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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


IL FATTO
Ferrara vice reginetta
del risparmio in Emilia Romagna

Dopo Rimini, è Ferrara la città più economica dell’Emilia Romagna per gli acquisti nelle catene della grande distribuzione. La geografia del risparmio e le dinamiche concorrenziali nella grande distribuzione sono state tracciata anche quest’anno dall’associazione Altroconsumo. L’indagine ha preso in esame 68 città di tutta Italia. Tra alimentare fresco e confezionato, igiene per la persona e per la casa sono 6.356 gli euro a famiglia spesi in media in un anno. A Ferrara, ventiseiesima in graduatoria, la spesa risulta essere di 6.325 euro, rispetto ai 5.876 euro di Treviso (prima) e ai 6.731 di Reggio Calabria, ultima. In regione, dopo Rimini diciannovesima e Ferrara, c’è Modena trentaseiesima. Dai dati emerge come il risparmio per una famiglia che scegliesse di fare la spesa al discount può arrivare anche a 3.500 euro.

L’inchiesta su super, iper e hard discount fornisce un’istantanea dettagliatissima: 1.031.562 prezzi rilevati su 108 categorie merceologiche, 909 punti vendita passati al setaccio.
Nel confronto tra regioni il Veneto emerge come il territorio dove la concorrenza gioca un ruolo virtuoso e efficace per le tasche del consumatore; su un carrello di spesa fatto di prodotti di marca è Treviso a risultare la città più conveniente, tra tutte le 68 della classifica. Territorio altrettanto dinamico la Toscana, con Firenze e Pistoia al secondo e terzo posto. Altra regione dove si spende meno che nella media italiana per l’acquisto dei prodotti in super, iper e hard è il Piemonte.

Altroconsumo fornisce anche qualche regola generale e qualche consiglio di buon senso per aiutare a ridurre le spese inutili. Consigli semplici, anche di buon senso: controllare quello che manca, stilare una lista della spesa e attenersi a quella; consultare il dépliant del supermercato può essere un’opportunità, ma attenzione a non farsi abbagliare dalle offerte; comprare i prodotti in offerta se rientrano nella lista o se sono particolarmente convenienti rispetto alla spesa abituale; per i deperibili il risparmio consiste anche nel comprare solo ciò che si è sicuri di consumare per tempo; fare scorta di prodotti in offerta ma solo se si tratta di articoli che si consumano con regolarità e non deperibili; confrontare i prezzi al chilo o al litro, non a confezione. Di solito i prodotti meno cari sono in basso o in alto, non ad altezza occhi.

LA STORIA
Signora Li(n)a stasera
stai con tuo marito

Arrampicata lassù, un po’ in bilico e con naso e viso sporchi di bianco, ecco spuntare Lina.
La scala sorregge il suo peso un po’ traballando, ma nonostante questo lei si sposta, con un’abilità degna di un acrobata, da un arco a un muro, da una parete all’altra, da un rosa a un bianco. Stamattina l’ho vista armeggiare sotto l’arco d’entrata al mio palazzo, intenta a staccare il vecchio e polveroso intonaco e a lasciare scoperto un colore rosa intenso e acceso.
Lina scrosta, dipinge, pulisce, lima, liscia, scolora, colora. Ogni giorno per un mese, al caldo, al fresco, sotto la pioggia scrosciante, il vento fresco o il sole cocente. In questo mese di luglio strano per tutti, le temperature variano ogni giorno, ma lei è lì sempre. Deve finire quel lavoro un po’ tedioso ma per lei uguale a qualsiasi altro. Non è magra né agile, e per questo fatica un po’ a salire e scendere dall’impalcatura sgangherata ma rossa fiammante, con qualche tocco di blu. Un giorno l’ho vista lavorare su una scaletta, un altro su una sedia, una misera sedia che sostituiva un’altrettanto misera scala. Ma lei continua, imperterrita, lo fa quel lavoro, così come fa, ormai da tempo, ogni sorta di lavoro che l’aiuti a arrotondare il magro stipendio di portiera notturna. Da anni ha un secondo lavoro. Da troppo tempo, ormai. Ma questa è la vita, la sua. Oggi i calcinacci scendono sui suoi capelli raccolti, un tempo lunghi, curati e lucidi. Prima che si sposasse, prima che si separasse, era bella, agile e più sottile. Poi tutto è cambiato. Calcinacci e polvere avevano iniziato a calarsi sul suo viso, quasi fossero ricordi di bei tempi passati, pronti a coprire speranze e sogni, a cadere, inutilmente, a terra. Il muro si sgretola un po’ così come i suoi intensi rimpianti di scelte non fatte. La scaletta è ripida ora, come le difficoltà e le umiliazioni che ogni giorno deve affrontare. Ma Lina lavora con fatica a viso aperto, con coraggio e ostinazione, grazie anche all’amore ritrovato, un marito che lo è di fatto e non per legge ma che è sempre accanto a lei. Ogni giorno, ogni notte. L’amore era arrivato senza preavviso, un freddo giorno di novembre, durante una visita a un museo. Una delle poche volte che aveva deciso di andare a visitare un’antica sala piena di busti romani (che avrebbe scoperto essere copie), vi avrebbe trovato la felicità, presentatasi nella voce calda di Lukas che le chiedeva dove semplicemente si trovava il guardaroba. Da allora non si erano più lasciati, nonostante qualche mese di distanza per un lavoro in Bielorussia che Lukas aveva dovuto accettare per mettere da parte qualche risparmio.
Anche Lina lavorava, per lei, per Lukas, per un futuro migliore. Lo aveva sempre fatto, d’altronde. Anche oggi Lina lavora, come sempre. Olio di gomito, colori che se ne vanno, altri che ritornano. Qualche gocciolina di sudore, macchie di vernice bianca e grigia sulla salopette o sulla maglietta a righe e una bottiglia d’acqua ormai quasi vuota.
Un attimo e tutto cambia. Lina scivola, la vedo cadere. Non si fa nulla, credo. Almeno non fisicamente. Sotto la scaletta vi è, infatti, una copia del giornale di ieri, con la lista dei passeggeri dell’aereo abbattuto in Ucraina che scorre sotto i suoi occhi, così come i grani di un rosario scorrono velocemente fra le dita. Improvvisamente quel bel colore chiaro delle iridi diventa scuro. Un momento, una letta prima disattenta e poi freneticamente più attenta a quelle pagine volanti stropicciate e il più nero e profondo baratro sembra avvicinarsi a lei, inesorabile, funesto, spietato, impassibile. Riconosce alcuni nomi, la famiglia della sua migliore amica. Spera solo in un errore di ortografia, errore che potrebbe cambiare tutto. Una lettera, magari una semplice consonante in più o in meno potrebbe fare la grande, l’enorme differenza. Una speranza appesa a una letterina. Se solo fosse così…
Ecco che allora Lina scompare. Ieri c’era, oggi non più. Il lavoro è finito, credo. O forse Lina sta convulsamente cercando l’errore di ortografia.

Il fattore Kc

Nell’era postindustriale, la Città della Conoscenza sorge come l’appello a un più profondo, più lucido e più onesto modo di vivere l’esperienza urbana. Il fattore Kc altro non è che la Knowledge City, la Città della Conoscenza.
Indica l’ambizione di migliorare la vita umana e il benessere individuale, l’elemento umano come base imprescindibile di ogni città intelligente.
Conoscere è tensione, è come la corrente elettrica, se manca nulla si illumina, è il blackout della mente, della propria vita, di ogni cittadinanza.
Ecco perché della Città della Conoscenza non si può fare a meno di parlare, relegare il tutto a una formula, o addirittura presumere di realizzarla senza averne compreso il significato.
Conoscenza è il faro che può illuminare il cammino della città postindustriale, postmoderna alla ricerca di una nuova identità.
Oggi la conoscenza è considerata uno dei beni più preziosi per qualunque impresa che richiede d’essere gestito in modo efficiente ed efficace. Conoscenza significa innovazione di prodotti e di servizi, nuove strutture organizzative che favoriscono la condivisione delle competenze proprie del capitale umano, accelerazione e intensificazione della produzione, dell’utilizzo e della diffusione di nuovi saperi e di nuove tecnologie.
La gestione della conoscenza è determinante per gli affari, l’istruzione, la pubblica amministrazione e la sanità. Non a caso le principali organizzazioni internazionali come la Commissione Europea, la Banca Mondiale, l’Organizzazione delle Nazioni Unite e l’Ocse hanno adottato nei loro indirizzi strategici lo sviluppo e la gestione della conoscenza.
Tutto questo fa da cornice alla realizzazione della città della conoscenza a partire dalla capacità di attrarre, trattenere, integrare talenti e individui creativi. Perché una città della conoscenza compete per la sua vitalità culturale, per le opportunità di lavoro che offre ai lavoratori della conoscenza, per la presenza di strutture locali in grado di attrarli.
Una città della conoscenza è una città che fonda la propria crescita sul sapere, per questo ne favorisce la ricerca, la creazione, la condivisione, la valutazione, il rinnovo e l’aggiornamento continuo.
Il processo di sviluppo di una città della conoscenza non è né breve né semplice. Di conseguenza qualunque sforzo per realizzarla richiede il sostegno attivo di tutta la comunità, dall’amministrazione locale ai cittadini, dal settore privato alle organizzazioni, scuole, università, associazioni, ecc.
L’ambizione di ognuno di noi dovrebbe essere quella di lavorare per collocare la nostra città nel gruppo di testa delle aree urbane della nuova società dell’informazione e della conoscenza del ventunesimo secolo.
Si potrebbe fare puntando, appunto, sul fattore Kc.
A me viene di raccontarlo in questo modo. Che non è utopico, perché già tante città nel mondo, da Cordoba a Rotterdam, da Atlanta a San Paolo, che hanno intrapreso la strada della conoscenza, l’hanno praticato.
Si tratta di indicazioni sulla carta che hanno bisogno di perfezionamenti, di adattamenti o di altro ancora. Nulla che voglia insegnare niente a nessuno, ma solo per dire che, volendo, si potrebbe fare.
Si potrebbe fare che un giorno il Consiglio Comunale iniziasse a dibattere sul come avviare la trasformazione della nostra città, patrimonio culturale dell’umanità, in Knowledge City, in Città della Conoscenza.
Una città che restituisce importanza e centralità ai suoi cittadini e ai saperi, facendo di questi la sua identità, perché risorsa prima della sua crescita e del suo modo di essere. Non più solo città delle biciclette, ma innanzitutto città delle persone, città che radica il suo futuro sul patrimonio umano dei suoi abitanti.
Potrebbe essere che una volta definite le linee strategiche, i punti di arrivo, il Consiglio comunale ravvisasse la necessità di costituire, nelle forme ritenute più opportune, un Consiglio generale e un Comitato esecutivo come responsabili dell’attuazione del programma di trasformazione della città in Città della Conoscenza. Tutte le agenzie vitali della città, economiche, sociali, culturali, scuole e università sarebbero chiamate a farne parte con i loro rappresentanti, tutti impegnati a conseguire questo obiettivo principale.
Il Consiglio comunale, dunque, formalizza il contenuto del piano strategico, definendo indicatori di performance e le istituzioni responsabili dell’attuazione delle azioni prioritarie. Nomina un assessore responsabile del progetto “Città della conoscenza”, il suo compito principale è quello di promuoverne lo sviluppo, lavorando orizzontalmente all’interno della amministrazione comunale per renderlo parte coerente e integrante delle politiche degli altri assessorati, cultura, turismo, istruzione, sviluppo urbano, ecc. e mobilitare l’intero sistema degli stakeholder.
Fondamentale è che chi amministra la città sappia stimolare l’iniziativa e la partecipazione dei settori privati, fornendo reti avanzate per la comunicazione, infrastrutture energetiche, sistemi di trasporto e quant’altro.
Se ci sono aziende municipalizzate per i trasporti, l’energia, l’igiene pubblica e altro ancora, sarebbe davvero così eretico incoraggiare lo sviluppo di “un’impresa della conoscenza”? Ben altra cosa dalle “fondazioni” che promuovono il mercato degli eventi culturali. Un’azienda autonoma completamente patrocinata dal Municipio e responsabile per lo sviluppo economico complessivo della città, attuando una serie di progetti legati alla strategia “Città della conoscenza”.
La città, nonostante ogni critica e ogni abuso, rimane il motore del progresso e dell’uomo, è questo che rende la città l’invenzione più grande della nostra specie.
Le città non sono solo strutture e memorie, le città sono prima di tutto le persone. La grandezza di una città è sempre venuta dalla sua gente, non dai suoi edifici. È tempo di tornare alla gente ad essere cittadini della propria città e per la propria città. Sempre più compito dell’amministrazione cittadina è quello di occuparsi delle persone che la città abitano, in modo che l’identità della città sia quella dei suoi cittadini.

Una rilettura del conflitto israelo-palestinese sperando
si metta la parola fine

Finalmente lo scorso 27 agosto su Gaza è scoppiato il cessate il fuoco illimitato (così l’accordo) e speriamo che stavolta regga davvero.
Il conflitto era iniziato l’8 luglio dopo l’uccisione per mano di un clan locale che si rifa ad Hamas di tre studenti di una scuola rabbinica: Eyal, Naftali e Gilad.
Si è letto e sentito di tutto, anche su Ferraraitalia, su questo ennesimo conflitto israelo-palestinese, con responsabilità riconducibili principalmente, se non esclusivamente, su Israele.
Il registro è abbastanza noto: dalla negazione dei sacrosanti diritti palestinesi, all’uso sproporzionato della forza, all’espansionismo israeliano messo in atto con una politica insediativa a dir poco contestabile e ai limiti della più umiliante segregazione. Da ultimo il “muro della vergogna” (come è stato chiamato), costruito da Israele in Cisgiordania nel 2002. Fino all’accusa di un atteggiamento sistematicamente discriminante, chiamando in causa addirittura la categoria sensibilissima, per il contesto, della pregiudiziale razziale.
È innegabile che, come accade per ogni conflitto, anche in questo caso il prezzo più pesante lo abbia pagato la popolazione civile. Morti che si contano a migliaia, il più dalla parte palestinese e in maggioranza vittime innocenti di una guerra che non hanno voluto, né combattuto. Bambini, uomini e donne, che, da che mondo è mondo, vorrebbero solamente starsene in pace.
La lettura delle responsabilità israeliane, se non tutte quasi, continua a trovare largo seguito anche in Italia, principalmente nella cultura di sinistra, ma non solo. Eppure ammettere diritto di cittadinanza ad un punto di vista diverso può aiutare a farsi un’idea meno frettolosa, rispetto ad uno scenario mediorentale che definire un ginepraio ormai pare quasi sarcastico.
Il peccato d’origine dell’intero problema viene di solito fatto risalire alla decisione Onu del 29 novembre 1947 (risoluzione 181), che prevedeva, è utile ricordarlo, la nascita di due stati indipendenti, ebraico e arabo.
Il 14 maggio dell’anno seguente ci fu l’annuncio della nascita di Israele per bocca di Ben Gurion, leader storico del movimento sionista.
Il giorno dopo (il giorno dopo!) ebbe inizio quella tuttora ricordata come la guerra di indipendenza. Cinque eserciti arabi attaccarono congiuntamente Israele: Egitto, Giordania, Libano, Siria ed Iraq.
Persino la Pravda scrisse in quei giorni: “L’opinione pubblica sovietica non può che condannare l’aggressione araba contro Israele” (solo successivamente l’Urss passò dall’altra parte).
Con una superiorità numerica schiacciante (la sproporzione della forza) gli stati arabi riuscirono a perdere il conflitto, nonostante Israele non si può nemmeno dire potesse contare su un esercito vero e proprio.
I cinque aggressori, sicuri che avrebbero compiuto poco più che una passeggiata, convinsero 250mila palestinesi (su 497mila che se ne contavano nel 1948) a lasciare il paese, nonostante ogni tentativo di dissuasione da parte ebraica, perché di lì a poco avrebbero fatto trionfalmente ritorno da padroni.
La storia, più o meno, si ripete nel 1956, con la campagna del Sinai, nel 1967 (la guerra dei sei giorni) e nel 1973 (guerra del Kippur). Chi se ne intende di queste cose è sostanzialmente concorde nel dire che tutte le volte Israele ha dovuto reagire contro attentati, provocazioni e tentativi di invasione.
Ma perché tanta ostilità del mondo arabo?
La ragione è risaputa, lo stato nato nel 1948 è di fatto un’usurpazione, questa la lettura, di uno storico diritto rivendicato dalla popolazione che da sempre ha abitato la Palestina. Da qui la causa palestinese.
In realtà diversi sono gli elementi che rendono la faccenda meno semplice.
Punto primo: gli esperti concordano nel dire che in fondo la Palestina non è mai stata di nessuno. Fino, per avvicinarci ai nostri tempi, allo stato di assoluti abbandono e incuria nei quali versava quest’angolo di terra durante l’ormai agonizzante dominio turco.
Secondo: insediamenti ebraici hanno praticamente da sempre continuato a coabitare con quelli palestinesi. Nella sola Gerusalemme del 1885, ad esempio, si contavano 15mila abitanti dei quali seimila erano ebrei.
Terzo: gli ebrei, sulla spinta del progetto sionista, le terre in Palestina se le comprarono, spesso a prezzi ben oltre il loro valore. A venderle furono già a partire dall’800 i grandi proprietari terrieri arabi (effendi) residenti al Cairo, Damasco o Beirut, oppure i piccoli proprietari (fellahim). L’iniziativa fu talmente coinvolgente che tuttora è nota col nome di bossolo, ossia il salvadanaio che praticamente ogni famiglia ebraica, dalla Russia agli Usa, nei primi decenni del ‘900 aveva in casa per la raccolta fondi.
È accertato che nel 1945 gli ebrei risultavano proprietari legittimi di 175mila ettari di territorio della Palestina.
Quarto: l’idea del ritorno alla terra dei padri, nonostante la matrice assolutamente laica del sionismo (che non pensò neppure in modo uniforme all’attuale collocazione geografica di Israele), incominciò a coagularsi per il popolo della diaspora da secoli a causa di alcune accelerazioni storiche che qui possiamo solo velocemente ricordare: i sanguinosi pogrom zaristi fra Otto e Novecento, l’ondata emotiva prodotta dal processo Dreyfus nella Francia ottocentesca e l’orrore dello sterminio di sei milioni di ebrei nelle camere a gas naziste.
Questi sono alcuni fra i principali motivi che sono all’origine delle cinque storiche ondate migratorie verso la Palestina (aliyà, che in ebraico vuol dire salire verso Israele) tra la fine dell’800 e il 1948.
Ciononostante il mondo arabo ha per decenni, e in modo compatto, continuato ad opporsi innanzitutto ponendo la questione sul piano militare.
Chi tentò la via dell’accordo di pace pagò a caro prezzo questa scelta. I casi di re Abdullah I di Giordania (assassinato il 20 luglio 1951 davanti alla moschea di Omar a Gerusalemme) e del presidente egiziano Sadat (vittima di un attentato il 6 ottobre 1981, significativamente durante le celebrazioni dell’ottavo anno dalla guerra del Kippur), sono solo due esempi di come il mondo arabo abbia a lungo concepito la risoluzione del problema solo tramite un’unica via: la cancellazione di Israele come ancora si sente da certe dichiarazioni iraniane o di Hamas.
Re Abdullah I scrisse nelle sue memorie che il sionismo non solo poteva contare sui paesi europei che volevano liberarsi dei loro ebrei, ma anche sugli estremisti arabi che rifiutavano qualsiasi accordo.
Parole che, col senno di poi, legittimano anche, in certa misura, una lettura in senso involutivo della dinamica politica interna di Israele. Uno stato e un’opinione pubblica impauriti, che smarriscono la spinta propulsiva dei padri fondatori per rinchiudersi progressivamente in una sindrome da assedio e minaccia continui, verso un mondo arabo che stenta ad vestire i panni di un interlocutore affidabile (uniche eccezioni le aperture delle frontiere nel frattempo con Egitto e Giordania).
Le elezioni israeliane del 1977 segnano la sconfitta per la prima volta dei laburisti (da sempre espressione politica della cultura sionista), aprendo le porte del governo alle destre che intensificano un rapporto con le componenti religiose ultraortodosse, estranee al movimento laico fondato da Herzl. Da allora le istanze del dialogo (specie dopo l’ultimo tragico tentativo di Rabin), stentano ad essere numericamente prevalenti nella società israeliana, a scapito di un nazionalismo che fa della sicurezza e della difesa il proprio punto programmatico centrale.
Dal canto suo la causa palestinese, dopo gli insuccessi militari, sposta la propria strategia dall’impossibilità di una vittoria in campo aperto al terrorismo. Non si contano gli attentati compiuti in aeroporti e città di mezzo mondo dall’Olp a partire dagli anni ’70 con un bilancio di sangue impressionante e soprattutto all’insegna di un’accelerazione che si tende tuttora a sottovalutare. L’obiettivo non sono più gli ebrei d’Israele ma gli ebrei in quanto tali, ovunque risiedano.
Si legge nei commenti a margine del conflitto di Gaza di un nazionalismo ebraico di matrice razzista che ricorda metodi nazisti, mentre si dimentica la strategia dell’Olp che ha insanguinato mezzo mondo per oltre un decennio, sulla base di una sovrapposizione etnica che per il popolo ebraico non veniva usata dai tempi di Hitler.
Un disegno che in Italia arriva a trovare un terreno di sutura nientemeno che con le Brigate Rosse: armi e addestramento in cambio di alleanza in senso antiebraico. Mentre sulla scena internazionale Arafat il 13 novembre 1974 viene ammesso all’Onu come osservatore. C’è chi ha notato che quella è stata la prima volta di ingresso nel massimo organismo internazionale, per un movimento che aveva come obiettivo fondamentale la distruzione di uno stato membro e che rivendicava l’attività terroristica come azione politica.
Un ulteriore motivo di confusione è dato, magari inconsapevolmente, dall’espressione “Stato ebraico” per definire altrimenti Israele, che spesso si legge anche in autorevoli commentatori.
È la conseguenza di un’errata traduzione, ormai entrata nella vulgata comune, del famoso libro di Theodor Herzl “Der Judenstaat” (1896): Lo stato degli ebrei e non Lo stato ebraico.
Differenza non da poco, perché a tutt’oggi Israele è popolato da un buon 20 per cento di palestinesi e intere città sono palestinesi che possono eleggere sindaci e rappresentanti al parlamento.
Certamente, come in tutti i conflitti, le ragioni e i torti non stanno mai da una parte sola.
Gli studiosi sono d’accordo nell’individuare un errore storico compiuto dalla causa sionista. Un errore di sottovalutazione è stato chiamato.
Il pensiero sionista, all’origine dello stato d’Israele, è figlio, è bene ricordarlo, dei principi illuministi della rivoluzione francese, nella sua anima più liberale e mitteleuopea, e del pensiero marxista e socialdemocratico russo ed est europeo, la cui realizzazione principe è il sistema collettivo del kibbuz.
L’ideale, laico, era quello dunque di una liberazione del popolo ebraico dopo secoli di diaspora, ma non a prezzo della riduzione in schiavitù di altri.
Il sionismo, specie nella sua declinazione più di sinistra, riteneva che Israele avesse la missione morale di realizzare una nuova comunità umana sulla via di una ricchezza e prosperità oltre e fuori dal capitalismo. Qui forse trova espressione il rapporto di amore-odio con la vecchia Europa, nel solco della quale quell’ideale prende forma e nel quale l’ebraismo ha trovato dimora certamente, ma pur sempre nella condizione di diaspora e troppo spesso in quella del ghetto, del pogrom, della sopportazione, dello scherno, della cacciata. Fino alla follia bestiale delle leggi razziali e della soluzione finale per mano nazista.
La fiducia positivistico-ottocentesca che il benessere creato dal duro lavoro della terra (finalmente una terra) avrebbe costituito occasione di prosperità anche per la popolazione arabo-palestinese, altrettanto vessata e sfruttata da secoli, e che insieme ebrei e arabi avrebbero costruito con la forza delle loro braccia un futuro di reciproca emancipazione, liberazione e di pace, fu l’errore principale commesso dai leader del movimento sionista.
Sottovalutarono che parallelamente al nazionalismo ebraico (perché questo era il sionismo: Israele è stato chiamato anche il compimento del Risorgimento sionista) esisteva un nazionalismo arabo. Certamente meno evidente e strutturato, ma c’era.
E questo si è rivelato un errore fatale, che però neppure la comunità internazionale seppe leggere e comprendere.
Dal canto suo il mondo arabo ha insistentemente reagito mettendo per anni la partita sul piano bellico, risultandone sempre sconfitto e per questo cercando e imbastendo alleanze internazionali, che spesso non avevano nulla a che fare con la soluzione del dramma palestinese.
Da qui non pare appropriato definire espansionista Israele, perché le vittorie militari sono sempre state il risultato di una riposta ad un’aggressione iniziata da altri; almeno quattro volte dal ’48 al ’73.
Certamente molti rimangono i nodi tuttora irrisolti di una questione mediorientale che continua ad intersecarsi con nuovi elementi di complessità e preoccupazione che sembra non abbiano fine (il grande tema dell’Islam), ma, forse, tenere presente anche questa chiave di lettura potrebbe servire a qualcosa.
Forse.

