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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


“A Ferrara serve un cambio epocale”. E l’architetto Anselmi presenta il suo progetto di governo della città

Da vent’anni militante ed esponente di Forza Italia, sempre defilato dalla ribalta, questa volta l’architetto Vittorio Anselmi ha squadernato il suo progetto per Ferrara e “deciso” (più che accettato, come lui stesso riconosce) di mettersi personalmente in gioco con la candidatura a sindaco, convinto che ci sia la necessità di un radicale cambiamento e la possibilità di realizzarlo concretamente.

Anselmi, il centrodestra si presenta frammentato a questo appuntamento elettorale: la metà dei candidati, ben quattro, fanno riferimento alla vostra area politica…
Già. E pensare che mai come in questo frangente abbiamo lavorato per un progetto unitario e condiviso. Fin dall’autunno erano state definite strategie e linee programmatiche e avviati i tavoli di confronto. E sino all’ultimo giorno sembrava tutto fatto, poi al dunque abbiamo scoperto, non senza sconcerto, che Ncd e Udc si erano accordate fra loro. E dire che quelli del Nuovo centrodestra si erano sempre mostrati persuasi dell’intesa e d’accordo a sostenere il mio nome. Ma nelle segrete stanze, all’ultima ora hanno deciso diversamente.

Anche al vostro interno qualcuno s’è sfilato, Toscano ad esempio. Che è successo?
Guarda caso anche lui ex democristiano. Il problema è che la componente cattolica ed ex dc non si riconosce organicamente nel disegno del centrodestra, non contribuisce alla definizione di programmi comuni e persegue logiche di autonomia. Ciò è incompatibile con la necessità di etssera una diffusa rete di alleanze. Le defezioni nascono dall’insofferenza per i germi della cultura liberale. E’ legittimo, ma strategicamente sbagliato.

A chi reca maggior danno questa frantumazione? Al sindaco uscente che si deve misurare con sette contendenti, ciascuno in grado di erodere fette di consenso o all’opposizione che appare disgregata?
A noi. Se avessimo avuto la capacità di presentarci solidi e uniti avremmo potuto intercettare il vasto malcontento che si respira in giro e costituire una più credibile alternativa di governo.

A ben vedere, poi, ai quattro menzionati si potrebbero assimilare Zamorani, che è un radicale di impronta liberale, e la Morghen, che di recente ha fatto outing proprio su ferraraitalia rivelando una sua afferenza ideale alla destra. Quindi, in senso allargato, fanno sei su otto. Curioso in una città sempre amministrata dalla sinistra, no?
No, non è curioso: mi dispiace! Ferrara più che dalla sinistra direi che è stata amministrata dai sindacalisti. Con risultati deludenti. I cittadini per tanti anni hanno lamentato il fatto che non ci si mettesse mai d’accordo per definire una concreta alternativa. Mi sembra un’opportunità sprecata, quando invece ci si sarebbe potuti coalizzare. Noi abbiamo fatto tutto il possibile per propiziare il cambiamento, altri si sono tirati indietro. Con Zamorani ci conosciamo da una vita, abbiamo militato insieme nel partito radicale, ha una sua coerenza. Della Morghen non avevo dubbi che fosse di destra, probabilmente estrema destra visto il piglio polemico che ha.

Ma scusi, non è di destra anche lei?
Io non sono espressione della destra.

Beh, del centrodestra…
…con l’accento spostato sul centro. Centrodestra è una sintesi che definisce un’area ampia, con sensibilità molto diverse.

E la sua sensibilità si affina nel partito radicale, poi?
Sono militante di Forza Italia fin dal ’94. Sono stato probiviro regionale, responsabile dei ‘think tank’, consigliere provinciale. Ruoli defilati. Ora mi sono lanciato in questa impresa per difendere la robusta identità che in questi vent’anni abbiamo consolidato e che non va dispersa. Noi non abbiamo un base ideologica, ma un elettorato ampio e composito che dobbiamo riconquistare ogni volta sulla base della nostra proposta concreta. Per questo ci definiamo un movimento: ci muoviamo spesso per riuscire a intercettare i reali bisogni delle persone e fornire risposte adeguate.

Non le sembra che Forza Italia però in questa fase tradisca una evidente difficoltà?
Oggi anche noi abbiamo bisogno di un profondo ricambio. C’è il rischio che il partito venga spazzato via. Serve una nuova classe dirigente.

Sta dicendo che Berlusconi ha concluso il suo ciclo e che magari non occorre nemmeno uno di famiglia per sostituirlo?
Berlusconi è il nostro leader, ma i colonnelli che lo hanno attorniato e malconsigliato in questi anni. Sono loro i maggiori responsabili della situazione: devono sparire tutti e lasciare spazio a forze e intelligenze nuove. Confido che Berlusconi abbia la volontà di guidare questo inevitabile cambiamento. Rottamazione non è un termine che appartiene solo a Renzi, lo uso volentieri anch’io.

Del partito si parla spesso anche in riferimento a vicende giudiziarie…
Per quanto riguarda Berlusconi stanno emergendo fatti che gettano una luce diversa su questi anni e comprovano il disegno che è stato ordito ai suoi danni e mostrano il grande senso di responsabilità che ha sempre avuto nonostante gli attacchi continui dall’Italia e dall’Europa. Però ci sono cose che riguardano altri dirigenti che non si possono accettare: la stragrande maggioranza del partito è fatto da gente perbene che merita di più.

Veniamo a Ferrara. Lei ha il sostegno, oltre che di Forza Italia, di Lega nord e Fratelli d’Italia. Come si caratterizza la vostra proposta?
C’è bisogno di cambiare sul serio. Tagliani in un modo o nell’altro governa di fatto da 15 anni e le sue radici affondano nell’era Soffritti. E in questo periodo Ferrara è crollata secondo tutti gli indicatori economici. Le risposte fornite dall’amministrazione sono state inadeguate. E i cittadini sono tutti scontenti.

Bingo! Non dovrebbe essere difficile vincere in queste condizioni…
Credo molto nella possibilità di andare al ballottaggio. Riconosco però che Tagliani è stato bravo nella campagna di comunicazione. Sembra che tutto vada bene. Mentre l’opposizione sconta il prezzo della frammentazione che la indebolisce. Ripeto: un raggruppamento coeso sarebbe stato più attrattivo. La spaccatura è un regalo fatto al sindaco.

Che oltretutto ha pure l’appoggio di Ferrara concreta, una potenziale costola del vostro schieramento, no?
Attendo il primo consiglio comunale per appellarli come meritano: Razzi, Scilipoti… A livello personale il rapporto resta, ma politicamente meritano solo disprezzo. Vedremo anche cosa hanno raccolto in cambio di questa disgustosa operazione di trasformismo.

Lei parla della necessità di cambiamenti profondi. Concretamente come si determinano?
Facendo tutto quel che serve per disboscare la macchina comunale.

Che significa?
Chi vuole fare impresa deve affrontare una corsa a ostacoli. E’ inaccettabile.

Ma è colpa del Comune o delle normative generali?
Molto dipende dalle leggi, certo. Ma ci sono anche impedimenti e balzelli locali: procedure lente, tassa di soggiorno da eliminare, permessi per l’occupazione del suolo pubblico, tassazioni sulle attività commerciali, le tende, le insegne. L’elenco è lungo, ci sono tante cose su cui si può intervenire. Già uno snellimento burocratico sarebbe un passaggio epocale.
Io dico: non faccia il pubblico ciò che può fare il privato. Anche per questo vogliamo le vendita delle azioni Hera. Per fortuna è stata decisa l’uscita dal patto di sindacato. Ora la strada è praticabile, ma deve essere una vendita, non una svendita.

Non teme di perdere il controllo su un bene pubblico primario come è l’acqua?
Mi basta avere la ‘governance’. Io sono per la completa privatizzazione di tutte le ex municipalizzate e di tutti i servizi pubblici non essenziali. Ciò consentirebbe di recuperare risorse da destinare alle famiglie, alle fasce deboli della popolazione, alle imprese.

Nell’immediato. Ma nel lungo termine?
Dipende da come si regolano i rapporti. A me la liberalizzazione non spaventa. Gli errori li fanno quelli di sinistra quando applicano ricette di destra perché non sanno dove mettere le mani. Sono processi che vanno gestiti da chi conosce il privato e conosce il mercato. Io lo conosco.

E l’assessore Marattin no?
Lui è un ottimo tecnico al servizio di una politica sbagliata.

Sta dicendo che lo terrebbe nella sua squadra?
Terrei un assessore con le sue capacità. Ma già ce l’ho pronto.

E ci dice chi è?
Gemma Carelli, di Fratelli d’Italia. Molto preparata.

Ultimi colpi: qualche progetto rilevante che vorreste sviluppare?
La riqualificazione dell’area stadio, includendo lo stabile attualmente dell’Asl e i giardini retrostanti. Due ettari in pieno centro da riservare a servizi e attività con una quota di social housing. E col ricavato fare lo stadio nuovo, un moderno gioiellino a misura dei bisogni della città.
Poi bisogna completare la tangenziale che è tale se ha uno sviluppo anulare: quindi serva il tratto che attraversi il parco urbano con le dovute contromisure di mitigazione di impatto.

Una vecchia idea del sindaco Soffritti…
Non a caso: è stato l’unico sindaco a dimostrare capacità progettuale. Sateriale ragionava da sindacalista e progetti non ne aveva, mentre Tagliani si è appiatto sul contingente senza tracciare una prospettiva. Per la progettualità serve un architetto.

Ed ecco qua lei. Ma questa sua idea agli ambientalisti non piace mica, lo sa?
Ci vuole lungimiranza e buon senso a fare le cose. Io invece osservo solo lungaggini. Per approvare il Psc, cioè il piano strutturale comunale, lo strumento fondamentale per regolare lo sviluppo urbanistico di una città, sono serviti dodici anni, dodici! Questo significa che nel frattempo le cose sono andate avanti per conto loro. La fortuna di questa amministrazione paradossalmente è stata la crisi del settore immobiliare, se no avrebbe avuto addosso tutti quanti. Ma chi non ha programmi non ha futuro.

Nel giorno del dolore, ricominciare dalla piazza

“Il nostro caro Comune, dove, da fuori, eravamo abituati a vedere entrare e uscire tutte quelle persone. Una volta ci entrai, mi portò mio padre; sembrava tutto così meravigliosamente strano. Mi sentivo piccola, più piccola di quello che ero già; tutto era più grande di me. Ma ora non c’è più. È rimasto un buco, uno spazio vuoto, il nulla. Anzi qualcosa c’è: le macerie, i resti di questo edificio che è così caro a ognuno di noi; sembra che ci debbano per forza far ricordare quella notte, quell’incubo che ognuno di noi ha passato e io sono sicura che nessuno se lo dimenticherà mai. Descritto in questo modo non è un bel paesaggio, ma è quello che vedo io, che sono una comune ragazzina di quattordici anni come tante altre. Ma nonostante tutti i suoi difetti, devo ammettere che non cambierei mai Sant’Agostino con nessun altro paese al mondo, perché rimane la mia casa, quella dove sono nata e quella dove vorrò passare la mia vita”.

Le parole di Anna della terza D della scuola media Dante Alighieri di Sant’Agostino basterebbero da sole a commemorare il secondo anniversario del terremoto che prima il 20 e poi il 29 maggio del 2012 ha squassato le province di Ferrara e Modena.
Ieri mentre si ricordano i lutti e le macerie, Sant’Agostino, uno dei paesi più colpiti, esponeva i risultati del processo per la ricostruzione partecipata della piazza. Si guarda avanti, col cuore pesante per chi non c’è più, ma con la tenacia che contraddistingue queste terre.
Un intero paese è stato chiamato a pensare come vorrebbe la piazza centrale, dove il municipio è stato abbattuto a causa degli irreparabili danni subiti.
Fino al 31 maggio nella sala Bonzagni della biblioteca saranno in mostra i pannelli che raccontano come bambini, giovani e anziani hanno lavorato assieme alle tre proposte per ridisegnare il centro.
A illustrarcele è l’architetto Lina Guolo che ha coordinato il gruppo di cittadini nella fase di elaborazione.
“Un’idea è quella di mettere una copertura sull’attuale piazza Pertini, sotto alla quale ospitare attività di valorizzazione del territorio, promozione delle imprese locali e intrattenimento.
La seconda idea è quella di ricreare un edificio sull’antico sedime del municipio per riproporre la scansione in due piazze con vocazioni diverse, la prima più istituzionale e di collegamento alla chiesa, la seconda più ricreativa, con le attività intorno e con la possibilità di utilizzo anche da parte delle associazioni.
La terza proposta è quella di lasciare la piazza aperta, non ricostruire niente, non creare nuovi volumi, per unificare la piazza e dividerla solo in base alle funzioni: una parte rimane il prolungamento della chiesa e una parte viene dedicata agli esercizi commerciali con l’inserimento di alberature”. Questi progetti potranno essere visionati e votati inserendo le schede nelle apposite urne fino alla fine del mese.
“Ma il processo non finisce qui – specifica Paola Capriotti, un’altra delle coordinatrici del progetto – a fine giugno ci sarà un incontro pubblico con l’amministrazione per la consegna dei documenti relativi all’esito del percorso fatto con i cittadini. A quel punto la nuova giunta, avrà il dovere di esprimersi in merito per decidere se aderire alla proposta vincitrice o distaccarsene”.
Se la giunta accoglierà la proposta, dovrà istituire un bando per stabilire chi la realizzerà.
“A monitorare su questa fase – spiega Saveria Teston, l’organizzatrice generale – ci saranno la Regione, un membro del gruppo di supporto che ha seguito tutto il processo e il Consiglio dei Ragazzi, la giunta costituita dai bambini. Poi tra settembre e ottobre ci sarà un ulteriore incontro pubblico per valutare le scelte dell’amministrazione”.
I vincoli del bando sono quelli determinati da questo laboratorio. Ci sono infatti temi condivisi da tutti che dovranno essere presi in considerazione.
Questi punti sono il recupero di una continuità della piazza con corso Roma, la limitazione della velocità sulla statale e la pedonalizzazione di un lato della piazza, spostando la viabilità carrabile soltanto su un asse, mantenendo il resto pedonale in modo da valorizzarla.
Un altro elemento che ha messo tutti d’accordo è lo spostamento del monumento che adesso accoglie chi entra nella piazza e la realizzazione di un luogo della memoria del terremoto che eviti alla comunità di dimenticare questo evento traumatico.
Per quanto riguarda il paesaggio, un tema per tutti irrinunciabile è stato quello di connettere la piazza col bosco della Panfilia.
“Il paesaggio non è solo il verde – precisa l’architetto Guolo – ma è tutto quello che si vede, gli edifici, le attività, quindi la piazza anche come funzioni e come elemento che indirizzi verso dei percorsi con la segnaletica: la piazza deve attirare ma anche rinviare verso il resto del territorio”.
Un’altra richiesta importante per degli abitanti è la creazione dell’isola ecologica perché quei cassonetti in mezzo alla piazza non piacciono a nessuno.
Per quanto riguarda le funzioni, tutti vogliono che la piazza valorizzi le specificità, quindi le sagre, i mercati e i prodotti locali, ma anche le imprese, che devono avere un luogo dove poter gestire dei temporary shop e dove portare i clienti. “Tutte le aziende – ha riferito Silvia Raimondi, coordinatrice – ci hanno detto questa cosa: da noi arrivano i clienti e non sappiamo dove portarli, non c’è un luogo, non c’è un centro, non c’è niente”.
Nel giorno del dolore, ricominciare dalla piazza, serve a ritrovare la speranza.

La mostra finale del processo partecipato è stata festeggiata in piazza assieme alla Filarmonica di San Carlo (la foto in evidenza è di Giovanna Pinca)

La distanza della classe dirigente dal mondo della vita

da BERLINO – “Erano trecento giovani e forti…” Per la verità eravamo in trenta, al seminario di filosofia tenuto lo scorso aprile a Berlino dal noto studioso Sergio Givone presso la Scuola di Alta Formazione Filosofica, autore del recente Metafisica della peste. Trenta giovani studiosi da diverse parti del mondo, in possesso di un dottorato o in procinto di averlo, accomunati dalla passione e dallo studio… nonché dalla consapevolezza dell’enorme difficoltà di farsi strada con la filosofia, tra il mondo accademico e il mondo del lavoro.

Forse non a caso, tema del convegno era appunto la connessione tra il “Pensiero” e il “mondo della vita”, una astrusa formula di Edmond Husserl, seriosissimo fondatore della Fenomenologia, probabilmente la corrente filosofica più longeva e influente dello scorso Novecento, famigerato per la sua dedizione lavorativa e precisione terminologica tanto da far credere, come recita una nota barzelletta per gli addetti ai lavori, che egli stesso fosse un libro stampato. In ogni caso, il celebre “mondo della vita” (Lebenswelt) indica proprio il mondo pre-filosofico e pre-scientifico, è appunto quel “mondo vitale” (altra possibile traduzione dell’espressione tedesca) che non solo si sottrae all’indagine intellettuale ma fondamentalmente l’anticipa: è il viluppo bruto di vitalità e realtà con cui ciascuno deve fare i conti. Non solo con il pensiero, ma anche con la pratica; non solo con la filosofia, ma anche con la scienza.

