Di possibili vie d’uscita dalla pesantissima crisi economica che stiamo attraversando si è dibattuto la scorsa settimana alla sala della musica nel corso dell’iniziativa organizzata da ferraraitalia in collaborazione con Gruppo economia Ferrara ed Emmaus Ferrara. Il confronto, durato circa due ore, è stato vivace e interessante. Marco Cattaneo e Giovanni Zibordi hanno, fra l’altro, illustrato la loro proposta di creazione di Certificati di credito fiscale, Luigi Marattin ha insistito sulla necessità di riforme strutturali che garantiscano efficienza al sistema e credibilità all’Italia anche agli occhi dei potenziali investitori stranieri.
No, non è la cronaca di una partita di pallastrada, ma una piccola storia inventata che spero faccia riflettere. Facciamo finta, dicevamo, che domani mattina qui in Italia un feroce manipolo di terroristi, dopo aver provocato un attentato in cui hanno perso la vita molti innocenti, braccato dalle forze di sicurezza, si rifugi armi alla mano in un centro sociale alla periferia di una grande città del nord. L’edificio è una ex cascina fortificata, così comuni in passato in quella che allora era aperta campagna, ed in esso vivono regolarmente svariate decine di persone, compresi molti bambini Per sua natura è perciò difficilmente attaccabile dall’esterno e pochi uomini ben armati possono difenderlo efficacemente: espugnarlo significa perciò esporre gli attaccanti al rischio di gravissime perdite.
La situazione è oggettivamente complessa, perché se da un lato è impensabile non fare tutto il possibile per assicurare alla giustizia i criminali, dall’altro l’utilizzo di strumenti bellici più efficaci, come ad esempio aviazione o artiglieria pesante, se ridurrebbe le perdite fra le forze dell’ordine, metterebbe però a repentaglio la vita di troppi innocenti. Sui giornali e sui social network infuria il dibattito che, come purtroppo accade i questi casi, si trasforma ben presto in rissa dalla quale emergono sostanzialmente tre posizioni diverse.
La prima, che definiremo per comodità “intransigente”, prevede che l’esigenza di fare giustizia prevalga su qualunque altra considerazione. Di conseguenza, poiché non sarebbe giusto esporre a rischi troppo elevati i difensori dello stato di diritto e della legalità, l’uso di armi pesanti può essere considerato del tutto lecito, a maggior ragione perché molti di coloro che vivono nel centro sociale, anche se tecnicamente innocenti, sono con ogni probabilità simpatizzanti dei terroristi.
La seconda, al contrario, ritiene che stando così le cose non bisognerebbe mettere a repentaglio la vita di nessuno, terroristi inclusi. L’unica cosa da fare è perciò quella di accettare le loro richieste, che consistono in un salvacondotto per uno stato estero di loro scelta ed un riscatto di qualche miliardo di euro. Chiameremo questa ipotesi “buonista”.
C’è infine chi ritiene che gli intransigenti abbiano senz’altro ragione per quanto riguarda la tutela del principio di giustizia, ma che nel contempo non si debbano volontariamente mettere in pericolo cittadini innocenti. I terroristi vanno perciò catturati anche al prezzo di vittime fra le forze dell’ordine, perché è solo in questo modo che uno stato democratico può dimostrare la propria superiorità etica su chi usa il terrore come strumento di lotta politica.
Intanto la cascina viene completamente circondata e la polemica infuria più che mai, radicalizzandosi ulteriormente.
Fra gli “intransigenti” si afferma il principio che un attacco militare, oltre a consentire di punire i responsabili di un crimine efferato, sarebbe anche un’occasione di riprendere il controllo della cascina, occupata da tempo dal centro sociale a cui un regolare contratto d’affitto è stato per anni rifiutato sulla base di oscuri cavilli, noto centro di “propaganda sovversiva” e punto di ritrovo di “sbandati e tossico dipendenti”.
Fra i “buonisti” invece sono molti quelli a sostenere che le motivazioni dei terroristi sono in realtà giustificate e che le loro azioni, anche se non del tutto condivisibili, non hanno alternative. La responsabilità principale è infatti da attribuire alla Stato, il cui intervento non avrebbe perciò legittimazione alcuna.
La piccola storia finisce qui ed ha perciò un finale aperto. Chi la legge è pregato di pensare a quale sarebbe per lui la soluzione più ragionevole. Ovviamente ogni possibile riferimento a quanto sta avvenendo a Gaza in questi giorni è del tutto intenzionale.
Molti di noi ricorderanno come nel precedente semestre di presidenza europea dell’Italia nel 2003 la mostra celebrativa fu imperniata sulla cultura rinascimentale ferrarese: Une Renaissance singulière si titolava. E su questa singolarità si innesta l’idea di eccentricità sottolineata dalla mostra trentina.
La mia visita alla mostra “Dosso Dossi. Rinascimenti eccentrici” al Castello del Buonconsiglio di Trento si è svolta nel giorno del diluvio tra mille e mille visitatori disperati che dai luoghi di villeggiatura montani scendevano a valle per vedere più che la mostra il luogo che la conteneva il Magno Palazzo di Bernardo Cles dove i due fratelli Dosso e Battista operarono nella decorazione di uno dei più stupefacenti palazzi della nostra storia rinascimentale. La mostra curata da Vincenzo Farinella si riallaccia indissolubilmente con il lavoro e gli anni fruttiferi dell’Istituto di Studi Rinascimentali di Ferrara che decisioni, da me non condivise, hanno ridotto a ufficio comunale dei Musei d’arte antica di Ferrara. Una mostra nata sicuramente nel fervido clima culturale di un Istituto che ha saputo dare, più che alla città, al mondo scientifico internazionale un contributo difficilmente contestabile come appare non solo nello splendido catalogo dove ferraresi doc che si sono formati in quel luogo propongono ricerche di altissima qualità: da Marialucia Menegatti operante all’Università di Padova al ferraresissimo Andrea Marchesi e alla studiosa per eccellenza di quel periodo Alessandra Pattanaro allieva di Alessandro Ballarin autore delle più imponenti ricerche sul pittore e che per auspicio dell’ISR vide pubblicare la sua opera per conto della Cassa e della Fondazione Carife . Il curatore della mostra è Vincenzo Farinella docente dell’Università di Pisa con il quale proficuamente nei decenni si è stabilito un rapporto scientificamente ,e non solo, amicale fatto d’interessi comuni e di lavori in contemporanea, come per l’asse fondamentale Dosso-Ariosto di cui testimoniano molte pubblicazioni quasi tutte sotto la responsabilità scientifica di chi scrive queste note. E se la splendida mostra trentina trova il suo luogo naturale nella città del vescovo Clesio è anche vero che a Trento presso l’Istituto italo-germanico a quei tempi diretto da Paolo Prodi uscirono gli atti di un convegno imperniato sulla figura del grande politico a cui parteciparono l’Europa delle Corti e l’ISR. Come si vede dunque irrinunciabile la presenza scientifica ferrarese testimoniata soprattutto dalla grande mostra ferrarese del 1998 su Dosso che ebbe tre tappe: Metropolitan a New York, Getty Museum a Los Angeles, Ferrara al Castello Estense. Come dunque si evince da questi brevi rimandi questa mostra non sarebbe stata possibile senza la proficua collaborazione con l’ISR. Che resta di tutto questo? E dei rapporti intessuti nel tempo? Poco o nulla se si pensa all’attuale condizione dell’ISR. Eppure, i frutti di una grande stagione culturale operano ancora in modo del tutto indipendente dalle scelte politiche. A settembre infatti uscirà finalmente il libro fondamentale sulla figura di Alfonso I, opus magnum di Vincenzo Farinella che metterà in luce dopo anni di intenso lavoro la figura del duca estense al di là e oltre le incrostazioni leggendarie e o francamente antistoriche sulle quale si era fondata la leggenda nera o fastosa del signore di Ferrara. E a cura dell’Associazione Amici dei Musei e dei Monumenti ferraresi l’opera sarà presentata a Ferrara, presente l’autore, in una speciale occasione ma sicuramente come prima tappa del suo percorso scientifico e degno riconoscimento alla città che ha ospitato e sollecitato quell’opera.
La mostra di Trento si fonde dunque con l’immagine grandiosa del palazzo dove operarono i Dossi, il Romanino e altre figure di primaria importanza di quello scorcio storico nel momento più intrigante dell’oscillazione politico culturale tra Impero e Chiesa. In questo senso la decifrazione figurativa dei dipinti dosseschi posti nei luoghi architettonicamente decorati dallo stesso Dosso e dal fratello Battista appare estremamente convincente. Un dipinto splendido della Galleria Borghese (che presta anche il celebre Apollo) , l’ Allegoria mitologica è essenziale per capire il passaggio dal naturalismo veneto del primo periodo dominato dalla lezione giorgionesca e tizianesca al classicismo romano dove Dosso sa con estrema intelligenza approfittare della lezione di Raffaello ma soprattutto di Michelangelo. Questo passaggio nei luoghi del Magno Palazzo appare splendidamente spiegato in un momento altissimo dove le opere dialogano con l’ambiente e l’architettura. Il merito va anche riferito ad Antonio Natali direttore degli Uffizi di Firenze e al suo progetto La città degli Uffizi .Fili antichi di cultura. Delle opere di Dosso ben quattro provengono dalla Galleria fiorentina e il progetto che porta il nome della “città degli Uffizi” è quello di stringere i rapporti tra opere e territorio. Come ottimamente spiega Natali la collana che porta il nome di “Città degli Uffizi” propone un’idea che è quella di “ offrire un’ immagine del museo che vada oltre quella consolidata di luogo deputato alla migliore conservazione delle opere d’arte per andare a toccare nel vivo l’educazione stessa. Museo inteso, anche, come nucleo di propulsione culturale centrifuga.” Un’idea dunque nuova del significato e del senso del luogo deputato alla conservazione dell’opera e che finalmente si propone come capacità di interpretazione dell’opera stessa ma anche come ruolo diversamente nuovo della sua necessità e quindi non in contrapposizione ma in armonia con le mostre giustificate dunque dall’essere pensate in funzione stessa dei luoghi dove e per i quali erano state concepite.
E’ dunque possibile che la sedimentazione culturale allorché alberghi e si sviluppi in luoghi consoni alla ricerca porti ancora a Ferrara nuovi stimoli e nuove possibilità nonostante la necessità se di necessità si trattava di chiudere o ridimensionare una delle eccellenze di cui la nostra città doveva andare fiera.
Russia, lungo il fiume Volga, Seconda guerra mondiale (1942, per la precisione), nazisti, nemici e amici, paura, oscurità, viltà e tradimento. Un giovane marinaio russo, Anatoly, scampato all’affondamento della sua imbarcazione fatta saltare dai tedeschi, è obbligato a sparare contro il suo capitano, per vedersi salva la vita. L’evento tragico lo sconvolgerà per sempre, il grande senso di colpa e di vergogna lo perseguiteranno continuamente, in ogni momento del giorno e della notte.
Anatoly trova rifugio in un monastero, unica costruzione a Ostrov, isola di una regione settentrionale del paese come tante, sperduta, desolata, emblema di uno stato non solo ambientale quanto, soprattutto, esistenziale. Il luogo è totalmente isolato dal mondo, con temperature rigide, immerso in una natura selvaggia in cui l’essere umano ha la possibilità di confrontarsi solo con i suoi demoni e con il senso della propria vita.
I colori sono il bianco intenso e immenso della neve, del ghiaccio e delle nuvole, il grigio del peccato e della fuliggine, il nero del carbone e della morte, l’azzurro del cielo. Il giovane diventa uno dei monaci, fino a trasformarsi, poco a poco, in uno iurodivy, un “folle di Dio” o uno dei “santi idioti” della tradizione ortodossa.
Ossessionato dalla sua colpa, Anatoly trascorre gli anni pregando e vivendo in solitudine nel locale delle caldaie del monastero, spalando carbone per alimentarlo. Con la sua fatica fisica, la sua caparbietà e tenacia, il suo sudore e la sua espiazione, “alimenta” il monastero e la sua vita, mantenendoli costantemente al caldo.
Ha un carattere molto brusco, è sempre nero, perché sporco di fuliggine, parla da solo citando a memoria i Vangeli, ha uno stile di vita spartano e anomalo. Per questo suscita scandalo nei confratelli, anche se il Priore lo stima e gli vuole bene.
Col passare del tempo, la sua fama di uomo santo si sparge nel paese, portando sull’isola molte persone che cercano il suo conforto o un miracolo. Che avvengono quasi regolarmente, anche con un caso di esorcismo.
Anatoly sa riconoscere il peccato o la tentazione. Grekh in russo è un vocabolo molto forte, è il peccato mortale, un’azione inconfessabile di cui si prova un’enorme vergogna e non suscettibile di perdono, se non dopo un lungo e durissimo periodo di espiazione.
Girato con gran cura da Pavel Lungin, regista moscovita da anni trasferitosi a Parigi, in una natura fredda e silenziosa ma intensa, l’isola offre allo spettatore occidentale una grande testimonianza della fede, della tradizione ortodossa e della redenzione in essa.
Fino a un finale totalmente inaspettato e commovente, nel quale tutta la vita e la permanenza dell’uomo sull’isola trovano compimento finale. L’isola è un film difficile, impegnativo e alquanto duro in certe parti (e che, talvolta, richiede qualche conoscenza specifica, come ad esempio quella della preghiera del cuore, una formula da ripetere incessantemente: “Signore, Gesù Cristo, figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore“), ma davvero interessante, intenso e profondo.
L’isola, di Pavel Lounguine, con Pyotr Mamonov, Dmitry Dyuzhev, Victor Sukhorukov, Nina Usatova, Yuri Kuznetsov, Timofey Tribuntsov, Alexey Zelensky, Russia, 2006, 112 mn.
Ogni giorno lavoro con clienti che cercano disperatamente di uscire da una condizione insopportabile di dolori muscolo-scheletrici cronici e insofferenza alle articolazioni. Spesso, accompagnandoli alla porta, vedo sui loro volti un po’ di tristezza… e chi può biasimarli? Soffrono, hanno dolori forti in varie parti del corpo, e occorre ricordare che il dolore cronico è vizioso e colpisce ogni aspetto della vita: mente, corpo e spirito.
Il dolore cronico può diventare un calvario a tempo pieno, perché consuma le energie psicofisiche nello svolgimento delle attività della vita quotidiana. Inoltre, il dolore non influenza solo il corpo, ma condiziona anche la comunicazione con gli altri. Se ti senti male, è piuttosto difficile mantenere un sorriso sul tuo viso e quindi rimanere positivo.
Se si vede una persona che ha la bocca un po’ chiusa, la spalle arrotondate, testa in avanti e occhi a terra, ci sono alte probabilità sono che abbia una cattiva postura. Al contrario, quando una persona ha una buona postura, testa alta, occhi in avanti e un sorriso sul volto, nel vederla si percepisce un senso di benessere che ne aumenta l’attrattiva.
Il mio lavoro è anche quello di insegnare ai miei clienti che “il corpo è un’unità, e deve essere trattato come tale”. Si tratta di un approccio olistico che aiuta a guarire meglio. Invece di concentrarsi semplicemente sul sintomo, ossia il dolore, si punta a correggere la causa principale del problema, la postura. Trattando il corpo come unità, e affrontando la causa principale del problema, si diminuisce il dolore, migliorando la postura e la mobilità che, a loro volta, favoriscono anche emozioni positive. Ammettiamolo, quando ci si sente meglio fisicamente, si è molto più inclini a produrre un sorriso.
E’ ben noto che all’atto del sorridere, l’organismo rilascia endorfine e serotonina con grande beneficio per la salute generale e il benessere. Personalmente, credo anche che le espressioni facciali positive e sorridenti, in particolare, siano un ottimo modo per aiutare il corpo a funzionare meglio, migliorando la percezione relazionale e aiutando a stare in mezzo alla gente. E’ ampiamente documentato che sorridere migliori anche la salute del cuore e diminuisca i livelli di stress. Le emozioni positive, possono ridurre il rischio di malattie cardiache.
Il problema per coloro che hanno dolore fisico è proprio questo, risulta difficile concentrarsi sulle emozioni piacevoli. Ecco allora che migliorando la propria postura e diminuendo il dolore, si è liberi di concentrarsi ancora una volta sulle emozioni positive, di amare e di vivere la propria vita al massimo.
Di seguito almeno 10 vantaggi del sorridere:
rende più attraenti
migliora l’umore e colpisce lo stato d’animo degli altri
cambia l’atmosfera in una stanza
riduce lo stress
migliora il nostro sistema immunitario
abbassa la pressione sanguigna e fa bene al cuore
rilascia endorfine, antidolorifici naturali e serotonina
aiuta a ridurre le rughe
richiede meno lavoro per i muscoli facciali
è un segno universale di felicità
Alcuni semplici modi per sorridere di più:
farsi consigliare dal proprio osteopata alcuni esercizi da fare ogni giorno per lavorare sull’allineamento della postura;
frequentate persone positive;
non annoiarsi e impegnare la propria vita a costruire pensieri positivi;
scriverei i propri ricordi preferiti.
