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Ferrara film corto festival

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GOVERNO MELONI: ARRIVA IL PIANO NAZIONALE DI ADATTAMENTO AI CAMBIAMENTI CLIMATICI. E DELUDE TUTTI

ARRIVA IL PIANO NAZIONALE DI ADATTAMENTO AI CAMBIAMENTI CLIMATICI (PNACC) . E DELUDE TUTTI

di Emanuele Bompan
Pubblicato su Materia Rinnovabile del 4 gennaio 2024

Dopo sei lunghi anni è arrivato infine il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (PNACC). Con decreto firmato dal ministro Gilberto Pichetto Fratin lo scorso 21 dicembre (il n. 434) e ufficializzato il 2 gennaio 2023, il Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica pone una prima pietra sui processi di adattamento al cambiamento climatico in un Paese che gli scienziati considerano un hotspot climatico e quindi molto esposto a ondate di calore mortali prolungate, siccità estese, alluvioni fuori scala ed erosione costiera. Solo nel 2023 gli eventi estremi in Italia sono arrivati a quota 378, +22% rispetto all’anno precedente. Mai come oggi questo documento dovrebbe essere centrale per la messa in sicurezza di cittadini e cittadine.

Per il MASE rappresenta un “passo importante per la pianificazione e l’attuazione delle azioni di adattamento ai cambiamenti climatici nel nostro Paese”. Il PNACC difatti prova a rispondere a una duplice esigenza: quella di realizzare un’apposita struttura di governance nazionale, e quella di produrre un documento di pianificazione di breve e di lungo termine per l’adattamento ai cambiamenti climatici, attraverso la definizione di specifiche misure volte al rafforzamento della capacità di adattamento a livello nazionale e territoriale.

Il documento è composto da 907 pagine (inclusi gli allegati) e un Excel (allegato IV) in cui sono contenute 361 misure generiche di carattere nazionale o regionale che dovranno essere intraprese in vari settori, dall’energia alla sanità, dalla gestione idrica e del dissesto alle foreste, zone costiere e insediamenti urbani e una serie di indicazione per l’integrazione nella pianificazione territoriale locale e regionale (mancante un’indicazione per la pianificazione economica).

Sarebbe un traguardo lungamente atteso, dopo lo stallo che ha attraversato ben cinque Governi. Ma il PNACC arriva alla fine del suo iter senza la forza necessaria. Il documento, secondo vari intervistati del mondo della politica, della pianificazione, della PA e dell’ambientalismo, arriva già vecchio e con numerose lacune, sia procedurali che di contenuto che di forma. Essendo poi un decreto ministeriale e non un DL approvato dal Parlamento, manca ovviamente della forza normativa che necessiterebbe per essere un’asse centrale dello sviluppo economico e ambientale del Paese.

“È un ottimo documento di analisi scientifica, con importantissime indicazioni, ma che non ha impatto sul mondo reale della pubblica amministrazione, dei cittadini e delle imprese”, riferisce una fonte governativa che preferisce non rivelare la propria identità. Altre fonti menzionano come sia stato escluso o limitato il ruolo del settore privato, e troppo complessa la metodologia per strutturare la pianificazione territoriale. Il documento ha solide basi scientifiche, ma è molto lacunoso sull’applicazione e sulla governace”, commenta Piero Pelizzaro, direttore scientifico di Globe Italia e autore del libro La Città Resiliente.

“Le ondate di calore eccezionale che quest’estate hanno creato disagi e sono concausa di migliaia di morti premature (18.000 nel 2022 solo nel nostro Paese) e gli altri eventi estremi rischiano di rendere già vecchio il PNACC che è stato calcolato su modelli che non avevano preso in considerazione la forza di molti eventi estremi”, è il messaggio che manda Angelo Bonelli, capogruppo dei Verdi.

Per Legambiente è un successo “ma vanno trovare le risorse economiche”, spiega il presidente Stefano Ciafani. Per il WWF “il Piano […] è analogo a quello precedente e ha gli stessi limiti, mancanza di decisioni chiare e coraggiose, ottima identificazione sintetica dei possibili impatti e problemi, scarsa e deficitaria individuazione delle cose da fare e di come finanziarle.”.

Una governance complessa

Una delle prime azioni da attuare entro il 21 marzo è la definizione di una struttura di governance nazionale per l’adattamento, di coordinamento tra i diversi livelli di governo del territorio e i diversi settori di intervento, con l’istituzione dell’Osservatorio nazionale per l’adattamento ai cambiamenti climatici, composto dai rappresentanti delle Regioni e degli enti locali, per l’individuazione delle priorità territoriali e settoriali e per il monitoraggio dell’efficacia delle azioni di adattamento.

Esso sarà affiancato da un forum permanente per la promozione dell’informazione, della formazione e della capacità decisionale dei cittadini e dei portatori di interesse, che funge da organo consultivo per l’Osservatorio.

Di fatto dovrebbe diventare il centro decisionale sull’adattamento al cambiamento climatico italiano che aggiornerà periodicamente il PNACC e le azioni da compiere; avrà la responsabilità di trovare le fonti di finanziamento per l’attuazione del PNACC; coordinerà i vari strumenti di pianificazione nazionali e regionali, inclusa la pianificazione economica; si occuperà del monitoraggio, reporting e valutazione.

Come saranno scelti i partecipanti sarà questione di questi mesi, ma pare confermata la natura volontaristica della partecipazione che limiterebbe l’efficacia dell’organismo e che invece avrebbe dovuto vedere la nascita di un’Agenzia o di un ente di piccole dimensioni ma in grado di migliorare il  coordinamento dell’ingente lavoro che negli anni e decenni a venire sarà richiesto, se si guarda soprattutto alla raffinata analisi scientifica sui rischi climatici che copre le prime ottanta pagine del documento. Scarsi anche i meccanismi di partecipazione (nel forum) che si riducono a mera cassa di risonanza e non a gruppi di lavori territoriali di ascolto e confronto, visto che molte opere e azioni inevitabilmente creeranno conflitto sociale ed economico.

Le azioni, esclusa la programmazione economica

Il secondo livello di intervento del PNACC è mirato a esercitare una “funzione di indirizzo” individuando una cornice di riferimento entro la quale possano svilupparsi la pianificazione e la realizzazione delle azioni di adattamento regionali e locali. Tale cornice è basata su due strumenti del Piano costituiti da un “quadro delle misure di adattamento” e da “indirizzi per la pianificazione a scala regionale e locale’”, si legge sempre nel Piano. Al suo interno vengono poi chiarite le metodologie per la definizione di strategie e piani regionali e locali di adattamento ai cambiamenti climatici, in sinergia anche con altri piani, come il Piano sull’economia circolare e il PNIEC (da approvare entro giugno).

“Il PNACC però risulta limitato nella definizione della dimensione regolativa dei territori”, commenta Francesco Musco, professore ordinario di Tecnica e Pianificazione Urbanistica dell’Università IUAV di Venezia ed esperto di adattamento. “Chi si occuperà dell’implementazione del Piano, le Regioni? Quali uffici dovranno intervenire? Come sarà gestito il lavoro di integrazione con gli strumenti regolatori già esistenti? In questo il Piano rimane molto vago.”

Secondo Piero Pelizzaro, “sorprendono le limitate indicazioni per il mondo delle utilities e delle grandi società energetiche e di trasporto pubblico, visti gli importanti investimenti sulle reti di energia, acqua e rifiuti che si faranno nei prossimi anni, finanziati dalle tariffe. Sarebbe stato utile avere chiare indicazioni sulla progettazione resiliente così come richiesto dal DSNH anche nel settore privato. Pensiamo anche al ruolo che potrebbe svolgere il settore assicurativo se si introducesse il concetto di adattamento di proprietà oltre che di comunità, leva fondamentale anche per la movimentazione delle risorse necessarie. Non può essere lo Stato a pagare per l’adattamento della proprietà privata”.

Una posizione, quella sulla mancata programmazione socio-economica che condivide anche il WWF nella sua nota: “Riteniamo che la mitigazione e l’adattamento al cambiamento climatico dovrebbero costituire la base per la programmazione in senso generale, a partire da quella economica e sociale”.

Risorse economiche per l’implementazione? Nessuna

Per tutti gli intervistati la questione centrale è dove reperire i fondi per l’adattamento del nostro Paese. Lo stesso Osservatorio, il forum, la formazione delle competenze, la promozione del Piano, che dovrebbero essere sostenuti dal Governo, non hanno risorse economiche allocate (come visto dalla nostra analisi della Manovra di Bilancio).

“Ricordiamo al Ministro dell’ambiente e al Governo Meloni che per attuare il PNACC sarà fondamentale stanziare le risorse economiche necessarie e ad oggi ancora assenti, non previste neanche nell’ultima Legge di Bilancio, altrimenti il rischio è che il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici resti solo sulla carta”, commenta Stefano Ciafani.

Per l’implementazione delle azioni a livello locale e regionale la gran parte delle risorse dovranno venire dal Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR) e dai Programmi operativi regionali (POR), ma visto che molti piani territoriali sono già stati sviluppati (la tempistica di pubblicazione del PNACC non aiuta di certo), non sarà facile riorientare la spesa, capendo anche come sfruttare le risorse del PNRR nel rispetto del principio guida Do Not Significant Harm (DNSH), principio poco impiegato dal PNACC che invece sarebbe potuto servire come architrave di guida di ogni azione di spesa pubblica.

Infine serve allineare il settore privato, in particolare assicurativo e industriale, dato che non può essere lo Stato a mettere in sicurezza adattiva (non ha i soldi) sia le imprese che tutte le abitazioni degli italiani. La riflessione è completamente assente, ma sono questi soggetti che dovranno mettersi al riparo dagli effetti catastrofici del cambiamento climatico.

Un altro grave buco nella strategia climatica di un Paese che ‒ non solo con il Governo Meloni ‒ non ha mai saputo essere all’altezza della sfida e che negli anni a venire costerà molto, molto caro sul nostro benessere e sulle nostre vite, “Un paese del G7, di cui ha appena assunto la presidenza, che ha l’obbligo di guidare la lotta climatica per le proprie responsabilità del passato, non può essere la Cenerentola dell’adattamento”.vista anche la lentezza strutturale a livello globale dei processi di mitigazione delle emissioni. Conclude Pelizzaro:

L’autore
Maggio 2023, alluvione in Romagna (foto CESVI), direttore responsabile della rivista Materia Rinnovabile|Renewable Matter e autore del libro “Che cosa è l’economia circolare”. Nel 2010 ha vinto il prestigioso Middlebury Fellowship for Environmental Journalism, premio per giornalisti ambientalisti. Per ben quattro volte è stato insignito della EJC grant per l’innovazione nel giornalismo. La sua specializzazione sono i negoziati sul clima, disastri ambientali, mercati energetici, economia circolare e green economy.

Cover: Maggio 2023, alluvione in Romagna (foto CESVI)

Piano Urbanistico Generale di Ferrara: Italia Nostra chiede al Sindaco una proroga di 60 giorni per consentire a tutti un adeguato studio del piano e la presentazioni delle osservazioni

Piano Urbanistico Generale di Ferrara: Italia Nostra chiede al Sindaco una proroga di 60 giorni per consentire a tutti un adeguato studio del piano e la presentazioni delle osservazioni.

– Al Sindaco di Ferrara
– All’Ufficio di Piano del Comune di FERRARA
serviziopianificazioneterritoriale @cert.comune.fe.it

OGGETTO:
Richiesta di congrua proroga della scadenza per la presentazione delle osservazioni al nuovo Piano Urbanistico Generale di Ferrara in base all’art. 45.5 della legge regionale 24/2017.

 

IL PUG, Piano Urbanistico Generale, è lo strumento che regolerà lo sviluppo e le trasformazioni della città nei prossimi anni, forse nei prossimi decenni.
È uno strumento importante e complesso, che deve poter essere accuratamente esaminato dai cittadini e dalle associazioni e organizzazioni che costituiscono il tessuto sociale, civile ed economico della città al fine di elaborare osservazioni sia specifiche e che generali utili alla elaborazione della stesura definitiva del Piano nell’interesse generale.

Il periodo di 60 giorni previsto per la presentazione delle osservazioni, comprensivo del periodo di festività natalizie e di fine anno, risulta assolutamente insufficiente per una analisi dettagliata degli elaborati e della cartografia del Piano da parte, ad esempio, di associazioni come Italia Nostra che si basano unicamente sul volontariato.

L’incarico per l’elaborazione del Piano è stato conferito con anni di ritardo rispetto alle scadenze previste dalla legge urbanistica regionale; durante la fase di elaborazione del Piano sono state fornite dall’Amministrazione solo indicazioni di tipo generale sui contenuti del piano stesso nei pochi momenti di comunicazione e confronto con la cittadinanza (con le associazioni ambientaliste e culturali due sole convocazioni ufficiali, l’ultima delle quali l’8 di agosto!).

Ora finalmente i contenuti del Piano sono stati resi noti nel dettaglio e le osservazioni costituiscono l’unico strumento per i cittadini, singoli o organizzati, per cercare di modificare lo strumento proposto ove ritenuto errato o carente o per proporre integrazioni, nell’ottica della trasparenza e della difesa dell’interesse pubblico e collettivo, come previsto dalla legge. È quindi la fase più importante prima del passaggio in Consiglio Comunale, che non può essere compressa da esigenze di approvazione in tempi prestabiliti, dopo i tanti ritardi accumulati in precedenza.

Italia Nostra RICHIEDE,

per consentire l’adeguato svolgimento di un passaggio di partecipazione democratica importantissimo per il futuro della città, che venga concessa dall’Amministrazione Comunale, come previsto al punto 5 dell’articolo 45 della legge Urbanistica Regionale n 24/2017, una proroga di 60 giorni del termine di presentazione delle osservazioni al Piano Urbanistico Generale della città. Tale termine è ritenuto essenziale per consentire un adeguato studio del piano e per la redazione e il coordinamento delle osservazioni.

Italia Nostra – Ferrara

FERRARA DECARBONIZZATA: UN PIANO URGENTE PER LA CONVERSIONE ECOLOGICA DELLA CITTÀ.
Convegno Pubblico promosso dal Forum Città Partecipata, martedì 16 dicembre ore 17,30

FERRARA DECARBONIZZATA: UN PIANO URGENTE PER LA CONVERSIONE ECOLOGICA DELLA CITTÀ

il 16 gennaio alle ore 17,30 c/o Parrocchia s.Giacomo, via Arginone 161, promuoviamo l’incontro pubblico rivolto alla cittadinanza e alle forze politiche e sociali sul tema della “città decarbonizzata”, e cioè sulla transizione e conversione ecologica della nostra città. 

Il Forum Ferrara Partecipata, Rete composta da numerose Associazioni e cittadini che, dopo l’impegno per contrastare il progetto Feris,  ha esteso la sua riflessione e iniziativa sui temi riguardanti la visione della città futura, organizza per martedì 16 gennaio alle ore 17,30 presso la Sala Sinodale della Parrocchia di San Giacomo Apostolo, via Arginone 16, un incontro pubblico sul tema:
“UN PIANO URGENTE DI CONVERSIONE ECOLOGICA DELLA CITTÀ. LE PROPOSTE DEL FORUM FERRARA PARTECIPATA”.

L’incontro, sarà introdotto da Francesca Cigala Fulgosi che presenterà le proposte del Forum per una conversione ecologica della città e vedrà i contributi di Romeo Farinella, architetto-urbanista dell’ Università di Ferrara e  Margherita Venturi, professoressa Alma Mater, del gruppo “Energia Per l’Italia”.

Dalia Bighinati, giornalista di Telestense, modererà il dibattito.

Invitiamo  i cittadini e le forze politiche a un confronto per definire impegni concreti che garantiscano un’effettiva conversione e transizione ecologica che non è più rinviabile e che deve essere al centro delle scelte di rinnovamento e trasformazione della città.

La situazione di grave crisi eco-climatica e sociale in cui ci troviamo rende urgente introdurre grandi trasformazioni. Per far fronte alla complessità dei problemi legati alla transizione energetica e alle azioni di adattamento alla crisi climatica è necessario pianificare un nuovo disegno della città. E’ necessario pensare a nuovi modelli produttivi e sociali che guardino alla salute e al benessere collettivo, alla salvaguardia del territorio e alla riduzione del consumo di suolo, alla riduzione degli sprechi, alla tutela dei beni comuni, a nuovi modi di gestire la mobilità, gli spazi e il verde urbano, le politiche energetiche, il welfare e le politiche abitative.

In particolare chiediamo alle forze politiche e sociali, in un momento vicino alla prossima scadenza elettorale amministrativa, di partecipare e di intervenire nella discussione, misurandosi con le proposte che il Forum Ferrara Partecipata ha elaborato in questi ultimi mesi.

Allegato
Estratto del Documento Programmatico elaborato dal Forum

AL CENTRO DELLE SCELTE PER LA CITTA’ LA TRANSIZIONE E LA CONVERSIONE ECOLOGICA

E’ sotto gli occhi di tutti  che il nostro pianeta sia davanti a un collasso climatico ed ecologico che pone dei gravi rischi per la salute e la vita umana sulla Terra: lo dice a gran voce, ormai da anni, praticamente tutta la comunità scientifica. La crisi climatica è inequivocabilmente causata dalle attività umane e sta già colpendo ogni angolo del Pianeta, si sta aggravando più rapidamente di quanto previsto e il tempo per fermare la catastrofe sta finendo. In Emilia Romagna, area tra le più inquinate, cementificate e surriscaldate d’Europa, e anche a Ferrara, abbiamo visto direttamente lo sconquasso del caos climatico.
Dobbiamo partire da qui per pensare a un modello di città che guardi al futuro.  
L’IPCC è chiarissimo su quali siano le cause principali del cambiamento climatico: le emissioni di gas serra dovute all’uso dei combustibili fossili (petrolio, carbone, gas) in tutte le attività umane.
Sappiamo qual è la soluzione del problema: dobbiamo abbandonare rapidamente i combustibili fossili e accelerare sulla via della transizione energetica. Dobbiamo cambiare il nostro modo di vivere e di relazionarci con la natura e gli spazi in cui viviamo, dovremo cambiare modelli di economia, dovremo modificare profondamente stili di vita, di produzione e di consumo, individuare strade che portino a una radicale e rapida trasformazione della società. Dai combustibili fossili alle energie rinnovabili, dall’economia lineare all’economia circolare, dal consumismo alla sobrietà.  E sappiamo che dobbiamo farlo in un’ottica di giustizia climatica, senza far pagare il prezzo più alto alle classi più disagiate e ai Paesi più poveri.
Per far fronte alla complessità dei problemi legati alla transizione energetica e alle azioni di adattamento alla crisi climatica è necessario pensare a un nuovo modello produttivo e sociale che guardi alla salute e al benessere collettivo, alla salvaguardia del territorio e alla riduzione del consumo di suolo, alla tutela dei beni comuni, alla riduzione degli sprechi, alla ripubblicizzazione di servizi pubblici, a nuovi  modi di gestire le politiche del welfare, le politiche abitative, gli spazi e il verde urbano, la mobilità ed è necessario farlo coinvolgendo i cittadini in tutte le scelte importanti che riguardano il rinnovamento della città.
Proviamo ad indicare alcune scelte concrete su punti fondamentali, certamente non esaudtive, ma che indicano una chiara direzione di mrcia coerente con gli obiettivi sopra esposti.
  • Intanto, una questione centrale è quella della promozione di una mobilità “ad emissioni zero”, basata sul trasporto pubblico, tendenzialmente gratuito, e mettendo al centro pedoni e ciclisti.