Nonostante queste premesse, è difficile riassumere in poche battute cinque giorni di convegno, dal 7 all’11 aprile, che hanno coinvolto tanto gli astanti quanto il direttore della scuola, professor Ugo Perone, già docente in diverse università italiane e ora titolare della cattedra di Filosofia della religione proprio a Berlino, presso la Humbold Universität. Le lezioni si sono svolte tra filosofia, critica letteraria, estetica e un pizzico di politica. Si è trattato in effetti di amichevoli colloqui tra appassionati di filosofia, rilassati simposi che, pur senza vino, sono riusciti a toccare più di una verità.

È ironico constatare quale sia stato davvero il momento più notevole di questo seminario ristretto, altrimenti svoltosi tra intense ma forse “convenzionali” sedute mattutine e pomeridiane tra un noto professore e (auspicabilmente) giovani studiosi emergenti. Pur avendo partecipato a tutte le sedute con grande interesse e pur avendo probabilmente abusato della pazienza dei presenti sfoggiando la mia tipica vena polemica, devo ammettere che il momento più intenso di tutte le lezioni è stata una spontanea e fragorosa risata che è scoppiata all’unisono tra tutti noi partecipanti all’indirizzo del povero relatore.
Quando in una breve digressione personale Givone si è azzardato di augurarci che anche noi “giovani studiosi” avremo la possibilità di godere di un ampio ritiro sabbatico come gli venne concesso alcune volte in passato, la nostra compassata serietà accademica è venuta immediatamente meno e trenta sconosciuti da ogni parte d’Italia e Germania, italiani, tedeschi, spagnoli, serbi e greci, hanno confermato con il riso non solo la verità più triste per la nostra generazione, l’impossibilità del cosiddetto “posto fisso”, ma, ahimè, anche l’implacabile distanza delle istituzioni e della classe dirigente dalla realtà attuale – o addirittura, direbbe Husserl – dal mondo della vita.

Le prossime gemme di Palazzo dei Diamanti

da: Fondazione Ferrara Arte

Nel biennio 2015-2016, il programma espositivo di Palazzo dei Diamanti prosegue all’insegna dei grandi progetti, coniugando mostre di profilo internazionale con appuntamenti particolarmente significativi per Ferrara. Nella primavera 2015, La rosa de fuego. La Barcellona di Picasso e Gaudí si focalizzerà su un momento cruciale della storia dell’arte moderna, il modernismo catalano. Le mostre che seguiranno, De Chirico a Ferrara, 1915 – 1918. Pittura metafisica e avanguardie europee e Orlando furioso. 500 anni, celebreranno due anniversari fondamentali per la storia artistica e culturale della città.
La rosa de fuego. La Barcellona di Picasso e Gaudí evoca la straordinaria fioritura che, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, ha cambiato il volto della città catalana e ne ha fatto uno dei più effervescenti centri dell’arte e dell’architettura in Europa.
I capolavori di Antoni Gaudí e di Pablo Picasso rappresentano i vertici assoluti di questo periodo aureo, accanto alla produzione non meno significativa di un’ampia cerchia di architetti, pittori, scultori, musicisti, poeti, scrittori e drammaturghi, protagonisti di quel movimento di rinnovamento artistico e culturale che ha preso il nome di modernismo catalano.
La mostra presenta un ritratto a tuttotondo della scena artistica di Barcellona tra il 1888 e il 1909, mettendo in luce la sua variegata fisionomia. L’entusiasmo per il dinamismo della vita moderna convive con la consapevolezza delle profonde lacerazioni che proprio la modernizzazione portava con sé. Di qui il titolo della mostra – “la rosa de fuego” – nome in codice attribuito all’epoca a Barcellona in alcuni circoli anarchici internazionali a causa delle aspre tensioni sociali che ne hanno contraddistinto la storia.
Di questi orientamenti si fanno, di volta in volta, interpreti i grandi nomi dell’arte catalana, a partire da Lluís Domènech e Gaudí, geniali innovatori del linguaggio architettonico e delle arti decorative; accanto ad essi un gruppo di artisti, tra i quali Ramón Casas, Santiago Rusiñol, Hermenegildo Anglada Camarasa, Isidre Nonell, Juli Gonzalez e il giovane Picasso, che mettono in scena con stili differenti una sorprendente rappresentazione della vita moderna tra Barcellona e Parigi, loro seconda patria. L’atmosfera scintillante dei caffè letterari e dei ritrovi notturni rivive accanto alla rappresentazione disincantata dei suoi protagonisti: femmes fatales, ballerine, lucciole, artisti. Allo stesso tempo la voluttuosa ed elegante intimità degli interni borghesi ha un potente contraltare nelle toccanti icone di “miserabili” di cui i capolavori di Picasso sono le più alte testimonianze.
I capitoli della mostra mettono a confronto le multiformi espressioni di questa stagione creativa, dai dipinti ai manifesti, dagli arredi ai gioielli, dalle scene teatrali alle sculture, facendo risaltare una rete di influenze reciproche e di interessi comuni.
L’intento è, ancora una volta, quello di offrire una prospettiva di lettura meno esplorata di un importante capitolo della storia dell’arte, in sintonia con la linea di lavoro che distingue i programmi della Fondazione Ferrara Arte e delle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara a Palazzo dei Diamanti.
Di pari passo, prosegue l’impegno nella conoscenza di Ferrara e di quei fenomeni artistici e culturali di grande respiro internazionale che l’hanno vista protagonista.
A cento anni dall’arrivo di De Chirico nella nostra città, la mostra De Chirico a Ferrara, 1915 – 1918. Pittura metafisica e avanguardie europee racconterà la nascita e lo sviluppo della stagione ferrarese di una delle più importanti correnti artistiche del Novecento, la pittura metafisica. Affiancando le opere di De Chirico a quelle degli altri protagonisti di questa avventura come Carrà, De Pisis e Morandi, la rassegna ricostruirà per la prima volta il percorso dell’artista nei tre cruciali anni che trascorse a Ferrara e metterà in luce l’influenza fondamentale che tale produzione ebbe sull’opera di grandi maestri stranieri, da Man Ray a René Magritte, da Max Ernst a Salvador Dalí.
Nell’autunno del 2016, Palazzo dei Diamanti dedicherà una grande esposizione al capolavoro della letteratura italiana del Cinquecento, l’Orlando furioso di Ludovico Ariosto. A celebrarlo nel quinto centenario della sua prima edizione non sarà una mostra documentaria o di fortuna pittorica, bensì una mostra d’arte: dipinti, disegni, sculture, libri, armi e manufatti di eccezionale bellezza – alcuni dei quali dei maestri nominati dal poeta stesso come Mantegna, Dosso, Leonardo, Sebastiano del Piombo, Michelangelo e Tiziano – condurranno il visitatore tra le pagine del Furioso, facendo rivivere il fantastico mondo cavalleresco che nutrì l’immaginario di Ariosto e raccontando giochi, sogni e desideri di quella società delle corti italiane del Rinascimento di cui egli fu cantore sensibilissimo.

Identikit del fanatico

Eric Hoffer (1902-1983) è uno scrittore e filosofo statunitense nato da una coppia di immigrati tedeschi. Trascorse la giovinezza e l’età adulta accompagnando il lavoro intellettuale a impieghi saltuari come un personaggio di un romanzo di Jack London: fece il lavoratore stagionale e il venditore di arance, il cercatore d’oro e lo scaricatore di porto. In questa circostanza voglio ricordarlo come autore di un libro pubblicato nel 1951 e ora, finalmente, tradotto per la prima volta in Italia: “Il vero credente. Sulla natura del fanatismo di massa” (Castelvecchi). Ecco un decalogo del perfetto fanatico tratto da questo aureo libretto.

  • “Perché in un soggetto maturi una disponibilità al fanatismo, egli deve essere privato della propria identità e unicità individuale: deve smettere di essere George, Ivan o Hans, ovvero un atomo umano la cui esistenza è limitata dalla nascita e dalla morte. La via più drastica per ottenere un simile risultato è la completa assimilazione dell’individuo entro un organismo collettivo”.
  • “Nella pratica quotidiana dei movimenti di massa la messinscena riveste un ruolo forse più stabile nel tempo di qualunque altro fattore. Non vi è dubbio che nell’inscenare processioni, parate, rituali, i movimenti di massa tocchino una corda sensibile in ogni animo. Anche le personalità più temperate sono travolte alla vista di uno spettacolo di massa d’effetto. In occasioni simili si assiste a un’euforia e a un istinto di uscire dalla propria pelle che coglie i partecipanti”.
  • “L’obiettivo dei movimenti fanatici è fomentare lo sprezzo del presente. L’impraticabilità di molti obiettivi proposti s’inserisce nel quadro della campagna contro il presente. Offrire qualcosa di praticabile significherebbe riconciliarsi con esso. La fede nei miracoli, a sua volta, implica un rifiuto e un atto di sfida nei confronti del presente”.
  • “Pur dando l’impressione di trovarsi su poli opposti, i fanatici si accalcano in realtà a un solo estremo. I fanatici di vario colore si guardano con sospetto reciproco e sono pronti a saltarsi alla gola a vicenda, ma popolano lo stesso quartiere e si potrebbe quasi dire che appartengono alla stessa famiglia”.
  • “L’odio è il più accessibile e completo di tutti gli agenti unificanti: discosta e svelle l’individuo dal proprio Io, lo distrae dal suo benessere e dal suo futuro, ed egli diventa un corpuscolo anonimo che freme per fondersi e mescolarsi ai suoi simili in una massa incandescente. Condividere un odio con qualcuno, vuol dire trasmettergli un senso di affinità, e dunque smorzarne la capacità critica”.
  • “Per quanto si possa ritenere cruciale il ruolo rivestito dalla leadership nell’ascesa di un movimento di massa, è indubbio che il leader non può far apparire un movimento dal nulla come d’incanto. Si deve essere in presenza di un desiderio diffuso di accodarsi a qualcuno e obbedire, nonché di un’intensa insoddisfazione per la realtà delle cose. L’indottrinamento di chi è frustrato è più facile dell’indottrinamento di chi non lo è”.
  • “Bisogna non esagerare l’efficacia della propaganda. Il propagandista di talento porta al punto di ebollizione idee e passioni che erano già calde nel pensiero del suo uditorio, assecondando i sentimenti più reconditi in chi lo ascolta. La propaganda più che instillare pareri, articola e giustifica opinioni già presenti nei suoi destinatari”.
  • “E’ raro che i pensatori lavorino bene insieme, mentre è generalmente facile per gli uomini d’azione sviluppare uno spirito di cameratismo. Tutti i movimenti di massa si servono dell’azione come agente unificante. I conflitti ricercati e incitati non servono solo contro il nemico, ma anche per privare i seguaci della loro individualità distinta e per renderli più facilmente solubili nel solvente della collettività.”
  • “La fede assoluta premunisce l’animo umano in vista dell’azione. Essere in possesso della sola, unica e indiscutibile verità è una premessa indispensabile per un comportamento deciso e ostinato sul campo. Per essere efficace una dottrina non deve essere compresa, ma creduta. Possiamo essere certi soltanto di ciò che non comprendiamo”.
  • “Il pericolo rappresentato dal leader fanatico per i movimenti di massa è dato dalla sua incapacità di darsi pace. La passione per le sensazioni forti lo induce a continuare a brancolare bramoso di sempre nuovi limiti da superare. Per lui l’odio si fa abitudine. Rimasti sprovvisti di avversari esterni da schiacciare, i fanatici iniziano ad avversarsi reciprocamente.”

Ogni riferimento alla campagna elettorale in corso, in cui assistiamo ad una pericolosa gara fra chi vuole superare Hitler e chi vuole arrivare prima nel replicare una nuova marcia su Roma, è consapevolmente voluto…

Fiorenzo Baratelli è direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara

Fersini: “La nostra politica guarda a famiglie e imprese e non invade lo spazio pubblico”

“La mia candidatura nasce per impulso degli amici del Nuovo centrodestra che volevano porre alla base del nostro impegno temi e volti nuovi: pensi che in lista nessuno ha mai avuto incarichi istituzionali di rilievo e un terzo di noi è under 35. Io in precedenza mi ero prodigato solo come rappresentante in ambito universitario. E’ stato un bel salto, ma ora sono contento di averlo fatto”. Così Francesco Fersini, 27 anni, candidato sindaco del cartello “Insieme in Comune” – che riunisce Ncd di Alfano, Udc e Popolari per l’Italia (il partito dell’ex ministro Mauro, già esponente di Forza Italia prima e di Scelta civica poi) – traccia i presupposti della sua azione. Un ‘salto’ – come lui lo definisce – inizialmente accompagnato da polemiche per le spaccature che hanno lacerato il centrodestra. E infatti subito precisa: “Quando è stata presa la decisione, Rendine e Marica Felloni, entrambi riconducibili allo schieramento di centrodestra, erano già in campo; una parte degli esponenti d’area avevano costituito ‘Ferrara concreta’ per dare sostegno a Tagliani e da Forza Italia s’era sfilata la componente che fa riferimento a Toscano. Quindi non è certo imputabile a noi la spaccatura del fronte politico”.

A lui, come in precedenza agli altri candidati intervistati, abbiamo domandato quali siano le priorità e gli elementi caratterizzanti del programma che presenta agli elettori.
“Il concetto di fondo – spiega – è che il Comune non deve fare ciò che può fare la gente, individualmente o in forme associative. Guardiamo alla società civile, con riguardo ai bisogni delle famiglie e delle imprese. Mettiamo al centro i temi della salute e i servizi educativi, che vanno gestiti con flessibilità per andare incontro ai problemi delle giovani coppie, connessi ai tempi di lavoro e al pendolarismo. Il nostro riferimento non sono solo le strutture del Comune, ma anche quelle delle parrocchie, preziose perché garantiscono libertà di scelta.
Per le imprese riteniamo sia necessaria una profonda sburocratizzazione: va favorita la nascita di nuove attività e propiziati gli insediamenti produttivi in aree di degrado. Dobbiamo guardare all’Europa non solo in considerazione di lacci e lacciuoli, ma valutando anche le opportunità, a cominciare dai bandi di finanziamento. In generale riteniamo si debba partire da quel che c’è per migliorarlo ,piuttosto che concentrarsi su quel che manca.
La salute rappresenta un bene primario e quindi un ambito di imprescindibile impegno. Nell’area del vecchio Sant’Anna – anziché trasferire le funzioni dell’Asl, con la conseguenza di lasciare una zona delicata come via Cassoli senza alcun presidio – si dovrebbe creare la ‘città della persona e dei servizi alla vita’, dando per esempio assistenza ai soggetti in difficoltà, comprese le ragazze che intendono portare avanti da sole la loro gravidanza. Lì potrebbero trovare spazio fondazioni ed enti non-profit e anche le tradizionali botteghe artigianali, con un’operazione di recupero delle antiche attività.

Quale considera essere un ambito cruciale per la riqualificazione e il rilancio di Ferrara?
L’emergenza a Ferrara come ovunque è il lavoro: per i giovani che non lo trovano, per chi lo ha perso, per professionisti e commercianti che vedono ridursi i propri guadagni. Il tema primario che può servire da volano è quello del sostegno alle imprese attraverso i bandi europei. Ci sono 80 miliardi di euro a disposizione, è doveroso portare a casa qualcosa, anche a vantaggio dell’agricoltura. In ambito industriale va perseguita la strada dei piccoli appalti a discapito dei grandi e il supporto alla piccola e media impresa che rappresenta il tessuto vitale del nostro Paese”.

A fronte del quadro politico frammentato ritiene di avere concrete chance di arrivare al ballottaggio?
Previsioni in genere non ne faccio e in questo periodo men che meno anche per ragioni scaramantiche. Di certo molti non andranno alle urne, anche fra l’elettorato fidelizzato.

Se non dovesse farcela è disponibile a fornire il suo appoggio a un altro candidato o lascerà libertà di voto?
Lo si vedrà il 26 maggio. Se i ferraresi mi vorranno come sindaco bene, se no agiremo in altro modo.

Che giudizio dà dell’amministrazione in carica?
Noi avremmo operato in modo diverso specie nel sociale e nei confronti delle imprese garantendo sostegno anche in termini di semplificazione. Ci saremmo concentrati maggiormente sulle infrastrutture e trattato con maggiore sensibilità le tematiche ambientali. A Tagliani va dato atto di avere ridotto il debito: è un risultato importante che nessuno contesta. Ma si tratta sostanzialmente della riparazione di un danno fatto, perché nel governo della città lui c’era anche in passato.

