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C’era una volta ‘Lamerica’

di Emiliano Trovati

Buon compleanno America. Ma all’alba del terzo millennio il prestigio del Nuovo Mondo sembra essere in declino. Nella ricorrenza del 4 luglio gli Stati Uniti d’America festeggiano la propria dichiarazione d’indipendenza dall’impero coloniale inglese. Quell’evento ha scatenato, non solo nei rapporti tra corona e colonia, un terremoto politico internazionale.
Le idee di libertà maturate oltre oceano, alle quali anche l’Italia, grazie al contributo del medico e filosofo pisano Filippo Mazzei, aveva dato un grande contributo, permearono all’interno dell’Europa monarchica e assolutista, trovando terreno fertile fra le masse e portando ai moti rivoluzionari dai quali nacquero gli Stati nazionali moderni. Dal secondo dopoguerra in poi, l’America, grazie al suo paradigma economico, sociale e culturale – l’American way of life -, affascinerà l’immaginario collettivo del vecchio continente, e del mondo intero, arrivando a ricoprire il ruolo di Paese guida, in una posizione di preminenza rispetto ai partner internazionali. Preminenza però che sembra aver imboccato la via del declino, soprattutto dall’ultimo trentennio dello scorso millennio in poi. Responsabili di questo arretramento le forti contraddizioni sociali interne, dai problemi etnici al sistema socio sanitario, che discrimina le fasce più deboli della popolazione, l’avanzata economica di Paesi come la Cina e politica dell’Unione Europea, e dal ruolo a dir poco controverso con cui l’America gestisce la sua politica estera. Di tutto questo abbiamo parlato con la professoressa di storia ed istituzioni delle Americhe, al dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Bologna, Raffaella Baritono.

Professoressa, oggi è il 4 luglio, ricorrenza della dichiarazione d’indipendenza americana. Più di due secoli dopo la sua nascita, cos’è l’America oggi?
Interessante l’utilizzo del termine America. Non è in realtà un errore così strano. Quando noi utilizziamo il termine America oppure Usa, in maniera più o meno consapevole, ci rapportiamo ad un diverso contesto. L’America evoca nell’immaginario, un’idea, una rappresentazione, è un insieme di miti e metafore, prodotte dallo sguardo europeo verso il nuovo continente. Stiamo parlando di un processo secolare avviatosi dopo la sua scoperta, che produsse un terremoto nelle coordinate mentali degli europei e quindi la necessità di dare un senso, di inserire questa cosa, di cui nessuno aveva il sentore, dentro la cultura, il modo di pensare, le coordinate geografiche e lo spazio europei. L’America prima di tutto è una proiezione, un immaginario europeo.
Quando dalla rivoluzione delle 13 colonie si produsse un nuovo Stato, gli Usa cominciarono a costruire una rappresentazione dell’America in antitesi col vecchio mondo: “Noi siamo ciò che non è l’Europa”. Si è creato così uno Stato ben preciso, con una storia significativa, costruita proiettando l’idea di essere differenti e faro della libertà, rispetto alla tirannia, all’autoritarismo o all’intolleranza del vecchio continente. Questa idea, poi, s’è caricata di valori universali e propagata man mano che gli Stati Uniti, da realtà marginale, divenivano potenza mondiale.

E allora, cosa sono gli Stati Uniti d’America oggi?
Senza dubbio sono una potenza mondiale. Una potenza di tipo globale, con interessi geopolitici non solo nel contesto Atlantico – com’è stato per il periodo della guerra fredda -, ma soprattutto nel Pacifico, dove si concentra la loro strategia di politica internazionale.
Sono ancora un Paese in grado di proiettare una visione dinamica, perché demograficamente in crescita, e mobile, se guardiamo ad esempio alle dinamiche generazionali, etniche e razziali.
Un Paese sempre meno bianco, ma fatto di minoranze che diventano piano piano maggioranza: cosa questa che costituisce un elemento significativo, soprattutto se guardiamo alle dinamiche politiche. La presidenza di Obama, infatti, non si spiega soltanto dalla sua capacità innovativa, che indubbiamente ha avuto, o dalla sua strategia, che ha saputo intercettare volontà di cambiamento radicate nella popolazione, ma si inserisce dentro questa modifica significativa della popolazione americana in termini etnico-razziali. Anche per questo l’America è un Paese sempre meno europeo e sempre più globale.

Obama a gennaio nel suo whish list ha parlato di America come di opportunity per l’Europa e per il mondo. È ancora così?
Per certi versi sì e per altri no. L’economia e la società americana sono ancora un modello aperto, è una terra d’immigrazione, nonostante i suoi problemi con l’America latina e le paure o le ansie dei conservatori. Il modello economico e sociale americano sta diventando troppo diseguale e la politica di Obama non è stata in grado di risolvere, a causa di una forte contrapposizione e polarizzazione ideologica, e politica che sta rendendo il sistema americano un sistema immobile. Lo vediamo ad esempio in merito alle battaglie sulla sanità, lavoro o alle scelte sull’ambiente.

Prima ha detto che l’America è nata sull’idea “noi siamo ciò che non è l’Europa”. Vuol dire che c’è una cesura tra i due continenti oltre quella geografica?
I due continenti hanno vissuto di relazioni molto strette ma anche molto conflittuali. Durante la guerra fredda i rapporti tra i Paesi europei e gli Stati Uniti sono stati raramente rapporti pacifici, anche se naturalmente alcuni conflitti di fondo venivano sopiti. I paesi europei hanno sempre avuto bisogno dell’ombrello di sicurezza americano, ma allo stesso tempo perseguivano interessi nazionali che spesso entravano in conflitto con quelli americani.
L’Unione Europea oggi è potenzialmente un competitor economico degli Stati Uniti, ovviamente non militare. Anche la sua configurazione politica è competitiva, per non parlare dell’Euro, che continua ad essere una moneta molto forte.
Si è molto parlato, negli anni passati, soprattutto da quando è più forte il conflitto tra Stati Uniti ed Europa – vale a dire dopo l’11 settembre e la decisione americana di intervenire in Iraq – di un presunto modello sociale europeo da contrapporre a quello sociale americano. Questo è un tema molto dibattuto: il modello di welfare europeo, ad esempio, è molto più inclusivo ed apparentemente più democratico e capace di generare sicurezza e tutele, rispetto a quello americano.
Negli ultimi anni le politiche portate avanti da Obama, mettono in evidenza come negli Stati Uniti temi come la giustizia sociale o le disuguaglianze siano un elemento chiave nel dibattito politico.

Per modello sociale americano cosa intende?
Il Novecento viene definito il secolo americano, proprio per la grande capacità degli Stati Uniti di modellare gli stili di vita e l’immaginario collettivo. Basta pensare al cinema, alla musica, all’arte, ai prodotti del consumo di massa e alla loro commercializzazione. Pensiamo ad esempio ai Walmart e ai centri commerciali.
L’America ha creato una struttura in grado di essere esportata e ha costituito un modello di riferimento. Va capito, però, come questo modello non sia mai stato biunivoco: gli Stati Uniti propongono e gli altri recepiscono passivamente, come il termine “americanizzazione” lascia intendere. Questo processo è sempre stato una elaborazione strategica: per cui venivano prese alcune questioni e rifiutate altre, o alcuni concetti e rifiutati altri, o assorbiti alcuni stili di vita o modalità culturali. Ogni scambio, comunque, veniva tradotto a seconda del contesto in cui agiva.
La grande capacità seduttiva degli Stati Uniti è stata quella di non aver proposto un unico modello egemone, dal punto di vista delle strategie culturali. Nel momento in cui veniva proposto qualcosa, ad esempio la cultura di massa, del Mall o della società dei consumi, per cui il cittadino è soddisfatto perché consumatore; allo stesso tempo lavorava su più piani, ad esempio negli anni cinquanta, dentro le strategie di diplomazia culturale americana, proprio perché ci si rendeva conto delle contraddizioni sociali – in primis il razzismo -, che avrebbero potuto metterne in discussione la capacità seduttiva, venivano organizzati concerti e i tour dei grandi jazzisti neri in Europa e in Africa. E il tutto all’interno delle strategie di guerra fredda. In modo da poter dire, anche questa è l’America. Il Jazz noi lo consideriamo espressione dei valori americani e della sua cultura.
Questo fu un progetto interessante portato avanti da Eisenhower, un presidente moderato e conservatore. Quindi l’America non è soltanto la proiezione egemonica della super potenza, ma anche altro.

Da quando questo processo ha iniziato a scricchiolare?
La capacità seduttiva del modello americano, come dicevo, s’interrompe con la guerra in Iraq. Da quel momento in poi l’America non è più stata un riferimento, soprattutto per le nuove generazioni. Negli anni sessanta i giovani guardavano ai suoi campus universitari, al movimento femminista, a quello del Black Power. Tutto questo ha risvegliato immaginari sia in Europa che nel terzo mondo: pensiamo ad esempio alla considerazione che molti leader dei movimenti anti-coloniali dei Paesi africani o asiatici avevano della dichiarazione d’indipendenza americana.
Con l’Iraq questa situazione cambia, quel modello solido, quasi incontaminato, viene meno e l’America non è stata più capace di offrire alternative. Ricordo qualche anno fa un sondaggio, fatto da un network di ricerca europea, che dimostrava come nelle generazioni giovani europee, anche dal punto di vista delle condizioni materiali di vita, gli Stati Uniti non costituiscono più un modello di riferimento. Gli Usa non sono più il modello preminente, ancorché continuino ad offrire un modello a cui guardare.

La visione che si ha dell’America però è quella di una potenza imperialista?
Si parla molto di America e sembra che sia dappertutto, accendiamo la radio, leggiamo i giornali, guardiamo un film o la televisione. Ma in realtà, soprattutto in Italia, noi conosciamo pochissimo di America. Non sappiamo quasi niente di storia americana. Le opinioni si basano molto più sui pregiudizi che sulla conoscenza vera e propria. Sono pochissimi i corsi di storia americana nelle università italiane e sono pochissimi i docenti di storia o di politica americana. Esempio, ci si può laureare in un corso di storia contemporanea e non sapere niente di Stati uniti d’America. Eppure se ne parla tanto. Tutto è basato su pregiudizi, sul sentito dire o su stereotipi, anziché sulla realtà.

Qual è il più grosso stereotipo che sente in giro?
Innanzitutto la visione onnipotente dell’America. Quando parliamo di Stati Uniti ci interessiamo quasi esclusivamente alla politica estera, sapendo pochissimo di quella interna. Non sappiamo com’è organizzato il loro sistema politico, facciamo difficoltà addirittura a distinguere il partito repubblicano da quello democratico. Non sappiamo che la loro è una cultura politica molto mobile, rispondente ai cambiamenti e alle trasformazioni sociali.
Parliamo di politica estera convinti che se ne occupi il presidente, senza conoscere le dinamiche che ci sono dietro e le complesse strategie di negoziazione. Quando parliamo di governo, non riflettiamo sul fatto che non parliamo solo di Obama, ma di un complesso meccanismo che lo vede confrontarsi con il Congresso e la Corte Suprema, che ha un peso politico molto significativo: pensiamo per esempio a tutta la questione legata ai matrimoni same-sex e al ruolo avuto per le battaglie che vanno dalla segregazione all’aborto, dai diritti sociali alle libertà civili. Inoltre la visione dell’onnipotenza non considera che, molto spesso, alcune strategie di politica estera non sono molto diverse da quelle adottate da altri Paesi. Ovviamente cambia la dimensione della potenza.
Un altro stereotipo è quello dell’individualismo e del materialismo della società americana. È vero che la cultura democratica americana è incentrata sull’individuo, che interagisce con la sua comunità però. Questo intreccio – tra individuo e comunità – dà specificità al concetto di democrazia in America. Non a caso dopo l’11 settembre, uno dei libri che fece più eco anche in Italia, scritto da uno scienziato politico, Robert Patman, che aveva studiato anche la mancanza di società civile in Italia, intitolato Bowling alone (al bowling da solo), mette in luce come l’americano, da Tocqueville in avanti, è sempre stato dentro una moltitudine di associazioni, gruppi civici, dall’università alla scuola, alle comunità di vicinato. Questo è un elemento molto significativo della partecipazione politica. Le associazioni sono state il luogo di costruzione di forme partecipative, molto più che il partito politico. L’individualismo, quindi, deve essere interpretato come un soggetto capace di autogovernarsi e di autodeterminarsi nel suo rapporto con lo Stato.

Quindi, mi sembra di capire che il ruolo di paese leader l’America è uno stereotipo?
Questo ruolo ce l’ha avuto. È tuttora un Paese leader, ma è una leadership sempre più soggetta a processi di negoziazione e meno di accettazione acritica rispetto al passato. Una leadership che deve fare i conti con un mondo che sta cambiando, con altre potenze in grado di sfidarli, soprattutto nelle strategie di carattere economico. Pensiamo alla Cina e ai Bric. C’è un enorme dibattito sul declino e fine del secolo americano: se siamo o meno in transizione verso il secolo cinese. Coloro che non ci credono, a mio avviso a ragione, ritengono che la Cina sia sì un Paese superiore economicamente all’America, ma senza un modello socio politico in grado di costruire un’egemonia culturale. È stato proprio il modello, non solo economico, ma politico e culturale americano ad aver caratterizzato il suo primato e la sua capacità di penetrare società e suscitare desideri, aspettative e bisogni.

L’avanzata di questi Paesi può portare a uno scontro culturale?
Nel Pacifico si sta già combattendo uno scontro di carattere geopolitico interessante tra Stati Uniti e Cina. Gli Usa sono presenti nella regione, non soltanto perché la Cina è il rivale più importante e perché buona parte del suo debito pubblico è in mano cinese – cosa che determina interdipendenza tra le due potenze -, ma anche perché vengono chiamati dagli altri Stati del contesto asiatico che vedono negli Usa l’unico argine ad una avanzata egemonica della Cina. Come dicevo, comunque, l’interdipendenza tra i due Paesi rende i rapporti molto più dinamici e flessibili di quanto fossero quelli tra Usa e Urss. Non si ripresenterà oggi un contesto da guerra fredda.

[© www.lastefani.it]

L’autenticità del vivere che scaccia paure ed egoismi

La rievocazione del martirio di sette monaci francesi in Algeria, nel 1996.
“Gli uccelli siamo noi, il ramo siete voi”

Per chi, come me, ha vissuto a lungo in Algeria, non è difficile immaginarsi i luoghi aspri ma verdeggianti delle montagne che circondano il Paese, i loro colori e odori, la loro pace e i loro silenzi. Luoghi bellissimi e quasi inesplorati, ma, allo stesso tempo, posti difficili e teatro di storie e misteri oscuri e inquietanti del passato, talora non svelati.
Proprio qui, è ambientata la storia di un film, il cui titolo italiano “Uomini di Dio” ha fatto subito discutere: la traduzione letterale sarebbe “Uomini e dei”, a sottolineare il rapporto tra diverse religioni e non la focalizzazione solo su “questi” uomini di Dio. Poi, però, il regista fa una scelta: racconta la vita e la tragica morte di un gruppo di monaci trappisti francesi nell’Algeria degli anni ‘90, insanguinata dalla guerra tra i terroristi del Fronte Islamico di Salvezza e il regime militare corrotto dell’epoca. E la storia ruota attorno a loro: Christian, Luc, Bruno, Célestine, Chistophe, Michel, Paul, sette dei novi monaci trappisti francesi che abitavano nel monastero di Thibirine. Sette uomini di Dio. Sette uomini, che vivono nel convento (ordinario-povero-misero), in giornate scandite da preghiere, apicoltura, lavori comunitari e chiacchiere, nella stima e riconoscenza della popolazione musulmana dei dintorni, che vede in loro un punto di riferimento e di sicurezza, dati dall’amore e dall’aiuto concreto che i monaci danno loro. Frate Luc, in particolare, dispensa assistenza e cure mediche a donne e bambini. Carità e amore ci sono per tutti. Una dichiarazione d’amore al popolo algerino.

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La locandine del film ‘Uomini di Dio’

Ma il Paese sta sprofondando in un clima di terrore: la lotta tra l’esercito governativo (“i fratelli della pianura”) e i ribelli integralisti (“i fratelli della montagna”) provoca tra la popolazione paura e smarrimento; la strage di un gruppo di operai croati cristiani, in un cantiere nei dintorni, da parte dei rivoluzionari islamici a far capire ai monaci che sono in pericolo. Per i monaci, la situazione e le intimidazioni si fanno sempre più pericolose. Nel gruppo di religiosi arriva il terrore, non tutti sono disposti ad aspettare una morte probabile, sono costretti a ripensare la loro presenza: restare sapendo di rischiare la vita o andare in un luogo più sicuro? Nonostante le avvisaglie di morte i monaci decidono di rimanere. Nella notte del 26 marzo 1996, sono presi in ostaggio, in circostanze mai chiarite. I giorni di prigionia e la loro morte restano ancora oggi avvolte nel mistero. Decapitati, i loro corpi non saranno mai ritrovati. Solo le loro teste hanno avuto sepoltura nel cimitero del monastero. Il martirio è compiuto.
Uomini di Dio ha il merito di rievocare una pagina nota a pochi (dalle prime tensioni del 1993 all’uccisione del 1996) del lungo capitolo dei martiri cristiani del ‘900. Il regista mette in luce l’umanità dei religiosi, nei quali alberga l’umana paura ma anche un amore incrollabile in Cristo e nel prossimo (anche dei terroristi, di cui non ci si augura il male: vengono curati anche loro, la morte del capo suscita compassione).
Il film non fa sconti sulla crudeltà, ma prevale comunque l’amore. Agàpe, amore divino incondizionato, ma anche amore dell’uomo per il suo simile. L’amore come tensione a quell’autenticità del vivere che consente di accantonare paure ed egoismi. Sguardi che s’incrociano e sorridono, che emanano serenità e passione, sguardi rivolti all’Infinito, che si perdono nell’eloquente melodia del canto che si fa preghiera o nell’orizzonte di una natura che ti rimanda al suo Creatore. Una vera scelta d’amore.

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Una scena tratta dal film ‘Uomini di Dio’

Un film misurato, pudico, rigoroso, determinato, composto, intenso, grave e quasi ascetico, con una splendida fotografia di Caroline Champetier.

Uomini di Dio, regia di Xavier Beauvois. Con Lambert Wilson, Michael Lonsdale, Olivier Rabourdin, Philippe Laudenbach, Jacques Herlin, Drammatico, Francia 2010, 120 mn.

I sette monaci uccisi erano: Christian de Chergé, 59 anni, monaco dal 1969, in Algeria dal 1971; Luc Dochier, 82 anni, monaco dal 1941, in Algeria dal 1947; Christophe Lebreton, 45 anni, monaco dal 1974, in Algeria dal 1987 ; Michel Fleury, 52 anni, monaco dal 1981, in Algeria dal 1985; Bruno Lemarchand, 66 anni, monaco dal 1981, in Algeria dal 1990; Célestin Ringeard, 62 anni, monaco dal 1983, in Algeria dal 1987; Paul Favre-Miville, 57 anni, monaco dal 1984, in Algeria dal 1989.

Corruzione ovunque: guardie o ladri

A chi è nella nomenclatura dei partiti e si occupa di politica locale, può capitare di scivolare e ricevere un avviso di garanzia quasi certo, e anche qualche condanna.
Siena e Genova, e ora anche Milano e Venezia, non sono le tappe del Giro d’Italia ma sono le ultime vergognose vicende di corruzione che potrebbero incrinare quel cambio verso del presidente Renzi, oltre alle evidenti e nascoste resistenze contro i tanti “no” che ogni giorno si incontrano e si leggono.
Il tema non è nuovo. Anche su questo quotidiano si è letto a più riprese di corruzione, affari, interessi non chiari, ruberie, falsità e di bugiardoni e la meraviglia di quel 40% e oltre è stata una sorpresa che neppure i sondaggisti e la stampa avevano previsto e compreso.
Una storia che ricorda Guardie e ladri , fatta di troppe e spudorate ipocrisie, e che ci ricorda, come recita l’editoriale di domenica 8 giugno di Corsera, che la questione è trasversale e nessuno si salva, anche se qualcuno avanza pesi e misure.
Politica ed etica non si scindono, anzi si plasmano, e a partire dai territori. Anche se sta poi a Roma discuterne con duri provvedimenti, si lascia alle lontane periferie, anche nel dopo tangentopoli del ’92, il maneggio di sofisticate tecnicalità per far sparire, nelle scatole cinesi, le brutture imperterrite dei soliti noti, ormai senza anagrafe.
Non è certamente una novità che nel nostro Paese il costo delle grandi opere pubbliche sia almeno il triplo che altrove, ma quale severità è stata attivata per bloccare lo scempio, senza escludere anche quelle piccole cose che nei Comuni e nelle aziende pubbliche locali, da anni, si esercitano nella scarsa trasparenza dei capitolati e delle minute trattative (più si spezzano i fornitori e meglio è).
Abbiamo citato Guardie e ladri, soprattutto per sostare un po’ sulle guardie: la novità di questa specie di corruzione è che va dalla Corte dei conti, all’Agenzie delle entrate, alla Guardia di finanza, al Tar e al Consiglio di stato, a qualche magistrato, vigile e geometra, come fosse un corpo d’armata disarmante nell’auditing per il rispetto delle regole e dei comportamenti pubblici.
Questo non ci esime, però, dal marcare ed indicare il dito su altri target, dagli imprenditori ai politici ed amministratori, le cui condanne debbono essere severissime e a casa con la dura pena. Ma quello che qui si vuole evidenziare è la novità della corruzione e che solo il pentimento (e per fortuna ce n’è almeno uno) ha messo in rilievo, scoprendo il coperchio, ipocrisie comprese.
Non resta molto da aggiungere, quello che ci dispiace e che c’è il rischio che fra qualche settimana tutto diventi una bufala: un essere comunque garantisti, le nebbie che avanzano, responsabilità incrociate ma innominabili e tutto finisce così.
Ora che sono terminate le elezioni europee, regionali e dei comuni basterebbe la pubblicazione analitica e precisa di come e da dove sono pervenute le risorse finanziarie (dirette, indirette, altre strade…) per poter dire che veramente è finita.
Abbiamo anche sentito dire, da qualche campo, che siamo diversi, non abbiamo capito, però, da chi; però si sappia che il denaro non ha colore, basta, forse, verniciarlo diversamente.
Non sappiamo, inoltre, se Renzi riuscirà nell’impresa di portare l’Italia in una nuova Europa e se l’elefante abbia finito di rompere i preziosi nella cristalleria; noi e quei quaranta punti (con otto di decimale) speriamo che il Presidente possa veramente andare avanti e spazzare via quel marciume che ostacola i sentieri di una nuova crescita.

