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La politica gassosa e l’appetitoso Quirinale

Come scrive Massimo Cacciari sull’Espresso, in tempi di politica liquida, e forse già allo stato gassoso, è usuale il lamento sulla qualità della classe dirigente nostrana.
Gli esempi, solo negli ultimi tempi, non mancano.
Se si presta orecchio alle indiscrezioni filtrate dal Quirinale e sulle intenzioni del presidente della Repubblica, che i bene informati danno particolarmente irritato, di lasciare anzitempo l’incarico vista l’inconcludenza sulle riforme, quella elettorale in testa, il festival delle dichiarazioni è in pieno terreno paradossale.
E’ da quando c’era al governo Berlusconi che Giorgio Napolitano predica, invano, che serve una nuova legge elettorale.
Ora che, dopo la sentenza della Corte, l’Italia è rimasta con l’invertebrato Consultellum e con un percorso riformatore che rischia l’approdo con ben un sistema di voto per ciascuno dei due rami del Parlamento, invece di un’autocritica per l’imperdonabile inerzia su un tema che torna nel dibattito politico con la stessa ciclicità del mito dell’eterno ritorno, si assiste sbigottiti alla fiera delle autocandidature per il Quirinale, con tanto di sconcertante lotteria dei nomi: la donna, il giovane, l’outsider, l’uomo di esperienza, il tecnico, quello non sgradito … Manca solo la casalinga di Voghera e poi siamo a posto.
Se anche la prima carica dello Stato rientra nell’avanspettacolo è davvero un problema.
A proposito di legge elettorale, senza entrare nel merito dell’ultima proposta sul tavolo, basta ascoltare un qualsiasi tg negli ultimi giorni per far precipitare in caduta libera qualsiasi mento. Ciascuno cerca di scaricare sull’altro la responsabilità dello stallo. Da una parte, al Pd (che qualcuno già chiama PdL, Partito della Leopolda), la colpa di cambiare in corsa le regole di un patto del Nazareno, che nessuno ha mai visto scritto da nessuna parte. Per contro, la palla viene rilanciata nella metà campo dell’altro PdL, nel quale il leader non riuscirebbe più a tenere i suoi e dove, come profetizzato da Corrado Guzzanti, ognuno fa un po’ come gli pare.
La conclusione è che si sentono dichiarazioni modello premi un bottone, che potrebbero essere buone per qualsiasi argomento: “Se c’è la reale intenzione di sedersi al tavolo e dialogare costruttivamente per cercare una soluzione noi ci siamo, con tutta la determinazione e la coerenza che abbiamo sempre dimostrato”. Naturalmente sempre al servizio del Paese.
Immaginiamo che al termine delle illuminanti parole il cameraman, perché ormai è inutile un giornalista, sia pronto a dare uno zuccherino, come si fa con i cavalli di razza.
Per quanto ci riguarda, telecamere e taccuini potrebbero cominciare a fare a meno di inseguire questo bla bla da calo glicemico, anche solamente per vedere l’effetto che fa. Chissà che pure nelle redazioni non inizi una sana spending review e si usino risorse, professionalità ed intelligenze, per le notizie vere.
Nel frattempo, in questa bolgia si riaprono inaspettatamente dei varchi, ad esempio, per fare scendere la soglia di sbarramento fino al livello del prodotto interno lordo nazionale, così possono continuare ad entrare allegramente nella mangiatoia anche gli organismi monocellulari.
Un altro esempio imperdibile arriva dalla campagna elettorale per la Regione Emilia-Romagna.
Se qualcuno ha visto il Tgr in queste sere ha potuto ascoltare gli spot dei vari candidati.
C’è chi è per la valorizzazione del territorio, chi per favorire gli insediamenti produttivi, chi per la ricerca e l’innovazione, chi dinamicamente vuole il voto per voltare pagina e chi, anche in pochi secondi, incespica sulle poche parole.
Il massimo lo raggiunge quello che non resiste alla tentazione di dare una sbirciatina sul foglio che tiene rigorosamente fuori campo, lasciando trasparire dallo sguardo il panico di perdersi nel pur breve viaggio mentale tra un soggetto e il predicato verbale.
La sensazione, in generale, è di trovarsi di fronte a quel tale che tempo fa disse: “Non sono venuto da Lodi per lodarvi, né da Piacenza per piacervi. Sono venuto da Chiavari”.

LA TESTIMONIANZA
Fuga dal confine orientale

Fuga dal confine orientale è il senso di una tragedia dolorosa che il lunghissimo tempo della guerra fredda ha lasciato nell’ombra e che, a seguito della caduta del muro di Berlino e della dissoluzione della Jugoslavia del dopo Tito, si è pensato bene di ricordare e non solo per la storia ma per la profondità di sentimenti perduti.

Mi è capitato di leggere un piccolo libretto bianco*, offertomi in un incontro amichevole, dove il consegnatario si è spinto nel dire “…se hai tempo di leggerlo”, quasi a sottolineare che di quelle tragedie umane e familiari quasi nessuno si occupa più.
A riguardo, preme fare una carrellata sul contenuto del libro e coglierne i passi più significativi che debbono servire ad ognuno di noi, anche in questi anni difficili di convivenza, dove non sempre i sentimenti si colgono nelle persone.
D’altronde moltissimi ignorano quanto è accaduto ai confini orientali tra il ’43 e il ’45 e oltre (Dalmazia, Istria, Pola, Fiume), nulla si sa dell’esodo dei 350.000 profughi e dei 10.000 gettati nelle foibe realizzando la prima pulizia etnica del dopoguerra, per estinguere qualsiasi segno di italianità su quelle terre.

Ecco allora riportati alcuni brani:
“[…] ma mancano i soldi anche per comprare lo stretto necessario. La gente si lamentava sottovoce e solo con persone fidate perché c’era gran paura in giro. Ogni tanto spariva un amico, un parente o un conoscente senza lasciare nessuna traccia.”

“[…] nella mia famiglia, polenta e patate erano il cibo quotidiano, ma papà cercava sempre di rasserenarci facendo tacere ogni piccola voce discordante. Siamo italiani e dobbiamo rimanere tali, senza rinnegare niente, non dobbiamo lamentarci.”

“[…] era comune il dolore di lasciare gli amici e i luoghi cari della nostra infanzia. Quella notte non si è dormito. Si passava da un letto all’altro chiedendo: “ Tu cosa dici? Che cosa ci accadrà? Dove andremo?”.

“[…] ho subito l’amputazione degli affetti familiari, ho accettato la privazione della libertà, ho sopportato dure discipline ma la mia adolescenza così assoggettata mi ha formato e ne sono stato fiero: oggi mi sento moralmente obbligato a far da testimone di vicende che sono state tenute nascoste.”

“[…] ricordo ancora con un brivido, perché sento ancora nelle orecchie, il fischio dei proiettili sparati mentre raggiungevo il rifugio scavato nella roccia.”

“[…] Ora il mio filo di ricordi mi riporta là: ad ogni soffio di vento sento la bora, le stelle che vedo nel cielo sono le stesse del cielo della mia Fiume e sempre nel cuore li porterò.”

Che dire se non chiedere perdono e richiamare quanto detto recentemente: “… la nuova consapevolezza esige che le vicende dei confini orientali, con la dovuta conoscenza delle foibe, entrino a far parte della nostra formazione pedagogica”, e ancora, “… l’olocausto degli italiani di Istria e Venezia Giulia, uno dei punti più acuti delle tragedie che l’Europa ha conosciuto nel ‘900.”

E sulla pulizia etnica in questi mesi non mancano drammi e tragedie: dai Paesi africani al Medio oriente, dal Sud est asiatico a luoghi quasi sconosciuti, ma la coscienza degli uomini e le organizzazioni internazionali restano ancora nel silenzio.
Ma fino a quando dovremo lottare per la dignità umana? E’ la risposta che tutti siamo chiamati a dare, e non solo per pacificare la nostra coscienza.
La guerra sembra, ancora, un grido inascoltato.

* “Fuga dal confine orientale, memorie di in esilio. Ricordo di una tragedia dolorosa: un popolo, diversi destini” di Alceo e Nidia Ranzato (edizione in proprio)

Ecosistema urbano, verso
una mobilità a basso tasso
di motorizzazione

E’ stato di recente pubblicato il report annuale Ecosistema Urbano (XXI edizione) sulla vivibilità ambientale dei capoluoghi di provincia italiani realizzato in collaborazione con l’Istituto di Ricerche Ambiente Italia e Il Sole 24 Ore. Un tema di grande attualità e importanza. Dal rapporto emerge come le città italiane in cui si vive meglio sono Verbania, Belluno, Bolzano, Trento e Pordenone. Legambiente evidenzia come anche in queste città alcuni indicatori risultino non completamente positivi. Per Trento la criticità è data dall’inquinamento dell’aria, per Belluno e Verbania la salute della rete idrica e per Udine la depurazione delle acque. Purtroppo l’Emilia Romagna in passato punto di riferimento importante ora non c’è più.
Ecosistema Urbano, quest’anno si concentra in modo particolare sulla qualità delle politiche ambientali dei capoluoghi di provincia, per osservare come le amministrazioni locali gestiscono la mobilità, la gestione dei rifiuti e delle acque e, in generale, la qualità del proprio territorio. Le analisi di Legambiente evidenziano come le città italiane vadano a tre velocità: lente, lentissime e statiche. Gli indicatori selezionati da Legambiente sono 18 (104 capoluoghi di provincia italiani) così distribuiti: tre indici sulla qualità dell’aria (concentrazioni di polveri sottili, biossido di azoto e ozono), tre sulla gestione delle acque (consumi, dispersione della rete e depurazione), due sui rifiuti (produzione e raccolta differenziata), due sul trasporto pubblico (il primo sull’offerta, il secondo sull’uso che ne fa la popolazione), cinque sulla mobilità (tasso di motorizzazione auto e moto, modale share, indice di ciclabilità e isole pedonali), uno sull’incidentalità stradale, due sull’energia (consumi e diffusione rinnovabili).
Quattro indicatori su diciotto selezionati per la classifica finale (tasso di motorizzazione auto, tasso di motorizzazione moto, incidenti stradali e consumi energetici domestici) utilizzano dati pubblicati da Istat. L’intero rapporto è scaricabile sul sito di Legambiente.
Vittorio Cogliati Dezza, presidente nazionale di Legambiente, in premessa dice: “Quello che serve è una sintesi che superi la frammentazione e mostri una capacità politica di pensare e di immaginare un modo nuovo di usare il territorio e consumare l’energia, un altro tipo di mobilità a basso tasso di motorizzazione e con alti livelli di efficienza e soddisfazione, spazi pubblici più sicuri, più silenziosi, più salutari, più efficienti e meno alienanti, dove si creino le condizioni per favorire le relazioni sociali, il senso del vicinato, del quartiere, della comunità. Per imboccare questa strada serve un impegno del Paese, un piano nazionale che assegni alle città un posto di primo piano nell’agenda politica, una capacità reale di semplificare e delegiferare, migliorando i controlli.”

ECOSISTEMA URBANO
XXI Rapporto sulla qualità ambientale dei comuni capoluogo di provincia

L’INTERVISTA
Alleluja e Tresette, il western di George Hilton

George Hilton (al secolo Jorge Hill Acosta y Lara) è nato e vissuto in Uruguay, dove ha iniziato a lavorare giovanissimo come attore di teatro, sino a quando si è trasferito in Argentina (a Buenos Aires), per sviluppare la sua carriera artistica.
L’esordio nel cinema italiano risale al 1965 con “Due mafiosi contro Goldfinger” e “I due figli di Ringo”, due parodie con protagonisti Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, ma sarà con il successivo “Le colt cantarono la morte e fu… tempo di massacro”, di Lucio Fulci, che George Hilton inizierà a diventare uno dei protagonisti della fortunata stagione del cinema italiano, conosciuta come “Spaghetti-Western”.

Si è trattato di un filone cinematografico molto in voga nel periodo tra il 1964 e il 1978, un genere che rompeva la visione mitica ed epica del western classico, introducendo una struttura narrativa più dinamica, esasperando la violenza e lo spargimento di sangue al servizio dell’antieroe, quasi sempre privo di ideali e solitamente spinto da interessi personali o vendicativi. Basti pensare ai personaggi interpretati da Clint Eastwood nella trilogia del dollaro e da Franco Nero in “Django”, in contrapposizione agli “eroi” americani: John Wayne, Glenn Ford o al Gary Cooper di “Mezzogiorno di fuoco”. Il risultato di quest’operazione fu che i western made in Usa improvvisamente sapevano di muffa.
Caratterizzati da budget ridotti all’osso, gli “spaghetti” venivano spesso girati in Spagna, nel deserto di Tabarnas in Almería, altri invece furono ambientati ai confini tra Lazio e Abruzzo.
Tra le varianti più significate del genere ci furono il gotico, dove gli scenari cupi e cimiteriali sostituivano la tipica solarità degli scenari western (“I quattro dell’apocalisse” di Lucio Fulci), sino ad arrivare a peplum, brillante, thriller e al weir western, in cui potevano convivere cowboy e dinosauri.
Al genere è stato reso omaggio, nel corso della 64° Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia del 2007, con una retrospettiva di 32 titoli. Il padrino dell’operazione è stato il regista statunitense Quentin Tarantino.

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Alleluja e Tresette

Nel 1967 George Hilton partecipa a sette produzioni del filone Western, tra cui “Il tempo degli avvoltoi” e “Professionisti per un massacro” di Nando Cicero, assumendo spesso il ruolo di protagonista e iniziando ad avere successo anche fuori dai confini nazionali.
In quel periodo diventa una delle maggiori star del cinema italiano, lavorando al fianco di Franco Nero, Klaus Kinski e Van Heflin. Il suo personaggio più noto è quello di Alleluja, creato dalla penna di Tito Carpi e dal regista pugliese Giuliano Carnimeo (si firmava con il nome di Anthony Ascott), protagonista di: “Testa t’ammazzo, croce… sei morto, mi chiamano Alleluja” e “Il west ti va stretto, amico… è arrivato Alleluja”.

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Nel personaggio di Tresette

“Testa t’ammazzo …” segna una svolta nel western di Carnimeo, che comporta anche un cambiamento nella contestualizzazione storico-geografica; non sarà il West degli anni ottanta del XIX secolo, ma il Messico della seconda metà degli anni sessanta. George Hilton è l’interprete ideale di questo nuovo sottogenere, grazie al suo fare brillante e scanzonato. Il regista pugliese confezionerà su misura per lui il personaggio di Tresette: “Lo chiamavano Tresette… giocava sempre con il morto” del 1973 e “Di Tresette ce n’è uno, tutti gli altri son nessuno” del 1974.

