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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


Forza Italia affronta i grandi interrogativi esistenziali: come diventare marchesa…

E’ assolutamente imperdibile l’incontro in programma sabato in castello. Risponde a uno dei quesiti fondamentali dell’esistenza umana, un interrogativo che ciascuno di noi ha angosciosamente posto a se stesso almeno una volta in quest’epoca di crisi: “Come diventare marchesa ed esserlo in tutte le occasioni della vita”. E’ un tema nodale dei giorni nostri, qualcosa che ci appassiona e ci scuote nel profondo dell’animo.

A proporre una così ghiotta occasione di crescita umana e intellettuale è Forza Italia, sempre attenta a intercettare i reali bisogni delle persone. Talchè, nel vortice della sua campagna elettorale, ha pensato giustamente di elevare il tono del dibattito generale, invitando nella nostra città un’esperta assoluta della materia, Daniela del Secco D’Aragona, che saprà con sapienza erudirci e illuminarci. Accanto a lei poseranno nobilmente tutti i candidati forzitalici, quelli delle amministrative e quelli delle europee.

La benemerita iniziativa è stata propiziata dal praticante avvocato Francesco Carità con il supporto dei club ‘La nuova Forza Italia Ferrara’ e ‘Forza Italia città estense’. Grati della caritatevole attenzione che schiude persino a noi plebei uno spiraglio all’anelito del marchesato, eleviamo il nostro canto: meno male che Francesco c’è.

P.S. Non è uno scherzo come inizialmente avevamo creduto, è tutto drammaticamente vero

Il mercante di pellicce

di Alessandro Porcari

La caffettiera rivestita di pelliccia. Una provocazione degna di una sfilata di alta moda. Si presenta così il sito internet dell’Associazione italiana pellicce. Oltre 150 mila animali allevati e abbattuti per produrre il simbolo per eccellenza del lusso femminile. Che allarga i confini e si adatta alla creatività tipica del Made in Italy. Così la pelliccia può rivestire una radio, una lampada da tavolo e persino una Vespa.

Contro questo mercato, in Parlamento ci sono tre proposte di legge, promosse da tre donne. Due alla Camera (Michela Brambilla e Chiara Gagnarli) e una al Senato (Silvana Amati). A queste, potrebbe presto aggiungersi l’azione delle Regioni italiane. Umbria, Sicilia e soprattutto l’Emilia-Romagna, che con cinque allevamenti mantiene una posizione di rilievo nella produzione nazionale di pelli di visone. Così l’Emilia-Romagna potrebbe essere la prima Regione italiana a proibire gli allevamenti da pelliccia sul proprio territorio. Una legge però che difficilmente potrà diventare operativa, perché creerebbe problemi costituzionali di uniformità legislativa nazionale. Lo ammette persino la Lav, Lega antivivisezione, la principale protagonista della lotta animalista. L’obiettivo reale è fare pressione sul Parlamento perché possa approvare nei prossimi mesi la messa a bando degli allevamenti su tutto il territorio italiano.

Una soluzione che non piace a Giovanni Boccù, rappresentante dell’associazione italiana allevatori di visone (Aiav). Il visone resta di fatto l’unica specie di animale da pelliccia ancora allevata in Italia. Poche decine di allevamenti, contro i 170 del 1980; un settore che sembrerebbe in via di estinzione. Il numero degli animali abbattuti in Italia, tuttavia, fa ancora impressione: oltre 150 mila, appunto.

Presidente, cosa sta accadendo agli allevamenti di visone in Italia?
Tutta colpa di una legge del 2001, che avrebbe dovuto recepire correttamente la direttiva europea in materia di protezione degli animali negli allevamenti. Invece ci obbligavano ad allevare i visoni a terra e a costruire piscine per loro. Non ci sono prove che dimostrino che l’allevamento a terra garantisca un maggiore benessere degli animali, anzi, i visoni si ammalano facilmente, con danni alla produzione. Nel mio allevamento avrei dovuto spendere cinque milioni di euro, senza aumentare i ricavi futuri. Ma abbiamo fatto cambiare l’articolo e ora gli impianti stanno nuovamente aumentando, nonostante la burocrazia fatta di decine di carte prima di ottenere un permesso. A Cella di Noceto, in Emilia Romagna, il Comune aveva legiferato per impedire l’allevamento di visoni. Il governo lo ha obbligato a rettificare. Io sto cercando di ampliare i miei impianti, ma ancora senza risultati. In queste condizioni molti allevatori rinunciano.

Dove stanno aprendo i nuovi impianti?
Non glielo posso dire. Contro di noi si stanno verificando atti di terrorismo. Gli ambientalisti distruggono gli impianti ancora prima che inizi il ciclo produttivo, ostacolano l’approvazione dei permessi dei Comuni facendo pressione sui sindaci, con migliaia di email ogni giorno. In alcuni impianti hanno avvelenato i cani, hanno buttato acido sulle macchine. Abbiamo già diverse denunce ai Carabinieri. Si firmano con la sigla Alf, Animal liberation front.

Vi accusano di torturare gli animali…
Se così fosse, dovremmo andare in galera e con noi l’Asl che verifica la conformità dei nostri impianti alle norme di legge. Noi invece rispettiamo le leggi. Contro di noi ci sono solo falsità. Ho invitato il presidente della Lav a visitare il mio impianto ma non ha mai accettato. Noi facciamo gli open day, chiunque può venire a visitare gli impianti. Il benessere degli animali è al top.

visoni
Visoni nella gabbia di un allevamento

Le sembra etico uccidere un animale per produrre pelliccia?
L’etica è una opinione. Se tengo un animale in casa, invece che lasciarlo libero, forse non è etico. Se uno dice che costruire una Ferrari non è giusto perché costa troppo e perché ci sono persone che non arrivano a fine mese, oppure che mangiare la carne di animali è scorretto perché possiamo mangiare la verdura, che facciamo? Magari blocchiamo tutto solo perché lo vuole la maggioranza. Dunque se è possibile allevare animali da pelliccia, il problema è il trattamento degli animali e su questo noi non abbiamo nulla da nascondere, anzi, se hanno qualcosa da proporci, noi siamo pronti a discuterne per migliorare la salute degli animali.
Noi accetteremmo anche di essere messi al bando, ma non sulla base di falsità. In Europa la Lav ha raccolto le firme per mettere al bando gli allevamenti. Ma hanno dovuto ritirarle perché abbiamo dimostrato che dicevano falsità e l’Europa ha rigettato la richiesta.
Se la questione è etica, si faccia la legge. Noi ci adegueremo, ma finché non c’è la legge, non possono dire che noi siamo illegali e scorretti facendo danno alle nostre strutture, con atti di vandalismo

Ci sono sondaggi che dimostrano che l’opinione pubblica è contraria alle pellicce…
La gente non è contraria, è indifferente e spesso non sa di cosa parla. Non ha mai visitato gli allevamenti. Le garantisco che chi è entrato da noi, esce convinto che gli allevamenti di animali da pelliccia siano identici a tanti altri allevamenti. Agli italiani interessa portare lo stipendio a fine mese, non mandare a casa altre famiglie. Chiudere i nostri impianti significherebbe un doppio costo. A noi dovrebbero darci un indennizzo per la perdita dello stipendio e degli impianti. Inoltre il mercato dovrebbe acquistare le pelli dall’estero, dove non ci sono le stesse norme di tutela della salute degli animali. Un doppio danno per il paese.

In Europa però molti paesi hanno già abolito gli allevamenti da pelliccia…
Sono paesi che non hanno allevamenti, così è troppo facile. In Inghilterra, una generazione di allevatori anziani ha preferito chiudere piuttosto che rinnovare gli impianti. Hanno incassato i soldi per la chiusura degli impianti, hanno preso altri fondi dall’Unione Europea e hanno investito nuovamente in Grecia. L’Olanda ha messo al bando gli allevamenti per questioni etiche, non per maltrattamento degli animali. Il governo olandese ha dato 23 milioni di euro agli allevatori, ma i danni al settore supera il miliardo e mezzo di euro e ora stanno ricalcolando gli indennizzi. Se i governi pagano, gli allevatori chiuderanno.

In Parlamento ci sono tre proposte di legge per l’abolizione in Italia, si sente minacciato?
In un paese civile la maggioranza decide, ma fin quando ci sono leggi che stabiliscono che la nostra attività è legittima, noi abbiamo il diritto a produrre senza ostacoli. Quando le proposte di legge saranno discusse in aula ne riparleremo. D’altronde, dall’estero vogliono comprare il nostro know-how e qui c’è chi prova a chiuderci e mandarci via

Ma in Italia siete poche decine, potrebbe essere facile chiudevi…
Se una famiglia guadagna poco che fanno la mettono sul lastrico solo perché agli altri non interessa il suo lavoro? Se un Parlamento vuole può chiudere anche un settore ricchissimo e fiorente.

C’è chi scuoia gli animali vivi, ha mai visto le immagini?
Sono cose che mi fanno venire i brividi. In Europa queste cose non possono avvenire, perché ci sono le leggi più ferree per il benessere degli animali. Abbiamo studiato con il supporto di università i migliori sistemi per garantire il benessere degli animali e tra poco arriverà anche una certificazione esterna che si aggiungerà ai controlli delle Asl. Se sbaglio qualcosa mi fanno il verbale. E’ nostro interesse certificarci, perché più alta è la qualità più il nostro prodotto è garantito sul mercato. Siamo i primi interessati al benessere degli animali, gli ambientalisti non vogliono capirlo. Il pelo viene bello se un animale sta bene, non se viene maltrattato.
Al Parlamento europeo, abbiamo fatto un’esposizione per presentare il nostro lavoro, anche agli animalisti. C’erano anche foto di animali feriti. Può succedere che un animale si possa ferire. Se uno mettesse una foto di un uomo andato in ospedale e dicesse: “questo è il genere umano”, direbbe una falsità. Così per noi l’importante è che venga curato e rimesso in produzione. Noi non abbiamo nulla da nascondere, ma cercano di accomunarci ad allevamenti lager. Noi abbiamo i controlli di ufficiali pubblici della Asl, anche sette volte l’anno. Se faccio male qualcosa, mi fanno il verbale. Se qualcosa non fosse corretta, dovremmo essere accusati tutti, compresi i controllori.

Che tempi ci sono per la certificazione?
Entro l’anno prossimo in tutta Europa. È attualmente in prova in alcuni allevamenti. All’asta di Helsinki, già ora chi vende pelli da allevamenti certificati prende un extra prezzo.

Che fine fanno i corpi degli animali scuoiati?
In Europa, gli allevatori riciclano un milione e mezzo di tonnellate di carne. Nel Nord Europa con la carne degli animali da pelliccia si produce biogas. È possibile farne farine proteiche e bocconcini per l’alimentazione di altri animali. Tutto il prodotto è utilizzabile. Noi comunque non ci occupiamo dei corpi degli animali, perché fanno parte del ciclo successivo, di cui si occupano le aziende autorizzate dalla Asl. Pensi che 30 anni fa, alcuni allevatori si riempivano la cella frigorifera e mangiavano quella carne tutto l’anno.

Come va il mercato delle pellicce?
Benissimo, il prodotto viene venduto. Il mercato è mondiale, non è solo quello italiano. In Italia, abbiamo la MiFur che è una delle principali Fiere del mondo. La pelliccia è utilizzata ovunque ed è più che mai di moda.

Ma il prezzo sta calando, troppa concorrenza?
Negli ultimi mesi c’è stato finalmente un calo, dopo un aumento del 168% registrato negli ultimi cinque anni. Per noi è meglio, perché certi mercati erano tagliati fuori, mentre ora stanno tornando a comprare.

Non c’è stato un cambiamento culturale con le pellicce ecologiche?
Sono pellicce di plastica prodotte dal petrolio, che non è possibile definire ecologiche. È indistruttibile e prodotta in modo inquinante. Anzi, più le persone comprano pellicce di plastica, più si rendono conto della qualità del nostro prodotto. Sappiamo quanto distrugge il petrolio, con danni alla vita degli animali. Quello è un bene non rinnovabile, finirà. Noi produciamo quanto vuole il mercato.

Come vi tutelate dai colleghi che non rispettano le norme?
Quando è successo siamo stati i primi a denunciarli. Purtroppo chi passa con il semaforo rosso ci sarà sempre, ma questo non vuole dire che gli allevamenti torturino gli animali. Noi non diciamo alla gente che debba portare la pelliccia, ma nessuno dica che non possiamo produrla.

Come si riconosce sul mercato una pelliccia prodotta senza il rispetto delle norme europee?
Il prezzo, sensibilmente più basso. Noi dobbiamo seguire cicli dietetici. Tutto deve essere bilanciato. Noi possiamo mancare di attenzione verso gli animali. Poi paghiamo le tasse. Certo in alcuni paesi, dove vivono con le galline in casa, se offrissimo cinquanta euro per farla scuoiare viva, sono sicuro che me lo farebbe anche con i denti. Se qualcuno dovesse dire che in Italia ci sono atteggiamenti simili io mi costituisco parte civile. Se gli ambientalisti fanno vedere filmati così violenti lasciando credere che succeda anche in Italia, vuol dire che hanno la coscienza sporca. Perché dovevano denunciare quelle persone, non possono metterci a paragone. L’istituto zooprofilattico di Brescia ha messo le telecamere per vedere la reazione degli animali al gas con cui vengono uccisi. Non agonizzano, muoiono in pochi secondi. Quando la concentrazione di ossido di carbonio è giusta, noi mettiamo gli animali. Poi li deponiamo sulle rastrelliere e aspettiamo il giorno dopo. Solo a quel punto noi interveniamo.

[© www.lastefani.it]

L’arte di annoiarsi

“Non si dovrebbe sottovalutare la noia come fonte di meditazione e fantasticherie, le centinaia di ore della tua prima infanzia in cui ti sei trovato solo, privo di stimoli, senza niente da fare, troppo svogliato o distrutto per voler giocare con i tuoi camion o le tue automobiline, per prenderti la briga di schierare i tuoi cowboy e indiani in miniatura… E siccome fuori pioveva o faceva troppo freddo per uscire di casa, languivi in un torpore ombroso e depresso, ancora troppo giovane per leggere, per telefonare a qualcuno, sognando un amico o un compagno di giochi che ti facesse compagnia… Temutissime ore di noia, lunghe ore solitarie di vuoto e silenzio, intere mattine e pomeriggi in cui il mondo smetteva di girare intorno a te, eppure quel terreno sterile si rivelò più importante di tanti giardini in cui avevi giocato, perché è li che ti sei addestrato a stare da solo, e una persona può lasciare libera la mente solo quando è sola”. (P. Auster, 2013, Notizie dall’interno, p. 37).
Questo affascinante brano tratto da un romanzo in forma autobiografica dello scrittore americano Paul Auster, mi serve come spunto per riflettere su un’esigenza che questo tempo nega: consentire lo spazio per la noia. Lasciare che emerga un tempo vuoto nella scansione delle proprie giornate è la condizione per riflettere sul senso di ciò che stiamo facendo, per ascoltare i propri desideri e sviluppare un pensiero creativo. Esigenza primaria che contrasta con un’attitudine diffusa a gestire il tempo libero con l’impegno ossessivo a chiudere ogni possibile spazio di tempo vuoto.
Anche nel rapporto con i bambini si commette, per lo più, l’errore di non lasciare spazio alla noia. I bambini sono sommersi e soffocati di proposte. I genitori occupano tutto il tempo dei bambini con le più varie attività e riempiono ogni spazio. Crescono bambini che non sanno fare i conti con la noia e con un tempo vuoto, non sanno giocare da soli e baloccarsi con i propri pensieri, magari inventando storie immaginarie a partire da semplici oggetti quotidiani.
La tendenza a riempire ogni momento talvolta risponde al senso di colpa per non dedicare ai figli abbastanza tempo e attenzione, spesso è una proiezione degli adulti che propongono ai figli cose che loro stessi avrebbero voluto fare e vivendo in tal modo i bambini come un prolungamento narcisistico di sé.
La saturazione di ogni spazio è anche un dato culturale di questo tempo: l’idea che ogni spazio debba essere indirizzato a qualche utilità, ad apprendere una specifica capacità. Un’idea di utilità che riduce lo spazio del gioco, lo spazio dell’astrazione e del pensiero simbolico, in nome di un precoce apprendimento di abilità. Vince così la concezione dell’apprendimento come performance da raggiungere ad ogni costo. In questa esasperata ricerca di formazione di competenze si esprime anche una delega agli esperti dell’apprendimenti: si preferisce pagare il corso piuttosto che condividere attività da fare insieme.
Nel futuro questo mancato apprendimento ad assecondare i propri ritmi e vocazioni, può provocare la tendenza a riempire il tempo con oggetti che anche in quel caso sono sostituti del desiderio, oggetti di consumo, cibo, fino alla droga. Imparare a non otturare ogni mancanza è la condizione necessaria per accedere al desiderio. Così da adolescenti i ragazzi che non sono abituati a fare i conti con la mancanza, faticano a dire cosa vogliono.
La condizione per desiderare è la mancanza, se questa viene tappata con oggetti, cose o progetti costruiti da altri, non solo viene impedito l’accesso al desiderio, ma non ci si abitua a fare i conti con la frustrazione.
Bambini abituati a stare solo con adulti, che non sanno giocare da soli, saranno adulti che non sapranno fare i conti con le inevitabili frustrazioni della vita: quando queste si presenteranno li troveranno impreparati a fronteggiarle.

