narrativa, con particolare insistenza nel romanzo “L’amore degli insorti” e nel suo ultimo lavoro, la raccolta di racconti edita sotto il titolo “D’altri tempi”. Ma già le vicende legate alla lotte di liberazione in Spagna e in Italia, narrate in “Il vento contro” e “L’ora del ritorno”, possono esserne considerate un prologo, così come “I segni sulla pelle” che racconta, con stile letterario ma trasparenti riferimenti alla cronaca, la tragica vicenda del G8 di Genova può in qualche misura rappresentarne una sorta di epilogo.

Stefano concepiva l’impegno letterario non come esaltazione di un talento individuale ma, al contrario, come affermazione di una dimensione collettiva dal fare attraverso l’arte della parola scritta, un esercizio che raggiunge un esito particolarmente significativo nella raccolta “Lavoro vivo”, opera narrativa frutto di una pluralità di contributi attorno al tema dei diritti e della tutela dei lavoratori.

Parte significativa del suo impegno si è indirizzato al lavoro giornalistico, quello svolto a Ferrara specificamente con Luci della Città, e il successivo a Rete 7 prima e per l’Unità e Liberazione successivamente, sino alla sua ultima creazione, la rivista Letteraria di cui è stato fondatore e direttore fino al giorno della sua scomparsa, avvenuta a seguito di una terribile malattia contro la quale ha lottato per anni con la forza e la tenacia che gli erano connaturati.

Anarchici, poveri, sontuosi: sono mille papaveri rossi

“ Dormi sepolto in un campo di grano / non è la rosa non è il tulipano / che ti fan veglia dall’ombra dei fossi / ma sono mille papaveri rossi.”

La poesia dei papaveri è tutta qui: rossi come il sangue, poveri come un’erbaccia, sontuosi nella loro incredibile fragilità ed eleganza; anarchici sempre. Amanti del vento, riempiono di colore fossi, crepe di muri e cantieri assolati, oppure costruiscono paesaggi incredibili quando ai contadini scappa il controllo delle infestanti e ai bordi di un campo di grano, formano strisce drammatiche di rosso acceso, un richiamo ricco di poesia a coloro che i campi li hanno irrigati con il sangue, come nel caso del papavero delle Fiandre che cresceva nelle campagne devastate dalla prima guerra mondiale nel Nord della Francia. Chi non conosce le parole della canzone di De Andrè? Quante volte l’abbiamo cantata e ascoltata, o solo pensata, quando i nostri occhi si sono appoggiati sul miracolo di questo fiore. Un fiore plebeo vestito di seta pura, conosciuto e coltivato dai tempi dei tempi per il suoi semi preziosi e per la linfa così ricca di sostanze calmanti e anti-dolorifiche, da poterlo veramente definire una pianta “stupefacente”.
Un po’ di storia: il genere dei papaveri comprende circa un centinaio di specie, per lo più originarie delle regioni del Mediterraneo e del Medio Oriente, fino all’India, coltivate poi nei secoli, in tutte le regioni temperate e sub-tropicali. I Romani conoscevano bene le virtù terapeutiche di questa pianta e nonostante il suo colore sia una sferzata di energia, i miti e le divinità a cui veniva collegata erano quelle dei sogni, del sonno e dell’oblio. Una leggenda narra che Tarquinio il Superbo, re di Roma, per far capire al figlio Sesto Tarquinio che il modo migliore per sottomettere la città di Gabi fosse eliminarne fisicamente gli uomini di potere, per rendere esplicito il consiglio, andò in giardino e decapitò, con un colpo netto di bastone, le teste dei papaveri più alti. Da questa leggenda è derivato il modo di indicare i potenti con l’espressione: “alti papaveri”. Questo episodio è stato immortalato sulla tela dal pittore romantico Lawrence Alma-Tadema. Nel quadro tra le figure immobili come statue, spicca il movimento dei petali che esplodono letteralmente per il colpo secco inferto dal re.
Leggende a parte, il fatto che gli storici del tempo raccontino questo episodio, mi fa pensare che nei giardini dei primi re di Roma, i papaveri crescessero liberi e tranquilli, in aiuole e prati ben lontani dall’idea leccata che abbiamo dei giardini di lusso dei grandi del passato.
È possibile coltivare papaveri in giardino, a patto di accettarne la loro assoluta imprevedibilità. I papaveri di campo e i più raffinati papaveri orientali, hanno in comune di non amare i trapianti. Il seme deve cadere dove crescerà la pianta, ma essendo molto difficile distinguere le piantine appena germogliate da altre erbacce, di solito finiscono per fare una brutta fine. Si hanno buoni risultati seminando i minuscoli semi nei vassoi tipo Multipot (quelli che usano nei vivai) oppure, si possono fare esperimenti casalinghi con le vaschette di cartone delle uova. Il terreno deve essere fine e leggero (un terzo terra, due terzi sabbia di fiume) e quando i semi cominciano a germogliare, bisogna diradare le piantine e poi metterle a dimora prima che le radici siano troppo sviluppate. Non ho mai provato, ma se si usano le vaschette delle uova, forse è sufficiente tagliare il fondo della vaschettina di cartone e piantare tutto insieme, in questo modo la terra non si dovrebbe mai staccare dalle fragilissime radici. Per avere i papaveri in un prato rustico e fiorito bisogna seminare in pieno campo e in pieno sole, sperando che in primavera, le giovani piantine non siano soffocate da altre erbe. I migliori risultati si ottengono quando il prato è giovane e la concorrenza ridotta, ma negli anni, i fiori e le erbe cominceranno la loro lotta per la sopravvivenza e i papaveri cercheranno spazio ai bordi o dove la vegetazione è più rada. I papaveri orientali si comportano allo stesso modo, però sono più grandi di quelli di campo e offrono una varietà di colori che vanno dal bianco puro, al rosso ciliegia, fino alle sfumature più raffinate del rosa antico. Nel mio giardino ho cercato di farli fiorire dove volevo io, senza mai riuscirci, però ho avuto la soddisfazione di ammirarli dove volevano loro: qualche estate fa insieme ad una spettacolare fioritura blu di borragine, e ormai da qualche anno, sul ciglio della strada, liberi di andare o di restare.

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Nell’inferno dei malati di gioco: ‘Ricadere nel vortice è un attimo’

di Valerio Lo Muzio

“Ho perso tutto” dice con lo sguardo nel vuoto e la voce sicura, di chi è convinto di aver ormai superato la tempesta. Ad aver “perso tutto” è Francesco, 38 anni e un passato da giocatore accanito, la sua passione erano le scommesse sportive e la sala ippica dove ha buttato tutti i suoi soldi, ininterrottamente per undici lunghi anni. Un decennio della sua vita fatto di sotterfugi, di inganni, prima alla famiglia e poi a se stesso per continuare a servire quella dipendenza che è il G.a.p. , comunemente conosciuta come gioco d’azzardo patologico. “E’ peggio dell’alcolismo” dice Francesco, un nome di fantasia, perché preferisce rimanere anonimo “Scommettevo sempre, passavo 5 ore tutti i giorni nella sala scommesse, non riuscivo neanche a più a seguire un evento sportivo se non ci avevo giocato”. Francesco, si apre e racconta:“Nella mia carriera di giocatore, ho perso 300 mila euro, ma soprattutto 11 anni di relazioni sociali, di rapporti con mia moglie, mi sono perso l’infanzia di mia figlia”.

Francesco, ormai non gioca più da 5 anni, è entrato a far parte di Giocatori Anonimi Bologna, un’associazione senza fini di lucro che, grazie a tecniche di condivisione della malattia e un programma di astinenza e recupero strutturato in 12 passi, combatte l’azzardopatia. Il gioco d’azzardo patologico, è stato infatti classificato come una dipendenza comportamentale dal ‘Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders’ , la bibbia degli psicologi di tutto il mondo. Basti pensare che in Emilia Romagna, quarta regione italiana per fatturato da gioco d’azzardo (8.534 milioni di euro nel 2012) ), secondo le stime CNR su dati Ipsad (rilevazione sul consumo di alcol, fumo, sostanze illegali e sul gioco d’azzardo che viene svolta in Europa), sarebbero circa 10 mila i giocatori ad alto rischio di dipendenza, mentre secondo la Regione, nel 2012 erano 800 i giocatori con una dipendenza dal gioco in cura presso l’Ausl. Nel panorama nazionale, le cifre invece sarebbero molto più elevate, secondo l’inchiesta Azzardopoli condotta dall’associazione Libera, sono infatti 800 mila i giocatori patologici in tutto lo stivale, il gioco d’azzardo è un business da 80 miliardi l’anno, ovvero il 4% del pil nazionale.

Iniziare a giocare è facile, lo conferma anche Francesca 31 anni, entrata volutamente nel 2008 in Giocatori Anonimi, perché “mi sentivo intrappolata in un qualcosa più grande di me” confessa. Francesca ha iniziato a inserire soldi nelle slot machines all’età di 14 anni, attirata dalle vincite “era adrenalina pura” racconta “giocavo la paghetta settimanale, finché raggiunta un’indipendenza economica ho iniziato a fare sul serio”. E’ proprio la vincita l’input iniziale, secondo la dottoressa Maria Grazia Masci, psicologa in forza al Sert (servizio per le tossicodipendenze) del’ Ausl di Bologna, “generalmente si parte da una vincita, ma questo non basta, per diventare giocatori patologici c’è un’unione tra i problemi dati dalla vulnerabilità psicologica e biologica e i problemi sociali”. Anche secondo Carlo, 47 anni ed ex giocatore patologico, la vincita “non aiuta i giocatori patologici, anzi peggiora le cose”, quando gli chiediamo spiegazioni, lui sospira e ci racconta la sua storia: “feci una grossa vincita al totocalcio dei cavalli, vinsi trentasette milioni di lire con una schedina da 18mila lire, con quelli progettavo di chiudere i miei debiti con le banche, di sistemarmi e tenermi qualcosa da parte, però nonostante i buoni propositi, mi sono giocato tutto”.

Una cosa che caratterizza e accomuna in qualche modo tutti i giocatori patologici sono le convinzioni errate, quegli stravolgimenti della realtà, che la psicologa del Sert definisce “distorsioni cognitive”, e che Francesco ricorda con una distaccata e fredda lucidità rivedendosi come riflesso in uno specchio in “quei pomeriggi dove, perdevo 5 mila euro, poi all’ultima corsa ne vincevo 500, tornavo a casa convinto di aver vinto anziché aver perso 4.500 euro. Perché quando sei malato, passa tutto in secondo piano, non importa se hai vinto o hai perso, l’importante è il giocare”. Il costo maggiore della patologia del gioco lo paga la società, a causa delle continue perdite, i giocatori infatti, mettono a repentaglio la stabilità economica della propria famiglia “ci sono situazioni in cui i padri si sono giocati i soldi per mandare all’università i figli” rivela la Masci. Ma i soldi in qualche modo, il giocatore riesce sempre a trovarli “il giocatore è come un genio della finanza” racconta Francesco : “Riducendosi a chiederli in prestito, spesso dagli amici” continua “ma c’è anche chi ricorre a situazioni non propriamente legali pur di continuare a giocare”. “La cosa di cui ti priva il gioco” ricorda Francesca “è la serenità, ogni volta che entravo in casa erano urli e alle volte si arrivava anche alle mani, ero frustrata da quel continuo perdere soldi”.

Ma da questa piaga si può guarire? “No, non si può guarire – racconta Francesco – è impossibile, ma si può smettere di giocare, è una malattia per la quale bisogna chiedere aiuto e va tenuta monitorata, noi non possiamo giocare neanche 50 centesimi perché ti riporterebbe nello stesso vortice da cui siamo usciti” Come dire: Fine pena mai.

[© www.lastefani.it]

Il memofilm in scena al FilmFestival della salute mentale di Roma

Il cinema come terapia per aiutare i malati di demenza senile a ricordare attraverso “memofilm” costruiti sulla persona: un’iniziativa emiliana che approda al FilmFestival della salute mentale di Roma. L’idea di Eugenio Melloni e piaciuta al regista e sceneggiatore Giuseppe Bertolucci è stata portata avanti con un progetto scientifico della Cineteca di Bologna e dell’Azienda pubblica dei servizi sociali Giovanni XXIII. Oggi – sabato 7 giugno – il progetto “memofilm” sarà protagonista della quarta edizione dello Spiraglio FilmFestival, manifestazione promossa da Roma Capitale con un’alternanza di momenti di cinema, proiezione di film in concorso, eventi speciali e contributi del mondo sociale, scientifico ed educativo. Diretto da Federico Russo e Franco Montini, rispettivamente direttore scientifico e artistico, Lo Spiraglio FilmFestival punta a raccontare attraverso le immagini il mondo della salute mentale e le possibilità di cura legate alla potenza dell’immaginario e del mezzo audiovisivo.