AZIONI PER LA MOBILITÀ

  • Altro tema fondamentale è quello della transizione e la riqualificazione energetica, puntando con forza a sviluppare l’utilizzo delle energie rinnovabili e all’efficientamento energetico ( scheda 2.2 AZIONI PER LA TRANSIZIONE E LA RIQUALIFICAZIONE ENERGETICA).
  • In questo quadro, occorre poi misurarsi con gli interventi di adattamento alla crisi climatica, fermando il consumo di suolo e pensando ad una vera e propria “trama verde” per Ferrara, facendo di ciò uno dei punti di forza del nuovo PUG ( assieme a quello della rigenerazione urbana). Sempre qui è possibile affrontare il tema del mantenimento della vocazione del Parco Urbano Bassani ( scheda 2.3 AZIONI PER L’ ADATTAMENTO ALLA CRISI CLIMATICA. UNA TRAMA VERDE PER FERRARA).
  • Si tratta anche di mettere in campo iniziative efficaci per la rigenerazione urbana, riaffermando la centralità dell’interesse pubblico nelle operazioni da avviare con un ruolo dell’amministrazione pubblica non di facilitatrice delle richieste dei privati ma di gestrice dei processi, favorendo anche l’acquisizione di terreni pubblici, e valorizzando la funzione dell’Università. ( scheda 2.4 PER LA RIGENERAZIONE URBANA).
L’idea di fondo è quella di andare verso la “mobilità ad emissioni zero”, ribaltando lo schema gerarchico da auto, bicicletta, pedone a pedone, bicicletta, auto, ridando centralità al trasporto pubblico.
  • Piano per la decarbonizzazione del trasporto urbano basato sul trasporto pubblico e che ponga pedoni e ciclisti al centro, un piano per  ridurre le emissioni e i gas serra dei veicoli pubblici e privati, per potenziare mezzi elettrificati, corse, orari del trasporto pubblico integrato, per estendere la mobilità condivisa, per far crescere la mobilità attiva a piedi (“ Pedibus” per i tragitti casa/scuola ) e in bicicletta  (messa in sicurezza e raccordi tra le piste ciclabili, creando circuiti di quartiere interconnessi tra di loro e con il trasporto pubblico), per la valorizzazione delle vie d’acqua, per una nuova logistica della distribuzione delle merci con interdizione dell’abitato ai mezzi pesanti (distribuzione con mezzi elettrici e a pedale di ridotte dimensioni, con  orari regolamentati).  Per incentivare l’uso dei mezzi pubblici, oltre che efficiente, il trasporto pubblico dovrebbe essere, oltre che potenziato, progressivamente reso gratuito. Già in diverse città ci sono infatti azioni, pur differenti, che però fanno leva sull’aspetto economico di risparmio delle famiglie, per promuovere il trasporto pubblico e disincentivare l’uso dell’auto provata, da Trento a Firenze, da Bologna a Bari ( abbonamento annuale a 20 € ). Siamo convinti che, anche nella nostra provincia, andare in questa direzione molti cittadini passerebbero al mezzo pubblico, liberando la città da traffico e polveri sottili.
  • Piano per una ridefinizione degli spazi urbani che estenda gli spazi pedonali e le ZTL e che ampli il più possibile l’estensione di “aree 30km/h” fino a diventare “città 30”. E’ ormai necessario ampliare la zona pedonale e estendere la ZTL a tutto il centro  entro le Mura ( così come già previsto dal PUMS ). Servono agevoli parcheggi scambiatori ai quattro assi cardinali con navette gratuite ogni 10  minuti e bike-sharing  Ed è necessario che ogni quartiere fuori le Mura abbia un centro con una ZTL e una zona pedonale per favorire aggregazione e vita sociale.
  • Costruzione di un tavolo di confronto con le città vicine e in particolare Bologna per avviare politiche comuni orientate verso la costruzione di una rete di trasporto metropolitano di superficie, per eliminare il pendolarismo automobilistico.

AZIONI PER LA TRANSIZIONE E LA RIQUALIFICAZIONE ENERGETICA

Si tratta di sviluppare l’utilizzo delle energie rinnovabili fornite dal sole, dal vento e dall’acqua, energie che non producono CO2 né inquinamento e che forniscono direttamente energia elettrica, una forma di energia molto più efficiente del calore generato dai combustibili fossili, e attuare politiche urbanistiche volte alla riduzione del fabbisogno energetico degli edifici.
-Sostegno e sviluppo  delle  comunità energetiche con incentivi e campagne di informazione e promozione: l’energia deve diventare un bene comune, staccandosi dalla logica dei sistemi centralizzati in cui pochi producono/distribuiscono e tutti consumano la risorsa (se hanno la possibilità di acquistarla )
-Adozione di energie  rinnovabili e efficientamento  energetico in tutti gli edifici pubblici. Con le ristrutturazioni edilizie si possono tagliare del 44% i consumi termici del residenziale. -Ricorso al teleriscaldamento sganciandolo dall’utilizzo dell’inceneritore
-Rifiuto all’autorizzazione di nuove centrali a biogas e biometano nel territorio comunale (centrale di Villanova e altre ) Il biometano non è rinnovabile, non è verde, non è sano.

AZIONI PER L’ ADATTAMENTO ALLA CRISI CLIMATICA. UNA TRAMA VERDE PER FERRARA

Azioni di adattamento per ridurre i rischi già presenti e quelli futuri, che saranno maggiori e più frequenti, non sono più rimandabili. Va ripensata l’organizzazione delle città dopo che negli ultimi decenni la cementificazione selvaggia ha trasformato e spesso compromesso il territorio.
Abbiamo bisogno di una programmazione urbanistica in grado di ipotizzare un futuro possibile senza consumare suolo e anche di ipotizzare interventi di “decostruzione” per affrontare e mitigare gli effetti “isola di calore” tipica delle aree urbane.
  • Dall’addizione verde alla trama verde fondata su due punti di forza: il parco/addizioneverde e il corridoio verde delle mura. Si tratta di due punti di partenza per costruire una varietà di luoghi naturali e paesaggisti in gradi di connettere aree urbane e territorio agricolo con una sequenza di spazi che vanno dal bosco urbano, ai corridoi verdi, ai viali alberti, alle piazze della città murate rinverdite (es. Piazza Sacrati), ai sagrati liberati dai parcheggi). In questo contesto, si collocano il potenziamento Parco Urbano-Agricolo G. Bassani (addizione verde), il consolidamento del corridoio verde e patrimoniale delle mura, la creazione del parco urbano sud attorno e dentro via Bologna, la costruzione di una rete dei giardini universitari tra via Savonarola e Corso Giovecca, la valorizzazione dell’area agricola dentro le mura, la trasformazione verde di piazze urbane del centro storico (es. Cortevecchia, Sacrati) e dei sagrati. delle chiese, eliminando i parcheggi dove esistenti, il potenziamento dei viali alberati nelle aree urbanizzate, anche per contrastare il calore, la creazione di connessioni verdi urbani recuperando aree dismesse o sottoutilizzati da immettere nella trama verde urbana. In particolare, per quanto riguarda il Parco Urbano, occorre inserirlo come Stazione del territorio protetto dal Parco Regionale del Delta del Po; in ogni caso, va ribadita la valenza ecologica tra gli scopi principali del Parco. Questo aspetto va assunto nel nuovo PUG- Piano Urbanistico Generale- , cercando di normare con precisione le funzioni e le attività compatibili col Parco e quelle incompatibili da svolgere altrove. Vanno escluse, ad esempio, attività che richiamino forte affluenza di pubblico concentrata in poco tempo, attività con impatto acustico tale da recare danno o disturbo alla fauna, attività che richiedano la costruzione di strutture temporanee di grandi dimensioni,
  • Istituzione del garante del verde e gestione realmente pubblica del servizio del verde del
Comune, eliminando il ricorso agli appalti esterni da parte di Ferrara Tua, pensando all’internalizzazione del personale operativo.
-“Stop consumo suolo” applicato  realmente e depavimentazioni, dove possibile,  per ridurre le aree impermeabilizzate
  • Rivedere l’applicazione del PAIR ( Piano Aria Integrato Regionale) nel Comune, che notoriamente ogni anno ha un numero significativo di sforamenti dei valori ottimali di PM10
  • Elaborazione del PUG ( Piano Urbanistico Generale), in termini di coerenza e di assunzione dei punti sopra espressi e di quelli relativi alla rigenerazione urbana ( che seguono subito sotto). Inoltre il Pug dovrà valorizzare adeguatamente il ruolo delle frazioni e costruire un equilibrio importante tra centro e “periferie”, tra area urbana e contesto periurbano.
No alla  terza corsia dell’autostrada Bologna-Ferrara, no all’autostrada Cispadana, no alla autostrada “Nuova Romea Commerciale”

PER LA RIGENERAZIONE URBANA

E’ necessario ribadire la centralità dell’interesse pubblico nelle operazioni da avviare con un ruolo dell’amministrazione pubblica non di facilitatrice delle richieste dei privati ma di gestrice dei processi, favorendo anche l’acquisizione di terreni pubblici.
  • Elaborazione di un piano casa programmando risorse per i prossimi 10 anni per alloggi dedicati alle fasce più marginali, studenti e a chi cerca affitto a canone agevolato.
  • Riorganizzazione degli spazi pubblici dei quartieri della città per favorire sicurezza e mobilità attiva per anziani e bambini.
  • Pianificazione territoriale per la valorizzazione delle vie d’acqua e la sicurezza idraulica per limitare i danni conseguenti alle piogge intense, di cui faccia parte un ripensamento delle piazze e delle strade come aree di laminazione delle acque piovane intese, favorendo un disegno in grado di affiancare il sistema urbano di raccolta e smaltimento delle acque.
  • Ripensamento dell’organizzazione del commercio mettendolo in relazione con il tema della mobilità. Se si vuole realizzare una città della prossimità nel commercio e nei servizi bisogna probabilmente rivedere il modello incentrato sulla diffusione nella città extra-mura degli ipermercati e centri commerciali.
In questo contesto, l’Università è chiamata a svolgere un ruolo importante,  come vero e proprio soggetto-guida per l’implementazione delle necessarie trasformazioni urbane, in sinergia con l’Amministrazione pubblica e gli altri principali attori socio-economici locali. In particolare, l’idea di una potenziale “città-campus” diventa un riferimento fondamentale per disegnare l’idea futura di città,  pensando all’Università come soggetto in grado di distribuire su tutto il territorio comunale gli effetti culturali ed economici da essa generati.

 PRIORITA’ E SCELTE OPERATIVE

TRANSIZIONI ECOLOGICA E ENERGETICA

    a) Centralità tema mobilità

  • Trasporto pubblico. Sulla base di uno studio sui flussi di traffico, iniziando da quello prodotto dalla mobilità scolastica mattutina, prevedere un potenziamento forte del trasporto pubblico, renderlo tendenzialmente gratuito e ecologicamente sostenibile. Reale pubblicizzazione dell’azienda che gestisce tale servizio ( vedi anche beni comuni)
  • Isituzione parcheggi scambiatori ai quattro assi cardinali di accesso alla città
  • Navette elettriche gratuite ogni 10 minuti
  • Piste ciclabili connesse
  • Estensione area ZTL entro le Mura e aree 30 in tutta la città
  • Vie d’acqua

       b) Trama verde per la città

  • Aree dedicate al verde urbano e isole verdi
  • No allo snaturamento di aree a vocazione naturalistica- ecologica ( vedi Parco Urbano)
         Fermare completamente il consumo di suolo
         Mantenimento e valorizzazione paesaggio agricolo
         Utilizzo aree dismesse anche per attività considerate strategiche e/o di interesse pubblico

         c ) Transizione energetica

  • Promozione e diffusione comunità energetiche
  • Efficientamento energetico, a partire dagli edifici pubblici
  • Fermare tutte le autorizzazioni agli impianti di biogas/biometano

Quella cosa chiamata città /
ISTANBUL. UNA LINEA TRA CIELO E MARE

Quella cosa chiamata città. ISTANBUL. UNA LINEA TRA CIELO E MARE

La linea dell’acqua e quella sinuosa delle colline, con i minareti che agganciano la città al cielo, definiscono la forma di Istanbul. Un carattere che Le Corbusier coglie mirabilmente disegnando il paesaggio urbano del Corno d’oro, visto dal Bosforo. La città viene sintetizzata in una linea lievemente movimentata che mostra una morfologia dolcemente collinare, ma che schizza verso l’alto quando incontra un minareto, come in un istogramma.

Le mura che delimitavano l’acqua, sono scomparse, ma gli schizzi dell’architetto svizzero fanno emergere la città come fosse un piano rialzato, quasi fosse su di un piedistallo. Si sa, il disegno e soprattutto lo schizzo, sono il frutto di una selezione: non tutto viene rappresentato. Lo sguardo è sempre intenzionale, si evidenziano punti particolari, situazioni, intrecci, conflitti sui quali si intende porre l’attenzione.

Per tale motivo si tratta di un esercizio (lo schizzo che legge, interpreta e misura un luogo) fondamentale per un architetto. Attraverso la matita, Le Corbusier ci dà delle informazioni sulla consistenza fisica della città, come quando descrive l’effetto “muro” delle case appiccicate sulla riva del mare o i vecchi palazzi bizantini, le cui finestre iniziano tra i 15 e i 18 metri d’altezza.

Istanbul. Il cortile di una moschea nel Sultanahmet, 1982

I luoghi immediatamente percepibili dal bacino d’acqua che unisce le tre parti della città sono certamente le moschee dello sfondo, la mole metallica del ponte di Galata, con la torre genovese che svetta a Galata, ma più di tutti il complesso del Topkapi, che chiude sul mare il triangolo del Corno d’Oro.

Il complesso vede uniti il palazzo del sultano, i giardini circostanti e la moschea di Solimano, costruita nella seconda metà del Cinquecento da Sinān, il più famoso architetto ottomano. Siamo nel Sultanahmet, una delle 57 mahalle (quartieri) che compongono la parte più antica della città, coincidente con il distretto di Fatih.

Un dedalo di strade compone il Sultanahmet e Kapalıçarşı, dove pulsa il bazar: un pezzo di città straordinario per la complessità dei suoi spazi, per il suo essere un recinto dentro la città, e per gli spazi di transizione che lo preannunciano.

In fondo un modello, come lo sono anche i sūq, per la nascita dei moderni luoghi del commercio delle nostre metropoli nell’Ottocento e nel primo Novecento. Penso ai passages parigini e alle loro fantasmagorie, descritti da Louis Aragon.

Il bazar di Istanbul, 1982

In realtà le trasformazioni nel distretto di Fatih sono state veramente radicali. Le famose case di legno di Istanbul sono quasi tutte bruciate, e i terremoti e le devastanti modernizzazioni hanno fatto il resto. Rimangono come al solito dei frammenti: una casa di legno, un palazzo neoclassico, le chiese bizantine, le fontane e i cimiteri che, con il loro verde e le caffetterie, sono i veri giardini della città.

Istanbul. Una strada di Fatih, 1982

È la medesima impressione che si ha percorrendo Atene o altre città greche come Patrasso o Salonicco, dove alcune preesistenze ti segnalano una storia ricca e complessa che non c’è più. Rimane intatto il fascino per queste città vissute in ogni loro spazio. Rimangono anche le descrizioni di viaggiatori come Pierre Loti o Edmondo de Amicis.

 Impressionante è la dissolvenza delle luci che accompagnano il tramonto sul Corno d’Oro. Quattro cose ancora oggi mi colpiscono. Innanzitutto, l’illuminazione delle moschee, inquietanti appaiono anche le sagome buie delle basse colline, punteggiate qua e là dalle luci delle case e dei piccoli borghi.

Ricca di suggestioni è la successione dei colori del cielo durante il percorso dal tramonto alla notte. L’azzurro del cielo si trasforma gradualmente in un arancio prima chiaro, poi scuro e infine nel rosso che transita nel nero della notte, preceduto da un blu molto scuro.

Infine, è il riverbero sull’acqua delle luci della città, che rende teatrale questo luogo. Paesaggio meraviglioso, certo, ma attenzione si tratta in realtà di un campo di contraddizioni e conflitti composto di elementi dissonanti, di monumenti straordinari, anche per la loro posizione rispetto all’acqua e di trasformazioni radicali e brutali.

Andai la prima volta a Istanbul nel 1982 e in Turchia vigeva il coprifuoco stabilito dalla giunta militare che aveva preso il potere due anni prima. Di quel viaggio rimane un susseguirsi di immagini sedimentate nella mia memoria, che si scontrano con quello che oggi esiste e si vede, ma in fondo è questo conflitto percettivo che alimenta l’immaginario di un luogo.

Se Genova si vede dal mare, Istanbul ancora di più. Ne erano certamente consapevoli i parigini che sul finire dell’800 potevano ammirarla, in uno dei panoramas dei grands boulevards, osservando «la città [che] si amplia a paesaggio» (Walter Benjamin).

Un tempo a Galata si parlava francese e anche italiano, le vie erano ricche di edifici neoclassici alcuni con splendide viste sul lato occidentale del Corno d’oro, orientata sul tramonto. Una città europea, dove importanti famiglie aristocratiche e borghesi si rappresentavano attraverso l’architettura, come i Camondo (sefarditi spagnoli, poi «stambulioti» e infine parigini dopo un passaggio tra Austria, Trieste e Venezia), a cui si deve la famosa scalinata che lega strade di quote diverse, accostata a palazzi di impronta neorinascimentale.

Infine, un dedalo di stradine ripide, che ancora si inerpicano dalla quota del mare verso le parti più alte del quartiere ricordando i carrugi di Genova. Non tutto qui era però lindo e ordinato, anzi come in tutte le città di mare, le zone adiacenti alle aree portuali erano sovente dei luoghi di degrado.

Zürafa sokak era la via delle prostitute, dove si raccontava che centoventi prostitute servissero una media di cinquemila/settemila uomini al giorno in diciotto case. Siamo nella parte bassa di Galata, non molto lontano dal bordo del mare: una strada chiusa più che una casa chiusa. Gli accessi alla strada allora erano presidiati dalla polizia che faceva entrare solo uomini, la ricordo quasi come una via commerciale, con edifici in stile europeo e con “botteghe” che esponevano la merce.

Si trattava di donne giovani e vecchie, discinte e vistose, ogni tanto qualcuno entrava nel negozio o in un portone neoclassico, trattava il prezzo e, attraversando un pertugio, saliva con la donna scelta. Gran parte della folla però guardava, chi con curiosità, chi con disgusto, mentre chi non poteva permettersi questo momento di sfogo saltava da una bottega all’altra, come in preda ad una febbrile eccitazione.

Mi è ancora chiaro il ricordo di una giovane donna, una ragazza, che la memoria me la fa ricordare bellissima, accerchiata da abbruttiti che cercavano di toccarla, mentre una megera li allontanava. Ricordo il suo sguardo rivolto a noi giovani, evidentemente diversi dalla folla che si muoveva convulsamente lungo la strada. La sua espressione, per niente altera e sprezzante, sembrava cercare aiuto.

Cover: Istanbul. Pescatori sul Bosforo, 1982

Tutte le foto, compresa quella di copertina, sono di Romeo Farinella

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L’orrore di Gaza contiene il germe della fine della tirannia sionista

L’orrore di Gaza contiene il germe della fine della tirannia sionista 

Quella che ormai non può che essere vista come la “Soluzione Finale” di Israele per i Palestinesi affonda le proprie radici nella storia di ieri. La guerra del 1948, chiamata in Israele “Guerra di Indipendenza”, ha comportato la nascita dello Stato di Israele e ha significato la morte del popolo palestinese.

La Dichiarazione di Indipendenza israeliana ha comportato la Nakba (catastrofe) in Palestina.

Per via di una beffarda coincidenza storica, anche la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani è stata adottata in quello stesso anno, quando un’ondata di violenza e terrore contro una popolazione inerme di 1.3 milioni individui causò la distruzione di 524 città e villaggi e una fuga di massa di 780mila palestinesi. Due milioni e trecentomila discendenti di quei primi profughi fuggiti di casa nel 1948, sono coloro che oggi risiedono nell’inferno della Striscia di Gaza, vittime di una nuova devastante catastrofe umanitaria.

La mentalità terrorista attraverso la quale Israele è stato concepito, costruito e sostenuto, è stata un fallimento fin dall’inizio, eppure Israele ancora si rifiuta di accettare ciò che risulta ovvio: fintanto che la sua esistenza sarà imposta con l’uso delle armi, non vi sarà uscita dal tunnel degli orrori.  Chi continua a fare affidamento sulla narrazione israeliana imposta dall’ideologia sionista viene ingannato dal potere  economico militare degli Stati Uniti e dalle influenze delle lobby israeliane.

L’insensata propaganda della versione sionista della storia, tesa a convincerci che non ci sarebbe stato nessun genocidio dei palestinesi, è già crollata sotto il peso degli studi condotti dal movimento della Nuova Storiografia Israeliana, un gruppo di ricercatori e docenti israeliani che ha sfidato le versioni tradizionali sul reale ruolo assunto dal proprio Paese nella guerra del 1948. Oggi, quella stessa visione negazionista rischia di disintegrarsi sotto il peso morale della guerra di Gaza.

La soluzione finale per i palestinesi che sta avvenendo nell’inferno di Gaza è speculare a ciò che sta avvenendo nell’inferno di Israele: la risoluzione finale dell’ideologia sionista. L’attacco militare non può più essere raccontato come una missione necessaria per “eliminare il terrorismo di Hamas” in contrapposizione a ciò che realmente è: una vera e propria guerra, tra le più distruttive e letali del 21°secolo, per entrambe le parti.

Haytham Manna, presidente dell’Istituto Scandinavo per i Diritti Umani (SIHR), ha osservato che la guerra in corso ha già mietuto il doppio delle vittime civili rispetto ai due ultimi anni di guerra in Ucraina (2022-2023), e che il numero dei medici e del personale delle agenzie delle Nazioni Unite uccisi durante l’esercizio delle loro funzioni è infinitamente superiore a quello registrato in 20 anni di guerra del Vietnam (1955-1975) o in 8 anni di guerra in Iraq (2003-2011). Anche i 90 tra giornalisti, fotografi e operatori rimasti uccisi vanno ad aumentare il tragico conto delle vittime.

