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La Melancolia di Dürer: presentimento del cambiamento

Capita a volta di ascoltare grandi studiosi che sono anche grandi comunicatori, in grado di trasmettere in pochi minuti e in poche parole concetti e temi su cui i colleghi hanno speso fiumi di inchiostro. Con queste persone la divulgazione non è più, o non è solo, semplificazione per i non addetti alla materia, ma è come una sorta di contagio: trasmettono curiosità e passione, voglia di apprendere e di approfondire.
A me è successo assistendo anni fa allo spettacolo “Variazioni sul cielo”, sul palco del Teatro Comunale Margherita Hack narrava le difficoltà e lo stupore di fronte ai misteri del cosmo e sfiorava con delicata semplicità teorie complesse come quella del multiuniverso, senza alcuna banalizzazione. È accaduto di nuovo giovedì pomeriggio ascoltando nel Salone dei Mesi di Schifanoia Massimo Cacciari interpretare l’incisione “Melencolia” di Albrecht Dürer.
L’occasione è stata l’apertura del Convegno “La “Melencolia” di Albrecht Dürer 500 anni dopo (1514-2014)”, che è appena terminato: un modo per “festeggiare il compleanno di questa figura alata, enigmatica, sofisticata e complessa”, come l’ha definita Andrea Pinotti – docente di Estetica presso l’Università degli studi di Milano – che dopo 500 anni conserva ancora intatta la sua potenza espressiva e simbolica.
A precedere l’intervento di Cacciari sono state le parole di Aby Warburg – citato dal direttore dell’Istituto Studi Rinascimentali Marco Bertozzi – che con il suo saggio “Arte italiana e astrologia internazionale nel Palazzo Schifanoia di Ferrara” ha reso celebri gli affreschi astrologici del Salone: “un foglio di conforto umanistico contro il timore di Saturno”, la “melancolia sprofondata in sé stessa”, così il celebre intellettuale tedesco descriveva l’incisione raffigurante lo spirito dell’artista nel momento creativo, un “genio pensieroso all’opera”.
Cacciari ne ha dato invece un’interpretazione “epocale” perché “immagini di questo tipo non sono indovinelli di cui bisogna trovare la soluzione”, non per niente “è una delle opere che più mi inquietano al mondo”, ha confessato. Il filosofo ha passato in rassegna gli elementi dell’incisione partendo dalla cometa, quella stessa cometa che in quegli anni appare nei cieli del Nord Europa e da sempre è ritenuta un segno, che nello stesso tempo “annuncia e pone fine”. La figura in primo piano non è solo l’artista, ma “un genio alato, che ha in sé qualcosa di demiurgico”, come dimostra la combinazione numerica del quadrato magico che la sovrasta, che è la stessa del Timeo platonico. Ai suoi piedi e nelle sue mani un libro e strumenti che giacciono inerti, inutili e disordinati: “un ‘mucchio’ di buoni strumenti, utilizzabili, ma inutilizzati”, come le chiavi che porta alla cintura. Secondo Cacciari questa figura è “un grande ordinatore, costruttore che non costruisce più, non disigilla più, è inoperoso”. Tuttavia “è ben desto, attende, guarda e anela” verso la luce della cometa, “pre-sente il cambiamento che quella cometa annuncia”. Il suo tempo dunque è passato, ma questa figura alata rimane “monumentale perché finita, nel senso di compiuta non fallita”. La drammaticità di quest’opera starebbe proprio qui: la cometa non è un segno apocalittico, non porta la fine dei tempi, ma una renovatio, un cambiamento d’epoca: “crisi e rinnovamento stanno insieme”, ecco il significato dell’arcobaleno che quasi la incornicia. Di questa renovatio è emblema anche il putto che incide la tavoletta: anche lui è un essere alato, ma per poter compiere questo rinnovamento deve crescere e diventare “tanto forte da poter compiere la scalata” di quella scala di legno che gli sta a fianco.
In questa incisione dunque non si può leggere solo “un programma definito che bisogna scoprire come un indovinello”, come per tutte le immagini segno – nel senso di semata – dei propri tempi esistono più piani di lettura: qui sono raffigurati “un ordine che si va compiendo, che è già compiuto, ma anche i segni della rinascita”. “Non dimentichiamoci – aveva premesso Cacciari – che di lì a 3 anni avrebbe avuto inizio la Riforma” e Lutero avrebbe affisso le sue 95 tesi alle porte della cattedrale di Wittemberg.

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CALENDARIO DELL’AVVENTO
L’Annunciazione secondo Erri De Luca

Si avvicina il Natale e noi della redazione di FerraraItalia abbiamo pensato a un regalo per voi che ci leggete da ormai più di un anno. Fin dall’inizio abbiamo cercato di raccontarvi giorno per giorno storie e vicende da un punto di vista inusuale, così abbiamo immaginato un originale calendario dell’Avvento letterario, attraverso il quale ogni giorno da qui al 24 dicembre proporremo un racconto, una fiaba, un aneddoto, una poesia, una filastrocca, che parli del Natale.

Partiamo dunque dal principio: dall’Annunciazione. Ma lo facciamo, appunto, da una prospettiva particolare: attraverso la testimonianza di Maria. Non l’icona sacra, non l’Annunciata quasi imperturbabile di Antonello da Messina, ma Miriam, la fanciulla ebrea di Galilea che avrà il coraggio di essere vergine e madre, figlia del suo Figlio. A dar voce a Miriam/Maria, “operaia della natività” e “fabbrica di scintille”, come lui stesso la descrive, è Erri De Luca nel delicato e dolcissimo piccolo grande racconto “In nome della madre” (Feltrinelli 2006).

«La voce del messaggero era arrivata insieme a un colpo d’aria. Mi ero alzata per chiudere le imposte e appena in piedi sono stata coperta da un vento, da una polvere celeste, da chiudere gli occhi. Il vento di marzo in Galilea viene da nord, dai monti del Libano e dal Golan. Porta bel tempo, fa sbattere le porte e gonfia la stuoia degli ingressi, che sembra incinta. In braccio a quel vento la voce e la figura di un uomo stavano davanti a me.
Nella nostra storia sacra gli angeli hanno un normale corpo umano, non li distingui. Si sa che sono loro quando se ne vanno. Lasciano un dono e pure una mancanza. Neanche Abramo li ha riconosciuti alle querce di Mamre, li ha presi per viandanti. Lasciano parole che sono semi, trasformano un corpo di donna in zolla di terra.
Ero in piedi e l’ho visto contro luce davanti alla finestra. Ho abbassato gli occhi che avevo riaperto. Sono sposa promessa e non devo guardare in faccia gli uomini. Le sue prime parole sul mio spavento sono state: “Shalom Miriam”. Prima che potessi gridare, chiamare aiuto contro lo sconosciuto, penetrato nella mia stanza, quelle parole mi hanno tenuto ferma: “Shalom Miriam”, quelle con cui Iosef si era rivolto a me nel giorno del fidanzamento. “Shalom lekhà” (Pace a te, ndr), avevo risposto allora. Ma oggi no, oggi non ho potuto staccare una sillaba dal labbro. Sono rimasta muta. Era tutta l’accoglienza che gli serviva, mi ha annunciato il figlio. Destinato a grandi cose, a salvezze, ma ho badato poco alle promesse. In corpo, nel mio grembo si era fatto spazio. Una piccola anfora di argilla ancora fresca si è posata nell’incavo del ventre».

Comincia così con “l’accensione della natività nel corpo femminile” il racconto di una gravidanza avventurosa, portata avanti da una ragazza che sceglie di sfidare ogni costume e ogni legge di allora e che ne avrà ragione.

Un capitale inagito

Il Rapporto Censis del 2014, presentato a Roma qualche giorno fa, propone spunti di riflessione sociologica ben più ricchi di quelli sintetizzati nelle consuete note di stampa. Per questo, ogni anno cerco di ascoltare in diretta la presentazione del Rapporto, lasciandomi attraversare dalle mille suggestioni che incrociano i miei “lavori in corso”. Del resto, sono proprio le infinite connessioni possibili tra i fenomeni a determinare il fascino del pensiero sociologico.
Dal Rapporto esce un quadro preoccupante: una società molto differenziata, molecolare, ad alta soggettività, che galleggia su antiche mediocrità e in cui i singoli soggetti sono, a dir poco, a disagio. Il concetto di capitale inagito mi pare una delle immagini chiave del Rapporto. Se il capitale può essere considerato come moneta in movimento, ci troviamo in una grave fase di stagnazione: né il capitale delle persone, né quello delle imprese, né il capitale finanziario, né quello culturale trovano terreni per esprimersi. Così i capitali, pure esistenti, restano congelati per l’assenza di aspettative che permea i diversi mondi.
In assenza di riferimenti e di orientamento e in un clima di pesante incertezza, prevale l’adattamento alla mediocrità: le persone tengono denaro liquido per fronteggiare eventuali imprevisti, le imprese non investono.
Il Rapporto descrive una società che non sa pensare in termini sistemici, in cui aumenta la solitudine degli individui che, non potendo scegliere una direzione, vagano distribuendosi in mondi che non fanno sistema, rinunciando a investimenti progettuali e collettivi. Così, il mondo della gente comune, pure esprimendo vitalità, è incapace di produrre azioni, vive nella sua rabbia, e non sa andare oltre. Non è una moltitudine passiva quella descritta, perché sa scegliere (pensiamo alla capacità di sopravvivenza di fronte alla contrazione delle risorse), manifesta interessi in diversi campi, ma non va oltre il livello individuale. Gli individui esprimono bassa fiducia nel prossimo, solo un quinto della popolazione sente di potersi fidare degli altri, trascorrono una quantità di tempo in solitudine, sono sotto occupati, esprimono ansia per il futuro (solo il 17% si sente abbastanza sicuro), attribuiscono un bassissimo valore all’intelligenza (solo il 7%, la percentuale più bassa nel quadro europeo).
Come si fa a mobilizzare il capitale inagito, ad invertire questa deflazione delle aspettative, in un contesto in cui la politica è tutta impegnata in una lotta interna allo Stato e all’occupazione dello spazio istituzionale? E’ questa la domanda che propone De Rita, che paventa tre rischi: quello di un secessionismo sommerso, un pericolo di populismo, un pericolo di un autoritarismo soft. Al contrario servirebbe una politica in grado di ricostruire legami sociali, di ridare energie allo sviluppo, non appiattendosi sull’attesa di qualche debole segno di ripresa.
Ma, all’indomani dell’ennesimo “sacco di Roma”, difficile immaginare una palingenetica rinascita. Né mi convince il richiamo ai corpi intermedi come via di aggregazione, in polemica con l’attuale ridimensionamento del loro ruolo ad opera di una politica decisionista, a dire il vero più a parole che nei fatti. Il tema della ricostruzione dei legami sociali, erosi da molti fattori sociali ed economici che riguardano la profondità del cambiamento epocale in cui ci troviamo, resta il tema di riflessione. Ciò nella consapevolezza che, per citare il Rapporto, la società “cambia non attraverso svolte (momenti magici decisivi), ma attraverso processi di transizione, necessariamente lenti e silenziosi”.

Maura Franchi è laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing, Marketing del Prodotto Tipico. I principali temi di ricerca riguardano i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le tendenze e i significati dell’alimentazione.
maura.franchi@gmail.com

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SETTIMO GIORNO
Politica alla frutta, case sfitte e senzatetto: c’è qualcosa che non va

