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Ferrara film corto festival

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La via del sesamo

Questa settimana “La città della conoscenza” si occupa della ‘via del sesamo’, ricordate “Apriti sesamo”? È la Sesame Street, che insegna ai bambini come essere responsabili del mondo che abitano, a divenirne cittadini a pieno titolo, combattendo ingiustizie e disparità economiche. Tutto con un gioco che ha conquistato il mondo “Panwapa” e con una filosofia che non è quella dell’Ocse e della World Bank.

Pare che il sesamo abbia incredibili proprietà nutritive e vitali, che aprirebbero all’uomo le porte della forza e della vitalità. Gli antichi cospargevano di sesamo i sedili dei commensali, per scacciare i demoni che avrebbero potuto impossessarsi del loro cibo. “Apriti sesamo” è la formula magica delle fiabe della nostra infanzia, di Alì Baba e i suoi quaranta ladroni, per accedere alla caverna del loro altrettanto favoloso tesoro.
Oggi, non tutti lo sanno, esiste Sesame Street, lo potete facilmente trovare nel web. E potremmo dire che mantiene, almeno per i bambini, come lo siamo stati noi, la sua promessa di fascino e di magia. Ma questa via del sesamo, per dove promette di portare, ammalia anche noi adulti. Nel suo cartello indicatore dice di condurre là dove si diventa cittadini del mondo.
Sesame Street è un educatore mondiale che lavora in centoventi paesi, ha sempre utilizzato la televisione come medium per l’istruzione dell’infanzia nei paesi poveri e in guerra, in particolare con i bambini dell’Afghanistan.
Chi non sogna il regno della giustizia sociale? C’è qualcuno che ha voluto pensarci seriamente. L’ONU e la Fondazione Clinton, l’associazione non governativa dell’ex presidente degli Stati Uniti, con la sovvenzione della finanziaria Merrill Lynch, hanno dato alla Sesame Street l’incarico di farlo.
Così è nato Panwapa, un gioco per imparare online. Disponibile in arabo, inglese, cinese, spagnolo e giapponese.
Panwapa vuole essere il simbolo della mondialità. È il nome immaginario di un’isola galleggiante che si muove attraverso gli oceani della Terra. “Panwapa”, nella lingua Tshiluba della repubblica democratica del Congo, significa “qui su questa terra”. Poiché galleggia per il mondo, i suoi abitanti sono autentici cittadini del globo. La descrizione ufficiale del gioco enuncia: «L’isola di Panwapa è qui come in ogni luogo, e i suoi residenti appartengono semplicemente “alla Terra”. Essi sono cittadini del mondo».
L’intenzione degli ideatori del gioco è quella di formare e indurre i bambini a sentirsi cittadini responsabili del pianeta. Le proposte educative di Sesame Street sono diffuse, con adattamenti alle lingue e alle culture locali, in Bangladesh, Cina, Egitto, Germania, Israele, Giordania, Messico, Olanda, Palestina, Russia e Sud Africa. Una così vasta diffusione solleva immediatamente un interrogativo, se esista sulla Terra un significato di cittadinanza che tutti ci accomuni.
I propositi dei pedagogisti e degli psicologi che lavorano per la Sesame Street paiono non collimare con quelli della World Bank e dell’Ocse. Per questi ultimi l’educazione alla cittadinanza mondiale significa formare la forza lavoro per il mercato dell’economia della conoscenza, standardizzando i curricoli, gli strumenti di valutazione e controllando gli apprendimenti.
Non è così per l’Unesco, il Cyberschoolbus delle Nazioni Unite e il Sesame Street Workshop. Che puntano invece i loro sforzi nella direzione di una educazione per uno sviluppo sostenibile, la parità di genere, la tutela delle culture e delle lingue, la formazione di cittadinanze attive. La giustizia sociale, la lotta alla povertà, la pace, la difesa dei diritti umani, la lotta al razzismo e la promozione della cooperazione multiculturale.
La missione affidata a Cyberschoolbus e a Sesame Street è quella di produrre giochi in rete per imparare, fornire informazioni sulle culture e le lingue dei paesi del mondo, mettere a disposizione materiali per l’educazione alla pace, ai diritti umani, alla giustizia sociale, acquisire le competenze necessarie a vivere la multiculturalità della Terra, far acquisire ai bambini un’istruzione di base e modelli di comportamento positivi, oltre agli strumenti per continuare a studiare.
Navigando per il mondo, gli abitanti di Panwapa incontrano e apprendono a vivere con persone di diverse nazionalità, religioni, culture e lingue. Come questa umanità simbolica vive su questa isola senza confini nazionali, muovendosi da un oceano all’altro?
La risposta è fornita dai creatori di Panwapa, è contenuta soprattutto nel ruolo che il programma sta giocando nell’era della globalizzazione: «Media e tecnologie avvicinano le persone, l’economia mondiale è più che mai interdipendente. Tutte queste circostanze ci inducono a pensare in modo nuovo ai bisogni delle generazioni più giovani del mondo».
Così l’agenda di Panwapa prevede di formare abitanti della Terra che sappiano cavarsela con i loro simili di culture e di lingue differenti. La consapevolezza del mondo esterno, il riconoscimento del vasto spazio in cui viviamo. In altre parole, gli utenti vengono educati a pensare globalmente. Il primo obiettivo del gioco è proprio quello di collegarsi con altri bambini sia a livello locale che mondiale.
Ciò che rende le finalità educative di Panwapa veramente differenti da quelle perseguite dai teorici del capitale umano come capitale lavoro, è il focus sulle ineguaglianze economiche.
Nel contesto di questo obiettivo, il gioco rivendica di insegnare che tutti gli uomini vivono di bisogni e prepara i bambini ad imparare come aiutare il prossimo e a superare le disparità economiche.
Panwapa è la continuazione in internet del programma televisivo creato dalla Sesame Street per un pubblico prescolare, con l’intento di combattere la povertà, di promuovere una società mondiale pacifica e multiculturale, insegnando nel contempo i numeri, l’alfabeto e le parole. Ora il programma attraversa l’intero globo, portando il suo messaggio a tutti i bambini.
La scelta della televisione come mezzo è del consulente del programma, Gerard Lesser, professore di pedagogia e di psicologia dello sviluppo ad Harvard. La televisione, secondo Lesser, ha dei vantaggi che la scuola non ha. Perché a scuola l’alunno è sottoposto al controllo dell’insegnante e dei compagni, a mortificazioni pubbliche, alla paura di sbagliare. L’apprendimento televisivo non contiene nessuno di questi elementi. Di fronte alla televisione il bambino apprende senza il timore dell’errore e dell’insegnante. Non è punitiva e fornisce un rifugio sicuro allo stress emotivo.
Diversamente dalla cattiva maestra di Karl Popper, Lesser pensa che una grande quantità di apprendimenti possa essere diffusa attraverso questo strumento, aiutando ad avere una visone umana della vita.
Di fronte al successo di Sesame Street nel mondo, almeno le mete promesse meritano che anche noi proviamo ad incamminarci per la via del sesamo, se non altro per deliziarci del suo profumo.

Delta del Po, per i Verdi “la bocciatura Unesco è un’occasione persa”

da: ufficio stampa Verdi

“Una grande occasione persa per incrementare la conoscenza ed il rilievo internazionale del territorio protetto del Delta del Po emiliano-romagnolo e veneto.”

Con queste parole la consigliera regionale dei Verdi Gabriella Meo ha commentato la bocciatura da parte dell’Unesco della proposta avanzata dalle due Regioni adriatiche di inserire il Delta del Po nel network mondiale delle Riserve della Biosfera.

“Il Comitato Internazionale di Coordinamento dell’Unesco, che riunisce ogni anno i rappresentanti di 34 stati membri, ha evidentemente ritenuto poco credibile l’intenzione di gestire in maniera unitaria un’area naturale molto vasta in cui, secondo la Legge quadro sui Parchi (L. 394/91), le due Regioni avrebbero dovuto istituire un Parco interregionale già nel 1993 o, in mancanza di questa intesa, il Ministero dell’Ambiente avrebbe dovuto istituirvi un Parco Nazionale.”

“Invece – continua Meo – si è preferito realizzare due distinti Parchi regionali con norme di protezione differenti e con la pianificazione territoriale che, a distanza di 26 anni dalla creazione del Parco regionale in Emilia-Romagna, non è stata ancora completata. Anche un mio ordine del giorno, approvato nel 2011 e che impegnava la Giunta regionale ad aprire in tempi rapidi un tavolo di confronto con la Regione Veneto e con il Ministero dell’Ambiente per riavviare il percorso finalizzato all’istituzione del Parco interregionale del Delta del Po, è rimasto lettera morta.”

“E’ chiaro – continua l’esponente ecologista – che l’Unesco non ha valutato negativamente il Delta del Po, un’area di 139.000 ettari tra le più ricche di biodiversità a livello internazionale in cui è presente la più vasta estensione di zone umide protette d’Italia che ospitano decine di habitat e centinaia di specie floristiche e faunistiche, anche di interesse comunitario, ma le motivazioni alla base del progetto candidato dagli Enti locali.”

“Si tratta, infatti, di un’operazione di marketing turistico-territoriale avviata in pochi mesi in vista dell’Expo del prossimo anno, un’operazione di corto respiro che non ha tanto a cuore la conservazione della biodiversità e l’uso sostenibile delle risorse, quanto l’utilizzo di una ventina di milioni di euro di fondi pubblici.”

Il golfino di madame Renzi

Pronto Ada, come stai? Hai visto Renzi che bravo, è andato in missione in Vietnam, non è andato a fare la guerra, è andato a fare quelle cose strane che servono per aumentare il Pil nazionale! Ma cosa vuoi che ti dica, di questi giovani che nascono ceto medio non c’è da fidarsi. Come, va a vendere le maglier di Gucci, i cappotti di Fendi, i coordinati di Missoni, insomma va a vendere il lusso del made in Italy e si porta dietro una moglie che sembra l’infermiera del mio dentista. Carina, certo, carina, giovane, ma, benedetta ragazza, con un vestituccio giro collo un po’ a godé sopra il quale non l’ombra di un giacchino di taglio sicuro, ma un golfino stazzonato a righe forse regalo dell’ultimo Natale. Accanto a lei, nella sfilata ufficiale, la first lady vietnamita, piccolotta e obesa, era stata infilata con garbo dentro una redingote color cipria stile regina Elisabetta molto bene. Oddìo, quel golfino che pendeva da tutte le parti: io non lo indosserei neanche per guardare il Tg3. A proposito, ti piace la Bianca ? Si, la Berlinguer, lei si che sa presentarsi e, anche se non si capisce quello che dice, pazienza! Però ha un bel décolleté. Sempre giusta e di buon taglio. E’ bella florida la Bianca, che sia anche culona? Ma tanto in tivù non si vede. Ti confesso che spesso, quando guardo i nostro eroi di famiglia passare sul video, mi sorprendo a pensare al loro culo. Il sedere è una cosa buona, una cosa innocente! Chissà che bel culone rubicondo ha papa Bergoglio, che catastrofe il culo punteggiato di nei di Bruno Vespa!Come sarà il culo dei nani?, mi chiedo guardando Brunetta… Non importa: bianco, di latte, di panna il culo Berlinguer li stende tutti.

Guerra e Pace ai tempi di Paperzukoff

Da MOSCA – Ebbene sì, in questi giorni, dopo aver festeggiato il compleanno di Paperino, e visto che ci troviamo sempre in terra di Russia, ci pareva carino un ulteriore omaggio a questo amico pennuto che attraversa liberamente i disegni della storia e, perché no, anche della letteratura.

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Alcune strisce del fumetto

Abbiamo infatti scoperto, con piacevole sorpresa, che anche Paperino è legato alla Russia e ad alcuni dei suoi capolavori letterari. Un modo come un altro di spiegare e insegnare ai nostri ragazzi alcuni classici di non semplice e immediata lettura, con la simpatia e la leggerezza che solo un bel fumetto può avere. Eccoci, allora, tornando un attimo indietro al 1986, e precisamente al numero 1604 di Topolino, che ci si imbatte in Lev Tolstoj, in una bella parodia del celeberrimo capolavoro russo Guerra e Pace, disegnata da Giovan Battista Carpi, considerata fra le sue migliori opere, per la cura e la raffinatezza dei disegni. Diciamo subito che Carpi è considerato uno dei maggiori fumettisti italiani, nato e morto a Genova, rispettivamente nel 1927 e nel 1999. Perfezionista, preciso, amante dei dettagli, approda alla Mondadori nel 1953 e subito si contraddistingue per lo stile personale e particolare, quello stile dinamico e forte che, soprattutto nelle storie dei paperi, riuscirà a mantenere fino alla fine della sua carriera. Anche se ottiene i migliori risultati stilistici con Paperino & co., resterà sempre profondamente legato anche al mondo di Topolino. Carpi sarà anche il padre di uno dei personaggi di maggior successo tra quelli creati dalla scuola italiana di Disney: Paperinik, il diabolico vendicatore, storia che fa esordire l’alter ego di Paperino sui numeri 706 e 707 di Topolino. Ma il nostro abile disegnatore è soprattutto uno dei principali interpreti della saga delle Grandi parodie Disney, ovvero quelle storie che reinterpretano, utilizzando i personaggi Disney, i capolavori della letteratura, del cinema e dell’opera lirica, o semplicemente storie in costume. Nascono, così, Paperino fornaretto di Venezia del 1964, Paperino e il vento del Sud del 1982, Guerra e Pace del 1986, Il mistero dei candelabri del 1989, Paperina Butterfly del 1994. Crediamo, con un po’ di sano orgoglio nazionale, che solo un disegnatore italiano, per la sua innata predisposizione alla bellezza, nonché alla convivenza quotidiana con essa, potesse conciliare disegno, fantasia, storia e cultura. Eccoci, dunque, al nostro Guerra e Pace. Data l’ampiezza e la complessità dell’originale, ovviamente la storia di Carpi richiama solo in alcuni punti la trama del romanzo di Tolstoj. Il protagonista è Paperino Paperzukoff, giovane squattrinato e scapestrato nipote del “papero più ricco di tutte le Russie”, il principe Paperon De Paperzukoff. La vicenda si apre con il ritorno forzato a Mosca di Paperino, che lo zio non intende più mantenere a Pietroburgo. Il fedele segretario Platon porta quindi Paperino al cospetto dello zio, che lo obbliga al fidanzamento con la ricca, ma insopportabile, Helène Kuraghin. Il legame va presto a monte per il carattere lunatico e pestifero della ragazza e Paperon manda il nipote a lavorare in fonderia come operaio. Ecco allora che la scena si sposta nelle fredda e rigida Siberia: qui i Bassotti della Steppa evadono dal Penitenziario Statale Villa Fiorita, e si dirigono verso il loro vecchio e acerrimo nemico Paperzukoff. Quest’ultimo, avvertito, prepara le difese della sua villa, sistemando davanti al portone un gigantesco cannone di un “tris-tris-trisavolo”. Casualmente, una spia francese vede la “superarma” e avverte direttamente Napoleone, che richiede un incontro con lo zar Alessandro I. Venti di guerra iniziano, intanto, a spirare sull’Europa. Paperon pensa, quindi, a come proteggere il suo oro da Napoleone, nell’eventualità di un’invasione, oltre che dai Bassotti. Paperino suggerisce di fonderlo e bagnarlo nel piombo dandogli l’aspetto di palle di cannone; l’idea viene realizzata e i Bassotti tratti in inganno e, per ricompensa, Paperino viene nominato direttore delle fonderie Paperzukoff. Intanto, però, la Francia ha cominciato l’invasione dell’impero zarista; a Mosca l’esercito si mobilita e Paperino deve portare al sicuro le finte palle di cannone. Ma, per un contrattempo, i proiettili vengono consegnati all’esercito diretto al fronte: Paperino, per evitare di essere “spiumato”, parte per tentarne il recupero, in sella al fedele cavallo Rasputin. Nel viaggio verso Borodino, Paperino si imbatte nella fattoria di Maria Papera Dimitrievna (Nonna Papera) e della nipote Natascia Rostof (Paperina). Il classico colpo di fulmine tra i due giovani è quasi immediato, e Paperino per qualche tempo si dimentica della missione: a richiamarlo alla realtà sono i colpi di cannone dal fronte. Raggiunto il campo di battaglia, Paperino recupera i preziosi proiettili in volo con un retino in maglia d’acciaio; riesce ad accumularne venti e a spedirli a Natascia, ma il resto è preda dei francesi vittoriosi. Dopo la sconfitta di Borodino, i moscoviti fuggono lasciando la città in fiamme. Qui Paperino viene catturato durante la notte dai francesi e incontra Platon. I due vengono liberati dai Bassotti, che hanno seguito le peripezie di Paperino e vogliono farsi condurre ai proiettili. Il mattino dopo, Paperino e Platon, nei pressi del campo delle truppe napoleoniche, trovano Natascia travestita da vivandiera francese. Con il suo aiuto, riescono a recuperare la partita di palle di cannone; durante il viaggio verso la lussuosa dacia di Paperon, riescono anche ad avere la meglio sui Bassotti e a catturarli. Questi ultimi vengono poi sparati con il supercannone verso la loro vecchia prigione. Dopo poche settimane, Mosca viene liberata e i paperi possono tornare a casa. Pare che tutto sia finito bene, ma le sorti della guerra sono ancora in bilico. Prima che il principe Paperzukoff possa fondere di nuovo il suo oro, un inviato del Maresciallo Kutuzov si presenta trafelato e gli fa sapere che l’esercito russo è a corto di munizioni: i proiettili del principe potrebbero quindi essere decisivi per salvare la patria. Pur disperato e piangente, Paperon accetta. Anche grazie al suo apporto, i russi riescono a sconfiggere i francesi definitivamente nella battaglia della Beresina. In Russia torna la pace: Paperino si congeda annunciando “il bacio più lungo nella storia dei fumetti” (che ricorda quello di Cary Grant e Ingrid Bergman in Notorius) ma cade svenuto. Paperon, dopo aver ricevuto un’onorificenza dallo Zar, decide di trasferirsi in America per ricostruire la sua fortuna. Tutto bene quel che finisce bene. La storia è avvincente e i personaggi riconoscibili a chi abbia letto il capolavoro di Tolstoj. Per chi lo conosce meno, invece, ecco qualche spunto. Paperino Paperzukoff è il corrispettivo del personaggio principale di Guerra e Pace, Pierre Bezuchov. I tratti in comune con il personaggio originale sono la vita sregolata da aristocratico (a differenza di Paperino, questo si dirigerà però verso la religione), la breve storia con Helène Kuraghin e l’amore per Natascia. Paperina interpreta il personaggio di Natascia Rostof, personaggio femminile importantissimo del romanzo. Nella parte finale dell’opera essa si innamora di Pierre e accetta di sposarlo. Paperon De Paperzukoff corrisponde al Conte Bezuchov, il ricco padre (adottivo) di Pierre. Platon, invece, si ispira a Platon Karataev, l’uomo da cui Pierre assimila un fondamentale messaggio di fede. Maria Dimitrievna è la zia di Natascia. Nella storia vi è anche una breve apparizione di Gastone Bolkonski (Gastone), rivale di Paperino, in partenza verso il fronte. Il personaggio originale è Andrej Bolkonski, ufficiale russo innamorato di Natascia e morto per una grave ferita. I luoghi sono quello della grande Russia. Non si può certo dire che la parodia non sia divertente e avvincente, oltre che istruttiva. Il numero di Topolino del 1986 che ospita questa storia, si può trovare su ebay o anche in una bella, antica libreria di fumetti, scartabellando fra scaffali e giornali, sicuri che troverete qualche altra sorpresa. Basta saperla aspettare.

