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IL FATTO
Una firma in più, un’arma in meno

Daniele Lugli, presidente emerito del Movimento Nonviolento, lo aveva promesso nell’intervista di gennaio [leggi] e ieri mattina nella sala dell’Arengo della residenza municipale è stato presentato il Comitato provinciale di Ferrara della campagna “Un’altra difesa è possibile”. Fra gli aderenti Agesci, Acli, Anpi, Arci, Associazione Papa Giovanni XXIII, Associazione Viale K, Caritas, Cgil, Copresc, Emergency, Emmaus, Fiom, Legacoop, Libera.
Forse mai come in questo momento la guerra potrebbe sembrare una difesa giusta e necessaria e sappiamo quanto in questi ultimi anni sia stata presentata come umanitaria, ma la verità è che “la carta istitutiva delle Nazioni unite, la nostra Costituzione, parlano piuttosto di un flagello che abbiamo scelto di ripudiare”, ha sottolineato Daniele. “L’intervento armato ha dimostrato tutta la propria insufficienza come forma di risoluzione dei conflitti: dovunque è stato impiegato, dalla Bosnia all’Afghanistan all’Iraq, la situazione semmai si è aggravata. Con questa proposta di legge vogliamo dare una possibilità a forme di difesa differenti, quali i corpi civili di pace disegnati da Alex Langer fin dal 1995, o gli interventi di base sperimentati in luoghi di conflitto dai giovani di Operazione colomba, con costi irrisori e con grande impegno personale”, ha spiegato Daniele.
Una legge di iniziativa popolare formata da quattro articoli per l’istituzione del Dipartimento per la difesa civile, cui afferiranno i Corpi civili di pace, e l’Istituto di ricerca sulla pace e il disarmo, da finanziare spostando parte dei fondi per i sistemi d’arma del Ministero della difesa e attraverso le quote di quei contribuenti che vorranno versare il proprio 6 per mille a beneficio della difesa civile.
L’obiettivo è raggiungere 50.000 firme che permettano di presentare la proposta in Parlamento, per questo sono già in programma iniziative che si susseguiranno nei prossimi mesi. Paolo Marcolini, presidente Arci anche lui presente alla conferenza stampa, si è impegnato ad ospitare banchetti di raccolta firme nelle proprie strutture, a contatto con i giovani, ed in particolare in occasione della Vulandra, al Parco urbano dal 23 al 25 aprile. Anche Emergency, che “è presente nei luoghi di guerra dal ’94 e ha lavorato in 16 paesi, curando più di sei milioni di persone”, come ha ricordato la referente Sandra Broccati, “sostiene la campagna, anche a livello nazionale, e organizzerà un banchetto di raccolta firme alla Sala Estense nella serata del 4 marzo, durante il Viaggio italiano”. Mentre la Cgil di Ferrara, che insieme alla Fiom sta curando il coordinamento organizzativo del comitato provinciale, con il suo segretario provinciale Raffaele Atti ha preannunciato una iniziativa in collaborazione con Fiom sulla riconversione dell’industria bellica.
Nel frattempo si può già firmare a Ferrara all’Ufficio protocollo presso la sede municipale, oppure presso le segreterie di tutti i Comuni ferraresi nei quali si è elettrici o elettori.

Per informazioni e aggiornamenti sulla campagna vedi www.difesacivilenonviolenta.org
Contatti Comitato Provinciale di Ferrara
Davide Fiorini
davide.fiorini@mail.cgil.fe.it
3487510060

L’INTERVISTA
Carla Vistarini, autrice tout court: “Scrivere davvero è un piccolo inferno”

Carla Vistarini ha scritto i testi di canzoni di successo per cantanti come Ornella Vanoni (“La voglia di sognare”), Mina (“Buonanotte buonanotte”), Mia Martini (“La nevicata del ’56”), Riccardo Fogli, Patty Pravo, Renato Zero, Amedeo Minghi, Alice e i migliori interpreti della musica italiana; storiche le sue collaborazioni con i musicisti Luigi Lopez e Tony Cicco. Come autrice di programmi televisivi ha collaborato, fra gli altri, con Piero Chiambretti, Gigi Proietti, Fabio Fazio, Maurizio Costanzo, Loretta Goggi, Sergio Bardotti (Sanremo 1998); nel 1995 ha vinto il premio David di Donatello per la sceneggiatura del film “Nemici d’infanzia” di Luigi Magni. E’ autrice di numerose commedie teatrali (nel 1987 ha vinto il premio I.D.I., assegnato dall’Istituto del Dramma Italiano), ora, in libreria è disponibile “Se ho paura prendimi per mano”, il suo secondo romanzo che sta presentando in giro per l’Italia.

Com’è iniziata la tua avventura nel mondo della musica?

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Copertina della versione giapponese di “Ritratto Di Donna” (Vistarini-Lopez-Cantini) cantata da Mia Martini

Moltissimi anni fa, quando, con un gruppo di altri adolescenti come me, ci riunivamo in alcuni “luoghi sacri” della musica rock e pop di Roma come il Piper e gli studi della Rai di via Asiago da dove si trasmetteva “Bandiera Gialla”, lo storico programma di Arbore e Boncompagni che mandava in onda solo musica per “giovanissimi”. Tra noi ragazzini adolescenti di quel periodo c’erano alcuni personaggi che poi avrebbero fatto la storia della musica, dello spettacolo e del giornalismo. Ne cito alcuni: Renato Zero, Mita Medici, Roberto D’Agostino, Dario Salvatori, Loredana Bertè, Luigi Lopez, ecc. E c’ero anche io. Da lì alla Rca, la casa discografica che è stata una delle più grosse fucine di talenti e di musica in Italia, il passo fu breve. Molti di noi si presentarono lì e cominciammo a far sentire le nostre idee. E furono ascoltate. Diventarono dischi, successi, e poi anche storia.

A quali canzoni ti senti più legata?
Se parli delle mie, credo di amare alcuni pezzi che hanno forse avuto una diffusione minore, perché magari non erano dei singoli ma erano solo negli album, ma che sono splendidi. Cito fra tutti “S.O.S. verso il blu” di Mia Martini, “Un piccolo ricordo” di Peppino di Capri, “Re del Blu Re del Mai”, “Questo amore sbagliato” di Patty Pravo e tutte le canzoni di “Nightmare before Christmas” adattate da me in italiano per Renato Zero. Se parli della musica degli altri, allora i miei gusti volano verso il jazz.

Un brano come “La voglia di sognare” non nasce per caso, si tratta di emozioni emerse in un momento particolare della tua vita?
Ti dico una cosa che molti autori pensano ma che pochi confessano: non si scrive per emozione, ma per competenza, per professionalità. Voglio dire, il valore di uno scritto, sia esso una canzone, una poesia, o un romanzo, esiste nelle emozioni che suscita in chi legge o ascolta, non in quelle di chi scrive. Chi scrive, l’autore, è sì una sorta di accumulo di emozioni, cognizioni, cultura, masse di informazioni, che ha la grande facoltà di filtrare, scremare, selezionare, fino a lasciare in vita l’essenza, il cuore, e quello solo, di una storia, o di una canzone. Scrivere solo sull’onda di emozioni è un buon mezzo terapeutico per chi scrive, una catarsi psicologica, ma raramente tali scritti si sollevano dall’esperienza diaristica o dalla “poesia nel cassetto” che ognuno di noi ha buttato giù in un momento della sua vita. Scrivere davvero è un piccolo inferno, dove si sta a testa bassa sul foglio o sulla tastiera per ore e ore a scartare e gettare via le tante parole inutili che circondano le pochissime indispensabili.

“La nevicata del ’56” è l’esempio di come un ricordo dell’infanzia diventi un grande successo professionale?
La prima volta che vidi la neve, fu dalla terrazza della casa di famiglia, a Roma. Mio padre mi prese in braccio, avevo cinque o sei anni, e mi sollevò oltre la balaustra. I giardini della piazza sotto casa erano tutti bianchi. Poi scendemmo giù e cominciammo a giocare a palle di neve. E’ un ricordo bello, ma non fu questo a ispirarmi la canzone. Fu piuttosto, molti anni dopo, il contrasto con quello che il mondo intorno a noi, e cioè la città sua metafora, stava diventando. Il candore della neve inteso come innocenza, spazzato via, o peggio, sporcato, da un declino difficile e forse inarrestabile.

Stryx di Enzo Trapani è stato un punto di svolta per il linguaggio televisivo in Italia?
Sì. Trapani era un grande innovatore, coltissimo, ironico, sperimentatore di nuove tecnologie e nuovi linguaggi. Ho avuto la fortuna di apprendere i ferri del mestiere di autore televisivo scrivendo proprio Stryx, con Alberto Testa e Trapani stesso. Fu un programma che suscitò interesse e polemiche, e che vinse innumerevoli premi, soprattutto all’estero, come la Rosa d’Argento al Festival internazionale della televisione di Montreux, il massimo festival del settore dell’epoca.

Pavarotti & Friends da concerto a programma d’autore…
La Rai mi chiamò a dare spessore a questo grande evento della musica, il “Pavarotti & Friends”, dopo che il debutto televisivo, senza un autore a guidare la kermesse dell’anno prima, aveva dato esiti deludenti di pubblico. E così iniziai l’avventura con Luciano Pavarotti, durata per cinque o sei (perdonate la memoria) eventi indimenticabili e grandiosi, con cui sbancammo l’auditel. L’amicizia con Luciano fu spontanea e ricca di fiducia vicendevole. Tenere le fila di ciascuno di quegli eventi megagalattici era ogni volta una sfida e una soddisfazione enorme. Ogni concerto veniva registrato in piazza, al Campo Boario di Modena, in un Tir ultratecnologico della Decca Records che arrivava appositamente da Londra per la circostanza. Ricordo che per una edizione fu chiamato come regista Spike Lee, che però non aveva alcuna esperienza di regia televisiva. Il panico serpeggiò quando Spike entrò in sala regia e si mise a guardare stupefatto i macchinari, ma alla fine tutto andò bene, la serata fu ripresa grazie alla bravura della squadra della Rai.

Con Luigi Magni hai scritto la sceneggiatura di “Nemici d’infanzia”, vincendo nel 1995 il David di Donatello. In quel momento ti sei resa conto che la tua carriera era salita a un livello superiore?
Ho avuto la fortuna di lavorare sempre con grandissimi artisti, credo i massimi del mio tempo. Uno di questi è stato Gigi Magni, con cui ho vinto il David di Donatello. Che dire? Per la carriera, per il curriculum, per le Hall of fame e/o Wikipedia, ogni premio, ogni successo, ogni incontro sono senz’altro scalini di un’ascesa a un livello superiore. Per me sono soprattutto incontri con esseri umani stupendi, persone che ti donano parte di sé e accettano con gratitudine quello che tu puoi dare a loro.

Sei molto attiva sulla rete, che mondo vedi scorrere tra le “parole” di Facebook e Twitter?

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Fotoframe tratto dalla rivista Il Libraio

Credo che la rete e i social network sarebbero dei mezzi di arricchimento culturale e di miglioramento sociale enorme se non fossero usati così sciattamente come avviene oggi in molti casi. Poi c’è il fatto che molti dimenticano che ciò che viene postato in rete, in rete resta in eterno, e quindi ci si imbatte troppo spesso in assurdità cosmiche.

“Città sporca” è il tuo primo romanzo, Cosa ti ha spinto verso il genere giallo/thriller?
Amo il thriller innanzi tutto da lettrice. Va detto che sono una lettrice accanita, con la media di almeno un paio di libri a settimana. Amo molto scrittori come Chandler, Crais, Winslow, Lansdale, King, veri maestri. Insieme a molti scandinavi e ad alcuni grandi classici che hanno usato il thriller, o almeno la suspense per rendere più avvincenti i loro scritti, come Jorge Luis Borges e George Orwell. E’ per questo, credo, di preferire la narrazione a suspense, perché so quanto può essere appassionante e avvincente, consentendo a un autore che ha anche qualcosa in più da dire, di veicolarlo con leggerezza all’interno del racconto.

Quanta cura metti nel caratterizzare luoghi e soprattutto gli “improbabili” compagni di disavventura dei tuoi protagonisti?
I luoghi che descrivo non sono mai inventati, esistono tutti nella realtà. Un giorno scriverò una “Guida di Roma” in cui metterò le tappe di questa città vista attraverso i quartieri meno conosciuti, o le zone più misteriose. La città ha molte anime, e attraverso certi luoghi si possono raccontare bene. I personaggi sono il frutto di sintesi di personalità diverse, anche queste incontrate davvero nella mia vita. E per “davvero” intendo indifferentemente nella vita reale, o in quella letteraria.

“Se ho paura prendimi per mano” è il tuo nuovo romanzo, il mestiere di scrittrice è un’evoluzione naturale della tua storia di autrice… forse un punto di arrivo?

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La copertina del libro

Non c’è mai un punto di arrivo. Siamo sempre in cammino verso altro. Non sappiamo cosa riusciremo a fare o cosa troveremo lungo la strada, ma è innegabile che dobbiamo andare avanti. “Se ho paura prendimi per mano” è il racconto di un divenire. Un uomo, Smilzo, uno che ha avuto tutto e di più dalla vita, si ritrova letteralmente sotto i ponti a causa della crisi. E’ un homeless, dimenticato da tutti. La sua vita è finita? neanche per sogno. La sua vita comincia adesso, quando si ritrova a farsi carico di una piccola bambina di tre anni , piovuta dal cielo, e inseguita da una banda di criminali per le più oscure trame. Smilzo la proteggerà trovando così il riscatto della propria esistenza. “Se ho paura prendimi per mano” è un giallo con tinte di commedia e lo consiglio a tutti gli amanti del genere.

Negli ultimi tempi stai presentando il tuo romanzo nelle librerie, che Italia stai incontrando?

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Presentazione del libro con Rita Dalla Chiesa ed Enrico Vaime (Feltrinelli, Roma)

Un’Italia meravigliosa, che ha voglia di leggere, di migliorare, di parlare, di scambiare opinioni, di crescere. Persone che nella vita di tutti i giorni forse non vediamo, per la loro discrezione e riservatezza, ma che ci sono e fanno forte il nostro Paese.

Tuo padre, Franco Silva, è stato attore di cinema e televisione (“Le avventure del commissario Maigret”, “Il delitto Matteotti”), mentre tua sorella Mita Medici è conosciuta per la sua attività di attrice e show-girl. Quali opportunità si hanno provenendo da una famiglia di artisti? E quali ostacoli?
Si hanno opportunità di formazione personale, innanzitutto. Una casa di artisti è un luogo dove si legge molto, si va al cinema, a teatro, ai concerti, si scambiano opinioni, circolano persone di vivace intelletto. Tutto questo forma, struttura, la personalità. Poi cero si ha l’opportunità di venire a contatto con l’ambiente professionale più direttamente. Ma poi, al ‘redde rationem’ del valore, della qualità di ciò che si fa, si torna a essere soli, individui che devono dimostrare di saper fare meglio di altri ciò che fanno. E la risposta la dà solo il pubblico, che non fa sconti a nessuno. Il pubblico dice sì solo a ciò che ama.

La foto in evidenza è di Simone Casetta. La foto della presentazione alla Feltrinelli è di Yuri Meschini.