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Il calvario delle riforme di papa Francesco

In un articolo su Libero il 22 giugno scorso, Antonio Socci se la prende con il neosegretario generale della Conferenza episcopale italiana (Cei), Nunzio Galantino.
Diverse sono le dichiarazioni rilasciate dal vescovo di Cassano Jonico, la più piccola diocesi calabra, ma forse le parole che hanno fatto traboccare il vaso al vaticanista del giornale diretto da Maurizio Belpietro sono quelle rilasciate a QN il 13 maggio: “In passato ci siamo concentrati esclusivamente sul no all’aborto e all’eutanasia. Non può essere così … Io non mi identifico con i visi inespressivi di chi recita il rosario fuori dalle cliniche che praticano l’interruzione della gravidanza, ma con quei giovani che sono contrari a questa pratica e lottano per la qualità delle persone, per il loro diritto alla salute, al lavoro”.
Apriti cielo.
Socci va giù durissimo col segretario Cei, scelto personalmente da Papa Francesco il dicembre scorso: “Galantino si è mai guardato allo specchio? Si sente un Rodolfo Valentino?”. Ma soprattutto: “Con quelle parole ha immotivatamente ferito il grande popolo della vita suscitato dal magistero di Giovanni Paolo II”.
Qui c’è un primo forte colpo di sciabola rivolto ad una strategia ecclesiale, vista come eccessivamente cedevole allo spirito secolarizzato del tempo, troppo debole nel volere “Chiedere scusa ai non credenti – sono sempre parole di Galantino riportate – perché tante volte il modo in cui viviamo la nostra esperienza religiosa ignora completamente la sensibilità dei non credenti”.
A questo abbassare la guardia della chiesa, Socci oppone le parole di Cristo nel Vangelo di Matteo (10, 34): “Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra: sono venuto a portare non pace, ma la spada!”.
Non sono un biblista, ma mi pare che la citazione sia decisamente fuori luogo, perché quelle parole sono dette per mettere in crisi ogni forma di facile sentirsi al sicuro ed acquisito accomodamento in ambito familiare. Perciò più dirette, mi pare, ad un contesto ad intra che ad extra.
Ma non è questo il punto.
Il vero attacco sembra piuttosto rivolto non tanto al segretario della Cei, quanto a chi lo ha voluto e, quindi, a Papa Bergoglio.
Si può disquisire all’infinito sull’opportunità e sullo stile delle uscite di Galantino, ma il bersaglio vero è altrove.
E quello di Socci non è che un esempio che accanto ad altri sta formando ormai una fila lunga come davanti ad uno sportello delle Poste.
A molti non va giù l’idea che si stia chiudendo per i vescovi italiani il ventennio ruiniano, così come non sono passate inosservate le modalità con le quali si è svolta la sessantaseiesima Assemblea generale della Cei, nella quale non era mai accaduto, come scrive Il Foglio sabato 17 maggio, che fosse il Pontefice in persona a leggere il discorso d’inizio. Un gesto che è stato letto come un commissariamento di fatto della Cei. E le stesse richieste di Papa Francesco di riforma dello statuto e la sostituzione del segretario generale al posto di mons. Mariano Crociata, sembrano i segni inequivocabili di un cambio di rotta.
Molti altri, poi, sono i mal di pancia che stanno affiorando nella chiesa.
Secondo Massimo Introvigne, docente di Sociologia dei movimenti religiosi all’Università Pontificia Salesiana di Torino, i lefebvriani si starebbero dando molto da fare perché ritengono il pontificato di Francesco per loro inaccettabile “e sperano – continua il docente in un’intervista a QN il 16 ottobre 2013 – di diventare un polo di coagulazione del dissenso anticonciliare”.
Stesso mese e stesso anno, qualcuno lo ricorderà, ci fu il caso dei due collaboratori di Radio Maria, Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, allontanati dall’emittente per avere firmato un lungo commento sull’operato di Bergoglio dal titolo significativo: “Questo Papa non ci piace”. I due non avevano gradito le interviste rilasciate da Francesco, ritenute “un campionario di relativismo morale e religioso”.
Fra queste, il lungo colloquio col direttore de La Civiltà Cattolica, nel quale Bergoglio definisce la chiesa un ospedale da campo.
Frasi e dichiarazioni che fanno irrigidire Michael Novak, fra i più noti ed influenti filosofi cattolici statunitensi. “Le sue parole – così in un’intervista a La Stampa il 21 settembre 2013 – lo espongono alla strumentalizzazione da parte di chi vuole colpire la chiesa … La sinistra si sentirà incoraggiata a spingere per modifiche della dottrina”.
Lo stesso Introvigne sempre su QN (21 settembre 2013), prova a ridimensionare: “Abbagliati dalla nuova strategia pastorale e dai nuovi accenti molti si aspettano chissà quali aperture dottrinali, cadendo in questa che è una sorta di illusione ottica”.
Come dire: cambieranno anche i toni, ma la sostanza della chiesa rimane identica.
In una riflessione sulla rivista americana Commonweal il 5 giugno scorso, lo storico Massimo Faggioli, fa una disamina dettagliata del fronte oppositivo a Papa Bergoglio.
Stile e linguaggio di Francesco non sarebbero benvenuti per numerosi vescovi, molti dei quali silenziosamente resistono ai cambiamenti.
In Italia i cardinali di Venezia, Milano, Torino, Genova, Firenze, Napoli e Palermo, non sono annoverati fra i massimi estimatori dell’attuale Pontefice, mentre il cardinale di Bologna, Carlo Caffarra, non ha esitato a criticare pubblicamente le posizioni di apertura del pari porporato Walter Kasper, circa la possibilità dei cattolici divorziati e risposati di ricevere la comunione.
Nel panorama editoriale italiano giornali come Libero, Il Giornale e Il Foglio, non stanno risparmiando critiche a Bergoglio. Lo stesso Corriere della Sera – scrive Faggioli – sembra dare voce al capitalismo italiano preoccupato dal magistero papale in ambito sociale. La dura strigliata sull’inequità contenuta nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium, è sentita per tanti come un campanello d’allarme.
Sandro Magister su L’Espresso, da sempre dato in quota a Ruini, non si tira indietro a dare voce a certi ambienti vaticani non proprio entusiasti della svolta bergogliana.
Si potrebbe andare avanti, per esempio, con pezzi significativi dell’episcopato e del cattolicesimo statunitense, culla delle posizioni prolife, ma ben più dell’elenco telefonico può interessare un significativo inciso di Faggioli.
Se c’è una cosa che contraddistingue da sempre la cultura conservatrice della chiesa, tanto da farne un vanto, è il rispetto incondizionato per l’ordine gerarchico, per l’autorità investita di un mandato divino.
Ora invece, diversi si sentono, per diversi motivi, minacciati da un corso ecclesiale che li spaventa e questo li porta a dimenticare una storica, e teologica, affezione e obbedienza alla figura del Papa, cadendo così in una vistosa contraddizione.
Ma che cosa irrita maggiormente chi, come anche Socci, è tuttora abituato a leggere i fatti ecclesiali all’interno del binomio angusto conservatori-progressisti, destra-sinistra?
Lo storico Alberto Melloni va bene all’osso della questione quando dice che per Wojtyla e Ratzinger era decisivo affermare e annunciare i valori cristiani nello spazio pubblico e mostrare la capacità antagonista della chiesa. Bergoglio, invece, ragiona partendo dalle persone e non dalle leggi, dai principi e dalle istituzioni.
Due cose, in fondo, stanno contraddistinguendo più di altre le parole e soprattutto i gesti del Pontefice.
Con Bergoglio la “prossimità” non è solo un atteggiamento diverso, un cambio di tono, di forma o di accenti, ma diventa la postura essenziale e fondamentale per la chiesa.
È il primato cristologico della misericordia, con il quale misurare e riparametrare tutto il resto.
In secondo luogo, Francesco vuole e chiede con insistenza la sinodalità come principio e metodo di vita e governo della chiesa. Sinodalità che richiama tremendamente alle orecchie il termine collegialità, che a sua volta significa attuazione del concilio Vaticano II.
Non sono certo novità assolute, ma sufficienti per rompere equilibri, urtare sensibilità e chiedere cambiamenti di rotta. Innanzitutto dentro la chiesa.
Così si comprende la preoccupazione che Enzo Bianchi espresse su La Stampa già il 21 settembre 2013: “Non vorrei apparire foriero di malaugurio, ma quando un cristiano – e tanto più un Papa – innalza il vessillo della croce, non come arma contro i nemici ma come cammino di sequela del Signore, può solo andare incontro a incomprensioni e contraddizioni, in una solitudine istituzionale pesante e faticosa”.

Pepito Sbazzeguti

Quella barca ‘sfinita’, allegro monumento che saluta i turisti

Elogio allo squallore. Potrebbe essere il titolo dell’installazione d’arrivederci posta ai piedi del ponte che collega il Lido degli Estensi a Porto Garibaldi. Il “monumento” non può sfuggire neppure all’occhio più distratto, è giusto collocato nello svincolo d’uscita e si mostra in tutta la sua bruttezza. E’ una barca “sfinita”, giunta a fine corsa, le vele strappate, la vernice scrostata e, fino a qualche giorno fa circondata da onde di cellophane azzurre incastrate sotto la chiglia. Risultato: un classico effetto pattumiera, con la plastica sbatacchiata dal vento come fosse un groviglio di sacchi dell’immondizia sfilacciati e abbandonati sull’erba. Una meraviglia. Quel che si dice il trionfo del buongusto, una chicca d’autore capace di solleticare la curiosità di chi passa sulla Romea. Sembra di sentirli gli automobilisti in transito dalla parte opposta dell’imbarcazione, peraltro persino più triste del monumento ai marinai caduti di via Pomposa a Ferrara. “Guarda che bella idea, quasi quasi vado a farmi un giro agli Estensi”. Se tanto mi dà tanto, c’è da mettersi le mani nei capelli. Di chi mai sarà una pensata tanto brillante, che sta alla accoglienza come una cozza (nel senso di brutto) alla bellezza. Forse l’ideatore ha voluto replicare l’Italia dei rifiuti della passata Biennale di Architettura di Venezia, lo scrivo perché sono un’inguaribile ottimista. Certi esperimenti però hanno bisogno di background altrimenti è meglio lasciare perdere. E’ meglio spendere due soldi e seguire un corso di educazione estetica, se il denaro scarseggia si può sempre lanciare una sottoscrizione purché i creativi fai da te seguano con impegno le lezioni e la finiscano di offendere la sensibilità dei passanti a colpi di oggettistica orripilante confezionata in casa. Ci sono già abbastanza villette a schiera, case e residence che gridano vendetta per quanto sono inguardabili. Un consiglio: lo squallore non aiuta la vacanza e aggiunge aria di naufragio a una località che ha conosciuto tempi migliori. Molto ma molto tempo fa.

Aggiornamento del 4 luglio – Rimossa la barca del nostro scontento [leggi]

L’amore non si cura

Il titolo del mio intervento prende spunto da uno striscione del primo pre-Pride svoltosi a Ferrara lo scorso sabato, corteo partito da Ferrara che si è successivamente unito al Pride di Bologna. La scritta “l’amore non si cura” è contro chi considera l’omosessualità una malattia, un qualcosa che vada curato perché contro natura. Sta ad indicare, come sostiene anche la psicoanalisi lacaniana, che l’orientamento sessuale è una scelta soggettiva e non qualcosa di “dato” a seconda del genere sessuale in cui si nasce. Per Lacan l’anatomia non è un destino. L’anatomia non definisce l’essere uomo o l’essere donna. Non c’è un essere un uomo o un essere una donna, ma c’è un “fare l’uomo” o un “fare la donna”. La sessuazione è un processo complesso che consiste nella soggettivazione della propria anatomia e questo comporta che la dimensione anatomica del sesso possa non corrispondere all’orientamento soggettivo della sessuazione stessa.
L’identità sessuale, quindi, implica sempre una scelta del soggetto. Non possiamo far corrispondere la sessuazione femminile al corpo di una donna, né quella maschile al corpo di un uomo. Il tempo dell’infanzia è solo un primo tempo della sessuazione a cui si deve aggiungere un secondo tempo dove si può rigiocare la partita della scelta del sesso, che è il tempo della pubertà e dell’adolescenza, ovvero il tempo dell’incontro pulsionale con la sessualità, con il corpo sessuale dell’Altro.
Il corteo pre-Pride era in contrapposizione con la manifestazione delle “sentinelle in piedi” tenutasi nello stesso giorno sempre a Ferrara. Le “sentinelle in piedi” sono un’organizzazione spontanea di cittadini nata per contrastare l’estensione della legge contro l’omofobia. Tra loro persone di tutte le età, in larghissima parte di orientamento cattolico, che conducono una battaglia ideologica contro la rivendicazione dei diritti delle persone gay, lesbiche e transessuali. Stanno in piedi, leggendo un libro, per un’ora, in silenzio. Le Sentinelle sostengono che il senso del loro manifestare è quello di “vegliare sulla libertà di espressione e opinione”, ma è una volontà che si concentra solo ed esclusivamente sul tema della negazione dei diritti per le persone omosessuali. Un movimento che sta alzando i toni contro ogni discorso e pratica di apertura nella scuola e nella società a visioni non assolutistiche della famiglia e delle relazioni umane e sessuali. Un movimento che distorce la realtà delle leggi proposte e delle misure educative che si vogliono intraprendere nelle scuole e che cerca di legittimare e giustificare la discriminazione contro le persone omosessuali, negando i più elementari e fondamentali diritti umani, che devono essere garantiti a qualsiasi persona. Mi pare una contraddizione che persone religiose, che dovrebbero dare l’esempio di tolleranza e rispetto dei diritti altrui, non siano in grado di considerarli.
L’omofobia, secondo l’Agenzia per i diritti Fondamentali dell’Unione Europea, danneggia ogni anno salute e carriera di milioni di persone. L’Italia è il Paese dell’Unione Europea con il maggior tasso di omofobia sociale, politica e istituzionale. I suicidi della popolazione gay legati alla discriminazione omofobica costituiscono il 30% di tutti i suicidi tra gli adolescenti. L’Italia è l’unico tra i Paesi dell’Unione Europea a non avere una legge anti omofobia, mentre in Europa il riconoscimento dei diritti civili è in media attorno al 65-70% con punte dell’80% nel Regno Unito e in Belgio, in Italia è fermo al 25% dopo Serbia, Kosovo e Georgia e prima dell’Azerbaigian. Occupandomi da diversi anni di omosessualità mi capita spesso di sostenere giovani omosessuali nella loro ricerca di rispetto dei propri diritti, assolutamente legittimi, come quelli di non essere discriminati sul lavoro, di avere eguali diritti di costituire una famiglia e avere dei figli, in definitiva di poter vivere con serenità la propria vita. La funzione del padre (fondamentale nella strutturazione dell’identità di un soggetto) non si identifica solo con la struttura della famiglia tradizionale. Chi è in grado di sostenere che la famiglia tradizionale compia meno danni di famiglie omogenitoriali?
L’importante è che in famiglia ci sia qualcuno che eserciti la funzione del padre, anche se ciò non necessariamente si incarna in un uomo. Il messaggio delle Sentinelle è omofobico perché, sotto slogan a difesa della vita, della famiglia e della relazioni tra i generi, alimentando un clima di pregiudizio e di discriminazione.
Sabato in concomitanza con la manifestazione, la Giunta comunale ha esposto alle finestre del Municipio il messaggio “La città di Ferrara condanna l’omofobia e la transfobia”, rendendo così manifesto il proprio impegno contro discriminazioni e la condanna di ogni forma di violenza omofoba. L’estensione della legge contro l’omofobia punisce discorsi di odio che incitano alla violenza o azioni violente, non certo le opinioni su matrimoni gay o adozioni. La legge non prevede alcuna limitazione alla libera manifestazione di idee.
Mi pare doveroso imparare a rispettare le diverse particolarità di ognuno in un tempo in cui l’educazione all’integrazione dev’essere al primo posto.

Chiara Baratelli, psicoanalista e psicoterapeuta, è specializzata nella cura dei disturbi alimentari e in sessuologia clinica. Si occupa di problematiche legate all’adolescenza, dei disturbi dell’identità di genere, del rapporto genitori-figli e di difficoltà relazionali.
baratellichiara@gmail.com

Marattin: “Contro la crisi ora serve liquidità, ma la miglior moneta è la fiducia”

“Ci devo riflettere”. Con un’inattesa apertura di credito Luigi Marattin si impegna a riconsiderare la soluzione anticrisi prospettata da Marco Cattaneo e Giovanni Zibordi nel volume “Soluzione per l’euro” e recentemente ribadita anche a Ferrara [leggi]. I due erano stati pesantemente criticati sui social network dal giovane assessore del Comune di Ferrara, docente di economia all’Università di Bologna.
Ma andiamo per ordine seguendo il filo di un dialogo possibile che si è sviluppato a partire dall’unico punto certo e condiviso: la crisi.

Ritiene efficaci e adeguate le misure adottate per contrastarla?
Partiamo dall’efficacia e cominciamo col dire che uno choc di queste dimensioni è probabilmente superiore persino a quello del ’29. La domanda da porsi non è se i provvedimenti abbiano propiziato un aumento del Pil o dell’occupazione, ma cosa sarebbe successo se non fossero stati adottati. Avremmo avuto una recessione molto peggiore…

Chiaro, ma la controprova non c’è…
L’econometria si occupa di questo, valutare e prevedere teoricamente gli effetti.

Certo, ma la previsione è fatta sulla scorta di un modello matematico coerente con il paradigma adottato, cioè con il postulato di base. Sarebbe interessante cambiare punto di vista e valutare scenari possibili che abbiano a riferimento modelli alternativi.
E l’adeguatezza? La cura a suo avviso è appropriata e deve solo essere ricalibrata?
Io non sono convinto che si sia fatto tutto ciò che si doveva nel modo giusto. Il deficit è stato ridotto solamente con l’aumento delle tasse, mentre al contrario di quel che si dice la spesa pubblica è cresciuta.

La percezione dei cittadini però è diversa.
La ‘gggente’ si lamenta dell’aumento delle tasse, al bar non c’è nessuno che imprechi per il calo della spesa pubblica.

La gente forse no, ma gli amministratori pubblici sì, a cominciare dal suo sindaco che spiega come certi interventi non si possono fare perché mancano i finanziamenti e le coperture.
E ha ragione, perché sono stati tagliati selvaggiamente i trasferimenti agli enti locali, ciononostante la spesa dello Stato è aumentata.

Insomma, è sempre colpa degli altri!
I tagli agli enti locali non sempre sono un’ingiustizia (anche se noi in percentuale siamo stati penalizzati più degli altri). Va riconosciuto che prima c’erano grandi sprechi e che i tagli hanno indotto una forzata razionalizzazione. Margini ce ne sono ancora per ridurre gli sprechi, magari non a Ferrara. Ma quel che non è accettabile è che lo Stato abbia messo a dieta gli enti locali ma abbia poi speso altrove quel che è stato risparmiato.

Quindi il difetto non è nella cura, ma nella mancanza di rigore con cui è stata applicata?
Il problema andava affrontato. Per dire: il debito pubblico è cresciuto dal 60% del 1981 al 122% del 1994. Ma un conto sarebbe stato sistemare la finanza pubblica riducendo la spesa, altro farlo alzando le tasse perché questo ha favorito la recessione.

E quindi ora come si propizia la crescita?
Contesto che si faccia solo aumentando la spesa pubblica e osservo che non esiste un solo Paese al mondo che abbia percorso con successo questa strada. Aggiungo anche che i nostri conti sfasciati hanno una storia antica e non dipendono dalla Merkel. Per ridare competitività al nostro Paese bisogna intervenire con riforme strutturali serie: della pubblica amministrazione, della giustizia, del fisco, del mercato del lavoro, della formazione professionale… E’ il pacchetto di riforme al quale lavora il governo, che può rimettere correttamente in moto il sistema e favorire la crescita.

Sul ruolo delle banche non ha nulla da eccepire? Non le pare che abbiano abdicato al loro ruolo di sostegno all’economia preferendo invece puntare su investimenti certi, funzionali ai propri interessi particolari?
La banca è un’impresa che compra e vende soldi e persegue un profitto come ogni altra impresa.

E allora non sarebbe meglio ripristinare un sistema di banche pubbliche?
Non rimpiango i tempi in cui c’erano e le nomine erano fatte a livello ministeriale per soddisfare interessi politici e per conseguenza i prestiti venivano garantiti agli amici degli amici.

Sta dicendo che un corretto meccanismo stenta a funzionare a livello pubblico?
E’ il confronto con il mercato che garantisce, nella competizione, il rispetto delle regole.

Torniamo al tema della moneta. Cattaneo e Zibordi dicono che sono necessari 200 miliardi per rimettere in moto l’economia, Corrado Passera parla di 350. Ha senso porre la questione in questi termini e, nel caso, chi ha ragione?
L’ordine di grandezza è molto superiore ai 200 e anche ai 350 miliardi. Un anno fa la Bce aveva immesso mille miliardi di nuove banconote, una somma adeguata, ma le banche li hanno utilizzati per tappare i loro buchi o per comprare titoli di Stato. Ora ha fatto un’altra operazione, con presupposti differenti: 400 miliardi per famiglie e imprese a un tasso scontatissimo dello 0,25% legato a un’intimazione alle banche stesse: se non li presti te li tolgo… Dovrebbe funzionare, ma ci vorrà un anno prima che produca effetti concreti.