“Ogni volta che sorridi a qualcuno, è un atto d’amore, un dono per quella persona, una cosa bella.” Madre Teresa di Calcutta
Tutti coloro che credono fermamente nella “politica come professione,” benché a gran parte delle classi dirigenti odierne manchino in modo manifesto e perentorio quelle tre qualità che Weber attribuiva all’uomo politico (passione, senso di responsabilità e lungimiranza), probabilmente rigetteranno l’accorato appello al dialogo e alla pace lanciato dalle pagine del Berliner Morgenpost dal celebre pianista e direttore d’orchestra Daniel Barenboim, direttore dell’Opera di Berlino, di duplice cittadinanza israeliana e palestinese (!), a lungo impegnato per la pace in Medio Oriente,
I vari congiurati del conflitto israelo-palestinese, i diversi signori della guerra palesi ed occulti, i molti machiavelli sparsi nel Vicino Oriente, ma anche le vittime di entrambe le parti, stremate dai lutti e dal dolore, probabilmente avrebbero da eccepire alla semplicità di Daniel Barenboim che afferma in modo piuttosto risoluto: Es gibt keine militärische Lösung, “non c’è una soluzione militare” (al conflitto israelo-palestinese).
Probabilmente ciascuna delle parti in causa condivide in fondo, in segreto, questa affermazione semplicemente per ragioni pragmatiche o per realismo politico – con un ragionamento che forse potrebbe assomigliare al seguente: anche se una vittoria militare sarebbe tecnicamente possibile, i suoi costi politici sarebbero fin troppo eccessivi, per cui è meglio usare la forza solo fintantoché ci sarà possibile e accettabile per i parametri della diplomazia occidentale, per tornare così alle trattative…
Si tratta ovviamente di un percorso che non rispecchia nessuna delle doti civili idealmente ascritte al “politico di professione,” – un percorso, tra l’altro, miope, di brevissimo respiro ed aspramente criticato anche da diversi esponenti dei servizi di sicurezza israeliani. L’ex direttore dei Servizi Segreti interni (Shin Beth) e analista Yuval Diskin, in un’intervista all’edizione inglese del settimanale tedesco “Der Spiegel,” ad esempio, critica aspramente la politica di forza di Netanyahu e paventa i costi di un’azione militare che per una sua piena realizzazione richiederebbe uno o due anni con l’inimmaginabile conseguenza di provocare due milioni di profughi palestinesi.
A dire il vero, le parole di Daniel Barenboim sembrerebbe quasi banali, probabilmente condivise da tutti i cosiddetti “uomini di buona volontà,” se non fosse per un dettaglio, una piccola ma importante sfumatura che quasi stranisce chi legge il suo appello, aspettandosi solo musica e buoni sentimenti. Leggiamo: “Noi palestinesi abbiamo l’impressione di dover trovare finalmente una soluzione giusta. Dal profondo del nostro cuore ci struggiamo per la giustizia, per i diritti che spettano a ciascun popolo su questa terra: autonomia, indipendenza, libertà e tutto che ciò comporta. Noi israeliani abbiamo bisogno che venga riconosciuto il nostro diritto a vivere sullo stesso lembo di terra. La divisione della terra potrà avvenire solo dopo che entrambe le parti non solo avranno accettato, ma anche compreso che noi possiamo vivere fianco a fianco e certamente non dandoci le spalle.”
È straordinario questo richiamo al “noi:” “noi palestinesi,” “noi israelieni.” Straordinario soprattutto perché proviene da un grande artista che ha consapevolmente accettato una doppia cittadinanza e un doppio passaporto, israeliano e palestinese. Un artista insomma che non parla semplicemente “in prima persona,” ma riconosce anzi di essere già egli stesso ben più che una sola persona, bensì un insieme di possibili identità, perlomeno “due:” palestinese ed israeliana. È da questa concreta consapevolezza d’essere non un monolitico “io” ma un “io” plurale e doppio che nasce anche solo la possibilità verbale di lanciare un appello comune effettivamente da entrambe le parti in causa.
Non è la prima volta che gli artisti sanno parlare ben più profondamente dei politici. Mi piace pensare che sia la bellezza della musica ad avere ispirato Barenboim in modo da poterci ricordare ancora un volta il celeberrimo detto di Dovstojevsky: mir spasiet krasota. Cioè, sulla base dell’ambivalenza del termine mir (“mondo,” “pace”): non solo “la bellezza salverà il mondo” ma anche “la bellezza salverà la pace.”
Spesso ho avuto occasione, a Ferrara, di incontrare un profugo proveniente dal Senegal, una persona estremamente cortese e profondamente triste. Ogni giorno lo trovo, in piedi, all’angolo del nostro bar abituale, gestito da una meravigliosa famiglia che si impegna molto a favore dei profughi giunti dall’Africa. Tanto che una famiglia somala considera e rispetta Adriano, il proprietario del bar, come fosse il suo “nonno”. Lamin, il profugo senegalese che, giorno dopo giorno, sta all’angolo del bar di via Garibaldi, ha dovuto lasciare in Africa sua moglie e i tre figli piccoli, a cui invia regolarmente soldi – ma da dove li prende? Da quello che gli mettono in mano in una giornata? Certo, bisognerebbe “verificare” la sua versione, ma io credo che sia veritiera. Si rivolge con grande rispetto ad ogni passante, parla anche con gratitudine di molti di essi ma, dice, a volte il razzismo di alcuni degli italiani che passano è difficile da sopportare. All’ora di pranzo, quando quasi tutti i negozi sono chiusi, l’ho visto spesso da solo, in un angolo d’ombra vicino al Duomo di Ferrara. Con una bottiglia d’acqua, un pezzo di pane e una qualche verdura in mano… Nel pomeriggio, poi, si rimette per qualche ora all’angolo del solito bar. Ma cosa c’è di tanto particolare in questa storia del profugo senegalese a Ferrara? mi chiedono giornalisti italiani e tedeschi. Posso solo rispondere: appunto, proprio questa domanda. La presenza dei profughi da tutto il mondo è diventata normalità nella nostra vita quotidiana. Un bel segno della vita globale di adesso, dicono alcuni amici. No, un brutto segno dell’aumento della povertà globale dicono altri. Cosa si può fare? Resta solo il riferimento alla Bibbia e alla storia del buon samaritano, o di Lazzaro? Abramo disse all’uomo ricco: “Figlio, ricordati che nella tua vita hai ricevuto i tuoi beni e che Lazzaro similmente ricevette i mali; ma ora qui egli è consolato, e tu sei tormentato. Sì, sono tormentato anch’io, non per la mia ricchezza personale ma per dare una risposta giusta alla domanda: che fare nei confronti della povertà che si vede dappertutto e che aumenta, in Germania (sì, anche in un paese insomma ricco), in Italia, all’angolo di una Bar a Ferrara?
Brano tratto da “Diario della Pianura” di Carl Wilhelm Macke
“Leggete e diffondete l’Unità”. Non un semplice slogan: quello racchiuso in un quadratino autopromozionale pubblicato qua e là a piè di colonna fra le pagine del quotidiano era un’esortazione e un vero comandamento per il militante del Pci, ateo per stereotipo, ma sorretto da un’incrollabile fede civile, quella comunista. Leggere: dunque conoscere, informarsi (per qualcuno magari pure indottrinarsi…). Diffondere: quindi divulgare, rendere partecipi, socializzare (o, per i più dogmatici, indottrinare)… Con l’Unità sottobraccio, la domenica mattina si girava strada per strada. E a casa delle persone (altri compagni, ma anche semplici simpatizzanti o potenziali elettori) non si portava unicamente il giornale, ma idee e passioni. Era una sorta di campagna elettorale permanente in formato amicale, ma anche l’occasione, attesa, per scambiare opinioni, ragionare di ciò che succedeva – nel mondo prima ancora che nella città o nel proprio quartiere – fornire spiegazioni e trasmettere motivazioni. Motivazioni per aderire al progetto, per indurre a partecipare con un impegno diretto e personale alla lotta per il cambiamento. Cambiare, questo era l’imperativo: “Cambiare si può, cambiare si deve, cambiare è necessario”, fu un fortunato slogan della propaganda comunista. Fortunato perché diretto ed efficace. E quando si diceva “cambiare”, non si intendeva spostare il ripetitore della telefonia o tappare una buca: quello veniva per ultimo. Prima c’era da cambiare il mondo, il resto, poi, di conseguenza. L’analisi procedeva sistematicamente dal generale al particolare: il mondo, appunto, le superpotenze, gli equilibri planetari, le sopraffazioni, le guerre, la fame, le ingiustizie; e poi, di seguito a stringere il cerchio, l’Europa, la necessità delle alleanze e di orizzonti più ampi, l’Italia, il malgoverno, la corruzione, le speranze di un futuro migliore e il dovere di impegnarsi per propiziarlo. E infine, noi: la nostra città, il nostro particolare. Poi, nella pratica, il pragmatismo induceva a ribaltare l’ordine di intervento e si procedeva sulla base della concretezza, affrontando e cercando di risolvere i problemi pratici e immediati, secondo una logica del fare che ha reso in molti momenti cruciali della nostra storia come pure nella quotidianità il Partito comunista in Italia anche un potente, prezioso e insostituibile motore di innovazione e buongoverno. La chiusura dell’Unità, giornale comunista fondato nel 1924 da Gramsci – il padre nobile del partito – oltre che un evento doloroso, simbolicamente rappresenta l’ennesimo episodio che attesta la fine di un certo modo di fare e concepire la politica nel nostro Paese: quello basato sull’incontro, il confronto, il dialogo, i rapporti umani, le idealità. Se ne va un altro pezzetto di un mondo in cui la politica non solo era praticata, ma vissuta con pienezza, come un’esperienza di vita intensa e coinvolgente che dava senso all’esistenza.
Il Sud Sudan è uno dei paesi più giovani al mondo, uno Stato indipendente, dal luglio 2011, dopo una guerra civile devastante e distruttiva durata oltre 20 anni. Il Paese è stato talmente impattato da tali eventi, a livello economico e di sviluppo umano, che il 50,6% della popolazione vive sotto la soglia di povertà. Mancano infrastrutture, vi sono i più alti tassi di mortalità materna e di analfabetismo femminile al mondo. Carestia e crisi idrica sono altri componenti di questo terribile scenario. In questo scenario, operano alcuni operatori umanitari internazionali e italiani che cercano di portare soccorso alle popolazioni. Abbiamo voluto parlare con uno di questi “eroi moderni”, Anna Sambo, responsabile dei progetti della Fondazione Avsi nel Paese [vedi]. Conosco Anna da tempo e, considerati il suo carattere e la sua forza di volontà, potevo solo immaginare di ritrovarla in posti come questo.
Anna, ci conosciamo dai tempi di progetti sociali portati avanti nell’ambito di un’attività d’impresa, e lo spirito che caratterizzava il tuo impegno di allora non sarà sicuramente cambiato. Cosa ti ha portato a cambiare vita, e soprattutto a scegliere il Sud Sudan? Perché proprio questa realtà?
E’ stato il Sud Sudan a entrare nella mia vita, per primo, quattro anni fa, con una visita tra Uganda e Sud Sudan. Ho seguito un invito e ricordo il passaggio del confine tra Uganda e Sud Sudan: alle pendici delle montagne, i villaggi, come li avevo sempre visti e immaginati nei racconti degli antropologi quando studiavo all’Università di Milano. Ricordo la commozione. E da lì si è rafforzato il desiderio di “stare” in Africa. Poi è arrivata un’offerta di lavoro. E dire di sì non è stato facile. Più volte ho tenuto in considerazione quello che dicevano gli altri, che era una follia: lasciare un impiego a tempo indeterminato nella più grande azienda italiana, in tempo di crisi. Da matti.
Alla fine, era Natale, ho deciso da sola e per me stessa. Non tanto per dei valori specifici o per un’idea di voler fare un lavoro che per il pensiero comune è “nobile” (aiutare i poveri…) ma per una questione di dignità personale: sono cresciuta e sono stata educata in un ambiente in cui il lavoro è parte integrante della vita e della soddisfazione personale. Anzi, ho sempre visto miei genitori divertirsi tanto nel lavoro. Volevo trovare uno spazio per me, per imparare cose nuove e conoscermi meglio. Poi mi hanno sempre insegnato che dalla fatica nasce la felicità. E devo dire che qui, in Sud Sudan, provo questo sulla mia pelle. Diciamo che qui questo concetto non ha proprio nulla di metaforico. Qui si prova la vera fatica fisica, la precarietà di tutto. E quando accade qualcosa di bello, provi una piena felicità piena. Si tratta di letizia, come mi ha scritto una volta mio papà in una delle prime email che ho mandato da qui, quasi un anno e mezzo fa. Mi scrisse: che bello sentirti così lieta! E tuttora è ancora così. Le fatiche sono aumentate, perché’ è sbiadito il semplice entusiasmo e si è fatta sempre più strada la consapevolezza. Questa realtà in qualche modo mi ha scelto. E forse proprio qui, nell’Africa più difficile, dovevo capitare, per capire meglio cosa conta davvero nella mia vita (e non solo nella vita in generale) e su cosa poggio io, Anna. Ha forse a che fare anche con il “mal d’Africa”???
Tutti dicono che il mal d’Africa esiste davvero. Quello che so è che ogni volta che parto da qui, mi prende la nostalgia. Mi prende un senso di spaesamento ad allontanarmi da qui. E il pensiero consolatorio che faccio sempre è che sono contenta di andare ma, allo stesso tempo, di sapere che qui ci torno. Vado via, ma torno subito, mi viene da dire quando decollo da Juba.
In Sud Sudan rappresenti Avsi, che, nel paese, è molto attiva tanto nel settore dell’educazione che dell’assistenza medica a bambini e donne. Ci descriveresti alcuni dei maggiori progetti che portate avanti ora?
Il settore educativo e sanitario sono quelli su cui siamo impegnati di più, anche se stiamo terminando un grosso progetto di riabilitazione del sistema idrico della città di Torit, finanziato dall’Unchr. Mi è capitato, proprio in questi ultimi mesi, di fare più attenzione al progetto sanitario che portiamo avanti, da un anno, nella contea di Ikotos, finanziato da Health pooled fund (progetto alimentato dai fondi del governi inglese, canadese, australiano e dell’Unione europea). Dalla nostra base di Isohe (tra le montagne dell’Eastern Equatoria, uno dei 10 Stati che compongono il Sud Sudan) supportiamo il dipartimento di salute della contea di Ikotos. Gli obiettivi del progetto sono il supporto al lavoro della Contea (con attività di capacity building) e la fornitura di servizi sanitari di base (vaccinazioni, distribuzione di medicine, attività di cura prenatale), con un’attenzione particolare a bambini e donne incinte. Sono stata tanto nei villaggi, in quest’ultimo periodo (di solito sto molto a Juba, in ufficio) e mi sono resa conto della situazione disgraziata in cui si trovano le persone e del bisogno reale di ciò che facciamo. Ora posso dirlo, al di fuori di luoghi comuni e ideologie. Ora lo vedo proprio. L’altro grande progetto è quello finanziato dal Ministero affari esteri italiano: è un progetto triennale, iniziato a maggio 2014, che fa seguito ad altri due progetti con lo stesso donatore susseguitisi nel 2012 e 2013. E’ un progetto educativo, sempre nello stato dell’Eastern Equatoria. Negli anni precedenti, AVSI ha lavorato alla riabilitazione di scuole. Con questo nuovo progetto ci concentriamo maggiormente sulla formazione degli insegnanti di scuole elementari e medie e sul supporto agli studenti della School of education del St. Marys College di Juba, con borse di studio. La scuola è supportata da Avsi e forma – come Università – gli insegnanti delle scuole elementari. Si tratta di un intervento importante ed è una grossa sfida oltre che un rischio: è una visione di sviluppo per un paese in piena emergenza. In un momento in cui tutti puntano sulla distribuzione di cibo e di beni di prima necessità, Avsi prova a investire nello sviluppo, contando su una presenza costante nel paese. Lavorare nell’educazione significa fidarsi del fatto che le persone abbiano un’immagine del loro futuro e che non pensino solo ad arrivare a fine giornata vivi. Significa fidarsi del fatto che c’è qualcosa di più del giorno per giorno. Abbiamo, poi, dei progetti di Education in Emergency, dove lavoriamo con bambini, genitori e insegnanti, attraverso un accompagnamento psicosociale. Inizieremo presto un progetto simile qui a Juba, in uno dei campi degli sfollati interni (Internally displaced people), quelli che sono scappati dai combattimenti e dalle “persecuzioni”, dallo scoppio della guerra lo scorso dicembre. Le persone nei campi rifugiati hanno paura a uscire, vivono nel terrore di essere nuovamente in pericolo.
