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IL FATTO
RemTech, salone delle bonifiche ambientali: centomila ettari
e seimila aree inquinate.
Allarme salute ed ecomafie

RemTech Expo, l’evento più specializzato in Italia sulle bonifiche dei siti contaminati e la riqualificazione del territorio, si tiene da mercoledì a venerdì, alla Fiera di Ferrara. E’ una buona occasione per approfondire temi importanti. Ha già otto edizioni alle spalle ed è diventata la più importante fiera ambientale del settore assieme ad H2O che nel frattempo, per dimensione e importanza, è passata a Bologna.
RemTech vi sarà anche la Coast Esonda Expo 2014, la quinta edizione del Salone sulla gestione e la tutela della costa e del mare, il dissesto idrogeologico e la manutenzione del territorio a rischio (è l’evento italiano clou nel settore) e RemTech Training School (seconda edizione) sulle tecnologie innovative di bonifica, inaugurata con ottimi riscontri nel 2013, propone anche quest’anno temi e casi di grande interesse e attualità.

Questi temi così delicati e importanti hanno bisogno di essere discussi e affrontati con crescente capacità e professionalità. Significativo da questo punto di vista il recente dossier presentato da Legambiente dal titolo“Bonifiche dei siti inquinati: chimera o realta’”; in sintesi ci dice che ci sono centomila ettari inquinati in 39 siti di interesse nazionale e seimila aree di interesse regionale, in attesa di bonifica.  Da Taranto a Crotone, da Gela e Priolo a Marghera, passando per la Terra dei fuochi: un business da 30 miliardi di euro tra ritardi, inchieste giudiziarie e commissariamenti . La storia del risanamento in Italia sembra ferma a dieci anni fa nonostante i drammatici effetti sulla salute e il rischio della diffusione di ecomafie e criminalità in tutta Italia: dal 2002 concluse 19 indagini, emesse 150 ordinanze di custodia cautelare, denunciate 550 persone e coinvolte 105 aziende
Vorrei ricordare che il sito contaminato si riferisce a tutte quelle aree nelle quali, in seguito ad attività umane svolte o in corso, è stata accertata un’alterazione delle caratteristiche qualitative dei terreni, delle acque superficiali e sotterranee, le cui concentrazioni superano quelle imposte dalla normativa (a cui si rimanda per la attività di caratterizzazione dei siti, alle tecnologie di bonifica e alle analisi di rischio). E’ ormai risaputo che le attività di bonifica dei siti contaminati hanno un costo sociale dieci volte maggiore della prevenzione. Le bonifiche sono diventate in campo ambientale l’area di maggiore sviluppo e spesa.

L’analisi di rischio sanitario-ambientale è attualmente lo strumento più avanzato di supporto alle decisioni nella gestione dei siti contaminati che consente di valutare, in via quantitativa, i rischi per la salute umana connessi alla presenza di inquinanti nelle matrici ambientali. Per questo il programma di Remtech segue un percorso mirato che parte dalla normativa e da una verifica del suo stato dell’arte, al rischio/danno ambientale/tutela della salute, alle tecnologie/innovazione/casi applicativi, alla sostenibilità, a temi dedicati di grande importanza quali amianto, discariche, terre e rocce da scavo e molto altro.
Un vasto programma di iniziative convegnistiche e seminariali a partire dal Convegno di apertura – Benchmarking sulle bonifiche in Italia, in Europa, nel mondo, poi seminari su temi di grande attualità quali ‘Impatti ambientali di un intervento di bonifica: caratterizzazione, progettazione, costruzione, monitoraggio, applicazione di metodologie di bonifica di matrici contaminate tramite biotecnologie integrate da processi chimico-fisici, Il danno ambientale’. ‘Cos’è: rischi e oneri delle imprese‘, ‘Come si gestisce: quali i rimedi, politiche europee sui temi: bonifiche, protezione delle coste, prevenzione del rischio e dissesto idrogeologico, materiali inerti’, ‘Le aree urbane dismesse: approcci integrati per la bonifica e la rigenerazione’, ‘Recupero di materia da discariche esaurite: il landfill mining’, ‘L’ottimizzazione delle bonifiche: esperienze, strumenti e incentivi per la riqualificazione e la riconversione‘, ‘Gestione rischio amianto negli edifici pubblici e privati’. ‘Gli obblighi di legge nazionali e regionali dei proprietari e/o dei responsabili delle attività’.

Il grave errore che spesso si commette è quello di considerare questi temi solo per addetti ai lavori, a carattere tecnico, non pensando che invece si tratta di argomenti importati per tutti noi perché rappresentano un fattore determinante nella qualità ambientale. Sarebbe bello che i cittadini, come da tempo hanno fatto sugli impianti di smaltimento dei rifiuti e sulle raccolte differenziate, decidessero di capirci di più e interagissero con il sistema pubblico e privato. E’ cresciuta la consapevolezza della corretta informazione e il cittadino-cliente si aspetta di essere informato perchè attraverso il consenso e la legittimazione aumenta il suo coinvolgimento. Si sente il bisogno di trasparenza e di fiducia. Spesso invece si avverte una pregiudiziale diffidenza. Tra le cause vi è la mancanza di dialogo, la scarsa informazione, le scarse competenze, ma anche gli interessi economici, l’iniqua distribuzione di svantaggi per pochi che sono costretti a subire; il bisogno di qualità, di sicurezza, di rispetto ambientale, la coscienza civica come valore fondamentale, la richiesta crescente di certificazione, e tanto altro ancora.
Anche per questo Remtech è una buona occasione da visitare. L’evento si rivolge infatti ad aziende, amministrazioni, associazioni, istituzioni, professionisti, università, industria, comparto petrolifero e settore immobiliare. Si caratterizza per un’area espositiva altamente qualificata, una sessione congressuale tecnico-scientifica di elevato livello, corsi di formazione permanenti per operatori, autorità e decision maker.
Per questo mentre a parole tutte le Regioni e le istituzioni pubbliche dicono di fare tutto il possibile, questa è una importante opportunità per valutare il loro lavoro e riflettere su cosa si possa fare per arginare questo grave problema che produce danni ambientali insostenibili. Possiamo pensare all’equilibrio tra ciò che ci serve e ciò che preleviamo; il soddisfacimento delle esigenze presenti senza compromettere le possibilità future. La capacità di mantenere attivo un processo ecologico di sviluppo sostenibile.

L’OPINIONE
Tutti pazzi per Renzi,
il mutante genetico

Il “renzismo” viene ormai spacciato come un fenomeno politico inarrestabile. O ti adegui allo stil novo (tortellini, gelato e docce comprese) o sei un residuato. Demodè. Si va affermando sulla scia del nuovo granduca di Toscana un nuovo ceto politico fiero ed orgoglioso di non avere nessun punto di riferimento con il passato. Né storico, né culturale.
Insofferente al richiamo ad affrontare senza pressapochismo e superficialità i temi istituzionali e le complessità sociali proprie di una modernità che ora più che mai deve fondarsi su valori ed idealità proprie storicamente dei movimenti progressisti. Il dato di fatto è invece che nell’accezione comune la distinzione tra destra-sinistra si va annullando. Il renzismo sta completando una mutazione genetica della sinistra che è di merito, di sostanza e persino simbolica. Un melting pot politico ed ideale che lascia interdetti.
“Cambierò l’Italia” ripete ossessivamente il premier. E per il cambiamento si appoggia a Berlusconi e le ventilate riforme hanno un che di ambiguo che fa temere pasticci. Vedi giustizia, jobs act, lotta alla corruzione, eccetera. Renzi ha pescato con il voto alle europee anche a destra e sopratutto in quella zona “grigia” che gli ha affidato speranze e voglie che con il cambiamento hanno poco a che fare. Lotta all’evasione fiscale? Non esageriamo. I sindacati? Vanno ridimensionati. I diritti dei lavoratori? Sono troppi. Le regole? Me le faccio io. La corruzione? Un male necessario. I partiti e la politica? Se ne può fare a meno. Ed altro ancora che ripropone quel qualunquismo italico origine di tanti mali.
Nell’azione di questo governo non c’è nessun tentativo di alzare l’asticella morale ed etica di costoro. Il senso di cittadinanza che prevede diritti ma anche doveri. Li si blandisce scendendo pericolosamente sul loro terreno. Di qui un voto ambiguo che assegna alle mitiche riforme significati diversi e contrastanti. Il “popolo” (quale?) ci chiede le riforme, urla l’allegra brigata renziana distruggendo Marx e le classi sociali e sempre più convinta di essere unta dal Signore con quel 40,8% ottenuto alle europee.

In molti si arrovellano sull’enigma Renzi. Chi è davvero Renzi? Un innovatore? Un furbo di tre cotte? Un uomo che ambisce solo al potere? E’ figlio di Berlusconi? E’ un novello Craxi? Le analisi si sprecano e “Matteo” fa di tutto per rendersi inclassificabile.
Probabilmente siamo di fronte ad un “ircocervo” (Togliatti) politico: un uomo contraddittorio, senza solide radici culturali – e quindi politiche – che vuole tenere insieme più cose. Cresciuto all’insegna dell’Italia “da bere” e dell’edonismo berlusconiano. Da questi ha ereditato la spregiudicatezza, l’affabulazione ammaliatrice, il gusto per le gag, le capacità manovriere. Da Craxi una certa arroganza e sicumera che si esprime contro i detrattori, “gufi e rosiconi” (tutti quelli che non condividono il suo operato), che fa il paio con la puntigliosità e scientificità con cui premia amici e adulatori. Il tratto che li accomuna è l’ambizione, l’autostima smisurata, la ricerca del potere.
Di certo Renzi dimostra che da Berlinguer non ha ereditato e non vuole ereditare niente. Moriremo dunque renziani? Non credo. Il 40,8% per cento colpisce e frastorna. Ma la realtà e più dura della propaganda. Il nuovo vate ha ottenuto di fatto meno del 20% del corpo elettorale complessivo. Due italiani su dieci. L’ottanta per cento – includendo quel 50% che non vota – sceglie altrimenti. Ormai la quasi totalità dei sindaci viene eletta con larga minoranza elettorale e quindi scarsa rappresentatività. La disaffezione e la sfiducia dilagano. Un dato che allarma e da cui partire per un vero cambiamento che esalti democrazia e partecipazione, giustizia sociale e rigore morale. Su questi valori si formò la sinistra scrivendo nobili pagine di storia che Renzi ed i renziani farebbero bene a non ignorare.

La ‘buona scuola’ dei bambini

Sistemando il materiale per l’inizio dell’anno scolastico ho ritrovato una serie di cartoncini colorati sui quali i bambini della classe dove insegno avevano scritto che cosa è per loro una “buona scuola“. Risalgono al febbraio scorso, quindi in tempi non sospetti o meglio in un periodo in cui lo slogan “La buona scuola. Facciamo crescere il Paese” non era stato ancora coniato dall’attuale presidente del Consiglio.
Li propongo all’attenzione degli interessati per evidenziare come per i bambini, insieme all’aspetto strutturale e a quello degli apprendimenti, una “buona scuola” debba essere molto attenta all’aspetto relazionale. Comunque crediate che in una classe, oltre all’insegnante, anche lo studente si aspetti di essere ascoltato, buona lettura dei loro pensieri.

Una buona scuola è:
– un luogo dove si impara e ci si vuole bene;
– una struttura dove si mandano i bambini che da “insapienti” diventano sapienti;
– un parco che nelle ore di lezione diventa “struttura”;
– formata da alunni ordinati e concentrati e da insegnanti gentili;
– una bellissima sgridata dei maestri;
– dove ti diverti e impari cose nuove:
– dove stai con gli amici;
– dove aiuti gli altri;
– dove i maestri sono gentili, ti fanno divertire e ogni tanto ti fanno rilassare;
– dove i bagni sono puliti;
– dove si mangia bene;
– dove si fa qualche gita per approfondire gli argomenti;
– quando ha tutto l’occorrente che può servire;
– un posto dove studi e impari ma ci deve essere anche del tempo per divertirsi, fare amicizia e giocare;
– dove i maestri sono buoni ma severi;
– un luogo dove c’è l’amore dei maestri;
– dove si impara e ci si riposa;
– dove ci si diverte e si trovano gli amici;
– un posto dove i maestri ti insegnando le cose divertendoti;
– quando è super grande;
– dove viene tanta gente a spiegare cose diverse;
– dove i maestri stanno sempre attenti a quello che gli alunni fanno;
– dove si studia tutti insieme, in compagnia;
– dove tutti vanno d’accordo con tutti;
– un posto pieno di disegni e colori;
– dove i maestri ti aiutano a imparare bene;
– dove ci si deve divertire in tutte le materie;
– dove tutti i bambini devono essere amici;
– dove si diventa amici;
– dove si impara divertendosi.

Test-imonianze intelligenti

Un paio di mesi fa gli alunni della Barrowford Primary School, una scuola elementare inglese nella contea di Lancashire, hanno ricevuto una lettera, firmata dal dirigente scolastico: Rachel Tomlinson, e dal responsabile del sesto anno: Amy Birkett.
Lo scopo non era solo quello di comunicare l’esito di alcuni test, ma soprattutto quello di ricordare ai bambini e alle loro famiglie che ci sono molti modi per essere intelligenti.
Credo sia un bel modo per far capire alla comunità cosa è davvero una “buona scuola”.
Il fatto che una lettera simile fosse già circolata negli Stati Uniti l’anno precedente non toglie niente all’importanza della comunicazione fra scuola e famiglia, sottolineata e sottoscritta in tal modo dai responsabili scolastici di questa scuola inglese.
Questa è la traduzione della lettera:

Caro Charlie,
ti allego i risultati del tuo Test Ks2 di fine anno.
Siamo molto orgogliosi dell’enorme impegno che hai dimostrato e durante questa settimana faticosa hai fatto del tuo meglio.
Tuttavia siamo anche preoccupati di come questi test non sempre valutino quello che vi rende speciali ed unici.
Le persone che creano questi test e che li correggono non vi conoscono, non come vi conoscono i vostri insegnanti, non come spero di conoscervi io, e certamente non come vi conoscono le vostre famiglie.
Loro non sanno che molti di voi parlano due lingue.
Loro non sanno che suonate uno strumento musicale o che danzate o che dipingete.
Loro non sanno che i vostri amici contano su di voi o che la vostra risata fa brillare i giorni più anonimi.
Loro non sanno che scrivete poesie o canzoni, che praticate sport, che sognate sul futuro o che a volte vi prendete cura del vostro fratellino o sorellina dopo la scuola.
Loro non sanno che avete viaggiato in un luogo meraviglioso o che conoscete il modo di raccontare storie fantastiche o che vi piace trascorrere il tempo con persone speciali, in famiglia o tra gli amici.
Loro non sanno che siete affidabili, gentili e premurosi e che ogni giorno fate davvero del vostro meglio…
I punteggi vi diranno qualcosa ma non vi diranno tutto.
Quindi, gioite dei vostri risultati e siatene orgogliosi, ma ricordate che ci sono molti modi di essere intelligenti.

Con le bonifiche degli anni ’70
si completa la grande opera

STORIA DELL’INDUSTRIALIZZAZIONE FERRARESE (SECONDA PARTE)

Nel frattempo, anche i possidenti del Consorzio del II Circondario Polesine di San Giorgio intrapresero varie opere di prosciugamento. Però in questo caso non si ritenne opportuno concentrare in un solo impianto di sollevamento tutte le acque di scolo ma, piuttosto, di creare diversi bacini autonomi muniti ciascuno di una propria macchina sollevatrice. Nacquero così nove piccole bonifiche: i bacini di Denore, Tersallo, Bevilacqua, Martinella, Trava, Benvignante, Sabbiosola, Montesanto e Campocieco. «L’impresa di maggior rilievo nel II circondario fu però la bonifica meccanica della grande Valle Gallare, un bacino di 12.500 ettari, i cui lavori erano iniziati nel 1873. In questo comprensorio si era formata una grande azienda capitalistica, l’Azienda Valgallare, ad opera di un intraprendente pioniere e progettista di bonifiche, l’ingegnere milanese Girolamo Chizzolini»*.
Ai primi del Novecento incominciarono i lavori della bonifica di Burana: un territorio vastissimo (oltre 100.000 ettari), esteso sulle tre province di Ferrara, Modena e Mantova, ad opera diretta dello Stato. A partire dagli anni Venti si convertì in terra coltivabile anche il fondo delle valli di Comacchio: le valli Pega, Rillo, Zavelea, Ponti e altre minori vennero messe all’asciutto e trasformate in terreni produttivi. Più tardi, nel secondo dopoguerra, furono avviate nuove opere di bonifica da parte dell’Ente Delta Padano nei territori di Mesola e Goro. E intorno alla metà degli anni Sessanta venne sottoposta a prosciugamento e a riconversione agraria la grande Valle del Mezzano, un bacino esteso oltre 20.000 ettari fino ad allora utilizzato solo come valle da pesca.