Però concettualmente lei riconosce che una robusta immissione di moneta serve?
Serve eccome, l’offerta di moneta va aumentata, siamo ben distanti dal rischio di inflazione. Ma attenzione, l’iniezione di liquidità non è la panacea di tutti i mali, serve a contrastare la crisi ma non può essere permanente se non l’inflazione poi esplode…

Questo è evidente, ma oggi farebbe comodo, giusto?
Sì, ma ribadisco che gli effetti diretti non sono immediati. Ciò che invece determina un effetto immediato è il meccanismo psicologico basato sull’aspettativa, cruciale è agire su questo versante. Mi spiego: l’intervento della Bce va bene, ma si potrebbe fare di più. Per esempio, se anziché 400 avesse destinato mille miliardi a famiglie e imprese, avrebbe determinato un positivo choc e una potente iniezione di fiducia per gli operatori del mercato. Il problema è che la Banca centrale europea è frenata da vincoli ed equilibri di natura politica che hanno a che fare con le reciproche diffidenze fra i partner comunitari: è chiaro che dopo quel che è accaduto in Grecia, la Germania guardi con sospetto a un’ipotesi di eurobond. Ma il problema è evidentemente più di natura politica che di natura economica e per risolverlo servirebbe una solida leadership europea che ora manca.

Torniamo al merito della proposta Cattaneo-Zibordi per affrontare la crisi senza uscire dall’euro: l’emissione di certificati di credito fiscale a scadenza differita di almeno un paio d’anni, da attribuire come bonus a famiglie e imprese. Titoli di credito concepiti di fatto come una sorta di valuta interna che gli intestatari potrebbero eventualmente monetizzare immediatamente cedendo sul mercato i crediti ai tassi di interesse corrente…
Ci devo riflettere.

Marattin appare un poco sorpreso, come se in precedenza non avesse considerato con la dovuta attenzione questo aspetto. Ma non c’è tempo per approfondire, perché l’assessore riceve una telefonata e viene risucchiato dagli impegni istituzionali. Però la risposta arriva in differita: “Immaginiamo che io sia lo Stato e nell’economia ci siano solo due consumatori, A e B. Io emetto un titolo di 20mila euro, e lo do a B. A se lo compra per 18 mila euro. Ma se è vero che ora B ha 18 mila euro di liquidità in più, è altresì vero che A ha 18 mila euro in meno… l’effetto aggregato quindi è nullo. Come dicevo, è solo un gioco delle tre carte. Del resto anche in economia ‘nulla si crea e nulla si distrugge’ o meglio, ‘nessun pasto è gratis’.”

Avanziamo un’obiezione: è altresì verosimile che B induca A a scongelare 18mila euro che A avrebbe trattenuto come riserva, con l’effetto che sul mercato vengono immessi 18mila euro che altrimenti sarebbero rimasti immobilizzati.
Replica: “e che ne sai? E se invece A li avesse spesi? In realtà sono sempre quei soldi che il governo (o la banca centrale) ha immesso nel sistema economico all’inizio. Ma allora tanto vale ridurre le tasse per quell’ammontare (con interventi di politica fiscale) o aumentare la base monetaria per quell’ammontare (politica monetaria). Null’altro al di fuori di questo”.

Null’altro, ma ce n’è abbastanza per intavolare il confronto. L’appuntamento pubblico è per la seconda metà di luglio.

passione-politica

Democrazia, popolo, volontà: il caso italiano

Molti attribuiscono ad Oscar Wilde l’abusato adagio: “nel bene e nel male, purché se ne parli.” In verità sembra che il detto sia ancora più cinico, se non crudele: “c’è solo una cosa al mondo peggiore di essere oggetto di chiacchiere ed è non essere oggetto di chiacchiere.”

È infatti questo che ho pensato durante tutta la dotta e brillante conferenza che il giovane filosofo canadese Peter Hallwardha tenuto qualche settimana fa su “Democrazia, Rivoluzione e Volontà Politica” presso il non meno dotto e brillante berlinese Institute for cultural inquiry.

Hallward ha ripercorso con puntualità e accuratezza gli sviluppi della recente teoria politica franco-inglese degli ultimi anni, passando amabilmente dai grandi classici del pensiero greco (Platone, Aristotele) fino agli orgogliosamente celebrati teorici moderni francesi (come Deleuze, Foucault, Babiou e altri).

Manifestando una rassicurante fiducia nella democrazia (soprattutto nelle sue declinazioni anglosassoni), Hallward ci ha messo sull’avviso contro due mostri della filosofia politica: il populismo (che derubrica il popolo ad oggetto dell’azione politica, in fondo incapace di un’autentica azione politica) e il post-capitalismo (che frammenta l’idea di unità del popolo secondo il cinico principio romano del divide et impera).

La via di mezzo andrebbe trovata in una connessione virtuosa tra una concezione “unitaria” di popolo e l’espressione di una “volontà” politica. Insomma, Hallward non ha dubbi che tutti quanti, i politici in primis, dovrebbero ricordarsi che il popolo non è né oggetto né bieco insieme di individui, bensì un soggetto capace di volontà, che si è già incarnata in modi multiformi nella storia.

Eppure Hallward, dopo aver lasciato i pingui boschi del suo lontano Canada, essersi rifocillato della rassicurante teoria politica francese e infine insegnando nella democraticissima Inghilterra, è riuscito a non menzionare nemmeno una sola volta l’Italia e il ventennio berlusconiano. In effetti, è riuscito a ricostruire puntualmente una lunghissima tradizione filosofico-politica in tutto l’Occidente, da Platone fino al Sessantotto, fermandosi al Che, senza nemmeno fare qualche passo più in avanti per guardare all’Italia e alla sua recente infausta vita politica degli ultimi anni.

In fondo, non voglio peccare di superbia; non si tratterebbe nemmeno di un “dovere” rispetto ad un Paese che è stato, anche se amiamo scordarlo, uno dei Paesi fondanti dell’Unione Europea nonché una delle maggiori potenze economiche mondiali.

La miopia di questo giovane filosofo della politica nei confronti della esperienza politica italiana di questi ultimi anni è stata stupefacente ma anche preoccupante, non certo perché ci si dovrebbe appassionare della nascita, sviluppo e metamorfosi (o mutazioni) del “berlusconismo” al “renzismo” o al “grillismo,” ad esempio, ma semplicemente perché si dovrebbe purtroppo essere avvezzi all’idea che già altre volte in passato l’Italia è stato l’infausto “laboratorio politico” di esperienze che si sono diffuse altrove come una metastasi.

Chi scrive forse sa troppo poco di filosofia politica per mettere il becco, ma ha vissuto abbastanza in Italia per credere che nessuna teoria politica compiutamente moderna possa prescindere dalla (non ancora conclusa) esperienza della “videocrazia” italiana.

Renzi e l’effetto ipnotico degli annunci

Ci risiamo con il ‘metodo Renzi’! Adesso tocca alla ‘riforma della giustizia’ essere annunciata con clamore e toni da ‘anno zero’… Ha ragione Massimo Giannini (“La Repubblica” di oggi…) a sottolineare tre punti. 1) Per ciò che riguarda il metodo, sarebbe troppo facile ricordare le promesse fatte e tradite: basta confrontare il famoso ‘cronoprogramma’ annunciato il 17 febbraio (quando aveva appena ricevuto l’incarico da Napolitano…) e le ‘riforme’ realmente (non virtualmente…) approvate. 2) Ora sulla giustizia vengono annunciate le ‘linee guida’, cioè un indice generico e di buone intenzioni: le ‘dodici palle’… E i due mesi di discussione annunciati? “Più che un grande esercizio di ‘democrazia partecipata’, ha l’aria di essere un astuto escamotage per comprare tempo e per vendere (all’Europa…) una merce che non si possiede”. 3) E’ falsa e stucchevole la rappresentazione che Renzi continua a dare del ventennio berlusconiano. Non è vero che si è trattato di un ‘derby ideologico’ tra fazioni messe tutte sullo stesso piano… Si è invece consumata un’aggressione sistematica da parte di Berlusconi e della sua banda nei confronti dei principi basilari dello Stato di diritto e della Costituzione italiana, con un’opposizione incapace, inerme e spesso complice…
Ma la storia non comincia con Renzi! Durante il ventennio si è discusso e proposto. Basterebbe prendersi il tempo di studiare testi e ricostruire fatti. Ma è più efficace, dal punto di vista emotivo e comunicativo, continuare a cavalcare l’onda dell’uomo ‘del fare’ che contro gufi e un passato da gettare finalmente è arrivato per risolvere tutti i problemi ‘mettendoci la faccia’… Finchè l’opinione pubblica dà segni di ‘crederci’ è evidente che Renzi non mollerà questo ‘giochino’… Del resto, chi si è preso il tempo di andarsi a vedere i precedenti dell’esperienza politico-amministrativa di Renzi (Presidente della Provincia e Sindaco di Firenze…) ha ben chiaro che questo è lo ‘stile’ dell’uomo che ha stravinto le ultime elezioni…
Conclusione ovvia: fin che dura questo ‘effetto ipnotico’ perché dovrebbe cambiare?

Gaetano Tumiati: tutta questione di statura

Gaetano Tumiati (Ferrara, 6 maggio 1918 – Milano, 28 ottobre 2012) rappresentava per me il giornalismo di una volta, quando non c’erano computer, iphone e twitter. I giornalisti della sua generazione avevano bisogno solo di matita, block notes e macchina da scrivere. E poi, soprattutto un giornalista del suo tempo, doveva saper scrivere velocemente. Il suo amico Montanelli disse una volta: «Un giornalista scrive sull’acqua ed è fuggente come una farfalla». Cosa che anche Gaetano Tumiati pensava della sua professione. Dalla sua personalità e dalla sua biografia ho imparato molto su un’Italia che non c’è più. Apparteneva a un’illustre famiglia ferrarese (come si può leggere dalla lapide in via Palestro 31). Sulla morte del suo amato fratello Francesco (fucilato dai fascisti nel 1944 a Cantiano, nelle Marche) ha scritto un bellissimo libro Morire per vivere. Come giornalista, ha collaborato con L’Avanti! di Milano. Memorabile il suo reportage dalla Cina di Mao Tse Tung e dalla Corea del Nord. Poi ha lavorato come redattore-capo per L’illustrazione italiana, come inviato speciale per la Stampa, Panorama, il Corriere della Sera e il Secolo XIX. Ha scritto anche romanzi pieni dei ricordi sulla sua famiglia e la sua amata Ferrara. Il busto di gesso, il romanzo di un uomo che deve la dirittura morale della sua vita a tre busti di gesso: il primo, quello familiare, della borghesia di provincia negli anni venti; il secondo, la fede fascista, vissuta con l’inconscia adesione degli anni della giovinezza; il terzo, quello di un protagonista che trova nel socialismo il sogno di un mondo nuovo, fragile modello per una società più giusta e umana. Dalla sua ironia, gioia di vivere e sorridere si poteva imparare molto. Depressione era per lui una parola sconosciuta, le conversazioni con lui erano sempre vivacissime e piene di battute. Perché era un uomo di grande statura (e non solo nel senso dell’altezza, era alto 1,95 metri), ha avuto quasi l’obbligo di guardare in basso, ma mai in modo arrogante o snob, sempre con grande gentilezza e compassione per gli uomini piccoli. Tutto era per lui una Questione di statura (così il titolo di un divertissimo libro autobiografico). Ciò che Gaetano Tumiati disse a ringraziamento del Premio Stampa 1999 al ridotto del Teatro Comunale, vale ancora oggi: «Ferrara è diventata un punto di riferimento essenziale. Rispetto a sessant’anni fa, quando il benessere era riservato a poche famiglie, i progressi sono stati immensi. Vedo in giro tanta bella gente, una volta a stare bene era una élite. Certo, sento parlare di crisi. Ma per chi appartiene alla mia generazione è difficile vederla». Ora è sepolto alla Certosa, insieme ad altri morti della sua famiglia che conosco ormai benissimo anch’io per averli letti nel suo romanzo Il busto di gesso. Leggendo quel libro si diventa subito un figlio adottivo della famiglia Tumiati.

Per favore smettiamo di dare i numeri

Mentre il Censis racconta la crescente sfiducia degli italiani nella scuola, c’è ancora chi si balocca a ragionare dell’utilità dei voti.

Quando la scuola chiude e l’estate inizia, da alcuni anni torna il tormentone dei voti. I numeri con cui le scuole di mezzo mondo classificano il rendimento dei loro utenti o ne decretano la somarità.
Ora ci si mette la Francia e un gruppo di intellettuali, tra cui Daniel Pennac, perché è brutto umiliare i bambini piccoli. Per la verità brutto lo è sempre stato, ora come prima. Forse, questo dovrebbe far capire che il ragionamento andrebbe articolato meglio. Perché è chiaro a tutti che il voto è funzionale ad un certo sistema ed a una certa idea di scuola, quella stessa verso cui, ci segnalano i dati del Censis, la fiducia dei nostri giovani va sempre più scemando.
Non voglio addentrami in ragionamenti troppo complessi, poco adatti alle calure estive, di voti, del resto, ho avuto modo di scrivere altre volte. Mi piacerebbe però che il pentimento degli adulti, in materia, fosse autentico e vaccinato da possibili ricadute.
Perché questo accada, io ritengo che sia il pensiero della scuola, quello che ci portiamo appresso da generazioni, a dover mutare. Se no, avremo la solita Mastrocola di turno a ricordarci con un ossimoro che i voti sono democratici.
Non ignoro che è difficile da comprendere l’idea di spostare la lente valutativa dai ragazzi agli adulti, è come ribaltare il tavolo su cui posano, come i pezzi di un gioco, i principi dell’educazione.
Per me le gerarchie, le graduatorie non vanno compilate tra gli alunni, ma tra la qualità delle opportunità formative, formali e informali, che offriamo alle generazioni che si preparano a governare il futuro.
Quanto il successo formativo dei nostri ragazzi dipende dalla qualità del sistema scolastico che offriamo loro? È a questo che dobbiamo assegnare i voti, è questo che dobbiamo valutare rigorosamente in tutte le sue componenti, è questo che dobbiamo promuovere o bocciare se necessario.
Perché mai del rendimento scolastico dovrebbe essere responsabile il più debole, chi fatica, chi ancora sta crescendo, con la sua storia che non è quella degli altri?
Sarebbe ben altra cosa, un altro modo di ragionare e di guardare all’istruzione, assumere come prospettiva l’obbligo della Scuola e dello Stato di rendere conto di come effettivamente consentono, dalla scuola dell’infanzia all’università, ad ogni alunna e ad ogni alunno di capitalizzare saperi e competenze necessari alla propria formazione, di coniugare il proprio tempo quotidiano al futuro.
Il diritto allo studio non ha tempo e non ha tempi, non ha sbarramenti, è alimento naturale di ogni persona e su ogni persona va ritagliato, confezionato, non come bisogno educativo speciale (ultima farisaica invenzione della scuola italiana), ma come diritto che è speciale per il fatto che il suo esercizio, da parte di ognuno, richiede tutta l’attenzione, tutta la cura e tutto l’impegno dello Stato nei confronti di ogni singolo, grande e piccolo, né più né meno come il diritto alla salute e alla vita.
A questo punto, si è in grado di comprendere, io mi auguro da parte di tutti, che sulla scuola, sull’istruzione, sul sapere non si possono più giocare gare e competizioni sociali, compilare classifiche e graduatorie, selezioni, vite perse allo studio, ai saperi, vite di scarto lungo i percorsi scolastici.
Basterebbe misurarsi seriamente con simili riflessioni, per capire che è necessario mettere mano ad un’idea di scuola che non ha più nulla a che vedere con categorie che appartengono al passato. Soprattutto, abbiamo bisogno di smettere di dare i numeri, a partire dai voti, dobbiamo ragionare con una testa del tutto rinnovata nei pensieri. Se per prime sono le teste degli adulti a non essere ben fatte, sarà difficile poter contare che tali escano, come suggerisce Morin, le menti dei nostri fanciulli da questa scuola così come continuiamo a tenercela.

Come sarò da giovane?

Morcote (lago di Lugano),

in attesa di parlare di giardini e di musei in questo straordinario scenario lacustre, girandomi le ciribiricoccole ho deciso di trasformarmi per questa sera nel giovane che è in me, sperando così di ingannare l’occhiuta regola che m’impedirà in futuro di fruire della gratuità dei musei un tempo appannaggio (giusto/ingiusto?) degli over 65. Via dunque severe cravatte Ferragamo, debolezza fiorentina coltivata per contrastare l’ovvietà di quelle Hermès o di quelle di Marinella fornitore di Arcore. Via i cachemires che fanno vecchio solo a palparli, via la giacchetta stilizzata comprata a Roma in un famoso negozio di Campo Marzio.
‘Okkei!’ Sono pronto.
Maglietta Columbus al titanio; jeans Levi’s, scarpette da runner Lacoste. Invano però cerco di occultare il busto che sorregge la colonna vertebrale in pericolo di crollo.
Cosa manca? Ovviamente il formulario linguistico-gestuale. Tento di rifiutare l’orrido “assolutamente sì/no” ma è un best. Batto il 5 ai pronipoti; credo sia necessario mugugnare un po’ di heavy metal, pregando frattanto il divino Mozart di perdonarmi. Infine “last but not last” il cappelletto con visiera rigorosamente Adidas.
Ma andrà bene?
Sarò coatto o fighetto?
Per fortuna la scarsità di chioma m’impedisce la gloriosa cresta gelificata.
Questo tentativo, frattanto medito tra me e me, non vuole porre in luce una individualità ma presentarsi come modello.
E parto non prima d’aver letto il fondamentale articolo di Francesco Merlo su “La Repubblica” che analizza come fosse un’unica galleria degli orrori la situazione dei musei e dei monumenti romani. Decido d’un tratto di cancellare ogni riferimento culturale, di farmi tabula rasa, di dimenticare quel coacervo di studi, notizie, propensioni, innamoramenti culturali che, negli anni, avevo stivato nella mia mente pensando forse ingenuamente di servirmi nei pacati ozi della pensione, flaneur indolente di poesia e pittura, di musei e città d’arte. Si avverano le esortazioni, sempre da me rifiutate, degli amici insegnanti, così condite di pepato sarcasmo, che dall’alto della loro favolosa pensione da 1250 euro al mese, ormai considerata la soglia della ricchezza dal ministero competente, mi esortavano a riflettere su quel tempo sprecato nel voler perseguire l’insano proposito. Meglio, molto meglio, una sagretta con tanto di salama e fritto misto che vagare inerme tra caterve di quadri, statue, oggetti non sempre comprensibili. Va bene!
Ma da giovane che voglio fare?
Beh, un apericena, una sana discussione “tennica” sulla situazione calcistica mondiale (meglio evitare lo spinoso problema italiano…) e concludere la serata con qualche pensosa battuta sulla politica renziana. I più acculturati (forse l’hanno letto in qualche rivista di Cairo editore) sostengono che l’acconciatura della ministra Madia sia molto preraffaellita; probabilmente un riferimento alla Beatrice di Dante Gabriele Rossetti. Il silenzio sconcertatamente ammirato che segue classifica il giudizio come figo. E alta si leva l’adesione e l’entusiasmo per la promessa gratuità al museo per i giovani. Poi un attimo di perplessità: il Museo?
Ma no! Scherziamo? Cosa dice a noi giovani quel rimprovero mite e solitario che emana dai volti, dagli atteggiamenti, dalle pittate scene che come un s.o.s proviene dalle pareti, nel silenzio sacrale del vuoto museo?
Mica tutti hanno avuto la fortuna di quella ragazzetta dall’orecchino di perla capace di catalizzare attorno a sé folle di giovani pronte al selfie. O riscattare il buon vecchio Van Gogh (vero o falso che sia) o godere con gli Impressionisti. O dire Ohhhhh…. di fronte al “Cara”, affettuosa abbreviazione del Caravaggio.
Il resto che è? Giotto? Noiosetto con i suoi inferni e paradisi e la mala abitudine di rimproverare gli evasori fiscali, come quel padovano malnato dello Scrovegni.
Botticelli? Piace troppo agli stranieri e non è poi granchè sorbellarsi code estatiche per vedere poi cosa? Un quadrone con donne (anzi madonne direbbero al Palio) sorridenti e un forsennato ragazzetto che soffia come un ossesso e lo chiamano Zefiro. D’altra parte andare al museo va bene ma sarebbe opportuno, ad esempio che l’attrazione fosse consolidata con opportuni svecchiamenti. Come per quello strepitoso di Spina a Palazzo Costabili detto di Ludovico il Moro a Ferrara dove ti fai il pieno di vasi attici, di gioielli e arredi funerari ma poi è possibile ascoltare un buon concerto, sentire una conferenza curiosa vedere le evoluzioni dei ballerini e alla fine un buon ‘aperi’. Un centinaio e più di persone, qualche giovane, molti anziani. Ma se dovesse scattare la legge te lo vedi il pensionato che paga il biglietto? Almeno metà rinuncerebbe “Dit da bon”? Sussurra allarmato l’ego giovane. Rispondo con una frase passata alla storia di una mia amica tenerissima che quando le capitava qualche disagio, anche grave, inviperita alzava l’occhio al cielo e gridava “ Ci penseranno loro!!!” Mai capito quel loro, ma filologicamente potrebbe essere il ministro e i funzionari del Mibac.

