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Sangue di Giove e Pagadebit, gli antichi vini di Romagna

La Romagna, soprattutto nella parte collinare e pedemontana delle Provincie di Forlì-Cesena e Ravenna (compresa Faenza), vanta una gloriosa tradizione vitivinicola, grazie alla posizione favorevole tra Appennino e pianura, composizione e varietà dei terreni e vitigni acclimatati da secoli.
I vini romagnoli hanno una storia che si perde nella notte dei tempi. Dei cinque che possiamo definire classici, due vitigni (Sangiovese e Trebbiano) sono i più diffusi nel territorio nazionale, padri maggioritari di molti vini, anche di grande pregio. Gli altri tre sono: Albana, Pagadebit e Cagnina.

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Grappoli di uva Sangiovese

Le prime notizie riguardanti il Sangiovese (a bacca rossa) risalgono al lontano ‘600; quando durante un banchetto tenuto nel monastero dei frati cappuccini in Santarcangelo di Romagna, alla presenza di Papa Leone XII, fu servito questo vino prodotto dagli stessi monaci. Ne fu chiesto il nome e un monaco disse che quel vino rosso si chiamava “Sunguis di Jovis”, Sangue di Giove (Sanjovese). Col passare degli anni, il Sangiovese assunse a simbolo della terra di Romagna, pur essendo diffuso in quasi tutto il territorio nazionale ed è il vitigno tradizionalmente più importante dell’areale toscano.

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Grappoli di uva Albana

L’Albana è un vitigno cosiddetto “a bacca bianca” (foglia grande e pentagonale, buccia di colore giallo intenso) ed è coltivato nelle provincie di Forlì-Cesena, Ravenna e Bologna. L’origine di quello che è definito il “biondo nettare di Romagna” sembra risalire ai tempi dei romani. Se ne trova traccia negli scritti di quell’epoca che riferiscono di Galla Placidia, figlia dell’imperatore Teodosio. Molto più probabilmente il suo nome deriva dalla qualità dell’uva chiara, che è considerata la migliore delle uve bianche, da cui “Albus” (bianco per eccellenza), Albana. Il paese di riferimento di questo vino è Bertinoro, arroccato su una piccola collina tra Forlì e Cesena. Dal 2011 è nata la nuova denominazione Romagna Albana (certificato Docg).
Il Pagadebit è un vino a “bacca bianca”, composto per l’85% dal vitigno Bombino Bianco, che resiste a qualsiasi condizione climatica. Il suo nome deriva dal fatto che i contadini, grazie alla sua resistenza riuscivano sempre a pagare i debiti contratti nell’annata vitivinicola. Una volta era usanza stipulare contratti sulla parola, detti appunto Pagadebit.
Il Trebbiano fa parte di una delle famiglie di vitigni a bacca bianca, tra i più diffusi in Italia, presente nell’uvaggio di moltissimi vini Doc. L’origine, in Romagna risale ai periodi Etrusco e Romano, dove i colonizzatori impiantarono vitigni dopo la bonifica e l’appoderamento delle terre. Col passare degli anni, dall’antico ceppo di Trebbiano ne è nata una famiglia coltivata anche negli Usa in California. Un buon Trebbiano di Romagna si sposa con tutti i formaggi freschi molli della sua zona (Robiola, Raviggiolo, Casatella e Squacquerone).
La Cagnina è un vino a “bacca rossa” di antica coltivazione, particolarmente dolce e amabile, pronto da bere subito dopo la vendemmia, che si ottiene per almeno l’85% dalle uve del vitigno “Refosco” localmente denominato “Terrano”. Di questo vino se ne parla sin dall’epoca Bizantina durante la quale fu importato dalla Dalmazia e dall’Istria, in occasione dell’acquisto di pietra calcarea per la costruzione dei monumenti storici di Ravenna. Le prime notizie di questo caratteristico vino risalgono al XIII secolo e si riferiscono alla vite e al vino friulano (barbatelle di Terrano d’Istria o del Carso, sinonimi di Refosco d’Istria o del Carso).
Nel 2013 l’Emilia-Romagna è risultata la quinta regione Italiana nell’esportazione di vino.

LA STORIA
Fotografia e arte digitale di Stefano Bonazzi: dell’amore e di altri demoni

Voglio fare lo scrittore, o il pittore, o magari tutti e due. Forse scriverò un libro e disegnerò le illustrazioni! Così la gente mi capirà.

Da sempre appassionato di grafica e design, nerd per vocazione, studente all’istituto alberghiero.
A 20 anni frequenta un corso di grafica multimediale a cui segue uno stage in agenzia, e comincia a comporre immagini e parole. A scattare fotografie; rielaborandole, aggiungendo, mescolando, per poi creare cose sue. A distruggere quei corpi armoniosi e perfetti creati al mattino, durante il lavoro di webmaster e grafico, immersi in una luce artificiale come i legami fasulli da cui rifugge.
Soggetti e scenari che conserva inizialmente per sé, nell’anonimato di un portatile sulla scrivania; che poi pubblica su Flickr e Deviantart in una parabola ascendente sino al Toca.me di Monaco di Baviera, festival di grafica di livello mondiale, in cui si classifica terzo vincendo una suite. Cominciando a creare seriamente, alla ricerca di gallerie che rappresentino il suo stile. Espone a Miami e Seoul, a Verona e Milano, in personali e collettive. I suoi sono risultati di processi di manipolazione di fotografie originali attraverso l’abbozzo con carboncino e il ritocco digitale con Photoshop, tecniche di colorazione alternativa e illustrazione di fotografie attraverso rendering e Poser per gli effetti 3D, a volte dietro lastre di plexiglass. Ricreando quello accade nella vita reale, raffigurando l’incomunicabilità del mondo contemporaneo, l’impossibilità di essere realmente se stessi in una perfezione imposta ed esasperata, traducendo lo smarrimento e l’incertezza di qualcuno che cerca a volte un altro qualcuno, a volte un altrove.

– Perché indossi quello stupido costume da coniglio?
– E tu, perché indossi quello stupido costume da uomo?

Solo maschere su corpi nudi o ben vestiti in accostamento grottesco esseri strani e alienati, solitari e talvolta soli, basiti e immobili come i paesani statici e alienati di Grant Wood, i ritratti criptici e ambigui di Mark Ryden, l’umanità dolente di Roger Bowlen, gli ansiogeni acquarelli provocatori di Gottfried Helnwein in un circo mai festoso ma alienante, decadente come in universi malati. Ma veri più che mai, questi personaggi grigi che prendono le distanze, freaks orgogliosi di esserlo, dalla finzione di una realtà che opprime con abbaglianti colori di plastica, rivelando la parte notturna dell’essere umano.

Armoniose ballerine ingessate nei tutù neri in attitudes su rocce nere; impeccabili donne-tailleur nascoste da maschere antigas e musi di animali senza vita; figure femminili fuse in bicchieri di latte o spente in una nuvola fumo, come sigarette tristi, inverni nucleari alla Gia Carangi, grotteschi manichini in abito da sera si fanno ammirare da un invisibile pubblico; dame prendono il tè sedute a un tavolino dimenticato. Viandanti con l’unica guida di girandole colorate; eleganti nobiluomini in tuba e bastone che attraversano campi di fiori, o tristi Pierrot compianti persino dall’adorata luna; bimbi sperduti in balìa di navi di carta. Distorte mescolanze tra Bianconigli e malefici Cappellai Matti che ingannano una Alice al di qua non di uno specchio ma di un armadio; gentiluomini nei frac neri prigionieri di spiagge invase da ombrelli abbandonati; violinisti in costumi barocchi intonano melodie statiche, imprigionate su una pagina patinata, che nessuno ascolterà; Forrest Gump con ventiquattrore studiano l’orologio, attendono un autobus che non passerà mai.

28 giorni, 6 ore, 42 minuti, 12 secondi… ecco quando il mondo finirà.

Composizioni statiche come i ritratti di Annie Leibovitz, che ne mantengono solo la limpidezza stilistica e ne perdono il candore del bianco e del nero; scene che disorientano lo spettatore, animali domestici che provocano disagio quanto gli insetti claustrofobici di Floria Sigismondi.
Panorami angoscianti e desolati, crudi e disturbati come le narrazioni di Lynch, onirici e fiabeschi come le storie di Tim Burton, immobili ed evocativi come i soggetti inanimati di Hiroshi Sugimoto, evanescenti e desaturati come i campi lunghi di Riccardo Varini.
Sono polverosi deserti o mondi metafisici, di un’ironia esasperata e soffocante. Cieli azzurri ma non celesti, come occhi che guardano passivi panorami accecanti. Mari color della pece e palazzi abbandonati. Sale pubbliche desolate, distorte distese d’erba. Enormi palloncini, mongolfiere sottosopra. Lampade addormentate, sedie di legno in vana attesa. Arcolai e poltrone boudoir. Ospedali deserti, arcate gotiche che raccolgono confessioni non dette.
Mondi da cui non si fa ritorno, il cui silenzio urla qualcosa che resta intrappolato nell’impossibilità di urlare il proprio nome, come imprigionato in una bolla d’acqua. Sono spiazzi desolati di un circo abbandonato, prati disseminati di piccole case sospese da fili di marionette; vagoni di metropolitane deserti e asettici che avviluppano queste caricature umane, a volte; altre le osservano maligne e silenziose, realtà pesanti e allucinatorie, il nulla che avanza inghiottendo gli abitanti di Fantasia attratti da esso morbosamente e senza chiave di accesso né uscita. Spazio ostile o interiore di chi lo occupa, che quasi lo plasma.
Plasma del mezzo che distrugge la vita ma che la ricrea, nelle visioni di qualcuno che cerca a volte un altro qualcuno, a volte un altrove.

REPORTAGE
Po, bello e spaventoso.
Nuova piena

Una nuova ondata di piena per il fiume Po è attesa in territorio ferrarese tra il pomeriggio e la serata di oggi, mercoledì 19 novembre. Non ci dovrebbero essere, però, rischi di tracimazioni degli argini. L’unico problema resta quello delle infiltrazioni, sul quale l’attenzione dell’intera struttura di coordinamento provinciale proseguirà almeno fino a domenica. Questa la sintesi del tavolo convocato ieri in Prefettura per seguire gli sviluppi della situazione.
Confermata la chiusura della pista ciclabile destra Po, che va da Stellata di Bondeno fino a Gorino passando per Pontelagoscuro, Ro, Serravalle e Mesola. L’Anas al momento assicura, invece, che non chiuderà il ponte stradale di Pontelagoscuro. L’attuale livello dell’acqua, a quota 2,68, è infatti ancora sufficientemente lontano dalla soglia dei 3,5 metri, considerati il limite di sicurezza. Anche FS (ferrovie dello Stato) esclude la chiusura del ponte ferroviario, grazie agli interventi fatti dopo la piena del 2000.

L’incontro di ieri in Prefettura, presieduto dal prefetto di Ferrara, Michele Tortora e coordinato dalla delegata della Prefettura per la Protezione civile Serena Botta, ha visto la partecipazione di Protezione civile della Provincia, Aipo, Ferrovie dello Stato, Anas, servizio tecnico di Bacino del Po di Volano, forze dell’ordine, polizia provinciale e polizie municipali, vigili del fuoco, Comuni di Ferrara e gli altri Comuni interessati, Coordinamento del volontariato della protezione civile e servizio veterinario.

Intanto una carrellata di fotografie di questo fiume, bello e spaventoso, scattate ieri da Roberto Fontanelli e Aldo Gessi.

[clicca le immagini per ingrandirle]

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Acqua e terra ieri sul Po (foto Gessi e Fontanelli)
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Acqua alta sulle rive del destra Po (foto Gessi e Fontanelli)
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Acqua alta sulle rive del destra Po (foto Gessi e Fontanelli)
Lavori sulle rive del destra Po (foto Gessi e Fontanelli)
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Lavori sulle rive del destra Po (foto Gessi e Fontanelli)
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Lavori sulle rive del destra Po (foto Gessi e Fontanelli)
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Il mulino sul Po a Ro di Ferrara (foto Gessi e Fontanelli)
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Il fiume a Pontelagoscuro (foto Gessi e Fontanelli)
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Il fiume a Pontelagoscuro (foto Gessi e Fontanelli)

