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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


La sbiciclettata su Roma

Da Ferrara a Roma in bicicletta. Un’esperienza da consigliare. Caldamente, vista la stagione.
Basta avere un po’ di gamba, una buona bici e qualcuno che sappia leggere mappe e carte geografiche.
Non certo come il sottoscritto che per tentare di rimediare alla totale incapacità di individuare i quattro punti cardinali in un tempo ragionevole si è pure iscritto ad un corso Cai e durante la lezione in montagna di orientamento è stato subito apostrofato dall’istruttore, perché stavo guardando la carta delle cime davanti a me a rovescio.
Siamo partiti in sette, i Magnifici sette. Sull’aggettivo è lecito avere qualche dubbio, ma sul numero assicuro che la certezza è apodittica.
Merito dell’organizzatore avere distribuito tappe alla portata di tutti e lungo città e luoghi incantevoli. San Piero in Bagno (che finora credevo fosse un’immagine sacra in intimità), Sansepolcro, Perugia, Todi, Otricoli e Roma.
Un tessuto di centri incredibilmente ricchi di storia e arte, ricamato da un paesaggio – quello umbro e laziale – incantevole.
È l’Italia, che nonostante tutti i lavori pubblici e fuori dalle notizie dei telegiornali è di una bellezza infinita.
Si passa, senza sosta, dalla Risurrezione e dal Polittico della Misericordia di Piero della Francesca a Sansepolcro, passando per Perugia (dove basta una visita agli affreschi di Perugino del Collegio del Cambio per rimanere senza parole), e poi al duomo e alla piazza di Todi, e ancora giù fino alla capitale.
Qui l’imbarazzo della scelta nella città più bella al mondo impone una selezione. E così, da un lato, un tour caravaggesco per San Luigi dei Francesi, Sant’Agostino e Santa Maria del Popolo e, dall’altro, una puntata all’insegna del Romanico a San Giorgio in Velabro e, per finire, a Santa Maria in Trastevere.
Ecco, di fronte ad una magnificenza che leva il respiro, ad una costante del bello che per quel poco di mondo che ho visto non mi pare abbia eguali, almeno in queste proporzioni, chiunque riterrebbe di avere una risorsa in quantità tale che nemmeno gli arabi con tutto il loro petrolio penserebbero così in grande.
E invece.
Per l’intero itinerario, zero, o quasi, piste ciclabili. Per buona parte del viaggio abbiamo percorso la strada provinciale Tiberina (se non ho capito male), che addirittura in alcuni tratti è stata chiusa al transito perché, immagino, non ci sono soldi per la manutenzione. È vero che così diventa una lunga ciclabile in mezzo ad un paesaggio sorprendente, ma è altrettanto vero che la vegetazione si sta impadronendo della strada.
Per chi, poi, ha già fatto in precedenza la Innsbruck Salisburgo sempre su due ruote, ha visto che altrove si favorisce questa forma di turismo con un servizio di trasporto bagagli. Lo paghi, ma c’è. In Italia non sai a chi rivolgerti e quindi ti porti il bagaglio sulle spalle. Dall’inizio alla fine.
Viene facile dire che per chi dovrebbe puntare sul turismo per vincere facile, non pare una strategia di marketing vincente quella della selezione darwiniana del visitatore.
Infatti i non molti ciclisti che si incontrano – sostanzialmente stranieri – sembrano dei Cristoforo Colombo che non sanno bene su che sponda approderanno la sera.
Nella capitale, poi, uno che gira in bici sembra un marziano.
Arrivi alla stazione di Prima Porta per caricare il tuo destriero sul treno, ed evitare la bolgia della tangenziale, e per tutta risposta ti scontri con un categorico “None” del capostazione.
Dopo aver dato fondo inutilmente a tutte le capacità diplomatiche, riprendi in mano la mappa (non io, per carità) e studi un percorso alternativo.
Ho notato che fra controviali, come nel nostro viale Cavour, e marciapiedi larghi da farci un’assemblea di condominio, a occhio e croce non dovrebbe essere una spesa da far sballare il patto di stabilità attrezzare Roma con piste ciclabili. Tante soluzioni sembrerebbero a portata di mano. Basterebbe, credo, tirare una riga di vernice per separare tanti marciapiedi in due: da una parte i pedoni e dall’altra le bici. Così come i controviali (vedi la Nomentana) si potrebbero riservare alle bici, anziché alle auto.
Infine c’è il viaggio di ritorno.
Non c’è un treno che da Roma a Ferrara carichi le due ruote. Perciò occorre prendere solo convogli regionali: Roma-Firenze, Firenze-Prato, Prato-Bologna e Bologna-Ferrara.
Va detto che è encomiabile la disponibilità e cortesia dei capitreno, che spesso si fanno in quattro per far salire velocipedi anche oltre la disponibilità (sono numerosi ormai i pendolari che si portano con sé la bici nei loro spostamenti di lavoro o studio).
Ma chi ha fatto almeno una volta la Dobbiaco Lienz, sa che a fine treno nella stazione della cittadina austriaca c’è un vagone che ne carica un numero esagerato e che nel solo Trentino puoi salire con la tua amica di metallo su qualsiasi treno.
Qualcuno ha detto che il solo mercato tedesco delle due ruote a pedali si aggira sui 3,5 milioni di turisti.
Come si fa a continuare a sfornare spot in cui fior di attori e star dello schermo ti dicono con fare suadente, come se dovessi andare a letto con Pamela Anderson: “Vieni nelle Marche”, piuttosto che in qualunque altra regione italiana (le immagini incantevoli non mancano e i fotografi fanno oggettivamente poca fatica), se poi una volta varcato il confine pare ci sia una gara a inscenare il peggior ufficio complicazioni affari semplici?

Nove mesi di attesa. E la borsa di studio diventa un miraggio per settemila studenti

di Emiliano Trovati

Sostenere economicamente gli studenti meritevoli, attraverso la messa al bando di borse di studio. L’Inpdap da anni, con il progetto #Homo Sapiens Sapiens, finanzia il percorso formativo di migliaia di giovani, rispondendo in maniera lodevole al precetto costituzionale “l’istruzione superiore deve essere accessibile sulle basi del merito”. Un’attività però, che, nonostante venga garantita in anni difficili, sconta il peso della macchina burocratica pubblica, abbandonando i beneficiari nel purgatorio delle borse di studio.

Sette mila sussidi per lo studio, una grossa opportunità offerta dall’Inpdap – oggi integrata nell’Inps – per altrettanti studenti universitari, masterizzandi, dottorandi e tirocinanti, figli di ex dipendenti pubblici oramai in pensione, che ne facciano richiesta. Si chiama #Homo_Sapiens_Sapiens ed è una delle iniziative welfare dell’ente di previdenza, per incentivare lo studio e la ricerca italiani. Il progetto esiste da diversi anni e anche se non ha mai brillato per velocità di lavorazione delle pratiche e liquidazione delle borse ai vincitori, quest’anno, a detta di molti studenti, che ne hanno fatto domanda, l’attesa è stata un vero e proprio “purgatorio”.
Sono passati oltre nove mesi dalla pubblicazione del bando sul sito dell’Inps – era il 21 ottobre scorso – ma a tutt’oggi le borse non sono ancora state pagate. Questa lunga attesa, fatta di graduatorie pubblicate in ritardo e richieste di documenti aggiuntivi da consegnare, si è nutrita per tutto questo tempo della speranza dei ragazzi ed è stata aggravata poi dalla scarsa informazione della pubblica amministrazione.
In questa storia sono due gli aspetti che catturano l’attenzione: la mancanza del principio di ‘giusta attesa’, quando a dover pagare è il pubblico, e la difficoltà dei beneficiari di ottenere informazioni chiare e puntuali riguardo l’iter della propria richiesta.
Parlando con alcuni dei protagonisti, quello che emerge è l’impotenza del singolo di fronte all’ente pubblico, come un novello Davide che, solo e senza alcuna speranza di riuscita, deve affrontare le lungaggini di un Golia troppo potente che lo sovrasta. Questa condizione è espressa in maniera lucida dall’esperienza di Lorenzo, trentenne della provincia di Bologna, che proprio quel 21 novembre ha fatto richiesta di borsa di studio per svolgere un tirocinio, in una importante impresa locale.
La sua domanda va a buon fine, a marzo escono gli esiti delle graduatorie e Lorenzo ci rientra a pieno, è ottantesimo. Quindi in breve si aspetta di ricevere il suo accredito, necessario per sostentarsi durante il periodo lavorativo che lo attende. Così non è però. Nonostante sia vincitore, infatti, il giovane deve fornire dei documenti aggiuntivi inerenti al suo tirocinio. Per tenersi aggiornato sulla situazione verifica costantemente l’iter della pratica dalla sua pagina personale all’interno del sito dell’Inps, da dove ha fatto domanda di borsa di studio. In una sezione dedicata, chiamata ‘iter personale’, l’ente informa sullo stato dei lavori. Nella sua, come in quella di molti altri, appare la scritta ‘Domanda approvata – attesa documentazione’. Nel frattempo si fa aprile e Lorenzo, come altri, si procura i documenti necessari da consegnare all’ufficio di competenza per territorio, quello di Bologna, in via Gramsci. Da allora, della documentazione consegnata, della borsa di studio e dei tempi per ottenerla, non se ne sa più nulla. Come lui stesso racconta: “Ho consegnato i miei documenti ad aprile, ancora prima che mi venissero richiesti per mail, non appena all’interno della mia pagina personale è apparve la dicitura ‘approvata – attesa documentazione’. Sono andato, ho consegnato i documenti e me li hanno anche protocollati. Da lì, dopo alcuni giorni, non vedendo modifiche, ho iniziato ad inviare alla responsabile dell’ufficio ogni lunedì una mail per avere informazioni. Fino al 3 giugno non ho avuto risposte. In quella data, poi, ho ricevuto una mail dall’ufficio provinciale, diciamo, poco garbata, in cui mi si chiedeva di smettere di continuare a mandare mail, perché intanto la mia pratica era in lavorazione”.
C’è un altro modo, però, per avere informazioni, e Lorenzo prova ripetutamente anche questa strada, chiamare il call center dell’Inps, al numero 06.164.164. Anche qui, però, non ottiene risposte migliori. Nessuno sa dirgli che fine abbia fatto la sua pratica e a che punto della lavorazione si trovi. “ Ho provato a chiamare il centralino – racconta – anche se avendo fatto il centralinista all’università, per pagarmi gli studi, so come funziona, i ragazzi che rispondono non ne sanno più di quelli che li chiamano. E difatti non hanno saputo dirmi nulla di più di quello che potevo vedere io a video all’interno della mia pagina personale: “Approvata – Attesa documentazione”.

Una situazione del tutto simile la vive Antonella, studentessa dell’università di Bologna, che frequenta un master presso la sede distaccata di Modena. La ragazza, a marzo, secondo la graduatoria, risulta vincitrice della borsa, quindi, come le viene chiesto da una mail, fornisce i documenti che attestano la sua frequenza al master. Porta il materiale alla sede Inps di riferimento e attende con calma l’erogazione della borsa. Per controllare l’avanzamento della pratica, si informa giornalmente dalla pagina Facebook ufficiale dell’Inps, all’interno della quale, con cadenza irregolare, l’ente dirama dei post che informano, in maniera generica, sul programma ‘#Homo_Sapiens_Sapiens’. Ogni post pubblicato viene commentato da centinaia di lamentele di giovani in attesa dei propri soldi. Uno di questi mette in allarme la ragazza. Il 10 giugno scorso, sulla pagina Facebook, appare questo comunicato: “#Homo_Sapiens_Sapiens. La procedura di pagamento per le borse di studio Homo Sapiens Sapiens è stata ultimata”. Antonella, entusiasta, controlla immediatamente il proprio conto corrente, accedendo dal sito della sua banca, ma con grande sorpresa scopre di non aver ricevuto nessun accredito del valore della borsa. “Preoccupata – racconta – ho chiamato immediatamente il call center per capire cosa fosse successo. Ho avuto paura di aver sbagliato qualcosa nel presentare i documenti. Ho temuto di aver perso la borsa. Dal centralino, invece, una ragazza evidentemente stressata e dal tono contrariato, mi ha risposto che a loro non risultava conclusa la procedura di pagamento e che sicuramente quel post era frutto della mancanza di senso dell’umorismo di qualcuno dell’ufficio stampa”. Chi sia a gestire il profilo Facebook dell’Inps non si sa, è certo, però, che lo dovrebbe fare diversamente e meglio. D’altronde basta guardare, come detto prima, ai commenti che seguono ogni post pubblicato, per leggere centinaia di imprecazioni, se non del tutto giuste, quasi nessuna sbagliata, fatte da giovani, spazientiti e in cerca di chiarimenti, e indirizzate al mittente.

L’avvocato Bruno Barbieri, presidente del Codacons per la regione Emilia Romagna, esperto di casi affini a questo, facendolo per lavoro, ha condiviso con noi parte della sua conoscenza professionale, dando alcuni consigli su cosa fare in situazioni simili. Sui due aspetti della vicenda (attesa interminabile e mancanza di informazioni chiare), l’avvocato spiega che, per il primo aspetto, c’è solo una cosa da fare. “Sulla tempistica – dice -, per chi non è addetto ai lavori, non la interpreta andando a leggere il bando, perché a volte alcune cose non sono scritte in maniera chiara. In questo caso specifico, non essendo indicate scadenze da rispettare, il beneficiario ben posizionato in graduatoria, che ne avesse l’esigenza, può forzare la mano promuovendo l’art.700 (un procedimento d’urgenza) davanti al Tar, dicendo, guardate a me i soldi servono adesso perché ne ho bisogno per pagare la rata del master per il quale ho fatto richiesta. In questo caso il Tar potrebbe dare ragione ed ordinare alla pubblica amministrazione di pagare subito”. Comunque, il primo passo da compiere per l’avvocato è la diffida, “un atto con cui la persona intima alla controparte, questa volta un ente pubblico, di adempiere ad un fare o dare entro un determinato termine, normalmente 30 giorni. Se questo non viene rispettato si va dal Tar, chiedendo al giudice di imporre, con un atto di autorità, di fare ciò che deve”. Un’ulteriore cosa da fare, secondo Barbieri, per spingere un ente a velocizzare le pratiche, può essere “prima dell’azione giudiziaria, affiancare a questa i mass media che danno forza all’azione, e a volte nel giro di poco si risolve, perché l’Ente non vuol fare brutta figura”. Nell’affrontare un ente pubblico, quindi, conoscere qualcuno a striscia la notizia aiuta.
Per il secondo aspetto, e cioè “sul problema della trasparenza dell’operato della pubblica amministrazione, così come degli istituti bancari e degli altri soggetti che fanno attività di pubblica utilità, va detto che l’operato di questo dovrebbe essere trasparente sin dall’inizio. Quando uno vede il bando, dovrebbero essere previste quante più possibili situazioni che si possono verificare in modo classico nello sviluppo della vita dello stesso. Se così non è, appunto, la bontà della pubblica amministrazione, piuttosto che una fondazione, si vede proprio dalla capacità di rispondere in maniera chiara alle domande degli utenti”. Anche in questo caso, però, l’utente ha le mani legate. “Essendo, gli enti pubblici, – conclude Barbieri – soggetti diretti da persone messe lì da politici, per legge, l’unico strumento che si ha, oltre l’autorità giudiziaria, è di dare un giudizio all’atto dell’esercizio del diritto di voto”.

[© www.lastefani.it]

Cultura, plurale rivoluzionario. In un film l’utopia possibile di Stefano Tassinari

di Silvia De Santis

Tass – Storia di Stefano Tassinari”, il film del regista Stefano Massari che racconta la vita di Stefano Tassinari, è stato presentato nei giorni scorsi in anteprima Bologna al Biografilm festival. E’ il solido ritratto di un uomo eclettico, scrittore, giornalista e attivista politico. Cinquanta voci (tra cui Marcello Fois, Carlo Lucarelli e Fausto Bertinotti) raccontano in un’opera corale l’intellettuale-militante ferrarese scomparso due anni fa, che ha fondato “Letteraria” e l’“Associazione degli scrittori” bolognesi.

Un eretico senza scisma, un uomo che“pur schierato da una parte, pur aderendo a una fede, quella comunista, conservava la propria libertà” lo definisce Fausto Bertinotti. Per altri, “un corteggiatore instancabile” sempre intento a tessere reti di persone, “un trascinatore con le parole e con l’esempio”.
In “Tass – Storia di Stefano Tassinari” (regia di Stefano Massari, fresco di montaggio) cinquanta voci raccontano questo peculiare scrittore-giornalista-attivista politico di Ferrara, moderno prototipo dell’“intellettuale organico gramsciano”, che ha tracciato un solco profondo nella storia culturale bolognese. Ricercatore insaziabile di nuove forme, inventore di originali percorsi comunicativi, Tassinari ha dato vita all’“Associazione degli scrittori”, per far sì che anche letterati e uomini di cultura tornassero ad assolvere ai propri doveri nei confronti della collettività e si riappropriassero della loro intrinseca funzione sociale.
In un documentario-fiume di centotrenta minuti, il regista Stefano Massari ricostruisce per tappe la biografia di un autore poliedrico che fu narratore, giornalista, poeta, critico letterario, musicista, militante politico. Scrutando nel suo passato si torna indietro nel tempo a Ferrara, dove Stefano era nato da una famiglia piccolo borghese. Si va poi a Roma, nella casa di via Marchetti, durante i suoi anni universitari, quando la “luce ribelle nello sguardo” si era fatta azione politica. Poi i viaggi: il primo, di “formazione”, nel 1981, in Perù per sperimentare il limite tra estremismo di sinistra e terrorismo bombarolo; il secondo tre anni dopo, in Nicaragua, per testimoniare, telecamera alla mano, gli effetti del socialismo tropicale dei sandinisti al governo.
Gli ultimi dodici anni di vita di Tassinari sono quelli più prolifici, in cui diverse forme espressive si intrecciano e sovrappongono, delineando un intellettuale instancabile, “il commissario politico Tassinari”, lo chiama Carlo Lucarelli, con un’incrollabile fede nella coralità.
In un’intervista a La Stefani, Stefano Massari racconta il suo film, presentato in anteprima alla rassegna cinematografica Biografilm Festival a Bologna .

Conoscevi personalmente Stefano?
Ho conosciuto Stefano nel 1996 quando, per motivi di lavoro, mi sono trasferito da Roma a Bologna. Essendomi sempre interessato di letteratura e scrittura militante non ho potuto non incontrare Stefano, sopratutto in quelli che erano anni caldi per la città. Ma non frequentavamo le stesse cerchie. Lui era uno scrittore, io un poeta, bazzicavo ambienti più laterali, sotterranei, ero amico di Gilberto Centi. Stefano lo incrociavo spesso alle presentazioni di libri ma non conoscendolo avevo un’opinione errata sul suo conto: complice, forse, la mia natura ostinatamente anarchica, credevo fosse un uomo dell’apparato, una specie di accademico non accademico, un embedded. Mi sbagliavo completamente.

