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Ferrara film corto festival

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Il costo dell’ignoranza

«Se pensate che l’istruzione sia costosa, provate con l’ignoranza». Questa frase pronunciata da Derek Bok, quando era rettore di Harvard, sintetizza bene il lavoro di Giovanni Solimine, Senza sapere. Il costo dell’ignoranza in Italia, Editori Laterza.
Pagina dopo pagina, dati alla mano, quelli dell’Ocse, Solimine traccia il profilo di un Paese, il nostro, senza sapere. Povero di competenze funzionali, debole per qualità del capitale umano, per la sua scarsa ‘manutenzione’, così nel tempo l’emergenza formativa si è tradotta in ‘costo dell’ignoranza’ che la nostra società non è in grado di sopportare.
Dirigenti, imprenditori e professionisti leggono meno dei loro dipendenti, se si tiene conto di tutti i generi di lettura, non per scarsità di tempo libero, ma per la tipologia piuttosto ‘limitata’ dei loro interessi culturali. Ne derivano per il paese bassi livelli di sviluppo, scarsa produttività, debole innovazione, oltre a costi individuali e sociali.
Nel Bel Paese, culla dell’arte e della cultura, nessun museo figura tra i dieci più visitati al mondo. I Musei Vaticani sono al sesto posto, ma non sono italiani. Bisogna scorrere fino al ventunesimo posto per trovare la Galleria degli Uffizi, il primo degli italiani.
La scuola non prepara, le imprese sono arretrate e per questo sempre meno competitive. Il nostro, è il paese dello scarso investimento in capitale umano, della crescente sfiducia che l’istruzione possa rimediare alle diseguaglianze tra le persone e tra le generazioni.
Una società poco ‘colta’ è destinata ad essere costantemente in affanno rispetto alle sfide della contemporaneità. Cultura, scrive Solimine, non è il possesso di nozioni, «ma la capacità di orientarsi in un contesto, di comprendere le logiche di riferimento e di incidere su di esse, di fronteggiare le situazioni di fronte alle quali l’esistenza ci pone quotidianamente».
L’Italia sconta ancora lo scotto di un processo di scolarizzazione e addirittura di alfabetizzazione lento e tardivo. Perché un buon sistema scolastico costa, richiede cura, costanti investimenti, la sistematica valutazione dei risultati. Ma il prezzo che si paga per l’ignoranza è di gran lunga maggiore e ha pesanti conseguenze.
In tanto la dispersione scolastica. Può essere calcolata in un costo di circa settanta miliardi all’anno, pari al 4% del PIL.
L’insufficienza delle politiche scolastiche e per l’infanzia. È ormai dimostrato che la frequenza dell’asilo nido produce effetti di lungo periodo, che giungono a influenzare i voti alle scuole superiori e all’università, fino a tradursi in una migliore riuscita sul mercato del lavoro.
I nostri ministri che vogliono ridurre la durata scolastica sappiano che un anno di più di scuola riduce del 30% il numero degli omicidi, la probabilità di ammalarsi e di ricorrere con ritardo alle cure mediche. Insomma se sul piano individuale i prezzi dell’ignoranza sono alti, sul piano sociale sono semplicemente catastrofici, la stessa qualità della democrazia diminuisce, con gravi danni per il benessere collettivo.
L’Italia ha disinvestito negli anni scorsi in istruzione. Sono diminuiti di molto gli investimenti in scuola e università, soltanto la Grecia e il Portogallo hanno fatto peggio di noi.
Mentre il paese costringe molti dei suoi laureati ad emigrare, abbiamo necessità come dell’ossigeno di una generazione nuova di ‘lavoratori della mente’ a tutti i livelli, a partire dagli insegnanti. Professionisti interessati ad approfondire costantemente i contenuti scientifici della propria attività, desiderosi di sfuggire a una piatta impiegatizzazione, di mettere le proprie competenze a disposizione della comunità, a partire dal luogo in cui sono chiamati ad operare.
Il libro di Solimene racconta di conoscenza e di come conosciamo. Dell’accesso alla conoscenza, della padronanza degli strumenti attraverso cui selezionare, utilizzare, rielaborare i contenuti. Oggi come non mai la conoscenza è benessere individuale e collettivo, un benessere che non si misura con il reddito, ma in primo luogo nella possibilità di stare bene, di vivere responsabilmente in mezzo agli altri, di essere inseriti in un tessuto sociale forte e coeso.
Pagine ricche di spunti per chi abbia voglia di riflettere sul proprio mestiere di insegnante e di studente, per quanti ritengono che la conoscenza non ha età, non ha fasi della vita, ma la accompagna in ogni istante. Pagine che inducono a riflettere sull’inadeguatezza del nostro sistema formativo, su come ormai siano segnati dal tempo le liturgie e i riti che ancora in esso ogni giorno si celebrano. Un’idea di conoscenza a cui è connaturata la dimensione della rete, propria di questo nostro secolo ventunesimo. Una conoscenza che non riguarda solo chi esercita le tradizionali professioni intellettuali, ma il cui uso viene richiesto quotidianamente nelle più diverse circostanze a tutti i cittadini.
Le dimensioni di questa comunità, di questo ‘luogo di cittadinanza’ per lungo tempo sono rimaste troppo circoscritte e la porta per farvi ingresso alquanto stretta.
Anche noi con Solimine condividiamo le parole, poste in epigrafe al libro, che la giovane Malala Yousafzai ha pronunciato innanzi all’Assemblea generale delle Nazioni Unite: «Un bimbo, un insegnante, un libro e una penna possono cambiare il mondo».

Scuola: lettera aperta contro i quaderni con le anelle

da: Giorgia Giordano

Nella migliore delle ipotesi i buchetti rotondi che forano le pagine si sbrindellano un po’. Ma quasi sempre gli angoli sono spiegazzati, la carta messa a dura prova da frettolosi inserimenti all’interno di un libro in attesa di successivi trasferimenti, i quadretti e le righe deformati da improprie fermate e scontri all’interno di zaini stracolmi, i contenuti martoriati da innumerevoli entra-ed-esci dai loro duri e spigolosi contenitori.
Quello di cui sto parlando sono i fogli dei quaderni con le anelle: croce di noi genitori ed ex alunni; ma, a quanto pare, delizia incontrastata degli insegnanti di tutti questi ultimi, svariati decenni.
Perché a scuola non si possono usare dei banali, semplici, funzionali quaderni? Che colpe devono scontare i vecchi, classici blocchi di carta raccolti e legati in una copertina di cartoncino? Sono sottili; obbligatoriamente ordinati; pensati per far sì che i fogli si proteggano l’uno con l’altro; propensi automaticamente a mantenere l’ordine cronologico di quello che, via via, ci scrivi sopra. Poi sono meno invasivi e violenti all’interno di zaini e contenitori, rispetto a quei loro cugini armati di cartone plasticato e anelle in acciaio, che sono – appunto – i quaderni con le anelle.
Il problema – pare – è che, se manchi un giorno o se una lezione alterna spiegazioni di algebra con quelle di geometria, il foglio provvisto di buchi ti consentirebbe di inserirlo qua e là più facilmente. Sono dunque più flessibili, ancorché precari. Forse una metafora che, già nei nostri apparentemente floridi anni Ottanta, doveva farci intravedere il futuro verso il quale stavamo approdando: flessibilità e precarietà. Con la flessibilità che troppo spesso affida a un indefinito momento futuro l’occasione di porre certezze, fissare paletti, avere punti fermi.
Eppure non basta questo strumento (di tortura cartaria). Le giornate scolastiche sono dispensatrici di ulteriori fogli raminghi, affidati alla mercè di libri e cartelline, in balia di camerateschi spintoni e ammassamenti all’interno di bus e bauli d’automobile. Nel corredo di ogni allievo fin dai primi anni di vita scolastica abbondano, infatti, le famose fotocopie, fornite per arricchire e integrare i libri di testo. Di solito questo comporta, a monte, una colletta da parte di rappresentanti di genitori, incaricati di finanziare l’istituto scolastico, che non avrebbe abbastanza risorse per l’acquisto di fogli A4 e relative fotocopie. Che alla fine riescono comunque, sempre, ad essere prodotte e distribuite. Per andare a ingorgare le pagine dei libri stessi, alla ricerca di un ordine temporaneo all’interno di buste trasparenti (a loro volta dotate di buchi) da inserire nei famosi quaderni con le anelle. Il fine ultimo delle fotocopie è quello di intercettare ragazzi o adulti che possano ridare un po’ di tregua al loro sfortunato destino e che accarezzino con un po’ di compassione la piega alle orecchie stropicciate delle loro vulnerabili estremità. Il continuo fuoriesci dalle pietose buste trasparenti – a scopo di lettura, ripasso e apprendimento – tende comunque a rimettere a repentaglio l’incolumità, che si era faticosamente cercato di dare ai fogli fotocopiati. Alla fine di ogni anno scolastico, dunque, ci ritroviamo a contemplare pile di materiale cartaceo farcito e imbottito, che provoca insani mal di pancia, improprie voglie di falò e sensi di colpa per volerci sbarazzare di qualcosa che sentiamo che si dovrebbe, invece, vezzeggiare e blandire come un cimelio di infanzia o gioventù.
Le scuole sono finite, le nuove classi vengono formate, tra un paio di mesi gli scaffali di cartolerie, mercati e supermercati torneranno a riempirsi di materiale scolastico di cui fare incetta. Speriamo che questa sarà, finalmente, la volta buona: che faremo acquisti destinati ad essere valorizzati e curati, che i fogli che si riempiranno di nozioni restino lisci e ordinati, che le deboli anelle di carta non si frantumino, che magari ci sia qualche vecchio e classico quadernino in più. Buone vacanze!

‘Pedalarte’, una buona idea
per valorizzare la cultura
e promuovere l’uso
della bicicletta

“La vita è come andare in bicicletta: se vuoi stare in equilibrio devi muoverti”. Albert Einstein

Pedalarte, ovvero le visite guidate di Milano in bicicletta, rappresenta un buon esempio di come si possa coniugare, sapientemente e intelligentemente, cultura, arte e forma fisica. Mens sana in corpore sano.
L’iniziativa nasce dall’unione (che anche qui fa la forza) di BioEcoGeo, rivista in edicola dal 2009 che tratta temi ambientali, e di Milanoguida, un gruppo di giovani guide turistiche abilitate per le province di Milano e Monza e laureate in Storia dell’arte, riunitosi per offrire visite guidate ai capolavori artistici di Milano.

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Quattro i percorsi proposti

Il progetto prospetta visite guidate su quattro percorsi attraverso il bel capoluogo lombardo e sollecita l’utilizzo della bicicletta come mezzo sostenibile.
Parlarne in tempo di vacanze al pubblico ferrarese, tanto avvezzo all’uso di questo mezzo di locomozione, potrebbe essere d’ispirazione e incuriosire su questa interessante iniziativa. E magari replicarla.
Le visite in bicicletta non promuovono solamente la diffusione della conoscenza storico-culturale della città ma anche i suoi aspetti paesaggistici, botanici e naturali, visibili nelle aree verdi, nei giardini e nei parchi milanesi. Se poi vi sono costruzioni in bio-edilizia lungo il percorso, ecco che l’attenzione del partecipante viene sollecitata e la sua curiosità stimolata.
Un modo intelligente di unire arte, storia, eredità culturale, conoscenza del proprio territorio, sensibilizzazione ai temi ambientali e rispetto della natura che ci circonda.

pedalarte
BikeMi, servizio di bike sharing della città di Milano

A Pedalarte si è aggiunta anche BikeMi, servizio di bike sharing della città di Milano, nato per favorire la mobilità dei cittadini e per costituire un vero e proprio sistema di trasporto pubblico da utilizzare per i brevi spostamenti (al massimo 2 ore) insieme ai tradizionali mezzi di trasporto atm. BikeMi mette a disposizione di Pedalarte 30 abbonamenti al servizio, dando così una forte valenza di servizio pubblico al progetto.
La prima stagione (quattro domeniche di settembre e ottobre 2013) è servita da vero e proprio test e il successo ha portato a replicare l’iniziativa lo scorso mese di maggio.

 

 

pedalarte
Visite che coniugano aspetti culturali, storici, paesaggistici e naturali

Gente comune, turisti italiani e stranieri hanno molto apprezzato l’iniziativa.
Miglior conoscenza storico-culturale della città, promozione dell’utilizzo della bicicletta, incremento degli abbonati al servizio di bike sharing, promozione dell’immagine verde e sociale del Comune, allineamento a molte città europee che da anni promuovono tale tipo di visite guidate, sensibilizzazione dei cittadini all’ambiente e al rispetto della città in cui vivono, riscoperta di spazi nascosti della città, questi gli obiettivi di Pedalarte.
Le visite vengono effettuate la domenica (per non interferire con il noleggio delle biciclette di chi le usa ogni giorno per andare a lavorare), con un numero massimo di 20 partecipanti, auricolari personali per sentire la guida, per una durata di due ore. I percorsi non sono impegnativi e non richiedono, pertanto, preparazione fisica particolare; solo curiosità, voglia di stare all’aria aperta, in compagnia di amici e della bellezza che, nel nostro bel paese, ci circonda ogni giorno. Imparando qualcosa di più su di essa. E mettendola da parte…

Per maggiori informazioni:
“Pedalarte – Visite guidate in bicicletta” su Milanoguida
“Pedalarte” su BioEcoGeo
 Il video dell’iniziativa
Twitter@Milanoguida

(Foto per gentile concessione di BioEcoGeo)

La giusta portanza: il futuro di Ferrara città ‘idropolitana’