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Il carillon in “Lo chiamavano Tresette…”

Nel primo film incuriosisce l’enorme carillon che il protagonista porta con sé, chiaro riferimento al duello finale di “Per qualche dollaro in più” di Sergio Leone, dove si sfidano Clint Eastwood, Lee Van Cleef e Gian Maria Volontè. “Alleluja” e “Tresette” rappresentano l’evoluzione del western ironico di Enzo Barboni e dei personaggi di “Trinità”. Si tratta di film divertenti, senza pretese, ma dinamici e privi dei tempi morti, di cui gli emuli di Sergio Leone abbondavano nelle loro pellicole, per riempire evidenti vuoti di sceneggiatura.

Qualche domanda a George Hilton. Quali sono stati i registi più importanti con cui ha lavorato in Italia?
A Lucio Fulci devo il mio primo successo nel cinema con “Tempo di massacro” e a Enzo G. Castellari l’incremento di questo successo. Sergio Martino mi ha dato la possibilità di “cambiare pelle”, perché non si poteva vivere di solo western, soprattutto per un attore come me che veniva dal teatro.

Michelangelo Antonioni e Vittorio De Sica, cosa la lega a questi due grandi registi?
Ero tra i candidati per la parte di protagonista di “Professione reporter” di Antonioni, ma non ho potuto farlo perché la distribuzione americana impose Jack Nicholson. Per quanto riguarda il maestro De Sica, all’epoca mi convocò per interpretare una parte ne “Il giardino dei Finzi Contini” ma alla fine fu preferito Fabio Testi, perché ritenuto più adatto in quel ruolo.

Che ricordo ha di Franchi e Ingrassia, con cui ha lavorato agli inizi della sua carriera in Italia?
Di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia conservo un grande ricordo, sia come attori sia come amici.

Ha sempre avuto un buon rapporto con il suo pubblico, ieri le lettere e oggi Facebook…
Ho sempre avuto un grande feeling con i miei fan, ma oggi grazie a Facebook i contatti sono cresciuti ancora di più, fino al punto di ricevere ogni giorno un’infinità di attestati di stima, che mi fanno enorme piacere e di cui ringrazio tutti di cuore. Oggi dopo 60 film da protagonista, girati in tutto il mondo, mi sento un uomo appagato e fortunato. Ringrazio il destino che mi ha fatto venire in Italia, che è la mia patria di adozione.

L’EVENTO
Olga Peretyatko
a Bologna: una voce
per Rossini

Ennesimo viaggio, ennesimo articolo di giornale. Su una rivista patinata italiana scopro un evento importante e interessante a Bologna, con un altrettanto interessante artista.
Forse, vivendo a Mosca, sono particolarmente attenta agli scambi culturali italo-russi, ma per chi fosse nei paraggi, potrebbe essere davvero uno spettacolo unico, da non perdere. Tanto più che è gratuito (e interattivo) e che al Conservatorio di Mosca, dove canterà il prossimo 7 dicembre, non si trovano biglietti.

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Locandina dell’evento

Si tratta del soprano Olga Peretyatko, artista russa trentaquattrenne, innamorata del bel canto e di Rossini, in particolare, e italiana d’adozione, per il suo matrimonio con il maestro Michele Mariotti, direttore dell’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna, con il quale vive e lavora, in totale simbiosi. E si tratta dello spettacolo che si terrà al Teatro Manzoni di Bologna, il 15 novembre alle 18, intitolato “Una voce per Rossini”.

Figlia di un cantante lirico, Olga è nata e cresciuta sul palcoscenico, nella romantica, leggiadra e artistica San Pietroburgo, iniziando la sua carriera musicale all’età di 15 anni, nel coro giovanile del celebre teatro Mariinsky. Ha proseguito i suoi studi presso la Hanns Eisler-Hochschule für Musik di Berlino e vinto numerosi premi internazionali. A partire dal 2007, si è esibita al Deutsche Oper Berlin, al Théâtre des Champs-Elysées a Parigi, a La Fenice di Venezia, al festival dell’Opera di Rossini di Pesaro, al Festival La Folle Journée di Nantes.

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In scena

Ha guadagnato l’attenzione internazionale grazie a l’”Usignolo”, la prima opera teatrale scritta da Igor Stravinskij, nell’acclamata produzione di Robert Le Page alla prima del Festival di Aix-en-Provence nel 2010, e alla sue successive performance a Toronto, New York, Lione e Amsterdam. Ha ricoperto il ruolo di Adina ne “L’elisir d’amore” a Lille, di Lucia di Lammermoor al Teatro Massimo di Palermo, di Gilda nel Rigoletto a La Fenice di Venezia. Nel 2011, Olga Peretyatko ha debuttato come Giulietta (“I Capuleti e i Montecchi”) a Lione e Parigi, nel 2014, alla Scala di Milano (nel ruolo di Marfa, in “Una sposa per lo Zar”), e al Metropolitan di New York (nel ruolo di Elvira, ne “I Puritani”), nel 2015, sarà Violetta nella “Traviata” all’Opera di Losanna. Il soprano ha un contratto con una nota casa discografica e il suo primo cd singolo “La Bellezza del Canto” con arie di Rossini, Verdi, Donizetti, Massenet e Puccini, del 2011, è stato accolto da grande successo di pubblico e critica. Lo stesso per il suo secondo album, “Arabesque”, dell’estate 2013. Oggi è nota e applaudita.
In un’intervista, il soprano ha dichiarato: “devo molto all’Italia, e in particolare a Rossini, perché tutto è iniziato a Pesaro, nell’estate 2006, quando Alberto Zedda mi scelse per interpretare la Contessa di Folleville nel Viaggio a Reims realizzato dalla sua Accademia rossiniana. E già in quell’occasione suonava l’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna. Con questa serata, voglio ringraziare anche loro, che mi sono stati vicini fin dall’inizio della mia carriera, oltre a Bologna, che poi è diventata la mia città”.

“Una voce per Rossini”, Olga Peretyatko a Bologna in uno show multimediale, orchestra del Teatro comunale di Bologna, direttore da Alberto Zedda.

Dalla funambolica aria della Contessa di Folleville, dal Viaggio a Reims alla scena del carcere, dal Tancredi, passando per la grandiosa pagina “Bel raggio lusinghier”, durante la quale Semiramide attende l’arrivo dell’amato. C’è l’eterna e multiforme musica di uno dei più amati compositori italiani al centro dello spettacolo multimediale “Una voce per Rossini”, in programma sabato 15 novembre alle 18 al Teatro Manzoni di Bologna, con ingresso libero fino a esaurimento dei posti disponibili. Protagonista il soprano russo Olga Peretyatko, insieme all’Orchestra del Teatro Comunale cittadino diretta da Alberto Zedda.  [vedi]

La censura, da Totò
a Marlon Brando

Nelle nostre società più evolute gli artisti sono liberi nella loro espressione. Eppure in Italia un film, per poter essere proiettato in sala, ha bisogno di un nulla osta che viene rilasciato da una Commissione di ‘esperti’ del Ministero beni attività culturali e turismo, Direzione cinema.
Il nulla osta si può non concedere, negando dunque ad un autore/artista la possibilità di mostrare al pubblico la sua opera e causando un enorme danno economico alla produzione.

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Locandina dell'”Ultimo tango a Parigi”

Il caso forse più clamoroso fu nel 1972 con “Ultimo Tango a Parigi” di Bernardo Bertolucci: “la commissione non può non rilevare con vivo rincrescimento, come la crudezza e la virulenza del dialogo e l’audacia e lo spinto realismo di talune sequenze si risolvano in una indiscutibile offesa a quel buon costume […]esprime parere contrario alla sua proiezione in pubblico.” Solo dopo una serie di tagli fu concesso il divieto ai 18 anni, peraltro un solerte magistrato arrivò al vero e proprio rogo delle pizze e il film fu recuperato grazie ad una copia privata nell’archivio del regista tedesco Reiner Fassbinder.

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Locandina di “Totò che visse due volte”

Stessa sanzione subì il film di Ciprì e Maresco “Totò che visse due volte”, per il quale nel non lontano 1998 così ci si espresse: “Si ravvisa una forzatura che vuole degradare la dignità del popolo siciliano […] offensivo del buon costume […] esplicito atteggiamento di disprezzo per il sentimento religioso, squallore di scene sacrileghe e di sessualità perversa e bestiale […]”. Toni da Inquisizione che si commentano da soli. Alla fine il Consiglio di stato, cui ricorsero, riconobbe il loro diritto.

 

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Locandina di “Totò e carolina”

Fu censurato anche Monicelli, che disse: “Il più massacrato dei miei film, e forse più di tutti i film dell’epoca, è “Totò e Carolina”, in cui c’era una satira della polizia, del clericalismo e una specie di esaltazione umoristico-comica delle sezioni comuniste.”
Per inciso, moltissimi film di Totò furono peraltro censurati con divieti 14/16/18 anni, povero Principe De Curtis…
Ancora nel 2012 è stato negato il nulla osta a un piccolo film indipendente, parodia dello splatter, “Morituris”, facendone peraltro la fortuna come pubblicità, perché “negli atti di violenza viene impiegato un topolino come oggetto sessuale”, la commissione non colse evidentemente la ironia.
Ma il danno forse maggiore deriva dal Testo unico della radiotelevisione, che prevede che i film vietati ai 14 possano andare in onda solo dopo le 22,30, e quelli ai 18 solo dopo la mezzanotte. La autocensura dei produttori e degli autori è immaginabile: avere o no un divieto fa infatti cambiare radicalmente il valore commerciale del film, inducendo gli autori ad una prudenza che spesso nuoce alla loro libera espressività.

Nonostante i recenti tentativi riformatori dei ministri Veltroni e Urbani, la censura resta lì. E considerando le frontiere illimitate del web, dell’home video etc., appare oramai anacronistica e obsoleta. Pronta però ad artigliare la libertà degli autori più coraggiosi o eretici, e quella del pubblico, cui viene negata la libertà di scelta.

Il gioco stavolta è indovinare il film nel quale è detta la battuta e l’attore che la pronuncia. In qualche caso tra parentesi un suggerimento… per le risposte clicca qui.

1) “La più sorprendente scoperta che ho fatto subito dopo aver compiuto sessantacinque anni è che non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare!”

2) “Molti uomini hanno vita di quieta disperazione: non vi rassegnate a questo, ribellatevi, non affogatevi nella pigrizia mentale, guardatevi intorno. Osate cambiare, cercate nuove strade.” [leggi la risposta]

3) “Amare significa non dover mai dire mi spiace”

4) “Un tizio che faceva un censimento una volta provò ad interrogarmi. Mi mangiai il suo fegato con un bel piatto di fave ed un buon Chianti”

5) “Mamma diceva sempre: la vita è come a una scatola di cioccolatini, non sai mai quello che ti capita.”

6) “Io ho viste cose che vuoi umani non potreste immaginarvi… e tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. E’ tempo di morire.”

7) “Ma tu conosci il tedesco? ‘No, ma me lo immagino.” (Un classico della commedia italiana, uno dei

8) “È la storia della mia vita: se c’è una ciliegia col verme, tocca sempre a me.” (Il più famoso film della più amata di Hollywood)

9) “Pare che tu sappia molte cose di me… sai che non porto le mutandine, non è così Nick?”

10) “Voi gridavate cose orrende e violentissime e voi siete imbruttiti. Io gridavo cose giuste e ora sono uno splendido quarantenne.”

11) “Quando un uomo con la pistola incontra un uomo con il fucile, quello con la pistola è un uomo morto.”

12) “Non mi assomiglia pe’ gnente.”

IL FATTO
L’India e il ministero dello Yoga

Nell’ambito di un rimpasto di governo, ieri, il premier indiano, Narendra Modi, ha istituito un dicastero che avrà il compito di promuovere le pratiche ascetiche e meditative e le medicine tradizionali, in particolare Ayurveda, Yoga, Unani, Siddha e Omeopatia (si chiamerà Ministero dell’AYUSH). È la prima volta che un tipo di medicina ascetica e non tradizionale copre un ruolo ministeriale indipendente dalla Sanità pubblica. E poteva accadere solo in India.
Modi, vegetariano e salutista, pratica lo yoga da sempre, ogni giorno al su risveglio alle 4h30, e vorrebbe che il mondo intero riconoscesse il valore di questa pratica. A settembre scorso, aveva persino chiesto all’Onu di considerare la proclamazione di una ‘giornata mondiale dello yoga’. In occasione dell’incontro con Obama, durante il viaggio in America, il presidente indiano ha vantato con lui i meriti di questa disciplina indiana tradizionale. Intervenendo domenica scorsa in occasione del congresso mondiale dell’ayurvedica, medicina tradizionale praticata in India, il primo ministro ha dichiarato: “lo yoga ha acquisito un riconoscimento mondiale per coloro che vogliono vivere senza stress e scelgono di avere un approccio olistico della salute (…) La medicina ayurvedica porterà agli stessi risultati se sarà presentata in modo corretto come stile di vita”. Per la gioia dei milioni di praticanti lo yoga nel mondo.

Ayurveda: medicina tradizionale utilizzata in India fin dall’antichità.
Yoga: pratiche ascetiche e meditative. Nel linguaggio corrente, s’intende un insieme di attività che spesso poco hanno a che fare con lo Yoga tradizionale, che comprendono ginnastiche del corpo e della respirazione, discipline psicofisiche finalizzate a meditazione o a rilassamento.
Unani: forma di medicina tradizionale praticata nei paesi mediorientali e del sud asiatico.
Sidda: termine sanscrito che significa «realizzato, ottenuto o perfetto». Secondo la filosofia indiana, il Siddha è colui che ha raggiunto la perfezione.
Omeopatia: medicina naturale, non convenzionale.

Principali tipi di Yoga
Lo yoga, come tutte le discipline di ricerca di sé stessi, dovrebbe iniziare con un rituale, preciso e sempre uguale, che “circoscrive” e focalizza le energie positive, crea uno spazio “sacro” in cui il praticante può liberamente muoversi, “sacralizzando” così tutto ciò che esegue. Anche i grandi saggi di tutte le tradizioni iniziatiche insegnano che uno spazio è sacro, nel momento in cui è dichiarato tale. Praticando yoga in una stanza è importante cambiare l’aria e accendere un bastoncino d’incenso. Si può mettere una ciotola d’acqua ai quattro lati, per purificare le quattro porte della vita: i punti cardinali. Ci si rivolge al Cielo sopra di noi e alla Terra sotto che sostiene, poi al Sud, all’Ovest, al Nord e all’Est, con la coscienza che a Est sorge il sole, quindi è da quel punto che inizia la nascita dell’adepto e il suo conseguente cammino verso la conoscenza.