Quando hai cambiato idea?
Ci siamo avvicinati sopratutto negli ultimi anni, quando per vicissitudini familiari sono andato a vivere fuori Bologna e con la mia attuale compagna abbiamo aperto una libreria indipendente. Organizzavamo attività culturali, presentazioni di libri, rassegne di autori e Tassinari era sempre lì, in prima linea, per forza. Così, col tempo, siamo diventati molto amici. Abbiamo anche lavorato insieme: abbiamo condotto un paio di puntate di “Passioni”, la versione radiofonica di “Raccontando”, uno spettacolo che Stefano teneva a teatro, in cui di volta in volta sceglieva un autore e lo approfondiva.
L’ultima puntata andò in onda su Farheneit due giorni dopo la sua morte, l’avevamo registrata un mese prima. Nonostante la malattia Stefano lavorò fino all’ultimo e intensamente. Probabilmente i problemi di salute intensificarono direzioni che in fondo erano già state prese: Stefano era abituato a “mettere tanta carne al fuoco”, ad avviare continuamente progetti, era difficile stargli dietro, andava a un passo che non era comune. Già da malato, quando usciva un suo libro, faceva novanta presentazioni che per lui non erano un’occasione di marketing, ma un pretesto per entrare nel dettaglio delle storie, raccontarsi. Non ha mai mollato un secondo. Il suo è stato un percorso interrotto solo dalla malattia.

L’Associazione degli Scrittori è uno dei progetti spezzati?
L’Associazione degli Scrittori era un progetto di ampio respiro e di larghe prospettive che, nelle intenzioni di Stefano, avrebbe fatto di Bologna la capitale della scrittura, pur mancando un editore di riferimento. Era l’incarnazione ideale di quella che secondo lui era la missione dello scrittore: esercitare una critica nei confronti della società, mettere a disposizione il proprio sguardo, pensiero e posizione per creare una possibilità di dialogo con chi non è solo il proprio pubblico, ma potenzialmente anche un popolo. Oggi abbiamo sempre più spesso presunti intellettuali che si collocano in nicchie di mercato e elogiano qualunque cosa convenga loro, sempre confinati all’interno di un certo specialismo. Proprio contro questa visione si batteva Stefano, che voleva far uscire ciascuno dal proprio guscio e spingeva persone profondamente diverse, con forme e stili molto lontani tra di loro, ad aggregarsi, a fare rete (di cui l’idea della Casa degli scrittori è un esempio). Diceva Tass: “Non potete solo fare i divi crogiolandovi nei vostri successi, avete una responsabilità sociale”. Lui che aveva un rispetto e un amore estremo per la differenza, ha sempre spinto verso la dimensione del noi.
Per dirla con le parole di Lucarelli, l’Associazione oggi è “in stato di sonno”, non è un progetto finito. Probabilmente la sua incarnazione principale è ‘Letteraria’, la rivista che Stefano aveva messo in piedi.

Cosa ti ha lasciato in eredità Tass?
Una delle cose che ho imparato da lui è stata la capacità di mettere insieme le intelligenze per affrontare problematiche anche di tipo sociale e politico. E poi il senso del noi: ha sempre cercato di tenere viva la dimensione collettiva, senza farne un’idolatria nostalgica né trasformandola in personalismo, ma tenendola come stimolo alto del suo fare. Ha sempre cercato di avere un ruolo di ponte: tenere insieme l’io e il noi. Una scelta che ha scontato anche dal punto di vista del riconoscimento culturale perché era uno che non si piegava: mediava, ma fin dove poteva, una figura poco italiana da questo punto di vista. volutamente non era una persona scomoda: aveva le idee molte chiare, con un rispetto e una curiosità estrema verso tutto, ed era un perfezionista. Io stesso sono stato “vittima” di un paio d’ore di meticolosa spiegazione matematica sulla roulette – un suo piccolo vizio.
Negli anni ho scoperto quanto mi abbia influenzato il suo modo di fare progettazione culturale. Con Stefano condividevo la determinazione – autolesionistica quasi – di tentare di incidere sempre, di dire qualcosa di importante, di lasciare un segno, oltre alla voglia di sperimentare sempre nuove forme espressive. Io ho sempre lavorato con i video, i suoni, cercando un percorso di disciplina e di rigore con ognuna delle forme che esploravo e che tentavo di far interagire. Lui, questo, lo apprezzava molto.

Qual è il ritratto di Stefano che viene fuori dal film?
Non lo so ancora, perché ho finito di montare il documentario il giorno prima della proiezione. La versione tagliata dura due ore e dieci: è un kolossal dei documentari che sicuramente tradisce la brevità televisiva, ma questa volta mi sono messo interamente a servizio della storia, impossibile da contenere in qualsiasi formato precotto.
Non avevo una sceneggiatura o una traccia definita perché per me la storia di Stefano è stata una scoperta, soprattutto il suo passato ferrarese, poco conosciuto ma fondamentale per capire tutta la sua biografia. In questo lavoro si sollecita l’uso della memoria per accenni, ma l’intento non è nostalgico né celebrativo, mira piuttosto a offrire una comprensione del presente. Volevo far prendere coscienza che certi valori e motivi sono ancora attualissimi e possono essere strumenti culturali da impiegare nel nostro tempo. Tassinari ha sempre incarnato un’altra possibilità e nel film ho cercato di dare conto soprattutto di questo: che il suo progettare era possibile, che esistono opportunità alternative al personalismo e al divismo, malattie odierne di quasi tutti i mondi creativi.

Come hai organizzato il lavoro?
Nella realizzazione del video mi ha molto aiutato Stefania, la moglie di Stefano. Il primo elenco di persone che avevo deciso di intervistare contava novantatre nomi. In un primo momento l’ho ridotto a trentacinque, per poi tornare a cinquanta, agli amici veri, quelli più stretti. Nel documentario ho usato spudoratamente tutte le testimonianze, senza gerarchie. Di protagonisti ce n’è solo uno: Stefano e la sua storia.
Il documentario per me è uno strumento di ascolto, ricerca, studio, mentre la scrittura è il luogo in cui ricordo, tento di ridare forma a qualcosa che ho vissuto per restituirla e metterla in contatto col mondo e col destino. Ho lavorato a questo video con la sensazione di un senso di perdita che mano a mano si manifestava accanto a me. Mi sono ripetuto: “Abbiamo perso qualcosa di grosso”, che a volte abbiamo anche fatto fatica a capire.

Nel film, il pittore Concetto Pozzati dice: “Senza Stefano non è una voce in meno, è la voce che manca”. La voce di una persona che, in nome di una ideale in cui credeva, ha messo insieme tutti coloro che condividevano quel progetto di trasformazione affinché le loro voci unite diventassero un grido di rivolta e l’annuncio di un mondo possibile.

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Professione blogger: tutti i segreti del mestiere

di Alice Magnani

Parlano di moda, cinema, design, enogastronomia e sono le più frizzanti del momento. Stiamo parlando delle blogger, ragazze che trovano nel web un modo per condividere le loro passioni o per trovarne sempre di nuove. Ne abbiamo intervistate tre per capire come funziona il loro mondo, la ‘dimensione blog’, da molti conosciuta ed esaltata e da qualcuno criticata. Ma partiamo dai fondamentali. Che cos’è un blog? La parola blog è costruita sui termini web-log che indicano un vero e proprio ‘diario in rete’, un particolare tipo di sito web in cui i contenuti sono visualizzati in forma cronologica. Un blog può essere gestito da uno o più blogger che pubblicano, più o meno periodicamente, contenuti multimediali, in forma testuale o in forma di post, molto simile all’articolo giornalistico.

“Con il mio blog riesco a far vivere tutte le mie passioni, mi ha fatto capire che tutto è raggiungibile” così Maria Andreucci ci racconta il suo blog, la sua avventura, “Italian cooking adventure”, iniziata quasi per caso nel 2010. Il pranzo domenicale in famiglia preparato con cura, la produzione del pane che inizia nel cuore della notte, l’asta del pesce, o ancora i curiosi personaggi dell’ex mercato coperto di Cesena, la sua città: queste le storie che la affascinavano e che decide di condividere nel web. Dunque, non solo cibo nel suo blog, ma vere e proprie storie legate ai personaggi che ci ruotano attorno, alla convivialità, e al territorio. “Racconto l’Italia tramite la lente del cibo” dice Maria, spiegando che la creazione del suo blog non è stata altro che una scusa per approfondire ciò che più le piace. Ad ispirarla i blog americani, che le hanno fatto capire il ruolo fondamentale della fotografia per raccontare un Paese, le sue storie e le sue curiosità. Poi Maria parte per Londra, un’esperienza unica per studiare l’altra sua grande passione: il cinema. Ed è proprio a Londra che capisce quanto gli stranieri per primi amino l’Italia e la sua gastronomia, e le possibilità che il suo blog può offrirle: inizia a tradurlo in inglese e il numero dei visitatori cresce; oggi è seguita da Regno Unito, Usa, Danimarca, Svezia, Norvegia e Giappone. “All’estero non esiste il concetto di famiglia riunita a tavola come c’è da noi, è per questo che quando parli di Italia ti si aprono tutte le porte. Non a caso, i maggiori imperi economici che parlano di cucina italiana si trovano all’estero” spiega Maria, che ci tiene a sottolineare come “il mio blog non è un ricettario, ma un panorama di avventure gastronomiche: ristoranti, cultura gastronomica popolare e tutto quello che c’è dietro il cibo”. “Un altro elemento da cui i lettori stranieri sono affascinati è il rapporto diretto con il produttore, che loro spesso non hanno- ci dice Maria- ma questo non significa che in Italia il mio blog non sia letto, perché anche gli italiani hanno iniziato a capire il valore che abbiamo a disposizione e a manifestare un po’ di sano orgoglio”. Al momento Italian cooking adventure riceve circa 200 visite al giorno facendosi conoscere in tutto il mondo, anche grazie alla diffusione nei social network come Facebook ed Instagram.
Ma qual è il ricavo economico dietro al blog?
“Per poter guadagnare tramite il blog sono entrata nei backstage dei ristoranti, ho studiato la preparazione dei menù, seguito il processo di preparazione dei prodotti delle singole aziende, fatto tour alla scoperta delle eccellenze del territorio. Ma il blog è stato, soprattutto, anche un punto di partenza per farmi conoscere e ha fatto si che io possa portare avanti collaborazioni di tipo continuative”.

Un caso da imitare quello di Maria, che tramite lo studio autonomo di saggi e riviste sull’enogastronomia e tanta voglia di imparare, è arrivata a collaborare con i migliori cuochi e a partecipare agli eventi icona del settore come la fiera ‘Cibus International Food Exhibition’ di Parma, ‘Identità golose’ a Milano o ancora il ‘Festival del cinema’ di Venezia per far conoscere l’Italia tramite “la lente del cibo”.

 

Un’altra storia quella di Valentina Veneziano che, con i suoi blog “Cabinarmadio” e “Valinapostit” , riesce a far convivere le sue più grandi passioni: moda, arredamento, decorazioni fai-da-te e ancora il cinema. Quando le chiediamo che cosa significa per lei il suo blog ci risponde “è come un magnifico quadro in una stanza semivuota, è ciò che mi dona il sorriso ogni giorno!”. Un entusiasmo tipico, il suo, delle persone che vivono coltivando i loro interessi e che non si annoiano mai. Valentina apre il suo blog “Cabinarmadio” nel 2012, dopo aver vinto il concorso come style blogger organizzato dalla rivista “Style.it”. Suggerimenti sui film da vedere nel tempo libero, proposte di outfit ispirati alle stagioni o alle tendenze, idee per regali, home-decor, profili Istagram da seguire: è questo ciò che Valentina ama condividere con le sue lettrici. “In Cabinarmadio mescolo quello che piace a me per prima e quello che credo possa piacere alle lettrici, i miei post non sono strettamente legati a ciò che va di moda – ci spiega Valentina, che sul blog si firma come ‘Valentinautoironica’ -, visto che cerco di non prendermi mai troppo sul serio”. Valinapostit, l’altro blog di Valentina, è invece più personale, con una grafica e colori scelti da lei. “Aprilo è stata una scelta personale, per poter scrivere tutto quello che voglio, è il mio grande esperimento personale” ci spiega. Un esperimento che osiamo definire vasto, vista la suddivisione in cinque tematiche, in cui Valentina condivide con i lettori pareri di moda, racconti dalla sua vita privata, testimonianze di viaggi, suggerimenti per la casa e di profili Instagram di tendenza. A leggerlo sembra di essere trascinati dentro al suo diario personale, come quello che alle adolescenti piace tanto scrivere, riempire di pensieri o scarabocchiare. Una grande passione per il british e per tutto ciò che è creativo caratterizza Valentina, che è sempre stata attirata dai blog stranieri di cucina, arredamento, mondo della moda, e da cui ha capito che le foto hanno un ruolo fondamentale per attirare e far partecipare il lettore. Il rapporto con i lettori è fondamentale infatti per crescere, per ispirarsi o ancora per essere criticati perché, soprattutto in fatto di moda, “è normale che non la pensiamo tutti allo stesso modo” spiega Valentina. E aggiunge ”E’ molto gratificante vedere come alcune persone ti seguano assiduamente e lo dimostrino tramite i commenti. Cerco sempre di rispondere a tutti, anche solo per avere un riscontro”. Un vero e proprio lavoro quello di una blogger, perché, oltre a rispondere ai commenti, bisogna sapere mantenere una certa frequenza nello scrivere i post. “Scrivere almeno una volta a settimana è d’obbligo, ma se ti piace quello che fai, viene naturale” ci dice Valentina. Per scrivere in un blog poi, come in tutti i mestieri, il tempo è maestro. È con il passare del tempo, infatti, che si impara il confronto con gli altri blogger, si prende ispirazione e si capisce cosa attrae di più i lettori, oltre a gestire argomenti fra loro diversi.

Ma quanto è alto il ricavo economico dietro il blog?
Valentina ci spiega come il suo blog non le dia un vero e proprio ricavo economico, quanto sia piuttosto un trampolino per farsi conoscere, per far vedere come scrive e per attivare collaborazioni con altre testate. “Gli unici ricavi economici che ottengo tramite il blog dipendono dai programmi di affiliazione con le case produttrici: se aumentano gli acquisti di un prodotto che pubblico sul mio blog, allora ottengo una minima percentuale della vendita. Ma per poter guadagnare in questo modo, gli acquisti dovrebbero arrivare a cifre enormi e, del resto, io non ho mai accettato di fare pubblicità in cambio di prodotti gratuiti” ci spiega Valentina.

Finora il blog è stato all’altezza delle tue aspettative?
“Certamente sì, anzi è andato oltre! Mi ha aiutato a migliorare il mio livello di scrittura, facendomi così collaborare con diverse riviste. Poi ho imparato ad usare i programmi di grafica e che cosa vuol dire stare dietro al marketing/digital”. Sono traguardi fai-da-te quelli che ha raggiunto Valentina e che, ogni volta, la rendono orgogliosa del percorso che ha fatto. Prendiamo ispirazione!

 

Dopo aver parlato di cucina e moda, è ora il turno della ‘dimensione casa’, perché di blog ne esistono veramente per tutti i gusti. E ne parliamo scoprendo Maria Vicini, autrice del blog “The Violet Wool”, nato l’11 gennaio 2012. Maria è una giovane blogger che mette tutte le sue energie nella ricerca delle nuove tendenze di interior design e home decor, per poi condividerle sul web. È con una dedica alla nipotina Viola, costante fonte di ispirazione, che nasce il suo blog “The Violet Wool”. “Stavo per trasferirmi a Parigi per studi quando ho saputo del lieto arrivo e, da quel giorno, non ho più smesso di pensare a Viola: è grazie a lei se ho aperto il mio blog e se lo arricchisco ogni giorno coltivando tutte le mie più grandi passioni” ci racconta Maria. Non solo interesse ma anche preparazione dietro il suo blog: Maria ha infatti studiato per due mesi a Londra alla Central Saint Martins College of Arts and Design, imparando i fondamentali di Design Project e Interior Styling. Studi che le hanno fatto capire come il mondo dell’interior fosse la sua più grande passione, che ancora oggi coltiva. Nel suo blog, che riceve dalle 600 alle 1000 visite al giorno, si ritrova tutto ciò che è inerente alla casa: tutorial, decorazioni, esempi di apparecchiature, arredamento. “Il blog richiede grande attenzione, mi impongo di scriverci più volte alla settimana e sono sempre alla ricerca di miglioramenti per la grafica e per la fotografia, che occupa gran parte dello spazio web. Senza dimenticarmi l’interazione con i lettori e l’attività sui social network come Facebook, Instagram e Pinterest, che donano visibilità e diffusione” ci racconta . Quindi un grande impegno dietro e un blog che cambia agli occhi dei lettori, soprattutto da quando Maria è stata scelta come lifestyle blogger dalla rivista “Grazia.it”.
E i guadagni?
Maria ci racconta come i suoi guadagni siano tutti derivanti da collaborazioni attivate tramite il blog, oltre che da collaborazioni esterne. “Il mio blog, oltre ad essere espressione delle mie passioni, si è rivelato un ottimo strumento per farmi conoscere” spiega.

[© www.lastefani.it]

Il miracolo economico di Trento? Incrociamo le dita…

C’è freschezza e consapevolezza nei discorsi di Renzi, e quel 40% e oltre ne offre un primo riscontro. Sono gli ingredienti necessari per percorrere i sentieri di un nuovo sviluppo e di una nuova crescita per cui l’Italia sembra finalmente pronta… accelerando il passo verso precisi obiettivi, perché il tempo stringe.
Al Festival dell’economia di Trento poche settimane fa il Presidente del consiglio si è soffermato anche sulle questioni dell’impresa e del lavoro oltre che sul quadro d’insieme e ha nuovamente sorpreso tutti, illustrando dettagliatamente i provvedimenti assunti e quelli che a brevissimo presenterà come vere riforme, dando un’immagine di visione, a breve e medio termine, quasi impensabile per la politica italiana.
Quello che ci è parso di rilievo, oltre al pacchetto riforme, sono l’approccio a nuove politiche industriali, a quel manufatturiero che era stato lasciato languire da troppi anni e che San Matteo ha sviolinato citando: Taranto, Piombino, il Sulcis in Sardegna, l’agroalimentare, e si potrebbero aggiungere i turismi con la cultura, i distretti produttivi di nuova generazione, una nuova chimica e l’ambiente, le nanotecnologie, la banda larga, l’artigianato del lusso e l’attenzione ai territori orientati a milieux.
Sappiamo anche, e ci piace qui sottolinearlo, che moltissimo sta nel progetto Europa 2020 con i suoi 180 miliardi di fondi strutturali cofinanziati e i nuovi strumenti attuativi dei Patti di territorio di area vasta.
Patti da articolarsi in patti territoriali di aree vaste da ristrutturare e riorganizzare, dai contratti d’area di settore e di siti produttivi, al rilancio dei distretti ad elevata tecnologia, dalle aree rurali ed ambientali, ma soprattutto, “Patti per lo sviluppo” da affidare ad una concertata ed operativa cabina di regia e con agenzie di sviluppo in grado di individuare gestioni e governance.
Bastano pochi mesi per indirizzare le progettualità e i programmi, capire quali sono i percorsi della globalizzazione, come essere in una Europa integrata, quali produzioni, servizi e catene del valore costruire e poi partire, anche per fasi, non oltre l’anno dall’idea.
Dobbiamo, però, capire da subito che ci saranno resistenze carsiche e blocchi da molti segmenti sociali: dalla stampa al web, ai media, dalle strutture burocratiche della pubblica amministrazione ai nanismi dei piccolissimi numeri dei Comuni, alle tantissime aziende municipali e oltre.
Cosa dire, infine, se non di una ritrovata speranza e un rinnovato impegno per guardare oltre questo ‘900 e, se non bastasse, correre, serve alzare l’asticella, chiamando tutti ad una politica alta e a fare una vera rivoluzione nei comportamenti.
Forse questo nuovo Pd dovrà essere proclamato “santo subito”, certamente in senso laico (anzi sicuramente finché restano ancora alcuni “grumi” da sciogliere e non pochi giapponesi da convertire), se riuscirà a chiudere con il passato presente e se andrà avanti.
Avanti per correre ed ancora correre, può essere la sintesi ultima del nostro ragionamento e lo si spera condivisibile per almeno la stragrande maggioranza degli italiani che il 25 maggio hanno lasciato un segno in profondità.
Incoraggianti sono state anche le missioni in Vietnam e in Cina. Vogliamo pensare che Trento sia stato il buon viatico. Speriamo porti bene.