di Sergio Fortini

A dispetto della sua storia, Ferrara è una città adolescente, intenta nel proprio percorso di autoconsapevolezza di limiti e risorse, a passo spinto in cerca di futuri. Il dibattito sul ruolo della città nei prossimi anni assume un significato ben più ampio delle mura cittadine e gli scenari potenziali di sviluppo corrono veloci come le vie d’acqua, cui questa città non ha mai prestato dovuta attenzione.
Entro questa lettura, l’idrovia diventa parte di un sistema complesso di cui l’acqua è memoria, motore e segno distintivo. Essa rappresenta un pretesto per riconfigurare la valenza di un territorio intero, del suo capitale sociale, economico, narrativo.
Per leggervi un futuro possibile, questa terra necessita di una visione di largo respiro. Sotto il profilo territoriale, la logica di tale visione è chiara: Ferrara non è solo una città di dimensioni medio-piccole con una provincia tra le più estese in Italia; Ferrara è un centro urbano metropolitano che ribalta il rapporto canonico tra nuclei antropizzati e paesaggio.
La Ferrara metropolitana è costituita da due polarità principali, il centro di Ferrara e il centro di Comacchio, agli estremi di una pianura che ospita un bilanciato rapporto tra edificato e ambiente naturale, dove i paesi si manifestano come punti di una rete a scala di quartiere, ognuno con proprie caratteristiche e mai troppo lontani dai due centri principali.
La visione che si intende proporre parte da una vocale, la ‘U’, già adagiata e leggibile sui bordi del territorio. Una ‘U’ d’acqua, margine netto e identitario almeno quanto poroso e attraversabile. Questo segno è formato, a nord, da un tratto del fiume Po e del ramo del Po di Goro che arriva al mare, a sud e verso est dal Po di Volano e dal canale navigabile fino a incontrare il mare a Porto Garibaldi; a ovest da un piccolo, fondamentale tratto di connessione, il canale Boicelli, che asseconda la Ferrara (che fu) industriale unendo i due assi precedenti. Quelli appena descritti sono dunque i bordi di un nucleo di area vasta che, attraverso l’acqua, informa di sé il territorio che lo separa dal mare: una città idropolitana.
La città idropolitana all’interno di questa ‘U’ ha dunque come bordi il Po e l’idrovia e come nucleo il territorio Unesco e tutto il sistema paesaggistico costituito da aree Sic, Zps, Rete Natura 2000 che popolano centinaia di ettari della pianura a est di Ferrara. Bordi come questi si prestano senza dubbio a un cambio di rotta nelle strategie di mobilità, poiché offrono le condizioni per un sistema di infrastrutture leggere impostato sulle vie d’acqua. Ogni bordo d’acqua può diventare in tal modo un asse portante da cui dipartono capillarmente assi di terra di potenziale rigenerazione, che puntano verso l’interno, calamitati da un territorio Unesco variegato e diffuso, così come da centralità storiche e agrarie di forte identità. Il capitale narrativo, in questo caso, è talmente presente ed eterogeneo da contemplare gli echi di un Bacchelli così come le sinuose fattezze di Sofia Loren; argini di lotte partigiane e umide terre di foce raccontate da Gianni Celati; ma anche i casali della bonifica, le tracce delle risaie, le ottuagenarie fabbriche dismesse sulla via del Travaglio, prove antesignane delle inquadrature livide di Antonioni, la necropoli di Spina. Ogni pezzo di queste terre sembra brulicare di racconti, di silenzi sedimentati, di opportunità latenti.
Gli scenari appena evocati sono già presenti, addormentati, nella Ferrara che conosciamo; tra i covoni della sua campagna ancora florida, lungo capezzagne sconnesse che portano a falsi argini, tracce di una assenza importante. L’acqua è presente anche quando non si vede: determina depressioni nel suolo, tiene in tensione raffinate idrovore, nutre differenze vegetazionali in tempi di arsura. Fino a questo punto, si sta descrivendo ciò che qualsiasi nonno di buona favella saprebbe raccontare, con parole più adeguate di queste, dalla sedia del proprio tavolo d’angolo all’intoccabile circolo, ex casa del popolo. Puntuale, suggestivo, forse ripetitivo. Però nessuna descrizione può cambiare le sorti. Le sorti iniziano a trasformarsi se si adotta una angolazione differente, focalizzata su un percorso storico, a dispetto nostro, già cominciato. Il percorso di una città che trova il completamento della propria forma nel suo territorio, una città che si bilancia sul patrimonio storico e artistico delle due polarità citate all’inizio (Ferrara e Comacchio) sostenute da una pianura ricca di differenze sottili, di segni poco appariscenti ma indelebili, di manufatti in attesa d’autore. Un territorio da declinare al ‘turismo’? Anche. Non fosse che è più corretto parlare di ‘turismi’, poiché esso è capace di assorbire famiglie est-europee in cerca di sole a basso costo, così come olandesi volanti su biciclette di ultima generazione; attempati studiosi che inseguono l’odore dei cappellacci di zucca tra le delizie estensi, o giovani etologi armati di digitali professionali in mezzo alle saline, vegliati da torri di guardia di epoca rinascimentale. Tutto ciò accade quotidianamente e trasversalmente alle stagioni, a Voghiera come a Mesola, a Sabbioncello come a Ostellato, a Codigoro come a Lido di Volano, o in un qualsiasi punto di questa pianura sotto il livello del mare.
Se l’amplificazione della portata turistica del territorio rimane un tema fondamentale, il vero obiettivo strategico, da svilupparsi su scala ventennale, è quello di porre le condizioni per una città-territorio abitabile e abilitante, dove chi risiede può vantare alta qualità della vita, disponibilità di lavoro, mobilità agile e sostenibile, molteplicità delle forme di svago e ristoro, connessioni veloci, fisiche e virtuali. Entro tale scenario, l’idrovia ha la possibilità di trasformarsi in acceleratore economico e sociale a scala territoriale, completando il sistema come asse infrastrutturale dolce, generatore di nuovi percorsi e opportunità. Quest’ultimo concetto è più facilmente comprensibile se ci si raffigura quella ‘U’ d’acqua descritta all’inizio non semplicemente come un flusso navigabile, bensì come un sistema complesso fatto di sponde più o meno permeabili che aprono la vista e la direzione sulle centralità territoriali, funzionanti o potenziali che siano. Non più una linea, dunque, ma un bordo con uno spessore che si allarga o restringe a seconda della porzione di pianura attraversata o delle eccellenze incontrate: una villa storica, un importante insediamento industriale, un percorso naturalistico vallivo, una pieve recuperata, un ex distretto produttivo, un borgo contadino.
La ricchezza di questa pianura sottoelevata è fatta, come i suoi abitanti, non di sparuti gesti eclatanti, ma di un insieme capillare di piccole centralità, attive o dormienti. Integrare le une e risvegliare le altre è un obiettivo possibile se il campo di azione è attraversato da una (infra)struttura portante, descritta all’inizio nella sua geografia, che accerchia il territorio e gli conferisce nuova linfa attraverso i percorsi che da essa si dipartono verso i nuclei abitati di pianura. Questa città-territorio si nutre di un rapporto invertito tra antropizzazione e paesaggio, dove il secondo vince per dimensione sulla prima. I nuclei principali si irradiano attraverso la pianura interna per mezzo di paesi e località direttamente dotati di luoghi di lavoro e agilmente connessi con le polarità principali, anche attraverso la via d’acqua.
Il problema della portata della sezione d’acqua è a questo punto relativo. Lungi dall’affermare che non sia fondamentale stabilire se e con quali equilibri puntare su una classe quinta europea o sulla nautica da diporto (o su un processo che organizzi la seconda come una fase antecedente alla prima); appare però più contestuale intendere il sistema d’acqua come un orizzonte di senso capace di riabilitare le potenzialità economiche e sociali delle nostre terre e di riaccenderne il capitale di arte, di paesaggio, di storia, di storie. Quello che oggi rappresenta una parziale attrattiva turistica, ancora non sedimentata nell’articolazione delle sue molteplici accezioni, è in realtà un territorio già ad oggi capace di calamitare l’interesse di filiere lavorative e gli investimenti di capitali internazionali. Non desti stupore se qualche grande nome, anche transnazionale, ci vaglierà come una città su cui investire. Ho scritto ‘città’ nell’accezione idropolitana con cui questo testo è iniziato, poiché quella giustapposizione di ambiti urbani, rurali e litoranei che noi indigeni tendiamo a sezionare e frammentare come realtà indipendenti e, spesso, non comunicanti, vista da oltre confine può apparire invece come città unica, con caratteristiche decisamente singolari e non rintracciabili in altri contesti europei. Se è vero che nelle città del mondo si stanno catalizzando processi di addensamento, proprio per le opportunità (di vita, di lavoro, di affezione, di relazione, di svago) che i tessuti urbani offrono a dispetto degli ambiti isolati, talvolta gli urbanisti si dimenticano di sottolineare che la ricerca della città non avviene per amore delle grandi quantità (di persone, di merci, di scambi), ma per una aspettativa di qualità generale del proprio vivere quotidiano. Diventa dunque più facile comprendere come Ferrara città idropolitana, vista da qualche chilometro di distanza e a volo d’uccello, possa assomigliare davvero alla prima metropoli europea in cui il rapporto tra tessuto urbanizzato e paesaggio è invertito, a vantaggio di quest’ultimo e, a parità di servizi e connessioni erogabili, a vantaggio della qualità della vita dei suoi futuri abitanti.
Ferrara, dunque, può strategicamente godere di un ribaltato rapporto con l’acqua, atavicamente ignorata, su almeno due livelli d’azione: promuoversi come città unica in Europa capace di orientare la mobilità su una ‘tangenziale di paesaggio’, un anello potenziale di viabilità lenta che contorna con le vie d’acqua l’ambito urbano su tre punti cardinali (il fiume a nord, il canale Boicelli a ovest e i rami del Po di Volano e di Primaro a sud), trovando compimento all’interno del nucleo urbano attraverso quella porzione tutelata di campagna che contraddistingue il centro storico nel quadrante nord-est e ricollegandosi al Po attraverso il grande polmone del Parco Urbano; proporsi come baricentro portante della città idropolitana, avamposto storico di un territorio plurale, geneticamente conformato per connettere punti diversamente eccellenti di un unico piano orizzontale, che corre verso il mare.
Ripenso alla carta geografica napoleonica del 1814: duecento anni dopo, quella capillare restituzione del territorio ferrarese dominato e regolato dall’acqua non è solo una affascinante testimonianza del passato; essa sembra suggerire una morfologia promettente, traiettorie che si aprono a nuove letture, generate da ‘quella sorpresa sempre risorgente che la lotta con il documento è la sola a produrre’, affermava Marc Bloch. Risorgente come l’acqua, i suoi significati, le sue prossime opportunità.

Viaggio nel mondo dei caffè all’ombra del Castello

E’ un baretto affacciato su piazza della Repubblica, a Ferrara: una piccola arena di panchine, alberi e fontana incastrate in disparte, ma all’ombra del Castello estense, a ridosso del sagrato della chiesetta trecentesca di San Giuliano. Si chiama Torrefazione Penazzi e non ha seggioline né socializzanti distese esterne di tavoli. All’insegna della sobrietà anche l’interno. Il bar è una stanza attorno al bancone, dove sorseggiare il caffè in piedi nelle classiche tazzine di ceramica. Una volta dentro, ti puoi affacciare in un secondo spazio, allestito con una serie di cilindri trasparenti, pronti a dispensare chicchi ricercati con cura nelle più disparate parti del mondo, prelevati e tostati in piccole quantità in un laboratorio alle porte di Ferrara.
Tra i vari tipi di caffè coltivati per la bevanda, Alberto Trabatti, che è il proprietario del marchio del laboratorio di torrefazione, acquista solo l’Arabica. Questa specie – la più apprezzata e diffusa, insieme alla Robusta, tra il centinaio di quelle presenti in natura – ha un contenuto di caffeina molto inferiore alle altre ed è la meno adattabile all’ambiente, perché cresce solo ad alta quota, tra i mille e i duemila metri. E così, sulle incontaminate altitudini di Paesi equatoriali, cresce questo piccolo albero che può arrivare fino a una decina di metri, con larghe foglie verde scuro e fiori bianchi, che si trasformano in quei frutti carnosi che sono le drupe, dalle quali si estrae poi la coppia di semi.
Alberto Trabatti quei chicchi di Arabica li va a trovare con la passione dell’esploratore, li mette nella sua tostatrice artigianale che consente di lavorare non più di dieci chili per volta. Attento a non eccedere nel calore, il maestro torrefattore mescola manualmente i chicchi per biscottare in modo uniforme ciascuno di loro. Poi macina, prova e gusta, classificando le future polveri nelle varie tipologie da adeguare alle diverse necessità e sfumature di sapore. Perché Trabatti ti parla del caffè come un astronomo ti descrive le infinite galassie, che ai più appaiono solo come puntini luminosi. Ti spiega che se vuoi una bevanda leggera, fruttata e fiorita, va bene lo Yirgacheffe che viene dall’Etiopia, che è tra quelli con la minor quantità assoluta di caffeina, pari all’1,2 per cento. Sempre leggero – e quindi, secondo lui, adatto a chi non è avvezzo all’impatto forte e diretto col caffè nero – il Pergamino che, con lieve gusto acidulo ma grande equilibrio, arriva dall’altopiano di Sul de Minas, in Brasile.
Secondo il produttore-artigiano, chi è abituato normalmente a zuccherare o a mettere latte nel caffè, deve smettere di farlo o almeno limitarsi, per non annacquare e falsificare il gusto puro della bevanda. Un cappuccino ogni tanto te lo concede; e, in quel caso, lui usa la qualità Miscela. La sua filosofia, comunque, sostiene la purezza assoluta del gusto, in modo che tu possa apprezzare dettagli che zucchero e latte vanno a coprire. Ad ogni modo, l’unico dolcificante che ti concede è quello bianco, senza gli aromi speziati e distraenti dei cristalli di canna. Affinato il palato, ecco il gusto dolce, non acido e di medio corpo di El Salvador, che arriva dall’omonimo Paese dell’America centrale. Fruttato e di medio corpo l’Atitlàn Exquisito del Guatemala. Speziato, dolce e sempre di medio corpo il Santos Montecarmelo della regione di Cerrado, in Brasile. Per chi ama il caffè deciso, c’è la qualità Gusto antico, ancora dal Brasile, con il suo retrogusto cioccolatoso; ma anche l’Haiti, forte e amaro. Molto particolare, con note di erbe e tabacco, il Nicaragua, tra i più pregiati e costosi (60 euro al chilo) e che nel bar ti fanno anche espresso al costo di 2 euro a tazzina al posto dell’euro che lì ti costa l’altro. Tra le vette di caffè speciali va inserito lo Yauco Selecto, che viene dal caraibico Porto Rico (80 euro al chilo). La cima assoluta si raggiunge con il Jamaica, tra i più importanti (170 euro al chilo), ma anche molto delicato e sensibile al calore, e perciò disponibile nel negozio solo in inverno, per non rischiare che possa sciuparsi con gli sbalzi di temperatura.
Nella Torrefazione Penazzi non sono disponibili sempre tutte le qualità e, anzi, di mese in mese se ne aggiungono di sconosciute, che Trabatti trova, gusta e ritiene degne di fare apprezzare. Non mancano quasi mai quelle di Pergamino, Etiopia, Guatemala, Gusto antico e Miscela, con anche una selezione di Decaffeinato per chi non vuole negarsi il piacere con attenzione ai palpiti.

Per potere variare senza smettere mai di sorseggiare una tazzina piccola, ma rotonda come il mondo.

vescovo Negri

“No agli assolutismi”, in risposta all’arcivescovo Negri

da: Massimiliano De Giovanni, Presidente Arcigay Ferrara

Sono Massimiliano De Giovanni, Presidente di Arcigay Ferrara. Con la presente intendo replicare alle parole dell’arcivescovo Negri apparse oggi sulla stampa ferrarese.

Non sono stupito dalle parole dell’arcivescovo Negri, perché sta impartendo – come è tenuto a fare – un insegnamento conforme alla dottrina della Chiesa in materia di omosessualità.
Tuttavia non vi sono e non possono esservi diritti scaturenti dalla tutela del sentimento religioso individuale non assimilabili a quelli altrimenti tutelati nell’ambito di una società che assicura il massimo delle libertà possibili.
Come l’arcivescovo di Ferrara sottolinea, non dovrebbe essere consentito a nessuno di assumere il compito di discriminare tra forme culturali, sociali e religiose. Tantomeno alla Chiesa.

Credo da sempre nelle libertà individuali, a cominciare da quella del bisogno e del pensiero, e non posso che rispettare anche la libertà religiosa individuale.
In Italia, però, troppe persone si nascondono dietro una croce per non ammettere di essere profondamente e ciecamente intolleranti, perché è proprio la più vile sottocultura omofobica a essere propagandata con sicumera dall’integralismo cattolico.
Se lo Stato lascia la Chiesa libera di dissentire dai cambiamenti sociali e scientifici, altrettanto la Chiesa dovrebbe impedire che una credenza, una fede, un principio di coscienza divenga legge di Stato, per lo più laico.
Un precetto non può e non deve essere un imperativo politico.

Non ho mai considerato la religione cattolica la mia cultura. La religione può essere uno dei tratti caratterizzanti di una cultura, ma in nessun modo può costituire la cultura stessa in termini assolutistici.
Alla Chiesa è già concesso di imporre i crocifissi nelle scuole, di attuare campagne di disinformazione sull’uso del preservativo, di barattare voti in cambio di leggi proibizioniste sul fine vita e sulla procreazione medicalmente assistita, di avere rappresentanti in Parlamento che equiparano provocatoriamente gay e pedofili, considerando un bacio omosessuale alla stregua dell’urina fatta per strada.
Non accetteremo nuove ingerenze e strumentalizzazioni, né ulteriori bavagli, perché la strategia di delegittimazione delle istanze per i diritti civili dei gay da parte degli integralisti religiosi è oggi più che mai intollerabile.
Lo striscione “Ferrara condanna l’omofobia e la transfobia” non lede nessuna libertà individuale. Semmai manifesta il legittimo pensiero delle istituzioni ferraresi, racchiudendo un semplice e sacrosanto principio di inclusività e rispetto.
D’altra parte, lo stesso annuncio cristiano è un messaggio di liberazione che dovrebbe riguardare le creature di Dio, a prescindere dalla razza, dal genere, dalla condizione o dall’orientamento sessuale.

È per questo che chiediamo alla Chiesa di non supportare la criminalizzazione degli omosessuali in Italia: un Dio amorevole non condanna due persone che si amano solo perché appartenenti allo stesso sesso per nascita.
Negri non disattenda dunque il suo mandato e si occupi piuttosto di curare le anime dei propri fedeli, senza dimenticare che le vittime delle dittature del XX secolo – come di ogni altra dittatura del resto, laica o religiosa – sono stati spesso proprio i gay.