D’accordo, sono collerico, intransigente, estremista, pessimista, o, come dicevano alcuni compagni (quando esistevano ancora) “catastrofista e avventurista”. Ero, insomma, un rivoluzionario inaccettabile all’interno dei partiti moderati e borghesi del nostro Paese, nessuno escluso. Ricordo un congresso del Pci a Roma quando era cominciata la lunga marcia dei miglioristi impegnati a togliere di mezzo i massimalisti-settari-giacobini e rivedo, là nella platea del teatro che ospitava l’assemblea, rivedo Umberto Terracini, vecchio amico con il quale avevamo fatto alcuni importati processi, l’ultimo quello della risiera di San Sabba a Trieste, era là il povero Umberto, nessuno era al suo fianco, né dietro né davanti in una sala gremita a dimostrare la solitudine di chi è capace di pensare: gli andai vicino e lo abbracciai. Come va, Umberto, gli chiesi e lui girò la testa di fianco a sinistra e poi a destra e rispose, ecco, vedi come sto, mi hanno lasciato solo i compagni: Umberto era l’uomo che aveva scritto la nostra Costituzione, la più liberale, aperta e moderna al mondo.
Fatto questo doveroso autodafè, oggi posso aggiungere che purtroppo avevo ragione e, sinceramente, essere cassandre è un mestiere non molto gratificante. Ma tant’è, proviamo a fare questo compitino settimanale senza piangersi troppo addosso.
LA FRUTTA – Siamo alla frutta, forse al caffè, l’Italia è in ginocchio, ma non ci sono le forze per rimetterlo in piedi, il nostro è un paese affondato nelle deiezioni di schiere di disonesti, tutti d’accordo nel derubare e derubarsi a vicenda e non si creda che sia possibile circoscrivere la cacca a Roma, purtroppo il guano è dovunque, anche nelle nostre virtuose province. Il famoso modello emiliano-romagnolo? Pfui! Finito, anche qui la poltrona è il simbolo e la meta di ragazzotti a cui la politica serve per fare una misera ieri dal giornalaio una signora mia amica, basta – ha detto – bisogna dare in mano il paese a un solo uomo, abbiamo già avuto Mussolini, ho risposto,, è lo stesso, ha ribadito. Ecco il fascismo che è avanzato prepotente, ho pensato, ma non si può più fare una sola marcia su Roma, troppe marce in tutte le direzioni. Ci vorrebbe una vera rivoluzione, ma chi la fa? La Lega? Ma va. La faranno gli ex sindaci, bocciati come amministratori ma promossi, chissà in base a che cosa, a sagaci managers.
LE ABITAZIONI – Nelle nostre città ci sono centinaia di migliaia di abitazioni vuote, molte mai occupate e centinaia di migliaia invendute, eppure strilliamo che bisogna riprendere a costruire per dare fiato al mercato immobiliare. I senzatetto? Ci penseranno la cariche della polizia ad allontanarli. Mi pare che ci sia qualcosa che non funziona.
LA EKPHRASI – Estrapolo la parola da un veloce depliant trovato al bar come invito turistico per la grande mostra sul Bastianino che si apre ai Diamanti. Ora tutti sanno che cosa significa “ekpfrasi”, parola coniata negli anni Trenta dal grande studioso d’arte Roberto Longhi, è un vocabolo entrato prepotentemente anche nel nostro lessico, familiare e popolare, la signora Giuseppina l’ha sempre sulle labbra, anche quando si rivolge al nipotino “ciò, Radames vam a tor un’ekphrasi.” E quanta ne debbo prendere, nonna?, “mezz chilo, va là”. Ma è il simpatico depliantino a spiegarci l’arcano: “i lampi sono quelli che agitano una scena creativa post rinascimentale e controriforiformata che si è infoscata”. Finalmente chiaro. Speriamo che il turista non s’incavoli.

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IL FATTO
Parentesi Brevi
e storie Semplici

Era già tutto previsto. Il feeling fra la Spal e il suo allenatore Oscar Brevi non è mai scattato. Incomprensioni e tensioni sono iniziate già dall’estate e si sono trascinate durante i cinque mesi di permanenza a Ferrara del mister milanese. Un carattere chiuso, schivo, poco incline alla socialità, un atteggiamento apparentemente distaccato la domenica quando dalla panca osserva la squadra senza mai concedere alla platea la sensazione di trascinare i giocatori con i suoi moniti o le sue indicazioni, una scarsa attitudine alle relazioni pubbliche: tutto questo ha impedito che fra il tecnico e l’ambiente spallino scoccasse la scintilla. C’è stato un momento di euforia quando la Spal – apparentemente archiviate le iniziali difficoltà – ha inanellato una significativa serie di risultati utili, sino a issarsi al vertice della graduatoria. Ma nell’ultimo mese e mezzo la squadra è andata a precipizio sino a farsi risucchiare dalle ultime. Così come da tanti pronosticato e da molti auspicato Brevi è stato esonerato: come usualmente avviene è l’allenatore a pagare il conto per tutti.

Oscar Brevi è da poche ore un ex, una figurina della Spal che arricchisce le troppe pagine amare degli anni Duemila. Nel secolo nuovo la Spal non ha ancora vinto nulla: ha ottenuto una promozione per ripescaggio in C1 nel 2008, è poi precipitata in serie D causa la mancata iscrizione del 2012, si è ritrovata in Seconda divisione (ex C2) lo scorso anno grazie alla fusione con la Giacomense e ha conservato a giugno la permanenza nella Lega Pro unica con un faticato ottavo posto, l’ultimo utile per non risprofondare fra i dilettanti. Ora, come a ogni cambio di timoniere, si aprirà un nuova ciclo e con esso rifiorirà la speranza. Speriamo si accompagni finalmente a orizzonti di gloria.

Il brano intonato: Riccardo Cocciante, Era già tutto previsto

AGGIORNAMENTO DELLE 19
E’ Leonardo Semplici, 47 anni, già tecnico di Figline Valdarno e Fiorentina Primavera, il nuovo allenatore della Spal

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IL FATTO
Un ‘think tank’. E il ritorno di tribuna politica con Soffritti, Sateriale e Tagliani

Nel mondo anglosassone esistono ormai da più di 100 anni, ma l’espressione è stata coniata negli Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale per denominare le sezioni speciali del Dipartimento della Difesa formate da scienziati, ufficiali ed esperti allo scopo di ragionare sull’andamento del conflitto e sulle prospettive di lungo periodo: da qui il gioco di parole ‘think’ (pensiero) ‘tank’(serbatoio ma anche carro armato). Nel panorama politico americano questi organismi assicurano dati, informazioni, consigli e previsioni ai decisori pubblici, analizzano la situazione, ma rimangono un passo indietro rispetto allo scontro politico quotidiano, ragionano in termini di strategie, scenari e produzione di ricerca e idee. Ma se i think tank statunitensi hanno la funzione di centri di ricerca, dibattito e riflessione sulle politiche pubbliche, economiche, industriali, in Italia – dove sono una realtà relativamente recente – sembra essersi oramai affermato il modello del think tank personale: una sorta di nuovo consigliere del Principe, da ItalianiEuropei a FareFuturo, da Folder di Antonio Di Pietro a Mezzogiorno Europa, nato per volontà dell’attuale Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
“Pluralismo e dissenso”, il think tank ferrarese presentato in conferenza stampa dallo storico esponente dei Radicali cittadini Mario Zamorani e dal giovane Paolo Niccolò Giubelli, si rifà a modelli del calibro dell’Istituto Bruno Leoni e sembra perciò voler tornare al modello anglosassone: uno strumento informale di elaborazione e discussione, un gruppo di persone che vogliono approfondire temi e proporre soluzioni, essere di stimolo agli amministratori cittadini sulle politiche locali, “creare un’agenda politica”, come ha affermato Zamorani. Il nome nasce dalla volontà di creare uno spazio politicamente trasversale in cui poter parlare “in maniera pluralistica” e in cui dare voce al dissenso “poco accettato nelle formazioni politiche odierne”. Per ora ci sono un sito internet (pluralismoedissenso.altervista.org) e un gruppo di circa dodici aderenti, fra i quali: Sergio Caselli, Ilaria Baraldi, Leonardo Fiorentini, Romeo Savini, Corrado Padovani, Giorgio Rambaldi e Pasquale Longobucco. Inoltre ci sono già in cantiere le prime iniziative pubbliche, a partire da un ciclo di incontri come “tentativo di lettura degli ultimi 31 anni di storia ferrarese”, continua Zamorani, 31 come la somma degli anni di governo dei tre sindaci invitati: i 16 anni di Roberto Soffritti, i 10 di Gaetano Sateriale e i 5 del primo mandato di Tiziano Tagliani. La modalità scelta è quella delle “prime tribune politiche televisive in bianco e nero” con il politico sottoposto al “fuoco di fila” di diversi giornalisti, in questo caso dei principali quotidiani locali, le cui domande non saranno su un tema specifico predefinito, ma avranno lo scopo di far emergere “gli elementi caratterizzanti positivi e negativi” di ciascuna amministrazione e, alla fine, “come è cambiata Ferrara in questi anni”. Il primo a sottoporsi a questo fuoco incrociato, il 12 dicembre alle 17 nella Sala dell’Arengo in Municipio, sarà Roberto Soffritti, in gennaio toccherà poi a Sateriale, infine dovrebbe rispondere Tagliani, che però non ha ancora dato conferme ufficiali. Tutti gli incontri saranno aperti al pubblico, verranno ripresi e poi resi disponibili sul sito del think tank.

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La precaria arte dell’equilibrio

L’avvocato Guido Guerrieri, quello autoironico e brillante dei romanzi precedenti di Gianrico Carofiglio e protagonista de “La regola dell’equilibrio” (Einaudi, 2014), si è incupito. Potrebbe essere malato, per un giorno crede di esserlo, e quel giorno cambierà tutti quelli che verranno dopo perchè non si può riportare indietro la lancetta, fosse anche solo di ventiquattr’ore. Fragilità e precarietà, pensieri per quello che e per quello che non, se le analisi non fossero state sbagliate.
Ci sono momenti in cui Guido fatica a mettere ordine dentro di sè, gli si ripropone il passato fatto di luoghi non più suoi e ora abitati da altri, un senso di estaraneità lo manda lontano, lontano anche da Sara, la sua ex moglie che è diventata moglie di qualcun altro. Eppure si erano amati, avevano riso assieme, anche sofferto, com’è possibile che il tempo annichilisca i legami che ci erano sembrati solidi e veri quando li stavamo vivendo.
Guido accetta di difendere un giudice accusato di corruzione, non è facile trovare equilibrio fra etica, deontologia e ricerca della verità. L’equilibrata interpretazione dei fatti che Guido crede di avere seguito, salta e saltano molti altri meccanismi in equilibrio fino a quel momento. La realtà non si adatta più a quell’immagine di se stesso, non c’è corrispondenza, la realtà che Guido scopre è insopportabile, troppo pesante. La regola dell’equilibrio morale “consiste nel non mentire a noi stessi sul significato e sulle ragioni di quello che facciamo e di quello che non facciamo. Consiste nel non cercare giustificazioni, nel non manipolare il racconto che facciamo di noi a noi stessi e agli altri”. Tutto questo Guido lo sa quando si trova davanti a una scelta professionale e morale difficile, un dilemma acuto, ha bisogno, allora, di rifugiarsi nelle sue nicchie, la libreria notturna “Osteria del caffellatte” e il sacco da boxe con cui il dialogo è più che altro un cazzotto verso se stesso. Il tempo, come Guido arriva a capire, non è la conta lineare dei giorni, ma sono alcuni fatti che accadono e ci permettono di quantificarlo dandogli un significato, questa è la vera unità di misura, la vera conta che ti fa vedere quello che avevi dato per scontato.
Annapaola, un’investigatrice privata che lo aiuta nelle indagini, è quanto di più lontano ci possa essere da una donna ferma e rassicurante, è un punto in perenne movimento, è ambigua e maledettamente attraente. Guido se ne potrebbe innamorare, c’è complicità tra di loro e, a un certo punto, tutto sarà finalmente più chiaro, quasi in equilibrio.

‘Giorni felici’ con la strepitosa Giulia Lazzarini

STANDING OVATION: I PIU’ ACCLAMATI SPETTACOLI TEATRALI DEL XXI SECOLO
Giorni felici, di Samuel Beckett, regia di Carlo Battistoni, Teatro Comunale di Ferrara, dal 18 al 22 aprile 2001

Finale col botto per la stagione di prosa 2000/2001 del Teatro Comunale: “Giorni felici”, del maestro del teatro dell’assurdo Samuel Beckett, nell’ormai quasi mitica interpretazione di Giulia Lazzarini e con la memorabile regia di Giorgio Strehler (qui ripresa da Carlo Battistoni). In merito a quest’opera del grande drammaturgo irlandese, ebbe ad affermare nel 1963 il regista pioniere del teatro dell’assurdo Roger Blin: «Il problema principale di questo testo è evidentemente quello dell’interpretazione, di trovare un’attrice capace di recitare questa parte enorme». Circa vent’anni fa Giulia Lazzarini vinse la sua formidabile sfida con un’interpretazione magistrale.
Samuel Beckett completò la stesura di “Happy Days” nel maggio del 1961. La “prima” mondiale ebbe luogo a New York, nel settembre di quell’anno, al Cherry Lane Theatre per la regia di Alan Schneider e con l’interpretazione di Ruth White. Alla fine del 1962, Beckett concluse la traduzione del testo in francese: “Oh les beaux jours”, che fornì al regista Roger Blin, il quale lo allestì nel settembre del 1963 alla Biennale di Venezia e, subito dopo, all’Odéon di Parigi, con l’interpretazione di Madeleine Renaud. La versione italiana: “Giorni felici”, andò in scena nell’aprile del 1965 al Teatro Gobetti; la regia del dramma, presentato dal “Teatro Stabile di Torino”, venne affidata a Roger Blin e il ruolo della protagonista a Laura Adani. E nel maggio del 1982 toccò a Giorgio Strehler fornire la propria versione al “Piccolo” di Milano, come s’è detto con la strepitosa interpretazione di Giulia Lazzarini.
La trama, se così può essere definita, è implosiva. Winnie, la protagonista, interrata fino alla cintola su una montagnola erbosa nel primo atto e fino al collo nel secondo, è alla ricerca di piccole gioie, di minuscole possibilità di consolazione. D’altra parte, vicino a lei sta Willie, suo marito, distratto e apatico, che non reagisce alle sollecitazioni della moglie. Willie continua a leggere gli annunci sul giornale, poi nel secondo atto appare vestito elegantemente, con guanti e cilindro, dunque caricaturale. Winnie sa che un tempo avrebbe potuto renderlo felice, ora sa di non essere più quella di una volta, così non le resta che trascorrere i suoi giorni cercando una fittizia felicità con parole vuote e oggetti inutili. È il fallimento dell’amore: fuori di noi stessi c’è il nulla. Le parole del monologo di Winnie sono quelle con cui «si ammantano di importanza le poche cose insignificanti che riempiono la nostra giornata, con cui si nasconde a se stessi, prima ancora che agli altri, la realtà della propria condizione».