Uno spazio particolare avrà quest’anno il “memofilm” ovvero il progetto realizzato con oltre una decina di filmati personalizzati per ridare l’identità perduta a persone malate di Alzheimer o di altre forme di demenza, ma che sono riusciti anche nell’intento di correggere disturbi del comportamento che nessun farmaco era riuscito a modificare. Il linguaggio audiovisivo che interviene con successo laddove quello verbale è in crisi è alla base dei risultati sottoposti a una ricerca durata cinque anni, condotta da un team di psicologi, medici e registi per aiutare malati gravi di smemoratezza, grazie a un accordo tra l’Asp Giovanni XXIII e la Cineteca di Bologna. Un percorso dai tanti possibili sviluppi, confluito nella pubblicazione del volume edito da Mimesis insieme con un dvd e intitolato “Memofilm, la creatività contro l’Alzheimer”. Il lavoro è stato presentato a Bologna con la partecipazione di Alessandro Bergonzoni e a Ferrara è stato al centro di un incontro alla biblio-videoteca comunale Vigor in collaborazione con l’Associazione Feedback e con la psichiatra e dirigente del servizio Sert dell’azienda Usl di Ferrara Luisa Garofani.
A Roma a parlare di questa esperienza saranno oggi alle 16 al Nuovo cinema Aquila lo psichiatra e già presidente del Giovanni XXIII di Bologna, Giovanni De Plato; la coordinatrice infermieristica Valeria Ribani; il documentarista e sceneggiatore Eugenio Melloni, che vive a Ferrara e che per la regia di Wim Wenders ha scritto soggetto e sceneggiatura del mediometraggio in 3D “Il Volo” (2010) e diretto il documentario “700 anni per vedere il mare” (2011), premiato con la la medaglia di rappresentanza del Presidente della Repubblica.

Lidi: con il progetto idrovia
e il rilancio del porto,
gli Estensi sulla buona strada
per l’eccellenza

Al Lido degli Estensi, anche se con un tempo dal cielo scuro, alcuni lampi, un po’ di pioggia, il sole che a volte buca le nuvole, alcuni sguardi dal lungo mare, i lavori quasi finiti del porto canale, le settimane scorse stati foriere di una piacevole sorpresa, anche per chi come me da tantissimo frequenta questo litorale.
Se poi sei al secondo piano di una palazzina, dove la vista si fa larga e lunga, vedi i colori del mare che cambiano ogni mezz’ora, i segmenti bianchi delle onde sembrano quasi barriere sonore, la spiaggia deserta ti dà il senso di una serenità ricevuta, le barche a vela si alzano solo se c’è il vento giusto; poi, di notte, intravedi una trentina di pescherecci che cercano di raccogliere il pescato necessario per far vivere una famiglia.

Questi semplici ma significativi elementi mostrano un quadro d’insieme che, quando lo cogli, ti genera dentro un grande appagamento.
Siamo fermi, a pochi passi dal canale, tra le due grandi dune di sabbia, piene di arbusti, siepi ed erbacce, certamente non ben curate, e, nel mezzo, ci sono i tre bagni che ti offrono un bel contesto per riflettere, o almeno singolare. Una singolarità che nasce proprio dal mese primaverile di maggio, in cui solo puoi osservare: due che corrono sulla pista ciclabile, una madre con la carrozzina e la suocera, tre bambini sullo scivolo, una lunga distesa di sabbia senza ombrelloni, ma già spianata e pulita per l’arrivo di giugno e, vicino, un centro sportivo che si anima nel tardo pomeriggio. In un grandangolo che ti fa dire che queste cose le gusti solo ora, in un maggio per pochissimi ma, comunque, bellissimo.
Se, poi, vuoi fare due passi sul viale, c’è già qualcuno che ti aspetta, puoi comprare qualcosa, la solita gentilezza, senti parlare romagnolo, modenese, veneto e qualche straniero.

Che questo lido offra abbastanza è nelle sue corde, quello che piace segnalare è che, dopo la zona del Pettina, vicino al canale Logonovo, la parte centrale resta ancora la più animata e viva. In più, abbiamo scoperto il rilancio della “vecchia zona del porto”: quella fontana a getti d’acqua, una rotonda originale con attorno tutto quello che serve ai villeggianti e un lungomare nord silenzioso, quasi a precostituire un dopo del nuovo porto canale e la passeggiata che fra poco andremo a percorrere.
Evidentemente ci voleva proprio il progetto idrovia per smuovere vecchie incrostazioni demaniali e marittime, per fermarci solo qui, e riempire con nuove scenografie le contiguità tra le due porte di Venezia e Ravenna che restano il limite del vialone del Carducci.
Forse resta solo da fare una bella pulizia alla pavimentazione, alle aiuole aggiungendo accuratamente fiori, alcune luci e la giusta animazione, per dare quel “la” necessario e raggiungere l’“eccellenza”, produrre la perla che mette insieme i sette lidi di Comacchio.
Che la crisi possa passare valorizzando al meglio i tanti turismi che possiamo offrire, dipende anche da tutti noi, e sono certo che ci riusciremo.
Speriamo di non doverci ricredere, carissimi lidi… tanti auguri!

Pollo alle prugne, dal fumetto al grande schermo

Dopo il successo del fumetto Persepolis, la disegnatrice-regista iraniana Marjane Satrapi, porta al cinema, con Vincent Paronnaud, una storia ricca e commovente, un film dai toni melodrammatici che ricalcano lo stile dei film anni 50, con un tocco, talora, felliniano.
Questo lungometraggio però, a differenza di Persepolis, non è più un fumetto ma una bella trasposizione in immagini e scene degne di esso, quasi fossimo immersi in un sogno leggero.
Siamo nel 1958, quando Nasser Ali Khan, famoso violinista di Teheran, perde ogni voglia di vivere e decide di mettersi a letto per aspettare la morte: sua moglie, l’intransigente Faringuisse, durante un litigio, gli ha rotto il su amato violino, per questo nulla e nessuno valgono più nulla.

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La locandina del film ‘Pollo alle prugne’

Sprofondato nel suo letto solitario, Nasser attende l’angelo della morte, ripercorrendo tutta la sua vita, immaginando il futuro dei figli e, soprattutto, rivivendo l’amore per una ragazza conosciuta in gioventù, la bella Irâne.
In bilico fra sogno e realtà, fra vero e immaginario, passato e presente, immensi sono il rimpianto e lo struggimento per quanto si è ormai perduto.
Sembrano trascorsi invano il tempo, la gioventù, il primo amore, la passione per il violino (simbolo di libertà, creatività, leggerezza, spensieratezza e allegria); ormai, il piatto preferito per lui preparato dalla moglie (il pollo alle prugne appunto) non basta più a confortare Nasser e a farlo desistere dall’intenzione di lasciarsi completamente andare e per sempre.
Siamo di fronte a un uomo che ricorda la madre (sulla cui tomba aleggia uno strano e misterioso fumo, forse le tante sigarette ?), ormai solo, triste e disarmato, pronto ad abbandonare tutto per la musica e per l’amore nei confronti di una ragazza perduta ma anche del suo Iran. E che otto giorni dopo la tragica e insindacabile decisione se ne andrà per davvero.
I colori tenui d’altri tempi sono bellissimi, l’atmosfera, come dicevamo, resta quella del fumetto e siamo avvolti da tonalità e sapori molto stile Liberty, frondoso e a volte leggiadro. Vi sono poi anche tanta fantasia, belle e intense digressioni e riflessioni, molti flashback, qualche sguardo al futuro (o flashforward), sorrisi e risate.

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Un scena del film ‘Pollo alle prugne’

La dimensione onirica, un po’ sospesa nel vuoto e nell’aria, resta un plus importante e fondamentale di questo film, così come lo sono la ricchezza inventiva, la dimensione fiabesca e intimista tipica della millenaria cultura persiana, fuori dal tempo e dalla storia. Il film è drammatico ma allo stesso tempo romantico. Consigliato.

Pollo alle prugne, un film di Vincent Paronnaud e Marjane Satrapi con Isabella Rossellini, Maria de Medeiros, Golshifteh Farahani, Mathieu Amalric, Jamel Debbouze, Chiara Mastroianni, Edouard Baer, Eric Caravaca, Frédéric Saurel, Dustin Graf, Francia, Germania, Belgio 2011, 90 mn.

Abbasso il Re

di Salvatore Billardello

Juan Carlos di Borbone, eletto re di Spagna da Francisco Franco nel 1975, nei giorni scorsi ha deciso di abdicare. Come sta reagendo la Spagna? La vicenda di Juan Carlos assurto al trono il 22 novembre 1975, conosce una pagina particolarmente significativa sei anni più tardi, il 23 febbraio 1981, ricordato dagli spagnoli come “23-F”. In quella data il colonnello della Guardia Civil, Antonio Tejero, irrompe armato nell’aula del Congresso, la camera bassa del Parlamento di Madrid, con 200 guardie e poliziotti e tiene in ostaggio i deputati per 22 ore. Ed è proprio lui, il monarca Juan Carlos, a salvare la democrazia, con un discorso in diretta televisiva nel quale denuncia il tentativo di colpo di Stato e si pone come garante della Costituzione del ’78.
La popolarità del re in quel momento è all’apice: agli occhi degli spagnoli, Juan Carlos diventerà colui che traghetta il popolo dalla dittatura alla democrazia. Un consenso quasi pieno che dal duemila in poi ha conosciuto punti acuti di crisi, culminati nella crisi immobiliare del 2008 che ha colpito il Paese e nell’ancor più grave scandalo finanziario che nel 2010 ha visto coinvolti l’infanta Cristina e il genero Inaki Urdangarin in un giro di fondi neri e tangenti. Per tacere delle infinite gaffe coniugali e istituzionali in cui l’anziano e malfermo re di Spagna è precipitato: lo stemma monarchico spagnolo si è col tempo decisamente appannato.

A poche ore dall’annuncio dell’abdicazione fatto in diretta tv del premier Mariano Rajoy, in migliaia sono scesi nelle piazze spagnole per chiedere l’abolizione della monarchia e il ritorno a una più moderna Repubblica. Si innescherà a breve un complicato iter parlamentare che porterà con ogni probabilità il figlio Felipe a diventare monarca entro la metà di giugno, ma sarebbe bene che le istituzioni tenessero in seria considerazione il malcontento spagnolo, espresso nelle strade sventolando con veemenza le bandiere della Seconda repubblica spagnola, riportando alla mente quella fugace ma intensa esperienza che andò 1931 al 1939. I risultati delle ultime elezioni europee, che hanno visto il crollo di popolarità del Pp, l’ascesa vertiginosa dello storico cartello della sinistra Izquierda Unida e una prima affermazione del neonato movimento Podemos, sono l’ulteriore riflesso di un tumultuoso impulso al cambiamento auspicato dagli spagnoli.
Il sogno della terza repubblica diventerebbe un’opportunità di riscatto di segno esattamente opposto al graduale e lento, perché imposto dall’alto, processo di modernizzazione iniziato da Juan Carlos 39 anni fa. Chissà se nel giro di due settimane un insolitamente celere Parlamento porterà Felipe VI sul trono e riuscirà a spegnere gli ardori iberici o se la “seconda transizione”, come la chiama il giornalista Isaac Rosa, avverrà secondo modalità impreviste.

[© www.lastefani.it]

Salute pubblica e salute privata

La giovane amica che incontro uscendo di casa si lamenta, d’accordo il lamento è diventato un collante sociale, ma lei ha tutte le ragioni, è stata male, ha avuto febbri, dolori vari, i valori degli esami del sangue sono tutti sballati: altri esami, le hanno detto, corro in farmacia – racconta – per prenotare, risposta: tra 13 mesi. L’amica mi guarda afflitta: che faccio?, domanda più a se stessa che a me. A pagamento, rispondo sicuro e lei: già fatto, appuntamento fra tre giorni. E’ la nuova idea, socialmente avanzata, di salute pubblica, vedi, le dico, avevamo raggiunto, dopo anni di lotte, di scioperi, di scontri, di dibattiti, un sistema sanitario all’avanguardia, secondo soltanto a quelli esistenti nei paesi del nord Europe: troppo avanti devono esseri detti, a destra e a sinistra, I nostri governanti, troppo avanti, cari italiani qui bisogna fare qualche passo indietro. Detto fatto, eccoci, la riforma è stata completata in poco tempo, finalmente la sanità è stata quasi completamente privatizzata: questa sì che è una grande conquista, le visite si pagano, gli esami (se vuoi farli prima di morire senza sapere perché) si pagano, le medicine si pagano alle grandi multinazionali della farmaceutica, tutto si paga, una grande riforma davvero e non c’è un solo politico che si azzardi a dire qualcosa, a dire che qualche anno fa l’Italia era un Paese avanzato e che, forse, sarebbe necessario guardare alle nostre spalle per capire che cosa abbiamo lasciato.

Nessuno parla, il chiacchierone Renzi combatte duramente per rifare il Senato come vuole lui, quella è una riforma! Bisogna restringere, ogni giorno di più, l’area decisionale, il presidente del Consiglio dev’essere il padrone fino a nuove elezioni e, intanto, il Paese decade, di decisione in decisione la società si guasta , la pera marcisce ancora appesa all’albero. Noi cittadini siamo la pera: “sciur padrùn da li beli braghi bianchi foera li palanchi e anduma a cà”, ma sì, andiamo a casa, noi non contiamo nulla, quando accendiamo la televisione, all’apparire dei nostri padroni, dobbiamo farci il segno della croce. Come saluto, ma anche come scarmanzia. I vecchi milanesi, prima di diventare berlusconiani e leghisti dicevano “me piass minga el sciur padrùn”, ora ci deve piacere, è la riforma delle riforme: Oddìo, ci aveva pensato già nel 1922 il maestro Mussolini, poi ci ha ripensato el sciur Berlusca, difficile, amici, in questo paese uscire dalla scatola fascistoide in cui siamo rinchiusi da troppo tempo, una scatola ben legata con nastrino bianco da una Chiesa che ha sempre volutamente confuso Dio con il Potere. Ma questo che c’entra con l’organizzazione sanitaria della nostra società? C’entra, c’entra, perchè siamo condannati a ubbidire, se non lo facciamo ancora oggi si va all’inferno. Hai capito amica mia? Adesso vai farti gli esami. A pagamento, naturalmente.