Cordiali saluti,

Massimiliano De Giovanni
Presidente Arcigay Ferrara

Nella notte dense colonne di fumo dal petrolchimico

A distanza sembrava un incendio scoppiato in città, con un’immensa coltre di fumo che incombeva sull’abitato. A rendere più credibile e inquietante la scena, il passaggio verso mezzanotte, di un’ambulanza e di un altro mezzo di soccorso a sirene spiegate. Poi man mano che ci si avvicinava al presunto luogo dell’incidente, la coltre grigiastra appariva progressivamente sempre un po’ più in là, lasciando intendere la sua reale origine: l’area del petrolchimico. Ed era proprio da lì che, nella notte fra sabato e domenica, alcune bocche di fumo degli impianti esalavano dense e copiose misteriose emissioni: una più evidente che rischiarava il cielo notturno di Ferrara e altre due più contenute.

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La densa colonna di fumo che nella notte si eleva sul petrolchimico di Ferrara (foto ferraraitalia)

Lo ‘spettacolo’ è stato evidente a tutti gli automobilisti in transito nella zona, ma più in generale a tutti i ferraresi che hanno alzato lo sguardo verso il cielo. Nessuna segnalazione di pericolo, però, è stata fatta dalle autorità di controllo. Come sempre in questi casi si spiegherà che si trattava di vapori acquei. E così speriamo che fosse. L’immagine però era dantesca e inquietante.

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L’intensità delle esalazioni ha destato curiosità e anche un po’ di preoccupazione (foto ferraraitalia)

Il rovescio dell’amore

È lunga e lucidissima la lista dei motivi per cui l’amore non le manca. Va bene ripassarsela ogni tanto, specie quando si inciampa ancora per errore di sopravvalutazione. Viola, la protagonista di Che ci importa del mondo (Rizzoli, 2014) di Selvaggia Lucarelli è un personaggio televisivo sopra le righe, ha un figlio di otto anni, Orlando, molto saggio e un gruppo di amiche, di quelle che sai che ci sono.
Viola non sa cucinare, eppure le ricette per essere infelice le ha sperimentate tutte, conosce i meccanismi dell’inganno e dell’autoinganno, della lusinga e della trappola che finisce per tendersi da sola. Un ex marito con cui continua a litigare, una schiera di uomini che non smettono di deludere e un ex fidanzato che, in quanto ex, rappresenta il retrogusto con cui ci si accinge ad assaporare ogni nuova cosa. E a misurarla con il metro delle cose piccole piccole a cui l’altro ci aveva abituato, anzi costretto, con il cannocchiale rovesciato che ti fa scambiare le briciole per un pasto dignitoso. Ma sempre briciole saranno. È l’illusione “dell’incastro perfetto” che non è altro che abbaglio in un vuoto in cui a riempire sei solo tu, finché, un giorno, il tempo, la volontà o magari un nuovo amore disperderanno del tutto quelle briciole e la loro amara inconsistenza.
“La mia vita è sempre stata un cubo di Rubrik: quando finisco una faccia con tutti i quadratini dello stesso colore, scombino ancora di più le altre facce e devo ricominciare tutto daccapo”. Viola non si stanca di tentare sempre un nuovo inizio, di confondersi tra i mille pezzi sparsi delle sue contraddizioni che a volte si ricompongono e a volte no, ma sempre approdano da qualche parte, verso qualche consapevolezza di sé. Viola comprende che si può cambiare, evolvere proprio grazie a quelli che non cambiano mai e che non siamo riusciti a cambiare, a smuovere, nemmeno con il nostro troppo amore.
Quando ancora Viola stila la lista degli ottimi motivi per cui l’amore non le deve mancare (perché l’amore “ha un’insopportabile faccia tosta, (…) perché l’amore ha le sue ragioni che la ragione dovrebbe portare in tribunale ai fini di processarle, una a una, per crimini contro l’umanità sensibile, (…) perché c’è una crudeltà, nell’amore, che non c’è in nessun altro sentimento”), sa bene che invece le manca e ciò che desidera è “un uomo col cuore sgombro e le braccia spalancate”.
Quest’uomo arriverà nella vita di Viola sorprendendola come capita quando si è distratti dal peggio e non si pensa che il meglio debba ancora venire.

Le priorità del priore

Prima delle elezioni europee, il Presidente del Consiglio diceva: “La scuola è una priorità ed è necessario restituire valore sociale ai docenti”.
Dopo il risultato ottenuto alle elezioni europee il governo del Priore Decisionista, molto probabilmente durante l’estate, decreterà di:
– aumentare l’orario di servizio dei docenti a parità di salario,
– rendere obbligatorie le supplenze per chi è di ruolo,
– diminuire di un anno la durata degli istituti superiori,
– affidare pieni poteri al dirigente scolastico,
– valutare in maniera meritocratica i docenti,
– abolire le graduatorie di istituto,
– eliminare il fondo di istituto,
– cancellare la contrattazione di istituto,
– far entrare soggetti privati nei Consigli di Amministrazione (pardon, Consigli di Istituto),
– far aprire gli istituti scolastici ai privati.
Certo, la mia è una sintesi schematica scritta con il verbo “decretare” al tempo futuro del modo indicativo quindi chiunque potrà criticarla o metterla in dubbio.
Ne sono consapevole ma sono altrettanto convinto che ognuno potrà constatare una buona continuità di intenti nell’intervenire sulla scuola da parte dei governi Berlusconi, Monti e Renzi.
Per rendersene conto, e per verificare se quelle da me indicate siano illazioni, basta pescare a caso fra le molte dichiarazioni recenti del ministro Giannini, dei sottosegretari Roberto Reggi e Gabriele Toccafondi.
Si può quindi essere o non essere d’accordo sul senso di questa continuità e sulle “ricette” scelte dal governo delle larghe intese per “restituire valore sociale ai docenti”.
A me interessa conoscere piatti e sapori nuovi ma penso, nel caso della scuola, che queste “ricette” (non facendo parte della nostra cucina tradizionale) non siano per niente stuzzicanti, siano poco succulente e presuntuosamente piccantissime.
Sembrano piatti preparati in una mensa aziendale dagli arredi allettanti, in cui la bella presenza nasconde prodotti scaduti e scadenti: un luogo insomma dove il numero di stellette guadagnate nelle guide europee è proporzionale al numero delle promesse di rottamazione dei cuochi precedenti.
Preferisco una trattoria dove si mangia in compagnia, dove i piatti sono preparati in casa, con alimenti genuini ed in cui il menu sia presentato chiaramente e corrisponda, nelle portate e nei prezzi, a ciò che effettivamente verrà servito e a quello che bisognerà pagare.
Ad esempio, io preferisco la cucina mediterranea perché offre un giusto apporto di tutti i principi nutritivi essenziali per una buona crescita, dove tutte le portate sono ben condite con la giusta dose di LIPidi [leggi].
Senza di loro, infatti, non ci sarebbero quelle calorie indispensabili per mantenere tutto il corpo sociale in una sana e robusta Costituzione.

L’attesa e la scoperta

En attendant Godot o meglio le parole del sindaco di Comacchio che naturalmente non risponde mercoledì scorso ho la sorpresa di trovare la spiaggia libera dalle baracchette. Noto imbarazzo e riserbo. Sono arrivati d’improvviso vigili e forze dell’ordine (si dice così?) e subito c’è stato un fuggi-fuggi generale. Sconcerto e una certa delusione tra le signore. A rendere più persistente il vuoto del baraccume alla sera si scatena la natura offesa e piovono bombe d’acqua per 48 ore così la spiaggia resta ancora per due giorni libera. Frattanto decido tra una nuvola e l’altra munito di un bel ferrovecchio a due ruote comprato legalmente (in proporzione costa più la catena sofisticatissima che il mezzo) di esplorare i dintorni e quindi prima tappa, a somiglianza delle sorelle di cechoviana memoria che all’unisono gridano “ A Mosca, a Mosca!!”, la mia sarà “Al pesce, al pesce!” sul molo di Porto Garibaldi.
E nasce così un folle amore.

La lunga fila dei pescherecci e delle motobarche turistiche creano un variopinto contraltare, un’animata e operosa vita sul porto-canale. Tutto è pulito, umano, non falsamente legato alle goldoniane manie per la villeggiatura.
E la gente ti guarda negli occhi e fa la fila col numero!!! Non come alle poste lidensi sia in pescheria che nella bellissima farmacia dove tutti si comportano gentilmente: senza stizza o pseudo supponenza. E’ una vera comunità non un luogo che vive quattro mesi all’anno.
L’esempio di quello che ci si aspetterebbe se fossimo stati previdenti nel non aver voluto violentare la natura. Non li vedi i vu cumprà a Porto Garibaldi o molto defilati e non importuni. I ristoranti hanno una fama consolidata negli anni e prosperano. Addirittura puoi comprare il pesce dalle barche stesse a prezzi assolutamente competitivi.

Insomma se mi piacesse vivere in un posto marino, a questo punto della mia esperienza e della mia vita, sceglierei questo piccolo borgo apparentemente modesto ma infinitamente più elegante dei Lidi.
E poi, “incredibile visu” ( mettiamocela una frasetta in latino che fa tanto rompi…i) uno stupendo negozio di fiori che forse anche a Ferrara si sognano: da mandarmi su di giri!
Se dunque questo è possibile in un luogo perché non lo è a un braccio di mare di distanza?
Lo so che parlare con chi non ti risponde sembra un’impresa inutile ma ancora chiedo e mi domando: “Perché?”

La prossima puntata sarà nel cuore stesso del comprensorio. Quella città di Comacchio che ricordo (sono anni che non vi metto piede salvo per recarmi all’ospedale) tra le più affascinanti realizzazioni urbane dell’Italia.

Sul turismo la zavorra dei mille ‘enti preposti’

“A territory worth experiencing in freedom”, e per noi “Un territorio da vivere in libertà” è un piccolo depliant-libretto che la Provincia di Ferrara ha pubblicato e che si trova sugli scaffali degli Iat, nelle agenzie di viaggio e d’affari, ai punti informativi del Comune, all’entrata dei luoghi di cultura ed arte.
Un altro libretto libretto parla della costa, del Parco del Delta, di Comacchio e dei sette lidi, entrando nei dettagli e mettendo il lettore-vacanziero in condizioni di muoversi adeguatamente e con interesse.
Ci troviamo di fronte a due strumenti di marketing prevalentemente turistico che evidenziano le peculiarità dei territori, anche se sarebbe stato opportuno, saperne di più di storia, tradizioni e vissuto, e se la visione avrebbe dovuto comprendere il lungo nuovo distretto turistico emiliano-romagnolo fino alla laguna veneta.
Certo è che l’iniziativa, e non è la prima, ci mostra che l’assessorato al Turismo della provincia e il suo staff c’è l’hanno messa tutta nell’elaborare i contenuti, affidandone la distribuzione sia alla rete pubblica che ad operatori turistico-commerciali. Anche se, forse, servirebbero altre idee e ulteriori strumenti di sostegno e di servizio.
Sarebbe interessante, inoltre, capire che tipo di coinvolgimento è stato attivato e chi cura questo settore, dalla Camera di commercio, alle Sovraintendenze, dalle Agenzie per lo sviluppo Sipro e Delta 2000, ai Comuni, alla Regione e al ministero con le loro rispettive strutture operative.
Come si legge, i soggetti attuatori sono tantissimi, a volte con competenze concorrenti, a volte in conflitto, a volte silenziosi, a volte in sovrapposizione e con “spezzettamenti” a dire poco incomprensibili.
Anche qui, in questa circostanza, e non è la sola, richiamiamo l’attenzione di Franceschini, ministro indicato a mettere ordine, a rilanciare il settore, affinché turismo e cultura siano una filiera di innovazione e sviluppo, a ricreare le giuste condizioni per più lavoro, più occupazione, più imprese e farne la prima azienda nazionale.
Generalmente i supporti tecnici per animare ed accogliere i turisti si costruiscono in ottobre e novembre guardando alla stagione dell’anno successivo (se si ragiona nel breve). Occorre ricordare a tale proposito che l’ente Provincia diverrà un ente di secondo grado e privo della funzione turismo-cultura, ci pare quindi giusto evidenziare almeno alcune preoccupazioni.
Che dire ancora, se non che il nostro presidente, che è stato anche il sindaco di Firenze, dovrebbe molto preoccuparsi, perché se non arriviamo primi come accoglienza, l’Unesco potrebbe da subito toglierci dall’elenco dei Paesi i cui beni sono patrimonio dell’umanità (ne abbiamo tantissimi).
Il pil, il deficit, il debito, i parametri dei fondamentali macroeconomici, il tasso di disoccupazione, la Bce e altre istituzioni internazionali possono essere viste e riviste nella loro elasticità di movimento, anche con meno variabili indipendenti, anche con meno rigore nelle cifre e nei numeri, ma sul turismo non si può più scherzare e quindi, carissimo Dario, devi correre e più di quanto in Africa fanno il leone e la gazzella.
Buon lavoro, e speriamo bene!

Il giardino, orchestra di colori in cerca di direttore

Il giardino, opera viva, regno del possibile e del paradosso, ha sempre un direttore che dirige l’orchestra, il giardiniere, colui che ascolta, guarda e al momento opportuno, sceglie cosa fare e cosa disfare. Il giardino per definizione è un luogo artificiale e ha bisogno di avere dei punti fermi nella sua struttura di base: ingressi, confini, percorsi, punti di interesse, ma questa impostazione rigida non gli impedisce di essere anche elastico, accogliente e adattabile, nomade suo malgrado. Un giardino può diventare un luogo incolto per scelta, ma un incolto è solo uno spazio abbandonato in cui la Natura riprende il suo lavoro. Affidare il proprio pezzetto di terra al caso può essere una scelta di principio, ma tante volte è la scelta di quei giardinieri che, stanchi di consultare montagne di cataloghi e di fare il giro dei vivai, decidono di fermarsi per vedere cosa succede.
A volte capita che il vento sia un alleato prezioso, soprattutto quando un giardino si trova in una zona ricca di flora selvatica e può succedere che la composizione di rose da catalogo con fiori di campo, diventi un quadro pieno di grazia e di poesia. Questo è quello che vorrei fare nel mio giardino, perché mi piace l’idea che qualcosa possa crescere in modo equilibrato senza troppi controlli da parte mia. In verità nel mio giardino, se si esclude il tappeto di margherite e pisaletto, quello che è cresciuto in modo casuale, non è arrivato poeticamente sulle ali di un fresco venticello primaverile, ma dentro prosaiche sportine di plastica. Chi coltiva erbacee perenni o rampicanti, prima o poi sarà costretto a buttarle o a distribuirle. In questo modo, e senza nessun tipo di programmazione, il mio giardino si è arricchito di tante varietà interessanti, come la deliziosa Lychinis coronaria con le sue rosette di foglie grigie e pelose; l’allegra Centranthus ruber (foto); la scultorea Euphorbia caracias; tutte piante rigogliose che ormai fanno parte del mio paesaggio e che sono arrivate brutte, mezze secche, spesso aggrumate in zolle di terra, proprio dentro alle sportine- regalo delle mie amiche.
Cosa sono le perenni? sono le generiche piante da fiore con il fusto non legnoso. Queste, al contrario delle piante annuali che ogni anno completano il loro ciclo di vita, se trovano un luogo di loro gusto, ricominciano a vegetare ogni anno allargandosi alla base. Durante l’inverno la maggior parte di loro sparisce o lascia in terra una base fatta di steli secchi e di foglie morte. Quando una pianta perenne ha qualche anno di vita, tende ad allargare questa base e per mantenere in forza la pianta è necessario dividerla con un coltello affilato. Questi pezzi di materiale vegetale, daranno vita a nuove piante e così facendo, si riempiono aiuole, bordi, vasi e prima o poi si finisce per mettere queste cose informi dentro ad una sportina e portarla ad amici con spazi ancora colonizzabili. Mettere in terra queste “cose vegetali” mi è sempre piaciuto, perché sono molto più semplici da coltivare rispetto alle semine o alle talee, e così ho potuto riempire il mio giardino di presenze tanto gradevoli quanto infestanti. Con le perenni non ci sono problemi, lo spazio c’è e ho ancora molti amici su cui contare, il problema si è creato con i rampicanti. Tutte le piante che si possono trasportare a pezzi, infilate senza complimenti in una sporta di plastica, hanno una costante: sono robustissime. Le piante rampicanti lo sono in modo particolare, quindi, prima di accettare una sportina con un omaggio del genere, dovrebbe essere obbligatorio fare un esame onesto delle proprie capacità di essere drastici nel tenerle sotto controllo. Le rampicanti come i glicini, le viti americane, le edere, le bignonie, i falsi gelsomini, i caprifogli, sono piante fortissime e hanno tutte la stessa capacità di crescere e riprodursi con estrema facilità, in pochi anni creano pergole spontanee, grovigli di vegetazione, masse verdi di grandi proporzioni. Le ho sempre accolte, piantate e ammassate, pensando di poterle controllare, ma la pigrizia, la mancanza di tempo e il mal di schiena, hanno molto indebolito le mie capacità e adesso mi ritrovo con angoli di boscaglia molto arruffati, che non sempre mi piacciono, ma che alla fine conservo, perché sono piene di insetti e qualche nido di uccellini, così il giardino cresce e si mantiene pieno di vita.