Ormai tra le sponde fiorite del lago di Lugano si fa sera. Tanto per cambiare una bomba d’acqua turba la mia passeggiata non in veste giovanile ma di conferenziere stanco over 65 sulle scale ripidissime che portano alla chiesa antica. Ho sorriso e stretto mani al rappresentante della banca di Sondrio divenuta svizzera anzi ticinese, lodo la bellezza delle scarpe e borse Bailly anch’esse corse in aiuto del comune di Morcote dove il parco Scherrer costa alla comunità locale di 600 abitanti 150 mila franchi all’anno di manutenzione. Beh si sa la Svizzera non è l’Italia e loro c’hanno i danè, mi sono dato da fare per rendere “piacevole” la giornata con i miei amici giardinisti. Ho conosciuto la organizzatrice e responsabile dei Grandi Giardini Italiani che muove in Italia 120 siti giardineschi pubblici e privati per un totale di 8 milioni di visite (è una scozzese di ferro che adora l’Italia e la crede e ci crede che sia l’heimat, la patria del cuore). Ho conosciuto sua sorella l’editrice del libro che uscirà da questo convegno. E’ una deputata inglese liberal che ha presentato in Parlamento (inglese of course) una mozione per salvare dallo smembramento la biblioteca di Warburg dal suo luogo originale e che in migliaia, io compreso senza averla conosciuta, ha firmato su fb. Va bene mi rassegnerò: svesto i panni non curiali (per chi non l’ha capito è una citazione da Machiavelli) del giovane che è in me, rimetto quelli severi del conferenziere, pagherà il biglietto ma…. “Quanto è triste Venezia”.
Pardon! l’Itaglia

Chiamale se vuoi, emozioni…

Così recitava una canzone di Lucio Battisti che, all’inizio degli anni settanta, aveva catturato tutti noi, a prescindere dalle collocazioni politiche, con un testo che certo suonava estraneo al tono impegnato e per lo più aggressivo delle assemblee studentesche. Le emozioni, anche allora, erano dovunque, nello spazio privato e quello pubblico, tanto nei luoghi in cui fiorivano nuovi bisogni di intimità fuori da una famiglia controllante, quanto nei luoghi politici, densi di retorica sui destini del mondo.
Oggi sappiamo bene le ragioni per cui le emozioni hanno un assoluto predominio nella nostra vita e non solo nelle relazioni, ma in ogni scelta. Non sempre ne siamo consapevoli e, comunque, tendiamo a negarlo, spendiamo una quantità di parole per giustificare le nostre scelte, per mettere in ordine i vantaggi e gli svantaggi di ogni opzione e tentare di operare calcoli e valutazioni razionali. Per lo più ciò non accade: siamo vittime di pregiudizi e di credenze, di speranze e di paure.
Le neuroscienze ci hanno spiegato che le emozioni sono una via breve alla conoscenza, che nessuna scelta sarebbe possibile se il circuito caldo, più veloce di quello cognitivo, non fosse in grado di dare colore alle opzioni che abbiamo di fronte. Ogni scelta, da quella di un abito, a quella di un luogo per le vacanze, a quella degli amici con cui uscire, segue questa stessa legge.
Credenze e valori esercitano un ruolo decisivo nell’orientare le scelte. Quando parliamo di valori ci riferiamo all’insieme di idee del mondo che un individuo si è formato nell’ambiente in cui vive. Queste idee danno luogo ad un mondo psicologico interiore e a meccanismi di valutazione degli stimoli e delle informazioni che non sono meno importanti dei sentimenti coscienti e della valutazione analitica.
Già nel Settecento il filosofo David Hume, sosteneva, che non è il ragionamento che guida i giudizi, ma sono le emozioni e le passioni. Anche i giudizi morali sono mossi dalle emozioni, anche se noi per lo più li associamo a fondati criteri logici e razionali sul bene e sul male. Lo psicologo Jonathan Haidt (Menti tribali, Codice, 2013) negli ultimi anni ha argomentato ampiamente questo punto di vista, contribuendo alla critica di una interpretazione astratta e razionalistica del concetto di valori morali ancorché applicati alla politica.
Diverse ricerche hanno messo in luce empiricamente come i nostri giudizi morali possano essere influenzabili. Ad esempio, se le persone chiamate ad esprimere un giudizio hanno bevuto una bevanda amara anziché dolce, esprimono giudizi morali più rigidi. I giudizi morali sono influenzati dall’ambiente, ad esempio la musica allegra rende le persone più gentili e con una tazza di caffè caldo in mano gli altri ci paiono più piacevoli. Pare che persino i giudici emettano sentenze meno severe la mattina presto e dopo i pasti. L’analisi sul ruolo delle emozioni entra, quindi, nel dibattito giuridico e investe questioni procedurali, come l’opportunità di utilizzare fotografie e video durante il dibattito processuale.
Tutta la comunicazione è impregnata di adesioni emotive alle diverse posizioni in gioco: ciò accade in misura crescente via via che l’informazione si mescola alle immagini e alle interpretazioni personali. La comunicazione odierna, nei più disparati ambiti, utilizza il registro delle emozioni e anche noi lo facciamo nel portare argomenti alle nostre considerazioni. Sarebbe meglio essere consapevoli dalla nostra dipendenza dalle emozioni, non solo per avere minore sicurezza circa la nostra superiore verità ma, soprattutto, per cerare di introdurre davvero, un po’ di razionalità in più nelle nostre scelte.

Maura Franchi è laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing e Web Storytelling, Marketing del prodotto tipico. I principali temi di ricerca riguardano: i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand. maura.franchi@gmail.com

Dario e la bionda, una storia del Barco

Una vecchia strada del Barco, una sera di dicembre. Il buio che cala presto. Il freddo e la nebbia che avvolgono tutto. Dall’altra parte della strada intravedi le forme e le luci della grande fabbrica. Il rumore attutito dei macchinari ed il ronzio dei motori. Il suono lontano di una sirena spezza la monotonia. Qualche orto più in là ed inizia il villaggio dei marchigiani, inizia Ponte. Le pasticcerie e le vetrine del centro sono a pochi chilometri, ma è come se fosse un altro mondo. Chiudi gli occhi un istante e di colpo non sei più a Ferrara. Forse in Alabama, o Louisiana. E quel vecchio in fondo alla strada che si sta trascinando con le borse della spesa potrebbe essere Joe, presto si siederà in veranda a fumare la pipa e sputare, con il cane accucciato a terra ed il fucile a portata di mano. Stasera c’è nebbia ed è meglio essere cauti. Ti aspetti che il suono di un armonica spezzi il silenzio in ogni momento. Il Mississippi scorre calmo più a nord. È difficile capire quello che succede quando scende la nebbia, al Barco.

Dario abita qui. Pochi amici rimasti, chiusi in casa tra mogli, nipoti e acciacchi. Una vecchia passione per la caccia, in gioventù ha anche provato ad impagliare alcuni animali, senza grande talento. Trent’anni al petrolchimico e una pensione che tutto sommato fa tirare avanti. Il dottore che dice che non si può più bere e fumare, ed andare giù al bar. Questo freddo solo a guardarsi attorno fa venire voglia di stare in casa. Rosa, la moglie, da qualche giorno è tornata ad Ascoli. Ci va spesso ultimamente. La sorella, vedova da qualche anno non sta bene. Un’innocua influenza, ma anche questa volta Rosa ne ha approfittato per passare qualche giorno “a casa”, come dice lei. Dario cena da solo, ma non se ne dispiace troppo. Di quando in quando, apprezza un ritaglio di tempo per concentrarsi sui suoi interessi. Un buon film in televisione, caffè e sigaretta. Sa che non dovrebbe, ma non c’è Rosa a ricordarglielo. Una tribuna politica ed ha già fatto venire mezzanotte. Si alza e guarda fuori dalla finestra. La nebbia avvolge tutto, nella palazzina di fronte tutte le persiane sono già chiuse. Tranne una.

Lei c’è. Ne intravede la forma, che si muove velocemente dietro i vetri appannati. La sente canticchiare. Dario spegne la luce e torna alla finestra. Non vuole farsi vedere. Conosce la ragazza bionda. Assiste la vecchia Pina, ormai sorda e quasi cieca. Non che abbia interesse, ma la ragazzina, che avrà poco più di 20 anni, gli riscalda lo spirito. Quegli occhi verdi, quel corpo minuto ma che immagina forte, quel sorriso aperto ogni volta che la incrocia, e tutta una vita davanti. Hanno avuto maniera di parlare diverse volte giù in cortile. Non solo una bella ragazza, ma anche intelligente. Più matura della sua età. Si sono capiti subito. Un sorriso gli attraversa il viso ed il pensiero va indietro di 40 anni. Al primo motorino e alle notti in campagna. A quella volta che per impressionare Rosa attraversò il Po a nuoto e per poco non ci lasciò le penne.
Potrebbe passare ore a guardarla.

Il volto ridiventa serio non appena nota l’uomo appoggiato al muro, in strada. È fermo ed ha anch’esso lo sguardo puntato alla stessa finestra. Non riesce a vederne il viso nascosto nel buio, ma l’aspetto è robusto e muscolare. Ormai è l’una e adesso l’uomo lancia due fischi verso la finestra illuminata. Dario si ritrae più indietro, nel buio della stanza. Vede lo stesso la finestra che si socchiude e la bionda dire qualcosa sottovoce, l’aria intimorita. Forse dice all’uomo che è tardi, di andarsene. L’uomo risponde a monosillabi. La voce è dura, profonda. Non è uno abituato ad attendere. Con passo deciso si avvia verso il portone di ingresso, che nel frattempo é stato aperto. È allora che passa sotto la luce d’ingresso e Dario gli intravede sotto il berretto la carnagione scura, olivastra, e la grossa cicatrice che gli solca parte del viso.
Dario inizia a sentire il cuore battere più velocemente. Forse dovrebbe smettere di guardare, andare a letto. Il dottore gli ha detto quanto sia importante evitare di agitarsi. Evitare sforzi, emozioni forti. Forse dovrebbe chiamare la polizia. Ma perché poi? per dire cosa? e così continua a spiare nel buio, preoccupato. Con cautela socchiude il vetro per sentire meglio le voci. Da dietro le finestre appannate adesso può vedere anche la forma di lui. Sovrasta quella della ragazza e si muove lenta ma sicura nella stanza. Da lontano li sente discutere. Un tintinnio di bicchiere e l’ombra della ragazza che prende una bottiglia dalla credenza. Ora bevono, entrambi seduti. Dario si calma, forse è solo un vecchio amico, un parente. Ma continua a guardare, si accende un altra sigaretta. Ed è allora che vede la figura dell’uomo alzarsi, afferrare per un braccio la ragazza, spingerla nell’altra stanza. Sente un tentativo di protesta da parte della giovane donna, dei singhiozzi. Forse un urlo soffocato. E le luci che si spengono.

La notte è fredda ma la fronte di Dario è coperta di sudore. Pensieri che si accavallano. Pochi secondi per prendere una decisione. Si butta un cappotto addosso e corre giù per le scale. Un altro minuto per recuperare dalla cantina la vecchia doppietta Falco. Non si sa mai. La nasconde sotto il soprabito lungo. Ha poco tempo. Con respiro affannato esce e attraversa la strada in direzione della casa della Pina. Si ferma un attimo e si guarda intorno. La nebbia è fitta e adesso tutte le persiane sono chiuse. Le luci spente. Bene. Il portone è ancora aperto e si lancia su per le scale. Sta attento a non fare troppi rumori. È preoccupato ma non vuole svegliare i vicini. Si ferma davanti all’appartamento, un dubbio lo assale. E se avesse frainteso tutto? Ha comunque una scusa pronta… la richiesta di un medicinale che si è scordato di comperare…sì sì… Pina ne assume così tanti…
Sente il cuore scoppiare mentre bussa alla porta….

La bionda gli apre con il solito sorriso e si punta un dito sul naso. Adesso bisogna fare silenzio. Lo invita ad entrare. Tutto è andato come previsto. Dario sente la tensione sparire, rimpiazzata dalla solita felicità ogni volta che vede la bionda, ogni volta che se la trova vicino e sente il profumo dei suoi capelli. Si muovono lentamente per casa. Sarebbe un peccato se Pina dovesse svegliarsi proprio adesso e rantolare per un bicchiere d’acqua. L’uomo è in camera, steso sul letto. Un sacchetto avvolto attorno al viso. Dorme ed annaspa a fatica. Forse sta già morendo. Dario si occuperà più tardi di questo dettaglio. I potenti sonniferi mischiati alla dose di vodka gli hanno fatto perdere i sensi in pochi minuti. Non è stato difficile adescarlo. Quando il lupo pochi giorni prima in stazione ha visto la bionda, ha perso ogni cautela, passando da cacciatore a preda. Probabilmente nemmeno lui ha condiviso la conoscenza della bionda con il resto del suo gruppo, così geloso che a qualcun altro questa faccenda potesse far venire l’acquolina alla bocca. Nessuno lo verrà a cercare al Barco, così come per tutti gli altri prima di lui. Troveranno la maniera di trasportarlo nel solito posto, o Dario inizierà la lavorazione a casa di Pina come già fatto in passato.
Adesso i due si guardano con affetto reciproco, quasi amore. Rosa ne sarebbe gelosa, ma senza motivo. Per Dario la Bionda è anche un po’ come la figlia che non ha mai avuto. Lo anima un orgoglio quasi paterno. Dividono molti interessi e quando hanno parlato si sono capiti subito. Al Barco non ci sono i lupi da cacciare, e alla Bionda mancavano i pomeriggi con suo padre, che da bambina la portava dietro con sé ed i fratelli sui monti: l’emozione della fiera che fuggiva, l’eccitazione della scarica, quel colpo preciso che atterrava l’animale più feroce. Bisognava trovare un’alternativa accettabile. Si sa, i giovani sono schiavi delle loro passioni. Dario poi ha sempre desiderato trovare il tempo per migliorare le sue conoscenze di tassidermista. In cuor suo spera che la Bionda possa interessarsene un giorno, anche se non glielo ha ancora confessato.
Ma c’è tempo, e molte altre serate di nebbia, al Barco.

Vivere o sopravvivere, il dilemma di un uomo pacifico

Vivere per accumulare giorni e ricordi o vivere trasferendo le vincite di una puntata su un’altra successiva? Tony, il protagonista de “Il senso di una fine” (edizioni Einaudi, 2012) di Julian Barnes, ha una certa attitudine all’autoconservazione e alla sopravvivenza che ha dimostrato passando la vita a scansare inquietudini. Finchè, un giorno, l’inatteso arriva a sconvolgere la sua esistenza di uomo pacifico e un po’ codardo.
Un compagno di studi, Adrian, morto suicida molti anni prima, lo cita in un diario, di cui Tony può leggerne, dopo una faticosa ricerca, solo una pagina. Ma manca il seguito, la frase è monca, priva della reggente, è troncata a metà come l’amicizia che c’era stata fra di loro, come il rapporto con Veronica che fu l’anello di congiunzione fra Tony e Adrian. Un periodo ipotetico sospeso (“Dunque, ad esempio, se Tony…”) che Tony prova a completare cercando di rintracciare il senso di quello scritto e di quei quartant’anni che nel frattempo sono passati.
Non solo il cosa è accaduto nei rispettivi cammini, ma anche il come la vita sia stata vissuta. Da quella pagina del diario di Adrian, Tony, ormai uomo di mezza età, si interroga sulla cautela dietro cui si è sempre comodamente riparato, sull’accadere della vita piuttosto che sul farla accadere padroneggiandola, prendendola a due mani e giacandosela tutta.
“Pensavo alle cose che mi erano successe negli anni e a quanto poco avessi fatto succedere io”, è questa allora la differenza con la scommessa di cui parlava Adrian nel diario? Una giocata come nell’ippica, dove punti, rischi e se vinci la giocata si trasferisce e si accumula su un successivo pronostico. Quanti più, per, meno e diviso ci sono nella vita e nelle relazioni? E come si fa a non fermarsi a una semplice addizione, ma a capire che la crescita sta oltre? La crescita come sviluppo dell’accumulo è quello che Adrian aveva saputo capire giovanissimo. Ma Tony no, deve accadere (ancora una volta) qualcosa perché si metta dentro alle cose.
Il ricordo dell’amicizia con Adrian e dell’amore con Veronica, diventa, per lui, rielaborazione dell’io che restituisce una versione di sé diversa, meno conveniente perché foriera di rimorso. La memoria lo riallaccia di colpo a un passato quasi dimenticato, il tempo oggettivo e regolare non coincide più con il tempo soggettivo che è “quello che si porta sull’interno del polso, proprio accanto alle pulsazioni cardiache”, un tempo emotivo, scandito solo dall’irrompere dei ricordi.

Lettera aperta a una “sentinella in piedi”

Cara “sentinella in piedi” che flashmobberai sabato 28 giugno alle 18 in piazza a Ferrara, contro il disegno di legge che contrasta l’omofobia, mi piacerebbe farti qualche domanda.
Posso?
Per prima cosa devi sapere che per me le parole sono importanti, quindi potresti spiegarmi perché hai scelto di chiamarti con un nome preso dal vocabolario militare, se vuoi “difendere la libertà di espressione e di opinione”? Ne intendi fare un uso intimidatorio? O sei anche tu uno di quelli che credono che le libertà si possano difendere meglio con nomi bellici altisonanti (Esercito di Silvio, Milizia Mariana, …) ?
Chiariscimi perché, per favore, se sei già una sentinella vuoi precisare anche che sei “in piedi”? Io non ho mai sentito parlare di sentinelle sedute, sdraiate o stravaccate.
(I vostri punti di riferimento francesi almeno si fanno chiamare “Veilleurs debout” che mi sembra più corretto sintatticamente e anche meno bellicoso).
Cordiale “sentinella in piedi”, sul tuo profilo Facebook scrivi: “Vegliamo in silenzio oggi per essere liberi di esprimerci domani”; vuoi forse dirmi che non ti senti libero di esprimere la tua opinione? Dai non scherzare, con la storia che hai alle spalle ed i suoi innumerevoli esempi di opinioni altrui condannate, soffocate, infilzate, messe al rogo non dovresti arrivare a tale paradosso!
Cito ancora dal tuo profilo: “Sentinelle in Piedi è una resistenza di cittadini che vigila su quanto accade nella società e sulle azioni di chi legifera denunciando ogni occasione in cui si cerca di distruggere l’uomo e la civiltà”; lo trovo interessante ma prima spiegami di quale uomo e di quale civiltà stai parlando, per favore. Temo che la tua idea di uomo non consideri affatto i suoi sentimenti, i suoi sogni, i suoi bisogni, le sue speranze e che la tua civiltà sia da considerarsi tale solo se ci si mette una bella croce sopra.
Anche se c’è qualcosa di mussoliniano nell’inizio della tua frase: “Ritti, silenti e fermi vegliamo per la libertà d’espressione e per la tutela della famiglia naturale fondata sull’unione tra uomo e donna” io vedo che tu, caro “guardiano”, puoi manifestare liberamente in difesa di ciò che ritieni giusto. Permettimi un banale consiglio: cerca però di ricercare la coerenza fra le tue azioni ed i valori cristiani a cui fai riferimento altrimenti passi per essere un bigotto, ipocrita ed intollerante che considera la “famiglia naturale” come un involucro vuoto e che non si occupa delle cose ben più importanti che sono le sincere ed oneste relazioni d’amore fra le persone, indipendentemente dal sesso a cui gli esseri umani appartengono.
Lo so che la coerenza è una virtù di pochi ed io non te lo scrivo mica perché penso di possederla; credo però che quando scrivi che il testo del Ddl Scalfarotto “è fortemente liberticida in quanto non specifica cosa si intende per omofobia lasciando al giudice la facoltà di distinguere tra un episodio di discriminazione e una semplice opinione” tu finga di non capire per poter mantenere il pesante potere del tuo giudizio.
Gentile “sentinella”, in altri contesti, elogi le differenze e le diversità ma perché, in questo caso, vuoi mantenere per qualcuno il diritto di discriminare senza che questo venga sanzionato? Ti confesso una cosa: a volte penso che a te, le persone che definisci diverse, servano per sentirti superiore a loro e che l’elemosina che fai, con qualche spicciolo o con qualche buona azione, sia il deodorante a ph neutro che ti serve per profumare la coscienza, coprendo così il cattivo odore della presunzione e dell’arroganza.
Personalmente penso che il Ddl Scalfarotto non sia nemmeno così estremista, anche per il fatto di essere frutto di accomodamenti fatti all’interno di un governo delle larghe intese, ma almeno prende atto di un problema grave che si chiama “omofobia” (che è “la paura e l’avversione irrazionale nei confronti dell’omosessualità e di persone gay, lesbiche, bisessuali e transessuali, basata sul pregiudizio” *) e tenta di intervenire.
Sensibile “sentinella”, non credo che a te piaccia ma io condivido che la mia città consideri la tua manifestazione “un messaggio che divide e alimenta un clima di pregiudizio e di discriminazione e non può e non deve trovare spazio a Ferrara, città dell’associazionismo e del volontariato che, negli ultimi anni, si è distinta per i suoi valori di inclusività e di rispetto per il suo impegno civile contro ogni forma di discriminazione”.
Immobile “sentinella”, mentre sarai in piedi a difendere la libertà di espressione, se puoi confessaci: con la candela che tieni in mano, a quanti libri ti sei avvicinato con intenzioni focosamente distruttive, prima di scegliere quello che leggerai in piazza?
Immacolata “sentinella”, io non riesco ad augurarti buona fortuna per la tua manifestazione ma desidero vivamente che lo facciano i piccioni di piazza Trento e Trieste, inscenando il loro flash mob beneaugurale preferito: “Ready-Aim-Fire ovvero Puntate-Mirate-Fuoco”.