Il Nioby: gli egoismi consorziati

Quando si parla di sindrome di Nimby si fa riferimento a una forma patologica di egoismo. Nimby è acronimo inglese e sta per: ‘not in my back yard’, ossia ‘non nel retro del mio giardino’. Come dire: garantitemi le comodità della società moderna, ma gli effetti collaterali scaricateli su qualcun altro. Quindi sì ai telefonini, no alle antenne; sì al consumo indiscriminato, no alle discariche e agli inceneritori; sì allo snellimento del traffico, no alla tangenziale. Ma attenzione: i ‘no’ non sono assoluti, bensì condizionati: no in questa zona, non sotto le mie finestre. Fate ciò che serve: ma da un’altra parte, dove io non veda, non senta, non patisca. Io intanto mi godo il cellulare, per pigrizia non faccio la raccolta differenziata e in centro giro con il Suv…
Quando poi si parla, spesso con ammirazione, dei comitati civici non ci si rende conto che sono quasi sempre espressione consorziata degli egoismi individuali: non combattono battaglie di principio e non si impegnano spassionatamente per l’affermazione di giuste cause tenendo conto del bene comune, ma tutelano in genere meramente i propri specifici interessi di gruppo ristretto, senza riguardo alla collettività.
Qualcuno si arrabbierà per questa affermazione, ma se ci pensiamo bene dovremo riconoscere che nella maggioranza dei casi funziona così: i singoli infastiditi dall’antenna, dalla discarica, dal traffico della tangenziale si uniscono ad altri singoli con gli stessi problemi e si coalizzano sulla base dell’assunto che l’unione fa la forza. Salvo rare eccezioni, non combattono per il superamento strutturale del problema in un ‘ottica’ comunitaria, semplicemente chiedono che il disagio sia spostato un po’ più in là, dove a loro non reca disturbo. E se anche prefigurano vantaggi o migliorie, non è nella prospettiva generale: è per loro beneficio. Si può dire quindi che siano l’espressione plurale del Nimby, che si trasforma in Nioby: not in our back yard…

Non dimenticare Venezia

Col cuore pesante per le vicende occorse alla città di tutti, Venezia, mi reco a Modena dove un capolavoro dell’arte “ch’alluminar chiamasi in Parisi”, il miniato libro “Sant’Agostino”, appartenuto a Ercole I d’Este di proprietà della Biblioteca Marciana di Venezia e un tempo custodito nella Biblioteca dei duchi estensi a Modena, viene presentato in uno splendido fac-simile che almeno virtualmente ricompenserà la perdita e che come prossima tappa toccherà Ferrara da cui era partito. E quale aiuto più utile si può dare alle offese che Venezia sta subendo: dal passaggio dei mostri navali che incombono sulla Giudecca, alla trasformazione del Fondaco dei Tedeschi in un nuovo store di una grande ditta veneta a cui è stato permesso d’intervenire su un’architettura che definire sacralmente intangibile sarebbe poco; fino alla vicenda del Mose, se non esaltandone i segni di quella bellezza assoluta che la rende non solo unica ma irrepetibile?

E’ sempre stato sottolineato dai grandi critici ottocenteschi che le arti fioriscono sotto le dittature e che il tiranno esercita il proprio diritto alla magnificentia delle arti come segno tangibile del proprio potere. In epoca democratica questo non accade in quanto tanti rappresentanti del popolo non aiutano il fiorire delle arti ma al contrario da noi, in “Itaglia”, rubano impoverendo la cosa pubblica di cui dovrebbero essere custodi. Il fine stesso del Mose era quello di preservare la bellezza di questa città in modo che non venisse deteriorata nel tempo o si allontanasse la sua fine. Quale più nobile scopo? Quale possibilità offerta agli imprenditori ora invogliati dall’Artbonus a investire nella città delle meraviglie? E a farlo con l’aiuto e la solidarietà del potere politico. No! Al contrario si ruba o si accelera la fine di Pompei o si affidano le chiavi della Reggia di Caserta a truffatori, ad ambigui personaggi, avvilendola a discarica della ambizioni di personaggi deliquenziali. E il furto alla Biblioteca dei Gerolimini di Napoli? E l’ambizione di fare di una parte della Villa reale di Monza una sede di un partito? Siamo metaforicamente il regno di Mida. Certo lui trasformava tutto ciò che toccava in oro; noi uguale. Salvo poi intascarselo.

Nell’aprire la presentazione del magnifico fac-simile del “Sant’Agostino” notavo che l’unico modo per contrastare il destino di Venezia e per non dimenticarla rimane quello di esaltarne le sue immense ricchezze culturali, rispettarle, perché sono di tutti: un magnifico dono che ci è stato concesso e che noi vilmente mandiamo in rovina. Hanno rinnovato il Museo nel palazzo di San Vio del conte Cini. E a noi ferraresi qualcosa dovrebbe risuonare nella mente. Questa meravigliosa collezione si è formata sotto una dittatura o nell’Italia che faticosamente si leccava le ferite del dopoguerra mentre noi democraticamente rubiamo e distruggiamo. Mi rendo ben conto che fare i Savonarola è assai semplice dopo; che questi fatti nuocciono alla politica più di elezioni perdute: ma quello che debbono fare voci ancorché sconsolate e sconcertate è non tacere. Si alzino a difesa della politica eticamente esercitata; non si rassegnino a restare silenziose per non dare ragione a chi vorrebbe tutto distruggere e rapinare per sedersi trionfante sulle rovine di una nazione ritornata terra di conquista dei barbari.

Grano saraceno, zuppa inglese, insalata russa: le invasioni barbariche delle nostre tavole

Questa volta anche il senatore Razzi, nella esondante imitazione di Maurizio Crozza, deve inchinarsi ad un genio italico che continua a lasciare senza parole. Rimanendo in Parlamento, si viene a sapere che in commissione agricoltura della Camera dei deputati, una proposta di legge è stata presentata dal M5S per tutelare la pasta italiana. Un clamoroso “Tiè!” a tutti quelli che accusano i grillini di non essere propositivi, verrebbe da dire, se non ci fosse un seguito a dir poco stupefacente.
La difesa strenua del made in Italy nel nome del tandem Grillo-Casaleggio, era tesa a pretendere una repentina e risoluta chiusura del ponte levatoio contro la quantità eccessiva di grano saraceno, che finirebbe nei chicchi nostrani e maturati con tanto amore autarchico sotto il sole del Belpaese.
Peccato che grano saraceno non significhi affatto l’ennesimo pericolo ottomano, contro cui scatenare una nuova Lepanto agroalimentare. Immaginiamo che i produttori italiani abbiano sentito un brivido lungo la schiena causato dallo sfondone legislativo, levando al cielo non proprio lodi e canti.
Di fronte a cotanta gaffe come non pensare alla faccia di Totò che, guardando obliquamente l’onorevole di fronte, se ne uscì col celebre: “Ma mi faccia il piacere!”. Peccato, pure, che solitamente di grano attribuito per sbaglio allo spettro della mezza luna non ce ne sia per niente nella pasta, se si fa eccezione, credo, per qualche ricetta tipica locale.
E se poi il grano fosse effettivamente di importazione dal feroce, e sacrilego, usurpatore di Gerusalemme, come mai il rude spirito leghista avrebbe permesso, silente e così a lungo, questa contaminazione terrona della polenta lombardo-veneta?

Il proponente pentastellato (a quanto pare già salito agli onori della cronaca per avere scritto su un modulo: “italiano” a fianco della richiesta di specifica dello stato civile, invece di “celibe”), ha candidamente dichiarato di essere laureato in ingegneria meccanica, ma precisando subito di essere molto curioso e di avere ingurgitato nel frattempo tomi e libri sulla materia. In effetti stavamo in pensiero.
Non pago, il deputato si sarebbe precipitato a dire che il grano saraceno non è neanche grano, ma una specie di cucurbitacea. Incuriosito, sono andato su Wikipedia. Non so se la fonte sia attendibile, ma già nelle prime righe sta scritto: “Per le sue caratteristiche nutrizionali e l’impiego alimentare, questo vegetale è stato sempre collocato commercialmente tra i cereali”. È proprio vero che il più bel tacer non fu mai detto.
Speriamo solamente che il convertito, ahinoi, alla tutela degli interessi dell’agricoltura tricolore non estenda il proprio furore normativo, che so, al granoturco, all’insalata russa, oppure alla zuppa inglese, magari riesumando il pericolo della perfida Albione.
Per non parlare dei cavolini dei Bruxelles, specie per chi uscirebbe dall’Unione europea domattina stessa.

Del resto il movimento guidato, si fa per dire, da un comico genovese e da uno che non deve avere buoni rapporti con i barbieri, ha regalato alcune chicche imperdibili anche durante l’ultima campagna elettorale per le elezioni amministrative locali.
Per prima cosa la candidata a sindaco di Ferrara è andata a Bologna per un comizio, nel quale ha esortato i ferraresi (sic!) a liberarsi da oltre 60 anni di dominio democristiano (sic!). Poi ha aggiunto che Ferrara è stata ulteriormente provata dal terremoto del 2011 (a risic!).
In una successiva intervista pubblicata in video su Estense.com dichiara di essere a favore dei temi ambientali e naturalmente contro le politiche locali inquinanti, mentre si fa scarrozzare a bordo dell’auto dell’intervistatore che, supponiamo, vada ad energia elettrica prodotta dalla sola combustione di granoturco. Anzi no, per carità, italiano, a chilometro zero ed assolutamente biologico.

Ma la perla finale l’ha regalata un candidato durante il comizio di chiusura della campagna elettorale per il capoluogo. Ha detto di essere un insegnante e anche una guida turistica a metà tempo.
Punto primo, ha chiesto che la Provincia liberi dagli uffici il piano nobile del Castello Estense. Cosa già avvenuta anni fa.
Punto secondo, che la via Coperta che congiunge il Castello Estense col Palazzo Municipale sia aperta al pubblico e percorribile. Anche questa è cosa già fattibile da anni.
Ultimo, che i turisti possano visitare liberamente gli affreschi del ‘200 (o del ‘300, non ho compreso bene) della sala dell’Arengo in Municipio. È appena il caso di ricordare che gli affreschi in questione portano la firma del pittore ferrarese Achille Funi, il quale realizzò il ciclo fra il 1934 e il 1937 ispirandosi a storie dell’Ariosto.
A voler essere pignoli il genio cinquestellato arriva a compiere il record di due svarioni in un colpo solo. La prima è che il Funi al tempo di Duccio Da Buoninsegna (a costo di essere pedante, non il centravanti della nazionale di calcio del 1970), non era nemmeno lontanamente nei pensieri dei suoi antenati. La seconda è che rimane un mistero come il cinquecentesco Ariosto potesse narrare vicende da par suo, laddove fosse vissuto in pieno Medioevo.
A volte si è davvero assaliti dal dubbio se esista un limite alla sopportazione di un paese nel quale la diritta via è da tempo smarrita.
Del resto, in questi giorni perfino Gasparri interviene in difesa della Rai (“Merito una statua in Viale Mazzini”), senza che nessuno dica bau.