Il Mercato della terra mette radici a Ferrara

Salumi rosa accompagnati dallo spumante Rosa di Emy (che sta per Emilia), albicocche piene di sapore, ciliegie sugose, cubetti di melone appena colto, fragranti crostini di coppie di pane preparato con farina integrale macinata a pietra sul Mulino del Po. E’ un primo assaggio di sapori, prodotti e bollicine locali e selezionati, che anticipa i contenuti del Mercato della terra, in arrivo a Ferrara da metà ottobre. Ogni sabato mattina nello spiazzo del Baluardo delle mura, dietro viale Alfonso d’Este 13, arriveranno una ventina di produttori con il meglio di quello che può essere raccolto, impastato, munto, insaccato, fermentato e preparato nella provincia di Ferrara o su un territorio che si trova entro un raggio di quaranta chilometri.

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Alberto Fabbri

Cibi tipici, e a volte anche un po’ marginali e dimenticati, troveranno uno spazio su questo spiazzo nascosto in fondo al vialetto alberato che parte dai Bagni ducali, in viale Alfonso d’Este lungo le Mura del Montagnone. Ecco allora che si potranno trovare anche il tartufo e il caviale del Po che – racconta Alberto Fabbri di Slow food – è stato recentemente recuperato da ricette antiche e si ricava dallo storione di fiume, che si punta a reintrodurre con allevamenti dedicati. Tra i banchi del mercato potranno esserci anche alcuni prodotti diversi da quelli “a chilometro zero”, nel caso in cui si tratti di “presidi Slow food”, ovvero di specialità prodotte da piccole realtà tradizionali che rischiano di scomparire e che invece valorizzano territori, recuperano antichi mestieri, salvano dall’estinzione razze autoctone e varietà di ortaggi e frutta. E’ il caso del Raviggiolo, un formaggio a pasta fresca delle colline di Forlì, ma potrebbero esserci anche la Pera cocomerina coltivata sull’Appennino di Cesena, il Carciofo violetto della laguna di Venezia o il Tiròt (focaccia morbida con la cipolla) tipica di Felonica di Mantova.

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Silvia Pulvirenti di Slow Food Ferrara

A raccontarlo sono stati sabato gli organizzatori della condotta di Ferrara di Slow food, con il presidente onorario Slow food Emilia-Romagna Alberto Fabbri e la fiduciaria ferrarese Valeria Finessi; e i rappresentanti del Comune di Ferrara che hanno sostenuto un progetto che – come spiega l’assessore alla cultura Massimo Maisto – vede in pista insieme il settore della Cultura e turismo con la funzionaria Maria Teresa Pinna e quello del Commercio, con la dirigente Evelina Benvenuti, l’assessore uscente Deanna Marescotti e il nuovo assessore Roberto Serra.
Il Baluardo delle mura è l’area dove hanno già sede associazioni culturali come quella giovanile di Sonika, del Teatro off e anche della Banda filarmonica comunale Musi, che ha dato fiato ai suoi strumenti in occasione della presentazione dell’iniziativa.
Il Mercato della terra vuole, infatti, essere un luogo conviviale, fatto di musica, cultura, cibo, che serve ad avvicinare i produttori agricoli – cioè i contadini, ma anche i vinificatori, fornai, casari – ai co-produttori, cioè ai cittadini consumatori. Con la città che lì ogni sabato mattina si avvicinerà alla terra e ai frutti della sua campagna.

Nudge regulation per migliorare le nostre scelte

Un libro di Thaler e Sunstein, tradotto in italiano nel 2009, Nudge. La spinta gentile. La nuova strategia per migliorare le nostre decisioni su denaro, salute, felicità (Feltrinelli), ha contribuito a diffondere la consapevolezza che l’informazione non basta a farci compiere scelte migliori, per noi quanto per la collettività. Abbiamo stili alimentari sbagliati, sprechiamo energia elettrica, usiamo la macchina quando potremmo andare a piedi e così via. Ciò accade perché la nostra razionalità è assai limitata e perché, di fronte ad una scelta, le nostre emozioni hanno quasi sempre la meglio. Sulla base di questa considerazione, che ha alle spalle una lunga serie di studi sperimentali, ha preso il via una linea di “regolazione” che si basa sulla così detta architettura della scelta. Non siamo perfettamente razionali e siamo condizionati da troppe informazioni contrastanti, dalla complessità della vita quotidiana, dall’inerzia e dai limiti della nostra volontà. Ma ora sappiamo che il modo in cui le scelte sono presentate influenza le nostre risposte.
I responsabili delle politiche pubbliche che si trovano di fronte a riduzioni delle risorse da impiegare e a crescenti spese, dovrebbe prestare attenzione all’architettura della scelta. Scelte individuali virtuose farebbero risparmiare denaro pubblico. Ma le vie individuate si sono rivelate inefficaci, ad esempio l’aumento dei prezzi e le etichette dissuasive non hanno ridotto il fumo. In sostanza, non sembra possibile arginare i comportamenti scorretti facendo ricorso a scelte razionali. Le persone sono soggette a una serie di errori, di distorsioni cognitive ed emozioni che non consentono di compiere sempre la scelta migliore per il proprio benessere.
Poiché obblighi e divieti non sembrano funzionare, i teorici del nudging propongono di introdurre dispositivi che sollecitino buoni comportamenti. Del resto alcune applicazioni sono già diffuse: negli alberghi la chiave magnetica della porta disattiva automaticamente la luce; il fastidioso bip che si attiva nell’auto se le cinture di sicurezza non sono allacciate è assai più efficace del pensiero di una eventuale multa.
Le esperienze realizzate nel mondo sono numerose. Ne cito solo alcune. In Svezia la campagna “The Fun Theory”, è stata proposta con l’obiettivo di sviluppare buone pratiche di sostenibilità urbana; in Danimarca è stata creata un’organizzazione no profit, denominata iNudgeYou, con il fine di testare i potenziali benefici sociali del nudge. Ad esempio, a Stoccolma una scala della metropolitana è stata trasformata in un’enorme tastiera, in modo che, calpestando i gradini, si produca una gradevole armonia: da quel momento, un gran numero di persone ha preferito le scale tradizionali alle scale mobili. Un cestino sonoro ha spinto le persone a tenere più pulita la città, un raccoglitore di vetro, assegnando dei punti come accade nei videogame, ha incoraggiato la raccolta differenziata.
In California, per convincere i cittadini a risparmiare energia elettrica, trecento famiglie sono state informate della quantità di energia utilizzata in un determinato periodo e anche del consumo medio delle famiglie del quartiere. Coloro che avevano maggiori consumi hanno spontaneamente corretto il proprio comportamento, con una conseguente riduzione dei consumi energetici. Il governo inglese e quello americano hanno formato Nudge Unit e anche la Commissione Europea ha iniziato a studiare applicazioni ad integrazione dell’approccio regolatorio tradizionale. Intanto si moltiplicano le esperienze locali.

Maura Franchi (sociologa, Università di Parma) è laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing e Web Storytelling, Marketing del prodotto tipico. I principali temi di ricerca riguardano: i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@unipr.it

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I problemi reali del Castello Estense e le pericolose drammatizzazioni

da: Deputazione Provinciale Ferrarese di Storia Patria

La segnalazione di alcuni cittadini e visitatori ha enfatizzato alcuni episodi di carente manutenzione del Castello Estense ed ha, giustamente, suscitato preoccupazione per lo stato di un monumento che è, come tutti hanno ricordato, ‘simbolo’ della città.
Un tema che è stato raccolto e che ha portato alla promozione di iniziative e a parole d’ordine diffuse dalla stampa cittadina. ‘Tutti insieme salviamo il Castello’. La Camera di Commercio fa appello alla generosità dei ferraresi e chiede a tutti di ‘adottare un mattone’, un conto corrente è stato messo a disposizione per raccogliere le offerte.
Siamo tutti lieti di una attenzione per il patrimonio della città, troppo spesso assente in passato. Tale drammatizzazione tuttavia suscita qualche preoccupazione che, come Deputazione di Soria Patria, riteniamo di dovere esprimere.
In primo luogo il Castello, nonostante gli acciacchi, non corre alcun rischio. Si tratta di continuare a curarne la manutenzione, come si è sempre fatto, magari con più attenzione. E’ un compito che spetta all’ente proprietario e non va scaricato sul volontariato. E’ un impegno permanente e istituzionale: è sbagliato volere sostituirsi a un preciso obbligo pubblico, crea confusione e non risolve criticità che esistono e sono molte.
Già durante la recente campagna elettorale le Associazioni cittadine hanno segnalato che “il problema della gestione del Castello Estense, dei contenuti, modi e forme della sua fruizione è tema che non può essere eluso.”
L’argomento che, a nostro parere, deve essere posto al centro del dibattito è quale sarà il ruolo e il significato di una presenza così forte e significativa; quale sarà l’ente gestore; quali saranno i criteri e i modi della attività; ci sarà una attività?
Durante la campagna elettorale molti candidati hanno espresso opinioni che ci sono parse, per la più gran parte, poco meditate e ancor meno argomentate: da sede di un ‘casinò’ a ‘museo del palio’.
Preoccupa anche che, nelle more, invece di predisporre progetti e proposte si consenta ad esposizioni di raccolte private, da chiunque avanzate, con implicazioni che vorremmo assenti dalla futura gestione.
Non abbiamo soluzioni; il nostro compito è presentare un ventaglio di argomenti sul quale aprire un confronto che veda partecipi non solo le istituzioni e le associazioni ma anche i cittadini; che preveda una valorizzazione turistica che confermi ed amplii l’interesse che ne fa il monumento più visitato a Ferrara (2012: 78.449 visitatori).
Il Castello è il museo di se stesso, ma non può limitarsi a questo. Nella situazione post terremoto, con parte dei musei chiusi e inagibili una scelta, contingente, potrebbe essere quella, nella zona ‘camerini’, di esporre a rotazione opere non più esposte al pubblico.
Continua memoria dell’evento e sollecitazione peer la riapertura.
Nel futuro si potrebbe pensare di destinarne una parte alla organizzazione di mostre, abbandonando gli insufficienti e inadeguati spazi di Palazzo dei Diamanti che potrebbero ritornare ad essere sede delle collezioni civiche.
Il Castello potrebbe/dovrebbe essere il punto di riferimento per chi viene a visitare Ferrara: un grande indicatore di quello che esiste in città, delle sue caratteristiche, delle tradizioni. Attraverso le moderne tecnologie un centro di comunicazione organizzato per rispondere alle variate domande dei turisti.
Le forze politiche non si sono espresse per quanto riguarda l’affidamento della gestione: è un problema che le riguarda e che non possono evitare. Potrebbero intanto dire quali sono i costi del Castello? quale e quanto il personale? quali le attrezzature? quali le prospettive?
Per quanto riguarda i fondi che si stanno raccogliendo utile sarebbe la realizzazione di una guida (non c’è) che, a costo accessibile e con testi plurilingua, diffonda l’immagine del nostro monumento. Sapendo la destinazione del monumento i fondi potrebbero essere utilizzati per adeguare le attrezzature.
Pensiamo all’uso del Castello piuttosto che alla costruzione di alibi autogratificanti.

Ravenna festival, Moni Ovadia esplora i fronti della Grande Guerra: “La memoria strumento per costruire il futuro”

“L’altra Europa con Tsipras è un progetto straordinario: parte dall’immensa opera fatta dai nostri compagni greci, che hanno dimostrato come un partito della sinistra, non del centro-sinistra, possa diventare maggioranza in un Paese europeo. Questo è il nodo centrale: finalmente all’orizzonte appare una sinistra nuova che è la sinistra, mi sono stufato dell’espressione ‘sinistra radicale’, con un potenziale elettorato del 15-20% già ora. Un giorno potrà forse anche diventare maggioranza relativa conquistando il consenso di chi, pur non riconoscendosi nella sinistra, apprezza la qualità di un progetto molto concreto che al primo posto mette il lavoro, la dignità delle persone e un sistema economico-produttivo sostenibile; non i capitali e le speculazioni finanziarie di un pugno di banche. Noi siamo il buon senso rivoluzionario”. Moni Ovadia è fra gli ospiti di spicco del Ravenna Festival. In lui arte e passione politica si fondono in un impegno a tutto tondo. Dal suo più recente slancio civico inizia la nostra chiacchierata. La cornice è prestigiosa.

Sono infatti passati ormai 25 anni da quella sera di luglio del 1990, quando il Maestro Riccardo Muti ha alzato la sua bacchetta dando inizio alla prima edizione del Ravenna Festival, manifestazione culturale che da allora non ha mai smesso di crescere sia dal punto di vista della qualità artistica degli eventi, sia per quanto riguarda la poliedricità dei cartelloni, acquisendo sempre maggiore prestigio e riscontrando l’adesione di un pubblico sempre più vario per età e provenienza. Nel corso degli anni l’antica capitale dell’Impero bizantino d’Occidente è diventata la moderna capitale della musica, della danza, del teatro. Difficile fare un elenco degli artisti, anche volendo scegliere solo i nomi più prestigiosi, che il Festival – attualmente diretto da Cristina Mazzavillani Muti, Franco Masotti e Angelo Nicastro – ha portato a Ravenna realizzando in 25 anni quasi un migliaio di eventi.

Destino vuole che questo importante traguardo del Festival coincida con un altro fondamentale anniversario della storia nazionale ed europea: il centenario della Prima Guerra Mondiale. Proprio alla Grande Guerra è dedicata questa edizione 2014 intitolata 1914. L’anno che ha cambiato il mondo.
Fra gli appuntamenti espressamente dedicati all’evento che ha dato inizio al ‘secolo breve’ c’è Doppio Fronte. Oratorio per la Grande Guerra, che vede in scena un grande protagonista del nostro teatro come è, appunto, Moni Ovadia e una grande interprete della musica popolare: Lucilla Galeazzi. Insieme a loro i quattro musicisti della Moni Ovadia Stage Orchestra (Luca Garlaschelli al contrabbasso, Massimo Marcer alla tromba, Albert Florian Mihai alla fisarmonica, Paolo Rocca al clarinetto) e un coro formato da una ventina di giovani fra i 18 e i 23 anni diretti da Manuela Marussi. A parlarcene, a poche ore dal debutto, è lo stesso Moni Ovadia, che definisce questo lavoro una narrazione “per schizzi, per flash”, composti attraverso dati storici, memorialistica dei soldati al fronte e di chi era rimasto a casa a lottare per sopravvivere, cartoline di guerra, brani di grandi autori come Gadda o Ungaretti, canzoni popolari e antimilitariste di tutte le nazionalità, assemblati dalla struttura drammaturgica in “una gradazione di emozioni”.