Zucchero amaro, ecco il primo romanzo di Gaetano Sateriale

E’ arrivato in questi giorni in libreria il primo romanzo dell’ex sindaco di Ferrara, Gaetano Sateriale. “Tutti i colori dello zucchero” è il titolo. La storia è ambientata a Ferrara, alla metà degli anni ’70, quando l’autunno caldo è ormai finito. Enrico è uno studente della sinistra extraparlamentare che vive con Donata. Cerca un impiego estivo per mantenersi agli studi, ma lavoro e affetti hanno tempi diversi. Viene assunto in un grande zuccherificio proprio quando Donata chiude la loro storia e va ad abitare con altre femministe. Tra nostalgia delle lotte e rifiuto dell’estremismo, Enrico scopre gli operai in carne e ossa e le tante facce del lavoro: le competenze, la fatica, i pericoli. L’anno prima in quella fabbrica è morto uno di loro, dilaniato dagli ingranaggi di una grande pompa. Enrico vuole capirne di più e inizia una difficile battaglia alla ricerca della verità contro le resistenze dei dirigenti, il silenzio dei sindacati e il fatalismo degli altri operai. Un romanzo di formazione alla vigilia del terrorismo.
Bompiani – Pagine 320 – Prezzo 15,00 euro

GAETANO SATERIALE è nato a Ferrara nel 1951. Politico, sindacalista e saggista italiano, sindaco di Ferrara dal 1999 al 2009. Nel 2011 ha pubblicato per Bompiani Mente locale. La battaglia di un sindaco per i suoi cittadini contro lobby e partiti.

Al festival della Mente
l’elogio della normalità

C’era anche Ferraraitalia all’undicesima edizione del Festival della Mente che si è tenuto da venerdì a domenica a Sarzana. Una tre giorni di appuntamenti interamente dedicati alla creatività. Promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio della Spezia e dal Comune di Sarzana, con la direzione scientifica di Gustavo Pietropolli Charmer, l’edizione 2014 ha dedicato grandissimo spazio all’adolescenza. Moltissimi gli esperti di fama internazionale che hanno incantato un pubblico eclettico proveniente da ogni parte dello Stivale e non necessariamente di addetti ai lavori. Noi non faremo un resoconto dettagliato di questa full immersion, che non ci compete. Diremo tuttavia che abbiamo apprezzato una manifestazione che ha messo a confronto – finalmente e concretamente – le generazioni. Che bandendo ogni nostalgia e pessimismo, ha evitato gli allarmismi e il disfattismo. Che si è tenuta alla larga da frasi di rito – ormai anatemi – del tipo «Poverino, non ce la farà mai a trovare un lavoro e a realizzarsi»’ o «Tu sei unico, sei il migliore». Nulla di tutto questo. Semmai c’è stato un invito alla ‘normalità’, alla condivisione, all’uguaglianza. A non crescere i nostri ragazzi facendoli sentire invincibili e unici, salvo poi farli precipitare in frustrazioni che sanno di ‘fallimento’ alla prima occasione in cui non realizzano un obiettivo. No. Si è ricordato loro – e a chi li educa – che per essere al passo coi tempi non basta essere ‘digitali’, ma bisogna leggere, tanto e sempre, perché la cultura crea coscienza e aiuta a capire chi e cosa ci circonda (David McCullough Jr, insegnante, in Ragazzi, non siete speciali). Che ha invitato i genitori a vegliare su preadolescenti la cui maturità fisica non corrisponde a quella mentale (Sofia Bignamini, psicoterapeuta, in L’esplosione dei mutanti) e a non avere da loro aspettative suggerite dall’aspetto adulto. A non confondere la loro capacità tecnologica con la capacità di gestire, emotivamente, i contenuti del web e dei social. Ecco allora che i genitori devono cercare di essere all’altezza dei figli, devono cercare di comprendere i mezzi di comunicazione – per loro obsoleti – che i ventenni maneggiano dalla culla. E in epoca di grande violenza, si è detto agli adulti lasciate litigare i bambini, perché così, dovendo poi fare pace, sperimentano e imparano la ‘relazione’ la rinuncia, la resistenza, l’amicizia (Daniele Novara, pedagogista, in Litigare fa bene). Non impartite sempre punizioni, perché il conflitto non è violenza, anzi. La violenza è spesso racchiusa nell’incapacità di gestirlo, il conflitto. Diffidate semmai di chi è troppo tranquillo. Allo stesso modo, se i diciottenni se ne stanno solo ‘stravaccati’ sul divano – come esemplifica Michele Serra ne Gli sdraiati e ha ribadito in Tutte le famiglie infelici si assomigliano – preoccupatevi, ma non troppo. Interagite. Il punto è che non sta scritto da nessuna parte che il nostro mondo è migliore del loro. Sono cambiati i paradigmi, ma chi stabilisce quali sono quelli giusti? A noi questo taglio, senza condanne e senza scusanti per le nuove generazioni, e senza alibi per le ‘over’, è piaciuto. Ci è piaciuta la sollecitazione alla responsabilità di tutti. Ci è piaciuta questa assenza di toni apocalittici, che non portano da nessuna parte e certo non aiutano i ragazzi a costruirsi un futuro. Che è anche nostro. E se giornalismo è creare le coscienze, ci piace pensare che Ferraraitalia continuerà a portare contributi, da Sarzana come da Roma, con la convinzione profonda che nessuna realtà basti a se stessa. Se non a rischio di una dannosa auto referenzialità.

L’opinione pubblica nella rete
dei luoghi comuni

In questo scorcio di estate sfilacciata e fiacca, in cui meteorologia e difficoltà economiche hanno contribuito ad un generale clima depressivo, palpabile nelle strade delle città, negli stabilimenti balneari, come nelle sagre di paese, le persone faticano a trovare le energie necessarie per affrontare, con convinzione, la ripresa del lavoro. Non hanno fatto bene le notizie quotidiane sugli episodi di follia individuale che hanno avuto esiti tragici (infanticidi e femminicidi), ricordandoci che la follia abita la nostra vita quotidiana. Non hanno fatto bene neppure i confronti di piccolo cabotaggio sulle vicende politiche, gli attestati di simpatia o di antipatia verso questo o a quel personaggio pubblico, a commento di episodi insignificanti come l’adesione a gavettoni a scopi di beneficienza.
Ci prepariamo ad un altro anno di informazione e di luoghi comuni?

Molta parte del dibattito politico proposto dai media, televisione e giornali, appare uno spettacolo di parole. Uno spettacolo in cui ognuno recita se stesso: l’obiettivo non è argomentare, ma suscitare appartenenze, schieramenti; non è convincere, ma intrattenere. I talk show hanno preso il posto degli spettacoli di intrattenimento, forniscono materiali per le conversazioni, ci catturano perché consentono di schierarci da una parte o dall’altra. Le espressioni di accordo e disaccordo verso questa o quella posizione hanno lo stesso tono delle tifoserie che disputano sui gol e l’arbitraggio di questa o quella partita di calcio e pure lo stesso senso: nutrire l’identità.
Ciò che mi colpisce è proprio la passione personale con cui si commentano i fatti, la simpatia o l’antipatia verso un gesto, ancorché insignificante, compiuto da un personaggio pubblico. Qualunque sede mediatica è sempre occasione di spettacolo e di intrattenimento: per raggiungere questo obiettivo deve suscitare emozioni. L’obiettivo dei media è convogliare su qualche evento le nostre emozioni, darci pretesti per schierarci, per sentirci dalla parte giusta, per stigmatizzare l’involuzione, la caduta, la perdita, il degrado, la liquefazione di non so quale virtù precedentemente solida.

Le nostre opinioni si creano attraverso una continua mescolanza di frammenti di notizie derivanti dai media tradizionali, televisioni e giornali e rimbalzati nelle piazze virtuali che ognuno di noi frequenta. Ibridazione è divenuta la nuova parola chiave.
La nostra diretta partecipazione alla “produzione dei fatti” rende ancora più forte il contenuto emozionale dei messaggi, che viene filtrato dalle nostre esperienze dirette ed entra nelle forme della socialità odierna: le conversazioni in rete. I social network hanno preso il posto dei tradizionali luoghi di dibattito politico e sono oggi i nuovi luoghi in cui si forma l’opinione pubblica. Ma è un’opinione pubblica sempre più fondata sulle emozioni. I social media ci spingono a schierarci, difendere, attaccare, argomentare. Ognuno si forma un’idea prima che sia in grado di produrre un’analisi dettagliata e questa idea si consolida, a prescindere da ulteriori argomenti.
Sta cambiando la definizione di spazio pubblico. La distinzione tra uno spazio che appartiene alle persone, chiuso tra le mura domestiche, dedicato agli affetti personali e degno di essere protetto dagli sguardi indiscreti e uno spazio dell’agorà, dedicato all’incontro e alla discussione sul bene comune, è venuta meno. Esiste in questi nuovi luoghi digitali lo spazio per una argomentazione critica, informata e non filtrata da punti di vista preconcetti e da scorciatoie rassicuranti? Non possiamo rinunciare a pensarlo.

Maura Franchi (Sociologa, Università di Parma) è laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Marketing del prodotto tipico, Social Media Marketing e Web Storytelling. I principali temi di ricerca riguardano i mutamenti socio-culturali correlati alle reti sociali, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@gmail.it

Il decoro nelle città d’arte: questione di civiltà,
le catenelle non c’entrano

Tra Ferrara e Firenze il 27 agosto 2014, ripensando a questo giorno del 1950 quando lo scrittore a cui ho dedicato sudate carte si tolse la vita: Cesare Pavese.

Sotto un cielo degno del Rosso Fiorentino, attraverso lentamente Firenze fendendo folle più composte di quelle che abitualmente l’invadono: quasi intimorite della bellezza che si sprigiona dai suoi monumenti, dalle sue strade, dalle sue case e palazzi. Una fisarmonica si lamenta di fronte all’Accademia e un ragazzo dai piedi deformati porge un bicchiere di plastica per un obolo. Molti lasciano cadere una moneta, altri lo evitano. Una bella e giovine poliziotta municipale osserva apparentemente distratta se tra la folla non s’inserisca qualche borsaiolo. I gradini del Duomo spariscono sotto folle di giovani e anziani che addentano panini, bevono birra e lasciano un tappeto di cartacce mentre selfie a ripetizione, tra urletti di soddisfazione e ostensioni a braccio rigido degli improvvisati testimoni, indifferentemente fotografano il campanile di Giotto e le cartacce, Brunelleschi e folle non propriamente odorose. Ma niente catenelle. Nelle vetrine dei posti di ristoro in verità non molto allettanti, tra massicci cumuli di gelati dal dubbio colorito, campeggiano discreti cartelli “No toilet” in un improbabile inglese mentre a pochi passi di distanza la “toilet” pubblica di Piazza Duomo registra file gigantesche di fruitori seconde solo a quelle che si formano per la salita sulla Cupola. Intensi odori umani e occhi meravigliati nel lento pellegrinaggio verso Palazzo Vecchio e la quasi insuperabile strozzatura di Ponte Vecchio, ma l’occhio non vede catene o sbarramenti che impediscano di avvicinarsi a monumenti così preziosi. Forse ai tempi di Giovanni Boccaccio era la regola questo misto di umanità e fritture. Le chiese intese nel senso antico di “ecclesia” e di comunità raccoglievano fedeli in preghiera e corteggiamenti serrati. Pure i cani scorrazzavano liberamente. Persino Dante, come racconta nella Vita Nuova, si permette di usare una donna dello schermo per attrarre lo sguardo di Beatrice e al diniego del saluto pianti, lacrime, svenimenti fino alla decisione suprema “quando apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta infino tanto che io potesse più degnamente trattare di lei”. E nasce la Commedia. Così tra gli incontri dei giovani che si riuniscono a Santa Maria Novella e decidono di recarsi in campagna a raccontarsi storie, si registra la storia di Andreuccio da Perugia che caca tra i muri del chiassetto precipitando per la rottura di un asse nel maleodorante fondo. Andreuccio “richiedendo il naturale uso di dover disporre il superfluo peso del ventre” si reca nel luogo indicato e precipita senza farsi male “quantunque alquanto cadesse dall’alto; ma tutto della bruttura, della quale il luogo era pieno, s’imbrattò”. E Dante ancora immerge nel liquame prostitute, mezzani e seduttori tra i quali non fa una bella figura il signore di Ferrara Alberto d’Este.