Pepito Sbazzeguti

Il padre che non dorme mai

Il reality Grande Fratello, concluso una decina di giorni fa, è lo spunto di riflessione del mio intervento. Nonostante gli ascolti progressivamente in calo del programma, il reality consente di rilevare alcune tendenze di questo tempo, a partire da diverse dinamiche relazionali. Genitori che solo davanti ad una telecamera riescono a esprimere ai figli sentimenti verso di loro e a comunicare quanto sono orgogliosi di loro: sembra che l’unico modo di trasmettere l’amore sia attraverso la spettacolarizzazione dello stesso.
Vi è spesso sadismo nel mettere in difficoltà i concorrenti rispetto alla compressione delle loro emozioni, dando l’illusione di poterle controllare trattenendole a comando. I concorrenti sono ridotti a burattini pilotati dall’Altro. Quest’anno il Gf si è inventato un sistema che ha chiamato “freeze” grazie al quale i concorrenti dovevano immobilizzarsi quando sentivano pronunciare questa parola e rimanere immobili fino ad ulteriore comando. Durante questo congelamento veniva fatta entrare nella casa una persona significativa per qualche concorrente, in modo da metterlo in difficoltà. Il significato di ciò è un Altro che ha potere sulle emozioni altrui, decide quando possono essere manifestate o quando debbono essere trattenute (ne va del budget settimanale per fare la spesa se qualcuno si muove e si abbandona a qualche sguardo particolarmente comunicativo). Anche nel momento della proclamazione del vincitore è stato giocato questo blocco, con l’intento di congelare l’emozione per creare ancora più suspence.
La scelta dei concorrenti in ogni edizione è sempre più condizionata dai canoni estetici imperanti e dal tentativo di trovare persone con storie tragiche con cui sia più facile per gli spettatori provare immedesimazione e identificazione: figli di separati, orfani di uno o entrambi i genitori, disoccupati, giovani costretti ad andare a lavorare a 14 anni per mantenere i fratelli.
I dialoghi tra i concorrenti sono banali, zeppi di luoghi comuni, discorsi superficiali che raramente toccano la reale intimità dei concorrenti. Nel contempo, i sentimenti sono espressi con eccessiva enfasi. Ad esempio, vi sono persone che, dopo una settimana di convivenza, si dichiarano amore o amicizia, termini che usati in modo così superficiale, vengono svuotati del loro significato profondo originario.
Altro paradosso è che i concorrenti, nelle conversazioni, sembrano tutti disinteressati al successo e, soprattutto, al montepremi finale, come se la ragione per cui sono disposti a rimanere isolati dal resto del mondo per diversi mesi fosse da ricercare altrove. Alcuni dichiarano che l’esperienza è servita loro per conoscersi realmente, quasi fosse paragonabile ad un percorso di psicoanalisi (cosa ben più seria in realtà!).
Il Gf si propone con modelli di identificazione semplici. Il premio finale assegnato in questa edizione a un contadino rafforza l’illusione che ognuno, anche una persona semplice, superando una prova, possa avere la sua rivincita nella vita. L’eliminazione progressiva dei concorrenti avviene tramite un televoto del pubblico da casa, ma in realtà le eliminazioni sono via via prevedibili e si intuisce anche quale potrebbe essere il vincitore finale.
I concorrenti sono controllati 24 ore su 24, in tutti i loro momenti della giornata: in ciò si incarna il tentativo estremo di controllo su tutto; che è la tendenza di questo tempo. Mentre Freud sosteneva che un buon padre ogni tanto deve poter chiudere un occhio, la tendenza odierna registra un padre che non dorme mai, che non abbassa mai la guardia e tiene sempre sotto controllo il figlio in ogni sua mossa. Quale gesto miglior per creare soggetti insicuri e dipendenti dall’Altro?
Le analogie con la vita reale sono molte. Così molti figli non hanno più una zona riservata del loro privato, rispetto a genitori, e analogamente, i genitori tendono a mostrare tutto senza veli. In alcune edizioni hanno partecipato al gioco, addirittura, intere famiglie, dimostrando come si appiattisca sempre di più la differenza generazionale e soprattutto di ruolo. Mancano in tal modo modelli di identificazione forti per i figli che crescono sempre più disorientati, in balìa degli altri e di un mondo costruito sul virtuale. Il significato stesso della parola reality è interessante dal momento che indica la “verità”, quando con la realtà della vita quotidiana ha ben poco a che fare.

Chiara Baratelli, psicoanalista e psicoterapeuta, è specializzata nella cura dei disturbi alimentari e in sessuologia clinica. Si occupa di problematiche legate all’adolescenza, dei disturbi dell’identità di genere, del rapporto genitori-figli e di difficoltà relazionali. baratellichiara@gmail.com

Il dramma di Giuba rinchiusa al Cie di Fiumicino. Cinque figli l’attendono nella sua casa di Berra

E’ rinchiusa nel centro di identificazione ed espulsione di Fiumicino da una settimana. Ha chiesto asilo politico, ma dovrà aspettare una trentina di giorni per avere una risposta. Tutto è incerto. A cominciare dalla sua identità ufficiale, non ha un documento, non esiste né Italia né in Macedonia, dove è nata senza che i genitori l’abbiano denunciata all’anagrafe.

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Ulfindana “Giuba” Bejzaku (foto di Ippolita Franciosi)

Ulfindana, per gli amici Giuba, rom di 34 anni, moglie di Afrim Bejzaku, cinque figli di cui quattro minorenni, abita in Italia da un ventennio e da qualche anno vive con la famiglia in una casa di proprietà a Berra. “Non sono mai stata rinchiusa, sono incensurata, mi mancano i miei figli, non sopporto questa lontananza”, racconta al telefono. “Mi hanno fermata a Goro mentre chiedevo l’elemosina, mi hanno domandato i documenti e quando ho detto di non averli è cominciata una trafila tra una caserma e l’altra fino a che mi sono ritrovata a Roma”, spiega con voce agitata.
“Il giudice ha confermato il decreto di espulsione, non ha voluto tener conto della situazione, i nostri figli sono nati in Italia, vanno a scuola qui e qui c’è la mia famiglia, siamo in 13”, spiega il marito, 32 anni, tre volte nonno e insieme alla moglie docente di danza rom insegnata in differenti teatri e scuole soprattutto a Bologna dove entrambi, spiega, vantano un passato da mediatori culturali nelle scuole. Afrim è agli arresti domiciliari e quando li avrà scontati anche per lui si profila l’espulsione. “Io posso andare in Kosovo, vengo da lì, ma Giuba non può raggiungermi”, dice.
E’ un problema politico, è un problema di etnie, è un problema comunque, che si riversa sulle vite dei bambini: dove metterà radici il loro futuro? Per sempre in viaggio? Afrim e Giuba, una storia di nomadismo stanziale, complicata e impensabile per chi ha in tasca una normale carta d’identità. Siamo di fronte a un’altra cultura, avversata e difesa da fronti politicamente opposti. C’è chi giustifica e chi accusa. Chi non li vuole e chi ne considera i differenti valori un arricchimento. La sostanza non cambia: dove devono vivere queste persone? Dove hanno casa, sostiene l’avvocato Salvatore Fachile, che si sta occupando del caso. “Tenuto conto che la signora è un apolide di fatto, ha una vita radicata in Italia, quattro figli minorenni, mi sembra ci siano ragioni fondate, perché possa essere accettata la richiesta d’asilo che abbiamo presentato – spiega – tra 28 giorni ci sarà la prossima udienza, speriamo venga attivata la protezione umanitaria”.
Al giudice di pace, racconta il legale, è stata fatta presente la situazione, ma “ha dichiarato di disinteressarsene a discapito dell’interesse familiare. C’è una certa superficialità”. Sicché l’espulsione è stata convalidata, ma la Macedonia, dove Giuba non esiste, respingerà con tutta probabilità quella richiesta d’ingresso e lei rischia così di restare prigioniera del Cie, lontano dai suoi, a spese dello Stato per essere, “dopo 18 mesi, rilasciata in Italia”. Perché l’Italia non è né dei diritti né dei doveri. Ha leggi “così così” e soluzioni ancora meno di “così così”.

A misura di fragilità umana

Molti eventi ci mostrano che siamo nel bel mezzo di cambiamenti epocali, per fronteggiare i quali ci servono nuove idee, nuove strutture, nuove istituzioni, un modo nuovo di pensare alla società e un diverso modo di rapportarsi con l’ambiente. Servono nuove istituzioni che portino fuori dalla pericolosa contrapposizione tra Stato e mercato, pubblico e privato; serve un modo di pensare flessibile che sappia riconoscere e confrontarsi con la complessità evitando la chiusura in sfere e settori separati intenti a raggiungere ognuno una propria efficienza che si traduce troppo spesso in spreco collettivo privatizzando i guadagni e socializzando le perdite. Occorre ripensare anche alla qualità degli ambienti di vita in stretta relazione ai bisogni umani che contraddistinguono la condizione sempre presente di fragilità umana.

Uno degli effetti positivi della crisi degli ultimi anni è quello di aver reso quanto mai urgente e necessario un cambiamento da lungo tempo auspicato, ma del quale tuttavia non è ancora chiara la direzione né i possibili effetti sui cittadini. Purtroppo in Italia manca ampiamente la capacità di ragionare per scenari, di immaginare un futuro possibile, di pensare in orizzonti di lungo periodo, di ipotizzare come potrà essere l’ambiente in cui vivremo nei prossimi anni. Il futuro prossimo dipende certo da molte variabili esogene e poco controllabili, ma dipende anche dai sogni e dalla volontà delle persone, dalle azioni finalizzate di organizzazioni ed istituzioni. Senza questa visione e senza strategia, il futuro semplicemente sarà imposto da altri attori e da altre forze alle quali si potrà solo reagire in termini di accettazione, fuga o rifiuto. Questo è particolarmente vero a livello di cittadini, del territorio sul quale vivono le persone ed operano le amministrazioni locali. A questo livello, si possono certo immaginare molti possibili scenari ma, tra questi, in linea più generale, due diversi e contrapposti possono aiutare la riflessione:

Possiamo descrivere il primo scenario (spinto dalla speranza e dalla responsabilità) come caratterizzato dal fiorire dei beni comuni, in cui gli spazi vivibili sono a misura di persona, e dove la proprietà privata (la casa innanzitutto) trova senso e valorizzazione all’interno di un ambiente urbanistico e sociale abilitante. Uno scenario caratterizzato dalla responsabilità dei cittadini, da aspetti comunitari diffusi e da un uso sociale delle tecnologie, dal primato del potenziamento delle capacità delle persone rispetto alla crescita forzosa del Pil, inteso come misura indubitabile del benessere delle comunità;

Sempre sinteticamente, il secondo scenario (spinto dalla paura e dall’avidità) potrebbe al contrario verificarsi in seguito al trionfo del privato e dalla distruzione definitiva dei beni collettivi, dove le persone “che possono” vivono in luoghi privati (abitazioni innanzitutto) completamente blindati e sorvegliati, ma inseriti in “non luoghi” insicuri e degradati, percorsi di transito videosorvegliati ed ipervigilati. Uno scenario che alimenta la paura e l’insicurezza, spingendo sempre più verso la giuridificazione dei rapporti umani e la perdita di libertà sostanziale.

I germi di entrambi gli scenari sono ben visibili a chi osserva le nostre città e i nostri paesi e, purtroppo, sembrano indicare un’inclinazione piuttosto inquietante verso il secondo, come attesta la costante distruzione di territorio (8 mq al secondo, come riporta La Stampa), la richiesta di maggiore video-controllo da parte dei cittadini, la cementificazione sistematica e l’inesorabile aumento del traffico privato, la produzione e gestione della paura da parte dei media e del mondo della politica. Per fortuna lo scopo della “scenarizzazione” è, anche, quello di aiutare a prendere decisioni strategiche che spostino il sistema verso uno stato piuttosto che un altro. Se pensiamo di collocarci, per puro esperimento mentale, in uno degli scenari, non possiamo prescindere dal fatto che tutti siamo (siamo stati o saremo) in stato di fragilità e bisognosi di cura: lo siamo stati per definizione quando eravamo bambini; lo siamo quando cadiamo ammalati o quando ci troviamo in stato di disabilità, anche temporanea; lo diventeremo, molto probabilmente, da anziani. Alcuni, i meno fortunati, lo sono per tutto il ciclo di vita, ma il rischio connesso alla fragilità incombe sempre su tutti ed in ogni momento. Basta un incidente, una malattia, una disgrazia, un tracollo finanziario.

Il modo in cui finora si è pensato di affrontare questi problemi di fragilità nel nostro sistema di welfare, ha coinciso con la creazione di servizi sempre più specializzati e specialistici che richiedono una precisa identificazione dei target e si basano, da un lato, sulle competenze di categorie di esperti e, dall’altro, sono orientati all’individuazione di sempre nuovi bisogni necessari a giustificare la loro stessa esistenza.

Come conseguenza di ciò, si è assistito negli ultimi decenni ad un aumento complessivo dei livelli di patologizzazione e ad un sostenuto incremento dei costi che appaiono oggi insostenibili. Anche l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) ha messo in risalto l’esigenza di modificare questo paradigma di riferimento, spostando l’attenzione da un modello di tipo medico (centrato sul problema personale, la cura medica, il trattamento individuale) ad uno di tipo sociale (centrato sul problema sociale, l’integrazione e l’inclusione, la responsabilità individuale e collettiva). Ragionare in termini di fragilità significa adottare un pensiero strategico che ponga l’accento sulle capacità e sul sistema anziché sulle carenze e sul singolo soggetto. Su questo riferimento generale si basa anche il noto modello Icf (International classification of functioning), ancora interpretato da molti come mero sistema di classificazione delle disabilità, è in realtà una strategia per costruire mondi a misura di fragilità umane ovvero ambienti a misura di bambini, di anziani e di disabili. Si badi: ambienti e non semplicemente servizi.

Come potrebbe essere strutturato un simile ambiente? Che caratteristiche dovrebbe avere partendo dal presupposto che ogni comunità ha la possibilità, per così dire, di crearselo su misura?

•Dovrebbe essere innanzitutto uno spazio sicuro, dove i soggetti in stato di fragilità possono muoversi con agio e sicurezza;
•dovrebbe essere un luogo di socialità intergenerazionale e interculturale che aiuti a rompere le separazioni tra gruppi sociali;
•dovrebbe essere un luogo comunitario ed aggregante dove le persone possono vedere facilitata la possibilità di collaborazione e di aiuto, che renda più facile la soluzione di possibili conflitti;
•dovrebbe essere uno spazio che funziona come una piattaforma abilitante, adatta a far emergere o a costruire le capacità delle persone piuttosto che un luogo specializzato (ed invivibile) di consumo o di produzione separato dal contesto.