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IL FATTO
Unife fa 13%, in forte aumento le matricole

Aumento delle immatricolazioni, problemi della ricerca scientifica, finanziamenti europei e prospettive derivanti dalle prossime leggi governative, oltre alle già citate criticità degli ultimi anni, sono stati i temi principali affrontati ieri dal rettore Pasquale Nappi al Teatro “Abbado” durante l’annuale cerimonia di inaugurazione dell’Anno accademico., 624° di attività. Nappi ha annunciato con orgoglio il significativo aumento degli immatricolati di Unife (+13% rispetto al 2013-14), un dato in assoluta controtendenza rispetto alla media nazionale e di grande importanza per il mantenimento dell’eccellente numero di iscritti all’Università di Ferrara, forte delle sue 17.500 presenze (delle quali la metà fuori sede).
Molti docenti dell’Università e i direttori dei dodici dipartimenti hanno fatto da cornice sul suggestivo palcoscenico alla tradizionale relazione del rettore, giunto al suo quinto ed ultimo anno di mandato. Anni caratterizzati da non pochi eventi e fatti significativi e spesso difficili (terremoto e riforma Gelmini su tutti) che sono serviti da spunto per il suo discorso.

I numeri sciorinati sul palco del Comunale confermano l’importanza del conseguimento di una laurea per l’ingresso nel mondo del lavoro e sottolineano la centralità delle attività accademiche, soprattutto quelle che concernano la ricerca, quest’ultima dalla grande tradizione in Italia ma anno per anno, come risaputo, sempre più colpita da continui tagli. Nappi assicura che nonostante le difficoltà a cui ancora si dovrà andare incontro nel prossimo futuro, Unife potrà contare su bandi e finanziamenti che sbloccheranno diversi fondi per nuove apparecchiature e borse di studio, menzionando in questo versante gli ottimi risultati raggiunti dal Tecnopolo.

Triste il dato sui finanziamenti pubblici all’Università per il nostro Paese che ci confina tra gli ultimi posti in europa, obbligandoci a trovare urgentemente soluzioni e nuove strategie per non perdere la competitività con il resto del mondo. Su questo versante, tuttavia, il Rettore non ha nascosto la sua speranza di intravedere uno spiraglio di miglioramento con le prossime mosse attuate dal Governo: un monito, quello di Nappi, che nonostante la consapevolezza della difficile fase che tutto il mondo sta attraversando si possa cominciare, senza più tagli o modifiche in corsa, ad attuare piani d’azione verso il mondo delle Università volti a far ripartire l’intera macchina. In quest’ottica, viene ben accolto il patto di stabilità promosso dal governo attraverso il quale si spera di poter tornare ad assumere più personale docente a tempo indeterminato, invertendo una rotta che prosegue da anni (rispetto al -15% di tagli al corpo docenti a livello nazionale, Unife può “vantare” un -7,5%) e che potrebbe tornare a far crescere, anche qualitativamente e con un adeguato ricambio generazionale, l’intero settore. A conclusione del suo intervento, il rettore menziona i grandi progetti di Unife per il prossimo futuro, tra i quali il concorso di progettazione per la nuova Scuola di medicina a Cona, il parcheggio a copertura fotovoltaica del S. Anna e la rivalutazione degli edifici storici di via Savonarola, pensati come spazi molto più aperti e accessibili, oltre alla recente scoperta di tracce decorative quattrocentesca rinvenute nella Chiesa di Santa Agnesina.

A confermare l’interesse del governo nel risollevare l’Università è stato l’”ospite” Dario Franceschini, ministro dei Beni e della attività culturali e del turismo, dettosi orgoglioso di “tornare nella mia città ma anche e soprattutto nella mia Università”. Il ministro ferrarese ha specificato che i dati illustrati rispecchiano la dura realtà ma che, nonostante tutto, è iniziata una (anche seppur lenta) inversione di tendenza. “Per troppo tempo”, afferma Franceschini, “si è pensato a come imitare i campus universitari, soprattutto quegli statunitensi, dimenticandoci che nel nostro Paese abbiamo vere e proprie città-campus e Ferrara ne è un grande esempio”, base dalla quale partire per rimettere l’università e la cultura al centro delle priorità, anche del governo. È tempo quindi di rivalutare il patrimonio culturale italiano anche mediante l’Università, considerando quindi quest’ultima e la cultura stessa come investimento non solo politico-istituzionale anche per preservare i tanti talenti che, altrimenti, continueranno a scappare dall’Italia. Franceschini ha concluso sottolineando come il nostro paese sia amato in tutto il mondo mentre noi lo amiamo sempre meno, una contraddizione che ci deve far aprire gli occhi per riuscire a “vedere l’Italia nello stesso magnifico modo con il quale la vedono i milioni di turisti che vengono a farci visita”.

È stato poi il turno del sindaco di Ferrara Tiziano Tagliani, interessato a sottolineare fortemente il grandissimo legame tra Unife e la città come valore aggiunto in tutti i sensi, dato importante considerato anche che non tutte le città sono universitarie, ma non ancora sufficiente: per il sindaco infatti una città-universitaria è tale solamente se l’interesse dell’una con l’altra è reciproco, “la città deve sentirsi università e l’università parte di un’identità cittadina, non in competizione”. E proprio sulla questione della competizione si è soffermato Tagliani, auspicando un mondo universitario sempre più improntato sulle alleanze e sulle collaborazioni piuttosto che sulle competizioni, soprattutto a livello regionale, che da sempre contraddistinguono il mondo accademico.

In conclusione dell’evento, il professore associato di Storia dell’Arte moderna Francesca Cappelletti ha tenuto la prolusione sul tema “Le ragioni della storia dell’arte. Ricerca universitaria, patrimonio culturale e territorio”, un ulteriore modo per sottolineare l’importanza della cultura nel nostro paese, spiegando dettagliatamente il ruolo fondamentale dell’arte negli ultimi secoli come ulteriore supporto alla ricerca scientifica e la valenza futura di questa disciplina sempre più incentrata sul legame saldo con territorio e società.
Importante infine la consegna del titolo di professore emerito a Arrigo Manfredini, ordinario di Istituzioni di Diritto romano e Diritto romano dell’Università di Ferrara, docente molto amato da molte generazioni di studenti (lo stesso Rettore afferma di aver sostenuto con lui l’esame al primo anno) e dal grande impegno scientifico ed istituzionale.

Tirando le somme, il 624° anno di attività per l’Università sarà sicuramente ancora soggetto a molte difficoltà, ma l’interesse e gli impegni presi dai relatori dell’evento lascia qualche lume di speranza per l’inizio di una nuova fase, più rosea, innovativa ed improntata sul futuro. Una cosa è certa: Unife è linfa vitale per Ferrara, un’isola felice per tanti studenti che hanno trovato in questa sede un punto di forza per formarsi e mettere le radici per la propria carriera. Gli ottimi risultati degli studenti che da sempre caratterizzano il prestigio di Unife devono essere supportati da provvedimenti che davvero puntino al miglioramento dell’instabile situazione odierna. Solo così potremo vantarci, davvero, di vivere in una città (per dirla con Tagliani) che realmente vive per l’Università, e viceversa.

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La Grande Cecità

È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio e il sentimento, l’emozione e la paura… Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile. “La Grande Bellezza”, Jep Gambardella

C’era una volta una bellezza imperiale, una cultura magistrale e unica, una fantasia indefinibile. C’era una volta una civiltà che aveva creato leggi e regole.
C’era una volta una storia fatta di vittorie e di conquiste, di primati e di grandi uomini, oratori, pensatori, architetti, scrittori, scultori, mecenati e artisti.
C’era una volta una città che costruiva i grandi acquedotti, che ospitava Michelangelo, Raffaello e Bernini. Una città di fiori, di canzoni, di Madonne affrescate agli angoli delle strade, di carrozze con i cavalli, di vento fresco che accarezzava capelli e cupole.
C’era una volta la città del cinema, della dolce vita, della bellezza. C’era una volta Roma.
Oggi che gli scavi che ritrovano il più grande bacino idrico mai ritrovato della Roma imperiale si mescolano a enormi scandali che la travolgono, siamo vicini a questa bellezza perduta ancora più di prima. Insieme a Jep Gambardella, che ne “La Grande Bellezza” ci riporta al pesante connubio tra memoria e sperpero che affanna questa meravigliosa città, a un film dal titolo antifrastico, usato cioè per rivelare la “grande bruttezza”, per raccontare, in maniera simile alla bellezza in disfacimento delle nature morte barocche, la vanitas vanitatum, la fatica di un mondo che fa perdere un sacco di tempo e che «accoglie tutti come un grande catino» (P. Sorrentino, Hanno tutti ragione, Feltrinelli), dove si confondono, fermentando l’uno nell’altro, alto e basso, grandezza e meschinità, musica sacra e ritmo techno. Un turbinio di bene e male.

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Jep Gambardella

In questo film, ora più che mai attuale, siamo persi nella vanità capitolina, in un mondo che si guarda vivere, spesso senza far nulla, proprio come Jep, che si perde e vaga/divaga tra inutili e frenetiche feste in terrazza, incontri vacui, maschere e apatia, sogni strani e camminate solitarie lungo il fiume Tevere. Crisi d’identità che ci attanaglia? Tentativo di ritrovare una spiritualità perduta come quella che solo nell’eterna Roma si può cercare e, magari, ritrovare? Un pensiero al niente rappresentato da questa società italiana ormai così drammatica e vicina al collasso, una realtà in cui viviamo a noi estranea e che molti non comprendono più?
Roma ci lascia sempre senza parole, nel bello e nel brutto, la capitale mondiale dei tramonti, del monumentale, della bellezza che incombe, ovunque, che da’ brividi e pretende venerazione, che scioglie le paure ma che ci lascia perplessi di fronte all’attuale contraddizione di un disfacimento di consumi e di moralità che fa molto male.
Ci si crede intellettuali, come alcuni degli amici di Jep, solo perché si leggono libri dai titoli altisonanti o perché non si ha o non si guarda la televisione, si vive in un disfacimento trasversale di una commedia-tragedia delle apparenze.

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La solitudine del protagonista
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Veduta del cupolone

Una Roma nascosta sfila in questo film, una Roma che c’era e c’è ancora ma che spesso vorremo ritrovare. Una bellezza che non sfugge ma che si confonde, che ci consuma nel dubbio di come si possa coniugare con tanta bruttezza. Non vogliamo dare giudizi politici o morali di alcun genere. Siamo solo confusi, spaventati da chi tale bellezza non vede.

La Grande Bellezza, di Paolo Sorrentino, con Italia/Francia, con Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli, Roberto Herlitzka, Isabella Ferrari, Giorgio Pasotti, Vernon Dobtcheff, Serena Grandi, Luca Marinelli, Giulia Di Quilio, Massimo Popolizio, Giorgia Ferrero, Pamela Villoresi, Carlo Buccirosso, Ivan Franek, Stefano Fregni, 2013, 142 mn

romanzo-criminale

LA PROVOCAZIONE
L’odore del marcio

“C’è del marcio in Danimarca”… Perfino troppo banale riportare la celebre frase shakespeariana per applicarla al “marcio” romano. L’intuisce subito il magistrato-scrittore Giancarlo de Cataldo che chiosa: “D’altronde, che a Roma ci fosse del marcio, era da tempo sotto gli occhi di tutti”

Ma che odore ha il marcio di Roma? Lo si ricava dalle impressionanti testimonianze raccolte nelle intercettazioni telefoniche che raccontano nell’uso straniante di una lingua “di mezzo” gli afrori, le puzze, le abitudini dei gregari dell’immenso marciume: ascelle mal lavate, piedi sporchi, fiati vinosi, perfino scoregge. Tutto l’armamentario di quegli uomini “veri” che ubbidiscono a coloro che intrattengono rapporti col mondo di sopra. E allora ecco che quella puzza viene coperta da profumi grevi, costosi e al feromone.
E intorno la desolazione di un marciume che prima che simbolico è reale: odor di carcere, di periferie abbandonate, di campi rom dove in una roulotte sgangherata possono vivere in otto.

Ricordate il famoso “medioevo prossimo venturo”? il celebre libro di Roberto Vacca che indicava lo sfaldamento dei grandi sistemi industriali e sociali.
Eppure il tempo attuale, il tempo romano è molto peggio di quel medioevo più pulito e meno disgustosamente puzzolente.

La cupola romana poi è il perfetto esempio di una società sessuofobica che incita alla prostituzione e al disprezzo totale verso la donna. La sua figura simbolo è la puttana, colei che deve indossare i panni della seduttrice e andare a battere per incastrare l’acquirente: “Devi vendere il prodotto amico mio, eh. Bisogna fare come le puttane adesso, mettiti la minigonna e vai a batte co’ questi”.