I 365 chilometri quadrati della Striscia di Gaza, cioè la prigione più grande del mondo per 2.3 milioni di profughi e figli di profughi di guerra, sono stati ridotti a un terreno di caccia di esseri umani che vengono uccisi in maniera indiscriminata. Oltre 12.000 tonnellate di bombe sono state sganciate nelle prime due settimane di guerra per incenerire almeno il 45% delle unità abitative nei territori dell’Autorità Nazionale Palestinese, secondo l’Ufficio Umanitario delle Nazioni Unite.

Coloro che non sono morti sotto le macerie delle proprie case e non sono stati uccisi dagli elicotteri, dai droni o dai carri armati mentre tentavano di fuggire da una regione all’altra, stanno ora morendo di malattie, di fame e di sete. Carl Skau, vicedirettore del Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite, ha confermato: «La metà della popolazione muore di fame, nove su dieci non mangiano tutti i giorni». Richard Peeperkorn, rappresentante dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha dichiarato che “in soli 66 giorni il sistema sanitario è passato da 36 ospedali funzionanti a 11 parzialmente funzionanti”. Secondo un dettagliato rapporto della ong Euro-Med Human Rights Monitor, con sede in Europa, circa 25mila bambini di Gaza hanno perduto uno o entrambi i genitori. Il numero totale di bambini e di adolescenti uccisi potrebbe superare i 10mila, perchè non è stato possibile estrarre dalle macerie i corpi di tanti di loro. 640.000 persone non hanno più una casa.  Non una sola categoria di civili palestinesi è stata risparmiata da questo orribile destino: ospedalizzati, malati, vecchi, bambini, donne, insegnanti, medici, infermieri, soccorritori, artisti, poeti, giornalisti, cameramen. L’elenco delle vittime è in continua crescita. Quotidianamente contiamo le uccisioni e i ferimenti subiti da entrambe le parti, correndo il rischio che la perdita vera, per tutti noi lontani dal conflitto, sia tutt’altra: la perdita della nostra umanità.

Da quando l’esercito israeliano ha sottoposto i civili palestinesi di Gaza al più intenso bombardamento di sempre – distruggendo case, ospedali, asili, scuole, università, centri culturali, moschee, chiese, mercati,  pozzi, panetterie, punti di distribuzione alimentare delle Nazioni Unite, centrali elettriche, edifici pubblici, sedi governative, infrastrutture civili, provocando 18.800 morti e 8.000 dispersi sotto le macerie, 35.000 feriti, 1.9 milioni di sfollati ammassati nel settore meridionale della Striscia in rifugi di fortuna, senza acqua potabile né cibo, né servizi igienici-  amare la Palestina consiste nel lanciare allarmi su una catastrofe umanitaria senza precedenti.

Da quando, dopo alcuni giorni di tregua, è poi ripresa la preannunciata offensiva, essa non può più nemmeno essere raccontata agli occhi del mondo come la missione finalizzata ad ottenere il rilascio degli ostaggi: l’esercito israeliano si è ufficialmente assunto la responsabilità dell’uccisione involontaria di tre ostaggi israeliani avvenuta mentre si avvicinavano alle forze israeliane senza maglietta, sventolando una bandiera bianca e invocando aiuto in ebraico, dopo che erano stati liberati o sfuggiti ai carcerieri di Hamas. Nell’attacco, avvenuto per mano di un cecchino, alla parrocchia cattolica della Sacra Famiglia di Gaza sono state uccise due donne e altri sette fedeli sono rimasti feriti mentre tentavano di soccorrere le persone bombardate dentro la chiesa. Nahida e sua figlia Samar, questi i nomi delle vittime cristiane, sono state colpite a sangue freddo mentre camminavano all’interno della parrocchia per recarsi nel convento.

Il corrispondente arabo di Al Jazeera Wael Dahdouh – che ha perso moglie, figlio, figlia e nipote in un precedente bombardamento israeliano – è rimasto ferito da un attacco di droni mentre stava documentando gli effetti di un precedente attacco aereo contro la scuola Farhana di Khan Younis dove i civili avevano invano cercato rifugio. Il cameraman Samer Abudaqa è stato lasciato morire dissanguato,  poiché le forze israeliane hanno impedito alle ambulanze e ai soccorritori di raggiungerlo.

Non tutti gli ebrei sono sionisti

I drammatici dati ufficiali espressi da entrambe le parti coinvolte; i disperati allarmi lanciati da tutti gli organismi umanitari dell’ONU; la ferma denuncia da parte di ogni tipologia di associazioni pacifiste; l’aperta condanna dei manifestanti di tutto il mondo; la crescente preoccupazione delle associazioni religiose cristiane, musulmane ed ebraiche; i sofferti appelli di Papa Francesco e le infinite voci che denunciano come si stia consumando una crisi catastrofica, prodotta da una violenza senza limite né controllo, rivolta contro tutto e tutti, vengono messe a tacere. Si cerca di convincere la pubblica opinione che il sionismo israeliano sia una forma di nazionalismo apprezzata da tutto il popolo ebraico.

In realtà, non tutti gli ebrei sono sionisti e molti, moltissimi, non sono nazionalisti e ancor meno  israeliani. Gli ebrei in Palestina sono circa cinque milioni, ma la popolazione ebraica supera i venti milioni. E’ anche per questo che Israele non ha mai potuto essere la Nazione di tutti gli ebrei, tanto meno della maggioranza di coloro che hanno preferito vivere e vivono tuttora in Europa, in Russia, negli USA, in Latino-America, in India, in Australia e altrove.

Non solo: moltissimi di costoro non accetterebbero di andare a vivere nello stato di Israele. In base a quali motivazioni personali si dovrebbe andare a vivere in una regione piena di armi, muri e conflitti senza fine? Per aderire forse ad una idea di “israelizzazione”? Dal 7 ottobre sono stati circa 470.000 gli israeliani che hanno lasciato il Paese per trasferirsi in Canada, Australia, Regno Unito o Stati Uniti. La Germania nei primi due decenni di questo secolo ha visto un afflusso di circa 20.000 israeliani.

Il mondo descritto dall’ossessionante narrazione sionista, un mondo in cui i popoli del pianeta aspetterebbero solo l’occasione buona per scatenare nuovamente antisemitismo e persecuzione contro gli ebrei, non esiste più. Lo dimostra il fatto che la maggior parte degli ebrei, fuori da Israele, vive liberamente e, molto spesso, in prosperità materiale e spirituale. Lo stato di Israele si presenta come uno stato democratico a favore dei suoi cittadini ebrei, ma nella realtà, anche contro i suoi propri cittadini, si sta dimostrando una vera e propria dittatura militare.

E’ prima di tutto per questi motivi che amare Israele consiste nel denunciare lo Stato di Israele.

Perché da oggi Israele sarà per sempre il responsabile morale della ferocia dei suoi crimini e gli ebrei di tutto il mondo che soffriranno molto più degli altri, saranno proprio gli ebrei di Israele: non per via dell’antisemitismo, ma a causa dell’ignobile, ributtante e atroce crimine di genocidio che stanno perpetrando contro i palestinesi. Oltretutto Israele, con la sua insensata propaganda di guerra, si rivolge all’Occidente – cioè al contesto geopolitico nel quale si è prodotto l’Olocausto – attribuendo la minaccia di persecuzione e di sterminio ad un Oriente arabo e musulmano che in tutto il suo passato non ha mai perseguitato gli ebrei e non ha mai compiuto olocausti. Gli storici hanno dimostrato che è proprio nel mondo arabo e musulmano che è fiorito il meglio della cultura ebraica: in Spagna prima del 1492, nell’impero Ottomano, in Turchia, a Baghdad, a Damasco, in Marocco. La storia dice anche che gli arabi non sono mai stati antisemiti; in Oriente e in Nord Africa le comunità ebraiche sefardite hanno vissuto pacificamente con i musulmani per millenni, senza essere confinate in ghetti, senza essere perseguitate, senza essere espulse.

Il “modello israeliano” non è solo bellico, tecnologico e industriale, ma anche culturale, ideologico, mediatico e propagandistico. Ma il patriottismo, il coraggio, l’eroismo, la “purity of arms”, stemma e orgoglio dell’esercito israeliano, quando tradiscono i propri valori compiendo genocidi contro una popolazione civile vinta, oppressa e imprigionata, dimostrano inevitabilmente ed inesorabilmente il proprio punto debole e il proprio tallone di Achille.

La società israeliana, composta per sua natura da un melting pot di differenti etnie ebraiche scampate clandestinamente alla shoah o immigrate in tempi più recenti, è pervasa da fenomeni culturali, politici, religiosi e mediatici che supportano sia il casus belli di ogni operazione militare, giustificata da motivi di sicurezza contro attacchi terroristici o lancio di razzi, sia la sproporzionata efferatezza della reazione agli stessi. Il richiamo a dogmi di estremismo religioso, l’ipermilitarismo, il razzismo, la disumanizzazione del nemico, l’impunità dei crimini di guerra, l’eroicizzazione dei soldati e delle soldatesse, i privilegi destinati alle caste militari o alle classi sociali più estremiste – così come la persuasione mediatica e il controllo delle informazioni – sono linee guida della società israeliana.

In otto settimane di guerra Israele ha contato il più alto numero di propri morti e feriti che in 106 anni di presenza ebraica in Palestina.

La costante insistenza di Israele sul fatto che la sua guerra sia condotta contro Hamas, contro il “terrorismo”, contro il fondamentalismo islamico, potrebbe continuare a convincere solo coloro che sono ancora disposti a prendere per oro colato la versione israeliana degli eventi. Ma quando i corpi dei civili palestinesi, tra cui migliaia di bambini, hanno iniziato ad accumularsi negli obitori degli ospedali di Gaza e nelle strade, la narrazione ha cominciato a cambiare. I corpi polverizzati dei bambini palestinesi, di intere famiglie morte insieme, testimoniano la brutalità di Israele, il sostegno immorale dei suoi alleati e la disumanità di un ordine internazionale che premia l’assassino e ammonisce la vittima.

Nella società israeliana e nel resto del mondo chiunque ponga l’attenzione sulle durissime condizioni di vita imposte da Israele ai suoi stessi cittadini e cittadine, soldati e soldatesse, e chiunque analizzi la catastrofe che il sionismo ha provocato ai palestinesi, viene ostracizzato, ridotto al silenzio, definito antisemita o, se ebreo, un ebreo che odia sè stesso e gli altri ebrei.

Il disordine mentale dopo essere stato un soldato israeliano

Bisognerebbe iniziare a chiedersi chi veramente trae vantaggi dal sionismo, e chi invece ne subisce le conseguenze. Il sito web “Israel Today”, citando fonti vicine al dipartimento di salute mentale, riporta che tra i soldati aumenta la necessità di ricorrere a trattamenti psicologici dopo le missioni, con conseguente aumento dei casi di esonero da ulteriori impieghi sui campi di azione. Per le scene terribili alle quali hanno assistito o per i crimini che sono stati costretti a commettere durante le precedenti nove operazioni nella Striscia di Gaza, centinaia di soldati israeliani sono stati trasferiti a speciali “reparti di psicoterapia”.

Quella dell’aumento dell’uso di sostanze stupefacenti, dei casi ufficiali di suicidio e del numero di obiettori di coscienza arrestati, processati e incarcerati per essersi rifiutati di prestare servizio di leva o di essere richiamati come riservisti, è una realtà che tutti conoscono in Israele, ma le organizzazioni pacifiste, le Ong o i movimenti ebrei antisionisti non riescono a parlare senza essere accusati di tradimento, disfattismo e viltà.

Breaking the Silence, Courage to Refuse, Gush Shalom, Taayush, New Profile, Target 21, B’Tselem sono le più conosciute tra le organizzazioni dei cosiddetti “pacifisti radicali israeliani” accusate e condannate per aver pubblicato testimonianze dirette sulle esperienze e sulle tecniche utilizzate dai soldati per reprimere la resistenza palestinese, o manuali in cui veniva spiegato ai giovani israeliani come fare a sottrarsi dal servizio di leva obbligatorio.

Per tentare di cancellare i traumi delle esperienze belliche che li hanno devastati psicologicamente, distaccandosi il più possibile dal peso del proprio insopportabile passato e giungendo a scelte prolungate di tipo eremitico, appena terminato il periodo di leva, ogni anno decine e decine di migliaia di neo congedati e neo congedate scelgono di passare lunghi periodi di permanenza all’estero, in special modo in India, Thailandia e Nepal, formando vere e proprie piccole comunità di ex militari israeliani. Tra di loro vi è chi tenta di rimuovere dalla propria coscienza il trauma di essere stato un combattente sfruttato al servizio di una lugubre polizia politica. Quello che viene ufficialmente raccontato come un meritato periodo di riposo, o il vantaggio di un anno sabbatico, non tiene in nessun conto il proliferare di apposite agenzie investigative private specializzatesi nel rintracciare, per conto dei genitori, un gran numero di figli che, partiti con un budget di viaggio ricavato dalla liquidazione spettante al termine del servizio di leva, sono assenti da anni, non intendono più tornare a casa e non vogliono più dare notizie di sé ai famigliari e a una Patria pronta a riconoscerli come eroi ed eroine.

In ogni guerra, l’informazione viene utilizzata come arma. Fare affidamento esclusivamente sulle armi della narrazione israeliana significa essere ingannati, non solo riguardo ai crimini di guerra commessi dall’esercito di difesa israeliano, ma anche sulla natura della guerra stessa. Una delle campagne più efficaci proposte dalle organizzazioni pacifiste, ha proposto alla visione pubblica le foto personali dei soldati scattate nel corso del proprio servizio. Gli scambi di commenti ai ricordi e la rilettura delle testimonianze ha consentito di avviare un percorso di presa di coscienza molto difficile da contrastare da parte del militarismo culturale e della cultura della guerra.

L’esercito israeliano, che chiama sè stesso Israeli Defence Force (Forza di Difesa di Israele), è considerato uno dei più armati e tecnologicamente avanzati al mondo ed è composto da circa 200.000 militari, perlopiù di leva. La chiamata alle armi avviene al compimento del 18esimo anno di età, dura 36 mesi per gli uomini, 24 mesi per le donne e in caso di necessità può mobilitare circa 500.000 riservisti che continuano a prestare servizio per un mese all’anno fino al compimento di 42 anni di età.

L’esercito è il pilastro dell’identità sionista ed è il rimosso di Israele

L’impatto con la realtà israeliana è sconcertante per chiunque, ma per i pellegrini delle tre religioni monoteiste può risultare addirittura sconvolgente.

Nel Hadassah Ein Kerem Hospital opera un dipartimento specializzato di psichiatria per stranieri che presentano i sintomi della cosiddetta “Sindrome di Gerusalemme”. Visitare Gerusalemme può far impazzire chi, posto di fronte a un bivio tra spiritualità, misticismo, religiosità, mitologia, archeologia, arte da un lato, e recinzioni, check-point, torri di controllo, muri, basi militari dall’altro, possa sentirsi afflitto da ciò che, in termini specifici, viene descritta come una “infermità psichica dissociativa isterica”. Le sue cause e i suoi sintomi si riflettono nell’isterismo psichico di una sindrome che ammorba tutto Israele e che in Gerusalemme raggiunge un picco di incidenza assoluta.

L’ampio piazzale di 10mila metri quadrati dinnanzi al Muro del Pianto, l’attrazione preferita dai turisti che viaggiano per il mondo, dai pellegrini e da molti capi di Stato stranieri che visitano il Muro come forma di rispetto per il significato che rappresenta per Israele e per tutto il mondo ebraico, non ha nemmeno sessant’anni. Fino al 1967 quello spazio era occupato da un insieme di edifici storici, piccoli e grandi, posti ai piedi del Muro Occidentale dell’antico tempio di Gerusalemme. Il quartiere fu fondato 800 anni prima dagli Ayyubidi di Ṣalāḥ al-Dīn per accogliere i pellegrini musulmani provenienti dal Nord Africa. Venne completamente raso al suolo nella notte tra il 10 e l’11 giugno 1967 dai mezzi dell’esercito israeliano, che aveva appena preso il controllo dei quartieri orientali della Città Santa, alla fine della vittoriosa Guerra dei Sei Giorni.

I vittoriosi generali dell’esercito israeliano che decisero senza alcuna autorizzazione ufficiale di demolire il medioevale quartiere maghrebino Hārat al-Maghāriba di Gerusalemme sfollando i suoi mille abitanti, presumevano che la fascinazione degli ebrei per il muro avrebbe impedito di notare le macerie. Le moltitudini che affluirono nella neonata spianata del muro del pianto, nemmeno le videro: i cumuli di macerie erano stati tutti rimossi grazie all’impiego di modelli speciali di bulldozer che avevano risparmiato solamente qualche albero.

Nella mitologia italica e romana il più antico degli Dei è Giano, concepito e raffigurato come bifronte. Le porte del suo tempio, nel Foro Romano, rimanevano aperte in tempo di guerra per aspettare il ritorno dei cittadini andati a combattere e si chiudeva quando, finite le operazioni militari, essi tornavano in città. Nella mitologia sionista il più antico dei bulldozer militari è il Caterpillar D9R. Si presenta come un trattore cingolato corazzato bifronte, sormontato da una cabina di guida blindata, dove si può azionare contemporaneamente la pala anteriore o i vomeri posteriori. Da quando ha iniziato ad essere utilizzato con successo dall’esercito nel cuore di Gerusalemme nel giugno 1967, viene ancora usato dai Combat Engineering Corps per radere al suolo case, demolire edifici, sfondare recinzioni, sradicare uliveti, passare due volte sul corpo della manifestante pacifista statunitense Rachel Corrie.

E’ soprannominato “דובי” (orsacchiotto) in Israele.

Viene messo in azione con altrettanta efficacia anche quando si ordina di mettere in atto la “procedura della pentola a pressione” o “intervento D9”, finalizzato alla cattura dei ricercati per terrorismo. Il bulldozer si avvicina alla casa dove si rifugia il ricercato per terrorismo da arrestare e con il rombo del motore lo si invita ad uscire. Se la pressione psicologica non da’ esito, il bulldozer scuote la casa. Se ancora non basta, la casa viene totalmente demolita seppellendone vivi gli eventuali occupanti. L’Hasbara israeliana, הסְבָּרָה, come eufemismo per propaganda, e come sinonimo di propaganda militare, è la prima a sfilare al corteo funebre dell’ideologia sionista.

Per le esequie in corso della tirannia militare israeliana, non fiori recisi, ma talee di rami di ulivo, preghiere per la pace e opere di bene.

NOTE

https://www.terrasanta.net/2023/06/il-quartiere-maghrebino-di-gerusalemme-ricostruito-in-rete/ https://comune-info.net/una-gaza-planetaria/

https://www.terrasanta.net/2023/06/il-quartiere-maghrebino-di-gerusalemme-ricostruito-in-rete/ https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2023/12/10/onu-meta-della-popolazione-di-gaza-sta-morendo-di-fame_ https://pagineesteri.it/2023/12/13/medioriente/gaza-ong-25mila-bambini-palestinesi-sono-rimasti-orfani-

https://tg.la7.it/esteri/raid-di-israele-a-khan-younis-ucciso-un-operatore-di-al-jazeera-e-ferito-un-giornalista-15-

12-2023-

https://www.rainews.it/video/2023/12/il-patriarca-latino-di-gerusalemme-i-fatti-nella-chiesa-cattolica-di-gazasono-incontrovertibili-adde45c0-8b8f-40e3-9c56-519c6b109da6.html

rainews.it/maratona/2023/12/lesercito-israeliano-uccide-tre-ostaggi-identificati-per-errore-come-minaccia-laguerra-di-gaza-giorno-70-30dbd095-4ff6-49b5-b1cd-939c1cdd5655.html

https://www.rainews.it/video/2023/12/chiesa-della-sacra-famiglia-le-due-donne-uccise-a-sangue-freddomentre-andavano-in-bagno-1300147f-9911-41bc-8aba-39e1273078ca.html

https://www.invictapalestina.org/archives/50011 https://en.wikipedia.org/wiki/Caterpillar_D9#References

In copertina: Foto originale tratta dal docufilm “De Gaza” di Mirko Faienza/Franco Ferioli

Per leggere tutti gli articoli e gli interventi su Periscopio di Franco Ferioli, clicca sul nome dell’autore, oppure visita la sua rubrica Controcorrente

Diario in pubblico /
Musica, musica, musica

Diario in pubblico. Musica, musica, musica

Fare una provvista quasi orgiastica di concerti il giorno di Capodanno risulta rasserenante, viste le condizioni politiche in cui si avvolge, come in un sudario, il mondo intero.
Alla mattina da Venezia quello della Fenice. A dirigere l’orchestra e il coro del teatro La Fenice e i due solisti, il soprano Eleonora Buratto e il tenore Fabio Sartori, Fabio Luisi, il cui talento è noto in tutto il mondo.

 

Il Teatro La Fenice -Venezia

Nel primo pomeriggio da Vienna

La Sala d’Oro del Musikverein, Vienna

Il tradizionale Concerto di Capodanno si svolgeva, come di consueto, nella Sala d’Oro del Musikverein. Sul podio Christian Thielemann, che già lo aveva diretto nel 2019. Il programma prevede l’esecuzione di celebri capolavori della famiglia Strauss e di Joseph Hellmesberger, Carl Michael Ziehrer e Anton Bruckner.

