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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


Sulla riviera romagnola splende sempre il sole

di Angelo Russo

Dopo gli anni di crisi ci siamo chiesti quale fosse la temperatura del turismo in Riviera, il risultato è sorprendente: i flussi turistici sono rimasti stabili. E la ragione non è solo economica: “Costiamo poco e offriamo tanto”.

“Certo che la crisi si fa proprio sentire”; “ma quale crisi non vedi che i ristoranti sono sempre pieni?”. Quante volte abbiamo sentito nei bar discussioni come questa? Da che parte stia la verità è difficile dirlo, per provare a capirci qualcosa di più abbiamo analizzato un settore preciso: quello delle vacanze, nello specifico i dati turistici della Riviera romagnola e quello che è venuto fuori è un dato sorprendente. Il risultato è che tutto sommato la Riviera tiene, nel 2013, 3 milioni e 700mila italiani hanno soggiornato almeno una notte in una località compresa tra i Lidi di Comacchio e Cattolica, solo 100mila in meno del 2012, ma assolutamente in parità con i dati del 2007, sette anni e una crisi fa. Quello che fa la differenza semmai è il numero di presenze, cioè il numero totale di notti in cui i turisti hanno soggiornato in Riviera, che sono passate dai 28 milioni del 2007 ai 27 stiracchiati della scorsa stagione, tradotto vuol dire che la durata delle vacanze si è ridotta mediamente di un giorno in sei anni, gli italiani si sono dimostrati maestri di spending review anche nelle loro vacanze, non si rinuncia al mare, si razionalizza. Allora via con i fine settimana e le vacanze lampo, niente sprechi e caccia all’offerta. Il mondo è cambiato e anche i turisti sono cambiati, se nel 1983 la durata media dei soggiorni era di circa dodici giorni, oggi ci si avvicina sempre più alla settimana, ma anche il percorso di avvicinamento alla vacanza è estremamente cambiato. L’avvento di internet ha aperto alle prenotazioni on line ed alle recensioni, non sempre clementi con i piccoli alberghi della Riviera, ma anche in questo caso la costa romagnola ha dimostrato di poter recitare la parte del leone. Sia quest’anno che lo scorso, Rimini è stata la località italiana più ricercata dagli utenti di Trivago, il principale network al mondo di prenotazione e ricerca dei prezzi di camere d’hotel. L’osservatorio del popolare sito di prenotazioni conferma l’idea evinta dall’analisi dei dati: “Gli italiani non rinunciano alle vacanze, sicuramente cercano di ottimizzare il budget per concedersi anche solo una breve tregua, magari poco prima di ferragosto”, ha spiegato Giulia Eremita, Marketing manager di Trivago.it. La graduatoria del 2013 vedeva addirittura un tandem romagnolo al comando con Rimini e Riccione, rispettivamente prima e seconda, tra le mete italiane più ricercate per le vacanze nella settimana di ferragosto, per lo stesso periodo la Riviera Romagnola aveva piazzato anche Cesenatico nella Top 10 delle località più cliccate, preferite per i prezzi accessibili e per la buona disponibilità di camere. Lo studio di quest’anno ha invece considerato l’intera estate 2014, ancora una volta a vincere è Rimini mentre Riccione scivola al quarto posto e Cesenatico mantiene il piazzamento tra le prime dieci d’Italia. Il motivo di questo risultato sembra essere scontato, ci sono pochi soldi, la Riviera costa poco, i turisti la scelgono per quello, ma se guardiamo la classifica 2014 scopriamo che la seconda classificata è Gallipoli, una località non certo low cost e decisamente lontana per l’intero bacino del nord Italia, questo impone una riflessione più profonda su questi dati. Il sindaco di Rimini, Andrea Gnassi, ha provato a spiegare il motivo del successo della città sul mercato: “Ogni classifica deve essere presa con cautela , ma il risultato di questo genere di indagini statistiche ha una sua rilevanza nel delineare le dinamiche di stagioni sempre più incerte per gli operatori del settore. Il dato in sintesi che emerge è ancora una volta la capacità di Rimini di adattarsi in tempi rapidi al modificarsi delle condizioni del mercato grazie alla straordinaria poliedricità dell’offerta e grazie al clima e alle proposte che sappiamo offrire”. Quello che il sindaco non dice, ma fa trasparire, è il cambio di strategia che la Riviera ha messo in atto per mantenere la sua posizione dominante: a fronte di una capacità recettiva senza eguali in Italia e in Europa, si possono organizzare senza problemi tanti eventi in grado di richiamare molti turisti che, ormai disposti a viaggiare anche solo per pochi giorni, sfruttano il pretesto della Notte Rosa di turno per un weekend al mare. Su questo esempio sono nati numerosi eventi sul litorale che hanno fatto da volano per l’industria ricettiva, si stima infatti che nei soli giorni della Notte Rosa, giunta quest’anno alla nona edizione, il giro d’affari complessivo sui 110 chilometri di costa si sia aggirato intorno ai 200 milioni.
La Riviera risulta ancora attrattiva anche per i turisti stranieri, se gli anni Settanta sono stati gli anni d’oro del turismo scandinavo, dagli anni ’80 in poi è stato il bacino centro europeo quello più importante. I turisti di lingua tedesca (per intenderci Germania, Austria e Svizzera) hanno rappresentato lo zoccolo duro degli arrivi internazionali, nella scorsa stagione oltre 450mila turisti provenienti da quell’area geografica hanno trascorso le loro vacanze in riva all’Adriatico, ben lontani dal milione del ’98, ma ancora un mercato decisamente importante. Il decennio inizziato nel 2010 sarà però quello dei russi. I flussi turistici dall’area dell’ex Unione Sovietica sono cresciuti a doppia cifra negli ultimi anni, e il confronto tra 2012 e 2013 parla di un +17% di arrivi dall’Ucraina e +13,5% dalla Russia. In totale sono stati oltre 250mila i russi a villeggiare in Romagna. Sicuramente la crescita del mercato russo può spiegarsi con la grande promozione della Riviera fatta in Russia dagli operatori e dall’Unione di prodotto, ma anche dalla qualità del prodotto in grado di offrire in una vacanza mare, cultura e shopping. Anche il mercato dell’estremo oriente comincia a muoversi, quello cinese registra una crescita annuale del 15%, mentre cala leggermente quello giapponese, in tutto sono stati circa 7000 i turisti orientali a soggiornare in Riviera nel 2013.

[© www.lastefani.it]

El Rèfol: al Garda soffia vento d’Europa

El Refol, il nome non solo di un ristorante a Garda, ma la sintesi alta di chi è stato sul Lago di Garda alcuni giorni e ha sentito sulla pelle il soffio di un “vento” che ti fa sentire bene, anche se dopo ahimè devi ritornare dove sei nato e hai la residenza… L’itinerario che seguiamo è sulla parte orientale del lago: uscendo dall’entroterra veronese e sbucando a Garda, venendo dalla collina, ci si trova davanti una vista sempre bellissima che, giunti sul lungo lago toglie il fiato. L’intera area è pedonabile e le biciclette, tantissime, le porti a mano, anche solo per un tratto, quasi per un silenzioso rispetto che la visione sul lago ti impone senza che lo richiedano. Ci troviamo in un piccolissimo luogo, incastonato sotto le colline e dentro ad un piccolo golfo, uno dei pochi, e forse tra i più belli, borghi d’Italia. Ecco un breve racconto. Quarantaquattro alberghi, dieci residences, una quarantina di ristoranti, una buona metà si affacciano sul lungo lago, tantissimi fiori e ben curati, nessuna cicca per terra, una pulizia non stop, ti servono con un sorriso, anche se non domestico. Se di sera sei seduto in un localino per la cena, con una piccola candela sul tavolo, uno con la fisarmonica ti canta note conosciute degli anni ottanta. Molta cortesia, si sta bene, si mangia bene e ci sono tante gelaterie, tantissime, diversificati i topping e le varietà. Un porticciolo turistico, barche a vela, motoscafi, battelli di ogni grandezza e sempre pieni, animali acquatici, anche del pescato, persone di ogni età con prevalenza over sessantacinque, moltissimi tra tedeschi, inglesi e qualche italiano. Allontanandosi un po’ verso nord, trovi le Torri di Benaco, Castelletto e Malcesine e qui ti devi fermare perché è ancora più bello: qui la “bellezza” si esprime con stradine strette e ripide, strapiombi sul lago, tantissimi piccoli negozi, il monte Baldo e un lago con mille colori e dove il sole e il vento ti giovano e rinvigoriscono. Se poi vuoi un po’ di storia, non fai fatica nella lettura, perché qui sul lago tutto si incontra, tutto si intravede, tutto è armonia e bellezza. Scendendo nella bassa gardesana, devi proprio passare da Bardolino e da Lazise per sostare almeno un paio di ore a Sirmione, la cittadina di Catullo e di quel giardino di ulivi dove ti sembra di immaginare il paradiso. Là, sopra una spianata, tra le rovine di una mega villa romana del I secolo d.C., ti viene da aprire le braccia e declamare, con un sorriso pieno, alcune strofe, e subito sfocia un sentimento d’amore. Se ti metti a contarli tutti quei piccoli ulivi millenari, arrivi a ben settantasette. Qui, sul lago, tutto si integra e si fonda in un tutt’uno a dispetto delle diversità; non importa se sei bresciano, veronese, trentino o pachistano, un calabrese gentile, alcuni rumeni, sudamericani e molti nordici; quello che vedi e percepisci è che hai visto un pezzo d’Europa, quella che vogliamo e che qui si ritrova, in armonia. Sarà la bellezza, nella sua visione di immagini, la condizione che ti porta a dire che è possibile trovare e ritrovare un “Garda europeo”. Il racconto del viaggio porta a dire che l’Italia, con la sua millenaria storia, i suoi paesaggi, il bello ovunque, la cultura, i borghi, le persone, l’accoglienza, la voglia di futuro e altro ancora, può essere il luogo vincente perché ci sia una nuova Europa e tanti popoli insieme. Non è un sogno, né una utopia, se non ci credete fate un breve viaggio, anche se ci siete stati ancora, perché questo lago abbraccia, anzi di più…

E ora i Brics hanno il loro Fondo monetario internazionale

da: Altroconsumo finanza

Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa hanno dato vita alla New Development Bank (Nbs), la Nuova banca di sviluppo

La Banca avrà un capitale iniziale di 50 miliardi di dollari (poco più di 35 miliardi di euro), equamente divisi tra i cinque Paesi fondatori. La NBS avrà lo scopo di finanziare grandi progetti infrastrutturali congiunti, ma non solo. La banca disporrà infatti anche di un ulteriore fondo di riserva d’emergenza per altri 100 miliardi di dollari (circa 70 miliardi di euro, che permetteranno di evitare le pressioni a breve termine sulla liquidità. In sintesi, avrà lo scopo di fronteggiare le crisi finanziarie e la fuga degli investimenti stranieri. L’intento di questo fondo di emergenza, secondo gli analisti di Altroconsumo Finanza, è quello di evitare che si ripetano situazioni già viste in passato, sia di crisi molto gravi, come quelle valutarie degli anni novanta, oppure situazioni meno gravi, ma pur sempre capaci di creare tensioni su questi mercati, come quella dell’estate del 2013 quando sui timori del tapering negli Usa si era assistito ad una fuga di capitali dai molti dei mercati emergenti. Il risultato era stato un calo delle Borse e delle valute di questi Stati.
“Ora questo fondo è pronto ad intervenire” – commenta Vincenzo Somma direttore di Altroconsumo Finanza – “andando a tamponare l’eventuale fuga di capitali, sostenendo così le valute di questi Paesi oppure fornendo dei finanziamenti nel caso in cui questi Stati non dovessero riuscire a raccogliere i soldi di cui hanno bisogno sui mercati”.
La nuova Banca di sviluppo avrà sede a Shangai, in Cina, e il primo presidente di turno sarà un indiano. Ai ministri delle Finanze dei cinque Paesi spetterà il compito di costituire un consiglio di amministrazione che sarà presieduto dal Brasile. L’istituto avrà una sede regionale in Sudafrica e non esclude l’apertura in futuro ad altre nazioni, ma la quota complessiva dei Brics non dovrà scendere al di sotto del 55%. Dovrebbe diventare già operativa nel 2015.
“Si tratta di un’operazione volta a smarcarsi sicuramente dal Fmi e dalla Banca mondiale” – continua Vincenzo Somma – “dove il diritto di voto dei Brics raggiunge a malapena un 10% del totale, malgrado la rivalutazione della quota cinese nel 2010, ma soprattutto si tratta di un tentativo di de-dollarizzare sia la finanza sia il commercio mondiale. Dopo tutto, non è una novità la volontà da parte soprattutto della Cina di far diventare la propria moneta, lo yuan, una valuta sempre più internazionale, con la quale si possa pagare merci a livello internazionale (ora si fa in dollari) oppure erogare prestiti”.

Mauro Milanesi

Luiss, il volontariato che fa curriculum: una studentessa di Ferrara al fianco delle detenute a Lecce per il progetto Made in Carcere

da: ufficio stampa Luiss “Guido Carli”

Al via VolontariaMENTE l’innovativo progetto basato sui valori della solidarietà e del coraggio come sintesi fra formazione e mondo reale.
Il volontariato che fa curriculum si fa strada nel processo di selezione dei giovani candidati.
A Lecce le studentesse-volontarie lavorano al fianco delle detenute per la realizzazione dei manufatti a marchio “Made in Carcere”.
Tra loro anche una giovane studentessa di Ferrara, Francesca Furini.

La cultura non è soltanto quella che si apprende sui libri, ma è frutto di esperienze di vita. VolontariaMENTE è l’innovativo progetto della LUISS che coinvolge tra luglio e ottobre, 150 studentesse e studenti dell’Ateneo intitolato a Guido Carli. Invece di partire per le solite mete vacanziere, questi giovani hanno deciso di trascorrere la propria estate impegnandosi in attività di volontariato a forte impatto sociale ed etico.

Sono diversi i progetti che la LUISS ha messo in campo per i suoi studenti più motivati. Uno, in particolare, che ha preso il via lo scorso 8 luglio e durerà fino all’8 agosto, si tiene a Lecce e la città si tinge di rosa. Sono tutte ragazze, infatti, le giovani volontarie che per quattro settimane saranno al fianco delle 20 detenute impiegate nella produzione dei manufatti a marchio “Made in Carcere”.

Le studentesse, insieme con Luciana Delle Donne fondatrice di Officina Creativa, saranno coinvolte in tutte le direzioni di cui si compone Made in Carcere, contribuendo attivamente alle fasi che rendono possibile la realizzazione dei “manufatti di valore”: dall’organizzazione, alla logistica, al marketing sociale e alla produzione delle borse e degli accessori del marchio creato dalla cooperativa sociale.

Le studentesse faranno la spola fra il penitenziario di San Nicola, dove è localizzata una parte della produzione, e lo store di Officina Creativa. Un mese di formazione aziendale secondo le logiche delle imprese sociali, fenomeno economico in forte ascesa in Italia.

“Con questo progetto, ed altri simili che stiamo implementando in altre città italiane, la LUISS vuole trasmettere ai propri studenti il principio della contaminazione positiva, una visione basata sui valori della solidarietà e del coraggio, come sintesi fra formazione e mondo reale”, ha affermato Giovanni Lo Storto, Direttore Generale della LUISS Guido Carli. “Questo tipo di attività hanno un alto valore etico, ma al contempo uniscono teoria e pratica e contribuiscono a fornire ai nostri studenti un set di strumenti che possa aiutarli a diventare uomini e donne capaci di lavorare per alimentare lo sviluppo di cui questo paese ha bisogno”.

VolontariaMENTE nasce per formare un nuovo tipo di studente-laureato, aperto a molteplici contaminazioni e temi sociali, con l’obiettivo di arricchire il proprio profilo, non solo dal punto di vista umano ma anche e soprattutto professionale. Perché sempre più oggi il volontariato fa curriculum.

La possibilità di fare esperienze socialmente utili rappresenta infatti, per il mercato del lavoro, un fattore determinate per la selezione dei giovani all’ingresso e, per gli stessi laureati, un’occasione ulteriore e importante per disegnarsi il proprio futuro.

Tra le studentesse che hanno scelto di collaborare al progetto del marchio Made in Carcere c’è anche Francesca Furini, giovane di Ferrara al terzo anno di Giurisprudenza della LUISS Guido Carli, che commenta così la sua esperienza:

“La scelta eticamente responsabile di un’impresa che decide di iniziare un’attività all’interno di un carcere e di avviare al lavoro esterno un detenuto, ha importanti e positivi risvolti in vista del fine pena e del reinserimento sociale dei detenuti. Il suo prioritario valore aggiunto è la ricaduta positiva in termini di risposta al bisogno di sicurezza sociale, all’interno degli Istituti di pena e, soprattutto, nel mondo libero. Proprio per questo, lo scopo principale di Made In Carcere è diffondere la filosofia della “second chance” per le detenute e della “doppia vita” per i tessuti; trattasi perciò, di un messaggio non solo di speranza, concretezza e solidarietà, ma anche di libertà e rispetto per l’ambiente.”

Le attività di volontariato della LUISS rientrano tra le attività compatibili con gli impegni accademici. Agli studenti dei Dipartimenti di Impresa e Management, Scienze Politiche e Giurisprudenza che aderiscono al Progetto, saranno riconosciuti i Crediti Formativi Universitari previsti dall’Ordinamento didattico per “Altre Attività”.

