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Viaggio nei kommunalki, una realtà controversa

San Pietroburgo è una delle città più visitate al mondo. Io stesso l’ho visitata qualche mese fa e sono rimasta affascinata dalla sua storia, dalla sua arte, dalla sua cultura e dalla sua bellezza. Ma, grazie a questo film del 2013, “The age of Kommunalki”, trovato mentre cercavo informazioni sulla città, ho scoperto, con immenso stupore, che, dietro le splendide facciate da cartolina del centro, realizzate da alcuni dei migliori architetti dell’epoca, si nasconde un mondo particolare, sconosciuto alla maggior parte dei visitatori: il mondo dei “kommunalki”, le case comuni. La parola mi era nota da alcuni romanzi (li avevo trovati in “A Mosca, A Mosca!” di Serena Vitale o nel più recente “Tra le mura del Cremlino”, di Paul Dowswell), ma non mi ero mai veramente avvicinata a questa realtà.

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La locandina del film

Si tratta di un altro mondo, particolare, diverso, terribile, ostico e duro, per certi aspetti, curioso, interessante, sorprendente, umano, caloroso, protettivo e familiare, per altri. Ancora oggi, a quasi 100 anni dalla rivoluzione di ottobre, molte persone di diversa estrazione sociale e provenienza, vivono insieme, occupando stanze all’interno di grandi appartamenti e condividendo spazi comuni come una cucina, servizi igienici, un bagno e un corridoio. Gli abitanti di questi ambienti hanno provato sulla loro pelle le conseguenze del tentativo di calare nella quotidianità un concetto utopico, quello della “vita in comune”, che nel periodo sovietico richiamava il pensiero di Tommaso Moro o di Tommaso Campanella. Proprio questa constatazione sarà il punto di partenza, oltre che il filo conduttore, per una riflessione sul significato moderno di comunità, di relazioni umane, e sulla trasformazione sociale ed economica che sta investendo le città stesse.

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Una seconda locandina

Il film-documentario che vi consigliamo questa settimana dunque, è girato interamente a San Pietroburgo, nel 2012, città che, a quella data, ospitava ancora 101.303 kommunalki, nei quali in cui vivevano e vivono 660.000 persone. Un abitante su nove, quelli che vengono chiamati i “podselentsy”, gli inquilini. E parla di questa difficile vita in comune.

Il film, ricco tanto dal punto di vista storico che umano, inizia con l’intervista a uno dei protagonisti principali della storia, che è del tutto reale, Aleksey Khashkovsky, che ci presenta l’edificio nel quale si trova l’appartamento che percorreremo, un bellissimo palazzo aristocratico, costruito nel 1906, dove, prima della rivoluzione, avevano vissuto anche il famoso poeta Michael Kuzmin, il cantante lirico Fëdor Ivanovič Šaljapin o artisti del Mariinsky e il cui proprietario era stato anche il famoso matematico Andrey Alekseevich Kiselev. Durante la rivoluzione bolscevica l’edificio era stato requisito e trasformato in “kommunalka”, uno spazio di vita in comune, partendo dall’idea che la convivenza faceva parte dell’ideologia politica dell’epoca, una maniera, per lo Stato, di retribuire i suoi operai con un alloggio, sempre vicino al luogo di lavoro, la fabbrica. La mancanza degli alloggi a Leningrado aveva aiutato il diffondersi del fenomeno.

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Una scena del film
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La cucina

Il palazzo, in cui ci troviamo per tutto il film, ha 9 stanze, in una superficie di 346 m2, e ospita 20 persone. C’è chi viene e c’è chi va. Vi sono due servizi igienici, un bagno e una cucina grande. Qui ognuno ha il suo tavolo per evitare discussioni, vi sono due cucine a gas con due fornelli per famiglia, per aver la possibilità di cucinare tutti allo stesso tempo. In questo luogo comune si parla, si discute, si controlla il piatto del vicino che cuoce e lo si avverte se sta bruciando o se è troppo cotto, qui si beve il tè tutti insieme. Si festeggiano insieme anche le ricorrenze, come i compleanni o gli anniversari, si cucina solo dopo che si è tutti usciti per andare al lavoro. Nel bagno, si hanno a disposizione 15-20 minuti a testa per lavarsi, non ci si trucca mai in questo locale, o si perde tempo prezioso per gli altri.

 

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Larisa Gromova

La toilette è separata, comune anche quella, si fa la fila per usarla. Tutti in rigorosa e rispettosa attesa. La casa, però, era pensata, originariamente, per gli aristocratici, con una sala da pranzo e una per la servitù che la usava come luogo per la preparazione e la distribuzione del cibo: non è, quindi, adatta all’utilizzo passato e attuale dei “kommunalki”. Nel 1957, vi abitavano 33 persone, in una sola stanza stavano anche 8 persone. Nello stesso vano, si possono ritrovare una macchina per cucire, la zona notte, una cyclette, un frigorifero e un tavolo. Una mini-casa in un mini-spazio. Tatyana Sigolina ha un piccolo e curato camino e dei bei fiori bianchi profumati, nel suo angolo di vita.

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Lilija-Elizaveta Alexandrova,

All’inizio, sono tutti estranei ma, poi, si deve diventare più attenti al prossimo, alle diversità culturali e bisogna trovare un linguaggio comune. Ci vogliono pazienza, resistenza, forza di superare le difficoltà, ma alla fine si diventa amici intimi, ci si rispetta e… non è così male… ammettono i giovani amanti del rock Evgeny e Pavlov.
Ci si aiuta nelle emergenze, non si è mai soli, nel bene e nel male. Gli anziani raccontano storie ai più piccini, le babushke (le nonne), come Larisa, sono sagge, affettuose, hanno pazienza e rispetto verso gli altri. Tutti aiutano tutti.

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Antonina Kharlamova,

Galina Ilmer confessa che non si può mai stare soli, in un “kommunalka”, ma che, come in famiglia, se si è tristi o qualcosa non va, ci si può sempre chiudere nella propria stanza. Come facevamo da ragazzini quando eravamo arrabbiati. C’è poi anche l’aneddoto carino dell’italiano Roberto, che, all’epoca fidanzato con Julia, poi diventata sua moglie, non comprendeva come si potesse vivere in quel luogo e in quella maniera. Per rassicurarlo, l’anziana amica di Julia aveva iniziato a farsi chiamare da lei zia. Così si sarebbe pensato che si era in famiglia. Ma quando Roberto aveva chiesto dove si gridava il bidè, che ridere…

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Varvara e Ilya Alexandrov

Siamo di fronte a una reliquia di cui liberarsi? Qualcuno pensa proprio di sì. Perché l’idea della comune non ha resistito, l’individualismo dell’essere umano emerge e non perdona. Oggi, in questi luoghi d’altri tempi, rimangono soprattutto gli anziani, con le loro basse pensioni, chi guadagna troppo poco per potersi permettere un appartamento al centro di San Pietroburgo, chi è appena arrivato da fuori, chi subaffitta da titolari del diritto a vivere fra quelle mura. Il titolo acquisito non si perde, mai. Intere famiglie hanno vissuto lì dentro, bambini oggi cresciuti. E se lo Stato ti manda via, ti deve ricollocare.
Sarà pure un’utopia ma è meraviglioso stare nel centro della città, ammette Aleksey, dove con un solo sguardo si vede tutto, dalla cattedrale di San Isacco alla prospettiva Nevski.
Queste case, però, oggi cadono a pezzi, case che sono come organismi viventi, dove tutto è in relazione, dove curarsi seriamente non significa solo badare all’estetica (quindi alle facciate degli edifici) ma anche prestare attenzione al proprio interno (quindi alle strutture delle abitazioni). Lo Stato, tuttavia, a San Pietroburgo come in altre città russe, si preoccupa di preservare il patrimonio storico-artistico nella parte che vede il turista, quella esterna. Questo è, dunque, anche un film- denuncia di tale situazione, del degrado, dei crolli, dei soffitti che stanno marcendo, dei muri che crollano, dei calcinacci che cadono. Come si può vivere in un monumento? Dove sono i restauri, gli interventi necessari e l’Unesco? Si domanda qualcuno.

La proprietà comune è, in realtà, una terra di nessuno. Spesso si occupano spazi con cose inutili per delimitare il proprio territorio, per marcare i propri confini, così come fanno i paesi, così come si fa in guerra. Si tratta di una questione psicologica. Occupando e delineando spazi si esiste. Ma la realtà vera è un’altra, o almeno così dovrebbe essere.
“Il mondo intero è diventato un grande kommunalka. Ci siamo tutti dentro, ogni nazione fa parte di un kommunalka. Anche se in Europa tutti hanno deciso di isolarsi, in realtà convivono in un unico spazio comune. Devi solo imparare a comunicare e a negoziare con gli altri, per vivere e sopravvivere in questo mondo globalizzato”. Ci dice Evgeny Yalovegin, in chiusura. Nulla di più vero e saggio, in questo momento storico così complesso, dove l’orientamento e la via paiono persi.

The Age of Kommunalki, di Francesco Crivaro e Elena Alexandrova, con Aleksey Khashkovsky, Lilija-Elizaveta Alexandrova, Varvara Alexandrova, Ilya Alexandrov, Larisa Gromova, Evgeny Ilmer, Antonina Kharlamova, Evgeny Yalovegin, Tatyana Sigolina, Italia, 2013, 65 mn.

Per informazioni sul film (in russo ma con sottotitoli in italiano) visita il sito [vedi] e quello di Undergofilm [vedi].

Il nuovo pletismografo sviluppato da Unife pronto ad andare in orbita per raggiungere l’astronauta Samantha Cristoforetti

da: ufficio Comunicazione ed Eventi Unife

Intanto domani al via la prima parte del protocollo del progetto Drain Brain

Il nuovo pletismografo sviluppato dall’Università di Ferrara che servirà all’astronauta Samantha Cristoforetti per eseguire il protocollo sperimentale del progetto Drain Brain, è pronto per essere spedito sulla Stazione Spaziale Internazionale (ISS).

Dopo l’inevitabile delusione a causa dell’esplosione del razzo Antares avvenuta lo scorso 28 ottobre, un secondo pletismografo è stato realizzato ed è pronto per essere inviato sulla ISS.

Come ci spiega Angelo Taibi, project manager del progetto e ricercatore del Dipartimento di Fisica e Scienze della Terra di Unife…“La qualifica del secondo pletismografo secondo le specifiche NASA, ha rappresentato una vera e propria corsa contro il tempo. Per non pregiudicare l’esecuzione dell’esperimento in orbita da parte del capitano Cristoforetti, l’ASI e la NASA ci hanno dato l’opportunità di spedire il nuovo dispositivo elettronico con il prossimo razzo della società americana SpaceX, il Falcon 9, che verrà lanciato dal Kennedy Space Center in Florida il prossimo 16 Dicembre”. (http://www.nasaspaceflight.com/2014/11/crs-5-dragon-mission-iss-evaluating-december-target/).

“Inoltre – prosegue Taibi – ci tengo a ricordare che il pletismografo è stato interamente sviluppato all’interno del Dipartimento di Fisica e Scienze della Terra in collaborazione con la sezione di Ferrara dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, INFN. Sia la progettazione che la realizzazione di tale strumento diagnostico hanno rappresentato un’eccellenza in termini di affidabilità e sicurezza e voglio ringraziare tutte le persone che con grande passione e competenza hanno collaborato a questo progetto così ambizioso.”

Il pletismografo è un sofisticato strumento portatile e non invasivo che misura variazioni di capacità elettrica associata a variazioni di volume del sangue, tramite sensori che possono essere applicati a qualunque segmento cilindrico del corpo.

Roberto Calabrese, Direttore del Dipartimento di Fisica e Scienze della Terra, aggiunge…“Il nostro Dipartimento ha una lunga tradizione ed è conosciuto internazionalmente non solo per le ricerche di base, ma anche per la fisica applicata. Questa ricerca, in particolare, avrà un impatto sociale molto forte per gli studi del Prof. Paolo Zamboni, Direttore del Centro di Malattie Vascolari di Unife, sul ritorno venoso e la fisiologia della circolazione cerebrale.”

In attesa della consegna del nuovo pletismografo e del primo test per misurare il ritorno venoso cerebrale in condizioni di microgravità, domani, venerdì 28 novembre, ci sarà il primo contatto con la nostra astronauta. Infatti, presso la sede della Kayser Italia, azienda partner di Unife nella realizzazione del progetto Drain Brain, il responsabile del progetto, Paolo Zamboni, guiderà da remoto Samantha Cristoforetti che dovrà effettuare da sola un esame ecografico del collo, utilizzando uno scanner ad ultrasuoni già in dotazione sulla ISS.

L’INTERVISTA
Age: la sfrontata fragilità dell’adolescenza

Ferraresi i nove performers adolescenti, ferrarese la regista Francesca Pennini e l’assistente drammaturgo Angelo Pedroni, entrambi componenti della compagnia ferrarese CollettivO CineticO che recentemente vinto il premio “Rete critica” come migliore compagnia italiana 2014. Eppure il nuovo allestimento 2014 della performance <age> non era ancora stato rappresentato a Ferrara nella sua forma integrale. Ha debuttato a Ravenna in settembre, poi ci sono state date al Teatro Vascello a Roma, a Milano, a Potenza e ha vinto il premio “Jurislav Korenić” come miglior regia al Festival Mess a Sarajevo, nei prossimi mesi sarà a Parma, Modena, Firenze e Fermo. Abbiamo intervistato la regista Francesca Pennini alla vigilia della prima messa in scena di al Teatro Comunale Claudio Abbado di Ferrara, stasera 27 novembre.

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Un momento della rappresentazione

Il progetto originale del 2012 è stato il vincitore del “Bando Progetto Speciale Performance 2012. Ripensando Cage” ed è partito da una “affinità di principi” di cui il titolo è quasi un emblema: i segni < > simboleggiano la C di Cage, ma racchiudono anche graficamente l’età di performers, tutti fra i 16 e i 18 anni. Come ci spiega Francesca, l’idea è che “gli adolescenti sono i performers migliori per uno spettacolo su John Cage, per il loro spirito di sperimentazione e la propensione al rischio e al mettersi in gioco, legati alla loro fascia di età che è una fase di indeterminazione della vita. Incarnano quindi lo spirito sperimentatore di John Cage, il suo spirito un po’ bambino”.

age-sfrontata-fragilità-adolescenzaLo spettacolo è strutturato come una sorta di “atlante di tipologie umane che cambia ogni sera”, i performers non sanno quello che li aspetta, hanno imparato una serie di regole e un inventario di comportamenti associati a stati d’animo, conformazioni emotive, alcuni dei quali “universali”, altri nati “dall’osservazione dei ragazzi e dal contesto in cui noi e loro operavamo”; i ragazzi vengono poi chiamati ad agire o meno in base “a come si definiscono” in quel dato momento. “Dichiarano quindi la verità sulla loro identità, sulla loro condizione reale e sulla loro filosofia di vita”, da qui la forza e la delicatezza insieme di questo lavoro: “la forza di portare in scena non dei personaggi, ma se stessi nella totale verità del momento perché tutto avviene sul palcoscenico; al tempo stesso portano in scena la loro intimità, il che rende delicatissima la loro posizione, come le nostre scelte nello strutturare di volta in volta descrizioni e comportamenti dello spettacolo, ma anche la relazione che si crea con lo spettatore”. È quindi un vero e proprio mettersi in gioco in maniera totale quello che Angelo e Francesca chiedono a questi nove adolescenti: “la forza e il coraggio di esporre qualcosa di delicato” perché sul palco emerge “una dimensione altrimenti inavvicinabile, totalmente privata”.

age-sfrontata-fragilità-adolescenzaDescrizioni, azioni performative e coreografiche non sono casuali, Francesca e Angelo sono gli artefici di questa sorta di improvvisazione regolamentata: “non giochiamo sull’aleatorietà, ma su un senso di indeterminazione legato soprattutto alla condizione dei performers che entrano in un certo stato di presenza che non sarebbe uguale se sapessero prima cosa deve accadere, però a livello registico noi bilanciamo ogni singola replica cercando di dare una coerenza alla personalizzazione di ciascuno”. perciò possiede sia “una dimensione strutturata, matematica” che svela il processo di costruzione dell’artificio scenico e coreografico, sia “un elemento incontrollabile che viene semplicemente innescato senza che si sappia come accadrà quella determinata sera”, ovvero la reazione in scena dei ragazzi.

A questo punto non potevamo non chiedere come sono stati scelti questi nove ‘esemplari umani’. “Questa volta alle audizioni sono venuti tantissimi ragazzi, ma i principi di selezione sono rimasti gli stessi di due anni fa: l’eterogeneità, la differenziazione, per creare un assortimento umano il più articolato possibile, però con il denominatore comune della propensione del mettersi in gioco e della voglia di sfidare la propria condizione”. “Abbiamo dovuto aggiornare i metodi di lavoro – ci ha detto Francesca – perché questi ragazzi non sono i sostituti, per così dire, del cast precedente, sono persone nuove. Quindi abbiamo lavorato sugli stessi principi, ma ritarandoci sulle esigenze di questo gruppo”.
Una volta scelti, infatti, questi “adolescenti kamikaze” sono stati sottoposti ad un vero e proprio “percorso di addestramento” scherza Francesca. Sono partiti dall’essere spettatori per poter acquisire una maggiore consapevolezza “della relazione fra il performer e lo spettatore e del fatto che stare in scena non significa solo imparare ed eseguire meccanicamente una serie di gesti, ma è legato al comprendere cosa significa esporsi sul palcoscenico”, poi “abbiamo lavorato sul loro coraggio, la loro capacità di essere pronti a reagire e a esporsi nel quotidiano con una sorta di performance mimetiche che nessuno doveva rilevare per sottolineare che il loro terreno di addestramento non erano le prove all’interno del teatro ma la loro vita quotidiana, come in fondo è lo spettacolo: uno scambio tra il teatro e la vita”. Francesca ci confessa che “è un metodo peculiare ed è stato molto divertente: si sono scambiati bagagli, letti, hanno fatto le performance a scuola mentre i professori li interrogavano senza che lo scoprissero”. Tutto ciò è servito non tanto per quello che poi dovranno eseguire in scena, ma per addestrarli “al modo in cui lo fanno, che deve essere radicale”.

