Se ne parla da sempre, a parole son tutti d’accordo. Ma nulla succede. Via delle Volte, l’antica strada dei fondachi medievali, dovrebbe tornare quel che era per originaria vocazione, riadattando l’inclinazione al presente: dunque laboratorio, teatro di botteghe artigianali, emporio di prodotti tipici del territorio, spazio d’esposizione delle eccellenze d’ogni genere, dall’arte alla gastronomia, dai manufatti alle opere d’ingegno.
Meriterebbe d’essere strada brulicante di passanti, turisti e ferraresi, meta d’obbligo per chiunque venga in città. Invece è poco più di un retrobottega, nel quale i curiosi sbirciano da via San Romano o da corso Porta Reno. E’ attraente come un vestito fuori moda, a tratti risulta scalcinata e trasandata, non ispira allegria ma tenerezza. In definitiva è spenta. Nell’insieme appare senza scopo né identità.
E dire che le sue potenzialità sono enormi. Per rilanciarla e imporla come una gemma della città bisognerebbe compiere un’operazione lungimirante al pari di quella a suo tempo realizzata per il recupero delle mura estensi. Un’operazione ispirata dal compianto Paolo Ravenna e condotta dall’amministrazione del sindaco di allora, Roberto Soffritti, che di tanti peccati politicamente si macchiò, ma al quale non si può negare di aver saputo dispiegare risorse e sviluppare progetti che hanno dato grande lustro a Ferrara.
Dunque, attorno al tavolo di programmazione – con la volontà di fare e non di chiacchierare – sarebbe bene che sedessero tutti gli attori qualificati: le istituzioni, le associazioni civiche e culturali, le rappresentanze delle forze produttive, imprenditoriali e commerciali; anche le banche, se una banca ancora ci fosse in città che ragiona nell’interesse della comunità. L’intrapresa non potrebbe evidentemente prescindere da un robusto finanziamento europeo e dalla munifica benevolenza ministeriale. E perché non approfittarne proprio ora, che al dicastero siede un ferrarese?
Il percorso, nel cuore della Ferrara medievale, è pregno di storia e di suggestioni da rivificare. Il tratto centrale ha un’estensione di 600 metri fra via Boccacanale di Santo Stefano e via Gioco del Pallone. E’ stretto fra casette in mattone a vista spesso con la classica configurazione del cassero ed è tratteggiato dalle tipiche volte che danno nome alla via.
Il naturale prolungamento della strada si ha verso ovest, in direzione corso Isonzo, con via Capo delle Volte; mentre sul fronte opposto, quello est, il cammino prosegue idealmente in via Coperta, staccata da via Gioco del Pallone dai 150 metri di percorrenza obbligata sull’adiacente via Mayr, sino all’innesto in via Belfiore. In questo caso a spezzare la continuità del passeggio sono i giardini interni di due residenze private. In tutto, da un fronte all’altro della città, un’escursione di due chilometri esatti che le conferiscono un primato: risulta essere la più lunga strada medievale del mondo.
Lo spazio e l’atmosfera sono ideali per esposizioni, performance, mercatini, eventi… Serve un intervento misurato e raffinato. Signori amministratori, è tempo di passare dalle chiacchiere ai fatti.
Irene (Margherita Buy) è una donna di successo, bella, poliglotta, colta, senza figli né famiglia, libera, che ha superato i quarant’anni e svolge un lavoro insolito, divertente e coinvolgente: è “l’ospite a sorpresa” degli hotel di lusso a cinque stelle, invitato in incognito per verificare che gli standard di qualità presentati ai clienti corrispondano alla realtà, in poche parole che il prezzo elevato (spesso elevatissimo) richiesto sia in qualche modo giustificato.
Per questo, gira il mondo con il suo bel taccuino prezioso, preciso-pignolo-spietato-ma onesto, controllando ogni cosa con meticolosa e maniacale attenzione. Redige le sue relazioni finali con severità e solo alla fine del soggiorno rivela la sua vera identità, con immancabile grande sorpresa e costernazione del direttore dell’albergo del momento e dei suoi collaboratori. Tutto affascinante e interessante, salvo che quando Irene rientra a casa è sola, immancabilmente e sempre molto sola. Supplisce alla mancanza di affetto e di maternità con le nipotine, figlie della sorella Silvia, ha un ex fidanzato, Andrea (Stefano Accorsi), come grande amico con cui è rimasta in sintonia e con il quale trascorre qualche momento piacevole, senza implicazioni e complicazioni di alcun genere.
A seguito di un fortuito incontro con l’antropologa Kate Sherman (Lesley Manville), che muore improvvisamente nell’hotel di cui lei è “ospite a sorpresa”, Irene inizierà a chiedersi se, pur conscia di essere una privilegiata, la sua possa definirsi realmente felicità, in un mondo in cui una donna di quarant’anni, single, non può sentirsi del tutto realizzata se non ha né figli né una relazione stabile e duratura. Ecco allora angoscia, ansia e paura. Lei, come Kate, è una donna saggia, agiata, ma sola. La conclusione è quella che la felicità non esiste, che essa è semplicemente un compromesso, una rinuncia inevitabile a qualcosa. Sceneggiatura (curata anche da Francesca Marciano e Ivan Cotroneo), montaggio e regia sono di ottimo livello. E poi incantano le location scelte, da un affascinante e colorato Marocco fino alle terme della Toscana, da Parigi alla Puglia, a Berlino. Gli alberghi sono veri e bellissimi. Divertente e autentico.
Viaggio sola di Maria Sole Tognazzi, con Margherita Buy, Stefano Accorsi, Fabrizia Sacchi, Gianmarco Tognazzi, Alessia Barela, Lesley Manville, Carolina Signore, Diletta Gradia, Italia, 2001, 85 mn.
Il castello di Ferrara è un quadrilatero con sole due facce, quella che guarda il corso Martiri e l’altra rivolta a piazza Savonarola. Gli altri due lati sono di scorrimento, sostanzialmente invisibili perché non adeguatamente valorizzati. Il prospetto che sta fra viale Cavour e corso Giovecca è sacrificato al transito automobilistico, mentre come un retrobottega è stato sempre trattato il fronte che guarda i “giardini della Standa” (tutti continuano a chiamarli così perché nessuno ha mai saputo il loro nome, che è stato recentemente cambiato in “20 e 29 maggio 2012” in memoria del terremoto).
Bene, anzi: male. La città Unesco è tale per il carattere dell’impianto urbanistico del suo centro storico e vanta alcune perle famose nel mondo: il palazzo dei Diamanti, corso Ercole d’Este (definita da Byron la strada più bella d’Europa), il duomo, palazzo Schifanoia, le vie medievali, le mura. Fra i monumenti eccelle il castello Estense. Possibile non si possa fare nulla per meglio esaltarne i pregi?
Proprio in questi giorni il deputato Alessandro Bratti ha rilanciato l’idea di chiudere l’asse Cavour-Giovecca fra l’intersezione con via Spadari (palazzo delle poste) e quella con via Bersaglieri del Po. Rendere pedonali quei 500 metri di strada darebbe un nuovo volto alla città e nuova vita all’area monumentale. Ferrara, che con Perugia ebbe per prima l’intuizione e la forza di impedire alle auto l’ingresso in centro all’inizio degli anni Settanta, deve ritrovare quello slancio e quel coraggio di scommettere su se stessa.
Ma si potrebbe fare ancora di più. Sotto viale Cavour, scorre l’antico canale Panfilio, che fino all’Ottocento conferiva al centro di Ferrara un carattere “veneziano”, con acqua e ponticelli di attraversamento. Fu creato artificialmente e progressivamente ampliato fra la fine del Cinquecento e la metà del 1600, e tombato nel 1880. Riportarlo alla luce si può!
Non è un’idea folle, è un progetto grandioso che rilancia l’ambizione di una città che nel Rinascimento fu riconosciuta capitale artistica e culturale d’Europa e che nei secoli seguenti è andata progressivamente spegnendosi, per pigrizia intellettuale, facendosi provincia di se stessa e di un provincialismo senz’anima e senza ambizioni.
In uno slancio neorinascimentale, lanciarono questa proposta anni fa lo scrittore Roberto Pazzi e lo storico dell’arte Ranieri Varese. Nonostante la loro fama e la riconosciuta autorevolezza furono sostanzialmente irrisi come sognatori fuori tempo. Invece quell’idea fu seriamente considerata e ripresa dallo stimatissimo architetto Carlo Bassi, che in un prezioso documento del 2004, dal titolo “Come sogno Ferrara fra 10 anni” (raccolta di opinioni promossa dall’associazione il Pane e le Rose), scrisse: “Demolirei viale Cavour per ritrovare il canale Panfilio. La vecchia idea di Ranieri Varese e Roberto Pazzi bocciata come una inutile fantasia di mezza estate ritengo invece che sia di grande attualità per dare un senso a questo viale ʹumbertinoʹ così estraneo, nella sua dimensione, allo spirito della città”.
In realtà non sarebbe neppure necessario smantellare la via, già basterebbe riaprire la parte di controviale fra il palazzo delle poste e il castello per conferire a quel tratto stradale, che è preludio ai tesori antichi, la funzione di suggestiva porta di accesso alle meraviglie della città estense.
Tra i massimi esperti di mafie a livello mondiale, Federico Varese, sociologo ferrarese professore della Oxford University, è stato nei giorni scorsi fra i relatori al convegno nazionale “La regolazione dell’economia tra formale e informale”, organizzato dall’Associazione italiana di sociologia all’università di Milano Bicocca, che ha visto fra i partecipanti anche Nando dalla Chiesa. Per Varese si è trattato di un’occasione per ripercorrere sinteticamente il senso delle sue più recenti ricerche, in particolare in riferimento al tema delle migrazioni delle mafie nel mondo.
E’ oggi la 7a Giornata europea del dialogo interculturale. Una buona occasione per vedere la mostra “Aliens, le forme alienanti del contemporaneo” alla Casa di Ludovico Ariosto di Ferrara. Fino a domenica la rassegna con le opere di 22 artisti. Quadri, disegni, murales che danno spazio alla rappresentazione di tutto quanto può essere diverso, alieno, sovversivo.
Il finissage si terrà sabato a partire dalle 18.30 e prevede la ultime quattro performance e videoproiezioni della rassegna con la presentazione del catalogo ufficiale.
In via Ariosto 67 a cura di Frattura scomposta art magazine, ingresso gratuito ore 10-12.30 e dalle 16.
Ha un anno appena e già resta sola con la mamma e il fratello, di cinque anni più grande. Il papà, José Maria Molina, militante clandestino del Partito rivoluzionario dei lavoratori, viene rapito e fucilato, assieme a 15 compagni, da un organizzazione paramilitare, la cosiddetta ‘Tripla A” (Alleanza anticomunista argentina), attiva ben prima dell’avvento della dittatura. E’ il 12 agosto del 1974 e la vita di Jorgelina è già sconvolta.
Nel 1976, dopo il golpe, la situazione in Argentina precipita e tutti gli oppositori del regime sono a rischio di vita. Quando Jorgelina ha da poco compiuto i tre anni, le milizie fanno irruzione nell’appartamento dove vive, a Lanús, nella provincia di Buenos Aires. Nella notte, in sua presenza, la mamma viene sequestrata. Non la rivedrà mai più e di lei non saprà più nulla. Isabel Cristina Planas da allora è ufficialmente ‘desaparecida’, per sempre. Di quel trauma, Jor, serba lacerante memoria e ancor oggi fatica a parlare.
Qualche giorno più tardi viene condotta da una vicina di casa al tribunale per i minori che la affida a un orfanotrofio, dove rimane per sei mesi. In seguito il giudice, senza preoccuparsi di ricercare i suoi parenti, la assegna a una famiglia, probabilmente connivente con il regime militare, i Sala. Le dicono che i suoi genitori erano guerriglieri che buttavano le bombe e l’hanno abbandonata: loro sono i suoi salvatori. Magari ne sono intimamente convinti e si sentono davvero benefattori. Come in ogni guerra (e anche quella Argentina, in un certo senso, guerra è stata, sia pur non dichiarata, guerra civile ad armi impari), i carnefici hanno un rapporto ambivalente con le vittime. Si può immaginare in questo caso che la ‘salvezza’ offerta ai figli rappresentasse nella mente obnubilata dei persecutori una sorta di riscatto dalla brutalità del male ‘necessario’ inflitto ai genitori, ‘nemici della Patria’.
E’ l’ottobre del 1977. Jor vive con inevitabile tormento e sofferenza la propria condizione in quella famiglia. Le dicono subito: “Non ti chiamerai più Jorgelina, il tuo nome ora è Carolina”, Carolina Maria Sala. Studia, si diploma, si iscrive all’Accademia di Belle arti. Del fratello Damiàn non sa più nulla. Nel frattempo la nonna paterna Ana Taleb de Molina, rifugiata in Svezia, la cerca disperatamente. La sostengono le ‘Abuelas de Plaza de Mayo’ e varie organizzazioni per i diritti umani. Finalmente, nel 1984, entra in contatto con la famiglia adottiva, che però non le permetterà mai di parlare con la nipote. Continuerà a scriverle sino al giorno della sua morte, ma quelle lettere non saranno consegnate. Jor ritroverà anni più tardi gli originali conservati dalla nonna.
Nel 1996 ‘Carolina’ Jorgelina ha 23 anni ed entra in convento, nella congregazione “Schiave del Sacro Cuore di Gesù”. Ci resterà sino al 2002, quando deciderà di lasciare la vita religiosa. In quegli anni, però, inizia a ricreare se stessa e comincia a colmare di senso i vuoti di un’identità tutta da costruire. Dipinge anche, ma lo fa in “in bianco e nero”, giocando sulle sfumature del grigio: rappresentano bene una vita senza colore e senza felicità.
Il riscatto avviene a poco a poco. E inizia proprio dai giorni del convento, quando le suore le permettono di ricevere la posta e le lettere di amici e congiunti, quelle che la famiglia adottiva le aveva sempre celato. Le suore l’aiutano nel processo di ricerca della sua identità. Già nel maggio del ’96 ritrova il fratello Damián e la famiglia biologica: zii, cugini e nonna materna. Così, piano piano, può prendere a riordinare i tasselli della sua esistenza e a riscoprire la sua storia. Poi incontra Antonio, l’uomo di cui si innamora e che sposa. Oggi Jor ha 41 anni, tre figli, un amore e una vita. Continua la sua attività artistica, dipinge ed espone in tutto il mondo. E le sue tele, tracce di un anima dispersa e poi riafferrata, hanno ritrovato la gioia dei colori.
Per se stessa e ufficialmente anche per il mondo, il suo nome ora è Jorgelina Paula Molina Planas.
“Jor” è l’autrice del dipinto riprodotto sulla copertina del romanzo “La diva del tango”, pubblicato da Faust edizioni e scritto dal ferrarese Michele Balboni. Il volume sarà presentato nell’ambito degli eventi del Festival Internazionale. Racconta di Marisol e di sua figlia Ines e narra una vicenda di fantasia, specchio delle tragedia dell’Argentina dei generali negli anni della dittatura, centrando nello specifico proprio il tema dell’appropriazione dei bambini dei desaparecidos da parte delle famiglie compiacenti con il regime. Nella postfazione del libro c’è la biografia di Jorgelina.
Venerdì 3 ottobre, per la presentazione, saranno a Ferrara anche Walter Calamita e Claudio Tognonato, promotori in Italia della “Campagna per il diritto all’identità” a sostegno dei figli dei desaparecidos argentini. L’incontro si svolgerà alle 17 alla libreria Ibs di piazza Trento e Trieste.
La società attuale si fonda sui due pilastri collegati della produzione e del consumo. Poco importa che politiche differenti privilegino l’uno o l’altro versante, il profitto o il lavoro: secondo il mainstream la crescita illimitata del consumo sembra essere ancora l’unica possibile soluzione per garantire infrastrutture e servizi che diamo ormai per scontati; ed è proprio nel nome della crescita che devono sempre essere inventate nuove opportunità per ampliare e rimodellare i bisogni: questi diventano sempre più spesso un attributo del sistema economico, una produzione della mega-macchina, una variabile della produzione piuttosto che essere una dimensione fondante del vivere civile che si appoggia innanzitutto sulle precondizioni biologiche, antropologiche e sociali della vita.
La crisi che stiamo attraversando pone drammatici interrogativi a questo modello che mostra come non mai un’autoreferenza estremamente pericolosa, che lo porta a funzionare ciecamente in base alle proprie regole interne, dissipando e distruggendo tutti quei beni comuni che sono indispensabili alla vita. L’urgenza di un cambiamento radicale rispetto a questo stato di cose si sta dimostrando tutt’altro che semplice: se cambiamento positivo ci sarà, esso non potrà che scaturire anche dal basso e passare anche attraverso una destrutturazione e uno smontaggio del concetto stesso di bisogno e del suo utilizzo corrente. E’ proprio dal modo con cui una società definisce, conosce, organizza i propri bisogni e li risolve che si misura il suo grado di civiltà. Ma quali bisogni e per quali persone?