La sera, infine, quello dedicato al bicentenario del Museo egizio di Torino.

Alle ore 16.30, infatti, sul palco di piazza Castello sale l’Orchestra Filarmonica di Torino che, diretta da Giampaolo Pretto, eseguirà una scelta di brani studiata per celebrare il bicentenario del Museo Egizio.

Il programma del concerto è quindi legato in modo particolare al tema dell’Egitto, spaziando tra l’ouverture, le arie e i duetti più celebri del Flauto Magico di Mozart, ambientato in un Egitto immaginario, e dell’Aida di Verdi, il cui soggetto tanto ha contribuito alla creazione dell’immaginario dell’antico Egitto, ma anche rammentando le Variazioni di Paganini sul tema della preghiera Dal tuo stellato soglio dal Mosè in Egitto di Rossini e la  Méditation da Thais di Massenet.

Ma l’immersione musicale non ha interrotto il livido confronto che si è svolto al programma televisivo Carta bianca tra i giornalisti Sallusti e Lerner con l’intermezzo, che definirlo sconsolante è un eufemismo, tra lo stesso Sallusti e il professor Orsini, di cui il primo metteva in ridicolo il titolo del secondo.

Ma è giusto affidare a queste persone l’analisi di conflitti mondiali? Quello però che mi è restato e che invito i miei lettori a rintracciare è l’analisi informata, equilibrata di Lerner sul conflitto israeliano-palestinese, che nasce proprio dall’essere Lerner ebreo e israeliano e constatare con quanta pacatezza il commentatore elenchi i pesanti errori commessi dal governo Netanyhau, il quale progetta secondo l’analisi di Lerner l’allargamento del conflitto per eliminare per sempre lo stato palestinese, come ribadiscono i ministri dichiaratamente fascisti del suo governo. Ciò procura la solitudine di Israele di fronte al mondo. Una amarissima constatazione che mi colpisce nel profondo.

E a quel mondo orientale che le note conosciutissime e sempre nuove di Verdi e Puccini evocano va la nostalghia di chi, al tramonto, si rende conto che gran parte del suo tempo sembra passato invano. Ma ancora che l’arte dovunque e comunque si declini può e deve rappresentare la salvezza.

Per leggere gli altri articoli di Diario in pubblico la rubrica di Gianni Venturi clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Il primo suicidio del 2024: Matteo Concetti, 25 anni, detenuto nel carcere Montacuto di Ancona.
Nel 2023 i suicidi in carcere sono stati 62

di Sergio Sinigaglia
tratto da pressenza del 06.01.24

Matteo Concetti, detenuto di 25 anni  presso il carcere Montacuto di Ancona, si è suicidato venerdì 5 gennaio impiccandosi mentre si trovare in isolamento. A quanto comunica la direzione del carcere avrebbe aggredito una guardia e da qui il provvedimento di ulteriore restrizione. Nel 2023 i suicidi in carcere sono stati 62.

Il carcere di Montacuto come tanti è da tempo sovraffollato: a fronte di una capienza valida per 250 detenuti ne ha circa 350. Nei giorni scorsi c’era stata una protesta che aveva portato alcuni detenuti a salire sul tetto della struttura.

Ilaria Cucchi sulla sua pagina Facebook ha scritto che la mamma di Matteo le aveva mandato un messaggio in cui diceva: “Sono la mamma di Matteo Concetti, la prego di aiutarmi: mio figlio vuole morire. Ha bisogno di aiuto e in carcere non viene assistito”.

La Cucchi denuncia come Matteo fosse afflitto da problemi psichici, uno stato mentale che evidentemente è stato ignorato; per motivi disciplinari è stato messo in isolamento, scelta quanto mai assurda per un detenuto che aveva bisogno della dovuta assistenza. Il ragazzo, originario di Fermo, era stato in una comunità per circa due anni, poi in carcere nella sua città. Aveva avuto la possibilità di scontare la pena fuori, svolgendo un lavoro in pizzeria ed era riuscito ad ottenere anche un piccolo appartamento in affitto con la sua ragazza. Tutto è precipitato quando per un ritardo di appena un’ora nel rientro in carcere il giudice ha deciso il trasferimento a Montacuto; da quel momento la situazione è solo peggiorata, fino al drammatico epilogo di venerdì. Doveva  scontare ancora otto mesi.

Nell’anno appena trascorso 62 persone detenute si sono tolte  la vita. La situazione delle nostre carceri è ai livelli di guardia, ma nonostante le denunce e le sollecitazioni delle associazioni impegnate su questo fronte, tutti gli esecutivi alternatesi in questi anni non hanno messo in campo provvedimenti strutturali per svuotare i penitenziari. Anzi, sono stati approvati provvedimenti sempre più repressivi, politiche securitarie che hanno colpito come sempre le fasce sociali emarginate, in particolare i migranti, fino all’attuale governo che fa della cosiddetta “sicurezza” il proprio cavallo di battaglia, come dimostra il recente decreto legge in materia.

Antigone Marche ha diffuso una nota in cui sottolinea come “Il suicidio di un uomo di 25 anni in una delle stanze per l’isolamento del carcere di Montacuto è una tragedia. È inutile girarci attorno: si tratta di un dramma conseguenza dell’allarmante sovraffollamento (siamo tornati ai numeri di oltre 10 anni fa per cui la Corte dei diritti umani ci multò per trattamenti inumani e degradanti), della mancanza di supporto psicologico e psichiatrico, di porte che sono sempre più chiuse, di una mancanza cronica di attività e contatti con le famiglie e l’esterno. E che il sistema non funzioni ce lo dimostrano anche i ripetuti atti di autolesionismo, le violenze e le proteste, come quella di pochi giorni fa sempre a Montacuto”

La nota conclude sottolineando come “il modo per reagire c’è e non sta nella costruzione di nuovi istituti, ma nella Costituzione: il ricorso al carcere dev’essere residuale e improntato alla riabilitazione. Serve aumentare il personale, specialmente sanitario ed educativo, e ricorrere maggiormente alle pene alternative, che garantiscono una recidiva molto più bassa”.

L’autore:
Sergio Sinigaglia (Ancona, 1954) ha svolto le professioni di libraio e successivamente di giornalista in una società di comunicazione. Dal 1976 al 1978 è stato redattore a Roma del quotidiano Lotta Continua, di cui è stato militante. A partire dalla metà degli anni Novanta ha collaborato con il mensile Una città, il settimanale Carta Cantieri Sociali e il Manifesto. Ha pubblicato i seguenti testi:“Di lunga durata durata” (affinità elettive 2002); “Fuori linea” (affinità elettive 2005); La piuma e la montagna, con Francesco Barilli (manifesto libri 2008); “Altremarche” (affinità elettive 2010); il romanzo “Il diario ritrovato” (Italic Pequod 2014) e il giallo “Strage silenziosa” (Italic Pequod). Nel 2018 ha curato la raccolta di testi postumi di Gabriele Giunchi “Il mattino ha i piedi scalzi (Una città). A settembre 2022 è uscito “S’avanza uno strano soldato – il movimento per la democratizzazione delle Forze Armate 1970-1977, Derive Approdi, scritto con Deborah Gressani e Giorgio Sacchetti. Per alcuni anni ha pubblicato articoli sul sito Global Project. Dal 2022 scrive su Pressenza.com. Attualmente fa parte della redazione del trimestrale “Malamente”. E’ ancora attivo politicamente nel centro sociale Arvultura di Senigallia, città dove abita dal 2017. E’ vegetariano e animalista antispecista.

Cover: il carcere Monteacuto di Ancona (foto Associazione Antigone- Marche)

Per certi versi /
Ebbene

Ebbene

Ebbene
Caro poetino
Della domenica
Coi bambini
Le donne
I vecchi
Sotto le bombe
I missili
Tu verseggi
Sulla tigre
Già
Proprio la tigre
La tigre di
Sumatra
Rischia l’estinzione
Per colpa
Dell’ uomo
Queste sono
Le notizie
I momenti
Nei quali
Mi vergogno
Di appartenere
Al genere umano
Quella specie
Così intelligente
Che fa fa fa
fa che
Distrugge il proprio
Ambiente
In copertina: Incendi dolosi in Amazzonia (foto greenpeace italia)
Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

“La Comune di Ferrara” propone una Coalizione e una nuova politica per battere la destra.
Invitati i partiti e le formazioni che al Tavolo dell’Alternativa chiedevano un approccio aperto e non verticistico.

“La Comune di Ferrara” propone una Coalizione e una nuova politica per battere la destra.
Prossima tappa: sabato 27 gennaio 2024

La Comune di Ferrara è nata dalla volontà di centinaia di cittadini e cittadine ferraresi, che hanno scelto di adottare un metodo partecipativo per costruire un’azione politica autonoma e dal basso, basata su una visione di città alternativa a quella espressa dall’attuale giunta che governa Ferrara.

Nella prima tappa di novembre 2023 si sono definiti – grazie al contributo attivo di altri soggetti della società civile – i temi fondamentali necessari per costruire il futuro programma elettorale.
Li abbiamo raccolti in una Traccia Condivisa per Cambiare Ferrara”: la traccia del sentiero da percorrere insieme. Cinque temi che riteniamo fondamentali e prioritari, che vogliamo siano presi in carico e realizzati dal futuro governo della città. Una traccia “condivisa” perché è il risultato delle idee, sollecitazioni, proposte espresse fino a qua anche da altri gruppi, associazioni, comitati e movimenti che, in questi mesi ed anni, sono scesi in campo. Una traccia che rimarrà aperta ad altri contributi e si arricchirà di nuovi contenuti nei prossimi mesi, durante la campagna elettorale.
Il documento è consultabile sul sito www.lacomunediferrara.it

Con la seconda tappa di dicembre 2023 si sono raccolte le prime disponibilità di cittadini e cittadine a rendersi protagonisti attivi, offrendo le proprie competenze per contribuire alla progettazione e alla realizzazione di una Ferrara più verde, sostenibile, equa, accogliente e basata su opportunità di lavoro dignitose.

Il 27 di gennaio si terrà la terza tappa.
La Comune di Ferrara invita tutte le forze che si riconoscono nella “Traccia condivisa” e nella necessità di costruire una proposta politica attraverso un metodo partecipativo e trasparente, a convergere sull’idea di dare vita a una grande coalizione popolare.  In quell’occasione verrà scelto la/il candidata/o sindaco della coalizione tra quelli che saranno proposti dalle diverse realtà che decideranno di partecipare. La Comune di Ferrara proporrà Anna Zonari, individuata attraverso il percorso delle tappe 1 e 2 e verificata attraverso un sondaggio aperto a tutti i partecipanti degli incontri che si è tenuto negli ultimi dieci giorni del 2023. Il sondaggio condotto online ha visto la partecipazione di più di cento persone. L’85% si è espresso a favore di Anna Zonari, il 15% contrario.

L’idea di avere una terza lista, viene vista da molti come dannosa per il raggiungimento dell’obiettivo della sconfitta elettorale dell’attuale giunta. La Comune di Ferrara ritiene invece che con un sistema elettorale a doppio turno non abbia alcun senso  auspicare un confronto tra due soli candidati al primo turno, e che l’unico effetto possa essere l’aumento dell’astensionismo se non addirittura l’esodo di una parte di voti alla coalizione di destra, con la conseguente vittoria di Fabbri senza nemmeno andare al secondo turno.
Sostenere il contrario – totemizzare l’idea dell’unità come valore assolutosignifica negare il senso stesso del nostro sistema elettorale, che nasce appositamente per valorizzare la pluralità di idee con il primo turno, e garantire  il massimo della rappresentatività del sindaco con il secondo turno.

Il fallimento di fatto del Tavolo dell’Alternativa, che, malgrado gli sforzi, non è riuscito a costruire una proposta unitaria, né di programma (ad oggi esiste un proto programma mai reso pubblico), né di candidato/a, ci spinge a credere ancor più che ci sia bisogno a Ferrara di una coalizione alternativa, con un impegno politico basato sulla partecipazione dal basso.
La Comune di Ferrara non vede nei partiti un nemico da combattere,  ma sente l’urgenza di offrire un’alternativa di metodo e di sostanza quando alcuni di questi decidono di procedere con decisioni verticistiche e poco trasparenti, come nel caso della candidatura di Laura Calafà, ostracizzata con un’azione ambigua orchestrata dai salotti buoni dei politici che contano.

La Comune di Ferrara auspica che l’incontro del 27 gennaio sia solo il primo passo per vedere il ritorno a Ferrara di una politica diversa, che cerca la partecipazione dei cittadini anziché auspicare l’astensionismo come strumento di controllo della città. Obiettivo ambizioso, per raggiungere il quale è necessaria la convergenza di tutte le forze che in città tengono davvero ai principi democratici che sono alla base dell’agire per il bene comune.

Grandi Opere Stradali in Emilia-Romagna: governo e regione insieme per portarci nuovo asfalto e nuovi pedaggi

Salvini e Bonaccini progettano Grandi Opere Stradali in Emilia Romagna: colate di cemento devastanti, buchi neri per i soldi pubblici, in un territorio già abbondantemente impermeabilizzato e fragile, come ci hanno insegnato i recenti disastri causati da frane, alluvioni.

Il ministro Salvini e il presidente Bonaccini si sono incontrati a fine anno, e si vedranno di nuovo tra dieci giorni, per avviare la fase operativa delle grandi opere stradali dell’Emilia Romagna: per i ferraresi significa prepararsi a pagare i pedaggi sulla Ferrara-mare e praticare il sogno inconfessato del collegamento diretto con l’autostrada del Brennero. In effetti, ministro e presidente condividono il medesimo delirio cementiero e asfaltatore, uno col Ponte sullo stretto e l’altro con le bretelle e i raddoppi autostradali.

La Rete Giustizia climatica di Ferrara sostiene e condivide con la Rete Regionale per l’emergenza climatica “Reca” il rifiuto della logica retrograda e pericolosa che asfalta la nostra regione con il falso mito della crescita infinita. Sono colate di cemento devastanti, buchi neri per i soldi pubblici, in un territorio già abbondantemente impermeabilizzato e fragile, come ci hanno insegnato i recenti disastri causati da frane, alluvioni.
È chiaro che nuove strade e autostrade non diluiranno il traffico ma lo attrarranno in un circuito vizioso che porta con sé inquinamento e maggiore incidentalità.
Bisogna investire molto di più nelle ferrovie e fermare tutti i progetti di nuove strade, bretelle e tangenziali. Questa è l’unica alternativa al burrone per la nostra impazzita locomotiva. Invece solo in minima parte i fondi pubblici vanno al potenziamento delle linee ferroviarie per il traffico merci e quello locale dei passeggeri: i pendolari useranno sempre più le automobili e i camion aumenteranno sempre di più. Invece Bonaccini chiede a Salvini di finanziare addirittura l’ampliamento dell’autodromo di Imola, ormai regolarmente allagato e coperto dal fango delle piene.

Alle proteste delle Reti ambientaliste si uniscono quelle dei cittadini di Imola, del consiglio comunale di Modena per la bretella della ceramica, dei paesi alpini affogati dal traffico di camion del Brennero, dei cittadini bolognesi contrari al raddoppio autostradale. Ognuno ha proposte alternative praticabili che continuano a non essere prese in considerazione.

Rete Giustizia climatica di Ferrara

Presto di mattina /
La prima stella

Presto di mattina. La prima stella

La prima stella

Questa sera, per la prima volta in tanti anni,
mi è apparsa di nuovo
una visione dello splendore della terra:
nel cielo del crepuscolo
la prima stella sembrava
crescere in luminosità
mentre la terra andava oscurandosi
finché in ultimo non poté divenire più scura.
E la luce, che era la luce della morte,
sembrava restituire alla terra
il suo potere di consolare. Non c’erano
altre stelle. Solo quella
di cui sapevo il nome.
(Luise Glück, Averno, ed. Libreria Dante & Descartes, Napoli 2019, 77).

È la vita celata che compare con la prima stella, quando si fa sera, sulla soglia della notte. Ecco perché ridona alla terra sempre più scura il potere di consolare: una luce resta per tutto il tempo nel profondo e scuro Averno ingresso nell’Oltre. La prima stella, quella che giunge sola è messaggera nel crepuscolo dello splendore terrestre.

Per la poetessa americana Luise Glück (1943-2023), credere alla luce è credere ad una sconfinatezza vicina, all’intero nel particolare. Nata a New York in una famiglia di immigrati ebrei ungheresi, fu vincitrice nel 1993 del premio Pulitzer e nel 2020 del Nobel per la letteratura perché – come riporta uno stralcio della motivazione − «con austera bellezza rende universale l’esistenza individuale».

Nella raccolta Averno (2006) canta il “buio come silenzio che annulla la mortalità”; il presente come parte del futuro; il tempo passato come un tutto ghiacciato, dove sotto il ghiaccio scorre futuro. Canta il vuoto e il pieno, la solitudine e la prossimità, la paura dell’ignoto e l’attesa dell’amore; il non lasciarsi cambiare dalla violenza, e se l’oscurità svuota la notte lasciando il nulla, la luce di sparpagliate stelle la riempie tracciando infiniti punti come sentieri senza fine.

L’inverno svuotò gli alberi
Li riempì di nuovo la neve

Tutta la vita, aspetti il tempo propizio
Poi il tempo propizio
si rivela come un’azione compiuta
(ivi, 83).

Cose, favolose le stelle.
Quando era bambina, soffrivo d’insonnia.
Le notti d’estate, i miei genitori mi lasciavano stare accanto
al lago
(ivi, 49).

Sì, favolose le stelle perché spargitrici di luce (Muller). È questa l’etimologia più probabile e verosimile del loro nome: stendere, spargere, tendere verso l’altro da sé; il Kuhn lo fa derivare dal sanscrito dalla radice “star” che dice qualsiasi rapporto con la luce.

 La prima stella in cammino

Erratica luce, nell’erranza di stella e delle sue sorelle fino al più remoto angolo della notte ed oltre.

Qual è il più remoto angolo della notte? Qual è l’estremo confine del mondo? L’oltre ogni dove: il cuore dell’uomo. Proprio lì in quel mistero di tenebra di luce, di smisuratezze e limite si sprofonda l’erratica luce delle stelle; ma non vanno sole, nel nucleo incandescente del loro intimo sono abitate da una voce sommessa, ma fedele: «nemmeno le tenebre per te sono tenebre e la notte è luminosa come il giorno; per te le tenebre sono come luce» (Sal 139). È la loro preghiera continua, e così vanno ripetendo le combattenti disarmate errando in ogni notte.

«Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo… Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima», (Mt 2, 1-2; 9-10).

Scrive papa Francesco nel discorso alla Curia romana, il 21 dicembre 2023:

«La gioia del Vangelo, quando la accogliamo davvero, innesca in noi il movimento della sequela, provocando un vero e proprio esodo da noi stessi e mettendoci in cammino verso l’incontro con il Signore e verso la pienezza della vita.

L’esodo da noi stessi: un atteggiamento della nostra vita spirituale che dobbiamo sempre esaminare. La fede cristiana – ricordiamocelo – non vuole confermare le nostre sicurezze, farci accomodare in facili certezze religiose, regalarci risposte veloci ai complessi problemi della vita.

Al contrario, quando Dio chiama suscita sempre un cammino, come è stato per Abramo, per Mosè, per i profeti e per tutti i discepoli del Signore. Egli ci mette in viaggio, ci trae fuori dalle nostre zone di sicurezza, mette in discussione le nostre acquisizioni e, proprio così, ci libera, ci trasforma, illumina gli occhi del nostro cuore per farci comprendere a quale speranza ci ha chiamati (cfr. Ef 1,18).

Come afferma Michel de Certeau, «è mistico colui o colei che non può fermare il cammino. Il desiderio crea un eccesso. Eccede, passa e perde i luoghi. Fa andare più lontano, altrove» (Fabula Mistica. XVI-XVII secolo, Milano 2008, 353)».

È la luce della stella errante che apre il cammino agli erranti e che fa la differenza, fa chiarezza “tra innamorati e abituati”. Così Francesco conclude il suo discorso: «Restiamo vigilanti contro il fissismo dell’ideologia, che spesso, sotto la veste delle buone intenzioni, ci separa dalla realtà e ci impedisce di camminare.

Invece siamo chiamati a metterci in viaggio e camminare, come fecero i Magi, seguendo la Luce che vuole sempre condurci oltre e che talvolta ci fa cercare sentieri inesplorati e ci fa percorrere strade nuove. E non dimentichiamo che il viaggio dei Magi – come ogni cammino che la Bibbia ci racconta – inizia sempre “dall’alto”, per una chiamata del Signore, per un segno che viene dal cielo o perché Dio stesso si fa guida che illumina i passi dei suoi figli…

A sessant’anni dal Concilio, ancora si dibatte sulla divisione tra “progressisti” e “conservatori”, ma questa non è la differenza: la vera differenza centrale è tra “innamorati” e “abituati”. Questa è la differenza. Solo chi ama può camminare».