La Carta dell’informazione ambientale per affrontare i rischi

La carta dei servizi non serve. Lo dicono alcuni gestori e lo pensano alcuni cittadini che non l’hanno mai letta. Purtroppo è così. Lo dice Federconsumatori che di recente ha presentato la sua terza ricerca nazionale sulle carte del servizio idrico. Nonostante sia presente in quasi tutti i capoluoghi di Provincia la sua efficacia è ancora un problema (si ricorda che Aeegsi esclude aumenti tariffari in assenza di Carta dei servizi) e che raramente è frutto di un confronto con le associazioni dei consumatori, quasi fosse solo uno strumento del gestore. E’ utile in particolare ricordare che il decreto ministeriale di riferimento indica importanti indicatori standard su molti temi critici a partire dalla risposta alle richieste scritte degli utenti e ai reclami; sul tema complesso della morosità in cui è prevista la sospensione del servizio; il tempo di preavviso di interventi programmati (almeno 24 ore prima) e molto altro.
La analisi della Federconsumatori ha evidenziato differenze spesso esagerate tra i vari gestori. Ad esempio sul tempo di esecuzione dell’allacciamento si va da un tempo massimo di 126 gg ad un tempo medio di 35 gg (si ricorda che su questo indice è prevista una indennità nel caso non venga rispettato il tempo massimo di esecuzione dell’allacciamento). Il tempo di attivazione della forniture in media è di 9 giorni, ma si sono riscontrai anche casi di 60 gg; così come il tempo di allaccio alla pubblica fognatura il tempo medio sia di 46 gg, ma va da 7 a 180 gg! per non parlare del tempo di rettifica delle fatture da pochi giorni a quasi sei mesi; ai tempi di risposta scritta agli utenti che in media è di 26 giorni. Per quanto riguarda le modalità con le quali i gestori comunicano agli utenti i dati sulla qualità dell’acqua, dalle risposte ricevute risulta che la modalità più diffusa è il sito web (35% dei casi), solo l’11% dei gestori pubblica le informazioni sulla bolletta. Vi sono poi grandi differenze di applicazione ad esempio tra indicatori in giorni di calendario e giorni lavorativi (le cose cambiano molto!). In conclusione solo la metà dei gestori è dotato di certificazione della qualità. Insomma uno scenario ampio e variegato che deve essere meglio regolamentato perché le motivazioni di reclamo dei cittadini sono sempre troppe e tra queste si citano: anomalie contrattuali (errori attivazione, cessazione, voltura; anomalie standard (mancato rispetto degli standard); anomalie addebiti/errori di fatturazione (applicazione categorie, tariffe, acconti, conguagli, modalità di recapito bollette, frequenze fatturazione, pagamenti, modalità di incasso); anomalie consumo (reclami su letture, perdite occulte, consumo anomalo); anomalie relative all’accessibilità del servizio (difficoltà di comunicazioni telefoniche, attesa agli sportelli, comportamento del personale); anomalie erogazione del servizio (qualità/quantità acqua, pressione, interruzioni/ripristini, rotture, danneggiamenti durante lavori) e anomalie contatore (contatore difettoso, verifica/sostituzione contatore).
Per il futuro, ci attendiamo quindi, da parte dei soggetti regolatori, l’Aeegsi a livello nazionale e gli Enti di Gestione d’Ambito (Ega) a livello locale un maggior impegno per quanto riguarda la disciplina delle carte dei servizi e in generale la tutela degli utenti; un maggior coinvolgimento delle associazioni degli utenti (partecipazione e controllo) come previsto negli atti sopra richiamati; iniziative dirette ad informare e formare, gli utenti e le loro associazioni, sulle numerose e complesse novità che nell’ultimo periodo ha rivoluzionato la regolazione nei servizi idrici.
Infine una nota positiva. La Federazione Italiana Media Ambientali (Fima) ha presentato la Carta dell’informazione ambientale che si andrà a definire nei prossimi mesi. “La creazione della Carta nasce dalla consapevolezza, visti i cambiamenti climatici e le situazioni critiche che essi portano con sè, del ruolo dell’informazione la cui responsabilità è totale. Portare a conoscenza dei cittadini i temi della crisi ecologica è una responsabilità particolarmente gravosa: sottacere un’informazione o dare voce ad una fonte sbagliata equivale a rendersi partecipi involontari di un disastro. La trattazione di questi temi cambia il ruolo del giornalista stesso che non è solo cronista, ma attore consapevole: riportare l’accaduto, sovente significa anticipare gli stessi eventi, raccontando le dinamiche che li potranno precedere. Fornire quindi ai cittadini e ai decisori politici strumenti utili su cui pianificare e costruire il futuro delle prossime generazioni. La Carta intende garantire una informazione adeguata dei delicati temi ambientali attuali, che non dia spazio ad errori interpretativi, a false credenze o a dicotomie inesistenti”. Faccio un grande tifo per questa iniziativa.

LA RIFLESSIONE
L”esercito civile’
degli anziani

Sul tema degli anziani mi resta da affrontare la parte più difficile, ovvero fare qualche proposta. Abbiamo assodato che la vita si è allungata e la vecchiaia, più lunga che nel passato, ci impone di riflettere e di ridefinire il ruolo sociale ed economico degli anziani. Partiamo da una constatazione evidente, e cioè che la terza età è fatta di varie fasi, o di diversi momenti, che non possono essere letti come una lunga anticamera verso il tramonto. Su questo principio proviamo a essere creativi e fare qualche buon esempio (in verità mi aiutano le tante buone pratiche che sono state portate avanti da Auser e altre strutture impegnate su questo). Riprendiamo per punti i concetti principali:

  • È crescente il numero di anziani
  • Crescono gli anziani autosufficienti e i pensionati impegnati nel volontariato
  • Possibile dunque pensare ad una forza proattiva civile disponibile per gli altri
  • L’anziano non come indicatore di criticità ma anzi protagonista nella solidarietà
  • Aumentano i bisogni e le richieste di offerta sostenibile in molti settori e territori
  • Serve disponibilità a sperimentare e sviluppare nuovi progetti per il valore sociale

In questa logica diventa importante sviluppare un welfare sociale, sussidiario e non in competizione, il cui compito non è dunque quello di stare sul mercato, ma di dare risposte qualificate ai cittadini e ai loro bisogni crescenti, in un coinvolgimento attivo sui temi della qualità della vita. Nel difficile confine tra volontariato e attività sociali, tra mercato del lavoro e assistenza, si deve trovare il giusto equilibrio a supporto della cooperazione sociale e delle organizzazioni Onlus, non in sovrapposizione, ma anzi in modo da sviluppare l’utilizzo di strumenti imprenditoriali a fini di solidarietà in un sistema sussidiario. Le cose qui scritte hanno l’obiettivo di proporre una eventuale integrazione di contenuti rispetto all’ampio impegno che già viene svolto da molte istituzioni sulla promozione delle politiche sociali e di quelle educative, sullo sviluppo del volontariato, dell’associazionismo e del terzo settore. Si può cercare di stimolare la creatività e la capacità di proposta indicando alcune possibilità che si potrebbero sviluppare sul territorio e che potrebbero ritrovare a Ferrara e provincia un fertile terreno di crescita e di espansione. Di seguito, assieme a mie proposte come referente passato di progetti speciali in Auser Emilia Romagna, utilizzo anche una ricerca fatta in passato sulle buone pratiche, svolte da circoli Auser a livello regionale, e propongo qualche esempio come proposta generale dunque da migliorare e implementare. Partirei dall’area di servizio alla persona su cui vi è un grande impegno istituzionale a cui si può pensare di aggiungere un maggiore supporto del volontariato in azioni di accompagnamento, di assistenza e di supporto. Qualche esempio: Accompagnamento al lavoro Assistenza a persone in difficoltà temporanea (es per infortuni) o permanente (per handicap) finalizzato a costruire un sistema sociale di servizi per l’impiego accessibile ai soggetti in difficoltà individuale o sociale rispetto al mercato del lavoro; azione finalizzata a facilitare e accompagnare i soggetti disabili nell’inserimento lavorativo. Servizi a domicilio Assistenza per farmaci a domicilio, spesa a domicilio, etc per non autosufficienti, magari prevedendo convenzioni con commercianti che offrono servizi a domicilio (lavanderie, supermercati, panifici, edicole, etc) e supporto logistico. Oltre a servizi alla quotidianità, come la pulizia della casa, stirare, fare la spesa, lavare i piatti, fare giardinaggio e piccole opere manutentive. Assistenza domiciliare anziani Sostenere la vita indipendente, per far continuare a vivere nel proprio domicilio e nel proprio tessuto sociale, evitando isolamento, senso di inutilità, decadimento senile. Nel caso di persona anziana che vive sola e che ha problemi di autonomia nella vita quotidiana a domicilio, rendere disponibili servizi di assistenza domiciliare saltuaria o programmata che possono prevedere interventi prevalentemente sociali e socio-sanitari. Centri sociali tempo libero Centri di socializzazione territoriali per attività culturali, tempo libero, assistenza. Possibilità di creare una rete ed un sistema integrato di compartecipazione. Strumento di confronto per la condivisione di pratiche orientate. Può essere una soluzione per quelle persone anziane che vivono sole o con famigliari con scarsa disponibilità di tempo, che possono trascorrere la giornata in compagnia di altre persone anziane, operatori specializzati e volontari, ma anche seguire specifici programmi di riattivazione e mantenimento, socializzazione e animazione, rientrando a casa la sera. La partecipazione alle attività individuali e di gruppo organizzate nel centro diurno favorisce il mantenimento dell’autonomia personale e sociale. Portineria sociale Svolge mansioni di base (distribuzione posta, pulizie condominiali, etc) ma anche punto di riferimento per i condomini (aiutare, socializzare, etc) per bisogno di compagnia (fare una passeggiata, aiutare a fare la spesa, disbrigare pratiche d’ufficio, recarsi dal medico, fare cure terapiche, esami clinici, etc) o anche punto di ritrovo di zona per trascorrere il pomeriggio insieme, fare una partita, leggere il giornale, ascoltare musica, giocare a tombola, etc. Nonni adottano studenti Si tratta di un accordo scambio tra un anziano che ha una casa ed uno studente fuorisede che la cerca ed in cambio offre un aiuto domestico e qualche servizio di assistenza. Risponde ad esigenze economiche degli studenti (e rischio di mercato nero) e soprattutto crea compagnia per gli anziani soli. Organizzare una forma di interscambio delle informazioni (domanda-offerta) e supporti per incontro. Assistenza animali domestici Crescono gli animali d’affezione per fare compagnia. L’apparente superficialità del tema invece rappresenta un punto di riferimento, di assistenza e di supporto per molti e le esigenze quotidiane di motorietà, bisogni fisiologici, igiene, etc per alcuni rappresentano problemi gravi da risolvere. La domanda di servizi da parte di persone impegnate e occupate è crescente. Servizi vari (pratiche, commissioni, etc) Spesso le esigenze di rapporti di sportello (poste, banche, uffici pubblici, etc) e di code (per abbonamenti, servizi, etc) possono rappresentare difficoltà per certe persone con difficoltà ad uscire (assistenza) ma rappresentano anche una perdita di tempo o comunque un disagio per molte persone disposte a riconoscere un corrispettivo per la prestazione richiesta (offerta di mercato) Organizzazione gruppi di acquisto La richiesta di prodotti di consumo, ma anche la opportunità di vantaggi economici (costi del prodotto) e di qualità (es il biologico, il fresco) spesso fanno nascere gruppi di famiglie che si accordano per acquisti cumulativi al fine di arrivare direttamente al produttore (riduzione di filiera e di prezzo d’acquisto). I gruppi di acquisto sono formati da consumatori che decidono di unirsi per acquistare all’ingrosso i prodotti alimentari e di consumo per poi distribuirli tra le proprie famiglie. Le motivazioni che spingono a creare un gruppo d’acquisto sono il più delle volte economiche, dal momento che acquistare direttamente dai produttori, anziché nei supermercati, significa risparmiare sui prezzi delle merci. Altre volte però la scelta dei prodotti è dettata da ragioni etiche e solidali.

Orsi, Leoni e Leopardi

Il più antico dei premi cinematografici è come noto l’Oscar, nato nel 1929, da una frase di una redattrice che, vedendo la statuetta, esclamò “Somiglia proprio a mio zio Oscar!”. L’intento della istituzione del premio era la celebrazione dei nascenti fasti della settima arte; dopo di lui il modello fu seguito da molte altre cinematografie.
In Italia il più famoso è senz’altro il Festival internazionale d’arte cinematografica di Venezia, il primo in Europa. La prima edizione si svolse nel 1932, sulla terrazza dell’Hotel Excelsior, con la partecipazione di divi famosi come Greta Garbo, Clark Gable, Joan Crawford.
In Europa nel frattempo assistiamo alla nascita del Festival di Cannes, la cui prima edizione si svolse nel 1946. A seguire, nel 1951 si tenne la prima edizione del Festival di Berlino: Il film d’apertura fu “Rebecca, la prima moglie”. A soli sei anni dalla seconda guerra mondiale, Berlino tornava alla ribalta internazionale in una città in gran parte ancora distrutta.
E poi via via altre analoghe iniziative come il Festival del film Locarno, San Sebastian in Spagna, i Cesar in Francia, mentre oltre oceano si affermano i Golden Globes e il Sundance.
Ma quanto sono utili i festival e i premi a orientare le scelte del pubblico e a determinare il successo anche commerciale del film?
Certamente l’Oscar al miglior film/regia ha quasi sempre un appeal sostanziale: negli ultimi anni i film premiati, “Il signore degli anelli”, “Il ritorno del re”, “Million dollar baby”, “Non è un paese per vecchi”, “The millionaire”, “Il discorso del re”, “The artist”, “12 anni schiavo”, hanno avuto un positivo riscontro commerciale.
Ma se passiamo a Venezia, Cannes o Berlino, il discorso si fa diverso: “Sacro GRA”, Leone 2013, ha incassato abbastanza in Italia, se pensiamo che era un documentario, ma all’estero è stato praticamente assente. Il caso “Kerenes”, Orso 2013, in Italia ha incassato pochissimo e quasi niente negli Usa; sorte migliore Cannes, che con “The Tree of life di Malick”, “Amour” di Haneke e infine “La vita di Adele” di Kechiche ha dimostrato maggiore capacità di attrarre pubblico e incassi.

In sostanza, è importante la promozione svolta dai festival, ma alla fine la parola passa, come giusto, al pubblico e ai suoi mutevoli e talvolta imprevedibili gusti.

Il gioco stavolta è indovinare premi e festival… per le risposte clicca qui.

1) Il titolo di almeno due film che hanno vinto più premi Oscar in assoluto.

2) Quale film che ha vinto la Palma d’oro a Cannes 2014?

3) Chi fra questi attori non ha mai vinto l’Oscar: George Clooney, Leonardo Di Caprio, Tom Hanks, Sean Penn, Russel Crowe?

4) Indicare il nome di almeno tre registi italiani che hanno vinto l’Oscar.

5) I due film italiani che hanno vinto l’Oscar come miglior film straniero prima de “La grande Bellezza”

6) Le due attrici italiane che hanno vinto l’Oscar per la migliore interpretazione femminile.

7) Il solo attore italiano vincitore dell’Oscar per la migliore interpretazione maschile.

