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LA STORIA
Il sogno di Ezra Pound
eliminare il debito e l’usura

“L’usurocrazia (potere degli usurai, ndr) fa le guerre a serie. Le fa secondo un sistema prestabilito, con l’intenzione di creare debiti”. E’ sufficiente sostituire il termine “guerra” con “speculazione” o “deflazione programmata” e la frase è facilmente riconducibile alla situazione italiana attuale. Invece questa affermazione è stata concepita nel 1944. Bruciava ancora sulla pelle degli europei la catastrofe dalla Seconda Guerra mondiale e l’orrore nazifascista. Ma c’è chi, senza salire sul carro del vincitore, riesce ad analizzare il conflitto, lontano da retorica e ipocrisia. Uno dei pochi è Ezra Pound.

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Ezra Pound, una figura controversa

Ezra Weston Loomis Pound nasce ad Hailey nel 1885, compie i suoi studi alla Cheltenham High School, allo Hamilton College di Clinton e all’Università di Pennsylvania. Nel 1908 lascia gli Stati Uniti per raggiungere l’Europa e frequenta i circoli degli intellettuali di Gibilterra, Venezia, Londra. Nel 1920 abbandona la conservatrice Londra per raggiungere Parigi, palcoscenico per i movimenti di avanguardia culturale dove frequenta personalità del calibro di Francis Picabia, Ernest Hemingway, Pablo Picasso, Erik Satie e James Joyce. Nel 1924 si stabilisce definitivamente a Rapallo, in Italia, stanco dell’atmosfera urbana parigina. Ed è proprio in Italia che inizia la storia dolorosa e turbinosa del poeta americano. Negli anni precedenti la Prima Guerra Mondiale, a Londra, Pound aveva maturato una personale e complessa visione del mondo e della società, riconoscendo le forti criticità del sistema e della dottrina capitalista, così come quella marxista. Fu proprio questa sua convinzione che lo spinse a esprimere apprezzamento per i provvedimenti sociali del regime fascista di Mussolini in favore dei lavoratori, le opere pubbliche e la ricerca di una politica alternativa al liberismo, in cui Pound riconosceva la principale causa delle diseguaglianze sociali.
E proprio in Italia approfondisce lo studio di una nuova dottrina economica e sociale sintetizzata in saggi pubblicati sia in lingua italiana che inglese, come ‘Abc of Economics’, ‘What is Money for?’, ‘Lavoro e Usura’. Questi testi sottolineano lo spirito poliedrico di Ezra Pound, poeta, sociologo e attento osservatore della società. ‘Lavoro e Usura’, pubblicato nel 1954, viene scritto verso la fine della Seconda Guerra Mondiale e rappresenta una lucida analisi delle cause e dello svolgimento di uno dei conflitti più sanguinari della storia dell’uomo. E questa onestà costerà cara a Pound, come vedremo. ‘Oro e Lavoro’, primo dei tre saggi di ‘Lavoro e Usura’, si apre con la visione onirica della Repubblica dell’Utopia, raggiunta per caso da Pound nel corso di una passeggiata lungo la Via Salaria. E’ una Repubblica ridente, equilibrata e onesta grazie alle leggi vigenti e all’istruzione ricevuta sin dai primi anni di scuola. Gli abitanti di Utopia attribuiscono la propria prosperità ad un singolare modo di riscuotere l’unica tassa che hanno, che ricade sulla moneta stessa: su ogni biglietto del valore di cento il primo giorno di ogni mese viene imposta una marca del valore di uno e “il governo, pagando le sue spese con moneta nuova, non ha mai bisogno di imporre imposte, e nessuno può tesorizzare questa moneta perché dopo cento mesi essa non avrebbe alcun valore. E così è risolto il problema della circolazione”.

Nella Repubblica dell’Utopia, i cittadini “non adorano la moneta come un dio, e non leccano le scarpe dei panciuti della borsa e dei sifilitici del mercato” perché la moneta viene riconosciuta come mero mezzo di scambio, senza cadere nell’erronea distorsione di riconoscerla come merce. Pensando alla situazione europea attuale è evidente il perenne errore della dottrina economica neoclassica (o neofeudale?) con cui non si riesce a instaurare un sistema economico funzionale all’economia reale. Secondo Pound la Repubblica dell’Utopia è un paese sano, libero dall’attività criminale dell’usura e dalle iniquità di borsa e finanza; i cittadini hanno creato una propria economia, funzionale ai propri bisogni e in cui è difficile rimanere abbindolati dalle distorsioni della finanza. Segue all’arguta metafora la descrizione della “Precisione del reato” in atto Pound parte addirittura dal 1694: viene fondato il Banco d’Inghilterra e lo stesso fondatore Paterson dichiarò chiaramente il vantaggio della sua trovata: la banca trae beneficio dell’interesse su tutto il danaro che crea dal niente. Pound chiama questa istituzione un’ “associazione a delinquere”.
Paradossalmente è proprio nell’ultimo anno che la Banca d’Inghilterra ha ammesso che la moneta viene creata dal nulla. Così come allora, ciò succede oggi.

L’intellettuale americano ovviamente riconosce la funzione potenzialmente utile di banche e banchieri, essi forniscono una misura dei prezzi sul mercato e allo stesso tempo un mezzo di scambio utile alla nazione, “ma chi falsifica questa misura e questo mezzo è reo.” Quindi è proprio il concetto di sovranità popolare e nazionale che viene sottolineato, evidenziando l’importanza di avere diretto controllo sul proprio credito e su una Banca Centrale nazionale e pubblica per scongiurare i rischi che derivano dal lasciare il proprio portafoglio ad un istituzione straniera non controllabile. Si può trovare facilmente un parallelismo con la situazione attuale: l’Italia, come gli altri stati federati europei, non ha gli strumenti per controllare un organo come la Banca Centrale Europea, di fatto una banca privata che eroga prestiti a debito.
Pound arriva quindi a delineare l’immenso potere dato in mano all’Usurocrazia. E proprio a questo punto che il poeta arriva a parlare della guerra. Le guerre vengono scatenate dall’Usurocrazia per mettere sotto il giogo del debito le nazioni sotto attacco finanziario. L’obbiettivo della finanza è costringere i debitori a rilasciare le proprietà attraverso la contrazione della circolazione monetaria. Questo è ciò che successe nel 1750 in Pennsylvania dove la Corona Inglese soppresse la carta moneta per stroncare un’economia che poteva diventare pericolosa per gli interessi del Regno Unito.
Ezra Pound nel programma radiofonico «Europe calling, Ezra Pound speaking», durante la guerra, sostenne che le colpe dello scoppio del conflitto non erano da imputare solamente a Mussolini e a Hitler ma anche agli speculatori della grande finanza che aveva interesse a far indebitare Italia e Germania. Pound, che nel 1933 viene ricevuto da Mussolini per esporre il proprio pensiero economico, afferma che la finanza internazionale si è infuriata venendo a conoscenza della mire italiane di raggiungere la sovranità economica, l’autarchia e di volersi sottrarre al grande ricatto del debito. Il poeta scrive a chiare lettere che “una nazione che non vuole indebitarsi fa rabbia agli usurai”.

Ma cosa è necessario affinché il ricatto dell’Usurocrazia vada in porto? Pound risponde che la colpa è da identificare nella nostra ignoranza. Un’ignoranza che deriva dalla disinformazione e dalla velleità della stampa, che è fondamentalmente controllata dalla stessa Usurocrazia. Viene citato l’odioso esempio degli advertisers, le grandi ditte e istituti finanziari che comprano pagine “pubblicitarie” nei giornali americani: “è idiota lasciare le fonti d’informazione della nazione nelle mani di privati irresponsabili, talvolta stranieri”. E quindi l’ignoranza e la velleità che permette la pratica dell’usura che altro non è che una tassa prelevata sul potere d’acquisto senza riguardo alla produttività e all’effettiva possibilità di produrre. Riguardo la pratica dell’usura Pound consiglia, ispirandosi al De Re Rustica di Catone, di avere la stessa opinione che potrebbe avere una vittima del suo assassino.

Per sottolineare il carattere di libero pensatore del poeta americano, egli si espresse anche duramente circa l’antisemitismo che caratterizzava il regime fascista e nazista. Egli dichiarava fosse inutile e ingenuo far ricadere le colpe sul popolo ebraico, e che si dovesse invece indirizzare la lotta contro l’Usurocrazia e la finanza, il vero nemico, che non ha mai avuto razza.
Ma Pound pagò cara questa sua onestà intellettuale da uomo e pensatore radicalmente libero. Il poeta fu prelevato dalla sua casa a Rapallo da un commando partigiano e consegnato agli Alleati.
La notte tra il 15 e 16 novembre 1945, all’uscita del campo di concentramento del Disciplinary Training Camp di Pisa, in una jeep scoperta americana veniva trasportato Pound, anziano e malconcio prigioniero ammanettato. Indebolito e stordito dai molti mesi di carcere duro, rinchiuso in una gabbia all’aperto, esposto al sole e alla pioggia, il poeta era atteso a Roma da un volo speciale che, dopo trenta ore di volo e un paio di scali, giunse a Washington. Qui l’aspettavano un processo per alto tradimento, il rischio della condanna a morte, la diffamazione, infine 13 lunghi anni di internamento nel manicomio criminale di St. Elisabeth.
Così finisce il sogno della Repubblica dell’Utopia di Ezra Pound; diffamato allora da chi per convenienza salì sul carro del vincitore e oggi da chi rimane accecato dall’ipocrisia ideologica.
Oggi le sue parole a noi suonano come la profezia del disastro a cui stiamo assistendo: “Con usura nessuno ha una solida casa di pietra squadrata e liscia”; lascia la sua pesante eredità intellettuale a noi, incapaci di scrivere sopra il portone del nostro Campidoglio “il tesoro di una nazione è la sua onestà”.

(Fonti: “Lavoro ed Usura”, Ezra Pound (1953) e “Canti Pisani”, Ezra Pound consultabili all’archivio Nello Quilici e alla Biblioteca Ariostea)

La mafia uccide solo d’estate

Il giovane Arturo, Palermola prima parola pronunciata alla nascita, “mafia” invece di “mamma”. La nostra storia, la nostra coscienza. Un film straordinario e commovente.

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la locandina

Ideato da un sorprendente “Pif”, classe 1972 – quella generazione che, come la mia, ricorda bene i terribili eventi di mafia del 1992 -, questo film è davvero profondo, toccante, un omaggio alle vittime della mafia, diverso e originale perché fa riflettere anche sorridendo, perché smaschera i segreti di un paese in una maniera e stile del tutto diversi da quelli a cui siamo abituati quando si scrive e si parla di malavita organizzata. Qui non ci sono eroi e antieroi, ma al centro vi è il piccolo Arturo, nato accanto alla figlia di Totò Riina, un bambino palermitano innamorato della piccola Flora, che fa di tutto per conquistarla, mentre omicidi e tappe importanti della nostra politica nazionale scorrono, inesorabili, sotto i suoi occhi giovani, increduli e impotenti.

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scena del film, Rocco Chinnici spiega ad Arturo la bontà degli iris alla ricotta

Arturo confessa il suo giovane amore solo a Rocco Chinnici, vicino di casa di Flora, vive tutta un’infanzia circondata da eventi di sangue, incrociando Boris Giuliano, capo della squadra mobile di Palermo, che gli rivela la bontà degli iris ripieni di ricotta, e assistendo involontariamente alle morti dello stesso Chinnici, di Pio La Torre o del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Tutto è visto attraverso gli occhi di due bambini: ogni volta che le cose sembrano andare bene, ogni volta che Arturo sta per dichiararsi a Flora ecco che uccidono qualcuno, scoppia una bomba o bisogna stare incollati alla televisione per seguire qualche grande e conturbante avvenimento.
Arturo ha il mito di Giulio Andreotti
, che da un lontano schermo televisivo, confessando di essersi dichiarato alla futura moglie al cimitero, sembra volergli suggerire come conquistare la propria amata. Di lui colleziona immagini e articoli di giornale, ha poster appesi nella cameretta, ne indossa le vesti in abiti da carnevale per i quali viene anche premiato.

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Il piccolo Arturo con il giornale che annuncia l’omicidio di Dalla Chiesa

Arturo, da grande, vuole fare il giornalista, lo capisce quando vince il concorso indetto da un giornale palermitano e, per un mese, vi scrive articoli. Corre allora in prefettura a intervistare Dalla Chiesa, entrando di soppiatto, e gli chiede: «l’onorevole Andreotti dice che l’emergenza criminale è in Campania e in Calabria. Generale, ha forse sbagliato Regione?». Uscendo, nota l’assurdità di combattere una guerra quando fuori dall’ufficio del Generale vi sono solo due agenti. Non sa che Dalla Chiesa ha rinunciato alla scorta. E invano aspetterà Andreotti al funerale di Dalla Chiesa, non sapendo che il presidente del Consiglio ai funerali preferisce i battesimi, come dichiarerà a un giornalista che gli chiede conto di quell’assenza. Il nostro protagonista cresce e all’improvviso si ritrova sdraiato nel suo letto, ventenne, ora consapevole di quello che sta accadendo intorno a lui. Cade anche Dalla Chiesa, grande lo sconforto quando si comprende che Andreotti non era una buona fonte (…), quando il primo dovere di ogni giornalista è proprio quello di verificare le proprie fonti.

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Arturo e Flora

I filmati di repertorio scorrono, la coscienza rivive. Flora è lontana da Palermo, partita per la Svizzera, ma qui la guerra di mafia continua. Arturo decide che Andreotti non è più il suo mito. Il poster che aveva appeso alla parete è caduto insieme alle speranze nell’esplosione che ha travolto il giudice Chinnici, l’unico che, prima di uscire, aveva letto il messaggio d’amore disegnato sull’asfalto per Flora, un cuore che salta, un amore che ancora non viene confessato. Arturo ha capito cosa sta succedendo e con lui l’ha compreso anche Palermo. La scena che raffigura questa nuova consapevolezza è quella dei funerali di Paolo Borsellino, quando, il 24 luglio 1992, l’intera città si riversa davanti alla cattedrale della S. Vergine Maria Assunta per urlare ai politici intervenuti alle cerimonie: «Fuori la mafia dallo Stato!». Emblematica è, poi, la scena in cui un picciotto spiega a Riina come funziona il climatizzatore e la sua accensione. Il boss è così ignorante che il picciotto perde la pazienza. Ma quando Riina preme il pulsante del telecomando davanti alla tv dove si vedono Falcone e Borsellino, si sente un’esplosione: «qualche giorno dopo Totò Riina capì come funziona un telecomando», commenta la voce narrante del regista, la strage di Capaci.

Arturo adulto si divincola fra le difficoltà di trovare lavoro, segue pure la campagna di Salvo Lima, ma solo per amore di Flora, e l’omicidio del politico lo porterà definitivamente a stare dalla parte giusta e a conquistare la donna amata in modo definitivo. Al loro figlioletto cercherà di far capire, passeggiando per Palermo e sfilando davanti a tante lucide lapidi commemorative, chi sono stati gli uomini che hanno lottato contro la mafia, muovendosi tra il drammatico e il comico, con coraggio e grande senso civico ma con la sensibilità e l’incoscienza di un vero poeta.

“La Mafia uccide solo d’estate”, di Pierfrancesco Diliberto (“Pif”), con Pif, Cristiana Capotondi, Ninni Bruschetta, Claudio Gioè, Italia 2013, 90 mn.

L’OPINIONE
E adesso anche la Bce vuole aumentare la moneta in circolazione

Alleluia. La Bce ha praticamente azzerato i tassi di riferimento portandoli allo 0,05%, ha alzato i tassi negativi sui depositi bancari da 0,1 a 0,2% e il board dei governatori delle banche Ue ha cominciato a discutere del quantitative easing, cioè del volume di denaro da riversare nell’economia reale, a famiglie e imprese, che si concretizzerà nei prossimi mesi. I mercati hanno esultato, lo spread Btp decennali – Bund tedeschi è finito a 138 punti base, mai così basso.
Anche se la decisione è stata giudicata “inaspettata” e “sorprendente” da diversi media finanziari internazionali, sorprendente non è affatto. Da diverse settimane il presidente della Bce Mario Draghi aveva lasciato capire che servivano misure stimolatrici dell’economia e per frenare la deflazione, favorendo politiche espansive nell’Eurozona. Ed è assai probabile che questa mossa sia stata al centro del meeting economico di Jackson Hole, negli Stati Uniti.

La Bce agisce quindi con una sua coerenza, seguendo l’esempio della Federal Reserve americana e della Banca centrale del Giappone. Ma le politiche monetarie non hanno effetti eterni, non agiscono sulla struttura delle economie. Queste manovre possono correggere i cicli economici per un breve periodo, ma se poi le economie non si riprendono, gli stimoli monetari perdono la loro efficacia. E non possono durare per sempre: negli Stati Uniti, la Federal Reserve ha deciso di diminuire gradualmente il programma di erogazioni di risorse finanziarie al sistema economico (cominciato con 40 miliardi di dollari al mese nel settembre del 2012) per farlo terminare nel prossimo mese di ottobre. Significativamente, il sito internet del Washington Post del 13 luglio scorso commentava che il quantitative easing (Qe) non sarà affatto il quantitative eternity (Qe-ternity).

Il dibattito nell’Eurozona non ha finora chiarito se il rigore deve essere a senso unico, un credo assoluto, oppure no; se le deroghe al patto di stabilità chieste dall’Italia e da altri Paesi saranno approvate o meno e cosa produrranno. Sicuramente la sola Bce non potrà far molto, se non si aggrediscono nodi strutturali. Come farlo? Mario Draghi ha chiarito che l’elasticità è possibile, ma rispettando le regole che l’Eurozona si è data, ed evocando la necessità di riforme precise nei mercati del lavoro e del prodotto, e migliorando l’ambiente economico in cui si muovono le imprese.
Criteri generali, in cui ognuno può muoversi nel bene e nel male. Ma a ben vedere la parola chiave dell’economia è una sola, e vale ormai per tutta l’Eurozona: ricostruzione, su basi nuove e più eque , e rapporti tra gli Stati improntati alla cooperazione, non a logiche di primazia più o meno mascherate. Altrimenti, a che serve l’Europa?