Il bisogno si mostra sempre in due modi: come spinta all’azione, come stimolo e motivazione interna che porta a certi tipi di comportamento o di scelta; come stato di carenza, di mancanza rispetto a qualcosa ritenuto importante, possibile auspicabile, problematico o addirittura essenziale; come un problema che può essere risolto.
Dietro questa tensione tra motivazione e carenza si può intuire la presenza di un duplice meccanismo generatore di bisogni: da un lato, imprese che lavorano a pieno ritmo per individuare e strutturare nuovi bisogni, soggetti sociali impegnati a costruire sciami di consumatori perennemente insoddisfatti che inseguono l’oggetto del desiderio – beni e servizi non fa differenza – secondo i dettami delle mode e spesso all’insegna dell’usa e getta; dall’altro, legioni di esperti che, insieme ad organizzazioni pubbliche e non profit, sono impegnati nell’individuare e patologizzare sistematicamente ogni tipo di comportamento e su questo costruire sempre nuovi servizi.
Se questo meccanismo alimenta la crescita e fa crescere l’economia nel nome del bisogno, alimenta anche una spirale perversa che rischia di depotenziare sempre di più le capacità più genuine delle persone ormai ridotte a meri consumatori che possono o credono di esercitare il loro spazio di libertà solo nella scelta di beni o servizi.
Al di sopra di questo aleggia (ed è parte integrante del meccanismo) una formidabile retorica pubblica che parla di solidarietà, di libertà, di democrazia, di tolleranza che, muovendosi nel contesto ideologico della crescita a tutti i costi, non mette minimamente in discussione il meccanismo produttore del disagio; la crescita infinita e null’altro è il meccanismo che deve essere salvaguardato ad ogni costo per garantire lavoro, efficienza e quindi ulteriore consumo.
In tale contesto economico e sociale il problema dei bisogni fondamentali dell’uomo non è affatto risolto ma è diventato – in assenza di radicali cambiamenti – quasi irrisolvibile: per definizione infatti, il bisogno non deve mai essere soddisfatto definitivamente pena la fine della corsa alla crescita illimitata.
Osservata in questa prospettiva centrata sui bisogni, la situazione sociale appare in una luce decisamente inquietante, caratterizzata da una immagine riduttiva e stereotipata di uomo come essere insaziabile ancor prima che orientato in modo prettamente egoistico; una società che non sa più riprendere contatto con i valori fondativi, con l’ambiente che manipola e con la dimensione genuinamente umana dell’esistenza sostituita completamente dalla dinamica del consumo compulsivo e per certi versi obbligatorio.
Che conseguenze per il welfare attuale e per quanti si occupano professionalmente e direttamente di bisogni nel mondo dei servizi alla persona? Per quanti sono impegnati nel riconoscere ed affrontare vecchi e nuovi problemi che si riproducono incessantemente nella società del consumo?
Per tutti corre l’obbligo di muoversi in questo campo complesso con discernimento e senso della strategia aprendo spazi di riflessione e creatività finora poco frequentati.
Alcuni spunti:
– il potenziamento e il rafforzamento delle capacità dei soggetti assistiti e delle loro reti di relazioni diventa sempre più importante; infatti esiste sempre il rischio che progettando ed offrendo servizi e soluzioni venga soffocata la spinta personale a superare lo stato di bisogno, quella motivazione che consente ad ogni individuo di giocarsela e di arrangiarsi;
– operatori ed organizzazioni sociali devono diventare sempre più spesso scopritori ed organizzatori di capacità e di risorse, presenti ma spesso ignote, che finora non rientravano nelle loro attenzioni e nei loro obbiettivi;
– il riconoscimento di essere all’interno di un sistema complesso esclude che politiche e settori possano agire in modo indipendente ed autoreferenziale senza tener conto delle conseguenze per altre parti del sistema;
– ne consegue che la co-partecipazione alle scelte strategiche di pianificazione territoriale diventa particolarmente importante per affrontare alla radice meccanismi perversi generatori di disagio; infatti è necessario riconoscere che numerose scelte e non scelte politiche ed amministrative sono esse stesse potenti generatori di problemi a fronte dei quali è sempre più difficile trovare risorse adeguate;
– il tema dei determinanti della salute ampiamente intesa e del benessere sociale (non riduttivamente inteso in senso economico) devono diventare vincoli (e risorse) per qualsiasi tipo politica: l’idea di prevenzione appare infatti come un palliativo piuttosto debole che si contrappone a forze economiche ampiamente incontrollate;
– la crescente carenza di fondi costringe ad intraprendere profondi processi di cambiamento basati sull’innovazione sociale e l’utilizzo massiccio di nuove tecnologie: alla luce di questo urge capire quali tipi di bisogno sono fondamentali ed irrinunciabili e rivedere quali tipi di servizio sono strategici per affrontarli seriamente con l’unico obiettivo di soddisfarli.
In quest’ottica il riconoscimento, il recupero, la tutela e la riproduzione dei beni collettivi diventa pista di sviluppo quasi obbligata.
Anche quest’anno a Ferrara, l’ultimo week end di settembre, ci sarà il Festival dell’apparato digerente. Detta così, la cosa appare bizzarra; invece, a rifletterci un attimo, si capisce bene quanto sia attuale, in perfetta sintonia con i nostri tempi: per buttar giù tutto quel che si sente e si vede in giro ci vogliono certi stomaci… e certi fegati! Sono loro gli eroi contemporanei.
Esistono i biglietti? So per certo che ancora resistono nella nicchia delle sale cinematografiche. I “ticket”, dall’inglese, sono quelli che paghiamo al nostro sistema sanitario nazionale.
Ma sugli autobus? Notate: auto-bus. Non come i bus americani che sono solo bus. Come se il “bus”, che collega le persone ai luoghi, (in informatica indica la comunicazione tra periferiche e componenti del sistema), non fosse di per sé “auto”.
Confesso di non essere un assiduo utilizzatore dei nostri autobus, per cui è solo per mia mancanza lo stupore che mi ha colto quando mi sono messo ad osservare, un po’ come fanno i bambini attratti dalla bellezza delle macchine, un autobus in sosta alla sua fermata e ho scoperto che per prenderlo, come comunemente si dice, occorre, c’è scritto a grandi lettere, “munirsi del titolo di viaggio”.
A parte l’inutile spreco di parole altisonanti dal sapore acidamente burocratico, “biglietto”, “munirsi del biglietto”, non era più semplice, più facile, più di diretta comunicazione?
Io so di avere delle deformazioni professionali, del resto ce le abbiamo un po’ tutti. O no?
Comunque mi sono corsi nella mente i dati che l’Ocse e l’Europa danno sul nostro paese, il 70% della nostra popolazione adulta fatica a decodificare un messaggio, figuriamoci: “Titolo di viaggio”!
Cos’è il titolo di viaggio?
In soldoni, un titolo si attribuisce alle persone, dottore, ingegnere, signora, signore, ai libri, alle opere d’arte, ai film, alla borsa, le quotazioni dei titoli.
E poi, se proprio proprio devo “munire” di un titolo il mio viaggio, sia pure breve per la città, sarà la sua destinazione. Che so: Stazione, Largo castello, Ospedale, Prospettiva, Ponte… O cosa mi propongo di fare una volta giunto a destinazione.
È questo che devo comunicare prima di salire sull’autobus? Non certo all’autista o al bigliettaio, tanto meno alla macchinetta obliteratrice, perché a quel punto sarei già salito. Insomma a chi devo andare a comunicare il titolo che ho scelto per il mio viaggio?
Non voglio pensare che quel “munirsi” con i tempi che corrono stia a significare che prima di affrontare il mio viaggio mi devo procurare “le munizioni”. E poi non è che a seconda del titolo che scelgo o delle munizioni che decido di portarmi appresso mi fanno pagare di più?
Penso agli stranieri, che ormai sono tanti. Per fortuna che c’è google traduttore. Allora digito dall’italiano all’inglese “munirsi del titolo di viaggio” e mi dà per risposta un sano, sintetico “obtain the ticket” quasi, quasi, in tempi di anglicismi correnti, di più facile comprensione dell’espressione italiana.
Se scrivo “munirsi del biglietto”: “bring your ticket”, con un tocco di personalizzazione per quel “your”.
Lo spagnolo non è da meno: “traiga su boleto”.
Ho giocato. Ma lo sconcerto mi resta. Perché “il titolo di viaggio” ha nulla a che fare sul piano direi quasi “dell’affettività sociale”, della buona relazione con il “customer”, il cliente, l’utente. È un perentorio ammonimento che se non paghi “l’imposta” non puoi usufruire del servizio di trasporto pubblico, come se di imposte non ne pagassimo abbastanza. Allora perché nascondere dietro “il titolo di viaggio” che devi pagare la tassa se vuoi prendere il tram?
Per fortuna l’abitudine e la buona educazione civica soccorrono senza la necessità di ulteriori ammonimenti, per i portoghesi si sa che è dal XVIII secolo che entrano senza invito, google comunque traduce anche per loro: «trazer o seu bilhete».
DA MOSCA – Cremlino e cupole dorate sullo sfondo, alberi che scorrono, collane di fiori rosa che abbracciano. Una limousine così lunga non si era mai vista, almeno io non l’avevo mai vista. Mai.
Quella vettura da ricconi scorre piano piano, impertinente e sfacciata, lungo una delle principali strade trafficate del centro di Mosca. L’antico maneggio dello zar è lì vicino, anche lui sembra osservare stupito e incuriosito, dall’alto del suo colore bianco imponente. Bianco come quell’auto. Ma chi ci sarà mai lì dentro??? Un ricco magnate con la giovane futura moglie, un’elegante modella dalle lunghe e strepitose gambe? Un imprenditore che commercia in metalli preziosi, oro (incenso) e diamanti (e mirra…)? Una coppia indiana, magari quella del quarantatreenne mahārāja di Gwalior, Jyotiraditya Rao Scindia, con la moglie, Priyadarshini Raje Sahib Gaekwad, sposata nel 1994 e quindi accoccolati lì dentro, pronti a festeggiare il loro decimo anniversario di matrimonio? Potrebbero esserci anche il figlio (Mahanaaryaman Rao Scindia Bahadur) e la figlia (Ananya Raje Scindia), con loro… E se ci fosse invece, dietro i vetri scuri, una coppia di attori, magari Brad e Angelina? No, non è da loro, impegnati come sono nell’umanitario… Chi sarà seduto, allora, nelle tre file di sedili, delle quali le due posteriori sono spesso in configurazione vis-a-vis, ossia una di fronte all’altra? Chi si starà riposando sulla selleria in pelle o in alcantara, fra gli inserti lavorati in legno pregiato, giocherellando con il frigo-bar, il tavolino per spuntini e bibite, il televisore al plasma, il telefono girevole, l’impianto stereofonico chiassoso o il divisorio scorrevole tra autista e passeggeri posteriori? Un uomo d’affari facoltoso, una star dello spettacolo, qualche uomo politico, un malavitoso o una semplice e normale coppia che ha noleggiato quel miracolo della tecnica moderna per un breve giro turistico o in occasione del proprio matrimonio, dopo aver meticolosamente raccolto i propri risparmi e i soldi di parenti e amici? I fiori rosa, di plastica lucida e un po’ pacchiani, mi fanno pensare a un’abile operazione commerciale, ideata per coppie non ricche che, per un giorno, voglio sentirsi diverse. D’altra parte ci si sposa solo una volta nella vita (almeno nella loro tradizione e cultura…), vero? Ma è davvero questo sposarsi? E’ questo amarsi? E’ questo ciò che conta? Per alcuni forse sì… per altri no, ma anche questa è la varietà della vita, anche questa libertà di fare. Da curiosi quali siamo, immaginiamo, come sempre, le scene di vite altrui che scorrono, i pensieri degli altri, i loro sentimenti, i loro sogni, i loro timori e le loro speranze, nascoste dietro un finestrino. E allora lì ci potrebbero essere Anna e Valery, Maria e Yuri, Sveta e Andrej, Veronica e Marco, Alessandra e Luca, Samia e Mohamed, Françoise e Hervé, Simone e Jean-Luc, Annabeth e Gunther, Annelore e Frank, Alpa e Bhanu, Manisha e Hiresh, Fatima e Abdul, Hanan e Yasir, Ana Rosa e Benito, Paula e Diego, Dave e Nora, Ai e Liang, Yulia e Alexander…
Si riconosce ormai a livello generale l’importanza del tema economico per quanto attiene i servizi ambientali e in particolare in relazione al ciclo dell’acqua e dei rifiuti. Il concetto economico di copertura dei costi richiama l’esigenza di una programmazione industriale basata sullo sviluppo degli investimenti, ma anche sulla attenzione alla crescita dei costi sociali e dei costi ambientali indotti. Oggi esiste una pericolosa proporzionalità tra reddito e consumi (anche di acqua e produzione dei rifiuti) che mal si concilia con uno sviluppo controllato dei prezzi e una crescente sensibilizzazione sui servizi erogati; serve su questo tema un passaggio culturale forte.
L’analisi delle tariffe applicate e dei costi, che i cittadini devono sostenere per questi servizi, sono un elemento crescente di criticità soprattutto per quei nuclei familiari della fascia meno agiata ed in alcuni casi al limite del livello di povertà; per tali nuclei spesso accade che la crescita dei costi dei servizi non è compensata dalla crescita del reddito e dunque aumenta il disagio sociale su servizi essenziali. L’impegno sulla efficacia ed efficienza dei servizi con particolare riguardo all’applicazione delle tariffe e alla tutela degli utenti e dei consumatori deve quindi essere una funzione prioritaria. Ripropongo dunque temi trattati un paio di anni fa nel Report Sociale scritto per la regione.
In questo contesto il tema della tariffa sociale nei servizi pubblici sta diventando una esigenza e una priorità; dove infatti vengono forniti servizi essenziali per la vita dei cittadini e devono dunque essere assicurati a tutte le famiglie sorge l’esigenza di salvaguardare quelle economicamente disagiate. Facendo una generale valutazione della spesa di una famiglia media italiana (indicativamente 23 milioni di famiglie con una spesa media annua per famiglia di circa 35 mila euro) e analizzando il paniere dei prodotti e servizi emerge che l’incidenza dei servizi ambientali sulla spesa totale ha ormai superato il 2% del totale e in particolare si basa su questi valori di stima generali: rifiuti 0,6% ; acqua 0,5% ; gas 3 % ( con una stima di spesa media annua per acqua di 190 euro e per rifiuti di 230 euro). Con una spesa in generale stimata procapite di 30 – 70 euro anno per l’acqua e di 70 -130 euro anno per i rifiuti con un totale 100 – 200 euro anno e che in generale sulla stima del livello di povertà possa superare l’8%, diventando dunque un onere critico per un livello di vita sostenibile.
Si possono, anzi si devono, allora introdurre sistemi di valorizzazione dei comportamenti dei cittadini ed anche metodiche di supporto sociale attuate tramite specifici atti di regolamentazione auspicabili in sistemi condivisi a livello di ambiti territoriali omogenei.
Il welfare state italiano destina risorse molto scarse a tutela di alcuni importanti rischi sociali, in particolare i carichi familiari e la disoccupazione. Non potendo, per ovvie ragioni, intervenire a livello di riforma complessiva del welfare state nazionale, in Emilia-Romagna in passato si decise di dare avvio all’implementazione di un sistema di tariffazione sociale sui servizi pubblici locali.
Per definizione la politica sociale comprende tutte le disposizioni e le misure volte a risolvere o alleviare situazioni di bisogno e problemi sociali (a livello individuale e collettivo) o a favorire il benessere dei gruppi più fragili della società. Individua quindi le misure che servono a combattere direttamente la povertà o a prevenirla. Tra gli strumenti utilizzati, troviamo anche le agevolazioni o contributi per l’utilizzo dei principali servizi pubblici. Con il Dpgr 49/2006, integrato dal successivo Dpgr 274/2007 e da una specifica direttiva di accompagnamento, fu introdotta in Emilia-Romagna la tariffa sociale dei servizi idrici. Era uno specifico impegno assunto con le organizzazioni sindacali ben dieci anni fa. Questa prima applicazione, che si concentrava sui servizi idrici approfittando del metodo tariffario regionale di settore, doveva anche servire come elemento di sperimentazione e messa a punto di una tariffazione sociale che sia applicabile a tutte le tariffe dei servizi pubblici locali.
Il servizio idrico integrato costituisce infatti, al pari dei servizi di fornitura elettrica, gas metano, di gestione dei rifiuti urbani e dei trasporti pubblici, un servizio pubblico essenziale per la vita dei cittadini. Così con il metodo tariffario regionale è stata introdotta, in modo sistematico per la prima volta in Italia, la tariffazione sociale nei servizi idrici.
La tariffa sociale si concentra sul sostegno da garantire ai nuclei molto deboli, ai quali viene assicurata, con un costo limitato, l’erogazione della quantità di servizio necessaria. Gli oneri di tale tariffazione sociale sono ripartiti tra tutti i soggetti che costituiscono l’intero sistema, realizzando quindi un concreto approccio solidaristico. Lo strumento adottato per l’individuazione dei soggetti in condizione socio-economica disagiata è l’Isee che ben si presta allo scopo e che ha l’innegabile pregio di essere già lo strumento principe impiegato per l’erogazione di agevolazioni, in particolare in materia di servizi sociali.
