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LA CURIOSITA’
Il caffè più sostenibile?
E’ in Italia…

L’italianissimo illy è il caffè più sostenibile al mondo. Lo ha recentemente stabilito un’inchiesta indipendente dell’International consumer research & testing ltd. (Icrt), un’associazione di difesa dei diritti dei consumatori che coopera nella ricerca e nel test di prodotti, composta da una quarantina di organizzazioni, tra cui l’italiana Altroconsumo, di 33 paesi sparsi nei 5 continenti e la cui partecipazione è aperta ai gruppi che agiscano unicamente nell’interesse dei consumatori, non facciano pubblicità e siano indipendenti dal commercio, dall’industria e dai partiti politici.

Icrt ha, dunque, collocato la triestina illycaffè al primo posto per l’impegno di responsabilità nei confronti dei coltivatori di caffè nel Sud del mondo, analizzandone le politiche sociali, economiche e ambientali attuate nei confronti dei coltivatori nei vari Paesi produttori (America Latina, Africa e Asia), in termini di sostenibilità sociale e ambientale, trasparenza, coinvolgimento attivo. In particolare, l’azienda ha costituito solide, affidabili e costruttive relazioni dirette con i piccoli coltivatori, inserendoli anche in attività di formazione volte ad aiutarli a migliorare la qualità del proprio caffè e riconoscendo loro un prezzo profittevole. L’azienda ha operato, e opera, per garantire a questi produttori condizioni di vita adeguate oltre che per abbattere l’impatto ambientale della produzione di caffè. Questo, grazie a una valutazione diretta e certificata dell’impatto sociale delle proprie attività. Il caffe è, infatti, vissuto e considerato non solo come un piacere ma, soprattutto, come un’importante espressione della ricchezza dei diversi Paesi e simbolo dell’unione tra diverse culture e, come tale, un modello di riferimento per altre colture e per gli scambi commerciali internazionali.
Sono circa 25 milioni nel mondo le famiglie coinvolte nella coltivazione del caffè: la responsabilità nei loro confronti delle aziende che operano in questo settore è cruciale. Expo 2015, di cui illycaffè è Official coffee partner, sarà un’occasione importante di sensibilizzazione anche su questo. In tale ambito, illycaffè è stata la prima azienda al mondo ad avere ottenuto, nel 2011, da Dnv Business sssurance, la certificazione Responsible supply chain process, che attesta l’approccio alla sostenibilità da parte dell’azienda in tutte le sue attività, con particolare attenzione alla catena di fornitura. Si tratta di un modello innovativo, poiché mette al centro la qualità del caffè prodotto e la creazione di valore per tutti gli stakeholder. L’esigenza è sempre più avvertita dai moderni consumatori finali che vogliono poter scegliere un caffè equo (e quindi “pulito”) oltre che di qualità. Un esempio italiano tutto da seguire.

Foto di Elisabetta Illy

Maria Luisa Pacelli: “Dal prof. Ranieri Varese mi aspetterei critiche argomentate”

da: Maria Luisa Pacelli, Direttore Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara, Fondazione Ferrara Arte

In genere non amo entrare in polemiche riguardanti Ferrara Arte o i musei di cui sono responsabile. Credo, infatti, che siano i risultati a dover parlare. Oltre a ciò, temo l’eccessiva semplificazione di argomenti complessi, che porta spesso a imprecisioni e a fraintendimenti. Ma alcune precisazioni in questo caso sono d’obbligo.

A proposito di fraintendimenti, durante la conferenza stampa di mercoledì scorso, in riferimento al professor Varese, non ho detto in nessun modo che non sia un interlocutore accreditato, al contrario: proprio perché a esprimersi è uno studioso autorevole con esperienza di direzione museale, mi aspetto critiche argomentate e puntuali, non generiche, come ad esempio nel passaggio in cui scrive: «…limitatezza delle offerte che non siano quelle espositive a loro volta non eccezionali a causa non solo di difetti di progettazione ma anche del venir meno del sostegno bancario, assenza di strumenti di promozione e di conoscenza». Le critiche sono assolutamente legittime, ma mi piacerebbe sapere quali sono i difetti della progettazione, o a cosa alluda il professore quando parla di assenza di strumenti di promozione (per le mostre, per i musei?) o di conoscenza (di chi? rispetto a cosa?).

Detto questo, non posso a mia volta non entrare nel merito di altre le riflessioni fatte dal professor Varese, sempre relativamente a Ferrara Arte. Penso innanzitutto che questa istituzione sia stata e sia ancora un’opportunità per Ferrara. Non a caso, molte città della regione, e non solo della regione, ne hanno seguito l’esempio con maggiore o minore continuità o successo, basti pensare a Ravenna, Forlì, Bologna, Padova, Rovigo. Si può, naturalmente, non essere d’accordo con la mia opinione, non trovo tuttavia accettabile che, ancora in maniera piuttosto generica e per questo insidiosa, nel primo intervento si scriva che Ferrara Arte «è responsabile, nel bene e nel male, della situazione attuale», per poi elencare una serie di problemi, che vanno dalla diminuzione dei pernottamenti, al calo dei visitatori delle mostre e dei musei, compreso il Castello (il cui numero dei visitatori, indipendentemente da Ferrara Arte, è peraltro in sensibile aumento da due anni), e, infine, smentire questa affermazione nel secondo intervento.

Ci sono molti altri punti toccati dal professor Varese che mi piacerebbe approfondire, non necessariamente per dissentire con lui, qui mi limito per ovvie ragioni di spazio a un paio. Nel suo secondo intervento è scritto che, incoerentemente da quanto affermato nell’articolo 2 dello Statuto della Fondazione, niente è stato fatto oltre alle mostre. Vorrei ricordare i cicli di conferenze, i concerti, le rassegne cinematografiche, gli spettacoli che, spesso in collaborazione con altre istituzioni o associazioni cittadine, sono stati organizzati in occasione delle esposizioni, per non parlare delle innumerevoli attività di approfondimento dedicate agli studenti di ogni ordine e grado. Tutto ciò è documentato e documentabile, se poi vogliamo discutere della qualità di queste iniziative, sono a disposizione.

Infine, un argomento che giustamente sta molto a cuore al professor Varese, è la tutela e la valorizzazione del patrimonio, che a suo parere soffre a causa di Ferrara Arte. In risposta a ciò vorrei ricordare alcuni fatti, che elenco. Delle ultime quattro mostre presentate al Palazzo dei Diamanti due erano dedicate al patrimonio cittadino (Antonioni e la mostra dedicata alla collezioni dei musei di Palazzo Massari). Due delle tre mostre in programmazione nei prossimi anni sono legate alla storia dell’arte e della cultura ferrarese (Pittura metafisica e Orlando Furioso). Attraverso le mostre il nostro patrimonio è stato promosso anche al di fuori delle mura cittadine e dei confini nazionali (solo per fare due esempi, la mostra di Antonioni a Bruxelles e, il prossimo anno, a Parigi, o la mostra sulle collezioni del Massari a Palazzo Pitti). Le mostre di Ferrara Arte non sono solo un’opportunità di promozione e valorizzazione, ma anche di tutela: esemplare da questo punto di vista è stata la rassegna Immagine e persuasione, organizzata con il Seminario Arcivescovile e l’Arcidiocesi e con i Musei Civici di Arte Antica. Per questa mostra, lo ricordo a ingresso gratuito, è stata restaurata la Crocifissione di Carlo Bononi della chiesa delle Sacre Stimmate e si è aperto al pubblico un luogo di grandissimo interesse storico artistico come Palazzo Trotti Costabili. Ogni qual volta l’oggetto delle mostre lo ha consentito, si inoltre è lavorato in collaborazione e con i musei: la rassegna sull’età di Borso d’Este del 2007, ad esempio, ha coinvolto non solo i Musei Civici di Arte Antica, ma anche il Museo della Cattedrale e la Pinacoteca, sinergie si sono istituite tra il Museo Boldini e la mostra Boldini nella Parigi degli impressionisti, durante la quale, non a caso, si è registrato un forte incremento dei visitatori del Museo. Centrata sul patrimonio e sulla stretta collaborazione tra istituzioni della città è anche l’iniziativa presentata alla stampa mercoledì scorso che, oltre a rendere fruibili opere delle collezioni del Massari chiuso per restauro, promuove e valorizza un monumento assolutamente centrale per Ferrara.
In conclusione, credo che la discussione sul ruolo di Ferrara Arte nel sistema museale ferrarese e rispetto al patrimonio della città non possa ignorare ciò che in questo ambito è stato fatto, o dare per scontato che sia stato fatto poco e male, senza argomentazioni puntuali o una seria disamina critica. Inoltre, fermo restando che si può e si deve sempre provare a fare meglio, ritengo che in un periodo – ormai molto lungo – in cui le risorse disponibili per la cultura sono sempre più scarse in questo paese, e quelle destinate agli enti locali in costante e vertiginosa diminuzione, questa città abbia fatto molto per promuovere la cultura in generale e il proprio patrimonio in particolare, e questo anche grazie a uno strumento come Ferrara Arte.

LA RICORRENZA
Arte, percorsi tematici e App per non dimenticare la lunga notte del ’43

“E i segni dei proiettili, lievi, sì, ma però chiaramente visibili, che nonostante un recente restauro si vedono ancor oggi butterare qua e là l’antica spalletta contro la quale furono allineati i condannati a morte? L’epoca dei massacri, di quelli veri, è ormai così lontana, che non c’è da meravigliarsi se un occhio distratto, sfiorando appena questi segni, ne riconosca tanto poco la natura da attribuirli facilmente all’esclusiva opera del tempo, […]”

Il 15 novembre del 1943 non è una data importante solo per la memoria ferrarese, è un passaggio fondamentale per la storia nazionale: storici del calibro di Claudio Pavone ritengono che la strage del Castello Estense sia il primo eccidio di guerra civile in Italia. Sono passati appena due mesi dall’armistizio dell’8 settembre e a Verona si sta tenendo il primo Congresso della Repubblica Sociale Italiana: proprio qui viene data la notizia che Igino Ghisellini, il federale di Ferrara, è stato assassinato nei pressi di Bologna. Immediatamente dall’assemblea si levano le grida di vendetta: “A Ferrara! Tutti a Ferrara!”. Le squadre da Verona arrivano in città verso le 20.
“Chi potrà mai dimenticare le lentissime ore di quella notte? Fu una veglia interminabile per tutti; con gli occhi che bruciavano fissi a scrutare attraverso le fessure delle persiane le vie immerse nel buoi dell’oscuramento; col cuore che sobbalzava ogni minuto al crepitio delle mitragliatrici, o al passaggio repentino, anche più fragoroso, dei camion di uomini armati”.
Nella notte vengono prelevate dalle loro case e portate alla Caserma della milizia, in piazza Beretta, 72 persone: antifascisti, molti ebrei, alcuni cittadini considerati traditori per non essersi iscritti alla Repubblica Sociale, oppositori del regime in genere. Fra loro e i 34 antifascisti, ebrei, oppositori del regime che erano già nelle carceri di via Piangipane dal 7 ottobre si selezionano i dieci cittadini da passare per le armi per punire la morte del Federale Ghisellini. All’alba del 15 novembre davanti a Castello Estense vengono fucilati Emilio Arlotti, Pasquale Colagrande, Mario e Vittore Hanau, Giulio Piazzi, Ugo Teglio, Alberto Vita Finzi, Mario Zanatta; sulle mura presso i Rampari di San Giorgio Gerolamo Savonuzzi e Arturo Torboli; infine il giovane ferroviere Cinzio Belletti, che tornando dal lavoro ha assistito alla strage, viene inseguito per non essersi fermato all’alt e assassinato in via Boldini. I cadaveri verranno lasciati davanti al muretto del Castello per tutta la mattina, come monito per i ferraresi. Solo l’Arcivescovo Ruggero Bovelli, con un duro intervento presso le autorità fasciste, riuscirà a far spostare i corpi.
“Erano undici: riversi, in tre mucchi lungo la spalletta della Fossa del Castello, lungo il tratto di marciapiede esattamente opposto al caffè della Borsa e alla farmacia Barilari: e per contarli e identificarli, da parte dei primi che avevano osato accostarsi (di lontano, non parevano nemmeno corpi umani: stracci, bensì, poveri stracci o fagotti, buttati là, al sole, nella neve fradicia), era stato necessario rivoltare sulla schiena coloro che giacevano bocconi, nonché separare l’uno dall’altro quelli che, caduti abbracciandosi, facevano tuttora uno stretto viluppo di membra irrigidite”.

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Sagome e biografie delle 11 vittime della strage

Da giovedì davanti alla “antica spalletta” del fossato, sul marciapiede davanti alle lapidi, ci sono le sagome e le biografie di quelle 11 persone, non solo vittime, per impedire che i segni dei proiettili possano essere equivocati. Inoltre quelle lapidi, insieme ad altri luoghi della memoria in città, sono diventate una delle tappe del percorso urbano “ResistenzamAPPe – Guerra e Resistenza in Emilia-Romagna settant’anni dopo”, applicazioni informatiche multimediali scaricabili su differenti supporti (smartphone, tablet, pc), contenenti 29 percorsi dei nove capoluoghi di provincia regionali sui temi della Seconda guerra mondiale e della Resistenza. La responsabilità della trasmissione della memoria di quelle vite e di quegli eventi torna a essere di ogni ferrarese, perché non accada nuovamente ciò che è avvenuto all’indomani del 15 novembre: “la voce che subito circolò – una diceria messa in giro ad arte, era chiaro -, secondo la quale nessuno di Ferrara aveva partecipato al massacro, nessuno di Ferrara si era macchiato di quel sangue, […] Ebbene nessuno che non fosse di Ferrara, e molto pratico, per giunta, della città, avrebbe potuto rintracciare a colpo sicuro il Consigliere Nazionale Abbove non già nel suo palazzo di corso Giovecca, ma nello studio-garçonière […] E i due Cases, padre e figlio […] chi altri, se non qualcuno che ne conoscesse perfettamente il rifugio – qualcuno di Ferrara, dunque! – sarebbe stato in grado di indirizzare proprio lassù, in cima a quel polveroso labirinto di scale semicrollanti, i cinque scherani mandati a prelevarli?”.

Tutti i virgolettati sono estratti da “Una notte del ’43” di Giorgio Bassani

Foto di Federica Pezzoli

Luigi Dal Cin, fiabe sulla scia della psicanalisi

Pur ancora giovane in ottica letteraria, Luigi Dal Cin è tra gli scrittori neo-estensi più convincenti e di successo, con traduzioni anche estere, in Giappone ad esempio.
Dal Cin scrive fiabe, “Storia di un ciliegio” (Castalia, 2006), una delle sue numerose pubblicazioni ma, contrariamente a certi stereotipi, l’autore recupera la fiaba nel suo archetipo atemporale, anzi trans temporale, il desiderio come centro di gravità del suo talento fabulatorio, la tradizione come futuro anteriore…
Insomma, sulla scia della miglior psicoanalisi, da Bruno Bettelheim a M.L. Von Franz, Dal Cin, narra la fiaba come narrazione diversamente postmoderna, in un tourbillon immaginario dove (licenza poetica) il Gatto con gli stivali gioca con Goldrake o lo stesso Harry Potter, Biancaneve con la principessa Leila di Guerre Stellari, verso un inedito moderno antico.
Va da sé, certa cifra psicomagica, modulata con ‘sconcertante’ e rara parola-comunicazione, non a caso di intensa valenza empatica: il Piccolo Principe… o Piccolo Hans in piena salute, piroette senza gravità riaffiorano alla luce del sole o del cielo azzurro, lanciando l’autore – Dal Cin – da tempo ai vertici della letteratura italiana per ragazzi, senza tecnicismi…
Come nella miglior fiaba o fabula, Dal Cin dribbla le parole, le trasmuta in immagini automatiche, evoca semplicemente il bambino ritrovato – e spesso celato – nell’adulto corazzato, indicibile motore incantato della fantasia atemporale. Sullo sfondo naturalmente romantico degli stessi Andersen, Grimm e Perrault.
Fino ad oggi circa 90 (!) pubblicazioni per la vena felice e intensissima del nuovo Rodari italiano, tra le quali: “E il lupo non passa!”, “Insieme si fa festa!”, “La casa del vento”, “Un mare di amici” (con cd musicale). Non ultimo, Dal Cin ammirabilmente in costante tour, incontri d’autore vari, con ragazzi e bambini platea privilegiata, come promotore della letteratura per ragazzi, preziosa azione neo-didattica per i figli del web, cibo mentale e tecnomagico fondamentale per l’uomo cibernetico di oggi.
Inoltre, più recentemente, per il sempre produttivo scrittore, da segnalare le news (anche con ulteriore amplificazione tradizionale e global), “Il grande albero delle rinascite”, “Nel bosco della Baba Jaga. Fiabe dalla Russia” (Panini ed.), Premio Andersen 2013, “I sogni del serpente piumato. Fiabe e leggende dal Messico” (Panini ed.) “Ciak, il cinema! Lo sguardo di Michelangelo” (Ferrara Arte), e cronaca live “Il canto delle scogliere. Fiabe dalla Scozia” (Panini ed.), presentato per il ventennale della Libreria Feltrinelli, a cura del Gruppo del Tasso e di Matteo Bianchi.