Infine il linguaggio di cui Filippo Ceccarelli procura un importante campionario su “La Repubblica” che sicuramente non ha la nobiltà del romanesco ma si mescida in una lingua gutturale, tronca, priva anche di quelle espressioni che dovrebbero, secondo le indicazioni dei linguisti, esprimere le esigenze di quel complesso sociale che è quello della borgata, del villaggio, di una società familiare o appena al di sopra della famiglia.

E all’ossessione delle tronche di cui Ceccarelli esibisce un campionario assai indicativo: “Piglià, pagà, comprà, prosciugà, rubbà” si intrecciano le grevi locuzioni sessuali dove ogni parola può essere commentata con “cazzo” con la frase principe per esprimere fastidio, noia, preoccupazione “non ce poi rompe er cazzo così, eh”. I soprannomi su cui svetta il “Cecato”–Carminati e via schifeggiando.

La domanda che molti di noi si potrebbero fare è questa. Possibile che anche le frange più estreme di una rappresentanza politica che copre tutto o quasi l’arco costituzionale o quasi possa essere stata sedotta da simili personaggi? Possibile che per fare affari si trascini nel marcio la prassi e i valori democratici? Sembrano domande ovvie, inutili e perfino melense. E forse lo sono se non si ragiona più secondo un punto di vista etico.

E allora la puzza del marcio t’afferra alla gola e non ti fa più respirare.
Altro che le denunce pasoliniane, altro che il pessimo riferimento agli scrittori che potrebbero aver influenzato questo modo di pensare e d’agire.

Wagner idolo assieme a Nietzsche della propaganda nazi-fascista, Pound uno straordinario poeta a cui si intitola una casa di estrema ed eversiva destra. E ora Tolkien e la sua “terra di mezzo”.
Pure fregnacce che vorrebbero “nobilitare” con un pensiero il marcio che c’è in Danimarca= Roma o l’Italia intera. Faremo tra poco così anche con Rimbaud mercante di schiavi e sommo poeta?

Ecco il punto. La cultura nella sua forma più nobile espressa da Goethe con il termine “Kultur” può e deve reagire a questa ulteriore umiliazione che gli infami della cupola romana vorrebbero – complice la modesta e tendenziosa stampa giornalistica di ogni versante, pur con le debite eccezioni – affibbiargli.

Fosse pure con la sfida con cui Farfarello il capo diavolo alla caccia dei violatori del mondo di sotto (l’inferno dantesco) inizia la sua caccia. I diavoli aspettano il cenno del capo: “Per l’argine sinistro volta dienno; / ma prima avea ciascun la lingua stretta / coi denti verso lor duca per cenno; / ed elli avea del cul fatto trombetta”

Mi scusino i miei venticinque lettori (forse meno) di questo linguaggio non proprio modello di lingua alta.
Ma all’indignazione le parole servono e debbono servire.

Lucio Scardino, porno-scrittura d’autore

Tra le numerose ormai performance cartacee di Lucio Scardino, focalizziamo lo zoom sul suo forte vertice letterario: “Doctor Jacki. Uno strano caso” (La Carmelina, 2010). Lucio Scardino riassembla con stile culturalmente scorretto uno dei capolavori del nuovo immaginario tecnoscientifico, all’epoca aurorale: il notissimo “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde” di Stevenson. Persino, secondo la cifra ben nota letterario-sociale dello Scardino letterato (più conosciuto come critico d’arte ed editore), innestata nel volume con particolare e non facile intuizione.

Certa icona modernissima del Doppio, simultaneamente esistenziale e strettamente scientifica (come appunto nel Dottor Jeckyll…) è ricombinata con formula ben calcolata sulla questione più civile e sociale della sessualità alternativa o variabile, quella gay o omosessuale nello specifico, oggi anni duemila, solo parzialmente risolta ed accettata socialmente.
Scardino convince appieno a livello letterario: nessuna ostentazione paraporno o trash, la penna è sempre di squisito estetismo per così dire sintetico, vocali e consonanti come fuochi d’artificio apparentemente solo spettacolari, invece giocattoli pronti alla detonazione, contro pregiudizi e infami buon sensi, di tutte le classi o gruppi sociali, anche quelli a volte eccessivamente auto referenti come alcune stesse associazioni d’area.
Insomma, la rotta poetica e culturale è quella individuale, anti-collettiva quasi, alla Oscar Wilde o alla Genet: la diversità sessuale evocata non come Ossessione della Normalità e della normalizzazione, ma come eresia personale e sociale: da qui, forse, il complementare e parallelo sfondo del romanzo di Stevenson. Libera scienza in libero stato e libera sessualità….
Certo substrato noir stesso attinge all’archetipo letterario: crea sia gothic ottocentesco che quasi dark del duemila, soft, suffragato da una ritmica della parola e della narrazione postmoderna e minimalista ma dopo il moderno… quasi insiemistica letteraria secondo le analisi magari di un Franco Rella o della stessa Nadia Fusini e – più attualmente, forse – dello stesso Vitaldo Conte, docente di Belle arti a Roma, promotore della Trans art letteraria e artistica “estrema”. Per una atopia raffinata e giustamente provocatoria alla luce del sole o del giorno… della parola e della sessualità libera interumana in quanto tale, al di là dei codici stessi soggettivi banalmente sociologici.
Lucio Scardino, noto editore ferrarese [vedi] e critico d’arte nazionale, ha all’attivo anche numerosi volumi poetici sempre di felice trasgressione linguistica e letteraria: in particolare, “Poesie erotiche e no” e “Suicidi tentati. Poesie risorgimentali e no” (entrambe Liberty House).
Ulteriormente da segnalare un exploit (invero poco evidenziato a Ferrara): Lucio Scardino recentemente incluso in una delle antologie (letteralmente) contemporanee più rilevanti e “sovversive” del nostro tempo (e per certo eterno buon senso delle caste e delle province letterarie).Ovvero “Le Parole tra gli uomini”, antologia di poesia “gay” da Saba al presente (Baldoni edizioni), segnaliamo solo alcuni nomi: Palazzeschi Aldo, De Pisis Filippo, Pasolini Pier Paolo, Testori Giovanni, Pecora Elio, Bellezza Dario [vedi]

*da Roby Guerra “Dizionario della letteratura ferrarese contemporanea”, Este Edition-La Carmelina, ebook 2012

politica-populismo

Eletti ed elettori, una pericolosa alternanza di diffidenza e populismo

Dopo l’ultimo incontro del ciclo Passato Prossimo con Piero Ignazi [vedi-link all’articolo] ci eravamo lasciati con il punto fermo della crisi del modello del partito di massa novecentesco e alcune domande sul processo di personalizzazione dei partiti italiani. Proprio dall’indebolimento del modello novecentesco di partito e dal tema del leader e del suo rapporto con gli elettori è partita l’analisi dell’appuntamento conclusivo di Passato Prossimo: “Populismo. Crisi della rappresentanza politica e partiti carismatici”, ospiti d’onore lo storico Giovanni Orsina, dell’Università Luiss di Roma, e il suo volume “Il berlusconismo nella storia d’Italia” (Marsilio, 2013).
Orsina sembra pensarla come Ignazi, la nostra peculiarità non sta nella crisi dei partiti del ‘900 o in un rapporto fra leader ed elettorato filtrato ormai quasi totalmente dai media, “l’unicum italiano è che in nessun altro Paese occidentale si ha una crisi politica, o meglio di un regime democratico, negli anni Novanta”: in altre parole Tangentopoli. È Tangentopoli, secondo Orsina, a far balzare improvvisamente il sistema italiano da una forma ancora molto basata sull’organizzazione e le strutture dei partiti a una basata sul “leader mediatico”.
Ma se Mani Pulite è la causa immediata della nascita politica di Berlusconi e del berlusconismo, Orsina è convinto che le radici di questa retorica antipolitica siano più profonde e necessitino di un’analisi di lungo periodo dei rapporti fra élite e popolo in Italia. La tesi di fondo del volume, infatti, è che il nostro Paese si caratterizzi per una profonda sfiducia reciproca fra élite politiche e istituzioni pubbliche da una parte, e ‘popolo’ dall’altra. La responsabilità di tale sfiducia andrebbe attribuita a élite sempre in cerca di soluzioni “ortopedico-pedagogiche”, come le definisce lo storico romano nel volume, per riformare le masse e costringerle ad accettare la modernità: un tentativo che accomunerebbe le classi dirigenti risorgimentali, il fascismo e la ‘repubblica dei partiti’ instaurata nel 1946. Nel 1994, l’imprenditore di Arcore avrebbe perciò avuto successo non solo per le sue risorse finanziarie o per il suo talento comunicativo, ma perché ha detto alla società italiana ciò che questa voleva sentirsi dire: che il problema italiano non era il popolo ma lo Stato e perciò era possibile e necessaria una nuova classe dirigente, formata di persone competenti ed estranee ai vecchi partiti. Il berlusconismo ha insomma ribaltato il paradigma di D’Azeglio “fatta l’Italia occorre fare gli italiani”, valido dall’Unità fino a quel momento, asserendo che la politica “non deve pretendere di essere migliore del Paese e di cambiarlo”. E forse questo è ciò che lo accomuna agli altri populismi italiani descritti nel volume “Il partito di Grillo” curato da Piergiorgio Corbetta e Elisabetta Gualmini dell’Istituto Cattaneo: quello moralizzante di Di Pietro, quello terrigno della Lega e quello delle reti web del comico genovese.
Secondo Orsina il problema è che le classi dirigenti italiane, piuttosto che pensare a come strutturare i meccanismi istituzionali, si sono sempre chieste ‘chi deve stare al potere’, perché le cose sarebbero funzionate e i problemi si sarebbero risolti solo con le élite giuste. Da qui la tendenza all’eticizzazione del discorso politico, con la divisione non più fra opinioni diverse, ma fra opinioni giuste e sbagliate, con queste ultime delegittimate ed estromesse dal dibattito: il che rappresenta il fallimento nella costruzione della dialettica politica.

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L’OPINIONE
Cari dirigenti del Pd e della Lega, questa è la vostra colpa

Pensiamo di averle viste tutte, ma poi arriva una nuova inchiesta che scoperchia un vaso di pandora della corruzione ancora più aberrante. Il sistema mafioso e criminale che governava Roma è al di là di ogni immaginazione. Lo schifo e la nausea crescono, ma le reazioni sono le stesse di sempre. C’è un ministro che si giustifica per aver partecipato ad una cena con commensali impresentabili. C’è il segretario del Pd che azzera gli organi dirigenti del partito romano. C’è il commissario designato, Matteo Orfini, che annuncia un repulisti generale e assemblee pubbliche. Ma nessuno risponde ad una domanda che ogni cittadino normale si fa. Come è stato possibile che due personaggi come Salvatore Buzzi e Massimo Carminati diventassero i padroni della politica e degli affari romani? Stiamo parlando di un assassino e di un ex terrorista organico alla famigerata banda della Magliana. Ha ragione Roberto Saviano: “Buzzi e Carminati, in qualsiasi altro Paese condurrebbero la loro vita lavorativa sotto una strettissima sorveglianza, per dimostrare con il loro comportamento che si può uscire diversi dal carcere.” E invece la politica e la Lega delle Cooperative ha concesso loro una fiducia cieca, senza esercitare un doveroso controllo. Questa è la vostra colpa, cari dirigenti della Lega e del Pd. Lo so che la destra è egemone in questa cloaca. Ma mi rivolgo alla mia parte perché è la mia storia che viene infangata, condivisa con milioni di persone oneste e perbene. Accadde anche con lo scandalo della Coop-costruttori più di vent’anni fa: nessuno vedeva, nessuno sapeva, nessuno parlava. E’ sempre più chiaro dove ci ha portato la denigrazione e l’oblio che circondò la denuncia sulla ‘questione morale’ fatta da Enrico Berlinguer nel 1981. E c’è ancora qualcuno che osa offendere con i titoli di giustizialismo e moralismo chi chiede onestà e moralità! Se non c’è uno scatto per cambiare verso. Se l’indignazione non si trasforma in azione politica per spazzare via questo letame, il dato dell’astensione registrato nella nostra regione diventerà nazionale alle prossime elezioni. E allora non varrà dire che è un fatto secondario, perché la tragedia seppellirà con le sue gravi conseguenze queste dichiarazioni sciocche e irresponsabili.