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Fecondazione eterologa al via in Emilia-Romagna. Le linee guida presentate dall’assessore Lusenti

da: ufficio stampa giunta regionale Emilia-Romagna

Politiche per la salute – Al via in Emilia-Romagna la fecondazione eterologa. Sarà gratuita nelle strutture pubbliche. L’assessore regionale Carlo Lusenti: “Norme che danno ordine, funzionamento e disciplina all’esercizio di un diritto riconosciuto dopo la sentenza della Corte Costituzionale”

Bologna – Al via in Emilia-Romagna la fecondazione eterologa, che sarà gratuita nelle strutture sanitarie pubbliche. La Regione ha predisposto le proprie linee guida, che definiscono le modalità di erogazione e i criteri di autorizzazione per le strutture sanitarie.
Il documento è stato presentato oggi in conferenza stampa dall’assessore alle Politiche per la salute Carlo Lusenti e, considerata la natura urgente del provvedimento, sarà adottato la prossima settimana con una delibera di Giunta. Il testo recepisce le linee guida nazionali, condivise e approvate ieri dalla Conferenza delle Regioni e Province autonome.
“Con l’accordo raggiunto ieri – ha affermato Lusenti – le Regioni hanno assolto in modo molto tempestivo all’impegno preso a metà agosto: condividere regole comuni di funzionamento che rendano esigibile per le coppie un diritto riconosciuto dopo la sentenza della Corte Costituzionale”.
Già dalla prossima settimana, non appena entrerà in vigore la delibera regionale, le coppie potranno recarsi nei ventuno centri – pubblici e privati – di procreazione medicalmente assistita presenti in Emilia-Romagna, per effettuare i colloqui con i medici, ai quali compete la decisione di consigliare la tecnica più idonea per la coppia.
“Le linee guida – ha spiegato l’assessore – danno ordine e disciplinano l’esercizio di un diritto, e al tempo stesso garantiscono equità di accesso alle prestazioni e sicurezza per la salute dei cittadini che ricorrono alla fecondazione eterologa”.
Per quanto riguarda il tema economico, cioè l’incidenza che l’introduzione di questa tecnica avrà sul sistema sanitario nazionale, l’assessore ha affermato: “La differenza di costi tra la procreazione medicalmente assistita omologa ed eterologa è marginale – ha spiegato – e riguarda essenzialmente la spesa per la conservazione del registro e la crioconservazione dei gameti. In Emilia-Romagna ogni anno sono circa 4.500 le coppie che fanno ricorso alla fecondazione omologa e stimiamo che con l’eterologa aumenteranno circa del 10-15%”.

I contenuti del documento
Le linee guida definiscono i criteri di selezione dei donatori e dei riceventi, gli esami infettivologici e genetici da effettuare, il numero di donazioni che un donatore o donatrice può effettuare, le regole sull’anonimato dei donatori, i criteri di esecuzione della fecondazione eterologa, la tracciabilità delle donazioni.
Come per la fecondazione omologa, tutti gli esami, i controlli e la metodica sono a carico del Servizio sanitario nazionale, con il limite massimo di 43 anni per le donne riceventi e un numero massimo di 3 cicli da effettuare nelle strutture pubbliche. La compartecipazione alla spesa (il ticket) è prevista solo per gli esami diagnostici e di valutazione dell’idoneità per entrambi i componenti della coppia, precedenti all’avvio della procedura. Gratuita e volontaria è la donazione, così come gli esami e i controlli che devono effettuare donatori e donatrici. I donatori maschi devono avere un’età tra i 18 e i 40 anni, le donatrici tra i 20 e i 35 anni.

I centri di procreazione medicalmente assistita in Emilia-Romagna
In Emilia-Romagna sono 21 i centri autorizzati (10 pubblici e 11 privati) per le tecniche di procreazione medicalmente assistita. Delle 10 strutture pubbliche, 4 sono di primo livello (effettuano l’inseminazione artificiale, a bassa complessità organizzativa e tecnico-professionale), mentre le altre (sempre pubbliche) sono autorizzate a utilizzare anche tecniche di secondo-terzo livello (fecondazione in vitro e fecondazione attraverso l’iniezione dello spermatozoo all’interno del citoplasma). Per il privato, su 11 centri, 4 sono di primo livello, gli altri di secondo-terzo.
Tutte le strutture che eseguono procedure di procreazione medicalmente assistita possono già effettuare la fecondazione eterologa, come previsto dal documento approvato dalla Conferenza delle Regioni. Rispetto ai nuovi ulteriori requisiti specifici di autorizzazione per la fecondazione eterologa, le linee regionali individuano un periodo di transizione entro il quale le strutture, sia pubbliche che private, devono adeguarsi (entro il 31 dicembre 2014).
In attesa di realizzare un registro nazionale dei donatori che possa consentire la tracciabilità dei dati tra donatore e nato, pur garantendo l’anonimato, ogni centro conserverà le proprie banche dati e non potrà, per motivi di sicurezza, scambiare i gameti con altri centri.
Nel 2013 i centri dell’Emilia-Romagna hanno trattato con tecniche di primo livello 794 pazienti (ultimo dato aggiornato del Registro nazionale), di cui 507 nelle strutture pubbliche e 287 nelle private. L’attività di secondo e terzo livello ha riguardato 3.820 pazienti, di cui 2.358 nei centri pubblici e 1.462 in quelli privati.

Consolazioni marine in un giorno di pioggia

RACCONTI LIDESCHI (SECONDO) ovvero I DIARI VENTURI

Niente di peggio di una noiosa giornata piovosa al mare, mentre come formiche impazzite i villeggianti percorrono su e giù il corso con fare febbrile e indaffarato, in attesa che il tempo passi tra interminabili code in farmacia o dal pasticcere. Frattanto internet procede a singhiozzo e non riesci a lavorare; le notizie minacciose sulla salute di un carissimo amico rendono ancora più cupa la prospettiva di arrivare a sera, nonostante che nell’unica libreria ricca di romanzi gialli e di evasione per pura pigrizia compri Doris Lessing, i racconti della Mansfield e quelli non ancora letti di Hesse che ritroverai intonsi l’anno prossimo. Pensi al prossimo viaggio e ti rappresenti una giornata simile tra Londra ed Edimburgo, sapendo già che per un giorno ti perderai la mostra su Virginia Woolf e ti trascinerai il ponderoso catalogo per tutto il viaggio. E al ritorno della passeggiata con la Lilla, tra un piovasco e l’altro ti abbatti sul divano e accendi la televisione: Rai 5. Le note del concerto per violino di Brahms entrano nella stanza e l’accendono di luci accecanti che si sperdono tra la chioma dei pini e si sommano al pigolìo dei giovani storni. Sullo schermo la camera è fissa sul viso del solista: un viso russo. Gli occhi serrati ogni tanto si socchiudono con un movimento d’approvazione e un misterioso sorriso aleggia sulle labbra sottili. Mani grassocce carezzano lo strumento e lo afferrano in stretta d’acciaio e finalmente capisci che la nobiltà dello spirito umano ha ragione delle giornate uggiose: dei problemi politici e culturali di “Ferara, stazione di Ferara”, della mediocrità della vita. Non t’importa più dei visi comuni e anonimi dei musicisti, né del gesto enfatico del direttore. Delle improbabili mises delle suonatrici. Né degli odori e puzze di umanità che qui tra la folla o là nella sala di concerto emanano i presenti e i gitanti.
T’importa solo del divino che è in quelle note.
E per raggiungere la pienezza della consolazione ritrovata t’affretti a rileggere i primi quattordici versi del Paradiso dantesco. E stai in pace.

IL FATTO
Accanto al bel Listone
sul corso c’è l’effetto
di una colata di fango

Il nuovo Listone piace a tutti. La piazza Trento e Trieste, accanto al duomo, si presenta ora affascinante e suggestiva anche la sera, allorché il rinnovato impianto di illuminazione la inonda di magica luce. All’ineccepibile opera di riqualificazione della piazza, fa però da contrappunto il discutibile intervento effettuato sul contiguo, centralissimo, corso Martiri della Libertà.
Per necessità di parziale ripristino del manto in porfido, avvallato a causa del passaggio di bus e mezzi pesanti – così è stato spiegato – si è provveduto a posare un inserto di pavimentazione nuova in luogo di quella affossata. L’effetto ottenuto però – aldilà di curiosi inserti metallici a forma d’onda posti a intervalli regolari chissà perché – è quello tipico dei residui di fango lasciati da un temporale. I nuovi cubetti utilizzati, infatti, presentano toni cromatici nettamente più chiari rispetto a quelli a loro preesistenti, e con tonalità che virano al beige anziché al grigio.

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L’evidente differenza cromatica fra i vecchi e i nuovi sampietrini posati in corso Martiri a Ferrara

L’assessore ai Lavori pubblici, Aldo Modonesi, interpellato in proposito, assicura che si tratti di materiali prodotti dalla medesima cava dalla quale ci si era riforniti in passato. E spiega che che la differenza cromatica è dovuta semplicemente all’usura della pavimentazione. “Quella precedente, in cinque anni, ha subito l’effetto dello sfregamento delle gomme, causato dal transito dei mezzi veicolari e dei passanti, e del sedimentarsi dello sporco”. Si tratterebbe quindi di una semplice conseguenza dell’usura. Pertanto, per rivedere una pavimentazione gradevolmente uniforme, priva dell’attuale effetto patchwork, si tratta solo di aver pazienza: qualche anno e il tempo farà la sua parte…
Ma se questo è il problema, non era proprio possibile recuperare i vecchi sampietrini rimossi e riutilizzare quelli, anziché posarne di nuovi? Erano sprofondati, mica distrutti! Si sarebbe così evitato ogni inestetismo.

L’INCHIESTA
Partigiani oggi:
fra i nuovi interventi
Massimo Gramellini
e Daniele Civolani (Anpi)

2. SEGUE – Partigiani oggi: quali ideali sostenere e a cosa opporre resistenza. La sollecitazione di ferraraitalia sta inducendo tanti a intervenire. Anche Massimo Gramellini (vicedirettore della Stampa che non necessita certo di presentazioni) si è reso disponibile e ha risposto all’interrogativo. Sposta l’attenzione dal piano politico a quello morale e afferma con eloquente semplicità: “Il valore da difendere è l’entusiasmo. I nemici dell’entusiasmo sono il cinismo e le false promesse”.

Paolo Ferrandi, giornalista della Gazzetta di Parma e docente all’Università della città ducale, rivela di essere “sempre un po’ a disagio a indicare ‘imprescindibili capisaldi’ o ‘bussole dell’agire. Il fatto è che spesso nella vita si naviga a vista. Però della triade classica – liberté , egalité, fraternité – sono particolarmente affezionato all’uguaglianza. Un po’ perché l’utopia dell’uguaglianza sostanziale è passata di moda con il crollo dei paesi comunisti (e anche lì c’erano quelli più “uguali degli altri”); un po’ perché anche l’ideale regolativo dell’uguaglianza delle opportunità ormai è dimenticato anche dai partiti (e movimenti) di sinistra in nome dell’efficienza definita in termini economici. E poi la capacità di dire di no e di stare caparbiamente in minoranza, quando si pensa che sia giusto. Anche rischiando. Ma quello penso sia implicito nel concetto stesso di resistenza”.

“In questo momento il valore che credo debba essere difeso con maggior forza – sostiene Daniele Civolani, presidente dell’Anpi di Ferrara – è quello del lavoro, poiché il numero impressionante di persone che vengono private di questo diritto fa sì che si vada ad aprire una ferita grave nella dignità del nostro intero Paese”. E introduce una nota personale: “Se essere partigiano vuol dire essere apertamente e onestamente di parte e se ormai anche quelli che erano la mia parte sono andati da un’altra parte, che partigiano posso essere? Di me stesso? Di un ideale forse? Di pochi amici tutti ormai coi capelli grigi che non sanno rinunciare ai principi che li hanno sorretti una vita intera? Dico la verità, io mi sento partigiano, ma non mi sento più di combattere: mi piacerebbe tornare in piazza a protestare e vedere intorno a me centinaia di migliaia di persone affermare i propri diritti e la propria dignità, mi piacerebbe sentirmi parte di un grande e potente movimento popolare a difesa di tutti i diritti proclamati dalla Costituzione, a difesa dei deboli, degli ultimi, comunque e dovunque”.

Cinzia Carantoni, giovane laureata in filosofia all’Università di Ferrara, segnala “il valore della giustizia, il diritto: un tema che al di fuori della società non ha alcun senso, per dirla con Hobbes, perché in natura il diritto è potenza, ovvero vince sempre il più forte”. Quindi l’affermazione dell’umanità attraverso l’affrancamento dalla condizione di ferinità e l’accogliemento dei compromessi necessitati dalla socialità. Mentre il rischio segnalato è quello derivante dalla presente “epoca del transpolitico, che ci porta ad essere una società di spettatori passivi di quel meccanismo di rappresentanza che, invece, avevamo scelto come specchio di noi stessi. Con un totale sbilanciamento verso la forma più estrema di rappresentanza, siamo diventati osservatori attoniti, incollati allo schermo televisivo per subire una politica che va avanti senza di noi, una politica senza soggetto né contenuti”.

“Essere ‘partigiani’ ha per me il significato forte di portare avanti questioni di principio e valori come l’onestà, la serietà e la chiarezza nelle relazioni e nella professione – afferma Daniela Gambi, insegnante -. Da ‘partigiana’, ritengo sempre più vitale accrescere la mia capacità di ascolto e di condivisione e combattere l’ipocrisia, la furbizia, la malafede e l’arroganza”.

Francesco Ragusa, neolaureato, la pensa così: “Partigiano, oggi, è colui che non si lascia trascinare da un Paese in avaria e che non si adagia sullo stato delle cose. Ma quelle cose vuol cambiarle veramente. La Resistenza, ora come allora, significa non arrendersi. Non rassegnarsi, crederci ancora e non smettere di farlo. Il nemico non è più quello di un tempo, ma l’obiettivo finale rimane ancora una volta riprendere in mano le sorti dell’Italia. Per renderla più “normale”, pure un po’ più civile. Il partigiano nel 2014, ad esempio, lotta affinché il Paese continui a preservare e salvare i migranti, dal mare e dai fazzoletti verdi (che almeno, un tempo, detenevano l’esclusiva di un certo tipo di idee). Partigiano è il cittadino No-Muos così come il No-Tav, quello che non si arrende all’invasione del mostro elettromagnetico americano o dell’alta velocità nella valle. La Resistenza è anche la piccola o grande azione quotidiana in favore della legalità, per evitare che corruzione, malaffare, evasione fiscale o altri fantasmi possano fare ancora un altro passo in avanti in Italia. Agire da partigiano è mille altre cose, ma essenzialmente è alzarsi la mattina e pensare che di combattere quella sacrosanta battaglia, ancora un altro giorno, per rendere migliore il Paese, ne vale la pena. Nonostante tutto”.

2. CONTINUA

[Si possono leggere tutti gli interventi integrali cliccando sui nomi degli autori riportati in grassetto nel testo]

Leggi la prima puntata dell’inchiesta

Leggi la terza puntata dell’inchiesta

L’OPINIONE
Note di realtà, a volte basta una canzone

di Alessandro Oliva

Strana quest’estate del 2014: fredda, eppure anche insopportabilmente calda. Per rendersene conto bastava accendere un televisore e aspettare l’arrivo di un telegiornale e il suo carico di opprimenti notizie: si parlava, di volta in volta, dei missili di Hamas e dei raid aerei di Israele; si mandavano spezzoni di attacchi continui, di popolazioni confinanti che si uccidono a vicenda, di fanatismi conditi da pretese di razionalità nel togliere la vita a delle persone; si vociferava di un Paese dell’Est non troppo lontano, dove è in corso una guerra fratricida e dove si combatte città per città, strada per strada.
E non è ancora finita, i conflitti proseguono. Sono sgomento e incredulo, perché le guerre scoppiano, vanno avanti e quando finiscono non sai nemmeno perché sono cominciate. Semplicemente esplodono e, se sei abbastanza fortunato, puoi assistere al loro cruento sviluppo attraverso uno schermo che ti regala la sensazione della vicinanza e il conforto della lontananza. Altrimenti, basta aprire la porta di casa, prima che la guerra stessa bussi.
Ad ogni modo essere distanti equivale spesso a sentirsi distaccati, eppure esiste sempre qualcosa, come un particolare caso di violenza bellica, una strage o la morte degli innocenti, in grado di riportarci al conflitto e a instillare il noi il desiderio, la preghiera che questo meccanismo infernale si fermi. Nel mio caso è stata una canzone. Si chiama “Civil War”, degli assai controversi Guns N’ Roses. Non lo ascoltavo da tempo, questo brano, realizzato da una band selvaggia, accusata di misoginia, omofobia e razzismo e che, con la sua furia, è stata capace di conquistare in un attimo il mondo intero. Chiunque si trovasse ad ascoltarla per la prima volta potrebbe partire prevenuto, nonostante il titolo: “tanto è il solito sesso, droga e rock n’ roll”. E’ uno stereotipo a volte azzeccato, ma che in questo caso non potrebbe risultare più sbagliato.

Si parte con un lamento agonizzante, poi una voce sommessa e tremolante fluttua su un arpeggio triste e malinconico, preceduto da un fischio che preannuncia solitudine, desolazione e abbandono.

“Look at your young men fighting
Look at your women crying
Look at your young men dying
The way they’ve always done before

Look at the hate we’re breeding
Look at the fear we’re feeding
Look at the lives we’re leading
The way we’ve always done before”
[Guns N’ Roses, Civil War, Use Your Illusion II, 1991, Geffen Records]

In un crescendo continuo l’atmosfera si carica di tensione fino ad esplodere in un furioso incedere: il canto sconsolato diventa un ruggito rabbioso, aspro e roco, le chitarre si affilano in un’eco distorto, i tamburi vengono picchiati con meccanica brutalità, e si arriva a quello che forse è il passaggio più intenso e coinvolgente dell’intero brano:

“My hands are tied!
The billions shift from side to side
And the wars go on with brainwashed pride
For the love of God and our human rights
And all these things are swept aside
By bloody hands time can’t deny
And are washed away by your genocide
And history hides the lies of our civil wars”

E’ una cruda realtà, quella che additano con note incendiarie i Guns N’ Roses, affrontandola di petto, schernendola e rinfacciandola anche nello stupendo verso un finale di commiato: “Ma poi cosa c’è di civile in una guerra?”. E’ la realtà delle guerre che hanno pretese di umanità, delle guerre che si nascondono dietro le religioni e i diritti umani, un meccanismo perverso che continua a ripetersi da tempo immemore. Data la situazione, sembra che una canzone non basti, che non possa esercitare alcun effetto. Forse però l’aspetto maggiormente positivo di questo pezzo e di tutte le canzoni non è l’intrinseca bellezza, ma il fatto che si inserisce in una scia, la segue e la crea.
In altri termini “Civil War” può condurci verso altre porte, verso altre canzoni che parlano della stessa cosa, di guerra, e di informarci, coinvolgerci, sensibilizzarci, assumendo ruoli che apparentemente sembrano estranei alla musica, ma che essa riesce ad assumere con forza travolgente. Personalmente, ne sono felice. Sì, perché anche se “sappiamo tutti dove soffia il vento oggi”, “quante volte un uomo può voltare la testa, fingendo di non vedere”? Ed è molto facile nel momento in cui “Odio e guerra sono le sole cose che abbiamo oggi” e “anche se chiudo i miei occhi non se ne andranno via, così che devo farci il callo, perché è così che vanno le cose”; “e non so più pregare, e nell’amore non so più sperare”. A volte realizzo che basta una canzone per dirci che “quando la violenza causa silenzio, dobbiamo aver sbagliato qualcosa”, e che dovremmo levare più spesso un inno al cielo: “date una possibilità alla pace”.