Se dovessi spiegare, in sintesi, a un lettore, magari anche a un giovane lettore, cosa succede in Sud Sudan, come glielo spiegheresti? Sai che qui in Italia si parla poco di realtà simili…
Quando sono tornata qui a gennaio, dopo l’evacuazione dello scorso dicembre, la percezione era di trovarsi in un luogo instabile. La percezione era, poi, che la gente pensasse solo a trovare il modo per andare via. O comunque, che ancora più del solito la gente fosse in grado solo di pensare all’oggi. Nessuna prospettiva per nessuno. E da lì la domanda del perché stare qui se quelli che stanno qui, per primi, se ne vogliono andare. Tutto ti fa pensare che non può che andare male. Per tutti.
Il Sud Sudan è lo stato più giovane del mondo, nato il 9 luglio del 2011, dopo 20 anni di guerra con il nord. Prima era un unico Sudan. I sud sudanesi, quando sono arrivata, facevano una vita che mi pareva normale. Sapevamo che lo stato era nuovo, uscito dalla guerra, e che, dunque, poteva essere molto instabile. A luglio dell’anno scorso, proprio in questo periodo, il Governo ha mandato via alcuni rappresentanti della forza di opposizione, che, fino ad allora, era stata integrata nel governo anche come segno di una volontà di pacificazione tra due fazioni diverse, appartenenti alle due diverse etnie principali i Nuer e i Dinka.
Il presidente Salva Kir, guerriero, soldato e di etnia Dinka, ha cominciato a spargere semi della discordia. Già allora si temeva la guerra. Ci avevano detto di essere pronti all’ibernazione (stare in casa o nel compound con acqua e cibo sufficienti, un telefono satellitare carico e funzionante) o all’evacuazione. Poi non è successo nulla e abbiamo ripreso la vita normale, seppur faticosa, ma credendo di stare in pace. La notte tra il 15 e il 16 dicembre, hanno iniziato a combattere. Mi stupisco perché, quando parlo di quel momento, a fatica riesco a dire “quando è scoppiata la guerra” perché quello che viviamo da qui non è una guerra. Ma in realtà la guerra c’è. E’ un conflitto a bassa intensità, che ogni tanto ha dei picchi in cui l’intensità aumenta (come il 5 marzo scorso, quando abbiamo sentito lo stesso rumore di combattimenti sentito quella notte) e ti senti ripiombato nel nulla. Nei tre stati al nord del paese (Unity, Jonglei e Upper Nile) la guerra continua. In questi giorni si parla, più di prima, di rischio carestia per 4 milioni di persone. La gente è scappata, non ha un posto dove stare e non ha campi che producano mais o sorgo. Non hanno potuto coltivare nel periodo dell’anno in cui è possibile farlo. Sono arrivate le piogge e non si coltiva. Non porterebbe frutto. E il cibo non può raggiungere quelle zone del nord. Il commercio non funziona, i trasporti sono quasi impossibili, per le piogge e per la guerra. Gli aiuti umanitari non arrivano. Ci sono grandi proclami, ma gli aiuti arrivano solo grazie a qualcuno che ha il coraggio di percorrere strade di fango e di distribuire il cibo a piedi.
Qui ci sono guerra e povertà. Ogni tanto l’informazione ne parla, ma poi passa il momento. Le persone, tuttavia, soffrono e muoiono, per guerra, fame e malattie. In tutto questo ci siamo anche noi, che facciamo di tutto per portare avanti una vita normale, soprattutto perché vorremmo lo facessero anche i sud sudanesi. E lo facciamo perché vogliamo stare qui, con una presenza vera, che vada aldilà di una guerra che cancella ogni pensiero sul futuro. Vogliamo che la vita quotidiana che sia degna di questo nome.
Ti ho visto in televisione quando, a causa della nuova guerra esplosa tra le diverse fazioni armate, sei stata evacuata con un ponte aereo organizzato dall’Unità di crisi della Farnesina – a gennaio, ma correggimi se sbaglio. Immagino quanto tu fossi tesa e provata, ma il tuo sorriso era lì… Inutile forse domandarti “ma come fai”?
L’aereo ci ha portati prima a Gibuti e poi in Italia, il 20 di dicembre 2013. E’ stato un momento di cui parliamo spesso. Tante amicizie sono nate in quell’occasione. Quando sono salita sul C130 della Farnesina ho pianto finalmente, dopo giorni di tensione. Sono stati solo 3 giorni, ma di continue telefonate di coordinamento con i colleghi delle altre basi (che sono usciti dal Sud Sudan via terra, andando in Uganda e da lì in volo fino in Italia) e con la sede in Italia. Non mi sono mai sentita sola. Ho scoperto che gli spari di notte mi provocavano una reazione di spavento, fisica. Ero stanca, dormivo poco. Ma non mi sono mai sentita sola o troppo spaventata. Forse il ruolo, accompagnato dalla presenza degli amici e colleghi. Mi ricordo la telefonata via skype con papà la sera prima dell’evacuazione. Mi chiedeva di raccontargli cosa stava succedendo. Con i miei genitori è stata una condivisione tra adulti, una parte del “bello” di quel momento.
Mi piace questa domanda “come fai?”. Ogni tanto mi fermo a guardarmi. E vedo tutte le fatiche, che sono fatiche diverse da quelle cui ero abituata. La prima risposta è che tante volte ho pensato “io non ce la faccio” e poi c’era sempre qualcuno che mi faceva compagnia. Qualcuno che mi faceva sentire parte della realtà. Come faccio… semplicemente mi succede che riesco ad accorgermi del germoglio verde sul tronco che sembra secco. Questa cosa non me la do da sola. Non riesco a convincermi di essere felice. Non ci sono mai riuscita. Ho sempre voluto una vera felicità, una vera pienezza. E qui, con tutta questa fatica, sarebbe impossibile riuscire a “raccontarmela”. Dunque, è sempre la realtà che mi tira fuori dallo sconforto dalla tristezza, dalla fatica e dalla solitudine. Ecco… sono felice di farcela, perché vedo quanto questo sguardo mi faccia essere lieta e adulta nella migliore delle sue accezioni. Le relazioni, gli incontri, le amicizie e il desiderio inarrestabile – e sempre più forte – della felicità.
Ho letto la tua intervista su Famiglia Cristiana dello scorso febbraio, nei giorni in cui erano stati sospesi i negoziati di pace tra ribelli e Governo, previsti ad Addis Abeba, in Etiopia, nello stesso mese. Nelle tue parole si leggeva comunque una ferma volontà a proseguire in una ricerca. Quella del Bene comune? Ma come si fa a crederlo in situazioni simili?
Sì, una ricerca di cui sono intrinsecamente fatta, forse perché l’ho vista in tante persone che ho incontrato durante la mia vita, nelle amicizie e sul lavoro. Una ricerca che ritrovo anche in te. Quella della compiutezza, della letizia. Cerco la felicità nel quotidiano. E, paradossalmente, è qui che lo sto imparando. E quello che imparo qui mi serve per amare di più il luogo da cui provengo. Non è una questione di credere, ma di cercare ogni giorno quel “Bene comune” di cui parli. Che parte dal mio bene. Il mio desiderio più grande è quello di essere felice in ogni istante (chi non lo vorrebbe?). E forse la fatica che si vive qui rende più intensa ed evidente le bellezza dell’attimo, degli incontri, l’importanza di un messaggio degli amici dall’Italia. Ogni tanto ci sono cose, situazioni, che mi fanno sobbalzare il cuore. E allora penso che è proprio in quel tuffo al cuore che trovo il Bene. E basta solo stare a guardare, perché accade ogni giorno, anche qui.
Il tuo “Diario dal Sud Sudan” su Sussidiario [leggi] prosegue con cadenza quasi settimanale, da febbraio. Ci parli della bellezza che non c’è (o che c’è?)?
La bellezza che non c’è la trovo nei bambini sporchi e che se ne vanno in giro a piedi scalzi nel fango, o che si lavano i denti nel canale di scolo dietro il nostro ufficio. Nel fatto che gli adulti intorno a loro non se ne accorgono. La bellezza che non c’è l’ho vista nello sguardo perso e nelle botte prese da uno dei nostri autisti finito in carcere, l’ho vista nella lotta finita con la morte a forza di botte di Sebit, un altro nostro autista. Con la storia di Sebit ho iniziato a scrivere. E ricordo quel periodo (gennaio) come veramente intenso e in qualche modo “bello” nonostante il dramma di ciò che succedeva – è stato quando siamo rientrati in Sud Sudan dopo l’evacuazione di dicembre. La bellezza è in tutto ciò che mi sorprende. Una nuova collega con uno sguardo aperto alla realtà, i racconti di bellezza da chi non è mai riuscito a vederci nulla di bello qui, le risate con i colleghi. E il silenzio quando succede qualcosa di terribile. Silenzi pieni. La bellezza è nella sorpresa di trovare il bello, senza raccontarsela. La bellezza s’impone, è evidente, succede. Non sono io che la faccio, ma è lei che mi viene incontro. La bellezza delle lettere degli amici (poche, ma quando arrivano è una festa). E quella della condivisione.
Da “persona che s’informa sui fatti”, ma anche da amica, ti seguo e siamo anche in contatto sui social network. Ti vedo sempre attiva, nei limiti, immagino, dei tuoi impegni. Noto con piacere che, fra tutte le difficoltà, oltre a trovare il tempo di scrivere – e anche bene, lasciamelo dire – fotografi molto. Com’è nata questa tua passione per la fotografia e cosa preferisci far entrare nei tuoi scatti? Ossia cosa t’ispira veramente?
Ci pensavo in questi giorni. La settimana scorsa ero sul terreno, tra le montagne di Isohe, per una visita ai nostri progetti sanitari. Ho fatto fotografie che a rivederle mi commuovono. Sembra quasi che non le abbia fatte io, per la reazione che mi provocano. Ci tengo a farle, a sistemarle quando torno a casa, a condividerle con i colleghi qui e con gli amici. Ci penso ogni volta, se valga la pena o no renderle “pubbliche” attraverso i social network. Poi penso che sì. Perché tenere per me il mondo che vedo? Dunque, fotografare mi piace per rivedere meglio quello che forse a volte preferisco vedere di sfuggita. Alcune cose preferisci non guardarle. Almeno, non direttamente. La fotografia da una parte si “mette in mezzo” tra me e il disastro, lo sporco, la tristezza, la povertà, ma anche tra me e la bellezza e l’umano. Si mette in mezzo e allo stesso tempo è ciò che mi fa guardare meglio le cose, le persone e i posti che amo, qui. Quello che m’ispira veramente, che ho voglia di fotografare, sono i dettagli e le persone. I volti, ma allo stesso tempo le “composizioni” che riesco a vedere “come in fotografia” quando vado in giro. Mi piace fotografare da dietro persone che parlano, godendo della bellezza di quello scambio. Mi piacciono i volti rugosi dei vecchi sud sudanesi, che pur avendo 50 o 60 anni ne dimostrano un centinaio. Mi piace perché le loro fotografie sono quasi dei dipinti. Mi piace sempre tanto fotografare i bambini, perché ti corrono incontro. E appena mostri la foto che hai fatto, ne arrivano altrettanti a farsi fotografare. La fotografia mi avvicina a chi mi sta attorno e, allo stesso tempo, mi permette di guardare le cose dalla giusta distanza. Quella che mi commuove. La fotografia mi è sempre piaciuta, perché posso fermare la bellezza dell’istante, che rincorro fotografando.
Se ti dovessi, infine, definire con tre parole e tre aggettivi, quali useresti?
Lacrime, inquietudine, corsa; sensibile, insicura, sorridente.
Progetti, dopo il Sud Sudan?
Non si placa il mio desiderio di imparare e conoscere. Non ho idea di come questo si realizzerà, ma i criteri saranno quelli di tenere seriamente in considerazione tutto quello che so fare e che ho imparato nel lavoro (non solo qui, ma anche quando lavoravamo insieme), di considerare seriamente e con cura le mie debolezze e le mie paure, di continuare a seguire ciò che mi fa dire ogni giorno di stare spendendo la vita per la mia felicità (che di conseguenza diventa anche quella degli altri). Non voglio fermarmi. Sulle Dolomiti ho imparato il bello del cammino. Vorrei continuare a camminare.
Immigrati digitali, nativi digitali, generazione app. Ormai le generazioni non si scandiscono più biologicamente ma secondo mutazioni tecnologiche. Viviamo l’epoca dell’app-coscienza, dell’app-visione del mondo, basterebbe un giusto assortimento di app per avere una vita davvero appagante.
Negli ultimi cinque anni, il gruppo di ricerca Project zero di Harvard, diretto da Howard Gardner, ha portato avanti numerosi studi sul tema della gioventù oggi, per comprendere in che misura e in quali modi i giovani del nostro tempo differiscono dai loro predecessori. Feltrinelli ne ha pubblicato i risultati: Howard Gardner e Katie Davis, Generazione APP. La testa dei giovani e il nuovo mondo digitale.
Osservazioni, dialoghi, interviste sistematiche a ragazzi, dalle scuole medie all’università, per comprendere non già la generazione dei nativi digitali, ma quella addirittura successiva: la generazione app. Giovani che vedono ormai il mondo come un insieme di app e le loro stesse vite come una serie ordinata di app e, in molti casi, come un’unica app che funziona dalla culla alla tomba.
«Perché nel futuro dovremmo aver bisogno della scuola? In fondo le risposte a tutte le domande sono contenute in questo smartphone, o presto lo saranno», è la domanda provocatoria di uno studente.
L’emergere delle tecnologie digitali in generale, e delle app in particolare, ha creato una generazione unica: plasmata dalla tecnologia; con una coscienza fondamentalmente diversa dalle precedenti e, molto probabilmente, destinata a fare strada a una serie di generazioni ancora più brevi e a loro volta definite dalla tecnologia.
Tre aspetti della vita dei giovani sono maggiormente influenzati dalla tecnologia digitale: il loro senso di identità, la loro capacità di avere relazioni intime e la loro facoltà di immaginazione.
La ricerca identifica una generazione di giovani sempre più pragmatici e concentrati sulla carriera, oltre che più concreti e meno ideologici. Le loro identità sono prematuramente determinate, sono programmate come se fossero una app. Sono molto più concentrati sulla “gestione della vita quotidiana” che sul tentativo di sviluppare progetti a lungo termine. Le app sono scorciatoie, rendono le interazioni molto più veloci, più semplici e meno rischiose.
L’atteggiamento pragmatico caratteristico degli studenti di oggi si colloca nel contesto di una più generale tendenza della società a una concezione individualistica, opposta all’orientamento comunitario e istituzionale dei decenni passati.
Non deve trarre in inganno l’aumento del volontariato e dell’imprenditoria sociale tra i giovani, la motivazione di tale tendenza nasce più dal desiderio di riempire il proprio curriculum che dal fare qualcosa per la società.
La crescente attenzione in ambito educativo, rivolta ai test standardizzati e ai punteggi calcolabili pare essere la principale causa dell’aumento di passività nei giovani e della loro avversione al rischio. Negli Stati uniti, iniziative federali come No child left behind e Race to the top hanno subordinato i finanziamenti governativi ai punteggi degli studenti, imponendo così a ogni scuola di organizzare l’intero programma scolastico in vista dello sforzo di migliorare i risultati degli studenti in tali test.
L’industria dei test non è indifferente a questa “atmosfera app” fatta di classifiche, calcoli e curriculum preconfezionati. Questo tipo di ambiente educativo incentiva l’avversione al rischio, mettendo in cima alle priorità la scelta dell’opzione corretta in un test a risposta multipla; inoltre rischia di accentuare l’ansia al punto che un fallimento al test non solo diminuisce le possibilità di accedere all’università, ma può portare a far licenziare un insegnante o a far chiudere una scuola.
I media digitali stanno trasformando e continueranno a trasformare l’educazione. L’educazione non è più un concetto limitato all’età scolastica, ma riguarda l’intera vita. L’educazione comincia appena un bambino è in grado di giocare con telefoni, tablet e telecomandi, e continua per tutto il tempo in cui una persona è attiva nel mondo.
Viviamo in un tempo in cui le persone possono studiare o tentare di acquisire nuove capacità, quando vogliono, alla velocità che desiderano, da sole o con altri, con o senza un attestato o altre forme di certificazione. L’idea di un percorso scolastico e formativo unico e valido per tutti è ormai considerata un anacronismo, se non un crimine.
La mentalità app sempre più nutre il “digito ergo cogito”, la convinzione assai pericolosa di una educazione fai da te che non necessita di aule, laboratori, relazioni con le persone, con docenti ed esperti.
Ocse e Banca mondiale hanno contribuito a lanciare nel mondo l’idea che il corpus di conoscenze da apprendere sia quello indicato dall’acronimo STEM: scienza, tecnologia, ingegneria e matematica, una sorta di quartetto app. Che esista un unico modo corretto di insegnarlo e un altrettanto unico sistema per misurarne i risultati: i test a scelta multipla, somministrati da una macchina e valutati da una macchina, emessi dall’Educational testing service.
L’incubo che si possa classificare ogni studente, ogni insegnante, addirittura ogni paese sulla base dei risultati ottenuti con questi metodi che si presumono corretti ed esaurienti, sta diventando ogni giorno sempre più una realtà.