Non poteva mancare l’ultima fatidica domanda sui progetti futuri. Dopo i 5 debutti di quest’autunno, l’ultimo dei quali sarà Amleto al Teatro Vascello a Roma il 6 e 7 dicembre, la prossima sfida per Francesca e il CollettivO CineticO sarà “il nostro primo lavoro per l’infanzia”, legato a un progetto del Teatro delle briciole che fa parte dei teatri stabili d’innovazione: “abbasseremo ulteriormente la soglia d’età con cui ci relazioniamo”.

LA STORIA
Alice nel paese delle meraviglie

Alice Mizrachi è una giovane artista di New York. Attraverso la pittura, i vivaci murales colorati e le stampe, Alice raffigura personaggi le cui relazioni ed emozioni riflettono il suo punto di vista personale del contesto sociale. Cerca, infatti, di diffondere una forte empatia attraverso progetti sito-specifici che costituiscano risposte visive positive alle questioni sociali che riguardano gli abitanti di una determinata zona o quartiere.

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La street artist Alice Mizrachi

Nel suo ruolo di artista (e anche d’insegnante), Alice lavora per potenziare e ispirare le donne e le ragazze, elevandole a veri archetipi sacri ed esplora l’arte come una sorta di percorso di guarigione, per le comunità e gli individui, tramite la stessa espressione creativa. Il tutto con progetti che aiutino a esprimere le proprie idee su temi come l’ambientalismo, l’identità e la comunità, in generale. Con un focus sulla figura astratta, attraverso il colore, le linee e i modelli, il lavoro di Mizrachi attinge a una riserva interna di spontanea e pura emozione. Con forti legami con il mondo dei graffiti dell’arte urbana, l’artista si concentra sulla vibrante tranquillità della vita cittadina.

 

alice-paese-meravigliealice-paese-meraviglieHa co-fondato, nel 2006, Younity, un collettivo artistico femminile che ha fornito una vera piattaforma professionale a centinaia di donne, dando loro la possibilità di partecipare a mostre, tavole rotonde, produzioni di murale, e laboratori giovanili.
Insegna, occasionalmente, all’università e partecipa attivamente alle discussioni su arte e attivismo; conduce anche laboratori di sviluppo personale.
Le sue opere sono state esposte al Museo di Washington Dc d’Arte contemporanea. E’ rappresentata dalla Mighty Tanaka Gallery di New York e dalla Bazel Gallery di Tel Aviv, e il suo lavoro è stato esposto in gallerie di tutto il mondo. Hanno scritto di lei The New York Times, The New York Daily News, Time Out NY, New York Magazine, Huffington Post, Marie Claire, Juxtapoz e Street Art di New York.

alice-paese-meravigliealice-paese-meraviglieIn un’intervista ha detto: “Faccio arte per diffondere sentimenti di amore, comunità, empowerment e guarigione. Per me la pittura è sempre stata un atto di autoguarigione. Quando inizio a lavorare, ricreo la superficie incontaminata di una tela bianca o di una parete vuota, con il colore e il modello. Attraverso l’esperienza fisica della pittura, trasformo le mie paure e ansie per il mondo in caratteri semplici che sono raffigurati nelle relazioni con gli altri e il loro ambiente. Questi personaggi trasmettono messaggi positivi, spesso di speranza e di ottimismo ed esprimono emozioni che sono volutamente accessibili a tutti i telespettatori, soprattutto ai bambini. Mi sforzo di fare dell’arte un’esperienza inclusiva che permetta agli spettatori di qualsiasi età o esperienza di avere una positiva interazione con l’arte”.

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Per saperne di più dell’artista visita il sito [vedi] e le pagine Facebook [vedi] e Pinterest [vedi]

Eco-eventi cercasi

Le intense attività di informazione e le varie iniziative di relazioni esterne (incontri, riunioni, convegni, seminari, etc.) che fortunatamente vengono svolte anche sul nostro territorio propongono un interrogativo: sono fatte nel rispetto dell’ambiente?
Si può infatti pensare anche di proporre un impegno generale di fare “evento” pensando alla salvaguardia dell’ambiente nel quale viviamo perchè per partecipare non occorre inquinare. Si svolgono, infatti, centinaia di iniziative utilizzando materiali usa e getta e lasciandosi dietro migliaia di euro sprecati in cose futili, montagne di rifiuti, tonnellate in più di CO2.
Proponendo le eco-iniziative si intende quindi promuovere e incentivare le esperienze migliori nel campo della riduzione dei consumi, degli sprechi e del riciclaggio promuovendo nel contempo una maggiore attenzione sui problemi generali dell’ambiente. L’organizzazione di iniziative che garantiscono azioni per una corretta riduzione degli sprechi, conferenze dove il materiale cartaceo è ridotto al minimo, sostituito da supporto usb, dove i fogli stampati siano certificati Fsc (Forest stewardship council) a garanzia del rispetto dell’ecosistema. Facendo attenzione alla realizzazione di manifesti, depliant e altro materiale pubblicitario, di un corretto utilizzo dei mezzi di informazione, ai consumi energetici della struttura che ospiterà il convegno e dei mezzi con cui i relatori e ospiti, in base alla distanza, raggiungeranno il luogo del convegno e così via. Così come rispettando la raccolta differenziata di plastica, vetro, carta e lattine; adottando accorgimenti per ridurre i rifiuti (ad esempio le bottiglie d’acqua con vuoto a rendere, oppure somministrare al tavolo dei conferenzieri l’acqua in brocca e bicchieri in vetro).
Pensare a delle eco-conferenze in cui l’usa e getta è completamente sostituito da materiali riutilizzabili, come ad esempio in occasione di pranzi o buffet, fare attenzione affinché ci siano piatti in ceramica e bicchieri in vetro con posate riutilizzabili o in materiale biodegradabile, per poterli separare assieme ai resti della ristorazione. Ma anche l’uso moderato di condizionatori nei periodi estivi, l’uso di impianti di illuminazione con lampade a basso consumo energetico, l’impiego di personale volontario nell’assistenza ai relatori e ai partecipanti, nella distribuzione dei vari materiali; l’utilizzo di gadget-borse magliette, cappellini-prodotti secondo i criteri del commercio equo e solidale, con tinte e materiali naturali. Inoltre indicazioni per muoversi a piedi, in bicicletta (magari mettendone a disposizione) o con mezzi pubblici. In due parole, un modo globale di essere ad impatto zero con il controllo della produzione di CO2 nella preparazione e realizzazione di eventi, accompagnandoli con iniziative promozionali esterne di forestazione e di tutela ambientale.
Un sogno? Non del tutto qualche buon esempio c’è già stato. Ve ne siete accorti con i Buskers? Io si.

Il Progetto eco festival è nato nel 2011 all’interno del Ferrara Buskers festival, manifestazione di arte di strada che ha mosso diverse centinaia di migliaia di spettatori da tutta Italia e in misura significativa anche dall’estero, coinvolgendo l’intera città di Ferrara.
Gli obiettivi specifici sono stati:
– ridurre lo spreco nell’organizzazione e nella fruizione del Festival;
– fissare standard sempre più elevati di rispetto ambientale nell’organizzazione di un grande evento;
– creare una speciale attenzione verso tematiche quali innovazione, responsabilità sociale e partecipazione;
– creare una vetrina delle aziende più attente all’ambiente e della creatività eco-sostenibile.

Le azioni che hanno sostanziato il Progetto Ecofestival sono state dichiarate, misurate e alla fine certificate da ente terzo (Bureau Veritas). Bravi.

L’EVENTO
Verità e multiculturalità nella personale di Servet Kocyigit

L’artista è figlio del suo tempo; ma guai a lui se è anche il suo discepolo o peggio ancora il suo favorito. Friedrich Schiller

L’arte può essere estro bizzoso e riflessione etica. Questo è Servet Kocyigit (Kaman, 1971), artista turco nella sua prima personale italiana curata da Silvia Cirelli alle Officine di Milano da oggi 27 novembre al 7 febbraio, intitolata “Il siero della verità”. Incongruenza e paradosso trovano terreno fertile nell’artista turco che, al pari di un Kafka artistico, sperimenta nel proprio lavoro l’eterno equilibrio tra culture: mitteleuropea e plurilinguistica la prima; eternamente scissa e riunita dalle due fedi religiose che la identificano, la seconda.

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Servet Kocyigit

Al pari dello scrittore, che descrive l’alienazione personale e umana nella grottesca metamorfosi da uomo a insetto, Kocyigit mette in scena la ricerca dell’identità culturale e le tensioni da lui vissute in quanto protagonista di una storia culturale e geografica ricca di contrasti, ambivalenze e contraddizioni da lui stesso vissute, bambino durante gli anni Ottanta che per l’Occidente erano l’apice di un benessere economico ma che per la Turchia rappresentano la summa destabilizzante del terzo golpe militare, dopo i precedenti degli anni 1960 e 1961.

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Sometimes, 2005

Sono le stesse parole della curatrice a raccontarlo: “L’arte diventa dunque per Kocyigit la ‘parola’ con la quale esprimersi liberamente, lo strumento col quale raccontare le fratture della propria generazione, il senso di sradicamento e la sempre più evidente consapevolezza di una realtà vulnerabile e precaria.” E lo diviene attraverso codici comuni, realtà conosciute e quotidiane.
Il linguaggio verbale accompagna le installazioni, descrivendole; e creando scollamento tra ricercatezza stilistica e banalità, tra nobiltà dell’opera e pressappochismo delle parole che lo descrivono, scarne e limitanti nella loro impossibilità di catturare l’effettiva materia. Ne sono esempi “Sometimes”, in cui una scritta con lettere di stoffa sembra minimizzare la preziosità del materiale, inscenando una mania ossessiva.
Il contra necessità di richiamare alla memoria oggetti e storie passate, senza snaturarle né attualizzarle, ma semplici attimi condensati nel tempo portati nel presente, nella vita di tutti i giorni, mostrando l’impossibilità a una loro attualizzazione contingente e di una armonia eterna, a patto di non snaturarli: sono personaggi felliniani come l’uomo dei palloncini in “Night Shift” e il mulo da soma dei villaggi in “Mountain Zebra”.

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99 Years, 2014
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99 Years, 2014 bis

Sono secchi per l’edilizia contenenti rappresentazioni in lana del mondo in “Orbit” e video ritraenti globi di lana concepiti e realizzati da mani maschili e femminili, che si completano dando luogo a una morbida verità in “99 Years”. E un’attesa, surreale e sofferente attesa di una celebrità che tuttavia non arriva. In una spasmodica attesa del nulla. Aspettando Godot.
Rappresentazione del grottesco in situazioni quotidiane; ritrae con sarcasmo Don Chisciotte che contempla l’assurdo nella sua battaglia esasperante, storica e umana, nel suo dialogo surreale tra realtà e una immaginazione in cui i mulini a vento non sono forse una realtà assurda. E dove si cerca, ironicamente, il Siero della Verità (“Truth Serum”).

Le immagini per gentile concessione del Courtesy of Servet Kogyigit e di Officina dell’Immagine, Milano

Il linguaggio può ammalare il corpo

La psicosomatica da sempre individua la corrispondenza tra la mente e il corpo, sottolineando come certe questioni irrisolte possano manifestarsi ed esprimersi nel corpo lasciando segni reali e tangibili. Del resto, la psicoanalisi insegna che l’inconscio è strutturato come il linguaggio: quando parliamo, esprimiamo spesso più di quanto vorremmo dire e ciò è l’espressione del nostro inconscio.
Vediamo alcuni esempi di espressioni non solo ‘parlanti’, ma che possono incarnarsi nel corpo come sintomi. Modi di dire come “ho un buco allo stomaco”, a volte si incarnano nel corpo ammalandolo davvero. Le emozioni e i conflitti attuali o remoti sono più determinanti di quello che pensiamo. Ciò non significa perdere di vista la componente fisica: i sintomi o i fenomeni patologici devono essere indagati in modo complementare, da un punto di vista psicologico e fisiologico. I sintomi psicosomatici, spesso, pur non organizzandosi in vere e proprie malattie, si esprimono attraverso il corpo, coinvolgono il sistema nervoso autonomo e autoimmune che risponde a una situazione di disagio psichico o di stress.
Sono invece considerate clinicamente malattie psicosomatiche quelle malattie alle quali normalmente si riconosce una genesi psichica, nelle quali si verifica un vero e proprio stato di malattia con segni indiscutibili di lesione in un organo bersaglio. Le malattie somatiche sono l’espressione di uno dei meccanismi difensivi più arcaici, con cui l’organismo attua una manifestazione diretta del disagio psichico attraverso il corpo.
In queste malattie, l’ansia, la sofferenza e le emozioni in genere sono troppo dolorose per poter essere vissute e sentite e trovano una via di sfogo nel corpo attraverso il disturbo fisico. Tutte le loro capacità difensive tendono a tener lontani contenuti psichici inaccettabili, a costo di distruggere il corpo. In questo senso una persona, incapace di accedere al proprio mondo emotivo, potrebbe non percepire rabbia, frustrazione o stress, per una difficile condizione lavorativa e neppure immaginare una possibile connessione tra la sua ulcera e le emozioni o i vissuti relativi al loro lavoro.
Quando il corpo si difende da emozioni dolorose e intollerabili manifesta il proprio disagio su alcuni organi, detti bersaglio. È il meccanismo di azione dei disturbi psicosomatici. Ad esempio quando si soffre spesso di gastriti, bruciori di stomaco o altri disturbi digestivi, spesso l’atteggiamento tipico è “mandare giù” con troppa frequenza le offese della vita. Queste persone, con il motto “porgere l’altra guancia”, covano spesso rabbie e risentimenti profondi. In questo modo costringono lo stomaco ad una lenta e complessa “digestione” della rabbia”. In pratica, sono vittime di troppa ‘diplomazia’. Vista nell’ottica psicosomatica, la cefalea può indicare il bisogno di allentare l’eccessivo controllo razionale e quindi, il desiderio di lasciare più spazio all’intuizione. Di solito, infatti, chi soffre di mal di testa ha una mente lucida e razionale (fin troppo), che deve tenere sempre tutto controllo senza cedere e lasciarsi andare mai. E ancora, dal punto di vista psicosomatico, la pelle rappresenta simbolicamente il confine tra sé e gli altri. Quando c’è un disagio, possono manifestarsi delle eruzioni cutanee: anche eczemi e altre affezioni delle quali non ci sappiamo spiegare l’origine. Queste possono rivelare che non si hanno ben chiari i propri confini e che per difendersi si cerca, metaforicamente, di tenere lontani gli altri. A livello intestinale poi la stitichezza può essere indice di un attaccamento eccessivo ai beni materiali, ma può anche rappresentare la paura di portare alla luce contenuti inconsci ed emozioni dalle quali non si riesce a prendere le distanze. La colite, invece, può affiggere chi è solito fare scenate, non reprime rabbia e aggressività, tranne poi provare disprezzo verso se stesso per quello che ha fatto: l’intestino si fa carico simbolicamente di questi sensi di colpa e tenta di spazzarli via simbolicamente con gli attacchi di colite. Le vaginiti e le cistiti, invece, affliggono prevalentemente due tipi di donne: le ansiose-irritabili (spesso ipocondriache, si stressano con facilità, tendono a scaricare a livello genitale, ansie, paure e rabbie) e le remissive ad oltranza (con senso del dovere molto spiccato, tendono a sacrificarsi ma anche, proprio per questo, ad accumulare tensioni nel corpo e soprattutto nell’area genitale). Quindi, alla luce di quanto ho sintetizzato, imparare a verbalizzare le proprie emozioni è la condizione migliore per non incappare in spiacevoli sintomi che ammalano il corpo.

Chiara Baratelli, psicoanalista e psicoterapeuta, specializzata nella cura dei disturbi alimentari e in sessuologia clinica. Si occupa di problematiche legate all’adolescenza, dei disturbi dell’identità di genere, del rapporto genitori-figli e di difficoltà relazionali.
baratellichiara@gmail.com

IL REPORTAGE
Artisti ferraresi dicono no alla violenza sulle donne

Abbiamo appena mandato la prima donna italiana nello spazio, ma l’Italia sembra ancora ben ancorata a un’immagine stereotipata della figura femminile e dei rapporti di genere. Oltre alle leggi, quello che serve è un cambiamento culturale che si ottiene smuovendo le coscienze con tutti i linguaggi che abbiamo a disposizione per suscitare una riflessione più duratura e toccare corde più profonde rispetto all’indignazione momentanea in occasione del 25 novembre.

artisti-ferraresi-no-violenza-donnePer questo fino al 6 dicembre nel Salone d’onore del Palazzo municipale sarà visitabile la mostra “Mozzafiato. Storie di ordinaria violenza”, curata dalla Galleria del Carbone nell’ambito del progetto “Violenza di genere e rete locale” promosso dal Comune di Ferrara in collaborazione con Centro donna giustizia, Movimento nonviolento e Centro di ascolto per uomini maltrattanti. “Mozzafiato” è una collettiva formata da una ventina di opere fra fotografie, acquerelli e olii su tela, attraverso le quali alcuni artisti ferraresi, tra cui Sima Shafti, Luca Zarattini, Alessandro Passerini e Laura Shlumper, hanno voluto esprimere il proprio impegno in questa battaglia culturale.
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artisti-ferraresi-no-violenza-donneC’è poi chi per dare una testimonianza usa il proprio corpo e il linguaggio universale della danza: ecco allora l’idea di un flash mob, organizzato dalla coreografa e danzatrice Caterina Tavolini, ieri a partire dalle 18 in diversi punti del centro storico di Ferrara, dalla galleria Matteotti al sagrato del duomo a piazza Savonarola. Nella caotica frenesia quotidiana, sei movimenti lenti e silenziosi eseguiti da un gruppo di donne vestite di nero, ciascuna con qualcosa di rosso, per affermare la propria presenza, rifiutare questo presente e sperare in un futuro in cui finalmente non ci sia più bisogno del 25 novembre.

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Infine la parola torna protagonista attraverso il teatro: l’appuntamento è per febbraio-marzo 2015 quando si terrà la nuova edizione de “I monologhi della Vagina”, spettacolo teatrale di beneficenza contro la violenza sulle donne, versione italiana del testo di Eve Ensler. Per gentile concessione degli organizzatori, pubblichiamo le riprese integrali della terza edizione, tenutasi alla Sala Estense di Ferrara lo scorso 8 Marzo. [vedi] Per rimanere aggiornati visitare il sito [vedi].