La tariffa sociale dei servizi idrici fu considerato infatti uno strumento idoneo a supportare le fasce di utenza in condizioni di disagio e dunque l’impostazione di una tariffazione sociale nei servizi idrici per migliorare l’equità complessiva del sistema.
Il principio ispiratore è stata l’accessibilità del bene acqua a prescindere dalla condizione socio-economica degli utenti ed i riferimenti di base sono la definizione di una soglia regionale (basata sull’Isee) e l’omogeneità applicativa all’interno di un territorio provinciale.
La tariffa sociale è stata applicata come un contributo di pari importo praticato in relazione ad una scala parametrica associata ad una determinata soglia Isee(Indicatore Situazione Economica Equivalente). Tale indicatore, appariva indubbiamente come lo strumento più idoneo sia per intervenire a favore delle fasce di utenza in condizioni di disagio economico-sociale, sia come elemento che concorre a migliorare l’equità complessiva del sistema.
Infatti, la direttiva regionale prevedeva un’unica soglia Isee uguale per tutta la Regione, pari a 2.500 euro, in corrispondenza delle situazioni di massimo disagio economico-sociale, e un range entro il quale ciascuna Agenzia d’Ambito Territoriale Ottimale (che ora non c’è più avendo delegato tutto a livello generale all’Atersir) poteva fissare il valore territorialmente più adatto per una seconda fascia corrispondente a situazioni di disagio non estremo. Tale seconda soglia poteva essere individuata tra cinque e diecimila euro.
Lo schema procedurale in sintesi era il seguente: l’Agenzia d’Ambito definiva la percentuale massima, di norma pari o inferiore all’1%, di incremento tariffario ammissibile per finanziare i contributi a favore delle situazioni di disagio dell’intero ambito territoriale ottimale. L’utente in possesso dei requisiti necessari, per aver accesso al contributo presentava apposita richiesta al Comune di residenza. L’erogazione del contributo poteva avvenire con due modalità, o direttamente in bolletta o attraverso il Comune (in tal caso il Gestore versa direttamente al Comune quanto di spettanza). In quest’ultimo caso può essere applicato automaticamente il contributo agli utenti aventi diritto in base a domande Isee già presentate per agevolazioni per altri servizi comunali. Il diritto all’agevolazione poteva decadere nel caso di utente non virtuoso, ossia che consuma molta acqua (come consumo eccessivo di riferimento è stato assunto un valore superiore ai 200 l/ab/g).
Al fine di rendere più efficace l’intera procedura, ovvero di garantire al tempo stesso una buona copertura delle situazioni in condizione di disagio economico e la definizione di un contributo che non avesse valore simbolico, ma che incidesse concretamente sui bilanci famigliari, agli utenti appartenenti alla prima classe (con Isee da 0 a 2500) definiti “utenti in condizioni estremamente disagiate” spettava un contributo pari al 60% del fondo derivante dall’applicazione della quota aggiuntiva, da suddividere tra le utenze che ne hanno diritto in base ai più recenti dati disponibili. Mentre gli utenti appartenenti alla seconda classe spettava un contributo pari al 40%.
Dopo le spinte iniziali, la mia impressione è che si stia andando avanti con troppa lentezza, anzi troppo piano, quasi fermi. In verità Atersir ha prodotto un regolamento e fissa il termine per la presentazione delle domande per le agevolazioni tariffarie relative all’annualità 2013 e 2014 posticipandola al 30 novembre 2014. Dunque ci stanno lavorando. Se ne sta parlando tra autorità nazionale, regolatori regionali, gestori multiservizi e associazioni di consumatori, ma non mi pare sia avvertita come una priorità. Anzi credo che l’analisi economica sia spesso disattesa. Più che i costi sembra interessino le tariffe, ovvero i ricavi. La storia si ripete, purtroppo. La stessa tassa sui rifiuti ha dimenticato i sistemi tariffari ed è un brutto segnale rispetto alla strada della trasparenza.
E’ bio-ecologa, finito il dottorato di ricerca, nel 2007 crea un’azienda agricola biologica, utilizzando il terreno che i suoi genitori avevano acquistato anni prima come investimento.
Sara Mantovani gestisce tutto da sola: ogni giorno dà da mangiare agli animali, raccoglie il letame, cura le piante, semina, raccoglie, gestisce gli ordini e fa le consegne a domicilio. Ha passione e energia da vendere, e da un paio d’anni collabora con tre negozi di Ferrara che acquistano regolarmente i suoi prodotti. L’abbiamo intervistata perché ne apprezziamo coraggio e determinazione, e perché per coltivare biologico al 100% e per gestire l’azienda in modo onesto, non fa compromessi con nessuno.
Il fondo si chiama “Il X° Boattino” e si trova a Masi San Giacomo. Chiediamo a Sara di presentarci la sua azienda che segue scrupolosamente una filiera completa.
Si tratta di un’azienda multifunzionale di quasi cinque ettari. Produco in prevalenza verdura, sia estiva sia invernale, non in grandissime quantità, ma cerco di avere un po’ di tutto. Oltre all’orto, ho circa un ettaro di frutteto con 500 piante coltivate con la tipologia d’impianto di una volta: ogni pianta ha 20 mq. di spazio, questo per riprendere la tradizione di quello che era il frutteto ai tempi dei nostri nonni.
Poi ho una piccola parte di terra nuda con coltivazioni variabili, a rotazione (orzo, mais, ecc.) e un altro piccolo appezzamento ad erba medica, il fieno per i miei animali. In sostanza l’azienda segue la filiera completa: dalla coltivazione del foraggio alla produzione di fertilizzante per la terra, dalla produzione di orticole e frutta alla vendita diretta e all’agriturismo.
Negli ultimi due anni ci sono state molte novità in azienda, tuo fratello Matteo non lavora più con te, hai smesso di fare le Fattorie didattiche, ma stai per diventare Fattoria sociale. Vuoi raccontarci meglio questi importanti cambiamenti?
Sì, per due anni Matteo mi aveva dato una mano, ma dall’ottobre 2013 gestisco di nuovo tutto da sola, la terra, l’agriturismo e le consegne. Già dall’anno precedente avevamo smesso di fare le “Fattorie didattiche” perché era cambiata la gestione delle visite e non ci trovavamo più bene: prima, tutto era organizzato dalla Provincia, i cui operatori conoscevano bene il territorio e taravano le visite in base alle caratteristiche aziendali, poi la gestione è passata ad altri e sono cominciati i problemi: organizzavano le giornate mandandoci scolaresche di 100 bambini, quando nella scheda tecnica indicavamo un numero massimo di 20-30 bambini a volta. Le visite però le faccio ancora, per piccoli gruppi o per le famiglie. Prenotando per tempo, chi è interessato può venire liberamente; le visite in azienda sono consentite dalla normativa e sono gratuite.
Dal 2012 ho iniziato anche una collaborazione con l’Ass. Onlus “Dalla terra alla luna” di Ferrara a cui tengo moltissimo: alcuni dei ragazzi autistici seguiti dall’associazione passano qualche ora in azienda e partecipano alle attività in campagna, in base al loro grado di abilità. Mi piacerebbe sviluppare altri progetti del genere che trovo utilissimi; per questo ho anche seguito e concluso un corso per diventare Fattoria sociale e sto aspettando le certificazioni.
E l’agriturismo, come sta andando?
Per quanto riguarda le attività agrituristiche, ho chiuso la ristorazione perché era un’attività veramente troppo difficile da gestire a livello burocratico, avevo ricevuto una serie di multe assurde e ingiuste e non ne potevo più. Come qualunque azienda agricola, però, propongo la degustazione dei prodotti aziendali, freschi e trasformati, sempre su appuntamento, perché appunto sono da sola e mi piace organizzarmi bene per accogliere al meglio i visitatori.
Visto che la strada della ristorazione si è dimostrata poco praticabile, mi sto organizzando per fornire servizio di alloggio e prima colazione, attività che potrebbe essere esercitata sia nella forma dell’agriturismo con pernottamento sia come Bed & Breakfast, sto ancora studiando i dettagli della normativa. In ogni caso aprirò, perché di spazio ce n’è e la mia idea è sempre stata quella di un’azienda “sociale”, aperta ad ospitare e ricevere persone.
Quando prevedi, quindi, di iniziare con i pernottamenti?
I lavori stanno cominciando e vorrei inaugurare a inizio 2015, comunque massimo entro sei mesi.
Tra le novità positive, c’è il fatto che da qualche tempo rifornisci alcuni negozi in centro a Ferrara, quali?
Sì, oltre alle solite consegne a domicilio, la grande novità è che rifornisco coi miei prodotti tre negozi in centro a Ferrara: il Punto macrobiotico, Girobio e La Cremeria. Con i primi due ho cominciato nel 2012, mentre con la gelateria di via San Romano a febbraio scorso.
La collaborazione con i negozi sta andando molto bene perché abbiamo fatto una programmazione concordata che funziona: loro ricevono prodotti freschissimi e appena colti che gli consegno con le mie mani, senza bisogno di intermediari, un paio di volte a settimana; io riesco a gestirmi meglio l’orto e nel giro di nemmeno due anni ho quasi raddoppiato le vendite.
Quali prodotti ti ordinano i negozi? Sia il Macrobiotico che Girobio comprano prodotti di stagione, da vendere sia freschi che trasformati, perché loro, oltre a rivendere, cucinano e preparano piatti pronti. Il Punto macrobiotico mi chiede anche di provare a produrre varietà antiche, come la rapa bianca o il daikon (ravanello originario dell’Asia orientale), la borragine, la pastinaca e la scorzonera (radici), che da noi non utilizza più nessuno e che invece hanno ottime proprietà nutrizionali.
Collaborare con i negozi è un ottimo motivo di crescita anche in questo senso, perché per me, che sono biologa e amo le piante, lavorare in sinergia con l’acquirente e sperimentare nuove varietà è il massimo. La Cremeria mi compra la frutta, e in particolare fragole, more, mele e pere, ma anche la zucca, la menta e il basilico.
Fanno il gelato con le tue zucche?
Sì, ed è fantastico, soprattutto l’abbinata zucca-cioccolato!
Questa notizia ci incuriosisce moltissimo e ci precipitiamo a provare il gusto “zucca di sara”. Alla Cremeria troviamo i proprietari, Matteo Feliciani e Monica Savogin, a cui chiediamo del felice rapporto che si è instaurato con la giovane fornitrice bio.
Con Sara ci troviamo benissimo. Con le sue more facciamo una salsa che accompagniamo con il cioccolato biondo dulcey (un particolare cioccolato bianco caramellato di Valrhona), con i fichi caramellati facciamo il gelato ricotta e fichi, con le pere un sorbetto pera e vaniglia. Anche lei ci consiglia gli abbinamenti. La cosa bella è che tra di noi è nato questo scambio continuo di saperi e conoscenze: io, come artigiano del gelato, le chiedo un prodotto maturo al punto giusto, profumato e aromatico; lei, come coltivatrice e biologa, ci consegna le varietà giuste e ci sa dire esattamente le caratteristiche del frutto. Stiamo crescendo insieme e questo è molto stimolante.
Sappiamo che producete un gelato naturale, come dice il cartello esposto in vetrina. Avete iniziato subito con lo spirito del gelato naturale e del km. 0 fin dall’apertura che risale al 2010?
No, ci siamo arrivati con il tempo, è stata un’evoluzione. Dopo aver imparato le basi ed essere entrato nel meraviglioso mondo del gelato (Matteo è informatico e prima lavorava in tutt’altro ambiente), mi ho cercato di capire le tendenze, ad ascoltare la clientela e ho visto che per tante persone era importante il discorso del “senza saccarosio”, del naturale, del vegano e del biologico. Così, mi sono messo ad approfondire le caratteristiche delle materie prime e a contattare produttori bio. Ho fatto tutta una serie di prove e sono arrivato ad un prodotto sano, naturale e con un basso indice glicemico e calorico: dalle ultime ricette che ho sviluppato, risulta che ora il mio gelato ha fino al 35% in meno di calorie rispetto a quello che producevo due anni fa. Il gelato vegano è fatto senza l’utilizzo di prodotti di origine animale, ossia senza latte, uova e miele.
Un gelato salutistico come questo rimane sempre buono e gustoso come quello tradizionale?
Assolutamente sì, il gusto è esattamente lo stesso, se non lo sai non te ne accorgi, cambia solo la tipologia degli zuccheri: al posto degli zuccheri usati normalmente in gelateria, utilizzo il maltitolo e il fruttosio.
Quali altri prodotti biologici utilizzate?
Utilizziamo cioccolato Criollo proveniente dal Perù. Me lo faccio spedire da una peruviana che vive a Roma e che lo importa direttamente dal luogo d’origine. Per la ricotta ci riforniamo dalla Cavallerizza di Cona, non è biologica ma a km 0. Così come il pistacchio di Bronte Dop o la nocciola Piemonte Igp, che non sono biologici ma è il meglio che il mercato propone. Ne approfitto per dire che noi vorremmo migliorarci ancora e che siamo sempre alla ricerca di nuovi prodotti biologici e soprattutto del territorio, quindi se qualcuno si vuole fare avanti, benvenga!
So che non usate semilavorati, per fare un gelato del tutto naturale quanto tempo si impiega?
Buona domanda. Ci vuole tantissimo tempo. Faccio un esempio: per fare il cioccolato adesso ci metto tre quarti d’ora, usando i semilavorati ci si mette meno di un quarto d’ora.
Insomma, dopo aver mangiato un gelato così, non c’è solo da leccarsi i baffi, ma anche da ringraziare tutti coloro che lo producono con onestà e passione.
Per saperne di più del X° Boattino, visita la pagina Facebook [vedi] e il sito agrizero.it [vedi]
Per saperne di più sulla Cremeria, visita il sito [vedi] e la pagina Facebook [vedi]
Da noi l’estate è tempo di vacanze e di centri ricreativi estivi dove appoggiare i figli quando ancora si lavora e le ferie sono lontane. È soprattutto l’idea che con la scuola si chiude, sia fisicamente che mentalmente.
La città di Baltimora, nello stato del Maryland (Usa), è invece all’avanguardia per l’apprendimento estivo. Qui la riflessione è mossa dall’attenzione e dalla preoccupazione per gli apprendimenti dei ragazzi. Certo, l’estate è un’occasione spensierata per i giovani, ma rappresenta anche un momento in cui gli studenti possono perdere saperi e importanti competenze apprese durante l’anno scolastico.
Quando tornano a scuola in autunno, impiegano, in media, un mese per recuperare il livello di preparazione a cui erano giunti alla fine dell’anno scolastico. Si verifica cioè quello che è definito come “caduta di apprendimento”.
Il fatto è che essa colpisce soprattutto gli studenti più fragili, i quali perdono almeno due o tre mesi in più rispetto agli altri, soprattutto nel recupero della lettura. Tutto ciò diviene una catena che porta ad accumulare ritardi e svantaggi che finiranno, con l’andare del tempo, per produrre insuccesso, quindi mortificazione e sfiducia in sé, fino all’abbandono scolastico.
Ma gli studenti che partecipano all’apprendimento estivo e alle altre attività di arricchimento possono trascorrere l’intera giornata nella loro scuola e progredire nell’apprendimento, così, quando inizia il nuovo anno scolastico, sono pronti per imparare e affrontare nuove sfide educative, non mancano viaggi, attività sportive e occasioni di divertimento.
L’idea che ha funzionato è stata quella di mettere insieme le risorse della città, scuole, istituzioni, privati, associazioni no-profit per migliorare e aumentare l’offerta di programmi e di servizi a disposizione dei giovani durante l’estate, dalle elementari alle superiori, di offrire loro attività di apprendimento diverse e alternative a quelle scolastiche, spesso routinarie.
L’arricchimento estivo spazia dalla alfabetizzazione alla robotica, dal recupero dei crediti, ai corsi di apprendimento accelerato.
A queste iniziative, patrocinate dal “Baltimore city public schools” (Bcps), oggi partecipano oltre cinquemila studenti e l’80% di questi segue programmi come “Leggi per riuscire meglio!” e “Pensare insieme”.
Le attività di “Super summer”, così si chiama l’iniziativa dell’apprendimento estivo, sono pubblicizzate durante tutto il corso dell’anno attraverso lettere a casa, manifesti e volantini, fiere dedicate all’apprendimento, pubblicità sugli autobus, spot radiotelevisivi, oltre al sito web e a un call center dedicato.
I dati delle iscrizioni, sondaggi e focus group hanno evidenziato che per i genitori ciò che più conta è la sicurezza dei figli, il controllo, il cibo e il trasporto, le relazioni socio-affettive, ma soprattutto la qualità delle esperienze di sostegno agli apprendimenti scolastici e che le attività coprono l’intera giornata.
Nel 2012, per la prima volta, sono stati offerti programmi estivi “ponte”, di preparazione cioè al passaggio dalla scuola primaria alla secondaria di primo grado, alle superiori e al college, oltre a programmi di avviamento al lavoro.