Al momento ci consoliamo all’idea che nessuno dei grandi da Dante a Eliot, da Newton ad Einstein, da Raffaello a Picasso si sarebbe distinto stando a queste valutazioni. Ma siamo altrettanto convinti che l’educazione sia troppo importante, e troppo complessa per essere data in appalto alle app dell’Educational testing service o del GERM, Global educational reform moviment dell’Ocse e della Banca mondiale.
Da MOSCA – Un uomo spazza il marciapiede, rapido, veloce, a tratti fulmineo. Le foglie cadute dagli alberi vicini continuano a disturbarlo, il vento inclemente e freddo continua a portarne.
La bandiera dell’Ambasciata palestinese sventola con la stessa forza ed energia di quelle foglie un po’ ispide e dispettose. Quello spazio è talmente ordinato che è quasi trasparente.
Sono le sette e mezzo di un fresco mattino estivo, di ieri resta poco. La sera prima, il ricevimento dell’ambasciatore si era concluso con successo, tante signore ingioiellate e macchine blindate dai vetri spessi e rigorosamente velati di nero. Poco alcol ma tanta musica, balli, chiacchiere e segreti sussurrati. Storie di coppie, di fidanzamenti, di tradimenti e magari di spie. Lui era partito poco prima dell’inizio della festa e aveva sbirciato e intravisto personaggi noti dell’alta società moscovita, tutti sorridenti e ben vestiti. Aveva finito la sua giornata di oltre dodici ore, sempre uguale, sempre eternamente lunga, sempre così faticosa e inutile. Spazza il marciapiede la mattina, e poi pomeriggio e sera, e ancora mattina-pomeriggio-sera. Spazza pure il cortile, mattina-pomeriggio-sera. Sempre gli stessi gesti, la stessa salopette blu. Tutto deve essere lindo, sempre, nessuna foglia-ramo-rametto, carta-cartina-cartaccia, o peggio ancora nessuna gomma da masticare. Lo incrocio ogni mattina, questo signore che vigila sul lindore dell’entrata all’ambasciata palestinese, un uomo che sento più volte chiamare Yuri. Yuri vieni qui per favore, Yuri vai là, Yuri torna un attimo indietro, Yuri cosa fai, Yuri come mai, Yuri cosa dici, Yuri dove sei. E Yuri arriva, placido e rassegnato, come ogni mattina, come ogni sera.
Quasi sempre alla stessa ora mattutina, mentre passo io, Yuri si scansa per lasciar passare quattro uomini muscolosi e alti, dai capelli biondi rigorosamente a spazzola, che sbarrano la strada e fanno entrare qualcuno nella macchina blu parcheggiata a vista lungo il marciapiedi, forse lo stesso ambasciatore che la sera prima aveva accolto i suoi gentili e illustri ospiti.
Poco più in là vedo avvicinarsi alcuni ragazzi con una bottiglia di birra in mano. E’ la prima volta che li noto e sicuramente passano di lì casualmente, ma lo scenario è di vera suspense, quasi da film alla James Bond e io m’immagino chissà cosa. Cosa ci fanno con una birra in mano di prima mattina? Nascondono o tramano qualcosa? Cosa si dicono? Divertente vivere qui certe volte, l’ambiente, fatto di stereotipi, si presta, la fantasia vola davvero lontano, mentre sullo sfondo di ogni mio passo e pensiero si staglia l’imponente edificio del Ministero degli esteri, uno dei grattacieli staliniani detti le sette sorelle.
Un giovane garzone che trasporta le bombole d’acqua destinate alla vicina banca carica goffamente la sua mercanzia su un carrellino che non potrebbe reggere nemmeno qualche valigia. Parcheggia lontano dall’entrata della banca, non può sostarvi troppo vicino. Due gatti miagolano e attraversano la strada, un corvo vola su un tetto, un’ombra bianca che ricorda l’omino della Lagostina è proiettata sul muro a fianco dell’ambasciata. Quasi vigile accompagnatore del nostro buon Yuri. O forse è semplicemente il suo angelo custode che lo accompagna ogni mattina.
Sì, perché ancora non lo sapete, ma Yuri arriva da un paese in guerra, scampato ai più terribili orrori. Spazzare quel marciapiedi, al cospetto di un ambasciatore tanto gentile, per lui oggi è la salvezza. Terrà, quindi, lindo quello spazio. Rigorosamente.
Massimo Caramori è un personaggio, un coltivatore sui generis. La sua, ci tiene a sottolinearlo, non è un’azienda agricola ma un piccolo fondo rurale. Coltiva piante da frutto antiche e insolite varietà di patate e pomodori. Prima di rilevare il fondo di famiglia a Gradizza di Copparo faceva tutt’altro: formazione artistica – Scuola d’arte, diploma di Restauro conservativo – e esperienze professionali precedenti nel ramo commerciale di varie aziende. Ma la passione per la terra ad un certo punto è riemersa, prendendo il sopravvento.
Massimo, perché dici che la tua non è un’azienda agricola quando, di fatto, produci e vendi i prodotti che coltivi?
Sulla carta sono imprenditore agricolo, certo, ma io non mi sento tale perché imprendere per me significa fare un tipo di mestiere legato a regole socio-economiche che sinceramente, per quanto riguarda la mia piccola realtà rurale, non mi appartengono. Non sono coltivatore diretto perché non ne ho i requisiti: non ho abbastanza terreno, non ho quelle colture che ti portano a fare un certo numero di giornate lavorate l’anno e che automaticamente ti danno la possibilità di diventare coltivatore diretto, e quindi anche di poter usufruire di tale posizione a livello previdenziale, di reddito, ecc. Diciamo che mi sento conduttore di un organismo rurale.
Cosa ti ha spinto, ad un certo punto, a cambiare vita e ritornare alla terra?
Siamo una famiglia di contadini, e io la terra ce l’ho nel sangue, per me lavorare in campagna è vitale, non potrei più farne a meno. Fortunatamente mia moglie e miei figli hanno condiviso la scelta, e mi aiutano quando possono.
Da qualche anno ti stai specializzando nella coltivazione di frutti antichi, come mai questa passione?
L’idea principale che mi ha portato a coltivare i frutti antichi è stata di volerli riportare a me, riportare a me i frutti che mangiavo da bambino e che mio nonno, mio padre e i miei zii avevano coltivato per una vita, per uso familiare prima ancora che commerciale. Tutti i poderi una volta avevano il “broli” (in dialetto ferrarese), sorta di frutteto familiare che serviva per il proprio sostentamento; un giardino pieno di alberi da frutto, ce n’erano di tutti i tipi, si poteva gustare di tutto, dalla prugna alla ciliegia, fichi, pere, mele, uva, alberi da frutto che erano lì da cinquant’anni. Per un bambino come me, era come essere in paradiso. Coltivare frutti antichi per me significa riprendere da là, da dove ci eravamo fermati, perché, citando Ermanno Olmi da L’Albero degli Zoccoli, “Per andare avanti, dobbiamo fare un passo indietro” e, dicendo questo, lui dimostrava di aver già capito che la nostra civiltà sarebbe arrivata al capolinea, e che avremmo dovuto recuperare metodi e stili di vita di una volta: il biologico, la permacoltura, il biodinamico non sono altro che questo.
Non dev’essere così facile procurarsi le varietà antiche, tu a chi ti sei rivolto?
Vero, non è facile. Dopo varie ricerche, ho rintracciato la Vivai Belfiore, un’azienda florovivaistica toscana specializzata in frutti antichi. I conduttori dell’azienda sono grandi appassionati che, tramite ricerche storiografiche e studi scientifici su quadri e affreschi rinascimentali, sono riusciti a risalire alle discendenze di molte piante, e darne origini quasi certe di antichità.
Mi dicevi che sei molto orgoglioso, in particolare, di essere riuscito a riportare in vita la “pesca della vigna”, come mai?
Tutti i peschi che ho piantato producono frutti a pasta bianca, ossia le varietà più antiche, in quanto le gialle sono subentrate storicamente dopo. Ma la “pesca della vigna”, ha una particolare rilevanza storica. E’ una varietà tipica dell’Italia centro-settentrionale che è esistita fino agli anni ’50, hanno smesso di coltivarla quando hanno cominciato a tirar via le vigne, è stata “eradicata”, per utilizzare termini tecnici, insieme alla vigna. La “pesca della vigna” si chiama così perché si maritava con gli olmi, i pioppi e, appunto, con la vite: i padroni ne mettevano qualche pianta tra i filari perché serviva a dissetare gli operai durante la vendemmia, senza doversi assentare dai campi; essendo poi spicca, questa pesca era perfetta per tale uso, non aveva bisogno di essere tagliata, si apriva in due facilmente, evitando di sgocciolare e sporcare. Si trattava in sostanza di una sorta di marketing di fine Ottocento che riprende il detto popolare che dice “il villano è furbo ma il padrone è bieco”: il padrone, attento al suo bilancio, aveva capito che offrire ai lavoranti qualche pesca era più conveniente che mandare appositamente una persona a procurare dell’acqua e distribuirla a tutti i lavoranti in una sorta di pausa collettiva, ma anche che così non gli avrebbero mangiato dell’uva che, questa sì, avrebbe costituito una fonte di reddito una volta trasformata in vino.
Oltre ai frutti antichi, da qualche tempo ti sei appassionato anche alle orticole particolari, come la patata viola e i pomodori neri. Raccontaci dove li hai trovati e perché ti interessa così tanto sperimentare nuove colture…
Per noi ferraresi può essere una novità, ma la patata viola è una varietà salutistica molto apprezzata e conosciuta nel mondo. Proveniente dalle montagne del Perù e del Cile, e importata in Italia dai francesi, la patata viola è un prodotto alimentare che ha proprietà organolettiche straordinarie, tanto da posizionarsi addirittura sopra al mirtillo come antiossidante e per la vista, sopra alle melanzane come quantità di antocianine contenute (sostanze che combattono i radicali liberi e contrastano l’invecchiamento delle cellule, prevenendo il tumore all’intestino e al pancreas, un toccasana per l’organismo. La pianta della patata viola è molto robusta e non teme la siccità, ma produce pochissimo e i suoi tuberi sono molto piccoli. Questa pianta, quindi, non interessa al commerciante perché non produce in grande scala: una piantina di patata viola non produce 1 chilo di patate, come generalmente fanno le altre varietà, ma all’incirca 200 grammi. Ovviamente, a causa della sua bassa produttività la patata viola costa molto, il triplo/quadruplo della patata gialla.
Di pomodori, invece, di che colori ne hai?
Ne ho di viola, neri, rossi e gialli. Sono piantine che costano molto, 3.50 euro a piantina a fronte di 0,50 il pomodoro normale. Ma io sono un amante dei pomodori e desideravo coltivarli, provarli, assaggiarli, ed effettivamente li ho trovati eccezionali, gustosissimi. Ma la cosa curiosa è che li ho acquistati a Parma, nell’azienda fondata dalla produttrice di Sex and the city! Si chiama Roberta Mell, è un’americana che nel 2009, all’apice del successo televisivo, ha lasciato gli studi della Fox e della Hbo di Hollywood e New York, per venire a coltivare pomodori in Italia. La sua azienda ora coltiva quasi 150 varietà di pomodori biologici di ogni forma e colore, provenienti da tutto il mondo, con l’obiettivo diffondere le varietà antiche tra gente che ha un piccolo orto o un piccolo terreno, come il mio, piuttosto che nelle grandi aziende. Siamo accomunati dalla medesima filosofia e siamo entrati subito in sintonia. Quando sono andato a visitare la sua azienda e le ho portato del pane ferrarese. Un bellissimo incontro.
Difficile resistere al fascino di questa storia. Contattiamo telefonicamente Roberta Mell che si dice felicissima di raccontarci dell’incontro con Massimo e dei suoi adorati pomodori.
Ho conosciuto Massimo a maggio, mi ha contattato e poi è venuto con sua moglie a trovarmi in azienda. Il mio non è un business è una passione, e quindi sono felicissima quando incontro persone con cui condividere l’amore per i pomodori e un certo stile di vita. Io vengo da Hollywood, sono esperta di pubblicità e di marketing, ma non mi sono trasferita in Italia per fare dell’export. Quello che mi preme di più è entrare a far parte della comunità in cui vivo e contribuire allo sviluppo di una nuova cultura del gusto con le mie ricerche nel campo della coltivazione dei pomodori. Nonostante non sia un’agronoma, ormai sono una vera e propria esperta, ho clienti in tutt’Italia, e chi compra le mie piantine poi ritorna sempre. Quest’anno, per esempio, una grande azienda storica toscana, che ha sempre trattato le stesse varietà di pomodori, è venuta da me e ne ha provate di nuove: sono rimasti contentissimi e io sono molto soddisfatta per aver contribuito a unire novità e tradizione. Che poi si tratta di novità per gli italiani, nel senso che tutte le mie varietà hanno una grande tradizione, storie che risalgono anche a centinaia di anni fa, solo che si tratta di tradizioni provenienti da altri Paesi.
Ho visto sul tuo sito che hai varietà provenienti da tutto il mondo, Cina, Ucraina, Bulgaria, Usa, ecc. Come fai a procurartele, viaggi o te le fai spedire?
Entrambe le cose, viaggio molto ma mi piace anche fare degli scambi tra amici, ho un’amica che mi spedisce varietà rarissime. Io non vendo mai nuove varietà senza prima provarle, devo coltivarle per verificarne gusto e caratteristiche, e per conoscerne la storia: le varietà antiche intrecciano la storia naturale con quella dell’umanità. Ogni anno provo una decina di nuove varietà, e imparo nuove storie. Al mondo ne esistono circa 4000 varietà, ho ancora molto lavoro da fare!
Come ti è venuta l’idea di coltivare pomodori in Italia? Non ce ne sono già abbastanza di aziende che trattano questo prodotto?
Io sono un’amante dei pomodori. In California, da maggio a settembre, ci sono grandi mercati di frutta e verdura in tutti le città: la gente aspetta un anno per l’altro, per assaporare le tante varietà di pomodori presenti. Di aziende ce ne sono tante in Italia, ma trattano sempre le solite varietà. Io mi sono detta: “Possibile che in Italia, il Paese dei pomodori, non ci siano mercati di questo tipo?” E allora ho cominciato a coltivare le antiche varietà.
Pensa che in molti, all’inizio, mi avevano sconsigliato di coltivare pomodori, perché dicevano che gli italiani vogliono solo i pomodori rossi. Io non ero d’accordo, perché gli italiani sono sì amanti delle tradizioni, ma sono anche molto attenti al gusto e all’aspetto. E ho avuto ragione, pensa che qualche tempo fa è venuto a trovarmi un pizzaiolo proveniente dalla Campania che mi ha comprato uno scatolone di ciliegino nero. Mi piacerebbe entrare di più in contatto con il sud del Paese, perché i pomodori che coltivo hanno un sapore superiore e so che sarebbero molto apprezzati… ma diamo tempo al tempo, senza fretta. Sto cominciando a partecipare alle diverse fiere delle orticole in giro per l’Italia, proprio per far conoscere queste antiche varietà.
Ma ciò che amo di più è passare le giornate in campagna, lavorare all’aria aperta, guardar crescere i miei pomodori, con le head phones alle orecchie (cuffie) e il mio cane che mi scodinzola dietro. Impagabile.
Per saperne di più:
– sul “Piccolo fondo rurale Il Pontino” di Massimo Caramori visita il sito agrizero.it
– sulle “Varietà Antiche” di Roberta Mell visita il suo sito
Non ho vissuto gli anni ’60-’70, purtroppo. Lo dico a malincuore perchè dai racconti dei miei genitori alcune esperienze sembravano magiche. I ragazzi ti invitavano a ballare i lenti nei locali notturni, per fare l’amore si cercavano posti nascosti e quei luoghi diventavano segreti preziosi da custodire gelosamente, i giovani lottavano per i lori diritti, uniti. Tante cose erano per me migliori un tempo, per quanto non le abbia vissute in prima persona, ma le conosca solo per esperienze mediate e racconti tramandati. Eppure vi è un punto su cui non riesco a prendere posizione: non so se i rapporti tra genitori e figli fossero migliori un tempo od oggi.
Prima estrema rigiditá, ora assoluta libertá.
Non vi era molto dialogo tra una generazione e l’altra; vi era piuttosto un rapporto basato sul rispetto dei figli e l’autoritá dei genitori. Ai giovani venivano sicuramente imposte più limitazioni: orari di rientro serale molto più stretti, relazioni amorose che non dovevano manifestarsi all’interno della casa dei genitori, minor quantitá di denaro da spendere a proprio piacere. I limiti erano maggiori, le regole erano più ferree, ma i giovani conoscevano il significato della parola “rispetto”. Oggi la situazione si è completamente rovesciata.
