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Se questa è una piazza

Liberatela. Piazza Savonarola è assediata dalle auto. Prigioniera innanzitutto dei taxi: a volte, come questa mattina, più che per il fabbisogno di Ferrara sembrano calibrati per quello della stazione di Roma! Fra vetture pubbliche, auto di servizio, autorizzati (non si sa a che titolo) e avventori vari capita di contare una ventina di veicoli, in uno spazio di 40 metri per 40 all’ombra del monumento più prezioso.
Dovrebbe essere il salottino buono della città questo, incastonato fra i gioielli degli estensi. Invece il povero Savonarola dall’alto della sua statua ci biasima sdegnato, dovendo respirare ancora fumi: non quelli esalati dalle fascine del rogo, ma quelli delle marmitte delle vetture che insensatamente gli ronzano attorno. Un’ingiusta condanna per lui e per noi.
Siamo seri: qualcuno pensa davvero che davanti al castello serva la compresenza di otto-dieci taxi? Magari! Vorrebbe dire che la città s’è svegliata dal torpore. Invece gli autisti stanno lì a fare filò: e grazie! è più piacevole farlo lì fra i monumenti che altrove… Ma mica si devono spedire in periferia. Basterebbe traslocarli in corso Porta Reno o nei pressi dei giardini di viale Cavour, nel raggio di un centinaio di metri le alternative ci sono. Qual è il problema?

L’EVENTO
I 250 anni dell’Hermitage in un grande film, domani l’unica proiezione

Il 14 Ottobre, il bellissimo e magico Hermitage (o Ermitage) di San Pietroburgo celebra i suoi 250 anni con un evento cinematografico unico e spettacolare, trasmesso nelle sale italiane. La proiezione avrà luogo solo quel giorno, a Ferrara sarà al Cinema Apollo alle ore 21.

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La locandina

250 anni, tanti, ma allo stesso tempo così pochi per arrivare a contenere tanta bellezza. È, infatti, il 1764 quando la zarina Caterina II acquista 225 dipinti della raccolta d’arte di un mercante berlinese: nasce così, in pieno secolo illuminista, il primo germe dell’Hermitage, il museo russo che rappresenta una delle mete più amate dei viaggiatori di tutto il mondo. La zarina lo immagina come un luogo isolato, un eremo non lontano dalla Prospettiva Nevskij e con una magnifica vista sul fiume Neva: in francese ‘un petit ermitage’ dove godersi momenti di rigenerante riposo, circondata solo da pochi amici intimi e da opere d’arte. Il tour del film di Margy Kinmonth (regista pluripremiata anche per altre opere sulla storia del Teatro Mariinsky e sul balletto e l’opera russe) guiderà gli spettatori alla scoperta di alcuni dei tre milioni di pezzi conservati nel sontuoso scrigno di San Pietroburgo. Da quel 1764, infatti, la collezione si è allargata enormemente: la zarina Caterina non mancava di allargare pian piano la preziosa raccolta, man mano che se ne presentava l’occasione. Né furono da meno gli altri zar della dinastia Romanov, che anno dopo anno arricchirono la collezione aprendola al pubblico a metà Ottocento, quando per le vie della città si incontravano i grandi scrittori russi, Pushkin, Gogol, Dostoevskij, Tolstoj e Cechov. Così, passeggiando per le sue belle, luccicanti e sontuose sale, l’Hermitage è un vero tuffo nel passato, un concentrato di meraviglie che ha visto passare ricevimenti, momenti storici e rivoluzioni che ci fanno essere quello che siamo oggi.
Qui la città di San Pietroburgo viene chiamata la Venezia del Nord, e l’impressione di essere a Venezia a volte c’è davvero: i colori del crepuscolo, i canali, i ponti, la luce che si riflette nell’acqua, la sensazione di attraversare la storia, di esservi immersi a ogni piccolo passo, di vedere personaggi misteriosi, principesse, principi e, perché no, anche fantasmi.

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“Madonna Litta”, Leonardo
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“Amore e Psiche”, Canova

L’Hermitage parla italiano, non solo per i suoi Bartolomeo Rastrelli (che lo ha progettato fra il 1754 e il 1762 per la zarina Elisabetta), e Giacomo Quarenghi (al quale Caterina II, succeduta a Elisabetta diede ordine di costruire il teatro dell’Ermitage il teatro di corte che venne completato nel 1787), ma anche per i corridoi che sembrano quelli del Vaticano (scoprirò che la zarina aveva dato ordine di copiarli), i quadri di Leonardo da Vinci (qui c’è la “Madonna Benois” dipinta fra il 1478 e il 1482 e la “Madonna Litta” del 1590), le sculture di Giacomo Canova (qui si trovano quattro sue sculture fra le quali la bellissima “Amore e Psiche”), di Michelangelo 250-anni-hermitage“Ragazzo accovacciato”, Michelangelo(attribuito a lui il “ragazzo accovacciato”) e, infine, per il gemellaggio fra la città e Venezia (la Fondazione Ermitage Italia si trova ora nella città lagunare, dopo il trasferimento non privo di polemiche dalla nostra Ferrara, che, lasciatemi dire, non ha saputo cogliere l’opportunità di un tale gemellaggio). L’amore per l’Italia si respira nelle stanze ma anche nella città. E anche in altre città della Russia. La bellezza si parla con la bellezza, nessun miglior linguaggio per intendersi.

Ma in questo anniversario, godiamoci questo posto da sogno. Noi ci siamo andati recentemente. Eccovi allora alcune belle immagini, che vogliamo condividere con voi, cari lettori.
Buona passeggiata, allora, e fate buoni sogni…

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LA RIFLESSIONE
La rivincita del pensiero positivo

A tutti capita di pensare al futuro e quasi sempre lo viviamo con l’ansia dell’incognito. Cosa sarà di noi? Molti economisti, politici, intellettuali, spesso si sono misurati su questo tema. Proverei a parlarne anche io, senza la presunzione di avere certezze. Solo per dare qualche spunto di riflessione.
In una sintesi parziale e personale direi che siamo a questo punto: è cresciuta la popolazione (e con questa l’immigrazione e il razzismo), sono aumentate le diversità sociali e culturali, sono cresciuti i problemi di alimentazione e sofisticazione (vedi alimenti transgenici), è cresciuto il degrado ambientale e metropolitano (industrializzazione, urbanizzazione, criticità nei trasporti), vi è stata dispersione delle risorse idriche e naturali, con conseguente cambiamento del clima (catastrofi atmosferiche), ma soprattutto è aumentato lo squilibrio ricchezza-povertà e la disuguaglianza sociale.
Stigliz, nel suo libro “La globalizzazione e i suoi oppositori”, ci ha ricordato che la globalizzazione ha creato una società civile globale, ha migliorato le condizioni di salute e il tenore di vita, ha cambiato il modo di pensare della gente, ha servito gli interessi dei paesi industrializzati, ma non ha funzionato per molti poveri del mondo, ha determinato problemi all’ambiente, ripercuotendo l’instabilità a livello globale.
In generale, mi pare dunque che i principali trend di mutamento ci abbiano portato grandi rivoluzioni nel campo dei valori e nella produzione di simboli. La gestione dei sistemi tramite il sapere è stata sostituita da subsistemi interdipendenti a livello globale; i rapporti virtuali hanno vinto sui rapporti fisici. Questo, in contrasto con la crescita della creatività e della dimensione estetica. Nonostante il tempo libero abbia prevalso sul tempo di lavoro (anche se non ci sembra) e sia aumentata la consapevolezza che la qualità della nostra vita sia diventata una priorità. In fondo i nuovi valori emergenti sono diventati l’affettività, la soggettività, l’etica, l’affidabilità, l’estetica, anche se in contrasto tra loro.
Pesanti sono a proposito le riflessioni di Jacques Attali nel suo libro “Breve storia del futuro”, di cui ho sintetizzato alcuni passaggi: l’uomo di domani percepirà il mondo come una totalità al proprio servizio; vedrà l’altro come uno strumento per la propria felicità; un mezzo per procurarsi piacere e denaro. Non penserà più a preoccuparsi per gli altri: perché dividere se si deve combattere? Nessuno penserà più che la felicità altrui gli possa essere utile. La maggior parte non avrà più un posto di lavoro fisso. Per i più giovani viaggiare sarà il segno del progresso verso l’iperclasse. Delocalizzazione delle imprese ed emigrazione dei lavoratori ridurranno i redditi. La precarietà e la slealtà diventeranno la regola. Le leggi verranno sostituite con dei contratti, la giustizia con l’arbitrato. La fine della libertà, in nome della libertà.
In contrapposizione, i valori della società industriale sono diventati la massimizzazione della efficienza e della produttività, l’accentramento delle informazioni e del potere, la sincronizzazione dei tempi di vita e di lavoro, le economie di scala e la parcellizzazione delle mansioni, ma soprattutto la disoccupazione. Insomma, abbiamo rafforzato valori antagonisti. Lo sviluppo tecnologico ha accresciuto le disuguaglianze.
In un accennato ciclo dei fondamentali atteggiamenti intellettuali, siamo così passati dalla teologia e dal razionalismo, all’empirismo, al relativismo, allo scetticismo e al cinismo. Insomma ci siamo impegnati a farci del male.
Sennet nella “Cultura del nuovo capitalismo” ci ricorda che l’etica del lavoro sta cambiando e che tendono a scomparire i confini tra politica e consumo. Bisogna agire a breve, e nel breve, perché l’uomo deve essere flessibile (il “saper fare” moderno, l’artigiano della modernità). Ai lavoratori viene chiesto di comportarsi con maggiore flessibilità, di essere pronti a cambiamenti con breve preavviso, di correre continuamente qualche rischio, di affidarsi meno ai regolamenti e alle procedure formali.

Vorrei però credere anche che il pensiero positivo (senso dell’essere e progresso mentale) potrà vincere. Credo nello sviluppo della mente, della tecnologia multimediale come strumento di comunicazione per i diritti all’informazione, alla libertà individuale e al rispetto dei vincoli del collettivo, ai progressi della medicina, alla flessibilità nell’istruzione e nel lavoro (anche nella sua destrutturazione spaziotemporale).
In fondo anche Bauman (“La società individualizzata”) crede nella progressiva individualizzazione della società contemporanea, nonostante permangano sentimenti di paura per i singoli, apatia politica e paura di abbandono. Tocca a noi riprendere la vecchia arte di mantenere legami e valori. Insomma proviamoci.

Non solo politica: altri modi per partecipare

Ho letto che a Los Angeles gli amministratori stanno prendendo in considerazione l’idea di introdurre una lotteria per premiare i cittadini che andranno a votare per le elezioni locali, come soluzione per contrastare la bassa affluenza alle urne. Il progetto di lotteria è all’esame del Consiglio comunale che discuterà l’istituzione di un premio da 100mila dollari da dividere in quattro premi di 25mila dollari, o in 100 premi da mille dollari ciascuno per gli elettori più fortunati. La proposta scaturisce dal tentativo di invertire una tendenza al ribasso nella partecipazione degli elettori. Lo scorso anno, solo il 23 per cento degli elettori di Los Angeles ha partecipato alle elezioni amministrative, contro il 37 per cento del 2001. Coloro che hanno proposto l’idea argomentano: “Considerando che la nostra democrazia è una democrazia rappresentativa, se circa il 23 per cento delle persone scelgono i leader della città, dobbiamo chiederci se questi stanno davvero rappresentando la maggioranza”. Certo quando si parla di maggioranza o minoranza, è difficile ignorare la base reale sulla quale tale maggioranza viene calcolata.
Il problema esiste, al di là delle norme elettorali ed è riduttivo e ingenuo vederlo unicamente come l’esito di una caduta di reputazione delle istituzioni e dell’azione pubblica e, quindi, come un fenomeno che potrebbe essere invertito con una svolta di onestà. Condizione questa imprescindibile e auspicabile. La questione riguarda anche la trasformazione epocale dell’idea di partecipazione. Sul piano del rapporto con le istituzioni, credo che l’esercizio della cittadinanza vada spostandosi dalla decisione al controllo: da anni, del resto, il cinema americano ha messo in scena grandi campagne di opinioni sollecitate da episodi di corruzione o da scelte lesive della salute dei cittadini.
La partecipazione sta cambiando profondamente forma in una pluralità di modi. E’ stato coniato il termine di “hashtag activism” per descrivere quella forma di attivismo che si esprime con un post o con un like, senza che ciò comporti alcun serio impegno rispetto al tema, una modalità di risposta sociale superficiale che avrebbe il solo obiettivo di sentirsi a posto con la coscienza e poter dire di avere fatto qualcosa. Questa espressione “debole” di cittadinanza tende a banalizzare le questioni, producendo ulteriore disinformazione piuttosto che una crescita di sensibilità. Ma, obietterà qualcuno, è difficile stabilire in quali casi una campagna di opinione svanisca senza lasciare alcuna traccia e quando contribuisca a portare un tema all’attenzione dell’agenda politica.
Altre forme di partecipazione vanno profilandosi come contributo al bene comune: ad esempio, molte delle informazioni che noi utilizziamo in rete derivano dal fatto che i cittadini si scambiano esperienze in rete. Queste informazioni nelle città possono migliorare il traffico, ridurre i costi dell’inquinamento, massimizzare i vantaggi della creatività, ridurre i costi di molti servizi. È la sharing economy che comprende ormai diversi progetti nati grazie ai processi collaborativi che riguardano la sostenibilità ambientale, la riduzione dello spreco, Il salone dell’innovazione sociale del 7-8 ottobre a Milano ha trattato questi temi. Segnalo un solo titolo: “La sospesa: spesa consapevole, reciprocità, innovazione”. (www.csreinnovazionesociale.it)