8) Chi è l’attrice che ha vinto più Oscar?

9) Il regista americano che ha vinto più Oscar.

10) La prima regista, italiana, ad aver avuto la nomination per la miglior regia.

L’INCHIESTA
Il comitato Stop Or-Me: “Con l’autostrada nel Ferrarese aumenta il rischio idraulico”

2.SEGUE – Abbiamo chiesto al comitato Stop Or-Me di Ferrara di spiegarci a cosa serve l’autostrada.
“Nelle intenzioni dei progettisti, la Orte – Mestre, una volta completata, permetterà, a livello nazionale, di creare una connessione del traffico su gomma tra la direttrice adriatica e quella tirrenica meridionale, in quanto è previsto un ulteriore raccordo da Orte a Civitavecchia.
A livello internazionale si realizzerebbe il congiungimento tra il Mar Tirreno e l’Europa centrale e orientale. Da Orte a Ravenna l’attuale superstrada sarà adeguata con qualche variazione di percorso e la realizzazione delle corsie d’emergenza (solo in questo modo si può istituire un pedaggio). Da Ravenna a Mestre sarà costruito un nuovo tracciato diverso dall’attuale Romea”.

Il tratto ferrarese della Orte-Mestre secondo il progetto
Il tratto ferrarese della Orte-Mestre secondo il progetto

In che modo interesserebbe il territorio ferrarese?
“Nel tratto emiliano – romagnolo la Orte – Mestre passerebbe per le province di Ravenna e di Ferrara. I comuni ferraresi attraversati dall’autostrada sarebbero: Argenta, Comacchio, Ostellato, Fiscaglia, Codigoro, Berra, Mesola. Nel nostro territorio sono previste due uscite, una a Comacchio e l’altra a Codigoro”.

Che impatto avrà su ambiente, infrastrutture, attività produttive e popolazione?
“La costruzione dell’autostrada è costosa e devastante, in quanto provoca gravi danni ambientali a carico di importanti zone di interesse storico, paesistico e ambientale. Comporta un elevato consumo di suolo, e il frazionamento di numerosi fondi agricoli. Sono previsti 147 sovrappassi, 226 sottovie, 20 cavalcavia, 139 km. fra ponti e viadotti, 64 km. di gallerie, 83 nuovi svincoli e 15 aree di servizio.
Accentua il rischio idraulico, in particolare nelle aree più fragili, come quelle che attraverserebbe nel ferrarese, che sono totalmente al di sotto del livello del mare, caratterizzate da delicati sistemi di scolo e irrigazione e talora da torbiere sepolte, fenomeni di subsidenza naturale e antropica, nonché rischi di allagamento da fiumi e da canali”.

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Il tratto romagnolo dell’attuale E45

Quali sono le ragioni per cui vi opponete alla sua costruzione?
“La finanza di progetto ha già evidenziato che le grandi opere sono un ottimo affare per i concessionari meno per la collettività.
Sempre rimanendo in ambito autostradale è sotto gli occhi di tutti il fallimento della BreBeMi, un’opera che doveva costare inizialmente 800 milioni per i 62 Km che corrono tra Brescia e Milano che alla fine ha triplicato i suoi costi complessivi, passando a 2,4 miliardi comprensivi degli interessi . Il costo di un km di autostrada della Brebemi è passato da 12 milioni di euro, di qualche anno fa, a 36 milioni a km e il concessionario ha già ottenuto la proroga della concessione perché i flussi di traffico erano stati sovrastimati, esattamente come succederebbe per la Orte – Mestre.
Inoltre, nel tratto ferrarese del tracciato che attraversa la Valle del Mezzano, potrebbe compromettere un’importante zona di protezione speciale (ZPS) di quasi 19.000 ettari, dove nel tempo si è creato un sito unico fra bonifica, agricoltura e ambiente, di grande valore paesistico e ornitologico.
Infine costruendo una nuova autostrada, si privilegia il trasporto su gomma a scapito di quello ferroviario e di quello marittimo, considerati più sostenibili”.

Quali alternative proponete?
“Le alternative esistono e sono assai meno costose, ma non se ne vuole parlare: basterebbero alcuni interventi di riqualificazione della E45, poi da Ravenna sarebbe possibile deviare i tir dalla statale 309 verso Ferrara mediante il completamento della variante alla statale 16, realizzata per oltre metà già una trentina di anni fa, poi abbandonata. Un completamento già previsto, tra l’altro, nel Piano dei Trasporti della Regione Emilia-Romagna.
La statale Romea così sgravata sarebbe più che sufficiente per supportare il traffico locale e di media percorrenza e potrebbe essere messa in sicurezza da subito e finalmente valorizzata sotto il profilo turistico. La deviazione dei tir sull’asse A13 sarebbe anche più logica visto che la linea degli interporti si sviluppa proprio tra Ferrara, Rovigo e Padova.
Un tracciato autostradale, oltre a inquinamento acustico ed aumento di Co2, significa ponti, svincoli, aree di servizio, cavalcavia, dunque l’impatto con il nostro paesaggio, riconosciuto dall’Unesco per la sua ‘coerenza culturale’, sarebbe tremendo.
Sarebbe tra l’altro totalmente in contrasto con la valorizzazione del territorio del delta del Po, una delle più importanti aree protette d’Europa, e con la proposta della sua candidatura al programma Man and the Biosphere (Mab) Unesco: il marchio della Riserva di Biosfera rappresenta un riconoscimento utile non solo per la salvaguardia dell’ambiente ma anche per lo sviluppo delle attività economiche e sociali del territorio).
Il potenziamento del trasporto marittimo e ferroviario consentirebbero collegamenti più rapidi, più economici e meno impattanti rispetto alla gomma”.

Ma c’è traffico sufficiente per giustificare la costruzione di una nuova autostrada?
“Rispondiamo citando le parole Thomas Bucher, uno dei gestori del Global Infrastructure Fund (tra i primi fondi di investimento del mondo specializzato in infrastrutture) il quale afferma: ‘In Italia ci aspettiamo che la crescita dei volumi di traffico resti strutturalmente debole. Anzitutto i flussi demografici indicano una popolazione in declino, in secondo luogo l’Italia ha già uno dei più alti tassi di motorizzazione a livello globale. L’attuale crisi finanziaria ha avuto un impatto significativo in Italia, riducendo il traffico quasi dell’8% nel primo semestre 2012’. Quindi la risposta è no”.

E se durante i lavori di realizzazione, i privati rimangono senza soldi, che succede?
“C’è la Cassa Depositi e Prestiti. Viene chiamata in causa ogniqualvolta si vuole realizzare un’opera pubblica ma si è a corto di risorse: li infatti si può attingere ai 223 miliardi di euro affidati alle Poste da 24 milioni di italiani. Trasformata in SpA nel 2003 per poter concedere prestiti anche a privati, purché per la costruzione di opere pubbliche, tra le prime operazioni della Cassa-Spa sono stati proprio i finanziamenti per le autostrade (Benetton, poi non utilizzati; Autovie Venete, Concessioni Autostradali Venete per il passante di Mestre).
La cronaca degli ultimi anni insegna che non tutti i progetti autostradali si riveleranno redditizi. Ma, per male che vada, la Cassa non fallirà perché sarà lo Stato, cioè noi contribuenti, a ripianare le eventuali perdite e questo dà sicurezza alle banche che si affiancano nei piani di finanziamento. Quel che è certo è che la stragrande maggioranza dei clienti delle Poste non ha la minima idea di come vengono utilizzati i soldi e forse non sanno nemmeno cosa sia la Cdp”.

Chi fa parte del comitato Stop Or-Me a Ferrara?
“Le componenti locali del coordinamento sono: Alternativa, Gentedisinistra, Ferrara città sostenibile, Legambiente Comacchio, Stop consumo territorio di Argenta, M5S Ferrara, Lipu Ferrara, Ferrara per Tsipras, Www Ferrara, Naturalisti Ferraresi.
A livello nazionale oltre alle Organizzazioni ambientaliste e politiche prima citate hanno aderito numerose altre associazione presenti sul territorio, e con il diffondersi dell’informazione speriamo che altre si uniscano alla protesta”.

Cosa avete fatto finora?
“Abbiamo organizzato a febbraio un incontro pubblico con Luca Martinelli giornalista di Altreconomia che si occupa da tempo della Orte – Mestre (e che la scorsa domenica è stato insignito a Ferrara da Italia Nostra del Premio Giorgio Bassani Giorgio Bassani per la “battaglia delle Apuane”, ndr).
Abbiamo più volte sollecitato il dibattito sulla stampa locale, organizzato un intervento a maggio alla assemblea nazionale della Lipu in occasione della Fiera del birdwatching di Comacchio, volantinato ad Argenta dove finisce la “nuova “ SS16 , volantinato al Festival di Internazionale”.

Ed ora? Secondo il sito di Unioncamere Veneto, i lavori potrebbero iniziare già entro la fine del 2015. Per adesso di certo si sa solo che l’opera, da progetto, è articolata in quattro lotti e dovrebbe realizzarsi entro il 2020.
Dato l’impatto sulla provincia di Ferrara forse varrebbe la pena che istituzioni e società civile si interrogassero su quel che sta per accadere.

FINE

Leggi la prima parte

 

L’IDEA
Il fioraio anche di notte

Li ho visti per la prima volta a Mosca, l’anno scorso, colorati, illuminati, spensierati, solitari, allegri e disponibili. Sempre aperti. Sono lì, nelle strade, negli aeroporti, negli ipermercati pronti a dispensare profumo e colori a chiunque, in ogni momento del giorno e della notte, voglia portare un tenero e gentile momento a qualcun altro.
Sono loro, i variopinti distributori automatici di fiori, coloro vengono in aiuto quando il fiorista è chiuso, quando hai fretta e ti sei dimenticato di un avvenimento importante o semplicemente quando vuoi portare un improvviso pensiero gentile. Carino.

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Un distributore automatico di fiori

All’aeroporto di Sheremetevo, vedi sempre qualche marito o fidanzato accogliere l’amata con un bel mazzo di fiori in mano. Alle cene spesso si portano fiori freschi, così pure ai compleanni. Non importa se a fare gli anni è un uomo o una donna, anche se tendenzialmente si portano alle signore o alle signorine. I fiori sono ovunque qui, anche quando fa freddo, anche quando la neve ricopre, candidamente, luoghi e pensieri, anche quando il termometro affigge, impassibile, il segno meno. Incredibile.
Avere la possibilità di trovare fiori sempre e ovunque è un bel segno di civiltà, un messaggio diretto alla bellezza, alla delicatezza e alla gentilezza. Ci piacerebbe vedere questi distributori anche nelle nostre strade, nelle nostre vie, a dare fioca luce a qualche vicoletto. Gli esteti e i cultori della bellezza del nostro patrimonio si strapperanno i capelli, immaginando la vetrata di un distributore in mezzo a tanta arte. Basterà allora trovare un posto riparato e discreto. Meglio un fiore che sorride da un vetro che un palazzo antico occupato da luccicanti vetrine di McDonald’s. O sbaglio ?

LA STORIA
Henghel Gualdi: suonò con Armstrong a Sanremo, Hemingway lo ascoltava a Cortina

Henghel Gualdi è stato uno dei più grandi interpreti jazz del clarinetto, uno strumento che deve la sua fama al genio di Benny Goodman. Fabrizio Meloni, 1° clarinetto del Teatro alla Scala di Milano, di Gualdi ha detto: “Suona un jazz puro fatto di morbide atmosfere, suoni e colori da ricordare…”. Non meno positivo è il giudizio di Giacomo Soave, insegnante di clarinetto al Conservatorio “A. Vivaldi” di Alessandria: “Clarinettista meraviglioso, con stupende doti naturali, espressivo nel fraseggio, personalissimo nel vibrato. Suona lo strumento come se fosse un violino. Per questo lo porto ad esempio ai miei allievi”.

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Henghel Gualdi

Henghel si avvicinò alla musica jazz, affascinato dalle big band americane. Dopo la fine del conflitto organizzò un’orchestra con tre sezioni di fiati e quattro ritmi, iniziando a esibirsi in pubblico. Scriveva le parti, arrangiava, dirigeva e suonava. Aveva trovato il modo di essere felice facendo musica. Di quel periodo, nel suo libro di memorie, scrisse: “Terminò anche la guerra, e all’insaputa di mio padre andai a suonare subito con un’orchestra. Alla fine mi diedero una “amlire”, una moneta d’occupazione americana del valore di mille lire dell’epoca […]”. Per diversi motivi il padre non fu contento della scelta del figlio.

Nel 1954 vinse il concorso radiofonico “Bacchetta d’oro Pezziol”, organizzato dalla Rai, prevalendo su artisti e orchestre importanti: Peppino Principe, Happy Boys di Nino Donzelli (in cui cantava Mina), Fred Buscaglione, Renato Carosone, Bruno Canfora. Di lì a poco, ebbe il primo contratto discografico con la Cgd di Milano. Tre anni dopo vinse anche il Benny Goodman italiano, confermandosi il miglior talento jazz nazionale. Henghel ammirava profondamente Benny Goodman, lo considerava sopra a tutti gli altri clarinettisti, lo conobbe a Roma quando venne per incidere un brano per il film “Fantasma d’amore” di Dino Risi, fu l’inizio di una bella amicizia. Avrebbe voluto seguirlo in America ma non lo fece. Questo fu uno dei grandi rimpianti della sua vita.