Ci sono vari tipi di Yoga:
Il Karma Yoga, lo yoga dell’azione, si fonda sul servizio disinteressato: il praticante si dedica ad agire senza aspettarsi il frutto delle proprie azioni, ovvero agisce per il bene comune, per migliorare l’ambiente intorno a sé e aiutare il prossimo senza fini egoistici.
Il Jinana Yoga, lo yoga della conoscenza, si è sviluppato attorno allo studio sistematico delle scritture antiche legate allo yoga.
Il Bhakti Yoga, lo yoga della devozione, si sviluppa attorno alle pratiche appunto “devozionali”. La devozione è l’emozione che si sperimenta quando il nostro cuore comincia a battere con il ritmo dell’Amore Incondizionato.
L’Hata Yoga, forse il più conosciuto, in quanto si sviluppa intorno alle asana, le posizioni, e alle tecniche di respirazione, pranayama. Oggi è spesso praticato in modo semplificato nelle palestre ma anticamente comprendeva esercizi anche estremi volti a provocare un radicale cambiamento nella fisiologia corporea per portare la mente verso stati di coscienza particolari.
Il Raja Yoga, lo yoga regale, è il processo meditativo con tutte le sue parti e diversi yogi nel corso dei secoli si sono dedicati e si dedicano a questo modo di praticare, ritirandosi sulle montagne e nelle foreste in isolamento per potersi dedicare totalmente alla meditazione.
Il Laya Yoga, la pratica del riassorbimento: attraverso particolari tecniche meditative, si apprende a riassorbire la mente nei livelli più interni dell’esistenza individuale favorendo l’espansione della coscienza.
Il Nada Yoga, lo yoga del suono, attraverso il quale si può raggiungere uno sviluppo della propria coscienza.
Il Svara Yoga, si basa sulla consapevolezza del flusso del respiro attraverso le narici e ha lo scopo di guidare il praticante nel compiere le varie attività della vita quotidiana in modo che siano sincronizzate con il flusso dell’energia vitale.

Il moralismo in cattedra

Concedetemi di dedicare la pagina della Città della Conoscenza di questa settimana all’espressione di tutta la mia indignazione. Almeno per chiedere scusa io, cittadino qualunque di questo Paese ormai spento e arenato, al giovane Daniele Doronzo, 17 anni di Barletta, perché certamente la scuola e le istituzioni non lo faranno.
Della sua vicenda si è occupata Repubblica, giovedì 6 novembre, con un bell’articolo in prima pagina di Giuliano Foschini.
Daniele è giovane, per tutti un ragazzo non ordinario, davvero un genio della fisica. Il suo sogno è fare uno stage al Cern e, sebbene non ancora diplomato, ci riesce. Per tutto il tempo dello stage è seguito da Gabriella Pugliese, dell’Istituto nazionale di fisica nucleare di Bari, che racconta come ancora oggi al Cern continuino a chiedere di lui. Persino la dottoressa Fabiola Gianotti, ora nuovo direttore del Cern, ne è rimasta subito colpita.
Ma Daniele frequenta una scuola ‘falsa amica’, il liceo classico di Barletta. La passione per la fisica non lo trattiene, non solo vuole andare al Cern, ma anche prepararsi all’ingresso nelle università americane. Per fare questo gli è necessario anticipare di un anno la maturità, del resto la legge lo consente a tutti gli studenti che negli anni precedenti hanno conseguito almeno otto in ogni materia.
È giusto il caso di Daniele, studente brillante. Ma Daniele dal punto di vista del comportamento lascia a desiderare, arriva a scuola in ritardo e in gita scolastica ha ‘persino osato’ sfidare i professori facendo un bagno in mare. Daniele va punito con un sette in condotta e, nonostante la sua bravura, anche con un sette nella sua materia preferita, la fisica. La punizione deve essere esemplare, soprattutto agli occhi degli altri alunni. Come conseguenza Daniele non può anticipare l’esame di Stato e deve dire addio ai suoi sogni.
Daniele al Cern ci è andato ugualmente, perché quegli adulti intelligenti che non ha incontrato nella scuola, fortunatamente li ha trovati al di fuori; inoltre, a proposito di ‘brain drain’, ora Daniele è in America a San Francisco per prepararsi agli esami.
In questa storia la nostra scuola e gli insegnanti ci fanno una figura da ‘ignoranti’, da ‘capre’, come direbbe Sgarbi, uno delle mie parti.
Capite la confusione? È come mescolare pere con patate. La scuola italiana è ancora questa, tu potrai anche essere un genio, ma se non rispetti la disciplina, prima di tutto devi essere educato! Ecco il vizio d’origine del nostro sistema scolastico: educare anziché istruire. Lo diceva un ministro dell’istruzione del regno, già nel lontano 1894, un certo Guido Baccelli: “Istruire il popolo quanto basta, educare più che si può”.
Non si tratta di uno dei tanti fatti di colore a cui il nostro Paese è ormai avvezzo. I docenti hanno ritenuto loro dovere abbassare la media dei voti di Daniele, a prescindere dal suo profitto. La motivazione? “Ci sfidava, il nostro compito non è promuovere i talenti ma educarli”.
Sì, avete letto bene, alla faccia del successo formativo! Non promuovere i talenti? Ma dove siamo? E noi cittadini dovremmo pagare una simile scuola, un simile preside e simili insegnanti, con l’arroganza di presumere d’aver ragione? Cosa ce ne facciamo di questa scuola che tutto uniforma ed omologa al ribasso?
Disciplina e profitto si mescolano indifferentemente in un unico calderone. La scuola non ha il suo articolo 18 che tuteli gli studenti dalla stupidità di certi insegnanti e di certi ministri.
Anzi i giovani sono mine vaganti che vanno controllati ed educati, perché ancora nel terzo millennio c’è qualcuno che pensa che sono più importanti le convenzioni dell’istruzione.
Il caso di Daniele per la sua enormità ha raggiunto le cronache nazionali, ma è solo emblematico di una situazione più diffusa di quanto si creda. Di un moralismo d’accatto che ancora spira il suo vento in molte delle nostre scuole.
Una scuola moralista e burocrate che certifica non il tuo sapere reale, ma la tua condotta sociale, non di adulto, ma di ragazzo che cresce, che deve ancora conquistare se stesso e tutto della vita, messo di fronte al tribunale di adulti incapaci di educare, perché incapaci prima di tutto di essere degli autentici educatori.
Ma la questione va raccontata tutta fino in fondo. Perché nel nostro paese dal 2009 vige il Dpr n.122, voluto dall’allora ministro Gelmini, con il quale è stato introdotto il cinque in condotta e il principio che la condotta faccia media con le altre discipline. Si è data così legittimità ad un’aberrazione didattica e educativa, proprio nel luogo per eccellenza deputato all’istruzione, per cui il numero delle pere può fare media con il numero delle patate.
“Si torna, dunque, a una scuola del rigore che fa del comportamento un elemento significativo per formare la personalità dei ragazzi” dichiarò allora il ministro.
Il comportamento che fa media con il profitto, l’ossessione di piegare il ramo storto della gioventù. La punizione che non distingue, che non dialoga, che è stupida perché non si limita a sanzionare la tua condotta, ma si spinge fino a mortificare e umiliare la tua intelligenza. Qualcosa che proprio nella scuola non avrebbe mai dovuto trovare una simile cittadinanza.
Ciò che preoccupa di più è che nessun proclama di renziana ‘buona scuola’ può oggi essere credibile, se non si esprime chiaramente innanzitutto la volontà di mettere mano a questo decreto così bislacco, perché la sua permanenza legittima qualunque presunta ‘buona scuola’ ad essere per davvero una ‘scuola cattiva’.

Domani alla Sala Estense “Feltrinelli. Una storia contro”

da: ufficio Comunicazione ed Eventi Unife

Prosegue il ciclo Passato Prossimo. Pagine recenti di storia costituzionale, promosso dal Dottorato di ricerca in Diritto costituzionale dell’Ateneo, con lo spettacolo teatrale “Feltrinelli”. Una storia contro, del regista e attore Mauro Monni. Attraverso la parabola umana, politica e culturale del miliardario editore anarchico Gian Giacomo Feltrinelli, lo spettacolo restituisce la dinamica degli eventi politici e istituzionali del nostro paese, in quella stagione che passò sotto il nome di strategia della tensione.

Lo spettacolo si terrà presso la Sala Estense (Piazzetta Municipale, Ferrara), martedì 11 novembre, con inizio alle ore 21.00. L’ingresso è libero.

Quanto agli incontri presso la Libreria IBS.it Bookshop (Piazza Trento e Trieste, Ferrara), il prossimo appuntamento in calendario sarà venerdì 14 novembre, alle ore 17.00. Tema: la stagione dei diritti. A partire dalla biografia di Franco Basaglia scritta da Oreste Pivetta, si discuterà della legge n. 180 del 1978 e della chiusura dei manicomi negli anni dell’affermazione dei diritti civili e sociali. Interverranno, oltre all’Autore del libro, i costituzionalisti Giuditta Brunelli e Andrea Pugiotto, e l’attore Marcello Brondi.

L’OPINIONE
Acqua: almeno 70 miliardi per i prossimi 30 anni. Alla ricerca di investimenti e buone pratiche

Sul tema dell’acqua è utile continuare a parlare. Recentemente ad H2O vi sono state occasioni importanti di approfondimento. Quello dell’idrico è un settore a elevato fabbisogno di investimenti il cui finanziamento è stato storicamente sostenuto da contributi pubblici erogati dalle amministrazioni centrali e periferiche, talvolta anche messi a disposizione dalle istituzioni comunitarie, accanto alle risorse reperite dai gestori. Tra i vari studi sul tema merita una particolare citazione quanto elaborato e presentato da RefRicerche. Ne sintetizzo i contenuti sul consistente fabbisogno di investimenti da un lato, e l’esigenza di finanziare quegli investimenti.
Secondo una stima basata sulla pianificazione vigente il fabbisogno del settore per i prossimi 30 anni sarebbe di circa 70 miliardi di euro, stima peraltro sottostimata secondo gli analisti di Ref e certamente ben lontana dagli 80 euro/abitante/anno che si investono mediamente nei paesi Ocse. Serve una scala finanziaria efficiente nel servizio idrico, dice Ref. Il finanziamento delle opere del servizio idrico dovrà poter contare sull’apporto di risorse da parte di privati: istituti di credito, fondi pensione, assicurazioni, fondi infrastrutturali. Per le realtà minori una serie di strumenti finanziari, quali mini bond e hydro bond, non conosce ancora un adeguato sviluppo. La finanza di progetto presuppone dimensioni apprezzabili e una solida cultura finanziaria e manageriale. Consolidamento e capacità di fare rete sono gli ingredienti di un percorso di ricerca della scala finanziaria “efficiente”. Possono sembrare temi complessi e lontani dai cittadini, ma in verità rappresentano il cuore del problema per una corretta gestione del ciclo idrico integrato.

Tradizionalmente gli investimenti nel settore idrico hanno potuto contare principalmente sul sostegno di contributi pubblici, un apporto di risorse contrattosi nel tempo che, ragionevolmente, non sarà sufficiente a fronte dell’ingente fabbisogno del settore nei prossimi anni. Sarà dunque sempre più necessario favorire l’intervento di finanziatori privati e ricorrere agli strumenti più adeguati presenti sul mercato per colmare il deficit di investimenti che caratterizza il servizio idrico integrato in Italia. Per finanziare le infrastrutture, osservano gli analisti, le aziende possono ricorrere a capitale di debito. Una prima via possibile, in questo caso, è quella della finanza aziendale (credito bancario, prestiti obbligazionari), in cui “la garanzia del creditore è l’insieme dei flussi di cassa dell’impresa e viene monitorato il rapporto tra debito e patrimonio netto, tra margine operativo lordo, oneri finanziari e debito”. Nel caso del credito bancario, l’accesso è fortemente limitato per le piccole gestioni, in particolare quelle monoservizio; sono soprattutto le grandi aziende, adeguatamente strutturate e patrimonializzate, a beneficiare del credito bancario, con rare eccezioni. Per le realtà minori, che incontrano difficoltà ad accedere al credito, si è aperta negli ultimi anni la via dei mini bond e hydro bond. In alternativa alla finanza aziendale, si può ricorrere alla finanza di progetto , che implica “un elevato livello di indebitamento in rapporto al patrimonio netto” e assume il flusso di cassa dell’opera a garanzia del rimborso.
Può essere attivata per un singolo progetto o per un insieme di opere afferenti a un’unica concessione (concession finance). “A causa del maggiore rischio connaturato allo strumento – spiegano gli analisti di Ref Ricerche – il project finance è un canale di finanziamento riservato a istituti di credito o a investitori con un mandato di sostegno agli investimenti nei settori di pubblica utilità”. Infine i project bond, obbligazioni destinate a finanziare progetti infrastrutturali di pubblica utilità che possono essere emessi dai concessionari di infrastrutture e servizi e dalle società titolari di un contratto di partenariato pubblico-privato. I project bond possono anche essere utilizzati come modalità di rifinanziamento del project financing quando le opere sono già realizzate. Questi strumenti, spiegano gli analisti, “non hanno ancora trovato sviluppo, principalmente perché più onerosi rispetto alle emissioni di obbligazioni in ragione della necessità di un rating del progetto. Gli investitori istituzionali sembrano poi non gradire molto il progetto in fase di costruzione laddove il merito di credito è ancora inferiore al giudizio di investment grade”.
Sono temi complessi da seguire e forse di alta finanza, ma vanno considerati seppur nel rispetto di un principio cardine: l’acqua è un bene primario, legato all’ambiente, alla salute e alla vita dell’uomo, su cui è necessario affermare il controllo pubblico: dunque, la proprietà pubblica dell’acqua è un principio inderogabile. Non è un prodotto commerciale, bensì un patrimonio che va protetto difeso e trattato come tale .
A titolo esemplificativo ripropongo gli investimenti prioritari per il settore acquedotto ed a seguire quelli per fognatura e depurazione.
Con riferimento al solo settore acquedottistico, si evince un fabbisogno in termini di aumento della sicurezza del rifornimento e di contributo alla tutela quantitativa degli acquiferi. Bisogna raggiungere e mantenere nel tempo un livello appropriato di riserva di potenzialità degli impianti di produzione rispetto ai valori attuali e a quelli previsti di domanda; bisogna favorire la differenziazione delle fonti primarie utilizzate, mediante la valorizzazione delle risorse disponibili localmente, lo sviluppo di nuove fonti di rifornimento da acque superficiali, una maggiore integrazione delle diverse reti di adduzione principale; ma soprattutto è necessaria una tutela più rigorosa della qualità degli acquiferi mediante la gestione controllata degli emungimenti e delle aree di salvaguardia. Per quanto attiene invece gli investimenti prioritari in fognatura e depurazione si rendono necessari notevoli investimenti infrastrutturali sugli impianti di depurazione e sulla razionalizzazione delle fognature, privilegiando sistemi di collegamento sovracomunali. Nei territori vi è spesso un elevato numero di piccoli agglomerati che necessitano opportuni adeguamenti; si deve promuovere un graduale incremento degli investimenti nel settore depurazione destinati a tale voce. Si registra infatti spesso un certo ritardo rispetto ai limiti temporali fissati dalla normativa.