Per quanto non frequenti la Piazza il mercoledì non credo che la situazione sia peggiore né che occorrano catenelle per tener lontane le intemperanze dei festeggianti. I cani non entrano più in chiesa, gli amori nascono nelle discoteche e non certo nei luoghi sacri, eppure ancora qualche Andreuccio da Perugia contemporaneo non capisce la differenza tra il rispetto del luogo e il soddisfacimento dei propri comodi. Serviranno catene e baluardi? Ne sono poco convinto. Cosi, se è “incivile” il comportamento di chi bolla la mendicità come discriminazione (e ben lo ha rilevato il Sindaco) altrettanto “incivile” è il comportamento di chi pensa di comportarsi secondo il proprio estro o per seguire l’ideologia del branco. Allora a che servirebbero catene e catenelle a chi non capisce lo spirito che dovrebbe informare il raduno dei giovani? Ai miei tempi, lontani, la meglio gioventù si radunava al “Moka”, il caffè ora scomparso in piazza Trento Trieste. Non si disdegnavano belle bevute, ma a soddisfare le urgenze della vescica soccorreva un magnifico bagno pubblico all’angolo di via Contrari dove disciplinatamente ci si recava. Ma di catenelle nemmeno l’ombra. E provare con wc chimici e sorveglianza? Con cestini e multe?
Chissà che non si riuscisse a imporre il rispetto per la Bellezza e la Storia senza incatenarle…

Rucola e Parmigiano addio

DA MOSCA – Eccomi al supermercato nel centro di Mosca, uno di quelli noti per la presenza di prodotti di grande varietà per tipologia e origine, è uno dei primi sabati dopo l’entrata in vigore delle sanzioni. Cerco la carne, i formaggi e qualche verdura. Salumi no, perché ne acquisto pochi. Frigoriferi spenti, fuori servizio si legge (e ci scusiamo con la clientela per il disagio), ma in realtà, capirò poche ore dopo, il blocco delle importazioni dell’agro-alimentare da Unione europea, Stati uniti, Australia e Canada ha avuto effetti quasi immediati. Si parlava già da giorni di Coca Cola che ritirava gli spot dalle televisioni russe, di Rospotrebnadzor (agenzia russa a tutela dei consumatori) che ordinava controlli su carni e cibo “fast” di McDonald, di aumento dei controlli sanitari da parte del servizio veterinario e fitosanitario Rosselkhoznadzo. Poi è arrivata la guerra delle sanzioni, prima strali, scambi minacciosi, poi i fatti. Soprattutto da parte della Russia. E mentre la Commissione europea decide di istituire una task force per stimare l’impatto della decisione russa di bloccare le importazioni agroalimentari dall’Unione europea, si percepisce (o meglio, si sa) già che i danni di tali divieti per l’Europa, e l’Italia in particolare, potranno essere ingenti.

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Uno dei tanti Azbuka Vkusa moscoviti

Le esportazioni di prodotti agroalimentari italiani in Russia, nonostante le tensioni, sono aumentate dell’1% nel primo quadrimestre del 2014, dopo che nel 2013 avevano raggiunto la cifra record di 706 milioni di euro. Secondo l’associazione degli agricoltori italiani, in particolare, oggi potrebbero essere danneggiate “spedizioni di ortofrutta per un importo di 72 milioni (molte merci sono ora bloccate alle frontiere), di pasta per 50 milioni di euro e di carni per 61 milioni di euro”. Per il Parmigiano reggiano sono a rischio-export circa 10.800 forme (cifra raggiunta nel 2012 con una crescita del 16%), per 6 milioni di euro di fatturato, per Grana padano, le sanzioni russe sono altresì assai pesanti, mentre il Consorzio del prosciutto di Parma comunica che si tratta di un “brutto colpo in prospettiva, che vanifica gli sforzi compiuti in questi anni”.

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Tweet che riporta un manifesto “autarchico” dell’era sovietica

Ma cosa succederà sugli scaffali dei supermercati russi? Secondo molti, poco o nulla. I partecipanti del mercato sono convinti che gli affari non soffriranno e che le possibilità per gli importatori stranieri di aggirare le sanzioni ci saranno; oltre a ciò, la Russia si riorienta verso l’import dall’America latina, dall’Asia e dalla Turchia. Da un lato, la Russia punta anche a garantire la sicurezza alimentare, promuovendo il consumo di produzioni locali, dall’altro cercherà nuovi fornitori su nuovi mercati “amici”. Bell’esercizio di “autarchia”.

“Gli scaffali russi non si svuoteranno di certo: la Turchia e i paesi dell’America latina sono pronti a colmare il vuoto lasciato dagli europei. L’unico problema è l’aumento dei costi di trasporto che influiranno sul prezzo. Inoltre, i nuovi prodotti potrebbero rivelarsi di qualità inferiore rispetto a quelli europei“, ha detto in un’intervista il capo del dipartimento regionale di Economia e di geografia economica, Aleksej Skopin. Secondo la sua opinione, la crescita dei prezzi sui prodotti agricoli sarà dal 5 al 10%. Esiste però un’altra opzione. La produzione europea potrebbe rimanere sugli scaffali russi anche se sotto un’etichetta diversa. Secondo Dmitrij Potapenko del Management development group inc. non è da escludere che i rifornimenti delle merci europee possano continuare attraverso i paesi dell’Unione doganale (Bielorussia e Kazakistan). Tutto da vedere.

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Tweet di Oleg: in segno di protesta, la Russia è il primo Paese a dichiarare lo sciopero della fame

Quello che ci fa sorridere, in tutto questo surreale gioco di parti, è la rete, le frasi e l’ironia e, a volte, il sarcasmo dei suoi frequentatori. Alcuni internauti russi scrivono che “la Russia è il primo paese che abbia avuto l’idea di dichiarare lo sciopero della fame”, altri si domandano se i russi siano condannati a mangiare kotlety, ovvero quei pezzi di carne la cui composizione a volte suscita qualche perplessità…

 

 

 

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Tweet di epicfake: Parto in vacanza, chiederò l’asilo gastronomico.

Qualcun altro pensa di chiedere l’asilo gastronomico, c’è poi anche chi si chiede, simpaticamente, se una cena in un ristorante italiano possa considerarsi una riunione non autorizzata… Qualche maldicente prevede il ritorno all’avoska, la retina con cibi e bevande che si teneva con sé durante l’epoca sovietica, “giusto nel caso in cui…”.
Si anticipa il declino di posti come l’Azbuka vkusa (“l’abc del gusto”), catena di supermercati alta gamma dall’ottima reputazione per i suoi prodotti freschi importati.

Ma molti non si preoccupano davvero, la vita continua, e si può sempre bere il kefir.

Rudy Bandiera candidato ai Mia 2014 con Renzi, Papa Francesco e Grillo

da: organizzatori

Inarrestabile. Il blogger ferrarese Rudy Bandiera è stato candidato come Miglior Personaggio per i Mia 2014 (Macchianera Italian Awards), giunti alla dodicesima edizione. Insieme a lui, il Presidente del Consiglio Matteo Renzi, Papa Francesco – già vincitore dell’edizione 2013 – e Beppe Grillo. Oltre 170mila i nominativi ricevuti e accuratamente selezionati. Tra questi, «a mia insaputa, giuro», quello di Bandiera. «L’ho appreso da Twitter – conferma – e nell’arco di pochi minuti anche l’organizzazione mi ha informato. Sono stupefatto, tanto più perché sono l’unico ‘candidato digitale’, visto che gli altri vengono da altri mondi e non hanno certo bisogno di presentazioni…». La premiazione sarà il 13 settembre al Teatro Ermete Novelli di Rimini (si può votare fino all’11 settembre) nell’ambito della Festa della Rete (già BlogFest). Scorrendo la top ten dell’edizione 2013, scopriamo che vincitore della scorsa edizione è stato Papa Francesco, seguito da Fiorello, con un quarto posto per Selvaggia Lucarelli e un nono per il giornalista Luca Sofri. Tra le categorie, 22 sono dedicate ai media (siti, articolo, community). Bandiera, attivo sul fronte della comunicazione convenzionale e non, con Net.Propaganda e Polis Comunicazione, è autore del recente Rischi e opportunità del web 3.0 (Flaccovio Editore), sul podio dei libri più venduti in Amazon. «Questa è la dimostrazione che il web, inglobando tutti i media, non è più soltanto un gioco. E non esiste più il popolo della rete, perché tutti siamo tutto».

L’INCHIESTA
L’idrovia incompiuta
fa felici tutti.
Tranne l’Europa

Quasi quasi c’è da sperare che i soldi per completare l’idrovia non saltino fuori. E il sospetto è che proprio questo si augurino anche coloro che hanno promosso l’opera. Perché così come sta diventando, con i 145 milioni di euro raggranellati, già impegnati e in parte spesi, il collegamento fluviale fra Ferrara e Porto Garibaldi è una splendida opportunità per incrementare il turismo.
L’opera, secondo le previsioni ufficiali, verrà conclusa entro dicembre 2015. I cento milioni che ancora fanno difetto (non previsti nell’iniziale finanziamento europeo e successivamente richiesti al ministero) servirebbero invece per gli interventi complementari, quelli che consentirebbero l’effettivo accesso ai natanti catalogati ‘di classe quinta europea’, come da progetto; quel progetto che ha permesso di raccogliere gli ingenti finanziamenti pubblici già impiegati per la realizzazione dei lavori svolti sino ad ora. Ma il problema è che dare libero transito a imbarcazioni ‘fluvio-marittime’ addette al trasporto merci snaturerebbe l’essenza del fiume, rischiando di trasformarlo di fatto in un collettore industriale.
Questo indesiderato epilogo sarebbe la verosimile conseguenza del completamento dell’opera. Perciò c’è la sottaciuta speranza delle istituzioni ferraresi di non farcela. L’idea che l’opera rimanga incompiuta una volta tanto non è vista come una sciagura, anzi. Perché incompiuta in questo caso significa  riqualificata per il turismo fluviale, ma impraticabile per la destinazione d’uso commerciale e industriale. A dispetto di ciò che l’Unione europea s’attende…

Qualche tempo fa è emerso, con gran risalto di stampa – apparente fulmine a ciel sereno – un impedimento al transito, guarda caso, proprio delle famigerate navi ‘quinta classe a europea’ sull’asta del fiume. L’impedimento è costituito dalla quota del ponte sul canale Burana, all’altezza della ferrovia, insufficiente a permettere il transito delle imbarcazioni più grandi.
Possibile che sia stato commesso un errore così marchiano in fase di progettazione? La cosa appare poco plausibile. Più probabile, invece, che si sia consapevolmente ignorato il problema e presentata la richiesta di finanziamento comunitario avendo lo scopo di riqualificare la via d’acqua fra Ferrara e il mare per renderla un’attrattiva turistica, senza realmente pensare di farne una via di transito per mezzi commerciali.
L’errore di progettazione, quindi, non sarebbe stato realmente tale, ma un machiavello utile proprio per determinare, a cose ormai fatte, l’utile impedimento alla realizzazione del dichiarato scopo, che in realtà non si sarebbe mai davvero inteso perseguire: quello di rendere il Po un’autostrada d’acqua a servizio del transito commerciale.

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Pier Giorgio Dall’Acqua è stato presidente della Provincia di Ferrara fra il 1999 e il 2009

Pier Giorgio Dall’Acqua è stato presidente della Provincia di Ferrara fra il 1999, quando dell’idrovia si è cominciato a parlare, sino al 2009, quando il progetto era già stato finanziato. Alla domanda se il problema recentemente emerso, quello del ponte sul Burana, lo abbia sorpreso, scuote il capo in maniera significativa: “La difficoltà di garantire il transito delle imbarcazioni di classe quinta è stata evidente fin da subito. Parlo di difficoltà serie, intendiamoci, ma non di impossibilità… Con l’allora assessore regionale ai trasporti, Peri, si valutò in ogni caso l’opportunità di non lasciare cadere nel nulla una importante occasione di finanziamento che sarebbe servita a riqualificare l’asta navigabile, quantomeno per il suo utilizzo da diporto e a fini turistici”.
L’obiettivo richiesto dall’Unione europea non sarebbe dunque stato ignorato, ma stante le difficoltà di realizzarlo, si è concepita di fatto la realizzazione come ‘work in progress’, concentrando le risorse disponibili sulla realizzazione delle infrastrutture di base e rimandando a una fase successiva la risoluzione delle problematiche che impedivano il passaggio ai natanti di classe quinta.
“Però il bypass della città così come era stato concepito – commenta Dall’Acqua – era insostenibile. Si sarebbe dovuta scempiare la campagna, con un canale che fra argini e letto avrebbe occupato una sezione di almeno 500 metri. Ma scherziamo? E poi in questo modo si sarebbe creato un invaso e determinata una situazione di potenziale pericolo in caso di piene del fiume, se il Po avesse deciso di fare le bizze”. Tutto risolto in un nulla di fatto, allora? Al contrario. “Si sono vagliate varie possibilità. Per il ponte ferroviario si era persino ipotizzata una soluzione di ‘paratie vinciane’ per abbassare il livello delle acque non potendo alzare la quota del ponte, per la vicinanza della stazione. Il pescaggio per le navi in transito sarebbe stato sufficiente. Ma i costi di una simile opera sono ingenti”.

Con prudenza, Marcella Zappaterra, presidente uscente della decaduta giunta Provinciale, ha posto la sua firma a sigillo di una nota pubblicata sul sito ufficiale dell’ente in cui, con linguaggio debitamente paludato, spiega che “l’impegno per trasformare il tracciato del Po di Volano in un ‘corridoio’ percorribile dalle imbarcazioni è il primo passo verso la concreta valorizzazione dell’asta fluviale del fiume che avviene a livello regionale, e punta a dare attuazione a un concetto sempre più intermodale del trasporto”.
Il riferimento è genericamente “alle imbarcazioni”, mentre non c’è alcun esplicito richiamo alla “classe quinta europea”. E inoltre si parla sagacemente di “primo passo verso la concreta valorizzazione dell’asta fluviale del fiume”… Un capolavoro di politichese.

Resta il fatto che i finanziamenti sono stati ottenuti (e spesi) prospettando all’Europa un certo intervento che, per ora, non è stato realizzato nel totale rispetto degli impegni assunti. Il progetto contempla, infatti, il transito delle navi di classe quinta. E questo obiettivo, ad oggi, resta difficilmente praticabile. E non è prevedibile come possa essere realizzato: perché l’elevazione del ponte ferroviario sul Boicelli è considerato impraticabile, poiché non c’è sufficiente gittata per riportare i binari alla quota della stazione, che dista poche centinaia di metri. Per ovviare al guaio, occorrerebbe ripristinare il bypass della città, inviso a Dall’Acqua ed escluso dagli interventi finora realizzati. Oppure trovare un grimaldello: le paratie vinciane o altre mirabilie. Ma i soldi ora sono finiti. Per provvedere servirebbero altri 100 milioni, attesi dal governo. Che in tanti sperano non arrivino mai.

1. CONTINUA

LA STORIA
La mia Unità, avanti a sinistra (si spera)

La notizia, come si dice, in testa. L’Unità è viva e ha ricominciato a camminare, anche se per ora solo nella sua edizione online. Il nostro sito, rimesso in moto nei giorni scorsi grazie ad alcuni colleghi, è ripartito con numeri che confermano quello che ripetiamo da tempo: questo giornale non è solo un giornale. E’ una specie di piccolo grande villaggio dove leggere, scrivere, dialogare, a volte anche con opinioni molto diverse. Ma uno spazio di libertà e di partecipazione che la sospensione delle pubblicazioni, lo scorso 31 luglio, non ha certo depotenziato o cancellato. Nei prossimi giorni, in questa prima settimana di settembre, c’è già una importante scadenza per gli sviluppi della procedura di concordato e per la liquidazione della Nie. Quello che tutti chiedono, quando e come torneremo in edicola, è una risposta che nessuno al momento può dare, anche se tutti ci auguriamo avvenga nel più breve tempo possibile.
La crisi che ha portato a questa situazione così difficile, anche solo da spiegare a chi ti ferma per strada o fa parte del nostro pubblico, è stata lunga, complicata e piena di passaggi dolorosi. Un giornale è una creatura viva, è carne viva, e il nostro giornale non fa eccezione, anzi. Per la festa dei 90 anni, celebrata lo scorso febbraio con un grande seguito di amici, ex colleghi, lettori e affezionati, abbiamo capito che a volte la storia è il miglior modo per pensare e costruire il futuro. Senza Antonio Gramsci, senza il suo spirito e la sua impronta, questo giornale non sarebbe così particolare com’è, un caso quasi unico nel panorama italiano e non solo. Proprio ora che si vive la crisi dei giornali e il profondo rinnovamento dei mezzi e dei modi dell’informazione, abbiamo riscoperto, purtroppo sulla nostra pelle, il valore e il significato di far parte di un quotidiano fondato nel 1924 da una persona, una grande persona, che detestava l’indifferenza e col suo esempio ci ha insegnato il significato di fare questo mestiere, di vedere e raccontare le cose, di aprire porte chiuse e di portare le cose a tutti, per contribuire a quello che alcuni chiamano coscienza civica, o partecipazione, o semplicemente bene comune.
L’informazione libera è sicuramente il bene comune supremo e per me, che come tanti colleghi e amici ho cominciato questa avventura tanti anni fa, dopo un’altra dolorosa chiusura, non si può non pensare al clima che ci siamo trovati a vivere poche settimane dopo quel battesimo, con Furio Colombo al timone della redazione e i giorni molto, molto difficili del G8 di Genova che abbiamo raccontato come una specie di eclissi della democrazia. Ci siamo in un certo senso battezzati anche noi, in quel modo, con quel grande direttore che ha lasciato un’impronta in tutti noi, in quei giorni e con il giornale che aveva appena ripreso a vivere. E di quel battesimo, di quel senso di fare questo mestiere, credo e spero, continueremo a dare testimonianza nell’Unità che tornerà in edicola, speriamo il prima possibile e nel modo più futuribile e solido. Per continuare a fare il nostro mestiere, ma soprattutto per continuare a far vivere la nostra grande e libera comunità che sarebbe sicuramente piaciuta ad Antonio Gramsci. A presto.

* Salvatore Maria Righi, ferrarese, è giornalista caposervizio dell’Unità

L’INTERVISTA
Sani e hi-tech:
i prodotti del territorio
passati ai raggi Nir

Ad un anno esatto dalle prime analisi Nir condotte sui mini cocomeri, il Dipartimento di scienze della vita e biotecnologie dell’Università di Ferrara va oltre, e lancia un sistema particolarmente innovativo che permetterà al consumatore di ottenere tutta una serie di dati integrati, accessibili attraverso un Qr-code apposto sulla confezione o direttamente sul prodotto. Dalle informazioni sull’azienda produttrice alle caratteristiche organolettiche, dalla provenienza geografica ai consigli del dietista, si potrà avere la scheda prodotto dettagliata sullo schermo del proprio smartphone o tablet mentre si fa la spesa, in tempo reale e senza passare per un sito.

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L’intervento di Maria Elena Tamburini durante la presentazione del progetto Ideas

Il progetto Ideas (Innovation and development for agri-food security), di recente presentato alla stampa, coinvolge un gruppo di ricercatori e consulenti che si sono messi insieme con lo scopo di perseguire innovazione tecnologica e sviluppo aziendale, ricerca scientifica e sviluppo economico territoriale, sul tema della tracciabilità dei prodotti agro-alimentari. Sulle confezioni i consumatori troveranno un Qr-code. La sigla sta per “Quick response code” (codice a risposta veloce), si tratta di un codice a barre a matrice, composto da moduli neri disposti all’interno di uno schema di forma quadrata. Viene impiegato per memorizzare informazioni generalmente destinate ad essere lette tramite smartphone o tablet, supporti che ne permettono una rapida decodifica del contenuto.
Abbiamo intervistato la dottoressa Maria Elena Tamburini, responsabile delle analisi Nir del Dipartimento di scienze della vita e biotecnologie e componente del gruppo di ricerca, per ripercorrere le tappe di questo interessantissimo progetto, sperando che diventi un esempio virtuoso per lo sviluppo del nostro territorio.