Aprire l’Italia al mondo
Il chiodo fisso
di un ‘impresario’ padano

“Per me cultura significa creazione di vita”. (Cesare Zavattini)

Senza nessun incarico pubblico, senza sponsor privati, Cesare Zavattini era ossessionato soprattutto da un’idea: aprire nuovamente l’Italia al mondo, soprattutto l’Italia di provincia, dopo i terribili periodi della guerra e del fascismo. Organizzava mostre, scriveva racconti e copioni, fondava periodici dedicati alla cultura, teneva conferenze e sosteneva altri artisti. Sosteneva soprattutto l’ “arte piccola”. Aveva una delle collezioni di quadri più stravaganti del mondo: nessuno dei quadri doveva superare gli 8 per 10 centimetri di grandezza.
Cesare Zavattini, chiamato sempre solo “Za” dai suoi amici, nacque nel 1902 a Luzzara sul Po. Nella sua infanzia emiliana non c’era “neppure l’ombra della cultura”. Esiste un libro di fotografie, ormai leggendario, del fotografo americano Paul Strand, che raccoglie fotografie di Luzzara nei primi anni cinquanta e di cui Zavattini scrisse la prefazione. Il bambino Cesare trascorreva gran parte delle giornate nel bar dei suoi genitori e imparò così, molto presto, come leggere e interpretare i gesti e la mimica dei clienti.
Ed è proprio per questo che i successivi copioni di Zavattini rispecchiano meticolosamente le abitudini quotidiane degli italiani di quel tempo, grazie alla precoce scuola del bar dei suoi genitori. Si trasferì da Luzzara a sei anni. Il suo periodo scolastico lo trascorse a Bergamo. Quando poteva, frequentava sempre, anche lì, i cinema della città. In questo modo diventò molto presto un appassionato. Successivamente visse per poco tempo a Roma e cominciò a interessarsi anche al teatro. Dopo la guerra, i suoi genitori tornarono a Luzzara e, soprattutto a causa delle loro insistenze, il ragazzo si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza a Parma. Non terminò però mai gli studi. L’amore per le donne, il teatro e soprattutto per il cinema impedirono al giovane Zavattini, pieno di creatività e di idee, di perseguire un corso di studi “per bene”. Film, libri, discorsi, viaggi: era questo che amava e non lo studio sistematico delle leggi o della filosofia. Tra i suoi amici di allora c’erano Giovanni Guareschi e Attilio Bertolucci. Grazie a queste amicizie e al parlare senza fine nei caffè di Parma, a partire da allora Za entrò senza possibilità di scampo nel mondo del teatro, dei giornali e dei libri.
Zavattini è considerato uno dei “padri” di un gruppo di letterati chiamati anche i “matti padani”: Ermanno Cavazzoni, Carlo Lucarelli, Gianni Celati e Luigi Malerba. Il tempo da militare lo trascorse a Firenze, dove conobbe scrittori celebri come Elio Vittorini, Vasco Pratolini e soprattutto Eugenio Montale, durante i regolari incontri nel leggendario Caffè delle giubbe rosse. In quel periodo esplose tutta la creatività di Zavattini. Scriveva per diverse testate, organizzava incontri letterari, fondò nuove riviste culturali e tenne i suoi primi discorsi pubblici.
La grave malattia del padre lo costrinse a tornare a Luzzara all’inizio degli anni Trenta. Doveva occuparsi del bar dei genitori, ma evidentemente non perse troppo tempo, né la voglia di scrivere. La sua prima opera di prosa, Parliamo tanto di me, la scrisse vegliando suo padre sul letto di morte. Trasferitosi successivamente a Milano, Zavattini iniziò a scrivere copioni. Dopo la guerra, la sua collaborazione con Vittorio De Sica divenne l’elemento più significativo per la produzione di film come Ladri di biciclette o Umberto D..
È molto sorprendente la libertà con cui Zavattini poté continuare a scrivere copioni e piccole opere di prosa anche durante il periodo fascista. E quando la censura gli provocava troppi problemi lui si ritirava e si dedicava alla pittura. Dopo la guerra lodò sempre la Resistenza, ma lui stesso probabilmente si impegnò poco nella resistenza attiva.
Dopo la guerra poi la produzione artistica dell’impresa Zavattini iniziò ad andare a pieno ritmo. Pubblicò innumerevoli articoli e libri per bambini; fondò riviste e poi ne sospese le pubblicazioni, allestì piccole mostre con disegni suoi e di altri, promosse incontri di scrittori antifascisti, lanciò iniziative di borse di studio per artisti. Sembrava che nei primi anni del dopoguerra non ci fosse un’iniziativa culturale a cui non partecipasse in un modo o nell’altro anche Za, pieno di vita e di fantasia.
La bottega creativa Zavattini produceva idee senza mai fermarsi e tra queste anche diversi progetti un po’ folli. Ad esempio, istituì rubriche fisse sui giornali in cui degli scrittori avrebbero dovuto raccontare di fittizi “pedinamenti” di loro contemporanei. Oppure, in un altra rubrica, si potevano solo porre delle domande. Secondo Zavattini il giornalismo non era tanto la faticosa ricerca rivolta a una tematica attuale: per lui i giornali erano veri e propri laboratori per fantasie e idee nuove. Amava la polemica pubblica e lui stesso era spesso al centro di controversie intellettuali. I comunisti ad esempio criticavano Umberto D. per il suo tono di generale fatalismo, che non andava per niente d’accordo con l’ideologia di lotta del partito. Il figlio di un “anarchico maestro pasticcere della pianura padana” però non si fece impressionare per niente da queste polemiche, al contrario, lo spronarono ancora di più. Za era dappertutto. Andò a Parigi, in Messico e all’Havana per presentare il cinema italiano. A Roma scrisse il copione del film a puntate Siamo donne, in cui Anna Magnani e Ingrid Bergmann recitavano le parti principali. A Vienna presiedette un incontro internazionale sulla “resistenza antifascista”. A Lugano tenne un discorso sulla relazione tra cinema e televisione. Zavattini sperava in una televisione che facesse da “cavallo di troia” e diffondesse così al grande pubblico l’arte del cinema. Successivamente comparve nuovamente a Bruxelles e a Stoccolma come rappresentante del cinema italiano del dopoguerra. Viaggiò in Spagna, negli Stati Uniti, in Egitto, in Palestina e anche in Germania.
Attorno al 1968, insieme a Michelangelo Antonioni, Ettore Scola e Federico Fellini, in seguito anche con i fratelli Taviani, fondò associazioni di registi al fine di rappresentare più fortemente gli interessi del cinema italiano al pubblico e alla politica. Conobbe l’allora ancora giovane Roberto Benigni e scrisse i suoi primi testi. A Firenze furono esposti i suoi quadri e nella sua città natale, Luzzara, organizzò il Festival del film comico.
A settant’anni disse di non conoscere per niente il concetto di “noia”. Per pensare di smettere di lavorare e di morire gli sarebbe mancato il tempo. Nei suoi ultimi anni di vita si concentrò sempre di più sulla pittura e soprattutto sulla promozione della cosiddetta arte naïf. Alla città di Luzzara donò una biblioteca che porta il suo nome e soprattutto un piccolo museo in cui è esposta principalmente l’ arte naïf italiana.
Muore a Roma il 13 ottobre 1989 e viene sepolto nel cimitero della sua città natia, Luzzara. È però difficile immaginarsi che lì abbia trovato la pace eterna. Per Zavattini, poco fedele alla Chiesa ma fervente cattolico, l’idea di una vita dopo la morte era la soluzione ottimale. In questo modo riusciva a immaginare un luogo in cui realizzare le nuove idee e i nuovi progetti che non fosse riuscito a compiere durante la vita terrestre. Nell’aldilà, in paradiso o all’inferno fa lo stesso, dopo l’arrivo di Zavattini probabilmente è cominciata una nuova vita culturale…

I cavalieri dimezzati
della vecchia scuola

È tempo di esame di Stato e il nostro pensiero è per le ragazze e per i ragazzi che sono impegnati a sostenerne le prove. Sono loro i cavalieri dimezzati che escono dalle nostre scuole, vecchie di oltre un secolo e mezzo, rammendate da improvvisati ministri dell’istruzione. Tutto nel mondo ci dice che è urgente per il nostro Paese aprire il cantiere scuola, con uno sguardo lungo nel tempo.

L’atavica sfiducia dello Stato nei confronti dei suoi ragazzi e dei suoi insegnanti, in sintesi la sfiducia nella sua stessa scuola, fa sì che dopo anni di compiti in classe e di interrogazioni, al termine d’ogni ciclo scolastico, ciascun studente debba nuovamente sostenere compiti e interrogazioni, che per l’occasione si chiamano “esami”, per provare quello che evidentemente non è stato valutato lungo tutto il percorso precedente.
In questo eccesso di zelo, ben venga l’Invalsi, con un’unica prova nazionale che certifichi e renda conto a tutto il paese circa le competenze dei nostri giovani al termine del loro curricolo scolastico.
Non sono capace di celebrare l’esame di “maturità” ora di “stato”, non so quale sia l’accezione peggiore. Non amo i riti di passaggio che considero una esclusiva tribale. Non mi piacciono gli adulti che stabiliscono cosa sia positivo o negativo per i giovani, che sentenziano che mettersi alla prova aiuta a formare alla vita, e che mai sono in grado di porsi dal punto di vista dei giovani, senza sostituirsi a loro, come poi nella vita quotidiana di genitori pare essere più facile. Io ti preparo gli ostacoli e le trappole, ma se poi non ce la fai, non restarci frustrato che lo faccio io per te. Queste le nostre schizofrenie e i nostri scarsi sforzi mentali. Così mentre osanniamo o deprechiamo gli esami di stato a partire dalle nostre memorie biografiche, continuiamo a tenerci la scuola che abbiamo e non siamo in grado di pensare diversamente.
Perché, guai toccare il liceo classico, che è la Scuola, la Tradizione, con il suo Greco e il suo Latino, morti, ma pur sempre formativi. Che ormai a frequentarlo siano poche migliaia di studenti non fa di conto. Come poco importa che noi si sia il paese dei “non portati per la matematica”, l’unico che abbia coniato una simile sindrome demenziale, così gli studenti che escono dalle nostre scuole sono come il cavaliere dimezzato, conoscono forse qualcosa della letteratura italiana, non oltre Ungaretti, si intende, ma certo non sanno trasformare una frazione in un numero decimale.
In tanto l’Ocse ha posto in capo al 70% dei nostri concittadini, compresi tra i diciotto e i sessantacinque anni, un bel cappello d’asino, perché non possiedono le competenze minime per vivere consapevolmente nella società e nel loro ambiente di lavoro.
Per non parlare poi dei giovani che si iscrivono agli istituti professionali e tecnici, non perché vi sia un mercato del lavoro pronto ad assumerli, che non è mai stato così avaro, ma semplicemente perché sono giunti a considerarsi poco adatti agli studi, presumibilmente perché il loro percorso scolastico o non è stato dei più gratificanti o certo non ha promosso, quando non li ha respinti, la fiducia in loro stessi e nelle loro capacità. Le percentuali di crescita delle iscrizioni agli istituti tecnici e professionali non stanno ad indicare che la scuola ha sposato il mercato del lavoro o viceversa, temo che invece siano la conferma di una scuola che sempre più seleziona a monte, della scuola della mortificazione e dello spreco dei talenti, anziché della loro reale e concreta valorizzazione.
Tutte cose troppo difficili da prendere a mano. Specie perché questi ragazzi, è la vulgata, non si impegnano, non sanno studiare, sono nativi digitali con appendici che smanettano smartphone, iphone, ipod, ipad e tutti i ritrovati dell’itek. Ma se non si impegnano e non sanno studiare chi glielo deve imparare a questo cristo di ragazzi?
Mai pensare, quasi fosse sacrilego, che dalla Legge Casati, istitutiva della scuola pubblica, si è sempre legiferato non certo concependo l’idea di rendere la scuola il luogo in cui si diventa i cittadini della conoscenza, bensì nella considerazione che le alunne e gli alunni di fronte alle grandi narrazioni dello scibile umano altro non possono essere che i diligenti sudditi del sapere confezionato.
Ma quella società che rendeva sudditi gli studenti e le famiglie, promettendo loro mobilità sociale, riuscita nella vita, un posto di lavoro, non c’è più e non tornerà mai più, è morta, definitivamente defunta.
Tutti i dati delle indagini internazionali sugli apprendimenti ci suggeriscono l’impellente necessità di replicare una rivoluzione scientifica, che ci porti a superare il dispotismo del sapere scolastico così come fino ad oggi l’abbiamo concepito e praticato, restituendo centralità alle nostre ragazze e ai nostri ragazzi, in quanto risorse e non più sudditi delle nostre scuole, in quanto innanzitutto intelligenze da attivare, modi di pensare da coltivare, da condurre fuori dal torpore delle nostre aule e della nostra cultura di massa.
In questo senso, al di là dei proclami politici, è davvero tempo per il nostro Paese di aprire seriamente il cantiere scuola, più riflessione e più operatività che sappiano guardare lontano nel tempo, un cantiere per un nuovo umanesimo, in grado di rimettere con forza al centro il pensiero e la mente di ogni ragazza e di ogni ragazzo, di coinvolgerne e entusiasmarne l’intelligenza, che bandisca ogni merce avariata, fino a segnare il definitivo tramonto dell’omologante, indistinta massa classe.
Diversamente rischiamo che solo per la scuola e per i nostri giovani lo Stato continui ad essere uno Stato Mistagogo e Leviatano, che non è in grado di offrire loro speranze, la speranza del domani, che mortifica ogni possibilità di coltivare i sogni sul futuro, perché pervicace nel pretendere da loro che apprendano il passato senza mai condurli ad imparare il futuro, il futuro di cui hanno bisogno come l’aria che respirano, perché quello, perché il futuro sarà la loro sicura dimensione di vita.

Luci della centrale elettrica sotto le stelle di Ferrara

Con l’estate tornano i concerti sotto le stelle e, tra questi, quello di ‘Le luci della centrale elettrica’, ossia Vasco Brondi. Cresciuto a Ferrara, l’artista torna nella sua città grazie a “Ferrara sotto le stelle”, la rassegna musicale che ha il merito di fare arrivare grandi nomi (come i Simple Minds), ma anche tanti musicisti e cantanti di nicchia, di qualità e non necessariamente da hit parade. E’ questo un po’ il caso del cantante, classe 1984, che ha dato al suo progetto musicale un nome che fa pensare più a un gruppo che a un nuovo cantautore quale, invece, è.
Perché “Le luci della centrale elettrica” è lui, lui che nel 2007 ha scelto questo biglietto da visita e che piano piano si è conquistato pubblico e critica: nel 2008 vincendo la targa Tenco, nel 2010 primeggiando tra i migliori venticinque dischi del decennio per l’edizione italiana della rivista “Rolling stone” (album Canzoni da spiaggia deturpata), nel 2011 aprendo i concerti di Jovanotti nel suo “Ora in Tour”.
Una voce, quella di Brondi che dà finalmente un punto di riferimento attuale a tutti quelli per cui la musica deve essere anche parola, voce che racconta e dà un senso a cose magari piccole, a quello che può succedere intorno, a sentimenti, precarietà, sogni, citazioni musical-letterarie.

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Disegno di Gianluigi Toccafondo per album e concerto

Quando qualcosa piace, c’è sempre un insieme di cose che tornano, come coincidenze o puntini luminosi che ti confermano che c’è una sintonia non superficiale, che c’è un perché dietro a quell’emozione che ti fa fermare, che ti fa ascoltare, che ti fa vibrare qualcosa dentro. E’ il caso, ad esempio, della copertina dell’ultimo album “Costellazioni”, disegnata da Gianluigi Toccafondo con la sua tecnica di pittura che va a ricolorare e personalizzare fotografie e fotogrammi, collaudata e già vista anche in forma video nelle sigle d’apertura di Fandango, casa di produzione e distribuzione cinematografica di Ferzan Ozpetek e Corrado Guzzanti. Ma è anche il caso dei versi che si riallacciano all’amato Lucio Battisti (“Chiamale se vuoi esplosioni dei mercati” in Anidride carbonica) o a Gabriel Garcia Marquez (L’amore ai tempi dei licenziamenti dei metalmeccanici).

Con molta aspettativa, quindi, mercoledì 16 luglio nel cortile del castello estense di Ferrara aspetteremo lui che canta la ricerca di “un centro di gravità almeno momentanea” (La terra, l’Emilia, la luna in ‘Costellazioni’); che spiega come sia “inutile proteggersi dai venti forti”, come anche “nel disastro il futuro era sempre lì a sorriderci” (Macbeth nella nebbia), come “forse si trattava di affrontare la vita come una festa, come in certi paesi dell’Africa” (Le ragazze stanno bene). Bello che sotto le stelle ci siano anche queste luci a illuminare nel buio estivo la precarietà e l’incertezza. Bello potere condividere e dare un senso straordinariamente malinconico e accettabile a crisi e timori che ci avvolgono; che è poi ciò che avviene quando qualcosa è davvero poetico. Ai nostri “lunedì difettosi, ai martedì magri, ai venerdì neri”, ai “diluvi universali dei tuoi pianti” (L’amore ai temi dei licenziamenti dei metalmeccanici); ai sogni che ne I nostri corpi celesti “sfondavano i soffitti, i nostri disperati sogni di via Ripagrande, di viale Krasnodar”.

La pubblicità
ai tempi della crisi

Della scomparsa della classe media si è accorta anche la pubblicità. Questa mattina ho fatto una verifica ascoltando la radio. Di dieci spot trasmessi, sette puntavano su offerte, occasioni, saldi, svendite, liquidazioni, 3×2, 2×1… Un paio reclamizzavano prodotti decisamente economici: gelati e trucchi. Uno invece promuoveva il “gran coupé” di quella certa casa automobilistica.
Dunque, chi è il pubblico di questi messaggi? Per la maggior parte persone che devono fare i conti con i soldi per arrivare a fine mese o che comunque orientano gli acquisti prevalentemente sulla base di un criterio di convenienza. L’eccezione è il super lusso. In mezzo non c’è niente, niente di normale: la scomparsa dello standard, della classe media appunto.

Un tempo la pubblicità promuoveva prodotti capaci di soddisfare bisogni concreti, facendo riferimento alle reali necessità del consumatore. Ti serve la pentola, eccola qua. Hai finito il caffè: pronto! Poi, a partire dagli anni Ottanta, sulle ali del consumismo, i pubblicitari, divenuti nel frattempo esperti di marketing, hanno cominciato a indurre i bisogni, a crearli, utilizzando i brand (le marche) come strumenti di accreditamento sociale, chiavi di accesso agli stili di vita vagheggiati attraverso gli spot: anche tu sarai così (avrai successo, sarai ammirato, otterrai il sì della donna o dell’uomo dei tuoi sogni) usando quel certo profumo, indossando la tal maglietta, bevendo quel particolare amaro. La pubblicità non vendeva più prodotti, ma desideri e illusioni.