Tu sei la prima stella del mattino

Sublime ed umile insieme, lontana eppur vicina, la più alta e la più profonda, presenza visibile e nascosta, così è pure la luce della sapienza. Il mistico tedesco Enrico Suso (1295-1366) nei suoi scritti ripresi da M. Buber in Confessioni estatiche nomina la Sapienza come la stella mattutina:

«mentre con gli occhi della mente cercava di vederla negli esempi tratti dalla Scrittura, ella in effetti a lui si palesò: si librava in alto, al di sopra di lui in un trono di nubi, sfavillante come la stella del mattino e fulgida come il sole raggiante; la sua corona era l’eternità, la sua veste la beatitudine, la sua parola la dolcezza, il suo abbraccio pienezza di ogni gaudio. Era lontana e vicina, sublime e umile, presente e nascosta; permetteva che si conversasse con lei, e tuttavia nessuno poteva afferrarla. Superava in altezza il più alto dei cieli e toccava l’abisso più profondo. Si allargava possentemente da un estremo all’altro e governava ogni cosa con soavità» (Confessioni estatiche, Adelphi, Milano 2010, 116).

Colui, come è detto nell’Apocalisse di Giovanni, che «tiene le sette stelle nella sua destra e cammina in mezzo ai sette candelabri d’oro» è la lucente stella mattutina. «Una stella sorgerà da Giacobbe», così dicono le profezie del Messia (Num 24,17) ed è Lui stesso ad attestarlo a conclusione dell’Apocalisse: «“Io, Gesù, ho mandato il mio angelo per testimoniare a voi queste cose riguardo alle Chiese. Io sono la radice e la stirpe di Davide, la stella radiosa del mattino”. Lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni!”. E chi ascolta, ripeta: “Vieni!”» (22, 16-17).

La stella mattutina viene, anzi è posta nelle nostre mani, e promette anche a noi come al discepolo: «A lui darò la stella del mattino» (Ap 2, 28). Ma che cosa è posto nelle mani con la stella?

Nelle nostre mani Tu, Tu il grande desiderio, la speranza della vita, il volto della pace, il vento nuovo nelle nostre vele stella che non s’arrende mai.

Ancora “Tu, sempre, dovunque Tu” dice anche un canto dei Chassidim ricordato da Buber nei suoi Racconti e proprio nella celebrazione del primo dell’anno il coro della parrocchia ha intonato un canto che mi ha ricordato quelle parole:

Tu sei la prima stella del mattino
Tu sei la nostra grande nostalgia
Tu sei il cielo chiaro dopo la paura
Dopo la paura d’esserci perduti
E tornerà la vita in questo mare
Soffierà soffierà il vento forte della vita
Soffierà sulle vele e le gonfierà di Te
Soffierà soffierà il vento forte della vita
Soffierà sulle vele e le gonfierà di Te
Tu sei l’unico volto della pace
Tu sei speranza nelle nostre mani
Tu sei il vento nuovo sulle nostre ali
Sulle nostre ali soffierà la vita
E gonfierà le vele per questo mare
(Paolo Spoladore).

Scrive Carlo Betocchi:

Or dunque, stella mia, dei miei anni vecchi,
ma di spirito giovani; stella

So che si deve morire. Ma tu,
ma tu sta’ lieta, brilla,
mòstrati quale sei, stella
che non t’arrendi: vita
che se marcisce il tuo riflesso
in me, tua peritura immagine,
tu in alto resti, libera, felice,
in Dio, dove sei nata, ancor raccolta
(Tutte le Poesie, 357).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

TERZO TEMPO
Mister o Gaffer?

Mister o Gaffer?

Da più di un secolo in Italia abbiamo l’abitudine di chiamare gli allenatori di calcio con l’appellativo mister: i primi a farlo furono i giocatori del Genoa per riferirsi all’inglese William Garbutt, sotto la cui guida vinsero tre campionati (1915, 1923, 1924). Ebbene, i connazionali di Garbutt non utilizzano tale parola in ambito calcistico, bensì le più note “manager” o “coach”, le quali vengono tutt’oggi pronunciate dalla gran parte degli addetti ai lavori della Premier League e non solo. Tuttavia, alcuni giocatori o giornalisti britannici si riferiscono agli allenatori con un’espressione tipica della working class, le cui origini risalgono addirittura al XVI secolo.

Stiamo parlando del cosiddetto gaffer, cioè colui che secondo i dizionari inglesi è alla guida di un gruppo di persone: può essere quindi un caporeparto, un capocantiere, un caposquadra o, per l’appunto, un allenatore. Di conseguenza, a meno che non si tratti di una microimpresa, il gaffer non è il proprietario dell’azienda per cui lavora.

C’è chi sostiene che tale parola sia una storpiatura di godfather e chi, invece, ritiene che derivi dall’espressione “good fellow”; sta di fatto che già nel XVI secolo era usata per descrivere l’uomo più vecchio, e quindi apparentemente più saggio, di una famiglia o di un gruppo di lavoro. All’epoca fu coniato anche il corrispettivo femminile di gaffer, ossia gammer, utilizzato perlopiù in ambito familiare. Seppur ridimensionata nell’utilizzo, la parola “gaffer” è arrivata fino ai giorni nostri, tant’è che nelle prime pagine de Il Signore degli Anelli si parla addirittura di un certo Gaffiere [Qui].

Sin dagli anni ’70 il gaffer è associato al concetto – oggi abbondantemente superato – di “manager all’inglese”, cioè l’allenatore che svolge anche il ruolo di direttore sportivo e/o di talent scout. In questa categoria rientravano senza dubbio Alex Ferguson e Arsène Wenger, i quali continuano a essere chiamati con l’appellativo gaffer dai loro ex giocatori e dai giornalisti: ciò avviene un po’ per abitudine, un po’ per la riverenza che porta con sé tale espressione.
Un altro allenatore non più giovanissimo, nonché attualmente sulla panchina dell’Huddersfield Town, ha intitolato il suo libro The Gaffer: The Trials and Tribulations of a Football Manager: si tratta del 74enne Neil Warnock, che forse ricorderete per il suo atteggiamento alla Liam Gallagher [Qui] e le sue dichiarazioni a favore di Brexit.

Storie in pellicola /
Tempo di Barbie

“Barbie”, fra stereotipi e marketing

Oggi è al secondo posto per incassi e numero di spettatori preceduto solo dal film di Paola Cortellesi “C’è ancora domani”. Avevo deciso di non contribuire troppo a quegli incassi faraonici: eccomi allora approdare su Sky quando il costo del noleggio è sceso a 0,99 €; non avrei speso, permettetemi, un euro di più per vederlo. Avevo deciso così e la visione ha confermato il mio pensiero. Tuttavia, restava la curiosità, per il tanto parlarne, fin dall’uscita che ha riempito le sale (evento incredibile, d’estate), per cui vederlo era quasi inevitabile. Tanto rumore per nulla, o quasi.

Quello che è certo è che è il film “Barbie”, scritto e diretto da Greta Gerwig, è una grande pubblicità per la Mattel e la bambola del secolo (nata il 9 marzo 1959). Quella che tutte prima o poi abbiamo avuto. Sempre che di tutta questa pubblicità ne avesse bisogno. O forse sì, ignorando quanto mercato abbia, di questi tempi, questo giocattolo che, oggi, credo (o almeno spero) pochi acquisterebbero.

All’epoca molte bambine non l’amavano troppo, forse perché era bella e lontana da loro, imperfette e non sempre longilinee, con capelli lisci, biondi e lucidi, rispetto ai ricci, indomabili, crespi e neri di tante di loro. E poi, con la sua vita sottile, aveva tanti vestiti, a differenza di molte, e pure la casa con la piscina. Fino a che molte di noi sono arrivate a lasciarla andare, a non decapitarla più o a non tagliarle i capelli, a ignorarla e a vedersi e piacersi come eravamo, non così male in fondo. Senza di lei. Non era un bel modello.

Ma torniamo al film “Barbie”. L’attrice Margot Robbie, che è anche produttrice del film, ha sempre voluto realizzarlo, tanto che, nel 2018, ha incontrato il nuovo amministratore delegato di Mattel, Ynon Kreiz, per spiegargli perché la sua casa di produzione, fondata con il marito Tom Ackerley, fosse quella giusta per realizzare una pellicola sulla bambola più famosa del mondo. E lo ha convinto.

La Robbie ha lavorato con registi come Quentin Tarantino in “C’era una volta Hollywood”, Damian Chazelle in “Babylon” e, più recentemente, Wes Anderson in “Asteroid City”, grandi nomi con i quali ha sempre desiderato lavorare: sa quindi quello che vuole, sempre. Non da meno il curriculum della Gerwig che ha diretto “Lady Bird” e “Piccole donne”. Nonostante il pedigree dell’attrice e della regista, il film insiste un po’ troppo sui consueti stereotipi sulle donne, sicuramente da combattere, ma è un po’ sempre la stessa musica. Molta, troppa, retorica (quella del “se vuoi, puoi”), poca coerenza, molte le linee narrative che si perdono nei cliché. Qualcuno l’ha pure definita “una perfetta operazione di marketing feminism-friendly”.

Dicevamo, molto rumore per nulla o quasi. Quasi, perché qualcosa, alla fine, si salva. Originali solo l’ambientazione artificiale, Barbieland, e i suoi colori. In particolare, il colore, creato appositamente per il film dal direttore della fotografia Rodrigo Prieto, il “Techni-Barbie”, una tonalità che si trova solo a Barbieland.

Interessante anche la dicotomia mondo ideale (o meglio, del tutto immaginario e quindi inesistente) gestito dalle donne, e il mondo reale, dove a farla da padrone sono invece gli uomini, con lo storico inossidabile patriarcato a dominare.

Divertente anche l’idea che, con una macchina colorata, si possa passare dal mondo ideale a quello reale, peggiore di quello in cui vive Barbie, che, ad un certo punto, si rende conto che i suoi piedi, appiattiti, non possono più reggere i tacchi alti, che si può cadere, che il mondo poi non è così fantastico, che si può invecchiare e morire. Insomma, che il mondo reale è tutta un’altra cosa, con le sue pause e incertezze.

Resta il fatto che a Barbieland, se ogni Barbie può essere amministratore delegato, pilota, scienziata o astronauta, non si sceglie i vestiti, che vanno di pari passo con la sua professione. Rimane un mondo finto, dove a scegliere sono sempre gli altri e non lei. Barbie è bella perché così la vogliono, la disegnano e la vestono, imbevuta di rosa. Non sceglie. Mai. Nonostante il lieto fine.

Barbie, di Greta Gerwig, con Margot Robbie, Ryan Gosling, America Ferrera, Kate McKinnon, Michael Cera, USA, 2023, 114 minuti

Germogli /
Un altro mondo è possibile, ma non mi sembra probabile

“Il sistema collasserà se ci rifiutiamo di comprare quello che ci vogliono vendere, le loro idee, la loro versione della storia, le loro guerre, le loro armi, la loro nozione di inevitabilità. Ricordatevi di questo: noi siamo molti e loro sono in pochi. Hanno bisogno di noi più di quanto ne abbiamo noi di loro. Un altro mondo, non solo è possibile, ma sta arrivando. Nelle giornate calme lo sento respirare.”

Arundhati Roy

 

Per qualche ragione, a partire da questa frase che me l’ha evocata, ho iniziato a farmi domande sull’importanza della moltitudine, intesa come massa, intesa come popolo. Nella mia attività, in piccolo, come nella storia delle vicende umane, in grande.

Per cominciare: il fatto che mi sforzi di andare per approssimazioni successive, cercando di mostrare con scarso successo quello che realmente ho nella testa, non depone a mio favore. Sono tutti e tre vocaboli generici. La massa o “le masse” in politica è concetto soprattutto marxiano, che poi viene collegato alla coscienza di classe per indicare il passaggio da una moltitudine ignara di sè ad un gruppo conscio del proprio comune interesse. Popolo è un concetto comunque lato e dalle svariate accezioni: potrebbe significare la popolazione indistinta di un certo territorio, anche se la filosofia politica divenuta poi retorica terzinternazionalista lo ha fatto diventare sinonimo di “popolo oppresso” oppure di “proletariato”.

“Moltitudine” in teoria è ancora più vago. Di per sè indica un concetto puramente aritmetico: tanti invece di pochi. Eppure alla fine trovo che sia il meno sfuocato, se non altro per il fine che mi prefiggo mentalmente, e che un po’ ritrovo nella frase di Arundhati Roy: quello di dimostrare la potenzialità dei tanti contro i pochi. Parlo di potenzialità, e non di potenza, perchè trovo frequenti dimostrazioni del fatto che tale potenza rimanga inespressa, e quindi resti nell’alveo della potenzialità: qualcosa che potrebbe essere, ma non è.

Giusto per partire da un’eccezione che conferma la regola, cito la vicenda GKN, fabbrica di Campi Bisenzio. La capogruppo decide di delocalizzare, licenzia 185 operai, che non ci stanno e impugnano il provvedimento e nel frattempo occupano la fabbrica in presidio permanente. Alla fine dell’anno, proprio mentre sta per scattare l’operatività dei licenziamenti, il giudice del lavoro su ricorso della Fiom CGIL dichiara che sono illegittimi e li annulla. La guerra non è finita, ma una battaglia è stata vinta. Questo è un esempio di moltitudine che si fa classe, saldata da un evento estremo quale la perdita del lavoro.

La domanda che mi faccio spesso è: possibile che debba accadere un evento estremo per saldare una moltitudine? Possibile che le persone debbano trovarsi spalle al muro per capire che si devono mettere insieme e lottare insieme?

Non mi pare una domanda retorica. Il fatto che in circostanze tragiche – una guerra, un’invasione, una calamità, un sopruso che ti cambia la vita – molte persone si alleino per combattere dalla stessa parte significa appunto che, per converso, in altre circostanze, meno tragiche ma molto più quotidiane, in cui il sopruso e la disuguaglianza si affermano come routine, la maggioranza delle persone non si aggreghi contro l’autore del sopruso, ed anzi più spesso rivolga i propri strali contro chi sta peggio.

Quest’ultimo fenomeno porta a pensare che, finchè le persone ritengono di avere ancora qualcosa da perdere, tendano a subire passivamente o, al limite, a difendersi da sole, ritenendo di essere in competizione egoistica con altri egoisti. Per quanto misero sia il poco che difendono, lo difendono da sole, e la comunanza con altri la trovano esclusivamente nel sentirsi minacciate, in quel poco e misero che hanno, da coloro che quel poco e misero non ce l’hanno. Da coloro che non hanno niente da perdere, appunto, perchè non hanno niente. Da quelli che stanno sotto, non da quelli che stanno sopra.

Immaginate un pentolone pieno d’acqua fredda nel quale nuota tranquillamente una rana. Il fuoco è acceso sotto la pentola, l’acqua si riscalda pian piano. Presto diventa tiepida. La rana la trova piuttosto gradevole e continua a nuotare. La temperatura sale. Adesso l’acqua è calda. Un po’ più di quanto la rana non apprezzi. Si stanca un po’, tuttavia non si spaventa. L’acqua adesso è davvero troppo calda. La rana la trova molto sgradevole, ma si è indebolita, non ha la forza di reagire. Allora sopporta e non fa nulla. Intanto la temperatura sale ancora, fino al momento in cui la rana finisce – semplicemente – morta bollita. Se la stessa rana fosse stata immersa direttamente nell’acqua a 50°C avrebbe dato un forte colpo di zampa, sarebbe balzata subito fuori dal pentolone.

Per chi non l’avesse mai letto o sentito citare, è un passo scritto da Noam Chomsky, linguista statunitense noto per l’attivismo politico radicale. E’ talmente celebre da essere divenuto quasi un luogo comune, ma contiene a mio avviso una grande verità. In GKN è successo che la rana è stata buttata subito nell’acqua bollente ed ha reagito. In tanti altri casi la moltitudine viene messa a cuocere a fuoco lento, fino a che si accorge, troppo tardi, che le hanno tolto tutto.

Nel mio settore (le banche) mi sono ritrovato a fare l’orribile, grossolano, triviale (cinico?) ragionamento che segue: secondo me, stiamo ancora troppo bene. L’acqua è sui 35 gradi, fa caldo ma ancora non scotta. E non parlo dei banchieri, quelli stanno sopra. Parlo dei bancari: la nostra relativa tranquillità economica – riconfermata da un recente rinnovo contrattuale che non ha eguali, quanto a recupero di potere di acquisto – ci rende da un lato immersi dentro una bolla che ci isola dal contesto sociale, al punto che c’è stato più di qualcuno che ha avuto l’ardire di lamentarsi perchè “si doveva ottenere di più”.  (andassero a raccontarlo agli infermieri, o ai vigili del fuoco, o agli addetti ai supermercati). Dall’altro, rende la moltitudine  – e mi riferisco sempre ad una maggioranza, non alla totalità – lamentosa ma inerte di fronte al peggioramento progressivo della qualità del proprio lavoro, e di conseguenza della propria vita. Colpa della pressione commerciale esercitata sugli addetti per massimizzare i profitti degli azionisti, che non bastano mai, e allora le sollecitazioni a vendere con disinvoltura i prodotti più redditizi – che spesso sono i più costosi per i clienti – diventano quotidiane, ossessive, condite talora di minacce. E cresce il ricorso agli ansiolitici, per tollerare la temperatura dell’ acqua nella pentola, che lentamente e inesorabilmente sale. E qui si inserisce la giaculatoria collettiva che disvela molto del rapporto che c’è tra noi stessi e il concetto di responsabilità, ma anche del rapporto che abbiamo con le organizzazioni cui conferiamo una delega: “e il sindacato cosa fa?”(da un anno faccio il sindacalista a tempo pieno. E’ un’attività che richiede un minimo di vocazione laica, altrimenti diventa un lavoraccio: per farlo bene la passione è indispensabile, anche se il disincanto diventa un’armatura necessaria contro le delusioni. E’ un confine molto sottile, quello che separa il disincanto dal cinismo, e conviene cercare di non oltrepassarlo: mentre il disincanto è un antidoto alle disillusioni, il cinismo con il tempo annulla la passione).

Ovviamente tutto ciò vale anche per altre aggregazioni collettive: i partiti, i governi, le amministrazioni locali. Molti hanno interiorizzato a tal punto il principio della delega che, contemporaneamente, la lasciano in bianco (come non farebbero nemmeno con l’addetto quando vanno a comprare una lavatrice) e la percepiscono come fossero i clienti di un servizio: io ti pago una quota e tu mi devi difendere. Lo scambio è privatistico: prestazione e controprestazione. La logica è commerciale. La deresponsabilizzazione, totale.

C’è un problema: che l’attività del sindacato è negoziare con una controparte, ma in alcune fasi il negoziato va sostenuto da azioni di forza, che dimostrino la potenza o anche semplicemente la potenzialità di entrare in conflitto con quella controparte. E qual è la forza di un sindacato, che per definizione rappresenta le parti deboli (cioè non proprietarie di capitale) del tavolo negoziale? La sua moltitudine. E’ quello l'”esercito” di riferimento. Se l’esercito viene “chiamato alle armi”, fosse anche per un’azione dimostrativa (fermare una lavorazione, oppure anche lavorare rispettando alla lettera le regole, che serve spesso a paralizzare il servizio) ma quasi tutti rimangono in caserma, tanto vale prendere atto di una mutazione non del sindacato, ma dei lavoratori, sindacalizzati e non; negare il valore del conflitto ed anzi negare che esista un reale conflitto, un po’ come sta facendo la “nuova” CISL della gestione Sbarra (ora la smetto con i paragoni bellici, di cattivo gusto specie in questi tempi).

Ad ogni modo, chiudo la parentesi sindacale. Può darsi infatti che stia rappresentando una situazione settoriale – anche se il riflusso sul proprio particulare non mi pare esattamente un fenomeno di nicchia. Inoltre, sono certo che molti lettori individueranno come concausa della disaffezione dei deleganti una inadeguatezza e mollezza dei delegati: critica accettabile, a patto che, come ogni critica, sia sostenuta da argomenti e capacità di distinzione.

Non chiudo invece la parentesi sulla responsabilità. Posso io essere considerato responsabile del riscaldamento globale?  Dell’avvento del governo Meloni? Posso essere considerato corresponsabile del ventennio berlusconiano? Posso avere una responsabilità nel fatto che da quattro anni la città sia amministrata da alcuni tra piccoli pregiudicati e persone affette da turbe del comportamento?

La risposta istintiva di chi, come me, crepa di caldo pur di non accendere il condizionatore (questa è una mezza bugia), non vota nè mai voterà missino, non guarda Mediaset, non ha votato naomo, potrebbe essere: no. Non mi sento per niente responsabile. Ho sempre fatto il contrario di quello per cui potrei essere accusato di essermela cercata. All’estremo opposto, la risposta istintiva di chi si carica sulle spalle i mali del mondo potrebbe essere: certo che sono responsabile, come anche della guerra in Ucraina, del conflitto israelo-palestinese, dell’Amazzonia che brucia e dei ghiacciai che si sciolgono. Mentre la seconda risposta può essere la spia che sia giunto il momento per un ciclo di buona psicoterapia, la prima risposta è tipicamente deresponsabilizzante.