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Armstrong a Sanremo, dietro di lui Henghel Gualdi

Nel 1962 fu nominato direttore artistico dello Zecchino d’Oro di Bologna, fino al 1965, collaborando con una giovanissima Mariele Ventre. La svolta della sua carriera avvenne nel 1968, quando suonò con Louis Armstrong al Festival di Sanremo. Un giorno il grande trombettista gli chiese: ”Ehi paps, do you like skotch?” (ti piace il whisky?), notando gli evidenti capillari sul naso, “No”, rispose Gualdi, “lambrusch!”. Louis scriveva brani di jazz che, a suo dire, avrebbero dovuto eseguire durante il festival. Henghel sapeva che si poteva presentare solo una canzone, anche se gli sarebbe piaciuto suonare altri pezzi con lui, ma per l’ammirazione e la stima che nutriva nei suoi confronti non osò contraddirlo.
Henghel suonò con i migliori artisti: Bill Coleman, Chet Baker, Count Basie, Sidney Bechet, Albert Nicholas, Lionel Hampton, Rex Steward, Gianni Sanjust. Una sera a Milano, durante un suo concerto, Gerry Mulligan salì sul palco e lo accompagnò al pianoforte. Ernest Hemingway si recava all’Hotel Cristallino di Cortina d’Ampezzo per ascoltarlo e Orson Welles non perdeva occasione per richiedergli “Stardust”, complimentandosi al termine di ogni esecuzione.
Suonava anche con la “Doctor Dixie Jazz Band”, che si esibì in oltre 700 concerti in Italia e in Europa e partecipò a diverse edizioni di Umbria Jazz. A questo proposito il grande clarinettista diceva: “ A Bologna ho un appuntamento settimanale, il venerdì, nella cantina della “Doctor Jazz Band” di Leonardo “Nardo” Giardina. Cerco sempre di non mancare, non solo perché mi diverto a suonare, ma anche perché, essendo i componenti tutti professori e medici, la mia salute è assicurata”.

henghel-gualdiIl regista Pupi Avati gli chiese di collaborare, con Amedeo Tommasi, alla colonna sonora del film “La mazurca del fico fiorone”, in seguito lavorarono insieme anche in altre produzioni: “Jazz Band”, “Cinema”, “Le stelle nel fosso” e “Dancing Paradise”.
Quando Henghel formò la sua prima orchestra, aveva in mente un progetto preciso: quello di affinare il gusto del pubblico, pur sapendo che i frequentatori delle sale da ballo erano distratti e disattenti, ma era convinto che sarebbe riuscito a migliorarne la sensibilità musicale. Queste sue ‘contaminazioni’ non furono ben viste dai ‘puristi’, che non sopportavano il jazz suonato nella sala da ballo; guarda caso proprio il luogo in cui questo genere si era originariamente affermato.
Verso la fine del 1989, partecipò alla tournée americana di Luciano Pavarotti, vincendo la nota fobia per il volo, le sue performance furono accolte con grande successo. Una leggenda metropolitana racconta che il tenore modenese riuscì a convincerlo a volare dicendogli: “… pensa, se dovesse cadere l’aereo diventeresti famosissimo perché sullo stesso aereo di Pavarotti”. No, non è vero, non furono queste le sue parole, ma il grande Luciano riuscì a trasmettergli un po’ della sua sicurezza.

Negli ultimi anni di vita preferiva risiedere a Cattolica, cittadina in cui si è sempre trovato bene e dove i suoi polmoni respiravano meglio. In Romagna, trovò una realtà musicale che sapeva apprezzare la sua arte, sia come spettacolo sia come indispensabile terapia. Il grande musicista argentino Giora Feidman, conosciuto come il Re del klezmer, di Gualdi disse: “You are an angel who shares his soul with the clarinet”, sei un angelo la cui anima è una cosa sola con il clarinetto.

Su iTunes è disponibile lo splendido album “Dall’America a … Pupi Avati”, un doppio album per conoscerlo e per ricordarlo.

I bambini di Giove

Non c’è un sapere per i bambini e uno per i grandi. Una delle tante stupidità su cui costruiamo e abbiamo costruito ragionamenti inutili. C’è il sapere punto e basta. Che si può apprendere a tutte le età, se incontri uno che te lo sappia insegnare. E questa è la difficile, stupenda professione del maestro.
È sempre la grande idea del tutto a tutti, che non ha smesso d’essere valida da quando, circa quattro secoli fa, il ceco Comenio lanciò al mondo la sua sfida pedagogica. Non sono trascorsi cinquant’anni da che Bruner ne ha fatto la base del suo ‘apprendere ad apprendere’, convinto che sono sufficienti una palla ed un muro per spiegare anche a un bambino di tre anni il concetto di rifrazione.
Certo bisogna saperlo fare. Per questo si diviene ‘maestro’ agli altri, a prescindere che si insegni alla scuola dell’infanzia o all’università, nella bottega o per la strada.

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La copertina del libro

È questo che dimostra Franco Lorenzoni, rendendoci partecipi di un anno di scuola con i suoi ragazzi, nel libro che Sellerio ha pubblicato a ottobre, “I bambini pensano grande”. Ci narra che è possibile un’altra scuola, una scuola di pensieri, di matematica e di filosofia profonda. Una scuola come tutte le scuole dovrebbero essere, dalla parte di chi cresce e crescendo stupisce e si interroga, vive l’originale avventura di chi si incammina verso la conoscenza.
Il succedersi dei giorni nella classe di Lorenzoni ha l’anima intelligente, capace di ‘interlegere’, delle bambine e dei bambini per i quali nulla è troppo grande per il solo semplice fatto che loro sarebbero troppo piccoli, così si ritrovano a parlare dei numeri pazzi, per poi giungere, con rigore e metodo scientifico, alla scoperta dei numeri non razionali.
Ognuno non è solo a guardarsi crescere come spettatore di sé, ma nella relazione con le compagne e i compagni apprende l’arte del dialogo, l’ascolto, il saper interrogarsi, fino a penetrare la profondità delle cose. Si dialoga con Anassimandro, Talete, Pitagora, Socrate, insieme ci si avventura ad esplorare la caverna del mito di Platone, ad apprendere dalla tragedia greca e dalla tragedia della vita, come può essere l’improvvisa morte di un compagno.
Una scuola che entra nella scuola, in questo caso quella di Atene, dipinta da Raffaello, dove gli alunni, sebbene appena decenni, non provano timidezze nei confronti dei personaggi lì rappresentati. Dialogano con loro, come si dialoga con il passato e i suoi grandi, con loro si immedesimano fino a decidere di metterli in scena, fino a ridisegnare la pittura di Raffaello perché “Il disegno è te che non sei te”, come alcuni di loro hanno a scrivere.
La cifra didattica è condurre i ragazzi all’origine dei saperi, la scuola si offre a loro come terreno della conoscenza in divenire, luogo di conquiste e di scoperte, istante dopo istante, giorno dopo giorno.
È la scuola dove alunne e alunni pensano grande, la scuola di Franco Lorenzoni, maestro a Giove di Terni. Qui Giove non è solo il nome del piccolo comune umbro, è davvero una profezia, una vocazione per il mito, l’arte, la scienza, la cultura classica, il teatro, il corpo. Per esplorare le strade dell’umanità e del sapere che sono giunte fino a noi, a partire da quel mondo che un giorno di oltre 2000 anni fa si è provato a disegnare un certo Eratostene di Cirene.
È la scuola dove nel dialogo tra maestro e alunni si susseguono le ‘sorprese illuminanti’, le ‘sorprese produttive’ che spianano la strada all’accesso in territori sempre nuovi, ad accogliere le sfide lanciate di volta in volta dal sapere, per conoscere sempre di più. Un sapere mai già confezionato, un sapere di fronte al quale sei chiamato a ripercorrere con le tue compagne e con i tuoi compagni la stessa fatica con la quale l’umanità prima di te è giunta a conquistarlo.
La grandezza della scuola che il maestro Franco Lorenzoni sa mettere in pratica non dovrebbe stupirci per la sua singolarità, ma per la nostra ottusità, per i nostri ostinati ritardi, per i nostri continui mancati appuntamenti, per i debiti che le nostre banalità culturali, le nostre pigrizie istituzionali, le nostre colpe politiche hanno accumulato nei confronti dell’infanzia e dei giovani in generale.
Lorenzoni non viene dal nulla, Lorenzoni non è un artista dell’istruzione, Lorenzoni è un professionista colto e preparato come dovrebbero essere tutti coloro che praticano la professione docente, è un professionista che nella pratica didattica quotidiana ha saputo condurre a sintesi decenni di ricerche e di riflessioni pedagogiche. E come Lorenzoni riconosce, l’origine è la stessa che ha guidato Lodi e Ciari e altri come loro per tanti anni, ripercorrendo l’insegnamento del maestro di Bar sur Loup, Célestine Freinet, agli inizi del secolo scorso.
Per troppo tempo questo nostro Paese, che ancora resta “Il paese sbagliato” denunciato da Mario Lodi, si è messo a posto la coscienza celebrando i suoi vari maestri eccellenti, per poi continuare tranquillamente tutto come prima, nella più totale indifferenza e se mai lasciandosi trasportare dal reflusso delle grandi questioni pedagogiche come grembiule sì, grembiule no!
Ma bisogna avere dell’infanzia non l’idea di un tempo senza la parola, da trascorrere nei giochi perché inadatto alle cose dei grandi. Questa è l’infanzia che noi continuiamo a raccontarci, ma non è quella vera delle bambine e dei bambini, come tali li definiamo con quella orrenda, fuorviante etimologia da ‘bambo’, cosa sciocca.
Gli alunni di Giove con il loro insegnante praticano la potenza della loro età, la peculiarità, la ricchezza inaspettata d’essere bambini, come dovrebbe essere ogni giorno nella scuola di tutti.
I loro pochi anni non sono qualcosa che li sminuisce, al contrario consentono loro di “pensare grande”, meglio dei grandi stessi, perché per loro è più semplice, perché crescere incammina sulla strada del difficile, dell’arduo, della scoperta e dello stupore. Non saranno artisti, ma degli artisti hanno i doni, l’occhio, la parola acuta nella sua spontaneità, l’originalità e la pregnanza dello sguardo, l’ostinata curiosità.
Ma è necessario che ogni bambina e bambino incontri sulla sua strada adulti davvero convinti che le età dell’infanzia valgono in sé e per sé, che sono un’età a tutto tondo, non un’età incompiuta, non qualcosa che ‘manca di’.
Semmai è proprio il contrario, sono gli adulti ad aver qualcosa di meno dei bambini, perché hanno perso della crescita la freschezza e la capacità semplice, immediata di interrogare e dialogare in confidenza con la vita.

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Se questo è un Paese… L’Italia “grande assente” sul “Fondo Perpetuo” per salvare Auschwitz

da: Laura Rossi

Non riesco a comprendere il motivo per cui l’ Italia sia la “grande assente” sul “Fondo Perpetuo” per salvare Auschwitz. Nemmeno un euro!!
Trentuno Paesi hanno partecipato alla raccolta iniziata nel 2009 su richiesta della Polonia, dove il campo di sterminio ha sede.
La Germania, conscia della sua” colpevolezza” nell’ Olocausto, ha donato 60milioni sui 120 necessari; L’ Italia, NO, come forse nemmeno chi è pienamente innocente può fare! L’ Italia dimentica l’emanazione delle sue leggi razziali che hanno trascinato nei campi di sterminio milioni di innocenti e dimentica l’alleanza con Hitler!
Tra i grandi paesi europei, oltre all’ Italia solo la Spagna non ha donato un solo euro. Mancano ancora 18milioni di euro….
Non credo sia una questione di denaro, anche se la linea difensiva sarà sicuramente questa, ma di disinteresse totale.
Vergognosa quest’ Italia che dimentica Primo Levi ” Se questo è un uomo”, tra le cronache più tremende di Auschwitz e tutti gli altri. Vergogna!
Il Vaticano ha donato…… L’ Italia NO!
L’Italia non ha donato per salvare Auschwitz, ma in compenso continua a elargire milioni di euro al terrorismo, alle Ong che odiano gli ebrei e Israele.
Bravissima Italia, fai sempre più pena…..

Laura Rossi – Italia e Israele-

L’INCHIESTA
Orte-Mestre, la nuova autostrada che unisce e divide l’Italia

Nel 2015 potrebbero già iniziare i lavori per la realizzazione della nuova autostrada Orte Mestre che collegherà il Nord-Est con il Centro Italia.
Una grande opera di cui, se non fosse per i comitati Stop Or-Me sorti lungo tutta la tratta interessata, si saprebbe poco o nulla. E questo non promette nulla di buono.
Nella seduta del 10 novembre, il Comitato interministeriale per la programmazione economica (Cipe), ha approvato il progetto preliminare per il collegamento autostradale Orte-Mestre, ora parzialmente servito dalla superstrada che collega Orte a Ravenna.
E’ dal 2001 che se ne parla, poi l’ingente costo ne ha sempre bloccato la realizzazione. Fino a che il decreto ‘Sblocca Italia’ voluto da Renzi nel settembre scorso, ha rimesso in pista questa nuova autostrada che partendo da Orte nel Lazio arriverebbe a Mestre in Veneto, 396 chilometri di asfalto che attraverserebbero 5 regioni, 11 province e 48 comuni. E’ in progetto l’ampliamento dell’attuale tracciato della E45 e la costruzione ex novo del tratto mancante fra Ravenna e Mestre, che attraverserebbe il territorio ferrarese interessando i comuni di Argenta, Comacchio, Ostellato, Fiscaglia, Codigoro, Mesola e Berra secondo riportato nella valutazione di impatto ambientale dell’opera fatta nel 2010 dal ministero dell’Ambiente.
Se ci si prende la briga di leggere tutto il decreto, non si troverà citata da nessuna parte l’autostrada. E anche questo non promette nulla di buono.
Ma, come spiega bene Luca Martinelli, giornalista di ‘Altreconomia’ “il gioco è tutto in un comma, il quarto dell’articolo 2, che modifica il ‘decreto del Fare’ del 2013 aprendo le porte della defiscalizzazione per l’autostrada tra Lazio e Veneto”.
“Lo stato garantisce, e ci guadagnano i privati”, sintetizzano i comitati.
L’opera sarà finanziata interamente dai privati, ma con un mancato introito dello Stato di 1,87 miliardi di euro, che sarà riconosciuto ai concessionari sotto forma di sconti fiscali Ires, Irap e Iva nell’arco dei primi 15 anni di gestione, per un totale nominale cumulato di 9 miliardi di euro. Un modo meno eclatante di concedere un contributo a fondo perduto.
Così, prosegue Martinelli “la defiscalizzazione è per tutti, anche per un vecchio progetto, pensato in un altro momento storico ed economico, come la Orte – Mestre”.
E oggi i comitati Stop Or-Me si chiedono che senso abbia, in una provincia così legata al territorio come Ferrara, costruire un’autostrada, che mette a rischio alcuni dei suoi delicati ecosistemi.