Maura Franchi – Laureata in Sociologia e in Scienze dell’educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing, Marketing del prodotto tipico. I principali temi di ricerca riguardano i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@gmail.com

Ragazzi obesi, anche il computer è alleato del grasso

Milioni di persone muoiono di fame ogni giorno nei Paesi del Terzo Mondo, mentre altrettante soffrono di sovrappeso ed obesità nei paesi occidentali. Purtroppo il problema, che è oggi in costante crescita, colpisce specialmente i bambini e gli adolescenti. I dati raccolti dal ministero della Salute mostrano che la percentuale dei ragazzi italiani (fascia compresa tra i 6 e i 17 anni) che sono in eccesso di peso, ammonta al 26,9%, percentuale che aumenta tra i bambini che hanno dai 3 ai 10 anni (35,7%).
Le cause scatenanti questa grave problematica sono numerose. Prima di tutto, un’eccessiva e scorretta alimentazione nella fase infantile, è premonitrice di obesitá nella fase adulta. Se i bambini, nei loro primi anni di vita, ingeriscono un quantitativo esagerato di calorie e vengono nutriti nella maniera sbagliata, prendono peso che difficilmente riusciranno a perdere nel corso degli anni. Ciò avviene perchè l’iperalimentazione determina, oltre ad un aumento di volume delle cellule adipose (ipertrofia), anche un aumento del loro numero (iperplasia), pertanto, da grandi sará possibile ridurre le dimensioni delle cellule, ma non eliminarle.
Sono sempre stata contraria al comportamento ultraprotettivo di alcuni genitori perchè, personalmente, credo che per i bambini (e non solo!) sia una gioia mangiare gelati, merendine confezionate e in generale tutto quello che viene comunemente definito “junk food”. Sicuramente non si tratta di alimenti genuini, ma se mangiati sporadicamente di certo non danneggiano gravemente il nostro organismo! Sono le quantitá che devono essere tenute sotto controllo. Una corretta alimentazione è fondamentale per la crescita del bambino e il buon esempio deve venire prima di tutto dai genitori. Molti bimbi invece non mangiano frutta e verdura, privandosi così di principi nutritivi fondamentali; spesso inoltre i genitori, o perchè a causa del proprio lavoro non hanno tempo per cucinare o perchè invece non amano farlo, abituano i figli al cibo dei take-away. Ricordo una sera di aver accompagnato due miei amici in un McDonalds di Milano e di essere rimasta scioccata nel vedere che i consumatori erano soprattutto adolescenti e bambini in compagnia dei genitori.
Altro fattore responsabile dell’obesitá è la familiaritá. Nei ristoranti mi capita spesso di vedere adulti esageratamente grassi che invitano e spronano i propri figli, giá evidentemente in sovrappeso, a mangiare porzioni enormi di cibo. Provo solo tanta rabbia nei confronti dei primi e tanta pena per i secondi. Sono sicura che vedere il proprio bambino godere di ciò che mangia renda un genitore felice, perchè sono perfettamente d’accordo con chi sostiene che il cibo sia uno dei “piaceri della vita”; tuttavia, quei genitori che hanno abitudini alimentari scorrette e le trasmettono ai propri figli, dovrebbero capire che con tale comportamento non fanno il loro bene, ma ne danneggiano gravemente la salute. L’esempio della famiglia è quindi fondamentale: se i genitori non seguono una dieta equilibrata non possono infondere alcuna educazione alimentare.
Altro fattore determinante l’obesitá è la sedentarietá: quando i miei genitori erano bambini, i maschi giocavano con le macchinine, con il trenino elettrico o si trovavano nei cortili a giocare a pallone; le femmine invece vestivano le bambole o inventavano giochi da fare all’aperto. Quando io ero bambina si giocava con le Barbie, con le carte dei Pokemon o con i primi game boy e tamagotchi. Oggi invece tutto è diventato virtuale: i ragazzi passano troppe ore davanti ad uno schermo a giocare ai video games o direttamente online. Anziché incontrarsi fuori, ci si ritrova in casa dove si sta seduti per ore davanti a qualcosa che concretamente non esiste, rischiando di sviluppare lo Iad (Internet Addiction Disorder): si calcola che oggi in Italia il 70% della popolazione mostra segni di dipendenza da pc. Oltre al rischio di questa patologia, una sovraesposozione agli schermi porta gli individui a muoversi di meno, bruciare meno grassi e calorie e, di conseguenza, ad aumentare di peso.
L’esercizio fisico è di fondamentale importanza per il bambino che cresce in quanto, oltre a farlo dimagrire lo rende più attivo, contribuendo a ridistribuire le proporzioni tra massa magra (tessuto muscolare) e massa grassa (tessuto adiposo).
A tutti questi elementi si aggiunge il fatto che oggi non sappiamo cosa mangiamo, quali sostanze, conservanti e coloranti vengono usati dalle industrie. Ciò che è certo è che anche le adolescenti soffrono di cellulite, mentre 50 anni fa questo era un disturbo raro e sconosciuto alla maggior parte delle ragazze.
Abbiamo la fortuna di vivere nel paese che ha la cucina migliore al mondo, quella più variegata e saporita, ed è giusto apprezzarla, ma senza abusarne. Come in ogni cosa, gli eccessi sono sempre sbagliati e controproducenti. Chi è genitore deve capire che i figli non vanno costretti a mangiare, ma devono essere educati ed abituati a gustare i cibi e a scegliere quelli più salutari. Bisogna far loro capire fin dalla più tenera etá l’importanza di avere una vita sana, a cui sport ed alimentazione contribuiscono in maniera fondamentale. I giovani invece devono imparare a viziarsi quanto basta e a non abusare di hotdog e hamburger; a ridurre le ore spese davanti agli schermi e, perchè no, riscoprire i giochi e i passatempi di una volta.
L’obesitá non deve mai essere sottovalutata: spesso gli individui tendono ad ingrassare a causa di un malessere, un vero e proprio disturbo psicologico (stress, dispiaceri, solitudine, inadeguatezza,…), che può venir loro trasmesso o dai genitori o dalla societá in cui crescono. Nel rapportarsi con gli altri i bambini/ragazzi in sovrappeso possono perdere la propria stima, chiudersi in se stessi creando un proprio mondo parallelo in cui trovare conforto nel cibo o incappare nella problematica opposta e cadere nel baratro dell’anoressia.
L’alimentazione è uno dei tanti aspetti dell’educazione e come tale deve essere impartita dai genitori ai figli, ovvero da chi giá la possiede a chi ancora deve apprenderla. Purtroppo però non tutti gli adulti hanno questa accortezza e non prestano sufficiente attenzione ai disagi e ai problemi a cui spesso i figli vanno incontro; non si rendono conto che usano il cibo come arma per sopperire alle proprie sofferenze, facendo diventare ciò che dovrebbe essere un piacere una forma di dipendenza.

LA SATIRA
Contromano

In qualità di assiduo praticante dueruotistico, mi permetto di aggiungere il mio interessato parere ai tanti e tanti espressi nel dibattito che ferve in città sull’opportunità di emanare un provvedimento che consenta ai ciclisti di circolare contromano sulle strade a senso unico: NO!
Essendo i ciclisti ferraresi, nella loro intierezza, sia detto con rispetto, figli di madri di dubbia moralità – autoctoni, extracomunitari, intracomunitari, turisti, viandanti, parenti in visita compresi, sarà l’aria che volete che vi dica – se gli dai il dito del tragitto contromano loro si prendono il braccio dell’Impunità Totale. Già adesso, risalgono i sensi unici con la cocciuta frenesia dei salmoni in preda a fregola da accoppiamento, costringendo gli sventurati automobilisti che vengono giù tranquillamente per il loro verso a farsi da parte per non asfaltare gruppi di badanti ucraine in libera uscita, ragazzini che sciamano compulsando lo ‘smartfon’, pensionati che avanzano a pettine da marciapiede a marciapiede litigando sulla Spal e dispensando pacate espressioni di biasimo “ch’a ‘t jena al zzadròn a tì e a tuta la tò raza, arnani!” al pilota che li obbliga a restringere la formazione col rischio di strifelarsi la mano nel contatto manubrio con manubrio.
La delibera del Sindaco, dio non voglia, farebbe cadere tutta la variegata fauna dei pedalatori estensi nel delirio di onnipotenza, facendoli sentire autorizzati a salire sui marciapiedi affollati, passare col rosso, girare all’esterno delle piste ciclabili, viaggiare di notte senza fanali e catarifrangenti. Cosa che già fanno di prassi, intendiamoci, ma almeno con un qualche sottile senso di colpa.
Insomma, si finirebbe per creare un’emergenza umanitaria: non tanto per i ciclisti, che dai tempi dei tempi sono adusi a prevaricare tutte le altre categorie, nessuna esclusa, compresi gli autisti di tir, bensì per tutte le altre categorie, nessuna esclusa compresi gli autisti di tir di cui sopra, che rischiano di sbarellare di brutto, già ora che i bigaroli sono calmierati, figurarsi dopo.

LA RIFLESSIONE
Vecchi o solo anziani

Diventare vecchi per alcuni è un privilegio, ma per altri un problema. In questa regione gli anziani sono quasi un milione di persone (di cui la metà sono ultrasettantacinquenni). Nell’ultimo decennio l’incidenza della popolazione anziana è aumentata e tra vent’anni circa un terzo degli anziani avrà più di ottanta anni.
Crescono però fortunatamente anche gli anziani autosufficienti e i pensionati impegnati nel sociale.
E’ possibile pensare ad una importante e crescente forza civile che sia disponibile per gli altri, in cui l’anziano non sia indicatore di criticità ma anzi protagonista nella solidarietà? Ora che anche io sto entrando in questa categoria, me lo sto chiedendo spesso.
Mi piacerebbe chiamare in aiuto gli esperti delle scienze come geriatria (branca della medicina che si occupa non solo della prevenzione e del trattamento delle patologie dell’anziano, ma anche dell’assistenza psicologica, ambientale e socio-economica), gerontologia (scienza che studia le modificazioni derivanti dall’invecchiamento) e geragogia (scienza che studia tutte le possibilità per invecchiare bene).
Io però so che aumentano i bisogni e le richieste di offerta sostenibile in molti settori e territori e si potrebbe pensare di sviluppare un welfare sociale, sussidiario e non sostitutivo, sui temi della qualità della vita. Quando una città ha una buona qualità di vita, significa, infatti, che la maggioranza della sua popolazione può fruire di una serie di vantaggi politici, economici e sociali che le permettono di sviluppare con discreta facilità le proprie potenzialità umane e condurre una vita relativamente serena e soddisfatta. Su questi principi si stanno misurando da molto tempo istituzioni e associazioni, ma il loro impegno non è sufficiente se non produce processi di innovazione.
Se a questo dato di necessità si aggiunge che sul piano culturale si fa largo la convinzione che il sociale sia quasi un fattore produttivo, allora credo ci debba essere qualche ragione in più per contribuire a ripensare i rapporti sociali nel nostro territorio.
Bisogna allora aumentare l’area della responsabilità e sviluppare progettualità.
Dobbiamo promuovere l’impegno degli anziani nel volontariato e aumentare l’impegno civico; penso che il volontariato sia ricerca di relazioni con altri riconosciuti titolari di diritti e per questo dobbiamo metterci a disposizione per gli altri in una logica di reciprocità e responsabilità, per favorire in una parola lo sviluppo della “cultura della vecchiaia”.
L’invecchiamento attivo può dare agli anziani di domani la possibilità di sentirsi valorizzati con semplici opportunità di restare occupati e condividere la loro esperienza lavorativa, ma soprattutto di continuare a svolgere un ruolo attivo nella società. Serve qualche attenzione prioritaria a partire dalla opportunità di partecipare pienamente alla vita della società e consentire alle persone anziane di dare un valido contributo con il loro volontariato, ma soprattutto di permettere alle persone della terza età di vivere in modo autonomo grazie a strutture che tengano conto delle loro esigenze (alloggi, infrastrutture, sistemi informatici e trasporti).
La domanda dunque a questo punto è: come si fa?
Forse si deve accelerare prima di tutto la costruzione di reti di collaborazione e di relazione all’interno di strutture esistenti con le varie associazioni presenti sul territorio, con tutte le risorse disponibili, sia di carattere economico che sociale, a partire dal volontariato e dalla promozione sociale fino all’associazionismo sindacale. Per affrontare il duro, faticoso, difficile lavoro di “lavorare insieme, in modo integrato”, unica condizione per massimizzare l’efficienza e l’efficacia. Mi rendo conto che sono cose che si dicono sempre, ma che si fanno raramente.
Mi sia permessa una citazione che considero centrale. (Da la percezione di sé e ruolo politico degli anziani- Rapporto Sociale anziani Rer, gennaio 2010):
“Emerge una condizione soggettiva degli anziani che ne evidenzia la qualità e di massima la possibilità di poter contribuire in maniera ancora sostanziale allo sviluppo della vita sociale e civile della comunità regionale” “Se l’obiettivo per le giovani generazioni è di accelerare l’assunzione di responsabilità, bisogna dunque chiedersi come gli anziani (individualmente, collettivamente, attraverso le proprie rappresentanze ed organizzazioni) possono concorrere a questo scopo. L’assunzione di responsabilità può avvenire soprattutto attraverso la dimostrazione che non si tratta di una attribuzione sostitutiva (cioè prendi tu le responsabilità che fino ad ora sono state mie), ma attraverso un superiore livello di condivisione; prendiamoci, ognuno secondo le nostre possibilità, le responsabilità di tutti.”
La capacità delle persone, una volta invecchiate, di condurre vite socialmente ed economicamente attive è un diritto. È questa, in sintesi, la concezione di active ageing (“invecchiamento attivo”) espressa dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Ocse) e tenuta in gran conto da parte della stessa Commissione Europea, la quale prevede che entro il 2050 il tasso medio europeo di dipendenza degli anziani sarà attorno al 50%: ciò significa che se oggi, in Europa, ci sono circa 4 persone in età attiva per ogni persona over 65, nel 2050 ce ne saranno solo due. Politiche di integrazione lavorativa e di inclusione socio-culturale degli anziani possono dunque diventare elementi centrali di sviluppo, rafforzando la partecipazione della persona anziana alla vita attiva della comunità e contrastando le conseguenze negative legate a sensi di solitudine e inutilità sociale.