In grande sintesi servono interventi per razionalizzare, potenziare e migliorare la qualità della rete acquedottistica; per razionalizzare ed adeguare il sistema depurativo; per adeguare gli scarichi, ai sensi della Dgr n.2241/2005; per migliorare l’efficacia del servizio di reti acquedottistiche e fognarie ; per eseguire lavori urgenti di mantenimento ed emergenza, con particolare riguardo alle opere fognarie e depurative e alla riduzione delle perdite negli acquedotti; per completare il sistema informativo territoriale delle reti e degli impianti destinati all’erogazione del servizio idrico integrato. Insomma c’è molto da fare.

L’APPUNTAMENTO
E venti! Feltrinelli festeggia a Ferrara
fra libri e autori

Da Tiziano Scarpa ad Alessandro Baricco: un cartellone di appuntamenti dedicati a chi ama la scrittura e la lettura per festeggiare i 20 anni della libreria Feltrinelli, a Ferrara in via Garibaldi 30. L’iniziativa è promossa dalla libreria cittadina – diretta da Erika Cusinatti – con associazione culturale Gruppo del Tasso – diretta da Matteo Bianchi – e Comune, Provincia di Ferrara, Ente Palio, associazione Pietre Alate.

L’idea è quella di trasformare quest’occasione in una sorta festival cittadino, con l’obiettivo di consolidare la tradizione Feltrinelli nel tempo e promuovere cultura a partire da una realtà privata. La rosa dei personaggi coinvolti nel progetto è molto varia per iniziative e contenuti: dalla letteratura alla musica, passando per televisione e cucina. Iniziativa cardine sarà la possibilità, durante tutto il mese di novembre, di acquistare un libro e donarlo alla scuola materna Aquilone di Ferrara. In mostra, intanto, una carrellata di fotografie sul Palio ferrarese.

Alessandro Baricco sarà ospite venerdì 21 novembre al cinema Boldini con il suo monologo Novecento, edito proprio vent’anni fa da Feltrinelli, ma sabato scorso c’è stato anche Tiziano Scarpa e, in occasione del giorno del compleanno – mercoledì 12 – lo “Swing ai frutti rossi” del Trio del Conservatorio Frescobaldi con Scavo, Colloca e Zattini. La chitarra di Leonardo Veronesi (sabato 29 ore 17.30 e domenica 30 ore 11), poesia con Paolo Ruffilli (domenica 16, ore 11), Massimo Scrignòli (sabato 29, ore 11) e Giancarlo Pontiggia (domenica 23, ore 11), fumetti e fantasy con Alberto Amorelli e il disegnatore Alberto Salis (sabato 15, ore 11), noir con Stefano Bonazzi e Paolo Panzacchi (sabato 15, ore 17.30), burattini con Davide Bregola (domenica 23, ore 17.30) e letteratura per ragazzi con Luigi Dal Cin (domenica 16, ore 17.30), storie di vita con Eraldo Baldini (giovedì 27, ore 17.30), Francesca Viola Mazzoni (sabato 22, ore 11) e Alessandro Mastroluca (venerdì 21, ore 17.30), autobiografie con Kitty Vinciguerra e Laura Corsini (venerdì 14, ore 17.30), gialli e psicologia con Romano De Marco (domenica 22 alle 17.30 in libreria e alle 20.30 al ristorante L’Orlando), scuole letterarie con Martino Gozzi (venerdì 21 alle 21 al Boldini con Baricco) e novità con Giovanni Montanaro (mercoledì 19, ore 21), autore esordiente di Feltrinelli.

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Vincent Zandro alla libreria Feltrinelli di Ferarra

Guest inaugurale, martedì scorso, Vincent Zandri che ha preso parte all’evento cittadino presentando in anteprima “Moonlight Sonata”, il suo primo poliziesco tradotto in italiano edito da Meme Publishers, originale casa editrice che punta sul mercato digitale con sede tra Ferrara e Parigi e partner della manifestazione in rosso. Detective story contemporanea dal gusto noir incentrato sulle vicende del poliziotto Dick Moonlight intriso di musica e malinconia, humour e realismo cittadino in una Albany in bilico tra bucolico e Far West contemporaneo, in cui la maggior parte degli abitanti possiede un’arma; dai locali affollati di fumo e gente che si ubriaca, malavitosi e scrittori alternativi – veri personaggi lost-in-time, il soggetto ha convinto Marco De Luca, direttore editoriale di Meme, che ha proposto un accordo di edizione aggiudicandosi l’esclusiva dei suoi prossimi romanzi.

La direttrice del punto vendita Erika Cusinatti punta molto sull’angolo riservato agli scrittori ferraresi, a ora vanto esclusivo del punto Feltrinelli della città estense. “L’eterogeneità – dice – è un tratto distintivo anche del nostro pubblico: tra saggistica e narrativa, la libreria è frequentata da studenti universitari e persone che amano farsi consigliare sul libro da scegliere. Una linea particolarmente curata è quella dedicata ai bambini da 0 a 6 anni. Una prerogativa a ora solo nostra, di cui andiamo fieri, è poi l’angolo dedicato agli autori ferraresi, tanto di fama già consolidata quanto di autori esordienti, a cui abbiamo associato una gigantografia bicolore del Castello Estense, icona di Ferrara”.

Ecco una piccola carrellata di immagini legate alla libreria Feltrinelli cittadina di due soci del Fotoclub Ferrara: GIORGIA MAZZOTTI e STEFANO PAVANI.

[clicca le immagini per ingrandirle]

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Feltrinelli Ferrara compie 20 anni: la direttrice Erika Cusinatti con lo scrittore Tiziano Scarpa (foto di Stefano Pavani)
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Feltrinelli Ferrara compie 20 anni: la direttrice Erika Cusinatti con lo scrittore Tiziano Scarpa (foto di Giorgia Mazzotti)
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Feltrinelli Ferrara compie 20 anni: la direttrice Erika Cusinatti, lo scrittore Tiziano Scarpa e il direttore del Gruppo del Tasso Matteo Bianchi (foto di GIORGIA MAZZOTTI)
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Ingresso della libreria Feltrinelli di Ferrara (foto di STEFANO PAVANI)
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Libreria Feltrinelli di Ferrara: persone (foto di Giorgia Mazzotti)
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Libreria Feltrinelli di Ferrara: persone (foto di Giorgia Mazzotti)
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Libreria Feltrinelli di Ferrara: persone (foto di Stefano Pavani)
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Libreria Feltrinelli di Ferrara: persone (foto di Stefano Pavani)
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Libreria Feltrinelli di Ferrara: persone (foto di Giorgia Mazzotti)
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Libreria Feltrinelli di Ferrara: frequenze di passaggio (foto di Giorgia Mazzotti)
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Libreria Feltrinelli di Ferrara: frequenze di passaggio (foto di Giorgia Mazzotti)
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Libreria Feltrinelli di Ferrara: frequenze di passaggio (foto di Giorgia Mazzotti)

LA SEGNALAZIONE
A tu per tu con Karl Marx

È un Karl Marx squisitamente umano quello che il pubblico si ritrova davanti in questi sabati sera al Teatro Off di Ferrara. Il leggendario Marx, interpretato da Marco Sgarbi con naturalezza e autenticità, ‘si fa uomo’ e si mette a nudo raccontando della propria vita, della sua amata moglie Jenny di cui dice «quello che lei ha fatto per me è di un valore incalcolabile», delle tre carissime figlie sopravvissute alla miseria, degli altri tre scomparsi precocemente, oltre che dell’esperienza dei bassifondi di Soho, a Londra, che ne ispirarono i famosi scritti di denuncia e di analisi sociale ed economica del sistema capitalistico.
Con la pièce di Howard Zinn “Marx a Soho” si ha il piacere di incontrare un Marx ironico e disincantato, che arriva a dire «Mettetevi in testa una cosa: non sono marxista!» prendendo di fatto le distanze dal personaggio creato ad hoc dagli adulatori e dalle manipolazioni del suo pensiero.
Lo spettacolo, diretto da Giulio Costa, ha un’impostazione particolare, fortemente incentrata nel creare relazioni sia con il personaggio che con il pubblico, con cui si cerca un rapporto costante durante la rappresentazione.
Anche a fine spettacolo gli spettatori vengono direttamente coinvolti per una chiacchierata con l’attore; così a fine monologo Marco Sgarbi smette i panni di Marx e arriva sul palco con in mano una tazza di tisana a base di acqua, miele e limone, e si comincia a parlare della messa in scena appena vista. Tante, incalzanti e attente le domande degli spettatori/interlocutori che chiedono prima di tutto come sia riuscito ad entrare in un personaggio così “mastodontico”: “Per entrare nel personaggio di Karl Marx, si è proceduto per sottrazione, fino ad arrivare alla spontaneità” – racconta Marco Sgarbi – “ho messo nel personaggio ciò che mi appartiene e che si avvicina di più al lavoro di Zinn. La mia immagine di Marx prima di questo lavoro era un po’ stereotipata, si rifaceva agli studi liceali. Solo addentrandomi nel testo ho visto emergere l’Uomo. Per questo ciò che ho fatto non è stato altro che impersonare semplicemente un essere umano, che parla alla gente, a un pubblico. ‘Grazie a Dio un pubblico, proprio come dice la prima battuta del testo”.
L’operazione di coinvolgimento e condivisione con il pubblico riesce molto bene, complice l’atmosfera intima dello spazio, e ne nasce anche un dibattito su vari temi: l’urgenza dell’agire, del far sì che le cose accadano, della passione per il cambiamento – che Marx ha avuto per tutta la vita – che precede e va oltre l’aspetto teorico. Si è parlato inoltre del tema della miseria/ricchezza del mondo contemporaneo: “Marx che ritorna nel mondo al giorno d’oggi, a New York, uno dei centri nevralgici dell’economia contemporanea (per un errore torna nella Soho newyorkese, non nella Soho di Londra), non sarebbe stato forse più colpito dalla ricchezza che dalla miseria, come invece emerge in questa pièce?” chiede una spettatrice. Sgarbi risponde che scegliere New York è stato un escamotage, una scelta simbolica; Zinn ha voluto mettere al centro del suo lavoro la miseria, per denunciare come ancora oggi una grande parte del mondo sia soggetta a miseria e diseguaglianza. Un’altra spettatrice si complimenta dicendo: “C’è un’intelligenza pura in questo lavoro!”.
Per questo viene naturale riprendere una delle battute più accattivanti del testo: «Potete spargere la voce, Marx è tornato!…» anche se per poco più di un’ora a replica: l’ultima in programma sabato prossimo 15 novembre al Teatro Off di Viale Alfonso I d’Este, 13 nell’ambito della rassegna di monologhi intitolata “Ricomincio da uno”  [vedi].

Lo spettacolo è tratto dal testo scritto nel 1999 dallo storico americano Howard Zinn ed è stato co-prodotto in occasione del 131° anniversario della morte di Karl Marx dalla Fondazione Aida, Teatro stabile Innovazione Verona, e dall’Associazione culturale Arkadiis di Occhoibello.

George Simenon
e la sua scandalosa Betty

Aeroporto di Roma Fiumicino. Alla partenza lascio un pezzettino di cuore, in quest’ultima pillola di dolce e serena estate romana, accompagnata da un sentimento di amore e di fedeltà. Fedeltà all’amore stesso, alla città eterna che forse un giorno mi aprirà le braccia per ospitarmi a lungo.
M’intrufolo in libreria, come sempre prima di partire. Cerco qualcosa, come al solito. Un ultimo acquisto di testi nella mia lingua, un sacchetto di carta riciclata che mi accompagnerà sull’aereo per Mosca. Sugli scaffali colmi, invitanti e colorati intravvedo, curiosa, l’ultimo testo del belga Georges Simenon, “Faubourg”.

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La copertina della nuova edizione Adelphy

Lo prendo, lo colgo quasi come si fa con un bel fiore, all’interno della copertina giallo-canarino cerco se Adelphi ha pubblicato pure “Betty”. Sto aspettando che esca l’omonimo di Roberto Cotroneo (che comprerò subito), ma voglio leggere l’ispirazione prima, mentre attendo. Trovo il titolo, chiedo alla cassiera, me lo porta, gentile e saltellante. Pago e ancora prima di imbarcare mi tuffo nelle prime righe delle 140 pagine che all’arrivo avrò finito di leggere (e così è stato…). Farò un viaggio nel viaggio, come sempre quando volo, come sempre quando mi muovo solo con libri, pensieri e bagagli leggeri riempiti unicamente d’idee.
Questo libro va letto con calma, attentamente, assaporato, ma non resisto. Nelle tre ore e mezzo di aereo lo divoro, pagina dopo pagina, riga dopo riga, mi tuffo nella complessa psiche femminile, nelle difficoltà e nei dubbi di essere donna che molte di noi ben conoscono. Accarezzo e apprezzo un‘introspezione del personaggio molto minuziosa, incisiva, cesellata alla perfezione. Come vorrei sapere scrivere in quel modo…

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La locandina del film di Claude Chabrol tratta dal romanzo di Simenon

Betty, che strana creatura. Una giovane splendida e turbolenta dalla condotta arditamente scandalosa approdata sullo sgabello di un bar dei parigini Champs-Elysées, con la testa confusa e intorpidita dall’alcol. Accanto a lei, alla deriva, indomabile e indomata, siede un uomo del quale non ricorda nulla. Un uomo che, tuttavia, scompare quasi subito per lasciare a lei tutta la scena. Ombra, tante zone d’ombra s’intravvedono da subito. Calze smagliate, la sensazione di sporcizia, bicchieri di whisky, vestito costoso stropicciato e stanco, un assegno milionario in tasca, in borsetta una lettera da lei scritta e sottoscritta. M’immagino la borsetta, una sorta di piccola pochette marrone argentato a forma di cuore dal pomello rotondo di cristallo. Un clic e si apre un mondo. Uno scatto sul mondo disperato, lacerato e oscuro che la circonda. Potrei fotografarla così come la vedo e me la immagino.
Betty è una donna sola, senza sogni, bella ed elegante ma trasandata, logorata dalla vita, da se’ stessa, dalla propria insoddisfazione, da un istinto che la induce a percorrere strade proibite e detestabili, da un richiamo del vizio che le fa rifiutare la vita normale, fatta di un marito ricco, delicato, attento e perdutamente innamorato, di due figli leziosi, di una borghese e calda casa tranquilla e ben arredata, di sfumature di tenerezza. L’alcol la fa perdere nel fondo del suo bicchiere peccaminoso e costantemente alzato, regolarmente pieno, nella grigia parigina “tana degli svitati” di Mario. Nel fumo di pensieri e sogni ormai lontani e persi.
In un’atmosfera incisiva e intensa, Simenon descrive un animo ribelle e disadattato, un quadro femminile ben dipinto in cerca dell’amore e, allo stesso tempo, del suo opposto, ossia del lacerante disagio di una punizione continua, iniziata da bambina e mai cessata.