Fiorenzo Baratelli è direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara

Antico e nuovo testamento nell’arte ferrarese della Pinacoteca

da: Associazione Guide Turistiche di Ferrara e Provincia

La Pinacoteca Nazionale di Ferrara offrirà ai visitatori l’opportunità di ammirare, ancora una volta in un’ottica diversa, le opere esposte nei suggestivi saloni del Palazzo dei Diamanti.
Domenica 7 dicembre si potrà rivivere un affascinante viaggio nel tempo, attraverso l’analisi delle antiche figure di patriarchi e santi dell’Antico e del Nuovo Testamento, protagoniste dei quadri dal Medioevo fino all’età barocca.
La visita a cura dell’Associazione Guide Turistiche di Ferrara e Provincia permetterà di conoscere curiosità ed aneddoti caratteristici dello spirito di ogni epoca e che, generalmente, sfuggono all’osservazione.
Per il tour tematico della durata di un’ora e mezza circa non è richiesta la prenotazione.
Il luogo di ritrovo previsto è il cortile del Palazzo dei Diamanti alle ore 10:15 con ingresso alla Pinacoteca alle ore 10:30.
Il prezzo della visita è di 4 euro a persona; gratuito per i bambini fino a 11 anni.
L’accesso al Museo, in conformità al decreto Franceschini che stabilisce l’ingresso gratuito nei musei statali ogni prima domenica del mese, sarà libero.
L’iniziativa in calendario sarà seguita l’anno prossimo da altre visite guidate tematiche al fine di rendere ancora più affascinanti, anche per il pubblico ferrarese, le splendide opere racchiuse all’interno della Pinacoteca.

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L’OPINIONE
L’inglese aziendal-finanziario del professor Renzi

Propongo un dialogo immaginario fra due rottamatori a proposito della cosiddetta buona scuola di Matteo Renzi.
Per comodità userò le loro iniziali anziché i loro nomi; quelle del primo rottamatore sono PD (che sta per Primo Decisini) e quelle del secondo sono PDL (cioè Pier Devoto Liberista).
P.D: Ci vediamo tomorrow al barcamp per organizzare il crowfunding?
F.I: Ok boy, sinceramente avrei proposto un world café per un Fab Lab .
P.D.: Ahimé non possiedo ancora il know how e purtroppo conosco solo i Fab Four.
F.I.: Sei un bonus a nulla!
P.D.: Se io sono old perché non conosco il significato di B.Y.O.D., tu sei proprio un hackaton!
F.I.: Non ti si può dire N.E.E.T.: hai la coding di paglia!
P.D.: Basta così: nonostante la spending review ti confesso che sei il mio user friendly preferito.
F.I.: Se vuoi essere cool fatti un work in progress tutto tuo!
P.D.: Se non la smetti di offendere chiamerò la policy .
F.I.: Sai cosa ti dico: Voucher a quel paese!!!
Ho scelto questo dialogo introduttivo, zeppo di termini inglesi (usati anche a sproposito) perché nella proposta cosiddetta di “buona scuola” del Presidente del consiglio Matteo Renzi succede la stessa identica cosa.
Nonostante si premetta che la proposta è stata “offerta ai cittadini italiani: ai genitori e ai nonni che ogni mattina accompagnano i loro figli e nipoti a scuola; ai fratelli e alle sorelle maggiori che sono già all’università; a chi lavora nella scuola o a chi sogna di farlo un giorno; ai sindaci e a quanti investono sul territorio”, l’impiego massiccio del linguaggio inglese non è affatto alla portata di tutti.
Sentendomi il primo degli ignoranti, mi rivolgo a coloro i quali non conoscono a fondo il significato di alcune parole contenute nel documento la “buona scuola”, per offrirne una traduzione e poi ipotizzare il senso del loro impiego.

Le frasi fra virgolette sono prese letteralmente dalla proposta “La Buona Scuola”:
Barcamp: rete internazionale di non conferenze aperte i cui contenuti sono proposti dai partecipanti stessi. Gli eventi si occupano soprattutto di temi legati alle innovazioni sull’uso del world wide web, del software libero e delle reti sociali.
Blended learning: nella ricerca educativa si riferisce ad un mix di ambienti d’apprendimento diversi.
Bring your own device: la traduzione è “porta il tuo dispositivo”. “La didattica viene fatta sui dispositivi di proprietà degli studenti e le istituzioni intervengono solo per fornirle a chi non se lo può permettere.”
Co-design jams: gruppo composto da professionisti operanti in diversi settori che credono nel design collaborativo, come strumento per dare risposte agli scenari complessi della società odierna.
Coding: programmazione.
Content and language integrated learning: insegnamento di una materia in un’altra lingua. “Va esteso significativamente anche nella scuola primaria e nella scuola secondaria di primo grado”.
Crowdfunding: la traduzione potrebbe essere “raccolta di denaro”. “Coinvolge tutti i cittadini e mira ad incentivare meccanismi di microfinanziamento diffuso a favore della scuola. I docenti, i genitori, gli studenti stessi saranno protagonisti.”
Data school nazionale: traduzione “dati della scuola”. “Tutti hanno l’esigenza di fare comprendere i propri dati, le sfide di bilancio, di amministrazione, di policy.”
Decision making: drocesso che porta a prendere una decisione, da parte di un individuo o di un gruppo.
Design challenge: “Una gara aperta per identificare la miglior soluzione tecnologica che aumenti la fruibilità delle informazioni.”
Digital makers: produttori digitali. “Ogni studente avrà l’opportunità di vivere un’esperienza di creatività e di acquisire consapevolezza digitale anche attraverso l’educazione all’uso positivo e critico dei social media e degli altri strumenti della rete.”
Early leavers: abbandono scolastico precoce. “Sono giovani disaffezionati ad una scuola che non riesce a tenerli con sé”.
Fab Lab: dall’inglese ‘fabrication laboratory’ è una piccola officina che offre servizi personalizzati di fabbricazione digitale.
Gamification: è l’utilizzo di elementi mutuati dai giochi e delle tecniche di game design in contesti esterni ai giochi
Good Law: traduzione “buona legge” ma nel contesto viene impiegato come semplificazione. “Da subito il Miur elaborerà delle Linee Guida perché i propri atti siano elaborati in un linguaggio comprensibile e di facile attuazione”.
Hackathon: evento al quale partecipano, a vario titolo, esperti di diversi settori dell’informatica: sviluppatori di software, programmatori e grafici web. “Per aumentare l’impatto dell’apertura, lanceremo in autunno il primo hackathon sui dati del Ministero, dalle stanze del Ministero”.
Living lab: nuovo approccio nelle attività di ricerca che consente agli utilizzatori di collaborare con i progettisti nello sviluppo e nella sperimentazione dei nuovi prodotti ad essi destinati.
Matching fund: proposta di un percorso che porta l’impresa a tornare protagonista. Uno scambio di valore che porta a crescita e sviluppo del business. “Il Governo valuterà di mettere a disposizione finanziamenti per fare matching fund”.
Mentor: persona che fa da guida e da consigliere ad una persona con minore esperienza.
Nudging: accessibilità. “All’estero li chiamano ‘good law’ e ‘nudging’, noi lo chiamiamo semplificazione, accessibilità, attuazione.”
Opening up education: educazione aperta. Consentirà agli studenti, agli operatori del settore e agli istituti di istruzione di condividere risorse educative aperte e liberamente utilizzabili. “Stiamo scommettendo sul fatto che la scuola abbia già in sé le soluzioni per il suo rinnovamento”.
Policy: linea di condotta.
Problem solving: indica il processo cognitivo messo in atto per analizzare la situazione problematica ed escogitare una soluzione
Service design: attività di pianificazione e organizzazione di personale, infrastrutture, comunicazione e materiali di un servizio, con lo scopo di migliorarne l’esperienza in termini di qualità ed interazione tra il fornitore del servizio e il consumatore finale.
Social impact bonds: obbligazioni ad impatto sociale. “Sono strumenti che mirano a creare un legame forte tra rendita economica e impatto sociale”.
School bonus: bonus fiscale per un portafoglio di investimenti privati (da parte di cittadini, associazioni, fondazioni, imprese) nella scuola.
School guarantee: mirato a premiare in maniera più marcata l’investimento nella scuola che crea occupazione giovanile.
Voucher: all’inglese (to) vouch: attestare, garantire. Sono documenti emessi da agenzie ai propri clienti, come conferma del diritto a godere di specifici servizi, in essi indicati e già pagati in precedenza all’agenzia stessa.
World cafés: metodologia che si ispira ai vecchi caffè, creando un ambiente di lavoro che inviti i partecipanti ad una discussione libera ed appassionata. [1]

“Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!” diceva Nanni Moretti in una scena del film “Palombella rossa”, rivolgendosi ad una giornalista.
“Chi parla male, fa in modo che gli altri pensino male” dico io rivolgendomi a chi scrive di “buona scuola” in un modo che rasenta l’arroganza.
Perché, dunque, in un documento simile dove si parla di buona scuola, di semplificazione e di linguaggio comprensibile, si usano così tante parole prese dal vocabolario aziendal-finanziario?
Tento qualche risposta elementare…
Perché si cerca di stupire con effetti speciali (“Noi ne sappiamo a pacchi, voi non sapete niente”).
Perché l’uso della lingua inglese offre un esempio di modernità (“Noi siamo moderni, voi siete vecchi”).
Perché il linguaggio tecnico è usato dagli specialisti (“Noi conosciamo, voi siete ignoranti”).
Perché il linguaggio specialistico impedisce la comprensione a tutti (“Noi abbiamo studiato, voi non sapete”).
Perché il linguaggio difficile crea subordinazione (“Noi vi stupiamo con i paroloni, voi dovete fidarvi”).
Traducendo con il vecchio vocabolario pedagogico le parole della “buona scuola”, l’idea che esce dalla lettura complessiva e dalla sua traduzione è quella di uno stile aziendale, competitivo, classista, emarginante, ipocrita ed ignorante.
Quindi, se si usa un linguaggio simile, si sceglie di comunicare qualcosa a qualcuno, proprio in quel modo.
La proposta di “buona scuola” è scritta con un “cattivo linguaggio” perché esso contraddice alcune affermazioni di principio e sostiene invece l’idea di una scuola paragonabile ad un’azienda.
Ho sempre sostenuto che, volendolo, addirittura le leggi si possono scrivere in maniera buona, semplice e comprensibile; ne è un esempio l’articolo uno della Lip ovvero del Ddl “Norme generali sul sistema educativo d’istruzione statale nella scuola di base e nella scuola superiore. Definizione dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di nidi d’infanzia”.

Art. 1. (Princìpi)
1. Il sistema educativo di istruzione statale:
a) si ispira a princìpi di pluralismo e di laicità;
b) è finalizzato alla crescita e alla valorizzazione della persona umana, alla formazione del cittadino e della cittadina, all’acquisizione di conoscenze e competenze utili anche per l’inserimento nel mondo del lavoro, nel rispetto dei ritmi dell’età evolutiva, delle differenze e dell’identità di ciascuno e ciascuna, secondo i princìpi sanciti dalla Costituzione, dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e dalla Convenzione sui diritti del fanciullo;
c) concorre altresì a rimuovere gli ostacoli di ordine economico, sociale, culturale e di genere, che limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini e delle cittadine;
d) garantisce la partecipazione democratica al suo governo da parte di docenti, educatori, personale ausiliario-tecnico-amministrativo, genitori e studenti.

Ancora a proposito di parole, nelle 136 pagine de “La Buona Scuola”, il termine “competizione” batte il termine “cooperazione” 5 a 0 (il primo viene nominato 5 volte, il secondo nessuna) mentre il vocabolo “economia” batte “costituzione” 8 a 2. Vorrà pur dire qualcosa!
In conclusione, se la scuola della Gelmini era quella delle tre I: Internet, Inglese, Impresa, quella di Matteo Renzi si caratterizza per essere quella delle tre F: Falsa, Frivola e Furba, perché mette in vendita vecchie idee liberiste spacciandole per nuove proposte, perché mette in vendita proposte superficiali spacciandole per affascinanti, perché mette in vendita la scuola spacciandola per un’azienda.

[1] Naturalmente sono ben accetti i suggerimenti di tutti coloro che sono in grado di fornire una definizione migliore dei termini inglesi che ho indicato.

tutto-tranne-buio

Iris e Velia, i due volti di Roberta Pazi

Un tavolo, una sedia. Un paio di pantofole. Non c’è altro sul palcoscenico del Teatro Off, ma la stanza si trasforma durante la narrazione, per riempirsi di oggetti e storie, quelli delle due protagoniste e degli invisibili personaggi che entrano, più e meno fugacemente, nelle loro vite. Dalla porta a destra del palcoscenico entra Roberta Pazi, interprete dei due personaggi femminili di “Sola in casa” e “Spogliarello”, due monologhi di Dino Buzzati, adattati per la regia di Giulio Costa, in scena questi sabati sera al Teatro Off.