In poco più di un anno dall’avvio del progetto, avete bruciato le tappe e siete già ad una fase molto avanzata, una mosca bianca in questo contesto di grande stagnazione. Nel complimentarci le chiediamo di raccontarci come è nato il progetto e come si è sviluppato.
Sì, in effetti si tratta di un progetto nato un po’ per caso, ma che ha funzionato fin dall’inizio. Si è tutto “incastrato” perfettamente perché si sono create le condizioni giuste e soprattutto perché ci siamo trovati in grande sintonia rispetto al metodo e alle finalità.
Nel maggio del 2013, abbiamo conosciuto Marco Malavasi e il suo socio Massimo Marchetti della Cooperativa agricola “La Diamantina” – prosegue affabile e gentile – perché avevano appena messo a punto una varietà di mini cocomero che risultava avere un contenuto molto elevato di licopene, sostanza importante su cui puntavano per differenziarsi sul mercato italiano ed estero. Il licopene è una sostanza piuttosto difficile da analizzare, a causa della complessa procedura di estrazione necessaria; la sfida che ci ha posto l’azienda è stata quella di provare a misurare la concentrazione di licopene con la Nirs, una tecnica innovativa che permette analisi molto precise e immediate, senza bisogno di distruggere il campione per estrarre la sostanza da analizzare. Contattando l’Università di Ferrara, hanno intercettato me che studio l’applicabilità della spettroscopia nel vicino infrarosso (in inglese, Near-infra-red-spectroscopy, Nirs) dal 1998, e che dal 2004 faccio parte della Società italiana di spettroscopia Nir.
L’idea mi è subito piaciuta perché applicare la ricerca ai processi industriali è il mio campo da sempre, e perché, in questo caso, la ricerca rappresentava una vera sfida: nonostante la Nirs sia una tecnica consolidata e utilizzata ormai da molti in ambito agro-alimentare (sono ormai più che note le applicazione per la misura del contenuto zuccherino nella frutta, o per il contenuto di umidità e proteine nei cereali), non sono riportate applicazioni, nemmeno sulla letteratura scientifica internazionale, relative alla possibilità di sfruttare i vantaggi di questa tecnica per misurare il contenuto di licopene nei cocomeri interi, senza distruggere il frutto. Naturalmente il vantaggio evidente nell’impiego di questo metodo, sta nel fatto di poter identificare ogni singolo frutto e non come normalmente avviene, analizzare a campione, per poi estendere i dati a tutto il lotto.
Così siamo partiti e nel giro di un paio di mesi, abbiamo avviato e completato con successo la fase preliminare del progetto, necessaria per calibrare lo strumento e misurare la concentrazione di licopene nei cocomeri.
La cosa interessante, dal punto di vista della ricerca, è stato appunto verificare che la tecnica Nir funziona perfettamente anche sul cocomero intero: riesce a penetrare attraverso la buccia (la cui presenza avrebbe potuto rappresentare un ostacolo, una sorta di effetto schermo); riesce ad intercettare la molecola del licopene nonostante la bassa concentrazione assoluta (il licopene è infatti una sostanza che si trova nei prodotti in quantità micro, nell’ordine dei milligrammi per chilo).

Perché il licopene è così importante, tanto da indurre un’azienda ad investire diverse decine di migliaia di euro per acquistare uno strumento di analisi all’avanguardia?
Il licopene è un prodotto salutistico, è stato scientificamente provato che si tratta di una sostanza molto importante perché è un antiossidante, un antiradicali liberi, ottimo quindi contro i processi di invecchiamento e degenerazione cellulare e nella prevenzione dei tumori, ultimamente molto ricercato anche come integratore. Il pomodoro è la principale fonte di licopene ma un po’ tutti i frutti rossi ne contengono; la quantità di licopene è connessa con la pigmentazione rossa e il grado di maturazione. Poter attestare su ogni frutto la quantità di questa utile sostanza, ha una grande potenzialità di valorizzazione del prodotto.

E perché questa macchina e non altre? Quali i vantaggi?

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Irradiamento del campione con la spettroscopia Nir

La spettroscopia Nir ha la particolarità di funzionare per irradiamento: in sostanza c’è un raggio luminoso di opportuna lunghezza d’onda (compresa tra 400 e 2500 nm, nanometri, nello spettro elettromagnetico) che irradia il campione e che riesce ad interagire con i legami chimici delle molecole organiche, eccitandole e quindi aumentandone l’energia di vibrazione, e ottenendo una risposta dello strumento in termini di quanta energia è stata assorbita dalla molecola.
Una volta misurata l’energia vibrazionale assorbita, si procede nel correlare la risposta strumentale ad un valore di concentrazione. Il vantaggio è che, essendo un raggio luminoso, si può fare tenendo il frutto intero e non c’è bisogno, come nell’analisi chimica tradizionale, di aprire il frutto, prendere la polpa, concentrare il succo, liofilizzarlo, estrarre con un solvente organico il licopene, procedura lunghissima che impiega 2/3 giorni di lavoro per ottenere il risultato.

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Valore di concentrazione di licopene rilevato in tempo reale

Lo strumento Nir, al contrario, offre molti vantaggi: è una tecnica non distruttiva; ti dà il risultato in tempo reale, ossia nel giro di un secondo; e, soprattutto, si tratta di un’analisi molto versatile, multi-parametrica, perché l’irradiazione è in grado di rilevare contemporaneamente la concentrazione di una serie di molecole organiche, non solo quelle del licopene ma anche quella degli zuccheri, per esempio, e a definire, quindi, in tempo reale, il grado di dolcezza di un frutto.

Fino a quel momento, quindi, eravate voi e l’azienda. Come siete arrivati al costituire il gruppo Ideas?

A quel punto ci siamo chiesti, ma perché non estendere il progetto allargandolo all’intero percorso qualitativo di un prodotto, provando a coinvolgere altre aziende che potrebbero utilizzare il Nis per dotarsi di un sistema innovativo di tracciabilità con il sigillo dell’Università?

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Il gruppo I.DE.A.S., dalla sinistra: Tamburini, Malavasi, Marchetti, Barbieri e Donegà

L’idea è passata, e nel settembre 2013 abbiamo messo insieme il gruppo Ideas (Innovation and development for agri-food security), un team di esperti abbastanza eterogeneo: io come esperta di Nir, Maria Gabrielli Marchetti biologa, esperta di tessuti biologici e analisi immunoistochimiche, Gian Paolo Barbieri esperto nel mettere insieme università e imprese, Valentina Donegà biotecnologa, Marco Malavasi esperto di marketing.
Da quel momento i progetti si sono diversificati: c’è il progetto di ricerca sui cocomeri e quello sulla tracciabilità. Per il progetto di ricerca sui cocomeri, proprio in questi giorni stiamo conducendo la seconda fase, di cui avremo i risultati al termine della stagione, e abbiamo presentato anche un brevetto.
Il progetto sulla tracciabilità invece, è solo all’inizio, ma sta procedendo velocemente: parte dal presupposto di utilizzare tutti i vantaggi dell’utilizzo del Nir, inserendo lo strumento all’interno di una filiera produttiva e mettendo tutti i dati a disposizione del consumatore, quelli analitici relativi al prodotto, ma anche quelli di “filiera”, sull’origine e i percorsi della materia prima. L’idea è quella di promuovere l’applicazione di un Qr code che serva essenzialmente da portale di accesso per il consumatore per ottenere informazioni dettagliate, facilmente fruibili e scientificamente rigorose sul prodotto che sta acquistando. Il Nir in questo caso permetterebbe l’integrazione di tutta una serie di dati di controllo sulla filiera che molti produttori già effettuano, ma solo di rado arrivano fino a chi i prodotti li consuma. Questa tecnica, tra l’altro, si presta anche per verificare l’effettiva origine geografica del prodotto.
Abbiamo cominciato a cercare altre aziende del territorio e ne abbiamo trovate due interessate a collaborare con noi: il Pastificio Andalini Srl di Cento e Bia Spa di Argenta che produce cous cous biologico.

Il progetto è tutto finanziato dall’Università di Ferrara o avete avuto accesso ad altre risorse?

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Luciano Pollini, direttore della Bia di Argenta

Il progetto è dell’Università ma per sostenerci economicamente abbiamo partecipato, proprio con il Pastificio Andalini, ad un bando regionale i cui fondi sono stati destinati alle aziende delle zone colpite dal sisma, per favorire innovazione di processo e di prodotto. Anche Bia S.p.a. sta sostenendo la ricerca.

Ci sono in vista altri possibili sviluppi?
A dire il vero sì, siamo in contatto con la Reply, grande azienda di consulenza informatica esperta in particolare nell’ambito dell’informatizzazione sanitaria, che potrebbe curare tutta la parte di accesso alle informazioni di tipo salutistico e di prevenzione del prodotto, come per esempio segnalare se il prodotto che si sta acquistando è consigliato per chi soffre di diabete piuttosto che per ridurre l’incidenza di un certo tipo di patologie. Per questo aspetto, in particolare, stiamo pensando di presentare un progetto per partecipare ad un bando europeo sui finanziamenti di Horizon 2020.
Stiamo anche collaborando fattivamente con il Craiaa (Centro di ricerca per l’agricoltura-industria agro-alimentare) di Milano per lo svolgimento di alcune prove aggiuntive a supporto del progetto.

In ultima battuta, per gli aspetti più prettamente commerciali, ci siamo rivolti al dottor Marco Malavasi, responsabile marketing della Società agricola Malavasi e socio della Cooperativa La Diamantina, chiedendogli cosa si aspetta dall’intera operazione?
La ricaduta commerciale attesa per l’azienda è principalmente in termini di riposizionamento dei prodotti che accederanno a questo sistema e di valorizzazione del vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti. Si tratta di una nuova concezione di tracciabilità che premia le aziende che lavorano secondo criteri di qualità e trasparenza, frutto di una scelta distintiva di politica aziendale e di mercato. Molte aziende si trovano nella condizione di dover valorizzare il loro prodotto di qualità e, ormai troppo spesso, anche difenderlo da frodi e sofisticazioni che sono drammaticamente sempre di più all’ordine del giorno e che stanno devastando il mercato agro-alimentare italiano. In attesa che diventi una necessità cogente, riteniamo che un sistema di comunicazione diretto, garantito e facilmente accessibile ai consumatori possa essere una scelta vincente per le aziende ed anche per l’intero territorio.

IL FATTO
Fondi strutturali, un fiume di risorse
che esonda in chiacchiere

Nei mille salottini televisivi che ormai hanno preso stabilmente il posto delle chiacchiere al bar di qualche decennio fa, accomunati dalla loro vacuità, oggi va di moda parlare di Fondi strutturali europei. Spesso vengono evocati come ancora di salvezza, ultimo treno da prendere al volo per accompagnare l’uscita del nostro Paese (e dell’intero nostro Continente) dal buio senza fine di questa crisi. Certo, si aggiunge, “bisognerebbe spenderli tutti”, quei Fondi, e soprattutto “spenderli meglio”, come ha avuto occasione di rimarcare anche il nostro Presidente del consiglio. Seguono ipotesi varie e immaginifiche sulle possibili destinazioni di questo fiume di risorse.

Purtroppo però c’è ancora molta confusione sulla strada della concreta disponibilità operativa dei Fondi 2014-2020 (circa 114 miliardi, compresa la quota di cofinanziamento) e questa confusione non è a dire il vero tutta imputabile alla negligenza delle istituzioni italiane.
Il primo problema è rappresentato infatti dall’estrema complessità delle procedure previste dai regolamenti dell’Unione europea: lunghi e tortuosi iter di approvazione, moltissimi documenti da compilare, intricati adempimenti amministrativi, molta burocrazia, controlli farraginosi e spesso più formali che sostanziali. Persino un linguaggio un po’ barocco, che sembra fatto apposta per scoraggiare i non addetti ai lavori. Tra “obiettivi tematici”, “assi”, “priorità”, “fabbisogni”, “misure”, “sottomisure”, ecc. ecc. a volte riesce davvero difficile raccapezzarsi.

La cornice nazionale delle scelte in base a cui procedere nella destinazione delle risorse dovrebbe essere definita dall’ “accordo di partenariato” tra Italia e Commissione europea. Peccato che una prima bozza di questo accordo, spedita dal Governo Letta alla Commissione Ue il 9 dicembre del 2013 sia stata sepolta da quest’ultima sotto una montagna di osservazioni critiche e di rilievi.
Così una versione “definitiva”, riveduta e corretta, è stata inviata alla Commissione nelle ultime ore prima della scadenza prevista del 22 aprile 2014. Entro quattro mesi da quella data, in base al regolamento, avrebbe dovuto avvenire l’approvazione finale del testo. Però il 22 agosto è trascorso e ancora non se ne ha notizia, nonostante gli annunci sia della Commissione Ue sia del Governo italiano dessero già ad inizio luglio come “imminente” la conclusione del negoziato. «L’intesa – dichiarò allora il commissario alle Politiche regionali Johannes Hahn – sarà raggiunta entro fine luglio». Nel frattempo qualche organo di stampa ha fatto filtrare, a cavallo di Ferragosto, indiscrezioni secondo le quali le questioni non risolte sarebbero ancora diverse e importanti.

Entro il 22 luglio però le Regioni erano tenute ad approvare ed inviare a Bruxelles i propri Por (Piani operativi regionali) attraverso i quali l’Accordo di partenariato deve trovare applicazione. Così è stato. Le Regioni hanno approvato i loro Por, che nella fattispecie sono tre, uno per ciascuno dei fondi: Fse (Fondo sociale europeo), Fesr (Fondo europeo di sviluppo regionale) e Feasr (Fondo europeo agricolo di sviluppo rurale). Si tratta di un materiale imponente, dal punto di vista volumetrico: per fare un esempio il solo Psr (Piano di sviluppo rurale) emiliano-romagnolo, applicativo del Feasr, consta di quasi 600 pagine, più gli allegati.
Peccato però che tutti questi Piani regionali dovrebbero essere coerenti rispetto ad una cornice programmatoria nazionale che – come si diceva – ancora non è nota, almeno nella sua versione finale.

Ma non basta. Perché questi Por dovrebbero incrociarsi con gli undici Pon (Piani operativi nazionali) che dovrebbero essere approvati dal Governo centrale. Questi Pon pescano le loro risorse dagli stessi Fondi europei e spesso riguardano materie molto vicine a quelle di cui si occupano i Por, avendo importanti ricadute anche sui territori regionali: ad esempio il Pon Istruzione oppure quello Occupazione o quello Inclusione. Peccato che di tutti questi Pon esistano al momento solo tracce, l’unico che finora si è concretizzato in un testo compiuto (ma non definitivo) è il Pon Città metropolitane. Il rischio che si finisca così per sovrapporre gli interventi è evidente.

E non basta ancora. Perché i Por dovrebbero infine incrociarsi anche con gli interventi e le risorse previsti da un altro Fondo strutturale, questa volta non europeo ma nazionale: il Fsc (Fondo sviluppo e coesione), che è l’erede del vecchio Fas (Fondo aree sottosviluppate).
L’ultima Legge di stabilità approvata attribuisce a questo Fondo per il 2014-2020 la bellezza di 54,8 miliardi, anche se ne rende disponibili per i primi tre anni soltanto 1,55.
Per dire dell’importanza di questo Fondo, la Regione Emilia-Romagna prevede, nei suoi documenti di programmazione, che grazie ad esso siano finanziati gli investimenti regionali su due capitoli tutt’altro che secondari per le traiettorie di sviluppo regionale: le infrastrutture per la mobilità (rinnovo del materiale rotabile, mobilità urbana sostenibile) e importanti interventi di salvaguardia del territorio (erosione del suolo e delle coste; rischio idraulico, idrogeologico e sismico; tutela e valorizzazione delle risorse ambientali e culturali).
Al momento però non c’è ancora neppure un accordo sulla ripartizione di queste risorse tra le Regioni, risorse che peraltro almeno fino al 2017 non saranno nemmeno disponibili. Quindi siamo ancora lontani dal poter immaginare una loro concreta destinazione.

Insomma, sarà davvero un miracolo se da tutto questo guazzabuglio si riuscirà a far uscire delle scelte sensate e soprattutto coerenti. Il rischio è che, come è già avvenuto in passato, molta parte dei quattrini finisca in finanziamenti a pioggia, di cui beneficiano in molti, non sempre i più meritevoli, ma senza che il sistema economico territoriale ne tragga nel suo insieme grande vantaggio.
Se così sarà, sarebbe troppo facile prendersela solo con le pur innegabili incapacità, deficienze e vocazioni clientelari di una parte almeno delle nostre Regioni. Forse è l’architettura del sistema che andrebbe ripensata, per renderla insieme più semplice, più comprensibile anche per i non addetti ai lavori, ma anche più funzionale ad un’efficace azione programmatoria.

Ferraraitalia va in vacanza Appuntamento al 1 settembre

Ferraraitalia augura ai propri lettori buone vacanze e sospende gli aggiornamenti sino alla fine di agosto. Ci rivedremo a settembre con un giornale ancora più ricco e interessante. Online resta l’archivio: 3.800 articoli tutti consultabili, frutto di questi primi otto mesi di lavoro. Felice estate.

Il brano intonato: Gino Paoli, Ti lascio una canzone [ascolta]

 

Come proposta per le letture estive vi suggeriamo una selezione degli articoli più letti di ferraraitalia: li trovate nella sezione VETRINA, presentati in ordine di uscita, dal più recente al più vecchio.

Oppure potete orientarvi sulle nostre INCHIESTE, sulle STORIE emblematiche raccontate in questi mesi, sulle OPINIONI espresse dai nostri collaboratori, o sulle INTERVISTE sull’attualità a personaggi rappresentativi.

[Per leggere è sufficiente cliccare sui titoli delle sezioni riportati in maiuscolo]

Ippolito Pizzetti, l’uomo che in giardino seminò letteratura

Nella mia mente l’immagine di Ippolito Pizzetti (1926 – Ferragosto 2007) è quella di un signore anziano che osserva una palla di salice intrecciato in un banco, ad una gloriosa edizione di “Giardini in Fiera” a San Casciano Val di Pesa. Uno scatto rubato: in quegli anni non avevo un rapporto positivo con questo personaggio, per cui lo fotografai in modo garibaldino e non lo andai a salutare come invece avrei dovuto, per educazione e rispetto, nei confronti di una persona che aveva vissuto per diffondere la cultura dei giardini in Italia.
Non era un architetto come viene definito grazie a una laurea honoris causa conferitagli nel 2004 dall’Università di Ferrara, ma un uomo di lettere preso in prestito, prima dalla botanica e poi dall’architettura. Pizzetti è stato soprattutto un grande divulgatore e il suo mezzo è stata la parola scritta. Tantissimi i titoli, i miei preferiti rimangono i primi, ormai dei veri e propri classici: Il libro dei Fiori, opera in tre volumi scritto alla fine degli anni ’60 con Henry Cocker, botanico e giardiniere, che si può trovare edito in una versione quasi tascabile nelle Garzantine come: Enciclopedia dei Fiori e del Giardino e Pollice Verde, la raccolta di articoli, pubblicati dagli anni ’70 in poi sull’Espresso nella omonima rubrica, poi cambiata con “Giardini” a lui più gradito, che Garzanti ha ristampato dalla vecchia edizione Rizzoli (che si trova ancora in rete) allargando il titolo in: Pollice Verde. Il giardinaggio: una filosofia, un hobby, un’arte. Inoltre, rimangono fondamentali le collane da lui dirette: “L’Ornitorinco” per Rizzoli e “Il corvo e la colomba” per F. Muzzio, in cui troviamo, tradotti in italiano, alcuni testi base della moderna cultura europea del paesaggio.
Pizzetti era un uomo che amava le parole e le usava per costruire giardini. Attentissimo sulla carta stampata, divagava in mille direzioni durante lezioni e conferenze. Trovavo insopportabile questa sua caratteristica, io cercavo risposte, lui vendeva poesia e ho dovuto invecchiare un bel po’ per capire. Non mi piaceva il culto della persona che lo circondava all’interno delle università e dei circoli che lo contendevano come ospite d’onore. Dov’è finita tutta questa attenzione? La voce di Wikipedia a lui dedicata è di uno squallore vergognoso, bisognerà metterci le mani per rimediare. Purtroppo il fascino della persona e la mancanza di un vero dibattito sulle pratiche del Verde pubblico e privato, hanno amplificato tutto quello che Pizzetti detestava e oggi troviamo, nel titolo di un suo libro, la parola “giardinaggio” affiancata a sostantivi come “filosofia, hobby, arte”, termini che lo individuano come un argomento destinato a una élite che si parla addosso o qualcosa da fare nel tempo libero, di sicuro non lo specificano come un modo di essere di chi dovrebbe conoscere, amare e vivere consapevolmente il suo patrimonio di giardini e di paesaggi, in una parola, la cultura quotidiana di una comunità.