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Georges Simenon

La lettura tiene sul filo del rasoio, con maestria e tensione che solo Simenon possiede. I sentimenti sono contrastanti. A volte fatico a capire questa psiche complessa, sono combattuta nel pensare se Betty sia una donna perduta o ritrovata, una vittima o un carnefice. Betty vorrebbe perdersi, cancellarsi, o magari semplicemente trovare qualcuno che si prenda cura di lei. Ed ecco un’amica, Laura, quasi una madre, che l’accoglie teneramente credendo di redimersi, ignorando, tuttavia, dove tutto questo la condurrà. Ignara della tragedia che questo incontro comporterà.
Un romanzo da leggere, che racconta l’implosione di una donna persa, l’insano vagare nel nulla e nel vuoto, alla ricerca del proprio io e magari dell’amore che qualcuno potrebbe rivolgere alla donna, a lei, a LEI perché lei, al suo vero io e alla sua vera essenza, non al suo ruolo e alla sua posizione nel mondo.

Un libro avvincente, drammatico, non facile, emotivamente intrigante, che denuda, con procedimento quasi psicanalitico, i pochi personaggi che scorrono sulla scena; un racconto che colpisce, per la sua anomala protagonista e per la sua conclusione, che fa riflettere su come e quanto, a volte, l’animo femminile possa essere torbido, complesso, intrigante, emozionante, inspiegabile e, talora, davvero del tutto imprevedibile. Perché non è sempre chiaro chi sia il vincitore e chi lo sconfitto. E sta a noi immaginarlo.

LA RIFLESSIONE
Prima Guerra Mondiale,
le ragioni per ricordare

Ci sono vari motivi per commemorare la Grande Guerra di cui ricorre il centenario. Un impegno civile orientato in senso pacifista: ricordare l’ecatombe fratricida dei soldati, in molti casi sepolti l’uno accanto all’altro nei cimiteri di guerra, e l’esperienza drammatica della popolazione civile per far sì che non si ripetano. Si aggiunge la motivazione europeista: l’Europa unita come alternativa alle guerre che hanno insanguinato per secoli il nostro continente, fino ad arrivare ai due terribili conflitti del Secolo Breve, senza dimenticare che sul fronte italo-austriaco hanno combattuto quasi tutti i paesi che oggi fanno parte dell’Unione Europea. Si può poi ricordare anche la narrazione memoriale che vuole la Prima Guerra Mondiale come l’ultima delle guerre risorgimentali italiane, che ha completato l’unità nazionale, trascurando la complessità degli eventi e delle esperienze umane nelle regioni di confine come il Trentino o il Friuli Venezia Giulia.

Abbiamo dunque a che fare con un quadro composito di motivazioni eterogenee, a cui bisogna aggiungere l’elemento di una memoria oramai senza ricordo, perché non è più possibile attingere alle testimonianze di coloro che hanno avuto esperienza diretta della Grande Guerra. Infine, senza nulla togliere al legittimo sforzo commemorativo, spesso da queste memorie manca la storia, con tutte le sue complessità e ambiguità. Il pur doveroso racconto delle esperienze e delle sofferenze sembra a volte prendere il sopravvento sull’analisi delle cause e degli effetti, che sono stati enormi dal punto di vista politico e sociale: la scomparsa degli imperi e la nascita o trasformazione di nuovi stati, la rivoluzione bolscevica e la guerra civile che ne è derivata, le crisi politiche in Italia e nella Repubblica di Weimar da cui si sono sviluppati i regimi dittatoriali che hanno trascinato nuovamente l’Europa nella tragedia. È proprio qui che i musei, come quello del Risorgimento e della Resistenza, assumono un’importanza fondamentale: i monumenti e i luoghi della memoria, come le trincee o i cimiteri di guerra, non hanno una specifica funzione didattica, il loro ruolo è evocare e la loro dimensione è simbolica. Al contrario i musei, in ragione della loro funzione pedagogica, richiedono una riflessione attenta ai contenuti: gli oggetti che raccolgono ed espongono sono sì dei segni, ma anche entità concrete con una propria storia e una propria capacità di comunicare significati. Intrecciando diverse forme di apprendimento, i musei devono quindi assolvere al compito di costruire la solida intelaiatura di un racconto storico il più completo possibile, affiancando la scuola, perché se è vero che i ragazzi sono i destinatari principali dell’appello a ricordare, è alle loro coscienze critiche che bisogna fare appello, non solo alle loro emozioni.

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Museo Storico Italiano della Guerra

Anche di questo si è parlato sabato nel corso della presentazione della “Guida ai documenti della I Guerra Mondiale”, conservati nel Museo del Risorgimento e della Resistenza di Ferrara. Daniele Ravenna, dirigente del Mibact, ha segnalato come il percorso “a tutela della memoria storica della Prima Guerra Mondiale” da parte delle istituzioni statali inizia con la legge 78 del 2001, quando per la prima volta “si sono fissati una serie di principi per affermare che esiste un patrimonio storico della Grande Guerra, formato da tutto ciò che è testimonianza materiale”, dai documenti ai monumenti, dalle trincee ai cimiteri di guerra, fino ad arrivare ad oggi, “al tema del centenario”. “Celebrazioni e tutela del patrimonio stanno procedendo insieme”, grazie anche alla collaborazione tra il Comitato scientifico della Presidenza del consiglio presieduto da Franco Marini e il Mibact. Secondo Ravenna, la caratteristica principale delle celebrazioni è “la valorizzazione delle diversità e delle specificità delle tante realtà italiane, sono quindi tantissime le iniziative in preparazione sul territorio”, a cui il ministero dei Beni culturali partecipa attraverso le Soprintendenze. A livello centrale, “la Presidenza del Consiglio ha promosso l’iniziativa Cento monumenti per il Centenario, che si propone di restaurare cento monumenti ai caduti in tutta Italia, mentre noi del Mibact abbiamo avviato due azioni: il censimento dei monumenti, con il quale abbiamo già realizzato circa seimila schede che saranno fra poco disponibili in rete, e il portale www.14-18.it, progettato per ospitare il materiale delle istituzioni pubbliche e dei privati, diventando così una grande banca dati nazionale sulla Prima Guerra Mondiale”.

Elogio della gentilezza

Il 13 novembre si celebra la Giornata mondiale della gentilezza. La data ricorda una conferenza tenutasi a Tokio nel 1997 che ha dato vita al World kindness movement, una sorta di movimento per la Gentilezza.
L’arte delle buone maniere sembra ritornare di moda, con libri, corsi e movimenti internazionali per la riscoperta della cortesia. Per molti anni la gentilezza è stata considerata espressione di un atteggiamento formale a cui venivano contrapposte virtù come spontaneità e autenticità. Quando ero all’università, i più ‘spontanei’ (sempre maschi per la verità) erano quelli che ti entravano in casa con le scarpe infangate, aprivano il frigorifero, si impossessavano del divano e trovavano assolutamente ovvio fermarsi a cena.
Come Norbert Elias ha argomentato con “La civiltà delle buone maniere”, il rapporto tra spontaneità e educazione è socialmente e storicamente condizionato: anche le forme di convivenza più ovvie e quotidiane hanno alle spalle un processo di genesi storica. Le buone maniere cominciano ad affermarsi alla fine del Medioevo, con l’avvento della società di corte, una sorta di laboratorio dove si perfezionano tecniche di autodisciplina degli impulsi spontanei – per lo più violenti – cui i liberi cavalieri medievali potevano dare incontrollata soddisfazione. Si costruiscono così quei codici di comportamento che sono di fondamentale importanza nello sviluppo dell’età moderna. Si tratta di codici che sono nel contempo etici ed estetici e che vengono riassunti in parte nelle norme del galateo, termine che pare desueto, ma che regola – tacitamente – i comportamenti in ogni contesto sociale.
Oggi la società di massa rende affollati molti luoghi della vita quotidiana, produce “densità” e talvolta nervosismo; mentre crescono le nostre attese di rispetto, ci sentiamo spesso sottoposti a sopraffazioni, ingiustizie, maturiamo sentimenti di frustrazione e di disagio nei confronti di numerose situazioni. Lo spazio pubblico viene avvertito come lo spazio del sopruso e dell’indifferenza: aiutare l’utente a compilare un modulo incomprensibile o a risolvere il problema del pagamento del ticket nel caso la macchinetta sia rotta, potrebbero essere piccole azioni che migliorano il servizio. Siamo così poco abituati a riceverle che le consideriamo doti personali.
Forse per questo, avvertiamo la necessità di applicare, almeno nello spazio personale, paradigmi di relazione, modalità di esistenza, cifre estetiche orientate al benessere personale. Cito alcune pagine per coloro che volessero diventare ‘più gentili’ www.actsofkindness.org [vedi] pubblica risultati di ricerche e azioni di gentilezza. Il sito www.gentletude.com [vedi] propone uno stile di vita fondato sulle buone maniere, campagne di educazione per le scuole e un premio annuale dedicato alle buone pratiche. In generale, queste iniziative esprimono la ricerca di azioni che servano a migliorare il proprio spazio di vita e il cui esito dipende da noi.
La gentilezza non ha solo una dimensione relazionale, ma investe il senso civico, la natura l’ambiente e ogni relazione sociale. Nello spazio pubblico sarebbe auspicabile una formazione alla gentilezza come dimensione dell’efficienza e dell’efficacia del servizio; nello spazio privato praticare la gentilezza significa dare un piccolo contributo al benessere e al miglioramento della convivenza sociale.

Maura Franchi – Laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing, Marketing del prodotto tipico. I principali temi di ricerca riguardano i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@gmail.com

IL FATTO
Allarme, i predoni dell’acqua tentano
“una privatizzazione strisciante”

All’indomani dell’ennesima alluvione a Genova, a inizio ottobre, molti hanno rilanciato le critiche e gli interrogativi sul decreto Sblocca Italia, pubblicato in Gazzetta ufficiale a metà settembre, soprattutto in materia di impatto sulla (non) gestione del territorio e sulle politiche di (non) tutela ambientale. Ebbene all’interno del ‘capo III’, proprio quello sulle misure urgenti in materia ambientale e per la mitigazione del dissesto idrogeologico, c’è l’articolo 7 “Norme in materia di gestione di risorse idriche”: in altre parole il ciclo dell’acqua. L’obiettivo di questo articolo, insieme ai provvedimenti contenuti nella Legge di stabilità, “non è rendere maggiormente efficace la gestione, ma ritornare a favorire la privatizzazione dei servizi pubblici”, ancora una volta in barba al risultato del referendum del 2011: è l’allarme lanciato dal Forum italiano dei movimenti per l’acqua nell’incontro di sabato pomeriggio a palazzo Bonacossi. Secondo quanto afferma Paolo Carsetti, attivista del Forum, l’articolo 7 dello Sblocca Italia configura una vera e propria “modifica dei principi base dei servizi del ciclo integrato dell’acqua”, non solo imponendo “un gestore unico per ogni territorio”, ma arrivando anche a definire “chi debba essere questo gestore”. Il testo, infatti, dispone l’affidamento al gestore il cui bacino complessivo sia “almeno pari al 25 per cento della popolazione ricadente nell’ambito territoriale ottimale di riferimento”: dunque si favoriscono le grandi multi-utility quotate in borsa in nome di una presunta razionalizzazione all’interno di economie di scala. Parallelamente nella Legge di stabilità si esercita, per usare un eufemismo, una certa pressione sugli enti locali: in un momento in cui sono strangolati dai tagli e dal patto di stabilità, si inserisce un provvedimento per cui chi sceglierà di “cedere le proprie quote di partecipazione” potrà “usare le somme ricavate al di fuori del patto di stabilità”. Per questo Carsetti parla di una “privatizzazione strisciante”: l’obiettivo è lo stesso del governo Berlusconi e del ministro Ronchi, ma non si ripete l’errore di esplicitarlo per non correre il rischio di una possibile mobilitazione dei cittadini come è avvenuto con i referendum.
mani_cerchio_acquaÈ stato Corrado Oddi, componente del Comitato acqua pubblica di Ferrara, a riportare tutti con i piedi in terra ferrarese: “Oltre ai provvedimenti legislativi, ci sono già studi su come le multi-utility si spartiranno i profitti nei prossimi anni”. Iren, A2A, Acea e Hera potranno contare su “2 miliardi in più di margine operativo lordo” attraverso l’acquisizione delle circa 60 aziende di servizi che ancora rimangono sparse sul territorio, tra le quali per esempio il Cadf che opera nel Basso ferrarese, e “Cassa depositi e prestiti avrebbe già deciso di stanziare 500 milioni di euro per favorire questo tipo di operazioni”. E proprio parlando di Cadf (Ciclo integrato acquedotto depurazione fognatura – Consorzio acque del Delta), da più di un anno e mezzo il Comitato acqua pubblica di Ferrara ha avviato un dialogo con i sindaci del Basso ferrarese per esplorare le possibili strade per una sua ri-pubblicizzazione e molti di loro sembravano favorevoli, “almeno a parole” ha specificato Marcella Ravaglia, altra componente del Cap locale. Allora perché nessuno dei sindaci, pur invitati, ha partecipato all’incontro di sabato pomeriggio? Soprattutto perché dopo aver commissionato uno studio di fattibilità sulla trasformazione del Cadf in azienda speciale di diritto pubblico, secondo quanto afferma Ravaglia, “si è deciso di non renderlo pubblico”?

LA RICORRENZA
Quando c’era il Muro:
‘Mir caravane’, artisti per la pace

di Luca Gavagna

Nel 1989 una carovana di duecento attori provenienti da tutta Europa intraprese un viaggio dalla Russia alla Francia. Si mossero con Caravan e roulotte, gli spettacoli si tennero in otto tendoni da circo che viaggiarono al seguito della carovana.
Erano compagnie provenienti da diversi paesi: Unione Sovietica, Polonia, Repubblica Ceca, Germania, Spagna, Francia, Gran Bretagna, Italia. Le tappe furono: Mosca Leningrado, Varsavia, Praga, Berlino Ovest, Copenaghen, Basilea, Losanna,  e Blois.
L’iniziativa si chiamò “Mir caravane” che in russo significa Carovana della Pace. Fu un’iniziativa importante sia dal punto di vista culturale che politico,  anticipatrice dei grandi sconvolgimenti che si sarebbero verificati pochi mesi dopo.
Uno dei gruppi organizzatori fu il Teatro Nucleo di Ferrara. Le foto raccontano di una sessione fotografica con Nicoletta Zabini, attrice ferrarese del Teatro Nucleo, proprio di fronte al muro di Berlino che sarebbe stato abbattuto il 9 novembre 1989.

