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Ferrara film corto festival

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E il bancario lotta insieme a noi

Interessa molti, credo, il fatto che i lavoratori bancari, nella piattaforma per rinnovare il loro contratto nazionale, abbiano inserito le rivendicazioni specifiche dentro la proposta di un nuovo modello di banca, in grado di accompagnare la crescita economica del Paese.
In sostanza, tutti i sindacati di settore – la piattaforma è unitaria – chiedono di cambiare radicalmente orientamento: gli istituti di credito debbono passare dalla predominanza di erogazione di servizi finanziari, che li ha caratterizzati in questi ultimi anni, ad una politica di servizi avanzati per le famiglie, le imprese, il territorio. Il denaro, insomma, deve andare all’economia reale, e non fluire in quella virtuale dei prodotti più o meno sofisticati, non di rado pericolosi, che vengono scaricati sull’inconsapevole cliente.
In questo senso, e per raggiungere nuovi standard di qualità delle banche, vanno utilizzati sia i nuovi strumenti tecnologici, sia il personale delle banche che va formato e valorizzato, dando opportunità ai giovani, il tutto per instaurare un rapporto di fiducia con il cliente.
Il contratto, secondo alcune fonti (soprattutto la Fabi, il maggior sindacato di categoria) sarebbe in dirittura d’arrivo. Vedremo se l’Abi, l’associazione delle banche italiane, saprà dare risposte credibili: a lungo ha opposto soltanto la necessità di ridurre i costi per via delle crisi, tagliando gli organici.
Va rilevato comunque che in questa posizione del sindacato c’è una forte responsabilità, che ha cancellato molti pregiudizi sulla realtà del settore. Chiamare il mondo del credito ad impegnarsi per fuoriuscire dalla crisi è un atto importante, e il sindacato ha dimostrato in questo caso di saper proporre soluzioni concrete, valide per la collettività, non corporative.
Dovrebbe succedere sempre più spesso anche in altri settori, a cominciare da quello della pubblica amministrazione, dove numerosi sono i problemi ancora irrisolti, per primo quello della burocrazia e dell’inefficienza. In tal modo il sindacato sarebbe spinto a fuoriuscire da una crisi di identità e di ruolo neanche tanto velata. Ma questa è un’altra storia.

Liberare le parole da una scorza vecchia

E’ utile un lavoro sulle parole-chiave che danno senso alla nostra esistenza per sottrarle ad un uso corrente che le ha banalizzate, o per liberarle da una scorza vecchia che le ha fossilizzate.
Prendiamo in considerazione due parole importanti: valori e persona. Al termine tradizionale valori affiancherei valorazione. La valorazione è azione per un valore; è il richiamo al processo che crea di continuo valori. Valori, invece, evoca qualcosa di fisso, rigido, definito come una specie di catechismo o prontuario preciso e dato una volta per tutte da applicare e in cui credere. La modernità ha messo in crisi la nozione di valore come essenza immutabile e ha evidenziato la pluralità dei valori in continua formazione. La mancanza di valori è nell’indifferenza, non nella pluralità. Se l’altro vive secondo valori diversi dai miei, non vuol dire che non ci sia nessun valore, ma che ci sono più valori. Permane qualcosa di primitivo del clan nel profondo della modernità quando si tende a considerare valori esclusivamente quelli in cui si crede. Anche l’uomo più progredito conserva nel suo profondo un desiderio di assoluto come istintiva necessità di difesa e sicurezza. Ma, nel tempo della pluralità, trasformare i valori in tavole della legge immutabili per metterli al riparo dalla crisi è progetto destinato a fallire. Per questo non comprendo la dottrina della Chiesa cattolica quando parla di valori non negoziabili. In fondo in che cosa consiste l’etica se non in un lavoro continuo di formazione e aggiornamento dei valori? Quindi, attenzione a non insistere solo sulla scelta dei valori in cui credere, trascurando il lavoro di valorazione che ciascuno deve fare. Il valore implica questa sequenza continua: costruzione-scelta-esperienza-dialogo; per cui la decisione non è un semplice decidere tra opzioni, ma un processo continuo che porta al decidersi. E l’impegno etico autentico è sia dominato dalla situazione in cui il soggetto si trova ad operare, quanto teso a dominare la situazione medesima. Dentro questa dialettica ognuno di noi sperimenta un conflitto di doveri che è la vera scuola in cui si forma l’io morale. L’assenza di risposte risolutive deve costituire l’energia per tenere aperta la ricerca e non essere vissuta come una diminuzione o un ostacolo fastidioso. Solo in questa ottica il relativismo dei valori ci appare non un nichilismo disperato, ma come relazione tra valori diversi.
Il medesimo approccio andrebbe usato verso la parola persona. Persona ha un significato nobile ma statico, perché evoca qualcosa di compiuto che, invece, va spiegato. Personalità è la persona colta nella sua mancanza in cui trova giustificazione il suo faticoso formarsi. Dire personalità significa vedere la persona in movimento che mediante un’energia unificatrice costruisce equilibri instabili passando attraverso prove ed esperienze. Si potrebbe paragonare il percorso esistenziale ad un vero e proprio viaggio di Gulliver.
Conclusione. Come diceva Schopenhauer l’etica deve liberarsi dal complesso del Sinai, cioè essere concepita come un decalogo. Che qualcosa sia un valore non lo decide una tavola della legge, ma lo dice la sua qualità che deve tendere ad un’espansione della vita di tutti. La morale è esperienza sempre sottoposta a verifica con gli altri. Se esisto devo coesistere: questa è la radice di ogni morale. L’etica della responsabilità trasforma il fatto normale di coesistere nell’impegno consapevole del coesistere. Il passaggio a questo dovere è opera della personalità che è la persona cosciente del suo farsi continuo mediante l’educazione e l’autoriflessione. Di un commosso e intenso necrologio di Sartre scritto per la morte di Andrè Gide (marzo 1951) riporto la conclusione che sintetizza bene il senso di questa nota: “Ogni verità è divenuta. Ce ne dimentichiamo troppo spesso. Guardiamo il risultato e non la via percorsa. Consideriamo l’idea come un prodotto finito e non ci accorgiamo invece che è una lenta maturazione, un seguito di errori necessari che si vanno correggendo, di visioni particolari che si completano e si ampliano.”

Fiorenzo Baratelli è direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara

Istruiti per una cittadinanza planetaria

Studiare per il mercato? E se imparassimo a studiare per noi stessi, per difendere non solo i nostri diritti ma anche e prima di tutto la nostra vita? In realtà noi studiamo come consumare la vita, non come difenderla, preservarla, migliorarla. Dico la vita e non l’esistenza, perché per esistere si può fare in tanti modi. Ma il vivere è uno solo. Se lo studio è partecipazione alla cultura della specie cosa serve se domani la specie non c’è più, è destinata a scomparire? In questa frenesia a rendere tutto globale per l’interesse di pochi che arricchiscono fuori d’ogni misura, cosa c’è di più globale della qualità delle nostre vite personali, individuali, singole vite identiche di chi sta fianco a fianco nell’abitare questo mondo, al momento ancora glocale?
Tra le varie carte che noi umani scriviamo ce n’è una, visto che abbiamo appena celebrato la giornata mondiale della Terra, che è più Magna delle altre: la Earth Charter, la Carta della Terra. Ha la sua bella e accattivante origine proprio all’inizio di questo nuovo millennio, nel Palazzo della Pace all’Aia. È una carta etica, una proclamazione di intenti etici, un impegno morale che tutti quelli che condividono l’umana avventura dovrebbero onorare.
Per Joel Spring, pedagogista statunitense, docente al Queens College di New York, alcuni principi proclamati dalla Carta della Terra dovrebbero costituire il cuore di un curricolo scolastico di dimensione mondiale, il cui scopo non sia il mercato, bensì quello di perseguire un futuro di benessere per l’umanità. Del resto anche Edgar Morin, il filosofo sociologo francese, ha già da diversi anni lanciato questo appello con il suo Terre-Patrie.
Un curricolo scolastico urgente da realizzare, se prestiamo fede al preambolo della Carta. Ci avverte che stiamo attraversando un momento critico della storia della Terra, un tempo in cui l’umanità è chiamata a scegliere il suo futuro. Il mondo diventa sempre più interdipendente e fragile, riservando grandi pericoli, ma anche grandi promesse.
Partendo dai principi proclamati dalla Carta della Terra è possibile scrivere un curricolo comune a tutte le scuole del mondo, che istruisca le nuove generazioni ad esercitare una cittadinanza planetaria attiva e responsabile. Non si tratta di tracciare un percorso genericamente lastricato di buone intenzioni ecologiche, come è ancora nella pratica didattica delle nostre scuole, ma di scrivere un curricolo in grado di istruire generazioni di umanità nuova, di nuovi cittadini della Terra.
Istruire, perché i seguenti principi, proclamati dalle nazioni della Terra all’Aia nel 2000, non continuino a restare sulla carta, ma possano farci nutrire la speranza che un giorno si traducano in realtà:

1. Garantire l’accesso universale all’assistenza sanitaria in grado di promuovere la salute e la riproduzione responsabile.
2. Adottare stili di vita che enfatizzino la qualità della vita e un uso delle risorse adeguato a un mondo finito.
3. Promuovere la distribuzione equa della ricchezza tra le nazioni e al loro interno.
4. Sostenere il diritto di tutti a ricevere informazioni chiare e tempestive sulle questioni ambientali e su tutti i piani e le attività di sviluppo che possono incidere sulla vita di ciascuno.
5. Fornire a tutti, soprattutto ai bambini e ai giovani, le opportunità educative che li rendano capaci di contribuire attivamente allo sviluppo sostenibile.
6. Promuovere il contributo delle arti e delle scienze umane, nonché della scienza, all’ educazione alla sostenibilità.
7. Smilitarizzare i sistemi nazionali di sicurezza e convertire le risorse militari per scopi pacifici, tra cui il recupero ecologico.

Probabilmente il primo principio in materia di “riproduzione responsabile” solleva qualche reazione religiosa a causa delle implicazioni legate al controllo delle nascite. Tuttavia, l’effetto della riproduzione umana, in particolare l’aumento a spirale della popolazione mondiale, ha un impatto sulle questioni ambientali che va dalla disponibilità di risorse naturali fino al trattamento dei rifiuti. I contenuti dei nostri saperi si modificano, si arricchiscono, i cittadini della Terra di domani, che sono gli studenti d’oggi, hanno necessità d’ essere istruiti circa gli effetti prodotti dalla dimensione della popolazione umana sull’ambiente. Conoscere ciò che, se necessario, deve essere fatto per controllare la crescita della popolazione.
Il secondo punto, gli stili di vita. La felicità umana, la longevità sono le nostre aspirazioni, non i consumi di mercato. Occorre uscire dalle ambiguità. Almeno la scuola ha questo dovere in assoluto. Acquisire solide competenze su questo terreno è indispensabile, c’è un imperativo morale, fare in modo che le nostre ragazze e i nostri ragazzi apprendano attraverso la scuola gli strumenti per rivendicare e considerare imprescindibili gli stili di vita che sono indispensabili a proteggere la biosfera. Il terzo principio nella lista è il più importante perché le disuguaglianze uccidono ogni aspirazione individuale al benessere e alla felicità. Sebbene la realtà ogni giorno ci smentisca, dobbiamo affidare alle nuove generazioni il grande ideale umano di sconfiggere le iniquità. La questione della cattiva distribuzione della ricchezza fa sì che pochi speculino sull’uso delle risorse a danno di tutti gli altri e soprattutto del destino delle future generazioni. Il quarto principio è il cardine della conoscenza, l’ossigeno della consapevolezza, poiché è essenziale per qualsiasi cittadino, studente o insegnante avere un tempestivo accesso alle informazioni in materia ambientale. Il quinto principio elencato sostiene l’insegnamento della responsabilità etica, che devono condividere i cittadini della Terra, di proteggere la vita umana e la felicità di ognuno. Il sesto principio riflette l’approccio olistico alla conoscenza, l’idea di un curricolo integrato, dove i saperi volti a tutelare l’uomo, la sua vita, il suo ambiente siano fortemente interrelati in ogni percorso formativo. E, naturalmente, il soggetto dell’ultimo principio, la guerra. L’attività umana più distruttiva, che minaccia con la sola sua ombra la durata e la felicità di ogni vita individuale. Ce n’è abbastanza per scrivere un curricolo che ponga al centro l’uomo e il suo abitare la Terra, un curricolo le cui ragioni sarebbero state impensabili da John Dewey a Paulo Freire.

doodle-cinecitta

Buon compleanno Cinecittà, Google celebra i suoi 77 anni

di Claudia Balbi

Sono tempi strani questi nostri. L’anniversario della nascita di Cinecittà, laddove negli anni sono stati girati migliaia di chilometri di celluloide che hanno fatto grande la storia del cinema italiano e non solo, oggi ce lo ricorda Google, motore di ricerca americano con un doodle, un disegno con i set di posa romani stilizzati, che riproduce la scritta del colosso di Mountain View.

Era il 28 aprile del 1937 quando Benito Mussolini fece il suo ingresso trionfante a Cinecittà nell’allora quartiere del Quadraro. Le riprese dell’Istituto Luce rimandano ad un clima di festa orgogliosa. L’apertura del complesso cinematografico romano infatti rispondeva al programma politico-culturale fascista. Un ottimo strumento di propaganda. “Il cinema è l’arma più forte” lo slogan mussoliniano.

La nascita di Cinecittà rappresentò inoltre un segnale di ripresa dell’industria cinematografica che, dopo la crisi degli anni Venti, dalla sua città natale, Torino, si spostò all’ombra del Colosseo dove iniziò una rapida ascesa, fino a che la Guerra non le mise un freno.

Danneggiato dai bombardamenti durante la seconda guerra mondiale, il sito fu utilizzato come un campo per sfollati riuscendo ad accogliere fino a 3.000 rifugiati. Poi con il boom economico degli anni Cinquanta gli studi tornarono in piena attività e furono utilizzati come location di film d’eccezione come Quo vadis e Ben-Hur, che contribuirono a dare vita al mito della città del cinema.

Oggi, dopo una serie di vicende alterne, fatte di rilanci, privatizzazioni, tagli e proteste dei lavoratori, i teatri di posa funzionano ancora e dopo 77 anni Cinecittà è passato ad indicare l’intero quartiere che corre lungo Via Tuscolana.