LUISS Guido Carli, la Libera Università Internazionale degli Studi Sociali, costituisce oggi un punto di riferimento scientifico e culturale in Italia e all’estero per gli studenti interessati alle discipline economiche, manageriali, sociali e giuridiche.

Nel 2012 LUISS è stata classificata dal Censis al primo posto tra gli Atenei non statali per le Facoltà di Scienze Politiche e Giurisprudenza e al terzo posto per quella di Economia.

Dalla differenziata ecco utensili e maglioni. Ed è in arrivo il cassonetto inodore

di Lorenzo Paussa

Con una decina di flaconi di shampoo buttati nel cassonetto della plastica si può produrre una sedia. Aggiungendone qualcuno possiamo ottenere un maglione in pile o una maglietta in poliestere. Una scatoletta di tonno può diventare un potenziale componente per nuovi utensili, elettrodomestici o materiali edili. Dal vetro riciclato, invece, è possibile ricavare nuovi oggetti e contenitori per un numero di cicli pressoché infinito.
Sono solo alcuni dei risultati consentiti dalla raccolta differenziata dei rifiuti, una pratica costantemente in via di espansione e perfezionamento e che la multiservizi Hera sta sfruttando nell’ottica di una rivoluzione ecologica. Ma quali sono i passaggi che intercorrono, ad esempio, fra la raccolta della carta e la realizzazione di quaderni o scatole di cartone riciclate, o tra il materiale organico recuperato e del nuovo fertilizzante per orti e giardini?

La raccolta
La raccolta dei rifiuti da parte di Hera ricopre tre macro-aree: quella delle abitazioni (porta a porta), quella dei negozi (utenze produttrici di rifiuti specifici) e quella dei centri di raccolta (stazioni ecologiche) per i rifiuti ingombranti o pericolosi.
Nel 2013 è inoltre partito il progetto per la raccolta degli scarti elettronici, denominato Identis Weee (Waste Electrical and Electronic Equipment) e sperimentato finora a Bologna dove in un anno già sono state raccolte 3mila tonnellate. Un’iniziativa promossa dall’Unione Europea che ha portato in città gli appositi cassonetti per cellulari, lampadine, giocattoli elettronici, televisori ed elettrodomestici. Tutti oggetti contenenti materiali come metallo, ferro o tungsteno che hanno un notevole impatto ambientale. Oltretutto, se non recuperati, imporrebbero alle aziende di procurarsi del nuovo materiale per il successivo ciclo di produzione, da comprare a prezzi elevati.
Altro progetto che sta prendendo forma in questi mesi è invece quello delle isole ecologiche, ossia delle piattaforme sotterranee permanenti che sostituiranno i vecchi cassonetti e saranno in grado di comprimere rifiuti organici, vetro e lattine. Come i raccoglitori dell’Identis Weee, le mini-isole saranno dotate di una tecnologia avanzata, dall’apertura automatica ed ergonomica per facilitare i diversamente abili a enzimi contro i cattivi odori, fino agli indicatori elettronici che segnalano quando il cassone è pieno.

La selezione
Una volta raccolti, gli scarti vengono portati negli impianti di selezione, dove verranno separati a seconda delle dimensioni e della tipologia di materiale. Anche questo passaggio, fondamentale per aumentare la percentuale dei rifiuti recuperati e per massimizzare gli sforzi dei cittadini per la raccolta differenziata, vede direttamente coinvolta Hera, in particolare nella filiera dell’organico, con le strutture dedicate al compostaggio come il Romagna Compost di Cesena o il biodigestore di Lugo di Ravenna, e della plastica, con il nuovo impianto di selezione da poco inaugurato a Granarolo.
Quest’ultimo si avvale di avveniristici strumenti che alleggeriscono notevolmente il lavoro degli addetti, ai quali compete soltanto la manutenzione dei macchinari e un controllo finale sulla qualità di materiali selezionati. Dei lettori ottici, attraverso speciali lampade sensibili e ad altre caratteristiche specifiche, permettono di velocizzare la separazione dei rifiuti secchi, riconoscendo i diversi tipi di plastica, carta, vetro, lattine, legno e metalli ferrosi. Una selezione sulla base della densità e del peso è invece effettuata dai separatori balistici, che sono costituiti da un cilindro con fori di diverse dimensioni.
Ci sono voluti 20 milioni di euro, ma ora lo stabilimento, gestito dalla società Akron (controllata da Herambiente) può dotarsi di una tecnologia unica in Italia e già sperimentata con successo in altri stati europei.

I consorzi
A questo punto il compito di Hera si esaurisce e i rifiuti selezionati escono dagli impianti. Una parte di essi viene direttamente acquistata dalle imprese, mentre tutto il resto subirà ulteriori passaggi nelle aziende riunite nei consorzi di filiera, come il Coreve (vetro) e il Corepla (plastica). Ad esempio, il vetro frantumato e lavato nei centri di selezione viene inviato alle vetrerie, dove viene fuso e soffiato, mentre i metalli depurati saranno fusi nelle fonderie o nelle aziende metallurgiche. Al termine di questi processi i materiali saranno finalmente utilizzabili per la produzione di merce riciclata.
Tutti i consorzi di filiera sono riuniti sotto l’egida del Conai, il consorzio nazionale per gli imballaggi istituito dalla legge italiana. Si tratta di uno dei sistemi consorziali più grandi d’Europa, che riunisce un totale di oltre un milione di aziende e dove vige il principio che “chi inquina paga”. I produttori e gli utilizzatori di imballaggi, infatti, versano al Conai un contributo economico proporzionale alle tonnellate immesse al consumo. Il Conai ne trattiene una parte per le proprie attività e riversa il resto ai diversi consorzi di filiera, che hanno il compito di promuovere e incrementare la raccolta dei rifiuti da imballaggi provenienti dal servizio pubblico e dalle imprese commerciali e industriali, il loro riciclaggio e recupero. Esiste anche un accordo tra l’Anci (Associazione Nazionale Comuni Italiani) e il Conai, che garantisce al comune “virtuoso” nella raccolta differenziata la copertura economica degli oneri sostenuti.

“Sulle tracce dei rifiuti”
Ogni anno, dal 2010, Hera pubblica un’analisi per mostrare, in un’ottica di trasparenza, dove vanno a finire gli sforzi dei cittadini nella raccolta differenziata. Si tratta del Report “Sulle tracce dei rifiuti”, che indica le quantità di vetro, plastica o carta che sono state avviate effettivamente a recupero. L’ultimo dato disponibile è riferito al 2012, quando la multiutility ha recuperato circa il 93,5% di quanto raccolto in maniera differenziata.
«Il prossimo report – dichiara Filippo Bocchi, direttore del settore “Corporate social responsibility” del Gruppo Hera – uscirà ad ottobre 2014 e prevediamo quantitativi in lieve incremento rispetto all’anno precedente, in particolare per la plastica grazie anche al potenziamento degli impianti di selezione del Gruppo e con frazioni come sfalci e potature, di cui nel 2012 si è recuperato il 97,3%, e carta (95,7%) a fare da capofila. Questo sforzo di trasparenza segue anche la strada indicata dalle recenti disposizioni europee, che stanno spostando l’attenzione dalla percentuale generale di raccolta differenziata alla quantità di materiale effettivamente recuperato».
Per quanto riguarda invece la percentuale di raccolta differenziata sul totale dei rifiuti, il dato relativo a Bologna è cresciuto di 3,6 punti, raggiungendo il 39% nel 2013. L’obiettivo, con la messa in funzione delle isole ecologiche, è di raggiungere il 50% entro il 2016. Alcuni comuni della provincia hanno addirittura superato la soglia del 70%, come Sasso Marconi (77,7%), Castello di Serravalle (77,1%), Bazzano (73,6%), Baricella (71,5%), Monteveglio (71,5%), Zola Predosa (70,1%).

Cittadini sensibilizzati
Molti pensano che non valga la pena differenziare i rifiuti perché, non vedendone nel concreto il risultato (o semplicemente non essendone a conoscenza), credono che ogni sforzo sia vano. Ma evidentemente la raccolta differenziata porta i suoi frutti. E per questo, come sottolinea ancora Filippo Bocchi, «oltre a far vedere quanto viene avviato a recupero attraverso “Sulle tracce dei rifiuti”, le azioni di Hera per sensibilizzare i cittadini sulla raccolta differenziata si sono fatte, negli anni, sempre più mirate. Da un lato si punta a portare a termine progetti che rendono più agevole l’impegno comune, per esempio quello per la raccolta stradale degli oli alimentari, partito da pochi mesi. Dall’altro, lo sforzo informativo passa anche da strumenti come il “rifiutologo”, un’applicazione per tablet e smartphone con cui i cittadini, inviando una foto ai servizi ambientali di Hera, possono segnalare strade poco pulite, rifiuti ingombranti in strada e altre spiacevoli situazioni contro il decoro urbano. Le squadre si attivano, con le segnalazioni, e provvedono a risolvere il problema».

Assolto

Dunque, con sentenza del 18 luglio scorso i giudici della seconda sezione della Corte d’Appello di Milano hanno assolto Silvio Berlusconi dai capi d’accusa che gli erano stati mossi in primo grado, in merito al processo attorno alla ragazza marocchina Karima El Marough, in arte Ruby rubacuori.

L’impianto accusatorio dei pm milanesi Ilda Boccassini ed Antonio Sangermano, che avevano chiesto sette anni di condanna per l’ex premier per i reati di concussione (sei anni) e prostituzione minorile (un anno), è stato completamente ribaltato.

Per saperne di più occorrerà aspettare le motivazioni della sentenza, ma intanto si legge che il collegio giudicante presieduto da Enrico Tranfa ha stabilito che per la prima ipotesi “il fatto non sussiste”, mentre per la seconda “il fatto non costituisce reato”.

In parole povere, la sera del 27 maggio 2010 quando la giovane Ruby fu fermata dalla Questura di Milano per furto, nella telefonata da Parigi che fece l’allora presidente del Consiglio, a seguito della quale la ragazza marocchina anziché finire in comunità venne affidata alla consigliera regionale Nicole Minetti e poi ospitata in casa di una prostituta, i giudici non hanno trovato alla fine alcun elemento di concussione o di costrizione nei confronti dei funzionari di polizia Pietro Ostuni e Giorgia Iafrate.

Lo stesso Berlusconi, inoltre, è risultato convinto che Ruby fosse effettivamente parente del presidente egiziano Hosni Mubarak e quindi preoccupato di evitare un incidente diplomatico.

Da qui il risultato processuale dell’accusa di concussione (dal latino scuotere), e cioè di avere fatto pressioni sulla Questura: il fatto non sussiste.

Si legge poi che nemmeno il reato ipotizzato di prostituzione minorile ha retto al vaglio della Corte d’Appello, perché l’imputato è risultato non essere a conoscenza del fatto che Ruby fosse minorenne. Qui la formula giuridica dell’assoluzione è stata, appunto, “il fatto non costituisce reato”.

Mi viene in mente quello che diceva Roseda Tumiati nelle sue indimenticabili lezioni di diritto: “Attenzione perché le parole non sono mai dette a caso”.

La questione riguarda le famose serate galanti ad Arcore, delle quali la stessa Karima fu ospite. Sono state definite in tanti modi, dal Bunga Bunga, fino all’accostamento fatto dallo stesso Berlusconi al burlesque.

Ora, se le parole che si leggono hanno un senso vuol dire che nel caso quegli incontri fossero stati dei tornei a canasta, a nessuno sarebbe venuto in mente di sollevare il problema della minore età della ragazza. È forse vietato giocare a carte con una diciassettenne?

Si dà il caso, quindi, che le serate non si siano svolte al tavolo da gioco, ma sotto le lenzuola. Qualcuno ha anche detto che la stessa linea difensiva dell’ex Cavaliere, messa a punto dagli avvocati Franco Coppi e Filippo Dinacci, si è svolta sulla base di questa premessa.

Da qui, appunto, la formula giuridica “il fatto non costituisce reato”. È stato contestato il reato, ma non il fatto in sé.

Dicendo questo non si vuole finire nel girone infernale nel quale l’ateo devoto Giuliano Ferrara, non senza ragione, mette i vari guardoni, bacchettoni, pruriginosi, falsi moralisti e voraci usurpatori della riservatezza personale.

Semmai questo sarà un problema per quegli alti prelati e curiali di santa romana chiesa che, per giustificare un’alleanza politica nel nome della difesa dei valori non negoziabili, sono arrivati addirittura a contestualizzare la bestemmia.

Più laicamente, da cittadini è lecito farsi alcune domande sulla vicenda, sempre che le cose che si leggono e si sentono ai tg siano esatte.

Ammettiamo, come scrive ancora Ferrara su Il Foglio (19 e 20 luglio), che queste risultanze processuali siano la dimostrazione di un ventennale “spirito inquisitorio senza prove” ai danni di Berlusconi. “Essenza storica – incalza – del partito dei magistrati e dei giornalisti combattenti, un grumo intimidatorio di antidemocrazia e di illiberalismo”, messo in atto mediante una gogna mediatica praticamente senza limiti e precedenti.

Di questo passo si arriva alla teoria del complotto e del colpo di Stato (tesi scritta e riscritta anche sulle colonne di Libero e Il Giornale), ai danni di Berlusconi (vittima e non colpevole) e della sua azione di governo sempre legittimata dagli italiani, per mano di una sinistra (il mandante) che non avendo mai assimilato pienamente la cultura democratica, non accetta le sconfitte elettorali e cede ripetutamente alla tentazione del ribaltone. Della manovra di palazzo lontano dalle urne, per conquistare il potere (in virtù del principio che la verità è a sinistra), con la complicità di certa stampa intellettual-progressista e di una parte della magistratura. Il tutto a formare un’egemonia culturale di impronta gramsciana, che agirebbe come una pedagogica morsa sulle menti dell’opinione pubblica nazionale.

Da qui anche la domanda che echeggia dopo la sentenza: e adesso chi risarcisce gli italiani da questo gigantesco furto della democrazia?

Volando molto più basso del direttore de Il Foglio, e di tutti quelli che la pensano così, è lecito pensare anche a che razza di presidente del Consiglio abbia avuto questo paese (il più longevo della storia della Repubblica), il quale non sa se chi si porta non solo a casa propria ma sotto le lenzuola sia una minorenne e, peggio, tantomeno è informato se sia o no la nipote di un capo di Stato.

Tanto da intervenire, da una capitale europea nella quale si trova per impegni istituzionali, su una Questura (sia pure lecitamente) e da interessare successivamente un intero Parlamento della questione. Con inevitabili pagine e pagine di giornali e telegiornali, che leggono e vedono anche all’estero questo singolare svarione.

Sorge cioè spontaneo il dubbio come possa una persona così (diciamo?) vulnerabile, leggera e disinvolta al limite del guascone nel curare le proprie frequentazioni personali, pretendere di rappresentare e tutelare un intero paese nelle vesti di una delle più alte cariche dello Stato italiano.

Il punto non sono allora le disinibite frequentazioni personali (ognuno è libero di fare della propria vita ciò che vuole), ma se quei risolini del duo Merkel-Sarkozy in un consesso europeo siano esclusivamente il risultato di una complessiva gogna denigratoria, autolesionista al punto da essere incurante delle conseguenze sulla credibilità delle istituzioni nazionali e sulla reputazione del paese stesso sulla scena internazionale, oppure se Berlusconi non ci abbia messo anche molto del suo, tanto da essere stato percepito da fuori inadatto a governare.

Certamente l’ex premier ha sempre avuto dalla sua le urne piene, a differenza di altri, e questo in democrazia è ciò che conta.

Ma in democrazia non è nemmeno proibito avere dei dubbi sulle qualità almeno istituzionali di una persona, che spesso ha dato invece l’impressione di essere ben al di sotto di quelle aspettative.

Pepito Sbazzeguti

Sindaci, sventolate le bandiere
di Israele e della Palestina
con l’arcobaleno della Pace

Fra Israele e Palestina in questi drammatici giorni si assiste alla recrudescenza di un conflitto mai sopito. L’umanità guarda con ansia a quella terra martoriata e assiste a una nuova ondata di violenza e di dolore. Lo spettro della guerra si affaccia di nuovo, soluzione ipotetica destinata solo a creare ancora morte e ingiustizia. Il millenario cammino di civilizzazione dell’uomo non è stato sufficiente a far comprendere che nessuna guerra potrà mai risolvere i problemi che ci affliggono, che la violenza è foriera solo di altra violenza.
In queste ore in cui troppi hanno abbandonato la via del dialogo e il cammino della comprensione e si professa l’insano verbo della crudele ritorsione, qualcuno a Ferrara ha lanciato al Comune una proposta che, nella sua unilateralità, appare provocatoria: quella di esporre dal palazzo municipale la bandiera di Israele, per tracciare l’ennesima linea di divisione.
Ebbene, ferraraitalia risponde con un’idea di pace: chiediamo al sindaco di Ferrara e a tutti i sindaci d’Italia di esporre insieme le bandiere di Israele, della Palestina e accanto a loro il vessillo arcobaleno della Pace, auspicio e insieme annuncio di un mondo diverso e possibile.