E’ la prima volta che affronta il tema della Grande Guerra?
Sì è la prima volta che mi occupo in modo organico della Prima Guerra Mondiale. Il merito va a Lucilla Galeazzi, grandissima cantante e interprete della nostra canzone tradizionale e non solo, che mi ha voluto coinvolgere in questo progetto nato da una sua idea. Lo stesso titolo “Doppio fronte” nasce dalla sua volontà di portare alla luce un aspetto poco frequentato: quello della condizione delle donne, che durante quegli anni affrontarono condizioni durissime.

Può spiegarci meglio? Quanti sono i fronti che esplorate durante lo spettacolo?
I fronti sono stati diversi: quelli degli eserciti opposti, quello degli uomini e delle donne… Se vuole le posso citare un passo dello spettacolo che le chiarirà le idee: “Doppio fronte! Alleati e Imperi centrali. Doppio fronte! Interventisti e pacifisti. Doppio fronte! Nazionalismo e Internazionalismo. Doppio fronte! Generali e soldati. Doppio fronte! Borghesi e proletari. Doppio fronte! Uomini e donne. Come vede i doppi fronti sono stati molti e noi abbiamo cercato di raccontarli”.

Nonostante gli anni trascorsi, la Prima Guerra Mondiale è ancora lontana dal cadere nell’oblio o dal suscitare indifferenza.
L’antimilitarismo nasce con la Prima Guerra mondiale, la prima guerra moderna, con un enorme dispiegamento tecnologico: le mitragliatrici, i cannoni a lunga gittata, ma soprattutto le armi più sinistre e più vigliacche, i gas. L’uomo con la sua fragilità si trova di fronte a queste armi micidiali, davanti alle quali lui è veramente carne da cannone. Questa espressione è vera. Il generale Cadorna diceva: “Per conquistare un nido di mitragliatrici basta calcolare quanti uomini riescono a uccidere quelle mitragliatrici e mandarne di più. I soldati sono gli unici proiettili che non mi mancano”. È chiaro che siamo di fronte ad una sistematica logica delle decimazioni, con i generali che fanno sparare sui loro soldati quando si ritirano. È eclatante la sproporzione fra la brutalità tecnologica delle armi e la fragilità dei soldati, nella maggior parte dei casi contadini. Non è un caso che proprio qui nasca il cosiddetto shall-shock, che noi invece chiamavamo scemi di guerra: i soldati traumatizzati dai cannoni e dalle granate. Senza contare la condizione disumana delle trincee: vivere quotidianamente nel fango, tormentati dai topi e non solo. La Prima Guerra Mondiale è il primo vero massacro di massa: gli uomini non hanno più una propria individualità, sono massa da far macellare. Oggi dobbiamo ricordare la Grande Guerra perché fu presentata come la guerra che avrebbe fatto finire tutte le guerre e invece ha preparato i conflitti più micidiali, come la Seconda Guerra Mondiale. La memoria è uno strumento per costruire presente e futuro, oltre che una forma di cultura straordinaria.

Doppio Fronte. Oratorio per la Grande Guerra è una produzione Ravenna Festival e Mittelfest e andrà in scena in prima assoluta lunedì 16 giugno alle 21 al Teatro Alighieri di Ravenna.

Il programma del Ravenna Festival è consultabile al sito www.ravennafestival.org

La vita attraverso

Nadia ha vissuto spiando le vite degli altri senza mai vivere la propria. Spettatrice di tutto e protagonista di nulla, finisce in carcere per avere partecipato a un crimine, commesso da altri.
La protagonista di “Voi non la conoscete” di Cristina Comencini (Feltrinelli 2014) è una donna che non si spiega, in lei rotolano furia e inadeguatezza e solo dal carcere nascerà il primo approccio verso se stessa.
Nadia moglie e madre porta le camicette bianche, accarezza i figli, abbraccia Giorgio, suo marito, senza conoscerlo. Il loro amore è filtrato da “una porta chiusa” che non si spalanca mai, solo qualche fessura quando serve. Nadia vive un’esistenza di emulazione perchè nulla le appartiene, è ospite anche tra le mura di casa dove gioca a fare la moglie e la madre. Passa la vita a sentirsi esclusa dall’amore e un giorno, un giovedì pomeriggio, inizia a vivere un’altra vita, di nascosto, una vita per caso, furtiva e opposta. Conosce Pietro e Lara, li segue, li aiuta, imbocca la loro strada malavitosa continuando a essere una moglie insospettabile e quando torna a casa le pare “finalmente” di abitare con Giorgio e i due bambini.
In carcere Nadia non è più Nadia, il suo corpo cambia, si indurisce per difendersi da tutto. Quanto hanno scritto di lei nel verbale, le sembra riguardare un’altra donna, un’altra storia, tutto si stacca da lei, si solleva e rimane sospeso. Smette di andare dall’analista che la segue durante la detenzione, tornerà al posto suo un’altra donna senza identità che non si chiama più Nadia, non ha un nome, ma sa solo che è diversa, Nadia era come “una formina vuota, la riempiono di sabbia, la capovolgono: eccola, finchè un’onda non la cancella”. Nadia era convinta che nessuno la osservasse davvero, che nessuno avesse interesse a scrutarla dentro dove c’era tutta quella rabbia, pensava che nemmeno l’analista la vedesse.
Questa nuova donna sa parlare al dottore, guardarlo in faccia senza timore e chiedergli cosa lui abbia capito di Nadia che sembra ormai lontana. Il dottore non può risponderle, tutto quello che ha da dire, solo una “donna” potrà comprenderlo, non questo simulacro di femmina che ha preso il suo posto. Nadia deve tornare, c’è quest’uomo che vuole conoscerla, è il primo. Quanto ci vorrà? Tempo e pazienza, dice il dottore che ha già ottenuto dal giudice di poterla incontrare due volte alla settimana.

Ultimi bagliori estensi
a Ferrara
poi l’oscurantismo papalino

AMMINISTRAZIONE DEGLI ESTENSI A FERRARA/3

«Quando Ercole I d’Este sul finire del Quattrocento decise di ingrandire Ferrara raddoppiandone la cinta muraria con quella Addizione che da lui prese il nome, probabilmente non pensava di poter riempire di uomini il vasto spazio agricolo […]. Una cerchia muraria di sette miglia rappresentava per una città di quell’epoca una dimensione quasi spropositata. Eppure l’ingrandimento della capitale dello Stato estense, che comprendeva i feudi imperiali di Modena e di Reggio e altri territori, aveva dietro di sé la chiara percezione che tanto la città quanto le campagne del Ferrarese stavano rapidamente ripopolandosi dopo la grave contrazione demografica dei secoli XIV e XV e che, dunque, anche la vita economica, la produzione agricola, i commerci erano di nuovo in espansione»*.
La corte divenne sempre più polo di attrazione per funzionari, diplomatici, affaristi, imprenditori. Il mercato cittadino intanto si vivacizzava, i fondi agricoli intensificavano la produzione. Anche le corporazioni di arti e mestieri (prevalentemente di tipo artigiano e manifatturiero), soppresse da Obizzo d’Este nel 1288, in parte si riassestarono e ripresero lentamente a funzionare. Senza contare i prodotti agricoli e gli allevamenti nei vastissimi spazi extraurbani, alle cui bonifiche gli Estensi si dedicarono con efficacia soprattutto a partire, come si è detto, dall’epoca di Leonello: dagli interventi di Casaglia cominciati nel 1447-48 a quelli della Sanmartina, dai lavori nella Diamantina alla grande bonificazione deltizia voluta da Alfonso II.
La dominazione papale è quasi unanimemente considerata come il periodo più oscuro di Ferrara per molte ragioni, una fra tutte la ghettizzazione degli Ebrei. Ma naturalmente vi sono pure altri sostanziali motivi, il più preponderante dei quali è il fatto che, con la partenza di Cesare d’Este per Modena, il cospicuo flusso fiscale che la corte incamerava dalle comunità dello Stato e che, in qualche modo e sebbene in piccola parte, ritornava alle comunità sotto forma di investimenti di vario genere o, meglio ancora, sotto forma di incentivazioni agli investimenti e all’imprenditoria, si sarebbe con il trasferimento della capitale estense riversato nelle casse della nuova sede emiliana. E inoltre buona parte dei gentiluomini, dei maggiori mercanti, nonché un abbondante numero di ebrei con le loro invidiabili competenze, ritennero più opportuno e conveniente seguire gli Estensi a Modena, lasciando Ferrara impoverita di dinamismo imprenditoriale e di risorse umane.

* F. Cazzola, L’agricoltura nel XIV-XVI secolo, in F. Bocchi (a cura di), La storia di Ferrara, Poligrafici Editoriale, Bologna 1995, p. 177.

Giardini in guerra

Il giardino è il luogo del possibile e ogni giardino ha una storia da raccontare. Ecco perché l’immagine di una donna musulmana che annaffia fiori coltivati dentro oggetti che sembrano scheletri di bombe, mi ha molto colpito. L’ho trovata in rete, qualche giorno fa, ma la notizia è dell’anno scorso e riguarda un giardino piantato nel villaggio di Bilin, nella zona del West Bank in Israele, come gesto di protesta pacifica e come ricordo delle vittime provocate da quelle stesse granate a gas che, una volta esaurite, sono state usate come vasi. È un gran bel paradosso pensare di fare un giardino, luogo recintato per eccellenza, per protestare contro la costruzione dell’ennesimo muro di divisione fra israeliani e palestinesi, ma va benissimo, indipendentemente dal finale di questa storia. Ovunque, l’idea che qualcuno si opponga a qualcosa di mostruoso con un gesto ironico, piccolo e immensamente simbolico, è sempre commovente e pieno di speranza, se tutto questo accade nei luoghi tragici del Medio Oriente, i pensieri corrono e vanno a mille. Queste terre aride e pietrose sono la culla del nostro giardino, qui ogni pianta rubata alla sabbia e ai sassi è una preghiera. Qui nasce l’idea del giardino come luogo perfetto per la vita, chiamato appunto paradiso. Ma forse il paradiso non ha gusto se non è strappato al deserto, è così diventa paradiso in terra, l’oasi in mezzo al nulla che trasforma il regalo divino nel principio generatore di un’agricoltura estrema e sapiente che ha reso spettacolari le colture dei paesi aridi.
Forse è stato questo pensiero che ha suggerito alla mia amica Olga di vedere il bellissimo film “Il giardino dei limoni”. Il riferimento è preso un po’ alla larga, ma in effetti una donna che bagna delle piantine in un giardino fatto con i residui di un conflitto, riporta ad altre storie vissute in questa guerra come quella raccontata con grande intensità in questo film. La pellicola, del 2008, opera del regista Eran Rikli, racconta la storia di Salma, una vedova palestinese, la cui unica ricchezza e fonte di sostentamento è un limoneto. È una donna sola, la famiglia lontana, che vive con grande dignità in una casa poco più solida di una baracca, coltivando limoni nel frutteto piantato dal padre. Per sua sfortuna il ministro della difesa israeliano si insedia nella villa confinante e per motivi di sicurezza – le chiome degli alberi potrebbero nascondere eventuali attacchi dei terroristi – dà ordine di eliminare il limoneto. La donna si oppone e attraverso l’aiuto di un giovane avvocato fa causa al ministro. Questa è la storia, ma nel film c’è molto di più. Ad una prima lettura, c’è l’incontro di due solitudini, quello della vedova e della moglie del ministro. Le due donne non si parlano mai, ma si capiscono attraverso gli sguardi, sguardi che vorrebbero andare oltre la Storia. Al centro di tutto le piante di limoni, un frutteto che diventa notizia, e alla violenza della distruzione fisica si aggiunge la violenza dell’invasione dei mezzi di comunicazione nella vita privata della protagonista e dello sfruttamento di chi userà la “notizia” per fare carriera. Ma cos’hanno di speciale questi limoni? le piante ricrescono, è solo questione di tempo, ma un frutteto di limoni cresciuto nel deserto è un concentrato di simboli, è comunque un paradiso, e Salma viene scacciata dal suo paradiso senza aver peccato.

Stoppato il Delta come eccellenza Unesco: Expo si allontana

Scende sotto zero la febbre da Expo per il Parco del Delta del Po, il tentativo delle due Regioni Emilia-Romagna e Veneto, di candidare il delta come area ambientale di pregio irripetibile non ha dato i risultati sperati. Ancora una volta l’identità amministrativa ha avuto la meglio e il delta è stato escluso dalla rosa delle riserve ambientali candidate al programma dell’Unesco Uomo e biosfera (Mab) 2013-14. Lo ha deciso l’International Advisory Committe for Biosphere e Reserves, che ne ha rinviato l’esame d’ammissione. Sembra così allontanarsi la possibilità di partecipare all’esposizione universale del 2015 con un’operazione di marketing turistico-territoriale avviata fin da marzo, quando Emilia-Romagna, Veneto e in particolare la nostra Provincia, avevano annunciato di volere gestire in modo unitario la riserva candidata Mab. Un’affermazione che si è scontrata con la complessità ambientale di un’area molto vasta tanto da non aver convinto Unesco e che non tiene conto della legge del ’91, la 394, che prevede per la gestione unitaria un parco interregionale o nazionale.

L’annuncio del superamento delle pastoie burocratiche dato in primavera dalla presidente della Provincia Marcella Zappaterra era stata salutata con entusiasmo dal Consorzio Visit Ferrara e da molti operatori turistici il cui intento è aumentare le 100 mila presenze denunciate. Speravano di farlo con l’ausilio di un parco unico, più facile da “vendere” all’estero, approfittando della vetrina veneziana e di quella Expo di Vigevano dedicata alle riserve naturali eccellenti. Il luogo ideale per fare valere la strategia slow e naturalistica giocata sull’unicità dell’ambiente tra terra e acqua, su ciclo e pesca-turismo, sulle tipicità di terra e mare come riso, vongole, cozze e anguilla. Ma il progetto resta un sogno nel cassetto. Per gli operatori e la presidente della Provincia.

Il Parco del Delta del Po, diviso in due, con tanto di leggi diverse che ne regolano il funzionamento, arranca nel disegnare una nuova e più produttiva identità, che tenga conto della salvaguardia dell’habitat e di uno sviluppo sostenibile a beneficio dell’economia e di conseguenza degli imprenditori locali i quali hanno aderito al patto di sviluppo, 20 milioni di euro di fondi pubblici, con l’intenzione di investire nella costruzioni di villaggi “leggeri” per ospitare i turisti e con l’impegno di contribuire all’adeguamento idraulico-fognario di Comacchio. L’operazione è andata in porto con il benestare di Comune di Comacchio, Provincia e Ente per la biodiversità poco dopo l’annuncio dell’unitarietà di gestione relativa alla riserva Mab.

I 139 mila ettari di superficie, le 16 municipalità coinvolte e raccolte attorno all’unico delta italiano, le località turistiche, l’importanza delle attività agricole, di pesca e il coinvolgimento degli stakeholders non ha spostato di una virgola il giudizio finale del Consiglio Internazionale di coordinamento Mab. La candidatura resta al palo. Quali sono i motivi? A quando pare non c’è chiarezza sulla gestione delle aree ad alta naturalità, definite “core”, e nemmeno sul coordinamento del parco la cui governace è talmente complicata da risultare poco gestibile. C’è di più: la visione di riserva naturale del versante emiliano romagnolo differisce da quello veneto, senza contare che sia da una parte che dall’altra sono in vigore piani di gestione tanto vincolanti da azzerare il valore aggiunto della riserva. Un altro tasto dolente è l’assenza di una strategia per gestire le acque e la loro qualità proprio in un’area dove le coltivazioni sono presenti in modo massiccio. In poche parole: parco rimandato. Con buona pace di chi sperava di raccogliere i frutti di una primavera di grandi accordi. Evidentemente non si sono fatti i conti con Unesco e, a dirla tutta, neanche con l’Europa da cui vengono molti dei finanziamenti utili a ristabilire i fragili equilibri di un habitat manomesso dalle attività dell’uomo al punto di comprometterne non solo il paesaggio, ma anche la sopravvivenza.

