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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


L’OPINIONE
Buona scuola, cattiva maestra

Capisco che bisogna governare, capisco che la scuola è un malato grave, che non c’è tempo per spremere le meningi ed è molto più facile copiare dal nostro vicino di banco, in questo caso gli Usa.
Le sorprese scolastiche di Renzi altro non sono che la fotocopia, adattata a casa nostra, del programma, non poco sofferto, dei democratici d’oltre oceano con la benedizione di Obama.
Non quello del 2002, quando la riforma della scuola guadagnò una indiscutibile influenza con l’approvazione della legge federale, No Child Left Behind Act (Nclb). Ma i risultati, poi, non furono quelli attesi, anzi, assai deludenti. I test scolastici nazionali dimostrarono impietosamente che molti studenti, specialmente quelli delle minoranze etniche nei centri urbani, non raggiungevano le competenze attese in lingua e aritmetica, mentre un nuovo tipo di scuola , la charter school, stava cominciando a competere con la scuola pubblica tradizionale.
Il programma di Renzi con lo zuccherino della prospettiva di circa 200mila assunzioni, di soli docenti, entro il 2019, sembra studiato apposta per evitare il contraccolpo dei sindacati all’inequivocabile introduzione del “merit pay”, salario di merito.
Forse è bene ricordare, a chi non ha letto Teachers Versus Public, pubblicato a Washington dal Brookings Institution Press nel 2014, cosa potrebbe succedere anche nel nostro paese.
Nel settembre del 2012 gli insegnanti di Chicago hanno costretto a chiudere le scuole della città per sette giorni e più, le loro rivendicazioni andavano ben al di là del solito. Oltre all’aumento di stipendio la Ctu, Chicago Teachers Union, protestava contro l’introduzione della giornata scolastica più lunga, la valutazione degli insegnanti basata sui punteggi degli studenti ai test, contro la retribuzione di merito, e la creazione delle charter school (i dirigenti e gli insegnanti del Ctu avevano letto Shock Doctrine di Naomi Klein, una denuncia della privatizzazione del pubblico in tutto il mondo).
Quello del reclutamento e della formazione degli insegnanti è comunque la prima delle emergenze della scuola italiana, che nulla toglie a quanti in tutti questi anni hanno continuato a formarsi a costo di sacrifici personali e, per i quali, si dovrà prevedere pure una forma di riconoscimento.
Chi lavora nella scuola sa benissimo, senza infingimenti, che gli insegnanti variano ampiamente nella loro efficacia nel determinare i risultati degli studenti, per cui occorre considerare con attenzione il ruolo critico che giocano reclutamento, assunzione in ruolo e retribuzione per il successo formativo degli studenti. È per questo che oggi in tutto il mondo le politiche dell’occupazione degli insegnanti sono sempre più sotto controllo, in particolare la loro formazione.
Del resto è difficile negare che il mantenimento della retribuzione basata esclusivamente sull’anzianità finisce per proteggere il lavoro degli insegnanti inefficaci e pone l’interesse della categoria al di sopra di quello degli studenti, oltre ad andare a scapito dei tanti docenti validi e fortemente motivati.
Bene, dunque, “la buona scuola” muove da “buoni insegnanti”, incentivati professionalmente dal merito. Non è mai troppo tardi. Nessuno di noi si farebbe curare da un medico inesperto e professionalmente non aggiornato. A scuola invece sì. Tanto la scuola non ammazza.
È proprio qui che si insinua il tarlo di una domanda elementare, viene cioè da chiedersi che differenza ci sia tra le proclamate riforme della scuola dei governi precedenti e questa “La buona scuola” del governo Renzi. Questo titolo tra il target e lo slogan, dovrebbe essere rassicurante, ispirare fiducia e ottimismo.