Tocca scomodare Gaber: la libertà è partecipazione. Che è il contrario della delega. Se non ho partecipato nel mio piccolo mondo a qualche iniziativa – fosse anche di carattere familiare o condominiale – per cercare di modificare secondo i miei presunti principi lo stato delle cose, non ho fatto altro che delegare in bianco a qualcuno (alla meglio ogni cinque anni, dentro un’urna; alla peggio abdicando persino alla delega, così scelgono gli altri per me) la soluzione dei miei problemi e di quelli del mondo. Se è così, non posso prendermela coi delegati, me la devo prendere con me stesso.

In conclusione, il 2024 inizia sotto lo stesso cielo di piombo del 2023: tante moltitudini che non si fanno classe, se non quando sono condannate a morte, vera o figurata. Tante persone che non si prendono la responsabilità di niente, nemmeno delle piccole cose sulle quali potrebbero esercitare un’influenza – che poi sono quelle piccole cose che fanno la differenza tra dichiarare dei sani principi e praticarli, almeno un paio.

Non lo so se un altro mondo stia arrivando. Le giornate calme in cui si poteva sentir respirare il mondo, secondo me le abbiamo vissute. Per molti sono stati giorni tragici, di sofferenza e di morte. Per me, che ho avuto fortuna, sono state giornate silenziose e appartate, in cui ho potuto sentire il rumore calmo del mondo senza l’uomo. Ma poi è finito, ed è ritornato tutto come prima.

 

Photo cover: NYC, intersection of 57th Street and 3rd Avenue. March 29, 2020. Photo by Charlie Bennet.

Parole a Capo
Giuseppina Biondo: alcune poesie

La parola detta viene prima, molto prima della parola scritta. Ha un ritmo che si sposa con l’andatura dell’uomo, che è un animale nomade imprigionato dalla modernità.”
(Paolo Rumiz)

 

Da grande vorrei rubare baci
– ho pensato qualche ora fa –,
come un’adolescente rubare
baci e sguardi nuovi. Fare questo
di mestiere: perdere il mio
in quello dell’altrə.

Il primo sguardo – oltre
che il primo bacio, oltre
che la prima volta –
non si scorda. Gli occhi
e la bocca ci condannano
a innamorarci ogni volta.

Volta significa torsione,
le prime volte sapete ora
cosa sono.

 

*

 

Io potrei parlare con la schwa, potrei giocarci,
flirtare, conviverci, come fosse
una persona, per un’esistenza intera.
Ma lei deve essere sincera quanto me,
deve sapermi dire, universalmente, tuttə

 

*

 

Basterebbe attenersi al paratesto,
le mappe, intendo, le sintesi e le
semplificazioni per ordinare
il sapere, i concetti agli studenti.
Passano i secoli e a loro serve
avere tutto chiaro, a linee grandi.
Da parte mia, per me, vorrei
che mi anticipassero la lingua nuova,
la loro, la voglio sentire, registrare.
Non è questione di gergo soltanto,
ma di pensiero che si fa linguaggio.
Sento che versificherò da vecchi,
se non mi aiutano sin d’ora.

(Poesie tratte da “Lingua di mezzo”, Interno Libri, 2023)

 

Oppure non aspettare le ventidue,
scrivimi prima che io possa dirti
che hai tardato l’appuntamento,
l’appuntamento del sentirci,
del nostro innamoramento.
Anche senza invito per vederci,
ma anticipa, dovrò chiederti
altrimenti: «Siamo davvero in due?»

*

“La denuncia tasse tari inviata via pec”
ha un suono troppo bello per non essere
il significante principale.
“La denuncia tasse tari inviata via pec”
è l’oggetto di una mail,
fa vedere quanto il suono arrivi casuale.

(Poesie tratte da “Quarantine”, La vita felice, 2021)

 

*

 

La metrica della neve
– vorrei inventare un verso, vorrei
inventarne il metro – si attende,
si aspetta sino a tarda notte,
sino a tardo mezzogiorno;
ma la metrica della neve
avvolge uomini lontani,
lascia precipitare le parole
sino a terre separate
dalle nostre tramontane.

E al centro della metrica della neve,
vi è un’umanità, un ambiente
– vengono subito circondati –
come palla di vetro con neve
– siamo così poeti, lettori e ascoltatori –,
e siamo così.

La metrica della neve
avvolge di silenzio, rende difficile
il passo, l’immagine, il verso;
circonda di quiete il poeta.

Ti immagino così per adesso:
che mi guardi male attraverso
la parete. La metrica della neve
lo sa, che se ti trovi al suo centro,
chiunque ti passa attraverso.

(Poesia tratta da “La contadina”, Puntoacapo Editrice, 2020)

Giuseppina Biondo (Mazara del Vallo, 1990), laureata in Filologia moderna presso l’Università Cattolica di Milano con una tesi su Italo Calvino e la poesia contemporanea, insegna alle scuole superiori, è autrice di libri di racconti e in versi, organizzatrice di incontri letterari denominati #Recitationes e nel 2018 ha fondato e diretto «Il Raccoglitore». Ha esordito in poesia nel 2016 con la raccolta Come si salva un poeta? (Libridine editore), nel 2020 ha pubblicato La contadina (Puntoacapo Editrice) con prefazione di Giuseppe Conte e nel 2021 Quarantine (La vita felice) con prefazione di Gerardo Masuccio. A gennaio 2023 è stata pubblicata la sua raccolta Lingua di mezzo (Interno Libri).
Sue poesie sono uscite su Nuovi Argomenti, Atelier, Interno Poesia, La Bottega di Poesia de «La Repubblica»; e con traduzione in spagnolo a cura del Centro Cultural Tina Modotti.
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Vite di carta /
Abitare una casa che è “Il Cerchio perfetto” nell’ultimo romanzo di Claudia Petrucci.

Vite di carta. Abitare una casa che è Il cerchio perfetto nell’ultimo romanzo di Claudia Petrucci

La casa come luogo che i personaggi attraversano: mi convince la prima risposta della giovane autrice Claudia Petrucci mentre viene intervistata sul suo secondo romanzo da poco uscito,  Il cerchio perfetto.

Su Youtube se ne vede il volto, si percepisce il dinamismo della voce e dei gesti: questa scrittrice milanese nata nel 1990 sembra avere molto da dire su come si scrive un romanzo, su come dipanare temi e tecniche, sul contaminare generi narrativi della tradizione, come il romanzo gotico e il romanzo d’amore, e della contemporaneità, come il distopico.

Da quale idea è nata la storia? Da una casa, appunto. Una dimora situata nel cuore di Milano, nata dal progetto ardito di un giovane architetto che ha inscritto i vani interni di forma circolare dentro le linee quadrate dei muri perimetrali.

Perché la casa come tema di partenza del racconto, insisto a chiedermi. La mia amica Elena ne abita una nuova, grande e bellissima da pochi giorni. Nella mia mi muovo a mia volta e la attraverso con un senso di pace. La casa è la casa.

Petrucci aggiunge che questa nel romanzo è un luogo saturo di emozioni, attraversamenti, misteri e racchiude in sé due tempi della nostra storia recente. I personaggi che ne occupano le stanze appartengono infatti a due periodi separati tra loro da qualche decennio.

Con la prima linea narrativa siamo nel 1985-86: viene abbattuta la vecchia costruzione sita in Via Saterna al civico 7 e al suo posto comincia a formarsi la nuova casa dal progetto originale pensata per due fidanzati prossimi alle nozze.

La costruzione cresce in realtà secondo le variazioni apportate dall’amore: il giovane architetto e Lidia, mentre il fidanzato è lontano, vivono una relazione intensissima, un amore che li spinge a dare alla casa un nuovo fulcro: una vasca nell’atrio che accoglie la luce dal lucernaio dell’ultimo piano e proietta riverberi che vibrano in tutti gli spazi.

A lavori ultimati, nel corso di una festa Lidia cade proprio nella vasca da cui si origina il prodigio della luce irradiata, le è fatale forse un movimento sbagliato, e muore.

Siamo, con la seconda linea del racconto, in un futuro molto vicino:  Milano è da anni intrappolata in una nebbia dai colori aranciati, vagamente apocalittica. Anche la Cop 42 sembra non avere apportato inversioni di tendenza e Milano va verso il disastro ambientale come ogni altra città del mondo.

Da una Roma in cui ancora brilla il sole ma il caldo raggiunge livelli di ferocia, attorno ai cinquanta gradi, si trasferisce qui Irene. Deve occuparsi della casa di Via Saterna: ispezionarla, inventariare mobili e oggetti, organizzarne la vendita all’asta. Operazione piuttosto difficile, anche per un’affermata professionista come lei:  l’ultima famiglia che è vissuta qui ha patito a sua volta vicende infelici e la casa da tempo è vuota.

Irene è una donna adulta ed esperta nel proprio lavoro, torna a Milano, sua città d’origine, interrompendo la storia con Paolo e facendosi ospitare dai genitori nella casa dove è cresciuta con i due fratelli. In solitudine e senza sorprese ritrova il clima della vita famigliare che ha lasciato anni prima per trasferirsi nella capitale.

Ecco che la casa di Via Saterna entra nella sua vita: ispezionandola, la trova piena di inquietudine e di una concezione spaziale che ottunde l’orientamento. La trova abitata da una ragazza che dice di chiamarsi Lidia ed è lì ad occupare abusivamente le stanze per poter studiare e perché non ha un altro posto dove andare.

L’incontro con Lidia è l’elemento imprevisto nel destino di Irene. Mentre il legame tra le due si fa più intenso nelle settimane in cui si predispone la vendita all’asta, e Lidia le fa sentire per la prima volta quanto sia forte in lei il senso della maternità, nei capitoli che si alternano nel libro e ci riportano agli anni Ottanta scopriamo come è nata la storia d’amore dell’altra coppia, di Lidia e dell’architetto. Il racconto della loro relazione va all’indietro, esattamente in senso contrario all’altra linea narrativa.

Il cerchio è perfetto nelle pagine finali, quando si ricompongono lo spazio della casa e il tempo delle vite che su di essa hanno riversato le loro aspettative. Lidia giovane chi è davvero, si chiede il lettore. Cosa la lega all’altra Lidia, la ricca proprietaria caduta molti anni prima nella vasca della sua straordinaria casa? E soprattutto: dove andrà a vivere ora che la casa è stata venduta? Andata deserta l’asta, si è fatto avanti un compratore anonimo.

Il lavoro di Irene sembra concluso, esaurito l’incarico che le è stato dato dall’anziano Avvocato Ferrari. Il quale ora è davanti a lei e le rovescia addosso il colpo di scena, una verità inaspettata che rimette in fila i fatti accaduti decenni prima nella casa di Via Saterna e li lega alla famiglia di Irene e a lui stesso.

La scrittrice fa uso di una lingua che alterna pagine nitide sulla vita di Irene e sulle due grandi città in cui ha vissuto, a pagine dallo stile più allusivo e velato anch’esso di mistero. Magari le giunge l’eco stilistica di un altro straordinario scrittore milanese, Dino Buzzati, nel binomio tra mistero e quotidianità.

Forse è anche per questo che, non solo nel colpo di scena finale ma anche mentre attraversano le stanze della casa in Via Saterna, i personaggi del romanzo sono solo in parte preparati al proprio destino.

Nota bibliografica:

  • Claudia Petrucci, Il cerchio perfetto, Sellerio, 2023

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Parole a Capo
Per una partecipazione solidale e inclusiva (2)

Poesie di Ultimo Rosso: Per una partecipazione solidale e inclusiva

Ricco non è

Ricco non è
chi possiede molti beni,
ma chi sa
di volta in volta
trarne beneficio
– attingendo dai suoi ampi
magazzini – Non è
sapiente o colto chi ha studiato
anche intere
biblioteche – Ma chi sposta
con mitezza i suoi confini
– per fare spazio
ad altri fratellini.

(di Miriam Bruni)

 

Porti la Luce

Vivi!
Vai nel mondo.
Questi muri mi soffocano
io rimango qui.
Ma tu vai,
apriti alla vita.
Bimba mia
porta con te
la forza di tua madre,
il coraggio delle donne.

Piangi,
piangi forte!
Chiamali
che vengano a salvarti!
Io rimango qui,
sotto la casa crollata.
Ma tu…
sei nata dall’amore
nell’ora più buia.
Cerchi solo aria
pura, sana.
Chiedi solo pace,
per poter crescere…

Piangi,
piangi forte!
Ogni respiro è vita…
Tuo padre ti cerca
insegnagli a non odiare…
Sei la speranza
nel domani.

Ora vai: sarai luce!

( di Cecilia Bolzani)

 

Resta con me

Per Julio Cortázar

Resta con me, oggi, perché il vento
scuote il sacro albero del pane
e forse domani non nascerà
la speranza, già debole, di ieri.
Resta con me, la tua mano nella mia
anche se è per illuderci
per non pensare, prima del sonno,
troppo alla nostra fine.
Resta con me, mentre ci si sbrana
per vincere tutti i campionati
e pericolosi corifei distruggono
ogni bellezza, ogni civile desiderio.
Resta con me, oggi: non sentiremo
i richiami della foresta alla ferocia
e guarderemo la coppia di aironi bianchi
che frequentano il nostro giardino.
Con loro voleremo via
verso il regno del nulla.

(di Franco Stefani)

 

Solidarietà.

Solidarietà
è un sorriso e uno sguardo.
È ribollire di sdegno
contro la disuguaglianza.
E insegnarlo per trentasei anni.
È invecchiare
e volere il bene di tutti.

(di Roberta Barbieri)

 

Sotto i ponti

Sotto i ponti
Ci sono
Poveri diavoli
Senza Caronti
Il loro inferno
È già lì
Da tempo
Preparato
Certificato
Col suo brevetto
La catechesi
Della miseria
Morale
L’inferno
Di solitudine
Di nessuno
Che li osa
Toccare
Poi i buoni
vanno in chiesa
Le mani
a lavare
Pure la coscienza
Girovaga
Chiede la penitenza
L’inferno è lì
Per loro
Per tutti quelli
Sotto i ponti
Tra sporco
Fame
E pantegane

 

(di Roberto Dall’Olio)

 

Parole accoglienti

parole carezze
parole in un filo
che lega certezze,
parole che fanno sentire fratelli
che sfiorano piano
e son come brezze,
ti tengono a terra
e raccontano altezze.
Parole che possono
aprir serrature
e fanno leggere
le storie più dure
Parole che abbracciano
e vedono il vero
parlando la vita
che tocca il mistero.

(di Anna Rita Boccafogli)

Con questa seconda puntata speciale di Parole a Capo, si conclude il nostro dono d’inizio 2024. Don Lorenzo Milani diceva che “chi sa volare, non deve buttare via le ali per solidarietà con i pedoni. Deve piuttosto insegnare a tutti il volo.” La speranza è che queste piccole poesie possano aiutare, contribuire a scoprirci più vicini, più umani.
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Parole e figure /
Arriva la Befana

Arrivano le tradizioni legate alla Befana, tante, e, se siete tra quelli che pensano che lei sia una vecchia invidiosa di Babbo Natale, che porta solo carbone, vi sbagliate di grosso. Una storia piena di fascino, “Vostra Befana”, scritta da Barbara Cuoghi e illustrata da Elenia Beretta, edito da Topipittori.

“Se nella calza trovi un pezzo di carbone, non far storie”

L’altra faccia della Befana.

La stessa autrice, in un bellissimo racconto-intervista, confessa, di essere sempre stata una Befana in potenza, se non altro per essere nata il 6 gennaio. Ad esserlo realmente lo avrebbe appreso da molte donne conosciute nella sua vita e distintesi per alcune qualità come la fermezza, la generosità, l’attenzione, la serietà, l’ironia, l’onestà, la concretezza.

“Una bambina seria e timida che per non essere al centro dell’attenzione era felice di condividere i festeggiamenti del suo compleanno con quelli per l’arrivo della vecchina con tutti gli altri, grandi e piccini”, racconta. “Il sei gennaio”, continua, “a casa bussava una Befana molto speciale: una mia zia che andava matta per noi nipoti e che era in grado di trasformare una banale festa di compleanno in una baraonda allegrissima. Tutti i bambini dovrebbero avere almeno una zia così.

La storia della Befana è antica ed esistono sue corrispettive in Francia, Austria, Germania e nei paesi nordici, tutte con diverse caratteristiche salvo però che quasi tutte posseggono attributi stregoneschi e volano di notte su rami di saggina, o su vere scope, incutono timore ma anche benevolenza. Nessuna ha però un bell’aspetto e tutte indossano abiti poveri e miseri.

La vecchina arriva “dal Sempre e dall’Altrove”, descrivendo traiettorie infinite attraverso il gelido inverno traboccante di stelle e di luna. Entra dal camino nelle case calde profumate di festa e di famiglia. Intime, la fatica del viaggio viene ripagata da tanto tepore.

Volano nelle dodici notti che separano il 25 dicembre dal 6 gennaio per propiziare la fecondità dei campi (la dodicesima notte chiude il ciclo dei dodici mesi e dà inizio al nuovo anno). Tale periodo, vittoria della luce sul buio dell’inverno, è sempre stato salutato come un momento di rinnovamento e di rinascita, materiale e spirituale.

In alcune regioni è cattivissima con chi si è comportato male durante l’anno, in altre arriva su un cocchio dorato. In molte tradizioni locali la notte tra il cinque e il sei gennaio è così magica e portentosa che gli animali acquistano la favella e i muri diventano di cacio: “immota tra il sospiro finale delle feste e la ripresa del quotidiano”.

Ovunque, però, la Befana, che conosce tutti uno per uno, non può essere vista o si pagherà questa curiosità a caro prezzo affrontando le sue ire. E poi è invisibile. Potente, travolgente, generosa, concreta, vera, unica.

Riempie le calze, da mettere sempre in bella vista, fate attenzione che non siano bucate! Frutta secca, dolciumi e mandarini per i meritevoli, doni importanti come sapevano bene i bisnonni, carbone, cenere e orecchie d’asino ai disobbedienti.

A tutti dona tempo nuovo, acqua e sole, perché lei è la discontinuità tra buio e luce.

Un tempo universale che lega i vivi ai nonni e agli avi nell’aldilà e rimanda a una dimensione affettiva intima e profonda. Per questo, la Befana si rivolge ai bambini in quanto ultimi discendenti della casa e li protegge perché sono l’energia vitale per il futuro.

Speranza di rinascita, di abbondanza e luce, nel tempo nuovo da gennaio in poi.

Allora auguri a tutti e, soprattutto, auguri a tutte le splendide Befane.

PS: ecco qualche segreto …

Barbara Cuoghi è nata nel 1971 a Modena. Laureata in Biologia e Dottore di ricerca in Biologia Animale, ha svolto attività di ricerca in collaborazione con laboratori universitari nazionali e internazionali e ha al suo attivo contributi scientifici su riviste nazionali e internazionali. Dal 2006 ha l’abilitazione all’insegnamento alla scuola secondaria di primo e secondo grado e, dal 2007, è insegnante di ruolo di matematica e scienze alla secondaria di primo grado.

Elenia Beretta è nata a Bergamo ed è cresciuta esplorando i boschi. Ha conseguito il Master in Illustrazione Editoriale a Milano presso MIMaster nel 2014/2015. Si è trasferita a Berlino nel 2016. Le sue influenze provengono da diversi ambiti come i film, le vecchie fotografie, l’arte e la letteratura. Collabora, fra gli altri, con The New York Times, Süddeutsche Zeitung, The Washington Post, Zeit Magazin, The Financial TimesBerliner Zeitung, Internazionale, HuffPost Uk, Vogue Magazine, Il Sole 24 Ore, Elle Magazine.
Nel 2021 scrive il suo primo libro illustrato come autrice e illustratrice, We love Pizza! in inglese e Wir Lieben Pizza!. È cofondatrice di Drawing Nights Berlin.

Barbara Cuoghi, Elenia Beretta, Vostra Befana, Milano, Topipittori, 2022, 32 p.

 

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara

Immigrati, il problema del secolo:
all’orizzonte un conflitto tra imprese e cittadini

Immigrati, il problema del secolo: all’orizzonte un conflitto tra imprese e cittadini

In Italia gli immigrati arrivati con sbarchi nel 2023 (al 29.12) ammontano a 155.754, mentre nel 2022 furono 103.846 e nel 2021 67.040. Ciò significa che quest’anno sono stati quasi simili al totale dei 2 anni precedenti messi insieme (fonte Ministero dell’Interno). In rapporto alla popolazione sono 0,26%, meno della metà di quanto avvenuto negli Stati Uniti (0,6%) e meno di un quarto della Gran Bretagna dove il flusso migratorio è stato massiccio (745mila), se si escludono i paesi dovuti l’immigrazione è per guerre (Polonia, Russia,…).