Ecomafie: Emilia-Romagna un paradiso per la ‘ndrangheta

di Gerardo Muollo

In Italia si contano quasi 30.000 infrazioni alla normativa ambientale all’anno, per un giro criminale da 15 miliardi di euro. Solo in Emilia Romagna si registrano più di 800 infrazioni, oltre 1200 denunce e 237 sequestri. Sono i numeri di Ecomafia 2014, il dossier di Legambiente che fotografa la situazione dei reati ambientali. L’Emilia è la seconda regione per segnalazioni di matrice ‘ndranghetista e la quarta per numero di operazioni bancarie sospette. Un po’ a sorpresa il rapporto dell’ associazione ambientalista rivela che la regione governata da Errani è uno dei tessuti in cui la ‘ndrangheta riesce a infiltrarsi meglio e a portare avanti le proprie attività illecite in materia ambientale. A Bologna “tutte le organizzazioni criminali nazionali – scrive la Dna (Difesa, natura, animali) – operano in una situazione di pacifica convivenza, con specifico riferimento al campo degli affari. Cioè investimenti di proventi delittuosi, acquisizione di appalti pubblici e commesse private, gestione del gioco d’azzardo”. Legambiente parla addirittura di un “banchetto” talmente abbondante che è “più conveniente spartirselo, piuttosto che contenderselo”.
La camorra ha invece trovato terreno fertile in Romagna, dove il clan dei Casalesi “si è organizzato ai massimi livelli”. Un altro settore che ha attirato l’attenzione delle cosche mafiose è sicuramente quello della ricostruzione post-sisma. Un business che i clan hanno fiutato fin dalle prime ore (Abruzzo docet). “Molti dei mezzi coinvolti nello smaltimento delle macerie – denuncia Giovanni Tizian per l’Espresso – apparterrebbero ad aziende legate alla mafia calabrese”.
E’ noto, infatti, che nel business del movimento terra, la ‘ndrangheta ha ormai stabilito una sorta di monopolio in regione.
“Reati ambientali e corruzione sono strettamente connessi – sottolinea il presidente di Legambiente Vittorio Cogliati Dezza. I disegni di legge sui reati ambientali e sulla corruzione – prosegue Dezza – sono bloccati in Parlamento. E gli inquinatori festeggiano”.

[© www.lastefani.it]

Lotta per la libertà nell’Iran degli ayatollah

“Eravamo così impegnati a cercare di essere felici che non ci importava se non eravamo liberi”.

Dopo aver commentato Pollo alle prugne, torniamo indietro di qualche anno, a rivedere un film davvero particolare, a dire il vero un film d’animazione che molti hanno considerato il migliore dell’iraniana Marjane Satrapi, anche (ma non solo) per la sua qualità di manifesto femminista fra i più riusciti degli ultimi dieci anni.

persepolis
La locandina del film

Parliamo di Persepolis, film che prende il nome da Persepoli, una delle cinque capitali dell’Impero achemenide, il primo e più esteso impero dei Persiani, costituitosi intorno alla metà del VI secolo a.C.
Ricordiamo subito che questo cartone animato non ha nulla a che fare con i bambini, anzi direi che per essi non è proprio adatto. Per i temi trattati, magari, andrebbe fatto vedere nei licei, perché è un film vero, che non nasconde, che non si censura e che arriva, gradualmente e intelligentemente, al messaggio principale, il ripudio totale di ogni forma d’integralismo, a cominciare da quello islamico.
Un film tratto dall’autobiografia a fumetti, in due volumi, di Marjane Satrapi, ma realizzato a quattro mani con Vincent Paronnaud. Splendido.

persepolis
Film autobiografico, in questa striscia Marjane Satrapi da bambina col papà

Siamo a Teheran, nel 1978. Marjane è una bellissima bambina di 8 anni, che sogna di diventare un profeta che salverà il mondo. E’ fortunata perché, in mezzo a tanto isolamento, vive in una famiglia moderna, dove si può parlare di tutto e nulla si nasconde, con un nonno morto in prigione, uno zio fucilato, una nonna rivoluzionaria e combattiva, con i gelsomini nel reggiseno.
Piccola idealista, Marjane adora Bruce Lee, i Bee Gees e gli Iron Maiden, i cui dischi acquista al mercato nero e nasconde, abilmente e furtivamente, sotto il chador che è obbligata a indossare.

 

persepolis
Costretta ad indossare lo chador, Marjane ama i Bee Gees e gli Abba

La bambina vive sulla propria pelle la rivoluzione iraniana e la caduta dello Scià. Nasce la Repubblica islamica e inizia il periodo terribile dei pasdaran, che con la forza e la repressione impongono comportamenti e costumi ai cittadini. Un incubo che incarna la più assoluta mancanza di libertà. La guerra con l’Iraq di Saddam Hussein, intanto, distrugge le fondamenta di Teheran, sempre più oppressa dal potere, e Marjane, appena quattordicenne ma già rivoluzionaria, viene mandata a Vienna per evitare conseguenze peggiori. Qui, al liceo francese, cresce, scopre l’adolescenza e la rivoluzione sessuale, l’amore e il dolore che questo può portare, la solitudine e l’orgoglio delle proprie origini. Non si adatta però alla vita europea. A causa del fumo e delle notti trascorse all’aperto, Marjane rischia la vita: dopo essere stata ricoverata in ospedale ed essere guarita, chiede ai suoi genitori di poter tornare a casa, ma senza che facciano domande sugli anni passati in Austria. Tornata in Iran, si deprime sempre più perché trova il suo paese in condizioni peggiori di come lo aveva lasciato. Decide di sposarsi, ma la vita coniugale è davvero deludente, così come il ritorno nel Paese natale. Divorzio, di nuovo via da Teheran e trasferimento a Parigi.

persepolis
Una scena del film, il coraggio di opporsi al regime

Storia di fuga e di emarginazione, quindi, di paesi che non ricevono e non accolgono veramente, storia di solitudine, esilio, isolamento e diversità. Storia vera della nostra brava autrice.
Un film sorprendente, emozionante, divertente, ironico e allo stesso tempo drammatico, che porta a riflessioni importanti raccontate in modo innovativo, attraverso un bianco e nero che affascina, con rari sprazzi di colore e molte sfumature in carboncino che danno una bella e piacevole sensazione di artigianalità. Le donne sono al centro della storia, volitive, intelligenti, forti, indipendenti, profonde, commoventi, coraggiose, allegre, energiche. Donne che crescono, che lottano e vogliono, donne come tante, che cercano di sopravvivere. E che ci riescono.

di Marjane Satrapi e Vincent Paronnaud, con Chiara Mastroianni, Catherine Deneuve, Danielle Darrieux, Simon Abkarian, Gabrielle Lopes, drammatico, Francia, USA 2007, 95 mn

La crisi? Il problema
non è l’euro
ma la sovranità monetaria

Dentro o fuori dall’euro? Posto in questi termini l’interrogativo è fuorviante. Il problema vero, infatti, è il controllo dello Stato sulla banca centrale, condizione da cui discende la sovranità monetaria.
Quanti sanno che la Banca d’Italia è una banca di diritto pubblico – ma sostanzialmente privata – sulla quale lo Stato non ha praticamente alcun controllo? E che l’emissione di moneta e l’imposizione del tasso di interesse viene fatta da banche private al di fuori dell’autorità statale? La drammatica crisi attuale si può superare solo se lo Stato riacquisterà la prerogativa di emettere moneta nella quantità adeguata a ripagare l’operatività del sistema.
A sostenerlo, da tempo, è un gruppo di studiosi che fanno riferimento alla cosiddetta “Teoria monetaria moderna” messa a punto a fine Ottocento dall’economista tedesco Georg Friedrich Knapp con il contributo di tal Alfred Mitchell-Innes. Attorno a questa impostazione, nota come cartalismo, circola un certo scetticismo, alimentato dagli accademici del pensiero dominante. Però Knapp non doveva essere proprio uno sprovveduto se è vero che viene citato nientemeno che da Keynes nel suo “Trattato sulla moneta” e che fra i più illustri sostenitori del neo-cartalismo c’è addirittura Kenneth Galbraith, insigne economista americano, acuto critico del capitalismo moderno.

Cerchiamo dunque di comprendere la questione, scavalcando i pregiudizi.
In Italia, il problema della perdita di sovranità dello Stato nasce ben prima dell’euro e si origina nel luglio del 1981 con la separazione fra ministero del Tesoro e Banca d’Italia; un processo che si completa nel 1992 con la totale privatizzazione delle principali banche nazionali partecipate dallo Stato (Commerciale, Bnl, Banco di Roma), detentrici delle azioni della Banca d’Italia che per conseguenza – a seguito di quella che è stata definita una “svendita” – passa dal controllo statale a quello esercitato da privati che operano sul mercato: oggi i principali azionisti sono Intesa Sanpaolo, Unicredit e assicurazioni Generali.
Da oltre 20 anni lo Stato, dunque, non ha più la facoltà di decidere autonomamente quanto danaro immettere nel sistema operando, come si faceva nel passato, con le leve della politica monetaria e soprattutto non ha più la possibilità di emettere denaro di sua proprietà e quindi libero da debito ma è obbligato a prendere in prestito la stessa quantità di denaro dal sistema bancario privato indebitandosi.

Ma veniamo all’oggi e alle possibili vie di soluzione della crisi attuale. Il paradosso attuale è che c’è ampia disponibilità di merce, ma non ci sono i soldi per comperarla. C’è disponibilità di forza lavoro, ma non ci sono risorse per remunerarla. Ci sono bisogni inappagati dei singoli e delle famiglie (quindi un mercato potenziale), ma non c’è denaro per soddisfarli. Insomma, tutto ruota intorno ai soldi. Se ricominciassero a circolare, il sistema si rimetterebbe in moto: pago i lavoratori che producono merci che i consumatori acquistano ripagando i costi sostenuti dalle imprese (per materie prime e manodopera) e il surplus costituito dal profitto che giustifica la loro operatività.

Se magicamente il denaro fosse disponibile nella giusta quantità il meccanismo si alimenterebbe da sé: lavoro e produco; per il mio lavoro sono pagato e con quei soldi acquisto ciò che mi serve alimentando il mercato che dovrà continuare a produrre per soddisfare nuovi bisogni; producendo e vendendo, si genereranno altre ricchezze che assicureranno il pagamento dei lavoratori. E così via…

Ma il denaro scarseggia. E chi ci impedisce di crearlo?, domandano i sostenitori della teoria monetaria. Teoricamente nessuno. Si produce quanta moneta serve per rimettere in movimento il sistema e quando eventualmente dovesse circolarne troppa, con il rischio di inflazione, si drena attraverso l’imposizione delle tasse. Perché il problema, che potrebbe derivare dalla sovrabbondanza di liquido, è che la disponibilità di beni non sia sufficiente a soddisfare totalmente la richiesta; cioè potrebbe accadere ciò che in termini tecnici si definisce “esubero di domanda” (con corrispettiva insufficienza dell’offerta). E’ il caso in cui si verifica un rialzo dei prezzi, conseguenza del fatto che gli acquirenti hanno molti soldi e sono disposti a spendere: e quando la merce comincia a scarseggiare si determina una sorta di asta pubblica… Ecco allora che lo Stato, attraverso la leva impositiva, rimette ordine: preleva attraverso le tasse soldi da destinare a servizi e opere pubbliche e riduce gli appetiti dei singoli mantenendo i beni in circolazione a livelli di prezzo standardizzati.

Perché non si fa? Non perché c’è l’euro, ma perché c’è la Bce, la Banca centrale europea! Ma se non ci fosse la Bce, ci sarebbe la Banca d’Italia: e non cambierebbe nulla. Perché nemmeno lei, come abbiamo ricordato, è sotto il controllo dello Stato, ma risponde a logiche e interessi privati. L’unica “banca” pubblica in Italia in questo momento è la Cassa depositi e prestiti, che però non funziona come una normale banca, ma opera solo come finanziaria a supporto dello Stato e degli enti locali.

Quindi il problema, secondo questa intrigante prospettiva di analisi, è ricreare una banca pubblica e porla sotto il controllo del ministero del Tesoro, cioè dello Stato, in maniera che il Parlamento possa definire gli indirizzi e le scelte della politica economica e monetaria del Paese.
Di questo si parlerà questa sera alle 20,45 alla sala San Francesco (presso l’omonima chiesa all’angolo di via Savonarola) con Marco Cattaneo e Giovanni Zibordi, autori del volume “Soluzione per l’euro” edito da Hoepli.

La fibromialgia, una ‘malattia invisibile’

Quando ti svegli la mattina, ti alzi e ti senti più stanco di quando sei andato a dormire? Hai indolenzimenti dappertutto? Ti affatichi per minimi sforzi? Spesso soffri di gastrite o colite? Hai spesso mal di testa e vertigini? Sono anni che ti lamenti di questi sintomi, ma nessuno è riuscito a trovare una spiegazione? Potresti essere una delle tantissime persone nel mondo affette da sindrome fibromialgica o fibromialgia.

La fibromialgia è una sindrome dolorosa che coinvolge muscoli, tessuto connettivo (tendini e legamenti) e articolazioni. Questa affezione è una delle malattie reumatiche in assoluto più diffuse: solo in Italia si stima che ne siano affetti dai 3 ai 4 milioni di individui, di cui la maggior parte sono donne. La fibromialgia non provoca alterazioni degli esami di laboratorio e non causa danni radiologicamente evidenziabili. Inoltre, chi è affetto da fibromialgia in apparenza non sembra ammalato, ha un aspetto sano e quindi è difficilmente preso seriamente sia dai familiari che dagli amici. I medici stessi spesso non conoscono bene la malattia, e di fronte ad un soggetto che riferisce di intenso dolore e stanchezza, che ha esami perfettamente normali, hanno la tendenza ad etichettarlo come “depresso” o “malato immaginario”. Molte persone colpite da questa malattia hanno in comune una storia pluriennale di visite ed esami di tutti i tipi e sono già state sottoposte a numerose terapie, compresi interventi chirurgici, normalmente senza esiti positivi. Queste esperienze portano gli individui a sviluppare reazioni ansiose o depressive. Per tutti questi motivi, la fibromialgia è stata definita “malattia invisibile”.

Ma entriamo nello specifico, la fibromialgia che tipo di sindrome è?
Il termine fibromialgia (FM) deriva da “fibro” che indica i tessuti fibrosi (come tendini e legamenti) e “mialgia” che significa dolore muscolare. La FM è quindi una sindrome che colpisce i muscoli, causando un aumento di tensione muscolare: tutti i muscoli (dal cuoio capelluto alla pianta dei piedi) sono in costante tensione.

Questo comporta numerosi disturbi:
1. innanzitutto, i muscoli tesi sono causa di dolore che, in alcuni casi, è localizzato (le sedi più frequenti sono il collo, le spalle, la schiena, le gambe), ma talora diffuso in tutto il corpo;
2. i muscoli tesi provocano rigidità e possono limitare i movimenti o dare una sensazione di gonfiore a livello delle articolazioni;
3. i muscoli tesi è come se lavorassero costantemente per cui sono sempre stanchi e si esauriscono con grande facilità: questo significa che chi è affetto da FM si sente sempre stanco e si affatica anche per minimi sforzi;
4. i muscoli tesi non permettono di riposare in modo adeguato: chi è affetto da FM ha un sonno molto leggero, si sveglia più volte durante la notte e la mattina si sente più stanco di quando si è coricato (si parla di “sonno non ristoratore”);
5. la tensione muscolare si riflette anche a livello di tendini (che sono strutture fibrose tramite le quali i muscoli si attaccano alle ossa) che diventano dolenti, in particolare nei loro punti di inserzione: questi punti dolenti tendinei, insieme ad alcuni punti muscolari, evocabili durante la visita medica con la semplice palpazione, sono una caratteristica peculiare della FM e vengono definiti “tender points”.

Studiando questa sindrome e trattando i suoi effetti come osteopata, ho verificato che i maggiori fattori di rischio per lo sviluppo di fibromialgia sono:

1. una storia familiare di depressione;
2. il sesso: due terzi dei malati di fibromialgia sono donne;
3. una bassa funzione tiroidea;
4. sensibilità e familiarità (personalmente non credo al fattore genetico);
5. aumento entropico cellulare a causa di fattori tossici.

Le cause che portano alla fibromialgia
La fibromialgia non ha una causa conclamata, tuttavia, di solito chi soffre di fibromialgia ha i seguenti disturbi:

– disturbi del sonno;
– bassa soglia del dolore;
– bassa funzionalità tiroidea;
– bassi livelli di serotonina;
– bassi livelli di progesterone;
– alterata funzione dell’acido lattico;
– alterata funzione del sistema immunitario;
– alti livelli tossici, intolleranze e allergie;
– basso livello del glutatione e in generale degli antiossidanti;
– stress strutturale e psicogeno come trauma non dissipato.