[© www.lastefani.it]

Leggono in classe romanzo gay, denunciati i professori

di Irma Annaloro

Alcuni professori di uno degli storici istituti della capitale, il liceo Giulio Cesare, sono stati denunciati per aver fatto leggere in classe un passo tratto dal romanzo di Melania Mazzucco ‘Sei come sei’. Tutta colpa del contenuto di quel brano incentrato sul tema del sesso tra gay e che in particolare tratta di un rapporto orale consumato in uno spogliatoio. L’iniziativa che non deve essere piaciuta ai genitori degli studenti che hanno contattato l’Associazione Giuristi per la Vita e l’Associazione Pro Vita Onlus e hanno sporto denuncia presso la Procura di Roma. Nella segnalazione si legge che “gli allievi in questione hanno un’età compresa tra i 14 e i 16 anni”. Stando a quanto scritto, i reati ipotizzabili sarebbero corruzione di minore e divulgazione di materiale osceno.
Secondo i genitori che hanno segnalato il caso, gli alunni del ginnasio romano “sarebbero stati obbligati a leggere il romanzo a forte impronta omosessuale” sottolineando che “alcuni passi rivelano, in realtà, un chiaro contenuto pornografico”. Una vicenda finita sotto i riflettori dopo le polemiche che i giorni scorsi hanno colpito un altro istituto superiore di Reggio Emilia dove l’Arcigay aveva organizzato un corso che, secondo la denuncia del consigliere di Forza Italia, Fabio Filippi, doveva servire a “sensibilizzare gli studenti sul tema dell’omofobia, poi però la lezione si è trasformata in uno squallido corso di educazione al sesso fra gay, propaganda all’ideologia gender e del matrimonio omosessuale”. Il caso è stato sollevato dal quotidiano Libero che ha riportato i contenuti di un pieghevole, pieno di informazioni su diverse pratiche sessuali, distribuiti agli adolescenti della scuola.

Paolo Ravenna: quelle lezioni a casa Bassani dove si respirava cultura e libertà

In occasione della Festa del libro ebraico, proponiamo integralmente il discorso pronunciato da Paolo Ravenna nel maggio 2009 il giorno della posa della targa commemorativa dedicata a Giorgio Bassani, posta dinanzi alla sua abitazione di via Cisterna del Follo a Ferrara. Si tratta di un documento inedito proveniente dall’archivio privato.

Sono qui oggi, ma mi riporto col pensiero a 70 anni fa. Permettetemelo. Tanti ne sono passati, e forse sono l’ultimo allievo a poter rivivere quella realtà lontana in questo stesso luogo.
Qui, durante la guerra, venivo quasi tutti i giorni a lezione da Bassani con altri due amici, Jenny, sorella di Giorgio, e Roberto Ravenna (non mio parente). Facevamo la seconda liceo, privatamente, in quanto allontanati dalla scuola pubblica perché ebrei.

La lezione si teneva nello studio di Giorgio a piano terra ma tutt’attorno sentivamo il respiro della grande casa. Quella casa illuminata dalla presenza della signora Dora, madre di Bassani, del padre dottor Enrico e di Jenny. Suonavamo, e ci apriva il portone il vecchio custode, mi pare di nome Podetti, e subito incontro arrivava festosa Lulù, la vivace cagnetta amatissima anche da Giorgio.

Una casa ampia, dicevo, dal raffinato gusto borghese, silenziosamente accogliente, ove si respirava l’antica aria di una famiglia ebraica ferrarese benestante, una di quelle tanto presenti nell’opera di Bassani.

Ma per noi importante era quella porta, subito a destra nell’androne (ora muro cieco), da cui si entrava nello studio di Giorgio. Una stanza con libri, quadri, carte, tutto ordinato, come lo ricordo ancora oggi. Con l’ampia finestra dall’inferriata bombée che dava sulla strada. Qui ci siamo formati. Noi tre. Jenny, Roberto ed io. In un ambiente tutto particolare, ovattato, quasi isolato dal mondo. Immediatamente fuori gravava l’atmosfera della guerra, il fascismo, un clima per noi ostile, la lunga incognita del futuro… Eppure la cospirazione in quella stanza vi era, eccome, ma noi tre la intuivamo soltanto.

Ecco dove Bassani apriva a noi giovani – sin qui immersi negli slogan del regime – un mondo ignoto. Quello della libertà. Una nuova cultura laica, democratica, liberalsocialista che Giorgio ci spiegava accompagnandoci con passione alla scoperta dei valori della storia, dell’arte e delle lettere. Sarà il germe di quell’impegno civile che, a Italia liberata, coinvolgerà tanti di noi. Ma altri ne parleranno dopo di me.

Io desidero rimanere ancora qui. Entrare in questo portone, vedere oltre la vetrata, con lo sfondo del giardino, quella magnolia che ricordo appena piantata nel ‘39, avendo accanto a me Roberto, con il quale, quasi tutti i giorni, arrivavo in bicicletta dal centro della città. Diciassettenne anche lui, un’amicizia di due giovani che insieme scoprono la vita, con il privilegio di una guida sicura e illuminata che ci indica la lunga strada che avremmo dovuto ancora percorrere.

Con Roberto, intelligenza fervida, promettente poeta, incoraggiato nello scrivere proprio da Giorgio, ci siamo salutati l’ultima volta – ormai entrambi in fuga – nell’ottobre ’43. Io mi salvo, lui viene ucciso con il fratello ed il padre ad Aushwitz nel gennaio del ’45, pochi giorni prima della liberazione. La sua strada si è fermata lì.

Ecco, credo giusto che proprio qui, oggi, si ricordi anche il nome del giovane poeta sconosciuto ai più, accanto a quello del suo famoso insegnante. Sono sicuro che Giorgio assentirebbe. Con un semplice cenno, come faceva lui quando era toccato nel profondo.

In seguito, passata la bufera, la casa rimane per me il centro di una lunga amicizia per tutti gli anni successivi. Scompare la signora Dora, ormai lontani i figli, Giorgio torna spesso a Ferrara, in via Cisterna del Follo, e sottolineava 1, per respirare l’aria della famiglia, per seguire la “patria” come amava dire, per scrutare il suo mondo fino a quando potrà.
Non posso dimenticare il costante legame che lo univa a Beppe Minerbi. Il “creatore” di un’altra prestigiosa casa, idealmente legata a questa, quella in via Giuoco del Pallone 15. Via Cisterna del Follo-via Giuoco del Pallone, il fascino della toponomastica tanto sentito da Bassani.

Infine, tra i tanti, due veloci ricordi più vicini a noi:
Poche ore prima della Laurea ad H., Giorgio è qui nel piccolo appartamento riservatosi sul giardino, attorniato da vecchi amici che vuole vicini in quel momento. Vedo Claudio Varese, Franco Giovannelli, Mario Pinna e altri che dimentico. Altro ricordo degli anni ’90 quando, a conclusione di un giro per Ferrara alla scoperta dei luoghi inediti dell’ebraismo tanto bassaniani, egli saluta gli amici del FAI, venuti da Bologna e da Venezia, seduto sotto la magnolia e intreccia un dialogo (purtroppo non registrato) sull’ambiente che è suo, sul suo mondo.
Oggi quell’ambiente lo ricorda al passante la lapide, sobria come avrebbe voluto lui, scoperta in una calda giornata ferrarese, un segno definitivo come le sue pagine… assoluto, direbbe ancora il Nostro.

Paolo Ravenna
Ferrara, 26/05/2009

[Documento inedito proveniente dall’archivio privato]

Turismo per tutti, la sfida dell’accessibilità

Da invivibili ad accessibili. Sono le città per tutti, attente ai bisogni più diversi, alle forme di disabilità, ma anche alle esigenze di chi deve muoversi con un passeggino o una carrozzina per strada, in un albergo, in un agriturismo senza faticare più di tanto. In città, al mare e in montagna. Non a caso Roberto Vitali, presidente di Village4All il marchio turistico internazionale nato per certificare l’accessibilità delle strutture ricettive, ama ripetere che le necessità di una persona con bisogni diversi sono simili a quelle di un bambino. Negli anni l’idea illuminata di Vitali, il primo ad aprire a Ferrara l’Informa Handicap, si è trasformata da visione futuribile a idea vincente tanto da fruttare a V4A e all’applicazione omonima, arricchita dal termine inside, due riconoscimenti prestigiosi nell’ambito degli Untwo Awards promossi dall’Organizzazione mondiale del Turismo delle Nazioni Unite.

Innovazione, tecnologia ed etica del turismo sono alle base di entrambi gli oscar, ma c’è ancora molto da fare. “L’idea era condivisibile, lo testimoniano i premi, ma soprattutto le esigenze di un turismo globale che si sta muovendo in questa direzione – spiega Vitali – Il turismo accessibile è un tema sul quale sono chiamati a lavorare tutti i paesi. C’è chi sta muovendo i primi passi e chi, come noi, ha già fatto un pezzetto di strada”. Reduce da Gitando, il salone vicentino del turismo e delle vacanze, dove Vitali ha moderato la quarta edizione del Meeting Internazionale di Turismo Accessibile, ricorda come le vacanze per tutti siano da una parte sintomo di progresso e dall’altra fonte economica di grande importanza. Due facce della stessa medaglia, che nella tutela dell’ambiente e delle sue risorse, trovano la ragione di un nuovo e moderno impulso sponsorizzato dall’Europa.

Nel giorno del Tourism Day 2013, l’accessibilità turistica è stata assunta come un valore da promuovere nel segno della qualità. Se la svedese Gothenburg si è ritagliata il primo posto tra le città per tutti, le altre ne devono seguire l’esempio, magari allineandosi ai consigli europei pensati per imprenditori e operatori turistici. Il segreto, sostiene la Commissione europea, non sta solo nell’eliminazione delle barriere architettoniche ma nella capacità di cogliere il business e la sua utilità; di conciliare l’innovazione alle richieste di un mercato in espansione. “Nella sola Europa il turismo per tutti riguarda ben 127 milioni di persone, un giro d’affari che si attesta intorno ai 90 miliardi di euro – spiega Vitali – L’Italia ha 4 milioni di potenziali ospiti, un indotto di 5, 6 miliardi, si capisce bene l’importanza di mettere a punto una dimensione turistica accessibile il più ampia possibile. Il mercato del turismo accessibile vale fino al 20% del Pil turistico di ogni Paese della Ue”.

Numeri a nove zeri di cui tenere conto. “Il tema dell’accessibilità, anche a livello locale, è stato percepito come una necessità. I risultati ottenuti con Rimuoversi in Centro, l’iniziativa promossa da Ascom e Confcommercio per rendere il centro storico più amichevole e accessibile fin dai suoi arredi, ha visto una grande partecipazione”, continua Vitali, consigliere Ascom, del Consorzio Visit Ferrara e consulente. “Metterla in campo ci ha permesso di abbozzare le basi per una progettazione europea alla quale il Comune è interessato – spiega – In un certo senso la crisi ha spinto anche i commercianti a interrogarsi sulle modalità di affrontarla, molti si sono resi conto di quanto sia importante dare attenzione a tutti i clienti. Tutto questo, produce economia e inclusione”. A Ferrara, come in ogni altro luogo.

“Tutte le strutture garantite dal marchio V4A hanno generato una crescita del giro d’affari che va dal 10 al 20 per cento – conclude – Come è ovvio tutto dipende dall’impegno di chi ci lavora”. E anche dall’attenzione delle istituzioni, la Regione Veneto ha fatto dell’accessibilità un tema forte della propria strategia turistica. E’ la regione più visitata, 63 milioni di presenze, un primato tale da spingere l’assessore regionale Marino Finozzi a illustrare durante il Tourism Day 2013 l’impatto economico delle vacanze alla portata di tutti. E’ giusto e conviene assecondare le necessità imposte dallo stato fisico e dalla salute, comprese quelle alimentari. Un numero sempre maggiore di persone in tutto il mondo soffre di allergie e intolleranze, è il continuo insorgere dei casi a chiedere risposte. Per tutti.

Da Weisz a Pandolfini, quando il calcio fa scuola

di Andrea Piana

Cosa hanno in comune Arpad Weisz, Egisto Pandolfini, Roberto Luis La Paz e Jarbas Faustinho Cané? Sono i protagonisti di storie incredibili, storie di calcio e discriminazione, ma anche di integrazione e intercultura nel nostro Paese. Storie purtroppo spesso poco conosciute, ma che da oggi potranno uscire dall’anonimato, grazie al “Calciastorie”, il progetto nato dalla collaborazione tra Lega A, Uisp, Ministero del lavoro, Aic e Sky sport, che porterà nelle scuole racconti che avranno come filo conduttore il gioco più bello del mondo. Obiettivo, la promozione dei valori dell’integrazione e della tolleranza tra le nuove generazioni. Il progetto è stato presentato nel liceo sportivo San Vincenzo De’ Paoli.

Attraverso ricerche d’archivio, interviste e materiale multimediale verranno narrati singoli episodi o intere esistenze di calciatori, allenatori, club che hanno affrontato diverse forme di discriminazione. Le storie saranno alla base di percorsi di formazione e sensibilizzazione dei ragazzi delle scuole secondarie delle città della Serie A Tim e per la realizzazione del progetto saranno utilizzati i fondi derivanti dalle sanzioni irrogate dal giudice sportivo durante il massimo campionato.

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Arpad Weisz

E la prima storia del progetto non poteva essere che quella incredibile sulla vicenda di Arpad Weisz, l’allenatore ungherese di origini ebraiche, che guidò l’Inter di Giuseppe Meazza e il favoloso Bologna degli anni ’30, “lo squadrone che tremare il mondo fa”. La vicenda di Weisz, deportato ad Auschwitz, dove morirà nel 1944, è ormai conosciuta sotto le Due Torri grazie allo straordinario libro di Matteo Marani, direttore del Guerin Sportivo, che ha ricostruito davanti ai ragazzi del liceo S. Vincenzo, le incredibili (e purtroppo tragiche) disavventure di quello che è considerato l’inventore del calcio moderno.

Forse meno conosciuta è la storia di Egisto Pandolfini, nazionale italiano nei sfortunati mondiali del 1950 in Brasile e uno degli ultimi testimoni del viaggio che la nazionale italiana fece a bordo della Sises, la leggendaria nave che portava i migranti italiani in Sud America. Durante la traversata gli atleti erano rigidamente controllati dagli accompagnatori, anche per evitare contatti con i viaggiatori dei piani inferiori. E la testimonianza di Pandolfini, è uno straordinariato spaccato sull’emigrazione italiana degli anni ’50.

O la storia di Roberto Luis La Paz, uruguayano e primo calciatore nero della Serie A, che giocò per due anni nel Napoli, dal 1947 al ’49. Lo stile di vita sregolato influenzò il suo rendimento come calciatore, e La Paz, complice anche la retrocessione dei partenopei in serie B, non godette dei favori del pubblico e soprattutto della stampa. In un articolo della “Gazzetta dello sport” di quegli anni si leggono commenti del tipo “movenze da negretto”. Forse anche per questo La Paz decise di abbandonare l’Italia e, dopo una carriera scadente tra Olympique Marrsiglia , Montpellier e Monaco, l’uruguagio finì per fare lo scaricatore al porto di Marsiglia, facendo perdere le sue tracce. Ancora oggi di lui non si sa se sia ancora vivo.

Ma Napoli è stata anche la città che ha ospitato il primo allenatore di colore della serie A (molto tempo prima quindi, di Clarence Seedorf, con buona pace di Galliani…), guidando i partenopei nella stagione 1994/95, in coppia con il direttore tecnico Vujadin Boskov.

“Calciastorie è un progetto ancora in fase di messa in opera e si basa essenzialmente su due temi: la memoria e il racconto. Questo perché anche per lo sport e per i calcio vale il discorso che se non si conosce da dove si viene, si fa fatica a sapere dove si sta andando”, il commento Marco Brunelli, direttore generale della Lega Serie A. “Sono convinto che i comportamenti incivili che vediamo negli stadi, le scritte razziste, siano dettati principalmente dall’ignoranza: il recupero della storia, anche sportiva, può servire anche a combattere questi fenomeni”.