E per riflettere ancora, il 18 novembre alla Camera, alla presenza della presidente Laura Boldrini, è stato presentato “Rosa Shocking. Violenza, stereotipi…e altre questioni del genere”, un report realizzato da Intervita in collaborazione con Ipsos in cui si ricorda che, nonostante la nuova legge contro i femminicidi, ogni tre giorni in Italia una donna viene uccisa dal partner, dall’ex compagno o da un familiare. Ma in questa ricerca ci sono dati forse ancora più scioccanti: il 79% delle intervistate nel sondaggio Ipsos ritiene che se un uomo viene tradito è normale che possa diventare violento, il 77% che se ogni tanto gli uomini diventano violenti è per il troppo amore e il 78% che per evitare di subire violenza le donne non dovrebbero indossare abiti provocanti. Se, in aggiunta, ben il 61% delle donne ritiene che i panni sporchi si lavano in famiglia, come stupirsi che solo il 7,2% di chi subisce violenza denuncia l’accaduto?
È ben poco consolante che l’85% del campione ritenga che anche gli uomini debbano occuparsi delle faccende domestiche, quando per circa 1 uomo su 2 il matrimonio è “il sogno di tutte le donne”, per quasi 7 intervistati su 10 è più facile per una donna fare dei sacrifici e 1 intervistato su 3 ritiene che la maternità sia l’unica esperienza che consente ad una donna di realizzarsi completamente, senza contare che per quasi 6 italiani su 10 è pressoché normale utilizzare un bel corpo di donna a fini commerciali.
C’è ancora molto da fare.

Foto di Aldo Gessi

Altri articoli pubblicati da ferraraitalia sulla ricorrenza della “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne” 2014: alcuni dati [vedi], la celebrazione del 22 novembre a Ferrara [vedi], la testimonianza [vedi]

L’ANALISI
I numeri e le motivazioni del ‘partito degli astenuti’

I risultati delle ultime elezioni regionali, dati che gli istituti di ricerca, studiando l’andamento della partecipazione elettorale in Emilia Romagna, una delle storiche regioni rosse, quella più strutturata e di modello, non esitano a definire clamorosi.
L’astensione esplode nel confronto: astenuti 2.150.000 con voti validi 1.200.000, quasi a dare eccezionale significato alle parole seggi vuoti e politiche spoglie.
Sui flussi: sul totale degli elettori cedono i due partiti andati bene nelle europee e cioè il Pd e M5s con il 15,5 e l’8% rispettivamente; la Lega nord prende da FI (2,3), Pd (1,2), Fdi (0,7), M5s (0,5).
Per una rapida consultazione, ecco un quadro generale del voto del 23 novembre 2014, quello europeo sempre del 2014, e quello regionale del 2010 e relativi confronti in variazioni assolute e relative.

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Risultati delle elezioni regionali 2014 – Regione Emilia-Romagna e confronto

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lo schema evidenzia quanto segue:
– il Pd ha perso oltre più della metà e un terzo rispetto europee 2014 e regionali 2010
e per Ferrara una maggiore differenza pari al 58,7%; rimane comunque di gran lunga il primo partito in tutte le nove provincie;
– la Lega nord può rivendicare il successo elettorale e nella Romagna sfiora il massimo storico; il candidato Alan Fabbri ottiene un risultato brillante nel ferrarese, la Lega ha superato FI in tutte le nove province;
– Forza Italia, in soli sei mesi i suoi consensi si sono ridotti del 63% ed otto elettori su dieci abbandonano il partito votato nel 2010; forte è la crisi del partito di Berlusconi e non è più perno all’interno della coalizione di centro-destra;
– il Movimento 5 stelle subisce un cospicuo arretramento e perde, in sei mesi, due elettori su tre, soprattutto a Piacenza, Ferrara e Parma;
– le forze della Sinistra radicale hanno perso tra 11/13%, un dato pesante stante i piccoli numeri dei tre partiti di riferimento.

Per quanto riguarda il ‘partito degli astenuti’, proviamo ad entrare nelle motivazioni che hanno spinto gli elettori-astenuti a rimanere a casa, seguendo, prima, un ordine di importanza, per poi darne una scala di valore da 1 a 10.

Ordine di importanza:
a) pensare “tanto vince il Pd” perché ancora una regione rossa;
b) gli scandali dei consiglieri regionali ed episodi di sperperi e privilegi;
c) le polemiche tra il Premier Renzi e la Cgil sulle politiche del lavoro;
d) l’esaurirsi del modello emiliano e l’idea di una forte discontinuità nel cambiamento;
e) un Grillo ormai antisistema ed un movimento non più capace ad intercettare la protesta;
f) la caduta del berlusconismo e una FI non più perno del centro-destra.

La scala dei valori per il Pd, FI e M5s trova alcune motivazioni comuni ed altre sono solo peculiari e così riassunte:

Partito Democratico:
punti 2 – tanto vince il Pd
punti 5 – gli scandali
punti 3 – polemiche Renzi / Cgil + l’esaurirsi del modello emiliano

Movimento 5 Stelle:
punti 3 – tanto vince il Pd
punti 6 – Grillo antisistema e non intercetta la protesta
punti 1 – gli scandali

Forza Italia:
punti 4 – tanto vince il Pd
punti 3 – gli scandali
punti 3 – la caduta del berlusconismo e non più perno del centro-destra

Va, infine, precisato che alcuni segnali anticipavano già un certo malessere nell’elettorato, anche tra quello di appartenenza ed in particolare:
– per la lunghezza della crisi economica e le risposte non adeguate per uscirne;
– la mancanza del lavoro per i giovani e i tantissimi ammortizzatori sociali che producevano mancato reddito, le povertà crescenti anche nel ceto medio;
– il dualismo nel Pd tra Bersani e Renzi sul cambiare verso e la discontinuità dal passato;
– i guai di Berlusconi e lo spezzatino del Pdl;
– la corruzione e gli scandali nella Pubblica amministrazione;
– nel Pd la forte caduta degli iscritti da alcuni anni e un nuovo ruolo delle primarie.

Per concludere possiamo dire che la quota di voti perduti attraversa, soprattutto, le tre maggiori forze politiche e cioè Pd, M5s e Fi mentre il guadagno passa nelle mani della Lega nord che meglio ha interpretato il disagio sociale e la protesta, intercettando la gran parte degli elettori moderati ma anche, se pur in minima parte, dal centro-sinistra e da Grillo, mentre la Sinistra radicale, che somma ben tre partiti e forse altri spezzoni dei verdi, è ormai spinta al nanismo dei piccolissimi numeri.
Certamente la disaffezione è anche sintomo della caduta della rappresentanza democratica che, però, non è solo nella presenza delle forze politiche nelle istituzioni ma attraversa anche le forze sociali tutte e questo resta il principale scoglio per poter guardare oltre e ripartire dall’inizio per il futuro del Paese.

Fonti: Istituto Cattaneo – Centro italiano studi elettorali dell’Università Luiss – altre società di sondaggio e marketing politico – Rassegne stampa – Fondazioni

LA SEGNALAZIONE
Metti una sera al Bol’soj

da MOSCA – Il tempio del balletto, della musica, dell’amore, della bellezza. Questo rappresenta, per tutti noi, il celebre Teatro Bol’šoj, ovvero Il Grande Teatro (il nome ufficiale è, tuttavia, Gosudarstvennyj akademičeskij Bol’šoj teatr Rossii, ossia “Gran Teatro nazionale accademico di Russia”). La meta di tanti appassionati di danza che giungono a Mosca. E per gli appassionati che ancora non lo sapessero, in Italia molti spettacoli del Bol’šoj si possono vedere al cinema [vedi].
E allora addentriamoci nella storia di questo teatro e negli spazi meravigliosi da poco ristrutturati.

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Locandina degli spettacoli del Bolshoi in programma al cinema

Questo luogo da sogno sorge nello stesso luogo dove sorgeva il teatro Petrovskij che era stato inaugurato nel 1780 e incendiato nel 1805. Nel 1819 fu bandito un concorso per il progetto del nuovo teatro, competizione vinta da Andrej Michajlov. Tuttavia, il suo progetto fu ritenuto troppo costoso e il governatore di Mosca, Dmitrij Vladimirovič Golicyn, incaricò l’architetto Giuseppe Giovanni Bove di modificarlo. Bove, in russo Osip Ivanovič Bove, era nato a San Pietroburgo nel 1784, figlio del pittore Vincenzo Giovanni che da Napoli si era trasferito, nel 1782, a Pietroburgo al seguito dell’ambasciatore napoletano Antonino Maresca, duca di Serracapriola.
I lavori del nuovo progetto cominciarono nel 1820 ed il nuovo Gran (Bol’šoj) Teatro Petrovskij fu inaugurato il 18 gennaio 1825, con il balletto Cendrillon di Fernando Sor. Nel 1853, un incendio causò seri danni alla struttura, che fu riaperta nel 1856. L’interno fu realizzato su disegno dell’architetto italo-russo Alberto Cavos (1853-1856). Oltre a questo, Cavos, figlio del compositore Catterino Cavos, disegnò anche gli interni del teatro Mariinskij di San Pietroburgo (1859-1860). Ancora italiani che mettevano il loro buon (e rinomato) gusto.

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Mosca, il Teatro Bol’šoj

Dopo tanti anni di gloria, l’edificio storico del teatro, che oggi è anche raffigurato sulla banconota da 100 rubli, sarebbe stato chiuso per restauri dal 2005 con l’obiettivo di riportare la struttura agli antichi splendori pre-comunisti. Durante l’epoca di Stalin, infatti, erano stati eliminati gli imponenti lampadari, gli stucchi e tutto quanto potesse evocare il lusso del periodo zarista. Il teatro fu trasformato anche in sede di riunioni e congressi di partito con strutture che ne avevano compromesso l’acustica. Quel luogo andava riportato ai suoi splendori, lo si doveva rivedere com’era nato, come luogo di arte, libera da ideologie. La cerimonia di inaugurazione del nuovo Bol’šoj è avvenuta il 28 ottobre 2011.

Oggi noi lo abbiamo visto in tutto il suo rinnovato splendore. Abbiamo varcato quelle porte e quegli archi imperiali, sentendoci, anche noi, un po’ zar e zarine, ascoltando le note di Giselle, ammirando la sua leggerezza, il suo volare sulle punte, come una magica farfalla, percependo tutta la forza del cosmo intorno a noi, attraversando quei corridoi magici, con un’emozione indescrivibile. Proprio perché quest’emozione è difficile da descrivere e perché va davvero provata, almeno una volta nella vita, non vogliamo spendere troppe parole che, comunque, non sarebbero adeguate.
Vi lasciamo allora solo alle immagini, ad alcune fotografie scattate per portarvi con noi.
Buon sogno.

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Fotografie di Simonetta Sandri

L’INTERVISTA
Il Vintage a Ferrara: tutta un’altra storia

La storia è ciclica, si ripete; e con essa corsi e ricorsi di vario tipo. Sono le “fluttuazioni cicliche” di cui parlava Hobsbawm, e che possono calzare a pennello a più di una idea, di una categoria.
É il caso dell’ottica adottata da Officina del Vintage, mercato ed esposizione del vintage alla sua seconda edizione, ambientato nei suggestivi Imbarcaderi del Castello Estense. Svoltasi nel fine settimana e organizzata da Giorgio Paparo, ha visto confermati gli ottimi numeri dell’anno scorso, circa 4000 presenze.

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Alcuni accessori vintage presentati alla mostra

Vintage – spiega Paparo – è per definizione un prodotto creato e utilizzato almeno venti anni prima del momento contingente. Il passato è una perenne fonte di ispirazione. Ora sono gli anni Ottanta a essere tornati di moda. Prima di loro, del revival sono stati protagonisti gli anni Settanta e prima ancora i Sessanta. Questa è la magia del vintage, la sua storia: creare novità con materiali e oggetti del passato; reinventare ciò che già è stato, dargli nuova vita e talvolta nuova forma. Che è cosa differente dall”usato’, da cui si distingue non perché, e non solo, perché è già stato utilizzato; e che non è puramente rétro, ovvero un oggetto creato a modello di un pezzo d’epoca, ma perché è unico e irripetibile nel suo genere, perché divenuto simbolo e icona di un periodo, caratterizzandolo e connotando momenti e situazioni cristallizzate in un eterno attimo di tempo.”
officina-vintageNel percorso sotterraneo allestito per l’occasione si incontrano tessuti pregiati, capi che hanno fatto la storia della moda; originali oggetti di design, pezzi di arredamento, cartoline, poster; libri di musica e litografie; romantiche cloches che si contendono la scena con scanzonati floppy anni Settanta, mentre da una mensola occhieggiano fedore composte e sorprendenti tube dal sapore steampunk. Ma anche pantaloni a zampa d’elefante, giacche con frange stile texano e giacche tempestate di paillettes posati accanto a mobili di legno antico decorati – “Sono vissuti d’epoca, ritrovamento prezioso nella casa di mia madre”, spiega Monica, una delle espositrici.

Vintage a Napoli
Vintage a Napoli

Officina del Vintage è il frutto di una ricerca, di un viaggio che ha preso inizio molto tempo fa dalla personale collezione di bottoni dell’artista di origine romana: vere opere d’arte, metallo e stoffa, cesellature e incisioni, forme geometriche e fiori, alcuni dei quali montati su anelli, che porta a scoprire nelle fiere di settore in tutta Italia. Paparo, che nasce grafico, comincia ad affiancare alla propria attività lavorativa l’esposizione pubblica dopo averla scoperta e apprezzata in altre città del Paese: “In molti luoghi il vintage era una realtà da molto tempo consolidata. Proprio girando l’Italia ho capito che nel vintage c’erano possibilità di scoperta e ricerca. E soprattutto che era arrivato il momento giusto per fare tesoro delle esperienze vissute, da me e da chi condividesse in parte questa mia storia personale, per creare qualcosa che coinvolgesse l’esperienza che avevo accumulato per portarlo a Ferrara, creando una esperienza che la raccontasse in una mostra-mercato in cui il pezzo importante viene scoperto ed esposto, ma anche che fosse occasione di confronto e scambio. Non mi definisco purista del vintage, ma cultore e appassionato del vintage di ricerca.”

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Copertine di dischi, cartoline, pagine di riviste…

La sua fonte di ispirazione è da sempre la strada, lo street style che si rivela fecondo di idee e ispirazioni, in cui si riversa il mondo, in cui è possibile osservare tutto e tutti. La strada come sinonimo di vita vissuta. Non alla ricerca di un bello assoluto e quasi statico, canonico; ma piuttosto di un dettaglio, di una particolarità, di un colore che colpisca la curiosità e la fantasia e rende un oggetto unico, della storia di un capo, di ciò che c’era prima che nascesse in quanto oggetto, ma che già esisteva nella sensibilità e nella mente di chi l’ha concepito.
Questo è anche il caso del vintage dei remakers, che utilizzano tessuti e materiali di una volta per ricollocarli in creazioni contemporanee. Rivisitandoli, stravolgendoli, cambiando prospettiva: a una giacca, le cui maniche complete di bottoni divengono tasche per una borsa originale; piuttosto che a lampade i cui steli sono costituiti da vasi di vetro; o ancora abiti in cui protagonista di ago e filo non è stoffa, ma carta da parati. Come se gli oggetti potessero avere una seconda possibilità; non solo di mostrarsi, ma anche di vivere una diversa funzione in cui l’ecosostenibilità è la punta di diamante di un processo in cui il materiale non viene scartato, ma riciclato. E come se l’artista, sorta di prestigiatore, estraesse da uno di quei magnifici cappelli a falde larghe un coniglio dietro l’altro.

L’importante – aggiunge Paparo – è che sia vero vintage, ed è proprio per questo che anche lo scorso anno abbiamo proposto prima l’informazione su questo tema a ogni singolo espositore, tenendo alla specifica di questo concetto, per una consapevolezza condivisa tanto dall’espositore, quanto dal pubblico che prende coscienza di ciò che vede. E del fatto che l’arte non è puro e semplice frutto di una mente edonista o vanitosa, né faziosa; ma, al contrario, di un ricercatore che mette a disposizione una collezione e una ricerca personale. É il caso di Betty Concept, che utilizza tessuti storici per creare revival.”
Informazione che ha dato i suoi frutti: “Abbiamo notato che nel pubblico di questo anno c’era maggiore consapevolezza; se l’anno scorso il sentimento predominante nei visitatori era la curiosità, quest’anno possiamo dire sia stata la ricerca, già sapientemente dosata e seminata. Le borse sono indubbiamente l’articolo che ha riscosso grande successo, seguite a ruota dagli occhiali da sole. La grande novità è stato l’avvicinamento all’artigianato, all’hand-made: questo è il caso di Ricicli.”

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L’invito della seconda edizione della mostra-mercato l’Officina del Vintage’ a Ferrara

Unitamente alla fiera mercato, il corredo necessario di appuntamenti e incontri aggiuntivi per immergere il visitatore in una vera e propria cornice culturale che fosse non semplice sfondo ma complemento, accessorio, intrattenimento: film e musica Northern Soul, dedicato alla musica popolare nera degli anni Sessanta, lo spettacolo teatrale Sono Fred dal whisky facile dedicato alle canzone di Fred Buscaglione, sino alle sigle dei cartoni animati cult anni Ottanta interpretati dai Raggi Fotonici; incontri con artigiani, designer e artisti che raccontano il processo realizzativo degli oggetti e come utilizzare materiale di recupero per le proprie creazioni; passeggiate alla ri-scoperta di itinerari tra architettura e urbanistica razionalista del primo Novecento. E ancora fotografia, stile e moda delle acconciature femminili, dalle seducenti flappers degli anni Trenta ai caschetti e alle cotonature degli anni Sessanta. Per terminare con un candido set fotografico i cui protagonisti sono due sedie dal sapore medievale, un austero telefono in bachelite e due drappi rossi che corona la fine del percorso in cui il tempo, fermato ad almeno vent’anni prima, mostra che il passato, prima o poi, ritorna sempre.