L’obiettivo di questa super estate, condivisa da tutta la città, è fare delle scuole e della esperienza scolastica dei giovani qualcosa che riguarda e appartiene a tutti. La scuola è così sempre aperta, la scuola e il successo scolastico di ogni singola ragazza e di ogni singolo ragazzo non è affare e interesse privato, ma impegno e interesse di tutta la comunità.
Il comitato Baltimore super summer, che programma e coordina l’estate d’apprendimento, inizia a cercare partner e a pianificare le proprie attività appena l’estate termina, in modo che già a marzo sia possibile l’iscrizione dei giovani.
Non solo le scuole sono importanti per la buona riuscita di questo progetto, ma negli anni è cresciuto il numero di aziende e società private che concorrono a sostenerla, offrendo attività, materiali, sponsorizzazioni.
Le attività della super estate per gli organizzatori non sono né scuola né dopo scuola, ma un modo per partire dagli interessi dei ragazzi, per favorire nuovi apprendimenti, per promuovere interazioni tra loro e scambiare informazioni, per rendere le scuole strutture pienamente disponibili, coinvolgendo genitori e insegnanti in occasioni di riflessioni sulla scuola, sulla didattica, sui curricoli.
La perfetta integrazione tra le offerte estive e i programmi delle scuole consente agli studenti di disporre per tempo di un catalogo dove poter scegliere tra le diverse opzioni di studio e di attività, inoltre la frequenza della Super summer ha dimostrato di avere un effetto positivo sulla loro frequenza scolastica per comportamento, atteggiamento e rendimento.
A noi questa Super estate di Baltimora sembra l’espressione di una buona e auspicabile alleanza tra scuola e territorio.
Parliamoci chiaro, l’unico reale punto di discussione attorno all’art. 18 delle Statuto dei lavoratori riguarda la disciplina dei licenziamenti per motivi economici.
Non c’entra nulla la discriminazione, per il semplice motivo che le norme che la vietano in tutte le forme possibili sui luoghi di lavoro, licenziamento incluso, sono da tempo parte della legislazione comunitaria (direttiva 2000/78/Ec) obbligatoriamente recepita nel nostro ordinamento (Dlgs. 9 luglio 2003, n. 216). Licenziamenti emanati per ragioni di sesso, orientamento sessuale, razza, religione, età e convincimenti personali sono quindi nulli, anche indipendentemente dallo Statuto, e valgono per tutti i lavoratori, compresi quelli che lo Statuto non protegge.
Si tenga presente che i licenziamenti su base economica (cosiddetto giustificato motivo oggettivo), vale a dire per esempio quando una ristrutturazione aziendale rende superfluo un posto di lavoro senza che il lavoratore possa essere ricollocato altrove all’interno dell’azienda, erano possibili già prima delle modifiche all’articolo 18 dello Statuto introdotte dalla legge Fornero. In caso di ricorso da parte del lavoratore è l’azienda ad avere l’onere della prova: a fronte dell’insussistenza parziale o totale delle motivazioni addotte, questa è la novità introdotta dalla legge, è il giudice a decidere se ordinare, come era in precedenza, il reintegro del lavoratore o, invece, stabilire un indennizzo economico per quest’ultimo. E’ importante ricordare questo particolare, perché praticamente tutti quelli che ora gridano alla “svendita dei diritti” che avverrebbe con l’intervento del governo, votando la legge Fornero in Parlamento, avevano già accettato il principio che il licenziamento senza giustificato motivo potesse essere compensato con un risarcimento. Oltretutto tale legge non definisce alcun criterio in base al quale il giudice “può” obbligare il reintegro, lasciando quindi la decisione esclusivamente al suo personale convincimento.
La proposta di legge del governo vuole introdurre nel nostro ordinamento, limitatamente ai nuovi assunti, il concetto di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, secondo il quale all’aumentare dell’anzianità lavorativa il costo per l’azienda del licenziamento senza giusta causa cresce. La risoluzione del rapporto di lavoro durante i primi tre anni di impiego può invece avvenire senza alcun indennizzo, fatto salvo l’obbligo per il datore di lavoro di restituire gli incentivi ricevuti per l’assunzione a tempo indeterminato, ma solo dietro congruo preavviso al lavoratore. I parametri che definiscono l’indennizzo dovranno essere stabiliti dai decreti delegati che il governo deve emanare dopo l’approvazione della legge. E’ evidente che la loro quantificazione influisce in modo significativo sull’effettivo potere deterrente della legge.
Per stabilire se questa normativa costituisca un passo avanti o meno è opportuno, oltre al piano astratto dei diritti, fare riferimento alla situazione reale del Paese. Secondo l’Istat (dati 2010) in Italia “il 95% delle imprese ha meno di 10 addetti e impiega il 47% dell’occupazione totale”, se si considera che l’articolo 18 vale per le imprese con più di 15 dipendenti si comprende come già oggi più della metà dei lavoratori non ne sia tutelata; vale a dire che, in termini pratici, possono essere licenziati in qualsiasi momento. Non godono inoltre di alcuna tutela gli oltre 3 milioni di lavoratori precari, in gran parte giovani. Detto in altri termini, a fronte di circa 22 milioni di occupati, l’articolo 18 ne tutela, con tutti i limiti visti sopra, assai meno di 10.
Inoltre, il provvedimento del governo va inserito nel contesto più generale della riforma del mercato del lavoro e del welfare, che ha l’obiettivo di introdurre in Italia per chi perde il lavoro, come ormai quasi ovunque nel mondo, strumenti attivi di sostegno, sia economici che finalizzati alla ricerca di una nuova occupazione. Questi strumenti, di carattere universale, cioè disponibili per tutti coloro in cerca di occupazione, andrebbero a sostituire le diverse forme di cassa integrazione straordinaria e in deroga, che sono invece legate ai singoli posti di lavoro, non coprono i lavoratori delle imprese più piccole e vengono decisi caso per caso con modalità a volte assai poco trasparenti. I meccanismi attuali hanno inoltre il grave limite di vincolare il destino occupazionale dei lavoratori minacciati da licenziamento alla sopravvivenza dell’azienda, innescando molto spesso lunghi e costosi quanto inutili tentativi di “salvare” realtà produttive strutturalmente destinate alla chiusura, che non di rado vanno ad arricchire speculatori senza scrupoli.
Sono tutte questioni, queste, di cui in Italia si discute in termini spesso molto accesi da qualche decennio, senza che vi sia stata la capacità di introdurre riforme sostanziali, ideate sulla base di un ripensamento dei meccanismi di tutela e del welfare che fosse più rispondente alla realtà attuale: il poco che è stato fatto è il risultato di risposte emergenziali, come la citata legge Fornero, affrettate e senza alcuna pretesa di organicità, perché concentrate su obiettivi di brevissimo periodo.
Essere donna in Afghanistan non è sicuramente facile. Se poi si hanno 26 anni, bombolette spray e sogni, e si dipinge sui muri fatiscenti della città…
Classe 1988, Shamsia Hassani, vanta il primato di essere la prima donna graffitista in una realtà complessa e chiusa come quella afghana e, per questo, di essere diventata, oggi, vera e propria portavoce dei diritti delle donne.
Nata in Iran, da rifugiati afgani originari del Kandahar, Shamsia è impossibilitata a iniziare i suoi studi artistici a causa della nazionalità afghana. Rientra, allora, a Kabul, dove si iscrive, nel 2006, alla facoltà di Arte. In questo periodo, inizia anche a dedicarsi all’arte contemporanea. Nel 2009, viene selezionata come uno dei migliori dieci artisti del Paese. Il gruppo si unirà in un’associazione, Rohsd (che in arabo significa crescita), che si dedicherà all’arte contemporanea. Shamsia ha un nome bellissimo, che significa “sole”, e sole sia allora, perché intensi raggi di luce e di speranza giungono dalle sue opere.
Questa giovane artista ha iniziato a dipingere su tela, ma, nel 2010, ha scoperto il potere comunicativo della street art, durante un workshop tenuto a Kabul da un graffitista inglese, Wayne “Chu” Edwards (classe 1971, uno dei più noti graffiti artist in 3D, attivo dagli anni ’80 e nato come sviluppatore di giochi per computer come Aladino per la Game Boy). Quell’esperienza fu per Shamsia una seducente rivelazione.
E così, iniziò a realizzare graffiti per arrivare al cuore (e alla mente) delle persone. Come ha detto in alcune interviste, attraverso i graffiti vuole parlare al popolo mediante immagini, portare l’arte nei luoghi del degrado, sulle pareti di edifici danneggiati dalla guerra e dai bombardamenti. E lasciare che mura abbandonate e sporche accolgano la rigenerante vitalità della pittura.
I colori sono in grado di coprire i cattivi ricordi della guerra, di rimuoverli dalle menti delle persone. Secondo Shamsia inoltre, il popolo afghano – e in particolar modo quello residente a Kabul – non ha una grande cultura artistica e non è avvezzo a visitare mostre (spesso non ne ha nemmeno la reale possibilità), dunque il messaggio insito in un’opera esposta in galleria rischia di andar perso o di restare confinato a stesso, mentre un dipinto murale è qualcosa che non si può evitare di vedere, se gli si passa accanto. Arriva prima della scelta stessa di vederlo, diretto e senza chiedere. E tale immediatezza visiva era, ed è, proprio ciò che Shamsia cercava, perché le immagini sono più forti e immediate delle parole.
Nella periferia di Kabul, Shamsia ha realizzato numerosi graffiti, al fine di coprire le brutture della guerra e, allo stesso tempo, di portarle a memoria, e ha invaso la sua città diburqa color cielo, simbolo di libertà, tonalità che più la mette a proprio agio. Sui muri di Kabul giganteggiano, allora, sagome in burqa dai color vividi, fatte con spray e spesso con colori acrilici e pennelli, in assenza di bombolette di buona qualità, che sul mercato locale si trovano a fatica. L’artista progetta l’immagine da realizzare e poi, velo in testa e mascherina sulla bocca, inizia a lavorare. Rischia ogni giorno molestie o aggressioni; spesso, mentre lavora, le vengono gettati dei sassi.
Allora si ferma, rientra a casa e rielabora al pc, in Photoshop, ogni dettaglio dell’intervento urbano momentaneamente interrotto dall’ignoranza. “Di solito – dice in un’intervista – dipingo donne con il burqa ma in una versione più moderna. Voglio raccontare le loro storie e trovare un modo per salvarle dal buio, […] aprire le loro menti, per apportare qualche cambiamento positivo”. Le sue figure sono imponenti, austere, arrivano fino alle nuvole e sono disegnate con una linea di contorno che curva sulla testa e si fa spigolosa in prossimità delle spalle; immagini quasi titaniche nel loro sforzo di presentarsi, dominare, farsi riconoscere e accettare. E di urlare. Accanto ai loro corpi si stagliano belle linee curve e arricciolate – quasi bolle o onde del mare (ancora l’azzurro) – che accentuano il valore simbolico del lavoro di Shamsia.
Quei riccioli e quelle bolle sono l’emblema di parole non dette, ingoiate, taciute, che le donne afghane non hanno mai avuto il diritto di pronunciare. Donne che, in quel paese, sono ancora proprietà degli uomini, che servono principalmente a tenere in ordine la casa, a procreare, a obbedire e tacere. La corazza del burqa è imposta ma, ovviamente, la questione non è solo questa. Si tratta di combattere una mentalità di pietra, per la sua pesantezza ma anche per la sua inaccettabile e incredibile arretratezza.
Uno dei suoi graffiti più noti a Kabul ritrae una donna in burqa seduta sui reali gradini di un’abitazione diroccata.
Secondo Shamsia è la rappresentazione dell’incertezza femminile odierna che vive, quindi, l’eterna esitazione nella totale restrizione: non sa se si riuscirà a “salire” recuperando una posizione più dignitosa all’interno della società, o se subirà un più disastroso crollo.
Ma, intanto, aspetta, fiduciosa, seduta sulla sua domanda. Fiduciosa come Shamsia, che ora è docente di scultura presso la Facoltà di Belle Arti di Kabul e continua a serbare in cuore sogni e tenacia. Oggi espone in India, Iran, Germania, Italia e nelle ambasciate estere di Kabul, ma il suo più grande desiderio è quello di fondare una scuola per graffitisti per diffondere il “verbo” visivo per le strade della sua città e, un giorno, di collaborare con Banksy.
Per parlare, gridare, protestare, lottare per il bene, per la libertà, per il rispetto, cambiare le cose: perché in fondo l’arte è sempre stata questo: comunicazione e rivolta. E a volere questa rivoluzione è proprio una donna: Shamsia Hassani.
La settimana scorsa si è tenuta a Berlino, di fronte alla neoclassica Porta di Brandeburgo, un’imponente manifestazione contro l’antisemitismo, che è emerso in modo particolarmente virulento nei giorni dell’ultimo conflitto israeliano-palestinese. Tra i vari manifestanti si sono distinti quasi da subito due schieramenti all’interno dei numerosi israeliani: un gruppo di israeliani “sionisti” e un gruppo di israeliani “antisionisti.” Se la circostanza non fosse stata comunque drammatica, avrebbe quasi fatto sorridere questa divisione così particolare e complessa da decifrare – quasi un omaggio ad una famosa barzelletta sulla proverbiale litigiosità ebraica (un ebreo resta sperduto per cinque anni in un’isola deserta e quando viene ritrovato gli chiedono perché abbia costruito due sinagoghe e risponde: una è la sinagoga che frequento, l’altra è la sinagoga in cui non metterei mai piede!).
In quest’occasione ho rivisto un mio compagno di lettura di filosofia, un giovane studente israeliano e blogger, Tomer Dreyfuß, il quale si è lasciato intervistare anche su temi piuttosto scottanti, persuaso forse dal suono un po’ folcloristico del mio “giudeo-italiano,” forse dalla reciproca familiarità, per aver condiviso molte ore sugli stessi testi.
In effetti, fuori dalle pagine di filosofia, ho scoperto un’altra faccia di Tomer. Non condivido alcune delle sue opinioni ma apprezzo molto l’integrità e l’onestà intellettuale di questo giovane, atipico israeliano che ama mettere in discussione anche quei principi identitari, come il “sionismo,” che si danno comunemente per scontati e che anzi si credono difesi strenuamente con la violenza e le bombe, mentre invece hanno esattamente bisogno di questo: una discussione appassionata sui principi fondanti dello Stato d’Israele, senza alcun sospetto distruttivo bensì, come recita il profeta, “per amore di Sion non tacerò” (Is 61:1). Cominciamo, dunque.
Ciao Tomer. Ti puoi presentare brevemente? Sei un israeliano e studi filosofia a Berlino. Posso chiederti perché hai deciso di fare filosofia e perché hai deciso proprio di studiarla in Germania? C’è una qualche connessione?
Studio letteratura e filosofia a Berlino. È stata una decisione che ho preso all’ultimo momento, prima di presentare i documenti in ufficio. Non ero venuto in Germania per studiare. Volevo studiare e volevo andare in Germania: le due cose hanno semplicemente coinciso. Ero qui prima di cominciare con gli studi e forse ci resterò anche quando avrò finito. Penso che quello che si insegna in classe in Germania sia relativamente compatibile con i miei interessi. Nei paesi di lingua inglese predomina invece la filosofia analitica e questo la fa assomigliare un po’ alla matematica. Penso che la filosofia, nonostante tutti i tentativi da parte della scuola analitica, riguardi proprio tutti i settori pratici delle vita, questioni esistenziali, di genere, politica, economia, psicologia e critica letteraria, ad esempio. La filosofia abbraccia tutte queste questioni e vi pone delle domande “dall’esterno,” domande che non si possono porre “dall’interno.” Anche in Germania c’è una attrazione per l’America, in tutti i settori, anche lì, nella filosofia. Peccato… In ogni caso trovo gli studi relativamente appaganti e soddisfacenti.
Quindi ami la filosofia continentale… Pensi che l’educazione filosofica influenzi la tua concezione della tua “identità ebraica,” oppure preferiresti chiamarla “identità israeliana”? Ti pare che ci sia una differenza tra “l’identità ebraica” e “l’identità israeliana” visto che sei un ebreo nato e cresciuto in Israele?
Preferisco vedermi come “ebreo” e non come “israeliano.” Si tratta di una definizione con cui mi sento più in pace. La definizione come “israeliano” mi sembra problematica e manchevole. Questa manchevolezza è dovuta soprattutto dalla discussione che si fa sulla questione dell’identità (israeliana). I miei nonni erano nati in Europa. L’educazione che ho ricevuto è “ebraica.” Sono un laico ma comunque sono ebreo. Quindi non so davvero che cosa sia l’identità “israeliana.” Secondo me, si tratta degli ebrei che vivono nella terra di Israele. Se non è così, non sento di farne parte. Sono un “ebreo diasporico” e ne sono fiero.