Un territorio a misura di fragilità umane è innanzitutto un ambiente accogliente per tutte le persone, un bel posto dove vivere; esso presuppone probabilmente una mobilità pedonale e ciclistica, buon trasporto pubblico, bellezza ed estetica, presenza delle infrastrutture essenziali alla socialità e al comportamento civile. Presuppone, in altre parole, una pianificazione urbanistica (partecipata, che parta dal basso) a livello di sistema, la centralità dei beni comuni e il ridimensionamento di modelli di sviluppo basati esclusivamente sulla speculazione edilizia, sul dominio assoluto del mercato immobiliare, su tv e auto privata, sul consumo forzoso, sulla fretta e sulla presunta carenza di spazi, sulla manipolazione sistematica dei bisogni.

Che vantaggi comporta l’agire in un contesto ambientale e sociale a misura di fragilità umane? In un ambiente che, per essere a misura di bambini, disabili e anziani, è – a fortiori – a misura umana? Esso favorisce l’aumento e il rafforzamento delle reti fiduciarie, supporta e sostiene lo sviluppo di capitale sociale, contribuisce a rafforzare le istituzioni sociali che dovrebbero tutelare e potenziare i beni collettivi, contribuisce a costruire comunità e ne rafforza la resilienza, ha robuste implicazioni per la crescita sostenibile. Si tratta di un ambiente che motiva le persone ad attuare quei cambiamenti che sono indispensabili in una società responsabile ed umana, la cornice indispensabile per diminuire l’ormai non più sostenibile costo associato alle vecchie modalità di erogazione di servizi.

Modificare la struttura dell’ambiente di vita nella direzione delle fragilità umane è un passo imprescindibile (certamente non l’unico) per costruire nuove capacità e generare nelle persone che ci vivono la motivazione indispensabile per mettere a punto ed usare sistemi premianti per i comportamenti virtuosi. E’ tuttavia un passo che richiede molta consapevolezza da parte delle amministrazioni, grande coraggio e visione da parte della politica, molto senso strategico da parte di quei settori istituzionali (come ad esempio i servizi sociali e sanitari) da sempre più vicini al tema della fragilità umana e del bisogno.

Difficile forse, ma che cosa è in fondo la democrazia se non la capacità di esprimere uno stato che sia in grado di assegnare diritti alle istituzioni dei beni comuni e non solo ai mercati, alle lobby più potenti e alle imprese multinazionali private? Che sia in grado di garantire la giustizia senza causare necessariamente la giuridificazione forzosa dei rapporti sociali?

Si può fare! Passaparola

 

Dal blog di Bruno Vigilio Turra valut-azione.net

Meno prestiti alle piccole imprese, in Regione -7,8% rispetto al 2013

di Silvia De Santis

Nicchiano ancora le banche in Emilia Romagna: i prestiti alle piccole imprese nel primo scorcio del 2014 sono calati del 7,8%. Nonostante da più parti si levino voci che invitano gli istituti bancari a cambiare atteggiamento e ridare ossigeno all’economia, le condizioni del credito sono ancora restrittive e quest’ultimo stenta ad affermarsi come fattore di sviluppo per le Pmi.
La situazione piccole imprese non accenna a migliorare, visto che il mese di febbraio ha segnato in regione una contrazione del credito del 4,7% rispetto al mese precedente. A pagare lo scotto sono sopratutto le aziende con meno di 20 addetti, le più esposte anche al rischio fallimenti, visto che difficilmente possono contare su ricapitalizzazioni consistenti.
A lanciare l’allarme-credito è la Confartigianato Emilia Romagna, che ha analizzato l’andamento dei finanziamenti al sistema imprenditoriale italiano. Nella classifica generale, le piccole imprese emiliane si piazzano al quattordicesimo posto per diminuzione del credito erogato dagli istituti bancari, seguite da quelle umbre, marchigiane e siciliane.
“Come possiamo pensare di far crescere la nostra economia se non diamo alle aziende la linfa vitale del credito?” si chiede Marco Granelli, presidente di Confartigianato regionale, tanto più che alla crescente difficoltà di accesso ai finanziamenti, si sommano gli alti tassi d’interesse. I più onerosi, poi, sono quelli applicati sui prestiti fino a 250mila euro, che interessano, appunto, quei potenziale motore di ripresa che sono le piccole imprese. Con percentuali che arrivano fino al 4,74%, l’Italia è uno dei Paese europei con il costo del denaro più elevato. Peggio di lei solo la Spagna.
Maggiormente penalizzata dalla stretta creditizia è la piccola industria manifatturiera. Il 18,1% delle aziende con meno di 50 addetti ha infatti denunciato difficoltà, contro l’11,% delle medie imprese e il 12% delle grandi.

[© www.lastefani.it]

Svuotati i bancomat ai lidi: turisti al verde, il ponte manda in tilt il sistema bancario

C’è soddisfazione per il tutto esaurito del Summer Fest, eppure il mugugno non si fa attendere. Tutta colpa dei bancomat svuotati durante il ponte della Repubblica, quasi come se la crisi fosse evaporata. Al Lido di Spina lo sportello di Carife di viale Leonardo da Vinci era fuori servizio fin da domenica, tanto che i villeggianti hanno avuto più volte modo di lamentarsi e chiedere aiuto al supermercato, mentre gli ambulanti del mercato si sono arrabbiati per i contraccolpi del disagio subito dalla clientela.

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Riccardo Boldrini – direttore camping Spiaggia e Mare e consigliere Banca Centro Emilia

“Ho ricevuto diverse segnalazionI; io stesso, seppure non fossi ai lidi, ho avuto delle difficoltà, è stato un sabato traumatico, sono riuscito a fare un’operazione su 10”, racconta Giovanni Finotelli, vicepresidente Confesercenti Delta con delega al commercio. Colpa del circuito sovraesposto, dell’assalto di pubblico, ‘delle cavallette’ come recitava il mitico Belushi dei Blues Brothers? “E’ molto semplice, sono finiti i soldi. Anche se lo avevamo previsto caricando al massimo la cassa, siamo rimasti senza banconote – spiega Riccardo Boldrini direttore del camping Spiaggia Mare di Porto Garibaldi e consigliere di Banca centrale Emilia, tre sportelli in altrettante località comacchiesi – Questa mattina (martedì per chi legge) abbiamo ricaricato, non si poteva fare diversamente. In campeggio abbiamo retto bene perché è a misura di ospiti”.

 

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Giovanni Finotelli vicepresidente Confesercenti Delta, ha delega al commercio

L’obbligo di pos è ormai realtà, con buona pace di chi resta senza contante. “Non siamo ancora pronti per la moneta elettronica – attacca Finotelli – Non tanto noi, che comunque dobbiamo pagare commissioni di transazione a beneficio unico delle banche, una cosa peraltro inesistente in America, ma i clienti. Parlo soprattutto di quelli anziani, molti dei quali non possiedono nemmeno un bancomat. A quel punto che si fa? Perdiamo la vendita o diventiamo evasori?”. S’impone l’era della moneta elettronica, ma al contempo si arranca nell’affrontare un ponte lungo e di successo. Altro che spesa minima di 30 euro. Il sistema non garantisce neppure il personale qualificato per alimentare la cassa automatica nei giorni di festa. Straordinari insostenibili? Uno sforzo si può pure fare, almeno nelle grandi occasioni pensate per il rilancio della riviera. Gli appuntamenti importanti sono pochi e di ponti così estesi non se ne vedevano da anni.

“Sabato e domenica – raccontano alcuni signori – ci siamo prestati i soldi tra amici”. Vita dura senza argent de poche. “Mi è stato riferito delle difficoltà di rimpinguare la liquidità incontrate da alcuni turisti – conferma Nicola Bocchimpani, presidente di AsBalneari – Non mi sorprende, a Scacchi non ci sono sportelli bancomat e l’unico di Pomposa finisce spessissimo la scorta”. Un servizio in meno agli ospiti. Lo Stato impone agli operatori la moneta elettronica, i commercianti pagano le spese di transazione. E le banche, guarda un po’, non hanno contante. Nemmeno nei giorni di festa grande. Quando la crisi appare meno austera e pesante.

La lettera del sindaco Tagliani al direttore della Nuova Ferrara (con sottotitoli)

Lunedì il sindaco Tagliani ha indirizzato una lettera alla Nuova Ferrara, in risposta al direttore Scansani. Eccola qua, ripubblicata e sottotitolata…

Caro Direttore, come ormai le è d’abitudine lei mi interpella all’ora e nel giorno che desidera imponendo tempi, argomenti e modi. Ma io, che sono uomo mite, obbedisco.
[Mi sono rotto le balle di questo modo di fare, ma siccome litigare non conviene le rispondo e già che ci sono mi cavo qualche sassolino]

In primo luogo fa comodo alla vulgata giornalistica descrivere il sindaco di Ferrara come la somma di poteri immensi che vanno dal Presidente della Provincia che verrà eletto in settembre, all’assessore regionale alla sanità che verrà scelto nella prossima primavera, all’arbitro della economia locale, via di mezzo tra il commissario Carife ed il presidente della Camera di commercio. Non cerco alibi ma segnalo che il mondo è più complicato di un titolo cubitale.
[I giornali semplificano e banalizzano ogni cosa, d’altronde li fanno i giornalisti…]

Chiarito questo non mi nascondo. Il secondo mandato non prospetta solo il rischio di cadute di energia, ma anche autonomie nuove, libertà inedite: quelle di chi come il sottoscritto, non ha alcun bisogno di ossequiare, non avendo ambizioni eccessive da coltivare, debiti da pagare, incarichi da chiedere a fine mandato.
[E’ pur vero che sono democristiano, ma a ‘sto giro qua mi prendo le mie belle soddisfazioni: le elezioni le ho vinte ed è inutile stare a far calcoli: si sa, “del doman non v’è certezza”. E allora tanto vale godersela]

E allora caro Scansani sa cosa le dico? Le dico che la prima cosa da fare sarà chiamare le cose con il loro nome: a Ferrara ci sono persone che si prendono responsabilità e altri che se la raccontano, imprenditori che investono ed altri che accantonano, politici chiacchieroni ed amministratori al lavoro quotidiano. Associazioni dinamiche ed estenuanti dispersive gelosie.
[J’aldamar j’ha finì ad godras]

Vengo ai punti sottopostimi, sono gli stessi di una campagna elettorale tra il noioso e il fastidioso.
[Speravo di aver finito con ‘sta rottura di coglioni, invece insistete a chiedere sempre le stesse cose]

La testa di ponte nelle relazioni con i territori circostanti può essere solo la città, non da sola, ma con una larga condivisione che superi le differenze politiche, da Alan Fabbri a Fabbri Marco, ogni altra scelta è destinata a finire in niente.
[‘Todos caballeros’. Però ricordatevi bene – per dirla con l’autorevolissimo marchese del Grillo – che io so’ io e voi nun siete n’cazzo]

Devo però dire che questa ossessione della marginalità non deve convocarci come al cospetto di “pianzun dlà Rosa”, in verità tutta la “provincia” italiana in un Paese che elimina Prefetture, Provincie e Camere di commercio a beneficio di grandi città metropolitane, rischia di trovarsi “spiazzata”, provi a pensare a Mantova, a Pistoia, a Macerata, Rovigo, Pordenone, Imperia… il mal comune non porta alcun gaudio ma questa storia dei ferraresi perseguitati da un destino cieco e baro comincia a darmi sui nervi: dico anche a lei al lavoro, basta piangersi addosso!
[Ciò premesso, sarebbe ora di finirla coi piagnistei e rimboccarsi le maniche]

Cona non è un problema, ma sarà la soluzione, se la sanità ferrarese la smette di cincischiarsi, con la difesa di posizioni superate altrove da 15 anni, e, se la salute dei cittadini ci interessa più di qualche “baronia”, chiediamo alla Università di pensare al futuro delle eccellenze vere: quelle che hanno evidenze scientifiche ed organizzative. Non sta a me farne la cernita, ma qualcosa dopo anni si muove finalmente. Nel frattempo in quell’ospedale dove nessuno scommetteva due anni fa ci saremmo mai trasferiti, oggi si fanno decine di migliaia di interventi, più di quanti si facessero al Sant’Anna. L’autobus passa ogni 15 minuti, il parcheggio è il triplo di quello di prima, la metropolitana riparte entro il 2014, se così non dovesse essere l’appaltante ovvero la FER e l’appaltatore si dovranno porre seriamente il problema del risarcimento danni alla città. Cona non è affatto un problema “cromosomico” della città, è una scelta sbagliata del 1990, ma il corredo cromosomico dei ferraresi non risulta affatto alterato, si altererebbe invece se a Cona la sanità non girasse come deve, ma, pur essendo tutto migliorabile, prendo atto delle lettere di compiacimento che leggo spesso sul suo giornale e che da anni non trovavo.
[Su Cona ormai i maroni mi fumano. Quei quattro parrucconi dell’Università è ora che si diano una regolata. E la Fer stia attenta perché se fanno i furbi gli faccio il paiolo]