La filosofia del giardino di Jorn de Précy

Jorn de Précy nacque a Reykjavik nel 1837. Figlio di un ricco commerciante di origini bretoni, lasciò l’Islanda per viaggiare e vivere tra Italia, Francia e Inghilterra, prima di stabilirsi, nel 1865, nella tenuta di Greystone, nell’Oxfordshire, dove visse ancora a lungo e si dedicò completamente alla realizzazione di un giardino. Nel 1912 uscì il suo unico libro: “The Lost Garden.” De Précy lo pubblicò a sue spese, non divenne mai un best seller e le poche copie circolarono in modo semi clandestino, ma le sue idee anticiparono in modo profetico, la cultura contemporanea del giardino. Confesso di averlo acquistato per caso, attirata dalla copertina della sua versione italiana curata da Marco Martella (“E il giardino creò l’uomo”, ed. Ponte alle Grazie, 2013), forse avevo letto qualche recensione, infatti ho ritrovato un articolo di Pia Pera tratto dal domenicale del Sole24ore, messo da parte e poi dimenticato. Ma il caso forse non esiste, certi fili di corrente passano tra le persone, attraversano il tempo senza rispettare i confini e fanno in modo che le strade di queste persone si incontrino, e la passione per il giardino, più precisamente, la condivisione di un certo modo di sentire il giardino, può darsi che sia uno di questi fili, sottili ma incredibilmente resistenti. Sono stata catturata da questo libro, dal modo diretto, ruvido e poetico usato dall’autore per descrivere concetti sulla natura dei giardini e sulle motivazioni che ci spingono ad essere giardinieri e a cercare la bellezza come risposta alla inciviltà. Pagine intense che raccontano come il rispetto dei luoghi non sia un vincolo, ma un gesto di ascolto, una semplice applicazione dei nostri sensi che precede ogni nostro capriccio e ci consente di abitare la terra in modo creativo e costruttivo, per arrivare alla descrizione di emozioni che sembrano le mie personali. La faccenda è diventata intrigante, mi sembrava di avere troppe cose in comune con questo personaggio vissuto un secolo fa, anche il suo giardino mi era familiare e mi riportava ad un luogo magico visitato anni fa, non in Inghilterra, ma in Francia, durante un viaggio di studio. Un giardino che ha molto influenzato le mie scelte di giardiniera. Infatti, non era un caso. Durante quel viaggio abbiamo avuto alcune guide speciali, una di queste è stata Marco Martella – scrittore, storico, direttore della rivista “Jardins”- e grazie a lui, il nostro gruppo ebbe la possibilità di visitare un giardino meraviglioso, chiuso al pubblico in quel periodo. Marco, alla fine di una intensa giornata ci propose di visitare un ultimo giardino fuori programma, e nonostante la stanchezza ci aprìil cancello, per condividere con noi la bellezza unica di quel giardino che stava studiando. Il giardino era veramente un incanto, la luce era perfetta per sottolineare l’armonia che può nascere quando l’abbandono permette alla natura di affiancare la mano dell’uomo. Sono momenti unici, fragili e irripetibili, ma possibili quando il giardiniere ha la consapevolezza del suo ruolo e lavora per rendere visibile questa bellezza. Questo giardino ha un nome e una storia, esiste e ricorda quello di Greystone, un giardino scomparso, o forse mai esistito, comunque vivo nelle pagine di rara poesia e sensibilità di Jorn de Précy (Marco Martella).
“Il tempo del giardino è dunque quello della vita. Non ci spinge in avanti, come il tempo meccanico che ormai governa le nostre esistenze, perché un vero luogo ci radica sempre nel tempo presente, qui e ora. Non vi sono scopi da ottenere, né obiettivi da raggiungere, perché la vita ha un solo fine: se stessa. E lo stesso la bellezza, che nasce costantemente dal processo vitale. (…) Ritrovare questa vita, la vera vita e questo tempo della natura che è anche il nostro vero tempo, il tempo che conosce il nostro corpo animale: ecco cosa ci spinge ad aprire il cancello di un giardino e a entrarvi, ogni volta come se ci accingessimo a entrare in un mondo a parte sepolto dentro di noi. Questo è il dono del giardino. (…) Ora, respirando tutta la bellezza del luogo, tuffandomi nel suo mistero, comprendo questa sensazione. Qui si vede che il mondo dorme. E forse questo giardino è il suo sogno.” Jorn de Précy

Osteopatia: rimettere a posto le ossa per ristabilire salute e armonia

L’osteopatia è una scienza terapeutica manuale che si fonda su una filosofia ed un ragionamento causa-effetto. Interviene sulle strutture umane e il suo scopo è quello di ristabilirne l’armonia funzionale, perché possano nuovamente espletare il loro ruolo nelle migliori condizioni. Una disarmonia funzionale risale a condizioni precise che ne favoriscono la manifestazione, e lesioni che turbano la mobilità ed i normali rapporti delle strutture del corpo. La lesione osteopatica, chiamata anche “disfunzione somatica” (somatico significa relativo al corpo), è una restrizione della mobilità naturale di una struttura. Tutte le strutture sono mobili, in relazione le une con le altre.
L’osteopatia oggi va molto di moda, ma non è la terapia “ultimo grido”. L’osteopatia non ha inventato niente, è solo un modo diverso di considerare alcuni aspetti che ci concernono. Il procedimento osteopatico non consiste in una serie di ricette utilizzate, piuttosto di altre, in tale o talaltra affezione, ma mira a normalizzare ed armonizzare le strutture (fasciali, viscerali, ecc.) che hanno perso una parte della loro dinamica naturale e che, per questo, sono poste in una situazione difficile, che non può più loro assicurare un funzionamento normale. L’interesse della persona nella sua globalità resta prioritario.

In osteopatia è particolarmente importante il concetto cranico, ossia l’applicazione alla sfera cranica dei principi dell’osteopatia, introdotto da parte del suo fondatore il dr. Sutherland. Osservò in particolare che tutte le ossa del cranio si articolavano attraverso forme precise che erano in grado di permettere ad ogni singolo osso un ben determinato movimento. L’intricata architettura delle ossa craniche lo indusse a chiedersi se questa strutturazione favoriva il movimento. Cosa muove le porzioni ossee craniche? Tale movimento fu messo in evidenza dal dr. Sutherland attraverso il tatto. Lui comprese il funzionamento di questo speciale meccanismo a cui diede il nome di Meccanismo respiratorio primario. Con meccanismo respiratorio primario si intende la respirazione dei tessuti che prende origine a livello cellulare, con costanti scambi di metaboliti e cataboliti, attraverso un mezzo liquido e attraverso le membrane cellulari. In sostanza, l’encefalo è l’organo che necessita di più ossigeno di qualsiasi altro; a riposo il metabolismo cerebrale corrisponde a circa il 15% di quello complessivo dell’organismo, pur essendo la sua massa solo il 2% dell’intero essere.
Il metabolismo cerebrale in condizioni di riposo è sette volte e mezzo il metabolismo medio del resto del corpo, ed è principalmente legato al funzionamento delle pompe ioniche a livello delle membrane cellulari dei neuroni. Ecco che un improvvisa carenza di sangue o di ossigeno in esso provoca uno stato di incoscienza entro i 5-10 secondi.
Sutherland per descrivere il Meccanismo respiratorio primario, lo paragona al cosiddetto movimento a ruote dentate, indicando un sistema attraverso il quale il movimento di un osso cranico si trasmette a tutti gli altri, proprio come un sistema ad ingranaggi, determinando un movimento complessivo della struttura. Questa mobilità è apprezzabile con la palpazione e si manifesta ritmicamente 8-13 volte al minuto.
Sappiamo che anche solo un insulto, sia fisico sia emotivo, può generare modificazioni permanenti della nostra struttura. Ogni insulto, ogni trauma non dissipato, ovvero non seguito da un ritorno all’omeostasi, genera una modificazione nella direzione della restrizione, che implica ispessimento o densificazione del tessuto connettivo.
L’osteopata, con il suo bagaglio di conoscenze anatomiche, embriologiche, neurofisiologiche e biomeccaniche, rimodula e riarmonizza la disfunzione ed elimina il dolore.

Su quali disturbi agisce l’osteopatia, le più comuni indicazioni:

• “mal di schiena”, dovuto a problemi articolari, ernie e sciatalgie
• dolori cervicodorsali
• dolori sacrolombari
• altri disturbi del rachide cervicale (es. postumi di “colpo di frusta”, parestesie, nevralgie cervico brachialgie)
• cefalee, emicranie, dolori e nevralgie facciali
• vertigini
• dolori articolari quali sindrome di spalla, dolori al gomito, disfunzioni al ginocchio o alla caviglia-piede (ad esempio esiti traumatici)
• dolori da tensione muscolare
• disfunzioni dell’articolazione temporo-mandibolare
• disturbi “posturali”
• disordini funzionali delle vie digestive (ernie iatali, ecc.)

La pratica osteopatica risulta efficace anche per:

• problemi cranici, otiti, rinofaringiti, sinusiti
• problemi stomatognatici
• problemi legati al parto (soprattutto distocico e cesareo)
• problemi circolatori
• problemi viscerali a livello cardiorespiratorio o uro-ginecologico
• problemi neurologici

Ma, attenzione, l’osteopatia non ha alcuna efficacia in caso di lesioni anatomiche gravi od urgenze mediche dove l’azione chirurgica diventa insostituibile.

Marattin: “Da Cattaneo e Zibordi cialtronate sulla crisi”. La replica: “Pronti al confronto”

Per Luigi Marattin, docente di Economia all’università di Bologna e assessore del Comune di Ferrara, si tratta di “monnezza intellettuale”. Giuseppe Fornaro, candidato sindaco a Ferrara della lista Valori di sinistra, viceversa, rivendica il fatto di essere stato “l’unico in campagna elettorale a sostenere queste posizioni”. Insomma, dopo l’intervista apparsa su ferraraitalia [leggi], attraverso i social network si sta animando il dibattito attorno alla via d’uscita dalla crisi economica proposta da Marco Cattaneo e Giovanni Zibordi, autori per Hoepli del recente volume “Soluzione per l’euro”.

Afferma Marattin: “Alla domanda (intelligente) del giornalista su come si possa evitare l’iper-inflazione che deriverebbe dall’aumento della base monetaria in circolazione (fenomeno che ha distrutto svariate economie negli ultimi 100 anni), questi finti economisti rispondono: ‘semplice! Si aumentano le tasse!’. Ma l’aumento di tassazione, diminuendo la domanda aggregata come loro stessi – in un delirio di contraddizioni – riconoscono, vanifica l’effetto espansivo dell’aumento di base monetaria. In pratica, ad una politica monetaria espansiva si fa corrispondere una politica fiscale restrittiva, con effetti totali nulli. Anzi, si potrebbe argomentare che poiché la politica fiscale restrittiva ha effetti anche sul lato dell’offerta (diminuendo l’accumulazione dei fattori produttivi, che determinano la produzione e quindi il Pil), l’effetto complessivo sarebbe anche pesantemente recessivo. Tutta roba che si insegna nell’arco delle prime tre settimane di un qualsiasi corso base di economia a ragazzi di 19 anni”.

Fornaro, spiega di essere stato persuaso da un seminario tenuto da Claudio Bertoni (referente ferrarese del gruppo), e a Marattin replica: “Non sarei così sprezzante. Non c’è bisogno degli insulti. Sarebbe interessante, invece, un confronto pubblico tra te (Marattin, ndr) e Bertoni, o i due autori di cui si parla nell’articolo, con un moderatore, sui temi dell’economia. Ci sono alcuni punti delle loro tesi che sono convincenti, altri meritano di essere approfonditi”. E conclude: “Ci stai ad un confronto pubblico?”.

All’invito, Marattin controbatte: “Il confronto pubblico con quei finti economisti io lo chiedo da almeno due anni. Sono sempre scappati a gambe levate. Non certo per me, ma perché gli è rimasto un briciolo di onestà tale da comprendere che le loro cialtronerie verrebbero completamente distrutte da un semplice studente del primo anno. Proprio per questo si ostinano a fare iniziative a voce unica. Nell’improbabile ipotesi che vogliano – dopo tanto tempo – accettare un contraddittorio, certamente sarei disponibile. Non ho mai avuto problemi a confrontarmi”.

A questo punto entra in campo Cattaneo, che ha seguito a distanza il contraddittorio su Facebook: “Non so a chi si riferisca Luigi Marattin affermando che ‘il confronto pubblico con quei finti economisti io lo chiedo da almeno due anni. Sono sempre scappati a gambe levate’. Sicuramente non parla di me, e credo nemmeno di Giovanni Zibordi. Personalmente, non ho mai avuto occasione di incontrare Marattin e questa richiesta di confronto, evidentemente, a me non è stata rivolta. Ma colgo con piacere l’occasione per raccogliere l’invito e sollecitare un confronto-dibattito pubblico, e per quanto mi concerne do piena disponibilità a organizzare, per esempio a Ferrara, in qualsiasi data dal 15 luglio prossimo in poi”.

Dunque, emerge da tutte le parti la volontà di guardarsi in faccia e chiarire i rispettivi punti di vista. Ferraraitalia si rende disponibile a organizzare il confronto, secondo i crismi dell’imparzialità.

Sarebbe davvero interessante poter ascoltare in contraddittorio le voci dei protagonisti. Lo spirito crediamo debba essere quello del giovanissimo Fabio Zangara che, intervenendo anch’egli nel dibattito su Facebook, si rivolge direttamente a Marattin raccontando che “anch’io ho partecipato ai seminari del dott. Bertoni e, oltre che simpatico, mi è sembrato anche molto preparato e documentato. In tutta sincerità non comprendo la sua perplessità circa la risposta di Zibordi e Cattaneo riguardo il controllo della base monetaria in circolazione. Se la moneta in circolo è ‘scarsa’ si applicano iniezioni di liquidità nel sistema, se si rischia il fenomeno inflattivo viene applicata una studiata imposizione fiscale che riequilibra la base monetaria in circolazione, per garantire il giusto equilibrio del ‘flusso circolare’. Si controlla quindi la base monetaria tramite la funzione sinusoidale (sinx), usando investimenti e tasse come contrappesi. Non vedo, quindi, il pericolo di un fenomeno recessivo riguardo le tesi di Zibordi e Cattaneo. Sono convinto che sarebbe molto utile un confronto pubblico fra di voi per spiegare ai cittadini cosa sta accadendo oggi in Eurozona. Mi piacerebbe anche sapere perché istituti creditizi privati e Bce di fatto emettono moneta dal nulla attraverso i prestiti. Ritengo estremamente importante che lo Stato possa emettere denaro per monetizzare l’operosità dei cittadini, garantendo lo scambio di beni, sostenendo l’economia reale”.

Argomentazioni e quesiti chiari, scaturiti da una mente fresca e non imbevuta di dogmi, che esprimono anche l’anelito di un giovane cittadino alla ricerca di un orizzonte di stabilità per il proprio futuro.

Ma, anche nei suoi confronti, Marattin usa espressioni tranchant che mal si conciliano con la volontà al confronto che pure manifesta: “Fabio, sul confronto pubblico vale quanto scritto sopra. Sono sempre scappati, e c’è da capirlo. Sul resto, sei ancora giovane ed in tempo per non farti sedurre da colossali castronerie (quali quelle che sembri ripetere) che non hanno né fondamento logico, né empirico. Le persone che citi non hanno una formazione accademica completa, non hanno posizioni presso università o centri di ricerca degni della benché minima notorietà scientifica, e non hanno pubblicazioni comunemente accettate presso la comunità scientifica (cioè in riviste internazionali con doppio referaggio anonimo). Spacciano colossali panzane come teorie economiche alternative, ma in realtà usano solo tutti voi in buona fede per acquisire un minimo di notorietà e per facili guadagni. Fai un favore a te stesso, studia l’economia quale scienza sociale. Ti accorgerai che per mettere in discussione alcuni dogmi troppo facilmente accettati non c’è bisogno di uscire totalmente fuori dal perimetro scientifico con questa spazzatura intellettuale”.

In realtà Cattaneo e Zibordi pongono un problema reale e drammatico, quello della crisi, al quale gli economisti gallonati ai quali Marattin fa riferimento non hanno saputo porre rimedio. Se ci sono debolezze o fragilità vanno discusse. Ma se il punto di partenza è buono, sbagliato è rifiutare il ragionamento.
Credo si debba fare molta attenzione ad additare visionari ed eretici a pubblici roghi.
Il pregiudizio è una bestia pericolosa. Il padre dei fratelli Wright, agli albori del secolo scorso, sentenziò “Mai e poi mai l’uomo volerà per mezzo di una macchina”. Proprio i suoi figli lo smentirono. Non degli anatemi si alimenta il progresso della civiltà.
Quando si tratta di questioni vitali come questa è saggio guardare la luna e non il dito che la indica.

Lunga e diritta corre la strada fra la via Emilia e il fiume

SEGUE – Una strada lunga e dritta spacca il centro della pianura da San Possidonio, Cavezzo, fino all’incrocio col fiume Panaro, all’altezza di Camposanto. Secondo la regione Emilia Romagna, dalle terre piane dell’alto modenese dovrebbe passare la cispadana, un’autostrada che così unirebbe la A13, all’altezza di Ferrara sud, alla A22 del casello di Reggiolo-Rolo. Ma a giudicare da quello che vedo i propositi per il 2015 andranno rivisti almeno di qualche decennio, e scommetto che nessuno se ne stupirà più di tanto.

Camposanto sembra meno danneggiato degli altri. Anche se in campagna quasi ogni giardino è munito di un container o una casetta di legno. Mi dicono come dopo gli eventi sismici la vendita di roulotte e camper abbia subito un’impennata vertiginosa. Passando per la statale una targa ricorda il gemellaggio con un paese del potentino colpito dal sisma del 1980. Come se non bastasse, a gennaio il comune, insieme a Bomporto, ha subito un’alluvione di cui a livello nazionale si è parlato davvero poco. Incrocio un gruppo di persone, credo siano addetti alla cartiera Smurfit Kappa, che ha sede qui… loro hanno fretta, io riparto.

Pochi chilometri e un cartello avvisa ancora una volta di un cambio di provincia, a Palata Pepoli sembro arrivato in Arizona e invece sono solo in una frazione di Crevalcore, in provincia di Bologna. Casette e campi squadrati, due semafori che regolano gratuitamente un traffico inesistente, il bar “sole luna” e un altro caffè, bar H, più avanti. Tutta Italia dovrebbe venire almeno qualche giorno a Palata Pepoli, recupererebbe la semplicità di quattro strade che si incrociano senza troppe pretese, senza fingere di essere ciò che non si è.

Siamo nei comuni delle terre d’acqua. Un nome intenso che ricorda agli uomini quanto abbiano dovuto faticare per strapparle alla malaria. Anche qui le scuole sono ospitate nei prefabbricati, come a San Felice sul Panaro, a Finale Emilia, a Mirandola. Paesi che, nel sud dove sono nato, ho sempre sentito riecheggiare come in una sorta di memoria collettiva. La massiccia emigrazione interna nella seconda parte del novecento ha trovato qui una seconda casa per molti miei conterranei. E oggi mi ritrovo a dare forma e colori a terre che pareva conoscessi da tempo.

Campagna emiliana a Palata Pepoli

Campagna emiliana a Palata Pepoli

Da Palata a Cento è un soffio di strada. Le due scosse hanno creato un immenso cratere che cerco di percorrere con i miei tempi. Tento di circoscriverlo ma il perimetro è enorme, segnalato dal crollo parziale di buona parte dei vecchi casolari dell’Emilia, ne ho contati a decine: stazionano alla stregua di cattedrali circondate da un deserto di grano, ed estese oasi di frutta. Tetti sgarrupati e ruderi hanno definitivamente mutato il paesaggio, mettendo come un accento di dolore sulla già passata civiltà contadina che mi ricorda la poetica amara di Azzurra D’Agostino:

La casa viene al mondo e si spacca sotto/il peso di un tramonto mortale: rotto il cotto/il tetto, l’architrave. Quante Ave Maria avrà detto/
la vecchia che non ha più nome. Il gendarme sarà/venuto? Avrà preso mai un disertore? Le ore quando/è ancora buio e già là nei campi si muove l’aratro/chiedere perdono per il peccato lo steccato aprirlo/tirar fuori le bestie restie nell’alba da venire a farsi aprire/cucinare per gli uomini dentro i camini la cenere sparsa/arsa come la bocca dopo l’amore il fiore sul greto del fiume/il sudiciume portato a lavare al pozzo il gozzo tagliato/del maiale il sangue a sgocciolare giù dal collo del coniglio/tutta una vita tutto un germoglio un gran scompiglio.

 

Ruderi nella campagna ferrarese

Ruderi nella campagna ferrarese

Oggi non c’è tempo per arrivare a Sant’Agostino, a San Carlo, a Bondeno. La mia giornata finisce a Cento, la città del Guercino coi suoi trentamila e passa abitanti e un tasso di immigrazione tra i più alti d’Italia, col suo dialetto dal suono bolognese, le industrie, la città che in centocinquanta anni ha raddoppiato la popolazione, rimanendo assiepata al cospetto dell’ennesimo fiume minaccioso di queste terre: il Reno.
La bella piazza centrale è in parte inagibile, alcuni palazzi storici mostrano i segni ormai noti della messa in sicurezza. La pinacoteca civica ancora chiusa e in cerca di fondi per il restauro. Ma nel giorno del mercato la città torna a vivere. A Cento nel ’47 nacque la Vancini e Martelli, meglio nota come VM. La madre del motore diesel italiano ha un migliaio di dipendenti e dopo una girandola di passaggi di mano è finita nell’orbita della General Motors. In Emilia nel raggio di pochi chilometri troviamo le storie di nomi come Lamborghini, Ferrari, Maserati, Ducati. Passo davanti allo stabilimento, faccio rifornimento in una strada come tante, e mi perdo, attratto da uno di quei mercati dell’usato per cui vado matto, dimentico i motori e il resto e ne esco con un seggiolino per bici, le lettere di Machiavelli, e l’idea di una vecchia radio in ciliegio che costa troppo.

Piazza del Guercino a Cento

Piazza del Guercino a Cento

Non ho avuto il tempo di vedere la mostra fotografica nella rocca.

Della seconda tappa dell’itinerario che mi sono prefisso rimane l’idea di una terra d’acqua e dai motori tuonanti degna della Born to run di Bruce Springsteen. Emilia di provincia e motori, ma anche “america” della vecchia e nuova emigrazione, fatta di un’ironia e di una vivacità che mi pare difficile riscontrare al di là del grande fiume Po.

Non mi illudo in questo breve passaggio di giugno, lo so che è un mese che aggiusta tutto, e che da qualche parte ci sarà anche la fioca “luce dicembrina”: l’Emilia paranoica cantata dall’inconfondibile Giovanni Lindo Ferretti dei CCCP. Quella del malessere covato nel profondo, quella ossessiva e ripetitiva provincia assorta e impotente, dove nel chiuso delle case stazionano, sopra i comodini,  soluzioni in pillole da casa farmaceutica. Il luogo a cui si soccombe per inerzia, per debolezza, che consuma e distrugge con la speranza delusa “di un’emozione sempre più indefinibile”.