Secondo me, il fatto di aver assegnato al popolo ebraico una vera e propria estensione territoriale geografica… (a questo punto noto come Tomer stia cercando una lunghissima circonlocuzione per evitare di pronunciare la parola aretz, “terra”, Ndr) l’ha fatto sbarellare. Questo è un popolo che era sopravvissuto per migliaia d’anni solo struggendosi per una terra e, secondo me, questo struggimento ha forgiato proprio quei concetti che hanno reso tale il popolo ebraico. Ad esempio, l’attesa del messia. I cristiani hanno Gesù, i musulmani hanno Maometto. Non abbiamo il messia. È la nostra unicità, proprio il fatto che il nostro messia non sia arrivato e che non arriverà… Una sorta di figura astratta che ci lascia proprio in condizione di guardare al futuro che verrà. Quei popoli di cui è già arrivato “il loro messia” non guardano avanti bensì indietro. Al momento in cui è arrivato loro, alle cose che ha detto e che ha fatto.
Penso che uno Stato ebraico in Israele sia proprio una specie di metafora simile. Qualcosa che non è detto che arrivi sul serio. Qualcosa che forse dovrebbe restare nelle nostre preghiere. A Sion. Per duemila anni abbiamo pregato per Sion e in questo dolore eravamo tutt’uno. Ora abbiamo Sion. Quindi perché pregare? Un ebreo che si strugge per Sion… basta che salga su un aereo e voli fin lì. Lo Stato di Israele gli dà addirittura un passaporto. Non voglio nemmeno addentrarmi in altre questioni fin troppo chiare, cioè che lo Stato di Israele sta traviando la via spirituale del popolo ebraico, che lo sta spingendo ad occupare territori, una condizione che lo corrompe ogni minuto che passa.
Ma c’è dell’altro. Penso che “israeliano” ed “ebraico” al giorno d’oggi, su spinta dello Stato di Israele, siano uno in contraddizione con l’altro. Israele assilla gli ebrei non israeliani, li tratta con disprezzo e razzismo. Se sei un ebreo americano oppure francese che ha deciso di trasferirsi in Israele, sei benvenuto! Abbiamo bisogno di te e dei tuoi sforzi. Ma tutti quegli ebrei che non possono giovare ad Israele vengono gettati giù per le scale… Questo è lo stesso disprezzo e razzismo che Israele ha avuto nei confronti dei miei nonni quando arrivarono dalla Shoah, gli ebrei che arrivarono a pezzi dalle rivolte nei paesi arabi negli anni Cinquanta e Sessanta, ebrei che arrivarono dall’Etiopia negli anni Ottanta o i rifugiati politici dall’Unione Sovietica (persino sopravvissuti dalla Shoah) – che assorbirono tutto il razzismo istituzionale, da quel momento in poi, da parte dello Stato israeliano.
L’hai sempre pensata così oppure le tue opinioni politiche sono cambiate quando hai deciso di studiare e vivere in Germania?
Quando ho lasciato Israele mi si è liberata la mente. Prima c’era costantemente un lavaggio del cervello da parte dello Stato, dei media, le scuole, l’esercito, ovunque e sempre. Sono stato in grado di vedere le cose dal di fuori. Ho capito quanto fossero assurde le cose. I media israeliani sono davvero spaventosi. Fanno solo costantemente propaganda. Vedo come gli lavano il cervello. Ora, di recente, hanno deciso di promuovere anche lo “studio della Shoah” nelle scuole. Penso che proprio l’idea di studiare la Shoah al di fuori delle lezioni di storia sia una perversione (sussulto per un momento, trascinato dalle mie idiosincrasie accademiche: Tomer ha usato il termine sotah, generalmente usato per indicare una donna adultera, un termine ora usato nello slang israeliano per indicare un’“adulterazione” di qualcosa. Ndr). Si tratta di una concezione di una cultura comune che affonda le basi sulla morte orribile, sull’orrore e sulla malattia mentale che hanno passato intere generazioni del nostro popolo. È assai problematico che sempre più israeliani vedano la Shoah come una componente centrale della loro identità ebraica. Come se non ci fosse un ebraismo prima del 1939…
Ti metti in disparte e vedi che ogni bambino sa recitarti a memoria i nomi dei campi di sterminio ma non c’è uno di loro ce sia capace di dirti chi siano Rambam (ovvero Maimonide, il grande filosofo medievale, Ndr) o Ramhal (ovvero il grande rabbino italiano e cabalista Mosè Luzzatto, Ndr), che cosa succeda nel libro di Daniele o quale sia il pensiero di Mendelsohn, Gershom Scholem, o in che anno sia avvenuta l’espulsione degli ebrei dalla Spagna.
Questo è uno “Stato ebraico”? Questo è uno Stato il cui tratto distintivo è la Shoah. Lo vedi bene dall’esterno. Questa paranoia nazionale, maniaco-depressiva, collettiva. Dall’esterno vedi che è una gabbia di matti in cui non metteresti la tua testa sana.
In quanto ebreo e in quanto israeliano che opinioni hai sulla Germania e sulla sua colpa storica durante la Shoah?
Secondo me la questione è se l’indagine storica della Shoah debba essere un fatto singolare oppure un evento universale. Se la Shoah è un evento singolare, allora la sua morfologia è unica. Si è realizzata perché i tedeschi erano così e così e perché gli ebrei erano così e così e perché l’Europa era così e così precisamente nell’anno 1939 eccetera eccetera. Secondo questo approccio ovviamente penso che la Shoah non possa ripetersi perché non ci sono più le medesime condizioni e questo è il modo più semplice e irresponsabile per risolvere la cosa. Non si può ridurre la Shoah ad un evento del genere bensì va considerata in relazione al degrado morale della società, come conseguenza di istigazioni al razzismo, ridefinendo costantemente i criteri quotidiani per assolvere ad un compito.
Ad esempio, non credo chela maggior parte dei tedeschi volesse uccidere gli ebrei nei campi di concentramento. Credo che i tedeschi volessero “dare una mano al Paese” (un’espressione che oggi sentiamo ovunque) e qualcuno è andato ad arruolarsi nell’esercito per combattere al fronte e così via. Del resto non credo, contrariamente alla maggior parte della sinistra europea, che la maggior parte degli israeliani voglia opprimere i palestinesi. Penso che la maggior parte di loro voglia essere “buoni cittadini,” Il problema è che è proprio chi sta al governo a decidere che cosa significa essere dei “buoni cittadini.” E queste persone sono razziste e pericolose. Proprio perché hanno il potere.
Per ritornare alla responsabilità dei tedeschi, in ogni caso, questo è ciò che gli è successo alla fin dei conti. Penso che le persone qui siano davvero brave a scrivere ovunque con lo spray “Via i nazisti!” oppure “Contro i nazisti!”, ma non sono poi così bravi a discutere davvero su che cosa significhi essere nazisti.
Un nazista è necessariamente un tedesco? Una vittima del nazismo deve essere per forza un ebreo? Credo di no. Non accuso i tedeschi di oggi per cose che hanno compiuto altre persone settant’anni fa. Li accuso di non trarre le conclusioni da tutto ciò:che ogni forma di razzismo è pericolosa.
Anche il razzismo contro i musulmani è pericoloso. Anche quello verso i Rom. Li accuso di fare manifestazioni contro l’antisemitismo nello stesso momento in cui bruciano le moschee e in cui gli studi mostrano che i Rom sono la minoranza più odiata in Germania. Li incolpo chi tappezza la superficie di monumenti invece di ripulire dalla violenza razzista tutto ciò che sta sotto la superficie.
Se ti consideri un “ebreo e israeliano non sionista,” pensi che sia una buona idea manifestare simili idee estreme (se pensi che siano idee estreme) in un paese così importante e così negativo per gli ebrei, come è la Germania? Non pensi che simili idee potrebbero compromettere la legittimità di esistere e vivere in pace dello Stato di Israele?
Non credo che le mie idee possano mettere in pericolo lo Stato di Israele. Al contrario, penso che Israele dovrebbe sottoporsi ad un piano di riabilitazione. Proprio come i sopravvissuti della Shoah che soffrivano di disturbi psichici hanno avuto bisogno di un trattamento psicologico, quindi così vale lo stesso anche su scala nazionale.
Ma quando la Germania sostiene la politica di Israele viola i diritti umani e perpetua la situazione di conflitto in Israele per la qualche chiede di sacrificare i suoi figli, questa non è riabilitazione. Questo non è sostegno. Questo è come avere un amico alcolista e invece di costringerlo a sottoporsi ad una terapia, gli si acquista dell’altra vodka. Penso che dovremmo sottoporci ad una terapia. Penso che questa sarebbe una vera amicizia. Anche da parte della Germania, anche dell’Italia, anche da parte di qualsiasi Stato – che non metta in pericolo l’esistenza di Israele, che lo salva da se stesso.
Non pensi sarebbe meglio evitare di parlare in pubblico di questioni politiche come queste?
Anzi, più se ne parla, meglio è. Chi meglio di te – come italiano – sa quanto sia pericoloso che una sola parte dello schieramento politico abbia risalto sui media. È importante far sentire anche l’altra parte dello schieramento. Alla fin fine, vogliamo tutti il meglio per l’umanità e non credo che ci siano opinioni che andrebbero censurate.
Come sono state accolte le tue opinioni sul sionismo da parte della comunità ebraica tedesca?
Non penso che nessuno della comunità ebraica in Germania mi conosca personalmente… In ogni caso, credo che la comunità ebraica tedesca abbia molte difficoltà con queste prese di posizione, in particolare prese di posizione contro la singolarità della Shoah. Gli fa molto comodo accusare esclusivamente la Germania. Le loro scuole trovano fondi, ogni loro progetto viene sostenuto solidamente da ogni partito tedesco… È molto comodo così. Disturberebbe molto se qualcuno saltasse su e dicesse, “non bisogna chiedere perdono per la Shoah solo per quanto riguarda gli ebrei ma anche per tutti coloro che hanno sofferto per il razzismo”. Prova a paragonare il budget della Comunità ebraica tedesca con il budget della Comunità Rom oppure la Comunità islamica… È una vergogna. E il fatto che per la smania dei capi della Comunità ebraica tedesca non si è rinunciato al monopolio della “colpa tedesca” porterà alla fin fine a maggior antisemitismo. Le persone sono stanche, c’è una natura corrotta.
Vuoi dire anche qualcos’altro prima di terminare la nostra intervista?
Vorrei far notare che non troppi anni fa, in termini storici, settanta o ottant’anni fa, il mondo ebraico era pieno di idee e di movimenti politici. In parte sionisti, in parte non sionisti. Una volta c’era l’organizzazione Bund(“legame”), ad esempio. Una delle più grandi ingiustizie che la Germania e Israele stanno facendo oggi agli ebrei è quella di diffondere un unico diffondere solo un unico parere ebraico nel mondo. Come se non potessimo pensare in termini non nazionalisti. E come se tu dicessi che tutti gli italiani la pensano “Forza Italia.” Questa è un’affermazione razzista. Il mondo ebraico ha bisogno di far ricrescere diversità politica all’interno di esso e ha bisogno che (capisca che) il sionismo degenera quando elimina i suoi avversari, sfrutta la Shaoh e il resto del mondo. Persino anche nelle le espressioni tedesche attuali “antisionista” significa “antisemita,” come se “sionista” e “ebreo” fossero la stessa cosa.
Questo fenomeno è pericoloso anche dal punto di vista pratico visto che Israele e la Germania (e l’Occidente) mescolano volutamente i termini “ebreo”, “Israele” e “sionismo”. Penso che sia un’ipocrisia pericolosa se questi termini, “ebreo” e sionismo, “non vengono tenuti separati e se Israele continuerà ad agire violando i diritti umani, bombardando i quartieri residenziali e molto di più: si prevede per gli ebrei un antisemitismo di nuovo tipo.
Se il precedente antisemitismo era immediato (“odio per gli ebrei perché sono ebrei”), allora questo sarà mediatissimo. Se Israele finge di assumersi la responsabilità per gli ebrei di tutto il mondo, dovrà valutare seriamente la situazione in cui li pone…
La nostra conversazione si conclude così. Guardo un po’ sorpreso Tomer. Sapevo delle sue posizioni radicali, ma non l’avevo mai sentito parlare così esplicitamente. Non mi sarei aspettato che questo mite studente di filosofia, amante dell’Italia e fervido lettore di Hegel, Benjamin e Platone, potesse essere animato da convinzioni così risolute e forti. Ci salutiamo con un abbraccio e ci diamo appuntamento alla prossima lettura comune di filosofia, visto che a volte l’astrazione offre un tenue asilo dalle brutture del mondo.
Moneta: mezzo di scambio per la compravendita, rappresentato da un dischetto metallico. Questo recita il dizionario. La moneta è un mezzo. Purtroppo si è invece da tempo diffusa l’idea di moneta come merce. Questa è una delle tante distorsioni della macroeconomia che stanno influenzando noi, i nostri governanti e di conseguenza le politiche economiche, le decisioni dell’Unione Europea.
E’ necessario capire, a questo proposito, il meccanismo attraverso cui gli stati dell’Ue ottengono il ‘mezzo monetario’: con l’articolo 123 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea – uno dei documenti non sottoposti a referendum nazionale – si afferma che la Banca Centrale Europea (Bce), organo incaricato dell’attuazione della politica monetaria per 18 dei 28 Paesi dell’Unione europea che hanno aderito all’euro (Eurozona), non può prestare direttamente agli Stati, ma deve prestare a enti creditizi privati (banche) che, a loro volta, prestano poi la moneta, con tassi d’interesse variabili, agli Stati dell’Unione. Parliamo di numeri ed esempi concreti: la Bce presta la moneta alle banche private (fra cui Unicredit, Mps, Banca Intesa, altri) ora allo 0,05% di interesse, queste prestano denaro agli Stati applicando tassi determinati da criteri di mercato: fino a qualche settimana fa, quando ancora il tasso era dello 0,15%, la Germania ha ottenuto la moneta euro a circa l’1% di tasso d’interesse, l’Italia al 4.75%, la Spagna circa al 7%, fino ad arrivare alla Grecia con il tasso record del 17% (nei momenti più difficili).
E’ fin troppo chiaro che gran parte delle difficoltà economiche in materia di risorse e debito pubblico sono causate anche da un’impostazione distorta dell’Eurozona. E capiamo altrettanto bene che in questo modo la moneta non è considerata più un mezzo sovrano per dare corso a progetti di sviluppo a beneficio dei cittadini ma una merce, soggetta a speculazioni finanziarie dei colossi privati grazie all’applicazione dei tassi d’interesse. L’adozione della moneta unica euro, nel 1999 con il governo D’Alema, ha determinato l’asservimento dell’Italia ai parametri prima descritti. Proviamo ad immaginare la moneta come ossigeno e la Banca d’Italia, con cui l’Italia aveva ancora diretto controllo sul proprio credito (in “soldoni” poteva decidere quanta moneta emettere), il polmone. La classe dirigente (italiana ed europea) d’allora ha deciso di privare l’Italia e ogni Paese aderente all’Eurozona del proprio polmone e di attaccarsi ad un polmone artificiale estero (Bce) su cui l’Italia non avrebbe avuto più controllo. Perché privarsi del proprio polmone e attaccarsi ad un meccanismo estero, che potrebbe un giorno non essere più dalla parte dei cittadini ma potrebbe favorire esclusivamente gli interessi dei colossi della finanza? Questo è un meccanismo estremamente pericoloso perché ci espone agli interessi delle banche private che decidendo con l’appoggio politico di speculare sui tassi d’interesse, sul prestito della moneta (l’ossigeno), sulle ‘crisi’ dei paesi più deboli, drenando beni reali in cambio di moneta creata dal nulla ed emessa nel sistema. E’ questa scarsità di presenza del mezzo monetario nell’economia reale (le immense e disastrose iniezioni che Draghi, descritto dalla stampa economica mondiale come il peggior banchiere centrale di tutti i tempi, restano nelle banche, che non erogano credito in situazione di ‘crisi’) che non permette la fondamentale remunerazione della laboriosità del nostro Paese e distrugge la capacità d’acquisto del cittadino e lo Stato sociale italiano. Quindi non si stupisca chi legge che il tasso di disoccupazione è arrivato al 12% (che è solo una media) o che l’Italia è nella famigerata deflazione.
Ripetiamolo allora, perché gli euroburocrati e i politicanti del nostro Paese non vogliono, o non hanno l’interesse a capirlo:
Il denaro non è una merce, ma una convenzione sociale, un mezzo.
Lo Stato dispone del credito, non è quindi necessario che si indebiti. Deve semplicemente spendere a deficit con moneta sovrana (anche l’euro andrebbe benissimo se lo diventasse), per remunerare la produttività di famiglie e imprese in azioni e progetti concepiti per lo sviluppo della collettività (non certo per arricchirsi in modo fraudolento).
Questi i capisaldi postulati da Ezra Pound, pensatore statunitense, nel 1933, ma condivisi da economisti del calibro dei premi Nobel Paul Krugman, Joseph Stiglitz, Milton Friedman e tanti altri.
Lo Stato deve quindi riacquistare la propria sovranità monetaria, ottenendo nuovamente il diritto di decidere sulla propria politica monetaria, calibrando l’iniezione monetaria nel Flusso circolare (J.M. Keynes) con tasse e finanziamenti.