Presentazione del libro “Se ho paura prendimi per mano” di Carla Vistarini nella trasmissione “Mille e un libro” di Rai Uno [vedi]
Presentazione del libro all’auditorium Parco della musica di Roma, durante “Cartoon Heroes”, insieme a Luigi Lopez, suo co-autore musicale storico [vedi]

LA SEGNALAZIONE
Premio Andrei Stenin Photo Contest

da MOSCA – Ne avevamo parlato qualche mese, a pochi giorni di distanza dalla notizia della sua morte in Ucraina, passando di fronte all’agenzia stampa russa presso la quale lavorava [vedi]. Era stato annunciato, e ora eccolo, il premio fotografico a lui intitolato, l’Andrei Stenin International Press Photo Contest, organizzato con il patronato della Commissione della federazione russa presso l’Unesco. Oggi le tante fotografie già inviate provengono principalmente da San Pietroburgo, Novosibursk, Vladivostok, Veliky Novgorod, Yekaterinburg ma anche da giovani europei della Moldavia, dell’Armenia, del Portogallo o di Cipro. Qualcuna arriva anche dall’Iran. Il Contest è in memoria del giovane Andrei Stenin, il fotoreporter ucciso a 33 anni in Ucraina e si rivolge ai giovani come lui, a coloro che, fra i 18 e i 34 anni, necessitino di un supporto alla loro eccellenza professionale. Nella giuria ci sono grandi nomi e rappresentanti di importanti istituzioni culturali russe attive nel campo della fotografia, come il direttore del famoso Multimedia Art Museum in Moscow (Mamm), Olga Sviblova, il plurivincitore e membro del World Press Photo Contest, Yury Kozyrev, e i responsabili dei dipartimenti fotografia di Reuters e Associated Press, Grigory Dukor e Denis Paquin. La cerimonia di consegna dei premi avverrà a Mosca il 3 giugno 2015. Si potrà partecipare, dal 2 febbraio al 15 aprile 2015, in quattro categorie: top news, attualità, sport e vita di ogni giorno. Ai primi tre classificati per ogni categoria andrà una somma fra i 25000 e i 50000 rubli, ma a colui che si aggiudicherà il “gran premio” andranno 500000 rubli (circa 7000 euro con un cambio attuale sfavorevole…). Ma l’importanza di questo premio non è certo il riconoscimento economico quanto la possibilità di essere selezionati da grandi professionisti fra i nuovi talenti per entrare a far parte, a pieno titolo, di nuovi progetti. Lavori italiani ancora non ne vediamo. Segnaliamo questa iniziativa anche per questo, perché i nostri giovani talenti del fotogiornalismo si facciano avanti.

Il ruolo della regolazione nei servizi ambientali: Garanti e Authorities

Propongo l’approfondimento di un tema importante e poco dibattuto: la forza della regolazione. Sto parlando di un sistema di regolazione forte (ai vari livelli, Stato e Regioni), coerente in tutti i suoi diversi aspetti, che sia in grado di valorizzare senza equivoci sia le prerogative imprenditoriali del gestore sia i diritti degli utenti. Sembra un principio condiviso, ma allo stesso tempo un tema poco valorizzato; invece forse, al crescere della forza dei gestori, dobbiamo in contrapposizione migliorare le debolezze istituzionali. In alcuni anni infatti è radicalmente modificato il mercato dei servizi pubblici e lo scenario di riferimento: siamo di fronte ad un contesto altamente dinamico in cui molte variabili e soprattutto forti interlocutori diventano protagonisti del sistema e tra questi una componente fondamentale del sistema è dato dalla intensa attività delle imprese di servizi pubblici ambientali che hanno negli anni sviluppato le loro strategie in una forte e innovativa politica industriale; in cui le trasformazioni societarie, le alleanze, le nuove acquisizioni e soprattutto i processi di unificazione hanno radicalmente modificato il quadro della offerta realizzando un nuovo mercato competitivo nei servizi pubblici locali.

Il settore dei servizi ambientali sta crescendo nei valori della dimensione di scala e degli ambiti territoriali ottimali come esigenza di integrazione, e le imprese con interessi collettivi devono garantire in modo costante la congruenza delle prestazioni, le condizioni di sviluppo tecnologico, la verifica continua della qualità attesa ed erogata. Questi importanti elementi sono ancora più importanti in vista della riforma dei servizi pubblici locali a rilevanza economica compresi il ciclo dei rifiuti e la gestione delle risorse idriche. Un fattore critico determinante sarà come le gare dovranno essere indette nel rispetto degli standard qualitativi, quantitativi, ambientali, di equa distribuzione sul territorio e di sicurezza, quindi in modo che i requisiti tecnici ed economici siano proporzionati alle caratteristiche e al valore del servizio.

Ma a livello nazionale il sistema non è stato ancora ben affrontato. Anche perché questo bisogno di ‘governance’ nei servizi pubblici ambientali, porta con sé anche elementi di conflitto o di interessi contrapposti in cui a finalità sociali e di miglioramento della qualità della vita si intersecano esigenze economiche di tipo societario. Infatti servirebbe in particlare una autorità ‘terza’ per la regolazione delle tariffe. Il passaggio nei servizi pubblici dalla situazione, talvolta monopolistica, alla liberalizzazione e alla competizione implica dunque che fra il produttore di servizi e l’utente si inserisca la figura (nuova per la nostra cultura economica) del Regolatore che svolga un ruolo di analisi (evidenziare l’esistente), di controllo (vigilanza e segnalazione), ma anche attivo (proposizione).
Le problematiche della regolazione e il percorso riformatore nei settori di pubblica utilità hanno sviluppato processi innovativi attraverso l’introduzione delle ‘Authorities’ come organismi regolatori che agiscono in posizione di indipendenza ed hanno poteri più persuasivi che decisori. Per la migliore efficacia del ruolo e delle funzioni, occorre assicurare una crescente capacità di vigilanza su questioni che incidono direttamente sui cittadini.
Serve dunque una figura (nuova per la nostra cultura economica) rappresentata dal Garante (o Autorità) che svolga un ruolo di analisi (evidenziare l’esistente), di controllo (vigilanza e segnalazione), ma che abbia anche un ruolo attivo (proposizione). Le problematiche della regolazione e il percorso riformatore nei settori di pubblica utilità hanno cercato di assolvere a questo compito con la introduzione dei Authorities come organismi regolatori. Le Authorities agiscono in posizione di indipendenza ed hanno però poteri più persuasivi che decisori. Ad oggi poche leggi regionali prevedono di individuare organismi di garanzia e quelle che l’hanno costituita poi non l’hanno avviata nelle forme previste; per rifiuti e sistema idrico insieme è stata solo la Regione Emilia Romagna ad avere costituito specifica Autorità di vigilanza, ma poi ci ha ripensato e ha tolto la funzione (che per dieci anni ha svolto il sottoscritto). Sul ruolo e sulla attività svolta si lascia il giudizio alle istituzioni. Non tocca certo a chi scrive valutare se le scelte sono state corrette, né se si è svolto in modo sufficiente il compito assegnato; posso solo garantire che si ho cercato di operare con impegno e dedizione, ricercando un ruolo di “facilitatore” dello sviluppo del sistema ed avendo l’autorevolezza (non certo l’autorità) come obiettivo, anche se si è avvertito qualche debolezza e limite di ruolo rispetto alle scelte da attuare.

Ciò che occorre riportare è che si avverte in modo crescente a livello nazionale, ma anche regionale, la necessità di una nuova governance basata sul dialogo ambientale ma che sviluppi nuovi regolamenti, nuove organizzazioni orientati verso una democrazia ecologica che possa favorire in materia ambientale la concertazione, il confronto dinamico tra interessi talvolta contraddittori, la negoziazione, in una prospettiva di sviluppo sostenibile. L’approccio globale di riferimento deve essere quello di conciliare la protezione e valorizzazione dell’ambiente con lo sviluppo economico ed il progresso sociale. In questa logica bisogna rafforzare le professionalità e le competenze delle strutture pubbliche perché è l’ente pubblico che regola i servizi pubblici e deve farlo con capacità e responsabilità.

“De même, la compétence humaine doit être mise au service des collectivités territoriales, au risque à défaut d’assister à une privatisation des politiques publiques par suite de la dépendance excessive des collectivités envers des cabinets privés dont l’indépendance et la compétence doivent être vérifiées. “Le Grenelle Environnement”, pag. 30

A tavola con Omero: Claudio Cazzola legge il menù degli eroi per “I giovedì diCibo”

da: ufficio stampa “Gruppo del Tasso”

«Ermes, il messaggero divino, si reca presso la dimora della ninfa Calipso consegnando l’ordine di Zeus di lasciar partire il naufrago verso casa…», così comincerà il racconto di Claudio Cazzola, il terzo ospite atteso da “I giovedì diCibo”, a cura di Matteo Bianchi e Matteo Musacci, la rassegna di buona letteratura nella cucina dell’omonimo ristorantino in via Carlo Mayr, 4. E già le prenotazioni a sedersi “A tavola con Omero” e il menù degli eroi che il professore dell’Università di Ferrara illustrerà, non si contano più.

«Congedatosi il dio – ha anticipato il docente – la proprietaria del luogo va a chiamare l’ospite che siede tutti i giorni sugli scogli sospirando il ritorno, lo fa accomodare sul sedile davanti a lei, e la coppia si appresta a condividere il cibo. A questo punto, il cantore avverte il suo uditorio che a Ulisse viene presentato un menu appropriato agli uomini, mentre alla dea nettare e ambrosia. Ognuno vede che si attua una vera e propria separazione alimentare, a marcare regolarmente la frattura, avvenuta in epoca mitica, fra gli immortali e i mortali». E di che cosa si cibano, appunto, i mortali? Il mondo omerico è popolato di eroi, la cui dieta è essenzialmente a base di carne di animali quadrupedi, come dimostrano gli esempi che fornirà l’ospite erudito: la prova più eloquente di questa predilezione sta nel libro dodicesimo dell’Odissea. «Sbarcati nell’isola che ospita questi animali intoccabili, per tutto un mese Ulisse e i suoi compagni si nutrono delle scorte di pane e vino rosso che la nave contiene; esaurite le quali, impera la fame, e a nulla possono servire i palliativi offerti da sporadici volatili o pesci effimeri, perché la dieta genuina prevede ben altro. Ecco quindi l’atto sacrilego, che i compagni compiono, di infrangere il tabù alimentare – ha servito l’assaggio – per cui a tutti loro la divinità nega il ritorno a casa tanto sospirato». Per l’occasione, sarà disponibile anche L’enigma di Omero, il saggio più volte ristampato che Claudio Cazzola ha pubblicato nel 2013 con Este Edition. Per prendere parte alla serata è consigliata la prenotazione allo 0532/765997, www.dicibo.it

L’IDEA
Musica per tutti

Era piaciuto a Milano, lo scorso dicembre, prima ancora a Venezia e Roma Tiburtina, è piaciuto ora a Torino (che lo vuole lì, a Porta Nuova, sempre) e si appresta a calcare altri palcoscenici affollati delle grandi stazioni ferroviarie italiane. E’ lui, il pianoforte solitario, libero, messo a disposizione dei passanti, di chiunque voglia imprimere qualche nota che possa rallegrare e addolcire la giornata di tutti, accarezzare la mente dell’altro che incrociamo casualmente, che spesso sfugge alla nostra vista e attenzione, che ignoriamo, che non conosciamo o riconosciamo. Poter dialogare in musica, in un mondo che stenta a parlare e incontrarsi, è sempre una bella idea anche se, lasciatemi fare il guastafeste, l’idea non è del tutto nuova.

musica-per-tuttiPermettetemi, infatti, di dire, che arriviamo sempre un po’ tardi, ma, come direbbero i saggi, meglio tardi che mai. L’inglese Luke Jerram aveva lanciato l’iniziativa già nel 2008, e, da allora, aveva contagiato tutto il mondo. Da New York a Parigi, dal Perù all’Australia, gli “street piano” con il cartello “Play me, I’m Yours!” erano stati avvistati in oltre 45 città, e ad oggi se ne contano 1300, alcuni dei quali decorati da artisti locali. Sono stati installati in parchi, giardini, mercati, strade, piazze, traghetti. Io ne ho visti di bellissimi, nel maggio 2013, al Gorky Park di Mosca. Qui l’originalità era caratterizzata non solo dallo strumento libero per tutti, ma dal fatto che lo stesso era riempito di fiori. Pieno di pura energia colorata.

musica-per-tuttiLì si trovava all’entrata del parco, fra lo stupore dei passanti, ma anche fra le sue stradine affollate di bambini, turisti o moscoviti che la domenica qui si rilassano. Se poi si passeggiava nel bosco vicino al Gorky, il parco Naskuchniy che ne costituisce la naturale continuazione ma che assomiglia a una vera e propria foresta nella città (con tanto di sentieri segnalati), si trovavano pianoforti persi in esso, nascosti dietro un albero, dietro piante e cespugli, che apparivano dal nulla e quasi miracolosamente, solo per diffondere musica. Facevano capolino dai rami e chiamavano tutti, senza distinzione. Bastava accomodarsi, strimpellare, se non si era suonatori provetti, o percorrere seriamente le tastiere delicate, se si era bravi pianisti.

musica-per-tuttiL’importante era diffondere musica e dolcezza, trasmettere solo note ai passanti ignari che, in un attimo, si trovavano immersi in melodie degne di film romantici d’altri tempi. Vi era musica classica, nell’aria, moderna, jazz o rock, ognuno trovava il suo spazio e il suo momento. Mi era piaciuta quell’idea di donare musica, di condividere con la natura e gli uomini che ne fanno parte un’armonia spesso perduta e che lì si ritrovava, tutti insieme, all’unisono. Un coro unico, finalmente. I fiori, poi, che uscivano dai pianoforti come dolci sorprese inattese, accompagnavano i suoni con il loro profumo intenso e i loro colori. Perché c’era armonia, anche solo per un attimo, e una comunità unita parlava la stessa lingua, quella della musica. Mi piacerebbe vedere tutto questo, sempre di più, è perché no anche nel nostro bel Parco Massari…

Fotografie del Gorky Park di Simonetta Sandri, maggio 2013; la prima fotografia di copertina è presa dal web, Stazione di Torino Porta Nuova, Febbraio 2015.

L’INTERVISTA
Al piccolo centro islamico di Cork: “Islam significa pace. Isis? Nemici nostri prima che vostri”

da CORK – E già da diverso tempo che vedo il banchetto all’uscita dell’English Market. Un gruppo di ragazzi distribuiscono volantini dal titolo “Discover Islam”. Nessuno li disturba, chi non è interessato passa e tira dritto. Sull’altro lato della strada, il gruppo di cattolici che si ritrova nei fine settimana per la preghiera in strada. Poco distante, sempre nella stessa strada, altri attivisti distribuiscono bibbie. Forse Luterani. Il tutto si svolge nell’ indifferenza più totale, tra famiglie a spasso per lo shopping, ragazzini che fanno banda fuori dal Mc Donald, casalinghe indaffarate con le borse della spesa. Un normale sabato pomeriggio a Cork.
Mi avvicino ai ragazzi del Centro di cultura islamico; con mia sorpresa Ali – uno dei responsabili – mi invita a visitare il centro di informazione (Cork islamic information centre) poco lontano. Accetto e ci incamminiamo assieme verso Shandon street, in una delle zone piu popolari e cattoliche di Cork, proprio a due passi dall’imponente North Cathedral. Ali mi parla di lui: poco più di 40 anni, ha lasciato l’Algeria e lavorato in diversi paesi europei, tra i quali l’Italia, prima di arrivare in Irlanda. La prima domanda sorge spontanea: “ Com’è la vita per un musulmano in Irlanda, di fatto il Paese più cattolico d’Europa?”. La risposta diretta, senza esitazioni: “Let me tell you: life here is just amazing”. Stupenda. Qui c’è la possibilità di svilupparsi come persona, crescere, studiare, lavorare, migliorarsi. E se si perde il lavoro lo stato aiuta anche economicamente, ti dà la possibilità di risollevarti. Una situazione abbastanza diversa da quella di molti dei nostri Paesi d’origine…”. Ali ora lavora, ma mi racconta di quando, a seguito della recessione del 2008, perse l’impiego, e di come nel periodo di disoccupazione i sussidi statali gli permisero di completare il secondo diploma di laurea. E non dimentica nemmeno il suo primo impiego in Algeria quando, a fine mese, gli venne elargito uno stipendio dell’equivalente odierno di 18 euro. Arriviamo al Centro, inaugurato nel 2013 non senza una certa diffidenza da parte di alcuni residenti del quartiere. Un’ultima sigaretta prima di entrare ed Ali viene raggiunto da un amico in strada. Mi presenta e spiega che sono un reporter Italiano, interessato a saperne di più del Centro islamico. La risposta non è delle migliori “non avete abbastanza musulmani da intervistare in Italia?”. Un’ironia riuscita male, non faccio una piega. Ma se nelle sue parole sento tensione e diffidenza. Forse voglia di confronto. Percepisco che tutto non è cosi armonioso come vuole apparire, e che c’è ancora molto lavoro da fare. All’interno del Centro mi tolgo le scarpe ed Ali mi guida attraverso gli spazi di questo piccolo edificio di due piani. Work in progress, calcinacci ovunque: stanno costruendo una piccola palestra, una caffetteria, riammodernando gli spazi. Al secondo piano una piccola cucina, una grande sala coperta di tappeti, scaffali con libri in arabico. Un gruppo di ragazzi somali sta discutendo in un angolo, bambini giocano a rincorrersi, un fedele dal west Africa (forse nigeriano o senegalese) sembra immerso in una preghiera solitaria.