Le foto della seconda edizione dell’Officina del Vintage a Ferrara sono di Giorgia Pizzirani

Sistema idrico in Italia: cos’è cambiato in 10 anni

Spesso si discute su temi complessi senza fissare dei riferimenti certi. Ad esempio: cosa è stato migliorato in dieci anni nel ciclo dell’acqua? Cercherò di dare qualche riferimento.
Sul tema dell’acqua è sicuramente cresciuta l’attenzione generale in questi anni, sia a livello internazionale e nazionale sia a livello regionale; si tratta di un buon segnale che indica come stia crescendo la sensibilità generale su questo fondamentale tema, tuttavia siamo ancora lontani da considerare sufficiente il livello raggiunto.

Un contesto così complesso ed arretrato impone una efficace politica degli investimenti che si continua a stimare su valori molto alti e calcolati in oltre mille euro per abitante.

La struttura del settore evidenziava in sintesi:
– obsolescenza della rete acquedottistica che si riflette nell’elevato grado di dispersione, in media del 27%;
– prelievi idrici per abitante (circa 1000 m3/anno) superiori di oltre un terzo alla media europea;
– un terzo della popolazione servita dalla rete acquedottistica non dispone sempre di acqua;
– elevata frammentazione gestionale, dovuta alla gestione separata delle diverse fasi del ciclo dell’acqua ed al dimensionamento su scala comunale della rete idrica;
– estrema frammentazione dell’offerta, che determina basse economie di scala;
– significativa prevalenza numerica delle gestioni pubbliche, in particolare di quelle dirette da parte dei Comuni;
– scarsa presenza di operatori privati presenti nella depurazione e nella conduzione tecnica, ma non nella gestione di pubblico servizio.

Da un confronto sugli ultimi dieci anni del sistema idrico italiano risulta che:
– dieci anni fa il fatturato complessivo era di circa 4 mld di euro di cui acquedotto 68%, depurazione 20%, fognatura 12%, per un quantitativo generale di 6.000 milioni m3 acqua erogata. Oggi il fatturato è di circa 5,2 miliardi di euro a fronte di 5,8 miliardi di metri cubi fatturati;
– pressoché stazionaria è l’occupazione di circa 49.000 addetti complessivi di cui il 69% impiegato nella distribuzione;
– il numero dei gestori dieci anni fa era oltre 8000 (42% pubblici, 8% privati, 50% miste) oggi invece si stima siano meno di mille;
– gli investimenti previsti sono passati da 40 a 70 miliardi di euro;
– il costo medio di un metro cubo di Sii (per un consumo di 150 m3) dieci anni fa era di 0,90 euro/m3 (acq. 0,40, fgn 0,10, dep. 0,25, qf 0,1), mentre oggi è di 1,26 euro/m3 (acq. 0,56, fgn 0,16, dep. 0,40, qf 0,14);
– a livello nazionale le perdite di rete, espresse in percentuale considerano i volumi immessi in rete e i volumi fatturati i volumi immessi passano dal 39% di dieci anni fa al 37% a oggi (dato poco attendibile).
– a livello regionale la situazione è molto simile per quanto riguarda la riduzione delle perdite, infatti allora le perdite erano circa il 28% ed ora sono circa il 26%;
– analizzando la spesa per il servizio idrico integrato a livello nazionale, la spesa media per un consumo di 150 m3 annui era di 135 euro annui (57-320, importi minimi e massimi), mentre oggi è di 190 euro annui (sempre con un range molto ampio tra 80-450).

Rimane una perplessità: si sono fatti passi avanti, ma l’impressione è che il settore dell’acqua non abbia ancora quella attenzione che un servizio pubblico richiede. Speriamo le cose migliorino.

L’OPINIONE
Il Pd, Renzi e la vittoria sulle macerie

I voti al Pd in Emilia Romagna sei mesi fa alle elezioni europee erano 1.200.000, oggi sono diventati 500.000. E rispetto alle regionali del 2010 ne mancano 300.000. Poi c’è il dato choc dell’astensione. Anche gli altri partiti e forze varie, tranne la Lega, sono andati male. Perché mi soffermo sul Pd? Perché sono rimasto impressionato dalle dichiarazioni di Renzi. “Abbiamo vinto”. “Non siamo mai stati così forti.” “Il dato dell’astensione è secondario.” Si rende conto di ciò che sta dicendo? Sta parlando non di una regione qualunque, ma del luogo simbolo della forza della sinistra e della partecipazione civica. Del resto, che conoscenza può avere della storia e della realtà dell’Emilia Romagna un segretario che conclude la campagna elettorale a Bologna vantandosi di aver strappato il maggior applauso attaccando il sindacato? Costringendo il candidato Bonaccini a dire il giorno dopo che in questa regione i rapporti con il movimento sindacale sono buoni. Non a caso chi è stato eletto nelle file del Pd è giustamente preoccupato per questo disastroso risultato elettorale, a cominciare dal suo neo-Presidente. Ad essere onesti intellettualmente, quella del Pd è una vittoria sulle macerie della propria forza, della rappresentanza e dell’autorevolezza della Regione come Istituzione. Insomma è tutto da ricostruire. Francamente, non mi ha mai impressionato il mito costruito da mass media, sponsor e tifosi vari attorno alle capacità comunicative del giovanotto di Rignano sull’Arno. Comunque ero disposto a fare qualche concessione al riguardo. Ultimamente, però, ne ha ‘bucate’ diverse. Inoltre, per uno che ha l’ambizione di durare vent’anni, è preoccupante la ripetizione monotona e noiosa degli stessi lazzi, offese e fervorini sul ‘fare’ e sul futuro radioso e felice che starebbe preparando… a nostra insaputa. Caro Matteo, forse sarebbe l’ora che tu ‘cambiassi-verso’ se vuoi durare un po’ più di Monti e Letta.

Fiorenzo Baratelli, è direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara

Il pessimismo della sinistra
Ma ci sono i bambini…

Quel giorno Ferrara era avvolta da un clima mite e piacevole di fine ottobre. La gente era ancora seduta fuori dai bar della città e faceva quello che è solita fare nelle tarde ore del mattino. Beveva un aperitivo, una coca-cola, un espresso. Anche un mio caro amico ferrarese era seduto in un bar, all’ombra dell’imponente Castello e protetto dalla statua del Savonarola. Gli occhiali oscurati dal sole e la barba grigia ed elegante gli conferivano un fascino senza tempo. Mi invitò a sedere e bere qualcosa con lui. Per decenni aveva lavorato in un liceo, inizialmente nella sua città d’origine Piacenza, poi a Bologna e infine a Ferrara. È un grande esperto di storia italiana e per questo ogni conversazione con lui si rivela sempre molto istruttiva. Si destreggia nella lingua italiana con invidiabile ironia e un’immensa ricchezza lessicale. Grazie alla sua esperienza decennale di lettore della stampa italiana e conoscitore di numerose biografie di protagonisti della politica attuale, sa usare perfettamente il linguaggio delle allusioni e delle bizzarre teorie del complotto per spiegare a uno straniero tutti i segreti della politica italiana, davanti e dietro le quinte. Per essere più precisi, dovrei meglio parlare al passato. Dalla sua ironia, una volta così colorita, è scomparsa oggi ogni traccia di amenità e fantasia. Guarda al mondo attorno a sé solo con pessimismo e quando parla della “Sinistra” lo fa solo con parole furibonde e piene di sarcasmo. Di Renzi non vorrebbe nemmeno parlare; al solo pensiero gli viene la nausea. Secondo lui non è altro che un giovane fiorentino fascista da salotto e discepolo modello di Berlusconi. Per consacrarsi al potere ha tradito tutti gli ideali e i valori della Sinistra, continua con un tono molto amareggiato. Cosa potevo replicare a questo così disilluso profluvio di parole sulla rovina in corso? Il mondo di Matteo Renzi e dei suoi seguaci non è mai stato il mio. La sgarbatezza, l’arroganza e la sfacciataggine con le quali mandano alla rottamazione la generazione precedente alla loro, della quale faccio parte anch’io, sono difficili da tollerare. Il “sogno ingenuo di un mondo del lavoro di soli vincenti, tutto energia, ottimismo e sorrisi, una specie di Truman Show che tiene fuori dalla porta, e lontano dalle telecamere, la durezza del conflitto e l’umiliazione di tante vite a perdere” (Michele Serra ) è per me un vero e proprio incubo. Dopo la ‘lectio magistralis’ di sinistra del mio amico ferrarese, seduto al tavolo di un bar ai piedi del Castello, riesco tuttavia a comprendere ancora meglio perché questa tradizionale Sinistra italiana arranca e brontola in un angolo morto della storia, come dice una tipica espressione bavarese. Durante questi incontri con i ‘compagni di strada’ della Sinistra, sempre più frequenti negli ultimi anni e segnati da note di sarcasmo e scoraggiamento, penso sempre a una conversazione tra Vittorio Foa e la sua amica Natalia Ginzburg (“È difficile parlare di sé”, Einaudi, 1999). Nel maggio 1990, per quattro domeniche consecutive, Natalia Ginzburg partecipò a un ciclo a lei dedicato della trasmissione radiofonica ‘Antologia’ in onda su Radio Tre. Uno dei partecipanti alla trasmissione era Vittorio Foa, suo caro amico dagli anni delle lotte antifasciste. Alla fine della trasmissione fra di loro si è sviluppata una breve, amichevole ma anche emblematica divergenza di opinioni sul futuro a venire. Marino Sinibaldi, il conduttore della trasmissione di allora, bene sintetizza il giudizio di Foa su di lei: “Probabilmente Vittorio Foa pensa ci sia in lei un pregiudizio, come dire, nel guardare il mondo, ci sia uno schermo di pessimismo e di tristezza. Di questo credo la accusi, affettuosamente e amichevolmente, immagino.” Poi la Ginzburg: “Sì, sì, sì… Può darsi che io abbia del nero, della malinconia… Però il mondo non è allegro, il mondo in cui viviamo non è allegro.”
“No, neanche per idea,” risponde Foa “ma Natalia, i bambini nascono. I bambini nascono”. La laconica risposta dell’eterno ottimista Vittorio Foa non mi incita ad applaudire Renzi e il suo “Truman Show”. Ma neanche una Sinistra politica che, come il mio amico, intelligente ma così pessimista, si rinchiude nelle segrete del Castello di Ferrara, riesce a dare speranza ai bambini di oggi. Se gli intellettuali un tempo membri fedeli della ‘Comunità della Sinistra’ non fanno altro che, in tempi di crisi economica e repentini cambiamenti a livello globale come quelli odierni, parlare del tradimento dei loro “sogni di sinistra” (ma ci ricordiamo quali erano questi sogni?), allora i bambini di oggi presto si scorderanno persino della loro esistenza.

Traduzione a cura di Paola Baglione

LE INTERVISTE
Come si convive con qualche chilo di troppo

Camminiamo per strada e scrutiamo la gente, lo facciamo tutti, lo facciamo spesso. Vediamo una donna vestita bene e ci chiediamo dove abbia comprato quelle splendide scarpe; incrociamo un padre che sgrida il proprio figlio e ci domandiamo cos’abbia combinato per averlo fatto arrabbiare così tanto; ci taglia la strada una ragazza grassa, magari con una ciambella zuccherata in mano, e subito pensiamo “quella dovrebbe mangiare di meno!”. Ma chi siamo noi per giudicare ciò che non conosciamo? Magari sta mangiando quella ciambella perché ha avuto una pessima giornata e trova nel cibo una valvola di sfogo; magari invece è l’unico vizio che si concede una volta ogni tanto; oppure se ne frega di quello che pensa la gente perché lei ama il suo corpo così com’è.

Ho cercato di conoscere un po’ meglio queste persone che io preferisco definire “con qualche chilo di troppo”, intervistandole, cercando di entrare nelle loro menti e immedesimandomi nelle loro situazioni. Ho ricevuto diverse risposte che non mi aspettavo, in particolar modo da quelle persone che credevo di conoscere bene, ma che in realtà indossano spesso una maschera per non far capire al mondo come si sentono effettivamente. Alcuni candidati mi hanno risposto in maniera sintetica, non so se per scarso interesse o perché parlare di tale argomento crea loro fastidio o imbarazzo. Altri, invece, si sono letteralmente aperti. Una ragazza in particolare, Carolina, a fine intervista mi ha confidato: “Per la prima volta ho potuto dire tutto quello che penso e che ho dentro. Tante volte quando i miei amici mi prendono in giro, pur sapendo che lo fanno in maniera scherzosa, vorrei dir loro tutto quello che ho detto qui”. Questa ragazza, che per giunta è anche una cara amica, è una delle persone che più mi hanno sorpreso. Quando le ho detto che non pensavo si sentisse così riguardo a se stessa, perché io la considero estremamente solare, allegra e serena, mi ha risposto: “Grazie al mio carattere riesco a camuffare bene i miei sentimenti, in realtà sono una persona molto insicura, proprio a causa del mio corpo”.

Prima di soffermarmi sull’aspetto psicologico però ho posto domande generali sullo stile di vita che conducono. La maggior parte dei candidati mi ha detto che consuma mediamente i tre pasti principali e qualche spuntino a metà mattina/pomeriggio. Inoltre è emerso che quasi nessuno è solito mangiare nei fast-food; al contrario, tutti mi hanno detto di consumare frutta e verdura in ampie quantità. La seguente è la risposta che è andata per la maggiore: “Ho una dieta equilibrata, ma ogni tanto mi concedo qualche sgarro”.
Ho successivamente chiesto loro quanto tempo dedicano allo sport e quante ore invece passano seduti e davanti ad uno schermo. Giulia mi ha detto: “Purtroppo, trascorrendo otto ore al giorno a lezione, non ho molto tempo da dedicare all’attività fisica, quindi cerco di camminare il più possibile. Non passo troppo tempo davanti al pc, ma potrei effettivamente passarne di meno”. Ilaria ha condiviso e aggiunto: “Molte ore le dedico allo studio e non pratico nessuno sport; mi limito ad andare a correre o a camminare piuttosto che spostarmi con i mezzi pubblici”. Francesco invece fa baseball qualche volta a settimana, ma anche lui sottolinea che: “Tra lavoro e studio passo tantissime ore seduto e molto spesso davanti ad un computer”. Gli altri candidati non hanno risposto molto diversamente, tranne qualche rarissima eccezione“. Ho quindi potuto dedurre che una delle principali cause dell’aumento di peso è la sedentarietà, la scarsa attività fisica condotta dal campione intervistato.

Sono poi passata al secondo fattore responsabile dell’obesità, la familiarità. A questa domanda la maggior parte dei candidati mi ha risposto che nella loro famiglia nessuno è obeso, ma in sovrappeso sì. “Tendiamo tutti ad allargarci molto facilmente e velocemente se non ci regoliamo”, ha affermato Carolina. Le risposte a questa domanda hanno in realtà toccato entrambi gli estremi: chi mi ha detto di non aver nessun membro della famiglia in sovrappeso e chi invece ha affermato che “tutti nella mia famiglia hanno problemi di peso” (Stefano).

Ho infine chiesto loro quale pensano sia la causa responsabile del loro peso in eccesso e mi hanno dato le risposte più disparate. Giulia ha detto “credo che il mio sovrappeso sia dovuto a un misto di golosità e di pigrizia: golosità perchè mi piace mangiare e pigrizia perchè quando inizio le diete poi tendo a non essere molto costante nel seguirle”. Anche Maria Elena ha attribuito al suo sovrappeso le stesse motivazioni. Altri sono stati molto sinceri e schietti nel dire “amo mangiare”. Sia Stefano che Riccardo amettono di continuare ad ingerire cibo anche quando sono già sazi o quando non hanno appetito perché “resistere alle tentazioni è davvero molto difficile” e “se entro in cucina e trovo qualcosa che mi piace, la mangio e basta”.
Tutti gli individui intervistati hanno provato a seguire delle diete, chi andando dagli specialisti, chi affidandosi alle diete proposte sulle riviste e in rete. “Non mi interessava il tipo di dieta, bastava dimagrire in un modo o nell’altro”, afferma Ilaria drasticamente. Per alcuni di loro queste hanno avuto successo, altre sono state abbandonate perché non efficaci o per la scarsa costanza dell’individuo stesso. Una risposta mi ha particolarmente colpito: “Ho provato a seguire moltissime diete, sia casalinghe che proposte da dietologi. L’ultimo nutrizionista però mi ha dato una dieta che era più un ciclostile, non era fatta su misura per me, infatti non dimagrivo molto, ma lui invece che cambiarmela continuava a fare insinuazioni, accusandomi di mangiare di nascosto e facendomi passare uno dei periodi più brutti della mia vita. Ero molto stressata psicologicamente per questo e, arrivata al limite, non sono più andata alle visite perché, prima di andare a farmi controllare da lui, mi costringevo a giorni di digiuno. Per colpa sua ho perso un po‘ la fiducia nei medici ed è per questo che ho iniziato a seguire diete da sola. Per un periodo ho fatto la Dukan (una dieta totalmente proteica molto restrittiva) che mi ha fatto perdere 7 chili subito; successivamente però ho passato mesi di stallo, non perdevo più niente e appena ho ricominciato ad introdurre alimenti “normali” ho subito ripreso tutti i chili che avevo perso”.

Dopo questa risposta ho deciso di approfondire l’aspetto psicologico di questa problematica che oggi in Italia colpisce sempre più giovani. Ho notato che, in linea di massima, possiamo distinguere tre categorie di persone in sovrappeso:

Le prime hanno un rapporto conflittuale con il proprio corpo, ne è un esempio Carolina: “Non mi piaccio per niente, ogni volta che mi guardo allo specchio non trovo una cosa di me che mi piaccia e questo mi condiziona costantemente. Mi domando spesso cosa la gente pensi di me. Cammino per strada e mi sento a disagio, entro in un negozio e mi sento bruttissima perché nessun vestito mi sta bene. Sono inoltre sempre prevenuta con i ragazzi perché parto dal presupposto che “sono grassa, quindi non potrò mai piacergli”. In sostanza, do la colpa al mio fisico per tutto e mi sento sempre a disagio in ogni occasione”.