Chiara Baratelli è psicoanalista e psicoterapeuta, specializzata nella cura dei disturbi alimentari e in sessuologia clinica. Si occupa di problematiche legate all’adolescenza, dei disturbi dell’identità di genere, del rapporto genitori-figli e di difficoltà relazionali.
baratellichiara@gmail.com

L’Italia presa a calci

Confesso che il calcio mi interessa poco da quando, nella stagione di serie A 2001-2002, il Chievo arrivò al quinto posto.
Non fu certo il campo da solo a stilare quella classifica finale. Non era infatti concepibile che una squadra parrocchiale potesse umiliare le corazzate del calcio italiano. Specie quando un solo giocatore di queste tuttora costa come l’intero bilancio del Chievo, spinzini compresi.

Quello che, però, è successo sabato 3 maggio per la sfida conclusiva della Coppa Italia ha dello stupefacente e non nel senso che darebbe Giovanardi al termine.
Tutto, ma proprio tutto, in questa faccenda è fuori binario.
Le squadre finaliste erano Napoli e Fiorentina, ma ad aprire addirittura il fuoco con una pistola (una pistola!) sarebbe stato un tifoso della Roma, tal Daniele De Santis detto Gastone.
Ad oggi quello che si sa è che il bilancio è di dieci feriti, di cui uno gravissimo. Il suo nome è Ciro Esposito, ancora ricoverato al Gemelli dopo due interventi chirurgici in pochi giorni.
A stupire è che il presunto pistolero e il ferito più grave sono entrambi in stato di fermo.
La madre del tifoso partenopeo ha subito urlato la propria indignazione.
Va bene che i figli sono sempre “Piezz ‘e core”, ma mai un genitore col dubbio che se il sangue del proprio sangue è piantonato in ospedale può essere (dico, può essere) che prima non abbia preso parte a degli esercizi spirituali.

A proposito di polizia e carabinieri, dovrà pur finire prima o poi l’inconcludente, e talvolta cinico, ondeggiare da mal di mare di un’opinione pubblica che, a seconda dei casi, si scaglia contro gli uomini in divisa se calpestano dissenso e diritti con una brutalità inaccettabile per un Paese civile, salvo poi reclamare tolleranza zero di fronte a fatti come quelli di sabato scorso.
Sarà pure possibile tutto in un Paese abituato a tenere insieme diavolo e acqua santa, ma pretendere dalle stesse persone che siano, a piacimento, dei dottor Jekyll e dei mister Hyde, ha tutte le sembianze di una tiritera destinata, se tirata ancora per le lunghe, a presentare un conto finale assai poco piacevole.

Come siano andate veramente le cose è ancora in buona parte un punto interrogativo. È stato scritto che un veicolo di tifosi azzurri, non trovando parcheggio, avrebbe sfondato il cancello di un vivaio di fiori. Se così fosse, saremmo oltre l’iperuranio della sosta selvaggia.
Altri hanno detto che se qualcuno ha sparato è perché dall’altra parte sono partite le provocazioni. Marco Tardelli, quello dell’urlo del tre a uno in Italia Germania dell’82, ha addirittura insinuato che potrebbe essere stato un regolamento di conti.
L’impressione è che se si prosegue lungo la linea di queste congetture, si arriva prima o poi all’identità di Jack lo Squartatore.
Se poi si considera che tutte queste cose riguardano fatti accaduti prima di entrare nello stadio, e che gli scontri si sono estesi nella capitale a Ponte Milvio, Ponte della Musica e ponte Duca d’Aosta, non si sa davvero quale aggettivo cercare sul vocabolario.
Già, perché dentro l’Olimpico abbiamo tutti fatto la spiacevolissima conoscenza di tal Gennaro De Tommaso, meglio noto come “Gennaro la carogna”. Il capo della tifoseria partenopea lo abbiamo visto in cima ad una cancellata che indossava una maglietta con sopra scritto: “Speziale libero”. È il cognome dell’ultrà del Catania in carcere, che nel febbraio 2007 uccise l’ispettore di polizia Filippo Raciti, tirandogli addosso un lavandino (un lavandino!).

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‘Gennaro la carogna’

Ebbene, con uno che ha questa idea conclamata della giustizia ha preso accordi il capitano del Napoli, Marek Hamsik, per dare inizio alla partita.
Immaginiamo il tono dell’amabile conversazione, alla presenza di dirigenti e forze dell’ordine: “Che ne dice dottor Carogna di dare inizio alle ostilità?”.
Immaginiamo anche lo stato d’animo dei familiari del poliziotto ucciso durante un’ennesima mattanza, mentre lo Stato anziché rendersi conto in quale scantinato si è cacciato non vede niente di meglio da fare che umiliare una volta ancora chi ci ha rimesso la pelle per una partita di calcio.
Successivamente è stata cronaca di bombe carta (una delle quali ha mandato un vigile del fuoco all’ospedale), petardi e fischi all’inno d’Italia. Mentre in tribuna sedevano tra le più alte cariche dello Stato.

Straordinarie le dichiarazioni a caldo di alcuni papaveri. Due a caso.
Maurizio Beretta, presidente della Lega: “Questi episodi di violenza sono gravi e colpiscono lo spirito dello sport”.
Pietro Grasso, presidente del Senato: “Una partita di calcio non si può trasformare in una guerra tra bande con episodi di violenza. Questo è gravissimo”.

Gravissimo, semmai, è che uno il cui padre risulterebbe affiliato alla camorra e che indossa una maglietta che è l’esatto capovolgimento della gerarchia di principi che regge una società civile, sia l’esempio di un’interlocuzione privilegiata delle squadre di calcio e delle stesse istituzioni che dovrebbero garantire la sicurezza.
Gravissimo è che i più alti rappresentanti dello Stato non sentano il dovere di abbandonare uno spettacolo indecente che rappresenta lo sbracamento di un intero paese nel quale, come dicono le streghe nel Macbeth di Shakespeare, nessuno sembra più distinguere il giusto dal marcio.
Gravissimo è che “the show must go on” e che alla fine si assegni la Coppa Italia, perché il nome di una delle due squadre sia inciso nell’albo d’oro della competizione.
Gravissimo è che nel 2014 l’Italia continui a dare spettacolo di sé sulla scena internazionale come di un paese dai problemi volutamente ed eternamente insoluti, colpevolmente e superficialmente trascurati, inondati da sequenze interminabili di pareri di esperti ed opinionisti che continuano a girare all’infinito intorno al tema come fosse una rotatoria. Mentre molti dei nostri vicini di casa li hanno da tempo risolti e, perciò, sono più avanti di noi.
Gravissimo è che ogni santa domenica si continui a tenere impegnate schiere di agenti in assetto antisommossa, e a spendere soldi dei contribuenti, nel tentativo di scongiurare devastazioni di treni, stazioni, stadi e chissà cos’altro, per una partita e senza che mai nessuno paghi per i danni provocati.
Gravissimo è che la sera di sabato tre maggio sul campo dello stadio Olimpico di Roma sia stata l’Italia ad essere presa a calci.
E qualcuno avrebbe dovuto avere il criterio di andarsene con la Coppa sotto braccio, perché ammettendo che abbia avuto senso disputare la partita, alla fine non c’era alcun trofeo da alzare al cielo.
Perché tutti quella sera hanno, abbiamo, perso.

Pepito Sbazzeguti

‘Restauratori senza frontiere’, i medici del patrimonio culturale

In prima linea per curare le ferite di “corpi” resi immortali dalla storia, ma fragili dal tempo, feriti dalle guerre e dalle calamità naturali o, semplicemente, minacciati dall’abbandono e dall’incuria.

Dopo Medici Senza Frontiere, ecco scendere in campo anche in professionisti dell’arte, pronti a fornire un “primo soccorso” a musei, monumenti e siti a rischio in Italia e nel mondo, come veri “medici” del patrimonio culturale. Il paragone è d’obbligo per questi starter innovativi.

La recente creazione del network italiano di Restauratori Senza Frontiere (Rsf), onlus dedicata alla conservazione e al restauro del patrimonio artistico in Italia e nel mondo, sta sfruttando il potente ruolo della rete nell’identificare il possibile contributo di singoli esperti, organizzazioni, associazioni attive e interessate all’etica della tutela, nel promuovere divulgazione culturale e aggregazione fra professionisti di un settore. L’associazione riserva, anche, uno spazio ai giovani, che potranno avere una vetrina aperta su questo mondo, con occasioni reali di partecipazione.

Uno dei primi obiettivi dell’associazione sarà quello di monitorare lo stato di conservazione di monumenti e opere d’arte italiane, mappando sia le eccellenzeche le emergenze, e di creare una rete di professionisti – tutti volontari – in grado di intervenire sulle priorità. A valutarle e curare i progetti specifici sarà un comitato scientifico presieduto da M.L. Tabasso, specialista in chimica dei materiali, con una lunga esperienza all’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro (Iscr) e all’Iccrom (il Centro internazionale di Studi per la Conservazione e il Restauro dei Beni culturali creato dall’Unesco); al progetto hanno già aderito, molti esperti di rinomanza internazionale (per citare alcuni, si pensi a Stefano De Caro, direttore dell’Iccrom, a Friedrich Von Hase, direttore del Museo di Magonza, all’egittologo Francesco Tiradritti e a storici dell’arte come Claudio Strinati e Marcello Fagiolo Dell’Arco).

L’Organizzazione gestirà, poi, la progettazione, il finanziamento e la realizzazione di iniziative in ambito nazionale e internazionale finalizzate alla protezione e alla conservazione del patrimonio artistico mondiale, dei monumenti storici e di tutti i segni tangibili delle civiltà del passato, beni inestimabili per le nazioni di oggi. Il Fund raising sarà parte fondamentale delle attività di Rsf e permetterà di supportare progetti a cui anche i giovani professionisti potranno aderire per imparare e entrare nel mondo della conservazione. Una sorta di talent scout-job hunter.

A fine gennaio 2014, è partita la campagna d’iscrizioni per creare un database in cui ciascun volontario può inserire il proprio curriculum. Attraverso la rete sarà realizzata una mappa geo-localizzata delle specializzazioni per intervenire in modo rapido ed efficace sul territorio in caso di emergenze, con nuclei operativi formati da esperti di diversi settori, dai geologi ai fisici, dagli architetti ai restauratori. Fra gli obiettivi, c’è anche la formazione di personale in loco durante le missioni. L’associazione si propone di agire in collaborazione con le organizzazioni internazionali umanitarie e di protezione civile, stipulando convenzioni in Italia e all’estero, e conta di essere operativa sul campo già dall’estate.

Le parole d’ordine saranno quindi: salvaguardia, restauro, manutenzione, competenza, volontariato, solidarietà, partecipazione, dialogo, etica.

Tra le attività ne risalta una di estrema importanza, ossia il coinvolgimento delle popolazioni locali e quindi dei cittadini, attraverso varie iniziative che porteranno a donazioni, cooperazioni e azioni di volontariato in un modo del tutto libero e consapevole. La cultura e la sua salvaguardia sono in rete, tutti possono partecipare.
L’associazione farà rete dunque attraverso la rete.

 

[Il testo è disponibile sul sito della Scuola di scrittura Omero]

[http://www.restauratorisenzafrontiere.com]

L’Emilia si prepara ad accogliere 400 nuovi immigrati

di Silvia De Santis

L’emergenza immigrazione non lambisce solo le coste di Lampedusa. Nei prossimi mesi in Emilia Romagna è previsto l’arrivo di 400 profughi.

È quanto prospettato dal piano di smistamento del ministero degli Interni, che in questi giorni ha chiesto aiuto alle Prefetture di tutta Italia per gestire i nuovi sbarchi. Il piano di riparto non è ancora stato definito, ma l’idea di fondo è quella di allestire strutture d’accoglienza temporanee.

Le strutture dello Sprar, il Sistema di protezione per chi chiede Asilo politico o chi l’ha già ottenuto, infatti, sono già al completo, nonostante nel 2014 sia stata aggiunta una struttura alle 3 già esistenti. “Il trend presso i nostri centri è di 30/40 nuovi utenti al mese presi in carico nei nostri centri – racconta Antonio Maura, coordinatore dei centri Sprar Emilia Romagna – e il progetto è al completo fin dal primo giorno di avvio. Rispetto al passato però c’è un dato significativo: per la prima volta i beneficiari di protezione internazionale già riconosciuti (ovvero che hanno già avviato le procedure per ottenere lo status di rifugiato politico) che si rivolgono ai nostri sportelli sono aumentati rispetto ai richiedenti puri”. Questo vuol dire che sono in corso, in Italia, fenomeni di migrazione interna: chi ha ricevuto la protezione internazionale in altre città e Prefetture “si è messo in movimento e ha raggiunto la nostra regione. Una tendenza che conferma il carattere di ospitalità proprio dell’Emilia Romagna nel panorama nazionale”.

Per far fronte alle nuove ondate di migranti, dunque, si farà ricorso, come già in occasione dell’emergenza nordafrica del 2011, ad alcune strutture temporanee “in cui i migranti resteranno per tutto il tempo necessario all’ottenimento di un riconoscimento” dicono dalla prefettura.

Nella sola giornata di oggi, a Palermo, gli arrivi sono stati 887. La metà di loro sarà trasferita nel nord Italia. La distribuzione dei migranti sul territorio nazionale avverrà in base al numero dei residenti regione per regione. Dall’inizio dell’anno gli sbarchi sono stati quasi 26mila, 13 volte in più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.

“Negli ultimi giorni – conferma Maura – le province si stanno trasformando in luoghi di frontiera. E’ li che avviene l’identificazione dei migranti, raccolti in mare e fatti salire subito in aereo verso il Nord”. Direzione aeroporto Marconi.

[© www.lastefani.it]

Leopardi: desiderio, immaginazione, illusione

Spesso la scuola rende un brutto servizio ai classici della letteratura e della cultura. Non è stata la mia sorte perché incontrai, ragazzo, un eccellente professore che fece da guida rigorosa alla comprensione dei grandi. Poi, per uno dei miracoli che nella vita accadono, quella relazione tra docente e alunno si trasformò in una bella amicizia che continua tuttora. Tornando al tema di questa nota, consideriamo Giacomo Leopardi. Rispetto all’immagine del poeta di Recanati che uno studente medio porta con sé dopo la scuola (uomo lamentoso, misantropo, pessimista nichilista), metterei in fila alcune caratteristiche del suo pensiero che sbriciolano molti luoghi comuni.
La sua opera si è manifestata in una ricca varietà di modi espressivi: poesia, prosa, pensieri, lettere. Leopardi è, insieme a Dante, il nostro più grande poeta, ma è anche un grande filosofo. Lo “Zibaldone” (più di quattromila pagine) è l’officina del suo pensiero problematizzante e interrogante. Ma vi è una costante che tiene insieme questo universo plurale di un pensiero poetante: una continua interrogazione sulla condizione umana. Espressione che gli piaceva e che ricorre spesso nei pensieri dello “Zibaldone” e che, probabilmente, è di origine francese rinascimentale (Montaigne) e illuminista.
Un’altra costante è il rapporto con il suo presente che smentisce l’idea di un ripiegamento vittimistico sui propri mali fisici! E qui inserirei la prima sorpresa contro i pregiudizi che circondano il cosiddetto moralismo leopardiano, che riguarda la sua concezione del rapporto tra morale e politica. “La morale è una scienza astratta se è separata dalla politica. La pratica della morale dipende dalla natura delle istituzioni sociali e dal governo della nazione: ella è una scienza morta, se la politica non cospira con lei e non la fa regnare nella nazione. Parlate di morale quanto volete a un popolo mal governato e non accadrà niente, perché la morale è una parola, la politica un fatto.” (“Zibaldone di pensieri”, Garzanti). Si può essere più chiari e precisi? Quindi la morale sta sopra, ma è astratta, è una scienza morta se è fuori dal legame con la politica che deve praticarne i principi mediante il ricorso ai suoi strumenti: progetto, azione, mediazione, compromesso.