Forse sarà a Sant’Agostino e San Carlo, o a Finale Emilia, a Mirandola, dove tenterò di chiudere il perimetro del cratere. Per ora mi accontento di trovarla nel mio stereo, in una vecchia canzone…

Emilia di notti agitate per salvare la vita

Emilia di notti tranquille in cui seduzione è dormire

Emilia di notti ricordo senza che torni la felicità

Emilia di notti d’attesa di non so più quale amor mio

che non muore e non sei tu e non sei tu

EMILIA PARANOICA

2 / CONTINUA

Leggi la prima parte del viaggio

Il blog racconti viandanti di Sandro Abruzzese

Di calcio e d’altre sconfitte

“Il primo insuccesso dell’Italia nell’era di Renzi”. Dopo l’eliminazione dai mondiali della nazionale di calcio nella partita con l’Uruguay questo titolo, tutto giocato sull’ambiguità di un’Italia sia squadra di calcio che di governo, ha campeggiato per molte ore sull’home page de L’Huffington Post. Nel Regno Unito ed in Spagna, Paesi colpiti entrambi dalla medesima sciagura calcistica, nemmeno i più sguaiati tabloid hanno associato in modo così inconsulto l’eliminazione dal mondiale ai destini del Paese. Pur considerando la tendenza di quel giornale a voler cercare titoli ad effetto, si fatica a cogliere un qualsiasi nesso logico in quell’accostamento sparato a tutto schermo, che invece si rivolge direttamente alla pancia.
Nessuno stupore perché il calcio è da sempre il locus dove s’intersecano e si mescolano le pulsioni di questo Paese, da cui traggono origine tutte le metafore, assieme immagine proiettata e specchio della nazione. Questo significa essere “sport nazionale”, con buona pace di chi non lo ama. Uno sport che come popolo ci rappresenta in toto: dato che nell’immaginario della maggioranza degli italiani si fonda, in parti circa uguali, su abilità, astuzia e fortuna. In cui gli eroi sono tali solo se sono anche vincitori. E il pallone è rotondo, come la vita.
La spedizione brasiliana è naufragata per evidenti limiti che coinvolgono sostanzialmente in misura uguale giocatori e staff tecnico. Tuttavia è interessante notare come nel sondaggio di Repubblica la maggioranza di chi ha risposto attribuisca la maggior responsabilità all’allenatore, mentre fra i giocatori il maggiore accusato è Mario Balotelli.
In Italia è ormai da anni prassi comune, anche per le squadre delle serie minori, che presidenti inflessibili, semmai dietro pressioni di gruppi di ultras inferociti, caccino l’allenatore al primo accenno di crisi. Il tecnico è quindi diventato l’unico capro espiatorio, quasi sempre a prescindere dalle sue effettive responsabilità, allo stesso modo in cui in molte tribù primitive se i sacrifici agli dei dello stregone in carica non sortivano gli effetti sperati era costui ad essere sacrificato a furor di popolo. C’è da dire che, per loro fortuna, gli allenatori quasi sempre se la passano decisamente meglio di quelli stregoni.
Qualcuno dovrà prima o poi scrivere la “fenomenologia di Balotelli”, perché l’intreccio di sentimenti potenti e contrapposti che questo giocatore suscita nell’opinione pubblica, ben oltre i confini di chi segue questo sport, è senza alcun dubbio degno dell’attenzione di un sociologo e studioso di costume. Mario ha indubbiamente enormi potenzialità tecniche unite ad un pessimo carattere, che spesso gli impedisce di metterle interamente al servizio delle squadre in cui gioca: a lui però sin dagli esordi e contrariamente ad altri campioni non viene perdonato nulla, né in campo né nella vita privata. Non credo si tratti, almeno nella maggioranza dei casi e tolti pochi imbecilli, del solito razzismo becero, ma di una sua forma un po’ più sottile e per certi versi più preoccupante, che rimanda comunque al colore della sua pelle. E’ come se, inconsciamente, a lui molti non perdonassero l’eccesso di orgoglio, le spacconate e l’ostentazione della ricchezza, così comuni in quell’ambiente, perché da un italiano d’adozione si attenderebbero invece un atteggiamento più “grato” e “umile”. Il fatto che quando giocava in Inghilterra succedesse lo stesso, stante il noto e sottile razzismo dei tabloid, è in realtà una conferma di quanto sopra.
Come ultima considerazione credo si possa dire che l’eliminazione dal mondiale sia stata vissuta dalla maggioranza degli italiani con mesta rassegnazione, diversa dall’indignazione del 2002 e dallo stupore quasi incredulo del 2010. Come se le prestazioni modeste della squadra fossero state preventivamente identificate con quelle più generali del Paese e che quindi fosse del tutto fuori luogo coltivare illusioni sull’esito finale della spedizione. Come detto, il pallone è rotondo e paralleli troppo stringenti sono fuori luogo; tuttavia azzarderei che la quantità di aspettative che vengono investite sull’esito di un evento come questo non possa non essere correlata a quelle che il Paese complessivamente nutre nei confronti del proprio futuro. Così come l’entusiasmo che un popolo è grado di trasmettere alla propria nazionale sia in qualche modo dipendente da quello che riesce ad esprimere nella vita quotidiana.

“Basta con l’austerity, ecco una proposta concreta per uscire dalla crisi”

“La cura non funziona: allora aumentiamo la dose”! Loro dissentono, ma sono i paria, gli inascoltati: quelli ‘che semplificano’, accusati a torto di voler uscire dall’euro, di spaccare l’Europa. Tacciati di leggerezza, sospettati di ambigue contiguità, avvolti in un alone oscuro. Tutto questo perché vanno controcorrente e alla crisi rispondono con soluzioni originali, invise agli economisti dell’establishment. Il paradosso che indicano è realmente tale: finora si è cercato il rilancio attraverso politiche di austerity, siccome non hanno dato i frutti sperati ci viene detto di stringere la cinghia ancora di più. “Intanto perdiamo il paziente”, commentano a ragion veduta. E il paziente siamo noi.
Loro invece, gli outsider, sono Marco Cattaneo, Giovanni Zibordi e altri che fanno riferimento alla dottrina del neo-cartalismo. “Economisti pragmatici, non accademici”, dicono di se stessi; anche se alle spalle, fra i riferimenti teorici, ci sono giganti come Kenneth Galbraith…
Vale dunque la pena ascoltare le loro teorie, ragionarci su. Per capire se cambiando medico e terapia non si possa propiziare la guarigione.

“Questa è una crisi assurda – afferma Cattaneo -. Ci sono beni disponibili, forza lavoro disponibile, strutture produttive adeguate. Ma tutto resta incagliato perché mancano i soldi”
E quindi?
I soldi non sono un problema, se mancano si fanno.

Come, ‘si fanno’?
Si fanno! Si stampano. Uno Stato che gode di sovranità monetaria si regola così: immette moneta in rapporto alla capacità produttiva del sistema e l’economia ricomincia a funzionare.

Scusi ma un eccesso di moneta circolante, dato che i beni non sono illimitati, non porta poi all’aumento dei prezzi e quindi all’inflazione?
Sì, ma quando serve lo Stato interviene per drenare la liquidità in eccesso agendo sulla leva della fiscalità. In altri termini, quando si deve favorire la ripresa si aumenta la quantità di moneta in mano a cittadini e aziende diminuendo le tasse; quando invece si vuole contrastare l’aumento dei prezzi dovuto a un eccesso di domanda si fa il contrario.

Ma se è così semplice, com’è che predicate nel deserto?
Perché ci sono molti interessi in gioco e potentati da tutelare; c’è gente che di crisi muore e altra che guadagna facendo enormi fortune.

Mi sta dicendo che c’è una congiura in atto a discapito dei cittadini?
Beh, non siamo gli unici a pensarlo. Altri più autorevolmente di noi lo hanno detto e scritto. Luciano Gallino gode di prestigio a livello internazionale e parla di golpe di banche e governi…

E quindi quanto servirebbe per fare ripartire l’economia?
Almeno duecento miliardi. E’ la somma che abbiamo perso per strada negli ultimi anni per pagare gli interessi sul debito. Il Pil infatti in questi ultimi 20 anni ha continuato a crescere con una media costante. Il problema è che da quando lo Stato italiano ha perso la sovranità sulla moneta, i debiti virtuali sui prestiti sono diventati debiti reali nei confronti delle banche prestatrici. Il processo si origina ben prima dell’euro e ha a che fare con la perdita di controllo sulla Banca d’Italia.

C’è qualcuno che la pensa come voi?
L’ex ministro ed ex Ad di banca Intesa Sanpaolo, Corrado Passera, sta dicendo qualcosa di simile, perlomeno come logica di ragionamento. Lui stima la necessità di 350 miliardi di euro, ma al di là delle cifre, l’impostazione concettuale è la medesima: serve liquidità per fare ripartire l’economia. Non si possono chiedere altri sacrifici, con la stretta creditizia e l’austerità il Paese muore. C’è bisogno del contrario: uno slancio per ripartire con forza.

Ma le vostre teorie hanno trovato mai applicazione?
Sì, nella Germania degli anni Trenta storicamente è accaduto qualcosa di molto simile. Mi rendo conto che sia brutto da dirsi, ma è così. Prescindiamo dalla situazione politica e dai protagonisti dell’epoca, lo scenario economico era molto simile: stagnazione e deflazione. La salvezza è stata l’immissione di moneta nel sistema.

Sarà un caso, ma fra le forze politiche l’unica ad avere preso posizione in maniera netta a favore della soluzione che voi proponete è proprio Forza Nuova…
In questo caso forse suggestione e dimensione simbolica funzionano per una compagine politica che fa esplicito riferimento a un certo passato. Ma noi dobbiamo prescindere da questi aspetti. Il nostro appello si rivolge a tutti, non ha connotazione politica, mira al rilancio del Paese.

Nonostante vi si attribuisca l’intenzione contraria, non siete per l’uscita dall’euro, giusto?
L’euro non è all’origine del problema – interviene Giovanni Zibordi – e la questione della sovranità monetaria si può affrontare e risolvere anche in presenza dell’euro e nel rispetto del ruolo del Banca centrale europea. Non è quindi necessario per l’Italia rimettere in discussione la propria collocazione nel consesso dell’Unione Europea o l’uso della moneta. Noi abbiamo immaginato che la liquidità si possa creare attraverso la disponibilità di titoli di credito sulle imposte che di fatto costituirebbero una sorta di moneta interna.

Cioè?
Titoli di valore predeterminato ma differito, pagabili a due anni (il tempo per fare ripartire l’economia) che lo Stato attribuirebbe ai cittadini da utilizzare per il pagamento delle imposte e delle tasse. Di fatto una sorta di emissione di ‘buoni del tesoro’ per il valore complessivo dei 200 miliardi di cui stiamo parlando. Un meccanismo simile a quello concepito da Renzi, ma altro che 80 euro in busta paga! Trattandosi di titoli certi ed esigibili, chi ha necessità potrebbe farsi anticipare le somme garantite dallo Stato tramite il normale meccanismo del prestito ai tassi di mercato. Immaginiamo una famiglia che vanta un credito di imposta garantito dai nostri certificati per duemila euro, potrebbe ottenerne subito 1.950 per esempio, pagando un interesse del 2,5%, cioè avrebbe subito a disposizione 1950 euro da spendere invece di duemila dopo due anni. E si tratterebbe di soldi veri, intendiamoci, non di somme da restituire: il contante immediato in cambio della cessione del titolo. Quindi soldi da investire o da spendere. Soldi che arrivano sul mercato, circolano e rimettono in moto l’economia.

I pagamenti fatti dai cittadini con questi titoli di credito sarebbero però, nella sostanza, pagamenti virtuali, poiché allo Stato non entrerebbe denaro ma cedole. Inoltre voi sostenete anche la necessità di un drastico taglio delle tasse. E come può lo Stato garantire i servizi se non percepisce più i corrispettivi attraverso le imposte?
Emettendo la moneta necessaria! E’ un falso problema quello che lei pone, frutto di un illusione. Ci dicono che le tasse servono per pagare i servizi, ma lo Stato può stampare quanta moneta vuole (cioè quanta gliene serve) per sé e per gli enti locali, in maniera da garantire l’erogazione delle prestazioni attraverso la copertura dei relativi costi senza intaccare il welfare aytteso dai cittadini. I soldi sono una convenzione. Lo Stato, se è sovrano, regola la circolazione della moneta, aumentandola o riducendola secondo necessità.

[Leggi la presentazione dell’incontro che si è tenuto a Ferrara a giugno: clicca qua]

Oltre il 50 per cento di ginecologi obiettori in Emilia Romagna

di Davide Tucci

«Ci sono dei luoghi adatti alla preghiera. E non si tratta certo dell’ingresso di un Pronto Soccorso. È dal 12 maggio scorso che veniamo qui davanti al Sant’Orsola a contestare i gruppi di preghiera della Comunità “Papa Giovanni XXIII”, che da quindici anni si riunisce lì davanti ogni martedì, giorno dedicato alle interruzioni volontarie di gravidanza. Quella dell’aborto è già di per sé una scelta non facile. Se poi una donna entra in ospedale sentendosi un’omicida, l’effetto è ancor più devastante».Sara è determinata, come del resto tutte le attiviste di “Mujeres Libres” e “Yo Decido”, nel perseguire lo scopo del suo collettivo di «liberare l’ingresso del Sant’Orsola dal presidio della Comunità creata da don Oreste Benzi. Certo, ora sono molto meno invasivi di qualche anno fa, quando esibivano santini e facevano una vera e propria opera di dissuasione dall’aborto: affiggono i loro cartelli pro-life e recitano in gruppo il rosario. Ma rimane comunque la violenza psicologica».

Dall’altra parte, Paola Dalmonte della Giovanni XXIII non parla di vero «scontro» con le attiviste femministe. Anche se, come tutta la comunità cattolica, è irremovibile quando parla di aborto in termini di «uccisione. Ogni martedì, al Sant’Orsola vengono uccisi undici bambini, con i soldi di tutti noi. Sono vite umane, non feti. E su questo non si discute. Non ci permetteremmo mai di fare il processo alle povere donne costrette, una volta su cinque, a fare quel tipo di scelta. Tantomeno di giudicarle. Vogliamo solo pregare e offrire loro il nostro aiuto, cosa che già facciamo da tempo. Perché, con la Legge 194, in Italia è garantita solo l’interruzione volontaria di gravidanza, e non la nascita di un figlio».

Stando ai dati dell’anno 2012, diffusi dalla Regione a fine ottobre 2013, il 53% dei ginecologi emiliano-romagnoli è obiettore di coscienza, cioè si rifiuta di praticare l’aborto. Con i suoi 9.705 aborti complessivi nel 2012 l’Emilia Romagna «è un territorio ad alto tasso immigratorio per le Igv (interruzioni volontarie di gravidanza, ndr). Quello di cui abbiamo bisogno, quindi, è una maggiore tutela delle donne che scelgono di non portare a termine la gravidanza», sollecitano da Mujeres Libres. «Chiediamo solo di dare una mano a quelle donne che, in realtà, non vogliono abortire. E l’immagine della “Santa Maria in attesa del parto” significa proprio questo».

[© www.lastefani.it]

Faggioli: “La chiesa-mondo di papa Francesco, progressista ma non liberal”

Italiano, ferrarese e americano, Massimo Faggioli è uno storico della chiesa, vaticanista conosciuto ormai a livello internazionale. Si specializza in Storia religiosa nelle università di Bologna, Torino e Tubinga tra 1994 e 2002, e dal 2008 vive negli Usa dove insegna Storia del cristianesimo alla University of St. Thomas a Minneapolis/St. Paul. Collabora con varie riviste e quotidiani, in Italia con Europa e l’Huffington Post. E’ appena uscito in Italia il suo ultimo libro intitolato Papa Francesco e la chiesa-mondo (Armando, 2014).

Abbiamo la stessa età, abbiamo frequentato entrambi il liceo Ariosto, difficile per me non cominciare con alcune domande “ferraresi” soft sugli anni della formazione, del tipo qual è stato il tuo background cattolico a Ferrara?
Il mio background cattolico a Ferrara si sviluppa all’interno di due ambiti: lo scoutismo da una parte e l’Istituto diocesano di scienze religiose dall’altra. Scoutismo, quindi una formazione cattolica caratterizzata certamente da fedeltà alla Chiesa ma anche da un certo senso di libertà verso l’Istituzione ecclesiastica. Io ho fatto lo scout per tanti anni, uno scoutismo molto intenso perché oltre all’attività coi bambini e i ragazzi si tentava di ragionare sul ruolo della Chiesa nella società italiana. I primi dodici anni di scout sono stati con il gruppo “Ferrara 4”, alla parrocchia di san Luca; poi nell’89 sono passato a santa Francesca Romana, “Ferrara 5”, dove sono rimasto altri dieci anni circa. Sono stati anni bellissimi a cui devo moltissimo. Ho dovuto interrompere nel 1999, perché mi sono trasferito in Germania per un anno di dottorato all’estero. L’altro ambito del mio background ferrarese è per l’appunto l’Istituto di scienze religiose di via Montebello 8, dove ho studiato con Piero Stefani, monsignor Elios Giuseppe Mori e don Andrea Zerbini, personaggi a cui devo la nascita del mio interesse per la teologia e la scelta dei miei studi successivi, anche perché don Andrea era (è ancora, in un certo senso) il mio parroco, Piero Stefani un comparrocchiano e un amico di famiglia.

Dal punto di vista, invece, degli studi universitari, chi più di altri ha contribuito nella scelta di specializzarti in questa particolare area del sapere? Nella tua presentazione sull’Huffington Post dici che la tua alma mater rimane sempre Bologna: è perché “il primo amore non si scorda mai” o c’è qualcosa di più?
C’è decisamente qualcosa di più. Nell’estate 1989 faccio l’Interrail e nell’autunno dell’89 mi iscrivo a Scienze politiche a Bologna, indirizzo storico-politico, in un anno cruciale in cui stava cambiando il mondo. Ho come docente uno dei fondatori della facoltà, Giuseppe Alberigo, che era lo storico dei concili più famoso e più importante, e vengo presto attratto da questa area particolare di discipline storico-religiose. Altri miei docenti di grande spessore, oltre ad Alberigo, sono stati Mauro Pesce, famoso biblista e storico del cristianesimo, e Pier Cesare Bori, professore di “Storia del cristianesimo e delle chiese”, “Filosofia morale” e “I diritti umani nella globalizzazione”, che formavano un nucleo forte in quell’ambito di studi che purtroppo è completamente scomparso, o meglio è stato eliminato dalle politiche accademiche bolognesi: ora non esiste più nulla del genere all’Università di Bologna. Comunque è dal mio interesse per la storia in generale, per la storia politica e le questioni internazionali, e dall’incontro con questo nucleo forte delle discipline religiose, che si determina la mia scelta, nel senso che quei docenti cominciarono a spiegarmi allora qualcosa di quello che stavo facendo negli scout e il significato di certe cose che venivo sentendo, ossia dell’importanza delle identità religiose nel mondo contemporaneo, determinanti per capirne le dinamiche… e questo più di dieci anni prima dell’11 settembre 2001, tanto per intenderci. Gli anni dell’università, tra l’89 e il ’94, sono stati anni di enorme cambiamento dal punto di vista internazionale: il Muro di Berlino, la dissoluzione dell’Unione sovietica; in Italia, la fine della prima Repubblica, tangentopoli e la crisi generale del sistema politico. Studiare scienze politiche a Bologna in quegli anni è stata una delle occasioni fortunate della mia vita, perché mi ritrovavo a studiare cose che erano particolarmente rilevanti per quello che stava succedendo nel mondo. In quel quinquennio, quindi, studio scienze politiche, mi specializzo in Storia religiosa ma continuo ad osservare quello che succede fuori e a viaggiare, in particolare in Francia e nell’Europa dell’est. Dal 1995 inizio a lavorare all’Istituto per le scienze religiose di Bologna, allora impegnato nel progetto dei cinque volumi della “Storia del concilio Vaticano II”. Come studioso sono nato lì, in quell’istituto fondato da Giuseppe Dossetti nei primi anni cinquanta: trasversalità delle discipline, imparare a confrontarsi con epoche storiche diverse, imparare le lingue straniere, non accontentarsi dell’erudizione fine a se stessa. Da Bologna poi sono passato in Germania un anno, e poi in Canada, e nel 2008 in America.

Veniamo al tuo nuovo libro in cui tendi a dimostrare, come si evince fin dal titolo, che il gesuita Bergoglio, papa Francesco, rappresenta l’incarnazione di quella transizione verso una “chiesa-mondo” annunciata dal teologo gesuita Karl Rahner alla fine del Concilio Vaticano II. A che punto siamo della realizzazione di una chiesa a dimensione mondiale? Di una chiesa che, con le parole di Bergoglio, va verso le periferie, non solo quelle geografiche, ma anche quelle esistenziali?
La Chiesa è stata sempre mondiale, per essenza: Gesù Cristo non ha mai predicato per una nazione o per un popolo soltanto. Ma la distanza tra l’universalismo del messaggio di Gesù e la dimensione concreta della Chiesa è stata sempre molto visibile, tanto che per quindici secoli il Cristianesimo è stato sostanzialmente europeo. Oggi, nel XXI secolo, anche il Vaticano e le istituzioni ecclesiastiche hanno capito che non si può misurare tutto il mondo della Chiesa con un metro europeo o un metro romano. In questo senso, l’elezione di Bergoglio rappresenta lo scatto: da Benedetto XVI, ossia dal Papa più europeo di tutti, non solo per formazione ma anche per ideologia – nella sua visione l’Europa era normativa -, si passa a papa Francesco e allo scioglimento anche di questo paradigma. Oggi l’Europa non è più paradigma di quasi niente e, con Bergoglio, neanche più del cattolicesimo. Il suo andare in Corea in agosto, nelle Filippine e nello Sri Lanka l’anno prossimo, e prossimamente in Albania, è il suo modo per dire che l’Europa non è più lo standard con cui misurare tutto il resto. E questo lo fa lui perché viene dall’Argentina, e perché è un gesuita: i gesuiti sono sempre stati con un piede dentro la Chiesa e un piede nel mondo, fin dal ‘500, e quindi sono particolarmente capaci di misurarsi con questa prospettiva. Terza cosa, lo fa lui perché viene eletto in un periodo particolarmente drammatico della storia della Chiesa, e parliamo degli scandali e della chiara inabilità di papa Benedetto XVI di interagire con tali questioni. E quindi Francesco opera in queste circostanze che, secondo me, hanno sbloccato la situazione della chiesa. Se Francesco avrà successo nel convincere vescovi e cardinali in questo senso, ancora non si può sapere; quello che è certo è che lui è chiaramente consapevole che la Chiesa futura non può modellarsi su un cattolicesimo europeo che andava bene nei secoli precedenti, ma che nel XXI secolo ha poco da insegnare, per l’oggi, ai cristiani dell’America latina o dell’Asia o dell’Africa.