“Nei primi anni del terzo millennio sono venute in Italia 5 milioni di persone e nel nostro Paese – caso unico nel mondo- ci sono 142 comunità di stranieri. E perciò parlare di sport e integrazione in un periodo storico come questo è fondamentale”, chiarisce Natale Forlani, direttore generale del Ministero del lavoro. “É un dato di fatto che lo sport abbia sempre anticipato i percorsi storici, perché i valori che lo animano sono di appartenenza. Quando George Weah giocava nel Milan, i tifosi rossoneri non vedevano il suo colore della pelle, ma erano ammirati dalle sue prodezze”.

Nella videointervista, Matteo Marani, direttore del Guerin sportivo, parla di Arpad Weisz

[© www.lastefani.it]

ELOGIO DEL PRESENTE
Fidanzata psicopatica

Più di 80.000 fan su Facebook, più di 12.000 follower su Twitter, Fidanzata Psicopatica (così si intitola un profilo di Facebook) sembra uno dei personaggi più amati dalle giovani donne sui social network. Dietro la maschera della compagna più aggressiva del web si nasconde (neanche tanto, a dire il vero) una giovane stilista, Selene Maggistro, che ha trovato una formula efficace per fare self branding, come si dice con un’espressione ormai gergale.
Il personaggio affronta con ironia e aggressività questioni universali con cui le donne hanno fatto i conti in tutti i tempi: gelosia, competizione, desiderio di possesso e di trasgressione, libertà e subalternità a modelli di ruolo. Così Selene descrive le nuove armi della seduzione odierna: tacchi a spillo e coltello in borsa (termini suoi), intelligenza e make up (direi io). È questo mix di nuovo e di tradizionale che consente una così larga identificazione.
Ma perché questa pagina ha riscosso tanto successo sui social media? In un’intervista a Linkiesta (quotidiano online che approfondisce fatti e notizie su politica, economia, società e ha riscosso un ampio successo), Selene – un lavoro vero, ma scrittrice per passione – afferma: “ci sono donne che mi mandano dettagliati resoconti della loro vita intima pur di sapere cosa farei io”. Le domande riguardano, ovviamente, consigli su come fronteggiare le relazioni sentimentali. La gelosia sembra il sentimento più diffuso nel tempo della rete. Per molte ragioni: la libertà di esplorazione che sfugge ad ogni controllo, il confronto permanente con immagini idealizzate, il gioco di seduzione che si affida ad un’ostentata disponibilità fuori da ogni vincolo (e fatica) della vita quotidiana. La gelosia sembra essere il più universale sentimento con cui, paradossalmente, queste nuove meravigliose creature debbono fare i conti.
Le ragazze (ma non solo) sono alla ricerca di modelli di identificazione e di consigli adeguati a questo tempo di transizione. Li cercano in un presente in bilico tra passato e futuro, in comportamenti che è difficile ricondurre alle categorie con cui avevamo ragionato in passato di identità di genere. Modelli paradossali di donne libere nei comportamenti sessuali, nella possibilità di gestire la propria vita e il proprio tempo e così schiacciate sul rispetto di posizioni femminili per molti versi subalterne. Ma sarebbe un errore classificare questi modelli in termini regressivi: l’uso di armi di seduzione apparentemente tutte giocate sul corpo si associa ad una sostanziale aggressività verso i maschi, un senso di superiorità e di dominio. Molte donne blogger discutono di amore e lavoro, di rapporti tra i generi, di politica e cultura, mescolando temi e toni con ironia e scherno, arguzia e intelligenza.
Tutto ciò avviene in un contesto di comunicazione “pubblica”, con un gioco di reciproco specchio tra i propri comportamenti e quelli altrui. L’identità di queste giovani donne si costruisce attraverso un confronto interno alla loro generazione, il modello delle madri sembra non rappresentare né un riferimento né un problema. Scrivono sulle pagine di Facebook come un tempo le nonne (le loro mamme non avevano tempo) scrivevano sul diario. E che male c’è se la privacy, come l’amore, non è più quello di una volta? Il problema è un altro. L’accento sulla propria peculiare identità non è mai stato così forte e, nel contempo, non è mai stata così pressante la ricerca di modelli comuni a cui aderire e uniformarsi.

Maura Franchi (Sociologa, Università di Parma) è laureata in sociologia e in scienze dell’educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing e Web Storytelling, Marketing del prodotto tipico. I principali temi di ricerca riguardano: i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@unipr.it

I sentieri irti della crescita

Ognuno di noi sa che deve percorrere duri sentieri per arrivare in vetta, e se fa anche della montagna non può che essere d’accordo.
Quando si partecipa a un master sull’Europa, sugli effetti che ha procurato la moneta unica da una decina d’anni e più, sente che il relatore utilizza la metafora della montagna, di una catena di montagne e di tante persone che, con lo zaino sulle spalle, si incamminano su per i sentieri, sapendo che, primo a poi, arriveranno in cima.
In quei corsi si diceva che il cammino poteva essere irto, con molti tornanti, alcuni rivoli d’acqua e belle cascate, un laghetto, un piccolo altopiano, un pendio ripido, tanto verde, alcune panchine, un contesto anche bello da vedere con il sole, un po’ meno con la pioggia, se poi c’è la neve il tutto si complica.
Bel discorso, anche interessante, ma non siamo al Cai, si replicava! Chi stava al gioco aggiungeva: “Ci sarà almeno una baita, uno strudel, una piccola sosta anche per ripararci”; da dietro al tavolo un sorriso e la lavagna luminosa proiettavano le Dolomiti.
Ma dopo le Dolomiti le slide illustravano un uomo, di mezza età, vestito in tricolore, con uno zaino consistente e abbastanza rumoroso al suo interno, dal quale ad un certo punto è uscito il nostro Paese con tutti i suoi problemi: la busta paga, la fattura, la catena di montaggio, una vanga, un libro, una giovane disoccupata, una bolletta, un paio di calze, una mela, un biglietto del bus e… tanto altro.
La vera difficoltà era rimettere il tutto in ordine, il vento non ci aiutava nella raccolta, dopo un po’ tutto rientrò nello zaino ma non mancarono alcuni rumori, uno sciopero, una dogana che ti controllava la commessa, il preziario contestato, una pratica edilizia ancora ferma, la pagella del figlio, il dépliant delle vacanze e altro.
Ma cosa centra tutto questo con l’Europa delle nazioni, con l’euro, con Bruxelles, con la Pac, con la fiscalità, con il debito ed il deficit?
Una parabola, una raffigurazione dinamica, non certo la montagna delle Scritture, sicuramente un approccio anche didattico e, soprattutto, indicazioni per come percorrere i sentieri, come l’Italia dovrà attrezzarsi per percorrere un cammino lieve, sereno, attento, interessato, fino ad arrivare lassù e vedere l’orizzonte sopra le nuvole. Poi, girandosi attorno, incontrare con la vista, le altre cime, la Francia, la Germania, il Portogallo, la Gran Bretagna.
E se mentre arrivi sopra, trovi che altri sono arrivati prima di te, altri stanno ancora salendo e li vedi affrontare il penultimo tornante, altri ancora riposarsi sull’altopiano sottostante, e gli ultimi a bere alla baita? Forse vuol dire che potevi fare meglio e che le turbolenze nello zaino (una certa contestazione, alcune ingiustizie, i diritti e le libertà, i privilegi e le burocrazie, il lavoro, ecc.) sono sempre ed ancora in atto.
La saletta del master, circa 26 corsisti, molti di qualità e con una buona formazione, sembrava fiduciosa e tutti avevano capito quale doveva essere la direzione di marcia.
Molto dipende da noi, si dicevano, dai nostri comportamenti, dalle nostre solidarietà, da come saremo governance dello zaino, dall’essere Paese e comunità più vasta.

Poi arrivavano le 10.30, l’ora del coffee break e, tra un sorso e l’altro, si commentava: “Questa è l’Europa che vogliamo, almeno in molti.”

Tassinari, il maestro flautista di Santa Cecilia che formò Gazzelloni

“MUSICI” FERRARESI DEL SECONDO OTTOCENTO
Arrigo Tassinari

Nato a Cento, Arrigo Tassinari (1889-1988) fu il flautista prediletto di Toscanini. Con il grande maestro egli suonò alla Scala fra il 1921 e il 1933, diventando uno dei suoi collaboratori più fidati ma non esitando a definirlo «buono e generoso quando non era sul podio; terribile e intrattabile quando impugnava la bacchetta».
Cominciò fin da ragazzino a cimentarsi con il flauto, si iscrisse all’età di quindici anni al Conservatorio di Bologna, a diciotto si diplomò e intraprese la sua ultrasessantenne attività di musicista in giro per il mondo.
Esordì a Cento nel Trovatore, quindi si spostò a Forlì, a Trento, a Rovereto, a Palermo. Ma la svolta della sua carriera avvenne nel 1910, allorché gli fu chiesto, dopo essersi mirabilmente esibito a Rovigo nel Mefistofele, di passare alla Scala di Milano. In seguito andò in tournée in Argentina con Enrico Caruso e Titta Ruffo, insieme ai quali eseguì una memorabile edizione de I pagliacci.
Trasferitosi a Bologna nel 1917, incontrò alla fine del primo conflitto mondiale il maestro Arturo Toscanini, del quale divenne primo flauto alla Scala. Nel 1933, lasciato Toscanini che, avverso al fascismo, si era trasferito negli Stati Uniti, Tassinari si dedicò alla musica concertistica e all’insegnamento, svolgendo quest’ultima attività in specie a Roma presso il Conservatorio di “Santa Cecilia”, dove rimase per ben venticinque anni. Dalla sua scuola uscirono i maggiori flautisti italiani, fra i quali il celebre Severino Gazzelloni.

La malattia e la cartella clinica della vita

Quando scrive, Albert Espinosa ti dà del tu. È talmente diretto e pratico che non può esserci troppo spazio in mezzo. Braccialetti rossi il mondo giallo (Salani, 2014) è un libro che ha l’obiettivo dichiarato di accompagnare il lettore nella ricerca dei gialli.

Albert, a partire dai quattordici anni, ha passato dieci anni fra ospedali e terapie, ha perso un polmone, un pezzo di fegato e una gamba per la quale ha organizzato una speciale festa d’addio. Sì, perchè le perdite, garantisce Espinosa, sono positive, vanno vissute, “sono conquiste” che aggiungono qualcos’altro.

Braccialetti rossi il mondo giallo è un altro modo di vedere le cose, una capacità di sbirciare dietro l’angolo senza paura e magari trovare una soluzione. La scoperta, infatti, è per Albert Espinosa una meraviglia continua che riguarda se stesso e gli altri. Avete mai provato a stare venti minuti immobili più o meno come si sta quando si fa una tac? Siccome di tac e radiografie Albert ne ha fatte un’infinità, ha imparato ad applicare quel modo di stare fermo e in silenzio anche in piena salute. Un giorno al mese, stacca il telefono, si sdraia, si ripete “non ti muovere, respira, non respirare” per venti minuti e si sottopone volontariamente a speciali raggi X, quelli che non hanno bisogno di macchinari perchè servono per leggersi dentro, trovare soluzioni, stare tranquilli.

Questa è solo una delle ventitrè scoperte che il libro propone, tutte nate da una vita che ha dominato la malattia, si è fatta contaminare da altre vite interiorizzandole al punto che la morte di un compagno di stanza donava altra vita a chi rimaneva, facendo vivere in tanti modi e per sempre chi se n’era andato.

Albert Espinosa è davvero riuscito a ribaltare tutto: la cartella clinica che in dieci anni ha contenuto le annotazioni di oltre venti medici specialisti, un giorno è stata chiusa e se n’è aperta un’altra, una cartella di vita, una specie di diario su cui annotare gioie e sofferenze. Come nella cartella clinica i medici rintracciavano le crisi e le soluzioni, così nella cartella di vita, ciascuno potrà ritrovare se stesso, i cicli in cui si è imbattuto e le vie d’uscita. Ma la cartella va arricchita di oggetti simbolici, frammenti positivi e di una felicità che dovrà restare. Anche per gli altri.

Circa a metà delle ventitrè scoperte, ce n’è una molto bella perchè fa scoprire la capacità di scoprire. Si chiama In cerca del sud e del nord ed è una frase che Albert, in terapia intensiva, ha sentito dire da un’infermiera: “i sogni sono il nord della nostra bussola, quando li hai realizzati, devi andare al sud”. In un viaggio di ricerca continuo da un polo all’altro, Albert Espinosa ha messo in pratica quelle parole e non ha mai smesso di cercare un altro sogno, un altro sud perchè, come cita anche il sottotitolo del libro, se credi nei sogni, i sogni si creeranno.

Unendo tutte le ventitrè scoperte, si è pronti per capire cos’è il mondo giallo e chi sono i gialli. Il giallo lo intuisci, ti attrae per qualche motivo, con lui instauri qualcosa di speciale e non importa quanto durerà quel legame. A metà tra l’amore e l’amicizia, con il giallo ti apri, parli e ti concedi quel contatto fisico fatto di abbracci e carezze abbastanza esclusivo. Il giallo ti dà forza, aiuta a conoscerti, porta bellezza e lascia un segno nell’esistenza.

Nel mondo giallo, dice Espinosa, c’è anche la morte a cui si deve imparare a pensare in termini opposti, cioè di vita a disposizione, di “dettagli concreti di quello che vuoi realizzare a questo mondo”. E allora perchè esprimere desideri e soffiare solo ai compleanni? Il soffio viene da dentro, libera qualcosa, come i desideri. Albert ha soffiato ogni volta che gli facevano un puntura (circa mille iniezioni) e anche dopo, almeno due o tre volte alla settimana, e continua a farlo, ma a una condizione: quei desideri bisogna vederli fino in fondo.

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Consigli per la vostra schiena

Milioni di persone oggi sono molto preoccupati di migliorare il loro aspetto e di conseguenza spendono una grande quantità di denaro sui loro vestiti, cosmetici e in saloni di parrucchieri. Eppure, la maggior parte delle persone sarebbe d’accordo che una delle qualità più interessanti per una persona è il loro modo di sedersi, stare in piedi e muoversi – o in altre parole, la loro postura. Da bambini molti di noi hanno una postura bella. Si è molto flessibili e si ha grazia nel movimento, ma come si invecchia, tuttavia, è una storia completamente diversa.
Fin dall’età di cinque o sei cominciamo le tensione dei nostri muscoli in risposta alle paure e alle preoccupazioni della vita, e di conseguenza la nostra postura ci logora, spesso molto seriamente. Le nostre spalle diventano curve; il nostro collo diventa rigido e inflessibile, e molti di noi cominciano a sedersi in un modo “insaccato”. Molte persone sanno descrivere la postura come ‘il modo in cui si mantiene diritto… In realtà la postura non è nulla del genere. La postura di una persona dovrebbe essere in continua evoluzione a seconda di quale attività svolgono. Posture innaturali, posture fisse invariabilmente possono arrecare problemi di salute in futuro.