Quando all’ora di pranzo mi affaccio alla finestra vedo ragazzini di 13/14 anni che, usciti da scuola, parlano inserendo parolacce e bestemmie in ogni frase. Sugli autobus è all’ordine del giorno imbattersi in gruppi di ragazzini, spesso femmine, che parlano (o meglio urlano) noncuranti della gente intorno a loro; lanciare un’occhiata d’intesa o chiedere di abbassare la voce non è mai servito ad altro che a ricevere insulti in risposta.
Un pomeriggio mi è capitato di assistere ad una scena sconcertante: in un negozio del centro cittadino: una ragazzina insisteva con la madre affinchè le comprasse una costosissima borsa firmata MiuMiu. Non sembrava minimamente importarle che l’accessorio costasse un occhio della testa, voleva solo averlo, a tutti i costi. Ricordo che mi colpirono, da un lato, l’arroganza dell’adolescente e, dall’altro, la rassegnazione di una madre che dopo inutili tentativi di dissuasione, cedeva alle richieste della figlia anzichè rimproverarla per la maleducazione mostrata.
L’impressione che oggi ho costantemente è quella di aver di fronte giovani che hanno acquistato potere e genitori che si sono “rammolliti”. Piuttosto che litigare, la “danno sempre vinta” ai propri figli. Ora, io non sono ancora madre, molte cose non posso capirle, ma basandomi sul rapporto che ho con i miei genitori, mi rendo conto che la mia è una fortuna che pochi hanno. Li ho sempre visti entrambi come le mie guide, i miei insegnanti, i miei modelli di riferimento, ma anche come due amici, due confidenti, due persone a cui poter sempre dire tutto, su cui poter sempre fare affidamento.
Ma il dialogo è il grande assente dei nostri giorni. Le due generazioni anzichè confrontarsi e darsi consigli, limitano le conversazioni all’essenziale. I ragazzi vogliono, anzi pretendono, sempre più libertá. Questo impulso nasce con l’adolescenza, quando è il gruppo dei pari a diventare il modello identificativo principale, mentre il genitore inizia ad essere messo in discussione. Ma se manca il dialogo la colpa deve essere distribuita ad entrambe le parti?
Credo che ogni caso vada analizzato singolarmente. Ho amici che, nonostante non abbiano avuto una infanzia felice a causa della grande assenza dei genitori, sono persone con solidi principi; altri che, al contrario, malgrado gli infiniti sforzi dei genitori, hanno preso strade pericolose, prendendo a modello la gente sbagliata.
Affinchè ci sia un buon rapporto tra le due generazioni devono esserci fiducia e rispetto reciproci. Non sono una psicologa e non sono un genitore, ma sono una figlia e i consigli che posso dare dipendono solo dalla mia esperienza in quanto tale. Mi sono sempre fidata di entrambi i miei genitori, ho sempre raccontato loro tutto, le cose belle, quelle brutte, quelle che mi facevano paura e quelle su cui ero insicura, l’ho sempre fatto perchè mi fido del loro parere, perchè so che hanno molti anni d’esperienza alle spalle e perchè loro molte cose le hanno giá vissute. Dal canto loro sono sempre stati degli ottimi ascoltatori, tolleranti, comprensivi. Grazie al dialogo non ho mai avuto bisogno di nasconder loro nulla, ogni problema è sempre stato affrontato: a volte facilmente, altre con pianti e grida, ma è stato risolto, ed è questo ciò che conta.
Quel che noto oggi non tanto nei miei coetanei, quanto nella nuova generazione del 2000, sono una grande maleducazione ed una profonda arroganza; mentre l’assenza è un difetto molto diffuso tra i genitori.
Viviamo in una realtá in cui i valori fondamentali perdono sempre più di importanza, tra questi la famiglia e il matrimonio. Sempre meno coppie si sposano e tra queste sono poche quelle durature. I figli di divorziati sono in costante aumento: spesso i figli nascono quando i genitori sono addirittura giá separati e diventa sempre più difficile insegnare loro quando non si trovano punti d’accordo comuni. Inoltre gli adulti tendono a concentrarsi molto sulla carriera, lasciando che i bambini trascorrano la maggior parte della giornata con baby sitter o i nonni.
Sono due generazioni, quella dei genitori e quella dei figli, che sempre più si allontano l’una dall’altra, viaggiando su binari divergenti, in mondi diversi dove prevale l’egoismo individuale. Per rincorrere i propri sogni, le mete ancora non raggiunte, spesso gli adulti vedono gli anni dedicati ai figli come una rinuncia parziale alla propria vita e cercano di recuperarli sacrificando il rapporto con questi. Ogni rinuncia fatta per i propri figli non dovrebbe essere considerata come tale, ma come il piacere piu gratificante che la vita ti possa offrire.
Dibattito vivace e interessante quello di giovedì sulla crisi, che ha visto protagonisti Marco Cattaneo, Luigi Marattin e Giovanni Zibordi: confronto serrato, con qualche intemperanza verbale – da una parte e dall’altra – regolarmente sedata. Solo il finale è stato spiacevole: durante l’intervento conclusivo Marattin, ripetutamente interrotto (nonostante i richiami) da Zibordi, ha abbandonato la sala. Una decisione lecita la sua. Inevitabile? Sì, secondo il diretto interessato. No, secondo Fornaro che, in un commento su ferraraitalia, interpreta diversamente l’accaduto: pur non sottacendo l’episodio delle interruzione, ritiene che Marattin abbia agito d’impulso assecondando un’indole poco incline al contraddittorio.
Da questa asserzione Marattin si sente “calunniato”. Me lo ha fatto sapere con una telefonata dai contenuti sgradevoli, minacciando querela nei confronti dell’autore e del sottoscritto che, in quanto direttore, è responsabile della pubblicazione.
Io però, anche dopo un attento riesame del testo, continuo a non ravvisare nello scritto di Fornaro elementi diffamatori, ma solo l’affermazione di un soggettivo punto di vista. Stando così le cose non ho motivo per rettificare. Ritengo che le opinioni, anche quelle non condivise, vadano rispettate e non censurate. Se altri la pensano diversamente, in caso di controversia sarà il giudice a pronunciarsi.
La linea di questo giornale è basata sul rispetto della libertà di espressione: prova ne sia che dopo Fornaro è intervenuto un nostro collaboratore, Raffaele Mosca, sostenendo un punto di vista opposto. E’ auspicabile che il confronto prosegua serenamente. Le minacce non ci spaventano. E tutti i pareri, se formulati in termini civili, troveranno sempre spazio e diritto di manifestazione.
Argomento poco estivo, mi si dirà: adatto perciò a questa strana estate, potrei rispondere. E comunque l’estate, almeno sin dai tempi giurassici delle rassegne a prezzi popolari di vecchi film nei cinema non ancora chiusi per ferie e per tacere degli immancabili “gialli”, è il regno dello splatter, di vampiri, assassini spietati e serial killer, di alieni feroci. Non siamo perciò del tutto fuori tema. Poi l’odio di cui vorrei parlare è un odio molto specifico, di nicchia si potrebbe dire; di quelli però che mai si tramuteranno in violenza fisica e che quindi possono essere guardati persino con un po’ di simpatia. Perché l’ossessione e l’accanimento inspiegabile sono da sempre fonti inesauribili di comicità.
Veniamo al punto. L’odio in questione è quello che un certo numero di militanti attempati (non me ne vogliano per l’aggettivo, ma così è) della sinistra non riescono a nascondere nei confronti dell’attuale presidente del consiglio e segretario del Pd. Sgombriamo subito il campo dagli equivoci: non mi riferisco alle critiche più che legittime di coloro che, giovani e meno giovani, non sono d’accordo con lui, cosa che peraltro ogni tanto capita persino ai suoi estimatori, ma a quel vero e proprio fastidio, quasi fisico, che molti provano nei suoi confronti: da renderne insopportabile persino il modo di parlare, di vestirsi e di muoversi. Si odia veramente qualcuno se, tolto tutto il resto, alla fine gli si imputa il semplice fatto di esistere.
Sui social network è facilissimo riconoscerli: sono quelli che tutte le sante mattine non riescono a reprimere il bisogno di commentare, quasi sempre con aggettivazione pesante e toni apocalittici, l’ultima nefandezza del loro incubo (c’è n’è immancabilmente almeno una nuova) o quelli che, di qualunque cosa si parli, non resistono alla tentazione della battuta tanto malevola quanto fuori contesto. L’odio d’altra parte è fatto così. Si alimenta di sé e tende a crescere senza limiti per poi esplodere in un atto inconsulto; altrimenti, come in questo caso, raggiunto l’apice pian piano si richiude su se stesso e cova sotto la cenere nella forma di sordo rancore, di solito esteso all’intero universo, reo di non avere capito. Per il momento siamo ancora nella fase crescente, sia pure direi verso la fine.
Chi odia molto spesso si sente vittima di un sopruso ingiustificato oltre che incomprensibile; qualcosa che travalica almeno in parte la razionalità e non può perciò essere inscritto in un contesto compiuto di rapporti di causa effetto. Si odia soprattutto perché non si capisce. Se, come narrano gli apocrifi, il Cristo bambino non avesse dato vere ali agli uccelli che stava modellando avrebbe forse anch’egli odiato chi li voleva schiacciare. I nostri invece, incapaci di miracoli, odiano colui che ritengono aver rotto definitivamente il loro giocattolo preferito, che si portavano dietro dall’ultimo quarto del secolo passato e che in quegli anni era stato la fonte di molti dei loro sogni e della loro speranza. A ben guardare erano marchingegni assai precari, ammaccati dalle botte di tangentopoli, dai calci di Bertinotti, privi dei pezzi smontati dal cacciavite di D’Alema a cui Veltroni aveva sostituito parti non originali, arrugginiti dalla birra rovesciata di Bersani, ma a cui erano affezionati, se non altro perché gli ricordavano la giovinezza. Quando il mondo era più semplice e i buoni erano tutti da una parte ed i cattivi dall’altra, quando la Cina era solo un sogno rivoluzionario finito così così e si marciava uniti contro Agnelli e Pirelli “ladri gemelli”. Come per tante cose vecchie molti di loro, forse i più feroci, in realtà non ricordavano nemmeno più bene dove fossero andato a finire, in cantina, in solaio, nella tavernetta, nella casa del mare; messi lì per far posto alle meraviglie degli anni ’90 e ai nuovi stili di vita ed usati sempre più raramente: rare serate d’inverno, vecchi amici, vecchie canzoni e qualche buona bottiglia.
Capita a volte di andare al cinema con qualcuno e dai commenti all’uscita essere portati a credere che l’altra persona abbia visto un film diverso. Questa è esattamente l’impressione che ho avuto leggendo l’intervento su questo giornale di Giuseppe Fornaro a commento del dibattito di giovedì scorso alla “Sala della musica” fra l’assessore Marattin ed il duo Cattaneo-Zibordi.
Dibattito acceso, né poteva essere diversamente stante le diverse impostazioni teoriche dei partecipanti, ed anche interessante, finché nel finale – Marattin doveva rispondere alle ultime tre domande del pubblico, Zibordi, come invasato da furore mistico, ha preso ad interrompere reiteratamente l’assessore impedendogli di fatto di parlare ed usando nei suoi confronti espressioni al limite dell’insulto (più o meno: “ho vent’anni più di te ed ho studiato più di te, quindi ne so più di te”). Tanto per fare un paragone, per chi non c’era, sembrava di assistere ad un remake del mitico “incontro” in streaming fra Renzi e Grillo, con l’unica differenza che Marattin, vista la totale inutilità di provare a rispondere, assieme a parte dei presenti, ha deciso di andarsene. Quali siano state le cause scatenanti di tanta aggressività non è dato sapere, sia pur tenendo conto dell’asprezza che a volte caratterizza le discussioni fra accademici, categoria rispetto alla quale Zibordi ha comunque dichiarato essere per lui un punto d’onore non appartenere.
Poiché il dibattito era pubblico ed è stato registrato, sarebbe utile metterne in rete anche solo gli ultimi 5 minuti per dare modo a chi non c’era di capire cosa sia veramente successo. Per quelli che invece c’erano ed hanno capito altro temo non ci sia nulla da fare; d’altronde le opinioni sono sacre: su questo la penso come Voltaire.
L’articolo di Fornaro si dilunga poi in una lunga serie di considerazioni polemiche sull’operato passato e futuro dell’amministrazione comunale in carica, eredità evidente quanto incongrua della campagna elettorale appena terminata, ma del tutto fuori contesto rispetto ai temi discussi giovedì scorso.
Chiusa questa per me doverosa precisazione, veniamo al merito delle questioni su cui si è incentrata la maggior parte della discussione. Va subito osservato che i tre relatori si sono detti fin dall’inizio d’accordo sul fatto che per alimentare una reale ripresa economica sia necessario immettere in circolo una sostanziale massa monetaria, essendo questo l’unico modo per risollevare una domanda che langue ormai da troppo tempo. Anche sull’entità di tale intervento, almeno in ordini di grandezza, vale a dire qualche centinaio di miliardi di euro, i pareri erano tutto sommato convergenti. Il dissenso è invece nato sulle modalità con cui realizzarlo.
Mentre Cattaneo e Zibordi hanno illustrato la proposta contenuta nel libro che hanno pubblicato congiuntamente e che consiste sostanzialmente nella distribuzione a titolo gratuito a cittadini ed imprese di particolari titoli finanziari di scopo, emessi dallo Stato ed utilizzabili dopo due anni esclusivamente per pagare le tasse, Marattin sosteneva che un risultato analogo lo si potrebbe raggiungere semplicemente riducendo le tasse per un importo corrispondente.
Le maggiori distanze fra le diverse posizioni sono però emerse quando si è passati ad analizzare le cause della crisi attuale; lì, inevitabilmente, sono apparse in tutta la loro forza le diverse impostazioni dei relatori, che comunque, sia pur con accenti abbastanza diversi, hanno convenuto su alcuni punti fermi, in particolare sul troppo potere detenuto dagli istituti bancari e sulla loro scarsissima propensione a mettere in circolo le pur notevoli risorse di cui sono state dotate dalla Bce. A questo punto Zibordi si è lanciato in una presentazione, vero nucleo “teorico” della proposta sostenuta assieme al collega, dalle cui numerose slide avrebbe dovuto emergere come del tutto evidente il concetto che le ragioni della crisi sono esclusivamente il frutto della perdita della capacità di stampare moneta da parte degli stati europei, a seguito dell’introduzione della moneta unica (cambi rigidi, prima; euro, poi). A suo giudizio, se non ci fosse l’euro, per fare ripartire l’economia sarebbe sufficiente che lo Stato, tramite la banca d’Italia, stampasse una quantità di moneta sufficiente a far ripartire l’economia; l’inflazione che inevitabilmente ne conseguirebbe potrebbe essere, sempre a suo parere, controllata dosando opportunamente tale immissione di liquidità.
Rispetto a tale impostazione, della cui fondatezza teorica non mi pare il caso di discutere in questo contesto, sia Marattin sia alcuni interventi dalla sala contrapponevano alcune considerazioni di natura strutturale, dal lato dell’offerta per dirla nel gergo degli economisti, sulle condizioni in cui opera il nostro tessuto industriale, con riferimento all’efficienza della pubblica amministrazione, alla pressione fiscale ed alle infrastrutture, rispetto ad esempio a tematiche come quella della delocalizzazione. L’ipotesi di Zibordi, che ha liquidato quelle osservazioni come rumore fuorviante, da questo punto di vista è del tutto consolatoria, perché sembrerebbe che stampare moneta sia tutto quello che serve per ritrovare la crescita e la competitività, senza necessità di cambiare null’altro. Di eliminare le storture e l’arretratezza del nostro sistema industriale, ridisegnare un moderno sistema di infrastrutture, dai trasporti alla larga banda, riformare una delle pubbliche amministrazioni meno efficienti e più permeabili alla corruzione del pianeta.
Anche qui, sia pure in modo diverso rispetto alla teoria liberista, emerge uno strano concetto di “mano invisibile”, secondo il quale la prosperità economica di un Paese, indipendentemente dal contesto competitivo internazionale e da tutto il resto, parrebbe essere il semplice frutto dell’attività delle rotative della zecca dello Stato.
Linda ha paura della notte e il giorno non le procura nessun entusiasmo. Una vita specchiata, un matrimonio solido e un lavoro invidiabile non fanno la felicità di questa donna poco più che trentenne, abituata alla tristezza, alla routine dei gesti sicuri, ormai insapore.
Per Linda, protagonista di “Adulterio” (Bompiani, 2014), l’ultimo romanzo di Paulo Coelho, non c’è un problema evidente né un fatto a cui dare la colpa di questo male di vivere così preciso nella sua fenomenologia, ma anche così vago nelle sue cause. “Allora, è così?”, è stato sufficiente per Linda chiederselo, un mattino di primavera, quando è pronta la colazione per la sua famiglia felice.
È tutto perfettamente stabile in questa vita prevedibile, in questo stile di aspettative corrisposte, nessun sussulto, nessun gemito.