L’elezione di Bergoglio spinge quindi, e ti cito, “a ricalcolare le geopolitica del cattolicesimo”. Dal tuo punto di vista privilegiato di italiano che vive negli Usa e che studia la Chiesa cattolica, come stanno reagendo Obama e gli altri grandi della politica mondiale?
Ricalcolare nel senso che la sua mappa è molto più mondiale, Bergoglio guarda specialmente al sud del mondo, nel senso che non ha una centralità europea e nord-americana. Come latino-americano, anzi, ha un punto di vista particolare degli Stati uniti e della politica: vede gli Usa, anche se non può dirlo apertamente, come quella nazione che ha tentato di mettere mano all’America Latina da sempre, specialmente a partire dalla fine dell’800 in poi; quella di Bergoglio è una geo-politica non politica, nel senso che con i precedenti papi, e specialmente con Giovanni Paolo II, si capiva esattamente da che parte stava la Chiesa cattolica, papa Francesco al contrario ha una visione molto meno geografica e più incentrata sul modello economico-sociale contemporaneo, quindi è una geopolitica che non dà grande peso agli Stati uniti o in generale a dove sta il potere. Papa Francesco è un radicale, certe volte con toni populistici, quindi è chiarissimo il suo tentativo di spostare il centro fuori dall’Europa, fuori dal nord-America, senza però metterlo da qualche altra parte, nel senso che la sua visione del mondo, della storia e della Chiesa non è una questione di alleanze, il suo non è un cattolicesimo “strategico”. E’ ancora un po’ presto per dirlo, ma io credo che il tempo ci confermerà questa sua attitudine e il mondo se ne sta accorgendo, anche gli Usa.

In un certo senso si può dire quindi che il suo cattolicesimo sia in linea con la globalizzazione?
Sì, ma nel senso che papa Bergoglio parla a nome dei perdenti della globalizzazione. La frase che lui ha coniato, “la globalizzazione dell’indifferenza”, viene da un vissuto passato affianco ai perdenti, soprattutto da quando, come vescovo di Buenos Aires, ha toccato con mano l’impatto della crisi finanziaria globale del 2001, e questo ha sicuramente plasmato la sua visione politica delle cose. Questo vissuto particolarissimo lo induce ad avere anche certi exploit, come invitare Abu Mazen e Peres, i due presidenti di Palestina e Israele, in Vaticano, che è una chiara denuncia dell’incapacità o della mancanza di volontà degli Usa di fare qualche cosa per la pace tra Israele e Palestina. Bergoglio, dunque, ha una sua visione politica che presenta però ancora diverse incognite per gli Usa e per l’Europa, è difficile averne una misura perché molto imprevedibile. Perché andare in Albania, per esempio? Non ci sono cattolici, è un Paese povero, non fa parte dell’Unione europea. Le motivazioni sono diverse da quelle di una geopolitica classica.

Facciamo un salto nel locale: Ferrara, con il nuovo vescovo Mons. Luigi Negri, come si sta ponendo secondo te in questo contesto di forte transizione?
Devo premettere, onestamente, che io non conosco bene cosa succede nella realtà locale ferrarese. Posso dire che Ferrara, come altre diocesi, è un buon esempio della difficoltà dei vescovi italiani di far proprio il cambiamento messo in opera da papa Francesco. Difficoltà che emerge anche negli Usa, peraltro. Ci sono vescovi che sono stati nominati per seguire certe parole d’ordine del periodo Wojtyla-Ratzinger, che negli ultimi trentacinque anni non erano essenzialmente mai cambiate. Stanno cambiando ora con Bergoglio. Molti vescovi italiani erano stati nominati sulla base di un messaggio ideologico, di un conservatorismo sociale e politico, di alleanze politiche-ecclesiali molto chiare. Credo che il caso di Ferrara sia un caso abbastanza tipico nel panorama italiano. Più tipico ancora è che certi vescovi vengano mandati in una diocesi non per quello di cui ha bisogno quella diocesi, ma perché certi ecclesiastici hanno “bisogno” di diventare vescovi. Spostare vescovi da San Marino a Ferrara o da Genova a Milano o da Venezia a Milano, ha un significato solamente burocratico e carrieristico; di teologico o programmatico non c’è nulla. Ma questo, purtroppo, lo sanno tutti. Certo è che questa transizione, per i vescovi nominati nei trentacinque anni precedenti all’elezione di Bergoglio, risulta particolarmente difficile per certi episcopati, come quello italiano e quello americano.

Ancora a proposito di geopolitica del cattolicesimo, mi è molto piaciuto il parallelismo che fai tra Giovanni Paolo II che aveva davanti a sé il Muro di Berlino, mentre papa Francesco ha il muro del confine tra Usa e Messico, ossia tra Usa e il resto delle Americhe. Spiegaci meglio i termini della questione e quali i nodi più spinosi a riguardo…
Non è ancora chiaro se il papa andrà negli Usa nel 2015 ma, in ogni caso, il confine tra Messico e Usa per papa Francesco è come Lampedusa, come l’Albania, sono luoghi cruciali. Se per Giovanni Paolo II l’asse del mondo era est-ovest (il Muro di Berlino, il blocco comunista, eccetera), per Francesco è l’asse nord-sud. Il nord-sud è l’asse di questo pontificato. Lui ha ben presente il fatto che se il mondo della globalizzazione ha risolto in qualche modo la spaccatura est-ovest, ha però reso più acuta quella nord-sud. Questo anche dal punto di vista del cattolicesimo, nel senso che il sud del mondo ne è il serbatoio: nell’emisfero nord il cattolicesimo è demograficamente esausto, il futuro sta a sud. Dal mio punto di vista privilegiato di cittadino italiano e presto anche statunitense, vedo che l’unica possibilità futura per il cattolicesimo nordamericano, dal punto di vista sociale e demografico, è l’influsso dal sud. Ma il papa non ne fa solo una questione di numeri, la sua è una visione economico-sociale, che si vuole concentrare dove si trovano le diseguaglianze, e lui sa benissimo che nell’era della globalizzazione il sud del mondo è stato più usato che valorizzato.

Nel definire Bergoglio non hai dubbi, dici che è un “cattolico-sociale”, portatore di un cristianesimo pro-life, e cito, “che non si accontenta di denunciare la mentalità abortista, ma include il discorso pro-life in un quadro di dottrina sociale cristiana sul lavoro, la salute, la giustizia sociale”. Ma dici anche che papa Francesco “non è liberal” e nemmeno liberale. Spiegaci meglio…

Liberal nel vocabolario anglosassone è qualcuno che è a favore delle libertà individuali, in senso progressista. In italiano, l’aggettivo liberale qualifica invece gli orientamenti individuali o di un partito relativamente alla politica economica, in sostanza oggi si può tradurre “meno Stato e più mercato”. In questo senso, papa Francesco non è né liberal né liberale. Non è un liberale perché non crede che ci voglia più mercato e meno Stato, anzi ha sempre detto che ci sono alcuni ambiti per i quali lo Stato deve fare qualcosa: scuola, sanità, assistenza, politiche economiche ecc. Lui non è come papa Benedetto che in sostanza diceva: essendo lo Stato uno stato laico, è meglio che si limiti a dare i soldi alle scuole private. Francesco non è neanche un liberal perché, nella sua accezione ideal-tipica, il liberal è uno che dice che il bene comune è la somma delle libertà individuali, e che questa sommatoria porta ad una società migliore. Papa Francesco dice, invece, che le libertà individuali sono secondarie rispetto al bene comune. Lui è decisamente anti-liberale e anti-liberal. Ma mentre il suo non essere liberale in economia è stato percepito, il suo non essere liberal ancora no, nel senso che ci si illude ancora che sia un papa liberal-progressista. Francesco è un progressista, ma non nel senso liberal – e qui le sue radici latinoamericane nell’Argentina di Peron sono molto importanti. L’articolo relativo a queste questioni, che ho riportato nel libro “Papa Francesco e la chiesa-mondo”, lo scrissi sei-sette ore dopo l’elezione e lo riscriverei tale e quale, perché Bergoglio è stato molto fedele alla sua visione, anzi più parla e più ne dà conferma.

A conclusione del tuo libro, sostieni che con l’elezione di papa Francesco la Chiesa cattolica mostra la capacità di saper governare e riformare, dopo trentacinque anni in cui entrambi i predecessori hanno fatto poco dell’una e dell’altra cosa. Spostando decisamente l’asse del discorso e passando alla politica italiana, ti sentiresti di dire la stessa cosa di Renzi e del Pd?
Sì, Bergoglio sa che la Chiesa deve governare e riformarsi, e lui ha già cominciato ma ovviamente è ancora troppo presto per capire quanto e come potrà farlo. Secondo me si capirà qualcosa in quella essenziale finestra di tempo che va dall’ottobre 2014 all’ottobre 2015, ossia nell’anno in mezzo ai due prossimi sinodi dei vescovi. Quello sarà l’anno cruciale in cui si capirà se papa Francesco è isolato o se ha un seguito. Su Renzi e il Pd non ne so abbastanza, ma personalmente mi sento lontano dalla cultura di cui Matteo Renzi è portatore. Posso dire però che il fenomeno Renzi, secondo me, non ha niente a che fare con il fenomeno Bergoglio, se non per una certa voglia di novità. Renzi come cattolico mi ricorda moltissimo quello che fece più cinquant’anni fa John Kennedy: “Io sono cattolico ma il mio cattolicesimo non ha alcun influsso sulla mia politica”. Renzi non è un politico cattolico, ma è un cattolico che fa il politico. Forse è ciò che in questo momento deve fare, ma non è per nulla l’erede di De Gasperi o di Andreotti o di Dossetti. Lui fa un uso spregiudicato e allo stesso tempo accorto del suo essere cattolico: ma per capire il fenomeno Renzi, il suo cattolicesimo non serve a molto.

Torniamo a Massimo Faggioli, al tuo mestiere di studioso, ricercatore e commentatore dello stato della Chiesa cattolica. Spesso scrivere in un’altra lingua e in luoghi diversi dal consueto aiuta a vedere meglio e ad essere più distaccati: scrivere di papi ti viene meglio a Roma, a Ferrara o a Minneapolis?
Dagli Stati uniti si vedono dell’Europa cose che è difficile vedere da qui, e viceversa. In generale la cosa di cui io sono sempre più scioccato è quanto poco si riesca a trasmettere e comprendere da un continente all’altro: cose che riguardano la Chiesa, ma anche fenomeni culturali più generali – aldilà delle notizie di Hollywood e sullo sport. Secondo me sono due mondi che, nonostante la capacità di internet e dei nuovi strumenti di comunicazione, purtroppo si parlano sempre di meno, e nell’ambito della Chiesa questo è molto evidente. Questa, d’altro canto, è stata una delle mie fortune professionali, che non mi aspettavo affatto, perché io sono uno che riesce a parlare a entrambi i mondi, cercando di tradurre e trasportare in Italia questioni americane, e negli Usa profili di teologi europei eccellenti, per esempio, di cui là nessuno ha mai sentito parlare.  Dove mi viene meglio scrivere? Dipende molto dalle occasioni, ma scrivo anche in aereo. A questo proposito c’è anche un detto, che “gli emigrati si sentono veramente a casa solo in aereo”. Credo che sia vero.

Tu ti traduci?

No, è una cosa che evito di fare, perché se uno traduce i propri scritti in un’altra lingua, ripensa e riscrive in modo parzialmente diverso ciò che aveva scritto. Questo mio ultimo libro su papa Francesco, per esempio, verrà pubblicato in Inglese a inizio 2015 ma viene tradotto da altri. La stessa cosa è successa per i due miei precedenti libri scritti in Inglese e tradotti in italiano: se li avessi tradotti io, sarebbe venuta fuori una cosa abbastanza diversa dall’originale, e questo non è corretto nei confronti dei lettori.

In Italia scrivi per “Europa” e “Huffington post”, negli Stati Uniti per quali riviste?
Scrivo per “America”, il settimanale dei gesuiti americani, che ha pubblicato la famosa intervista a papa Francesco del settembre scorso, di cui io sono stato uno dei traduttori, e poi per “Commonweal”, la rivista dell’intelligentsia cattolica liberal americana, entrambe riviste newyorkesi. Loro mi cercano perché, come dicevo prima, hanno molta poca conoscenza del mondo italiano ed europeo in generale, e quindi hanno bisogno di uno che, anche se non scrive sempre direttamente, però dia delle informazioni su ciò che succede in Europa e che è di importanza decisiva anche per gli americani.

Nel ringraziarti moltissimo per questo incontro con i lettori di Ferraraitalia, una domanda confidenziale che solo la conterraneità può giustificare: che libri legge d’estate in vacanza un vaticanista ferrarese che vive negli Usa?
Quest’estate solo cose pubblicate da Adelphi, per reazione, perché una casa editrice come quella non esiste negli Stati Uniti. La cultura americana è spietatamente pragmatica, mentre la casa editrice Adelphi fin dalle origini si è prefissata di pubblicare cose che non sono pragmatiche per niente.

Ali e la moschea

Da MOSCA – Sono nel taxi, immersa nel traffico moscovita, un mese di giugno ancora freddo ma tanta gente per le strade. C’è chi si copre il viso per il vento che soffia costante e imperterrito, chi tira su il cappuccio dell’impermeabile appiccicato, infastidito da una pioggerellina leggera che spazza via maquillage, rossetti e pettinature appena fatte.
Sono al semaforo e guardo fuori dal finestrino di un’automobile che fa lo slalom fra le pozzanghere. Percorro la ulitsa Schepkina, ed ecco apparire la grande moschea, ancora in costruzione, quella che diventerà, dicono, la più grande della città di Mosca. Scoprirò poi, che quella storica moschea, costruita nel 1904 e bell’esempio di architettura islamo-tatara, era stata abbattuta nel 2011 per gravi danni strutturali e relativi rischi per le persone che la frequentavano; secondo altri, invece, la moschea non era allineata con la Mecca, diventando, così, un luogo senza valore: era stata, allora, smantellata e deciso un ampliamento sulle stesse fondamenta, quello in corso oggi.
Intanto, sono attratta da un piccolo smile disegnato a inchiostro nero sul muro di fronte, due occhietti e una mezzaluna sorridente.
Strana questa immagine, una mezzaluna che sorride, la bocca di una figurina, e una mezzaluna d’oro che simboleggia l’Islam, svettante proprio di fronte alla moschea. Bizzarro accostamento, casuale ma significativo. Sono sicuramente io a vederci una somiglianza, un qualche legame, ma la cosa mi colpisce e fa volare la mia fantasia.
La moschea è avvolta dalle impalcature, quasi da esse abbracciata, ma fra le maglie serrate del cantiere polveroso vedo aggirarsi, in mezzo ai sacchi di cemento e ai segnali di lavori in corso, un giovane dal capo coperto. La classica barba lunga.
Intorno vi sono banche, uffici, farmacie, negozi di fiori e di produkti (i classici negozi che hanno un po’ di tutto e che in Italia sarebbero tenuti da cinesi o pakistani).
La vita scorre mentre il giovane cammina a capo chino, parlando da solo. Pensoso.
Chiedo al tassista, metà in russo e metà in inglese, se quell’uomo che tanto m’incuriosisce sia un habitué del quartiere.
Il semaforo è sempre rosso, come rossi sanno essere qui; quanto a lunghezza sono imbattibili (le strade sono enormi), ma a me ora va benissimo perché voglio osservare.
Quel ragazzo è Ali, mi dice, vive nel quartiere da qualche anno. Qualcuno dice provenga dall’Algeria, qualcun altro dall’Iraq. Nessuno conosce veramente la sua storia, forse per diffidenza, forse per noncuranza, forse, semplicemente, per difficoltà linguistiche. Si sa solo che Ali, ogni mattina, passa davanti alla moschea, la guarda, la osserva, controlla i lavori e il loro avanzamento, vigila sui risultati. Con accuratezza, attenzione, precisione e… amore. Forse, nel suo paese, ne ha costruite tante, magari era un bravo e solido muratore venuto da lontano. Magari ne ha costruite in pietra, in cemento o ha partecipato alla rivisitazione annuale collettiva di strutture di sabbia, come quelle maliane di Djenne. Chissà. Qualcuno addirittura gli attribuisce un’aura quasi mitologica, dicendo in giro che Ali è il nipote di uno degli architetti della storica moschea, arrivato a vigilare che i colori e le magie di quell’antico edificio restino impressi nell’animo e nello spirito dei nuovi costruttori.
Qualcuno ha fatto caso alla sua costante vigilanza, chi si è insospettito, chi si è allarmato-inquietato-preoccupato, chi ha ignorato, chi ha solo notato che lui misura con gli occhi l’altezza del minareto, ne valuta la distanza dal cielo terso, attentamente. Più la moschea cresce, più Ali sorride, come sorride quel disegno sul muro.
Intanto il semaforo diventa verde ed io saluto con un cenno Ali, che mi sorride a sua volta. Credo abbia capito che ho capito. La mia giornata improvvisamente diventa più piacevole e leggera.
Domani passerò ancora per quella strada e insieme al piccolo tratto disegnato sul muretto valuterò quanto cresce la felicità. Magari lo vedrò mutare, vedrò un sorriso più grande e Ali passeggiare sempre intorno a quelle impalcature, vigilante.
Qualcuno pensa che quando la moschea sarà terminata, Ali andrà altrove.
Passerò di nuovo fra qualche giorno e poi ancora fra qualche mese per vedere come avanzano i lavori.
Sono sicura, anch’io, che quando non vedrò più Ali sarà perché i lavori saranno terminati. Se e quando Dio vorrà.

La sbiciclettata su Roma

Da Ferrara a Roma in bicicletta. Un’esperienza da consigliare. Caldamente, vista la stagione.
Basta avere un po’ di gamba, una buona bici e qualcuno che sappia leggere mappe e carte geografiche.
Non certo come il sottoscritto che per tentare di rimediare alla totale incapacità di individuare i quattro punti cardinali in un tempo ragionevole si è pure iscritto ad un corso Cai e durante la lezione in montagna di orientamento è stato subito apostrofato dall’istruttore, perché stavo guardando la carta delle cime davanti a me a rovescio.
Siamo partiti in sette, i Magnifici sette. Sull’aggettivo è lecito avere qualche dubbio, ma sul numero assicuro che la certezza è apodittica.
Merito dell’organizzatore avere distribuito tappe alla portata di tutti e lungo città e luoghi incantevoli. San Piero in Bagno (che finora credevo fosse un’immagine sacra in intimità), Sansepolcro, Perugia, Todi, Otricoli e Roma.
Un tessuto di centri incredibilmente ricchi di storia e arte, ricamato da un paesaggio – quello umbro e laziale – incantevole.
È l’Italia, che nonostante tutti i lavori pubblici e fuori dalle notizie dei telegiornali è di una bellezza infinita.
Si passa, senza sosta, dalla Risurrezione e dal Polittico della Misericordia di Piero della Francesca a Sansepolcro, passando per Perugia (dove basta una visita agli affreschi di Perugino del Collegio del Cambio per rimanere senza parole), e poi al duomo e alla piazza di Todi, e ancora giù fino alla capitale.
Qui l’imbarazzo della scelta nella città più bella al mondo impone una selezione. E così, da un lato, un tour caravaggesco per San Luigi dei Francesi, Sant’Agostino e Santa Maria del Popolo e, dall’altro, una puntata all’insegna del Romanico a San Giorgio in Velabro e, per finire, a Santa Maria in Trastevere.
Ecco, di fronte ad una magnificenza che leva il respiro, ad una costante del bello che per quel poco di mondo che ho visto non mi pare abbia eguali, almeno in queste proporzioni, chiunque riterrebbe di avere una risorsa in quantità tale che nemmeno gli arabi con tutto il loro petrolio penserebbero così in grande.
E invece.
Per l’intero itinerario, zero, o quasi, piste ciclabili. Per buona parte del viaggio abbiamo percorso la strada provinciale Tiberina (se non ho capito male), che addirittura in alcuni tratti è stata chiusa al transito perché, immagino, non ci sono soldi per la manutenzione. È vero che così diventa una lunga ciclabile in mezzo ad un paesaggio sorprendente, ma è altrettanto vero che la vegetazione si sta impadronendo della strada.
Per chi, poi, ha già fatto in precedenza la Innsbruck Salisburgo sempre su due ruote, ha visto che altrove si favorisce questa forma di turismo con un servizio di trasporto bagagli. Lo paghi, ma c’è. In Italia non sai a chi rivolgerti e quindi ti porti il bagaglio sulle spalle. Dall’inizio alla fine.
Viene facile dire che per chi dovrebbe puntare sul turismo per vincere facile, non pare una strategia di marketing vincente quella della selezione darwiniana del visitatore.
Infatti i non molti ciclisti che si incontrano – sostanzialmente stranieri – sembrano dei Cristoforo Colombo che non sanno bene su che sponda approderanno la sera.
Nella capitale, poi, uno che gira in bici sembra un marziano.
Arrivi alla stazione di Prima Porta per caricare il tuo destriero sul treno, ed evitare la bolgia della tangenziale, e per tutta risposta ti scontri con un categorico “None” del capostazione.
Dopo aver dato fondo inutilmente a tutte le capacità diplomatiche, riprendi in mano la mappa (non io, per carità) e studi un percorso alternativo.
Ho notato che fra controviali, come nel nostro viale Cavour, e marciapiedi larghi da farci un’assemblea di condominio, a occhio e croce non dovrebbe essere una spesa da far sballare il patto di stabilità attrezzare Roma con piste ciclabili. Tante soluzioni sembrerebbero a portata di mano. Basterebbe, credo, tirare una riga di vernice per separare tanti marciapiedi in due: da una parte i pedoni e dall’altra le bici. Così come i controviali (vedi la Nomentana) si potrebbero riservare alle bici, anziché alle auto.
Infine c’è il viaggio di ritorno.
Non c’è un treno che da Roma a Ferrara carichi le due ruote. Perciò occorre prendere solo convogli regionali: Roma-Firenze, Firenze-Prato, Prato-Bologna e Bologna-Ferrara.
Va detto che è encomiabile la disponibilità e cortesia dei capitreno, che spesso si fanno in quattro per far salire velocipedi anche oltre la disponibilità (sono numerosi ormai i pendolari che si portano con sé la bici nei loro spostamenti di lavoro o studio).
Ma chi ha fatto almeno una volta la Dobbiaco Lienz, sa che a fine treno nella stazione della cittadina austriaca c’è un vagone che ne carica un numero esagerato e che nel solo Trentino puoi salire con la tua amica di metallo su qualsiasi treno.
Qualcuno ha detto che il solo mercato tedesco delle due ruote a pedali si aggira sui 3,5 milioni di turisti.
Come si fa a continuare a sfornare spot in cui fior di attori e star dello schermo ti dicono con fare suadente, come se dovessi andare a letto con Pamela Anderson: “Vieni nelle Marche”, piuttosto che in qualunque altra regione italiana (le immagini incantevoli non mancano e i fotografi fanno oggettivamente poca fatica), se poi una volta varcato il confine pare ci sia una gara a inscenare il peggior ufficio complicazioni affari semplici?