Quello che molti non capiscono è che una buona postura avviene senza sforzo fisico o mentale, solamente l’inadeguata tensione muscolare, che si accumula progressivamente nel corso degli anni, che crea un’interferenza con i riflessi della statica e dinamica, conseguentemente ci si muove in modi da farci apparire goffi. Questo può dare origine a tutta una serie di disturbi comuni come l’artrosi, l’artrite, mal di collo e mal di schiena, sciatica o semplicemente rigidità generale e l’immobilità nella vita adulta. In realtà, molti dei problemi posturali che colpiscono gli adulti possono essere ricondotte ai muscoli tesi del collo che interferiscono con il libero movimento della testa e della colonna vertebrale. Se questa libertà non è presente sarà impossibile avere qualsiasi libertà su qualsiasi altra parte del corpo.

 

Per il mal di schiena è meglio andare dal vostro osteopata il più presto possibile
• Fare regolarmente gli esercizi, che il vostro osteopata saprà consigliarvi
• Stare nella stessa posizione per ore può causare problemi – evitate la gobba da computer
• Durante movimenti ripetitivi, variate il ritmo e fate frequenti pause
• Aggiustate correttamente il sedile dell’autovettura, e nei lunghi viaggi fate delle pause per fare dello stretching 5/10 min.
• Non esagerate con i lavori pesanti, tipo il giardinaggio, non rischiate i vostri dischi intervertebrali
• Osservate la postura dei vostri bambini – non dovrebbero portare borse su di una sola spalla o trascorrere troppo tempo davanti al computer senza fare pause
• Durante la gravidanza, l’osteopatia può aiutare il corpo ad adattarsi ai cambiamenti posturali
• Evitate stiramenti quando sollevate pesi, in special modo bambini e la spesa
• Il vostro letto potrebbe essere la causa del vostro mal di schiena, chiedete al vostro osteopata consigli a riguardo.

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L’eredità della Achmatowa e la responsabilità dei giornalisti

Nella prefazione di una lunga Requiem per le vittime dello stalinismo, la poetessa russa Anna Achmatowa (Bol’soj Fontan, 1889 – Mosca, 1966) ricordava un incontro durante la coda davanti alla prigione di Leningrado/Pietroburgo. “In un modo o in un altro qualcuno mi aveva riconosciuto. Allora si destò la donna con le labbra livide che era in piedi dietro di me, che naturalmente non aveva mai sentito il mio nome, e mi domandò, sussurrandomi all’orecchio: “E lei sarebbe in grado di descrivere tutto questo?”. E io dissi: “Sì”. Allora qualcosa come un sorriso sdrucciolò su quello che era stato il suo viso”.

Grazie a Dio, oggi lo stalinismo, almeno quello di una volta, non esiste più, ma ci sono altri modi di combattere e di perseguire la libertà di stampa e d’opinione in tutto il mondo, anche in Europa, anche in Germania, anche in Italia. Ma nonostante il degrado di una democrazia vera ed ideale, non si può paragonare il grado di terrore politico che si ebbe durante lo stalinismo degli anni dei Gulag a quello che oggi abita la freddissima Corea del Nord, la Cina dei comunisti capitalisti o la Russia di Putin, degli oligarchi ricchissimi con l’incavatura della democrazia occidentale. Ma il ricordo di Anna Achmatowa, dell’episodio davanti al carcere staliniano, resta utile per il giornalista che non voglia disperare davanti a eventi drammatici.

Ogni giornalista ha l’enorme opportunità, ma anche la responsabilità, di tradurre con la scrittura quello che altri, le vittime inermi e ammutolite, non riescono o non possono più esprimere. Sembrano parole patetiche ma il giornalista le deve sempre riprendere nelle situazioni drammatiche, quando si imbatte nei limiti della sua professione. Oggi, si parla molto e sempre di più di una rivoluzione nel mondo mediatico attraverso la comunicazione online e sui social network. Davvero l’attuale cambiamento del nostro modo di comunicare con gli altri, con i più vicini e in tutto il mondo, è radicale. Sopratutto per le generazioni più vecchie, talvolta ha effetti anche sconvolgenti, quasi come un terremoto delle loro abitudini. Perciò, noi come giornalisti off e online abbiamo quasi come un precetto, quello che le persone in coda davanti alla prigione staliniana hanno domandato alla Achmatova: “Lei sarebbe in grado di descrivere la nostra crescente precarietà nei tempi di crisi?” “Si”, diceva la Achmatowa. E qualcosa come un sorriso sdrucciolò su quello che era stato il suo viso.”

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Anche Hulk è verde

Nelle pagine di un quotidiano ferrarese di qualche giorno fa, ho letto un articolo su un gruppo di ragazzi che hanno deciso di abbellire un viale del Lido degli Estensi, piantando un vecchio olivo in una fioriera. Questa azione veniva riportata come un gesto da “Guerilla gardeners” che aveva come obiettivo, portare bellezza sulle strade, anche attraverso azioni non convenzionali o autorizzate. Il tutto sponsorizzato dal vivaio “tal dei tali” che aveva fornito mezzi e piante. Tutto giusto, ma c’è qualche inesattezza che va chiarita. “Guerrilla Garden” è un termine che circola da decenni, probabilmente fu usato per la prima volta negli anni ’70 a New York, per indicare l’azione di un gruppo di ambientalisti che avevano creato un giardino, con mezzi di fortuna e senza permessi, in una piccola area abbandonata in un quartiere degradato. Il giardino di Bowery Houston esiste ancora ed è mantenuto e conservato da giardinieri volontari del quartiere, realizzando l’idea dei suoi fondatori di creare un luogo di aggregazione attraverso un giardino. I gruppi che praticano questo tipo di azioni, sono sparsi nel mondo, alcuni sono piuttosto goliardici, ma in generale si tratta di gente seria e motivata, che cerca di riqualificare quartieri problematici, migliorandone la qualità di vita attraverso giardini, pianificati e curati in modo spontaneo. Questi possono avere vita brevissima, perché non hanno nessun tipo di autorizzazione, ma a volte succede che la volontà degli abitanti di un quartiere sia in grado di trasformare qualcosa di effimero in qualcosa di stabile, come nel caso del Jardin d’Éole a Parigi, dove una vasta area abbandonata, colonizzata spontaneamente con piante e arredi, invece di essere spianata ed edificata con un nuovo isolato, sia stata mantenuta e riprogettata come un vero parco urbano.
I veri giardinieri corsari si muovono in modo semi clandestino, usando in modo creativo materiale di recupero, riciclando quello che si trova e per quello che riguarda le piante, facendo affidamento su tutto ciò che può crescere spontaneamente in un sito, perché in questi progetti la riqualificazione ambientale e sociale ha più importanza dell’estetica e delle mode. Rispetto all’azione dei Lidi, sponsorizzata chiaramente da un vivaio, che giustamente si è fatto pubblicità in questo modo, sono molto più corsare certe appropriazioni di suolo pubblico da parte di privati, per esempio, quando vediamo risulte e spartitraffico trasformate in aiuole fiorite a prolungamento di giardini condominiali.
Posso anche sbagliarmi, ma la nota stonata della faccenda del Lido non è lo sponsor o l’uso del termine “Guerrilla Garden”, quanto l’idea che si possa diffondere la bellezza piantando un olivo su una torta di cemento. La moda degli olivi è dura a morire e ormai, come tante altre cose brutte, ci sembra normale. Gli olivi sono bellissimi nel loro contesto rurale, nei loro campi assolati, dove sono stati coltivati e cresciuti, trapiantarli è un danno per tutti: impoverisce un paesaggio mediterraneo e impoverisce il nostro. Ci lasciamo affascinare dalla esuberanza delle piante e dei fiori, soprattutto quando andiamo in vacanza, e ci illudiamo, che per una qualche proprietà transitiva, la bellezza di un luogo si possa semplicemente trapiantare nel nostro giardino attraverso la bellezza di una singola pianta. Posso capire chi pianta un piccolo ulivo in terra e cerca di abituarlo, anno dopo anno, a convivere con l’umidità e con un cielo che non gli appartiene, ma spostare un vecchio albero dal suo terreno per il semplice gusto modaiolo di averlo in giardino o ancora peggio, innalzarlo come un triste monumento dentro una fioriera, continua a sembrarmi una schifezza. Forse qualcuno dovrebbe insegnare ai ragazzi che abitano ai Lidi quanto sia bella la loro Pineta e la varietà straordinaria del suo ecosistema, oppure fargli capire che anche Hulk è verde, ma non basta il colore per migliorare un ambiente urbano.

Ida: un velo, e poi ?

Rigorosamente in bianco e nero, ambientato nella Polonia del 1962, il film racconta la storia di una ventenne orfana, l’austera Ida, senza identità né radici, cresciuta in un isolato, anonimo e buio convento. Alla ricerca di un passato ignoto, la giovane, che sta per prendere i voti, scopre di avere una lontana parente ancora in vita, la zia Wanda, sorella della madre defunta mai conosciuta. L’incontro con la donna segna l’inizio di un viaggio alla scoperta del proprio passato comune, oltre che di se stesse, un vero racconto on the road, dove s’intrecciamo segreti, voglia di conoscere e di assaporare-spremere la vita, tristezza, fede e curiosità di dimensioni esistenziali mai nemmeno lontanamente immaginate.

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La locandina del film

In un vero racconto di formazione, Ida apprenderà delle sue origini ebree, cercherà di conoscere una zia magistrato rigida, una donna concreta, piena di rabbia e disillusione, impaziente, superficiale, misteriosa, libertina, fumatrice e bevitrice, con un cuore inaridito dagli eventi, dal cipiglio poco amorevole, severa ma tenace e allo stesso tempo fragile, che la metterà inevitabilmente e crudamente di fronte a se stessa.
Il film ci racconta di una Polonia non ancora del tutto riconciliata con la sua storia, invasa dalla Germania nazista, liberata dall’Armata Rossa, entrata, poi, a far parte del Blocco sovietico; ci parla di un paese martoriato, dalle oscure memorie, alla ricerca di un luogo di sepoltura per i genitori di Ida (il cimitero ebraico abbandonato di Lublino), uccisi dal cattolico perbene, loro vicino, principalmente per paura e, quasi sicuramente, per appropriarsi della loro modesta casa di legno.
Le scene ci raccontano della suora ebrea dai lunghi e setosi capelli nascosti (Anna, che scoprirà di chiamarsi Ida Lebestein).

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Una scena del film

Una storia intensa, straziante, dolorosa, reale, avvincente e carica di umanità, in soli 80 minuti di durata complessiva.

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In preghiera

Il formato scelto dal regista è interessante e insolito, dalle proporzioni vicine al 4/3 (il rapporto d’aspetto è 1.37:1, utilizzato tra il 1932 e il 1953), retaggio di un cinema del passato ma anche funzionale alla relazione fra le due protagoniste: l’ampiezza ridotta del fotogramma incentiva una sensazione di prossimità a esse. Ed è proprio la compattezza delle dimensioni spaziali a suggerire il tema sotteso all’intera pellicola, ossia la mancata conciliazione tra l’orizzontale e il verticale, l’alto e il basso, la realtà terrena e la fede, il presente, sfuggente, e il passato storico, tutto da riportare alla luce.

Le fotografie in bianco e nero, vere immagini pittoriche, firmate da Ryszard Lenczewski e Lukasz Zal, riflettono l’austerità dell’epoca, le cicatrici non rimarginate, l’oscurità del non conoscere la vita e il mondo da parte di una giovane e bella Ida, che “non sa l’effetto che fa”.
Il sottofondo musicale è interessante, ritmico, malinconico e romantico. Ascoltiamo brani jazz, suonati dal gruppo del sassofonista-autostoppista incontrato lungo il pellegrinaggio di Wanda e Ida, di John Coltrane e canzoni di Adriano Celentano.

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Scene dal film ‘Ida’

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Ida risponderà come può alla domanda di Wanda: come fai a conoscere l’entità del tuo sacrificio nel prendere i voti se non hai mai sperimentato la vita reale? Dove sta la nobiltà del tuo sacrificio? Ida proverà la vita, il ballo, l’amore. Per sapere.
“E poi?”. Appena Ida pronuncia questa domanda, più volte scandita e ripetuta, non si hanno dubbi: da qui passa la forza della sua storia. Con quelle due semplici parole, pesanti come un macigno, la giovane non interroga soltanto il bel sassofonista “zingaro”, suo diretto interlocutore che le parla di futuro, ma per la prima volta, chiama in causa direttamente lo spettatore. Ida sarà pronta per tornare al convento, conscia ora di quello cui davvero, alla fine, rinuncerà.
Una scelta controcorrente, resa evidente dalla giovane, candida come la neve, che cammina, nella stessa neve, verso il convento in senso contrario al flusso delle auto.

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‘Ida’ di Pawel Pawlikowski

Un film sorprendente, sulla Shoah, sulla Polonia, sull’identità e sulle scelte esistenziali delle persone. Un piccolo gioiello, dagli echi polanskiani e tarkovskijani.

di Pawel Pawlikowski, Danimarca/Polonia 2013, 80 mn. con Agata Kulesza, Agata Trzebuchowska, Joanna Kulig, Dawid Ogrodnik, Adam Szyszkowski, Jerzy Trela e Halina Skoczynska.

I valori dell’amicizia

“Ci sono parole” come ha scritto una volta il filosofo tedesco Siegfried Kracauer, “che passano di bocca in bocca attraverso i secoli senza che il loro contenuto concettuale assuma mai nella nostra mente contorni chiari e definiti.” Una di queste parole è ‘amicizia’. Un termine talmente utilizzato fra di noi, che spesso se ne dimentica il significato. Con chi si manifesta? Con i compagni di scuola, con i colleghi, con i vicini di casa, con persone vicine oppure lontane? E chi sono i nostri ‘amici’? L’amicizia è quella che si coltiva da ragazzi, oppure è un sentimento che ci accompagna tutta la vita e che si rafforza solo in età adulta? Oggi, nell’epoca di Facebook e di una vita che passa giorno per giorno come un lampo, esiste ancora l’amicizia profonda e resistente d’una volta?