Linda si avvita su se stessa, (“sono una donna divisa tra la paura che tutto cambi e il terrore che ogni cosa rimanga immutata sino alla fine dei miei giorni”), teme la depressione, si guarda vivere mettendosi dalla parte dello spettatore, impietosa verso la propria immagine di donna illusa di avere avuto sempre tutto sotto controllo all’ombra di una falsa sicurezza, accanto a un marito amorevole e comprensivo.
Un giorno, per lavoro, Linda incontra Jacob che diventerà il suo amante, occuperà le sue notti insonni e diventerà il motivo vero della menzogna. La trasgressione dell’adulterio la rende ebbra e incosciente, la vita ora scorre, nell’incertezza, verso un obiettivo tra singhiozzi ed entusiasmi. È amore? Chi può dirlo. Jacob è di sicuro uno strumento che ha catapultato Linda da un sonno lungo anni oltre la soglia del limite fino a quel momento concepito, “sì, è possibile che non lo ami davvero. Ma amo ciò che ha risvegliato in me”, passione, paura, odio per un’altra donna, piacere, spasmo. Linda affronta il proprio mistero vivendo una vita parallela e fruga dentro di sé alla ricerca di risposte.
Uno sciamano cubano la invita ad abbandonarsi alla notte, a lasciarsi inebriare dalla sensazione di infinito, “la notte è anche un cammino verso l’illuminazione. Proprio come un pozzo scuro sul fondo del quale c’è l’acqua che vince la sete”.
E allora solo sfiorando il buio e il pericolo e andando avanti in questa avventura, Linda può arrivare a vedere e a capire che non si trattava di grande amore, ma solo di passione carnale, “mi sono concessa un meritato regalo, dopo tanti anni di comportamenti integerrimi”. Non serve rinunciare a tutto per Jacob, non occorre svelare al marito l’abisso in cui stava per smarrirsi.
D’un tratto il fardello si fa più leggero, Linda può recuperare il rispetto verso se stessa grazie a quel marito che non la condanna scegliendola ancora una volta.
Per liberarsi di tutto e rinascere, compiranno insieme un volo in deltaplano, una catarsi individuale e di coppia, un tuffo in avanti e un salto nel vuoto dove i confini non si scorgono più.
La tavola rotonda di giovedì 24 luglio, “Una via d’uscita dalla crisi: proposte concrete
per la ripresa economica” organizzata da ferraraitalia è stata da un lato un’occasione
di approfondimento sprecata, non certo per demerito del moderatore, dall’altro
l’occasione per toccare con mano, ancora una volta, quanto le diverse scuole di
pensiero in campo economico fatichino a trovare un punto di incontro.
L’occasione mancata credo vada attribuita innanzitutto all’assessore al bilancio del
Comune di Ferrara Luigi Marattin, uno dei relatori, per la sua arroganza irritante. Ha
esordito male definendo “una setta” i sostenitori degli altri due relatori, Marco
Cattaneo e Giovanni Zibordi, e ha concluso peggio alzandosi e abbandonando la sala
per essere stato interrotto da Zibordi. Un atteggiamento di chi non tollera di essere
contraddetto e che pensa che ogni luogo sia un’aula universitaria dove lui insegna e
dove può tenere monologhi indisturbati. Una caduta di stile che non si addice a chi
dovrebbe sentirsi sicuro delle sue posizioni.
Il punto è proprio questo. E qui affronto prima una questione politica, poi entrerò nel
merito delle questioni dibattute. Marattin è un tecnico chiamato ad amministrare la
cosa pubblica e come tutti i tecnici (ne abbiamo avuto prova a livello di governo
centrale) affezionati alle proprie teorie, pensa che l’amministrazione della cosa
pubblica sia un laboratorio dove attuare esperimenti di economica politica, dove la
ricerca pura può essere trasferita nell’applicazione concreta senza che ciò possa
produrre dei danni. Anzi, sono talmente convinti della bontà delle teorie che non ne
vedono gli effetti negativi. Le teorie neoliberiste, di cui Marattin è un sostenitore,
hanno fatto in tutta Europa centinaia di migliaia di morti. In Italia credo che l’apice si
sia toccato col governo Monti. Qui sta il vulnus. La politica, quando si affida ai tecnici,
si spoglia del proprio ruolo di indirizzo e di filtro tra le teorie e le soluzioni proposte
dagli esperti e le istanze che provengono dalla società. Questo ruolo di interposizione,
di filtro, di mediazione (in senso alto del termine) è proprio il compito e il ruolo
specifico della politica che deve saper valutare costi e benefici anche in termini di
consensi e quindi di benefici per la larga parte della società. Quando salta questo ruolo
di mediazione i costi pagati dalla collettività sono molto alti. Ora, Marattin, come
Monti, anche se su un sedicesimo, incarna nella stessa persona entrambe le figure:
l’accademico affezionato alle proprie teorie e l’amministratore pubblico fiero di
applicare quelle teorie alla società.
Ma la società non è un laboratorio dove si può mettere in conto la perdita delle cavie. Faccio un esempio concreto. Marattin fa un vanto pubblico la riduzione delle imposte comunali di cui è artefice perché ritiene, come gli altri due ospiti della serata, che occorra un’immissione di liquidità nel sistema, così comincio ad entrare nel merito. Dice che nonostante la riduzione delle
tasse, sempre per fare un esempio, è stato aperto un nuovo asilo nido a Ferrara.
Bene, nessuno può dire di essere contento di pagare le tasse e sono contento per i
genitori che troveranno maggiori disponibilità di posti. Ciò che non dice Marattin è che
quell’asilo nido è affidato in gestione a dei privati, i quali assumono le educatrici non a
tempo indeterminato, non a tempo determinato, ma a giornata, attraverso la
corresponsione del salario con dei voucher, dei pezzi di carta che il datore di lavoro
acquista in posta o addirittura in tabaccheria e che girerà al lavoratore che poi dovrà
andare a cambiare per trasformarli in soldi. È evidente a tutti la spersonalizzazione del
rapporto di lavoro. Il vantaggio per il datore di lavoro è la massima flessibilità nella gestione delle risorse umane, nessun diritto per i lavoratori (ferie, malattie e permessi), un consistente risparmio sui contributi previdenziali che sono versati in forma ridotta. Questo è il risultato. La barbarie nel mondo del lavoro introdotta in questo paese di cui Marattin sembra fiero sostenitore. Del resto il suo partito, il Pd, ha votato tutte queste leggi, quando addirittura non se ne è fatto promotore, vedasi il recente ddl sul lavoro del ministro Poletti. Mi fermo qui perché altrimenti si aprirebbe
un capitolo su come questa amministrazione comunale intenda le scuole di infanzia,
non come pubblica istruzione, ma come servizio di badantato.
Per quanto riguarda il merito del dibattito, Cattaneo e Zibordi per uscire dalla crisi
propongono un’immissione di 200 miliardi di euro da parte dello Stato sotto forma di
certificati di credito fiscale a due anni da distribuire ai cittadini con i quali essi pagheranno le
imposte e tutte le altre transazioni con la pubblica amministrazione. Secondo gli autori
del libro “La soluzione per l’euro” (Hoepli), questo sarebbe un escamotage per aggirare
il divieto di stampare moneta, potere di cui gli stati sovrani si sono spogliati per
affidarlo alle banche che si fanno pagare gli interessi da cui, in realtà, deriva il debito
dello Stato e non dallo sbilancio tra entrate e uscite che sarebbero coperte se ci fosse
la possibilità di stampare moneta. Con questi certificati di credito i risparmi dei cittadini
non sarebbero intaccati per il pagamento delle imposte e quella liquidità andrebbe in
circolo attivando un meccanismo virtuoso come se si fosse stampata moneta nuova.
Qui viene il punto di discordia, su cui Marattin ha insistito più volte tenendo una
lezione accademica molto tecnica e poco divulgativa. Secondo Marattin stampare
moneta significa innescare un meccanismo inflattivo pericolosissimo per l’economia,
ma soprattutto il rischio è che per raffreddare l’inflazione bisogna poi ricorrere a
nuove imposizioni fiscali. E qui il Marattin “politico” non è d’accordo, perché nuove
tasse significa minore consenso. E il Marattin economista spiega che le tasse
innescano un processo recessivo nell’economia. Punto. Insomma, Marattin è
furbescamente simpatico: usa il doppio ruolo per rafforzare scelte che sono
eminentemente politiche ammantandole per scelte inevitabili perché derivanti da una
verità rivelata. La sua. Quella accademica. Il giochino funziona dove ci sono bassi
livelli di scolarità, caro Gigi!
Comunque, io non sono d’accordo con i “due” Marattin. Eventuali nuove imposizioni
fiscali, in un contesto in cui lo Stato stampasse moneta in proprio e quindi l’economia
fosse in una situazione virtuosa, non avrebbero effetti recessivi per due motivi abbastanza
semplici e intuibili da chiunque: il primo, è che un prelievo fiscale, modulato a
decrescere nel tempo, interverrebbe in una fase espansiva dell’economia e dunque in
presenza di un’accumulazione della ricchezza prodotta. Pertanto, costituirebbe un
freno relativo a nuovi investimenti da parte dei privati e delle famiglie.
Il problema è che in Italia non si è mai fatta una seria ed equa politica fiscale. Tant’è
che i vari governi, fino, direi, ai primi anni Ottanta, rastrellavano risorse in modo
massiccio non attraverso la fiscalità, ma attraverso i titoli di Stato che acquistavano,
guarda caso, proprio coloro che avrebbero avuto da perdere da una seria politica
fiscale, coloro che avevano accumulato ricchezze. E paradosso dei paradossi lo Stato
si indebitava proprio con coloro che avrebbe dovuto colpire. Un debito che ci trasciniamo ancora oggi. Per questo sono d’accordo con Zibordi quando dice che l’austerità è servita alla rendita finanziaria per arricchirsi. Altrimenti non si spiegherebbe perché, per fare un esempio, i Merloni decidono di vendere l’Indesit, un’azienda florida, agli americani. Dove impiegheranno gli introiti della vendita? Sicuramente in speculazioni finanziarie. Intanto, il paese ha perso un altro marchio
mady in Italy.
Il secondo motivo, è che le entrate della fiscalità in uno Stato efficiente danno a loro
volta impulso alla spesa pubblica innescando una crescita e rendendo non più
necessaria la stampa di nuova moneta. E per spesa pubblica non intendo gli sprechi
che questo paese e questa città conoscono, ma spesa in ricerca, istruzione, salute,
trasporti pubblici, sostengo alle piccole imprese e alle imprese di giovani, welfare,
sostegno al reddito a chi malauguratamente perde il lavoro. Insomma, spesa in
benessere per i cittadini che può tradursi in crescita della produttività singola e
aggregata. Sarà anche per questo che la produttività dei paesi del nord Europa, dove
la spesa pubblica è più alta, è superiore alla nostra? Sarà mica che non è solo una
questione di arretratezza tecnologica, ma di benessere sociale?
Giorni fa, nel rullo costante di notizie che mi passano sotto gli occhi frequentando uno dei più comuni social network, ho letto che il Comune di Milano sta realizzando in piazza Duomo una grande aiuola fiorita, chiamare tutto questo giardino mi sembra eccessivo. Confesso di aver sperato che si trattasse di una bufala, invece no, faranno questo “splendido” intervento di riqualificazione verde della piazza, con tanto di assessore trionfante, che lo presenta come uno dei futuri biglietti da visita della città in occasione dell’Expo del prossimo anno, e ancor più gongolante perché l’operazione, promossa da sponsor privati, sarà a costo zero per il Comune nei prossimi tre anni, dopo non si sa.
Mi piacciono le piante, mi piacciono proprio tutte, non me ne viene in mente una che non sia bella, affascinante e piena di potenzialità, ma se c’è una cosa che rende le piante insopportabili è metterle nel posto sbagliato. Siamo in tempi di contaminazioni ad oltranza, i linguaggi si mescolano continuamente quindi perché la combinazione di un elemento rurale come l’orto in un contesto artificiale come una piazza, mi fa così arrabbiare? perché è la prova dell’insipienza di chi si occupa di verde nelle città, e in generale di urbanistica. Fare il riassunto in due righe di cosa sia la complessità urbana è un compito che non sono capace di sbrigare, ma forse qualcosa posso provare a chiarirla. Una piazza di città, una piazza come quella di Milano, caratterizzata da architetture e monumenti così forti e riconoscibili, è intoccabile; le città sono organismi vivi, non dovrebbero essere imbalsamate, ma per trasformarne certe parti è necessario avere montagne di coraggio e vere competenze. Quel coraggio che è servito per fare dei gesti potenti come la costruzione della piramide di Ming Pei nel cortile del Louvre a Parigi, che potrà non piacere, ma la sua forza architettonica e simbolica ha stabilito un dialogo così forte con la monumentalità del suo contesto da diventarne una sua parte. Per far dialogare l’artificialità di una piazza storica italiana con una cosa che appartiene ad una altro mondo, come quello della natura e della campagna, bisogna avere il doppio del coraggio e fare la rivoluzione con gesti dirompenti o di straordinaria finezza, cosa che un’aiuoletta con gli orticelli non ha. Insomma, quando vengono certe idee, bisognerebbe fare un bel respiro e cercare altre strategie, magari convogliando certe risorse altrove.
Le nostre città sono piene di spazi mutanti privi di qualità, in cui ci sarebbero infinite possibilità di sperimentazione e di trasformazione, attraverso interventi di verde pubblico progettati con criterio, che in queste parti di città rappresenterebbero una straordinaria operazione di riqualificazione urbana e sociale. Piazza Duomo e le sue sorelle sparse per l’Italia, non hanno bisogno di orticelli, ma di educazione, pulizia, civiltà e chiarezza, ingredienti mancanti che andrebbero diffusi ovunque, come un virus potente. La presenza di alberi nelle piazze è possibile, abbiamo un’infinità di casi in cui gli alberi sono parte integrante della piazza. Nuove piantagioni possono essere realizzate se adeguatamente fornite di ampie porzioni di terra, griglie protettive e traspiranti alla base del tronco, e magari dei bei supporti metallici ben progettati per proteggere e sostenere i tronchi durante la crescita, fatte le dovute analisi, e dopo averci pensato molto ma molto bene. Potrebbero anche starci, in un certo senso si tratterebbe di una Natura che si presta a parlare la lingua dell’artificio urbano e non pretende di essere ipocritamente naturale. L’ignoranza diffusa in questa materia porterebbe sicuramente ad osservazioni del tipo: “hanno sistemato la piazza che sembra un parcheggio della Coop”, e quindi per continuare a farci del male ecco che pianteranno una banale orto-aiuola in piazza Duomo, con le sue erbe aromatiche e le sue graminacee, non mancheranno fiorellini e altre leziosità, il tutto per fare qualcosa di ambientalistico che per essere conservato e mantenuto in ordine avrà bisogno di una infinità di ore di manutenzione, acqua ed energia varia, che mi chiedo chi pagherà quando lo sponsor privato chiuderà i cordoni della borsa. Una visione a corto raggio, tipica dei politici che ormai hanno una visione del futuro che arriva solo a fine mandato.
Proprio nel momento in cui la striscia di Gaza è nuovamente insanguinata e terribilmente sofferente, troviamo questo film del 2011 (ma appena uscito al cinema in Italia) che, con un vero e proprio tono di commedia farsesca, ci mostra, ancora una volta, quanto siano assurde e inutili le divisioni fra il popolo palestinese e israeliano.
Eccoci allora a sorridere di fronte a un insolito e segreto business che un pescatore palestinese, Jafaar, avvia a Gaza con coloni israeliani. Grottesco ma forte e intenso.
Jafaar (il bravissimo attore Sasson Gabai di La Banda del 2007, che abbiamo già recensito, leggi) pesca sardine e naviga davvero in cattive acque. Oltre a pescare pochissimo (anche perché, per le limitazioni dei palestinesi, i pescatori di Gaza non possono allontanarsi più di 4 miglia dalla costa) è perseguitato dai creditori e vive in una casa mal ridotta, polverosa e fatiscente, diventata la base di alcuni soldati dell’esercito israeliano che da lì sorvegliano la città.
Un bel giorno la sua malasorte pare perseguitarlo: durante una battuta di pesca, nella sua rete, che spesso si trovava piena di scarpe, cianfrusaglie e spazzature, resta impigliato un maialino vietnamita grigio scuro (e bruttino). Il maiale è un animale impuro sia per gli ebrei che per gli arabi e nessuno deve sapere che lo ha pescato. Cerca di ucciderlo ma non ci riesce. Poi cerca di venderlo, invano, a un funzionario tedesco delle Nazioni unite. Poco dopo, viene a sapere che i nemici di sempre, gli ebrei israeliani che abitano in una colonia vicino a Gaza, li allevano, nonostante l’impurità dell’animale. La moglie gli dice che gli israeliani allevano maiali perché capaci di trovare gli esplosivi… Storie, invenzioni, fantasie si succedono in un crescendo di situazioni paradossali ed esilaranti anche nel drammatico.