Un altro tema leopardiano presente nella sua antropologia filosofica è la triangolazione del rapporto tra desiderio-immaginazione-illusione. Tre parole sepolte sotto strati secolari di pregiudizi e semplificazioni. In questa sede si può solo rilevare che è l’immaginazione a fare la differenza tra l’uomo e l’animale, poiché agendo sui desideri, li movimenta e inventa continuamente, impedendo che restino chiusi nei confini di una animalità ripetitiva. E anche le illusioni (che nel linguaggio di oggi chiamiamo ideali) traggono continuo alimento dall’immaginazione che promuove creatività, progettualità, capacità di pensare ciò che ancora non esiste. Ecco da dove scaturisce il tema dell’infinito leopardiano! Il desiderio umano è al fondo un desiderio senza oggetto definito, se non appunto quel senso di illimitatezza o immensità che è presente anche nei versi famosi di Ungaretti: “m’illumino di immenso…”. Questa immensità verso una immaginazione e una illusione incomprimibili spingono il pensiero; scuotono e mettono in crisi un’idea fissa e arida di razionalità. E i versi de “L’infinito” (“tra questa immensità s’annega il pensier mio…”) sono la cifra di questo rimescolamento del rapporto tra passioni e ragioni. “Le illusioni per quanto siano illanguidite e smascherate dalla ragione, tuttavia restano ancora nel mondo, e compongono la massima parte della nostra vita. E non basta conoscer tutto per perderle, ancorchè sapute vane. E perdute una volta, né si perdono in modo che non ne resti una radice vigorosissima, e continuando a vivere, tornano a rifiorire in dispetto di tutta l’esperienza, o certezza acquistata.” (“Zibaldone”). Riusciamo a comprendere ciò che ci sta dicendo il grande pessimista Leopardi? Che la ragione (e la filosofia) distruggono le illusioni, ma le illusioni (o gli ideali, le utopie…) non muoiono mai perché, finchè dura la vita, tornano sempre a rifiorire.

Fiorenzo Baratelli è direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara

Professionisti della disoccupazione, “lavorare non mi conviene”

“Sì probabilmente mi offriranno un contratto a tempo indeterminato, ma se mi danno mille euro al mese non mi conviene accettare. Con quello che ho lavorato quest’anno infatti posso vivere quasi un altro anno con la disoccupazione”. Così risponde Giovanni quando gli chiedo se pensa che gli rinnoveranno il contratto di lavoro in scadenza.
Sgrano gli occhi e gli chiedo di spiegarsi meglio.

Perdita involontaria dell’occupazione, due anni di iscrizione all’Inps e almeno 52 settimane lavorate nei due anni precedenti la richiesta. Questi sono i requisiti necessari per fare domanda dell’indennità di disoccupazione Aspi che dal 1 gennaio 2013 sostituisce il vecchio sussidio di disoccupazione ordinario.
Nulla viene detto sul fatto di aver già fruito di una precedente indennità di disoccupazione, anche negli stessi due anni a cui si fa riferimento per i requisiti.

E così è possibile che Giovanni Villa, della provincia di Ferrara, 37 anni, elettricista che ha precedentemente lavorato per una decina d’anni come dipendente, da dieci anni a questa parte viva di lavoretti a termine e indennità di disoccupazione: un anno di lavoro, anche a intervalli, e 8 mesi di indennità di disoccupazione.
Accettare un lavoro a tempo indeterminato per lui vorrebbe dire legarsi a un datore di lavoro e a uno stipendio senza più la possibilità, alla scadenza del contratto, di decidere se lavorare ancora e quindi accettare un altro contratto a termine, o godere dell’indennità dell’Inps per qualche mese.
Perché mentre la scadenza di un contratto di lavoro a termine rientra nella “perdita involontaria dell’occupazione”, e costituisce quindi un requisito per ottenere l’indennità, le dimissioni volontarie da un contratto a tempo indeterminato, nel caso Giovanni si stanchi del tipo di lavoro o non si trovi più bene sul posto di lavoro, non danno questa possibilità.
E’ vero, l’indennità di disoccupazione non è molto alta, non può superare 1192,98 euro al mese per il 2014, ma Giovanni vive con i suoi genitori, “vuoi mettere quasi ottocento euro al mese per non fare niente, contro mille per dover andare a lavorare tutte le mattine?!” mi dice. “E quando finiscono gli 8 mesi dell’indennità, se non trovo niente, c’è mio cugino in campagna che ha sempre bisogno di una mano e un contratto a termine per qualche mese me lo fa di sicuro”, aggiunge.

Anche Chiara Salvini, della provincia di Milano, 34 anni, ragioniere diplomata, vive così da sei anni: qualche lavoro interinale e qualche mese di indennità di disoccupazione. Chiara convive con Paolo, il suo ragazzo, che ha un lavoro a tempo indeterminato e una casa di proprietà, ma chiarisce che non si fa mantenere: dividono tutte le spese a metà.
A differenza di Giovanni lei ci ha provato a ottenere un contratto a tempo indeterminato, ma dopo i primi anni di mancati rinnovi nonostante gli apprezzamenti delle sue capacità da parte dei suoi superiori, si è rassegnata. Forse un contratto per lei ci sarebbe, ma vorrebbe dire una vita da pendolare, un viaggio di più di un’ora per raggiungere Milano, senza contare il traffico, mentre un contratto interinale si trova quasi sempre in qualche ditta vicino a casa. “Questo contratto mi scade a settembre”, mi dice, “con i risparmi tiro fino a Natale e poi farò partire la disoccupazione da gennaio, così fin dopo l’estate sono a posto e mi faccio le vacanze tranquilla”.

Come Chiara e Giovanni molti altri giovani si sono rassegnati a questa vita da precari, non avranno mai accesso a un mutuo, non potranno mai contare su una stabilità economica nel caso in cui decidano di costruirsi una famiglia, vivono con i genitori o con qualcuno che possa tamponare gli inevitabili “buchi” tra un contratto e l’altro, ma intanto gli anni passano, un contratto interinale dopo l’altro, un’indennità di disoccupazione dopo l’altra.

Poi c’è Marco Landi, 35 anni della provincia di Varese, che ha lavorato come informatico per 15 anni, dipendente di una ditta chiusa a causa della crisi. Durante i mesi dell’indennità di disoccupazione Marco si è dato davvero da fare per cercare un lavoro, a lui l’idea di essere disoccupato non piaceva per niente. Due mesi prima della scadenza del periodo di indennità ha deciso di aprire partita Iva per fare il venditore porta a porta. Si è presentato allo sportello dell’Inps per fare regolare comunicazione di questa sua intenzione, con la conseguente sospensione del sussidio, e si è sentito rispondere: “complimenti, lei è una delle poche persone oneste che fa questa comunicazione, sa, tutti se ne fregano e prendono lo stesso il sussidio per tutto il periodo”.

Sia chiaro, non si vuole qui discutere l’importanza dell’esistenza di un aiuto sociale fondamentale come l’indennità di disoccupazione.
Ma le attuali regole per la richiesta dell’Aspi equiparano un lavoratore, che ha lavorato come dipendente per decenni e si ritrova disoccupato suo malgrado, a chi nei due anni precedenti ha avuto due contratti a termine di sei mesi ciascuno e prima non ha mai lavorato, o ha tenuto un comportamento simile. La durata dell’indennità è la stessa per entrambi e anche l’entità del sussidio potrebbe essere simile, se le retribuzioni fossero paragonabili.
Tutti i Giovanni e Chiara di questo Paese si trovano quindi davanti alla scelta tra un lavoro cosiddetto “fisso”, almeno finché la ditta non chiude o non decide tagli, e una vita di lavoro precario alternati a lunghe “vacanze” a spese dell’Inps. Giovanni e Chiara non sono evasori o lavoratori in nero, rispettano in tutto le regole della legge Fornero, ma hanno trovato un modo di sopravvivere sfruttando un sistema che consente loro di farlo.

Viene da chiedersi come sia possibile che i contributi dei lavoratori a tempo indeterminato, con uno stipendio medio di poco più di mille euro al mese, possano coprire le indennità di disoccupazione ripetute di tutti i giovani che hanno fatto una scelta di vita e di lavoro di questo tipo.

(a.m.)

meis

Piero Stefani: “Due proposte per il Meis e la festa del libro ebraico”

da: Piero Stefani

Quando quattro anni fa diedi le dimissioni da direttore scientifico del Meis ero convinto di essermi messo nella condizione impotente che fu, per un evento di ben altra portata, dei socialisti italiani allorché nel 1915, in riferimento all’entrata in guerra del nostro Paese, lanciarono lo slogan «né aderire, né sabotare». A questa linea mi sono comunque attenuto, anche quando ho preso parte ad attività che coinvolgevano temi propri anche del Meis. Colgo l’occasione per ringraziare l’Accademia Corale Veneziani che da tre anni mi invita a collaborare al concerto della memoria.

Mi accorgo ora, grazie all’iniziativa dell’amico Baratelli, a cui va la mia riconoscenza, che il presidente Calimani avrebbe desiderato da parte mia una linea di condotta più interventista. Lo ringrazio e mi scuso con lui di non averlo capito nel corso degli scambi informali e privi di risentimenti personali che abbia avuto modo di avere in questi anni. Preso atto della sua disponibilità ne approfitto per lanciare due piccole proposte.

Come dimostrano tanti musei italiani, last but not least quello delle scienze di Trento, una percentuale ragguardevole dei visitatori è costituita da scolaresche. Il futuro museo Meis ha fin da ora un bisogno strutturale di farsi conoscere a livello nazionale nel mondo della scuola. Stante la non esaltante situazione scolastica attuale, la via più percorribile è quella dei concorsi. Perché il Meis non bandisce, in collaborazione con il Miur, un concorso nazionale su temi che gli sono propri? La cerimonia di premiazione potrebbe diventare un momento qualificante della Festa.

Ho da poco appreso che, in virtù di una notevole continuità istituzionale, la scrivania ufficiale del sindaco di Ferrara è la stessa che fu di Renzo Ravenna, il quale, come è noto, fu l’unico podestà ebreo d’Italia. Perché il Comune non delibera di dare, a tempo debito, la scrivania in dotazione al futuro museo? Collocata in un ambiente adatto e con distese sopra una copia del Corriere padano e di un quotidiano nazionale che annunciano le leggi antiebraiche del 1938 costituirebbe una efficace maniera museale per introdurre il discorso sugli ambivalenti rapporti tra ebrei italiani e fascismo.

Piero Stefani

‘Education for All’: un obiettivo mancato

Ormai abbiamo familiarizzato anche con gli spot televisivi di Save the Children, di ActionAid o di altre organizzazioni non governative che ci invitano, non tanto ad assumerci la nostra responsabilità nel combattere contro le iniquità del mondo, quanto a diventare clienti della solidarietà con versamenti bancari o donazioni al prezzo di un messaggino dal cellulare. È la logica del benestante, per cui è più facile fare la carità o del volontariato che mettere in discussione il sistema del proprio benessere e dei propri privilegi.
E allora affacciarsi alla finestra del mondo aiuta a comprendere cosa continua a non andare in questa campagna di buonismo in pantofole.
Iniziamo con dare dei numeri nel campo dell’istruzione, per restare in argomento con la nostra rubrica. Dieci paesi: India, Cina, Pakistan, Bangladesh, Nigeria, Etiopia, Egitto, Brasile, Indonesia e Repubblica Democratica del Congo detengono i tre quarti dei 770 milioni di adulti analfabeti nel mondo. 175 milioni di giovani non possiedono le competenze base nell’alfabetizzazione e in aritmetica, 250 milioni di bambini non stanno imparando né a leggere né a fare di conto, anche se la metà di loro ha frequentato la scuola per almeno quattro anni.
Questa “crisi dell’apprendimento globale” costa miliardi di dollari all’anno in finanziamenti all’istruzione sprecati, tra i quali i nostri contributi di solidarietà.
A livello mondiale, quasi i due terzi degli adulti analfabeti sono donne, una cifra che è rimasta pressoché invariata dal 1990. Se le tendenze attuali si mantengono, le ragazze più povere nei paesi in via di sviluppo si prevede che non raggiungeranno un livello di alfabetizzazione fino al 2072. Mentre i ragazzi più ricchi dell’Africa subsahariana porteranno a completamento l’istruzione primaria solo nel 2021, le ragazze più povere dovranno aspettare fino al 2086.
Sono i dati del Rapporto “Education for All”, Istruzione per Tutti, che l’Unesco ha pubblicato nel gennaio di quest’anno. Eppure al Forum mondiale dell’istruzione, tenuto a Dakar, in Senegal, nel 2000, si era convenuto di realizzare l’apprendimento per tutti i bambini, i giovani e gli adulti entro il 2015. Secondo il rapporto dell’Unesco questo obiettivo non sarà raggiunto.
È inutile negare che la ragione di un simile fallimento sta nell’assenza di politiche volte alla ridistribuzione della ricchezza sul pianeta, che rendano permanente il diritto dei bambini e delle bambine dei paesi più poveri di studiare nelle stesse condizioni dei loro coetanei che vivono nel benessere.
Ma non è questa la strategia considerata “win win”, vantaggiosa dalla Banca Mondiale che sostiene “Education for All”. Per la World Bank il metro di misura delle persone e dei popoli è solo l’economia. Il capitale è finanziario o umano. Entrambi devono servire il mercato. Neppure il superamento del grande divario economico tra le nazioni ricche e le nazioni povere può sfuggire a questa logica. Tutto ciò è descritto in modo convincente nel documento pubblicato dalla banca a sostegno dell’istruzione per tutti: “Raggiungere l’istruzione primaria universale entro il 2015: una opportunità per ogni bambino”.
Si sostiene che solo sane politiche macroeconomiche, combinate con l’istruzione, producono economie competitive a livello mondiale. L’istruzione è la chiave per la creazione, l’applicazione e la diffusione di nuove idee e tecnologie, che a loro volta sono fondamentali per sostenere la crescita; essa aumenta le capacità cognitive e le altre abilità necessarie ad incrementare la produttività del lavoro.
Ma questa concezione mercantile del sapere, come dimostra il rapporto dell’Unesco, non riesce ad implementare l’istruzione, perché i paesi ricchi continuano ad essere Achille e quelli poveri la tartaruga, per cui ogni cambiamento di stato permane un’illusione come quella di Zenone.
La Banca Mondiale è pienamente consapevole che l’unica strategia “win-win” per se stessa è soprattutto quella di operare in tutti i modi per evitare di affrontare la questione di fondo che è, e resta, la ridistribuzione di risorse e di beni a livello mondiale.
I dati pubblicati dall’Unesco dimostrano indiscutibilmente che maggiori “opportunità educative” in questo contesto non sono affatto oggi la “strategy win win” per i poveri della Terra. Così potremmo dire della solidarietà che, come i numeri segnalano, non rappresenta l’intervento vincente, anzi, rischia di prestarsi ad un uso strumentale, per sviare l’attenzione e la consapevolezza delle persone dalle questioni più vere. Con questo non voglio mettere in discussione il carattere indispensabile del nostro aiuto. Ciò che critico è la solidarietà da poltrona, la solidarietà digitale del telefonino o del bybank.
Non si può negare che “Education for All” rappresenta il più importante sforzo mondiale per ridurre le diseguaglianze nell’istruzione tra le nazioni. Ma il rapporto dell’Unesco e il mancato raggiungimento degli obiettivi programmati per il 2015, ripropongono con forza il tema centrale della povertà e della sua sconfitta, senza la quale non sarà mai possibile ridurre le iniquità sociali e culturali, consentire alle persone di massimizzare le loro capacità per raggiungere un’esistenza lunga e felice.
Inoltre una delle principali fonti di disuguaglianza sociale tra le nazioni è il massiccio consumo di risorse naturali da parte delle nazioni ricche e l’inquinamento delle nazioni più povere. Nei paesi in via di sviluppo, quindi, l’istruzione per tutti e l’educazione ambientale non possono che essere strettamente connesse, perché sono gli strumenti indispensabili a combattere la miseria, difendendo la salute propria e del proprio ambiente. Ma neppure questo avviene.
Mentre tutti i documenti internazionali a parole pongono in rilievo l’importanza dello sviluppo sostenibile, nessuno dei programmi di “Education for All” prevede o menziona alcuna forma di educazione ambientale e neppure sfiora lontanamente la questione dell’uso diseguale tra le nazioni delle risorse naturali.
Per il premio Nobel Amartya Sen compito dell’istruzione è quello di fornire alle persone le capacità, le possibilità fondamentali e individuali di riflettere, di compiere scelte critiche, di avere voce nella società e di godere di una vita sempre migliore.
Allora dobbiamo concludere che il fallimento di “Education for All”, declinato dall’asetticità dei numeri del rapporto dell’Unesco, è destinato a ripetersi fino a quando le persone non saranno il vero cuore dei suoi programmi. Fino a quando ogni bambino e ogni bambina, ragazza e ragazzo, ogni adulto e il loro ambiente di vita saranno annullati, nell’interesse dei paesi più ricchi, nella massa indistinta del capitale umano, che la World Bank pensa di formare al servizio della crescita economica e del suo paradigma industria-consumo. È così che anche la nostra solidarietà finisce per andare al mercato.

