Skip to main content
commemorazione-Anna-Politkovskaïa

Otto anni dopo, l’omaggio
ad Anna Politkovskaïa

Una cinquantina di giornalisti ha commemorato, ieri a Mosca, l’assassinio della giornalista Anna Politkovskaïa, uccisa nel 2006. Davanti all’entrata della sua ex redazione, quella del giornale Novaïa Gazeta, hanno deposto delicati fiori di giornale, vicino a una stele innalzata in suo nome. Tra le persone giunte a rendere omaggio a questa giornalista nota per le sue forti critiche alla politica del Cremlino in Cecenia, c’erano i figli Ilia e Vera, il capo redattore della Novaïa Gazeta, Dmitri Mouratov, e molti colleghi.
Il 7 ottobre 2006, Anna rientrava a casa dopo aver fatto la spesa, come faceva regolarmente, come molti lavoratori fanno ogni giorno. Era un giorno qualunque, come tanti altri. L’assassino l’ha attesa all’entrata del palazzo. Aveva 48 anni ed era attivamente impegnata nella denuncia dei crimini commessi in Cecenia. La sera del dramma, il giornale presso il quale lavorava aveva immediatamente avanzato due ipotesi: una vendetta da parte di Ramzam Kadyrov, vice Primo Ministro della Repubblica cecena, uomo vicino a Putin, o al contrario, una macchinazione per indebolirlo. Da allora si sono svolti tre processi. Il primo (ottobre 2008-febbraio 2009), non aveva condotto ad alcuno risultato (mancanza di prove contro gli imputati, vizi di forma, ricorso alla Corte Suprema) ma, nel dicembre 2012, in un secondo processo, l’ex-tenente colonnello Dmitri Pavliucenkov, responsabile all’epoca della sezione pedinamenti della polizia di Mosca, era stato condannato a 11 anni di reclusione per aver organizzato il pedinamento della Politkovskaïa e fornito l’arma all’assassino, in cambio di 150.000 $. Il terzo processo, nell’estate 2014, aveva visto la condanna, da parte del Tribunale di Mosca, di cinque persone, fra le quali Rustam Makhmudov (l’esecutore), Lom-Ali Gaitukaev (l’organizzatore), e il citato Dimitri Pavliouchenkov (per aver fornito l’arma del crimine). La severità delle pene (ergastolo per i primi due) aveva ridato credibilità alla giustizia russa, accusata di eccessiva connivenza con il potere. Ma l’accusa non è mai riuscita a trovare il vero mandante. C’è chi ha chiamato in causa il Cremlino, almeno per la protezione accordata al mandante, chi, vista l’origine dei protagonisti e la natura degli scritti di Anna ritiene che il dossier ceceno sia comunque il cuore del problema e della sua soluzione. Resta il fatto che Anna Politkovskaïa è, ed è stata, da molti considerata il simbolo del giornalismo e della liberta di stampa. Il suo assassinio ha commosso, e commuove ancora, il mondo intero e suscita indignazione della stampa e delle organizzazioni a difesa dei diritti umani. Oggi ci s’interroga ancora sulle ragioni della sua morte e la stampa e gli internauti sottolineano il brutto “scherzo del destino”, che ha voluto che il 7 ottobre fosse, allo stesso tempo, il giorno della triste commemorazione e quello del 62˚ compleanno del presidente russo. C’est la vie, putroppo.

LA STORIA
L’uomo in piedi

Un battello scorre lungo la Moscova, gli ultimi bagliori di sole e di caldo prima del corto fresco autunno e del lungo rigido inverno. Fine settembre, e qualcuno cerca di respirare gli ultimi aliti di calore. Quasi a volerli imprigionare, accantonarli per un po’, per tirarli fuori al momento opportuno, quando il camino scoppiettante scalderà stanze e cuori.
Su quel battello ci sono anch’io, pronta a cogliere idee, ispirazioni e sensazioni, a carpire e immaginare segreti di donne e uomini che riposano sulle placide rive del fiume.
Il verde sgargiante colpisce lo sguardo, i rami degli alberi si specchiano nell’acqua che scorre lenta e pacifica. La trasparenza c’è, qua e là, solo a volte, quasi sparpagliata da uno gnomo dispettoso. Gente che parla, ragazzi che fanno un chiassoso picnic, anziane signore che ricamano all’uncinetto, famiglie con i cani, innamorati che si sussurrano dolci frasi all’orecchio. Tutto ispira calma, serenità e voglia di evasione. Anche se i grandi palazzi della periferia che svettano verso il cielo sembrano esseri un po’ mostri dalle cento teste, intorno a noi c’è pace. Qualche dacia di legno immersa nel bosco, che sembra una casetta delle favole, si contrappone a quegli alveari brulicanti di anime, enormi. Le case ecologiche dalle finestre che sorridono si scontrano con quelle di cemento e ferro, dove non ci sono tendine ricamate né vasi di fiori colorati sui davanzali. Le amache dei giardini sul fiume stridono di fronte ai pilastri e ai piloni di cemento che sorreggono quei mostri. Tuttavia convivono, talora si strizzano l’occhio.
Quel fiume, grande ma tranquillo, porta con sé vite e storie, momenti di felicità e di solitudine, pensieri e riflessioni, sogni vicini e lontani, ricordi passati e piani futuri.
Tutto scorre, lì come nella vita. Da spettatori curiosi, siamo interessati a immaginare.
Ecco allora che il mio sguardo cade su un anziano signore in piedi. Capelli bianchi, rughe sul viso abbronzato (come tutto il corpo, d’altronde), costumino un po’ succinto per la sua età (un tantino sgambato sul di dietro…), fissa un cartello con scritto “vietato nuotare”. Gli sta di fronte, impassibile, immobile. Sembra pensare, mi tuffo o non mi tuffo, ma in realtà prende semplicemente il sole. Nulla di più banale. Parlando con alcuni amici, scoprirò, infatti, che i russi prendono il sole in piedi… Bello, sicuramente, non avere segni del costume, quelli che attraversano impunemente un bel decolleté o una bella schiena, o di pieghe di pancia e collo, ma quale italiano che, pigramente e serenamente, si stende al sole, con la sua bibita ghiacciata e il suo giornale colorato, lo farebbe mai? Certo che sono strani, questi russi… A me però quello stoico signore ispira tanta simpatia, e a voi?

Ranieri Varese:
“Il recupero del Panfilio,
segno di vitalità e arricchimento
del patrimonio cittadino”

di Ranieri Varese

In riferimento alla proposta di recupero del canale Panfilio, rilanciata da Ferraraitalia, ospitiamo l’autorevole intervento del prof. Ranieri Varese.

Assente da Ferrara non ho potuto partecipare al dibattito sulla sistemazione della parte terminale di viale Cavour e l’inizio di corso Giovecca proposto dall’onorevole Alessandro Bratti e ripreso da FerraraItalia [leggi]. Il tema si lega alle visite guidate da Francesco Scafuri alla riscoperta di viale Cavour, al ricordato parere di Carlo Bassi (2004) sulla riapertura del canale Panfilio, riesumazione di una proposta di modifica al piano regolatore di Ferrara che, in anni lontani, facemmo insieme io e Roberto Pazzi.
Credo che preliminare alla partecipazione sia sapere di cosa si parla. La storia del canale Panfilio e di viale Cavour è stata ricostruita analiticamente, utilizzando la documentazione archivistica, da Luciano Maragna (2008): al suo testo va fatto riferimento.
Il canale, a partire dal XVII secolo, univa Pontelagoscuro a Ferrara, consentiva l’accesso in città di merci e viaggiatori. Le molte immagini sette-ottocentesche che rimangono restituiscono una situazione integrata, con viali alberati, alzaia, ponti e, in prossimità del Castello, l’attività delle lavandaie.
In previsione del collegamento ferroviario Bologna-Ferrara l’Amministrazione Municipale deliberò la costruzione di un ampio viale di collegamento che facilitasse l’ingresso al centro cittadino. Nel 1862 iniziarono i lavori di copertura che terminarono nel 1880.
Non tutti furono d’accordo. La Gazzetta Ferrarese, giornale liberale e moderato, letto dalla maggioranza dei ferraresi scrisse: “Tutto finisce – esclamammo vedendo l’opera in distinzione commessa sul tronco superiore del cavo Panfilio nel più bel centro della nostra Città – e pensando in nostra mente non essere possibile l’idraulica odiernamente manchi di metodi e sistemi sicuri, coi quali avere potuto rendere salutevole l’aria, bello all’occhio, utilmente navigabile l’intiero corso di quel canale, per modo anche di vedere le barche e i trabaccoli da mare approdare al nostro Estense Castello, come era due secoli fa, non abbiamo non potuto non gridare quando vedemmo tanta distruzione – tutto finisce.” (6 maggio 1862)
Lo storico Gualtiero Medri (1963) raccoglie le motivazioni di tale scelta: “Il Municipio decretò la costruzione di un’ampia, decorosa strada, per accogliere degnamente in città e guidare al centro, i forestieri che arrivavano in Vapore. E la strada si ottenne, e bella, colmando il vetusto canale Panfilio”.
Lo stesso studioso, allo stesso modo, giustifica l’allargamento e la demolizione, avvenute negli anni ’50 del secolo scorso, di corso Porta Reno: “Ampia e dignitosa arteria atta ad accogliere il flusso dei mezzi e delle persone che animano la movimentatissima strada che ci unisce a Bologna… il maggior accesso meridionale a Ferrara sarà finalmente degno del centro monumentale della Città”.
Oggi sono profondamente mutati i modi per garantire l’ingresso nei centri urbani e, mi pare giustamente, si tende ad ampliare la zona pedonale e a dirottare verso l’esterno il traffico automobilistico e commerciale. Una occasione organizzata per potere meglio conoscere Ferrara, le sue strade, i suoi monumenti. Per poterla consapevolmente percorrere.
Va ricordato che la città era costruita sull’acqua, lo segnalano i toponimi e l’andamento di molte vie; il canale Panfilio era l’elemento che nella progressiva chiusura dei canali manteneva il ricordo di una antica vocazione e corrispondeva ad esigenze che non erano solo di immagine ma anche ragione di vita quotidiana.
Il ricupero del Panfilio, in modi e forme da discutere e verificare, ricostituirebbe un elemento di continuità che si è perduto, ridarebbe, non solo per i turisti ma anche per i ferraresi, un elemento in più per confermare quelle qualità che il riconoscimento Unesco ha dichiarato e che vanno continuamente confermate.
La attuale amministrazione, in una situazione difficile e complessa, ha saputo tenere sotto controllo il bilancio, ridurre il debito, mantenere, nella sostanza, i servizi. Manca quel colpo d’ala che, in passato, ha portato, ad esempio, alla realizzazione del ‘progetto mura’ o del ‘parco urbano’.
La riapertura del Panfilio potrebbe essere quel segnale che sino ad ora non si è visto: certamente costoso ma con una ricaduta di immagine e una riconsiderazione di Ferrara che, nel tempo, potrebbe rivelarsi scelta, anche economicamente, oculata e saggia.
E’ auspicabile, sarebbe un segno di vitalità e di civiltà, che il dibattito e la verifica delle opinioni si allargasse sino a produrre pubblici confronti, proposte concrete, progetti operativi.

Didascalia
1705 Pianta di Ferrara. Il tracciato del Canale Panfilio

LA RIFLESSIONE
Mafia al Nord,
mafie del Nord

Il problema oggi non è che si parla poco di mafia, ma come se ne parla, questa affermazione è un buon punto di partenza per tentare di fare ordine fra i tanti spunti di riflessione arrivati dalla presentazione di “Mafie del Nord. Strategie criminali e contesti locali” (Donzelli 2014), tenutasi ieri al dipartimento di Giurisprudenza.
Partiamo dall’inizio: Mafie del Nord è il terzo volume frutto delle ricerche sul fenomeno della criminalità organizzata condotte da un gruppo di ricercatori coordinato da Rocco Sciarrone, professore di Istituzioni di sociologia e processi di regolazione e reti criminali all’Università di Torino, i precedenti sono Mafie vecchie, mafie nuove (2009) e Alleanze nell’ombra (2011), entrambi editi da Donzelli.
Sette regioni: Lazio, Toscana, Lombardia, Piemonte, Emilia, Liguria e Veneto. 232 interviste a quelli che gli autori definiscono ‘testimoni qualificati’: magistrati, forze dell’ordine, associazioni antimafia, associazioni di categoria, sindacalisti, funzionari pubblici, giornalisti. Cento documenti analizzati, fra ordinanze, sentenze e atti giudiziari, a cui vanno aggiunti i rapporti istituzionali periodicamente pubblicati sulla criminalità organizzata. Questi sono i numeri e le fonti di una vera e propria indagine sociologica condotta fra 2012 e 2013 dal gruppo di lavoro capitanato da Sciarrone. Punto di partenza dello studio: uscire dai luoghi comuni e dalle generalizzazioni ormai ampiamente diffuse sull’infiltrazione della criminalità nelle regioni del centro-nord, analizzando il fenomeno con la ‘cassetta degli attrezzi’ degli scienziati sociali e proponendo una metodologia che studia in profondità vicende concrete per poi sottoporle a comparazione.
In realtà sarebbe meglio parlare di ‘fenomeni’ di radicamento al plurale, perché non esiste un solo modello applicabile alle varie realtà, ma un quadro complesso di non facile interpretazione, fatto di tanti tasselli di informazioni che è necessario mettere a sistema se si vogliono comprendere a pieno i meccanismi di funzionamento. Di questo quadro fa parte un’ampia zona grigia, fatta di imprenditori, liberi professionisti, funzionari pubblici, esponenti politici, in cui i criminali, definiti nel libro ‘professionisti della violenza ed esperti in relazioni sociali’, creano il proprio capitale sociale. Per questo è fondamentale avere una prospettiva capace allo stesso tempo di scendere in profondità e di ampliare lo spettro dell’analisi. Come afferma il colonnello Pieroni – 28 anni di servizio in Campania, Calabria e Puglia e la maxi-operazione Crimine contro la ‘ndrangheta reggina all’attivo, prima di diventare il comandante provinciale dei Carabinieri di Ferrara – è fondamentale saper “leggere i segnali perché qui la mafia investe ed entra in punta di piedi e solo dopo si fa riconoscere per quella che è”.
E arriviamo così a un altro spunto interessante, o sarebbe meglio dire allarmante, emerso durante la mattinata: la necessità soprattutto qui al Nord di uscire da un’ottica “mafiocentrica”, come l’ha definita Sciarrone, e acquisire la consapevolezza che questa zona grigia “non è sempre una struttura fatta di cerchi concentrici con i mafiosi al centro”. Spesso, avverte Sciarrone, “si tratta di una rete di configurazioni variabili dove i mafiosi non sono sempre i più forti”: dunque la situazione è ancora più grave e pericolosa perché significa che l’illegalità è talmente diffusa che queste reti ormai “potrebbero funzionare anche senza la mafia”.
Si è poi parlato di quali azioni concrete intraprendere per limitare al minimo l’espansione di queste reti di infiltrazione e radicamento. Antonio Viscomi, docente all’Università di Catanzaro, ha proposto una riflessione in grado di ricomprendere tutte le altre soluzioni in una visione unitaria, per questo il suo è stato il terzo spunto interessante della giornata.
L’area grigia indagata da Sciarrone dimostra l’esistenza di quella che Viscomi ha definito “mafiosità”, cioè di una “cultura mafiosa” diffusa che ci deve spingere a mettere in discussione il nostro comportamento quotidiano e a confrontarci con una forte emergenza educativa su questi temi. Non si può puntare tutto solo sulla legalità: dalla legalità bisogna passare alla responsabilità, nel senso di “farsi carico della comunità in cui si vive”: non è una questione solo di regole, bisogna recuperare il valore dei comportamenti etici come contributo alla costruzione di una società più giusta in tutti i sensi.
“Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”: sapete dove sta scritto?