I cittadini mostrano sempre più sfiducia nei confronti della classe politica: è d’accordo nel ritenere che esista un grave problema di rappresentanza?
La questione investe l’ambito nazionale e quello locale. C’è una distanza abissali fra politica e cittadini. Più che fare, la politica dovrebbe imparare ad ascoltare e ‘lasciar fare’ a chi sa fare… E’ un impegno che assumiamo nei confronti dei nostri elettori.

A Roma c’è un ristorante con meravigliosi girasoli

Carino, caldo e accogliente, con persone gentili e orgogliose della loro nuova attività, nato dalla volontà di alcuni genitori di ragazzi con sindrome di Down, per dare una prospettiva lavorativa ai loro figli. Un salto in un mondo fatto di solidarietà, lavoro, impegno e amicizia.

La Locanda dei Girasoli esiste dal 1998, in via dei Sulpici 117, nell’antico quartiere del Quadraro, a Roma. Un quartiere che, nel 2004, ha ricevuto la Medaglia d’oro al merito civile, in quanto centro dei più attivi e organizzati dell’antifascismo, teatro del più feroce rastrellamento da parte delle truppe naziste, scattato all’alba del 17 aprile 1944 e diretto personalmente dal maggiore Kappler. Un quartiere che oggi ospita una bella locanda, che fra mille traversie sopravvive a difficoltà e crisi.
Mi chiederete cosa c’è di nuovo nella presentazione di un locale romano: pane, amore e fantasia? Pur con cibo (buono), amore (molto), fantasia (tanta), nulla di tutto ciò, o almeno non solo. Capirete presto. Basterà seguirmi per un attimo. Magari poi ci andate!

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nel personale molte persone con sindrome di Down

Varcata la porta d’ingresso, l’allestimento moderno e rinnovato (a novembre 2013) dei locali colpisce l’attenzione per raffinatezza e semplicità. L’atmosfera, sobria e al contempo familiare, rende la Locanda un luogo intimo e raccolto, ideale per serate con amici o in coppia. Vi è odore di mare, di terra, di buon cibo, di pizza cotta nel forno a legna; vediamo scorrere colorate e appetitose proposte della casa che, scopriremo in seguito, tengono conto di intolleranze alimentari o di restrizioni di natura etica, religiosa o sanitaria. C’è aria di casa. Fin qui ancora nulla di nuovo.
Guardando con attenzione, notiamo che ci sono molti giovani con sindrome di Down fra il personale. Perché la Locanda dei Girasoli nasce, grazie alla cooperativa sociale “I Girasoli” che sostiene e collabora con persone affette da questa sindrome, con l’obiettivo di promuoverne l’inserimento lavorativo, nobilitando e dando dignità alla persona attraverso un percorso individuale di formazione e di inserimento lavorativo. Il tutto amalgamando solidarietà, rispetto, mutualità e professionalità e azzerando le differenze. Siamo di fronte a un esempio concreto d’imprenditoria sociale vincente. E’ nato così il progetto che ha portato alla creazione di posti di lavoro finalizzati a un’integrazione lavorativa e territoriale.

Quale simbolo poteva meglio rappresentare la gioia nei confronti della vita e la solarità di questo progetto se non il girasole? Questo fiore ben identifica la forza e l’orgoglio dei ragazzi che ogni giorno dimostrano professionalità, serietà e simpatia, e convinzione verso un progetto che li vede protagonisti. Sia la cooperativa che i ragazzi Down con le loro famiglie sono associati all’Aipd (Associazione italiana persone down) di Roma.

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logo del progetto Chef solidali, Le stelle per il sociale, approvato a marzo 2014

Sulla scia del successo del progetto, a marzo 2014, è stato poi presentato in Campidoglio il progetto Chef solidali, Le stelle per il sociale: cinque incontri, a partire da aprile, che vedono protagonisti e testimonial altrettanti chef stellati che lavorano a fianco dei ragazzi, coinvolti nella preparazione di piatti originali, secondo una ricetta dello chef di turno. Il pubblico, limitato a non più di 100 persone alla volta volta, viene accolto in sala e servito dagli stessi giovani. L’evento conclusivo, a cui parteciperanno tutti gli chef coinvolti, sarà a dicembre.
L’iniziativa fa seguito al progetto Open, partito a novembre 2013, che ha permesso di formare e inserire nel settore della ristorazione 10 ragazzi Down. L’intento è anche quello di sperimentare un modello di “ristorazione inclusiva” che sia replicabile in altri contesti territoriali, al fine di creare una rete virtuosa in cui il modello romano sia il punto di riferimento. Prima meta da raggiungere: l’apertura della Locanda dei Girasoli a Palermo. Ci contiamo…

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modello vincente di “ristorazione inclusiva”

Gli appuntamenti con gli chef, in calendario per il 2014, sono cinque: il 23 aprile con Sandro e Maurizio Serva (a cena), il 14 maggio con Angelo Troiani (a cena), il 15 giugno con gli Agata Parisella e Romeo Caraccio (a pranzo), il 16 settembre con Luciano Monosilio e Alessandro Pipero a cena, il 24 ottobre con Antonello Colonna (a cena). Il prossimo a giugno, dunque.
Per chi, mercoledì 23 aprile 2014, fosse andato alla cena con gli chef Sandro e Maurizio Serva alla Locanda dei Girasoli, avrà sicuramente sentito pulsare la passione, la forza e la volontà di crescere. Perché, diceva un grande chef, “se non si trasmette in sala la passione e la filosofia del proprio lavoro, il ristorante non avrà un’anima”. E qui l’anima si sente, si vede e si tocca…

Ciechi nel secolo della conoscenza

“Ciechi nel secolo della conoscenza”. Sì, è quello che sembra accadere da noi. Società della conoscenza, città della conoscenza sono temi che si dibattono nel mondo e per i quali governi di diversi Paesi si stanno da tempo impegnando. Basta consultare il sito web delle knowledge cities per rendersene conto. Basterebbe essere un po’ meno provinciali di quanto siamo, soprattutto basterebbe non aver vissuto 20 tragici anni di accumulo di spaventosi ritardi (sic!). E il futuro non sembra migliore…

Dove abitiamo? Dove abita il nostro Paese, dove abitano le nostre città? È come se all’improvviso la cecità dei personaggi di Saramago avesse preso anche noi. Il mondo che ci sta intorno viaggia a una velocità decisamente diversa dalla nostra.
Te ne accorgi quando, occupandoti di città della conoscenza, scopri che esiste addirittura l’Official Web Site delle Knowledge Cities, ne fa riferimento Francisco Javier Carrillo, docente e ricercatore in knowledge systems e knowledge administration, nel suo libro, del 2006, Knowledge Cities, per altro mai tradotto in italiano.
A scorrere la lista dei settantuno tra Paesi, città e continenti che aderiscono al Knowledge-Based Development (Kbd), con l’intento dichiarato di fondare il loro sviluppo sulla conoscenza, c’è l’Europa, ma non c’è l’Italia e neppure una delle sue città. L’Italia non è tra le nazioni che hanno scelto di concentrare i loro sforzi o che intendono attivare programmi per porre la conoscenza alla base della propria crescita. Allora rivolgendo gli occhi alle vicende di casa nostra, a questo Paese che sembra aver preso le distanze dal lavoro, dall’intelligenza, dallo studio, dalla cultura e dalla ricerca, imboccando la disastrosa scorciatoia delle speculazioni finanziarie, della corruzione, del peculato e del malaffare, ti rendi conto che chi ha governato, per lo meno negli ultimi vent’anni, ci ha portati fuori strada, a sbattere contro un muro.
Doveva venirci il sospetto che il brain drain, la fuga all’estero dei nostri cervelli migliori, voleva dire che gli altri Paesi stavano investendo sulla cultura, sui saperi, sull’istruzione.

Si fa fatica a non pensare che le difficoltà, in cui ancora ci troviamo senza cavarci i piedi, in buona parte provengono dal grave deficit sul piano delle politiche culturali e dell’istruzione che abbiamo accumulato almeno da vent’anni a questa parte.
Il fatto, che le maggiori organizzazioni internazionali come la Commissione europea, la Banca mondiale, l’Onu e l’Ocse abbiano adottato il knowledge management come cornice dei loro orientamenti strategici per lo sviluppo mondiale, indica chiaramente l’esistenza di un nuovo collegamento tra gestione della conoscenza e crescita economica. La gestione della conoscenza è divenuta strategica non solo per il mondo degli affari, ma soprattutto per settori come l’istruzione, la pubblica amministrazione e la sanità.

Economisti quali Peter Drucker e Taichi Sakaiya, tra gli altri, avevano previsto già sul finire del secolo scorso l’avvento di un’economia della conoscenza, come base per la fondazione di quell’idea della società che l’Europa ha fatto propria. Secondo Sakaiya «stiamo entrando in una nuova fase di civiltà in cui il valore attribuito alla conoscenza è la forza trainante».
Per molti il ventunesimo secolo si va caratterizzando come il secolo delle città. Quella grande migrazione di masse contadine dalla campagna alla città, iniziata con la rivoluzione industriale, è un processo ancora in corso, del resto la sua esistenza è molto breve, se la consideriamo in una prospettiva storica. Un paio di secoli non sono altro che lo 0,5% dell’esistenza umana sulla Terra.
Ancora nel 1980, meno del 30% della popolazione mondiale era urbanizzata, ora più del 50% vive nelle città, e la quota è destinata a salire al 75% entro il 2025. Una percentuale che è già raggiunta dalla maggior parte dei paesi sviluppati. L’urbanizzazione definitiva dell’umanità sta avvenendo proprio in questo tempo, dopo quarantamila anni dalla comparsa della nostra specie.

Urbanizzazione globale e avvento della Società della Conoscenza, costituiscono ciascuno una realtà senza precedenti e complessa. Da qui emergono i limiti dei nostri tradizionali approcci disciplinari allo sviluppo urbano e alla creazione di valore sociale.
Entrambi, integrati nella società della conoscenza, costituiscono uno dei fenomeni più complessi mai affrontati dagli uomini e, probabilmente, il punto critico del nostro futuro.
È questo nuovo collegamento a creare un ambiente favorevole alla crescita della città della conoscenza, argomento oggi di grande interesse e discussione nel mondo. Molte città già si proclamano a livello mondiale come learning o knowledge city, mentre altre hanno elaborato strategie e programmi per diventarlo.
Il concetto di città della conoscenza è molto ampio, si riferisce a tutti gli aspetti della vita sociale, economica e culturale. Secondo i ricercatori in questo campo, tra cui il greco Kostas Ergazakis, esperto di knowledge management, una città della conoscenza è una città che mira allo sviluppo basato sul sapere, favorendo tra i suoi abitanti la continua creazione, condivisione, valutazione, rinnovo e aggiornamento delle conoscenze. Lo scambio di conoscenze e di cultura è il fulcro strategico della città di questo secolo, che deve essere alimentato e sorretto dalle sue reti e dalle sue infrastrutture.

Le previsioni per il futuro delle città sembrano dare per scontata la continuazione del modello industriale capitalista che ha dominato il ventesimo secolo. Ma le città amministrate sulla base di questo modello sono diventate sempre più grandi, con una domanda di consumi sempre maggiore e una esorbitante produzione di rifiuti. La prospettiva finale è inevitabilmente il collasso ambientale, sociale ed economico, appena esse avranno superato i limiti di una crescita gestibile. È evidente che questo modello di sviluppo non è più funzionale.
In questo contesto il vantaggio della città della conoscenza è nella sua stessa definizione, perché la sua esistenza ha le radici nei saperi diffusi, si fonda su uno sviluppo sostenibile per l’ambiente, economicamente equo e socialmente responsabile.

Il coinvolgimento attivo dei cittadini, la condivisione diffusa delle conoscenze innescano forti dinamiche di innovazione in tutti i settori, dalle attività economiche a quelle sociali, creano un ambiente tollerante verso le minoranze e i migranti, contribuiscono a far crescere e migliorare il funzionamento della democrazia, sono le condizioni senza le quali l’idea che la democrazia diretta possa sostituirsi alla politica, come l’abbiamo finora praticata, resta un puro, accecante inganno populistico.

La salvezza della città: giustizia e misericordia

Mai avremmo pensato nel cattolicesimo di Francesco, nelle caducità della fragilità umana, nelle debolezze della vita, nel senso pieno delle cose, di ritrovare quella “misericordia”, quel salto alto della giustizia, non solo quella che chiediamo ma, soprattutto, quella del Dio che si fa uomo, che fatichiamo a comprendere.

Forse aspettavamo che venisse qualcuno dalla fine del mondo, anche con radici piemontesi, anche vestito di bianco e la borsa nera nella mano, che si fa il caffè da solo al mattino, che lo puoi sentire al telefono dopo il telegiornale, per metterci a riflettere in silenzio e meditare sull’immensità.

Dico questo, anche per questi tempi nuovi, perché nel prosieguo della narrativa potremmo incontrare altri ed ulteriori aiuti per riflettere su di noi, su noi stessi e non solo.
C’è un binomio forte tra misericordia e giustizia, delineato nei pomeriggi al centro studi San Barnaba di Brescia, che qui ci piace richiamare; questa riflessione mi è stata inviata dal relatore l’avvocato Bazoli, ben dieci anni fa, e la proposi già allora per un mio intervento sulla giustizia.

Debbo anticipare che mi è difficoltoso entrare nel tema, stante una mia diversa formazione, ma non posso non rimettere la questione all’attenzione del lettore, su questo quotidiano, perché molto interessante e di estrema bellezza.
“I dieci giusti e la salvezza della città” (genesi 18, 20 – 33) sviluppa il tema della solidarietà della colpa, parla del profilo misericordioso di Dio, del momento della retribuzione dei meriti, della verità di una giustizia ispirata dall’amore, degli operai della vigna. E’ un brano che spiega come i meriti degli uomini riscattino le loro colpe; un passaggio stretto, da indurre Dio a perdonare secondo i criteri di giustizia seguiti dalla Sapienza divina. A questo punto, sottolinea il relatore, resta da chiarire se il modello sia destinato a realizzarsi nell’ordine terreno ed entro l’orizzonte della storia umana o soltanto in una prospettiva escatologica.

Ora proviamo ad attualizzare questi significati e farli insegnamenti validi, entrandovi dentro. Va comunque precisato che non siamo di fronte a un testo del Vecchio testamento, precettistico e profetico, ma ad un racconto storico che contiene modelli di comportamento che sono riferibili alla realtà di ogni tempo. D’altro canto, il richiamo al Nuovo Testamento evidenzia un Dio giusto ma misericordioso, un Dio che punisce ma che è disposto al perdono e, quindi, non un giudice severo ma che si propone di amare gli empi e i colpevoli, e non soltanto di risparmiarli in ragione dei meriti dei giusti.

Quindi la visione evangelica è all’orizzonte della salvezza del singolo uomo e può essere applicata anche ai rapporti tra i popoli, degli stati o delle nazioni, vale a dire la punizione di una collettività colpevole. E’ su questo aspetto che intendiamo soffermarci e riflettere, sui “giusti e la salvezza della città”, sui principi informatori della giustizia divina e additabili alle Istituzioni terrene, su come punire una comunità incolpevole risparmiando gli innocenti.

Ci pare obbligo pensare alle azioni di guerre aggressive e ai regimi dittatoriali, mettendo insieme, nel disegno degli uomini innocenti e colpevoli, trovando e cercando (una sorta di giustificazione) l’inevitabile e l’unico rimedio, il tutto come l’opposto della giustizia divina.

Non è fuori luogo, quindi, ricordare: da un lato, la nostra Costituzione all’art.11 che “…ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” e, nell’altro caso, le dittature, pensando ad ogni forma di minoranze emarginate (il sale della terra, le voci dei profeti nel deserto, i dieci giusti a Sodoma, le sacche di resistenza al nazismo, gli 11 docenti che dissero no al fascismo, i gulag in siberia, le madri di plaza de mayo, l’inquisizione, le torture dei dittatori) per sanzionare e punire le colpe collettive con le sue formalità umane complesse di prassi e il contrasto radicale con le Scritture.
Basterebbe pensare all’imperativo scritturale: “…sarà la virtù di un solo giusto a meritare la salvezza di tutti” per comprendere in quale conto il Signore tenga le prove e le umiliazioni dei giusti che resistono nel mantenersi fedeli alla virtù.
A ciò si può aggiungere anche la riflessione della giustizia nella storia e il disegno tra quella di Dio e quella dell’uomo nella narrazione delle Sacre scritture. Se la volontà di Dio è che il giusto non perisca insieme ai peccatori, molto spesso l’apparente indifferenza di Dio, per i mali delle vicende degli uomini, da quello compiuto dall’uomo alle calamità naturali fino alla fragilità e caducità di ogni elemento del creato, con il suo “ silenzio “, è motivo di smarrimento sia per chi crede che per quello che non crede.