Cosa occorre sapere per affrontare la sindrome fibromialgica
E’ importante sottolineare che questa sindrome è caratterizzata da un grave affaticamento che potrebbe venir alleviato in primo luogo da un buon sonno, in particolare nelle fasi 3 e 4 o fase Delta, fase in cui i tessuti corporei si rilassano e si riparano.
Ogni persona ha proprie fasi del sonno che possono essere influenzate da alimentazione, sport, medicine, alcol, droghe, disturbi del sonno e mancanza di riposo. Per essere più chiari: durante lo stadio 1 il sonno è leggero, nello stadio 2 il sonno diventa sempre più profondo, negli stadi 3 e 4 (fase Delta) si raggiunge la massima profondità del sonno. In questi stadi il corpo si riposa dopo le fatiche della giornata. Lo stadio 5 del sonno, detto anche fase Rem, è caratterizzato da evidenti alterazioni fisiologiche come respirazione accelerata, maggiore attività cerebrale, rapido movimento degli occhi e rilassamento muscolare. In questa fase si sogna.
Quindi il ritmo Delta (frequenza inferiore a ca. 3 hertz) coincide col sonno profondo senza sogni e con rilassamento muscolare intenso. In questa fase si ha la massima produzione dell’ormone della crescita GH (che durante tutta la vita è indispensabile per il rinnovamento cellulare oltre che, nella prima fase, per la crescita) e si ha una massima attività del sistema immunitario.
In questo piccolo periodo di sonno delta, si rigenerano i nostri processi neuronali che producono “endofarmaci naturali“: potenti farmaci prodotti dal nostro organismo ad azione altamente specifica. Il ritmo Delta stimola l’autoproduzione di endomorfine e citochine, grazie al senso di tranquillità e all’effetto calmante del sonno.
Purtroppo i ritmi frenetici della società moderna, che ormai viaggia alla velocità di internet, inducono il cervello a restare molto attivo per eccessivi periodi di tempo. In altre parole, si riduce la capacità di rilassarsi, e di avere un sonno profondo e quindi di rigenerarsi instaurando la temibile escalation di aumento dello stress negativo, insonnia.
L’affaticamento tipico di questa sindrome, spesso viene generato da un’elevata attività cerebrale che corrisponde ad un’eccessiva attenzione verso l’esterno (supremazia dei sensi esterocettivi vista e udito), a scapito dell’ascolto dei bisogni del corpo. Si genera così una dispercezione corporea ovvero una diminuita consapevolezza del proprio “io”, in grado di agevolare pericolosamente i processi degenerativi. Apprendere e praticare attività rilassanti e propriocettive, quali ad esempio la tecnica cranio-sacrale praticata da un osteopata esperto, una corretta attività fisica e una buona nutrizione sono di primaria importanza anche per indurre ad entrare nella fase Delta, e quindi a rimodulare e rilassare tutto il sistema corporeo.

I consigli dell’osteopata
Sono tre i passaggi chiave nella lotta contro la fibromialgia: prima di tutto occorre eliminare tossine, allergeni e stress dal proprio corpo; poi si passa a ripristinare il sistema autoimmune; infine, è necessario rigenerare i tessuti corporei danneggiati, con un’alimentazione perfetta e semplice.

Di seguito alcuni consigli pratici:

1. Fare attività fisica ma senza esagerare per non produrre l’elaborazione di acido lattico. Non effettuare una routine di esercizi, concentrarsi su regimi di nutrizione che facilitino l’eliminazione di acido lattico.
2. Fare esercizi di respiro e yoga meditativo prima di dormire.
3. Fare stretching e massaggi dolci, camminate, queste sono le migliori attività per la rimozione dell’acido lattico dal corpo.
4. Assumere calcio in piccole dosi: il calcio è una forte necessità dietetica che permette al corpo di affrontare la rimozione dell’acido lattico, una tisana di santoreggia e origano con semi di anice, non zuccherata, dopo i pasti è un toccasana.
5. Assumere magnesio: il magnesio è un importante esigenza dietetica che aiuta ad aumentare la soglia del dolore e sembra impedire ai nervi di eccitarsi troppo in fretta, migliorando la soglia del dolore. Si può trovare in abbondanza nelle verdure a foglia verde (bietole, carciofi e spinaci), nella frutta secca (noci, mandorle, anacardi, arachidi, pistacchi e nocciole) e nei legumi (in particolare lenticchie e fagioli). Anche i cereali integrali contengono un’elevata dose di magnesio; il cioccolato amaro, il cacao e i funghi poi sono tra i primi della lista in quanto a magnesio contenuto. Le banane contengono tre volte tanto magnesio rispetto a prugne, arance, mele e pere.
6. Consumare alimenti che contengono triptofano e tirosina per aumentare la funzione endocrina e il livello della serotonina.
7. Aumentare l’assunzione di antiossidanti.
8. Aiutare il sistema immunitario del corpo attraverso una dieta di pulizia che gioverà al sistema immunitario nel ritrovare un funzionamento ottimale.
9. Rivolgersi all’osteopata che è in grado di esercitare correzioni e normalizzazioni delle fasce, in modo da eliminare le pressioni sui nervi.

Metaforicamente parlando, superare la fibromialgia è un po’ come ricostruire una città che è stata bombardata durante una guerra aerea: dapprincipio, occorre quindi negoziare una decisione politica per fermare i bombardamenti e rimuovere i combattenti dalla città, se il nemico è convinto che ci siano ancora “combattenti” in città, continuerà a ordinare bombardamenti.
I “combattenti” sono le tossine, gli allergeni e lo stress. Quando le tossine si depositano in una zona di tessuto, il sistema immunitario ritiene di avere un nemico, e non smette di crederlo fino a quando gli elementi “stranieri” lasciano la zona.
Quindi, il primo passo è quello di disintossicare il corpo dalle tossine. Per condurre al meglio questa operazione di “cessate il fuoco” e di rimozione dei “combattenti” ci si può aiutare con tisane particolari che puliscono l’intestino tenue, organo in cui si svolge la più alta percentuale 90% di attività immunitaria (placche del payer). Assumere antiossidanti è altrettanto utile, agiscono come la “polizia della città” per fermare i danni da radicali liberi. In sostanza, il sistema immunitario si deve rilassare e non combattere più Infine, i tessuti danneggiati devono essere ricostruiti dalla nutrizione nel modo più efficace possibile.

La fibromialgia può essere superata o nettamente migliorata se si applica la tattica di cui sopra. Non esiste un unico “proiettile” magico che uccide la fibromialgia, in quanto questa sindrome si sviluppa nel tempo, aumenta il livello di tossine e i sistemi del corpo si degradano. Può essere superata solo ricostruendo questi sistemi nel tempo. Lentamente i nostri sistemi corporei riusciranno a replicare nuove cellule ogni cinque mesi, le cellule nervose necessitano di due anni o più. Gli sforzi per superare la fibromialgia, quindi, devono essere sforzi a lungo termine, di almeno due anni.
Bisogna “accordare” il corpo, “resettare” il sistema immunitario, in modo che non sia più iperattivo. Ottimizzare il nostro corpo fino a quando non si rimuove “il fango” che si accumula all’interno e che impedisce l’assimilazione delle sostanze nutritive, che riequilibrano e portano la quiete all’intero sistema. Per concludere, potremmo quindi dire che la fibromialgia è un’ “incomprensione” tra sistema immunitario e cervello.

Ferraraitalia aveva già pubblicato un articolo su questo tema, la storia di una giovane donna affetta da fibromialgia [vedi]

Lessico poco familiare: l’anacoluto

“Ibam forte via Sacra […]”, comincia così l’epistola del grande Orazio dedicata al rompicoglioni che, incontrandolo per strada, gli attaccano un asfissiante bottone. Caro vecchio Orazio, quante volte ho invocato il tuo nome cercando di svicolare dalla stretta di uno scocciatore, di quelli che, quando tenti di andartene, ti prendono per un braccio lo stringono e ti bloccano, e allora senti una morsa allo stomaco e il cervello tuo non pensa più a nulla se non a far fuggire il povero corpo intrappolato nella morsa del nemico. Ma il pensiero che vorrei rilasciare a queste righe si riferisce ad altro: innanzitutto, non ero sulla via Sacra ma nella ben più popolare via San Romano della mia città, ero proprio all’inizio, dove i lavori continuano, il make-up della piazza è venuto proprio bene, peccato soltanto che abbiano messo la pavimentazione bianca sotto la galleria, già sporca lurida perché nessuno pulisce e i giovani, che lì quasi vivono, mangiano e bevono di giorno e di notte, inesorabili insozzano. Ero lì, dunque, quando improvvisamente, senza alcun preavviso, dalla testa mi è uscito un termine che sostava lì tra due pensieri errabondi, chissà da quanto tempo e sempre l’avevo legato a un nome: Berlusconi. Berlusconi è un anacoluto, ho sempre pensato, ma senza una ragione specifica: anacoluto è una figura retorica che significa incongruente, mancante di nessi sintattici. Avevo ragione: Berlusconi non ha mai avuto nessi sintattici e ce ne accorgiamo adesso che la sua stella sta tramontando tristemente (almeno io spero). Quando Saragat cominciò la sua salita al Colle, il grande giornalista Baldacci, fondatore de “Il Giorno”, scrisse che il nome del segretario socialdemocratico sarebbe stato sempre chiuso dentro una parentesi. E così è stato: Saragat è rimasto prigioniero della parentesi, così come Berlusconi non riuscirà mai a togliersi di dosso la figura retorica dell’anacoluto, niente da fare: politicamente il Berlusca è un anacoluto.

Ferrara sotto le Stelle 2014: il cast dell’ evento speciale con “Le Luci della Centrale Elettrica”

da: Ferrara sotto le Stelle 2014

Non sarà soltanto un semplice ritorno a casa, quello de LE LUCI DELLA CENTRALE ELETTRICA a Ferrara, il prossimo 16 luglio.

“TRA FERRARA E LA LUNA”, che si inserisce nel prestigioso programma del festival “Ferrara sotto le stelle”, sarà infatti una serata evento che insieme a Vasco Brondi porterà in città alcuni dei protagonisti della nuova scena musicale italiana.

“Mi sono immaginato una festa a cielo aperto dentro il cortile del castello – racconta Vasco Brondi – Uno dei posti più magici di questa magica città. Si chiamerà TRA FERRARA E LA LUNA che è un verso di una bellissima canzone di Lucio Dalla. Io trasalivo sempre e mi emozionavo quando sentivo nominata la mia piccola città, in un libro, in un film o in una canzone. Mi sembrava splendido e stranissimo.”

La seratà prenderà il via alle 19.30, con due concerti di apertura che vedranno sul palco una delle rivelazioni dell’ultima stagione, il cantautore Nicolò Carnesi (il suo ultimo disco “Ho una galassia nell’armadio” ha confermato tutto il bene che si diceva di lui) e la rockeuse Maria Antonietta (già sul palco con Le luci della centrale elettrica anche in occasione del concerto sold-out a Roma dello scorso aprile): “I loro dischi – scrive Brondi – sono stati la colonna sonora dei miei viaggi in furgone durante questo tour e per me sarà stupendo invece quel giorno sentirli suonare dal vivo su quello stesso palco.”

Dopo le esibizione di Nicolò Carnesi e Maria Antonietta toccherà a LE LUCI DELLA CENTRALE ELETTRICA salire sul palco per un concerto impreziosito dalla presenza di alcuni ospiti speciali: “Per questo ritorno a casa ho pensato di portarci le persone che ho conosciuto negli ultimi anni facendo questo strano lavoro, miei amici e musicisti che amo. Di portarli nella mia città, una città che continuo ad abbandonare e in cui continuo a ritornare. Ci sarà Dente che ho conosciuto proprio la prima volta che sono andato a Milano e abbiamo iniziato i nostri viaggi quasi assieme. Ci sarà Rachele Bastreghi dei Baustelle che ha una voce stupenda che mi gira sempre in testa e con la quale abbiamo anche registrato un pezzo assieme un paio di anni fa. E ci sarà Levante e sul palco ci scambieremo le canzoni. Sarà una giornata speciale e sono felice che sia a Ferrara.”

Tutte le informazioni sulla serata e sulle prevendite sono disponibili sul sito ufficiale del festival al link www.ferrarasottolestelle.it.

L’abbaglio delle privatizzazioni e la fine della politica

C’è stata una lunga e sciagurata stagione politica nella quale al grido di “privatizzazione” si è smantellato lo stato sociale e dissipato il patrimonio pubblico. Obiettivo dichiarato: abbattere gli sprechi, rendere più efficienti i servizi. Risultato lo Stato è più povero, i servizi sono in larga parte insoddisfacenti, come o peggio di prima. La ragione non è difficile da comprendere, si basa sulla logica delle cose. Il privato per sua natura mira legittimamente al profitto. E per guadagnare ha due strade: giocare sui prezzi o sui costi. Il pubblico non persegue il lucro. Pertanto, per fare un esempio a caso, il servizio mensa delle scuola può essere gestito dai Comuni a rendimento zero. Ma se subentra un privato deve guadagnarci, quindi o aumenta le tariffe o riduce la qualità del servizio per risparmiare e ritagliarsi così il proprio margine, speculando sulla materia prima impiegata o riducendo gli stipendi dei lavoratori.

L’idea di migliorare privatizzando appare dunque un paradosso, proprio perché il privato non può permettersi una partita a pareggio. Su cosa basavano dunque i fautori della privatizzazione una pretesa così apparentemente insensata? Sulla convinzione che gli sprechi e le inefficienze della pubblica amministrazione fossero talmente enormi da generare un danno superiore all’entità del giusto guadagno del privato. In altri termini il privato, “razionalizzando” e riducendo i costi, avrebbe potuto mantenere la medesima qualità (del servizio o del prodotto) ritagliandosi pure il suo margine di profitto. L’esperienza ha dimostrato il contrario. I servizi privatizzati in generale costano di più oppure valgono meno: se sulla bilancia aumenta la qualità, per mantenere l’equilibrio deve aumentare anche il prezzo; viceversa se si riduce il costo della prestazione si deve ridurre anche l’onere produttivo e dunque il suo valore.
I cittadini non ne hanno tratto alcun vantaggio come era facile prevedere. In compenso enormi flussi di denaro sono transitati dalla casse pubbliche a quelle di imprese private. Spesso, guarda caso, proprio le imprese degli amici dei fautori della privatizzazione.

Il problema andava affrontato diversamente, intervenendo sui meccanismi di gestione del settore e delle aziende pubbliche, improntandoli a criteri di managerialità, progressivamente riducendo gli sprechi fino ad azzerarli. In questo modo si sarebbe mantenuto intatto il controllo pubblico su servizi essenziali preservandone il profilo di qualità a tutela dei cittadini. E avendo libertà di decidere profili tariffari improntati a logiche “politiche” nel senso nobile del termine (cioè a criteri attenti alle necessità dell’utenza e alla redditività dei cittadini), anziché essere schiavi di valutazioni meramente economiciste.

Il sindaco Zangheri, per esempio, nella Bologna degli anni Settanta poteva permettersi di non fare pagare il bus nelle fasce orarie in cui i mezzi erano prevalentemente utilizzati da operai e da studenti. Poteva sostenere quella scelta – e generare quindi consapevolmente una perdita di gestione sul servizio di trasporto pubblico – perché poi recuperava il deficit grazie agli utili di altre aziende municipalizzate (le farmacie, i trasporti e i servizi funebri…), attraverso un meccanismo di compensazione, giustificato da una visione di sistema di impronta non biecamente aziendalista ma, appunto, orientata all’equità e alla ricerca del bene comune della collettività.

La resa incondizionata alle logiche del mercato, che si è affermata da oltre un ventennio, ha invece concorso pesantemente all’eclissi della politica concepita come servizio volto alla soddisfazione dei bisogni dei cittadini nel rispetto degli equilibri della comunità della quale ogni singolo individuo è parte costitutiva.

Piccole imprese, la crisi continua. Il fatturato cala di un altro 7%

di Davide Tucci

«Le piccole imprese sono ridotte allo stremo. E la pressione fiscale, unita all’enorme rete burocratica, non ha fatto altro che aggravare la loro situazione. Se a questo aggiungiamo anche l’evento sismico di due anni fa, è chiaro che la luce in fondo al tunnel si allontana sempre di più».
Paolo Govoni, presidente di Cna Emilia Romagna, non usa mezzi termini mentre inaugura “TrendER”, il quindicesimo Forum Congiunturale della micro e piccola impresa sul secondo semestre del 2013. Un semestre che ha confermato il quadro di difficoltà di inizio anno, e che ha fatto registrare un’ulteriore diminuzione tendenziale del 7% sul fatturato totale (nel primo semestre si era fermata al 6,3%).

«E i dati per il primo trimestre dell’anno in corso non rasserenano affatto, per via dei livelli dei ricavi complessivi che si abbassano fino a toccare il -9,4%», dichiara il direttore regionale dell’Istat Marco Ricci. La serie di scivoloni, però, ha risparmiato Bologna, l’unica provincia in cui il fatturato totale è lievitato del 2,1%. La maglia nera va invece a Parma, in rosso per oltre il 22%.