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Gli artisti della Carovana per la Pace del 1989
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Nicoletta Zabini, attrice ferrarese del Teatro Nucleo
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Nicoletta Zabini dinanzi al Muro di Berlino
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Ancora Nicoletta Zabini: il Muro sarebbe stato abbattuto di lì a poco, il 9 novembre

Imparare a leggere
il linguaggio del corpo

Quasi quarant’anni di insegnamento alle spalle e una grande passione per i ragazzi e il loro benessere. Daniele Lodi, insegnante di educazione fisica in provincia di Rovigo, ma ferrarese, assieme agli psicoterapeuti Giovanni Seghi, Massimo Barbieri e Maica Buiani ha scritto Corporeità e difficoltà di apprendimento, edito da La Scuola. Il lavoro è il risultato di anni di osservazione e pratica sul campo.
Lodi, il testo, che potremmo anche chiamare manuale per il suo valore, appunto, di utilità pratica, si rivolge a insegnanti e genitori, due mondi che non sempre riescono a comunicare facilmente quando si tratta di affrontare certe difficoltà dei bambini.
“La nostra ambizione è una rieducazione divertente attraverso il gioco e il movimento. Per i docenti mettiamo a disposizione metodi di osservazione che aiutino a interpretare segnali indici di dislessia, iperattività e problemi prassici. Il ruolo delle famiglie è altrettanto importante perché anche in ambito domestico può essere data continuità al lavoro”.
Cosa è possibile intuire dai segnali del corpo?
“Molte cose come la lateralizzazione, l’equilibrio, l’orientamento temporale, il ritmo, la gestione del tono muscolare. Da come i bambini si muovono nel gioco, possiamo davvero capire i loro bisogni o i loro malesseri”.
Cosa ha rivelato il vostro studio?
“Abbiamo affrontato la dislessia e i bisogni educativi speciali, chiamati Bes. Nel libro abbiamo riportato cinquantadue casi di bambini tra i sette e i trecidi anni della provincia di Ferrara e Rovigo. Dodici bambini, in cinque mesi, sono migliorati del sessanta per cento nelle aree linguistico-matematiche, per fare un esempio. Abbiamo, quindi, pensato proposte di motricità finalizzate a un successo educativo più ampio e a una serena esperienza scolastica e personale”.
In che modo?
“Oltre all’osservazione e all’analisi, abbiamo elaborato un ‘kit di intervento’, cioè delle idee operative che insegnanti e genitori possono mettere in pratica con i bambini. Il nostro intento è invitare all’osservazione del bambino e intervenire a partire dalla motoria. C’è un grande bisogno di sostenere le famiglie ed è per questo che collaboriamo con l’associazione Sos dislessia di Ferrara, con il Centro territoriale di supporto, ma anche con Coni e Uisp”.
Al di là dell’ambiente scolastico, dove una famiglia può trovare supporto?
“A Pontelagoscuro, nella palestra del centro sociale Quadrifoglio, proponiamo dei test e un corso di motricità finalizzata per i bambini nei quali abbiamo riscontrato qualche difficoltà”.
Pionieri della materia?
“Anche il mondo inglese lavora sul corpo più che sul linguaggio e noi riteniamo che il benessere del bambino possa davvero essere raggiunto con la strada del gioco e del divertimento”.

LA RIFLESSIONE
Fondata sul lavoro

“Il governo deve parlare con i sindacati, ma è arrivato il momento che ognuno faccia il suo mestiere. I sindacati trattano con gli imprenditori”. Così il Presidente del Consiglio Matteo Renzi nello studio televisivo di turno, in questo caso a Otto e mezzo, ha commentato l’incontro fra il governo e le parti sociali sulla legge di stabilità.
Da queste parole sembra che per il nostro capo del Governo il lavoro sia una questione privata, che riguarda solamente i rapporti fra lavoratori e imprenditori nelle aziende, e non un momento di formazione del sé nella società, una dimensione fondamentale della cittadinanza.
Non avendo io nessun titolo per smentirlo, lascio che a farlo siano l’articolo 1 della nostra Costituzione e la lucida interpretazione che ne ha dato venerdì, in occasione della presentazione alla biblioteca Ariostea del volume “Ripartiamo dal lavoro. Anatomia, riconoscimento e partecipazione”, il professor Carlo Galli, celeberrimo studioso delle dottrine politiche dell’Alma Mater, presidente dell’Istituto Gramsci di Bologna e senatore “cooptato dal Pd di Bersani per presunti meriti accademici senza nemmeno le primarie”, come si è definito egli stesso con una buona dose di autoironia.
Cosa significa: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”? Perché i nostri costituenti hanno esordito così? Secondo Galli due sono i motivi. Prima di tutto questa frase sottolinea che “il soggetto si forma attraverso il lavoro”, secondo evidenzia che “il lavoro è legame sociale”. Dunque il lavoro è occasione di crescita del soggetto attraverso la propria creatività, soggetti tra cui poi crea relazioni: “Il problema è come e a quale fine tiene insieme gli uomini”. Secondo i costituenti “il lavoro è il cuore della politica” perché “vi si manifestano i principali rapporti di potere che regolano la società, che poi vengono istituzionalizzati nelle forme democratiche”.
Se riconosciamo e accettiamo questa “originaria politicità del lavoro”, sancita dalla nostra Carta Costituzionale, allora “non possiamo accettare che il lavoro sia una questione che non riguarda le istituzioni, ma solo i cittadini come privati lavoratori e i datori di lavoro, i loro diritti non possono essere trattati come ostacoli al libero e regolare funzionamento della macchina produttiva, mentre il compito della politica e del governo è solo ‘raccogliere i feriti’, cioè aiutare chi perde il lavoro attraverso gli ammortizzatori sociali”.
Questa è una concezione neoliberista in contraddizione con la Costituzione, che delinea un modello di società “non fondata sul mercato”, ma appunto sul lavoro come una delle dimensioni principali di attuazione della partecipazione dei cittadini alla vita della comunità.
Potremmo fermarci qui, ma vorrei aggiungere un altro paio di osservazioni sul ruolo della Repubblica in tema di lavoro: “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori” (art. 35 commi 1 e 2), “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3 comma 2).

Caterina de’ Medici, prorompente dark lady del Cinquecento

STANDING OVATION: I PIU’ ACCLAMATI SPETTACOLI TEATRALI DEL XXI SECOLO
“Caterina de’ Medici”, regia di Paolo Poli, Teatro Comunale di Ferrara, 11 e 12 marzo 2000

Figlia di Lorenzo II duca di Urbino, Caterina de’ Medici sposò nel 1533 il futuro re di Francia Enrico II. Nel 1560 divenne reggente, al posto del figlio Carlo IX ancora in minore età. Sino al 1563, ma anche in seguito, condizionò pesantemente la politica francese, destreggiandosi con astuzia e spregiudicatezza soprattutto riguardo al problema delle fazioni religiose all’epoca in lotta fra loro. Questo è il canovaccio storico sul quale Paolo Poli si è basato per la stesura e l’allestimento del suo nuovo lavoro teatrale, come di consueto una sorta di musical, dal titolo appunto “Caterina de’ Medici”. Ma è stata in specie la prorompente personalità dell’affascinante personaggio cinquecentesco a fornire le linee essenziali dell’interessante rivisitazione, in chiave ironica e attualizzata, delle vicende narrate in almeno una decina di famosi romanzi di Alexandre Dumas.
“Sfaccettata e dura come un diamante, questa strepitosa dark lady cinquecentesca non ha ancora smesso di far parlare di sé. La sua esistenza è stata un lungo, travolgente romanzo d’amore con il potere e la sua disinvoltura nella scelta dei mezzi per conservarlo avrebbe fatto trasalire Machiavelli”. Assolutamente priva di scrupoli, intelligente come solo il cardinale Richelieu seppe esserlo in Francia alcuni decenni più tardi, e perversa, come la più spudorata delle cortigiane, la protagonista è attorniata in scena da una folta schiera di comprimari: i tre figli Francesco II, Carlo IX ed Enrico III, l’infido duca di Angiò, i nemici duchi di Guisa, l’insopprimibile Enrico di Navarra, la bella e intraprendente Maria Stuarda, quindi il mago astrologo Ruggieri e poi buffoni, dottori, profumieri, ecc.
Paolo Poli sfoggia per questa commedia la compagnia delle grandi occasioni: Vittorio Attene, Paolo Calci, Alfonso De Filippis, Paolo Portanti, Giovanni Scifoni, Rosario Spadola (ciascuno dei quali non interpreta mai meno di tre personaggi), oltre ovviamente a se stesso nel ruolo della celebre regina. Le scene sono di Emanuele Luzzati, i costumi di Santuzza Calì, le luci di Alessandro D’Antonio, le musiche di Jaqueline Perrotin, le coreografie di Claudia Lawrence e Alfonso De Filippis. Il testo è stato composto a quattro mani da Paolo Poli e Ida Omboni, la regia è dello stesso Poli.

Arzustèla, accogliendo l’alba
rivolti a settentrione

Ex-Autogrill Cantagallo, Casalecchio sul Reno, 1 dicembre (quarta parte) by Wu Ming 1

4.SEGUE – Tra due ore sarà l’alba, ci prepariamo ad accoglierla.
Dal tetto dell’autogrill, da cento bocche, si alza il vapore dei nostri respiri.
Lucifero, astro del mattino, Venere, unico pianeta dal nome di donna, è visibile a oriente. Splende nel margine destro del mio campo visivo.
Rivolti a settentrione teniamo gli occhi chiusi, lingua contro il palato, respiriamo dal naso. I denti non devono toccarsi.
Mani rilassate davanti all’addome, tra ombelico e pube.
Chi ha una sola mano, le usi comunque entrambe.
Immaginiamo di sorreggere una sfera, una sfera nera, ne saggiamo il peso. I polmoni sono pieni. Ora espiriamo e la sfera inizia a ruotare in senso antiorario, accarezzando palmi e polpastrelli. Sentiamo il movimento, lo assaporiamo, avvertiamo l’attrito leggero della superficie liscia. A ogni espirazione la
rotazione accelera, e quando inspiriamo torna a farsi più lenta.
Avviene diciotto volte.
Da qui in avanti, a ogni espirazione la sfera si ingrandisce ed entra nell’addome, fino ad accarezzare i reni. Inspiriamo, la sfera rallenta e torna alle dimensioni di prima, confinata nel cerchio delle mani.
Avviene novanta, centottanta volte. Le mani sono piene di fuoco.
Adesso, mentre la sfera si espande e si contrae, immaginiamo di ingrandirci a nostra volta, a ogni espirazione siamo sempre più alti. Accanto a noi, all’altezza degli occhi, vediamo la luna.
Puntiamo lo sguardo sulla stella del Nord. Polaris, ultimo astro del Piccolo Carro. Guardiamola: la sua luce viaggia nel vuoto per più di quattrocento anni, prima di raggiungere i nostri occhi e
attivare i fotorecettori.
La luce che vediamo adesso fu irradiata mentre l’Inquisizione processava Galileo, il sapiente a cui dobbiamo il nostro telescopio.
La luce che vediamo adesso fu irradiata mentre s’iniziava a costruire il Taj Mahal, un palazzo lontano, molto più antico del Cantagallo.
La luce che vediamo adesso fu irradiata quasi tredici miliardi di secondi fa.
Tratteniamo il respiro per tredici secondi.
Moltiplichiamo per mille il tempo di questa apnea.
Moltiplichiamo per mille il risultato.
E’ un millesimo del tempo impiegato dalla luce di Polaris per arrivare a noi.
La luce che irradia adesso non la vediamo. La vedrà, tra quattro secoli, chi verrà dopo di noi.
Ora guardate la stella del nord, guardatela con nuovi occhi.
Un giorno, tra dodicimila anni, Polaris verrà rimpiazzata e in quel punto del cielo, al suo posto, vedremo Vega.
Salutiamo Polaris, e ringraziamola. Ha svolto un buon lavoro.
Diamo il benvenuto a Vega.
Ora guardiamo giù, verso il pianeta. Giù, verso il pianeta, tra dodicimila anni.
Dove un tempo sorgeva Bologna, tutto è coperto da un grande bosco.
La sfera entra nell’addome per l’ultima volta. Mentre lo fa si rimpicciolisce fino a scomparire. Portiamo le mani poco sotto l’ombelico e massaggiamoci in senso antiorario.
Immaginiamo di rimpicciolire a nostra volta, a ogni espirazione siamo sempre più bassi, finché non torniamo a terra.
Il Cantagallo non c’è più. Al suo posto, una radura erbosa.
Intorno a noi solo alberi.
Non siamo soli. Altri umani sono intorno a noi, camminano senza urtarci ma non ci vedono.
Siamo andati avanti dodicimila anni meno due ore. Di nuovo mancano due ore all’alba. Questi umani, nostri discendenti, si preparano ad accoglierla, rivolti a settentrione. Il loro sguardo cerca e trova Vega, la stella del nord. Tra le loro mani la sfera si espande e contrae. Nella loro mente, sono già più alti dell’atmosfera. Possono toccare la luna.
Un giorno, fra tredicimila anni, Vega verrà rimpiazzata e in quel punto del cielo, al suo posto, gli umani vedranno di nuovo Polaris.
Salutano Vega, questi nostri discendenti, e la ringraziano. Ha svolto un buon lavoro. Danno il bentornato a Polaris, e noi con essi.
Ora, da quelle altezze guardano giù, verso il pianeta, verso di noi, ma non vedono noi.
Vedono come sarà tra tredicimila anni.
Tra poco scenderanno e, accanto ad essi, i loro discendenti guarderanno verso nord.
E così via, lungo la catena dei millenni, tra glaciazioni, disgeli, nascite e declini di civiltà, fino a vedere la notte dell’ultimo rituale.
Ora torniamo indietro, torniamo qui, al Cantagallo. Ogni espirazione ci porta indietro di mille anni.
Il sole comincia a sorgere. Ci attende una giornata di lavoro, le mani sono colme di energia.
Diamoci da fare.

Dogato e Bologna, ottobre – dicembre 2008.
A Graziano Manzoni, “in memoriam”.

LEGGI LA PRIMA PARTE
LEGGI LA SECONDA PARTE
LEGGI LA TERZA PARTE

Racconto apparso nell’antologia “Anteprima nazionale. Nove visioni del nostro futuro invisibile.” A cura di Giorgio Vasta, Minimum Fax, Roma 2009.
© 2009 by Wu Ming 1, [
vedi]

Dio contro l’Io, quando i Visitatori siamo noi

Ultimi appelli, stasera e domenica pomeriggio, per godere dello spettacolo “Il Visitatore” tratto da un’opera di Éric-Emmanuel Schmitt con protagonisti Alessandro Haber e Alessio Boni. In questi giorni fra gli spettatori del Teatro Comunale l’entusiasmo è stato contagioso.