Nel Nuovo Testamento, però, c’è una svolta radicale nei rapporti tra Dio e gli uomini, cioè:…” l’ineluttabilità del male, di quello prodotto dall’uomo, che è conseguenza della sua “ libertà “, e di quello derivante da eventi naturali, che è conseguenza della imperfezione del creato, ha indotto Dio al passo sorprendente di entrare nella storia, alla decisione di viverla alla stregua degli uomini stessi.
Il Creato si fece creatura, Dio si fece carne e uomo e come detto dal Poeta – “ il suo fattor non disdegnò di farsi sua fattura “.
Quindi, diversamente dal Vecchio Testamento, la Nuova Alleanza tra Dio e l’uomo, è imperniata solo su un unico Giusto, inviato a salvare il mondo; ma qui si entra nel nuovo ordine di verità e dei misteri rivelati: la vittima risorge e manifesta il potere di realizzare un nuovo regno di giustizia.
La proclamazione delle Beatitudini sono, pertanto, la chiave di volta della Nuova Alleanza e il tema della giustizia ricorre ben due volta: viene santificata, sia la sete di giustizia che la sofferenza a causa della giustizia.

Ma perché abbiamo pensato a tutto questo, stralciando, anche con difficoltà, l’essenza della citata narrativa? Sciolgo l’interrogativo dicendo che lo scritto è frutto di una approfondita ricerca e analisi, non solo storica, del relatore che è un avvocato bresciano. A noi, in questa circostanza, non interessa l’avvocato, ma ci interessa che è anche un notissimo banchiere, chiamato tanto tempo fa da Nino Andreatta a salvare una banca.
Citarlo, soprattutto al giorno d’oggi, ci vuole del coraggio, sapendo però che nel maneggiare i denari, per adoperarli bene, serve un po’ d’anima e capire, soprattutto, che c’è la bontà incommensurabile della misericordia.

Vorrei concludere con le considerazioni del banchiere: “… l’orizzonte della giustizia di Dio si realizzerà, pienamente, solo nell’al di là, ma è percepita da ogni singolo uomo, nel suo cuore, già durante la vita. Tutto ciò può sembrare incredibile, come un sogno; ma se non avessimo questo sogno, la nostra vita si consumerebbe senza scopo e senza speranza”.

Quel pizzino dal palco: addosso ai 5 stelle…

Un lettore ci ha scritto per riferire una vicenda gravemente scorretta accaduta ieri durante il confronto elettorale che si è svolto in castello. Riportiamo qui la sua testimonianza.
“Desidero segnalare un episodio emblematico del clima politico attuale. Domenica mattina 18 maggio ho assistito nella Caffetteria Castello ad un dibattito organizzato dal Movimento Federalista Europeo e Comitato Ferrara per la Federazione Europea a cui erano invitati i candidati della Circoscrizione Nord-Est alle elezioni del Parlamento Europeo del 25 maggio. Presiedevano l’incontro Rossella Zadro, vicepresidente del Comitato e attuale esponente della Giunta comunale (nonché candidata alle amministrative per il Centro Democratico, a sostegno di Tagliani) e Giorgio Anselmi, direttore della rivista “L’Unità Europea”. Dopo un introduzione del sindaco uscente Tiziano Tagliani (Pd), in corsa per il secondo mandato, sono iniziati gli interventi dei vari candidati. Era presente un buon numero di liste. Dopo gli interventi degli esponenti di Fratelli d’Italia, L’Altra Europa con Tsipras, Scelta Europea, Nuovo Centrodestra, Partito Democratico, è stata la volta della candidata del Movimento 5 Stelle Francesca Nicchia, laureata in economia, che ha evidenziato le conseguenze dell’adesione all’Eurozona e ai Trattati europei, subite dai cittadini a causa di decisioni mai sottoposte a nessun tipo di consultazione. Finito il proprio intervento, Francesca Nicchia non ha fatto in tempo a sedersi in platea che Giorgio Anselmi, moderatore del dibattito, si è alzato dal tavolo dei relatori per avvicinarsi a una persona del pubblico – che fino a quel momento aveva rivestito il ruolo di “fotografo ufficiale” dell’incontro – consegnandogli un fogliettino.

Il caso ha voluto che io fossi seduto molto vicino a questa persona e ho avuto la possibilità di leggere la prima frase del “pizzino” che esortava inequivocabilmente un intervento “CONTRO M5S”, sottolineato con doppia linea.

Questa persona, destinataria del messaggio è stata subito inserita nella lista degli interventi dal “moderatore” Anselmi e, appena presa la parola, il “fotografo ufficiale” trasformatosi in “militante federalista” ha porta avanti un’invettiva sollecitata e mirata contro Movimento 5 Stelle e la candidata presente all’incontro, questo tra gli applausi della maggioranza dei federalisti presenti, rappresentati Pd e Scelta Europea compresi e lo sdegno degli esponenti di L’Altra Europa con Tsipras e di alcune altre persone del pubblico.

Ciò che è accaduto è moralmente e politicamente disgustoso: un moderatore di un evento pubblico patrocinato da un Comitato cittadino che vede la presenza dell’istituzione Comune al suo interno, non può permettersi di condurre un dibattito progettando interventi che sostengano solo una delle tante espressioni politiche presenti, cercando di distruggere in modo pilotato un’idea diversa, per altro ben motivata e argomentata. Trovo altrettanto vergognoso che autorità cittadine, candidate alle prossime amministrative, come Tagliani e Zadro prestino la loro disponibilità ad essere garanti del rispetto della pluralità di pensiero dei cittadini in questi incontri, che purtroppo hanno un preciso e univoco indirizzo politico. E’ anche a causa di incontri come questi che la democrazia in questa città, in Italia e in Europa appare sempre più come un diritto che ci stanno togliendo, pezzo dopo pezzo”.

L.Z. cittadino indignato (lettera firmata)

Un difficile rapporto tra parole scritte e immagini: i ‘Racconti d’amore’ di Elisabetta Sgarbi

Così, da studioso bassaniano, mi reco al cinema a vedere Racconti d’amore, di cui l’episodio centrale s’intitola Micol “da un racconto (?) di Giorgio Bassani” e m’appresto a dare la mia valutazione del film diretto da Elisabetta Sgarbi: non tre stellette ma tre “i”: Impostato, Impettito, Ingenuo.

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La ‘locandina’ di uno dei quattro racconti del film

E’ sempre difficile rendere “visive” le parole. E ben lo sanno quei registi che si sono cimentati con capolavori della narrativa, da De Sica regista de Il giardino dei Finzi-Contini a Visconti che affronta James Cain in Ossessione, Tomasi di Lampedusa in Il Gattopardo, d’Annunzio ne L’innocente per non parlare di Verga e di Boito nel sommo capolavoro Senso. La difficoltà, come ribadisce un critico attentissimo quale Alfonso Berardinelli, è nella capacità di rendere in immagine la parola. Un caso per tutti, il fallimento di un regista difficile come Jean-Marie Straub, coadiuvato da Danièle Huillet, che filma cinque tra i ventisette dei Dialoghi con Leucò di Pavese, secondo quella tecnica straniante che tanto mi ricorda quella del film della Sgarbi.
Sembra quasi che il risultato sia lo stesso. Pochi osano dimostrare che il film è sbagliato, proprio per non apparire incolti o non all’altezza dell’evento. I nomi che compaiono, Franco Battiato per le musiche, Laura Morante Michela Cescon, Sabrina Colle, Rosalinda Celentano, Tony Laudadio, Ivana Pantaleo, Andrea Renzi, Elena Radonicich, per quattro storie d’amore e di Resistenza ispirate ai racconti di Sergio Claudio Perroni, Fausta Garavini, Giorgio Bassani e Tony Laudadio, dovrebbero essere la garanzia di un film che, tuttavia, risulta inesorabilmente “impostato”.
Dalla fragorosità della musica scelta da Battiato alla posa “assettatuzza” direbbe Boccaccio, vale a dire del modo in cui i protagonisti straniati sono più preoccupati del come indossare abiti d’epoca, rifatti con una precisione encomiabile “ton sur ton”, che gli abiti della miseria contadina di tre storie o dell’eleganza di Micol nel “racconto” bassaniano. Si veda il primo episodio: lei indossa un basco che è così ben sistemato sulla testa da apparire falso. O nell’episodio tratto dal racconto della Garavini: lo scialle con cui la donna si copre la testa, sopra il golf all’uncinetto e col foulard annodato, rendono una posa da museo del costume.

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Un immagine del film di Elisabetta Sgarbi

“Impettito”: la bella Micol cammina tra le case di Ferrara, le mura e il parco che la relega. La vediamo scendere le scale dove s’affastella la collezione della famiglia Sgarbi, e che mai Bassani avrebbe approvato come décor della casa della sua protagonista. Lei, che è la signora dei vetri e che ha la sua stanza decorata con i làttimi veneziani, preoccupata su come indossare il bel vestito bianco e nero, di una brava stilista, usato per recarsi alla visita al cimitero ebraico o alla sinagoga. Non basta la voce di Toni Servillo a commentare la qualità della prosa bassaniana. Certo, è facile per chi, alla prima occhiata, scopre i luoghi che da sempre fanno parte del suo immaginario, trovarne l’irrealtà. Tanto giusta quanto contraddetta nei luoghi reali elencati in coda al film. Eppure, al di là di una bellissima fotografia e dello scorrere lento del fiume, sembra quasi che l’umanità dolente e delusa, che si dovrebbe e potrebbe confrontare con la maestosità del Po e del Delta, venga sconfitta dall’impettita presenza di begli attori che sembrano messi lì per caso, a testimoniare la qualità dell’operazione.
Il miglior episodio, quello di Laudadio, per un momento lascia trapelare, in quello stringersi delle labbra sottili del pescatore innamorato, un’angoscia irrimediabile. Potremmo allora dire che quel film ha tutte le caratteristiche e i pregi e difetti di un bel documentario, e che il miracolo delle parole visive sembra perdersi nella vastità del fiume, percorso senza comunicarci quella fiducia della parola che si fa occhio, e occhio cinematografico.
E per una volta, non sembri presuntuoso il non lasciarsi intimidire dal sospetto di non apparire abbastanza colti.

Alcune osservazioni in merito all’intervista di Ilaria Morghen

La nostra intervista al candidato sindaco per Ferrara del Movimento 5 stelle, Ilaria Morghen [leggi], ha suscitato interesse e varie considerazioni. Riportiamo qua quelle espresse da un lettore che esprime circostanziate riserve in ordine ai meccanismi di organizzazione interni al movimento.

1) Alla domanda “La sua candidatura è stata per tutti una sorpresa. Lo è stata anche per lei?” la Morghen risponde “In un certo senso sì, solo dallo scorso autunno sono attivista del meetup Grilli estensi e di recente sono stata selezionata dagli iscritti e poi designata per questo ruolo“. Le affermazioni della Morghen contrastano con quelle che la medesima aveva rilasciato nell’intervista pubblicata sul Resto del Carlino sabato 5 aprile 2014 a pag. 7: allora la Morghen aveva affermato di non essere stata scelta tramite una consultazione di tutti gli iscritti al meetup Grilli Estensi (450 persone) ma solo da 40 persone. La candidata grillina aveva anche affermato che questo piccolo gruppo di 40 persone si era auto-delegato in rappresentanza di tutti i 450 iscritti al meetup Grilli Estensi che, tra l’altro, non sono mai stati consultati in merito all’elezione del candidato sindaco. L’elezione della Morghen infatti ha dato adito a dubbi, perplessità e accuse di poca trasparenza come risulta anche dalla lettera pubblicata dal Resto del Carlino in data 8 aprile 2014 pag. 10. Si nota inoltre che Morghen risulta essersi iscritta al meetup dal 9 gennaio 2014 e non dallo scorso autunno (vedi sito meetup grilli estensi)

2) Alla domanda “Ma se lo spirito è quello della condivisione e del confronto come si giustificano le epurazioni dei dissidenti dal movimento?” la Morghen risponde “Sono mistificazioni della stampa. Grillo e Casaleggio non si sentono mai, al punto anzi da farci desiderare qualche loro consiglio. I gruppi dirigenti sono lasciati liberi di decidere senza condizionamenti“. Nel Movimento 5 Stelle non esiste un gruppo dirigente perchè non è un partito ma un movimento di liberi cittadini e rappresenta una piattaforma ed un veicolo di confronto e di consultazione che trae origine e trova il suo epicentro nel blog www.beppegrillo.it. Il nome del MoVimento 5 Stelle viene abbinato a un contrassegno registrato a nome di Beppe Grillo, unico titolare dei diritti d’uso dello stesso. E’ quindi Beppe Grillo a concedere e a revocare l’uso del nome e del simbolo del movimento (leggi il regolamento).

3) All’affermazione “La sensazione però è che ci sia scarsa tolleranza per le opinioni non allineate” la Morghen risponde “E’ così quando sono espressione di ambizioni personali. Ci sono norme etiche di comportamento che vanno rispettate. Aderire è una libera scelta, prima di diventare attivisti si è sottoposti a un periodo di osservazione. Una volta dentro, le regole vanno onorate”.
I regolamenti interni del meetup Grilli Estensi (il “Regolamento attivisti” è stato “stranamente” rimosso dal sito del meetup – vedi link) sono stati approvati solo a partire dall’ottobre 2013, ben 8 anni dopo la sua fondazione (26 settembre 2005). In questi 8 anni, in assenza di qualsiasi regolamentazione scritta, come è stato gestito il meetup? I regolamenti interni non sono stati approvati mediante una consultazione di tutti gli iscritti al meetup (attualmente 475) ma solamente da parte una piccola cerchia di poche decine persone che si sono autodefinite “attivisti” e che li hanno imposti di fatto all’intero meetup (infatti, come può vedere in fondo alla pagina del regolamento allegato, risulta che alle votazioni hanno partecipato solo poche decine di persone e non risulta da nessuna parte che siano stati convocati tutti gli iscritti al meetup). Oltre a tutto questo, al fine evitare l’ingresso di persone scomode, (molto democraticamente) gli stessi attivisti hanno stabilito che l’aspirante attivista è tenuto ad effettuare due mesi di prova per poi venire confermato o no a completa discrezionalità della stessa assemblea degli attivisti (“I nuovi attivisti passeranno 2 mesi di prova dopo di che verranno valutati nell’assemblea attivisti che deciderà se confermarli oppure no” vedi paragrafo “attivisti“). Non si capisce in base a quali criteri di valutazione l’aspirante attivista possa essere giudicato idoneo oppure no, sembra proprio un sistema poco trasparente architettato ad hoc al fine di impedire che possano diventare attivisti persone non allineate con le posizioni espresse dalla maggioranza. A tal proposito si ricorda che lo scorso novembre all’interno del meetup ci sono state espulsioni di attivisti dissidenti con modalità alquanto discutibili.
Lettera firmata – Ferrara

Gentile lettore,
rispettiamo la richiesta di non divulgare la sua identità e pubblichiamo la lettera che ci pare contenga spunti degni di riflessione. Nel merito delle osservazioni da lei svolte io posso rispondere solo a ciò che espone al punto 1. Nell’intervista – come è prassi – riporto in sintesi quanto con maggiore dovizia di particolari mi è stato riferito. Per quanto concerne le modalità della nomina a candidato sindaco, Ilaria Morghen ha parlato di una consultazione generale fra tutti gli iscritti, dalla quale è scaturita l’indicazione di due figure. Fra di esse, la scelta è stata compiuta da un gruppo ristretto, composto da quarantina di attivisti, a suo dire designati dall’assemblea appunto per dirimere questa sorta di ballottaggio.
A riguardo della data di iscrizione la Morghen ha affermato di avere cominciato a prendere attivamente parte al meetup ‘Grilli estensi’ dallo scorso autunno. E ha anche parlato di un periodo di “osservazione”, preliminare alla formalizzazione del ruolo di “attivista”. Dal sito del meetup ho in effetti verificato che in data 10 gennaio ci sono le felicitazioni per il suo ingresso. Considerando che l’autunno termina il 20 dicembre, anche formalmente siamo lì…

Le questioni che lei affronta ai punti 2 e 3 andrebbero invece direttamente poste a Ilaria Morghen e agli attivisti del meetup.

Se il Pd leggesse bene gli sms!