Calimani: “La porta del Meis è aperta alle collaborazioni”. Baratelli: “Non tocca a Stefani bussare…”

All’intervento di Fiorenzo Baratelli, ospitato sabato 3 maggio da ferraraitalia [leggi], relativo all’esclusione del biblista e apprezzato studioso di ebraismo Piero Stefani, ha fatto seguito la risposta di Riccardo Calimani, presidente della Fondazione Meis, che pubblichiamo di seguito. Più sotto, la replica di Baratelli.

Gentile Fiorenzo Baratelli,
la sua lettera mi permette di ribadire pubblicamente quanto dissi a Stefani: la porta è sempre aperta alla collaborazione.
Quanto al resto delle sue insinuazioni, sono del tutto frutto di malevolenza gratuita. Ai seguaci che hanno commentato la sua lettera dico che ho colto uno spirito di gruppo acritico, di parte e fazioso.
Cordialità
Riccardo Calimani

—-
La replica di Baratelli:

Francamente non sono sorpreso per il tono risentito del Presidente del Meis, ma per la conferma della sua ottusa insensibilità nel non prendere atto che quattro anni fa si è consumata una rottura che ha provocato una ferita che resta aperta. Nella risposta del Presidente è presente un dosaggio tra ipocrisia e denigrazione. L’ipocrisia riguarda la spiegazione (si fa per dire…) circa l’assenza di Piero Stefani da ogni tipo di attività che riguarda il Meis.
Scrive Calimani: “La porta è sempre aperta alla collaborazione…”. Come se spettasse a Stefani bussare alla sua porta per chiedere di essere utilizzato. Per esempio, nel preparare il programma della Festa del Libro Ebraico ha aspettato, forse, che Gad Lerner o Enrico Mentana gli chiedessero di essere presenti?
Per una volta, presidente Calimani, rinunci all’orgoglio personale (legittimo, ma improprio nell’esercizio di un ruolo delicato quale è il suo…) e inserisca Piero Stefani nella programmazione futura delle attività del Meis. In ogni caso, questo è ciò che mi sono permesso di chiedere anche agli altri importanti interlocutori che concorrono a qualificare l’attività pubblica del Museo.
La denigrazione riguarda, invece, la parte in cui liquida con tono sprezzante gli interventi che si sono succeduti a sostegno della lettera aperta. Con amarezza devo constatare che lei non ha ancora preso conoscenza delle personalità eccellenti di questa città verso cui si permette definizioni offensive.
Forse il sindaco Tiziano Tagliani (che conosce molto meglio di lei la nostra città…) potrà spiegarle chi sono e cosa rappresentano le persone che lei ha liquidato come seguaci faziosi e di parte…
In conclusione, al di là delle asprezze, mi auguro che questo scambio possa rappresentare l’avvio di una ricucitura tra il Meis e il contributo che ad esso può recare uno dei figli migliori di questa città. Questo, in ultima analisi, è stato lo scopo della mia iniziativa e di chi l’ha sostenuta.
Cordialmente,
Fiorenzo Baratelli

La Spal, specchio di Ferrara

A Ferrara si va “alla Spal”, così come si va in stazione o in piazza. “Alla Spal”, non “allo stadio”. La Spal come luogo fisico, dunque; punto di incontro, spazio della città ben riconoscibile fra gli altri spazi pubblici. La Spal come entità imprescindibile, patrimonio di tutti, pure di chi non si occupa di sport.
L’eredità di Paolo Mazza è anche questa. L’eredità di una squadra nella quale la città si specchia e si culla. Per lunghi anni la Spal è stata più di Ferrara. Negli anni della serie A, quando i biancoazzurri duellavano da pari a pari con Inter, Milan e Juventus, quando aleggiava la favola dell’armata corsara biancoazzurra, in Italia e persino all’estero Ferrara – più che il castello, il duomo e i musei – era la Spal, la creatura di Mazza divenuta simbolo e orgoglio cittadino.
Ferrara negli anni Cinquanta e Sessanta non era ancora città d’arte e Abbado non era ancora Ferrara. Ma c’era la Spal. Nel cuore della Ferrara ferita dalla guerra s’è radicato, così, un grande amore. La grandezza della Spal riscattava la povertà degli anni della ricostruzione, mitigava la durezza del vivere quotidiano e rendeva i tanti emigrati – a Sesto San Giovanni, a Torino o altrove – orgogliosi di essere ferraresi.

Appartenenza e identità. Per questo Ferrara ha sedimentato e conservato nei confronti della propria squadra un sentimento di gratitudine che gli anni, i fallimenti e le delusioni non hanno scalfito. Perché questa è una città che non dimentica. Una città dove la scarsità delle risorse ha reso più preziose le rare ricchezze, patrimoni da amministrare con saggezza. Ciò che è stato fonte di gioia, ciò che ha dato lustro non si scorda, resiste nella corrente dei sentimenti. La Spal è stata miniera di pietre preziose. E così ha continuato a essere percepita anche quando lo splendore si è offuscato.

Questo spiega l’amore di Ferrara per la Spal. E spiega i cinquemila di ieri allo stadio e i duemila che hanno continuato a seguire e incitare la squadra anche il serie D, il gradino più basso della storia calcistica, toccato appena un anno fa. Il tifoso sa essere paziente e fiducioso, certo che passione e dedizione possano propiziare il riscatto.

La scintilla innescata dal commendator Mazza è lontanissima nel tempo. Ma viva resta la memoria della Spal dei Massei, dei Bozzao, dei Corelli, dei Picchi: quella che ha fatto innamorare la città. La prima provinciale di lusso che fece tremare gli squadroni.
Le delusioni di questi anni, al di là delle tribolazioni, un effetto positivo forse lo hanno avuto: quello di cancellare la spocchia con cui gran parte del pubblico ha spesso, in passato, affrontato sfide con squadre ritenute per blasone inferiori, considerando un’onta per la Spal doversi misurare con esse. E non penso solo alla Centese (un derby che faceva arrossire di vergogna gli spallini) o a squadre un tempo calcisticamente sconosciute come Lanciano, Castel di Sangro, Alzano, Cittadella, tutte poi felicemente approdate alla serie B. Con analoga supponenza e fastidio ci si misurava anche con sodalizi di città prestigiose: con il Siena, persino con il Parma nei primi anni Ottanta. Risultato: Siena e Parma hanno conosciuto gli onori della Seria A (certo: Monte Paschi e Tanzi non sono estranei alle loro fortune!), ma ai ferraresi, nobili decaduti del pianeta calcio, dava l’orticaria incontrarle. E la Spal è scivolata sempre più in basso, a causa certamente di sciagurate gestioni societarie, ma forse anche per questo atteggiamento spocchioso che ha zavorrato la squadra ben prima delle disavventure dirigenziali, già negli anni Ottanta e Novanta.

La promozione conquistata ieri sul campo è stata sospirata per ben 16 anni. Questa lunga astinenza sembra aver fatto maturare uno spirito nuovo, con il quale affrontare con umiltà e determinazione le prossime sfide. Siamo la Spal, certo. Ma i titoli contano zero. Nel calcio come nella vita i traguardi si centrano con sacrificio e abnegazione.

Primo maggio: se anche il consumo è flessibile

L’apertura di alcuni negozi il Primo maggio ha sollevato una quantità di discussioni che hanno posto al centro, spesso, la difficoltà del personale – per lo più giovani donne – di conciliare lavoro e famiglia. Nessuno, ovviamente, ha trovato disdicevole che il Primo maggio circolassero treni e autobus, ci fossero ristoranti aperti, si trovassero farmacie aperte, medici di guardia e personale efficiente negli ospedali (anche lì in grande parte si tratta di giovanissime donne).
Ma il consumo continua ad essere vissuto come questione che attiene al mercato, non alla vita, come luogo dello sfruttamento perpetuato ai danni di vittime inconsapevoli (tutti noi) dalle infernali tecniche del marketing. Dovrebbe essere ormai chiaro che il consumo non è solo un volano della crescita, ma è parte della vita quotidiana, espressione di identità, veicolo di relazioni e, da sempre, una componente del processo di inclusione sociale.
Siamo, da tempo, oltre la società di massa, in cui tutti facevamo le stesse cose allo stesso momento. Le nostre vite sono diventate flessibili, i nostri tempi di lavoro e di svago sono sempre meno standardizzati, i ritmi delle nostre giornate sono diversi per ognuno e assecondano esigenze sempre più individuali. Non da ultimo, in una società multietnica è davvero impossibile decidere per tutti quali giorni obbligano al riposo e quali Feste devono essere santificate.
Gli orari della distribuzione assecondano progressivamente questa diversificazione dei ritmi della vita. In sostanza, il consumo diventa un servizio, come lo sono gli autobus, i treni, i taxi, i presidi sanitari, le farmacie e così via. Quindi, non possiamo contrastare tendenze inesorabili e, peraltro, legittime. Non abbiamo il diritto di definire in astratto quali consumi siano importanti e quali non lo siano.
I discorsi sulla difesa degli spazi di vita delle persone che lavorano nella distribuzione, posti in una logica vincolistica, sono inesorabilmente destinati al fallimento. Sarebbe piuttosto utile cercare soluzioni organizzative, ad esempio, praticando turni di apertura dei punti vendita. Una pianificazione sull’arco annuo, all’interno di un’area urbana, penalizzerebbe meno il personale: i consumatori sarebbero garantiti e i dipendenti avrebbero minore disagio. Ma questo comporta capacità di collaborazione da parte dei privati e capacità di coordinamento da parte degli attori istituzionali e sociali. L’organizzazione della società cambia più lentamente delle tecnologie, l’intelligenza sociale è più lenta e non vede soluzioni che invece potrebbero essere praticabili.
Ma anche le ipotesi accennate potranno apparire anacronistiche a breve. La tecnologia consente già ora meccanismi distributivi flessibili: l’e-commerce è in rapidissimo sviluppo. Faremo la spesa con il nostro smartphone, quindi la questione della distribuzione si porrà in modi diversi. Anche in questo caso, ci sarà qualcuno che ci consegnerà a casa la spesa che abbiamo ordinato, magari a Natale o a Ferragosto. Nel complesso si verificherà una forte riduzione dell’occupazione.
In ogni caso non si può tornare alla società del passato. Il punto è, piuttosto, un altro e riguarda il senso che ognuno dà al proprio lavoro. Mio padre era capostazione e quando capitava che lavorasse a Natale, il Primo maggio, a Ferragosto o in altre festività, si sentiva un eroe nazionale, perché sapeva di svolgere un servizio indispensabile!

Maura Franchi (Sociologa, Università di Parma) è laureata in Sociologia e in Scienze dell’educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Marketing del prodotto tipico, Social Media Marketing e Web Storytelling. I principali temi di ricerca riguardano i mutamenti socio-culturali correlati alle reti sociali, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@gmail.com

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L’istruzione come investimento: dibattito con il sindaco su scuola, società e politiche educative

Si ragionerà di educazione e di istruzione, di apprendimento e formazione permanente, di scuola e di società basata sulla conoscenza nella prospettiva della ‘learning city’. Tutto questo venerdì 9 maggio alle 17,30 nella sala dell’Arengo, in municipio nel dibattito promosso da ferraraitalia. A confrontarsi saranno il sindaco Tiziano Tagliani e il professor Giovanni Fioravanti, opinionista del nostro quotidiano online – già artefici di un ‘botta e risposta’ proprio sul nostro giornale. [leggi qui l’intervento di Fioravanti, leggi qui la replica del sindaco] che avranno così l’opportunità di approfondire in pubblico il dialogo.
I temi in discussione sono tanti e stimolanti e anche i presenti potranno contribuire con i loro interventi. Il dibattito verterà su strategie e politiche educative e sui servizi scolastici, ma anche sull’istruzione come fondamentale investimento per l’intera collettività.

ospedale-cona

Il ‘Castello’ dell’ospedale di Cona ovvero le avventure dell’utente V.

Mi avvio a portare i referti al nuovo ospedale Sant’Anna di Cona, una strana sensazione m’invade mentre dalla superstrada si staglia l’ormai nota sagoma dell’immensa costruzione. La memoria involontaria immediatamente mi fa scattare il ricordo di letture lontane e fondamentali. Penso tra me e me che devo rileggere le pagine iniziali del Castello, il grande romanzo di Franz Kafka. E così faccio: “Nel complesso, il Castello, come appariva da lontano, corrispondeva all’aspettazione di K. Non era un vecchio maniero feudale né un palazzo nuovo e sontuoso, ma una vasta costruzione, composta da pochi edifici a due piani [….] Chi non avesse saputo che era un Castello, l’avrebbe scambiato per una piccola città”.
La vicenda dell’agrimensore K. a questo punto si confonde con quella dell’utente V. Speravo in cuor mio di non fare la fine del povero K. che teme di essere risucchiato dagli incomprensibili ordini che gli vengono imposti dl misterioso padrone del Castello fino a farlo sentire responsabile di colpe non commesse e di cui ignora il senso. Ma ero ben munito. Una chiarissima mappa consegnatami con solennità dalla clinica privata da cui provenivo con spiegazione di cosa dovevo fare e le tappe da seguire mi rende relativamente tranquillo. Così -secondo indicazione- all’ingresso 2 entro nella sala dove si pagano i ticket e per prima cosa sbaglio il biglietto per la fila: non la C dedicata alle visite private, ma l’A era quella da prendersi.

Mi accorgo che ho 45 ‘utenti’ davanti a me. Solo due sportelli su sei svolgono quel servizio. E attendo sempre più immedesimandomi nell’agrimensore K con rovellìo di pensieri: “Ho portato tutto? Pago in contanti o col bancomat ?” mentre bruscamente mi risveglio sentendo un diffuso lamento che secondo la più straordinaria invenzione dantesca dei dannati che vengono battuti da Caron dimonio dagli occhi di bragia si diffonde per la sala. “La macchina del bancomat si è inceppata! Bisogna attendere il tennico” E la signora a me vicina balbetta “E ora come faccio a dirlo a mia figlia?”. Mi sento invaso da un eroico senso del dovere: trovo la figlia, la informo, consolo la signora che con gesto meccanico e tenerissimo per nascondere l’agitazione si aggiusta il fazzoletto di seta artificiale sul capo. Mi offro di andare a prendere una carrozzella, ma lei schermendosi vuole solo che le porga il braccio per alzarsi. Che dignità! E mi risiedo invaso da cupi pensieri.
S’avvicina una guardia giurata e a voce alta confida a una infermiera presente come gli avessero sbagliato tutto; che era entrato nelle stanze secrete e minacciato di denunciare gli ufficiali del Castello. Ahimè! Non so trattenermi e a una gentilissima addetta domando quanto tempo presume visto che entro le 13 dovevo andare lassù nell’inviolabile regno dell’anatomo-patologia dove si spegne ogni furore umano e di lotta. Un “Mah” sussurrato mi riabbatte al mio posto.