Oggi si è di nuovo riposizionata, adattandosi all’epoca di crisi. Per comperare, le persone devono essere convinte di realizzare un “vero affare”. Se non è così, si può attendere, non c’è fretta di acquistare. Gli scaffali sono pieni. E lo sono anche le nostre case: siamo i reduci di una ‘belle epoque’ di opulenza. Dunque, i potenziale acquirente vincono l’inerzia che li frena solo se proprio proprio hanno sentore che ne valga la pena; questo accade quando ciò che viene offerto è (o appare) un’occasione da non perdere. E la differenza, ora, la fa il prezzo. Su quello, quindi, punta la pubblicità.
Fuori dalla mischia della corsa al risparmio restano solo i pochi che ancora hanno le tasche piene. Sono pochi, sì, ma ‘né hanno tanti’ e sono quindi un pubblico minoritario ma non marginale, anzi! Nei loro confronti funziona ancora la strategia classica, che fa leva sulla suggestione; quella usata ai tempi d’oro, l’epoca dei rampanti e delle ‘Milano da bere’, quando la grande abbuffata sembrava non dover finire mai.

E Montalbano affronta
il fango della corruzione

Pioggia e fango intorno, melmosa è l’indagine che il commissario Montalbano sta affrontando, una storia di appalti, frane e morti ammazzati…
La piramide di fango (edizioni Sellerio, 2014) è l’ultimo romanzo che ha per protagonista il commissario di Vigata alle prese con gli intrighi dell’edilizia e della politica, con costruzioni e permessi.
Piove su questo pezzo di Sicilia in cui le grandi opere si fermano e le società sono controllate dai Sinagra e dai Cuffaro, Montalbano è convinto che sia lo specchio della situazione nella quale si trova il paese intero. L’indagine si impantana di continuo, tutto quel fango Montalbano se lo sente fin sotto la pelle, procede “senza slancio, senza passioni, senza vitalità”, è come se una “brutta copia” del commissario avesse preso il posto di quello vero. C’è una malinconia che non lo molla, è il pensiero di Livia che, lontana e provata, dopo la morte di Francois non è più la stessa. Ma non appena Livia inizia a stare un po’ meglio, appena fra di loro riprendono “le sciarriatine”, Montalbano riparte.
A dirigere il commissario è la convinzione che davanti ai suoi occhi si stia mettendo in scena una commedia atto per atto. Ma chi è il regista? Chi muove questi attori che recitano una parte fin troppo studiata? La solita storia di corna non regge. Nulla è mai come appare a una prima occhiata, tanto meno per uno come Montalbano che alla comoda superficie ha sempre preferito l’impervia profondità delle cose.
Il fiuto da sbirro si unisce all’intuito dell’uomo che sa scrutare i dettagli di chi gli sta di fronte, cogliendone il non detto e il falso attraverso l’impercettibile. Come in una grande pantomima, il commissario recita a sua volta, finge di credere a una confessione molto bene orchestrata e imbocca la strada per la verità.
Ma la pioggia non cessa, certe domande faticano a trovare spiegazione, il rituale del cibo, con la sua sacralità così cara a Montalbano, è disturbato e la passeggiata al molo sotto un sole nascosto gli rende l’umore ancora più “nivuro”.
Montalbano ha bisogno dei suoi notturni per riflettere, la panchetta della verandina è bagnata, possono bastare una seggiola e un bicchiere di whisky, la risacca culla e fa nascere i pensieri.
Per arrivare in fondo all’indagine, il commissario deve agire a suo modo, che non è mai quello ortodosso di uomo delle istituzioni, per entrare nella piramide deve solo bucarla, come fu con quella di Cheope che accesso non aveva.
Salvo risolve il caso, può finalmente partire e andare da Livia a Boccadesse, lascia Augello e Fazio a concludere l’indagine, ad aspettarlo ci sarà anche Selene, la cagnolina che Livia ha adottato e che le ha fatto ritrovare la voglia di vivere. Benedetta Luna.

Dal rigoroso fiscalismo estense alla redistribuzione:
ciclicità della storia

L’AMMINISTRAZIONE DEGLI ESTENSI A FERRARA / 4

Che la conquista del potere da parte di Azzo VII d’Este (oggi ricordato come Azzo Novello), nel 1240, abbia significato per Ferrara la perdita dell’autonomia comunale, tramite l’instaurazione di un governo autoritario, è cosa ben risaputa. E che il fiscalismo estense sia stato, almeno all’inizio e in altri momenti storici, uno fra i più severi è altrettanto scontato. Tuttavia «Le spese pubbliche dello stato estense seguirono una linea costantemente ascensionale […]. I beni demaniali estensi erano costituiti dalle terre e dai boschi, dai palazzi e dalle chiese, nonché dal commercio […]. Soprattutto le incette dei grani furono all’ordine del giorno; ma va ricordata la funzione benefica talora espletata da siffatti ammassi privati del sovrano, quando – e lo ricordano cronisti spesso piuttosto liberi nei loro giudizi verso gli Estensi – parte di quelle scorte veniva distribuita alla popolazione affamata o venduta a prezzi assai modici e arrendevoli».*
Ad esempio nel 1505, allorché Alfonso I si avvicendò ad Ercole I, il quale aveva quasi dissestato le finanze con le spese di guerra e nelle grandiose opere edificatorie, il giovane duca affrontò con saggezza la situazione economica ed amministrativa di Ferrara. Da un lato tacitò amici e parenti, dividendo fra loro gli oggetti preziosi appartenuti al defunto padre ed elargendo adeguati appannaggi ai fratelli, cautelandosi così da future lamentele nel ristretto ambito della famiglia e della corte. Dall’altro, abolì i dazi e le gabelle istituite dal padre, acquistò grano a Venezia e lo fece distribuire ai più indigenti per alleviare i danni causati dalla carestia e, nello stesso tempo, si prodigò nel fronteggiare una spaventosa epidemia che stava decimando la popolazione ferrarese. Non mancò, inoltre, di guadagnarsi ulteriore consenso popolare spogliando di beni e di potere alcune illustri famiglie, come gli Strozzi, ormai invise per la loro arroganza e avidità all’intera cittadinanza.
Anche Ercole II si distinse per la notevole rettitudine. Innanzitutto, evitò per quanto possibile di partecipare alle guerre del suo tempo, ricorrendo abilmente a idonei pretesti diplomatici; in secondo luogo, «Non appena al potere, aveva cercato di porre un riparo alla gravosa e preoccupante situazione finanziaria lasciatagli in eredità dal padre. L’erario era esausto e pare, tutto sommato, che il duca sia riuscito a reintegrarlo senza infierire sui sudditi e che anche in seguito si sia guardato dall’imporre tasse troppo gravose se non in circostanze del tutto eccezionali»**. Così pure il suo successore Alfonso II, per quanto sia stato uomo ben più distaccato e pragmatico, destinò considerevoli aiuti alla sua gente terribilmente provata dalle paurose scosse di terremoto verificatesi fra il 1570 e il 1572. Né la sua seconda moglie Barbara d’Austria lesinò la propria dedizione agli umili e agli infelici, fondando il Conservatorio delle orfane di santa Barbara allo scopo di ospitare fanciulle rimaste orfane per le calamità o abbandonate dai genitori.

*L. Chiappini, Gli Estensi, Dall’Oglio, Varese 1988, pp. 328-9.
**Ibidem, p. 251.

Teatro in strada
nel quartiere Giardino

Ma chi sono questi personaggi che arrivano a bordo di un carro trainato a mano con una piccola corte colorata di attori su strane biciclette, a piedi o appoggiati a una scopa? Fino a domenica alcune strade o luoghi di Ferrara verranno animati dallo spettacolo ‘Il Giardino dei destini incrociati’. La rappresentazione prende spunto da un’opera di Italo Calvino per raccontare la storia del quartiere Giardino, che è anche una zona di passaggio per molti viaggiatori in direzione della stazione. In scena da venerdì 20 a domenica 22 giugno in cinque punti cruciali della città. E’ una sorta di serial teatrale, organizzato dall’associazione Alpha Centauri in collaborazione con l’associazione Basso Profilo.

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Scena dall’episodio arancio del “Castello dei destini incrociati’ a Ferrara in via Vittorio Veneto

L’idea è quella di sperimentare una drammaturgia ispirata alla memoria storica e alle trasformazioni sociali in atto nel quartiere Giardino di Ferrara, nato come area residenziale modello e negli ultimi anni spesso al centro di fatti di cronaca. Lo spettacolo è un gioco di performance, che avranno diverse repliche nel corso del fine settimana. Trama e progetto nascono all’interno del laboratorio teatrale site-specific “Succede qui” condotto da Natasha Czertok e Davide Della Chiara con la partecipazione di una ventina di giovani allievi. Ogni episodio dura al massimo un quarto d’ora, per cui gli organizzatori raccomandano la massima puntualità.

L’opera ha vinto il bando “Giovani per il territorio” promosso dall’Ibc e dalla Regione Emilia-Romagna e patrocinato dal Comune di Ferrara.

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Via allo spettacolo nel quartiere Giardino

Programma e orari

  • Monumento dell’Aeronautica, via Fortezza – episodio verde – venerdì 20/06 ore 19; sabato 21/06 ore 19; domenica 22/06 ore 11, 17, 19
  • Via Vittorio Veneto – episodio arancio – venerdì 20/6 ore 19.15 – sabato 21/06 ore 19.15; domenica 22/06 ore 11.15, 17.15, 19.15
  • Stazione dei treni – episodio giallo – venerdì 20/6 h 19.00 – sabato 21/06 ore 19; domenica 22/06 ore 11, 17, 19
  • via Nazario Sauro – episodio rosso – venerdì 20/6 ore 19; sabato 21/06 ore 19; domenica 22/06 ore 11, 17, 19
  • Wunderkammer, via Darsena 57 – episodio blu – venerdì 20/06 ore 19; sabato 21/06 h 19; domenica 22/06 ore 11, 17, 19

Il simpatico disordine
dei prati fioriti

La spelacchiatura di un campo da calcio non dovrebbe far notizia, ma se il campo in questione è quello di uno stadio dei mondiali allora è un’altra faccenda. Il fondo erboso dello stadio di Manaus è venuto male e per rimediare ad un verdino passabile, i giardinieri carioca sono ricorsi ad una verniciatura a spruzzo, un vero e proprio maquillage dell’ultima ora. Tutto questo ha del grottesco, ma se la voglia di far bella figura dei brasiliani di fronte al mondo è comprensibile, la persistenza della moda planetaria per i pratini moquette continuo a non capirla.
Nei climi caldi e poco piovosi, mantenere un prato verde, compatto e folto come quello standard dei campi da golf inglesi, è una follia di costi e di manutenzione. Ma dove nasce questa passione collettiva per i pratini? Mettendo da parte per un attimo gli antenati naturali del prato che sono i pascoli, anche nei giardini dell’antichità si cercava di creare un fondo verde omogeneo per le piantagioni di fiori e arbusti. Plinio li descrive quando racconta dei suoi giardini, ma non si trattava di prati rasati uniformi, al contrario, di praterie fiorite tagliate spesso.
I Romani avevano sperimentato che la camomilla, tollerante di strapazzi e siccità, fosse un’ottima pianta per creare dei tappeti verdi anche dove il clima era asciutto. L’uso dei prati di camomilla nei giardini è documentato durante il Medioevo e comunque per secoli: sia la letteratura che l’arte figurativa, ci hanno descritto prati ricchi di fiori selvatici affiancati alle erbe. Questo tipo di rappresentazione aveva un alto valore simbolico legato alla figura della Vergine e dell’Amor cortese, ma ciò non toglie che per i posteri rappresentino anche un importante documento di storia botanica.
I prati italiani erano prati fioriti anche nei giardini Rinascimentali. Ci siamo abituati a pensarli come una monocultura verde per alcuni svarioni di interpretazione più recenti, che si possono collocare a cavallo tra il XIX e il XX secolo, ma si può ancora rimediare. Di sicuro, la moda del prato verde di sole graminacee l’abbiamo ereditata dall’Inghilterra. Se al principio c’erano pascoli e boschetti, l’invenzione del giardino paesaggistico ricostruisce, secondo parametri estetici, le tessiture del paesaggio rurale tradizionale, e per avere un bel prato non erano più sufficienti i passaggi delle pecore, ma sono stati necessari tagli più frequenti.
Le graminacee si imposero come specie dominante e resistente a questi trattamenti, infittendosi a livello radicale e rendendo la vita impossibile alle erbacee da foglia e da fiore. Usare la falce è un’arte, il suo sibilo è una musica, un po’ meno poetico tagliarsi un polpaccio, ma gli incidenti non facevano testo, e l’invenzione dei tosaerba meccanici fu una necessità dettata dalla diminuzione di forza lavoro nelle campagne. Gli Inglesi sono dei perfettini, e si capisce dal fatto che ai cavalli da traino mettessero delle speciali pantofole di cuoio per non rovinare l’erba. Da qui alla pittura del campo da calcio di Manaus è passato poco più di un secolo, ma le assurdità che si possono compiere per avere un prato come una moquette evidentemente non sono ancora esaurite.
Nel nostro clima, dove la pioggia ha degli andamenti imprevedibili e non costanti, un prato verde richiede acqua, ma soprattutto ha bisogno di una buona preparazione del terreno, che deve essere fresato, trattato con diserbanti specifici, livellato con un po’ di pendenza e soprattutto ben drenato, cioè vanno eliminate tutte le buche e gli avvallamenti che impediscono all’acqua di defluire; una prima osservazione preliminare la possiamo fare quando piove a dirotto, dove si creano delle pozzanghere stagnanti l’erba non crescerà mai bene. L’impianto di irrigazione va fatto con criterio per evitare che ci siano zone troppo innaffiate e zone secche. Il prato va tenuto falciato con regolarità, l’erba raccolta o triturata fine fine.
Per fare le cose per bene, bisognerebbe togliere il muschio, eliminare le erbacce come le margherite, le viole, i radicchi selvatici, i ranuncoli, i pisaletto e mille altre con diserbanti selettivi. Non dovremmo dimenticare le concimazioni chimiche durante l’anno: fosfati in autunno e azotati in primavera. Per non parlare della raccolta delle foglie cadute in autunno. Insomma avere una cosa che sembra così “naturale” è uno stress, un delirio con costi di tempo, energia e denaro non indifferenti, quindi, siccome i pratini leccati non mi sono mai piaciuti, confido nella crisi economica, se i prati fioriti, misti, disordinati e resistenti non passeranno come moda, torneranno come necessità, a tutto vantaggio dell’ambiente, del portafoglio e della nostra serenità.

La postura,
il nostro ‘biglietto da visita’

La macchina della vita, un ingranaggio perfetto se ogni parte è al posto giusto.

“[…] la postura è espressione di un vissuto ereditato, di un vissuto personale, della formazione e deformazione culturale, di memorie dei propri traumi fisici ed emotivi, del tipo di vita e di stress che conduciamo, del tipo di lavoro e di sport a cui ci siamo assoggettati nel tempo; postura è il modo in cui respiriamo, il mondo in cui stiamo in piedi, ci atteggiamo e ci rapportiamo con noi stessi e con gli altri. La nostra postura è espressione della nostra storia.” (D. Raggi, 1998)

Lo studio della postura ci può quindi fornire indicazioni preziose sulla persona in quel determinato momento della sua vita. La disciplina che si occupa dello studio scientifico e clinico della posizione del corpo nello spazio è la posturologia che studia il funzionamento della posizione del corpo statico-dinamico e analizza la relazione tra lo squilibrio del sistema posturale e le patologie dell’apparato locomotore. L’insieme delle strutture neurofisiologiche del nostro organismo, che regolano i rapporti tra il nostro corpo e il mondo che ci circonda, costituisce il sistema tonico posturale: esso riceve informazioni dagli occhi, dalla pelle, dai piedi, dai muscoli, dall’orecchio interno e dalla bocca, dalla lingua, ma soprattutto dalla psiche.
Molto spesso una tensione muscolare, una particolare postura, una mimica rivelano tensioni più profonde che coinvolgono la nostra psiche. Queste tensioni nascondono e proteggono emozioni represse e non vissute, traumi emotivi, conflitti della personalità, ecc. La maggior parte delle posture e delle tensioni muscolari si strutturano fin dall’infanzia, come risposta alle pressioni familiari, sociali e anche a traumi fisici e psichici. Attraverso la fissazione di abitudini e atteggiamenti creiamo un’armatura muscolare e caratteriale che ci accompagna nella nostra vita.
Dall’esame dei diversi fattori che possono alterare l’equilibrio del soggetto fisico nello spazio, risulta come il corpo e la mente siano l’espressione di un unico processo e come nel corpo dell’uomo si concentrino e si manifestino il suo passato, il suo presente, in una parola la sua storia. Spesso le tensioni mimiche facciali sono in relazione a comportamenti posturali errati che provocano, a distanza, sui muscoli e sulle fasce notevoli contratture e spasmi. Questi muscoli tesi come corde di violino inibiscono la funzione dei processi emozionali, in altre parole lo stress psico-emotivo influenza in larga misura il nostro corpo, il sistema muscolo-scheletrico, l’asse del collo, delle spalle, degli altri distretti corporei. Ciascuna postura è l’espressione della nostra vita interiore.
Durante un esame della postura, noi osteopati dobbiamo chiederci come mai la persona o il soggetto che abbiamo davanti assume quella particolare postura e da che cosa può essere causata. Non possiamo limitiamoci a osservare il segmento traumatizzato o solo il segmento che esprime una sofferenza, ma dobbiamo interpretarlo in relazione anche al vissuto psicoaffettivo. Interpretarlo in una visione di globalità è un imperativo.
Vorrei quindi ancora sottolineare, quanto la psiche abbia un ruolo fondamentale nella gestione della postura. Gli aspetti psico-emotivi che si esprimono nella postura del soggetto, condizionando nel suo insieme il sistema tonico posturale. In parole semplici, la psiche influenza in modo significativo il sistema di regolazione della postura. Il sistema psichico può anche essere definito come una sorta di sistema caotico, che interferisce con quello posturale durante le operazioni di controllo della postura. Un numero sempre maggiore di studiosi che si occupano di posturologia e osteopatia, condividono la convinzione della multi-fattorialità delle cause che influenzano la postura di una persona. La postura, per quanto possa essere banale tale affermazione, è il biglietto da visita della salute del nostro corpo, della nostra mente, del nostro spirito.
Quando curi una malattia puoi vincere o perdere. Quando ti prendi cura di una persona vinci sempre.

Simone Ferraresi, note estensi: “La musica è il mio linguaggio, con lei sono
cittadino del mondo”

Mi ricordavo di Simone ai tempi del liceo, quando qualche amico parlava di lui come di uno studente riservato e taciturno. Qualcuno sussurrava “è silenzioso, particolare, sempre chiuso in casa o nelle grandi aule del conservatorio a suonare il pianoforte, è un tipo un po’ strano”. Certo che fra i ragazzini, un coetaneo che passa le sue giornate in compagnia di uno strumento musicale piuttosto che di un pallone o di una radio dove si ascoltano partite o canzonette, può apparire un po’ particolare. Io non lo conoscevo, dunque, personalmente, lo incrociavo mentre andava al conservatorio di via Previati, era amico di mio fratello Nicola che, a differenza di molti, mi diceva che quel ragazzino era un vero prodigio. Ho ritrovato Simone Ferraresi dopo tanti anni, per caso, in rete, lui a New York, io a Mosca, e mi sono incuriosita. Mi piaceva vedere, sapere e leggere che quel ragazzino dai capelli rossi era ora arrivato a essere un giovane professore in America e che aveva suonato nelle sale più prestigiose del mondo. Viaggiando per la vecchia Europa, approdando ai pubblici moscoviti, e non solo. Allora l’ho contattato e ho voluto saperne di più. Ho scoperto anche con piacere che il suo forte legame con Ferrara è rimasto intatto, anzi forse rafforzato, come accade a molti che si allontanano. A me per prima. Eccoci qui allora a parlare con lui e di lui, in vista di un importante evento che, grazie a lui, si terrà a Ferrara dal 18 al 26 luglio, il Ferrara Piano Festival.