Essere anziani al giorno d’oggi significa fare esperienza di grandi cambiamenti nei ruoli assunti all’interno della famiglia e della società: basti pensare al pensionamento, da alcuni vissuto come perdita di un ruolo sociale, o alla scomparsa del coniuge, l’allontanamento dei figli, tutte occasioni che comportano la perdita di importanti punti di riferimento. Le relazioni sociali possono essere una risorsa fondamentale per l’anziano, il primo baluardo contro la solitudine, ma soprattutto, sostiene la psicoterapeuta Emanuela Boldrin, è utile “diffondere l’idea che la vecchiaia è una fase di vita, non necessariamente legata alla patologia e che rappresenta il naturale proseguimento di ciò che si era prima. È importante far vivere il concetto di cambiamento non come una limitazione ma come una nuova possibilità per coltivare diversi interessi e passioni”.
In ognuno di noi deve crescere la disponibilità a sperimentare e sviluppare nuovi progetti per il valore sociale. In successivi articoli proverò a fare qualche esempio e mi piacerebbe ritrovare la voglia di molti nel cercare soluzioni.

Il ‘boom economico’ del secondo dopoguerra: frutta, piccole-medie imprese e la Montecatini

STORIA DELL’INDUSTRIALIZZAZIONE FERRARESE (SESTA PARTE)

L’immediato secondo dopoguerra vide Ferrara alle prese con i disastri arrecati dal conflitto bellico: migliaia d’ettari di terre sommerse a causa dei danni provocati agli impianti idrovori, i ponti crollati sul Po, i nodi ferroviari impraticabili, le principali industrie della zona a nord-ovest distrutte, Pontelagoscuro rasa al suolo dai bombardamenti. Il numero dei braccianti agricoli superò le centomila unità e il pilastro della produzione agricola ferrarese, la canapa, entrò in una crisi irreversibile.
Nel corso degli anni Cinquanta, Ferrara divenne la capitale della produzione di mele, sorsero così magazzini, impianti frigoriferi, strutture per la lavorazione e la commercializzazione della frutta, imprese per il suo trasporto, fabbriche di imballaggi, industrie per la produzione e la conservazione, distillerie per la trasformazione in alcool della frutta di scarto. Il lavoro agricolo subì dunque un processo di “meccanizzazione”, incentivando la nascita di molte imprese dedite alla lavorazione dei terreni. Al contempo si insediò nella zona industriale il grande complesso della Montecatini, che rese la città un polo chimico di importanza nazionale.
Anche Ferrara fece la sua parte negli anni del “boom economico”, sebbene con caratteristiche strutturali diverse da quelle del modello emiliano, che privilegiava le piccole e medie imprese integrate fra loro. Verso la fine degli anni Sessanta, con l’esaurirsi del “miracolo economico”, entrarono in crisi alcune delle prime aziende della pionieristica industrializzazione ferrarese, come la Zenith e la Lombardi, oltre a diversi zuccherifici e conserve alimentari. «Ma mentre vecchi impianti smantellavano e vecchie gloriose imprese cessavano di esistere, altre novità stavano emergendo a fianco e al di sotto della tradizionale realtà produttiva. Stava decollando una rete di imprese artigianali e di piccole industrie più legate al mercato locale e al contesto emiliano. Anche Ferrara entrava nella graduatoria delle province italiane a maggiore incremento del reddito, pur conservando caratteristiche, contraddizioni e squilibri nel mercato del lavoro, forte stagionalità nell’occupazione, elevati indici di disoccupazione giovanile»*.

__________
* F. Cazzola, Economia e Società (XIX-XX secolo), in F. Bocchi (a cura di), La Storia di Ferrara, Poligrafici Editoriale, Bologna 1995.

Giallo di Francia al tempo di Carlo Magno

Un fatto storico misterioso da cui partire, un bel po’ di studi e la passione per la scrittura a dare voce alla fantasia. Duilio Chiarle, piemontese che nella vita lavora nella pubblica amministrazione, ha pubblicato “Le notti buie dei franchi” (ilmiolibro.it), un giallo storico ambientato a Tours nell’anno 781 dopo Cristo. Una morte misteriosa, un investigatore dell’epoca, personaggi della corte carolingia e un’accurata ambientazione come contorno.
Chiarle, alla base del romanzo vi sono numerose fonti storiche e letterarie, oltre che una ricca bibliografia che lei ha consultato, è evidente il tentativo di documentare un’epoca considerata ‘buia’. Da dove è partito?
“Diciamo che fantasia e ricerca sono andate di pari passo intrecciandosi continuamente. Ho consultato un centinaio di volumi, di cui cinquanta sono stati decisivi per la stesura dell’opera. Per citare solo alcune delle fonti che mi hanno aiutato nella ricostruzione di quegli anni, importanti sono state le lettere di Carlo Magno, Henri Pirenne, Barbero, Vita di Carlo Magno di Eginardo. La morte misteriosa di cui parlo è un fatto storico su cui io azzardo una congettura, la vittima è un personaggio della corte carolingia. Anche l’investigatore Aucario è realmente esistito, misterioso pure lui, una primula rossa del suo tempo”.
Perchè proprio l’anno 781?
“In quell’anno capitano diverse cose importanti, ad esempio l’ambasceria di Bisanzio a Carlo Magno, Pipino re d’Italia e altri avvenimenti documentati storicamente”.
Un libro ricerca?
“Sì, ci sono molte notizie sui franchi, armi, alimentazione, costumi, cultura, superstizione, ho cercato di andare oltre il fatto noir e ricostruire i dettagli dell’epoca funzionali alla storia”.
La notte, citata nel titolo quasi in tautologia con buia, è un elemento ricorrente nel romanzo…
“E’ vero, sembra una tautologia, ma in realtà la notte del medioevo era molto più buia di quella di adesso. La notte è una presenza fissa, è inquientante, è la foresta con le belve, la notte è pericolo, agguato, paura e demoni. Il buio è anche, nell’opera, l’oscurità dell’animo, qualcosa di non ben chiaro interiormente. La notte ha sempre esercitato fascino, anche all’epoca, ne scrive un trattato il monaco Fredagiso di Tours, ad esempio”.
Il mistero poi si risolve?
“Senza svelare il finale, posso anticipare che dopo 1200 anni, provo a indagare su un segreto di stato…”

Per saperne di piu: http://ifranchi.jimdo.com/

Corrado Govoni
e la poesia elettrica

Ho optato per una cifra neutra, oggettiva, selezionando per la letteratura ferrarese del nostro tempo, scrittori genericamente lineari e-o sperimentali (poeti video e-o digitali inclusi): opzione esclusivamente s-oggettiva creativa e meritocratica, secondo me; autori celebri, noti, meno noti, poco noti, audience o meno dei nomi e degli scrittori “storicizzati”. Non un mero dizionario meccanico, ma spesso la focalizzazione dell’opera più rilevante: secondo criteri critici, prossimi, sia a certa analisi transtestuale e aperta, suggerita, ad esempio dal postmoderno essenzialmente francese, Deleuze, Baudrillard, sia da figure celebri ma liminari quali Franco Rella, sia lo stesso Giorgio Colli che definì poeta anche chi vive come tale, al di là (ovvio relativamente) del prodotto-opera in sé. Tutti contemporanei, eccetto pochissimi, selezionati per certo ruolo archetipico fondamentali per la letteratura ferrarese (e non solo) di fine secolo e del primo Duemila. A partire da Corrado Govoni.

Corrado Govoni, nato a Ferrara (Tamara di Copparo, 1884), spirato a Roma (Anzio, 1965) resta tutt’oggi il più geniale poeta ferrarese del XX secolo, uno dei più grandi della letteratura italiana contemporanea. Dopo anni di relativo oblio, a partire dal trentennale della morte, l’editoria e l’ambiente poetico nazionale hanno riportato all’attenzione Corrado Govoni, capace di assurgere a suo tempo fra i protagonisti del futurismo e tra i più fedeli amici (almeno nella fase eroica dei primi tempi) di Marinetti e Palazzeschi: il carteggio di quest’ultimo con Govoni appare significativo, e altrettanto un eloquente tributo postumo del poeta al fondatore Marinetti (citato da De Maria in “Marinetti e il futurismo”). Tale riscoperta segue la riscoperta stessa del Futurismo, di cui sono stati recentemente promotori i vari Benedetto, Grisi, Agnese, Tallarico, Verdone e De Maria (ecc.).
Nel trentennale della morte (1995), Ferrara stessa con la rivista “Poeticamente” gli ha dedicato un omaggio contemporaneo, “Elettriche Poesie”, ricordandolo come poeta vivo e vitale di questi anni duemila (anche in “Rete a Ferrara” in versione trailer). Negli anni Ottanta, la città dedicò al poeta un importante convegno (centenario della nascita) ben puntualizzato anche da Antonio Caggiano, il noto critico e scrittore nonché cronista d’arte del Resto del Carlino. Corrado Govoni fu autenticamente futurista, cavalcò la rivoluzione della poesia italiana e mondiale, scoprì lo spirito moderno con colori squisitamente artistici. Al passo con i futuristi e con le avanguardie, Corrado Govoni immaginò e sperimentò un rinascimento moderno in netta polemica con il modernismo volgare e materialista che ha poi dominato l’intero XX secolo: Corrado Govoni anticipò – pure – con esiti raramente uguagliati, la Poesia visiva e le Neoavanguardie del secondo Novecento; e i vari Spatola, Sanguineti e Perfetti provengono tutti dalla lezione govoniana. Alle soglie del 2000, in particolare, i toni non solo aggressivi, ma aurorali, sereni e cosmici della poesia govoniana, rispetto alla ‘tradizione’ futurista (ad esempio, tra l’anarchismo letterario di Marinetti e il lirismo meccanico di Soffici), ci indicano autentiche preveggenze ecologiche di ovvia importanza: in Govoni, l’utopia futurista diventa un’utopia verde, futuribile, come è evidente anche in certo suo crepuscolarismo, una visione della macchina, tra i bordi di Spengler e lo stesso Marinetti.
Letto oggi, in Govoni non vibrano più soltanto virilismo guerriero, automobili, aeroplani e radio bellicose, ma anche auto elettriche, centrali solari e sensualità: la poesia del futuro come ecologia dirompente…

da “Dizionario della letteratura ferrarese contemporanea”, eBook a cura di Roby Guerra (Este Edition-La Carmelina, 2012)

Per ulteriori informazioni, visitare la pagina su Corrado Govoni in Wikipedia [vedi], la pagina di Roby Guerra [vedi] e il sito di Este Edition [vedi]

IL FATTO
In fabbrica c’è il robot, Cipputi resta a casa

L’annuncio della Volkswagen di voler sostituire con i robot una parte dei circa 32 mila lavoratori che andranno in pensione dal 2015 al 2030 è un cambiamento destinato ad avere ripercussioni importanti. La decisione della casa automobilistica tedesca è di natura economica: il costo del lavoro oggi è superiore ai 40 euro/ora contro gli 11 dell’Est Europa, i 10 della Cina; ma il robot oggi arriva a 5 euro all’ora e forse costerà ancor meno in futuro.
La Volkswagen continuerà ad assumere giovani ai livelli attuali, ha detto il capo del personale Horst Neumann. Ma non è solo questo il punto. Che nell’industria avanzata il ricorso ai sostituti meccanici sia in crescita non è una novità, mentre sotto i nostri occhi sta cambiando la natura del lavoro e l’apporto umano nei processi manifatturieri dei paesi dell’Ocse si sta profondamente modificando. Insomma, non più solo ‘homo faber’.
La robotica peraltro, invade sempre più le nostre esistenze: nelle aziende, nelle case, negli uffici, negli ospedali. Secondo l’International Federation of Robotics tra il 2012 e il 2015 verranno venduti nel mondo 15,6 milioni di robot. In Giappone oggi le vendite di sostituti meccanici superano le 20 mila unità all’anno in cui sono comprese modelle, badanti, cuochi robot. Tra l’altro, l’Italia è il quarto paese al mondo per l’utilizzo dei robot nella chirurgia. Arriveremo forse al personal robot, mentre si sta sviluppando la sperimentazione per ottenere umanoidi sempre più simili a noi.
Qualche considerazione. La prima: il cambiamento della natura del lavoro vedrà – sta già vedendo – tutti i soggetti interessati alle prese con questo problema. Il robot non si ammala, non protesta, non va in ferie, lavora 24 ore su 24: come sarà la fabbrica di un non lontano futuro? Meglio pensarci già da ora.
Seconda considerazione: lo sviluppo della robotica, che riguarderà applicazioni attualmente inimmaginabili in aggiunta a quelle attuali, è uno dei settori della nuova economia: anche in Italia, anche in Emilia-Romagna, dove possono svilupparsi nuove realtà produttive.
Da ultimo, cambierà il senso della vita. Se la rivoluzione elettronica in trent’anni ha così tanto modificato le nostre esistenze – non sempre in meglio – quella robotica cosa comporterà? Per adesso, abbiamo come principale termine di paragone la fantascienza o i film come “Blade Runner”. Tra pochi anni, che passeranno velocemente, non saremo più dentro un film.