I Convegni, i Simposi, le Tavole Rotonde, gli Incontri, i Seminari, o come vengono altrimenti chiamate queste riunioni, su quale che sia l’argomento: il melodramma, Leopardi, il romanzo, Pirandello o i Boschi di Carrega hanno tutti un elemento comune, che è la loro prima ragione di essere: nascono attorno a qualcosa che non è più – che in qualche modo è fuori dal flusso della vita, non è più autonomo, o perlomeno non più nella forma in cui è nato. Sono operazioni culturali, sono l’apertura del testamento dal notaio: e adesso che si fa?” Ippolito Pizzetti, Pollice Verde, numero del 2 marzo 1980.

“[…] ho sentito il bisogno di fare una pausa in questo mio discorso [relativo alla istituzione del Parco Regionale dei Boschi di Carrega nel Parmense]. Per aprire le righe al volo della gazza bianconera, al profumo delle mimose, al colore delle foglie nuove. Prima di ogni altra cosa il senso di un giardino (di un parco, di un bosco) è questo, non ne hanno se prima dentro di noi non sentiamo destarsi, in mezzo ai detriti della vita quotidiana, questo richiamo improvviso. Ed è anche il senso di continuità di queste righe, settimana dopo settimana, la relazione profonda che esiste tra la mia, quella dei miei personaggi la vostra vita e questa, che avviene dentro gli spazi aperti, dovunque sia, anche nel cielo della città attraverso una finestra o in un prato tra due case, o nel vasto fuori. Per questo ho sentito il bisogno di fare una pausa; o meglio d’una pausa, visto che siamo nei boschi, e restiamo pure in quelli di Carrega, una sosta in una radura sul terreno ancora umido dell’orma dell’inverno, che appena si sveglia. Sediamoci, guardiamoci attorno poi discuteremo.” Ippolito Pizzetti, Pollice Verde, numero del 9 marzo 1980.

Foto di Giovanna Mattioli

Gran finale per “Autori a Corte” con oltre 800 presenze

da: organizzatori

Oltre 800 presenze, 12 autori, 8 conduttori, una dozzina di aziende coinvolte tra degustazioni e sostegno all’iniziativa, sono i significativi numeri della rassegna cultural-letteraria nominata: “Autori a Corte” che si è conclusa giovedì scorso con uno straordinario ospite d’onore: Marcello Simoni il “fenomeno” letterario che da qualche anno è recordman di vendite a livello internazionale con i suoi thriller-storici. “L’elemento che più mi emoziona – afferma Federico Felloni che con Vincenzo Iannuzzo ha ideato l’evento per l’associazione Charles Bukowski – è vedere tante persone; dal professionista all’intellettuale, dall’impiegato allo studente, unite dalla voglia di cultura a tutti i livelli e dallo spirito positivo con cui ha accolto l’iniziativa. Anche perché il riscontro delle presenze parla chiaro, alla gente è piaciuto questo format innovativo; un mix di realtà culturali nazionali assieme a risorse intellettuali e produttive del territorio”. Ma veniamo alla serata che in apertura ha esordito con la consueta degustazione offerta per l’occasione dall’azienda vitivinicola Zanatta e poco dopo di fronte a una platea già gremita ha visto salire sul palco i due autori ferraresi: Luigi Bosi e Franco Mari che hanno intavolato una intervista-presentazione sui loro ultimi romanzi (entrambi editi da Este Edition), piacevolmente moderati dal conduttore Leonardo Punginelli. L’argomento proposto era “il romanzo” che è sfociato in un coinvolgente percorso sulla città di Ferrara, tra scoperte di eventi storici poco noti, partendo dalla Signoria Estense e concludendo con alcune vicende di origine sentimentale, svoltesi nel corso del “ventennio fascista”, riguardanti il Governatore della Tripolitania e della Cirenaica: Italo Balbo. A seguire, l’affascinante e brava coordinatrice della seconda parte di serata, la giornalista Vittoria Tomasi, ha introdotto sulla scena l’acclamatissimo scrittore comacchiese Marcello Simoni, l’autore che sta mietendo successi a ripetizione e recente vincitore del prestigioso Premio Bancarella. Si parla di vari argomenti partendo dal libro appena uscito ed edito da Newton Compton (che è già un bestseller): “L’Abbazia dei cento peccati”. Simoni parla a ruota libera, incassando sorrisi e consensi dall’attenta platea. Delucidazioni sulla sua tecnica letteraria, riflessioni sul tortuoso percorso per affermarsi, valutazioni sull’importanza dell’approfondimento delle origini storiche di fatti, luoghi e personaggi, considerazioni sulla sua ossessiva attenzione per le descrizioni accurate dei dettagli, battute ironiche sulla sua adolescenza e la congenita passione per l’Archeologia. Dopo un’ora e mezza arrivano gli scroscianti applausi finali, seguiti da una lunga fila di presenti per accaparrarsi un autografo o una dedica.

La connessione tra cervello
e postura

Per dirla molto semplicemente, noi controlliamo la nostra postura col cervello, siamo nati in posizione fetale e fin da bambini abbiamo imparato a resistere al campo gravitazionale assumendo una certa postura, come esseri umani camminiamo eretti sui due piedi per risparmiare energia.

Il nostro cervello con gli anni si adatta ad una buona postura, a un certo tono muscolare e a un movimento normale. Il cervello impara a rilassare alcuni muscoli, come la parte anteriore delle spalle e i bicipiti femorali; ne contrae altri come i glutei, i quadricipiti e i muscoli della schiena, per avere sufficiente tono per stare in piedi, camminare, correre ecc. Il nostro cervello ci permette di contemplare il cielo, di fare pensieri astratti, eseguire problemi di matematica, parlare, ecc. Tutte queste funzioni sono il risultato di un cervello che può resistere alla gravità per lunghi periodi di tempo e bilanciarsi notevolmente su due piedi anziché quattro.

Questo per dire che assumere una postura errata spesso è un evento del tutto inconscio, e non un atto di volontà. La postura di un neonato è carente perché la parte del cervello che controlla i muscoli posturali si deve ancora sviluppare. Questo sviluppo avviene con il crescere del bambino: nelle varie fasi di crescita, il bambino pratica azioni innate come il gattonare, il correre e il giocare, tutte azioni che il cervello compie grazie a stimoli provenienti dalle articolazioni, dai muscoli, dagli occhi e dalle orecchie.
Il progressivo accumularsi di questi stimoli sviluppa il cervelletto e la parte del cervello dedicata a governare la postura. Il cervelletto si trova nella parte posteriore della nostra testa ed è l’organo più importante per la coordinazione dei muscoli, per i riflessi e per mantenerci in una posizione eretta rispetto al campo gravitazionale terrestre. La gravità dunque è una continua fonte di stimolo per il nostro cervello e di conseguenza per la nostra postura.
Le articolazioni che ricevono la maggior fonte di stimoli sono quelle della colonna vertebrale, struttura fondamentale per mantenere una postura eretta. In questo modo, mano a mano che il tempo passa, i muscoli posturali diventano più forti e riescono quindi a mantenere la normale postura eretta facendo meno fatica.
Ma se, al contrario, un determinato individuo ha un biomeccanica alterata o un malfunzionamento di un’articolazione dovuto a trauma, stress, infiammazione o condizioni ereditarie, arriveranno meno stimoli al cervello incitando proporzionalmente meno i muscoli posturali. Questo comporta una riduzione dell’efficacia muscolare che si manifesta con una postura errata. Una postura errata, prolungata nel tempo, può dare origine a cambi fisiologici come l’artrite, ernie discali, scoliosi o disfunzioni somato-viscerali, problemi cognitivi e/o sensazione di malessere generale.

Una postura corretta è quindi molto importante per la nostra salute perché permette di bilanciare i muscoli e ridurre lo stress. La postura normale si misura con un “filo a piombo”, con linee di riferimento immaginarie che corrono lungo la parte anteriore del corpo: la testa deve essere dritta, non inclinata o girata da un lato; le spalle allo stesso livello, non una superiore all’altra; i fianchi devono essere pari e le braccia devono scendere perpendicolarmente. Lateralmente, il filo a piombo deve passare attraverso orecchio, spina dorsale, bacino, ginocchia e piedi. Se le spalle sono troppo arrotondate, la testa può “affacciarsi” e superare il filo a piombo, aggiungendo una stima di 1 chilo per ogni cm. In avanti di pressione sul collo. Una pressione ripetuta nel tempo nella parte posteriore della colonna vertebrale dal collo e alla parte bassa della schiena, può portare alla formazione di ernie del disco. Se, guardandovi allo specchio, vedete il vostro corpo con delle asimmetrie, pensate che il cervello deve continuamente compensare questi difetti posturali consumando energia.

Spesso, una cattiva postura è dovuta a uno squilibrio muscolare o alla debolezza in alcuni gruppi muscolari, causati da posizioni sbagliate. Il corpo umano non era certo destinato a sedere davanti ad una scrivania per otto ore al giorno, fatto diventato consuetudine nella nostra cultura moderna. Stare seduti per periodi prolungati può rendere, infatti, i tendini del ginocchio ritratti, andando a tirare la parte bassa della schiena. Il corpo cerca sempre di mantenere il suo centro di gravità, quindi se la parte lombare è appiattita, la testa deve piegarsi in avanti, accorciando i muscoli della parte anteriore del collo e indebolendo ulteriormente quelli nella parte posteriore. I muscoli della schiena possono affaticarsi possono andare in spasmo, causando dolore e disagio. Questo non permette al cervello di risparmiare energia, può causare stanchezza e influenzare l’umore.

Una cattiva postura può anche influire negativamente sulla respirazione. Ci sono molti muscoli che collegano la gabbia toracica alle spalle; quando la schiena diventa debole e le spalle curve in avanti, ci può essere una riduzione di movimento della gabbia toracica, che può portare a una diminuzione di ossigeno al cervello. Un appiattimento della parte bassa della schiena (cifosi) o arrotondamento (lordosi), può anche causare una diminuzione nella meccanica del diaframma, il muscolo principale della respirazione. L’elenco dei sintomi che si manifestano quando l’ossigeno diminuisce anche leggermente durante il giorno, è troppo lungo per riportarlo qui, ma vale la pena riflettere anche solo un momento su come tutte le funzioni organiche sono collegate alla postura.

Come aiutare a ristabilire una buona postura?
Il modo migliore per iniziare è quello di rivolgersi a qualcuno che valuti la vostra postura, e poi praticare metodi appositamente studiati come l’RPG, il Pilates, lo yoga, il training crossfit, ecc. sono tutti ottimi, per iniziare a migliorare la postura.

La Straferrara compie 83 anni

da: Maria Cristina Nascosi Sandri

Sono 83 anni che la Straferrara è sulla breccia, o, per meglio dire, sul… palcoscenico.
E quasi un anno è trascorso dalla scomparsa di Beppe Faggioli, attore, regista e capocomico dal 1967, insieme con la moglie, inseparabile compagna nella vita e sulle scene, Rossana Cici Spadoni, figlia del fondatore della più che unica compagine teatrale dialettale ferrarese.
L’aver resistito nel tempo vuol dire che chi ne ha tenuto e tiene le fila ha saputo creare un legame imprescindibile tra tutti i componenti, nel tempo, che va al di là di una ‘semplice’ passione per il teatro, la ‘grande magìa’ di Eduardo.
La Compagnia fu fondata il 14 agosto 1931 da Ultimo Spadoni insieme con un piccolo gruppo di amici e sodali, da tempo veterani delle scene, non solo attori, ma anche autori di gran livello e cultura.

© Photo FRANCO SANDRI (A.I.R.F.)
© Photo FRANCO SANDRI (A.I.R.F.)

La prima recita avvenne il 3 settembre di quell’anno al Teatro dei Cacciatori di Pontelagoscuro con la commedia “Pàdar, fiòl e …Stefanìn” e la farsa “L’ unich rimèdi”, scritte entrambe da Alfredo Pitteri, uno dei grandi cui s’accennava più sopra.
Allora era di prammatica, quasi un classico, concludere la serata, dopo la commedia, con una farsa. Da quella memorabile recita la Straferrara prese l’avvio e lavorò quasi per un anno intero al cinema-teatro Diana di Ferrara. L’anno successivo iniziò un’intensa toumée in tutti i teatri della provincia, diffondendo ovunque passione per il teatro dialettale ferrarese. Il crescendo dei successi portò la compagnia al teatro Nuovo ed al teatro Verdi di Ferrara, dove si esibì per molte recite: in entrambi i teatri riscosse molta affermazione, grazie alla bravura degli interpreti, alla cornice scenica ben curata a tutti gli effetti ed all’esecuzione del lavoro, resa maggiormente piacevole, in alcuni spettacoli, dalle canzoni e dalla musica inseriti con ottimo gusto.
Il suo lavoro corale non conobbe soste neppure in tempo di guerra, sotto i bombardamenti, continuando la propria attività, pur sotto l’incubo delle incursioni aeree, recandosi con mezzi di fortuna anche nei pochi teatri di provincia rimasti attivi, per portare un po’ di svago e di conforto agli sfollati.
La sua notorietà si diffuse, nel tempo, in molte città della nostra regione, sicché la Straferrara si produsse validamente negli anni del dopoguerra nei migliori teatri tra cui il Savoia di Rimini, il Rasi di Ravenna, il Principe di Modena, il Duse di Bologna ed il famoso Regio di Parma in cui rappresentò ”A la partigiana”, un classico di Alfredo Pitteri ancora rappresentato da altre compagnie come il forlivese Cinecircolo del Gallo, presieduto dal capocomico Aurelio Angelucci, regista, attore ed erede spirituale dello stesso Pitteri.
Ferrara ha riconosciuto, seppur lacunosamente e, di sicuro, non quanto avrebbe meritato, l’opera davvero meritoria della Straferrara: nel 1976 la compagnia ha ricevuto dalla Camera di Commercio il premio Masi – Recchi per “l’alto contributo dato alla valorizzazione del patrimonio linguistico ferrarese, mantenendo in essere un teatro dialettale provinciale”. Ed ultimo, in ordine di tempo, l’Associazione Stampa Ferrara ha attribuito nel 2002 a Beppe Faggioli un premio alla carriera, la cui motivazione rileva, fra l’altro, che ” ha saputo trasmettere anche alle giovani generazioni la passione per questo genere di teatro, tanto che alla vecchia e gloriosa Straferrara si sono affiancate in città e in provincia alcune compagnie composte in massima parte proprio da attori giovani “.

E nel nome e nel ricordo di Beppe, oltre agli auguri di almeno altri splendidi 83 anni,
auspichiamo un ad maiora a tutto tondo e con grande affetto.

Foto:
© Photo di Franco sandri (Airf)

Il radicamento dei Mercati contadini a Ferrara: il punto di vista di un produttore storico e di chi i mercati li gestisce

Da qualche anno i Mercati contadini a Ferrara stanno avendo un ottimo riscontro. Per diversi produttori che espongono in Porta Paola e in Piazza Municipale i mercati rappresentano il canale più redditizio a livello di vendita diretta. Per saperne di più, abbiamo incontrato un produttore, Ivano Pezzetti dell’azienda agricola IoBio, e Luca Deserti della Strada dei vini e dei sapori (Provincia di Ferrara).

Ivano, tu sei uno dei produttori storici qui a Porta Paola, raccontaci quando avete cominciato e come stanno andando le cose?

Abbiamo iniziato nel 2005. All’inizio non vendevamo granché, con il tempo invece le cose sono cambiate: oggi il giro è notevolmente aumentato, la gente cerca il biologico, apprezza il nostro prodotto e quindi ci siamo fatti i nostri clienti abituali. Attualmente Porta Paola è l’attività che ci rende di più a livello di vendita diretta, anche se abbiamo un buon riscontro anche con il mercato di Piazza Municipale e con i Gas cittadini.

Quanta gente acquista alla vostra bancarella del venerdì a Porta Paola?

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Il banco dell’Az. agricola ‘IoBio’ di Ivano Pezzetti

Diciamo che qui da noi passano all’incirca 400 persone ogni venerdì, è un buon numero e siamo molto contenti. I clienti sono aumentati anche a seguito del “Biopertutti”, manifestazione che si è tenuta a Ferrara il 21 e 22 giugno e che ha avvicinato ulteriormente la gente al biologico. Come accennavo prima, è importante anche la presenza dei gruppi d’acquisto: i gasisti, che ormai conoscono bene il nostro prodotto, ordinano tramite mail e si ritrovano la sportina pronta da ritirare il venerdì mattina in Porta Paola; questo è un buon metodo, perché ci permette di calcolare bene le quantità e soddisfare il cliente.

Possiamo dire quindi che la gestione dei mercati contadini da parte della “Strada dei vini e dei sapori” sta funzionando al meglio…

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Il banco di IoBio in P.zza Municipale a Ferrara

Assolutamente sì, come dicevo c’è un buon giro e le vendite sono molto buone. Questo lo si deve anche al fatto che i nostri prezzi sono concorrenziali, riusciamo a vendere ad un prezzo giusto. E questo è possibile perché noi paghiamo una quota simbolica a giornata per fare il mercato, 6 euro per Porta Paola e 26 per Piazza Municipale, perché lì abbiamo anche l’allacciamento elettrico e il tecnico. In questo modo Comune e Provincia promuovono i prodotti del territorio, sostengono noi produttori e allo stesso tempo vanno incontro alla gente; se dovessimo pagare ogni volta la quota piena di occupazione del suolo pubblico, i prezzi aumenterebbero a discapito di tutti… saremmo costretti a fare prezzi da negozio.

Per quanto riguarda invece i controlli?