L’OPINIONE
Considerazioni in 3D sulla marginalità dell’Italia

Qualche mese fa, prima dell’estate, Beppe Grillo intervistato da Vespa fece ridere il mondo con alcune incredibili sparate [vedi] sulle stampanti 3D, ad oggi usate a suo dire per produrre turbine per motori aerei e come dispenser di oggetti a piacere, collocate a servizio dei cittadini nei comuni americani. Qualcosa di molto simile a quello che faceva Robby nel film di fantascienza del 1956 “Il pianeta proibito” [vedi]: evidentemente nella mente dell’ex-comico, nato nel 1948, i ricordi dell’infanzia diventano sempre più difficili da distinguere dalla realtà.
Sono convinto che altrove il leader di un movimento politico che ha preso il 25% dei voti alle elezioni e delirasse in quel modo verrebbe istantaneamente sommerso da critiche e lazzi dai principali organi di informazione, mentre da noi la cosa è passata praticamente sotto silenzio, tranne che fra gli addetti ai lavori. D’altra parte è spesso evidente, tolte poche lodevoli eccezioni, la difficoltà con la quale molti operatori dell’informazione approcciano temi che abbiano un qualche contenuto tecnologico o scientifico. Quel che ne esce sono di solito pastoni confusi, spesso zeppi di imprecisioni, che puntano sul sensazionalismo per catturare l’attenzione dei lettori. Ma soprattutto sono questi ultimi che non sembrano interessati alla tecnologia e alla scienza, considerandole letteralmente quasi come curiosità di altri mondi, a meno naturalmente che non si tratti dell’ultimo costosissimo gadget telefonico da esibire agli amici.
Siamo d’altronde uno dei Paesi in Europa in cui l’indice di penetrazione della banda larga è più basso, molto inferiore alla copertura potenziale del territorio garantita dagli operatori e nonostante che i prezzi siano fra i più competitivi. Discorso analogo si può fare per la diffusione dei Personal Computer. Chi fosse interessato ai dati di dettagli li può trovare sul sito della Commissione Europea a questo link [vedi].
Questa situazione sta determinando in pratica e come qualcuno qualche anno fa prevedeva, l’esclusione del nostro Paese dall’elenco di quelli in cui le innovazioni di prodotti e servizi arrivano per prime, escluso, per ora, gli amati telefonini o almeno quasi tutti. Non si tratta di orgoglio nazionale ferito, naturalmente, ma di un segnale di marginalizzazione che deve preoccupare, perché pone il Paese al di fuori dei flussi dell’innovazione e ne rallenta la modernizzazione, cioè in ultima istanza la fuoriuscita dalla crisi. Come esempio recente si può prendere la decisione di Netflix [vedi] di non aprire per il momento il servizio in Italia, mentre esso è già disponibile in Gran Bretagna, lo sarà a brevissimo in Francia e qualche mese dopo in Germania ed in altri Paesi. Per chi eventualmente non lo sapesse Netflix è un operatore americano di servizi di intrattenimento accessibili tramite internet che si pone come concorrente ai servizi tv a pagamento, sia satellitari che via cavo. Negli Usa ha ormai circa 50 milioni di abbonati ed ha iniziato da qualche anno a produrre contenuti in proprio.
Si tratta in questo caso solo di un esempio e qualcuno potrebbe addirittura essere contento di non subire un’ennesima colonizzazione mediatica, non considerando che la marginalizzazione non porta mai all’indipendenza e toglie la possibilità di poter competere con i propri prodotti sulle nuove tecnologie. Un analogo discorso potrebbe essere fatto per quello che riguarda l’e-commerce, la cui scarsa diffusione nelle nostre aziende oltre che per i consumatori finali (vedere i dati della Commissione linkati sopra) rallenta lo sviluppo economico del Paese. Certamente qualcosa si è mosso negli ultimi anni ma è ancora decisamente troppo poco: come al solito, mentre gli altri corrono, noi ci accontentiamo di camminare.
Ci sono evidentemente delle cause e delle responsabilità precise dietro tutto ciò. Fra le prime, come accennavo, la scarsa propensione a considerare l’innovazione un argomento di pubblico interesse e di intervento politico, fra le altre la chiara, quanto miope, volontà del polo televisivo privato di rallentare lo sviluppo di internet. Sintomatica a questo proposto la decisione presa a suo tempo di sovvenzionare sotto la voce incentivi alla larga banda anche la vendita dei decoder per il digitale terrestre. Adesso questo atteggiamento dilatorio è sostenuto anche dal principale operatore di pay-tv satellitare, che vede nell’Italia un mercato nel quale poter più facilmente resistere alla nuova concorrenza.
Gli obiettivi europei per il 2020 prevedono che tutte le abitazioni di ogni Paese della Comunità abbiano a disposizione una connessione ad internet ad almeno 30 Mbit/sec ed almeno il 50% possa contare su 100 Mbit/sec. I principali Paesi europei sono sulla buona strada e, nonostante la crisi, riusciranno a raggiungere quell’obiettivo o, almeno, ad andare vicino al suo raggiungimento. L’Italia, se le cose non cambiano rapidamente, rischia di mancarlo clamorosamente. E’ indubbiamente questa una delle tematiche su cui il governo in carica è chiamato a dimostrare la sua dichiarata intenzione di ”fare” e su cui si gioca una parte importante della propria credibilità. I passi fatti finora sono a mio parere ancora troppo timidi, nonostante l’alibi della scarsità di risorse disponibili e l’indubbia difficoltà a mettere mano a realtà complesse quali la razionalizzazione dell’infrastruttura informatica della Pubblica Amministrazione.
Tornando da dove eravamo partiti, cioè alle stampanti 3D, bisogna tuttavia notare che in questa particolare tecnologia l’Italia esprime una presenza di tutto rispetto, sia sul piano dell’innovazione di prodotto sia su quello della diffusione presso i nuovi artigiani digitali, che ormai vengono definiti con il termine maker. Si tratta infatti di una tecnologia relativamente a basso costo ed alla portata se non proprio di tutti, senz’altro di molti; persino io sono riuscito a costruirne una comprando le parti necessarie da diversi negozi online sparsi per il mondo. E’ un esempio che dimostra come la capacità e l’inventiva made in Italy, quando non frenate da carenze infrastrutturali, riescano ad emergere con ottimi risultati. Purtroppo non è sufficiente.

IL FATTO
Hong Kong, la rivoluzione degli ombrelli: le reti
e un sorvegliato speciale

Ogni giorno, gli abitanti di Hong Kong si muovono per la loro città brulicante e affollata, accompagnati sempre dal loro ombrello, per proteggersi dalla pioggia scrosciante ma anche dal sole cocente. Dallo scorso fine settimana, invece, gli studenti che si battono per chiedere, oltre al suffragio universale, una maggiore autonomia dalla Cina, ne hanno fatto il loro simbolo. Con essi si sono protetti dai lacrimogeni lanciati dalla polizia per disperdere i manifestanti, giovani, pacifici e disarmati. O meglio, armati solo dei loro telefonini. E vedremo con che potenza li hanno usati… Ma quali sono le ragioni della protesta?

rivoluzione-ombrelli
Il logo della rivoluzione

Dal 1997, Hong Kong, ex colonia britannica, è una Regione amministrativa speciale con una certa autonomia, ma, nella pratica, controllata dalla stessa Cina. Gli accordi siglati a suo tempo tra Cina e Inghilterra prevedevano che la regione diventasse gradualmente sempre più democratica con le prime elezioni a suffragio universale a partire dal 2017. Queste elezioni avrebbero dovuto scegliere il capo del consiglio esecutivo che governa la città. Attualmente la carica è assegnata da una commissione elettorale composta da 1200 persone e totalmente filocinese. Per la Cina le elezioni libere rappresentano una concessione che potrebbe convincere altri Stati ad avanzare simili rivendicazioni. Così, al posto di normali votazioni democratiche, il governo cinese ha deciso che a contendersi la poltrona di capo dell’esecutivo saranno solo tre candidati che necessiteranno comunque dell’approvazione di Pechino. Da qui sono iniziate manifestazioni e proteste. E l’ombrello è diventato il simbolo, sul web, dei ragazzi che protestano. Il tutto partito, secondo l’Huffington Post, da un tweet del reporter di Abc News, Auskar Surbakti, che ha segnalato un grafico anonimo che si è servito di un ombrello inserito nel simbolo della pace per disegnare il “logo” di questa rivoluzione.

rivoluzione-ombrelli
Joshua Wong Chi-fung

I leader del movimento sono identificati in due giovani universitari, Joshua Wong Chi-fung e Wong Hon-leung ein, che avrebbero fondato il movimento #OccupyCentral, nel 2011. Joshua ha diciassette anni, occhiali neri e viso da bravo studente. Un giovane ‘apparentemente innocuo’ che la Cina sta dipingendo come una minaccia, magari pure una spia al servizio di potenze straniere quali gli Stati uniti (la fantasia dei governi in certi casi non ha limite). E’ stato definito dalla autorità cinesi come un “estremista”, e pure pericoloso. La sua popolarità è aumentata quando è stato arrestato durante gli scontri. Rilasciato due giorni dopo, è ora considerato la “voce” dei giovani della rivoluzione, sorvegliato speciale della Cina.

La manifestazione è iniziata fra il 27 e 28 settembre scorso, quando gran parte delle vie principali del quartiere d’affari Admilralty sono state invase. Il 28, i giovani manifestanti hanno occupato la sede del governo. E qui, i lacrimogeni hanno trovato gli ombrelli. Quando è scesa la notte sulle vie invase da tante anime, i manifestanti si sono serviti della luce dei loro smartphone per formare un’onda luminosa, quasi a formare un cerchio magico.

rivoluzione-ombrelli
I manifestanti © AFP
rivoluzione-ombrelli
I manifestanti © Alex Ogle/AFP/Getty Images

I social media hanno, in generale, giocato un ruolo fondamentale, come spesso è avvenuto nelle rivoluzioni degli ultimi anni (si pensi a Facebook durante la primavera araba). Si è, infatti, parlato delle “reti della rivolta”. Le riunioni e gli appuntamenti in strada si organizzano con WhatsApp o con FireChat, l’applicazione creata dalla società californiana Open Garden del francese Micha Benoliel per aggirare la censura. Quest’applicazione è particolarmente innovativa: servendosi del dispositivo della rete Mesh che permette d’inviare messaggi a persone vicine che usano la stessa rete, tramite intermediari-ponte, senza passare per il proprio operatore e con la semplice connettività Bluetooth, essa permette di comunicare “off the grid” (funziona quindi anche se non vi è alcuna connessione a Internet). Tuttavia, secondo Lacoon mobile security (un gruppo di ricercatori sulla sicurezza mobile) pare che sia stato recentemente inventato un virus in grado di colpire, per la prima volta, il sistema mobile di Apple per “creare caos” fra i mezzi di comunicazione dei manifestanti di Hong Kong. La guerra è aperta, pure su questo fronte.

rivoluzione-ombrelli
Il governo reagisce con la schiuma e lacrimogeni
rivoluzione-ombrelli
Le notizie hanno rimbalzato sui social network

Anche Twitter è stato un mezzo potente per diffondere immagini e messaggi. Oltre a Facebook. “Per una rivoluzione servono occhiali, una mascherina e FireChat”, scrive su twitter Stanislav Shalunov, un matematico russo esperto di internet, menzionando l’applicazione che consente oggi ai manifestanti di Hong Kong, e ad altri in futuro, di comunicare fra loro anche in assenza di segnale. Un’ulteriore dimostrazione che la tecnologia, ancora una volta, può aiutare a riunirsi, parlare, dimostrare, protestare e a far conoscere la realtà. A tutti, senza distinzione. ‘Affaire à suivre’, direbbero i francesi.