L’EVENTO
Pittrice del Po a Casa dell’Ariosto

Alberi, rive del fiume, canne e foglie. Sono pezzetti di terra e acqua, di natura e cielo alle pareti per festeggiare l’88° compleanno della pittrice del Po, Carolina Marisa Occari. All’opera delicata e intensa dell’artista scomparsa pochi mesi fa, la Casa dell’Ariosto di Ferrara dedica una mostra nel giorno della sua nascita. Domani alle 17,30 l’inaugurazione con le opere di una vita intera. Disegni, acquerelli e incisioni realizzati dal 1946 al 2013.

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“La vecchia fornace a Serravalle”, acquerello di Carolina Marisa Occari

Curatori della mostra e del catalogo – edito da Marsilio – i figli dell’artista, Licia e Luca Zampini. Al critico Gianni Cerioli il compito di raccontare i percorsi dell’opera e dalla vita di Carolina.
Nata a Stienta – 18 chilometri da Ferrara e e 31 da Rovigo, di cui è frazione – a Ferrara studia e prende la maturità artistica al Dosso Dossi. A Bologna si iscrive all’Accademia di belle arti, dove è allieva di Giorgio Morandi, da cui impara così bene l’arte dell’incisione. Nel 1954 le sue acqueforti e riproduzioni a stampa ricevono il premio dell’Accademia per l’incisione e il primo premio per il bianco e nero dall’Università di Bologna. Ma, soprattutto, la sua capacità di rendere in bianco, in nero e in grigio paesaggi e immagini naturali le valgono la proposta del grande maestro e insegnante. Al termine degli studi, Morandi le chiede ufficialmente di fargli da assistente. Lei ci pensa, ma poi rinuncia. “Voleva restare vicina al suo fiume” racconta il figlio. Vicina al Po, che l’ha ispirata in tanti disegni e incisioni, anche durante l’alluvione del Polesine del ’51, quando realizza tante opere, ora conservate in collezioni private, all’Accademia dei Concordi di Rovigo e alla Cassa di risparmio del Veneto-Intesa San Paolo.
Luca – che il talento artistico materno lo ha riversato nella fotografia – ama ricordare Carolina con le mani quasi sempre macchiate d’inchiostro e i vestiti “pieni di patacche”. Una luce speciale illumina il suo sgardo, mentre ricorda una madre attentissima, che pure incarnava lo stereotipo del genio, capace di illuminazioni artistiche folgoranti, eppure tante volte così inconsapevole del mondo intorno o dei dettagli pratici. “Era un po’ persa – ride Luca – distratta. Figurarsi che da ragazza, sovrappensiero, una volta raccontava di essersi presentata a un distributore di benzina per fare il pieno al motorino, salvo poi rendersi conto di essere in sella alla bicicletta!”. Anche l’altra figlia Licia, che ha curato la catalogazione di tutte le opere, ha raccontato sorridendo del caos artistico degli oggetti della mamma, con alcuni disegni rintracciati perfino in mezzo ai panni.

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“Alluvione del 1951 a Occhiobello”, olio di Carolina Marisa Occari

Madre e artista, del resto, sono le due anime parallele di Carolina creatrice. Che anziché fare l’assistente del grande maestro Morandi si sposa e, dal 1958 al 1963, dà alla luce quattro figli. Intanto insegna a Tresigallo, Codigoro e altri comuni ferraresi per una ventina d’anni. Resta quindi così poco spazio e tempo per la sua vocazione artistica. Che però torna fuori appena i bambini crescono, e che la fa ricominciare a dipingere dal 1976. Da quel momento non smette più. In golena, nelle valli o seduta nel giardino della vecchia casa sul Delta del Po, Carolina acquerella fronde d’alberi e argini, tratteggia il vecchio ciliegio della sua gioventù, l’olmo, la quercia, come pure il verde intenso che coglie nel cortile alberato sotto la sua casa, nel condominio di via Francesco del Cossa affacciato sull’Istituto Canonici Mattei di Ferrara.
Le sue opere ora sono in mostra alla Casa dell’Ariosto, via Ariosto 67. Ingresso libero. Promotori dell’evento il Comune di Ferrara, Ferrara Arte, Biennale donna, Cassa di Risparmio del Veneto. Dal 12 ottobre al 7 dicembre 2014, ore 10-12,30 e 16-18, chiuso lunedì.

Leggi anche su Ferraraitalia: “L’addio a Carolina Marisa Occari: maestra d’incisione e allieva di Morandi insegnava agli studenti l’arte di guardare” di Davide Bassi

L’APPUNTAMENTO
Le tante vie dell’antimafia

Dopo la presentazione di Mafie del Nord. Strategie criminali e contesti sociali, lunedì mattina al dipartimento di Giurisprudenza, la Festa della legalità e della responsabilità 2014 torna ad affrontare il tema del radicamento della criminalità organizzata nel Nord Italia, cambiando però l’angolo di osservazione. L’appuntamento di lunedì con la ricerca curata dal gruppo di sociologi coordinato da Rocco Sciarrone ha rappresentato un momento di riflessione, in cui l’obiettivo era la ricerca di un metodo di studio del fenomeno per coglierne le diverse sfaccettature. La serata di mercoledì alla Sala Boldini, con la proiezione del documentario Romagna Nostra. Le mafie sbarcano in riviera, è stata ancora momento di riflessione, ma quella riflessione che nasce dalla denuncia. Il documentario è, infatti, il frutto dell’impegno dei ragazzi del Gruppo Antimafia Pio La Torre di Rimini che per più di un anno hanno lavorato alla ricostruzione del radicamento della criminalità organizzata tra Ravenna, Rimini, Riccione e San Marino: dal gioco d’azzardo dominato dai calabresi, all’affare del riciclaggio attraverso le strutture alberghiere controllato dalla camorra. Hanno realizzato interviste a giornalisti, avvocati, amministratori pubblici e magistrati, hanno letto gli atti delle inchieste e hanno ricostruito le operazioni della forze dell’ordine. E quando non hanno ricevuto attenzione o risposta da case di produzione e distribuzione a livello locale e nazionale, invece di lasciar perdere, hanno imboccato la strada del crowdfunding sulla piattaforma Produzioni dal basso, raccogliendo in brevissimo tempo i circa 2.000 euro con i quali hanno sostenuto le spese necessarie a realizzare il documentario. “Il nostro obiettivo è abbattere due stereotipi”, hanno spiegato Stefano e Davide, arrivati da Rimini per presentare il loro lavoro, “quello della negazione della presenza delle mafie al Nord” e “quello di una criminalità fatta di colletti bianchi, per cui sarebbe difficile riconoscere i mafiosi perché non utilizzano metodi violenti”. Romagna Nostra è quindi il racconto di fatti, aggressioni, intimidazioni, omicidi e sparatorie, avvenuti negli ultimi 25 anni in riviera.
romagna-nostra-le-mafie-sbarcano-in-riviera-2_673_676Due mezzi, due metodi diversi, che hanno in comune la ricerca, lo studio, la passione, l’onestà intellettuale. Per una maggiore consapevolezza di una realtà che ancora molti non riescono o non vogliono vedere, si possono percorrere entrambe le vie. Entrambi, infatti, la ricerca sociologica di Sciarrone e il documentario dei ragazzi riminesi, arrivano alle stesse conclusioni: “La mafia, lo ripeto ancora una volta, non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano. Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società. Questo è il terreno di coltura di Cosa Nostra con tutto quello che comporta di implicazioni dirette o indirette, consapevoli o no, volontarie o obbligate, che spesso godono del consenso della popolazione.” (Giovanni Falcone)

Ragionare da umani,
ragionare da alberi

Anni fa, durante un corso di specializzazione, rimasi colpita dalle parole di un relatore: “Se vuoi lavorare con gli alberi, ragiona da albero”. Forse si trattava di una battuta, forse era una citazione altrui, di certo chi aveva espresso questo pensiero non era esattamente uno qualunque, infatti si trattava di Gildo Spagnolli, una figura mitica per chi si occupa di giardini e di verde pubblico in Italia. Spagnolli ha praticamente fondato la Giardineria del Comune di Bolzano, da lui diretta con energia e competenza per quarantadue anni, creando un esempio di progettazione e di gestione delle aree verdi urbane, stabile e indipendente dalle logiche elettorali. È sufficiente aprire la pagina del sito della città di Bolzano, scorrere i servizi che fornisce la Giardineria e leggere con quanta chiarezza sono espressi, per renderci conto che stiamo parlando di un altro pianeta. Dal vivaio delle piante, ai giardinieri che le curano, fino ai progettisti e amministratori, la Giardineria fornisce un pacchetto di gestione completa, che delega agli esterni solo alcuni interventi di pulizia. Soprassediamo sul fatto che tutto questo ha determinato una conoscenza della complessità del sistema del verde della città che dovrebbe essere una componente fondamentale di chi lavora in questo settore, vorrei però sottolineare un aspetto della Giardineria che mi piacerebbe fosse obbligatorio ovunque: il vivaio comunale.

È evidente che produrre in proprio il necessario richiesto dai progettisti, garantisce una coerenza totale tra progetto e realizzazione e, soprattutto, la qualità delle piante stesse. Piante sane, ben formate, messe in terra nel momento giusto, sono un’ottima partenza per ridurre i costi di manutenzione nel tempo e permettere di ragionare in termini di piantagioni stabili, evitando il cava-e-metti delle annuali. Nel caso degli alberi, la qualità della pianta dovrebbe essere un obbligo, ma non è così. Gli alberi sono organismi straordinari, la loro forma, caratteristica per ogni specie, è una macchina perfetta che ne garantisce salute e stabilità. Quando un albero crea dei problemi, nella stragrande maggioranza dei casi è colpa degli esseri umani. I casi più frequenti sono quelli della diffusione di malattie che si trasmettono usando attrezzi infetti e non puliti, o ignorando le pratiche di smaltimento del legno malato (come nel caso della epidemia di cancro colorato del platano). Poi ci sono errori di piantagione, specie sbagliata per lo spazio a disposizione, con conseguenti sbancamenti di muretti e pavimentazioni, e errori di potatura. Gli alberi non amano le potature, i tagli su legno vivo sono delle ferite che permettono l’ingresso agli intrusi: funghi, parassiti, malattie varie e che possono compromettere la stabilità perché, interrompendo l’asse di crescita, si formano ramificazioni con angolature che, nel tempo, cedono per il loro peso. Basterebbe questo per pensarci bene prima di pigliare in mano una sega a motore e ridurre una pianta maestosa a uno scheletro di legno, eppure questa convinzione è talmente dura a morire che persino l’animazione di apertura di Google, nel giorno di equinozio d’autunno, ci mostrava degli alberi, che dopo aver perso le foglie, avevano la ramificazione tipica di un albero cimato, o ancora peggio capitozzato.
Intorno a noi è rarissimo vedere un albero con la sua forma caratteristica, perché per decenni ai giovani alberi veniva castrata la punta, si spezzava la “freccia”, il ramo che sale dalle radici e esce dalla terra diretto verso il cielo, per favorire una forma regolare, sferica e innaturale della chioma. Ma non c’è verso, continuiamo a ragionare da umani, “perché si fa così”, ma quello che può avere un senso per un albero da frutto che deve produrre molto e vivere poco, non ne ha per un albero che fiancheggia una strada, che fa ombra in un parcheggio o che ci delizia nei giardini. Per le alberature storiche, ormai, bisogna considerare caso per caso, ma per le nuove piantagioni impariamo a scegliere in base allo spazio disponibile, scegliendo piante ben formate e dritte. Ci sono alberi bellissimi, di tutte le forme e dimensioni e, se non abbiamo lo spazio per un gigante in giardino, impariamo a goderne la bellezza in un parco e a scegliere con criterio i nostri amici vegetali, in modo da evitare di ridurli a patetici moncherini privi di grazia e bellezza. Insomma, bisogna avere buon senso e cominciare a ragionare da alberi, e capire che quando un albero potato vigliaccamente produce uno sproposito di ramificazioni, non lo fa perché si diverte, ma perché ha paura e sta cercando di sopravvivere.