*da Roby Guerra, “Dizionario della letteratura ferrarese contemporanea”, Este Edition-La Carmeliana, 2012

Condanna e forza delle parole

La più ingiusta tra le sentenze emesse in questo infelice Paese è quella che ha assolto i pregiudicati responsabili delle minacce allo scrittore Roberto Saviano, Iovine e Bidognetti, ed ha condannato il loro avvocato per minacce mafiose. Come è possibile una tale aberrazione? Lo stesso scrittore, in un primo momento, sembrava se non soddisfatto, perlomeno sollevato di un atto di giustizia che poteva permettergli di esclamare “sono guappi di cartone”. Ma l’assurdità della sentenza veniva di lì a poco immediatamente riscontrata dallo scrittore. Come è possibile che chi si fa interprete di un pensiero e pronuncia quelle parole-minacce possa, senza l’assenso di chi lo ha assunto, poterle dire? Male ha quindi fatto l’Associazione nazionale Magistrati di Napoli a esprimere “amarezza e sconcerto” per le ulteriori parole di Saviano che hanno così sferzato la decisione dei giudici: “una cosa all’italiana, a metà, senza coraggio”. Questo processo, d’altronde, si fonda e si basa sulla forza della parola, sulla sua possibilità di documentare la verità (o la menzogna), anche al prezzo che si paga per avere pronunciato-scritto certe parole. Saviano ha affondato l’arma acuminata della parola (e della parola che più contiene un alto tasso di verità, quella d’autore) nel marcio degli affari mafiosi e, a forza di parole, ne ha rivelato l’aspetto terribile e oscuro della declinazione delittuosa di quegli affari. Se dunque la parola ha svelato l’inganno e il delitto, come contrappeso ha richiesto la perdita di libertà di chi le ha usate condannando lo scrittore a una prigionia molto peggiore di quella che i boss scontano in carcere: quella che si concretizza nella perdita della libertà di movimento, condizionata dalla sorveglianza a cui Saviano è sottoposto per avere salva la vita o perlomeno per sopportare quella condanna che le sue parole hanno provocato e che i mafiosi temono più di ogni altra cosa. Non c’è successo, agiatezza economica, autorevolezza mondiale che possa compensare quella ossessiva e ossessionante prigionia virtuale. La forza delle parole rimane dunque terribile (o consolatoria) anche nell’era delle più sofisticate versioni mediatiche dell’espressione umana. Una condanna terribile di fronte alla quale appare sconcertante il lamento dell’Associazione nazionale Magistrati di Napoli che trova nel commento dello scrittore una induzione a consolidare quel sentimento diffuso di sfiducia dei cittadini verso le istituzioni, soprattutto verso i magistrati.

Forse tacere era meglio.

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Copertina del romanzo di Amos Oz, “Giuda”

Questa riflessione si accompagna alla lettura di uno dei libri più affascinanti che mi sia capitato di leggere, “Giuda” di Amos Oz, uscito quest’anno e immediatamente tradotto in italiano presso Feltrinelli dalla grande Elena Loewenthal. Si conosce da tempo la grandezza dello scrittore e la sua inquieta e complessa vicenda di israeliano che capisce e condivide le ragioni dei palestinesi o del mondo arabo. Questo romanzo, claustrofobico come possono essere le prigioni erette dalle parole, narra le vicende di un giovane studioso che vuole interpretare la figura di Cristo dal punto di vista dell’ebraismo e di capire quella di Giuda, che per Shemuel il venticinquenne protagonista, si concretizza tra sogno e realtà come colui che ha tradito il Cristo per troppo amore. Nella foresta di simboli costruita dalle parole che irretiscono personaggi e lettori, si staglia la città-simbolo della nostra coscienza umana, Gerusalemme, ed ecco apparire come una disperata consolazione la città delle città, il cuore che pulsa alimentato dal sangue di diverse religioni. Oz affida alla magia delle parole, alla consolazione delle parole, la descrizione della luna, l’astro sanguigno che illude e rivela: “Non so se amo Gerusalemme o la soffro soltanto, Ma quando sto via per più di due o tre settimane comincia ad apparirmi in sogno, e sempre al chiaro di luna”, dice Atalia la matura donna che turba i sogni di Shemuel. Ed ecco apparire la luna che rivela nella sua luce la prigione in cui si proietta l’ombra di Gerusalemme: “… la luna spuntò improvvisamente sopra i tetti di tegole, era rossa ed enorme, come un sole impazzito che torna dal buio e fa irruzione nella notte, contro ogni legge di natura,” Una luna che “versava da lassù un pallore scheletrico che sbiancava i muri di pietra delle case” E la luna che in ebraico “si chiama levanah, bianca” (p. 137) frattanto perde il suo colore di sangue “era salita sopra le mura del museo Bezalel e illuminava tutta la città di un chiarore spettrale, diafano”.

“Che fai tu luna in ciel, dimmi, che fai/ silenziosa luna? “ Dolce e chiara è la notte e senza vento, / e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti posa la luna, e di lontan rivela / serena ogni montagna”. Quasi un secolo e mezzo prima, Giacomo si era posto le stesse domande che Shemuel non sa né vuole esprimere: prigioniero delle parole.

Nel romanzo si discute il concetto di amore universale con un ragionamento terribile che solo la forza del sillogismo sa rendere concepibile. Al suo primo incontro con il vecchio intellettuale a cui Shemuel dovrà fare da badante intellettuale, questi sta parlando al telefono con un suo amico ed ecco che mentre scruta l’aspetto del giovane, Gershom Wald dice! “[…] anche se in fondo in fondo la diffidenza, la mania di persecuzione e financo l’odio per tutto il genere umano sono delitti molto meno gravi dell’amore per tutto il genere umano: l’amore per il genere umano ha un sapore antico di fiumi di sangue”. Esso trascina “i paladini della redenzione del mondo, che in ogni generazione ci sono piombati addosso per salvarci senza che ci fosse modo di salvarsi da loro.”

“ Che non potrebbero fare le persone come noi se non discorrere?”

Di nuovo la forza della parola e la sua condanna: difendersi e capire cos’è l’amore del mondo presso i fanatici delle religioni. Opporglisi con la forza delle parole. E come si sa i mafiosi di ogni paese si rivolgono a una religione snaturata che uccide in nome dell’amore.

Come i mafiosi che vengono scagionati, come l’amore predicato tra i fanatici di diverse religioni, come Gerusalemme contesa e illuminata dalla luna.

Forza delle parole. Condanna delle parole.

L’INTERVISTA
Premio Bassani: Macke, ‘Creare una nuova Europa sugli ideali di Italia Nostra’

Il Premio è stato istituito da Italia Nostra in onore di Giorgio Bassani, presidente nazionale dell’associazione dal 1965 al 1980, nel decennale della scomparsa (2010). Di carattere nazionale e con cadenza biennale, il premio è destinato a uno scrittore-giornalista distintosi negli ultimi due anni per i propri scritti o per interventi a favore della tutela del patrimonio storico, artistico, naturale e paesaggistico del Paese.

Per entrare profondamente nella visione e nel contesto del Premio, abbiamo intervistato Carl Wilhelm Macke, unico giornalista tra i componente della giuria, di nazionalità tedesca, grande amico di Giorgio Bassani e Paolo Ravenna, amante della nostra città al punto di vivere tra Monaco di Baviera e Ferrara.

Come amico ed estimatore di Bassani, come definiresti questo Premio?
Giorgio Bassani scrive racconti e romanzi fino attorno agli Settanta, poi si dedica quasi totalmente a Italia Nostra, producendo un’enorme quantità di scritti sulla tutela del patrimonio del nostro Paese. In questo senso, si può dire che questo premio è dedicato al ‘secondo’ Bassani.

Tu sei uno scrittore e un giornalista tedesco, probabilmente hai quindi un punto di vista molto particolare rispetto ai componenti italiani della giuria, cosa significa per te Italia Nostra e il Premio “Giorgio Bassani”?
A chi mi chiede perché sono diventato socio di Italia Nostra pur essendo tedesco, rispondo che l’Italia ha il 65% del patrimonio europeo in termini di beni culturali e quindi, a pensarci bene, tutti gli europei dovrebbero asserire che “l’Italia è Nostra” e farsi soci. Anzi, vorrei ribaltare il ragionamento: forse Italia Nostra è un po’ poco, sarebbe meglio chiamare l’associazione Europa Nostra e creare una nuova Europa sugli ideali di Italia Nostra.

Non è possibile replicare il modello di Italia Nostra in Germania o in altri Paesi europei?
Me l’hanno chiesto varie volte in Germania, nelle interviste o tra colleghi. Ci ho pensato molto e la risposta è no: non è possibile perché manca il contesto in cui l’associazione è nata e attualmente si scivolerebbe facilmente nel nazionalismo. Italia Nostra ha una storia antifascista: è nata nel dopoguerra, negli ambienti dell’alta borghesia romana, fiorentina e milanese, con una connotazione decisamente democratica, europeista e antifascista. Se si proponesse, ora, di fondare nel mio Paese, un circolo chiamato Germania Nostra, si rischierebbe di richiamare tutte quelle componenti neo-naziste della società. Questo perché è l’idea della nazione che è molto diversa. Quindi, di nuovo, la cosa migliore sarebbe esportare lo spirito di Italia Nostra, quella particolarissima e forte eredità che Bassani e Ravenna ci hanno lasciato, in Europa.

Si potrebbe allora aprire la giuria anche ad altri componenti stranieri…
Assolutamente sì, sarebbe una grande svolta.

Tornando al Premio, come avviene la selezione dei candidati e che tipo di lavoro c’è dietro al Premio? Quale, in due parole, il ‘back stage della premiazione’?
Tutte le sezioni di Italia nostra sono invitate a fare una proposta, indicando uno scrittore/giornalista e inviando i nominativi agli uffici centrali di Italia Nostra a Roma. Qui vengono raccolti tutti i materiali relativi alla produzione scritta dei candidati, sia on line che off line, e inviati ai componenti della giuria che hanno il compito di leggere e valutare. Purtroppo quest’anno abbiamo solo quattro candidati, nelle edizioni precedenti ne avevamo una decina. Le candidature sono segrete, noi della giuria ci ritroveremo sabato mattina al Caffè Europa per un ultimo confronto vis-à-vis e la decisione finale.

Avete già un’idea di chi sarà il vincitore?

Io personalmente ho già la mia proposta, ma staremo a vedere.

Quali criteri utilizzate per la scelta?
Personalmente, non essendo esperto né di arte né di temi quali l’ambiente e il paesaggio, esprimo un giudizio puramente letterario-giornalistico, mi concentro sulla qualità della scrittura e soprattutto sull’impegno civile che emerge dalla produzione dei candidati. Sul riconoscere l’impegno civile sono stato ‘formato’ molto bene dall’Avvocato Paolo Ravenna, grande amico di Bassani, primo presidente e fondatore della sezione di Italia Nostra a Ferrara. Paolo Ravenna era una persona di una intelligenza finissima, molto rigoroso e geniale: le sue intuizioni, le sue idee e i suoi progetti per Ferrara, basti pensare alla restituzione storica delle Mura e all’Addizione verde del Parco urbano, ricordano la lungimiranza dei duchi Estensi di epoca rinascimentale. Sia Bassani che Ravenna avevano, inoltre, una mentalità un po’ anglosassone: da loro ho imparato a distinguere tra la retorica del fare e la sobrietà dell’impegno civile, tra imperativi meramente estetici e obiettivi di grande respiro.

Per concludere, quali sono quindi gli ideali che stanno alla base dell’impegno civile di Italia Nostra?
Direi gli stessi su cui si basavano Bassani, Ravenna ma anche altri grandi intellettuali italiani, come per esempio Pier Paolo Pasolini, che tra l’altro era un grande amico di Bassani: sentirsi italiani, legati alle proprie origini ma senza cadere nel nazionalismo; essere aperti, pensare in grande, a livello europeo e simbolicamente internazionale; essere portatori di un regionalismo moderno, a tutela del territorio ma senza ambizioni secessioniste e reazionarie stile Lega Nord. In due parole, amare il proprio Paese avendo coscienza del mondo.

PRGOGRAMMA DEL PREMIO “GIORGIO BASSANI” E DEL CONVEGNO DI ITALIA NOSTRA
Sabato 15 novembre – a partire dalle ore 10.00
Convegno “Il Po e il suo delta: tutela integrata e sviluppi di un grande sistema ambientale europeo”, Castello estense (sala dell’imbarcadero 2) organizzato da Italia Nostra sezione di Ferrara.
Domenica 16 novembre – ore 10.30
Premio Nazionale Giorgio Bassani
Proclamazione del vincitore, preceduta dalla lectio magistralis di Paolo Maddalena, vicepresidente emerito della Corte Costituzionale sul tema “Il territorio bene comune”.

LA GIURIA
Alessandra Mottola Molfino, Presidente nazionale di Italia Nostra, Storica dell’arte e Museologa
Salvatore Settis, Consigliere nazionale di Italia Nostra, docente di Archeologia presso la Scuola Normale di Pisa, saggista
Gherardo Ortalli, docente di Medievistica presso l’Università di Venezia, componente del Comitato scientifico internazionale della Fondazione Giorgio Cini e del Comitato scientifico della Fondazione Benetton studi e ricerche
Luigi Zangheri, docente di Storia del giardino e del paesaggio e di restauro dei parchi e giardini storici presso l’Università degli studi di Firenze
Gianni Venturi, direttore dell’Istituto di Studi rinascimentali, presidente dell’Associazione amici dei musei e dei monumenti ferraresi, studioso dell’opera di Giorgio Bassani
Anna Dolfi, docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università di Firenze, presidente del Comitato per il centenario della nascita di Giuseppe Dessì, studiosa dell’opera di Giorgio Bassani
Carl Wilhelm Macke, giornalista di Monaco di Baviera, segretario generale dell’Associazione umanitaria “Giornalisti aiutano giornalisti”, cultore dell’opera e del pensiero di Giorgio Bassani

L’EVENTO
Precarietà, futuro, utopia: la parola ai cittadini

di Francesca Tamascelli

Un esperimento di partecipazione collettiva avrà luogo domani a Ferrara. Il salone di Wunderkammer, gli ex magazzini generali di via Darsena, sarà infatti punto di ritrovo di cittadini curiosi di capire cosa sia questo nuovo progetto promosso dal Comune di Ferrara: il Future Lab dal titolo “Quali facce ha la precarietà?” [vedi il video].

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La locandina del FutureLab

Non è semplice spiegare cosa sia un Future Lab e c’è il rischio di confonderlo con quello che non è: una conferenza, una lezione frontale, un brainstorming. Per cominciare, Future Lab non è il titolo di un evento, ma il nome di una metodologia. Fu il tedesco Robert Jungk a ideare questo strumento partecipativo, attualmente molto utilizzato nei Paesi del nord Europa per la pianificazione ed il miglioramento dei servizi al cittadino. E’ una metodologia basata sulla cittadinanza attiva, attraverso cui è possibile fare emergere “dal basso” esigenze e aspirazioni dei cittadini nonché ipotesi di cambiamento.
Future lab è dunque la forma, il contenitore. Il contenuto invece è variabile, a seconda dell’aspetto sociale che si vuole indagare. In questo caso, la precarietà: non solo quella lavorativa, bensì la precarietà a 360°, che sempre più e sempre più spesso arriva a coinvolgere tutti gli ambiti del vivere quotidiano e ad intaccare la possibilità di progettualità future. Una precarietà che oramai sembra essere descrittiva della dimensione esistenziale contemporanea.
Capiamo meglio, però, come funziona un Future Lab. I passaggi sono prestabiliti e consistono in tre tappe fondamentali: la distopia, l’utopia e il progetto. La distopia, con scopi di catarsi e di chiarificazione, serve a focalizzarsi su ciò che non funziona del presente. Per farlo, porta alle estreme conseguenze i tratti negativi che caratterizzano la sfera dell’argomento in questione. Ai presenti verrà chiesto: dove andremo a finire, se continueremo così? Le risposte saranno raccolte mediante brainstorming di parola, in plenaria.