Invece, confesso, che appeno letto sono stato percorso da un brivido nella schiena. Un po’ perché foneticamente troppo parente con “Il buono scuola”, in questo caso una sorta di tagliando di revisione della macchina “sistema scolastico”, ma soprattutto, ciò che inquieta è la lunga ombra di decenni di “cattiva scuola” che il faro della buona scuola produce intorno a sé. È come quello che ti dice «quel bambino è buono, l’altro invece è cattivo» poi, se mai, nella realtà si rivela tutto il contrario. È come un buon piatto, non è detto che tale sia per tutti. D’altra parte per i nostri vecchi era buona la scuola dei loro tempi.
Il fatto è che dentro agli aggettivi qualificativi, buono, cattivo, ci sta tutto e il contrario di tutto.
E allora riflettendo sullo stato della nostra scuola, la “buona scuola” dà l’impressione di essere ferma all’infanzia dei pensieri, se si riflette sulla ben più complessa portata del discorso formativo oggi.
Il profilo della buona scuola tracciato dal governo pare i disegni della settimana enigmistica, quelli che unisci con linee i diversi punti e ti viene fuori una figura. Sono dodici i punti segnati dal governo da unire per avere una buona scuola.
Però tra questi punti non ci sono né i bambini né gli studenti. È possibile che ci sia una buona scuola che non muova prima di tutto da loro? No, loro non sono considerati, si prendano il piatto che gli adulti gli confezionano. Eppure si citano come padri della patria educativa Maria Montessori, Don Bosco, Don Milani, perfino Loris Malaguzzi. Non mi pare che la loro preoccupazione prima fosse la scuola, ma i ragazzi! Anzi con la scuola ce l’avevano su tanto!
Allora viene il sospetto che si voglia impastare un pane nuovo con la farina vecchia. Ed è così a leggere attentamente, dall’immissione in ruolo dei docenti a quello che fino ad ora, sulla carta, sarebbe stato possibile praticare, dall’organico funzionale ai rapporti con il territorio, all’apertura delle scuole, ma non si è fatto per mancanza di risorse e di personale, non per colpe di una generica cattiva scuola, ma per responsabilità precise di una cattiva politica e di cattivi governi.
Ora, è difficile allontanare il dubbio che la necessità di sistemare il personale prevarichi ogni riflessione vera sullo stato della scuola italiana, sulla pesantezza dei suoi curricoli, sul fatto che tutto si debba apprendere a scuola. Slogan come “cultura in corpore sano” usati nel 2014, sono per lo meno irritanti, oltre che fuori luogo. Dite piuttosto che avete bisogno di sistemare gli insegnanti di scienze motorie, l’integrazione tra scuola e territorio si fa riconoscendo che a scuola non può essere fatto tutto e che gli apprendimenti possono essere conseguiti nelle strutture e nelle istituzioni che agiscono con competenza nel suo contesto ambientale, è sufficiente dare loro dignità riconoscendoli come crediti. La scuola buona oggi è quella che è capace di pensare un sistema formativo integrato al servizio del diritto allo studio delle persone, di superare le classi, i voti, gli orari rigidi e le bocciature.
Ancora una volta non si tratta di scuola buona, ma di scuola ben fatta, capace di portare a compimento questa rivoluzione, che Montessori, Don Bosco, Don Milani e Loris Malaguzzi hanno a loro tempo praticato.
È un capitolo questo che ancora attendiamo venga scritto. La buona scuola potrebbe esserne la premessa, solo questo di tante speranze oggi ci resta. Diversamente anche questa buona scuola sarà una cattiva maestra.