“Troppe cose si perdono del mondo che scompare”, ha scritto una volta lo storico Arturo Carlo Jemolo, “si nota spesso lo svanire del pudore, non solo quello del corpo, ma l’altro delle parole, dello scoprire la propria anima: ma io temo assai che scompaia anche l’amicizia”. Fra gli amici di Paolo Ravenna c’era anche Arturo Carlo Jemolo, professore di Diritto ecclesiastico a Roma. Cattolico fervente ma anche difensore strenuo della distinzione fra Stato e Chiesa. Paolo Ravenna ha sempre parlato molto bene di Jemolo perché durante la persecuzione degli ebrei, negli anni dopo le leggi razziali del 1938, ha salvato clandestinamente una famiglia ebrea. Senza una clamorosa retorica antifascista, senza ogni forma di esibizionismo patetico. L’ha fatto per amicizia, per autentica amicizia umana: per un’amicizia che non conosce solo una fede o un’ideologia comune. Perché alla fine, ciò che veramente conta per vivere e dimostrare l’amicizia sono le cose concrete. Salvare la vita degli altri ma anche salvare e proteggere una città o un paesaggio intero è un atto d’amicizia, senza nominarla. Questo si poteva imparare dai tanti amici di Paolo Ravenna come Jemolo o Giorgio Bassani o Tullia Zevi, per citare solo tre nomi. Per l’avvocato l’amicizia contava moltissimo. Ma l’amicizia significa anche dover differenziare fra la colpa dei tanti, dei pochi o di un uomo solo. Alla sinagoga in via Mazzini è stata posta una lapide. Vi si leggono scolpiti i nomi degli ebrei ferraresi uccisi nei campi di concentramento nazisti. Il cognome Ravenna appare frequentemente, quasi come nessun altro. Tutti quei Ravenna sulla lapide sono stati deportati e non sono mai più ritornati a Ferrara. Leggere i nomi su una lapide per un tedesco non è mai facile, perché sempre accompagnato da un ricordo amaro della storia recente della Germania. Paolo Ravenna avrebbe avuto non pochi motivi per essere scettico e sospettoso dei tedeschi. Ma per lui c’era sempre una differenza fra le colpe della gente di ieri e l’innocenza delle nuove generazioni. La prima volta in cui avemmo l’occasione di conoscerci, mi pregò immediatamente di essergli d’aiuto nella ricerca dell’identità di un soldato tedesco della Wehrmacht che durante l’occupazione nazista si recava giornalmente alla biblioteca comunale, mostrando molto interesse per i classici italiani. Questo maggiore, istruito e cosciente, avrebbe fatto l’impossibile per proteggere la biblioteca dagli atti vandalici dei militari tedeschi, come confermano testimoni dell’epoca. Soprattutto si sarebbe particolarmente adoperato per salvaguardare il materiale archiviato concernente il “comune ebreo” di Ferrara. Paolo Ravenna voleva sapere da me chi era quel soldato buono e civile della Wehrmacht nazista. Le responsabilità delle truppe tedesche sul territorio italiano le conoscono tutti, ma per Ravenna era più importante sapere qualcosa sulla vita di un soldato dissidente e rispettoso delle persone e della loro cultura. Una memoria civile e matura sui crimini perpetrati dai fascisti italiani e dai nazionalsocialisti tedeschi non si deve limitare al perdono, ma deve condurre ad una ricerca consapevole che abbia il grande coraggio dell’analisi obiettiva e quindi della differenziazione: l’avvocato Ravenna aveva questo coraggio. Per me Paolo Ravenna, con la sua serietà e il suo decennale impegno per Italia Nostra, il suo amore per Ferrara, alla quale pur non risparmiava critiche talvolta anche dure ed impazienti, e la sua estrema affidabilità, ha rappresentato quei valori di una volta e fra questi anche l’amicizia, oltre i limiti della simpatia e della superficiale cordialità. Il senso di responsabilità per la ‘polis’, la città in cui viviamo, era per loro una cosa ovvia. La ‘città nostra’ o il ‘Paese nostro’ non erano per quella generazione bandiere da sventolare ma da vivere, da difendere e da costruire. Un amore tutto particolare Paolo Ravenna l’aveva per esempio per il Delta: quando ci recavamo nei dintorni di Ferrara, nelle cittadine e nei piccoli paesi, i suoi racconti erano interminabili: battaglie, nomi, progetti, ricordi senza fine. E ciò che è oggi il delta del Po è merito di uomini come l’avvocato Ravenna e, come egli stesso ha sempre sottolineato, del suo grande insegnante-amico Giorgio Bassani. Al centro del suo rapporto di amicizia con il famoso scrittore c’erano, paradossalmente, meno poesia e letteratura e più impegno civile per la protezione e la difesa del tesoro culturale italiano, della ‘Nostra Italia’, come ripeteva sempre con chiarezza a tutti quelli che erano capaci solo di lamentarsi della decadenza del Paese. Quando si vuole ricordare Paolo Ravenna, non si può fare a meno di menzionare la sua passione per la fotografia. Il cimitero ebraico di via delle Vigna, cui ha dedicato anche un bellissimo saggio fotografico “L’antico orto degli ebrei“, era uno dei suoi luoghi preferiti. Sebbene non sia mai stato un acceso sostenitore del culto dei morti, questo luogo, dove sono sepolti anche i genitori, i parenti e tantissimi amici, ha significato per lui davvero molto. Non solo come luogo per ricordare i tempi passati e gli amici che non ci sono più, ma anche per progettare qualcosa di nuovo per il futuro, in memoria dei defunti. Poco prima del suo riposo eterno, mi ha dato in mano un foglio un po‘ stropicciato con una poesia che mi parve avesse un grandissimo valore per lui:

Agli amici
da Primo Levi

Cari amici, qui dico amici
Nel senso vasto della parola:
Moglie, sorella, sodali, parenti,
Compagne e compagni di scuola,
Persone viste una volta sola
O praticate per tutta la vita:
Purché fra noi, per almeno un momento,
Sia stato teso un segmento,
Una corda ben definita.
Dico per voi, compagni d’un cammino
Folto, non privo di fatica,
E per voi pure, che avete perduto
L’anima, l’animo, la voglia di vita.
O nessuno, o qualcuno, o forse un solo, o tu
Che mi leggi: ricorda il tempo,
Prima che s’indurisse la cera,
Quando ognuno era come un sigillo.
Di noi ciascuno reca l’impronta
Dell’amico incontrato per via
In ognuno la traccia di ognuno.
Per il bene od il male
In saggezza o in follia
Ognuno stampato da ognuno.
Ora che il tempo urge da presso,
Che le imprese sono finite,
A voi tutti l’augurio sommesso.
Che l’autunno sia lungo e mite.

Ravenna sognava di realizzare un nuovo progetto: voleva pubblicare un libro sui suoi amici più cari, ne aveva tanti. Avrebbe dovuto ricordare un mondo, come ha scritto Jemolo, “in cui la parola amico aveva un significato profondo”. E’ come un’eredità per i giovani d’oggi.

Carl Wilhelm Macke, giornalista pubblicista indipendente, è segretario generale dell’associazione “Journalisten helfen Journalisten” con sede a Monaco di Baviera. Amante da sempre dell’Italia, è un cultore della letteratura emiliano romagnola contemporanea. Vive tra Monaco di Baviera e Ferrara.

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Sul baratro di un’inutile scuola

di Jaime Enrique Amaducci*

In notturna, seguo le note seducenti e malinconiche del piano di J. W. Pollack che mi rapisce con My Funny Valentine, mentre la mente e il cuore sono scossi dall’attualità delle parole di Mario Lodi… e dal risentimento di chi sostiene, convinto, che la deriva della scuola italiana sia il “prevedibile esito di decenni nei quali le chiavi della scuola sono state consegnate alla pedagogia, che l’ha portata fin sull’orlo del baratro di una completa inutilità” (F. Lavezzi, “Oppressa da genitori e scartoffie un’inutile scuola sull’orlo di una crisi di nervi”, in www.ferraraitalia.it).

Come si può cogliere da numerosi documenti elaborati a livello internazionale (nemo propheta in patria…) Mario e tanti altri pedagogisti italiani hanno scrollato dalla polvere ultradecennale e ispirato la ricerca a livello nazionale ed internazionale. L’idea che sta alla base di una scuola inclusiva è uno dei tanti esempi del valore dell’italica pedagogia che, nella maggior parte dei casi, è stata lasciata fuori dalle porte delle scuole… tenuta ben lontana dalle aule, conservata nelle pagine di libri al massimo utilizzati per superare concorsi, per riempirsi la bocca durante gli aulici discorsi celebrativi o per imbastire strumentali campagne elettorali.
“Una scuola inclusiva deve fornire possibilità e opportunità di applicare diversi metodi di lavoro e il trattamento individuale è realizzato in modo che nessun bambino sia escluso dalla comunione e partecipazione a scuola. Questo comporta la creazione di scuole a misura di bambino e si basa sui diritti fondamentali. Un’educazione basata sui diritti fondamentali, aiuta i bambini a esercitare i loro diritti. Non solo efficiente da un punto di vista accademico, ma è anche comprensiva, sana e protettiva per tutti i bambini, tenendo conto delle disparità tra uomini e donne e incoraggia la partecipazione degli studenti stessi, le loro famiglie e le loro comunità”. (Policy Guidelines on inclusion in education, Unesco, Paris, 2009, p.16)
Una scuola inclusiva è una “[…] scuola decisa a partire dai bambini, in cui tutti i ragazzi rappresentano casi particolari: tutti hanno le proprie esigenze, la propria storia, insomma la propria diversità”. (M. Lodi, 1982, p. 84). Una scuola “trasmissiva” è fondata sulla esclusiva trasmissione delle conoscenze “da chi sa a chi non sa”, in cui “gli scrutini finali di ogni anno e gli esami sono la verifica del livello raggiunto e dei contenuti imparati e memorizzati (p. 85)”. In ogni ordine e grado è ben radicato questo tipo di scuola in cui, a tutti gli effetti, non c’è posto per il diverso poiché “vi è entrato come eccezione, è stato accettato per spirito umanitario e non, come dovrebbe essere, per una precisa scelta professionale e pedagogica (p. 88)”.
Nella vision della scuola trasmissiva, il diverso che esplicita bisogni educativi speciali “fa perdere tempo […] causa una rottura, una violazione delle regole […] sottrae tempo agli altri ragazzi. […] “Una complicazione di questa scuola è la presenza di ogni tipo di diversità. […] Questa è una scuola di uguali per uguali che parte da livelli ipotizzati uguali e tende a livelli ipotizzati uguali. Chi non ce la fa si ferma, anzi è fermato”. Ma di fronte ai bisogni educativi degli alunni, all’insegna di quanto previsto dall’art. 3 della Costituzione, cosa è stato fatto “per rimuovere gli ostacoli che esistono, per fare della scuola il luogo di promozione di tutte le capacità di un popolo a progettare e realizzare la sua crescita e il suo destino? (p. 89)”.

Lungi da ogni ipocrisia gattopardesca, in Italia è possibile realizzare un tipo di scuola che tenga conto del processo evolutivo degli alunni e che “cerchi di adeguarsi alla diversità non come eccezione, ma come norma e valore?” (Mario Lodi, Guida la mestiere di maestro, Editori Riuniti, Roma, 1982)
… Un grazie a Mario, un grazie alla pedagogia inclusiva che apre nuovi orizzonti per risalire dal baratro della regressione…

* Dirigente Scolastico, scuola media “Anna Frank”, Cesena

Lettera al signor Renzi

Ill.mo presidente Renzi signor Matteo,
La vedo in ogni telegiornale sgambettare sorridente da un capo all’altro dello schermo, La vedo stringere mani di cittadini i quali credono di salutare il rinnovatore della politica e della società italiane. E’ il primo equivoco, mi sembra che Lei abbia fin qui semplicemente sostituito alcune persone con altre, ma senza mutare nulla del quadro disarmante in cui siamo costretti a vivere. Sono tanti gli equivoci: gli italiani della prima e della seconda (mai inaugurata), della terza o della quarta, repubblica vivono di equivoci, il primo fu quello di Garibaldi e del giocoliere Cavour, il quale approfittò della rivoluzione nel meridione per dire “alé, l’Italia è fatta, consegniamola a chi di diritto”, cioè ai Savoia e così il Paese, con la benedizione europea, fu regalato alla destra economica: oh, Signor Renzi, non ci siamo mai spostati da lì, di governo in governo, il potere rimase sempre nelle stesse mai.
Quando le cose stavano per cambiare, Da Gasperi rimise tutto a posto, fuori la sinistra dal governo, che è di proprietà della destra e dei suoi alleati, e via andare con la politica non dei diritti ma dell’elemosina quando si può. Per ultimo è arrivato Berlusconi, destra che più destra non si può. E, quando è salito al potere Lei, signor Renzi Matteo, abbiamo sperato che rottamasse almeno l’ex cavaliere. Macché! Berlusconi è stato il primo con cui, Lei, signor Renzi Matteo, ha dialogato e stretto un patto di ferro, tanto da far dire al condannato per evasione fiscale, cioè il più grave dei delitti che un uomo pubblico possa commettere, che il nuovo governo, al cui interno si era collocato come quinta colonna Alfano, stava eseguendo i suoi ordini, di Berlusconi naturalmente. Quindi Lei, signor Renzi Matteo è a capo di un governo di centrodestra: mica male per un uomo che ha ereditato quel poco che restava dell’antica vera sinistra (Pci), quella che con maggior forza si era esposta durante la Resistenza.
Lei, signor Renzi Matteo, ha rottamato praticamente il solo Bersani al quale è venuto un mezzo coccolone. Era l’ultimo “rosso“ (metto tra virgolette) ormai sfumato in rosa, della nostra politica. Lei, signor Renzi Matteo, afferma che la sua è la politica del fare, gli ottanta euro in busta paga sono lì a dimostrarlo, ma non ha cambiato nulla di quello che si deve cambiare: noi, signor Renzi Matteo, vorremmo che al governo ci fosse una forza in grado di sbattere fuori dalla società chi frega i suoi lavoratori, chi li mette in cassa integrazione, chi non paga le tasse, chi ne paga troppo poche rispetto ai suoi guadagni, infine che sbattesse in galera chi è stato condannato e non i poveri profughi affamati che giungono d’oltre mare con un carico insopportabile di sofferenza.
Non dia ascolto, signor Renzi Matteo, alla Lega, non dia ascolto alla destra che si nasconde sotto la bandiera tricolore inneggiando sempre meno sommessamente a chi il fascismo ha inventato. Signor Renzi Matteo, anche se Lei dice che le ideologie sono morte, non creda a quello che afferma, prima di parlare, lo dico a Lei che parla tanto, pensi a ciò che deve dire, abbiamo avuto già troppi venditori di pere cotte. Per favore, signor Renzi Matteo, stia attento.

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Sagre dalla A alla Z, a Ferrara il salone delle specialità

Sagre dalla A di Astrogastro – che è la gastronomia da gustare alla luce delle stelle con gli astrofili di Bondeno – alla Z di Zucca e del suo cappellaccio, che si celebra a San Carlo di Ferrara: sono un centinaio le feste di città, paesi e borgate all’insegna di specialità da mangiare per una volta presenti tutte in un colpo solo durante un unico fine settimana. Ferrara ospita infatti una fiera molto particolare, che è il Salone nazionale delle sagre, da venerdì 25 a domenica 27 aprile.

Partiti quattro anni fa con quest’idea, Ferrara Fiere Congressi e l’Associazione turistica sagre e dintorni sono riusciti a creare un evento, unico in Italia, che vuole celebrare una delle feste più diffuse e più variegate, che contraddistingue le specialità culinarie legate a tradizioni locali e spesso poco conosciute fuori dai piccoli confini del territorio dove vengono preparate. Ecco allora, la “panissa”, un particolare risotto che si prepara a Vercelli con una base di fagioli, battuto di lardo e salame con la cipolla e al quale è dedicata una sagra durante il mese di agosto. Ma ci sono anche le sagre dedicate al “fagiolo zolfino” (a Terranuova Bracciolini in provincia di Arezzo), alla “cicerchia” (un legume che viene preparato in forma di zuppa in novembre a Serra de’ Conti in provincia di Ancona), al “crostolo” (sorta di piadina a base di uova e strutto di maiale al centro di una festa settembina a Urbania, venti chilometri da Urbino), al “riso co’ le nose” (un risotto con le noci che si preparara a Nogara in provincia di Verona), alle lumache tipiche di Casumaro di Ferrara, al somarino che si prepara a Runzi di Rovigo e all’ortica usata per fare pasta fresca, ma anche ciambella e pane a Malalbergo di Bologna.