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FutureLab, una faccia del totem

L’utopia è il secondo passaggio e serve a sviluppare una visione positiva del futuro, sufficientemente lontana da poter essere, appunto, utopica: in che mondo vorremmo vivere tra 200 anni? Come dovrebbe essere la società, in relazione al nostro tema di discussione? Questo, forse, il passaggio più complesso, non tanto per la difficoltà intrinseca del pensiero utopico, quanto per la grande diffidenza che abbiamo sviluppato verso l’utopia. Si pensa forse che l’utopia, radicata nel terreno dell’ideologia e del pensiero teorico, sia appannaggio di quei pensatori che hanno scritto libri mirabili ma non sono stati veramente in grado di incidere sulla realtà, isolati in esercizi mentali poco concretizzabili. In un momento di grave crisi, di tangibile tensione sociale, con atmosfere nebbiose e pesanti da tagliare con il coltello, chiedere alle persone di liberare energia utopica è rischioso: la proposta potrebbe essere accolta con diffidenza, chiusura, se non addirittura intolleranza. “Basta parole! A cosa servono? Cosa cambiano? Parliamo parliamo parliamo, poi torniamo a casa e tutto resta come prima”. Pensiero comprensibile, ma non per forza corretto. Rilegittimare l’utopia è importante, non (solo) perché l’uomo è di tendenza un pensatore, ma perché i progetti più concreti hanno bisogno di visioni, e non sono realizzabili se prima non abbiamo individuato un orizzonte, una meta da raggiungere. Utopia. U-topos, “nessun luogo”. L’utopia non è un luogo da raggiungere, è un orizzonte da inseguire per raddrizzare il percorso. Non è una destinazione, bensì una direzione.
Parole parole parole. Non siamo ancora convinti. E allora passiamo alla terza fase: ipotesi di progetti. I partecipanti, i cittadini, si attiveranno in gruppi di lavoro che, seguendo l’indicazione dell’utopia prescelta, si impegneranno a tratteggiare la strada “da qui a lì”: quali passi possiamo fare per incamminarci nella direzione dell’orizzonte desiderato? Le proposte concrete (progetti, servizi e quant’altro possa essere implementato a livello di comunità) verranno poi sottoposti all’attenzione dell’amministrazione comunale, presente nella persona di Chiara Sapigni, assessore alla Salute e Servizi alla Persona.
La giornata di Future Lab sarà condotta da Vincenza Pellegrino, sociologa dell’Università di Parma, e supportata da formatori che guideranno i gruppi di lavoro. Per stimolare il pensiero divergente necessario a ragionare in termini di distopia/utopia, è stato richiesto il contributo di Teatro Nucleo, per “incursioni teatrali” utili a stimolare idee e partecipazione.
Davvero l’amministrazione ha intenzione di ascoltare le proposte dei cittadini, oppure si tratta solo di un “contentino”? La domanda sorge spontanea, disabituati come siamo a contare qualcosa nelle decisioni pubbliche. Forse vale la pena di lasciare momentaneamente da parte interrogativi disillusi e provare a investire energia sulle proprie possibilità di partecipare in modo propositivo al dialogo e a progettualità condivise.

Se lo scetticismo permane, probabilmente l’unico rimedio è partecipare, correndo il rischio di provare il piacevole stupore di doversi ricredere.

Per informazioni, è possibile visitare la pagina facebook [vedi] oppure inviare una mail a
t.gradi@comune.fe.it. L’evento, a partecipazione libera e gratuita, è promosso da Comune di Ferrara in collaborazione con Regione Emilia Romagna, Provincia di Ferrara, Agenzia sanitaria e sociale regionale, Ausl Ferrara, Community Lab, Teatro Nucleo.

Radiofreccia, ovvero il fascino nascosto della provincia

Quasi vent’anni dopo (il film è del 1998), vogliamo ritornare all’esordio della regia di Luciano Ligabue, al suo Radiofreccia che descrive perfettamente la provincia emiliana, quel luogo dove molti di noi sono nati e cresciuti, quel posto odiato-amato dal quale tanti sono fuggiti e scappati, ma al quale sono spesso ritornati con amore per le proprie antiche radici, con nostalgia per i luoghi caldi, chiusi, protettivi, amichevoli e familiari che ci accoglievano da adolescenti, per quel movimento che c’era e che mancava.

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La locandina del film

Ligabue descrive i fossi, i bar, che si possono tranquillamente chiamare Mario, Sport o Laika senza cambiare sostanza, ma narra anche la fine di una stagione, di quegli anni ’70 vissuti sul filo tra voglia di libertà, bramosia di comunicare col mondo, sete di nuove idee ed eroina, bombe, violenza e tradizione. In quel momento storico, difficile e complesso per il nostro Paese, nascevano anche le radio libere che diffondevano un senso di sogni, di respiro libero, di scelte svincolate da legami commerciali e da censura.
Ci sono poi gli amici, le emozioni vissute e traspirate con loro e attraverso di loro, un microcosmo di nomi, cognomi e soprannomi. Come non ricordare l’abitudine tipica della provincia di affibbiarsi nomignoli strani o di chiamarsi per cognome. E allora ecco Bonanza, fissato con il cinema, Kingo, che sente di avere affinità con Elvis, Virus, che cerca di attirare l’attenzione ingurgitando qualsiasi cosa gli capiti a tiro, e il barista, che è anche l’allenatore della squadra di calcio del paese, interpretato da Francesco Guccini.
Il primo a prendere sul serio le parole del barista-filosofo è Bruno che, con passione e coinvolgendo qualche amico, cerca di creare il proprio spazio on air. Finalmente Bruno (Luciano Federico) riesce ad avere la sua radio che i suoi amici Iena (Alessio Modica), Boris (Roberto Zibetti), Tito (Enrico Salimbeni) e Freccia (Stefano Accorsi) riescono a sentire anche a Brescello, a oltre 30 km a Correggio. Finalmente Bruno può trasmettere la sua musica, le sue canzoni, perché le canzoni sono quelle che non tradiscono mai. Bruno alla radio ci crede, perché in qualcosa bisogna pur credere. Anche con tanta voglia di divertirsi insieme e di ritagliarsi la propria libertà.
Freccia e i suoi amici vanno avanti, ognuno per la sua strada, chi passando dalla galera, chi giudicando il prossimo, chi sposandosi, chi raccontando e chi cadendo nella “nuova” moda dell’eroina per poi uscirne, ma per poi cadere ancora, per amore, per ossessione, per rabbia o perché non ci si è nascosti a sufficienza dal mondo. Già perché, come afferma Freccia, il mondo fuori è brutto e pericoloso, nel senso che “la vita non è perfetta, solo nei film la vita è perfetta, nei film la vita non ha tempi morti”.

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Ligabue durante le riprese del film

Ligabue racconta con i ritmi della commedia questa storia tratta dalla sua raccolta di racconti “Fuori e dentro il borgo”, una storia semplice, ritmata dall’accento emiliano. La colonna sonora coglie nel segno, passando da David Bowie (“Rebel rebel”), ai Doobie Brothers (“Long Train Running”), a Lou Reed (“Vicious”) fino ai Creedence Clerawater Revival (Run Throught The Jungle”); aggiungendo il suo tocco personale con “Ho perso le parole” (perse in seguito a una di quelle morti senza senso e giustizia di Freccia che, deluso da questioni amorose, si rifugia nell’eroina) e “Metti in circolo il tuo amore”, per passare alla scelta di accompagnare l’ultimo cammino di Freccia, il vero protagonista, con “Can’t help falling in love”, suonata dalla banda di Correggio.
Film meritevole per la profondità psicologica di trama e personaggi, per lo spaccato della provincia e degli anni ‘70, per i sogni e le delusioni che accompagnano la vita di ciascuno di noi e che ci accomunano, senza alcuna distinzione.

di Luciano Ligabue, con Luciano Federico, Stefano Accorsi, Francesco Guccini, Serena Grandi, Patrizia Piccinini, Italia, 1998, 112 mn.

IL DOSSIER
Le mafie in Emilia: cronaca di un insediamento

La lista “L’altra Emilia Romagna” ha presentato al ristorante 381 di piazzetta Corelli il dossier 2012-2014 “Emilia Romagna: cose nostre. Cronaca di un biennio di mafie in E.R.”. Il documento non è un’esauriente indagine scientifica, ma “una cassetta per gli attrezzi” dal carattere e dalla passione militanti per aiutare chiunque sia interessato a capire “come sono arrivate e come si muovono le mafia in Emilia Romagna”, ha spiegato uno degli autori, Gaetano Alessi di AdEst, che insieme all’Associazione Pio La Torre e al Gruppo dello Zuccherificio ha curato la realizzazione del documento.
“Nelle scuole spesso diciamo che la mafia è una montagna di merda, è vero, ma bisogna fare i conti anche con il fatto che la mafia è una montagna di soldi, di interessi, di affari”, continua Gaetano, animato da quell’indignazione che spinge all’impegno: nel suo caso, prima per realizzare tre dossier e ora per parlarne, spostandosi da una parte all’altra della regione dopo il lavoro.
In Emilia Romagna le mafie hanno mostrato entrambe queste facce, per questo ormai non si può più parlare di un’infiltrazione serpeggiante e di colletti bianchi: 9 attentati, 221 danneggiamenti seguiti da incendio, 301 incendi e 1.149 rapine, questi nel 2011 i cosiddetti ‘reati spia’, cioè commessi con metodi chiaramente mafiosi (Fonte: Mosaico di Mafie e Antimafia-Dossier 2012, curato da Fondazione Libera Informazione e Osservatorio Nazionale sull’informazione per la legalità e contro le mafie).
Gaetano ha elencato le attività della criminalità organizzata, che vanno dal “traffico d’armi e uomini nel porto di Ravenna” all’usura al gioco d’azzardo, fino ad arrivare al loro ‘core business’, del quale fanno persino “fatica a riciclare i proventi”: il traffico di droga, con Bologna trasformata in un “centro internazionale del narcotraffico”, dove si tenevano veri e propri summit fra i capi delle organizzazioni criminali italiane e straniere. Una regione che, nel 2012, era “prima in Italia per lavoro nero, seconda per l’impiego di irregolari e al quarto posto per il riciclaggio di denaro sporco”, in cui “il 70% delle opere pubbliche viene dato in subappalto con il sistema del massimo ribasso”, non può stupire più di tanto che gli stessi mafiosi affermino che “il modello emiliano va esportato perché funziona”, come rivela Alessi. Forse a sorprendere è il fatto che, secondo quanto riportato su “Emilia Romagna: cose nostre”, delle 5.192 operazioni sospette segnalate nel 2012 la quasi totalità proviene da sportelli bancari e uffici postali, mentre meno di 15 sono segnalate da avvocati, commercialisti, notai, revisori ecc. Oppure, per quanto riguarda l’usura, il fatto che secondo il Magistrato Lucia Musti “le intimidazioni denunciate sono state pochissime, quello che abbiamo trovato l’abbiamo trovato grazie alle operazioni di ascolto, alle intercettazioni”. Per SoS impresa l’8,6% degli esercizi commerciali o paga il pizzo o è vittima di usura, ma la “gente con il naso spaccato dice di essere caduta per le scale”, afferma Gaetano. E dovrebbero quantomeno sorprendere anche le affermazioni di Marcello Coffrini, sindaco Pd di Brescello, che parlando di Francesco Grande Aracri – fratello del boss Nicolino Grande Aracri, condannato in via definitiva per associazione di stampo mafioso e sorvegliato speciale del tribunale di Reggio Emilia – lo definisce “uno molto composto, educato, che ha sempre vissuto a basso livello”.
La concretezza si fa stringente arrivando all’affare della ricostruzione post-sisma: nel complesso gli uffici antimafia delle Prefetture della regione hanno ricevuto oltre 32.000 istanze nel 2013 adottando 28 interdittive, mentre secondo i dati forniti dalla Prefettura di Bologna nel giugno 2014 sono 31 le aziende non ammesse alle ‘white list’: 11 a Modena (1.360 le iscrizioni su 4.200 richieste), tre a Ferrara (677 su 1.228) e 7 a Bologna (453 su 788). Il pericolo più concreto è che chi deve verificare che le aziende che si aggiudicano appalti e cantieri per la ricostruzione dell’Emilia terremotata siano ‘in regola’ non abbia le risorse per farlo. Come spesso accade in Italia, dice Gaetano “si fa una buona norma, ma poi non la si mette in grado di funzionare. Il rischio è che con la scusa delle pastoie burocratiche si tolgano i controlli e si bypassino le white list”, lasciando che la ricostruzione venga gestita da una mano invisibile: a questo punto c’è da sperare che sia ancora solo quella del mercato.

LA NOVITA’
Approdano all’Ariostea volumi preziosi e rari: ‘Anche una miniatura di Crivelli’

Di fronte alla bellezza estetica e all’aura del tempo che avvolge codici miniati e cinquecentine, spesso la storia, ma forse sarebbe meglio dire il viaggio che compiono questi preziosi oggetti è una delle ultime cose cui si pensa. E poco si pensa anche al lavoro e alla complessità delle ricerche per appurarne l’autenticità, prima, e conservarli e restaurarli, poi. È, invece, esattamente quello che abbiamo pensato durante l’incontro “I libri del Paradiso. Recenti acquisizioni di manoscritti e libri a stampa”, in cui sono stati presentati tre nuovi acquisti del patrimonio librario antico della Biblioteca Ariostea. È stato come se, per una volta, fossimo passati dall’altra parte del banco di distribuzione dei volumi, per addentrarci nella parte meno conosciuta delle attività di una biblioteca: la ricerca e l’acquisizione di volumi di pregio. “In una fase in cui le biblioteche sono sempre più assorbite dalle esigenze e dai servizi della biblioteca pubblica”, si cerca di riprendere l’attività di “recupero e conservazione dell’antico” con l’obiettivo di “coniugare e tenere in equilibrio queste due anime della biblioteca”, ha sottolineato Enrico Spinelli, direttore del Servizio biblioteche e archivi del Comune di Ferrara.
Il primo volume di cui è stata narrata la storia è un’edizione “fantasma” dell’Orlando Furioso, stampata a Venezia da Girolamo Scoto nel 1567. Mirna Bonazza (responsabile manoscritti e rari) e Arianna Chendi (responsabile acquisizioni e trattamento del libro) l’hanno ironicamente definita fantasma perché non è menzionata nei repertori e per trovare una sua descrizione bisogna tornare indietro al XIX secolo, poi di nuovo il ritorno all’oblio. Stando a quanto ricostruito da un biglietto ritrovato all’interno: dalla tipografia veneziana degli Scoto, che con Girolamo erano arrivati alla terza generazione di stampatori specializzati in edizioni musicali, la cinquecentina è arrivata a Torino nella casa di un medico professore universitario, che poi l’ha donata al nipote, anch’egli medico; poi riappare a metà del XIX secolo in una rinomata libreria antiquaria milanese e infine, probabilmente dopo essere passata fra le mani di qualche collezionista, in un’altra libreria antiquaria di Verona, che nell’estate del 2013 contatta la biblioteca Ariostea per proporle l’acquisto dell’esemplare. Ma non è finita qui, anzi da quel momento sono cominciate le ricerche per accertarne l’autenticità, stabilita alla fine tramite lo stemma della filigrana.
Il secondo pezzo presentato è un frammento miniato dell’Officium defunctorum, databile agli anni fra 1461 e 1465, appartenente alla cultura artistica ferrarese dell’epoca di Borso d’Este: è stato infatti realizzato da quel Taddeo Crivelli che insieme a Marco de Rossi ha miniato gran parte della meravigliosa Bibbia di Borso d’Este. L’importanza di aver ricondotto a Ferrara questo esemplare deriva non solo dal fatto che appartiene “al periodo d’oro della miniatura ferrarese”, ma anche dall’essere “uno dei rarissimi frammenti rimasti dei circa 25 libri d’ore realizzati da Crivelli”. A questi si aggiunge l’edizione facsimilare, a cura dell’Istituto dell’enciclopedia italiana, del Decameron di Boccaccio commissionato da Borso d’Este per donarlo a Teofilo Calcagnini, che ricopriva la carica di Compagno del duca. Anche qui ritroviamo le preziose miniature di Crivelli. L’originale del codice è oggi conservato presso la Bodleian library di Oxford, dove è arrivato nel XVIII secolo dopo essere stato acquistato da sir Thomas Coke di Holkham, grande collezionista di codici miniati: ha viaggiato sul continente, acquistando in Francia e in Fiandra, in Italia è riuscito ad assicurarsi oltre 600 manoscritti, la sua raccolta si conserva ancora a Holkham Hall ed è una delle più importanti collezioni private di libri e manoscritti dell’Inghilterra.

Aiuto, lo stomaco brucia!

Quando una porzione dello stomaco scivola verso l’alto, in molti casi si tratta di quella che i medici chiamano un’ernia iatale con reflusso gastroesofageo.
L’ernia iatale è un problema piuttosto diffuso, sembra che interessi fino il 60% della popolazione. La patologia è causata dal passaggio di una porzione dello stomaco dall’addome al torace, attraverso un foro del diaframma, chiamato iato diaframmatico esofageo.
Tale sindrome riduce notevolmente la qualità della vita a causa di una serie di sintomi tipici (cervicalgia, dorsalgia, dolori al petto cefalea) e atipici (ad esempio la raucedine) che ne conseguono. Il trattamento manipolativo osteopatico si dimostra essere un metodo efficace per diminuire la sintomatologia di questa patologia. Infatti, in molti casi, l’ernia iatale ha una componente osteopatica importante in quanto, indipendentemente dalla sua tipologia, è quasi sempre l’espressione di un disequilibrio delle fasce a livello gastro-esofageo.