Dialogo con Baratella sui massimi sistemi dell’arte. E sulla vita

Essere artista oggi è forse un ossimoro culturale, una contraddizione in termini? Me lo domando sempre più spesso. Forse dovrei girare la domanda a coloro i quali avevano innalzato l’opera umana all’altezza della Creazione divina ed essi stessi, confondendosi, si sono creduti esseri superiori in grado di competere con l’Ente supremo. Confusione estrema quando la religione usò questi personaggi per cantare le lodi del signor Dio, ché, se non l’avessero fatto, sarebbero stati cacciati direttamente all’inferno senza sepoltura consacrata: artisti maledetti li chiamavano. Oggi, comunque, il pericolo è scongiurato. Di chi vuoi mai cantare le lodi? Forse gli unici destinatari sono i signori del mercato, oggi è tutto mercato, I libri sono merce, le opere d’arte sono merce, se non chini la testa accettando la nuova divinità sei fuori, nessuno più ti prende in considerazione, sei finito, sei nulla. Non sono più riuscito a scacciare questi sgradevoli pensieri dopo aver visto, alla Fondazione Banca del Monte di Lucca, la mostra intitolata “Compianto” di Paolo Baratella, il vecchio fratello di teoretica con il quale da decenni mi sono abituato a confrontarmi. Ma non credi che tutto sia finito, che l’arte sia morta, che noi stessi siamo morti viventi. persone alle quali rimane soltanto di aprire la bocca che escono parole e ragionamenti preconfezionati? Non credi Paolo? E, se così è o fosse, che significato ha dipingere o scrivere se l’opera che confezioni è soltanto merce?
La risposta di Baratella è immediata e addolorata: “Se dovessi star dietro al clamore della sofferenza avrei già smesso di dipingere”. Senza volere e, soprattutto, senza insolenza, Paolo Baratella è salito sul piedistallo dell’arte per portare più in alto il male di vivere, un male straziante, talmente grande da diventare persino stupido, un’ingiustizia che chissà per quale ragione ci viene imposta così crudele. Nessuno sa, ma, peggio, nessuno cerca di trovare un rimedio, siamo ormai troppo vecchi e troppo esperti per credere alle moine vergognosamente insulse e false della politica: ognuno vuole vincere la competizione, la gara comincia presto, dai banchi di scuola e prosegue sempre più cruenta e che vinca non il migliore ma il più protervo, la regola è questa.

Per lunghi periodi, dico al Baratella, forse per anni, hai denunciato la violenza dell’uomo sull’uomo e, nel movimento della “Nuova figurazione”, ti sei ritagliato, anni Settanta, un posto importante: una nota critica a te dedicata dall’enciclopedia Garzanti afferma che il tema della condizione umana – tra mito, storia e cronaca quotidiana – ha continuato a essere al centro della tua pittura, “caratterizzata da un realismo visionario carico di simbologie e di citazioni”. Ora, dopo un lungo periodo rivolto al pensiero filosofico, in cui hai enfatizzato la ricerca niciana a cominciare dall’affermazione “Dio è morto”, sei tornato alla denuncia, violenta e commossa, della sopraffazione del potere sull’individuo. Scrive nella presentazione al catalogo della mostra Marco Palamidessi: “Non basterebbe venire al mondo più e più volte… per numerare, e perché no catalogare, gli enigmi che hanno scatenato, fecondato, afflitto, illuminato, turbato, scosso, plasmato lo spirito orgoglioso e le gesta di Paolo Baratella”. Ragione: soprattutto il Baratella “ha pensato”, mestiere difficile pensare, riesce a pochi. Eletti? Forse, ma sfortunati, niente di peggio al mondo che pensare.

Che cosa può fare oggi l’artista? si chiede Baratella, pittore migrante (Ferrara, Milano, Monferrato, Lucca). Risponde con una sua poesia: “Il tempo è scaduto/ Il mare è aperto/ Dove andare dunque?/ Mi sporcherò le mani di colore/ Chiedo una zattera/ L’onda anomala m’insegue/ Tutto si fa pittura/ Fino al più lontano orizzonte/ Nel radioso apparire di Pan/ Io sono”.
Dunque, tutto si fa pittura: la risposta è questa, per Paolo Baratella questa è sempre stata la risposta, sporcarsi le mani di colore e dipingere. Ha sempre dipinto con intelligente testardaggine, il mondo vada io dipingo: “che cosa dovevo fare – si chiede ora – dopo che Duchamp, precursore di quasi tutto, ma in primo luogo del nulla che andava predicando, ogni oggetto è opera d’arte? Fargli il funerale, come fecero Arroyo e Recalcati?” Domanda retorica; Baratella (sai Paolo?, gli confido) ha bisogno di dipingere, perché la sofferenza sia completa, si faccia colore, perché dipingere è cullare il proprio dolore, perché dipingendo si può piangere e la commozione è uno degli atti veri dell’uomo, ai quadri bisogna pur donare un’anima, non è vero ciò che ha scritto il premio Pulitzer Cunningham, secondo cui l’artista riproduce la nostra umanità nascosta, l’arte deve volare in un cielo tutto suo, anche se le gambe sono piantate per terra. Come dimostra questa mostra “Compianto – quattordiciquindicidiciotto la grande guerra”, dove è protagonista il fantaccino Bruno Baratella, zio del pittore, uscito dal macello voluto da politici assassini con il cervello colpito, spiega Paolo, da “trauma da esplosioni”. Il viso e il corpo minuto del fantaccino Bruno compaiono in ogni grande quadro, attonito spettatore delle esplosioni, degli scontri aerei, della morte che ti sta accanto muta e invincibile, nera nel mare di colori a volte corruschi, talaltra cupi, sempre traboccanti, un caos che soltanto la sapiente pittura baratelliana è riuscita a domare, o, almeno, a contenere. Paolo, gli dico, da questa mostra sono uscito commosso, era tanto tempo che non mi succedeva. E forse questa è la risposta, l’unica, che si può dare alla mia domanda iniziale. Commozione.