Proprio il dato elettorale, veda i dati di sezione, conferma che anche nel quartieri “Giardino” della città il Pd e questa amministrazione ha ricevuto il maggior consenso, e l’interpretazione può esser solo una, qualcuno ha esasperato i toni contribuendo ad una immagine deprimente del quartiere, mentre altri hanno lavorato per arginare i fenomeni di microcriminalità che sono presenti nel quartiere Giardino (da oggi lo chiamerò sempre così perché è così che si chiama) come in tantissime altre realtà cittadine e i ferraresi preferiscono chi dà risposte e non si limita a denunciare problemi.
[Faccio finta di non sapere che il quartiere Giardino è in massima parte quello della buona borghesia ferrarese, dove i moderati hanno sempre preso su bene; e fingo di dimenticare che mi sono ben puntellato il fianco destro con gli ex berlusconiani]

Sono mancati nei cinque anni precedenti i grandi temi, la “visione”? Ma secondo lei decidere di tagliare 50 milioni di debito e ridurre le tasse fa parte del day by day? Errore clamoroso è un grande disegno se non lo si fa a danno dei più poveri! Trovare 50 milioni di euro per il Palaspecchi, 12 milioni per il Massari, avviare il Meis, con un appalto in corso per altri 10, approvare tutti gli strumenti urbanistici con larga condivisione cittadina, avviare le bonifiche al petrolchimico e nei quadranti a rischio, aver aumentato a decine i posti di nido e le case popolari, aver registrato importanti investimenti imprenditoriali (Bricoman, Luis Vuitton, Terna, Softer…), ai quali aggiungo 180 milioni di Versalis in anni come questi… Tutto questo lei lo giudica il solito vecchio tran tran quotidiano?
[Io ho undici decimi, cari miei, non dieci]

Sarà: ma io mi guardo intorno e vedo tanta chiacchiera, ma pochi fatti e del resto quale programmazione si può fare con un governo che cambia ogni sei mesi ed il quadro finanziario che si muta sotto il naso: l’ultima volta solo un mese fa? Io confido nella stabilità del governo Renzi, allora sì che può prendere corpo una visione, la mia: una città che offre alle idee d’impresa, quelle grandi, ma anche quelle delle fab lab dei giovani, spazi e condizioni di espansione, una città capace di crescere con le seconde generazioni della immigrazione che oggi sono gli amici dei nostri figli e parlano solo l’italiano, una città civile, pulita, viva, una città che parla di cultura non solo se “si mangia”, ma che comunque offre a chi vuole investire occasioni che nessuna città di provincia, senza alcuno sponsor, è in grado di offrire, una città che si apre al fiume e ne fa occasione di un turismo intelligente e lento, una città “parco” con oltre 5 milioni di metri quadrati di verde pubblico che vuole dialogare con il suo delta, come dialoga con la sua storia rossettiana, una città europea non più obbligata a confrontarsi con dieci commentatori blog disoccupati, ma che si confronta con Monaco, con Lione, con Gerico, con Sarajevo e non cito a caso.
[Le so tutte]

Una città che abbandona le frasi fatte e si apre al confronto con Hera, senza sudditanze ma anche senza demagogie, una città che è in grado di dire alla Regione Emilia Romagna che se la geotermia è pericolosa allora si chiuda tutta, ma anche che se oggi la Regione è eccessivamente prudente per coprire l’errore fatto nel non divulgare subito gli esiti della commissione Ichese, oppure perché si vota l’anno prossimo, allora è peggio la toppa del buco, perché io rimango della mia idea, quella che mi sono fatto nel corso di mesi di incontri con i tecnici, quella che avevo prima della campagna elettorale e durante la stessa, con coraggio, coerentemente, a prescindere dal consenso, abbiamo l’acqua calda e ci leghiamo al metano altro che ai rifiuti.
[Con Hera bisogna che ve la mettiate via: ci dobbiamo convivere, i padroni sono loro. Invece la Regione non stia tanto a fare la furbina, ché negli armadi hanno i loro scheletroni…]

Grazie dell’incoraggiamento Scansani, e buon lavoro anche a voi.
[Fev mo dar in t’l’organ tuti!]

Pensare politicamente

I commenti e i propositi dopo il voto europeo registrano un ritorno in scena della politica come protagonista a seguito di anni in cui è stata relegata, nella percezione generale, a ruolo di comparsa insignificante. Non ripropongo l’integralistico primato della politica in auge negli ultimi decenni del secolo scorso. Parlo del riemergere della necessità di pensare politicamente. La politica come pensiero, come cultura, come progetto, come un sapere e una prassi che sappiano dare un senso ad un’impresa collettiva del nostro tempo, che è il tempo della società degli individui e della domanda di più libertà e giustizia sociale. Nel mutamento profondo che la globalizzazione ha determinato della forma del mondo, la politica può diventare per ogni individuo ciò che scriveva Gramsci nel chiuso di una cella dei tragici anni trenta: la politica come cultura “…è organizzazione, disciplina del proprio io interiore, è presa di possesso della propria personalità, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri”.
Però, nel nostro tempo registriamo una novità sconvolgente rispetto al secolo scorso: il generale indebolimento di strutture forti che, dall’interno e dall’esterno, costituiscono la personalità dell’individuo. Al posto di moduli solidi e predeterminati come il lavoro, la famiglia, l’identità sessuale, l’appartenenza politica, si sta formando un pulviscolo di possibilità, forme provvisorie di aggregazione e disaggregazione. Nello stesso momento si avverte una sorta di inscalfibile e opaco dominio di un potere lontano verso cui l’individuo si sente impotente. La coscienza del singolo è tentata di rinchiudersi in sé, ridurre i tramiti che la mettono in rapporto con le grandi realtà collettive. Proviamo a fare questo esperimento. Se guardiamo alla nostra vita in modo ravvicinato, ricorrendo ad un microscopio, vediamo una serie di possibilità e di scelte prima sconosciute; se invece rovesciamo la visuale ricorrendo ad un telescopio, ci pare di scorgere una società immobile, priva di alternative e di obiettivi capaci di smuovere un eterno presente che ha paura del futuro. Questa divaricazione è alla base di un’angoscia collettiva che prende soprattutto il giovane (ma non solo…) che si trova solo di fronte al vertiginoso compito di definirsi da sé. E’ dentro questa angoscia (che Freud definisce “il sentimento che non mente”) che deve penetrare la speranza di una nuova politica.
L’alta e specifica moralità della grande politica, quando ha saputo essere all’altezza del compito del momento, è sempre consistita nel tentativo riuscito di guardare alla storia degli uomini e delle donne come a un mondo che può essere rappresentato e governato da un progetto e da idee come principi destinati a dare forma alla vita pubblica della società. Ecco, in conclusione, cosa significa pensare politicamente: salvare il nucleo fondamentale della politica come idea, in modo che la politica stessa possa ridiventare (con tutte le innovazioni necessarie di programma, organizzazione, personale politico) lavorio di critica e di penetrazione culturale che persuada aggregati di uomini e donne refrattari e solo preoccupati di risolvere giorno per giorno il proprio problema per se stessi, a ricostruire legami sociali di collaborazione e solidarietà con gli altri che si trovano nelle stesse condizioni. Questo è il compito di un partito e di un vero leader politico: risvegliare e mettere in movimento energie e nuove responsabilità. Una società in crisi e complessa si cambia con l’attività e l’intelligenza di molti, non con un uomo solo al comando e il resto a fare da spettatori che applaudono o fischiano.
Diceva Italo Calvino che i problemi che ci troveremo ad affrontare nel prossimo secolo saranno quelli che vi porteremo. Ora che siamo non solo nel nuovo secolo, ma anche nel nuovo millennio, l’identità pubblica e privata è al centro dei nostri interrogativi perché alla decostruzione del passato non ha ancora corrisposto una nuova ridefinizione di noi stessi sia come animali politici, sia come singoli individui. Per questo possiamo rispondere: ‘Nel nuovo secolo troveremo ciò che sapremo costruirvi’.

Fiorenzo Baratelli è direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara

Rossi ma di vergogna

Pepito Rossi non l’ha presa bene la sua esclusione dal gruppo azzurro. “Io fuori forma? Me la rido”, ha detto con amaro sarcasmo.
Di lui Prandelli aveva affermato: “E’ un esempio. La sua radiosità, la sua serenità, la sua classe sono un messaggio bello per tutto il calcio”. Non è uno sprovveduto e neppure un uomo privo di sensibilità il ct della nazionale. Ha regole e principi che rispetta e fa rispettare. Ha persino introdotto un codice etico che sanziona con l’esclusione protempore della maglia azzurra i calciatori colpiti da provvedimenti disciplinari: un buon segnale, benché non sempre applicato con rigore. Però nel caso di Rossi prima di decidere avrà certamente soppesato tutti i pro e i contro.
Al riguardo la stampa è abbastanza abbottonata, prima di esprimersi attende di vedere come va a finire l’avventura brasiliana: un atteggiamento al solito dettato dal coraggio delle proprie idee.
Ma quel che stupisce, al di là del singolo caso Rossi, sono le scelte fatte dal selezionatore per l’attacco azzurro. Solitamente la classifica cannonieri è dominata dagli stranieri. Quest’anno, invece, non solo un italiano è arrivato in cima alla graduatoria, ma ce ne sono tre fra i primi quattro e sette fra i primi dodici: Immobile, Toni, Di Natale, Berardi, Rossi, Gilardino e Paulinho (brasiliano col passaporto italiano). Solo campioni del calibro di Tevez, Higuain, Palacio, Llorente e Callejon si sono inframmezzati ai nostri. Insomma, una volta tanto, fra esperti e giovani c’era solo l’imbarazzo della scelta.
Prandelli invece, a parte il capocannoniere Immobile, è andato a pescare nelle retrovie della classifica. Per carità, mica brocchi: Balotelli (che però non è in perfette condizioni atletiche), Cerci (che però ha accusato un evidente calo di condizione e soprattutto di capacità realizzativa nel girone di ritorno), Cassano (talentuosissimo ma incostante, intemperante e per questo spesso fuori dal giro della Nazionale), infine Insigne (un virtuoso che la porta però la vede proprio poco: 3 gol appena…). Insomma, non sono convinto e lo dichiaro prima, a costo d’essere smentito (speriamo!).

L’artigianato profumato di Jazmin, oggetti fatti con bucce d’arancia

E’ la prima volta che esce dalla Colombia, la prima volta che vola in Europa e la prima volta che racconta in pubblico la sua esperienza: artigiana specializzata nella lavorazione di oggetti da regalo fatti con bucce d’arancia, diventa poi responsabile della produzione e del controllo qualità del laboratorio “Piel Acida” (oggi Sapia) di Bogotà. E’ appena stata a Ferrara, ospite della cooperativa di commercio equo Altra Qualità con cui collabora dal 2003.

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Bamboline in buccia d’arancia lavorata a mano da Sapia

Prima di raccontare dell’incontro con Jazmin Zetabobo Molina, occorre premettere che adoro quel profumo assolutamente inconfondibile di buccia d’arancia che pervade lo show-room di Altra Qualità e che accoglie il visitatore in ogni momento dell’anno. Non è Natale per me se non mi reco lì per annusare i vestitini arancio di quei deliziosi angioletti e le decorazioni fatte con stelline giallo oro. Dolce, intenso e speziato, quello per me è “il profumo”. E come si sa, i profumi sono spesso legati alle storie, le definiscono. Non potevo quindi perdermi l’incontro con una delle artigiane di “Piel Acida” che, nella mia romantica immaginazione, deve avere il dono più unico che raro di mani profumate all’aroma di buccia d’arancia.

 

L'artigianato profumato di Jazmin, oggetti fatti con bucce d'arancia
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decorazione

Jazmin, Jaz per gli amici, è una bellissima giovane donna con lunghi capelli neri e occhi intensi e seri. Appare fin dall’inizio una persona molto sobria, responsabile, semplice ed elegante insieme (notiamo immediatamente che indossa un meraviglioso anello di cui le chiederemo dettagli a incontro finito).

 

 

 

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Jazmin nel 2004 a Piel Acida, mentre prepara stelline di buccia d’arancia per l’essiccazione

Quando comincia a raccontare la sua storia, capiamo subito le ragioni di tale serietà e maturità: Jazmin ha solo 32 anni ma metà della sua vita l’ha spesa tra lavoro e figli. Ha iniziato a lavorare a 17 anni dopo essere rimasta incinta, ha un ragazzo di 15 e una bambina di 6 anni da crescere da sola, lavora otto ore al giorno ma ce ne mette due ad andare al laboratorio e due a tornare, che insieme fanno 12, questo significa che si alza alle 4 della mattina e non rientra prima delle 7 di sera quando è già buio, dopodiché si dedica a verificare che i compiti siano stati fatti bene e che tutto sia pronto per l’indomani, un po’ di tele e alle 11 nanna. Insomma, giornate piene e non facili, ma Jazmin si dice molto fortunata ed è contenta perché ha un lavoro in regola (cosa che in Colombia non è la norma) in un’impresa che da sempre valorizza il fattore umano e premia impegno e capacità: Jaz ha iniziato come tutti a Piel Acida con la lavorazione della buccia d’arancia, nel corso del tempo è divenuta una delle artigiane più esperte e, nonostante non abbia un elevato livello di scolarizzazione, quando la cooperativa si è ampliata, è diventata responsabile della produzione e del controllo di qualità dei fornitori, i cosiddetti “satelites ossia singole persone (generalmente donne capofamiglia, spesso abbandonate dai mariti) o gruppi informali o famigliari, che assemblano e realizzano i prodotti a casa loro o in piccoli laboratori, ricevendo rigorosamente la stessa paga oraria dei dipendenti, calcolata sommando costo orario e contributi, cosa non comune per i lavoratori informali.