Si distinguono due diversi tipi di ernia iatale:
1) Ernia da scivolamento: è la più frequente (circa il 90% dei casi); si caratterizza per il passaggio di una porzione dello stomaco attraverso lo iato esofageo, provocando reflusso gastro-esofageo.
2) Ernia da rotolamento: condizione più rara e pericolosa della precedente. In questo caso la giunzione tra stomaco ed esofago rimane nella sua sede naturale mentre il fondo dello stomaco passa nel torace.

Le cause
In effetti, la tendenza allo scivolamento verso l’alto di una parte dello stomaco è data da tensioni muscolo-fasciali non fisiologiche che coinvolgono l’intero sistema fasciale.
Una causa importante è l’allentamento dei tessuti connettivi e la perdita di tono basale che si verificano con l’andare degli anni. Ma in queste condizioni si vedono tipicamente anche pazienti fra i 35 e i 50 anni. Una cifosi toracica acquisita si sviluppa con un cambiamento nel rapporto tra la giunzione cardi-esofagea ed il diaframma, con una riduzione dell’efficienza sfinterica. Gli interventi chirurgici possono provocare, invece, tensioni disuguali in tutti i tessuti connessi con le cicatrici. Certe occupazioni lavorative possono contribuire alla destabilizzazione della giunzione gastro-esofagea. I lavori sedentari favoriscono il rilasciamento dei legamenti della giunzione gastro-esofagea. In sostanza, si tratta di cause meccaniche che generano problemi meccanici.
In medicina interna l’ernia iatale o dello iato esofageo può essere dovuta a brevità congenita dell’esofago; erniazione del cardias entro il torace; sacca gastrica posta nello iato lateralmente all’esofago.

I sintomi
I sintomi che più spesso accompagnano il reflusso esofageo, con o senza ernia iatale, sono: pirosi, rigurgito, dolore epigastrico o retrosternale, aggravato da certi movimenti, per esempio flessione in avanti del corpo; dolori di stomaco, vomito acquoso e filamentoso, alito acido, dolore nella parte inferiore del petto, dolore esacerbato da tosse ed espirazione forzata, dolore all’ingestione di cibi solidi, cefalee spesso alleviate dal vomito. L’ernia iatale e il reflusso gastro esofageo non si presentano sempre insieme ma hanno in comune fattori predisponenti simili.

I rimedi

E’ importante sottolineare ancora una volta che la patologia dell’ernia iatale con reflusso gastroesofageo trattata fino ad ora è di esclusiva competenza medica nella diagnosi e come tale va sottoposta ad uno specialista specifico.
Diverso è il discorso relativo ai sintomi accusati dal paziente, sintomi che possono essere affrontati, in seconda battuta e con più o meno possibilità di successo a seconda dei casi, con terapie manuali, laddove una visita osteopatica appropriata ne riscontri la necessità. L’osteopatia, oltre ad avere una grande efficacia per i dolori articolari e muscolari, possiede una serie di tecniche specializzate per il trattamento della zona viscerale, che permettono di ridurre drasticamente l’insorgenza dei vari sintomi.
Esiste una dinamica viscerale precisa che può essere modificata. Quindi, applicando una serie di tecniche specifiche, si permette all’organo di trovare la sua fisiologia naturale ed i disordini legati alla restrizione di mobilità saranno così corretti.
La sintomatologia è spesso legata al reflusso gastroesofageo e alle sue complicazioni. Lo scopo del trattamento osteopatico consiste nel rinforzare e rilassare la giunzione gastro-esofagea, attraverso l’induzione concentrata in questa zona e di aprire qualsiasi fissazione fibro-muscolare della giunzione e delle strutture circostanti.

Per ottenere una maggiore efficacia le tecniche vanno eseguite in una sequenza specifica:
– ascoltare l’addome;
– liberare le zone di inserzioni del fegato;
– liberare il piloro e lo stomaco;
– liberare la giunzione gastro-esofagea;
– manipolare le fissazioni scheletriche importanti che persistono (ad esempio le articolazioni costo-condrali);
– normalizzare le fissazioni craniche e sacrali.

Consigli
– non andare a letto subito dopo il pasto;
– non indossare cinture o indumenti stretti;
– dormire su un cuscino alto;
– evitare la posizione declive;
– non tenere le braccia in alto e la testa inclinata indietro a lungo

Alimentazione
I sintomi collegati all’ernia iatale sono il reflusso gastroesofageo che dà luogo alla patina linguale, e/o a rigurgiti acidi, ad una sensazione di bocca amara e secchezza della bocca.
Per questo motivo è ottimale masticare molto i cibi, ed evitare soprattutto cioccolato, latticini, pomodoro, alcolici, fumo, caffè, agrumi, bevande gasate, e cibi acidi in generale come melanzane, peperoni, aglio e cipolla (specialmente se crudi), menta, eucalipto (quindi attenzione anche ai prodotti come caramelle balsamiche e tisane, eventualmente per problemi da raffreddamento si possono usare prodotti a base di propoli). Come antiacido oltre ai citrati alcalini, è possibile usare il kuzu, una radice giapponese reperibile in erboristeria e nei negozi biologici. Se si ha la bocca amara o acidità in gola, si possono fare risciacqui e gargarismi con acqua tiepida e bicarbonato di sodio
Un trucco che funziona molto bene è di consumare pasti di piccola quantità e più frequenti, limitando al massimo le bevande (possibilmente solo acqua) bevute durante i pasti, altrimenti i succhi digestivi sono diluiti e la digestione peggiora tendendo a far risalire il cibo e ad esalare acidità. Inoltre, occorre agevolare la digestione evitando di consumare frutta e dolci a fine pasto, in modo da uniformare il tipo di cibi da digerire, iniziare a bere acqua calda appena svegliati, prima di coricarsi, e lontano dai pasti.
Per questo sarebbe utile portarsi dietro un termos di acqua calda anche sul posto di lavoro e in vacanza, bevendone un po’ per volta durante tutta la giornata, lontano dai pasti. Sarebbe meglio mangiare cibi cotti e iniziare i pasti con zuppe, minestre con cereali integrali, per tenere così lo stomaco e l’apparato digerente caldi e pronti alla digestione, evitando cibi secchi e freddi.

Il letto di foglie

Siamo in autunno e cadono le foglie. I miei tigli, come sempre, lo fanno all’improvviso, da un giorno all’altro, rovesciando sulla terra il loro regalo annuale di materia organica. Da anni ho smesso di accanirmi sulle foglie cadute e ho imparato ad accettare il loro disordine naturale come una risorsa. Non ho pratini-moquette da coltivare, quindi posso lasciarle ad ingrassare la terra; al limite, siccome sono così tante che se le lasciassi avrei un effetto pacciamatura controproducente anche per le margherite, ogni anno ne raccolgo dei mucchi e poi le distribuisco sotto le siepi, dove le lascio tranquille a decomporsi. Con questo sistema ottengo dell’ottimo terriccio e concimo le piante.
In pratica le foglie secche mi risolvono due problemi in un colpo solo: la pacciamatura e la produzione di compost. Di cosa sto parlando? La pacciamatura è uno strato di materiale che si mette sulla terra per impedire alle erbacce di crescere, riducendo i costi e i tempi per la manutenzione, e per mantenere un certo grado di umidità alla base delle piante. Si possono usare materiali inerti come la corteccia a scaglie, le palline di argilla o di pomice, oppure la ghiaia. La corteccia sarebbe materia organica, ma non si decompone tanto in fretta quindi la considero inerte. Per avere un effetto duraturo e significativo, lo strato di pacciamatura dovrebbe essere profondo almeno 15 cm. Per calcolare quanto ne occorre si moltiplica questo spessore per la superficie da coprire, se riduciamo lo strato si accorciano anche i costi e l’effetto, quindi, per economizzare si è diffusa una pratica, brutta da vedere e anche poco efficace, che è quella di stendere tra la terra e la pacciamatura uno strato di teli di varia natura, di solito si tratta di materiale plastico nero o verde, raramente di tessuto di iuta. Provate a guardare in giro, vi sembra bello vedere queste frange di plastica spuntare ai bordi delle aiuole? Ma questo è il minimo, trovo che sia diabolico mettere la pacciamatura per impedire alle erbacce di crescere e lasciare gli spazi liberi per l’impianto di irrigazione a goccia, perché dove i teli hanno dei tagli o delle aperture, la gramigna, irrobustita dall’acqua che bagna le piante ornamentali e ingrossata da metri di radice sotto traccia, cresce benissimo e per toglierla di solito si finisce per sollevare tutto lo strato di tessuto che era stato messo per impedirne lo sviluppo. Risultato: per economizzare sulla manutenzione ordinaria, che sarebbe il periodico diserbo manuale, abbiamo una serie di aiuole pubbliche e non, dove le piante sono soffocate da gramigna e stoppioni tanto robusti quanto brutti da vedere.
Nel settore pubblico proporre alternative è una battaglia persa, davanti allo scudo impenetrabile del controllo delle spese e alla necessità elettorale di far finta di essere amici dell’ambiente, con inutili aiuole e fioriere, non c’è logica o buon senso che tenga. Mi ripeto, ma il consiglio è sempre lo stesso, guardiamoci attorno, usiamo la testa e prima di lasciarci convincere dalla sirena “del tanto si fa così”, proviamo a pensare a soluzioni diverse, in questo caso, se la pacciamatura e l’impianto di irrigazione a goccia sono incompatibili, scegliamo quello che per noi è prioritario e per il resto si proceda manualmente, con la vanga o con l’innaffiatoio, oppure, possiamo valutare una pacciamatura di tipo naturale, per esempio sotto le siepi di confine, nelle aiuole dall’assetto più libero o nell’orto, usando paglia o foglie sane e friabili, come quelle dei tigli o di altri alberi e cespugli che abbiamo a disposizione, invece di buttarle nel cassonetto dell’umido.
Con la parola compost si indica, in modo generico, il prodotto della decomposizione di materiale organico vegetale che può essere utilizzato come ricco terriccio o concime. La natura si composta da sola grazie ai nostri amici batteri, che combinandosi con l’aria, fanno tutto il lavoro. Anche in questo caso, le mode creano delle abitudini stupide. La decomposizione puzza. Quindi siccome vogliamo fare gli ambientalisti ma non abbiamo voglia, tempo e pazienza, acquistiamo ai centri commerciali dei bidoni mimetici come un sommergibile nucleare e lo posizioniamo in giardino. L’entusiasmo porta a raccogliere scarti vegetali di ogni genere, l’ho fatto anch’io, con una specie di truzzara vecchio stile dove per qualche mese ho cercato di ammassare foglie e avanzi di cucina. Alla fine il mio giardino puzzava come una discarica e non avevo né tempo né voglia di arieggiare questo pattume rovesciandolo con il forcone per ringalluzzire i batteri, quindi l’esperimento è durato pochissimo.
Lasciamo perdere i bidoni e anche le polverine magiche che velocizzano il processo e aspettiamo che la natura faccia il suo lavoro per noi. Se abbiamo delle piante di rose o piante che durante l’estate abbiano avuto parassiti o malattie, raccogliamo tutte le foglie malate e invece di gettarle nel giardino del vicino portiamole nel cassonetto “varie ed eventuali”; con le foglie sane invece, facciamo dei mucchi, o stendiamole sotto le siepi, fra un anno il nostro giardino ci ringrazierà con uno strato morbido e profumato di terriccio fantastico.

Aiutiamo la pallavolo

Ultimamente, grazie alle ragazze della nazionale, in molti hanno seguito la pallavolo. Poi non importa che non abbiano vinto i mondiali; hanno dimostrato di essere forti, battendo anche chi poi ha vinto. Questo risultato ha ridato valore alla pallavolo, soprattutto femminile (ma anche il maschile è ben seguito).
A Ferrara la pallavolo era in passato uno sport importante che poteva contare su molti tifosi entusiasti di poter seguire il campionato di serie A1 nel maschile e di B1 nel femminile; ma ancora più importante è che anche ora tantissimi giocatori, a tutti i livelli, frequentano e amano questo sport (d’inverno in palestra e d’estate in spiaggia). A livello femminile è in assoluto il più seguito; non solo dalle centinaia di giocatrici tesserate, ma anche a livello giovanile e scolastico coinvolgendo migliaia di genitori e collaboratori di ogni genere. Si potrebbero citare tante società e ancor più squadre che sorrette da impegnati dirigenti ogni anno rivivono e rivitalizzano questo meraviglioso sport di squadra. Tante ammirevoli persone, bravi allenatori e soprattutto tante ragazze e ragazzi che lo praticano.
Chi ha seguito qualche partita potrà ben comprendere quanta determinazione, quanta grinta e soprattutto quanto spirito di gruppo si ritrova in questo sport.
E’ però triste accorgersi come il volley, in questo periodo di assenza di risultati sportivi di alto livello, sia abbastanza a margine della cronaca sportiva e viva nell’indifferenza di molti ferraresi. Anche tramite questo giornale ci aspettiamo sia condiviso lo spirito di questo articolo e si attivi una rinnovata attenzione perché questo sport non sia dimenticato. Andare con i propri figli a vedere una partita di pallavolo è molto bello; ancora più bello è andare a vedere una partita dei propri figli.

L’INTERVISTA
Eraldo Affinati: “Sogno una scuola senza classi, senza voti, senza registri”

Eraldo Affinati, insegnante e scrittore affermato, fondatore a Roma della “Penny Wirton”, scuola di italiano per stranieri, vive e lavora a Roma. Insegna italiano e storia nell’Istituto professionale di Stato “Carlo Cattaneo”, presso la succursale della Città dei Ragazzi. Elencare le opere di Affinati sarebbe davvero troppo lungo, i campi sono i più vari, ma solo apparentemente distanti tra loro, perché tutte accomunate dalla cifra del loro autore in cui vocazione pedagogica e letteraria si fondono. Abbiamo incontrato Eraldo Affinati alla Città del Ragazzo di Ferrara, dove è stato chiamato dalla Provincia e da Promeco a parlare nel corso di formazione per i docenti degli enti di Istruzione e Formazione professionale.

La prima domanda che ci viene da formulare di fronte ad Affinati è forse la più banale, ma per noi, soprattutto oggi, la più importante. Cosa significa essere un insegnante?
Credo che un insegnante sia il responsabile dello sguardo altrui. Prendersi in carico le richieste interiori ed esteriori degli scolari significa innanzitutto conoscerli. Capire da dove vengono. Cosa fanno e cosa pensano. Quali sono le loro passioni, i loro problemi. Se non si conquista la fiducia dei ragazzi è difficile spiegare il programma. Essere un insegnante vuol dire anche trasmettere la tradizione e ristabilire le gerarchie di valore nel mare magnum a volte indifferenziato del Web. Formare la coscienza dei futuri cittadini. Trasformare il compito scolastico in un’esperienza conoscitiva.

Eraldo Affinati, scrittore affermato. Che relazione c’è tra l’insegnante e lo scrittore Affinati?
L’insegnante e lo scrittore sono i custodi della parola. Senza dimensione verbale anche i sentimenti sono destinati a restare grumi emotivi. Essendo io figlio di due orfani, sin da ragazzo ho dovuto combattere contro la mancanza delle parole. E’ questa la ragione che spiega il rapporto fra la mia tensione pedagogica e la mia vocazione letteraria. Sia nell’insegnamento sia nella scrittura vorrei risarcire i miei genitori di quello che loro non hanno avuto. Lo faccio per interposta persona, cercando di coinvolgere i miei studenti.

I giovani emarginati dalla scuola, i giovani così detti difficili, sono giovani privati della parola perché non hanno ascolto, come i giovani figli dell’immigrazione che ancora non possiedono le parole della nostra lingua. Esiste una pedagogia della parola?
Penso di sì, anche se non può essere schematizzata in un metodo unico. Senza verbi non si vive. Senza nomi si muore. La scuola oggi deve ritrovare le fonti delle parole: desideri espressivi, volontà di comunicazione, tensione comunitaria. Se non si fa prima questo lavoro sull’identità dei ragazzi, si rischia di lavorare solo sulle tecniche che presto si dimenticano.

Il valore delle parole. Ma che parola queste ragazze e questi ragazzi devono incontrare perché sia restituita loro dignità, autostima, fiducia in se stessi, per sentirsi accolti?
Bisogna partire dagli stessi scolari per risvegliare in loro lo spirito critico. Non dobbiamo limitarci a spostare un contenuto da un luogo all’altro. Faccio un esempio: stavamo leggendo alcuni versi di Giuseppe Ungaretti. A un certo punto Romoletto, uno dei ragazzi più difficili, mi chiese: dove è sepolto questo poeta? Al cimitero del Verano a Roma, gli risposi. E lui soggiunse: perché non andiamo a visitare la sua tomba? Lo presi in parola. Il giorno dopo, insieme a tutta la classe, andammo a rendere omaggio alla salma di Ungaretti. In quel momento le parole di Romoletto divennero vere.