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Il logo del Ferrara piano festival
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Simone Ferraresi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ho voluto preparare questa intervista partendo da alcune parole chiave che ritengo legate a Simone e che possono in qualche modo, scusate l’espressione, definirlo, disegnarlo. Queste parole chiave, che mi ha ispirato, sono al momento cinque: viaggio, Russia, stelle, sogno, Ferrara. Alla fine dell’intervista capiremo insieme se le ho indovinate o se ne aggiungereste altre.

Ho cercato di studiare, al meglio, il tuo percorso personale e professionale. È incredibilmente e talmente ricco di esperienze che mi viene proprio da definirti cittadino del mondo. In questo interessante viaggio di vita, quale paese ti è rimasto maggiormente nel cuore e perché?
Credo fosse Arthur Rubinstein che alla domanda “Qual è il suo compositore preferito” rispose: “quello che sto suonando”. Questo è ciò che sento quando mi chiedi quale paese mi è rimasto nel cuore. La gente di ogni paese in cui ho vissuto ha contribuito a formare la persona che sono adesso. Quando m’immergo in altre culture, mi lascio istruire dalla loro storia. Per me non ci sono nazioni, ma culture, credenze, usi e costumi. Vivendo negli Stati Uniti ho toccato con mano aspetti culturali positivi quali ottimismo, onestà, ambizione e resistenza alla sofferenza (resilienza). In Italia c’è il detto “il riso abbonda sulla bocca degli stolti”, per cui l’ottimismo all’americana viene visto con diffidenza. In America è il contrario, essere pessimisti è essere dei perdenti e non portare il sorriso stampato in faccia equivale a mancanza di fiducia in se stessi (soprattutto nell’ambiente di lavoro, ma anche in generale). Io, invece, apprezzo anche il pessimismo e la tristezza di alcune culture, derivanti da diverse esperienze e percorsi storici delle popolazioni, qualità queste che purtroppo non trovo in America. Non c’è quasi mai nella cultura bianca americana un riferimento alla tristezza e alla malinconia, se non forse nelle canzoni country (più che altro una nostalgia, ma non profonda come un tango argentino o triste come una canzone classica giapponese). Il fatto che in alcune culture lo stile di vita sia ottimistico o pessimistico dimostra che non esiste un modo ideale di atteggiarsi alla vita, come quello che si trova nelle librerie sugli scaffali nella sezione “self-help”. Da ogni paese apprendo e assorbo solo le qualità che m’interessano. Ad esempio, il patriottismo lo considero una qualità negativa, come tanti altri aspetti della cultura americana che non apprezzo. Avere la nazionalità americana non fa per me perché la mia identità rimane italiana. Detto questo, la mia vera nazione e linguaggio rimane la musica: essendo sempre con me, mi permettere di vivere a casa mia ovunque io mi trovi.

Davvero molto bella questa immagine della casa sempre con te, la tua musica. Ammetto che io provo la stessa sensazione con la scrittura. Mi piace portare con me solo le mie emozioni, passate e presenti, e la penna che mi permette di tracciarle. Anche per me questa è casa, la mia mano che traccia sull’onda di ciò che la mia anima ha catturato. Mi piace molto questa linea comune che ci unisce. Sapevo che avrei trovato qualcosa di più in te di quel poco che conoscevo… Ma torniamo a te. Mi ha molto colpito la tua presenza, se pur saltuaria, a Mosca, non solo perché mi ci trovo in questo momento e credo di viverla intensamente ma perché credo che la Russia sia da sempre la culla della musica. Se dovessi ricordare un luogo di Mosca che ami o che trovi particolarmente interessante e associarlo ad un compositore o ad alcune note, dove mi consiglieresti di andare, di sedermi a contemplare cosa o dove passeggiare ed ascoltando che cosa?

Vorrei che tu andassi a casa di Alexander Nikolayevich Scriabin, se non ci sei ancora stata. Adesso è un museo ma l’appartamento è rimasto fermo al giorno in cui il compositore morì, nel 1915. Si possono osservare il tavolo e le sedie nella sala da pranzo. La guida indica addirittura la sedia dove lui abitualmente sedeva. Si vedono i suoi abiti, il suo letto, lo studio e la scrivania dove giace lo spartito con abbozzi dell’ultima opera che stava scrivendo, il “Mistero”. Puoi ammirare anche la sua libreria, piena di libri di esoterismo, teosofia, fisica e metafisica. Il suo telefono. Mi ha colpito molto il fatto che un compositore d’inizio novecento disponesse di un telefono. Quando ho suonato le musiche di Scriabin nella sala da concerto sotto il suo appartamento ho avvertito una grande responsabilità, quasi timore.

Ci andrò presto, promesso, e sarà magari l’occasione di riparlarci… Amo molto la letteratura russa e la trovo fonte di grande ispirazione, insieme alla musica e alle bellezza di alcuni paesaggi e giardini che si possono ammirare in primavera. Se quindi ti chiedessi di mettere in musica un romanzo russo, che so un Notti Bianche di Fëdor Michajlovič  Dostoevskij, mi diresti che sono impazzita o avresti qualche idea e ispirazione (sempre al fine di stuzzicare il tuo animo da compositore…)?
Dostoevski è il mio scrittore preferito. Ho letto quasi tutto, tranne alcuni dei racconti e il Giocatore che ho interrotto anni fa. Ciò che accadde a livello culturale in Russia tra gli anni ’60 dell’ottocento e gli anni ’40 del novecento è uno dei miracoli artistici, a mio parere, più importanti dell’umanità. Letteratura, arti visive, musica, danza, quale altro paese in quel periodo ha potuto raggiungere simili vette in tutte le discipline artistiche? Per quanto riguarda la musica classica, la cosiddetta grande musica fino al tardo romanticismo è quasi interamente un prodotto mitteleuropeo, mentre da Tchaikovsky in poi si nota un’esplosione di creatività nei compositori russi: Scriabin, Rachmaninov, Stravinsky, Prokofiev i più grandi. Non mi azzarderei a mettere in musica la letteratura russa perché, nonostante sia un appassionato, non ho mai vissuto in Russia per un periodo tale da conoscere a fondo la loro cultura. Credo non sarei in grado di interpretarla correttamente.
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Mi permetto di dissentire dalla tua considerazione precedente. Credo che saresti davvero capace di farlo… pensaci. Un altro aspetto interessante del tuo percorso, a mio avviso, è il richiamo al mondo delle stelle. Mondo magico di per sé, come magico sai essere quando suoni. Mi piace pensare a te come a un compositore con la testa fra le stelle, per non dire fra le nuvole, con rispetto parlando, tipico di un autentico sognatore. Ad ogni modo, ti vedo come una persona che guarda in alto, verso il cielo e che ad esso si ispira. Come definiresti questo richiamo al mondo delle stelle del tuo Alcyone?

Ricordo di avere scelto il liceo scientifico con l’intento specifico di studiare astronomia. Ci rimasi molto male quando mi resi conto che astronomia non si studiava affatto, a parte alcuni cenni durante il quinto anno. L’astronomia è sempre stata uno dei miei interessi principali perché la ritengo molto legata alla musica. L’influenza maggiore per quanto riguarda la relazione musica/stelle è stata senza dubbio Scriabin, con la sua visione mistica e missione teosofica della musica. Pensa che aveva immaginato di eseguire il suo Mistero, opera purtroppo rimasta incompiuta, sulle montagne dell’Himalaya e in tale occasione si immaginava campane che suonavano dal cielo.

Ti definiresti un sognatore? Io ti definirei tale, se non altro per il coraggio che hai avuto di seguire i tuoi sogni, ma chiedo a te. Se sì, come ti immagini la relazione, a mio umile avviso molto forte, fra musica e sogno? La dimensione del sogno e dell’immaginario ricco di sorprese mi sembra particolarmente adatta a te, scusa se insisto sul punto… Ci tornerò anche dopo…
Sognatore sì, ma non al livello di Scriabin! Invecchiando sono diventato più razionalista, anche se c’è una cosa che addolcisce il mio pensiero scientifico e questa è il linguaggio musicale, per il quale stento a trovare spiegazioni coerenti. Le discussioni sull’estetica musicale e i motivi per cui certa musica suscita sensazioni e emozioni specifiche su certe persone sono sempre discutibili e non riescono a raggiungere un grado di oggettività soddisfacente. Siccome sono un musicista classico, suppongo stiamo parlando di musica classica. Maurizio Pollini disse in un’intervista che la musica è indispensabile all’umanità in quanto necessaria come lo sono i sogni. Ma io credo che la dimensione del sogno legata a quella della musica classica possa essere intuita da persone che hanno un certo background o piattaforma di conoscenza, per cui è un discorso relativo: dipende da chi ascolta che cosa. Per quanto riguarda la musica classica europea, la maggior parte delle persone al mondo non dispone di una cultura musicale “occidentale” per essere in grado di apprezzarla ed essere emozionati da essa. Questo non toglie che molti siano trasportati nella dimensione del sogno dai tanti altri generi musicali, come pop, rock, jazz oppure da linguaggi musicali non appartenenti al mondo occidentale. Alcuni esempi di musica non classica che possono darmi emozioni contrastanti come malinconia o euforia sono il gruppo Sigur Ròs, il musicista Egberto Gismonti, il tango argentino. Infine, sognatore nel senso di seguire i miei sogni, sì, ma questo è soprattutto merito di New York che mi dà la forza di seguirli. Prima di venire a New York non ero così determinato.

simone-ferraresiQuando ti osservo suonare, oltre alle note che ascolto, vedo anche il tuo trasporto fisico, un corpo che accompagna il ritmo. Sembra quasi che siano le note a tirare le fila di un corpo che segue un’onda magica, senza regole o senza alcun cammino pre-tracciato. È qui che mi è venuta ancora l’immagine di te come quella di una persona legata alla dimensione del sogno, di una fantasia pura, dove un corpo segue le note quasi inerme. Immagino sia difficile, ma prova a descrivermi, se riesci, il tuo stato d’animo allo scorrere della musica…
Ci sono pianisti che si muovono molto di più! Pensa che una delle maggiori critiche che mi è stata rivolta, dagli insegnanti di pianoforte, era che non mi muovevo abbastanza, che non mi lasciavo trasportare dalla musica. Mi è, infatti, molto difficile, durante un concerto, riuscire ad arrivare a un grado di concentrazione tale da permettermi di lasciarmi andare all’espressione interiore personale, anche per via delle tante regole da rispettare mentre si interpreta il testo musicale di un compositore, al quale cerco di attenermi il più possibile. Mi si permetta una parentesi, questo dell’interpretazione del testo è un problema che è nato nel momento in cui la figura del pianista solista, circa cento anni fa, si è separata da quella del compositore e il pianista-non compositore è quindi diventato un artista nel senso di attore, ricreatore di musiche d’altri. Essere in grado di esprimere la mia personalità attraverso la musica di altri compositori significa prima di tutto essere a mio agio durante il concerto, in modo da raggiungere una completa concentrazione (il che dipende, principalmente, dalla qualità del pianoforte, dalla sua accordatura e dall’acustica della sala) e anche, ovviamente, sapere il brano benissimo (non dico alla perfezione perché ciò non esiste). Quando questo accade, allora noterai che durante l’esecuzione sono libero di muovermi liberamente e dimentico il mondo esterno: ciò che sta al di fuori di me e del pianoforte sparisce completamente e la sensazione che provo è come una trance provocata dall’essere totalmente assorbito e trasportato dall’esecuzione. Sono convinto che questo succeda ad altri musicisti, quindi credo che sia un aspetto naturale dell’atto esecutivo. Inoltre, ciò che lo spettatore vede durante un concerto è la conseguenza di mesi di duro lavoro, per cui se non si conosce il brano musicale sembra di assistere a un’improvvisazione miracolosa e talvolta, quando il pianista è molto bravo, si ha l’impressione o illusione che la musica sia creata sul momento, che l’artista sia completamente in balìa dei suoni e non segua regole. È facile e probabilmente necessario per il pubblico credere ai miti del musicista “genio”, “talento”, “carismatico” e altre romanticizzazioni varie della figura del pianista, dovute spesso all’aspetto esteriore del musicista e a come si muove sul palco più che a come e cosa suona. Si tratta quindi di una sorta di miraggio, un’impressione per chi non conosce a fondo tutto ciò che sta dietro quel momento di esibizione. Il concerto è il frutto delle circostanze che hanno portato una persona ad avere grande passione, predisposizione a livello fisico, mentale e nervoso e una certa cultura musicale, combinate a una routine di disciplina e lavoro alla tastiera che può arrivare a 40 ore settimanali. Mi pare che 40 ore di lavoro alla settimana siano nella norma, sicché ci tengo a smitizzare il luogo comune del pianista figura eccezionale o persona diversa dagli altri. Vorrei, infine, sottolineare che salire su un palcoscenico comporta un certo grado di finzione, il quale viene spesso collegato al mondo della musica classica odierno in cui hanno maggiore successo quei pianisti che si presentano in un modo accattivante o che si muovono in modo particolare o stravagante (dando quindi un’impressione di maggiore artisticità nel caso di pianisti bravi, oppure riempendo il vuoto artistico tramite l’aspetto visivo nel caso di pianisti mediocri). La teatralità del gesto pianistico è un fenomeno che c’è sempre stato, e a questo proposito mi vengono in mente le raffigurazioni di Franz Liszt durante i suoi concerti nelle quali si può ben notare un notevole trasporto fisico. Nel caso di Liszt ovviamente ci troviamo davanti a un grandissimo musicista. Altri pianisti erano noti per il loro aspetto imponente e grandi mani, come Sergej Vasil’evič Rachmaninov e Vladimir Samojlovič Horowitz. Anche se Rachmaninov era molto meno teatrale nel movimento rispetto a Horowitz. Arthur Rubinstein era pure uno che si muoveva in modo istrionico e ciò contribuiva non poco alla sua fama, come lui stesso fece notare in un’intervista. I pianisti famosi che “non si muovono”, ovvero che muovono solo gli avambracci e le dita, mi pare siano principalmente quelli della scuola italiana, ad esempio Pollini e Benedetti-Michelangeli. Nel pianismo di scuola russa invece di solito muovono di più il tronco e usano il gomito con maggiore flessibilità. In generale, la maggioranza del pubblico apprezza uno che si muove di più e proprio per questo va a vedere un pianista e non mette su un disco nel suo salotto.

simone-ferraresiVorrei ora arrivare alla tua nuova iniziativa a Ferrara, che hai lanciato sul web, raccogliendo molti consensi e che, dopo la presentazione di sabato 14 giugno al Teatro Comunale Abbado di Ferrara, vedrà la sua prima edizione dal 18 al 26 luglio, nella nostra bella città. Da ferrarese nel mondo, sono, infatti, molto incuriosita (e felice) del fatto che hai recentemente fondato il Ferrara Piano Festival. Mi pare un ottimo ponte Ferrara-mondo, ce n’è bisogno. Ce ne vuoi parlare?
Il Ferrara Piano Festival è un’idea che mi è nata qualche anno fa principalmente per connettere la mia città natale con New York. Collega le tre cose che più mi stanno a cuore: il pianoforte, Ferrara e New York. Negli anni questa idea si è rafforzata e finalmente ho deciso di fondare un’associazione non-profit che si occupa di organizzare questo evento che si svolgerà a Ferrara a metà luglio. La maggior parte dei festival pianistici in Italia sono delle stagioni concertistiche con artisti già famosi, mentre il Ferrara Piano Festival è dedicato ai giovani pianisti, protagonisti assoluti della manifestazione. Uno degli obiettivi principali di questo festival è, infatti, quello di dare occasioni a giovani musicisti per farli esibire in Italia, se non italiani, e in Usa se non americani. Durante master class con maestri del pianoforte di fama mondiale, i migliori allievi verranno successivamente invitati a tenere concerti all’estero. Ho studiato a lungo molti degli eventi simili esistenti e credo che questo nostro festival abbia un format innovativo. Se compri le riviste di musica classica, noterai decine di masterclass estive in tutta Italia. Offrono tutti la master class come occasione di studio e tutto finisce al termine dell’evento, mentre nel Ferrara Piano Festival le master class sono un mezzo per promuovere la carriera concertistica.

Come credi che si possa incentivare e promuovere questa interessante ed originale iniziativa? Possiamo dare una mano e in che modo?
Sono fortunato ad avere l’appoggio delle istituzioni ferraresi, di sponsor, associazioni e persone, sia qui a New York che a Ferrara che credono nel progetto e mi stanno aiutando a realizzare questo sogno. Per ora lo scoglio maggiore è riuscire a pubblicizzare il festival a un livello internazionale, ed essendo questa la prima edizione si tratta di una impresa abbastanza ardua.

Per quanto potremo, ti appoggeremo… Cosa ti resta nel cuore di Ferrara e cosa vorresti che si sapesse di lei in una grande città come New York, dove vivi?
Fin da piccolo sono un appassionato della storia di Ferrara. Negli anni ’70 molte famiglie avevano due grossi volumi su Ferrara e la mia era una di quelle. Ricordo di aver passato ore a leggere e rileggere quelle pagine che mi affascinavano tanto, con foto in bianco e nero dei vicoli del centro storico immersi nella nebbia. Di Ferrara mi rimane sempre dentro il fascino di queste strade e stradine nebbiose e silenziose. Mi rimangono nel cuore i suoi suoni e sapori, cose che non posso avere in una grande città. Ci sono due sensazioni uditive che più di tutte mi mancano: i rintocchi delle campane nel silenzio e i canti delle rondini (a New York non ci sono le rondini). E poi, ovviamente, per un ferrarese all’estero la più grande “punizione” è di non poter gustare facilmente i cibi tipici. Quando parlo di Ferrara con i newyorkesi, la maggior parte della gente non l’ha mai sentita nominare. Se chiedo loro dove sono stati in Italia, le risposte sono sempre le stesse: Firenze, prima di tutte, e poi Venezia, Roma e Napoli. Altre piccole città come Siena, Gubbio e Norcia sono molto più famose di Ferrara. Questo mi rende triste e vorrei che si sapesse di più quanto Ferrara sia importante per l’arte, l’architettura e la sua storia legata alla dinastia estense. Secondo me la colpa principale è della scuola negli Usa, dove nel migliore dei casi, ammesso che si parli dell’Italia in storia e geografia, si affrontano prevalentemente nozioni su Firenze, Toscana, Roma e Italia centrale. Fuori dalle scuole, addirittura, l’Emilia-Romagna non è nemmeno conosciuta come una delle regioni italiane, mentre tutti conoscono la Toscana. Le uniche città emiliane relativamente note sono Parma, a causa del prosciutto e del parmigiano, e forse Modena per Pavarotti e la Ferrari. A New York, famosa per la sua internazionalità, la città di Ferrara è quasi completamente assente e mi domando perché. Per quanto riguarda la ristorazione, ho conosciuto molte persone, anche giovani, che sono venute da Ravenna, Rimini, Bologna, Modena, Parma per aprire ristoranti. Da Ferrara, nessuno. Vorrei che qualcuno venisse a New York e aprisse un ristorante tipico ferrarese. Avrebbe un successo enorme, eppure nessuno sembra comprendere questa potenzialità.