Le seconde hanno invece imparato a convivere con il proprio corpo, seppure mantenendo con esso un rapporto altalenante. “Spesso non mi piaccio, ma cerco sempre di sdrammatizzare”, afferma Lorena. “Con il mio corpo ho un rapporto più o meno pacifico, almeno fino a quando non devo mettere un vestito. Lì litighiamo, ma poi facciamo pace”, ci racconta Giulia.

La terza categoria racchiude quelle persone che si apprezzano per quello che sono. Ciro dice apertamente “amo il mio corpo e non mi sono mai sentito a disagio con gli altri”. Anche Claudia afferma “sto molto bene con me stessa perché con il tempo ho imparato ad apprezzarmi e ad amarmi per quella che sono”. Elena spiega: “la consapevolezza è arrivata con il tempo; alla fine ti rendi conto che il tuo peso non ti identifica, non ti definisce di più di quanto lo facciano un colore di capelli o un vestito. Perché io non sono sovrappeso, ho del peso in più, e capire questa differenza è fondamentale”.

Un percorso ad ostacoli, che non tutti sono in grado di portare a termine. Arrivare a questa consapevolessa non è mai facile per nessuno, tutti noi abbiamo qualcosa del nostro corpo che cambieremmo, ma riuscire ad accettarsi richiede fatica e coraggio, e provo solo tanta stima per chi cammina a testa alta, sicuro di sé.

LA TESTIMONIANZA/2
Non voglio essere violento come mio padre

di Elena Buccoliero

LA TESTIMONIANZA DI ANDREA – SECONDA PARTE

SEGUE – Io figlio, io padre
Secondo me mio padre si è trovato tra capo e collo dei figli senza pensare bene cosa volesse dire. Per come l’ho conosciuto e per come ha trattato noi, non aveva in testa un progetto di famiglia. Aveva forse un progetto di coppia, all’inizio, nella sua ottica. Veniva da una famiglia a dir poco disastrosa, perciò… io posso, non giustificare ma capire. La cosa che non gli perdonerò mai è il fatto che non si è mai messo in discussione.
T’imbarbaglia. Se si convince di una cosa devi pensarla come lui per forza, se no te lo dimostra e se non ci riesce volano i bicchieri, i piatti. Ha un livello di perversione che rasenta la schizofrenia. È anche una persona in gamba e io sono convinto che ci seppellirà tutti, ma secondo me è proprio malato: un aspetto della malattia mentale molto difficile da scoprire specie per un bimbo, anzi per quattro bimbi, che ci sono nati, perché quello che fa tuo padre quando sei piccolo è quello che si fa, quello che va fatto. Non hai la capacità di dire: “non va bene”. Sono cresciuto in un ambiente che, per molto tempo non sapevo che cosa volevo e chi ero.
La mia paura è proprio quella di diventare… non dico come lui, perché qualche passo l’ho fatto, ma a livello viscerale so di essere molto lontano da tutto quello che leggo su Azione nonviolenta. Non mi piace la violenza, okay, ma mi scopro atteggiamenti verbali, con i miei figli e a volte con mia moglie, per cui capisco che ho un bel po’ di strada da fare.
In casa, a volte, do delle risposte violente, cioè non basate sul rispetto e ancora meno sull’ascolto, che a me è mancato tantissimo e che sto cercando di sviluppare il più possibile, però è faticoso. Ha a che fare con la tua pancia, la tua stanchezza, il fatto che devi rielaborare sul momento quello che sta succedendo perché i bimbi sono istintivi, devi essere pronto a capire la situazione.
Sono riuscito fino ad ora a non picchiarli mai e incrocio le dita di riuscirci sempre perché so cosa vogliono dire le botte di un padre, sono la cosa peggiore. Meglio forse la carica della polizia durante una manifestazione, meglio i lacrimogeni o il carcere. Le botte di un padre ti fanno male due volte, per il dolore fisico e perché quella sberla è dettata dall’ira. Almeno, nel mio caso non era la punizione che tanti genitori ritengono valida per educare i figli quando sbagliano. Era uno scoppio d’ira perché “hai osato contraddirmi, hai osato fare il furbo con me”. E la cosa più stronza è che quella cosa lì ti si mette nella pancia e non va mai via, è una collera inconsapevole. Nutri un senso di vendetta, nel tempo, che ti viene fuori quando hai dei figli. Prima puoi avere atteggiamenti scostanti, a volte arroganti, ma i figli sono lo specchio migliore: li guardi e sei davanti a te stesso.
Quello che mi fa paura, e vado da una psicologa per questo, è che non voglio ripetere gli errori di mio padre. Non voglio neanche mettermi la carta igienica in bocca piuttosto che urlare o picchiare, vorrei arrivare a dominare la rabbia. Non so se ci riuscirò ma so che un ceffone adesso vuol dire un disastro per i prossimi trent’anni, per i bimbi e per me, perché quello che fai ti torna indietro. Con mio padre ho trovato la strategia: ho chiuso del tutto, soprattutto per preservarmi.
Mi chiama al lavoro – non si è mai preoccupato di sapere che lavoro faccio e che orari ho, posso dirti che il capo per niente ti fa un cazziatone – quel giorno mi cerca sul cellulare sette volte ma in quel momento non posso parlare. Un’altra persona, se vede che non rispondi la prima volta aspetta che tu la richiami ma lui no, lui non accetta il rifiuto. Alla settima volta lascia un messaggio in segreteria e io chissà perché vado in bagno ad ascoltarlo.
Al di là delle parole, che non ricordo ma sono sempre le stesse, se avevo una pistola mi sparavo. Questa è l’unica cosa che sono riuscito a pensare per un quarto d’ora: la faccio finita. Quando sono tornato in me, nel me che conosco meglio, mi sono detto: “ma quanto potere ha ancora questo figlio di puttana su di me!?”. Perché vedi non ho pensato: gli sparo. Ho pensato: mi sparo. Da quel giorno non rispondo più, se lascia un messaggio in segreteria lo cancello senza ascoltarlo. O quasi. L’altro giorno ho fatto lo sbaglio di sentire le prime parole: “Bravo, sei proprio bravo… Tuo padre è anziano, non ti vergogni, non mi rispondi neanche…”.
Ho poca speranza che lui cambi, ma ammesso che succeda non penso che la sofferenza che ho dentro se ne possa andare. Lui è un vecchio, fisicamente non fa più paura anche se è ancora forte, però un messaggio in segreteria mi mette in queste condizioni.

VOLEVA ESSERE L’ARTEFICE DEL MONDO
Qualcosa di sano da qualche parte c’era. Forse nell’alchimia tra noi fratelli. La maggiore ha subito più di tutti: ingiurie, violenze psicologiche. Quando si laureò, a gran fatica studiando e lavorando, e con un buon punteggio, all’inizio viveva in una casa senza finestre perché era l’unico affitto che riusciva a permettersi quando è scappata di casa. Nonostante tutto ce l’ha fatta e noi fratelli le abbiamo preparato una festicciola di nascosto, dato che mio padre aveva ostacolato i suoi studi in tutti i modi. Non penso per gelosia. Semplicemente non tollerava che qualcosa succedesse intorno a sé fuori dal suo controllo.
Un giorno – ero alle medie, avevo 12-13 anni – dimenticai di dirgli che andavo con la scuola a fare una visita guidata in una zona che lui conosce benissimo. Quando tornai e glielo dissi furono botte, ma botte, tanto che mia a madre lo pregò di smettere. Non ha mai tollerato che qualcosa esistesse senza che lui ne fosse l’artefice.
Per tanto tempo non sono riuscito a spiegarmi l’origine di tutta questa cattiveria. La cosa che mi ha ferito di più è stata la perversione che gli psicologi chiamano malattia. È veramente perversa la sua tortura psicologica, gode a sottometterti.

Anche tu ti arrabbi quando non sei l’artefice del mondo?
No. Mia figlia ha una grande capacità di provocare. Sai l’atteggiamento tipico dell’adolescente? Quando ti svegli alle sei e venti ogni mattina, corri tutto il giorno come un cretino e vedi che alle undici e mezzo di sera non sono ancora a letto, t’incazzi. Quando chiami la più grande a tavola per cinquanta volte e c’è la pasta che a lei piace, e alla fine si siede e dice “che schifo” e non la mangia, t’incazzi. Però il modo in cui mi arrabbio ha la matrice di quello che ho vissuto. Lancio gli oggetti con la stessa rabbia di mio padre.
Lui arrivava, magari dovevi riferirgli una telefonata e te lo ricordavi un’ora dopo. Tirava il bicchiere dove capitava e se ti scansavi in tempo bene, sennò fa lo stesso. Poi continuava: c’erano altri sette bicchieri in tavola. Questa è l’ira che non mi riconosco.
La psicologa mi spiega che io non sono mio padre. Per fortuna o sfortuna ho mio padre dentro, per cui sono anche mio padre ma non soltanto questo e, comunque, devo stare attento. Per adesso cerco di arginare l’ira per non fare danni. Vedo però che l’atteggiamento dei miei figli almeno apparentemente non è di paura anche quando ho un attacco di collera, io invece avevo proprio il terrore.
Era una battaglia continua. Abitavamo in una villetta con due porte, sul davanti e sul dietro. Quella sul retro portava in garage ed era chiusa dall’interno con un catenaccio. Mio padre arrivava, suonava il campanello sul davanti, e noi dovevamo aprire dietro per farlo entrare con la macchina. Dopo un po’ non suonava più il campanello, dava un colpo di clacson e dovevi scappare dietro ad aprire nel tempo che lui arrivava. Dopo ancora non c’era nessun clacson, lui passava, noi dovevamo riconoscere il motore della sua auto e aprire. Se non trovava aperto erano botte. Ci eravamo organizzati che, quando lo sentivamo, noi ragazzi uscivamo dal davanti e andavamo al campetto, così potevamo dire che non eravamo in casa. Così, tutti i giorni a combatterci.
Magari un figlio sta guardando la tv e non si accorge del motore…
Già, ma i bimbi sono al servizio dei genitori. E devono obbedire in qualsiasi circostanza. Lui sapeva che lo sentivamo arrivare, noi sapevamo che lui lo sapeva: quando ti dico che era perverso.

LA PSCICOTERAPIA, LA MEDITAZIONE, IL DESIDERIO DI CAPIRE
Dopo sette anni di analisi ho avuto due figli. Prima facevo le condoglianze a chi era incinta.

Avevi paura di avere bambini?
Non paura, cinismo. Come ti permetti di mettere al mondo un figlio con tutta la sofferenza che c’è al mondo? Era un periodo in cui leggevo Huxley, Blake e cose del genere… E comunque un figlio assolutamente no, troppe tribolazioni ho visto nella mia famiglia. Mia moglie era convinta di volere dei bambini, poi mi sono convinto anch’io e sono ben contento di averli fatti ma c’è stato un lavoro analitico, dietro, anche tosto.
All’inizio della terapia mi ero appena laureato e facevo fatica coi soldi, volevo dimezzare le sedute ma la psicologa mi disse: è troppo poco. Così ho raddoppiato, sono andato in analisi due volte alla settimana e poi tutte le domeniche a camminare, ore e ore sui colli a buttare fuori la rabbia. Se ci ripenso non so come ho fatto, ci vuole una notevole energia emotiva per andare in analisi specie se stai molto male.
Tante volte sono uscito di lì pensando: passo dritto al rosso. Sceglievo il crocevia più pericoloso… All’ultimo frenavo e dicevo: ne parlo con la psicologa la prossima volta. Non so davvero cosa mi ha trattenuto. Una piccolissima parte di me ha tenuto a freno questa tendenza di dargliela su. Toccare la propria merda è faticoso anche perché non puoi dare la colpa a nessuno, capisci che è la tua.
Secondo il buddismo io ho scelto di nascere in questa famiglia. Ho sempre detto che quel giorno dovevo essere ubriaco. Non ho capito, non so, perché sono nato in una famiglia così perversa e violenta.

Sei buddista?
Non so nemmeno che cosa voglia dire. I cristiani li riconosci perché vanno in chiesa, i musulmani in moschea. E i buddisti?
Sono appartenuto per un po’ di anni ad una organizzazione che si considera buddista ma che non ritengo tale, però un po’ ho approfondito, questo sì. Ho conseguito una pratica buddista. Comunque in tante culture e filosofie c’è questa convinzione, che tu sei nato per uno scopo, e lo ritengo abbastanza vero.
Ma non riuscirò mai a sedermi a un tavolino, come con te, con mio padre, a dirgli quello che penso.

Che cosa vorresti dirgli?
Anche solo ricordargli dei momenti. Belli… Belli per lui. Non per mia madre che doveva preparare tutto. In qualunque gita lui pretendeva di mangiare le tagliatelle al ragù tenute in caldo da mia madre.

Come sei riuscito a scrivergli una lettera di ringraziamento?
Non lo so. Cambia tutto quando aspetti un bimbo. Ma non rinnego quella lettera, è vero che non ci è mai mancato niente fisicamente e capisco la difficoltà di mantenere quattro figli. Non mi posso lamentare da quel punto di vista, è vero.
Le lettere ai miei le ho volute scrivere identiche: “Carissimi genitori”. Volevo sapessero che stavo scrivendo a entrambi anche se erano già separati e sono contento di averlo fatto, lo farei ancora. Se il cibo e i vestiti sono quello che ti consente di sopravvivere, tanto di cappello, grazie. È chiaro che tutto il resto è mancato.
Ci ho messo un bel po’ a rendermi conto che non ho avuto un padre. Pensavo di averne avuto uno stronzo e cattivo, in realtà no. Non è un padre quello che tradisce la moglie, la picchia…
No, non ho avuto un padre. Lui è il contrario di quello che nella mia testa è il concetto di padre e anche di marito. Si vantava di essere il pater familia, usava anche il latino, ma giustamente, era proprio il padrone. Coerente.
È ancora stronzo adesso. Non cambierà mai. Devo togliermi l’illusione di parlare con lui e concentrarmi sul parlare con la parte di mio padre che è dentro di me.

LEGGI LA PRIMA PARTE

Elena Buccoliero è Sociologa e counsellor, da molti anni collabora con Azione Nonviolenta, rivista del Movimento Nonviolento. Per il Comune di Ferrara lavora presso l’Ufficio Diritti dei Minori. È giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna e direttore della Fondazione emiliano romagnola per le vittime dei reati.

Questa testimonianza è stata pubblicata la prima volta su Azione Nonviolenta, il periodico del Movimento Nonviolento che ha dedicato un numero tematico alla violenza di genere. La ripubblichiamo qui per gentile concessione dell’autrice, in occasione della “Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”.

Per saperne di più sulla nonviolenza in Italia e nel mondo [vedi]

Altri articoli pubblicati da ferraraitalia sulla ricorrenza della “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”: alcuni dati [vedi] e la celebrazione del 22 novembre a Ferrara [vedi]

Ci vuole un fisico

Gli incontri al buio possono sempre avere degli sviluppi inaspettati, come nel caso dei due protagonisti di “Ci vuole un fisico” del regista faentino Alessandro Tamburini.
Nello stesso ristorante un ragazzo e una ragazza, dall’aspetto normale, ma entrambi convinti di essere poco avvenenti se non addirittura brutti, aspettano i rispettivi partner, che tardano ad arrivare e non rispondono alle pressanti telefonate. Dopo numerosi tentativi di contattarli, si convincono dell’inutilità dell’attesa e si consolano cenando ognuno per conto proprio.

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La locandina del film

I due si incontrano all’uscita del ristorante, dopo essersi prima scambiati qualche occhiata e avere compreso la situazione l’uno dell’altra. Lei gli propone di accompagnarlo a casa e questo è il pretesto narrativo per iniziare un viaggio nella Roma notturna, alla ricerca di qualcosa che dia loro tranquillità. Durante la corsa in scooter inizieranno a conoscersi parlando di loro e dei “perduti” partner, ma soprattutto quello che emergerà sarà il senso di insicurezza e inadeguatezza, al limite dell’ossessione, che li tormenta. Tutti questi problemi nascono da un’esagerata non accettazione del loro fisico e della voglia di trattarsi bene, soprattutto nei confronti del cibo.

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Alessandro Tamburini e Anna Ferraioli Ravel

Una frase pronunciata dalla ragazza è particolarmente efficace nel descrivere il suo modo di sentirsi: “… secondo me essere brutti è come fare una gara, metti che stai correndo una maratona, tu corri in mezzo alla gente e ogni tre chilometri arriva una mano gigante che ti riporta indietro di un chilometro… e pure se sei in vantaggio sugli altri, devi correre sempre più forte così, sempre per colpa di quella mano gigante, però pensa che soddisfazione se vinci la gara …”.

Il film si regge sulla buona interpretazione dei due attori, in particolare di Anna Ferraioli Ravel (diplomata al Centro sperimentale di cinematografia), la cui vivacità recitativa dona spessore e simpatia al personaggio della ragazza complessata.
La notte passata insieme li rende consapevoli delle loro potenzialità come esseri umani e sembra iniziare una storia d’amore. Le paranoie stanno per abbandonarli.
Alessandro Tamburini è nato a Faenza nel 1984, al suo attivo ha numerose produzioni tra cui “Il viaggio”, le cui riprese sono state effettuate in Romagna. Il regista si è diplomato al Centro sperimentale di cinematografia, dove fu ammesso grazie al medio metraggio intitolato “La trappola”, vincitore di vari concorsi nella capitale. Segnaliamo anche il documentario “Mai senza. La sessualità alla terza età”, realizzato assieme a Ciro Zecca, con Paolo Villaggio, Lino Banfi, Sandra Milo, Tinto Brass, Carlo Monni, Milly D’Abbraccio e Riccardo Schicchi.
“Ci vuole un fisico” ha vinto numerosi premi, molti dei quali assegnati alla protagonista femminile.
Alessandro Tamburini e Anna Ferraioli Ravel sono i protagonisti, con Sandra Milo, del divertente cortometraggio “L’arte del fai da te”, disponibile in rete per la visione, e attualmente hanno appena finito di girare il cortometraggio “Il cervo, l’alce, il capriolo”.

Il film è interamente visibile a questo indirizzo [vedi]

“Ci vuole un fisico”, di Alessandro Tamburini, con Alessandro Tamburini e Anna Ferraioli Ravel, cortometraggio, commedia, Italia, 2013, 15 min.