Nel confronto internazionale il problema immigratorio italiano appare, pertanto, modesto. Non è un caso che il primo problema che le nostre imprese lamentano è quello di carenza di personale più che di “invasione”. Inoltre si sa che la maggioranza di chi sbarca in Italia ha come obiettivo non quello di risiedere qui ma altrove (Germania,…).

Ciò spiega perché i decreti flussi legali attivati dal Governo italiano siano triplicati nel 2023 sul 2022 (da 43mila a 136mila richieste). Per la verità se fosse stato per le imprese le richieste sarebbero state 4 volte superiori, a dimostrazione dell’enorme fabbisogno in atto.

Il declino demografico acuisce il fabbisogno di lavoratori delle imprese e ciò determina nel lungo periodo, se non governato, un potenziale conflitto tra “ragioni del capitale e del profitto” e “ragioni dei cittadini” che ambiscono ad una convivenza pacifica, la quale è tanto più possibile se l’integrazione degli immigrati avviene con gradualità nelle proprie comunità. Sappiamo infatti che l’incontro tra popoli è di per sé ricco ma deve avvenire anche con gradualità e cura. Sia l’isolazionismo che un flusso minaccioso in quanto gigantesco sono polarità negative.

I macro scenari sui flussi migratori sono, pertanto, due:

  1. uno positivo in cui c’é guadagno per tutti, se c’è gradualità e organizzazione. L’Italia avrebbe più occupati regolari che pagano imposte e contributi e immigrati che contribuiscono a far fronte ai problemi del personale. Le nostre comunità sarebbero più ricche ma anche sicure.
  2. uno negativo che vede un danno per tutti con l’arrivo di molti immigrati illegali, non regolarizzati, sfruttati che portano via lavori poveri ad altri italiani e non pagano né tasse né contributi. Questa seconda via favorisce posizioni xenofobe e aggrava sia le condizioni di finanziamento del welfare degli italiani (pensioni, salute,…), sia l’occupazione degli italiani, in quanto è dimostrato che sia i nuovi servizi avanzati che quelli a modesto valore aggiunto necessitano di un mix di personale formato sia da italiani che da immigrati.

L’Italia dimostra ancora una volta l’ incapacità (soprattutto organizzativa e di apprendimento delle buone pratiche degli altri) di gestire un fenomeno complesso. Essendo diventato un tema da utilizzare come “propaganda elettorale”, viene fatto appositamente “marcire”, secondo il motto “tanto peggio tanto meglio”.

Eppure sarebbe possibile organizzare flussi legali e ordinati, soddisfare le richieste delle imprese, integrare al lavoro gli immigrati  – in Germania il 53% di chi arriva poi lavora – con beneficio di tutti (italiani e immigrati).

La ripresa della natalità è benvenuta ma avrà effetti sul mercato del lavoro tra 20 anni.

Sbarchi in Italia dal 2016 al 2023 e decreti flussi per immigrazione legale:

L’uscita della Gran Bretagna dall’Europa consente di capire quali sono le politiche immigratorie di un paese che non è più in Europa, con un passato coloniale e con ancora solidi legami col Commonwealth, da cui proviene ancor oggi la gran parte degli immigrati (indiani e pakistani), preferiti agli stessi europei e i cui cittadini hanno qualche privilegio in più: possono per esempio votare qualora abbiano la residenza (in attesa della cittadinanza) mentre gli europei non possono.

Nel 2015, prima del referendum sulla Brexit, gli immigrati furono 329mila. Nel 2019 furono 245mila e Boris Johnson aveva promesso che si sarebbe ulteriormente scesi. In realtà è avvenuto il contrario: nel 2022 il saldo migratorio è stato record e pari a 745mila unità (immigrati meno emigrati). Una cifra enorme se si pensa che negli ultimi 2 anni la popolazione britannica è cresciuta di 1,2 milioni e dal 2000 ad oggi gli immigrati regolarizzati come residenti sono stati 7 milioni, facendo salire la popolazione da 59 a 66 milioni.

Il Governo inglese non sa cosa fare, pressato da un lato dalle imprese che cercano manodopera e dall’ altro dalla maggioranza degli elettori che vogliono ridurre il flusso degli immigrati. Il ministro dell’Interno Suella Braverman (peraltro di origine indiana), un “falco” sull’immigrazione, ha dichiarato che bisogna addestrare i cittadini britannici a fare tutti i lavori finora svolti da immigrati. Nel frattempo il Governo ha concesso altri 45mila visti temporanei nel settore agricolo e la previsione è che il numero salga a 70mila. Stessa situazione nella pesca dove i visti di lavoro sono aumentati del 119% a 300mila nell’ultimo anno. Il partito laburista all’opposizione ha definito “caotica” la posizione del Governo, che nell’estate scorsa aveva limitato il diritto degli studenti stranieri a farsi accompagnare da familiari.

La grande immigrazione è dovuta anche al dinamismo dell’economia inglese, che ha un tasso di occupazione di 14 punti superiore a quello dell’Italia (75,6% vs 61,5%) equivalente a 33 milioni di occupati (di cui 8,4 a part-time) su 66 milioni di britannici.

Un tasso di occupazione di queste dimensioni per l’Italia (con 59 milioni di abitanti) significherebbe avere 29,5 milioni di occupati (anziché i 23,66 che abbiamo), cioè 6 milioni in più. Ciò spiega anche la forte crescita del salario minimo, salito da 6,5 sterline all’ora nel 2014 a 10,4 nel 2023 (come dire da 7,5 euro a 12 euro).

La forte affluenza degli immigrati aveva portato il primo ministro Rishi Sunak (induista di origini asiatiche) a proporre – come la Meloni con l’Albania – la spedizione per via aerea degli illegali in Ruanda, ma il paese africano ha risposto picche per cui la proposta è naufragata, anche per contrasti interni agli stessi conservatori.
A questo punto il governo è alla ricerca di qualche altro vincolo all’immigrazione, come alzare la soglia del visto di lavoro da 26.200 a 35.000 sterline lorde all’anno per consentire l’ingresso solo a professionisti qualificati, evitando la dipendenza dal “lavoro a basso costo”. Pare che anche il Labour Party sia d’accordo, ma la proposta si scontra con la realtà, che vede le imprese richiedere soprattutto lavoratori con salari dalle 20mila alle 30mila sterline all’anno (23mila-35mila euro). Si propone anche di agganciare le retribuzioni all’inflazione per le badanti e assistenti alla persona che ora sono pagate 20.960 sterline, ma proibendo loro al contempo di portare con sé famigliari.

Parole a Capo /
Per una partecipazione solidale e inclusiva (1)

Poesie di Ultimo Rosso: Per una partecipazione solidale e inclusiva

Il vecchio gioco nuovo

Nel cortile di ghiaia
si rincorrono scherzi
braghe corte e risate

sul muretto un anziano
osserva lo spasso
la biografia sul volto
la distanza dall’origine
tra pieghe giallastre
di tempo e di luce

è un giro di vite la vita
come punti di maglia
sull’uncinetto che avanzano
a chiudere il cerchio

un bimbo si accosta
si avvolge il passato
al cuore fanciullo
in bianco e nero
diventa il cortile all’istante

la tenera mano
conduce il gioco
cade il bastone
vuoto è il muretto
l’anziano insegna
il gioco vecchio
nuovo del bimbo

(di Maria Mancino “Maggie”)

 

Inesorabile inverno

Inesorabile inverno
ha ormai spogliato gli alberi,
dalle finestre antiche
ci inonda
di precoce penombra,
mentre lo scorgo
nelle tue mani fragili.
Mi insegnarono
del lavoro e della vita,
mi lasciarono cadere
per riprendermi ogni volta,
e tenermi al sicuro.
Vorrei sentirti raccontare ancora
della forza della quercia
e della frescura dei faggi,
prima di dormire.
Adesso tocca a me vegliare,
quando la luce
t’abbandona all’improvviso,
guidare i passi incerti,
illuderti di quando
sarà ancora primavera,
e tenerti al sicuro.
Lo scoppiettio dei ceppi
ci fa teneramente compagnia,
or che mi basta
anche il silenzio,
per non vederti andare via.

(di Giovanni D’Alessandro)

 

 Il viaggio
Vieni, siediti accanto a me,
intreccia i tuoi occhi
con i miei.
Voglio cancellare
la sabbia del deserto,
il sale del sangue,
l’urto delle onde.
Vieni, siediti accanto a me,
intrecciamo le mani,
dimentichiamo
insieme
il dolore dell’abbandono.
(di Maria Angela Malacarne)

 

Poesia per la pace

L’ho ucciso mamma
Mi ha guardato negli occhi
E ho sparato
Son sparito in quell’istante
L’ho ucciso mamma
E non so nemmeno
Chiedere perdono
Qui non me lo insegnano
So che lo stai pregando tu
Quel Dio rifugiato nella paura
Di non riabbracciarmi più.
L’ho ucciso mamma
E insieme a lui
la mia bellezza.
Ora solo iride nero pupilla
Il mio sguardo arreso
Alla guerra.
Dove sei pace?
Mamma dimmelo tu
Tra le lacrime e i silenzi
Che forse ne han cancellato
Il senso
Il suono
Il Significato
L’ho ucciso mamma
Ero io dentro quel proiettile
Sono esploso
Vuoto
Mi libro nel cielo infernale
Delle bombe
Senza tombe
Senza nome
ora cosi mi sento.
Perdonami mamma
che io non lo so più fare.

(di Lidia Calzolari)

 

Eppure un giorno non lontano

Eppure un giorno non lontano
anche qui c’era la guerra
sotto le bombe non morivano i soldati
ma gli affamati.
Polvere e macerie cementavano
la solidarietà della miseria,
fette di minestre in brodo
diventavano la cena dei bambini.
Le mani scavavano sotto i calcinacci
mentre altre mani sollevavano
gli inermi, inerti nel dolore
di in mondo in pezzi.
Oggi nello stesso mondo
le stesse scene di guerra,
braccia sollevano da terra
ammassi di carne umana.
Crollano i muri
mentre altri si erigono,
l’essere umano epigono di sé stesso
accaparra potere senza né essere e né avere.
Gli ultimi, gli esclusi,
chiunque soffra sulle braci di un inferno
creato a bella e posta da un despota
è mio fratello.
Magari un giorno questa moltitudine
abbraccerà la terra
e scaccerà per sempre
quella sciagura che tutti chiaman guerra.
(di Cristiano Mazzoni)
E’ appena avvenuto il passaggio ad un nuovo anno, il 2024. L’anno che abbiamo appena lasciato ha visto la nascita di nuove terribili guerre. Ho chiesto ad amiche ed amici dell’Associazione Ultimo Rosso (o vicine ad essa) cosa pensassero della mia proposta di pubblicare una poesia che parlasse di Partecipazione, Solidarietà, Inclusione. Tre “parole” che nella hit parade del gradimento sono in ribasso. La risposta alla mia proposta è stata alta, nonostante il poco tempo che avevano a disposizione. Quindi, gli “speciali” saranno due. Oggi e domani. Buona lettura e Buon 2024. Che la Pace, la Solidarietà, la Partecipazione e l’Inclusione  ritornino ad essere in primo piano.
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Ancora dal satellite

Ancora dal satellite

E cosa vedo, quando accendo la luce in corridoio.

Sotto la porta, un foglio. La vicina, Ada, non questi dello stereo ma l’Ada, quella ieri in terrazza con le lenzuola: un foglio scritto a mano, da lei, Se puoi mi porti in centro, domattina? Ho l’auto. Grazie. Ada.

Non ho neanche la Teresa, domattina: ha qui le sue nipoti, di passaggio, solo domani qui al satellite. E certo, che accompagno l’Ada in centro.

Ascolto i suoni, poi vado a dormire.

 

La cugina di Ada sta in via Assiderato, appena dentro le mura: e in auto dal satellite a porta d’Amore, a via Assiderato, con Ada nel traffico prenatalizio, nel sole debole, adagio, imparo che primo Ada non guida più, ha un’età, non si fida, i bus son pieni e in taxi guai; due, il giorno di Natale è da sola ma certo non si azzarda a disturbare nessuno . Per cui, e tre, da sua cugina Lorenza lei ci va oggi: anche la Lorenza è da sola, il giorno di Natale. Passiamo il ponte sul Volano e le dico Quattro, Ada:  siamo libere anch’io e la Teresa. Quattro siamo. Un pranzo di Natale improvvisato, da me o da te o dalla Lorenza, qué te parece, Ada?

La Yaris nel cortile della Lorenza, caffè e ciambella nella sua cucina. Affare fatto per Natale. E’ uscito il sole. Faccio un giro in città e vi lascio sole, cugine, torno tra un paio d’ore. E la Lorenza dice che se ho tempo, se ho voglia, c’è un lavoro per me dopo Natale. Liberare una casa qui vicino. E leggere a una signora in via Romei, via Contrari, quasi in piazza, una signora con una bella casa e tutto l’aiuto, ma non chi legge per lei, che lei non riesce più.

 

Cammino dalla parte del sole. Non ripartirò da Ferrara tanto presto, mi sa. Non vado in piazza. Mi perdo un po’ nei vicoli, nei ciottoli, nella luce imperterrita. Poi entro in una chiesa.

Mai vista prima. Neanche ai tempi della Consolazione, che è dall’altra parte della città e di certo qui non passavo mai; mio padre ci portò in Belgio che avevo undici anni, a Ferrara non tornai quasi più, e nessuno in famiglia andava in chiesa. Io nemmeno.

Dentro la chiesa, nessuno. Legno e oro vecchio, un refolo d’aria muove un lampadario che pende dalla navata in un moto lento, circolare, continuo. Siedo qui, come dentro una scultura cava. Nessun fedele, nessun prete. Solo, presso l’altare, un angelo.

Un angelo di marmo. Torsione lieve del busto, l’ala, il moto che scopre un ginocchio flesso, che danza nelle pieghe della veste e le mani unite in un gesto di gioia, quasi anteriore alla preghiera.

Poi uscirò di qui e penserò a Ferrara, son qui per poco e non conosco quasi nessuno, penserò a Rocco che mostra la piaga nella gamba, Rocco il suo cane e la polvere, la strada, e all’angelo della storia che guarda indietro, che ha una tempesta impigliata alle ali e non può più chiuderle. Penserò a tante cose di passaggio, al satellite, ma ora non penso a nulla. Ascolto i suoni e la penombra e so, anzi ne sono certa, che quest’angelo io lo ho già incontrato: dove non so ma è così familiare, così prossimo. Poi torno fuori, nella luce imperterrita.

 

Il tempo va verso l’Epifania. Capodanno sarebbe ogni giorno, a guardar bene, ma qui siamo. Anno nuovo. Nebbia. La casa prestata è quasi vuota. Il mio tempo qui va accorciandosi, ma intanto le giornate si allungano.

Di mattina vado dalla Teresa. Verso sera cammino, scanso piazza e luminarie e via Mazzini affollata, attraverso volte e vicoli e vado a leggere. Via Contrari, Voltapaletto, un angolo vertiginoso visto dall’alto, da dentro, dalle tende socchiuse rosso spento. La signora in un salotto pieno di libri, di quadri.
Non mi vede, ma sa che sono io. So chi sei, mi dice dalla sua penombra. Sei l’amica di Ada e di Lorenza. Accomodati e dimmi il tuo nome.

Mi chiamo Voce, dico.

Il libro lo sceglie lei, senza alzarsi dall’ottomana su cui siede; io, invece, io scelgo cosa leggere. Posso sfogliare, mi dice la signora: scegliere pagine, frasi, così come mi va.

Respiro e leggo frammenti – sono una voce, tutto qui.

Neve in via Salinguerra, un’allieva infermiera, una bicicletta appoggiata a un muro di cinta. La notte. La tragedia, la rabbia. Resistere in segreto. E schegge di una gioia irriducibile. La doppia, opposta schiera di cento fondachi e botteghe e dentro ciascuna “una piccola, cauta anima, intrisa di mercantile scetticismo e ironia”: in via Mazzini, un uomo sopravvissuto alla Shoah. Certi vetri celesti, la risacca del tempo e le parole.

In piedi accanto alla finestra, leggo. Guardo fuori, giù in strada quell’angolo incredibile, non euclideo, poche luci, il fiato ai vetri. Lei nella sua penombra, lei queste storie le sa tutte: uguale a me muove le labbra ma in silenzio, come anche lei leggendo. Siamo voce, ecco tutto.

E’ stato quando già stavo per andarmene. Prima di cena. Torna ancora, mi ha detto, e dammi la mano. Eccomi, dico, ed è allora.

E’ in quel momento che vedo la foto. In bianco e nero, una scala monumentale e una bambina in grembiule nero. E accanto a lei un angelo di marmo. Quell’ala. Il panneggio, il ginocchio, come un principio di danza estatica.

La foto è piccola e in penombra, ma quell’angelo. Forse. E una bimba che avrei potuto essere anch’ io, a scuola avevo un grembiule uguale.

Quest’angelo, dico, questa statua. Della bimba non chiedo, non dico.

E’ una foto di cinquanta, dice la signora, cinquanta e passa anni fa. L’angelo, chissà dove sarà adesso. Fu scattata alla Cassa di Risparmio, mi dice: tu sei di fuori, se non sai come è andata con la Cassa di Risparmio, che fine ha fatto, beh insomma non lo chiedere a me, che il medico mi ha proibito di incazzarmi. Con rispetto parlando. Maledetti. E poi voglio durare ancora un po’, e tu che torni a leggermi di Clelia Trotti.

Tutto passa, penso mentre attraverso la Ripagrande. Anche la nebbia passerà. Ma certo che lo conoscevo, quell’angelo. In chiesa no, ma in banca mi ci portava, mia nonna, ai tempi della Consolazione. Con un libretto di risparmio grigio. E un giorno anche la maestra, con tutta la mia classe.

Il satellite emerge dalla nebbia, tutto passa ed è qui – voci, apparizioni, case vuote. Ogni giorno un’epifania.

In copertina: Fino all’ultimo Luis Borges (già cieco a 56 anni) era abituato a farsi leggere i libri dagli amici. Nella foto la lettrice è una giovane María Kodama, legata a Borges da un sodalizio prima intellettuale quindi affettivo per 33 anni e che curò la sua eredità intellettuale come presidente di una Fondazione internazionale.

Per leggere gli altri racconti di Silvia Tebaldi clicca sul suo nome.

Le storie di Costanza /
L’oracolo di Ettore per l’arrivo del nuovo anno

Le storie di Costanza. L’oracolo di Ettore per l’arrivo del nuovo anno

La contessa Maria Lucrezia Cenaroli, detta Malù, era nata a Pontalba nel 1960. Abitava a Villa Cenaroli da sempre e là continuava a passare le sue giornate avvolta nella testardaggine che le impediva di trasferirsi in città, dove avrebbe potuto godere di un intero palazzo liberty nel centro storico ed essere vicina alla Casa di Cura Figlie di Santa Bertilla, dove curavano le sue magagne.

Villa Cenaroli di Pontalba era in origine una costruzione difensiva a ridosso del fiume Lungone. Del preesistente castello si riconosce ancora un’antica torre. Fatto costruire nel 1701 dalla potente famiglia dei Cenaroli, fra le più antiche di tutta la Lombardia, il complesso è composto da vari fabbricati. Il portale d’ingresso con colonne doriche in stucco si affaccia al paese ed è posteriore rispetto alla Villa vera e propria, che si vede in tutta la sua bellezza solo costeggiando la riva del fiume.

La splendida prospettiva di cui si può godere stando sulle rive del Lungone è merito del giardino, che scende terrazzato verso il fiume, dapprima con due rami interrotti da un piccolo giardino pensile all’italiana e poi con un’unica rampa fiancheggiata da statue di divinità greche. È uno dei pochi esempi del genere in Lombardia. Il complesso è composto anche da un’incantevole corte rurale”.

Così si legge sulle guide turistiche della zona e proprio lì si vantava di abitare da sempre Malù.

La contessa riceveva spesso gente di Pontalba per l’ora del tè. Tra le persone di cui apprezzava particolarmente la compagnia c’era Costanza Del Re, la signora che coltivava ortensie in via Santoni Rosa e scriveva poesie per i suoi amici e per i suoi tre nipoti adorati.

A Malù piaceva farsi leggere da Costanza le poesie. Le assaporava insieme al tè aromatico e dolce proveniente dall’India, che Serafina preparava con molto cura e accompagnava con i biscotti alle mandorle fatti da Camilla, la fornaia del paese. Spesso, quando Costanza andava da Malù, si portava anche Rebecca, la più grande dei suoi tre nipoti. Rebecca sembrava divertirsi molto in quell’ambiente.

Villa Cenaroli era magnifica. Gli interni erano affrescati, le stanze dotate tutte di camino a legna e le grandi finestre coi serramenti scuri davano sul parco che costeggiava il Lungone. D’estate si vedevano splendidi animali e d’inverno un manto di neve bianca che scendeva fino alle rive del fiume e incantava per la sua purezza e la sua capacità di addolcire ogni forma.

