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Storie in pellicola / “Heartquakes”, il corto che parla al cuore

Un giovane regista, una produzione indipendente a budget zero, la Terra. Questo è “Heartquakes”, di Niccolò Donatini, un cortometraggio di tre minuti molto potente

Sarà presentato allo European Projects Festival di Ferrara nell’ambito della rassegna di cortometraggi europei selezionati dal Ferrara Film Corto festival, il 5 aprile alle 18h30.

Si tratta di “Heartquakes”, titolo originale “Terremoti del cuore”, il cortometraggio, del 2021, di Niccolò Donatini, fiorentino ventiseienne convinto “ribelle all’estinzione”.

Un gioco di parole fra terra (earth) e cuore (heart) accompagnato dalle musiche di Giacomo Ventrella. Ed una partita ad armi impari, dove chi sopravvivrà, se non rispetterà le regole, non sarà certo il genere umano. C’è chi parla e chi tace, chi urla.

Siamo di fronte alla Natura che ha chiuso la sua bocca e ha cercato di mandare messaggi in centinaia di modi silenziosi. Inascoltati, incompresi, ignorati, disattesi.

Una Natura che tace e prova a comunicare con la sua bellezza e la sua quiete, le uniche armi rimaste. Fiumi, ruscelli, acque, alberi, montagne, colline e case tracciano una linea verso l’infinito e tendono le mani alla salvezza. Non ci sono parole, solo cieli e prati verdi, alcune gocce d’acqua che piangono.

Un monito potente, allora, in queste immagini bellissime e a tratti commoventi.

Possa il silenzio della Natura essere rotto solo da coloro che combattono in Suo nome.

Possano le urla funeste, come i rulli dei tamburi, frantumare il muro dell’ignoranza di coloro che ancora ignorano la Terra, che ancora ignorano la Vita e il suo immenso valore.

Possano le danze impetuose aprire le strade del cielo e dell’aria leggera.

Possa la luce tornare. Possano la vita e la bellezza trionfare. Possa la luna sorridere.

Un breve ma potentissimo documentario per la giustizia climatica. Perché sognatori cercasi.

Programma dei cortometraggi dello European Projects Festival di Ferrara

Immagini tratte dal cortometraggio

Parole a Capo /
Claudia Fofi: “L’amore alla cieca” e altre poesie

Claudia Fofi: “L’amore alla cieca” e altre poesie

“Si conobbero. Lui conobbe lei e se stesso, perché in verità non s’era mai saputo. E lei conobbe lui e se stessa, perché pur essendosi saputa sempre, mai s’era potuta riconoscere così.”
(Italo Calvino)

L’amore alla cieca

chiudi gli occhi e immagina.
ricordi com’era una pelle liscia un fiato di cerbiatto
il sorriso devoto dell’incoscienza.
non venirmi a dire che questo avvizzito
è un corpo.
non ci credo, non può essere così.
allora meglio fare l’amore all’alba
quando il preludio del sole è ancora un’ombra
tra gli spifferi di una saracinesca
e si fa l’amore alla cieca
ci si ride dentro a memoria.

 

Le esche


smettetela di stare dietro alle esche
parlate d’altro
attaccate il mal di pancia all’algoritmo
mettete in mezzo a una conversazione
l’odore di cipolla e lo starnuto
parlate d’altro
può anche essere che ci scappi
una risata che spacca l’aria in due
vi consiglio anche di mettere
un telefono fisso
fa bene ai nervi scoperti
un numero che ti trova
sempre nello stesso posto
raccontatevi le ultime notizie
di mille anni fa
una vanga sarebbe da esporre
al museo delle conversazioni

 

cuor, amor


quanto è bella questa nostra lingua
che fa la rima con l’amore e il cuore
in francese per esempio coeur e amour
sono come due pianeti un po’ lontani
anche se la fine in erre nobile
li rende affini come sentimento
con l’inglese non è che vada meglio
metti su una mano heart e sull’altra love
sono dissonanti come il primo novecento
ti viene da buttarli ognuno da una parte
a non parlarsi mai, neanche per sbaglio
amor y corazon si incastrano solo sull’accento
e in tedesco il cuore è herz – quasi come un noleggio di furgoni
e l’amore invece è bello – una parola che somiglia a un canto: liebe.
Per andare più lontano a curiosare,
il cuore in giapponese è un ideogramma che non so rifare: Shinzō.
E l’amore è un suono che non si sente neanche al microscopio: Ai
Insomma, vi potete divertire a continuare questa lista
sta di fatto che la perfetta rima cuore e amore è tutta nostra
e non è mai banale, è intelligente e giusta

 

La mela che non si spacca

A un certo punto devi diventare una mela che non si spacca.
Hai raggiunto il sapore del vino passato.
Porgiti da sola le buone maniere.
Ruggisci felice se hai voglia.
Accetta che nessuno ti vede.
Il paese è diventato un castello.
Il vero amore è una nuvola sparita.
A un certo punto non hai più bisogno di farti spazio.
Respira dal cerchio che hai intorno.
Cerca solo le persone buone,
le persone caramella.
Parti spesso, per evitare di diventare una frase fatta.
Se ci riesci, torna cambiata in meglio.

 

essere figa

essere figa sarebbe bello
ma non è come essere eterna
certo, essere eternamente non figa
che sfiga

(Poesie inedite)

Claudia Fofi vive a Gubbio. E’ insegnante di canto, cantautrice e autrice, poeta e scrittrice, organizzatrice di eventi culturali, direttrice artistica del Festival Umbria in Voce. Cura progetti di scrittura creativa e della canzone, guida laboratori di ricerca vocale per enti, biblioteche, teatri, e associazioni. Con le sue canzoni ha vinto il Premio Ciampi nel 2001, il Premio Scrivi la tua canzone Grinzane Cavour per il miglior testo nel 1996 (presidente giuria Fabrizio de Andrè), il Premio Logic al Mantova Musica Festival, finalista due volte al Premio Musicultura. Ha pubblicato tre album di canzoni e due raccolte di racconti brevi tratti da scritture social, “Post-Post” (2019) e “Una volta, all’improvviso” (2023), con Bertoni Editore. Nella poesia ha esordito nel 2016 con “Odio le ragioniere”, Ed. Secop. Nel 2023 è uscita la sua seconda raccolta poetica, “Etica della parola dolce”, con Arcipelago Itaca, collana Mari Interni diretta da Danilo Mandolini. Con la silloge inedita “Le ossa cantano” (allora intitolata “Il delta della lingua”) ha ricevuto una menzione di merito al Premio Gozzano 2018. Finalista Premio Carrera 2021. Con la raccolta “Etica della parola dolce” è stata finalista al Premio Pagliarani 2022.

Maggiori info:
www.claudiafofi.info – www.vocecreativa.com – www.umbriainvoce.it

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

100+ donne con Anna Zonari

 100+ donne con ANNA

 Anna Zonari rappresenta la possibilità di un cambiamento radicale per Ferrara.

Una Sindaca donna non è solo una diversa vocale, è tutta un’altra storia, un vento nuovo anche nel metodo: concretezza, dialogo, collaborazione, trasparenza, determinazione.

Da oltre 65 anni Ferrara non ha una Sindaca. Pensiamo che la nostra città abbia bisogno di una donna capace di includere e non escludere, in grado di attivare strumenti stabili di partecipazione reale che conosce, che ha sempre praticato. E’ necessaria una Sindaca che ponga al centro la città e chi la abita, che creda – e Anna l’ha già dimostrato in tutto il proprio percorso di vita e di lavoro – nella cooperazione, nella squadra, non nell’individuo solo al comando. Una Sindaca competente, che non scopre improvvisamente la necessità di ridurre drasticamente l’inquinamento ambientale, di difendere e rilanciare i beni comuni, di proteggere tutte le persone più fragili, di agire per il lavoro e per evitare la desertificazione sociale, economica e culturale della città; non lo scopre ora perché per tutto questo si è sempre battuta. E’ necessaria una Sindaca per restituire Ferrara alla sua bellezza e alla sua umanità, per affrontare e sciogliere, in un dialogo con tutte e con tutti, i nodi del presente e del futuro.

Crediamo che Ferrara abbia bisogno – noi abbiamo bisogno – di un futuro diverso, di una trasformazione profonda. Ferrara può e deve cambiare.

Con Anna Zonari e con tutte noi 

Firmatarie:

  1. CLELIA GALLIANI
  2. ESTER LEONARDI
  3. BARBARA DIOLAITI
  4. MARCELLA RAVAGLIA
  5. LAURA ALBANO
  6. GIULIA FIORE
  7. EUGENIA SERRAVALLI
  8. MIRIAM CARIANI
  9. CAROLA RUGGERI
  10. GIOVANNA TONIOLI
  11. LAURA PIVA
  12. ANNA FIORI
  13. MARIA CALABRESE
  14. ARIANNA CHENDI
  15. CORINNA MEZZETTI
  16. GIULIANA ANDREATTI
  17. MORENA FELISATTI
  18. ILARIA PASTI
  19. DANIELA CATALDO
  20. GIULIANA CASTELLARI
  21. BRUNELLA LUGLI
  22. CECILIA LUNGHI
  23. ORNELLA MENCULINI
  24. MATILDE BORTOLOTTI
  25. VALENTINA FAGGION
  26. CATERINA ORSONI
  27. ANNA GOLINELLI
  28. ALIDA NEPA
  29. MALEK FATOUM
  30. SILVIA DAMBROSIO
  31. ELENA BERVEGLIERI
  32. STELLA MESSINA
  33. CINZIA PUSINANTI
  34. MARIA ANGELA MALACARNE
  35. DORINA VENTURINI
  36. CLEONICE DONDI
  37. ELENA FORINI
  38. MONICA BARALDI
  39. LUNA DANIEL
  40. CATERINA BALBONI
  41. MARIARITA SAPIENZA
  42. FABIANA GREGORI
  43. MILENA STEFANINI
  44. SILVIA TROMBETTA
  45. MARTA LEONI
  46. CATERINA FERRARESI
  47. CATERINA SATERIALE
  48. ADRIANA DI PIETRO
  49. ELISABETTA SCAVO
  50. BARBARA ARCARI
  51. VALENTINA MIGLIOLI
  52. GABRIELLA MARCHESIN
  53. RITA TARTARI
  54. TERESA CAVALLETTI
  55. PAOLA FELLETTI SPADAZZI
  56. CARLA CILOTTI
  57. PAOLA GUERZONI
  58. SANDRA PARESCHI
  59. CHIARA BENDIN
  60. GAIA POLLASTRI
  61. CARLA BRANDI
  62. FRANCA MAZZANTI
  63. MONICA BAGLIONI
  64. LAURA CARCERERI DE PRATI
  65. SAURA RABUITI
  66. AMIRA FATOUM
  67. RITA SANGIORGI
  68. SALHA TAIEB
  69. CLAUDIA ZANOTTI
  70. NADA GUETTECH
  71. DANIELA LIBANORI
  72. SARA GUETTECH
  73. SILVIA GIORI
  74. LAURA FACCINI
  75. IMAN SRIHI
  76. MAURIZIA CAPUZZO
  77. ELENA BRANCA
  78. FADILA GUETTECHE
  79. EMANUELA CAVICCHI
  80. SARA CORTESI
  81. PAOLA GIRAUD
  82. ELENA CALLEGARI
  83. ZELIMA CIRELLI
  84. MARIA PAGANELLI
  85. LUCIANA CLARA REZZADORE
  86. ROBERTA VERRI
  87. ELEONORA CAMERANI
  88. DIDA SPANO
  89. EILEEN ROMANO
  90. CECILIA BANDIERA
  91. CRISTINA SORIO
  92. LAURA BREGOLI
  93. PATRIZIA ALBERIGHI
  94. GRAZIA FILIERI
  95. MILENA MILANI
  96. OLIMPIA ORCIULO
  97. DARIA GIORDANI
  98. NOEMI LAMBERTINI
  99. LAURA BRONDI
  100. LORELLA RIZZATI
  101. ROSSANA COVI
  102. CHIARA PAVANI
  103. SILVIA PERETTO
  104. PATRIZIA GARUTI
  105. GIULIA CIARPAGLINI
  106. CLAUDIA TITI

Da giovedì 8 marzo sul sito de La Comune di Ferrara [Qui] ci sarà la possibilità di firmare da parte di elettrici donne nel Comune di Ferrara.

La Comune di Ferrara

Caro straniero, il permesso di soggiorno non te lo do, ma ho inventato un posto adatto per te: si chiama CPR

Caro straniero, il permesso di soggiorno non te lo do, ma ho inventato un posto adatto per te: si chiama CPR.

Oggi più di ieri le persone straniere, come ormai sanno tutti, devono avere un permesso di soggiorno per vivere in Italia e in Europa. Nella realtà sempre più frequentemente non ce l’hanno.
Le leggi che regolamentano l’ ingresso e il soggiorno degli stranieri non sono cambiate ma oggi avere un permesso di soggiorno è molto più difficile e spesso impossibile.

Non mi riferisco alle persone che arrivano in modo irregolare, perché è impossibile fare diversamente (compresa ad esempio una madre incinta o con bambini piccoli) ma a quelle entrate “regolarmente”, che sono qui e hanno diritto o hanno ottenuto già un primo permesso di soggiorno per asilo, protezione speciale, lavoro o studio ma che non riescono a rinnovarlo.
Nonostante l’alto prezzo pagato, in termini economici e umani.

Non ce l’hanno perché il Ministero dell’ Interno viola sistematicamente la legge speciale per stranieri, non rilasciando i permessi dovuti nei modi e termini previsti.
Tutti sanno che per avere o rinnovare il passaporto italiano oggi occorre aspettare tantissimo tempo. Ottenere un permesso di soggiorno, quando previsto per legge, e rinnovarlo è addirittura impossibile.

E al permesso di soggiorno sono connessi tutti i diritti.
Per citare solo due esempi: quello alla salute, che se negato può compromettere la salute di tutti, (basta ricordare in periodo covid le difficoltà ad avere il vaccino per gli stranieri senza permesso di soggiorno e codice fiscale connesso) e il diritto e dovere di pagare le tasse per garantire lo stesso servizio pubblico.

Molti stranieri si trovano così senza un permesso di soggiorno che permetterebbe loro di crescere i propri figli in modo sano e pacifico.
Perché questo permesso non viene rilasciato o rinnovato?
Forse per stremare gli stessi stranieri e convincerli ad andarsene? Ma ad andarsene dove, se senza il permesso di soggiorno non puoi andare da nessuna parte?
Ecco allora il senso dei CPR dove vengono rinchiusi non i delinquenti pericolosi (per questo le carceri ci sono già…), ma le persone semplicemente senza il permesso di soggiorno.

Ma c ‘è veramente bisogno di questo permesso?
In realtà basterebbe un semplice documento di riconoscimento, come può esserlo una carta d identità, rilasciato o rinnovato a tutti dopo un più rapido e strutturato sistema di identificazione, che non può presupporre la privazione della libertà.
Una carta d identità utile per studiare, lavorare, crescere i propri figli e viaggiare senza essere discriminati per la provenienza e per la povertà.

Parole e figure /
È primavera

Aspettando la primavera con un delicato albo illustrato di Davide Calì e Richolly Rosazza, “E’ primavera, signor Alce”, di Kite edizioni.

Torna il signor Alce, con un libro che ci fa sognare la primavera, quella stagione fatta di novità e voglia di rinascita.

Davide Calì e Richolly Rosazza riportano in libreria le avventure di questo magnifico personaggio, con l’albo dai colori tenui “E’ primavera, signor Alce”, edito da Kite edizioni.

La primavera è fatta di attese, di novità, di voglia di ricominciare, di continue riscoperte, di tenui profumi che avvolgono, quelli del miele e dei fiori che sbocciano. Oziando e giocherellando fra i prati, le colline, le montagne e le nuvole. Con tenerezza.

La neve è ormai sciolta, ne resta solo qualche mucchietto a testimonianza dell’inverno che fu. C’è voglia di nuovo nell’aria, desiderio di giocare, di perdersi fra le ali degli uccellini che fanno il nido, di vita che sboccia, che ritorna al felice tepore dei tiepidi raggi mattutini del sole. Ritorna la magia dei tramonti rosa-celesti che arrivano più tardi.

Come tutti gli esseri viventi, il signore Alce vuole partecipare a questa festa, in compagnia degli amici più cari. Ed ha pure appetito, voglia di patatine novelle fatte al forno. Un rimedio contro il raffreddore del suo amico Bruno, un simpatico orso. O meglio, il simpatico orso che aveva conosciuto ne “Il signor Alce”, degli stessi autori, sempre di Kite (2021).