L’unica nota positiva, per le aziende emiliane con meno di 20 dipendenti, è che il ridimensionamento è stato solo in parte attenuato dalla lieve crescita tendenziale dell’1,3% sul fatturato estero: «L’export ci fa guadagnare sempre mezzo punto di Pil in più, ma non è affatto sufficiente a condurci verso la ripresa economica», sottolinea Ugo Girardi, segretario generale Unioncamere dell’Emilia Romagna. «Occorre che tutti gli attori della produzione emiliana puntino all’internazionalizzazione», rilancia Morena Diazzi, direttore generale delle Attività produttive dell’Emilia Romagna.

Il settore in picchiata è ancora una volta quello dell’edilizia, in cui il calo tendenziale del fatturato complessivo del -10% conferma, negli ultimi di mesi dello scorso anno, i dati del primo semestre. Si tratta di una riacutizzazione della crisi. Anche gli investimenti nelle costruzioni continuano a diminuire per il quarto semestre consecutivo: a fronte di un’attenuazione del 15,3%, nella prima metà dello scorso anno, si è passati ad un calo di cinque punti (-20%).

Tra i pochi settori che resistono, l’unico in salita è il manifatturiero del legno mobile, che registra una crescita dello 0,4% rispetto ai primi sei mesi del 2013, seguito dai ribassi meno dolorosi della meccanica (-1,5%) e dei trasporti (-3,5%). Più sensibili, invece, i cali di fatturato della moda, che arriva a toccare il -14,7%, e dell’alimentare, al -16%.

«C’è una doppia polarità con cui bisogna misurarsi: ottimismo e pessimismo. Stiamo attraversando una Quaresima economica più lunga del previsto», cerca di stemperare Daniele Quadrelli, direttore generale della Federazione delle Banche di Credito Cooperativo dell’Emilia Romagna. «La stagnazione attuale non ha graziato neanche le banche, sentenzia. Il 2013, infatti, è stato l’annus horribilis del Credito Cooperativo, sia in Emilia che in tutto il Paese. Il nostro modello è totalmente in rivisitazione, rimanendo comunque ancorato al locale. Gli istituti di credito che compongono il sistema sono destinati a diminuire, perché lo stesso concetto di “territorialismo” sta cambiando. Dobbiamo sforzarci di capire quante sofferenze abbiamo ancora da metabolizzare».

[© www.lastefani.it]

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Dalle ronde ai forum, l’anima dei quartieri

Abito il quartiere giardino arianuova. Lo scrivo come un sostantivo seguito dal suo attributo, come un programma, una promessa della natura alla città. Dunque, non come uno più uno, che in quanto tale può fare solo due. Due entità vicine, ma distinte.
Non sopporto, poi, neppure l’etichetta Gad che con gli anni gli è stata incollata addosso. Sembra la cifra di un gruppo d’assalto.
Gad si addice alle ronde volontarie che di sera percorrono con urla da monatti le strade tra l’Acquedotto e la Stazione, con l’intento di stanare la peste dello spaccio di droghe. Ma per le urla e i frastuoni con cui si accompagnano, la loro violenza non è minore del degrado sociale che si propongono di debellare, almeno per come inaspettata ti fa sussultare, violando la tua casa e il tuo privato.
Per principio non amo chi si sostituisce ai doveri delle forze dell’ordine, con una sorta di fai da te, che il solo tollerarlo denuncia la debolezza dell’amministrazione cittadina e delle stesse autorità preposte a garantire la nostra sicurezza. Sarebbe sufficiente che dispiegassero la metà dei corpi di polizia che, ogni domenica che la Spal gioca in casa, mobilitano in zona stadio, per sconfiggere lo smercio degli stupefacenti. Ma certo di questi tempi è arduo sceverare tra calcio e coca chi sia più pericoloso.
In tanto appare un nuovo soggetto sociologico, il cittadino fai da te. Il cittadino che si sente tradito dalla sua comunità, perché si sente lasciato solo di fronte al problema. E allora cerca altre solitudini come la sua, a cui unirsi per dichiarare guerra al nemico comune.
È questo un tema critico che gli specialisti definiscono City of Neighbourhoods, difficile da traslare nella nostra lingua senza deformarne o perderne il significato vero. È, comunque, la questione del rapporto tra quartiere e città. Le circoscrizioni, che ora non abbiamo più, perché la destra, con il decreto legge 2/2010, ce le ha cancellate, per ridurre i costi della politica sulle spalle delle persone che non rubano. Così ti hanno ridotto ad essere ospite o un semplice abitante, anziché essere cittadino a tutti gli effetti. Oggetto delle politiche amministrative della tua città, anziché il soggetto per eccellenza.
Mi pare che la risposta della nostra amministrazione cittadina sia stata quella di assegnare ad un assessore la delega al decentramento. Il precedente assessore Masieri, intervistato da la Nuova Ferrara, nel gennaio di quest’anno, prevedeva un assessore costantemente decentrato, itinerante tra le delegazioni in funzione di ascolto di questo o di quell’altro interesse. Davvero umiliante, mortificante di ogni idea di cittadinanza. Sul filo pericoloso del paternalismo, del customer service, delle lobbies.
Se questo accadesse, vorrebbe dire che quasi quarant’anni di decentramento non sono stati in grado di sviluppare e consolidare nel tempo autosufficienza, strutture partecipative, identità, animazione, spirito locale.
L’esigenza d’essere cittadini attivi nel proprio quartiere non è venuta meno, anzi più la globalizzazione del mondo avanza, più cresce la necessità della partecipazione locale hic et nunc.
Non vorrei che fossimo rimasti solo con gli uffici anagrafici e le ronde di quartiere.
Le buone volontà, i volontariati, associazioni e parrocchie non hanno il compito di interpretare e dare risposte al groviglio complesso dei temi che pone ogni cittadinanza.
Cittadinanza è partecipare a un’idea di città, a un progetto che sei chiamato a condividere da chi ha titolo all’amministrazione della tua città, per investire sulla vita, sul risiedere, sulla felicità e il benessere delle persone.
Il nuovo progredisce per salti di qualità dei nostri pensieri. Di nuovo oggi ha bisogno la gente più che mai, per uscire dagli incubi economici e politici accumulati in questi decenni.
Salvate la città e la cittadinanza, non lasciate i cittadini da soli, non lasciate che si organizzino per proprio conto per combattere il crimine.
Allora nei quartieri bisogna andare ad ascoltare e dialogare. Istituire sedi permanenti di incontro, di impegni, di divisione dei compiti. I forum sono gli strumenti più rodati e conosciuti, i forum possono diventare i polmoni e l’ossigeno della vita cittadina e della sua democrazia. Non sono una perdita di tempo, non sono vuoti luoghi di sfoghi e di protesta, sono gli unici luoghi dove i cittadini hanno l’occasione di maturare nell’esercizio dei loro diritti di cittadinanza.
Se si temono i forum significa che si preferisce governare una città di sudditi e di lobbies. E allora, in simili condizioni, ognuno si organizza come può, perfino con le ronde di quartiere, che possono divenire anche squadre, fino a quando la storia si ripete.

Come stiamo ‘più o meno’ in Italia

2 / SEGUE – “Rimane alta la qualità del sistema produttivo italiano, ma diminuisce la qualità della vita e del contesto socio-economico, dell’ambiente e dell’offerta di servizi pubblici”, questa la sintesi interessante di una recentissima ricerca di cui ci piace rendere partecipe il lettore di Ferraraitalia.

L’indagine si basa sull’utilizzo di tre indicatori che rappresentano ciascuno la sintesi di diverse variabili statistiche riferite al periodo 2009-2012.
I tre indicatori si riferiscono a tre aspetti importantissimi della nostra società e ne valutano il livello: il sistema produttivo ha una buona propensione all’innovazione e alla crescita; la qualità della vita è in forte diminuzione con un fortissimo scarto tra nord e sud; la qualità dell’ambiente è in calo in tutto il Paese.
Gli indicatori che hanno determinato i tre punti evidenziati sono il frutto di variabili così espresse:

  • la nati-mortalità delle imprese, l’andamento dei brevetti e marchi depositati in Italia da aziende italiane, la produttività del lavoro, il ricorso all’Ict, i fallimenti, le assunzioni di figure professionali specializzate e l’andamento delle certificazioni per il sistema di gestione della qualità;
  • l’indice di povertà regionale delle famiglie, la spesa per consumi, i depositi pro-capite, il tasso di disoccupazione, l’indice di partecipazione ad attività di volontariato, le spese culturali;
  • i consumi energetici delle famiglie, le opinioni sulla qualità dell’aria, la pulizia delle strade, l’inquinamento acustico della zona di residenza, la disponibilità di verde urbano e i servizi di raccolta differenziata dei rifiuti;
  • l’offerta di trasporto pubblico, l’erogazione di servizi idrici, i servizi socio-assistenziali, i servizi medico-ospedalieri.

Come è bene notare, tutte le citate variabili rappresentano un contesto sociale e di costume profondamente cambiato; se si prendono le composizioni dei panieri degli indici del passato recente, anche quelli dell’ultimo decennio del ‘900, quelle variabili non si trovano più, sono sparite per dare spazio ad un “sistema vivendi” radicalmente spinto ad un salto in avanti nel futuro, anche nel vissuto della crisi dal 2008 fino ad oggi.
Se questa è “l’Italia in Europa” e “l’Europa nel Nord America“, quali percorsi di crescita di questa macro-area del mondo dovremmo continuare a percorrere per essere di nuovo attori di un benessere diffuso?
La risposta forse sta nei processi di globalizzazione, sta nel vedere come si muoveranno le altre macro-aree come l’Asia o la Russia con i suoi nuovi e ritrovati satelliti, quali scossoni arriveranno dall’Africa, dentro ad un tempo che cambia rapidissimamente e che ridisegnerà la nuova geo-politica.
Una sfida piena di insidie, ma che comunque avrà gambe e che sarà vincente per chi saprà stare al gioco. Che sia vincente il mondo intero e che la torta del benessere sia divisa in parti uguali, secondo criteri di dignità, giustizia e pace, è la nostra speranza, di chi pensa di stare con le persone.
Ma non ci fermiamo qui, ci pare interessante continuare, associando a questo contenuto anche l’immagine di una “società sciapa e infelice in cerca di connettività”, come bene ci illustrano i grafici del Censis.

Ecco alcune “colorazioni” del nostro Paese, tratte dal Rapporto 2013:

Il crollo non c’è stato, ma troppe persone scendono nella scala sociale. Nuovi spazi imprenditoriali e occupazionali in due ambiti: revisione del welfare e economia digitale. Il sistema ha bisogno e voglia di tornare a respirare, oltre le istituzioni e la politica.

Oggi siamo una società più «sciapa»: senza fermento, circola troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa. E siamo «malcontenti», quasi infelici, perché viviamo un grande, inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali.

Manca quel fervore che ha fatto da «sale alchemico» ai tanti mondi vitali che hanno operato come motori dello sviluppo degli ultimi decenni; si intravede, tuttavia, una lenta emersione di processi e soggetti di sviluppo che consentirebbero di andare oltre la sopravvivenza.

Il nuovo Welfare: crescono il welfare privato (il ricorso alla spesa «di tasca propria» e/o alla copertura assicurativa), il welfare comunitario (attraverso la spesa degli enti locali, il volontariato, la socializzazione delle singole realtà del territorio), il welfare aziendale, il welfare associativo (con il ritorno a logiche mutualistiche e la responsabilizzazione delle associazioni di categoria).

L’economia digitale: dalle reti infrastrutturali di nuova generazione al commercio elettronico, dalla elaborazione intelligente di grandi masse di dati agli applicativi basati sulla localizzazione geografica, dallo sviluppo degli strumenti digitali ai servizi innovativi di comunicazione, alla crescita massiccia di giovani «artigiani digitali».”

Molta carne al fuoco è stata messa nella narrazione, forse associando anche il non associabile, ma la complessità della ‘visione’ ci porta anche a credere che fosse inevitabile per quell’elefante entrare nella cristalliera, l’ultima chance che forse resta al nostro Paese, meglio al resto del mondo per farcela.
Se c’è una crisi antropologica e se questa, come sembra, ha raggiunto il suo apice e limite, nel poco tempo che rimane sarà necessario far tirar fuori il fiato a questa società, sempre nella cornice di buone regole di convivenza ovviamente.
Si sente in giro parlare di un “santo subito” per quel 40% e oltre che il Presidente del Consiglio del nostro Paese ha portato a casa per le elezioni europee e forse possiamo anche aggiungere che la divina provvidenza non ha mai limiti.
Ma attenti alle resistenze, soprattutto a quelle nascoste che allungano la mano senza vederla. E non resta che correre… vai Matteo, e a sentirci tra qualche anno!

Come stiamo ‘più o meno’ con l’Europa

Si è pensato di offrire alcuni dei risultati di una recente ricerca del Censis intitolata “Il Dare e l’avere con l’Europa”, fatta affinché i cittadini delle nazioni chiamati al recente voto possano intravedere la bontà della loro scelta, oppure la delusione o l’indifferenza.
La stampa, i giornali, i media, internet, le tv e altri strumenti di comunicazione necessari ed utili per la divulgazione dei tanti saperi, non sono sempre sufficienti per approfondire temi complessi, anche perché sovente sull’Europa si dicono delle mezze verità, per non andare oltre.
Ecco, quindi, un primo bilancio “del più e del meno” con l’Europa, per poter ritrovare un nuovo protagonismo dell’Italia (anche per un Renzi andato oltre il 40% dei consensi) tratto e dal “47° Rapporto sulla situazione sociale del Paese” (Censis, dicembre 2013) e dai successivi comunicati stampa.

“[…] siamo il terzo contribuente netto dell’Ue, pur essendo al 12° posto per Pil pro-capite: nel 2012 versati 16,4 miliardi di euro e ricevuti indietro 10,7 miliardi, con un saldo negativo di 5,7 miliardi. Restiamo un mercato molto appetibile e diamo un forte contributo alla competitività europea.
L’Italia è il terzo contribuente netto dell’Ue. Il budget annuale dell’Unione europea è di circa 140 miliardi di euro, ovvero poco più dell’1% del Pil complessivo degli Stati membri. Il contributo italiano alla formazione del bilancio comunitario è pari a circa il 12% del totale.
Le risorse versate dall’Italia all’Ue sono aumentate dai 14 miliardi di euro del 2007 ai 16,4 miliardi del 2012, mentre gli accrediti effettuati dall’Unione nel periodo si sono aggirati intorno ai 9-11 miliardi all’anno, determinando così un consistente saldo a nostro svantaggio: 6,6 miliardi nel 2011, 5,7 miliardi nel 2012.
Sono 12 i Paesi che versano più di quanto ricevono. Il maggiore contribuente netto è la Germania, con un valore cumulato nel periodo 2007-2012 di 52,7 miliardi di euro e un saldo medio annuo negativo per quasi 9 miliardi. Al secondo posto c’è la Francia, con un valore negativo cumulato pari a 33 miliardi di euro e un saldo medio annuo negativo di 5,5 miliardi.
L’Italia è il terzo contribuente netto, con 26,7 miliardi di euro cumulati nel periodo e in media 4,5 miliardi all’anno, nonostante noi occupiamo il 12° posto in Europa in termini di Pil pro-capite (25.600 euro per abitante rispetto ai 31.500 euro dei tedeschi e ai 27.700 dei francesi). Nel 2012, in particolare, abbiamo versato 16,4 miliardi di euro e abbiamo ricevuto indietro 10,7 miliardi, con un saldo negativo di 5,7 miliardi.
Fra i percettori netti si collocano ai primi posti la Polonia (con 47 miliardi di saldi cumulati nel periodo 2007-2012 e una media di 8 miliardi all’anno), la Grecia (con 27,6 miliardi complessivi e un dato medio annuo di 4,6 miliardi), la Spagna (18,7 miliardi in totale e 3,1 miliardi in media all’anno).
Speso il 52,7% dei fondi comunitari a noi italiani destinati. La dinamica degli accrediti risente anche della capacità progettuale e gestionale dei fondi europei da parte delle autorità italiane. Attraverso i diversi fondi strutturali di derivazione comunitaria e nazionale, nel periodo 2007-2013 l’Italia ha finanziato 52 programmi, per un volume iniziale di risorse pari a 59 miliardi di euro nei 7 anni di riferimento. Oggi l’importo complessivo risulta pari a 47,7 miliardi e il contributo proveniente dall’Unione europea si attesta sui 28 miliardi. Considerando la spesa certificata a partire dal 2009, a fine 2013 risulta assorbita una quota del 52,7%.
In termini di Prodotto interno lordo siamo la quarta economia europea, l’Italia rappresenta il 12,6% dei consumi finali delle famiglie nei 27 Paesi membri, per un ammontare di circa 1.000 miliardi di euro. E siamo al quinto posto per numero di passeggeri del traffico aereo, con una quota sul totale europeo pari all’11,3% e un valore assoluto che supera i 116 milioni di passeggeri.
L’Italia si colloca al secondo posto in Europa per sottoscrizione di contratti di telefonia mobile, con un valore pari a 98 milioni e una quota del 14,8% sul totale dei contratti sottoscritti all’interno dei 27 Paesi. Siamo quarti per numero di linee telefoniche principali (21,6 milioni di linee) e per numero di abbonamenti alla banda larga fissa (13,6 milioni di contratti), preceduti in entrambi i casi solo da Germania, Francia e Regno Unito. Nel 2012 il settore delle telecomunicazioni ha generato ricavi superiori a 43 miliardi di euro (quarta posizione in classifica). La società italiana è solida. La quota sul Pil del valore degli immobili di proprietà in Italia è pari al 9,1%: questo dato ci pone in cima alla classifica europea. Sul piano della ricchezza finanziaria netta, gli italiani presentano un valore che è più di due volte e mezzo il reddito disponibile (quinto posto in Europa).