Come pensa il mondo

Viviamo tempi in cui cercare di capire come pensano i nostri vicini nel mondo, forse può aiutare ad orientarci tra gli scompigli di questo condominio globale.
È difficile per menti rigorosamente illuministe come le nostre concepire l’esistenza di altre forme di pensiero, eppure già Kant ci avvertiva che la ragione è un’isola nel mare dell’irrazionale.
Intanto, noi che siamo terra e culla di ‘uni’-versità, proviamo i primi scricchiolii alle nostre certezze di fronte a coloro che al di là di un braccio di Mediterraneo, oltre l’equatore, coltivano il sogno di un mondo diverso, come Paul Wangoola, fondatore e presidente di Mpambo, ‘multi’-versità africana, in Uganda.
Lui spiega: «Una multiversità differisce da una università nella misura in cui essa riconosce che l’esistenza di forme di sapere alternative è importante per l’insieme della conoscenza umana». Wangoola sostiene che per risolvere i problemi dell’umanità, oggi è necessario trovare una sintesi tra i saperi propri delle singole tradizioni indigene e le moderne conoscenze scientifiche.
D’altra parte, se il cervello è fisiologicamente per tutti lo stesso, altrettanto non si può dire della mente, tanto da scoprire l’esistenza di una vera e propria geografia del pensiero. Ce la racconta Richard Nisbett, docente di psicologia sociale e direttore del programma Culture and cognition dell’Università del Michigan.
Per Nisbett il processo di adattamento all’ambiente ha prodotto ‘formae mentis’ differenti e conseguentemente condotte, e metodi di conoscenza che tra loro divergono. È il caso dell’Occidente verso i paesi del Confucianesimo, Cina, Giappone e Repubblica Democratica Coreana. Basti considerare l’olismo culturale proprio di quest’ultimi, per cui ogni essere è parte di un tutto, ampio e interdipendente e, all’opposto, il nostro individualismo che ci induce a ritenere noi stessi come unici e liberi di agire.
Il lavoro di Nisbett è interessante perché sfata la presunzione che esista una sola strada che conduce alla conoscenza. È un’insidia alla premessa fondamentale dell’Illuminismo occidentale, all’idea che la ragione umana sia identica ad est come a ovest, a nord come a sud del mondo. Per Howard Gardner, il guru delle intelligenze multiple, il lavoro di Nisbett è una provocazione per gli scienziati cognitivisti che ritengono ovunque unico il modo di pensare.
Ma già altri studi hanno indirettamente anticipato le conclusioni a cui giunge Nisbett. È il caso delle ricerche condotte da Marlene Brant Castellano tra gli Indiani del Canada, molte sono le differenze nei processi che conducono alla conoscenza tra le popolazioni aborigene e i colonizzatori. Innanzitutto le fonti del sapere che sono la tradizione, l’esperienza diretta, le rivelazioni dei sogni, le visioni e le intuizioni la cui origine è spirituale.
Per la Castellano la conoscenza degli aborigeni si fonda sull’esperienza personale e non ha alcuna pretesa di universalità. Mentre il pensiero occidentale assume l’esistenza di verità individuate attraverso la ragione o il metodo scientifico, per gli Indiani del Canada due persone possono tranquillamente avere visioni diametralmente contrapposte di uno stesso evento che sono accettate entrambe come valide.
Ancora esistono differenze nei modi di pensare, e quindi di fare cultura, tra società a impronta collettivista e società decisamente individualiste. Influenze religiose e culturali concorrono a determinare i diversi caratteri del pensiero e della conoscenza.
Nel modello del capitale umano il sapere è prodotto dalla scienza e il fine fondamentale d’ogni esistenza risiede nell’accumulazione di ricchezza, la conoscenza è il mezzo per conseguire la crescita economica, mentre per la maggior parte dei credi religiosi essa si piega al servizio dei disegni di una o più divinità.
L’educazione nuova, l’educazione progressiva, alla cui tradizione si rifanno oggi i modelli scolastici dell’Occidente, promette di formare le persone a farsi carico della società e della giustizia sociale. La maggioranza delle culture indigene e delle religioni considererebbero questi obiettivi come ingenui e impossibili da realizzare.
Come possono le persone ricostruire un mondo che è, secondo il punto di vista di molte dottrine religiose e di tante minoranze culturali ed etniche, inconoscibile e spirituale?
Come si può definire la giustizia sociale al di fuori del contesto di una teologia religiosa?
Giustizia sociale vuol dire fornire a tutti le stesse possibilità di accumulare beni o significa la possibilità di godere di una vita fortemente comunitaria, diretta da un’etica spirituale?
Di certo ogni paradigma educativo deve considerare le proprie finalità in funzione dei caratteri culturali di cui è espressione. I modelli educativi del capitale umano supportano i principi dell’individualismo sociale, mentre i modelli progressivi tendono a supportare le società di tipo collettivistico.
La ricognizione delle varie differenze nel pensare del mondo suggerisce un interrogativo sul significato della globalizzazione, in particolare per quanto attiene alla globalizzazione delle pratiche formative. Queste differenze sopravviveranno nel futuro o finiranno per convergere in un senso comune del conoscere e del pensare il mondo? O porteranno a un scontro costante sulle finalità e sui contenuti dell’educazione? Il rischio vero è che la globalizzazione unisca i mercati ma non gli uomini, che nessuno di noi riesca mai a riscattarsi dalla tirannide di essere un mezzo anziché un fine.

Internazionale cambia faccia sul web e sceglie le notizie divergenti

C’erano tutti ieri mattina alla Sala Estense di Ferrara, il direttore Giovanni De Mauro, la redazione al completo, amministratori e soci della rivista, per presentare ai loro lettori e al pubblico del festival la loro ultima novità editoriale: il nuovo sito di Internazionale sarà on-line tra qualche giorno ed è stato il frutto di un lungo lavoro che coinvolge un team di una decina di persone. Per la realizzazione del nuovo formato web, si sono rivolti al mitico Mark Porter, grafico britannico che nel 2009 aveva già curato magistralmente il restyling del settimanale, e che è intervenuto in videoconferenza da Londra. “Con questo nuovo sito abbiamo fatto una doppia scommessa, – dice De Mauro – vogliamo entrare nel mondo delle news, senza fare concorrenza all’Ansa o a Repubblica, ma facendo qualcosa di radicalmente diverso dagli altri: le notizie che saranno presenti dovranno essere talmente diverse e divergenti che, comparandole con quelle degli altri quotidiani, il lettore dovrà chiedersi dove sta l’inganno. L’altra sfida è cercare di rompere la barriera di specie tra quotidiani e riviste.”

nuovo-sito-internazionale
La redazione, gli amministratori e soci della rivista presenti all’incontro

Giovanni De Mauro e Martina Recchiuti, girano in piedi sul palco del teatro divertiti e disinvolti, passando da una slide all’altra nel ripercorrere le tappe della storia dei loro siti: dal primo tentativo che risale al 1997 (Internazionale fu uno dei primi giornali on-line insieme all’Unione sarda) in cui comparivano solo alcuni contenuti di testo, al format del 2001 in cui cominciano a comparire alcune foto, poi piccoli aggiustamenti fino ad arrivare al 2009, anno in cui chiedono a Information Architects di ridisegnare il sito. Ma Giovanni De Mauro è sincero, e ci racconta che, qualche anno fa, chiedendo ad un amico e collega esperto di web, cosa ne pensasse del sito, questo rispose: “Questo sembra il sito di un giornale in cui si capisce che la redazione sta facendo altro.” E’ stato da lì che hanno cominciato a prendere seriamente a mano il sito, ma con il privilegio di poter lavorare con calma, perché il settimanale andava benissimo, una curva sempre in crescita, e anche i lettori on-line erano tanti, anche se con i suoi 663.270 ‘mi piace’ la pagina Facebook batteva e batte ancora il sito. Tra le motivazioni che portano alla scelta di fare un sito all’avanguardia, c’è infatti la necessità di rendersi meno dipendenti da Google: “Con Google non possiamo competere, circa il 60 – 65 % dei lettori on-line proviene da Fb, e questo significa che siamo molto dipendenti da questo flusso di traffico. Questo non ci dispiace, ma vogliamo aumentare e diversificare i flussi di traffico, perché nel momento in cui Fb dovesse decidere di limitare i suoi flussi, saremmo nei pasticci”. E finalmente, ecco la nuova testata… e gli applausi dei fan risuonano nel teatro:

nuovo-sito-internazionale
Il nuovo sito in anteprima

• scompare la curva (sul web non funziona, si è scelto di sostituirle anche nel cartaceo) • la font è Lion (si legge come si scrive, non come leone), la stessa del cartaceo • il titolo è in stencil (maschera normografica) • in alto una serie di 3 foto • la colonna di sinistra è uno stream di notizie, un rullo di materiali informativi aggiornati (notizie, portfoli, tweet, opinioni) che scorre semplicemente in ordine cronologico • la colonna di destra è di approfondimento, la redazione riprende il controllo sulle notizie, raccogliendo le notizie che ritiene più significative in senso giornalistico e le collega a tutto ciò che ruota loro attorno, materiale pubblicato negli ultimi minuti, giorni, tempi, cercando di ripercorrere la storia della notizia.

nuovo-sito-internazionale
Pagina dei temi

• alcuni temi che dichiarano la “faziosità” della redazione • le foto sono grandi, ad alta risoluzione (come nel cartaceo), senza skin o banner pubblicitari che le coprono (alle pubblicità è dedicato uno spazio diverso) • ci sarà una sezione video (brevi video di grandi testate straniere), l’idea è quella di autoprodurne di propri su temi italiani, col tempo anche una sezione reportage • scompaiono gli spazi per i commenti • scompaiono i contatori dei ‘mi piace’ di Twitter e Fb (condizinano il lettore) • solo due tag in fondo ad ogni articolo (altre saranno invisibili).

nuovo-sito-internazionale
Mark Porter

E come ciliegina sulla torta, compare sullo schermo Mark Porter, capello brizzolato e occhialino nero, easy ma puntuale e incisivo come sempre: “Non ho voluto fare un sito qualunque. Stiamo parlando di un contesto giornalistico, quindi ho voluto fare un ‘sito tipografico on-line’, dove l’imperativo è la leggibilità. Un sito che avesse un’armonia tipografica con la rivista, ma con elementi fruibili sul web. E’ anni che pensiamo a come trasporre il cartaceo sul web, ora ci siamo riusciti ma, devo essere sincero, non tutto il merito nostro, è grazie alle nuove possibilità del web: poter utilizzare lo stesso carattere, poter tenere presente almeno i tre formati mobile, tablet, desktop, fino a due anni fa non ci saremmo riusciti.”

L’OPINIONE
Ricette per la ripresa: ricerca e investimenti
o lo scalpo dei sindacati

di Diego Carrara

Ma è proprio vero che nel nostro Paese non si può fare sviluppo e far ripartire l’occupazione senza mettere mano allo statuto dei lavoratori e soprattutto all’articolo18?
Assistendo ad un dibattito, nell’ambito del festival di Internazionale, (cui doveva partecipare anche Maurizio Landini) abbiamo capito, o per essere più chiari, abbiamo avuto conferma che non è così, che si può fare politica industriale e relazioni sindacali in maniera positiva, senza mettere in discussione l’articolo 18 e i diritti acquisiti.
L’esatto contrario di quello che ha propugnato, da piazza Municipale a Ferrara, il presidente del Consiglio Matteo Renzi pochi giorni fa, contro l’attuale Statuto dei lavoratori.
Al dibattito organizzato da Cgil, Fiom e Chimici Cgil ha partecipato, oltre a vari esponenti sindacali anche Patrizio Bianchi, assessore regionale a Scuola e Università e noto economista industriale.
Quello che è uscito, tra l’altro, da questo confronto è che già oggi in Emilia Romagna e anche a Ferrara, terra di multinazionali oltre che di Pmi, si firmano contratti di lavoro (con la Fiom e non solo) e accordi con la Regione che innovano l’organizzazione produttiva per aumentare la produttività e soprattutto il valore aggiunto delle produzioni, senza toccare l’articolo 18.
L’economista ferrarese ha ricordato che quello che chiedono le multinazionali, ma anche le imprese locali più dinamiche, per continuare a produrre in Emilia Romagna, è più ricerca più formazione e maggiore integrazione tra il percorso scolastico e lavoro, nonché una rete efficiente di subfornitori.
Quindi più investimenti pubblici sul fronte della ricerca e dell’Università, per rimanere sulla difficile frontiera dell’innovazione, per presidiare ed alimentare quelle produzioni ad alto valore aggiunto, necessarie per rimanere competitivi sui mercati internazionali. Nell’ultimo accordo fatto nella nostra Regione, infatti, quello della Ducati (gruppo Volkswagen), si integrano maggiormente scuole professionali e lavoro, ed inoltre, l’orario di lavoro si riduce a 30 ore settimanali senza sacrificare l’occupazione.
Del resto appena due anni fa l’economista Marianna Mazzucato, sempre al festival internazionale aveva presentato un lavoro che oggi è stato pubblicato con il titolo di: “Lo Stato Innovatore” dove dimostra che i prodotti commerciali come Iphone sono frutto di progetti finanziati con miliardi di dollari dallo stato federale Statunitense.
Essa stessa ricorda come “Obama ha permesso a Marchionne di acquistare Crysler con soldi americani, ma l’ha obbligato a investire nei motori ibridi. Renzi si è limitato a guardare Fiat spostare la sede fiscale allo scopo di pagare meno tasse”. E quando è stato ricordato, alla stessa Mazzucato che Renzi ha inserito nella sua biblioteca personale anche il libro in questione, ha risposto in questo modo: “Non è servito. E’ sconsolante che discuta di articolo 18 e di riforma del mercato del lavoro come se fossero una priorità… E non basta la promessa di qualche sgravio fiscale o di sfoltire la burocrazia: servono gli investimenti, che in Italia sono ai minimi storici. Come si fa in questo contesto a parlare di Statuto dei lavoratori?”
Già, come si fa? Eppure basterebbe guardarsi intorno e magari utilizzare quelle esperienze industriali sviluppatesi nelle nostre regioni di punta come l’Emilia Romagna, invece di cercare la luna nel pozzo. Ma siamo proprio sicuri che il premier voglia far ripartire il Paese attraverso la politica industriale e non invece utilizzando lo scalpo del sindacato da esibire ai mercati, convinto che solo in questo modo si possano far ripartire gli investimenti?
Se così fosse venga pure in Emilia Romagna, ma non a pontificare genericamente sul lavoro, come ha fatto spesso, fino ad ora, ma per apprendere quelle esperienze che possono far crescere davvero l’Italia senza riportare indietro l’orologio della storia economica e sindacale del nostro Paese.