Alce, all’arrivo della primavera, sente il bisogno di novità: pulire la casa, mettere fiori sul davanzale o in giardino, comprare nuovi oggetti, lavare le tende, togliere la polvere. Mi viene in mente un bellissimo libro di Marie Kondo sul magico potere del riordino.

Eccolo allora pronto ad uscire di casa per acquistare narcisi e tulipani, presine e strofinacci. E poi, ora che ha un amico, gli serve una padella più grande per una gustosa frittata da preparare con erbe gustose. Anche se la primavera si avvicina, la sera, in casa è fresco. Con il suo amico Bruno eccoli allora pronti ad una bella cenetta davanti al camino acceso scoppiettante. L’indomani si può anche andare al lago a pescare, le canne sono nel capanno degli attrezzi…Ma che terribile disordine!

Quante cose accatastate, Alce non butta via davvero nulla, tutto può servire prima o poi. L’occasione per riordinare un po’, insieme a Bruno, riparare la porta del capanno e sistemare. Panino, riposino e tuoni.

Imprevisti che portano altri imprevisti e sorprese, imprevisti che fanno cambiare i piani. Ogni gioco ricomincia, nuove idee. Un albo che celebra l’amicizia e la bellezza dello stare insieme anche quando le cose non vanno come si era immaginato.

 

Perché la vita è meravigliosa, tutta una sorpresa. Basta essere fra amici.

Davide Calì, Richolly Rosazza, È primavera, signor Alce, Kite, Padova, 2024, 32 p.

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara

Eroi

Eroi

In “La vita di Galileo” (1938), il drammaturgo tedesco Bertolt Brecht scrive che lo scienziato, dopo aver rinnegato di fronte all’Inquisizione la sua teoria sulla rotazione della Terra, consegna all’allievo Andrea il suo quaderno di appunti che confermano le sue teorie, chiedendogli di diffonderle.
Andrea esclama entusiasta: “Sventurata la terra che non ha eroi!”, riferendosi al coraggio di Galileo Galilei che, in questo modo, sfida le idee imperanti e i poteri costituiti, anche se indirettamente.
Il Maestro lo corregge replicando: “Sventurata è la terra che ha bisogno di eroi!”.

Una frase che non ha mai perso d’attualità per il sottile significato che sottende. Ai nostri giorni, davanti a uno scenario planetario oscurato da precarietà, incertezza e assenza di prospettive nitide e rassicuranti, reagire in maniera forte e scuotere le coscienze solo davanti all’eroismo è un segno del fallimento di una società o nazione, perché significa delegare al gesto del singolo quello che invece dovrebbe richiamare alla corresponsabilità di tutti. Eppure, è altrettanto vero e innegabile che l’attrazione collettiva verso la figura eroica appartiene strettamente alla nostra storia di esseri umani: chiediamo eroi veri, con un codice d’onore, spirito di sacrificio e immenso coraggio, liberi da qualunque consorteria, dalla politica manovrata da partiti e lobby finanziarie.

Abbiamo ancora bisogno di un eroe che gridi affermazioni altrimenti taciute, che rompa gli schemi dell’ipocrisia, del “politicamente corretto” e delle distorsioni culturali. Forse siamo “sventurati” proprio perché abbiamo bisogno di eroi, che non sono i muscolosi protagonisti dei reality di sopravvivenza, né i blasonati, a volte eruditi, ospiti dei talk-show che inveiscono con toni accesi l’uno contro l’altro, piuttosto che i mutevoli personaggi del gossip e del red carpet.
Gli eroi che vorremmo sono altro, archetipi che riflettono esperienze comuni che tutti gli umani hanno condiviso in milioni di anni di evoluzione e ci preparano a queste esperienze comuni, ben consapevoli che, come ebbe a dire lo scrittore Charles Bukowski, “Per ogni Giovanna d’Arco c’è un Hitler appollaiato dall’altra estremità dell’altalena. La vecchia storia del bene e del male.”

Gli eroi sono figure che ci rivelano le nostre qualità mancanti, ci salvano nelle difficoltà, ci sollevano dalle cadute, ci offrono speranza, risolvono problemi, consegnano giustizia. Soddisfano i nostri bisogni fondamentali quali la sopravvivenza, la cura, la crescita, la sicurezza, la felicità, la saggezza.
Ogni epoca ha i propri eroi e oggi il concetto di eroismo viene identificato anche nella gente comune, sulla scena della vita quotidiana dove l’eroe agisce non per se stesso ma per il bene collettivo. Eroi meno utopici e perfetti, forse, ma molto più raggiungibili e vicini. Sono gli eroi senza spada e armatura, armati solo della loro forza interiore, della convinzione che il loro tributo, unito a quello di tutti, riesca a creare equilibrio, a prendersi cura della collettività, a richiamare sui temi dell’equità, giustizia, pace e dissenso verso qualsiasi voce delle dittature, per continuare ad essere “umani”.
L’eroe è qualcuno che non abbia paura della notte e tenga lo sguardo fermo davanti a sé, indicandoci il cammino più giusto da percorrere.

“Gioverà ricordare. Meminisse iuvabit”.
Lettera aperta a Daniele Olschki

“Gioverà ricordare. Meminisse iuvabit”.
Lettera aperta a Daniele Olschki.

Caro Daniele,

ho trovato con tanto ritardo (sono stata quasi un mese a Parigi) il tuo Meminisse iuvabit. Stampa raffinata, come si addice alla casa fondata dal grande Leo Samuele Olschki; scrittura, la tua, misurata ed intensa. Bella anche la prefazione di Liliana Segre.
Un piccolo gioiello, insomma, che turba per l’inadeguata risposta che la “dolce terra latina” dette a un colto poliglotta di origine tedesca spinto in Italia dal culto di Dante e dalla passione per gli studi, la cultura, i libri. Si soffermano, le tue pagine, sulla germanofobia del primo dopoguerra che già utilizzava accuse razziste, e sui danni, forieri di ben più gravi disgrazie, inscritti nel nazionalismo e nella difesa della “cultura nazionale” (sintagma che si sente tristemente risuonare anche oggi).

Tu accenni alle ‘delazioni’ a cui Leo fu costretto da richieste ministeriali: in realtà non avrebbe potuto cavarsela con maggiore reticenza e eleganza, richiamando, a giustificazione delle sue parziali risposte, l’unico criterio di conoscenza che aveva dei suoi autori. Anche oggi a colpire è l’assoluta eccellenza dei nomi che avrebbero dovuto essere oggetto di censura/persecuzione: Oskar Kristeller, Paolo D’Ancona, Leo Spitzer, Santorre Debenedetti… Nomi mito per ognuno di noi.  Meminisse iuvabit. Giova davvero ricordarlo.

A Parigi ho visto un film perturbante, uno dei più forti che si possano ormai vedere sulla Shoah: Zona d’interesse. Un quadro vero e agghiacciante sulla vita di una famiglia tedesca (quella del comandante Rudolf Höss) in una bella dimora al confine del campo di concentramento di Auschwitz di cui non si vedono altro che fumo, e fiamme, la notte.

A Villa Seurat (una bella strada del XIV nota per i suoi atelier d’artista in stile modernista dove hanno abitato, per fare solo qualche nome famoso, Henri Miller, Anaïs Nin, Antonin Artaud, Alberto Magnelli…) ho visitato il museo di Chana Orloff, un’ebrea ucraina diventata francese a cui furono ritirati nazionalità e Legion d’onore per il suo essere ebrea. Disperse o distrutte le sue sculture, si possono vedere, a Villa Seurat, appunto, e in una mostra al Museo Zadkine, quelle che sono state avventurosamente recuperate.
Al Museo Picasso invece, sempre in questi giorni, la mostra su Leonce Rosemberg ricostruisce l’interno della casa che il grande gallerista aveva decorato con i quadri della grande pittura cubista e moderna: Picasso, Savinio, Max Ernest, Léger, Picabia… Leonce, fratello d’ancor più grande gallerista, scopritore di talenti Leon, costretto a fuggire mentre le sue collezioni, accusate di rappresentare l’arte degenerata, venivano sequestrate e disperse…

Chiudo ricordandoti una delle mostre più commoventi che ho visto nel 2021 al MahJ (Musée d’Art et d’Histoire du Judaïsme): quella, sempre parigina, sull’École de Paris. Tanti artisti, per lo più stranieri ed ebrei che si trovarono nella ville lumière nei primi decenni del Novecento. Tra loro Marc Chagall, Sonia Delaunay, Amedeo Modigliani, Chaïm Soutine…
Quelli che non aveva ucciso la miseria, li uccisero l’intolleranza e la guerra.

Caro Daniele, come recita la tua dedica: in ricordo di giorni che ci auguriamo di non rivivere più, ti saluta con affetto
Anna

Il Volume:
Daniele Olschki, Gioverà ricordare, Meminisse iuvabit, prefazione di Liliana Segre, Firenze, Olschki, 2024, €10.

Guerra: armiamoci e partite?
Partite voi, io preferisco di no

Guerra: armiamoci e partite?  Partite voi, io preferisco di no

Ursula Von Der Leyen, presidente della Commissione Europea, dichiara: “La minaccia di guerra potrebbe non essere imminente, ma non è impossibile. I rischi di una guerra non dovrebbero essere esagerati, ma dovrebbero essere preparati. E tutto ciò inizia con l’urgente necessità di ricostruire, rifornire e modernizzare le forze armate degli Stati membri. Così facendo, l’Europa dovrebbe sforzarsi di sviluppare e produrre la prossima generazione di capacità operative vincenti. E per garantire che disponga della quantità sufficiente di materiale e della superiorità tecnologica di cui potremmo aver bisogno in futuro. Ciò significa potenziare la nostra capacità industriale della difesa nei prossimi cinque anni”.

Il presidente della Francia Emmanuel Macron dichiara “faremo tutto quello che è necessario per impedire che la Russia vinca la guerra” e aggiunge: “Non c’è consenso al momento sulla possibilità di inviare in maniera ufficiale truppe di terra. Ma in termini di opzioni sul campo, non possiamo escludere niente”.

Thierry Breton, commissario europeo per il mercato interno, dice: “Il Recovery Fund è stato specificamente costruito per tre principali azioni: la transizione verde, la transizione digitale e la resilienza. Intervenire puntualmente per sostenere progetti industriali che vanno verso la resilienza, compresa la difesa, fa parte di questo terzo pilastro”. “Resilienza” un tempo era una parola affascinante, adesso è stata talmente stuprata da diventare un vocabolo odioso.

Questi sono alcuni dei più accreditati statisti o alti funzionari contemporanei, annoverati peraltro tra le file dei “moderati”. Essi stessi si presentano in questo modo all’opinione pubblica, quando vogliono essere votati per arginare i populisti e gli estremisti. Non erano mica ubriachi quando hanno pronunciato queste frasi. Il che è un’aggravante, perché una sbronza si perdona anche a uno statista, una lucida follia è imperdonabile.

Questi “statisti” mostrano di stare ignorando totalmente l’avvertimento che il pianeta Terra ha dato alla specie umana con la pandemia da Covid-19: se vai avanti così, con questo modello di sviluppo globalizzato che globalizza anzitutto i disastri economici, ambientali e sanitari, rischi di danneggiarmi e danneggiarti in modo da non poter più vivere qui. Almeno tu, specie umana. Si dice che l’uomo, nonostante la storia, non impara dai propri errori. Non impara nemmeno dalla cronaca, perché la pandemia è ancora cronaca recente ed è già stata messa tra parentesi, come la crisi finanziaria del 2008: incidenti di percorso lungo la strada dello sviluppo illimitato. Ma sviluppo di che cosa?

La top ten mondiale di chi investe in armamenti:

  • Vanguard $92bn
  • State Street $68bn
  • BlackRock $67bn
  • Capital Group $55bn
  • Bank of America $45bn
  • JPMorgan Chase $33bn
  • Citigroup $28bn
  • Wellington Management $27bn
  • Wells Fargo $25bn
  • Morgan Stanley $24bn

La top ten europea di chi investe in armamenti:

  • BNP Paribas , Francia,  $14 mld
  • Deutsche Bank, Germania, $13 mld
  • Crédit Agricole, Francia $10 mld
  • Société Général, Francia, $7 mld
  • UBS, Svizzera, $7 mld
  • Barclays, UK, $6 mld
  • Groupe BPCE, Francia, $6 mld
  • Legal & General, UK, $5 mld
  • Santander, Spagna, $5 mld
  • Banco Bilbao Vizcaya Argentaria – BBVA, Spagna,  $5 mld

(Fonte: leggi qui)

Noi occidentali ricchi e satolli – chi più, chi meno – siamo un’avanguardia della decadenza (che sinistra assonanza con il brand del principale investitore in armi del pianeta). Facciamo vedere in anticipo quello che il genere umano diventa quando sta troppo tempo in pace e quando ha la pancia troppo piena. Quindi prima o poi, se non ci estinguiamo prima, arriveranno lì anche il continente africano e i territori più poveri dell’Asia, che vogliono avere il sacrosanto diritto di inquinare e depredare anche pro bono loro – ma il primo bene sarà sempre delle grandi corporation, le organizzazioni più potenti del mondo, più degli stati sovrani. Questa è la strada tracciata dalle illuminate democrazie e dalle torve autocrazie, accomunate dall’idolatria del denaro e delle merci. Le prime iniziano armando le mani altrui – stupri massacri stragi sì, purché fuori dal cortile di casa mia – per non far mostra di sporcarsi le proprie; le seconde questo problema non se lo pongono nemmeno. Adesso però alle prime cominciano a prudere le mani, perchè le più potenti lobbies del mondo (vedi sopra), che hanno pagato anche le costose campagne elettorali dei loro governanti, non si accontentano di profitti enormi: pretendono profitti illimitati. La cosa beffarda è che questi enormi padroni del vapore pagano i funzionari pubblici per andare al governo a rappresentare i loro interessi, e poi eleggono domicilio fiscale in luoghi-non-luoghi che permettano loro di pagare il minimo di tasse possibili. Così gli Stati sono governati da persone che sono poco più di loro emissari, e quegli stessi Stati non hanno le risorse fiscali per finanziare sanità e previdenza per i loro cittadini. Anche questo restituisce la misura dello spessore di certa politica contemporanea.

Tanto se la Terra diventa invivibile si va sulla Luna. Sulla Luna o su altri satelliti o pianeti: si vedrà, grazie al genio folle – riservato a pochi riccastri – di Elon Musk. I pionieri della nuova frontiera appaiono destinati comunque a portare profitti, sfruttamento, religione del denaro, guerra e morte ovunque mettano piede nella Galassia. E’ solo questione di tempo. La fantascienza non ha più senso, perchè la realtà la supera in potenziale distopico. E’ come la satira in Italia, diventata impossibile perchè la realtà è già una caricatura.

Ormai solo una piccola parte delle guerre richiede la partecipazione attiva su terra dei soldati in carne e ossa, essendo il grosso combattuto dall’aria. Sarebbe spettacolare che le forze armate si trasformassero in un gigantesco scrivano renitente e si rifiutassero di combattere guerre per conto di “statisti” che le dichiarano ma non le fanno mai.

Sfortunatamente, è impossibile che accada. L’unica forma di renitenza possibile diventa quindi personale. Quello che ti tirano contro usalo a tuo favore, come si fa nelle arti marziali. Immergiti nel mito individualista thatcheriano: la società non esiste, esistono gli individui. Ottimo. Quindi, se ti chiedono di andare in guerra per la tua “nazione”, per il tuo “paese”, fai come Bartleby, lo scrivano del racconto di Melville: digli “preferirei di no” e scappa. Scappa dove non ti prendono, o almeno provaci. Immagina che non ci siano patrie, e che non ci sia religione, niente per cui uccidere o morire…  Non servirà a nulla, ma almeno non ti pentirai di essere nato umano.

Diario in pubblico /
Le mummie: scopo e senso della mummificazione televisiva

Diario in pubblico. Le mummie: scopo e senso della mummificazione televisiva

Va bene! Continuo a disubbidire agli amici “seri”, che mi rimproverano silenziosamente la mia frequentazione televisiva e non tanto alla ricerca di programmi adatti al mio cervello (!), quanto alla compulsiva attenzione a quelli cosiddetti ‘popolari’.

Una particolarità risulta subito evidentissima: si tratta nella maggior parte dei casi di persone che hanno abbondantemente raggiunto la terza età. Che spettacolo! Rifatti, ritinti, ripanneggiati, spremono la lacrimuccia d’obbligo, vedendo i trionfi dell’età del successo. E il sadico conduttore immediatamente richiede di ricantare la canzone del loro successo, o di ballare (siamo quasi nel mostruoso) con le mossette del tempo che fu.