Concordo pienamente con te; sono stata, infatti, lo scorso mese di marzo, al salone del turismo di Mosca e su Ferrara, al grande stand dell’Emilia Romagna, si trovava solo un piccolo opuscoletto. La città e bellissima e ricca di storia (ricordo anch’io il famoso libro verde con titoli dorati di Chiappini sugli Estensi che circolava in casa al periodo del liceo…) e va promossa. Anche se credo che, negli ultimi anni, molti giovani ci stiano lavorando seriamente e da dentro la stessa città, ma va sicuramente fatto molto di più. Se dovessi concludere con un suggerimento ai giovani che vogliono osare come hai fatto tu, fra le cinque parole chiave che ho ritenuto adatte a te, quali prenderesti ? O ne aggiungeresti-consiglieresti altre?
Viaggio e sogno. Viaggiate per realizzare i vostri sogni.

Io ti ringrazio di cuore allora e un grande in bocca al lupo per il Ferrara Piano Festival. Continueremo a seguirti, e, sicuramente, a viaggiare e sognare con te.

Per maggiori informazioni sul Ferrara Piano Festival: [vedi]

Copia conforme: un complicato e pericoloso gioco di specchi

“Tutto cambia e non sono le promesse a impedirlo”

Italia, Toscana. James Miller, noto scrittore inglese, è ad Arezzo per presentare il suo ultimo libro, Copia conforme, un saggio sulla relazione tra originale e copia nel mondo dell’arte. Alla conferenza incontra un’affascinante, originale, stravagante (e conturbante) gallerista francese, Elle, che vive nel piccolo paese di Lucignano, con un figlio adolescente che la fa impazzire, e dove gestisce un negozio di antiquariato.

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locandina del film

La donna è immediatamente attratta dallo scrittore e, dopo aver assistito alla presentazione del libro, attraverso il suo agente, lo invita da lei. Insieme, decidono di fare una gita, durante la quale la proprietaria di un bar, dove si sono fermati a pranzo, li scambia per marito e moglie. James ed Elle stanno al gioco e trascorrono il resto della giornata fingendo di essere sposati da molti anni. La loro finzione si rivela così una copia conforme della vita coniugale, nella logica della filosofia che fa da sfondo al libro dello scrittore, e che essi accettano, secondo la quale le cose sono sempre come le facciamo apparire ai nostri occhi.
Il film comincia con una riflessione su realtà e finzione, che lascia il posto a un complicato e surreale dibattito sulle età del rapporto di coppia: l’incontro e la seduzione, la cerimonia del matrimonio, la vita coniugale, la crescita dei figli, la crisi, la convivenza durante la vecchiaia. Un complesso e pericoloso gioco di parti e specchi.
Il tutto, in mezzo a un confronto fra più culture straniere, l’inglese, la francese e l’italiana, e un bellissimo panorama rurale toscano a contorno, fatto di colline verdeggianti, panorami mozzafiato, sole, vecchie pietre, cancelli, cibo e danze.
Un girovagare parlando, pensando, fingendo e litigando. Un dramma di vita in uno degli ambienti più belli e piacevoli che si possano immaginare. Lui parla della caducità del sogno di eterna felicità degli sposi, dell’impossibilità di conservare per sempre l’impronta originale dei sentimenti. Poi, però, descrive attraverso una poesia persiana la bellezza della vita coniugale matura: è come un “giardino senza foglie. Chi osa dire che non sia bellissimo?”. Vedremo, ma credo che saremo d’accordo.

copia-conforme
una scena del film

La storia fra i due protagonisti è un valzer di coppia continuo, nato un po’ per caso un po’ per gioco, in cui s’inizia pensando che i due non si conoscano e, man mano che il film scorre e le scene si avvicendano, si resta confusi, finendo per pensare che i due siano stati sposati per davvero, per quindici lunghi e difficili anni, e che il loro viaggio sia un ritorno nei luoghi dove hanno festeggiato il matrimonio. Una copia conforme (di un matrimonio) di un originale (lo stesso matrimonio)? Forse vogliono provare di nuovo, anche solo per un giorno, com’è sentirsi coppia. Gioco? Scherzo di cattivo gusto? Tentativo di ricominciare? Lei, parrebbe amarlo ancora. Ma l’originale si è perduto per sempre; il miracolo di far rivivere il passato non riesce, lui non conserva nemmeno un ricordo. Ma forse sta mentendo, ha paura, e non vuole più stare al gioco.
Il regista non svela mai la verità del legame tra i due, ma pare voler ragionare sulle reazioni sparse e confuse dei personaggi di fronte al conosciuto/sconosciuto e sulla ricerca dell’essere umano di un ideale (originale) che non esiste, non accontentandosi dell’unicità di quello che ha sempre avuto tra le mani (la copia dell’ideale/originale). Tante le trame possibili.
“Meglio una buona copia che l’originale”, dice la Binoche nel viaggio in macchina verso il bel borgo di Lucignano, profumato, fiorito, luminoso e antico. Come se cercasse di convincere l’uomo che le viaggia accanto, che è lei la copia conforme della donna che lui non ha mai avuto, sia che i due abbiano avuto una storia o meno.
La risposta, alla fin fine, non l’avremo. O forse sì, l’abbiamo, perché sta allo spettatore scegliere la propria copia conforme, (re)interpretando il tutto come crede, perché la verità sta negli occhi di chi guarda, come ci vuole dire la scena del confronto tra i due protagonisti e un’anziana coppia di fronte a una statua. E su cui occorre riflettere.

“… E se il sorriso della Gioconda non fosse quello autentico, ma quello che Leonardo le ha chiesto di assumere?”… “Quindi gli originali non esistono”. “Al contrario… ci sono molti più originali”.

Copia conforme, regia di Abbas Kiarostami, con Juliette Binoche, William Shimmel, François Cluzet, Sami Frey, Italia/Iran/Francia, drammatico, 2009, 106 mn.

Marattin sui tagli della Bce: “Utili, ma per gli effetti
serve un anno”

“Nonostante il taglio dei tassi d’interesse sia una misura relativamente ‘veloce’ ci vuole circa un anno per poter osservare qualche cambiamento reale”. Lo ha dichiarato Luigi Marattin, assessore del Comune di Ferrara e docente di Economia politica all’Università di Bologna, in un’intervista al periodico “Quindici” realizzato dagli allievi dalla scuola superiore di giornalismo “Ilaria Alpi” di Bologna.
Rispondendo a una domanda di Giovanni Panebianco relativa ai presupposti e all’efficacia della manovra recentemente adottata dalla Bce, la Banca centrale europea presieduta da Mario Draghi, Marattin ha spiegato che “si tratta di misure che servono a stimolare la domanda aggregata: servono per fare affluire più liquidità nel sistema. Ma, per quanto riguarda la loro efficacia, non ci si può aspettare di vedere risultati nell’immediato. Un altro equivoco frequente nel giudicare il successo o meno di manovre di questo tipo – ha aggiunto – sta nel pensare che bastino da sole. Servono a prendere un po’ di tempo ma vanno affiancate da riforme strutturali che risanino l’economia dei singoli stati in difficoltà”.
Perché dopo i tagli del 2013 non si è verificato il previsto abbassamento dei costi dei mutui per le famiglie?, ha domandato poi l’intervistatore.
“I tassi fissati dalla Bce – afferma Marattin – rappresentano un indicatore di riferimento, ma la durata del prestito erogato dalla banca centrale agli altri istituti di credito è a brevissimo termine. Mentre, per quanto riguarda mutui e prestiti alle imprese, si parla di prestiti a lunga scadenza. Nell’equazione, oltre alla durata, entra inoltre in gioco anche il rischio che una banca si assume quando decide di prestare soldi ai cittadini. Il mancato abbassamento del costo dei mutui si può imputare anche a un intoppo nel meccanismo di trasmissione dei tassi. I motivi sono due: scarsa solidità delle singole banche e finanze pubbliche non sane”.
Infine, l’ultimo interrogativo: dopo gli ultimi tagli si può parlare di un allentamento delle politiche di Austerity?
“Sì, se parliamo dell’Austerity monetaria, di cui la principale fautrice è la Bundesbank (l’austerity fiscale è una cosa diversa) – è la replica -. Ma non sono tanto significativi i tagli dei tassi d’interesse, quanto, piuttosto, le misure non convenzionali comprese nel pacchetto dell’operazione di Draghi. Mi riferisco al tasso negativo sui depositi (allo 0,1%), allo stop alla sterilizzazione del Security market program (che si traduce in un piccolo aumento nell’offerta di moneta) e al prestito della durata triennale di 400 miliardi di euro alle banche (targeted long term refinancing operations il termine tecnico) per far ripartire l’economia reale”.

Lessico poco familiare: Anarchia

Mi appresto a fare il mio annuale pellegrinaggio a Colonnata, il famoso paese del lardo, ma, per me, capitale sentimentalmente insostituibile dell’Anarchia. Certo, lo so che gli anarchici e l’Anarchia sono da sempre politicamente usati dall’imperante moderatismo capitalistico come termini per definire comportamenti scorretti, ma questo – ne siano certi anche i più rudi sostenitori della spietatezza borghese – è propaganda, bisogna pur avere un nemico su cui gettare tutte le colpe: scoppia una bomba? sono stati gli anarchici, c’è una manifestazione, subito definita sediziosa? colpa degli anarchici. Le forze dell’ordine pestano a sangue i manifestanti (si ricordi il G7 a Genova)? si sono difese dagli anarchici. Insomma, l’Anarchia è servita ai nostri governi (lontani e vicini) come scudo e scusa per imporre violenze e assolvere se stessi. D’altra parte, se andate a leggere i nostri vocabolari troverete, alla voce “anarchia”, la non spiegazione del termine, oppure troverete soltanto la definizione negativa: mancanza di governo, disordine, indisciplina. Soltanto alla fine del paragrafo, finalmente, l’autore del vocabolario si è sentito in dovere di dire che anarchia è anche, ma soprattutto, un movimento politico che intende sostituire a un ordine sociale basato sulla forza dello Stato un ordine fondato sull’autonomia e la libertà egli individui. Ci siamo. A Colonnata, questo paese abbarbicato sulle Alpi Apuane, là dove Michelangelo andava a scegliere i marmi per i suoi capolavori, i cittadini hanno affermato il loro pensiero antico con questa lapide: “Ai compagni anarchici uccisi sulla strada della libertà”: è una libertà che non ha mai voluto dire liberticidio, ma assunzione individuale di responsabilità, un valore che poche persone insegnano ai figli e ancor meno i maestri nelle scuole, ed è così che abbiamo costruito un paese dove è legale rubare, è giusto essere furbi, è morale fregare gli altri e, ormai, pare naturale se i padri uccidono le loro donne e i loro stessi figli. Bel paese, vado a Colonnata.

Tempo di sagre, tempo
di allargare lo sguardo
e andare oltre i localismi

Se facciamo una rapida carrellata delle decine di piccoli paesi del ferrarese, da Renazzo a Mesola, da Bova di Marrara a Tresigallo, incontriamo fitti calendari delle ormai note sagre paesane, da quelle del patrono a quelle di alcuni piatti tipici della nostra tradizione emiliano-romagnola.
Che il tutto aiuti a promuovere un posto, a valorizzare usi e costumi di un non lontano passato è fuori dubbio: eventi di interesse abbastanza diffuso, creano movimento e attivano relazioni, muovono qualche migliaia di euro e la tradizione viene tramandata alle nuove generazioni.
A dire il vero, la manifestazione “in sagra” sosta solo in loco, nei dintorni, dentro un piccolissimo perimetro, al massimo tra piccole comunità contigue, e li si ferma.
Spesso l’organizzazione incontra pluralità di soggetti, dalle parrocchie al Comune, dalla polisportiva alle Pro loco; un merito che non sottovalutiamo, anzi un compiacimento, ma andare oltre può essere lo sviluppo di questa brevissima narrativa tra sagre, sacrati, enogastronomia, iniziative e tombole, alcune giostre, un po’ di musica country e, forse, l’evento. Ed è proprio sull’evento che vorremo soffermarci un po’.
Non si tratta di richiamare le poche realtà che hanno trasformato la manifestazione paesana in un Evento, e questo basterebbe a fare le congratulazioni, ma di mettere in rete l’intera filiera dando qualità, specificità e rilevanza, oltre i confini, per attrarre e farsi attrarre dall’offerta di promuovere i territori.
Ci sono delle progettualità che l’Unione europea accompagna favorevolmente per fare cultura e turismo dei localismi, non quelli che si chiudono a volte solo per mangiare sotto un tendone polveroso vicino ad una chiesa del XIV secolo, ma per le eccellenze che l’Unesco mette in fila come patrimonio dell’umanità, e non solo.
Metà dei beni artistici e culturali nel mondo sono in Italia, spesso dimenticati e coperti da terriccio, abbiamo chiese e pievi, ville e palazzi, parchi e giardini, affreschi e dipinti sparsi ovunque, finiti nel dimenticatoio e che lasciano nel pianto milioni di mancati visitatori. E poi si dice che la cultura non fa economia e sviluppo.
Se si pensa che sui lidi di Comacchio abbiamo presenze di non pochi milioni di turisti, villeggianti e di un veloce passaggio di persone sulla strada Romea che collega Ravenna a Venezia, forse ripensare a come toglierli per alcune ore dal caldo e smuoverli dall’ombrellone, non sarebbe una cattiva idea.
Bisogna fare rete, coordinare date e calendari, fare marketing territoriale, dare qualità ai siti di interesse, coordinare i rapporti con le agenzie di viaggi e non lasciare al singolo sindaco e alla municipalità l’illusione di essere l’ombelico del mondo.
Il locale con il globale non sono solo un binomio, l’incoming non una descrizione analitica e basta, il borgo e le storie non una vetrina da spolverare, e ci fermiamo qui per non additare troppo e incontrare i mugugni di cui siamo spesso attori altezzosi, dando l’impressione di isolarci dai contesti ambientali.
Se guardiamo al Castello della Mesola con la sagra dell’asparago, alla Comacchio dei Tre ponti con la sagra dell’anguilla, a Tresigallo del ‘900 con la festa del Borgo autentico, e altre manifestazioni dell’alto ferrarese, che non siano un lungo capannone con le solite panchine, forse capiremmo e ci metteremo nella condizione che serve per cambiare verso anche su questi aspetti, nei nostri sperduti territori di estense memoria.
Il nostro ministro, che è di casa, cominci a dare la scossa, rimuova le solite incrostazioni, tolga competenze a chi non le esercita con intelligenza, faccia veramente la parte giusta che gli spetta e corra anche lui come il suo capo.
Forse stiamo insistendo troppo, ma questa testata vuole essere anche di stimolo, provocando, perché non ci piace essere tra gli ultimi, anche se alcune responsabilità si intravedono.
Facciamo sistema anche qui, e speriamo bene.

Sviluppo e investimenti
in laguna, il ruolo dei privati incrina il patto per l’ambiente

L’ultimo incontro tra il circolo Legambiente Delta del Po e l’Amministrazione comacchiese non è stato dei più rilassati. Quel patto siglato tra gli ambientalisti e il M5S prima dell’esito elettorale che li ha insediati al governo si è incrinato. La fiducia si è assottigliata nel momento in cui il Comune ha sposato l’accordo stretto tra gli imprenditori privati e il Ministero dello Sviluppo, con il benestare del Comune lagunare, della Provincia di Ferrara e il favore del Parco del Delta del Po.

Per l’Amministrazione comacchiese il patto di sviluppo, ovvero la promessa di investimenti privati nel ricettivo e 20 milioni di euro pubblici a fondo perduto che dovrebbero piovere sulla capitale del Delta del Po, è l’occasione di rilanciare economia, occupazione, guadagnare posti letto, servizi e adeguamento del sistema idrico fognario, da sempre spina nel fianco dei lidi, dove l’onda d’urto delle seconde case non è in grado di essere assorbito dalla potenzialità del sistema idraulico integrato. Per Legambiente corrisponde invece a una nuova e camuffata colata di cemento figlia del mai tramontato partito del mattone.

“L’ultimo incontro è stato piuttosto concitato anche in virtù dei progetti avanzati dagli imprenditori, più che una rigenerazione ambientale ci sembra un ritorno al passato, fatto di costruzioni con un differente uso, ma sempre di speculazione edilizia si tratta. E sempre a danno di un territorio che ha bisogno di tutt’altro – spiega Marino Rizzati, presidente del circolo Delta Po di Legambiente – Faccio un esempio, tra le richieste avanzate, c’è anche la società di Sergio Vitali, la sas Villaggio dei Pittori, che vorrebbe riprendere i lavori per ingrandire il residence Michelangelo del Lido di Spina. Eppure la vicenda giudiziaria con cui fu bloccata la costruzione non è ancora chiusa”.

Il caso delle “pinetine”, che ha visto il Comitato della parrocchia di San Paolo opporsi all’allargamento della struttura, spiega Rizzati, manca della puntata giudiziaria finale sulla quale la Cassazione si deve esprimere. “La società però è già tornata alla carica con un paio di progetti dichiarati ecocompatibili e pubblicati sul sito del Comune di Comacchio”, prosegue.

Le richieste della società nell’ambito della “rigenerazione turistica ambientale”, riferiscono di Rta ma non solo, di efficienza energetica, approvvigionamento da energia rinnovabile, di inquinamento ridotto al minimo in cambio di 70 ingaggi per realizzare l’ampliamento e 55 posti di lavoro complessivi per entrambi i progetti. Sono previste strade a uso comunale, parcheggi, sviluppo verticale degli edifici, aree verdi con moltissimi alberi e un contributo determinante per realizzare il nuovo Bosco Eliceo previsto dal Parco del Delta del Po

“Sui desiderata, ben 33, il sindaco è stato chiaro nel rimarcare, che sarà il Comune a decidere chi privilegiare – continua – Non è esattamente il metodo democratico con cui si pensava di dovere affrontare il delicato tema dello sviluppo del nostro territorio, che riguarda il futuro di noi tutti e ha nel Psc (Piano strutturale comunale) lo strumento urbanistico per disegnarlo. Noi proprio non ci stiamo”. Tra le domande presentate, ricorda, ci sono richieste di riconversione di terreni agricoli da piegare al settore ricettivo, strutture plein air, residenze turistiche alberghiere, eurohotel, poco importa la formula, sostiene Rizzati, al centro della questione c’è sempre l’apertura di cantieri edili. “E’ speculazione edilizia a cui l’istituzione provinciale ha prestato il fianco grazie alle proprie decisioni”, dice Rizzati che ha inviato una lettera alla Provincia di Ferrara ormai in via di smantellamento.

“Sono gli ultimi giorni dell’Amministrazione provinciale, gli ultimi di operatività secondo i compiti e lo storico modello di governance territoriale finora praticato, è tempo di bilanci, ma anche di alcuni ultimi atti da votare”, dicono gli ambientalisti. “Abbiamo avuto vari motivi di contrasto con le scelte dell’ente provinciale, basta pensare all’approvazione del Prg (Piano regolatore generale) di Comacchio del 2002, è ricco di contenuti illegittimi, ha previsioni edificatorie eccessive e non è stato adeguatamente controllato”. E ancora: “L’approvazione della variante al Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale (PTCP) del 2008, che con il bel nome di Rete ecologica provinciale ha nascosto la cancellazione dalla cartografia di individuazione e tutela di almeno 20 ettari di aree boscate, comprese le pinete in area urbana di Lido Spina e Estensi, ma anche altri boschi in aree rurali, non ha giovato a Comacchio”.