Neanche in Mozambico…

Al rientro in Italia chissà se Renzi ha provato una qualche invidia per quel Paese, di fronte all’inverecondo spettacolo apparecchiato in men che non si dica dal circo Barnum che da sempre accompagna il Nostro ex cavaliere. L’Italia intera dopo la sentenza Ruby gli deve le scuse. Anzi Berlusconi santo subito. Per certi giornalisti, politici e “ politologi”, opinionisti un tanto al chilo, è la rivincita contro i “giustizialisti” che in questi anni hanno denunciato come soldi da Mediaset siano stati indirizzati alla mafia, a uomini politici, a giudici corrotti si sia attinto a fondi neri e praticato l’evasione fiscale.
Il Cerchio Magico che da sempre ha contornato e tutt’ora circonda il Cavaliere è composto da prostitute, affaristi, maneggioni, ricattatori etc. Tutta gente che alle parole etica o legalità viene colta da attacchi di orticaria. Fanno di tutto, costoro, per abbassare l’asticella già non altissima degli italiani sul rigore morale ed il rispetto istituzionale che il resto dell’Europa tiene invece ben fermo. Il nostro pimpante presidente del Consiglio ha voluto dire la sua scivolando su di una buccia di banana (del resto era in Africa). Ci ha immediatamente fatto sapere che anche in presenza di una condanna sul caso Ruby lui sarebbe andato avanti con il cavaliere “perché politica e giustizia debbono stare distinte”. Una enormità che non sta né in cielo né in terra!
A smentirlo basterebbero le reazioni del Cavaliere e del suo seguito che subito si sono dati da fare per portare all’incasso politicamente una assoluzione cui non si sarebbero giocato un euro. Ora ventre a terra per la grazia, prodromica alla “agibilità politica” per una nuova destra, per una ”riforma” della giustizia (di rito berlusconiano) etc.
E’ tutto un rifiorire di proposte per imporci di nuovo il caro leader. Verrebbe da dire: Renzi ci sei o ci fai? Qualunque cittadino venisse colpito da una severa condanna o esibisse una biografia come quella del cavaliere sarebbe emarginato dalla parte sana ed onesta della cittadinanza. Renzi rammenti il vecchio e saggio detto popolare: dimmi con chi vai e ti dirò chi sei.
Le riforme innanzitutto e sopratutto. Anche se gli interlocutori sono Belzebù-Verdini (che ha più procedimenti giudiziari che capelli in testa) e quel Berlusconi che vuole riformare la Costituzione perché “troppo comunista” e che tranne una volta, rifiutò sempre di celebrare quel 25 aprile da cui essa ha attinto i suoi valori fondanti. Le regole vanno scritte con tutti. E’ il leit motiv ossessivo. Ma la domanda sorge spontanea, come il dubbio: se i miei interlocutori sono quelli sopra descritti siamo in presenza di riforme o controriforme? Altro pezzo forte: Berlusconi rappresenta sei milioni di italiani, quindi vanno coinvolti. Per Renzi un assioma.
A parte che l’uomo di Arcore ne ha persi in questi anni più della metà di elettori e sarebbe interessante discutere sui valori, le aspettative, le richieste di quelli che sono rimasti e su quale tipo di Paese hanno in mente (mi corre un brivido), per la storia ricordo che la rappresentatività di cui Berlusconi si è sempre fatto forte per chiedere un codice penale ‘ad personam’ è strettamente collegata alla qualità della stessa che prevede la diversità, ma mai contro o fuori della Carta Costituzionale.
Mussolini a metà degli anni “30 era più che mai – purtroppo – ‘rappresentativo’ del Paese. Gli antifascisti però non avvertivano la necessità di dialogare. I monarchici ebbero al referendum quasi più di 10 milioni di voti ma la Costituzione fu promulgata senza di loro. Anzi essa decretò l’esilio del Re e dei suoi familiari. Resto del parere per il bene dell’Italia che Berlusconi vada indebolito non rafforzato. Sinora però caro Renzi… Del presidente del Consiglio ammiro il dinamismo. Ho votato per lui alle primarie. La voglia di fare, innovare. Ne ho avuto abbastanza dei fallimenti della sinistra in questi 20 anni. Ma adelante Matteo con juicio. L’unità con Forza Italia si dice che c’è. Vedremo poi su cosa. Per intanto il Paese è spaccato.

Reporter o scrittore? Confessioni di un aspirante giornalista

“La prima cosa che salta agli occhi è il sorriso. Sempre il sorriso, ovunque il sorriso. Come se quel viso non fosse mai triste, preoccupato, furioso. Se non si apriva in un sorriso, era piuttosto assorto, concentrato. Imbarazzato. “Non disturbo?”, chiedeva quando senza preavviso o anche su appuntamento passava in redazione, si avvicinava a una scrivania, entrava in un ufficio. E di nuovo il sorriso: di scusa, lievemente vergognoso. Un sorriso di difesa, che spianava la strada alla ritirata”. Arthur Domoslawski, La vera vita di Kapuściński.

Ho letto Ebano di Ryszard Kapuściński a Parigi, dodici anni fa circa, in un momento estremamente positivo e vivace del mio percorso di vita personale e professionale.
Oggi, scopro un bellissimo e interessante libro che non solo mi ricorda quella lettura e mi fa riflettere, ancora una volta, sulla bellezza del viaggio e la fortuna di poter scrivere sugli incontri fatti e i luoghi visitati, ma che mi fa anche pensare al limite, a volte molto esile e sottile, se non poco tangibile, fra il reportage e la letteratura, a un forte legame che a volte li rende complici.

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Copertina di ‘La vera vita di Kapuściński: reporter o narratore?’ (Arthur Domoslawski, Fazi 2012)

Il libro di cui parlo è La vera vita di Kapuściński: reporter o narratore?, del polacco Arthur Domoslawski (Fazi editore), che ho scoperto, per caso, nella mia continua e febbrile ricerca di letture interessanti sul tema dei reportage di viaggi.
Non mi soffermerò sulle polemiche che hanno accompagnato il libro (tipo fatti inventati / amplificati o informazioni avute grazie a una collaborazione con i servizi segreti polacchi), ciò che m’interessa è ben altro. Ad affascinarmi di questa biografia, una storia personale che si legge come un romanzo d’avventura, è, in primis, la prefazione all’edizione francese di Jan Krauze, che descrive Kapuściński come un reporter che ha superato i limiti del giornalismo per approdare alle rive di un altro regno, quello della letteratura. Kapuściński è stato allora un grande reporter o un grande narratore? Ha mai avuto la tendenza a esagerare o a inventare fatti e storie? Fino a che punto si possono modificare i fatti per scrivere un reportage? Dove termina il reportage e comincia la letteratura? Qual è la relazione tra la realtà e le parole, tra la storia e la letteratura?

Questo libro apre mille riflessioni, mi fa rileggere e ripensare i miei reportage di viaggio, le mie interviste con testimoni di fatti o situazioni presentate ai miei fedeli e instancabili lettori.
Il dibattito sui limiti degli elementi narrativi nel reportage, del resto, non è nuovo: da oltre cinquant’anni esiste una categoria letteraria specifica, conosciuta in inglese come “faction”, per le opere che uniscono la descrizione dei fatti alla letteratura.
Kapuściński aveva un punto di vista originale sul tema dell’obiettività. In un’intervista citata da Domosławski, afferma “Non credo nel giornalismo neutrale, nell’obiettività formale. Il giornalista non può essere un testimone indifferente, ma dovrebbe possedere quell’abilità che la psicologia chiama empatia. Il cosiddetto giornalismo obiettivo non è praticabile in contesti di guerra. I tentativi di obiettività in queste situazioni portano alla disinformazione”.
L’uomo e il suo sentire restano, dunque, al centro di ogni storia. I protagonisti veri.
Kapuściński viene poi considerato anche un anticipatore della tendenza “glocal”, per aver saputo dare valore alle storie locali, mettendole in connessione con l’orizzonte ampio di un mondo che cambia in continuazione e velocemente, nel quadro della globalizzazione del secondo millennio. Un pioniere quindi della parola, del viaggio, dei fatti nel viaggio e del viaggio nei fatti, degli eventi nella vita di ogni uomo incontrato su strade polverose, della volontà di dare volto e voce a chi non l’ha e di produrre una qualche forma di cambiamento nel mondo.
Se poi leggo e rileggo le belle pagine di Ebano, mi ricordo ancora dei lunghi e intriganti passaggi sull’Africa, sulla concezione africana del tempo, sulle descrizioni di paesaggi eterni e sterminati. I racconti, le immagini, le sensazioni e le descrizioni si mescolano ai fatti, ci si perde nella loro fusione quasi totale. Kapuściński (e, ammetto, che mi ci ritrovo quando scrivo), da la prova del dono dell’empatia: è un turco fra i turchi, un africano fra gli africani.
Lo vedo passeggiare, attento ma senza prendere note, osservare la vita degli uomini “fino alla frontiera della finzione”, che finisce per trascinarlo via con sé, facendo del reporter un romanziere riconosciuto ben al di fuori del suo paese. Mi vedo un lui, mi domando, ancora, quanto la fantasia possa sposarsi con la realtà, come le due dimensioni possano confondersi.
Se penso ai miei viaggi maliani, fatico a separare i fatti dalle emozioni e dai racconti raccolti per le strada, parlando con un anziano e affaticato tuareg.
Kapuściński non lascia che tracce, ossia delle parole. Come un dito su un alone annebbiato di un vetro, un io solitario che partorisce idee nelle camere d’albergo, viaggiando su un treno o su un bus sgangherato nella foresta. Mi sento pure io un po’ un io solitario che cerca di lasciare tracce di emozioni attraverso la parola e, ciò, sulle linee marcate di vite reali. Perché credo che, alla fine, un buon reporter debba essere un buon scrittore e raccontare la vita e la storia come in un libro. D’altra parte, anche Graham Greene affermava che “una ragione meschina, forse, per la quale i romanzieri cercano di mantenere le distanze dai giornalisti è che i romanzieri si sforzano di scrivere la verità, mentre i giornalisti di scrivere la finzione”.
Il vero reporter, allora, è forse un buon romanziere-scrittore?

«Questo l’ho già suonato domani»

D’estate si leggono di solito romanzi e racconti, difficilmente si legge di racconti e di romanzi.
In epoca di digital literacy mantenere il culto del libro non è cosa da poco, perché tra i diversi strumenti dell’uomo, il più stupefacente è, senza dubbio, il libro.
Credo però che si debba diffidare di quanti accumulano letture, come se la cultura derivasse unicamente dalla loro somma, pensando che romanzi, racconti o poesie, per il solo fatto di essere stati stampati e acquisiti dalle biblioteche, abbiano valore in sé e in quanto opere della fantasia.
No. Ogni libro ha una storia di circostanze e di ragioni. Quando si parla dei grandi classici, anche le analisi stilistiche più raffinate restano sterili esercizi accademici, se ignorano quanto indusse un Virgilio o uno Shakespeare o un Cervantes a scrivere quello che hanno scritto.
Ecco perché leggere di romanzi e di racconti ha un valore formativo, che va ben oltre le liste di volumi assegnati al termine delle scuole dagli insegnanti agli studenti per le vacanze o a quegli sterili resoconti letterari che con diligenza routinaria i candidati portano ai nostri esami di stato.
Magnifiche lezioni sul libro ci hanno lasciato i Borges oral, cinque conferenze tenute all’Università di Belgrano; le Lezioni americane: sei proposte per il prossimo millennio di Italo Calvino; le Lezioni di letteratura di Nabokov; Sei passeggiate nei boschi narrativi, le Norton Lectures 1992-1993 tenute da Umberto Eco all’Università di Harvard.
Ora Einaudi pubblica Lezioni di letteratura, di Julio Cortázar. Tredici ore di lezioni che l’autore di Storie di Cronopios e di Famas tenne a Berkeley nell’ottobre e novembre del 1980. Lezioni rivolte ad un uditorio di giovani studenti con lo scopo preciso di aiutarli a diventare o a scoprirsi buoni lettori.
Cortázar espone un’idea di letteratura che non è quella scolastica, un’idea di letteratura come impegno civile, non la letteratura dell’arte per l’arte, ma quella espressa da una nuova generazione di scrittori coinvolti nelle lotte, nelle discussioni, nella crisi del loro popolo e dei popoli nel loro insieme. L’impegno per una scrittura strettamente legata e partecipe del quotidiano che bussa alla porta, il lavoro non dello scrittore latinoamericano, ma di un latinoamericano scrittore come Cortázar rivendica di voler essere.
Le sue non sono lezioni cattedratiche: Cortázar porta avanti con gli studenti un vero e proprio dialogo sulla letteratura.
I temi trattati sono molti, le caratteristiche del racconto fantastico; la musicalità, lo humour, l’erotismo e il gioco in letteratura; il rapporto tra immaginazione e realismo, la letteratura d’impegno sociale e le trappole del linguaggio, e tutti vengono affrontati con un approccio concreto, che sempre trova un punto d’appoggio in letture ed esempi che appartengono non solo alla letteratura, ma alla produzione culturale di ogni epoca. E le lezioni diventano ancor più interessanti quando Cortázar racconta l’evoluzione del suo percorso di scrittore: come nacquero i cronopios o alcuni dei suoi celebri racconti; il significato di Rajuela e il suo processo di scrittura.
«Tra i diversi strumenti dell’uomo, il più stupefacente è, senza dubbio, il libro. Gli altri sono estensioni del suo corpo. Il microscopio, il telescopio, sono estensioni della sua vista; il telefono è estensione della voce; poi ci sono l’aratro e la spada, estensioni del suo braccio. Ma il libro è un’altra cosa: il libro è un’estensione della memoria e dell’immaginazione» dice Cortázar ai suoi studenti. E continua: «Ogni volta che leggiamo un libro, il libro è mutato, la connotazione delle parole è diversa. Inoltre, i libri sono carichi di passato».
Parlando delle sue strade di scrittore, racconta ai giovani universitari come è possibile passare dal culto della letteratura per la letteratura, ad una letteratura come ricerca del destino umano, alla letteratura come uno dei modi di partecipare ai processi storici che toccano ciascuno di noi e i nostri Paesi.
Cortázar non è solo uno scrittore, ma uno scrittore che usa la lingua come terreno di rivoluzione, che ha speso la sua vita a combattere le sintassi e le strutture che obbligano a pensare in modi predeterminati. Perché, tanto per cominciare, lo scrittore gioca con le parole, e il suo gioco è un gioco sul serio. Racconta della dilatazione del tempo oltre la realtà nella fantasia, nella fatalità, il gioco della mente e del pensiero. Di sequenze interiori, di visioni, di sguardi che abbattono le barriere spazio temporali, della grande narrativa latino americana.
Le otto lezioni di Cortázar sono riflessioni personali sulla sua vita e sul suo lavoro, inviti a chi gli sta intorno ad interrogare a sua volta la propria di vita, perché ognuno di noi come il Charlie Parker di Il persecutore può dire: «Questo l’ho già suonato domani».

E sono cinquanta: l’Italia celebra le nozze d’oro con l’Unesco

di Fausto Natali

Molti sono i motivi per i quali la riunione del Comitato del Patrimonio Mondiale di fine giugno in Qatar può essere definita “storica”. Innanzitutto, perché con l’inserimento nella prestigiosa World Heritage List dei “Paesaggi vitivinicoli delle Langhe-Roero e Monferrato” i siti italiani sono diventati Cinquanta. Primi in classifica, davanti a Cina e Spagna. Un fatto importante sul quale occorre spendere qualche parola partendo dalla leggenda che ci assegna il 50% di beni culturali di tutto il pianeta! Non è vero, forse ci avviciniamo al 5%, ma restano pur sempre tanti. L’Italia annovera, infatti, una costellazione di città, borghi, castelli, chiese, musei, opere d’arte, tradizioni e paesaggi unica al mondo. Capolavori dell’uomo e della natura che costituiscono “la risorsa di cui l’Italia è più ricca”, per usare le parole del Presidente Napolitano. Il guaio è che diamo tutto per scontato. C’è chi pensa, e sono i più, che sia sufficiente possedere un bel monumento o un panorama mozzafiato per attivare crescita e sviluppo. Un errore strategico che induce ad affidarsi alla proverbiale capacità di improvvisazione degli italiani, saltando a piè pari coordinamento, programmazione e investimenti. Nel frattempo, le nostre croniche carenze strutturali (prezzi poco concorrenziali, offerta ripetitiva, servizi inadeguati e scarso utilizzo delle nuove tecnologie) fanno sì che Paesi meno dotati del nostro dal punto di vista culturale e paesaggistico generino ritorni in termini economici di gran lunga superiori ai nostri. In buona sostanza, dobbiamo essere sì orgogliosi dei tanti riconoscimenti al nostro Paese, ma stare anche attenti a non sprecare questa ulteriore occasione confidando solo nella nostra buona stella.

Il secondo verdetto epocale dell’ultima sessione del Comitato è costituito dall’inserimento nella Lista del Delta dell’Okavango, in Botswana, uno degli ecosistemi più ricchi del pianeta. Non tanto per le sue peculiarità, ma perché con il sito africano si è raggiunta la fatidica quota mille. Un momento tanto atteso, ma altrettanto temuto in quanto rilancia l’apocalittico dibattito del “mille e non più di mille” (ora sono 1007, per essere precisi). I numeri, a volte, a ben interpretarli, vanno oltre il loro mero significato matematico e assumono valori culturali e simbolici profondi. Mille ha rappresentato un momento importante per la storia dell’uomo e un miraggio per la busta paga degli italiani della prima metà del secolo scorso (e per i giovani di questo inizio secolo), in ambito Unesco può assumere accezioni molto diverse. Per alcuni non è nient’altro che una soglia da oltrepassare, senza particolari esitazioni, per salvaguardare un numero sempre maggiore di capolavori dell’uomo e della natura, un sorta di arca sulla quale imbarcare ogni bene la cui integrità è messa in pericolo, per altri, invece, rappresenta un confine oltre il quale l’ambito riconoscimento rischia di svalutarsi e di perdere credibilità. Un dibattito che, a sua volta, ne innesca un altro: la evidente sproporzione geografica fra siti europei e nord americani, la metà del totale, e tutti gli altri. Un divario, frutto di uno scompenso geopolitico, che si ripercuote in tutte le agenzie delle Nazioni Unite, Unesco inclusa, e che inevitabilmente fa pendere la bilancia verso occidente.