Chi c’è dietro? Come si legge sul sito di Unioncamere Veneto, proponente dell’infrastruttura, insieme all’Anas, è il consorzio guidato dalla Gefip Holding, società di Vito Bonsignore, nata a Torino nel 2003. Dell’associazione temporanea di impresa fanno inoltre parte: Società Banca Carige Spa, Efibanca Spa, Egis Projects Sa, Ili Autostrade Spa, Mec Srl, Scetaroute Sa, Technip Italy Spa, Transroute International Sa.

Vito Bonsignore, frontman di questo progetto, è un imprenditore, è stato europarlamentare europeo eletto nel Gruppo del Partito Popolare Europeo, fondatore del Popolo delle Libertà con Berlusconi prima e del Nuovo Centro Destra con Alfano poi. Fa dunque parte dello stesso partito di Maurizio Lupi, ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, che siede nel Cipe, il Comitato che ha appena dato il via libera al progetto.
Ama il cemento e l’asfalto, infatti è stato direttore tecnico e direttore generale della Società autostrade Torino-Alessandria-Piacenza, consigliere di amministrazione dell’Istituto mobiliare italiano e dell’Insud Spa e amministratore delegato della società Torino-Milano.
Condannato in forma definitiva per corruzione, abuso e turbativa d’asta nella costruzione dell’ospedale di Asti.

La spesa prevista per l’autostrada, fanno sapere dal comitato ferrarese Stop Or-Me, è di circa 10 miliardi di euro.
Si dice che col project financing i cittadini non dovranno metterci un euro, ci pensa il mercato.
“In realtà – dice Roberto Cuda nel suo libro ‘Strade senza uscita’ – le società che costruiscono autostrade si ripagano degli investimenti riscuotendo i pedaggi per tutta la durata della concessione. Sono pertanto gli automobilisti a pagare la costruzione e la manutenzione e non i cosiddetti ‘privati’ (banche o costruttori)”.
E a chi dice che quest’opera creerà posti di lavoro, i comitati rispondono che un’adeguata manutenzione della già esistente E45 potrebbe farlo, senza deturpare l’ambiente e sconvolgere la vita di intere comunità come rischia di succedere a causa del previsto raddoppio dell’attuale arteria.

1. CONTINUA

 

L’IDEA
Un ‘future lab’ di utopisti consapevoli e visionari per politiche sociali innovative

Sabato lo spazio Wunderkammer di via Darsena si è trasformato in una sorta di macchina del tempo, una finestra su un futuro possibile e soprattutto desiderabile. Il metodo usato per questo esperimento è il Future Lab: uno strumento partecipativo che ha lo scopo di individuare utopie e risorse presenti nella comunità per collaborare con i decisori politici nell’elaborazione di progetti sociali innovativi.

utopia-visioneQuesta metodologia è nata alla fine degli anni ’80, partendo dal presupposto che per le persone spesso è più semplice sviluppare critiche che riflettere per individuare soluzioni a misura d’uomo. Attraverso questi laboratori di cittadinanza attiva, invece, ciascuno può sperimentare la propria capacità immaginativa, anche attraverso linguaggi creativi come il teatro, per rispondere ai problemi del territorio e della collettività: condividere bisogni, conoscenze, esperienze, aspettative, per tentare di dar vita a un’intelligenza collettiva che possa ideare a una visione collettiva di futuro.
La proposta dell’amministrazione provinciale e comunale ferrarese, in collaborazione con la regione Emilia Romagna, l’Agenzia sanitaria e sociale regionale Ausl di Ferrara e Teatro Nucleo, è stata lavorare insieme alla sociologa Vincenza Pellegrino sul tema della precarietà e delle molteplici facce che assume nella nostra contemporaneità.
La sfida per i partecipanti è stata passare dalla domanda “dove stiamo andando?” all’interrogativo “dove vogliamo andare?”. La parola chiave: visione.

utopia-visioneutopia-visioneVisione teatralizzata di un futuro distopico, dove la cittadinanza non è più un diritto di ciascuno, ma viene assegnata con un’estrazione a sorte e un colloquio per verificare se si è dei tipi ‘giusti’. Visione del presente, in cui la precarietà cambia volto a seconda delle generazioni e a seconda della cittadinanza, ma per tutti significa sentire il fiato troppo corto per pensare veramente al futuro: “(P)asso i gio(R)ni s(E)nza (C)ertezze (A)spettando un futu(R)o che (I)nvano s(O)gno”. Poi la parola è passata ai Visionari, cioè a coloro che a partire dalla condivisione di problemi e di bisogni comuni, hanno proposto la propria visione di futuro.

utopia-visioneutopia-visioneÈ venuto fuori che i visionari non mancano, a mancare è la volontà di dar credito alla nostra immaginazione e quindi la capacità di pensare a degli strumenti per realizzare ciò che immaginiamo: da bambini ci insegnano che diventare adulti significa fare i conti con la realtà, smettere di immaginare altri mondi possibili, ma la verità è che “possiamo avere delle utopie, iniziamo a collaborare per realizzarle” è l’invito di Vincenza Pellegrino. Altro evento abbastanza sorprendente: smettendo di preoccuparci di dire cose intelligenti per sforzarci di dire cose utili, le idee intelligenti e creative sono emerse da sole e sono state anche tante.

Dall’alleanza fra le generazioni all’ascolto dell’altro come pratica comunitaria quotidiana, da una nuova cultura del lavoro a una diversa concezione del mondo della scuola, al centro la persona e le sue relazioni con la comunità, quella cui appartiene e quella che potrebbe contribuire a costruire. Forse, volendo condensare tutte queste visioni in una: un futuro inclusivo in cui scelta non sia sinonimo di angoscia, sofferenza, rinuncia, ma di opportunità. Scoprire, o meglio costruire, le strade per arrivarci è un compito che le istituzioni condividono con i cittadini.

utopia-visione

 

Per tutti coloro che si sentono un po’ utopisti [vedi]
Le foto sono di Francesca Tamascelli e Serena Maioli e ritraggono alcuni momenti della giornata.

IL FATTO
“Non servono grandi opere per salvare il Po”. Idee a confronto sul futuro del Grande Fiume

Corre gonfio d’acqua il fiume e corre anche il presidente della Provincia, il sindaco Tiziano Tagliani che da Pontelagoscuro, letto del sorvegliato speciale dove oggi è attesa l’onda di piena, si sposta all’Imbarcadero del Castello. Giusto per un saluto ai partecipanti del convegno “Il Po e il suo Delta: tutela integrata e sviluppo di un grande sistema ambientale europeo” organizzato sabato da Italia Nostra nell’ambito del Premio Bassani. Il messaggio di Tagliani è chiaro, il grande corso d’acqua deve tornare a essere protagonista della sua storia al di là di politica, confini e interessi regionali, leggi e normative che si incrociano tra loro mettendone a dura prova l’esistenza. E’ tempo di costruire una cultura del fiume per unire città, paesi e campagne che su di esso vivono. Sono le continue emergenze ambientali a suggerirlo, eppure i tagli alle risorse dei parchi e alle aree protette imposti dalla spesa pubblica mettono a rischio un tesoro fortemente provato dall’inquinamento. La retromarcia è d’obbligo così come è opportuno sviluppare vecchie e nuove aree protette per difendere la biodiversità, il cuore della qualità della vita nostra e delle generazioni future. L’allarme suona da tempo: la pianura Padana attraversata dal fiume è tra le più “avvelenate” d’Europa, la longevità delle sue popolazioni è inferiore rispetto a quelle di altri luoghi. I pesci autoctoni sono sempre meno, sono stati spodestati da carpe e siluri, invasori agevolati dall’azione dell’uomo, come ha spiegato parlando di biodiversità ittica Giuseppe Castaldelli dell’Università di Ferrara. I dati indicano la necessità di creare un corridoio ecologico unico, ben governato e coordinato nel migliore dei modi.

Una nuova cultura del fiume comune a città e paesi della valle del Po

Per salvare il fiume non c’è bisogno di grandi opere tanto meno di sbarramenti per renderlo navigabile 365 giorni l’anno come suggerito dal progetto sulla sua bacinizzazione. Gli studi di fattibilità – gli ultimi dei quali commissionati dalle regioni a AiPo (Agenzia interregionale del Po) nel 2013 – un costo di 2 milioni di euro, finanziati per il 50 per cento dall’Europa e pagati, per quanto riguarda la tranche più recente, 500 mila euro dalla nostra Regione, 100 mila dal Veneto e 400mila dalla Lombardia.
L’idea sulla carta spinge soprattutto sulla produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili che risulterebbe pari al 3 per cento di quella nazionale, ma il geologo Marco Bondesan è convinto dell’antieconomicità dell’operazione. “Come Italia Nostra – dice – dobbiamo insistere sul paesaggio e la sua salvaguardia”. Un passaggio necessario per garantire la sicurezza idraulica in presenza di un fiume costretto a scorrere in spazi ristretti rispetto al passato, dei cambiamenti climatici, dell’aumento del cuneo salino, della diminuzione della portata del fiume e di tutti gli elementi di rischio emersi in questi anni.
“I 250 chilometri del Po che vanno da Piacenza a Mesola sono interessati per l’80 per cento dai siti della Rete natura 2000 che proteggono habitat e specie naturali di interesse comunitario – ricorda Enzo Valbonesi del Servizio Parchi e Risorse forestali della Regione Emilia – Romagna – a differenza di quelli di altre regioni sono dotati di piani di gestione e misure di conservazione previste dalla direttiva comunitaria Habitat. Le specie più minacciate , così come nel resto della pianura padana sono i pesci, gli anfibi e i rettili che più di tutti sono dipendenti dalla qualità e quantità delle acque superficiali”. Le aree rivierasche del medio e basso corso del Po non sono state perimetrate né pianificate dalle regioni interessate, solo l’Emilia-Romagna e la Lombardia si sono adoperate in questo senso, mentre il Veneto è intervenuto unicamente nell’area deltizia. “Siamo di fronte a forme di tutela che rischiano di avere un’efficacia molto debole, perché manca la volontà di superare una sorta di federalismo ambientale finora praticato in proprio, quando i problemi del Po consigliano di fare il contrario”.

I pericoli della bacinizzazione

Valbonesi denuncia i pericoli del progetto di sbarramenti pensati per regimentare il fiume ma destinati a danneggiare la pesca e il turismo. Il gioco di conche – che in base a calcoli ritenuti inattendibili da Giancarlo Mantovani, direttore del Consorzio di Bonifica Delta del Po, dovrebbero comunque fornire un apporto d’acqua sufficiente alle esigenze del Delta – imprigionerebbe gran parte della silice e di alcuni fosfati indispensabili al nutrimento di molluschi, crostacei e pesci che vivono o si riproducono nelle aree lagunari e salmastre del Delta e più complessivamente dell’Alto Adriatico. “La vitalità del mare dipende dall’afflusso di acque dolci e ricche di sali minerali che arrivano dal bacino padano veneto a cui il Po concorre per circa il 70 per cento – prosegue – Nella sola Sacca di Goro la produzione annua di molluschi va da 8mila a 15 mila tonnellate, un valore economico valutato tra i 50 ed i 100 milioni di euro, un’industria che impiega circa 1.500 operatori. Frenare l’apporto dei nutrimenti sarebbe un disastro”. Cosa potrebbe succedere? L’esempio più calzante risale alla siccità del 2003, da aprile a settembre le portate del fiume furono così basse da dimezzare il trasporto dei sali nutrienti. Risultato: una perdita di 7 mila tonnellate di cozze.

Danni al turismo e alla pesca

Gli sbarramenti in corso di progettazione da parte di Aipo (Agenzia interregionale per il Po), ha denunciato Valbonesi, limiterebbero anche il trasporto di sabbia mettendo in pesante difficoltà il litorale ferrarese e romagnolo in via di arretramento e bisognoso di continui ripascimenti attraverso il trasporto di sabbia prelevata al largo della costa, operazione dai costi notevoli a carico delle Regioni.
Rischi da valutare e decisioni politiche da prendere anche sul destino delle aree protette del Delta. “Alla positiva volontà di regioni, enti locali e operatori economici di candidare il Delta tra le riserve della Biosfera dell’Unesco – ha concluso – dovrebbe corrispondere l’impegno di dare vita a un unico Parco per superare la frammentazione attuale”. Siamo l’unico caso europeo a disporre di un Delta tutelato da due parchi, quando la gestione unitaria sarebbe assai più logica e utile alla salvaguardia ambientale.