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“Salone delle Sagre” a Ferrara dal 25 al 27 aprile 2014

Assaggiare per credere, le cucine delle Sagre accendono forni e fornelli negli stand ferraresi dalle 12 alle 15 e poi dopo le 19 di venerdì, sabato e domenica per distribuire migliaia di assaggi di piatti tipici, dal tortellone al cotechino, dal bollito al salame alla brace. Quest’anno uno spazio particolare viene dedicato a pera, mela, pesche e a tutta la frutta che viene prodotta nel territorio emiliano, spiega Paolo Bruni, presidente del Centro servizi ortofrutticoli, che con il progetto “Sfrutta la sagra” punta a promuovere l’inserimento della frutta italiana di stagione nel circuito delle sagre.

Per gli amanti di filetti e braciole, ma anche di bignè e cannoncini il pomeriggio in fiera con il “Laboratorio didattico di pasticceria salata e preparati di carne in abbinamento”: in cattedra il maestro macellaio Lorenzo Rizzieri dell’Istituto italiano assaggiatori carne De gustibus carnis e Cristiano Pirani della pasticceria “Chocolat” di Ferrara. Non può mancare uno spazio riservato a un insaccato tipico di Ferrara: alla sera (ore 21) nell’area concorsi, il “Gran galà della Salama”: una sfida del gusto che venerdì vedrà protagoniste le salamine prodotte da privati, sabato quelle di laboratori e salumerie, e domenica per le migliori in assoluto tra le prime tre di ogni categoria.

Salone-delle-sagre-Ferrara-2014-Alluvione-1951-Rovigo-Il-Giornale-del-PoUn’area del salone sarà, poi, riservata a “Lungo il Po”, il progetto di valorizzazione enogastronomica e turistica dei territori lambiti dal grande fiume’, ideato da Ferrara Fiere Congressi, in collaborazione con le province attraversate dal Po e con le belle immagini di un fotografo come Mario Rebeschini che la bellezza di questi argini, canneti e cavalli selvaggi ha iniziato a immortalare negli anni ’70 contribuendo a rendere popolare un’area che all’epoca era poco conosciuta e valorizzata. Al Po è dedicato un percorso espositivo scandito dalle tipicità legate a paesaggio, cucina e arte che rendono uniche le terre bagnate dal fiume più lungo d’Italia. «Una grande festa popolare per tutta la famiglia – assicura Nicola Zanardi, presidente di Ferrara Fiere – dove si possono gustare sapori particolari; così localismo e microcomunità possono diventare motori di sviluppo di un intero territorio».

Il Salone delle sagre è alla Fiera di Ferrara, via della Fiera 11, venerdì e sabato, ore 10-23.30; domenica, ore 10-22.

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“L’Emilia e il Cile: io, marchiato da due terremoti”

di Antonio Martella

Da CHIMBOTE – Così imprevedibile e implacabile, la natura; così  impotente e impaurito, l’essere umano. Talvolta la frenesia della vita quotidiana impedisce di fermare lo scorrere del nostro pensare e capire i piccoli grandi avvenimenti che ogni giorno sua maestà Natura pone davanti al nostro filtro oculare.
Il terremoto che ha colpito il Cile il primo aprile scorso è solo una delle tante circostanze che ogni giorno invadono l’irrazionale umano.
L’entità del terremoto, con una magnitudo di 8.3, fortunatamente non ha causato così tanti danni quanti se ne potrebbero attendere da un scossa di questo livello.
Sei morti, diverse abitazioni distrutte, qualche frana che ha bloccato la normale viabilità, migliaia di persone rimaste senza corrente elettrica e tanta tanta paura, quello sgomento che chi ha passato il terremoto in Emilia conosce bene, quella pietrificazione e impotenza che sono archetipiche nell’uomo.
E’ un legame arcaico che ci unisce a madre natura; e il sentimento che ci governa ci dovrebbe, a volte, far riflettere su cosa affrontiamo, produciamo e creiamo nel nostro quotidiano.
L’uomo è l’ineffabile impotenza, la natura e la sorprendente  devastazione. In che misura oggigiorno l’uomo può resistere e opporsi nei confronti della sorprendente e imprevedibile natura? E’ il mio interrogativo, dopo gli eventi sismici emiliani e cileni che mi hanno coinvolto in prima persona.
Sono state delle lunghe e travagliati notti quelle vissute  tanto dalle popolazioni emiliane come dai loro compagni di sventura della costa del pacifico settentrionale. 1 aprile 2014  e 20 maggio 2012 sono due date che indelebilmente rimarranno incise nella mia memoria.
Sono quegli interminabili istanti che fanno partire la mia riflessione per cercare di afferrare cosa l’uomo sia arrivato effettivamente a comprendere, nonostante tutti gli studi e le grandi scoperte in ambito scientifico, della scienza sismologica: quel poco o quel nulla.
Sicuramente l’evoluzione della scienza ci ha concesso una qualità di vita straordinariamente migliore rispetto ai nostri antenati, la vita media  dell’uomo nel mondo è intorno ai 70 anni, la malnutrizione e le epidemie sembrano quasi essere un retaggio del passato, o è questo che cercano di propinarci respingendo in un angolo remoto le sofferenze di una consistente parte della popolazione del pianeta, e con una buona dose di fortuna noi ‘occidentali’ riusciamo a vivere gli ultimi anni della nostra vita godendo i frutti del nostro stremante lavoro.
Ma nel momento in cui si presentano eventi simili , tutta l’evoluzione si ferma, la grande scienza si trasforma in un piccolo bambino impaurito e tutti gli sforzi di una vita sembrano scomparire in poche frazioni di secondo.
Siamo risucchiati dalla spirale della vita che non lascia tempo alla razionalizzazione di circostanze come terremoti, tsunami, le eruzioni vulcaniche, insomma le famose calamità naturali, ma nel momento in cui accadono, proprio in quell’attimo riecheggiano in noi quei sentimenti ancestrali, come dei segnali di una straordinaria forza, risvegliando quella collettiva emotività primoridiale .
Bene, la sismologia avrà pure fatto dei passi da gigante negli ultimi anni, ma non penso che riuscirà mai a prevedere per tempo l’inopinabile e sorprendente natura. Componente emotiva e memoria hanno il ruolo di attaccante e portiere per chi ha già avuto l’onore di confrontarsi con sua altezza il Sisma.
L’irrazionalità della natura governata dalle più razionali delle leggi, la matematica, una strana dualità intrinseca nella natura, come altrettanto nell’uomo: ecco l’azzardo e il paradosso che non trovano composizione.
Ed è qui che mi interrogo su come l’uomo, nell’illusione di governare questi eventi e nell’inaccettabile consapevolezza di non poterci riuscire si comporta: come se tutto fosse scontato, nell’epoca dell’incertezza.
La scelleratezza e l’irresponsabilità di chi osa tanto non sempre porta buoni frutti, le trivellazioni che provocano subsidenza ne sono l’esempio palese. Basti ricordare che in Cile, uno dei Paesi più colpiti dal punto di vista sismico, il terremoto di Valdivia del 22 maggio 1960, conosciuto anche come Grande terremoto cileno, il più potente dei terremoti mai registrati nella storia mondiale della sismologia, con una magnitudo momento di 9,5, fu innescato proprio da una sorta di subsidenza, in quel caso naturale: in termini scientifici si parla di subduzione della placca terrestre. Il suo epicentro fu localizzato nei pressi di Canete, circa 900 chilometri a sud di Santiago, ma la città più colpita fu Valdivia. Dopo la scossa principale, una serie di fenomeni tellurici continuò a sconvolgere il sud del paese sino al 6 luglio.
Il sisma fu avvertito in differenti parti del pianeta e produsse uno tsunami, con onde alte fino a 25 metri, che colpì diversi stati fino alla sponda opposta dell’oceano Pacifico: Hawaii (devastando Hilo), Giappone, Filippine, Nuova Zelanda, Australia e Alaska. Lo stesso fenomeno fu inoltre causa dell’eruzione del Vulcano Puyehue. Le cifre esatte sulle perdite umane e materiali sono sconosciute, ma le stime più credibili parlano di tremila morti, più di due milioni di sfollati, e danni tra 400 e 800 milioni di dollari Usa (tra i 2,9 e i 5,8 miliardi del 2011), dati comunque piuttosto contenuti in confronto all’entità del terremoto, anche a causa della bassa densità della popolazione e degli edifici costruiti principalmente in legno.
Sono questo genere di calamità che ci fanno intendere la fragilità dell’uomo di fronte a tanta forza distruttiva, la raggiante forza della natura e l’impotenza dell’essere umano, uno dei temi più discussi nella storia del pensiero; che ci attraversa e ci scuote ad ogni nuova catastrofe.

Metropolitana d’arte: Napoli-Toledo batte Mosca-Komsomolskaya

Da MOSCA – Durante una domenica pomeriggio moscovita di questo aprile ancora grigio e uggioso, mi decido ad andare al Multimedia Art Museum Moscow (Mamm), a visitare la Biennale di fotografia 2014. Per la capitale russa è un evento artistico e mondano importante, qui s’incontrano persone di ogni età e nazionalità e si percorrono i sei piani del museo avveniristico che ospitano fotografie in bianco e nero dei maggiori fotografi dell’Agenzia Magnum, da Cartier Bresson a Erwitt, oltre che immagini di Erwin Blumenfeld e, addirittura, di Jessica Lange.
Entro ed assisto ad un interessante scorrere d’immagini, da lontano, e m’imbatto subito in un’impressionante e coinvolgente opera. Mi avvicino alle didascalie e leggo il titolo: Il teatro è vita. La vita è teatro – Don’t ask where the love is gone, di Shirin Neshat. Con mia grande sorpresa, mi ritrovo nel mio Paese, e, precisamente, a Napoli. Mi siedo di fronte a quelle fotografie, le osservo con curiosità e stupore.

Shirin Neshat
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Nel 2012, l’artista e regista cinematografica di origine iraniana, Shirin Neshat, è stata incaricata di creare uno spazio “visivo” per la stazione Toledo della metropolitana di Napoli. L’invito faceva parte di un ambizioso progetto artistico e di design che coinvolgeva una “star-architetto” (il catalano Oscar Tusquets Blanca) e numerosi artisti internazionali, ognuno incaricato di una diversa stazione, ognuno impegnato a creare esperienze interessanti, uniche e accattivanti per i passeggeri. Il progetto è stato attentamente curato dal critico d’arte Achille Bonito Oliva. Fra gli altri, le stazioni ospitano lavori di Shirin Neshat, Robert Wilson, Ilya ed Emilia Kabakov, Francesco Clemente e William Kentridge.

 

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Shirin Neshat, famosa per i suoi ritratti di donne coperti da scritte in calligrafia persiana

Vogliamo soffermarci con voi sul lavoro della Neshat, incrociato, appunto, al MAMM. Dopo aver passato alcuni giorni a Napoli, Shirin Neshat (artista conosciuta per il suo lavoro nella fotografia, nei video e nel cinema – si ricordi il suo vincitore del Leone d’Argento Donne senza uomini del 2009) è rimasta inevitabilmente attratta dalla vitalità e teatralità napoletane e, con il fotografo italiano Luciano Romano, ha deciso di immortalare alcuni ritratti di una serie di vari attori locali di teatro sperimentale napoletano (Teatro nuovo e Teatro Instabile)  tra i quali le attrici Cristina Donadio, Antonella Morea, Giovanna Giuliani e il direttore artistico dell’Instabile Michele Del Grosso. Con questo lavoro Neshat ha scelto per la prima volta nella sua carriera soggetti occidentali.
L’opera, intensa e drammatica, s’ispira esplicitamente al rapporto di corrispondenza fra finzione teatrale e vita reale, e esprime la volontà di rappresentare, attraverso diverse e intense espressioni del corpo, il sentimento della perdita e della separazione.

I nove ritratti in bianco e nero esposti a Mosca, sfilano ora sui muri della stazione Toledo della linea 1 della metropolitana partenopea. Come prigionieri che tentano di scappare, queste figure sembrano emergere dalle neri e fosche ceneri di una lontana Pompei bruciata. Apparendo dall’oscurità e avanzando verso la luce, i movimenti rallentati danno l’impressione di una sorta di sfida, ma, allo stesso tempo, del dolore della condizione umana e della lotta speranzosa per un nuovo inizio. Qualche critico si è domandato se non si trattasse di una metafora dell’eterna “elasticità” e “capacità di recupero” della città di Napoli…

Ma perché “Don’t Ask Where the Love Is Gone”? Si tratta della canzone dell’egiziana Oum Kalthoum, la cui voce aveva emozionato migliaia di persone. «Cerco l’universalità, qualcosa che possa essere valido per chiunque», aveva detto la Neshat. «La bellezza deve sempre essere accompagnata dal sentimento e dall’impegno sociale e politico. Perseguire la bellezza di per sé rimane un estetico sforzo superficiale e la lotta politica solo un grido rumoroso. Solo quando le combiniamo allora esse diventano arte».

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Metropolitana di Napoli, stazione Toledo

Nel 2013, l’azzurra Toledo è stata considerata dal britannico The Daily Telegraph la fermata più affascinante d’Europa, battendo la bellissima e famosa fermata Komsomolskaya di Mosca, con i suoi mosaici, e quella della stazione di Stoccolma che ha per tema la natura.

Fra l’altro, il corridoio che collega l’uscita Montecalvario è decorato con le fotografie di Oliviero Toscani in vari punti del centro storico della città per la sua iniziativa Razza Umana/Italia. Le fotografie raffigurano i volti dei napoletani che hanno voluto partecipare all’iniziativa.

 

 

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Mosca, stazione di Komsomolskaya

Va ricordato che la stazione fa parte del grande e ambizioso progetto Stazioni dell’Arte, promosso dall’amministrazione comunale di Napoli per rendere i luoghi della mobilità più attraenti e offrire a tutti la possibilità di un incontro con l’arte contemporanea, costituendo uno degli esempi più interessanti di museo decentrato e distribuito sull’intera area urbana, un museo che non è spazio chiuso, luogo di concentrazione delle opere d’arte, ma un percorso espositivo aperto, per una fruizione dinamica del manufatto artistico.

(Nella foto in evidenza: opera di Shirin Neshat Don’t ask where the love is gone fotografata da Simonetta Sandri al Mamm di Mosca).

Quei kit dell’Abi e di Bankitalia

Mettendo ordine nella mia affollata libreria, ho colto l’occasione per rileggere alcuni libri sull’euro e i tre kit che l’Associazione bancaria pubblicò (con il supporto della Banca d’Italia) per i corsisti bancari, per formarli come euro tutor. Non ho trovato sorprese nella lettura, dopo i tanti anni trascorsi con questa valuta, anzi molte conferme e non poche indicazioni sulle cose da fare a livello di impianto e le non poche riforme da realizzare in tempi ben precisi.