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Laboratorio Piel Acida 2004: Jazmin e Ana Maria Pedrahita, una delle fondatrici

Con grande umiltà e onestà, Jazmin ci dice però di dover tutto a Javier (uno dei due fondatori, insieme ad Ana Maria Pedrahita, di Piel Acida); da lui ha imparato tutto quello che sa, in materia di gestione della produzione, di distribuzione del lavoro ai “satelites”, di logistica, gestione degli ordini, e grazie a lui ha deciso di rimettersi a studiare, magari specializzandosi in amministrazione.
Chiediamo a questo punto a David Cambioli, presidente di Altra Qualità di raccontarci qualcosa su questo Javier e sulla nascita della cooperativa Piel Acida/Sapia: “Javier Cardenas è un tipo molto in gamba, si è laureato in Ingegneria gestionale nel 1999, e, subito dopo, ha proposto alla sua amica Ana Maria Pedrahita, amica di famiglia poco più grande di lui, di affiancarla nell’attività artigianale che lei aveva da poco avviato per dare un’opportunità lavorativa alle donne in difficoltà.

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Spremitrice ambulante d’arance, Bogotà

Ana Maria (che dei due è l’artista) ha avuto l’idea del tutto originale di riciclare le bucce d’arancia delle spremitrici ambulanti che, in ogni periodo dell’anno e ad ogni angolo di Bogotà, dissetano i passanti, lasciando però tonnellate di bucce d’arancia inutilizzate. Dall’idea alla realizzazione: hanno creato un’impresa, assumendo tre donne in difficoltà tra cui la giovane Jazmin e seguendo tutto il processo, dalla raccolta delle bucce, all’essiccazione, alla lavorazione a mano. Per la raccolta, si sono accordati con le venditrici di spremute che puliscono le bucce e le asciugano, e che vengono pagate a peso (questa retribuzione è diventata la principale fonte di sostentamento per alcuni venditori di arance); poi hanno impiegato dei ragazzi che hanno il compito di passare con bici complete di portapacchi per ritirare i sacchi.

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Spremitrice ambulante che pulisce a asciuga la buccia d’arancia per Piel acida

Per intagliare le varie forme (cuore, stella, pupazzo, ecc.) inizialmente facevano tutto a mano, poi hanno ideato e messo a punto una macchina che si aziona con un semplice pedale, funziona benissimo e fa risparmiare tempo e fatica. Anche per l’essiccazione hanno trovato con il tempo un metodo più efficace: anziché lasciare le bucce al sole, girarle e rigirarle (cosa lunga e rischiosa perché se pioveva dovevano buttare via tutto, e Bogotà è una città piovosa), hanno costruito degli essiccatoi. Insomma, per farla breve, Javier, Ana Maria ma anche altri che nel frattempo si sono aggiunti al gruppo, sono molto attivi, pieni di idee e di risorse; con loro abbiamo sviluppato già da qualche anno “El otro plan Colombia” [vedi], un progetto che mira a coinvolgere anche altri piccoli artigiani colombiani da inserire nel circuito equo solidale. Sì è costituito così un nucleo di piccole imprese, di laboratori, di persone con cui sviluppiamo nuovi prodotti e Sapia ci fa da intermediario e promotore. Già da qualche anno la produzione di Sapia si è allargata anche ad altri materiali naturali oltre alla buccia d’arancia (foglie di mais, semi di tagua, cotone, pasta di mais) e gli artigiani con cui collabora lavorano nuovi materiali di riciclo, come la camera d’aria di bicicletta con cui realizzano borse e portafogli, o la gomma che si trova all’interno dei tappi di birre o bibite, che tingono e trasformano in originali orecchini e collane.”

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Anello in resina indossato da Jazmin, realizzato a mano da Ecuilibrio diseño, laboratorio che impiega anche ragazzi disabili

A proposito di bigiotteria, il tuo anello? E’ bellissimo, da dove viene? “Questo anello è di “Ecuilibrio diseño”, un nostro nuovo produttore, è in resina naturale ed è stato fatto completamente a mano”, ci dice Jazmin, e aggiunge: “Si tratta di una coppia di designer, marito e moglie, che realizzano collane, anelli e bracciali coloratissimi, aiutati da alcuni ragazzi disabili: il processo di lavorazione dura ore ed ore, e ogni oggetto viene levigato sei volte prima di essere pronto per la vendita. Questi gioielli stanno avendo un enorme successo, soprattutto in Europa, gli ordini crescono ma la produzione non riesce a stare al passo; noi di Sapia stiamo cercando di aiutarli ad acquistare una levigatrice, per dimezzare il tempo di lavoro e anche i costi degli oggetti.”

Li potremo acquistare anche noi questi gioielli? chiediamo a Cristina Bergamini, designer. “Certo, abbiamo già alcuni dei loro pezzi e ordineremo anche questi ultimi; in più, stiamo sviluppando con loro una nuova linea di bigiotteria realizzata in resina e tagua insieme.”

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Jazmin e David Cambioli durante l’incontro a Ferrara del 26 maggio scorso

Non solo equi e solidali quindi, ma attivissimi e brillanti. Essendo cresciute insieme, Sapia e Altra Qualità si stimolano a vicenda, sviluppano continuamente nuovi progetti e si divertono a sperimentare nuovi materiali. L’incontro con Jazmin e David ci offre anche uno spaccato diverso della realtà dei due Paesi, sul quale fermarsi a riflettere: la Colombia allora non è solo guerriglia e traffico di droga, ma anche artigianato vitale e lavoro giustamente retribuito, e l’Italia non è solo mafia e sommerso ma anche apertura, collaborazione e contaminazione. Fosse tutta così! Ma forse, seguendo questi esempi virtuosi e sinergici, ci si potrebbe pian piano arrivare…

Si ringraziano Beatrice Bonadiman e David Cambioli per aver tradotto per noi dallo spagnolo all’Italiano.

Per saperne di più:

  • la fondatrice Ana Maria Pedrahita spiega il processo di lavorazione delle bucce d’arancia [video in inglese]
  • sito di Sapia  [vedi]
  • sito di Altra Qualità [vedi]

Via i mercanti dai templi

Il nostro buon Dario Franceschini ne ha sparata una grossa: via i mercanti dai templi. Ossia basta con lo scempio degli ambulanti parcheggiati con le loro mercanzie dinanzi al patrimonio artistico del nostro Belpaese. Tradotto in salsa ferrarese: via il mercato dal listone e da corso Martiri, via le bancarelle di souvenir e quelle di ciarpame vario. Il decreto ‘ArtBonus’ appena passato all’esame della Camera si propone di “garantire il decoro attorno ai monumenti”. Il ministro ferrarese ai Beni Culturali sottolinea il carattere di “urgenza” di questa norma e spiega che “con un semplice procedimento amministrativo sindaci e sovrintendenze potranno revocare le autorizzazioni ad ambulanti, camion, bar e bancarelle vicine ai monumenti”.

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Il mercato del venerdì, nel pieno centro storico di Ferrara [clicca per ingrandire]

La prima domanda da farsi è se questo eccellente decreto sarà tradotto in legge o resterà solo un ottimo proposito. In caso positivo vedremo se i sindaci (il nostro rinnovato sindaco Tagliani) e le spesso inutilmente solerti sovrintendenze prenderanno carta e penna per fare immediatamente ciò che è buono e giusto.
C’è inoltre da augurarsi un’applicazione estensiva del provvedimento e del principio in esso contenuto: via tutto ciò che deturpa e scempia i monumenti, per liberare la bellezza. E quindi: via i taxi dal castello, via le auto – tutte le auto, anche quelle delle forze dell’ordine, dei politici, dei soliti noti – dal centro storico. Obiettivo: pedonalizzare integralmente l’area monumentale di Ferrara per renderla degno patrimonio Unesco. Vorrai mica far torto al patrio Dario…

Il magnifico ulivo dell’umanità

Destra e sinistra categorie del passato? Difficile da sostenere fino a quando l’economia di mercato che condiziona la conoscenza non sarà soppiantata dall’avvento del governo della conoscenza sull’economia e sul mercato. Due modi distinti di considerare uomini e donne: da un lato la loro centralità, dall’altro la libera sopraffazione dei beni.

E qui siamo alla questione vera: un’economia basata sulla conoscenza o una conoscenza basata sull’economia? Far uso dell’economia in funzione della conoscenza o usare la conoscenza in funzione dell’economia? In definitiva, l’economia che condiziona la conoscenza o la conoscenza che condiziona l’economia?
In questi giorni ancora freschi di tornata elettorale, c’è qualcuno, che con altrettanta banalità del tipo “signora mia le stagioni non sono più quelle di una volta”, ci racconta che categorie come destra e sinistra sono superate.
Francamente di fronte al dilemma che sta in testa a questo articolo, mi pare proprio di no.
La destra è ancora quella dell’improvvida dichiarazione del ministro Tremonti che con la cultura non si mangia. Per cui se la cultura serve all’economia e al suo mercato va bene, diversamente, se ne può fare a meno, con buona pace degli otia studiorum.
Credo che a questo proposito tra destra e sinistra intercorra un rapporto direttamente proporzionale, tanto più la destra ha investito in capitali e finanze, tanto più la sinistra ha investito nello studio, nella ricerca e nella cultura. E ha fatto bene. Perché senza conoscenze, senza sapere, senza una nuova cultura non si esce dal vicolo cieco in cui ci hanno condotto gli interessi delle destre nel mondo.
La settimana scorsa l’amico Fiorenzo Baratelli, nel suo bell’articolo su queste pagine, ci ricordava la visione kantiana dell’uomo come legno storto dell’umanità. Devo dire la verità, che fin dai banchi di scuola l’approccio a quelle pagine mi induce irrimediabilmente a pensare all’ulivo. Magnifico albero, che più legno contorto di così non si può. Ma per l’uomo, sappiamo, storicamente carico di importanti e impegnativi significati.
Il filosofo Isaiah Berlin, nel suo libro Il legno storto dell’umanità, ci mette in guardia da tutti quelli che assurgono o sono assunti a guaritori dell’uomo. E ha ragione. Perché non c’è via di uscita per l’umanità se non si nutre fiducia negli uomini e nelle donne. Ecco un altro tema che non estingue le differenze tra destra e sinistra. La fiducia nell’uomo, nell’uomo nuovo è propria della sinistra.
Se pensiamo a una società fondata sulla conoscenza che guidi la condotta dell’economia e dei mercati, allora ricollochiamo l’uomo al centro, con la sua perenne ricerca di pace e di felicità. La conoscenza è dell’uomo, perché la usi per impedire d’essere sfruttato insieme al suo ambiente di vita. Questo è di sinistra.
Di destra è ostacolare ogni conoscenza che possa ridurre la libertà dell’economia, della concorrenza, dell’uso delle risorse.
Lo sviluppo strategico basato sulla conoscenza incoraggia la ricerca, stimola alla creatività continua, alla condivisione dei saperi, al loro rinnovamento e aggiornamento, all’interazione delle conoscenze tra i cittadini del mondo.
Solo questo sarebbe sufficiente a farci dubitare della validità dei sistemi di istruzione che ancora ci teniamo, non certo pensati per preparare i giovani al sapere, alla ricerca, ad acquisire gli strumenti per vivere in futuri dove le conoscenze potrebbero non essere più quelle apprese, ma tutte da rinnovare o da ricercare nuovamente.
No, nei sistemi di istruzione che la destra ci ha lasciato, quasi inossidabili nel tempo, i nostri bambini e i nostri giovani, giocano ancora il ruolo di depositi generazionali, da riempire delle nozioni ritenute necessarie per essere accolti come servitori diligenti degli interessi dei mercati, della voracità dell’economia globale. Saperi che riempiono la mente, ma volutamente dimentichi di coltivare le intelligenze.
Così col tempo, come dimostrano le ricerche internazionali sulle competenze degli adulti, che collocano il nostro paese all’ultimo posto, unitamente alla Spagna, le abilità acquisite sui banchi di scuola si affievoliscono e con loro l’interesse del mercato del lavoro che ti respinge, facendo della tua esistenza una vita di scarto per l’economia e per la società.
Oggi, più che mai, non c’è cittadinanza se non fondata sul primato della conoscenza, anziché del mercato. La sfida tra destra e sinistra si gioca sul terreno delle politiche in grado di investire da subito sui cittadini come capitale intellettuale, sulle politiche che considerano le persone come la ricchezza principale di un paese e, per questo, neppure una può essere abbandonata a se stessa.
L’impoverimento culturale è degrado sociale, svilimento della dignità dell’uomo, è grave quanto e più dello sfruttamento dell’ambiente, perché colpisce l’esercizio della propria vita, l’autonoma gestione di se stessi.
È di sinistra ritenere intollerabile e scandaloso che decenni di politiche neoliberiste abbiano ridotto l’Italia ad avere, secondo i recenti dati Ocse, il 70% di adulti tra i sedici e i sessantaquattro anni che posseggono competenze di base al disotto del livello tre, ritenuto dall’Europa indispensabile per poter partecipare consapevolmente alla vita sociale e lavorativa. Se a questo dato sommiamo la percentuale di giovani che non raggiungono alcuna qualifica e quella di chi, dopo essersi laureato, emigra all’estero, ci rendiamo conto che a ognuno di noi è stata rubata la possibilità di vivere in un paese la cui economia fondi le radici sulla conoscenza.
Il grande furto prodotto dalle politiche di destra è questo. L’averci sottratto ciò che è essenziale alla cittadinanza nella società della conoscenza, la capacità di generare e di applicare nuovi saperi, di creare idee nuove e invenzioni che stimolino la realizzazione di prodotti competitivi, di servizi e procedure per il nostro progresso.
È impensabile che il tessuto di una società oggi possa tenere senza conoscenza e senza rafforzare il coinvolgimento di tutti. La stessa politica nata in rete ci sta ad indicare che è finita l’epoca delle cittadinanze anonime. Ci troviamo di fronte a processi che possono migliorare la qualità della vita entro i confini della propria città, del proprio paese e anche oltre, facendo divenire attraente la cittadinanza, con l’essere sempre più qualificati e ricchi di competenze per potersi prendere cura della propria comunità. Occorre allora considerare attraente vivere il proprio paese. Questo è il compito delle generazioni anziane nei confronti di quelle più giovani, formare insieme un gruppo poliedrico di scambio di metodi, di lezioni apprese, di nuove idee, di processi tecnologici e di iniziative per promuovere e vitalizzare un’economia che affondi le sue radici nei saperi.
Credo sia questa la fonte essenziale per ottenere un vantaggio competitivo rispetto alle altre nazioni, così come per qualsiasi altra organizzazione, non può che essere la cultura diffusa, radicata nella gente, non può che essere il capitale intellettuale. Questo è il motivo per cui l’investimento sociale nella cura di ogni uomo e di ogni donna, come di ogni bambina e bambino, fa ancora la differenza tra la destra e la sinistra.