Se avessero un po’ riflettuto su quei due sms, forse non saremmo a pretendere che un elefante nella cristalleria non possa non provocare un qualche sconquasso, meglio un inizio di rivoluzione. Mi riferisco ai due sms di cui uno inviato a Franceschini e Castagnetti nella circostanza delle dimissioni dell’on. Veltroni da segretario del Pd, in cui era scritto chiaramente “serve un segretario dirompente”; il secondo, inviato ai medesimi, in relazione ai litigi dei quattro “cespugli cattolici” nel Pd (Franceschini – Bindi – Letta – Fioroni) che hanno di fatto annullato la presenza del cattolicesimo democratico nel Pd.
Stiamo parlando ancora del Pd e di quel convegno preparatorio di Orvieto, dove il monito del professor Pietro Scoppola non era stato ben raccolto, anche come risposta a quelle due sigle di partito che non sono riuscite a stare nei nuovi ranghi del dopo ‘900.
Che servisse un’anima, una passione, un sentimento, un percorso del cambia verso era, ormai, nelle cose; il non averlo colto fu un grave errore di cui la politica tutta dovrà rispondere anche per gli effetti che ha prodotto. In politica o si coglie l’attimo e il nuovo clima o tutto diventa più difficile, complicato e critico, soprattutto per il Paese.
Un ragionamento che è trasversale, anche nei campi avversi, anche nelle diversità, negli steccati e nelle profondità dei solchi dove dimora la fragilità dei comportamenti delle persone e delle politiche.
Sul “dirompente” (e parliamo di una figura fuori dagli schemi) ci sono stati moltissimi dubbi, anche dei no e non poche resistenze, più perché rompeva ed andava oltre il sistema, quello dell’ultimo decennio del novecento (il più complicato della storia italiana dal secondo dopoguerra), dove la figura proposta non stava dentro le corde.
Il Matteo correva troppo, troppo forte e non guardava in faccia a nessuno, come in Africa tra il leone e la gazzella, dove la sopravvivenza e la fame sono l’indispensabile per correre. Noi però siano in Europa, meglio in Italia, e qualcuno doveva arrivare e, dopo lo scavalco del secolo, si è presentato. Dell’Africa resta solo l’elefante.
I “cespugli”, almeno i quattro i rimasti, quelli che Andreatta chiamava la siepe dei cattolici in politica, che nei popolari si era ridotta ad un nanismo impensabile, hanno più flirtato, in forme alterne e uno contro l’altro, con lo schieramento diessino già a partite dal duemilasette in ogni appuntamento con le primarie, quasi ad autolesionarsi per interessi di piccolo giardinetto.
Ora non ci sono più, quello che manca non è la loro presenza ma l’aver buttato al macero un’idea di alta politica che il “cattolicesimo democratico” ha espresso, esprime e continuerà a fare, se ne saranno capaci gli eventuali eredi.
L’elefante non ha solo corso e correrà ancora nella sua dirompenza ma, come l’acqua sporca da ricambiare, si è accorto che anche una parte del bambino non c’è più, anzi non la si ritrova più.
Forse abbiamo aperto un discorso ormai lontano e sconosciuto per la nuova generazione che avanza; se poi chiedi a un giovane sotto i trent’anni chi è Aldo Moro e cosa sono le Brigate Rosse, non sa rispondere e potrebbe dirti: un industrialotto e, per il secondo, un brand. Peccato.
Non ci resta, forse, che guardare cosa resta nella cristalleria e provare a raccogliere quei brillantissimi vetri di una vicenda storica che non c’è più.
Non ci piace, però, che questo pezzo del passato, di un’idea, sia visibile solo in un museo, ma sappiamo che la storia potrebbe lasciarci anche questo amaro in bocca.
Ci proviamo, ma sarà difficile e complicato.

Rapporto choc sul gioco d’azzardo, i giovani spendono 1840 euro all’anno

di Alice Magnani

“Il 47% degli studenti delle scuole superiori gioca d’azzardo”. Un dato impressionante quello contenuto nel rapporto presentato qualche giorno fa da Rossella Vigneri dell’Associazione Bandiera Gialla, soprattutto se si pensa che appena due anni fa la percentuale era del 40%. La spesa annuale pro capite dei più giovani per il gioco arriva poi a 1840 euro, circa il doppio di quanto previsto in una busta paga generica. Una prospettiva allarmante quella degli adepti al gioco, oggi più che mai fruibile anche online, che colpisce indistintamente giovani ed anziani, causando gravi sofferenze, oltre che altissimi costi sanitari e sociali per famiglie e Stato. E la notizia peggiore è che, secondo le statistiche, i giocatori sono in continua crescita, spesso incoraggiati da messaggi pubblicitari che alludono a vincite facili. Fra le azioni di sensibilizzazione promosse a livello regionale, un bando di concorso rivolto alle scuole e ai giovani dell’Emilia-Romagna per la realizzazione di uno spot video, nell’ambito del progetto “Contrasto all’azzardo”.

A livello regionale si sono registrati nel 2013 ben 785 ludopatici (ben 179 casi in più rispetto al 2012), con una variazione in percentuale dei casi del 121,8%, rispetto al 2010. A livello nazionale invece, si contano circa un milione di giocatori patologici o ad alto rischio di dipendenza, 10mila persone solo in Emilia-Romagna: un bambino su quattro ha giocato soldi online nel 2013 (dati Eurispes-Telefono Azzurro), mentre un anziano su tre ha un problema di dipendenza (ricerca 2014 Auser, Gruppo Adele e Libera). Ma occorre innanzitutto chiedersi chi ci guadagna dal gioco d’azzardo, che registra un business tra gli 88 e i 94 miliardi di euro l’anno, e si posiziona come terza industria nazionale producendo il 4% del Pil. Le entrate per lo Stato sono infatti passate dal 29,4% del 2004 all’ 8,4% del 2012, mentre la collettività si ritrova a sostenere costi sociali e sanitari tra i 5,5 e i 6,6 miliardi annui. Ma i problemi non finiscono qui, dal momento in cui, tramite il gioco illegale la criminalità organizzata ha guadagnato nel 2012 ben 15 miliardi di euro, con la gestione di 49 clan (dossier Libera ‘Azzardopoli 2.0′).

Prevenzione e cura delle patologie relative al gioco sono già attive in regione e le iniziative crescono di giorno in giorno. “In ogni azienda Usl della Regione – ricorda l’assessore alle Politiche sociali Teresa Marzocchi – i Sert (Servizio per le tossicodipendenze) si sono attivati per mettere a disposizione consulenza, gruppi di auto-aiuto e assistenza sanitaria in comunità”. In Regione sono attivi 9 gruppi di giocatori anonimi, con una media di 200 giocatori che frequentano con continuità. Le associazioni di familiari e amici di giocatori compulsivi attivi in Emilia-Romagna si suddividono in 4 gruppi, a cui partecipano in totale circa 70 familiari. La notizia positiva è il fatto che le persone che si rivolgono ai gruppi sono gli stessi che hanno in precedenza letto il recapito dell’associazione nelle locandine regionali predisposte nel 2013.

Ma il progetto su cui la Regione scommette maggiore attenzione è il progetto “Associati con chiarezza” che vede riunite undici associazioni di promozione sociale (Acli, Aics, Ancescao, Anspi, Arci, Auser, Csi, Endas, Uisp, Mcl e Fitel) insieme per il Codice di autoregolamentazione. Il codice, primo e unico caso in Italia, vuole evidenziare il valore aggiunto delle associazioni di promozione sociale, per promuoverne coesione sociale, spirito di comunità, partecipazione attiva dei cittadini alla vita pubblica e al perseguimento del bene comune. Un codice nato per la massima trasparenza e riconoscibilità del lavoro svolto, per contrastare l’abusivismo associativo, per migliorare la collaborazione con le istituzioni, per informare gli associati delle regole da rispettare e, infine, per marcare la differenza con le attività commerciali. “Le associazioni di promozione sociale si collocano a metà strada tra l’associazionismo e il volontariato – ha detto Marzocchi- riunendo gli associati per i diversi interessi sociali, ciascuno con il suo target di intervento, e rappresentano perfettamente l’area del terzo settore, di cui oggi tanto si parla”. Ora queste associazioni si sono unite per una salda presa di posizione contro il gioco d’azzardo, con l’obiettivo di contrastarlo in tutte le sue forme, sia nelle motivazioni economiche, sia nelle motivazioni etico-educative che implica. Sono tre le azioni previste, da compiere in tutte le province emiliano-romagnole, per valorizzare il Codice: promozione, diffusione, divulgazione del codice; un corso di formazione per i dirigenti delle associazioni e per i funzionari degli enti locali, in collaborazione con Legautonomie e Anci; una campagna di sensibilizzazione sui rischi legati all’abuso di sostanze e al gioco d’azzardo, tramite l’organizzazione di due concorsi video rivolti ai giovani. Per sensibilizzare gli iscritti e i soci dei vari circoli e associazioni, sarà inoltre distribuito su tutto il territorio nazionale un volantino informativo sulla prevenzione e la cura del gioco compulsivo.

[© www.lastefani.it]

La città che vorrei: l’intelligenza di molti

In un tempo in cui occorre una forte tensione verso l’innovazione e in cui le risorse di intelligenza e creatività si rivelano più importanti delle risorse finanziarie, è necessario un altro modo di amministrare. È indispensabile che pratiche di consultazione e di concertazione cedano il passo alla capacità di sollecitare iniziative diffuse. Valorizzare l’intelligenza di molti significa abbandonare definitivamente l’idea di partecipazione che aveva sorretto i partiti (ben prima che diventassero gruppi di interesse). Oggi le amministrazioni volano basso, strette da una carenza di risorse che diventa l’alibi per una generale assenza di energia. Cosa può dare energia? Soprattutto la passione, l’intelligenza, il piacere della condivisione. Sono condizioni intrecciate, che non hanno costi, ma presuppongono risorse individuali, cultura e capacità di riconoscimento.

La società degli individui deve scambiare questa moneta, ospitare comunità in cui le persone siano in grado di dare valore al proprio tempo e di scambiare questo in cambio di senso. La partecipazione che si esprime attraverso il voto è ormai ben poco rilevante, non solo perché, comprensibilmente, poco convinta, ma perché gli individui hanno minore propensione alla delega e non si gratificano più tanto a stare sugli spalti della curva Ovest con gli striscioni della tifoseria per questo o quest’altro candidato.

La rete ha testimoniato ampiamente il valore economico della gratuità, che presuppone, però, la valorizzazione degli individui. Cito due esempi che conosco da vicino e che esprimono perfettamente l’idea.
A Ferrara: il miracolo culturale prodotto dal gruppo di persone che ruotano attorno all’Istituto Gramsci e all’Istituto di Storia contemporanea, di quale voce del bilancio comunale ha avuto bisogno? Le numerose conferenze che nell’arco di un paio d’anni si sono svolte alla biblioteca Ariostea hanno aggregato un pubblico nutrito di persone che si sono misurate con temi di storia, filosofia, cultura politica; e hanno coinvolto nel ruolo di relatori sia docenti universitari di Ferrara noti in ambito nazionale, sia una quantità di insegnanti delle scuole superiori di valore e anche giovani neolaureati. Sottolineo, in particolare, un merito che va oltre la diffusione del sapere e il gusto della conoscenza. Il ciclo dedicato agli insegnanti, coordinato da Daniela Cappagli, ha offerto ad un gruppo sempre più numeroso di insegnanti, lasciati soli nel compito difficile di contrastare il disagio giovanile, un luogo in cui condividere e alimentare interessi. Gli insegnanti, maltrattati da tempo dal ministero dell’Istruzione, nonostante i richiami retorici all’importanza del ruolo educativo, dove trovano risorse per la formazione?
Il secondo esempio. A Parma, il professor Ferruccio Andolfi, professore di Filosofia dell’Università, direttore della rivista La società degli individui (basta il titolo per segnalare la qualità del progetto culturale) organizza da quattro anni un ciclo di conferenze di filosofia partecipato da centinaia di persone (le conferenze si svolgono in un cinema, giusto per dare l’idea dell’affluenza). A questo progetto quest’anno si aggiunge la sperimentazione dell’insegnamento della filosofia in alcune classi dell’Istituto professionale. Azzardo l’idea che questi piccoli innesti di capacità riflessiva possano essere più importanti, per fornire energie e sostegno a giovani precocemente indirizzati in percorsi di basso profilo, dell’enorme montagna di fondi pubblici che hanno ruotato attorno al Fse. Abbiamo finalmente capito che parlare di competenze, di disoccupazione giovanile e di mercato del lavoro non avvicina di un unghia l’obiettivo di rafforzare le capacità, alimentare le energie, trasmettere speranza? Possiamo continuare a ignorare che la vera competizione si gioca sulla possibilità di rafforzare risorse di cittadinanza, energie progettuali, evitando derive di marginalizzazione? Ma quale piano del lavoro, quali interventi di flessibilità possono annullare l’implicita assunzione di fallimento interiorizzata da molti giovani?
Ho citato interventi non estemporanei e che non gravano su alcun bilancio. Chiamare in causa la crisi di risorse nasconde, nella migliore delle ipotesi, una colpevole pigrizia. Mi piacerebbe poterne discutere.

Maura Franchi, sociologa dell’Università di Parma, è laureata in Sociologia e in Scienze dell’educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Marketing del prodotto tipico, Social Media Marketing. I principali temi di ricerca riguardano i mutamenti socio-culturali correlati alle reti sociali, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@gmail.it

Quella casa nel bosco dove i ricordi rivivono

Ritornare in un luogo dell’infanzia e del passato quando si è adulti e un po’ distanti. I fratelli Gianrico e Francesco Carofiglio vanno nelle casa dove hanno trascorso le vacanze quando erano bambini, devono chiuderla e consegnarla al nuovo proprietario. La casa nel bosco (Rizzoli, 2014) è un luogo vero che è rimasto come lo avevano lasciato, ma è diventato magico perché fa ritrovare cose e li fa ritrovare come fratelli.
Entrare in quegli spazi è riappropriarsi di un vissuto che, ora, ci si può raccontare insieme. I ricordi di Gianrico e Francesco si completano a vicenda, ciascuno ha il proprio pezzo di memoria da fare valere o da recuperare.
La casa nel bosco è piena di cose scoperte da bambini e di oggetti evocativi che hanno ancora importanza perché l’hanno avuta allora. E poi ci sono gli odori e i sapori fra quelle mura, intatti. La memoria olfattiva è velocissima a riportare indietro, non sembra nemmeno passato tutto quel tempo. Il viaggio di Gianrico e Francesco dalla città alla casa nel bosco che doveva durare lo spazio di poche ore, diventa un viaggio nel tempo, avanti e indietro, a due voci che hanno condiviso tantissimo. Tanto vale passarci anche la notte, negli stessi letti di allora, a parlare a luce spenta, come da ragazzini. La casa nel bosco è piena di notturni, silenzi, buio e candele alla cui luce mangiare e poi andare a dormire.
Una volta tornati in città, c’è un pretesto per rivedersi, Gianrico e Francesco devono ancora fare qualcosa insieme prima di tornare alle rispettive vite, forse ora un po’ meno lontane. Da un vecchio ricettario di famiglia, appartenuto alla nonna e alla mamma, trovano la torta di ricotta che porta con sè altri ricordi, altre digressioni di vita familiare così piene di persone e cibo.
Stanno per iniziare a impastare, è come quando iniziavano a giocare da piccoli, tutto pronto per divertirsi insieme. Non è molto diverso, c’è da tradurre la ricetta dal dialetto, fare attenzione al procedimento, usare per la prima volta un matterello e condividere con l’altro l’obiettivo della buona riuscita.
La torta è pronta, una conquista come quella volta con il Dolce Forno delle cugine. Un autoscatto suggella il tutto prima di fare una sorpresa e portarla alla mamma.

Altroconsumo a Ferrara, incontri e consulenze della terza e ultima giornata del festival

da: ufficio stampa Comune di Ferrara

Terza e ultima giornata del Ferrara Altroconsumo Festival, l’evento organizzato da Altroconsumo, con il supporto di Ferrara Fiere Congressi, il patrocinio del Comune e della Provincia di Ferrara e di Ferrara terra e acqua, e la media partnership di Sky.

Domenica 18 maggio si parte dal caffè, con la degustazione “Un caffè con Altroconsumo“, fissata alle 9.30 al bar pasticceria Duca D’Este (Piazza Castello): un viaggio gratuito tra gli aromi, sotto la guida degli esperti dell’Associazione. Alle 10, agli Imbarcaderi del Castello Estense, prosegue la mostra “Il trucco c’è, e con noi si vede“, dove prestigiatori e animatori insegneranno a comprendere i trucchi e i meccanismi che possono ingannare il cervello, specie quando si tratta di acquisti. Alla stessa ora, in Piazza del Municipio, saranno in funzione l’Infopoint del Festival, Ecostameno, il gruppo d’acquisto di Altroconsumo per le auto a basso impatto ambientale, e “La bici ideale? Progettala con noi“, dove poter provare quattro modelli Lombardo personalizzati, indicando come migliorarli.