L’impegno dell’onorevole Bratti per un unico Parco del Delta del Po

Sulla bacinizzazione l’onorevole Alessandro Bratti si è detto nettamente contrario dimostrandosi sorpreso che un simile progetto, voluto a suo tempo dal Governo Berlusconi e recentemente stralciato dall’elenco delle grandi opere, stia andando avanti attraverso AiPo per volontà delle Regioni. Secondo il deputato è bene aggiornare il progetto Valle Po voluto da Province e Comuni rivieraschi e ammesso al finanziamento del Cipe per 180 milioni di euro. All’interno del cosiddetto “collegato ambientale” della Finanziaria, approvato in prima lettura dalla Camera da qualche giorno e di cui Bratti è stato relatore, si è fatto un passo avanti verso l’istituzione dell’autorità di Distretto del Po. L’obiettivo del Distretto è rendere più autorevole pianificazione e programmazione dell’intero bacino del Po curate finora dall’Autorità di Bacino sia sul piano della difesa del suolo che della prevenzione dal rischio idraulico. “Il Po non ha bisogno di grandi opere, spesso devastanti come la centrale di Porto Tolle, ma di interventi di ripristino curati dalle istituzioni locali – ha detto il deputato – interventi che diano nuovamente alle comunità il senso di appartenenza al grande fiume”. Favorevole a un unico Parco del Delta, Bratti si è impegnato ad adoperarsi insieme al ministro della Cultura Dario Franceschini perché nella riforma della legge quadro sui parchi, presto all’esame del Parlamento, venga inserito un articolo sul Delta, elaborato insieme al collega rodigino Diego Crivellari, che porti entro sei mesi alla costituzione di un parco interregionale. Non è mai troppo tardi.

Il sax di Fausto Papetti

Fausto Papetti (Viggiù, 28 gennaio 1923 – Sanremo, 15 giugno 1999) è stato uno dei sassofonisti più popolari e apprezzati dal pubblico italiano per oltre 30 anni, grazie ai suoi dischi, che riproponevano successi italiani e internazionali in versione strumentale. Le compilation, vendute anche all’estero (Germania, Spagna e Sudamerica in primis), erano intitolate semplicemente “Raccolta”, contraddistinte da un numero ordinale.

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Papetti iniziò la carriera nel 1955 formando il gruppo de “I Menestrelli del Jazz”, insieme a Pupo De Luca alla batteria, Ernesto Villa al contrabbasso, Giampiero Boneschi (poi sostituito da Gianfranco Intra) al pianoforte ed Ezio Leoni alla fisarmonica. Come strumentista, verso la fine degli anni ’50, suonò per la giovane Mina e nel suo periodo “jazz” con Chet Baker, in occasione dell’incisione di alcuni dischi nel 1959 e nel 1960 (“1959 Milano Session”, “Sings and Plays” e “Chet Baker with Fifty Italian Strings”). In sala di incisione il sassofonista era insieme a Franco Cerri, Gianni Basso, Renato Sellani, Franco Mondini e Glauco Masetti, il gotha del jazz italiano.
Nel 1959 firmò il contratto per la Durium, inizialmente come strumentista, e poco tempo dopo come sax solista, in occasione dell’incisione del brano “Estate violenta”, composto da Mario Nascimbeni quale colonna sonora dell’omonimo film diretto da Valerio Zurlini. Il singolo ebbe un ottimo riscontro nelle vendite, tale da convincere la casa discografica a produrre il primo Lp del sassofonista: “Fausto Papetti – Sax alto e ritmi”.

sax-papettiTra i musicisti che lavorarono con lui, oltre al già citato Pupo De Luca (attore nella serie TV Nero Wolfe, nel ruolo di Fritz il cuoco), ci furono Tullio De Piscopo (dalla 15ª alla 34ª raccolta), Aldo Banfi, Reddy Bobbio (pianista, arrangiatore e co-autore), Luigi Cappellotto e Giancarlo Sorio (arrangiatore e co-autore). Nel 1968 incise, con il trombonista jazz Mario Pezzotta, l’album “Due stili, due strumenti”, l’incontro tra due generi assolutamente diversi: easy listening e dixieland.

Lp, Stereo 8 e soprattutto le musicassette del grande sassofonista erano molto apprezzate dagli automobilisti (l’autogrill era la sosta obbligata per l’acquisto delle sue raccolte). Le note del suo sax accompagnavano spesso le attività che si svolgevano in luoghi quali ristoranti, sale d’aspetto, alberghi e negozi. Il successo fu tale che per tutti gli anni Settanta furono pubblicate sino a due raccolte l’anno, che immancabilmente raggiungevano i vertici delle classifiche; quella più venduta fu la 20ª, giunta al primo posto della Hit Parade nel 1975. I suoi dischi si caratterizzavano anche per le copertine in cui comparivano, specialmente negli anni ’70, giovani donne discinte, un po’ hippy e casual, mai volgari.

sax-papettiCol suo sax, Fausto Papetti, per quasi 40 anni e con oltre 900 canzoni (numero stimato), ha intrattenuto il pubblico facendo apprezzare il suo sound e gli arrangiamenti “easy listening” dei grandi successi. Da Gli Alunni del Sole di ‘”A Canzuncella” a “Balla balla ballerino” di Lucio Dalla, dai Pink Floyd di “Shine on you crazy diamond” fino a “Jamming” di Bob Marley, passando per generi quali disco-music, colonne sonore di film e TV (tra tutte “A blue shadow” di Berto Pisano), evergreen italiani e internazionali.
Il suo segreto era quello di sapere rileggere qualsiasi tipo di brano musicale, attenuandone le “ruvidità” e facendone prevalere la melodia.
Le sue fonti ispiratrici furono Stan Getz, sassofonista di fama mondiale, e Miles Davis. Amava i Pink Floyd, i Beatles, Ennio Morricone, mentre nel classico preferiva Schubert, Mozart e Chopin. Nei momenti di relax era solito sedersi al piano ed eseguire pezzi classici. Aveva una predilezione per Tony Bennett, Stevie Wonder, Barbra Streisand e Frank Sinatra. Le canzoni che amava suonare erano: “Feelings”, “Stardust”, “Take Five” e negli ultimi tempi “Caruso” di Lucio Dalla.
Papetti creò un vero e proprio genere, imponendo in campo discografico le produzioni strumentali, la stessa formula fu adottata da altri valenti sassofonisti, tra cui Gil Ventura, George Saxon e Johnny Sax e da strumentisti quali Pier Giorgio Farina, Federico Monti Arduini (Il guardiano del faro) e Santo & Johnny.

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Pagina Facebook

Oltre alle “Raccolte”, la Durium pubblicava altri dischi di Papetti, come nel caso di “I remember”, “Old America”, “Evergreen”, “Bonjour France”, “Made in Italy”, “Ritmi dell’America Latina”, “Cinema anni ’60”, ”Cinema anni ’70”. Con il passare degli anni Internet ha amplificato e diffuso le sue canzoni, facilmente reperibili su You tube e iTunes. Le sue compilation continuano a essere pubblicate su CD, in Facebook è attiva la pagina gestita dalla figlia Cinzia, su Tumblr sono disponibili le mitiche copertine dei dischi, mentre eBay consente l’acquisto dei vecchi Lp e musicassette, tramite asta.

Fausto Papetti era un uomo molto riservato, che amava la famiglia, il mare e la musica. Non gli piaceva andare in Tv, temeva l’aereo e rinunciò ad appuntamenti importanti proprio per la paura di volare. Alcuni delegati del Bolshoi, lo invitarono a tenere dei concerti a Mosca, ma lui rifiutò, per lo stesso motivo disse di no allo Scià di Persia Reza Palevi, che lo voleva al ricevimento in onore degli astronauti scesi per primi sulla luna. Non si rese mai conto di quanto fosse popolare in tutto il mondo e passò gli ultimi giorni della sua vita pensando alla musica e a nuovi progetti.

Si ringrazia per la collaborazione Cinzia Papetti, figlia di Fausto.

LA STORIA
Btoy alla riscossa

Torniamo alle nostre donne street artist, che avevamo lasciato riposare per un attimo, e avventuriamoci alla scoperta di nuovi nomi. Ce ne sono sempre di nuovi, bellissimi colori e opere piene di vita ed energia, come solo le donne, talora, sanno fare.
Eccoci, allora, alla spagnola Andrea Michaelsson, un’artista poliedrica conosciuta nel suo mondo variopinto come Btoy. Nata nel 1977, a Barcellona, Andrea ha studiato legge per quattro anni, prima di comprendere che quella non era la sua strada (quale coincidenza e nota percezione…). E allora ha iniziato a impegnarsi nella fotografia, frequentando l’Istituto di studi fotografici della sua città. Oggi è conosciuta per i suoi raffinati, dettagliati, femminili, delicati, colorati, originali, curati e precisi stencil.
Btoy si è concentrata sulla street art alla morte della madre, nel 2002, all’età di 26 anni, trovando nella pittura e nell’arte un modo di sfuggire al dolore, per non pensare, per distrarre la sua mente. Le fotografie scattate durante quel periodo all’Istituto sono state la base di partenza dei suoi disegni e l’hanno aiutata a identificare con precisione i lineamenti e i dettagli dei personaggi che ritraeva. Ispirata dalle fotografie di Henri Cartier-Bresson e dalle attrici hollywoodiane, come Clara Bow e Louise Brooks, Btoy ha presto iniziato a usare Photoshop per incorporare e combinare la fotografia con i dipinti, arrivando così a ben identificare luci e ombre, in una tecnica raffinata di stencil.
Sono iniziati esperimenti che hanno visto unirsi varie tecniche, incluse l’uso di spray e d’inchiostri. Il risultato è stato un’esplosione sensazionale di colori.
I suoi stencil mettono sempre in risalto le donne, i loro volti, i loro colori, le loro espressioni, la loro bellezza e vitalità. Spesso includono ritratti di donne belle e famose, del passato (icone degli anni ‘50) ma anche del presente. Il mondo femminile è presentato in tutta la sua bellezza e intensa delicatezza.
Dopo aver molto collaborato con l’artista Ilya Mayer e con vari amici svedesi, francesi e inglesi, oggi lavora da sola, con il suo stile unico che la contraddistingue, creando poster, stampe e murales. Anche se ha partecipato a molte mostre in giro per il mondo (da Los Angeles a Citta del Messico e Bruxelles), oltre che nella sua Barcellona, Btoy preferisce mettere le sue opere in posti “vecchi” e un po’ dimenticati e trasandati. Perché, soprattutto qui, c’è bisogno di bellezza.

Per saperne di più visita il sito di Tboy [vedi].

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Gli ambienti dell’apprendimento nel tempo delle reti

Per una bambina di un anno una rivista è un Ipad che non funziona [vedi]. Tra i 2 e i 4 anni: 4 bambini su 10 usano uno strumento touch screen per giocare o guardare video. I nuovi schemi mentali consentono di usare intuitivamente il medium senza pensare, hanno effetto sulla percezione del corpo e dello spazio, ad esempio la tastiera entra stabilmente negli schemi motori.
Ho riflettuto su questi temi nel corso di una conferenza organizzata da Daniela Cappagli nell’ambito del ciclo promosso da Istituto Gramsci e Istituto di storia contemporanea di Ferrara e rivolto agli insegnanti. Ragionare sui cambiamenti indotti dalle tecnologie sull’apprendimento significa assumere che le tecnologie non sono semplici strumenti, ma pratiche condivise che cambiano le abitudini e le opportunità per gli individui e che creano un nuovo ambiente. Per definizione un ambiente propone sfide di adattamento.
Il termine nativi digitali sottolinea la discontinuità nei modi di utilizzare le tecnologie delle generazioni cresciute al tempo di Internet. Non si tratta però di un concetto anagrafico, ma cognitivo ed esperienziale: è una questione di capacità. Le conseguenze delle tecnologie della comunicazione nella costruzione dell’identità e delle relazioni non sono interpretabili in termini di fuga verso il virtuale. Le reti divengono luoghi del quotidiano, segnati dalla condivisione di esperienze con un numero ampio e indefinito di persone. Si crea un nuovo spazio sociale in cui entrano anche persone mai incontrate dal vivo. Mentre si riducono le distanze relazionali, si crea un’identità fluida e flessibile, ma talvolta precaria e incerta. Cresce l’influenza dei legami deboli, vale a dire dei legami esterni alla famiglia e ai gruppi ristretti, ma le reti non sono egualitarie: non tutti i membri di una comunità usufruiscono gli stessi vantaggi dall’appartenenza ad una stessa rete. Si apre un nuovo contesto di informazioni, che ha aspetti positivi e negativi. Quelli positivi hanno a che fare con l’esplorazione (la rete dilata i contesti entro cui fare esperienza del mondo esterno. Ciò vale per la dimensione privata e individuale quanto per quella pubblica e sociale) e lo scambio di risorse attraverso le sharing practice.
Quelli negativi sono stati fin troppo richiamati. Rischi di superficialità, distrazione, imitazione, persuasione, solitudine, ansia. Più interessante la linea di analisi che sottolinea le trasformazione del funzionamento cerebrale, per effetto di un sovraccarico cognitivo e l’impossibilità di assimilare l’eccesso di informazione o per l’esternalizzazione di funzioni come la memoria.
Diverse ragioni rendono indispensabile che gli insegnanti si misurino con le sfide proposte dal nuovo ambiente del Web. Il Web è una palestra per imparare ad abitare i luoghi sempre più complessi del nostro quotidiano. Il web richiede competenze: competenze tecnologiche sempre più raffinate e competenze sociali per gestire i diversi contesti di relazioni in cui siamo coinvolti, governare gli spostamenti da uno all’altro e per renderli coerenti o almeno non dissonanti tra loro.
Si ampliano le opportunità di espressione creativa: la possibilità di realizzare progetti, di lavorare insieme, di pensare con le mani. Soprattutto, si ampliano gli ambienti di apprendimento informale, quelli più rilevanti per la nostra formazione.