La biblioteca d’albergo, col book-sharing si arricchisce la vacanza

Soggiornare in albergo è un vero piacere, soprattutto per una donna. Le camere vengono pulite e rassettate regolarmente, la colazione servita, tv e servizio wi-fi per la gioia dei figli e per le ultime incombenze lavorative da sbrigare degli adulti. Ma quest’anno, qui in Liguria dove mi trovo per qualche giorno, l’albergo ha una piacevolissima novità, scaffali di libri che si possono liberamente prendere in prestito. A dire il vero, mi spiega la direttrice dell’albergo, Legambiente a cui sono associati di solito propone il book-sharing ai bagni, ma lei era molto interessata, ha chiesto e le hanno subito spedito una libreria Ikea e anche un buon numero di libri. Ha aggiunto qualche volume poi l’ha sistemata in un luogo ideale per la lettura: in veranda, sotto l’ombra degli archi (l’albergo si chiama “Sette archi” e si trova a Bocca di Magra, La Spezia) da cui, seduti sulle poltroncine di vimini e magari sorseggiando un buon caffè, si può godere una splendida vista sul porticciolo… barche, mare, pini marittimi, e in fondo le colline, a tratti imbiancate da blocchi di marmo che sembrano neve.

Sono venuta qui per incontrare le mie più care amiche di un tempo che non vivono più a Ferrara da anni, e questo era già un grandissimo regalo per me. Ma trovare inaspettatamente un “nuovo amico” che ti invita ad entrare in un mondo diverso, che ti dà il buongiorno la mattina e la buonanotte la sera, una storia altra in cui naufragare e raccoglierti un po’, è stato come sempre emozionante e, come mi capita ogni volta che incontro “un tipo interessante”, mi ha fatto mancare il respirocome trovare un tesoro in fondo al mare.

Oltre all’idea dello scambio di libri tra sconosciuti, ciò che più trovo divertente del book-sharing è passare in rassegna i titoli e immaginare i criteri che ne hanno guidato la scelta. Anche qui ce ne sono tanti, i più disparati, e molti rivelano un certo gusto: ci sono i Maigret e gli Ellery Queen Mondadori, autori come Pennac, Stefano Benni, e poi, incanto nell’incanto, i ferraresi Roberto Pazzi con Conclave e L’erede, e Giorgio Bassani con Il (nostro) giardino dei Finzi-Contini… e poi tanti libri in lingua, soprattutto Inglese e Tedesco, che fanno tanto Camera con vista (l’albergo tra l’altro conta diversi ospiti stranieri, cosa che aggiunge gusto, un senso di internazionalità all’ambiente e, almeno per la sottoscritta, aiuta a sentirsi davvero in vacanza).
La signora ha tenuto a spiegarmi che il sistema di prestito-scambio sta funzionando: gli ospiti prendono un libro e poi gliene donano due, l’altro giorno un tedesco ne ha lasciati quattro. Si dimostra entusiasta e non ha nessun timore di possibili razzie: sarebbe un peccato se ne mancassero all’appello, ma per la sua attività sarebbe una perdita economica irrilevante, tanto vale rischiare.

Il libro che ho scelto e che sto assaporando s’intitola Una bellissima ragazza, di Ornella Vanoni con Giancarlo Dotto (Mondadori, 2011), autobiografia molto ben scritta, esilarante e commovente, sincera ed ironica. In copertina, il ritratto stilizzato della cantante con un cespuglio di capelli rossi, come i miei, fatti di lettere dell’alfabeto e note musicali.

E’ stato un vero piacere incontrarla signora Vanoni… lei è un tesoro!

Ferrara si tinge di giallo: tre giornate ad alta tensione nel cortile di palazzo Paradiso

da: ufficio stampa Comune di Ferrara

Da venerdì 11 a domenica 13 luglio, in biblioteca Ariostea, una rassegna di letteratura gialla, noir e thriller.

Da venerdì 11 a domenica 13 luglio debutta a Ferrara a palazzo Paradiso sede della biblioteca comunale Ariostea (via Scienze 17) la prima edizione di “#GialloFerrara”, rassegna dedicata alla letteratura gialla, noir e thriller di qualità. Ideata dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Ferrara si avvale del patrocinio della Regione Emilia Romagna e della direzione artistica dell’associazione culturale Gruppo del Tasso. Per presentare il programma e le caratteristiche principali della prima edizione del festival questa mattina al Teatro Anatomico della biblioteca erano presenti il vicesindaco e assessore alla Cultura Massimo Maisto, il dirigente del Servizio Biblioteche Enrico Spinelli, il responsabile delle attività culturali dell’Ariostea Fausto Natali, il presidente dell’associazione culturale Gruppo del Tasso Alberto Amorelli insieme ai direttori artistici del festival Riccardo Corazza e Matteo Bianchi e altri collaboratori.
“La nostra maggiore biblioteca – ha affermato il vicesindaco Massimo Maisto – vuole essere una piazza del sapere dove potersi incontrare e un luogo inclusivo aperto a tutti i cittadini dove accedere ai prestiti librari, certo, ma anche ricco di eventi e di opportunità. Come Amministrazione – ha poi aggiunto – abbiamo colto da subito le potenzialità di questa iniziativa, ancora sperimentale ma che speriamo destinata a strutturarsi nel tempo grazie anche all’impegno e all’entusiasmo dimostrato dagli organizzatori del Gruppo del Tasso. Per questo abbiamo sostenuto il progetto sia attraverso la collaborazione dei diversi servizi comunali sia con un contributo diretto (4mila euro ndr)”.

LA SCHEDA (a cura degli organizzatori, ufficio stampa “GialloFerrara”)

Festival #GialloFerrara: la prima rassegna di Giallo nella città estense

Il week end dell’11, 12 e 13 luglio si terrà a Ferrara la prima edizione di un festival unico nel suo genere: la rassegna #GialloFerrara. Con la conferenza odierna si vuole dare un’idea dell’humus sul quale è attecchita l’iniziativa, ovvero il condurre le penne nazionali all’interno della città e far scoprire le eccellenze locali oltre l’ombra delle sue porte: #GialloFerrara è stato ideato dall’Assessorato alla cultura del Comune di Ferrara e patrocinato dalla regione Emilia Romagna; oltre alla direzione artistica dell’associazione ‘Gruppo del Tasso’, si ricorda il main sponsor, la Cassa di Risparmio di Cento, che si è accollata l’onere di supportare l’iniziativa, e gli sponsor tecnici “Suono e immagine”, nonché l’editore ‘Meme Publishers’, dal cui sito tutti i titoli saranno scaricabili gratuitamente soltanto nelle giornate del Festival.
Durante i tre giorni di Giallo la nostra città vivrà numerose iniziative che avranno come oggetto la letteratura gialla, attraverso le cui linee conduttrici troveranno espressione i dialoghi tra scrittori, sceneggiatori, fumettisti e disegnatori. I direttori artistici Riccardo Corazza e Matteo Bianchi, credendo ancora fermamente nelle istituzioni pubbliche e sentendosi parte di una città che ha bisogno di sostanza creativa per non far fuggire i suoi giovani, hanno articolato il programma rendendo teatro degli incontri tre diversi luoghi: lo storico Palazzo Paradiso, la libreria Feltrinelli, e il suggestivo Chiostro di Santo Spirito. Durante tutto lo svolgimento dell’evento sarà possibile l’acquisto delle opere degli autori in programma grazie alla convenzione stipulata con la Libreria Feltrinelli.

L’instancabile staff della rassegna presenta continuamente eventi off e iniziative collaterali con il preciso intento di non smettere mai di stupire la città e i suoi visitatori: il flash mob del cantante bolognese Alex Mari durante il mercoledì universitario del 2 luglio, la cena col delitto del 10 luglio, i video-promo, e le anteprime degli ultimi romanzi di Matteo Strukul e Nicola Lombardi.
I grandi nomi che calpesteranno il suolo ferrarese sono: Marco Belli, Stefano Bonazzi, Davide Bonesi, Davide Bregola, Alfredo Castelli, Claudio Chiaverotti, Gaia Conventi, Andrea Cotti, Sandrone Dazieri, Delmiglio Editore, Maurizio De Giovanni, Romano De Marco, Lorenza Ghinelli, Sara Magnoli, Luca Malaguti, Nicola Manuppelli, Angelo Marenzana, Lorenzo Mazzoni, Gianluca Morozzi, Luca Poldelmengo, Angela Poli, Carlo Riberti, Roberto Roda, Stefano Scansani, Eugenia Serravalli, Marcello Simoni e Stefano Visonà.
Dietro a #GialloFerrara si nasconde un ampio Gruppo capace di lavorare con poco e senza sprechi: i direttori artistici Riccardo Corazza e Matteo Bianchi, l’ufficio stampa Irene Lodi e Silvia Franzoni, il web designer nonché autore di “Diablo”, la bicicletta ufficiale del festival, Ciro Patricelli, e numerosi proseliti e accoliti.

Ogni ulteriore informazione può essere reperita sul sito http://www.gruppodeltasso.it/home.html, e la pagina Facebook https://www.facebook.com/GialloFerrara riserva sempre nuove sorprese: stay tuned!

Questo il programma completo del festival:
Venerdì 11 luglio
Ore 10 – Albero delle storie (Palazzo Paradiso)
Giallo Kids: Adriana Trondoli guiderà i più piccoli alla soluzione di alcuni buffi misteri e sparizioni sotto il grande albero in giardino, seguendo le tracce nascoste tra le righe di storie e filastrocche.
Ore 11 – Libreria Feltrinelli Ferrara
Lorenzo Mazzoni ed Eugenia Serravalli (traduttrice di Richard Godwin) sul poliziesco tra l’Italia e il mondo. Modera Marco Belli.
Ore 19 – Libreria Feltrinelli Ferrara
Aperitivo di inaugurazione con performance itinerante dell’artista Christopher Channing
Ore 21 – Palazzo Paradiso
Marcello Simoni, Davide Bonesi e il direttore de “La Nuova Ferrara” Stefano Scansani dialogano sul Giallo

Sabato 12 Luglio
Ore 11- Libreria Feltrinelli Ferrara
Gaia Conventi, Gianluca Morozzi e Luca Malaguti presentano “Nero per N9ve”. Modera Delmiglio Editore.

Ore 17 – Sala Agnelli (Palazzo Paradiso)
Giallo Kids: Scrittori e bambini a confronto. A cura di Sara Magnoli e Angela Poli.
Ore 17 – Palazzo Paradiso
Luca Poldelmengo e Lorenza Ghinelli tra giallo e noir. Modera Stefano Bonazzi.
Ore 19 – Palazzo Paradiso
Andrea Cotti e Sandrone Dazieri: la scenografia di un crimine. Modera Luca Poldelmengo.

Domenica 13 Luglio
Ore 11 – Libreria Feltrinelli Ferrara
Carlo Riberti e Nicola Manuppelli (traduttore di Francis S. Fitzgerald) dentro un noir senza tempo. Modera Davide Bregola.
ore 17 – Sala Agnelli (Palazzo Paradiso)
Giallo Kids: Scrittori e bambini a confronto. A cura di Sara Magnoli e Angela Poli.
Ore 17 – Palazzo Paradiso
Il giallo dentro i fumetti: Alfredo Castelli e Claudio Chiaverotti tra Arsenio Lupin e Martin Mystère. Modera Roberto Roda.
Ore 19 – Palazzo Paradiso
Conversazione a due voci sulla narrativa gialla con Romano De Marco e Maurizio De Giovanni. Modera Davide Bregola.

[pubblicato il 4 luglio 2014 alle 17:40]

Da Giovanni Errani a Zoia Veronesi, le inchieste sulla Regione

di Salvatore Billardello

Il processo che ha portato alla condanna a un anno per falso ideologico del governatore dell’Emilia Romagna Vasco Errani e alle sue dimissioni comincia nel 2006, quando la cooperativa Terremerse, presieduta dal fratello Giovanni Errani, riceve dalla Regione un finanziamento di un milione di euro. Il caso politico-giudiziario scoppia però tre anni più tardi, quando è “Il Giornale” che accusa Errani di aver favorito la coop del congiunto: il finanziamento serve per costruire uno stabilimento vitivinicolo, che non verrà però ultimato entro la scadenza del bando. Il governatore allora affida ai funzionari Valtiero Mazzotti e Filomena Terzini la stesura di una relazione da mandare in procura, in cui si afferma che la procedura adottata è pienamente regolare. Una volta iniziate le indagini del pm Antonella Scandellari e della Finanza, si scoprono varie irregolarità commesse dalla coop di Giovanni Errani; alla fine del 2012 la Procura coinvolge nelle indagini anche il fratello Vasco. L’accusa è appunto falso ideologico: la relazione di Errani è per il procuratore Roberto Alfonso e per il pm Scandellari «un modo per occultare la falsità attestata da Giovanni Errani il 31 maggio 2006 circa il termine del lavori», che furono effettivamente conclusi un anno dopo: il finanziamento sarebbe dunque stato concesso illegalmente. Ma il legale Alessandro Gamberini parla di “sentenza sconcertante” e annuncia il ricorso in Cassazione, che non esaminerà il caso prima di ottobre-novembre, giusto i mesi delle nuove elezioni per il presidente dell’Emilia Romagna.

Dopo l’estate la Procura si occuperà anche dell’altra – più grave – inchiesta che coinvolge la Regione, quella sulle spese pazze; qui ad essere indagati sono tutti i nove capigruppo del Consiglio regionale. Finora le pm Morena Plazzi e Antonella Scandellari si sono concentrate sulle spese che vanno da maggio 2010 a dicembre 2011, ma da settembre l’inchiesta dovrebbe allargarsi anche al 2012. 1 milione e 852 mila euro il denaro pubblico di cui la Regione avrebbe indebitamente usufruito per cene, viaggi, gioielli, vestiti per bambini e tanto altro; le voci parlano ufficialmente di soldi per indagini e ricerche, consulenze, visite di rappresentanza o semplicemente rimborsi. Il Pd guida la speciale classifica delle irregolarità, con circa 673.000 euro spesi; seguirebbe il Pdl con 390 mila euro, la Lega Nord con 193 mila euro, Sel con 126 mila euro, Idv con 147 mila euro, Gruppo Misto con 97 mila euro, Federazione della Sinistra con 90 mila euro, infine 5 Stelle con 87 mila euro e Udc con 47 mila euro. Dopo l’estate arriveranno i primi verdetti, due finora sono state le condanne definitive: la prima per il capogruppo Idv Paolo Nanni, che ha patteggiato 23 mesi per aver speso 227 mila euro destinati al proprio gruppo per scopi personali; condannata con lui la figlia Olimpia, che lavorava come segretaria per il gruppo. Successivamente è stato condannato a due anni per truffa aggravata Alberto Vecchi, consigliere di Pdl e poi Fi, per aver usato circa 85 mila euro di rimborsi chilometrici ottenuti tra il 2006 e il 2010 per il percorso tra la una residenza fittizia stabilita a Castelluccio di Porretta Terme e la sede dell’Assemblea regionale in viale Aldo Moro.