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Musulmani di Cork in preghiera al Centro

Ci accomodiamo in un piccolo ufficio. Ali mi spiega che la comunità musulmana di Cork è abbastanza numerosa, circa 5000 persone, composta da individui (lui preferisce usare la parola “fratelli” e “sorelle”) di diverse nazionalità: il Centro è frequentato da cittadini cinesi, pakistani, arabi, mediorientali, etc. Sono presenti fedeli provenienti da più di 40 Paesi. All’inaugurazione del Centro erano presenti tra gli altri il vescovo ed in sindaco di Cork. il quale ha salutato l’apertura con queste parole “E’ importante per tutti noi, quando lasciamo il nostro paese, avere un luogo nel quale possiamo sentirci sicuri lontani da casa, dove possiamo incontrare facce familiari, in maniera da non isolarci. E mantenere le porte aperte”. Ali e un fiume di parole ed il messaggio giunge con una certa Potenza: “Islam significa pace, l’Islam è una religione di pace”. Ci tiene che questo sia il punto chiave della nostra conversazione. Insiste sul fatto che solo la comunicazione tra religioni e popoli può aiutare a distruggere barriere, stereotipi e diffidenze. Ed è anche per questo che il centro a aperto a tutti. Anche se non parliamo di politica, non posso evitare di chiedergli cosa pensi dell’Isis. Gli faccio presente che in Italia l’argomento è quanto mai attuale, ed un intervento militare in Libia non è del tutto escluso nonostante le parole di prudenza del Governo. Ali non usa mezzi termini e silenziosamente lo ringrazio per non illustrami nessuna delle “teorie del complotto” alquanto di moda in questi giorni: “Isis? Sono nostri nemici prima ancora di essere vostri nemici. Quello che fanno e sbagliato. Devono essere fermati. Siamo contro quello che questi criminali stanno facendo”. Parole che non danno spazio a fraintendimenti. Tenta di spiegarmi che danno un’immagine falsificata dell’Islam, e che è da considerarsi inaccettabile uccidere in nome dell’Islam. “L’Islam e una religione di pace e non si può uccidere nel suo nome”. Ancora una volta l’accento è posto su pace, rispetto, fratellanza. Non c’è spazio per la violenza nelle parole di Ali, che continua “l crimini dell’Isis sono più pericolosi per l’Islam di qualsiasi altra cosa. Ne danno un’immagine errata, distorta. Vi sono più di 1 miliardo di fedeli islamici al mondo che non possono essere associati ad un gruppo di criminali”. Forse la realtà è più complessa. E forse vorrebbe dirmi di più ma si trattiene. Non parliamo mai di politica.

Ali mi riaccompagna in centro. Un ultima sigaretta ed una stretta di mano. Lo ringrazio per la sua ospitalità ed ognuno va per la sua strada. E’ scesa la sera e l’umidità inizia ad entrarti nelle ossa. Ora il freddo si fa sentire veramente. Mentre cammino penso ad Ali, al suo sforzo per avvicinare culture differenti e rompere barriere, al suo messaggio forte di pace e fratellanza. A chi, nel suo piccolo ed in un paese al confine dell’Europa, lavora per riappacificare la sua comunità ed aprirla alla cittadinanza locale. Penso ad un granello di sabbia nel deserto.

Foto dal sito della testata Irish Examiner

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La sede del Centro

Estratto della cerimonia di inaugurazione del Centro islamico [vedi].
Sito del Centro di cultura islamico di Cork [vedi].

Dopo Charlie

“Je suis Charlie” è la frase scritta e ripetuta ovunque nei giorni seguenti all’attentato terroristico alla redazione parigina del giornale satirico Charlie Hebdo lo scorso 7 gennaio, che ha causato la morte di dodici persone e il ferimento di altre undici. Due giorni dopo, il 9 gennaio, un complice degli attentatori ha seminato ancora morte in un supermercato kosher della capitale francese, portando il bilancio della strage al totale di venti morti. Rivendicato dalla mano omicida di Al-Qaeda, è stato scritto che si è trattato dell’attentato con il più alto numero di vittime nella storia recente francese. Fra condanne e manifestazioni, da quei giorni l’Europa intera (e l’Occidente) si sta ponendo innumerevoli interrogativi, molti dei quali chissà quando avranno risposta. Fra questi, al netto della comprensibilissima ondata emotiva, c’è la questione fino a che punto sia giusto spingere la satira e quando si varca il confine della blasfemia.

Roberto Casati sul domenicale del Sole 24 Ore (15 febbraio) offre un piccolo vademecum sulla questione. “Chi difende – scrive – la libertà di espressione difende un veicolo, indipendentemente dal suo contenuto”. Si può legittimamente non essere d’accordo con i modi, i toni, i temi e anche la linea editoriale di un giornale, senza per questo rinunciare alla libertà d’espressione. Perciò si potrebbe dire, e senza contraddizione, “Je ne suis pas Charlie” e quindi “Je suis Charlie”. In altre parole: non sono d’accordo con quello che dici, né nel modo in cui lo dici, ma proprio per questo accetto e difendo il principio superiore della libertà della loro espressione.

Parere molto simile esprime Piero Stefani (Il Regno 1/2015). Lo spunto è la polemica espressa dal settimanale parigino contro l’arcivescovo di Parigi, con la scelta di mettere in copertina la scena di una Trinità in cui Padre, Figlio e Spirito Santo sono stati raffigurati mentre compiono atti omosessuali. “Quanto occorreva fare – osserva Stefani – era difendere senza remore la libertà d’espressione anche esercitando una libera critica al modo in cui quella libertà è stata usata”. Una linea che “addirittura rafforza – continua – la condanna della violenza omicida”.

Seguendo questo ragionamento scopriamo che c’è dell’altro. Le manifestazioni seguite all’orribile strage avrebbero prodotto una creazione di simboli assolutamente laici, che hanno eroso ancor di più lo spazio del sacro. “La morte, per tanto tempo vista come l’ultima roccaforte delle religioni – argomenta ancora Stefani – sta sempre più sfuggendo loro di mano. La matita ha sostituito la croce”. La risposta per le Chiese, quindi, non starebbe – da notare la chiusa – “nel tentativo, destinato a un inequivocabile scacco, di risacralizzare le società; il loro compito è di riscoprire la mite ed esigente autenticità del messaggio evangelico”. Riprendendo il filo del vademecum di Casati sarebbe dunque sul piano laico che va posto il dilemma fra blasfemia e incitazione all’odio. Irridere una figura ritenuta sacra da taluni è cosa diversa da irridere quelle stesse persone che credono in quella figura. Qui Casati chiama in causa un’idea di John Stuart Mill per distinguere offesa e danno.
Dissacrare la figura ritenuta sacra può ritenersi giustamente offensivo, ma sarebbe un danno se a quelle persone credenti fosse impedito o ostacolato il culto alla figura per loro sacra. La differenza è che il danno è sempre misurabile, quantificabile, mentre l’offesa è più imponderabile e riguarda la sfera delle sensibilità, nel frattempo diverse nella società contemporanea, complessa e di identità declinate sempre più al plurale.

E’ pur vero che le sensibilità vanno rispettate, ma è altrettanto vero che esse vanno rispettate tutte. Se il criterio su cui fondare il concetto di rispetto è di tipo dogmatico-veritativo di alcuni che credono in modo incontrovertibile in una verità, è facile prevedere che si vada, prima o poi, ad uno scontro con chi in quella verità non crede. E in mezzo c’è la libertà d’espressione, che deve valere – sempre – per gli uni e per gli altri.

L’ultimo problema, infatti, che affronta Casati nel suo vademecum è: desacralizzazione offensiva o sacralizzazione offensiva? Troppo spesso si dà per scontato che in gioco ci sia solo un tipo di offesa, quella di chi si ritiene offeso dalla dissacrazione del proprio spazio sacro. Ma dovrebbe essere tenuto in ugual conto che anche chi non crede può ritenersi offeso dalla pretesa di sacralizzare spazi della società e della convivenza che sono di tutti, sia pure nel nome di una verità suprema e superiore. La libertà d’espressione è uno di questi spazi che sono “sacri” proprio perché sono stati desacralizzati dopo una lunga storia, in Europa e nel pensiero occidentale, fatta di tanti errori, ferite e altrettanti dolorosi ritorni al passato.

Dopo Parigi tanti sono gli esiti e le ipotesi possibili, ma su una questione non è possibile cedere alla paura e arretrare nemmeno di un passo, perché in gioco è una conquista raggiunta, senza sconti, ad un prezzo salatissimo e, allo stesso tempo, lo strumento più efficace finora conosciuto per tenere insieme società sempre più al plurale: libertà e democrazia. Ecco perché, in fondo, siamo tutti Charlie e perché ha ragione Piero Stefani a dire che ogni tentativo di risacralizzare le società (sulla base di verità ultime sia religiose che laiche), è sempre un vicolo cieco. Per tutti.

IL RICORDO
L’officina ronconiana degli anni ’70 Ferrara, la capitale della sperimentazione

Eccolo! L’ho ritrovato il programma di sala dell’ “Orfeo ed Euridice” diretto da Riccardo Muti, in apertura del XXXIX Maggio musicale fiorentino. Cinque spettacoli, la prima Venerdì 18 giugno 1976, regia di Luca Ronconi, scene e costumi di Pier Luigi Pizzi. Che vidi tutti e anche le sessioni delle prove!

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Copertina del libretto dell’ ‘Orfeo e Euridice’ di Gluck

Alla notizia della morte del grande regista, Riccardo Muti da Chicago dove dirige il Requiem di Mozart annuncia: “”Questa sera a Chicago dirigerò il Requiem di Mozart e voglio dedicarlo a Luca Ronconi, grande amico e grande uomo di teatro”. E prosegue dichiarando all’Ansa: “E’ il regista con cui ho lavorato di più”, spiega. La prima volta, dice, “fu a Firenze con l’ “Orfeo e Euridice” di Gluck. Erano gli anni Settanta, fu un successo strepitoso, una regia che rivoluzionava il modo di intendere il teatro d’opera. Dopo, tanti registi europei hanno seguito questa sua indicazione”.
In quegli anni, che significarono per me la flaubertiana “éducation sentimentale”, poter essere ammesso nell’officina ronconiana fu una straordinaria occasione di accostarmi alla sperimentazione più raffinata del teatro. Ronconi veniva dall’esperienza dell’Orlando Furioso adattato da Edoardo Sanguineti, realizzato per il Festival dei due Mondi di Spoleto nel 1969 e immediatamente portato a Ferrara in Piazza Municipale.
In quegli anni la nostra città era la capitale della sperimentazione teatrale. Qui approdarono negli anni Sessanta Judith Malina e Julian Beck, fondatori del Living Theatre con “The Bridge”. Qui approdò Carmelo Bene, e Ronconi fino a tempi recentissimi sperimentò spettacoli che hanno fatto la storia del teatro. Tra i più famosi “Il viaggio a Reims” di Rossini e lo stupefacente “Amor nello specchio”, irripetibile in altri luoghi che non fossero stati Corso Ercole d’Este e il Palazzo dei Diamanti, come lui stesso ha dichiarato.

officina-ronconianaofficina-ronconianaTornando all’opera di Gluck, attesissima dal raffinatissimo mondo musicale fiorentino, i ricordi si concretizzano nelle lunghe discussioni durante le prove. Ronconi e Pizzi erano ospiti di Paola Ojetti nella sua affascinante casa di via de’ Bardi a un passo dal Ponte Vecchio. Figlia del grande giornalista Ugo, svolse un’intensa attività come sceneggiatrice di film; le sue conoscenze erano legate a quel mondo culturale che vedeva ancora in Croce l’espressione più alta della cultura. Ricordo che Paola trascrisse una copia meravigliosa dell’epistolario di D’Annnunzio e Barbara Leoni, Barbarella, affidatale da Croce che potei consultare a lungo.
Riccardo Muti ormai era l’enfant prodige della musica, adottato da Firenze dove approdò nel 1969, spessissimo ospite nella villa di Bellosguardo dove ho passato venticinque anni della mia vita e dove s’incontravano i più grandi artisti del tempo: da Slava Richter con cui giovanissimo eseguì un concerto memorabile a David Oistrack, a Eugene Ormandy a cui Riccardo successe nella direzione della Philadelphia Orchestra.
Ci eravamo sposati nello stesso anno e per molto tempo, a settembre, nel giardino dove Foscolo passeggiò e scrisse “Le Grazie”, la nostra ospite festeggiava i nostri matrimoni. In quel momento studiavo il Settecento letterario tra Metastasio e Ranieri de’ Calzabigi e spesso nelle fervide discussioni venivo interpellato.
Al gruppo si associava poi Tirelli “la sarta nera” come veniva chiamato, autore dei meravigliosi costumi dell’opera. E la sera dell’inaugurazione, all’apparire della scena stupenda inventata da Pizzi, con i coristi che commentavano la tragedia come nell’antichità, sistemati in palchetti sul palcoscenico, vestiti con costumi neoclassici o ottocenteschi, venne giù il teatro. Una magia si era compiuta. E poi per le strade di Firenze nel dopo spettacolo, a sperimentare dal vivo quella Bellezza che le pietre di Firenze evocavano in armonia col mondo.

Ho incontrato Ronconi altre volte. Per la presentazione del volume da cui Sanguineti estrasse il racconto dell’ “Orlando furioso”, assieme ad Ezio Raimondi al ridotto del Teatro comunale di Ferrara o all’Auditorium del Louvre per il convegno “L’Arioste et les arts” a cui venne dedicata una sezione speciale. Non arrivò ma la sua opera era lì a testimoniare per lui. In una serata organizzata, mi pare, da Ferrara sotto le stelle, una serata di letture dell’Orlando furioso letto da Ottavia Piccolo e Ivano Marescotti e da me condotta, la Piccolo ricordò come anche nella seconda riproposta dell’Orlando avrebbe voluto impersonare Olimpia, cavallo di battaglia della divina Melato. Ma non le fu concesso, così per una sera la giovane Angelica poté leggere le ottave dedicate ad Olimpia.