[La foto è di Raffaele Mosca]

IL FATTO
Elogio dell’uovo
oggi è la sua festa

Oggi è la giornata mondiale dell’uovo. Qualcuno potrebbe dire, e allora? Cosa ci importa, con tutti i problemi che abbiamo? A quando il giorno dell’insalata? Ormai c’è un giorno per tutto, ci mancava davvero solo questo. Eppure è già dal 1996 che si celebra questo giorno, quando la Commissione Internazionale di Vienna “Egg Commission” annunciò questo evento per il secondo venerdì di ottobre di ogni anno.
A pensarci bene, indipendentemente dalla convinzione personale sull’eterno dilemma “è nato prima l’uovo o la gallina”, l’uovo è davvero un prodotto naturale alimentare fondamentale, universale, alla base dell’alimentazione quotidiana di ciascuno di noi.
La diffusione dell’uovo nei paesi poveri, secondo la Commissione internazionale e la Fao, potrebbe salvare quegli 842 milioni di persone che in tutto il mondo, specialmente nell’Africa subsahariana, soffrono di fame cronica. Il direttore generale della Commissione ha dichiarato, inoltre, che, rispetto alla carne, la produzione delle uova ha un basso consumo di carbonio ed è più sostenibile ecologicamente. In media una gallina depone all’anno 300/325 uova: circa uno al giorno. Una buona notizia, dunque.
L’uovo è un alimento versatile: ci piace alla coque, sodo, in una bella e farcita omelette, al tegamino, nelle frittate, nelle quiche, nelle crespelle, nelle crepes, nelle mousse, nelle meringhe e nella pasta; i bambini vanno matti per le gialle uova strapazzate, lo zabaglione o le pastine e le torte, profumate di zucchero a velo, che lo contengono.
E’ senza orario, lo possiamo mangiare a qualsiasi ora della giornata, alla mattina a colazione, durante una pausa, a pranzo o a cena. Sodo, fa parte del ricco cestino del picnic che ci accompagna nelle scampagnate primaverili o estive, è quello di Pasqua, colorato, farcito, di cioccolato al latte o fondente. E’ un magico mondo a se’, indipendente, racchiude la vita e la crea. E’ il pulcino che spunta dal guscio, la mamma chioccia che cova, il caldo racchiuso al suo interno, il tepore di una casa.
Ha un costo ridotto, contiene proteine nobili, ha un basso apporto di calorie e grassi, è stupendamente miracoloso dal punto di vista nutrizionale ed economico.
Recentemente assolto dalle accuse di eccessivo apporto di colesterolo, i medici ne consigliano l’uso 3-4 volte a settimana. Perché apporta grandi benefici alla vista (per il suo contenuto di carotenoidi) e alla memoria (per la sua ricchezza in colina che, se assunta in gravidanza è un fattore determinante per sviluppo delle capacità mnemoniche del bambino); perché le proteine dell’uovo sono di altissima qualità, seconde solo a quelle del latte materno, e il tuorlo è uno dei pochi cibi naturali che contengono una buona dose di vitamina D. Questo alimento è importante per cervello e muscoli, ma la lista potrebbe facilmente continuare. I giapponesi ne consumano quasi uno al giorno, gli italiani circa 20 al mese. L’uovo, giudicato «il cibo più buono del mondo» anche da Dante Alighieri, è un alimento davvero unico nel suo genere, perciò oggi, non dimenticate la Giornata Mondiale dell’Uovo. E fatevi una bella frittata.

LA RIFLESSIONE
Fisiognomica e politica

E così passa al Senato il fonologicamente – a seconda degli/delle speakers – detto Jobbs Acht, Jobs Echt e dal premier Renzi Jobs Ek. Naturalmente tra voli di libri, urla, e scalate alla presidenza dove lo sbalordito testimone incontra sconvolgimenti di grigie grisaglie fotografate mentre s’inerpicano sui banchi. E visi deformati dall’ira, gote enfiate (le “enfiate labbia” di dantesca memoria), le barbe sempre più folte (notevole anche quella del sindaco di Roma tenuamente brizzolata), e lo svolazzìo di orribili cravatte.
Ma una notizia lieta viene riportata dai quotidiani: i ‘barbudos’ più famosi d’Italia resteranno nella loro casa e non affronteranno lo stress dell’esibizione delle loro nudità all’Expo milanese. Parlo naturalmente dei Bronzi di Riace.
Alla scompostezza della politica si associa una riflessione.
Per calmarmi dalle desolanti notizie che ci propongono i telegiornali (inequivocabile l’avvio ogni sera, minacciosamente severo, di “mitraglia” Mentana), offre oasi di pace e di bellezza un canale televisivo che propone la musica più fastosamente eseguita da geni solisti e da grandi compagini orchestrali. Osservando quei volti, brutti, belli, giovani e vecchi, si nota una dignità sovrana mai turbata, anzi esaltata, dalle smorfie, dagli atteggiamenti innaturali obbligati dalla necessaria compenetrazione con lo strumento: labbra strette nella compagine degli strumenti a fiato, silenziosi scatarrii tra le trombe, braccia e colli tesi tra gli archi. Tutto si armonizza in una dignità che trova origine e salvezza dalla bellezza e dallo spirito. Se si potesse esprimere in una figura la nobiltà dello spirito, sceglierei quella dell’ottantenne Arthur Rubinstein mentre suona il concerto n.2 di Chopin. Dignità, bellezza, spirito: ciò che dovrebbe essere l’aspirazione dell’umano.
A differenza, e mi dispiace constatarlo, nelle aule parlamentari dove l’umanità più scomposta riduce la fisicità a bisogni primari, quasi tutti appaiono brutti perché scomposti. La fretta – o l’urlo – che dismaga la naturale dignità umana. Sibili, vociate, gesti sconvenienti sono dunque il riflesso di ciò che si pensa debba essere la lotta politica? E a questo punto, l’atteggiamento formale del Presidente della Repubblica appare o dovrebbe apparire modello di comportamento. Sempre più i personaggi della politica si fondono e si confondono con la satira di Crozza e perdono di carisma e di serietà. Ho ripreso in mano uno dei testi più corrosivi della nostra tradizione letteraria contemporanea. Un pamphlet di Carlo Emilio Gadda recitato in Rai, terzo programma il 5 dicembre del 1958 dal titolo “Il guerriero, l’amazzone, lo spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo”. Tra i protagonisti, la dama Donna Clorinda Frinelli, il professor Manfredo Bodoni Tacchi e l’avvocato Damaso de’ Linguagi, scoppia una diatriba sull’importanza del Foscolo, della sua poesia e del periodo storico di cui fu protagonista. Alla vacuità della dama e all’importanza seriosa del professore, si oppone il dissacrante avvocato che Insulta Bodoni Tacchi con l’inversione del nome: TaccaBodoni o ancor più il riferimento a un famoso B. (non è una premonizione ma l’indicazione di Bonaparte detto anche il Nano!) fatta da de’ Linguagi, insultato a sua volta col nome di Linguaggia.
Ecco, dunque, che tutto ritorna alla parola, alla capacità della parola di dire tutto e oltre il tutto; ma quando la parola, ridotta a mezzo politico s’isterilisce e si contrae in se stessa, perde di veridicità e non si conforma più alle cose.
Ancora segnali fisiognomici nel quartetto ferrarese scelto per la Regione. Nella foto ufficiale due candidati, una donna e un uomo, si presentano con l’ormai abusato sciarpone annodato al collo, ultimo riferimento ad un vezzo modaiolo adottato dalla politica. Gli altri due si presentano, invece, con una renziana camicia bianca.
Non sarà un segno di un’imitazione – assai facile da decodificare – che non trova, purtroppo, una sua originalità e semplicità di messaggio?

Osteopatia in ambito
neonatale e pediatrico

L’osteopatia in ambito neonatale e pediatrico rappresenta una reale medicina preventiva. In caso di nascita naturale, rappresenta una terapia imperiale ed elettiva che permette al neonato di superare il trauma da parto. Anche in caso di cesareo, l’osteopatia permette il ripristino del meccanismo di respirazione primario, un meccanismo che controlla tutte le fasce del tessuto del neonato e che avviene prima del normale respiro toracico, già intorno alla quarta settimana di vita intrauterina. L’osteopata si prende attenzione del bebè considerandolo come una un’unica unità funzionale di corpo, emozioni, mente e spirito.
In molti Paesi del nord Europa e negli Stati uniti, viene data grande importanza al ruolo dell’osteopata che affianca l’ostetrica in sala parto, assistendo alla dinamica del parto per poi verificare, nell’immediato, se la dilatazione e la contrazione delle ossa del cranio, che sono collegate al sacro attraverso la dura madre (una membrana quasi inestensibile), avviene rispettando i limiti fisiologici.

osteopatia-neonataleDurante il passaggio della testa del feto lungo il canale del parto, si determina un modellamento delle ossa craniche ed uno stimolo meccanico essenziale per uno sviluppo regolare di tutto il corpo. Se questo viene a mancare, come in caso di parto cesareo, l’intervento dell’osteopata può rendersi necessario per favorire una crescita più corretta possibile. La pressione subita dal cranio al momento della nascita può rappresentare un fattore determinante per l’ossificazione delle ossa craniche. Inoltre, la pressione e la compressione che il cranio riceve, nel passaggio dal canale pelvico, può creare irritazioni dei nervi cranici del neonato. In età fetale il bambino possiede una grande malleabilità delle ossa del cranio e, a causa dell’espulsione e delle enormi pressioni cui è sottoposta la testa durante la nascita, questi può subire una deformazione del cranio stesso. Si spiega infatti come, per via di un difficile travaglio, molti neonati abbiano una forma strana del cranio (ad esempio un cranio allungato, naso più schiacciato, occhio più chiuso…). Spesso le deformazioni del cranio durante l’espulsione si riassestano completamente col tempo. Talvolta, però, se la nascita è stata difficoltosa, questo processo non si verifica in maniera completa, con conseguenti alterazioni di mobilità di alcune ossa craniche, non ancora saldate, e la possibilità quindi di sviluppare disfunzioni a carico del sistema visivo e occlusale. I tessuti conservano spesso le asimmetrie delle pressioni e degli stiramenti subiti. Ogni regione del corpo può essere lesa e a causa dell’interdipendenza, ogni disequilibrio si ripercuote a distanza.

osteopatia-neonatale

Nel parto cesareo, a causa del gioco di pressioni, si possono riscontrare problemi. Vi è una notevole pressione all’interno della pancia ed una pressoché nulla nell’ambiente esterno. Il feto, durante il passaggio diretto dall’ambiente fetale al mondo esterno, è sottoposto ad una forza come di trazione del cranio in senso trasversale ed una successiva difficoltà di adattamento alle nuove pressioni. In entrambi i tipi di parto, se l’adattamento fisiologico del cranio non avviene, l’osteopata può intervenire per riequilibrarlo e per permettere una migliore fisiologia, eliminando le disfunzioni ed evitando che queste si possano manifestare in futuro. A seconda della disfunzione cranica presente, nel bambino possono infatti manifestarsi successivamente problematiche specifiche. Difficoltà respiratorie, suzione, irrequietezze, allergie, asma, faringiti, riniti, sinusiti, otiti, adenoidi, possono essere legate ad un’alterazione del movimento delle ossa del cranio o di una scorretta mobilità del diaframma toracico.

Sintomi legati a problemi di disfunzione cranica al momento della nascita:
• la presenza di disturbi del sonno, suzione difficoltosa, rigurgiti, difficoltà a deglutire, agitazione e irritabilità, coliche possono essere legate ad una tensione o compressione delle suture o dei tessuti membranosi intracranici che tendono a creare un’irritazione di strutture nervose alla base del cranio;
• le alterazioni a carico della colonna e del sacro possono dare luogo a manifestazioni posturali che si evidenzieranno durante la crescita come scoliosi, dismetrie e dimorfismi degli arti inferiori (ginocchia vare, valghe, alterazioni dell’arco plantare);
• la presenza di emicranie, cefalee, strabismo, cattive occlusioni possono essere legate a lesioni o tensioni delle membrane intracraniche o cranio-sacrali .

Desidero far comprendere che gli studi sul cranio e sul suo movimento sono ormai una realtà e che, nel mondo culturalmente avanzato, gli osteopati qualificati intervengono già due ore dopo la nascita, in collaborazione con i medici specialisti.
E’ importante dare ai futuri genitori questo tipo di informazioni, i pediatri dovrebbero documentarsi di più e divulgare l’importanza della scienza osteopatica in ambito craniale.

“I tessuti posseggono una loro memoria” (J. Barral) e tutto rimane impresso.
Per questo è importante l’osteopatia nei bambini, perché evita che le disfunzioni si strutturino.

LA PROPOSTA
Un disegno unitario per rivitalizzare piazza Castello e piazza Repubblica

Proviamo a immaginare Repubblica e Castello come un’unica piazza. Un enorme contenitore urbano di oltre cinquemila metri quadri (centotrenta di lunghezza con un’ampiezza media di quaranta) tutto da reinventare. Oggi piazza Castello è ridotta a disordinato e poco dignitoso parcheggio semiabusivo in cui autorizzati, ‘parautorizzati’ e affini – specie la mattina – sostano senza pietà e senza adeguato controllo o disciplina accanto al monumento più rappresentativo della città.
Piazza Repubblica in compenso non si sa nemmeno cosa sia: retrobottega di ‘soft drugs’, ripostiglio di negozi che tengono vetrina in via Garibaldi, area di sgambamento barboncini, munita solo di un triste lavacro (una fontana peraltro senz’acqua) cinta da alberi maleodoranti (le loro bacche in certi periodi dell’anno sono davvero fetenti, fateci caso: quell’odorino che sentite non sono escrementi di cani, sono gli alberi!).

Le due piazze contigue andrebbero certamente liberate dai veicoli, ripensate nell’arredo e nell’utilizzo e potrebbero forse essere ricongiunte in un unico disegno urbanistico, chiudendo il varco d’accesso fra la chiesetta di san Giuliano e il muretto del castello, creando così un rettangolo sghembo, una sola grande piazza con elementi interni di richiamo che diano unitarietà all’area.