Intanto il presidente della sezione giurisdizionale della Corte dei Conti dell’Emilia Romagna Luigi di Murro fa sapere che dopo l’estate arriverà anche il verdetto sulle interviste in tv a pagamento: i sette capogruppo regionali – Marco Monari del Pd, Luigi Villani del Pdl, Andrea Defranceschi del M5S, Silvia Noè dell’Udc, Gianguido Naldi di Sel-Verdi, Roberto Sconciaforni di Fds e Mauro Manfredini della Lega – coinvolti sono accusati di aver speso illegalmente 136.000 euro tra 2010 e 2012 per apparire in emittenti locali. Il procuratore generale della corte dei conti Salvatore Pilato ha parlato di “illiceità finanziaria” per questo tipo di interviste.

Ultima inchiesta che coinvolge la Regione Emilia Romagna e in prima persona il governatore dimissionario Vasco Errani è l’accusa per truffa aggravata formulata nei confronti di Zoia Veronesi, la segretaria storica dell’ex leader del Pd Pierluigi Bersani. Secondo le indagini condotte dal pm Giuseppe di Giorgio, Veronesi lavorò al fianco di Bersani a Roma tra 2008 e 2009, come curatrice dei rapporti tra le istituzioni centrali e il Parlamento, essendo in contemporanea sotto contratto con la Regione fino al 2010. La truffa ammonterebbe a circa 150 mila euro, cioè la retribuzione avuta dalla Regione per l’anno e mezzo circa in cui ha ricoperto un incarico per un lavoro non svolto. La decisione del gup Letizio Magliaro sul processo – che coinvolge anche Bruno Solaroli, allora capo di gabinetto della presidenza Errani – arriverà il 23 luglio. Sebbene Veronesi si sia poi dimessa, ha continuato ugualmente a lavorare per il Pd: “male non fare, paura non avere” ha dichiarato durante l’udienza preliminare dello scorso maggio, in cui è stata formulata l’accusa di quattro mesi e 20 giorni e 200 euro di multa.

[© www.lastefani.it]

Regione, le grandi manovre per la successione ad Errani

di Jessica Saccone

Il Pd cerca la quadra. Il dimissionario Vasco Errani, travolto dallo scandalo Terremerse e da un sentenza che lo condanna, lascia la Regione in balia di se stessa e il partito annaspare. Sì, perché le pianificate primarie non sembrano più la priorità per il centro- sinistra. Tempi stretti, strettissimi, quelli che devono portare i dem a scegliere il successore di Errani. Il giorno dopo la debacle giudiziaria del presidente della Regione, si raccolgono i cocci e si cerca un successore. I nomi più accreditati restano quelli di Stefano Bonaccini, segretario regionale uscente, e due renziani della prima ora: il deputato Matteo Richetti e Roberto Balzani, già sindaco di Forlì. In queste ore si sgonfiano invece le quotazioni di Daniele Manca, sindaco di Imola, e Simonetta Saliera, vicepresidente della Regione, bruciati dalla loro vicinanza politica a Errani.

Il premier Matteo Renzi, che ha twittato «Finché non c’è sentenza passata in giudicato un cittadino è innocente. Si chiama garantismo», manifesta la propria solidarietà ad Errani, ma è probabile giochi la carta del fedelissimo Graziano Delrio, sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Una candidatura pesante, che potrebbe mettere a tacere ogni voce di dissenso interno. Il Pd, tuttavia, congela il congresso regionale, ma organizza un incontro con i suoi per lunedì prossimo e fare il punto.

Paolo Calvano, segretario pd Ferrara, ha cancellato la sua “Leopoldina” del Baraccano per annunciare la propria corsa alla segreteria regionale. “Il Pd della regione ha molte frecce al suo arco- dice Calvano ai microfoni di città del Capo-. Il faro per la scelta migliore non saranno automaticamente le primarie” precisa. “Si tratta di una vicenda amara” solidarizza Pierluigi Bersani, che su Errani dice: ”E’ un peccato che la gente perbene vada a casa”.
L’opposizione incalza. Tra i grillini, la scelta del candidato sarà certamente attraverso primarie online, mentre in casa centro- destra Massimo Palmizio, coordinatore regionale di Forza Italia, detta le regole. Ha convocato per stasera infatti un’assemblea con la Lega Nord, lasciando intendere le primarie di coalizione siano alle porte. Sostegno anche dal “rottamatore” forzista, Galeazzo Bignami, che conferma il proprio supporto e disponibilità.

Esprime la necessità di “tempi brevi”, sorvolando sui nomi del probabile successore, Anna Pariani, capogruppo Pd in viale Aldo Moro. Prima di prendere parte al vertice pomeridiano dei capigruppo del suo partito, la numero uno dei consiglieri regionali dem ha puntualizzato che il Pd intende presentarsi con un candidato unitario, bypassando le primarie.

Intanto, Vasco Errani si lecca le ferite e prende una giornata di riflessione in una località ignota ai suoi stessi collaboratori. Secondo alcune fonti, starebbe lavorando alla redazione della lettera di dimissioni, che dovrebbe formalizzare entro qualche giorno. Molto amareggiato, convinto della propria innocenza per la quale si rivolgerà alla Corte di Cassazione, è determinato a non legare la sua vicenda a quella dell’istituzione che rappresenta. Finisce, tuttavia, un percorso iniziato 15 anni fa. Tanti gli impegni e traguardi raggiunti, soprattutto quelli per la ricostruzione dei centri terremotati, di cui era commissario, e per la difesa idrogeologica delle zone colpite nel Modenese dalla recente alluvione.

[© www.lastefani.it]

La cervicale… che dolore!

In una colonna vertebrale normale, la testa deve essere posta direttamente sopra la colonna vertebrale. Questa posizione mantiene il peso della testa sopra il centro di gravità del corpo.
La testa non è sostenuta da un’asta rigida, ma piuttosto da un arco di 43 gradi formato dalle ossa vertebrali del collo. Questo arco funge da ammortizzatore per la nostra testa ad ogni passo che facciamo. A volte, a causa di una cattiva postura, in particolare durante la lettura o al computer, mentre scriviamo sms, a causa di un incidente o per svariate altre ragioni, la postura di una persona cambia talmente che la testa viene spostata in avanti in una posizione neutra.
Questo cambiamento di postura del collo ha due effetti: uno, riduce l’arco di 43 gradi della curva cervicale; due, pone la testa in avanti rispetto al centro di gravità del corpo, provocando diversi problemi.

cervicale
Posizione del collo sulla testa, normale e sbagliata

In primo luogo, per ogni centimetro di spostamento in avanti, la testa pesa 1 kg. in più, fino ad un massimo di 5 kg., caricando il collo e le spalle di un grande lavoro. Provate voi stessi: tenete una palla da 5 kg davanti alle spalle, poi spostatevi in avanti. Percepite maggiore peso? Questo cambiamento di posizione della testa porta i muscoli del collo e della parte superiore della schiena a dover lavorare di più per riuscire a tenere la testa in una posizione corretta (stella rossa sul diagramma). Ciò può causare dolore a collo e schiena e affaticamento muscolare. La ricerca ha dimostrato che il flusso di sangue attraverso un muscolo diminuisce con l’aumentare della contrazione, con il conseguente accumulo di acido lattico e altri metaboliti che causano dolore muscolare e sofferenza.

In secondo luogo, quando la testa si sposta in avanti del centro di gravità del corpo, la colonna vertebrale nella zona del collo si allunga e si raddrizza. La perdita della curva cervicale altera le proprietà meccaniche del midollo e delle radici nervose, e questo potrebbe cambiare il nutrimento dei neuroni che compongono queste strutture. Infatti, il collo si collega al cervello attraverso radici sensitive e queste ai gangli nervosi e al resto del corpo, il midollo spinale del collo è particolarmente importante per la funzione di ogni organo. La correzione della postura della testa in avanti e il ripristino della lordosi cervicale è correlata anche all’aumento della funzione polmonare. In generale, dunque, la perdita della curva cervicale può causare una miriade di problemi di salute, di grandissime sofferenze, in particolare nella popolazione geriatrica.

Terzo, la perdita della lordosi cervicale provoca sollecitazioni innaturali sulle ossa vertebrali della colonna vertebrale cervicale. La legge di Wolf afferma che se sottoponiamo un osso ad uno stress costante, ad esempio un’eccessiva tensione da parte dei tessuti adiacenti, esso può deformarsi: la ricerca ha dimostrato che questo si traduce in un processo artritico con crescita di speroni ossei e osteofiti sulla colonna vertebrale cervicale.

Da ultimo, con la perdita della lordosi cervicale vi è la probabilità di lesioni da colpo di frusta e questo può avere implicazioni cliniche e biomeccaniche a lungo termine.

Fortunatamente, l’osteopatia può aiutare a correggere la postura della testa in avanti e la perdita di curva cervicale con programmi specifici.

Che tipo di miglioramenti potreste vedere dal correggere la postura in avanti della testa e il ripristino della curva cervicale? Per primo, meno stress sul proprio corpo e quindi un grande beneficio per la vostra salute nel suo complesso. Ma ancora più importante: la riduzione della deformazione meccanica dei tessuti del midollo spinale e delle radici nervose, permetterà al sistema nervoso di funzionare meglio. A livello preventivo, il restauro della curva cervicale può ridurre il rischio di lesioni da colpo di frusta in caso di incidente.

Ferrara balloons festival al decimo decollo

Dal 5 al 14 e il 20-21 Settembre 2014, a Ferrara, il Festival delle mongolfiere
più importante d’Italia festeggia la decima edizione

da: ufficio stampa Ferrara Fiere
Oltre centoventimila visitatori su trecentomila metri quadrati di parco. Circa millecinquecento passeggeri di voli liberi e vincolati, sulle mongolfiere di più di trenta equipaggi. Special shapes (mongolfiere dalle forme curiose e originali) e piloti in rappresentanza di nove nazioni. Cento espositori e trecento esibizioni ed eventi sportivi.
In questi pochi dati è racchiuso il successo del Ferrara Balloons Festival che, dopo aver ottenuto dal Ministero del Turismo italiano il riconoscimento di “Patrimonio d’Italia”, si prepara a festeggiare la decima edizione, dal 5 al 14 e il 20-21 Settembre 2014, nell’oasi verde del Parco urbano “Giorgio Bassani” di Ferrara.
A fare del Ferrara Balloons Festival la più importante manifestazione delle mongolfiere in Italia, nonché una delle più prestigiose d’Europa, è la perfetta alchimia tra il contesto naturale in cui si svolge – laghetti, piste ciclabili e percorsi pedonali, a due passi dal centro storico di Ferrara, gioiello del Rinascimento e Patrimonio dell’Umanità decretato dall’UNESCO – e la ricca offerta che il Festival propone a un pubblico trasversale, fatto di famiglie e persone di ogni età.
L’elenco è lungo e comprende gli eventi sportivi e l’area riservata ai bambini; il piacere dello shopping, a zonzo tra gli stand, e l’opportunità di gustare le specialità enogastronomiche del territorio; l’intrattenimento artistico e musicale, il concorso fotografico, ma soprattutto lo spettacolo dei “giganti dell’aria”. Le mongolfiere – protagoniste indiscusse dell’evento – spiccheranno il volo in due sessioni giornaliere (7.30 e 17.30), mentre le notti di Sabato 6, 13 e 20 Settembre, con il “Night Glow”, saranno illuminate a suon di musica. Oltre ai tradizionali aerostati a forma di lampadina, quest’anno saranno presenti anche numerose, inedite special shapes, come il Bicchiere di Birra, il Pinguino, il Clown e Babette.
Se nell’Area Mongolfiere gli equipaggi cureranno il gonfiaggio e il decollo dei balloons, garantendo ai passeggeri voli liberi e vincolati in totale sicurezza, il Villaggio dello Sport sarà il cuore pulsante di tantissime attività sportive: ginnastica ritmica, con una rappresentativa della Nazionale, pattinaggio, sparring, danza classica, moderna, contemporanea e jazz, flamenco, balli caraibici, “uguale od opposto”, wellness dance, yoga, hip hop, fit boxe, jujitsu, tchoukball, hockey, senza dimenticare l’“Educamp – Scuole aperte per ferie!”, il campo sportivo multidisciplinare promosso dal CONI – Comitato Regionale Emilia-Romagna, che i bambini dai 6 ai 12 anni potranno frequentare da Lunedì 8 a Venerdì 12 Settembre.

L’Area Sosta Camper attrezzata consentirà ai camperisti di immergersi nel Festival ventiquattro ore al giorno, senza spostarsi di un metro, mentre la Città Magica, allestita e curata dal Rione Santo Spirito, farà rivivere le atmosfere medievali dei castelli e dei cavalieri.
Nel Villaggio dei Bambini, i più piccoli troveranno un Festival costruito su misura per loro, con gonfiabili, tappeti elastici, tiro a segno, pony e cavalli sui quali fare una passeggiata, motoquad e motonautica con bolle, l’imperdibile ponte tibetano, per cimentarsi come Indiana Jones in avventure mozzafiato, e stimolanti laboratori didattici.
Come ogni anno, sarà possibile ammirare alcune tra le espressioni più spettacolari delle Forze dell’Ordine, a partire da quelle che l’Aeronautica Militare allestirà nella propria dall’area, fino alle sorprese che le pattuglie dei Carabinieri del Comando Provinciale di Ferrara riserveranno al pubblico.
Tra le novità dell’edizione 2014, ce n’è, poi, una particolarmente curiosa e rigorosamente legata al volo, ovvero i droni. Chiunque lo desideri potrà, infatti, pilotare uno di questi gioiellini tecnologici – vera e propria rivelazione degli ultimi anni –, sotto la guida attenta di Marco Robustini, uno dei massimi esperti mondiali del settore, e provare così l’esperienza originale, divertente e dinamica di catturare immagini dall’alto. L’appuntamento con i droni è fissato all’Arena mongolfiere nei due weekend del Festival (5-6 e 13-14 Settembre). Le prove di volo, che si svolgeranno fino al tramonto, saranno precedute da dimostrazioni e spiegazioni pratiche.

Ulteriori informazioni sono disponibili sul sito www.ferrarafestival.it.

I “falsi amici” della scuola pubblica

Alcune persone che si occupano di istruzione e rivestono importanti cariche istituzionali, spesso usano un linguaggio comprensibile ma talmente diverso, da quello di chi vive la scuola, da apparire lontani, estranei o addirittura discordanti.
C’è una scena del film The Blues Brothers del 1980 che mi aiuta ad introdurre qualche esempio scolastico.
Ricordando i tempi della loro infanzia Jake ed Elwood, cioè i Blues Brothers (John Belushi e Dan Aykroyd), rivolti a Curtis (Cab Calloway), nella versione originale del film dicono: “Curtis, you and the Penguin are the only family we got. You’re the only one that was ever good to us… singing Elmore James tunes and blowing the harp for us down here.”
Nella versione italiana si ascolta questa traduzione: “Curtis, tu e la pinguina (la suora) siete tutta la nostra famiglia. Tu sei l’unico che sia stato buono con noi… per noi cantavi le canzoni di Elmore James e suonavi l’arpa in cantina”.
Blues_ridimensionareOra visto che l’arpa è uno strumento che non ha nulla a che vedere con il blues e premesso che la traduzione letterale di “harp” è “arpa” ma la trasposizione nella lingua del blues è “armonica a bocca”, la corretta versione sarebbe stata: “… per noi cantavi le canzoni di Elmore James e suonavi l’armonica in cantina”.
I traduttori quindi si sono fatti ingannare da un “falso amico”.
In italiano i “false friends” più ingannevoli sono quelle parole di una certa lingua che, presentando una somiglianza morfologica con vocaboli di un’altra lingua, hanno evoluto il proprio significato in maniera diversa: come “harp”, appunto.
In senso lato, ci sono anche esempi scolastici di “false friends”.
Il ministro Stefania Giannini, ad esempio, quando parla di “pregiudizi culturali che in Italia impediscono l’effettiva parità per le scuole non statali” usa il termine pregiudizio al di fuori del contesto adatto.
Infatti se il pregiudizio (dal latino prae, “prima” e iudicium, “giudizio”) è un giudizio prematuro ovvero basato sulla non completa conoscenza dell’argomento, il testo che recita: “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”, non è un “pregiudizio” ma un ”comma” dell’articolo 33 della nostra Costituzione che descrive bene l’orizzonte nel quale i padri costituenti collocavano la scuola pubblica e quella privata.
Il ministro usa quindi un vocabolo inadatto per portar acqua al proprio mulino che è quello di introdurre l’effettiva parità per le scuole non statali.
????????????Il sottosegretario Roberto Reggi quando dice che la scuola non sarà più un “ammortizzatore sociale” usa un linguaggio preso dalla meccanica per creare volontariamente un’immagine negativa della scuola come fosse parte di un macchinario che ha assorbito gli urti occupazionali senza preoccuparsi della qualità dell’istruzione.
Il presidente del Consiglio Matteo Renzi, ad esempio, quando afferma che “la scuola è il punto di partenza” e poi, ad esempio, decide di esentare dal pagamento dell’IMU e della Tasi le scuole paritarie, accetta:
1) di non accompagnare il termine ”scuola” con nessun altro termine per poter giocare sull’equivoco: scuola “pubblica/privata”;
2) di parlare di “punto di partenza” senza definire il percorso e il punto d’arrivo.
Nei casi sopra citati, posso considerare i termini “pregiudizio, ammortizzatore, scuola e punto di partenza” come “falsi amici” perché sono stati usati con una finalità che condiziona negativamente il senso della realtà.
Credo ci sia bisogno di imparare a riconoscere bene i “falsi amici” della scuola pubblica per evitare pericolosi fraintendimenti e aspettative elevate.
Infatti quando alcuni personaggi, che si occupano di istruzione e rivestono importanti cariche istituzionali, creano deliberatamente equivoci e condizionano negativamente il contesto, li si può considerare a pieno diritto “colonizzatori di territori linguistici preesistenti”, “manipolatori di senso”, “condizionatori di significato” e di conseguenza “false friends”.
Come l’arpa non è mai stata e mai sarà uno strumento per suonare il blues, anche chi parla di istruzione usando parole equivoche prese da vocabolari ambigui non potrà mai essere un “true friend” ossia un “vero amico” della scuola pubblica.