Ed infine “Amor nello specchio” il risultato sicuramente più magico della lunga carriera ronconiana. Arrampicato lassù nella vertiginosa scala da cui in basso nuvole e palazzi si riflettevano negli specchi che coprivano corso Ercole d’Este e i primi piani dei palazzi fino a raggiungere e congiungersi con il più ariostesco dei palazzi: quello dei Diamanti. E poi a discutere con la Melato mentre la si accompagnava nel residence dove stava a due passi dal Castello. Posso ben dire allora che una volta tanto il ricordo non tradisce e Ferrara come direbbe de Pisis si trasformò nella città delle cento meraviglie.

Laicità vo cercando, ch’è sì cara

Pare che il Negri-pensiero abbia fatto il giro del mondo fino a sbarcare sul Washington Post. Ma sua eminenza non è sola. Non facciamo i provinciali. Sua eminenza non è altro che una delle tante voci che nel mondo cattolico fanno da megafono alla stessa omelia. Non mi preoccupa monsignor Negri, mi preoccupano i laici e questo Paese che laico non è.
Chi è religioso guarda alla vita con gli occhi della religione e pretende che il mondo sia a immagine e somiglianza della sua fede, perché diversamente vorrebbe dire che lui e il suo credo vengono discriminati.
È il caso di “Citizengo”, l’organizzazione cattolica nata in Spagna e diffusa in tutta Europa a cui recentemente Avvenire, il giornale dei cattolici italiani, ha dato grande risonanza. A partire da una visione cristiana olistica della vita e della società, Citizengo invita a firmare online petizioni su petizioni per un ordine sociale rispettoso dell’uomo creato a immagine di Dio.
Allora la petizione per la difesa della famiglia tradizionale, contro l’utero in affitto, quella contro il registro delle famiglie arcobaleno, contro la creazione degli embrioni e l’educazione gender nelle scuole, fino alla campagna contro l’Unicef accusata di propaganda gay.
Insomma ci sarà sempre qualcosa per cui la società dovrà essere cristianamente raddrizzata o islamizzata, per non perdere l’anima dei cattolici o dell’Islam e quella dei laici che non sono né l’uno né l’altro, ma a cui i nostri fratelli credenti, bontà loro, tengono molto.
È questa spinta messianica, missionaria, salvifica delle religioni, qualunque esse siano, cattoliche o islamiche, o altro ancora, che pretende di scrivere la vita degli uomini e disegnare il volto della Terra, che non va bene, neppure nella sua lezione più mitigata e tollerante. Non va bene perché è irrazionale e l’uomo non può vivere contro la ragione. Noi non ci ritroviamo nel pensiero di sant’Agostino che scervella da secoli filosofi e teologi, lo troviamo un simpatico, ma inconsistente gioco di parole, “Capisco perché ho fede. Ho fede perché capisco”. È come dire è nato prima l’uovo o la gallina?
Intanto nel nostro sedicente Stato laico il presidente della repubblica e il primo ministro, con seguito di ministro alla cultura, partecipano all’anniversario dei Patti lateranensi, roba del fascismo e poi del governo Craxi, quello di tangentopoli.
In un recente articolo su Micromega, Antonia Sani riporta la notizia di un istituto scolastico di Bergamo, in verità per la sua natura giuridica non obbligato all’osservanza del Concordato, che ha deliberato, considerato il numero crescente di appartenenti ad altre confessioni religiose, di agnostici, atei, non credenti, ma anche di cattolici laici non favorevoli a un insegnamento religioso nella scuola, di cancellare l’ora di religione cattolica dall’orario scolastico, sostituendola con un’ora di “Etica” destinata all’intera popolazione scolastica.
Lo Stato italiano ormai, osserva Antonia Sani, non si pone neppure più il problema, appagato come pare dall’introduzione della facoltatività dell’insegnamento della religione cattolica, dietro alla vecchia facciata dell’obbligo/esonero.
Ma la scelta della scuola privata di Bergamo non è altro da quello che la Francia, laica da sempre anche nelle sue scuole, in questi giorni va facendo. Lo scorso 22 gennaio il ministro per la Pubblica Istruzione, Najat Vallaud-Belkacem, ha proclamato il 2015 «anno dell’insegnamento morale e laico», in tutte le 64.800 scuole pubbliche e private, di ogni ordine e grado della Francia. L’obiettivo della «morale laica» è quello di «consentire a ciascun alunno di emanciparsi, sradicando tutti i determinismi». Il governo è impegnato a formare 300 mila insegnanti, che sul territorio nazionale istruiscano 12 milioni di studenti, i francesi di domani. Il Presidente francese Hollande ha definito la laicità come un principio “non negoziabile”, al quale dedicare addirittura una festa, la “Giornata della laicità”, il 9 dicembre di ogni anno.
Il mondo cattolico è insorto contro “il laicismo dilagante”, “il degrado morale e culturale dei media”, contro “la mortificazione della missione educativa della famiglia e l’espansione del totalitarismo nella didattica”. Si direbbe che per i crociati questa sia una stagione davvero di revival, di qua come al di là del Mare nostrum.
Da sempre la nostra vita è fatta di sogni, pare che questa facoltà di sognare sia tipicamente umana.
E allora l’educazione alla morale laica dei nostri cugini francesi, che tanto ci ricorda il kantiano “sopra di me il cielo stellato, dentro di me la legge morale”, altro non è che la “religione civile” da tempo vagheggiata, la ricerca di nuove forme di fraternità sulla scia della Rivoluzione francese.
Dall’epoca di Rousseau e di Herder il progetto di “una religione civile” sta alla base di un’idea di convivenza e di cittadinanza capace di abbattere gli egoismi, le disuguaglianze sociali, di integrare nella tolleranza i pensieri e le culture, di istillare i valori civili a partire dalle istituzioni scolastiche nazionali.
Ecco la religione laica di cui abbiamo bisogno soprattutto oggi, di cui hanno bisogno i nostri giovani, una laicità a baluardo della dignità e dell’intelligenza umana che non possono giungere ad alcun compromesso con le dottrine religiose, con l’illusione di dio, che è un rispettosissimo fatto, ma particolare, singolo e privato.
L’educazione morale, l’educazione etica è forse l’unica arma di cui oggi dispone la nostra ragione contro ogni fondamentalismo, contro il pericolo che possa venire meno la credibilità di un mondo costruito in base alle idee di cittadinanza, responsabilità, eguaglianza, bisogni-rivendicazioni-diritti, la credibilità di questi ideali per i quali vale la pena consacrare la propria vita.

LA RICORRENZA
La festa dell’uomo

da MOSCA – Il 23 febbraio, la Russia festeggia il Giorno dei difensori della Patria, si festeggia l’uomo. Nulla a che vedere con la tradizionale festa del papà, ma solo (dite poco?) il ricordo a ogni russo che è un potenziale difensore della patria e che un uomo deve proteggere, sempre.
Oggi, in realtà, la celebrazione si è allontanata dal suo significato originario, anche se le parate del 23 sono ancora in rigoroso stile militare. Secondo la versione ufficiale elaborata nell’Unione Sovietica degli anni ’20, in questo giorno, nel 1918, le truppe dell’Armata Rossa sconfissero le truppe tedesche vicino alle città di Pskov e di Narva. Successivamente, però, dopo un attento esame dei documenti dell’epoca, gli storici smentirono tali fatti. Eppure, in poco meno di vent’anni questo mito riuscì a radicarsi profondamente, e, negli anni della Seconda guerra mondiale, il 23 febbraio venne ampiamente celebrato come il giorno delle prime vittorie dell’Armata Rossa sui soldati tedeschi. Da allora, la data di questa festa è rimasta invariata anche se ha cambiato nome più volte: fino al 1949, in Unione sovietica, si celebrava il Giorno dell’armata rossa, mentre, dal 1949 al 1993, la festa si chiamò ufficialmente Giorno dell’esercito sovietico e della Flotta della marina militare; poi fu ribattezzata, prima Giorno dell’esercito russo e, infine, Giorno dei Difensori della Patria. Alla caduta dell’Urss, alcune repubbliche ex sovietiche smisero di celebrare il 23 febbraio. Oggi, questo giorno si festeggia solo in Russia, Bielorussia, Ucraina e Kirghizistan. Nonostante questa festa non avesse alcun legame con quella della Donna, con l’andare del tempo il 23 febbraio, nella coscienza dei cittadini russi, è diventato la ‘festa di tutti gli uomini’, il vero e proprio corrispettivo dell’8 marzo, che in Russia per tradizione viene ampiamente festeggiato. Come per l’8 marzo, anche il 23 febbraio in Russia si usa fare dei regali ai ‘festeggiati’. Ogni donna augura ‘un buon 23 febbraio’ a ogni uomo, senza eccezione, mentre in cielo scoppiano fuochi d’artificio allegri e multicolori e nelle vie svolazzano bandiere e coccarde. In ufficio, con discorsi, presentazioni carine e originali e regali simpatici, abbiamo ringraziato ‘i nostri uomini’, per averci facilitato la vita con le loro invenzioni, per averla resa bella e felice, per averci protetto nelle difficoltà, per esserci accanto. Carino, divertente e originale. Così, simpaticamente e allegramente, abbiamo ricordato Antonio Meucci, che ci ha inventato il telefono (quale donna non lo ringrazierebbe) e Martin Cooper che ci ha inventato il cellulare. Come non essere grati, poi, a William Blackstone, l’ingegnere inglese che ha inventato la lavatrice solo per fare un regalo alla moglie e alleggerirne le fatiche domestiche, ad Albert Von Goertz, che ha prodotto il primo robot da cucina, lo Starmix Mx3 o a Victor Millis, inventore dei pannolini usa e getta per bambini, fondatore della Pampers (chi non ricorda le nostre mamma lavare i “triangoli” di stoffa che ci avvolgevano da neonati). Alcune ragazze insorgeranno al legame con le faccende domestiche… ma noi abbiamo voluto ironizzare sugli stereotipi e, poi, c’è anche la bellezza, che tanto incanta l’uomo, da sempre. Abbiamo allora ricordato e ringraziato Tom Lyle Williams, inventore del mascara (su insistente e pressanye richiesta dell’amata sorellina Maybel, che voleva attirare il ragazzo dei suoi sogni), e Karl Nessler, l’inventore dei bigodini e della permanente. E come dimenticare e non ringraziare i fratelli Sturtevant di Boston, che ci hanno inventato il cambio automatico (perché guidiamo bene… e ci piace scherzare su questo luogo comune).
Tutti uomini. E con l’autoironia che caratterizza le ragazze vispe e intelligenti.
Nel frattempo Mosca si illuminerà con i fuochi d’artificio previsti della serata del 23, allestiti in dodici diverse postazioni dislocate da Est a Ovest della città. Le colline Vorobevy, uno dei punti più alti e belli di Mosca, saranno il palco d’onore, da dove sarà possibile godere di una visuale privilegiata. Pezzi d’artiglieria accompagneranno la danza di luce sopra i tetti del Cremlino e della case del centro e della periferia della capitale, i botti scuoteranno il cuore di un Paese che con questo spettacolo commemora le sue vittime e ringrazia, con forza, i propri uomini. Perché gli uomini, che purtroppo sono spesso alla ribalta delle nostre cronache per episodi di violenza e malversazioni, possono anche essere buoni padri e mariti, amici e fratelli attenti, capaci di proteggerci. Allora, auguri ragazzi.

LA STORIA
Giulio Di Meo, il fotografo
che mette in primo piano gli ultimi

Fotografa le ombre, Giulio di Meo, i riflessi, i margini del mondo che si nasconde dietro l’angolo. Suoi soggetti sono la gente che non fa notizia, quelli che sono piccoli, i cani senza pedigree, i contadini senza terra, le mani della gente che lavora, il sonno di chi si abbandona e spera, il silenzio, la compostezza degli affetti, la golosità istintiva di una bambina che si affaccia al banco di un negozio di tortellini. Ovunque si trovi, Di Meo riesce a cogliere particolari marginali e inediti, un pezzetto di vita e un paesaggio non scontati, mai ovvi. La sua è una visione che va sotto la superficie, in fondo agli sguardi, dietro a un abbraccio. E non importa che si trovi in un villaggio di operai del ferro nel nordest del Brasile, in un accampamento saharawi del deserto africano, tra le vetrine di lusso nel centro di Bologna o nella periferia industriale di Ferrara. L’obiettivo della sua macchina si insinua tra le pieghe di una tenda, dietro la rete metallica di un campetto sterrato, tra le schegge di cemento di un cantiere. Sta lì tranquillo, magari a chinino, sdraiato per terra o anche in cima a un muretto; e scatta, racconta, fa vedere quegli attimi che tante volte ci passano dietro, di fianco, e che subito non saremmo riusciti a vedere né, probabilmente, avremmo colto.

Nato – come racconta lui – in un “paese piccolissimo, rurale, in provincia di Caserta”, Giulio Di Meo è affascinato da chi vive in contatto con la terra, dagli ultimi, dai particolari minimi. Un professionista del reportage che cattura i riflessi dentro a quei piccoli specchi che si tengono in borsetta o sui banchi dei mercati, che guarda il mondo molto spesso dal basso, ad altezza dei bambini, del cane di casa, delle erbacce. Oppure punta l’obiettivo dietro il vetro di una finestra o da quello di una vetrina, nello spazio incastrato tra il banco e il negozio. Le sue immagini riescono a mettere insieme le persone nell’inquadratura di un braccio infantile avvinghiato alla gamba di un adulto con le infradito in una favela brasiliana; un ragazzino che fa la conta, in strada, di fianco al muro con tutte le ombre dei coetanei nascosti; lo sguardo dell’uomo che tiene in grembo lo specchio mentre il barbiere gli rade i capelli.

A fare da introduzione alle sue foto – per l’appuntamento organizzato dal FotoClub giovedì scorso nella Sala della musica del Comune di Ferrara – ci sono frasi emblematiche, che danno il senso di quello che vedi, ma anche un po’ l’indicazione di un percorso. “Nella vita – riporta la citazione di Sandro Pertini – a volte è necessario saper lottare non solo senza paura, ma anche senza speranza”. Poi c’è Tom Benetollo, presidente per tanti anni dell’Arci e attivista del pacifismo, al fianco delle minoranze e dei diritti sul lavoro, che esorta a non “lasciarci intimidire dall’ordine di grandezza della sfida che abbiamo di fronte”. Oppure Antonio Gramsci, con la sua dichiarazione di “Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. (…) Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”.

E indifferente non si può certo più essere, dopo questo incontro. Con la sua pila di libri e quella carrellata di volti biondi, scuri, grinzosi, freschi, lentigginosi di tutte le diverse popolazioni del Brasile, pubblicata e venduta per sostenere la scuola del movimento dei “Sem terra” che vuole ridare dignità e lavoro a chi resta fuori dalle grandi organizzazioni multinazionali. Oppure il volume sulla quotidianità degli operai dell’industria mineraria, raccontati con il progetto Pig Iron. Ma anche qui vicino, a Ferrara, con la gente di Pontelagoscuro per il workshop di fotografia sociale fatto nel 2010 e quello intorno a viale Krasnodar fatto alla fine del 2011. Bello e, magari, a presto: a un altro appuntamento, ad altri riflessi, altre emozioni.