Lei ha scritto ‘Elogio del ripetente’. Non rischia di apparire una presa d’atto dei fallimenti del nostro sistema scolastico? Un atto di sfiducia nei confronti della scuola pubblica?
In realtà la nostra scuola pubblica, nella sua struttura complessa e variegata, è giustamente inclusiva: basti pensare agli insegnanti di sostegno, fiore all’occhiello del sistema italiano. Tuttavia oggi ci sono emergenze nuove legate, ad esempio, agli studenti non italiani, per i quali non si fa ancora abbastanza. Inoltre, come sapeva Don Milani, se la scuola si occupasse solo di quelli che vanno bene, assomiglierebbe a un ospedale che vuole curare i sani. E’ necessario coinvolgere e recuperare tutti, anche perché le classi eterogenee sono sempre le migliori. I deboli imparano dai forti: questo è sicuro. E’ vero anche il contrario: i forti hanno bisogno dei deboli. Ma come fa un docente da solo a curare le eccellenze, gli iperattivi, i dislessici, i caratteriali e gli L2? Io resto fiducioso: non a caso il mio “Elogio del ripetente” finisce con una bibliografia per un’altra Italia. Un elenco non di libri, ma di nomi di persone che ho incontrato nei miei giri nelle scuole: professori e dirigenti che si mettono in gioco e si rimboccano le maniche lavorando tutti i giorni con quello che hanno a disposizione.”

Nei sui libri ‘La Città dei Ragazzi’ e ‘Vita di vita’ aleggia la figura del padre. Per essere insegnanti bisogna essere dei ‘padri o delle madri a fondo perduto’?
“In Vita di vita” racconto la storia di un viaggio africano sulle tracce di un mio studente che, dopo incredibili avventure, ha ritrovato la madre di cui non aveva saputo più nulla da quando, a soli sette anni, era stato costretto a lasciarla. Nel romanzo ci sono però anche le storie dei miei studenti italiani, ai quali io avevo detto di leggere alcuni brani di lettere scritte da loro coetanei morti da eroi nella Prima Guerra Mondiale e durante la Resistenza. Il testo ha un doppio finale: uno alle Fosse Ardeatine dove i ragazzi italiani e quelli stranieri si abbracciano di fronte agli eroi; l’altro riguarda Santino, un ragazzo bocciato che sfonda i banchi di scuola. Il lavoro dell’insegnante assomiglia a quello dei genitori: educare significa ferirsi. Farlo a fondo perduto vuol dire rinunciare al riscontro immediato. Un figlio o uno scolaro ti porta sempre in un luogo che tu non prevedi. Come adulto devi prenderne atto, senza rinunciare al ruolo che eserciti.”

Il Penny Wirton, del romanzo di D’Arzo Silvio, fugge di casa per sottrarsi alla vergogna di non avere avuto un padre nobile, per poi tornare e ritrovare nell’amore della madre la dignità della propria condizione umana e sociale.Penny Wirton è la metafora di ogni immigrato, che ha lasciato le proprie radici, che ritrova l’amore della madre nell’apprendere una lingua che non è la sua, che non è quella materna?
E’ bello dirlo così. Khaliq, il protagonista di “Vita di vita”, ha fatto esattamente questo. Ecco perché nel libro si esprime in una lingua-bambina, ancora allo stato fetale. E oggi si sente responsabile del villaggio che ha accolto sua madre, in Gambia. Infatti non esita a inviare aiuti economici per sostenere, nel suo piccolo, quella comunità.

Bene. Veniamo al suo sogno. La Penny Wirton che ha fondato a Roma con sua moglie è il sogno di un’altra scuola. Ce lo vuole raccontare questo sogno?
E’ una scuola senza classi, senza voti, senza registri, basata sull’uno a uno. I docenti sono volontari che prestano gratis la loro opera. A fondo perduto, per l’appunto. All’inizio eravamo io, mia moglie, Anna Luce Lenzi (con la quale ho scritto ‘Italiani anche noi’, manuale di apprendimento dell’italiano) e pochi altri. Oggi siamo centinaia, non solo a Roma, anche in Calabria, grazie all’attività di Marco Gatto; a Padova, con il sostegno di Enrica Ricciardi; Aversa, con Patrizia Cuomo. Presto apriremo nuove sedi in Toscana, a Lucca e Colle Val d’Elsa.

Davvero grazie Eraldo Affinati. Il sogno continua…

L’APPUNTAMENTO
Argentina, combattendo la dittatura
a passi di tango

“La Diva del tango” (Faust Edizioni), di Michele Balboni, patrocinato dal Comune di Ferrara e dall’Ambasciata Argentina in Italia, ha un pregio indiscutibile. Ti impedisce, dopo averlo terminato, di usare impropriamente il termine ‘desaparecidos’. Termine che spesso utilizziamo per indicare un allontanamento, un’assenza quasi volontaria. Ancora, ti costringe a ricordare la storia, quella dell’Argentina e della sua dittatura degli anni Settanta, quando i bambini venivano ‘rubati’ ai genitori. Ti costringe a capire l’impegno ancor oggi costante delle “abuelas de Plaza de Mayo” guidate da Estela de Carlotto, le nonne alla ricerca dei nipoti oggi adulti. Ti costringe a riflettere sul valore dell’identità famigliare e territoriale. Sull’importanza di assomigliare a qualcuno, nei tratti del corpo e nel temperamento. Ti costringe a riflettere su quei valori a noi così cari, come l’autonomia e l’individualismo, che in verità reggono solo se siamo circondati da qualcuno che ci ama. Ma rivelano la loro debolezza laddove sono la conseguenza della sottrazione di legami, laddove il risultato sarà quella vecchiaia senza ricordi dell’infanzia, di cui tutti, anche i più cinici di noi, hanno bisogno. Balboni racconta tutto questo con la strategia del Tango, con la sensualità e la disperazione che lo contraddistinguono. Il Tango di Balboni non è quello di Rodolfo Valentino con la rosa in bocca, che tante generazioni ha fatto sognare. E’ quello ‘interiore’, che scorre nelle vene di MariSol, figlia di Inès e di un generale della dittatura argentina. Chi scrive ha letto il libro con la curiosità ingannevole di un titolo che riconduce a un romanticismo che, per fortuna, non c’è. Sono pagine interamente giocate sugli ossimori concettuali, sul contrasto tra disperazione ed energia. Perché la disperazione sprigiona energia, che volge a sua volta in bellezza, sensualità, ricerca. E’ un romanzo popolato di tante figure diverse, che fa da specchio alla vita dei giorni nostri; che gioca attorno alla ‘coppia’, che non è solo quella che si esibisce nel tango, ma è quella che si ricongiunge sul fronte degli affetti famigliari. Alla fine, al lettore rimane una domanda: esiste davvero una libertà assoluta, definitiva, a sua volta liberatoria?. Forse, le pagine suggeriscono, esiste solo nella conoscenza. Conoscenza delle nostre origini, conoscenza della nostra storia, conoscenza del mondo.
In copertina è l’immagine Madre e Hija, realizzata da Jorgelina Paula Molina Planas, una ‘nipote’ ritrovata, che ne ha concesso la divulgazione. Perfetta sintesi de “La Diva del tango”.

L’autore presenterà il libro sabato 15 novembre alle 21.45, alla Casona del Tango, via Smeraldina 35, Ferrara.

Ferraraitalia ha raccontato la storia vera a cui il romanzo si ispira [vedi]

Un vecchio e un bambino…
‘Comunque vada, proteggimi’

Un bambino silenzioso, un nonno-orco, un adulto sociopatico e un amico che sarebbe meglio non incontrare mai. Sono i protagonisti di “A bocca chiusa” (Newton Compton) dell’artista ferrarese Stefano Bonazzi, presentato alla libreria Giralibri di Argenta. Ispirazioni alla Raymond Carver e Philip Roth, il romanzo si è già guadagnato un paragone con “Io non ho paura” di Niccolò Ammaniti.
La scrittura visiva, fotografica, quasi chirurgica nella sua linearità, racconta le azioni nude e crude, componendo una sorta di fiaba nera in due parti.
La prima vede, da un lato, un bambino costretto a trascorrere le vacanze estive in una casa in cui – “The Others” docet – non filtra luce perché le persiane delle finestre sono perennemente chiuse, e sfoga il suo essere bambino costruendo mondi con i Lego, seduto sul tappeto, e disegnandoli, con la scatola dei pennarelli e un blocco di fogli di carta. Dall’altro, un nonno che conosce schiaffi al posto di carezze, che porta in giro il nipote sull’unico essere che abbia mai davvero amato (un Iveco rosso dal motore potente e rumoroso), che osserva guardingo l’umanità, con tratti fisici e psicologici più simili a un animale che non a un uomo.
La seconda, scritta in terza persona per riuscire a prenderne le distanze, vede un adulto svuotato e apatico, costruito a tavolino dagli psicofarmaci e da un lavoro meccanico, kafkiano senza davvero essere in colpa per qualcosa, assente e desideroso solo di scomparire da se stesso; fino a quando a comparire nella sua vita sarà un bambino il cui segno distintivo è un cappottino rosso, il cappottino rosso del Cappuccetto di Perrault come quello giallo della salvifica Ivy di “The Village” e un amico pericoloso di nome Luca.
Soggetti fortemente connotati attraverso le azioni che compiono, pur non possedendo nome proprio – sono semplicemente “nonno” e “bambino”, i protagonisti – si associano potenzialmente a chiunque, contenitori delle loro azioni riprovevoli e innocenti, malate e improvvise, vissute attraverso gli occhi di un bambino o di adulti sopraffatti dalle proprie esperienze. E che avevano ispirato il titolo inizialmente proposto dall’autore, anch’esso filtrato attraverso gli occhi e le azioni, e che risuona come avvertimento e speranza: “Comunque proteggimi”.

IL CASO
Un negozio di Altromercato in via Garibaldi. David Cambioli: ‘Equo ma non condiviso’

Altraqualità è la maggiore e la più longeva delle due cooperative di commercio equo presenti nella provincia di Ferrara (la seconda è Baum). E’ tra le sei maggiori cooperative di commercio equo in Italia e da dodici anni si occupa di importare e distribuire a livello nazionale prodotti artigianali e alimentari realizzati nel Sud del mondo. A fianco della loro principale attività, da un paio di anni stanno cercando partner disponibili ad aprire un negozio in centro, per dare risposta alle tante richieste provenienti dai consumatori e dalle realtà attente al tema dell’economia sostenibile, di colmare il vuoto che si è creato dopo che l’unica bottega presente in città, quella di Commercio Alternativo in via Darsena, ha chiuso. Ma qualcosa è andato storto, la rete solidale non ha funzionato come avrebbe dovuto: il 28 giugno scorso Altromercato, la più grande cooperativa di commercio equo italiana con sede a Bolzano e Verona, ha aperto un negozio monomarca in via Garibaldi 26, senza avere minimamente informato e tantomeno coinvolto Altraqualità, già attiva sul territorio dal 2002.

Ne abbiamo parlato con David Cambioli, presidente di Altraqualità, per capire cos’è realmente successo, cosa non ha funzionato e come ci sono rimasti in cooperativa.

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Il negozio di Altromercato in via Garibaldi a Ferrara

Siamo rimasti molto sorpresi perché non ne sapevamo nulla, l’abbiamo saputo quasi per caso, da altri. Il fatto che nessuno dei rappresentanti di Altromercato, il presidente, gli amministratori delegati, il direttore, abbia provato nemmeno a contattarci per vedere se c’era la possibilità di collaborare, ci ha naturalmente amareggiato. Ma soprattutto ci fa pensare allo scarso livello di sincerità e fiducia nelle relazioni tra le cooperative, atteggiamento che mina alla base le modalità di lavoro del commercio equo. Dispiace rendersi conto di come, per alcuni, per uscire da un momento di difficoltà l’unica modalità sia quella della concorrenza piuttosto che la cooperazione, ossia l’opposto di ciò che dovrebbe essere il commercio equo.


Come dovrebbero essere le modalità di cooperazione nel commercio equo?

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Laboratorio di in produttore colombiano, Sapia di Bogotà

Il Commercio equo è una forma di cooperazione che opera con realtà, comunità, Paesi per così dire in via di sviluppo, che prevede norme etiche come il riconoscimento di salari giusti, condizioni di lavoro accettabili, assenza di sfruttamento tantomeno minorile. Ma è anche un’attività di cooperazione sui generis, in quanto si esplica attraverso rapporti commerciali. Ed è una realtà in cui i rapporti umani sono tenuti molto in considerazione, direi sempre con i produttori dei Paesi in via di sviluppo, a quanto pare meno in Italia, tra gli attori stessi del commercio equo.

I rappresentanti di Altromercato vi conoscevano? Sapevano della vostra esistenza e del vostro progetto di aprire un punto vendita in centro a Ferrara?

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La showroom di Altraqualità
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Artigianato e abbigliamento

Naturalmente, siamo entrambi soci dell’Associazione generale italiana del commercio equo e solidale Agices e partecipiamo regolarmente alle assemblee e ad altre attività. Tra l’altro, proprio in Agices da almeno tre anni è stato avviato un tavolo di confronto tra operatori per cercare di trovare strategie comuni di sviluppo, soprattutto a fronte della crisi che ha toccato tutti noi ed il Paese in generale. Questi confronti hanno contribuito a migliorare il clima e favorire il dialogo tra i vari importatori, utilizzando lo strumento della coesione proprio per dare una risposta alla crisi. Vedere che, dopo tutti gli incontri e i discorsi fatti insieme, succedano cose come questa delude e sgomenta un po’. Fondamentalmente si tratta di una brutta pagina di rapporti, laddove dovrebbero essere diversi: si cerca tanto di cambiare il commercio, ma bisognerebbe ricordarsi che il commercio è fatto principalmente di rapporti e che questi vanno curati.

Appena saputo dell’apertura del negozio, voi avete mandato una lettera ad Agices sulla questione [vedi], chiedendo di diffonderla a tutti i soci. Altromercato a questo punto vi ha contattato, quali motivazioni ha addotto?

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Prodotti alimentari di commercio equo e bio

Sì, dopo la lettera ci hanno contattato, c’è stato anche un incontro dedicato a questa questione, in cui si sono mostrati tutti molto contriti e pentiti, ma a tutt’oggi non abbiamo avuto spiegazioni coerenti. Ci tengo però a precisare che non è nostra intenzione lamentarci né fare polemica, questa lettera l’abbiamo scritta principalmente per fare chiarezza e per esprimere il nostro disappunto. Il problema non è l’esclusiva o la ‘ferraresità’, benvenga che a Ferrara aprano negozi di commercio equo e che gli attori provengano anche dall’esterno. Non è un problema commerciale, ognuno ha il diritto di perseguire le proprie strategie commerciali in autonomia; dispiace per la modalità, perché questa poteva essere l’occasione ideale per realizzare qualcosa insieme, sperimentando nuove forme e nuove partnership, esattamente ciò di cui si è sempre parlato in Agicies, soprattutto negli ultimi tre anni. In più, c’è da dire che la nostra esperienza sul territorio avrebbe potuto giovare ad Altromercato in termini di rete e di attivazione di canali di comunicazione con i singoli consumatori e con le realtà più attente come i Gas e le associazioni cittadine.

Aprirete comunque un vostro punto vendita in centro, nonostante l’apertura del negozio di Altromercato?

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Logo del decennale di Altraqualità

Sì, ci stiamo ragionando. Dalla primavera scorsa stiamo lavorando al progetto con la Coop. Ex Aequo di Bologna (che da 15 anni gestisce una bottega a Bologna in via Altabella), ad oggi stiamo valutando la fattibilità. Se decideremo di aprire, lo comunicheremo immediatamente e proporremo a tutti coloro che possono essere interessati in loco, Altromercato compreso, di collaborare affinché l’operazione possa andare a vantaggio di diverse realtà e avere maggiore margine di successo.