P.S. Come l’arpa con il blues, anche il violoncello non ha molto a che fare con il rock… tranne rarissime eccezioni (che confermano la regola).
Ad esempio questa che, nonostante crei inizialmente equivoci, poi si fa riconoscere per la sua originale e lucida provocatorietà: i 2Cellos suonano “Thunderstruck” degli AC/DC. [vedi il video]

 

Le risposte invano attese del sindaco di Comacchio

Curioso l’ atteggiamento del sindaco di Comacchio il pentastellato Marco Fabbri che a una sollecitazione da me inviatagli tramite uno dei giornali cittadini sulla situazione dei venditori abusivi sulla spiaggia del Lido degli Estensi non crede sia necessaria una risposta. Per rinfrescargli la memoria ripropongo parte della mia interrogazione. Avendo affittato ombrellone e sdraio in prima fila mi avvio a raggiungere il mio posto:

“[…]dopo centinaia di metri riesco a intravvedere la linea luminosa del mare e… sobbalzo. Davanti a me un infinito prolungarsi di sacchi, bancherelle, mercanzie stese al sole davanti a cui s’accalcano e toccano e valutano villeggianti d’ogni tipo […] Alzo poi l’occhio dalla lettura del mio libro e vedo passarmi accanto ed offrirmi oggetti di ogni tipo esibiti dagli ultimi della terra […]. A tutti oppongo un imbarazzato “no grazie” che a volte tradisce impazienza se la richiesta si fa insistente e imperiosa. Penso che quegli infelici si sudano letteralmente il tozzo di pane (molti vengono dl Bangladesh) offrendo oggetti assurdi che mimano e imitano i desideri delle folle che palpano e scelgono illudendosi di essere “in”, lasciandosi travolgere dal sogno della moda. Poi mi si dice (lo leggo sulla stampa locale) che chi sarà sorpreso a comprare merce sulla spiaggia potrà essere multato di una cifra che può raggiungere i 10.000 euro. Stupisco per lo sprezzo del pericolo dei miei co-villeggianti. Poi mi si rivelano dati inquietanti. I poveracci venditori […] sono in mano a mafie che sembra – dico sembra – minaccino i proprietari dei bagni di tagliare gli sdrai o altre azioni violente se avvertono gli addetti alla sorveglianza che a quanto pare dovrebbero elevare la multa agli acquirenti. E a lei, signor Sindaco, domando “Le risulta?” O son chiacchiere d’estate? Ma perché poi alcuni bagni non hanno davanti le bancarelle? Che si stendono più numerose davanti ai bagni in prossimità del porto canale? Mai vorrei portare danno agli ultimi disperati della terra; ma la prego si adoperi per trovare una soluzione decente e umana per questa inquietante situazione. Non bastano forse i balli lungo il viale Carducci rendere attrattivo il Lido degli Estensi. Non basta adoperarsi per trovare una soluzione alle “follies” che un archistar – del resto mio amico – ha graziosamente sparso per il suddetto viale rendendo ancora più evidente la bruttezza architettonica del luogo dello struscio. Si dia invece una risposta verosimile ai poveracci che malinconicamente trascinano sacchi di inutili pseudo vanità per dare l’illusione di un lusso che è invece miseria e sudore.”

Mi sembra che l’interrogazione non sia poi né offensiva né provocatoria, ma dal giovane Sindaco per ora non arriva risposta: chissà se riproponendogli il quesito su un giornale on line riesco avere una risposta visto che i seguaci di quel partito parlano e scrivono solo per via mediatica.

La situazione dei Lidi non è certo tra le più rosee. Teorie di cartelli con scritte “affittasi” o “vendesi” costellano sempre più numerose vie e piazze, ma nonostante questo minaccioso segno di saturazione o sovrabbondanza di alloggi sembra che la febbre edilizia non abbia fine e ancora al posto di villette della prima generazione sorgono orrendi caseggiati sempre più grandi che letteralmente soffocano il verde rimasto. E le spiagge si allungano e ogni bagno per sopravvivere deve impiantare piscine e ancor più fantasmagorici luoghi pseudo disneyani dove placare la voglia di divertimento dei più piccini poco propensi a sobbarcarsi centinaia di metri di traversata per raggiungere un mare che sembra un miraggio. Di tutto questo sembra poco importare anche a quel che resta di commercio locale ormai arroccato sulla difensiva e solo attento a non giocarsi anche i clienti più affezionati. Quando alla fine settimana i Lidi sono invasi dalle folle che ormai possono contare solo su quei due giorni di attività allora sì che diventa un’impresa riscontrare anche il più elementare segno di cortesia. Le spicce signorine o i crestati boys dei bar indifferentemente usano il “tu” per tutti: dal piccino al novantenne. Gli sguardi annoiati o altezzosi (caratteristica molto in voga nel ferrarese) si mescolano con il sempre più popolato e popoloso sciame di venditori abusivi costretti a ritmi allucinanti sotto l’implacabile sole mentre sempre più roco, quasi un’invocazione, si fa il tradizionale grido: “cocco bello”.

Penso a cosa sarebbero potuti essere i nostri Lidi che in quanto a natura nulla avevano da invidiare luoghi famosi come ad esempio le foci del Rodano. Ma qui hanno spazzato via le dune e la flora locale; hanno costruito luoghi di villeggiatura che volevano o potevano solo essere imitazione di una vita da spiaggia mutuata sulle più banali e ovvie soluzioni. Ora la natura sembra prendersi le sue vendette. L’ampliamento del porto canale porta con se un moto di reflusso che danneggia le imbarcazioni tanto da rendere necessario una specie di Mose che regoli l’entrata del mare nel porto. Le spiagge da una parte sono erose, dall’altra s’allungano all’infinito. Gabbiani e colombacci invadono i luoghi abitati rendendo pericoloso il transito e depositando sull’ignaro/colpevole villeggiante merde gigantesche che ti rovinano indumenti e umore.

Si discute appassionatamente se è giusto far pagare il posteggio a macchine e campers. Da un mese non ho mai visto nessuna forza dell’ordine municipale.

Dimenticavo. Un fiore all’occhiello dell’industria del nostro paese, le Poste italiane – dixit Passera – versano qui al Lido in una condizione allucinante. A fronte di file interminabili affrontate con una gentilezza commovente dal direttore e da un’impiegata mi vien spontaneo di chiedere perché non c’è una comune macchina che distribuisca i numeri della fila. La risposta desolata è che le Poste l’hanno rifiutata. E in più che un terzo impiegato richiesto non si è presentato. Per una banale operazione dai 45 minuti all’ora e mezza di fila.

Ed è per questo signor Sindaco di Comacchio che mi piacerebbe avere una qualche risposta e mi scuso se nella mia impotente indignazione talvolta al luogo di chiamarlo Lido degli Estensi lo chiamo per gioco ma anche con un poco di verità il Laido degli Estensi.

A modo suo. Un breve intervento fuori stagione

Per noi che abbiamo avuto una formazione culturale e politica nei leggendari e molto discussi anni sessanta, non è così difficile trovare un modello culturale che dia un orientamento alla nostra vita o che ci ispiri nella visione di come dovrebbe essere una città colta, vivace, civile. Ci sono autori immensi come Leopardi, Goethe, Manzoni, Croce, Gobetti, Brecht, Mann, Ungaretti, Bobbio, per dare solo qualche esempio, e così via fino a Magris o Habermas, che per noi sono e restano i ‘Maestri’. Ma purtroppo questi orientamenti, questi fari intellettuali non hanno più nessun peso culturale per i giovani d’oggi.
Non ho voglia di cantare una grande lamentazione sul degrado culturale di questi ultimi anni, cosa totalmente inutile, o forse utile solo a chi scrive per calmarne i nervi. Ogni professionista oggi, sia esso un architetto che un artista, un avvocato o un giornalista (per parlare della mia categoria), dovrebbe continuare con il lavoro di ogni giorno ma in modo ‘kantiano’, che significa che io mi aspetto dagli altri un lavoro serio, competente, coscienzioso, ma anche ricco di creatività e curiosità, e che anch’io a mia volta mi comporto reciprocamente in modo responsabile nel mio lavoro, nella mia vita, come cittadino d’Europa, di Ferrara o di Monaco. “Resistere, resistere, resistere” come slogan contro il degrado della vita pubblica e della responsabilità per la “res publica” mi pare molto giusto, ma non è sufficiente perché è un atteggiamento troppo passivo ed anche retorico. Si sente un po’ il lontano “vento sessantottentesco” che talvolta ci manca in questi giorni di “cash & carry”.
Thomas Mann ha definito una volta il senso della parola “traduzione”: orientarsi ad un modello a modo suo (in tedesco: auf eigene Art einem Beispiel folgen). Noi, e mi pare i giovani d’oggi inclusi, abbiamo bisogno di una “Vita attiva” (Hannah Arendt), di creatività umana, di un senso profondo per l’urgenza di una “globalizzazione civile”. Oggi non si può parlare o scrivere di cultura rimanendo dentro le mura di Ferrara o di Monaco, ma nemmeno rimanendo nella cornice della sola Europa. Dobbiamo aprire le finestre delle nostre case, talvolta soffocanti e piene di polvere culturale ma anche di una storia civile, umana e di grandi valori. E non si tratta solo di difendere il nostro grande tesoro culturale, artistico e di valori democratici. Dobbiamo fare uno sforzo e andare oltre, aprire le nostre finestre per trovare nuovi orizzonti culturali. Oggigiorno essere solo italiano o tedesco o spagnolo non basta più per vivere una vita al passo coi tempi. Essere solo italiano o tedesco, oggi, è anche molto noioso, per me troppo.

Carl Wilhelm Macke (Monaco di Baviera/ Ferrara/)

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Giovani timonieri nelle acque della vita al Lago delle Nazioni

«Di tutto quanto esiste è il mare, io credo, la gran meraviglia, o è soltanto la giovinezza? Chi può dirlo? Ma voialtri qui – tutti avete ricavato qualcosa dalla vita: denaro, amore (ogni volta che si scende a terra) – e, ditemi, non è stato quello il più bel tempo, quando eravamo giovani in mare, eravamo giovani e non avevamo nulla, salvo batoste e, a volte, l’occasione di provare la propria forza – non è questo soltanto che tutti rimpiangete?». Questo dice Marlow alla fine di Gioventù, romanzo breve di Joseph Conrad, che più di ogni altro scrittore ha saputo raccontare quel rapporto di formazione, sfida e sintonia unica che può legare le persone al mare, alla natura, agli elementi.

Vicino a Ferrara, in quell’ambiente straordinario che è il Delta del Po, un pezzettino di acqua, vento, forza e disciplina dà la possibilità a giovani uomini e giovani donne di provare la propria forza e di misurarla con quella della natura. Con rispetto e coraggio, umiltà e padronanza.

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Allievo del Centro nautico (foto Luca Pasqualini)

Questo posto è il Centro nautico del Lago delle Nazioni, uno dei tre centri italiani della Lega Navale, che è l’ente morale di cui sono emanazione diretta il centro delle Nazioni di Comacchio – a Ferrara –, quello di Taranto e quello di Sabaudia.

L’esperienza che possono fare ragazzi tra gli 11 e i 15 anni dura dodici giorni. E’ il tempo del corso, al termine del quale l’allievo ottiene un attestato di capacità tecnica per la conduzione di un’imbarcazione a vela e di una canoa. Dodici giorni durante i quali cominci prendendo confidenza con l’acqua, ti ritrovi prima al timone e poi a prua a manovrare le vele con l’istruttore e quindi ti vedi assegnare una barca da armare, ritirare in secca e disarmare. Al termine, davanti a familiari increduli, i ragazzini sono protagonisti del saggio non agonistico, che li vede impegnati a salire sulla propria barca, a fare bordi, virate, retromarce, prove di scuffiamento e poi di raddrizzamento del proprio mezzo.

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Giovane navigante (foto Luca Pasqualini)

Al quarantesimo anno di vita, il centro si rinnova un po’ e rilancia i valori nautici di sempre con un pizzico di attualità; come la pagina Facebook dedicata, dove seguire giorno per giorno progressi ed esperienze dei ragazzi. Lo racconta il nuovo direttore Marco Camirro. Che spiega: «La barca richiede la giusta concentrazione e preparazione. Bisogna imparare a sentire il vento, prendere confidenza con gli elementi senza mai dimenticare rispetto e attenzione, perché sennò scuffi. Questo fa parte dell’iniziazione alla disciplina; andare in barca vuole dire sapere valutare i propri limiti trovando di volta in volta il comportamento adeguato a ciò che l’ambiente circostante richiede». Una scuola di vela, insomma, che diventa scuola di vita. «La Lega navale – dice il neo direttore – è un ente pubblico morale, il cui obiettivo non è il profitto, ma la creazione di valori etici, che usano lo strumento della barca».

Lezioni di teoria si alternano alla pratica in acqua, il tempo libero è scandito dalle attività sportive con tornei di calcetto, ping pong e pallavolo. L’alloggio è all’interno delle tende, dove bisogna prendersi cura di ordine e quotidiane incombenze, perché la disciplina è la prima regola dell’aspirante navigatore. Un percorso di formazione che quest’estate si ripeterà cinque volte, nei cinque turni di vacanze sportive. Lunedì è partito il gruppo del terzo turno, che terminerà venerdì 18 luglio. Il turno successivo andrà dal 21 luglio al 1° agosto e l’ultimo dal 4 al 15 agosto con la conclusione che culminerà nella Festa ferragostana del lago.