Rifletto. È un’attenzione alla gloria che fu, o un cadaverico avvertimento di quanto resta del tempo e della vita? E qui si può comparare la differenza abissale tra chi esercita il mestiere delle arti e chi invece rivive un successo affidato a una canzonetta o a un balletto.

Uno scrittore, un artista diventa sempre più attuale man mano che tocca le soglie di un’età più che matura e dona ai più giovani la realtà, il senso della vita, il futuro. Nell’altro caso si svolge la funzione di mummia. Gli artisti sono il futuro proprio nel presente e nel passato. Gli altri assolvono una funzione cadaverica.

C’è una splendida réclame (mi si passi il termine antico), in cui Dracula non riesce a fissarsi i denti che gli permetterebbero di svolgere il suo mestiere e di sfamarsi. Miracolosamente una pasta fissativa gli restituisce denti e fame. Questo è emblematicamente la funzione delle mummie televisive.

Ovviamente la tv non è solo questo. Straordinari vecchi riescono a ringiovanire idee e sentimenti. Penso a Corrado Augias tra i primi, oppure alla generazione della mezza età, dove spiccano nomi straordinari: Fazio, Littizzetto, Crozza, Signoris, Gramellini, Berlinguer, Sigfrido Ranucci, e l’inscalfibile Gruber, Merlino, tanto per citare quelli più famosi, sempre attenti a non mummificare l’attualità.

Così è possibile ascoltare la tv generalista. Ti puoi imbattere in una grande giornalista che ti dà le notizie da Parigi, o in uno altrettanto famoso da Londra, che non ha sdegnato di danzare in Ballando con le stelle.

Certo non ci si può sottrarre al gioco, ma è altrettanto giusto prenderne le distanze e non lasciarsi mummificare.

Basta solo esserne consapevoli.

Per leggere gli altri articoli di Diario in pubblico la rubrica di Gianni Venturi clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Lo stesso giorno /
4 marzo 2005. Il Caso Nicola Calipari

4 marzo 2005. Il Caso Nicola Calipari: intrighi, depistaggi, l’omicidio

C’è chi oggi, 4 marzo, parlerà della canzone di Lucio Dalla, di quando fu censurata e di tutte le censure nel campo della musica e soprattutto dei film.

Quello che però successe il 4 marzo 2005 non è ne una canzone ne un film.

Giuliana Sgrena, giornalista de Il Manifesto, era stata appena liberata dopo essere stata sequestrata da terroristi in Iraq.
Le polemiche sulla sua liberazione, anzi sul fatto che fosse li, durante una guerra da inviata, non tardano ad arrivare, soprattutto da destra. “Milioni spesi per liberarla”, “se è stata violentata se l’è cercata”, anzi no, insomma alla fine si parlerà di un riscatto di 5 milioni.

Perché il governo ha dovuto pagare? Lei è andata di sua iniziativa”.

Questo il livello di empatia della destra su una connazionale li per fare il proprio lavoro. Un lavoro rischioso si, ma importante, senza il quale non avremo coscienza degli orrori delle guerre.

Ma il 4 marzo è l’uccisione del funzionario del SISMI Nicola Calipari che aveva il compito di accompagnare la Sgrena in aeroporto.
Siamo in Iraq e c’è la guerra. E quello che succede in guerra viene filtrato, censurato, smentito, oscurato.

Sappiamo che l’auto su cui viaggiavano Calipari, Sgrena e altri due funzionari italiani, ad un check point americano, fu fermata e “bombardata” di proiettili di cui uno colpi il funzionario alla testa.

Alla fine si scoprirà perfino il nome del soldato americano che esplose i colpi per fermare l’auto: Mario Lozano (New York, Bronx, 1969), addetto alla mitragliatrice al posto di blocco, appartenente alla 42ª divisione della New York Army National Guard.

Non ci sono però spiegazioni ma solo illazioni. Da chi vuole credere che sia stato tutto un complotto per uccidere Calipari, chi per rubare il riscatto, chi da la colpa ad un problema di comunicazione e via dicendo: ogni teoria è buona.

Se volete c’è pure la pista malavitosa che porta ai fratelli Notargiacomo (appartenenti alla cosca di Cosenza dei Perna) e su cui Calipari ha investigato per la questura.

La verità però ad oggi (19 anni dopo) è una sola: il soldato che ha sparato non è stato giudicato in Italia perché non di competenza territoriale, nel senso che i problemi gli americani se li risolvono a casa loro (ricordate il Cermis?). Per l’omicidio Calipari nessuno soldato americano è mai stato processato quindi, nessun mafioso condannato, nessun funzionario del SISMI inquisito, nessun Sig. Ministro coinvolto, nessuna giustizia.

Nel 2011 Wikileaks ha pubblicato un cable risalente al 9 maggio 2005 in cui l’ambasciata americana a Roma conferma che “lascerà fare” nel mostrare la nostra versione (“tragico incidente”), senza fornire alcun contraddittorio. In fondo perché chiedersi come mai più di 30 auto che avevano attraversato il posto di blocco solo una è stata presa a mitragliate?

Nella foto di copertina: l’arrivo a Ciampino della salma di Nicola Calipari, il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi rende omaggio (©Mauro Scrobogna / Lapresse)

Per leggere gli articoli di Nicola Gemignani clicca sul nome sull’autore o sulla rubrica Lo stesso giorno.

“Progetto Marcovaldo”: Ferrara, una possibile città dentro un parco.
Unife, Dipartimento Architettura, 5 – 18 marzo

“Progetto Marcovaldo”: Ferrara, una possibile città dentro un parco.
Unife, Dipartimento Architettura, Pal
azzo Tassoni, martedì 5 marzo, 14,30-18,30

Martedì 5 marzo 2024 presso il Salone d’Onore di Palazzo Tassoni, Dipartimento di Architettura-UNIFE, Via Ghiara 36 si svolgerà il seminario “TRA LE MURA E GLI ALBERI. FERRARA UNA POSSIBILE CITTÀ DENTRO UN PARCO”

Il seminario è collocato all’interno di un progetto culturale denominato PROGETTO MARCOVALDO. LE NATURE IN CITTÀ che vedrà confrontarsi nei prossimi mesi paesaggisti e urbanisti sui temi del rapporto tra natura e città. Tale progetto oltre alla nostra università coinvolge anche l’Università di Firenze e il Politecnico di Milano dove si svolgeranno altri due seminari. Le colleghe coinvolti sono le Prof.sse Anna Lambertini, paesaggista di UNIFI e Laura Montedoro, urbanista, POLIMI, oltre al gruppo di ricerca del CITERlab di UNIFE.

Lo scopo è di affrontare il tema generale del rapporto tra natura e città partendo dalle esperienze e problemi specifici di tre città italiane: Ferrara, Firenze e Milano che rappresentano la varietà e complessità del fenomeno urbano italiano.

Ferrara, anche in ragione delle sue dimensioni, potrebbe diventare una città dentro un parco: con il suo centro storico, le sue aree agricole dentro le mura e nelle fasce periurbane, il suo vallo, i quartieri operai, costruiti a nord e quelli popolari a sud, molti di questi ricchi di giardini che vanno connessi in una rete, le aree infrastrutturali da trasformare in giardini lineari e servizi ecosistemici, la sua archeologia industriale, il suo reticolo idrografico. L’università è uno degli attori di questo processo, vista la sua diffusione dentro la città e potrebbe mettere a disposizione dei suoi studenti e dei cittadini, una serie di “giardini della conoscenza”, intesi come spazi aperti attrezzati per consentire lo studio individuale così come per organizzare momenti di studio collettivi o attività culturali aperte alla città.

Il seminario, partendo da ricerche e riflessioni progettuali elaborate in questi anni, intende porsi come riflessione su alcune pratiche discutibili, in corso, in città:

–       spazi pubblici, usi privati, per una rinnovata tutela dei beni comuni;

–       l’impatto dei grandi eventi sui luoghi storici e naturali;

–       retorica del verde e riqualificazione urbana speculativa;

–       la mobilità pubblica e la retorica della piantumazione dell’albero come soluzione all’emissione di gas climalteranti generati dal traffico;

–       l’università come attore di rigenerazione urbana e componente della trama verde urbana, per il riuso di spazi pubblici oggi non disponibili per la città;

–       La natura nella città storica.

In occasione del seminario si aprirà anche l’esposizione intitolata come il seminario: “TRA LE MURA E GLI ALBERI. FERRARA UNA POSSIBILE CITTÀ DENTRO UN PARCO”, dove verranno presentati i progetti per Ferrara elaborati, in questi ultimi anni, in otto tesi di laurea del Laboratorio di sintesi finale in Urbanistica, coordinato dal Prof. Romeo Farinella. L’esposizione organizzata nell’androne al piano terra di Palazzo Tassoni rimarrà aperta fino al 18 marzo 2024.

La lotta contro i CPR, le mucche Rosse e le mucche Nere

La lotta contro i Cpr, le mucche Rosse e le mucche Nere

No A Tutti i CPR. No a Ferrara, No in Emilia Romagna, No in Italia, in Albania, ovunque. Perché sono dei lager, dei luoghi di detenzione, di violenza. Perché sono anticostituzionali. Perché sono la negazione dei diritti fondamentali delle persone.
A Ferrara, nella Ferrara leghista e neofascista che a giugno tornerà al voto, sfila la grande marcia per la legalità, il grande corteo, attraversa la città fino a piazza Castello. Alcune migliaia. impossibile contarli: arrivano da tutta la Regione ma tanti, tantissime e tantissimi i ferraresi.
“La battaglia non è finita” – avverte Anna Zonari, candidata sindaca della lista La Comune di Ferrara – “Fratelli d’Italia ora si dicono contrari, ma sono stati loro ad appoggiare la candidatura di Ferrara per costruirci il CPR regionale. Attenti: appena dopo le elezioni torneranno ad essere favorevoli”.

Sicuramente la battaglia sui Centri per il Rimpatrio, un cavallo di battaglia del Governo di Giorgia Meloni – che è riuscita ad esportarli (a pagamento) anche nella vicina Albania –  rimarrà al centro del dibattito politico fino alle prossime elezioni. Due pietre d’inciampo, non due sassolini, ma due enormi massi, ineliminabili: da una parte la questione dei CPR, dall’altra la violenza della polizia contro le manifestazioni sociali e studentesche (vedi i gravissimi fatti di Pisa e di Firenze).

Così, una campagna elettorale  – quella delle Europee come quella delle Amministrative – che era destinata a rimanere nell’iperuranio, nelle schermaglie politiciste, o peggio ancora, in trepida attesa di questo o quel Vannacci e questo o quel fascista in lista, una campagna dove (come sempre) l’elettore medio  avrebbe capito poco o nulla, tanto le mucche rosse sono indistinguibili dalle mucche nere; oggi questa campagna elettorale sembra aver cambiato volto. A Pisa, a Firenze, a Roma. a Ferrara… Oggi le Mucche Rosse le vedi sfilare per tutte le città d’Italia. E le Mucche Nere le riconosci benissimo: stanno chiuse in casa, rosicano e aspettano la rivincita.

La Battaglia contro tutti i CPR, come quella contro la violenza dei corpi di polizia, segnano una svolta. Mettono al centro i diritti, la civiltà, la Costituzione. La libertà, l’uguaglianza, la fraternità (già, guarda chi si rivede?).  Ci fanno capire che abbiamo di fronte due Italie diverse, che sta a noi scegliere: un carcere o una strada aperta, la paura di tutto o i diritti di tutti.

Per certi versi /
Tutto o niente

Tutto e niente

Tutto
E niente
Lo sappiamo
E lo ignoriamo
Il tutto
È l’abbraccio
Il niente
È lo strappo
L’addio
Il tutto
È il ritorno
Nel mezzo
Le parole
Che versano
Oro e sangue

Ogni domenica Periscopio
ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Mi chiamo Ahmad, che significa molto lodevole, uno dei tanti nomi del Profeta, ho otto anni e abito a Gaza.

Mi chiamo Ahmad, che significa molto lodevole, uno dei tanti nomi del Profeta, ho otto anni e abito a Gaza. Non conosco il significato della parola pace, non ho memoria di un tempo in cui non scoppiavano le case. L’odio, la cattiveria, la vendetta, galleggiano nelle pozzanghere ed emergono dalle macerie.

A dire il vero io non so il vero motivo per cui ci odiano e noi odiamo loro, per la terra, che prima era nostra e poi ci è stata tolta, ma loro dicono che duemila anni fa c’erano loro.
Ma io non mi ricordo, mica ero nato.

Tempo fa non era così brutto abitare a Gaza, sì, c’erano tanti funerali, molti erano bambini, scoppiava una casa ogni tanto, un po’ qua e un po’ là, ma riuscivamo anche a ridere. Oggi i funerali non si fanno nemmeno più, non ci sono i cimiteri, non c’è più posto per i morti, della mia classe sono già morti cinque bambini. Dicono che sono morti dei bambini anche dall’altra parte del muro, io credo che i bambini non c’entrino niente con questa guerra dei grandi.

Eppure Dio è con noi, ma noi continuiamo a morire, forse il loro Dio è più forte del nostro, oppure Dio non c’entra niente. Chissà perché ogni tanto si addormenta e non protegge i bambini? Forse è stanco di noi, di tutti noi. Una volta quando scoppiavano meno bombe noi giocavamo a calcio, io ero Messi e un mio amico Ronaldo, ma alle volte eravamo anche altri calciatori. Sognavamo di indossare la maglia numero dieci e il numero lo scrivevamo col pennarello, ma poi la mamma si arrabbiava.

C’è tanta polvere, ieri è morto mio nonno, due miei cugini sono rimasti sotto le macerie, il mio papà è morto tanto tempo fa, quasi non mi ricordo più di lui.
E io? Chissà se le bombe continueranno a mancarmi anche domani?

Cover: 2022, Bambini giocano a calcio per le strada nella striscia di Gaza (foto wow nature)

A chi conviene la violenza sulle donne?

A chi conviene la violenza sulle donne?

Ho apprezzato molto l’intervento di Massimo Lizzi, Noi uomini pacifici e rispettosi siamo davvero sempre pacifici e rispettosi? prima di tutto perché riprende un concetto politico del femminismo anni ’70, non del tutto chiaro o perlomeno non dovutamente evidenziato nei numerosi interventi della stampa e mediatici degli ultimi tempi. La domanda che chiede risposta è se la violenza sulle donne conviene a qualcuno e , in caso affermativo a chi.
La risposta politica del femminismo, ancora influenzato dalle analisi di sistema di impronta marxista, era che la violenza sulle donne fosse funzionale ad un sistema di dominio maschile di matrice capitalista. Lizzi spiega molto bene le ragioni di convenienza dell’indebolimento sistematico delle donne, come competitrici formidabili nel mondo del lavoro: più creative, efficaci ed efficienti sono state contrastate con salari inferiori, con difficoltà a conciliare il tempo di lavoro con gli impegni famigliari, con ricatti sessuali, con mobbing di vario genere. Per queste ragioni le donne hanno spesso rinunciato a privilegiare la carriera e in molti settori pur a netta prevalenza femminile, come la scuola o la sanità, i dirigenti sono spesso uomini.

A questo oggettivo carico di ostacoli nel mondo del lavoro si aggiunge l’ulteriore compito, più che mai urgente, di controllare la propria relazione con il partner. Come scrive acutamente Lizzi: “Nella relazione privata, lei tiene conto del potenziale violento di lui, anche quando lui è un uomo pacifico.”

I commenti che si sono letti sui 118 femminicidi del 2023 e sui 9 del 2024, sono stati quasi tutti di critica a una debole preveggenza femminile, che deve denunciare ai primi segnali, non si deve mettere con individui simili,  si deve proteggere prima. A parte il fatto che Filippo Turetta era un ragazzo modello, che molte avevano denunciato e sono state uccise lo stesso, o forse proprio per questo, tali giudizi indicano come la società stia caricando il mondo femminile di un’ulteriore responsabilità: controllare che la rabbia maschile non degeneri in aggressione, come ha scritto su Periscopio Catina Balotta, La rabbia degli uomini.

Non una parola di autoanalisi maschile, a parte Lizzi, sulla carica di violenza che sentimenti comuni come la gelosia , il desiderio di possesso, l’invidia portano gradualmente con sé, se non riconosciuti, compresi, trasformati. Il lavoro di autocoscienza è stato uno dei pilastri del femminismo anni ’70 nella convinzione tuttora riconfermata dell’importanza di partire da sé,  non da paradgmi esterni, ma da ciò che si sente e si vuole veramente. In altri termini non si diventa un mostro improvvisamente, ma giorno dopo giorno, accumulando false immagini di se stessi, nella mancanza di sincerità, nella pesantezza del silenzio fra i partner.