Infine a un’ora e 25 minuti dal mio ingresso mi siedo davanti allo sportello 6. Una signora ancor disponibilissima sebbene recasse i segni della precedente utente a cui aveva dovuto risolvere intricati problemi di appuntamenti mi accoglie con un pallido sorriso e a lei, trepidando, porgo ‘l’impegnativa’. Si srotola da quel momento un’allucinante sequenza di interrogativi fra me, la signora e il computer che ci gettano nella disperazione. Quale codice bisogna inserire? Rientro nella categoria degli aventi diritto all’esenzione oppure no? La macchina, carogna, non dà risposte. Telefonata convulsa alla clinica privata con esito negativo e dopo esserci guardati negli occhi la signora si ribella e decide di mettere sulla mia pratica (come poi si rivelerà giusto) esentato. Sono passati 22 minuti 18 secondi.
La fila si è notevolmente ingrossata facendomi provare un senso di colpa immotivata come al protagonista del Castello; occhi rancorosi mi guardano di sottecchi mentre la povera signora mi mostra una triste mela mangiucchiata a metà e mi rivela in confidenza che ancora deve recarsi al bagno; ma le leggi del Castello non permettono questi diversivi. Stressato ma orgoglioso d’aver vinto il potere ottuso della macchina infine, come spiega la mappa, prendo l’ascensore di sinistra allo snodo (1 o 2? Boh!). E’ solo quello che porta direttamente al sancta sanctorum della patologia ovvero al terzo piano. Passi vellutati, sussurri e non grida, officianti assorti nel loro compito.

Consegno a una deliziosa signora (ma i maschi dove sono finiti?) le boccette e alla sua domanda “Viene lei a ritirarli?” Rispondo con un atterrito no! E doverosamente riferisco a quale reparto a quali medici vada mandata la risposta: naturalmente sbagliando tutto. Dopo quattro telefonate ci si accorda, mostrando pazienza quasi superiore a quella provocata dalla più comune e invasiva domanda del Castello di Cona: “Dov’è l’uscita? Rientro nell’ansimante caos del reparto.
Esce lei l’amatissima primario che mi sostiene e m’incoraggia da anni. Ci baciamo come accade da anni tra sguardi cupi e labbra strette degli altri “utenti”, m’infilo nella stanza sgabuzzino della giovane medico che deve segnare sulla mia cartella gli ultimi dati. E’ ancora allegra nonostante la massa di lavoro svolto da parecchie ore (sono le 13 meno otto minuti. Il mio ingresso è stato alle 9 e 25) le consiglio il film ‘Grand Budapest Hotel’ per risollevarsi. E mentre un affettuosissimo giovane portantino con un’immensa cresta in testa, degna del copricapo dei soldati greci, coccola una signora sofferente stesa sul lettino, m’avvio, sollevato a mia volta, verso la macchina.
Ma è la fila 6 o la fila 9 dove l’ho lasciata? Non importa: prima o poi ci arriverò.

Il virtuoso Ferraresi, emulo di Paganini e interprete dei suoi Capricci

“MUSICI” FERRARESI DEL PRIMO NOVECENTO
ALDO FERRARESI E MAFALDA FAVERO

Aldo Ferraresi – Nato a Ferrara, Aldo Ferraresi (1902-1978) imparò i primi rudimenti del violino all’età di appena sei anni, nel 1914 entrò al Conservatorio di Parma e conseguì quindicenne il diploma al “Santa Cecilia” di Roma.
È stato a lungo il solo esecutore in grado di cimentarsi con il IV concerto di Paganini, dei cui Capricci divenne più tardi uno fra i maggiori interpreti in assoluto.
La sua straordinaria carriera lo ha portato sui più prestigiosi palcoscenici d’Italia e di Europa, strappando entusiastiche recensioni sulle pagine di importanti testate giornalistiche quali: “Il Tempo”, “La Liberté”, “Times”, “Listener” e altre ancora.
Definito da qualche critico «uno dei più grandi violinisti viventi», Ferraresi ebbe come primissimo maestro il padre sottufficiale dell’esercito ed è, con ogni probabilità, nella propria famiglia ferrarese che scaturì in lui la scintilla del suo innato talento.

Mafalda Favero – Nata a Portomaggiore (FE), Mafalda Favero (1903-1981) ha compiuto gli studi musicali a Bologna e ha debuttato come cantante lirica con Turandot nel 1927 a Parma, quello stesso anno si è presentata alla Scala nei Maestri Cantori sotto la direzione di Arturo Toscanini.
Soprano lirico dotato di straordinario timbro vocale e di grande presenza scenica, si è in specie distinta come appassionata interprete di opere quali Madama Butterfly, Bohème, Manon, ma è stata unanimemente apprezzata anche come soprano leggero (Elisir d’amore, Don Pasquale, Don Giovanni) e lirico-spinto (Adriana Lecouvrer, Zazà).
Ha partecipato a molte prime esecuzioni di Mascagni, Zandonai, Wolf-Ferrari e Milhaud. Ritiratasi (ancora giovane) all’apice della carriera, Mafalda Favero ha calcato le scene dei più prestigiosi palcoscenici d’Italia, d’Europa e del mondo.
Oltre ai succitati capolavori operistici, altri suoi indiscussi cavalli di battaglia furono: Lohengrin, Cavalleria rusticana, Cantori di Norimberga.

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Lettera aperta a Riccardo Calimani, presidente della Fondazione Meis

Gentile Presidente, ho atteso la conclusione della V edizione della Festa del libro ebraico per sottoporle una domanda che non penso sia solo mia: perché continua ad escludere Piero Stefani da ogni tipo di coinvolgimento che riguarda l’attività pubblica del Meis, fra le quali lo svolgimento dell’importante evento che si sta tenendo con successo da cinque anni?

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Piero Stefani

Non ho bisogno di ricordare a Lei, né tanto meno alla città chi è Piero Stefani: uno dei più autorevoli e stimati studiosi e conoscitori della cultura ebraica sul piano nazionale e internazionale. Chi lo desidera può constatare attraverso il sito di Piero Stefani come le sue settimane siano piene di impegni in giro per l’Italia chiamato da associazioni, circoli culturali, enti pubblici, ecc. Ma Ferrara, sede del Meis, ha deciso di ignorarlo. E’ una vergogna di cui chiamo Lei, come Presidente del Meis, a rendere conto alla città.
Non so immaginare un motivo plausibile per una tale discriminazione, se non riandando all’evento delle dimissioni di Piero Stefani da direttore del Meis nel maggio del 2010 per incompatibilità con il suo stile di direzione. Ricordo un passaggio della lettera di dimissioni di Stefani, là dove faceva riferimento “ad una gestione padronale e impaziente del suo Presidente”. Ecco, questo è il punto: Lei continua a considerarsi ‘padrone’ del Meis, continuando ad usare il suo ruolo prestigioso per consumare una meschina ritorsione nei confronti di una persona apprezzata e stimata, non solo a Ferrara, per le sue eccellenti qualità culturali e per la sua dirittura morale.
Non sarei sincero fino in fondo se non accennassi ad una sorta di complicità e omertà di cui Lei può godere nell’uso ‘personale’ che fa del suo ruolo da parte di chi è componente del comitato che decide programmi e attività del Meis. Inoltre, anche la stampa e l’informazione potrebbero essere più attivi nel segnalare evidenti assenze e censure quando queste riguardano le persone migliori della città e che godono di alta reputazione ben oltre le sue mura.
Per chi mi conosce e, soprattutto, per chi conosce Piero Stefani non c’è bisogno di precisare che egli non è a conoscenza di questa iniziativa di cui mi assumo totalmente la responsabilità personale.
Se Lei, presidente Calimani, riterrà di rispondere, sappia che è una risposta che è dovuta alla città e non a me personalmente. Ma, soprattutto, mi auguro che Lei e chi collabora con Lei nella costruzione dei programmi del Meis tenga conto di quanto Le scrivo per il futuro.

La ringrazio per l’attenzione,
Fiorenzo Baratelli

Rododendri o azalee

La fioritura spettacolare delle Azalee nel giardino della mia amica MariaSilvia merita una serie di considerazioni su questa pianta. Innanzitutto cosa sono le azalee? Il genere Azalea fu battezzato ufficialmente da Linneo nel 1753, separandolo dal genere Rododendro. I due generi furono poi di nuovo mescolati creando non poche difficoltà e molta confusione nel campo orticolo. La differenza fondamentale fra i due generi, con alcune eccezioni, consiste nel fatto che le Azalee perdono le foglie durante l’inverno, i Rododendri invece, sono sempreverdi. Un’altra differenza riguarda il numero degli stami (gli organi maschili del fiore): 5 per le Azalee, 10 per i Rododendri. Le varietà coltivate nei giardini sono spesso ibridi moderni, creati da piante che originariamente vivevano spontaneamente in Cina e Giappone, nei casi peggiori, cioè nei bancali dei grandi magazzini o delle fiere, si trovano delle varietà selezionate per fare occhio (grandi fiori doppi) e durare poco. Anche in Italia abbiamo dei Rododendri selvatici, chi va a passeggio sulle Alpi avrà sicuramente ammirato e amato i fiori del Rhododendron ferrugineum e del R. hirsutum. Il fatto che crescano spontanei solo ad una certa altezza, dovrebbe far riflettere i giardinieri di pianura, ma la cosa che dovrebbe accendere dei lampadari interi è la famiglia a cui appartengono queste piante: la famiglia delle Ericaceae. Cosa significa? L’erica è la pianta che contraddistingue i terreni acidi e torbosi, quindi, tutte quelle che accennano alle eriche hanno la stessa necessità. Di conseguenza, i giardinieri che volessero coltivarle in piena terra, devono avere a disposizione un terreno naturalmente acido. Con il terreno adatto e un clima temperato, le azalee e rododendri sono piante da effetti speciali. L’abbondanza della fioritura e l’intensità dei colori è qualcosa di veramente spettacolare. In Italia le più belle collezioni e gli esemplari più antichi, si trovano nei giardini del Lago di Como e del Lago Maggiore. Nel mese di maggio le macchie fiorite si possono ammirare da una sponda all’altra del lago, le coste sembrano un’immensa opera astratta lineare, quindi si può solo immaginare la sensazione di averle a pochi metri: è come stare dentro a un gigantesco secchio di colore puro.
A questo punto la domanda legittima è: come fa MariaSilvia ad avere delle azalee così belle da anni, anche se abita in una pianura assolata dal terreno calcareo? Non sono piante difficili, ma come le definisce Ippolito Pizzetti (“Enciclopedia dei Fiori e del Giardino” Garzanti, pag. 709): “ I Rododendri non sono piante del pressappoco: o prosperano magnificamente, là dove le regole vengono rispettate, o non vivono affatto.” Le regole sono sempre le stesse: terreno, ambiente, umidità. Il terreno deve essere privo di calcare, quindi bisogna coltivarle in vaso, meglio, in vasi isolati dalla terra come quelli appoggiati su una pavimentazione. In vaso è possibile mantenere un livello di acidità accettabile, rinvasando ogni anno con terricci preparati per piante acidofile e conservandolo con prodotti che si possono diluire nell’acqua. Anche l’acqua delle innaffiature non dovrebbe contenere calcare, quindi, acqua piovana o acqua lasciata riposare. Il terreno deve essere aiutato periodicamente con sostanza organica, in mancanza di letame o stallatico, si può usare il fogliame sano decomposto. Non amano avere le radici a mollo, sono piante che crescono in pendenza dove l’acqua scorre, quindi assicurare ai vasi un buon drenaggio, ma nello stesso tempo mantenerle in un ambiente umido, e l’umidità atmosferica in pianura non manca. L’esposizione ideale è quella a mezza ombra, quindi sole al mattino e ombra da mezzogiorno in poi. Una buona potatura dopo la fioritura le mantiene ad una dimensione proporzionata con la quantità di terra del contenitore.
I Rododendri delle Alpi sono legati ad una leggenda che racconta di una mamma-Regina che per aiutare il figlio a coronare un sogno d’amore, camminò fino a farsi sanguinare i piedi e da questo gesto nacquero questi fiori così splendidi. Non so se questa leggenda abbia determinato l’usanza commerciale di regalare azalee per la Festa della Mamma, a me piace l’idea che questi fiori crescano così bene nel giardino di una vera Mamma.

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‘Italiani brutta gente’, noir di provincia fra le ombre della Ferrara bene

Comincia da Ferrara la serie di presentazioni del nuovo romanzo di Lorenzo Mazzoni Italiani brutta gente che ha per protagonista Pietro Malatesta, lo sbirro anarchico.
Domenica 4 maggio, alle 18,20, nei locali del centro sociale La Resistenza (via della Resistenza 32-34), Lorenzo Mazzoni con Andrea Amaducci e Licia Vignotto parlerà dell’indagine, ancora una volta ambientata a Ferrara.
Mazzoni, la sua città a dare l’imprimatur al nuovo Maltesta… un caso?
“Una scelta voluta, Malatesta si muove da sempre in questo contesto urbano di cui, tra l’altro, parlerò anche il 6 maggio con gli studenti del dipartimento di studi umanistici. Il noir di una città di provincia si presta bene a riflettere sul territorio e sulle sue dinamiche, con gli studenti affronterò alcuni problemi della città come la morte del centro storico, il cinestar, il grattacielo e altre strutture architettoniche cittadine”.
Ma veniamo a Italiani brutta gente, qualche anticipazione sulla trama?
“E’ un romanzo corale in cui Malatesta è alle prese con il rapimento di una nota esponente politica, a sequestrarla tre sbandati disoccupati, di cui uno invaghito della donna. Altri tre uomini della Ferrara ‘bene’ cercheranno di ritrovarla”.
Sembra chiaro il messaggio di chi sia la brutta gente…
“Esatto, è proprio questo il messaggio che ho voluto mandare. Troppo facilmente schieriamo i buoni e i cattivi e, tra questi, mettiamo gli stranieri identificandoli con il male. Dobbiamo ribaltare questo senso comune perchè non è vero”.
Malatesta è, sin dall’inizio, legato al caso Aldrovandi di cui, proprio in questi giorni, l’Italia sta parlando. Che direbbe Malatesta di quell’applauso all’assemblea del Sap a Rimini?
“Mi vergogno di fare questo mestiere, direbbe. È una cosa ripugnante, disgustosa, aggiungo io. Certi sgherri delle dittature sudamericane avrebbero avuto più dignità, una roba da ultras della domenica. La legge li ha condannati e c’è chi li applaude”.
Dopo Ferrara, dove saranno le altre presentazioni?
“Sarò al salone del libro di Torino il 9 maggio, poi varie date in Lombardia e al Festival della letteratura di Milano dove il tema della serata sarà malapolizia”.
Malatesta quando lo ritroveremo?
“Presto. È in lavorazione un romanzo di Malatesta e la Spal, un omaggio, anzi un atto d’amore”.

Appuntamento, quindi, in città con Lorenzo Mazzoni, domenica 4 maggio, alle 18,20, nei locali del centro sociale La Resistenza (via della Resistenza 32-34) e martedì 6 maggio, alle 14, in via Adelardi 33 con gli studenti del dipartimento di studi umanistici.

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La meditazione: una tecnica per andare ‘oltre’

L’obiettivo della meditazione è quello di mettere a fuoco e calmare la mente, raggiungendo alla fine un più elevato livello di consapevolezza e calma interiore. Può essere sorprendente accorgersi che si può meditare ovunque e in qualsiasi momento, permettendo di accedere a un senso di tranquillità e di pace, non importa quello che succede intorno. La meditazione è l’arte di concentrarsi al 100%. Meditare non significa costringere la mente al silenzio: è trovare la quiete che esiste già. Infatti, esaminando cosa sta dietro a sensi di colpa, ansie, risentimenti, illusioni, fantasie, speranze non realizzate e vaghi sogni della mente, risulta chiaro che siamo dominati dal nostro dialogo interiore. Migliaia di anni fa i maestri indiani hanno sentenziato che ognuno di noi è vittima della memoria.