Una premessa poco lusinghiera cui segue una richiesta precisa: contenere il numero di strutture da realizzare. “L’ amministrazione provinciale, oltre a non aver posto rimedio ai problemi esposti, si accinge a terminare un percorso amministrativo rispetto al quale domandiamo un ripensamento – insistono gli ambientalisti – Chiediamo di non dare seguito alla previsione contenuta nel nuovo Piano Territoriale del Parco del Delta del Po della Stazione Comacchio centro storico, con cui si intendono destinare parecchie decine di ettari alla neocementificazione”. Sarebbe una decisione ingiustificata, eccessiva, sostiene Legambiente Delta Po, una decisione che espone a rischi di inutile consumo di territorio una fascia costiera fragile, bisognosa di servizi, parchi pubblici, parcheggi, mobilità alternativa all’auto, spazi sportivi, piuttosto che di una marea di nuovi posti-letto. “Camping, villaggi, hotel e appartamenti non operano al pieno della loro capacità né come posti-letto né durante i differenti periodi dell’anno – concludono – Questo è il motivo per cui ci auguriamo che il bilancio delle azioni della Provincia si chiuda con una maggiore attenzione verso le reali esigenze di Comacchio e della sua costa”.

Il Delta del Po sprofonda
in un mare di parole

Il delta del Po scorre ignaro di esser il cuore di una disputa politica tra le differenti anime del centro sinistra emiliano romagnolo e veneto. Scorre intrappolato tra due differenti concetti di sviluppo economico e sociale. Il rinvio della sua candidatura a riserva naturale nell’ambito del programma Unesco Uomo e Biosfera, che lo avrebbe portato per certo all’Expo come riserva Mab con una ricaduta turistico-ambientale positiva, ha generato una serie di reazioni dissonanti di qua e di là dal fiume. A riconferma delle distanze tra i due parchi, regolati da leggi regionali e vincoli di tutela ambientale differenti, che potrebbero essere superati in favore di una gestione unica solo con l’istituzione di un parco interregionale o, in alternativa nazionale, come previsto dalla legge 394/91.
Dopo 26 anni di chiacchiere, le buone intenzioni sono ancora solo parole. E di parole, si sa, è lastricato l’inferno. Per il momento di reale c’è l’esame di riparazione della candidatura “apprezzata”, ma rimandata a settembre. Come ovvio, gli operatori turistici e in primis il Consorzio Visit Ferrara, si augurano un epilogo positivo tanto più, che la riserva Mab sembrava cosa fatta e già in “vendita” prima a Venezia e poi a Vigevano nell’ambito della fiera universale del 2015. Senza contare le speranze di Comacchio, in prima linea nel patto di sviluppo, 20 milioni di euro a fondo perduto, una serie di investimenti nel ricettivo alberghiero “leggero” da parte dei privati e il benestare del Comune lagunare, dell’ormai in via di scioglimento Provincia di Ferrara e dell’ente Parco emiliano-romagnolo, che hanno accompagnato l’accordo. Cosa accadrà ora? Il rinvio, sfuggito al silenzio, ha riscaldato gli animi.
Il presidente del parco veneto Geremia Gennari parla di “disinformazione e faziosità” assicurando che la candidatura va avanti e i chiarimenti sono già nelle mani di chi deve valutarli a Parigi. “Non si possono ignorare gli sforzi di valorizzazione dei territori interessati al progetto e riconosciuti a livello mondiale”, insiste Gennari, uno dei promotori della riserva. Eppure il mondo sembra finire tra le due sponde. “La Riserva di Biosfera Mab Unesco – dice Gennari – non è uno strumento che impone vincoli, delimitazioni amministrative equilibri di presidenze o di pesi politici, ma è uno strumento di condivisione territoriale al fine della tutela e valorizzazione della biodiversità a partire dai portatori di interesse (gli imprenditori, ndr)”.
Non la pensa così Graziano Azzalin consigliere regionale del Pd veneto e autore di un’interrogazione con cui chiede alla sua Regione di occuparsi dei problemi gestionali. “Dalle esternazioni dell’assessore regionale Maria Luisa Coppola e del presidente del Parco del Delta del Po del Veneto Geremia Gennari, si capisce come i rilievi sui problemi di governance mossi dall’International Advisory Committee for Biosphere Reserves del programma Mab-Unesco e confermati dal Consiglio internazionale di Coordinamento siano assolutamente fondati”, spiega. “Secondo l’assessore di tutti i veneti, infatti, l’aver reso noti i rilievi e la bocciatura che si era ben guardata dal menzionare – prosegue – è un non riconoscere la bontà di un progetto portato avanti da una maggioranza di sindaci”. E ancora. “Da queste parole si capisce quale sia il problema, che non è sfuggito ai rappresentanti dell’Unesco: la visione politicizzata, la gestione clientelare e la difesa di posizioni di rendita. I personalismi sono ciò che hanno impedito la costruzione di una prospettiva per il Parco del Delta del Po. Le careghe (seggiole, ndr), l’assessore dovrebbe rendersene conto, in un momento come questo in cui si cerca di semplificare in tutti settori, dalle Camere di Commercio al Senato, non sono la priorità”.
Ben diversa la posizione della Provincia di Ferrara, che attraverso l’architetto Moreno Po, nomen omen, dirigente dei Servizi Piani territoriali, minimizza il problema. “C’è l’evidente manipolazione della realtà nelle dichiarazioni degli esponenti ambientalisti che hanno provocato i titoli giornalistici e molti dei commenti di questi giorni sulla vicenda della candidatura Mab – scrive – si vuole ostacolare il processo in corso, inventandosi fantasiose chilometriche liste di errori nella compilazione e di stroncature nei giudizi della Commissione”. Insiste: “Chi si è preso il disturbo di leggere nel merito le considerazioni espresse dalla Commissione Iacibr sulla candidatura del Delta del Po, avrà trovato scritto testualmente: Il Comitato Consultivo ha apprezzato la proposta di candidatura”. Certo, ma non è l’unica valutazione.
La commissione riporta in otto punti i motivi del rinvio tra cui la poca chiarezza sullo status e la gestione dell’area di stretta protezione naturalistica (core), del processo decisionale all’interno dell’organo istituzionale di coordinamento, della governance piuttosto complessa e non gestibile, della mancanza di visione comune per la riserva e della mancanza di discussione sulla qualità delle acque in presenza delle coltivazione agricole e delle zone umide.
Tutti d’accordo con l’affermazione di Moreno Po secondo cui si cerca di punture “sulla proiezione futura di un’area di valore mondiale, che vuole uscire per sempre dalla mancanza di visione internazionale e dalle angustie delle questioni di (piccola) politica locale”. Ci si chiede allora come mai il parco non sia ancora interregionale o nazionale, proposta rilanciata di recente dal presidente emiliano romagnolo Massimo Medri. E come mai in tutti questi anni non si sia data la giusta valorizzazione ai due siti Heritage Unesco, le chiese paleocristiane di Ravenna e Ferrara città del Rinascimento e il suo Delta del Po, che rientrando in gioco avrebbero avuto un peso tale da evitare i guai di oggi con una candidatura che rischia di provocare pesanti delusioni. Un peccato, tanto più che ci si ritrova a dover fare gli esami di riparazione. E a parlare ancora una volta di “localismi politici” per rintuzzare una posizione espressa all’interno della coalizione di centrosinistra, non si può non rilevare la dissonanza tra le parole della consigliera regionale Gabriella Meo, del gruppo Verdi-Sel e quelle spese dalla Provincia ferrarese. Stessa casa visioni opposte, la Meo ha etichettato la vicenda Mab come “un’operazione di marketing turistico-territoriale avviata in pochi mesi in vista dell’Expo del prossimo anno, un’operazione di corto respiro che non ha tanto a cuore la conservazione della biodiversità e l’uso sostenibile delle risorse, quanto l’utilizzo di una ventina di milioni di euro di fondi pubblici”.
In tempi di crisi come ovvio il denaro è il nocciolo di ogni preoccupazione. Gli operatori economici cercano di uscire dall’impasse, proprio per questo sono stati presentati al settore alberghiero e extralberghiero quattro progetti per far crescere e rafforzare  l’identità del Delta, considerato il futuro del business turistico. I piani illustrati, finanziati dall’Europa (Asse 4 – Por Fesr nel periodo 2007 – 2013) sono stati messi a punto per accrescere l’offerta turistica nel Delta del Po. “L’obiettivo – spiega Massimo Biolcatti presidente di Ascom Codigoro – è valorizzare i progetti, conoscerli e presentarli agli operatori e dunque ai turisti”. Marketing. “E’ essenziale anche per il futuro poter usufruire dei fondi europei, che possono permettere di allentare i rigidi vincoli di spesa imposti dal Governo e necessari per realizzare sinergie tra enti pubblici e operatori del settore turistico”, aggiunge Marco Finotti, assessore al Bilancio del Comune di Codigoro.
L’appuntamento, promosso dall’Emilia Romagna con il supporto organizzativo del Centro di Assistenza Tecnico della  Confcommercio regionale e di Ascom Ferrara si è concentrato sulla realizzazione in tutta la regione e in particolare su quattro iniziative a Comacchio, Mesola e Goro  finanziate con oltre 4 milioni di euro. A Davide Duo, segretario di Ascom Codigoro il compito di tracciare un bilancio: “Dobbiamo avere una maggiore consapevolezza della ricchezza e dell’identità territoriale del parco del Delta che si sviluppa su due regioni e su tre province, Ferrara, Rovigo e Ravenna”. Da qui l’esigenza di  accelerare senza indugi la creazione di un unico Parco del Delta.

Tutti per il parco unico e la tutela della biodiversità. Nel frattempo ai suoi confini ravennati, dove la protezione – pur con sfumature diverse – è prevista, è nato lo zoo-safari Parco tematico Le Dune del Delta. Bisonti, zebre e giraffe. Che dire? I fenicotteri rosa volano, scelgono dove riprodursi, ma le zebre no di certo. Appare chiaro come sulla biodiversità e la sua valorizzazione le idee siano assai confuse.

Mostruosità contemporanee

Nella posizione etica e professionale in cui mi trovo non posso non commentare la terrificante tragedia avvenuta qualche giorno fa vicino a Milano. Una donna e due bambini uccisi ferocemente dal loro padre, marito della donna, perché di ‘intralcio’ al corteggiamento di un’altra donna.
E’ facile cadere in semplificazioni legate all’uso di categorie onnicomprensive, evocate su molti quotidiani.  In questi casi i media fanno ricorso ad ogni tipo di ‘malattia mentale’, all’incapacità di intendere e di volere dell’omicida o ad un suo “raptus”. Le angosce dell’uomo contemporaneo, cresciuto nel mito dell’eterna giovinezza garantita dall’avvento della chimica, in un mercato che presenta la morte, le malattie e la vecchiaia come eventi procrastinabili, produce la richiesta insistente della ‘garanzia di follia’ rispetto a simili gesti altrimenti difficilmente comprensibili.  Ciò che può uccidere, oggi, è controllabile. Con le analisi del colesterolo, con la mappatura genetica, con gli screening di massa. Lo sono le polveri sottili, gli uragani, le onde elettromagnetiche, ma non la mano dell’uomo. Si è chiesto vanamente alla psicologia e alla psichiatria di convalidare il tranquillizzante senso comune che vuole il “male” spesso collocato nell’altro.
Il gesto estremo di quest’uomo fa invece presupporre che alla base ci sia una struttura perversa di personalità. Il perverso, secondo la lezione dello psicoanalista Jacques Lacan, può diventare una macchina, un automa capace di perseguire un obbiettivo a qualunque costo. Nella logica del perverso, qualsiasi cosa può diventare un ostacolo al perseguimento del suo fine: siano essi beni materiali, cose, uomini. E di ciascuno di essi ci si può sbarazzare in maniera sbrigativa, con una ferocia banale, metodica e studiata.
Potremmo definire ciò che è accaduto un omicidio della banalità. Hannah Arendt nell’analizzare la ‘banalità del male’ mostra quello che la psicoanalisi mette bene in luce: la totale assenza di senso di colpa, di Super Io. Il perverso non ha null’altra morale che il proprio disegno, il proprio scopo, e in nome di questo ritiene logico e normale mettere in atto ogni azione che possa farlo giungere all’obbiettivo. La sua capacità di assolversi è la cifra che lo caratterizza, testimoniata da come riesce a vivere i momenti dopo l’omicidio: andando a vedere la partita, scendendo in piazza e incolpando qualcun altro per distogliere l’attenzione da lui successivamente mettendo in scena una rapina. C’è da credere che l’omicida abbia realmente esultato ai gol di Marchisio e Balotelli. In quest’uomo la sensazione di malessere che si prova quando si commette qualcosa di sbagliato manca completamente, non c’è alcun senso di colpa appunto. Il suo solo limite è incappare nella legge, la sola capace di fermarlo nel suo illimitato bisogno di raggiungere quel che vuole senza il fastidio del limite. A tal proposito alcuni serial killer affermano che se non fossero stati fermati avrebbero continuato all’infinito. Per il perverso l’oggetto, in quanto tale è intercambiabile. Ecco allora che ‘volendo un’altra donna’, vi era la necessità di togliere  di mezzo l’ostacolo, rappresentato in questo caso oltre che dalla moglie, anche dai figli. Si può presumere che la frase scatenante pronunciata dall’altra donna sia stata: “non ne voglio sapere, hai una famiglia!”. E da lì l’obbiettivo principale che ha guidato la terrificante azione: l’eliminazione dell’ostacolo, la famiglia intera appunto.
Di fronte a simili tragedie è difficile accettare che tale violenza omicida sia stata compiuta da un nostro simile, un uomo sino a quel momento normale. Uccidere senza un ‘vizio’ di mente non può appartenere al senso comune senza spaventare. Si deve individuare una torsione dell’animo, una turba della psiche, insomma, qualcosa che ci permetta di non scorgere nell’omicida quella normalità che fa parte di noi.
Episodi come questo ci costringono a fare i conti con un’inaccettabile realtà: ci si uccide tra simili, in modo abbastanza naturale e  non prevedibile. Per denaro, per invidia. Inoltre, simili tragedie fanno riflettere sulla difficoltà odierna di dare valore alla vita, di riflettere sulla conseguenza delle proprie azioni e sull’incapacità di autocontrollo. Purtroppo è un caso estremo di una tendenza che esiste nella nostra società e non un episodio isolato. Per questi motivi si rende necessario e indispensabile un lavoro di sensibilizzazione nelle scuole e di educazione alle emozioni a partire dall’infanzia per crescere adulti in grado di esprimere e padroneggiare i propri sentimenti in modo civile e non dannoso a sé e agli altri.

Chiara Baratelli, psicoanalista e psicoterapeuta, specializzata nella cura dei disturbi alimentari e in sessuologia clinica. Si occupa di problematiche legate all’adolescenza, dei disturbi dell’identità di genere, del rapporto genitori-figli e di difficoltà relazionali.
baratellichiara@gmail.com

Pesi, misure e colore della pelle

Un anno fa, quando il ghanese Kabobo uccise per strada tre persone a picconate, la Lega tuonò evocando la pena di morte. Avete sentito qualche leghista in queste ore esprimersi su Massimo Giuseppe Bossetti – bergamasco – accusato di essere l’assassino di Yara Gambirasio o su Davide Frigatti – milanese – che, come Kabobo, ha ammazzato per strada, senza motivo, un uomo e ne ha accoltellati altri due? Nessuno ha fiatato.

Internet non è responsabile della morte dei giornali

da: Ilary Bottini

Pensiamo tutti che Internet abbia ucciso il commercio tradizionale della carta stampata, giusto? In fondo, fino a che la popolazione non ha iniziato ad interagire con il web a partire dalla metà degli anni ’90, il settore dei giornali era all’apice, e offriva ai lettori articoli, servizi e pubblicità di ottimo livello.
Ma una ricerca pubblicata di recente rivela che potremmo sbagliarci riguardo al ruolo di Internet nel declino dei giornali. Secondo lo studio del professor Matthew Gentzkow della University of Chicago Booth School of Business, le idee sul giornalismo si basano su tre presupposti sbagliati.
Nella sua recente pubblicazione “Trading Dollars for Dollars: The Price of Attention Online and Offline,” pubblicata nel numero di maggio della American Economic Review, Gentzkow nota che il primo errore consiste nel pensare che i costi delle pubblicità online siano inferiori a quelli della carta stampata, così che i mass media tradizionali devono adottare un modello di business meno redditizio che non riesce a ripagare adeguatamente i giornalisti. Il secondo presupposto è che il web avrebbe reso il mercato della pubblicità più competitivo, facendo calare le tariffe e, di conseguenza, i ricavi. La terza idea errata è che Internet sia responsabile del declino del settore dei giornali.
“Questa idea che le pubblicità online siano meno costose si deve al fatto che solitamente si fanno dei calcoli basandosi su unità non raffrontabili tra loro” spiega Gentzkow. Le tariffe delle pubblicità online sono solitamente valutate sulla base del “numero di visitatori unici mensili”, mentre i dati sulla circolazione determinano le tariffe dei giornali.
Vari studi hanno dimostrato che le persone trascorrono più tempo a leggere rispetto a quello speso dal visitatore medio mensile online, rendendo i dati che emergono del tutto fuorvianti.
Confrontando la quantità di tempo trascorso a guardare una pubblicità, Gentzkow ha scoperto che il prezzo dell’attenzione per consumatori assimilabili risulta superiore sui media online. Nel 2008, ad esempio, i giornali Usa hanno guadagnato 2,78 dollari all’ora di attenzione nella carta stampata, e 3,79 dollari all’ora di attenzione online. Entro il 2012, il prezzo dell’attenzione nei giornali stampati era sceso a 1,57 dollari, mentre il prezzo per l’attenzione online era salito a 4,24 dollari.
Inoltre Gentzkow spiega che la popolarità dei giornali era già calata in modo significativo tra il 1980 e il 1995, molto prima dell’era di Internet, ed è diminuita all’incirca nella stessa misura da allora. “Le persone non hanno smesso di leggere i giornali a causa di Internet,” conclude Gentzkow.