Tutte le 127 donne uccise fra il 2023 e il 2024 non si immaginavano che quello che un tempo era stato un amore le potesse ammazzare con decine di coltellate, non per stupida ingenuità, ma perché in una donna è molto raro che la rabbia si trasformi in aggressione.
Non riusciamo ad immaginarci quello che non ci appartiene e pretendere che siano le donne a difendersi dagli uomini delega ancora una volta le proprie responsabilità ad altri. Per gli uomini il riconoscimento delle proprie emozioni sarebbe un primo passo per non esserne schiavi, aiuterebbe ad arginare il cieco impulso nella sua corrente distruttiva.
Noi la nostra autocoscienza l’abbiamo fatta, ora, come ha fatto Massimo Lizzi, comincino gli uomini.

Anna Zonari alla manifestazione contro tutti i CPR

Anna Zonari alla manifestazione contro tutti i CPR

Sabato 2 marzo alle 15.00 sarò in Piazzale Poledrelli alla Manifestazione regionale per la chiusura di tutti i Centri di Permanenza per i Rimpatri aperti in Italia e contro l’apertura di nuovi centri.
Dallo scorso novembre, aderisco con convinzione al Comitato NO CPR nato a Ferrara e composto da circa 50 organizzazioni di varia natura, a cui si deve il merito, con le proprie iniziative, di avere interrotto (momentaneamente) la prosecuzione dello studio di fattibilità annunciato allora con esultanza e pubblicamente dal Sindaco Fabbri: “Questo (il CPR) ci consentirà anche di poter chiedere di avere immediato e diretto accesso al sistema di espulsione di soggetti pericolosi per il nostro territorio ferrarese”.
Insieme al senatore Alberto Balboni (“Chi si oppone è contro la sicurezza dei cittadini”), in un primo momento, hanno fatto credere che queste strutture avrebbero contribuito a portare maggiore sicurezza nel territorio, per poi fare dietrofront una volta compreso che un CPR a Ferrara avrebbe fatto perdere loro consenso elettorale.
Girando per Ferrara vediamo ora che la città è stata tappezzata da manifesti in cui Fratelli d’Italia si arroga il merito di averne impedito l’apertura, contrariamente alla linea del Governo Meloni che ne prevede uno in ogni regione italiana. Una sorta di corto circuito: ne volete l’apertura o no? A livello locale siete in dissenso con la linea nazionale della premier? Fateci capire.
Ci sorge un dubbio: alla fine della campagna elettorale, si tornerà alla propaganda CPR uguale sicurezza?
I CPR sono luoghi di detenzione in cui sono rinchiuse persone che non hanno commesso alcun reato penale. Irregolarità amministrative non equivalgono a criminalità. I CPR non sono carceri e non sono sottoposti ai controlli che l’autorità giudiziaria esercita normalmente. Non è pertanto possibile monitorare il rispetto dei diritti umani essenziali, come ampiamente documentato da testimonianze ed indagini.
In questi “non luoghi” avvengono soprusi e violenze che spesso portano ad atti di autolesionismo fino al suicidio, come quello di Sylla Ousmane, rinchiuso nel CPR di Ponte Galeria, avvenuto all’inzio di febbraio.
Inoltre, sono strumenti inefficaci ed inefficienti: i tempi di durata massima della detenzione sono diventati sempre più lunghi. Nel 1998 erano di 30 giorni, nel 2023 sono diventati di 18 mesi, con i relativi costi esorbitanti. A questo però non è corrisposto un tasso crescente di rimpatri, anzi: i rimpatri continuano a diminuire, dal 60% del 2014 si è passati al 49% del 2021.

Anna Zonari candidata a Sindaca di Ferrara

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Presto di mattina /
Quaresima nella città

Presto di mattina. Quaresima nella città

Beatitudine della Quaresima

Quella della Quaresima è una beatitudine in germe. Concepimento di grazia, protesa verso la gioia pasquale, è in cammino sulle orme di Cristo, in ascolto della voce dello Spirito. Non avere timore, non è il vento spettrale; né spegne la tua lampada il suo soffio. Egli è lo Spirito che comunica libertà, fa sorgere la tua luce, guarisce la tua ferita.

Come sui rami spogli sotto indurite scorze si snodano intime e tenere gemme così le beatitudini del Regno, lungo l’austero cammino quaresimale, conturbando l’inverno del disamore nel suo sonno.

Un duplice ascolto: quello della parola di Dio e l’ascolto della povera gente. Qui sta il cuore dell’esercizio spirituale della Quaresima; qui e non altrove sei in ascolto della voce dello Spirito, che mormora in te da quando sei stato portato al fonte battesimale:

«Beati quelli che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica» (Lc 11, 28).

«Beato chi ha cura del debole: nel giorno della sventura il Signore lo libera. Il Signore veglierà su di lui (Sal 41, 2-3).

Quaresima è il tempo per ricevere la forma Christi ed essere conformati all’immagine di colui che è fedele per sempre, rende giustizia agli oppressi, dà il pane agli affamati, libera i prigionieri, ridona la vista ai ciechi, rialza chi è caduto, ama i giusti, protegge lo straniero, sostiene l’orfano e la vedova; colui che farà risplendere su di noi la luce del suo volto (cf. Sal 146).

Il mio canto nuovo sei tu, tu la mia luce

Colui che si fa conoscere lungo i sentieri della Quaresima comunica libertà e liberazione, ci ha ricordato papa Francesco. Così, “stato interessante” è il tempo della Quaresima, gestazione di un canto nuovo, di un sentimento nuovo per un uomo nuovo, quello di colui che ama. «Sopra i retaggi della gente, Tu il mio canto libero che apre all’immensità sorretto da un anelito d’amore, di vero amore» (Lucio Battisti), camminando fianco a fianco Tu ed io.

Concedi ch’io possa rimanere
per un momento al tuo fianco.
Le opere cui sto attendendo
potrò finirle più tardi.
Lontano dalla vista del tuo volto
non conosco né tregua né riposo
e il mio lavoro
diventa una pena senza fine
in un mare sconfinato di dolori.
Ora è tempo di stare tranquilli
a faccia a faccia con te
e di cantare la consacrazione
della mia vita
in questa calma straripante e silenziosa.
Il mio canto ha deposto ogni clamore.
Non sfoggia splendide vesti
né ornamenti fastosi:
non farebbero che separarci
l’uno dall’altro, e il loro artificio
coprirebbe quello che sussurri.
La mia vanità di poeta
alla tua vista muore di vergogna.
O sommo poeta,
mi sono seduto ai tuoi piedi.
Voglio rendere semplice e schietta
la mia vita,
come un flauto di canna
che tu possa riempire di musica.

Quando mi comandi di cantare, il mio cuore
sembra scoppiare di gioia
e fisso il tuo volto
Con l’ala distesa del mio canto
sfioro i tuoi piedi, che mai
avrei pensato di poter sfiorare.
Felice del mio canto
dimentico me stesso
e chiamo amico te
che sei il mio signore.

Luce, mia luce!
Luce che inondi la terra
luce che baci gli occhi
luce che addolcisce il cuore!
(Rabindranath Tagore, Poesie, E-book, REA Multimedia, L’Aquila 2013, 10; 7;52).

E così profetizza Isaia le parole di Jhwh su di noi: anche «la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto».

 Sì, ma quando?

Quando scioglierai le catene inique,
toglierai i legami del giogo,
rimanderai liberi gli oppressi
e spezzerai ogni giogo.
Quando dividerai il pane con l’affamato,
introdurrai in casa i miseri, senza tetto,
nel vestire uno che vedi nudo,
senza trascurare i tuoi parenti.
Allora la tua luce sorgerà come l’aurora,
la tua ferita si rimarginerà presto.
Davanti a te camminerà la tua giustizia,
la gloria del Signore ti seguirà.
Allora invocherai e il Signore ti risponderà,
implorerai aiuto ed egli dirà: «Eccomi!».
Se toglierai di mezzo a te l’oppressione,
il puntare il dito e il parlare empio,
se aprirai il tuo cuore all’affamato,
se sazierai l’afflitto di cuore,
allora brillerà fra le tenebre la tua luce,
la tua tenebra sarà come il meriggio.
Sarai come un giardino irrigato
e come una sorgente
le cui acque non inaridiscono
(Is 58, 5-11).

Quaresima nella città

Quaresima è il tempo della primavera della comunità cristiana e anche della città. In inglese i termini lent e long – quaresima lunga – fanno riferimento ad un primo significato: quello dell’allungarsi delle giornate in primavera. Era l’itinerario di una conversione, quella dei catecumeni incamminati verso la Pasqua all’incontro con Cristo nei sacramenti del Battesimo, della Cresima e dell’Eucaristia. E i neofiti – “nuovi germogli” – i nuovi battezzati sono proprio il segno di questa primavera che fiorisce a Pasqua.

Ci ha ricordato Carlo Maria Martini che la comunità cristiana, al pari della città, è «il luogo di una identità che si ricostruisce continuamente a partire dal nuovo, dal diverso, e la sua natura incarna il coordinamento delle due tensioni che arricchiscono e rallegrano la vita dell’uomo: la fatica dell’apertura e la dolcezza del riconoscimento. Ambrogio le caratterizzava secondo la nota formula: “cercare sempre il nuovo e custodire ciò che si è conseguitoDe Paradiso, 4,25 (Paure e speranze di una città, Discorso del Card. C. M. Martini al consiglio comunale di Milano alla fine del suo episcopato 28 giugno 2002).

Si legge nel libro del Siracide (4, 1-5): «Figlio, non rifiutare il sostentamento al povero, non essere insensibile allo sguardo dei bisognosi. Non rattristare un affamato, non esasperare un uomo già in difficoltà. Non distogliere lo sguardo dall’indigente. Da chi ti chiede non distogliere lo sguardo».

… a misura di sguardo

La Quaresima ci chiede così di vivere «la città a misura di sguardo», perché proprio la città permette tutta una serie di relazioni di prossimità, tra le quali, però, va prediletto lo sguardo rivolto ai deboli. Ci chiede infatti di pensare «la città per i deboli».

Scrive ancora Martini: «Ed è soprattutto ai deboli che va il nostro pensiero. È inutile illudersi: la storia insegna che quasi mai è stato il pane ad andare verso i poveri, ma i poveri ad andare dove c’è il pane. “Scegliersi l’ospite è un avvilire l’ospitalità” diceva Ambrogio (Exp. Luc., VI,66). Ma ciò non significa un’accettazione passiva, subìta e dissennata, né l’accoglimento solo di quell’ospite che sia simile a noi: il magnanimo ospitante non teme il diverso, perché è forte della propria identità.

Il vero problema è che le nostre città, al di là delle accelerazioni indotte da fatti contingenti, non sono più sicure della propria identità e del proprio ruolo umanizzatore, e scambiano questa loro insicurezza di fondo con una insicurezza di importazione. E invece il tarlo è già in esse ed è qui che lo si deve combattere con lucidità, vedendo la città come opportunità e non solo come difficoltà. La città va scelta e costruita con intelligenza e con magnanimità…

Parrebbe a volte che la città – in particolare nei suoi membri più potenti – abbia paura dei più deboli e che la politica urbana tenda a ricercare la tranquillità mediante la tutela della potenza. Non è la lezione di Ambrogio, per il quale la politica è eminentemente a servizio dei più deboli. Questo non è un invito vagamente moralistico, ma ha efficacia politica.

La paura urbana si può vincere con un soprassalto di partecipazione cordiale, non di chiusure paurose; con un ritorno ad occupare attivamente il proprio territorio e ad occuparsi di esso; con un controllo sociale più serrato sugli spazi territoriali e ideali, non con la fuga e la recriminazione. Chi si isola è destinato a fuggire all’infinito, perché troverà sempre un qualche disturbo che gli fa eludere il problema della relazione: dice Ambrogio: “comune è il dovere di intrattenere relazioni” (Exameron, V, ser. VIII, 21,66)».

Dio delle città

«Uomini soli» è una canzone dei Pooh del 1990. Narra storie di solitudine e di emarginazione in un contesto sociale sempre più individualista, dove è difficile comunicare e agire per un cambiamento, un’integrazione segnata dall’amore. Così Dio è invocato come Dio delle città e dell’immensità, non solo di lassù, ma di quaggiù; tessitore di umanità nell’umanità del Figlio venuto a riannodare i fili perduti. E tutto ciò per dire che l’uomo non è solo, abbandonato fino in fondo.

Dio delle città e dell’immensità
se è vero che ci sei e hai viaggiato più di noi
vediamo se si può imparare questa vita
e magari un po’ cambiarla
prima che ci cambi lei.
vediamo se si può
farci amare come siamo
senza violentarci più
con nevrosi e gelosie

Ma Dio delle città e dell’immensità
magari tu ci sei e problemi non ne hai
ma quaggiù non siamo in cielo
e se un uomo perde il filo
è soltanto un uomo solo.

Il povero nella città (G. Ungaretti)

Anche il poeta volge lo sguardo al povero per dire di sé, della precarietà del vivere e di quel patire che genera solidarietà. Il poeta è un povero della parola, che tuttavia sa cogliere con le parole i legami ermetici, impenetrabili, nascosti nelle cose e negli eventi.

Il povero nella città (con un saggio di Carlo Ossola, SE, Milano 1993) è un testo poco noto, nel quale Ungaretti ha voluto raccogliere le sue prose, considerate – da Angelo Romanò in un articolo su Vita e Pensiero (3/1950, 160) – «come preziosa preparazione, come premessa alla formulazione della sua poetica».

Il poeta francese, Saint-John Perse dirà di Ungaretti: un «poeta, di cui l’atto poetico fu innanzitutto testimonianza d’essere umano». Così egli è grido d’uomo che sillaba pure la sua prosa, narrando il suo patimento d’uomo e d’uomini. In un certo senso si potrebbe dire che il povero, il viandante ci mostrano la strada dell’umano nella città, come al poeta il suo lavoro: «… i miei studi non potrebbero avere altra mira se non il mio lavoro di poeta: non potrebbero averne altra, e in quella stessa guisa che a tale lavoro fatalmente convergono, ispirandolo, le varie esperienze della mia vita» (Romanò, 158).

Nel saggio, Ungaretti ricorda una particolare figura di povero, il faqir, mendicante asceta originario della civiltà dei deserti, itinerante tra città «che porta con sé non solo la storia di una povertà e di un’esclusione, ma soprattutto il privilegio di una grandezza non più sottoposta alla misura, all’ingombro delle cose» (Carlo Ossola).

Scrive Ungaretti: «Ciò che si sa meno è che esiste tra gli Arabi un tipo – un modo d’essere umano – al quale danno il nome di faqir. E costui, chi sarà mai? Non è colui che fachiro s’usa abitualmente chiamare. Non è il mangiatore di fuoco, l’ingoiatore di spade… Il mio fachiro è, come dice in arabo faqir, semplicemente un povero.

Il matto e il povero nella mente dell’Arabo sono un po’ la medesima idea: l’uomo che non fa conti e non ha vincoli, che è armato d’una forza occulta; l’uomo che governano una debolezza e una forza smisurate; l’uomo che è debole come è uno all’inizio e al termine dell’avventura terrena: quando si nasce e si è per forza nudi, e, dopo, quando si è sprecata, in pochi o molti anni, la ricchezza immensa che è la vita. Il faqir è anche l’uomo che è forte, l’uomo che testimonia che solo vive chi vede l’Angelo… veggenza dell’invisibile».

Al suo popolo e alla città «il faqir ricorda l’origine, la sorte, le vicende della sua storia; ma soprattutto il faqir è il segno vivente del sacro, uno che è libero perché è protetto da gesti e da parole strani, incomprensibili; di più: uno che è sorto a simbolo di libertà» (ivi, 14-15; 18).

Dio nella città

Quand’era ancora cardinale, papa Francesco pronunciò il discorso Dios en la ciudad durante il I Congresso di pastorale urbana a Buenos Aires nel 2011. Il testo di questo discorso, insieme ai paragrafi sulla città del Documento conclusivo della V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi nel 2007 tenuto ad Aparecida, sono raccolti in un libro: Dio nella città, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi), 2013.

In quell’occasione Francesco ricordava la felice espressione di Aparecida: “Dio vive nella città”. «La fede c’insegna che Dio vive nella città, all’interno delle sue gioie, dei suoi aneliti e delle sue speranze, come dei suoi dolori e delle sue sofferenze.

Le ombre che segnano il quotidiano delle città, come per esempio la violenza, la povertà, l’individualismo e l’esclusione, non possono impedirci di cercare e di contemplare il Dio della vita anche negli ambienti urbani.