LA STORIA
Zoa, ovvero come andare controcorrente in Russia

Sappiamo bene, ormai, come la street art possa essere un potente veicolo di messaggi, grande palcoscenico a cielo aperto che raggiunge un enorme e diversificato pubblico. A volte attento, a volte meno, ma comunque un mondo ‘sui generis’, potente, ‘esposto’, spesso involontariamente, a grida di aiuto o a necessità di veicolare messaggi sociali di vario tipo e intensità. Talora questi messaggi sono anche politici, come il caso di Aleksandra Kachko in Russia, a San Pietroburgo. L’artista, conosciuta come Zoa (vedremo poi perché…), dipinge il suo dissenso contro Putin e per questo è stata più volte arrestata. Artisti di strada come Jef Aerosol, Banksy, Mat Benote, Cartrain, Dan Witz, Tod Hanson, Invader, Michael Kirby, Viso Collo, Ellis Gallagher, Vhils, Os Gemeos, Swoon, Twist, 108 e Sten Lex si sono guadagnati l’attenzione internazionale per il loro lavoro e hanno goduto di una popolarità più benevola. Hanno, per così dire, vita più facile.

zoa-controcorrente-russiaDi Zoa (potremo chiamarla anche Sasha, il diminutivo affettuoso, in Russia, usato per le ragazze che si chiamano Alexandra), non si trova molto in rete, almeno non in italiano o in inglese, salvo un’intervista del 2011 che le era fatta dopo l’arresto per aver partecipato ad alcune manifestazioni, diciamo, non troppo pro Putin. Di lei si sa che ha oggi 28 anni, che non è fra gli artisti più noti nel suo campo, ma che merita menzione.

zoa-controcorrente-russiaPerché Sasha è una donna coraggiosa, che ha studiato da sola, senza incoraggiamento familiare, con un padre ex saldatore e problemi con l’alcol. Ma pare che lei non voglia parlare di questo, né tanto meno essere oggetto di inutili e sterili vittimismi. Lei è forte e attiva, e cerca di parlare con i colori. Oggi fa l’architetto a San Pietroburgo, non vive, quindi, grazie ai suoi graffiti ma di essi ne fa una bandiera importante di attivista per i diritti civili.
Sasha ha iniziato a manifestare, avvicinandosi alla politica, nel movimento Strategia 31 (fondato dallo scrittore Eduard Limonov, oggi leader del partito Altra Russia), che ogni fine mese si riunisce a Mosca e in altre città della Russia, per protestare contro la violazione dell’articolo 31 della Costituzione, che sancisce il diritto a manifestare pubblicamente, in modo pacifico. Meno pacifica la reazione della polizia, si dice.

zoa-controcorrente-russiaA parte alcuni manifesti preparati in quell’occasione, Sasha ha iniziato a fare graffiti politici, nell’ottobre 2010, dopo l’arresto dell’amico Aleksander Pesotskij, incriminato ex art. 282, ossia per l’accusa di ricostituzione del partito bolscevico.
Passeggiando per la già fresca San Pietroburgo, recentemente, ho visto qualche graffito, ma se si comparano Ekaterinburg e Perm (e alla stessa Mosca), dove si fanno festival di street art (ovviamente, non a sfondo politico), qui non si vede molto. A Mosca, invece, forse perché è la capitale, forse perché è più aperta o semplicemente più popolata e frequentata da vari movimenti artistici, si incrociano più muri dipinti. Basti ricordare che qui aveva spopolato colui che era stato definito il Bansky russo, Pavel 183, deceduto giovane ma che aveva, e ha, lasciato forte impronta e ricordo nella città.

zoa-controcorrente-russiaTra i soggetti realizzati da Sasha ce ne sono anche molti di tema femminista, come, ad esempio, un disegno su sfondo rosa di una donna crocifissa, con la scritta “il Patriarcato uccide”, messaggio forte in un Paese, peraltro, molto religioso. Sasha dice che, all’estero, spesso la donna russa è vista come emancipata ma che, nella realtà, solo alcune donne (la minoranza) lo sono, e che molte altre appartengono a una cultura rigidamente patriarcale. Secondo lei, l’Unione sovietica era meno sessista perché era necessario che le donne lavorassero nelle fabbriche e aumentassero la produttività, ma sempre per l’interesse nazionale. Sasha lotta contro quella che viene definita, spesso, una normalità: una donna maltrattata dal marito non è vista come un problema. Non si deve tollerare e perdonare. Alcune sue opere toccano il tema dell’aborto o dell’arresto di femministe.

Finora, l’abbiamo sempre chiamata Sasha, ma in Russia chi la conosce la conosce come Zoa, nome nato per caso: un bel giorno qualcuno ha attaccato un annuncio sui suoi graffiti: «Sono interessata a incontrare un uomo. Zoja» e lei ha deciso di adottarlo come nome. Ha preso quella forma come una sorta di messaggio, di suggerimento, di battesimo.

zoa-controcorrente-russia
Mostra di graffiti sociali, “Matite femministe”, Mosca, ottobre 2013

Zoa ha partecipato anche alla mostra di graffiti sociali, “Matite femministe”, organizzata a Mosca nell’ottobre 2013, nel quadro della biennale d’arte contemporanea.

In alcune dichiarazioni, Zoa ha ricordato di avere effettuato 20-30 opere originali ma che, per la loro natura effimera, l’attenzione ad esse dedicata dalla polizia e dagli incaricati di ripulire le strade, sono rimaste visibili per poco tempo. Alcune hanno vissuto un solo giorno, altre un po’ di più. Ma lei spera di avere comunque passato un messaggio.

Foto da Il Fatto quotidiano [vedi]

IL PERSONAGGIO
John Berger, la giusta misura delle parole

Il teatro comunale di Ferrara è gremito per la giornata conclusiva del Festival di Internazionale. Attende lo scrittore e critico d’arte inglese John Berger, venuto a dialogare con il collega nigeriano Teju Cole su arte e scrittura. Comincia male. Almeno per me. Il traduttore simultaneo non va. Sono costretto ad affidarmi al mio orecchio arrugginito per tradurre a braccio una conversazione in inglese. Cole è troppo giovane, parla un inglese spedito. Perdo le sfumature. Altro discorso vale per l’ospite d’onore.

Misura bene le parole, Berger. Gli da il peso, l’importanza che meritano. Sembra sappia che ha a che fare con un’arma potente, precisa. Un’arma che seduce, in alcuni casi uccide. La giornalista Maria Nadotti gli chiede cosa rappresenti per lui la lingua madre .

La faccia solcata dai quasi novant’anni di età, le pause di chi non deve nulla a nessuno e si prende tutto il tempo che gli serve. Racconta una piccola storia, John. La scena è questa: siede al bancone di un pub qualsiasi della sua Inghilterra. Lui che da una vita risiede in un villaggio della Francia alpina. Inizia a discorrere con un vicino mentre si beve della birra. Accade di frequente, in Inghilterra, magari guardando un match della premier league. Alla fine, il tizio si complimenta con John per l’ottimo inglese. Forse avrà pensato di trovarsi di fronte a un forestiero che parli perfettamente una lingua straniera.

Quindi ride di un sorriso sincero, il nostro Berger. Ride di un ricordo normale che ancora lo diverte e contagia una platea attenta. Di quelle che si costruiscono negli anni. Ecco! Questa una sua parziale risposta su cosa sia una lingua madre.

L’altra, quella che mi entra nel petto senza filtri, la spara in conclusione del suo intervento sull’argomento: “la lingua è figlia di una puttana”.

John Berger sul palco del teatro comunale cammina col passo sincopato dettato dal ritmo della vecchiaia. Veste un abbigliamento casual, semplice come le parole limpide che sceglie di pronunciare. Si concede solo un paio di calzini a righe orizzontali. Forse sono l’unico lembo di chi pare stare al mondo con misura. Scende le scale. Si risiede e affronta una interminabile fila di lettori in attesa di una firma, di una dedica.

Non si diventa grandi per caso. Esistono diverse misure di grandezza, questo è vero! Berger ha mostrato parte della sua. Ho inteso i suoi occhi che guardano intorno. Ho inteso che per uno come lui il mondo è un pozzo profondo. C’è chi si affaccia ad osservarlo, e chi, come John Berger, in qualche modo vi si immerge. Non riesce a farne a meno. Solo così potrà dirci che sapore ha la sua acqua. Il mondo è un pozzo profondo e a me pare che John vi abbia passato la vita immerso dentro. Altri non riescono che a vedere una pozzanghera. Si specchiano pigramente sulla sua superficie.

Per una domenica mattina di un ottobre ancora estivo, gremito di giovani che affollano Ferrara e la trasformano in una piccola capitale, direi che non è poco. Non è male finire con le parole, la misura, la lingua madre di John Berger.

Perché una scuola difficile è più democratica

Spesso gli insegnanti, a tutti i livelli di istruzione si lamentano del fatto che i bambini, gli adolescenti, i giovani non sanno più nulla, cercano scorciatoie per superare un compito, non hanno voglia di fare fatica e sembrano pochissimo interessati a qualcosa che non sia il semplice risultato per l’esame. Per lo più questa riflessione viene da insegnanti che hanno vissuto alle origini, come studenti, l’inizio di questa scivolosa china e che, dopo più di un trentennio, ne subiscono, dall’altra parte della cattedra, le rovinose conseguenze.
La scuola facile allora – mi riferisco ai primi anni Settanta – era considerata una condizione della democrazia, quando si pensava che solo riducendo la difficoltà, fosse possibile ai ragazzi provenienti da famiglie culturalmente deprivate, raggiungere traguardi di istruzione un tempo appannaggio della classe borghese. A distanza di decenni, è necessario riflettere sul fraintendimento all’origine dell’errore per porvi rimedio.
Perché la scuola facile non è utile a chi la frequenta? Semplice: perché riduce le capacità. Vi sono molte ragioni, che andrebbero declinate rispetto ad ogni livello del processo formativo. Nelle scuole elementari la facilità (che in questo caso si traduce nell’enfasi sulla spontaneità e la creatività) non abitua all’ordine che è necessario per ogni risultato, nelle scuole medie e superiori non insegna il rigore delle argomentazioni, l’esigenza di solide fondamenta per qualunque vocazione, la necessità di confrontarsi con il passato. All’università la scorciatoia ferale è l’idea che solo ciò che è immediatamente utile possa favorire il mitico “ingresso nel mercato del lavoro”, espressione ormai ammantata di fastidiosa retorica e di pelosa falsità.
Non è corretto attribuire la colpa alla svogliatezza degli studenti. La svalutazione della cultura umanistica, come della ricerca scientifica di base, del valore della scrittura hanno origini lontane. L’assoluto fastidio per ciò che non è “utile” alle competenze ha ristretto la testa di intere generazioni di ministri prima che di studenti.
Il punto è che tutto ciò nuoce ai giovani proprio rispetto alla possibilità di raggiungere un buon lavoro. Il mercato del lavoro attuale, e ancor più quello futuro, sarà sempre più competitivo, togliendo qualunque speranza che il titolo di studio sia sufficiente per avere un’occupazione decente. Solo i migliori ce la faranno. E i migliori saranno quelli che hanno studiato di più e che hanno accettato sfide difficili. Sarebbe indispensabile, per invertire la deriva, una discussione onesta sulla mistificazione che ne sta all’origine: l’idea che in una società di massa l’inclusione avvenga per diritto, abbassando la soglia di ingresso piuttosto che innalzando la qualità per superare privilegi di posizione sociale.

Maura Franchi – Laureata in Sociologia e in Scienze dell’educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing e Web Storytelling, Marketing del prodotto tipico. I principali temi di ricerca riguardano i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@gmail.com

Tu sola dentro una stanza. Giornalismo partecipativo e potere del web, la rivolta viaggia in rete

Ala’a ha diciannove anni, frequenta il primo anno di università ed è raro che si stacchi da Internet, se non per dormire. Fino a poco tempo fa, la sua vita era uguale a quella di qualunque altra ragazza della sua età: uscire con gli amici, andare al centro commerciale, studiare. Fino alla rivoluzione in Siria. Perché Ala’a vive a Chicago insieme alla sua famiglia di esuli siriani. Lei è lo hub, il nodo centrale che unisce centinaia, migliaia di cittadini siriani di mettersi in contatto, unirsi, manifestare, unire i singoli individui in gruppi e i gruppi in aggregazioni ancora più potenti e grandi contro la dittatura di Assad, calco di quella già perpetrata dal padre che tenta di mettere a tacere il popolo bombardando civili, picchiando attivisti, torturando chiunque venga catturato e trovato in possesso di tecnologie utilizzando la baashia (letteralmente: fantasma), forma di repressione violenza assai simile allo squadrismo.