L’agrotecnico della “Strada dei vini e dei sapori” passa a controllare i prodotti, soprattutto nelle stagioni più “calde”, in termini di produzione e di afflusso di clienti, ossia in primavera e in autunno. Se hanno qualche dubbio sulla provenienza dei prodotti, passano anche in azienda: il regolamento prevede che si debba vendere almeno il 70% di produzione propria, integrando con prodotti di altri produttori locali per un massimo del 30%. Io, però, ho sempre fatto la scelta di vendere solo ed esclusivamente in mio prodotto, perché solo così posso garantire che si tratta al 100% di un prodotto biologico. Questo modo di lavorare premia, perché i clienti lo sanno e apprezzano; certo, in alcuni periodi dell’anno l’offerta si riduce sensibilmente, in inverno arrivo ad avere solo mele e pere, ma da aprile ad ottobre ho tutto e la gente sa quello che mangia.

Vista la soddisfazione di Ivano Pezzetti, abbiamo contattato Luca Deserti della Strada dei vini e dei sapori, per avere anche il riscontro dei gestori, e capire meglio come vengono organizzati i Mercati contadini, quali le regole che ne stanno alla base.

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Logo della ‘Strada dei vini e dei sapori’ della Provincia di Ferrara

La Strada dei vini e dei sapori ha in gestione il Mercato contadino del Comune di Ferrara dalla fine del 2010. Prima se ne occupavano direttamente le associazioni di categoria, poi per motivi organizzativi vari si è preferito riferirsi ad un soggetto unico.
Il mercato contadino ha lo scopo di dare risalto ai produttori locali privilegiando il km 0, di fornire a produttori e consumatori un’opportunità per accorciare la filiera d’acquisto, riducendone i passaggi intermedi con conseguente riduzione del prezzo finale.
Per partecipare bisogna essere produttore agricolo ed esporre almeno il 70% di produzione propria, il restante 30% deve essere comunque acquistato da aziende agricole locali e rimanere nell’ambito di produzioni tipiche della nostra regione. Non è ammesso in nessun caso l’approvvigionamento presso strutture commerciali (mercati ortofrutticoli o commercianti) e la provenienza di tali prodotti deve essere chiaramente indicata nei cartellini esposti. A volte, si può fare qualche piccola eccezione con l’ospite che viene magari da Imola e che porta un prodotto particolare che viene consentito perché è locale per lui.

Cosa significa “produttore ospite”, ci sono differenze tra produttore e produttore?
Il Mercato contadino di Ferrara accoglie due tipi di produttori, il produttore fisso e l’ospite. Mentre l’azienda del territorio ha la presenza garantita, l’ospite viene invitato se c’è posto. In generale, si parla di uno o due ospiti al massimo a giornata, non di più. L’ospite può provenire dalle provincie/regioni limitrofe, e non da lontano; la scelta di ospitare produttori “vicini” è stata fatta, oltre che per sostenere il territorio, anche per garantire una maggior tutela del prodotto, evitando tutto il discorso dei trasporti lunghi e quindi di un eventuale deterioramento dei prodotti, cose che richiederebbe controlli molto più complessi e delicati.

Voi che tipo di controlli siete tenuti a fare?
Noi siamo tenuti a verificare quanto previsto dal disciplinare [vedi], in particolare che sia rispettata la proporzione del 70/30 e l’effettiva provenienza. A questo proposito, è importante precisare che la percentuale si riferisce al numero di prodotti posti in vendita e non al volume, ossia al numero di categorie merceologiche esposte: per capirci, il produttore può portare 7 tipologie di frutta e verdura provenienti dal suo terreno (asparagi, fragole, susine, cipolle, carote, piselli e pomodori) e 3 tipologie diverse di un altro produttore (patate, aglio, bietola). Lo scopo principale di questa norma è quello di permettere al produttore di avere una maggiore gamma merceologica da offrire alla clientela. Ci sono poi i controlli in azienda.

E se i produttori non rispettano il disciplinare, se verificate che la provenienza è altra rispetto a quanto dichiarato, a che tipo di sanzioni vanno incontro?
Innanzitutto, bisogna premettere che per entrare a far parte dei Mercati bisogna superare un periodo di prova di cinque giornate. Nel caso di scorrettezze, sono previste sanzioni di vario tipo: a volte, soprattutto quando si tratta di problemi di comportamento, i produttori vengono semplicemente richiamati; se scopriamo che spacciano un prodotto per un altro, si passa alla sospensione, da una a tre giornate e per un periodo sempre più lungo; dopo la terza giornata di sospensione, si arriva all’estromissione dal mercato fino a data da destinarsi.

E’ capitato?
E’ capitato.

Quante aziende agricole riesce ad ospitare il Mercato contadino di Ferrara?
A meno che non ci siano particolari problemi numerici, come nel caso di altre manifestazioni realizzate in contemporanea, il Mercato può contare su 24 posti disponibili in Piazza Municipale e 18/19 in Porta Paola.

Chi decide quali aziende agricole ospitare di volta in volta?

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Il Mercato contadino di Piazza Municipale a Ferrara

Le associazioni di categoria ci comunicano, di settimana in settimana, le aziende interessate a partecipare, in sostanza ci fanno da collettore. Noi decidiamo la disposizione e spediamo la piantina via mail o via fax alle aziende. In realtà, l’organizzazione cambia un po’ da mercato a mercato: le postazioni del venerdì in Porta Paola sono praticamente fisse, ci sono piccole variazioni dettate dalla stagionalità, ma essenzialmente i produttori sono gli stessi perché si tratta di un mercato più stanziale; le postazioni di Piazza municipale, invece, cambiano più spesso e sono soggette a rotazione, in modo che i partecipanti possano beneficiare a turno dei posti migliori (i produttori hanno notato, per esempio, che la postazione vicino allo scalone vende di più), del lato ombra in estate, ecc. Noi, come gestori, andiamo tutte le domeniche a controllare la disposizione dei gazebo in Piazza Municipale e per verificare che non ci siano inconvenienti.

Complimenti davvero, devo dire che durante questo colloquio mi ha molto colpito l’attenzione ai dettagli e l’esperienza con cui gestite il tutto; tu poi (diamo del tu perché Luca è molto giovane) dimostri grande dimestichezza, posso chiederti che formazione hai?
Effettivamente ho sempre lavorato nell’ambito di sagre/mercati. Io sono Operatore di turismo culturale. Le mie prime esperienze professionali le feci presso il consorzio di Ostellato “Verde Delta” (ora purtroppo non esiste più) che si occupava dell’organizzazione di sagre ed eventi come la Sagra dell’anguilla, la Festa del riso di Jolanda, la Fiera di Migliarino, ed è stato lì che ho imparato tutto sulla disposizione degli espositori, gli aspetti tecnici e gestionali. Poi è successo che ho mandato il curriculum alla Strada dei vini e dei sapori, proprio nel momento in cui si stavano riorganizzando i Mercati contadini, ed eccomi qui.

Ivano Pezzetti di IoBio ci diceva che i mercati vanno sempre meglio, anche voi riscontrate un miglioramento?
Noi come gestori, possiamo valutare l’andamento dei Mercati in base alle richieste degli espositori a partecipare: Piazza Municipale è sempre andato bene ed è sempre abbastanza costante, nonostante alcuni momenti di calo dovuti a stagionalità e maltempo; per Porta Paola, è vero, la clientela da qualche tempo sta aumentando, si radica sempre più e, proprio per questo, stiamo cercando di introdurre nuove postazioni, anche se gli spazi sono quelli che sono, privilegiando le aziende che portano prodotti nuovi rispetto a quello che c’è già, come per esempio le vongole di Padoan.

Ultima domanda, come vi regolate per la definizione dei prezzi?
Fino a qualche tempo fa, prendevamo i dati dal sito “Sms consumatori” e consigliavamo ai produttori di tenere il prezzo medio della grossa distribuzione del nord-Italia, ribassato del 30%. Ora questo servizio è sospeso e stiamo cercando altre fonti. Le nostre indicazioni sui prezzi però sono di massima e non obbligatorie, perché spesso bisogna considerare anche altri aspetti: per fare un esempio, il prezzo del riso nella grossa distribuzione è minore rispetto a quello dell’azienda agricola, perché può ammortizzare i costi sulle grandi quantità. I produttori hanno anche altri parametri a cui riferirsi, come i prezzi che gli farebbe Coferasta per esempio. In generale, abbiamo sempre riscontato prezzi buoni e la migliore prova è che la clientela non si lamenta, è soddisfatta e ritorna.

Per saperne di più:
Sito della Strada dei vini e dei sapori [vedi]
Statuto della Strada dei vini e dei sapori [vedi]
Pagine dell’Az. agricola IoBio di Ivano Pezzetti nel sito agrizero.it [vedi]

Cittadinanza attiva e dialogo,
il new deal dei musulmani bolognesi

di Angela Cammarota

Dopo un silenzio durato sei anni la comunità islamica di Bologna si presenta alla città con un volto nuovo, quello di Yassine Lafram 28 anni, e tante idee per abbattere il muro

Di moschee a Bologna ce ne sono almeno dieci e sono sale di preghiera riconosciute formalmente come associazioni. Non ci sono cupole o minareti a segnalare la loro presenza, perché questi centri di culto hanno sede in ex garage, capannoni, appartamenti affittati e gestiti a spese della comunità di fedeli. Stando alle stime di Palazzo d’Accursio sono circa 25mila i musulmani bolognesi. Varcata la soglia di quella che dall’esterno sembra essere soltanto la porta di una vecchia autorimessa si entra a piedi nudi in un luogo sacro a tutti gli effetti. Disseminate sul territorio, queste piccole moschee prendono il nome di “centro culturale islamico”, e sono lo specchio di una comunità multietnica, dove accanto a bangladesi, africani, magrebini, kosovari ci sono anche italiani convertiti alla religione del Profeta, o meglio, secondo l’espressione che loro preferiscono essere chiamati, “ritornati” all’Islam.
Nel 2007 volevano permutare il loro terreno in viale Felsina con uno di proprietà del Comune per costruirci quella che allora fu definita “la grande moschea”, un centro islamico con una serie di servizi annessi. Accantonato quel progetto, la loro sfida oggi è la cittadinanza attiva, la partecipazione diretta alla vita della città partendo dai quartieri nei quali risiedono. Così il centro culturale islamico “Nurul Hidaya”, a due passi da porta San Vitale, contribuisce al decoro urbano di via Torleone; e quello di via Pallavicini aderisce, insieme con altre associazioni, al progetto partecipativo “Bella fuori”, che intende riqualificare il quartiere, partendo dalle richieste dei suoi abitanti.
A parlarne è Yassine Lafram coordinatore della Cib, comunità islamica bolognese, il coordinamento che raggruppa sette delle dieci moschee presenti in città, nato lo scorso giugno per “abbattere il muro di silenzio, superare le divisioni interne e presentarsi difronte alla cittadinanza e alle istituzioni come un corpo unico”. Marocchino d’origine, 28 anni e due figli, ex mediatore culturale al Cie di Bologna e voce del pubblico del programma di La7, “Anno Uno”, Lafram oggi rappresenta la realtà islamica bolognese.

Yassine, perché la Cib ha il tuo volto?

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Yassine Lafram rappresentante della comunità islamica di Bologna

Faccio parte del mondo dell’associazionismo dall’età di 15 anni. Ho iniziato con l’associazione Giovani musulmani d’Italia, dove sono cresciuto, poi un anno fa l’idea del coordinamento. Incontrai tutti i responsabili delle moschee per presentare loro la mia idea. Quindi decidemmo di esporci mediaticamente attraverso un coordinatore invece che di un presidente perché non volevamo che una moschea capeggiasse la altre. Hanno avuto fiducia in me.

Da dove nasce la necessità di un coordinamento tra i centri di cultura islamica bolognesi?
Nasce da una considerazione: è il momento di aprire una nuova pagina con la città. Dopo il fallimento del progetto della “grande moschea” ci siamo chiamati fuori e chiusi in noi stessi. Allora ci furono errori di comunicazione che generarono fraintendimenti, malintesi, tra la comunità musulmana, la cittadinanza e le istituzioni.  I cittadini bolognesi non si sentivano coinvolti in questo progetto. Sembrava quasi che questa moschea fosse calata dall’alto. In quell’occasione la comunità islamica non è stata capace di preparare il terreno per un eventuale dibattito, dimostrando alla città di essere già parte integrante di essa. La richiesta era semplice: pregare in un luogo dignitoso per loro e per la città, non in uno scantinato, un ex appartamento, un capannone, come è la maggior parte dei luoghi di culto dei musulmani oggi. Per questo vogliamo aprire un nuovo canale di comunicazione, capace di essere un punto di riferimento per i musulmani, i cittadini bolognesi, e le istituzioni locali. Vogliamo rivolgerci alla città intera: alla società civile bolognese, ai quartieri, alle associazioni, ai comitati cittadini: ci vogliamo rivolgere veramente a tutti.

In che modo?
Per esempio attraverso incontri di quartiere che possono riavvicinare i musulmani bolognesi ai loro concittadini nativi.

Per esempio?
La moschea di via Torleone contribuisce al mantenimento del decoro della strada, ridipingendo i muri e i portici da scritte e tag. Mentre la moschea di via Pallavicini è stata coinvolta nel progetto di riqualificazione urbana “Bella Fuori” del quartiere San Vitale. Quindi vogliamo raccogliere queste buone prassi e condividerle con le nostre altre realtà. Cercare di far tesoro di queste esperienze, esaltarle, metterle alla luce del sole. Sui mezzi d’informazione le buone notizie fanno fatica a circolare, ci impegniamo noi a farlo, a informare direttamente i cittadini perché le nostre moschee non restino isolate e percepite come fonte di disagio o degrado per il quartiere, al contrario vogliamo farne un faro.

Quindi il progetto della “grande moschea” è abbandonato o accantonato?
Se vuoi creare una moschea, ma hai dalla tua parte solo il Comune e il resto della città è contro di te, non ha senso che tu vada avanti. Per questo noi oggi non vogliamo costruire dei muri ma formare persone, una comunità islamica sempre più integrata sempre più bolognese, sempre più cittadina, che abbia un forte senso civico, e abbia a cuore il bene comune, il benessere di questa città. Questo è il punto cruciale su cui poggia la Cib. Il coordinamento nasce appunto per ricucire i rapporti con la città, riaprire quella pagina che è stata chiusa sette anni fa. La moschea non ci interessa, è un discorso passato.

Su questo punto siete tutti d’accordo?
Sì. Certo sarebbe ipocrita dire che le condizioni dei nostri luoghi di preghiera siano perfette. Nessuno di noi è contento di pregare in uno scantinato, ma questa è la situazione attuale, il dato di fatto. Tutti noi vorremmo incontrarci in un ambiente dignitoso, non chiediamo la moschea con il minareto e la cupola, ma luoghi alla luce del sole, non nascosti, o relegati in zone industriali. Potrebbe essere un discorso che si riaprirà, ma non adesso, più avanti, ora non rappresenta la nostra priorità. La mia intenzione come coordinatore è quella di aiutare almeno le moschee esistenti a sistemare le proprie carte: gli statuti, l’atto costitutivo, quindi migliorare la loro situazione attuale.

Quanto costa a un’associazione la gestione dei locali?
La moschea di via Pallavicini, per esempio, ci costa mensilmente 5mila euro circa. L’ultima ristrutturazione, invece circa 8mila euro: abbiamo dovuto acquistare tappeti nuovi, imbiancare le pareti esterne, sistemare un po’ di buche. Poi lì abbiamo un problema di risparmio energetico, per cui abbiamo dovuto mettere un parquet in laminato con tre strati di isolante termico. Noi siamo una comunità operaia, gente che lavora nelle fabbriche con uno stipendio che rasenta i 1200 euro al mese, tutto quello che abbiamo realizzato è stato grazie al contributo economico e professionale dei nostri lavoratori.

Il vostro terreno di via Felsina è stato da poco bonificato proprio con un progetto di cittadinanza attiva. Pensate di utilizzarlo in qualche modo?
Stiamo ragionando su che cosa se ne potrebbe fare in futuro, di certo non ci costruiremo una moschea, perché non ne ha le condizioni. Ci siamo detti: “intanto sistemiamolo, rendiamolo decoroso”.

Yassine, qual è la tua sfida per l’integrazione?
Bisogna ripartire dai nuovi cittadini perché fra noi ci sono italiani e bolognesi perchè pagano le tasse, ma stranieri di fatto perché non viene riconosciuta la loro appartenenza al territorio che vivono. Gli immigrati non sono ospiti. I ragazzi di seconda generazione, per esempio, sono cittadini a pieno titolo, che vanno riconosciuti come tali. Quando si parla di giovani bisogna pensare anche a loro, come quando si parla della popolazione bolognese bisogna considerare anche quelle migliaia di immigrati che hanno scelto Bologna come città.
Considera che mia madre è cittadina italiana perché lavora, versa i contributi. Io che
ho scelto di studiare, che ho frequentato l’università e ho iniziato a lavorare tardi, sono stato penalizzato, di fatto sono meno cittadino italiano di lei. Ma mia madre non parla italiano come me, non conosce l’Italia come la conosco io, non ha le chiavi della città, come noi di seconda generazione, che però non abbiamo diritto neanche al voto amministrativo. È da qui che Bologna deve ripartire.

Dove vai se la banana
non ce l’hai

Ho atteso -invano- che qualche autorità, ente, associazione, singolo cittadino, un giornalista sportivo esprimessero, a Ferrara, uno straccio di opinione sulle incredibili vicende dell’ormai -a detta di tanti- impresentabile candidato alla presidenza Fgci, Carlo Tavecchio. Fiumi d’inchiostro e tantissime dichiarazioni prima di incredulità poi di condanna hanno stigmatizzato le ripetute gaffes del Nostro. Persino la Fifa ha chiesto chiarimenti. Molte società calcistiche , le associazioni dei calciatori ed allenatori, intellettuali, hanno manifestato la propria indignazione per dichiarazioni irresponsabili che oggettivamente incentivano fenomeni di discriminazione razziali.
Anche il Coni ha fatto capire a Tavecchio che non è il caso di insistere sulla sua candidatura. E Ferrara? Rien de rien. La città è preda di nebbie sempre più spesse. Siamo stati puntualmente informati delle gesta dei nostri eroi domenicali e degli angoscianti interrogativi che ci tolgono il sonno; 4-4-2 o meglio il 3-4-3? Nessuno che abbia chiesto al mondo sportivo ferrarese , all’assessore allo Sport e sopratutto alla Spal cosa ne pensavano e come ci si schierava nella assemblea di Lega Pro. Purtroppo ora sappiamo come è andata: la società biancazzurra si è unita al carrozzone pro Tav(ecchio) sostenendo dirigenti che sono da decenni incollati col mastice alle loro poltrone (magari strepitano contro quei politici che non “mollano mai”) e sono i responsabili della crisi del calcio italiano sempre più ai margini in Europa e nel mondo. Delle scelte sciagurate di costoro hanno soprattutto sofferto proprio la serie C (uno e due) -un inferno calcistico- ed i settori giovanili.
Cosa sperino che cambi con Tavecchio e Macalli (alle prese con la magistratura per vicende calcistiche) i Colombarini, gente seria e onesta a cui Ferrara deve gratitudine, è un mistero. Qualcuno in cerca di giustificazioni per conservare lo statu quo sostiene che è una lotta di potere tra società impegnate solo nella difesa di gretti interessi. Se cosi cari signori il calcio, lo sport, i suoi valori bla-bla… sono finiti. E se credo ancora in quei valori e voglio che si affermino su Optì Pobà mangiatore a tradimento di banane non posso glissare fingendo di non aver sentito.
L’altra obiezione forte che si propina ai gonzi (sempre meno) è che lo sport è autonomo. Una stupidaggine che la storia smentisce da sempre. Fatti? Le olimpiadi di Berlino nel 1936 volute da Hitler furono prima di tutto una manifestazione politica per mostrare la “forza” della Germania e la possanza della “razza Ariana”. Mussolini ai campionati del mondo di calcio nel ’34 e nel ’38 impose agli atleti il saluto fascista. I generali golpisti, Videla in testa si pavoneggiarono ai mondiali del ’78 vinti dall’Argentina. Chi non rammenta le epiche sfide tra Urss e Usa , tra Germania dell’Est e dell’Ovest che dallo sport cercavano una primazia che voleva essere anche di sistemi. Persino la Primavera di Praga trovò nella sfida di Hockey tra Urss e Cecoslovacchia (vinta da quest’ultima) una spinta verso il cambiamento poi tragicamente soffocato.
E’ risaputo, per venire a tempi più recenti che i mondiali in Brasile e le prossime Olimpiadi sono state volute da un governo traballante che puntava alla vittoria dei carioca per sperare di sopravvivere. E da noi? Nel Bel Paese? Beh, il monarchico Lauro vide sempre nel Napoli una protesi elettorale. Il duo Andreotti / Evangelisti usarono ed abusarono politicamente della loro “fede” romanista. Lo stesso Berlusconi “sperava che le vittorie rossonere gli portassero qualche voto in più.” E si potrebbe continuare smentendo l’ipocrisia dello sport “autonomo dalla politica”. Del resto quando un evento coinvolge milioni di persone, se non miliardi, è impensabile che non diventi un fatto politico, un dato culturale, di costume, economico, espressione di popoli talvolta avversi l’un contro l’altro, o anche solo collocati a nord o sud del pianeta. Mi dolgo dell’insensibilità della mia città su questi ed altri argomenti. Alberto Sordi canta nel film Polvere di Stelle “dove vai se la banana non ce l’hai”. Le sortite dell’impresentabile Tavecchio rischiano che nei prossimi campionati di A, B, e C che i fruttivendoli vengano presi d’assalto prima delle partite per far partire dopo il classico buu… il lancio delle banane. Prossimo sport olimpico.