Altraqualità ha sede a Ferrara, in via Toscanini 11/A (zona via Veneziani)

– Sito di Altraqualità [vedi] e pagina Facebook della linea di abbigliamento etico Trame di storie  [vedi]

– Pagina Facebook del negozio di Altromercato di via Garibaldi 26 [vedi]

– Sito dell’Associazione generale italiana del commercio equo e solidale Agices [vedi]

LA RICORRENZA
Gentilezza, gentilezza che ci sfugge tuttavia…

Giornata mondiale della gentilezza oggi, non una giornata qualsiasi, una data non scelta a caso, perché coincide con la giornata della Conferenza del world kindness movement a Tokyo nel 1997, conclusasi con la firma della Dichiarazione della Gentilezza.
E di gentilezza ne abbiamo davvero bisogno. Nei gesti, nei sogni, nelle parole, quella gentilezza d’animo che rincuora, che avvolge, che risana, che riattiva la voglia di scambiare pensieri e idee, impressioni e sentimenti. Quella gentilezza che ci serve, come ci servono il respiro, l’empatia, la delicatezza, la condivisione, l’amicizia, l’amore.
Oggi questa parola strana sembra un’eccezione, una rarità, al punto che ci stupiamo quando ci lasciano il passo o ci aprono la porta, quando non ci urtano in aeroporto o in treno, quando non ci ribaltano per terra in un autobus o in una fila al supermercato.
E’ bello essere gentili, sempre all’ascolto, disponibili, ma è, talora, difficile. A volte scambiamo i gentili per deboli, quelli che non alzano la voce, in un mondo che urla per cercare di ottenere rispetto, quelli che non si fanno sentire per davvero. Ma sono loro, invece, i più forti. La gentilezza dovrebbe essere la regola, quella norma che caratterizza l’uomo per la sua sola natura di anima pensante (e, in teoria, intelligente).
Così a Roma, all’aeroporto di Fiumicino, oggi i viaggiatori saranno accolti dagli addetti ai lavori con fiori rossi (oltre 15.000 gerbere) e un flash mob “drum circle” eseguito dagli “Airport Helper”. In Francia, la rivista Psychologies ha lanciato un appello per una maggiore gentilezza sul luogo di lavoro e uno studio degli psicologi dell’università di Washington, John Gottman e Robert Levenson, ha scientificamente provato che la gentilezza è il segreto per la durata di un rapporto di coppia felice. Per anni hanno monitorato alcune coppie mentre cucinavano, parlavano, passavano il tempo insieme, durante i racconti, misuravano con gli elettrodi le reazioni dei loro corpi. Il risultato è stato sorprendente, le coppie che mostravano di interessarsi ai bisogni emozionali dell’altro, sono quelle diventate solide e inossidabili nel tempo. Bello e vero.
C’è poi il Movimento mondiale per la gentilezza che si prefigge lo scopo di “diffondere quanto più possibile il principio ispiratore, che vuole in ognuno di noi la disponibilità a comprendere i problemi del nostro prossimo e cercare di risolverli, ricevendone in cambio la soddisfazione intima e preziosa di aver aiutato qualcuno. […] l’obiettivo emergente risulta essere una più profonda e concreta diffusione della gentilezza fra i concittadini, del senso civico, del rispetto delle regole, della cosa pubblica, dell’ambiente e delle persone, nel quadro di una più armonica convivenza tra gli uomini”. Perché la gentilezza è contagiosa e ci aiuta a vivere meglio nella società”.
Diffondiamo allora cortesia, altruismo, generosità, disponibilità, serenità, buona educazione, buone maniere, diciamo grazie-per favore-prego-scusa. Spiazziamo tutti.
La gentilezza, come un virus, coinvolge chiunque ne venga a contatto. Oggi è l’occasione perfetta per diffonderla. Pratichiamo e praticate gentilezza a casaccio e atti di bellezza privi di senso, oggi e non solo.

Il discorso della gentilezza amorevole (Buddha)

“Questo è quanto deve essere fatto da colui che è abile nel rispetto del bene
avendo ottenuto la condizione di pace:
sia egli valente, retto, integro,
dal cortese eloquio, gentile e non arrogante.
Sia soddisfatto e parco,
sia frugale e abbia pochi obblighi,
abbia i sensi quieti e sia maturo,
non sia impudente e non abbia avido desiderio quando questua nelle famiglie.
Non commetta alcuna vile azione
per cui altri saggi possano biasimarlo.
Possano tutte le creature essere felici ed in pace,
che la loro mente sia felice.
Che qualsiasi creatura,
sia essa mobile o immobile, senza eccezione,
lunga, grande,
media o corta, minuscola o corpulenta,
visibile o invisibile,
che viva vicino o lontano,
già nata o in procinto di nascere,
che tutte queste creature – dico – abbiano una mente felice.
Che nessuno mortifichi l’altro,
che nessuno, in qualsivoglia situazione, disprezzi l’altro,
che nessuno, per collera o risentimento,
desideri il male dell’altro.
Così come una madre difende suo figlio,
il suo unico figlio, a costo della vita,
allo stesso modo, nei riguardi di tutte le creature,
si deve sviluppare un’illimitata attenzione mentale
e una gentilezza amorevole per tutto il mondo.
Sviluppi un’illimitata attenzione mentale,
diretto verso ogni plaga,
senza alcun impedimento, senza inimicizia, senza rivalità.
Quando sta in piedi, cammina o è seduto,
quando giace fino a che non si addormenta,
sia ben risoluto nella consapevolezza:
tale condizione è detta divina, in questo mondo.
Non aderendo ad alcuna opinione,
virtuoso ed in possesso della visione interiore,
eliminando la brama dei piaceri sensuali,
mai più invero entrerà in un grembo materno”.

LA SEGNALAZIONE
Ospitalità a costo zero? Nella settimana del baratto si può

Dal 17 al 23 novembre potremo tutti partecipare alla sesta edizione dell’iniziativa nella quale migliaia di Bed & Breakfast italiani offrono ospitalità ai turisti accettando come pagamento beni, servizi e tante altre cose: una vacanza in cui la fantasia, la produttività, la curiosità, la creatività, l’inventiva, l’emozione e la competenza sostituiscono il denaro.

ospitalità-barattoIl baratto è stato per secoli alla base dell’economia familiare e, in un momento di contrazione dei consumi e di crisi come quello odierno, si rivela una buona soluzione.
Allora, c’è chi offre gentile ospitalità in cambio di prodotti della terra o di manufatti artigianali, buone e genuine marmellate, gustosi dolci casarecci o olio d’oliva spremuto a freddo in cambio di una camera. E persino legna da ardere. Il tutto con entusiasmo.
Per ben dormire, si possono anche offrire servizi fotografici o produzioni di siti web e di video su youtube per promuovere le strutture ospitanti, lezioni di lingua straniera o di musica, lavori di giardinaggio o di tinteggiatura e poi anche libri, collezioni di fumetti e d’arte, biancheria da letto o da casa, magari ricamata a mano, lavori a maglia o all’uncinetto, pizzi e merletti, giocattoli per bambini. E tanto altro.

ospitalità-barattoSaranno molte le occasioni da cogliere al volo per godersi una piccola e meritata vacanza senza spendere nulla, nemmeno un euro, negli angoli più belli e suggestivi d’Italia.
Lanciata nel 2008 dal portale www.bed-and-breakfast.it, l’iniziativa, grazie alla quale i Bed and Breakfast (B&B) italiani offrono ospitalità in cambio di beni e servizi, piace e si allarga. Tanto che, per la sesta edizione, al via, come sempre, nella terza settimana di novembre, sono ormai 2200 le strutture che aderiscono e oltre 800 quelle che hanno fatto del baratto una filosofia di vita accettando lo scambio tutto l’anno. Per una settimana intera, ospite e gestore saranno svincolati dal pagamento in denaro e privilegeranno solo l’aspetto umano dell’ospitalità, che caratterizza il popolo italiano.

Siamo di fronte a un vero e proprio mercato virtuale, dove partecipare è semplice. Lo si può fare in diversi modi:
1) Scegliendo sul sito web dell’iniziativa la destinazione desiderata [vedi] e contattando direttamente i B&B trovati attraverso il modulo “Contatta e Baratta”, o direttamente ai recapiti forniti dal sito. Meglio, prima, dare un’occhiata alla “lista dei desideri” dei B&B trovati, per capire se ciò che si propone è in linea con i desideri dei B&B prescelti.
2) Inserendo la propria proposta di baratto nella sezione “Proponi qualcosa da barattare con un soggiorno in B&B” [vedi], e scegliendo, se si vuole, una regione di preferenza. I gestori della regione prescelta visioneranno le proposte di baratto e ricontatteranno gli interessati, se interessati a loro volta.
3) Postando le proprie idee di baratto sulla sempre animata pagina Facebook dedicata [vedi] e attendendo una risposta da parte dei B&B attraverso il canale social.

La Settimana del Baratto è l’idea giusta per una vacanza fantasiosa, economica e ricca di contatti umani, all’insegna dello scambio di esperienze di vita e di professionalità: un interessante, curioso e insolito viaggio alle origini di ospitalità e riconoscenza.
A voi, allora, e alle vostre idee… e buon divertimento!

Il cappotto del poeta
per vestire i sogni
di un’adolescenza controcorrente

In questo film del regista Luca Dal Canto, si respira l’atmosfera poetica e artistica della città di Livorno, infatti, i veri protagonisti della storia sono il poeta Giorgio Caproni autore di “Ultima preghiera” (da cui trae spunto il cortometraggio), tratta dall’opera “Versi livornesi” e Piero Ciampi autore della struggente canzone intitolata “Livorno”, qui eseguita da Luca Faggella. Il brano ha il compito di sottolineare la parte centrale del film, dove il protagonista è privato del cappotto di lana appartenuto al poeta livornese: “… triste triste, troppo triste questa sera, questa sera, lunga sera. Ho trovato una nave che salpava, questa sera, eterna sera…”.

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La locandina del film

La trama del film racconta di Amedeo, un adolescente molto diverso dai suoi coetanei, che nella sua stanza ha appeso il poster del cantautore Piero Ciampi e che dal suo walkeman a cassette (non un Mp3), invece di ascoltare canzoni preferisce la compagnia delle poesie di Giorgio Caproni. Questi suoi atteggiamenti lo portano a scontrarsi col padre, che lo preferirebbe più determinato a cercarsi un lavoro dopo la scuola dell’obbligo, definendo la poesia, una questione di esclusivo interesse da parte di “vecchi e femminucce”.
Un giorno un suo amico trova nella cantina del nonno il cappotto di lana appartenuto al grande poeta e decide di regalarlo ad Amedeo, il quale non vorrà più toglierselo di dosso. Il film è ambientato nel mese di agosto in una città di mare e l’evidente stranezza del ragazzo viene mal sopportata dal padre, il quale provvede a fare sparire quel vecchio cappotto.
L’immaginazione del ragazzo esce dal contesto logico del tempo in cui vive, per rifugiarsi nella più creativa immaginazione, luogo dove incontrerà il poeta livornese e la madre di questi, in un susseguirsi di avvenimenti, che porteranno il padre del ragazzo ad apprezzare Caproni e a promettergli l’iscrizione al tanto desiderato Liceo classico.
Tra i numerosi pregi del film emerge quella che possiamo definire come la splendida fotogenia di Livorno, esaltata dalle melodie di Piero Ciampi e dalla dolcezza dei versi di Caproni, in una sorta di magica sinergia, che propone al meglio i paesaggi di questa città toscana. Non mancano citazioni allo scultore livornese Amedeo Modigliani, che presta il nome al protagonista del film.
Ottima l’interpretazione degli attori, dal giovane Francesco Aloi a Marco Conte (il padre di Amedeo) e Laura Palamidessi, Gabriele Di Palma e Sergio Giovannini, ben diretti da Dal Canto, che da anni si occupa di cinema, essendo stato anche aiuto regista di autori quali Enrico Oldoini, Daniele Luchetti, Sergio Rubini.
Il cortometraggio ha vinto numerosi premi, tra i quali: miglior film al XVIII VideoCorto di Nettuno, Migliore sceneggiatura a Versi di Luce 2013 di Modica (RG) e miglior film di fiction al XIV Festival Internazionale Malescorto (Malesco – VB). Anche il protagonista del film è stato premiato in varie occasioni, tra cui come miglior attore protagonista all’Eiff 2012 di Nardò.
Nel 2013 è stato selezionato, in concorso, al ZeroTrenta CortoFestival, che si svolge ogni anno ad Argenta, in provincia di Ferrara. Il film è stato trasmesso in TV sul canale Cooming Soon e ammesso alla rassegna del Caffè letterario di Roma, ora è liberamente visibile su YouTube.

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Luca Dal Canto dirige Francesco Aloi

Una domanda al regista Luca Dal Canto. Nel tuo film “Il cappotto di lana” hai inserito le poesie di Giorgio Caproni, le canzoni di Piero Ciampi e hai attribuito il nome di Modigliani al protagonista. Lo stesso schema lo hai riproposto nel tuo nuovo corto “Due giorni d’estate”. Storia, fiction e arte si fondono e si completano nel tuo stile narrativo?
In entrambi i cortometraggi ho cercato di raccontare come la cultura sia fondamentale per la crescita di un ragazzo. Purtroppo nella società odierna si dà sempre meno spazio a questo aspetto, rischiando di smarrire nell’oblio intere generazioni di giovani (ma anche di adulti). Da qui la mia idea di raccontare con leggerezza storie in cui sono la cultura, l’arte, lo studio a trionfare sulla superficialità della nostra contemporaneità. Livorno, la mia città, ha nella sua storia decine di illustri figure nel campo della pittura, della letteratura, della musica… e quindi è stato facile e anche divertente andare a ripescare personaggi purtroppo spesso dimenticati.

Link per la visione integrale del film [vedi]

sintomo-medico-sintomo-psicoanalitico

Sintomo medico e sintomo psicoanalitico

Il sintomo racchiude in sé la ragione di essere della psicoanalisi stessa. Potremmo dire che la psicoanalisi ha come scopo e limite il fatto di togliere il sintomo con le parole. Attraverso la verbalizzazione delle emozioni pian piano si arriva a svelare il significato particolare che il sintomo veicola.
Lo psicoanalista attraverso le parole, quelle del soggetto che soffre e le sue proprie, in quanto partner di questo soggetto, lavora per arrivare ad una modificazione del reale, del reale che è il sintomo, che morde nella carne e nello spirito, con effetti anche nel corpo.
La medicina e la psicoanalisi hanno a che fare, tutte e due, con una domanda di guarigione. In entrambe, le parole sono cruciali. Eppure esse si oppongono. Si oppongono proprio sullo statuto del sintomo. Il sintomo medico non è il sintomo psicoanalitico, sebbene il sintomo psicoanalitico prenda le mosse, spesso, dal sintomo medico. II sintomo medico può avere, eventualmente ma non necessariamente, una dimensione preanalitica. Il sintomo medico si contraddistingue per il fatto di essere un segno, segno di una malattia. Il sintomo analitico è invece “parlante” perché non si indirizza al medico, ma al soggetto stesso in cui esso si manifesta.
Mentre il sintomo medico riguarda l’organismo, il sintomo analitico riguarda il soggetto. Mentre il sintomo medico è indice univoco, il sintomo analitico è ciò che fa segno al soggetto di un senso che rimane oscuro al soggetto stesso, un senso che rimane vago ed equivoco e che attraverso la cura psicoanalitica va svelato. Freud affermava che “Il sintomo è significante di un significato rimosso dalla coscienza del soggetto”. Il lavoro dello psicoanalista consiste quindi nell’aiutare il soggetto a rivelare il significato criptato del sintomo che il soggetto incarna.
Il sintomo si presenta come una risposta articolata a questi interrogativi che investono il soggetto nel cuore del suo essere stesso. Per questo il sintomo ha struttura di significante. Lo psicoanalista, che è colui che opera tramite le parole, sa che le sue interpretazioni e i suoi interventi, verbali e non verbali, se hanno un’incidenza sul sintomo è proprio perché il sintomo ha la stessa struttura di linguaggio: il sintomo nasconde e rivela al tempo stesso il desiderio inconscio del soggetto, e sarà compito dell’analista far venire allo scoperto questo desiderio inconscio, che di per sé è rimosso e che quindi rimane spesso misconosciuto all’ignaro individuo in cui esso abita.
Per questi motivi l’approccio medico differisce da quello psicoanalitico nel rapportarsi al sintomo.
Il medico punta ad eliminare il sintomo e la guarigione medica coincide con la scomparsa del sintomo stesso. Lo psicoanalitica punta a svelare ciò che di enigmatico il sintomo veicola come significato oscuro al soggetto stesso, in modo da fornire al soggetto strumenti meno patologici per affrontare ciò che in realtà stava cercando di trattare con il sintomo. Solo acquisendo strumenti alternativi il soggetto potrà scegliere di abbandonare il sintomo che funge da stampella con cui affacciarsi al mondo. Per questi motivi la guarigione in psicoanalisi non coincide con la scomparsa del sintomo, come invece accade nella guarigione medica. Anzi spesso il sintomo è l’ultima cosa che scompare nel corso di una psicoanalisi.