Ma, se gli italiani non volessero uscire dall’Eurozona, anche dopo aver capito le distorsioni e le menzogne del sistema euro, si può fare ancora qualcosa. C’è una soluzione? Sì, ce la suggerisce il comma 2 dell’articolo 123 del Tfue: il governo può creare una banca di proprietà statale che lo finanzi. Il sistema è semplice: la Bce crea il denaro (dal nulla, va ribadito) e lo presta alla banca pubblica allo 0,05% e la banca pubblica lo presta allo Stato magari anche con un interesse dello 0,50%, ma non con l’attuale tasso del 4% (nel caso dell’Italia). Su 2.000 miliardi di debito pubblico nel nostro paese arriveremo a risparmiare 70-80 miliardi l’anno. Così funziona già da tempo in Germania e in Francia con banche pubbliche create ad hoc che sostengono l’economia reale, gli investimenti della rete di imprese nazionali, mentre in Italia nonostante sussistano le condizioni per operare in questo senso, non si è fatto ancora alcun passo… Perchè? Conflitti di interesse? Strapotere degli Istituti di credito e delle lobby finanziarie? Forse a pensar male non si fa peccato (diceva un vecchio “signore” della politica italiana), sta di fatto che proprio in questi ultimi mesi l’ex ministro all’Economia Vittorio Grilli (governo Monti) è approdato in JP Morgan, uno dei più grandi istituti finanziari, gli stessi che poi speculano sulla crisi indotta. E’ solo uno dei tanti casi di assunzioni, o meglio ‘promozioni’ di esponenti politici e manager pubblici. Le strade per uscire dallo stato letale di recessione (in realtà ci stiamo avviando al processo di deflazione) sono molteplici: banca nazionalizzata o uscita dall’euro, la scelta è politica, ma almeno si faccia qualcosa per le nostre aziende che non hanno risorse e per i cittadini che devono fare i conti con l’Euro, ogni giorno.
Negli ultimi anni, il numero dei giornalisti della carta stampata tradizionale (parliamo, in particolare, dei quotidiani) è diminuito sensibilmente, ad esempio, negli Stati Uniti è passato da 54mila nel 2006 a 38mila nel 2012, ovvero una riduzione del 30%. Lo stesso è avvenuto per i periodici, con una diminuzione, negli ultimi 10 anni, di circa il 26% (fonte: American society of newspaper editors, Pew research center). Al contrario, la stampa sul web ha conosciuto un forte incremento, con l’aumento anche dei posti di lavoro, soprattutto nelle piccole strutture con vocazione “locale”, ossia in realtà che non coprono ogni tipo d’informazione ma che si concentrano sulla volontà di colmare le lacune della stampa locale e, talora, del giornalismo d’investigazione. I nuovi media sul web non esitano ad assumere giovani, scommettendo sulla loro conoscenza delle nuove tecnologie e la loro apertura e naturale predisposizione alle innovazioni. Gli “anziani”, ovviamente, continuano ad apportare la loro fondamentale esperienza e devono correttamente integrarsi con i primi, in un proficuo scambio reciproco. La formazione dei giornalisti tradizionali non sembra più adatta e adattata a ciò che il pubblico ricerca su internet, e per questo bisogna investire, bene e molto. Per troppo tempo, poi, i media hanno considerato Internet come secondario rispetto al cartaceo e hanno, pertanto, trascurato questo nuovo (e affascinante) mondo (ancora oggi certe redazioni hanno team separati per il web e il cartaceo). Questo non ha certamente aiutato a prepararsi a una rete che oggi conduce i giochi e occupa la scena in maniera preponderante. Ma anche a essa bisogna prestare la dovuta attenzione e prendere con cautela quello che, ormai, strumenti come Google ci preconfezionano, in termini di notizie e non solo.
Quando si usa e si lavora con un motore di ricerca, bisogna sapere che spesso articoli e notizie non sono state oggetto di adeguata analisi e controllo da parte dell’autore (tanto per contenuto che per fonti) e che, spesso, il redattore che prepara un testo “adatto” alla rete si basa principalmente sul numero di richieste e ricerche fatte, da parte degli utilizzatori di Google, per una determinata serie di parole chiave, e, sulla base di ciò, pubblicherà per avere visibilità sulla rete e migliorare la sua “referenzialità”. Fino quando Google avvantaggerà la quantità di pubblicazioni rispetto alla loro qualità, il giornalismo web sarà questione di robot e l’informazione di scarso livello. Carefully, dunque. Tutti noi che scriviamo.
Allora, quale potrà essere l’avvenire del giornalismo sul web e quali le regole per assicurarne qualità e pari dignità con quello cartaceo? A nostro avviso, il futuro di questo tipo di scrittura può essere davvero roseo, a condizione che le redazioni tengano conto di alcuni principi basilari. Eccone alcuni, ma la riflessione resta, ovviamente, aperta.
LA TECNOLOGIA. Il mondo del giornalismo web può cogliere una grande opportunità dalla tecnologia, soprattutto in termini d’interattività dei contenuti che rendano i testi più dinamici e vivaci. La creatività avrà un ruolo fondamentale in questo, perché non si tratterà più solo d’informare ma di trattare l’informazione con originalità.
L’ORIGINALITA’, dunque. Questa va ricercata nei contenuti, nelle forme e nelle immagini. Una buona comunicazione innovativa tramite belle immagini e video potrà stimolare l‘attenzione dei lettori che solitamente consultano rapidamente le notizie. La fotografia di qualità potrà aiutare molto e accompagnare i testi. Un team ampio, composito e variegato può essere poi un fattore importante di successo di una testata. Ma allora, non ci orientiamo forse verso un’informazione di nicchia? Non vale la pena riflettere sempre di più all’idea di “glocal”, ossia nel voler creare informazioni e servizi per un mercato globale-internazionale ma modificate e adattate alla nostra cultura e ai bisogno locali?
LE FONTI. Il web ha dimostrato recentemente che spesso l’assenza di controllo delle fonti può comportare conseguenze importanti. I siti “hoax” (bufala o satirici) oltre che la manipolazione dell’informazione a fini propagandistici (si vedano il caso Isis-infibulazione obbligatoria per le donne che si è dimostrata una “bufala” della rete partita da un non ben identificato tweet) possono essere molto pericolosi se non gestiti con attenzione. Il giornalista che opera sulla rete deve, pertanto, prestare particolare cura alla verifica delle fonti e non basarsi unicamente sulle agenzie stampa o le notizie sul web. D’altra parte, non deve perdere la sua buona abitudine a partecipare agli avvenimenti direttamente e in prima persona.
LA FORMAZIONE. Come già accennato, la sfida attuale del giornalista è anche quella dal formazione alla scrittura sul web. Bisogna essere capaci di redazione efficace anche per la “referenzialita” ma senza perdere il proprio stile. Pur con regole che sostanzialmente non cambiano, va oggi assicurato il tandem fondamentale qualità tecnica e qualità redazionale.
IL CONSUMATORE. Bisogna concentrarsi sempre più su di esso e comprendere le esigenze del lettore e fornire un giornale adeguatamente pensato (il caso, ad esempio, dei giornali gratuiti per i passeggeri dei mezzi pubblici).
IL MODELLO ECONOMICO. Se i media online creano posti di lavoro, il modello economico adeguato per supportare le redazioni web è ancora difficile da identificare. Il contenuto editoriale, il community management e i costi di gestione del sito richiedono investimenti importanti. Bisogna spostarsi gradualmente verso fonti diverse dalla pubblicità, dalla quale i media dipendono ancora per circa il 70% e diversificare le entrate. Alcuni hanno trovato la soluzione nel crowdfunding, che spesso permette di finanziare reportage, articoli e lo sviluppo di certe piattaforme. Ma da sola questa fonte non basta. Alcune testate hanno provato la formula degli abbonamenti a pagamento, ma solo i giornali a grande diffusione e noti possono permettersi questa scelta. L’ultima strategia è pubblicare inserti pubblicitari in forma di articoli, ossia individuare attività di grande interesse per la collettività e produrre servizi che fungano anche da promozione per l’azienda, ente, associazione, ecc., naturalmente evitando il rischio di confondere il confine che separa la pubblicità dal giornalismo. Andrebbe riflettuto sulla nozione di servizio, forse, e diversificare le entrate con nuove idee.
IL BUON USO DEI SOCIAL NETWORK. I social network vanno utilizzati in maniera intelligente per evitare la saturazione del lettore e quella che qualcuno definisce “infobesità”. La distribuzione dell’informazione va, dunque, dosata in termini di qualità e quantità. Non va dimenticato che il cittadino-lettore oggi fa parte, ormai, di quello che viene chiamato il “giornalismo cittadino” o “sociale”, contribuendo lui stesso a fare la notizia e a influenzarla. Il sistema di commenti e suggerimenti dei social (da Facebook a Twitter) si è, poi, dimostrato uno strumento molto utile per fidelizzare gli internauti. Si può anche ragionare sulla creazione di un social network proprio alla testata che non sia, tuttavia, una semplice raccolta di commenti ricevuti.
I TABLET. Il numero dei tablet è in forte aumento: nel 2017, ne saranno in circolazione circa 383 milioni. Le edizioni vanno adattate a questo formato e la fidelizzazione del lettore tablet va studiata e migliorate. Siamo sempre più abituati ormai a leggere notizie, libri e testi vari suo nostri ipad o samsung, fra un aereo e l’altro, un treno e l’altro, al bar in pausa davanti a un cappuccino, su una panchina al parco. Dobbiamo avere fantasia, inventare, pensare.
Bisogna sempre mantenere alte le parole chiave del giornalista, informare, interpretare e divertire (aggiungerei incuriosire), ma cambiando il modo di lavorare. Altre idee?
Qualche giorno fa Benigni, intervenendo in un noto talk show televisivo, ha invitato ad avere fiducia nel futuro. Penso che un tale messaggio sia giunto come rassicurante, supportato dalla buona reputazione di un personaggio che ha saputo costruirsi un’immagine positiva anche dosando la sua presenza sulla scena mediatica.
Credo che la prima condizione per guardare al futuro con fiducia sia quella di restare in sintonia con il tempo presente, non per assecondarne ogni piega, ma per comprenderlo. Non vi è dubbio che questa condizione è più difficile oggi, perché il salto che distingue questo tempo da quello che hanno abitato le generazioni mature è rilevante. La differenza investe non ‘banalmente’ questioni di valori, quanto nodi strutturali, a partire dal fatto che viviamo in uno scenario globale che amplifica la competizione tra Paesi e culture e produce nuovi conflitti.
La seconda questione, che amplifica gli effetti della prima, è rappresentata dalle tecnologie della comunicazione che fanno del mondo un piccolo villaggio interconnesso. Gli effetti delle tecnologie vanno ben oltre la diffusione rapida delle informazioni, ma investono tutti i nostri ambienti di vita, mettono in crisi tecniche e competenze, con i ben noti effetti sulla occupazione, sfidano schemi di pensiero, modelli di trasmissione del sapere e contesti dell’apprendimento e molto altro. Le tecnologie generano un’attesa di strumenti di previsione e nel frattempo enfatizzano la delusione circa la stessa di possibilità di controllare quanto accade. Cresce l’incertezza, paradossalmente fondata proprio sul mito prometeico del controllo.
Intanto, in primo piano gli individui con il loro carico di attese soggettive, di desideri di protagonismo, di istanze di visibilità e che talvolta scambiano la possibilità di esprimere opinioni e di partecipare al mondo della chiacchiera in rete, con la capacità di interpretare gli accadimenti. I commenti sul referendum in Scozia ne sono un esempio. Galleggiamento e pressapochismo non ci aiutano a ricostruire la fiducia in un futuro che davvero non è quello di una volta, per riprendere una vecchia battuta.
La percezione di una discontinuità con il passato credo che sia stata sempre vissuta: tutte le generazioni probabilmente hanno avuto una percezione simile del cambiamento intervenuto durante il loro tempo di vita. Tutte hanno considerato il cambiamento come espressione del degrado intervenuto rispetto ad un’età migliore (quella della loro infanzia). Persino Socrate tuonava contro la scrittura in quanto imbrigliava la capacità del pensiero di esprimere, in quanto vivo e non solidificato nel linguaggio scritto, tutto lo spessore di una riflessione che deve restare aperta.
Oggi, però, è vero che il futuro non è più quello di una volta, forse come poche altre volte è accaduto nella storia. Il web è diventato il nostro nuovo ambiente di vita. Non è una faccenda che riguarda il tempo libero, né solo il lavoro, ma investe il rapporto tra immaginazione e funzioni cognitive, tra tempo e spazio e molto altro. Di questo cambiamento almeno gli educatori dovrebbero avere consapevolezza.
Maura Franchi (sociologa, Università di Parma) è laureata in Sociologia e in Scienze dell’educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing e Web Storytelling, Marketing del prodotto tipico. I principali temi di ricerca riguardano: i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@gmail.com
STORIA DELL’INDUSTRIALIZZAZIONE FERRARESE (TERZA PARTE)
Dopo la caduta del dominio napoleonico e con la restaurazione della potestà pontificia, l’economia ferrarese sembrò valorizzarsi grazie alla felice collocazione della città sul nuovo confine del Po. Basti pensare al porto di Pontelagoscuro, che vide intensificarsi sensibilmente il traffico di burchi da trasporto che scendevano e risalivano il fiume con vari prodotti agricoli e minerali.
Nel 1850, il segretario della Camera di Commercio Filippo Maria Deliliers pubblicò i suoi “Cenni statistici della provincia di Ferrara”, una interessante ed esaustiva indagine sull’economia e sulla società ferraresi, che andava ad aggiungersi alle analisi date alle stampe nel 1845 da Andrea Casazza nel suo “Stato agrario economico del Ferrarese”. I Cenni statistici del Deliliers riportano alcuni elementi di novità, in merito alla condizione economica ferrarese, che vale la pena di ricordare: «Il mondo agricolo ferrarese era ormai in pieno movimento, nonostante le tendenze economiche generali del periodo della Restaurazione non fossero favorevoli e volgessero piuttosto al ristagno. L’amministrazione comunale aveva accolto in qualche misura le istanze di progresso che si levavano dalla borghesia agraria e si era fatta promotrice della fondazione di un Istituto agrario, con annesso podere sperimentale, e di una Società agraria che, sotto il titolo di Conferenza Agraria, raccoglieva oltre un centinaio di soci»*.
Piuttosto modeste erano al contrario le attività manifatturiere, sebbene non mancassero segnali incoraggianti, come ad esempio l’impianto di una fabbrica di vetri e cristalli realizzata dal piemontese Giovanni Battista Brondi e di un’altra di cremor tartaro fondata da Costantino Bottoni, divenuta, quest’ultima, in breve tempo la terza per importanza nell’intero Stato pontificio. Grande successo riscosse invece l’opificio di Pontelagoscuro, costruito dal triestino Carlo Luigi Chiozza, per la produzione di saponi da toeletta. Ma la più eclatante novità, per la crescita dell’economia ferrarese, fu la straordinaria espansione del mercato interno ed estero relativamente alla coltivazione e alla lavorazione della canapa. Lo smercio di tale prodotto si allargò, soprattutto per merito della Comunità israelitica locale, fino alla Germania, all’Inghilterra, all’Impero asburgico. Il principale centro di produzione canapicola divenne il comune di Cento, per quantità e qualità del prodotto e per quantità degli operatori dediti alla filatura e alla tessitura.
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* F. Cazzola, Economia e Società (XIX-XX secolo), in F. Bocchi (a cura di), La Storia di Ferrara, Poligrafici Editoriale, Bologna 1995.
“Meno male è lunedì”. A pronunciare questa frase può essere solo uno stakanovista oppure un amante del suo lavoro, come Filippo Vendemmiati, giornalista ferrarese, dal 1987 in forza alla Rai Emilia Romagna e da qualche anno regista di documentari, tra cui ‘E’ stato morto un ragazzo’ e ‘Non mi avete convinto’. A dire “Meno male è lunedì” sono però , anche un gruppo di detenuti della Dozza di Bologna, protagonisti del nuovo film di Vendemmiati, la cui uscita è prevista in autunno. Il regista, già premiato in carriera con il David di Donatello, ci apre le porte ad una realtà innovativa in Italia: la palestra del carcere diventa un’azienda specializzata, è il progetto Fid (Fare impresa alla Dozza) nata dall’idea di tre aziende bolognesi (Gd, Ima e Marchesini group). Così, per 13 detenuti è scattata un’assunzione a tempo indeterminato.E grazie ad alcuni operai in pensione che fanno loro da tutor, imparano a produrre componenti meccaniche ad alta tecnologia destinate al packaging.
Ha vissuto un’esperienza inedita durante le riprese del tuo ultimo documentario “Meno male è Lunedì”, non capita a tutti di passare del tempo con i detenuti, cosa le è rimasto dopo questo incontro?
E’ stata un’esperienza umana molto forte, sapevamo che da parte loro c’erano delle paure nel farsi riprendere, e invece poi questa diffidenza si è sciolta e si è creato con loro un rapporto solido, contagioso. Non mi sono trovato di fronte dei detenuti bensì dei colleghi di lavoro in uno spazio di libertà molto particolare che è questa officina all’interno del carcere.
Ha girato un film su Pietro Ingrao, potendo conoscere da vicino un simbolo del Pci. Dietro il personaggio che uomo si è trovato di fronte?