IL FATTO
Premio Sakharov al dottor Mukwege, ‘ripara’ i corpi mutilati delle donne

Il Premio Sakharov per la difesa dei diritti dell’uomo sarà conferito quest’anno al ginecologo congolese Denis Mukwege, 59 anni, che cura, nella sua clinica di Bukavu, le donne stuprate e vittime di violenze sessuali nei conflitti armati dell’est della Repubblica democratica del Congo (Rdc). A deciderlo, il 21 ottobre scorso, è stato il Parlamento europeo. Il premio (50.000 euro) sarà consegnato, con cerimonia solenne, domani a Strasburgo, dal presidente del Parlamento europeo in sessione plenaria.
Istituito nel 1988, il premio riconosce, ogni anno, l’impegno di personalità distintesi nella difesa dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Seguendo l’esempio del fisico russo Andreï Dmitrievitch Sakharov (1921-1989), i vincitori del premio, a lui intitolato, testimoniano il coraggio necessario per difendere i diritti dell’uomo e la libertà di espressione. Sakharov, preoccupato per le conseguenze del suo lavoro per l’umanità, tentò di far prendere coscienza del pericolo rappresentato dalla corsa agli armamenti nucleari e ottenne un parziale successo mediante la firma, nel 1963, del trattato contro i test nucleari. Considerato in Unione sovietica come un dissidente dalle idee sovversive, negli anni ’70 creò un comitato per la difesa dei diritti dell’uomo e delle vittime delle persecuzioni politiche. Vinse il Nobel per la pace nel 1975.

Oggi, i rappresentanti del Parlamento hanno sottolineato di voler assegnare tale riconoscimento al dottor Mukwege per il grande coraggio e determinazione con i quali si fa carico delle vittime di violenza sessuale nel suo paese. Si tratta di un segnale forte da parte delle istituzioni europee, per dire a tutte le donne vittime di violenze sessuali nei conflitti che non sono sole, che non sono abbandonate alla loro sorte e che il mondo è disponibile ad ascoltarle con grande attenzione. Il riconoscimento è importante anche per lo stesso Congo, che vive un momento difficile di “né di pace né di guerra”, con notizie quotidiane preoccupanti e allarmanti provenienti dai villaggi più remoti.
Denis, come vorremo chiamarlo, è soprannominato “l’uomo che ripara le donne”. Nella sua regione natale del Sud Kivu, all’est del paese, oltre 3.000 donne sono seguite, ogni anno, dal servizio di ginecologia da lui creato. Ha studiato in Francia, ma combatte per le donne del suo Paese, per quelle donne dai corpi mutilati dalla guerra (e non solo), il vero terribile e spietato nemico. Ogni giorno, Denis e la sua équipe brillante le accolgono, le ascoltano e le curano nell’ospedale di Panzi, a Bukavu, che dirige dal 1999. In 15 anni, oltre 45.000 donne stuprate e mutilate nella regione sono state accolte dalla sua struttura. Quest’uomo rappresenta una sorta di angelo custode. Un angelo che porta avanti, imperterrito e sicuro, una lotta contro la barbarie, ma anche contro il silenzio e la solitudine. Si è proposto il Premio Nobel per la Pace, per lui, ma sono arrivati vari riconoscimenti internazionali, per ora. Il dottor Mukwege vuole portare avanti la parola di queste donne, e per fare questo sfrutta tutte le platee possibili, tutti gli spazi offertigli per parlare dei loro drammi e denunciare ciò che lui, giustamente, qualifica come un crimine contro l’umanità. Si batte contro le atrocità di una guerra in cui lo stupro è utilizzato come un’arma da tutti gli schieramenti e il corpo della donna si è trasformato in un nuovo campo di battaglia. E allora, lunga vita al “Muganga”, come è noto Denis.

Si veda anche il libro di Colette Braeckman, “Muganga. La guerra del dottor Mukwege”, Fandango, 2014, 190 p., presentato anche a Ferrara, alla scorsa edizione di Internazionale.

Uniti nel mondo per un’Istruzione di qualità

Mentre i politici nazionali formulano obiettivi ambiziosi per la scuola, gli insegnanti, ogni giorno sempre più, scoprono che le possibilità di concentrarsi sui bisogni degli alunni, sulla qualità del lavoro d’aula e sulle questioni pedagogiche fondamentali sono peggiorate.
Come non ricordare il novembre dell’Ottantanove? Venticinque anni fa. Mese e anno eccezionali. Il 16 novembre del 1989 cade il muro di Berlino, quattro giorni dopo, il 20, a New York, l’assemblea delle Nazioni unite fa propria la ‘Dichiarazione dei diritti del fanciullo’.
Il riferimento al muro di Berlino non è solo dettato da una coincidenza della storia, ma dal fatto che molti muri nei confronti dei fanciulli (si intende tutti coloro che non hanno raggiunto la maggiore età) devono ancora essere abbattuti.
I leader mondiali hanno promesso che il diritto di andare a scuola e imparare sarà realtà per tutti i bambini della Terra entro il 2015. Ma è già chiaro oggi che l’obiettivo non potrà essere centrato l’anno prossimo e forse neppure negli anni immediatamente in avvenire.
Intanto, nonostante i progressi nel corso degli ultimi 25 anni, ci sono 58 milioni di bambini che non vanno a scuola e la crisi economica, un po’ ovunque, ha finito per colpire soprattutto le scuole, gli insegnanti e la qualità della formazione.
L’istruzione di qualità per tutti, dunque, resta in cima all’agenda per un futuro sostenibile, pacifico e prospero.
Mentre i politici nazionali formulano obiettivi ambiziosi per la scuola, gli insegnanti, ogni giorno sempre più, scoprono che le possibilità di concentrarsi sui bisogni degli alunni, sulla qualità del lavoro d’aula e sulle questioni pedagogiche fondamentali sono peggiorate.
Classi numerose, personale ridotto, risorse economiche e strumentali che mancano, spazi e edilizia scolastica inadeguati, scarsa autonomia e flessibilità, un’opinione pubblica poco informata e consapevole di ciò che va accadendo nel nostro sistema scolastico nel suo insieme.
Non può certo consolarci il fatto che tutto ciò non investe soltanto il nostro paese, ma tutte le realtà nazionali dove la questione scuola in questi anni ha visto perdere di centralità a causa delle politiche di austerità.
Così ‘l’Istruzione’, piegata alla omogeneizzazione globale, dagli interessi e dai programmi proclamati dall’Ocse e dalla Banca mondiale, torna ad essere la rivendicazione internazionale di un diritto oggi fortemente minacciato, di un diritto proclamato da quella carta di venticinque anni fa, che si vorrebbe celebrare, tacendo delle tante violazioni che ancora si perpetuano nei confronti dei suoi principi.
Se ne sono resi conto tutti coloro che hanno intrapreso la campagna “Unite for quality education”.
È una campagna dell’associazione ‘Education international’, la voce di insegnanti e altri lavoratori della formazione in tutto il mondo. Conta 30 milioni di membri, rappresenta attraverso le sue 400 organizzazioni affiliate oltre 170 paesi.
Un buon segnale, perché dimostra che si può uscire dal campo circoscritto della difesa asfittica di un ruolo e di uno status, da tempo non più riconosciuti, per affermare invece il valore, la portata sociale e la forza di una professione, quella docente, insieme alla qualità della propria professionalità.
La lotta che unisce tanti insegnanti di tutto il mondo, va oltre la tutela corporativa della categoria, per abbracciare l’interesse dell’intera società civile, perché rivendica una visione ben articolata per una forte e competente professione docente, per una scuola di alta qualità continua.
In Europa e negli Stati Uniti gli insegnanti si trovano ad affrontare politiche educative che denunciano una sfiducia di fondo nei confronti della professione docente, attraverso la combinazione dei risultati di numerosi test standardizzati e di valutazioni che alla fine risultano per essere controproducenti non solo per chi insegna, ma per tutta la scuola.
In questa situazione, la risposta degli insegnanti che hanno dato vita alla campagna “Unite for quality education” è la migliore. Perché, rifiutando una chiusura corporativa, si è aperta a dimostrare all’opinione pubblica di quale professionalità siano portatori e come la qualità della scuola dipenda da politiche capaci di arricchire e valorizzare le loro competenze, con l’obiettivo di ottenere un’istruzione di qualità per tutti.
Inoltre, l’importante intuizione, che accomuna quanti sono impegnati in questa campagna, consiste nella consapevolezza che la dimensione mondiale oggi non consente di isolare i temi dell’istruzione e della docenza in una prospettiva locale, ma che è quanto mai necessaria una cooperazione che superi i confini nazionali.
Raccogliere conoscenze, condividere esperienze tra insegnanti professionalmente preparati è forse la migliore chiave per estirpare il germe che oggi minaccia nel mondo gli insegnanti e la qualità delle nostre scuole. Il ‘Global education reform movement’ è il ‘GERME’ di cui si parla, che è l’obiettivo internazionale, dell’Ocse e della World bank, di ridurre le scuole del globo e, con esse, il diritto all’istruzione, all’omologazione al ‘common core standard’, ai test nazionali e transnazionali, alla conquista delle vette delle classifiche del successo formativo, in funzione esclusiva dell’economia del rendimento del capitale umano sui mercati mondiali, alla faccia degli intenti proclamati dalla “Dichiarazione dei diritti del fanciullo”.

Seggi deserti: riflesso di una politica spoglia

Finalmente un Masaniello vs un Rivoluzionario, un duello che ci coinvolgerà per i prossimi anni e non è detto che non incontreranno rischi e sorprese se il quadro d’insieme del Paese resterà avvolto nella conservazione ed in mano ai mille cespugli del vecchio regime del ‘900.
La via Emilia elettorale non è più intasata, in moltissimi sono rimasti a casa, si sono viste solo le nomenclature, con parenti, affini, lobby e vicini.
Hanno vinto le regionali solo i piccolissimi numeri inseriti nelle urne semivuote; ormai il modello del passato, anche recente, si sta sciogliendo e rimane solo il nobile tentativo delle piazze.
Non si è capito, fino in fondo, la drammaticità della crisi, la svolta inevitabile per la discontinuità nel Pd, l’impoverimento ulteriore del Paese e che a pagare sono ancora i più deboli.
Dobbiamo leggere ed entrare nei numeri, quelli assoluti, abbandonando le percentuali: tendenzialmente 3 elettori su 4 restano a casa.
Ormai siamo immersi in un nanismo, che va anche oltre la linea che attraversa la regione, ossia di quei pezzi del ferrarese dove l’alto è ormai distaccato dalla bassa e anche dal medio-alto del territorio provinciale.
Non brindano più nemmeno i candidati vincitori, ormai dimezzati dal residuale consenso, le saracinesche del Pd sono ancora abbassate. Il dramma è vincere dentro una sconfitta e le rassegne stampa risultano zeppe di ricette astiose degli irriducibili giapponesi ed anche di analisti improvvisati e curvi; per la Lega nord il dato è storico.
Ormai i cespugli sono spogli, le foglie del comunismo sono rinsecchite, il cattolicesimo democratico cosa d’altri tempi, i liberali e le destre solo linguaggi, il centro moderato non si capisce cos’è, ed il cambiamento ormai pare l’unico fatto per guardare i primi tratti di futuro.
Si accantonano le ragioni di due legislature regionali interrotte perché travolte da scandali, da sperperi, da arricchimenti, da privilegi, da condanne, dal prolificare delle burocrazie dei mandarini, da costi impropri, da rivoli di concessioni poco trasparenti.
Siamo di fronte all’emergere di un nuovo status istituzionale pregno di troppi vizi (dalle mutande verdi ai sexy shop) che hanno preso, nel complesso, ormai tutto il sistema regionale e locale delle amministrazioni pubbliche.
In molti ci si è chiesti come vengono percepite le regioni dai cittadini italiani, e cosa si trova se si vanno a digitare su Google le parole “scandalo fondi regionali”, o anche semplicemente ascoltando la gente lungo le corsie dei Centri commerciali.
Attendiamo che l’Istituto Cattaneo di Bologna ci aiuti a capire di più, anche se ormai il tenzone ci coinvolgerà un po’ tutti: un rivoluzionario, un masaniello, un suo versus.

L’OPINIONE
Il gattopardo alla bolognese

I numeri sono come gli animali. Non parlano, ma si esprimono attraverso segnali che noi dobbiamo saper cogliere con animo puro e mente scevra da pregiudizi. In entrambi i casi, chi non vuole o non riesce a capire finisce col fargli dire quello che vuole.
I risultati elettorali in Emilia Romagna si caratterizzano per due fatti eclatanti: l’enorme livello di astensione, dal 68% delle regionali scorse al 37%, e la sostanziale invarianza rispetto al passato del risultato finale delle coalizioni principali, con il centrosinistra che prende il 49% dei voti (era al 52%) ed il centro destra che passa dal 36% al 30%. Il M5s, che pure cresce dal 6% al 13% rispetto alla tornata precedente, continua a perdere consensi, era il 24% alle politiche del 2013 ed il 19% alle europee. Le formazioni a sinistra del Pd, con Sel dentro alla coalizione di centrosinistra al 3% e L’Altra ER al 4% (5,5% assieme alle regionali del 2010), raggiungono un buon risultato, se confrontato con il 4% raccolto dalla Lista Tsipras alle europee. Costante attorno al 2,5% il risultato delle formazioni centriste (Ncd + Udc).
Il fatto che l’elevatissimo livello di astensione non abbia modificato in termini sostanziali i rapporti di forza fra i principali blocchi dimostra che il fenomeno ha interessato più o meno in ugual misura tutti gli schieramenti. Detto in altri termini, le ragioni che stanno dietro alla grande disaffezione dimostrata dagli elettori non si sono scaricate su una parte politica in particolare – semmai hanno colpito in modo del tutto contro intuitivo più la destra all’opposizione che la sinistra che governava, ma dimostrano un atteggiamento di condanna indiscriminato nei confronti della politica tout court, perché è del tutto ovvio che un calo di affluenza di oltre il 30% ha almeno in parte una valenza dichiaratamente punitiva. Questo aspetto peculiare, in una regione che solo alle scorse europee aveva in un contesto generalizzato da una scarsa affluenza al voto dimostrato una tenuta maggiore delle media nazionale (il 70% contro il 57%), deve a mio parere essere interpretato in modo diverso rispetto al fenomeno più generale della crescente disaffezione elettorale a cui evidentemente si somma. Si tratta infatti di un avvertimento preciso e ultimativo che un numero molto elevato e, ripeto, largamente trasversale di elettori ha voluto mandare ai vertici della politica regionale, accomunati nel medesimo giudizio di indegnità. Da questo punto di vista si potrebbe speculare che l’effetto dell’inchiesta sui rimborsi spesa anomali dei consiglieri regionali, che ha interessato tutti i gruppi consiliari, è stato molto maggiore del fatto all’origine della fine anticipata della legislatura, vale a dire la vicenda giudiziaria che ha coinvolto Vasco Errani. Con queste elezioni si è manifestata una scollatura profondissima fra i cittadini e l’istituzione regionale che i nuovi eletti, con un’ovvia sottolineatura per la maggioranza e per la nuova giunta, dovranno cercare di ricucire al più presto, sia applicando regole severe e trasparenti al proprio operato, sia dimostrando una maggiore e fattiva presenza dell’ente sul territorio. Se c’è un limite infatti che ha caratterizzato sinora negativamente l’attività degli organismi regionali, al di là delle specifiche scelte operate, è una sostanziale distanza dai cittadini, che in larga parte ancora non ne conoscono le (ampie) competenze e non ne comprendono gli effetti pratici sulla loro vita quotidiana.
Se questo, a mio modo di vedere, è lo schema interpretativo generale entro cui collocare “i numeri” usciti domenica 23 novembre, vale comunque la pena accennare ad altri fatti rilevanti che se ne possono trarre. Fa scalpore il crollo elettorale della rinnovata Forza Italia, che viene “doppiata” in termini di consensi dalla Lega. Va senza dubbio messo in conto l’effetto di traino esercitato dal candidato presidente, ma non vi è dubbio, anche guardando ai dati della Calabria, che la ripresa auspicata da Berlusconi non si è minimamente manifestata. Su questo punto specifico, chi nei mesi e settimane scorsi aveva paventato il ritorno dell’ex cavaliere, rilegittimato a suo dire dal patto del Nazareno, ha avuto un’altra occasione per ricredersi.
Il calo dei consensi al M5s, come detto, pare ormai inarrestabile e lo scettro del partito antisistema sembra ormai essere passato alla Lega, nonostante i patetici tentativi di Grillo negli ultimi mesi di rincorrere il partito di Salvini sui temi della xenofobia e dell’uscita dall’euro. Anche in questo caso viene dimostrata la vecchia regola per cui gli elettori, quando si trovano a dover scegliere fra l’originale ed un’imitazione, non hanno mai dubbi. In termini politici più generali, emerge tuttavia prepotente la necessità di sviluppare una proposta più coerente e precisa sulle tematiche dell’immigrazione, della sicurezza e della legalità. Se infatti le tentazioni isolazioniste ed autarchiche in economia si contrastano facendo riforme che invertano il segno della crisi, su queste questioni occorre essere in grado di dare ai cittadini delle risposte concrete che intervengano sul disagio crescente, soprattutto nelle periferie delle grandi città, ma non solo, e rafforzino la presenza dello Stato, non inteso solo come tutore dell’ordine pubblico, sul territorio. E’ una necessità ineludibile per un partito che si intesta la quasi totalità dell’azione di governo.
Da ultimo, e non poteva mancare, una riflessione sugli effetti sul voto delle roventi polemiche che scuotono il Pd sulle questioni del lavoro e della crisi economica. Senza entrare qui nel merito, si notano sul piano elettorale impatti tutto sommato limitati, anche attribuendo completamente a questo fattore l’aumento percentuale di consensi ai partiti che si collocano a sinistra del Pd, senza cioè tener conto dell’elemento identitario che porta i loro elettori tradizionali a subire meno degli altri il fascino dell’astensione. In termini di voti complessivi, sommando quelli di Sel e di l’Altra ER, non vengono raggiunti quelli totalizzati dalla lista Tsipras alle europee scorse.
A mo di post scriptum, un’ultimissima considerazione relativa ai commenti di molti sia in rete che sui giornali a proposito del presunto subitaneo disfacimento dello zoccolo duro di consenso al Pd. A mio parere si tratta di una non-notizia, in quanto il progressivo sgretolamento della massa di votanti “senza se e senza ma” a favore dei partiti eredi del Pci era in atto da molto tempo, come le analisi dei flussi elettorali hanno regolarmente indicato almeno a partire dalla seconda metà degli anni ’90. Il fatto di volerlo considerare ancora come qualcosa di politicamente rilevante è solo frutto di grave pigrizia intellettuale, comprensibile in molti compagni ammalati di nostalgia, ma inscusabile da parte di commentatori professionisti, incapaci di adattare i loro schemi mentali alla realtà.