[Le citazioni in corsivo dell’ultimo capoverso fanno riferimento a testi dei seguenti brani: Bob Dylan, Blowin’ in the Wind, The Clash, Hate And War, U2, Brian Eno, Luciano Pavarotti, Miss Sarajevo, The Cranberries, Zombie, John Lennon – Plastic Ono Band, Give Peace a Chance]

Il brano intonato: Guns n’ Roses, Civil War [clic per ascoltare]

L’INTERVISTA
Dalle ceneri del Dazdramir ecco Ferrara Off, nuovo teatro sociale cittadino

La sede di Ferrara Off è uno spazio bellissimo. Si tratta di un piccolo teatro di 150 metri quadrati, per un centinaio di spettatori, ma è uno di quei luoghi in cui appena si entra viene voglia di togliersi le scarpe e danzare, mettersi al centro e provare la voce per sentire come risuona.

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Il palcoscenico durante i lavori di manutenzione

Quando c’è il sole, dai grandi oblò di quello che fu l’edificio dei magazzini Amga e poi del centro sociale Dazdramir, entrano scie di luce che si proiettano sul fondale come stelle cadenti, mentre sul pavimento di legno producono figure ovali color miele.
Ultimata l’attenta ristrutturazione da parte del Comune, nell’ambito dell’opera di riqualificazione del Baluardo e dei Bagni ducali in Alfonso I d’Este, dal luglio 2013 gli spazi sono gestiti dall’associazione culturale Ferrara Off, sotto il Patrocinio del Comune di Ferrara.
Ferrara Off si pone in città come nuovo ed importante spazio che, oltre a proporre corsi di teatro e di formazione propri, si apre ad ospitare tutti coloro che insegnano una disciplina artistica o culturale e che hanno bisogno di uno luogo per i loro corsi e laboratori.
L’attuale consiglio direttivo di Ferrara Off (associazione di promozione sociale) è composto da Giulio Costa, Beatrice Furlotti, Monica Pavani, Roberta Pazi e Marco Sgarbi.

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Il nuovo direttivo: da sinistra, Pavani, Costa, Pazi, Sgarbi

Abbiamo intervistato quest’ultimo, insieme a Monica Pavani, durante i lavori di manutenzione, prima della riapertura che avverrà a metà settembre; tra una mano di impregnante e l’altra, per proteggere le tavole di legno del palcoscenico, abbiamo voluto capire meglio come nasce questa bellissima esperienza e su quale base ideale poggia.

Come nasce il nuovo spazio di Ferrara Off e come si evolve?
L’idea parte nel 2009, quando Marco Sgarbi e Gianni Fantoni incontrarono l’Amministrazione comunale per capire se c’era un luogo in cui creare un piccolo teatro, che fosse formativo e performativo insieme. Nel tempo si è identificato lo spazio degli ex magazzini Amga come potenzialmente idoneo, e l’associazione Ferrara Off ha inaugurato il teatro nel 2013 al termine della ristrutturazione al grezzo realizzata dal Comune.

Da qualche mese Ferrara Off ha una nuova gestione, com’è avvenuto questo cambio e cosa comporta?
Dopo i primi tre anni di vita, l’associazione culturale Ferrara Off ha cambiato il consiglio direttivo. La prima gestione vantava la presenza di due personaggi molto conosciuti nell’ambito teatrale italiano, l’attore Gianni Fantoni e il regista Massimo Navone – direttore della Civica Scuola di Teatro “Paolo Grassi” di Milano – che hanno contribuito con la loro professionalità a dare risonanza all’iniziativa. Ora il nuovo direttivo è composto da persone conosciute in città perché attive da anni in ambito culturale.
In particolare tutti noi siamo uniti da un’esperienza pluriennale nell’organizzazione della Stagione del Teatro Comunale di Occhiobello, un esempio di realtà teatrale che negli anni è stata apprezzata anche dall’Amministrazione comunale di Ferrara. Da qui il desiderio di creare in città un’offerta teatrale contemporanea ancora più vasta.

In tutto questo la Fondazione Teatro Comunale di Ferrara come si pone? Si può dire che sta nascendo una sinergia con l’istituzione teatrale della città?
Il nostro intento è che le due realtà si intreccino, che dialoghino, che diventino complementari. La volontà in via informale c’è da entrambe le parti, ma le modalità e il tipo di collaborazione sono da costruire nel tempo.

Qual è la vostra idea di teatro?
Il nostro desiderio e la nostra aspettativa sono quelli di creare un luogo informale in cui gli spettatori possano sentirsi parte attiva del processo creativo e produttivo. L’idea è che diventi uno spazio in cui ci si può ritrovare con un gruppo di persone, e che si possa sentire proprio con il tempo. In sostanza si tratta di un’idea sociale di teatro, di teatro che nasce dalla condivisione, e che già da anni portiamo avanti anche al Teatro Comunale di Occhiobello.

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Corsi di teatro e formazione al Teatro Off

Ferrara Off dispone di spazi particolarmente idonei alla realizzazione di produzioni. Per questo intendiamo proporre la nostra ricerca e i nostri lavori teatrali al pubblico della città. Naturalmente l’intento a lungo termine è quello di ospitare altre compagnie, ma per ora non abbiamo ancora le risorse economiche necessarie. Cercheremo comunque di attivare anche scambi e confronti creativi con compagnie il più possibile limitrofe di cui apprezziamo la ricerca, una sorta di “teatro a km. 0”, un “teatro sostenibile” dove ciascuna realtà possa presentare le proprie produzioni a un pubblico diverso dal proprio.
L’idea è di tornare a un teatro in cui il rapporto tra spettatore e attore torni ad avvicinarsi. Uno degli obiettivi che ci sta più a cuore è quello di affezionare le persone. Ferrara Off è di piccole dimensioni e si presta proprio a questa modalità: è un luogo d’incontro e di confronto, oltre che di fruizione. Noi ci stiamo investendo tanto perché ci crediamo, Ferrara Off è importante prima di tutto quale centro in cui far convergere le nostre energie, i nostri interessi. È in un certo senso il nostro spazio interiore in costante dialogo con l’esterno.

Quali saranno i primi appuntamenti della prossima stagione?

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La sede del Teatro Off, ex magazzini Amga

In occasione della Giornata europea della cultura ebraica, proponiamo due spettacoli. Sabato 13 settembre, alle ore 22, con inizio in Piazza Castello, realizzeremo un’azione scenica dal titolo Una notte del ’43, ispirata all’omonimo racconto di Giorgio Bassani, mentre domenica 14 settembre, alle ore 16, presso il nostro teatro, presenteremo lo spettacolo Micòl e le altre, incontri, letture e messe in scena sui principali personaggi femminili bassaniani del Romanzo di Ferrara.

Londra a tutto gas,
“ho provato l’effetto della droga
di chi non si droga”

di Emilia Graziani

Da LONDRA – Tutta la gente più trendy di East London lo usa: gas esilarante, una sostanza ricreativa venduta per le strade che garantisce divertimento senza rischi per la salute o la fedina penale. Alla scoperta della droga fatta per chi non si droga.

L’ho fatto. Ho ceduto al desiderio di emulazione e dopo averlo detto per settimane, se non mesi, ho provato il nuovo trend dello sballo di East London: il gas esilarante (o ossido di diazoto, nel caso vogliate suonare super scientifici e acculturati).
Nel Regno Unito chiunque sia stato dal dentista per un’otturazione sa bene di cosa si tratta visto che qui viene somministrato abitualmente come calmante a chi suda freddo al solo pensiero della siringa per l’anestesia. Ma essendo stata dal dentista solo in Italia, dove la cosiddetta sedazione cosciente esiste ma è piuttosto inusuale, ero una tela bianca nelle aeree grinfie del gas.
Quel fatidico sabato sera mi sono diretta verso il quartiere londinese di Shoreditch dove avviene la gran parte del commercio di gas. La turistica Brick Lane di sera si trasforma nell’epicentro della vita notturna alternativa. Gruppetti di ridacchianti hipster barbuti sulla ventina ciondolavano per la strada stringendo in una mano un frullato biologico corretto alla tequila e nell’altra un palloncino.
Erano le 21 e l’asfalto era già ricoperto con innumerevoli cadaveri di palloncini di gomma che poco prima contenevano la sostanza esilarante.

La prima cosa da fare era trovare un venditore, cosa che, secondo il mio galoppante immaginario, significava venire accoltellati in un anonimo vicolo da qualche potente e nerboruto narcotrafficante.
Per mia fortuna la realtà era completamente diversa: il gas era venduto da squadroni di belle ragazze vestite di nero che indossavano in vita una specie di cartucciera piena di bombolette e porgevano palloncini variopinti ai numerosi clienti in fila davanti a loro.
Mi sono avvicinata a una di loro e, fingendo di non sapere, le ho chiesto cosa stesse vendendo. La ragazza, Shannon, ha iniziato a declamare una serie di frasi imparate a memoria che assomigliavano quasi a una pubblicità: “I palloncini sono pieni di gas esilarante che ti sballa ma è completamente innocuo e legale. L’effetto svanisce nel giro di un paio di minuti senza effetti collaterali e non c’è alcun rischio di dipendenza. E’ una sostanza così favolosa che è diventata la droga d’elezione dei VIP e anche il Principe Harry è stato paparazzato mentre la consumava.”
Innocua, legale, senza effetti collaterali, non crea dipendenza e per tre sterline a palloncino anche economica. Sembrava troppo bello per essere vero.

Prima di comprare un palloncino ho parlato con un paio di consumatori abituali che erano in coda per comprare la loro “dose”.
“Non avevo mai provato niente del genere. Mi avevano detto che inalare il gas era come fumarsi una canna e, sì, può assomigliare, ma il gas è molto più intenso,” mi ha detto Nina, 21 anni, una cameriera part-time di Malaga, “quello che mi piace è che ti rilassa più di qualsiasi altra droga. Credimi, dopo un tiro tutto sembra rallentato.”
Luca, 28 anni, un barista di Brescia, mi ha confessato “E’ da anni che lo uso. Ho iniziato quattro anni fa, quando sono arrivato in Inghilterra, allora non era ancora così commerciale e venduto così apertamente. La cosa più bella del gas è che ogni volta è intensa come la prima e posso farmene quanto voglio senza rischi legali o per la salute.”
Nessuno di quelli con cui ho parlato si definiva dipendente dal gas, tuttavia la maggior parte dei consumatori ha ammesso di sentire il bisogno di usarlo per vivere al massimo una serata. Questo fa pensare a una dipendenza di tipo psicologico.
Nato cinque anni fa ai festival musicali come la droga d’elezione degli adolescenti di buona famiglia, l’ossido di diazoto si è fatto velocemente strada nelle discoteche gremite di adolescenti borghesi bramosi di attaccarsi a ogni nuova moda. Negli ultimi mesi, l’altissima richiesta di gas esilarante ne ha portato il commercio per le strade e questo livello di visibilità ha ampliato il numero e la demografia dei consumatori.

Un sondaggio del 2013 del giornale universitario The Tab sul consumo di droga nei campus universitari inglesi ha rivelato che il gas esilarante è la terza droga più usata dopo cannabis e Mdma. Ciò è da attribuire probabilmente al suo effetto leggero e al fatto che inalare qualcosa che sembra aria da un oggetto infantile come un palloncino possa sembrare molto meno pericoloso di fumare, iniettare o ingoiare una sostanza tangibile.
“La dose di ossido di diazoto che si assume inalando da un palloncino è tutto sommato innocua,” ha dichiarato Yousry El Gazzar, medico di base al Lanark Medical Center di Londra, “il dosaggio medio per un’anestesia è più del doppio e, in un ambiente controllato, non ci sono particolari rischi per la salute.”
La mancanza di pericoli gravi è stata confermata dal rapporto annuale sui decessi per abuso di sostanze stupefacenti del 2013 dell’International Centre For Drug Policy in cui il numero di morti causate da sostanze volatili nel Regno Unito è zero.
“Tuttavia vanno prese delle precauzioni: per prima cosa, dato che l’ossido di diazoto può causare svenimenti e allucinazioni, è bene utilizzarlo in ambienti tranquilli e in compagnia di persone fidate e sobrie. Inoltre non è consigliabile mischiare il consumo di gas con alcool. Essendo entrambi vasocostrittori, un’esposizione prolungata a questo mix può causare infarti, emostasi [ridotta mobilità del sangue, ndr] e ipertensione,” ha avvertito dottor El Gazzar, aggiungendo “non sapevo neanche che il possesso di ossido di diazoto fosse legale al di fuori della professione medica.”

Il dottor El Gazzar non sbaglia del tutto: il possesso e il consumo di gas esilarante per scopi ricreativi è legale nel Regno Unito dato che la sostanza non è inclusa nel Misuse of Drugs Act 1971, ma chiunque non sia un operatore sanitario e venga sorpreso a procurare o vendere gas esilarante potrebbe trovarsi nei guai. Nonostante questo, la legge è semplicissima da aggirare.
Dato che l’ossido di diazoto è comunemente usato nella ristorazione come propellente per le bombolette di panna montata, chiunque può tranquillamente venderlo mascherandolo come additivo alimentare. Come non fidarsi di conservanti venduti in palloncini?
L’impunità per i venditori e la facilità di trovare fornitori non ha abbassato i prezzi. Una rapida ricerca su eBay mostra che si possono avere otto “ricariche per panna montata” contenenti ognuna 24 grammi di ossido di diazoto comodamente consegnate a casa nel giro di 24 ore per soli 9,50 sterline. Dato che un normale palloncino può contenere fino a 8 grammi di gas, i conti sono presto fatti: 24 palloncini di gas esilarante fai da te per 10 sterline contro le 72 che servirebbero per comprare l’equivalente a Brick Lane.

Dunque Shannon, la mia pusher, aveva dimenticato di aggiungere un sacco di “relativamente” quando mi ha detto che l’ossido di diazoto è innocuo, legale, senza effetti collaterali, non crea dipendenza ed è economico. E’ almeno divertente?
Shannon ha lasciato cadere le tre sterline nel marsupio che le ciondolava dalla cintura di ricariche e con destrezza ha estratto un palloncino dalla tasca attaccandolo al beccuccio della bomboletta. Psssst. Il mio palloncino era perfettamente gonfio. Me l’ha allungato con la sicurezza di chi ha fatto lo stesso gesto un milione di volte e mi ha guardata pensando che non avrei davvero respirato il gas.
L’ho fatto. Ho inalato quel vapore freddo e mandato giù la condensa che si era formata nella mia bocca come Nina mi aveva suggerito.
Immediatamente il battito del mio cuore si è fatto più lento ma più rimbombante. Tutto è diventato nero per un istante, come un lungo battito di ciglia, anche se non ricordo di aver chiuso gli occhi.
Una sensazione elettrica e pungente mi ha attraversata iniziando dalle spalle e finendo nei miei piedi. Ho pensato a tutte le cose che avrei dovuto fare la settimana seguente – pagare l’affitto, studiare per gli esami, prenotare un volo, mandare curricola – ma mi è parso che tutto potesse aspettare. Avevo ancora un paio di secondi di torpore da godermi.

LA STORIA
La spiaggia dei sorrisi

Sul litorale ostiense, a pochi passi dall’ultima fermata del trenino del mare che collega la costa alla capitale, tra la sabbia scura e più di duecento posti con sdrai e ombrelloni, è situata “L’Arca” di Ostia, uno stabilimento balneare gestito dalla Cooperativa Sociale Roma Solidarietà e ispirato alla Caritas Diocesana di Roma aperto a turisti, famiglie e bambini ma incentrato soprattutto sull’accoglienza di anziani, perlopiù soli, divisi tra i vari municipi di residenza. Un bagno pensato in modo tale da far accedere ai classici servizi presenti negli stabilimenti marittimi anche chi, per tanti motivi, altrimenti non riuscirebbe. E i “clienti” hanno così la possibilità di usufruire di molteplici servizi ad un prezzo ridotto, comprensivo di colazione, pranzo e svariati servizi di ricreazione ed animazione.
Gli anziani soli, come già anticipato, sono gli ospiti più numerosi dello stabilimento: una sensibile parte della popolazione romana (e non solo) che troppo spesso viene dimenticata e trascurata e che, grazie a realtà come l’Arca, trova il giusto mezzo per riemergere e tornare a gustarsi quelle piccole cose come un bagno in mare, un ballo di gruppo, un pasto in compagnia, cose sulla carta normali ma, al contrario, per chi vive in solitudine tutto l’anno, preziose occasioni per tornare a vivere veramente. Ed ecco che un torneo di briscola o scala diviene una lotta all’ultimo sangue, il tombolone una bolgia anche solo per un misero ambo, la partita a bocce rigorosamente uno scontro tra laziali e romanisti; si vede in questi semplici momenti come gli anziani dell’Arca, in queste poche giornate di mare, recuperino mesi di silenzi, di voglia di parlare, di urlare, di litigare, di rispolverare una vitalità apparentemente perduta. La vita frenetica e troppo spesso anonima classica delle metropoli diviene così, anche se per poche ore, un ricordo lontano.
Per quanto riguarda la parte organizzativa, insieme ad un instancabile staff di cuochi, baristi, spiaggisti ed animatori, sono i volontari il vero polmone dello stabilimento, tantissimi, giovanissimi e provenienti da ogni parte d’Italia, disponibili ovviamente a godersi giorni di mare in compagnia ma anche e soprattutto pronti a mettersi in gioco ed aiutare gli ospiti anche semplicemente con una chiacchierata o con un saluto. A loro il compito di organizzare la giornata, dall’accoglienza mattutina una volta arrivati i pullman al servire il pranzo, dal preparare la spiaggia al camminare tra gli sdrai per parlare e bere un thé freddo con gli anziani. Un modo sicuramente diverso di vivere quella che a tutti gli effetti è una vacanza, ma che trova nel giusto mix tra lavoro e divertimento nello stare a contatto con persone desiderose di manifestare tutto il loro entusiasmo, un’occasione per trascorrere giornate intense e produttive, toccando con mano situazioni che a noi paiono lontane e in grado di aprire mente e cuore.
Una bella realtà ed una scelta che, nonostante rimanga un servizio di assoluta gratuità (ed in quanto tale fine a sé stesso, da non sbandierare con vanto ma al contrario un modo tacito di arricchirsi e arricchire interiormente) può essere tuttavia un monito per tanti altri giovani, un sano esempio da seguire e, se possibile, emulare affinché in tanti scoprano la bellezza del servizio. Perché in fin dei conti, come recita lo slogan stesso presente all’ingresso dello stabile, l’Arca è un “Alternativa per tutti”. Nessuno escluso.