Perché la parola chiave dell’intera storia è proprio tecnologia, o meglio Internet, attraverso cui gli attivisti sono coordinati e possono postare immagini e filmati che costituiscono già la prova inconfutabile della colpevolezza del governo. Non super partes, ma in medias res. Dentro la rete, nella stanza della sua casa in periferia da cui è collegata al suo Paese di origine, a diecimila chilometri di distanza, alle strade percorse dai suoi amici virtuali, alle case distrutte e abbandonate, al rumore dei bombardamenti incessanti e delle azioni violente contro donne e bambini, contro uomini lasciati a morire per strada o in ex cliniche in cui non è possibile curare adeguatamente nessuno. Ala’a è parte attiva della rivolta in Siria, aiuta lo scambio di informazioni filtrandole attraverso i social media e la rete di citizen journalism che dimostra come sia l’informazione proveniente dai cittadini, da chi vive sul territorio, possa creare un effetto a catena sul giornalismo globale. Perché a fare giornalismo sono le persone di tutti i giorni, armate solo di camera e telefonino con cui filmare proteste e brutalità della dittatura; mentre chi ha scelto di restare e affrontare a suo modo il regime si chiede cosa aspetti l’Onu a intervenire in una situazione di questo tipo, in un territorio privo di no-fly zone, dopo la tiepida decisione di sei punti programmatici da fare rispettare – a ora completamente ignorati dal regime siriano.

Posta su Youtube video e foto, date, luoghi e traducendo informazioni, didascalie e notizie perché possano comprenderle un grande numero di persone. Perché diventino virali, perché possano essere condivise, diffuse. Perché il sentimento e la reazione che ne scaturiscono non siano episodi singoli e lontani ma contribuiscano a creare una rete di condivisione. Oscura gli account Facebook dei suoi amici e delle persone con cui è in contatto quando vengono arrestate, così che non vengano messi in contatto con altri dissidenti e non ne carpiscano informazioni attraverso la tortura e l’estorsione. Compra materiale tecnologico la cui novità depisti i militari da cui vengono intercettati; microcamere, bluetooth, miniregistratori. e lo spedisce oltreoceano nei Paesi limitofi, dove poi sarà recuperato dagli attivisti siriani. Riunisce altri immigrati siriani per raccogliere voci anche nel luogo in cui abita. Forza del documentario è creare un naturale collegamento tra lo scenario geopolitico contemporaneo e tante storie personali, piene di coinvolgimento e passione, coraggio e impegno politico, che costruiscono attivamente un movimento di protesta e un potentissimo sistema di informazione, strumento per fare sentire alta la voce e dare modo di non ignorare, di non poter scivolare in un negazionismo che per altre epoche storiche e situazioni altrettanto drammatiche si sta facendo, o si tenta di fare.

Uno dei temi ricorrenti di questa edizione di Internazionale è stato il web, e le mille potenzialità che offre. Che ha assunto a tutti gli effetti il ruolo cruciale che ebbero, durante la rivoluzione americana, pamphlet e macchina da stampa, e che oggi è assunto da iPhone e Facebook, da Twitter e Skype. Perché è attraverso questi mezzi che Ala’a resta in contatto con quelli che definisce i suoi amici siriani, di Damasco e di Hama.
Che conosce solo attraverso la rete, ma con cui condivide a tutti gli effetti ideali, sogni e speranze. Le cui vite si intrecciano, senza toccarsi fisicamente ma scorrendo sul sottile filo del web. Con quella di Bassan, brillante studente e regista che segue passo passo i manifestanti, filmando esplosioni e correndo a perdifiato per scappare dai cecchini che sparano a vista e che resta ucciso da una di queste esplosioni.
Con quella di Aous, studente che sogna di diventare un medico, che guida i manifestanti di Damasco e filma ciò che vede ma che abbandonerà la videocamera per imbracciare un fucile unendosi all’Esercito Siriano Libero, composto da disertori che scelgono di andare contro al potere pur di non dover combattere contro la propria gente.
Con quella di Omar, ventitreenne studente di architettura ucciso nel corso di una protesta, una delle anime a distanza di Ala’a che la ragazza si riprometteva, a guerra finita e a regime rovesciato, di andare a conoscere di persona.
Perché in Siria, come giù in Egitto e in Tunisia, è solo questione di tempo.

chicago-girl
La locandina di #chicago girl

#chicagoGirl: the Social Network Takes on a Dictator
Docufilm di Joe Piscatella
Siria-Usa 2013, 74′

Siria, segnale interrotto

“Vorremmo che le nostre parole non finissero qui. Chiedo a tutti voi che siete qui e che avete partecipato al Festival di Internazionale di spronare i vostri governi per fare in modo che la guerra finisca al più presto”.

E’ con questo accorato appello della giornalista siriana Maisa Saleh, che si è concluso uno degli ultimi incontri dell’edizione 2014 del festival, intitolato “Siria. Segnale interrotto. E’ il paese più pericoloso del mondo per i giornalisti e la guerra continua a porte chiuse”. La sala del Cinema Apollo era gremita e trepidante, “Non sempre – sottolinea il moderatore dell’incontro Lorenzo Trombetta – un evento legato alla guerra in Siria riceve in Italia una tale attenzione. Sul palco, insieme a lui, corrispondente per il Medio Oriente e responsabile del sito SiriaLibano, le tre ospiti, giovani donne siriane impegnate nel colmare il vuoto mediatico che si è venuto a verificare da quando il governo di Assad ha cominciato ad arrestare, perseguitare e costringere all’esilio i giornalisti, professionisti o meno, che cercavano di raccontare al mondo gli orrori della guerra.

Maisa Saleh, Yara Bader e Eva Ziedan sono esuli, come molti altri giornalisti e attivisti siriani, svolgono il proprio lavoro dai Paesi da cui hanno ottenuto l’asilo politico, ma entrano ed escono dalla Siria periodicamente. Sul palco prendono e si cedono la parola a vicenda, in un animato e vivace dialogo, in cui viene presto coinvolto anche il pubblico, e che verte sulla questione di come il giornalismo racconta la guerra in Siria, chi la racconta, quale l’immagine che ne emerge all’estero… e non solo.

siria-segnale-interrotto
Yara Bader

Yara Bader, giornalista, direttrice generale del Syrian center for media and freedom of expression e vincitrice del premio giornalistico Ilaria Alpi 2012 (nel 2012 è stata arrestata in Siria dall’Air force intelligence e successivamente processata dalla corte militare a Damasco), racconta che il suo Centro mediatico è stato chiuso varie volte, anche prima del 2011. “Di fronte ad una situazione così complessa” spiega “è molto complicato seguire lo sviluppo degli eventi. Da quando il regime ha cominciato a minacciare di morte gli attivisti e i giornalisti che cercavano di raccontare la rivoluzione, molti cittadini hanno cominciato a documentare ciò che stava succedendo. Sono stati definiti in vari modi: attivisti giornalisti, persone mediatiche, giornalisti combattenti (ma noi del Centro media rifiutiamo questa versione), di fatto erano persone che volevano mostrare la verità, che lottavano per la libertà d’informazione e per la difesa dei diritti umani.”
Per quanto riguarda l’immagine della Siria all’estero, Trombetta ci conferma che i giornali italiani non offrono molto contesto, si limitano alla notizia del giornalista straniero sgozzato dall’Isis e poco altro. Se anche un italiano legge un paio di quotidiani al giorno, non si avvicinerà minimamente alla verità. C’è un grande iato tra la complessità della situazione siriana e l’immagine stereotipata che se ne ha all’estero e che, grosso modo, si può sintetizzare con l’infelice titolo di Domenico Quirico, “Il Paese del male”. La maggioranza degli stranieri vede la Siria così.

siria-segnale-interrotto
Maisa Saleh

Maisa Saleh, che ha appena ricevuto il premio giornalistico Anna Politkovskaja 2014 [vedi], aggiunge: “Noi, che siamo state costrette a lasciare il nostro Paese e che viviamo all’estero, abbiamo potuto riscontrare che la percezione di cosa sta accadendo in Siria cambia da Paese a Paese, in Italia si ha un quadro, in Francia un altro, negli Usa un altro ancora. E comunque è ancora poco. Bisogna fare uno sforzo per raccontare le storie.” E Yara aggiunge: “Molti aspetti della crisi sono stati ignorati volutamente, e questo è peggio del silenzio. Nel 2013, molto prima che i media ne parlassero, erano stati rapiti già diversi attivisti dalle squadre dell’Isis. Ma solo quando è stato rapito e sgozzato il giornalista americano, allora tutti si sono svegliati. Perché?”. “Perché sembra che esistano vittime di serie A e di serie B”, interviene Eva Ziedan, che per SiriaLibano segue gli attivisti che vogliono far conoscere le loro micro-realtà e coloro che vogliono diventare giornalisti.

siria-segnale-interrotto
Eva Ziedan

Finché si è parlato di oscuramento dell’informazione, di menzogne mediatiche e del silenzio dei media internazionali, erano tutti d’accordo, ospiti, conduttore e pubblico. L’atmosfera è diventata un po’ più tesa quando dal pubblico sono stati fatti alcuni interventi, per capire meglio il ruolo dell’Isis e quali le prospettive per la Siria. Un ragazzo ha chiesto se la tesi delle “Quattro Sirie” [vedi] fosse plausibile, e Trombetta ha risposto in modo piuttosto forte, spiegando che sì, “attualmente quello che era lo Stato siriano prima del 2011 non esiste più. Ad oggi ci sono quattro stati che detengono il potere in Siria: il regime di Assad, i jihadisti dello Stato islamico, le opposizioni armate e le milizie curde.” In un intervento si riprendeva la proposta che Giulia Zoli fa nell’ultimo numero di Internazionale n. 1071 (ripresa dall’agenzia stampa France Press), ossia di evitare tra giornalisti di usare il termine Stato islamico, trattandosi di un gruppo terroristico. “Non sono d’accordo – ha risposto Trombetta – lo Stato islamico è uno Stato che ha un territorio, una capitale, sta erogando servizi, sta difendendo la sua popolazione e quindi, che ci piaccia o no, occorre riconoscerlo come tale. Chiamatelo come volete, Isis all’inglese, Dāʿish in arabo, ma Stato è.”

Le tre giornaliste confermano loro malgrado: dal punto di vista del potere, purtroppo è così. E a malincuore convengono sul fatto che la divisione della Siria può essere una possibilità, forse l’unica che possa porre fine a questa guerra, alla più grande catastrofe umanitaria della storia contemporanea, paragonabile solo alla Seconda guerra mondiale.
Ci tengono però a chiarire che la maggior parte degli jihadisti dello Stato islamico sono stranieri, provengono dall’Iraq e da tutte le parti del mondo (1800 dalla sola Danimarca). E che se il numero di jihadisti sta crescendo anche nel popolo siriano, è per una questione di sopravvivenza: l’Isis ha preso il controllo delle banche ed è quindi in grado di pagare gli stipendi ogni mese; se si piega alle loro regole, la gente può vivere ‘tranquillamente’ nelle loro città.

Chiude con 71mila presenze l’ottava edizione di Internazionale a Ferrara

Si è conclusa oggi con 71.000 presenze l’ottava edizione di Internazionale a Ferrara il festival di giornalismo organizzato da Internazionale e dal Comune di Ferrara.
Continua il trend positivo del festival con un aumento di pubblico del 12% rispetto all’anno passato. Internazionale a Ferrara si conferma una manifestazione in crescita, con un pubblico giovane. Il festival ancora una volta ha trasformato Ferrara nella redazione più grande del mondo.

Tre giorni di dibattiti, eventi e proiezioni con 230 ospiti di 45 testate giornalistichee provenienti da 30 paesi che hanno dato vita a un calendario di oltre 100 incontriper 250 ore di programmazione. Anche quest’anno la città si è messa al servizio del festival con 22 location, 18 ristoranti, 57 responsabili di spazio, 66 studenti delle scuole superiori che hanno collaborato con impegno alla riuscita della manifestazione, 12 responsabili dell’organizzazione, 8 volontari del servizio civile.

Un venerdì da record con quasi 4.000 persone in piazza Municipale per l’intervista pubblica dei corrispondenti stranieri a Matteo Renzi. A Ferrara quest’anno Ed Catmull, presidente di Pixar Animation e Disney Animation, che dopo l’incontro si è trattenuto quasi un’ora per firmare le copie del suo nuovo libro Verso la creatività e oltre (Sperling & Kupfer). Informazione ancora una volta protagonista con i direttori dei grandi giornali, Gerard Baker del Wall Street Journal, Martin Barondel Washington Post, Edwy Plenel di Mediapart, Nicolas Barré di Les Echos. Poi le migrazioni e il cambiamento nella concezione dei confini e delle mobilità del XXI secolo. Dall’Iraq alla Libia tra terrorismo, scontri settari e Stati a rischio verso la ridefinizione del Medio Oriente. L’America Latina e l’orientamento della nuova sinistra. E poi cultura, cibo, workshop e laboratori creativi per bambini. Un’anteprima del festival il 2 ottobre con i film d’autore della nuova rassegna Mondocinema. E poi l’appuntamento con i documentari di Mondovisioni e gli audiodocumentari diMondoascolti. Tornano a Ferrara due amici del festival, David Randall e John Berger. Presentato anche il nuovo sito web di Internazionale che sarà online fra pochi giorni.

Internazionale a Ferrara è promosso da Internazionale, Comune di Ferrara, Provincia di Ferrara, Università di Ferrara, Regione Emilia-Romagna, emiliaromagna terra con l’anima, Ferrara terra e acqua, Città Teatro, Comune di Cento, Arci Ferrara e Associazione IF.

Il Festival è reso possibile dalla collaborazione di Medici senza frontiere e della Rappresentanza in Italia della Commissione europea, grazie a Unipol Gruppo, Fondazione Unipolis, Unipol Sai Assicurazioni, Assicoop, Vodafone Italia, con il sostegno di Costruiamo insieme il futuro, Alce Nero, Camera di commercio di Ferrara, Pera dell’Emilia-Romagna igp, Banca Etica, Poste Assicura. Sammontana, Mobyt e Acer Ferrara. Si ringrazia Radio3, Askanews, Rai Cultura, Euronews, Euranet, VoxEurop e Radio Città del Capo per la media partnership.