Mentre Malù non aveva un particolare amore per la gerarchia sociale e non le importava nulla che la chiamassero col suo titolo nobiliare (contessa), né tanto meno col suo nome per esteso (Maria Lucrezia Cenaroli Della Fontana), tutto questo importava molto al suo maggiordomo.

Ettore era amante dell’ordine, delle cerimonie, delle stoviglie e delle posate d’argento, delle visite di persone altolocate e più di tutto della gerarchia domestica. Una volta aveva licenziato un giardiniere perché, dopo che Malù e la sua cameriera erano cadute dalle scale, si era permesso di fare commenti impertinenti sulla scena incresciosa che si era appena svolta.

Anche Ettore aveva però una preferenza, per la quale soprassedeva ai suoi severi principi: Costanza Del Re. Quella donna era particolare e ad Ettore piaceva. C’è sempre un’eccezione che conferma la regola e Costanza rappresentava bene quell’eccezione.

Pur non essendo nobile e proveniente da una famiglia ricca, era molto educata e istruita. Parlava bene, scriveva bene ed inoltre era bella: con gli occhi un po’ verdi e un po’ nocciola, come i ricci delle castagne e i laghetti dove vivono le rane.

Arrivava spesso a Villa Cenaroli per l’ora del tè e Ettore la aspettava sulla porta, la salutava, le prendeva la giacca, che sistemava su una delle grucce del guardaroba, la accompagnava nel soggiorno, dove Malù la stava aspettando per il tè.

Con Rebecca faceva la stessa cosa, anche se la ragazza gli piaceva meno. Rebecca si vestiva in maniera troppo strana, con gli anfibi, i jeans slavati e rotti, delle magliette molto colorate e una giacca a vento bianca. Poco adatta a Villa Cenaroli, sopportabile perché era la nipote di Costanza. Tutto ha un suo prezzo.

Rebecca, da parte sua, sapeva di non piacere molto a Ettore, ma non faceva nulla per invertire la rotta di questa insofferenza, anzi si divertiva a scandalizzare il povero maggiordomo con piccoli stratagemmi che inventava ad ogni occasione.

Ad esempio un giorno si presentò con una minigonna nera a pieghe che le copriva solo il sedere, un’altra volta arrivò con una carota in tasca.
– Dalla alle anatre del parco – gli aveva detto mettendogliela in mano.

Un’altra volta ancora era arrivata con in braccio una gatta tartarugata.
– Questa è Lucy. Oggi non voleva stare a casa, così l’ho presa con me. Trattala bene, perché se non le sei simpatico scappa e non la trovi più.
Uffa, ci mancava la gatta Lucy a complicare le giornate del povero Ettore.

Il giardiniere sopportava tutta questa impertinenza solo perché Rebecca era la nipote di Costanza, altrimenti avrebbe trovato il modo di liberarsene, magari sostituendo lo zucchero del tè con qualche mistura di zucchero e pepe, di zucchero e zenzero, di zucchero e curcuma. La ragazza era infatti molto schizzinosa con i cibi e spesso si limitava a dire: – No grazie, non ho fame.

A volte al gruppo si univa anche Cecilia, la sorella di Costanza e madre di Rebecca, Valeria e Enrico. Cecilia si divertiva a predire il futuro guardando in una sfera di cristallo. Nessuno prendeva troppo sul serio la cosa, men che meno lei, che diceva sempre che la sua sfera era solo un gioco per passare il tempo.

Sta di fatto che c’azzeccava sempre e quello che vedeva nella sfera di cristallo, si avverava. A volte l’oracolo si concretizzava subito, altre volte dopo molto tempo. Alcune volte era molto concreto e dettagliato, altre volte prendeva vita nella sfera in forma allegorica o di metafora … ma tant’è, si avverava.

Fu così che, un pomeriggio di dicembre, Cecilia predisse il futuro a Ettore, guardando nella sua sfera. Questo fu l’oracolo di Ettore per l’inizio del nuovo anno:

“Nel cristallo c’è una donna giovane in arrivo. Sta volando con un cavallo alato bianco candido. La vedo atterrare nel parco dal lato del Lungone, scendere davanti alla scalinata che porta a Villa Cenaroli e cominciare a salire i gradini uno alla volta. Le sue scarpe sono bianche, il suo abito è di tulle le sue mani brillano. Salirà per Ettore fino al poggiolo e poi si fermerà. Il tempo si fermerà, il cielo diventerà di ghiaccio. Dal cielo arriverà una colomba d’oro, i fiori del giardino diventeranno gioielli, gli alberi statue d’alabastro. Questo vede la sfera: fuoco sopra il ghiaccio, vento sopra la terra.”

Al povero Ettore venne la tachicardia, corse in cucina senza commentare con alcuna parola l’oracolo, si sedette sulla sua sedia preferita e bevve un bicchiere d’acqua, poi un secondo, poi un terzo, ma il fuoco che gli arroventava le budella non volle sapere di andarsene. Allora corse nel parco e si sedette sulla neve. Poi si coricò nella neve e poi si rialzò e tornò in cucina. I vestiti erano tutti bagnati, li tolse e li appoggiò su una sedia vicina.

Rebecca preoccupata dall’aver visto la reazione di Ettore all’oracolo, si precipitò in cucina a vedere come stava. Aprì la porta e lo vide in mutande seduto su una sedia.
Ettore si girò a guardarla, strabuzzò gli occhi e poi si accasciò svenuto a terra.

Mentre Rebecca cominciava a urlare spaventata, Ettore riprese per un attimo conoscenza e vide un angelo che lo stava soccorrendo, allora si lasciò andare definitivamente negli abissi, mentre Rebecca, che quel giorno era interamente vestita di bianco, urlava sempre più forte.

Fu quello il momento in cui tutti a Villa Cenaroli capirono che l’oracolo di quel Natale si era avverato subito. Quella fu la conferma definitiva che la sfera di Cecilia non sbagliava mai. Rebecca vestita di bianco come un angelo arrivato dal cielo, aveva soccorso il povero Ettore precipitato al suolo.

Costanza e il suo mondo sono solo apparentemente diversi e distanti dal mondo che usiamo definire “reale”, e quasi sovrapponibili ad ogni mondo interiore.
Chi fosse interessata/o a visitare gli articoli-racconti di
Costanza Del Re, può farlo cliccando [Qui]

Ciò che ho perduto

Ciò che ho perduto

Guardo fuori dalla finestra. C’è fermento per le strade: la gente corre, schiamazza, scherza, balla, ride.

Voglia di baldoria, di dimenticare, di ricominciare.

Un brindisi al nuovo anno. Che porti fortuna, salute, amore, serenità, pace, e chi più ne avrà più ne metterà.

Si sente nell’aria. L’elettricità scorre come la speranza, che come il tempo non muore mai.

Il tempo, appunto. Il tempo che non si ferma e prosegue il suo cammino senza fretta, secondo dopo secondo.

Il tempo ordina, il mondo esegue.

Ancora poche ore e ci siamo. Quando l’attesa diventerà il nuovo presente. Senza più appello, senza più scuse.

È l’eterno gioco del tempo, che si burla di tutto e tutti offrendo bollicine di speranza e lustrini d’illusione, mentre si porta via un altro anno. L’ennesimo di un’esistenza che non ne vuole sapere di cambiare, di cambiare per davvero.

Come si dice: un anno in più lasciato ai ricordi, un anno in meno in pasto ai desideri.

Eppure è l’unico modo, e il tempo lo sa bene.

E allora brindate all’ignoto, all’anno che verrà. Cavalcate il toro impazzito, prendetelo per le corna, ubriachi di nuovi sogni da sognare, nuove montagne da scalare, pronti a farvi infilzare, inconsapevolmente disperati, distratti, invecchiati.

È soltanto un anno in più. E quanti saranno alla fine? Poche manciate? Nient’altro che una fottutissima vita intera!

 

Ma io no. Stasera resto a casa. Lontano dal grande carrozzone dorato. Nessuna patetica esagerazione, nessuna pilotata trasgressione, nessuna pia illusione.

Perché nulla sarà mai dolce come ciò che è già stato. E dolce, ancorché amaro, lo è per davvero: chiudere gli occhi per rivedere un’ultima volta quel che ho lasciato.

Dunque così sia.

Mi volgerò indietro, resterò in silenzio a salutar come si deve l’anno passato e sigillar nel cuore ciò che ho perduto.

In copertina: un’opera di Paul Klee

L’impatto dell’Intelligenza Artificiale sarà devastante:
contestare alla radice il dominio privato delle nuove tecnologie

L’impatto dell’Intelligenza Artificiale sarà devastante: contestare alla radice il dominio privato delle nuove tecnologie

Non sarà né intelligente, né artificiale, per ora, ma certamente inquieta, e non poco. Parlo, ovviamente dell’intelligenza artificiale, in specifico quella generativa, che è stata rinonimata come “pappagallo stocastico”, nel senso che essa è in grado di costruire concatenazioni e accostamenti sensati tra le parole, partendo dalla mole enorme di dati a sua disposizione e che si avvale di numerosi interventi prodotti da esseri umani (come vedremo dopo).
E’ però capace di apprendere in proprio e mettere in atto comportamenti e decisioni “autonome”, al di fuori del controllo umano.
In questo senso, siamo ben al di là di quanto finora avevamo considerato come la frontiera più “avanzata” dell’utilizzo delle tecnologie informatiche, quello rappresentato dalle piattaforme digitali delle grandi aziende hi-tech, a partire dalla Big Five (Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft).

Come ha spiegato magistralmente Shoshana Zuboff ne “Il capitalismo della sorveglianza”, il prodotto di tali piattaforme sono le previsioni di comportamento degli utenti, tramite l’immissione dei loro dati, che vengono vendute agli inserzionisti di pubblicità. Non a caso esse continuano a mantenere l’accesso gratuito e ricavano la gran parte dei propri profitti dagli introiti pubblicitari. In buona sostanza, si colonizza l’esperienza e l’identità umana come bene da collocare sul mercato, come merce tra le altre.
Ora, con il passaggio all’Intelligenza Artificiale generativa, quella resa famosa da Chat GPT, nel momento in cui costruisce un’interazione diretta con le persone praticamente su qualsiasi argomento, si danno istruzioni ad altri dispositivi, si rafforzano sistemi di apprendimento automatico, si compie un ulteriore salto di qualità. Si può dire che si passa dal rubare l’identità umana alla possibilità di poterla plasmare.
Basta dare uno sguardo al suo funzionamento: essa è sostanzialmente in grado di dialogare e rispondere ai quesiti posti dalle persone, sulla base del fatto che  i programmatori/sviluppatori costruiscono algoritmi che fissano alcune regole e vincoli di base e, soprattutto, danno istruzioni sulla consultazione di un numero elevatissimo di dati per far sì che l’Intelligenza Artificiale generativa produca risposte consone e coerenti.

Quello che viene fuori, alla fine, è che siamo in presenza di un dispositivo che, grazie al lavoro dei programmatori e degli sviluppatori, è in condizioni di veicolare una propria visione del mondo e che essa è sostanzialmente privatizzata, nelle mani dei programmatori e della proprietà da cui gli stessi dipendono.
Una visione del mondo che può essere facilmente manipolabile
a seconda di quelle che sono le regole di base e ciò che si dà da leggere all’intelligenza artificiale.
Una visione del mondo che è tendenzialmente conservatrice, nel senso che si alimenta di dati relativi a ciò che è già accaduto e che incorpora i pregiudizi in esso presenti.

Per non essere troppo astratti, si può fare riferimento alle intenzioni di Elon Musk, il visionario e reazionario multimiliardario che (dapprima), per evidenti ragioni di bottega, ha fintamente messo in guardia dai rischi di un’accelerazione dello sviluppo dell’intelligenza artificiale, mentre (ora) annuncia la nascita di una propria intelligenza artificiale generativa, Grok, ancora in fase sperimentale.
Forse esagero ma,
considerando l’adesione al trumpismo di Musk, non si può escludere che egli pensi di potere utilizzare la “sua” Intelligenza Artificiale per propagandare contenuti fortemente orientati, magari facendole “mangiare” le innumerevoli pagine di think-thank e siti egemonizzati da una destra estrema, razzista, patriarcale e omofoba.

C’è poi un altro tema, assolutamente rilevante, che è quello relativo alla possibilità che l’IA sfugga completamente al controllo umano.

Basta prendere in considerazione una forma “debole” di intelligenza artificiale, quella orientata da obiettivi predefiniti e progettata per eseguire compiti singoli. Per esemplificare, è quella che interviene nel gioco degli scacchi: anch’io mi diletto spesso a giocare e a perdere “contro il robot”. Del resto è noto che l’Intelligenza Artificiale vince sempre e comunque con i grandi maestri di scacchi: per loro non c’è nessuna possibilità di prevalere, neppure “per caso”, il divario è ormai incolmabile. Ma gli scacchi sono solo un esempio;  la I.A. interviene anche nel gioco ancor più complesso GO, nella guida autonoma dei veicoli (ma anche nelle armi azionate da robot e droni), nel riconoscimento facciale e anche nelle attività di Borsa. Ora, già a questo livello, emergono problematiche assolutamente inedite e che pongono questioni molto rilevanti.
E’ già sufficiente citare il grido d’allarme che, a più riprese, è provenuto dalla Banca d’Inghilterra, che ha individuato diverse tecniche di manipolazione dei mercati borsistici da parte d
ei sistemi che utilizzano l’intelligenza artificiale, come il fatto di potersi coordinare in modo autonomo con un’ altra attività di investimento, raggiungendo l’obiettivo, per entrambe, di guadagnare da questa strategia. Detto in altri termini, l’I-A. è lasciata interagire con l’ambiente per raggiungere il proprio obiettivo, solitamente la massimizzazione dell’investimento, senza, ovviamente, guardare in che modo questo viene perseguito, costruendo, per esempio, informazioni fittizie sulle possibili quotazioni dei titoli anche con pratiche illegali.

Dobbiamo inoltre tenere conto che siamo solo all’inizio del percorso del possibile sviluppo dell’I.A. Da questo punto di vista, può essere considerato emblematico lo scontro ultimamente verificatosi tra Sam Altman, uno dei fondatori di Open AI, l’azienda che ha dato alla luce Chat GPT, e gran parte del Consiglio di Amministrazione dell’azienda stessa.
La divergenza molto forte di opinioni tra il primo, dapprima allontanato e poi richiamato a “furor di popolo” grazie all’intervento di Microsoft e di una gran parte dei dipendenti, con il conseguente “ licenziamento” degli altri componenti del CdA, si è consumato proprio tra l’alternativa, sostenuta da Altman, di realizzare maggiori profitti e, quindi, accelerare lo sviluppo dell’I.A. oppure procedere con maggior cautela, verificando tutte le implicazioni che tale accelerazione comportava.

Ci sono, poi, altre questioni fortemente critiche che lo sviluppo dell’AI si porta dietro. Una riguarda, senz’altro, il tema del lavoro, visto nella duplice veste di quello utilizzato per produrre questi sistemi e delle conseguenze destinate a prodursi nella fisionomia dell’attuale mondo del lavoro.
Per quanto riguarda il primo aspetto, oltre al ruolo del lavoro molto qualificato svolto dai programmatori/sviluppatori di cui abbiamo già parlato, occorre notare che esso si compone anche dell’apporto, tutt’altro che secondario, di la
voratori sfruttati e sottopagati, dislocati in particolare nei Paesi del Sud del mondo, che hanno il compito di “ripulire” l’addestramento che proviene dalla lettura della miriade di dati, etichettandoli in termini tali che vengano evitate espressioni di odio, violenza sessuale e materiale ad essi assimilabile.

L’intelligenza artificiale, poi, utilizza anche il lavoro degli utenti, cioè di noi stessi che produciamo domande, descrizioni, immagini che diventano altrettanti feedback di apprendimento per l’intelligenza artificiale. Troviamo qui l’impasto che caratterizza tutto il mondo del lavoro delle nuove tecnologie informatiche, che tende a diventare un modello per l’insieme del lavoro, e cioè la forte polarizzazione tra una fascia ristretta di lavoratori ultraqualificati, la maggior parte dei quali fidelizzati all’azienda tramite meccanismi incentrati sul possesso azionario, e una schiera di lavoro supersfruttato e gratuito, fonte di nuove e forti disuguaglianze.

Se poi ragioniamo sull’impatto che il ricorso all’IA determina sul lavoro umano odierno, non ci vuole molto a realizzare che esso avrà conseguenze importanti, a partire dal lavoro impiegatizio e di chi, dai giornalisti alle agenzie di stampa, si occupa di redazione dei testi. Per esempio, Ibm ha già annunciato di poter fare a meno di circa un terzo dei 26.000 addetti che svolgono funzioni di back-office, come le risorse umane e il servizio clienti. Dal canto suo, Walmart, il grande gigante statunitense della distribuzione organizzata, sta lavorando per sostituire il lavoro umano nel rapporto con i fornitori, affidando ad un sistema di intelligenza artificiale la contrattazione con questi ultimi.
Insomma, non c’è dubbio che saremo in presenza di un ulteriore rafforzamento della tendenza che è già in corso da diversi anni, dentro l’onda lunga della fase dell’innovazione tecnologica, di incremento della produttività, diminuzione occupazionale, polarizzazione e svalorizzazione del lavoro umano.

Infine, ci sono almeno altri 2 punti esposti a pesanti criticità, che rischiano di rimanere troppo in ombra:
il primo è quello relativo è quello del forte consumo energetico e di emissione di CO2 connesso al trattamento dei big data. Il modello prevalente attuale indirizza il digitale alla crescita piuttosto che al risparmio di risorse, tant’è che è stato evidenziato che solo l’addestramento del GPT3 per un compito consuma in qualche settimana come due cittadini americani in un anno.
L’altro elemento su cui diventa necessario riflettere e intervenire riguarda tutto il sistema educativo-formativo: in un mondo in cui la trasmissione del “sapere” sarà sempre più affidata alla tecnologia, che posto c’è per un apparato scolastico che era stato pensato per quella funzione e che viene invece spiazzato sin dalle sue radici?

Tutto ciò ci riporta al tema del “che fare” rispetto al cambio di paradigma tecnologico e sociale che lo sviluppo dell’IA ci consegnerà inevitabilmente.
Qui non mi resta che svolgere pochi appunti,
non certamente esaustivi, che però varrà la pena approfondire. E’ certo che non basta evidenziare i rischi che stanno di fronte a noi o semplicemente chiedere un rallentamento, se non una moratoria, del suo avanzamento. Né appare sufficiente, come da ultimo ha messo in campo l’UE, anche con alcuni passaggi significativi, muoversi sul terreno della regolamentazione del fenomeno e della protezione di alcuni diritti fondamentali, visto che si interviene a valle di una situazione in cui dominano le 2 grandi superpotenze, USA e Cina.
Occorre, invece, andare alla radice delle problematiche che solleva lo sviluppo dell’IA, e cioè pretendere che gli algoritmi messi a punto dai programmatori/ sviluppatori su cui essa si fonda siano resi trasparenti e pubblici, in modo tale che sia chiaro quali sono gli obiettivi, le regole e le distorsioni (più o meno volute), e che questi elementi possano essere soggetti ad un controllo diffuso.
Quello che va prioritariamente messo in discussione, in altri termini, è la privatizzazione e la finalizzazione al puro profitto del bene comune fondamentale costituito dalla produzione dell’informazione e dalla trasmissione della conoscenza.
Compito che, peraltro, potrà essere aggredito solo attraverso una trasformazione profonda del sistema formativo, riorientandolo verso l’alfabetizzazione generalizzata sui nuovi dispositivi tecnologici e  la creazione di un nuovo armamentario di lettura critica degli stessi e del loro impatto sociale, tornando ad occuparsi delle fonti e della costruzione del sapere e delle informazioni.

Vaste programme, si potrebbe dire, ma non mi pare esista un’alternativa diversa per contrastare il rischio concreto che, con il ricorso spinto all’IA, il nostro futuro stia dentro un orizzonte distopico.

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Per certi versi /
La follia, la vita

La follia, la vita

Abita
Nelle  corsie
Non ospedaliere
Della mente
La follia
Regna
Nel non pensiero
Della gente
Che non fa
mai nulla
Per piangere
Ridere
Senza parole
Non si piega mai
Non sta in ginocchio
Non si sente
Spezzare le reni
Guardando
Nel vuoto
Nel gorgo assurdo
Del dolore
Il dolore è tutto
Tutta la vita
Bella e terribile

Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
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L’Oroscopo di Gianni Rodari

Oroscopo

O anno nuovo, che vieni a cambiare
il calendario sulla parete,
ci porti sorprese dolci o amare?
Vecchie pene o novità liete?
Dodici mesi vi ho portati,
nuovi di fabbrica, ancora imballati;.
trecento e passa giorni ho qui,
per ogni domenica il suo lunedì;
controllate, per favore:
ogni giorno ha ventiquattr’ore.
Saranno tutte ore serene
se voi saprete usarle bene.
Vi porto la neve: sarà un bel gioco
se ognuno avrà la sua parte di fuoco.
Saranno una festa le quattro stagioni
se ognuno avrà la sua parte di doni.

Gianni Rodari