Jafaar decide quindi di approfittare della situazione e, con l’aiuto di una ragazza ebrea russa, avvia un business che lo arricchisce, lanciandosi in un’ingegnosa e rocambolesca iniziativa. Ma i veri guai, per lui, devono ancora iniziare.
Non manca anche un accenno al terrorismo, tra kamikaze, check-point, soldati e coloni: Jafaar per i suoi affari con gli israeliani viene considerato un traditore e, per sdebitarsi, dovrà fare un attentato kamikaze nella colonia ebraica, insieme al suo maiale, anch’esso imbottito di esplosivo.
Vi sono poi tante scene surreali come quella dei militari israeliani e di un gruppo di palestinesi che, insieme, danno la caccia al maiale che è scappato o quella della moglie di Jafaar che guarda insieme a un soldato una telenovela brasiliana. Tutti elementi che ci calano bene nella realtà martoriata della Terra Santa.
La morale della storia è un grido di speranza a una risoluzione imminente, quanto impossibile per ora, alla delicata questione israelo-palestinese, che il regista “risolve” con l’arrivo del maiale, animale impuro che per l’occasione diventa una specie di colomba della pace, in grado di mettere d’accordo due popoli sulla Striscia di Gaza. Il film, spesso esilarante ma intenso, merita davvero di essere visto, anche se il finale è un po’ troppo sbrigativo e frettoloso.
di Sylvain Estibal, con Sasson Gabay, Baya Belal, Myriam Tekaïa, Gassan Abbas, Khalifa Natour, Francia/Germania/Belgio 2011, 98′
Anche in Italia arrivano gli assistenti sessuali per disabili
Carla è la classica madre coraggio. Vive da sola con suo figlio, Luigi, 24 anni che è tetraplegico spastico da sempre. Abitano in un piccolo paese della provincia di Napoli. Luigi ha bisogno di tutto: di essere imboccato, vestito, spogliato, lavato. Non può uscire da solo, andare in bagno per i suoi bisogni fisiologici. Senza qualcuno morirebbe di stenti. Ma secondo Carla, a suo figlio, manca anche qualcos’altro. E’ triste. E’ lei sa bene il perché. «E’ un uomo in un corpo che non gli permette quasi nulla. Penso che gli manchi una ragazza, l’amore e perché no, anche il sesso. Manca a me che ho 64 anni, figurarsi quanto può mancare a un ragazzo di 24 anni. Ogni tanto sento dei rumori quando lo lascio in camera da solo. Lo so che sta facendo, anzi, che sta provando a fare. In quelle occasioni faccio finta di nulla, anche quando devo cambiarlo perché si è bagnato…o almeno ci ha provato». Da madre che vive e sente i bisogni del proprio figlio, Carla non ha nessun dubbio. «Luigi avrebbe bisogno dell’amore. Ma l’amore chi glielo può dare? L’amore non si chiede, o c’è o non c’è. Allora almeno una donna che sappia dare piacere e orgoglio a un corpo che è solo fonte di dispiacere e disprezzo. Che c’è di male? Certo, Ci vogliono enti, associazioni a cui rivolgersi. Luoghi in cui trovare donne preparate che sanno cosa fare. Donne che comprendono il bisogno e che non sono sprovvedute davanti a corpi così diversi».
Quella di Carla e Luigi è solo una delle tante storie che si possono trovare nel blog di Maximiliano Ulivieri (www.ilfattoquotidiano.it/blog/mulivieri/), blogger e web designer toscano, ma ormai bolognese d’adozione. Max da anni porta avanti in Italia la battaglia per l’introduzione della figura dell’assistente sessuale per i disabili. Un tema che negli ultimi tempi è stato portato alla ribalta internazionale dal film “The sessions – Gli incontri” di Ben Lewin e in Italia dal libro di Giorgia Wurth “L’accarezzatrice”. All’inizio di luglio, con il suo “Comitato per la promozione dell’assistenza sessuale in Italia” ha lanciato le selezioni per il corso di assistente sessuale. «Non abbiamo ancora definito le date – spiega Ulivieri – l’idea è quella di iniziare i corsi in autunno o al massimo a gennaio 2015. Anche la sede è da decidere. Ci appoggeremo agli enti e ai luoghi che ci daranno più supporto, io mi auguro di riuscire a farli a Bologna. In ogni caso, andremo dove ci daranno più aiuto». Intanto, la ricerca dei futuri assistenti sessuali è iniziata e alla fine del mese a Roma ci saranno i primi colloqui con i candidati. Sul ruolo di questa figura e suoi compiti, neanche a dirlo, sono nate tante perplessità. Qualcuno già li definisce come puri e semplici “sex worker”, niente di più e niente di meno che prostitute o gigolò. Per Ulivieri, invece, il loro ritratto è molto differente. «L’assistente sessuale è presente in diversi stati europei e va inteso come una forma di accompagnamento erotico che mira a far scoprire ai disabili la loro sessualità, intesa nel senso più ampio possibile, in un percorso verso la conquista di una maggiore autostima». Una guida nel mondo dell’eros, insomma, pensata per chi è stata negata l’esperienza di una sessualità “normale” per via della propria condizione. Ma quanto è alto il rischio di illudere le persone disabili? «L’assistente sessuale non tappa tutte le difficoltà che incontra un disabile dal punto di vista sessuale – chiarisce Ulivieri – anzi deve essere visto come un modo per iniziare un percorso di scoperta della propria sessualità. Di certo, è un aiuto, nel senso che consente comunque ad una persona di vivere quest’esperienza che altrimenti gli sarebbe preclusa. Perché non bisogna negare che nel rapporto con un’altra persona la disabilità sia un problema. E non bisogna credere a chi dice il contrario». Fabrizio Quattrini, psicoterapeuta e sessuologo, si sta occupando della selezione dei candidati per i corsi. I quaranta futuri assistenti sessuali, dovranno affrontare una formazione di 200 ore, comprese lezioni teoriche sulla fisiologia del corpo per avere chiari tutti i limiti, le risorse e gli aspetti pratici legati al contatto. Requisiti minimi il diploma di scuola superiore e preferibilmente aver raggiunto i 25 anni d’età. «Ma la cosa più importante – puntualizza Quattrini – è evitare persone che si candidano soltanto perché vogliono trovare un lavoro o perché dedite al “devotismo”, ossia a quella particolare forma di attrazione sessuale che alcuni hanno per le persone disabili. Ci deve essere una reale motivazione di fondo, una vocazione». La questione più nebulosa e gli interrogativi più grandi riguardano il reale svolgimento delle sedute. Cosa accade veramente? Non c’è una risposta. Semplicemente perché non ci sono regole ferree o tabelle di marcia da seguire. «Il problema più grande è cercare di formare persone ad un’educazione all’affettività e alla sessualità. Devono entrare in contatto con la persona in maniera affettiva, empatica. Sarà l’assistente sessuale a porre dei limiti. Se si percepisce un coinvolgimento bisogna interrompere, a meno che, ovviamente, non ci sia un sentimento reciproco. Non ci sono obblighi, l’assistente sessuale deve sentirsi libero di arrivare dove vuole. La sessualità deve essere vissuta a 360° e si può anche arrivare ad un rapporto completo. Questo non significa che si ha a che fare con dei “sex worker”». Altro aspetto che a tanti fa storcere il naso, è la partenza dei corsi senza ancora un riconoscimento giuridico di questa professionalità. «L’Italia è piena di queste figure che esistono, ma che non sono riconosciute – spiega Quattrini – io, ad esempio, sono sessuologo, ma ufficialmente sono uno psicoterapeuta. L’unica vera preoccupazione che abbiamo rispetto ai nostri corsi è che non vogliamo rischiare di essere accusati di induzione alla prostituzione».
Proprio per superare questo problema, Sergio Lo Giudice, senatore bolognese del Pd, ha presentato lo scorso 24 aprile un disegno di legge in Parlamento per il riconoscimento legale di questa figura. Ma da allora, come spesso accade, è ancora tutto fermo nei meandri parlamentari. «Purtroppo il ddl non è stato ancora calendarizzato – allarga le braccia Lo Giudice – c’è stato poco tempo per poter intervenire, c’è una lista d’attesa e ci sono stati tanti decreti del Governo che hanno avuto la precedenza. Fino ad ora non ci sono state grosse opposizioni, forse si è capito che bisogna affrontare in maniera laica questi temi». In realtà, come spesso accade per questioni che toccano la sfera della sessualità, le coscienze si dividono. Figurarsi se c’è di mezzo anche la disabilità. Sui social network e sui portali specialistici che trattano il tema sono tante le voci che si sono alzate, ponendo dei seri dubbi sull’opportunità di riconoscere giuridicamente questa professione anche in Italia. Una di queste è quella di Simona Lancioni, membra del gruppo donne dell’Uildm (unione italiana alla lotta alla distrofia muscolare). Simona vive a Livorno con il marito, affetto da atrofia muscolare spinale, una malattia che gli impedisce l’uso degli arti. «Questa proposta è ghettizzante per chi è disabile – attacca Lancioni – non si può riconoscere questa figura in un contesto come quello italiano, dove ancora la prostituzione non è regolamentata. In questo modo si manda un messaggio sbagliato, che presenta la sessualità di un disabile come diversa da quella degli altri. E io non penso che sia così». Ma le riserve riguardano anche altri aspetti del ddl proposto da Lo Giudice. «Penso che porti avanti una visione della sessualità meramente maschile, perché culturalmente l’acquisto di una prestazione sessuale è un’esigenza soprattutto degli uomini. Ci vorrebbe una proposta che tenesse presente anche il punto di vista femminile, perché è evidente che questo non è un modello che parte dalle donne».
Il dibattito è aperto, ma in questa agorà c’è una voce assente: quella delle associazioni dei disabili. La Fish (Federazione Italiana per il superamento dell’handicap), raccoglie tutte le associazioni più importanti impegnate sul fronte della disabilità. «Non abbiamo una posizione ufficiale in merito – riferiscono – sia perché ancora non c’è stato un dibattito compiuto su questa tema, sia perché la maggior parte delle associazioni affiliate alla nostra federazione ha altre priorità». A poco serve contattare le singole associazioni, come l’Anfass e l’Unitalsi, due tra le più importanti a livello italiano. Anche in questo caso, nessuna presa di posizione ufficiale. Un silenzio forse comprensibile, ma comunque eloquente. Fino a quando il dibattito non prenderà quota a livello istituzionale, probabilmente prevarrà l’impasse. Ma l’impressione è che durerà ancora per poco.
Un divertissement semiserio sulla nostra organizzazione del tempo: avete mai fatto caso a come abbiamo ripartito la settimana e ai simboli associati a ogni giorno? Il primo è lunedì; che sia il giorno dedicato alla luna lo conferma anche la nominalizzazione inglese “mo(o)nday”. La settimana incomincia e già ci girano… Luna storta, tutto da fare, attacca la solfa. Martedì scende in campo il dio guerriero, Marte. Ventiquattro ore sono trascorse e come al solito bene e o male ce ne siamo fatti una ragione: tocca combattere di nuovo, e allora avanti, ci si arma di pazienza e determinazione; siamo pronti a giocare la partita e schieriamo le nostre pedine.
Siamo a mercoledì, arriva in soccorso Mercurio dio dell’eloquenza e della comunicazione. Dopo avere sfoderato gli artigli e mostrato l’arsenale, è il momento della diplomazia: se vogliamo portare a casa il risultato dobbiamo trattare, dialogare, siglare le intese. Ed eccoci a giovedì. E’ il momento di stringere, di portare a sintesi, di concretizzare. Occorre dare il meglio per non vanificare gli sforzi compiuti e garantirci un buon esito. In aiuto ci viene Giove, la divinità somma, a lui ci appelliamo.
Venerdì, la settimana volge al termine e già pensiamo a ciò che ci attende: dormire, forse sognare; la bellezza del riposo, le tentazioni dei sensi… Il dì di Venere.
Sabato, finalmente! Il giorno di Saturno (saturday), e tutto ci gira intorno, adesso ci sentiamo i protagonisti. E’ qui la festa. E noi siamo il Re.
Infine domenica: per chi è devoto, il giorno del Signore (Dominus); per chi è agnostico, un giorno di contemplazione della natura (“sun”, sunday: il sole) e dell’universo (“dom”, la nostra casa). Per chi invece ha tristemente l’ego ipertrofico e si sente “dio in terra”, semplicemente un altro stucchevole momento di esaltazione, tripudio e autocelebrazione di se stesso: Signore e Padrone, Sole al centro del cosmo.
Una buona postura non è vantaggiosa soltanto per la colonna vertebrale, ma anche per il collo, le spalle e per la salute cardiovascolare. La tensione dei muscoli del collo e il rilascio di ormoni dello stress sono associati ad una cattiva postura, e tutto questo può far aumentare la pressione sanguigna. La connessione tra postura e salute del cuore sembra essere correlata sia allo sforzo muscolare sia ad un disallineamento della gabbia toracica e della colonna vertebrale, stato che influenza i polmoni e il cuore stesso.
Una cattiva postura cronica può influenzare la spina dorsale e la gabbia toracica, che a sua volta può avere effetti negativi sui polmoni e sul cuore. Nei miei anni di lavoro in campo osteopatico, ho osservato che se la colonna vertebrale non è in allineamento corretto, questo può ridurre la funzione della gabbia toracica, aumentandone la pressione sul cuore e sui polmoni. Facciamo il nostro lavoro d’ufficio ogni giorno, seduti con una postura sbagliata per nove ore, scadenze incombenti e stress continuo. Inevitabilmente si finisce con i muscoli del collo tesi e, col passare degli anni, lo stress ossidativo provoca una cattiva ossigenazione. Uno studio pubblicato sul “Journal of Neuroscience” suggerisce che la tensione continua dei muscoli del collo può contribuire ad un aumento della pressione sanguigna, perché influenza lo stato neurovegetativo. I ricercatori hanno trovato una connessione tra i muscoli del collo e l’attivazione di alcune aeree del cervello: un’eccessiva pressione sui vasi sanguigni della regione cervico-dorsale può scatenare reazioni riflesse in quelle cellule cerebrali che attivano i recettori (segnalatori) e far aumentare la pressione sanguigna.
Ovviamente ci sono molte altre cause di alta pressione sanguigna, ma questo è un ottimo esempio di come un problema muscolo-scheletrico può contribuire ad un peggioramento della propria salute. Curvarsi continuamente su un computer o comunque passando la propria giornata con una cattiva postura, può limitare il flusso di sangue nella parte posteriore della testa, con conseguente cefalea tensiva. Le restrizioni provengono dall’irritazione del nervo e da spasmi muscolari sul collo e sulla parte superiore della schiena. Se il flusso di sangue al cervello è fortemente limitato, può provocare un’insufficienza vascolare, con conseguenze anche gravi nel tempo.
Per prevenire tutto questo è utile fare prevenzione e dedicare una piccola parte del proprio tempo a se stessi, monitorando la pressione sanguigna senza stress e facendo le cose con calma e lentezza. Se i sintomi persistono, è consigliato affidarsi alle mani esperte dell’osteopata per ripristinare una buona postura con la tecnica del rilassamento muscolo scheletrico.
Rumeni bastardi, rumeni zingari, rumeni brutti. Ma anche: rumeni ubriachi, e “perché i rumeni vengono in Italia?” Sono queste le principali parole chiave suggerite da Google a chi cerca informazioni relative al popolo della Romania; i risultati sono frutto delle interrogazioni più frequenti formulate dagli utenti del web e delle associazioni semantiche definite da chi produce contenuti online.
Ma non basta. Il risultato ancora più agghiacciante è quello che si ottiene facendo la stessa indagine per immagini. Scrivendo “rumeno” (o “romeno”, i termini sono di fatto equivalenti) nel campo bianco del motore di ricerca più potente del mondo, nelle prime 15 pagine si ottengono quasi esclusivamente foto segnaletiche di criminali o presunti tali.
Occhi sbarrati, sguardi persi, visi devastati: è dunque questo il volto della Romania che emerge dal web. Furto di rame o saccheggi in appartamenti sono invece, nella maggior parte dei casi, gli episodi di cronaca che rendono il popolo rumeno protagonista di questa triste selezione multimediale.
Il criterio attraverso il quale Google seleziona i risultati per l’utente è quello dei “tag”, termine inglese che significa letteralmente etichetta, come quella che si appiccica ai barattoli per distinguere le spezie dolci da quelle piccanti. Ed è proprio per effetto di questi tag che – se “francese” è sinonimo di baguette, Tour Eiffel e della Rivoluzione – “rumeno” conduce a criminale. Sconcertante. Le parole sono importanti. E gli stereotipi fanno male. Anche sul web.
Dopo gli anni di crisi ci siamo chiesti quale fosse la temperatura del turismo in Riviera, il risultato è sorprendente: i flussi turistici sono rimasti stabili. E la ragione non è solo economica: “Costiamo poco e offriamo tanto”.