Lo spazio così ridefinito potrebbe più agevolmente sviluppare con sistematicità quella vocazione che già negli anni ha sedimentato: quella di essere teatro di eventi, spettacoli, concerti. Potrebbe continuare a dare ospitalità ai mercatini d’arte, antiquariati e modernariato. E potrebbe persino rappresentare una soluzione per la spinosa questione del mercato del venerdì, offrendo un accettabile punto di compromesso fra chi considera accettabile che i banchetti dei venditori ambulanti stazionino in pieno centro e coloro invece che vorrebbero allontanarli dalla zona monumentale. Se proprio non si vuole evitare di esibire maglie e mutande in piazza, per una volta alla settimana allestire il mercato in questo grande e un po’ defilato contenitore sarebbe forse un male sopportabile anche per chi, come noi, lo considera – letteralmente – fuori luogo.
La grande piazza Repubblica-Castello e l’ampia strada di accesso dal fronte di viale Cavour potrebbero infatti ospitare, se non proprio tutti, almeno gran parte dei venditori, creando magari due aree mercatali distinte: una fra piazza Travaglio e corso Porta Reno. L’altra, appunto, fra piazza Castello e piazza Repubblica.

In ogni caso le auto dovrebbero essere bandite da tutta l’area. Normalmente ne stazionano una quarantina, con particolare accanimento nella prima parte della giornata. Non è accettabile che per il comodo di qualche decina di persone si comprometta il decoro di una piazza così rappresentativa, il cui godimento deve essere sempre garantito a tutti i cittadini e ai turisti, che nel centro storico di una città patrimonio Unesco si attendono di poter ammirare i monumenti e non di dover sopportare un parassitario traffico automobilistico.

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Piazza Castello e sullo sfondo piazza Repubblica

IL RICORDO
La sua Africa.
Vita di Giorgio Giaccaglia
il dottore buono di Tharaka

Questo libro “è la testimonianza che nella vita esistono dei valori”, scrive Gian Pietro Testa nella postfazione, e che ogni tanto “il mondo ha una buona stella che gli permette di andare avanti”.
Mercoledì 15 ottobre alle 18, al Ristorante Guido e Galleria d’Arte Marchesi di via Vignatagliata 46, Gian Pietro Testa, noto scrittore e giornalista ferrarese, presenta il libro di Giorgio Giaccaglia, “Storie africane di un chirurgo atipico”.

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Giorgio Giaccaglia

Anestesista e chirurgo, dopo aver lavorato diversi anni al Sant’Orsola di Bologna, dal 1982, per vent’anni, Giaccaglia è stato primario anestesista agli ospedali del Delta di Lagosanto e San Camillo di Comacchio, e l’ideatore del progetto di Gestione delle Emergenze per la Regione Emilia-Romagna. Negli gli ultimi 13 anni della sua vita si è dedicato all’assistenza delle popolazioni africane, fondando due ospedali missionari, uno in Kenya, a Tharaka, e uno in Tanzania.

Il libro è un racconto-diario delle sue esperienze di medico in Eritrea, Kenya e Tanzania, scritto quando la sua salute stava già declinando a causa di una grave malattia, tra il 2009 e il 2011. Testa e Giaccaglia erano legati da un ultratrentennale rapporto, fatto di amicizia e condivisione, nato ai tempi della spedizione umanitaria in Eritrea a sostegno della popolazione, durante la guerra contro l’Etiopia: era il 1979 e nel mondo dominava la Guerra fredda, il giornalista inviato dall’Unità descriveva gli eventi nei suoi reportage giornalistici, mentre il medico ne affrontava le emergenze sanitarie.

“Era un’avventura straordinaria: in breve tempo riuscimmo a operare in territorio di guerra. Mai nessuna équipe italiana, dopo la Seconda guerra mondiale, era andata in una zona bellica per portare soccorso medico chirurgico.”

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Eritrea 1979. I primi da destra, Gian Pietro Testa e Giorgio Giaccaglia

Testa andò una seconda volta in Africa con l’amico medico, quando quest’ultimo decise di costruire un ospedale a Tharaka, con loro portarono un mattone della Cattedrale di Ferrara, dono della Curia, e che sarebbe stata la prima pietra dell’ospedale.
Poi, “era l’inverno del 2009”, ricorda Gian Pietro Testa con grande commozione, “dovevamo andare a sciare a St. Moritz, lui mi chiama e mi dice: “Questa volta non posso venire amico mio, ho un tumore al pancreas.” E da quel momento si dedicò a scrivere, con le forze che gli rimanevano, le sue storie africane.”

Nel racconto il medico ripercorre i momenti difficili e tragici ma anche le soddisfazioni, ricorda i nomi, i volti e le ferite dei suoi pazienti, le figure che gli indicarono la strada del suo percorso umano e cristiano, e tutti i colleghi che condivisero la realizzazione del suo sogno: portare soccorso alle popolazioni “più povere e più diseredate della terra” e costruire ospedali in zone dimenticate dal mondo. Racconta anche di tutti coloro che, associazioni, amici, enti, istituzioni, aiutarono l’iniziativa giaccagliana. Tante le foto a documentare il lavoro di quegli anni. Esperienze straordinarie di un uomo di grandi capacità professionali e di immensa generosità, che nel suo “fare” per chi ha più bisogno ha dato senso a tutto il proprio esistere.

Giorgio Giaccaglia, “Storie africane di un chirurgo atipico. Mpira… Wapi?”, Ed. Pendragon, Bologna, 2014, pp. 155

Io sono Li, storia
d’immigrazione e d’amicizia

Una storia d’immigrazione difficile, dura e complessa ma anche una bellissima storia d’amicizia, fatta di tenerezza, di attenzioni e di grande umanità.

Shun Li (Zhao Tao) passa le sue giornate fra un duro lavoro, senza orari, né pause né diritti, e un’anonima (e triste-grigia) casa, prima in un laboratorio tessile della più sperduta e tentacolare periferia romana, poi nella piccola, nebbiosa e umida Chioggia. Lavora per rimborsare il suo debito, fatto dei soldi necessari a ottenere un permesso di soggiorno per l’Italia e dei documenti per farvi arrivare il figlioletto di otto anni. Per “aspettare la notizia” dell’estinzione del debito e dell’arrivo del piccolo.

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Locandina del film

L’Italia è sullo sfondo, questa terra di sogni, speranze e desideri, dove una laguna, come quella veneta, accoglie ma anche intrappola, come l’acqua che non arriva tutta al mare. Chioggia sarà l’acqua ma anche la sua osteria, un posto caldo e accogliente, dove Li trova lavoro, ma anche comprensione, in tanta solitudine, e amicizia. Quell’amicizia che sfida ogni barriera, quella di Bepi (Rade Sherbedgia), “il poeta” pescatore di origini slave, immigrato in Italia ai tempi di Tito, trent’anni prima. Una fuga poetica, un dialogo silenzioso, sommesso e intenso fra culture.

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Li e “il poeta”, una scena del film

Ma l’amicizia tra i due turba le due comunità, quella cinese e quella chioggiotta, che ostacolano questo nuovo e avvincente viaggio, di cui forse hanno semplicemente ancora troppa paura. I pregiudizi restano duri a scalfiggere e a morire.
Ci sono lirica, poesia, sorrisi, leggerezza, delicatezza, incontri fra solitudini che si sfiorano, frasi non dette, situazioni insolite e insolute, in questo film. Quasi una favola.
Il paesaggio è spesso opaco ma un bel giorno è illuminato dalle lanterne, a forma di fiore in carta velina rossa, usate nella festa del grande poeta cinese Qu Yuan (340-278 a.C.) luci tremolanti che scorrono sulla laguna. Le poesie si parlano, qui. Sommessamente.
L’integrazione si dimostra difficile. Le due comunità non hanno una vera possibilità di comunicazione e il pubblico ha bisogno dei sottotitoli per comprendere la lingua di entrambe (cinese e dialetto di Chioggia). Shun Li un giorno deve andare.

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Una scena del film

Se le speranze sembravano perse, un felice colpo di scena salva Li, che si sentiva già condannata a lavorare per sempre per ripagare il suo debito: un giorno, inaspettatamente, arriva il figlio. Qualcuno ha pagato per lei e non si tratta certo di un italiano, al quale non è concesso farlo (anche se tutti abbiamo pensato all’amico Bepi).
Bepi si trasferirà dal figlio a Mestre e morirà presto, malinconico, ma è anziano. Per questo non ci sono lacrime, solo il rimpianto di non aver potuto rivedere per l’ultima volta Shun Li, che in suo onore innalzerà una pira di fuoco bruciando il suo “casone” (la palafitta utilizzata come rimessa e riparo dai pescatori), che lo stesso Bepi le ha lasciato.
Tutto, qui, è unito dall’amore per la poesia, la vita e le piccole cose.
Film toccante e sincero, una favola tenera, dolce-amara che non lascia certo indifferenti.

Io sono Li, di Andrea Segre, con Zhao Tao, Rade Sherbedgia, Marco Paolini, Roberto Citran, Giuseppe Battiston, Giordano Bacci, Spartaco Mainardi, Zhong Cheng, Wang Yuan, Amleto Voltolina, Andrea Pennacchi, Guo Qiang Xu, Sara Perini, Federico Hu, Hi Zhijian, Ni Jamin, Francia-Italia 2011, 100 mn.

LA STORIA
L’agronomo che studia l’inquinamento e sogna
di coltivare la terra

Andrea Mantovani, 27 anni, una laurea in agronomia in tasca e un sogno nel cassetto, aprire un’azienda agricola a Comacchio, la sua terra d’origine. Ma le possibilità di farlo, per sua stessa ammissione, sono ridotte a un lumicino: troppi costi e sostegno quasi inesistente ai progetti dei giovani. E il dottorato di ricerca oscilla tra l’improbabile e l’improponibile. “Non solo è difficile ottenerlo, ma non si concilia neppure con le esigenze e la possibilità di costruirsi un lavoro. Alla fine del dottorato, sei troppo vecchio per il mercato – spiega – Siamo in Italia, la ricerca non ha la giusta considerazione, del resto lo si vede dall’arretratezza della nostra agricoltura, povera di innovazione al contrario di quanto succede in altri paesi, come ad esempio la Francia. Non è un problema legato alla tecnica, bensì alla nostra politica agricola”.

Niente di nuovo sotto il sole, i giovani come Andrea non possono evitare di accarezzare l’idea di trasformarsi in migranti laureati. Al momento pare la sola alternativa al vuoto proposto dal nostro Paese, dove l’Istat ha rilevato tra i giovani fino ai 25 anni un tasso di disoccupazione pari al 44,2 per cento. E’ una realtà inconfutabile, tuttavia la passione e l’amore per un mestiere specializzato non si sfalda di fronte alle difficoltà. E per Andrea non è stato diverso. Parte della sua scelta di studi è maturata in Legambiente Circolo Delta Po, frequentato fin dalle scuole elementari nella consapevolezza dell’importanza di frenare l’inquinamento. “Sarà per questo che la tesi finale del quinquennio riguarda la qualità delle piogge e i cambiamenti climatici prodotti dall’uomo”, racconta.

Quattrocento campioni raccolti nell’azienda agricola sperimentale dell’Università di Bologna Alma Mater, analizzati nell’arco di un anno grazie alla collaborazione con il laboratorio di Chimica dell’Università di Bologna, hanno scattato una fotografia di quanto succede nelle campagne vicino alla città, dove agricoltura e industria convivono fianco a fianco. “L’azienda si trova a ridosso di Bologna, in zona Castenaso e dintorni dove insistono alcune piccole realtà industriali, l’autostrada e un termovalorizzatore che brucia rifiuti – spiega – La tenuta è praticamente assediata e risulta ricca di nitrati e solfati. Lo si è stabilito dopo differenti approfondimenti, perché la lavorazione agricola rendeva i campioni raccolti quasi neutri, sembrava non ci fosse nulla di particolarmente anomalo, invece è stato rilevato un inquinamento superiore a quanto ci si aspettava”.

Relativi a polveri sottili, nebbie, piogge e depositi nel terreno, i dati sono stati comparati con quelli del centro cittadino, assai più sano dal punto di vista della qualità dell’aria. “I provvedimenti presi, che vanno dalla revisione degli impianti di riscaldamento alla limitazione del traffico, sembrano aver dato risultati positivi – continua – E’ invece evidente quanto ci sia da fare sul fronte industriale, il sistema è troppo vecchio per rispondere alle eco esigenze attuali. Le imprese dovrebbero essere messe in condizioni di sposare innovazioni tali da limitare i danni all’ambiente e alla salute delle persone”. I danni alla vegetazione, frutta e verdura inclusi, sono in parte la conseguenza di un immobilismo che danneggia indirettamente l’uomo quando mangia e respira il peggio del progresso. Eppure si sa. La diagnosi di malattia figlia delle piogge acide è conclamata, del tutto nebulosa la cura, un interrogativo stampato sullo sfondo di mille ritardi, primo tra i quali il rispetto del Protocollo di Kyoto sul quale, per dirla con Andrea, siamo molto indietro.
Il rimedio dovrebbe arrivare da politiche illuminate, ma il buio è dappertutto, siamo ancora all’anno zero stretti tra silenzio politico, arretratezza e interessi di categoria.

Data la situazione è normale chiedersi: cosa succede ai dati raccolti dagli universitari? Li si tiene in considerazione o sono solo una pratica fine a se stessa? “A livello accademico hanno un loro peso specifico – prosegue – Ma non è chiaro se vengano utilizzati da Arpa (Arpa è l´Agenzia regionale per la prevenzione e l´ambiente dell´Emilia-Romagna, ndr), sarebbe una cosa auspicabile, tanto più che comporterebbero un esborso di denaro inferiore rispetto alle analisi”. Nel Paese dei “doppioni” – dove Andrea troverebbe utile estendere lo studio alle città emiliano romagnole per mettere a punto soluzioni ambientali – tutto è possibile. Del resto ricerca e innovazione sono la cenerentola italiana: perché mai affannarsi nel tentativo di prendersi e dare futuro? Molto meglio adagiarsi su una comoda poltrona. E’ questione di essere fedeli alla tradizione.