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Elezioni, Errani: ‘Occorre riflettere sul crollo dell’affluenza. Bonaccini riuscirà a rilanciare l’azione della Regione’

da: ufficio stampa giunta regionale Emilia-Romagna

“Il crollo dell’affluenza è un fatto negativo su cui abbiamo tutti il dovere di riflettere con attenzione. Il risultato positivo di Bonaccini, a cui faccio auguri sinceri, è, comunque, molto importante. Sono convinto che saprà trovare le condizioni per aprire una fase nuova in grado di ridare vigore alle tante energie che ci hanno consentito di fronteggiare le grandi difficoltà di questi anni e saprà dare spazio e vigore ai cambiamenti che sono sempre necessari per sostenere la funzione fondamentale della Regione”.

Questo il commento del presidente della Regione Vasco Errani ai risultati per le elezioni regionali.

L’EVENTO
Al Comunale giornata del teatro socio-riabilitativo

Domani, mercoledì 26 novembre, avrà luogo la seconda edizione dell’iniziativa “La Società a Teatro”. Il Teatro comunale Claudio Abbado ospiterà per una giornata intera, dalla mattina al dopocena, i progetti e le esperienze teatrali di alcune realtà del ferrarese che interagiscono con il disagio e la disabilità [vedi il programma]. La giornata è concepita come una sorta di festa comune aperta a tutti, ideata per promuovere l’arte come forma di partecipazione alla vita sociale e condividere con i cittadini la realtà di persone che spesso non hanno voce. Partita come sperimentazione, quest’anno l’iniziativa si consolida e si arricchisce: la sessione serale si aprirà con un saluto delle autorità; in chiusura, come omaggio all’intitolazione del Teatro Comunale al maestro Claudio Abbado, un finale in musica con la partecipazione della Friends Chamber Orchestra diretta da Filippo Zattini e artisti e gruppi della rete della Società a Teatro.

Ne abbiamo parlato con il regista Massimiliano Piva e la pedagogista Alessia Veronese del Teatro Cosquillas, che partecipano alla giornata con due videoclip di loro laboratori teatrali, “Gli ingredienti dell’amore” [vedi] e “Un passo oltre” [vedi].

Massimiliano, voi siete tra i promotori dell’iniziativa, quanto sono importanti esperienze come questa per persone con disagio o disabilità?

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Il logo della rassegna “La società a Teatro”

L’anno scorso abbiamo partecipato con un gruppo di persone con trauma cranico del Centro Perez (Città del Ragazzo) che hanno avuto la grande opportunità di recitare sul meraviglioso palcoscenico del Teatro comunale. Un’esperienza che ha decisamente segnato le loro vite, perché queste persone hanno avuto una vita piena prima della disgrazia che li ha colpiti, c’è l’ingegnere, la manager, l’impiegato di banca, tutte persone che, nonostante tutto, cercano di fare la vita che avevano prima, seguendo le loro passioni, andando al cinema e a teatro. Il fatto di trovarsi dall’altra parte, sul palcoscenico, gli ha dato una grande soddisfazione e una spinta in più per continuare con forza il duro e lungo percorso riabilitativo. L’attività teatrale è un ottimo strumento di integrazione sociale e autodeterminazione della persona disabile; riuscire ad esibirsi in pubblico e in un contesto ufficiale come questo è un’occasione unica.

L’hanno scorso avete partecipato portando in scena uno spettacolo, come mai quest’anno avete scelto la proiezione di video?

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Massimiliano Piva e Alessia Veronese

I video non erano previsti, ci sono stati proposti e li abbiamo realizzati proprio perché ci sembrava importante documentare il lavoro complesso che sta dietro alla messa in scena, soprattutto nel caso di persone con disagio psichico e con difficoltà di relazione. Proiettarli durante la giornata al Comunale ci offre la possibilità di raggiungere molte più persone e di mostrare questi progetti laboratoriali agli operatori che lavorano nell’ambito del sociale, per condividere una metodologia di lavoro sperimentata per anni e che funziona, per aggiornarsi e conoscersi. In due parole, il video diventa uno strumento di sensibilizzazione, di promozione tecnica e un “certificato” che mostra la qualità dei servizi erogati nel territorio. Siamo molto soddisfatti di questi video, due perle che immortalano il lavoro di anni, lavoro che non avremmo potuto raccontare in modo così efficace solo attraverso la parola.

Effettivamente i video sono molto bene fatti. Le riprese dei laboratori e delle prove, le interviste agli attori su come hanno vissuto l’esperienza e agli operatori sulle tecniche teatrali utilizzate, mostrano tutta la ricchezza del percorso. Ci potete presentare brevemente i due lavori?
Entrambi sono stati realizzati da Alberto Gigante. “Gli ingredienti dell’amore” (24 min.) è un video-documentario sulla preparazione dell’omonimo spettacolo di teatro-psichiatria, che vede come protagonisti persone del Centro di salute mentale di Cento (Simap). “Un passo oltre” (5 min.), invece, è il risultato di un laboratorio con gli attori de “La Pieve” di Ostellato e Portomaggiore, che sono ragazzi con disabilità congenita. Con questo video abbiamo partecipato al Festival internazionale delle abilità differenti di Carpi e siamo arrivati terzi. La partecipazione attiva a manifestazioni come festival e simili ha proprio lo scopo di promuovere e testimoniare l’efficacia dell’arte terapia nello sviluppo dell’identità personale dell’individuo e del gruppo sociale.

In entrambi i video gli attori mostrano scioltezza e grande espressività. Addirittura in “Un passo oltre” mettono in scena addirittura una coreografia, in cui si muovono e si relazionano all’unisono. Il risultato è stupefacente. Alessia, il tuo punto di vista da pedagogista…
Il teatro è uno strumento molto efficace, soprattutto in certe situazioni di disagio. Ma ci sono alcuni ingredienti che fanno la differenza: il gruppo, il divertimento, la relazione, lo stare bene, costruire qualcosa. L’obiettivo non si raggiunge se si mette in scena un copione dall’inizio alla fine o se si raggiungono obiettivi prestabiliti. La ‘terapia’ è condividere con i propri amici un momento, un sorriso, le proprie emozioni e stare bene con loro. Terapeutico è costruire qualcosa divertendosi.
Per quanto riguarda l’altro video, “Gli ingredienti dell’amore”, occorre dire che “La compagnia del valori” di Cento è un gruppo eccezionale, i ragazzi sono molto motivati e le educatrici stanno facendo un ottimo lavoro. Prova ne è il fatto che le educatrici, l’infermiera e le volontarie del centro hanno partecipato personalmente al laboratorio, mettendosi in discussione, senza la paura di perdere il proprio ruolo. Nel video le vedete, sono entrate perfettamente in relazione con le persone in cura, raggiungendo una reale reciprocità di emozioni.
Aggiungo che sarebbe benefico per tutti, ma proprio tutti, perseguire questo tipo di valori, ricercando la condivisione, lo star bene insieme e rispettandosi reciprocamente.

Massimiliano Piva, regista, esperto in tecniche teatrali del Metodo Cosquillas
Alessia Veronese, pedagogista, esperta in protocolli educativi del Metodo Cosquillas

Partner che hanno contribuito alla realizzazione del progetto “Gli ingredienti dell’amore”: Az. Usl di Ferrara Distretto Ovest, Dipartimento assistenziale integrato, salute mentale e dipendenze patologiche, Università di Ferrara, Città del Ragazzo, Centro attività riabilitative Corte dei Liutai, Servizio civile regionale, Regione Emilia-Romagna, Teatro parrocchiale di Renazzo.

Partner che hanno contribuito alla realizzazione del progetto “Spiriti liberi” e al video che ne è stato tratto “Un passo oltre”: Az. Usl di Ferrara Distretto sociale Sud-Est, le Amministrazioni comunali di Ostellato, Portomaggiore, Argenta, Regione Emilia-Romagna Il Faro Asp. del Delta ferrarese e Csr Quisisana di Ostellato, Associazione Arti e mestieri di Ostellato e Ass. La Speranza di Portomaggiore, Coop. La pieve di Maiero, Agriturismo “Ai due laghi” di Gambulaga.

Il progetto “La Società a Teatro” è coordinato da Agnese Di Martino per l’Associazione Agire Sociale, Centro Servizi per il Volontariato.

Per il programma dell’evento [vedi]: 0532-205688, segreteria@csvferrara.it
Biglietteria Teatro Comunale: costo del biglietto 5 euro

LA TESTIMONIANZA/1
Non voglio essere violento come mio padre

di Elena Buccoliero

Certe conversazioni sono immersioni. Non è così un momento prima né un attimo dopo. Passeggi con quella persona, scambi qualcosa di tuo con cenni divertenti o profondi apparentemente qualsiasi: il testo di una canzone, un ricordo di scuola. È un percorso di avvicinamento, entrambi sappiamo che ci stiamo cercando come cerchi una stazione radio quando sei in viaggio. Poi ti fermi e stabilizzi il contatto e così con Andrea. Entri in quel territorio aspro dove insieme si è deciso di andare, che anzi ci si è incontrati apposta. Se ne uscirà poi, un poco straniti. Vicini e distanti, per quanto è stato forte tutto ciò che hai mostrato, tutto ciò che hai guardato in quel tempo insieme.
Così è stato incontrare Andrea, la sua ricerca interiore e la generosità con cui ha accettato di condividerla.

LA TESTIMONIANZA DI ANDREA – PRIMA PARTE

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Foto del concorso europeo indetto dalle Nazioni Unite per la lotta alla violenza sulle donne

Si dice nell’ambiente psicanalitico, e non ci volevo credere, che chi subisce violenza agisce violenza. Lo capisci nel tempo: chi ha preso le botte le ridarà. Nella vita familiare mi vengono degli attacchi d’ira improvvisi, furenti, che non mi riconosco.
Prima di avere una famiglia mia non ce li avevo. Da piccolo sì, ricordo un episodio in cui mio padre ha sforato e io ho spaccato un orologio, un’altra volta una porta – e guarda caso mio padre non mi disse niente. Ero impaurito da matti della sua reazione, ero un bambino, invece è stato zitto e ha cambiato la porta. Lì per lì non capivo ma adesso mi rendo conto che solo così ti ascolta. Sul piano della violenza, del sopruso, lui ti rispetta – perché ti riconosce. Se no ha la tendenza a sopprimerti con la sua violenza. Fisica, verbale di tutti i tipi. Anche al telefono, se lo mandi affanculo dopo ti richiama più tranquillo, se gli parli cercando di affrontare il discorso in termini pacati lo confondi. Non ha mai sviluppato la capacità di autoascolto, autoriflessione, è sempre scappato da se stesso e non è a suo agio con un “parliamone”.

IN FAMIGLIA
Sono il più giovane di quattro fratelli. È stata un po’ la mia fortuna. Tra me e la maggiore corrono nove anni di differenza e lei ci ha spianato la strada in molte cose. Le mie sorelle, che sono le due più grandi, hanno vissuto quelle briciole di ‘68 che in Italia è stato il ’77 perché erano già adulte, io avevo 13 anni e ho vissuto di riflesso una certa contestazione verso il sistema, il padre, il modello che i genitori stavano trasmettendo – e nel mio caso un non modello, basato sulla violenza. Mi hanno aiutato molto, da solo non sarei dove sono adesso.
Era un attimo. Anni che girava la droga e noi non siamo, nonostante tutto, dei disgraziati. Ognuno di noi ha le proprie paturnie, che cura o nasconde a suo modo, ma non siamo dei disgraziati e questo vuol dire che qualcosa di sano da qualche parte c’era. Forse proprio il rapporto tra di noi.
Una delle mie sorelle già a 16-17 anni contestava un po’ l’atteggiamento di mia madre. Studiando il comportamento animale si dice che a volte è la gazzella che “provoca” il leone, la vittima che cerca il carnefice. Con questo non ti sto dicendo che era colpa di mia madre, probabilmente era nel suo inconscio comportarsi da vittima ma in molti casi lei ha proprio provocato. Con il linguaggio, con un certo dargliela su ha avvalorato, per paura o per inconscio o per retaggi culturali, una famiglia come la mia. Poteva andarsene o reagire in vari modi molto tempo prima. L’ha fatto subito dopo che mi sono laureato io. Finché l’ultimo figlio era ancora da sistemare, nella sua logica di 17enne sposata incinta, è rimasta con suo marito.

Si erano sposati per amore?
C’è un’altra domanda? Io l’unica volta che li ho visti abbracciarsi e baciarsi ho provato ribrezzo, ce l’ho ancora fisso in testa.

Perché?
Non tolleravo che mio padre avesse quella faccia lì. Perché mio padre – a parte essere dall’esterno una persona splendida, la più simpatica del mondo – è davvero una persona violenta.

Era conosciuto così, come persona disponibile?
Gli altri non capivano assolutamente niente di quello che succedeva in famiglia. Lo vedevano sempre presente, il braccio destro del prete, iscritto – lui dice “convinto” – all’allora Dc, come ora è iscritto al Pd perché fondamentalmente sta dalla parte di chi governa. “È convinto di avere delle idee”, canta De Gregori.

Che lavoro faceva?
Lavorava in un ente regionale. In realtà si presentava in ufficio, staccava il telefono e andava in giro a fare altre cose, principalmente impianti elettrici e idraulici. Diceva sempre che guadagnava poco e in casa non dava niente, non ho mai capito come abbia fatto mia madre a mettere a tavola quattro bimbi – anzi cinque, lui compreso – tutti i giorni mattina e sera.

Era tirchio?
Non vedevamo quasi mai un soldo. Da grande mi hanno detto che con quegli impianti era molto bravo, e anche molto caro: non l’avevamo mai saputo. Ricordo che dopo la scuola a volte rimanevo in strada con i miei fratelli – facevo le elementari -, stavamo fuori delle ore saltando il pranzo perché mia madre diceva: “restate fuori che oggi dobbiamo discutere”, cose come “dammi un po’ di soldi che non so più come fare la spesa”, e noi terrorizzati su cosa avremmo trovato rientrando in casa.

UNA LETTERA DI RINGRAZIAMENTO
Quando rimasi incinto della mia prima figlia ho scritto una lettera, identica per mio padre e per mia madre, anche se erano già divorziati e io ero scazzato con lui, ringraziandoli perché non mi hanno mai fatto mancare niente dal punto di vista materiale. E non è mica scontato! Non ricordo un giorno che non ho avuto un posto che potessi chiamare mio, e il necessario per mangiare, vestirmi, e le tante cure mediche di cui ho avuto bisogno.
La casa era dei miei nonni materni. L’avevano proprio costruita loro. Alcuni dicono sia stato uno dei motivi, o l’unico, per cui mio padre ha sposato mia madre. Nel dopoguerra essere dei diciassettenni pimpanti voleva dire sposarsi, il principale obiettivo di quella generazione era mettere su famiglia, la mamma in casa coi bambini e il papà a lavorare, quando ancora bastava un reddito, adesso a volte non ne bastano due.
Io non sono sicuro di esser stato desiderato e tanto meno cercato. Era una cultura in cui un figlio, se capita, si accetta, e mia madre l’ha fatto. Non posso rimproverarle niente. Anche mio padre nel suo modo, ma fosse stato solo per mio padre la famiglia non andava avanti.
In compenso ha cercato di fare la persona acculturata. Partecipava a un gruppo di studio cristiano un po’ in contrasto con la chiesa ufficiale. Ma mio padre non ha niente di cattolico, se parliamo di compassione, di pietas.

Avete mai provato a parlarne fuori di casa?
Lo dicevamo ma non ci credevano. Io più volte da piccolo, con miei coetanei, ho detto “se potessi gli spaccherei la faccia”. Magari ci aveva rullato di botte, mia madre era al pronto soccorso, ma la risposta non cambiava mai: “è sempre tuo padre”. Però lui, non posso dire che sia stato un padre. Tutt’al più un genitore. Se il padre è chi sostiene la famiglia, la incoraggia, dà il buon esempio, educa (con l’accezione – secondo me discutibile – di dire ai figli cosa è giusto e cosa è sbagliato), non posso dire di avere avuto un padre. Prendeva a ceffoni mio fratello perché fumava, ma ha fumato anche lui e appena finite le botte gli metteva le sigarette in tasca. Era una contraddizione continua.
Penso che uno dei mali più grandi, oltre a picchiare un bimbo, siano le botte che un bimbo vede. Mi ha fatto male vedere mia madre presa a botte, e poi in un paese connivente. Quante volte abbiamo cercato di scappare di casa e i vicini non aprivano la porta! Tutti sapevano, sentivano. Nessuno ci ha mai aiutato. Io ho pensato tante volte di affrontarlo ma non l’ho fatto perché il suo tipo di violenza lo avevo talmente impresso che bastava alzasse la voce perché cominciassi a tremare.
Una volta in un litigio furente mia sorella ha chiamato i carabinieri, lo portarono in caserma e penso gli diedero un sedativo, per come tornò. Noi in fretta e furia abbiamo preparato due valigie, mia nonna materna compresa che era già anziana, e siamo scappati. Sulla scala di casa lo abbiamo incrociato. Noi terrorizzati, “ora ci riempie di botte”, sai cosa doveva essere per lui l’affronto, la denuncia, il disonore, invece è stato come se non ci avesse visti. Siamo scappati dalla mia sorella maggiore, ci potevamo sistemare tutti, invece mia madre decise di tornare da lui. Io mi sono trovato un appartamento un po’ fuori città e andavo da lei tutte le domeniche, sapendola a casa da sola con mio padre non eravamo tranquilli.
Sai quante volte l’ho accompagnata al pronto soccorso e lei ha dichiarato che era caduta? Lui la picchiava poi andava via. La accompagnavamo noi, diceva che era caduta. Il medico cercava di parlarci, “Se lei dichiara che l’ha picchiata noi facciamo la denuncia”.