La spiaggia e l’offesa alla bellezza

RACCONTI LIDESCHI (PRIMO) ovvero I DIARI VENTURI

E il sole ritorna dopo le nuvole e la spiaggia riaccoglie i dannati della terra con le loro false mercanzie di un lusso datato e volgare che piace tanto alla casalinga di Voghiera, pronta a storcere il naso di fronte all’amica mentre il nero le si avvicina per venderle improbabili prodotti, tenuto al guinzaglio della necessità di sopravvivenza da mafie ben collocate tra Nord e Sud. Non posso chiudere gli occhi o ascoltare in cuffia la mia amatissima Marta (naturalmente Argerich). Il giornale che ho davanti racconta di barriere mobili che il solerte Comune di Ferrara intende innalzare sul sagrato della cattedrale per difendere dalle deiezioni, non animali ma umane, quei monumenti e quella storia e del viaggio che i Bronzi di Riace dovrebbero intraprendere per la necessità economica di rendere appetibile l’Expo milanese. All’offesa della bellezza, al mercimonio del pensiero, alla volgarità degli iloti (ah Giacomino, come avevi ragione nel disprezzare quel genere di umanità!) nulla può essere difesa se non la consapevolezza della piccolezza della stirpe umana. E il laico pensiero sulla necessità e democraticità della ragione si spezza contro la barbarie del branco o sulla volontà di rendere cosa e cosa mercificata la bellezza. La stolidità dell’espressione di Maroni, il ghigno di Sgarbi che propongono come soluzione “b” al rifiuto del viaggio dei Bronzi di porsi loro nudi per sei mesi, eccita al riso solo gli stolti o i mentecatti. Che vergogna e che tristezza. Un giovane prete don Zanella, risponde lui, non certo laico, che le barriere servono a poco ma che bisogna cambiare la mentalità del branco. Ve l’immaginate i gradini del Duomo di Firenze o di San Marco a Venezia, dove le orde dei turisti consumano bevute e pasti lasciando l’immondizia del loro scervellato aggirarsi tra i monumenti per consumarli, se fossero recintati? Ma va là! Basterebbe munirsi di sorveglianza umana e prevenire il degrado con multe e sanzioni, mettere contenitori, cambiare mentalità. Delle opere di cui la Lombardia è piena, perché strappare dalla loro sede naturale i capolavori di Riace? Ma ancora una volta, mentre mi accingo a lasciarmi incantare dalla giovane Marta che esegue il concerto di Chopin, il bambinetto dell’ombrellone accanto studiosamente con la paletta leva la sabbia dalla passerella e mi guarda con un sorriso che invita all’approvazione. Cadono le difese e un “bravo!” mi esce con voce tenera e convinta.
Qualcuna d’altronde ha stupendamente descritto la ragione e il sentimento.

L’INCHIESTA
Partigiani oggi:
per quali ideali,
contro quali avversari

E’ noto l’anatema di Antonio Gramsci contro gli indifferenti. E’ vivo e presente (in molti, resistenti e resilienti) il senso dell’impegno che fu dei padri fondatori dell’Italia libera e repubblicana e dei milioni di uomini e donne che si impegnarono e si batterono, anche a costo della vita, per consegnare ai figli un Paese che garantisse a tutti un’esistenza degna d’essere vissuta. E allora ci siamo domandati quale sia, oggi, il significato autentico e attualizzato dell’espressione “partigiano”. Ci siamo chiesti quali siano, in questi nostri giorni aspri, i valori da difendere, gli avversari da combattere.

Abbiamo girato l’interrogativo a un nutrito ed eterogeneo gruppo di uomini e donne, chiedendo a ciascuno di riaffermare il senso di concetti quali comunità e cittadinanza. E abbiamo domandato di esplicitare quali battaglie di civiltà e di democrazia meritano di essere combattute nel presente. Ciascuno ha precisato i riferimenti ideali e gli imprescindibili capisaldi scelti come bussola del proprio agire politico; e per contrappunto ha individuato i “nemici” (materiali e immateriali), cioè i fattori che si contrappongono o gli elementi che li insidiano.

[Per leggere gli interventi integrali è sufficiente cliccare sui nomi]

Secondo Fabio Isman, prestigiosa firma del Messaggero per il quale in oltre 40 anni ha scritto di politica, esteri e beni culturali, “I riferimenti ideali sono quelli di sempre: un Paese libero, laico, democratico, civile, basato sulla Costituzione. Anche i nemici di tutto questo sono gli stessi: chi ancora si ostina in ideologie superate, razziste o fasciste; e i negazionisti…”.

Daniele Lugli, storico riferimento del Movimento nonviolento, afferma: “Partigiani oggi, cioè dalla parte della liberazione di cui oggi avverto esservi un forte bisogno. Quanti ai valori, o principi che siano, io sono fermo a quelli della Rivoluzione francese: la libertà, da conquistare e approfondire continuamente in un processo di costante liberazione da vincoli e ignoranza, l’uguaglianza, tra persone impegnate nel medesimo processo di liberazione personale e collettiva, la fraternità , che può stabilirsi tra soggetti liberi ed eguali. Gli avversari? La chiusura, l’intolleranza nei confronti di chi appare diverso”.

Dice Matteo Provasi, giovane docente di Storia moderna all’Università di Ferrara: “La parola ‘partigiano’ è stata progressivamente svuotata di significato. Spesso brandita come arma pseudo ideologica, manipolata per il piccolo cabotaggio politico. Ne è rimasta la mitografia, ma si è perso il senso profondo: resistere a un’idea di società che non condividiamo. Il pericolo oggi è proprio l’assenza di una idea di società: si ragiona per schemi. Io conosco partigiani odierni. La mia amica Manu: una lunga trafila nella ricerca, poi l’imbuto che si stringe, e la voglia di portare tutto il suo sapere nelle scuole medie, senza spocchia, resistendo ogni giorno a paletti didattici, vuote visioni pedagogiche, genitori egocentrici, colleghi ottocenteschi, pretese sindacali; cercando di offrire agli adulti di domani strumenti più affilati per comprendere la realtà…

“Per quel che mi riguarda – afferma Marco Bortolotti, funzionario Enel – a volte mi sento davvero un partigiano, un combattente, perché mi rendo conto che mi trovo su posizioni che la società di oggi ignora, o peggio ancora combatte. Il mio caposaldo è l’integrità morale dell’essere umano. Da questo discendono la lealtà, il rispetto dell’altro e della vita in senso assoluto (sotto ogni forma), l’onestà, la dedizione verso gli altri. Il nemico più grosso da combattere è il messaggio che la società stessa tenta di trasmettere, specie ai giovani: quello del possedere, tutto e subito, senza sacrificio, e del tutto lecito”.

Lucia Marchetti è un’insegnante di sociologia in pensione: “L’aspetto fondamentale e particolarmente minacciato è quello della dignità, individuale e sociale. Penso alle difficoltà sempre maggiori a vivere una vita dignitosa a causa dell’assenza di lavoro, alla crisi del welfare, che obbliga un numero sempre più grande di persone a risolvere in modo solitario e isolato problemi di salute e di sopravvivenza. Poi c’è il tema della laicità che metterei in coppia con quello della libertà, intrecciati al problema della formazione: in una società della conoscenza stiamo progressivamente perdendo la capacità di controllare i processi e di comprendere le cause di fatti e di fenomeni”.

Fra coloro che con fatica difendono la loro dignità c’è Gianluca Iovine, giovane scrittore calabrese: “Non saremo mai un Paese civile e democratico – sostiene – finché lasceremo bruciare le nostre colline e i nostri boschi. Incendi consumano, specie d’estate, la bellezza e biodiversità della natura italiana per lucrare su nuovi pascoli, colture, nuove aree edificabili, nell’interesse della malapolitica e delle lobbies mafiose. C’è fascismo in chi decide di toglierci bellezza e stuprare la natura, e testardaggine partigiana in chi sceglie di resistere, denunciando. Perché un giorno questo Paese abbia un catasto degli incendi e pene esemplari per chi brucia. Sperando che all’orizzonte restino resine d’alberi e non ceneri di bosco”.

Laura Rossi, operatore artistico-culturale, afferma che “essere partigiani oggi, significa combattere per quella meravigliosa utopia per la quale hanno lottato e sono morti uomini e donne senza curarsi di quei finti valori (fama, ricchezza, carriera…), cui la stragrande maggioranza delle persone ora conforma la propria vita, senza più ideali né senso di fratellanza e di Patria. Adesso più che mai bisogna affrontare battaglie e lotte contro la repressione delle libertà, perché la repressione esiste ancora anche se sotto forme diverse: il precariato del lavoro, la disuguaglianza sociale…”

E’ preciso nella sua analisi Enrico Pucci, giornalista ferrarese caporedattore al Mattino di Padova: “Difendiamo oggi la pace dal fondamentalismo religioso e dai riaffioranti nazionalismi; la nostra Costituzione del ’48 dalle tentazioni autocratiche; il lavoro dalla “disruptive innovation”, cioè dalla rivoluzione digitale (che distrugge posti senza crearne di nuovi) e dal precariato; la politica dalla telecrazia; la giustizia dalla prescrizione breve”.

Per Marzia Marchi, figura di rilievo del mondo ambientalista, “tra i valori ne esiste solo uno, supremo: la pace, che significa spendersi nella solidarietà e abbandonare il pregiudizio che ci fa considerare popolazioni vittime di violenze come complici dei poteri che le annientano. Avversari da combattere? Oggi e come sempre la ricchezza che si concentra nelle mani di pochi, che si traduca in un califfato, in un sultanato o in una democrazia del denaro”.

In un certo senso riassuntivo è il punto di vista di Davide Nani, insegnante: “Quali sono i valori per i quali vale la pena di combattere? Non occorre una gran ricerca sui libri o interiore per declinarli. Sono contenuti nella nostra Costituzione. Democrazia, Libertà, Uguaglianza, Giustizia. La piena realizzazione di uno solo di questi concetti, dovrebbe sottendere e comprendere anche gli altri. Per questo bisogna resistere con sistematico senso critico a un’informazione malata, a una politica televisiva da avanspettacolo, alla tentazione del disimpegno, della frammentazione individualistica e snob”.

E’ uno spaccato significativo, la conferma che un’altra Italia è possibile. Questi sono i pareri che ci sono stati consegnati. I primi. Altri ne attendiamo. Resistenza continua.

1. CONTINUA

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Da ottomila a mille
anche nei rifiuti
(e bisogna ridurre i consumi)

E’ opportuno ridurre il numero delle aziende che si occupano di ambiente o è un falso problema? La risoluzione della questione rifiuti sicuramente non si può risolvere solo trovando le migliori soluzioni di smaltimento di quantità sempre crescente di scarti, quanto in una più complessa politica industriale di coordinamento e di contenimento dei consumi in modo sostenibile e compatibile con tutte le esigenze ambientali. Questo almeno affermiamo in molti da moltissimi anni.

Per superare definitivamente l’emergenza rifiuti la più naturale e immediata azione da sviluppare non è, dunque, solo quella di fermare la crescita dei quantitativi dei rifiuti stessi e quindi quella di produrne meno (che sarebbe comunque ora iniziassimo a fare), ma anche di modificare radicalmente il sistema ambientale. La crucialità del problema dei rifiuti è di ordine economico, normativo, tecnico, ma anche e soprattutto culturale, una appropriazione culturale forte è necessaria non solo per promuovere una indispensabile coscienza civica, ma anche per sostenere lo sviluppo di risposte appropriate e a loro volta ambientalmente compatibili. Va quindi aperta una fase nuova nell’affrontare i problemi del settore.

Alle maggiori difficoltà deve corrispondere maggiore capacità di programmazione e controllo, e soprattutto il superamento di politiche aventi esclusivamente carattere di emergenza. Questa opzione pone dunque l’esigenza di costruire un nuovo sistema di regole, di controlli e di meccanismi di trasparenza che rivedano i diversi modelli organizzativi dei servizi. In sostanza, è del tutto assente su scala nazionale un modello di gestione rifiuti basato sul “sistema di gestione integrata”. Alcuni buoni esempi non bastano per garantire il sistema.
Per fare questo occorrono non singoli provvedimenti, ma interventi organici non dettati dall’emergenza, in armonia con le direttive comunitarie. I servizi di igiene urbana si contraddistinguono generalmente per il fatto che la formazione della domanda avviene per mezzo di un processo politico e si manifesta tipicamente attraverso le amministrazioni pubbliche, anche se poi in numerosi casi, specie quelli delle utenze che ricevono servizi specializzati, si viene configurando un rapporto più o meno diretto fra il gestore e l’utente.
La progressiva crescita dell’autonomia decisionale delle imprese pubbliche, anche a seguito dell’acquisizione della personalità giuridica prima e della quotazione in borsa poi, ha generato una serie di problemi interpretativi legati alle regole del mercato. A questo proposito, nei vari provvedimenti che si sono succeduti negli anni è leggibile una grande confusione, anche in funzione dei contingenti rapporti di forza fra le diverse lobby. Negli ultimi tempi, molte aziende pubbliche mostrano poi una propensione, molto maggiore del passato, a servirsi di imprese esterne per la gestione di diverse fasi produttive. Inoltre nessuna impresa privata ha mai assunto dimensioni superiori a quella regionale; in taluni casi, I’impresa privata (non pubblica) serve per tradizione territori piccoli. Inoltre in aree in cui il gestore ha un rapporto sostanzialmente illimitato nel tempo con il titolare del servizio, i meccanismi regolativi del mercato o della concorrenza per il mercato non esistono.
L’articolazione territoriale delle strategie di offerta di servizi di interesse pubblico incide infatti sull’efficienza dei sistemi di gestione e coordinamento (local policies) e i processi di globalizzazione delle economie rendono irrilevante la capacità competitiva della singola impresa (né la dimensione è fattore determinante di successo); il passaggio è dunque da concorrenza individuale ad efficienza di sistemi.

Il dibattito che sino ad oggi si è sviluppato, fondato su una semplicistica contrapposizione tra le diverse opzioni tecnologiche e organizzative deve approdare ad una conclusione in cui le diverse opzioni consentano una integrazione sinergica per far uscire il settore rifiuti dalla continua emergenza.
Va allora agevolata una trasformazione delle aziende (pubbliche e private) verso una struttura di coordinamento, tendente a scorporare funzioni operative e specializzazioni, con processi di parziale privatizzazione o costituzione di società di scopo e di servizio, ma va anche favorita una politica di alleanze pubbliche sia tecnologiche (impianti complementari) sia geografiche (ambiti in area vasta) sia per lo sviluppo (innovazioni).

In questa direzione è in crescita la gestione integrata dei servizi energetici ed ambientali sia per i processi di unificazione avvenuti in molte città sia per la costante implementazione delle competenze operative delle aziende che nel tempo stanno sviluppando crescenti capacità competitive su un mercato complessivo dei servizi collettivi. Dobbiamo dare grande importanza al nostro sistema di imprese, dobbiamo valorizzare la nostra capacità competitiva e di sviluppo, sapendo di poter contare su aziende leader ed emergenti che sappiano accrescere i vantaggi raggiunti. è di vitale importanza la crescita di una capacità di reazione del sistema d’imprese sia nella competitività tecnologica (e propensione all’investimento) sia nella potenzialità di espansione (e capacità di sviluppo).
Probabilmente non è più unico elemento rilevante la sola capacità competitiva di una azienda né la sua dimensione, ma diventa sempre più determinante l’efficienza globale di sistema e la qualità del sistema relazionale, perché la concorrenza nel mercato globale è sempre più una concorrenza fra sistemi. La globalizzazione è un processo che non deve essere misurato solo dalla dinamica degli scambi commerciali, ma da una molteplicità di interdipendenze che collegano i diversi sistemi locali in una rete di dimensione globale. Nel quadro di economie aperte occorre infatti avere una forte capacità di innovazione delle istituzioni e degli strumenti di governo del territori; definizione di progetti di sviluppo, ricerca di soluzioni ai problemi di coordinamento (di politiche, di strumenti e di risorse) e di compartecipazione (di soggetti pubblici e privati) a livello territoriale. Le imprese locali di pubblica utilità esprimono in questa regione un notevole potenziale competitivo che si può ulteriormente valorizzare nel tempo. Le imprese pubbliche emiliano -romagnole raccolgono infatti buona parte del know-how disponibile in Italia nella gestione delle acque, nella gestione dei rifiuti e nella gestione dei trasporti locali.

La sfida dei prossimi anni comporta quindi la costante espansione delle attività di servizio (al cittadino e all’impresa) con una tendenza sempre più accentuata alla specializzazione, anche per segmenti, e alla diversificazione del servizio offerto, al minor costo possibile. Non ci si deve preoccupare dunque se le nostre aziende crescono, ma se non sappiamo controllarle. Senza regolazione siamo comunque deboli. Questo bisogno di “governance” nei servizi pubblici ambientali però porta con sé anche elementi di conflitto o di interessi contrapposti su cui si discute troppo poco.
Per la migliore efficacia del ruolo e delle funzioni occorre dunque assicurare una crescente capacità di vigilanza su questioni che incidono direttamente sui cittadini. Da troppo tempo ad esempio abbiamo perso la conoscenza dei costi e dei prezzi; le tariffe sono diventate uno strumento di tassazione e non di analisi economica dei servizi. Bisogna allora maturare con maggiore forza la consapevolezza collettiva che occorre potenziare le politiche per il consumatore e gli strumenti di regolazione che lo riguardano; il tema della qualità dei servizi di interesse generale è quindi di crescente importanza perché tocca le esigenze concrete dei cittadini/consumatori sulla loro qualità della vita. Il ruolo ormai collettivamente riconosciuto fondamentale della cultura sostenibile ambientale assieme alla crescente rilevanza della percezione di qualità nei servizi pubblici richiedono un coinvolgimento di tutti i protagonisti del sistema intesi come parte di soluzione e soprattutto propone una forte interazione trasversale di società, economia ed ambiente.
La decisione, di questi giorni, di assegnare il ruolo di regolatore per i rifiuti all’Autorità per l’energia e il gas (Aeeg), dopo quello dell’acqua, è un passo importante rispetto al vuoto totale di questo periodo.

LA STORIA
Amore e speranza
ai tempi del terremoto,
film ferrarese
su quelle notti di maggio

Giovani, entusiasti e molto occupati. Tre aggettivi per il team del film Terremotati, la notte non fa più paura, progetto low budget, in uscita a dicembre, sul quale stanno lavorando senza sosta gli attori Stefano Muroni e Walter Cordopatri, il regista Marco Cassini, il giornalista Samuele Govoni e la produttrice esecutiva Ilaria Battistella. Tutti tra i 30 e i 35 anni, un po’ ferraresi, un po’ aquilani, ma soprattutto italiani, professionisti titolati ed emergenti alle prese con i problemi del Terzo Millennio.
Lavoro, precariato, integrazione sono il cuore del film girato a Mirabello e dintorni, una storia d’amicizia, amore e speranza di 75 minuti giocata sullo sfondo del terremoto meno mediatico di tutti i tempi. Inutile ricordare quanto le scosse abbiano cambiato la vita di intere popolazioni in una delle regioni più laboriose e produttive d’Italia, dove in passato migranti italiani e stranieri hanno avuto la possibilità di costruirsi un’esistenza migliore. Le cose, è evidente, non sono più come prima: lavoro ce n’è molto poco, ma nessuno si arrende. L’accanimento tellurico, affiancato alla crisi economica, ha scatenato una reazioni a catena di incertezze tali da enfatizzare una volta di più il lato peggiore dei mali del Paese cui certo la classe politica, inadeguata e autoreferenziale, non risponde come dovrebbe.