__________
*F. Cazzola, La bonifica, in F. Bocchi (a cura di), La Storia di Ferrara, Poligrafici Editoriale, Bologna 1995.

‘Le scelte che non hai fatto’, testamento letterario
di Maria Perosino

Mentre lei scriveva “grazie vita”, la salute le si spegneva, mentre il suo libro usciva a giugno sugli scaffali delle librerie, lei se ne andava per sempre.
Le scelte che non hai fatto di Maria Perosino (Einaudi, 2014) bisognerebbe leggerlo dalla fine, dall’ultima riga che va oltre l’ultima pagina e chiude una storia, anzi una vita, e sbarazza il solito abito triste che si indossa per guardare le scelte non fatte. Le scelte che non hai fatto fa alzare lo sguardo, tendenzialmente basso e mesto quando è rivolto al passato non vissuto, e chiede dove sta scritto che le scelte non attuate sarebbero state migliori di quelle fatte e vissute. Forse è solo una questione di mistero, di fascino per il non raggiunto, di scarto che, chissà, se era da buttare davvero.
Ma non lo sapremo mai, sappiamo solo cosa è successo e solo questo possiamo mettere in fila.
Maria Perosino, con quel suo elucubrare lieve e profondo, ti accompagna nella passeggiata dei pensieri, ti porta a spasso, con lei ci provi, prima timidamente e poi con più coraggio (è lei a dartelo) a girarti indietro e a guardarti quando eri a un bivio. Le vedi tutte lì davanti, nitide, le cose che non hai fatto, l’altra metà di ciascuna scelta che non è mai stata un piano B di scorta perchè l’hai lasciata per abbracciare altro che è diventato, amore, lavoro, amici, ricordi, storia personale.
Beati i risoluti, quelli che riescono a scegliere senza fremiti, senza ritrarre anche un solo istante la mano prima di lanciare quel sasso. Per Maria Perosino, invece, le scelte, “le due opzioni non sono mai vestite una di bianco e una di nero, sono due nuances di grigio. E si finisce per scegliere quella che convince di più non noi stessi per intero, ma, appunto, il 51% di noi”.
Indietro resta il 49%, minoritario e perdente, ma pur sempre di un certo peso se ci ha tenuti in ballo fino all’ultimo, spesso pronto a bussare alle porte della memoria per ricordare che sarebbe potuto essere qualcosa.
In questo ultimo libro di Maria Perosino c’è tanta vita vissuta, anche quella degli altri che le sono passati vicino o vicinissimo e che lei osserva al punto da riflettere se le persone, nel loro percorso, vadano avanti progredendo e infilando la vita oppure espandendosi in chissà quanti inizi. Maria si classifica fra questi, più inizi che finali, una che considerava il futuro “sinonimo di felicità”.
Nel futuro ci stanno anche i sogni che diventano per lei materia quasi plastica, bisogna averli davanti agli occhi per capire quando è meglio abbandonarli o crederci davvero: “c’è un punto, nella vita, in cui s’infrangono i sogni? O di colpo si avverano?”.
Forse nè l’uno nè l’altro, alcuni sogni si scolorano col tempo, di altri, invece, ci si accorge che sono già realtà. Ancora una volta, vita.

Le baruffe della politica cancellano il convegno
sulla cultura ebraica

La battuta forse più cattiva ma più intelligente sulla situazione politica italiana l’ho letta ieri sulla “Stampa” nel commento della Jena: “L’orsa Daniza è morta nel sonno, come la sinistra italiana”.
Un commento che ben si attaglia alle peripezie e giravolte della sinistra (?), del suo partito più importante, il Pd, e del suo conduttore Matteo Renzi da Firenze. Il twitteraggio e la posta informatica sta in queste ore raggiungendo vertici insperati per la gioia di chi lo usa e sfrutta, producendo quel pensiero confuso che Umberto Eco denuncia su “La Repubblica” nel suo pezzo titolato “Com’è facile non capirsi al tempo delle mail”. Se trasmettere, commenta il grande semiologo, significa alla fine trasportare “si ha trasporto quando trasferisco una mia idea nella mente di qualcun altro e trasporto quando si trasferisce un pacco postale da Milano a Roma”. Ma questo assioma sembra perdersi nella comunicazione odierna. L’influsso dell’accelerazione porta uno scompenso nella risposta dovuto alla forza dell’inconscio e alla reazione che esso comporta tanto che si produce un impatto che non permette la distaccata e meditata risposta.

Ecco allora che la formula della comunicazione immediata crea problemi di incomprensioni visibilissimi nella storia delle candidature alla guida della Regione Emilia Romagna tra rinunce e no delle presentazioni e al caos che sembra prodursi, mentre disperatamente e apparentemente impassibile il capo del governa twitteggia improbabilissimi “fate vobis”.

E a “Ferara”? Qui la situazione a vederla dall’esterno e da chi osserva senza implicazioni di sorta sembra un sciogliete le righe e pensate a voi stessi. Un po’ alla maniera di Razzi interpretato da Crozza. Modonesi entra in campo e bacchetta Calvano, Zaghini risponde proclamando amicizia fraterna all’Aldo poi lancia la frecciatina sulla autocandidatura del Modonesi arrivata in ritardo. Nel frattempo scende in campo Roberto Balzani e infuria su facebook il tentativo di scoprire i segreti pensieri di Ilaria Baraldi. Si favoleggia di andate bolognesi: Maisto? Di rimpastini e rimpastoni di giunta mentre sui giornali locali si lanciano strali, pungiglioni, accuse e difese.
Non è un bel vedere né un bel sentire. Specie per chi osserva dal suo piccolo angolo della cultura offerte che dimostrano un affannoso tentativo di produrre dati positivi che legittimino scelte e tagli. E vai con i Buskers e i Balloons e le Sagre, promettendo poi di rifarsi con Internazionale e i programmi teatrali (entrambe ottime e serie iniziative). Ma di quella cultura – ammetto – anche un po’ noiosa ristretta agli specialisti, eppure fondamentale perché non venga dilapidato il grande patrimonio scientifico e storico del territorio che ne è?

In vena di macabri scherzi si legge che un importante critico ferrarese si propone come mediatore per trasferire, se la Popolare di Vicenza mettesse sul tavolo la proposta di acquisizione della Cassa di Risparmio, alcuni pezzi veneti importanti delle collezioni di Carife e della sua Fondazione da trasferire a Palazzo Thiene di Vicenza, sede delle collezioni della Popolare. Basta leggere la risposta composta ed equilibrata della nuova direttrice della Pinacoteca Nazionale dei Diamanti, Anna Stanzani, per capire l’infondatezza (si spera) di quelle pretese. Ma dalle istituzioni c’è stata una presa di posizione? Non mi pare. Certo! Talvolta è sbagliato inseguire sulla stampa gossip, verità, e supposizioni che Eco denuncia nell’articolo di “Repubblica”, ma sembra purtroppo che in questo triste periodo pronunciare la parola “cultura” senza aggiungervi altre spiegazioni (ricavi, turismo, commercio) sia più che un peccato un’esibizione di una superiorità che non deve esistere. O la cultura produce o se ne stia buona nell’angolino delle punizioni. E naturalmente parlo di quella elitaria, per pochi sfrontati che non capiscono né vogliono capire. I “professoroni” insomma.

Un’ultima considerazione. Ieri i giornali locali, tutti, davano notizia della giornata europea della cultura ebraica di cui Ferrara sarà la capofila. Si è parlato di tante iniziative, teatro, mostre performances, presentazioni con ministri e politici. Si è detto di tutto. Non una parola sull’aspetto scientifico della giornata che si terrà alla Sala Agnelli della Biblioteca Ariostea domenica 14 settembre alle 16,15: il convegno di studi sulla figura femminile nella cultura ebraica e nella società, con interventi di altissimo livello: da Elena Loewenthal ad Anna Dolfi, da Gianfranco Di Segni a Luciano Meir Caro e con gli apporti di Elisabetta Traniello ed Elisabetta Gnignera.

E’ il mood di “Ferara” o è il segno di una rinuncia che esce fuori dalle mura e investe l’intera nazione?

L’ultimo ebreo di Cork

Da DUBLINO – Una sera di dicembre a Cork, qualche anno fa. Le giornate finiscono presto e alle cinque è già notte. Esco dall’ufficio e decido di tornare a casa a piedi. La nebbia sale dal fiume e dai campi attorno alla città, bagna le strade e gli edifici, attenua la luce gialla dei lampioni. Prendo la strada che passa dietro al porto e si dirige verso il centro. La zona degli “Hibernian Buildings”, chiamata anche Marina. Piccole case in mattoni cotti a due piani, tutte uguali, tutte attaccate una all’altra. Le strade lunghe e strette sono deserte, passa solo qualche auto veloce. L’impressione di essere in un quartiere fantasma. Poi un particolare ti colpisce. Le luci dei magazzini sul fiume si riflettono sui muri bagnati e noti un candelabro a sette braccia (menorah) dietro ad una finestra. Dall’altra parte della strada un negozietto, forse un ciabattino, con l’insegna “Shalom”. Il tutto sembra prendere un aspetto surreale, quasi magico. Poi d’un tratto inizia a piovere, ed ora voglio solo tornare a casa in fretta.
Giro l’angolo e imbocco South Terrace street. Ancora dieci minuti e sono arrivato. E lì, l’ultimo tassello del mosaico. Alla fine della strada, al civico 10, stretta fra un condominio ed un garage vedo la Sinagoga. La stella di Davide sopra la porta di ingresso. Da buon ferrarese intuisco di avere attraversato il “ghetto” (che a onor del vero, come vedremo poi, qui non c’è mai stato), o quantomai un piccolo quartiere ebraico. Piccole immagini immagazzinate nella memoria di una sera di dicembre, mentre accelero il passo e penso distrattamente a cosa prepararmi per cena.

Solo anni dopo, durante un trasloco, mi ritrovo a vivere in quel condominio di fianco alla Sinagoga, a due passi dal quartiere di strade strette dalle piccole case in mattoni cotti. E dalla bottega “Shalom” che nel frattempo non c’è più, ha chiuso. E lì, uscendo una sera da casa, noto che la porta della Sinagoga è aperta. Una lunga fila fuori, vi è una presentazione della storia della comunità ebraica di Cork. Mi accodo, sono curioso di vedere l’interno dell’edificio. Mi viene dato un kippa da appoggiare sulla testa e mi siedo sulla balaustra al secondo piano, spazio che un tempo era destinato alle donne durante la funzione religiosa.
La presentazione è breve ma interessante: la prima piccola comunità ebraica arriva a Cork verso fine ‘700. Poche famiglie portoghesi di origine sefardita, una quarantina di persone, di cui si sa poco, che probabilmente si integrano negli anni con la comunità protestante locale, tramite matrimoni misti, fino a scomparire. Il loro piccolo cimitero fu scoperto, proprio dietro l’attuale sinagoga, durante i lavori di ristrutturazione delle fondamenta di un edificio. La seconda comunità arrivò in città a fine Ottocento. Questa volta da est, di origine ashkenazita; partirono dalla zona di Kaunas in Lituania, probabilmente con l’intenzione di arrivare in America. Qualcosa però sembra sia andato storto durante il viaggio in nave: invece di arrivare a New York scesero a Cobh (che allora era un porto importante, l’ultimo toccato dal Titanic nel 1912 prima di affondare), nella zona di Cork. La leggenda dice che fu un errore di comunicazione. Gli ebrei parlavano solamente Yiddish e sentendo “Cobh” credettero di essere arrivati a (New) “York” (i nomi delle due città hanno un suono molto simile in inglese). Percorsero a piedi i venti chilometri fino a Cork e si installarono nella zona della Marina, dietro al porto. Leggenda o memoria che si tramanda, si dice che una folla di irlandesi curiosi circondò i nuovi arrivati. Un prete fu chiamato in fretta e furia per rassicurare i locali, evitare un incidente diplomatico e spiegare che si trattava di una comunità ebraica arrivata dalla Russia (al tempo Kaunas era parte della Russia zarista), di lasciarli tranquilli e tornare tutti ai propri affari. Fu così che i nuovi arrivati lentamente si insediarono, altre famiglie seguirono dalla Lituania rassicurate che in Irlanda vi era tolleranza religiosa e la popolazione locale fondamentalmente amichevole. I Pogrom sarebbero stati solo un ricordo. Fu creato il cimitero.
Con il passare degli anni venne fondata l’attuale Sinagoga, la scuola (mi sorprendo a sapere che prima di diventare un condominio, il palazzo in cui vivo ospitava due scuole ebraiche), le società sportive: vi erano a Cork due squadre di calcio ed un tennis club. La comunità si estese e raggiunse un totale di quasi 500 membri nel periodo tra le due guerre. E poi il lento declino; il dopoguerra e, negli anni a seguire, la decisione di molte famiglie di lasciare Cork per il nuovo stato di Israele o per l’America. Le funzioni in Sinagoga sempre più rare, per la difficoltà crescente di raggiungere il quorum minimo (minian) di dieci maschi adulti per la preghiera pubblica ebraica.

Mi torna in mente questa storia oggi, mentre in un momento di noia trovo un’intervista a Fred Rosehill. Una faccia già vista, mi ricordo di quell’uomo anziano mentre presentava la storia della sua comunità in una sinagoga gremita al culmine, una sera di qualche anno fa. E mai avrei pensato che fosse l’epilogo di una storia, o almeno della storia di questa particolare comunità partita più di cento anni fa dalla Lituania. Perché Fred Rosehill è il capostipite dell’ultima famiglia ebrea rimasta a Cork, l’ultima delle famiglie partite più di cento anni fa da Kaunas.
Una storia che sta per chiudersi, e che mi piace chiudere con le parole che Rosehill ha pronunciato durante un’intervista alla trasmissione Irlandese “Nationwide” l’anno passato: “Per anni, per più di 80 anni, ho partecipato alle funzioni religiose nella Sinagoga di South Terrace. Ho delle memorie molto belle, memorie di amici, matrimoni, nascite. Momenti felici ed anche momenti infelici. E (Cork) è la sola città che conosco: dopo la morte di mia moglie ho provato a viaggiare ma mi sono scoperto essere uno straniero a Londra, uno straniero a Tel Aviv, uno straniero a Miami. C’è solo un posto al quale appartengo. Sono nato e cresciuto qui. Sono un irlandese

Per maggiori informazione e vedere l’intervista integrale di Fred Rosehill visitare il sito [vedi]

L’INTERVISTA
Morselli racconta l’autunno giapponese a Ferrara:
‘Focus Japan’, danza e non solo

‘Focus Japan’ è una serie di proposte che da ottobre a dicembre consentirà di approfondire vari aspetti della cultura nipponica. L’idea si è sviluppata attorno alla programmazione del Festival di danza contemporanea del Teatro Comunale Claudio Abbado, che quest’anno ha scelto di ospitare tra gli altri ben tre coreografi giapponesi. Agli appuntamenti di danza, si sono poi affiancate tutta una serie di attività collaterali realizzate grazie alla collaborazione con le realtà culturali ed economiche del territorio. Ci saranno incontri di approfondimento sulla storia e la letteratura nipponica, realizzati in collaborazione con l’Associazione Amici della Biblioteca Ariostea e con l’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara, alcune proiezioni cinematografiche al Ridotto del Teatro, e poi iniziative legate all’arte del tè, coordinate da You and Tea di via De Romei.

gisberto-morselli
Gisberto Morselli

Il programma [vedi] ci sembra molto ricco e interessante, e ci incuriosisce capire come sia nata l’idea di questo intenso autunno giapponese. Abbiamo intervistato Gisberto Morselli, già direttore artistico del Teatro Comunale di Ferrara, ora consulente per il Festival della danza contemporanea, e che è la mente e l’anima del progetto.