Festa della Repubblica
che ripudia la guerra

La madre è la Resistenza antifascista, il padre è il Referendum democratico: la Repubblica italiana è nata in un’urna il 2 giugno del 1946.
Perché, per festeggiare il suo compleanno, lo Stato organizza la parata militare delle Forze Armate?
E’ una contraddizione ormai insopportabile.
Il 2 giugno ad avere il diritto di sfilare sono le forze del lavoro, i sindacati, le categorie delle arti e dei mestieri, gli studenti, gli educatori, gli immigrati, i bambini con le madri e i padri, le ragazze e i ragazzi del servizio civile. Queste sono le vere forze vive della Repubblica che chiedono di rimuovere l’ostacolo delle enormi spese militari ed avere a disposizione ingenti risorse per dare piena attuazione a tutti i principi fondanti della Costituzione: lavoro, diritti umani, dignità sociale, libertà, uguaglianza, autonomie locali, decentramento, sviluppo della cultura e ricerca, tutela del paesaggio, patrimonio artistico, diritto d’asilo per gli stranieri e ripudio della guerra.
I nostri movimenti celebrano il 2 giugno promuovendo congiuntamente la Campagna per il disarmo e la difesa civile e lanciando oggi la proposta di legge di iniziativa popolare per l’istituzione e il finanziamento del “Dipartimento per la difesa civile, non armata e nonviolenta”.
Obiettivo della Campagna è dare piena attuazione all’articolo 52 della Costituzione (“la difesa della patria è sacro dovere del cittadino”) che non è mai stato applicato veramente, perché per difesa si è sempre intesa solo quella armata, affidata ai militari, mentre la Corte Costituzionale ha riconosciuto pari dignità e valore alla difesa nonviolenta, come avviene con l’istituto del Servizio Civile nazionale.
La difesa civile, non armata e nonviolenta è difesa della Costituzione e dei diritti civili e sociali che in essa sono affermati; preparazione di mezzi e strumenti non armati di intervento nelle controversie internazionali; difesa dell’integrità della vita, dei beni e dell’ambiente dai danni che derivano dalle calamità naturali, dal consumo di territorio e dalla cattiva gestione dei beni comuni.
logo_congressoIl disegno di Legge istituisce un Dipartimento che comprenderà il Servizio civile, la Protezione Civile, i Corpi civili di pace e l’Istituto di ricerche sulla Pace e il Disarmo.
Il finanziamento della nuova difesa civile dovrà avvenire grazie all’introduzione dell’”opzione fiscale”, cioè la possibilità per i cittadini, in sede di dichiarazione dei redditi, di destinare il 6 per mille alla difesa non armata. Inoltre si propone che le spese sostenute dal Ministero della Difesa relative all’acquisto di nuovi sistemi d’arma siano ridotte in misura tale da assicurare i risparmi necessari per non dover aumentare i costi per i cittadini.
Lo strumento politico della legge di iniziativa popolare vuole aprire un confronto pubblico per ridefinire i concetti di difesa, sicurezza, minaccia, dando centralità alla Costituzione che “ripudia la guerra”
(art. 11).
La Campagna è stata presentata il 25 aprile 2014 in Arena di pace e disarmo; viene lanciata in occasione del 2 giugno 2014, Festa della Repubblica; la raccolta delle 50.000 firme necessarie inizierà il 2 ottobre 2014, Giornata internazionale della Nonviolenza, e si concluderà dopo 6 mesi.

Rete Italiana per il Disarmo – Controllarmi
Conferenza Nazionale Enti di Servizio Civile – CNESC
Forum Nazionale per il Servizio Civile – FNSC
Tavolo Interventi Civili di Pace – ICP
Campagna Sbilanciamoci!
Rete della Pace

La cultura attende
la stagione del coraggio

Con un misto di sensazioni e di affollati pensieri, il ritorno in patria sembra riflettere l’urgenza e la necessità dei commenti che le elezioni hanno prodotto. L’elegante Watteau nel Settecento descrisse l’aspetto idilliaco di un rifiuto della realtà sociale in un quadro famosissimo, Pèlerinage à l’île de Cithère tradotto in vari modi tra cui il più conosciuto rimane L’imbarco per l’isola di Citera, l’isola di Afrodite. In realtà, il quadro non rappresenta l’imbarco per l’isola ma il ritorno dall’isola. Primo e celebre capolavoro di quel filone che si è soliti chiamare “Le feste galanti”, impareggiabile momento di rifiuto della realtà sociale per una descrizione fantastica delle delizie della corte e della classe nobiliare francesi.
Così, l’imbarco per la mia isola di Citera si trasforma in un ritorno dall’isola per assistere alle feste galanti che coronano il successo renziano. Il giubilo, la sensazione di un pericolo scampato, quasi la necessità di abbandonarsi alla convinzione di una specie di miracolo, ma nello stesso tempo il vago e ancor lontano sospetto degli impegni presi. Con questo carico di proiezioni che investono prima il giornaliero che il progetto, ci si affanna sui giornali a scoprire tra le pieghe dell’ancor incerto “avvenir” qualche segno positivo che, nel campo in cui mi è permesso di spendere qualche parola, quello culturale, ravvisa una specie di piccolo passo avanti compiuto da Franceschini e approvato da Salvatore Settis. E, chi conosce la vicenda del tormentato iter del Mibac, saluta con sollievo queste righe che Settis affida a un articolo apparso su La Repubblica il 28 maggio scorso, dal titolo “Nell’Italia dove la cultura vale zero euro”: “Il ministro Franceschini ha saggiamente ripudiato la volgare metafora del patrimonio culturale come “petrolio” d’Italia, e giustamente insiste sulle sue potenzialità. Ma per dispiegarle non occorrono né commissari né manager, genericissima qualifica che fino ad ora nulla ha prodotto nel settore se non sprechi e rovine, e che invece il decreto addita come soluzione salvifica, senza il minimo sforzo di spiegare perché. A fronte di risorse in calo, nessun manager di qualità sarà mai interessato a lavorare nel settore; e se uno ve ne fosse, non potrà che fallire.”

E di queste parole bisogna ben tener conto, come pure dell’intenzione, anche questa dai riflessi positivi, di reintrodurre l’insegnamento della storia dell’arte, dissennatamente abrogato e limitato dalla ex ministra Gelmini. Osservo a questo punto le proposte su cui si fonda la continuazione della politica culturale locale, affidata per il nuovo quinquennio alla squadra che già ha operato nella tornata precedente, e che ora sembra trovare un motivo di critica dal risultato della mostra-monstre bolognese, “La ragazza dall’orecchino di perla”, della quale si descrivono le mirabilia del successo economico, saggiamente contestato dall’assessore alla cultura bolognese Ronchi, in questo caso appoggiato anche dall’assessore alla cultura di Ferrara. Ma l’idea raccapricciante per cui si usa un capolavoro per una operazione esclusivamente commerciale rimane lì ad aspettare al varco, con le lusinghe dell’indotto economico condito di sagre, “magnatine” e altri giustissimi sollazzi, quale sarà la risposta di Ferrara dopo aver posto e testato il problema.

Tra i progetti per il 2016 di Ferrara Arte, si vuole far perno sulle celebrazioni ariostesche nell’anno dell’uscita della prima edizione del poema – edizione valorosamente proposta e fiore all’occhiello dell’ex Istituto di studi rinascimentali – dal professor Marco Dorigatti dell’Università di Oxford. A testimonianza, la sollecitudine con cui dopo l’uscita del testo si pensò a una mostra dedicata al rapporto tra Ariosto e le arti figurative, un progetto di cui esiste un dossier completo e suffragato dalla partecipazione del Louvre e della National Gallery di Londra, impietosamente bocciata dall’allora responsabile di Ferrara Arte e ora riproposta, almeno a quanto sembra dai titoli dei giornali, e affidata a uno studioso organizzatore di mostre padovane, quasi che non esistano in città le garanzie di un affido proficuo a cominciare dall’Isr, per di più ora divenuto ufficio comunale sotto l’egida dei Musei d’arte antica. Questi rilievi vengono fatti esclusivamente per sollecitare dialoghi che sembrano sempre sul punto di interrompersi. Ma a riprova di questa volontà di dialogo, una recente esperienza che vale la pena di riportare.

Abbiamo organizzato con gli Amici dei musei ferraresi una visita a Rovigo alla mostra su “I pittori del Nord” e una visita a Fratta Polesine per rivedere la Badoera e la Casa-Museo di Giacomo Matteotti. La trasferta si è dimostrata assai interessante per il confronto storico tra due terre, quella ferrarese e quella del polesine rodigino, così vicine e intrecciate in complessi rapporti. Dalla preistoria al Novecento, si sono viste e confrontate contiguità e diversità, ma soprattutto è saltato agli occhi il modo diverso di agire sul paesaggio e sulla cultura. Se una volta erano i rodigini a venire a Ferrara per imparare l’uso e il modo d’interrogare un glorioso passato, ora sembra avvenire il contrario. La mostra a Palazzo Roverella è affascinante e ha messo in luce, tra l’altro, alcuni autori ferraresi straordinari come Cesare Laurenti di cui ci si era dimenticati. La dinamicità del territorio si è misurata su quel reservoir di memorie storiche e artistiche che è Fratta Polesine. Non solo per l’utilizzazione di un monumento straordinario come la Badoera, luogo Unesco (ma non lo era anche Ferrara?) quanto per la pervicacia indotta a rendere attrattivo un territorio e un paesaggio che sembravano tagliati fuori dal turismo. Operazione che ci potrebbe insegnare come rendere produttive alcune delizie, da Belriguardo a Mesola, che certamente non attraggono i flussi turistici.
Ma l’operazione più complessa e produttiva è stata quella di rendere viva e operante l’utilizzazione della casa-museo di Matteotti che Napolitano inaugurerà il 10 giugno. E con l’aiuto e l’interessamento del massimo studioso dell’eroe polesano, un ferrarese doc come Stefano Caretti, amico e collega che ha saputo sollecitare l’attuazione di un luogo di memorie unico. A differenza della politica culturale ferrarese che sembra immutabile nel tempo. E basterebbe leggere il libro di Sandro Catani, Gerontocrazia. Il sistema economico che paralizza l’Italia (Garzanti, 2014) per capire che non è rottamando che si ottengono risultati ma accompagnando il valore prodotto dai “vecchi” nell’inserimento dei giovani che hanno bisogno di guida e di consigli. Altro che limitare il “pensare in grande”! Non servono solo sagre e baloons, festival e palii per innovare e rendere attrattiva la cultura; servono coraggio e scelte che vengano poi tramandate ai giovani. Cosa che mi sembra poco frequentata nelle politiche culturali ferraresi.
Bisognerebbe non solo trasformare ciò che si ha ma comprenderlo e viverlo con entusiasmo. Mi spiace trarre queste amare considerazioni nei confronti della mia città. Dal ’64 le mie vacanze di studio si svolgono in una campagna polesana dove le radici ferraresi sono visibili e attive. Ho visto quei territori passare dall’indigenza a una fioritura economico-culturale strepitosa. E ne sono lieto, ma mi spiace che in questo caso specifico persino i rapporti tra Ferrara e Matteotti non sembrino nemmeno interessare più di tanto in questo novantesimo della sua morte. Per fortuna ci ha pensato il Gramsci ferrarese a invitare Stefano Caretti a parlare di questa grande figura. Non si dolgano i ferraresi di queste forse severe note. Sono, al solito, dettate da un amore disperato e disperante per questa città e la sua storia.