Il brano “Cohiba” di Daniele Silvestri che fa da colonna sonora ad alcune delle proiezioni fotografiche di Giulio Di Meo

 

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Bambini in un accampamento saharawi raccontato dal fotografo Giulio Di Meo
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Il villaggio brasiliano vicino alla multinazionale mineraria (foto Giulio Di Meo)
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Dedicato al movimento dei “Sem terra” del Brasile il libro di ritratti di Giulio Di Meo
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Saharawi (foto Giulio Di Meo)
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Un’immagine di Stefania Ricci per il workshop di Giulio Di Meo a Ferrara
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Bottega di Bologna nello scatto di Giulio Di Meo

 

L’INTERVISTA
Veronesi: “Giurisprudenza? Più aperta e dinamica. La riforma? Via il Senato, ma rafforzare i controllori”

Giurisprudenza bella e impossibile ha perso in questi ultimi anni quella sua patina di inaccessibilità che induceva molti studenti a iscriversi o a emigrare a Bologna. Merito anche di un appassionato nucleo di docenti che hanno reso meno austera e severa la facoltà e più permeabile al rapporto con la città. “E’ vero – riconosce Paolo Veronesi, professore associato di Diritto costituzionale – C’è una maggiore apertura nei confronti della comunità e sono stati introdotti percorsi di alta specializzazione che offrono nuove prospettive professionali, al di là degli sbocchi classici nell’avvocatura, nella magistratura e nel notariato. Vi sono corsi svolti in lingua inglese, rapporti di partenariato con Università straniere come Strasburgo e Granada (con percorsi che consentono il conseguimento del “doppio titolo”) e una particolare attenzione alle opportunità offerte dalle borse Erasmus. Inoltre è stata attivato il dottorato di ricerca in “Diritto dell’Unione europea e ordinamenti nazionali” che, tra l’altro, è frequentato anche da laureati stranieri”.
Di questo nuovo impulso sono in qualche modo artefici in prima linea i costituzionalisti della facoltà (oltre allo stesso Veronesi, Andrea Pugiotto, Giuditta Brunelli e Roberto Bin). Significativi sono anche i ruoli apicali ricoperti da alcuni ordinari della facoltà nell’ambito del governo di ateneo che proprio al vertice ha un giurista, il rettore Pasquale Nappi, e fra i prorettori il dinamico Alessandro Somma. Gli studenti apprezzano e la piccola emorragia di qualche anno fa è oggi completamente riassorbita.

Particolare visibilità esterna e notevoli consensi, anche in termini di pubblico, hanno ricevuto i cinque incontri del ciclo “Passato prossimo” che si sono svolti fra novembre e dicembre alla libreria Ibs. “E’ stato un bel momento di confronto fra esperti di varia provenienza, storici, intellettuali e città – commenta Veronesi –. Stiamo lavorando per cercare di riproporre questo format anche per il prossimo autunno. Non c’è ancora nulla di certo se non la volontà di proseguire su questa strada, mantenendo una formula che è risultata vincente. Ma già in precedenza c’erano state altre iniziative di successo, in quel caso su temi attinenti alla realtà carceraria: i materiali sono stati raccolti in due volumi pubblicati dalla casa editrice Ediesse. Però ritengo sia stato importante il cambio di paradigma: avere affrontato snodi e momenti fondamentali della vita costituzionale italiana e i conseguenti risvolti sulla realtà politica e sociale del Paese ha generato attenzione. Per il futuro stiamo vagliando diverse possibilità: io comunque credo si debba mantenere questo sguardo trasversale e diacronico”. E possibilmente riproporre anche l’associazione con forme di espressione artistica che attraverso differenti canali di comunicazione rafforzano il messaggio, come è avvenuto per il ciclo “Passato prossimo” accompagnato dalle piece teatrali di Mauro Monni che hanno saputo coinvolgere ed emozionare il pubblico attorno alle vicende di Gian Giacomo Feltrinelli e Aldo Moro.

In tema di snodi costituzionali, la domanda ad uno studioso attento come Veronesi sull’attuale riforma in discussione al Parlamento è d’obbligo. Qual è la sua valutazione?
Si tratta di riforme attese da tempo: il dibattito è iniziato già negli anni ottanta. Negli anni novanta il Parlamento, nel modificare il titolo V, non ha dato buona prova di sé e, successivamente, la pessima legge di modifica costituzionale messa a punto dal governo Berlusconi è stata fortunatamente affossata dal referendum del 2006. Devo riconoscere che, nonostante le strumentalizzazioni politiche, l’attuale progetto ha ben poco a che fare con quello bocciato nove anni fa. Anche se, com’è naturale, al suo interno si trovano scelte decisamente apprezzabili ed altre che appaiono invece più problematiche in vista della loro applicazione.
Ci fa qualche esempio?
Complessivamente la proposta ha una sua dignità, una sua ‘ratio’. Positivo è il fatto che si affrontino congiuntamente i nodi della riforma elettorale e di quella costituzionale. Apprezzabile è che la soglia per conseguire il premio di maggioranza sia stata fissata al 40 per cento (prima nel Porcellum non c’era alcuna soglia). Importante è che si superi il bicameralismo perfetto, un meccanismo molto diffuso nel secondo dopoguerra come risposta alle derive parlamentari che determinarono gli orrori del fascismo e del nazismo. Ma oggi quell’esigenza va tutelata in maniera diversa, tant’è che prima o poi tutti gli altri Stati se ne sono allontanati: tale modello dilata infatti enormemente i tempi di approvazione delle leggi e tende a non funzionare affatto come una garanzia. Noi siamo rimasti gli unici a mantenere in vigore questo meccanismo.
E qual è oggi la forma corretta di tutela?
Oggi c’è la necessità di accelerare i tempi di decisione, quindi i parlamenti debbono poter deliberare in fretta. Al contempo va preservata (se non rafforzata) la solidità degli organi di controllo: Presidente della Repubblica, Corte costituzionale e Magistratura. Proprio quelli che Berlusconi con la sua riforma (e con leggi collegate) voleva indebolire.
Cosa invece non va?
Negativo è che, nella legge elettorale, resti ancora quell’assurdità che è la pluri-candidatura, una presa in giro per gli elettori: non è serio consentire di presentarsi in differenti collegi; i cittadini hanno diritto di sapere chi stanno eleggendo. Perlomeno, rispetto alla sconcezza della legge approvata nel 2005, è stato limitato il numero dei collegi nei quali ci si può candidare. Poi, io personalmente avrei preferito altri sistemi elettorali, ma – da giurista – valuto quel che si sta approvando e mi pare complessivamente accettabile, anche se potrebbe qua e là insorgere qualche problema di applicazione in relazione al procedimento legislativo così come si delinea dalla riforma.
Che giudizio dà del controverso nodo Province?
La riforma costituzionale prevede l’abolizione delle Province dopo che la legge Del Rio ha messo un tampone al pasticcio combinato dal governo Monti, il quale pensava di eliminarle senza prima modificare le norme costituzionali che le contemplano. Personalmente la loro cancellazione mi lascia perplesso, anche se occorreva senz’altro rimeditarle a fondo. E’ un ente che ha una sua storia e i cui si incardina un sentimento comunitario. Sono in fondo il gradino appena più alto a quello dei Comuni, un’invenzione tipicamente italiana, piena espressione della nostra storia. Sotto il profilo del riconoscimento identitario le province mi sembrano più significative e riconosciute delle Regioni, frutto di una concezione federalista che non ci è mai appartenuta.
La scelta al vertice dello Stato di un presidente come Mattarella che viene dal mondo giuridico ed è stato sino a ieri membro della corte Costituzionale la rassicura?
E’ significativa. Il Presidente della Repubblica è un organo di garanzia i cui poteri aumentano considerevolmente nelle fasi di crisi. Lo abbiamo visto bene con Napolitano. Si potrà discutere il merito di talune sue scelte, non certo la loro legittimità. Ciò che ha fatto rientra pienamente nel dettato costituzionale. Qualcuno polemizza perché i recenti governi “non sono stati eletti dal popolo”. E’ quando mai in Italia lo sono stati? Da noi il corpo elettorale elegge il Parlamento che assegna la fiducia al governo, ed è ciò che è sempre avvenuto in questi anni. Napolitano non ha tracimato dalle sue competenze, gli attacchi che gli sono stati rivolti erano finalizzati a raccogliere facili consensi, così come accadde con Ciampi e Scalfaro prima di lui. Guardando a figure di Presidenti del passato, molti più dubbi, al contrario, sollevano i comportamenti di Cossiga, l’interventismo di Gronchi, le ambiguità di Segni e di Saragat.
Tutti temi che potranno essere oggetto di futuri incontri pubblici…
Ci stiamo ragionando per l’autunno.
A proposito del vostro lavoro, quali iniziative avete in programma a breve termine?
Il 10 marzo, in aula magna a Giurisprudenza, abbiamo organizzato un convegno dal titolo “Stati e crimini contro l’umanità” in cui discuteremo della recente sentenza costituzionale che ha affermato la risarcibilità dei danni provocati dai crimini di guerra e contro l’umanità di cui s’è macchiata la Germania del Terzo Reich: un tentativo di modificare quella consuetudine internazionale che ha sino ad ora impedito il risarcimento delle vittime e dei loro eredi. In aprile affronteremo invece il tema della “galera amministrativa” degli stranieri in Italia, in cui approfondiremo la realtà dei Centri di identificazione ed espulsione.

Cicely è uno stato della mente

“Un medico tra gli orsi”, traduzione impropria di “Northern Exposure” (Esposizione al nord), è una serie televisiva statunitense creata da Joshua Brand e John Falsey, composta da 6 stagioni per un totale di 110 puntate, trasmessa per la prima volta dalla Cbs tra il 1990 e il 1995. In Italia è andata in onda su Rai 2, grazie a Eliana Tisi, e poi su Canale 5 e Rete 4. “Northern Exposure” ha avuto numerosi riconoscimenti tra cui sette Emmy Award e due Golden Globe.

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Il cast della serie televisiva

La serie è incentrata sulle vicende del Dr. Joel Fleischman, giovane medico ebreo di New York “costretto” a esercitare la professione per quattro anni nella piccola cittadina di Cicely, in Alaska, per ripagare la borsa di studio che gli ha permesso di laurearsi. Deve quindi vivere in un ambiente diametralmente opposto da quello della metropoli cui è abituato. Il suo desiderio era di passare i quattro anni, dovuti allo stato dell’Alaska, in un ospedale di Anchorage e non certamente di ritrovarsi tra qualche centinaio di abitanti (839), trasferitesi a Cicely per i più disparati motivi.
La particolarità di “Northern exposure” è il risultato della combinazione di diverse influenze: i creatori Joshua Brand e John Falsey sono stati membri dell’Esalen Institute in California (noto per l’educazione umanistica alternativa), dove hanno coltivato un’eclettica “spiritualità”. Il sapiente dosaggio di intelligenza e ironia genera storie dai toni surreali, che rendono concreta la realtà dei fatti narrati, tesi a rivelare l’inconscio dei personaggi. Nel campo della letteratura troviamo similitudini, con questa tecnica narrativa, nei racconti di Carlos Castañeda (magia e realtà), che usò il termine “naqual” per descrivere quella parte della percezione che appartiene alla sfera del “non conosciuto” e ancora non conoscibile dall’uomo. Altri riferimenti ci portano inevitabilmente al “realismo fantastico” di Gabriel García Márquez.

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Il mitico bar di Holly, il punto di ritrovo più importante di Cicely

Brand e Falsey sono entrambi appassionati di letteratura russa, come si evince dagli elementi satirico-grotteschi, presenti nei vari episodi, alcuni dei quali ricordano Nikolaj Vasil’evič Gogol’. Il racconto “Il naso”, del grande autore russo, ne è un ottimo esempio: un naso si rifiuta di tornare da colui che prima lo aveva sulla faccia e scappa per Pietroburgo, anche se alla fine si consegnerà al suo proprietario. Nell’episodio “Noi animali”, Maggie crede che un cane randagio sia la reincarnazione di Rick, il suo ultimo compagno defunto. Gli abitanti di Cicely accettano la situazione, tranne Joel, che ne trae motivo di ilarità. Dopo un breve “idillio”, la ragazza dovrà restituirlo alla legittima proprietaria.
L’Alaska è vissuta come l’ultima frontiera del territorio americano, dove qualsiasi spazio creativo può essere raccontato. A volte si ha la sensazione che Cicely sia il centro del mondo, come negli episodi che raccontano l’occasionale passaggio di Kafka (lì nasce l’idea per “La metamorfosi”) e Lenin (per un improbabile accordo con l’ultima Romanov), l’arrivo della compagnia di teatro-danza Mummenschanz, del Cirque du Soleil, della Ceedo Senegalese Dance Company.

cycely-stato-menteCicely è un microcosmo, dove la cultura dei nativi indiani si è integrata con il modo di vivere americano e viceversa. I protagonisti della serie interagiscono tra di loro, tramite il Dr. Flaishman, vero filo conduttore delle storie sospese tra fantasia e realtà, come lo può essere il lancio di una mucca con una catapulta, sostituita, all’ultimo minuto da un pianoforte, per non dire dell’acqua dei dinosauri, un’antica fonte le cui acque generano incubi di ogni genere o la scoperta della “Keewa Aani” (la città della gioia), che porta a materializzare i desideri, nel caso di Joel di “avere” la grande mela in Alaska.
Non mancano le citazioni cinematografiche, da Woody Allen a Federico Fellini sino a Bergman, senza dimenticare Akira Kurosawa e Spike Lee. Un altro elemento importante è la colonna sonora, che tocca tutti i generi: dalla classica al jazz, dal country al rock. Tra gli esecutori: Miriam Makeba, Etta James, Bud and Travis, Aretha Franklin, Chic Street Man e Willie Nelson. Le canzoni sono state commercializzate in due apprezzate compilation.
Gli abitanti di Cicely convivono con la comunità indigena che trasmette a tutti un senso mistico della vita e un’interazione quasi sacra con la natura, cui spetta un ruolo “narrativo” importante per la sua influenza e relazione con l’uomo, estremizzata da giornate senza tramonto o completamente buie, aurore boreali e scioglimento dei ghiacci in primavera.

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Chris “del mattino” è il dj della Kbhr, la radio di Cicely
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Murales della città di Roslyn, simbolo della serie

A Cicely una vecchia tradizione vuole che, quando viene il freddo, i maschi corrano nudi per il paese applauditi dalle femmine. Nel giorno del ringraziamento gli indiani tirano pomodori maturi ai bianchi, che accettano di buon grado (tranne Joel), per ricordare il sangue versato. Un’altra buona norma è di augurarsi: “Buon inverno”. Cicely nella realtà non esiste, la sua collocazione geografica la si può individuare con Talkeetna, città dell’Alaska meridionale, base di partenza per le ascensioni al Monte McKinley. Le riprese del serial furono fatte nella cittadina di Roslyn, nello stato di Washington, citata continuamente grazie a un simpatico murales, che ne è diventato il simbolo. La piccola località americana è ancora oggi meta dei fan, che possono muoversi nella Main street, come se fossero sul set del serial, perché tutto è rimasto come all’epoca delle riprese, compresi bar, ristoranti, la sede della radio. Lo studio del Dr. Fleischman è adibito alla vendita di gift e souvenir.

Northern Exposure, come ci piace chiamare questa serie, è una favola calata in un contesto a volte fantastico, che fornisce spunti di vita reale su cui riflettere.

Le fotografie inserite nell’articolo sono di Giancarlo Salario, scattate nella cittadina di Roslyn, nello stato di Washington, Usa.

Northern exposure trailer [vedi]

LA CURIOSITA’
Quando la bellezza non ha davvero età

Se ne è (ri)parlato molto, ultimamente, sui giornali nostrani alle colonne del ‘Guardian’ o di altri noti tabloid. Grazie, infatti, all’ultima recente apparizione sulla copertina di New You, Carmen dell’Orefice, quasi 84 anni, capelli soffici e bianchissimi, pelle candida, occhi grigi profondi e bistrati, sguardo algido e sicuro, zigomi alti, labbra rosse, tacchi ancora alti a sostenere membra lunghe, leggere e affusolate, è la modella più anziana al mondo.