LA PROPOSTA
Sculture, arredi floreali e caffetteria per il Giardino delle duchesse

Basterebbe davvero poco. Poco per rendere il Giardino delle duchesse uno spazio piacevole e accogliente. Così è desolante. Ed è un peccato perché questo salotto verde in pieno centro storico è una chicca che ha pochi eguali nelle altre città d’arte. Ferrara lo ha riscoperto solo nel 2007, dopo secoli di abbandono, in occasione delle celebrazione per la Ferrara rinascimentale volute dalla giunta Sateriale. Ma per recuperare quello scrigno i Verdi si battevano già da vent’anni.
Le sporadiche aperture iniziali sono divenute via via sempre più frequenti nel corso di tutto l’anno per impulso dell’attuale Amministrazione. Vengono ospitate presentazioni di libri, incontri, spettacoli musicali, eventi ludici, commedie, iniziative enogastronomiche, la pista di pattinaggio sul ghiaccio, intrattenimento per bambini.

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Il Giardino delle duchesse visto dal cielo

Ma per quanto riguarda il decoro, poco si è fatto. Al di là di uno spelacchiato prato e di una gettata di ghiaia non si è andati. E pensare che in questo caso non servirebbe nemmeno un particolare investimento per rendere dignitoso e gradevole il luogo. Basterebbe qualche arredo floreale, magari neppure a carico del Comune, facendo appello (come avviene in tante altre realtà e talvolta anche Ferrara) a professionisti del settore: chiedendo ai vivaisti, per esempio, di allestire alcune aiuole, che conferirebbero vivacità all’ambiente e avrebbero per loro carattere promozionale. Magari esponendo anche sculture, opera d’arte, introducendo qualche elemento di arredo che rendesse il luogo meno triste e spoglio di quanto ora non sia.

Le cronache antiche citano splendide aiuole di bosso dai fantasiosi sviluppi, dovute all’abilità dei celeberrimi giardinieri estensi. Si menzionano alberi da frutto, piante medicinali e ornamentali ad abbellire un magnifico prato, dove le duchesse (da Eleonora d’Aragona a Margherita Gonzaga) trovavano quiete e refrigerio nelle calde giornate d’estate.
Il Giardino delle duchesse fu realizzato tra il 1473 ed il 1481 nell’ambito delle trasformazioni del palazzo ducale volute da Ercole I d’Este. Era dotato di una mitizzata fontana dorata e viene descritto come luogo paradisiaco circondato da bellissimi loggiati.

Quello spazio verde, un tempo riservato al ristoro del duca e della corte, è ora un patrimonio pubblico che merita di poter essere goduto appieno, in tutta la sua bellezza.

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Edificio attualmente adibito a magazzino

Sette anni fa, duranti i lavori di recupero dell’area che si presentava come incolta sterpaglia, venne estirpato qualche albero e incomprensibilmente demolita una graziosa minuscola cappelletta ottocentesca. E’ rimasto però un vecchio edificio in mattoni, attualmente utilizzato come ricovero di attrezzi e magazzino comunale. Potrebbe essere trasformato in un locale pubblico di ospitalità, con caffetteria e magari un piccolo bookshop o uno spazio multimediale, analogamente a quanto si è fatto con gradevole effetto nel giardino un tempo trascurato di palazzo Schifanoia, ora rifiorito come luogo di sosta e intrattenimento.

 

 

L’OPINIONE
Ascolto, partecipazione e democrazia

Per chi avesse ancora dei dubbi sul significato dei termini “Campagna di ascolto e di consultazione” relativi alla “Buona Scuola” di Matteo Renzi, consiglio di visionare la puntata del videoforum organizzato da Repubblica tv [vedi], a cui ha partecipato il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini. Si ottiene la conferma che la “Buona Scuola” sia una proposta di riforma aperta… ma solo ai commenti e non alle proposte!
Ovvero… chiunque è libero di commentare sul sito le idee espresse dal premier ma né il ministro né il presidente del Consiglio si faranno influenzare dalle sollecitazioni ricevute.
È la democrazia diffeRENZIata, baby!
Ovvero… il governo presenta un’idea, lascia che gli altri si esprimano (non importa dove, come ed in quanti lo faranno) e scaduti i termini annuncerà trionfalmente che la sua idea (che non verrà affatto cambiata) diventerà legge in forza dei commenti positivi ricevuti (l’operazione on-line è talmente poco trasparente che chi gestisce quel sito sa bene come fare per arrivare a quel che vuol dimostrare).
Dalla visione del filmato si ricava anche un’altra certezza: il Ministro dell’Istruzione non conosce affatto la Legge di Iniziativa Popolare per una Buona Scuola per la Repubblica!
Se ne ricava quindi che, di fronte all’ignoranza di chi amministra e alla presunzione di chi propaganda, l’unica possibilità di cambiamento continua ad essere quella che parte dal basso cioè da ciascuno di noi.
Ovvero… possiamo discutere della Lip negli organi collegiali, nelle assemblee, nelle riunioni, negli incontri politici e sindacali ed in tutte le altre occasioni utili per richiamare l’attenzione su questo disegno di legge, già presentato al Senato in agosto e alla Camera in settembre, dal titolo: “Norme generali sul sistema educativo d’istruzione statale nella scuola di base e nella scuola superiore. Definizione dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di nidi d’infanzia“.
In pratica, una prima risposta è quella di organizzare dibattiti e proporre confronti fra la Buona Scuola di Matteo Renzi e la Legge di Iniziativa Popolare per una Buona Scuola per la Repubblica.
Qualcuno non sarà contento, certi boicotteranno, altri si disinteresseranno ma gli interessati parteciperanno ed è soltanto attraverso la vera partecipazione che ci può essere vero ascolto quindi vera democrazia.

Vedi il filmato sotto per avere conferma di quanto affermato [clic]

Rosi Braidotti fra tardo capitalismo, etica e resistenza

Quando si pensa alla “filosofia” solitamente la si identifica con una disciplina accademica, occupata di qualche questione oscura di metafisica, logica o qualsivoglia altra problematica potenzialmente separata se non addirittura drammaticamente lontana dalla realtà. Insomma, una sorta di incredibile lusso intellettuale che privilegerebbe i privilegiati tra i già privilegiati stati occidentali.
Non è di questa filosofia bensì di una moderna se non “postmoderna” critica dell’ideologia (Ideologiekritik) che si fa appassionata alfiere la filosofa femminista Rosi Braidotti, star degli “studi di genere” e volitiva assertrice di una nuova “filosofia impegnata” che smetta di orientarsi al passato, di occuparsi di “filosofi morti,” piuttosto che accetti di affrontare ciò che si chiamava una volta “lo spirito del tempo.”

Come ha eloquentemente sostenuto in una gremitissima lezione di filosofia presso il berlinese Institute for Cultural Inquiry (Ici Berlin), è tempo che la filosofia assuma su di sé compito di analizzare, esaminare e infine giudicare l’evoluzione del “tardo capitalismo” che non è solamente l’ultima versione del capitalismo di marxiana memoria bensì una vera e propria “mutazione” rispetto al capitalismo classico. Non diversamente da ciò che nel film Matrix si chiamava (riferendosi all'”umanità”) un virus che si espande esaurendo le risorse vitali? Braidotti descrive il “tardo capitalismo” come una mutazione letale del capitalismo classico che ovvero non tende più semplicemente allo sfruttamento dell’uomo per il profitto ma allo sfruttamento di ogni forma vitale secondo una varietà di formulazioni politiche ed economiche che declinano il concetto foucaultiano di “biopotere” in termini piuttosto tenebrosi: un capitalismo che avanza implacabile come un bulldozer, ovvero come una macchina che non ha più uno scopo se non se stessa, quindi un complesso volitivo di potere e desiderio (un altro punto centrale della biopolitica di Foucault) che potenzialmente tende allo sfruttamento totale e definitivo di ogni risorsa vitale e ambientale arrivando addirittura a produrre “nuove forme vitali” in vitro, in laboratorio.

Rispetto a questa diagnosi alquanto sconfortante della postmodernità, Rosi Braidotti oppone una “soggettività nomade” che non è semplicemente una “teoria filosofica” (Rosi Braidotti direbbe: “una metafora”) bensì una autentica pratica vitale che si oppone a ciò che Spinoza (il vero eroe del pensiero nomade) chiamava il vero male etico: il nichilismo maniaco-depressivo che nulla sia possibile se non ciò che è effettivamente dato nel qui è ora – ovvero un presente dominato da desideri inconsci manipolati se non inculcati dalle multinazionali del “tardo capitalismo” come consumo, shopping, tecnolgIa e così via.

Al contrario, Rosi Braidotti invoca una filosofia che impropriamente si potrebbe chiamare una “psicoanalisi della filosofia” cioè una pratica di pensiero che sia da un lato un inno alla vita e dall’altro una firma di resistenza contro ciò che il “tardo capitalismo” costruisce, produce e inculca in modo cieco.

La psicoanalisi a cui Braidotti pensa è sopratutto quella di Jacques Lacan – che ammette che l’inconscio sia effettivamente, per ragioni strutturali, un amalgama linguistico indecifrabile se non in minima parte ma allo stesso tempo ritiene che una via d’uscita sia da individuare nella capacità di negoziare con l’inconscio appunto rinunciando ad una soggettività costruita su stereotipi e aspettative “maschiliste,” “patriarcali,” è così via – aprendosi invece ad una soggettività nomade: cioè la consapevolezza che siamo infranti, plurilingui, multipli e plurali.

Si tratta di un aggiornamento della tradizionale critica dell’ideologia che richiede la capacità di estraniarsi dalla “realtà” quanto basta per poter gettare uno sguardo critico su ciò che ci circonda: una realtà di cui il tardo capitalismo rappresenta solo una delle possibili varietà. Contro questa Braidotti propugna una filosofia che sia fondata su due pilastri concettuali: resistenza (al tardo capitalismo) e etica (del dono contro l’etica del profitto). Diversamente dai post strutturalisti francesi come Derrida e Lacan, questo impegno etico non vivrebbe in una sorta di malinconica rassegnazione per un’alterità (politica e culturale) che non si “incarnerà” mai effettivamente in questo presente bensì una vigorosa affermazione di sé, seguendo il riso omerico di Nietzsche così come la filosofia di Deleuze e Guattari. Sarebbe quindi in questo l’aspetto più “affermativo” cioè “positivo” o “creativo” di questo pensiero nomade.

Eppure nonostante l’incredibile energia dialettica e argomentativa di Rosi Braidotti non si può mancare di osservare che il tardo capitalismo, per quanto efficace e “globalizzato” perché impone meccaniche produttive sfruttatrici, sia tuttavia ancora una forma politica e sociale per i privilegiati dei privilegiati dei privilegiati – mentre il resto dell’umanità soffre di condizioni di vita che potremmo appena definire premoderne.

IL RICORDO
Vajont, quell’onda
che ancora ci travolge

di Alessandro Oliva

Nove ottobre 2014: una data che ci riporta a una tragedia che ancora oggi è in grado di scatenare dolore, rabbia e sofferenza. Sono passati cinquantun anni dal disastro del Vajont. Catastrofe epocale su cui pesano oltre duemila morti e la distruzione di interi paesi, sciagura terribile che ha goduto di momenti di notorietà e oblio, il Vajont è una ferita insanabile per la cui memoria si è lottato e si continua a combattere. Lo ha fatto per prima Tina Merlin, la battagliera cronista dell’Unità, e poi hanno portato il loro solido contributo Marco Paolini e Renzo Martinelli, per giungere infine a Mauro Corona con la sua “La voce degli uomini freddi”.

La storia di questa tragedia annunciata è molto lunga e non si è ancora conclusa. Comincia con il progetto di un’ ambiziosa società idroelettrica, la Sade, che decide di costruire un’enorme diga nella valle del Vajont, tra Veneto e Friuli, nonostante si palesino rischi sempre più evidenti, e si trascina ancora oggi negli echi e nei segni tangibili delle ricostruzioni,delle cause civili e penali e degli esodi. Nel mezzo, alle 22,39 del 9 ottobre 1963, una catastrofe con oltre duemila vittime, uccise dall’onda assassina nata dalla titanica frana del monte Toc nel bacino della diga.

Le operazioni per tenere in vita il ricordo di questo disastro si ripetono ormai annualmente, in forma istituzionale e spontanea. Ci sono eventi, manifestazioni e commemorazioni, escono libri e film, flussi turisitici sempre più consistenti si recano sul luogo del disastro. Nonostante l’ignoranza di molti, i rari accenni nei libri di storia e l’occultamento passato della vicenda, troppo scomoda per gente troppo importante, il Vajont sembra dunque pian piano consolidarsi nella memoria collettiva. E’ importante, benché i rischi siano molteplici. Innanzitutto, nella crescente mole di contributi e commemorazioni, quello di una sua omologazione e “anniversarizzazione”, ”ovvero il ricordare limitatamente a una data e a un’occasione commemorativa mettendo in luce solo certi aspetti, magari quelli emotivi, adombrando i presupposti e la vera natura della tragedia. In secondo luogo e conseguentemente, la mancanza di ricadute pratiche, sociali e concrete.
E’ bene dunque che si esca dal silenzio di un ricordo relegato a una dimensione locale, ma non perdendo di vista cosa fu realmente il Vajont. E perché.