Formazione e riqualificazione del personale.Si registra anche una discreta attenzione per la formazione e l’aggiornamento professionale. Un quarto delle aziende (26,9%) è ricorso a interventi di riconversione del personale, due terzi (66,4%) hanno promosso attività interne di aggiornamento e formazione: il 36,2% tramite formatori o consulenti che hanno organizzato attività interne, il 23,8% con la partecipazione a fiere, il 20% tramite scambi con fornitori e clienti. Ma la «manutenzione del capitale umano» in tempi di crisi resta difficile. Se si esclude infatti un terzo delle imprese (il 36,7%, per lo più di grandi dimensioni) che considerano l’aggiornamento del personale un fattore centrale, la maggioranza sa che l’impegno su questo fronte non è adeguato: per il 28,4% l’azienda dovrebbe fare di più, il 34,9% è cosciente di non fare nulla su questo fronte. La riforma dell’apprendistato permette oggi alle aziende di fruire di un ventaglio più esteso di profili da acquisire: pur prevalendo i giudizi positivi (77,7%), permangono però forti resistenze all’utilizzo (solo il 14,6% delle imprese interpellate ha utilizzato tale strumento).

La ristrutturazione nascosta. Solo il 21,4% delle aziende con oltre 20 addetti è rimasto inerte, ma la maggioranza, pari al 78,6%, ha cercato di intervenire con iniziative di innovazione strutturale, con la creazione di nuovi prodotti e servizi (49,1%) o l’introduzione di nuove tecnologie funzionali al miglioramento dei processi di lavoro (45,1%). Il 38,9% si è concentrato sul miglioramento dei canali di vendita e di comunicazione, il 34,3% sull’ingresso in nuovi mercati territoriali, il 32,4% sul miglioramento della funzione finanziaria.

Innovare il portafoglio di competenze. I tentativi di innovazione si sono accompagnati in molti casi all’avvio di un processo di ristrutturazione aziendale, spesso doloroso. Il 37,3% delle imprese ha espresso l’esigenza di adeguare il proprio portafoglio di competenze al cambiamento. Si tratta di una minoranza di aziende che hanno dovuto ricercare sul mercato competenze nuove, che prima non esistevano (nel 20,8% dei casi) o che negli anni erano diventate obsolete (17,4%). Tra i nuovi profili richiesti dalle aziende spiccano i commerciali (dagli export manager agli agenti di commercio, ricercati dal 36,4% di queste imprese), i tecnici (32,4%), gli amministrativi (31,4%) e gli ingegneri (25,4%). Da segnalare anche l’elevata richiesta di esperti di comunicazione e nuovi media (ricercati dal 12,2%) e di informatici, sistemisti e programmatori (10,1%).

Valorizzare le competenze anche tramite una nuova organizzazione. L’inserimento di nuove risorse in sostituzione delle vecchie o il ricorso a competenze esterne più specialistiche, utili a supportare il cambiamento, si sono accompagnati all’ottimizzazione dell’organizzazione, con il reengineering dei processi lavorativi (38%), la riorganizzazione dei gruppi di lavoro (31,7%), la revisione dei turni e degli orari (26,5%), la ridefinizione del sistema di valutazione e dei meccanismi premiali (28%). Le resistenze interne del personale hanno condizionato in molti casi (54%) l’avvio dei nuovi processi. E le valutazioni dei risultati finora raggiunti non sono del tutto positive: solo il 25,6% degli imprenditori è pienamente soddisfatto, mentre la maggioranza (52,1%) dà un giudizio di sufficienza e il 22,3% non si ritiene ancora contento.

Le molteplici facce della ristrutturazione. Da un lato, emerge una logica di tipo difensivo da parte di quelle aziende che vivono una fase di ridimensionamento e per le quali la riorganizzazione rappresenta l’ultima chance di sopravvivenza. In questo caso l’intervento sul fronte organizzativo è drastico, con tagli al personale (48,7%), riduzione di orari, riqualificazione e riconversione delle figure professionali esistenti (30,9%). Sono quelle aziende in cui gli esiti appaiono al momento più incerti, a detta degli stessi imprenditori: il 37,4% giudica i risultati ancora non soddisfacenti, se non deludenti. All’estremo opposto, vi è invece un modello di riorganizzazione aziendale che segue una logica molto più spinta e aggressiva, che riguarda però solo l’8% delle aziende.
In questo caso la riorganizzazione segue un percorso di forte innovazione nel rapporto con il mercato, nella definizione dei prodotti e dei processi, nell’applicazione delle tecnologie. In queste realtà l’occupazione cresce. Il 75% di esse ha inserito nuove professionalità in azienda negli ultimi tre anni e il 53% ha dovuto acquisire nuove competenze di cui prima non disponeva. Emerge con chiarezza la forte spinta data all’innovazione dall’avvio dei processi di internazionalizzazione. Le aziende presenti all’estero con propri prodotti, stabilimenti e punti vendita (il 43,7% delle imprese interpellate) sono quelle che presentano i più alti livelli di innovazione. L’inserimento di nuove professionalità (46,5%), la riqualificazione del personale (34,6%), ma anche l’esternalizzazione di funzioni che prima venivano svolte internamente (20,3%) e l’uscita di professionalità non più utili (39,7%), sono stati i cardini del loro intervento […]”

Come si legge, non ci sono solo evidenze di macroeconomia (le cosiddette grandezze economiche) ma anche di politiche aziendali, e questo è un bene per il nostro Paese, in quanto dimostra la capacità del sistema produttivo di guardare lontano e di poter investire, soprattutto in innovazione, riorganizzazione, qualità del prodotto. Solo in questo modo si potrà occupare uno spazio indispensabile per il futuro del sistema delle aziende italiane ed europee in generale.
Restiamo un Paese forte nell’esportazione, dobbiamo esserlo anche per il sostegno dei consumi interni, ne abbiamo le capacità imprenditoriali e del lavoro. Ma due cose sono urgenti per sostenere questo nuovo processo: un diverso sistema fiscale e un mercato del lavoro certamente flessibile ma dignitoso.

Per ora ci fermiamo qui.

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Dallo scarto al riciclo creativo

“Se tutti noi facessimo le cose che siamo realmente capaci di fare, stupiremo completamente noi stessi”. Con questa frase dell’inventore Thomas Edison, Alessandra Bosca, artigiana del restauro e della creatività come ama definirsi, ci regala una sorta di magico biglietto da visita.
E’ lei la protagonista di questa intervista e l’autrice del blog “Il riciclo di Alessandra” [leggi] dove ci guida alla scoperta di riciclo creativo, restyling dei mobili e restauro. Il suo pane quotidiano, insomma, masticato con la forza delle mani, la tenacia dell’intelligenza e i battiti del cuore.

Alessandra, sul tuo blog ti definisci un’artigiana del restauro e della creatività. Da dove è iniziata l’avventura?
Io nasco professionalmente come restauratrice. Già al liceo avevo questo pallino e, così, ho iniziato a frequentare un corso di restauro dei mobili e poi, puntando all’eccellenza, ho deciso di fare il concorso per entrare nell’Istituto superiore per la conservazione e il restauro di Roma. Ho vinto il concorso e per venti anni ho svolto questo mestiere, avendo la fortuna di lavorare al restauro di opere di grandi autori come il Guercino o il Pinturicchio. Nel tempo però ho cominciato a notare che la professione del restauratore si stava impoverendo, spesso mi capitava di dover svolgere lavori meno stimolanti e più faticosi. Non nascondo che ho attraversato un momento di crisi, sono entrata in una specie di tunnel, non sapevo più chi fossi e cosa volessi fare realmente. Poi, essendo una persona molto pratica, ho deciso di fare tesoro di quanto avevo appreso alla scuola di alta formazione e quasi per curare me stessa, per uscire dallo sconforto, ho iniziato a lavorare con materiali diversi, a costruire oggetti e a raccogliere tutto quello che avevo realizzato in venti anni di lavoro. Piano piano, sono riuscita anche a costruire il mio blog da sola, ho scoperto di riuscire ad esprimere le mie emozioni e contemporaneamente a fare dei lavori, nello stesso tempo affetti e oggetti riprendevano vita sotto le mie mani.

 

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Alessandra Bosca

Come è nato il tuo interesse per il restyling e il recupero dei mobili?
Il gusto per il restyling è nato da una passione che ho sempre avuto: trasformare gli oggetti per farli diventare belli. Ho cominciato a lavorare con mobili anonimi di legno, abbandonati e senza vita, e ho scoperto che, divertendomi con pennelli, colori e altri ferri del mestiere, potevano cambiare aspetto e rivivere. Il mobile fa parte della storia di ognuno di noi, ha un legame affettivo con noi, e anche se non ti piace puoi trasformarlo, rinnovarlo e farlo diventare bello. Poi, ovviamente, ho frequentato corsi di marketing e di imprenditoria e ho, quindi, cercato una via per differenziarmi sul mercato.

E la passione per il riciclo creativo da dove arriva?
Il riciclo creativo mi ha conquistato perché è troppo curioso e divertente. L’aspetto che ho trovato più affascinante e stimolante è che con il riciclo creativo si cambia il punto di vista delle cose e delle situazioni. L’incontro con questa nuova attività ha coinciso con un momento particolare della mia vita, è come se proprio quando mi stavo trasformando in un’altra persona, quando stavo cambiando la mia vita, professionale e privata, avessi trovato una concretizzazione pratica della mia trasformazione. Mi trasformavo io, così come un vecchio lampadario si trasformava in un vaso portafiori a sospensione, o la testiera del letto in un dondolo. E questo mi ha incoraggiato nel percorso. Poi è diventata una passione, da cui non posso più liberarmi.

Che materiali usi?
Uso quello che mi capita, quello che trovo al momento o in base all’ispirazione. Cestelli di lavatrice da trasformare in contenitori luminosi, ad esempio, e tante altre risorse che ho imparato a selezionare per non rischiare di diventare una sorta di discarica… Ultimamente, mi sono fatta conquistare dalla plastica, dalle bottiglie di plastica in particolare, perché è un materiale economico che ti offre tantissime possibilità di lavorazione ed è facile reperirlo. Trasformare la plastica mi dà anche una soddisfazione ecologica, è bello vedere che le persone sono felici di darmi bottiglie che, altrimenti, andrebbero perse, contribuendo ad inquinare l’ambiente. Con questo materiale realizzo soprattutto collane, gioielli e lampadari, scateno la mia creatività e quella del committente. E’ questo trovo sia il quid in più del riciclo creativo, rispetto al lavoro di mera esecuzione del restauratore.

Che senso ha oggi per te “costruire bellezza”?
Per me far rivivere un oggetto, renderlo bello, è come dare una visione positiva delle situazioni della vita. E’ come ricordare che non bisogna mai scoraggiarsi, che il cambiamento è importante ed è anche una bella sfida da affrontare. Una sfida che a me sembra di cogliere ogni volta che trasformo un mobile in disuso, che può apparire inutile, brutto, in un’opera unica, che rinasce e rivive. Il riciclo creativo è questo: creare qualcosa di unico, irripetibile, che, in qualche modo, esprime la tua essenza. Meglio se tutto questo contribuisce anche al rispetto dell’ambiente, anche se io, più che una paladina, in questo mi sento solo una delle tante persone che piano piano hanno iniziato un percorso verso una maggiore coscienza.

Alessandra sta per aprire il suo laboratorio, dove tutto sarà realizzato solo con materiale riciclato, in un quartiere storico di Roma, il Pigneto.

Berlinguer e la questione morale trent’anni dopo

Undici giugno 1984: muore Enrico Berlinguer. Dopo trent’anni, il tempo per un giudizio equanime sulla sua figura di politico e di statista non è ancora giunto. Questa rubrica non è certo il luogo per tentare un bilancio della sua leadership alla testa del più grande partito comunista dell’occidente democratico. Una cosa è certa: non va raccolto l’invito di Miriam Mafai che chiedeva di “Dimenticare Berlinguer”, come recitava il titolo di un suo infelice saggio.
In questa sede vorrei limitarmi a rilevare una drammatica conferma in occasione di questo anniversario. Negli ultimi anni della sua segreteria Berlinguer si caratterizzò per l’allarme che lanciò sui rischi di degrado morale che correvano la politica e il paese. Do per conosciuti gli elementi fondamentali della sua diagnosi. Ne cito solo i titoli: i partiti sono diventati macchine di potere e di clientela; la corruzione si combatte con pene severe e con la riforma delle istituzioni e della pubblica amministrazione; gli italiani onesti di tutti i partiti devono reagire e cacciare i corrotti dalla vita pubblica. Meno nota è la previsione fatta pochi mesi prima di morire: “Affrontare la questione morale è una condizione ineliminabile per poter proporre e fare accettare una politica severa di riforme e di risanamento finanziario. Ciò significa correttezza e onestà dal vertice alla base di tutta la vita pubblica. Come ha detto Norberto Bobbio, la prima riforma istituzionale consiste nel non rubare. Questo è lo stato di cose da cambiare per evitare una rivolta che sta maturando contro tutti i partiti”. Per i successivi decenni quella profezia fu ignorata e questo fu l’errore capitale commesso da chi si propose come erede innovatore di quella storia. Nessuna sorpresa se oggi dobbiamo fare i conti con Grillo e Casaleggio!
La denuncia di Berlinguer fu contestata fin dall’inizio. E’ doveroso ricordare che il segretario del Pci fu lasciato solo in questa difficile battaglia politica. Tranne Ugo La Malfa, tutti i partiti di quel momento lo snobbarono, e anche dentro il suo partito fu isolato e marchiato con il titolo di moralista. Cosa è accaduto da allora? La risposta è quotidianamente sotto gli occhi di tutti. La corruzione è diventata un sistema che impedisce di realizzare onestamente grandi opere pubbliche. Ecco l’elenco sommario degli scandali degli ultimi anni: mondiali di nuoto, G8 alla Maddalena, terremoto dell’Aquila, Expo 2015, Mose.
Che fare? Non esiste una misura in grado da sola di aggredire un fenomeno sistemico. Bisogna muoversi, contemporaneamente, su molti piani. Innanzitutto abolire tutte le leggi ‘ad personam’ e regolamentare la prescrizione in modo che non sia più usata per evitare le sentenze. Approvare nuove leggi che consentano controlli e pene adeguate da scontare in carcere. A questo riguardo basta un dato per segnalare lo scandalo dell’impunità di cui continuano a godere i corrotti: oggi, in tutto il Paese, i condannati per corruzione che si trovano in carcere sono meno di dieci. In Italia i colletti bianchi sono lo 0,4 per cento dei detenuti, a fronte di una media europea dieci volte superiore, anche se vantiamo il triste primato di essere uno dei paesi più corrotti del mondo. L’altro dato strutturale che ha contribuito a saldare nel malaffare pezzi di pubblica amministrazione-imprese-politici è l’ordinaria emergenza a cui si fa appello fin dagli anni ottanta per fare tutto in deroga, al di fuori di regole e trasparenza. Da questo sistema è nata una perenne mangiatoia di Stato. Insieme a queste misure vanno approvate le indispensabili riforme per rendere trasparente ed efficiente la gestione del denaro pubblico e il funzionamento dei controlli: riformare la Pubblica Amministrazione; rafforzare, aumentando organici e mezzi, le istituzioni e i corpi dello Stato addetti al controllo di legalità: magistratura, guardia di Finanza, carabinieri. Infine, è prioritaria la costruzione della cornice dentro cui collocare questa guerra quotidiana: la riforma della politica e dei partiti. Nella impostazione di Berlinguer questo elemento era centrale. Nella sua visione tutto si tiene: giustizia sociale, riforma morale e culturale, rinnovamento della politica e delle istituzioni. Bisogna investire sulla diffusione di una cultura della cittadinanza democratica fin dalle scuole per creare il deterrente più efficace contro la corruzione: la condanna e la sanzione sociale dei cittadini verso chi ruba il denaro pubblico. Il corrotto deve essere circondato dalla riprovazione generale della società senza distinzione tra destra e sinistra. Diventeremo un paese normale quando non accadrà più che un condannato per corruzione (l’on. Raffaele Fitto di Forza Italia) sia il secondo più votato in Italia, come è accaduto nelle recenti elezioni europee. Oppure che un capo di partito condannato in via definitiva per frode fiscale e in attesa di altri processi per reati infamanti, sia ricevuto al Quirinale o scelto come interlocutore per cambiare la Costituzione. E’ con questa speranza che ricordiamo e onoriamo la memoria di Enrico Berlinguer. Fu un politico capace e onesto, verso la cui integrità morale proviamo una legittima e sana nostalgia.