SGUARDO INTERNAZIONALE
Barbarie, speranza e ottimismo secondo John Berger

“Noi e “loro” come matrice del male. E la speranza come categoria distinta dall’ottimismo. L’incontro fra John Berger e Teju Cole è stata una miniera di stimoli, suggeriti con toni talvolta lirici, e pur non privi di ironia, da due scrittori che godono meritatamente di fama mondiale. L’impulso è venuto da Maria Nadotti, che ha con eleganza condotto il confronto. Riportiamo solo qualche pennellata come invito alla riflessione.
Molto si è ragionato attorno al linguaggio e all’identità. Ma poi da suggestioni più astratte e concettuali si è passati a misurarsi con i fatti della quotidianità e anche con i suoi orrori. “Quando osserviamo abominevoli crudeltà e le molte differenti forme in cui esse si manifestano – ha notato in proposito Berger -, ci domandiamo come esseri umani riescano a commettere tali atrocità. Io credo che la barbarie inizi quando creiamo la categoria che marca la differenza fra un ‘noi’ e un ‘loro’. E’ proprio questa definizione, quest’etichetta che ci consente e ci autorizza a trattare “loro” – gli altri – come feccia, perché sono meno umani di ‘noi’ e quindi indegni di rispetto”.
Il finale ha incluso il tema della speranza “che non va confusa con l’ottimismo. Speranza – ha sostenuto Berger – è la la fiamma di una candela, si vede meglio nell’oscurità. Ci sostiene nei momenti bui, nella difficoltà. La sua forza non deriva dalla spinta interiore dell’ottimismo, ma dalla memoria delle sofferenze passate e di come le abbiamo superata, dal ricordo dei martiri, di ciò che gli uomini sono riusciti a fare e a conquistare nella lotta, attraverso il loro impegno e il loro sacrificio. La speranza si lega dunque al senso di ‘complicità con gli altri’, esseri viventi, nascituri o morti che siano. L’uguaglianza, in termini di ideale presenza, è ciò che tiene viva la speranza”. E tutti in piedi ad applaudire.

SGUARDO INTERNAZIONALE
I due volti della Turchia: l’autoritarismo di Erdogan e l’attivismo dei movimenti sociali

Nell’introdurre l’incontro “Erdoğan piglia tutto. Democrazia, minoranze, Europa. Tutte le sfide del presidente”, Marco Ansaldo, inviato speciale di Repubblica per il Medio Oriente, traccia un breve e chiaro profilo della Turchia odierna: “E’ un Paese che negli ultimi anni si è avvicinato all’Europa, ma che sta prendendo derive sempre più autoritarie. Nei fatti degli ultimi giorni gli occhi del mondo sono puntati sulla Turchia perché rappresenta un caso: la testa di ponte che può fermare l’Isis.”

erdogan
L’incontro alla Sala Estense, gli ospiti

Ansaldo è tornato qualche giorno fa dalla Turchia, e dice di aver trovato un Paese molto diviso, “con dinamiche che portano ad un’accelerazione delle istanze islamiche; un’opposizione frammentata e divisa, che non riesce ad esprimere un’alternativa politica, ossia un leader politico da opporre a Erdogan. Per quanto riguarda la lotta all’Isis, il governo sembra avere un atteggiamento ambivalente: dopo il viaggio negli Usa della settimana scorsa, Erdogan sembrava deciso a partecipare alla lotta contro l’Isis: due giorni fa il parlamento di Ankara aveva ha approvato la missione militare per fermare l’avanzata degli jaidisti dell’Isis a Kobané (città al confine con la Turchia), ma in pratica non ha fatto nulla, Kobané è stata presa, con il conseguente esodo di circa 160.000 civili curdi oltre il confine, ma Ankara ha rifiutato di assistere i miliziani dello Ypg (Unità di difesa del popolo curdo), in quanto imparentato con il Pkk, considerato gruppo terroristico.”
Questo il quadro, che spiega bene la scelta del titolo dell’incontro “Erdogan pigliatutto”: è un leader indiscusso che ha il 50% dei voti, guida il Paese da dodici anni con un governo monocolore autoritario, ma aspira ad entrare nell’Unione europea; dice di voler collaborare con la Comunità internazionale per fermare Assad, ma da tre anni permette l’ingresso dei miliziani armati che dalla Turchia si inseriscono in Siria.

erdogan
Pinar Selek

Ansaldo comincia l’intervista da Pinar Selek, non solo perché è donna ma anche perché è delle ultime ore una notizia che la riguarda direttamente, l’unica buona notizia dalla Turchia da diverso tempo: il tribunale penale di Istanbul ha ordinato il ritiro della richiesta del carcere a vita nei confronti della sociologa e attivista turca rifugiata in Francia (e non il ritiro del mandato d’arresto, come si legge erroneamente sui giornali italiani). Pinar Selek, è perseguitata da 16 anni dalla giustizia turca, che l’accusa di aver partecipato a un attentato nel 1998, accusa che l’interessata smentisce categoricamente.

A Pinar Ansaldo chiede “Che fine ha fatto il movimento spontaneo di Gezy Park del 2013, voce del dissenso contro il regime, represso con la violenza e con un bilancio di otto morti?”. Pinar si dice subito ottimista, e colpisce per l’incredibile energia e passione, sembra stia parlando in una piazza davanti a centinaia di manifestanti: “I movimenti non si sono spenti. Nonostante il contesto repressivo influenzi moltissimo le attività, i movimenti di contestazione si muovono in un meccanismo dinamico. In realtà, questa deriva autoritaria a noi non ha fatto molto effetto, siamo abituati a questo tipo di regime. Il fatto che Erdogan abbia oscurato l’informazione e tolto YouTube non ci stupisce e non ci spaventa, troveremo altre strade. Dovete immaginare la Turchia immersa in un contesto di Paesi, come l’Iraq e la Siria, che vivono da decenni nella repressione e nel terrore. Come movimenti sociali abbiamo sempre dovuto adattarci, fin dagli anni ’80. E anche oggi, gli spazi militanti che ci stiamo ritagliando stanno operando degli adattamenti tattici. Proprio “grazie” alla repressione di Gezy Park, si sono costruite nuove alleanze, come con le minoranze curde e armene, con le femministe, ecc. e stiamo costruendo delle reti di militanti, anche a livello internazionale. Dai movimenti non bisogna aspettarsi che portino tutto e subito, sono meccanismi più incontrollati rispetto a quelli della politica dei partiti, ma io credo possano portare a risultati importanti nei prossimi anni.

erdogan
Ahmet Insel

Ahmat Insel, economista e politologo turco, completa l’analisi di Pinar su cosa ne è rimasto del movimento di Gezy Park: “Non bisogna attendersi che dal movimento di Gezy Park nasca un partito. E’ molto difficile, anche perché il nostro è un sistema elettorale con uno sbarramento del 10%: dall’82, dopo il colpo di Stato del generale Ahmet Kenan Evren, un partito per presentarsi deve avere il 10 % dei voti, soglia altissima. Se una traccia l’ha lasciata, dal punto di vista più prettamente politico, è stata la candidatura del leader curdo Selahattin Demirtas, accreditato con il 10 per cento, candidatura che sarebbe stata impossibile fino a pochi anni fa, ma che è stata possibile grazie all’attività dei tanti movimenti sociali che l’hanno sostenuta. Oggi il sistema di governo della Turchia è un ossimoro: è sulla via della democrazia, gli ingredienti ci sono tutti, la partecipazione è molto elevata, è all’85%, le elezioni non sono truccate. Eppure vediamo che non si tratta di democrazia. In realtà è un caso tipico di autoritarismo democratico, simile all’Ungheria odierna, ad alcuni Paesi dell’America latina. Il problema è come sciogliere questo nodo con strumenti democratici. Il problema principale è che gran parte della società, la più conservatrice e arretrata, ha paura di se stessa perché la Turchia ha una storia piene di violenze, di scontri etnici e religiosi, e non c’è mai stato un lavoro di memoria che potesse sciogliere i nodi più controversi e dolorosi, come invece hanno fatto, per esempio, l’Italia e la Germania. C’è un travaglio fortissimo sull’identità turca. E lo stesso governo sta vivendo una sorta di schizofrenia rispetto alla realtà: vuole entrare nell’Ue, questo è uno dei primi punti nell’agenda politica, ma allo stesso tempo vuole mantenere la forma di governo autoritaria che ha ereditato dalla storia.”

erdogan
Cengiz Aktar

Con Cengiz Aktar, Ansaldo affronta proprio la questione dell’entrata della Turchia nell’Unione europea, dal 2005 il Paese è ufficialmente candidato ad entrare nell’Ue. “L’attualità non è incoraggiante, ma ci tengo a ricordare che Erdogan non è sempre stato così. La prima vittoria del 2002 era stata una sorpresa politica senza precedenti, perché per la prima volta si affermava un Islam politico innovativo. Il governo ha varato molte riforme in senso democratico, tanto da indurre i Paesi dell’Ue, Francia e Germania in primis, a riconoscere questa straordinaria apertura e ad invitarlo a farne parte. La presenza di Erdogan è quindi stata utile al processo europeo, e viceversa la candidatura è stata utile alla democratizzazione della Turchia: la società civile si è veramente avvantaggiata con questo slancio di modernizzazione, basti pensare all’abolizione della pena di morte, e al riconoscimento dell’eccidio degli Armeni. E Gezy Park è stata la quintessenza di questo slancio, tanto da dimostrarsi forte abbastanza per affrontare il regime quando si è rovesciato nell’autoritarismo. Indubbiamente si riscontra una grande difficoltà del sistema a democraticizzarsi, ma la società turca sta facendo molto in questo senso, figure come Pinar Selek e Ahmet Insel hanno aperto un dibattito importantissimo, grazie al quale i turchi che potranno finalmente conoscere la grande complessità della storia e del Paese in cui vivono. ”
Alla domanda del moderatore, che chiede se i turchi vogliono veramente entrare in Europa, nonostante ora non se la passi proprio bene, Aktar risponde: “I turchi sono ancora favorevoli all’entrata nell’Ue, ad un sondaggio di due settimane fa il 50% della popolazione ha votato “sì.” Ma – continua – la domanda dovrebbe essere un’altra: l’Unione europea potrebbe procedere nel suo percorso senza la Turchia e altri Paesi dei Balcani e del Mediterraneo, correndo il rischio di vedere scoppiare conflitti come, ne cito solo uno, quello tra Romania e Ungheria che stava scoppiando nel ’94? Io credo che la pace e la stabilità abbiano un prezzo, ma che sia necessario garantirle. La politica dell’ampliamento, a mio avviso, è una delle politiche di maggior successo dell’Unione europea.

SGUARDO INTERNAZIONALE
Libertà, giustizia e bene comune: il caso di Aaron Swartz

Esistono tanti modi di uccidere una persona.
La si può uccidere fisicamente. Le si possono togliere i diritti fondamentali, quelli di cui ogni essere umano dovrebbe godere da quando nasce. La si può mettere in discussione, atterrirla, isolarla, minacciarla psicologicamente. Come fa il musicista Antonio Salieri ai danni del rivale Mozart. Si può tentare di uccidere le sue idee, tentando di spacciare la sua genialità per disonestà, cercando di farlo passare davanti all’opione pubblica o, ancora peggio, davanti alla legge, per fuorilegge, per ladro, per disonesto. Come fanno gli States ai danni di Aaron Swartz.

Il documentario incentrato su Swartz, la cui fama spesso precede il nome, è una raccolta di testimonianze di famiglia, amici e colleghi che ne tracciano un ritratto eccezionale, di grande forza e sensibilità, estremamente difficile da accostare ad altri personaggi. L’evoluzione di Tim Berners-Lee, il visionario che ha inventato il web. La personificazione non-violenta del Guy Fawkes mitizzato e iconografico del film “V for Vendetta”, il rivoluzionario che voleva un mondo uguale per tutti.
Uno che crede nella condivisione e nello scambio di idee. Uno che entra in un sistema informatico downloadando articoli accademici non accessibili a tutti (biblioteca del Mit) e diffondendolo, che permette di conoscere le leggi fino a quel momento scaricabili solo a pagamento (database Pacer della Corte Federale degi Stati Uniti), uno che sfida un sistema non democratico nè giusto, diventando attivista politico e voce di protesta contro il Sopa, legge-bavaglio che impone severissime pene contro i violatori di copyright, quello stesso concetto che Swartz aveva contribuito a modificare prendendo parte alla creazione, a soli quattordici anni, della licenza Creative Commons; conscio che la cultura è, o meglio dovrebbe, essere alla portata di tutti, considerandola come il primo vero divario tra chi è libero e chi non lo è.
Non escogita sistemi per arricchirsi. Nelle librerie universitarie, che lui considera vera e propria miniera d’oro, non entra per sfida o per gioco ma per liberare quel patrimonio inestimabile che solo la cultura può offrire, e creando nel 2007 Open Library, progetto di biblioteca digitale dell’Internet Archive. Creando Reddit, sito di contenuti, notizie e intrattenimento che sta sulla sottile linea tra caos e ordine, tra raggruppamento di dati e libero spazio di tutti.
Non entra nei database per rubare o craccare password con cui poi rubare milioni di dollari.
Swartz è un Robin Hood informatico, un sognatore, un utopico che cerca di fare di Internet un luogo libero, in cui circolino verità e confronto, dove tutti abbiano non solo voce, ma anche uguale grado di ascolto e di possibilità. E che resta schiacciato da una giustizia che gli propone un patteggiamento pur di dichiararsi colpevole del reto di hackeraggio pagando una multa, e che lui rifiuta fino all’ultimo.

Questa è la storia di Aaron Swartz, che si è suicidato l’11 gennaio 2013 in attesa di essere processato con tredici capi di accusa, dopo l’arresto per avere scaricato 4,8 milioni di articoli scientifici dal database accademico JSTOR. Ufficialmente, per avere violato la legge che impedisce di scaricare informazioni da un sistema protetto. Ufficiosamente, personaggio scomodo che scardina quel potere privilegio di una piccola fetta di chi può permetterselo a favore della maggioranza di persone che da qualche parte, là fuori nel web, sanno come utilizzare al meglio quelle conoscenze.
Come Jack Andraka, il sedicenne che ha messo a punto un sensore grazie al quale diagnosticare il tumore al pancreas nella sua fase iniziale. E che, come ha pubblicamente dichiarato, non sarebbe stato in grado di mettere a punto in mancanza dei giornali e documenti che Swartz ha “liberato” alla rete pubblica.