Quali sono le ragioni della scelta di invitare ben tre coreografi giapponesi per il Festival di danza contemporanea del Teatro Comunale? E come nasce l’idea di Focus Japan?
“L’idea si è formata spontaneamente, nel tempo, ed è nata prima di tutto attraverso le relazioni con i coreografi Saburo Teshigawara e Sayoko Onishi.
Saburo Teshigawara è un ospite assiduo ormai, nel senso che questa è la quarta o quinta volta che si esibisce a Ferrara, la prima produzione presentata nel nostro Teatro risale infatti al 2001. E’ un artista che conosciamo e apprezziamo moltissimo, e con il quale si è creata una sorta di collaborazione che ha inciso nella produzione e nel programma del Teatro. Con Landscape quest’anno realizziamo infatti un’idea che ci piaceva da tempo, ovvero affiancare un musicista italiano alla coreografia di Teshigawara e Rihoko Sato, sua compagna artistica e di vita. La scelta è caduta su Francesco Tristano, giovane compositore virtuoso e bizzarro, il cui repertorio spazia da Johann Sebastian Bach a John Cage, e che suonerà in scena tre brani originali, composti appositamente per la coreografia.
Sayoko Onishi, invece, l’ho conosciuta ad una Giornata della danza qualche anno fa a Parma, eseguiva un assolo. Onishi è una grande interprete della danza butoh, una delle più interessanti espressioni di teatro danza contemporanea, che nasce in Giappone dopo la seconda guerra mondiale, in contrapposizione alla tendente occidentalizzanti che si erano diffuse nel panorama culturale giapponese. Il butoh richiede autenticità, professa il ritorno alle origini e l’esternazione del proprio più autentico modo di sentire; non è quindi una tecnica, ma una relazione profonda tra il corpo e la natura. Trovo il suo lavoro molto interessante, per questo come Teatro Comunale le abbiamo chiesto di creare una performance su una figura molto controversa della seconda metà del Novecento come quella di Yukio Mishima, scrittore, drammaturgo, saggista e poeta giapponese, uno dei pochi autori giapponesi a riscuotere immediato successo anche all’estero.
Il terzo coreografo, Ushio Amagatsu è capitato in seguito, un po’ per caso, un po’ per volontà. Diciamo che abbiamo saputo della tournée europea di Amagatsu, uno dei massimi esponenti della seconda generazione di danzatori butoh, e a quel punto si presentava interessante l’ipotesi di offrire allo spettatore uno spaccato più ampio sulla danza giapponese contemporanea. Amagatsu andrà in scena con lo spettacolo Utsushi, unica data italiana della tournée 2014-1015.”

E’ stato così, con la scelta di presentare tre coreografi giapponesi nella rassegna della Danza contemporanea, che è nata l’dea del Focus?
“Sì, una volta definita la programmazione, ci siamo accorti che questa scelta poteva rappresentare un’occasione per approfondire aspetti specifici della cultura nipponica. Abbiamo quindi coinvolto diverse realtà culturali della città, la Biblioteca Ariostea, gli Amici della Biblioteca Ariostea, l’Istituto di Storia Contemporanea, grazie alla cui preziosa collaborazione abbiamo messo insieme un ricco programma di incontri e conversazioni curati da critici ed esperti della danza contemporanea, della letteratura, di storia e cultura giapponese.
Per ampliare ulteriormente gli orizzonti e intrecciare legami con le attività cittadine, abbiamo coinvolto anche il negozio di tè You & Tea di via De Romei, che introdurrà Focus Japan offrendo al pubblico dello spettacolo di Teshigawara una degustazione di tè giapponesi, e ospitando presso i suoi locali altre iniziative legate alle arti giapponesi, come i fumetti e i tatuaggi, grazie alla collaborazione con Kappalab edizioni (Bologna) e con “Pace e Inchiostro” tattoo studio di Ferrara.”

Lo stesso approfondimento si sarebbe potuto fare anche rispetto ad altri generi di danza e altre culture, e immagino che di relazioni e rapporti di collaborazione con grandi artisti lei ne abbia tessuti tanti nei trent’anni in cui è stato direttore artistico del Comunale. Perché questo forte interesse per il Giappone?
“Era il momento di farlo perché, oltre a Teshigawara, avevamo ospitato solo Kazuo Ohno nel 1997, quando era già ultraottantenne, dopodiché non c’era più stato una spazio dedicato al Giappone.”

Saburo Teshigawara è decisamente il più “occidentale” dei tre, per genere e stile, e rappresenta forse la sintesi più riuscita tra le due culture coreutiche, giapponese e occidentale. E’ un po’ una figura “ponte”. Il fatto di presentarlo come primo appuntamento dei tre giapponesi, dopo l’inaugurazione del Festival con Wim Vandekeybus, può essere letto in questo senso?
“Teshigawara ha uno stile personale inconfondibile e la sua danza rappresenta una fusione tra la chiara matrice giapponese e la danza postmoderna: Saburo riesce a coniugare la leggerezza e l’intensità tipiche del Giappone, con la rapidità, le accelerazioni e le sperimentazioni della post modern (la post modern dance nasce negli anni ’70 negli ambienti dell’avanguardia newyorkese, con Merce Cunningham, Trisha Brown e molti altri). Quindi in un certo senso sì, Teshigawara può rappresentare il passaggio logico tra Wim Vandekeybus e la danza butoh di Sayoko Onishi e Ushio Amagatsu, decisamente più legati all’esperienza giapponese.”

Programma della Stagione della danza 2014-2015 [vedi]
Calendario degli eventi di Focus Japan [vedi]

La ragnatela dei ‘mandarini’
che blocca il cambiamento

“Nell’era della globalizzazione i mandarini della burocrazia costruiscono labirinti di norme e misurano il tempo con la clessidra”.
In più circostanze della politica abbiamo gradito la presenza dell’elefante nella cristalleria, un mobiletto vetrato da ogni lato dove pregiati cristalli trovano, sovente, dimora; una cristalleria immaginata nella pubblica amministrazione dove quell’elefante (renziano) aveva dato speranza ma che ultimamente ci appare un po’ stanco.
Da cento giorni si è passati a mille giorni, forse pensando di recuperare, anche in salute, e così, dandogli un po’ di tempo, abbandonando la clessidra, di poter stanare quei burocrati pieni di supponenza, per essere gentili, e che bloccano ogni aria e vento nuovi, come sinetizza il ‘Corsera’ nella citazione riportata in capo al pezzo.

Sì, stiamo parlando dei burocrati, anzi per meglio dire dei mandarim, dei mantrim, dei guan, dei man, dei mandaren, e non importa da dove provengono le loro espressioni, quello che ci pare interessante è che sono un gruppo sociale, ormai disseminato un po’ ovunque, e per saperne di più, ecco cosa si dice di loro:

Mandarini
Antichi funzionari dell’Impero cinese. Nella Cina imperiale i mandarini erano i potenti e rispettati funzionari dello Stato che per secoli garantirono il buon funzionamento dell’impero e il controllo delle autorità sulla società. Per diventare mandarini bisognava superare un esame molto difficile che si basava sulla cultura generale e sulla conoscenza dei testi confuciani.

Gli esami
Il termine mandarini (dal portoghese mandarim) fu coniato nel XVII secolo dai viaggiatori portoghesi per designare i funzionari civili e militari dell’Impero cinese (Cina, v. anche Cina, storia della). Probabilmente si trattò di un adattamento al portoghese del termine malese mantri, a sua volta del sanscrito mantrin, che significa «consigliere». Da allora in poi in Europa fu comunemente usato per indicare la casta dei ko-han (questo è il vocabolo cinese).
Per diventare funzionari imperiali bisognava partecipare a un rigoroso concorso pubblico e superare esami molto difficili. Il concorso era aperto ai sudditi di ogni ceto sociale, ma erano favoriti i giovani delle famiglie delle classi più elevate, che potevano garantire ai figli un’adeguata istruzione. La selezione si basava sulla cultura generale e sulla conoscenza dei testi del VI e V secolo a.C. del filosofo Confucio, della letteratura e della storia. La cultura era considerata, infatti, uno dei requisiti essenziali di un buon funzionario.

I compiti
Ai vincitori era assegnato il governo di una provincia, dove era loro proibito avere possedimenti personali. Non potevano governare la stessa provincia per più di tre anni, per evitare che consolidassero posizioni di dominio e sviluppassero interessi personali. I mandarini erano divisi in una gerarchia articolata in nove ranghi, identificati da bottoni di diverso colore cuciti sul copricapo. Il loro compito, simile a quello dei moderni tecnocrati, era di garantire l’efficienza della macchina dello Stato e prendere decisioni sagge per il buon andamento della vita civile ed economica del territorio.
Ai mandarini erano affidati la riscossione delle imposte, l’amministrazione della giustizia, l’organizzazione della polizia e il controllo dell’ordine pubblico, la realizzazione e manutenzione delle opere pubbliche e delle infrastrutture (canali, strade, ponti, dighe, sistemi d’irrigazione). Essi dovevano attrezzare e proteggere la comunità contro i rischi di inondazioni e i periodi di siccità, molto frequenti in Cina.
Si trattava di un lavoro di natura esclusivamente intellettuale: fin dai tempi del pensatore Mencio (IV – III secolo a.C.) la cultura cinese divideva gli uomini in coloro che ‘pensano’ e coloro che ‘faticano’. I primi devono governare e comandare, i secondi ubbidire e mantenere i governanti con il proprio lavoro. Le unghie lunghissime che i funzionari-letterati si lasciavano crescere erano il simbolo del rifiuto e disprezzo per ogni genere di lavoro manuale.

Un gruppo privilegiato
I mandarini costituivano un gruppo ristretto e privilegiato, che conduceva una vita agiata in lussuose residenze e godeva di grande prestigio sociale. Fu anche la compattezza e l’influenza di questa casta che impedì all’Impero cinese, vastissimo e tormentato da guerre civili e ribellioni, di disgregarsi. Molti ricchi proprietari terrieri cercarono di crearsi un dominio personale e i contadini organizzarono frequenti ribellioni contro un sistema che li costringeva alla miseria. In questa caotica situazione i mandarini salvaguardarono principi come il culto dello Stato e dell’ordine, il senso della disciplina e il rispetto dell’autorità, che erano l’essenza della tradizione confuciana. Essi impedirono anche che l’affermazione di religioni alternative al confucianesimo, come il taoismo, diffondesse valori pericolosi per la stabilità dell’impero.
Contribuirono anche a garantire all’Impero un forte controllo su tutti i ceti della società, per cui in Cina non poté svilupparsi un capitalismo simile a quello occidentale: i ricchi mercanti erano controllati dallo Stato e non ebbero mai la libertà di cui disponevano i capitalisti in Europa. L’influenza dei mandarini sulla cultura e nella società cinese è testimoniata dal fatto che, in una nazione caratterizzata da una grande varietà di dialetti, fu proprio la loro «lingua burocratica» (in cinese guanhua) che diventò la lingua ufficiale dell’Impero, da cui deriva il cinese ufficiale odierno.

Con questo breve spaccato, lasciamo al lettore di attualizzare quel lontanissimo tempo cinese e affrontarlo nell’oggi, per capire quante difficoltà si dovranno incontrare per rimuovere le incrostazioni nella Pubblica amministrazione e, soprattutto, con quegli apicali, anche il gradino sotto, che ostacolano e provano continuamente ad ostacolare ogni atto del cambiamento.
Se ci riuscissero a “cambiare verso”… ma debbono fare presto, a cominciare dai piccoli e grandi Comuni, dalle piccole e grandi Regione, piccole e grandi aziende municipalizzate, fino a quei benedetti e maledetti ministeri di cui non se ne può più. Se ci riuscissero, segnerebbero un tempo nuovo per la politica e una parte della speranza incamerata nell’anima del Paese.

L’OPINIONE
Uomini e orsi

La vicenda dell’orsa Daniza uccisa in Trentino, probabilmente non per errore, durante un tentativo di cattura e la scoperta in Abruzzo della carcassa di un altro orso, pare avvelenato, hanno scatenato in rete una quantità di reazioni molto accese, che alla fine e al di là degli episodi specifici rimandano all’irrisolta questione del rapporto etico che gli umani dovrebbero instaurare con le altre specie con cui condividono il pianeta. Dalla lettura dei social network e della stampa emergono posizioni che quasi sempre si collocano agli estremi: da chi pensa che la vita di un essere vivente è ugualmente preziosa indipendentemente dalla specie a cui appartiene, salvo poi non specificare quasi mai quali criteri etici vadano applicati qualora occorra necessariamente operare una scelta, a quelli che sostengono che gli esseri umani hanno il diritto di esercitare una potestà assoluta sulla natura di cui sono gli indiscussi signori e padroni, semmai rifacendosi ad una presunta investitura divina o comunque in quanto ritenendoli specie dominante.
Queste concezioni così distanti si riflettono inevitabilmente sul concetto di “ambiente naturale” che viene proposto nei diversi interventi. Così, mentre da un lato si tendono a sottovalutare il grado di antropizzazione e la densità abitativa dell’Italia che, diversamente da quanto accade altrove in Europa e per tacere degli USA, fanno del nostro paese uno dei luoghi più affollati del pianeta, dimenticando che molte specie selvatiche necessitano di spazi vitali dell’ordine di parecchie decine se non centinaia di chilometri quadrati, dall’altro emerge una visione brutalmente antropocentrica e strettamente funzionale alle presunte esigenze della nostra specie o, meglio, a quelle di alcune specifiche categorie economiche.
Allo stesso modo emergono spesso, sostenute con grande convinzione da parte di persone, viene da dire, che non hanno mai visto un gatto “giocare” con un topo o quello che rimane di un pollaio in cui sia riuscita a penetrare una volpe, posizioni che rimandano all’idea di una natura “buona” a prescindere, in cui gli animali uccidono solo e sempre per stretta necessità di sopravvivenza, come se l’aggressività umana fosse un accidente evolutivo e non un’eredità. Effetto probabilmente questo dei cartoni della Disney visti nell’infanzia, dell’assimilazione degli animali selvatici ai propri amici a quattro zampe e di una vita trascorsa prevalentemente in città o in spazi aperti “artificiali”. Ad esse si contrappongono concezioni altrettanto apodittiche che enfatizzano senza fondamento i gravi ipotetici rischi a cui escursionisti, agricoltori e pastori andrebbero incontro in ragione della presenza di qualche predatore sul territorio.
In mezzo a tanta polemica sono dell’idea che occorra ribadire che in medio stat virtus. Non in ossequio ad un anodino ed un po’ vigliacco principio di equidistanza fra due minoranze molto determinate, ma semplicemente perché la questione cui si alludeva all’inizio, quella cioè se esistano regole intrinseche che disciplinino il rapporto fra l’uomo e le altre specie, è in sé indecidibile, per quanto in molti continuino a provare di dimostrare il contrario. Per rendersene conto basta, da un lato, ricordare che se si considera l’uomo una delle tante specie che popolano il pianeta allora bisogna accettare fino in fondo, come avviene per le altre, che si comporti in modo tale da favorire la sopravvivenza dei propri simili rispetto agli altri esseri viventi; mentre, dall’altro, è opportuno tenere presente che l’evoluzione è un processo inarrestabile, per cui ogni specie, per quanto progredita, è necessariamente un punto intermedio in un percorso ipoteticamente infinito: pensare che l’essere umano rappresenti un punto d’arrivo ed abbia quindi per questo motivo privilegi particolari sulle altre specie è perciò una contraddizione in termini. Chi è convinto del contrario per motivi religiosi non è comunque in grado di dimostrarlo in modo irrefutabile.
Da ciò dovrebbe discendere che noi umani in quanto specie tecnologicamente più evoluta ed in grado di incidere più di ogni altra sull’ecosistema, dovremmo comunque essere tenuti ad applicare, anche nel nostro stesso interesse, il massimo di responsabilità nei confronti del pianeta e degli esseri viventi con cui lo condividiamo. E’ del tutto evidente che finora il nostro comportamento è andato quasi sempre in tutt’altra direzione. Occorre tuttavia avere presente che quando si ricorre alla categoria della responsabilità significa, come detto, che non esistono regole assolute, perché altrimenti basterebbe semplicemente applicarle, ma che ogni singola questione deve essere affrontata e discussa nel proprio contesto specifico, cercando di volta in volta di trovare il miglior equilibrio possibile. Un ruolo importante deve averlo l’educazione, intesa sia come conoscenza che come rispetto nei confronti delle altre forme di vita, senza la quale si rischia di restare preda di concezioni puramente ideologiche. Così come la visione prospettica degli equilibri del pianeta dovrebbe finalmente prevalere sulle logiche di brevissimo periodo di qualsiasi natura: anche qui valutando correttamente caso per caso il rapporto costi/benefici.