Le cinque del pomeriggio è un orario difficile da gestire. Lo confessa Haber, che, scusandosi con i presenti per il leggero ritardo, è accolto da un fiume di applausi e da flash di macchine fotografiche con zoom potentissimi. Lo conferma la compagnia, riunita davanti al tavolo del Ridotto per rispondere alle domande di un pubblico in trepidante attesa. Lo comprendono gli spettatori, tanti e incuriositi, che, ieri pomeriggio, si sono precipitati in Teatro Comunale per assistere all’incontro con il cast dello spettacolo “Il Visitatore”, in scena da giovedì e sino ad oggi pomeriggio alle 16.
La pièce, che, lo scorso giovedì, ha inaugurato la Stagione di Prosa 2014-2015 a Ferrara, vede il ritorno sul palco del Teatro Comunale dell’acclamata coppia Haber-Boni, protagonista della commedia Art nel dicembre 2011. Un ritorno in grande stile, a detta di chi ha già “gustato” l’opera messa in scena dal regista Valerio Binasco, il quale ha acceso i riflettori su un testo di Éric-Emmanuel Schmitt che, in Italia, è stato rappresentato solo una volta da Kim Rossi Stuart e Turi Ferro. Un ritorno che, sfidando l’insensibilità odierna, inchioda lo spettatore alla poltrona per affrontare quesiti seri ed esistenziali senza abbandonare la leggerezza di una commedia esilarante e commovente, scritta da Schmitt quando il teatro scomponeva la personalità di grandi uomini del passato al fine di studiarne le debolezze dell’animo.
E, in effetti, protagonista della pièce è nientemeno che il celebre dottor Freud, padre della psicoanalisi e, nello spettacolo, vecchio angosciato dagli inquietanti avvenimenti svoltisi in una sola notte. Quella del 22 aprile 1938. In una Vienna conquistata dai nazisti, infatti, Schmitt narra la disperata esperienza vissuta dallo psicoanalista a seguito dell’arresto della figlia Anna, interpretata da Nicoletta Robello Bracciforti, per aver insultato un caporale della Gestapo – alias Alessandro Tedeschi -. L’irruzione nell’abitazione di Freud del militare tedesco non fa altro che precedere la seconda “visita” con cui il protagonista dovrà confrontarsi, abbandonato in una stanza tagliata a metà e con una parte immersa nel buio. Sarà proprio da questa oscurità, infatti, che comparirà il coprotagonista dell’opera, il “disadattato fuori dalla norma” cui Binasco dà le sembianze di un barbone. Un clochard che, interpretato da Alessio Boni, afferma di essere Dio e dimostra al dottore di conoscere ogni segreto della sua vita, dando inizio a quel dialogo serrato in cui il Bene, il Male e l’Amore si mescolano tra loro per dare origine a domande senza risposta e a tentativi di spiegare il senso della vita.
Un dialogo che, dimostrando la forza delle parole, è stato al centro dell’incontro svoltosi con il pubblico ieri pomeriggio. Coordinata da Massimo Marino, la presentazione ha visto Haber e Boni spiegare i tratti più nascosti dei loro personaggi, che, pur essendo destinati a fallire, “rappresentano ognuno di noi”. “Il Visitatore fa breccia nel cuore di Freud” ha spiegato Alessio Boni, che non ha rinunciato a tracciare le somiglianze tra la trama elaborata da Schmitt e un fool shakespeariano: “La trama mi ha ricordato la storia di Re Lear, il sovrano inglese spodestato che comincia a riflettere sui sentimenti e sul senso della vita aiutato dal Buffone Fool” ha aggiunto l’attore ai microfoni del Ridotto. Nessuna perplessità neanche sulla tenuta da clochard con cui Binasco ha dipinto la figura del Visitatore, la quale, secondo alcuni critici, potrebbe alterare l’ambiguità di un personaggio che afferma di essere Dio ma irrompe sulla scena come un diavolo pazzo e tentatore. “L’essenza c’è tutta. Penso che il regista, aprendo il confronto tra un dandy come Freud e un disadattato fuori dalla norma come il Visitatore abbia saputo evidenziare ancora di più la debolezza del padre della psicanalisi” ha spiegato Boni anticipando l’intervento di Haber.
“Freud crolla e, in realtà, rivolge delle domande a se stesso. E’ la storia di un uomo che, dopo aver dedicato la sua vita agli altri, risolvendone i problemi dell’animo, è costretto a fare i conti con i Punti Interrogativi della nostra esistenza: dove andremo? Perché tutto questo?”. Le parole di Haber rimbombavano nel silenzio del Ridotto e il pubblico sembrava immergersi nelle “domande vertiginose” che, come Binasco ha scritto nella Nota di Regia pubblicata nella brochure de Il Visitatore, la commedia ci pone nell’arco di 100 minuti.
E’ stato Boni a interrompere l’alienante atmosfera creatasi nella sala del Teatro Comunale, rivelando di non aver mai visto Haber “così mistico”. Un commento che, anticipando le domande conclusive, ha mostrato al pubblico la complicità con cui i due attori hanno dato inizio a una tournée lunga e impegnativa. “D’altronde, dobbiamo sempre trovare la forza di andare avanti” ha spiegato la compagnia approfondendo l’avventura “dietro le quinte”. Dall’importanza del testo al talento dell’improvvisazione, Haber e Boni hanno tracciato i caratteri di un’esperienza in cui “gli attori hanno giocato a risultare credibili”, come ha affermato l’affascinante interprete del “Visitatore” elogiando Tedeschi per aver reso il caporale nazista una figura personalissima. “D’altronde, è un gioco in cui tutti giocano” ha aggiunto Haber nella fase conclusiva dell’incontro, ammettendo di sentirsi “più buono e vivace”. Merito del personaggio interpretato? L’attore non approfondisce, limitandosi a elogiare il testo della pièce. Ma la lunga digressione psicologica, dedicata all’analisi di un uomo che, calata la maschera di psicoanalista dalla fama mondiale, lascia intravedere “i dubbi e le sofferenze di una società attanagliata da una crisi e morale” sembrano evidenziare una profonda intesa con il Freud portato in scena, questa sera, alle 21.
Un appuntamento da non perdere, a cui lo stesso Haber ha consigliato di partecipare perché “si uscirà dal teatro soddisfatti”. Ma, soprattutto, un appuntamento con noi stessi e con la forza delle parole, che, riscoperta da Schmitt e portata sul palco da Binasco, troverà nell’eccezionale dialogo messo in scena dal duetto il punto di partenza per un coinvolgimento trascendentale ed emozionale, in cui i massimi sistemi dell’Amore, dell’Odio e della Religione aprono le porte alle Domande un’umanità fragile e priva di vincitori. Un’umanità che, vagando nel buio del palcoscenico, è destinata a convivere con due sole certezze: la risposta “sì” e la bravura di una coppia come Haber e Boni che, ancora una volta, è capace di dirci veramente qualcosa.

Fiera del formaggio di Fossa, ‘l’ambra di Talamello’

A dargli il nome di “Ambra di Talamello” fu niente meno che il poeta Tonino Guerra. Il formaggio di fossa, una delizia della zona del Montefeltro, viene fatto stagionare nelle fosse scavate nella roccia arenaria, seguendo un’antichissima tradizione che affonda le sue radici addirittura nel Medioevo; rocce che assumono, una volta riaperte le fosse, un meraviglioso colore ambrato. Talamello, piccolo centro in provincia di Rimini, celebra questa domenica 9 novembre e la prossima questa prelibatezza con la XXIX edizione della “Fiera del formaggio di fossa”: il borgo, che conserva un patrimonio artistico di notevole interesse, diventerà una vera e propria terrazza del gusto, dalla quale si potrà ammirare il suggestivo paesaggio del Montefeltro, assaggiando i migliori piatti della tradizione. Re incontrastato della manifestazione sarà “l’Ambra di Talamello” da degustare presso i banchi della fiera e nei ristoranti del paese, che offriranno interessanti menù a tema, e da accompagnare con i migliori vini della zona.
Anche quest’anno non mancheranno i “gemellaggi gastronomici” con altre produzioni tradizionali dello Stivale, oltre a incontri, conferenze e spettacoli. E se all’evento “trine e formaggio” si fonderanno arte gotica e pittura, si potranno visitare la mostra fotografica “L’altro volto di Talamello” e le caratteristiche sculture di pane realizzate a mano. I bimbi delle scuole di Talamello inoltre, si trasformeranno in mini-guide turistiche per presentare le bellezze del paese, fra le quali spiccano il Museo-Pinacoteca “Gualtieri” e l’intero centro storico, che custodisce importanti opere come il “Crocefisso” di scuola giottesca (Giovanni da Rimini, 1300) e la ‘Cella’, adiacente al cimitero, affrescata nel 1437 da Antonio Alberti da Ferrara.

(dalla redazione di FuoriPorta)
Per saperne di più visita il sito FuoriPorta [vedi]

La chiave per una buona salute?
E’ questione di equilibrio

Il sistema nervoso autonomo è responsabile di funzioni vitali importantissime, quali il battito cardiaco, la digestione, l’eliminazione e così via. Esso è parte del sistema nervoso periferico e si occupa di tutte quelle funzioni che non sono controllate dalla nostra volontà. Esiste però anche un aspetto sottile di questo sistema che non è comunemente noto, ovvero che il sistema nervoso autonomo può essere usato per riportarci all’equilibrio se opportunamente attivato.

Il sistema nervoso autonomo è diviso in due rami, il simpatico e il parasimpatico, che rappresentano le “filiali” del sistema nervoso. Il simpatico è legato ad attività che richiedono che una mente vigile; il parasimpatico è legato alle attività più rilassanti, come dormire, mangiare e guardare la tv. Non abbiamo mai in funzione un solo sistema, sono entrambi necessari per far funzionare l’organismo.
Tra i due ci deve essere un giusto equilibrio che è la chiave per una buona salute. Le persone che attivano eccessivamente il loro sistema simpatico tendono a soffrire di stress e sintomi correlati, come problemi cardiaci, pressione del sangue alta e insonnia. Le persone che invece attivano prevalentemente il loro parasimpatico possono soffrire di depressione, avere mancanza di motivazione/ambizione e un sistema immunitario indebolito.

L’attivazione del sistema nervoso simpatico è responsabile della ‘lotta’ e della ‘fuga’: aumenta il battito cardiaco e rende il flusso del sangue più veloce, i muscoli sono tesi, i riflessi sono velocizzati e la digestione e l’eliminazione possono essere rallentate o bloccate completamente. In sostanza, attiva tutte le risposte primarie che sono in relazione con la vita.
Viceversa, il ramo parasimpatico, detto anche “il vago”, è responsabile del riposo, del recupero e del relax. L’attivazione del sistema nervoso parasimpatico diminuisce il battito cardiaco, rilassa i vasi sanguigni e i muscoli, consentendo al sangue di portare sostanze nutritive e i rifiuti fuori dalle proprie cellule. Stimola la digestione e rallenta la respirazione.

Fondamentalmente tutte le normali reazioni del corpo sono associate alle attività essenziali che si svolgono durante la giornata e al recupero. Le pressioni della società odierna, spesso sono molto impegnative e diventa difficile mantenere il giusto equilibrio tra questi sistemi, in modo da contrastare la disfunzione del sistema metabolico e l’accelerazione del processo di invecchiamento cellulare, aumentando l’insorgenza di malattie cardiovascolari, diabete, ictus, etc.
È necessario quindi riacquisire un equilibrio consapevole, imparando a gestire le proprie giornate in modo che quando si stimola troppo un sistema, si passi ad un’attività che metta in azione l’altro.
Ad esempio, al lavoro è importante prendersi delle pause durante la giornata; nel week-end, si dovrebbe evitare di dormire davanti alla televisione tutto il giorno.
Un consiglio è cercare di accostare attività lavorative stressanti e sedentarie con attività rilassanti ma allo stesso tempo energetiche, come ad esempio camminare a passo sostenuto o fare sport. E poi, subito dopo pranzo e dopo cena, 3000 passi per migliorare l’equilibrio fra i sistemi e sentirsi in forma!

Lo stile di vita è alla base della buona salute e del benessere.

L’INTERVISTA
Il centro Perez, un rifugio sull’orlo dell’abisso: “Qui si impara
ad affrontare la propria sorte”

“Questo è un luogo di esercizio quotidiano, di resilienza: un carattere del quale oggi si parla molto e che ben descrive l’atteggiamento mentale richiesto a una persona che ha subito un trauma grave e cerca di ricominciare a vivere”. A dirlo è Anna Perale, coordinatrice del centro Perez della Città del ragazzo di Ferrara. “E’ come parlare di amore sull’orlo di un abisso. L’abisso per queste persone c’è sempre, accompagna la loro esistenza. La consapevolezza che ciascuno ha della propria condizione e la sostanziale capacità di affrontare la realtà non prescinde da momenti di disperazione e dolore. Il senso di perdita è sempre in agguato. Ci si fa forza reciprocamente, si vive profondamente il senso di solidarietà. Qui si è senza maschere, affrontare la propria disabilità con serenità non è semplice: la serenità va continuamente sostenuta e sorretta”.
Per riuscirci, Anna, i suoi collaboratori Conrad Binder e Maria Grazie Aretusi, il tirocinante Marco Borgatti, la decina di volontari che dedicano una parte del loro tempo e delle loro energie al centro Perez, cercano di offrire ai 28 ospiti della struttura giornate piene e ricche di stimoli. La mattina dalle 8,30 alle 12,15 si lavora: attività di corniceria, tipografia, stampe digitali, assemblaggi manuali di varia natura su commissioni esterne, cioè lavori richiesti e pagati. Poi mansioni di orto-giardinaggio nello spazio esterno al centro, che occupa la palazzina fra l’edificio principale e la palestra della Città del ragazzo.

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Anna Perale, coordinatrice del centro Perez

“Il pomeriggio – riprende Anna, laurea in Farmacia e qualifica di educatrice professionale – alterniamo il laboratorio teatrale all’attività motoria, al ballo, ai canti corali”. Al corso di ballo può partecipare anche chi è in carrozzina o ha problemi di mobilità. Gli educatori della cooperativa Indaco sperimentano per la prima volta in Emilia Romagna tecniche di coinvolgimento che non escludono nessuno. I canti corali sono diretti da una giovane psicologa diplomata al conservatorio musicale: non hanno solo valore ludico, ma anche riabilitativo per chi soffre di afasia o disartria, cioè problemi nell’emissione e nella deglutizione causati, per esempio, dall’intubamento post coma.