Per diventare, così giovani, piccoli Naviganti come quelli della canzone di Ivano Fossati, «allenati alla corsa/allenati alla gara/e preparati a cadere/e a tutto quello che s’impara».
[ascolta il brano intonato]

Concesso l’asilo politico, Giuba torna a casa dalla sua famiglia

“Stiamo preparandoci per la grigliata, stasera si festeggia: mia moglie Giuba torna da noi. L’odissea è finita, ha avuto l’asilo politico”, è al settimo cielo Afrim Bejzaku, 32 anni, rom, che dà l’annuncio dall’altra parte della cornetta. Dopo un mese e 15 giorni trascorsi al Centro di identificazione ed espulsione di Fiumicino Ulfindana Bejzaku torna in famiglia. Sono le cinque del pomeriggio, Giuba è sul treno, nei pressi di Bologna e conta i minuti che la separano dalla stazione di Ferrara da dove farà rientro a Berra. Finalmente a casa dal marito e dai suoi cinque figli. “Quando è arrivata la notizia mi sono talmente emozionata al punto da mettermi a piangere. Sono davvero felice, è chiaro, dovrò trovarmi un lavoro”. Origini macedoni Giuba, 34 anni, da 29 in Italia, casa di proprietà, cinque figli di cui quattro minori, incensurata e senza patria, ha rischiato 18 mesi di detenzione al termine dei quali sarebbe comunque rimasta in Italia. Non c’è Paese dove rimpatriarla, in Macedonia la sua nascita non è mai stata registrata, è un apolide di fatto, pizzicata senza documenti mentre elemosinava a Codigoro. “La nostra vicenda è simile a quella di tantissimi altri – racconta Afrim – ma noi non siamo arrivati da due giorni, viviamo in Italia da più di 20 anni, i nostri figli sono nati qui e frequentano regolarmente la scuola”. Lo si voglia o no, è una realtà in contraddizione con una legge dai molti limiti e, diciamolo, dai notevoli sprechi. Giuba non è una mosca bianca, di casi come i suoi ce ne sono tanti e se la Commissione chiamata a valutare l’opportunità di concederle l’asilo politico, glielo avesse negato, la detenzione al Cie non avrebbe giovato né a lei, né ai suoi bambini e neppure alle tasche dei contribuenti, perché sarebbe rimasta comunque qui. “Anche solo un mese è stato un’assurdità, c’è caso e caso. Eppure il giudice di pace per ben due volte s’è pronunciato a favore dell’espulsione”, continua Afrim. “E’ stato un momento duro, soprattutto per i miei figli – racconta Afrim – sono stati ammalati, febbroni altissimi e la ragazzina di 12 anni, che ha problemi psichici, è stata trasportata al pronto soccorso per le convulsioni”. Afrim, agli arresti domiciliari, ha potuto contare sui parenti e comunicare attraverso la rete, ma all’ospedale come ovvio ha dovuto essere assente per gli obblighi di legge. “Fosse stata presente almeno la madre sarebbe stato diverso. Non è tanto semplice raccontare ai bambini cosa sta accadendo e pretendere una loro totale comprensione dei fatti”, dice.

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I coniugi Afrim e Ulfindana “Giuba” Bejzaku (foto di Ippolita Franciosi)

“A novembre la questione dell’espulsione potrebbe porsi anche per me – spiega – Potrebbero mandarmi in Kosovo da dove provengo, tutto dipende dal permesso di soggiorno e dal lavoro. E’ un serpente che si morde la coda, se manca uno non c’è l’altro e viceversa”. Le possibilità di un happy ending ci sono, la vicenda della famiglia Bejzaku ha un sostenitore, un’associazione di volontariato bolognese che si sta adoperando attraverso l’intervento di un legale di fiducia per dare un futuro stabile e stanziale a genitori e bambini.

Mosca verdissimamente Mosca…

Da MOSCA – Mosca è davvero verde, ricca, di cultura e tradizioni, ma anche di eventi, manifestazioni, scambi e, soprattutto, di parchi e giardini. Capitale da sempre circondata da enormi spazi verdi, la loro cura richiede non solo tanta disponibilità economica ma anche amore e grande rispetto per la natura. E qui tutto questo non manca. A maggio di ogni anno, usciti dal rigido inverno, i colori si risvegliano, i parchi brulicano di giardinieri indaffarati che rifanno completamente il manto erboso e fiorito di questi spazi dove i moscoviti vengono a respirare ogni domenica estiva o ogni sera dopo il lavoro. Una corsetta, una pedalata, una partita a tennis, e poi pattini, monopattini, biciclette, monocicli, skateboard e bambini vocianti riempiono stradine e vialetti profumati.
Guida colorata sotto braccio, mappa aperta sul cuore e mente libera, eccoci pronti ad avventurarci nella nuova e conturbante Mosca. Nuova perché ci ha accolto a braccia aperte, perché profuma di avventura, perché ci apre un mondo inaspettatamente verde e fresco. Nuova perché noi stessi siamo nuovi, rinati e felici, esultanti, intraprendenti, frementi, scalpitanti, impazienti. Entriamo al Gorky park allora. Forse il più bello fra i 96 parchi e i 18 giardini moscoviti.

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Gorky park, entrata

Ovviamente ci avventureremo nella natura con qualche libro che uscirà dal nostro zaino colorato, sempre con noi, sempre lui, eterno e paziente compagno di viaggio, un cilindro magico pieno di continue e mirabolanti sorprese. Accompagnati dalla musica che pervade e impregna la città…
Ci siamo. Stiamo per entrare al Gorky, ma improvvisante ci appare una sorpresa gradita, qualcosa di totalmente inaspettato. Tantissimi fiori, il loro profumo delicato, note che vi danzano intorno, solo note, tante note in girotondo. Ovunque c’è musica, solo musica, sempre musica. Chi la ascolta e chi la fa, chi la sente anche dove non c’è. Ognuno può suonare le sue note, ciascuno può giocare allegramente e spensieratamente con il suo spartito reale o immaginario.
Terminato lo stupore del vedere come ci si possa lasciare andare alla musica, in mezzo al traffico impazzito e a tante persone dalle mille culture e lingue, piedi e idee ci portano a entrare nel parco vellutato e ondeggiante. La sorpresa è la stessa di quando, da ragazzini, aprivamo il baule della soffitta delle meraviglie. L’entrata è maestosa, come tutto in questa città, e ci invade il colore, i fiori ci danno il benvenuto, quasi minuscoli esseri animati che sorridono alla nostra curiosità infinita ed interminabile. Un tulipano piega leggermente la sua corolla per indicarci la strada, un inchino, un saluto affettuoso che ci fa dirigere verso aiuole splendenti ovali, rettangolari, circolari, ovoidali; ogni forma ha un suo perché, quasi un disegno di un giovane angelo dispettoso che si è divertito e sbizzarrito a lanciare colori qua e là. La natura è splendida, qui, come ovunque, incredibilmente benevola e generosa nel regalarti emozioni forti ed indimenticabili. Anche qui gli alberi, come scriveva Tagore, sono lo sforzo infinito della terra per parlare al cielo in ascolto. Il cielo ascolta, ascolta i pensieri e i sogni che in questo posto magico abbiamo finalmente il coraggio di esprimere.

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Una delle splendide e profumate aiuole del Gorky park, Mosca

Prendiamoci per mano e sediamoci allora su questa panchina accanto ai tulipani fioriti, per una volta proviamo a rivelarci i nostri segreti, proviamo a scambiarci i desideri ed a capire cosa vorremo veramente. C’è anche una ninfa leggera laggiù che, con la sua scintillante bacchetta magica ornata di tulle bianco, ha spruzzato qualche goccia di stella su un vaso fiorito solo per noi.
E’ un tripudio di colori e luccichii gioiosi, qualche giacinto sorride scherzoso, anche voi (che so che ormai siete insieme a me…) faticate a capire dove girare il capo, destra, sinistra o ancora sinistra, dritto, dietro, davanti. Viole, iris, tulipani, rose, calendule, fontane, il degno quadro di una favola. Dicevamo, vediamo sbucare una ninfa da un cespuglio fiorito. Forse è una ninfa, o la sua delicata ombra, forse è invece una nobile principessa o una zarina che si aggira per i viali.

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Tulipani, viole, iris, calendule, rose, i coloratissimi fiori del Gorky park

Scorci mozzafiato. Il vostro piccolo libro, ecco ecco, ora ricordate. Quello che ritrovate seduto al caffè del parco, nascosto fra i libri arancioni allineati, a disposizione di tutti. Ci fermiamo un attimo in questo gazebo bianco, un caffè nero forte ci aiuterà a continuare il cammino, mentre le rose in fila rigorosa riflettono i loro colori accesi negli animi di chi, al riparo di quel candido legno, chiacchiera allegramente con amici ed estranei incrociati lungo la via.
Forse avevate sentito, dal nonno, la favola della bella zarina liutista, la giovane innamorata che era stata coraggiosamente capace di sfidare la sorte, travestita da paggio liutista, per salvare lo zar rapito da un sultano durante un viaggio nel lontano Oriente. Con il suo liuto aveva convinto il sultano a restituirle il prigioniero, in cambio delle sue note, lei che si era tagliata le lunghe e folte chiome e che in un prato fiorito, accanto ad una fontana, aveva rivelato al marito ritornato con lei, il suo trucco per salvarlo. Lei che, con il coraggio che dà solo l’amore vero, aveva compiuto il miracolo che vascelli carichi d’oro e di pietre preziose non avrebbero potuto compiere [leggi].

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Gorky park, libri a disposizione dei visitatori

Da dietro quel cespuglio fiorito, che ora accarezziamo, sono sbucate le note della zarina liutista. Sono loro, le stesse amorose e potenti note, ne siamo certi. Sono forti ed intense. I sentieri sono alberati, snelli e lunghi, ma retti e piacevoli. Come tutti i pazienti e curiosi sentieri che si rispettino ci porteranno in luoghi davvero fantastici.
Camminiamo ancora, ve ne prego, continuiamo a passeggiare lungo l’imponente e calma Moscova, cerchiamo di arrivare insieme al limitrofo giardino Neskuchnyy, il più antico parco della città, utilizzato dagli zar come residenza privata. Altro tripudio di verde smeraldo.
So che fa caldo per essere maggio, siamo a quasi trenta gradi, ma se avrete la pazienza di accompagnarmi ancora per un bel tratto vedremo uno spettacolo indimenticabile. La stanchezza si sentirà solo a fine giornata, ma sarete felici di avermi ascoltato. Prometto. Ma cosa intravvediamo laggiù fra vocii e risate? Canoe, remi, natanti, salvagente e ponti. Quasi fossimo in un altro mondo nel mondo.

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Gorky park, laghetto con canoe e barche a remi

Rincuorati procediamo, finché, insieme a un profumo di fresie bianche che non ci sono, eccoci apparire uno specchio d’acqua illuminato dal sole. I raggi di luce si abbracciano amorosamente per giocare a nascondino con i tuoi pensieri e le tue sensazioni. Ti innamori della loro passione, del loro essere insieme e uniti, del loro legame tenero e forte ma allo stesso tempo libero di sciogliersi in qualsiasi momento, in un attimo di polvere. Solo che loro, pur liberi in sé stessi e per sé stessi, vogliono restare allacciati per te, quasi ad indicarti la strada. In fondo allo specchio ti vedi, ammiri la natura che si specchia nei tuoi occhi. La foresta intorno è una vera e propria foresta nella città, ne senti i suoni e gli odori. Ti pare quasi di sentire le parole che la graziosa figlia di Grigorij Ivanovič Muromskij, Lizaveta-Akulina, sussurrava di nascosto al suo bel Aleksej, figlio dell’odiato vicino Ivan Petrovič, lungo la strada ombreggiata del boschetto che Puškin descrive con la maestria che lo contraddice. I cespugli e le frasche fruscianti paiono le stesse, i messaggi trepidanti lasciati negli incavi degli alberi potrebbero davvero essere ancora nascosti lì. Vi piace immaginarlo, vi piace l’idea di andare a cercarne qualcuno. Adorate Puškin quando non descrive fino in fondo e lascia immaginare parole e discorsi, la storia che si preferisce, il finale che si desidera. Cerchiamo allora qualcuno di quegli antichi messaggi.

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Mosca, Giardini Hermitage

Una nota manoscritta, una calligrafia femminile tornita ed elegante, ci dice di tornare indietro e di dirigerci ora ai giardini dell’Hermitage… Non sono vicinissimi, dobbiamo percorrere all’indietro il cammino fatto per arrivare, risalire verso il Bolshoi e arrivare alla Petrovka. Non sentirete la fatica. Ancora uno sforzo, allora, prima che arrivi il tiepido tramonto. Ci tengo a portarvi qui, perché questo luogo nasconde delle fate. Siamo accolti dal rosa, da palloncini a forma di cuore che ospiteranno un evento sul matrimonio. Il giardino curato attira le farfalle, e quindi anche noi siamo qui. Noi che siamo diventati farfalle grazie anche a quest’aria colorata e profumata, noi che stiamo prendendo il volo, con grazia. Abbigliati di gelsomino, attraversiamo gli alberi di pesco fiorito. Ammetto che non sono veri, come quelli che si trovano all’interno dei moderni e imponenti magazzini Gym sulla Piazza Rossa, ma il loro fascino è eterno e quasi sovrannaturale. Una signora dal cappello di paglia li sfiora e li accarezza, prima di scomparire, con il nipotino, sotto il gazebo verde.
Vi avevo detto che qui le fate passeggiano per i sentieri curati. Scambiamoci allora un segreto per il futuro, non siate timorosi di aprire il vostro cuore a questa natura che canta e incanta.
Usciti da questo magico giardino saprete dove andare. Promesso.

Postilla doverosa: alcune foto del Gorky park sono del maggio 2013, quest’anno una recente ondata di maltempo ha fatto soffrire molti fiori. Ma il parco risplende comunque per la sua bellezza e il suo verde immenso. Da vedere.

Questo articolo è anche sul blog “Contatto diretto” [vedi]

La natura delle cose

Della mano sinistra intende occuparsi la Città della Conoscenza, ora che un po’ per tutti è nuovamente giunto il tempo del riposo, di staccare dagli assilli del lavoro, di dedicarsi di più a se stessi. Tornano gli archetipi dell’infanzia, quando ti raccontavano che la destra è il fare, l’ordine, la ragione. Mentre a sinistra stanno i sogni, le fantasie, le emozioni. Per non parlare delle nefandezze un tempo compiute da insegnanti e genitori sprovveduti che costringevano i malcapitati mancini all’uso forzato della destra per scrivere. I nostri cugini francesi però ci hanno superato, definendo i figli nati al di fuori del matrimonio come quelli à main gauche. E però noi proveniamo da una cultura che ci ha cresciuti a dicotomie, a dualismi fino al manicheismo. Il più eclatante di tutti l’idea delle due culture: quella umanistica e quella scientifica, per non parlare dei danni che un simile assunto può aver prodotto nella formazione del pensiero e nell’idea di conoscenza per generazioni intere. Un’idea ancora ben radicata, e ancora meglio esemplificata, se qualcuno nutrisse dei dubbi, dal permanere nel nostro ordinamento scolastico di due entità separate: il liceo classico e il liceo scientifico.
Allora la Città della Conoscenza vorrebbe approfittare di questa estate per consigliare alcune, a nostro modesto avviso, buone letture, in particolare a insegnanti e studenti, come possibili antidoti a questo virus del sapere.
Non si tratta di pozioni da assumere con regolarità, si possono introiettare a dosi liberamente scelte, a pizzichi e bocconi, nelle modalità più creative e come tutti i libri hanno il vantaggio di poter non essere letti.
Non aspettatevi recensioni, ma le ragioni di una scelta dal punto di vista del come conosciamo, cosa significa conoscere e perché conosciamo. Proposte per un modo di pensare, di far uso del nostro cervello, suggerimenti di metodo per usare la nostra mente a trecentosessanta gradi. Una finestra di opportunità intellettuali da non lasciar richiudere, per parafrasare Gustave Flaubert.
Questa settimana è il turno di Come stanno le cose. Il mio Lucrezio, la mia Venere di Piergiorgio Odifreddi, edizioni Rizzoli.
Perché la traduzione in prosa compiuta da Odifreddi del De rerum natura di Lucrezio Caro è un ipertesto, una grande lezione interdisciplinare sulla conoscenza, la descrizione di un metodo per imparare ad apprendere, un modello esemplare di didattica. La tomba d’ogni divorzio tra le due culture, la dimostrazione che le grandi ipotesi della scienza sono doni che giungono dalla mano sinistra.
Aver scelto Lucrezio e il suo De rerum natura è la prova provata che lo scienziato e il poeta non vivono agli antipodi. Odifreddi scrive di scienza a tutto tondo, di vuoto, di pieno e di atomi con rimandi ai grandi, ai minori, ai misconosciuti.
Dagli esametri del poema latino di Lucrezio la lingua morta sui banchi di scuola rinverdisce nel terriloquio, nelle “parole baule” o “parole cerniera” di Lewis Carroll, fino al manifesto Punto, linea, superficie di Vasilij Kandinskij. E poi lo “spaventevole infinito” in La gaia scienza di Friedrich Nietzsche, fino alla metafora dell’esistenza nella storia della cultura occidentale del Naufragio con spettatore di Hans Blumenberg del 1979.
Odifreddi ci svela che i telai per la tessitura di cui parla nei suoi versi Lucrezio, altro non sono che gli antesignani sia della robotica che dell’informatica. La tessitura come alta tecnologia da cui parte la meccanizzazione del lavoro e la Rivoluzione industriale. Lo dobbiamo a un certo Jacque Vaucanson che nella prima metà del diciottesimo secolo si dilettava a costruire automi realistici, tra cui una famosa “anatra digerente” che mangiava, beveva e defecava.
Il Lucrezio di Odifreddi non è l’autore delle sofferte versioni dal latino all’italiano dei nostri lontani tempi di scuola, ma un umanista con radici ben piantate nella scienza del suo tempo e Come stanno le cose ci conduce a scoprire di quanta linfa e in quali direzioni quelle radici abbiano nutrito la grande narrazione del sapere umano attraverso il tempo.
Che la cultura umanistica e quella scientifica fossero un tutt’uno inscindibile era chiaro agli antichi, il “sapiens” si muoveva tra i due ambiti con assoluta disinvoltura, altrettanto non possiamo dire di noi oggi, specie a proposito delle nostre scuole.
Nel nostro mondo ancora delle due culture, ciò che manca è proprio questa capacità di transfert interiore dalla sinistra alla destra. Per questo ritengo il lavoro di Odifreddi un prezioso manuale di metodo come creatività, come liberazione, un manuale sul rapporto tra strategie didattiche e processi cognitivi, un manuale di apprendimento significativo che chiunque fa professione di scuola dovrebbe riporre nella propria cassetta degli attrezzi.