L’omaggio di Vienna a Michelangelo Antonioni

di Maria Cristina Nascosi Sandri

Senza di loro il Cinema non si sarebbe chiamato, forse, cinema. Parafrasando au rebours lo Shakespeare di Romeo and Juliet e di “una rosa sarebbe sempre una rosa, pur con un altro nome”, piace qui ricordare l’anniversario della scomparsa di due giganti della cinematografia di ogni tempo, due autentici intellettuali e, come tali, due antesignani a tutto tondo, dalla cultura davvero sconfinata: Michelangelo Antonioni ed Ingmar Bergman, mancati a poche ore di distanza l’uno dall’altro, il 30 luglio 2007.
Risale a dieci anni fa la fine della carriera su pellicola di Antonioni: sono, infatti, del 2004 l’episodio da lui diretto, Il filo pericoloso delle cose (uno dei tre del film collettaneo Eros, gli altri due registi erano Steven Soderbergh e Wong Kar-Wai) ed il corto Lo sguardo di Michelangelo (rarefazione visiva, specie di sublime testamento spirituale che prevale sui suoni, sui rumori), ma immortali rimarranno i suoi insegnamenti sulla Settima arte come tali saranno, mutatis mutandis, quelli di Bergman.
La musica, in tutte le sue pellicole, è sempre stata per Antonioni elemento di grande passione, ricerca, sperimentazione, essenziale eppure mai ‘coprente’ l’immagine, l’inquadratura, mai prevalente.
Per più di un decennio, dal corto N.U. Nettezza Urbana, del 1948 e dal suo primo lungometraggio, Cronaca di un amore, del 1950, Antonioni lavora con Giovanni Fusco, ottimo musicista, anche lui aperto alle sperimentazioni.
Poi, casualmente, la loro collaborazione ha una battuta d’arresto: Giorgio Gaslini, grande jazzista, musicista, compositore, mancato pochi giorni fa, una sera del 1961, dona, per riconoscenza e stima a Marcello Mastroianni, un suo nuovo disco jazz di estrema d’avanguardia intitolato Tempo e relazione, forse primo esempio di jazz europeo. Inconsapevolmente ma non troppo, Mastroianni lo ‘passa’ la sera stessa ad Antonioni, con cui stava girando le prime scene de La notte.
Così il regista lasciò temporaneamente, per una ‘parentesi’, Giovanni Fusco, autore di impronta romana, e scelse Gaslini per l’ambientazione e l’atmosfera tutta milanese di questo suo film, dopo avergli telefonato una domenica mattina, chiedendogli di ascoltare tutto quanto il musicista aveva scritto fino ad allora – come narra lo stesso Gaslini in una vecchia intervista, aggiungendo: “E’ stato un grande artista. E la vita ha voluto che lo incontrassi. Probabilmente senza di lui non avrei mai intrapreso la parte di carriera che ha riguardato il cinema. Non sapevo che quel film sarebbe stato un capolavoro e che la mia musica avrebbe vinto il Nastro d’Argento”. Gaslini ha scritto, nel tempo, colonne sonore per 42 film.

Vienna in questi giorni, e fino al 17 agosto, rende omaggio ad Antonioni con una mostra fotografica su Blow up all’Albertina di Vienna [vedi], una delle più grandi raccolte mondiali di grafica.
Il cult-movie, girato nel 1966, ha immortalato per sempre la swinging London: precursore anche in questo caso, il regista ferrarese ha coniugato in contemporanea cinema e fotografia, arte e moda (specchio dei tempi), rendendo il testo filmico una pietra miliare, un classico per sempre, insuperato ed imitato.
In mostra, autori come David Bailey – il più ‘celebrato’ nel film – Terence Donovan, Richard Hamilton, John Hilliard, Don McCullin, Ian Stephenson, John Stezaker e molti altri.
Presenti, inoltre, le famose foto di Blow-Up di una coppia di amanti ripresi in Maryon Park dal protagonista del film che ritiene di aver ‘documentato’, per caso, con queste foto, un omicidio che ‘tuttavia’ non ‘rivelano’ un cadavere.
Le immagini ed il loro doppio – in questo caso, come direbbe Antonin Artaud – descrivono una ambivalenza/ambiguità del tutto e del niente, nella loro rappresentazione vero/fittizia, insegnamenti che son divenuti retaggio imprescindibile per i fotografi contemporanei.
E come direbbe Michelangelo: “L’assoluta misteriosa realtà che nessuno vedrà mai – come le nuvole, metafora di vita, da sempre rappresentano una perenne ricerca di quanto sta oltre le cose e le immagini”.

Mecenate mecenate…

Visionario e/o mecenate? Anche in Italia si può, alla fine… e per ottenere risultati, in questo nostro Paese allo sbando, bisogna essere un po’ visionari…
E noi siamo contenti, ci congratuliamo con chi ha saputo esserlo. Non ci interessano le motivazioni, poco importa che il governo abbia ottenuto la fiducia in Senato sul decreto cultura e che il provvedimento, già approvato alla Camera, sia oggi legge e includa misure come l’“art bonus”, un credito d’imposta del 65 per cento per le donazioni dei mecenati. Anzi, ce ne felicitiamo. Se questo era il motore, la chiave giusta di svolta, ben venga. Soddisfatti, poi, che a capirlo sia stato un ferrarese. Di colpo (e finalmente) si abbattono due barriere che, per troppo tempo, hanno monopolizzato il dibattito (sterile) italiano: quella del rapporto tra pubblico e privato, e quella della separazione tra tutela e valorizzazione. Felicitazioni, dunque!
Non si può fare un torto a un privato e “giudicarlo” se vuole recuperare parte di quanto investe per la cultura. L’importante è che lo faccia, visto che le nostre istituzioni, ormai, non hanno mezzi, forza e soprattutto vera volontà di farlo. La bellezza ci salverà…

mecenate-mecenate
Diego Della Valle, patron della Tod’s e sponsor del restauro

Certo, perché, dopo mille polemiche, si è conclusa, il 29 luglio, la prima fase del restauro finanziato da Tod’s. Tornano a splendere le arcate del Colosseo, tornano alla loro bellezza originaria i primi cinque archi dell’Anfiteatro Flavio, simbolo di Roma nel mondo. Diego Della Valle, patron della Tod’s e sponsor del restauro.
Un mecenate, degno erede del primo Gaio Clinio Mecenate, cavaliere romano influente consigliere di Ottaviano Augusto, e di Lorenzo de’ Medici, munifici protettori e benefattori di poeti e artisti.

L’ambizioso progetto di far tornare il Colosseo a com’era nell’80 d.C. (quando fu inaugurato dall’Imperatore Tito) raggiunge un primo traguardo ma il completamento dell’opera, finanziato con ben 25 milioni di euro, è previsto per il 2016.
Lo splendido e amato monumento, oggi, torna a risplendere con quelli che furono, secoli fa, i suoi bellissimi colori naturali: giallo, ocra, miele e avorio.
Per rimuovere i depositi e le croste nere di smog e altri detriti sedimentati negli anni, i restauratori hanno utilizzato procedure ad hoc per non intaccare il materiale lapideo: acqua nebulizzata a temperatura ambiente, senza aggiunta di solventi. Gli operai nei giorni scorsi avevano smantellato le impalcature, restituendo ai romani e soprattutto ai turisti una porzione completamente restaurata delle arcate.
Al restauro hanno contribuito le migliori professionalità del nostro Paese, dagli archeologi agli architetti, dagli ingegneri ai restauratori, fino agli operai specializzati.
Commentando l’avanzamento dei lavori, Della Valle ha affermato che “l’operazione Colosseo abbia aperto una strada che ha permesso, anche sotto una sfaccettatura legale, di leggere ciò che si può fare. Tutti quelli che vogliono investire per sostenere il grande patrimonio culturale possono farlo con più ‘facilita’ e hanno meno alibi per non farlo”. L’imprenditore si è, poi, augurato che “che molti altri imprenditori si attivino per i monumenti messi a posto. Mi farò carico di chiamare amici imprenditori per destinare parte dei loro utili a queste cose”.
Pecunia non olet, quindi, lasciatemelo dire, e qui ancora meno…

IL PROGETTO DI RESTAURO
Il progetto, presentato al Ministero per i Beni e le Attività Culturali nel 2011, prevede il restauro del prospetto settentrionale e meridionale del monumento, compresa la realizzazione di nuove cancellate al primo ordine; il restauro dei sotterranei (ipogei) e degli ambulacri; l’integrazione degli impianti; la realizzazione di un centro servizi che consenta di portare in esterno le attività di supporto alla visita, che sono attualmente all’interno del monumento. Recentemente, Della Valle ha anche annunciato che l’associazione no-profit “amici del Colosseo” è costituita e inizierà a funzionare dai primi di settembre». Si sta individuando il luogo adatto per posizionare il centro di accoglienza che servirà alle persone anziane, ai disabili e a chi vuole informazioni sul monumento.

La scuola, la cultura
e “i provvedimenti”

Emergo da giornate scandite da noiosi e falsi pettegolezzi cittadini riguardanti “il culturame” come ormai sembra ridotta la riflessione sulla cultura e sulla sua distribuzione nel nostro Paese con due -per me- straordinarie consolazioni: ho trovato al Mercatino del libro un volume che inseguivo da anni: Uomini e topi di John Steinbeck nella traduzione di Cesare Pavese e l’articolo su “La Repubblica” del 31 luglio 2014 del sommo Arbasino sulla mostra americana del Futurismo di cui parlammo al Gramsci ferrarese Cecilia Vicentini ed io nella serie dedicata alla Grande Guerra. L’incantevole e straordinario scrittore tra i pochi veri Maestri sulla scena italiana riporta gustose filastrocche futuriste di cui una almeno per me memorabile tratta dall’ “Almanacco Purgativo 1914” compilato da Papini e Soffici al tempo della mostra fiorentina della Pittura Futurista del 1913. Straordinaria questa dedicata a Firenze (e che con amara ironia ha per me ancora sapore di scandalosa verità):
E’ Firenze quella cosa / Dove tutto sa di muffa / Tutto vive sulla truffa (“Movimento forastier)

Pensiero da mettere in meritato rapporto con le dichiarazioni di Antonio Natali direttore degli Uffizi a proposito del “Museo di Massa” di cui parlerò in altra occasione a proposito della contestata riforma proposta dal Mibact.
Altre perle su “La Repubblica”: la strepitosa autodifesa di Guido Ceronetti a proposito della lingua italiana nell’articolo Confessione di uno scrittore semiriuscito.
Incantevole l’analisi dell’uso di un modo di dire oltremodo in uso ora e linguisticamente sbagliato Riflette Ceronetti: “E ad ogni ‘piuttosto che’ al posto di ‘oppure’ ho sintomi di reflusso, ma ho un riparo forte come la morte: la tranquillità d’animo di un dovere perfettamente compiuto.”

A proposito di questo brutto e sbagliato modo di dire in un discorso di un politico locale ne ho contati tre di ‘piuttosto che’ al posto di ‘oppure’ nel giro di una dichiarazione di non più di 50 secondi. E’ dunque giusto difendere l’uso della lingua italiana?
Si chiede ancora Ceronetti: “Ma allora: che non sia ancora sepolta del tutto nelle discariche questa mia disperata lingua italiana?” Occorre dunque procedere a difendere e soprattutto a insegnare la lingua e la cultura italiana.

Risponde al proposito, sempre sullo stesso numero di La Repubblica, Piero Boitani l’ammiratissimo filologo a cui si devono analisi straordinarie del mondo classico e di Dante in un articolo che si titola: Verso la rottamazione: Boitani descrive una situazione che io stesso ho sperimentato due o tre anni prima di lui ovvero l’uscita dall’Accademia in anticipo rispetto agli anni concessi e che ora sembrano ridotti a 65 o 68 anni per i professori universitari (ma proprio ieri si è bocciata questa soluzione non essendovi la garanzia finanziaria!!!). Anch’io come Boitani credevo che questa volontaria anticipazione desse il modo di lasciar spazio ai giovani. Inutile e vana speranza. Così conclude il grande studioso: “Non si sa da chi gli studenti che non si possono permettere di studiare all’estero andranno a lezione dopo questa intelligente epurazione. Quanto ai professori vecchi e dementi, lasceranno l’Università senza rimpianti: non hanno avuto molto da essa negli ultimi quarant’anni”. E l’amara conclusione: “E’ un peccato che un governo nel quale il 40,8% degli italiani riponeva la fiducia due mesi fa racconti menzogne come i precedenti. Dica che lo fa per far cassa, come già Tremonti, il quale tagliò ai professori stipendi e liquidazioni (con la cultura, del resto, non si mangia nevvero?) che per inciso non sono mai stati reintegrati”.
Tutto questo conclude Boitani “non ha nulla a che fare con lo svecchiamento dell’Università. Vecchi, dementi, poveri e gabbati: non si faranno accompagnare dai nipoti a votare per Giannini, Padoan, Renzi”

Non male vero?

Il cucchiaino scomparso

Può la tavola periodica degli elementi incontrare la mano sinistra? Le emozioni, la passione, il coinvolgimento? Pare proprio di sì. Perché, fuori dalla scuola, puoi scoprire che anche la scienza ha un’anima, le sue debolezze e può perfino incuriosire, quasi intrigare. Goethe e Mark Twain ne avevano una particolare attrazione, una soddisfazione estetica per la sua regolarità, per le sue ripetizioni ricche di variazioni come una fuga di Bach.
E tuttavia la bellezza della tavola non è solo astrazione. Essa ha ispirato l’arte in tutte le sue forme. L’oro, l’argento e il platino sono di per sé gradevoli da contemplare. Gli elementi hanno un ruolo importante nel moderno design e nella produzione degli oggetti belli che rendono piacevole la vita.
Nella storia della tavola periodica ci sta anche la mitica Parker 51 per via del pennino al rutenio.
Ancora, quel certo pizzico di sale che a volte manca ad alcuni cervelli si ricava dal litio, con il quale sono state curate le stravaganze di diversi artisti a partire dalla follia del poeta americano Robert Lowell.
Il cucchiaino scomparso di Sam Kean (Adelphi) è la dimostrazione che la chimica può essere compresa e non solo imparata a memoria. Offre l’opportunità di guardare a questa materia con occhi altri da quelli a cui ti costringe la scuola con la spada di Damocle delle interrogazioni.
Già Primo Levi, chimico, si era misurato con la tavola di Mendeleev nel suo Sistema periodico al quale lo stesso Kean dichiara di ispirarsi. Ma la narrazione di Sam Kean, è proprio il caso di dirlo, produce reazioni a catena. Un grande romanzo della Chimica non privo di colpi di scena. Un affascinante libro che, come ha scritto Odifreddi, dovrebbe essere letto dai molti che della chimica sanno una cosa sola: che c’è.
La tavola periodica, come la vede Kean, è un castello con due torri asimmetriche. Al castello si accede seguendo la mappa che conduce alle singole stanze, ognuna occupata da uno dei centododici elementi presenti in natura e non solo. Per ognuno di loro Sam Kean ne ha delle belle da raccontare.
I gas nobili sono incorruttibili e perfetti, gli atomi creature conformiste e prive di immaginazione, gli evanescenti e capricciosi elettroni se ne vanno di casa a caccia di vicini più interessanti.
Il pianeta Giove è un impostore, perché in realtà è una stella mancata. Il mito di re Mida, che lo stesso Ovidio con le sue Metamorfosi contribuì ad alimentare, non è altro che una patacca di ottone. Il tocco di Mida, con buona probabilità, era solo dovuto alle quantità di zinco della Frigia, metallo che gli accidenti della geografia gli avevano fatto trovare in grande abbondanza nel suo angolo di Asia Minore.
Così come dietro all’Eldorado e alle leggende sulla corsa all’oro ci sta «l’oro degli sciocchi» che splende ancora di più dell’oro vero: la pirite, disolfuro di ferro.
L’ignoranza della proprietà degli elementi ci rende dei perfetti allocchi. Come gli spettatori esterrefatti di fronte allo svanire nel tè del cucchiaino di gallio, metallo malleabile e di colore argenteo simile all’allumino, ma che al solo contatto del calore della mano si scioglie.
L’eka-alluminio, oggi chiamato gallio, solleva una domanda di fondo: che cosa fa realmente progredire la scienza, le teorie che inquadrano la nostra visione del mondo o gli esperimenti, il più semplice dei quali può demolire la più elegante delle teorie?
«È la teoria che decide ciò che possiamo osservare» ebbe a dire una volta Albert Einstein. Alla fine della storia, è probabilmente impossibile capire quale delle due facce della medaglia, teoria o esperimento, abbia maggiormente contribuito al progresso della scienza.
Sappiamo che sbagliare non sempre porta a conseguenze disastrose. La gomma vulcanizzata, la penicillina e il teflon sono tutte scoperte figlie di errori. Ritrovamenti casuali ed errori accidentali hanno spinto in avanti la scienza per tutto il corso della storia.
Gli studi più avanzati nel campo dell’intelligenza artificiale sembrano indicare che un chip al silicio potrebbe egregiamente sostituire un nostro neurone, ma se la storia sessant’anni fa avesse preso una piega diversa, favorendo lo sfortunato germanio anziché il silicio, oggi tutti parlerebbero della celebre Germanium Valley dalle parti di San Francisco.
La prerogativa degli elementi è che esistono e basta, né creati né distrutti. Secondo i calcoli di un fisico, dieci minuti dopo il big bang tutta la materia conosciuta era già presente.
Ma c’è un’altra faccia, la più inquietante, ed è che gli elementi da sempre hanno servito e scatenato guerre.
Che Niobe e Tantalo, vittime eccellenti dell’ira degli dei, possano aver a che fare con il nostro cellulare, forse nessuno di noi l’avrebbe sospettato. È difficile da credere, eppure da loro discendono i nomi del tantalio e del niobio, elementi senza i quali i nostri cellulari non esisterebbero, ma il cui possesso fa sì che i nostri telefonini grondino sangue. Il controllo dei giacimenti di coltan, miscela complessa di minerali di tantalio e niobio, è all’origine del più spregevole saccheggio, del peggiore macello dai tempi della seconda guerra mondiale. A partire dalla metà degli anni Novanta, guerre e guerriglie nella Repubblica Democratica del Congo, che detiene il 60% delle riserve mondiali, hanno mietuto più di cinque milioni di vittime.
Insomma, un altro prezioso libro da leggere, un’altra intelligente narrazione che fa della storia della scienza un ipertesto tutto da scoprire.