Nove mesi di attesa. E la borsa di studio diventa un miraggio per settemila studenti

di Emiliano Trovati

Sostenere economicamente gli studenti meritevoli, attraverso la messa al bando di borse di studio. L’Inpdap da anni, con il progetto #Homo Sapiens Sapiens, finanzia il percorso formativo di migliaia di giovani, rispondendo in maniera lodevole al precetto costituzionale “l’istruzione superiore deve essere accessibile sulle basi del merito”. Un’attività però, che, nonostante venga garantita in anni difficili, sconta il peso della macchina burocratica pubblica, abbandonando i beneficiari nel purgatorio delle borse di studio.

Sette mila sussidi per lo studio, una grossa opportunità offerta dall’Inpdap – oggi integrata nell’Inps – per altrettanti studenti universitari, masterizzandi, dottorandi e tirocinanti, figli di ex dipendenti pubblici oramai in pensione, che ne facciano richiesta. Si chiama #Homo_Sapiens_Sapiens ed è una delle iniziative welfare dell’ente di previdenza, per incentivare lo studio e la ricerca italiani. Il progetto esiste da diversi anni e anche se non ha mai brillato per velocità di lavorazione delle pratiche e liquidazione delle borse ai vincitori, quest’anno, a detta di molti studenti, che ne hanno fatto domanda, l’attesa è stata un vero e proprio “purgatorio”.
Sono passati oltre nove mesi dalla pubblicazione del bando sul sito dell’Inps – era il 21 ottobre scorso – ma a tutt’oggi le borse non sono ancora state pagate. Questa lunga attesa, fatta di graduatorie pubblicate in ritardo e richieste di documenti aggiuntivi da consegnare, si è nutrita per tutto questo tempo della speranza dei ragazzi ed è stata aggravata poi dalla scarsa informazione della pubblica amministrazione.
In questa storia sono due gli aspetti che catturano l’attenzione: la mancanza del principio di ‘giusta attesa’, quando a dover pagare è il pubblico, e la difficoltà dei beneficiari di ottenere informazioni chiare e puntuali riguardo l’iter della propria richiesta.
Parlando con alcuni dei protagonisti, quello che emerge è l’impotenza del singolo di fronte all’ente pubblico, come un novello Davide che, solo e senza alcuna speranza di riuscita, deve affrontare le lungaggini di un Golia troppo potente che lo sovrasta. Questa condizione è espressa in maniera lucida dall’esperienza di Lorenzo, trentenne della provincia di Bologna, che proprio quel 21 novembre ha fatto richiesta di borsa di studio per svolgere un tirocinio, in una importante impresa locale.
La sua domanda va a buon fine, a marzo escono gli esiti delle graduatorie e Lorenzo ci rientra a pieno, è ottantesimo. Quindi in breve si aspetta di ricevere il suo accredito, necessario per sostentarsi durante il periodo lavorativo che lo attende. Così non è però. Nonostante sia vincitore, infatti, il giovane deve fornire dei documenti aggiuntivi inerenti al suo tirocinio. Per tenersi aggiornato sulla situazione verifica costantemente l’iter della pratica dalla sua pagina personale all’interno del sito dell’Inps, da dove ha fatto domanda di borsa di studio. In una sezione dedicata, chiamata ‘iter personale’, l’ente informa sullo stato dei lavori. Nella sua, come in quella di molti altri, appare la scritta ‘Domanda approvata – attesa documentazione’. Nel frattempo si fa aprile e Lorenzo, come altri, si procura i documenti necessari da consegnare all’ufficio di competenza per territorio, quello di Bologna, in via Gramsci. Da allora, della documentazione consegnata, della borsa di studio e dei tempi per ottenerla, non se ne sa più nulla. Come lui stesso racconta: “Ho consegnato i miei documenti ad aprile, ancora prima che mi venissero richiesti per mail, non appena all’interno della mia pagina personale è apparve la dicitura ‘approvata – attesa documentazione’. Sono andato, ho consegnato i documenti e me li hanno anche protocollati. Da lì, dopo alcuni giorni, non vedendo modifiche, ho iniziato ad inviare alla responsabile dell’ufficio ogni lunedì una mail per avere informazioni. Fino al 3 giugno non ho avuto risposte. In quella data, poi, ho ricevuto una mail dall’ufficio provinciale, diciamo, poco garbata, in cui mi si chiedeva di smettere di continuare a mandare mail, perché intanto la mia pratica era in lavorazione”.
C’è un altro modo, però, per avere informazioni, e Lorenzo prova ripetutamente anche questa strada, chiamare il call center dell’Inps, al numero 06.164.164. Anche qui, però, non ottiene risposte migliori. Nessuno sa dirgli che fine abbia fatto la sua pratica e a che punto della lavorazione si trovi. “ Ho provato a chiamare il centralino – racconta – anche se avendo fatto il centralinista all’università, per pagarmi gli studi, so come funziona, i ragazzi che rispondono non ne sanno più di quelli che li chiamano. E difatti non hanno saputo dirmi nulla di più di quello che potevo vedere io a video all’interno della mia pagina personale: “Approvata – Attesa documentazione”.

Una situazione del tutto simile la vive Antonella, studentessa dell’università di Bologna, che frequenta un master presso la sede distaccata di Modena. La ragazza, a marzo, secondo la graduatoria, risulta vincitrice della borsa, quindi, come le viene chiesto da una mail, fornisce i documenti che attestano la sua frequenza al master. Porta il materiale alla sede Inps di riferimento e attende con calma l’erogazione della borsa. Per controllare l’avanzamento della pratica, si informa giornalmente dalla pagina Facebook ufficiale dell’Inps, all’interno della quale, con cadenza irregolare, l’ente dirama dei post che informano, in maniera generica, sul programma ‘#Homo_Sapiens_Sapiens’. Ogni post pubblicato viene commentato da centinaia di lamentele di giovani in attesa dei propri soldi. Uno di questi mette in allarme la ragazza. Il 10 giugno scorso, sulla pagina Facebook, appare questo comunicato: “#Homo_Sapiens_Sapiens. La procedura di pagamento per le borse di studio Homo Sapiens Sapiens è stata ultimata”. Antonella, entusiasta, controlla immediatamente il proprio conto corrente, accedendo dal sito della sua banca, ma con grande sorpresa scopre di non aver ricevuto nessun accredito del valore della borsa. “Preoccupata – racconta – ho chiamato immediatamente il call center per capire cosa fosse successo. Ho avuto paura di aver sbagliato qualcosa nel presentare i documenti. Ho temuto di aver perso la borsa. Dal centralino, invece, una ragazza evidentemente stressata e dal tono contrariato, mi ha risposto che a loro non risultava conclusa la procedura di pagamento e che sicuramente quel post era frutto della mancanza di senso dell’umorismo di qualcuno dell’ufficio stampa”. Chi sia a gestire il profilo Facebook dell’Inps non si sa, è certo, però, che lo dovrebbe fare diversamente e meglio. D’altronde basta guardare, come detto prima, ai commenti che seguono ogni post pubblicato, per leggere centinaia di imprecazioni, se non del tutto giuste, quasi nessuna sbagliata, fatte da giovani, spazientiti e in cerca di chiarimenti, e indirizzate al mittente.

L’avvocato Bruno Barbieri, presidente del Codacons per la regione Emilia Romagna, esperto di casi affini a questo, facendolo per lavoro, ha condiviso con noi parte della sua conoscenza professionale, dando alcuni consigli su cosa fare in situazioni simili. Sui due aspetti della vicenda (attesa interminabile e mancanza di informazioni chiare), l’avvocato spiega che, per il primo aspetto, c’è solo una cosa da fare. “Sulla tempistica – dice -, per chi non è addetto ai lavori, non la interpreta andando a leggere il bando, perché a volte alcune cose non sono scritte in maniera chiara. In questo caso specifico, non essendo indicate scadenze da rispettare, il beneficiario ben posizionato in graduatoria, che ne avesse l’esigenza, può forzare la mano promuovendo l’art.700 (un procedimento d’urgenza) davanti al Tar, dicendo, guardate a me i soldi servono adesso perché ne ho bisogno per pagare la rata del master per il quale ho fatto richiesta. In questo caso il Tar potrebbe dare ragione ed ordinare alla pubblica amministrazione di pagare subito”. Comunque, il primo passo da compiere per l’avvocato è la diffida, “un atto con cui la persona intima alla controparte, questa volta un ente pubblico, di adempiere ad un fare o dare entro un determinato termine, normalmente 30 giorni. Se questo non viene rispettato si va dal Tar, chiedendo al giudice di imporre, con un atto di autorità, di fare ciò che deve”. Un’ulteriore cosa da fare, secondo Barbieri, per spingere un ente a velocizzare le pratiche, può essere “prima dell’azione giudiziaria, affiancare a questa i mass media che danno forza all’azione, e a volte nel giro di poco si risolve, perché l’Ente non vuol fare brutta figura”. Nell’affrontare un ente pubblico, quindi, conoscere qualcuno a striscia la notizia aiuta.
Per il secondo aspetto, e cioè “sul problema della trasparenza dell’operato della pubblica amministrazione, così come degli istituti bancari e degli altri soggetti che fanno attività di pubblica utilità, va detto che l’operato di questo dovrebbe essere trasparente sin dall’inizio. Quando uno vede il bando, dovrebbero essere previste quante più possibili situazioni che si possono verificare in modo classico nello sviluppo della vita dello stesso. Se così non è, appunto, la bontà della pubblica amministrazione, piuttosto che una fondazione, si vede proprio dalla capacità di rispondere in maniera chiara alle domande degli utenti”. Anche in questo caso, però, l’utente ha le mani legate. “Essendo, gli enti pubblici, – conclude Barbieri – soggetti diretti da persone messe lì da politici, per legge, l’unico strumento che si ha, oltre l’autorità giudiziaria, è di dare un giudizio all’atto dell’esercizio del diritto di voto”.

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Cultura, plurale rivoluzionario. In un film l’utopia possibile di Stefano Tassinari

di Silvia De Santis

Tass – Storia di Stefano Tassinari”, il film del regista Stefano Massari che racconta la vita di Stefano Tassinari, è stato presentato nei giorni scorsi in anteprima Bologna al Biografilm festival. E’ il solido ritratto di un uomo eclettico, scrittore, giornalista e attivista politico. Cinquanta voci (tra cui Marcello Fois, Carlo Lucarelli e Fausto Bertinotti) raccontano in un’opera corale l’intellettuale-militante ferrarese scomparso due anni fa, che ha fondato “Letteraria” e l’“Associazione degli scrittori” bolognesi.

Un eretico senza scisma, un uomo che“pur schierato da una parte, pur aderendo a una fede, quella comunista, conservava la propria libertà” lo definisce Fausto Bertinotti. Per altri, “un corteggiatore instancabile” sempre intento a tessere reti di persone, “un trascinatore con le parole e con l’esempio”.
In “Tass – Storia di Stefano Tassinari” (regia di Stefano Massari, fresco di montaggio) cinquanta voci raccontano questo peculiare scrittore-giornalista-attivista politico di Ferrara, moderno prototipo dell’“intellettuale organico gramsciano”, che ha tracciato un solco profondo nella storia culturale bolognese. Ricercatore insaziabile di nuove forme, inventore di originali percorsi comunicativi, Tassinari ha dato vita all’“Associazione degli scrittori”, per far sì che anche letterati e uomini di cultura tornassero ad assolvere ai propri doveri nei confronti della collettività e si riappropriassero della loro intrinseca funzione sociale.
In un documentario-fiume di centotrenta minuti, il regista Stefano Massari ricostruisce per tappe la biografia di un autore poliedrico che fu narratore, giornalista, poeta, critico letterario, musicista, militante politico. Scrutando nel suo passato si torna indietro nel tempo a Ferrara, dove Stefano era nato da una famiglia piccolo borghese. Si va poi a Roma, nella casa di via Marchetti, durante i suoi anni universitari, quando la “luce ribelle nello sguardo” si era fatta azione politica. Poi i viaggi: il primo, di “formazione”, nel 1981, in Perù per sperimentare il limite tra estremismo di sinistra e terrorismo bombarolo; il secondo tre anni dopo, in Nicaragua, per testimoniare, telecamera alla mano, gli effetti del socialismo tropicale dei sandinisti al governo.
Gli ultimi dodici anni di vita di Tassinari sono quelli più prolifici, in cui diverse forme espressive si intrecciano e sovrappongono, delineando un intellettuale instancabile, “il commissario politico Tassinari”, lo chiama Carlo Lucarelli, con un’incrollabile fede nella coralità.
In un’intervista a La Stefani, Stefano Massari racconta il suo film, presentato in anteprima alla rassegna cinematografica Biografilm Festival a Bologna .

Conoscevi personalmente Stefano?
Ho conosciuto Stefano nel 1996 quando, per motivi di lavoro, mi sono trasferito da Roma a Bologna. Essendomi sempre interessato di letteratura e scrittura militante non ho potuto non incontrare Stefano, sopratutto in quelli che erano anni caldi per la città. Ma non frequentavamo le stesse cerchie. Lui era uno scrittore, io un poeta, bazzicavo ambienti più laterali, sotterranei, ero amico di Gilberto Centi. Stefano lo incrociavo spesso alle presentazioni di libri ma non conoscendolo avevo un’opinione errata sul suo conto: complice, forse, la mia natura ostinatamente anarchica, credevo fosse un uomo dell’apparato, una specie di accademico non accademico, un embedded. Mi sbagliavo completamente.

Quando hai cambiato idea?
Ci siamo avvicinati sopratutto negli ultimi anni, quando per vicissitudini familiari sono andato a vivere fuori Bologna e con la mia attuale compagna abbiamo aperto una libreria indipendente. Organizzavamo attività culturali, presentazioni di libri, rassegne di autori e Tassinari era sempre lì, in prima linea, per forza. Così, col tempo, siamo diventati molto amici. Abbiamo anche lavorato insieme: abbiamo condotto un paio di puntate di “Passioni”, la versione radiofonica di “Raccontando”, uno spettacolo che Stefano teneva a teatro, in cui di volta in volta sceglieva un autore e lo approfondiva.
L’ultima puntata andò in onda su Farheneit due giorni dopo la sua morte, l’avevamo registrata un mese prima. Nonostante la malattia Stefano lavorò fino all’ultimo e intensamente. Probabilmente i problemi di salute intensificarono direzioni che in fondo erano già state prese: Stefano era abituato a “mettere tanta carne al fuoco”, ad avviare continuamente progetti, era difficile stargli dietro, andava a un passo che non era comune. Già da malato, quando usciva un suo libro, faceva novanta presentazioni che per lui non erano un’occasione di marketing, ma un pretesto per entrare nel dettaglio delle storie, raccontarsi. Non ha mai mollato un secondo. Il suo è stato un percorso interrotto solo dalla malattia.

L’Associazione degli Scrittori è uno dei progetti spezzati?
L’Associazione degli Scrittori era un progetto di ampio respiro e di larghe prospettive che, nelle intenzioni di Stefano, avrebbe fatto di Bologna la capitale della scrittura, pur mancando un editore di riferimento. Era l’incarnazione ideale di quella che secondo lui era la missione dello scrittore: esercitare una critica nei confronti della società, mettere a disposizione il proprio sguardo, pensiero e posizione per creare una possibilità di dialogo con chi non è solo il proprio pubblico, ma potenzialmente anche un popolo. Oggi abbiamo sempre più spesso presunti intellettuali che si collocano in nicchie di mercato e elogiano qualunque cosa convenga loro, sempre confinati all’interno di un certo specialismo. Proprio contro questa visione si batteva Stefano, che voleva far uscire ciascuno dal proprio guscio e spingeva persone profondamente diverse, con forme e stili molto lontani tra di loro, ad aggregarsi, a fare rete (di cui l’idea della Casa degli scrittori è un esempio). Diceva Tass: “Non potete solo fare i divi crogiolandovi nei vostri successi, avete una responsabilità sociale”. Lui che aveva un rispetto e un amore estremo per la differenza, ha sempre spinto verso la dimensione del noi.
Per dirla con le parole di Lucarelli, l’Associazione oggi è “in stato di sonno”, non è un progetto finito. Probabilmente la sua incarnazione principale è ‘Letteraria’, la rivista che Stefano aveva messo in piedi.

Cosa ti ha lasciato in eredità Tass?
Una delle cose che ho imparato da lui è stata la capacità di mettere insieme le intelligenze per affrontare problematiche anche di tipo sociale e politico. E poi il senso del noi: ha sempre cercato di tenere viva la dimensione collettiva, senza farne un’idolatria nostalgica né trasformandola in personalismo, ma tenendola come stimolo alto del suo fare. Ha sempre cercato di avere un ruolo di ponte: tenere insieme l’io e il noi. Una scelta che ha scontato anche dal punto di vista del riconoscimento culturale perché era uno che non si piegava: mediava, ma fin dove poteva, una figura poco italiana da questo punto di vista. volutamente non era una persona scomoda: aveva le idee molte chiare, con un rispetto e una curiosità estrema verso tutto, ed era un perfezionista. Io stesso sono stato “vittima” di un paio d’ore di meticolosa spiegazione matematica sulla roulette – un suo piccolo vizio.
Negli anni ho scoperto quanto mi abbia influenzato il suo modo di fare progettazione culturale. Con Stefano condividevo la determinazione – autolesionistica quasi – di tentare di incidere sempre, di dire qualcosa di importante, di lasciare un segno, oltre alla voglia di sperimentare sempre nuove forme espressive. Io ho sempre lavorato con i video, i suoni, cercando un percorso di disciplina e di rigore con ognuna delle forme che esploravo e che tentavo di far interagire. Lui, questo, lo apprezzava molto.

Qual è il ritratto di Stefano che viene fuori dal film?
Non lo so ancora, perché ho finito di montare il documentario il giorno prima della proiezione. La versione tagliata dura due ore e dieci: è un kolossal dei documentari che sicuramente tradisce la brevità televisiva, ma questa volta mi sono messo interamente a servizio della storia, impossibile da contenere in qualsiasi formato precotto.
Non avevo una sceneggiatura o una traccia definita perché per me la storia di Stefano è stata una scoperta, soprattutto il suo passato ferrarese, poco conosciuto ma fondamentale per capire tutta la sua biografia. In questo lavoro si sollecita l’uso della memoria per accenni, ma l’intento non è nostalgico né celebrativo, mira piuttosto a offrire una comprensione del presente. Volevo far prendere coscienza che certi valori e motivi sono ancora attualissimi e possono essere strumenti culturali da impiegare nel nostro tempo. Tassinari ha sempre incarnato un’altra possibilità e nel film ho cercato di dare conto soprattutto di questo: che il suo progettare era possibile, che esistono opportunità alternative al personalismo e al divismo, malattie odierne di quasi tutti i mondi creativi.

Come hai organizzato il lavoro?
Nella realizzazione del video mi ha molto aiutato Stefania, la moglie di Stefano. Il primo elenco di persone che avevo deciso di intervistare contava novantatre nomi. In un primo momento l’ho ridotto a trentacinque, per poi tornare a cinquanta, agli amici veri, quelli più stretti. Nel documentario ho usato spudoratamente tutte le testimonianze, senza gerarchie. Di protagonisti ce n’è solo uno: Stefano e la sua storia.
Il documentario per me è uno strumento di ascolto, ricerca, studio, mentre la scrittura è il luogo in cui ricordo, tento di ridare forma a qualcosa che ho vissuto per restituirla e metterla in contatto col mondo e col destino. Ho lavorato a questo video con la sensazione di un senso di perdita che mano a mano si manifestava accanto a me. Mi sono ripetuto: “Abbiamo perso qualcosa di grosso”, che a volte abbiamo anche fatto fatica a capire.

Nel film, il pittore Concetto Pozzati dice: “Senza Stefano non è una voce in meno, è la voce che manca”. La voce di una persona che, in nome di una ideale in cui credeva, ha messo insieme tutti coloro che condividevano quel progetto di trasformazione affinché le loro voci unite diventassero un grido di rivolta e l’annuncio di un mondo possibile.

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