L’INTERVISTA
Camilla Ghedini:
“La giornata dell’amante?
21 giugno o 13 luglio…”

Giornalista, abile comunicatrice, scrittrice. Il mondo della parola è la casa di Camilla Ghedini. Ma le sue parole hanno sempre un senso e un peso, alleggerito – quando serve – da quel pizzico di ironia che è, secondo le circostanze, lo zucchero o il sale delle relazioni. Rigorosa, indipendente, è capace di grandi sì e di grandi no. Scrive, fra gli altri, per il Resto del Carlino, Noi donne e ha collaborato con il Sole 24 ore. Cura uffici stampa in ambito pubblico, aziendale e politico. Si occupa in particolare di cultura, economia, costume e, appunto, politica. A seguito del terremoto 2012, ha ideato e si è fatta letteralmente carico di una straordinaria iniziativa di solidarietà, culminata con la distribuzione di oltre 25mila volumi donati da varie case editrici, transitati prima per le tendopoli e successivamente assegnati a biblioteche pubbliche.

Di recente, in copia di Brunella Benea, ha dato alle stampa il suo nuovo romanzo, ‘Amo te… starò con lei per sempre”, attraverso il quale lancia una provocatoria proposta.

Ma allora, questa giornata dell’amante la istituiamo o no?
Ah sì, per me potrebbe essere istituita davvero. Con Brunella abbiamo lanciato la provocazione sulla pagina Facebook ‘Amo te, starò con lei per sempre’, che già conta oltre 1500 iscritti, non solo donne, sia chiaro, e non solo amanti, sia altrettanto chiaro… Hanno risposto in tantissimi, anche privatamente. Pubblicamente, la giornalista e scrittrice Isa Grassano ha ipotizzato il 21 giugno, primo giorno d’estate, ‘il giorno più lungo dell’anno, con luce fino a sera, perché l’amante è la luce che ti fa sentire tremendamente viva… almeno finché dura’. ‘ Marilù Oliva, scrittrice, il 13 luglio, ‘data di nascita di Giulio Cesare, il più potente degli amanti della storia. A Roma si diceva che fosse il marito di tutte le mogli e la moglie di tutti i mariti’. Quindi, anche simbolicamente, si potrebbe procedere. Di sicuro farebbe bene ai consumi per l’attitudine allo svilimento e all’acquisto compulsivo di chi vive questa condizione. Nel libro, che si apre con la richiesta al ministro dell’Economia e si chiude con un disegno di legge, si elencano tutte le attività che potrebbero beneficiarne. Insomma, ‘l’Amante’ potrebbe essere la ‘risorsa’ di ogni Governo. In fondo il tradimento è bipartisan e democratico.

Che donne sono Anita e Florinda, le protagonista del romanzo? E che uomini sono i loro partner?
Anita e Florinda sono due amanti monogame, due donne sentimentalmente imbranate. Attratte dalla politica come dall’oroscopo. Legate da un forte senso dell’amicizia, che temono di tradire perché costrette al ‘silenzio’ che le storie clandestine impongono. Loro, come le altre protagoniste, possono essere chiunque di noi, la compagna di classe, la dirimpettaia, il nostro medico. Amanti possiamo essere tutte. Il libro vuole proprio sdoganare l’idea che l’Altra sia la rovina famiglie. Più semplicemente è una sciocca o sognatrice che spera di vivere parte della sua vita con la persona che ama. Poi, sia chiaro, non c’è alcun vittimismo e nessuna esaltazione del ruolo. Va detto infatti che ci sono amanti felici! Beate loro!!! Gli uomini? Che dire? Quelli del libro sono gli eterni indecisi, che spendono belle parole e promesse – e bugie – sapendo che non le manterranno. La novità infatti non è l’uomo, sempre uguale a se stesso, ma l’amante che a un certo punto, dopo una parabola di sofferenze e insicurezze, sa dire basta e ridere di se stessa e della propria ingenuità.

L’atmosfera del romanzo fa un po’ ‘Sex and the City’, scelta intenzionale o casualità?
Direi che Sex And The City, che io personalmente adoro, è stata una serie anticipatoria su tanti fronti. Forse per questo ci sono suggestioni. Ma non ispirazioni. Le protagoniste di ‘Amo te’ sono disarmanti più che disinibite. In comune c’è sicuramente l’importanza data all’amicizia, sentimento cui sia io che Brunella diamo grande valore.

Nella vita privata i beninformati sostengono tu sia meno disinvolta di come ti mostri dalle pagine del libro. Cos’è, forse un tentativo di trovare nuovi equilibri attraverso un alter-ego?
Ah ah ah!!! Ma chi ha detto che io sono una delle protagoniste del libro? In effetti io conduco una vita piuttosto ritirata e non certo disinvolta. Detesto l’ambiguità e la promiscuità, troppo spesso ammantate di intellettualismi che trovo ridondanti e banali. Io, come Florinda, sono monogama e nessuno mi convincerà mai che essere ‘aperte’ ed ‘emancipate’ migliora la qualità della vita e, magari, della coppia. Io amo l’esclusività. E non accetto compromessi.

Firmi questo romanzo con Brunella Benea. Come nasce il sodalizio e quali sono le difficoltà di scrivere a quattro mani?
Con Brunella siamo amiche da vent’anni. Il libro è nato così, scherzando sulle reciproche disavventure. Io e lei condividiamo la stessa capacità di sapere ridere delle nostre ‘disgrazie’, di non piangerci mai addosso. Anzi di ricamarci su, esasperandole, per divertimento. Un giorno, bevendo il caffè, a casa sua, in cucina, l’ho buttata lì, ‘Scriviamo un libro… Amo te… starò con lei per sempre’. E’ cominciata così. Difficoltà non ce ne sono state, abbiamo diviso i ruoli, pensando insieme i personaggi. Certo abbiamo caratteri diversi, io sono più rigida lei meno, e su alcune figure abbiamo mediato. Per una anche discusso, ma il risultato è valso il nervosismo!

Dopo le “Giustificazioni di un marpione per bene” ecco quest’altro campionario di maschile vigliaccheria sentimentale. Vuoi narrativamente alimentare un filone sui ‘filoni’?
Ho avuto la fortuna di incontrare maschi che mi hanno ispirato! Di recente però, mi sono imbattuta in noiosi che non meritano neppure una parola tanta è la loro pesantezza. Quindi per un po’ direi che su questo genere basta.

Ormai accanto alla tua produzione giornalistica e alla intensa e gratificante attività di comunicazione anche la narrativa sta diventando un tuo impegno costante, prossimi progetti?
Ho da poco firmato un altro contratto per un libro cui tengo moltissimo, di tutt’altro genere e di taglio giornalistico. Non posso rivelare altro, tranne che uscirà a fine primavera 2015.

E a noi allora non resta che attendere.

 

La scheda del romanzo [clic per leggere]
La presentazione del romanzo [clic per leggere]

IL FATTO
Di nuovo come un tempo,
in piazza per mangiare
e stare insieme

Come alle feste popolari, come un tempo nelle corti rurali, si mangia in piazza, in strada o comunque nello spazio pubblico, condiviso. Si sta all’aperto, fuori dalle case, dagli angusti muri domestici. E’ proprio questo il sapore autentico della ‘Pizza street’, che da questa sera a domenica riunirà qualche centinaio di persone attorno a tavoli imbanditi sul selciato di via Voltapaletto. Il senso dell’iniziativa va ben oltre la sua dimensione commerciale e intercetta una nuova esigenza. O meglio, un bisogno che ritorna: quello della convivialità diffusa.
Per anni, quelli del ‘trionfo del privato’, del “riflusso moderato”, ci siamo rinchiusi nei nostri appartamenti, protetti – per dirla con Giorgio Gaber – con una serratura Yale che ci preservava da ogni intrusione e ogni contaminazione. Conclusa, non per caso, la fase della rivolta, della contestazione, spente le istanze di partecipazione, sopite le ansie di socialità, cancellata l’idea secondo cui tutto è politica, tutto è sociale, l’individuo si è staccato dal gruppo, dal collettivo. E si è sopito, in una lunga notte in cui il benessere per essere tale andava goduto in salotto.
Ora, fra gli effetti della crisi che ci attanaglia c’è, di positivo, la riscoperta di uno spirito di socialità, di messa in comune. Come i pastori erranti di Leopardi, avvertiamo più chiara la precarietà dell’esistenza e sentiamo la necessità di condividere con altri la nostra sorte. Così, in tante città fioriscono iniziative come questa, che spesso evolvono nel modello delle ‘social street’: che significa in sostanza la riscoperta del buon vicinato, della mutua assistenza, del reciproco sostegno secondo un sano valore di scambio di saperi e di capacità. E dunque, per dirlo in una sola parola, dell’essere solidali.
Ben venga, dunque, questa pizza street, se insieme a mozzarella e pomodoro ci riporta una fettina di smarrita umanità.

Il brano intonato: Giorgio Gaber, C’è solo la strada [clic per ascoltare]

I dettagli dell’iniziativa [clic per leggere]

L’EVENTO
E per tre giorni Ferrara ritorna Internazionale

Torna ‘Internazionale a Ferrara’, il festival di giornalismo giunto alla sua ottava edizione. Da venerdì 3 a domenica 5 ottobre sarà un weekend di incontri, dibattiti, spettacoli e proiezioni con grandi ospiti da tutto il mondo. L’organizzazione è del settimanale Internazionale. Filo conduttore, l’informazione nelle sue varie declinazioni: giornalismo di inchiesta, economico e narrativo. In questa edizione del festival si parlerà specificamente di diritti e diversità: omosessualità, aborto e violenza sulle donne, immigrazione. Non mancherà l’attualità italiana e ovviamente quella mondiale. E ancora: economia, lavoro, cultura, letteratura e cibo workshop e laboratori creativi per bambini.
“Il festival inizia nel segno di Lampedusa, un anno dopo la strage dei migranti – afferma la direttrice Chiara Nielsen -. Le migrazioni saranno uno dei fili conduttori di questa edizione”.

Ferrara è pronta dunque a trasformarsi in una grande redazione, animata da prestigiose firme del giornalismo e della letteratura: 230 ospiti da 30 diversi Paesi del mondo, 4 continenti rappresentati, 45 testate, 100 incontri, 250 ore di programmazione. Lo scenario è quello dei temi planetari. Le migrazioni e il cambiamento nella concezione dei confini e delle mobilità del XXI secolo. Dall’Iraq alla Libia tra terrorismo, scontri settari e Stati a rischio verso la ridefinizione del Medio Oriente. L’America Latina e l’orientamento della nuova sinistra. Tornano i grandi documentari inediti di Mondovisioni e la rassegna di audiodocumentari Mondoascolti. Mondocinema è invece la nuova rassegna di cinema d’autore.

Tra gli ospiti più attesi di quest’anno Martin Baron, direttore del Washington Post, Gerard Baker, direttore del Wall Street Journal, la giornalista e attivista siriana Maisa Saleh, (arrestata nei mesi scorsi) che riceverà il premio giornalistico Anna Politkovskaja 2014 per il giornalismo d’inchiesta. E poi: il giornalista francese Edwy Plenel, ex direttore della redazione di Le Monde e fondatore del giornale online Mediapart, la scrittrice e attivista messicana Lydia Cacho, il giornalista e scrittore inglese Ed Vulliamy, vincitore nel 2013 del premio Ryszard Kapuscininski per il reportage letterario. Ospite del festival anche una delle figure più rappresentative della Turchia democratica, Pinar Selek. E poi Edwin Catmull, presidente di Walt Disney Animation Studios e della Pixar, che parlerà di creatività applicata al business. Al festival tornano John Berger uno dei più grandi scrittori britannici, critico d’arte e pittore, e il giornalista David Randall, che quest’anno festeggia i suoi 40 anni di carriera. Per l’ottava edizione a Ferrara un’importante presenta istituzionale italiana con il presidente del consiglio Matteo Renzi che sarà intervistato dai corrispondenti della stampa estera, il ministro degli affari esteri Federica Mogherini e la presidente della Camera dei deputati Laura Boldrini.

“Il festival ha conquistato la città – sostiene il sindaco Tiziano Tagliani -. La partecipazione si è estesa. Con il festival trasformiamo Ferrara nella redazione più bella del mondo”.

Internazionale a Ferrara è promosso da Internazionale, Comune di Ferrara, Provincia di Ferrara, Università di Ferrara, Regione Emilia-Romagna, Emiliaromagna terra con l’anima, Ferrara terra e acqua, Città Teatro, Arci Ferrara e Associazione If.

Good Bye, Lenin! Quando la cortina di ferro svanì

Siamo nel 1989, a Berlino, momento storico e unico (e per molti di noi indimenticabile). Christiane Kerner, una madre che alleva da sola i sui figli, Alex e Ariane, dopo che il marito è andato in Occidente nel 1978, e impegnata, da allora, nella costruzione della “patria socialista”, è invitata al ricevimento ufficiale organizzato in occasione dei festeggiamenti per il quarantesimo anniversario della Repubblica Democratica Tedesca.

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Locandina del film

Quella sera, a Berlino Est, molti manifestanti scendono in piazza per protestare contro il regime socialista che ormai logora e affanna la popolazione. Fra essi, vi è il figlio Alex, che viene pestato e arrestato dalla polizia. Per la paura, il dolore e la preoccupazione, Christiane è colta da un infarto e cade in coma. La casa dove vive la famiglia, la zona di Karl-Marx-Allee con sullo sfondo i grandi edifici costruiti con pannelli prefabbricati, i Plattenbauten, viene turbata e sconvolta dalla vicenda della donna che coglie tutti di sorpresa. Durante gli otto mesi di coma, nella città e nel paese tutto cambia. L’incoscienza di Christiane nulla può contro il partito che cade a pezzi, i confini che si aprono, il muro di Berlino che crolla, un mondo che cambia improvvisamente e che vede i tedeschi di nuovo uniti, di nuovo un popolo e una nazione sola. Ma c’è un problema, perché quando la loro madre si sveglierà dopo otto mesi, Alex e Ariane dovranno far finta che nulla sia successo, per evitarle emozioni forti e shock che potrebbero comportare una ricaduta fatale. Inizia allora la fase di (ri)creazione di un “micromondo” protetto, sicuro e immutato intorno alla madre. Nulla è cambiato, apparentemente. Almeno non per lei (per Alex e Ariane molto è cambiato, invece, e non solo nel paese: Alex ha perso il lavoro precedente e Ariane è fidanzata con un “occidentale,” Denis).

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Una scena del film, cimeli della Germania Est

La normalità del tempo passato e che non ritorna viene “preservata’ con attenzione dai ragazzi: vengono recuperati cimeli, prodotti e giornali della Germania Est, realizzati improbabili e falsi ma credibilissimi telegiornali della televisione orientale per tenere aggiornata la madre, fino a coinvolgere sempre più amici e vicini, sperando che la donna non scopra mai la verità. Il precipizio pare vicino quando Christiane si alza dal letto, da sola, ed esce da casa. Vede allora cose strane: pubblicità e prodotti occidentali, vestiti alla moda, macchine di lusso e, soprattutto, un elicottero che porta via una grande statua di Lenin. Una statua che pare pendere dal cielo e nel cielo. Alex convince la madre che nulla è cambiato, inventando per lei una bella storia. Ancora una volta.

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Una scena del film, Christiane e il figlio Alex

Intanto Christiane sente la necessità di raccontare ai figli la verità sul padre: il genitore non era fuggito con un’altra donna, com’era sempre stato raccontato loro, ma la coppia aveva progettato di comune accordo la fuga dal sistema socialista, che ormai li opprimeva. All’ultimo momento, tuttavia, lei non se l’era sentita di raggiungerlo per la paura di perdere i figli. Ora, davanti a un nuovo infarto, Christiane vuole solo rivedere il marito un’ultima volta. Il film è bellissimo, accompagnato dalla colonna sonora del francese Yann Tiersen (autore delle musiche de Il favoloso mondo di Amelie), con qualche velo di malinconia e nostalgia per le radici di una nazione creata dal laboratorio dell’ideologia, ma comunque con un suo popolo e persone dagli ingenui ideali. Fortissimo, poi, l’amore tenero e intenso per la madre (e per la patria) che sembra davvero poter fare tutto: anche, apparentemente, cambiare la storia. Almeno per un po’.