Meditazione e benessere emotivo
Quando si medita, si cancella il sovraccarico di informazioni che si accumula ogni giorno e che contribuisce a creare stress.

I benefici emotivi della meditazione includono:

• ottenere una nuova prospettiva su situazioni di stress;
• costruire le competenze per gestire lo stress;
• aumentare la consapevolezza di sé;
• concentrandosi sul presente;
• ridurre le emozioni negative.

Meditazione e malattia
La meditazione può anche essere utile in caso di disturbi, in particolare se aggravati da stress. Alcune ricerche suggeriscono che la meditazione può aiutare a migliorare le seguenti condizioni:

• allergie
• disturbi d’ansia
• asma
• depressione
• stanchezza
• malattia cardiaca
• alta pressione sanguigna
• dolore
• problemi del sonno
• abuso di sostanze

Tipi di meditazione
Ci sono molti tipi di meditazione e tecniche di rilassamento con componenti di meditazione, ma tutti condividono lo stesso obiettivo, ossia raggiungere la pace interiore:

meditazione guidata o visualizzazione guidata: con questo metodo di meditazione si tende a formare immagini mentali di luoghi o situazioni che trovate rilassanti;
meditazione mantra: il silenzioso ripetere una parola o una frase calmante, permette di evitare pensieri distraenti;
meditazione di consapevolezza: tipo di meditazione basata sulla memoria, permette di acquisire una maggiore consapevolezza e accettazione di ciò che si sta vivendo in quel preciso momento, come per esempio concentrarsi sul flusso del proprio respiro. È possibile osservare i propri pensieri e le proprie emozioni, ma lasciarli passare senza giudizio;
qi gong: pratica che combina generalmente meditazione, rilassamento, movimento fisico ed esercizi di respirazione, per ripristinare e mantenere l’equilibrio. Il qi gong (chee-gung) fa parte della medicina tradizionale cinese;
tai chi: forma di dolci arti marziali cinesi. Nel tai chi (tie-chee) si eseguono una serie di posture o movimenti in modo lento e aggraziato, praticando la respirazione profonda;
meditazione trascendentale: si ripete più volte un mantra (una parola, un suono o una frase) ma in silenzio. Questa pratica aiuta a restringere la propria consapevolezza cosciente ed eliminare tutti i pensieri dalla propria mente. Ci si concentra esclusivamente sul mantra per raggiungere uno stato di perfetta quiete e coscienza.
yoga: si eseguono una serie di posture ed esercizi di respirazione controllata per promuovere un corpo più flessibile e una mente calma. Lo spostarsi attraverso pose che richiedono equilibrio e concentrazione, aiuta a concentrarsi meno sulla propria giornata e di portarsi con la mente al momento.

Come praticare la meditazione

Scegliere un ambiente tranquillo
• E’ consigliato trovare un posto in cui la meditazione non venga interrotta per tutta la sua durata, che si tratti di cinque minuti o mezz’ora. Lo spazio non deve essere molto grande, anche un ufficio può andare bene.
• Per evitare distrazioni esterne, è particolarmente importante spegnere televisori, telefoni cellulari o altri apparecchi rumorosi. Se si mette su un po’ di musica, scegliere una musica calma, melodie dolci, in modo da non rompere la concentrazione. Un’altra opzione è quella di accendere una piccola fontana d’acqua, il suono dell’acqua corrente può essere estremamente rilassante.
• Non è necessario che lo spazio sia completamente silenzioso. Il suono di una tosaerba o un cane che abbaia accanto non dovrebbero impedire la meditazione efficace. Infatti, essendo rumori conosciuti, è facile e utile imparare a dominarli. Questa è una componente importante per una meditazione di successo. Ma se aiuta, soprattutto in un primo momento, è possibile ricorrere a dei tappi per le orecchie.

Decidere per quanto tempo si desidera meditare

• Prima di iniziare, si dovrebbe decidere per quanto tempo si vuole meditare. I meditatori esperti consigliano venti minuti, due volte al giorno; i principianti possono iniziare con un minimo di cinque minuti, una volta al giorno.
• Si dovrebbe anche cercare di meditare per lo stesso tempo, ogni giorno – che si tratti di 15 minuti appena svegli o 5 minuti durante la pausa pranzo. Qualunque tempo si scelga, provare a fare meditazione nella propria routine quotidiana.
• Una volta deciso un lasso di tempo, cercare di attenersi ad esso.

Occhi aperti od occhi chiusi?
La meditazione può essere eseguita in entrambi i modi, con gli occhi aperti o chiusi. Tuttavia, per un principiante può essere meglio provare prima con gli occhi chiusi. Questo bloccherà qualsiasi stimolo visivo esterno e impedirà ad evitare distrazioni e a concentrarsi a calmare la mente. Una volta che ci si è abituati alla meditazione, si può provare a praticare con gli occhi aperti. Se si tengono gli occhi aperti, è necessario tenerli “soft”.

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Oggi si recita: Molière in bicicletta

Io riscontro dovunque solo vili lusinghe
Ingiustizia, interesse, scaltrezza, tradimento;
Non posso contenermi, mi adiro, e mi propongo
Di mandare all’inferno tutto il genere umano

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locandina del film

Dopo il successo ottenuto con Le donne del 6º piano, Philippe Le Guay ci stupisce ancora con un film molto originale che ci presenta una vera e propria rilettura del Il Misantropo di Molière.
Il regista ha dichiarato, in alcune interviste, che l’idea è nata discutendo con l’attore Fabrice Luchini, qui grande interprete, che gli parlava in continuazione dell’opera del celebre commediografo francese e del contrasto tra i personaggi di Filinte e Alceste. Da qui lo spunto.
Il celebre (ex) attore teatrale Serge Tanneur (un bravissimo Luchini), ritiratosi dalle scene, conduce una vita solitaria sull’Île de Ré, nel nord-ovest della Francia, collegata con la città di La Rochelle tramite un ponte lungo tre km. Qui, vive come un eremita, in una vecchia casa fatiscente che ha ereditato da un lontano parente, godendo solo di lunghe e spensierate passeggiate in bicicletta.
Quando arriva la richiesta del collega, Gauthier Valence (noto attore di fiction) di tornare a recitare ne Il Misantropo di Molière, Serge si trova di fronte a una difficile decisione: da una parte, non vorrebbe tornare sui suoi passi, ma dall’altra, sente che la solitudine lo ha reso molto (troppo) simile al personaggio che deve interpretare…

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una scena del film, le prove de Il Misantropo di Molière

Tanneur potrebbe essere disposto a tornare a recitare solo se avrà il difficile ruolo di Alceste, a suo avviso, il più difficile e sfidante di tutto il teatro francese, ma Valance vorrebbe che interpretasse invece Filinte, che però “ha solo cinque scene”. I due decidono così di alternarsi ogni volta nel ruolo, e così faranno anche durante le prove della prima scena, che proveranno in modi diversi per svariate volte, quasi interrottamente per cinque giorni. E intanto, noi godremo nell’ascoltare le parole e le riflessioni sui versi alessandrini di dodici sillabe di un Alceste misantropo, insopportabile, a volte antipatico e saccente, ma sempre integerrimo, leale a un proprio ideale di purezza senza compromessi, per nulla incline alle smancerie e alla piaggeria di chi vuol farsi benvolere a ogni costo; un uomo che odia la frivolezza, i cuori volatili, fedele in amore, fortemente devoto.
Filinto, suo amico, è uomo di mondo, conosce le debolezze altrui e l’intima fibra del cuore umano e sa che questo volge inesorabile all’accomodamento, alla via di mezzo, al perdono complice.
I due amici-colleghi-rivali-antagonisti rispecchiano le psicologie dei personaggi che interpretano con grande intensità e passione: Serge/Alceste è ombroso, scontroso e lunatico; Gauthier/Filinto è piacente, amabile viveur; Serge/Alceste è un devoto del grande attore teatrale Louis Jouvet e perfezionista, allo stremo, nella recitazione; Gauthier/Filinto non si interessa affatto della dizione; Serge/Alceste è spiantato; Gauthier/Filinto è benestante; Serge/Alceste crede ancora fortemente nei princìpi; Gauthier/Filinto no.

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Una scena del film, con Celimene arriva l’amore

Tutto pare filare liscio finché arriva la bella e affascinante italiana Francesca/Celimene. E l’incantesimo si rompe. L’amore che sembra rivitalizzare e far rinascere, almeno per un momento, Serge/Alceste, alla fine però incrina tutto. Rimette in gioco un equilibrio che già era precario, facendo cadere l’instabile castello di carte.

 

 

 

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una scena del film, le scorribande in bicicletta

Bellissime sono le scorribande in bicicletta. Le sequenze su due ruote sono tra i momenti più divertenti e spensierati della commedia. Le pedalate di Serge e Gauthier sono occasione di confidenze, chiacchiere e scherzi, con la complicità di una malmessa bicicletta, senza freni, che gioca brutti scherzi alternativamente a uno e all’altro. E la pedalata a tre con Francesca è un momento liberatorio e felice che ricorda quella di Jules e Jim, di Truffaut.
La colonna sonora del film comprende musiche realizzate da Jorge Arriagada, la canzone italiana Il mondo, di Jimmy Fontana, e quella francese La bicyclette, di Yves Montand.
Ma tornando ai nostri personaggi, non possiamo non notare come il rigore di Serge sia, in fondo, egoista, invidioso e meschino, mentre Gauthier ci appare indulgente, tollerante, con una vitalità imperfetta, che però lo rende più simpatico e piacevole oltre che migliore e meno narcisista.
In una delle scene finali, Serge, che si reca alla festa in suo onore, in bicicletta, vestito in abiti seicenteschi, con un bel cappello piumato, riaffermerà la sua rigorosa psicologia. Davanti a tutti, reciterà il disinganno di Alceste che, ora, è anche il suo, un disinganno davvero terribile:

Troppe perversità troppo malanimo
Io chiuderò i rapporti con il prossimo
Troppo dolore le disgrazie portano
Tirandosi da parte più si sopportano
Poiché gli umani azzannan come lupi
Traditori! Non morirò nei vostri antri cupi

Mentre Gauthier avrà la sua rappresentazione teatrale, nel ruolo di Alceste, ora finalmente suo, Serge finirà solo, davanti a un tramonto sull’Atlantico, a declamare gli ultimi versi definitivi:

Ormai detestate l’umana natura…
Sì, per me è una spaventosa sciagura.

di Philippe Le Guay, Francia 2012, commedia 104 mn; con Fabrice Luchini, Lambert Wilson, Maya Sansa, Laurie Bordesoules, Camille Japy, Annie Mercier, Ged Marlon, Stéphan Wojtowicz, Christine Murillo, Josiane Stoléru, Edith Le Merdy.

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“Save the Dogs”, da pubblicitaria di successo ad ‘angelo custode dei cani’

Un’ex pubblicitaria al servizio dei cani randagi rumeni. E’ capitato per amore e per sconforto. Dopo un viaggio in Romania, dopo aver visto bestiole, grandi e piccole, adulte, cucciole, anziane travolte dalle auto senza nemmeno un tentativo di frenata, avvelenate, maltrattate, catturate con la cattiveria dell’ignoranza e tanti altri orrori figli della miseria di una società meno progredita. “Sono andata come volontaria per portare aiuto, quel che ho visto era molto peggio di quanto mi avevano raccontato”, spiega Sara Turetta, fondatrice e presidente di Save the Dogs, associazione onlus impegnata da anni in un progetto integrato che va dalla sterilizzazione dei randagi alla loro adozione all’estero all’assistenza veterinaria fino a un programma di educazione nelle scuole di due città Cernavoda e Medgidia, due roccaforti dell’impegno animalista.

La Turretta è ospite dell’iniziativa “Quattro zampe nell’oasi” in programma domenica 4 maggio dalle 11 alle vallette di Ostellato, dove il sindaco Andrea Marchi aprirà la giornata pensata per dare una mano, in questo caso una zampa, ai randagi della Romania. La giornata prevede un percorso di agility dog e per chi lo desidera il pranzo, anche vegetariano, da prenotare obbligatoriamente al numero 0533 680983. Parte degli incassi, rende noto la cooperativa Atlantide che ha collaborato con il Comune e il ristorante dell’oasi alla realizzazione di Quattro zampe nell’oasi, saranno devoluti a Save the Dogs per sostenerne il lavoro, chi poi è sensibile al tema può sempre versare all’associazione il suo 5 per mille (CF. 97394230151). “E’ un’iniziativa che apprezziamo moltissimo”, dice la Turretta nel raccontare un’esperienza in continuo divenire. “Il mio primo contatto con la realtà rumena ha ridisegnato le priorità della mia vita e così da ambiziosa pubblicitaria mi ci sono trasferita per quattro anni in Romania ”, racconta.

Tutto è cominciato con la sterilizzazione a tappeto nell’ambito di un fenomeno di randagismo endemico. In Romania, dove sono ricominciate le mattanze di animali tra le proteste europee e delle associazioni animaliste locali, si stima la presenza di 2 milioni di randagi. E’ il peggior caso del vecchio continente. In anni di impegno, sostenendo un costo annuale di 670 mila euro l’anno provenienti da donazioni, Save the dogs, fondata nel 2005, ha sterilizzato 24 mila cani e gatti, ne ha fatti adottare 6mila soprattutto in Italia e nel nord Europa, ha aperto un canile a Medgida e un rifugio modello a Cernavoda “Footprint of joy”, dove si accolgono anche gli asini ‘in età da pensione’ che come i cavalli attempati farebbero una brutta fine. “Il contesto socio-culturale è dominato dal degrado e dove il welfare non funziona per gli umani, gli animali sono meno di niente. Sono un lusso che in pochi si permettono, anche chi ha padrone viene abbandonato per la strada – racconta – faccio un esempio, a estate finita, quando il raccolto non ha più bisogno di essere protetto dalla guardia di un cane, gli animali vengono lasciati al loro destino, alla strada, alla fame, lo vediamo dal segno del collare”. E alla doppietta di chi considera i cani alla stregua di ratti infestanti.

“Eliminarli non serve a nulla – continua – Si libera spazio per altri randagi”. I superstiti hanno maggiori risorse alimentari da reperire nelle discariche e meno antagonisti, come ovvio la riproduzione è garantita, sarebbe meglio puntare sulla sterilizzazione, ma il concetto è ancora lontano dall’essere assimilato. “Qualcosa si sta muovendo nelle grandi città, nel resto del paese però c’è ancora molto da fare – spiega – Proprio per questo puntiamo su un progetto educativo, i bimbi vengono a visitare il rifugio, noi andiamo nelle scuole. Lavoriamo in due piccole realtà, ma fortunatamente la nostra credibilità è cresciuta negli anni, godiamo di un certo credito presso le istituzioni, il che significa spingere per far rispettare la legge, brutta quanto si vuole, ma meno selvaggia di quanto non fosse prima. Siamo un po’ come sentinelle della legalità”.

Purtroppo, insiste, dietro la gestione del randagismo ci sono interessi economici di cui i cani fanno le spese lasciandoci la pelle nella maggior parte dei casi. E anche se la Romania ha ratificato nel 2004 la Convenzione dei diritti degli animali da compagnia di Strasburgo, la sua applicazione fa acqua da tutte le parti. Cambiare le cose non è semplice e nemmeno veloce. Ma Sara è determinata. “La Ue non ha competenze sugli animali da compagnia, ma solo su quelli da reddito. E’ questo il motivo per il quale non può intervenire sulle cruente mattanze rumene – conclude – nonostante la complessità della materia bisogna ampliare lo standard delle sue mansioni, bisogna cercare di fare lobbie perché accada”.