Le città sono luoghi di libertà e di opportunità. In esse le persone hanno la possibilità di conoscere altre persone, di interagire e di convivere con esse. Nelle città è possibile fare l’esperienza di nuovi vincoli di fraternità, di solidarietà e di universalità. In esse, l’essere umano è chiamato sempre più costantemente ad andare incontro all’altro, a convivere con il diverso, ad accettarlo e a esserne accettato» (DA, 514).

Una città a misura dello sguardo della fede

«Si può dire che lo sguardo della fede ci porta a uscire ogni giorno e sempre più incontro al prossimo che abita nella città. Ci porta a uscire incontro all’altro, perché si alimenta con la prossimità. Non tollera la distanza, poiché percepisce che essa rende confuso ciò che vuol vedere; e la fede vuol vedere per servire e amare, non per constatare o dominare.

Uscendo per le strade, la fede limita l’avidità dello sguardo di dominio e aiuta il prossimo – quel prossimo concreto, che guarda con il desiderio di servirlo – a mettere meglio a fuoco il suo stesso “oggetto proprio e amato”, Gesù Cristo venuto nella carne. Chi dice di credere in Dio e “non vede” suo fratello, inganna se stesso.

Il perfezionamento nella fede in questo Dio che vive nella città rinnova la speranza di nuovi incontri. La speranza ci libera da quella forza centripeta che porta l’attuale cittadino a vivere isolato nella grande città, in attesa di riscatto e connesso solo virtualmente.

Il credente che guarda con la luce della speranza combatte la tentazione di non guardare, restando trincerato dietro i bastioni della propria nostalgia o lasciandosi muovere dalla sete del gossip. Il suo non è lo sguardo avido del “vediamo che è successo oggi” dei notiziari.

Lo sguardo della speranza è simile a quello del Padre misericordioso, che esce tutti le mattine e tutte le sere sulla terrazza di casa per attendere il rientro del suo figlio prodigo, e appena lo scorge da lontano gli corre incontro e lo abbraccia.

In tal senso, lo sguardo della fede, come si alimenta di prossimità e non tollera la distanza, così anche non si sazia del momentaneo e del circostanziale, e perciò, per ben vedere, si coinvolge nei processi che sono propri di tutto ciò che vive. Lo sguardo di fede, nel coinvolgersi, agisce come fermento. E visto che i processi vitali richiedono tempo, li accompagna…

La misericordia crea la vicinanza più grande, che è quella dei volti, e visto che intende aiutare davvero, cerca la verità che fa più male – quella del peccato – ma per trovare il vero rimedio. Questo sguardo è personale e comunitario» (ivi, 35-37; 42-43).

Quali i segni della presenza di Dio nella città?

Per me sono l’esperienza, il vissuto, personale e comunitario del Padre nostro, delle Beatitudini e della scelta preferenziale dei poveri. Ben più articolata è la risposta nel Documento di Aparecida (383) che ricorda i segni della presenza del Regno di Dio nella città:

«I segni evidenti della presenza del Regno sono, tra gli altri: l’esperienza personale e comunitaria delle beatitudini, l’evangelizzazione dei poveri, la conoscenza e l’adempimento della volontà del Padre, il martirio per la fede, l’accesso a tutti i beni della creazione, il perdono reciproco, sincero e fraterno, l’accettazione e il rispetto della ricchezza presente nella pluralità, la lotta per non soccombere alla tentazione e per non essere schiavi del male».

Ed Egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva:

«Beati voi, poveri,
perché vostro è il regno di Dio.
Beati voi, che ora avete fame,
perché sarete saziati.
Beati voi, che ora piangete,
perché riderete
(Lc 6,20-21).

La sua dimora è tra i poveri

Questo è il tuo sgabello:
riposaci i piedi, qui
dove vivono i più poveri,
gli umili, i perduti.
Quando cerco di inchinarmi a te,
i miei ginocchi non toccano
il profondo in cui i tuoi piedi
riposano tra i più poveri
umili e perduti al mondo.
Nessun orgoglio può mai arrivare
dove cammini tu, che hai indosso
le vesti dei più poveri,
umili e perduti.
Il mio cuore non sa imboccare
la giusta via per scendere laggiù
in fondo, per fare compagnia a quelli
che non hanno compagni, tra i più poveri
umili e perduti al mondo.
(Tagore, Gitanjali. Canti di offerta, San Paolo, Cinisello Balsamo MI, 1993, 36)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Noi uomini pacifici e rispettosi siamo davvero sempre pacifici e rispettosi?

Noi uomini pacifici e rispettosi siamo davvero sempre pacifici e rispettosi? Gli ostacoli interiori ed esteriori della dissociazione maschile dalla violenza.

«Perché gli uomini non si dissociano dalla virilità distruttiva? Quali ostacoli interiori ed esteriori li trattengono?».
Cosa potremmo fare? In verità, quando la virilità distruttiva è la guerra, ci dissociamo, tanto da aver dato vita a un movimento capace di grandi mobilitazioni, un movimento divenuto soggetto politico: il pacifismo.
Invece, quando la virilità distruttiva è la violenza maschile sulle donne, siamo capaci di fare poco e nulla, ad eccezione di alcune valorose piccole minoranze di volenterosi.
Gli stessi uomini che si reputano «rispettosi» evitano di assumersi una responsabilità, rimangono indifferenti o, peggio, difendono il proprio sesso di appartenenza («Non tutti gli uomini…»; «Anche le donne…»), se si sentono chiamati in causa.
Solo molto di recente, alcuni opinionisti della grande stampa hanno iniziato a inquadrare la violenza sulle donne come questione maschile, ottenendo perlopiù il consenso femminile. In particolare, è successo a seguito del femminicidio di Giulia Cecchettin, uccisa a novembre dal suo ex, Filippo Turetta, il quale rifiutava la separazione. Perché la maggioranza degli uomini sembra rimanere indifferente?
Viene in mente come prima risposta che femminicidi, stupri, maltrattamenti, siano ancora percepiti dalla maggioranza degli uomini solo come questione penale, per cui vale la responsabilità individuale. Casi di cronaca nera mista a cronaca rosa. Riguardanti unicamente lui, un matto squilibrato, lei, una che ha sbagliato a sceglierlo o a non mollarlo per tempo.

I mostri, figli sani del patriarcato

Perciò, è una cosa buona l’irrompere del concetto di patriarcato nel dibattito pubblico sui femminicidi. Perché oppone alla lettura psicologica, individualistica, di cronaca, una lettura politica, che vede nella violenza l’espressione di un sistema di potere, sociale e culturale, a dominanza maschile.
Che questo sistema di potere sia in grave crisi non è in contraddizione con l’essere così tanto evocato. La crisi di un ordine sociale e simbolico fa sì che non sia più percepito come ordine naturale, permette che sia svelato e riconosciuto nella sua parzialità, quindi che sia nominato e denunciato, nei suoi retaggi e nelle sue rigenerazioni. Bujar Fandaj, l’assassino femminicida di Vanessa Ballan, prima del delitto ha scritto su TikTok: «Mia madre mi ha cresciuto come la persona più gentile e dolce che tu abbia mai incontrato, ma se mi manchi di rispetto scoprirai perché porto il cognome di mio padre». Non somiglia a una consapevole rivendicazione patriarcale?
Il concetto di patriarcato lo ha rilanciato Elena Cecchettin, sorella di Giulia, in una lettera al Corriere della Sera del 19 novembre, riprendendo un antico slogan femminista, proprio per affermare l’esistenza di una responsabilità collettiva: «I mostri non sono malati, sono figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro».
La lettera ha suscitato insistite resistenze. Per settimane, i talk-show di Mediaset si sono chiesti se il patriarcato c’entra con i femminicidi. Per rispondersi sempre di no, senza però mai riuscire a liberarsi da quella domanda.
Secondo la visione delle femministe americane degli anni ’70, la violenza maschile è una funzione della società maschilista.
Fa gioco a tutti gli uomini, violenti e non violenti, perché intimidisce e stressa tutte le donne a vantaggio di tutti gli uomini. Sia nelle relazioni private, sia nelle relazioni pubbliche.
Nella relazione privata, lei tiene conto del potenziale violento di lui, anche quando lui è un uomo pacifico. Nelle relazioni pubbliche, spesso relazioni competitive, lei, quando vittima di violenza, deve gestire lo stress del maltrattamento, sottraendo tempo ed energia alla gestione dello stress del lavoro e della carriera, con relativo beneficio dei competitori maschili.
Allora, può essere che la maggioranza maschile intuisca che, in fondo, la violenza sulle donne, più che una deviazione, sia una misura d’ordine favorevole agli uomini. Che, peraltro, se uomini buoni, permette loro di proporsi come protettori, tutori, controllori. O di ottenere un premio di fiducia per il solo fatto di non nuocere.

Siamo davvero sempre pacifici e rispettosi?

D’altra parte, noi uomini pacifici e rispettosi siamo davvero sempre pacifici e rispettosi?
C’è chi ha proposto un #metoo alla rovescia. Se tante donne, almeno una volta nella vita, hanno subito violenza, altrettanti uomini, almeno una volta nella vita, hanno inflitto violenza.
Per parte mia, credo di aver reagito in modo abbastanza corretto ai rifiuti, perché in genere corrispondenti alle mie aspettative. Non posso sempre dire altrettanto della gestione delle relazioni e, in particolare, degli abbandoni, perché questi contrastavano con le mie aspettative. Specie, in un paio di situazioni, tipo quelle descritte da Dora Casadio, nelle quali durante l’amicizia tra un uomo e una donna, è l’uomo a innamorarsi della donna, perché lui scambia per reciprocità la disposizione di lei allo scambio intimo; per lui è un fatto eccezionale, mentre per lei è naturale. Perciò, ad alcune mie amiche, compagne, ho inflitto scene di gelosia quando mi sembrava fossero troppo amiche di altri uomini, o conversazioni coercitive, con toni insultanti, sarcastici, sminuenti, quando mi pareva che le loro opinioni divergessero dalle mie e, peggio, convergessero con quelle dei miei avversari. Così come ho vincolato più del tollerabile donne che non volevano avere più a che fare con me. Nulla di estremo, ma comportamenti conformi con lo schema di pensiero del potenziale femminicida.
Mi era oscura la mia interiorità? Non sapevo gestire le mie emozioni? Ero incapace di elaborare i miei sentimenti? Può darsi. Così mi presentavo quando era il momento di scusarmi. Una persona confusa che genera confusione nell’altra persona. Il dottor Jekyll che non sa spiegarsi il mister Hyde. Una forma di inganno e autoinganno. Perché, quando (forse) non sai gestire le tue emozioni negative, gelosia, rabbia, delusione, senso di abbandono, una cosa la scopri subito e impari a gestirla presto. L’espressione delle emozioni negative ha un potere manipolatorio. Lei, finché non arriva al punto di rottura, si mette sulla difensiva, si scervella per capirti, e accetta limitazioni. Questo, in una relazione nella quale ti senti inadeguato rispetto al dovuto, ti dà una sensazione dopante di potere a cui preferisci non rinunciare, fino a sondare il limite cui puoi arrivare.
Per un uomo, dissociarsi dalla violenza maschile può avere un effetto proiettivo, che gli permette di chiamarsi fuori nel breve termine. Ma, se la dissociazione è seria, riflessiva, duratura, l’effetto ti trasforma anche se non persegui l’obiettivo della trasformazione. Perché è difficile sfuggire di continuo al riconoscere parti di sé negli uomini che dici di voler isolare.
Questo effetto specchio, con relativo senso di colpa, può essere l’ostacolo interiore alla dissociazione dalla violenza. Come il vantaggio sociale che deriva agli uomini dalla violenza è l’ostacolo esteriore.
(Via Dogana 3, www.libreriadelledonne.it, 30 dicembre 2023)

Storie in pellicola /
“Who Wants To Live Forever”, un corto dedicato al pianeta

Studenti di tutto il mondo, coordinati da Matteo Valenti dello IED di Milano, hanno realizzato un bellissimo cortometraggio sul futuro della nostra Terra. 

Grandezza e progresso morale di una nazione si possono giudicare dal modo in cui tratta gli animali. Mahatma Gandhi

A colpire immediatamente sono le note di una delle più celebri canzoni dei Queen, “Who Wants To Live Forever”, famosa colonna sonora di “Highlander”, e subito dopo le immagini.

Stesso nome del toccante ed empatico cortometraggio dedicato alle difficoltà della nostra Madre Terra, un grande interrogativo sul suo futuro e su quello dei suoi abitanti.

L’opera corale è stata realizzata da un gruppo di studenti provenienti da scuole di animazione di tutti i continenti, coordinati da Matteo Valenti, docente dell’Istituto Europeo di Design (IED) di Milano, e donato al Brian May’s Save Me Trust”.

Sei le Università e Accademia coinvolte. Per l’Europa, lo IED Milano, per il Nord America la University of the Arts di Philadephia, per l’Asia, la Tokyo Zokei University, per il Sud America, il Núcleo de Animação PUC, di Rio de Janeiro, per l’Oceania, la Griffith Film School di Brisbane, per l’Africa, il Creatures Animation Hub di Kampala. Ciascuna rappresenta un “capitolo” del racconto, ossia uno per ogni Continente ed ecosistema.

Il punto di vista è quello degli animali, sono loro a vedere cosa succede, loro a subire gli influssi nefasti dell’uomo che hanno spinto madre natura sull’orlo del baratro, con tante specie a rischio estinzione, loro a metterci in guardia. Contro l’inerzia dei giusti.

Si riconoscono i cacciatori di frodo, il collasso degli ecosistemi, gli incendi delle foreste, le fuoriuscite di petrolio, il possibile triste epilogo.

Una cruda poesia, impattante, avvolgente, sconvolgente, che ci fa capire come non si possa più attendere e stare semplicemente a guardare.

Il corto è stato anche proiettato alla COP26 di Glasgow, nel 2021. Il corto sarà proiettato allo European Projects Festival di Ferrara il 4 aprile alle 1830, nell’ambito della rassegna di cortometraggi europei, provenienti dalle ultime tre edizioni del festival internazionale Ferrara Film Corto “Ambiente è Musica”.

Qui, intanto, lo possiamo vedere integralmente.

Animal Equality: foie gras? No grazie! Stop all’alimentazione forzata

Animal Equality: foie gras? No grazie! Stop all’alimentazione forzata.

È grasso perché, risultato dell’alimentazione forzata, è grande dieci volte più di un fegato sano. Dunque è un fegato malato, ottenuto nel modo che Sean Thomas, Direttore Internazionale delle Investigazioni di Animal Equality, racconta così: «Ho visto centinaia di anatre stipate in piccoli recinti. Erano appena state nutrite a forza ed erano ricoperte del loro stesso vomito. Molte presentavano ferite causate dai grandi tubi di metallo spinti nelle loro gole per alimentarle forzatamente. Alcune avevano persino il becco rotto e infezioni che bloccavano la loro gola».

Due dettagli: i tubi utilizzati sono lunghi 20/30 cm, e l’ingozzamento o gavage viene praticato più volte al giorno.

Sono oltre dieci anni che Animal Equality, fondazione internazionale nata nel 2006 e che in Italia opera come associazione noprofit onlus (fondatore dell’AE Italia Matteo Cupi) svolge indagini all’interno degli allevamenti e cerca di ottenere il divieto di questa pratica, sensibilizzando l’opinione pubblica, lanciando petizioni, facendo pressioni sui diversi governi e sul Parlamento Europeo. Il 16 febbraio del 2022, una brutta sorpresa: proprio il Parlamento Europeo approva una relazione dell’eurodeputato francese Jérémy Decerle secondo la quale sia la triturazione dei pulcini maschi e degli anatroccoli sia il gavage di anatre e oche non ledono il benessere animale. Questo accade dopo che in ben 22 Paesi europei, tra cui l’Italia, il gavage è proibito da anni (da noi, dal 2007) e oggetto di sanzioni, e chi insistesse potrebbe andare incontro anche a una sospensione dell’attività.

Allevamento intensivo di oche

Ma vietare l’alimentazione forzata non basta. C’è una grande ipocrisia in merito. In Italia, e non solo in Italia, il foie gras si può infatti tranquillamente importare e commerciare, per la gioia dei palati “raffinati”. La battaglia, quindi, non si ferma. Oltre a cercare di estendere il divieto di produzione a tutti i Paesi europei nonché al resto del mondo, prima ancora di ottenere finalmente anche il divieto di commercializzazione è importante sollecitare le catene di supermercati affinché, di propria iniziativa, smettano di vendere “il cibo più crudele”. La prima catena ad aderire alla proposta è stata la Coop, nel 2012, e adesso altre catene si stanno accodando.