StefanoMuroni
Stefano Muroni

“L’idea del film è maturata leggendo le cronache di quei giorni, molte delle quali scritte da Samuele”, racconta Stefano Muroni, originario di Tresigallo diplomato al Centro sperimentale di Cinematografia di Roma, la più antica scuola di cinema fondata nel ’35, oggi diretta da Giancarlo Giannini. “Inizialmente volevamo chiamarlo Tute Blu, ma nel corso dei tanti sopralluoghi abbiamo toccato con mano lo stretto rapporto tra imprenditori e operai così abbiamo optato per un titolo differente, ma non è detto sia definitivo”. L’Emilia colpita dal sisma è fatta di piccole e medie imprese con fatturati importanti, aziende nelle quali le persone si chiamano per nome e non sono soltanto un numero come accade nelle fabbriche metropolitane. “Abbiamo incontrato operai e imprenditori, parlato con loro, raccolto tantissime testimonianze prima di metterci a lavorare sulla sceneggiatura – spiega – La parte più difficoltosa è stata e rimane quella dei finanziamenti”.
Un anno e mezzo di appuntamenti, istituzionali e non, di porte chiuse in faccia e di speranze riaccese. Un puzzle difficile da comporre e proprio quando la resa sembrava inevitabile un piccolo grande miracolo. “Un’insegnante di Codigoro, Maria Rita Storti, convinta della bontà psicosociale del progetto ci ha finanziato con 20 mila Euro sbloccandone altri 5mila della Provincia promotrice di un bando al quale abbiamo partecipato – continua – Ci sarà poi il contributo di un imprenditore di Mirabello, Vittorio Gambale che ha aderito al progetto, inoltre un festival di fama nazionale avvierà presto una campagna di crowdfounding, che comprende il nostro film”. C’è soddisfazione nella sua voce, ma soprattutto una consapevolezza. “Nel rifiutarci il sostegno economico, molti tra gli interpellati hanno detto che la gente ha voglia di ridere. Personalmente penso sia il momento di uscire dall’era dei telefoni bianchi del ventunesimo secolo e dare contenuti diversi, di spessore, capaci di lasciare una traccia – conclude – Spetta alla nostra generazione decidere di rivisitare il sistema e cercare spunti di riflessione su quanto sta accadendo. Questo è uno dei motivi per cui abbiamo voluto approfondire le conseguenze di una ferita come quella subita dall’Emilia. Quanto raccontiamo non è una storia locale, riguarda tutti”. Il lavoro, la sua sicurezza, la dignità e i rapporti umani che ne derivano, sostiene con convinzione, sono il filo conduttore di ogni esistenza. Nel bene e nel male.

Marco-Cassini
Il regista Marco Cassini

Pochi soldi, grande impegno e molte emozioni. Merce preziosa di questi tempi, come lo è il bisogno di esserci da protagonisti. E’ questa la notizia e vale ben di più di un incasso milionario al botteghino. “Aderire al progetto è stato un fatto naturale, da abruzzese so bene cosa significa ritrovarsi improvvisamente senza certezze, inclusa quella di non sapere in quale letto dormirai: tutto è provvisorio”, spiega il regista e attore Marco Cassini compagno di studi di Muroni con, tra le altre, un’esperienza maturata negli States sul set del popolare Desperate Housewives. “Le conseguenze del terremoto sono vicine al mio vissuto, ho messo mano alla sceneggiatura cercando di restare il più possibile fedele alla realtà storica di quanto è accaduto”. Orari, date, eventi corrispondono ai giorni più bui dell’Emilia stravolta dalle scosse e fanno da sfondo alla vicenda ambientata in una fabbrica, dove un giovane meridionale vive gran parte delle sue giornate e delle sue relazioni. “Siamo in una regione dove l’integrazione è possibile più di altrove, c’è dialogo tra datori di lavoro e operai, purtroppo però la via d’uscita dalla crisi è impedita anche dal contesto con il quale ci si deve per forza misurare”, spiega. Come dire: ci sono ostacoli più forti della volontà, il principale ingrediente con cui a poche settimane dal sisma l’Emilia in ginocchio ha reagito con l’allestimento di capannoni d’emergenza per continuare l’attività. E’ un fatto, ed è il sintomo di una società con una marcia in più, in totale dissonanza con la lentezza della risposta istituzionale. Volendo osservare simbolicamente gli eventi, il terremoto traduce l’instabilità sociale da cui siamo scossi intimamente, sono crollati lo stile di vita e le nostre certezze. Ora è tempo di ricostruire, dentro e fuori di noi, una sfida raccolta dal team di Terremotati e riletta con la flessibilità dell’ottimismo. C’è da augurarsi che la speranza colmi con i dovuti cambiamenti, unica via percorribile, il futuro prossimo.

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Samuele Govoni

Il film è una storia dei nostri tempi, presentata in tour con ogni mezzo di comunicazione, in rete ha una sua pagina facebook Terremotati – il film e nell’imminente festival Diversamente in Musica, voluto da Lega nazionale Disabili al quartiere fieristico di Ferrara dall’11 al 13 settembre, avrà uno spazio per farsi conoscere tra un concerto di Cristiano De Andrè e uno dei 99 Posse. L’obiettivo, come ovvio, è far crescere il budget. “Abbiamo stampato 5mila flyer da distribuire”, spiega il giornalista Samuele Govoni. “Quanto verrà raccolto dalla campagna crowdfonding, sarà destinato alla post produzione e alla promozione – spiega – a quel punto saremo anche su youtube per permettere a chi ci sostiene di seguire i lavori in tempo reale. Il primo dei prossimi passi è naturalmente la ricerca di un canale di distribuzione nazionale”.

L’INTERVISTA
Leonardo Veronesi,
la musica e
“L’Anarchia della ragione”

Ad un anno esatto dall’uscita del suo terzo album “L’Anarchia della ragione”, incontriamo il cantautore Leonardo Veronesi, dopo i successi di “Rock Circus” e “Music Park”. Veronesi è attivo sulla scena musicale italiana da vari anni con tre album incisi, “Uno”, “Domandario”, “L’Anarchia della Ragione”, e ha nel suo curriculum diverse collaborazioni prestigiose come autore. Negli anni ha stretto un solido legame con la nostra città, lo si vede di frequente attraversare le vie e le piazze di Ferrara. In questo periodo continua la promozione del suo ultimo album, uscito per l’etichetta Jaywork, con un tour partito lo scorso ottobre che sta riscuotendo molto successo attraverso le “Cantacchierate”.
La sua versatilità lo porta a spaziare in vari campi. Contemporaneamente alla sua attività di autore, alterna esibizioni live alla composizione di brani anche per altri artisti. Si è cimentato in sigle di trasmissioni televisive. Ha partecipato al 53° Zecchino d’oro come autore con il brano “I suoni delle cose”, ed è arrivato al terzo posto al 55° Zecchino d’Oro con il brano “Il Blues del manichino” del quale è stata registrata anche la versione spagnola interpretata da Carmen Aranda che sta avendo molto successo in Spagna. Per Carmen Aranda ha inoltre scritto il singolo “Acqua” uscito sia in italiano che in spagnolo. Attualmente ha scritto tre brani per il nuovo album di Frenk Nelli (“Mi lavo”, “Il nostro amore”, “Non c’entra niente” che dà il titolo all’album) e il singolo “Quel che non c’era” per War-k.
Lo abbiamo intervistato per conoscerne la personalità e scoprire l’impegno che sta dietro ad un percorso artistico che si sta consolidando.

Quando hai iniziato ad interessarti alla musica? E come ti sei avvicinato?
Ho sempre avuto attenzione per la musica sin da piccolo quando ascoltavo le sigle dei cartoni animati. Mi sono sempre interessato più che ai cantanti a chi lavora dietro le quinte di un album, dagli autori, ai turnisti, ai produttori. Il primo approccio importante risale ai primi anni ‘90.

Raccontaci un po’ del tuo percorso artistico…
Ho diviso il percorso tra le serate live nei locali con varie cover band e la frequentazione ravvicinata di autori e produttori per imparare il mestiere, tra cui Davide Romani, Roberto Casini e Carlo Marrale.

Quanto è importante per un artista raggiungere un proprio stile e un’identità?
Penso che la cosa più importante sia avere personalità, avere una visione precisa e le idee chiare su come raccontare una storia, cantare una frase, strutturare un brano, utilizzare la voce, utilizzare un determinato suono, ecc.

Quali sono stati e quali sono ora i tuoi riferimenti?
Cerco di ascoltare tutto, ma penso che la musica che mi ha influenzato di più siano state le sigle dei cartoni animati manga, la New wave degli anni ‘80, le colonne sonore di alcuni film e i cantautori italiani.

Cosa rappresenta per te la musica? Che spazio ha nella tua vita?
Penso che la musica ormai sia diventata parte integrante della mia personalità, nel bene e nel male.

Cosa provi quando ti esibisci?
Emozione, divertimento ed energia.

Quanto conta per te il testo di un brano rispetto alla musica?
Penso abbia la stessa importanza della musica, anche se nella mia testa ragiono più da musicista, tant’è che memorizzo meglio gli accordi dei testi.

A cosa ti ispiri quando componi? E’ più difficile “incastrare” versi e parole alla musica o il contrario?
Io m’ispiro generalmente ad esperienze personali, a quello che osservo e che spesso non capisco. Per quanto riguarda versi e musica, penso sia più difficile incastrare le parole giuste nella musica giusta.

Uno dei problemi della musica odierna è che molti artisti vogliono bruciare le tappe. A volte sembra che basti vincere un talent per essere o diventare un artista di successo. Invece la notorietà è diversa dalla fama, e una volta guadagnata è difficile da conservare. Non sarebbe meglio che il successo arrivasse passo dopo passo all’insegna della gavetta e dell’ esperienza?
Tanti anni fa in un locale in Toscana, alle prime esperienze, la band con cui mi esibivo mi catapultò chitarra e voce davanti al pubblico per qualche brano, prima di cominciare insieme. Per l’emozione e l’inesperienza stonai e sbagliai diversi accordi con la chitarra. A quel punto il pubblico mi fischiò e per me fu devastante. Con l’entrata del resto della band dovetti riconquistare la fiducia del pubblico. A fine serata mi applaudirono. Questo è l’unico modo per crescere e diventare dei musicisti.

Le tue canzoni si ispirano di più al mondo che ti circonda o sono più autobiografiche? Cioè i tuoi testi nascono da un impulso o da una riflessione?

Direi più da una riflessione che spesso porta ad un impulso.

Nell’ ultimo decennio si è sempre più sentito parlare di crisi discografica. Secondo te la colpa è solo delle nuove tecnologie che permettono di scaricare illegalmente i brani o anche del mercato stesso ormai saturo di proposte?

La colpa è dell’Italia, perché Inghilterra e America riescono a far convivere tecnologia, nuove proposte e vendite.

Che momento pensi sia questo per la canzone d’autore e per il mondo cantautorale cui appartieni?
Per me le idee e le belle canzoni ci sono, ma nessuno ha più voglia di cercarle, di ascoltarle e promuoverle, perché nessuno pare abbia più tempo di ascoltare musica.

Ci sono differenze tra i cantautori degli anni ‘70 e gli attuali?

Entrambi sono quasi tutti di sinistra, quelli degli anni ‘70 più geniali, quelli di adesso sperimentali, cupi, spesso cacofonici, ma quello che mi colpisce di più è che non sono emozionanti. Con alcuni cantautori della precedente generazione spesso ho pianto per l’emozione che mi trasmettevano e mi trasmettono tutt’ora. Io ricerco questo, non il linguaggio nichilista e decadente, da impero decaduto, che va di moda adesso.

Mi pare che si sia tornati comunque ad una attenzione maggiore nei confronti della lingua italiana sei d’accordo?
Mi sembra di sì.

Cosa ne pensi del mondo del rap e dell’uso che si fa del linguaggio che normalmente viene usato, lo slang e parole create per affermare quel particolare contesto?
Lo trovo interessante, pare che siano loro i nuovi cantautori… ma in realtà spero caldamente di no.

Con la tua musica quali messaggi vorresti arrivassero al pubblico?
Voglia di ascoltare musica non banale e voglia di pensare.

Ti piace collaborare con altri artisti, con un team o lavori preferibilmente da solo?
È stimolante confrontarsi con gli altri, quindi in linea di massima mi piace creare un team di lavoro, perché in genere se sfugge qualcosa a te è più difficile che non sfugga all’altro.

C’è un brano dei tuoi cui sei particolarmente legato?
Forse “L’Anarchia della ragione”.

Secondo te chi va in classifica e riempie le platee è sempre un grande artista di successo o spesso è frutto del caso e non c’è corrispondenza con il vero talento?
Non sempre il successo è direttamente proporzionale alla qualità.

Un ultima domanda, quella classica… quali sono i tuoi progetti per il futuro? Ci puoi anticipare qualcosa?
Alcune produzioni per giovani talenti, una colonna sonora e il mio nuovo album.

Per saperne di più visita il sito di Leonardo Veronesi

L’EVENTO
La magia di Ferrara
incanta Venezia

Un ferrarese innamorato della propria città, dell’arte e degli artisti del Rinascimento estense, non potrà perdersi gli eventi che si stanno svolgendo in questi mesi a Venezia, ad opera della Fondazione Giorgio Cini, istituita nel 1951 dal nostro illustre conterraneo Vittorio Cini.

E’ una doppia ricorrenza quella che la Fondazione ha voluto ricordare quest’anno con una serie di eventi eccezionali e di altissimo livello: il trentennale dall’apertura della Galleria di Palazzo Cini e il 60° anniversario della nascita dell’Istituto di Storia dell’Arte avvenuta nel 1954 per volontà dello stesso Vittorio Cini.
In questa occasione ha riaperto infatti al pubblico la Galleria che restituisce alla città di Venezia e anche a noi ferraresi l’opportunità di vedere meravigliosi capolavori toscani e del Rinascimento ferrarese.

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‘San Giorgio’ di Cosmè Tura, Galleria di Palazzo Cini

Oltre ad opere meravigliose come la “Madonna con il Bambino” di Piero della Francesca e il “Doppio ritratto di amici” del Pontormo, alla Galleria di Palazzo Cini si può ammirare un raro gruppo di capolavori del Rinascimento ferrarese: svetta il nervoso e scattante “San Giorgio” di Cosmè Tura, le tre tavolette di Ercole de’ Roberti “Santa Caterina d’Alessandria”, “San Girolamo” e “San Giorgio”, provenienti dallo smembrato polittico Griffoni e di cui noi conserviamo il “San Petronio” alla Pinacoteca Nazionale di Ferrara; da segnalare anche la famosa “Scena allegorica” di Dosso Dossi proveniente dal soffitto della camera da letto di Alfonso I d’Este di Palazzo ducale a Ferrara, e il “Ritratto di Tito Vespasiano Strozzi” di Baldassarre d’Este. La Galleria di Palazzo Cini rimarrà aperta fino al 2 novembre, tutti i giorni escluso il martedì dalle 11 alle 19, in Campo San Vio, Dorsoduro 864.

Galleria di Palazzo Cini, Campo San Vio
Galleria di Palazzo Cini, Campo San Vio

Una serie di accordi e collaborazioni con altre importanti realtà museali sono stati stilati per arricchire e rendere fruibili altri capolavori e procedere ancora oltre nella ricerca in ambito artistico: ciò permetterà alla Galleria di accogliere ogni anno opere “ospiti”; dal prossimo 5 settembre al 2 novembre “L’Ospite a Palazzo” sarà l’Adorazione dei pastori di Lorenzo Lotto (1530), della Fondazione Brescia Musei. Grazie alla collaborazione con il Louvre, dal 16 al 18 ottobre si terrà anche un convegno scientifico su “I rami smaltati del Rinascimento italiano. Geografia artistica, collezionismo, tecnologia”, in quanto la Fondazione possiede un cospicuo e prezioso nucleo di smalti rinascimentali di fattura veneziana. Infine il 30 e 31 ottobre avverrà la prima edizione delle “Giornate di studi di storia dell’arte”, un’iniziativa che vuole evocare lo storico convegno su “Arte figurativa a arte astratta” con cui si inaugurò l’Istituto proprio nell’ottobre del 1954.

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‘Tky over nine columns’, installazione di Heinz Mack, isola di San Giorgio

Da non perdere è anche la visita alla meravigliosa Isola di San Giorgio Maggiore dove l’installazione di luce di Heinz Mack “The sky over nine columns” crea emozionanti e inaspettate suggestioni. Il piazzale cambia fisionomia e riluce di nuovi significati e connessioni: le nove colonne realizzate con 850.000 tessere di mosaico d’oro e alte più di sette metri, vogliono creare un ponte nel tempo e nello spazio con lo splendido mosaico dorato della Basilica di San Marco e riprendere le storiche relazioni culturali tra Oriente ed Occidente (materiali e lavorazioni sono stati realizzati tra Venezia e Dubai). Molto interessanti e ben fatti i video che raccontano la realizzazione dell’opera e che vengono proiettati in una sala affianco alla facciata della chiesa di San Giorgio: dall’artigiano veneziano che forgia a mano i fogli d’oro per le tessere del mosaico, all’intervista con l’artista, all’operazione logistica che è stata necessaria per trasportare le colonne da Dubai a Venezia. Da segnalare anche una simpatica iniziativa: la Fondazione ha indetto un concorso fotografico mettendo in palio un quadro di Heinz Mack; il premio andrà a chi scatterà la foto più originale di una persona messa in “posizione da colonna” davanti ad una delle colonne.

Nell’Isola di San Giorgio ha sede anche la Fondazione Giorgio Cini, l’ex monastero benedettino attiguo alla chiesa, restaurato e tenuto con grandissima cura, di cui si possono visitare solo per appuntamento e con guida i meravigliosi chiostri, il cenacolo e la ricchissima biblioteca (per le intense attività che si stanno svolgendo alla Fondazione, le visite sono sospese sabato 13 settembre e dal 18 al 23 settembre compresi).

Gli eventi riportati in questo articolo si inseriscono nel ricco e vivace percorso che la Fondazione ha intrapreso e che continua a svolgere incessantemente fin dalla costituzione nel 1954, con grande slancio, lungimiranza e qualità artistica.