La luce tenue della pianura Padana affascina ancora

Niente è più come prima. O meglio, non è più come ce la siamo sempre immaginata, la tipica Emilia Romagna. Bisogna chiedere agli anziani com’era negli anni cinquanta e sessanta, quando non si riusciva a vedere a un palmo dal naso per la nebbia, che in autunno dalla mattina alla sera tuffava le città e i paesini alle sponde del Po in spesse matasse di cotone, come dalla poesia di Attilio Bertolucci Nebbia e nebbia per giorni. Cosa sarebbero stati i primi film di Michelangelo Antonioni, i romanzi di Riccardo Bacchelli o di Giorgio Bassani, le fotografie di Luigi Ghirri senza l’eterna nebbia? Ci sono ancora quelle giornate piene di foschia e di nebbia, ma bisogna soltanto guardare le ciminiere dell’industria chimica all’orizzonte di Ferrara per capire da dove provengono queste serate d’autunno, appiccicaticce e impenetrabili. Da nessun’altra parte d’Italia si vedono così tante biciclette nelle stradine di campagna o in città, come in Emilia. Appena si lasciano, però, queste stradine fuori mano, un tir dopo l’altro passa rombante su quelle strade ricche di storia come la via Emilia o la via Romea. Ci sono ancora anche le bandiere rosse ad ornare molti giardini, ma non ci abitano più i comunisti di una volta, fieri di mostrare le proprie convinzioni politiche. L’Emilia è rimasta “terra rossa”, anche se non si vedono più la falce e il martello, ma l’emblema della Ferrari con la sede principale a Maranello, nei pressi di Modena. La maggior parte dei comuni emiliani sono tuttora gestiti da partiti che sicuramente non sono di destra. Ma anche questa egemonia della sinistra politica va svanendo ad ogni votazione. A parte i vecchi compagni d’una volta, qui nessuno vuol esser chiamato “comunista”. Peppone, il funzionario del partito comunista dall’atteggiamento stalinista e di fede cattolica, creato da Giovanni Guareschi, è da tempo divenuto una “figura da cartolina”, come anche la sua astuta controparte cattolica, Don Camillo. Se poi è sempre vero che c’è ancora un prete in ogni paesino, allora al giorno d’oggi spesso è di origine polacca o africana. Ci sono addirittura chiese sconsacrate che ospitano pezzi di antiquariato o che sono diventate cinema a luci rosse. In alcune cittadine vivono ormai tanti musulmani quanti cristiani. Mentre le commemorazioni della Resistenza antifascista sbiadiscono sempre di più, diventando semplici riti di dovere delle autorità politiche locali, i negozianti di souvenir attorno alla tomba del Duce a Predappio non hanno di che lamentarsi perché gli affari non vanno male. Nessuno ha descritto così attentamente, in modo laconico ma allo stesso tempo poetico, lo smantellamento della cultura ebraica in Italia e le deportazioni degli ebrei italiani nei campi di sterminio tedeschi, come il ferrarese Giorgio Bassani. Deportazioni di ebrei, di cui però non pochi erano stati fedeli seguaci di Mussolini fino alle leggi razziali del 1938!
Attorno a città come Bologna, Parma, Modena, Piacenza, Reggio Emilia, Ferrara, Ravenna o Rimini, con le loro splendide piazze e i loro palazzi rinascimentali, si sono formate spesse croste di supermercati, outlet, autolavaggi e discoteche che si possono trovare dappertutto in Europa. Forse però, le periferie italiane sono ancora più noiose, ancora più commercializzate e brutte che nel resto d’Europa. Forse qui la distruzione dei paesaggi da parte dell’edilizia selvaggia è così deprimente e dolorosa, perché le immagini nelle nostre menti sono ingenue e idilliache. Ma nonostante l’evidente uniformazione di tante città e di tanti paesini sul Po, qui è ancora possibile scoprire favolosi misteri. Per la fantasia degli scrittori e degli artisti, questa è ancora una terra molto fertile. E l’orgoglio della popolazione locale per la “bella pasta”, il prosciutto di Parma o la piadina romagnola è tuttora imbattuto. In ogni piccolo paesino c’è una trattoria con un menù che al di là delle Alpi si può soltanto sognare. E anche se le feste dell’Unità, tradizionalmente feste comuniste, hanno perso il loro nome e ogni significato politico, a queste feste, che possono durare anche settimane intere, si cucina ancora come ai tempi delle vecchie cooperative comuniste.
E si è anche orgogliosi della letteratura dell’Emilia Romagna, che ha donato alla cultura italiana opere immortali e scrittori indimenticabili. I libri di scuola sonno pieni di autori nati, cresciuti e morti proprio qui, o che qui hanno ambientato i loro romanzi o i loro racconti. Ariosto, Pascoli, Bassani, Baccelli, Guareschi, Malerba provengono da questi luoghi. Pier Paolo Pasolini è nato nel Friuli, a Casarsa delle Delizie, e lì è stato anche sepolto assieme a sua madre, ma ha vissuto per anni a Bologna. Neanche Umberto Eco è emiliano (è nato in Piemonte, ad Alessandria), vive però da decenni a Bologna e a San Marino, quel minuscolo Stato autonomo in mezzo alla Romagna. Anche Mario Soldati era piemontese, ma amava i paesaggi della pianura Padana e così le dedicò alcuni dei suoi più bei racconti di viaggio. Gianni Celati è di Sondrio, in Lombardia, ma come nessun altro scrittore italiano ha dedicato racconti meravigliosamente affettuosi ai “matti padani”, una razza di civette che si trova nei pressi del Po. Le figure letterarie di Ermanno Cavazzoni, nativo di Reggio Emilia, forse sono ancora più bizzarre, più stravaganti e ancor più fantasiose. Chi non ha ancora letto i suoi racconti non riuscirà mai a comprendere le particolarità dei Padani, le loro stranezze, il loro modo di fare spesso un po’ i ribelli. Importanti giornalisti italiani come Enzo Biagi, Gianni Brera e Sergio Zavoli sono nati qui. Lo sfortunatamente già deceduto Lucio Dalla e Francesco Guccini, due dei grandi cantautori degli anni settanta e ottanta, sono di Bologna e di Modena. E a Zocca, un paese vicino a Bologna, è nato Vasco Rossi, una delle rock star più grandi degli ultimi decenni. Per non dimenticare naturalmente due veri giganti del cinema italiano: Federico Fellini di Rimini e Michelangelo Antonioni di Ferrara. Cesare Zavattini, forse conosciuto all’estero soltanto dai cineasti come geniale sceneggiatore (“Umberto D”) e “impresario di cultura”, è di Luzzara, vicino a Parma. Tonino Guerra, sceneggiatore del film forse più popolare di Fellini Amarcord e collaboratore di registi come Angelopoulus, è di Sant’Arcangelo nelle vicinanze di Rimini.
Nei testi di autori più giovani, come Ugo Cornia, Daniele Benati, Giulia Niccolai o Simona Vinci invece, si sente fortemente che la velocissima industrializzazione ha lasciato un segno su questa regione e ne ha distrutto il paesaggio. Ma così come la tenue luce della pianura Padana riesce ancora a donarle un aspetto magico, nei testi letterari, più o meno vecchi, si riesce ancora a trovare un’Italia che forse non esiste più. O almeno non esiste in questa forma, nella realtà, ma che qui in Emilia Romagna riesce ancora ad emanare un fascino particolare, grazie all’atmosfera malinconica e nebbiosa della pianura e grazie alla comicità surreale che guizza in tanti discorsi. E se non la si trova più nella realtà, sicuramente si trova nella letteratura che questa regione ha dato.

[Traduzione dal Tedesco all’Italiano a cura di Thomas Lietfien]

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La guerra

Dopo aver vagabondato per una vita, ormai lunga vita ahimè, per gli impervi sentieri del pensiero umano, aver ascoltato la suadente voce di religiosi per i quali tutto è miracolo di Dio, dopo essere stato attraversato dal panteismo più ingenuo, abbracciato le idee più dure di rivoluzionari spesso pronti a cambiar bandiera, aver accettato di lottare per la salvezza dei più umili, essermi fatto violentare dai pensieri degli uomini armati per cui tutto si risolve con una sciabolata o una raffica di mitra, aver guardato sbigottito la facilità con cui i padri uccidono i figli o i figli uccidono i padri, aver scansato per non calpestarli i cadaveri di decine e decine di morti ammazzati, ecco, dopo tutto questo e altro ancora, sono arrivato a una sola conclusione possibile. La società umana ha un solo collante: l’odio. Pensavo sconsolato a queste mie deduzioni mentre, turbato, commosso, emozionato, passavo da un quadro all’altro della più bella mostra vista negli ultimi anni. Ero a Lucca nella bellissima sede della Fondazione Banca del Monte di Lucca, dov’è stata allestita quest’ultima esposizione dei quadri di uno dei più grandi pittori italiani contemporanei (non esagero): Paolo Baratella ferrarese errante. Scrive di lui la “Garzantina” dell’arte: “Il tema della condizione umana ha continuato a essere al centro della sua pittura caratterizzata da un realismo visionario carico di simbologie e citazioni”. In questa mostra Paolo Baratella ha tirato fuori dal suo stomaco lo sconvolgente massacro a cui furono destinati seicentomila ragazzi italiani, gettati come riso per le galline nelle trincee della Grande Guerra 15-18, sui campi oltrepiave, sulle cime contraddistinte nelle carte topografiche da un numero, Cima Dieci – Cima Dodici e via contando, gettati, questi bambini dal viso ancora glabro, con il loro fucilino imbaionettato contro le mitragliatrici nemiche. Eroi, dicevano gli alti ufficiali acquattati dietro le prime linee, dove il proiettile del mortaio non arrivava, eroi. Eroi come il protagonista della mostra di Baratella, un soldatino, un fantaccino come li chiamavano allora, ripreso con la mantellina nell’ultima fotografia da mandare alla famiglia prima di morire. Era suo zio il fantaccino e, nella mostra, è diventato l’immobile accusatore di un potere omicida, gestito dagli uomini coperti di gradi e di inutili medaglie, uomini codardi, stupidi, violenti, i loro nomi sono sulle enciclopedie trattati con reverenza, simpatia, ossequio. Baratella chiude il catalogo con una lunga, bellissima poesia-pensiero: “Paura, terrore, ansia, angoscia, nevrosi/ trincea della guerra sorella,/ infinito labirinto/ scavato nel fango, nella dura terra, nella roccia, nel ghiaccio…” Quadri enormi, che vorrebbero essere ancora più grandi, come grande è l’insolenza dei potenti che vendono e comprano terribili macchine da guerra, sempre più terribili, le comprano con i soldi della povera gente, per “difenderla”, dicono, e non (com’è la verità) per fare dell’uomo la bestia più crudele del creato.
(Il prossimo anno sarà il centenario delle prima guerra mondiale. Sappiamo già di quali crudeli fanfaronate demagogiche sarà capace la nostra società tristanzuola. Gli italiani saranno eroi, santi no, non ce ne stanno più in Paradiso).

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Caso Aldrovandi, le ‘tricoteuses’ ovvero il mal riposto senso dell’onore

Nei vecchi film la cattiveria delle tricoteuses che, insediate sotto la ghigliottina sferruzzavano in attesa che la lama calasse sul collo dei nobili francesi lasciando solo un momento il lavoro a maglia per applaudire freneticamente, erano un classico dei film di genere fatti per soddisfare la “pancia” (e termine più giusto e più volgare non si potrebbe inventare) di chi crede che solo al sopruso si possa rispondere con la violenza e la derisione. Questo è stato il primo pensiero che mi è venuto in mente alla notizia dei cinque minuti di applausi ai tre agenti implicati nella morte di Federico Aldrovandi.

Non ho mai volontariamente preso posizione pubblica nella vicenda Aldrovandi per rispetto al dolore della famiglia e per una concessione d’appello etico verso quelle forze dell’ordine che, come ben aveva identificato il pensiero di Pasolini, rappresentano mediamente la classe sociale più umile. Ma è ora chiaro che qualsiasi forma di giustificazione cede di fronte alla violenza cieca di quell’applauso che uccide per un malinteso concetto del “servizio d’ordine”, per una malvagia idea di giustizia che plaude alla violenza e alla soppressione della vita umana. Una violenza moralmente condannabile quanto la riprovazione per la morte stessa provocata al giovane Aldrovandi proprio perché nata da una falsa giustificazione morale, da una violenza ideologica ed etica. A sua volta resa più bieca dalle parole terribili espresse dal vertice del Sap, il sindacato autonomo di polizia, e delle sempre più inaccettabili dichiarazioni dell’onorevole Giovanardi. Penso alla voce untuosa di un capo del Sap che parla di “ossequioso” rispetto del dolore della famiglia. Ma sa l’illetterato signore cosa significa l’aggettivo “ossequioso” e il suo sostantivo “ossequio”?
Siamo nella più bieca tradizione di un formalismo per cui la retorica si fa strumento di falsità. Si pensi alla frase un tempo così usata dalla piccola borghesia: “porga i miei ossequi alla sua signora” che diventa un modo terribilmente retorico per significare un concetto così semplice come “mi saluti sua moglie”. Tutta la retorica di cui si ammantava un tempo nella sua vacuità chi si credeva deputato all’uso di parole inutili. Si risponde così a un atto eticamente rivoltante con il formalismo di piccoli funzionari, per fortuna pochi, dal pensiero miserevolmente pericoloso.

Del resto, a esclusione dei soliti noti presenti al congresso del Sap, o al commento del già citato Giovanardi, lo scatto morale dei vertici politici e istituzionali è stato unanime e questo consola: da Napolitano, alla Boldrini a Grasso, a Renzi, ad Alfano fino a Pansa capo della Polizia e per li rami fino al sindaco di Ferrara Tizano Tagliani. Una quasi unanimità che almeno conforta nella tenuta di certi valori non commerciabili con il risentimento e la protesta di chi si crede offeso nei propri diritti nonostante l’inequivocabile giudizio della magistratura e del comune senso etico. Non si possono applaudire coloro che hanno applicato la violenza sia pure – lo si conceda pur non condividendolo – per un travisato senso del proprio compito. La mancanza di un dignitoso silenzio, l’insistita reiterazione di un pensiero eticamente non condivisibile fanno regredire coloro che hanno applaudito e che purtroppo fanno parte delle forze dell’ordine a tempi bui di cui ancora il nostro tempo non sembra essere immune. Ho ammirato e ammiro l’indomito coraggio della mamma di Federico Aldrovandi ma anche la dignità silenziosa del padre e mi commuove la stanchezza di una madre coraggio che vorrebbe ritornare nella vita di ogni giorno e non viverla come un evento ogni giorno eccezionale.

Eppure da questa tristissima vicenda una luce di speranza si è accesa. E quella proviene proprio dalla condanna dei politici e delle istituzioni a un atto tanto inaudito quanto non necessario. Questa è la vittoria più clamorosa della famiglia Aldrovandi.

Spagna-Italia solo andata, Alvaro e Javier in direzione ostinata e contraria

di Barbara Diolaiti

Alvaro Gàmez Martinez e Javier Esteban Carbonell. Ventisette anni l’uno, ventotto l’altro. Spagnoli entrambi.
Il primo, laureando in Giurisprudenza all’Università di Ferrara, è di Huelva in Andalusia, la città delle fragole e da cui partì il viaggio iniziale di Cristoforo Colombo; il secondo, con doppia laurea (Archeologia in Italia, Storia in Spagna) e Specialistica in Archeologia Preistorica ottenuta alla Facoltà di Scienze Naturali dell’Università di Ferrara, è di Saragozza, in Aragona.

S’incontrano per la prima volta nella città estense nel 2009, all’Ostello della Gioventù di corso Biagio Rossetti, e si osservano diffidenti. Alvaro è appena arrivato, Javier andato e tornato, a partire dal 2005. Nessuno dei due vuol fare “vita da spagnolo”, nessuno dei due frequenta gli altri Erasmus per i quali, mi spiegano, “quell’anno in Italia è, in genere, poco più di una vacanza”.
Per questi due ragazzi, invece, è il primo passo verso il sogno di una vita. Non è la nazionalità ad avvicinarli, anzi, ma la comune, irrinunciabile, non negoziabile decisione di vivere per sempre in Italia, “di diventare italiano”, precisa Alvaro. Una scelta che non può essere scalfita da alcuna delle tetre riflessioni alle quali siamo abituati parlando di ragazzi e di futuro in questo Paese. Alvaro e Javier ti ribaltano la prospettiva: la decisione di vivere in Italia è priva di “nonostante”, è un’altra prospettiva. Trovare un lavoro coerente con il percorso di studio è per loro marginale, centrale è appunto l’Italia; Ferrara per Alvaro, il Chianti per Javier.