Esistono tanti modi di uccidere una persona.
Eppure, anche se Mozart muore, la sua musica continua a suonare.

Le leggi ingiuste esistono: dobbiamo essere felici di sottostare a esse, o dobbiamo ribellarci?
(Henry Thoreau)

[“Internet’s own boy: the story of Aaron Swartz” nella rassegna Mondovisioni]

SGUARDO INTERNAZIONALE
Oltre i confini, l’ascolto come strumento per accorciare le distanze

Se alzi un muro, pensa a cosa lasci fuori, diceva Italo Calvino.
Alzare muri non è mai una buona idea. Fisicamente, linguisticamente, culturalmente. Perché è la circolazione di persone e idee che permette di conoscere realmente gli altri. In antropologia, l’Altro è colui che geograficamente e culturalmente è lontano da un Noi. Ma basta ascoltare chi è fisicamente lontano da noi per poi accorgersi che la vicinanza è sorprendentemente intensa, forte ed empatica.
A Cara Italia ti scrivo c’è Gianpaolo Musumeci che racconta esperienze di viaggio, e ci sono studenti del Roiti che offrono spunti di riflessione scrivendo lettere a un ipotetico interlocutore nel mondo, in zone devastate da guerra, conflitti religiosi e politici. Storie lontane che appartengono a tutti. C’è Félicien, che scava il koltan in una miniera a cielo aperto. C’è il professore indiano che viene aggredito in metro a Roma. Ci sono le migliaia di arrivi dalla Libia, tema cui è ricorso l’anniversario della morte di 366 persone il 3 ottobre a cui venne in seguito data risposta con l’operazione Mare Nostrum, che si occupa di offrire sorveglianza e aiuto a tute le persone che arrivano in Italia via mare, e che sarà a breve sostituita da Frontex Plus. C’è l’arrivo di migranti balcanici che percorrono chilometri e chilometri a piedi. C’è la questione irrisolta del conflitto palestinese e di due popoli che non trovano pace. Non possono e non devono esserci storie, facce, sguardi dimenticati, perché dimenticare una sola persona significa voltare le spalle a tutte.

Per la rassegna Mondoascolti, Nija Dalal e Nina Garthwaite, fondatrice del progetto radiofonico In the Dark che propone progetti incentrati sull’ascolto nei luoghi pubblici, e introducono due radiodocumentari. Senza parole di Katharina Smets è una delicata storia di un incontro, in un giardino di Parigi, tra due donne apparentemente diverse che cercano e trovano il modo di comunicare. Non ci sono troppe parole, ma prevalgono i pensieri, gli stati d’animo che la voce narrante, una delle due protagoniste, racconta, osserva per poi restituire all’ascoltatore. E dove ciò che colpisce realmente è la semplicità con cui si arriva al dialogo, tra una osservazione sul giardino che la donna cura, la promessa di ritornare e il dono di un annaffiatoio per curarlo. E dove in fondo non c’è bisogno di troppe parole per capirsi, ma basta la omonima canzone di Vasco Rossi Senza parole. On the Path of Promaja è una originale riflessione sulla parola promaja, che l’autrice Léa sente durante un viaggio nei Balcani e che in macedone indica una ventata forte e improvvisa che arriva nelle case e se ne va, altrettanto velocemente quanto è arrivata. Parola misteriosa e ricca e sfaccettata, perché indica anche la speranza. E che, al pari di parole splendide e misteriose quali saudade, Weltanschauung, adagio sono intraducibili, perché nate nella culla di un luogo e destinate a definire qualcosa che è costitutiva di quel luogo, ma appartengono a tutto il mondo, destinando a chiunque un prezioso scorcio di cultura.

Primo Novecento: ecco la zona industriale e una compatta
classe operaia

STORIA DELL’INDUSTRIALIZZAZIONE FERRARESE (QUINTA PARTE)

Fra il 1919 e il 1921 lo scontro di classe nelle campagne raggiunse il suo vertice, le squadre fasciste sconfissero le leghe socialiste, sicché le organizzazioni sindacali del fascismo, appoggiate dagli agrari, si imposero sui sindacati della sinistra. Il padronato agrario mise in discussione il “patto Zirardini” del 1920, che prevedeva l’obbligo da parte degli imprenditori di assumere durante l’inverno, sebbene per un tempo limitato, i lavoratori disoccupati. Durante il ventennio fascista permase nelle campagne ferraresi il problema della disoccupazione rurale, anzi la politica deflazionistica avviata nel 1927, con l’obiettivo di portare il cambio della lira italiana nei confronti della sterlina inglese alla cosiddetta “quota novanta”, si tradusse per l’economia ferrarese in una preoccupante crisi agricola e finanziaria.
“Nacque per decreto del 1936 la zona industriale di Ferrara, dove dovevano insediarsi diverse aziende trasformatrici dei prodotti agricoli ferraresi e in funzione della riorganizzazione autarchica dell’economia italiana: dalle industrie canapicole a quelle per la produzione di amido, dalle distillerie alle fabbriche di imballaggi, dalla Società Chimica Aniene alla Società Gomma Sintetica, alla Leghe Leggere, alla Cellulosa. Buona parte delle industrie insediate nella zona industriale ferrarese, creata a nord-ovest della città a congiungersi col vecchio polo industriale di Pontelagoscuro sul Po, poterono entrare in funzione solo a guerra iniziata, nel 1941-42. Nonostante gli orientamenti autarchici della produzione, la presenza della zona industriale rappresentò per Ferrara un’importante novità sul piano sociale: nasceva per la prima volta un nucleo compatto di classe operaia industriale, non legata a brevissimi cicli stagionali”*. Intanto era sorta, a partire dal 1934, una zona industriale anche a Tresigallo, quantunque interamente mirata alla sola attività di trasformazione dei tradizionali prodotti dell’agricoltura ferrarese: canapa, frutta, barbabietole, latte

* F. Cazzola, “Economia e Società” (XIX-XX secolo), in F. Bocchi (a cura di), “La Storia di Ferrara”, Poligrafici Editoriale, Bologna 1995.

Internazionale a Ferrara: John Berger, Bernard Guetta e Martin Baron per un gran finale con le cose che abbiamo in comune

Gli appuntamenti imperdibili di domenica 5 ottobre. Da John Berger a Maisa Saleh. Da Bernard Guetta a Teju Cole. Con Martin Baron, Giovanni De Mauro e Gad Lerner.

11.00 Teatro Comunale Quel che abbiamo in comune Una conversazione su libri, pittura, fotografia, giornalismo, politica, cinema e tanto altro ancora. John Berger critico d’arte, scrittore e pittore britannico, Teju Cole scrittore statunitense. Modera Maria Nadotti giornalista e saggista

11.30 Imbarcadero 2, Castello Estense Antiatlante delle frontiere. Per una nuova concezione dei confini e delle mobilità nel ventunesimo secolo. Nicola Mai Aix-Marseille Université presenta le installazioni del progetto antiAtlas of Borders

11.30 Cinema Apollo Russia. Le rovine dell’impero. La crisi in Ucraina e il ruolo di Mosca nello spazio post sovietico. Ilya Azar giornalista russo, Georgij Bovt Russkiy Mir, Bernard Guetta France Inter. Introduce e modera Andrea Pipino Internazionale

12.30 Sala Estense Un quotidiano al minuto. Come sarà il nuovo sito di Internazionale con Giovanni De Mauro Internazionale, Mark Porter grafico britannico e Martina Recchiuti Internazionale

14.30 Cinema Apollo Siria. Segnale interrotto. E’ il paese più pericoloso del mondo per i giornalisti e la guerra continua a porte chiuse. Maisa Saleh giornalista siriana, Yara Bader Syrian center for media and freedom of expression, Eva Ziedan Siria-Libano. Introduce e modera Lorenzo Trombetta Ansa

15.00 Sala Estense L’uomo che ripara le donne. La guerra di un medico contro le violenze sessuali in Congo. Denis Mukwege Panzi Hospital, Rdc Colette Braeckman Le Soir dialogano con Gad Lerner

16.30 Teatro Comunale Edizione straordinaria. Sulla carta o sul digitale, il giornalismo punta sull’inchiesta. Martin Baron The Washington Post, Edwy Plenel Mediapart. Introduce Giovanni De Mauro Internazionale. Modera Marino Sinibaldi Rai – Radio3

Ne uccide più la penna della spada, conversazioni con Zap&Ida

Attraversando Piazza Trento e Trieste, davanti alla libreria Ibs ieri potevano notarsi, nell’ordine: un cartellone di disegni di bottiglie di vino, adattate al nome rendendole allusive e antonomasiche rispetto al vino di origine; disegni attaccati alla vetrina di Ibs, raffiguranti maiali e cioccolato; Zap&Ida intenti fare guerrilla con i passanti: lui con carta e penna, lei affabulando i passanti.
Il collegamento c’era: Zap&Ida – duo alchemico in cui, come in un buon cappuccino, non si sa dove termina il latte e finisce il caffé, vera e propria associazione umoristica a delinquere – presentavano Tiramisù, l’agenda 2015 per adulti. Tema fondamentale di questo anno è il cioccolato, creando un originale accostamento tra forma e contenuto, grazie all’applicazione di nanotecnologie che, in serigrafia, stampano il compostodi cacao in copertina che, una volta sfregata, emana il profumo di cioccolato.
E il loro romanzo Passi, vera novità per la coppia artistica. Un poliziesco di 234 pagine nato a marzo e ambientato a Bologna, la cui trama – il commissario capo Amareno Fabbri indaga su una serie di misteriosi delitti – si architetta tra personaggi reali e fittizi, dando a ognuno una precisa voce caratterizzante e caratterizzando un vero e proprio thriller, ambientandolo tra scorci della città felsinea: tra via Zanarini e l’Osteria del Sole, tra via Tamburini e la pizzeria Napoleone, casa del sedicente commissario, che conduce le proprie indagini in un impianto narrativo cinematografico, con tanto di pausa pipì tra primo e secondo tempo, destreggiandosi all’interno di un vero e proprio cast di personaggi veri e surreali, tipizzati e curiosi, a mò di Loriano Macchiavelli e Carlo Lucarelli.
E tra i quali, ogni tanto, sembra spuntare un cinese…

SGUARDO INTERNAZIONALE
E adesso si parla di economia, bellezza!

Nella carrellata di domande e risposte che si sono succedute questa mattina durante l’incontro “E’ l’economia, bellezza!”, condotto molto abilmente da Anna Maria Giordano di Radio3Mondo, nel cortile del Castello, emergono forti le posizioni degli ospiti rispetto alla crisi economico finanziaria, e che verranno approfondite dagli stessi negli incontri del pomeriggio, indicati di seguito:

economia-bellezza
L’incontro di Radio3Mondo

Gerard Baker, direttore di The Wall Street Journal
“C’è una grandissima frustrazione negli Usa nei confronti dell’Europa che si è dimostrata molto timida e debole nell’affrontare i problemi strutturali, finora sono state introdotte solo soluzioni tappabuco: welfare troppo costoso, sistema burocratico pesante che soffoca il settore privato, ecc. Si guardino i Paesi emergenti, stanno facendo grandi cose. L’Europa non farà nessun passo avanti finché non affronterà i problemi economici a livello strutturale.

Nicolas Barré, direttore di Les Echos
“Anche per la Francia è arrivato il momento di intervenire sul disavanzo, anche a livello di Comunità europea. A proposito di riforme, tutti i Paesi europei sanno esattamente come dovrebbero muoversi, manca la volontà politica.”

Gerard Baker e Nicolas Barré saranno ospiti all’incontro di oggi “Titoli tossici. La stampa economica al tempo della crisi”, 16.30 Cinema Apollo

Alin Fares, Finance Watch
“Quello che stiamo cercando di fare con Finance watch è raccontare alle persone comuni come funziona il distorto sistema finanziario di oggi, in modo che anch’esse possano intervenire nel dibattito economico e finanziario, che si affronti una profonda riforma strutturale, con l’obiettivo principale che la finanza ritorni al servizio della società civile. ”

Aline Fares sarà ospite all’incontro di oggi “La lobby più potente del mondo. Idee per la società civile contro la finanza casinò”14,00 Cinema Apollo

Edwin Catmull, fondatore e presidente della Pixar Animation Studios
“La crisi va affrontata con la creatività. Otto anni fa la Disney ha acquistato la Pixar perché quest’ultima stava andando malissimo. Il vero problema era il senso di sfiducia e di fallimento, così abbiamo dovuto insegnare agli amministratori a cambiare mentalità. Grazie a questo tipo di lavoro, dopo quattro anni sono usciti di nuovo grandissimi successi come Rapunzel, Ralph spaccatutto e Frozen. La creatività non si riferisce solo al mondo dell’arte, della scrittura e della musica, va oltre: spesso i leader sono inibiti rispetto al cambiamento perché vogliono tenere tutto sotto controllo, mentre per far andare bene le cose occorre identificare gli ostacoli, superare le inibizioni e risolvere i problemi. Alimentare la fiducia è fondamentale contro i meccanismi distorti della competitività e del mercato.”

Edwin Catmull sarà ospite all’incontro di oggi “Creatività s.p.a. Fare, rischiare e fallire: i segreti del successo”, 19.00 Teatro Comunale

Da mercatone a mercatini,
ieri e oggi tutto un altro volto

Così è un’altra storia. Non sul corso, ma nelle piazze dove gli spazi sono ampi; non i banconi del mercato con cumuli di roba disordinatamente accatastata e furgoni a lato, ma graziosi ed eleganti banchetti sui quali è esposta merce raffinata di antiquariato, modernariato e artigianato. Da ieri a oggi Ferrara ha cambiato volto: non il mercatone, ma i mercatini. Un’immagine che la rallegra e le si addice.