Non avevo mai conosciuto personalmente Pietro Ingrao, è una figura che ho sempre visto da lontano, ho letto i suoi libri, avevo ascoltato i suoi comizi. Ho sempre avuto la percezione di una persona dotata di una grandissima umanità e di una grandissima capacità di ascolto. Durante il nostro incontro, mi ha colpito quanto Ingrao fosse capace di ascoltare, tanto da trasformare l’intervista in un dialogo, voleva sapere se i suoi ragionamenti, le sue parole mi convincevano oppure no. Caratteristica poco comune nei politici di oggi, che parlano e che promettono, ma che purtroppo, ascoltano molto poco. Mi ha stupito trovare di fronte una persona che nonostante l’età, è così attenta ed acuta nei ragionamenti , molto curiosa e piena di dubbi, che non ragiona per sicurezze. Quando gli abbiamo comunicato il titolo del film: “Non mi avete convinto, Pietro Ingrao un eretico”, lui era molto contento, sentirsi definire un eretico per lui è un elemento che da valore al suo pensiero non è un offesa.
Lei ha vinto il premio David di Donatello per “E’ stato morto un ragazzo”, da ferrarese cosa ha significato questo film?
Mi sono limitato a raccontare quello che è successo e quello che la giustizia aveva accertato. Non è un’inchiesta giornalistica, lo considero il racconto di una tragedia in 90 minuti. E’ un lavoro che mi è rimasto molto dentro e che giudico importante per la storia e non per me. Credo di aver dato un piccolo contributo alla dignità di un ragazzo e alla definitiva affermazione della verità, seppur con molti contrasti. Per questo ho rifiutato altre proposte che in qualche modo intendevano proseguire questo tipo di lavoro, su Aldrovandi stesso o su altre vicende analoghe. Mi hanno proposto di ricavarne una sceneggiatura cinematografica, ma il forte livello di coinvolgimento personale su questa storia e il forte rapporto di fiducia reciproca con la famiglia Aldrovandi mi hanno suggerito di evitare questa strada.
Quali sono i prossimi progetti di Filippo Vendemmiati?
Nel mio cassetto ci sono tanti progetti, alcuni in fase di stallo, altri già scritti e in fase più avanzata, ma non sempre i progetti e le idee si realizzano. Siamo in un periodo in cui fare cinema e fare documentari è tremendamente difficile. Avere un’idea, scrivere una sceneggiatura oggi è il problema minore, il problema è poi riuscire a distribuirlo ad ottenere visibilità nei festival del cinema , ad avere contratti con le reti televisive. Un mercato difficilissimo. Il mio prossimo progetto è terminare “Meno male è lunedi” e quindi accompagnarlo in giro per l’Italia e per festival.
Quanto è difficile oggi, con la crisi economica che ha colpito anche il mondo dei media, approfondire certe tematiche e decidere di fermarsi per raccontare una storia?
Le forme di diffusione oggi sono aumentate grazie alla rete, ma questo non corrisponde a fruibilità maggiore, anzi sono convinto che questo flusso di offerta alla fine si traduca in un grande minestrone in cui tutti i settori sono uguali e fai fatica a distinguere le inchieste documentate, che richiedono mesi di lavoro, da altre che spesso si rivelano bufale vere e proprie, c’è un mercato molto inquinato. Per fare un’inchiesta occorrono mezzi, ma soprattutto tempo. La velocità con cui oggi si muove l’informazione televisiva e della carta stampata, è nemica dell’approfondimento e dell’onestà, ma soprattutto è nemica della chiarezza.
Ha dichiarato in un’intervista rilasciata al Blog di Beppe Grillo che il giornalista è “un lavoro che ti piace sempre meno”, perché?
Premetto che non è il mio intento, quello di stabilire delle regole e dare dei giudizi, ci sono giornalisti bravissimi che fanno il loro lavoro con grande serietà, alcuni dei quali perdono anche la vita per questo mestiere. La mia è una critica che deriva dalla mia posizione, sono molti anni che faccio questo mestiere e sono un po’ stanco, delle dinamiche e di come si è trasformato in particolare il giornalismo televisivo.
Provi a spiegarsi meglio, cosa non le va giù?
Le racconto un aneddoto, il film di Aldrovandi è nato anche dall’esigenza di trovare gli strumenti, degli spazi e dei tempi diversi, dal normale lavoro di cronaca, per raccontare una storia che secondo me meritava di essere conosciuta. Un produttore Rai a quel tempo mi disse: “Ma che cosa vuoi che interessi alla gente di una piccola storia successa a Ferrara?”. Si sbagliava clamorosamente, perché il documentario continua ad essere visto, continuano a chiedermi di mandarlo in giro, e da quando è liberamente fruibile su Youtube e su Vimeo, abbiamo avuto tantissime visualizzazioni. Tutto ciò dimostra che non è solo una “piccola storia successa a Ferrara”.
A proposito di Ferrara, che rapporto ha con la sua città natale?
Ho ancora un legame molto forte, è la città dove sono cresciuto, ancora oggi quando qualcuno mi chiede dove abito rispondo a Ferrara, anche se sono 30 anni che vivo a Bologna, ho ancora questo lapsus. Andare a casa per me significa tornare a Ferrara e quando ci vado, ho sentimenti molto contrastanti. La giudico una città di una bellezza straordinaria da un punto di vista architettonico, ma anche una città molto chiusa e molto difficile. Dove molte persone, anche intellettuali di livello, non sono riusciti ad avere i riconoscimenti che meritavano e che han trovato in altre città, penso al mio grande amico recentemente scomparso Stefano Tassinari. Anche nel caso Aldrovandi è una città che ha risposto con una sua verità, l’allora sindaco e le istituzioni, hanno dimostrato di essere civili, più aperti e più attenti di una parte della sua popolazione, che ha vissuto questa storia come pubblicità negativa.
Parliamo di un suo grande amore: il pallone e la Spal, come si vive il calcio in provincia?
Per dirla alla Arrigo Sacchi: “la Spal è la cosa più importante tra le cose meno importanti della mia vita”. Ho una malattia vera nei confronti di questa squadra e di questi colori. Ho saltato solo un anno, subito dopo il fallimento, era davvero troppo per me. Poi non sono riuscito a restarne lontano, e lo scorso anno, ho vissuto con grande patema la promozione in Lega Pro girone unico, giunta all’ultima partita. Amo i campionati minori, se la Spal fosse in serie A, per me sarebbe come rompere un giochino perfetto. Anche se il calcio moderno purtroppo, è arrivato a rovinare anche i campionati minori, assistiamo al cosiddetto calcio spezzatino anche in serie C (sì, so benissimo che si chiama Lega Pro, ma preferisco continuare a chiamarla così) non si sa più quando si gioca: alle 17 del venerdì, o il sabato alle 12, è un affronto, una vigliaccheria nei confronti dei tifosi. La domenica pomeriggio era un momento sacro per vivere lo stadio, è come se il Papa, decidesse che la messa non si fa più la domenica mattina, ma il lunedì. Per giunta alle tre del pomeriggio, è assurdo.
Pietro Fenoglio è un uomo di dettagli e sensazioni. Il maresciallo Pietro Fenoglio è uno sbirro che cerca la verità, spesso mutevole, e le va incontro, come uno scrittore con una storia. Sì perchè il buon investigatore si muove come chi scrive, entrambi hanno in mano, cioè in testa, una storia, lo scrittore la deve forgiare e l’investigatore la deve immaginare e ri-costruire. Lo scrittore gioca di fantasia e l’investigatore pure, se non avesse fantasia non potrebbe ipotizzare ciò che non sa, pensadolo plausibile a partire dagli indizi, per poi andare a caccia di conferme. Regola di indagine e di vita per Fenoglio, è mai smettere di fare domande, agli altri e a se stessi.
Il maresciallo Pietro Fenoglio di indizi ne ha, c’è un giovane sospettato quasi indifendibile, una testimone credibile, l’arma del delitto sporca di sangue e le impronte digitali. Eppure questa verità non appare completa, Fenoglio sente che manca qualcosa, c’è una “sensazione sfuggente” che scombussola il quadro d’insieme.
Sembra l’indagine perfetta, tutto si incastra, ci si potrebbe anche fermare lì, se non fosse per “quel disagio” che il maresciallo prova, come quando sembra che manchi la parola giusta o che ci sia un odore nell’aria già sentito, ma difficile da definire, quasi inafferrabile.
Pietro Fenoglio procede così, è uno che cambia il ritmo, difficile per gli altri seguirlo, alla verità ci arriva anche tramite un profumo che gli rimane impresso, perchè il bravo sbirro non solo vede, ma percepisce, ascolta, coglie.
Guai se un investigatore si innamorasse della sua ipotesi senza cercare tutto ciò che potrebbe anche confutarla, oltre a tutte le prove per confermarla.
È bastato, a Fenoglio, cogliere il tono, l’inclinazione della voce nelle poche parole pronunciate dalla ragazza durante l’interrogatorio per procedere nella direzione di ciò che era fuori posto, prendere la strada giusta, quella della verità, e scoprire tutto l’amore che ci stava dietro a quello squallido omicidio.
Una mutevole verità di Gianrico Carofiglio (Einaudi Stile Libero, 2014) è stato scritto in occasione del bicentenario dei Carabinieri, la storia è vera e il maresciallo Pietro Fenoglio, quando è andato in pensione, si è iscritto all’università.
SEGUE – La partecipazione è questione connessa a uno slancio che proietta l’individuo in un movimento, o comunque in una dimensione collettiva; rimanda al senso di responsabilità soggettivo e presuppone la coscienza di un sé come parte di una totalità, implica la volontà di essere protagonisti attivi nello spazio pubblico, luogo del confronto e delle scelte. Si misura quindi in prima istanza attraverso la mobilitazione e l’impegno che ciascuno, giorno per giorno, profonde nel sociale, non solo e non necessariamente nella politica e nei partiti (oggi, poi, meno che in passato).
Ma la partecipazione si realizza, concretamente, pure attraverso l’esercizio del diritto al voto. Anche l’indice di affluenza alle urne è, dunque, un buon termometro. E la febbre è alta, rivelatrice di una patologia grave.
La percentuale dei votanti in Italia è calata dal 92,2% delle prime elezioni libere, nel 1948 (voto per la Camera) al 75,2 delle ultime politiche 2013. Sino alla fine degli anni Settanta è oscillata fra il 92 e il 94% (picco più alto il 93,8 del 1953), per scendere a un – comunque ragguardevole – 90,6% del 1979. Nel trentennio successivo si è scivolati progressivamente dal 88% del ’83, al 80,5 del 2008. Il punto più basso invece è quello, già menzionato, del 2013, con il 75,2%. E nelle consultazioni amministrative la situazione peggiora.
Fanno impressione, fra gli altri, i dati relativi agli ‘astenuti’ (schede bianche e nulle) che, sino al 1976, si mantengono fra gli 874mila del 1958 e il milione 211mila del 1968. Ma nel 1979 già superano il milione e mezzo (1.571.610) e nel 1983 sono 2.282.177. Il picco in salita si ha nel 2001, con oltre 2milioni 962mila.
Da notare che nel 1993 decade l’obbligo del voto: ciò che da un lato rappresentava un diritto, fino ad allora era stato contestualmente anche un dovere, la cui infrazione era sanzionata per legge, con annotazione ai trasgressori. La modifica della legge avrebbe verosimilmente potuto determinare, come conseguenza, che coloro che sino ad allora erano andati alle urne solo per adempiere al dovere (scegliendo verosimilmente scheda bianca o nulla), in assenza dell’obbligo se ne restassero a casa, alimentando la schiera dei non votanti. Invece, nel ’94 si ha solo un lieve calo nel numero dei votanti, pari all’un per cento dell’elettorato (poco meno di mezzo milione di cittadini) e ancora un aumento di schede bianche e nulla, 600mila in più rispetto al ’92.
Un sorprendete e inspiegabile calo delle schede non valide (bianche e nulle) si registra invece nel 2006, quando il dato scende a un milione 145mila, con un calo addirittura di un milione e 800 mila dal 2001, l’anno del massimo picco, allorquando bianche e nulle furono quasi tre milioni.
Un tentativo di interpretazione lo fornisce il giornalista Enrico Deaglio con il suo docufilm, ‘Uccidete la democrazia’, in cui ipotizza un tentativo di ‘golpe elettorale’ ai danni del candidato premier Romano Prodi (che vinse, come si ricorderà, con lo scarto minimo dei famigerati 25mila voti, dovuti alle preferenze accordate dagli italiani all’estero), consumato, in ipotesi, attraverso un meccanismo di broglio informatico che avrebbe tradotto le schede bianche in voti al Popolo delle libertà. Ma, alla luce degli esiti del 2008 e del 2013 in cui il numero di bianche e nulle è oscillato fra il milione e 265mila delle più recenti consultazioni e il milione 417mila delle precedenti, la tesi vacilla.
Resta comunque l’evidenza di un tragico calo di affluenza alle urne: di circa 47 milioni di aventi diritto in Italia (tre milioni e mezzo sono i connazionali residenti all’estero) circa 13 milioni non votano, oppure nell’urna inseriscono scheda bianca o nulla.
Nel frattempo i partiti hanno preso ad assomigliare sempre più agli autobus: si sale o si scende secondo convenienza. Un tempo, ricorda un vecchio militante, si aderiva per dare qualcosa al partito. Oggi invece si sceglie il partito in funzione di ciò che lui può dare a me.
Così si giustificano i frequenti cambi di casacca, così si spiegano le stizzite uscite di scena, spesso goffamente mascherate da ragioni di principio.
Gli esempi si sprecano e sono sotto gli occhi di tutti. Per citare un paio di casi recenti e a noi vicini, che sollevano il sospetto di decisioni non proprio disinteressate, ricordiamo come l’ex assessore Luciano Masieri, dopo cinque anni da consigliere comunale e altrettanti da assessore, se ne sia andato piccato, causa la mancata riconferma nel ruolo in Giunta e non abbia rinnova la tessera del Pd, dichiarando alla Nuova Ferrara che “la politica dovrebbe essere servizio, mentre nel Pd si perseguono più gli interessi personali dei singoli che quelli generali del partito”… Però questo l’afferma quando è lui personalmente ad essere escluso.
Qualcosa di analogo sostanzialmente succede in questi giorni con Angelo Storari, del Movimento 5 stelle: viene escluso dalle liste dei candidati per il Consiglio regionale e lui s’indigna e sbatte la porta. Ma, spiega, lo fa perché… ‘c’è del marcio in Danimarca’: “Qualche giorno fa – scrive Storari, che fu fra i fondatori dei Grilli estensi, in una lettera aperta – avevo inviato la mia candidatura online. Oggi scopro che la mia candidatura non è presente”. Assicura di non volerne fare “un fatto personale” ma, spiega, “ciò che trovo inaccettabile e che mi fa arrivare oggi a decidere di chiudere definitivamente la mia avventura politica, è il fatto che alcune piccole lobbies, interne all’M5s, potremmo definirle cricche, con veti e controveti, decidono le sorti di questo o quello. Le antipatie personali, le accuse di protagonismo, ad esempio verso il sottoscritto, erano e restano motivate da una sola cosa, invidia e gelosie». Ecco, dunque, il capo d’imputazione: invidie, gelosie… Che però inducono l’indignato di turno a trarne le conseguenze solo quando ne subisce le conseguenze.
A settembre anche le rose moderne, quelle grandi, un po’ spigolose sui loro gambi dritti, assumono un’aria di particolare dolcezza. Sarà il peso dell’estate che le ha sfinite per il troppo sole o per la troppa pioggia, sarà perché alla fine della stagione vegetativa emergono i caratteri genetici più nascosti, e così anche le rose moderne mettono allo scoperto qualcosa delle parenti più antiche, un po’ come quando invecchi e ti accorgi di assomigliare alla tua bisnonna. Le ultime fioriture dell’anno hanno qualcosa di imperfetto, un languore polveroso che fa pensare ai quadri del pittore francese Henry Fantin-Latour.
Fantin-Latour visse in Francia nei decenni di passaggio tra ‘800 e ‘900. Come tutti gli artisti vissuti in quel periodo contribuì a cambiare il linguaggio delle arti figurative, ma lo fece in modo poco appariscente scegliendo, come firma personale, di dipingere quasi esclusivamente nature morte con vasi di fiori. Da secoli le accademie avevano stilato una lista dei cinque soggetti appropriati alle arti figurative, e in cima alla graduatoria c’erano i soggetti storici e mitologici, molto adatti a simboleggiare i valori civili più alti come la gloria della nazione o la giustizia. La natura morta con fiori e frutti era l’ultima voce in lista perché non poteva essere associata a nessun valore. Le rose dipinte da Fantin-Latour erano un semplice piacere per gli occhi, arte per l’arte senza pretese educative, questo fatto lo rendeva artista al di fuori dei giri accademici e gli garantì comunque una vita agiata, grazie al mercato anglosassone che apprezzava il suo lavoro.