Per ulteriori informazioni, visitare il sito della Fondazione Giorgio Cini [vedi]

I poveri e le miserabili strumentalizzazioni

“Questa economia uccide. Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in borsa. (…). Abbiamo dato inizio alla cultura dello ‘scarto’ che, addirittura, viene promossa. Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive. (…). Gli esclusi non sono ‘sfruttati’ ma ‘rifiuti, ‘avanzi’.” (…). E’ indispensabile prestare attenzione per essere vicini a nuove forme di povertà e di fragilità in cui siamo chiamati a riconoscere Cristo sofferente, anche se questo apparentemente non ci porta vantaggi tangibili e immediati”.
Queste parole di papa Francesco (“Evangelii gaudium” Edizioni San Paolo), mi tornano alla mente seguendo l’inquietante dibattito innescato dal cartello contro gli accattoni esposto davanti al Conad di via Garibaldi. Voglio subito affermare che mi riconosco nella risposta ferma e precisa data dal sindaco Tagliani. Ben diversa da quella fornita dal sindaco di Vicenza, anch’egli del Pd, che fece approvare dal consiglio comunale il 29 ottobre 2013 un regolamento che nel suo articolo 91 bis recita: “E’ vietata la richiesta di elemosina e di denaro in genere sulla pubblica via…”. Ovviamente, subito fatto proprio dal nuovo sindaco leghista di Padova. Questo è uno di quei casi in cui si è smarrita la differenza valoriale tra destra e sinistra.
A Ferrara, invece, sia la giunta di centro-sinistra, il Pd, Sel, i sindacati e varie associazioni e singoli hanno reagito alla incivile provocazione. Mentre è grottesco che i “Fratelli d’Italia” decidano di presentarsi come le sentinelle della legalità e del rispetto dei cittadini disinvoltamente dimentichi che nel loro dna etico-politico c’è l’alleanza e la collaborazione di governo con un partito fondato da due noti campioni della legalità e del rispetto delle regole come Dell’Utri e Berlusconi.

Ma lasciamo da parte queste miserabili strumentalizzazioni politiche, e torniamo al problema serio oggetto di questa nota. Considerato lo spazio breve di una rubrica mi limito a segnalare i lavori di un grande storico polacco (fu anche un dirigente e ministro di Solidarnosc), Bronislaw Geremek, che in diversi suoi testi ha studiato la storia e le differenze tra il vagabondo, il mendicante e il povero: figure diverse di marginali per scelta, patologia o necessità. E lo ha fatto documentando l’atteggiamento del potere e della società nei confronti di queste persone scomode a partire dal Medio Evo fino alla nostra età moderna. Mostrando, tra l’altro, come la soluzione repressiva abbia sempre fatto leva sulla reazione emotiva di parti di opinione pubblica aizzata contro i poveri (i ‘brutti, sporchi e cattivi’ del bel film di Scola) , anziché aiutarla a ragionare per capire le cause di queste presenze e come porvi rimedio. Oggi, inoltre, non bisognerebbe dimenticare che la regola principe della forma sociale del regime democratico è l’inclusione e non l’esclusione. Anche le due grandi religioni cristiane dell’Occidente si sono divise in modo unilaterale rispetto al dramma della povertà. La parte cattolica riducendola spesso ad un fatto solo assistenziale (che non va certo trascurato e anzi benemerito…), e quella protestante combattendola frontalmente nel nome dell’ethos del lavoro. Di quest’ultima ricordiamo il suo fondatore, Lutero, che nella prefazione al “Liber vagatorum”, si scaglia con violenza contro i mendicanti, vedendo in loro la dimostrazione di “…quanto potentemente il demonio governa il mondo…”.
E ritorno così, in conclusione, alle parole di Francesco che non a caso ha scelto, come papa, il nome del santo dei poveri e degli ultimi. Il suo documento contiene un’analisi delle cause della povertà che non esclude la carità e l’assistenza, ma va oltre individuandone radici e responsabilità con l’obbiettivo di eliminarla. Questa è la visione giusta del problema. Fare invece centro sulla possibile presenza di fenomeni di racket rischia di criminalizzare l’intero popolo dei poveri senza fare le indispensabili distinzioni e le necessarie indagini per colpire l’eventuale presenza di organizzazioni criminali. Condivido al riguardo la posizione enunciata dal prefetto Michele Tortora.
Infine, solo una considerazione sul cartello esposto dal direttore del Conad e sul consenso che ha raccolto Ognuno di noi dovrebbe provare un senso di disagio e un sentimento di compassione e solidarietà davanti ad un nostro simile che si umilia chiedendo in ginocchio qualche centesimo. Non è buonismo da pappa del cuore. E’ la sostanza migliore del nostro umanesimo cristiano e laico.

Fiorenzo Baratelli è direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara

Cambiare verso: ci vuole una ‘manovra shock’

Una “manovra shock” è possibile ed auspicabile, soprattutto se si hanno alcuni gioielli di famiglia da cedere, e non ci sono alternative se si vuole percorrere i sentieri di un nuovo sviluppo.
Questa è una frase che negli ultimi mesi la si sente sovente dire e richiamare, non solo nelle prime pagine dei giornali, alla tv, sui social network, ma anche tra la pubblica opinione, nelle corsie dei centri commerciali, sotto gli ombrelloni, quando il maltempo lasciava quel poco spazio al sole nelle spiagge estive del nostro Paese.
Una manovra che dovrebbe essere articolata, dove gli attori che la elaborano e la fanno applicare, a partire del Governo, siano molteplici ed in rete, a partire dai territori, e rivolta là dove sperperi, diseconomie, privilegi e sballi tariffari fanno strage dei corretti comportamenti.
Non è la prima volta che questo quotidiano online ne parla con specifici interventi, proposte, osservazioni e altro, ma la politica è sempre risultata silenziosa, disattenta, rivolta altrove, come se il suo ruolo non fosse nel servire.
Lasciar perdere sarebbe mettere all’angolo la stampa, grande o piccola che sia, locale o nazionale, con editoriali o con interviste ad esperti indipendenti; noi di questa testata non rinunciamo ad un dovere e non reclamiamo nessun diritto.
Se il focus che sottolineiamo risulta troppo “domestico”, è solo un fatto di vicinanza, ma anche altrove, più o meno lontano, detti fenomeni si presentano e sono evidenti. Utile quindi un ulteriore richiamo all’attenzione, che non vuol essere un puntare la visione solo a noi, in questo lembo tribolato di terre emiliane.
Ecco l’elenco: troppi piccoli Comuni; un eccesso di aziende municipalizzate, anzi di micro aziende; disordine nei bilanci, quasi mai convergenti tra loro nelle scelte, nei costi, nelle priorità ed altro; assessorati con vuote competenze e spezzettati nelle funzioni con altri enti paralleli; partecipazioni azionarie, quasi inesistenti per la governance, un po’ ovunque;, immobili in continuo disuso e ormai decadenti; decisioni dei soci più per lo status quo che non per il bene delle imprese; troppi ed inadeguati bonus ai vertici, appiattimento alla base; non pochi esuberi per clientele; diversità tariffarie; costi impropri e dirigenti oltre il limite del necessario.
C’è chi ha fatto dei conti, anche dettagliati e ben documentabili, ed è arrivato alla somma di non poche decine di milioni di euro, se poi si provvede a parziali dismissioni (anche senza perderne il controllo aziendale) la cifra va oltre la decade delle decine di risorse finanziarie.
Al riguardo qualcuno ha provveduto ad aprire i soliti cassetti nei palazzi, dal Castello, a quello ducale, da più municipi allocati tra le reti dei Comuni alle sedi di holding, capigruppo, aziende pubbliche e i loro organigrammi, ma tutto è rimasto inutile, e la conservazione l’unica novità della politica domestica di questo lembo distante dalla via Emilia.
Se a ciò si dovessero aggiungere le voci della spending review, un ordine alla macchina della Pubblica amministrazione, ad un politica fiscale, diretta ed indiretta, adeguata ad un Paese civile e moderno, a non più contributi a pioggia senza finalità e riscontri, ad uno Stato più leggero, Regioni comprese, ad una politica-partitica meno invasiva e poco trasparente, la cifra diverrebbe una montagna di soldi e sicuramente il Paese ce la farebbe ad uscire dal tunnel della sua profonda crisi, Europa compresa.
E non basta se si cominciassero ad usare bene i fondi strutturali europei 2014-2020 dopo aver non utilizzato ben il 40% del periodo precedente.
Tre linee della manovra che dovrebbero viaggiare insieme, e se anche solo una delle tre non galoppasse ai giusti ritmi della corsa tutto risulterebbe come prima, cioè ancora la crisi che continua, reddito in caduta, occupazione che annaspa, giovani senza lavoro, forti tensioni sociali e la coesione una chimera.
Non vorremo che fosse così. Ma ad oggi non è cambiato nulla, i segnali che provengono sono quasi inconsistenti e quel passare da cento a mille giorni è la riprova delle troppe difficoltà e delle solite resistenze.
La visione domestica sembra ancora addormentata e presa a stare solo in sella, ci sono le elezioni amministrative in Emilia Romagna, i Comuni che hanno appena votato pensano a sistemare gli organigrammi, i partiti e le loro segreterie quasi il vuoto e la nuova generazione che aspetta che il vento soffi nella giusta direzione.
Nel ‘68 e nel ‘69 gli studenti pensarono che era giunto il tempo di alzare la voce, scendendo in piazza per una giusta contestazione. Ora i giovani non li vediamo, forse sono rintanati tra le mura dei genitori, forse senza stimoli, forse rinchiusi nelle loro brevi nuove famiglie tra precariato e bolletta da pagare.
Forse serve per loro una risposta forte. Serve una nuova politica, che quel cambiare verso scardini i troppi mandarini, che il lavoro sia dignitoso, che i ricchissimi abbiano almeno un po’ di meno e che la giustizia sociale non sia solo rivolta ai dieci giusti della Bibbia.
Anche per ricordare: negli anni ’80 nel ferrarese, dopo la crisi delle riconversioni industriali, arrivarono investimenti pubblici per oltre 1.500 miliardi di lire e con un buon effetto moltiplicatore.
Oggi, sempre per un’altra profonda crisi partita nel 2008 e non ancora finita, servono investimenti pubblici per almeno 400 milioni di euro, in cinque anni ed in aggiunta alle odierne risorse, ed un effetto moltiplicatore di tre/quattro volte per altri due anni in aggiunta; un sogno, no, una volontà della politica.
Lo shock, i nostri gioielli, una politica, e correre, correre e nuovamente correre.

L’EVENTO
Tra le righe spunta Mantova,
gli scrittori arrivano in città

Come ogni anno la fine dell’estate per Mantova coincide con l’inizio dei preparativi di Festivaletteratura, manifestazione culturale, giunta quest’anno alla sua diciottesima edizione, che si terrà nella città lombarda da domani (mercoledì 3) a domenica 7. Ormai divenuto uno degli eventi principali del panorama letterario, tutt’altro che limitato al solo territorio nazionale, Festivaletteratura si prepara a questa nuova edizione che va sancendo la sua maggiore età forte di un seguito in costante aumento oltre che di un programma vastissimo, caratterizzato da 350 ospiti e centinaia di eventi sparsi per tutta la città. Un successo già fortemente misurato in questi giorni: oltre quarantamila i biglietti venduti e tantissimi gli eventi sold out, tra i quali quelli attesissimi di Michele Serra, Francesco de Gregori, Beppe Severgnini, Philippe Daverio, Michael Cunningam e Jeremy Rifkin. Grandi nomi che si vanno ad aggiungere ai tantissimi altri volti, noti e meno noti, pronti ad alternarsi tra i vari palchi allestiti in alcuni dei luoghi più suggestivi e ricchi di storia della città. Eventi che toccano ogni genere e pensati per tutte le età: tanti infatti sono gli incontri per i più giovani, i laboratori, i workshops e le varie iniziative che rendono il Festival ancora più dinamico e moderno. Confermati anche gli appuntamenti serali con il Blurandevù, una serie di eventi gratuiti caratterizzati dall’incontro/intervista tra alcuni ospiti (quest’anno saranno presenti tra gli altri Massimo Recalcati e Stefano Benni) e le “magliette blu”, ovvero i volontari di Festivaletteratura. Particolare e doverosa una menzione per questi ultimi, vero e proprio motore trainante della manifestazione che, come ogni anno, invadono ogni angolo di Mantova riconoscibili appunto dalla maglietta blu che indossano; più di 700 i volontari per questa edizione, tra i quali buona parte provenienti anche dall’estero, impegnati in ogni settore organizzativo che spazia dalla logistica al servizio eventi, dalla biglietteria all’accompagnamento autori.
Questo, in sintesi, è Festivaletteratura, cinque giorni all’insegna di quel vastissimo mondo quale è la letteratura, capace di riunire nello stesso luogo politici e sportivi, cuochi ed economisti, romanzieri e cantanti, affascinando migliaia di persone pronte ad accorrere alla corte dei Gonzaga. Ed è davvero impossibile camminare per le strade della città senza scovare nemmeno uno dei tanti luoghi nei quali hanno sede gli eventi, situati anche in periferia o in comuni confinanti. Un occasione per discutere di tante tematiche e di confrontarsi con personalità influenti, scoprire nuovi talenti e fare incetta di tantissimi libri acquistabili nell’enorme libreria allestita in piazza Sordello. Tutto quindi è pronto per la diciottesima edizione e la speranza è che le inevitabili grandi attese vengano rispettate: Festivaletteratura è divenuta infatti linfa vitale per Mantova, una città che festeggia oltre che il trecentocinquantesimo compleanno de “La Gazzetta di Mantova” (uno dei suoi giornali locali e il primo quotidiano fondato in Italia), anche il freschissimo riconoscimento di Palazzo Ducale tra i primi venti musei nazionali. Un momento importante quindi per la città, e come ogni anno una grandissima opportunità quella del Festival per arricchirne il prestigio e sensibilizzarne il turismo. Ma una grandissima opportunità, ovviamente, anche per la nostra Italia, un modo per ridare voce ed importanza alla cultura sottolineandone e rimettendone in evidenza la centralità, questione purtroppo spesso dimenticata nel nostro paese.

L’OPINIONE
Bambini assenti e presenti, attenti!

Cari studenti, fra circa quindici giorni si torna sui banchi e, come dovreste aver imparato negli anni scorsi, questo è il periodo dell’anno in cui i politici si divertono di più a fare a gara per dimostrarci chi è il più interessato a far ripartire la scuola.
In questa triste vetrina c’è bisogno di imparare a distinguere gli originali dalle imitazioni, ovvero gli impegni seri dalle false promesse.

Quindi oggi proviamo a risolvere un problema, scrivete:

Testo del problema
Negli anni scolastici tra il 2007/2008 e il 2012/2013, gli alunni frequentanti le scuole italiane sono aumentati di oltre 90.000 unità.
Nonostante la grande crescita richiedesse 4.500 classi in più (considerando una media di 20 alunni per classe), in quel periodo, sono state eliminate 9.000 classi.
Negli stessi anni, gli insegnanti sono diminuiti di 81.614 unità ed il personale ATA di 43.000.

Considerando che:
a) in Italia la percentuale di abbandono scolastico è del 17,6% (mentre la media europea è del 12,8%),
b) i diplomati nel nostro Paese sono il 22% (mentre nell’Unione europea sono il 35,8%)
c) la popolazione italiana laureata tra i 30 e i 34 anni è del 21,7% (nei paesi dell’Unione europea il 36%);
d) gli insegnanti italiani, in media, lavorano più dei loro colleghi europei ma guadagnano meno;
e) nell’anno 2015 i tagli alla spesa pubblica, già annunciati, saranno di 16 miliardi di euro e nell’anno 2016 gli stessi tagli ammonteranno a circa 32 miliardi di euro.

Rispondi alle seguenti domande:
1) Quali erano i ministri all’istruzione negli anni tra il 2007/2008 e il 2012/2013, a quale partito facevano riferimento e chi era il Presidente del consiglio?
2) Quali sono i partiti che oggi si “larghintendono” al governo e che promettono di far ripartire il nostro Paese dalla scuola?
3) Da dove prenderanno, i partiti delle “larghe intese”, quei 16 miliardi nel 2015 e quei 32 miliardi nel 2016?
4) Come faranno a far ripartire il Paese dalla scuola?

In caso di difficoltà, elenco le risposte sotto:

RISPOSTA ALLA DOMANDA N° 1
Giuseppe Fioroni, L’Ulivo. Governo: Prodi
Dal 17 maggio 2006 all’8 maggio 2008: quasi 2 anni.

Mariastella Gelmini, Il Popolo delle Libertà. Governo: Berlusconi
Dall’8 maggio 2008 al 16 novembre 2011: 3 anni e mezzo.

Francesco Profumo, Indipendente. Governo: Monti
Dal 16 novembre 2011 al 28 aprile 2013: 1 anno e 5 mesi

RISPOSTA ALLA DOMANDA N° 2
Il Partito Democratico, il Nuovo Centrodestra, Forza Italia (Il Popolo delle Libertà) e Scelta Civica.

RISPOSTA ALLA DOMANDA N° 3
Da ulteriori tagli alla spesa pubblica (leggi le dichiarazioni del nostro Presidente del consiglio).
Il termine “spesa pubblica” non vuol dire solo “scuola” ma, ahimé, ultimamente ne è diventato un sinonimo (ad esempio non ho mai sentito che quando si parla di “tagli alla spesa pubblica” qualcuno pensi ai tagli alle spese militari).

RISPOSTA ALLA DOMANDA N° 4
Quello che c’è da aspettarsi è un film già visto sul modello de “La scuola delle 3 i: Inglese, Informatica, Impresa”, girato con effetti speciali che simulino la rottamazione con il passato, con dialoghi schizofrenici ed una colonna sonora adatta ad aggiungere ulteriore “fumo negli occhi”, ad esempio Smoke gets in your eyes dei Platters.
Tutto ciò per mimetizzare l’introduzione di ulteriori aggravi per il personale e per gli studenti: la progressiva riduzione del Fondo di istituto e delle risorse per la scuola pubblica, la diminuzione delle risorse per l’integrazione degli alunni con disabilità, la sottrazione di un anno alle scuole superiori, la prosecuzione del blocco contrattuale, l’introduzione di una falsa meritocrazia, l’eliminazione delle supplenze brevi, l’aumento di ore lavorate e del numero di alunni per classe.

In questo modo il Paese non ripartirà di certo.
Quello che invece dimostrerebbe l’intenzione di un vero cambiamento sarebbe una ripartenza dalle “Norme generali sul sistema educativo di istruzione statale nella scuola di base e nella scuola superiore. Definizione dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di nidi d’infanzia“.
Ma in questo caso si tratterebbe davvero di ripartire investendo, e non mi pare di cogliere che sia questa l’intenzione ma, in caso contrario, sarò molto contento di sbagliarmi.