Il 25 di maggio si voterà per eleggere i parlamentari europei e i successivi organismi di governo, quindi penso sia utile riprendere quei lontani suggerimenti, per contribuire ad un voto più consapevole.
Di seguito alcuni dei punti forti su cui si basava l’introduzione della moneta unica, pensata come strumento unificante. Alcuni dei passi che le Nazioni e gli Stati avrebbero dovuto compiere, anche a tappe, ma comunque compiere, per raggiungere uno sviluppo armonico e una crescita sostenibile, per misurarsi con il resto del mondo, ridimensionando il signoraggio.
Bilanci convergenti, armonia dei welfare sociali, politiche economiche e di crescita in rete e coerenti, fiscalità diretta ed indiretta in linea, politiche di difesa ed estera comune, governance a maggioranza e senza diritti di veto, politiche dei prezzi conformi, uniformità di diritti sindacali, politiche monetarie e strumenti unici a sostegno dello sviluppo per le nazioni aderenti, erano i suggerimenti forti che venivano segnalati per avere l’Europa che vogliamo.

Se si pensa al libro bianco di Delors nel 1986 e poi a quella bellissima pagina della storia che ci ha offerto la caduta del muro di Berlino tre anni dopo; Maastricht con i suoi tre pilastri; e ora, a dieci anni e più dall’introduzione dell’euro, non possiamo nasconderci i tanti sconvolgimenti in cui, in questi lontani e recenti anni, siamo stati tutti un po’ tutti coinvolti.
Coinvolti anche come singoli, nei comportamenti familiari, a livello locale e globale, come singole nazioni, come democrazie; coinvolti, forse nostro malgrado, dalle guerre vicine, dentro e fuori dai perimetri europei sempre più allargati.

Di questa lunga storia e della geopolitica ci scordiamo spesso, non riusciamo a rifocalizzarla. Ci piace solo, egoisticamente e cinicamente, soffermarci sull’oggi, sul nostro piccolo giardino e sulle responsabilità degli altri, della politica soprattutto.
Quelle note di Bankitalia, però, ci avvertivano dei benefici, dei costi e dei rischi che qui richiamo, non solo per bucare la memoria ma perché la verità è quello che conta, anche per capire il nostro domani.
I benefici: una moneta unica all’interno di un enorme mercato di 400 milioni di persone, significa meno costi di transazione e di incertezze derivanti dalla flessibilità e volatilità dei cambi, trasparenza, compatibilità dei prezzi e massima concorrenza, maggior peso dell’Europa nel contesto internazionale, e quindi vantaggi economici e politici.
I costi: la perdita dell’autonomia monetaria e dell’uso del tasso di cambio in presenza di rigidità nominali.
I rischi: ulteriori ampliamenti dei divari regionali esistenti, gli effetti della maggior specializzazione produttiva e della maggior concentrazione geografica indotta dall’unificazione monetaria, gli attacchi speculativi delle monete “outs” (specialmente contro valute di economia ad alto debito), possibilità di ritorsioni commerciali e rischio di disintegrazione del mercato unico.

Ecco, in sintesi, una lettura dello scenario che, nel processo di integrazione europea e nei meandri dello shock mondiale, ci ha visto trascinarci da almeno un ventennio.
E guai a fare un’analisi dei nostri guai partendo solo dal 2007, dall’inizio della crisi che attraversa noi come Italia e comunque tutta l’Europa, anche con diverse articolazioni.
Se poi andiamo a rileggerci, Le 33 false verità sull’Europa, un intelligente e convincente libro di Lorenzo Bini Smaghi, sicuramente comprenderemo quale pazzia sarebbe uscire dall’Europa, sia a livello politico che monetario.
Sarebbe bene saperne di più su quel 1.936,27. Sul come e perché di quella cifra. La nostra mente allora vedrebbe, nella sua composizione, nei suoi componenti, nei totali parziali e nella somma, dove il tutto non sono numeri ma una condizione, un vissuto, un sentimento, una storia, un popolo.
Una cifra che, col suo criterio di formazione, cioè il tasso di conversione, si articola di ogni valuta del paniere ecu per ritrovare stabilità in parità bilaterale, fissando i valori discreti, poi il rapporto con il dollaro, poi ancora ecu/valute ue, ancora $/ecu, ancora valute /$ e, concludendo il percorso, si ha il tasso di conversione Euro in valute area euro per ogni paese aderente.
La complessità matematica ci porta a dire che tutti questi passaggi (una sorta di vecchia catenaria) sono i tempi di un vissuto sociale, economico, civile, di libertà, del lavoro e dell’impresa, ben quantificati e ponderati in un paniere che ha subito diverse sue composizioni al crescere di un Paese e di una nazione ma, soprattutto, ci piace sottolineare che quella cifra aggiuntiva ed integrativa (sostanziale) è fatta di fatiche, di sudore, di sacrifici, dei pianti e dei dolori delle persone, delle famiglie, delle comunità, di tutti gli italiani.

C’è chi pensa che quella cifra sia troppo alta, c’è chi pensa che occorra tornare indietro, anche correndo il rischio vero di una nuova miseria e di una nuova povertà, mettendo in pericolo anche una storia. C’è chi gioca per un’ideologia e per populismo, c’è chi pensa di raccogliere qualche migliaia di voti in più. Ma può un Paese con una responsabilità così grande e storica essere lasciato cadere nel baratro? Penso proprio di no. E allora attenti a quelle 33 false verità.

Difendere i bambini dalla paura

La paura è un’esperienza naturale dell’uomo. Ha una funzione di protezione, anche nelle specie animali svolge primariamente una funzione di allarme, di difesa e garantisce la sopravvivenza. Ci consente di prepararci psicologicamente ad affrontare una situazione pericolosa, esorta alla prudenza, aiuta a valutare un rischio. Le paure, però, chiedono di essere superate per poter agire e vivere nel quotidiano, anzi l’elaborazione di una propria paura rafforza la stima in se stessi.
Le paure cambiano col tempo e sono condizionate dall’ambiente: il contesto sociale influenza il contenuto della paura. Le paure sociali sono quei timori condizionati dall’educazione e, quindi, frutto della relazione con i genitori e con gli educatori.
Diverse situazioni possono spingere i bambini ad avere paure, a partire da un atteggiamento di disinteresse da parte degli adulti, disinteresse che crea nei bambini sensazioni di solitudine e vuoto emotivo. Le paure possono essere correlate anche ad un atteggiamento educativo permissivo, che il bambino può vivere come indifferenza o ad uno stile educativo basato su minacce e punizioni, con particolare ricorso alla minaccia di non voler più bene; ad un’aspettativa esagerata sul piano intellettivo che può lasciare inappagate le necessità affettive del bambino, ad uno stile educativo iperprotettivo che non riconosce autonomia al bambino, lo rende dipendente e limita il suo sviluppo.
Viviamo in un tempo in cui vecchie e nuove paure si mescolano. Restano, ad esempio, le minacce della natura che hanno da sempre accompagnato l’umanità: le vecchie paure di temporali e calamità naturali si traducono nella paura di catastrofi, amplificata dai media. Molte paure possono coinvolgere i bambini: la paura di essere rapiti, la paura di punizioni (senza cena o senza videogiochi, ad esempio), la paura di andare male a scuola, di risultare “impopolare” o di apparire come un “perdente”, paura enfatizzata da un contesto che esalta risultati e successi.
Le paure si trattano trasmettendo il messaggio ai bambini che non bisogna avere paura di avere paura, facendo attenzione alle immagini trasmesse dai media e insegnando ad affrontare i pericoli reali. Quando la paura è trasmessa dai media, ha un impatto diverso a seconda dello sviluppo emotivo ed intellettivo raggiunto dal bambino. Il suo stato psichico generale e la sua capacità di confrontarsi con le sue paure costituiscono fattori importanti per poter gestire le emozioni suscitate da  un film o da un telegiornale. È di fondamentale importanza il ruolo dell’adulto che accompagna il bambino in questo confronto, che può aiutarlo a decodificare e gestire le emozioni, dando più spazio all’ascolto piuttosto che ai consigli.
È consigliabile che i genitori, per quanto possibile, possano monitorare i programmi televisivi che guardano i loro figli (guardandoli con loro) o facendo da filtro. E’ importante che gli adulti si pongano come figure di riferimento sia dal punto di vista cognitivo, sia da quello emozionale: aiutare i bambini a decodificare le immagini ed i contenuti, cercare di contenere e comprendere le loro emozioni, condividerne le preoccupazioni, rappresentano occasioni per rafforzare la relazione tra genitori e figli, insegnanti e studenti.
La tutela dei bambini dalla violenza delle immagini e dei contenuti da esse veicolati deve rappresentare un valore da perseguire quotidianamente. La paura è contagiosa e ha il potere peculiare di trasmettersi. Si tratta di un chiaro esempio dell’effetto profondo che tale emozione esercita sulle funzioni corporali, ma è anche una dimostrazione della facilità con cui si è indotti ad avere paura senza ragione. La paura paralizza il sistema nervoso, causa stanchezza ed affaticamento.
Infine, ricordiamo che, come scriveva Sartre: “Tutti gli uomini hanno paura. Tutti. Chi non ha paura è un anormale. E tutto questo non ha niente a che vedere con il coraggio”.

Chiara Baratelli è psicoanalista e psicoterapeuta, specializzata nella cura dei disturbi alimentari e in sessuologia clinica. Si occupa di problematiche legate all’adolescenza, dei disturbi dell’identità di genere, del rapporto genitori-figli e di difficoltà relazionali.
baratellichiara@gmail.com

La formazione professionale, strumento indispensabile per la crescita del territorio

Ogni tanto colgo l’occasione di fare due chiacchere con chi spende la sua esperienza nella formazione professionale contribuendo ad arricchire questa branca del sapere, importantissima soprattutto in tempi di crisi come questi, che sembra non finiscano mai.
I dati di presenze ai corsi Cfp di Cesta di Copparo (remoto angolo della provincia di Ferrara) sono esaltanti, nell’anno accademico 2012-13 oltre 2.400 allievi di tutte le età, dal primo livello del dopo medie inferiori alle specializzazioni, dagli aggiornamenti aziendali ai cinquantenni in difficoltà, dalle riconversioni per i processi industriali alle nuove discipline e ai nuovi mestieri.
La notorietà del Cfp travalica i confini regionali, è arrivato in Sicilia, in Calabria, in America latina e ci fermiamo qui.
Abbiamo parlato delle strategie dei fondi strutturali di “Europa 2020”, di uno scambio di informazioni e di idee percorribili, di una insopportabile disoccupazione e di come approcciarsi per non stare più seduti nel tunnel, quel tunnel che è stato già più volte richiamato su questa testata e in cui si trova anche e a tutti gli effetti il territorio del ferrarese.
Il presidente della Fondazione San Giuseppe di Cesta mi allunga uno scritto: “lo leggerò sicuramente”, gli dico, “e potrei anche proporlo ai lettori di ferraraitalia.it”-
Ecco dunque il testo, un messaggio che merita di essere divulgato e che in questo “cambia verso” vale la pena di prendere in considerazione.

Formazione professionale: strumento indispensabile per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva del territorio.
La crisi economica e finanziaria in atto nel paese coinvolge pesantemente anche il territorio, pertanto il programma si dovrà caratterizzare per il dinamismo che saprà dimostrare nel mettere al centro la “formazione professionale”, contribuendo a concertare con le istituzioni preposte, strumenti e misure capaci di favorire il rilancio occupazionale e promuovere lo sviluppo del territorio. Lo sviluppo e il consolidamento della formazione professionale assumerà sul territorio quello snodo strategico per porre in sinergia le politiche attive del lavoro e di inclusione sociale con le politiche a sostegno delle imprese e della loro competitività. La grande sfida che abbiamo dinanzi intendiamo affrontarla in partnership con tutte le organizzazione – in primis la Fondazione –  che hanno responsabilità e sono coinvolte in processi di formazione. L’azione di ‘governo’ si caratterizzerà in piena coerenza con la strategia “Europa 2020”, attribuendo attenzione da un lato alle categorie più vulnerabili, i giovani e le donne disoccupate, evitando il depauperamento intellettuale, dall’altro sostenendo il processi di innovazione tecnologica ritenuti indispensabili per la crescita e la competitività delle aziende.

Obiettivi / attività principali del programma:

  • Potenziare gli strumenti di programmazione negoziata (forum) con lo scopo di anticipare i cambiamenti socio-economici, intercettare i bisogni formativo-occupazionali ed individuare misure formative coerenti.
  • Contrastare la dispersione scolastica, garantendo uno spettro di opportunità formative (corsi di formazione professionale, tirocini, percorsi in alternanza scuola-lavoro) finalizzate al successo formativo dei giovani in obbligo scolastico-formativo.
  • Innalzare il livello di qualificazione professionale di quanti (giovani e adulti) sono esclusi dal mondo del lavoro, attraverso percorsi di formazione coerenti con i settori vocazionali del territorio e le esigenze del mondo del lavoro.
  • Promuovere processi di riqualificazione, aggiornamento e specializzazione per lavoratori finalizzati al mantenimento del posto di lavoro e allo sviluppo della crescita/carriera professionali.
  • Supportare e accompagnare processi di ristrutturazione e riposizionamento strategico di singole imprese affrontando in modo mirato l’emergenza occupazionale con azioni di ricollocazione dei lavoratori che rischiano di essere espulsi dal mercato del lavoro o che hanno già perso un’occupazione.
  • Consolidare la relazione fra la rete dei servizi per il lavoro (centri per l’impiego, agenzie interinali, ecc.) con la formazione professionale al fine di rendere virtuoso il legame fra domanda e offerta.
    Implementare le azioni di alfabetizzazione informatica e l’uso delle nuove tecnologie verso tutte le persone escluse da qualsiasi contesto scolastico e formativo (over 65) al fine di evitare l’emarginazione digitale e favorire la qualità della vita.

I soggetti istituzionali in partnership debbono, infine, mettere in atto le capacità necessarie per poter cogliere tutte le opportunità finanziarie previste in ambito europeo dalla strategia “Europa 2020” attraverso i fondi strutturali; serve un team di risorse umane qualificato per rispondere adeguatamente agli avvisi europei.

Ci pare un bel contributo, leggerlo in un quadro più vasto sarà la sfida da raccogliere per poter uscire dalle nostre criticità. Speriamo bene.