La terza storica decisione assunta dal Comitato Unesco di Doha, anche in questo caso scintilla di infinite polemiche, è stata l’iscrizione del primo sito palestinese: il piccolo villaggio agricolo di Battir, a sud di Gerusalemme. Uno straordinario paesaggio culturale di olivi e viti caratterizzato da terrazzamenti e canalizzazioni di epoca romana, minacciato nella sua integrità dalla costruzione del Muro “di sicurezza” israeliano che taglierebbe in due il villaggio – di cui un terzo si trova già nel territorio annesso unilateralmente da Tel Aviv – e distruggerebbe il suo antico sistema di irrigazione. Una decisione coraggiosa che nasce dalla consapevolezza che la pace si favorisce e si mantiene solo attraverso la conoscenza reciproca e lo scambio culturale fra donne e uomini di popoli ed etnie diverse, anche se i venti di guerra che in questi giorni flagellano Gaza sembrano non tenerne conto.

Israele e Palestina, opinioni e storia

di Fabio Zangara

Per capire il conflitto arabo-israeliano è necessario conoscere la storia. Solamente una riflessione seria e onesta sugli eventi storici ci permetteranno di capire un conflitto che nessuno può vincere.
Dalla metà del XIX secolo nascono, fra i popoli assoggettati alle grandi potenze europee – i maggiori esempi sono Austria e Inghilterra – movimenti che come principale istanza hanno il riconoscimento della propria identità nazionale e la conseguente indipendenza dallo “straniero oppressore”. In questo clima si inserisce in Europa il nazionalismo slavo in contrapposizione al dominio asburgico, mentre in Asia il Guomindang giapponese lotta contro le ingerenze inglesi, francesi, tedesche e statunitensi nel proprio paese. Nella ricerca di un’identità nazionale si inserisce anche il sionismo ottocentesco. In risposta alla mancanza di uno Stato ebraico e alle persecuzioni violente (“pogrom”) che le comunità ebraiche subivano, specialmente nell’est Europa, Theodor Herzl, intellettuale ungherese, nel 1896 pubblica il volume “Lo Stato ebraico”, saggio storico in cui sostiene che l’unica soluzione per la causa ebraica è la costruzione di un proprio stato. Herzl inizialmente ipotizzò l’Argentina come luogo predestinato ad ospitare la nuova casa ebraica; solo successivamente egli scelse la Palestina, in contrasto con i pareri dei laici intellettuali del sionismo storico, fra i quali Leon Pinsker e Moses Hess, che non volevano ricadere nella “melassa della tradizione biblica ultra ortodossa”. L’anno successivo (1897) Herzl convoca a Zurigo il primo congresso dell’Organizzazione sionista mondiale (Wzo) in cui viene deciso il “ritorno a Sion”, da ottenersi attraverso l’emigrazione in Palestina di coloni e l’appoggio delle grandi potenze.
I sionisti europei approdano in una terra, la Palestina, che aveva visto una convivenza secolare e pacifica fra comunità araba ed ebraica ottomana, una realtà storica confermata nel 1947 dalla testimonianza rilasciata allo speciale Comitato delle Nazioni Unite sulla Palestina dell’eminente rabbino Yosef Tzvi Dushinksy. Ma sono due i fattori fondamentali a far degenerare la situazione. La presenza di un nutrito gruppo di estremisti religiosi che professavano l’intenzione di colonizzare la Palestina nella sua integrità, seguendo la loro interpretazione della Bibbia, e di conseguenza cacciare l’arabo da quelle terre. L’altro fattore è il potere economico elevatissimo sul quale il movimento sionista poteva fare affidamento, grazie all’appoggio del Fondo Monetario Ebraico, che raccoglieva finanziamenti da potenti famiglie ebree europee, come ad esempio i Rothschild.
Ma è il 1917 l’anno tragico per la popolazione araba in Palestina: il ministro degli Esteri inglese Arthur Balfour, con la sua famosa Dichiarazione, riconosce esclusivamente ai sionisti il diritto di costruire un proprio Stato, di fatto distruggendo ogni speranza di autodeterminazione della popolazione araba. Nel 1922 l’Inghilterra riceve dalla Società delle Nazioni il mandato per l’amministrazione della Palestina. Sotto l’amministrazione inglese viene istituita la Jewish Agency per promuovere l’economia ebraica e l’esproprio delle terre ai contadini palestinesi tramite l’acquisto di queste dai possidenti stranieri. Vengono quindi sempre di più rafforzati gli intenti della Dichiarazione di Balfour e le dichiarazioni dei maggiori esponenti del Wzo confermarono i timori della comunità araba. Nel 1921 infatti Eder, leader sionista, dichiara: “Ci sarà solo una nazione in Palestina, e sarà quella ebraica. Non ci sarà eguaglianza fra ebrei e arabi, ma vi sarà la predominanza ebraica appena la proporzioni demografiche ce lo permetteranno”, Herzl ammette inoltre di voler “sospingere la popolazione palestinese in miseria oltre le frontiere”. Queste dichiarazioni ispirarono un vero e proprio movimento terrorista sionista con la costituzioni di gruppi armati come lo Stern e Irgun, responsabili di gravi attentati contro ufficiali inglesi e popolazione civile.

Nel 1947 gli Inglesi rinunciano al mandato e cedono la gestione all’Onu, anche perché il territorio stava sempre di più passando sotto l’egida statunitense. L’Onu propone nella Risoluzione 181 uno dei tanti piani di “spartizione” della Palestina: alla popolazione ebraica sarebbe andato il 54% delle terre anche se costituivano solamente il 30% della popolazione presente. Nel frattempo il carattere del movimento sionista non cambia. Ben Gurion il 1 gennaio 1948 scrive: “C’è bisogno di una reazione brutale. Dobbiamo essere precisi su coloro che colpiamo. Se accusiamo una famiglia palestinese non c’è bisogno di distinguere fra colpevoli e innocenti. Dobbiamo fargli del male senza pietà, altrimenti non sarebbe un’azione efficace”.
Il 14 maggio 1948 nasce lo Stato d’Israele indipendente, che i palestinesi ricordano con Nakba (catastrofe).

Dovrebbe essere chiaro a tutti, in particolare a studiosi, esponenti politici, persone di cultura, che così come è dannoso nascondere o sminuire le responsabilità dei gruppi terroristici arabi, lo stesso deve essere per le golazioni politiche e militari di Israele avvenute nel corso della storia. Omettere fatti e azioni che portarono lo stesso Aharon Cizling, ministro del primo governo d’Israele, a dichiarare: “Adesso anche gli ebrei si sono comportati come i nazisti tutta la mia anima ne è turbata”, non ci porterà mai a capire che cosa è accaduto e sta accadendo ancora oggi in quelle terre. Alla luce degli ultimi avvenimenti i propositi e le dichiarazioni di Herzl, Eder e Gurion sono tristemente profetiche, segnali di una profezia avveratasi anche a causa dell’ignoranza storica che ha permeato l’intero decorso della vicenda. Golda Meir dichiarò nel 1969 al The Sunday Times: “Il popolo palestinese non esiste… Quando siamo venuti, noi non li abbiamo cacciati e non abbiamo preso il loro Paese. Essi non esistono”. Per Golda Meir e per chi decise di collocare lo Stato ebraico in Palestina, questa terra era “Terra nullius”, terra di nessuno: gli abitanti della Palestina non venivano considerati, nemmeno come entità numeriche.

La Storia non è pregiudizio ideologico ma conoscenza. Nascondere questi fatti è grave tanto quanto negare l’esistenza dei lager nazisti che uccisero 6 milioni di ebrei.

A Codigoro gli animali hanno di nuovo la loro clinica, ma La Garzaia riapre senza PulciNo

Conto alla rovescia per la riapertura del Cras (Centro di recupero per animali selvatici) La Garzaia di Codigoro che sarà gestito da Lida, l’onlus per i diritti degli animali autorizzata dalla Provincia, proprietaria della struttura, a riprendere l’attività. Il centro è chiuso da marzo, quando la ditta Pulcino di Giuliano Valentini, privata dell’erogazione di denaro provinciale ha ceduto il passo, rinunciando alla gestione per l’impossibilità di occuparsi della manutenzione ritenuta straordinaria rispetto agli impegni assunti con l’ente ferrarese. “Era economicamente insostenibile e non dovuto – spiega con amarezza l’ex responsabile del Cras, il veterinario Luciano Tarricone – Nonostante le segnalazioni sulle emergenze, che vanno dalle gabbie non a norma, alla presenza di amianto da rimuovere, le nostre richieste come le nostre proposte, sono state ignorate. Siamo stati costretti ad assistere molti degli animali nella clinica Benvenuto di Polesella, centro della Provincia di Rovigo, lo abbiamo fatto per la loro salute e per la sicurezza dei volontari che con noi hanno lavorato”. Tutti gli ospiti della Garzaia, soprattutto rapaci, sono tornati liberi a settembre, ma i ricoveri sono proseguiti a Polesella, quando ancora sembrava ci fosse margine per salvare il lavoro di 13 anni.

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Un falco liberato prima della chiusura “forzata” della Garzaia

“In termini economici non sono mai andato oltre il rimborso spese, anzi ho partecipato con contributi personali – dice – Il rapporto con la Provincia, in stand by per mesi, ha portato alla decisione finale: lasciare”. Nono nasconde l’amarezza per gli anni di impegno, che ancora gli fruttano numerose richieste di soccorso. “Le difficoltà erano note, mi aspettavo di ricevere la metà del contributo previsto per i Cras, 12 mila euro, senza i quali è impossibile intervenire – spiega – Abbiamo fatto appelli e manifestazioni di ogni tipo, siamo arrivati anche in Rai, ma non è servito a niente. Se il centro di Codigoro è andato in malora non è certo per negligenza di chi vi ha operato”. Impianti di luce e riscaldamento fuori norma, niente servizi igienici, niente derattizzazione, gabbie datate per le necessità di permanenza e recupero. Condizioni inadatte per sostenere un’attività veterinaria come quella richiesta dalle circostanze. Cose risapute, sottolinea il veterinario, ricordando che la permanenza di personale senza una foresteria igienicamente passabile e attrezzata era del tutto impensabile. Nonostante questo, racconta, era garantita la presenza di un operatore per tre mattinate dalle 9 alle ore 12, il ritiro degli animali su chiamata a Codigoro e nella provincia. Fino a marzo, da allora gli animali vengono dirottati alla Lipu.

“I ricoveri li facciamo fino a sabato nella tarda mattinata (9.30 – 12,30 ndr) – spiega il naturalista Davide Tartari di Lipu di Ferrara – Chi è ospite del centro, come ovvio, riceve tutte le cure necessarie sette giorni su sette. Certo fossimo almeno in due i turni sarebbero meno massacranti, ma il momento è difficile e di fondi ce ne sono pochi per far fronte a tutte le esigenze. Ad aiutarmi ci sono i volontari”. Solo in questa prima parte dell’anno, racconta, sono stati ricoverati 1050 animali, il 90 per cento dei quali uccelli a cui si aggiungono piccoli mammiferi, ricci, pipistrelli, volpi. “Settecentoundici sono arrivati dal Comune di Ferrara, più o meno 500 dall’est della provincia, inclusa la zona verso il mare”, conclude.

“La temporanea chiusura della Garzaia ci ha messo in difficoltà – confessa Renato Finco Responsabile P.O. Agricoltura Sostenibile Caccia ed Aree Protette della Provincia – La legge prevede l’esistenza di due centri e si premura di avvantaggiare le associazioni senza scopo di lucro, crediamo dunque di aver risolto grazie a Lida un problema, incluso quello del trasporto degli animali, visto che l’associazione è dotata di ambulanza con servizio veterinario”. Il dottor Francesco Cardarelli di Codigoro, veterinario anche di Lipu, si occuperà dell’assistenza. “Umanamente capisco il dottor Tarricone, ma non c’è mai stato un contratto, non è mai esistita una convenzione, c’è un’autorizzazione rilasciata su richiesta. Quanto al Cras di Codigoro – spiega – ha avuto il parere favorevole dell’ufficio veterinario dell’Ausl”. Tutto in regola, il problema non si pone, così come l’eventuale saldo a compenso di prestazioni veterinarie. “Il contributo di denaro non è obbligatorio, pertanto nel 2013 non è stato dato. Tenunto conto dell’incertezza circa i fondi a nostra disposizione, faccio presente che l’erogazione viene di solito concessa quando si fa attività sul territorio”. E ancora: “In dicembre c’è stata una diffida verso la Pulcino, una richiesta di chiarimenti sulla tenuta dei registri di carico e scarico e più in generale sulla gestione del Cras”.

Tarricone
Luciano Tarricone accudisce un leprotto

Come dire, troppi problemi. La Provincia, interessata a mantenere il Cras nel delta del Po, ha così voltato pagina, ha scelto Lida, il volontariato tout court che garantisce con l’ambulanza in servizio 24 ore su 24 il recupero e l’assistenza degli animali in difficoltà in tutti i Comuni e dal 10 luglio le ha concesso l’autorizzazione per la gestione de ‘La Garzaia’. Due servizi e un gestore, il volontariato ancora una volta arriva là dove il portafogli langue. “Come Provincia non riusciamo a fare di più, in ogni caso abbiamo risolto un problema”, conclude Finco. Una vicenda come tante. Storie di uomini, animali e burocrazia. Passione e mestiere sono ingredienti raramente compatibili con gli ingranaggi amministrativi, soprattutto in tempo di vacche magre. In questo caso, il rapporto pubblico-privato si è rivelato alla stregua di un copione di Antonioni, il regista dell’incomunicabilità.

Giovedì 24 dibattito: Una via d’uscita dalla crisi: proposte concrete per la ripresa economica

“Una via d’uscita dalla crisi: proposte concrete per la ripresa economica” è il titolo del dibattito in programma a Ferrara giovedì 24 luglio alle 21 nella ‘sala della musica’ di via Boccaleone 19, all’interno del chiostro di San Paolo. Parteciperanno gli economisti Marco Cattaneo e Giovanni Zibordi, autori del volume “La soluzione per l’euro” edito da Hoepli, e Luigi Marattin, assessore al Bilancio del Comune di Ferrara nonché docente di Economia all’Università di Bologna.

L’incontro è stato preceduto nelle settimane scorse da un vivace confronto dialettico che ha trovato spazio sul nostro quotidiano: Cattaneo e Zibordi segnalano la necessità e l’urgenza di una considerevole immissione di liquidità nel sistema (almeno 200 miliardi di euro) per determinare un positivo shock e favorire il rilancio dell’economia. Al riguardo propongono la creazione di certificati di credito fiscale come succedanei di una moneta interna: un ingegnoso compromesso per restare all’interno dell’eurozona recuperando però una sostanziale sovranità monetaria. Marattin manifesta forti riserve, connesse in particolare a paventati rischi di inflazione. Gli interventi precedenti e le analitiche considerazioni dei protagonisti sono consultabili nell’archivio di ferraraitalia [per leggere clicca qua]

Ma anche la stampa nazionale, dopo un primo momento di scarsa considerazione, sta cominciando a riservare spazio al tema. Qua riportiamo i collegamenti a un primo articolo del 2013 del quotidiano economico Il sole 24 ore [leggi], una recente recensione al volume di Cattaneo e Zibordi di Italia oggi (quotidiano anch’esso di matrice economica, principale concorrente editoriale del Sole) [leggi], che mostra molto interesse a quanto espresso. Infine lo sguardo internazionale di Ecomonitor, testata online statunitense specializzata nell’informazione economica che al caso Italia e all’originale soluzione prospettata dedica un approfondimento [leggi]

L’appuntamento di giovedì 24, organizzato da ferraraitalia con il sostegno organizzativo di Gruppo economia Ferrara, Emmaus Ferrara e il patrocinio del Comune di Ferrara, si preannuncia caldo, non solo per questioni climatiche: l’auspicio, dati i temi in discussione, è che al di là delle schermaglie verbali possa prevalere la condivisa volontà di ricerca di una possibile e concreta via di soluzione per la crisi che ci attraversa.