Quindi, cari studenti, per quanto ci riguarda, bisogna che risparmiamo le temperature elevate di questa strana estate per ripartire scaldando il prossimo autunno.

Dosso Dossi e le mutevoli anime del Rinascimento italiano

Intorno al 1531, il Castello del Buonconsiglio a Trento è un affollato e vivace cantiere supervisionato a distanza dall’ambizioso committente, il principe vescovo Bernardo Cles (1485-1539), intenzionato a trasformare l’antico presidio imperiale, dominante la città fin dal 1255, nella sua residenza privata. Figura eminente sul piano religioso e temporale (nel 1530 otterrà la dignità cardinalizia grazie all’appoggio imperiale) e in rapida ascesa sulla scena politica europea, il neo cardinale porterà nella città trentina una calda ventata di arte rinascimentale, “moderna” e internazionale, connotando la propria corte di straordinario lusso e bellezza. Accanto, infatti, alla fortezza medievale costruisce tra il 1528 e il 1536 una nuova ala con le caratteristiche di domus magna, di palazzo rinascimentale all’italiana con cortile quadrato su cui affaccia la loggia affrescata da Girolamo Romanino (1531), sull’esempio della romana villa della Farnesina. Come il modello romano, il loggiato assume primaria importanza nell’organizzazione degli spazi interni, occupati dal vasto appartamento del cardinale e caratterizzati dal sontuoso gusto decorativo di affreschi, fregi marmorei e arredi, descritti dal medico di corte Pietro Andrea Mattioli nel poemetto in ottave Il Magno Palazzo del Cardinale di Trento pubblicato nel 1539.

Tuttavia ciò che sta più a cuore al neo Cardinale è l’intera decorazione pittorica del palazzo che desidera realizzata in fretta e all’altezza delle più importanti corti europee. A tale scopo nel 1531 sollecita con insistenza il trasferimento, dalla Corte di Ferrara, di Dosso Dossi e del fratello Battista. Era a conoscenza della perizia dei due pittori e delle loro invenzioni di temi profani, legati al mito, alla storia e alla natura, e nel momento in cui arrivano a Trento i due artisti estensi giocano un ruolo dominante. Tanto che il loro incarico andò progressivamente espandendosi dall’Andito della Cappella, alla Stua de la Famea, alla Camera del Camin Nero, alla Sala Grande, alla Libraria, per un totale di diciannove stanze dove eseguono soffitti e fregi ad affresco in un brevissimo periodo, se nel giugno dell’anno successivo (1532) Dosso prende congedo dal Clesio lasciando il fratello Battista a concludere i lavori.

E’ a Trento che il linguaggio decorativo di Dosso e Battista, già allenato al classicismo ‘postmoderno’ dalla lezione di Giulio Romano a Palazzo Te a Mantova e di quella di Tiziano a Ferrara, si accresce di nuova audacia e originalità, come è evidente nell’elegante soffitto della sala del Camin Nero, decorato a grottesche e squarciato da un oculo centrale in cui fluttuano giocosi putti; o ancora, nel fregio del Volto avanti la Cappella, primo ambiente o corridoio della residenza clesiana, dove nel giovane Mercurio che si sporge da una lunetta, ritorna quella tipica interpretazione dell’antico che connota l’affascinante dipinto Giove, Mercurio e la Virtù o Giove pittore di farfalle (1523-1525, Cracovia Wawel Royal Castle), vera ‘superstar’ della mostra attualmente in corso nelle sale del Castello, che intesse uno stretto dialogo tra affreschi e dipinti.

Ideata dalla Galleria degli Uffizi di Firenze, nell’ambito del progetto “La città degli Uffizi”, con la curatela di Vincenzo Farinella, docente d’arte moderna all’Università di Pisa, insieme a Lia Camerlengo, Francesca de Gramatica e Lucia Menegatti, la mostra alterna il criterio cronologico ai confronti storico-artistici per soffermarsi, nelle ultime sale, sull’indagine ritrattistica. Partendo dagli esordi ferraresi, racconta attraverso quaranta opere (circa) uno dei più straordinari pittori del ‘500 italiano e del fratello Battista, spesso sottovalutato dalla critica contemporanea.

Il percorso ha inizio sotto l’occhio vigile delle divinità dell’Olimpo che decorano le lunette dell’Andito della Cappella: in una leggera architettura in stucco si affacciano Cibele, Apollo, Diana, Mercurio, Minerva, intensi ritratti che rimandano a modelli antichi come il Laocoonte, cui s’ispira la figura di Vulcano.

Nella Stua de la Famea sono esposti gli esordi di Dosso Dossi, dai giovanili Il bagno (1512) del Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo a Roma, e Donna e Satiro (1515-1516, Firenze, Palazzo Pitti) – le cui calde atmosfere e il tocco pastoso rivelano l’influenza di Giorgione – al piccolo Riposo nella fuga in Egitto (1516-1517, Firenze, Uffizi) e alla Madonna con il Bambino detta La Zingarella (1516-1517, Parma, Galleria Nazionale), dove emerge la conoscenza del paesaggio nordico di Altdorfer e di Dürer. Analogo contesto paesaggistico esalta le favole di Fedro leggibili nelle lunette sottostanti il soffitto (di grande modernità pittorica è l’episodio della favola della volpe e della cicogna).

E’ tuttavia nella Camera del Camin Nero che sono raccolti gli esiti più felici dell’arte di Dosso, ad iniziare dall’Apollo musico (Roma, Galleria Borghese) a Giove pittore di farfalle (1523-1525, Cracovia Wawel Royal Castle), che trovano riscontri nelle fisionomie delle quattro virtù cardinali dipinte dai due fratelli agli angoli del soffitto.

Nel corso del terzo decennio i soggiorni a Roma di Battista e l’arrivo a Mantova di Giulio Romano contribuiscono alla svolta classicista dei due fratelli, spingendoli ad aggiornare il proprio linguaggio verso forme più nette, figure imponenti e vigorose, e cromie più fredde, come nel San Sebastiano (1526 c.a., Milano, Pinacoteca di Brera), nel Risveglio di Venere (1524-1525, Bologna, Palazzo Magnani) e nell’Allegoria mitologica o Storia di Callisto (1529, Roma, Galleria Borghese), favole pastorali classicheggianti che si inseriscono in un paesaggio panoramico, detto parerga, tipicamente dossesco, celebrato da Giovio e da Vasari.

Con la serie delle mandorle provenienti dal soffitto della Camera della letto di Alfonso I nella via Coperta a Ferrara (1520-1522, Modena, Galleria Estense), lo stile dei fratelli si accresce di modi narrativi ben distanti dall’equilibrio classico per indirizzarsi verso l’estro e la bizzarria decorativa, culminante nell’ultima opera in mostra Allegoria di Ercole o Bambocciata (1536-1540, Firenze Galleria degli Uffizi), satira corrosiva della vita di corte, seppure nascosta tra le pieghe dell’allegoria.

La mostra Dosso Dossi. Rinascimenti eccentrici al Castello del Buonconsiglio offre dunque ampi spunti di riflessione sulle mutevoli anime del Rinascimento italiano.

La mostra, a cura di Vincenzo Farinella con Lia Camerlengo, Francesca de Gramatica e Lucia Menegatti, ha luogo al Castello del Buonconsiglio a Trento, ed è aperta fino al 2 novembre 2014.

* Anna Maria Fioravanti Baraldi è storica dell’arte e giornalista pubblicista. Già professore a contratto di Storia dell’arte moderna presso l’Università di Ferrara, ha pubblicato molti saggi sull’arte ferrarese ed emiliana del Cinquecento. E’ autrice della monografia più completa su Benvenuto Tisi detto il Garofalo, e dal 1990 è membro del Comitato Biennale donna, autorevole spazio espositivo dedicato alle donne artiste promosso dall’Udi.

L’INTERVISTA
Mezzetti: “Bianchi stratega,
Bonaccini affidabile”

Come a ogni tornata elettorale, anche per queste Regionali di novembre in Emilia Romagna, si parla molto di rinnovamento, salvo poi scoprire che le facce e le idee che si prospettano non sono poi tutte così nuove… Massimo Mezzetti, una coraggiosa battaglia per il cambiamento l’ha combattuta davvero, quando era segretario provinciale a Modena del Pds. Uno scontro perso, all’inizio del decennio scorso. Che non lo indusse però a sbattere la porta come molti fanno. Nel partito è rimasto infatti fino al 2007, quando non aderirsce al Pd e passa a Sinistra democratica, per poi confluire nel 2010 nella neonata Sinistra ecologia e libertà, della quale diviene assessore alla Cultura al Turismo. Originario di Roma, modenese di adozione, valdese di formazione, ha una spiccata propensione per il dialogo e il confronto.
Sel sarà spettatrice delle primarie, ma è orientata a far parte anche della prossima maggioranza. Lui dal 2000 siede in Consiglio regionale e da quattro anni è assessore. E’ quindi un protagonista e insieme un osservatore direttamente interessato a ciò che accade. E da esterno può sbilanciarsi.

Partiamo delle dimissioni di Errani, le ha condivise?
Umanamente le ho comprese e avrei fatto lo stesso. Ma la sentenza che in appello ha ribaltato l’assoluzione di primo grado è apparsa faziosa, condita come è stata da espressioni infelici – tipo il “bisogna dare un segnale” pronunciata dal Pm in aula – che con il diritto non c’entrano nulla.

Ora ci sono cinque pretendenti al soglio che si contendono la candidatura nelle primarie del Pd… Interviene Mazzetti: “Due in realtà (allude a Palma Costi e Patrizio Bianchi, ndr) sembrano orientati a sfilarsi”. Gratis?, domandiamo maliziosamente.
Non penso che Palma Costi porrà condizioni. E per quanto riguarda Bianchi, che ha basato la sua campagna su contenuti e strategie, credo che il prezzo sia semplicemente la garanzia che quei temi che lui considera nodali siano recepiti nel programma di chi si candida.
Bianchi è l’unico che ha davvero visione e respiro strategico europeo. Molte mie simpatie andavano proprio alla sua candidatura, ma quando si schierano figure ingombranti gli altri rischiano di restare stritolati.

Quindi fa bene a desistere?
Sì, però mi auguro che riesca a imporre i suoi temi nell’agenda del prossimo presidente.

Quali sono per lei le priorità?
Il modello Errani non è da buttare. Fra i pregi segnalo una ‘governance’ forte e la capacità di perseguire il modello partecipativo, coinvolgendo nelle decisioni un ampio ventaglio di soggetti, favorendo la coesione sociale e riducendo la conflittualità. Inoltre, la salvaguardia del welfare, che da noi resta un’eccellenza, in termini di spesa sanitaria e servizi sociali, quando molti vanno in direzione contraria.
E’ mancata invece la necessaria spinta sul fronte dell’innovazione strategica e l’attenzione alle nuove frontiere di sviluppo, sui versanti dell’economia, dell’ambiente, dello stesso welfare, della cultura creativa. Sono ambiti dai quali possono scaturire nuova occupazione, crescita e sviluppo. E’ illusorio pensare di poter invertire la rotta se non si investe in questi settori emergenti.

I due principali indiziati a succedere a Errani, Bonaccini e Richetti – che lei ben conosce anche in qualità di modenese acquisito – sono all’altezza di questa sfida?
Bonaccini è più predisposto a questo tipo di approccio e di attenzioni e mi pare abbia saputo negli anni ampliare la propria visione prospettica. In Richetti colgo invece un dirigismo che giudico pericoloso, inoltre la sua matrice lo rende timido sulle questioni relative ai diritti civili, che io giudico imprescindibili. Anche Manca sarebbe stato un buon candidato, ha una solida conoscenza della macchina, ma non ha avuto il coraggio di lanciare la sua candidatura ‘a prescindere’ e si è lasciato irretire da un vecchio modo di procedere della politica.

E l’outsider Balzani?
Profilo interessante per una persona di cultura, attento alle tematiche dell’innovazione. Ma per caratterizzare la sua figura sta forzando eccessivamente nella critica. Cerca la spaccatura. Dell’esperienza Errani vede solo i difetti, usa un linguaggio colorito e tranchant che non apprezzo.

Per contrasto, Bonaccini non le pare invece troppo continuista?
La differenza per me la fanno i contenuti. Tutti parlano di discontinuità, ma spesso in senso astratto, per me significa investire di più in welfare, cultura e nuova impresa, nel senso indicato prima. Il rischio è scivolare nella retorica del nuovismo. L’innovazione va qualificata e riferita a contenuti concreti. Senza dimenticare che se ora si può rinnovare è perché si è percorso un cammino che ci ha condotti sino a qua.

IL FATTO
Ferrara vice reginetta
del risparmio in Emilia Romagna

Dopo Rimini, è Ferrara la città più economica dell’Emilia Romagna per gli acquisti nelle catene della grande distribuzione. La geografia del risparmio e le dinamiche concorrenziali nella grande distribuzione sono state tracciata anche quest’anno dall’associazione Altroconsumo. L’indagine ha preso in esame 68 città di tutta Italia. Tra alimentare fresco e confezionato, igiene per la persona e per la casa sono 6.356 gli euro a famiglia spesi in media in un anno. A Ferrara, ventiseiesima in graduatoria, la spesa risulta essere di 6.325 euro, rispetto ai 5.876 euro di Treviso (prima) e ai 6.731 di Reggio Calabria, ultima. In regione, dopo Rimini diciannovesima e Ferrara, c’è Modena trentaseiesima. Dai dati emerge come il risparmio per una famiglia che scegliesse di fare la spesa al discount può arrivare anche a 3.500 euro.

L’inchiesta su super, iper e hard discount fornisce un’istantanea dettagliatissima: 1.031.562 prezzi rilevati su 108 categorie merceologiche, 909 punti vendita passati al setaccio.
Nel confronto tra regioni il Veneto emerge come il territorio dove la concorrenza gioca un ruolo virtuoso e efficace per le tasche del consumatore; su un carrello di spesa fatto di prodotti di marca è Treviso a risultare la città più conveniente, tra tutte le 68 della classifica. Territorio altrettanto dinamico la Toscana, con Firenze e Pistoia al secondo e terzo posto. Altra regione dove si spende meno che nella media italiana per l’acquisto dei prodotti in super, iper e hard è il Piemonte.

Altroconsumo fornisce anche qualche regola generale e qualche consiglio di buon senso per aiutare a ridurre le spese inutili. Consigli semplici, anche di buon senso: controllare quello che manca, stilare una lista della spesa e attenersi a quella; consultare il dépliant del supermercato può essere un’opportunità, ma attenzione a non farsi abbagliare dalle offerte; comprare i prodotti in offerta se rientrano nella lista o se sono particolarmente convenienti rispetto alla spesa abituale; per i deperibili il risparmio consiste anche nel comprare solo ciò che si è sicuri di consumare per tempo; fare scorta di prodotti in offerta ma solo se si tratta di articoli che si consumano con regolarità e non deperibili; confrontare i prezzi al chilo o al litro, non a confezione. Di solito i prodotti meno cari sono in basso o in alto, non ad altezza occhi.

LA STORIA
Signora Li(n)a stasera
stai con tuo marito

Arrampicata lassù, un po’ in bilico e con naso e viso sporchi di bianco, ecco spuntare Lina.
La scala sorregge il suo peso un po’ traballando, ma nonostante questo lei si sposta, con un’abilità degna di un acrobata, da un arco a un muro, da una parete all’altra, da un rosa a un bianco. Stamattina l’ho vista armeggiare sotto l’arco d’entrata al mio palazzo, intenta a staccare il vecchio e polveroso intonaco e a lasciare scoperto un colore rosa intenso e acceso.
Lina scrosta, dipinge, pulisce, lima, liscia, scolora, colora. Ogni giorno per un mese, al caldo, al fresco, sotto la pioggia scrosciante, il vento fresco o il sole cocente. In questo mese di luglio strano per tutti, le temperature variano ogni giorno, ma lei è lì sempre. Deve finire quel lavoro un po’ tedioso ma per lei uguale a qualsiasi altro. Non è magra né agile, e per questo fatica un po’ a salire e scendere dall’impalcatura sgangherata ma rossa fiammante, con qualche tocco di blu. Un giorno l’ho vista lavorare su una scaletta, un altro su una sedia, una misera sedia che sostituiva un’altrettanto misera scala. Ma lei continua, imperterrita, lo fa quel lavoro, così come fa, ormai da tempo, ogni sorta di lavoro che l’aiuti a arrotondare il magro stipendio di portiera notturna. Da anni ha un secondo lavoro. Da troppo tempo, ormai. Ma questa è la vita, la sua. Oggi i calcinacci scendono sui suoi capelli raccolti, un tempo lunghi, curati e lucidi. Prima che si sposasse, prima che si separasse, era bella, agile e più sottile. Poi tutto è cambiato. Calcinacci e polvere avevano iniziato a calarsi sul suo viso, quasi fossero ricordi di bei tempi passati, pronti a coprire speranze e sogni, a cadere, inutilmente, a terra. Il muro si sgretola un po’ così come i suoi intensi rimpianti di scelte non fatte. La scaletta è ripida ora, come le difficoltà e le umiliazioni che ogni giorno deve affrontare. Ma Lina lavora con fatica a viso aperto, con coraggio e ostinazione, grazie anche all’amore ritrovato, un marito che lo è di fatto e non per legge ma che è sempre accanto a lei. Ogni giorno, ogni notte. L’amore era arrivato senza preavviso, un freddo giorno di novembre, durante una visita a un museo. Una delle poche volte che aveva deciso di andare a visitare un’antica sala piena di busti romani (che avrebbe scoperto essere copie), vi avrebbe trovato la felicità, presentatasi nella voce calda di Lukas che le chiedeva dove semplicemente si trovava il guardaroba. Da allora non si erano più lasciati, nonostante qualche mese di distanza per un lavoro in Bielorussia che Lukas aveva dovuto accettare per mettere da parte qualche risparmio.
Anche Lina lavorava, per lei, per Lukas, per un futuro migliore. Lo aveva sempre fatto, d’altronde. Anche oggi Lina lavora, come sempre. Olio di gomito, colori che se ne vanno, altri che ritornano. Qualche gocciolina di sudore, macchie di vernice bianca e grigia sulla salopette o sulla maglietta a righe e una bottiglia d’acqua ormai quasi vuota.
Un attimo e tutto cambia. Lina scivola, la vedo cadere. Non si fa nulla, credo. Almeno non fisicamente. Sotto la scaletta vi è, infatti, una copia del giornale di ieri, con la lista dei passeggeri dell’aereo abbattuto in Ucraina che scorre sotto i suoi occhi, così come i grani di un rosario scorrono velocemente fra le dita. Improvvisamente quel bel colore chiaro delle iridi diventa scuro. Un momento, una letta prima disattenta e poi freneticamente più attenta a quelle pagine volanti stropicciate e il più nero e profondo baratro sembra avvicinarsi a lei, inesorabile, funesto, spietato, impassibile. Riconosce alcuni nomi, la famiglia della sua migliore amica. Spera solo in un errore di ortografia, errore che potrebbe cambiare tutto. Una lettera, magari una semplice consonante in più o in meno potrebbe fare la grande, l’enorme differenza. Una speranza appesa a una letterina. Se solo fosse così…
Ecco che allora Lina scompare. Ieri c’era, oggi non più. Il lavoro è finito, credo. O forse Lina sta convulsamente cercando l’errore di ortografia.