Dalle 10, al Chiostro di San Paolo, chi è rimasto vittima di una pratica commerciale scorretta o si sente indifeso contro il proprio operatore telefonico potrà fare gratuitamente riferimento ai giuristi di Altroconsumo, mentre con “Simuliamo il colloquio di lavoro” (fino alle 11 e poi ancora alle 12 e alle 15) altri consulenti dell’Associazione indicheranno come presentarsi nel modo più efficace a una selezione. In contemporanea, sempre al Chiostro, l’incontro “Aiuto, mi hanno rubato lo smartphone“, per scoprire come tutelarsi in caso di furto. Alle 10.30, al Mercato coperto, si potrà imparare a comporre un menù nutrizionalmente corretto con “Giochiamo a mangiare bene” (replica alle 14.30 e alle 17.30), a risparmiare sui farmaci – “L’armadietto dei medicinali: pochi ma buoni” -, a scegliere e dosare i detersivi con “Per un bucato senza macchia“, e saperne di più sull’acqua da bere con “Alla scoperta dell’acqua“.

Spostandosi in Piazza del Municipio, alle 11 si potrà seguire “La verità, vi prego, sulla scienza“, dove la senatrice Elena Cattaneo – tra i massimi esperti mondiali in materia di staminali – parlerà dell’avventura della ricerca scientifica e delle spietate logiche di profitto che possono ostacolare la cura delle malattie, introducendo il discorso sul diritto alla salute e il marketing dei farmaci. Il tema del lavoro sarà declinato alle 11, al Chiostro piccolo di San Paolo, nell’incontro “Trovo lavoro: mi presento nel mondo 2.0“, per scoprire gli strumenti più utili per trovare lavoro attraverso il web. Mezz’ora più tardi, “Vacanze senza naufragio“, per salvarsi dalle trappole e dalle disavventure in cui più spesso incappano i turisti, mentre al Mercato coperto verranno rivelati “I segreti dell’etichetta alimentare” e, alle 12, quelli di “Detersivi e pulizie“, per poi passare a “Giochiamo con il frigorifero” (12.30 e 15.30), che illuminerà adulti e bambini su quale sia il posto giusto nel frigo per ogni cibo.

Tornando al Chiostro di San Paolo e ad argomenti “hi-tech”, alle 12.30 sarà il turno de “I segreti dello smartphone“, che chiuderà la mattinata del Festival. “Acqua di rubinetto, in bottiglia o filtrata?” è il tema dell’incontro delle 15 al Mercato coperto, dove si terrà anche una consulenza dedicata ai “Prodotti alimentari” (come scegliere i più freschi, quali ingredienti evitare). Mentre al Chiostro l’imprenditore Mario Bortoletto presenterà il libro autobiografico “La rivolta del correntista“, un vero e proprio vademecum contro gli abusi delle banche, chi preferirà seguire un altro incontro della serie “Hi-tech” potrà partecipare a “Le app che servono. Davvero“.

Tra gli eventi clou del pomeriggio, la proiezione del docufilm “Green Generation” e il dibattito sui “Comportamenti ecologici” (15.30, Sala Estense), dove l’astronauta Umberto Guidoni, l’imprenditore “a emissioni zero” Robert Niederkofler e il regista Sergio Malatesta illustreranno alcune soluzioni sostenibili per salvare il pianeta. Altro appuntamento da non perdere, quello delle 16, in Piazza del Municipio, con “I nuovi persuasori occulti“, dove Giovanni Calabrò, direttore generale per la Tutela del consumatore dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, il pubblicitario Giampietro Vigorelli, il neuroeconomista Giorgio Coricelli, l’avvocato Carlo Orlandi, Luisa Crisigiovanni e Rosanna Massarenti di Altroconsumo discuteranno delle astuzie usate per farci comprare e illuderci che stiamo facendo la scelta migliore.

Gli ultimi appuntamenti della giornata si divideranno tra Mercato coperto e Chiostro di San Paolo: nel primo avranno luogo “Ti piacciono i biscotti?“, test assaggio rivolto ai bambini (16), “Cosmetici: quando l’apparenza inganna” (16.30) e “Difendersi dalle zanzare” (17), mentre al Chiostro si parlerà di “Fare shopping (online) senza pacchi” (16.30) e di “Smartphone e tablet: le cose da sapere prima di comprarli“.

Il programma dettagliato del Festival è disponibile qui

Le note magiche del prolifico Chailly, compositore che ha incantato il mondo

“MUSICI” FERRARESI DEL PRIMO NOVECENTO
LUCIANO CHAILLY

Nato a Ferrara, Luciano Chailly (1920-2002) è stato una delle personalità più prestigiose, per versatilità e prolificità, dell’ambiente musicale contemporaneo. Le sue composizioni sono conosciute e apprezzate, sia dai critici che dal pubblico, in tutti i paesi del mondo. Durante la sua invidiabile carriera si è esibito, oltre che in Italia, anche in Spagna, Finlandia, Olanda, Belgio, Francia, Svizzera e, fuori dall’Europa, in America, Turchia e Marocco.
Diplomatosi in violino a Ferrara all’età di ventun anni, si è successivamente laureato in Lettere all’Università di Bologna e quindi ulteriormente diplomato in composizione al Conservatorio di Milano nel 1945. Ha persino frequentato un corso di perfezionamento nientemeno che con il celeberrimo maestro tedesco della “Gebrauchsmusik” (musica d’uso), il grande Paul Hindemith.
Da sempre estimatore di Girolamo Frescobaldi, Chailly ha composto oltre quattrocento lavori (fra editi e inediti), a partire dalla sua prima opera, Lucia, scritta all’età di quattordici anni, per poi approdare alle sue principali composizioni nel campo sinfonico e della musica da camera: Hochetus et Rondellus (1945), Suite (1946), Musica per quartetto (1948), Toccata (1948), Musica di strada (1949), Musica del silenzio (1949), Lamento dei morti e dei vivi (1949), Uxor tua (1950), Ricercare (1950), Due pezzi per violino e orchestra (1951), Cantata (1952), Lamento di Danae (su testo di Salvatore Quasimodo, 1955) e la serie delle nove Sonate Tritematiche (1951-1955).
Nel settore dell’opera lirica si è messo in luce con Ferrovia sopraelevata (basata su un racconto di Dino Buzzati), Una domanda di matrimonio (dall’omonima commedia di Cechov), Il canto del cigno (ancora da Cechov). Luciano Chailly, che anni orsono è stato anche direttore artistico della Scala, ha composto le colonne sonore di numerosi documentari televisivi e cinematografici, con una delle quali ha conseguito il premio internazionale “Fiera di Milano”. Suo è pure il volume I personaggi, dato alle stampe nel 1972.

Il delicato processo di nascita e i possibili effetti traumatici: ruolo dell’osteopatia

Il processo di nascita di un bambino è molto ingegnoso ed efficiente, ma si possono verificare effetti traumatici durante l’attraversamento del canale di nascita, in quanto le forze di spinta considerevoli possono modificare l’asse di uscita del bebè. L’osteopatia può delicatamente intervenire entro le due ore, identificare il trauma e correggerlo.

Ma analizziamo il processo nella sua complessità.

Le distorsione incidono in particolare sulla mobilità della struttura della testa. I sintomi che si possono generare sono molto vari, a seconda del grado di trauma e del livello di vitalità del neonato (reazione e resistenza immunitaria): le strutture del soma possono essere poco armoniose e rigide con una scarsa capacità funzionale. Il sistema del bambino può essere compromesso, interessando tutte le componenti e le relazioni fra strutture e funzioni. Se il trauma è modestissimo il corpo ha la capacità di riparare se stesso, se il trauma è moderato o grande il recupero è compromesso: il sistema nervoso manterrà queste distorsioni, nel tentativo di negoziare la regolazione. Se le forze pressorie sono considerevoli, il sistema nervoso non potrà più completamente autoregolarsi e rimodellarsi, mantenendo così gli squilibri estremi nel tempo.

Per fare un esempio, una colica può dipendere da un trauma da parto nella zona posteriore occipitale. L’occipite alla nascita si compone di quattro parti ed i nervi che passano fra queste parti possono essere compressi o trazionati dalle forze della testa nel fuoriuscire dal canale.
Ma ci sono altri nervi e vene importanti che solcano queste zone, e le parti di una zona adiacente come il temporale. Con il cambiamento compressivo delle strutture suddette, la pressione modifica la disposizione spaziale di queste strutture e l’allineamento suturale membranoso corretto.
La struttura domina la funzione e la influenza. Il processo della nascita coinvolge il passaggio della testa del bambino tramite il bacino osseo della madre.

Il bebè deve attraversare nel giusto senso il canale (bregma), muovendosi senza ostacoli nel bacino, con rotazione a destra o a sinistra uscendo dal bregma nel giusto tempo. Le quattro parti dell’occipite sono esposte alle forze multiple e complesse, causando una facile irritazione nervosa in quella zona; se il bambino esce con difficoltà o in modo insolito, nell’utero della madre si potranno generare delle fibrosi, anomale torsioni dell’asse collo-istmo, o problemi strutturali del bacino, del sacro e del coccige.

La maggior parte dei problemi comuni coinvolgono la deglutizione con irritabilità dello stomaco e ancora insonnia, colichette e vomito. Fattori compressivi della sincondrosi-sfeno-basilare (articolazione flessibile per tutta la vita) porteranno a scoliosi.

Nel caso di un cesareo, sembra che queste forze vengono escluse ed eliminate. Tuttavia si possono verificare altre conseguenze per il bambino che derivano dallo stare compresso per molte ore nel bacino della madre, prima del taglio. Le pressioni incidono e si stampano sulle strutture della faccia o della testa membranosa. Anche l’improvviso taglio favorisce uno repentino cambiamento dell’ambiente interno dell’utero, con pressioni negative, a sfavore di una ubiquitarietà liquorale.

Anche per un prematuro le conseguenze possono essere serie in futuro, come la maturazione della sutura pre e postsfenoidale.

Ma attenzione, lo stimolo di una delicata compressione può essere comunque un fattore stimolante per la vita armoniosa del bambino. Se il bambino non ha supportato l’anestesia questo può ripercuotersi sul primo vagito, con ritardo di espansione toracico e relativa difficoltà nel respiro profondo, che non accade mai durante il taglio del cesareo. Avvengono cambiamenti nella circolazione e nella respirazione non più mecomiale, se essi sono veloci e rapidi come la compressione del cordone che ritarderà il primo respiro e un rallentamento d’inizio della circolazione toracica. Più il bambino è prematuro più è facile che ci sia un cambiamento sulla respirazione e circolazione. Comunque ci possono essere dei motivi validi di cesareo che possono sicuramente salvare la vita della mamma e del bimbo. E’ importante che la cervice uterina si dilati facilmente e naturalmente e, se questo non accade, il medico è costretto a rompere le membrane e le grandi forze pressorie, le forti contrazioni uterine, si distribuiranno sulla forma dell’osso membranoso. Se la cervice non assorbe correttamente queste forze, esse si distribuiscono sul corpo e sulla testa del bambino, e se questo dura molto tempo, più di tre ore, il trauma sarà significativo.

L’osteopatia può delicatamente intervenire entro le due ore, identificando il trauma e correggendolo. Entro i primi due mesi di vita poi, quando ancora le suture non sono consolidate, l’osteopatia può correggere ed equilibrare le compressioni, riportando allo stato naturale tutte le funzioni.
Con l’osteopatia non viene applicata nessuna forza ed il trattamento coinvolge il sistema cranio sacrale e anche il sistema muscolo-scheletrico.

Concludendo, sarebbe straordinario fare prevenzione portando i bebè ma anche i bambini più grandi ad un controllo osteopatico, per una giusta e corretta ottimizzazione della vita.

Emergenze Creative 2014: la rassegna annuale d’arte contemporanea su tematiche ambientali torna a Ravenna

da: ufficio stampa Emergenze Creative

EMERGENZE CREATIVE 2014, la rassegna annuale d’arte contemporanea su tematiche ambientali, torna nel centro storico di Ravenna e si riconferma come appuntamento fisso nella programmazione culturale della città.
Si rinnova l’interesse per il dialogo arte e ambiente, con una proposta di arte pubblica che nasce da un’attenta indagine del tessuto urbano ravennate e che invita i cittadini a partecipare attivamente all’intervento artistico, diventando da semplici fruitori a necessari protagonisti.
La rassegna è curata da Silvia Cirelli e si sviluppa come evento collaterale alla manifestazione Ravenna 2014. Fare i conti con l’ambiente, organizzata da Labelab.
Questa settima edizione è affidata all’artista bolognese Chiara Pergola, esponente di rilievo della scena contemporanea italiana. Da tempo attenta all’importanza della percezione comune e del valore condiviso dell’arte, Chiara Pergola concentra il suo lavoro sulle dinamiche del linguaggio e su quanto queste possano inserirsi in una lettura sociale e culturale di forte richiamo collettivo.
Il progetto presentato a Ravenna, dal titolo Quelchefarete, si pone in stretto dialogo con lo spazio in cui viene ospitato, trasformando alcuni luoghi del centro storico in tasselli testuali di un vero e proprio rebus, la cui misteriosa soluzione è una parola di 9 lettere, risultante dall’unione di due termini di 5 e 4 lettere. La risoluzione del gioco – un elemento di riflessione sul significato di “sviluppo ecologico” – sarà poi svelata tramite un QR code, presente sul materiale informativo, come anche nei siti di riferimento (il sito personale dell’artista, quello di Emergenze Creative e quello della manifestazione Ravenna 2014).
Lo spettatore, che avrà a disposizione una mappa con segnalati secondo un ordine preciso i tre punti del rebus (le Piazze centrali di Ravenna: Piazza Garibaldi, Piazza XX Settembre e infine Piazza del Popolo), è dunque invitato a decifrare l’enigma recandosi nei luoghi del gioco. In ciascuna Piazza dovrà cercare i due “complici” dell’artista (facilmente riconoscibili per un abbigliamento a tema) i quali, senza parlare ma solo indicando gli indizi testuali, aiuteranno il partecipante a scoprire la soluzione dell’indovinello. La scelta dell’indicalità piuttosto che l’utilizzo della parola è in accordo con la tradizione linguistica enigmistica e soprattutto in linea con il significato delle arti visive.
Il titolo dell’intervento artistico, Quelchefarete, contiene una doppia chiave di lettura, da un lato può essere interpretato come “quel che fa rete” e cioè i comportamenti collettivi che creano equilibri di relazioni fra le persone ma anche con i luoghi; dall’altro può anche essere inteso come “quel che farete”, ovvero quello che i partecipanti dovranno fare durante l’happening, ma soprattutto ciò che è giusto fare in una prospettiva di cambiamento delle nostre condizioni ambientali.
Dall’impronta volutamente ludica, con questo intervento Emergenze Creative si riconferma come opportunità di confronto fra arte e ambiente, con un progetto di richiamo collettivo che ancora una volta evidenzia quanto l’arte contemporanea possa fungere da valido strumento di comunicazione e di sensibilizzazione.
In collaborazione con: Labelab.
Con il Patrocinio di: Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Regione Emilia- Romagna, Provincia di Ravenna, Comune di Ravenna.