Ilary Bottini
* Agenzia Noir sur Blanc

Candidatura Unesco per il Delta del Po, “campagna denigratoria dei politici”

Da: Geremia Giuseppe Gennari *

Stupisce e rammarica la campagna denigratoria e di disinformazione, messa in atto da esponenti politici regionali e nazionali, che in questi giorni è stata riportata avanti dalle testate giornalistiche. La candidatura nonostante l’evidente disinformazione e faziosità operata andrà avanti. Al fine di evitare che i territori interessati dal processo ritengano, a seguito di faziosa informazione, i loro sforzi di partecipazione ed elaborazione non valorizzati e considerati a livello mondiale, si ritiene utile precisare:
La candidatura a Riserva di Biosfera Mab Unesco è stata presentata al Ministero dell’Ambiente, da questo istruita positivamente a firma del Direttore Grimaldi, nel settembre 2013. Nello stesso mese la documentazione è stata inviata al competente ufficio Unesco di Parigi per la relativa istruttoria tecnica (Iacbr).
Nella stessa data sono state presentate altre 5 nuove candidature fra cui la richiesta del Parco Nazionale della Sila che aveva nel 2012 presentato la candidatura sottoposta a richieste di chiarimento forniti nel settembre 2013 ed oggi istruita positivamente con raccomandazioni.
La Commissione Iacbr riunitasi il 17-20 marzo 2014 a Parigi ha trasmesso gli esiti delle valutazioni al Ministero Ambiente in data 27 aprile 2014. Il Ministero dell’Ambiente ha convocato per il 20 maggio 2014, riunione di coordinamento Nazionale delle aree Riserva di Biosfera – Mab, in cui fra le altre chiedeva l’invio di considerazioni/chiarimenti non troppo estese rispetto ai quesiti richiesti dallo IACBR. I primi chiarimenti, così come richiesto, sono stati inviati entro il 5 giugno 2014 al Ministero dell’ambiente ed allo IACBR di Parigi. Tali documenti fanno parte del documento che il Segretariato MaB Italiano ha inoltrato in occasione della 26° sessione ICC/MAB che si è svolta a JonKoping in Svezia il 10 – 13 giugno 2014. In tale occasione le considerazioni tecniche rappresentate dalla candidatura a Riserva di Biosfera – MAB del Delta del Po sono state illustrate dai rappresentanti del Ministero dell’Ambiente ed acquisite dall’IACBR per una più approfondita valutazione da effettuarsi nel mese di settembre 2014. Pertanto a seguito della decisione, dello Iacbr, di non provvedere a nessuna ulteriore valutazione tecnica dei chiarimenti inviati, risultano rinviate, a seguito delle richieste di chiarimenti, le seguenti candidature: Delta del Po, Alpi Ledrenesi e Judicaria; dalle Dolomiti al Garda. Viene respinta la candidatura del Corridoi Milano-Ticino. Viene approvata con raccomandazione la candidatura della Parco Nazionale del Sila , nel 2012 oggetto di chiarimenti. Entrando nel merito delle considerazioni espresse dal IACBR sulla candidatura del Delta del Po si riportano testualmente: “Il Comitato Consultivo ha apprezzato la proposta di candidatura situata in Italia settentrionale e di estensione pari a 139.000 ha (16 municipalità con 120.000 abitanti). Si riconosce l’unicità della candidatura in quanto unico delta Italiano nato dalla confluenza dei principali rami del fiume Po e caratterizzato da sistemi dunali costieri, formazione sabbiose, lagune, stagni, paludi, dune fossili, canali e pinete costiere, ampie zone salmastre e terre coltivate prevalentemente a riso. Elementi della candidatura particolarmente apprezzati:
Unicità della candidatura (unico delta in Italia);
Identità unica rilevante patrimonio di biodiversità dovuto alla varietà di habitat presenti;
Località turistica di interesse- attività di grande beneficio per le comunità locali (principale attività economica per le popolazioni residenti nell’area);
Rilevanza delle attività agricole e di pesca praticate nell’area;
Attività di coinvolgimento degli stakeholder locali nel processo di consultazione.
Ciononostante, lo IACBR raccomanda il RINVIO del sito candidato per i seguenti motivi:
1. poca chiarezza sullo status e gestione dell’area core;
2. poca chiarezza con riguardo al processo decisionale all’interno dell’Organo istituzionale di Coordinamento (apprezzato il supporto delle tavole rotonde tematiche);
3. struttura di governance piuttosto complessa e non gestibile;
4. mancanza definizione della visione comune della Riserva;
5. Il valore aggiunto della Riserva non risulta: il piano di azione citato prevede azioni che riferiscono a piani di gestione già esistenti e vincolati (Natura 2000, Piano Ambientale del Parco Regionale del Delta del Po, Piano di area del delta del Po Regione Veneto);
6. Riguardo al settore ricerca, mancano gli studi relativi alle scienze sociali nell’intera area candidata ciò rileva soprattutto in considerazione del fatto che l’area candidata si compone di sistemi agricoli;
7. mancano informazioni sui temi e sfide relativi alla gestione delle acque;
8. mancanza di discussione sulla qualità delle acque in considerazione della presenza quasi totale di coltivazioni irrigue e zone umide (informazione agli agricoltori su come evitare il peggioramento della qualità delle acque e la salvaguardare al qualità del prodotto.”
Come detto alle considerazioni sopra riportate è stato risposto puntualmente il 5 giugno 2014. A seguito della comunicazione , da parte del Ministero dell’Ambiente, dell’esito delle valutazioni del 13 giugno 2014 si provvederà a implementare, se occorre, le delucidazioni tecniche in modo da soddisfare ulteriori chiarimenti che nel corso della normale istruttoria tecnica potranno essere richiesti.
Risulta evidente come le richieste dello Iacbr sono riferite alla documentazione inoltrata che, oltre al formulario, ha come allegati: la zonizzazione, la governance ed il Piano di Azione. In particolare la zonizzazione della Riserva di Biosfera è strutturata in aree core, buffer, transition, senza distinzione di confini amministrativi regionali evidenziando la vera interregionalità del territorio del grande delta. Stessa considerazione vale per la governance della Riserva di Biosfera che è una proposta, dichiarata in evoluzione e modificabile a seguito dei tavoli tematici, che si riferisce all’area candidata unica: il Grande Delta. Risulta evidente come una commissione internazionale, Iacbr, a livello mondiale non abbia la visione localistica della gestione dell’area ma si preoccupi degli obiettivi dell’intero territorio individuato nonché come alcune criticità ambientali vengono affrontate. La Riserva di Biosfera – Mab Unesco non è uno strumento che impone vincoli, delimitazioni amministrative equilibri di presidenze o di pesi politici ma uno strumento di condivisione territoriale al fine della tutela e valorizzazione della biodiversità a partire dai portatori di interesse. A questo proposito particolarmente apprezzato, dallo IACBR, è stato il coinvolgimento dei portatori di interesse è questo che il coordinamento ritiene l’importante valore della candidatura. La candidatura presentata ha la visione di un territorio unico con una governance unica condivisa che, a seguito dell’approvazione a Riserva di Biosfera, potrà sicuramente essere semplificata ma che ad oggi ha prodotto i suoi frutti. Si è condiviso il progetto approvato per Expo 2015 che comprende i due parchi. Si è attivato il processo che ha portato alla stesura di un protocollo di intesa fra le due regioni per la promozione turistica del Grande Delta, si è proseguito nella presentazione di progetti europei che incidono su entrambi i territori dei parchi, si sono attuati e si stanno attuando progetti nell’ambito della programmazione Psr. Forse l’interregionalità paventata risulta un paravento per l’inattività e la mancanza di visione internazionale rimandando a questioni di politica locale.

Geremia Giuseppe Gennari
*Presidente Ente Regionale Veneto Parco del Delta del Po
promotore Riserva di Biosfera delta del Po Veneto Emilia Romagna.

Viaggio in pianura fra le terre risorte

Solco una strada in mezzo alla pianura, mi capita spesso negli ultimi anni. Lascio la trappola della A22 del Brennero al casello di Reggiolo, sono nella provincia di Reggio Emilia e mi dirigo ad est. Al mattino scorgo una pianura emiliana suggestiva che mi fa pensare a Luigi Ghirri e al suo tema “dell’accesso al mondo esterno, del guardare attraverso”. Il paesaggio, attraverso le sue soglie, i cancelli, le porte che aprono alle distese di terra, dà ordine allo sguardo, suggerisce una visione del mondo, e finisce per rubare tutta la mia attenzione. Mi ridesto con dentro ancora la voglia di abbandonare l’auto e infilare un campo aperto senza meta, fino a diventare un punto lontano tra le cose.

Poco oltre, sulla soglia di quasi ogni casa di campagna noto dei bambini indiani con le loro mamme, aspettano che la corriera li porti a scuola. Avevo letto del reclutamento massiccio di indiani da parte dei produttori del formaggio per la cura delle mucche da latte, ma oggi vedo i volti e gli abiti di un altro mondo. Se fosse un racconto, piuttosto che la vita, direi che l’autore ha scelto lo straniamento, invece sono miracoli della terra del parmigiano reggiano.

Proseguo e lambisco il comune di Moglia, mi accorgo di essere finito nell’oltrepò mantovano, quindi nell’estremo lembo meridionale della Lombardia che sposa l’Emilia davanti ai miei occhi, senza tesitmoni. La strada diventa tortuosa e segue gli argini del fiume Secchia, che prima d’ora avevo sentito solo per quella bizzarra opera del Tassoni intitolata La Secchia rapita. A Moglia scopro che esiste un museo a cielo aperto costituito da almeno quattordici chilometri di percorsi ciclo-pedonali sugli argini dei numerosi canali di bonifica e della Secchia. Mi ripropongo di tornarci e sostare alla trattoria che prende il nome dal fiume, a cui, separata dall’argine, quasi si appoggia.

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Uno dei chilometrici argini delle terre piane, a Concordia (foto di Sandro Abruzzese)

Una pausa. Pochi chilometri e sono di nuovo in Emilia, stavolta a Concordia sulla Secchia, uno degli ultimi paesi del modenese. Attraverso il fiume e nonostante i 35 gradi all’ombra scendo dall’auto e inizio a vagare attirato dagli ingenti danni causati dai terremoti del 2012. Mi chiedo dove sia nato il chitarrista Maurizio Solieri, cresciuto in queste strade, ma il caldo ottunde qualsiasi curiosità.

A parte due gelaterie, la città è vuota, ormai sono le sei del pomeriggio, e il centro storico ha l’aria di un reduce aggrappato alla sua stampella. Ogni palazzo puntellato porta le iniziali dei vigili del fuoco che l’hanno messo in sicurezza, ci sono le sigle di molta Italia addossate alle ferite.
Entro in un cantiere spostando le transenne e per gli operai dell’est europeo che lavorano alla ricostruzione non esisto, la mia sicurezza non è un loro problema, osservano senza vedere, uno di loro emette un peto che sa di liberazione, io scivolo verso l’argine uscendo dalla zona proibita.
Passeggiando in mezzo alla città è chiaro cosa significhi il sisma per le imprese edilizie del Paese, annoto la provenienza delle ditte: Mantova, Carpi, Padova, Modena, Bologna, ecc., intanto ricordo la risata dell’imprenditore Piscicelli alla notizia che L’Aquila era crollata addosso ai suoi ottantamila cittadini.

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In centro storico a Concordia (foto di Sandro Abruzzese)

Chiedo a una signora dove siano finiti i negozi, dove sia la gente, e lei mi indirizza in una zona nuova costruita più lontano dal fiume. Ritrovo i ragazzi che giocano a calcio e quelli che seguono l’oratorio, il comune e la chiesa nuovi di zecca, e un quartiere di containers di un grigiore degno del terremoto dell’Irpinia. A pochi metri spuntano anche le attività commerciali, raggruppate in uno spiazzo asfaltato, fatto di casette in legno stile mercatini di natale.

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La chiesa donata dalla provincia autonoma di Trento (foto di Sandro Abruzzese)

Questo itinerario mi sta insegnando ad amare la pianura. Corre sul limite attraverso due regioni, oltrepassa cinque province e ben quattro fiumi. E alterna rettilinei e curve a ridosso degli argini che seguono l’acqua, facendomi sentire una specie di funambolo che usa il confine come una corda, sempre sull’orlo, pronto a cambiare direzione alla prima oscillazione.
Mentre lascio alle spalle Concordia sulla Secchia, immagino che in passato la paura della natura in queste lande fosse caduta sempre dal cielo. Dal nero gravido arrivava l’acqua che ingrossava le vene della terra, e i fiumi esondavano dando forma ai peggiori incubi della gente. Le alluvioni.
Invece il 20 e 29 maggio la paura è sorta all’improvviso dalla terra, in due giornate assolate che avevano il coraggio di anticipare l’estate, si è capovolto un mondo.

Non resta che proseguire verso il centese, dalle terre piane a quelle d’acqua…

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Racconti viandanti è il blog di Sandro Abbruzzese

La moda, che barba

Ultimamente mi capita sempre più spesso di uscire di casa e imbattermi in persone che stento a riconoscere. Temevo si trattasse di mia distrazione, o peggio di sintomi di incipiente senilità. Ed ero un po’ abbacchiato per questo. Invece mi sono reso conto che il problema è un altro. Hanno tutti la barba! Anche quelli che si radevano due volte al giorno. E’ per questo che fatico a mettere a fuoco volti noti, così, travisati da inedita peluria come sono, appaiono sconosciuti…
La maturata consapevolezza mi ha procurato sollievo: non sono improvvisamente rincitrullito, non più del solito almeno. D’altro canto la scoperta mi ha pure creato un po’ d’orticaria: possibile che alle mode non si riesca proprio a resistere? Persone di spirito apparentemente indipendente, che mai nella loro vita si sono sognate di rendere ispide le gote, ora che soffia il vento in quella direzione, si mostrano subito pronte a piegarsi all’ultimo “must”.
Qualcuno, a dire il vero, ci ha pure guadagnato in charme, e non è solo il caso del nostro Dario Franceschini, gratificato da Luciana Litizzetto dagli schermi di “Che tempo che fa” dell’appellativo di figoide per quell’innovazione che ha dissipato la precedente aria da chierico. Ma così non è per tutti. Altri stanno veramente male. Però, come ci ricorda Gaber, “quando è moda è moda”…
Ed è proprio questo a indispormi, al punto da rendermi invisa la mia stessa barba trentennale. Fastidi personali a parte, quel che emerge è la conferma di un bisogno diffuso di stare nel rassicurante gregge: la barba quando è richiesta; il capello lungo o corto, ispido o curato secondo tendenza; la maglietta con il logo più in voga del momento… E’ sempre più desolatamente evidente l’equazione: appaio dunque sono. O così mi illudo d’essere: travestito per (soprav)vivere.

C’è da togliere un punto ma all’ospedale di Cona manca la pinzetta

Avendo appena concluso il Trittico di Cona e avendo promesso che non avrei ulteriormente insistito sui problemi, temi, situazioni del maggior nosocomio ferrarese, il tempo, il caso, il destino mi riportano in quel luogo poco amato per un’ulteriore vicenda alla fine della quale era necessario trovare giustificazione e titolo. Mi soccorre dunque alla memoria une famosa tetralogia scritta dal grande Lawrence Durrell ( 1912-1990) che, riporto da Wikipedia, consta di “una serie di romanzi detta «Il Quartetto di Alessandria», composta da quattro romanzi (Justine, 1957; Balthazar, 1958; Mountolive, 1958; Clea, 1960) ambientati in Egitto, dove ha raccontato la stessa storia d’amore, di politica e di perversione, da quattro punti di vista diversi, per dimostrare che non solo la verità è relativa, ma la stessa personalità umana è inafferrabile ed esiste solo in funzione dell’osservatore.” Detto fatto m’immagino La tetralogia di Cona come parodia dei romanzi di Durrell, ma in fondo cercando di mettere in luce quei diversi punti di vista, fondati nella consapevolezza di vivere “sullo sfondo di una società in disfacimento”, come recita l’analisi di questi romanzi.

Lietamente contento che i temuti e catastrofici temporali promettano di risparmiare la festa matrimoniale dell’ultima nipote nubile (Ah che goduria tecnologica lo svolazzo del dito su meteo.it!) mi sveglio con un tremendo fastidio all’occhio destro che non passa nonostante la folta schiera di collirii sempre a disposizione dopo l’infelice doppia operazione della cataratta, A questo punto scatta il panico: come posso partecipare all’evento –meditavo- con quel “dolor”? Avrei potuto, vagheggino d’antan, propormi con un paio di scarpe bicolori bianche e blu degne di un museo che ho ereditato dallo zio generale, medaglia d’oro e che superando ormai gli 80 anni di confezione ( la gloriosa Zenith!) avrebbero testimoniato dei capolavori artigianali della nostra città? Mi sembrava improbabile.

Nel frattempo il “dolor” aumentava e rassegnandomi all’agonia dell’attesa, sbarco al Pronto Soccorso, accompagnato da un nipote che, tra comprensione per il male di “crazy uncle” ( così è il nome che mi ha affibbiato decenni fa) e curiosità dei miei commenti, sacrifica al riposo dei giusti la testimonianza dell’evento. E per un attimo il cuore s’apre alla speranza. Superata la soglia dantesca del Pronto soccorso metaforicamente consegnato all’abusata formula del “Lasciate ogni speranza ( di far presto) voi ch’entrate” sono ricevuto con un grazioso sorriso da una abbronzatissima e bellissima addetta al Triage che con nonchalance mi chiede la carta sanitaria e mi domanda i sintomi del male. Confuso e male in forma rispondo d’aver l’occhio destro bruciante e gonfio. Mi porge un foglio e leggo la sentenza che fa crollare ogni speranza: codice bianco! A chi -fortuna loro- non sapesse cosa significhi l’esser un pària del Pronto Soccorso, l’ho saprà solo se avrà in mano il codice bianco che presuppone “forse” malattie inesistenti o fissazioni del paziente il quale, in ogni caso, viene relegato agli ultimi posti dopo l’esaurirsi di ogni altro controllo del male codificato dagli altri colori: verde, giallo, rosso. Malinconicamente penso di tenermi e gonfiore e bruciore anche perché dopo un’ora la fatidica porta dell’ambulatorio non s’apre. Nel frattempo col nipote si passano in rassegna le cronache del nostro lungo viaggio assieme negli anni che stanno per trasformarsi in storia: la storia della nostra famiglia. Improvvidamente dalla Svizzera mi telefonano per prendere accordi sulla mia partecipazione al convegno ( c’è sempre un nesso tra allegoria e simbolo visibile a noi studiosi di Dante nel Nome), convegno che si titola Les Folies en Europe dotta e coinvolgente avventura tra le “follie” che nel tempo gli uomini disseminano nei giardini per avvicinare improbabili momenti della storia di ogni tempo e i poemi che ne sono causa: dal giardino d’Armida di Tasso alla Hypnerotomachia Poliphili, da Dante interpretato nel giardino di Bomarzo, all’Isle des peupliers dove riposa Rousseau. Ma, sciagura!, ben altra follia stava per riversarsi sull’occhio bruciante.

S’apre finalmente l’uscio proibito e esce LUI, l’artefice del mio destino oculare, che si scusa davanti a prefiche e brontolii cupi dei possessori di codici e rassicura che avrebbe “fatto” tutti: con pazienza. Aspetto un’altra ora poi esitante e umìle ( un aggettivo dantesco fa sempre fico!) espongo il mio caso al medico che mi guarda e sentenzia “ Ma è uscito un punto della cataratta! Glielo tolgo subito” Rinfrancato e baldanzoso, accolto da una gentile giovane dottoressa a cui non mi par vero di raccontare l’appuntamento matrimoniale del pomeriggio, porgo la fronte all’apparecchio che m’avrebbe tolto e spine e bruciori. S’appresta il medico alla bisogna quando vedo spandersi sul suo viso ( a 10 centimetri dal mio) imbarazzo e sconforto: “Purtroppo ho finito le pinzette adatte a togliere il punto furiuscito a causa dell’Intervento eseguito precedentemente. Avevo in dotazione QUATTRO PINZETTE STERILIZZATE, ma le ho tutte usate! Può tornare domani lunedì pomeriggio?”
Ricordando mentalmente il glorioso motto CHE FARE? tento di tenere comportamento dignitoso e di ricacciare dentro gli insulti all’organizzazione ospedaliera, a Cona, all’Asl o come diavolo si chiama. Rispondo chinando la testa e dicendo che non andrò a quell’appuntamento, sperando di trovare in altri ospedali la pinzetta introvabile e rassegnandomi a bruciar negli occhi al matrimonio della bella nipote. Ci guardiamo e…. il dottore ha uno scatto di eroismo. “Mi aspetti qui. Vado a prendere la mia pinzetta personale e speciale che tengo nel mio studio così lo togliamo” E chi non conosce Cona sa che tra Pronto soccorso e studi medici tra andata e ritorno si consumano pedibus calcantibus scarpe per circa due chilometri. Infine dopo un adeguato tempo, eccolo lo strumento d’intervento. In cinque minuti il punto è tolto; esco, mentre una folla di rassegnati di cui non conosco il codice attende fiduciosa che altre pinzette saltino fuori.

Grazie all’eroico medico, qualche ora dopo assisto commosso all’arrivo della nipote avvolte in nuvole bianche, sfoggiando le mie scarpe bicolori ( qualcuno afferma che assomiglio moltissimo a Johnny Stecchino- Benigni), le mie lenti scure da spia che viene dal freddo rivolgendo un grato pensiero al medico e alla sua pinzetta. A proposito il dottore si chiama Roberto Modestino.

A voi concludere la storia e a commentarla, sperando che La tetralogia di Cona non diventi un laico Pentateuco.