Fiorenzo Baratelli è direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara

Il brano intonato: Dolce Enrico di Antonello Venditti

Rudy, Bandiera del web: “Anche in rete la credibilità è tutto”

Di recente di lui si è parlato e scritto per un inedito ruolo di inviato speciale al seguito del Giro d’Italia: ha raccontato il dietro le quinte della manifestazione attraverso un blog che ha destato molta curiosità [leggi]. Ma Rudy Bandiera, ferrarese, titolare con Riccardo Scandellari dello studio NetPropaganda, è prima di tutto un informatico che ha compreso prima di altri le potenzialità del web. Ha sviluppato una particolare competenza per il mondo dei social media e in qualità di pubblicista e consulente è sovente interpellato per fornire risposte circa il cosiddetto marketing non convenzionale [leggi il suo blog].

“Rischi e opportunità del web 3.0 e delle tecnologie che lo compongono” è il titolo del tuo libro. Innanzi tutto cos’è il web 3.0?
Bella domanda… non lo so (ride). In effetti non lo sa nessuno, nel senso che una definizione precisa ancora non esiste, così come quella di 2.0 è ombrosa e sfumata. Diciamo che, dal mio punto di vista, sono quelle tecnologie che, nei prossimi anni, si fonderanno per rendere la nostra vita totalmente interconnessa, come ad esempio Cloud e Big data. Di fatto, e questo è un paradosso, il Web 3.0 non è solo web.

E che cos’è, dunque?
E’ il futuro. Io lo immagino come l’interconnessione tra le cose e le persone, la creazione di una sorta di “mente collettiva” con la quale tutti quanti dialogheremo.

La logica del database su cui si fonda, caratterizzerà sempre più il web come enorme archivio: la rete diventerà il totem della memoria?
La Rete lo è già, il totem della memoria, ma la memoria da sola no serve a nulla. Una delle definizioni di Web 3.0 è anche quella di “web semantico” ovvero un web evoluto in cui le macchine siano in grado non solo di leggere ma di interpretare. L’interpretazione dei dati, quindi della memoria, è la vera sfida.

Spazio e tempo nel web si modificano e si contraggono. Dinanzi al monitor si può dominare il mondo, o quantomeno ci si illude di farlo. Il virtuale risulta sempre più un potenziamento del reale. Ormai stiamo vivendo dentro i film di fantascienza che ci facevano sognare solo pochi anni fa, non ti pare?
Si, e lo trovo bellissimo. Mi spiego raccontando un aneddoto che ho scritto anche nel libro: Qualche tempo fa sono andato a tenere una lezione in una scuola superiore a Cesena, per spiegare quali fossero i rischi del dare tutti i nostri dati in mano ad aziende private che, tra l’altro, sono americane. Sì sì, non vi preoccupate, alla fine del libro arriviamo anche a fare due chiacchiere su questo ma, dicevo, prima del mio intervento ho seguito quello di Renzo Davoli, un bravissimo informatico che per moltissimi anni ha lavorato negli Usa. Un uomo che ha visto Arpanet, l’embrione militare di Internet, con i propri occhi, per capirci. Davoli raccontava che quello che stiamo vivendo è una sorta di Rinascimento, o di Rivoluzione industriale, o di entrambi messi insieme aggiungo io, tuttavia diceva anche un’altra cosa interessantissima, ovvero che le rivoluzioni epocali, incredibili e giganteschi passaggi da un’umanità ad un’altra del tutto diversa, hanno sempre solo e soltanto una cosa in comune: che quelli che la vivono non se ne rendono conto. Ecco, tutti noi non ci stiamo rendendo conto di quello che accade, quindi ne abbiamo in parte paura. Non dobbiamo! E dobbiamo, invece, coglierne le opportunità.

I “vip” del nuovo mondo sembrano essere i guru della rete: sei tu, insomma! Ci spieghi cosa significa essere “social influencer” e come lo si diventa, casomai ci venisse la tentazione?
Naaaa… io no riesco ad influenzare nemmeno il clima accendendo il condizionatore! Anche qua mi permetto di rispondere con un mio pezzo: “Ecco come si diventa influencer, o almeno ecco quali sono i passaggi per tentare di esserlo: – la definizione di un obiettivo – l’individuazione di un ecosistema – il lavoro, duro, per anni. Capite cosa vi piace, o cosa volete fare o cosa volete vendere. Capite il mondo al quale vi state avvicinando e percepitene le forme e le persone che lo popolano. Scrivete, impegnatevi, sempre e comunque dicendo quello che ritenete opportuno ma sempre e comunque pensando che il mondo è popolato di persone che non sono d’accordo con voi. Siate disponibili al dialogo, sempre, e partecipate ai contenuti degli altri senza la supponenza che i vostri siano i migliori. Tenete sempre a mente il mantra: ‘la Credibilità è Tutto’. La ‘Credibilità’ si costruisce negli anni, parola dopo parola. La Credibilità è Tutto”.

Umano, troppo umano… Giovedì alle 18 alla libreria Ibs di Bologna con il tuo socio Riccardo Scandellari sarete pubblicamente intervistati dalla giornalista ferrarese Camilla Ghedini e avrete modo di sviluppare questi ragionamenti (e tu magari potrei racocntare anche la tua recente esperienza al seguito del Giro d’Italia). Il pretesto è la presentazione dei vostri recenti libri che stanno riscuotendo un notevole successo. Hai promesso un evento “rock”, cosa lo renderà tale? Ci sarà una ‘carrambata’ con Celentano?!?
Io vorrei, e giuro lo vorrei, entrare con Enter Sandeman dei Metallica a tutto volume. Sarebbe una bomba! Ma non so… ma vediamo 😉

Ferrara, una città che si sa narrare

Gli italiani, così almeno pare, amano le statistiche. I loro giornali sono sempre pieni di tabelle, liste di best seller e sondaggi d’opinione.
Molto popolari anche le classifiche delle città italiane con la migliore qualità della vita, pubblicate con regolarità dalle riviste. I criteri di valutazione che vanno per la maggiore sono: retribuzione media dei cittadini, qualità dei servizi comunali, offerta di attività culturali, funzionamento dei trasporti pubblici, numero e superficie degli spazi verdi.

Si tratta, indubbiamente, di indici importanti, ma ci sono anche altri criteri – non materiali – per definire il valore delle città, criteri letterari, per esempio. Quanto contano ancora palazzi, chiese, case, piazze, strade, angoli, monumenti e, non dimentichiamoli, i luoghi che una città dedica ai suoi morti? Le città sommerse dal consumo sono città morte; non ci raccontano niente, i loro abitanti sono intercambiabili, come i negozi.
Molti parlano, in questi ultimi anni, della crisi che attanaglia Ferrara, e ci sono effettivamente tanti elementi per verificarla. Non è mio compito giudicare da lontano se è vero o no. Ma si può assumere anche un altro punto di vista, un punto di vista letterario. E in questo senso, per me Ferrara è una città viva, che si offre alla lettura: le sue strade e i suoi vicoli sono come «il filo conduttore di un racconto», come scrisse della Berlino degli anni venti lo scrittore Franz Hessel. In Italia, e in Europa, è sempre più difficile visitare una città in cui è possibile riscoprire quella «capacità di narrare» così intrinseca a Ferrara, la città degli Estensi.

«Il modo in cui Bassani ha raccontato Ferrara ha attirato l’attenzione dei turisti sulla città», scrisse Alfred Andersch, uno dei più famosi scrittori tedeschi del dopoguerra, nel saggio Sulle tracce dei Finzi-Contini. Molti visitatori stranieri associano quindi Ferrara al Romanzo di Ferrara di Bassani, cercano il giardino dei Finzi-Contini e, non trovandolo, rimangono delusi. Ma il visitatore straniero che ha modo di fermarsi più a lungo scopre, al di là delle vie narrate da Giorgio Bassani, anche nuove tracce che portano ad altri racconti, romanzi, saggi e, perché no, anche a poesie non ancora scritte.
Ovunque è possibile scoprire dettagli e ornamenti, epigrafi e tavole votive che testimoniano una lunga storia e le storie più misteriose di Ferrara. Chi sa ascoltare il cuore di questa città, magari educato all’ascolto dal meraviglioso saggio di Alberto Savinio su Milano, riuscirà a cogliere il fascino e scoprire la magia di Ferrara e dei suoi dintorni, al di là delle mete turistiche più famose.
Potremmo dire che Ferrara è una scuola dei sensi, per chi vuole ascoltare e vedere. Consentite, pertanto, a un visitatore straniero come me, di parlare di alcune delle mie prime scoperte. Per esempio, del cimitero ebraico in fondo a via delle Vigne, così diverso dai cimiteri tedeschi tenuti con cura maniacale e progettati come se fossero autostrade. All’ombra delle mura cittadine, coperte da una fuga di alberi, i morti possono riposare in pace. Nessuno spazza le foglie, nessuna lapide viene pulita, il decadimento dilaga dappertutto.

Quante storie raccontano le iscrizioni ancora leggibili sulle lapidi commemorative degli ebrei di Ferrara, ormai slavate dal tempo. Ricordano persone dotate di «un grande cuore», deportati in «campi di sterminio nazisti» o «Deportato ad Auschwitz»fra il 1940 e il 1945, cifre già corrose degli anni. E le storie narrate da coloro che riposano nel cimitero ebraico di Ferrara sono particolarmente mortificanti per un tedesco. Ci si imbatte poi in epigrafi più vecchie, se non antiche, come quella di Jacob Massarani, morto il 22 marzo 1877, in vita «scrupoloso osservatore»: un’espressione che sembra facile tradurre in un tedesco parlato, anche se con il tempo il significato della parola “scrupoloso” si è sbiadito. Viene spontaneo domandarsi quando e perché l’aggettivo sia stato rimosso, come un fardello ingombrante, dal vocabolario della vita moderna. In tempi di giudizi veloci e univoci chi – eccezion fatta per gli artisti – può permettersi il lusso di essere uno «scrupoloso osservatore» dei propri tempi? A volte sono proprio le lapidi dei vecchi cimiteri a ricordarci perdite irrimediabili.

Lasciamo in pace i morti e andiamo in città, dove vivono gli essere umani. Il vicolo del Leocorno, nascosto ai margini delle città vecchia, dove mia moglie ed io abbiamo acquistato un appartamento, porta il nome di una drogheria che vi si trovava verso la metà del XVI secolo, il cui simbolo era il favoloso unicorno. Partendo da questo dettaglio, si potrebbe raccontare tutta la cronistoria delle attività commerciali e dei piccoli negozi di Ferrara che oggi rischiano la chiusura per colpa dei grandi supermercati insediatisi fuori le mura e le grande catene del mercato globale incluso dei mini shop cinesi, spesso di valore minore ma molto economici. Qualche anno fa, mi ricordo di una donna che un giorno vidi decorare le vetrine della sua bottega di via Carlo Mayr, vicino casa nostra, fino a notte fonda, per attirare nuovi clienti. Forse la signora potrebbe raccontarci qualcosa su questa lotta per la sopravvivenza.
Accanto a una copia de La donna in rosa di Giovanni Boldini, nella sua vetrina disponeva amorevolmente cosmetici: raramente ho visto clienti in quel negozio. Forse perché ci siamo tutti scordati che per ogni bottega, per ogni trattoria, per ogni bar che chiude, la città viene privata di una piccola parte della sua identità e peculiarità.
«La nuova abbondanza,» scrive Italo Calvino nel suo bellissimo libro “Le città invisibili, «faceva traboccare le città di materiali, edifici, oggetti nuovi; affluiva nuova gente di fuori; niente e nessuno aveva più qualcosa in comune con la Clarice o le Clarici di prima; e più la nuova città si insediava trionfalmente nel luogo e nel nome della prima Clarice, più s’accorgeva di allontanarsi da quella, di distruggerla non meno rapidamente dei topi e della muffa.» Che scrivendo queste frasi, stesse pensando anche a Ferrara?

All’estero la città estense è giustamente famosa anche per la sua politica culturale. Le iniziative culturali ad alto livello, come i concerti e i balletti al Teatro Comunale, sono in grado di competere con quelle organizzate nelle grandi capitali europee. L’esemplare lavoro di restauro del suo centro storico ha avuto il più ampio riconoscimento internazionale. Le mostre di Palazzo Schifanoia, di Palazzo dei Diamanti e di Casa Romei, sono un richiamo irresistibile per tutti gli appassionati d’arte. Il Castello e la Cattedrale sono tra le mete irrinunciabili dell’Emilia. Poeti e scrittori come Carducci, Bassani e Piovene hanno eretto a corso Ercole I d’Este un monumento letterario indimenticabile.

Tutte le guide turistiche elogiano, a ragione, il patrimonio artistico di Ferrara, ma la città conserva anche un patrimonio di storia e di cultura di cui le guide turistiche non fanno menzione, un patrimonio che ci consente una lettura della città che altre, seppure con una qualità della vita forse migliore, hanno perso per sempre.
«Il problema culturale delle città moderne,» scrive il sociologo urbano americano Richard Sennett, «è quello di riuscire a far parlare un ambiente anonimo, di fare uscire le città dalla loro degradazione e dalla loro neutralità.» Questo problema, per Ferrara, non si pone. Forse deve solo imparare a riscoprire e valorizzare un elemento importante della sua qualità di vita: la propria capacità di narrare.

(Traduzione di Carl Wilhelm Macke con Giovanna Runngaldier)

Una Spinelli nel fianco

Non so dire se fa più rabbia o malinconia questa nuova baruffa dentro la lista Tsipras (chiamiamola pure così, stavolta: perché questa non è certo ‘l’Altra Europa’ che vorremmo, ma solamente la nostra vecchia Italia, nonché il lato triste della sinistra).
La vicenda è nota. Da una parte c’è Barbara Spinelli che si presenta alle elezioni come candidato di bandiera, promettendo che non andrà ad occupare il seggio di Strasburgo, ma poi ci ripensa (o è indotta a farlo, spiega lei, da numerose e autorevoli pressioni) e accetta la nomina.
Dall’altra ci sono le proteste di chi imputa alla neo parlamentare il mancato rispetto della parola data. Fra gli indignati – guarda un po’ – c’è Marco Furfaro di Sel, defraudato del seggio cui avrebbe avuto diritto come primo dei non eletti. Il coordinatore della sua campagna elettorale, Enrico Sitta, con garbo afferma in proposito: “Poco conta che quando Marco Furfaro va in tv riaccende una speranza a sinistra in questo Paese, mentre la Spinelli non si capisce neanche quello che dice. Poco conta se ha promesso ovunque che avrebbe rinunciato al ruolo. Poco conta che i voti li ha presi perché l’hanno fatta votare tutti i candidati, sapendo che si sarebbe dimessa. Poco conta che ci sia gente che si è candidata proprio perché sapeva che si sarebbe dimessa; sticazzi giocare con la vita delle persone. Chi se ne frega”. E aggiunge: “Una persona misera Barbara Spinelli, una borghese piccola piccola, priva della facoltà politica e forse anche umana di intendere e di volere, in mano a dei mascalzoni che hanno sfruttato l’occasione per un unico scopo politico che andava delineandosi fin dall’inizio: fare fuori Sel. Per invidie, vecchi rancori, politicismi, opportunismi d’accatto”. Bell’ambientino… Vien immediatamente da chiedersi: ma i mascalzoni manipolatori stavano dentro o fuori la lista Tsipras?
Ricostruiamo il quadretto. Da una parte c’è il carnefice (la carnefice in questo caso) che certo rimedia una pessima figura e viene legittimamente accusata di doppiezza, ma anche di inettitudine (e se così fosse perché candidarla? Magari per la sua popolarità?). Dall’altra, ecco “la vittima”, che però si fa rappresentare da uno che si qualifica con espressioni da zotico, e imbastisce una difesa d’ufficio becera e tracotante al punto che anziché servire la scopo inevitabilmente getta ombre anche sul profilo del suo “dante causa” (il quale per parte sua non si rammarica d’aver preso meno voti, in compenso lamenta d’essere stato trattato come “carne da macello”).
In ‘filigrana’ traspaiono ambizioni, meschinità e le ipocrisie dei ‘soliti accordi’. Ma si può andare avanti così?

Il brano intonato: L’avvelenata di Francesco Guccini