EMERGENZE CREATIVE 2014
Rassegna annuale d’arte contemporanea su tematiche ambientali
a cura di Silvia Cirelli
21-22-23 maggio 2014
ARTE PUBBLICA nel centro di Ravenna: happening di Chiara Pergola
Happening artistico il 21-22-23 maggio (dalle 16 alle 19)
Piazza Garibaldi (ore 16 – 17) – Piazza XX Settembre (ore 17 – 18) – Piazza del Popolo (ore 18 – 19)

Calamitati dall’isola d’oltremanica dove tutto è fervore

Da BIRMINGHAM – Il passare del tempo non si smentisce mai e rapido, anche quest’anno, tra uno scroscio di pioggia e l’altro, a Birmingham è arrivato il Summer term: peculiarità dell’Università, infatti, è che gli esami siano concentrati nel mese di maggio. A sostegno degli studenti in questo periodo di revision, la Main Library del Campus è ormai da un mese aperta 24 ore su 24 per venire incontro alle esigenze più bizzarre, notturne, diurne o festive che siano. I ragazzi paiono apprezzare, trascorrendo letteralmente giornate intere studiando tra scaffali, computer e vicini più o meno apprezzabili. L’affluenza si mantiene costantemente alta e la tensione per gli esami in vista (questa annebbiata per i più sfortunati anche da quattro o cinque in una settimana) si fa sentire, anche con singhiozzi disperati per i corridoi. Certo, può risultare stressante, ma non è un’impresa eroica… In Italia lo sarebbe?
“Non puoi sapere tutto!” è il tipico commento degli studenti inglesi avviati al sistema; difatti, uno dei punti chiave della preparazione di un buon esame d’Oltremanica non è lo studio, matto e disperatissimo, di tutto lo scibile, come tipicamente avviene nel Belpaese, bensì la tattica statistica: avendo domande aperte tra cui scegliere, nella maggior parte dei casi, si può calcolare la mole di studio da affrontare e gli argomenti da studiare in vista dell’obiettivo che si vuole raggiungere. Strategia a cui non è concessa una seconda chance per rimediare, se non per risostenere un failed exam in agosto, superandolo con il voto minimo; insomma, si rischiano anche disfatte napoleoniche, non solamente vittorie. I professori, però, sono consapevoli della situazione e si dimostrano più transigenti e tolleranti nel giudicare le risposte date in sede d’esame. Certamente un approccio simile non è l’emblema dello studente perfetto, ma è da biasimare? È meglio applicarsi e snocciolare nozioni non avendo mai sentito parlare di una lettera di presentazione o non avendo svolto attività parallele? Nel Regno Unito è normale che alla fine del primo anno gli studenti trovino già uno stage da svolgere, così da acquisire familiarità e confidenza imparando sul campo. Nessuno pretende esperienza. Per la stessa posizione aperta per un tirocinio in una multinazionale, il requisito inglese recitava “Bachelor”, quello italiano, in aggiunta a innumerevoli altri requisiti, “Laurea specialistica”; stessa azienda, stesso ruolo, diversa latitudine. Inoltre, anche le attività extracurriculari hanno un notevole peso all’interno del curriculum, dove le competenze di team-working e leadership acquisite danno lustro a chiunque, dimostrando proattività e voglia di fare.
Forse l’impostazione del sistema universitario inglese, concepito come un ambiente più orientato al mondo del lavoro, non considera la laurea come uno strumento fine a se stesso, come a volte sembra durante il percorso universitario in Italia, dove manca la visione sul lungo periodo: il voto è lo scopo, non un mezzo. Tant’è che il numero di fuoricorso in Italia è altissimo, come hanno dimostrato recenti sondaggi, mentre in Inghilterra il fenomeno è pressoché inesistente. Sarà colpa della situazione politico-economica in cui siamo impelagati da troppo tempo? Sarà questione di produttività ed efficienza lasciti di Margaret Thatcher? Come sempre, la verità giace nel mezzo, a patto che di verità si possa parlare. Il Regno Unito ha molti problemi al suo interno, dalla scalpitante Scozia agli eccessivi investimenti su Londra noncuranti delle ex città industriali, rimane, però, un Paese capace di offrire soddisfazioni a chi è meritevole, locale o straniero che sia. Magari è questo ciò che manca in Italia, lo stimolo per fare meglio, il fervore che si respira su quest’isola, dove tutto è in continuo movimento ed evoluzione, dove la quasi totalità degli studenti all’inizio del terzo anno ha già un contratto in mano.
Come sconsigliare, quindi, a un giovane italiano di partire e lasciarsi alle spalle un Parlamento che discute di come tagliare le spese risparmiando sul conio dei centesimi, quando mancano concrete misure di rilancio e spinta dell’economia? Ritengo sia inutile tagliare se mancano i presupposti per ripartire. Rimanere, o tornare, pertanto, significa essere sciocchi? Probabilmente è più corretto definirlo come una sorta idealismo che confida nel riconoscimento del merito, supportato dall’auspicio di un miglioramento generale delle condizioni; resta il fatto che tutto dipende da cosa vogliamo e cosa siamo disposti a perdere. È anche vero, però, come sottolineava Orson Welles, che “in Italia sotto i Borgia, per trent’anni, hanno avuto assassini, guerre, terrore e massacri, ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia, e che cos’hanno prodotto? Gli orologi a cucù”.

L’hackathon in tavola, un nuovo metodo d’indagine per parlare di cibo

Si chiamano hackathon (dalla congiunzione di “hack” e “marathon”), hanno una durata che va dalle 24 ore all’intera settimana e negli Usa sono stati adottati a partire da fine anni ’90, dagli ormai famigerati hacker informatici, all’inizio per sviluppare o ideare nuovi software, ora in ambiti più ampi come effettivi strumenti di ricerca. Gli ingredienti principali? Lavoro di squadra, condivisione e creatività, il tutto cucinato secondo le moderne tecniche di human centered design, capaci di rendere protagonista la persona e le sue qualità, ottimizzando il lavoro in team.

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Un momento della due giorni della Bipimbap food hackathon

Eventi estremamente versatili e applicabili alle più differenti tematiche, da qualche anno vengono utilizzati anche nel nostro Paese per produrre conoscenza. L’ultimo esempio è Bibimbap food hackathon che, a partire dalla metafora del piatto coreano a base di riso, verdure e carne, decide di occuparsi di cibo. Prima a Milano, durante il Salone del mobile, e l’8 e 9 maggio scorso nella vicina Bologna, con cornice la verde e affascinante location di Villa Guastavillani (sede della prestigiosa Alma Graduate School) per una due giorni dedicata al tema della ristorazione collettiva: come migliorarla, ripensarla e ridefinire soluzioni che mettano al centro la persona e le sue esigenze?

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Si sviluppano nuovi software e app a partire da condivisione e lavoro di gruppo

Un centinaio gli studenti partecipanti (da differenti indirizzi di studio e specializzazione), moltissimi i mentor, anche provenienti da oltreoceano, ancor meglio dalla conosciutissima Sillicon Valley, 48 ore il tempo per l’indagine e ad organizzarla la neonata realtà filantropica Future Food Institute, in collaborazione con Alma Graduate School. Diversi, innovativi e stimolati gli esiti: da un’app che responsabilizza il consumatore e permette di migliorare i processi di preparazione/distribuzione dei pasti all’interno di mense aziendali, scolastiche o ospedaliere; alla riprogettazione di uno spazio mensa che diventi luogo ricreativo in cui poter organizzare riunioni, godersi una serena pausa o rilassarsi attraverso massaggi di benessere, fino a un “movimento” che utilizzando i social network diffonda la cultura per poter preparare cibo vero, sinonimo di divertimento e di benessere per tutti.

Un nuovo metodo d’indagine dunque, figlio di una cultura “nerd” che contamina positivamente altri ambiti di studio e si fa importare insegnando ad una delle culle dell’umanità un nuovo modo di ripensare tematiche, anche molto serie, valorizzando il lavoro in team, la creatività e la condivisione, ambendo all’innovazione.
Ora non resta che attendere che le idee divengano realtà…

 

Per saperne di più:
Bibimbap
Alma Graduate School
Future Food Instititute

L’addio a Carolina Marisa Occari: maestra d’incisione e allieva di Morandi insegnava agli studenti l’arte di guardare

“Quali lezioni hai oggi?” / “Dopo Italiano e Scienze ho finalmente Disegno! Due ore!” / “Ma non hai mai i compiti di Disegno?” / “La Professoressa dice che il nostro compito è quello di guardare, sempre, tutto. E ricordare”.

Così il ricordo della mia professoressa di Disegno delle scuole medie, Carolina Marisa Occari, si presenta quando vengo a sapere che ci ha lasciato. Un’arte del silenzio e dell’attenzione, dei particolari naturali che pochi sanno apprezzare e riconoscere.

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Una grande fattoria ferrarese, 2004, acquaforte

Marisa Occari inizia ad ascoltare il Po a Stienta nel 1926, e se ne allontana da ragazza per studiare alla scuola d’arte Dosso Dossi di Ferrara, quindi al liceo artistico di Venezia e infine all’Accademia di belle arti di Bologna, dove è allieva di Giovanni Romagnoli e di Giorgio Morandi. Nei primi anni ’50 comincia a dedicarsi all’arte dell’incisione, ed è proprio Morandi che comprende l’energia artistica che Marisa trae dai suoi incontri con il Fiume.
Incide sulle lastre per sempre i suoi paesaggi, gli intricati borghi naturali, le piccole cose e i personaggi della sua campagna. I segni precisi, decisi, eterni che trasformano gli ambienti di bassa pianura, segnati da canali, filari, casolari, dal delta del Po, in luci ed ombre del regno di terre ed acque. Le sue opere rappresentano l’arte incisoria italiana del ‘900.

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Grande pioppo sul Po, 1999, aquaforte

In una recente intervista Marisa Occari ricorda i suoi incontri con il Fiume: “Il Po, che cosa meravigliosa! Si trasforma a seconda dell’alba e del tramonto. I tramonti poi sono unici. Mia madre mi diceva: ‘Prendi la bicicletta Marisa, corri, fai presto, vieni a vedere tutta la bellezza del tramonto’.”

“Mia mamma era preoccupata. Si lamentava con mio papà: ‘Dicono tutti, ma quella matta della Occari è sempre lì che va in giro con le sue borse, con le sottane tutte scucite (non badavo molto alla moda)’. Ed in bicicletta io correvo con le mie cose per disegnare, le chine, le matite, ero affascinata da quella cosa lì. Era il momento più creativo”.

Nel 1951, dopo la rotta del Po: “Io riuscivo ad andare da Stienta ad Occhiobello in bicicletta. Dall’argine vedevo un paesaggio lunare, gli alberi contorti, sradicati, un insieme di rovine. Ero affascinata da questo luogo. Mi ricordo la devastazione e la morte di tante persone. Il paesaggio aveva acquistato un fascino, una distesa di bellezza. La nostra campagna è bellissima. Non ne potevo fare a meno”.

“Il giorno del mio compleanno mio figlio mi ha chiesto cosa mi facesse piacere. Gli ho detto: Tu mi porti a vedere il mio Po.”

Arrivederci Marisa.

 

Le sue opere sono conservate presso:

– Istituto nazionale per la grafica, Roma
– Raccolta dei disegni e delle stampe “Achille Bertarelli”, Milano
– Gabinetto dei disegni e delle stampe degli Uffizi, Firenze
– Raccolta del Museo civico, Bassano (VR)
– Gabinetto stampe antiche e moderne, Bagnacavallo (RA)
– Gabinetto dei disegni e delle stampe di Villa Pacchiani, Santa Croce sull’Arno, Firenze
– Biblioteca Ariostea, Ferrara
– Palazzo Bonaccossi, Ferrara
– Palazzo Vescovile, biblioteca, Rovigo
– Collezione Melotti, Ferrara
– Museo Albertina, Vienna
– Gabinetto delle stampe del Museo d’arte orientale e occidentale, Odessa (UK)
– Museo d’arte nazionale, Kiev (Ucraina)

Per saperne di più [vedi il sito]

Il paesaggio ovvero amore, cura e civiltà

Che cos’è il paesaggio? tutti ne parlano, tutti lo vogliono, tutti sanno cos’è, ma chiunque ne dà una definizione diversa, allora prendiamo il testo dei testi, wikipedia, e proviamo a capirci qualcosa. È interessante notare che la prima voce presa in esame nella pagina è la definizione del paesaggio stabilita dalla Convenzione europea del paesaggio (2000 – ratificata dall’Italia nel 2006), perché in questa occasione è stata sottolineata la consistenza percettiva del paesaggio a prescindere dalle sue qualità.
Cosa significa? Innanzitutto che il paesaggio non è un oggetto che si può tenere in mano, ma è qualcosa che esiste se c’è un occhio umano che lo guarda, in pratica il paesaggio è quello che noi vediamo del territorio che ci circonda. Questo implica tantissime cose. La prima è che ogni persona vede quello che vuole e quello che può vedere: un geologo in vacanza con la famiglia, probabilmente vedrà cose totalmente diverse da un geologo durante un sopraluogo di lavoro. Se paesaggio è ciò che vediamo, questo fa crollare l’idea che il paesaggio debba essere solo bello. In questo caso wikipedia cade nella trappola e mette nella pagina solo immagini di stereotipi paesaggistici, ovvero, le cartoline. Le cartoline, sono state un mezzo straordinario per far conoscere le caratteristiche dei luoghi, ma essendo inquadrature (recinti visivi all’interno dei quali mettere o togliere quello che si vuole), hanno diffuso un modo di vedere il territorio evidenziandone solo gli aspetti positivi. Un altro esempio classico sono le foto delle vacanze: le foto più bugiarde della storia. Quante volte ho fotografato monumenti deserti svegliandomi ad ore antelucane o aspettando l’attimo in cui il mio campo visivo venisse colpito da una momentanea catastrofe che eliminasse, per un attimo, il genere umano. Tutto per illustrare stupidamente una bellezza ideale dei luoghi, che spesso non c’è più, o che semplicemente si è trasformata in qualcos’altro. La fontana di Trevi a Roma è un luogo magico, ma il paesaggio urbano e umano che chiunque può sperimentare dalle otto di mattina in poi è quello di un carnaio. Quindi è molto importante accompagnare la parola paesaggio da un aggettivo e, soprattutto, cominciare ad accettare l’idea che paesaggio sia tutto, il bello e il brutto.
La seconda osservazione sempre relativa al fatto che il paesaggio sia qualcosa di legato alla percezione, è che diventa molto difficile da progettare. Esiste la professione dell’architetto paesaggista (spesso confusa o compresa con quella di architetto di giardini), un professionista in grado di leggere la complessità di un luogo e, dopo un’accurata analisi, sapere indicare le linee per trasformarlo in modo equilibrato. Per quello che riguarda l’inserimento delle grandi infrastrutture, c’è molta attenzione per questo aspetto progettuale in Francia e in Germania; invece, per quello che riguarda l’architettura, la tendenza generale è quella di creare dei bellissimi e immensi soprammobili di design urbano che si possono stanziare in modo indifferenziato a Dubai come a Reggio Emilia. Il mio mestiere sarebbe quello di paesaggista, ma nel tempo mi sono resa conto che ogni persona è un paesaggista. Ogni gesto che facciamo, anche il più banale, incide sull’immagine del luogo. Se sporco il marciapiede o stendo i panni alla finestra, creo automaticamente una trasformazione in positivo o in negativo sul paesaggio. Il bel paesaggio è dunque una responsabilità corale. Quando mia mamma guarda la campagna intorno a casa mia, sorride e dice: “Questa è ancora una bella campagna, si vede che è una campagna amata.” Ed è vero, perché ci sono ancora tanti contadini che la curano e ne sono responsabili. Forse la salvezza dei nostri luoghi, non sarà la conservazione dei luoghi intesa come imbalsamazione del paesaggio passato com’è tramandato dalle cartoline, con lo scopo di offrirlo come carne in pasto ai turisti, ma la cura, cura della strada, della città, dei luoghi; cura che è vita, lavoro quotidiano, rispetto, responsabilità civile di tutti, l’unica cosa che fa veramente la cultura di un luogo e del suo paesaggio.

[Foto in evidenza, Ferrara – profilo della Montedison al tramonto, autore Raffaele Mosca]

I segreti del concierge: benvenuti al ‘Grand Budapest Hotel’

E’ davvero molto bello e accattivante questo film dai colori rosa tenui ma anche rosso e viola acceso, ambientato nei primi anni del novecento, che ci racconta la storia di Gustave H., il portiere di un lussuoso albergo nella lontana Repubblica di Zubrowka, un paese immaginario in Europa, e della sua amicizia con il giovane immigrato-aiutante-apprendista Zero Moustafa.

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una scena alla pasticceria Mendl’s

A colpire maggiormente lo spettatore sono l’ambientazione da favola e l’abituale cura meticolosa dei dettagli da parte del regista: dalle scatole rosa di amaretti e dolci della pasticceria Mendl’s, alla giacca viola di Gustave, fino alle stanze variopinte abitate da curiosi personaggi.
I dialoghi sono così veloci che spesso ci vuole un attimo in più per capire le battute.
Allo stesso tempo, siamo di fronte a un film pieno di sparatorie, inseguimenti, fughe e colpi di scena, percorriamo un intenso e simpatico viaggio nell’immaginazione di uno dei registi più creativi in circolazione, in un albergo leggendario simbolo di eleganza e lusso, raggiungibile solo da una teleferica in un magnifico non-luogo sospeso…
Dopo l’omicidio della duchessa Madame D (interpretata da una magistrale Tilda Swinton), anziana amante del professionale e serio Gustave (Ralph Fiennes), lui e Zero sono coinvolti nelle indagini della polizia e nella lotta per aggiudicarsi l’eredità lasciata dalla ricchissima signora.

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la locandina del film

Gustave è un uomo gentile, dai modi eleganti, delizioso, che sembra disegnato con lo zucchero filato e una siringa d’alta cucina, quasi ripieno come una caramella. I colori tenui degli ambienti ricordano la casa di Hansel e Gretel, viene voglia di mangiarli. Poi, c’è la dolce Agatha, la giovane pasticcera che sposerà Zero, con una voglia a forma di Messico sulla guancia destra.
Altri protagonisti fondamentali (e ingredienti, per restare in tema di pasticcini…) sono la delicata e signorile acqua di colonia, che Gustave, tombeur de femmes, si spruzza spesso addosso, la tenace difesa di Zero, profugo di guerra e amico, l’ironia, i flashback, un giovane scrittore (Jude Law) che prepara la storia che vediamo, i killer, l’eredità (e un prezioso quadro), le fughe rocambolesche, ma, soprattutto, l’albergo e la montagna magica su cui fiabescamente si erge.
Nei titoli di coda, Anderson confessa di essersi ispirato alle opere di Stefan Zweig, lo scrittore ebreo austriaco suicidatosi nel 1942, in Brasile. The Grand Budapest Hotel non è un film storico: non ci sono nazisti o comunisti, anche se le iniziali ZZ sulle uniformi ricordano, ironicamente, quelle delle SS. Ma ci insegna che, anche tra crimini, assassinii e ingiustizie, si nascondono sempre bontà, gentilezza d’animo e solidarietà fra gli esseri umani, e che, contemporaneamente, ovunque esista il bene, permane anche una malvagità di fondo.