Good Bye, Lenin!, di Wolfgang Becker, con D.Brühl, K. Sass, M. Simon, Germania, 2003, 120 mn.

banche

L’OPINIONE
Riforme strutturali sì, ma a partire da banche e finanza

Sono mesi, ormai anni che da più parti si batte su questo tasto. Da ultimo ce l’ha detto anche l’ormai mitico Mario Draghi: dobbiamo fare le “riforme strutturali”.
Molto bene, ma quali sono queste benedette “riforme strutturali”? Che cosa si vuole intendere con questa ultratrita formuletta?
Negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso a parlare di “riforme strutturali” era il Partito Comunista, soprattutto la sua componente più “a sinistra”. Serviva a connotarsi sia rispetto ai sedicenti “rivoluzionari”, sia rispetto al troppo morbido “riformismo” di un’altra parte importante del movimento operaio italiano.
Verso la fine degli anni ’80, un grande giurista come Guido Rossi, che fu presidente della Consob, elencò le riforme strutturali che erano più urgenti: ridurre il potere dei monopoli, riformare la Borsa e la legge bancaria, sottrarre le Partecipazioni Statali alla lottizzazione (= spartizione di poltrone) dei partiti, riformare il fisco tassando le attività finanziarie.
Più di recente il concetto di “riforme strutturali” è stato riesumato da parte della cosiddetta Troika (Unione Europea, Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale). Dietro questa nobile terminologia hanno identificato, da qualche anno a questa parte, le politiche di drastico taglio dello stato sociale imposte agli Stati europei più indebitati. Una medicina amara ma necessaria – sostengono – per rilanciare la crescita economica e ridurre l’indebitamento.
Per l’Italia tutto ciò si è tradotto tra l’altro in un violento e repentino peggioramento dei requisiti di accesso dei lavoratori ai trattamenti pensionistici. Ma anche in una revisione delle norme sul lavoro, volte in particolare ad indebolire le tutele della parte considerata più protetta del mondo del lavoro.
Ma la storia non è finita. Il tormentone delle riforme strutturali resta all’ordine del giorno e i grandi mezzi di informazione continuano ad utilizzare senza parsimonia questa formula vetusta.
Però tutto lascia pensare che dietro la sua apparente vaghezza si celi l’intenzione di intervenire ancora una volta, senza molta fantasia, sul mercato del lavoro, imponendo un ulteriore giro di vite alle tutele.
Eppure sarebbe interessante tornare a riempire il concetto di “riforme strutturali” con i contenuti di cui parlava Guido Rossi quasi 30 anni fa. Del resto la crisi drammatica che stiamo vivendo non ha certo avuto origine dalle norme del mercato del lavoro, ma dal sistema finanziario. Sarebbe logico, quindi, che si partisse da lì con le riforme strutturali, per esempio separando – come molti chiedono da anni – le banche di deposito da quelle di investimento, oppure limitando la possibilità di emettere i famigerati titoli “derivati”.
Ma niente, di questo non si parla. Si continua a cercare di far ripartire la nave frustando i macchinisti, invece di occuparsi del motore ingolfato.

Ergonomia e disturbi muscoloscheletrici, consigli pratici

Secondo la definizione della Treccani, l’ergonomia è quella “Disciplina scientifica che, utilizzando le conoscenze e i dati forniti da vari campi del sapere, studia il sistema uomo-macchina-ambiente con l’obiettivo di trovare soluzioni ottimali, adatte alle capacità e ai limiti psicofisiologici dell’uomo. Secondo la definizione dell’Iea (International ergonomics association), è la disciplina che si occupa dell’adattamento delle condizioni di lavoro alle caratteristiche dell’organismo umano. E’ ormai ampiamente provato che l’applicazione di questa disciplina è un fattore di successo per combattere o almeno ridurre, ad esempio, i disturbi muscolo-scheletrici come i dolori alla nuca, alle spalle, alle braccia o alla schiena.
Lo stretching è una delle pratiche che rientrano in questo campo, e che aiuta a prevenire sia i disturbi muscoloscheletrici che il dolore e il disagio osteo-articolare in generale. Lo stretching permette al corpo di recuperare, di rilassarsi e di prepararsi alla vita quotidiana. E’ importante anche per la mente, perché consente di distendersi, in modo da poter tornare alle proprie attività con più energia e attenzione. Lo stretching fatto di frequente aiuta, inoltre, a prevenire le tensioni muscolari.
In generale si consiglia di mettere in pausa il corpo e allungarsi almeno una volta ogni ora, ancora meglio due minuti di pausa ogni mezz’ora. Se si sente che una qualsiasi parte del corpo è tesa… anche solo 30 secondi sono meglio di niente. Quando si lavora al computer, è necessario, di tanto in tanto, distogliere lo sguardo dallo schermo e mettere a fuoco gli occhi su un oggetto distante. Questo permetterà agli occhi di rilassarsi, prevenendone l’affaticamento.
Di seguito, propongo alcuni esercizi di prevenzione per il collo e le spalle, per la mano e l’avambraccio, per la schiena e le gambe, che vi aiuteranno a ridurre il disagio durante la giornata di lavoro.

Mani e braccia

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Piegamento del polso

Piegamento del polso
Scopo: allungare polso e avambraccio
Con la mano aperta e rivolta verso il basso, piegare il polso delicatamente da un lato all’altro, per quanto possibile. Mantenete la posizione per 3 a 5 secondi. Ripetere 3 volte.

 

 

 

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Rotazione del polso

Rotazione del polso
Scopo: allungare polso e avambraccio
Allungare il braccio e la mano in fuori e ruotare lentamente il polso verso il basso, fino al massimo. Mantenete la posizione per 3-5 secondi.

 

 

 

 

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Flessione / estensione del polso

Flessione / estensione del polso
Scopo: allungare polso e avambraccio
Afferrare la mano e tenere le dita con l’altra mano. Piegare lentamente il polso verso il basso, fino al massimo del tratto. Mantenete la posizione per 3-5 secondi. Relax. Ripetere 3 volte. Poi, sempre lentamente, piegare il polso verso l’alto. Tenere & relax.

 

 

 

 

ergonomia-disturbi-muscoloscheletrici-consigli-praticiergonomia-disturbi-muscoloscheletrici-consigli-praticiergonomia-disturbi-muscoloscheletrici-consigli-praticiergonomia-disturbi-muscoloscheletrici-consigli-praticiStretch delle dita
Scopo: allungare polso e avambraccio
a) Iniziare con la mano aperta.
b) Fare un pugno.
c) Toccare la punta delle dita alla base del palmo della mano, tenendo il pollice dritto.
d) Fare delicatamente un gancio. Far scorrere la punta delle dita fino il palmo della mano, in modo che la punta delle dita siano vicine alla base delle dita (si dovrebbe sentire tirare). Non forzare le dita con l’altra mano se doloroso.

Collo e Spalle

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Elevazione spalle

Elevazione spalle
Scopo: alleviare i primi sintomi di tensione nella zona delle spalle e del collo.
Sollevare la parte superiore delle spalle verso le orecchie fino a sentire una leggera tensione nel collo e nelle spalle. Mantenere questa sensazione di tensione da 3 a 5 secondi. Poi rilassare le spalle verso il basso, nella loro posizione normale. Ripetere 2 o 3 volte.

 

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Movimenti avanti / indietro del collo

Movimento avanti-indietro del capo
Scopo: allungare il petto e muscoli della spalla
Sedersi o stare in piedi. Senza sollevare il mento, far scivolare la testa dritta avanti e indietro. Avere la sensazione del doppio mento, significa che si sta facendo l’esercizio correttamente. Mantenete la posizione per 20 sec. e ripetere 5 -10 volte.

 

 

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Relax del collo

Relax del collo
Scopo: rilassare i muscoli del collo
Flettere lateralmente la testa lentamente verso sinistra, cercando di toccare l’orecchio sinistro con la spalla sinistra. Ripetere sul lato destro. Far cadere lentamente il mento al petto, girare la testa completamente a sinistra, quindi ruotare completamente a destra.

 

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Rotazione delle spalle

Rotazione delle spalle
Scopo: rilassare i muscoli delle spalle.
Ruotare lentamente le spalle indietro per cinque volte, con un movimento circolare. Stessa cosa ruotando le spalle in avanti.

 

 

 

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Stretch laterale

Stretch Laterale
Scopo: rilassare i muscoli laterali della schiena
Intrecciare le dita e sollevare le braccia sopra la testa, tenendo i gomiti dritti. Allungare i fianchi, lentamente, a sinistra e poi a destra.

 

 

Schiena

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Stretch del gomito

Stretch del gomito
Scopo: allungare i muscoli medi e superiori della schiena.
Tenere il braccio destro, appena sopra il gomito, con la mano sinistra. Spingere delicatamente il gomito verso la spalla sinistra. Tenere per 5 secondi. Ripetere con il braccio sinistro.

 

 

  Stretch gomito
Piegamento delle ginocchia

Piegamento delle ginocchia
Scopo: allungare la zona lombare schiena e le gambe.
Afferrare la gamba e sollevarla dal pavimento. Piegare in avanti e, se si riesce, raggiungere il naso con il ginocchio. Ripetere con l’altra gamba.

 

 

Gambe

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Stretch del polpaccio

Stretch del polpaccio
Scopo: allungare i muscoli della caviglia.
Raddrizzare la gamba e sollevarla dal pavimento. In alternativa, flettere la caviglia (puntare le dita dei piedi verso l’alto) ed estendere (puntare le dita dei piedi verso il basso). Ripetere con l’altra gamba.
Posizionare i piedi piatti sul pavimento. Con una gamba dritta, sollevare un piede a pochi centimetri dal pavimento, tenere momentaneamente, e ritornare con il piede a terra. Ripetere con l’altra gamba.

Per concludere, ci tengo a dire, come osteopata, che credo molto nel fatto che i datori di lavoro possano migliorare l’efficienza e il morale dei dipendenti, adattando le tecniche di prevenzione posturali ed ergonomiche. Le attività diventano meno faticose e i il benessere dei lavoratori, sia a livello fisico che mentale, migliora anche le loro prestazioni.

L’INTERVISTA
Con ‘mister’ De Biasi
alla scoperta
del pianeta Albania

Di lui – che trionfalmente ha trascinato il Modena in serie A, per poi ripetere l’impresa con il Torino e allenare nella massima serie il Brescia di Baggio, oltre ai granata e all’Udinese – si sono ricordati tutti, in questi giorni. La vittoria dell’Albania (della quale da tre anni è commissario tecnico) in Portogallo ha fatto scalpore. Noi, a Gianni De Biasi – vecchio amico di Ferrara e della Spal, riportata in C1 alla fine del… secolo scorso – abbiamo chiesto di raccontarci quell’universo sconosciuto che, agli occhi della maggioranza degli italiani, è l’Albania. La prima domanda però, non poteva prescindere dal suo trionfo calcistico.

Sei reduce da una grande soddisfazione, la vittoria in Portogallo al debutto nel girone di qualificazione per il campionato europeo. Come è andata?
Abbiamo vinto all’esordio di questa qualificazione all’Europeo 2016 contro una squadra che è all’undicesimo posto nel Ranking Fifa! Sicuramente siamo stati fortunati perché fra i lusitani mancava Cristiano Ronaldo, ma credo altresì che farei un torto ai miei ragazzi se non riconoscessi che l’Albania ha messo in campo le armi di cui dispone: organizzazione, agonismo determinazione e voglia di stupire.

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Il centro di Tirana, capitale dell’Albania

Che Paese è questa Albania?
Dopo gli anni della dittatura e la caduta di Enver Hoxha, l’Albania si sta pian piano avvicinando all’Europa. E’ un Paese che sta con fatica cercando di mettersi al passo con il resto dell’Occidente. Tutto è concentrato nella capitale e in poche altre città come Durazzo, Valona e Scutari. È un paese in gran parte montagnoso, con coste bellissime in particolare da Valona verso la Grecia. L’estate scorsa ho fatto un tour in bici con alcuni amici e ho incontrato, specie nei paesi di campagna, una grande accoglienza e generosità che ha sorpreso anche loro.

Hai avuto difficoltà ad ambientarti?
No, diciamo che mi sono trovato da subito bene, il fatto che molti albanesi parlano la nostra lingua, mi ha aiutato moltissimo nelle relazioni. Per ragioni logistiche non passo molto tempo a Tirana perché molto del lavoro viene svolto nello scouting in giro per l’Europa, vivo spesso all’estero tra un viaggio e l’altro. Ho però casa a Tirana e sono iscritto all’Aire (Anagrafe italiani residenti estero).
Trovare amici non è stato difficile, ne ho parecchi sia tra alcune persone della Federazione, sia tra i giornalisti, che tra i molti italiani che vivono qui.

In Italia dell’Albania se ne sa davvero poco e prevale uno stereotipo negativo a causa dell’attività di alcune bande criminali. Ma i miei amici albanesi dicono che quelli che sono delinquenti qui da noi lo erano già in patria, dove entravano e uscivano dalle galere. E appena hanno potuto sono scappati all’estero. Lì la situazione com’è dal punto di vista dell’ordine pubblico e qual è l’atteggiamento e il carattere delle persone?
Purtroppo la fama degli albanesi, da noi, è quella del delinquente che ruba nelle case o che gestisce traffici di droga o prostituzione. In patria non vedo e non sento episodi criminosi legati a rapine in banca o scippi e nelle case. Io giro tranquillo per Tirana senza problemi. La microcriminalità non la vedi e Tirana, a parte il caos legato al traffico, è una città abbastanza tranquilla da questo punto di vista. Poi c’è la città della sera e dei ragazzi che hanno voglia di vivere e ci sono molti ristoranti e disco bar molto belli.

Cos’è rimasto del vecchio regime comunista?
La mentalità è aperta, moderna. Del vecchio regime rimangono solo poche testimonianze simboliche, con l’evidente eccezione del Mausoleo che trovi vicino al Boulevard principale. Molti edifici invece richiamano il periodo fascista con strutture di grandi dimensioni e lo stesso stadio Qemal Stafa è stato costruito dagli italiani e si richiama per concezione all’Olimpico di Roma.

A breve è prevista dal visita di papa Francesco. C’è attesa? E tu ci sarai?
Spero di poter partecipare e magari incontrare il Pontefice. Mi affascina quest’uomo così vicino alla povera gente, che parla spesso a braccio ma con il cuore e con un linguaggio semplice ma essenziale. L’Albania è suddivisa in tre religioni monoteiste: mussulmana la maggior parte, ortodossa una buona percentuale specie verso il sud e cattolica percentuale più bassa. Però non ci sono conflitti legati alla religione ed ognuno è libero di professare la propria fede.

C’è qualche luogo dell’Albania che ami particolarmente?
Come ti dicevo la costa sud è molto bella, poi sono rimasto affascinato da Berat una cittadina molto ricca di storia e chiamata anche “delle mille finestre” e Patrimonio dell’Unesco.

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Gianni De Biasi con il bomber Cancellato ai tempi della Spal

I tuoi progetti futuri? Nostalgia dell’Italia e del campionato nostrano? E Ferrara? E la Spal?
Per il momento l’unico obiettivo è di portare avanti il “progetto Albania” cercando di crescere giorno per giorno, di non addormentarsi per un successo all’esordio e facendo tesoro dell’esperienza acquisita nell’ultima qualificazione ai mondiale, sfumata nelle battute finali.
Ferrara mi ricorda momenti belli (avevo quarant’anni allora), la promozione e la Coppa Italia. Città molto bella a misura d’uomo e con un duomo e un castello che da soli valgono un lungo viaggio.
La Spal vive, ahimè, un periodo difficile, però niente può cancellare il fascino della storia e l’affetto degli spallini! In fondo, il periodo di grande difficoltà economica che vive il nostro Paese si riflette gioco forza sul calcio e anche Ferrara non sfugge a questa situazione.