Non sarà facile fermare la produzione negli Stati Uniti, in Canada, in Spagna (solo in Spagna, si contano oltre un milione di anatre e oche chiuse nei capannoni per l’ingozzamento). In Inghilterra, il governo ancora non ha dato una risposta chiara, e allora si sono mobilitati l’attore e attivista Peter Egan e lo chef stellato Alexis Gauthier: sono andati a bussare al n. 10 di Downing Street per consegnare direttamente nelle mani del Primo Ministro le firme raccolte con la petizione lanciata da Animal Equality.
Ad oggi le firme sono circa 68.000, il traguardo da raggiungere è 100.000. Di fronte a un tale numero, si potrà far finta di niente?

Questo il link per firmare:
https://animalequality.it/foie-gras-stop-alimentazione-forzata/#:~:text=Stiamo%20chiedendo%20al%20Governo%20italiano,su%20tutto%20il%20suolo%20europeo.

Quella cosa chiamata città /
BENVENUTI AD AMMAN

BENVENUTI AD AMMAN

La prima parola che ti accoglie ad Amman e in Giordania, e ti accompagna per tutto il soggiorno, è Welcome. Ovunque vai, chiunque incontri il rapporto che stabilisci inizia con questa parola di benvenuto. Le grandi città mediorientali sono sempre difficili da interpretare. Sono ricche di storia, ma di questa rimangono spesso solo dei frammenti. Amman è una città millenaria, ma le stratificazioni delle tante storie che l’hanno formata le leggi con difficoltà.

Volo di notte

Non è Gerusalemme e nemmeno Damasco, il suo suk non è comparabile con quello perduto di Aleppo; questo però non significa che sia meno interessante. Per capirne il divenire devi entrare negli interstizi dove trovi i ritagli della sua storia. Da questo punto di vista, la città è più una stratificazione di sensazioni e impressioni che di forme urbane e edifici. Proviamo a metterne in ordine qualcuna. Partiamo dal viaggio. Si è svolto nel buio che dalle diciassette ricopre tutto il Mediterraneo orientale e il Medio Oriente nel periodo invernale.

Il cielo è buio ma lancia tanti messaggi. Il nero dominante assume tante forme che si notano quando le luci fuoriescono dall’oscurità. Queste assumono tre conformazioni distinte (perlomeno in questo viaggio) che però a volte si intrecciano.
Innanzitutto, il punto luminoso che si fa largo nel buio indicando la presenza di un insediamento isolato. Quando si associa ad altri punti luminosi, prossimi ma non vicini, assume la forma di una costellazione vista all’incontrario, dall’alto in basso.
Poi abbiamo il filamento, ovvero l’allineamento di tanti punti lungo una linea (una strada) che diviene una direttrice luminosa che serpenta nel buio. Può capitare che questa direttrice si incroci con altre dando vita a trame irregolari che ci fanno immaginare un reticolo urbano. In questo caso il filamento diviene la componente di una nebulosa che muta a seconda della geografia dei siti che la supportano e che io posso solo immaginare.
Nella nebulosa la varietà delle luci è molteplice, se le direttrici che la compongono spiccano per l’intensità della luce emessa, sui bordi tende ad abbuiarsi perché si entra nel territorio dell’ignoto, perlomeno per chi guarda da diecimila metri di altezza.

Quando si sorvola una città la nebulosa diventa grande, le superfici luminose si possono alternare a zone buie. Si può presupporre che se la luce diventa intensa e assume una conformazione lineare sinuosa o ad arco, al buio corrisponda il mare, mentre se diverse nebulose si alternano l’un l’altra, i pezzi di nero ricompresi la cittsono probabilmente dei crinali collinari o montani, ma può capitare che le luci determinino delle geometrie visibili come nel caso delle città pianificate attraverso una griglia. Mentre la mia mente associa quello che sto vedendo a queste riflessioni sulle forme della luce nel buio, l’aereo tocca terra, siamo ad Amman, siamo entrati nel cuore della nebulosa.

La strada, metafora della quotidianità

Per descrivere la quotidianità di una metropoli come Parigi, un etnologo è entrato nel metrò; per descrivere la quotidianità di chi si muove nella area metropolitana di Amman è necessario ricorrere ai trasporti collettivi, anche per recarsi nelle città vicine, respingendo le sirene del taxi per turisti sempre squillanti. È necessario inoltrarsi lungo le strade che attraversano la città. La strada è una metafora della quotidianità. In essa la socialità da forma al movimento, questo intreccio costituisce la rappresentazione della vita di ogni giorno. La città è essenzialmente un insieme organizzato di strade. Ogni principio di organizzazione ha le sue regole che, se non comprendiamo, non necessariamente significa che si tratti di disordine, ma forse di un altro ordine rispetto a quello a noi consueto.

 

E la folla in movimento costituisce uno degli spettacoli più emozionanti delle città, descritto e rappresentato nel corso del tempo dai narratori delle metropoli. Ogni giorno migliaia di persone si muovono da un punto all’altro e basta osservarne alcuni, nodali, per rendersi conto della intensità, della fatica e anche drammaticità, dei movimenti dei corpi nello spazio.

ll “bus di linea” di mutuo soccorso

La mobilità urbana collettiva ad Amman e in tutto il Medio Oriente, nel nord Africa, nei paesi subsahariani e in tante altre parti del mondo, dove le città reali non sono e probabilmente non saranno mai smart [Vedi qui], si articola in diverse maniere con modalità che spesso si integrano.
Ruotano attorno al taxi e al taxi collettivo. In alcuni punti strategici, posti lungo le direttrici di accesso alla città, sono posizionate le grandi stazioni degli autobus che collegano la capitale alle più importanti località del paese, mentre i taxi collettivi di solito uniscono le città e i paesi che gravitano nell’area metropolitana.

In questi furgoni, la presenza di turisti occidentali è sporadica, totalmente assenti sembrano essere gli orientali. A Jerash siamo andati con il taxi collettivo. Il rito è sempre lo stesso, quando il furgone è carico si parte e almeno 20-30 minuti di attesa vanno messi nel conto, ma sono minuti preziosi per capire le regole di formazione del “carico”, in realtà più che capire, intuire, essendo tutti i dialoghi in arabo. A Madaba siamo andati invece con il “bus di linea”. Una linea che ha come unica certezza il punto di partenza e il tragitto. I tempi di percorrenza sono del tutto aleatori, perché il “bus di linea” svolge un vero servizio sociale, ovvero si ferma per ogni esigenza, per far salire persone che conoscendo il tragitto si fanno trovare in un punto e in vista del bus in arrivo iniziano ad agitarsi sul ciglio della strada. Strade, va detto, dove ci si può fermare ovunque, come ad esempio nel mezzo di una rotonda perché un taxi giallo (quelli economici) arriva strombazzando all’impazzata perché porta una signora che deve salire.

Ad un certo punto, qualcuno inizia ad urlare dal fondo del bus e l’autista sempre tranquillo, mai alterato, si ferma e lo fa scendere e gli restituisce anche qualche moneta. Evidentemente il signore ha deciso di scendere prima della località dichiarata quando era salito.
Per pagare il biglietto non c’è un momento preciso, quando sali, quando scendi, quando l’autista decide di fermare il bus e passare a riscuotere il denaro, e poi caso mai scendere perché ha finito le sigarette e il tè e va rifornirsi in une delle innumerevoli baracche lungo la strada che offrono questo servizio, direttamente ai viaggiatori. Basta fermarsi, abbassare il finestrino, ordinare la commande, pagare e via che si riparte.

Insomma, negli spostamenti di questi “bus di linea” infraurbani vige una sorta di spirito di “mutuo soccorso”, si cerca di accontentare tutti. Del resto, chi usa questi mezzi è consapevole che non potrà gestire il proprio tempo come vorrebbe, perché vige una sorta di adattamento alle dinamiche dei tempi delle varie persone che usufruiscono del servizio. Quindi si sa quando si parte, non sempre quando si arriva, dipende dalle condizioni locali.
Se la variabile tempo è un vincolo ci sono i taxi e i trasporti privati, che ovviamente la gran parte della popolazione non può permettersi. Questi tragitti sia verso Madaba che Jerash attraversano tre situazioni, l’agglomerazione metropolitana, un tratto di campagna puntellata da edifici e catapecchie un po’ ovunque, con paesaggio brullo ma ricco di ulivi e infine le periferie delle città, che non sono molto diverse dalle aree centrali.
Mentre si esce dalla stazione di Amman, può capitare di trovare, in terreno libero posto in un crocevia di autostrade urbane, una tenda beduina e due dromedari che ti guardano con distacco, mentre mangiano la loro erba.

IL taxi è imprescindibile

Per la mobilità in città il ruolo del taxi è imprescindibile, non si può pensare di muoversi da una parte all’altra della città senza ricorrere alla “macchina” gialla. Queste girano ininterrottamente, ti accompagnano passo dopo passo, specie se sei inquadrato come turista e occidentale, accompagnando il tuo percorso, per un certo tratto, con piccoli richiami di clacson. Sembra quasi che l’autista pensi e speri che prima o poi ti stancherai di camminare.
Analoga situazione la ricordo in numerosi paesi africani. Solitamente l’occidentale che va in questi paesi per lavoro o per turismo concorda con l’albergo o con conoscenti il trasporto in città. Per prendere un taxi spesso si viene sottoposti a quello che gli amici senegalesi chiamano le parcours du combattant. Ogni qualvolta un occidentale si appresta a percorrere, non accompagnato da un locale, un tratto di strada in città, in aeroporto o in un mercato, una folla di persone lo accerchia proponendogli di acquistare qualcosa, chiedendogli informazioni riguardanti il paese da cui viene salvo poi scoprire che il suo interlocutore ha un amico o un parente addirittura nella tua città di residenza.

L’area centrale di Amman (foto di Romeo Farinella)

Ricordo a Dakar (dove non è consueto camminare per strada, specie se sei bianco) che camminavo e nel mentre parlavo con il taxista che mi seguiva passo dopo passo e attraverso il finestrino aperto mi chiedeva da dove venivo, mi augurava il benvenuto, cercando di convincermi a salire sulla sua auto. Va detto che questi viaggi in taxi non sono mai silenziosi ma sono scanditi da dialoghi intensi e in Senegal, se parli francese, e ad Amman, se hai la fortuna di trovare un taxista che parla inglese (non frequente) scendi carico di informazioni e riflessioni sulla città, sulla loro quotidianità e anche a te vengono richieste informazioni sul tuo paese, sulla tua vita, e sei contento perché scopri che gli italiani sono tra tutti gli occidentali i più amati: sincera dichiarazione di amore o strategia di marketing? Forse entrambe le cose, anche se i senegalesi mi dicevano che amano l’Italia perché è l’Afrique d’Europe, dove vige l’art de la débrouille (l’arte dell’arrangiarsi) mentre i Giordani amano l’Italia (perlomeno alcuni dei taxisti che abbiamo incontrato) perché ritengono arabi e italiani “una faccia, una razza”.

Ad Amman i prezzi dei taxi gialli sono talmente bassi che costituiscono anche per i locali l’unica possibilità di muoversi in città e l’importanza di questo mezzo per la mobilità urbana, ma anche per l’economia familiare la verifichi innanzitutto nella quantità di auto in circolazione. La vivi anche nell’animosità con cui i taxisti discutono e litigano tra di loro per caricarti. Ci è capitato alla stazione dei bus di Amman, tornando dal Wadi Rum, ma ricordo una situazione analoga all’aeroporto di Tunisi dove ad un certo punto mi è capitato di avere una valigia, in un taxi e la seconda in un altro, finché l’arrivo provvidenziale del Raʾīs (dei taxisti) non ha sistemato le cose, le valige si sono ricongiunte e io sono partito verso la città.

Vi sono anche i taxi bianchi ma di norma li prendono i turisti non adusi a trattare il prezzo. Si potrebbe dire con una battuta che i taxi bianchi li prendono i turisti mentre quelli gialli i viaggiatori, in ogni caso un Hotel non ti chiamerà mai un taxi giallo, o bianco ma privato (di norma parente o amico del concierge che effettua la riservazione) e ovviamente i prezzi si possono trattare.

Dentro il sukdi Amman (foto di Romeo Farinella)

Il viaggio in taxi, in Giordania, in Senegal, ma anche in Brasile, non è mai un semplice spostamento da un punto all’altro, è quasi sempre una condivisione di un frammento di vita comune, alimentato da uno scambio di esperienze, importante per conoscersi reciprocamente. Se poi ti capita di muoverti con un taxi per un tratto abbastanza lungo, come è capitato a noi tra Petra e Wadi Rum, scendi con i recapiti di un amico su cui puoi sempre contare se torni da quelle parti.

La vita attorno e lungo le strade è uno dei caratteri dominati di Amman e di tante città che alternano lungo i tracciati attività e professioni, informalità e urbanizzazioni. Entrando in città lungo la strada trovi di tutto, dal piccolo artigiano che ti può risolvere un problema, al rivenditore specializzato, dall’emporio-bazar, alla stamberga dove ti puoi fermare a bere un tè alla menta, o al ristorante dove puoi organizzare un banchetto per un evento. Anche lungo l’unica “autostrada”, che congiunge Amman con Aqaba, la separazione non è mai fisica, puoi attraversare la strada a piedi, ti puoi fermare sul ciglio per acquistare una bibita da un ragazzino seduto su di un contenitore portatile refrigerato.

Lungo diverse strade di accesso alla capitale ho visto ragazzi (alcuni forse bambini) che indossavano un giubbotto giallo catarifrangente con in mano un vassoio rotondo in ottone che roteavano continuamente e il moto ondulatorio indirizzava verso il ristorante a lato della strada. Un invito ad entrare e pranzare.
Questa era la specializzazione del ragazzo che forse un giorno, crescendo, diventerà un cameriere, o studierà diventando qualcuno di importante, e lascerà quel posto ad un altro ragazzo. Da secoli quella strada è un ingresso ad Amman e forse da secoli un ragazzo rotea il braccio per invitare al pranzo i viandanti, come quello Yemenita spaventapasseri che arrampicato su di un palo, da secoli rotea la frusta per scacciare gli uccellini al centro di un campo coltivato, a cui Pier Paolo Pasolini nel 1971, ha dedicato il suo documentario “Le Mura di Sana’a”.

In copertina: In Entrata ad Amman (foto di Romeo Farinella) 

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Quanto sangue, quante lacrime devono ancora essere versate?

Quanto sangue, quante lacrime devono ancora essere versate, quanti figli di Palestina devono ancora bruciare nel fosforo bianco, quanto dolore e disperazione devono subire gli innocenti di Gaza per colmare la sete di vendetta del governo e dell’esercito israeliano?

Non bastano 75 anni di oppressione, soprusi, ingiustizie, decine di migliaia di civili trucidati, incarcerati, case e dimore rasate al suolo? Non basta il dolore di 4 generazioni di persone disperse in campi profughi fatiscenti in balia di governi corrotti in giro nel Medioriente?
Non basta colpire sistematicamente la dignità e il credo palestinese, profanando i loro luoghi sacri nel tentativo di cancellare ogni evidenza che li lega ineludibilmente alla loro terra?
Non basta la meticolosa punizione perpetuata nell’assedio di un intero popolo negando loro libertà e speranza del futuro?

È deplorevole ogni azione violenta contro civili inermi, non importa quale sia il colore, la nazione e l’appartenenza della vittima. L’aggressione compiuta da Hamas viola palesemente la convenzione relativa alla protezione delle persone civili in tempo di guerra e non può essere giustificata.

Tuttavia ciò non può giustificare la punizione collettiva applicata da Israele contro la popolazione di Gaza.
Chiudere oltre 2 milioni di persone nella morsa della fame e della sete mentre piovono tonnellate di esplosivi di qualsiasi genere dal cielo è un crimine contro l’umanità. Ciò che oggi lo Stato israeliano compie per giustificare la sua incapacità di giungere pacificamente ad una soluzione onorevole e accettabile per le due parti.

La complicità dei potenti paesi occidentali in nome dei loro interessi ha concesso ad Israele l’immunità davanti a qualsiasi legge e regola internazionale. La politica di 2 pesi e 2 misure applicata largamente dai paesi occidentali mina la legittimità della legalità internazionale che oggi viene vista dalle vittime del mondo come uno strumento di pressione in mano dei potenti.

Infatti sembra che sia del tutto superfluo appellarsi ai governi e alle istituzioni internazionali per fermare il massacro degli innocenti. La fredda politica di interessi è priva di moralità e giustifica qualsiasi barbarie in nome del suo beneficio.

Nessuno oggi può fermare la feroce azione militare israeliana se non il popolo israeliano a cui noi ci appelliamo e chiediamo di fermare l’attacco del loro esercito che alimenterà solo il male e l’odio che infesterà permanentemente intere generazioni future.