Sono Madame Iris, cartomante sola e ansiogena terrorizzata dal killer che sta facendo strage di prostitute nella via in cui abita, e Velia, spregiudicata donna che campa di espedienti, alle spalle degli uomini, cadendo infine in uno stato di follia. Iris cerca, ascolta, titubante e sospettosa, guarda la pioggia cadere dalle finestre enormi che danno sulla strada buia. Velia pretende, urla, osa, tradisce e provoca; ha speranza, è sempre in ritardo con i pagamenti. Tra le due, nessuno stacco, nessuna pausa. Solo “Mes amis, mes copains” cantata da Catherine Spaak.
Iris si trasforma in Velia, nel caos di un palcoscenico già predisposto al disordine e alla rincorsa, imbrattato di carte da gioco e tovaglia; epilogo della presa di consapevolezza di Iris, e preludio dell’affannata rincorsa verso qualcosa che non troverà.
A fine spettacolo abbiamo chiesto all’attrice qualcosa sui personaggi da lei interpretati: “Sono personaggi attualissimi; soprattutto Velia, è una donna che può trovare collocazione anche ai giorni nostri.” racconta Roberta Pazi. “Madame Iris e Velia sono due donne diametralmente opposte – continua – e paradossalmente è proprio questa opposizione che ha facilitato il creare un legame tra due figure così differenti, creando una complementarietà tra i due personaggi così differenti.”
Iris è barricata in casa, introiettata in un mondo suo, un guscio ovattato, protetto dai quattro muri che fanno da scudo alla sua anima, similmente allo scarafaggio che rincorre per tutto il pavimento. Le carte con cui legge la vita sono un placebo alle sue paure, alle quali in realtà non crede neppure lei, nonostante ne abbia fatto il proprio mestiere.
Velia è ingorda e calcolatrice, proiettata all’esterno, si prende – o cerca di prendersi – ciò che vuole; si butta nella vita in modo viscerale, vorrebbe divorarla salvo poi esserne divorata essa stessa, dagli errori che commette, dal modo in cui usa le persone e dalla speranza di cambiare finalmente vita, salvo finire dimenticata e sola, impazzita”.

Pur vivendo vite agli antipodi, in sfere caratteriali ben connotate, entrambe si illudono: Madame Iris è lusingata dal finto interesse che l’orologiaio, in realtà il killer, mostra nei suoi confronti; Velia tenta di rifarsi una verginità morale aprendo un bar, che però sarà spazzato via dai debiti. Entrambe, al termine delle loro travagliate storie, trovano la liberazione: Iris dalle sue paure, Velia dal suo orgoglio.
Sono ben differenti anche i modelli e le suggestioni attraverso cui vengono caratterizzate le due protagoniste: “Mi sono ispirata a Franca Valeri per caratterizzare il personaggio di Iris: le attese, le pause, i tentennamenti buffi e ironici, il tono esitante, quasi da maestrina. “Venere in pelliccia”, nella versione di Roman Polanski tratto dall’omonimo romanzo erotico di Leopold von Sacher-Masoch, è invece stata l’ispirazione per il personaggio di Velia”.

“Tranne che il buio” sarà in scena sabato 6 e 20 dicembre alle ore 21 al Teatro Off di Viale Alfonso I d’Este, 13 nell’ambito della rassegna di monologhi intitolata “Ricomincio da uno” [vedi].

Foto di © Daniele Mantovani

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LA STORIA
L’uomo che scambiò l’estate per un cappello di paglia

“Comprate cappelli di paglia nel periodo invernale. L’estate sicuramente arriverà”, Bernard Baruch
Se un cappello di paglia è appeso, lì, ad attendere qualcosa o qualcuno, una ragione ci sarà pure. Forse ci ricorda semplicemente la necessità di prenderci un momento per riposare, di cogliere un attimo per pensare, di ritagliarci qualche minuto per riflettere, di strappare al lavoro ore preziose per stare con le persone amate e gli amici. Insieme.
Forse è stato semplicemente dimenticato, ignorato, abbandonato, magari dopo essere stato, a lungo, illuso sulla sua bellezza, la sua forza, la sua utilità, la sua necessarietà. Calzato da teste clandestine, stropicciato da mani voraci, spiegazzato dal vento inclemente, bruciato dal sole cocente, usato da ragazze avvenenti.
Potrebbe essere stato, anche solo per un giorno, l’ispirazione di un giovane cantante che ha deciso di lanciarsi nell’interpretazione dell’opera lirica di Nino Rota, “Il cappello di paglia di Firenze” e che, durante le sue prove all’aria aperta, completamente immedesimato nel ruolo di Fadinard, l’ha lasciato da solo per qualche tempo.
Potrebbe essere stato appoggiato al ramo di un albero per proteggerne linfa ed energia.
Potrebbe essere quello di un contadino, di un giardiniere, di un pirata. Potrebbe, invece, appartenere a una giovane fanciulla, o a un’elegante signora un po’ più attempata.
Potrebbe essere stato appeso per un attimo a quel ramo, in attesa di un breve riposo alla sua ombra grande e protettiva, per riprendersi dalla fatica della lunga giornata afosa.
Forse vuole solo ricordare che la calma e la serenità dei prati e dei campi sono sempre pronte ad accoglierci, e che dobbiamo immagazzinare calore ed energia soprattutto adesso, per prepararci adeguatamente al fresco autunno e al gelido dicembre.
Potrebbe essere lì, infatti, solo per prepararci all’inclemente stagione fredda, per ricordarci di comprare cappelli di paglia proprio durante l’inverno. Perché la calda e colorata estate sicuramente arriverà e presto.
Perché si trova lì, allora, quel cappello? Chi lo sa.

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REPORTAGE
Weekend jazz.
Musica, cibo e visioni

Weekend denso di concerti al Jazz club Ferrara, che sabato scorso ha ospitato due maestri del jazz-samba come Toninho Horta e Ronnie Cuber, all’insegna di un dialogo originale in musica tra sonorità brasiliane e statunitensi.

Stasera, venerdì 5 dicembre, si riparte dalle 20 con l’appuntamento all’interno della mini rassegna musical-gastronomica “Somethin’Else”: tradizione culinaria kasher affiancata alla musica ashkenazita del Lechaim ensemble, formato da Andrea Bartolomeo alla voce, Gianluca Fortini ai clarinetti, Salvatore Sansone alla fisarmonica e Giovanni Tufano alla chitarra e percussioni.

Domani, sabato 6 dicembre, ore 21.30, soul e gospel con il Fabrizio Bosso spiritual trio: Fabrizio Bosso, tromba e flicorno; Alberto Marsico, organo; Alessandro Minetto, batteria.

Domenica, 7 dicembre, ore 21.30, i Mob Peppers in un’esibizione in sinergia con Pee Wee Ellis (Pee Wee Ellis al sax tenore; Daniele Santimone alla chitarra; Luigi Sidero, tastiere; Giorgio Santisi, basso elettrico; Christian Capiozzo, batteria).

Lunedì, 8 dicembre, ore 21.30, appuntamento della sezione dedicata agli artisti emergenti regionali e non solo di “Happy Go Lucky Local” con il gruppo PoLo (Paolo Porta, sassofoni; Valerio De Paola, chitarra; Andrea Lombardini, basso elettrico; Michele Salgarello, batteria).

Ingresso a pagamento, per soci Endas, nel Torrione di San Giovanni, via Rampari di Belfiore 167.

Intanto, ecco un reportage visivo realizzato dal fotografo STEFANO PAVANI nell’ultima serata dedicata a un dialogo musicale tra Brasile e Stati Uniti con protagonisti Toninho Horta e Ronnie Cuber.

[cliccare un’immagine per vedere la galleria]

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Ronnie Cuber (foto Stefano Pavani)
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Ronnie Cuber in duo con Toninho Horta (foto Stefano Pavani)
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Ronnie Cuber e Toninho Horta al Jazz club Ferrara (foto Stefano Pavani)
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Ronnie Cuber al Jazz club Ferrara (foto Stefano Pavani)
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Ronnie Cuber (foto Stefano Pavani)
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Ronnie Cuber e Toninho Horta (foto Stefano Pavani)
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Ronnie Cuber e Toninho Horta (foto Stefano Pavani)
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Ronnie Cuber e Toninho Horta (foto Stefano Pavani)
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Ronnie Cuber (foto Stefano Pavani)
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Toninho Horta (foto Stefano Pavani)
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Toninho Horta (foto Stefano Pavani)
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Toninho Horta al Jazz club Ferrara (foto Stefano Pavani)
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Ronnie Cuber (foto Stefano Pavani)
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Toninho Horta (foto Stefano Pavani)
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Toninho Horta (foto Stefano Pavani)

 

dolore-posture-sottomesse

Dolore e posture sottomesse

Il dolore è un’esperienza percepita a livello del sistema nervoso centrale come un’emozione sgradevole, una sensazione difficile. Il dolore viene altresì distinto in dolore acuto, conseguente ad un processo infiammatorio, e dolore cronico. Quest’ultimo perdura per lungo tempo ed è causato da fattori neuro-vascolari che, se prolungati, ne modificano la stessa struttura fisiologica, influendo notevolmente sulla nostra produttività, sull’umore e anche sulla salute.
Il dolore rappresenta un evento sensoriale molto complesso che comprende una componente fisica (fisiologica) ed una componente psicologica.
Il legame tra la mente e il corpo è ancora un grande mistero e quanto riferito al dolore non è ancora pienamente compreso. Per molte persone, la risposta primordiale a tanto dolore è quella di “rannicchiarsi ” o “chiudersi in se stessi” nel proprio dolore, atteggiamenti che alterano la postura del corpo. Queste posture sbagliate, derivanti dal dolore, io le definisco “posture sottomesse”.

Paradossalmente, una postura con un atteggiamento curvo o chiuso può aumentare la sensazione di dolore, perché si genera un effetto feedback (più si visualizza o percepisce il dolore più si avrà dolore), e questo atteggiamento rischia di peggiorare la situazione. Al contrario, assumendo una posa “dominante”, come ad esempio con una buona postura e una forza psicologica diversa, si può diminuire in modo significativo la soglia e ridurre la sensazione di dolore. Assumendo una posizione più dominante, le persone si sentono più in controllo o più forti, quindi saranno in grado di gestire meglio la soglia del dolore.
Quando si pensa ad un atteggiamento dominante, l’associazione va al regno animale. In genere, solo l’alpha membro di un gruppo presenta questo tipo di fattore dominante, un atteggiamento ‘gonfio’. Il Pensiero convenzionale su questo è che l’alfa mostra questa posa come il risultato di essere l’alfa e avente caratteristiche di essere più forte o più resistente. Alcuni animali, assumendo la postura alpha, causano cambiamenti ormonali associati con l’essere l’alfa .

Se si riesce, nonostante il dolore, a mantenere un atteggiamento solido, sicuro di sé e dominante, è possibile aumentare la tolleranza al dolore e diminuire il dolore che si prova. Questo effetto sembra verificarsi semplicemente nell’ assumere la posa. Anche se vi sembra un’idea assurda, provate ad essere dominante e con autocontrollo della postura senza visualizzare il dolore… vi stupirete!
Per le persone che sono sensibili o allergiche a farmaci e antidolorifici, questa tecnica può aiutare moltissimo a ridurre il dolore senza effetti collaterali.

scuola-editoria-digitale

LA SEGNALAZIONE
L’editoria digitale entra a scuola

È proprio il caso di dire ‘nuove pubblicazioni crescono’. Si tratta dei ComunEbook, quattro nuove pubblicazioni digitali, frutto della collaborazione fra l’amministrazione comunale e il Liceo scientifico A. Roiti. Il progetto, nato durante l’anno scolastico 2013-2014, ha come obiettivo la creazione di una vera e propria casa editrice digitale, grazie a un accordo di partenariato tra il Comune e il Liceo.
Per ora l’attività dei ragazzi – quattro classi in tutto, due già operative e due in formazione – consiste nella pubblicazione elettronica di testi già esistenti in forma cartacea, ma esauriti: lo scopo, ha detto uno dei docenti dell’istituto superiore cittadino, è “garantire la diffusione, anche fuori Ferrara perché no, di testi ormai esauriti altrimenti introvabili”. Il sogno però, come ha affermato l’assessore alla cultura Maisto è “lavorare su inediti”. Per questo e per valorizzare ulteriormente la produzione editoriale dei giovani, l’amministrazione ha pensato per il 2015 a un bando per l’assegnazione di due borse di studio da mille euro ciascuna, riservate una a laureati magistrali dell’ateneo di Ferrara e una a laureati magistrali di altri atenei italiani, per la pubblicazione di tesi di laurea dedicate alla cultura ferrarese, realizzate negli ultimi cinque anni.
Oltre a rappresentare un originale esperimento di collaborazione tra soggetti istituzionali per la promozione della produzione culturale del e sul territorio ferrarese, il progetto ComunEbook è un’iniziativa interessante dal punto di vista didattico. Non solo permette il coinvolgimento degli studenti in un percorso formativo coerente con il loro indirizzo di studi, ma utilizza la metodologia della peer education, cioè dello scambio reciproco di competenze: la progettazione editoriale, infatti, è avvenuta in orario pomeridiano e i ragazzi del corso di scienze applicate hanno usato le proprie competenze tecniche e informatiche per la costruzione degli e-book, in collaborazione con quelli dell’indirizzo di scienze della conservazione e dell’ambiente, che si sono concentrati sugli aspetti contenutistici e redazionali. E come accade di solito con le buone idee, il progetto sta funzionando: da marzo 2014, mese di pubblicazione dei primi cinque volumi, i download dal sito del liceo e da quello istituzionale del comune sono stati circa 5.000, inoltre Eniscuola ha commissionato il catalogo della mostra “Classicità ed Europa”, tenuta presso il Quirinale.
I quattro titoli pubblicati presentati ieri in conferenza stampa sono: il romanzo “Una storia di Storia. Fra Ferrara e Porotto 1943-1945” di Nico Landi, che racconta fra realtà e finzione episodi della Resistenza ferrarese, “Lo squadrismo: come lo raccontarono i fascisti, come lo vissero gli antifascisti” curato da Antonella Guarnieri, Delfina Tromboni, Davide Guarnieri, una sorta di catalogo della mostra svolta al Museo del Risorgimento e della Resistenza di Ferrara “Lo squadrismo raccontato dai fascisti. Il diario di Italo Balbo e altre fonti”, una versione aggiornata della “Guida di Ferrara per giovani visitatori” di Francesco Scafuri e “Gli aventur ad Pinocchio”, una versione in dialetto ferrarese delle vicissitudini del famoso burattino ad opera di Italo Verri e illustrata dai maggiori artisti locali. E ci sono già almeno cinque nuove opere in programma, fra le quali “La Lena” dell’Ariosto e “Atmosfera creativa”, che descrive le esperienze di imprese creative ferraresi.
Tutti gli e-book sono realizzati utilizzando soltanto software open source (Sigil), sono pubblicati in formato aperto epub e possono essere liberamente e gratuitamente scaricati e letti su e-reader, tablet, smartphone e computer.