La signora dell’Aktion T4, una storia che sa di buono

Le cose belle nascono sempre dall’intelligenza e dal buon senso delle persone. E c’è un tempo per ogni cosa.
Ero andata all’inaugurazione della mostra senza sapere nulla di lei, un po’ all’ultimo momento, senza documentarmi. Ascoltandola parlare del “Programma di eutanasia delle persone disabili” messo in atto dai nazisti durante la seconda guerra mondiale [leggi l’articolo], mi ero fatta l’idea che fosse una studiosa, una specialista, una storica. Ho seguito l’incontro con attenzione, ho preso appunti, registrato gli interventi e, come una bambina con gli occhioni spalancati, mi sono fatta guidare per tutta la mostra da quella signora esperta e appassionata ma allo stesso tempo dolce e coinvolgente. Solo alla fine del percorso, mi sono avvicinata mentre lei, Virginia Reggi, stava facendo due chiacchiere informali e l’ho sentita dire una frase che mi ha colpito: “La cosa più bella è che io non ho mai voluto né leggere libri né vedere film sulla Shoah perché non ci riuscivo, era troppo angosciante per me… non avevo mai letto nemmeno Primo Levi!”. Ops! E mentre leggevo sul volto di alcuni dei presenti un misto di smarrimento e incredulità, le ho domandato:

E come nasce questo progetto?
Lei mi guarda e, con il suo simpatico accento di Lugo, comincia a raccontare: “E’ una storia stranissima. E’ stato nel 2004. Io a quei tempi scrivevo degli articoli per il Notiziario regionale dell’Anffas. Era un bimensile e ogni volta bisognava tirar fuori un argomento interessante di cui parlare. Quella volta doveva uscire il numero di gennaio, c’era la Giornata della memoria e pensai “se ci si potesse legare a quei temi”, io sapevo che erano morti anche dei malati mentali ma pensavo nei campi di sterminio, come han sempre pensato tutti. Allora cercando su internet, mio marito scoprì che c’era un giornalista della Rai che aveva fatto una ricerca sull’uccisione dei disabili. Vidi il programma e mi piacque perché non si addentrava in quelle cose macabre che mi avevano sempre angosciato e che ti fan star male. Del programma Aktion T4 mi colpì in particolare l’organizzazione, come fosse tutto pensato nei minimi dettagli. Scrissi l’articolo, lo pubblicai in due volte. Poi non ci pensai più. Ma nel 2009, cinque anni dopo, mi arrivò una telefonata dall’Arci di un paesino in Toscana in cui mi dicevano che avevano letto i miei articoli su internet e che mi invitavano a parlarne nelle scuole superiori, in occasione della Giornata della memoria. Mi misi a rileggere i miei articoli e andai. Sentii un tale interesse da parte dei ragazzi, che ho cominciato sul serio a leggere e ad approfondire. Ho letto il libro di Alice Ricciardi Von Platen Il nazismo e l’eutanasia dei malati di mente, il libricino era piccolo e mi son detta, ma sì dai, si può fare! E’ un libro meraviglioso, da lì sono partita e non mi sono più fermata. Ho letto finalmente tutto Primo Levi, poi mi sono andata a studiare l’eugenetica, il darwinismo sociale, la biopolitica e così via. Dopo è venuto lo spettacolo di Paolini che ha rotto gli argini.”

E la mostra, come si inserisce?
“E’ successo così: l’associazione che gestiva il giornale non stava più in piedi, eravamo rimasti in due, io e un signore di Parma. Io nel frattempo ero diventata nonna di una serie di nipotini, e non riuscivo a seguire come prima. Quindi abbiamo chiuso. Però c’era rimasta in cassa una bella quota, 40.000 euro. E ho pensato, invece di distribuirli a pioggia a tutte e 14 le associazioni dell’Anffas della regione, se facessimo una bella iniziativa culturale, valida non solo per l’Anffas dell’Emilia-Romagna ma anche per le altre, valida per le scuole; qualcosa di diverso, anche perché di solito le nostre iniziative sono per andare a chiedere, per una volta, ho pensato, facciamo che siamo noi ad offrire qualcosa! Il comitato ha approvato, abbiamo deciso di investire in questo progetto e di realizzare la mostra. Poi i testi me li sono scritti tutti io, come anche il libretto.”

Fatti benissimo tra l’altro, sia il libretto che i pannelli. Ma lei ha una formazione storica?
“No, assolutamente no. Io di formazione sono maestra elementare, non ho nemmeno finito l’università perché sono entrata di ruolo, mi sono sposata e dovevo aiutare mio fratello che aveva avuto una figlia disabile.”

E così, oltre ad aver visitato una mostra interessante e ben curata, ho ascoltato la storia ordinaria di una donna straordinaria. Come me, come noi, come tante.

Ambiente, salute, lavoro: i ‘Valori di sinistra’ di Giuseppe Fornaro, candidato che non t’aspetti

Un passato da giornalista, un presente da presidente provinciale della Fiab, la federazione degli amici della bicicletta, e un impiego nel comparto farmaceutico, lontano da partiti e politica. La candidatura a sindaco di Giuseppe Fornaro, sotto il simbolo “Valori di sinistra”, è stata fra le sorprese di questa tornata elettorale.
Quali priorità di intervento individua per Ferrara?
Lavoro, salute (non solo cura ma anche prevenzione), ambiente, mobilità, sostegno alle famiglie in difficoltà.
Sul lavoro cosa pensa potrebbe fare concretamente il Comune?
Non c’è una competenza diretta e io non voglio fare demagogia. Però un Comune può stimolare gli investimenti e i problemi che derivano dalla spending review si possono aggirare.
In che modo?
Sfruttando i finanziamenti europei. In fondo è l’uovo di colombo, ma non dobbiamo dimenticare che ogni anno viene sprecata la disponibilità di ingenti risorse comunitarie solo perché nessuno sa che esistono. Basterebbe un ufficio con due persone e il compito di scandagliare sistematicamente i bandi di finanziamento. Si potrebbero così immettere risorse importanti e generare un meccanismo virtuoso.
Parlava prima di aiuti alle famiglie. In che maniera ritiene di intervenire?
Ad esempio assicurando trasporti pubblici gratuiti. Questa crisi finirà per costringere le persone meno abbienti a chiudersi in casa, perché anche muoversi è un costo che rischia di divenire insostenibile.
Però attualmente il servizio dei trasporti non è gestito direttamente dal Comune ma da un’azienda che opera secondo criteri di mercato…
Quello dell’aziendalizzazione è un paradigma che va cambiato, non è certo l’unico sistema possibile. E questo vale anche per la sanità.
In che senso?
I sindaci devono riprendersi il ruolo di indirizzo sulle politiche sanitarie regionali. Questa crisi va affrontata con logiche nuove, non si può seguire la strada che ci ha portato sul baratro. Siamo alla macelleria sociale.
Ma come pensa di recuperare risorse, al di là dei finanziamenti europei?
Facendo delle scelte. Anziché rifare piazza Trento e Trieste per esempio si possono mettere quelle somme a disposizione delle famiglie meno abbienti. La logiche è quella di stornare risorse dalle poste di bilancio.
Fra le priorità indicava l’ambiente. Come giudica l’operazione geotermia?
Se fosse vera sarebbe ottima, ma siccome il progetto richiede tre centrali per mantenere l’acqua in temperatura dico che non va. C’è il rischio oltretutto di legare i ferraresi mani e piedi all’inceneritore che sarebbe essenziale perché si sfrutterebbe il calore generato dall’impianto appunto per scaldare l’acqua della geotermia. Io dico che o c’è la possibilità naturale di portare l’acqua calda a casa dalla gente, oppure è una presa per i fondelli.
A proposito: e l’inceneritore?
Nel corso della legislatura andrà gradualmente ridotto l’utilizzo fino a renderlo non indispensabile. Questo è possibile incrementando la raccolta differenziata dei rifiuti.
E come si fa?
Si copia dalle esperienze positive e si mette in pratica.
Se è così semplice perché non si è fatto finora?
Perché le politiche economiche sono dettate dalle lobby, in Emilia Romagna da Hera per quanto riguarda l’ambiente.
E negli altri settori quali sono i condizionamenti? Nei giorni scorsi il sociologo Federico Varese da noi intervistato ha messo in guardia gli amministratori locali dal rischio di infiltrazioni mafiose nel settore degli appalti…
Il problema è la logica del massimo ribasso sulla base della quale sono assegnati i lavori. E’ un sistema da rivedere profondamente. Ma c’è anche un altro problema.
Quale?
Quello dell’edilizia privata che ha fatto scempio del territorio. In questi anni si sono costruite molte cose inutile e di nessun pregio. Evidentemente si è accontento qualche imprenditore…
E invece cosa bisognerebbe fare?
Recuperare l’esistente. L’offerta abitativa ormai è satura, non serve più costruire, però si può ristrutturare con intelligenza.
Bene. E la sanità, che pure ha indicato come terreno prioritario di impegno?
Ferrara ha un alto tasso di tumori, purtroppo. Viviamo in pianura padana, l’area più inquinata d’Europa, c’è un’alta densità di stabilimenti produttivi e una motorizzazione spinta.
Che fare?
Spegnere l’inceneritore, con gradualità ma senza incertezze. Chiudere davvero la Ztl. Al riguardo segnalo che troppe auto circolano ora in centro. Ogni amministrazione lascia alla città una propria traccia. Quella attuale ci consegna una bella piazza messa a nuovo. Sarebbe il caso che rimanesse patrimonio dei pedoni e non colonizzata dalle auto. Quella precedente invece ci ha regalato la turbogas, doveva servire a rilanciare gli investimenti industriali ma non è arrivato nessuno…
Beh, diciamo però che in mezzo c’è stata anche la crisi…
E andrà sempre peggio in questo senso: l’energia prodotta con combustibili fossili costerà sempre di più perché è in via di esaurimento. Ma attenzione, l’alternativa non sono le trivellazioni che Tagliani ci vuole riproporre…
In questi giorni se n’è parlato molto in relazione al rischio sismico. Qual è il suo pensiero a riguardo?
Che se c’è anche un solo dubbio di correlazione non si devono fare. Ma al di là di questo basta considerare il problema della subsidenza del suolo: le falde si abbassano e aumenta la salinità dell’acqua. Insomma, non c’è discussione: le trivellazioni non si devono fare.
Veniamo all’orizzonte più propriamente politico. Lei è sostenuto da una coalizione di cui sono parte Rifondazione comunista, Italia dei valori, alcuni fuoriusciti da Sel (che non hanno condiviso la linea in appoggio al sindaco uscente Tagliani) e il Pdci. Fra i massimi dirigenti di quest’ultimo c’è Roberto Soffritti, sindaco di Ferrara per 16 e antesignano delle larghe intese, che all’epoca si consumavano però in pizzeria, fuori dai riflettori: un consociativismo non dichiarato ma praticato. Qual’è il suo giudizio su quella fase politica?
Quelli facevano il consociativismo delle pizzerie, questi fanno le larghe intese. Nella sostanza non è cambiato nulla. Soffritti a me non crea alcun imbarazzo. Il modello soffrittiano non è il mio, io non faccio accordi in pizzeria con nessuno, piaccia o non piaccia dico sempre chiaramente ciò che penso, sono una persona leale.
Fra chi la sostiene c’è una buona dose di dogmatismo e ortodossia.
Il nostro capolista è un ragazzo di 26 anni che arriva da Sel, è un chiaro segnale alla città e anche una risposta alla sua domanda. Io porto le mie idee e non mi sono proposto, mi sono venuti a cercare per offrirmi la candidatura. Se mi vogliono io sono così, lontano da slogan e demagogia, aperto al confronto e disposto a cambiare opinione di fronte ad argomentazioni convincenti. Dall’altra parte invece vedo il ritorno della Dc.
In questi anni gran parte del suo impegno civico è stato speso a favore della mobilità ciclabile. Progetti da realizzare come sindaco?
Non esiste un percorso ciclabile per raggiungere Cona né dalla città nei dalle frazioni limitrofe. Va realizzato, ne abbiamo già individuato i tratti, lo si può fare quasi a costo zero sfruttando strade di campagna. Ma poi ho un’altra idea per rendere vivibile la città ed esaltarne la bellezza…
Dica.
Ci sono due gioielli, il castello e il palazzo dei Diamanti, soffocati dal traffico. Vanno liberati. Vorrei eliminare tutto il traffico di attraversamento dall’asse Cavour – Giovecca e da quello Porta Mare – Porta Po. Deve essere valorizzata l’idea geniale e visionaria di Biagio Rossetti. Ferrara è stata capitale europea del Rinascimento. Dovremmo istituire periodicamente un “Biagio Rossetti day” per ricordarlo. Non dico che la totale chiusura al traffico di questi due assi urbani possa essere digerita da un momento all’altro, ma come Bologna ha istituito giornate ricorrenti di chiusura al traffico così potremmo fare noi nei fine settimana, ad esempio, liberando lo splendore di tutto il comparto monumentale connesso al magnifico corso Ercole d’Este. Provi a immaginare cosa significherebbe riappropriarci dei nostri monumenti, girare serenamente a piedi fra il parco Massari, la piazza Ariostea e il palazzo dei Diamanti. Facciamolo gradualmente e diamo il tempo alla città di gustarselo e abituarsi.

Tutta la modernità di Enrico Berlinguer

Casa per casa, strada per strada. La passione, il coraggio, le idee: è il titolo dell’antologia degli scritti e degli interventi di Enrico Berlinguer curata dal giovane Pierpaolo Farina – studente, blogger e fondatore nel 2009 del sito web enricoberlinguer.it – e presentata venerdì pomeriggio alla biblioteca Ariostea. Ma sono anche le ultime parole pubbliche pronunciate dal leader politico durante quel comizio in piazza dei Frutteti a Padova il 7 giugno 1984: “Lavorate tutti, casa per casa, azienda per azienda, strada per strada”.
Azzardo l’ipotesi che Pierpaolo Farina non le abbia scelte a caso e non a caso le abbia accostate ad altri tre vocaboli: passione, coraggio e idee. È racchiusa tutta qui, anche se non è cosa proprio di poco conto, la distanza che separa Enrico Berlinguer dalla classe politica, per non dire dirigente, dell’Italia di oggi.
Ascoltando soprattutto gli interventi dello stesso Pierpaolo e di Federico Varese, entrambi incentrati sulla modernità delle formulazioni e delle tesi del segretario del Pci, ho provato due sensazioni del tutto contrastanti fra loro. Una è la speranza che un’altra politica sia possibile, in antitesi a tutto ciò che la mia generazione ha vissuto e sta vivendo (sono nata proprio in quel 1984), una politica intesa come sacrificio, abnegazione, servizio, fino all’ultimo istante della sua vita, come dimostra il fatto che quell’ultimo comizio lo ha voluto finire. L’altra è lo sconforto per il fatto che, come ha detto Pierpaolo, “volenti o nolenti negli ultimi trent’anni l’unico progetto di società alternativa a quella esistente, in cui fossero presenti tutte le libertà tranne quella dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, è proprio quello di Enrico Berlinguer”. Intendo dire che quest’attualità diventa quasi drammatica perché forse significa che in trent’anni ben poco è cambiato.
“I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti”: sono parole famosissime pronunciate da Berlinguer in un’intervista a Eugenio Scalfari del 1981.

Ma, e qui ritorna la speranza, la modernità di Enrico Berlinguer nasce soprattutto dalla forza e dalla lungimiranza delle sue idee, come per esempio quelle sulle “forme di governo mondiale dell’economia” citate da Varese, che prefiguravano nuove forme di contrasto su scala globale a un capitale anch’esso mondiale. Oppure ancora quelle espresse sul progresso tecnologico nell’intervista Orwell, il computer, il futuro della democrazia a Ferdinando Adornato nel 1983: “io vedo oggi la possibilità di due processi contemporanei: da una parte l’uso della microelettronica per rafforzare il potere dei gruppi economici dominanti […] Dall’altra però vedo una grande diffusione di nuove conoscenze che può portare ad un arricchimento di tutta la civiltà”.

Partecipando all’incontro, da cui è emersa tutta la carica innovatrice di questa figura cardine della politica italiana del secondo dopoguerra, mi è tornato alla mente uno spettacolo cui ho assistito all’inizio del dicembre scorso al teatro Comunale di Occhiobello: ‘Berlinguer. I pensieri lunghi’, di Giorgio Gallione, interpretato da Eugenio Allegri. I pensieri di Berlinguer erano lunghi non solo perché è stato sorprendentemente lungimirante nel prefigurare scenari politici futuri, ma soprattutto perché – come si dice all’inizio dello spettacolo – l’utopia serve “a camminare” e rimane “sempre all’orizzonte”.