Territorio, saperi delle comunità e formazione delle persone

La società nella quale viviamo da moltissima importanza all’informazione, al sapere e alla conoscenza; la disponibilità di informazioni tuttavia non implica di per sé un miglioramento nella società e nella qualità della vita delle persone; anzi, pone problemi crescenti nell’organizzazione e nella selezione di ciò che è pertinente, valido ed attendibile. La produzione di conoscenza per altro non è riducibile alla mera informazione ma implica una relazione, un rapporto che è stato che è stato in gran parte istituzionalizzato nei sistemi scolastici, educatici e formativi specializzati. Il processo di apprendimento tuttavia non può essere ridotto esclusivamente a questo: ognuno apprende da ogni tipo di esperienza, costruisce una biografia personale ed una storia, genera saperi e competenze che possono avere un grande significato collettivo se si risolvono nella condivisione comunitaria e nel loro trasferimento ad altri soggetti.

In una società sempre più caratterizzate dal valore della conoscenza si impara vivendo e si vive imparando e l’apprendimento durante tutto il ciclo di vita diventa una necessità: bisogna riconoscere che la generazione di conoscenza non può avvenire solo nei luoghi storicamente deputati (le scuole, le università, i centri di formazione, i centri di ricerca pubblici e privati) ma emerge anche attraverso la collaborazione allargata resa possibile dalle nuove tecnologie digitali sociali (open innovation, crowdsourcing), si sviluppa all’interno di gruppi informali, di organizzazioni, di istituzioni il cui scopo primario non né formativo né educativo.

A livello dei singoli la prospettiva dell’apprendimento lungo l’intero arco della vita impone proprio il superamento delle abituali distinzioni fra istruzione e formazione, studio e lavoro, conoscenze e competenze formali e informali: per le singole persone il sistema di apprendimento si costituisce sempre più come una rete di opportunità di apprendimenti contestualizzati e permanenti, in cui le agenzie formative si collocano lungo un continuum che va dal formale all’informale, dal fisso al flessibile: possono essere le classiche agenzie deputate alla formazione e all’educazione, ma anche ambienti di lavoro o contesti culturali e sociali di vario genere.

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In una valle del trentino, massaia pensionata bolognese insegna l’arte sublime del tortellino

In questo ambiente, radicalmente nuovo rispetto a ciò che immaginiamo quando pensiamo alla formazione, le agenzie e le relative offerte formative devono permettere a tutti gli attori coinvolti nel processo formativo di partecipare alla realizzazione di curricoli (currere = percorso che si articola e si snoda nel tempo; currus = modalità con cui perseguirlo), intesi, in duplice senso, sia sul piano dei percorsi proposti da agenzie che sul piano dei percorsi individuali costruiti dagli individui che fruiscono delle offerte. Questi percorsi curricolari si articolano all’interno di filoni alternativi e complementari: il sistema scolastico, il sistema universitario e di formazione tecnica superiore, gli enti accreditati alla formazione, il mondo del lavoro, le agenzie culturali, gli ambienti di apprendimento non formali ed informali. Ci apprestiamo a muovere i primi passi in uno scenario dove ognuno potrà eleggere e frequentare i suoi luoghi di apprendimento scegliendo se e come pagare, quando e come frequentare.
A livello di territorio, inteso come ambiente circoscritto dove le persone vivono, questa idea ha molte ed interessanti ricadute. In tale prospettiva si può infatti considerare un territorio come un sistema aperto di conoscenze che continuamente si costruiscono, si scambiano, si disperdono, si tramandano, vengono create o recuperate, entrano ed escono; queste conoscenze si trovano incorporate nelle persone ma, allo stesso tempo lo sono negli oggetti e nei manufatti, nelle procedure, nelle regole sociali proprie del luogo, nei processi di lavoro, nelle imprese, nelle storie, nel sapere degli artigiani e degli amateur, nelle cucine non meno che nella botteghe. Appare una prospettiva del tutto nuova per pensare alle comunità locali, alle loro risorse e al loro sviluppo: tale possibilità passa attraverso la individuazione e nobilitazione di quelle agenzie informali che sembravano escluse dai circuiti ufficiali di produzione di conoscenza ma che possono potenzialmente svolgere una potente azione formativa: saperi artigiani, tradizioni, associazioni culturali, eventi consolidati diventano così strutture abilitanti in grado di garantire apprendimento e formazione i cui esiti possono rientrare nei curricoli delle persone. Un passaggio che vede l’abitante del luogo, portatore di specifici saperi e competenze, trasformarsi da mero terminale del consumo a produttore culturale in grado di insegnare la propria arte a chiunque, dentro e soprattutto fuori la comunità di appartenenza, possa essere interessato.

A Castelli (Abruzzo) un artigiano ultra ottantenne insegna l’arte della ceramica
La qualità di un territorio non si riconosce solo dalla presenza dei servizi deputati all’educazione e alla formazione (le agenzie formali che tutti conosciamo) ma anche dalla disponibilità di tutte quelle agenzie informali più o meno strutturate che non vengono quasi mai riconosciute in termini di potenziale di formazione e produzione di conoscenza. Riconoscere questa ricchezza, mettere in relazione le diverse agenzie e promuovere la rete complessiva dei saperi del territorio rappresenta una delle grandi sfide per uno sviluppo locale capace di generare capitale sociale e migliorare la qualità della vita. Si pensi ad esempio all’enorme patrimonio associato ai cosiddetti mestieri d’arte, alla tradizione agricola, al cibo e alla produzione alimentare, ai micro laboratori artigianali troppe volte abbandonati ai pochi anziani ancora attivi. E’ un mondo di capacità nascoste che trova poco spazio nell’economia formale e nel mercato, che è poco riconosciuto dalle amministrazioni ma che rappresenta un valore straordinario per i territori ed una componente centrale della loro identità, un valore che può e deve essere riconosciuto, catalogato, rigenerato ed utilizzato anche in termini educativi e formativi.
In tempi in cui il lavoro bisogna inventarselo, dove chi lavora trova sempre più difficile trovare spazio e tempo per la formazione, in un futuro prossimo dove ci sarà molto probabilmente crescita senza occupazione, dove le macchine intelligenti potranno realizzare gli oggetti più disparati consentendo anche la micro produzione domestica su piccola scala (si pensi al movimento dei makers associati alle stampanti 3D), la nozione di comunità educante che sa riconoscere il proprio patrimonio indentitario e metterlo in gioco, diventa particolarmente appetibile; senza dimenticare la qualità dei servizi che siamo abituati a conoscere è forse tornato il tempo di riprendere in esame e di lasciarsi ispirare dall’utopia concreta di un Ivan Illich, dall’esperienza di un Danilo Dolci, dalla pedagogia di un Paulo Freyre o dalla lezione di un don Milani.

Si può fare, passaparola!

L’uomo che porta le pizze

di Valerio Lo Muzio

“Faccio fatica ad arrivare a fine mese” ammette sconsolato Younas, un pakistano di 42 anni, dal 2000 in Italia. Younas fa parte di quell’invisibile esercito di portapizze che quotidianamente invade la nostra città. Accantonati ai margini della società, invisibili sì, perché ci ricordiamo di loro solo in quei pochi istanti che trascorrono tra il suono del campanello e il pagamento della consegna, quando, fame permettendo, finalmente riusciamo a guardarli negli occhi. Younas lavora in una pizzeria del centro, mediamente non più di tre ore al giorno – “perché non c’è molto lavoro”, dice – e guadagna 5 euro l’ora, con i quali deve pagarsi la benzina del motorino. “Di quei 15 euro, a fine giornata – racconta – non rimane poi molto”. Lavorare come porta pizze non è certo economico o redditizio, basti pensare che sul conto del fattorino non grava solo il costo della benzina per le consegne, ma anche l’acquisto del motorino, il pagamento dell’assicurazione e del bollo oltre ai costi di manutenzione.
Amir, anche lui originario del Pakistan, è più giovane, ha 30 anni e consegna le pizze in motorino, lui è “più fortunato di altri – dice, perché lavora 10 ore al giorno e guadagna 35 euro”, ma anche lui deve pagarsi la benzina. Ogni volta che proviamo a parlare di contratto di lavoro, tutti i portapizze, guardati a vista dai titolari dei vari locali, spaventati assicurano di essere in regola.
E’ comodo voltare le spalle e far finta di nulla, a pagare il prezzo dello sfruttamento, sono loro, gli emigrati : invisibili per i sindacati, invisibili per l’ufficio del lavoro, sfruttati dai padroni dei locali, spesso anche loro emigrati, e per nulla sensibili alle loro pur minime necessità. Per Javed, venuto in Italia nel 2002 da Multan, in Pakistan “gli italiani sono un po’ tirchi, sono pochissimi quelli che lasciano la mancia” ed è costretto a fare altri lavori perché con “5 euro all’ora non si riesce a vivere”. Pervez ha una moglie e tre figlie in Pakistan e con gli occhi malinconici racconta di “non riuscire più a mandare soldi alla famiglia”, ha lavorato come metalmeccanico per 8 anni, finché con la crisi crescente è stato licenziato e si è trovato di colpo senza lavoro. “Ma non mi sono perso d’animo – racconta – mi sono messo a cercare lavoro, però tutte le cooperative alle quali mi sono rivolto preferivano assumere italiani, oppure cercavano gente con esperienza”. Alla fine ha dovuto cedere a rivolgersi ad una pizzeria vicino all’aeroporto, “ho comprato un motorino usato per 500 euro e ho iniziato a far consegne, certo con 15 euro al giorno riesco a malapena a pagare l’affitto della casa che condivido con altre 5 persone”.
L’esiguità delle paghe i costringe ad una vita che definire precaria è un eufemismo a partire dalla casa: convivono nella periferia della città, spesso con altri connazionali, più sono e meno pagano, questo è il lato positivo, però ovviamente, più sono e peggio stanno. Pervez però è tenace e non perde le speranze “il mio sogno – dice – è riuscire a far venire qui la mia famiglia dal Pakistan, perché un uomo che vive una vita senza famiglia non vive una vita dignitosa”, poi il pizzaiolo gli porge 5 pizze, Pervez sale in sella al suo motorino, saluta e scompare in mezzo al traffico, smettendo di essere un uomo con una storia tormentata alle spalle e ritornando ad essere un’invisibile portapizze.

[© www.lastefani.it]

Buone vacanze

Il termine vacanza allude ad uno spazio vuoto. Si dice vacanza anche per parlare di un ruolo o di una carica che nessuno ricopre. La vacanza evoca l’idea di libertà, di uno spazio da godere proprio perché libero. Il concetto moderno di vacanza nasce come risposta all’industrializzazione ed alla conseguente forte urbanizzazione. Il primo stabilimento balneare nasce nel 1822 a Dieppe, in Francia. Poche persone fino alla metà dell’Ottocento potevano permettersi di andare in vacanza, solo la borghesia più danarosa poteva mutuare dai ceti aristocratici l’idea di trascorrere in villa (in genere alle porte delle città) una parte del periodo estivo, sfuggendo alla calura dei centri urbani.
Negli anni Trenta del Novecento vengono inventate le ferie retribuite, riconosciute nei contratti di lavoro. La vacanza, da tempo dell’ozio, appannaggio solo dei ricchi, diventa un diritto stabilito dalla legge. Il boom degli anni sessanta e la diffusione dell’automobile, spinge agli esodi di massa, creando i primi giganteschi ingorghi della storia delle vacanze. Le scuole si adeguano a queste esigenze, prevedendo un periodo di vacanza nel proprio calendario e si afferma l’idea di un sosta dalla vita degli affari. Non più solo campagna: grazie soprattutto allo sviluppo delle ferrovie e poi dell’automobile, il mare comincia a entrare nei sogni di molti.
Oggi molte cose sono cambiate rispetto ai ritmi della società di massa e al clima di fiduciosa attesa che accompagnava il tempo del boom. Ritmi temporali diversi, sanciti dalla globalizzazione e consentiti dalle tecnologie erodono l’idea di vacanza come sosta collettiva e comunque la accorciano.
Ma, se diciamo vacanze, continuiamo a pensare a giorni vuoti dal lavoro, dallo studio, dai vari impegni quotidiani, giorni in cui i ritmi possono rallentare, in cui possiamo dormire di più, fare quello che ci pare. La vacanza è anche mancanza di ancoraggi, per questo il primo giorno di vacanza è spesso un po’ nervoso, per questo lo riempiamo di libri, quasi a volere sancire il nostro diritto alla distanza, il diritto ad uno spazio in cui possiamo permetterci il silenzio.
La vacanza riguarda oggi un periodo più circoscritto, per lo più caricato di attese straordinarie. Al ritorno ci preoccupiamo di confermare a noi stessi e agli altri che si è trattato di un periodo felice, esponendo i trofei fotografici, i nostri scatti migliori: tramonti, paesaggi, piedi sul bagnasciuga, serate di festa. I like ricevuti su Facebook ci compenseranno delle code in autostrada, degli inevitabili battibecchi scaturiti da un’inusuale vicinanza, delle eventuali mancanze di servizio, dei piccoli incidenti con le meduse, dei vicini di ombrellone chiassosi.
Il culto delle vacanze nasce con la società di massa che consente maggiori disponibilità economiche, apre culturalmente il diritto a lasciare i ritmi abituali per abitare temporaneamente altri luoghi. Nel tempo, quando la fatica fisica cessa di essere la dimensione prevalente del lavoro, le vacanze rappresentano soprattutto la possibilità di delocalizzarsi, mentalmente e fisicamente, dalla routine. Ben lungi dall’essere solo ozio, si caricano di bisogni di esplorazione, di esperienze, talvolta di raccoglimento o di attività fisica.
Quando la mancanza di lavoro non è forzata, un giorno vuoto da lavoro è un giorno da riempire con un’attività straordinaria e gratificante. Le vacanze sono sacre. Ci si dedica interamente al culto della vacanza, con i gadget e le attrezzature che la moda impone.
Buone vacanze dunque, con l’augurio che rappresentino l’esperienza di uno spazio per sé, un esercizio che potrebbe aiutarci al ritorno a mantenere quel pizzico di libertà in più che prescinde dalle circostanze esterne, ma che deriva dalla conquista di una interiore disposizione alla vacanza. Non coltivare solo “passioni dell’attesa”, come direbbe Spinoza: questo sì che è difficile.

Maura Franchi
Laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing e Web Storytelling, Marketing del prodotto tipico. I principali temi di ricerca riguardano: i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand. maura.franchi@gmail.com