Chiara Baratelli, psicoanalista e psicoterapeuta, specializzata nella cura dei disturbi alimentari e in sessuologia clinica. Si occupa di problematiche legate all’adolescenza, dei disturbi dell’identità di genere, del rapporto genitori-figli e di difficoltà relazionali.
baratellichiara@gmail.com

LA RIFLESSIONE
Internet, un ambiente ‘wow’

Una riflessione sulla rete come ambiente e sulle implicazioni che ciò comporta a livello cognitivo, identitario, relazionale: questo l’intervento di Maura Franchi ieri pomeriggio alla sala Agnelli della biblioteca Ariostea.
Il punto di partenza è considerare internet non più come uno strumento che si può decidere di usare o non usare, ma iniziare a considerarlo un ambiente, cioè “qualcosa di imprescindibile, perché non possiamo fare a meno di abitarlo”. È un passaggio che i cosiddetti nativi digitali non hanno più nemmeno bisogno di fare perché il loro uso delle tecnologie è del tutto intuitivo, non è una questione anagrafica, ma di capacità: la “discontinuità” è segnata dal fatto che l’utilizzo delle tecnologie digitali ormai “è inscritto nei loro schemi mentali”.
La questione diventa quindi essere consapevoli dell’ambiente in cui ci muoviamo, saperne riconoscere sia i rischi sia le opportunità, e compiere così il passo successivo: “dal rifiuto e dalla paura all’inclusione e alla cittadinanza”.
Quali sono dunque le implicazioni a livello di identità e di relazioni? Ormai abbiamo superato la distinzione on/off line, siamo continuamente ‘all line’, per questo la rete è diventata il luogo non solo della “narrazione del sè”, ma della nostra “costruzione identitaria”: l’identità perciò non si forma più attraverso l’interazione con gruppi sociali ben definiti, ma attraverso la condivisione con un numero ampio, aperto e indefinito di persone. Il risultato è un’identità senz’altro più fluida e plurale, ma più precaria e incerta. È infatti inevitabile chiedersi se l’aumento di persone con cui entriamo in contatto significhi una maggiore libertà di confrontarsi con diverse prospettive, oppure implichi il rischio di essere spinti verso identità preconfezionate, perché internet registra ciò che si fa e dice ciò che si vuole. È probabile che siano vere entrambe le cose e che l’importante sia rendersi conto che sta a noi utenti, per rimanere nella metafora dell’ambiente, decidere quale strada prendere. In altre parole la rete è evidentemente una risorsa di relazione, ma è necessario essere consapevoli che la distribuzione di capitale sociale rimane ineguale, da qui la necessità di possedere competenze sociali per gestire i diversi contesti e il moltiplicarsi delle interazioni.
L’altra domanda che si è posta Maura Franchi è che tipo di ambiente sia la rete: è “il paese dei balocchi”, ma non nel senso che forse molti di voi immagineranno. Il web è “un luogo ricco di stimoli”, “non completamente riferito al qui e ora del quotidiano”, in cui avviene “uno spostamento simbolico e pratico verso un’area ludica” e “un’ibridazione gioco-vita”. Il punto di contatto con il processo di apprendimento è “l’eterna sorpresa”: in fondo l’apprendimento è anche “la sorpresa, la meraviglia di conoscere una cosa che prima non si sapeva”. Perché non cercare di sfruttare tutto ciò come molla all’azione e all’apprendimento informale? La chiave è insomma stimolare pratiche condivise e un uso generativo, non passivo, della rete.

L’OPINIONE
La sentenza dell’Aquila/1 Il pro: dagli all’untore

Il Gran Magro, personaggio del romanzo di Gesualdo Bufalino “Diceria dell’untore”, ammetteva paradossalmente l’esistenza di Dio affermando che “non c’è colpa senza colpevole”. E quando il colpevole non si trova o non esiste proprio capita spesso che se ne inventi uno, scelto a caso fra i nemici della comunità, meglio se esterni ad essa. Gli untori, appunto. Come se la presenza di un colpevole esorcizzasse la paura ancestrale di una maledizione divina oppure, al contrario, potesse garantire l’indispensabile capro espiatorio per placare le divinità irate. Perché gli uomini non sopportano l’idea che il loro destino possa essere governato dal caso (il caos primigenio, di cui è fortuito anagramma), al punto che hanno preferito sottomettersi agli dei, accettandone le bizzarrie, pur di evitarlo.
Così per secoli, prima dei lumi, ha funzionato la giustizia: per garantire alla plebe inquieta e spaurita che un colpevole era stato individuato, messo nella condizione di non nuocere, giustamente punito e che nulla c’era quindi più da temere. Migliaia di poveri negromanti, apostati, streghe, satanisti sono stati crudelmente immolati per soddisfare questo bisogno irrazionale di sicurezza. Tempi remoti e bui, ignoranza e superstizione per fortuna passate, dirà qualcuno. Purtroppo, dovremmo accorgercene aprendo i giornali ogni mattina, anche mille anni sono troppo pochi per cambiare nel profondo l’animo umano, che, nei momenti più acuti di crisi e di incertezza, tende inesorabilmente a manifestare impellenti esigenze di rassicurazione, esprimendo la medesima sostanziale indifferenza sul modo in cui vengono soddisfatte. Oggi il rogo da fisico è diventato mediatico o, semmai, giudiziario, ma sempre un rogo rimane.
La sentenza di primo grado al processo de L’Aquila, che condannava la commissione Grandi Rischi perché rea di non aver previsto il terremoto nonostante i presunti segnali premonitori, mi è sempre sembrata una decisione pesantemente inquinata dall’emotività e funzionale allo scopo di placare una comunità attonita e smarrita, che aveva bisogno di colpevoli per darsi una ragione di un evento altrimenti inesplicabile. Non che in quella tragedia di colpe a cui fosse possibile associare un nome ed un cognome non ce ne siano, a cominciare da chi ha costruito senza rispettare le regole o da chi non ha vigilato abbastanza per dolo o per ignavia, ma ciononostante molti preferirono fare propria l’idea che l’imprevedibile potesse essere in realtà previsto e che questo non avvenne per colpa specifica di chi non colse i segni che erano stati inviati. Questa interpretazione, che contrasta platealmente con quanto affermano unanimemente gli scienziati a livello mondiale, esclude tuttavia la comunità colpita da ogni possibile responsabilità, in quanto chi aveva sbagliato non ne faceva parte, mentre lo stesso non si può dire per gli esponenti politici e i tecnici comunali che non avevano vigilato o per gli imprenditori che avevano mal costruito. Significativa a tale proposito l’affermazione del procuratore generale riportata dalla stampa, che per rispondere a chi lo accusava di voler “processare la scienza” afferma: “Non un processo a degli scienziati, ma a dei ‘funzionari dello Stato’ per non aver analizzato correttamente tutti i rischi di quei giorni. Non dolo ma omicidio e lesioni colpose”. Come se, oltretutto, la ricognizione dello status giuridico degli imputati sia rilevante ai fini di ciò che può o non può essere previsto.
Con la sentenza d’appello, almeno così a me pare, viene ristabilita una interpretazione razionale dei fatti e cade per intero l’accusa ai tecnici di non aver saputo prevedere il sisma, mentre rimane in piedi quella alla protezione civile per non essersi almeno precauzionalmente allertata. Dispiace che negli oltre cinque anni trascorsi dal 6 aprile 2009 molte persone avessero ormai interiorizzato come causa principale dei lutti provocati dal sisma l’incapacità dei tecnici di saperlo prevedere, complice in questo una pubblica opinione che spesso tende ad assecondare acriticamente la ricerca di un colpevole ad ogni costo, e che quindi si sono sentite tradite dalla nuova sentenza.

L’OPINIONE
La sentenza dell’Aquila/2 Il contro: un altro disastro senza colpevoli

A due giorni dalla sentenza che ha assolto i sette della commissione Grandi Rischi, L’Aquila fa i conti con l’assenza di un colpevole per il disastro del 6 aprile 2009…
C’è una parola che, ieri mattina, ha invaso le aule del Tribunale de L’Aquila: “vergogna”. Vergogna per lo Stato. Vergogna per gli imputati condannati e poi assolti. Ma, soprattutto, vergogna per un processo la cui sentenza ha sollevato dure proteste contro la Corte d’Appello del capoluogo abruzzese, divenuta oggetto di fischi e urla al termine dell’udienza tenutasi lunedì 10 novembre 2014.
Questa la rabbia dei cittadini presenti in aula ieri mattina, quando il magistrato Fabrizia Francabandera e i giudici a latere Carla De Matteis e Marco Flamini hanno letto la sentenza che ha assolto i componenti della Commissione Grandi Rischi condannati in primo grado a sei anni di reclusione. La sentenza, riaccendendo i riflettori sulle tragiche conseguenze del terremoto che rase al suolo L’Aquila il 6 aprile 2009, ha così ribaltato la conclusione cui era giunto Marco Billi due anni fa. Il giudice monocratico, infatti, aveva ritenuto colpevoli gli imputati per omicidio colposo plurimo e lesioni colpose, disponendo anche le pene accessorie dell’interdizione dai pubblici uffici ed dell’interdizione legale durante l’esecuzione della pena.
Una decisione severa che, pur dando adito ad alcune perplessità, nasceva dalle false rassicurazioni fornite alla popolazione aquiliana cinque giorni prima del disastroso sisma, cui la commissione sarebbe giunta nel corso di una riunione svoltasi il 31 marzo 2009. Ed è proprio quella riunione a essere entrata nel mirino delle critiche e delle proteste che, in queste ore, affollano le televisioni e i blog, scavando tra i fantasmi di un evento dai retroscena confusi e accusando una giustizia sempre più lontana dalle aspettative dei cittadini. Infatti, se per il giudice di primo grado l’incontro si era concluso con “affermazioni assolutamente approssimative, generiche e inefficaci in relazione ai doveri di previsione e prevenzione”, la Corte d’Appello de L’Aquila ha ribaltato la sentenza giudicando incolpevoli gli scienziati e gli ex vertici della Protezione Civile nazionale che, quel 31 marzo, avrebbero rassicurato imprudentemente i cittadini del capoluogo abruzzese.

Alla base della decisione, l’insussistenza del fatto per il direttore del Centro nazionale Giulio Selvaggi, l’allora vicepresidente della commissione Franco Barberi, il direttore dell’ufficio rischio sismico di Protezione civile Mauro Dolce, l’ordinario di fisica all’università di Genova Claudio Eva, il direttore di Eucentre Gian Michele Calvi e l’ex capo Ingv Enzo Boschi, il quale ha rilasciato le proprie osservazioni alla stampa nazionale. “E’ chiaro fin da ora che è una sentenza molto importante. Il giudice è stato coraggioso” ha affermato il geofisico al termine dell’udienza, che, dei sette condannati in primo grado, ha rinnovato la pena solo per Bernardo De Bernardis: due anni di reclusione per l’allora vice di Guido Bertolaso alla Protezione Civile, accusato della morte di tredici persone. “Se fossi stato il padre di una delle vittime avrei fatto la stessa cosa. Una vittima è sempre una vittima. Non ho mai contestato nulla” ha rivelato il condannato alla stampa, approvando una decisione le cui ragioni restano oscure.
D’altronde, le motivazioni della sentenza verranno depositate solo nell’arco di novanta giorni. Solo allora verrà reso pubblico l’iter logico e giuridico che ha spinto la Corte a rigettare l’impianto dell’accusa dopo sette ore di camera di consiglio, nonostante le indiscrezioni abbiano rivelato alcune notizie importanti. Notizie che vedono nella manipolazione mediatica la reale causa di quelle disastrose conseguenze che, cinque anni fa, derivarono dal sisma de L’Aquila, il quale provocò 309 morti e il crollo di un’intera città. “Nessuno ha detto: state tranquilli perché non ci sarà un terremoto. E se anche fosse stato detto, manca il passo successivo, ossia non c’è stata la comunicazione alla popolazione” ha chiarito l’avvocato Carlo Sita, le cui parole sono state condivise da Massimo Giannuzzi: “C’è stato un corto circuito mediatico con le dichiarazioni di De Bernardinis prima della riunione inserite in un articolo sul post-riunione” ha aggiunto il secondo legale degli imputati.
Colpa della stampa, dunque? La domanda, dopo lo shock iniziale, rende il caso appare più spinoso di quanto possa sembrare alla luce delle decise contestazioni scoppiate in Tribunale ieri mattina. Dallo sconcerto del procuratore generale Romolo Como alla “ferita indescrivibile” dell’ex Presidente della Provincia de L’Aquila Stefania Pazzopane, dai pianti dei cittadini indignati alla rabbia di chi è convinto che gli abitanti della città siano stati “uccisi una seconda volta”: il dolore di chi, in una notte, ha perduto le serenità della propria vita quotidiana chiama in tribunale la Giustizia e la pone davanti alla disperazione delle vittime, che, dopo cinque anni, devono fare i conti con decine di inchieste e pochi colpevoli.

La sentenza emessa ieri non rappresenta solo la fine di uno dei tanti processi che hanno cercato – e cercano – di far luce sui misteri de L’Aquila e sui retroscena di un evento offuscato da troppi fantasmi. Essa apre le porte a un vero interrogatorio che vuole fare chiarezza sull’indirizzo adottato da una Giustizia apparentemente sempre più lontana dalla tutela di chi invoca i propri diritti.
Il discutissimo caso Cucchi e l’assoluzione dei boss dei Casalesi accusati di minacce allo scrittore Roberto Saviano e alla giornalista Rosaria Capacchione sono solo alcuni dei processi che hanno dimostrato come la Giustizia possa giungere a soluzioni inaspettate, tali da farci solidarizzare con le vittime e il loro dolore. Processi che ci spronano a invocare una ricerca più accurata delle prove e una soluzione che, per la magistratura, non sempre è possibile realizzare.

Ma, nella sentenza de L’Aquila, forse c’è di più. La privacy dei documenti e delle conclusioni cui giunsero gli imputati il 31 marzo 2009 aprono le porte a una riflessione che, per chi cerca i colpevoli di quel tragico disastro, è del tutto inaspettata. Ipotesi tralasciata dal giudice di primo grado, essa è sembrata riaffiorare in appello, ribadita dallo stesso Giannuzzi. A due giorni di distanza, con l’indignazione dei cittadini ancora viva e l’accusa contro Bertolaso per un processo parallelo a quello appena terminato, l’ipotesi di una diversa visione dei fatti prende piede. E, quando le motivazioni ci saranno rivelate, forse comprenderemo le conclusione che ha dissolto i fantasmi della vicenda. Forse, anche noi, comprenderemo come la fatalità degli eventi, talvolta, ci faccia arrendere a una natura che, per quanto i tentativi di domarla possano essere avanzati, rimane e rimarrà una forza imprevedibile.

Lo scolo e altri incidenti. Le letture ‘contro’ di Tiziano Scarpa

Vent’anni di Feltrinelli a Ferrara. Il compleanno è proprio oggi. Il programma di eventi per la celebrazione del ventennale della libreria si è aperto già nei giorni scorsi con l’interventi, fra gli altri di Tiziano Scarpa.
Pagine spassose ma anche serie, raccontate con sentimento e con perizia, con minuziosità quasi tecnica, accompagnate da una gestualità vivida e ricca, che fluisce senza intoppi regalando riflessioni surreali e delicate, struggenti e umoristiche. A raccontarle, uno Charlot dal pacato accento veneto, un Premio Strega che introduce la sua ultima opera letteraria, “Come ho preso lo scolo”. Comica e surreale, ironica – qualità fortemente raccomandabile in uno stile di vita, assicura – e verista. “Vengo contattato da una rivista pop-medica, patinata. Hai una malattia da raccontarci? mi viene chiesto. Ripercorro mentalmente la mia storia medica – imbarazzantemente senza grossi problemi, unica cosa degna di nota la scarlattina. Sino a quando, dopo alcuni momenti di pensiero libero, non racconto di essermi preso lo scolo, con tutto il parterre psicologico e imbarazzanti disavventure personali che ne seguono”.

Ma questo è solo l’anticipo di una lettura scenica che si rivela riflessiva, senza essere pretestuosa: Scarpa osserva il mondo attraverso una vicenda personale mostrandoci qualcuno che fa rientrare il linguaggio dentro di sé attraverso le proprie esperienze restituendolo al pubblico. Stimolare il lettore a sfondare le sue esperienze personali per andare oltre, aprire una singola anta di una finestra e incoraggiarlo ad aprire la seconda. Così racconta di come, durante una lettura pubblica in piazza a Treviso contro ordinanze razziste pane quotidiano delle amministrazioni leghiste – il razzismo istituzionale che limita l’uguaglianza di fatto tra le persone – arrivi a interrogarsi sul valore della voce e sull’importanza del microfono e, in generale, di qualunque strumento di amplificazione della voce quale mezzo del potere – quale veicolo della possibilità di farsi ascoltare, negata ai più.
La voce è strumento, che necessita però di farsi sentire ed essere trasmessa, per essere completamente realizzata. Ne esistono molti esempi: da San Francesco, che in una delle sue prediche zittisce le rondini, a Mussolini, che utilizza per la prima volta il microfono nel 1926, al fenomeno dell’urlatore Beppe Grillo, e sullo stretto legame tra strumenti di comunicazione e potere.

Ne è perfetto esempio la manifestazione pacifica del 2011 Occupy Wall Street contro gli abusi del capitalismo finanziario. Privati del microfono in virtù di una legge interpretata restrittivamente, risolvono il divieto creando uno human mike, un microfono umano, causando un effetto a catena nella ripetizione di una stessa frase, partendo da molti singoli per poi “contagiare” gruppi sempre più folti. Nel quale l’ascolto non è passivo ma rende chiunque responsabile e partecipe di ciò che dice, in quanto ogni persona è veicolo e primo passo verso il diffondersi di un contenuto. Diffusione che è virale, secondo una classica definizione della sociologia contemporanea, ma che porta, a differenza dell’ambito da cui è presa in prestito – quello medico – qualcosa di buono e inaspettato. Portandogli in dono, attraverso il romanzo Stabat Mater. Una sorpresa: un romanzo ambientato nella Venezia del XVII secolo ambientato in un definito lirico e intimista, nato anch’esso da una storia personale – il luogo di nascita di Scarpa, un ex orfanotrofio musicale – viene regalato dal Comitato Nazionale per il diritto alle Origini Biologiche ai componenti della Commissione di Giustizia della Camera dei Deputati mettendo in discussione una legge la cui assurdità – la possibilità, da parte delle persone orfane, di essere messe a conoscenza della propria famiglia di origine al compimento dei 99 anni di età – nega di fatto questo diritto a chiunque voglia conoscere le proprie origini; e diventando simbolicamente il luogo – l’unico – in cui il silenzio è ammesso, cioè la lettura.