“Noi in Palestina, testimoni
del razzismo di Israele”

di Andrea Pinna

Continuano ad arrivare notizie gravissime sull’attacco militare indiscriminato da parte di Israele contro la popolazione civile palestinese di Gaza (iniziato l’8 luglio), mentre cerco di mettere ordine negli appunti frutto di un lungo colloquio con due giovani ferraresi, di ritorno da un viaggio in Israele e nei territori occupati della Palestina.

Jenin, Nablus, Ramallah, Hebron, Turkalem sono nomi di città palestinesi che ricorrono nel racconto dei miei interlocutori; nelle storie di quotidiane angherie, soprusi, umiliazioni, subiti dalla popolazione palestinese che vive sotto l’occupazione militare israeliana da oltre 50 anni. Il razzismo e il disprezzo dei coloni – loro stessi testimonianza vivente delle violazioni sistematiche dello Stato sionista rispetto ai deliberati dell’Onu – verso le comunità palestinesi, racconti che, per la mia generazione, rimandano alla condizione della popolazione nera nel Sud Africa dell’apartheid, ufficialmente introdotto nel 1948. Con due sostanziali differenze: il regime segregazionista sud africano (espressione della minoranza bianca, 14% ) viveva, almeno dal 1968 nell’isolamento internazionale e nell’embargo frutto della condanna dell’Onu (cui, è da evidenziarlo, non si associava il governo d’Israele); la maggioranza oppressa dei coloured – e questa è l’altra differenza importante – aveva una guida unita e lungimirante espressa dall’Anc e (benché a lungo detenuto) da una figura di statura internazionale quale Nelson Mandela che fu liberato solo nel 1990, dopo 27 anni di detenzione.

La “questione palestinese” – lo sottolineano con forza i miei interlocutori – non ha connotati religiosi (d’altronde cristiani, ebrei e musulmani da sempre caratterizzano la società interrazziale, interetnica e interreligiosa di quella terra), ma è un conflitto squisitamente politico. La stessa pretesa di Israele di definirsi come Stato ebraico, rimanda all’ identità religiosa e razziale, a una giustificazione storico-religiosa, di per sé pericolosa ed opinabile, di un diritto storico degli Ebrei (e solo di essi) di abitare quella terra. In realtà oggi Israele che, in base alla “legge del ritorno” concede ad ogni ebreo a prescindere dal paese di provenienza, la cittadinanza israeliana e molteplici facilitazioni per integrarsi nella nuova società, è abitato da ebrei provenienti da ogni angolo del mondo che non condividono né la lingua, né radici culturali, ma solo la religione e un nemico comune. Tuttavia solo il 40% dei 13 milioni di ebrei nel mondo, ha preso residenza in Israele. Oggi, di fatto, Israele che ama presentarsi al mondo come l’unica democrazia dell’area, è uno Stato razzista, iperarmato (anche di ordigni atomici), che pratica sfacciatamente l’apartheid, che viola quotidianamente la legalità internazionale, che gode della protezione incondizionata degli USA e del mainstream politico e mediatico occidentale, che ricatta tutto e tutti con la scusa del “terrorismo”: ieri di Arafat, oggi di Hamas, domani di qualunque altra sigla, per mettere a tacere il diritto degli oppressi a ribellarsi contro gli oppressori.

Contro questo stato di cose, mi dicono i due amici nella loro testimonianza e pur nell’estrema complessità del contesto, esistono anche nell’avvelenata società israeliana voci e forze (se pur minoritarie, discriminate, segnate come traditori) che si oppongono, che testimoniano, che agiscono contro la società dell’apartheid. Sia costoro, sia i palestinesi, sia i cooperanti dell’ISM (International Solidarity Movement), sia gli ex-militari di Breacking the Silence (Rompere il silenzio) ci chiedono una solidarietà fattiva: “parlate e spiegate quello che avete visto; boicottate e fate boicottare i prodotti e il business che provengono dalle zone occupate illegalmente; contrastate gli inviti, gemellaggi, convegni accademici, che provengano dall’establishment israeliano; fate sapere al mondo che il Tribunale internazionale dell’Aja ha sentenziato sull’illegalità del Muro, oltre settecento km.che corrono dentro i territori palestinesi e che non serve a proteggere “contro il terrorismo”, bensì ad estendere – anche tramite insediamenti illegali di coloni e dei presidi militari “a loro difesa” – i confini della “Grande Israele” e che è causa, tra le molte, di sofferenze inaudite degli affetti, di scuole ed ospedali che non si raggiungono in tempo, di case costruite col sudore e le mani dei nativi e che vengono demolite in pochi attimi dalle ruspe dell’esercito occupante…”

Faccio fatica ad appuntarmi i mille esempi di vita sofferta, di dignità calpestata (quattro diversi tipi di carte d’identità rilasciate dall’occupante ai palestinesi, per frantumarne la convinzione di essere un unico popolo), ma anche la solidarietà degli Internazionali (l’Ism) che accompagnano a scuola i piccoli palestinesi cercando di rendergli meno penosi i tanti check -point che rendono la scuola un miraggio, degli israeliani oppositori dell’oppressione sionista che – impegnandosi nelle numerose ong contro le discriminazioni e l’apartheid – perdono di colpo status e diritti, lavoro e reddito, assumendo una condizione molto simile a quella dei profughi e degli esuli.

Paradigmatica della condizione dei palestinesi sotto occupazione, sottolineano i miei intervistati, è quella nella città di Hebron ( ove vivono non più di 400 coloni “protetti” da 4.000 soldati) ove si viene visivamente incuriositi dalle reti appese sopra le strade della Città vecchia per impedire che i pedoni palestinesi – spiegano cooperanti che li accompagnano – siano investiti dai rifiuti che i coloni israeliani gettano dai loro appartamenti ; non è certo la peggiore delle vessazioni, ma è un simbolo immediatamente visibile del disprezzo razzista seminato a piene mani. Ed è proprio il razzismo, il senso di superiorità ed impunità che segna la società israeliana e l’isteria antiaraba, che costituiscono forse il crimine più grave inferto a quella terra martoriata, con lo scopo di ergere muri molto più spessi ed insuperabili di quelli di cemento armato, tra due popoli destinati dalla storia e dalla geografia a recuperare un modo radicalmente nuovo di convivere nel rispetto reciproco. Recuperare perché questa fu la loro condizione pacifica, prima che sionismo e antisemitismo (due fratelli gemelli) divenissero la mala pianta seminata contro quella millenaria civiltà multietnica.

Vorrei concludere il resoconto dell’intervista datami dai due giovani amici ferraresi, riportando stralci di una riflessione di Richard Falk, professore all’Università di Princeton, già rapporteur su Gaza per le Nazioni unite (apparsa sul Manifesto del 24 luglio).
“La narrazione occidentale dell’ultimo attacco israeliano su Gaza, iniziato l’8 luglio, è costituita da due elementi: in primo luogo c’è l’appoggio incondizionato al presupposto israeliano, secondo il quale è ragionevole e legittimo attaccare Hamas a Gaza, come reazione al lancio di razzi (manufatti rudimentali che raramente superano la ipertecnologica barriera antimissile d’Israele ndr) diretti a colpire le città israeliane.

“La narrazione occidentale dell’ultimo attacco israeliano su Gaza, iniziato l’8 luglio, è costituita da due elementi: in primo luogo c’è l’appoggio incondizionato al presupposto israeliano, secondo il quale è ragionevole e legittimo attaccare Hamas a Gaza, come reazione al lancio di razzi (manufatti rudimentali che raramente superano la ipertecnologica barriera antimissile d’Israele ndr) diretti a colpire le città israeliane.
“In secondo luogo, si è considerata tragica la violenza che provoca vittime innocenti e civili da entrambe le parti. Anche in questo caso si è dato per scontato che tale responsabilità sia di Hamas. Il New York Times in un editoriale, è riuscito a sintetizzare entrambi gli aspetti: ‘Non era concepibile che il primo ministro Netanyahu tollerasse i bombardamenti di Hamas. Né lo deve accettare…’
“La presentazione di quanto sta avvenendo nella Striscia, distorce completamente la natura dell’interazione fra il governo israeliano ed Hamas nei confronti di Gaza. Più di ogni altra cosa, risulta totalmente soppressa la narrazione palestinese, che interpreta questi eventi in modo total-mente opposto rispetto a quanto viene «messo in scena» dai media occidentali e dai leader politici pro Israele.
“Questa «sceneggiatura» ha un punto di partenza: il lancio dei razzi da Gaza su Israele. La narrazione palestinese — invece — insiste sull’importanza dell’assalto israeliano contro Hamas nel West Bank, deciso da Netanyahu in coincidenza con il rapimento dei tre ragazzi degli insediamenti israeliani, il 12 giugno scorso.
Da quel momento, è scattata l’accusa immediata contro Hamas per il crimine, senza mai aver trovato o presentato – neanche in questi giorni — uno straccio di prova che potesse giustificare le accuse, risultate, in seguito, «provocatorie». E nessuno sforzo è stato fatto per prendere in considerazione la posizione di Hamas, che ha sempre negato il proprio coinvolgimento nel crimine….
“E all’interno del contesto di questi terribili crimini commessi, non viene mai ricordata la continua disputa per l’occupazione illegale, la presenza degli insediamenti e degli insediati nei territori occu-pati; si tratta di elementi che provocano risentimento e rabbia, alimentati dalle quotidiane umiliazioni subite dai palestinesi. È troppo aspettarsi che Hamas, o qualsiasi altra formazione politica, possa ignorare tali provocazioni senza reagire in alcun modo? E quale altro modo rimane ad Hamas, come reazione, se non inviare i propri rozzi e primitivi razzi in direzione di Israele?
“La risposta è senza alcun dubbio contraria alle norme di diritto internazionale, ma quali alternative erano a disposizione di Hamas se non una supina acquiescenza? Israele — del resto — ancor prima dell’intensificarsi dei razzi lanciati da Gaza – ha cominciato a bombardare, con una strategia mirata a indurre una provocazione che potesse fornire a Tel Aviv la giustificazione per sferrare una massiccia operazione militare. Attacchi indicati da Israele con la spregevole metafora di «falciare l’erba», a rappresentare le indiscriminate incursioni punitive su Gaza.
“Altrettanto rilevante, benché mai menzionato nella ipocrita narrazione delle scusanti che circonda l’interpretazione della violenza attuale, è l’illegalità del blocco di Gaza, stabilito a metà del 2007.
Questo «particolare», viene considerato da esperti di diritto internazionale come una forma di punizione collettiva nei confronti di tutti gli 1.8 milioni di palestinesi (età media: 18 anni, densità per km/2 : 5.000 abitanti, contro i 365 d’Israele, ndr) Si tratta di una violazione dell’Articolo 33 della Quarta Convenzione di Ginevra, in base alla quale la popolazione civile palestinese dovrebbe essere protetta da Israele, in quanto potenza occupante. È questa una delle più flagranti violazioni da parte di Israele delle norme di diritto umanitario…
“Israele ha completamente monopolizzato il dibattito pubblico in Occidente, limitando la discussione al proprio diritto a difendersi dagli attacchi dei razzi. (…) Da un excursus sulle operazioni mili-tari precedenti, emerge un modello sistematico che dovrebbe creare sgomento in osservatori obiettivi che tengono a cuore pace e giustizia: ad un periodo di quiete, segue una provocazione israeliana, poi una reazione di Hamas, seguita da una massiccia offensiva israeliana, seguita a propria volta da espressioni di preoccupazione a livello internazionale. Appelli inizialmente ignorati, che invocano una tregua ed infine un cessate il fuoco.
“E in ognuna di queste occasioni, le proclamate dichiarazioni di Israele di voler dare fine alla capacità militare di Hamas di lanciare razzi, non si sono mai realizzate, sollevando il dubbio che i veri obiettivi prefissati da Tel Aviv siano in realtà stati ottenuti, ma mai resi pubblici. (…) Gaza oggi sta subendo violenze che non hanno pari per morti e distruzione. Nonostante questo, Hamas viene accusato di atti di «terrorismo». Viceversa il terrorismo di Stato di Israele viene descritto come legittimo e ragionevole. In tale contesto, poco riconosciuto, ogni categoria legale e morale risulta inadeguata per descrivere quanto sta avvenendo.
“Molti si chiedono perché Hamas continui a lanciare razzi contro Israele. Esiste una risposta razionale, convincente, nell’annotare che la resistenza ad una occupazione straniera costituisce un impulso politico fondamentale. Hamas, come sembra, ha acquisito una tecnologia di razzi più sofisticata e in futuro potrebbe minacciare davvero Israele. Nel caso di Gaza — invece — la vulnerabilità è evidente, ogni giorno; eppure si continua a mostrare l’appoggio a Israele per la guerra e reiterare il pio invito a limitare le sofferenze della popolazione civile.

L’irrisolta ‘questione palestinese’ favorisce
gli estremismi

di Giuseppe Fornaro

Qualcuno si è chiesto perché tanta tiepidezza, anche a sinistra, sul conflitto in corso
nella striscia di Gaza. Perché non c’è uno schieramento unanime, o per lo meno prese
di posizione nette a favore dei palestinesi. A mio parere le ragioni sono molteplici.
Intanto, l’offensiva militare sferrata da un’organizzazione politica che si ispira a
principi del fondamentalismo islamico, non incontra simpatie nel mondo occidentale.
Per quanto, va detto subito, Israele sia nata da un altro fondamentalismo religioso, il
sionismo, come ritorno alla terra promessa, la terra dei padri. Qui però siamo di fronte
a generazioni che con il sionismo c’entrano poco. I militari israeliani sono in gran parte
giovani nati in Israele che combattono per difendere la loro patria e che forse del
sionismo gli interessa fino ad un certo punto perché quella per loro, prima che essere
la terra promessa, è semplicemente casa. Una cosa semplice e familiare a ciascuno di
noi.
Dall’altro lato, Hamas attacca Israele solo marginalmente per rivendicare il diritto ad
una patria per i palestinesi, ma soprattutto perché la questione palestinese in tutto il
Medioriente è un tema su cui si gioca la leadership di organizzazioni islamiche come
Hamas appunto. Per dirla fuori dai denti, ad Hamas dei palestinesi interessa fino ad un
certo punto. Il perpetuarsi della questione palestinese fa comodo agli opposti
estremismi, tanto alla destra israeliana, quanto alle organizzazioni di ispirazione
islamica dopo che l’Olp è implosa a seguito di scandali di corruzione e dopo la morte
procurata del leader simbolo della lotta palestinese che è stato Arafat.
Arafat e l’Olp, negli anni Ottanta riuscirono a catalizzare l’attenzione di tutto il mondo
e a generare un ampio consenso trasversale intorno alla causa palestinese. L’Intifada,
qualcuno forse ancora se la ricorda, fu una grande lotta di popolo. Ho ancora negli
occhi i bambini palestinesi che armati di sole fionde sfidavano uno degli eserciti più
potenti del mondo. Furono quelle immagini, e non i quarti di corpi martoriati di
bambini diffuse da Hamas, a far crescere il consenso intorno ai palestinesi. Fu quella
lotta di popolo, estesa, corale a suscitare le simpatie di tutto il mondo e di tutti gli
schieramenti politici. Fu resistenza vera. Fu l’Intifada a riempire di manifestazioni le
piazze d’Italia. La kefia era diventata il simbolo che molti di noi indossavano come
segno di solidarietà, non ad un’organizzazione politica, ma ad un popolo. Gli studenti
universitari palestinesi, nostro compagni di studi, ci vendevano il famoso foulard, che
Arafat aveva fatto diventare un simbolo, come forma di autofinanziamento della
causa. Molti di noi, ben volentieri, corrispondevano a questa forma di solidarietà.
Hamas ha commesso l’errore di sfidare Israele sul piano militare, ponendosi di
conseguenza come controparte armata, non avendo i mezzi, le strutture logistiche, la
tecnologia e tutto quanto occorre per fare un esercito impegnato in un conflitto. I suoi
non sono stati atti di terrorismi classicamente intesi, ma un vero e proprio atto di
guerra. Su quel terreno non può che perdere il confronto e a rimetterci, come si vede,
è la popolazione civile. Ma soprattutto Hamas non ha il consenso di larga parte della
popolazione palestinese. I missili rudimentali dal punto di vista tecnologico, ma molto
pericolosi, lanciati in territorio israeliano non servono tanto per intimorire Israele, ma
servono come politica interna nella lotta per la leadership palestinese, per dimostrare
che si fa sul serio. Tant’è che mentre il presidente dell’autorità palestinese tenta un dialogo con i vertici di Israele, e dunque sono in corso contatti diplomatici, Hamas
lancia i missili che sembrano più essere diretti contro l’autorità palestinese stessa che
contro Israele. Altrimenti non si spiega come mai il conflitto scoppi proprio in questo
momento e contemporaneamente la Libia è in fiamme interessata da un altro conflitto
interno anche lì di ispirazione islamica. L’Ansa di venerdì 1 agosto riferisce che “I
jihadisti libici di Ansar al Sharia annunciano di aver preso il controllo “completo di
Bengasi” e di aver proclamato “un emirato islamico”. L’annuncio è arrivato da un
responsabile del gruppo, citato da al Arabiya”. Lo stesso dicasi per Iran e Siria.
Insomma, un’offensiva in grande stile sferrata da organizzazioni di ispirazione islamica
e integralista su uno scenario Mediorientale ampio. Dove si voglia andare a parare non
sta a me dirlo. Alcuni osservatori parlano di un disegno islamico su ampia scala. O
forse anche questa è una cortina fumogena e questi movimenti e queste guerre sono
alimentate proprio da coloro che della sopravvivenza degli opposti estremismi ha fatto
un business.
Se così è, occorre uno sforzo di analisi politica seria, che vada oltre le emozioni
suscitate da immagini cruente diffuse ad arte per provocare l’emozione di un
momento in noi occidentali consumatori di sensazioni forti. Occorre una politica estera
dell’Italia e dell’Europa che si occupi specificamente del Medioriente. Occorre forza e
autorevolezza per occuparsene ed essere ascoltati. Forse occorre semplicemente una
politica tout court.