 

Già, anzi. A giudicare, per esempio, dai dati sulla disoccupazione, per una volta – purtroppo – la città si sente addirittura epicentrica…

Ferrara Balloons Festival: il programma di venerdì

da: ufficio stampa Ferrara Fiere Congressi

Il Ferrara Balloons Festival, l’evento sulle mongolfiere più importante in Italia e tra i principali in Europa, si avvicina al secondo weekend al Parco urbano “Giorgio Bassani” di Ferrara, dove proseguirà fino a Domenica 21.
La manifestazione, giunta alla decima edizione e organizzata dal Comune e dalla Provincia di Ferrara, con il supporto di A.T.I. Mongolfiera, ha recentemente ottenuto dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, la Medaglia di rappresentanza in quanto evento meritevole nei rapporti con la società civile e dal Ministero del Turismo il riconoscimento di “Patrimonio d’Italia”.
Il programma della giornata di Venerdì 12 si aprirà immancabilmente con i voli dei giganti dell’aria: le mongolfiere degli equipaggi italiani e stranieri coinvolti nel Festival spiccheranno il volo libero alle 7.30 e alle 17, mentre i decolli vincolati si svolgeranno in successione dalle 17.30 alle 20.30.
Alle 8.30 suonerà per l’ultima volta la campanella dell’“Educamp – Scuole aperte per ferie!”, il campo multidisciplinare promosso dal CONI – Comitato Regionale Emilia-Romagna, che propone ai bambini dai 6 ai 14 anni sport e attività formative fino alle 18.00.
Dalle 9 alle 20 sarà pienamente operativo lo stand interattivo dell’Aeronautica Militare – C.O.A. Poggio Renatico, dove sarà possibile ammirare alcune delle strumentazioni di punta dell’AM.
Nella stessa fascia oraria, il pubblico baby del Festival potrà prendere parte ai laboratori didattici a cura di Dopla-Wigo.
Il pomeriggio al Parco urbano inizierà all’insegna dello sport, alle 16, con le prove libere di tiro l’arco, sotto la guida attenta e qualificata degli istruttori della Compagnia Arcieri e Balestrieri Filippo degli Ariosti, e quelle di duathlon (bicicletta e corsa), a cura del C.U.S. Ferrara Triathlon.
Dalle 16 alle 22 la Città Magica allestita dall’Ente Palio di Ferrara e dal Rione Santo Spirito accoglierà i visitatori nel proprio mercato rinascimentale, offrendo spettacoli di rievocazione storica e ottimi piatti della tradizione da gustare presso la locanda “La Sganzega”.
Di nuovo sport alle 17.30 e alle 18, rispettivamente con l’esibizione di pattinaggio artistico a cura dell’A.S.D. Quadrifoglio e con la lezione dimostrativa e le performance di Ju Jitsu promosse dall’A.S.D. Ju Jitsu Italia – sezione di Ferrara.
Occhi puntati al cielo alle 18 e non solo per i voli delle mongolfiere: a quell’ora atterrerà, infatti, al Parco Bassani l’elicottero NH500 dell’Aeronautica Militare.
Dopo il tramonto, terminate le partenze dei balloons, sarà di scena la musica, per chiudere la serata sulle note dei Bitter Coconut Deadfire e Dj Fist, al Camelot Cafè, oppure per ascoltare la Big Solidal Band presso la Città Magica.

Festivalfilosofia, dalla gloria alla celebrità. Una riflessione attuale

Tornano i giorni di Festivalfilosofia. Da domani (venerdì 12) a domenica 14 a Modena, Carpi e Sassuolo sono in programma quasi 200 appuntamenti fra lezioni magistrali, mostre, concerti, spettacoli e cene filosofiche. Tra i protagonisti Bodei, Bauman, Augé, Nancy, Galimberti, Marzano, Severino, Recalcati, Bianchi, Baricco e Bergonzoni.

Un termine apparentemente desueto come quello di “gloria” si rivela dispositivo efficace per mettere a fuoco una questione cruciale dell’esperienza contemporanea: la celebrità. In programma a Modena, Carpi e Sassuolo dal 12 al 14 settembre in 40 luoghi diversi delle tre città, la quattordicesima edizione del festival prevede lezioni magistrali, mostre, spettacoli, letture, giochi per bambini e cene filosofiche. Gli appuntamenti sono quasi 200 e tutti gratuiti.

Il festival, che lo scorso anno ha registrato oltre 200 mila presenze, è promosso dal “Consorzio per il festivalfilosofia”, i cui fondatori – ovvero i Comuni di Modena, Carpi e Sassuolo, la Provincia di Modena, la Fondazione Collegio San Carlo e la Fondazione Cassa di Risparmio di Modena – sono i soci storici che hanno partecipato alla realizzazione del festival fin dalla prima edizione.

Piazze e cortili ospiteranno oltre 50 lezioni magistrali in cui maestri del pensiero filosofico si confronteranno con il pubblico sulle varie declinazioni contemporanee della gloria. Il percorso tematico prenderà le mosse dal suo carattere splendente, che rimanda al potere attrattivo della luce, a un tempo condizione di visibilità e meta di ogni desiderio di elevazione. Quando si associa la gloria alle stelle, si opera dunque qualcosa di più di una semplice metafora. In questa chiave prenderà rilievo propriamente filosofico anche il fenomeno tutto contemporaneo delle “vite spettacolari”, che ha al suo centro la visibilità e la messa in luce di sé. Le trasformazioni dell’ambizione e la riabilitazione dell’onore indicheranno nuove implicazioni antropologiche e morali del riconoscimento sociale, fino a giungere alle nuove sfide della democrazia alla prova del consenso mediatico. Senza dimenticare che la gloria è un tentativo di lasciare una traccia, un’impronta riconoscibile, non solo nei monumenti materiali, ma anche nella rappresentazione immateriale di sé tipica dei social media.

Quest’anno tra i protagonisti si ricordano, tra gli altri, Enzo Bianchi, Roberta de Monticelli, Roberto Esposito, Maurizio Ferraris, Umberto Galimberti, Giacomo Marramao, Michela Marzano, Salvatore Natoli, Massimo Recalcati, Chiara Saraceno, Emanuele Severino, Carlo Sini, Gustavo Zagrebelsky e Remo Bodei, Presidente del Comitato scientifico del Consorzio. Nutrita la componente di filosofi stranieri: tra loro i francesi Jean-Luc Nancy, Miguel Abensour (spagnolo di nascita), Nathalie Heinich e Marc Augé, che fa parte del comitato scientifico del Consorzio; il franco-libanese Milad Doueihi; il tedesco Gernot Böhme; i britannici Zygmunt Bauman ed Ellis Cashmore; lo spagnolo Javier Gomà. In brillanti fuori pista saliranno in cattedra due protagonisti della narrativa e del teatro. Alessandro Baricco (lectio Rotary) leggerà e commenterà le gesta di Achille nell’Iliade, mentre Alessandro Bergonzoni pronuncerà sulla gloria un intervento pirotecnico e sorprendente.

Il programma filosofico del festival propone anche la sezione “la lezione dei classici”: esperti eminenti commenteranno i testi che, nella storia del pensiero occidentale, hanno costituito modelli o svolte concettuali rilevanti per il tema della gloria, dal thymos platonico alla dottrina della magnanimità in Aristotele fino alla teoria dell’onore di Tommaso d’Aquino. Tra gli autori moderni, Guicciardini servirà per mostrare gli effetti dell’ambizione sulla scena politica, mentre con Hobbes emergeranno gloria e vanagloria come passioni del potere. Passando per lo snodo di Hegel, si incontrerà il tema cruciale del riconoscimento, mentre, arrivando alle questioni novecentesche, con Max Weber prende forma l’idea di potere carismatico e con von Balthasar la discussione teologica della Gloria si salderà alla teoria estetica.

Se le lezioni magistrali sono il cuore della manifestazione, un vasto programma creativo, in via di definizione, coinvolgerà narrazioni e performance, musica e spettacoli dal vivo, di cui saranno come d’abitudine protagonisti alcuni beniamini del pubblico. Non mancheranno i mercati di libri e le iniziative per bambini e ragazzi.

Oltre 30 le mostre proposte in occasione del festival, tra cui una personale di Mimmo Jodice, una mostra sull’iconografia di gloria della dinastia estense, una su Jamie Reid e lo schiaffo al potere del Punk inglese (con il sostegno di Gruppo Hera), una sulle celebrità in figurina, una sul ciclo affrescato dei Trionfi petrarcheschi nel Palazzo dei Pio di Carpi, e una dei ritratti Tullio Pericoli.

E, accanto a pranzi e cene filosofici ideati dall’Accademico dei Lincei Tullio Gregory per i circa settanta ristoranti ed enoteche delle tre città, nella notte di sabato 15 settembre è previsto il “Tiratardi”, con iniziative e aperture di gallerie e musei fino alle ore piccole.

(a cura di MediaMenteComunicazione)

Infoline: Consorzio per il festivalfilosofia, tel.059/2033382 e www.festivalfilosofia.it

LA STORIA
Feshion coupon, un successo ferrarese

“La cosa è cominciata quasi per gioco: ero cliente Groupon, ma molto spesso non riuscivo a trovare le offerte che mi interessavano qui nella mia città, a Ferrara. Perciò ho pensato di provvedere direttamente”. Alessandra Scotti racconta così la nascita di Feshion coupon, un marchio ferrarese che in un anno ha conquistato già qualche centinaio di clienti e conta oltre centomila persone che almeno una volta hanno visitato il sito.

“All’inizio ero partita con l’idea di creare delle opportunità di risparmio per me e la mia cerchia di amici e conoscenti, poi la cosa ha rapidamente preso piede ed è diventata un lavoro”. Un lavoro al quale Alessandra, che nella vita è ricercatrice universitaria a Farmacia, dedica tempo, passione e intelligenza. “La mia ambizione sarebbe quella di andare avanti nel percorso universitario, studiare mi è sempre piaciuto e non mi ha mai pesato. Però mi rendo conto che la strada è complicatissima. Così mi sono trovata e svolgere mansioni slegate da quella che è la mia formazione: abituata a composti e formule, mi sono dovuta cimentare con marketing, comunicazione, relazioni pubbliche. Devo ammettere che mi diverto e dedico a questa attività tutto il tempo necessario. E non mi sono mai fatta problemi sui sabati o le domeniche: quando serve si lavora anche la notte”.

Alessandra non lesina l’impegno: è operativa sedici ore al giorno di media e non lamenta la fatica. “La sera mi addormento serena, la mattina mi sveglio felice. Feshion è capitato per caso e spontaneamente ha preso piede, come quasi tutte le cose della mia vita”. Alessandra è giovane, 28 anni, ma dimostra consapevolezza e maturità. A questo equilibrio contribuisce Mirko, marito e prezioso consigliere. “Ci siamo conosciuti a scuola, stiamo insieme da sempre. Siamo molto affiatati e ci sosteniamo l’un l’altro”.

Dall’idea iniziale, quella dei coupon legati a promozioni commerciali, si è presto passati a un disegno più ampio. “Per farci conoscere abbiamo utilizzato Facebook, funziona benissimo!”. Alessandra è lanciata ora anche su eventi e iniziative, alcuni dei quali rivestono pure una valenza sociale. Come la ‘pizza street’, “un’idea nata parlando con gli amici Riccardo e Ylenia della pizzeria da asporto ‘Andrea e Lauretta’ di via Voltapaletto. Ci siamo posti l’obiettivo di fare qualcosa per animare la via, nell’ottica delle social street tanto in voga. Il primo anno, nonostante il maltempo è andata benissimo, questo fine settimana replichiamo e speriamo di coinvolgere ancora più persone”. E, con il coinvolgimento di partner istituzionali, sono nati anche ‘Ferrara in fiaba’, il ‘Cappellaccio street’ in via Cortevecchia, ‘l’Aperishow della domenica’…

“Quando mi sono resa conto che il gioco poteva diventare un lavoro ho costituito la società”. In questo modo, oltre a creare una redditizia occupazione per sé, Alessandra ha coinvolto altre quattro persone che la affiancano nel lavoro quotidiano. Conta infatti, oltre che sul sostegno, non solo morale, del marito Mirko Marangella, anche su Miriam Previati, grafico del gruppo, Antonella Schena che cura il filone delle iniziative rivolte alle famiglie e Barbara Manzoli che si occupa di quelle turistiche.

“Feshion è un marchio al quale sono affezionata – confessa Alessandra – perché ingloba l’idea di Ferrara, la città che con Mirko abbiamo scelto sette anni fa per viverci. Ed è Feshion la matrice attorno alla quale sviluppare gli ipotetici rami aziendali: i coupon, gli eventi, i corsi di formazione…”. Già, perché anche la corsistica è entrata a far parte del mondo di Feshion: cucina, fotografia, lingue, make up, manicure, barman, avvicinamento al vino e tante altre idee che prenderanno forma prossimamente.

Prima di arrivare a questo traguardo, Alessandra ha conseguito la laurea in Farmacia, facendo al contempo la ragazza immagine per sostenersi negli studi; ha vinto un dottorato di ricerca che le consente tuttora di continuare a coltivare la sua passione. E poi ha scoperto questa sua nuova vocazione. Ma si è guadagnata ogni cosa. “Studiare continua a piacermi e ad appassionarmi. Però con l’assegno da ricercatore dell’Università non si campa. Penso tuttavia che ci sia modo di trarre da qualunque cosa un’opportunità di guadagno, basta saperla inquadrare nel giusto verso”. E così ha fatto lei. Che ai suoi coetanei raccomanda di “non rassegnarsi, di scegliere su cosa puntare e di perseguire con convinzione e fiducia i loro obiettivi”.

A Montezemolo 27 milioni di euro, quei soldi sono anche nostri

La notizia che Luca Cordero di Montezemolo è stato liquidato dalla sua carica di presidente della Ferrari con una buonuscita di 27 milioni di euro è stata riportata dalla stampa con accenti lievi e con i toni della nota di colore. C’è stata una semplice presa d’atto, forse perché non è un politico, non si è infierito. A me la cosa fa ‘leggermente’ indignare. In generale, specie in una situazione di crisi come quella attuale, il fatto di per sé appare immorale. Ma nello specifico, vale la pena ricordare che il Gruppo Fiat, del quale Ferrari fa parte, dal 1977 al 2013 ha beneficiato di 7,6 miliardi di euro di finanziamenti statali. Possiamo quindi dire che quei soldi sono usciti anche dalle nostre tasche.

IL FATTO
Al via il Mercato della Terra in Alfonso I d’Este: buon cibo, cultura e socialità

Sarà come andare ad un’allegra festa paesana: da metà ottobre tutti i sabati mattina ci saranno banchetti e stand di produttori locali, assaggi di cibi particolari, e poi teatro, musica e cultura, il tutto nella cornice del baluardo della Montagnola, una delle zone più belle della città.
Grazie ad un’attenta opera di riqualificazione urbana dell’area, dopo la scelta di collocare negli edifici degli ex magazzini Amga la sede di alcune associazioni culturali come Sonika, la Musi jam (ex Banda filarmonica F. Musi) e il Teatro di Ferrara Off, l’Assessorato alla cultura va oltre, ospitando nel cortile della “cittadella” ex Amga il Mercato della Terra di Slow Food, che da metà ottobre arricchirà con il mercato dei piccoli produttori agricoli il panorama di proposte dedicate alla cittadinanza.
Abbiamo incontrato i protagonisti di quest’interessante operazione, l’assessore alla Cultura Massimo Maisto e il dirigente di Slow Food Italia Alberto Fabbri; per conoscere il punto di vista delle associazioni, ci siamo rivolti a Marco Sgarbi e Monica Pavani di Ferrara Off.

Cominciamo proprio da questi ultimi, “A ottobre avrete un nuovo inquilino, una presenza che un po’ si scosta dal vostro ambito. Cosa ne pensate, voi associazioni, di questo connubio tra attività culturali della città e produzioni enogastronomiche del territorio?”
“Ne siamo molto contenti, e condividiamo la volontà dell’amministrazione di valorizzare e revitalizzare la zona di via Alfonso I d’Este – Bagni ducali, nella quale stanno investendo da diversi anni. In questo senso, anche il Mercato della Terra rientra nell’ottica di creare un movimento di persone che possano essere attirate al tempo stesso da un’economia territoriale e da attività artistiche produttive locali.”

Come pensate di organizzarvi e di interagire con il Mercato della Terra, e soprattutto con la clientela che entrerà nella “cittadella”.

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Azione teatrale all’aperto, nel retro del Teatro Off

“Da parte di tutte le associazioni riunite all’interno della struttura c’è la volontà di essere attive durante le mattinate di ogni sabato, e di offrire a chi frequenta il mercato “assaggi” di lavori teatrali in fase di allestimento, prove aperte di musica, teatro e letture. Abbiamo scelto di non proporre spettacoli o letture completi, perché la gente verrà principalmente per assaggiare e comprare prodotti gastronomici. Ci piace però l’idea di “tenere aperte le porte” del teatro, dando la possibilità di assistere a performance già in atto, entrando e uscendo con grande libertà, o anche solo per dare una sbirciatina agli spazi, che sono appena stati ristrutturati e sono bellissimi.”

Possiamo quindi dire che chi verrà in Alfonso I d’Este il sabato mattina avrà la possibilità di fare assaggi di prodotti locali e assaggi di produzioni teatrali al tempo stesso, è così?

“Sì, un assaggio, una prova, qualcosa da gustare in velocità… in questo senso avevamo infatti trovato anche una sorta di slogan, abbinando “slow food” a “fast theatre”, tanto per rendere l’idea. Se volessimo trovare anche una relazione a livello “semantico” tra il Mercato della Terra e la fruizione di attività culturali, potremmo dire che entrambe le attività produttive, quella agro-alimentare e quella teatrale, mirano a “coltivare” prodotti locali, farli crescere e promuoverli, a beneficio dell’intera comunità.”