Fantin-Latour stimava e conosceva gli Impressionisti, suoi amici e coetanei, ma preferì dipingere con le tecniche e i colori dei maestri del XVIII secolo, in particolare di Jean-Baptiste Chardin, ripetendo per decenni e in modo quasi ossessivo quadri in cui ritraeva vasi di fiori. Le sue opere sono dei veri e propri ritratti floreali, soprattutto nel caso in cui le rose vengono specificate per la loro varietà. Già da un secolo, in Francia, la coltivazione delle rose era al centro del mercato florovivaistico, un mercato fiorente e all’avanguardia che muoveva soldi a palate, favorito da un delirio che aveva portato le poche centinaia di varietà esistenti, raccolte e collezionate da Giuseppina Bonaparte nel parco della Malmaison, alle migliaia create dai vivaisti francesi e presenti sul mercato europeo alla fine del XIX secolo. Rose, dunque, già protagoniste dei giardini, e poi rappresentate da Fantin-Latour in modo assolutamente classico. In questo modo il soggetto è il solo protagonista della tela, assume qui la solennità di un vero ritratto e il soggetto non viene sopraffatto dalla ricerca di nuovi stili o tecniche pittoriche, come avveniva in quegli anni di grandissime sperimentazioni artistiche. Cosa significa? lo capiamo confrontando un vaso di rose dipinto da Fantin-Latour con uno, per esempio di Monet, o Van Gogh: per loro era più importante dipingere la luce vibrante sui petali, era prioritario il modo di dipingere il fiore rispetto al fiore stesso.
Se i disegni di Pierre-Joseph Redouté avevano fatto conoscere la bellezza della rosa descrivendo le precise differenze tra le forme delle varietà antiche, Fantin-Latour consacra la rosa come fiore protagonista del suo tempo, fiore della modernità, come i treni a vapore, i teatri, le larghe strade urbane, immortalate dagli impressionisti. Rosa ripetuta come soggetto, cambiando solo i dettagli delle composizioni, attraverso un lavoro che possiamo paragonare ad una specie di minimalismo musicale riportato sulla tela.
Fiori morbidi e aperti, colti nel momento perfetto della rosa matura ma non ancora sfatta. Rose dai colori forti, ma sempre smorzati da un velo di polvere di cipria, come fossero sempre illuminati da un luce velata di nuvole, da una luce di settembre.
Sempre più di frequente la scienza, e in particolare quella osteopatica, riconosce il legame tra la zona denti-bocca-mascella e la salute del resto del corpo. Tutte le parti del corpo sono interconnesse e un’anomalia in un punto del corpo, anche se apparentemente irrilevante, non può più essere considerata in modo isolato rispetto al resto. Una mandibola sbilanciata o temporo mandibolare, ossia un disturbo caratterizzato dal malfunzionamento dell’articolazione che collega la mandibola superiore e inferiore, può influenzare, per esempio, la colonna vertebrale.
I disturbi dell’articolazione temporo-mandibolare (Atm) possono essere acuti o cronici, ma solo una piccola percentuale di persone sviluppa significativi problemi a lungo termine. Le donne tendono ad essere colpite da disturbi dell’Atm più spesso degli uomini.
Tra le cause dei problemi articolari vi sono l’artrite, le lesioni e le lussazioni dell’articolazione, oppure un morso non correttamente allineato o una certa iper-mobilità articolare. Stringere e digrignare i denti (anche noto come bruxismo) può causare notevole stress ai muscoli della bocca e delle articolazioni. Le persone che soffrono di stress cronico e ansia, o apnee del sonno, a volte stringono i denti durante il giorno e digrignano i denti durante il sonno, con conseguente dolore muscolare e, naturalmente, danni ai denti.
Assumere una posizione corretta della mascella è fondamentale affinché il resto del corpo funzioni correttamente. Se si soffre di frequenti mal di testa, la causa potrebbe avere origine dai muscoli facciali e da quelli che circondano l’articolazione temporo-mandibolare. Questo dolore muscolare può, in definitiva, portare ad uno squilibrio della posizione della testa sulla colonna vertebrale, generando una postura ricurva o in sovraccarico.
Il peso medio della testa umana è tra i 3,6 e i 4,5 chili, e poggia sulla parte superiore della colonna vertebrale. Quando una persona è curva o inclinata in avanti, porta di conseguenza la mandibola stessa in avanti. Questo si traduce in una modificazione del morso, con i denti che occludono non più correttamente. Il risultato del disallineamento dei denti è che la mandibola è sotto stress.
Il peso della testa in questa posizione in avanti mette a dura prova i muscoli di spalle, schiena, collo e testa. Nel corso del tempo, la cattiva postura e il conseguente squilibrio nei vari gruppi muscolari della testa e del collo, possono portare a un’infiammazione dei muscoli facciali e mandibolari.
Specificando meglio, il disturbo dell’ATM è una condizione in cui non funzionano correttamente le articolazioni mandibolari, che quindi causano stress e dolore nei tessuti circostanti, tra cui i muscoli e nervi del viso, della testa e del collo.
Questi giunti, chiamati articolazioni temporo-mandibolari (ATM), collegano la mandibola inferiore al cranio. Il minimo squilibrio nelle vostre dell’articolazioni temporo-mandibolare, può provocare, in definitiva, una cattiva postura del corpo, una diminuzione della forza e della flessibilità, compromettere la respirazione, ecc.
Facciamo un altro esempio: la lingua è collegata alla mandibola, quando il morso non è allineato la lingua agisce come un cuscino, rimanendo indietro e bassa. Uno squilibrio nel morso influisce sulle dimensioni della bocca, alterandola fino a non essere più adatta alla propria lingua. Se la lingua riposa troppo indietro nella bocca, bloccherà in una certa misura l’aria in entrata nei polmoni e la deglutizione. Una mandibola disallineata inizierà a mostrare segni di usura sui denti, cambiando il morso. Poi iniziano i denti a sfregare uno contro l’altro e si finisce con i denti accorciati, recessione gengivale e una perdita di verticalità.
Di seguito, i sintomi più specifici dell’Atm:
• mal di testa o dolori a mascella, orecchie, collo, spalle e schiena;
• ronzio nelle orecchie;
• un “clic” o un blocco quando si apre o si chiude la bocca;
• difficoltà a mordere;
• gonfiore del viso;
• vertigini.
Quando non si dispone di un morso equilibrato, gli effetti negativi a catena si fanno strada lungo tutto il corpo. Consiglio di rivolgersi ad un osteopata di fiducia che, insieme allo gnatologo o all’ortodontista, valuteranno e opereranno in sintonia per la risoluzione del problema.
Da una settimana “Tutti i colori dello zucchero” è in libreria. E domani, per festeggiare idealmente l’evento e presentarlo ai lettori, in libreria (da Ibs alle 18, con Guido Barbujani e Marco Contini) ci sarà anche il suo autore, Gaetano Sateriale.
Dopo la saggistica ti sei ora cimentato anche nell’arte del romanzo, con una vicenda però che di fittizio – scrivi nella prefazione del libro – ha solo i nomi. Come ti sei trovato nei panni del narratore?
Mi sono divertito a ricordare e raccontare un’epoca ormai lontana. Scoprendo, questo è un fatto non previsto, che mi ricordavo molte più cose di quanto pensassi. Le vicende descritte sono in gran parte vere. La loro rappresentazione letteraria è comunque una deformazione soggettiva. Come sempre, direi. Però mi sono divertito, lo ammetto. E anche emozionato. Ma quello che conta è il giudizio del lettore.
L’epopea degli zuccherifici coincide con una fase – della tua vita e della nostra storia – di forte spinta al cambiamento. Perché non si è riusciti a realizzarlo?
L’epopea degli zuccherifici è molto più lunga delle vicende dell’autunno caldo e dei primi ’70. Me ne parlava mio nonno descrivendomi quelle montagne di zucchero bianco che avrei visto dal vivo molti anni dopo… Il cambiamento nelle fabbriche e nella società c’è stato davvero. Basti pensare alle riforme delle pensioni, della sanità, alla scolarizzazione di massa e al fatto che allora un figlio di operai poteva diventare professore universitario, come è capitato a diversi miei amici… Non c’è stato cambiamento della politica, se non molti anni dopo… E non sempre in meglio. Non possiamo giudicare quegli anni pensando solo alla spinta al rinnovamento. Ci sono state anche reazioni potenti al cambiamento come lo stragismo prima e poi il terrorismo degli anni di piombo.
Molti dei tuoi compagni di lotta di allora (ops, dei compagni di lotta di Enrico, il protagonista) hanno tolto le tute blu e indossato giacca e cravatta, tanti occupano oggi le stanze dei bottoni. Indice della fragilità dei loro ideali di allora e della vulnerabilità dell’individuo alle lusinghe del potere o naturale propensione dell’esser umano ad elevar se stesso? Insomma, questione politica o antropologica?
Mi pare una mitizzazione. La gran parte dei miei compagni di allora sono insegnanti. Hanno mantenuto tutti una forte sensibilità sociale e li puoi trovare in associazioni, movimenti, strutture di volontariato… qualche volta in Consiglio comunale. Ma nelle stanze dei bottoni e che stiano nei ruoli di punta dei grandi partiti politici ne conosco pochi. Anche Enrico, in fondo (tranne una breve parentesi), lavora in Cgil…
Ripensando a quei tempi, quali sentimenti prevalgono in te?
Non ho nessuna nostalgia, se era questa la domanda. Certo, tutti eravamo più giovani, più entusiasti, disposti a metterci in gioco di giorno e di notte per le nostre battaglie e le idee, ma eravamo anche più ingenui. L’atmosfera cupa degli anni di piombo successivi mi impedisce di pensare con nostalgia agli anni del movimento. Certo, a vent’anni eravamo più adulti e più autonomi di quanto non fossero o non siano i nostri coetanei successivi. Ma credo sia capitato a tutte le generazioni che hanno vissuto grandi conflitti collettivi.
Il romanzo ruota anche attorno al caso di un operaio morto sul lavoro e al clima di omertà che circonda la vicenda. E’ il prologo-metafora di altri casi e di altri complici silenzi?
Non direi omertà, rassegnazione forse… Ma anche la convinzione che professionalità voleva dire anche saper trattare un lavoro impegnativo e rischioso senza “farsi male”. Le grandi battaglie sindacali per la sicurezza e la salute sui luoghi di lavoro cominciano proprio in quegli anni anche se le conquiste arrivano qualche anno dopo. Ma già i saccariferi avevano smesso di scambiare rischi con indennità retributive. La campagna saccarifera però era un momento particolare dove tutto era più intenso e orientato a massimizzare la produzione. Tutto il resto passava in secondo piano…
Titolo del libro è “Tutti i colori dello zucchero”, ma qual è la tonalità prevalente?
Le tonalità prevalenti in fabbrica erano il grigio scuro degli impianti, il color giallo scuro della melassa e il blu degli indumenti di lavoro. E il bianco dello zucchero raffinato. Anche il rosso dei tramonti che si vedevano dalle finestre… O il rosso antico delle grandi lotte che c’erano state.
Mettiamola così… Dolce lo zucchero, amara la città: è questa la morale?
Ferrara è una città dolcissima, perché amara? Bellissima, decadente, nostalgica, pigra e contenta di esserlo. Non credo che il Principe di Salina conoscesse Ferrara, altrimenti la sua famosa frase sui siciliani avrebbe potuto anche dirla dei ferraresi.
Allora ci correggiamo sulla morale: tutto resta sempre uguale a prima. Che a ben vedere, forse, è un altro modo per dire la stessa cosa…
E’ al 71 di via Borgoleoni che dal 18 ottobre gli aspiranti attori possono trovare risposta ai loro desideri, imparare e capire se il loro futuro può essere plasmato sulla scena. La prima scuola di recitazione per adolescenti, il Cpa (Centro preformazione attoriale), patrocinata dal Giffoni Film Festival, dal Centro Sperimentale di Cinematografia e per il momento finanziata dal Comune, rappresenta una novità assoluta in tutta Italia.
Due anni di corso, 20 ore di lezione al mese, un saggio finale e al termine del biennio un corto da proiettare al Giffoni festival. Senza contare la possibilità di collaborare con altre realtà europee grazie alle materie insegnate che vanno da dizione, recitazione, danza, canto, improvvisazione a storia del teatro all'”incontro” con la macchina da presa davanti alla quale sono in molti a restare paralizzati se dietro non c’è, appunto, il lavoro d’attore. “Il progetto è nato da un’idea condivisa con un mio ex allievo, l’attore Stefano Muroni che ne sarà il direttore artistico”, racconta Massimo Malucelli dell’Associazione FonèScuoladiTeatro, da oltre 20 anni sulla piazza ferrarese, dove ha formato attori e compagnie con un impegno sfociato in quattro classi di differenti livelli, la prima delle quali comincia il 30 settembre. “L’obiettivo del Cpa è preparare i ragazzi ai provini delle grandi scuole, dove spesso arrivano senza disporre di una reale grammatica espressiva, ma solo dell’entusiasmo e della fantasia che ne anima i sogni”. Senza neppure rendersene conto, Ferrara si ritaglia ancora una volta un primato da catalogare alla voce cultura sostenuta essenzialmente da chi ha fatto di un’arte e delle sue tante declinazioni il proprio mestiere. “La nostra idea è quella di creare una compagnia che possa uscire dalla scuola e trovare nuovi spazi– spiega – E’ un po’ quello che sta accadendo con gli allievi dell’anno passato con cui saremo al Teatro 900 di Tresigallo, dove inauguriamo la stagione con un mio spettacolo sulla seconda guerra mondiale e i bombardamenti intitolato Siamo nati proprio adesso“. C’è entusiasmo nella sua voce quando parla delle prove, dell’emozione, della forza di un giovanissimo cast alle prese con una prima importante destinata, nella peggiore delle ipotesi, a restare una pietra miliare nel vissuto di ciascun aspirante attore. Chi ha calcato la scena almeno una volta nella vita, lo sa e a distanza di anni sorride nel ricordare quei momenti. Recitare è un’esperienza forte, impone una disciplina, dà piacere, scava nell’anima, costringe a fare i conti con i propri limiti e porta a galla un’inaspettata ricchezza interiore. Recitare è scommettere sulla magia. E, a quanto pare, la nostra silenziosa città non disdegna di puntare sulla creatività, le esperienze teatrali, come ricorda Malucelli, negli anni si sono moltiplicate. E’ un fatto. Ed è accaduto nonostante l’assottigliarsi dei budget dedicati alla cultura e alla sua didattica.
Lettera aperta inviata ai curatori del programma ‘Le iene’
Abbiamo avuto modo di vedere il servizio girato da Nina a Gaza e ci stupisce e rattrista che una trasmissione della vostra caratura che ha sempre garantito un servizio ai cittadini, permetta la messa in onda di un filmato che nulla ha a che vedere con la realtà. Se aveste veramente voluto rendere un servizio, avreste dovuto mandare la corrispondente dai capi di Hamas, chiedendo loro, per esempio, perchè nonostante i milioni di euro ricevuti dalla Comunità Europea, dagli Stati Uniti e da infiniti altri donatori da tutto il mondo, quello arabo in particolare, a Gaza vi è l’energia elettrica solo perchè viene erogata gratuitamente dalla società elettrica israeliana. Avreste magari potuto chiedere loro di farvi visitare qualche tunnel e farvi spiegare sulla loro utilità. Avreste potuto andare a visitare qualche scuola o ospedale e cercare di capire perchè al loro interno, come ampiamente testimoniato da vari reporter, presenti sulla Striscia di Gaza e già denunciato dalla stessa UNRWA, l’ente dell’ Onu per i rifugiati palestinesi, dove vi sono stivati interi arsenali di guerra.
Avreste dovuto, almeno per dovere di cronaca, raccontare che i territori israeliani, che confinano con la Striscia, da oltre dodici anni sono sotto il fuoco giornaliero dei mortai e dei missili palestinesi che mirano solo e soltanto alla popolazione civile israeliana.
Avreste dovuto, sempre per dovere di cronaca, raccontare che Israele durante la guerra, ha organizzato un ospedale da campo a ridosso del confine per assistere malati e feriti della Striscia che chiedevano aiuto, come altresì avreste dovuto raccontare quanti sono i malati che ogni giorno superano il confine, con il tanto odiato Israele, per farsi curare nei suoi ospedali. Caso unico nella storia di una nazione che si prende cura dei civili del suo nemico.
Avreste dovuto raccontare che anche durante la guerra i valichi di Israele erano aperti per permettere il passaggio dei generi di prima necessità, notizie filmate e confermate che voi avete volutamente ignorato.
Avreste potuto fare queste e altre cose, avete invece preferito prendere la via della menzogna, organizzando una messinscena degna delle finte vittime che fanno da comparsa ai filmati che i palestinesi ci propinano e ai quali molta gente, ingenua o molto furba, crede.
Avreste potuto fare queste e altre cose ancora, in tutta sostanza avreste potuto fare bene il vostro lavoro. In questa occasione avete dimostrato di fare anche voi parte del coro di demonizzazione di Israele, che si basa su pochissime realtà e un mare di menzogne e oltre a non aver portato rispetto alla completezza della verità, non lo avete portato nè ai vostri telespettatori né alla testata che rappresentate.
Michael Sfaradi- giornalista presso Tel-Aviv Journalists’ Association
Flaminia Sabatello
Laura Rossi
a cui seguono centinaia di firme italiane, israeliane e di altre nazioni
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