Maura Franchi  è laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi e Social Media Marketing. Studia i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@gmail.com

REPORTAGE
Il Po nel giorno della piena, l’onda sta passando

La paura per ora è passata. L’onda di piena del Po si è registrata a Pontelagoscuro questa notte intorno alle 4, con un secondo picco in mattinata fra le 8 e le 9. Ora la condizione di massima allerta pare si stia attenuando, le acqua defluiscono con livelli di portata in progressiva diminuzione.

Ecco le foto scattate questa mattina dai nostri fotoreporter Roberto Fontanelli e Aldo Gessi
(le immagini dal drone sono pubblicate per gentile concessione di Publiteam photo)

Il brano intonato: Fiorella Mannoia, Il fiume e la nebbia [clic per ascoltare]

L’onda di piena del Po sta passando senza creare danni (foto Gessi – Fontanelli)
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Il Po (foto di Roberto Fontanelli)
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Romafilmcorto, Muroni a un passo dal successo: “Portare al cinema i temi sociali e uscire dall’anestesia”

Ha vinto due premi su tre Tommaso, il film diretto da Vincenzo Mascolo in concorso a Romafilmcorto interpetrato da Monica Guerritore, Giulio Brogi e Stefano Muroni, iperattivo attore di Tresigallo, selezionato a concorrere come migliore attore al festival romano, uno tra i più accreditati dai critici cinematografici. “Anche se non ce l’ho fatta, la soddisfazione è stata grandissima, partecipare da candidato significa essere stati apprezzati per il lavoro svolto a fianco di attori di consolidata esperienza”, racconta rientrando a Tresigallo, dove oggi pomeriggio alle 17.15 è in scena al teatro cittadino insieme agli studenti del Centro preformazione attoriale con Siamo nati proprio adesso! (1943 – 1945: un piccolo paese nella grande pianura della memoria. La guerra, la lotta, la vita), omaggio alle 23 vittime uccise 70 anni fa esatti nel bombardamento piovuto sulla città. “Tommaso si è aggiudicato il Colosseo D’Argento e Monica Guerritore il premio come migliore attrice – spiega – Credo sia un ottimo inizio per un corto legato a un tema di grande attualità come l’eutanasia, trattato finora solo da Marco Bellocchio ne La bella addormentata”. Ancora una volta richiama l’attenzione sui temi sociali del nostro tempo sui quali il cinema dovrebbe aprire nuove e importanti riflessioni. “Temi come l’eutanasia, la precarietà e la sicurezza sul lavoro, trattati da Terremotati il film appena girato a Mirabello, dovrebbero essere un marchio di fabbrica – continua –

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Stefano Muroni sulla sinistra

La nostra generazione deve parlare dei problemi che la riguardano se vuole lasciare un segno del proprio passaggio e lo deve fare dando alle proprie opere una visibilità intelligente”. Le sue dichiarazioni suonano come un invito ai giovani artisti a difendere il proprio ruolo di protagonisti strappandolo all’anestesia patinata di storie vuote da “telefoni bianchi del XXI secolo” come ama ripetere Stefano, che recitando in “Tommaso”, nato da una sua idea poi messa a punto e sceneggiata da Carla Gravina (nella foto), ha provato emozioni davvero forti. “Lavorare fianco a fianco con Monica Guerritore e Giulio Brogi è stato come realizzare un sogno – racconta – Il sogno di un ragazzino partito da Tresigallo per fare l’attore”. Così è, perché la stoffa dell’attore c’è eccome. E c’è anche la voglia di migliorare, di mettersi alla prova, di vivere la sua professione con determinazione e impegno. “Quest’esperienza mi ha dato tantissimo – conclude – Ho imparato molto, da come si trucca un viso, ai tempi da usare per dare maggior efficacia a una battuta. I consigli di Monica sono stati fondamentali”. E il sogno continua.

Le impervie strade di Montalbano

Sono gli anni ottanta, quelli della morte del banchiere Michele Sindona, della P2 e dell’attentato a papa Giovanni Paolo secondo. Le notizie si apprendono alla radio, al massimo al telegiornale. Montalbano, ancora giovane, ma già molto simile all’uomo maturo dei romanzi più famosi, si muove tra il commissariato, la sua verandina, la passeggiata allo scoglio e le indagini in mezzo alla cultura della sua terra. I Cuffarro contro i Sinagra, Livia e Adelina che apertamente non si sopportano, il dottor Pasquano che lo maledice, la miseria umana più bieca e la passione che diventa delitto e vendetta, a qualsiasi età.
In un’intervista alla televisione, il commissario cita Pirandello, gli serve per fare capire che lui l’apparenza non la scambia per realtà e viceversa, il doppio sa bene dove trovarlo. E il messaggio avrà il suo effetto perchè Montalbano non va mai alla cieca quando agisce e quando dichiara.
Il commissario è uomo acuto, piglia, mette insieme, da un romanzo di Sciascia a un film di James Bond. Al suo fianco la caricatura di Catarella, Mimì Augello sciupafemmine e l’insostituibile Fazio. Ci sono sensazioni che non quadrano, non sa perchè, qualcosa di vago che lo inquieta, un odore che lo punge, ma poi, ipotesi dopo ipotesi alla soluzione finale Montalbano arriva sempre.
I metodi? Più o meno leciti, “ninni catafuttemmo” risponde a Fazio quando l’indagine gli viene tolta dal questore per essere affidata a un collega. È abituato a non percorrere strade troppo battute, gli capita anche di fidarsi di un povero ladro quasi onesto per risolvere un caso. E non sbaglia.
Gli otto racconti parlano di mare e di terra, di giovani donne e vecchie rancorose, mafia e linguaggi della malavita che il commissario sa cogliere molto bene.
E soprattutto sul finire compaiono i notturni, serate morbide e accoglienti con la luna piena “che pariva ‘na mongolfiera”, sono le notti in cui tirare l’alba con Livia alle saline ne vale davvero la pena.

 

Andrea Camilleri, Morte in mare aperto e altre indagini del giovane Montalbano, Sellerio

L’OPINIONE
Le colpe dei padri

Sono state pubblicate sulla stampa le intercettazioni “clandestine” [leggi] del consigliere regionale del M5s Defranceschi che raccolgono i “commenti”, se così si possono definire, dell’ex capogruppo Pd in Regione, Monari, sulla vicenda delle cosiddette “spese pazze” dei gruppi consiliari della passata consigliatura. Diciamo subito che non è un bello spettacolo: per il tono generale di sprezzo e di fastidio nei confronti di chi deve controllare, per la greve ed imbarazzante mediocrità di alcuni commenti, per la concezione distorta che pare emergere dell’impegno politico, in cui all’etica si sostituisce il timore della sanzione.
Indignarsi, oltre che del tutto naturale, è quindi doveroso, almeno per chi è convinto che gestire la cosa pubblica rappresenti una delle occupazioni più nobili a cui possa essere chiamato un individuo. Ma non basta, a maggior ragione se si appartiene ad una delle generazioni che hanno guidato il Paese negli ultimi 20-25 anni. Perché accanto alle specifiche responsabilità etiche e penali che attengono alle singole persone e di cui ciascuno è chiamato a rispondere individualmente, ne esistono di più generali che riguardano l’intero corpo sociale; certamente non tutti nella stessa misura, ma nessuno escluso. Difficile uscire da questa situazione se non si riesce a rendersene conto, accettando di conseguenza anche le critiche aspre delle generazioni più giovani, che si ritrovano a pagare il prezzo dei nostri errori ed a cui troppo spesso molti reagiscono quasi sdegnati, protestando la loro assoluta estraneità.
Viene da chiedere a costoro, ma tu, dov’eri mentre succedeva tutto questo? Se avevi capito cosa stava capitando, cos’hai fatto per impedirlo? O, se no, come hai potuto non vedere? Non era possibile fare qualcosa di più e di diverso? Perché la deriva che ha portato all’emersione e al consolidamento delle tante caste che da parecchi lustri fanno il bello ed il cattivo tempo in Italia ha radici lontane ed è per troppi una consolatoria quanto patetica menzogna affermare che sia stata tutta colpa di Berlusconi e del suo baraccone affaristico-mediatico, scrollandosi così di dosso ogni responsabilità per il solo fatto di averlo sia pur inutilmente contrastato.

SETTIMO GIORNO
Il ‘Patto’, l’Aurora e il tramonto della cometa

LA COMETA – E’ caduto l’ultimo frammento di quella dolcissima poesia che mi raccontavano da bambino davanti alle casette di sughero, alle statuine (la fanciulla che portava i panni a lavare, il calzolaio, il maniscalco…) di un presepio che mia madre realizzava con un amore struggente, ricordo le montagne fatte con i cuscini ricoperti di carta mimetica, le stradine, il pozzo, un piccolo specchio a rappresentare il laghetto in riva al quale si contemplavano oche, galline e pecore, e, poi, la capanna, dove il Bambino, adagiato in mezzo alla paglia, apriva le sua braccine rosee ad accogliere i nuovi fedeli accorsi ad ammirare il grande miracolo di Dio, il cui Figlio ora avrebbe salvato il mondo crudele. Là, sulla capanna, mia madre metteva la stella cometa, richiamo solenne per i Magi. Io immaginavo che quella stella luccicante di strass fosse il vessillo profumato di Dio. Profumo di violetta e di rosa. Ora abbiamo appreso che l’ultima, straordinaria creazione umana , una navicella spaziale, si è dolcemente depositata su una cometa, rimandando a terra immagini e perfino odori. Si è così appreso che la cometa puzza di uovo marcio. Amen.
L’ AURORA – I russi hanno portato via dalla Nieva, da dove minacciava coi suoi cannoni il Palazzo d’Inverno, l’incrociatore Aurora, sulla tolda del quale, preso da una commozione che mi stringeva alla gola, scrissi una poesia (“Non naviga più l’Aurora….”) per glorificare le grandi speranze che la rivoluzione d’ottobre aveva regalato agli uomini. Hanno portato il battello che navigava sulle illusioni di milioni di oppressi in un bacino di carenaggio, dove verrà rimodernato. Speriamo che non cancellino definitivamente il sentore di giustizia che la piccola nave portava ancora con sé.
IL PATTO – E così Renzi e Berlusconi sono riusciti a firmare “Il Patto”, Manzoni direbbe “patto scellerato”, ma abbiamo dimenticato anche il povero Lisander e non abbiamo elementi per giudicare quello che i due hanno democraticamente deciso. Qualcuno afferma che il documento finale cominci così: “Lasciateci lavorare”. Quello che è certo è che stanno per arrivarci addosso altre tasse, la cosiddetta nuova patrimoniale mascherata. Non fatevi ingannare dai titoli “si cambia e si ammoderna il Catasto”. Nella realtà, il nuovo Catasto innalzerà il valore delle case, per cui sarà impossibile, con questa crisi, vendere e comprare, il mercato morirà: aumenteranno gli affitti e i senzatetto, chi ha una casa vecchia ma classificata di lusso dovrà accendere altri mutui per pagare le continue opere di ristrutturazione. Ma nessuno protesta, tutti zitti, il Parlamento è muto davanti allo scempio che si sta facendo del nostro povero paese in via di definitiva demolizione. Giove s’è arrabbiato, sta distruggendo tutto ciò che abbiamo imprudentemente costruito sotto le montagne, sulle rive dei fiumi e dei ruscelli, forse sulle bocche dei vulcani. Ma stiamo tranquilli: “Il Patto” ci salverà.

Una fantasmagorica Tempesta

STANDING OVATION: I PIU’ ACCLAMATI SPETTACOLI TEATRALI DEL XXI SECOLO
La Tempesta, regia di Giorgio Barberio Corsetti, Teatro Comunale di Ferrara, dal 21 al 26 marzo 2000

Se si esclude l’Enrico VIII, del 1613, composto probabilmente con la collaborazione di John Fletcher, “La Tempesta” (1611) è da considerarsi l’ultimo dramma scritto da William Shakespeare. Si tratta di una sorta di “summa” idealmente autobiografica dell’autore, trasposta nella fiaba e tutta incentrata sul protagonista: Prospero. Il quale, dopo avere subito l’usurpazione dal trono del ducato di Milano da parte del fratello, approda con la figlia Miranda su un’isola deserta o, meglio, abitata unicamente dal malvagio Calibano. Prospero diviene mago, domina l’essere malefico e libera fate ed elfi benigni, tra cui il tenero folletto Ariel. Alla fine, con un prodigio, Prospero scatena una tempesta e fa naufragare sull’isola una nave con a bordo i suoi nemici, compreso il fratello usurpatore. Ma la sospirata vendetta sarà sostituita dall’amore, dal perdono, dal pentimento e dalla felice riparazione dei torti subiti.
«Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni», dice Prospero nel suo monologo della scena prima nell’atto quarto dell’opera. Tuttavia, in questo passo, il grande poeta e drammaturgo di Stratford-on-Avon non intendeva noi esseri umani ma (anticipando Pirandello di tre secoli) noi personaggi, la nostra vaga trasfigurazione sul palcoscenico. Ha avuto dunque ragione il regista Giorgio Barberio Corsetti ad attribuire all’opera shakespeariana una valenza meta-teatrale, sia per ciò che riguarda i contenuti e sia per quanto attiene al codice tecnico-formale adottato nell’allestimento.
Emblematica e funzionale è la scenografia, creata dallo stesso regista con l’assistenza di Cristian Taraborrelli, proposta come una sorta di straordinaria macchina delle illusioni generatrice di fantasmiche apparizioni. Fiori rossi sbocciati nello spazio chiaro, due torri metalliche a tre piani con scalette, un’ampia piattaforma mobile al centro a rivelare e occultare l’antro di Calibano, il tutto stagliato su uno sfondo plumbeo al contempo ideale supporto per le proiezioni video ideate e realizzate da Fabio Iaquone. In questa atmosfera un po’ dechirichiana e un po’ magrittiana, Prospero e il folletto Ariel, entrambi agghindati in completo grigio con panama bianco in testa e bastone coloniale in mano, tramano il gran sortilegio che conduce il primo alla riappropriazione della sua identità e dignità di uomo e il secondo alla libertà di tornare a fondersi e confondersi con gli elementi della natura.
I personaggi principali del dramma: Prospero, Ariel e Calibano, sono interpretati rispettivamente da Fabrizio Bentivoglio, Margherita Buy e Silvio Orlando, coadiuvati dalla compagnia del “Teatro stabile dell’Umbria”.