All’Assessore Maisto abbiamo chiesto se c’è effettivamente una visione programmatica in tutto questo, e quali considerazioni hanno portato alla decisione di scegliere il cortile degli ex-magazzini Amga come location per il Mercato della Terra di Slow food.
“Abbiamo preso in considerazione diversi posti come il Chiostro di San Paolo, il Giardino delle Duchesse e il cortile degli ex-magazzini Amga. Alla fine, in totale accordo con gli organizzatori, abbiamo preso una decisione in funzione di tre obiettivi. Il primo obiettivo è coerente ad un mandato del Sindaco, che ci chiede di allargare il centro storico: più volte il Sindaco ha detto che va benissimo valorizzare le nostre piazze, ma non ci sono solo le principali, piazza Castello, piazza Municipale, piazza Travaglio, ma anche tante altre zone della città in pieno centro o limitrofe da valorizzare. Ecco quindi che ci piaceva l’idea di porre l’attenzione su un luogo bellissimo, una delle zone più belle della Mura, che però nell’ottica ferrarese viene ancora percepita come “periferica”, quando in realtà si trova all’interno delle Mura, in pieno centro storico. La scelta di portare ai Bagni ducali lo stesso Assessorato, di organizzare il Reload Music Festival, di ospitare la sede di associazioni culturali, prima la Banda Musi, Sonika e ora il Teatro off, significa che l’Amministrazione si è data da tempo l’obiettivo di avviare una riqualificazione a tutto tondo di una zona che era stata un po’ abbandonata.
E questo si collega al secondo aspetto: per noi la riqualificazione della zona Baluardo delle Mura – Bagni ducali è sempre stato un progetto anche culturale, altrimenti il mercato di Slow Food sarebbe finito semplicemente nella logica commerciale di tutti gli altri mercati. E quindi la risposta è sì, alle spalle c’è un ragionamento che mira al recupero della tradizione enogastronomica, della cultura dei nostri prodotti, della filiera corta, e che si vorrebbe venisse accompagnato da iniziative di divulgazione dirette (ossia riferite ai prodotti commercializzati) e di tipo culturale, nel senso di rendere la situazione più vivace e piacevole con le proposte artistiche delle associazioni. Va detto che la disponibilità del luogo, durante le mattine dei sabati in cui ci sarà il Mercato, non sarà riservato alle associazioni che lì hanno sede, ma sarà aperto a tutte quelle che vorranno costruire iniziative. Rendere la location un luogo produttivo e ricreativo è un punto su cui stiamo puntando molto e di cui personalmente vado abbastanza orgoglioso.

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Il Mercato della Terrara di Slow Food a Bologna

Il terzo obiettivo, più legato a dire il vero ad una scelta degli organizzatori, era quello di distinguersi dagli altri eventi che si svolgono in centro. Slow Food è un marchio forte, ha un’identità autonoma, e quindi può permettersi di differenziarsi. La loro è stata comunque una scelta coraggiosa, soprattutto per una città come Ferrara, perché hanno deciso di puntare su coloro che scelgono effettivamente di acquistare prodotti locali e di qualità recandosi al Mercato della terra. Del resto Slow Food ha fatto la stessa scelta anche a Bologna: il Mercato della terra si tiene in p.tta Pasolini, nello spazio antistante il Cinema Lumière, che è in centro ma non in un luogo di passaggio. A Bologna è andata molto bene, speriamo lo stesso avvenga anche a Ferrara. Ci tengo a sottolineare che il Mercato della terra di Ferrara è il secondo mercato di Slow Food in una città capoluogo dell’Emilia Romagna, dopo Bologna; a parte quelli di Colorno e Imola, in regione non ce ne sono altri.”

Al dirigente di Slow Food Italia Alberto Fabbri abbiamo chiesto come vede l’inserimento deI Mercato della Terra in questo contesto di associazionismo culturale già presente nella location prescelta.

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Logo di Slow Food

“Il contesto che abbiamo trovato in Alfonso I d’Este è l’ideale, perché i Mercati della Terra rientrano in un progetto prima di tutto culturale. Non è un caso che il rapporto sia nato con l’Assessorato alla cultura. Ci abbiamo messo un paio di anni per trovare il luogo giusto, abbiamo fatto diverse visite a Ferrara e vari sopralluoghi, ma c’era sempre qualcosa che non si adattava alle nostre esigenze: il Chiostro di San Paolo riscontrava problemi di agibilità, il Giardino delle Duchesse grosse difficoltà logistiche per via della collocazione in pieno centro storico. Quando il vicesindaco Maisto ci ha proposto il cortile dell’ex Amga abbiamo capito che quello era il posto giusto, e la presenza delle associazioni culturali è stato un motivo trainante per noi. Quella che è avvenuta è stata una coniugazione naturale.”

Come pensate di relazionarvi con le associazioni? Loro pensano di proporre “assaggi” di teatro, letture e musica, vi piace l’idea?
“Le associazioni hanno dimostrato una grande disponibilità ad ospitarci, quindi vogliamo entrare in punti di piedi. Nel mese di settembre metteremo a calendario una serie di incontri per sviluppare insieme un rapporto fecondo e creare un bel luogo di socialità. L’idea degli assaggi ci piace molto ed è proprio in linea con la nostra filosofia, perché il Mercato ha tre obiettivi: il primo è quello di realizzare un mercato di economia locale a favore dei piccoli contadini; il secondo, dare la possibilità ai consumatori di fare la spesa settimanale offrendo un’ampia gamma merceologica, dal pesce alla carne, da frutta e verdura ai formaggi, ecc.; il terzo obiettivo è ospitare ogni volta un presidio Slow Food italiano, proprio per proporre alla clientela assaggi di prodotti diversi, provenienti dalle varie parti del Paese e lavorati con il principio del Buono, Pulito e Giusto, come recita il nostro motto”.

Quanti saranno i produttori presenti al sabato mattina e a quando il primo appuntamento?
“Abbiamo selezionato una trentina di produttori del territorio, alcuni saranno fissi, altri ruoteranno in funzione della stagionalità. Diciamo che ogni sabato ci saranno 20/25 produttori-espositori. L’inaugurazione sarà sabato 18 ottobre, dopodiché partiremo con un periodo di sperimentazione che durerà fino a dicembre, fase necessaria per tarare il tutto; da gennaio, invece, contiamo di essere a regime.”

L’INTERVISTA
Il Vesuvio, ferita e feritoia che fa riscoprire il senso della vita

Il regista Gianfranco Pannone ci parla del suo ultimo film documentario “Sul Vulcano”, viaggio poetico e filosofico alla scoperta della precarietà e di un fatalismo positivo, che resiste alla cieca e distruttiva azione degli uomini.

Domani, giovedì 11 settembre, al cinema Farnese di Roma sarà proiettato “Sul Vulcano” di Gianfranco Pannone, in occasione della rassegna “Locarno a Roma”. Il film documentario, prodotto dalla Blue Film con Rai Cinema e con il contributo del Mibact, dà una lettura poetica e filosofica della vita ai piedi del Vesuvio. Tra storie di vite vissute, preziosi materiali d’archivio ed evocazioni letterarie che vanno da Giordano Bruno al Marchese De Sade, da Giacomo Leopardi a Curzio Malaparte. Sul Vulcano fa sorgere spontanea una domanda: com’è stato possibile, tra case abusive e discariche d’ogni genere, produrre tanta bruttezza in così tanta bellezza?
Ferraraitalia ha intervistato in anteprima Gianfranco Pannone.

Gianfranco, tu hai scritto che Sul Vulcano prova a dare un senso a una “terra pazza”, che infine rappresenta tutti noi. Che cosa intendi?
Intendo dire che il Vesuvio è un po’ un’icona, un simbolo, del nostro Paese, dove esiste un mix del tutto particolare, paradossale, tra la vita degli uomini e la conformazione geologica del territorio. E’ il luogo dove la natura può riprendersi tutto all’improvviso, dove allo stato di incertezza si aggiunge una sorta di non senso, una follia malinconica quasi, della precarietà. Quando penso a Napoli e al territorio partenopeo penso a un Italia al quadrato, dove ci sono ferite aperte che diventano feritoie. Sarà un’idea forse un po’ troppo cristiana, ma credo davvero che la creatività umana passi attraverso la sofferenza, la ferita. E che Napoli, la Napoli di Edoardo de Filippo o di Troisi, ad esempio, sia l’incarnazione di questa malinconia che si fa creazione artistica. Poi,ovviamente, c’è la grande questione ambientale di un territorio dove l’urbanizzazione dissennata ha distrutto l’antica bellezza, in meno di un cento anni, così come avviene in molti altre parti d’Italia, basta seguire la cronaca e i continui casi di frane, alluvioni, dissesti geologici. E’ come se ci fosse una incoscienza collettiva, un fatalismo dissennato, con cui, per primi i politici, sembrano ignorare che si è a un passo dalla tragedia. Una follia negativa, che ha cancellato per sempre l’antica saggezza contadina rispettosa dell’equilibrio della natura.

Il fato è un tema partenopeo, certo, ma che tu, nel tuo lavoro, intrecci con molti riferimenti letterari…
Il fatalismo è una componente dei popoli partenopei e, in particolare, dei popoli che vivono “ai piedi della montagna”, il Vesuvio appunto. Una caratteristica che li accomuna anche ai siciliani, che vivono ai piedi dell’Etna e quindi anch’essi in una terra precaria, all’interno di un Paese precario. Il fatalismo però ha due facce. Una negativa, che è una sorta di cecità dissennata in base alla quale si può fare tutto e non controllare nulla, quella per cui si accetta tutto: discariche abusive, infiltrazioni camorristiche, urbanizzazione senza regole. E una positiva, che potremmo identificare con il panteismo di Giordano Bruno, che, non a caso, è nato a Nola. Nei brani del filosofo che ho scelto per il documentario, affidandoli alla voce di Toni Servillo, si parla del Vesuvio come di un amico che ti fa conoscere la vita, che te la fa apprezzare proprio perché così incerta e “sotto scacco”, a rischio tragedia. Questo fatalismo positivo nasce da un profondo rispetto per la natura ed è una dichiarazione di umiltà. Credo sia utile riscoprirlo in un’epoca come la nostra, dove è evidente che il mito del ‘900 dell’uomo che può controllare tutto e imbrigliare la natura è smentito dai fatti quotidiani. La natura dà e in un colpo solo può riprendersi tutto. Solo rispettando questo possiamo cogliere il senso della ricerca della vita nella morte, del sorriso nel pianto, come in qualche modo è rappresentato anche dalla maschera di Pulcinella, sintesi della drammaticità e della comicità malinconica partenopea.

Uomo e natura, anche in questo lavoro inviti a riflettere sul legame tra la vita delle persone e la vita del territorio. Che cosa simboleggiano i tre protagonisti Maria, Matteo e Yole?

Maria, Matteo e Yole sono tre vite ai piedi del Vesuvio, in un luogo unico al mondo, ricco di miti, storia ed evocazioni letterarie. Maria, che vive e lavora in un’azienda florovivaistica ai piedi di una villa vesuviana in abbandono, “coltiva” anche le proprie curiosità intellettuali ed è una custode discreta del vulcano. Matteo, pittore di talento, rimette in gioco le sue opere fatte con la lava, testimonianza di un legame profondo con la terra da cui non si è mai staccato. Yole, cantante “neomelodica”, vive la propria libertà di giovane donna conciliandola con un’autentica devozione per la Madonna, espressione popolare di un sacro che ha sempre caratterizzato il Vesuvio, da Dioniso/Bacco a San Gennaro. Sono tre facce diverse di una Napoli un po’ fuori dagli schemi, sono tre custodi del tempio del Vesuvio, non ancora contagiati dall’indifferenza e dall’incuria collettiva. Malinconici sì, ma nel senso positivo del rispetto profondo per la vita.

Vedi il trailer [clic per guardare]

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La locandina del film

L’OPINIONE
Buona scuola, cattiva maestra

Capisco che bisogna governare, capisco che la scuola è un malato grave, che non c’è tempo per spremere le meningi ed è molto più facile copiare dal nostro vicino di banco, in questo caso gli Usa.
Le sorprese scolastiche di Renzi altro non sono che la fotocopia, adattata a casa nostra, del programma, non poco sofferto, dei democratici d’oltre oceano con la benedizione di Obama.
Non quello del 2002, quando la riforma della scuola guadagnò una indiscutibile influenza con l’approvazione della legge federale, No Child Left Behind Act (Nclb). Ma i risultati, poi, non furono quelli attesi, anzi, assai deludenti. I test scolastici nazionali dimostrarono impietosamente che molti studenti, specialmente quelli delle minoranze etniche nei centri urbani, non raggiungevano le competenze attese in lingua e aritmetica, mentre un nuovo tipo di scuola , la charter school, stava cominciando a competere con la scuola pubblica tradizionale.
Il programma di Renzi con lo zuccherino della prospettiva di circa 200mila assunzioni, di soli docenti, entro il 2019, sembra studiato apposta per evitare il contraccolpo dei sindacati all’inequivocabile introduzione del “merit pay”, salario di merito.
Forse è bene ricordare, a chi non ha letto Teachers Versus Public, pubblicato a Washington dal Brookings Institution Press nel 2014, cosa potrebbe succedere anche nel nostro paese.
Nel settembre del 2012 gli insegnanti di Chicago hanno costretto a chiudere le scuole della città per sette giorni e più, le loro rivendicazioni andavano ben al di là del solito. Oltre all’aumento di stipendio la Ctu, Chicago Teachers Union, protestava contro l’introduzione della giornata scolastica più lunga, la valutazione degli insegnanti basata sui punteggi degli studenti ai test, contro la retribuzione di merito, e la creazione delle charter school (i dirigenti e gli insegnanti del Ctu avevano letto Shock Doctrine di Naomi Klein, una denuncia della privatizzazione del pubblico in tutto il mondo).
Quello del reclutamento e della formazione degli insegnanti è comunque la prima delle emergenze della scuola italiana, che nulla toglie a quanti in tutti questi anni hanno continuato a formarsi a costo di sacrifici personali e, per i quali, si dovrà prevedere pure una forma di riconoscimento.
Chi lavora nella scuola sa benissimo, senza infingimenti, che gli insegnanti variano ampiamente nella loro efficacia nel determinare i risultati degli studenti, per cui occorre considerare con attenzione il ruolo critico che giocano reclutamento, assunzione in ruolo e retribuzione per il successo formativo degli studenti. È per questo che oggi in tutto il mondo le politiche dell’occupazione degli insegnanti sono sempre più sotto controllo, in particolare la loro formazione.
Del resto è difficile negare che il mantenimento della retribuzione basata esclusivamente sull’anzianità finisce per proteggere il lavoro degli insegnanti inefficaci e pone l’interesse della categoria al di sopra di quello degli studenti, oltre ad andare a scapito dei tanti docenti validi e fortemente motivati.
Bene, dunque, “la buona scuola” muove da “buoni insegnanti”, incentivati professionalmente dal merito. Non è mai troppo tardi. Nessuno di noi si farebbe curare da un medico inesperto e professionalmente non aggiornato. A scuola invece sì. Tanto la scuola non ammazza.
È proprio qui che si insinua il tarlo di una domanda elementare, viene cioè da chiedersi che differenza ci sia tra le proclamate riforme della scuola dei governi precedenti e questa “La buona scuola” del governo Renzi. Questo titolo tra il target e lo slogan, dovrebbe essere rassicurante, ispirare fiducia e ottimismo.
Invece, confesso, che appeno letto sono stato percorso da un brivido nella schiena. Un po’ perché foneticamente troppo parente con “Il buono scuola”, in questo caso una sorta di tagliando di revisione della macchina “sistema scolastico”, ma soprattutto, ciò che inquieta è la lunga ombra di decenni di “cattiva scuola” che il faro della buona scuola produce intorno a sé. È come quello che ti dice «quel bambino è buono, l’altro invece è cattivo» poi, se mai, nella realtà si rivela tutto il contrario. È come un buon piatto, non è detto che tale sia per tutti. D’altra parte per i nostri vecchi era buona la scuola dei loro tempi.
Il fatto è che dentro agli aggettivi qualificativi, buono, cattivo, ci sta tutto e il contrario di tutto.
E allora riflettendo sullo stato della nostra scuola, la “buona scuola” dà l’impressione di essere ferma all’infanzia dei pensieri, se si riflette sulla ben più complessa portata del discorso formativo oggi.
Il profilo della buona scuola tracciato dal governo pare i disegni della settimana enigmistica, quelli che unisci con linee i diversi punti e ti viene fuori una figura. Sono dodici i punti segnati dal governo da unire per avere una buona scuola.
Però tra questi punti non ci sono né i bambini né gli studenti. È possibile che ci sia una buona scuola che non muova prima di tutto da loro? No, loro non sono considerati, si prendano il piatto che gli adulti gli confezionano. Eppure si citano come padri della patria educativa Maria Montessori, Don Bosco, Don Milani, perfino Loris Malaguzzi. Non mi pare che la loro preoccupazione prima fosse la scuola, ma i ragazzi! Anzi con la scuola ce l’avevano su tanto!
Allora viene il sospetto che si voglia impastare un pane nuovo con la farina vecchia. Ed è così a leggere attentamente, dall’immissione in ruolo dei docenti a quello che fino ad ora, sulla carta, sarebbe stato possibile praticare, dall’organico funzionale ai rapporti con il territorio, all’apertura delle scuole, ma non si è fatto per mancanza di risorse e di personale, non per colpe di una generica cattiva scuola, ma per responsabilità precise di una cattiva politica e di cattivi governi.
Ora, è difficile allontanare il dubbio che la necessità di sistemare il personale prevarichi ogni riflessione vera sullo stato della scuola italiana, sulla pesantezza dei suoi curricoli, sul fatto che tutto si debba apprendere a scuola. Slogan come “cultura in corpore sano” usati nel 2014, sono per lo meno irritanti, oltre che fuori luogo. Dite piuttosto che avete bisogno di sistemare gli insegnanti di scienze motorie, l’integrazione tra scuola e territorio si fa riconoscendo che a scuola non può essere fatto tutto e che gli apprendimenti possono essere conseguiti nelle strutture e nelle istituzioni che agiscono con competenza nel suo contesto ambientale, è sufficiente dare loro dignità riconoscendoli come crediti. La scuola buona oggi è quella che è capace di pensare un sistema formativo integrato al servizio del diritto allo studio delle persone, di superare le classi, i voti, gli orari rigidi e le bocciature.
Ancora una volta non si tratta di scuola buona, ma di scuola ben fatta, capace di portare a compimento questa rivoluzione, che Montessori, Don Bosco, Don Milani e Loris Malaguzzi hanno a loro tempo praticato.
È un capitolo questo che ancora attendiamo venga scritto. La buona scuola potrebbe esserne la premessa, solo questo di tante speranze oggi ci resta. Diversamente anche questa buona scuola sarà una cattiva maestra.