Giverny, l’amato giardino di Monet

È tempo di vacanze, di gite e, per chi può permetterselo, di qualche bel viaggio. Andare in giro per giardini è un modo di viaggiare che mi piace molto e che sicuramente condivido con tutti gli appassionati di giardinaggio. Non c’è video, foto, quadro che possa rendere la fisica tridimensionalità di un giardino. Poco importa se non si è fortunati e pioverà a dirotto il giorno fatidico in cui si varcherà il cancello del luogo dei nostri sogni, soltanto l’esperienza diretta ci permette di capire realmente quali sono i rapporti tra i suoi spazi e il suo contesto. Osservare con attenzione, annusare, camminare con lentezza e curiosità, farsi le proprie foto e magari un appunto scritto su un quadernino, penso che rimanga la miglior scuola di arte dei giardini. Naturalmente queste esperienze dirette possono rivelarsi entusiasmanti tanto quanto deludenti, soprattutto quando si cade nella trappola delle forti aspettative. Un esempio che faccio spesso riguarda uno dei giardini più famosi al mondo, quello di Giverny, creato e dipinto da Claude Monet. Ho potuto visitarlo qualche anno fa e, nonostante la giornata di fine aprile fosse assolutamente perfetta, la compagnia ottima e il giardino straripante di bellezza e di fiori, ogni volta che penso a Giverny ho la sensazione che mi sia mancato qualcosa. Su questo giardino penso che sia stato detto e scritto di tutto. Monet è stato un grandissimo artista, nelle sue lettere scriveva di essere stato consapevole di avere tanto amato dipingere quanto coltivare piante, riconoscendosi solo due talenti: quello di pittore e quello di giardiniere. Monet aveva capito la modernità, o forse l’aveva solo intuita, ma nei suoi comportamenti si riconoscono alcune delle azioni tipiche dei nostri tempi, soprattutto quello che riguarda l’importanza di difendere la paternità delle proprie opere. Nel caso del giardino, Monet non lasciò che altri lo dipingessero, era fondamentale che quel soggetto, in particolare la parte del giardino con lo stagno delle ninfee, fosse riconducibile solo e soltanto al suo nome. Lo stesso Monet lasciò passare una quindicina di anni prima di dipingerlo, perché il paesaggio ha bisogno di tempo per essere compreso. La fusione tra giardino e pittura, che si è realizzata proprio nella persona dell’artista, impedisce oggi qualsiasi forma di sopravvivenza del giardino al di fuori delle tele, quello che vediamo oggi è tutta un’altra cosa, bellissima ma sostanzialmente diversa. Giverny è una miniera d’oro e tutto il lavoro dei giardinieri viene impostato per dare alle migliaia e migliaia di turisti che si mettono in coda davanti al portone, fioriture abbondantissime e percorsi sicuri. Questo significa che a fine aprile non ci siano dei tulipani, ma centinaia di tulipani, di ogni forma e colore, assemblati per ricostruire quella specie di sensazione vibrante che Monet riusciva a mettere sulla tela dipingendo rapidamente un’immagine fatta di luce e colore. L’effetto nella realtà è bellissimo, ma allo stesso tempo spiazzante: la cura estrema del giardino ripaga il prezzo del biglietto, sulle prime si viene rapiti e non si riesce a controllare l’impulso di scattare centinaia di foto, in un secondo momento gira un po’ la testa, perché l’occhio non trova un angolo spento su cui riposare. Il cosiddetto giardino giapponese, dominato dalla superficie acquatica dello stagno delle ninfee, dovrebbe calmare gli animi dalle emozioni del primo giardino e lasciare spazio alla tranquillità dei verdi e dei riflessi della luce sull’acqua. Ho usato il condizionale perché questo giardino negli ultimi vent’anni è stato decisamente modificato. Il colpo d’occhio è quello visto nei quadri, ma lo spazio sembra ristretto. Si mostra per quello che è: un piccolo laghetto dai bordi sinuosi. Monet aveva creato l’illusione di uno spazio più dilatato, lasciando a prato rasato molte delle superfici che bordavano lo stagno, superfici che oggi sono state riempite con fiori e bassi cespugli che servono per impedire ai turisti di cadere in acqua. Una recinzione sarebbe stata ancora più brutta, ma in ogni caso l’effetto complessivo è diverso. Devo ammettere che in questo giardino non ho sentito schiamazzi, ma una processione continua di persone comunque fa rumore, e questo tipo di giardino ha nel silenzio uno dei suoi ingredienti più importanti. In conclusione, ho visto un giardino bellissimo, ho passato una giornata piacevolissima con una cara amica, ma non ho trovato il giardino di Monet. Monet era un vero giardiniere, sapeva che il suo giardino sarebbe stata la sua opera più fragile, ma attraverso le sue tele, lo ha reso immortale.

[Foto di Alessia Albieri]

Ero un bambino

Dove abito non c’è un bel clima ma io sono un bambino: cosa vuoi che me ne importi?
Io voglio giocare e divertirmi.
Fa caldo questo pomeriggio ma è bello stare sulla spiaggia perché la brezza che arriva dal mare ti rinfresca la pelle.
La sabbia, sotto i piedi, scotta moltissimo.
Fa proprio un caldo infernale oggi ma non c’è niente di meglio che una bella partita di pallone in spiaggia per svagarsi un po’ in questa stagione rovente.
I mondiali di calcio saranno anche finiti ma, per noi bambini, ogni partita è come se fosse la finale.
Noi la giochiamo senza portiere, a porta unica: da quella bottiglia a quell’altra.
Abbiamo fatto la conta ed io sono in squadra con Ramez; contro di noi giocano Ahed e Zakaria.
Le squadre sono venute bene perché io ho 9 anni e Ramez 11, la somma delle nostre età fa 20; Zakaria e Ahed hanno 10 anni a testa e la somma fa 20.
Tutti insieme abbiamo 40 anni, una media di 10 anni a testa.
Nella vita apparteniamo tutti alla stessa famiglia, ma nel calcio bisogna schierarsi: due di qua e due di là.
Fa un caldo terribile oggi ma, quando corri sulla sabbia prendendo a calci un pallone, senti soltanto il piacere di sfidare il vento.
E quando corri in questo modo, senti di avere un coraggio ed una forza da leone; quelli che servono per poter andare contro chi ti sembra più forte di te.
Stavamo già uno a zero per noi quando, mentre stavo scartando Zakaria e Ramez mi urlava di passargliela, ho sentito una specie di ruggito…
No, non usciva dalla mia bocca; io non mi ero fatto suggestionare troppo dalla fantasia.
Era un missile!
Li conosciamo bene anche noi bambini.
È passato sopra le nostre teste, sopra la sabbia, sopra la palla, sopra le bottiglie di plastica.
Mi sono messo il pallone sotto il braccio e, senza metterci d’accordo, insieme agli altri abbiamo iniziato a correre come se fossimo tutti della stessa squadra, avessimo appena segnato il gol del pareggio e volessimo tornare in fretta a centrocampo per vincere la partita.
Abbiamo cominciato a scappare verso gli alberghi, verso i giornalisti, verso un tetto sotto il quale ripararsi.
Poi ho sentito un altro ruggito, questa volta assordante e fragoroso quindi dilaniante e doloroso.
Sono inciampato ma ho fatto in tempo a vedere Zakaria, Ahed e Ramez cadere in terra, davanti a me, come se avessero subito un fallo tremendo, una scorrettezza inimmaginabile, una violenza inconcepibile.
Mi ricordo di aver provato a dire: “Rosso, arbitro!”… ma l’unico rosso che ho fatto in tempo a vedere era quello del mio e del loro sangue che bagnava la spiaggia di Gaza.
Mentre la sabbia mi riempiva la bocca ed il mio respiro si faceva sempre più faticoso, ho capito che l’arbitro della vita non avrebbe mai espulso i responsabili di quei falli orrendi e che nessuna punizione, nessun rigore avrebbe potuto più ridarmi il sapore di una corsa contro il vento, il profumo di una risata con gli amici o l’abbraccio fresco del mare.
Ero un bambino e ora sono diventato un piccolo respiro nel vento, uno di quelli che però riesce a far sventolare di più la bandiera della mia gente.
Volevo solo giocare e divertirmi e adesso, che non potrò più farlo, continua a rimanermi il dubbio che abbiate capito, che mi abbiate capito: IO ERO UN BAMBINO!

Ismael Mohammed Bakr di 9 anni, Ahed Atef Bakr di 10 anni, Zakaria Ahed Bakr di 10 anni e Mohammed Ramez Bakr di 11 anni sono stati uccisi da un missile israeliano sulla spiaggia di Gaza il 15 luglio scorso.
Il portavoce militare israeliano Moti Elmoz ha dichiarato: “Per ora posso solo dire che abbiamo attaccato un obiettivo sospetto sulla spiaggia”.
Il presidente Shimon Peres, in un’intervista, si è detto “dispiaciuto” e ha definito la morte dei quattro bambini a Gaza “un incidente”.
Forse un Sms gratuito, inviato poco prima a qualche utente palestinese, ha avvisato del bombardamento in arrivo; così, dietro tale ignobile alibi, gli assassini di Zakaria, Ahed, Ramez e Ismael possono continuare a lavare la propria coscienza, lurida di crimini contro l’umanità.

Israele, Palestina e pregiudizi

Mi ricordo come fosse ieri l’adesivo dell’Olp con la bandiera della Palestina attaccato sullo specchio del bagno, nella mia casa dell’infanzia a Terni, come a marcare un indirizzo politico. Sarà stato il 1978 e io avevo all’incirca 7 anni. Ora, nel 2014, siamo allo stesso punto di partenza: ad ogni recrudescenza del conflitto israelo-palestinese, non si fa altro che riaffermare le proprie convinzioni ideologiche, sventolando la bandiera di preferenza, e scagliarsi gli uni contro gli altri, in una sorta di competizione in cui per vincere bisogna dimostrare a suon di recriminazioni chi sono le vittime e chi i carnefici, quando è evidente che le stragi non hanno colore e che rappresentano una sconfitta per l’intera umanità. Nel suo “Buongiorno” su la Stampa del 17 luglio scorso, Gramellini scrive: “A me non interessa se erano israeliani o palestinesi. A me interessa che erano bambini.” Condivido. E aggiungo che non ci potrà mai essere soluzione ad un conflitto, nessuno, se si fomentano odio e rancore, e che anche noi come occidentali siamo gravemente responsabili se ci facciamo avviluppare in queste spirali “agonistiche”, perché non c’è politica che tenga, non ci sono accordi o trattati duraturi, se a prevalere sono odio e rancore.
Com’è possibile che gli adulti, oggi come ieri, non riescano ad evitare di imporre le proprie convinzioni ai figli, con adesivi, bandiere e quant’altro, come una sorta di lavaggio del cervello? Che non riescano ad esprimere la propria opinione con misura e discrezione, lasciando la possibilità ai giovani di leggere con occhi nuovi la realtà che li circonda, senza dover portare su di sé la zavorra ideologica dei loro padri? La bandiera che vorrei sventolare oggi è quella con scritto “Noi adulti, che abbiamo idee vecchie e antichi rancori, facciamoci da parte… per il bene dei palestinesi, degli israeliani, per il bene dell’umanità.”

Luci e ombre della centrale elettrica

E’ gigantesca l’ombra di Vasco Brondi, e riesce persino a dare realtà al titolo del concerto di mercoledì sera nel cortile del Castello, perché – grazie all’apparato di luci messo a punto da Ferrara sotto le Stelle in questo suggestivo spazio raccolto – la proiezione nera del corpo di lui che canta e balla arriva a coprire quasi tutta la distanza “Tra Ferrara e la luna”, lambendo con la proiezione della sua sagoma scura le pareti interne dell’antico palazzo ducale, su su, fino alla cima di una delle quattro torri. I giochi di riflessi, suggestioni e squarci di luci e ombre, del resto, sono uno dei temi conduttori principali della poetica di questo cantante, cresciuto tra via Ripagrande e viale Krasnodar.

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“Luci della centrale elettrica” nel cortile del castello

Già il suo nome d’arte è un omaggio inedito alla città e ai suoi bagliori meno scontati: “Le luci della centrale elettrica”. Perché il nome del progetto artistico e di lui stesso come cantante – ha spiegato Brondi – deriva da un’attrazione particolare per l’illuminazione ininterrotta del polo chimico. Ancora ragazzino andava ad ammirarla, alla notte, appostato tra i fumi e le nebbie di quella cittadella industriale che brulica nella periferia nord, dove il lavoro e le macchine dominano sulle stagioni e dettano la loro legge al paesaggio.
Il contrasto tra luci e ombre scandisce ogni momento del concerto. Ci sono le luci dei tastini rossi e verdi dei mixer che pulsano accanto al pozzo, sull’acciottolato a spina di pesce del cortile estense; le fiammelle degli accendini, che brillano nella notte insieme alle braci di sigarette accese; i monitor illuminati degli smartphone e degli I-pad con cui i ragazzi scatenati catturano con i loro apparecchi tecnologici pezzettini di questo incontro.

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Fan di Vasco Brondi a “Ferrara sotto le stelle”

Il concerto è un’occasione di scambio e di ascolto di quei giovani talenti della musica italiana, che restano nell’ombra dei passaggi radiofonici e televisivi e che qui – finalmente – vanno sotto i riflettori. La serata parte subito con un duetto tra Vasco e Rachele Bastreghi dei Baustelle con “Un campo lungo cinematografico”, che racconta “le tue mani gelate, quei passi che abbiamo fatto sulla Luna”, “tra turni diurni e turni notturni e materiali pericolosi”. Poi c’è Levante – la rivelazione – per reinventare il testo di Franco Battiato che invoca “portami lontano a naufragare /via via via da queste sponde /portami lontano sulle onde”. Non manca una canzone che Brondi stesso definisce “un monumento, ma di quei monumenti che non restano immobili, ma scalciano e ballano” che è “Emilia Paranoica” dei Cccp, in versione quasi techno.
Con Dente arriva il brano da cui è presa la frase che dà il titolo al concerto, “40 chilometri”, e che narra un mondo dove “cercasi persone con esperienza lavorativa tra Ferrara e la Luna, /cercasi esperti di marketing e cerco le coordinate nel cielo per ritrovarti”.
Non manca, nel finale, l’omaggio struggente di “La Terra, l’Emilia, la Luna”. Un rimando autobiografico che sa raccontare ancora una volta la precarietà dei nostri giorni e di un’intera generazione, che si affaccia su un mondo di luci e ombre, che invoca “solo quello che mi disorienta/ una cantilena per quelli che dormono in macchina” e “per tutti quelli che sono morti come sono vissuti/ felicemente felicemente felicemente al di sopra dei loro mezzi”. Applausi; luci; ombra. Ferrara sotto le stelle continua.

Le responsabilità dell’Occidente nella deriva bellica in Palestina

di Fabio Zangara

“Essere testimoni della verità”. Questo il concetto cardine delle manifestazioni per la pace in Palestina, che in questi giorni si sono svolte a Ferrara come in tutta Italia. Tra i protagonisti dell’iniziativa di piazza Trento e Trieste di mercoledì, la sezione Anpi “Vittorio Arrigoni” insieme alle associazioni Cittadini del Mondo e Giovani Musulmani Ferrara, Fiom-Cgil Ferrara e a diverse altre associazioni e collettivi studenteschi e culturali della città, tutti concordi nell’associarsi all’appello lanciato a livello internazionale che mira a fermare ogni ostilità fra le parti, stoppare i sanguinosi raid israeliani a Gaza, revocare l’embargo imposto da Israele alla Striscia e imporre il rispetto delle risoluzioni internazionali.
Una esigenza resa ancora più drammatica dalla scioccante notizia, giunta poche ore prima, della strage di quattro bambini palestinesi sulla spiaggia di Gaza dopo un attacco dal mare della Marina israeliana.

La condanna della scelta dell’opzione bellica, da qualsiasi parte essa provenga, è unanime: si tratta di una “guerra che è sopraffazione dell’uomo”, come ha affermato la rappresentante di Emergency Ferrara. Ed è proprio questa decisa presa di posizione ad essere rivolta alle potenze occidentali, che sempre hanno mostrato un atteggiamento di ‘silenzioso appoggio’ allo stato d’Israele, dalla sciagurata dichiarazione di Balfur del 1917 fino alle più recenti azioni di attacco come l’Operazione Piombo fuso (dicembre 2008 – gennaio 2009).

Riferendosi al rapporto fra le potenze occidentali e Israele, un esponente locale della comunità araba si è espresso mercoledì con chiarezza: “L’Occidente rappresenta e ha sempre rappresentato la ‘mano destra’ del governo israeliano. Francia, Germania e Italia sono le maggiori esportatrici di armi verso Israele e in questi ultimi tempi lo Stato israeliano sta diventando anch’esso produttore ed esportatore, grazie agli aiuti finanziari elargiti dai paesi amici e alleati”. Al riguardo, va ricordato il ruolo che l’Inghilterra ebbe nella decisione della creazione di uno Stato ebraico nell’attuale Palestina, in contrasto con le proposte dei più grandi intellettuali ed esponenti del sionismo storico, come Leon Pinsker, che aveva proposto come luogo del futuro stato ebraico una zona sul suolo degli Stati Uniti o della Turchia, o Theodor Herzl che aveva pensato all’Argentina e Moses Hess, filosofo tedesco, che addirittura aveva indicato il canale di Suez, proposta che fu subito rifiutata perché avrebbe infastidito gli interessi della Corona inglese.

Durante la manifestazione si è parlato inoltre del rapporto tra la questione israelo-palestinese e i mass media occidentali. “Nelle testate giornalistiche nazionali italiane è difficile trovare scritto un articolo ‘onesto’ riguardo i fatti politici interni, figuriamoci se c’è onestà intellettuale nel raccontare la questione arabo-israeliana. E’ deprimente vedere il silenzio della stampa statunitense e occidentale riguardo le azioni del governo israeliano, al di là delle azioni militari.” aggiunge il rappresentante della comunità araba ferrarese. I ragazzi della redazione di “Occhio ai media”, da anni impegnati a monitorare i mezzi di informazione, aggiungono che non sempre sono riportate le notizie nella loro integrità e verità; per esempio riguardo “i negoziati di pace, sempre sbilanciati a favore d’Israele, o le azione di embargo che Israele ha imposto alla Striscia di Gaza”, in cui è difficile reperire, per esempio, medicinali e materiali per la costruzione edile.