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La diga del Vajont

L’essenza del disastro si colloca infatti dietro agli avvenimenti, dietro alla fiancata di montagna che precipita nel lago artificiale della diga, scatenando un’onda di morte e devastazione. Fu una tragedia verificatasi, come dichiara Maurizio Rebershack, in senso greco, cioè di responsabilità pienamente umana, culmine di un processo di soprusi e prevaricazioni imposto dalla Sade con la collusione dello Stato; fu uno degli esempi più terribili dell’avidità e degli uomini, disposti a negare un fallimento e il pericolo sempre più evidente e arrivare a sacrificare duemila anime soltanto per il profitto, per mantenere la propria credibilità e affermare con sicurezza di poter dominare la natura; fu un periodo, un percorso lungo e difficile segnato dalla necessità di ricostruire, di fare giustizia, di andarsene, di emigrare e abbandonare la propria casa; fu il perfetto ritratto di una nazione infetta e corrotta; fu, infine, anche una sciagura destinata a ripetersi: come non poter pensare alla negligenza nella frana di Stava (1985, 268 vittime), all’incoscienza nell’alluvione di Sarno e Quindici (1998, 160 vittime) e non riuscire notare gli inquietanti parallelismi con il terremoto dell’ Aquila, (2009, 309 vittime)…

Tutte queste catastrofi hanno in comune la prevedibilità, l’irresponsabilità, l’imprudenza, una visione limitata e una totale e sconvolgente mancanza di coscienza e apprendimento da parte del passato. Che cosa ci ha insegnato allora il Vajont, concretamente? A quanto pare, ben poco. Politici, tecnici, scienziati e consulenti sembrano non aver ancora imparato la lezione, continuando a credere di poter plasmare la natura e il mondo a loro piacimento, a discapito dei notevoli rischi. E noi, noi comuni cittadini, che cosa abbiamo appreso? Marco Paolini, autore del “Racconto del Vajont”, afferma nell’introduzione all’ultima edizione, intitolata “Il Vajont e l’Aquila, due tragedie parallele”, che in questi casi le responsabilità si ampliano, non si può solamente puntare un dito d’accusa o ricorrere al vittimismo. Ogni scelta e ogni azione che impatta sul nostro ambiente ci coinvolge; siamo responsabili di ciò che ci circonda e dobbiamo imparare a prendercene cura e a lottare per esso.

Il mondo sta cambiando. Lo percepiamo, ma lo stiamo anche capendo? Ne siamo pienamente consapevoli? Consumiamo risorse naturali che ci hanno detto essere limitate, assistiamo a azioni distruttive del territorio, deforestazione, cambiamenti climatici, siccità, terremoti, inondazioni e frane, ma preferiamo occuparci di rischi e rendimenti finanziari. Intanto però stanno crescendo i conflitti ambientali, al cui interno procrastinano la mancanza di dialogo, la poca informazione, le scarse competenze, ma anche gli interessi economici, l’iniqua distribuzione di vantaggi per pochi e di svantaggi per molti che sono costretti a subire. Le ricadute ovviamente sono anche economiche, sociali, e tecniche.

Che cosa ci può insegnare allora il Vajont? Per citare nuovamente Paolini, a farci un nodo al fazzoletto, a prendere coscienza di un capitolo buio e maturare dei bisogni per una storia più luminosa: di fiducia, di trasparenza, di qualità, di sicurezza, di rispetto ambientale, di prevenzione e di certificazione; soprattutto, di coscienza civica come valore fondamentale, di un vero e proprio sentimento civile che ci porti, nel nostro quotidiano, a diventare responsabili per la collettività e in quanto collettività. Per questo giocherà un ruolo fondamentale il concorso, lanciato quest’anno, denominato «Vajont 50+ – Il mio Vajont», destinato a coinvolgere le scuole medie e superiori di tutta Italia, in modo da dare il via a una serie di riflessioni sulla tragedia: perché nulla è più pericoloso della nostra indifferenza.

LA STORIA
Gli anni del vinile:
c’era una volta Rca Italia

Nel secondo dopoguerra la Rca (Radio Corporation of America), con sede a New York, era una delle più importanti case discografiche degli Stati Uniti; fondata nel 1919 come compagnia radiofonica, nel 1929 aveva acquistato la Victor Talking Machine Company, entrando così nel mercato discografico.
Nel 1949, Frank M. Folsom, vice presidente della RCA Victor, fu ricevuto in udienza privata da Papa Pio XII, il quale in ricordo dei bombardamenti americani che colpirono il quartiere di San Lorenzo, gli chiese l’installazione di una fabbrica nel borgo romano. La società americana, già decisa ad aprire uno stabilimento in Italia, dopo quell’incontro scelse Roma come sede, inizialmente vicino a Villa Borghese e, nel 1951, al Km 12 della via Tiburtina.

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Sede Rca Italia in via Tiburtina

I primi anni furono stampati per lo più dischi di provenienza dalla Rca statunitense, (Elvis Presley e Harry Belafonte in primis), anche perché la casa madre non era interessata a promuovere più di tanto gli artisti italiani; le poche registrazioni di quegli anni riguardavano Domenico Modugno, Nilla Pizzi e Katyna Ranieri.
Alla fine del 1954 la casa madre propose di chiudere la sede romana, il cui bilancio era in perdita. Papa Pio XII incaricò Ennio Melis, uno dei suoi segretari laici, di verificare lo stato dell’azienda.

Melis, che affidò l’amministrazione a Giuseppe Ornato, vide nell’azienda un enorme potenziale, questa intuizione lo portò a diventare il responsabile della politica intrapresa dalla RCA Italiana nei 30 anni successivi. Per molti aspetti la visione di Melis ricorda quella di Enrico Mattei con l’Agip.

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Harri Bellafonte

Le prime decisioni furono di portare tutta la produzione sui 45 giri, abbandonando il 78 giri, trasferire studi e uffici presso lo stabilimento di via Tiburtina e scegliere Vincenzo Micocci come direttore artistico. I due promossero la costruzione di nuovi studi di registrazione e l’assunzione di giovani e promettenti musicisti, tra cui Ennio Morricone e Luis Enriquez Bacalov. I primi cantanti ingaggiati furono i famosi “quattro moschettieri”: Nico Fidenco, Gianni Meccia (per lui Melis, con Micocci, coniò il termine “cantautore”), Jimmy Fontana ed Edoardo Vianello. Nello stesso anno il direttore artistico mise sotto contratto Rita Pavone e Gianni Morandi, che negli anni successivi dominarono le classifiche di vendita.
Negli anni successivi la RCA ingaggiò come direttore artistico Nanni Ricordi, che portò in “dote” artisti quali Sergio Endrigo, Gino Paoli, Luigi Tenco ed Enzo Jannacci. In quel periodo la RCA Italiana divenne la casa discografica leader per le vendite, grazie ai successi dei cantautori e di Gianni Morandi e Rita Pavone, abbinando quindi la canzone d’autore a quella di consumo.

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La sede di Via Tiburtina non era soltanto il luogo degli uffici, delle registrazioni e della
stampa dei dischi, si trattava di una vera e propria “cittadella della cultura”. Il bar della RCA è stato il salotto “temporaneo” in cui, per tanti anni, è passata tutta la cultura italiana.Tra i tanti frequentatori: Pier Paolo Pasolini, Arthur Rubinstein, John Huston, Vittorio De Sica, Sergio Leone, Luigi Magni, Ettore Scola, Giuseppe Patroni Griffi, Pasquale Festa Campanile, Elio Petri, Dario Argento, Alberto Sordi e Alberto Moravia. Un altro importante luogo di ritrovo è stato il “Cenacolo”, una sorta di campus situato in via Nomentana.
Il successo dei dischi degli anni ‘60 fu spesso dovuto agli arrangiamenti di Morricone e Bacalov, che non si limitavano all’orchestrazione, ma cercavano nuove sonorità ed effetti, inoltre, un ruolo importante lo ebbe anche la tecnologia, notevolmente all’avanguardia per quell’epoca.

Gli anni settanta continuarono con i grandi successi dei cantautori e dei nuovi cantanti, tra i tanti nomi citiamo Lucio Dalla, Claudio Baglioni, Ivano Fossati, Renato Zero, Gabriella Ferri, Nicola di Bari, Fiorella Mannoia, Nada, Riccardo Cocciante, Schola Cantorum, Angelo Branduardi, Stefano Rosso, Anna Oxa, Ron, Antonello Venditti, Francesco De Gregori e Rino Gaetano. Venne anche stipulato un accordo per la distribuzione della Numero Uno, la casa discografica di Mogol e Lucio Battisti, che produceva anche Formula 3, Bruno Lauzi e la PFM.

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In quegli anni si ebbe un primo periodo di crisi economica, dovuto al calo del mercato discografico italiano e a una serie di errori, tra cui il flop delle cassette Stereo 8, imposto dalla casa madre. Nel 1978 la RCA perse Baglioni e Venditti e alcuni cantanti non raggiunsero gli obiettivi di vendita previsti.

Negli anni 80 altri artisti lasciarono la Rca (tra questi Paolo Conte, Francesco De Gregori e Ivano Fossati) e non furono ingaggiati personaggi di rilievo, una delle rare eccezioni fu Luca Carboni. Nel 1983, avendo saputo che la Bmg Ariola era interessata all’acquisto della RCA e che quindi si doveva ridurre il personale (da 600 a 200 dipendenti), Melis decide di lasciare l’azienda.

Gli edifici della sede storica di Via Tiburtina sono stati in parte trasformati, sopravvivano quelli che furono gli studi di registrazione (già drasticamente ridotti negli anni ’80, dopo l’uscita di Melis), la palazzina dirigenti, il magazzino e pochi altri. Questi palazzi sono oggi utilizzati come magazzini per ditte di abbigliamento e calzature.
L’idea di realizzare un museo sta diventando sempre più sentita e a nostro avviso anche dovuta.

Documented, storia di un americano in cerca di identità

In inglese, ‘to document’ significa documentare, attestare. L’origine etimologica è il latino ‘documentum’, a sua volta derivato di ‘docere’: informare, far sapere.
Che è uno dei compiti del giornalista. Che è il mestiere di José Antonio Vargas, penna di alcune tra le più prestigiose testate americane – Washington Post e Huffington Post, solo per citarne alcune – e premio Pulitzer 2008, maggior riconoscimento per un giornalista statunitense.
José è letteralmente un informatore, uno che scrive, ma per la legge americana non è documentato, non ha traccia scritta di sé che valga per la legge, quindi ‘undocumented’: un immigrato senza documenti. Questo perché dalle Filippine, paese di origine della sua famiglia, è arrivato all’età di dodici anni negli Stati Uniti per raggiungere i nonni materni senza carta verde né Visa, né un qualsiasi altro regolare documento di cittadinanza. E scoprendo la verità quasi per caso.
Fino a quando nel 2011 non decide di dichiarare pubblicamente il suo stato di senza documenti con un lungo articolo sul New York Times, percorrendo in lungo e in largo il paese per raccontare la sua storia alle persone attraverso la campagna “Define Americans” (Definisci gli americani).

Chiedersi cosa significhi essere americani, da dove abbia origine la parola, è la chiave del discorso che Vargas sottolinea più volte. Perché la prima riflessione che viene spontanea è che gli Stati Uniti sono stati creati da persone che arrivavano dal mondo intero, ma da sempre il governo americano allontana chiunque non sia in possesso dei documenti necessari – solo durante l’amministrazione di Obama sono state due milioni le persone deportate. Mettendo in luce una legislazione assurda e macchinosa che termina sempre a un punto morto, perché per un adulto non è possibile regolarizzarsi se non attraverso il matrimonio e che altrimenti prevede un iter di messa in regola che può durare più di dieci anni; che separa famiglie – frequente il caso di chi, all’interno della stessa famiglia, è cittadino regolare e chi no – e che non offre possibilità concrete a chi vorrebbe, ma non può, costruirsi qui una vita, pur con tutte i limiti del caso – pagare regolarmente le tasse, frequentare scuole, lavorare.

Il caso di Vargas esplode a livello nazionale e porta alla luce l’assurdità e le contraddizioni del sistema di leggi che governano e permettono la concessione della cittadinanza, assumendo proporzioni nazionali. Grazie a lui, il governo viene finalmente indotto a considerare seriamente i Dreamers, sostenitori della proposta di legge DreamAct fondata sulla possibilità, per i ragazzi non ancora diplomati e residenti negli Stati Uniti. Mettendosi dalla parte di quelle 11mila persone che oggi lo sono, e finendo sulla prima pagina del Time che gli dedica un servizio con l’intento di smuovere il governo e le coscienze di chi già possiede quel pezzo di carta utile a essere considerato cittadino, raccogliendo pareri e voci disparate e ricavandone ritratti contraddittori. Questa è la parte del viaggio riuscita: è la sua vittoria a favore di tutti i giovani fino ai 30 anni, ma ancora in itinere per quanto riguarda una legge più generale.

Il documentario, scritto da lui stesso, mescola la incessante ricerca di riconoscimento legislativo, e quindi agli occhi del mondo, alla ricerca dei profondi legami familiari e affettivi costruiti e scissi nel corso della sua vita. Non senza momenti di leggerezza, ripercorre la sua vita da bambino, adolescente e poi adulto di successo, mostrandone le battaglie collettive e le sofferenze personali – il delicato e labile rapporto con la madre, che non vede da quando fu lei a dargli di fatto una speranza di una vita diversa mettendolo nelle mani di chi lo fece entrare negli Stati Uniti – ma soprattutto con se stesso e il proprio essere nel mondo, rivendicando quella firma ormai celeberrima che compare in calce a ogni suo articolo, e che chiunque può riconoscere come talento che adesso vuole spianare la strada per altri mille che reclamano, a gran voc,e di essere riconosciuti e prendersi il Paese dei Sogni.