Dialogo con Baratella sui massimi sistemi dell’arte. E sulla vita

Essere artista oggi è forse un ossimoro culturale, una contraddizione in termini? Me lo domando sempre più spesso. Forse dovrei girare la domanda a coloro i quali avevano innalzato l’opera umana all’altezza della Creazione divina ed essi stessi, confondendosi, si sono creduti esseri superiori in grado di competere con l’Ente supremo. Confusione estrema quando la religione usò questi personaggi per cantare le lodi del signor Dio, ché, se non l’avessero fatto, sarebbero stati cacciati direttamente all’inferno senza sepoltura consacrata: artisti maledetti li chiamavano. Oggi, comunque, il pericolo è scongiurato. Di chi vuoi mai cantare le lodi? Forse gli unici destinatari sono i signori del mercato, oggi è tutto mercato, I libri sono merce, le opere d’arte sono merce, se non chini la testa accettando la nuova divinità sei fuori, nessuno più ti prende in considerazione, sei finito, sei nulla. Non sono più riuscito a scacciare questi sgradevoli pensieri dopo aver visto, alla Fondazione Banca del Monte di Lucca, la mostra intitolata “Compianto” di Paolo Baratella, il vecchio fratello di teoretica con il quale da decenni mi sono abituato a confrontarmi. Ma non credi che tutto sia finito, che l’arte sia morta, che noi stessi siamo morti viventi. persone alle quali rimane soltanto di aprire la bocca che escono parole e ragionamenti preconfezionati? Non credi Paolo? E, se così è o fosse, che significato ha dipingere o scrivere se l’opera che confezioni è soltanto merce?
La risposta di Baratella è immediata e addolorata: “Se dovessi star dietro al clamore della sofferenza avrei già smesso di dipingere”. Senza volere e, soprattutto, senza insolenza, Paolo Baratella è salito sul piedistallo dell’arte per portare più in alto il male di vivere, un male straziante, talmente grande da diventare persino stupido, un’ingiustizia che chissà per quale ragione ci viene imposta così crudele. Nessuno sa, ma, peggio, nessuno cerca di trovare un rimedio, siamo ormai troppo vecchi e troppo esperti per credere alle moine vergognosamente insulse e false della politica: ognuno vuole vincere la competizione, la gara comincia presto, dai banchi di scuola e prosegue sempre più cruenta e che vinca non il migliore ma il più protervo, la regola è questa.

Per lunghi periodi, dico al Baratella, forse per anni, hai denunciato la violenza dell’uomo sull’uomo e, nel movimento della “Nuova figurazione”, ti sei ritagliato, anni Settanta, un posto importante: una nota critica a te dedicata dall’enciclopedia Garzanti afferma che il tema della condizione umana – tra mito, storia e cronaca quotidiana – ha continuato a essere al centro della tua pittura, “caratterizzata da un realismo visionario carico di simbologie e di citazioni”. Ora, dopo un lungo periodo rivolto al pensiero filosofico, in cui hai enfatizzato la ricerca niciana a cominciare dall’affermazione “Dio è morto”, sei tornato alla denuncia, violenta e commossa, della sopraffazione del potere sull’individuo. Scrive nella presentazione al catalogo della mostra Marco Palamidessi: “Non basterebbe venire al mondo più e più volte… per numerare, e perché no catalogare, gli enigmi che hanno scatenato, fecondato, afflitto, illuminato, turbato, scosso, plasmato lo spirito orgoglioso e le gesta di Paolo Baratella”. Ragione: soprattutto il Baratella “ha pensato”, mestiere difficile pensare, riesce a pochi. Eletti? Forse, ma sfortunati, niente di peggio al mondo che pensare.

Che cosa può fare oggi l’artista? si chiede Baratella, pittore migrante (Ferrara, Milano, Monferrato, Lucca). Risponde con una sua poesia: “Il tempo è scaduto/ Il mare è aperto/ Dove andare dunque?/ Mi sporcherò le mani di colore/ Chiedo una zattera/ L’onda anomala m’insegue/ Tutto si fa pittura/ Fino al più lontano orizzonte/ Nel radioso apparire di Pan/ Io sono”.
Dunque, tutto si fa pittura: la risposta è questa, per Paolo Baratella questa è sempre stata la risposta, sporcarsi le mani di colore e dipingere. Ha sempre dipinto con intelligente testardaggine, il mondo vada io dipingo: “che cosa dovevo fare – si chiede ora – dopo che Duchamp, precursore di quasi tutto, ma in primo luogo del nulla che andava predicando, ogni oggetto è opera d’arte? Fargli il funerale, come fecero Arroyo e Recalcati?” Domanda retorica; Baratella (sai Paolo?, gli confido) ha bisogno di dipingere, perché la sofferenza sia completa, si faccia colore, perché dipingere è cullare il proprio dolore, perché dipingendo si può piangere e la commozione è uno degli atti veri dell’uomo, ai quadri bisogna pur donare un’anima, non è vero ciò che ha scritto il premio Pulitzer Cunningham, secondo cui l’artista riproduce la nostra umanità nascosta, l’arte deve volare in un cielo tutto suo, anche se le gambe sono piantate per terra. Come dimostra questa mostra “Compianto – quattordiciquindicidiciotto la grande guerra”, dove è protagonista il fantaccino Bruno Baratella, zio del pittore, uscito dal macello voluto da politici assassini con il cervello colpito, spiega Paolo, da “trauma da esplosioni”. Il viso e il corpo minuto del fantaccino Bruno compaiono in ogni grande quadro, attonito spettatore delle esplosioni, degli scontri aerei, della morte che ti sta accanto muta e invincibile, nera nel mare di colori a volte corruschi, talaltra cupi, sempre traboccanti, un caos che soltanto la sapiente pittura baratelliana è riuscita a domare, o, almeno, a contenere. Paolo, gli dico, da questa mostra sono uscito commosso, era tanto tempo che non mi succedeva. E forse questa è la risposta, l’unica, che si può dare alla mia domanda iniziale. Commozione.

P.S. Una mostra così grande e importante non dovrebbe venire a Ferrara, alla vigilia dell’inizio della guerra di cent’anni fa?, chiedo ai politici della cultura.

INTERVISTE
Voci di piazza, Festivaletteratura visto dalla parte dei volontari

E’ calato il sipario anche sulla diciottesima edizione di Festivaletteratura. Ormai i record non sono più una sorpresa per la manifestazione mantovana che, come confermano i numeri a poche ore dal termine, sono aumentati rispetto agli anni passati: quasi 70 mila i biglietti venduti che, aggiunti ai partecipanti a eventi gratis e alle altre iniziative, delineano una presenza che va aggirandosi attorno alle 120 mila unità. Un traguardo veramente importante e soprattutto rassicurante per gli anni a venire, considerata anche la qualità e l’importanza degli ospiti del festival sempre molto amati dal pubblico.
Questo per me è stato il sesto anno consecutivo da volontario al servizio agli eventi, in quest’edizione ruolo impreziosito dalla nomina di responsabile di luogo, e posso tranquillamente confermare la notevole mole di lavoro aggiuntasi rispetto agli altri anni. Le strade di Mantova soprattutto nel weekend (e grazie al cielo, in tutti i sensi, viste le premesse meterologiche dei primi giorni) erano intasate, le code agli eventi chilometriche, le ore di attese sotto il sole interminabili. Non ho mai visto nella mia esperienza mantovana così tanti passanti girovagare per la città, scovare un angolo con in corso un evento, magari già incominciato e con posti a sedere esauriti, e volervici entrare lo stesso. Tutti sintomi che Festivaletteratura è più vivo che mai ed appassiona senza paura di coinvolgere chiunque, spesso anche quelli sulla carta più disinteressati.
Mi sono soffermato così a chiaccherare con i miei compagni di avventura provenienti sia dalla provincia che da altre parti d’Italia, riflettendo sul nostro operato e sulla fortuna di far parte di una macchina organizzativa divenuta veramente importante negli ultimi anni. Anche Edoardo, vent’anni e residente in provincia alla sua settima edizione da volontario, conferma che quest’anno c’era qualcosa in più rispetto agli anni passati e che “dopo tanti anni e tanta esperienza acquisita, questa volta arrivare a domenica è stata molto più dura, fisicamente e mentalmente. Ho visto nel tempo il festival evolversi e sono rimasto profondamente colpito e allo stesso tempo orgoglioso nel vedere come così tante persone, noi volontari in primis, riescano a fondersi in un tutt’uno con la città per tutta la durata dell’evento, creando una cornice per me unica in tutta la nazione”. Maddalena invece, 17 anni e proveniente da Verona, mette in risalto l’importanza “didattica” del festival: “è il mio secondo anno da volontaria a Mantova, opportunità offertami dalla scuola che propone a molti alunni come me di avanzare le candidature. Ho conosciuto tanti altri ragazzi che sono riusciti ad entrare nell’organizzazione di questo evento grazie alle scuole e penso che siano iniziative che non possano fare altro che aiutare i giovani, stimolandoli a partecipare in modo attivo ad eventi di questo genere”. Ilaria da Milano invece sottolinea la questione del volontariato come “spinta fondamentale per fare funzionare queste manifestazioni, divenute famose oggi ma nate anni fa con l’aiuto di tante persone e pochi spiccioli . Da anni nel mio comune sono attiva come volontaria in diverse associazioni ed in parrocchia, Festivaletteratura mi ha dato la possibilità di scoprire altri volti del volontariato, organizzando sempre in festa e allegria un evento per decine di migliaia di persone, promuovendo cultura e arte”. E come dimenticarsi del divertimento? E’ quello che pensa Virginia, anche lei residente in provincia e alla quarta esperienza, mettendo in risalto come “non ci sarebbe questo grande feeling tra così tanti volontari senza una grande voglia di divertirsi, anche durante i momenti più duri e con tanto lavoro da fare. Questo a mio modo di vedere è la grande fortuna del gruppo di Festivaletteratura”.
Insomma tra tanti biglietti staccati, tanti tavoli spostati, ritmi frenetici, notti quasi insonni tra palestre e campeggi, ci sta tanta voglia di mettersi in gioco e contribuire partecipando a quella che oramai è divenuta una tappa obbligatoria per molti. Queste erano solo alcune delle voci delle più di settecento magliette blu di Festivaletteratura, che si sono già dati appuntamento per l’anno prossimo, sempre a Mantova, dal 9 al 13 di settembre.

L’INCHIESTA
Partigiani oggi, nuove testimonianze: “Senso di responsabilità e coraggio per risollevare il Paese”

3. SEGUE – Continuano ad arrivare in redazione testimonianze che riattualizzano i valori della Resistenza e indicano il significato dell’essere “partigiani oggi”. E noi continueremo puntualmente a darne conto su queste pagine. Abbiamo chiesto a uomini e donne di generazioni diverse, con storie, percorsi, esperienze, formazione differenti di esplicitare i princìpi inderogabili per i quali è necessario impegnarsi e gli ostacoli che si frappongono alla loro applicazione. Nella colonna a destra della home, in alto, abbiamo inserito un logo che riporta il titolo dell’inchiesta; cliccandolo si accede a una videata che visualizza tutti gli interventi pervenuti, nella loro versione integrale.

Licia Vignotto, giovane giornalista e operatrice culturale spiega di aver “pensato a lungo sul tema del valore da difendere, ma l’idea del ‘valore’ non mi piace, come non mi piace l’idea della ‘difesa’. Ci si difende dagli aggressori ma a me sembrano tutti vittime: i ricchi e i poveri, i benestanti e i malestanti. Provo pena – pena sincera – per chi si comporta in modo stupido e nocivo, per gli arrivisti e i carrieristi, per gli avidi, per gli arroganti, per i disonesti. Non c’è niente da difendere, caso mai da diffondere: responsabilità”.

“Sarebbe sufficiente che la gente cominciasse a guardarsi in faccia e a leggere i valori dentro l’Etica del volto e della responsabilità”, fa eco Raffaele Rinaldi, direttore dell’associazione Viale K. Il quale segnala “la mancanza del coraggio necessario a declinare i valori nella tutela della dignità e nella lotta per la libertà della persona, soprattutto dei più deboli. Paradossalmente – rileva – si salvano i valori e si ammazzano le persone. Sappiamo scegliere i valori come i prodotti al supermercato, soprattutto quando si possono applicare forti sconti sull’impegno attivo che ne deriva. Preferiamo la penombra dell’ignavia all’esposizione del partigiano”.

“Mi piacerebbe vedere finalmente una guerra senza armi, una guerra di cervelli che vogliono il meglio per tutti, quel famoso ‘bene comune’, allontanando tutte le nefandezze presenti – afferma la giornalista marchigiana Cristiana Carnevali -. Ma certe volte mi sento impotente di fronte a tanti nani, saltimbanchi e ballerine che popolano la nostra società, occupando posti di rilievo, non soltanto in politica, con incapacità evidenti e soprattutto senza il benché minimo rispetto per Italia e italiani. Per questo restiamo partigiani anche oggi e i valori che perseguiamo sono sempre gli stessi”.

Francesca Succi, giovanissima giornalista particolarmente nota come blogger, introduce un originale punto di vista: “Come donna e giovane sono una guerriera, ogni giorno. Combatto per la libertà, la credibilità, la solidità e la condivisione immacolata. Il mio nemico è rappresentato dallo stereotipo, dalla menzogna, dall’ignoranza e dalla mancanza di tempo. L’unica adeguata difesa è l’energia, che parte dall’interno per confluire esteriormente, producendo risultato”.

Amara la riflessione di Mario Rebeschini, fotografo di pace in tempo di guerre: “Quando in un’assemblea infuocata all’università si voleva creare un momento di attenzione – ricorda – dal megafono si gridava: ‘Attenzione compagni, attenzione, prende la parola un partigiano, il compagno L.P’. Ed ecco L.P. dire parole di condivisione alle nostre battaglie con le raccomandazioni di un padre che stimi. Ma chi ha il coraggio, oggi, di prendere un megafono per ricordarci con forza i grandi valori della Resistenza e il sacrificio di quei milioni di uomini e donne che hanno garantito a tutti un’esistenza degna d’essere vissuta? Poveri partigiani, poveri noi, mi viene da pensare, ma non lo dico a nessuno”.

3. FINE

Cliccando i nomi in grassetto è possibile leggere l’intervento integrale

Leggi la prima puntata dell’inchiesta

Leggi la seconda puntata dell’inchiesta

Leggi i nostri articoli del progetto Treccani “Voci di Resistenza” di Giuseppe Muroni