REPORTAGE
Il Po in piena.
Parte il deflusso

La piena del Po si sta abbassando come quota, ma sarà più lunga. Fortunatamente il colmo dell’ondata in territorio ferrarese dovrebbe essere inferiore rispetto ai livelli attesi. Occorrerà, però, più tempo per il ritorno alla normalità. È questa la sintesi del tavolo riunito oggi in Prefettura per seguire l’evoluzione della situazione.

All’incontro in palazzo Giulio d’Este, presieduto dal prefetto Michele Tortora e coordinato dalla capo gabinetto Maria Teresa Pirrone e dalla delegata per la Protezione civile Serena Botta, hanno preso parte Aipo, Provincia, Comuni, volontari della Protezione civile, Polizie municipali, Polizia provinciale, forze dell’ordine e Vigili del fuoco. Lo comunica una nota dell’ufficio stampa della Provincia di Ferrara.

Intanto, in diretta da Pontelagoscuro, una carrellata di fotografie scattate oggi da Roberto Fontanelli e Aldo Gessi.

[clicca le immagini per ingrandirle]

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Po in piena (foto Fontanelli e Gessi)
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Po in piena (foto Fontanelli e Gessi)
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Po in piena (foto Fontanelli e Gessi)
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Po in piena (foto Fontanelli e Gessi)
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Po in piena (foto di Fontanelli e Gessi)

REPORTAGE
Attendendo Abercrombie.
Jazz club anche da vedere

Un chitarrista di culto come John Abercrombie stasera al Jazz club Ferrara, nella sede del Torrione di San Giovanni, via Rampari di Belfiore 167. In collaborazione con il Bologna jazz festival. L’ingresso, dalle 21,30, è a pagamento. Lunedì, invece, sarà la volta di un doppio appuntamento. Il duo composto da Kenny Barron al pianoforte e Dave Holland al contrabbasso al Teatro comunale Claudio Abbado di Ferrara per una produzione di FerraraMusica. La serata nel Torrione dove ha sede il Jazz club Ferrara, invece, dedicata agli artisti emergenti del lunedì, inseriti nella sezione del cartellone intitolata “Happy go lucky local”, in questa occasione in compagnia del Marcello Molinari Quartet.

Intanto uno sguardo agli ultimi “main concert” con una carrellata di belle immagini: quelle di venerdì scorso (7 novembre 2014) con The Claudia Quintet, il “solo” di John Taylor di sabato 8 e lo Steve Kuhn trio di lunedì 10. Tre appuntamenti frutto della collaborazione tra Jazz club Ferrara e Bologna jazz festival Il reportage fotografico è di STEFANO PAVANI.

[clicca le immagini per ingrandirle]

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The Claudia Quintet con Chris Speed al sax al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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The Claudia Quintet con Red Wierenga alla fisarmonica al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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The Claudia Quintet con John Hollenbeck alla batteria al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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The Claudia Quintet al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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The Claudia Quintet al Jazz club Ferrara venerdì scorso: Matt Moran al vibrafono (foto di STEFANO PAVANI)
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John Taylor al Jazz club Ferrrara (foto di Stefano Pavani)
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John Taylor al Jazz club Ferrrara (foto di Stefano Pavani)
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John Taylor al Jazz club Ferrrara (foto di Stefano Pavani)
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Steve Kuhn Trio con Billy Drummond alla batteria al Jazz club Ferrrara (foto di Stefano Pavani)
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Steve Kuhn con il suo trio al Jazz club Ferrrara (foto di Stefano Pavani)
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Steve Kuhn Trio al Jazz club Ferrrara (foto di Stefano Pavani)
Steve Kuhn Trio al Jazz club Ferrrara (foto di Stefano Pavani)

La rivoluzione di Basaglia: radicalismo e legalità

Nel secondo incontro del ciclo “Passato Prossimo”, la stagione dei diritti in Italia è stata raccontata da una prospettiva del tutto originale: quella di coloro i cui diritti sono spesso negati, i matti, anche se in realtà, per usare le parole di uno che se ne intendeva, “nessuno sa cos’è il malato di mente”. Proprio la figura di Franco Basaglia e la sua rivoluzione civile e sociale, che ha portato alla chiusura dei manicomi, narrati nel libro del giornalista Oreste Pivetta “Franco Basaglia, il dottore dei matti. La biografia”, sono stati al centro dell’incontro: ne è emersa, non a caso, una figura di “irregolare”, difficile da racchiudere dentro una definizione.

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Il giornalista e scrittore Oreste Pivetta, autore del libro “Franco Basaglia. Il dottore dei matti”

Tra quelle che Pivetta e il professor Andrea Pugiotto hanno dato, forse quella più interessante è “un intellettuale del fare”. Grazie al suo orizzonte culturale ampio, che supera i confini dell’accademia italiana e guarda ad altre discipline oltre la psichiatria, porta la visione fenomenologica nella psichiatria: sebbene la loro osservazione e la loro descrizione dettagliata rimangano strumenti preziosi, non si può ridurre il malato ad una serie di sintomi, la psiche umana è complessa e misteriosa e la psichiatria non deve oggettivizzare il malato in una diagnosi. È così che l’attenzione passa dalla malattia al malato, dal sistema di classificazione della patologia alla persona nella sua totalità di corpo e mente. Ma ogni individuo diventa una persona quando ha delle relazioni in un contesto sociale, per questo Basaglia denuncia la realtà di una psichiatria per i poveri e di una psichiatria per i ricchi: “c’è un vecchio proverbio calabrese che dice ‘chi non ha non è’, questa contraddizione esprime nella sua totalità le contraddizioni della nostra società”, così risponde in una famosa intervista a Sergio Zavoli. Due sono le possibili interpretazioni ed entrambe sono ben riconoscibili nella pratica basagliana: la prima è che la malattia psichica è anche malattia sociale, mentre per la seconda chi non ha diritti perde se stesso, dunque per curare il malato è fondamentale restituirgli le facoltà esistenziali, cioè la dignità e la responsabilità esistenziale.

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Copertina del libro

Ma la peculiarità della rivoluzione di Franco Basaglia è la sua natura di “lunga marcia nelle istituzioni per mettere in discussione proprio quelle realtà che limitano la libertà personale”, il suo essere “un’azione che si muove sempre nella legalità”, come ha affermato Pugiotto. Insomma il suo è un radicalismo nei contenuti ma un gradualismo nei metodi.
In conclusione non poteva mancare un bilancio: a 36 anni dalla legge 180, approvata nel 1978, quattro giorni dopo il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro e nove giorni prima dell’approvazione della legge 194 sull’interruzione di gravidanza, dove è arrivato questo cammino progressivo?
I manicomi purtroppo esistono ancora: in Italia infatti sono ancora attivi 6 Opg, ospedali psichiatrici giudiziari, che il Presidente Napolitano ha definito “estremo orrore, inconcepibile in qualsiasi paese appena civile”. La loro chiusura era stata stabilita entro il 31 marzo 2013, ma questa data è slittata di decreto legge in decreto legge e ora dovrebbe avvenire al 1 aprile 2015. Inoltre, secondo Pivetta, non abbiamo ancora del tutto superato il pregiudizio nei confronti dei malati di mente. Queste parole mi hanno ricordato quelle di Mariuccia Giacomini, infermiera all’ospedale psichiatrico provinciale di Trieste, la cui testimonianza è stata raccolta da Renato Sarti nel monologo “Muri. Prima e dopo Basaglia”, interpretato appena una settimana fa da una bravissima Giulia Lazzarini al Teatro Comunale di Occhiobello: non è solo una questione di muri fisici, i muri sono “gli schemi che abbiamo nella testa, questi dobbiamo abbattere”.

“Tu prova ad avere un mondo nel cuore
e non riesci ad esprimerlo con le parole,
e la luce del giorno si divide la piazza
tra un villaggio che ride e te, lo scemo, che passa,
e neppure la notte ti lascia da solo:
gli altri sognan se stessi e tu sogni di loro.
[…]
E senza sapere a chi dovessi la vita
in un manicomio io l’ho restituita:
qui sulla collina dormo malvolentieri
eppure c’è luce ormai nei miei pensieri,
qui nella penombra ora invento parole
ma rimpiango una luce, la luce del sole.”

Un matto (dietro ogni scemo c’è un villaggio) di Fabrizio De Andrè [ascolta]

L’OPINIONE
Voltate pagina!

Settembre 2012. La Guardia di Finanza ha appena compiuto un blitz negli uffici della Regione di viale Aldo Moro. In quei giorni si tiene una drammatica riunione dei capigruppo. Marco Monari (capogruppo Pd), non immaginando di essere registrato dall’ex grillino Defranceschi, fa una serie di dichiarazioni gravi e inquietanti. La registrazione è stata consegnata agli inquirenti, ed è agli atti dell’inchiesta in corso per peculato. Ecco alcune delle affermazioni di Monari. “Tutto quello che non è raccontabile non si può più fare. Ora tutto quello che è stato fatto fino adesso è difficile da raccontare. Se vado da un consigliere e gli dico: con chi sei andato a mangiare? Quello mi risponde: ‘Fatti i cazzi tuoi!’.” “Oltre a non fare nulla e a non capire nulla, spendono un sacco di soldi, questo è il punto.” “Quello della politica è un concentrato di idioti. Il Pd è un partito grande, ci sono molti idioti, è proporzionale.” “L’incrocio dei dati, i rendiconti, sono le nostre mutande, è chiaro? Quando loro hanno i rendiconti dei gruppi, questo lo dobbiamo sapere… quando ce li ha uno che capisce di quella roba lì, ha tutto. Noi alla Corte dei Conti gli stiamo dando non le chiavi di casa, ma la casa.” Monari non trascura niente. Alla fine non poteva mancare l’attacco alla stampa. “Se fossi Berlusconi con cinque reti andrei tutte le sere in tv a dire che quelli della carta stampata sono delle teste di cazzo.” Matteo Richetti, in quell’anno presidente dell’Assemblea Regionale, dice nelle conclusioni: “La parte più critica delle spese ce l’abbiamo su questo: pranzi, cene e rimborsi chilometrici.” Non è necessario commentare. Mi parrebbe di infierire. Solo una considerazione personale. Domenica andrò a votare perché per me l’esercizio del voto è un atto sacro. Ma il grido che si sta levando, in una regione dal passato virtuoso, è forte e chiaro: voltate pagina! Prima che sia troppo tardi per la credibilità delle Istituzioni democratiche e per l’affidabilità di chi dovrebbe sentirsi onorato di rappresentarle.

Fiorenzo Baratelli è direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara

LA CURIOSITA’
Il caffè più sostenibile?
E’ in Italia…

L’italianissimo illy è il caffè più sostenibile al mondo. Lo ha recentemente stabilito un’inchiesta indipendente dell’International consumer research & testing ltd. (Icrt), un’associazione di difesa dei diritti dei consumatori che coopera nella ricerca e nel test di prodotti, composta da una quarantina di organizzazioni, tra cui l’italiana Altroconsumo, di 33 paesi sparsi nei 5 continenti e la cui partecipazione è aperta ai gruppi che agiscano unicamente nell’interesse dei consumatori, non facciano pubblicità e siano indipendenti dal commercio, dall’industria e dai partiti politici.

Icrt ha, dunque, collocato la triestina illycaffè al primo posto per l’impegno di responsabilità nei confronti dei coltivatori di caffè nel Sud del mondo, analizzandone le politiche sociali, economiche e ambientali attuate nei confronti dei coltivatori nei vari Paesi produttori (America Latina, Africa e Asia), in termini di sostenibilità sociale e ambientale, trasparenza, coinvolgimento attivo. In particolare, l’azienda ha costituito solide, affidabili e costruttive relazioni dirette con i piccoli coltivatori, inserendoli anche in attività di formazione volte ad aiutarli a migliorare la qualità del proprio caffè e riconoscendo loro un prezzo profittevole. L’azienda ha operato, e opera, per garantire a questi produttori condizioni di vita adeguate oltre che per abbattere l’impatto ambientale della produzione di caffè. Questo, grazie a una valutazione diretta e certificata dell’impatto sociale delle proprie attività. Il caffe è, infatti, vissuto e considerato non solo come un piacere ma, soprattutto, come un’importante espressione della ricchezza dei diversi Paesi e simbolo dell’unione tra diverse culture e, come tale, un modello di riferimento per altre colture e per gli scambi commerciali internazionali.
Sono circa 25 milioni nel mondo le famiglie coinvolte nella coltivazione del caffè: la responsabilità nei loro confronti delle aziende che operano in questo settore è cruciale. Expo 2015, di cui illycaffè è Official coffee partner, sarà un’occasione importante di sensibilizzazione anche su questo. In tale ambito, illycaffè è stata la prima azienda al mondo ad avere ottenuto, nel 2011, da Dnv Business sssurance, la certificazione Responsible supply chain process, che attesta l’approccio alla sostenibilità da parte dell’azienda in tutte le sue attività, con particolare attenzione alla catena di fornitura. Si tratta di un modello innovativo, poiché mette al centro la qualità del caffè prodotto e la creazione di valore per tutti gli stakeholder. L’esigenza è sempre più avvertita dai moderni consumatori finali che vogliono poter scegliere un caffè equo (e quindi “pulito”) oltre che di qualità. Un esempio italiano tutto da seguire.

Foto di Elisabetta Illy