“Certo che la crisi si fa proprio sentire”; “ma quale crisi non vedi che i ristoranti sono sempre pieni?”. Quante volte abbiamo sentito nei bar discussioni come questa? Da che parte stia la verità è difficile dirlo, per provare a capirci qualcosa di più abbiamo analizzato un settore preciso: quello delle vacanze, nello specifico i dati turistici della Riviera romagnola e quello che è venuto fuori è un dato sorprendente. Il risultato è che tutto sommato la Riviera tiene, nel 2013, 3 milioni e 700mila italiani hanno soggiornato almeno una notte in una località compresa tra i Lidi di Comacchio e Cattolica, solo 100mila in meno del 2012, ma assolutamente in parità con i dati del 2007, sette anni e una crisi fa. Quello che fa la differenza semmai è il numero di presenze, cioè il numero totale di notti in cui i turisti hanno soggiornato in Riviera, che sono passate dai 28 milioni del 2007 ai 27 stiracchiati della scorsa stagione, tradotto vuol dire che la durata delle vacanze si è ridotta mediamente di un giorno in sei anni, gli italiani si sono dimostrati maestri di spending review anche nelle loro vacanze, non si rinuncia al mare, si razionalizza. Allora via con i fine settimana e le vacanze lampo, niente sprechi e caccia all’offerta. Il mondo è cambiato e anche i turisti sono cambiati, se nel 1983 la durata media dei soggiorni era di circa dodici giorni, oggi ci si avvicina sempre più alla settimana, ma anche il percorso di avvicinamento alla vacanza è estremamente cambiato. L’avvento di internet ha aperto alle prenotazioni on line ed alle recensioni, non sempre clementi con i piccoli alberghi della Riviera, ma anche in questo caso la costa romagnola ha dimostrato di poter recitare la parte del leone. Sia quest’anno che lo scorso, Rimini è stata la località italiana più ricercata dagli utenti di Trivago, il principale network al mondo di prenotazione e ricerca dei prezzi di camere d’hotel. L’osservatorio del popolare sito di prenotazioni conferma l’idea evinta dall’analisi dei dati: “Gli italiani non rinunciano alle vacanze, sicuramente cercano di ottimizzare il budget per concedersi anche solo una breve tregua, magari poco prima di ferragosto”, ha spiegato Giulia Eremita, Marketing manager di Trivago.it. La graduatoria del 2013 vedeva addirittura un tandem romagnolo al comando con Rimini e Riccione, rispettivamente prima e seconda, tra le mete italiane più ricercate per le vacanze nella settimana di ferragosto, per lo stesso periodo la Riviera Romagnola aveva piazzato anche Cesenatico nella Top 10 delle località più cliccate, preferite per i prezzi accessibili e per la buona disponibilità di camere. Lo studio di quest’anno ha invece considerato l’intera estate 2014, ancora una volta a vincere è Rimini mentre Riccione scivola al quarto posto e Cesenatico mantiene il piazzamento tra le prime dieci d’Italia. Il motivo di questo risultato sembra essere scontato, ci sono pochi soldi, la Riviera costa poco, i turisti la scelgono per quello, ma se guardiamo la classifica 2014 scopriamo che la seconda classificata è Gallipoli, una località non certo low cost e decisamente lontana per l’intero bacino del nord Italia, questo impone una riflessione più profonda su questi dati. Il sindaco di Rimini, Andrea Gnassi, ha provato a spiegare il motivo del successo della città sul mercato: “Ogni classifica deve essere presa con cautela , ma il risultato di questo genere di indagini statistiche ha una sua rilevanza nel delineare le dinamiche di stagioni sempre più incerte per gli operatori del settore. Il dato in sintesi che emerge è ancora una volta la capacità di Rimini di adattarsi in tempi rapidi al modificarsi delle condizioni del mercato grazie alla straordinaria poliedricità dell’offerta e grazie al clima e alle proposte che sappiamo offrire”. Quello che il sindaco non dice, ma fa trasparire, è il cambio di strategia che la Riviera ha messo in atto per mantenere la sua posizione dominante: a fronte di una capacità recettiva senza eguali in Italia e in Europa, si possono organizzare senza problemi tanti eventi in grado di richiamare molti turisti che, ormai disposti a viaggiare anche solo per pochi giorni, sfruttano il pretesto della Notte Rosa di turno per un weekend al mare. Su questo esempio sono nati numerosi eventi sul litorale che hanno fatto da volano per l’industria ricettiva, si stima infatti che nei soli giorni della Notte Rosa, giunta quest’anno alla nona edizione, il giro d’affari complessivo sui 110 chilometri di costa si sia aggirato intorno ai 200 milioni.
La Riviera risulta ancora attrattiva anche per i turisti stranieri, se gli anni Settanta sono stati gli anni d’oro del turismo scandinavo, dagli anni ’80 in poi è stato il bacino centro europeo quello più importante. I turisti di lingua tedesca (per intenderci Germania, Austria e Svizzera) hanno rappresentato lo zoccolo duro degli arrivi internazionali, nella scorsa stagione oltre 450mila turisti provenienti da quell’area geografica hanno trascorso le loro vacanze in riva all’Adriatico, ben lontani dal milione del ’98, ma ancora un mercato decisamente importante. Il decennio inizziato nel 2010 sarà però quello dei russi. I flussi turistici dall’area dell’ex Unione Sovietica sono cresciuti a doppia cifra negli ultimi anni, e il confronto tra 2012 e 2013 parla di un +17% di arrivi dall’Ucraina e +13,5% dalla Russia. In totale sono stati oltre 250mila i russi a villeggiare in Romagna. Sicuramente la crescita del mercato russo può spiegarsi con la grande promozione della Riviera fatta in Russia dagli operatori e dall’Unione di prodotto, ma anche dalla qualità del prodotto in grado di offrire in una vacanza mare, cultura e shopping. Anche il mercato dell’estremo oriente comincia a muoversi, quello cinese registra una crescita annuale del 15%, mentre cala leggermente quello giapponese, in tutto sono stati circa 7000 i turisti orientali a soggiornare in Riviera nel 2013.
El Refol, il nome non solo di un ristorante a Garda, ma la sintesi alta di chi è stato sul Lago di Garda alcuni giorni e ha sentito sulla pelle il soffio di un “vento” che ti fa sentire bene, anche se dopo ahimè devi ritornare dove sei nato e hai la residenza… L’itinerario che seguiamo è sulla parte orientale del lago: uscendo dall’entroterra veronese e sbucando a Garda, venendo dalla collina, ci si trova davanti una vista sempre bellissima che, giunti sul lungo lago toglie il fiato. L’intera area è pedonabile e le biciclette, tantissime, le porti a mano, anche solo per un tratto, quasi per un silenzioso rispetto che la visione sul lago ti impone senza che lo richiedano. Ci troviamo in un piccolissimo luogo, incastonato sotto le colline e dentro ad un piccolo golfo, uno dei pochi, e forse tra i più belli, borghi d’Italia. Ecco un breve racconto. Quarantaquattro alberghi, dieci residences, una quarantina di ristoranti, una buona metà si affacciano sul lungo lago, tantissimi fiori e ben curati, nessuna cicca per terra, una pulizia non stop, ti servono con un sorriso, anche se non domestico. Se di sera sei seduto in un localino per la cena, con una piccola candela sul tavolo, uno con la fisarmonica ti canta note conosciute degli anni ottanta. Molta cortesia, si sta bene, si mangia bene e ci sono tante gelaterie, tantissime, diversificati i topping e le varietà. Un porticciolo turistico, barche a vela, motoscafi, battelli di ogni grandezza e sempre pieni, animali acquatici, anche del pescato, persone di ogni età con prevalenza over sessantacinque, moltissimi tra tedeschi, inglesi e qualche italiano. Allontanandosi un po’ verso nord, trovi le Torri di Benaco, Castelletto e Malcesine e qui ti devi fermare perché è ancora più bello: qui la “bellezza” si esprime con stradine strette e ripide, strapiombi sul lago, tantissimi piccoli negozi, il monte Baldo e un lago con mille colori e dove il sole e il vento ti giovano e rinvigoriscono. Se poi vuoi un po’ di storia, non fai fatica nella lettura, perché qui sul lago tutto si incontra, tutto si intravede, tutto è armonia e bellezza. Scendendo nella bassa gardesana, devi proprio passare da Bardolino e da Lazise per sostare almeno un paio di ore a Sirmione, la cittadina di Catullo e di quel giardino di ulivi dove ti sembra di immaginare il paradiso. Là, sopra una spianata, tra le rovine di una mega villa romana del I secolo d.C., ti viene da aprire le braccia e declamare, con un sorriso pieno, alcune strofe, e subito sfocia un sentimento d’amore. Se ti metti a contarli tutti quei piccoli ulivi millenari, arrivi a ben settantasette. Qui, sul lago, tutto si integra e si fonda in un tutt’uno a dispetto delle diversità; non importa se sei bresciano, veronese, trentino o pachistano, un calabrese gentile, alcuni rumeni, sudamericani e molti nordici; quello che vedi e percepisci è che hai visto un pezzo d’Europa, quella che vogliamo e che qui si ritrova, in armonia. Sarà la bellezza, nella sua visione di immagini, la condizione che ti porta a dire che è possibile trovare e ritrovare un “Garda europeo”. Il racconto del viaggio porta a dire che l’Italia, con la sua millenaria storia, i suoi paesaggi, il bello ovunque, la cultura, i borghi, le persone, l’accoglienza, la voglia di futuro e altro ancora, può essere il luogo vincente perché ci sia una nuova Europa e tanti popoli insieme. Non è un sogno, né una utopia, se non ci credete fate un breve viaggio, anche se ci siete stati ancora, perché questo lago abbraccia, anzi di più…
Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa hanno dato vita alla New Development Bank (Nbs), la Nuova banca di sviluppo
La Banca avrà un capitale iniziale di 50 miliardi di dollari (poco più di 35 miliardi di euro), equamente divisi tra i cinque Paesi fondatori. La NBS avrà lo scopo di finanziare grandi progetti infrastrutturali congiunti, ma non solo. La banca disporrà infatti anche di un ulteriore fondo di riserva d’emergenza per altri 100 miliardi di dollari (circa 70 miliardi di euro, che permetteranno di evitare le pressioni a breve termine sulla liquidità. In sintesi, avrà lo scopo di fronteggiare le crisi finanziarie e la fuga degli investimenti stranieri. L’intento di questo fondo di emergenza, secondo gli analisti di Altroconsumo Finanza, è quello di evitare che si ripetano situazioni già viste in passato, sia di crisi molto gravi, come quelle valutarie degli anni novanta, oppure situazioni meno gravi, ma pur sempre capaci di creare tensioni su questi mercati, come quella dell’estate del 2013 quando sui timori del tapering negli Usa si era assistito ad una fuga di capitali dai molti dei mercati emergenti. Il risultato era stato un calo delle Borse e delle valute di questi Stati.
“Ora questo fondo è pronto ad intervenire” – commenta Vincenzo Somma direttore di Altroconsumo Finanza – “andando a tamponare l’eventuale fuga di capitali, sostenendo così le valute di questi Paesi oppure fornendo dei finanziamenti nel caso in cui questi Stati non dovessero riuscire a raccogliere i soldi di cui hanno bisogno sui mercati”.
La nuova Banca di sviluppo avrà sede a Shangai, in Cina, e il primo presidente di turno sarà un indiano. Ai ministri delle Finanze dei cinque Paesi spetterà il compito di costituire un consiglio di amministrazione che sarà presieduto dal Brasile. L’istituto avrà una sede regionale in Sudafrica e non esclude l’apertura in futuro ad altre nazioni, ma la quota complessiva dei Brics non dovrà scendere al di sotto del 55%. Dovrebbe diventare già operativa nel 2015.
“Si tratta di un’operazione volta a smarcarsi sicuramente dal Fmi e dalla Banca mondiale” – continua Vincenzo Somma – “dove il diritto di voto dei Brics raggiunge a malapena un 10% del totale, malgrado la rivalutazione della quota cinese nel 2010, ma soprattutto si tratta di un tentativo di de-dollarizzare sia la finanza sia il commercio mondiale. Dopo tutto, non è una novità la volontà da parte soprattutto della Cina di far diventare la propria moneta, lo yuan, una valuta sempre più internazionale, con la quale si possa pagare merci a livello internazionale (ora si fa in dollari) oppure erogare prestiti”.
Al via VolontariaMENTE l’innovativo progetto basato sui valori della solidarietà e del coraggio come sintesi fra formazione e mondo reale.
Il volontariato che fa curriculum si fa strada nel processo di selezione dei giovani candidati.
A Lecce le studentesse-volontarie lavorano al fianco delle detenute per la realizzazione dei manufatti a marchio “Made in Carcere”.
Tra loro anche una giovane studentessa di Ferrara, Francesca Furini.
La cultura non è soltanto quella che si apprende sui libri, ma è frutto di esperienze di vita. VolontariaMENTE è l’innovativo progetto della LUISS che coinvolge tra luglio e ottobre, 150 studentesse e studenti dell’Ateneo intitolato a Guido Carli. Invece di partire per le solite mete vacanziere, questi giovani hanno deciso di trascorrere la propria estate impegnandosi in attività di volontariato a forte impatto sociale ed etico.
Sono diversi i progetti che la LUISS ha messo in campo per i suoi studenti più motivati. Uno, in particolare, che ha preso il via lo scorso 8 luglio e durerà fino all’8 agosto, si tiene a Lecce e la città si tinge di rosa. Sono tutte ragazze, infatti, le giovani volontarie che per quattro settimane saranno al fianco delle 20 detenute impiegate nella produzione dei manufatti a marchio “Made in Carcere”.
Le studentesse, insieme con Luciana Delle Donne fondatrice di Officina Creativa, saranno coinvolte in tutte le direzioni di cui si compone Made in Carcere, contribuendo attivamente alle fasi che rendono possibile la realizzazione dei “manufatti di valore”: dall’organizzazione, alla logistica, al marketing sociale e alla produzione delle borse e degli accessori del marchio creato dalla cooperativa sociale.
Le studentesse faranno la spola fra il penitenziario di San Nicola, dove è localizzata una parte della produzione, e lo store di Officina Creativa. Un mese di formazione aziendale secondo le logiche delle imprese sociali, fenomeno economico in forte ascesa in Italia.
“Con questo progetto, ed altri simili che stiamo implementando in altre città italiane, la LUISS vuole trasmettere ai propri studenti il principio della contaminazione positiva, una visione basata sui valori della solidarietà e del coraggio, come sintesi fra formazione e mondo reale”, ha affermato Giovanni Lo Storto, Direttore Generale della LUISS Guido Carli. “Questo tipo di attività hanno un alto valore etico, ma al contempo uniscono teoria e pratica e contribuiscono a fornire ai nostri studenti un set di strumenti che possa aiutarli a diventare uomini e donne capaci di lavorare per alimentare lo sviluppo di cui questo paese ha bisogno”.
VolontariaMENTE nasce per formare un nuovo tipo di studente-laureato, aperto a molteplici contaminazioni e temi sociali, con l’obiettivo di arricchire il proprio profilo, non solo dal punto di vista umano ma anche e soprattutto professionale. Perché sempre più oggi il volontariato fa curriculum.
La possibilità di fare esperienze socialmente utili rappresenta infatti, per il mercato del lavoro, un fattore determinate per la selezione dei giovani all’ingresso e, per gli stessi laureati, un’occasione ulteriore e importante per disegnarsi il proprio futuro.
Tra le studentesse che hanno scelto di collaborare al progetto del marchio Made in Carcere c’è anche Francesca Furini, giovane di Ferrara al terzo anno di Giurisprudenza della LUISS Guido Carli, che commenta così la sua esperienza:
“La scelta eticamente responsabile di un’impresa che decide di iniziare un’attività all’interno di un carcere e di avviare al lavoro esterno un detenuto, ha importanti e positivi risvolti in vista del fine pena e del reinserimento sociale dei detenuti. Il suo prioritario valore aggiunto è la ricaduta positiva in termini di risposta al bisogno di sicurezza sociale, all’interno degli Istituti di pena e, soprattutto, nel mondo libero. Proprio per questo, lo scopo principale di Made In Carcere è diffondere la filosofia della “second chance” per le detenute e della “doppia vita” per i tessuti; trattasi perciò, di un messaggio non solo di speranza, concretezza e solidarietà, ma anche di libertà e rispetto per l’ambiente.”
Le attività di volontariato della LUISS rientrano tra le attività compatibili con gli impegni accademici. Agli studenti dei Dipartimenti di Impresa e Management, Scienze Politiche e Giurisprudenza che aderiscono al Progetto, saranno riconosciuti i Crediti Formativi Universitari previsti dall’Ordinamento didattico per “Altre Attività”.
LUISS Guido Carli, la Libera Università Internazionale degli Studi Sociali, costituisce oggi un punto di riferimento scientifico e culturale in Italia e all’estero per gli studenti interessati alle discipline economiche, manageriali, sociali e giuridiche.
Nel 2012 LUISS è stata classificata dal Censis al primo posto tra gli Atenei non statali per le Facoltà di Scienze Politiche e Giurisprudenza e al terzo posto per quella di Economia.
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