Gli ospiti attuali sono tutti in età adulta, come Gianluca Melloni che ha raccontato su ferraraitalia la sua storia [leggi]. Il centro è intitolato a Francesco Perez, nobile veronese che nell’Ottocento cedette tutti i suoi beni e si mise al servizio dell’Opera fondata da don Giovanni Calabria, di cui la Città del ragazzo è parte. E’ sorto nel 1999 per fornire sostegno a persone con disabilità conseguenti a trami di varia natura: incidenti, ictus, trombosi, emorragie, ischemie…
“Nel tempo la vocazione della nostra struttura è mutata – racconta Anna Perale, in servizio dal 2006 -. All’inizio forniva essenzialmente un servizio mirato alla valutazione e al reinserimento socio-lavorativo dei traumatizzati. Poi si è progressivamente orientata alla formazione e alla riabilitazione. Comuni, Asl, Azienda ospedaliera, Opera Don Calabria sostengono questo progetto. Le leggi sull’inserimento lavorativo di persone con disabilità sono bellissime – afferma la coordinatrice – ma le aziende fanno fatica ad accettare persone con gravi inabilità. La maggiore collaborazione c’è da parte di enti pubblici, cooperative e imprese del terzo settore. Poi va fatta una considerazione: in un incidente stradale può essere coinvolto chiunque, ma i problemi vascolari normalmente colpiscono persone in età matura, dai 50 anni in su. E persone di questa età incontrano più ostacoli delle altre nel reinserimento”.
Il risultato è che il Perez si è progressivamente trasformato in un centro diurno specializzato, a sostegno di uomini e donne alle prese con una situazione della quale hanno consapevolezza. “A differenza di chi ha disabilità congenite, i nostri ospiti hanno lucida coscienza di un ‘prima’ e di un ‘dopo’ “. Il demone è l’evento che ha cambiato le loro vite. “Il lutto della perdita affiora di continuo. Per chi si trova in questa condizione l’accettazione del proprio stato è faticosissima”. Lo è anche per le famiglie: alcune resistono altre si disintegrano. “I genitori restano sempre accanto ai figli, mogli o mariti non sempre ce la fanno a sostenere i congiunti”.
E nel dolore emergono le sfumature caratteriali di ciascuno. “In generale chi si sente responsabile della propria sorte, per un’imprudenza o un eccesso compiuto, si pacifica con se stesso prima degli altri. Ma chi si reputa vittima non riesce a farsi una ragione di quel che gli è capitato. Non ci si rassegna. Non si perdona. Le domanda ‘perché io’, perché proprio a me’ ricorrono quotidianamente”. Insomma, con la disabilità si convive, con l’evento che ha sconvolto la vita è più difficile. “Ogni giorno si riapre il dialogo su questo. Canto e teatro costituiscono forme espressive che ci aiutano a dare sfogo a queste angosce e a rappresentare tutti i vissuti. La cosa che più conforta è percepire che qui non si è giudicati ma sempre accolti”.
Ogni tanto ci sono momenti di tensione. “Per stemperarli un giorno, anziché incartarci nelle rimostranze, ciascuno ha scritto le cose che lo fanno stare bene. Le abbiamo raccolte in un elenco”. Fra le tante si legge: “Mi fa stare bene sentirmi nel cuore e nei pensieri degli altri”.

Riccardo Roversi, sereno
post-futurismo

Fra le nuove generazioni poetiche, storicamente parlando dal/del duemila, parallelamente a sterili imitazioni del passato sempre care ai letterati italiani, è possibile osservare almeno due direzioni innovative (a livello, ora, ovviamente succintissimo). L’una, erede del futurismo e delle avanguardie, continua a sperimentare e scoprire il nuovo, tra “poesia totale” (Adriano Spatola) e neoavanguardia (Paolo Ruffilli); l’altra pur attraversando tale tradizione del nuovo, viene anche da un altro moderno, tra simbolismo ed ermetismo, inventando la nuova bellezza con sguardi forse meno eretici ma più sereni. Fra i nuovi poeti, Riccardo Roversi opta probabilmente per quest’ultimo gioco poetico, come traspare nelle opere finora pubblicate. In “Serenezze”, “Nonostante” e “Proesie”, i versi e le parole sono combinate ed elaborate con mano leggera ma persuasiva, la poesia come Farfalla intelligente in volo libero… La poesia di Roversi nasce dal linguaggio, ma è un al di là, innesta nel simbolo le varianti e le possibilità dell’anima umana, vaghe ma al passo coi tempi, illuminate; nello stesso tempo l’autore miscela la parola nella bellezza, senza eccessi appunto linguistici, distante dall’intellettualismo di certa poesia italiana. Nell’ultimo, Roversi incontra il futurismo della parola che si abbandona alla sperimentazione, come in “Nonostante”, quando il paesaggio in primo piano evoca la “Padania” di Corrado Govoni o lo stesso Paolo Buzzi, forse il più classicheggiante dei poeti futuristi, dove Roversi in “Serenezze” e “Proesie” insiste felicemente sul verso prezioso e musicale. Tale non frequente alchimia tra sperimentazione e nuovo classicismo elettronico è poi consapevolmente emersa nelle opere successive, ovvero in “Trappola Minimale”, soprattutto con il canovaccio poetico-teatrale di “Periplo di Millennio” (Este Edition, 1999), più volte messo in scena a Ferrara e altrove con la regista parigina Alexandra Dadier: quest’ultimo percorso, appare più prossimo al Teatro d’avanguardia e alla Poesia sperimentale, tra surrealismo e teatro dell’assurdo remixati in chiave postmoderna.
Un postmoderno, peraltro già post anch’esso, poiché – per così dire – di stile europeo o persino neorinascimentale, come nell’umanesimo italiano fiorentino, come trend successivo chiarissimo anche nel Roversi critico letterario (‘segnalato’ anche nel libro manifesto “Nuova Oggettività” a cura di Sandro Giovannini), o (tra le numerose opere più recenti, tra letteratura, guide su Ferrara e monografie ecologiche) in “Canzoni Scordate” (Este Edition, 2011). Parole e segni oltre l’esperimento artistico, verso – ora – un’avanguardia virtuosa evidenziata anche da chi scrive in “Futurismo per la Nuova Umanità” (Armando editore, 2012). Recentemente, Riccardo Roversi (come si sa anche giornalista del Resto del Carlino Ferrara e editore), già noto per un antologico volume sulla parola ferrarese contemporanea (“Percorsi Letterari Ferraresi, Liberty House), ha dato alle stampe una esemplare ricognizione sulla letteratura estense dal Rinascimento a oggi: 50 letterati ferraresi, da Celio Calcagnini e Pietro Bembo a Corrado Govoni e Giorgio Bassani, etc., recuperando anche parecchie figure del passato di grande stoffa letteraria perdute o quasi nella memoria attuale. E con la casa editrice Este Edition ha curato una recente rassegna di gran spessore nazionale “Autori a Corte”, con ospiti i vari Achille Occhetto, Roberto Pazzi e Marcello Simoni. Ha collaborato e collabora con numerose riviste: tra esse Roma Futurismo Oggi e Teatro.it (Portale del Teatro Italiano), Ferraraitalia ecc.

da Roby Guerra “Dizionario della letteratura ferrarese contemporanea”, Este Edition, La Carmelina ebook, 2012

Per saperne di più di Riccardo Roversi visita il suo sito [vedi] e quello di Este Edition [vedi].

“Vita agli arresti
di Aung San Suu Kyi”,
dal 18 novembre al 14 dicembre
al Teatro Rasi di Ravenna

da: Teatro delle Albe

di Marco Martinelli

ideazione Marco Martinelli e Ermanna Montanari con Ermanna Montanari,
Roberto Magnani, Alice Protto, Massimiliano Rassu incursione scenica Fagio
musica Luigi Ceccarelli spazio scenico e costumi Ermanna Montanari
luci Francesco Catacchio, Enrico Isola montaggio ed elaborazione video Alessandro Tedde, Francesco Tedde realizzazione suono Edisonstudio Roma foto di scena Enrico Fedrigoli regia Marco Martinelli produzione Teatro delle Albe – Ravenna Teatro
in collaborazione con ERT Emilia Romagna Teatro Fondazione

Inizio spettacolo ore 21, domenica ore 15.30. Riposo il lunedì e il giovedì

“Tutto parte dalla domanda con cui si apre questa Vita: è distante la Birmania? Evidentemente no. È ‘poco lontano da qui’, come ogni luogo del pianeta. La Birmania nella nostra Vita è una maschera per parlare anche di noi. Si racconta il lontano per trovarlo sorprendentemente ‘prossimo’.
C’è qualcosa di scandaloso nella vita di Aung San Suu Kyi: la mitezza d’acciaio, la compassione, la ‘bontà’, un termine che avrebbe fatto storcere il naso a Bertolt Brecht. La nostra Vita è anche un dialogo con Brecht, con quella Anima buona del Sezuan che qualche anno fa volevamo mettere in scena. Non lo facemmo allora, e questa Vita ci ha spiegato anni dopo il perché. La ‘bontà’ intesa come la intende Aung San Suu Kyi, e come prima di lei una teoria di combattenti, da Rosa Luxemburg a Simone Weil, da Gandhi a Martin Luther King, da Jean Goss a Aldo Capitini, (più i tanti, innumerevoli ‘felici molti’ di cui ignoriamo il nome), è scandalo in quanto eresia, ovvero, etimologicamente, scelta: si sceglie di non cedere alla violenza, alla legge che domina il mondo, si sceglie di restare ‘esseri umani’: nonostante tutto.
Interrogarci sulla vita di Aung San Suu Kyi ha significato interrogare il nostro presente: cosa intendiamo per ‘bene comune’? Per ‘democrazia’? Cosa significano parole come ‘verità e giustizia’? Ha senso usare queste parole, e come? Non sono ormai usurate, sacrificate sull’altare della chiacchiera dei media? O hanno senso proprio partendo dalla volontà di un sereno, paradossale, gioioso ‘sacrificio di sé’? Di un silenzioso, non esibito eroismo del quotidiano? Di un cercare nel quotidiano ‘ciò che inferno non è’, e dargli respiro, spazio, durata?”

Marco Martinelli

L’INCHIESTA
Salute a rischio: “Ripristinare l’equilibrio bioenergetico
e disintossicarsi”

Intolleranze alimentari, allergie, intossicazione spesso nemmeno riconosciute come tali, “malattie autoimmuni”… Viviamo in un ambiente fortemente inquinato, continuamente sottoposti a rischi e insidie per la nostra salute. Dalla scienza medica “ufficiale” non sempre arrivano risposte soddisfacenti. Iniziamo un viaggio nei sentieri della medicina alternativa.

“Il medico dovrebbe tornare a fare il terapeuta, senza deliri di onnipotenza”. Che a sostenerlo sia proprio un medico rende l’affermazione particolarmente significativa. “Terapia significa ‘aiutare’, aiutare il nostro organismo a ritrovare il proprio equilibrio”.
Il discorso, partito dalla medicina ‘ufficiale’ e transitato per quelle alternative, è scivolato sulla fitoterapia e sulla possibilità che i benefici che ne derivano possano talvolta essere indotti da una sorta di effetto placebo. “Poco conta – ammette il dottor Angelantonio Pedata – quel che importa è il risultato e il benessere dell’individuo”.

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Il professor Angelantonio Pedata riceve i pazienti a Ostia e a Ferrara

Il dottor Pedata ha quarant’anni di esperienza alle spalle e una specializzazione in pediatria. Da tempo segue un approccio olistico, ossia orientato alla valutazione dell’equilibrio complessivo dell’organismo. Ha un ambulatorio a Ostia e ogni 15 giorni è a Ferrara per incontrare i suoi pazienti. “La prima cosa che devo capire è perché quella persona è seduta davanti a me, qual è il sintomo, il disagio che avverte. Ma questo non basta: devo sapere chi ho dinnanzi, come è fisiologicamente: come mangia, come dorme, come va di corpo, come sono le mestruazioni, che cosa c’è nella sua storia medica (che cosa t’abbiamo fatto noi medici! – scandisce con amabile autoironia – T’abbiamo tolto, tonsille, appendice, imbottito d’antibiotici…)”.
Insomma, non si parla della ‘malattia’ ma dell’equilibrio di un individuo. “Per comprendere la patologia devo inquadrare il soggetto, le sue componenti mentali, emozionali, caratteriali…”.
L’approccio è sostanzialmente differente da quello cui siamo ormai abituati. La sensazione è chi il dottor Pedata applichi i fondamenti della cura così come li concepisce il filosofo Paul Ricoeur, nel senso di reale presa in carico, di solidale alleanza medico-paziente per il ripristino delle condizioni di benessere. Anche nella diagnostica non segue i percorsi convenzionali. “Dopo un approfondita indagine sulla persona, mi avvalgo delle tecniche della biorisonanza e della bioimpedenza, verificando la risposta dell’organismo”. Alla base di questo metodo c’è l’idea che la salute è il risultato di un complessivo equilibrio energetico.
Un comune disturbo viene analizzato non solo comparando i valori rilevati con quelli standard, ma considerando stili e abitudini di vita del paziente poi applicando in fase terapeutica i principi della bioenergia. “Questo tipo di approccio – sostiene Pedata – è molto diffuso in Paesi come Austria e Germania, mentre da noi è demonizzato e ridicolizzato. L’Ordine dei medici a riguardo non si pronuncia…”.

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Angelantonio Pedata ha un approccio di tipo olistico

Cerchiamo allora di capire meglio questo sistema di cura basato sul riequilibrio energetico. “Il punto di partenza – spiega il medico – è la valutazione dei flussi negativi che l’ambiente esercita sull’essere umano. Oggi si parla molto di malattie ‘autoimmuni’. Il problema è che il sistema-uomo è andato in tilt a seguito delle continue aggressioni che subisce a causa dell’inquinamento, di cibi adulterati, dei farmaci stessi… Così per difesa spara in tutte le direzioni, cannoneggia le formiche!”.
Per tutelarsi dai rischi occorre agire preventivamente “curando le persone quando ancora non presentano sintomi di cedimento massivo – spiega Pedata – Bisogna essere attenti ai segnali, ai primi disagi e contrastare il malessere con terapie chelanti”, ossia con sistemi orientati a eliminare le tossine che si accumulano nell’organismo e nel sangue.
Il sistema è quello del drenaggio, della disintossicazione. Da cosa? “Dai metalli che assorbiamo: il ferro, il piombo, il mercurio, l’alluminio, il cadmio. Stanno ovunque: nei cibi, nell’acqua, nelle sigarette, nell’aria, nelle scatole in cui si conservano gli alimenti, nei manufatti con i quali siamo costantemente in contatto… E sono alla base di tante comuni patologie: cefalee, insonnia, depressione, ansia, irritabilità, coliti, ma anche allergie, perdite di memoria, osteoporosi, alzheimer”.
Negli Stati Uniti questo tipo di intervento è molto praticato ormai da tempo. Sono i rimedi agli effetti della moderna civiltà. Basti pensare che la quantità di piombo nel nostro organismo nel corso degli ultimi cento anni è aumentata di 500 volte…
Il dottor Pedata applica con successo i suoi metodi. Da molti anni ha virato su questo versante rimettendo in discussione l’approccio tradizionale che spesso si rivela perdente. “A Ostia sono attivo da sempre, a Ferrara da un anno svolgo il mio lavoro collaborando con il dottor Marco Morelli, un collega che si occupa di equilibrio neuro-motorio, specializzato in patologie rachidee e problemi posturali. E” lui che mi indirizza la maggior parte dei pazienti. Inizio ogni processo di disintossicazione con l’impiego di farmaci omeopatici e lo porto avanti fino al ristabilimento dei normali equilibri bioenergetici della persona in cura”.

1. CONTINUA

LEGGI LA SECONDA PARTE DELL’INCHIESTA
(Salute a rischio. Morelli: il benessere è nell’equilibrio delle energie vitali)