Ho conosciuto Alvaro e Javier alcuni mesi fa, grazie ad amici comuni; colpita da tutta questa allegria, serenità e determinazione, ho chiesto loro di ricostruire le vicende e le riflessioni che li hanno condotti in una direzione apparentemente “ostinata e contraria”. La nostra chiacchierata, alla fine, è lunga quattro ore.

“Ho sempre desiderato vivere in Italia – racconta Javier – ma quando mi iscrissi a Storia, a Saragozza, nemmeno sapevo cosa fosse l’Erasmus; per caso scoprii che un amico era in partenza e feci anch’io domanda”.
All’inizio del terzo anno accademico viene indirizzato a Siena. “Scelsi di non assumere alcuna informazione sulla città, di non guardare nessuna foto per potermi stupire come un bambino”.
Il 16 settembre 2005 Javier arriva a Siena e resta folgorato da piazza del Campo. Un colpo di fulmine, un anno meraviglioso, ricorda, al termine del quale è però costretto a tornare in Spagna: “E’ stato come tornare in gabbia”. Non si rassegna e alla fine trova un bando per una borsa di studio dell’Unione Europea destinata ai territorio svantaggiati a causa della cessazione dell’attività mineraria.
“Una borsa di studio seria, che non esiste più – spiega – copriva le tasse universitarie, due viaggi andata e ritorno dalla Spagna all’Italia e prevedeva 800 euro al mese per nove mesi”.
Uno strumento essenziale per Javier, la cui famiglia (padre metalmeccanico, madre casalinga, due figli) non avrebbe certo potuto permettersi di mantenerlo agli studi all’estero. E così Javier può finalmente iscriversi ad Archeologia all’Università di Siena, anno accademico 2007/2008, dove si laureerà il 16 settembre 2009.
Anche per Alvaro, dopo l’anno di Erasmus, arriva la decisione di trasferirsi all’Università in Italia, a Ferrara.

E’ stato complicato trasferire gli studi?
“L’ iter burocratico per il trasferimento da un’università all’altra di Paesi comunque dell’Unione Europea – spiegano all’unisono – è veramente sconcertante, ti rendi conto che l’Unione Europea non esiste, esiste solo un progetto economicista che nulla ha a che vedere con le persone. L’unica differenza con un trasferimento da Università extra UE è che non devi sostenere un test di italiano, ma tutto il resto è uguale: devi recuperare ogni documento, produrre l’intera documentazione del tuo percorso scolastico in traduzione con costi elevati (circa 2.000 euro), compresi i contenuti dei corsi, la programmazione dalle elementari in poi. E a questo aggiungi la mancanza di informazioni, l’incapacità del personale dei consolati e delle ambasciate. Sono stati necessari circa sei mesi”.

Quando Alvaro e Javier s’incontrano, il primo sta iniziando l’Erasmus mentre il secondo è iscritto alla Specialistica di Archeologia Preistorica. Nel 2011 Javier sarà costretto a rientrare all’improvviso in Spagna a causa di due diverse gravi malattie, poi felicemente risolte, che avevano colpito entrambi i genitori. La sua casa ferrarese passa ad Alvaro, iscritto a Giurisprudenza.

E’ allo zio che Alvaro deve questo amore assoluto per l’Italia; uno zio spagnolo che parla però l’italiano e “anche un po’ di napoletano”.
” Il mio – chiarisce Alvaro – è un grande amore per l’arte e la cultura del passato. Non ero mai stato in Italia prima del 2009. Tutto quello che sapevo l’avevo letto e fin da bambino ascoltavo praticamente solo musica italiana, Modugno, Carosone. Volevo vivere qui e nessuna delle mie aspettative è stata delusa. L’Università stessa è diversa: in Spagna di fatto ti limiti a consumare l’Università più o meno come accadeva alle scuole superiori; in Italia, invece, l’Università è un mondo a parte, una realtà ancora viva e stimolante”.

Eppure noi italiani tendiamo a vedere la Spagna, specie negli ultimi anni dopo la nascita del movimento degli Indignados, come un Paese molto più vivace e avanzato…
“Credo che la riflessione sulla possibilità di trasformazione della società sia invece molto più consapevole in Italia – interviene Javier – Per me il vero punto di svolta è stata l’uscita dall’ambito esclusivamente studentesco, conoscere persone più grandi e con interessi simili ai miei: il movimento degli orti condivisi, della decrescita. E sono proprio questi amici che mi hanno convinto a riprendere gli studi dopo la malattia dei miei, a giungere alla Laurea specialistica”.

” Il movimento spagnolo del 15 maggio ha certo rappresentato una piccola speranza – incalza Alvaro – e all’inizio era davvero forte e spontaneo, poi il tentativo di strumentalizzazione da parte dei politici ha allontanato moltissime persone e ora si è frantumato in una miriade di iniziative e movimenti legati alle specificità come quello contro i pignoramenti o per la sanità pubblica o per il diritto alla casa, il che va comunque bene, ma credo che manchi una riflessione complessiva e approfondita. Diciamo che in Spagna ci sono poche idee ma molto sangue, mentre in Italia è il contrario”.

E voi preferite l’Italia anche se qui sarà ancora più difficile trovare un lavoro coerente con i vostri studi…
“Non è importante – chiarisce deciso Javier – Mi è molto chiaro che il mio lavoro non potrà essere quello di archeologo della preistoria. Intendo continuare a studiare, a ricercare, ma senza assegnare a tutto questo un valore economico. A più riprese negli ultimi anni ho lavorato nel Chianti in aziende agricole ed è lì che vedo il mio futuro, credo che l’agricoltura biologica offra possibilità reali. Preferisco vivere in un luogo che amo anziché impazzire nel tentativo di ottenere, che ne so, un qualche dottorato in una qualsiasi Università in una lotta, una competizione continua. Non avrebbe alcun senso, non sarebbe positivo per la mia vita”.

Anche per te, Alvaro, un futuro da agricoltore dopo la laurea in Giurisprudenza?
“No no – ride – ma nemmeno un futuro da avvocato, che ce ne sono fin troppi e con sempre meno lavoro. Ho la fortuna di parlare la seconda lingua più diffusa al mondo e penso ad un lavoro di consulenza legale per aziende che abbiano rapporti con la Spagna o con il Sud America. Sono comunque in grado di adattarmi. L’aspetto fondamentale è trovare un lavoro che mi consenta di restare in Italia e, meglio ancora, a Ferrara. Amo questa città e la vita del mio quartiere. E’ davvero una città a misura d’uomo ed è questo che cercavo, assieme alla bellezza, e qui ho trovato anche quella. L’idea di Biagio Rossetti di unire città e natura è per me straordinaria. Inoltre mi piace lo stile di vita italiano; probabilmente sono affezionato a un’Italia che non c’è più, eppure riesco ancora a trovarne traccia. Huelva non mi manca anche perché la mia famiglia è di origine galiziana e in Andalusia non ho mai sentito di avere radici”.

Avete scelto l’Italia, siete fidanzati con ragazze italiane e non intendete tornare in Spagna. Le vostre famiglie come l’hanno presa?
“Mio padre – risponde Javier – era molto perplesso e quando partii per l’anno di Erasmus mi disse: ‘vedi almeno di imparare la lingua’. Ora hanno capito che non cambierò idea e hanno accettato la mia scelta”.

“Sono figlio unico – spiega Alvaro – e questo avrebbe potuto complicare le cose, ma ho sempre pensato che ciascuno abbia il diritto di trovare un proprio percorso. I miei hanno accettato la mia scelta”.
Mentre trascrivo questa nostra conversazione, Javier è già alla ricerca di lavoro nel Chianti e Alvaro ha imparato a condurre una gondola e a fare i cappellacci alla zucca alla ferrarese.

Javier e Alvaro (a destra) in direzione ostinata e contraria (foto di Nicolò Ferrara)

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Nostra signora (social) tv

Cosa significa televisione oggi? L’interrogativo è alla base di una recente ricerca commissionata dalla fondazione Rosselli. Emerge che ciascuno mediamente trascorre davanti alla tv ben quattro ore al giorno. Un consumo costante, reso possibile anche dall’utilizzo di ‘schermi’ alternativi al classico televisore: supporti e dispositivi mobili attraverso i quali seguiamo i programmi. Seguiamo e commentiamo. E’ proprio questa la novità segnalata dallo studio di Monica Sardelli e Federico Tarquini: l’interattività estesa alla tv, la possibilità dell’utente di trasformarsi da semplice spettatore a interlocutore, a dialogante. L’interazione si realizza attraverso semplici sistemi di accesso che consentono di formulare opinioni, domande, esprimere pareri, scegliere fra opzioni alternative. Succede ogni volta che attraverso il nostro smartphone o ipad o grazie ai nuovi televisori dotati di connessione web rispondiamo al sondaggio del tg di Sky o esprimiamo una preferenza per il cantante di X factor…

I media confermano ancora una volta la loro capacità di integrarsi, scrive al riguardo Alberto Marinelli. “E’ una cialtronata – ha ribadito, intervenendo a Perugia al festival internazionale del giornalismo – affermare che l’ultimo nato uccida il predecessore. La storia ha sempre dimostrato il contrario. Sono i gusti e le preferenze del pubblico a suggerire le trasformazioni e indurre il riadattamento dei mezzi”. Così, mentre tv e social communication si ibridano fra loro, stratificando il livello del messaggio, l’utente assorbe la modalità operativa del multitasking fino al punto da replicarla. Multitasking di fatto diventiamo anche noi quando laviamo i piatti mentre guardiamo Ballarò o chattiamo per scambiarci commenti sulla partita alla quale stiamo assistendo davanti allo schermo.

Il bisogno di socializzare e condividere invade e trasforma, dunque, anche il modo di fare e di fruire la televisione la quale, riadattandosi, ripropone il proprio ruolo di prioritario e pervasivo mezzo di intrattenimento. Contemporaneamente però il pubblico si sottrae all’inesorabile e incessante fluire dei palinsesti ed esercita ora, in virtù della tecnologia, la propria facoltà di scelta non solo sul ‘cosa’, ma anche sul ‘quando’, potendo recuperare e gestire i contenuti secondo le proprie priorità.
C’è quindi un tratto polimorfo nella nuova televisione che si accompagna a un maggiore potere di controllo e di scelta dell’utente, che proprio per questo oggi può pienamente definirsi tale.

Dalla parte di chi fa e produce tv resta il problema della misurazione, dell’ascolto. La discussa Auditel ormai può fornire solo una fotografia parziale. L’attenzione si sposta progressivamente sempre più sui riscontri offerti dalla ‘rete’. Questo apre un nuovo problema e prefigura un rischio: che pochi attivi divengano rappresentativi. Quel che sta accadendo è evidente nella dinamica innescata dai vari forum online, dai tweet, dai commenti resi attraverso Facebook che accompagnano le vicende quotidiane: l’espressione pubblica di gruppi pur minoritari, nel silenzio dei più, viene normalmente assunta come ‘sentire comune e diffuso’. E questo non solo nella loro forzata rappresentazione da parte dei media; spesso – in assenza di contraltare – anche ciascuno di noi emotivamente subisce la medesima suggestione.

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Guerre e violenza in Sud Sudan: 20 anni dopo le foto del Pulitzer restano ancora attuali

Il 14 aprile, a New York, sono stati annunciati i vincitori del premio Pulitzer 2014, il più prestigioso premio giornalistico statunitense. Tyler Hicks ha vinto il Pulitzer 2014 Breaking News Photography, con la sua immagine di una madre che protegge i propri figli sul pavimento di un caffè, durante un attacco terroristico al centro commerciale Westgate Mall di Nairobi, il 21 Settembre 2013.

Vent’anni prima, nell’aprile 1994, due immagini, altrettanto forti, avevano ottenuto il premio Pulitzer per la fotografia: quella del canadese Paul Watson per il giornale Toronto Star (miglior fotografia d’attualità) e quella del professionista indipendente sudafricano Kevin Carter (miglior fotografia giornalistica).

Watson era stato premiato per un’istantanea di un corpo di un soldato americano trascinato da una folle ostile lungo le vie di Mogadiscio. La sua diffusione televisiva aveva sbalordito l’America che, la sera della proiezione, probabilmente, si era interrogata se la presenza militare-umanitaria delle proprie truppe in Somalia valesse una tale umiliazione mondiale. Cosciente dell’impatto politico della scena e della sua possibile influenza su un eventuale ritiro anticipato delle truppe americane dalla Somalia, il settimanale Time decise di pubblicare l’integralità della documentazione.

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1994 Pulitzer Prize, Spot News Photography, Paul Watson, Toronto Star

Il secondo premio, quello attribuito a Carter, rappresentava, invece, una scena costruita, per quanto involontariamente. Scattata nel villaggio di Ayod, nel Sud Sudan, la fotografia mostrava una bambina famelica, raggomitolata con la faccia a terra, spiata da un avvoltoio appostato dietro di lei, molto vicino. La similitudine fra la posizione della piccola sudanese e quella dell’animale rafforzava la drammaturgia della scena: la preda e il predatore si osservavano in una stessa figura, come se la stanchezza della vittima avesse ricalcato la sua forma sull’attesa del rapace. Ci s’immagina il fotografo, appostato su un fianco, con il dubbio che sia lui stesso un “avvoltoio” che opera nel campo prediletto dell’azione fotografica dato da carestie, guerre e catastrofi. Il fotoreporter, quando non è accusato di “voyeurismo”, è, quanto meno, sospettato di freddezza verso l’orrore che svela (e a volte, pure, di duplicità se non, addirittura, di complicità. Ma Carter raccontava allora: “a circa 300 m dal centro di Ayod, ho incrociato una bambina al limite dell’inedia che tentava di raggiungere il centro di alimentazione. Ella era così debole che non poteva fare più di due passi alla volta, cadeva regolarmente all’indietro, cercando disperatamente di proteggersi dal sole coprendosi la testa con le sue mani scheletriche. Poi si rimetteva in piedi, difficilmente, con una piccola voce acuta. Sconvolto, mi ritiravo ancora una volta di poi dietro la meccanica del mio lavoro, assalito dalla polvere. Essendo il mio campo di visione limitato a quello del mio teleobiettivo, non ho notato il volo degli avvoltoi che si avvicinavano intorno, fino a quando uno di essi si è posato, apparendo nel mio campo visivo. Ho scattato, poi ho scacciato il rapace con un piede. Un grido saliva in me. Ho percorso 1 o 2 chilometri dal villaggio prima di scoppiare in lacrime”.

Annunciando il premio al telegiornale di France 2, giovedì 4 aprile 1994, la voce off del commentatore aveva esclamato: “come dire tutto in una foto!”

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1994, Pulitzer Prize, Feature Photography, Kevin Carter

La foto dell’avvoltoio che osserva la bambina, quasi ne aspetti la morte, fece il giro del mondo e, allo stesso tempo, dette vita a una serie di polemiche sul ruolo del fotografo nello scatto. La gente cominciò ad interrogarsi sul destino di quella creatura e sulla moralità della fotografia. Carter non fu mai chiaro su quello che successe al momento dello scatto e raccontò diverse versioni della vicenda. Certo è che lo scandalo mediatico che si creò turbò profondamente il fotografo che, tormentato dall’immagine della bambina che gli ricordava la figlia piccola che riusciva a vedere solo raramente, cadde in profonda depressione. Il fotografo, che aveva anche gravi problemi di droga, si suicidò nel luglio dello stesso anno.

Carver aveva voluto dimostrare, forse, che di fronte all’oppressione, alla violenza e ai crimini, nulla è peggio dell’assenza d’inchiesta e di testimonianze. Contro le atrocità è meglio un’immagine, indipendentemente dalla sua ambiguità, dalle motivazioni del suo autore e dal suo impegno, che nessuna.

Con una sola potente, scandalosa e forte immagine, che fa il giro del mondo, a volte, si può dire molto di più che con mille parole.

Il messaggio umanitario di questo Premio Pulitzer magari voleva essere unico e semplice: possiamo abbandonare le popolazioni del Sud Sudan agli avvoltoi ?

Nulla di più attuale.

Nella foto in evidenza: 2014, Pulitzer Prize, Breaking News Photography, Tyler Hicks, The New York Times

[L’articolo è anche su http://www.omero.it/omero-magazine/fotografia/a-ventanni-dal-premio-pulitzer-per-la-fotografia-guerre-violenza-e-sud-sudan-sono-ancora-tristemente-attuali/]