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L’EVENTO
Premio Giglio Zarattini, la visione di una città nata sull’acqua

Avrà luogo il 6 dicembre la premiazione della prima edizione del concorso d’arte Premio Giglio Zarattini, riconoscimento dedicato all’ex sindaco di Comacchio Giglio Zarattini (1958-2004), che chiuderà la mostra dedicatagli dall’Amministrazione comunale di Comacchio. Protagonisti diversi artisti che esporranno i propri elaborati nel corso dell’intera giornata, proponendo la propria visione della città nata sull’acqua e creandone un laboratorio-atelier. La cerimonia di premiazione dei vincitori avrà poi luogo nella Sala San Pietro di Palazzo Bellini a Comacchio.

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Le sale

Sei le sale che, insieme al corridoio dedicato alle opere appartenenti alla collezione di famiglia, sono predisposte a ospitare i quadri dell’artista comacchiese, ognuna delle quali racchiude un tema o un sentiero di ricerca artistica di Zarattini, formatosi con artisti come Mauro Bartolotti, Giuseppe Ventura, Remo Brindisi ed Emilio Vedova. Evocativi e reali, tutti con un minimo comune denominatore stilistico affine all’Espressionismo, forte e viscerale nei colori, nella struttura, che espone occhi sbarrati o chiusi nel sonno, figure che si stagliano nitide nella forma, confuse nell’anima; statici uomini sagomati con colori accesi, donne nude e libere, come i soggetti di Egon Schiele, macchie di colore e di carne sono il lato umano privilegiato attraverso la pittura.

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Alcune opere di Giglio Zarattini

Sono dipinti in tecnica mista: oli su tela cui si aggiungono stucco e sabbia, terra mista e sassi, quasi a volere materializzare la ricerca interiore che esprime attraverso le proprie opere, portando letteralmente in rilievo le inquietudini e le asperità nei dettagli. Zarattini ritrae figure dolenti e urlanti, pensierose e intense, equilibristi in bilico su di una fune, visione reale e metaforica. Con una doppia strada tematica da percorrere, una verista e una fantastica, tenendo viva una natura artistica volta a cogliere contenuti speciali e reali.

Pezzi e soggetti di carne della vita di tutti i giorni, del luogo che ha dato i natali all’artista e in cui è vissuto, così ricco di ispirazioni tanto da poterlo toccare: i fiocinai e le anguille di cui vanno a pesca, i gabbiani, il cielo; materia viva della vita di ogni giorno, contornata dai luoghi caratteristici – San Pietro, i Trepponti, il loggiato dei Cappuccini. Mare e spiaggia che danno mostra di sé nell’accezione dolente dell’inverno. Impressioni oniriche e quasi distorte, sorta di incubi fantastici, in cui c’è il surrealismo di Dalì a strizzare l’occhio: come gli uomini-scala dalla forma allungata e tesa verso l’infinito, ma anche Pegasi e centauri, soggetti simbolici del tema del doppio che esplora in varie forme ed espressioni di un mare le cui gocce mantengono forma e unicità.

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Olmi e Martone, ex aequo

Ermanno Olmi e Mario Martone in apparenza non hanno molto in comune, se non che sono registi e che hanno fatto di recente due film bellissimi.
Eppure, lasciando correre la fantasia può succedere di tutto, a costo di essere irriverenti.
Il primo film è “Torneranno i prati” (2014) di Olmi. Un racconto di neve, freddo e paura, di un’umanità povera e analfabeta, ricordando nel centenario della prima guerra mondiale gli scontri del 1917 sull’Altipiano di Asiago, durante quella che un papa definì l’inutile strage.
Il ricorso ad attori non professionisti è la cifra stilistica di chi volutamente si sottrae al clamore dello spettacolo che tutto riduce a finzione, per ridare la parola ad un’umanità anonima e dimenticata, sacrificata sull’altare di una storia, come ha detto Franco Cardini, fatta senza e contro il popolo.
Eppure il risultato è di una potenza straordinaria, come di fronte alla “Risurrezione” di Piero della Francesca, l’affresco di San Sepolcro che pur nella ricercata ed essenziale geometria senza teatralità, letteralmente esplode negli occhi di chi lo guarda.
La costante del film di Olmi è il silenzio della montagna e della natura, frantumato dal boato devastante delle granate che piovono sulla trincea italiana. Un rumore amplificato al punto da sembrare di essere lì, nella stessa sorte di chi non sa dove trovare riparo.
In tutto il film non c’è mai il nemico, forse perché, in fondo, il nemico non esiste se non nella mente dell’uomo.
Durissimo il monito finale affidato ad un soldato: “Quando la guerra sarà finita tornerà l’erba nuova e là dove è morta tanta gente sembrerà che tutto questo non sia mai accaduto”.
Con “Torneranno i prati” Olmi concede un sontuoso bis dopo “Il mestiere delle armi” (2001), altra splendida opera contro l’assurdità della guerra, in un’Italia percossa e derisa perché divisa, come intuì fin dal ‘500 il Machiavelli.
La stessa italietta, 300 anni dopo, fa da sfondo a un altro capolavoro: “Il giovane favoloso” di Mario Martone (2014), dedica commovente, ha ragione Gianni Venturi su Ferraraitalia, a Giacomo Leopardi.
E’ l’Italia di una Recanati che soffoca in un’atmosfera di umidità e nebbia e di un’erudizione del padre Monaldo, che non riesce ad essere strada di autentica liberazione umana, ma unicamente esercizio spettacolarizzato stile talent ante litteram, vanitosamente ostentato per sbalordire il pubblico. E’ l’Italia di una Roma papalina che neutralizza la forza scardinante del cristianesimo nella camicia di forza della neoscolastica, nel nome di un’alleanza trono-altare che ancora oggi proietta le sue ombre. La città eterna, dove Leopardi patisce lunghissime anticamere da un parente per avere dei soldi dalla famiglia, in una sala di stucchi e tele che sono il simbolo di un tempo consegnato al passato e ora esibiti come solo potere.
E’ l’Italia di una Napoli che se nel ventre dei suoi sottofondi riflette barlumi di umanità pasoliniana, è però preda infetta del colera; metafora, forse, della cancrena dell’illegalità criminale organizzata che si espande anche oggi nei gangli vivi del paese.
E’, infine, l’Italia di una Firenze nella quale se per un verso “Il giovane favoloso” può dialogare col suo estimatore Pietro Giordani, dall’altro non resiste alla noia mortale dei suoi salotti inconcludenti.
Soprattutto, Leopardi è schivato dalle intelligenze letterarie del suo tempo, perché non è compreso il suo pessimismo “radicale”. Specie in un tempo nel quale occorre lasciare spazio all’ottimismo risorgimentale della Patria. Alla sua poetica manca quello slancio al servizio di un impegno politico per la causa nazionale. Riflesso, anche qui, di un’intellettualità troppo spesso al soldo di una politica che tuttora non si vergogna di andare dall’estetista per rappresentare degnamente i propri elettori.
Bellissima la reazione leopardiana, nella potente interpretazione di Elio Giordano, a questo spurgo di retorica: non si capisce come facciano ad essere felici le masse, quando sono composte da individui tristi. E poi, sono sempre sue parole, la ragione senza il limite del dubbio non va da nessuna parte, tranne asservire gli uomini alla propria volontà di onnipotenza.
Dice bene Gianluca Arnone (Cinematografo.it): nel film di Martone più Leopardi si accartoccia in un corpo gracile e malato, più scruta con occhi impietriti e impauriti un infinito gelido come nella navicella del film “Apollo 13” di Ron Howard (1995).
Oltre gli stupidi stereotipi del gobbo, storpio, deforme infelice, dei quali la scuola è purtroppo complice colpevolissima, il film di Martone trova degno e struggente epilogo con “La ginestra”.
Le pendici del Vesuvio tumefatte dalla lava, nelle immagini che scorrono sembrano la schiena sempre più nodosa e livida di Leopardi e alla fine anche “tu, lenta ginestra, che di selve odorate queste campagne dispogliate adorni, anche tu presto alla crudel possanza soccomberai del sotterraneo foco”.
Il cinema.
Ricordo la disputa infinita tra Franco Farina e don Franco Patruno sul cinema. Per uno che si è tolto la soddisfazione di avere portato a Ferrara nientemeno che Andy Warhol, il Cinema non era niente di che. Per il secondo dei Franchi tiratori, invece, meritava tutto il rispetto che si deve a un’arte.
In realtà quello non era un dialogo in irrisolta tensione, ma un codice comunicativo per portare legna sul tepore di un’amicizia bellissima.
Sintesi, viene da pensare, di quello che ha detto Massimo Cacciari degli affreschi di Schifanoia sulla scorta della lezione di Abi Warburg, grazie ad un ciclo di incontri organizzati da Marco Bertozzi: la testa degli uomini non procede tanto per ragionamenti astratti, ma preferibilmente per immagini.
Insomma, due film da non perdere.

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Da Feltrinelli i ‘Segreti tossici’ di Andrea Cirelli

E’ al suo primo romanzo, ma siccome è avvezzo a far le cose in grande ci regala subito una bella trilogia. Venerdì 5 alle 17,30 Andrea Cirelli presenta alla libreria Feltrinelli di via Garibaldi i suoi “Segreti tossici”. Il noto “ingegnere umanista” ha ordito un sorprendete incastro di personaggi e vicende ambientate nella provincia italiana. Il protagonista, una sorta di alter ego dell’autore, nello sviluppo della storia muta identità e umori ma resta sempre fedele a un suo modus vivendi e ai suoi principi esistenziali, benché il finale ci riservi non pochi colpi di scena, fornendo una inattesa chiave di rilettura di tutta l’opera. Volendo trovare nobili afferenze all’inconsueto proseggiare di Cirelli, si possono individuare elementi che richiamano l’opera di Kundera laddove il racconto lascia spazio alla digressione e alla riflessione, o magari tratti che riconducono al gusto per il paradosso proprio di Ionesco.

Andrea Cirelli dopo una lunga e significativa esperienza nel settore ambientale, come direttore nazionale di Federambiente, Autorità per la vigilanza dei servizi idrici e di gestione dei rifiuti urbani dell’Emilia Romagna, docente di Economia ambientale alla facoltà di Ingegneria dell’Università di Ferrara, coordinatore scientifico della Fiera internazionale dell’acqua H2O, ha recentemente conseguito la sua seconda laurea in Scienze e tecologie della comunicazione, divenendo poi cultore di Etica della comunicazione.

Domani per la presentazione di “Segreti tossici” – pubblicato da Este edition – saranno con lui l’editore Riccardo Roversi e Sergio Gessi, direttore di Ferraraitalia. Proprio sul nostro quotidiano, del quale è fondamentale supporto, Cirelli cura la rubrica “Ecologicamente”.