Perché forse, come suggerisce Travaglio, le vittime della censura non sono solo i personaggi imbavagliati per evitare che parlino, ma anche e soprattutto quei cittadini che non possono più far sentire la propria voce.

L’OPINIONE
Politica indecente

Quarantuno consiglieri regionali su cinquanta dell’Emilia Romagna sono indagati dalla magistratura per aver effettuato spese private con i soldi pubblici. Alcune precisazioni sono d’obbligo. Le accuse vanno provate. Gli indagati hanno il diritto di dichiararsi innocenti. Non tutti gli indagati sono sullo stesso piano per i reati attribuiti: alcuni sono clamorosamente scandalosi, altri forse frutto di superficiale disattenzione. Fatte queste doverose premesse garantiste, il giudizio politico e morale sull’intera vicenda deve essere severo. L’immagine di una Regione dal passato virtuoso ne esce a pezzi. Dopo il flop di partecipazione alle primarie del Pd, c’è da aspettarsi un crollo della partecipazione al voto. Questo sarebbe un dato negativo di per sé, perché si tratterebbe di una conferma della drammatica crisi di legittimità della politica e di sfiducia verso chi la rappresenta nelle Istituzioni. Come stanno reagendo i candidati? Intanto, va registrato l’errore di Bonaccini nel non aver preteso dai candidati un certificato di totale estraneità rispetto alle indagini in corso. E così troviamo nella sua lista la sgradevole presenza di indagati. Ciò che, però, è più grave è lo svolgimento della campagna elettorale: fiacca, di nessun interesse pubblico, silente sulle cause antiche del degrado che la magistratura sta evidenziando. La sinistra nella nostra regione vantava una riconosciuta diversità sul piano della dirittura morale, del rigore e della serietà dei suoi politici. Oggi, per l’opinione pubblica sono tutti uguali. E in questo mare inquinato della cattiva politica, pescano a piene mani gli avventurieri dell’antipolitica. Non si accusi di qualunquismo chi denuncia amareggiato questa deriva. Si metta, invece, mano ad una vera e severa autoriforma dei partiti fatta di recupero di onestà, competenza, passione civile, dedizione al bene pubblico. Insomma, come diceva un vecchio amico, quando sul cruscotto si accende la luce rossa che segnala pericolo, bisogna cercarne la causa e i responsabili, non dare una martellata al cruscotto…

Fiorenzo Baratelli direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara

L’INCHIESTA
Salute a rischio. Morelli:
il benessere è nell’equilibrio
delle energie vitali

2. SEGUE – Riprendiamo il nostro viaggio nei sentieri della medicina alternativa.

“Se mettiamo una pianta al buio con una luce laterale, la pianta cresce seguendo il fascio luminoso. Così sostanzialmente si comporta ogni essere vivente: per sopravvivere adatta i propri equilibri alle condizioni ambientali, tendendo a un nuovo equilibrio che però può anche essere causa di patologie: la pianta, per esempio, piegandosi potrebbe cadere e morire”.
A parlare è il dottor Marco Morelli, un medico che una decina d’anni fa ha abbandonato il lavoro ambulatoriale e ospedaliero e ha avviato collaborazioni con vari colleghi e centri di cura in giro per l’Italia. E’ operativo a Padova, Mantova, Milano, Roma e nel fine settimana anche a Ferrara, dove risiede. Il dottor Morelli ha focalizzato i suoi studi andando alla ricerca di soluzioni a casi per i quali la medicina tradizionale fatica a trovare risposte.
“Sono sempre stato affascinato dalle capacità del nostro organismo di gestire il proprio equilibrio dinamico e ho maturato la convinzione che ogni malattia, sia, in prima istanza, il venir meno della capacità di preservare tale equilibrio energetico. Per questo mi sono orientato sulla biofisica e sugli effetti dei campi pulsati nella medicina, perseguendo il riequilibrio psico-neuro-endocrino-immunologico del paziente”

Tradotto per una persona che non ha particolari cognizioni mediche, come si può esplicitare il concetto?
Possiamo parlare di riequilibrio neuro-motorio globale che perseguiamo attraverso un approccio olistico, cioè considerando l’organismo nella sua complessità e nelle sue interazioni. La vera terapia consiste nel fornire l’informazione giusta per ritrovare l’equilibrio biofisico perduto. Dal 2003 mi sono avvicinato agli studi biofisici all’Università di Firenze, trovando subito riscontri clinici a questa mia idea. Per la verità l’idea è vecchissima e già Marconi aveva intuito che un tessuto malato emetteva un campo elettromagnetico diverso da un tessuto sano.
Il corso di neuroscienze che ha riorientato il mio metodo terapeutico ha chiarito che le patologie hanno alla base uno stress legato a neurotrasmettitori. L’esempio, per capirci, è l’effetto fototropico nelle piante a cui facevo riferimento prima. Per gli animali è la stessa cosa: attraverso meccanismi neuroendocrini gli ormoni dello stress, in particolare il cortisolo, esercitano una funzione determinante nell’alterare le difese immunitarie e i riflessi motori, nel diminuire la memoria…

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Il dottor Marco Morelli

Si tratta di acquisizioni recenti?
A questa consapevolezza si è giunti già negli anni Settanta, grazie a ricerche sul cortisone. Cito in particolare un noto esperimento. Alle cavie cui era stato regolarmente somministrato, il cortisone aveva indotto ipertensione, ipertrofie delle ghiandole surrenali, ulcere. Paradossalmente gli stessi effetti furono rilevati anche su due cavie che, scappando, si erano sottratte all’esperimento: anche loro, quando vennero ritrovate, mostrarono gli stessi sinotomi delle altre, pur non avendo assunto cortisone. Anziché decretare il fallimento dell’esperimento si comprese ciò che era accaduto: se ne dedusse cioè che scappare, nascondersi, non mangiare, era stata la causa scatenante che aveva prodotto i medesimi effetti del cortisone iniettato in vena. Ciò ha portato a concludere che quando l’organismo si adatta allo stress altera i propri equilibri e genera processi patologici.

E questo cosa significa?
Che lo squilibrio energetico è in grado di causare la malattia. Senza negare la validità della quattromila pagine della ‘Patologia generale medica’, si può ammettere questo assunto. D’altra parte è stato lo stesso Roger Penrose, celebre fisico quantistico, a porre in relazione l’entropia, il caos dell’energia nel sistema e la malattia. Direi che il bisogno di riequilibrare le energie nasce da qui.

Quali tipi di patologie può curare questo tipo di approccio?
La bioenergia trova il suo miglior impiego in tutti i casi di squilibrio posturale favorendo il riequilibrio nei casi in cui si manifestano fenomeni di dismetria. Il trattamento è utile a recuperare le situazioni di stress correlate e a favorire la ripresa del controllo neuro-motorio sia a livello fisico che psichico. È efficace nei casi di lombalgia, sciatalgia, cervicalgia; nel trattamento delle cefalee; degli esiti di fratture, artrosi, ernia discale, sindrome tunnel carpale, rachialgia, fibromialgia, scoliosi, artrite. La metodologia non è invasiva, è indolore, è priva di effetti collaterali. I risultati sono duraturi.

Immagino non siate in tantissimi a seguire questo approccio…
Lei dice in Italia? Vero. In Austria, come in Germania, Ungheria, Slovenia nelle università e negli ospedali si applicano le teorie biofisiche ai campi elettromagnetici pulsanti, con metodologie analoghe a quelle che pratichiamo noi.

Presumo però che la gran parte dei suoi colleghi mostri una certa diffidenza, o sbaglio?
Sì, mi ha letto nel pensiero. Ma è comprensibilissimo. Queste cose nelle università italiane non si insegnano. Ma a Bochum, per esempio, vicino a Dortmund, c’è un grande centro di eccellenza per lo studio e la cura delle neuro-degenerazioni accreditato della Comunità europea, un complesso ospedaliero a otto piani dove si utilizza anche un sistema di medicina integrata come quella che applichiamo noi per trattare Parkinson, Sla, eccetera. Ma anche a Vienna si pratica normalmente la terapia biofisica.
Però c’è molta diffidenza. Persino un’autorità come il Nobel per la Medicina Luc Montagnier ora che si occupa di omeopatia ed elettromagnetismo viene guardato con sospetto. Oltretutto sta sviluppando anche studi interessantissimi sulle staminali, con la prospettiva di generare cellule a minor costo. Ma questo forse non piace all’industria farmaceutica…

Ci sono stime o statistiche su quanti malati scelgono questo tipo di approccio alternativo?
No, siamo troppo piccoli per essere oggetto di stime o statistiche. Nel corso di neuroscienze che ho seguito a Firenze e che ha orientato la mia pratica medica saremmo stati in 30 o 40. Per come funziona l’università italiana si indirizzano gli studi affinché le persone si adeguino tutte all’utilizzo di una certa tecnica. Girando il mondo mi sono accorto però che c’erano anche altre metodiche.

Come procede la ricerca?
Gli ultimi studi sono sui vari tipi di onda e sugli effetti che ciascuno può produrre: dalle recenti valutazioni, abbiamo visto che il segnale ciclotronico di ogni ione ha una sua funzione. Classificando gli effetti, si genera una banca dati che consente di applicare per ogni specifico caso il tipo di energia più appropriata alle necessità del soggetto.

Questo consente di risolvere anche quelle patologie che la medicina tradizionale fatica ad affrontare?
Sì. La medicina convenzionale non riesce in certe patologie a trovare la causa eziologica, perché se esulo da un’alterazione che possiamo immaginare chimica la medicina tradizionale si ferma.

E a riguardo delle nuove malattie cosiddette autoimmuni qual è il suo pensiero? Ha senso definire alcune patologie ‘autoimmuni’ o è una formula salvifica adottata dalla classe medica per non ammettere la propria attuale incapacità di affrontare quel particolare disturbo?
L’autoimmunità e un’alterazione del sistema immunologico che agisce contro componenti del nostro organismo. La medicina convenzionale si ferma a questa evidenza. La ricerca sta progredendo, ma per quel che so un po’ a senso unico, poiché si cerca di individuare la proteina in grado di instaurare il processo di alterazione del linfocita, che è la cellula che gestisce la reazione immunologica. E si sta vedendo che ci sono virus in grado di alterare il genoma, cioè le caratteristiche genetiche dei linfociti.
Spesso si trattano queste malattie neurodegenerative, autoimmuni o reumatiche con cortisonici che abbassano il livello delle difese immunitarie, con l’idea che riducendo l’attività immunitaria conteniamo anche le risposte e l’aggressione autoimmune.
Ma se di un deficit immunologico stiamo parlando, si tratta di un deficit di energia. Ecco, allora la necessità di una ‘fasizzazione’, come la chiamano i fisici, cioè di un riequilibrio energetico che dobbiamo propiziare, perché è proprio l’equilibrio dei campi elettromagnetici che induce un corretto bilanciamento degli elementi vitali.

CONTINUA

LEGGI LA PRIMA PARTE DELL’INCHIESTA:
(Salute a rischio: “Ripristinare l’equilibrio bioenergetico e disintossicarsi”)

LA CURIOSITA’
La piadina romagnola ora è Igp

La piadina romagnola è tradizionalmente cotta sulla ‘teggia’, un piatto di terracotta, ma più semplicemente si utilizza una piastra di metallo o di pietra refrattaria, il ‘testo’. I primi a cucinarne una versione rudimentale sono stati gli Etruschi, i quali furono i pionieri nella coltivazione e lavorazione dei cereali e quindi nella produzione di “sfarinate”, che somigliavano molto al “pane” di Romagna, anch’esso preparato senza lievito e cotto su una piastra di metallo o di pietra.
Le rudimentali piade continuarono a essere prodotte anche nell’antica Roma, dove rappresentavano un cibo da ricchi perché dovevano essere mangiate appena cotte; già dopo qualche ora, infatti, diventavano dure e non masticabili, quindi non erano adatte ai plebei che, invece, necessitavano di un alimento a lunga conservazione.

Nella “Descriptio Provinciæ Romandiolæ”, il Cardinal legato pontificio Anglico de Grimoard, ne fissa per la prima volta la ricetta: “Si fa con farina di grano intrisa d’acqua e condita con sale, si può impastare anche con il latte (per rendere la pasta più soffice e friabile) e condire con un po’ di strutto”.
Le varianti prevedono l’aggiunta del bicarbonato, dell’olio d’oliva e del miele. Una volta pronto, l’impasto è diviso in piccole porzioni da stendere con il matterello. Per quanto riguarda il sale, negli ultimi anni viene sempre di più utilizzato quello di Cervia (Ravenna), famoso per la purezza del cloruro di sodio e l’assenza di altri sali, più amari, contenuti normalmente nell’acqua di mare. Anche Virgilio cita la piadina nel VII libro dell’Eneide quando scrive di una “exiguam orbem”, un disco sottile che una volta abbrustolito era diviso in larghi quadretti. Il grande poeta romagnolo Giovanni Pascoli ne parla nella sua poesia intitolata “La piada” (tratta da “I nuovi poemetti”): “Ma tu, Maria, con le tue mani blande domi la pasta e poi l’allarghi e spiani; ed ecco è liscia come un foglio, e grane come la luna […]”.
La piadina è un cibo semplice, che nel corso dei secoli ha identificato e unificato la terra di Romagna sotto un unico emblema, passando da simbolo della vita rustica e campagnola (pane dei poveri) a prodotto di largo consumo. Il termine piada (localmente piê, pièda, pìda) da cui il diminutivo piadina deriva da una parola italiana settentrionale piàdena “vaso”, dal latino medievale plàdena o plàtena, da plathana, a sua volta dal greco pláthanon ossia piatto lungo, teglia.

piadina-romagnola
La pizza fritta può sostituire la piadina romagnola

La piadina può sostituire il pane per accompagnare moltissimi piatti, in primis i salumi (prosciutto, salame, salsiccia stagionata o coppa), i ciccioli di maiale, la porchetta, la salsiccia cotta alla brace o alla piastra (con la cipolla). E’ consigliata anche con lo squacquerone, un formaggio fresco a pasta molle tipico della Romagna, fatto di latte vaccino intero crudo e cagliato, di origine rurale, che ha conquistato i palati più esigenti. Una tipica farcitura consiste nell’abbinare il prosciutto insieme alla rucola e allo squacquerone oppure quest’ultimo con fichi caramellati. Alcune varianti dolci prevedono la spalmatura di crema gianduia, confettura o crema di nocciole spalmabile.

Un’altra tipica preparazione è quella del crescione, basata sull’omonima erba, che si trova lungo i fossati. La sfoglia è farcita, ripiegata e chiusa prima della cottura. Per renderla più saporita, nel ripieno, sono aggiunti aglio, cipolla o scalogno. Questa tradizione deriva dal largo uso che si è sempre fatto nella cucina romagnola delle erbe, comprese le foglie della barbabietola o bietole. L’alternativa moderna al crescione alle erbe è rappresentata da quello ripieno di pomodoro e mozzarella. Negli ultimi anni si è diffuso il cosiddetto ‘rotolo’, preparato farcendo una piadina sottile che è poi avvolta su se stessa.
Una buona abitudine romagnola è quella di gustare la piadina così com’è, servita in un foglio di carta, utile per assorbire l’unto in eccesso. E’ venduta in appositi chioschi, diffusi in tutta la Romagna, caratteristici perché colorati a bande verticali, con colori standardizzati per le varie località. La piadina è possibile trovarla anche confezionata, presso la grande distribuzione.

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La piadina è differente da zona a zona

A seconda della zona di preparazione, ci sono alcune differenze tra piadina e piadina, per quanto riguarda la forma e la consistenza. Nel ravennate e nel forlivese è spessa e soffice, mentre nel riminese è più sottile e talvolta di diametro leggermente maggiore.
Nel 2013 è nato il Consorzio di tutela e promozione della piadina romagnola, fondato da quattordici produttori in rappresentanza di tutta la zona di lavorazione consentita dal Disciplinare di produzione: le tre province di Ravenna, Rimini e Forlì-Cesena e parte della Provincia di Bologna. In sintesi esistono due varianti di questo prodotto, che da pochi giorni ha ottenuto il riconoscimento e quindi la registrazione del marchio Igp (Indicazione geografica protetta): la piadina terre di Romagna e piada romagnola (variante di Rimini).
Il suggello definitivo è arrivato dalla Direzione generale agricoltura della Commissione europea, l’organo preposto alla registrazione delle Denominazioni di origine, che, dopo averlo pubblicato sulla Gazzetta ufficiale, ha dato il via libera al Regolamento di registrazione (Gazzetta ufficiale Ue, Regolamento N. 1174/2014).
Il Disciplinare della piadina riminese prevede uno spessore fino a 3 mm e un diametro da 23 a 30 cm; e per la piadina delle terre di Romagna uno spessore da 4 ai 10 mm e un diametro inferiore dai 15 ai 30 cm.