Edward Said, intellettuale palestinese, definì la questione israelo-palestinese l’ultimo taboo del mondo occidentale e sottolineò il potere dei gruppi di pressione ebraici negli Stati Uniti.
Nel 1992, quando George Bush senior ebbe l’ardire, a pochi mesi da una possibile rielezione, di minacciare Tel Aviv con il blocco di 10 miliardi di dollari in aiuti se non avesse messo freno agli illegali insediamenti ebraici nei Territori Occupati, i lauti finanziamenti dei gruppi di pressione pro-Israele furono devoluti al rivale Bill Clinton e nel conto finale dei voti Bush si trovò con un misero 12% dell’elettorato ebraico contro il 35% che aveva incassato nel 1988.
Altro concetto fondamentale emerso nella manifestazione è l’azione che il cittadino può intraprendere per manifestare il proprio dissenso verso il Governo d’Israele; viene sottolineata l’importanza del boicottaggio dei prodotti delle imprese e ditte israeliane operanti nei territori occupati.

E’ stata più volte ribadita, durante il presidio, l’importanza di una presa di posizione di solidarietà alla resistenza del popolo palestinese da parte delle istituzioni italiane e della comunità ebraica cittadina, a cui sarà inviata una lettera per sottolineare come “il silenzio possa costituire una pesante complicità alle sanguinose azioni di guerra”.

Mercoledì in piazza a Ferrara si è parlato anche di possibili soluzioni, conferendo importanza al concetto di costruzione e non di distruzione. A questo riguardo il rappresentante della Comunità araba dichiara: “Parlare di soluzione in questo momento è una barzelletta. E’ impossibile la convivenza tra un paese ‘extra’ forte e che ha sempre perseguito una politica di aggressivo espansionismo e un popolo che non ha nulla, se non la propria povertà. Se gli Stati continueranno ad appoggiare Israele non si giungerà mai ad una fine positiva del conflitto. Solo quando questi smetteranno di sostenere diplomaticamente ed economicamente lo Stato d’Israele si potrà raggiungere una soluzione”.

Viene messa in luce la ‘possibile soluzione’ di uno stato bi-nazionale, come teorizzato dal professor Edward Said. Una convivenza pacifica tra la comunità ebraica e araba è storicamente confermata dalle parole pronunciate il 16 luglio 1947 dal rabbino Joseph Shufutinsky, che testimoniò come il popolo ebraico e quello palestinese avessero vissuto in armonia, fino all’istituzione dello Stato d’Israele.
La soluzione va costruita con onestà intellettuale degli attuali contendenti e con il rispetto dei trattati Onu che impongono a Israele di rispettare quei confini territoriali che oggi sono ben violati. Una soluzione pacifica che va costruita con la giustizia, non con le bombe e immense sofferenze per le popolazioni civili.

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La manifestazione in sostegno della Palestina organizzata a Ferrara

Quel che sapeva Maisie, o la separazione vista con gli occhi dell’infanzia

Bello questo Henry James riletto in chiave contemporanea. Nel 1897, lo scrittore statunitense, nel romanzo Che cosa sapeva Maisie, ritraeva una coppia di genitori irresponsabili in fase di divorzio, vista con gli occhi della loro figlia sensibile e dolce, nel periodo tra la sua prima infanzia e la precoce (e forzata) maturità. Una condanna verso quegli adulti che trascurano i propri doveri nei confronti dei figli.

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la locandina del film

Delicato e sincero, Quel che sapeva Maisie è uno di quei piccoli ma piacevoli film, davvero meritevoli: la storia, abbastanza comune, di una moderna famiglia disfunzionale, in una New York contemporanea, frenetica e forse un po’ apatica.
Julianne Moore è Susanna, una rockstar distratta poco equilibrata, emotiva, nevrotica-isterica, inaffidabile, manipolatrice ed egocentrica che, tra le varie cose, cerca anche di amare sua figlia Maisie (Onata Aprile), bimbetta di sei anni, carina, docile, spontanea, simpatica e bravissima. Steve Coogan è Beale, marito di Susanna e padre di Maisie, sempre in giro per il mondo, superficiale, sorridente e scanzonato dongiovanni, davvero poco presente.

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una scena del film, con la nuova compagna del papà

Tra Susanna e Beale tutto va male: vanno in scena grida, litigate e nuovi giovani compagni che portano al divorzio e ad accese battaglie in tribunale dove la piccola Maisie è sballottata a destra e a sinistra. I nuovi giovani rispettivi compagni della coppia separata sono, per Beale, la dolce e bionda tata Margot (Joanna Vanderham), per Susanna, il bel Lincoln (Alexander Skarsgård), per la bambina quasi un gigante buono (e bello), protettivo e complice. Due giovani che diventeranno il faro amico di una bambina tenerissima.

Scenate, ripicche, promesse e appuntamenti mancati sono visti con lo sguardo della piccola, che non giudica, con il suo sguardo dolce e taciturno, e con una telecamera che spesso si muove alla sua altezza.

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una scena del film, il nuovo compagno della mamma

Come capita ai bambini, Maisie a volte sembra non notare le urla e capire cosa succede intorno a lei, tutta presa a ritirare con gioia una pizza o a giocare. Anche se, dentro di sé, ne coglie il significato profondo. Vorrebbe solo un po’ di pace e un’affettuosa e semplice quotidiana routine, senza ricatti e strattoni.
Il film, appena uscito al cinema in Italia, è da vedere, quasi un insegnamento, perché rappresenta tutto quello che un genitore non dovrebbe fare: parlare male dell’altro genitore con il proprio figlio, suggerirgli parole da riferire davanti a un giudice, dimenticarsi di andare a prenderlo a scuola o dagli amici, affidarlo a un altro adulto senza neanche sapere bene chi è, considerandolo quasi un “pacco postale”…

 

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la piccola protagonista, Onata Aprile

Maisie è gracile ma dotata di occhi grandi per scrutare il mondo, capace di assorbire il dolore di quel vortice familiare nel suo piccolo corpo e cuore di bambina. Maisie è educata, delicata, ma anche forte, volitiva e indipendente, pur nella sua tenera età e, proprio nonostante questo, più matura di due adulti interessati solo a farsi dispetti reciproci, contendendosi una creatura innocente malamente e inutilmente. E portandosi tanto rancore. Quasi un moderno Kramer contro Kramer, ma dal finale diverso.
Alla ricerca di un punto di riferimento, la bimba lo troverà in se stessa e nella sua volontà di vedere ed esplorare il mare. Scoprendo, da sola, cos’è la felicità.

Quel che sapeva Maisie, regia di Scott McGehee, David Siegel; con Julianne Moore, Alexander Skarsgård, Onata Aprile, Joanna Vanderham, Steve Coogan, Emma Holzer, Diana Garcia, Stephen Mailer, Samantha Buck, Joel Garland, Trevor Long, James Colby, Gil O’Brien, Mario Moise Fontaine, Kevin Cannon, Owen Shipman, Zachary Unger, Robert C. Kirk, Malachi Weir – USA 2013, 93 mn

Il bene comune nell’era della globalizzazione

Nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa si legge: “Il bene comune non consiste nella semplice somma dei beni particolari di ciascun soggetto del corpo sociale; essendo di tutti e di ciascuno è e rimane comune.”
Ciò significa che il bene comune è qualcosa di indivisibile, perché solamente assieme è possibile conseguirlo, proprio come accade in un prodotto di fattori: l’annullamento di anche uno solo di questi, annulla l’intero prodotto perché cade la relazione tra le persone.
Il bene comune è dunque il bene della relazione stessa fra persone, tenendo presente che la relazione delle persone è intesa come bene per tutti coloro che vi partecipano
Comprendiamo allora la profonda differenza con il bene totale: in quest’ultimo non entrano le relazioni tra persone e, di conseguenza, neppure entrano i beni relazionali, la cui rilevanza ai fini del progresso civile e morale delle nostre società è ormai cosa ampiamente risaputa, teorizzata e promossa da vari e rinomati studiosi come Possenti, Alici, Mancini, Zamagni, e ancora Bruni, Becchetti, Berselli, Petrella, Tettamanzi, Nosciglia e Toso.
Del pari diffusa, nel lessico politico ed economico corrente, è la confusione tra bene comune e interesse generale, come se i sostantivi bene e interesse, da un lato, e gli aggettivi comune e generale, dall’altro, fossero sinonimi.
Eppure, generale si oppone a particolare, mentre comune si oppone a proprio. Nel bene comune, il bene che ciascuno trae dal proprio utilizzo non può essere separato da quello che altri pure da esso traggono. Sulla differenza tra i concetti di bene e di interesse non occorre aggiungere altro, tanto è chiara ed evidente.

Nel linguaggio contemporaneo, il bene pubblico viene così definito da Antonio Rosmini “[…] bene comune è il bene di tutti gli individui che compongono il corpo sociale e che sono soggetti di diritti; il bene pubblico all’incontro è il bene del corpo sociale preso nel suo tutto, ovvero preso, secondo la maniera di vedere di alcuni, nella sua organizzazione”.
Quindi il bene pubblico corrisponde al bene collettivo, cioè al bene indistinto della società, come suggerisce il comunitarismo, mentre il bene comune è il bene delle persone che vivono e che si costituiscono in società.
Potremmo dire che il bene comune non ha carattere sommatorio: non è una somma di interessi, né una somma di risorse, né una somma di regole, né una somma di aiuti, non ha cioè una dimensione esclusivamente materiale, naturale, procedurale o assistenziale: questi sono aspetti che possono rientrare nel concetto di bene comune, ma come condizioni che, più o meno necessarie, sono pur sempre insufficienti.

Ciò precisato, l’idea di bene comune è oggi ancora spendibile a fini pratici? e come delinearne alcune linee guida? Proviamo a ragionarci su.
Personalmente ritengo che, per comprendere correttamente la natura e il significato del bene comune, sia necessario porsi su un altro piano, considerando cioè il bene comune come uno stile di convivenza civile all’insegna del rispetto, del riconoscimento, della responsabilità e della reciprocità.
E’ in tale orizzonte che il bene comune può essere effettivamente perseguito, coerentemente con la sua natura e il suo significato: la natura del bene comune si collega al piano della socialità della persona umana e della sovranità del popolo, per cui la città dell’uomo non è un alveare né un formicaio, e la comunità umana non è una mandria; inoltre il significato del bene comune si collega al piano della sussidiarietà, che consegue alla pluralità delle istituzioni, e alla solidarietà, che sbocca nella fraternità e solidarietà.

Si rende allora evidente che affrontare la questione del bene comune necessita di un approccio pluridisciplinare, che consenta di cogliere la dimensione etica del bene comune nonché le sue motivazioni e applicazioni di carattere politico.
Il bene comune deve tenere conto principalmente di due categorie: da una parte quella di “crisi”, e dall’altra quella di “laicità”, e si tratta di una crisi che è anzitutto assiologica, e di una laicità che è soprattutto metodologica.

Ci piace finire questa breve nota per i lettori di Ferraraitalia con quanto detto a proposito dal nostro Presidente della Repubblica, all’incontro del “Cortile dei gentili” di Assisi: “[…] nel nostro Paese ci si dovrebbe spingere a una larghissima assunzione di responsabilità, a ogni livello della società, in funzione dei cambiamenti divenuti indispensabili non solo nel modo di essere delle istituzioni, ma nei comportamenti individuali e collettivi, nei modi di concepire benessere e progresso e di cooperare all’avvio di un nuovo sviluppo del Paese nel quadro dell’Europa unita, uno sviluppo sostenibile da tutti i punti di vista”.

Gambe gonfie e ritenzione idrica

La ritenzione idrica è un disturbo molto diffuso che colpisce soprattutto le donne. Di per sé la ritenzione idrica non è altro che il trattenimento dei liquidi nel nostro organismo, che si accumulano maggiormente nelle zone della pancia, dei fianchi, delle gambe e nei piedi. Il fenomeno è comunque da non sottovalutare poiché può comportare gravi rischi per la salute.

Facciamo un po’ di chiarezza

Da un punto di vista medico si possono riscontrare diversi tipi di ritenzione:
• c’è un primo tipo di ritenzione idrica, quella circolatoria, che è causata dal malfunzionamento del sistema venoso e linfatico, e che provoca l’accumulamento di liquidi tra una cellula e l’altra, causando tumefazione dei tessuti e conseguente dolore;
• un secondo tipo è la ritenzione idrica dovuta all’abuso di farmaci;
• poi abbiamo una ritenzione idrica di origine alimentare, dovuta ad una alimentazione (eccesso di sodio) e a una condotta di vita scorrette (poca attività fisica e postura sbagliata).
• infine, una ritenzione idrica associata a patologie come insufficienza renale, cardiaca, ipertensione arteriosa, linfedema.

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Gonfiore e dolore, gli effetti della ritenzione idrica sui piedi

Come si manifesta
Quando c’è ritenzione idrica, si nota un gonfiore causato dall’accumulo di liquidi nei tessuti, di fluidi in eccesso. Pancia gonfia, piedi gonfi, caviglie gonfie: ciò comporta anche un aumento di peso e un senso di pesantezza degli arti che può provocare dolore. È bene però sottolineare che non è la ritenzione idrica che porta al sovrappeso, semmai il contrario: il sovrappeso rallenta infatti la diuresi e favorisce la comparsa della ritenzione idrica. Se si preme per alcuni secondi il pollice nella parte anteriore del polpaccio, e rilasciando rimane visibile l’impronta del dito, allora c’è un ristagno e un accumulo di liquidi. Un controllo dal proprio medico è importante per valutare la specificità e la clinica del problema.

Prevenzione
La migliore prevenzione è condurre una vita sana, sommando un insieme di buone abitudini:
• bere molta acqua
• praticare regolarmente dello sport
• seguire una dieta sana e ipocalorica
non fumare
non bere alcolici
• cambiare frequentemente postura e combattere la sedentarietà
• sottoporsi ad un linfodrenaggio delicato e a tecniche fasciali osteopatiche

La natura aiuta

Cibi sani
La natura ci offre molti rimedi naturali per la maggior parte delle malattie e dei disturbi che possiamo contrarre lungo il tempo. L’alimentazione non sempre è sufficiente a risolvere il problema del ristagno dei liquidi, quando si è in presenza di una vera e propria patologia, occorre ricorrere al consulto del medico. Tuttavia, quando il livello della ritenzione idrica non è così avanzato e possiamo gestirla in modo naturale e autonomamente, bisogna rivedere subito il proprio modo di mangiare ed eliminare alcune brutte abitudini. I rimedi contro la ritenzione idrica sono molti ma, se si inizia con l’eliminare il fumo, diminuendo il dosaggio di sale nel cibo e riducendo sostanzialmente e drasticamente l’uso di alcoolici, si avrà già un netto miglioramento agli arti inferiori.
Ci sono alcuni alleati naturali che si possono provare facilmente: è importante consumare molta frutta e verdura, in particolare quella ricca di vitamina C che protegge i vasi capillari, e gli alimenti che facilitano la diuresi, quindi via libera ad agrumi, ananas, kiwi, fragole, ciliegie, meloni.
Durante i pasti utilizziamo con generosità prezzemolo, cetrioli, lattuga, radicchi, spinaci, broccoletti, cavoli, cavolfiori, pomodori, peperoni, patate, ecc. ma tutto nelle giuste dosi, senza esagerare.
Diminuire l’utilizzo di carne, soprattutto se rossa e aumentiamo invece il consumo di pesce. I cibi fritti andrebbero aboliti, come anche lo zucchero bianco e tutti i prodotti di sintesi presenti in commercio. Lo zucchero di canna e il sale integrale vanno bene. Da evitare i succhi di frutta confezionati, ricchi di zuccheri raffinati.

Le erbe
Anche la fitoterapia può aiutare, diverse le tisane efficaci a tale scopo. Le tisane sono utilissime per il nostro organismo in quanto lo purificano, aiutando ad espellere le tossine. Questo consiglio è valido soprattutto per coloro che non bevono molta acqua, grave errore per chi soffre di ristagno linfatico:
centella asiatica: volgarmente conosciuta come “la tigre del prato”, la centella fa parte della famiglia delle Apiaceae e fa parte della tradizione medica indiana. Viene impiegata nei trattamenti che interessano vene, cellulite, crampi ed emorroidi;
mirtillo: i frutti delle piante della famiglia delle Ericacee sono ricchi di sostanze che favoriscono la circolazione sanguigna, in particolare la fragilità capillare;
pungitopo: nome scientifico Ruscus Aculeatus, il pungitopo è un arbusto sempreverde appartenente alla famiglia delle Ruscaceae. Presenta dei frutti simili a bacche rosse ed è usato, in medicina, come un ottimo diuretico, antireumatico e antiinfiammatorio. Presenta caratteristiche simili alla vitamina P che rafforzano le pareti dei capillari sanguigni;
vite: i semi di vite rossa sono molto utili in ambito medico, poiché da essi vengono estratti flavonoli (composti di origine naturale), aventi capacità antiossidanti, antiradicali liberi, vaso protettivi, consigliati per combattere le emorroidi e per ristabilire la funzionalità del circolo sanguigno;
• tisane a base di betulla o tarassaco: utilizzate contro la cellulite per le loro qualità diuretiche, drenante linfatiche, antisettiche delle vie urinarie ed anti-infiammatorie;
fucus: queste alghe, appartenenti alla famiglia delle Phaeophyta, sono utilizzate soprattutto come decotti perché lo iodio in esse contenuto stimolano il metabolismo accelerando lo scioglimento dei depositi di grasso;
pilosella: nota come lingua di gatto, presenta proprietà diuretiche e drenanti, che permettono di trattare gli inestetismi da accumuli adiposi e di liquidi, come cellulite, caviglie gonfie, edemi e, per l’appunto, ritenzione idrica.