Abbottonarsi la giacchetta,
un rituale politico

Abbottonarsi è un gesto politico assai complesso, non solo fattuale ma anche simbolico. La cerimonia dell’ ‘abbottonìo’ – mi si passi il neologismo- è molto complesso e rivela il carattere del politico che usa la giacca come ‘instrumentum regni’ oppure come simbolo della sua condizione. L’unico pericolo è se la vestizione della giacca – o meglio della giacchetta – per usare il termine toscano a cui si riferisce l’ormai proverbiale ammonimento: “non tiratemi per la giacchetta” – viene effettuata davanti a fotografi e giornalisti che nella frettolosa apparizione del politico riescono ad immortalare solo il lato B dell’indumento di solito stazzonato dall’uso e soprattutto rivelatore attraverso gli spacchetti laterali del tentativo di nascondere forme callipige (consiglio un rapido sguardo al vocabolario per conoscere il significato del desueto vocabolo). Chi esibisce una forma di tal tipo è sicuramente Obama che preferisce e impone una visione della giacchetta dal lato A. Ma lasciando queste non inutili precisazioni veniamo alla cerimonia dell’abbottonìo. Ormai celebre la discesa dalla macchina del giovane Presidente del consiglio atteso per la prima volta da Frau Merkel (espertissima di giacchette, in quanto non passa giorno, da anni, che non ne esibisca una nuova e perfetta) che affannosamente nel tentativo di abbottonarsi sbaglia asola e produce una goffa assimmetria sul suo firmatissimo – e fiorentino – capo di vestiario. Da quella non riuscita esibizione dell’abbottonarsi Renzi preferisce ora la scioltezza della camicia, sempre e solo bianca, come simbolo di apertura che, tuttavia e purtroppo, rivela preoccupanti rotoli di grasso non nascosti dalla camicia fasciante. I due, però, che usano la giacchetta e il cerimoniale dell’abbottonìo con rara perizia sono sicuramente Berlusconi e Alfano. Ma il più spettacolare, l’appena sceso in campo (non calcistico ma politico) Diego della Valle che esibisce, oltre alle sue magnifiche scarpe, sonanti braccialettini in studiata confusione e uno spettacolare collo ‘à la Robespierre’, come si diceva ai miei tempi, tenuto assieme, non a caso, da una fusciacca a mezzo tra pashmina e cravatta. Che si proponga davvero come un Robespierre che mette a posto il giovane Matteo?
Vedete come la presentazione della giacchetta corrisponda a un mix di termini antichi (callipigio, fusciacca) e di moderni ed eversivi (job act, tasse, rumors e tradimenti, quest’ultimo vocabolo sempre attuale in politica).

Pensiamo alla inimitabile cerimonia dell’abbottonamento messa in pratica dall’ex Cavaliere. Si sa che lui predilige il completo doppio petto, lontano ricordo delle sue frequentazioni crocieristiche. Ma questa forma di giaccona più che di giacchetta obbliga a contorcimenti (politici e fisici) faticosissimi. Il travaglio è molteplice perché occorre prima agganciare il bottone interno, indi sistemare la doppia fila di quelli esterni stando attenti – dio non voglia – di chiudere il primo: segno di selvaggiume e cafoneria. Ecco allora il sorriso tirato del Nostro che s’assetta – direbbe Boccaccio a uso e consumo dei fotografi, mentre sul viso stampa il sorriso di rappresentanza sotto il casco non metaforico della rossiccia capigliatura. Se si traspone il rito in mito, ecco che Berlusconi con l’abbottonìo rivela la sua strategia politica fatta di strepitosa convenzione a certi valori – e varianti politiche – che tuttavia dissimulano l’incapacità di attuarli senza il robusto sistema del nascondimento della vera intenzione.

Del tutto plateale, l’abbottonamento di Alfano: meridionale, ampio. Un ruotar di braccia che centra le maniche con precisione millimetrica; indi, con un colpo secco la chiusura della giacchetta. Solo a quel punto fluisce la suadente parlantina che a volte, studiatamente, si trasforma in urletto.

Ma quale è l’abbottonìo che preferisco? Sicuramente quello del Ministro dei Beni Culturali. Franceschini – beato lui – può esibire fisico asciutto e scattante. Come porta la giacca? Anzi! Come non la porta? In modo assolutamente artistico, come ben s’addice a chi regge il ministero a mio avviso più importante d’Italia. Con aria tra l’assorto e il perspicace, l’appende a un dito e con mossa scattante la fa scivolare sulla spalla. A questa novità anticonformistica spero segua una immediata e pronta risoluzione dei terribili problemi che affliggono l’abbandonato giacimento aurifero dei beni culturali. Un caro amico che di questi problemi si occupa senza far sconti a nessuno, Tomaso Montanari, richiesto di un voto di apprezzamento sulla politica del ministro da parte di Conchita de Gregorio, che l’intervistava, ha dato un sei, cioè una sufficienza, rispetto al disastroso punteggio di quasi tutti i predecessori del ferrarese ministro. A questo punto, auspico e spero che la giacchetta appesa al dito del non conformista Franceschini possa, almeno in parte, avviare un processo di riforme tale da ritrovare la via perduta che conduce al tesoro nascosto dell’immenso patrimonio della cultura italiana.

SGUARDO INTERNAZIONALE
“L’economia mondiale è in crescita. Sono Europa e Stati Uniti che vanno indietro”

“Non è vero che la crisi è mondiale come ci raccontano. L’economia del pianeta nel 2012 segna un più 3,9 per cento. E’ il vecchio mondo che è in crisi. E il vecchio mondo siamo noi: Europa, Giappone e Stati Uniti. A trainare lo sviluppo sono quei Paesi che ci ostiniamo a definire emergenti: Cina in primo luogo e India. Non so cos’altro dovranno fare per convincerci di essere ampiamente emersi, mentre noi sprofondiamo…”

Per oltre un’ora di lezione, avvincente come un thriller, brillante come una commedia, il professor Lucio Poma dell’Università di Ferrara ha tenuto inchiodati alle sedie il pubblico di Internazionale, che ha riempito l’aula magna e altre due sale approntate per l’occasione, spiegando ciò che di norma gli altri economisti non dicono. “Tutti i modelli che abbiamo utilizzato finora non funzionano più”, ha affermato. Ecco in pillole la sua analisi.

La crisi parte da lontano, non dal 2008 come si tende ad affermare, è strutturale e non congiunturale. E’ dal 1999 che la forbice fra import ed export si è ribaltata a danno di Europa e Stati Uniti. Da allora il divario è costantemente cresciuto a vantaggio dalla Cina sino alle attuali impressionanti proporzioni.

Con una crescita annua costante del 14 per cento dal 1986, la Cina ha ormai quasi raggiunto il livello del Prodotto interno lordo degli Stati Uniti, se continua così fra 7 o 8 anni lo supererà. Ma cresce anche l’Africa, dove i cinesi stanno investendo.

La Cina, oltretutto, dal 2004 è creditrice degli Stati Uniti, questo la pone in una posizione di forza. Ha acquistato parte del debito americano e come ogni creditore può chiedere in ogni momento la restituzione del prestito. Se ciò dovesse succedere l’economia americana si troverebbe in grandissima difficoltà. Perciò la Cina è in grado di condizionare le scelte degli Stati Uniti e di conseguenza di controllare le mosse sullo scacchiere internazionale nel quale gli Stati Uniti restano principali attori.

In Europa, la politica della Bce, che ha ridotto a zero il costo del denaro, non funziona poiché – spiega il prof con un esempio calzante – gli imprenditori, se hanno già in casa 10 macchinari e tre sono fermi per mancanza di lavoro, non prendono l’undicesimo nemmeno se glielo regalano, perché poi la manutenzione costa.

Il problema non sono le banche, il debito o il tasso di interesse. La produzione ristagna perché non riusciamo più a competere a livello di costi, le incidenze da noi sono tali da squilibrare il mercato dei prezzi. Il nostro prodotto costa troppo e non è appetibile. I cinesi ci hanno copiato come negli anni Sessanta facevano i giapponesi. Irrisi gli uni e gli altri. Poi s’è visto come è andata.

Pensiamo anche all’impatto esplosivo, in termini di consumi, di oltre un miliardo e 300 milioni di persone, finora sempre escluse dal benessere, che si stanno avvicinando ai livelli minimi di comfort. Moltiplichiamo per quel numero il semplice fabbisogno di pavimenti, pneumatici, pannolini…

Funziona la manifattura cinese che si alimenta di grandi squilibri economici e sociali. I vantaggi competitivi della Cina derivano da un mercato del lavoro privo di tutele. Ma se Obama alza la voce per imporre alla Cina il rispetto dei diritti dei lavoratori o protesta per lo sfruttamento dei minori si sente rispondere: non c’è problema però tu ridacci il nostro prestito. E allora deve subito spiegare che stava scherzando. Questa è la situazione.

Noi occidentali siamo vecchi, vecchi dentro. Sopraffatti dai monopoli che non hanno interesse a innovare perché dominano i mercati. Dal 1989, dopo il crollo del muro, si è sopita la competizione internazionale e la concorrenza, lievito dell’innovazione. L’innovazione si fa in Oriente e negli Emirati, dove si investe perché c’è ansia di riscatto e di affermazione di status.

Come se ne esce allora? C’è una speranza, in particolare per noi italiani? Sostanzialmente non abbiamo risorse minerarie, non siamo produttori, ma operiamo da sempre nel segmento della trasformazione. La nostra forza è la conoscenza, coniugata alla cultura del fare. Dobbiamo valorizzare questa leva. Abbiamo le università più antiche del mondo, dobbiamo mettere il sapere e la ricerca al servizio dell’industria e della produzione. Ciò che ci ha sempre reso grandi è stata la capacità di tramutare un bene in un manufatto a forte valore aggiunto. E’ indispensabile ritrovare la capacità di fare fruttare il nostro talento e il nostro genio.

SGUARDO INTERNAZIONALE
Chicago girl, la rivoluzione siriana pilotata dal web

Nel presentare il film, Francesco Boille, che cura per Internazionale la rassegna Mondovisioni, dice: “Chicago girl è l’esempio perfetto del documentario che cerchiamo durante l’anno per la rassegna Mondovisioni: un lavoro che unisca un evento urgente, come lo è oggi la guerra in Siria, e uno sguardo particolare su cos’è l’informazione, come si fa, e come circolano le notizie.”

Dalla sua stanza alla periferia di Chicago una ragazza americana, figlia di esuli siriani, coordina attraverso la rete la rivolta in Siria: tramite Facebook, Twitter e Skype aiuta i compagni sul campo a fronteggiare cecchini e bombardamenti, e denuncia al mondo le atrocità commesse dal regime di Bashar al Assad. “Questo – continua Boille – è un film datato perché raccoglie filmati girati dai ‘citizen journalist’ siriani tra il 2011 e il 2012, e la prima proiezione risale al novembre del 2013. Da allora la situazione è molto cambiata, si è fatta ancora più complessa con la comparsa dei guerriglieri dell’Isis. Ma “Chicago girl” rimane un documento importante e ben fatto di ciò che è successo in Siria, che è di una gravità enorme.”

Ed proprio questo il punto, i tanti ragazzi che hanno preso la telecamera e i cellulari in mano per filmare gli orrori del regime di Assad, avevano chiara l’idea di possedere un’arma formidabile, la migliore: sapevano che le centinaia e centinaia di video girati sulle strade di Homs e Damasco e pubblicati su You Tube avrebbero costituito comunque, in un momento anche lontano, la prova inconfutabile della colpevolezza del governo di Assad. “Girati, riprendi dietro di te! Riprendi, riprendi!”, “Domani usciamo ancora a filmare!”, queste alcune delle frasi che si sentono durante tutto il film. L’imperativo è continuare a filmare per sapere al mondo… per cambiare il mondo.

Nel film colpisce la determinazione di questi ragazzi che si alzano ogni giorno, si connettono con l’amica di Chicago per verificare dove si sarebbero tenute le proteste. “Quando ero al liceo pensavo ad uscire con le mie amiche, a divertirmi. Da quando c’è la rivoluzione non ho più tempo, ho troppo da fare. Sono sempre connessa, non riesco nemmeno a seguire le lezioni perché devo dare indicazioni ai miei amici su come muoversi, loro contano su di me, si fidano di me. Sono responsabile di centinaia di persone in Siria.” Perché la cosa peggiore e più pericolosa è quando le proteste sono piccole, diventa importante quindi coordinare le operazioni e ampliare i gruppi. Il suo lavoro è anche quello di tradurre le informazioni, inserire le notizie, scaricare i video, oscurare i volti delle persone, pubblicarli con data, luogo, autore, e spedire ai suoi amici materiale elettronico come piccole telecamere Bluetooth. Appena sa che un amico è stato intercettato o catturato dall’esercito di Assad, ne cancella l’utente Fb, perché la prima cosa che fanno è estorcere utente e password per rintracciare tutti gli amici della rete.
La ragazza di Chicago si dimostra una fonte sicura, una figura necessaria, “perché quando si fanno le rivoluzioni in rete – come dice un esperto che nel film spiega il senso di questo nuovo fenomeno – non basta affidarsi ai mezzi tecnologici, occorre il social network, e il social network sono le persone, la fiducia e la verifica delle informazioni.” I video pubblicati su youtube piano piano filtrano e arrivano sui media: “Quando vedo i miei video nelle breaking news della Cnn e di Al Jazeera, sento che sto facendo la mia parte nel mondo”.

“#ChicagoGirl. The social network takes on a dictator”, di Joe Piscatella, Usa/Siria, 2013, 74′

Sarà proiettato ancora domenica 5 ottobre 2014, ore 10.30 alla Sala Boldini

Tutti i documentari della rassegna, da quest’anno si potranno vedere in streaming su MyMovie, dall’8 al 15 ottobre, in una sala web dedicata a Mondovisioni.