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Sulla copertina di New You

Certo è che è davvero ancora bellissima, una promessa di vecchiaia non rassegnata per le prime generazioni che si avviano a diventare centenarie. Ricercatissima per campagne pubblicitarie e sfilate, corteggiata da fotografi e stilisti. Tutti la vogliono. Sempre e ancora. Con quasi 69 anni di carriera, iniziata alla tenera età di 15 anni con Vogue, Carmen è la top model più longeva al mondo, una leggenda moderna.

bellezza-non-ha-etàNata a New York da padre italiano musicista e madre ungherese ballerina, coppia incostante e problematica, la modella ha avuto un’infanzia dolorosa tra affidamenti e grande povertà. Per risparmiare il biglietto dell’autobus, ha raccontato, andava al lavoro con i pattini, la mamma cuciva abiti per poter guadagnare qualcosa in più. Una condizione dalla quale è riuscita a uscire con la caparbietà, la forza d’animo, il coraggio, la voglia di rivincita e, sicuramente, e anche un po’ di fortuna (perché, in fondo, la fortuna aiuta gli audaci).

bellezza-non-ha-etàDal giorno in cui la moglie di un fotografo di Harper’s Bazaar, Herman Landschoff, la scoprì, per caso, scendendo da un autobus a New York, non si è più fermata. Dalla prima copertina di Vogue del 1946, sarebbe diventata la modella favorita del grande fotografo Erwin Blumenfield, che l’aveva ritratta in quella prima occasione. Ha posato, poi, per Salvador Dalì, prima di lavorare con i più grandi fotografi del XX secolo, da Cecil Beaton, a Norman Parkinson, a Richard Avedon. Nel 2011, ha ricevuto la laurea ad honorem dall’University of Arts di Londra, per il suo contributo al mondo della moda.

bellezza-non-ha-etàSposata tre volte, con altrettanti divorzi alle spalle, la top model, che ha avuto anche vari aborti, problemi emotivi con la figlia e grandi difficoltà finanziarie (per ben due volte ha perso l’intero capitale personale in azzardate operazioni di borsa), anche per queste sue disavventure incarna il mito di una moderna cenerentola. Comunque ancora bellissima, anche perché riflessiva, intelligente, forte, emotiva, caparbia, elegante e senza tempo. Una musa gentile che ‘vuole morire con i suoi tacchi alti’.

LA MEMORIA
Sateriale ricorda le pagine ferraresi di Luca Ronconi

Gaetano Sateriale sulla sua pagina Facebook ricorda Luca Ronconi, il grande regista teatrale scomparso sabato, con il quale l’ex sindaco aveva un rapporto speciale. Fu proprio lui infatti a coinvolgerlo nelle celebrazioni dell’anno Lucreziano per una straordinaria produzione teatrale (“Amor nello specchio”) allestita dinanzi al palazzo dei Diamanti con Mariangela Melato come protagonista. E fu ancora Sateriale a riportarlo a Ferrara nel 2008 per la messa in scena di “Odissea doppio ritorno” da Botho Strauss.

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Mariangela Melato durante le prove di ‘Amor nello specchio’ di Luca Ronconi, ambientato dinanzi al palazzo dei Diamanti di Ferrara

“Sono consapevole di avere una dipendenza cronica da Omero: l’Odissea in particolare – confida al suo diario in pubblico l’attuale coordinatore della segreteria generale della Cgil -. Qualche anno dopo ‘Amor nello specchio’, mi venne in mente di proporre a Luca Ronconi di fare un’Odissea, appunto, nel corso dell’anno dedicato al rinascimento ferrarese. A Ronconi venne in mente di fare una ‘Doppia Odissea’ in teatro, su due testi diversi ma in contemporanea: metà in platea metà sul palco, con due pubblici diversi e il sipario tagliafuoco abbassato, tranne per qualche minuto in cui si potevano sbirciare entrambi gli spettacoli. Da un lato c’era l’azione, con eroi e dei impegnati a contrastare e favorire il ritorno di Ulisse, dall’altra si parlava di filosofia dell’Odissea. Ricordo che con Mariangela Melato avevamo cercato di convincere Ronconi a fare interpretare a lei quella parte, ma non ci siamo riusciti”.
“Entrambi gli spettacoli furono interpretati dagli attori studenti della scuola estiva di Ronconi (con costi molto contenuti). La polemica ci fu comunque, a prescindere, come accade spesso nella nostra allegra cittadina. Ricordo che un giornale scrisse: ‘Cosa c’entra l’Odissea con il Rinascimento?’ svelando come l’autore non avesse frequentato molto il tema (anzi, il doppio tema). Alla prima rappresentazione della Doppia Odissea, era presente Gian Aurelio Privitera, un grande traduttore italiano dell’Odissea (per me il più grande in assoluto) del quale considero imperdibile il suo ‘Il ritorno del guerriero'”.

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Luca Ronconi con Mariangela Melato

Così Sateriale s’abbandona al filo dei ricordi che ora uniscono nel rimpianto Luca Ronconi e Mariangela Melato, prematuramente scomparsa un paio d’anni fa. Insieme furono artefici di una vivace stagione culturale della nostra città.

LA RICORRENZA
Maslenitsa amica mia che l’inverno porti via

da MOSCA – In Russia si conclude a settimana della Maslenitsa (che equivale un po’ al nostro Carnevale), la festività popolare russa più allegra e colorata, in cui tutto profuma di zucchero a velo, di dolci marmellate e di blini. Ma c’è anche tanto caviale (ikra). Grandi e piccini sono contenti, ogni anno si ripete lo stesso rito, la festa è molto amata dalla gente che la chiamava affettuosamente “labbra di zucchero”, “dolce Maslenitsa”, “onorabile Maslenitsa”, “allegra” o “ghiottona”.

maslenitsaUna bella ricorrenza, nata come festa pagana per scacciare l’inverno e risvegliare dal sonno la Natura. La Chiesa l’avrebbe poi adottata e inclusa nella lista delle proprie festività per celebrarla ancora oggi, la settimana prima dell’inizio della Quaresima, denominandola “Settimana del burro” (Syrnaja nedelja) o “Settimana senza carne” (Mjasopustnoj nedelja), proprio perché, in questa settimana, ci si dovrebbe già astenere dal mangiare carne e solo i latticini sarebbero concessi (masla, infatti, è il burro). Parte integrante e importante di questa festa erano i giri su slitte trainate da cavalli e addobbate con tanti nastri e campanelli, commedie contadine cui partecipavano soggetti mascherati. Si correva, si giocava e si rideva ovunque. Come oggi.

maslenitsamaslenitsaI rotondi e soffici blini sono il piatto principale oltre che il simbolo della festa. Erano preparati ogni giorno, durante tutta la settimana, ma principalmente da giovedì a domenica. La tradizione dei blini, in Russia, risale ai tempi in cui i popoli antichi invocavano il dio del sole Jarilo affinché scacciasse l’inverno e queste frittelle rotonde ricordano il sole estivo. Ogni massaia aveva la sua ricetta speciale, tramandata di generazione in generazione. I blini erano preparati con farina di frumento, grano saraceno, avena o mais, con l’aggiunta di kasha di miglio o semola, patate, zucche, mele e panna. Anticamente vi era l’usanza secondo cui il primo era sempre per la pace dell’anima. Di solito era dato a un mendicante per ricordare le persone care e scomparse oppure veniva messo in bella vista sulla finestra, come benvenuto.

I sette giorni di Maslenitsa sono ben scanditi e ognuno di loro ha un’importanza e un significato diverso. Il lunedì “giornata dell’incontro” (vstrecha) dà inizio alla festa. In questo giorno la gente russa incontra Maslenitsa. Di mattina, i bambini escono dalle loro case e cominciano a costruire montagne, scivoli di ghiaccio e altalene. Più tardi, è allestito un fantoccio di paglia in abiti femminili, che simboleggia l’inverno e che va portato in processione per le strade. Intanto, s’inizia a preparare la tavola. Sono serviti dolci, ciambelle (bubliki), ma si preparano anche miele, caviale, salmone, funghi, panna acida e burro. Non manca il samovar per gustare tè caldo e profumato; in questo giorno si preparano i blini. Il martedì “giocoso” (zaigrysh) è giorno di giochi e divertimenti; in passato in quest’occasione i ragazzi cercavano una fidanzata e le ragazze un fidanzato. Di mattina, ci s’incontra per strada per conoscersi, mangiare insieme, ballare e cantare con altra gente. Atmosfera festosa. Il mercoledì è la “giornata del ghiottone” (lakomka), quella centrale, se non altro perché a metà settimana. Si mangiano blini con smetana (panna acida), uova, caviale e altri condimenti. La suocera prepara i blini e invita il genero a casa (unitamente alla sua famiglia), per gustarli tutti insieme.

maslenitsaIl giovedì “che manda via” (il giorno della “baldoria sfrenata”, razguljaj), inizia un’allegra baraonda per aiutare il Sole a scacciare l’inverno. In passato, si trottava a cavallo in senso orario attorno al villaggio, mentre gli uomini si sfidavano nel ruolo di difensori o assediatori durante il gioco “presa della cittadella di neve”. Oggi si allestiscono spettacoli in strada con clown e skomoroch (buffoni), si fanno giri in slitta, si canta, balla e gioca. Il venerdì detto “serata in compagnia della suocera” (teshchiny vechera) è tradizione che il genero inviti la suocera a casa propria (assieme a tutti gli altri parenti), per contraccambiare la serata del mercoledì precedente. E’ in genere prevista una cena, in occasione della quale vengono offerti i gustosissimi blini (ancora). Il sabato è la “serata organizzata dalla cognata” (zolovkiny posidelki) dove si fa il giro di tutti i parenti offrendo gli immancabili blini (a questo punto saremo un po’ stanchi di mangiarne…).

maslenitsaInfine la domenica si celebra la “giornata del perdono” (voskresen’e proscenija). Al centro di un grande falò si brucia lo spaventapasseri e si rimprovera l’inverno per il freddo, ma lo si ringrazia anche per le festività invernali. L’ultimo addio alla Maslenitsa viene dato nel primo giorno di Quaresima, il “lunedì pulito” (chistyj ponedelnik), il giorno della purificazione dal peccato e dal cibo grasso. In questa giornata è d’obbligo farsi un bagno. Le donne lavano i piatti e mettono in ammollo gli utensili venuti a contatto con cibi a base di latte, per pulirli dai residui di grasso. Settimana ricca, folcloristica e interessante, una bella tradizione che si mantiene. Divertente assistervi.

SETTIMO GIORNO
Il virus del potere e le belle bandiere

GENTILONI – Bisogna sapere che in medicina da molto tempo si studiano gli effetti non secondari del “virus del potere”, che, nei secoli, si è manifestato in molteplici soggetti: è una malattia professionale, in altre parole, è un’alterazione dello stato di salute originata da cause inerenti allo svolgimento della prestazione di lavoro, un’alterazione che ha colpito innumerevoli personaggi nella storia dell’uomo, tutti illustri, da generali a dittatori, a monarchi, o, più modestamente, a sindaci e, purtroppo, anche ad assessori e a banchieri. Recentemente ne è stato colpito anche il nostro ministro degli Esteri, il quale, un bel mattino, si è alzato in preda a uno strano formicolio, si è grattato e, allo specchio, mentre si faceva la barba, ha solennemente manifestato il suo pensiero: qui si deve fare la guerra, ha detto, e poi, pubblicamente, ha confermato che l’Italia è pronta a essere in prima linea in Libia. Mi sa che il signor ministro si è sbagliato di grosso: l’Italia non è pronta, non ha voglia di giocare alla guerra, non è più pronta nemmeno a giocare al calcio, figuriamoci a fare la guerra. Sì, abbiamo grossi interessi in Libia, innanzitutto il petrolio, ma, Ministro Gentiloni, cerchi di fare un ciclo di antibiotici, vedrà che il pizzicore le diminuirà.

ANPI – Ho letto che un tipo di Ostellato, consigliere comunale, tale Marco Centineo, ha presentato un’interpellanza chiedendo che venisse tolta dal Comune la bandiera dell’Anpi (Associazione nazionale partigiani d’Italia), associazione che mai ha dato adito a polemiche: i partigiani hanno offerto la propria vita per liberare il Paese dal fascismo e sappiamo quanto questo dono, che potremmo definire sublime, abbia creato gravi mal di pancia ai politici di destra. Da troppo tempo, però, l’Italia, in tutte le sue strutture, ha lasciato molti spazi al risorgente fascismo (e non parlo del saluto romano di Berlusconi!). Avremo di che pentirci.

CAPITALISMO – Ancora oggi leggo e sento dire alla televisione: “il capitalismo dal volto umano” e se ne parla come di una verità santificata dal dio del danaro. Non è una verità, un letterato definirebbe l’affermazione un ossimoro, una contraddizione in termini: non ci ricordiamo mai tutti i misfatti sociali di cui si è reso protagonista, o responsabile, il capitalismo (senza volto).

CASINI – Anche a Ferrara, copiando Roma, si discute sulla zona in cui rinchiudere le prostitute, i lager del sesso all’aperto. Si torna all’antico: siccome è troppo difficile il controllo, allora si ricostituiscono i campi di concentramento. Spero (è una proposta) che ci sia una recinzione attorno alla città del piacere pagato, e una cassa, per entrare si deve pur pagare. La proposta prevede un certo numero di assunzioni (per venire incontro alla ripresa economica) per novelle stewards, quelle che una volta si chiamavano ruffiane. Avanti c’è posto.

L’INTERVISTA
Scavalcata a destra da Forza Nuova, la Lega reagisce: qui a Bondeno mai un luogo di preghiera islamico

Fabio Bergamini è l’attuale presidente del consiglio comunale e a metà maggio, quando a Bondeno ci saranno nuove elezioni per via dell’uscita di Alan Fabbri (ora capogruppo della Lega in regione), sarà il nuovo candidato sindaco del centro destra. La sua reazione è di netta opposizione alla manifestazione di Forza Nuova che si è svolta ieri per le vie del centro di Bondeno. Lo abbiamo intervistato per capirne le ragioni.

Ma non avete gli stessi obiettivi, ovvero arginare l’immigrazione e impedire l’apertura di una moschea a Bondeno? Perché non vi siete coalizzati per questa manifestazione?
Al contrario, abbiamo obiettivi divergenti: loro fare della banda, del caos, del casino, per avere della visibilità visto che il loro rappresentante locale Marco Loberti vuole candidarsi alle prossime amministrative. Alle ultime elezioni era con Forza Italia ed ha preso 98 voti, ora si sente di fare queste cose per via dell’Isis, ma la gente di Bondeno non ha quella sensibilità, i musulmani possono pregare, ma nei posti giusti.

Quindi vi va bene che i musulmani che ora si riuniscono nel centro islamico possano avere un luogo per pregare, una moschea?
Quello che non ci va bene è che ci prendano per fessi e dicano che è un’associazione culturale, mentre invece là dentro si trovano a pregare, se succede qualcosa, anche un banale infortunio, è un problema. Così come non si vende cibo nei luoghi dove non si può, allora vale anche per la preghiera. Hanno avuto quella sede di via Goldoni da una fondazione legata al Pd, noi come amministrazione diciamo che non è un luogo di culto e monitoreremo che non si preghi perché non è un luogo adatto. Abbiamo già chiuso e abbattuto una moschea abusiva fatta di lamiera a Ponti Spagna, noi siamo attenti a queste cose.

Torniamo alla manifestazione, lei c’era?
Chiariamo che era una manifestazione autorizzata dalla Questura, quindi legale.Però io ne mastico di manifestazioni e quando ci sono settanta persone di cui solo sette o otto di Bondeno, non è una manifestazione, ma una passeggiata, con una valenza locale limitata. Una manifestazione nazionale con 70 persone è una carnevalata, all’ultima manifestazione che ho fatto io a Milano eravamo 70 mila.

Se erano pochi, peggio per loro, cosa le ha dato fastidio?
Non ho gradito che ci fossero settanta manifestanti con ottanta poliziotti, e per colpa loro, i negozi hanno chiuso, questa non è una cosa che ha fatto bene a Bondeno, noi come amministrazione abbiamo altri metodi. Forza Nuova vuole fare rumore, noi vogliamo continuare ad amministrare come da 15 anni a questa parte.