Il fattore Kc

Nell’era postindustriale, la Città della Conoscenza sorge come l’appello a un più profondo, più lucido e più onesto modo di vivere l’esperienza urbana. Il fattore Kc altro non è che la Knowledge City, la Città della Conoscenza.
Indica l’ambizione di migliorare la vita umana e il benessere individuale, l’elemento umano come base imprescindibile di ogni città intelligente.
Conoscere è tensione, è come la corrente elettrica, se manca nulla si illumina, è il blackout della mente, della propria vita, di ogni cittadinanza.
Ecco perché della Città della Conoscenza non si può fare a meno di parlare, relegare il tutto a una formula, o addirittura presumere di realizzarla senza averne compreso il significato.
Conoscenza è il faro che può illuminare il cammino della città postindustriale, postmoderna alla ricerca di una nuova identità.
Oggi la conoscenza è considerata uno dei beni più preziosi per qualunque impresa che richiede d’essere gestito in modo efficiente ed efficace. Conoscenza significa innovazione di prodotti e di servizi, nuove strutture organizzative che favoriscono la condivisione delle competenze proprie del capitale umano, accelerazione e intensificazione della produzione, dell’utilizzo e della diffusione di nuovi saperi e di nuove tecnologie.
La gestione della conoscenza è determinante per gli affari, l’istruzione, la pubblica amministrazione e la sanità. Non a caso le principali organizzazioni internazionali come la Commissione Europea, la Banca Mondiale, l’Organizzazione delle Nazioni Unite e l’Ocse hanno adottato nei loro indirizzi strategici lo sviluppo e la gestione della conoscenza.
Tutto questo fa da cornice alla realizzazione della città della conoscenza a partire dalla capacità di attrarre, trattenere, integrare talenti e individui creativi. Perché una città della conoscenza compete per la sua vitalità culturale, per le opportunità di lavoro che offre ai lavoratori della conoscenza, per la presenza di strutture locali in grado di attrarli.
Una città della conoscenza è una città che fonda la propria crescita sul sapere, per questo ne favorisce la ricerca, la creazione, la condivisione, la valutazione, il rinnovo e l’aggiornamento continuo.
Il processo di sviluppo di una città della conoscenza non è né breve né semplice. Di conseguenza qualunque sforzo per realizzarla richiede il sostegno attivo di tutta la comunità, dall’amministrazione locale ai cittadini, dal settore privato alle organizzazioni, scuole, università, associazioni, ecc.
L’ambizione di ognuno di noi dovrebbe essere quella di lavorare per collocare la nostra città nel gruppo di testa delle aree urbane della nuova società dell’informazione e della conoscenza del ventunesimo secolo.
Si potrebbe fare puntando, appunto, sul fattore Kc.
A me viene di raccontarlo in questo modo. Che non è utopico, perché già tante città nel mondo, da Cordoba a Rotterdam, da Atlanta a San Paolo, che hanno intrapreso la strada della conoscenza, l’hanno praticato.
Si tratta di indicazioni sulla carta che hanno bisogno di perfezionamenti, di adattamenti o di altro ancora. Nulla che voglia insegnare niente a nessuno, ma solo per dire che, volendo, si potrebbe fare.
Si potrebbe fare che un giorno il Consiglio Comunale iniziasse a dibattere sul come avviare la trasformazione della nostra città, patrimonio culturale dell’umanità, in Knowledge City, in Città della Conoscenza.
Una città che restituisce importanza e centralità ai suoi cittadini e ai saperi, facendo di questi la sua identità, perché risorsa prima della sua crescita e del suo modo di essere. Non più solo città delle biciclette, ma innanzitutto città delle persone, città che radica il suo futuro sul patrimonio umano dei suoi abitanti.
Potrebbe essere che una volta definite le linee strategiche, i punti di arrivo, il Consiglio comunale ravvisasse la necessità di costituire, nelle forme ritenute più opportune, un Consiglio generale e un Comitato esecutivo come responsabili dell’attuazione del programma di trasformazione della città in Città della Conoscenza. Tutte le agenzie vitali della città, economiche, sociali, culturali, scuole e università sarebbero chiamate a farne parte con i loro rappresentanti, tutti impegnati a conseguire questo obiettivo principale.
Il Consiglio comunale, dunque, formalizza il contenuto del piano strategico, definendo indicatori di performance e le istituzioni responsabili dell’attuazione delle azioni prioritarie. Nomina un assessore responsabile del progetto “Città della conoscenza”, il suo compito principale è quello di promuoverne lo sviluppo, lavorando orizzontalmente all’interno della amministrazione comunale per renderlo parte coerente e integrante delle politiche degli altri assessorati, cultura, turismo, istruzione, sviluppo urbano, ecc. e mobilitare l’intero sistema degli stakeholder.
Fondamentale è che chi amministra la città sappia stimolare l’iniziativa e la partecipazione dei settori privati, fornendo reti avanzate per la comunicazione, infrastrutture energetiche, sistemi di trasporto e quant’altro.
Se ci sono aziende municipalizzate per i trasporti, l’energia, l’igiene pubblica e altro ancora, sarebbe davvero così eretico incoraggiare lo sviluppo di “un’impresa della conoscenza”? Ben altra cosa dalle “fondazioni” che promuovono il mercato degli eventi culturali. Un’azienda autonoma completamente patrocinata dal Municipio e responsabile per lo sviluppo economico complessivo della città, attuando una serie di progetti legati alla strategia “Città della conoscenza”.
La città, nonostante ogni critica e ogni abuso, rimane il motore del progresso e dell’uomo, è questo che rende la città l’invenzione più grande della nostra specie.
Le città non sono solo strutture e memorie, le città sono prima di tutto le persone. La grandezza di una città è sempre venuta dalla sua gente, non dai suoi edifici. È tempo di tornare alla gente ad essere cittadini della propria città e per la propria città. Sempre più compito dell’amministrazione cittadina è quello di occuparsi delle persone che la città abitano, in modo che l’identità della città sia quella dei suoi cittadini.

Una rilettura del conflitto israelo-palestinese sperando
si metta la parola fine

Finalmente lo scorso 27 agosto su Gaza è scoppiato il cessate il fuoco illimitato (così l’accordo) e speriamo che stavolta regga davvero.
Il conflitto era iniziato l’8 luglio dopo l’uccisione per mano di un clan locale che si rifa ad Hamas di tre studenti di una scuola rabbinica: Eyal, Naftali e Gilad.
Si è letto e sentito di tutto, anche su Ferraraitalia, su questo ennesimo conflitto israelo-palestinese, con responsabilità riconducibili principalmente, se non esclusivamente, su Israele.
Il registro è abbastanza noto: dalla negazione dei sacrosanti diritti palestinesi, all’uso sproporzionato della forza, all’espansionismo israeliano messo in atto con una politica insediativa a dir poco contestabile e ai limiti della più umiliante segregazione. Da ultimo il “muro della vergogna” (come è stato chiamato), costruito da Israele in Cisgiordania nel 2002. Fino all’accusa di un atteggiamento sistematicamente discriminante, chiamando in causa addirittura la categoria sensibilissima, per il contesto, della pregiudiziale razziale.
È innegabile che, come accade per ogni conflitto, anche in questo caso il prezzo più pesante lo abbia pagato la popolazione civile. Morti che si contano a migliaia, il più dalla parte palestinese e in maggioranza vittime innocenti di una guerra che non hanno voluto, né combattuto. Bambini, uomini e donne, che, da che mondo è mondo, vorrebbero solamente starsene in pace.
La lettura delle responsabilità israeliane, se non tutte quasi, continua a trovare largo seguito anche in Italia, principalmente nella cultura di sinistra, ma non solo. Eppure ammettere diritto di cittadinanza ad un punto di vista diverso può aiutare a farsi un’idea meno frettolosa, rispetto ad uno scenario mediorentale che definire un ginepraio ormai pare quasi sarcastico.
Il peccato d’origine dell’intero problema viene di solito fatto risalire alla decisione Onu del 29 novembre 1947 (risoluzione 181), che prevedeva, è utile ricordarlo, la nascita di due stati indipendenti, ebraico e arabo.
Il 14 maggio dell’anno seguente ci fu l’annuncio della nascita di Israele per bocca di Ben Gurion, leader storico del movimento sionista.
Il giorno dopo (il giorno dopo!) ebbe inizio quella tuttora ricordata come la guerra di indipendenza. Cinque eserciti arabi attaccarono congiuntamente Israele: Egitto, Giordania, Libano, Siria ed Iraq.
Persino la Pravda scrisse in quei giorni: “L’opinione pubblica sovietica non può che condannare l’aggressione araba contro Israele” (solo successivamente l’Urss passò dall’altra parte).
Con una superiorità numerica schiacciante (la sproporzione della forza) gli stati arabi riuscirono a perdere il conflitto, nonostante Israele non si può nemmeno dire potesse contare su un esercito vero e proprio.
I cinque aggressori, sicuri che avrebbero compiuto poco più che una passeggiata, convinsero 250mila palestinesi (su 497mila che se ne contavano nel 1948) a lasciare il paese, nonostante ogni tentativo di dissuasione da parte ebraica, perché di lì a poco avrebbero fatto trionfalmente ritorno da padroni.
La storia, più o meno, si ripete nel 1956, con la campagna del Sinai, nel 1967 (la guerra dei sei giorni) e nel 1973 (guerra del Kippur). Chi se ne intende di queste cose è sostanzialmente concorde nel dire che tutte le volte Israele ha dovuto reagire contro attentati, provocazioni e tentativi di invasione.
Ma perché tanta ostilità del mondo arabo?
La ragione è risaputa, lo stato nato nel 1948 è di fatto un’usurpazione, questa la lettura, di uno storico diritto rivendicato dalla popolazione che da sempre ha abitato la Palestina. Da qui la causa palestinese.
In realtà diversi sono gli elementi che rendono la faccenda meno semplice.
Punto primo: gli esperti concordano nel dire che in fondo la Palestina non è mai stata di nessuno. Fino, per avvicinarci ai nostri tempi, allo stato di assoluti abbandono e incuria nei quali versava quest’angolo di terra durante l’ormai agonizzante dominio turco.
Secondo: insediamenti ebraici hanno praticamente da sempre continuato a coabitare con quelli palestinesi. Nella sola Gerusalemme del 1885, ad esempio, si contavano 15mila abitanti dei quali seimila erano ebrei.
Terzo: gli ebrei, sulla spinta del progetto sionista, le terre in Palestina se le comprarono, spesso a prezzi ben oltre il loro valore. A venderle furono già a partire dall’800 i grandi proprietari terrieri arabi (effendi) residenti al Cairo, Damasco o Beirut, oppure i piccoli proprietari (fellahim). L’iniziativa fu talmente coinvolgente che tuttora è nota col nome di bossolo, ossia il salvadanaio che praticamente ogni famiglia ebraica, dalla Russia agli Usa, nei primi decenni del ‘900 aveva in casa per la raccolta fondi.
È accertato che nel 1945 gli ebrei risultavano proprietari legittimi di 175mila ettari di territorio della Palestina.
Quarto: l’idea del ritorno alla terra dei padri, nonostante la matrice assolutamente laica del sionismo (che non pensò neppure in modo uniforme all’attuale collocazione geografica di Israele), incominciò a coagularsi per il popolo della diaspora da secoli a causa di alcune accelerazioni storiche che qui possiamo solo velocemente ricordare: i sanguinosi pogrom zaristi fra Otto e Novecento, l’ondata emotiva prodotta dal processo Dreyfus nella Francia ottocentesca e l’orrore dello sterminio di sei milioni di ebrei nelle camere a gas naziste.
Questi sono alcuni fra i principali motivi che sono all’origine delle cinque storiche ondate migratorie verso la Palestina (aliyà, che in ebraico vuol dire salire verso Israele) tra la fine dell’800 e il 1948.
Ciononostante il mondo arabo ha per decenni, e in modo compatto, continuato ad opporsi innanzitutto ponendo la questione sul piano militare.
Chi tentò la via dell’accordo di pace pagò a caro prezzo questa scelta. I casi di re Abdullah I di Giordania (assassinato il 20 luglio 1951 davanti alla moschea di Omar a Gerusalemme) e del presidente egiziano Sadat (vittima di un attentato il 6 ottobre 1981, significativamente durante le celebrazioni dell’ottavo anno dalla guerra del Kippur), sono solo due esempi di come il mondo arabo abbia a lungo concepito la risoluzione del problema solo tramite un’unica via: la cancellazione di Israele come ancora si sente da certe dichiarazioni iraniane o di Hamas.
Re Abdullah I scrisse nelle sue memorie che il sionismo non solo poteva contare sui paesi europei che volevano liberarsi dei loro ebrei, ma anche sugli estremisti arabi che rifiutavano qualsiasi accordo.
Parole che, col senno di poi, legittimano anche, in certa misura, una lettura in senso involutivo della dinamica politica interna di Israele. Uno stato e un’opinione pubblica impauriti, che smarriscono la spinta propulsiva dei padri fondatori per rinchiudersi progressivamente in una sindrome da assedio e minaccia continui, verso un mondo arabo che stenta ad vestire i panni di un interlocutore affidabile (uniche eccezioni le aperture delle frontiere nel frattempo con Egitto e Giordania).
Le elezioni israeliane del 1977 segnano la sconfitta per la prima volta dei laburisti (da sempre espressione politica della cultura sionista), aprendo le porte del governo alle destre che intensificano un rapporto con le componenti religiose ultraortodosse, estranee al movimento laico fondato da Herzl. Da allora le istanze del dialogo (specie dopo l’ultimo tragico tentativo di Rabin), stentano ad essere numericamente prevalenti nella società israeliana, a scapito di un nazionalismo che fa della sicurezza e della difesa il proprio punto programmatico centrale.
Dal canto suo la causa palestinese, dopo gli insuccessi militari, sposta la propria strategia dall’impossibilità di una vittoria in campo aperto al terrorismo. Non si contano gli attentati compiuti in aeroporti e città di mezzo mondo dall’Olp a partire dagli anni ’70 con un bilancio di sangue impressionante e soprattutto all’insegna di un’accelerazione che si tende tuttora a sottovalutare. L’obiettivo non sono più gli ebrei d’Israele ma gli ebrei in quanto tali, ovunque risiedano.
Si legge nei commenti a margine del conflitto di Gaza di un nazionalismo ebraico di matrice razzista che ricorda metodi nazisti, mentre si dimentica la strategia dell’Olp che ha insanguinato mezzo mondo per oltre un decennio, sulla base di una sovrapposizione etnica che per il popolo ebraico non veniva usata dai tempi di Hitler.
Un disegno che in Italia arriva a trovare un terreno di sutura nientemeno che con le Brigate Rosse: armi e addestramento in cambio di alleanza in senso antiebraico. Mentre sulla scena internazionale Arafat il 13 novembre 1974 viene ammesso all’Onu come osservatore. C’è chi ha notato che quella è stata la prima volta di ingresso nel massimo organismo internazionale, per un movimento che aveva come obiettivo fondamentale la distruzione di uno stato membro e che rivendicava l’attività terroristica come azione politica.
Un ulteriore motivo di confusione è dato, magari inconsapevolmente, dall’espressione “Stato ebraico” per definire altrimenti Israele, che spesso si legge anche in autorevoli commentatori.
È la conseguenza di un’errata traduzione, ormai entrata nella vulgata comune, del famoso libro di Theodor Herzl “Der Judenstaat” (1896): Lo stato degli ebrei e non Lo stato ebraico.
Differenza non da poco, perché a tutt’oggi Israele è popolato da un buon 20 per cento di palestinesi e intere città sono palestinesi che possono eleggere sindaci e rappresentanti al parlamento.
Certamente, come in tutti i conflitti, le ragioni e i torti non stanno mai da una parte sola.
Gli studiosi sono d’accordo nell’individuare un errore storico compiuto dalla causa sionista. Un errore di sottovalutazione è stato chiamato.
Il pensiero sionista, all’origine dello stato d’Israele, è figlio, è bene ricordarlo, dei principi illuministi della rivoluzione francese, nella sua anima più liberale e mitteleuopea, e del pensiero marxista e socialdemocratico russo ed est europeo, la cui realizzazione principe è il sistema collettivo del kibbuz.
L’ideale, laico, era quello dunque di una liberazione del popolo ebraico dopo secoli di diaspora, ma non a prezzo della riduzione in schiavitù di altri.
Il sionismo, specie nella sua declinazione più di sinistra, riteneva che Israele avesse la missione morale di realizzare una nuova comunità umana sulla via di una ricchezza e prosperità oltre e fuori dal capitalismo. Qui forse trova espressione il rapporto di amore-odio con la vecchia Europa, nel solco della quale quell’ideale prende forma e nel quale l’ebraismo ha trovato dimora certamente, ma pur sempre nella condizione di diaspora e troppo spesso in quella del ghetto, del pogrom, della sopportazione, dello scherno, della cacciata. Fino alla follia bestiale delle leggi razziali e della soluzione finale per mano nazista.
La fiducia positivistico-ottocentesca che il benessere creato dal duro lavoro della terra (finalmente una terra) avrebbe costituito occasione di prosperità anche per la popolazione arabo-palestinese, altrettanto vessata e sfruttata da secoli, e che insieme ebrei e arabi avrebbero costruito con la forza delle loro braccia un futuro di reciproca emancipazione, liberazione e di pace, fu l’errore principale commesso dai leader del movimento sionista.
Sottovalutarono che parallelamente al nazionalismo ebraico (perché questo era il sionismo: Israele è stato chiamato anche il compimento del Risorgimento sionista) esisteva un nazionalismo arabo. Certamente meno evidente e strutturato, ma c’era.
E questo si è rivelato un errore fatale, che però neppure la comunità internazionale seppe leggere e comprendere.
Dal canto suo il mondo arabo ha insistentemente reagito mettendo per anni la partita sul piano bellico, risultandone sempre sconfitto e per questo cercando e imbastendo alleanze internazionali, che spesso non avevano nulla a che fare con la soluzione del dramma palestinese.
Da qui non pare appropriato definire espansionista Israele, perché le vittorie militari sono sempre state il risultato di una riposta ad un’aggressione iniziata da altri; almeno quattro volte dal ’48 al ’73.
Certamente molti rimangono i nodi tuttora irrisolti di una questione mediorientale che continua ad intersecarsi con nuovi elementi di complessità e preoccupazione che sembra non abbiano fine (il grande tema dell’Islam), ma, forse, tenere presente anche questa chiave di lettura potrebbe servire a qualcosa.
Forse.