Siamo consci del dolore che provano per la ferita inferta ma la vendetta e il dolore degli innocenti palestinesi non può alleviare la loro sofferenza.
“Il potere basato sull’amore è mille volte più efficace e permanente di quello derivato dalla paura della punizione”. Mahatma Gandhi

Assopace
Associazione per laPace

Le voci da dentro /
Ho dodici anni e vorrei solo il mio papà

Le voci da dentro. Ho dodici anni e vorrei solo il mio papà
di M.

Ciao, mi chiamo Sofia, ho dodici anni e frequento la seconda media.
Vado abbastanza bene a scuola, anche se a volte faccio un po’ fatica a concentrarmi.
La mamma dice che sentire la mancanza del papà è normale, ma per me non lo è.
Gioco a pallavolo e mi alleno tre volte alla settimana.
Mi piace molto e, in alcune partite, l’allenatrice mi fa fare il capitano.
Non sono la più brava della squadra, però spesso faccio punto e la mia allenatrice mi batte il cinque e mi fa i complimenti.
Quasi tutte le domeniche giochiamo le partite di campionato.
La mamma viene a vedermi sempre, ma il papà non può.
A volte gioco proprio male. Vedo i papà delle mie compagne di squadra che fanno il tifo. Nel mio cuore sento un po’ di invidia. Lo so che non dovrei.
Mi fa deconcentrare e non faccio nemmeno un punto.
Ci sono dei giorni che mi chiedo se l’allenatrice mi faccia i complimenti perché sono davvero brava o perché il mio papà non è come gli altri.
Io non voglio la sua compassione. Anzi, non voglio la compassione di nessuno.
Ho molte amiche. Alcune sono simpatiche e con loro vado d’accordo.
Altre sono più antipatiche. Sono quelle che smettono di parlare quando arrivo io. Non sento quello che dicono, ma non ci vuole un genio per immaginarlo. Parleranno del mio papà “strano”.
All’inizio mi arrabbiavo e, senza farmi vedere da nessuno, piangevo.
Adesso ho imparato a far finta di niente, ma dentro di me piango ancora.
Vedo il mio papà tutti i sabati per una o due ore al massimo. Ho fatto i conti. Lo vedo sei ore al mese. Le prime volte mi sembrava pochissimo e, alla fine di ogni colloquio, lo abbracciavo forte forte e volevo che venisse con me.
Col tempo ci ho fatto l’abitudine e non lo stringo più, forte come prima.
Dico la verità, vorrei ancora che tornasse a casa con me.
Papà dice che ci vuole pazienza, la mamma dice che è questione di tempo, tutti dicono di essere forte.
lo ho solo dodici anni e vorrei solo il mio papà.
Purtroppo, adesso il mio papà è in un posto tutto chiuso, pieno di sbarre.
Ci sono anche altri papà come lui, lì dentro. Non mi piace sentire quella parola, per cui non la dico neanch’io.
Mi chiamo Sofia, ho dodici anni e da un po’ di tempo sono stata messa in punizione, non so da chi esattamente e non conosco nemmeno il motivo.
So solo che la punizione non mi fa stare con il mio papà.
Qualcuno ha deciso che dovevo crescere come se fossi quasi orfana, ma lo giuro, io non ho fatto niente per meritarlo.

Il testo di questo ragazzo tratta il tema dell’affettività in carcere con una creatività non comune, riuscendo nella difficile opera di emozionare chi legge. M. ha rovesciato il solito punto di vista, raccontando, dal punto di vista dei figli, il vissuto difficile dei rapporti in una famiglia quando qualcuno sta vivendo l’esperienza del carcere.
(Mauro Presini)

Per leggere le altre uscite di Le Voci da Dentro clicca sul nome della rubrica. Per leggere invece tutti gli articoli di Mauro Presini su Periscopio, clicca sul nome dell’autore

“Gian Pietro Testa, il giornalista che amava dipingere”
Alla Idearte gallery di Ferrara 2-20 marzo 2024

“Gian Pietro Testa, il giornalista che amava dipingere” è il titolo della mostra d’arte che ho curato con le opere pittoriche del giornalista, scrittore e poeta, a poco più di un anno dalla scomparsa. Nato nel 1936 a Ferrara, dove è morto il 7 gennaio 2023, Testa è stato infatti anche pittore. La mostra si terrà alla Idearte Gallery (via Terranuova 41, Ferrara) da sabato 2 a mercoledì 20 marzo 2024. Inaugurazione sabato 2 marzo alle 18.

GPT alla scrivania (foto GioM)
Realizzare questa iniziativa è stato un viaggio appassionante e – come tutti i viaggi che valgono la pena di essere intrapresi – il cammino non è stato esente da ostacoli, salite aspre, curve insidiose e inaspettati traguardi in radure inondate di luce.
Locandina della mostra
Un percorso lungo mesi e mesi, compiuto cercando e mettendo insieme le opere realizzate da Testa in un periodo di  oltre sessant’anni, a partire dai suoi 15 anni fino agli 80 inoltrati. Poi è stato necessario raccogliere documenti e ricordi, aneddoti e momenti cruciali, collegare opere forti, volti cupi, nature morte e bellezze al vento con quadri di artisti da lui visti e amati, conosciuti o intercettati attraverso mostre e luoghi-chiave della sua vita.
“Ultima cena” (foto Luca Pasqualini)
Questo lavoro mi ha condotto in stanze e spazi ricchi di opere e testimonianze su un giornalista-letterato e artista che è stato per me e per tanti maestro di giornalismo, punto di riferimento di scrittura, amico caro e amato, persona di un’umanità grande, generosa ed esuberante.
Una personalità difficile da eguagliare, composta di cultura alta e di concretezza piena di spirito. Con una capacità di pensiero e di indagine profonda e originale, accompagnata sempre da leggerezza ossigenante e da inestinguibile ironia e anticonformismo.
Figura femminile
Paesaggio con luna e rosa
Figura (foto L.Pasqualini)
Ringrazio il figlio, ringrazio il nipote, ringrazio l’amico suo caro, ringrazio gli amici miei che mi hanno sostenuto e messo a disposizione le loro competenze: di critico, di gallerista, di fotografo, di grafico, di restauratore, di supporter, consigliere, finanziatore. E poi – nonostante talvolta l’impresa di portare a compimento mostra e catalogo sia apparsa ardua e abbia rischiato di fallire – ho avuto sorprese e sostegno da più parti, molte volte inaspettate.  Richieste fatte in modo lieve, hanno prodotto risposte immediate e così calzanti, tanto rapide e provvidenziali da risultare determinanti.
Sono state queste le radure che hanno rischiarato il cammino di ricerca: incontri e disponibilità che mi hanno mostrato l’affetto e la stima condivisa per Gpt. Una penna decisiva per la svolta di inchieste, come nel caso della strage di Peteano o quella di piazza Fontana. E che ha lasciato un segno che si ravviva ogni anno con la commemorazione della drammatica, poetica levità da lui dedicata ad esempio alle vittime della strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980.
La mostra “Gian Pietro Testa, il giornalista che amava dipingere” raccoglie un nucleo di opere a tema prevalentemente femminile. Sarà accompagnata da un piccolo catalogo, che ha l’obiettivo di inquadrare l’attività pittorica di Gpt nel suo complesso.
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“GIAN PIETRO TESTA – Il giornalista che amava dipingere”
Idearte Gallery, via Terranuova 41, Ferrara | 2 marzo – 20 marzo 2024

A cura di Giorgia Mazzotti

Prefazione critica di Lucio Scardino |Organizzazione Associazione culturale Ferrara ProArt

Patrocinio di Comune di Ferrara, Ordine dei giornalisti dell’Emilia-Romagna, Associazione Stampa Ferrara con il sostegno di Amsef Ferrara a tutela della memoria

Mostra aperta tutti i giorni feriali ore 10:00-12:00 e 16:00-19:00
Sabato su appuntamento tel. 0532 1862076. Domenica chiuso.
Per info: curatrice Giorgia Mazzotti, email giom.larte@gmail.com

Parole a Capo /
Giuseppe Ferrara “Messaggi cifrati” e altre poesie

“Messaggi cifrati” e altre poesie

“Sommessa gioia di respirare, esistere: a chi ne debbo essere grato? Ditemi.
Io sono giardiniere, e sono fiore; nel mondo-carcere io non languo solo.”
(Osip Ėmil’evič Mandel’štam)

Ho avuto la fortuna e il piacere di frequentare per molti anni la poesia e l’amicizia di Angelo Andreotti e questi – i temi della parola e della “voce”poetica – erano i nostri argomenti preferiti.  Di seguito,  alcune mie “cronache poetiche” che ho contenuto in una possibile rubrica dal nome (equivoco) di EQUIVOCI (nel senso di E Qui Voci).
Qualche parola sulle poesie:
Una notte lunga sei anni è dedicata alla bambina palestinese di 6 anni morta durante un raid israeliano nella striscia di Gaza.
Versicoli subsidenti si conclude con il richiamo di un famoso verso di Caproni.
Le ultime due poesie sono legate alla morte di Navalny e richiamano atmosfere e stili di due grandi poeti russi che come Navalny sono passati per lo stesso tipo di esperienza “di regime” (Osip Madel’stam e Iosif Brodskij.

P.S. Messaggi cifrati si conclude con una parola scritta in verticale con l’alfabeto Morse : LOVE)

Giuseppe Ferrara

EQUIVOCI

Una notte lunga sei anni
Hind Rajab

Il mondo ha smesso di tremare
piccola Hind non hai più nulla da temere.
Non serve più sapere dove sta il nord
per scappare nel deserto o verso la spiaggia.

Le macerie non riparano dalla pioggia
e le preghiere sono soltanto rappresaglie.
Che la morte possa esserti dolce risveglio
da questa lunga notte d’incubi d’amore…

Ne sono sicuro mia piccola cara Hind:
stai già nuotando verso una nuova vita
nel sacro ripudio di quest’odio antico
noi resteremo qui a non finire di morire mai

 

Versicoli subsidenti

tra frammenti di spiaggia
spunta quanto è stato seminato
negli anni di guerra, nei giorni di tregua
nelle ore e nei secondi che non crescono mai
granelli in una clessidra spazzata da sfarzose tempeste
che scoprono piccole casse toraciche, carcasse svuotate di carri,
carrelli ricolmi d’alimenti scaduti e mine antiuomo ancora inesplose…
come potrebbe tornare bella, scomparsa l’umanità, quella striscia di terra!

 

Messaggi cifrati

sopra è la stessa coltre
d’un bianco più ingrigito
coltre che nel pensiero
equivoca purezza

arbusti bassi sollevano
la testa: è consentito
per decreto naturale
i capelli rasati a zero

per ragioni di stato      .-..
sono segnali di vita     —
sempre più radi, muti  …-
messaggi cifrati           .

 

Alle compagne di vita di Osip Iosif e Aleksej

…se no ti sentirai tirare giù
tentando di tornare a galla: resta
così: nuda! gli abiti son’ aghi
d’abete acuminati a raggelarti
addosso la lunga notte artica…

ricordati il quaderno nella dacia,
il pc acceso e i fiati avvolti
su dita aggrovigliate. ho ancora
quei mirtilli raccolti dietro casa
per aiutare i nostri occhi stanchi
a saziare la fame degli sguardi
continuare, continuare a vederci
vivere-morire per andare avanti…


Giuseppe Ferrara
Nato a Napoli. Cresciuto a Potenza fino alla maturità Classica presso il Liceo-Ginnasio Q.O. Flacco. Laureato in Fisica all’Università di Salerno. Dal 1990 vive e lavora a Ferrara, dove collabora a CDS Cultura . Autore di cinque raccolte poetiche; è presente in diverse antologie. In rete è possibile trovare e leggere alcune sue poesie e commenti su altri poeti e autori. Tiene un blog “Il Post delle fragole”.

In copertina: Foto Segnaletica-di-Osip Mandel’štam-dopo-l’arresto-e-la-traduzione-nel-gulag. L’arresto-era avvenuto dopo-che-nel-novembre-del-1933-Mandel’štam-aveva composto e diffuso il suo Epigramma-a-Stalin (fonte Wikimedia Commons).

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Le storie di Costanza /
Il cielo verde sopra Villa Cenaroli

Le storie di Costanza. Il cielo verde sopra Villa Cenaroli

In quel piccolo paese si racconta che quando la contessa Maria Augusta, madre della contessa Malù, morì, il cielo sopra villa Cenaroli divenne verde. Mai si era visto un verde così bello e splendente, anche se non era chiaro che tonalità di verde fosse. A seconda del testimone della vicenda, il cielo era diventato verde smeraldo, verde lago, verde edera, verdi ricci di castagna, chissà, comunque un bel verde.

Sembrava che l’aurora boreale fosse arrivata fino a Pontalba, anche se nessuno usò quel termine perché, quando Maria Augusta morì, nessuno in paese sapeva che quello straordinario fenomeno atmosferico si chiama proprio così.

La contessa fu trovata morta nel suo letto al mattino presto. La trovò la sua cameriera personale, tale Clementina madre di Serafina, la bambina che una volta cresciuta, divenne la cameriera di Malù. Del resto, una bambina allevata in casa da una brava cameriera aveva alte probabilità di diventare altrettanto.

Quello era l’assunto che aveva fatto sì che Maria Augusta permettesse a Clementina di tenere a villa Cenaroli la figlia, che così poté crescere con la raffinatezza del posto e l’accondiscendenza del ruolo. Ma la bizzarria della vita cambia sempre le traiettorie ipotizzate e la carriera professionale di Serafina subì, ad un certo punto, una strana sterzata.

Comunque, quel mattino il cielo divenne verde sopra la villa. Clementina aprì la finestra e si mise a urlare per attirare i giardinieri, il maggiordomo non era ancora in servizio. “venite, venite, la contessa è nel suo letto fredda come gennaio, Venite subito qui!” urlava affacciata alla finestra con la sua cuffia bianca in testa.

Mentre urlava, sporgeva le braccia dall’infisso e le faceva oscillare in senso orizzontale per attirare più attenzione possibile. Le sue lunghe braccia erano già nere, segno che la cameriera aveva avuto il tempo di alzarsi, lavarsi e indossare la divisa scura che Maria Augusta pretendeva lei mettesse sempre.

Purtroppo, non si vedevano giardinieri all’orizzonte. Dormivano in una dependance ubicata sull’altro lato del parco e non sentivano le grida di Clementina che, spaventata, urlava con tutto il fiato che aveva in gola. Fu in quel momento che la cameriera alzò lo sguardo verso il cielo e lo vide verde sopra la sua testa.

Le nuvole erano dello stesso colore degli smeraldi che componevano una delle più belle collane della contessa. “I miei smeraldi, i miei piccoli, graziosi e splendenti gioielli! Come sarebbe insignificante il mio collo senza di loro!” soleva dire Maria Augusta. Li prendeva spesso in mano e li rimirava da vicino, un po’ perché in quell’azione trovava una profonda soddisfazione, che le permetteva di dimenticare che stava diventando vecchia, e un po’ per controllare l’integrità delle pietre e il risultato della meticolosa pulizia a cui erano regolarmente sottoposte.

Ecco, il cielo che Clementina vide sopra la sua testa in quel momento era esattamente di quel colore, come se gli smeraldi fossero stati sbriciolati da un abilissimo pittore e fossero stati usati come polvere per colorare le nuvole.

Quel verde in cielo significò per Clementina una sola cosa, a Maria Augusta era successo qualcosa di grave. Più che la presenza del corpo immobile e bianco, fu quella visione a convincerla che la situazione era drammatica. Ma non lo pensò solo lei, tutte le persone di Pontalba che videro il cielo quella mattina pensarono la stessa cosa. Qualcosa di grave era successo alla contessa di villa Cenaroli.

Così la voce si diffuse tra le vie del paese e i primi ad arrivare furono il lattaio e il panettiere, che risaputamente, iniziano a lavorare prestissimo. Intanto Clementina si sbracciava sempre di più “La contessa non si muove, è fredda nel suo letto!”

Sempre più agitata la cameriera corse al piano terra, uscì in cortile e da lì arrivò alla foresteria. Una volta arrivata vicino alla casa del custode, senza aspettare che lui si alzasse e si vestisse, aprì il pesante portone di legno che permetteva l’accesso principale alla villa.

Mentre il panettiere e il lattaio entravano, li seguì per un tratto e poi si sedette sul bordo di un grande vaso di coccio che conteneva un oleandro rosso. “Alzati Clementina, non è il momento di sedersi” dissero gli uomini. Clementina estrasse dalla tasca un fico secco, lo mangiò velocemente e poi si rialzò per far strada ai soccorritori.