Cosa vi spaventa tanto dell’apertura di una moschea a Bondeno?
Stiamo monitorando e non siamo gli unici. Per carità l’associazionismo è uno dei cardini della Costituzione, a Bondeno poi una persona su dieci ha la tessera di un’associazione, però quello che diciamo è che i musulmani qui non possono pregare. Noi siamo contrari ad un centro di preghiera perché diventerebbe il riferimento di tutto l’alto ferrarese, significherebbe il trasferimento di intere famiglie, non vogliamo che succeda come a Portomaggiore. Finisce che lavorano da un’altra parte e poi ce li troviamo di sera a pregare, non li conosciamo, non hanno legami col territorio, sono impermeabili alla nostra cultura. I nostri bisogni sono altri, abbiamo bisogno della cispadana, degli imprenditori.

Ma avete anche paura del terrorismo islamico?
Non temo attentati, è proprio che non vogliamo centri di aggregazione sovra-comunali.
Se i bondenesi vogliono altro, voteranno altro, non so se l’ha capito, noi qui siamo tosti.

NOTA A MARGINE
Dalla Chiesa: in Emilia contro la mafia bisogna alzare la guardia

“Noi non siamo eroi perché ci hanno ucciso, noi siamo eroi perché abbiamo voluto accanitamente capire e conoscere, per questo siamo diventati pericolosi.”
Queste righe sono tratte da “Noi e loro”, dialogo immaginario fra Giovanni Falcone e Paolo Borsellino scritto dal magistrato Alessandra Camassa, collaboratrice di Borsellino a Marsala, messo in scena da diverse compagnie e divenuto popolare con il titolo “Giovanni e Paolo”. “Noi” e “loro” sono state anche le due espressioni più usate a Cento da Nando Dalla Chiesa, ospite del Coordinamento per la pace nel centopievese, per parlare di mafia e antimafia oggi. Un contributo prezioso perché il risultato di un lavoro teorico (come docente a Milano dell’unico corso di sociologia della criminalità organizzata in Italia), dell’esperienza sul campo (come ex componente della commissione parlamentare antimafia), giornalista e ora presidente del comitato antimafia voluto da Pisapia a Milano, e dell’impegno sul piano etico, come famigliare di una vittima di mafia e come presidente onorario di Libera – Associazioni, nomi e numeri contro le mafie, l’associazione fondata da don Luigi Ciotti.

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Nando Dalla Chiesa

Le premesse non sono certo incoraggianti: “le organizzazioni mafiose sono arrivate molto vicino a mangiarsi l’Italia”, afferma lapidario Dalla Chiesa, “i successi giudiziari di oggi ci raccontano quanto in realtà è stata facile in questi anni la vita della criminalità organizzata, nonostante l’antimafia”, e il pensiero corre a Mafia capitale e all’operazione Aemilia. La responsabilità è anche di chi per 30 anni ha affermato che “la mafia da noi non c’è” rappresentando “una realtà infedele”, ma soprattutto “smobilitando l’attenzione dei cittadini”. Al contrario bisogna prendere atto che “il nemico c’è” e che “questa è una battaglia contro dei professionisti che pensano a fare bene i mafiosi tutti i giorni, 24 ore su 24”.
E se di una battaglia si tratta la prima regola è “studiare l’avversario”: uscire dai pregiudizi interessati sulla geografia e sull’identità del fenomeno mafioso, riconoscere le banalità sulle sue trasformazioni culturali o sui modi di penetrazione nella vita economica e sociale”. E aggiunge Dalla Chiesa, “Non è vero che la mafia al Nord fa soltanto riciclaggio: più che riciclare, conquistano territorio e controllo sociale e si impadroniscono di pezzi di economia”; senza contare che mettendo l’accento solo sui fattori economici dell’infiltrazione si rischia di insinuare l’idea perversa che sotto sotto in realtà portino ricchezza: la verità è che “prima arrivano i soldi, ma poi arrivano i loro metodi”.
Per questo noi “dobbiamo combattere la mafia sotto casa e ribellarci alle forme di presenza mafiosa che ci troviamo di fronte”, e per farlo dobbiamo capire “il loro modus operandi”, “dobbiamo entrare nella loro testa, pensare a cosa farebbero loro, studiare la loro mentalità”. Una cosa tutt’altro che facile da fare nella pratica soprattutto pensando al forte tasso di compenetrazione fra realtà legale e illegale nel nostro paese: quella famosa zona grigia in cui si creano le relazioni sociali che sono il loro vero capitale. “I nostri territori sono stati conquistati da persone con una sapienza infinita nella costruzione delle relazioni: sanno qual è l’assessore o il magistrato avvicinabile, quale il redattore coniglio e quale quello coraggioso”. Per questo Dalla Chiesa sottolinea con forza che noi dobbiamo renderci conto che “la vera forza della mafia sta fuori dalla mafia, in tutto ciò che loro riescono a ottenere dalla società non mafiosa”. Ecco perché i fronti dell’antimafia in realtà sono la connivenza e la corruzione, ed ecco perché l’antimafia è “un affare anche di chi non ha toghe e divise addosso”, una responsabilità di tutti e di ciascuno di “sentirci difensori della democrazia di questo paese e della sua Costituzione”.

In conclusione noi cosa possiamo fare? Informarci, conoscere, non accontentarci delle spiegazioni superficiali, ma prima di tutto “scegliere da che parte stare” fra “noi” e “loro”, è il monito di Nando Dalla Chiesa.

Smanioso Goldoni

STANDING OVATION: I PIU’ ACCLAMATI SPETTACOLI TEATRALI DEL XXI SECOLO
“Le smanie per la villeggiatura” diretto e interpretato da Elena Bucci, Stefano Randisi, Marco Sgrosso ed Enzo Vetrano, Teatro Comunale di Ferrara, dal 9 all’11 aprile 2005

E siamo giunti all’ultimo spettacolo in programmazione. Si conclude stasera, con il goldoniano “Le smanie per la villeggiatura”, la stagione di prosa 2004-05 del Teatro Comunale. L’autore, Carlo Goldoni (1707-1793), si dedicò dopo una giovinezza abbastanza turbolenta e scapestrata all’attività di commediografo a partire dal 1747. Ma già in precedenza aveva composto alcuni dei suoi capolavori, quali: “Momolo cortesan” (1738), “La donna di garbo” (1743), “Arlecchino servo di due padroni” (1745). In seguito maturò la cosiddetta ‘riforma goldoniana’, sostituendo con commedie provviste di un vero e proprio copione quelle ‘a soggetto’ (munite semplicemente di un canovaccio), e scrisse fra le tante opere le celeberrime: “La locandiera” (1752), “Il campiello” (1756), “Le baruffe chiozzotte” (1761), la “Trilogia della villeggiatura” (1761); per poi trasferirsi alla corte di Versailles a Parigi, città in cui compose negli ultimi anni di vita i poco conosciuti “Mémoires” (1784-87).
“Le smanie per la villeggiatura”, commedia originariamente in tre atti, venne rappresentata la prima volta nell’ottobre 1761 al Teatro San Luca di Venezia. La vicenda è sinteticamente la seguente. Come ogni anno, la buona società livornese è indaffarata nei consueti preparativi per le vacanze a Montenero: una sorta di obbligo sociale a cui nessuno può sottrarsi, nemmeno quando non può permetterselo, com’è il caso del protagonista Leonardo; il quale, innamorato di Giacinta e a lei promesso, conduce un’esistenza molto al di sopra dei propri mezzi. E infatti Leonardo, constatata la ferma decisione presa da Giacinta di partire per Montenero, per di più in compagnia di Guglielmo, di cui egli è gelosissimo, afferma per ripicca di rimanere a casa guadagnandosi così i rimproveri di Giacinta, offesa dall’ingiustificata gelosia: chiaro indizio della mancanza di stima di lui nei suoi confronti. Da qui si innescano intricati espedienti e ambigui raggiri allo scopo di tutelare la propria reputazione e immagine pubblica, fino all’epilogo acquietato dalla saggezza di Giacinta.
L’allestimento di stasera, frutto della collaborazione tra Compagnia le belle bandiere – Diablogues – Teatro degli incamminati, è diretto e interpretato da Elena Bucci, Stefano Randisi, Marco Sgrosso ed Enzo Vetrano; le luci sono di Maurizio Viani, i costumi di Andrea Svanisci.

Foto di Tommaso Le Pera

L’OPINIONE
Un’ondata di devastante infamia

Laidume, [lai-dù-me], s.m.(pl.-mi), lett. Sozzura, sudiciume, fig. Infamità, ignominia. Laidume dunque è la parola colta e rara per esprimere sdegno per l’infamia dell’attacco alla Bellezza compiuto da individui non umani (se l’umanità si misura sull’intelletto e sullo spirito, una delle prerogative in via d’estinzione della specie cosiddetta “umana”). Eppure leggendo su Facebook i commenti mi sentivo inquieto e poco propenso a una condivisione generale visto che, pur nella quasi totalità della deprecazione e della condanna, un sottile distinguo sembrava predominare e verteva soprattutto sulla debolezza delle nostre forze di polizia, la condizione delle carceri italiane, il sistema punitivo ecc.

Ma come? Qui si offende in modo gravissimo il patrimonio comune della storia di una nazione, colpendo un’opera di bellezza unica eseguita quando ancora Bernini era indicato come l’espressione più alta del genio italiano ed europeo e si discetta sul modo di punibilità di questi individui che, evidentemente, sono prodotto non certo raro della condizione sociale ed economica dell’Occidente, invece di riflettere se sono le condizioni culturali che inducono ad ignorare l’intangibilità della nostra Storia e a non interrogarci sul perché si è arrivati a questa prospettiva di un mondo indifferente agli effetti della bellezza.

In un’epoca feroce quale fu quella dominata dal tiranno Napoleone, la bellezza poteva essere cantata da un poeta che era pure soldato e non alieno dalla gioia dei piaceri mondani in questi termini: “E in te beltà rivive,/l’aurea beltate ond’ebbero/ ristoro unico a’ mali/ le nate a vaneggiar menti mortali.” La bellezza, ristoro UNICO ai mali come capiva anche il compatriota di questi poveracci mentali, Rembrandt, che così trionfalmente esprimono il nostro tempo.

LAIDUME, il commercio mercenario delle passeggiatrici indagate nei loro luoghi di riunione a Ferrara: giovani, belle, e anche vecchie, sfatte con il segno del tempo che impietosamente rende incredibile come i “maschi” trovino piacere nella frequentazione se non per mescolare disperazioni, bruttezze, squallore.

LAIDUME, l’idea di riunire gli incontri tra queste disperazioni in quartieri appositamente consegnati. Come le bestie allo zoo.

LAIDUME, condividere l’idea esibita da felpe e barbette che “negri” (secondo le definizioni di certi benpensanti) e disperati che si affidano alle carrette del mare possano essere accolti nelle terre che furono di Mussolini e di Hitler.

LAIDUME, infine, che coinvolge sempre di più questo disperato tempo che stiamo vivendo e soffrendo.

IL RITRATTO
A passeggio per Olevano, come a Parigi o a Berlino

di Esther Kinsky*

La bella notizia della vittoria del premio “Franz Hessel Preis” mi ha raggiunta a Olevano Romano, un piccolo paesino di montagna vicino a Roma, dove mi trovo grazie a una borsa di studio-lavoro. Olevano è un luogo caratterizzato da vicoli scoscesi, scalinate tortuose, molte case vuote, tanto vento e le nuvole che rimbalzano tra gli Appennini e l’Abruzzo. A valle scorre il fiume Sacco, come Sacco e Vanzetti, che tuttavia è talmente piccolo da scomparire quasi tra i cespugli. Franz Hessel e Berlino, metropoli per eccellenza, sono lontani anni luce, ma anche qui è possibile andare a passeggio, guardare, esprimere a parole ciò che si vede, che era uno dei grandi talenti e dei maggiori insegnamenti di Franz Hessel. Anche in questo paesino, dove molte strade portano ancora il nome di artisti romantici tedeschi che amavano dipingerne i paesaggi e dove, a causa delle vie strette e scoscese e dell’età avanzata della maggior parte degli abitanti, la vita scorre molto lenta, molte cose sono lo specchio della situazione attuale del mondo europeo.
È lunedì e sto girovagando per il paese, cercando le parole giuste per il discorso di ringraziamento; è il primo giorno caldo dopo settimane di freddo. La porta del calzolaio è spalancata e lui, orgoglioso giovane proprietario della bottega addobbata con numerosi oggetti che rimandano al culto fascista, saluta con fare gentile circondato dai suoi amici disoccupati. Qui si parla sempre tanto. Più in giù, in Piazza Aldo Moro, una ressa di anziani che vogliono mettersi con la faccia al sole, come fossero lucertole. Chiacchierano con il sorriso sul volto e i colletti delle giacche consumati. Quando ero bambina e l’Italia era il primo Paese straniero che imparai a conoscere, queste persone oggi anziane e assetate di sole erano allora giovani adulti di cui ammiravo il fare sbarazzino per le strade di Roma. Questi uomini, che oggi portano ai piedi scarpe da tennis usurate, probabilmente di fabbricazione cinese, e siedono rilassati con le gambe incrociate, allora indossavano sicuramente pantaloni bianchi con la piega del ferro da stiro e scarpe a punta tirate a lucido, probabilmente gialle.
Il lunedì è il giorno del mercato a Olevano. Alcuni giovani di colore vendono calze made in China sul ciglio della strada. In un angolo c’è un sacco di plastica pieno di queste stesse identiche calze in confezioni da cinque, che oramai si possono comprare ovunque, dal Kazakistan fino al mercato di Maybachufer a Berlino. Nessuno si ferma a comprare qualcosa, mentre una donna con un tailleur succinto leva il braccio davanti a uno di loro, quasi volesse picchiarlo. Quasi di riflesso ci si chiede – qui come a Roma, Parigi o Berlino – quale odissea questi venditori ambulanti abbiano alle spalle, quale prezzo abbiano dovuto pagare per essere qui a vendere calze e dove faranno ritorno la sera, una volta finito di lavorare. Cosa si sono lasciati alle spalle. Mi chiedo cosa avrebbe letto Franz Hessel, che morì da rifugiato, sui loro volti, su quello del calzolaio, su quello della donna con il braccio levato e quello degli anziani seduti al sole. Mi chiedo quali parole avrebbe trovato per descrivere la situazione in questo paesino europeo.
Ringrazio la giuria per l’onore che provo nel vedere il mio libro insignito del premio che porta il nome del poeta, traduttore e rifugiato Franz Hessel.

Traduzione di Paola Baglione

* Esther Kinsky è traduttrice letteraria, autrice di prosa e lirica, i suoi temi principali sono la rilevabilità della percezione attraverso la lingua e i processi del ricordo nel contesto dell’estero. Vive tra Berlino e Battonya (Ungheria).

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Franz Hessel

Franz Hessel (Stettino, 21 novembre 1880 – Sanary-sur-Mer, 6 gennaio 1941). Scrittore e saggista tra i più rilevanti nella vita parigina d’inizio Novecento e fautore con Henri-Pierre Roché ed Helend Grund del ménage à trois per eccellenza, immortalato al cinema da François Truffaut con “Jules e Jim”. Franz Hessel ritorna disponibile per i lettori italiani dopo vent’anni di assenza in una nuova antologia, “L’arte di andare a passeggio” (Elliot, Roma 2011) che raccoglie una scelta dei suoi testi per la cura attenta e rigorosa di Eva Banchelli.