La cosa migliore è farsi consigliare dal proprio erborista o nutrizionista, in base al singolo problema. E’ consigliato, inoltre, sottoporsi a trattamenti manuali osteopatici come il massaggio drenante e praticare costantemente attività sportiva.

L’amara e dolce resina dell’oblio. ‘Ad ora incerta’ riecheggiano
le parole di Primo Levi

Da BERLINO – È una rarità rivolgere l’attenzione di studioso e letterato all’opera poetica di Primo Levi, più spesso ricordato se non addirittura costretto nelle strette maglie del “sopravvissuto” e del “testimone” del sopravvissuto, quasi come fosse autore esclusivamente del celeberrimo Se questo è un uomo, che per molti aspetti è quasi più un trattato di antropologia (del male) che un’opera letteraria in quanto tale. Alcune degnissime eccezioni sono la felicissima indagine del poeta e saggista Paolo Febbraro (Primo Levi e i Totem della Poesia), recensito da un non meno intenso Matteo Marchesini (qui), che descrive la poesia di Levi in modo folgorante: “una torcia socratica nella notte del male.” Non lontana da queste suggestioni si è segnalata, lo scorso giugno a Bonn, presso la libreria Böttger, una brillante conferenza tenuta dal giovane italianista e ricercatore Marco Menicacci e da Johannes von Vacano, già giovane traduttore del poeta Beppe Sabaste, dedicata appunto all’opera poetica di Primo Levi. Si tratta di un’opera poetica che talvolta è quasi una teologia in versi, davvero il tentativo di una nuova Genesi, dopo che la precedente si è infranta nella Shoah. Menicacci ha giustamente celebrato l’opera poetica di Levi che si situa sempre “ad ora incerta,” ovvero in quell’ora in cui, come afferma il poeta Coleridge da cui è tratta l’espressione, “that agony returns,” torna cioè l’afflizione di ricordarsi come sopravvissuto delle atrocità. È da questo sentimento che sorge una triade di nuovi bisogni antropologici che segnano un doloroso controcanto al “nostos” omerico. Non semplicemente un “ritorno” al pari di Ulisse, bensì un “rincasare” dall’esilio a casa, dove si possa finalmente: “tornare, mangiare, raccontare.” È del resto in questa dimensione immaginaria del “ritorno” che si profila “una valle” misteriosa e sapienziale che fornisce la ripetizione e il rinnovamento della Genesi biblica, come attestano questi versi che giustamente sono stati ricordati come tra i più belli che Levi abbia scritto: “c’è un solo albero vigoroso […] È forse quello di cui parla la Genesi […] Non ha congeneri: feconda se stesso./ Il suo tronco reca vecchie ferite/ da cui stilla una resina/ amara e dolce, portatrice d’oblio.”

IN EVIDENZA
Parla Stefano Bottoni, il papà del Buskers festival: “La mia forza è l’entusiasmo”

SEGUE – Ecco la seconda parte del servizio che ripercorre la storia del Buskers festival attraverso le vicende e le testimonianze dei principali protagonisti. Dopo avere raccolto la voce di Leonardo Rosa, autore del libro “Una strada lastricata di sogni. La vita straordinaria dell’uomo che ha inventato il Ferrara Buskers Festival” ora è il turno degli interpreti, a partire proprio da Stefano Bottoni.

IL PROTAGONISTA: STEFANO BOTTONI

Come hai reagito all’idea di Leonardo di scrivere la tua biografia?
“Inizialmente (e Leonardo lo aveva intuito molto bene) tendevo a mettermi leggermente di traverso, non per ostacolarlo nel suo progetto, quanto per il fatto che non mi sentivo pronto a parlare con lui della mia vita e delle cose che mi sono capitate davanti. Avvenimenti accaduti per una strana magia delle cose se cercate con il cuore libero. Ma questo non lo sapevo.
Poi Lui è riuscito giorno dopo giorno a farmi sorprendere dei tanti miei passaggi cronologici e a farmi aprire tutti (spero) i file della memoria. E’ stato un caterpillar!
E ha avuto ragione…troppo bello stringere tra le mani questo libro con la copertina di Claudio Gualandi (illustratore del logo e dei manifesti del Festival, ndr).

Cosa pensi del libro? Cosa hai provato leggendolo?
Mi ha fatto semplicemente sentire importante, non per il mio piacere personale (anche of course) quanto per i giovani e non giovani, insomma per le persone che hanno sogni e progetti in mente da porre in essere. Viva l’entusiasmo per le cose!

Dopo così tanti anni, tutte queste soddisfazioni, ma anche tante difficoltà, sei ancora motivato a fare il Festival?
Bella domanda! Le motivazioni sinceramente vanno e vengono e se poste bene sul piatto si pongono in senso positivo per andare avanti.
In altre parole dopo 26 anni il mio senso delle cose (mi ripeto ma suona bene così) tende a calare come le palpebre prima di dormire. Ma con un giusto caffè e la giusta idea buona si riparte.
Ci mancherebbe altro che fosse tutto automatizzato e freddo e sinceramente non servono pillole blu per pensare e fare un festival.
Con i ferraresi che durante l’anno ti chiedono le date, il Comune di Ferrara che del Festival ne fa,con grande onore, una motivazione culturale e turistica, i musicisti che da ogni parte del mondo arrivano in questa stra…affascinante città come fai a non essere motivato? Io lo sono, noi lo siamo!

La città è ancora in grado di sostenere questo Festival?
Altra bella domanda, ma da rivolgere alla città! Io credo di sì, con tutte le migliorie.

IL PERSONAGGIO: MONICA FORTI

La giornalista ferrarese, firma di Ferrara Italia, è stata la prima addetta stampa del Festival, come si racconta diffusamente nel libro di Rosa.

“Penso alla prima edizione come a un’esperienza tra le più emozionanti e a una scommessa vinta. So quanto sia impegnativo ricostruire un pezzettino di storia contemporanea della città, forse l’unico attraversato dalla multiculturalità. La presenza di artisti stranieri, il fatto di passare dei giorni con loro e di stringere dei rapporti che poi restano è uno dei lati affascinanti di questa storia, volendo potrei girare il mondo da “ospite” e qualche volta l’ho anche fatto.
E’ un bello scambio, tanto più in un periodo come questo le cui ristrettezze economiche non risparmiano nessuno. In questo il Festival è davvero attuale, nel Dna ha una filosofia low cost, che ha preceduto la disfatta del portafoglio.
Per il Festival c’ero dalla mattina all’alba del giorno dopo. A scrivere, rispondere, organizzare, ballare, ascoltare…un sacco di verbi, un sacco di ricordi.
Ai Buskers devo molto: mi hanno sposata! Mio marito (il musicista e artista di strada Beppe Boron, ndr) l’ho conosciuto al Festival. Posso dire che nella vita privata, ma anche in quella professionale hanno contato moltissimo. Una traccia indelebile.

Far conoscere un evento del genere all’inizio non deve essere stato cosa da poco.
La comunicazione nel caos allegro e talvolta esagerato di una manifestazione tanto cresciuta con gli anni è faticosa, ma dà anche molte soddisfazioni. Il primo anno far parlare del Festival non fu una cosa semplice, ma l’insistenza, la novità e la voglia che se ne parlasse hanno dato il risultato sperato dalla Rai a Red Ronnie, che girò un sacco di cose e non ne fece niente. Mah?! Il Ferrara Buskers fu anche l’occasione di uno dei miei primi servizi su un giornale mito nazionale Frigidaire, il top dell’alternativa dell’informazione in controtendenza, andai a Roma a proporlo a Vincenzo Sparagna, che forse aveva più naso di Red Ronnie e lo pubblicò con le foto in bianco e nero di Beppe Benati. Gli altri nove anni sono stati più professionali, venivo dalle redazioni, dal quotidiano, periodico, sapevo un po’ meglio come muovermi e cosa volevano i giornalisti. Curiosavo dentro il Festival per trovare storie, strumenti strani e progetti particolari, coordinavo interviste a radio e cercavo luoghi adatti alle troupe le riprese di approfondimenti. Sempre sul filo dell’emergenza. Un bella palestra. Umanamente è stato un arricchimento, delusione incluse quando si sono presentate. Nulla è mai idilliaco. Certi artisti sono bravi ma capricciosi e prigionieri di un individualismo eccessivo, certi giornalisti sono indisponenti, supponenti, impreparati e maleducati. Si deve respirare profondamente per non mandarli affa. Naturalmente è capitato, non spesso ma è successo, in ogni caso mai al primo contatto. Altri sono carini e quando capita ci si sente con piacere.

Com’è stato il tuo rapporto col “capo” Stefano Bottoni?
Stefano, come ho avuto modo di scrivere in Fiori di Zucca, va letto come un libro. Dietro ogni metafora c’è un mondo il cui accesso è possibile solo attraverso alla conoscenza, alla frequentazione. Ha una visione sua e devo dire che è una delle poche persone riuscite a darle concretezza. Tanto di cappello, non è da tutti, del resto non a tutti viene in mente di mettere insieme il museo dei tombini di tutto il mondo e naturalmente il festival. Il nostro è un buon rapporto e tra i miei ricordi c’è un viaggio a Dublino con tanto di ritiro di tombino e visita alla residenza del sindaco, raramente mi sono divertita tanto. Un’avventura vicina al teatro dell’assurdo di quelle da pizzicarsi per capire se quanto succede intorno è reale o meno. Una cosa è certa, quando Stefano si mette in testa una cosa, riesce a realizzarla con il suo modo e il suo metodo. E con la camicia a fiori sempre addosso. E’ un uomo colorato e molto determinato. Abbiamo condiviso molto negli anni, a cominciare dalla prima storica edizione, un legame per sempre. Difficile a parole dare connotati a un’emozione tanto forte come quella di allora. Non si era soltanto giovani o più giovani, si era vivaci e propositivi. Si è costruito, tant’è che il festival c’è ancora ed è conosciuto ovunque.

Consigli per le prossime edizioni?
Mi piacerebbe si potessero aprire i giardini delle case per creare nuovi spazi, che meglio si presterebbero a valorizzare generi musicali come la classica e il jazz. Sarebbe gradevole per gli artisti e il pubblico che nel guardarsi intorno scoprirebbe una Ferrara inedita e bellissima.

IL FESTIVAL: ANTEPRIMA 2014

Il Festival quest’anno si svolgerà dal 21 al 31 agosto con varie tappe.

21 agosto: Venezia.
22 agosto: Comacchio.
23 e 24 agosto: Ferrara.
25 agosto: Lugo.
26 – 31 agosto: Ferrara.

Questa edizione sarà dedicata alla Mongolia.
Ecco alcune anticipazioni in esclusiva dagli organizzatori.

“Mistica ed incantata, la musica della Mongolia sembra raccontare lo spirito della natura, il ritmo incalzante del vento. Anima nomade ben incarna l’essenza girovaga degli artisti del Ferrara Buskers Festival. Sul palcoscenico open air saranno almeno quattro i gruppi, diversificati per stili musicali, che dalla capitale mongola Ulan Bator arriveranno a Ferrara, grazie alla collaborazione del Ferrara Buskers Festival con l’Ambasciata mongola in Italia e Nomad Adventure. Saranno protagonisti tra i 20 gruppi invitati della manifestazione e tra i circa 1000 artisti accreditati che ad ogni edizione trasformano il centro storico cittadino in un pianeta multietnico e multi-sonoro tra la curiosità e il coinvolgimento di un pubblico sempre più numeroso.
A dare ufficialità al gemellaggio tra il festival e la Mongolia, ci sarà anche S.E. Shijeekhuu Odonbataar, l’ambasciatore straordinario e plenipotenziario della Mongolia in Italia. Potrà ascoltare con gli spettatori tra le vie e le piazze della città estense – accompagnato dal Direttore Artistico e Ideatore del Ferrara Buskers Festival Stefano Bottoni e dal Direttore Organizzativo Luigi Russo – i ritmi etno jazz di Arga Bileg e i suoni etnici e raffinati dell’ensemble di sole donne di Hulan (che ha già partecipato al Festival nel 2008), in un insieme di musica, danze e contorsionismo. Oppure soffermarsi davanti ad un trio di classica o al risuonare di un canto armonico overtone.
Un Festival sempre più green grazie all’anima ecologica della manifestazione, che torna con il riuscitissimo Progetto EcoFestival – all’insegna di azioni sostenibili per vivere la rassegna – rinforzato dalla certificazione Iso 20121 e dal prestigioso Premio CulturaInVerde ottenuto alla fine del 2013”.

Il programma è ancora in via di definizione e sarà ufficializzato a fine luglio, intanto si possono seguire tutte le novità sul sito: www.ferrarabuskers.com.

E col Buskers festival la musica di strada divenne evento internazionale

A poco più di un mese dal Buskers Festival, esce un libro che racconta la sua storia e quella del suo ideatore. L’intervista ai protagonisti e l’anteprima esclusiva dell’evento.

Dopo 27 anni di convivenza si tende a dare una relazione per scontata, si pensa che non possa più riservare sorprese. Che starà sempre lì, immutabile. Le cose straordinarie che si hanno davanti non si vedono più.
Però per fortuna a volte accade qualcosa che ci ricorda che quel che si ha accanto va amato e custodito perché è raro e prezioso e non è dovuto, ma va costruito ogni giorno.
Questo è il merito del libro di Leonardo Rosa, “Una strada lastricata di sogni. La vita straordinaria dell’uomo che ha inventato il Ferrara Buskers Festival”, da poco uscito per Pendragon.
Se si è ferraresi, si rischia di avere reazioni stanche al festival, quando non infastidite per la pacifica invasione che comporta. Non si pensa più a che incontro incredibile sia stato quasi trent’anni fa, quello tra una città allora povera di eventi culturali come Ferrara, un fabbro musicista visionario, e l’arte di strada. Così la biografia romanzata di Stefano Bottoni, ricostruita dal giornalista ferrarese, finisce con l’essere un monito savonaroliano a rinnovare l’amore per l’appuntamento musicale che ha reso la città estense famosa in tutta il mondo.
Se vi avventurate tra le pagine con la diffidenza tipica dei ferraresi che leggono di altri ferraresi, sarete presto costretti ad abbandonare ogni resistenza, perché la prosa è agile, vivace e acuta.
Rosa ripercorre la vita di Bottoni partendo dall’oggi, con l’espediente di una visita al museo dei tombini, l’ultima delle sue follie. Da lì inizia il racconto in flashback della Ferrara anni ’60, con le band di adolescenti che scoprivano il rock’n’roll nei garage tra le biciclette accatastate, e chiamavano il loro gruppo “Rovine cadenti” emulando i Rolling Stones. Ci sono i primi passi di Stefano nel mondo della musica, quando inizia a suonare la chitarra e comporre versi, tra le frequentazioni parrocchiali, guidato dalla figura di don Patruno e la rivoluzione del ’68, che gli ispira il brano “Fabbrica astrale”, portato alla ribalta dal suo gruppo Folk Studio. Poi ci sono gli anni ’70 con l’attività di fabbro nell’officina padre, e il fondamentale incontro con la futura moglie Enrichetta, da allora sempre al suo fianco nell’organizzazione del Festival. E si arriva al momento cruciale nel 1987, quando in un paio di occasioni Bottoni assiste alle estemporanee e suggestive esibizioni di musicisti nelle vie del centro e inizia a sognare di creare un evento tutto per loro in quel palcoscenico naturale che è la città. La spregiudicatezza e la disponibilità economica dell’amministrazione Soffritti, l’appoggio dell’allora esordiente consigliere d’opposizione oggi ministro Dario Franceschini, hanno creato la tempesta perfetta per far partire lo stesso anno il primo Buskers Festival di Ferrara, benedetto l’anno dopo dall’esibizione a sorpresa di Lucio Dalla.
Stefano Bottoni è un nostrano Steve Jobs, suggerisce lo speaker radiofonico Maurizio di Maggio nella prefazione al libro, anche lui partendo da un garage è riuscito a realizzare un sogno, con passione e tenacia.
Proprio questa visionarietà ha convinto Leonardo a scrivere la storia di Bottoni.

L’AUTORE: LEONARDO ROSA

“L’idea è nata quasi per caso, circa due anni fa – ci ha raccontato l’autore – conosco Stefano Bottoni dal ’96, anno in cui ho iniziato a collaborare col il Ferrara Buskers Festival, accompagnando gli artisti alle loro postazioni musicali. Da allora non ci siamo mai persi di vista. Lo considero una persona “visionaria”, che sa scorgere oltre l’apparenza delle cose e al contempo riesce a essere decisamente testardo e pragmatico nel realizzare i suoi progetti. D’altronde credo sia totalmente fuori dal comune un personaggio che è al tempo stesso musicista, compositore, scultore, ideatore di alcuni importanti festival artistici, collezionista di oltre 150 tombini… Quando un giorno, dopo l’ennesimo aneddoto, mi disse: “Sulla mia vita ci si potrebbe scrivere un film”, io gli risposi: “Prima però occorre scriverne la storia”, incontrando di fatto il mio desiderio di scrivere un libro.