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una scena del film

Le inquadrature da cartolina, uno stile inconfondibile, quasi picaresco, una storia d’amore commovente (quella di Zero e Agatha), gli effetti speciali e un cast d’eccezione completano il quadro di un film che vuole essere anche una riflessione sull’arte del narrare. Un’arte che può permettersi di parlare della realtà, approfittando di quanto di meno realistico si possa inventare.

di Wes Anderson, con Ralph Fiennes, F. Murray Abraham, Mathieu Amalric, Adrien Brody, Willem Dafoe, Jeff Goldblum, Harvey Keitel, Jude Law, Bill Murray, Edward Norton, Saoirse Ronan, Jason Schwartzman, Léa Seydoux, Tilda Swinton, Tom Wilkinson, Owen Wilson, Tony Revolori, USA 2014, 100 mn.

Vezzi e vizi antichi della mia ‘scunsciada Milàn’

La mia Milano, oh la mè Milàn ‘scunsciada’ dalle turbe di faccendieri senza morale alcuna, i quali hanno tradotto il fatidico francese “les affairs sont les affaires” nel più italico cazzi nostri e fanno tutto ciò che gli conviene, basta che gli convenga davvero.
Non si creda che questo breve scritto sia il lamento postumo di “un c’era una volta” estromesso dalla cerchia dei Navigli, per carità!, già quando misi il mio piede sinistro la prima volta sotto la Madonnina (tutta “dora”, mica come le altre innalzate nelle piazze italiane, di pregiato marmo bianco, quello usato da Michelangelo), sulle porte dei palazzoni grigi ricordo il terribile cartello “non si affitta a meridionali”, i poveri meridionali, i quali arrivavano alla buia stazione centrale con I valigioni di cartone, legati con la corda a trattenere l’odore di salame che gonfiava il coperchio marrone, odore acre misto al profumo di arance ormai schiacciate nel lungo viaggio dal sole alla nebbia.
Era una Milano già birbona, i lavori della metropolitana avevano scatenato le brame di faccendieri, imprenditori, palazzinari, politici e intellettuali d’accatto come i giornalisti, chiamati a far da megafono all’impresa grandiosa di scavare enormi buchi e oscure gallerie sotto la città: intanto, i favori s’intrecciavano, destra e sinistra si stringevano sotto i tavoli, non toccatine erotiche, di mano in mano passavano sostanziose buste cariche di zeri. Chi aveva il coraggio di denunciare o semplicemente di protestare, veniva allontanato dalla zuppa, Craxi aveva già preparato il trabocchetto per Riccardo Lombardi, “la barca va”, diceva rivolto all’amichetto Berlusconi, chiamato allora “l’imprenditore rosso”, abbiamo una buona facciata di sinistra, ideologizzava Bettino, ma abbiamo pancia capitalistica, mai più Marx a Milano, diceva, al massimo Proudhon, chissà perché. Mai più Marx.
E fu così che cominciarono gli scandalosi massacri della vecchia Milano, cancellando memoria: lo scempio di Brera, di corso Garibaldi, dove Bava Beccaris alla fine dell’Ottocento aveva massacrato la povera gente che chiedeva soltanto pane, la rovina a Porta Ticinese, case ristrutturate per farne abitazioni nuove, uffici, studi a disposizione dei nuovi intellettuali del danaro.
L’antica, nobile Milano, capitale italiana dell’arte, venne distrutta. E I vecchi abitanti dove li mettevano? E i commercianti e gli artigiani? “Foera di ball”, dicevano gli speculatori, li mettiamo nei nuovi quartieri satellite, innalzati apposta per ospitare gli sfrattati, come al Gratosoglio, che in una lunga inchiesta su “Il Giorno” definii i nuovi lager, con trapposti ai lager di lusso (Milano 2 allora in costruzione) erbetta verde all’inglese, alberi. A quelle mie affermazioni molti milanesi amici mi guardarono male, erano abituati – loro – agli affari.
Ma tutto precipitò quando il prefetto Mazza coniò il principio degli opposti estremismi e i sogni del Sesantotto precipitarono nell’orrore del sangue e dell’odio.
Si stava costruendo la nuova Italia, lasciateci lavorare. Non ci si stupisca se “Mani pulite” è naufragato nel truogoloc dei faccendieri, degli affaristi e degli speculatori, lì in quel truogolo la pappa la trovi sempre… Nel ’72 arrivò a Milano la commissione antimafia del Senato per condurre un’inchiesta (o una informativa?) sugli intrecci tra mafia e affari, mi chiamarono per avere notizie (allora ero capocronista del “Giorno”), voleva tracce veritiere sul percorso sotterraneo dei soldi e del potere. Dissi che la mafia stava mangiandosi la città, che i boss avevano stretto alleanza con gli storici imprenditori meneghini. Un nome, mi chiesero. Sindona, risposi. Uno della commissione si alzò dalla sua poltroncina nella saletta ce era stata messa a disposizione dalla Prefettura. “Mi scusi – disse – chiudo la porta”. La porta rimase chiusa per anni.
E adesso con la faccenda dell’Expo chiuderanno ancora la porta? “Chi volta el cu a Milan, volta el cu al pan”, si dice sotto la Madonnina d’oro. Boh.

Emergenza demografica: sempre di più e sempre più vecchi, si staglia lo spettro della miseria di massa

di Franco di Giangirolamo*

Una delle sfide globali del XXI secolo, di dimensione analoga a quella “ambientale”, è rappresentata dall’invecchiamento della popolazione, fenomeno che interessa sia le regioni del mondo ‘sviluppato’ che i paesi emergenti (economie in transizione) e i cosiddetti Paesi in via di sviluppo.

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Tabella 1 – Durata media della vita in alcune regioni del mondo

I determinanti fondamentali di questo fenomeno demografico globale, storicamente inedito e irreversibile, sono la riduzione della povertà, seppure accompagnata da aumento delle disuguaglianze (il trionfo dello sviluppo, secondo l’Onu), la diffusione delle cure sanitarie (effetto combinato vaccinazioni, pillola contraccettiva) e di una cultura tesa al miglioramento della qualità della vita che ha interessato prevalentemente il genere femminile [vedi tabella 1 – vedi tabella 2 e 3].

Questi fattori hanno innescato il processo di transizione demografica (bassa natalità e mortalità) che si è quasi conclusa nei paesi sviluppati e che si è avviata recentemente nei paesi emergenti con rapidissimo declino della mortalità e un calo dolce della natalità.
Dai 2,5 miliardi di abitanti che popolavano il globo nel 1950, si è passati a 5,3 miliardi nel 1990 e si prevede di raggiungere quota 8,5 miliardi nel 2025 fino a stabilizzarsi sui 10 miliardi tra mezzo secolo.

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Tabella 2 – Numero medio di figli per donna in alcune regioni del mondo

Le modifiche demografiche quantitative non sono state uniformi: si stima che nei paesi meno sviluppati l’aumento della popolazione sia cresciuto di 3 volte tra gli anni ’50 e gli anni ’90 del secolo scorso, determinando un aumento del peso relativo sulla popolazione mondiale che passa dai 2/3 degli anni ’50 ai 3/4 degli anni ’90, ai 4/5 previsti per il 2025 (al netto di improbabili migrazioni bibliche a breve, 4 persone su 5 vivranno nei paesi “poveri”).
La transizione demografica produce anche una nuova e asimmetrica (o squilibrata) distribuzione geografica della popolazione e una notevole diversificazione delle piramidi per classi di età, che permette fin d’ora di osservare una forbice tra paesi con “troppi anziani” sempre più vecchi e paesi con “troppi giovani”, con indici di dipendenza demografici di dimensione quasi doppia (Golini la definisce “devastante mutamento nella struttura per età”).
Se si combinano questi fattori con la distribuzione globale inversamente proporzionale delle risorse economiche, con i fenomeni di inurbamento che caratterizzano i paesi emergenti e il processo di femminilizzazione della popolazione anziana, si delinea un quadro abbastanza evidente delle questioni che potranno e dovranno costituire le priorità politiche dei governi nell’immediato futuro.
Oggi solo il Giappone ha il 30% di popolazione anziana, ma entro il 2050 almeno 64 Paesi, tra i quali alcuni molto popolati, saranno nelle stesse condizioni, mentre solo 1/3 dei paesi del mondo dispone di un sistema di protezione sociale che, peraltro, copre in prevalenza i rischi della popolazione attiva (che è solo la metà della popolazione mondiale).

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Tabella 3 – Numero medio di figli per donna

Se si aggiunge a questo panorama il fatto che gli ultraottantenni sono attualmente il 12% della popolazione anziana e che nel 2050 raggiungeranno il 20%, che l’età media mondiale è oggi di circa 30 anni e che nel 2050 si prevede possa arrivare a 40, si comprendono meglio gli impatti sulle politiche economiche e sociali, che non potranno essere settoriali ma globali. Garanzia di reddito, promozione della salute, diritto all’alloggio e alla mobilità, sono le questioni prioritarie che diventano vere e proprie emergenze sociali se si tiene conto che già oggi metà della popolazione mondiale non può pagare i servizi di base e che la classe media (che può pagare tasse e permettere la redistribuzione della ricchezza) esiste solo nel paesi più ricchi e anche lì si sta impoverendo piuttosto rapidamente.
Le disuguaglianze che crescono sia all’interno di ogni singolo Paese che tra i vari Paesi e l’iniqua distribuzione di risorse, non possono che aumentare gli squilibri e l’insicurezza su scala globale che produrranno anche flussi migratori sempre più complessi sia a livello continentale che locale. Inoltre, la “velocità” delle transizioni demografiche non sono accompagnate da politiche economiche e sociali di dimensione globale in grado di mitigarne gli impatti.

Invecchiamento della popolazione e nuove distribuzioni geografiche della popolazione, urbanizzazione accelerata e modifica della struttura familiare, sono il panorama del XXI secolo che fa emergere come prioritarie le seguenti politiche:

  • politiche del lavoro per la produzione egualitaria di risorse (almeno 1 miliardo di posti di lavoro “decenti” con paghe al di sopra dei 2 euro al giorno);
  • politiche di “redistribuzione solidale” della ricchezza prodotta in termini di costruzione di sistemi minimi di sicurezza sociale che permettano di affrontare la diffusione di sacche enormi di povertà;
  • politiche di redistribuzione egualitaria di risorse naturali (acqua ed energia) che riducano i conflitti politici e armati, potenziali e prevedibili, per la sopravvivenza e per prevenire disastri ambientali;
  • politiche che contrastino la diffusione di vecchie e nuove malattie infettive consentendo l’accesso ai farmaci.

Politiche che parlano di noi, anche se le problematiche sono di spessore, gravità e urgenza relativamente diverse.
È chiaro che nei Paesi poveri il problema non si pone allo stesso modo che nel nord del mondo, perché, in assenza di sistemi di sicurezza sociale, gli anziani sono già troppo “occupati” per sopravvivere. Basti pensare che il 47% degli anziani nel mondo fanno parte della forza lavoro. Il tema della più lunga permanenza al lavoro non si pone.
Diverso ma simile il tema del welfare. Già 250 milioni di anziani nel mondo hanno una qualche forma di inabilità e 35 milioni soffrono di demenze senili, cifre suscettibili di aumenti su scala logaritmica.
Lo spettro della miseria e del malessere non è così improbabile che si stagli all’orizzonte di masse sempre più imponenti di anziani, soprattutto donne, soprattutto nei paesi più poveri.
E neppure si può considerare probabile nel medio periodo l’estensione di istituzioni di welfare sul modello europeo, visto che anch’esso è stato sottoposto ad un processo di smantellamento prima ancora che diventasse (almeno in Italia) maturo rispetto agli obiettivi di universalità ed eguaglianza.
L’innovazione scientifica e tecnologica potrebbe dare un contributo notevole a mitigare gli impatti negativi sulla qualità della vita della popolazione mondiale, sempre che si riducano fino all’eliminazione le barriere alla circolazione e disponibilità della conoscenza e dello sfruttamento criminale della proprietà intellettuale.
Anche se le diversità territoriali sono grandi e spesso enormi, le strategie locali non possono che basarsi su scelte al massimo egualitarie, solidali, partecipate e sull’uso di tutte le risorse umane, culturali e materiali per fronteggiare problematiche di spessore epocale che richiedono una rimessa in discussione della vita di intere comunità e nuovi approcci culturali: nel nostro piccolo siamo anche noi chiamati a fare la nostra parte per costruire un nuovo “umanesimo globale”, attraverso il rafforzamento e la reinvenzione nella dimensione locale di modelli di vita e di società partecipati e solidali.

*(presidente Auser Emilia Romagna)

Lettori protagonisti al festival di Bologna, gli autori stavolta rispondono a loro

di Elisa Gagliardi

Discutere di intrecci e soluzioni narrative e confrontarsi direttamente con il demiurgo che ha plasmato le gesta dei propri eroi letterari corrisponde al materializzarsi di un sogno per lettori accaniti, irretiti dai segreti che popolano l’officina dei loro autori prediletti.

La formula della seconda edizione del Festival dei Lettori, rassegna che animerà le sale di 15 biblioteche comunali di Bologna sino a domenica (18 maggio), sprigiona la sua carica innovativa proprio nella tessitura di un filo diretto tra scrittori e fruitori di libri. Sono questi ultimi, infatti, organizzati in gruppi di lettura, ad essere elevati al rango di protagonisti, sia nella scelta degli autori, sia nella conduzione degli incontri.

Bologna schiererà i gruppi di lettura che gravitano attorno alle sue biblioteche di quartiere; ma, a comporre il novero dei 33 nuclei di lettori forti protagonisti della rassegna, concorrono anche appassionati provenienti dalla provincia e dal resto della regione.

Chiamati a magnificare il fascino della lettura e le virtù di una cultura libraria ancora appannaggio di pochi adepti, gli appuntamenti della rassegna, oltre agli incontri con alcune delle penne illustri del panorama letterario italiano, tra cui quelle di Stefania Bertola, Pino Cacucci, Paolo Cognetti, Marcello Fois, Lidia Ravera e Valerio Varesi, propongono nelle giornate di sabato e domenica anche tre specifici moduli di approfondimento dedicati ai gruppi di lettura e ai meccanismi della lettura condivisa.

Il primo animerà gli spazi di Salaborsa ragazzi all’insegna di “Leggere junior. Workshop per apprendisti costruttori di gruppi di lettura giovanile”. Una guida alla realizzazione di gruppi di lettura riservati ai ragazzi, che si rivolge ad educatori, bibliotecari e insegnanti. Anche il secondo appuntamento coinvolgerà la Salaborsa, ma il 18 (alle 14,30), con l’obiettivo di “Seminare e coltivare gruppi di lettura”; per lo sviluppo di esperienze di lettura condivisa capaci di cementare i legami tra lettori e biblioteche e di diffondere una più feconda consuetudine alla lettura. Sempre domenica (alle 14,30), la piazza coperta di Salaborsa farà da scenario all’incontro “Leggere in luoghi difficili”, un’occasione per indagare sulle virtù terapeutiche delle pratiche di lettura in contesti di disagio come le carceri e gli ospedali.

Nell’ambito della manifestazione, che punta a fare il pieno di partecipanti con eventi ad ingresso libero, che non richiedono iscrizione preliminare (eccezion fatta per i workshop), un occhio di riguardo sarà riservato all’intrattenimento dei giovani lettori, protagonisti della giornata del 18 maggio, dedicata a “Gli avamposti in festa”. L’appuntamento accoglierà in Salaborsa Ragazzi i cosiddetti “Avamposti di lettura”, gruppi di lettura costituiti dagli studenti delle scuole medie e superiori, cui saranno riservati due incontri: “Le storie che leggiamo e che vorremmo leggere”, una tavola rotonda con Maria Chiara Bettazzi, editor di Giunti, e “Sotto il cielo di Buenos Aires”, con Daniela Palumbo.

Sul piano tematico, il primo festival letterario d’Italia che fa a meno di intermediari e fa dialogare i lettori, nelle vesti di esperti, direttamente con i propri autori di riferimento, quest’anno si focalizzerà sugli ultimi cinquant’anni di storia italiana, con la rivisitazione di pagine di impegno sociale e civile che riaccenderanno l’attenzione attorno ad alcuni dei più brucianti e controversi capitoli della recente storia nazionale.