LA PROVOCAZIONE
Dal dottore: Renzi
e la mitomania

di Edoardo Nannetti

Paziente: Renzi Matteo;
Professione: presidente del consiglio e segretario Pd;
Anamnesi: fin da piccolo non distingue la destra dalla sinistra (probabile stereoagnosìa);
Fattori di rischio ambientale: frequenta assiduamente e segretamente Silvio Berlusconi; stringe affinità con Marchionne; ha tra i suoi amici e finanziatori il finanziere Davide Serra che vuole limitare il diritto di sciopero; preferisce gli imprenditori che vogliono licenziare a quelli che vogliono investire;
I sintomi:* nonostante il PD abbia perso 700 mila voti alle regionali in Emilia Renzi Matteo è convinto di avere riportato una sfolgorante vittoria; * mentre tutti attribuiscono la forte astensione elettorale in una regione che sempre vota ai massimi (l’Emilia) alla delusione verso il PD ed alle inchieste giudiziarie, il paziente dice che dipende da “una generale disaffezione verso la regione come istituzione”; * nello stesso giorno in cui escono i dati sulla disoccupazione aumentata ininterrottamente da marzo ad oggi, il paziente afferma che da quando c’è lui ci sono 100 mila posti di lavoro in più e rifiuta l’evidenza dei dati; * invita a cene di finanziamento persone che possono pagare da 1.000 euro a testa in su ed è convinto di aver organizzato una festa di finanziamento popolare per un partito popolare che fa interessi popolari; * il paziente veste sempre con jeans e camicia bianca con maniche rimboccate, anche d’inverno pensando che sia sempre primavera, anche a letto convinto che così è sempre all’opera pure di notte; * il paziente è convinto che il diritto di voto ce l’abbia solo chi ha uno smartphone (e una camicia bianca), a chi gli fa presente la Costituzione della Repubblica risponde che “la Costituzione è come una cabina telefonica a gettoni ed è meglio lo smatphone”; * con il Jobs act si può licenziare di più e senza tutele contro i licenziamenti illegittimi ma il paziente continua a ripetere ossessivamente che ci saranno più diritti per i precari (senza dire quali diritti); * l’evasione fiscale aumenta ma il paziente, di fronte ad una nutrita platea, dice trionfalmente e con sguardo esaltato che ‘è finito il tempo dei furbi’ (senza dire cosa farà contro l’evasione); * c’è l’alluvione a Genova e il paziente dice che è colpa del Tar che ha bloccato i lavori e gliela farà vedere lui (ma il Tar non ha mai sospeso i lavori); * il paziente ha affermato che avrebbe riformato la pubblica amministrazione il primo mese di governo, il lavoro nel secondo mese, il fisco nel terzo mese, la giustizia il quarto e così via (delirio di onnipotenza?);* il paziente si allea col pregiudicato Berlusconi ma dice che con lui ci sta solo gente per bene (comizio di Bologna) e che la Cassazione non è l’ultimo grado di giudizio (a chi gli mostra il codice di procedura civile replica che quello l’hanno scritto degli intellettuali del cavolo e non conta niente);*il paziente sostiene, senza accettare alcuna evidenza critica, che l’anno prossimo cominceremo ad uscire dalla crisi pur sapendo che le previsioni di tutti gli istituti economici ed anche di Confindustria dicono che non è così…
Da un manuale di psichiatria:“La ‘pseudologia fantastica (altrimenti nota come mitomanìa) risponde ad un bisogno morboso di costruire resoconti fittizi più o meno fantastici, in cui il soggetto stesso progressivamente finisce per credere, passando dalla menzogna all’autoinganno ed abbandonandosi ad una vita illusoria”
La diagnosi: a voi la diagnosi del caso concreto..
Possibile terapia: molte manifestazioni che consentano al paziente di riacquistare il rapporto con la realtà; in presenza del paziente vanno assolutamente evitate frasi del tipo “lasciatelo lavorare” in quanto aggravano i sintomi e provocano una confusione identitaria con Berlusconi; è raccomandato comunque al paziente un lungo periodo di riposo quindi l’interruzione delle attuali occupazioni politiche.
F.to Dr. Edoardo Nannetti

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LA RIFLESSIONE
La guerra dei tomi

Con l’approssimarsi della stagione dei regali natalizi capita sempre più spesso di leggere e ascoltare numerosi consigli e sconsigli per gli acquisti. Fra questi sono numerosi quelli che ruotano attorno alla ormai ‘vexata quaestio’ se sia meglio regalare libri cartacei o in versione digitale corredati da apposito lettore. Prima di esprimere la mia opinione sulla materia, premetto due definizioni, mutuate ed adattate dall’informatica, che possono aiutare a mettere la questione nella sua giusta prospettiva.
Dicesi ad “accesso sequenziale” un dispositivo che privilegia la fruizione di contenuti in modo continuo, con poche o nessuna possibilità di potersi posizionare in un punto qualsiasi del flusso. Tipicamente sequenziali sono ad esempio la fruizione di televisione, cinema e dirette di ogni genere. In termini generali possiamo dire che l’accesso sequenziale caratterizza la fruizione dei contenuti multimediali; i dispositivi che si adoperano sono di conseguenza specializzati per questo utilizzo.
Dicesi invece ad “accesso diretto” un dispositivo che consente con facilità di “saltare” da un punto all’altro di un flusso informativo. Naturalmente un dispositivo ad “accesso diretto” consente sempre di essere usato in modo sequenziale. Per poter funzionare esso necessita di una struttura di “indici” che descrivono il contenuto e che servono all’utente per posizionarsi in punto specifico. Le indicizzazioni sono, ad esempio, la successione delle pagine di un testo, l’indice generale o l’indice analitico.
Alla luce di queste definizioni è del tutto evidente che un libro, a seconda del contenuto e del tipo di fruizione, può essere inteso sia come un dispositivo ad accesso diretto che sequenziale. Un testo di filosofia o il manuale di riparazione della moto sono tipicamente ad accesso diretto, in quanto è normale dover tenere aperte più pagine contemporaneamente e muoversi sul testo in entrambi i sensi. L’ultimo romanzo di Jo Nesbø, un fumetto e la narrativa in genere sono invece intrinsecamente ad accesso sequenziale. Ovviamente, il tipo di accesso ad un libro cambia a seconda del tipo di lettore: il “professionista” (critico, filologo, ecc.) o anche l’accanito hanno, rispetto ad altri, una maggiore necessità di poter disporre dell’accesso diretto.
E’ allora evidente dove si vuole andare a parare. Un lettore di ebook è un dispositivo che privilegia l’accesso sequenziale, mentre il tomo cartaceo tradizionale consente un migliore accesso diretto. E’ possibile che le future generazioni di lettori possano migliorare le loro capacità di accesso diretto, ad esempio usando schermi touch (già peraltro disponibili) e, soprattutto, strutture di indicizzazione più adeguate alle loro caratteristiche, ma è indubbio che molto difficilmente riusciranno a replicare in modo efficace la possibilità, comune per un volume cartaceo, di tenere contemporaneamente fino a quattro ‘segni’ nel testo con le dita della mano sinistra.
In definitiva il lettore di ebook è un oggetto economico (60 euro), facile da usare, leggero e poco ingombrante ed in grado di contenere migliaia di libri, che ha senso utilizzare per letture cosiddette d’evasione, come ad esempio sono quelle che si fanno in vacanza (con buona pace di quelli che si portano Proust e Schopenhauer sotto l’ombrellone). E’ un dispositivo oltretutto molto utile per chi ha problemi di vista, dato l’ottimo contrasto e la facilità con cui poter cambiare la dimensione del carattere. Per letture più serie e meditate, nonché per lo studio, continua a mio parere ad essere preferibile il tomo tradizionale; per questo l’idea di sostituire completamente nelle scuole i libri di testo con un lettore mi lascia perplesso. Per alcuni (antologie ed eserciziari) non c’è alcun problema, per i manuali propriamente detti invece sarebbe meglio di no.
Sono quindi da evitare inutili “guerre di religione” che, capita di leggere, raggiungono a volte vette di esaltazione al limite del comico, con accuse sanguinose – “disboscatori” da un lato, “fatui e superficiali” dall’altro, decisamente degne di miglior causa. A Natale, a chi già non lo possiede, consiglierei pertanto di regalare un lettore di ebook, che non è un tablet, come ad esempio l’iPad: un oggetto diverso, con ben altro costo e caratteristiche e sul quale leggere è molto meno confortevole rispetto ad un lettore dedicato. Oppure libri, di carta o digitali, a seconda del contenuto e del tipo di lettore.

arte-cinema-matisse

LA SEGNALAZIONE
Arte al Cinema, ora tocca a Matisse

“Occorre guardare tutta la vita con gli occhi di un bambino”, Henri Matisse
Dopo il grande successo della scorsa stagione, che ha portato decine di capolavori della storia dell’arte in oltre 1.000 sale cinematografiche di tutto il mondo, continuano gli appuntamenti con “La Grande Arte al Cinema”. Un’inedita serie di eventi cinematografici che, fin dal mese di ottobre, e grazie alla tecnologia del cinema digitale, faranno condividere ancora una volta in contemporanea mondiale tutta la ricchezza dell’arte e dei luoghi che ne sono custodi. Abbiamo già parlato del film dedicato ai 250 anni del Museo dell’Hermitage di San Pietroburgo, oggi invece ci dedicheremo ai “dipinti con le forbici” di Henri Matisse, che il 9 Dicembre sarà al Cinema Apollo di Ferrara, per un giorno, in contemporanea con tanti altri cinema italiani. Seguiranno “La ragazza con l’orecchino di perla” di Vermeer, la retrospettiva su Rembrandt e Vincent Van Gogh, a 125 anni dalla sua morte. Per chiudere con la meravigliosa arte degli Impressionisti.

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La locandina

Il film su Matisse è di fatto un tour che guiderà gli spettatori tra le sale della mostra “The Cut-outs” della Tate Modern di Londra e del Moma di New York. Costretto da una malattia all’intestino e da un delicato intervento chirurgico a utilizzare la sedia a rotelle e a rinunciare alla pittura, Matisse cominciò nell’ultima parte della sua vita a dedicarsi ai “dipinti con le forbici”, realizzando i suoi celebri collages, l’arte cui questa mostra è dedicata. L’evento al cinema svelerà così un mondo intimo e un dietro le quinte emozionante, alla scoperta dell’artista della “gioia di vivere”, la “belva” che spinse all’estremo i principi impressionisti trasformando i propri quadri in pura sintesi di linee e colori. Il film sarà arricchito da immagini di repertorio di Matisse al lavoro e da uno spaccato sui preparativi della mostra che a ottobre, dopo la tappa londinese della Tate Modern, si è spostata al Moma di New York.
Il tour cinematografico proporrà anche preziose interviste a esperti (come il direttore della Tate, Nicholas Serota, e il direttore del Moma, Glenn Lowry) o vibranti letture dell’attore britannico Simon Russell Beale, che darà voce a Matisse.

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La tristezza del re, Henry Matisse, collage
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Il circo, Henry Matisse, collage

Il pubblico cinematografico potrà ammirare spettacoli di musica e di danza ispirati proprio ai ritagli di Matisse. Quest’ultima arte ha sempre affascinato Matisse, ispirando una delle sue composizioni più famose, “La Danza” del 1909, che mostra cinque figure danzanti in cerchio. Nel 1937, inoltre, Matisse disegnò scene e costumi per un balletto con coreografia di Léonide Massine, basato sulla sinfonia n. 1 di Dmitri Dmitriyevich Shostakovich. Per questo il coreografo di fama mondiale Will Tuckett ha creato, assieme alla prima ballerina del Royal Ballet di Londra, Zenaida Yanowsky, una “risposta” all’opera di Matisse: un nuovo pezzo di danza che riflette i colori, il dinamismo e la libertà dei ritagli e si basa proprio sulla musica prorompente di Shostakovich.
Osservare quadri e sculture nel dettaglio, ascoltare il racconto degli organizzatori, entrare nelle segrete stanze e negli spazi in genere inaccessibili che hanno visto la mostra prendere forma sarà, ancora una volta, un’occasione unica per tutti gli appassionati d’arte, di viaggi e di cultura alla scoperta di storie che segnano il nostro modo di essere e di vivere. Molti di noi ci saranno. Alla ricerca del bello, sempre.

Aspirazioni, delusioni, menzogna e omicidio… tutto in 13 minuti

Diretto da Olivier Treiner, “L’accordeur” ha ottenuto numerosi premi, tra cui il prestigioso Cesar per il migliore cortometraggio nel 2012.
Il protagonista è un giovane prodigio, che non riesce a superare un concorso molto importante. Reagisce a questo evento decidendo di diventare un accordatore, fingendo oltretutto di essere cieco. Questa scelta è motivata dal desiderio di volere entrare nell’intimità dei suoi clienti, siano essi una giovane donna che si spoglia, oppure una famiglia che vive in assoluta libertà in casa.
Come ben descritto nella scena in cui il giovane racconta il suo modo di vivere al proprio datore di lavoro, questi decide di vivere indisturbato la sua finta infermità, per meglio osservare le persone, esaltando il voyeurismo che evidentemente è parte di sé. Inoltre, i suoi clienti lo credono in possesso di maggiore sensibilità, proprio per via della sua situazione sensoriale.
Questo sotterfugio pone l’accordatore di fronte a numerose situazioni, ma lo porta anche a essere testimone di un omicidio, coinvolgendolo in un finale aperto, ma dall’esito che si presume drammatico.
La scena del dialogo che ha come protagonista il suo datore di lavoro è un piccolo capolavoro di caratterizzazione di un personaggio minore, difficile da sviluppare in un cortometraggio. Con poche battute è svelato il suo modo di vivere i sentimenti, vedi il riferimento alla chat su Internet e il suo pensiero nei confronti dell’accordatore.

aspirazioni, delusioni, menzogna, omicido
La locandina

In pochi minuti il regista riesce a costruire, con maestria, una trama che implica aspirazioni, delusioni, menzogna e omicidio. Da notare che la sequenza iniziale e quella finale sviluppate in situazioni completamente diverse, sono uguali.
“L’accordeur” può essere visto nella versione integrale di quattordici minuti su YouTube [vedi]. Buona Visione.

L’accordeur”, di Olivier Treiner, con Grégoire Leprince-Ringuet, Grégory Gadebois, Danielle Lebrun, thriller, Francia, 2010, 13 min