Quanto tempo ci è voluto per raccogliere le memorie che sono confluite nel libro?
“All’incirca due anni, non è stato un lavoro fluido, più che altro perché, dovendo seguire vari progetti lavorativi, ho dovuto relegare il libro al tempo libero. Poi c’è voluto un paziente lavoro di ricostruzione, dovendo intervistare, oltre il protagonista, anche tanti altri personaggi e andando a recuperare parecchi giornali per una storia che copre un arco temporale di circa 50 anni.

Quante persone sono state intervistate? Tutti disponibili?
“Ho contato una trentina di interviste a persone diverse, devo dire che son stati tutti gentili e disponibili con me, compreso l’attuale ministro Dario Franceschini che ha rivestito un ruolo importante per la nascita del Ferrara Buskers Festival. Non è stato ovviamente semplice contattare persone che risiedono il altre città, ma alla fine sono molto contento del risultato, con un solo rimpianto. Purtroppo non ho fatto in tempo a intervistare Lucio Dalla, dopo aver contattato la sua segreteria”.

Ci sono elementi di finzione in mezzo alle ricostruzioni storiche?
“Tutti i fatti raccontati sono veri: dal coinvolgimento di vari personaggi famosi, ai tanti progetti che Stefano è riuscito a portare a termine. Ho inventato alcuni personaggi per esigenze di trama, oltre al fatto che alcuni reali protagonisti delle vicende sono scomparsi, quindi per correttezza non li ho citati con i loro veri nomi”.

Come sei arrivato a scegliere quali dei tanti momenti includere e quali no?
“Mentalmente conoscevo le tappe salienti della vita di Bottoni, vale a dire i traguardi importanti che il protagonista ha raggiunto. Il resto sono stati tanti aneddoti emersi, anche casualmente, nel corso delle interviste con Stefano. Ne cito uno su tutti: alla stazione di Ferrara, agli inizi degli anni 70, Bottoni si imbatte in un giovane Francesco Guccini e gli dà un passaggio fino a Vigarano Mainarda dove doveva suonare. Un surreale viaggio a bordo di una Mini Minor che pareva ancor più minuscola con a bordo un omone di un metro e novanta come Guccini!”.

Il lavoro di ascolto e di riscrittura è molto lungo, richiede molta pazienza, molto tempo. Hai mai dubitato di farcela?
“Stefano, da vero artista, si esprime in modo singolare, perdendosi in digressioni lunghissime. trovare la sintesi è stato il compito più difficile. La trama è venuta da se. Il momento trepidante per uno scrittore al suo primo esperimento letterario è quando il lavoro viene spedito ai vari editori. Un progetto su cui ci si crede tanto non è detto possa conquistare i destinatari e, in ogni caso, il responso può arrivare dopo mesi. Ho avuto la fortuna che nel giro di pochi giorni mi abbiano contattato tre case editrici. Quella che mi ha convinto maggiormente è stata Pendragon e ora eccoci qua!”.

Quali sono state le reazioni delle persone coinvolte quando hanno letto il romanzo?
“Sono molto attento ai pareri dei lettori, anche in virtù del fatto che è il mio primo libro.
Le reazioni per il momento sono state molto positive. L’obiettivo era quello di raccontare una storia vera in modo fluido e leggero. Se ci sono riuscito devo ringraziare un carissimo amico, coinvolto all’inizio di questo progetto: Alessandro Gelli. Lui mi suggerì di evitare una cronistoria, ricorrendo a un espediente tratto, anche in questo caso, dalla realtà: cinque ragazzi in visita al Museo delle Ghise di Bottoni, un luogo che, oltre ai tombini, contiene tantissimi ricordi della vita di Stefano. Locandine dei primi concerti, sculture in ferro, moltissime foto di luoghi esotici. Questi curiosi visitatori rivolgono molte domande al padrone di casa, fornendo il modo di suddividere la storia in sette capitoli tematici”.

Tu e l’editore non temete che sia una storia troppo ferrarese per avere mercato al di là della città?
Sia io che l’editore non lo riteniamo un limite, anzi. Sento tante persone che non abitano da queste parti, considerarsi innamorate di Ferrara. Non è un caso sia una delle città più sfruttate per ambientarvi film e fiction TV. Inoltre alcuni episodi della storia si svolgono all’esterno, come l’incontro tra Bottoni e Compay Segundo all’Havana, o l’individuazione del primo dei 150 tombini, avvenuta a Praga. Altre vicende coinvolgono personaggi di un certo calibro. Credo sia curioso, per esempio, leggere che Lucio Dalla nel 1987, all’apice della carriera dopo il successo internazionale di Caruso, un pomeriggio d’autunno bussi all’officina di uno sconosciuto fabbro ferrarese. Così come è singolare che, una volta che i due furono diventati amici, lo stesso Dalla chieda di suonare in incognito al neonato Ferrara Buskers Festival, e al tempo stesso, nel dietro le quinte, sia assolutamente impaurito prima di affrontare quest’avventura…”.

Qual è il tuo legame con il festival? Ci lavorerai anche quest’anno?
Sarò impegnato in prima persona nel presentare ‘Storie di Buskers’ un momento quotidiano di approfondimento dove un gruppo di invitati racconterà al pubblico le proprie esperienze, tra cui la scelta di diventare artisti di strada. Dopo aver letto le voluminose rassegne stampa sui primi anni del festival e aver raccolto le testimonianze di organizzatori e pubblico, è stato emozionante constatare la crescita esponenziale di questa manifestazione negli anni. I ferraresi, come noto, sono molto diffidenti. Vedere questi ‘forestieri’ invadere la città, per la prima edizione è stato qualcosa che generò subito estrema diffidenza, malgrado si esibissero anche musicisti di grande spessore. Nel corso di un’intervista il giornalista Rai Filippo Vendemmiati mi raccontò che, dopo aver girato il primo servizio sui Buskers per il Tg2, il giorno successivo alla messa in onda l’atteggiamento dei nostri concittadini cambiò radicalmente: i ferraresi si resero conto di avere in città un evento bello, originale e coinvolgente, testimoniato da centinaia di migliaia di turisti in arrivo.
Inoltre venerdì 29 agosto ore 18, Libreria IBS, Piazza Trento e Trieste ci sarà la presentazione del libro “Una strada lastricata di sogni”, con la partecipazione del Sindaco Tiziano Tagliani e di alcuni artisti del Ferrara Buskers Festival.

Infine una nota biografica, la dedica iniziale è per un nascituro e la sua mamma, tuo figlio?
Si! L’arrivo di Giacomo è previsto tra qualche giorno…

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L’utopia e le vendette della Storia

Nella condivisione dell’articolo di Michele Serra apparso ieri su “La Repubblica” con un titolo fuorviante (“La campionessa della destra che vuol comprare L’Unità”) c’è tutta l’amarezza di chi vede estinguersi momenti nobili della nostra vita democratica ora spendibili per operazioni politicamente ma soprattutto eticamente scorrette. La domanda è: che se ne fa la campionessa della destra più bieca e intollerante, la Daniela Santanchè dal dente vampiro, del giornale fondato da Gramsci? Una vendetta sulla Storia o un abile momento di pubblicità, sapendo la suddetta che mai le maestranze e i giornalisti della gloriosa testata avrebbero permesso una simile indegna contrattazione? La stessa domanda che il bravo Serra si pone: “Sbalorditivo perché Santanchè, tra i tanti difetti, ha sempre avuto il pregio di una schietta faziosità, donna di destra dal rossetto ai tacchi, dai sentimenti – è la compagna del feroce Sallusti – all’eloquio da parà (chiedo scusa ai parà, n.d.r)”. Le soluzioni proposte da Serra variano da un’idea sadomaso (“ti compero perché voglio che agonizzi tra le mie braccia)” oppure volontà di raddrizzare la schiena ai “comunisti”. Ma se sono ipotesi condivisibili non mi pare svelino il misterioso motivo e lo centrino. Molto più normalmente la signora ha trovato un mezzo assai ingegnoso di farsi pubblicità “a gratis” e nello stesso tempo rinfocolare gli spiriti depressi dell ex Cav. Molto più banale: la banalità del male politico.

La storia, comunque si evolva, porta a termine nella lunga durata processi, intenzioni, opere e giorni e noi, la generazione che è cresciuta nel mito e nella convinzione della sinistra, si è nutrita di quelle letture anche quando talvolta riflettevano un pensiero massimalista che non era il nostro: dalle note togliattiane a certe insofferenze verso la libertà dell’arte e della cultura e in anni non felici a un omaggio più formale che reale all’ideologia dell’impero russo. Però intere generazioni di scrittori hanno visto in questo foglio il senso di una libertà intellettuale inscalfibile. Ora un libro spiega le ragioni e i perché di quel “fascismo di sinistra” che avrebbe prodotto i massimi scrittori del dopoguerra. Una tesi assai azzardata com’era azzardato pensare che chi scriveva per i compagni, come Cesare Pavese nei suoi celebri articoli sull’Unità, non potesse avere un pensiero libero e europeo come espresse nei contemporanei Dialoghi con Leucò.

Che sa di tutto questo la Santanchè? Come si permette di digrignare i suoi candidi denti pensando di umiliare quel giornale che fa parte della Storia senza (forse) conoscerne il peso e il senso nella evoluzione della storia italiana?

Mi commuove pensare come tanti amici e colleghi futuri, alla domenica, mentre io da borghese socialista li sollecitavo per l’aperitivo in piazza, rispondevano che dovevano distribuire l’Unità. Allora lo trovavo perlomeno un atteggiamento un po’ fanatico. Ora lo trovo nobile e pulito.

Ma al solito la domanda che mi viene spontanea è: “Come mai l’attuale dirigenza politica che si dichiara di sinistra non ha reagito a questa provocazione? “ E’ tutto lecito pur di non scalfire i patti del Nazareno?

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Un biglietto da ‘Visit’ per il turismo a Ferrara

Un anno di vita, un GuestBook con consigli utili per i turisti in tre lingue, due portali a settembre e una scomessa: passare da 70 a 100 soci nel prossimo anno. E’ l’obiettivo del consorzio Visit Ferrara, rete di operatori turistici formato da agenzie, camping, alberghi e associazioni deciso a viaggiare solo, ma contando su tanti, per vendere soggiorni in tutta la provincia, dalla città al mare. Catturando diversi target di viaggiatori dediti al cicloturismo, al turismo lento, culturale, enogastronomico e naturalista. Il tutto con offerte personalizzate cui Visit – in un momento di transizione per la Provincia in metamorfosi – garantirà la commercializzazione . “Un progetto che ci è piaciuto molto, condiviso fin dal primo momento con operatori e Camera di commercio che hanno contribuito alla sua realizzazione – spiega l’uscente presidente della Provincia, Marcella Zappaterra”. Un progetto dall’anima continentale. “Segue le indicazioni dell’Europa favorevole alle reti di aziende”. E magari, rispettandone le indicazioni, c’è pure la possibilità di portare a casa qualche finanziamento per un angolo di Emilia-Romagna ancora lontano dal registrare un numero di pernottamenti, le cosiddette presenze, capace di sostenere l’industria del turismo.

Le speranze non mancano. «Il consorzio – ha spiegato il presidente Franco Vitali, titolare del camping Florenz di Lido degli Scacchi  – dimostra la validità della collaborazione di molti nel mettere in campo iniziative mirate. E’ una strategia che aumenta il valore della destinazione, l’attrattiva di tutta la provincia, concepita come una cosa unica ma con differenti peculiarità, capaci di soddisfare tutto l’anno diversi tipi di target turistico italiano e internazionale. Uno dei nostri obiettivi è trasformarci in una meta sempre più ambita, puntando su nuove idee, progetti e scelte condivise». Ma soprattutto sulla moltiplicazione delle presenze, attualmente 5 milioni, che hanno bisogno dello stimolo di eventi solleticanti.

Dal Ferrara Buskers Festival al Summer di Comacchio, tutto è benvisto pur di attirare il turista per una breve vacanza. Ma i problemi non mancano, primo tra tutti a Ferrara si pone quello della chiusura autunnale del Palazzo dei Diamanti, il nostro biglietto di presentazione nel mondo che, per quel po’ che ci conosce, ci apprezza per l’etichetta di città rinascimentale incoronata da Unesco. “La mancata stagione autunnale ai Diamanti ci mette in difficoltà, non è un segreto – dice Matteo Ludergnani, vice presidente del Consorzio – Si dovrà creare una campagna di comunicazione, nella quale vorremmo essere coinvolti, per far comprendere l’importanza del Castello Estense quale spazio museale, dove ammirare i quadri della pinacoteca”. Operazione sul filo del rasoio in attesa delle grandi mostre del 2015 di FerraraArte di cui si riparlerà in aprile, nel frattempo nessuna sospensione della tassa di soggiorno pensata per sostenere le attività espositive. “Perdiamo l’autunno, spostiamo la stagione fino a lambire il mese di luglio”, continua Ludergnani.
Doppia scommessa con salto carpiato. Si fatica a pensare a luglio e agosto come ai mesi migliori per un soggiorno in città, dove di norma l’afa regna sovrana. Più che un rischio calcolato sembra un rischio imposto dagli effetti minacciosi. Non si può ignorare che in cinque anni Ferrara ha perso 80mila presenze. La causa? Crisi, riduzione del numero delle fiere di Bologna i cui clienti spesso pernottavano a Ferrara e da ultimo, ma non ultimo, il terremoto ci hanno fatto arretrare nella graduatoria del gradimento turistico nonostante l’abbassamento dei prezzi di permanenza. Se poi si aggiunge la concorrenza culturale delle mostre di Bologna e Rovigo, l’assottigliamento del patrimonio artistico con musei e chiese danneggiati dal sisma, appare chiaro come la programmazione dei lavori ai Diamanti diventi uno scoglio pericoloso da superare. Recuperare con la comunicazione sarà una dura impresa, senza contare che l’occupazione e l’indotto diretto e indiretto collegati al museo per eccellenza, subirà un contraccolpo. Ma su questo, numeri e previsioni non se ne fanno.

Se un milione (di licenziati) vi sembran pochi

“Se l’Europa facesse un selfie avrebbe il volto della noia” ha detto il nostro presidente del Consiglio in una sede autorevolissima pochi giorni or sono.
Non oso pensare come sarebbe il selfie dell’Italia dopo l’intervista rilasciata ieri alla stampa dal suo ministro degli Interni, nonché capo della seconda forza di governo, Angelino Alfano.
Il baldanzoso ex enfant prodige di Berlusconi avanza tre proposte davvero innovative per l’agenda dei prossimi “mille giorni” del governo Renzi.
Punto 1, meno tasse (manca solo il “per tutti” per riportarci al fortunato slogan di una campagna elettorale di diversi anni fa).
Punto 2, meno burocrazia (ben detto, ma anche questo sembra di averlo già sentito).
Ma il punto delle meraviglie, la grande innovazione capace di proiettare il nostro Paese nel futuro è sicuramente il terzo: nientepopodimeno che l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori! Quello – lo ricordo per i più distratti – che prevede che il licenziamento illegittimo non è valido.
Altro che noia, qui siamo proprio al senso di nausea!

Il ministero del Lavoro ha certificato nei giorni scorsi che in Italia da quando c’è la crisi vengono licenziati ogni anno più o meno un milione di lavoratori dipendenti. Un milione ogni anno! Non male su una platea complessiva di meno di 17 milioni di lavoratori dipendenti!
Nel 2013 i licenziati sono stati per l’esattezza 923.250, comprensivi di tutte le forme di licenziamento: per giustificato motivo (oggettivo o soggettivo), per giusta causa o per licenziamento collettivo. Nel 2012 erano stati anche di più: 1.038.142.
In più sarebbe interessante sapere quanti dei tantissimi (1.435.395!) che si sono dimessi di propria iniziativa l’hanno fatto davvero spontaneamente e non perché magari sono stati messi nelle condizioni di doverlo fare o addirittura perché avevano firmato in partenza una lettera di dimissioni in bianco, pratica ancora – ahimè! – molto diffusa.
Anche a Ferrara, nel nostro piccolo, non scherziamo: 3.700 licenziati nel 2013, ai quali vanno aggiunti circa 3.900 dimissioni volontarie. Licenziamenti e dimissioni che contribuiscono all’impennata record del tasso di disoccupazione provinciale, di cui oggi si accorge anche la stampa locale, dopo la pubblicazione di una indagine del Sole 24 Ore (noi avevamo già commentato la notizia nel marzo scorso, quando fu pubblicato il dato Istat [leggi].

Ebbene, di fronte a questi dati assai eloquenti, o meglio: ignorando e sottacendo questi dati, come fanno del resto abitualmente anche i grandi mezzi di comunicazione, si continua a raccontare che il problema del nostro mercato del lavoro starebbe nella difficoltà a licenziare e che quindi bisognerebbe abolire ogni residua per quanto fragile protezione di cui ancora “gode” una parte dei lavoratori nei confronti di un licenziamento totalmente immotivato. Così da superare – come ci spiegano da anni quasi quotidianamente gli onorevoli Sacconi e Ichino – il loro “ingiustificato privilegio” nei confronti di chi è privo anche di quella protezione.
Cioè: se io ho un ombrello e tu no, meglio che ci rinunci anch’io, così ci bagniamo insieme. Mal comune, mezzo gaudio. Ma non si gode poi tanto, soprattutto al pensiero che poi c’è qualcun altro che dell’ombrello non ha nemmeno bisogno, perché se ne sta comunque ben riparato al caldo.