Nel frattempo, il suo cuore e il suo cervello avevano avuto il tempo di capire e di adattarsi alla nuova situazione e questo stato di comprensione, appena maturato, le permise di dire: “la contessa Maria Augusta è morta!

A volte gli eventi della vita precedono le aspettative e questa inversione crea una strana situazione emotiva di sospensione. Come se la gravità di quanto già successo non trovasse il modo di albergare dentro di noi e di acquisire consapevolezza. Ci sono tanti modi attraverso i quali noi percepiamo gli accadimenti umani e non tutti godono di uno stato di lucidità tale da poter essere trasformati in parole, raccontati agli altri. Verbalizzare un evento permette sia di razionalizzarlo, sia di comunicarlo.

In quel momento Clementina capì che la contessa era morta e lo disse alle persone che stavano con lei. I due uomini si fermarono un attimo a guardarla e volsero gli occhi al cielo. Il cielo sopra la villa era verde. Dalle testimonianze raccolte si arguisce che furono tutti colpiti da quel che videro. Il lattaio vide il cielo color verde erba e il panettiere color verde lago. Due verdi diversi, uno più scuro dell’altro, ma sempre di verdi si trattava.

La cameriera, intanto, conscia dell’ineluttabilità di ciò che li aspettava di sopra, aveva ripreso a camminare con passo lento e deciso. Anche la postura del suo corpo era tornata eretta e non camminava più stranamente piegata in avanti con la testa piegata, come se il suo stesso corpo fosse proteso verso la ricerca di una spiegazione che non aveva ancora fatto capolino alla sua coscienza.

Grazie alla riconquistata lucidità era di nuovo dritta. Ora lo sapeva, la contessa era morta, non le restava che ricomporsi e fare una lista delle cose che bisognava fare: “il certificato di morte, il prete, il medico, la bara, i fiori, il funerale, il cimitero, la tomba, il necrologio, … avvisare subito i parenti più stretti.”

Mentre salivano le scale nessuno disse più niente. I gradini di marmo della scala che portava alla stanza da letto della contessa accolsero dei passi pesanti, nessuna parola, si stava andando verso la morte. Ciò che è ineluttabile porta con sé spesso due componenti emotive, lo stupore e lo sgomento. Nulla si può più fare, inutile cercare di rimediare a ciò che di rimedio ha solo una speranza, l’aldilà. Così si arrivò nella stanza della contessa con grande mestizia e con la consapevolezza della sacralità del momento.

Clementina aprì la porta, i due uomini entrarono e videro la contessa morta. Era spirata durante il sonno. La trovarono distesa su un fianco, le coperte scostate, segno che a causa del malore accusato, aveva fatto un tentativo di alzarsi e di chiamare aiuto, ma la morte era arrivata troppo in frette e il suo corpo esangue si era riaccasciato sul letto.

Così cominciò la ritualità che accompagna sempre l’evento, con l’invio di uno dei giardinieri a chiamare il parroco. I primi due uomini sopraggiunti aiutarono ad adagiare il corpo, già un po’ rigido, nella bara e poi se ne andarono facendo le più sentite condoglianze.

Nell’uscire riguardarono il cielo che nel frattempo era tornato di un bel azzurro sopra le loro teste. Lo ammirarono per un po’, fino a quando furono assaliti dal dubbio che il verde visto poco prima era frutto della loro immaginazione e della tensione che avevano provato in quel momento. Ma entrambi l’avevano visto e se lo dissero, il cielo era verde. Non si misero però d’accordo sulla tonalità di verde. Ma tant’è, era stato sicuramente verde.

Quella consapevolezza li stupì non poco e si chiesero come fosse stato possibile. Le spiegazioni potevano essere le più varie. Da quelle più ovvie, il colore del cielo era stato un caso, a quelle più scientifiche, il verde era un riflesso causato da nuvole basse in transito, a quelle più fantasiose, era la polvere degli smeraldi della contessa che, come per magia, aveva colorato le nuvole, che l’avrebbero accompagnata verso l’aldilà.

È proprio vero che la spiegazione degli accadimenti della vita scatena le teorie più varie e rispecchia le propensioni, le conoscenze e anche le stranezze dell’animo umano. Ci sono infatti persone che non sopportano spiegazioni tecniche e persone che, al contrario, non tollerano la presenza della fantasia quando si devono spiegare eventi molto tangibili.

Ma la morte è la morte, se c’è un evento che sa mettere d’accordo tutti sulla sua concretezza è proprio questo. La morte porta via una persona e non la si rivedrà più, non nella forma e nei modi in cui era sempre stata vista.

Ma ci fu un altro evento associato a quella morte che rese proprio quella dipartita una storia che si racconta tutt’ora e che fa parte delle vicende di questo paese bellissimo, pieno di vegetazione e di storia. Quando il cadavere fu adagiato nel loculo, da quello stesso loculo uscì una volpe verde.

La cameriera svenne e il lattaio e il panettiere si guardarono: “Io non ho visto nulla” disse uno all’altro, “Nemmeno io” rispose il secondo. A volte succedono nella vita cose inspiegabili, così tanto inspiegabili che ci si può affidare solo alla fantasia per renderle vere.

Ma i nostri soccorritori tanta fantasia non l’ebbero e preferirono decidere che non avevano visto nulla, che le volpi verdi non esistono e che nei loculi non possono vivere animali colorati. Il Barone Rampante avrebbe pensato diversamente e anche Alice nel paese delle meraviglie.

Io non so, così si racconta che andò. Mi chiedo per quale motivo al bar Della Torre mi è stato suggerito di chiedere a una certa Costanza Del Re cosa ne pensa di tutto ciò. Non so nemmeno chi sia questa signora così autorevole, ma la cercherò.

Costanza e il suo mondo sono solo apparentemente diversi e distanti dal mondo che usiamo definire “reale”, e quasi sovrapponibili ad ogni mondo interiore.

Chi fosse interessata/o a visitare gli articoli-racconti di Costanza Del Re, può farlo cliccando [Qui]

Viale Italo Balbo:
volo cancellato

Viale Italo Balbo: volo cancellato

Secondo l’opinione di Wu Ming 2, espressa in un articolo apparso su Internazionale del 15 febbraio 2021 (Una mappa per ricordare i crimini del colonialismo italiano), diversi segnali sembrano suggerire che i tempi sono maturi per sincronizzare gesti e pensieri su una rilettura radicale del colonialismo e del razzismo italiano.

Influenzato dalle proteste del movimento Black Lives Matter negli Stati Uniti, una innovativa forma di denuncia e di protesta potrebbe segnare un cambio di passo e condurre la tematica direttamente in strada, nelle piazze e nei parchi, intervenendo in quella che potrebbe definirsi ‘topografia coloniale’, laddove cioè la storia si fa materia e le contraddizioni sono visibili sulla pelle dei territori urbani.

Nell’estate del 2020, non appena le restrizioni dovute alla pandemia Covid 19 hanno concesso una prima tregua, Wu Ming 2 ha elencato un proliferare di iniziative, su e giù per l’Italia, inerenti lo spinoso argomento del colonialismo italiano e le nuove strategie di approccio alla tematica del razzismo in quanto tale.

In giugno, a Roma, è nata la proposta di intitolare la futura stazione Amba Aradam/Ipponio, sulla linea C della metropolitana, al partigiano italo-somalo Giorgio Marincola, e la Rete Restiamo Umani è intervenuta modificando i cartelli stradali con i nomi di via dell’Amba Aradam e largo dell’Amba Aradam, intitolandoli a George Floyd e Bilal Ben Messaud e affiggendo lungo le barriere che delimitano il cantiere della nuova fermata grandi manifesti con scritto: “Nessuna stazione abbia il nome dell’oppressione”.

Pochi giorni dopo, a Padova, un gruppo di associazioni ha guidato una camminata per le vie del quartiere Palestro, svelando l’origine dei nomi coloniali e mettendoli in discussione con letture e cartelli molto simili a quelli dei trekking urbani che il collettivo Resistenze in Cirenaica organizza a Bologna dal 2015, o al Grande rituale ambulante Viva Menilicchi! celebrato a Palermo nell’ottobre 2018, o alla visita guidata nella Firenze imperiale che ha inaugurato, in quello stesso anno, il progetto Postcolonial Italy.

Sempre nell’estate 2020, a Milano, il centro sociale Cantiere ha lanciato una chiamata alle arti, con il motto Decolonize the city!: un progetto durante il quale, tra lezioni all’aperto e street art, è stata inaugurata una statua di Thomas Sankara all’interno dei giardini Indro Montanelli, quelli che ospitano il monumento al celebre giornalista, imbrattato l’anno prima con una cascata di vernice rosa per aver sempre giustificato con affettata nonchalance il suo matrimonio combinato con una ragazzina dodicenne, durante la guerra d’Etiopia.

A Bergamo, nel settembre 2020, alcuni cartelli sono stati appesi a diverse targhe stradali, per ricordare che il fascismo e il colonialismo furono anche violenza di genere, proponendo dediche alternative a donne che contribuirono, in diversi campi, al progresso dell’umanità. Alla riapertura delle scuole, gli Arbegnuoc Urbani di Reggio Emilia hanno contestato insieme agli studenti il nome del polo scolastico Makallé, che si trova nella strada omonima, per l’occasione ribattezzata via Sylvester Agyemang, alunno di quell’istituto travolto lì vicino da un autobus. Infine, a metà ottobre, si sono svolti a Torino i Romane Worq Days, in onore della principessa etiope, figlia dell’imperatore Hailé Selassié, deportata in Italia nel 1937, detenuta all’Asinara e morta tre anni dopo nel capoluogo piemontese a soli 27 anni di età.

Queste azioni di ‘guerriglia odonomastica’ molto vicine alle tecniche comunicative proprie della street art e dell’Hip Hop, hanno innescato un processo spontaneo di riqualificazione urbana e di riappropriazione storica, civica e sociale che nel 2024 sta istituendo, di fatto e dal basso, quella “Giornata in memoria delle vittime del colonialismo italiano” che la maggioranza del parlamento non ha ancora voluto approvare.

Azioni di guerriglia odonomastica, di contestualizzazione, di ri-significazione, aggiunta di didascalie, trekking urbani, performance, reading, installazioni e incontri si stanno succedendo a Bologna, Firenze, Milano, Modena, Napoli, Padova, Reggio Emilia, Ravenna, Siena, Bari, nell’ambito di un programma nazionale in continuo aumento di adesioni, proposto dalla Rete Yekatit 12-19  in collaborazione con la Federazione delle Resistenze e associazioni locali.

Molti dei nomi propri assegnati a una via, a una piazza, a un parco, o intitolati a un asilo, a una scuola, a un monumento, sono riferiti a persone o episodi storici criminali. Questa operazione di messa in luce  potrebbe convincere anche noi ferraresi che, se una questione morale ci sta a cuore e la riteniamo di fondamentale importanza per la crescita e l’affermazione della cultura della pace nella nostra società, non ci sia bisogno né di leggi, né di censure, per ricordare correttamente la storia.

Note:

https://www.internazionale.it/opinione/wu-ming-2/2021/02/15/mappa-colonialismo-italiano

https://www.radiondadurto.org/2020/06/19/roma-nessuna-stazione-abbia-il-nome-delloppressione-sanzionamenti-anti-coloniali-nella-capitale/

https://www.anpi.it/biografia/giorgio-marincola

https://resistenzeincirenaica.com/

Nuove incursioni a Reggio Emilia del collettivo Arbegnuoc

https://www.youtube.com/watch?v=GHENwqMaOn8&ab_channel=LaCivettadiTorino

https://www.civico20news.it/mobile/articolo.php?id=39244

er leggere tutti gli articoli e gli interventi di Franco Ferioli su Periscopio cliccare sul nome dell’autore o sulla rubrica Controcorrente.

vite di carta letture leggere un po' di follia in primavera di alessia Gazzola

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Letture leggere: “Un po’ di follia in primavera” di Alessia Gazzola

Vite di carta. Letture leggere: Un po’ di follia in primavera di Alessia Gazzola

All’Istituto di Medicina Legale di Roma la specializzanda Alice Allevi sta per concludere il corso di studi e già prova nostalgia per gli ambienti che deve lasciare e per lui, CC, il medico suo superiore e al tempo stesso oggetto amoroso per eccellenza.

Dovrei cominciare da qui, forse, per riprodurre la trama di questo giallo (non del tutto giallo, in parte anche noir) che è il sesto scritto da Alessia Gazzola in cui la protagonista è la giovane dottoressa con la passione per l’investigazione.

Dico il titolo: Un po’ di follia in primavera.Nei Ringraziamenti alla fine del libro l’autrice rende omaggio tra l’altro ad alcuni suoi modelli letterari, in primis a Emily Dickinson per la poesia omonima che riporto nella traduzione di Giuseppe Ierolli:

Un po’ di Follia in Primavera/È salutare persino per un Re,/Ma Dio sia con il Clown -/Che considera questa formidabile scena -/Questo totale Esperimento di Verde -/Come se fosse suo!

Fra titolo e ringraziamenti si estende il romanzo, di cui dovrei riprodurre la trama.  Non prima di avere detto che CC ha le stesse iniziali di Claudio Cantelmo, il protagonista del romanzo dannunziano Le vergini delle rocce e che invece si chiama Claudio Conforti ed è “…così dannatamente bello, così invariabilmente sadico. Lui, il pavor nocturnus delle giovinette del sesto anno, il principe della sala settoria, l’incarnazione della voluttà”.

Bello, principe e modello di voluttà: dalla Dickinson la penna disinvolta di Gazzola è volata tra le pagine di D’Annunzio e come un’ape voluttuosa è passata a suggere da fiore a fiore fior di citazioni celebri che fungono da titoli di alcuni capitoli. Si va dal verso di Montale Meriggiare pallido e assorto a una frase del Talmud, “Non vediamo le cose come sono, le vediamo come siamo”, fino all’aforisma di Khalil Gibran: “Per arrivare all’alba non c’è altra via che la notte”.

Non c’è dubbio che la cornice attorno al romanzo sia accattivante: pillole di saggezza sono distribuite ad arte, oltre che nei titoli, anche nelle riflessioni della protagonista Alice, che è anche la voce narrante di sé stessa e delle peripezie che come medico legale è tenuta ad affrontare tra la vita e la morte di un sacco di gente, che transita nella sala settoria e negli altri ambienti della Medicina Legale.

I vivi sono prima di tutto i colleghi, i famigliari e gli amici di Alice;  vivi sono anche i personaggi dell’entourage delle vittime che libro dopo libro hanno un ruolo nella macchina narrativa.

I morti sono le vittime di omicidi più o meno difficili da svelare, che Alice aiuta a ricostruire, per l’appunto, nella doppia veste di medico legale e di collaboratrice estemporanea dell’ispettore Calligaris.

Nel giallo, di cui ancora non ho riprodotto la trama, a morire è uno psichiatra molto in vista, dalla personalità affascinante e magnetica. Alice Allevi se lo ricorda bene, perché Ruggero D’Armento è stato suo professore alla facoltà di Medicina e in tempi recenti ha fatto da consulente alla polizia in un caso di suicidio di cui si è occupata.

Ora le occorre addentrarsi nei sentieri della psichiatria, se vuole essere di aiuto a Calligaris in una inchiesta più delicata delle altre, dove si intrecciano le vicende familiari della vittima e le storie di disagio di alcuni suoi pazienti coinvolti a vario titolo nelle indagini.

Alice stessa, trovandosi a un punto di svolta della propria vita sentimentale (con un uomo che non è CC), chiede sostegno alla collaboratrice del professore, mentre attraversa quella zona destabilizzata della vita interiore da cui è più facile sentire empatia per chi è borderline. Insomma, tutto concorre a rafforzare il suo acume investigativo.

Il colpevole dell’omicidio di D’Armento sarà individuato. Alice Allevi avrà compreso che per lei è tempo di solitudine e che “bisogna prendersi il tempo di soffrire da soli” per guardarsi dentro.

Forse non è più il caso che riproduca la trama. Per il libro parlano a sufficienza la personalità della sua protagonista-narratrice, un po’ pasticciona ma talentuosa, e la scorrevolezza della penna dell’autrice. Da lì è uscito un giallo dal meccanismo ben congegnato e fluente, adatto a una lettura leggera.

Note al testo:

  • Alessia Gazzola, Un po’ di follia in primavera, Longanesi, 2016
  • Dai romanzi di Alessia Gazzola incentrati sulle vicende del medico legale Alice Allevi è stata tratta la serie televisiva L’allieva, andata in onda per tre successive stagione dal 2016 al 2020.

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