Chissà quante volte avrai avuto voglia di dirlo tu, al medico, come stavano le cose.
Sì, ma devi pensare che ero un ragazzino. Abbiamo provato anche a farlo fuori, in maniera fanciullesca, senza riuscirci. Cose tipo svitargli le ruote della macchina… Non si è mai fatto male.
La tentazione di farla finita in maniera cruenta c’è stata. Una volta mia sorella gli è saltata addosso e io ho avuto proprio paura: questi si ammazzano. Non ho mai visto in mia sorella quella violenza lì. Gli è saltata agli occhi e lì lui ha smesso di picchiarci. Il nostro atteggiamento solito invece lo debilitava. Lo mandava in un mondo che non sapeva gestire, e reagiva con la collera. Quando qualcuno lo affrontava – anche con mio fratello qualche volta si sono picchiati forte – allora si fermava.

UNA SEPARAZIONE TARDIVA

Poi tua madre ha deciso la separazione.
Le poche volte che ho parlato a mio padre dopo la fuga di mia madre, non si dava pace che una donna potesse vivere da sola. Mio padre ha sempre avuto un certo concetto delle donne: sono tutte troie e devono servire l’uomo. Parlando a quattrocchi davanti a un bicchiere di vino te lo dice esplicitamente, ma traspira da ogni poro. Se sua moglie è scappata di casa dev’esserci un altro, non può dire a se stesso “è scappata da me”.

Quanti anni aveva tua madre quando è andata via?
Sessanta esatti. Ha aspettato la mia laurea, però lei già prima, piano piano aveva portato una camicetta dalla cugina, un maglioncino dalla zia… ha preparato tutto e un bel giorno non è più tornata. Ha cambiato città. È stata per un periodo in albergo, diversi alberghi per paura che lui la trovasse. Da noi figli lei non poteva venire perché lui l’avrebbe ripresa subito.

Anche prima della tua laurea eravate già tutti e quattro indipendenti.
Sì, ma restava in mia madre la dipendenza psicologica da un voto forse inconscio e poi divenuto consapevole, come se solo allora potesse dire: “il mio compito l’ho fatto, posso pensare a me stessa”. In maniera maldestra, perché poco dopo le è partita la testa. E per quanto si dica che il cosiddetto Alzheimer viene a chiunque, se per 43 anni non puoi chiederti cosa stai pensando e prendi le botte, la mente non è cosi contenta. Mia sorella dice che non è vero, per me un nesso con la malattia c’è ma se anche non ci fosse, mia madre meritava di vivere una vita pensando a se stessa per qualche anno. All’inizio aveva provato: qualche sera a teatro, le amiche, si era iscritta al circolo degli anziani… poi le è partita la testa e ormai non sempre mi riconosce. Fisicamente è in forma ma la testa non c’è’ più da tempo.
Meritava almeno altri trent’anni per recuperare la sua vita. Qualunque fosse, perché per me non lo sapeva neppure. Quando per quarant’anni non ricevi mai ascolto, sei sempre in conflitto e non in quello sano, costruttivo, ma nella violenza, non cresci la tua vita, cresci la vita di un altro. Nel suo caso quella dei figli. Lei ha dato la vita per i figli, veramente. Mi sono messo vagamente poche volte nei panni di mia madre e mi sono trovato anch’io a chiedermi chi cazzo sono e cosa penso.
Mio padre… Mangiavi all’ora che voleva lui, a cena c’era il tg e bisognava stare tutti zitti ad ascoltare perché dopo t’interrogava. Io passavo il tempo a dirmi: “se ora mi chiede cosa sto pensando posso dire questo. No, se dico questo s’incazza e mi mena mezz’ora. Allora quest’altro… No, non va bene”. Così, tutto il tempo a cercare qualcosa da dire. Perché di punto in bianco lui ti poteva chiedere: “Cosa stai pensando?” e se rispondevi magari la verità, ma non lo convincevi, attaccava: “Non fare il furbo con me!”. Volavano i bicchieri e le sedie, mai le parolacce. E penso, quelle poche volte nei panni di mia madre, come dev’essere vivere 43 anni così, senza poter pensare.
Tutti i giorni dopo pranzo andava al bar a fare la partita a carte, era il rito del padre di famiglia, mentre lei sgobbava. Poche volte l’ho vista sdraiarsi un attimo sul divano o leggere un libro, ma se in lontananza sentiva la macchina di mio padre che rientrava si alzava di scatto perché la donna deve sgobbare, non poteva farsi beccare in un momento di relax. Quarantatre anni cosi. Tradimenti, continuamente, dicono anche durante il viaggio di nozze a Venezia. Una ignominia indescrivibile.

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Elena Buccoliero è sociologa e counsellor, da molti anni collabora con Azione Nonviolenta, rivista del Movimento Nonviolento. Per il Comune di Ferrara lavora presso l’Ufficio diritti dei minori. È giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Bologna e direttore della Fondazione emiliano romagnola per le vittime dei reati.

Questa testimonianza è stata pubblicata la prima volta su Azione Nonviolenta, il periodico del Movimento Nonviolento che ha dedicato un numero tematico alla violenza di genere. La ripubblichiamo qui per gentile concessione dell’autrice, in occasione della “Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”.

Per saperne di più sulla nonviolenza in Italia e nel mondo [vedi]

Altri articoli pubblicati da ferraraitalia sulla ricorrenza della “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”: alcuni dati [vedi] e la celebrazione del 22 novembre a Ferrara [vedi]

LA RICORRENZA
Henri de Toulouse-Lautrec, la vivacità della Belle Epoque

Un pittore che dipinge ballerine in stile Moulin Rouge, questo il doodle con cui Google ricorda oggi uno dei più grandi artisti della storia, Henri de Toulouse-Lautrec, nato 150 anni fa ad Albi, regione dei Pirenei francesi, da un’antica famiglia nobile.
Grande ammiratore di Cézanne, Renoir, Manet e, soprattutto, di Degas, Lautrec s’interessò alla xilografia giapponese, che conobbe grazie a Van Gogh. Nel 1891, quando il Moulin Rouge gli commissionò la realizzazione di un manifesto pubblicitario, che sarebbe stato affisso in tutta Parigi, per l’artista iniziò un periodo di notorietà e di commissioni importanti: produsse 31 manifesti, tra cui famosi sono quelli per Jane Avril, Aristide Bruant, la ballerina May Milton, il Divan Japonais e il Jardin de Paris.

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La sua fama è legata al suo ruolo nel post-impressionismo francese e alle scene che ritraggono i molti e variegati aspetti della vita parigina: la politica, i movimenti culturali, i divertimenti dei ceti popolari e la nascita di forme d’intrattenimento come i café-concert e i cabaret. Il quartiere di Montmartre, le ballerine, il cancan del Moulin Rouge, le scene di vita quotidiana nei locali e fra le mura domestiche, i poster e i manifesti colorati, fra i quali quello del “gatto nero”, hanno contribuito a rendere celebre questo grande artista. Indimenticabile per tutti. Buon compleanno, allora, Henri.
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La gioventù che ‘gioca’ con la bellezza

La nebbia stancamente accompagna il calare del sole mentre varco il portone del Museo Archeologico di Spina; salgo lo scalone col ritmo agiato offerto dai gradini di marmo istoriato; infilo il breve corridoio ed ecco spalancarsi il grande salone.
Palazzo Costabili, Palazzo di Ludovico il Moro, Museo Archeologico, tappe e momenti di un falso d’autore affascinante dove le carte geografiche che adornano le pareti hanno come fregio i versi gonfi di classicità dell’ode carducciana “Alla città di Ferrara”. Il podio è posto accanto al muro più lungo della sala, custodito da un enorme cratere rosso a figure nere. Le seggiole bianche abbracciano la pedana coperta da una moquette azzurro scura; sopra, una seggiola dallo schienale diritto e un pianoforte gran coda quasi addossato alla parete. Brusio di voci e lento riempirsi della sala. Mi accompagnano alla prima fila: mai in lunghi anni di frequentazione musicale mi son trovato così vicino agli esecutori.

Ed eccole le artiste: Caterina Demetz, la violinista, alta slanciata in pantaloni neri, maglietta nera sbracciata con un piccolo tatuaggio al braccio sinistro; Federica Bortoluzzi meno alta, completamente vestita di nero e i capelli tirati a coda di cavallo: sono due belle ragazze che potresti incontrare a percorrere la “vasca”, il sabato sera, tra i portici del Duomo e via Bersaglieri del Po. Il concerto è organizzato dalla benemerita associazione Bal’danza, in collaborazione con la rivista “Amadeus” per rendere omaggio al venticinquennio della nascita della rivista musicale che, proprio l’anno prossimo, offrirà ai lettori il cd di questo concerto composto da quattro sonate per violino e pianoforte di Mozart: quelle comprese tra il 1778 e il 1781, anno in cui Mozart si trasferirà definitivamente a Vienna.

Caterina Demetz al violino, Federica Bortoluzzi al pianoforte
Caterina Demetz al violino, Federica Bortoluzzi al pianoforte

Caterina abbraccia il piccolo violino, Federica si stringe nelle spalle e sparisce quasi; la testa a un centimetro dallo spartito. Nell’aria cominciano a diffondersi le note della bellezza pura. E le giovani, ormai bellissime, “giocano” con la bellezza, nel senso etimologico di jouer: suonare. Nel viso infantile di Federica aleggia quel sorriso misterioso, come un segreto, che talvolta si vede aleggiare tra gli esecutori e i direttori d’orchestra. Un’intesa unica tra loro e l’autore. Il labbro inferiore della pianista viene leggermente morsicato, la testa s’infossa ancor più tra le spalle.
Frattanto, regalmente, Caterina alza imperiosa il braccio che impugna l’archetto e il riflesso si staglia per un gioco di luci sulla superficie lucida del pianoforte. La testa si alza fieramente e sgorga limpida e grave, a volte pizzicata, la voce della bellezza.

Alla fine della prima sonata il mio vicino di posto, un importante ginecologo che è anche poeta e romanziere, mi sussurra: “Pensa la felicità di quel bambino che nasce tra suoni divini e giunge alla luce alimentato di bellezza!” Sbalordito guardo meglio e capisco la battuta. Una rotondità inequivocabile rende ancor più bella la figura di Caterina. E penso alla fortuna di quel bambino che ascolta nel caldo materno quei suoni divini in un luogo che custodisce una sapienza antica fatta figura, colore, materia.

Quel che maggiormente mi colpisce è la suprema naturalezza di quel suono, la sua compenetrazione con la vita, il senso di un’agiatezza delle forme che diventano vita e verità.

Perché la bellezza è verità. E’ la realtà suprema.

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Le concertiste ricevono i meritati applausi

Ascolto Daniel Barenboim la stessa sera che parla in televisione e che spiega la semplicità della musica che diventa o dovrebbe diventare necessaria come il latte materno. E la sciagurata e miope decisione della politica italiana – ma non solo – di escludere quasi del tutto dalle scuole, se non quelle specializzate, la musica che è il ritmo della bellezza.
Mentre il concerto s’avvia alla fine le guance di Caterina s’arrossano nel tentativo di svelare tutta la fragorosa bellezza dell’ultimo movimento della Sonata 26 e sembra di ritrovarsi in paradiso. Quel paradiso che è il giardino da cui siamo stati cacciati e che incessantemente lo spirito umano, come ci spiega Rudolf Borckardt nel suo “Il giardiniere appassionato” tenta di riconquistare.

Così Amadeus tramite le due ragazze che “giocano” con la sua musica ci indica la via per riconquistarlo e per renderci – almeno per un’ora – felici.

L’INTERVISTA
Maurizio Mariano: il pianista storico di Franco Simone

Maurizio Mariano, nato a Lecce, inizia da giovanissimo gli studi classici presso il Conservatorio della sua città, contemporaneamente si dedica allo studio della musica moderna suonando con diversi gruppi. Trasferitosi a Napoli, conosce Aurelio Fierro, che accompagnerà in numerosi concerti nazionali e internazionali.

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Maurizio Mariano e Franco Simone

Nel 1972 incontra il cantautore Franco Simone, con cui inizia un rapporto di collaborazione che dura ancora oggi. Nel 1990, insieme, realizzano “VocEpiano (dizionario dei sentimenti)” cui segue un fortunato tour in Canada e Sud America; la stessa innovativa formula (solo voce e pianoforte) sarà ripetuta nel 2003, con l’album “Dizionario (rosso) dei sentimenti”.
Nel 2004 partecipa a “Emilia-Romagna En Vivo”, un tour live in Sudamerica, sponsorizzato dalla Regione, dove con l’orchestra di Paolo Belli, accompagna, tra gli altri, Silvia Mezzanotte, Riccardo Fogli, Beppe Carletti e Umberto Tozzi. Nello stesso anno compone la colonna sonora del film “Dimenticare mio padre” e nel 2005 realizza il cd “Nel cuore del pianoforte” realizzato con un’intera orchestra e comprendente brani di stile romantico, bossa, jazz e fusion.
Nel 2010 partecipa, in qualità di pianista e supervisore artistico, alla realizzazione del nuovo lavoro discografico di Franco Simone: “Nato tra due mari”.
Da oltre vent’anni Maurizio Mariano è docente nelle Scuole di Musica Roland ed ha creato, nel Salento, “spazi musicali” dove poter apprendere e perfezionare l’arte del “fare musica”.

Tanti anni di carriera, una vita dedicata alla musica, come hai iniziato?
Ho mosso i primi passi nella musica sin da bambino! A 10 anni ho iniziato il conservatorio e contemporaneamente suonavo con un gruppo di cui ero la mascotte. Ricordo che suonavo solo alcuni brani perché non conoscevo tutti gli accordi … e da allora non ho più smesso.

Lavorare con Aurelio Fierro è stata un’esperienza importante per la tua crescita artistica e professionale?
L’esperienza con Aurelio Fierro, durata 2 anni, è stata sicuramente fondamentale per la mia crescita artistica. Suonare i grandi classici napoletani è di per sé una scuola, averlo fatto a soli 22 anni – al fianco di un artista di tale spessore – mi ha consentito di mettere in pratica la conoscenza classica arricchendola, però, di intensità emotiva. Contemporaneamente collaboravo con il Maestro Beppe Vessicchio per la King, storica casa discografica di Aurelio Fierro.

Lavori da molti anni con Franco Simone e spesso lo accompagni da solo con il pianoforte, quali doti professionali e di intesa bisogna possedere per riuscire in questo?
Il VocEpiano è “un’arte a parte”. Posso dire, con una nota di orgoglio, che siamo stati i primi a realizzare questo progetto, nato come strenna natalizia per gli amici più cari di Franco. L’unica grande dote professionale che sicuramente agevola l’interazione tra cantante e pianista è una profonda conoscenza dell’armonia. Se poi a questo si aggiungono più di 40 anni di collaborazione, l’intensa è perfettamente naturale.

Come sono stati registrati i due album VocEpiano del 1990 e del 2003?
Ciascun album è stato registrato in un solo pomeriggio in presa diretta. Non posso parlare di difficoltà e di soluzioni adottate perché, per noi, è stato come eseguire un concerto dal vivo. E ora, quando ci esibiamo nel “VocEpiano” è come se registrassimo!

“Nel cuore del pianoforte” è il titolo di un tuo album, come nasce questo progetto?
Non è un progetto. Ho solo dato voce ai miei “appunti musicali”… A conferma di ciò la mancanza di criterio commerciale. Nell’album sono presenti brani di varia natura, dall’orchestrale all’elettronico, dalla ballade di un minuto alla bossa di quattro.

Nel film “Dimenticare mio padre” di Antonio Miglietta, hai sottolineato i momenti più intensi del film, con melodie che ne addolcivano le asprezze …

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Maurizio Mariano

Ho composto i vari frammenti musicali del film conoscendo solo la storia che si voleva narrare. Ciò che più emerge, forse, è la drammaticità di note che, “violentandomi” per diverse notti, hanno dato vita al leitmotiv che accompagna le immagini del film.

“Il tema di Giulia”, tratto dalla colonna sonora di “Dimenticare mio padre” è eseguita da molti pianisti classici in alcuni paesi europei. Una grande soddisfazione?
Naturalmente sì. Ho messo a disposizione online musica e spartito, non credendo che potessero arrivare così lontano. La tecnologia, se ben usata, unisce.

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Franco Simone e Maurizio Mariano in VocEpiano a Viña del Mar in Cile

Sono anni che accompagni Franco Simone in giro per il mondo. Nel febbraio 2014 avete portato in Cile e in Uruguay lo spettacolo “VocEpiano”. Una responsabilità diversa, rispetto a quando suonavi con il gruppo?
I concerti in Sud America hanno sempre previsto la formazione al completo, supportata da grandi strutture tecniche. Ci presentavamo “in abito da sera”. Proporsi in duo è stato come esibirsi “in lingerie”, voce e piano messi a nudo. Più che una responsabilità sento, tuttora, un coinvolgimento maggiore che, grazie alla vocalità di Franco, raggiunge la massima espressione.

Un ricordo di Enzo De Carlo, che per tanti anni ha suonato insieme con te nel gruppo di Franco?
Di ricordi ne ho infinti… Con Enzo ho condiviso le grandi platee e le gite in famiglia. Oltre che il validissimo collega, ricordo le risate di un fratello.

Progetti futuri?
Da oltre 25 anni insegno pianoforte nelle scuole che dirigo nel Salento. Il progetto è sempre lo stesso: dare la possibilità a grandi e piccoli di avvicinarsi alla musica. Con Franco, invece, stiamo allestendo il suo ultimo lavoro “Stabat Mater”, opera rock sinfonica che vede protagonisti, oltre allo stesso Franco, Michele Cortese e Gianluca Paganelli.
Sullo sfondo di questo panorama musicale non poteva mancare un viaggio in Cile la prossima primavera e, perché no, nei ritagli di vita tanti altri “appunti musicali” cui dare voce.

Spartiti e contributi musicali di Maurizio Mariano, sono liberamente prelevabili nel suo sito [vedi]