IL REPORTAGE
Quando il tango contamina il jazz

Originale commistione tra tango e jazz sabato scorso al Torrione di San Giovanni con il sassofonista e compositore argentino Javier Girotto con i suoi Aires Tango. La formazione ideata dall’erede ideale di Astor Piazzolla era completata da Alessandro Gwis al pianoforte, Marco Siniscalco al basso e Michele Rabbia alle percussioni. Un concerto che festeggia vent’anni insieme dei musicisti. A raccontare per immagini la serata, ecco il bel reportage di Stefano Pavani.

E stasera la stagione concertistica continua al Jazz club Ferrara, in Rampari di Belfiore 167, dalle 21.30 con ingresso a pagamento.

[clic su un’immagine per ingrandirla e vederle tutte]

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Javier Girotto e Aires Tango al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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Javier Girotto e Aires Tango al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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Javier Girotto e Aires Tango al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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Javier Girotto e Aires Tango al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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Javier Girotto e Aires Tango al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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Javier Girotto e Aires Tango al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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Alessandro Gwis al pianoforte con Girotto per l’Aires Tango al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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Marco Siniscalco al basso con Javier Girotto e Aires Tango al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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Alessandro Gwis al pianoforte con Girotto per l’Aires Tango al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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Michele Rabbia alle percussioni con Girotto e AiresTango al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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Michele Rabbia alle percussioni con Girotto e AiresTango al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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Michele Rabbia alle percussioni con Girotto e AiresTango al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)

Claudio Strano, borborigmi da 0 a 120 anni

Protagonista – giovanissimo – negli anni Ottanta e Novanta con la rivista “Poeticamente”, diretta da Lamberto Donegà ed Emanuela Calura. Claudio Strano, originario di Roma, poi a Ferrara, giornalista professionista (L’Unità, Resto del Carlino, successivamente e attualmente per la rivista mensile dei soci Coop, Consumatori), dopo un certo silenzio, è ritornato sulla scena letteraria con il raffinato e futuribile “Racconti di leggero astigmatismo” (Tosi editore, 2001).
Dopo la rivista e la silloge “Borborigmi” (1986), in pura cifra sperimentale e pulsionale, e anche nell’ultimo numero antologico “Elettriche Poesie” dedicato al 40° anniversario di Corrado Govoni (Librit edizioni, 1995), l’autore presentò diversi racconti con la consueta penna d’insolita fattura: come narratore e in prosa, Strano espande i propri input modernisti e neoavanguardisti con una sorta di recupero del Calvino appunto più futuribile, all’europea: futurale nello specifico con esiti di parola leggerissima nella sua dinamica non statica, come molta scrittura neoaccademica, ma quasi immateriale, oleografica. E con sguardi neoeuropei, sullo sfondo, infatti, ricorrenti della Mitteleuropa classica dopo la caduta del Muro di Berlino.
Questo lo Strano narratore che in tale veste ha esordito in lingua francese sempre nei primi anni Novanta sulla rivista parigina “La Révolte des Chutes”, diretta dal poeta neosurrealista Marc Kober. Focus narrativo poi amplificato, certa parola europea squisitamente letteraria – nel successivo “La giacca di Gundel” (Lulu edizioni, 2012) romanzo, sempre ben modulato nel linguaggio lievemente e deliziosamente ricercato, con tracce s-oggettive persuasive e mai forzate (per l’occasione intervistato sul Resto del Carlino da Stefano Lolli).
Infine, recentemente, Strano ha sperimentato, con nuovi borborigmi singolari, la letteratura per l’infanzia con un originale, a metà quasi tra echi alla Rodari e certo cuore bambino spaziale alla Bradbury, per fanciulli da zero a 120 anni, “Il Papadoro” (sempre Lulu, 2014), illustrazioni di Chiara Barbaro, già brillantemente presentato a Ferrara: “Il Papadoro non è un encomio o un manifesto programmatico, non è nemmeno un uccello esotico o di allevamento per quanto gli rassomigli nella fertile immaginazione di Chiara Barbaro. Il Papadoro (come nell’omonimo racconto) è ciò che ogni padre vorrebbe essere in cuor suo prima di ritrovarsi, sotto Natale, confuso – nello stupendo linguaggio infantile – con un dolce tradizionale e banalissimo: il pandoro. O, se gli va peggio, di sentirsi cotto e cucinato come un tacchino dalla irresistibile voglia di giocare di un bambino piccolo, rimasto a casa da scuola, in attesa che arrivi “finalmente” Babbo Natale. Con la televisione rotta e la mamma fuori casa da molto tempo ormai. In una serie di instant stories create per “bimbi” da 0 a 120 anni, tutto il piacere di ricamare trame partendo dalla realtà, sfuggendo così alla tirannia di streghe, orchi e supereroi, per riscoprire il gusto della fantasia.”

La recensione de “Il papadoro” di Riccarda Dalbuoni su Ferraraitalia [vedi]

* da Roby Guerra, “Dizionario della letteratura ferrarese contemporanea”, Este Editon-La Carmelina ebook 2012 [vedi]

LA RICORRENZA
Quando la festa per Ariosto era futurista

Ricorre oggi il 106° del primo manifesto del Futurismo, scritto da Filippo Tommaso Marinetti e pubblicato il 20 febbraio 1909. Per il settantesimo anniversario della morte di Marinetti (1944-2014) è stato anche edito da poco il volume “Marinetti 70. Sintesi della critica futurista”, a cura di Antonio Saccoccio e del futurista ferrarese Roberto Guerra, pubblicato da Armando editore. Nel libro, inserito nella collana Avanguardia 21, figurano alcuni dei principali storici e critici del Futurismo (E. Crispolti, G. Berghaus, G.B. Guerri, G. Di Genova, P. Valesio ecc.). Lo stesso Marinetti – episodio poco noto, segnalato da Giovanni Antonucci nel suo contributo al volume – fu protagonista a Ferrara, nel 1929, per le celebrazioni ariostesche con una conferenza in stile futurista sull’Ariosto.

Ad Antonio Saccoccio  di Roma (Università Tor Vergata di Roma) abbiamo chiesto un approfondimento.

Cosa successe a Ferrara alle Mura degli Angeli? Perché venne scelto proprio quel luogo?

Il 7 luglio 1929, in occasione delle celebrazioni per il quarto centenario della morte di Ludovico Ariosto, F.T. Marinetti tenne un discorso pubblico sulle Mura degli Angeli di Ferrara. Precisò tre anni dopo lo stesso Marinetti: “improvvisai all’enorme pubblico seduto o sdraiato sull’alto bastione fiorito e ombroso di Ferrara una lezione di Futurismo estratta precisamente dall’Orlando Furioso”. Nella prima parte del suo discorso Marinetti si scagliò contro il “feticismo passatista” nemico dell’ottimismo futurista. Successivamente elencò gli “insegnamenti ultrafuturisti” contenuti nell’opera dell’Ariosto, di cui ricordo qui i più significativi: compenetrazione tra arte e vita, velocità, aggressività eroica, passione sportiva, gioia distruttiva e creazione dell’effimero, “senso trasformista della vita”, ottimismo assoluto, sintesi, simultaneità, instancabilità, “giocondità goliardica beffatrice” e “senso aviatorio”. La conferenza si concluse sorprendentemente con il ricordo di un momento di vita familiare, in cui la “pupa Vittoria”, figlia primogenita di Marinetti, diventava il simbolo della spontaneità iconoclasta che anima bambini e poeti.

Quali influenze futuriste/marinettiane ci furono a Ferrara? Attualmente, resiste qualche eco in città?

Quando si parla di Futurismo a Ferrara non si può non ricordare Corrado Govoni, uno dei poeti più originali del gruppo futurista. Voglio ricordarvi il testo di una lettera che Govoni scrisse a Marinetti nel 1910, una lettera da cui emerge in poche righe il suo complesso rapporto con il futurismo e al tempo stesso con la città estense: “Oh il divino sopore, la deliziosa pigrizia che hanno invaso tutto il mio essere al mio giungere a Ferrara! Vi assicuro che a Ferrara solo si può realizzare il sogno di Buddha, il nirvana profondo con annientamento di pensiero e cure moleste e inerzia sensitiva. So bene che il nirvana non fa per voi; ma perché non dovrebbe essere l’ideale di un futurista distruttore come siete voi? Io credo che ogni opera di distruzione dovrebbe avere lo scopo di non più ricostruire. Allora tanto vale lasciare intatte le costruzioni esistenti, non vi pare? Dunque, distruggendo senza l’intenzione di rifabbricare, dove si arriva? Al nirvana sublime suddetto. Tutto questo per farvi conoscere che anche a Ferrara si può vivere una vita importante e amabile”. Come si può intendere, Ferrara è descritta come una città sonnolenta e passatista, ma per Govoni anche una città siffatta può avere qualcosa di amabile.

E Ferrara è anche la città di un futurista contemporaneo…

Sì, attualmente vive a Ferrara uno dei futuristi contemporanei più noti, il poeta Roberto Guerra, che conduce un’instancabile attività editoriale e promozionale. Non a caso l’instancabilità è tra le qualità futuriste da me ricordate a proposito del discorso marinettiano sull’Ariosto. E non a caso Guerra è co-curatore con me proprio dell’ultimo libro su Marinetti.

[clic sull’immagine per ingrandirla]

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Antonio Saccoccio, autore con Roberto Guerra del volume dedicato a Marinetti
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La copertina del volume sul Futurismo a cura di Saccoccio e Guerra

La vita come scuola: all’Ariostea Fioravanti ragiona del modello educativo di Freinet

Fautore di una “pedagogia popolare” e della necessità di laicizzare la scuola”, Célestin Freinet – pedagogista ed educatore francese – ha sviluppato un sistema didattico noto come “metodo naturale”, la cui peculiarità è quella di fare sistematicamente riferimento alla vita reale sia per quanto riguarda gli strumenti, che per quanto concerne le prassi di lavoro.
Coerentemente con questo approccio, la struttura cooperativa, necessaria per gestire l’École Freinet, viene impiegata allo scopo di rendere i ragazzi compartecipi dei problemi, anche finanziari, legati alla gestione della loro attività, permettendo così a ciascuno di acquisire il senso della responsabilità d’azione e di strutturare un sistema di valori che comprende il rispetto del bene comune e della qualità funzionale del gruppo. Attraverso l’impiego delle più moderne tecnologie, l’operosità si traduce nel conferimento di una dignità di “prodotto culturale autonomo” al lavoro degli alunni.
Oggi alle 17 alla sala Agnelli della biblioteca Ariostea, per il ciclo ‘Viaggio nella Comunità dei Saperi’, Giovanni Fioravanti terrà una conferenza dal tema “Quando la tipografia era una tecnologia avanzata – Freinet e le scuole in rete”. Introdurrà l’iniziativa, a cura di istituto Gramsci di Ferrara e istituto di Storia Contemporanea di Ferrara, Sandra Carli Ballola.

Amore in tempo di crisi

Nato sul web, con budget limitato, siamo di fronte a una pellicola simpatica e ironica, ma con temi importanti sullo sfondo, un film carino che celebra l’amore in tutte le sue sfaccettature. Il film mette in scena quattro storie che raccontano l’amore oggi, al tempo della crisi, del dominio incontrollato e prevaricante dei media, del narcisismo maschile e dell’ipocrisia; ci conduce attraverso diversi modi di vivere la relazione affettiva con il proprio partner.

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La locandina

Nel primo episodio, “Precari”, Andrea (Andrea Boschi) e Luisa (Sara Zanier) sono una giovane coppia serena, nonostante le difficoltà quotidiane e lavorative. Desiderosi di mettere su famiglia, decidono di rivolgersi a un medico esperto in fertilità (Rocco Siffredi). Dopo aver perso tutti i loro risparmi nel crack finanziario del loro istituto di credito, la Credici Bank (nome improbabile ma davvero simpatico), la coppia decide di inventarsi un lavoro fuori dagli schemi. E li vedremo benestanti. Perché e come dopo tanti licenziamenti e traversie? Perché lavoreranno sì in banca, ma come rapinatori, mentre il figlioletto farà da palo inconsapevole. Preoccupante ma ironico.

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Andrea e Luisa
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Mimmo e Valerie

Nel secondo episodio, “Ragazza dei miei sogni”, Mimmo (Giancarlo Fontana) è un giovane operatore video che, durante una processione religiosa a Matera, inquadra una bellissima e affascinante ragazza. Innamoratosi di lei perdutamente, Mimmo cerca di rintracciarla in tutti i modi, utilizzando volantini, tv e social network. Facebook, in particolare, gli rovinerà la vita, perché, postando in rete il suo numero di cellulare, diventerà bersaglio di telefonate anonime e di una folla impazzita di ragazzine innamorate dell’idea stessa dell’amore. Una simpatica Caterina Guzzanti, con una prima intervista televisiva, apre a Mimmo il mondo del reality show. Un astuto produttore televisivo, infatti, lo convincerà a incontrare la sua amata, a Parigi, sotto l’occhio indiscreto e continuo delle telecamere. Lei, Valerie (Mily Cultrera Di Montesano), è una brillante studentessa italo-francese, i due si piacciono davvero e scappano al tormento televisivo per rifugiarsi, soli con il loro amore, in campagna. Mimmo scoprirà, però, che la sua amata non è poi così disinteressata alla fama e allora… ci si chiede che fine farà Valerie… Finale brillante ma tragi-comico.

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Paride prima
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Paride dopo

Nell’episodio 3, intitolato “Narciso”, Paride (Edoardo Purgatori) è un giovane poco affascinante, piatto, prevedibile, grassoccio e abitudinario, dedito alla vita sedentaria, ai videogiochi, ai panini da fast food e alla birra. Quando viene lasciato dalla fidanzata (Giulia Lapertosa), dopo lo sconforto e la paura iniziali, decide di riconquistarla mettendosi a dieta e affidandosi alla cure di un personal trainer duro e inflessibile. Dopo essere diventato un bel ragazzo sexy, vincente e corteggiato dal fisico scolpito, fra anabolizzanti, flessioni e beveroni di vario genere, capisce di amare più se’ stesso che l’ex-fidanzata. Simpatico, spensierato e originale.

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Mario Marinelli

Nel quarto e ultimo episodio, “Il campione” (con Alessandro Tiberi, Neri Marcorè, Enrico Bertolino, Gianluca Vialli, Fabio Caressa, Jacopo Maria Bicocchi, Ugo Piva ed Emilio Fallarino) il protagonista è Mario Marinelli, un calciatore di serie A, costretto in panchina dopo un grave infortunio. Le cronache parlano più dei suoi veri o presunti flirt con belle modelle piuttosto che delle sue imprese calcistiche. In realtà, Mario è omosessuale e deve nascondersi dallo spietato mondo del calcio fatto di omofobia e dirigenti senza scrupoli. Gli vengono offerte varie possibilità prestigiose e di carriera, inclusa la partecipazione ai Mondiali di calcio brasiliani, per non parlare, per non gridare al mondo quel segreto che potrebbe minare la reputazione di un’intera squadra di calcio, fatta di uomini “veri”. Dovrà decidere se continuare a mentire o assecondare i suoi sentimenti. Sceglierà bene, pensiamo. Romantico, sognatore e coraggioso.

Un film in crescendo, riuscito soprattutto negli ultimi due episodi, che affronta con garbo, freschezza e simpatia due temi non facili come il culto dell’immagine maschile estetizzata e l’omosessualità in campi considerati ancora regno del maschio duro e puro. Moderno e attuale.

“Amore oggi”, di Giuseppe G. Stasi, Giancarlo Fontana, con Alessandro Tiberi, Jacopo Maria Bicocchi, Andrea Bosca, Sara Zanier, Giancarlo Fontana, Mily Cultrera di Montesano, Caterina Guzzanti, Edoardo Purgatori, Giulia Lapertosa, Simone Sabani, Neri Marcorè, Rocco Siffredi, Italia, 2014, 91 mn.