P.S. Una mostra così grande e importante non dovrebbe venire a Ferrara, alla vigilia dell’inizio della guerra di cent’anni fa?, chiedo ai politici della cultura.

INTERVISTE
Voci di piazza, Festivaletteratura visto dalla parte dei volontari

E’ calato il sipario anche sulla diciottesima edizione di Festivaletteratura. Ormai i record non sono più una sorpresa per la manifestazione mantovana che, come confermano i numeri a poche ore dal termine, sono aumentati rispetto agli anni passati: quasi 70 mila i biglietti venduti che, aggiunti ai partecipanti a eventi gratis e alle altre iniziative, delineano una presenza che va aggirandosi attorno alle 120 mila unità. Un traguardo veramente importante e soprattutto rassicurante per gli anni a venire, considerata anche la qualità e l’importanza degli ospiti del festival sempre molto amati dal pubblico.
Questo per me è stato il sesto anno consecutivo da volontario al servizio agli eventi, in quest’edizione ruolo impreziosito dalla nomina di responsabile di luogo, e posso tranquillamente confermare la notevole mole di lavoro aggiuntasi rispetto agli altri anni. Le strade di Mantova soprattutto nel weekend (e grazie al cielo, in tutti i sensi, viste le premesse meterologiche dei primi giorni) erano intasate, le code agli eventi chilometriche, le ore di attese sotto il sole interminabili. Non ho mai visto nella mia esperienza mantovana così tanti passanti girovagare per la città, scovare un angolo con in corso un evento, magari già incominciato e con posti a sedere esauriti, e volervici entrare lo stesso. Tutti sintomi che Festivaletteratura è più vivo che mai ed appassiona senza paura di coinvolgere chiunque, spesso anche quelli sulla carta più disinteressati.
Mi sono soffermato così a chiaccherare con i miei compagni di avventura provenienti sia dalla provincia che da altre parti d’Italia, riflettendo sul nostro operato e sulla fortuna di far parte di una macchina organizzativa divenuta veramente importante negli ultimi anni. Anche Edoardo, vent’anni e residente in provincia alla sua settima edizione da volontario, conferma che quest’anno c’era qualcosa in più rispetto agli anni passati e che “dopo tanti anni e tanta esperienza acquisita, questa volta arrivare a domenica è stata molto più dura, fisicamente e mentalmente. Ho visto nel tempo il festival evolversi e sono rimasto profondamente colpito e allo stesso tempo orgoglioso nel vedere come così tante persone, noi volontari in primis, riescano a fondersi in un tutt’uno con la città per tutta la durata dell’evento, creando una cornice per me unica in tutta la nazione”. Maddalena invece, 17 anni e proveniente da Verona, mette in risalto l’importanza “didattica” del festival: “è il mio secondo anno da volontaria a Mantova, opportunità offertami dalla scuola che propone a molti alunni come me di avanzare le candidature. Ho conosciuto tanti altri ragazzi che sono riusciti ad entrare nell’organizzazione di questo evento grazie alle scuole e penso che siano iniziative che non possano fare altro che aiutare i giovani, stimolandoli a partecipare in modo attivo ad eventi di questo genere”. Ilaria da Milano invece sottolinea la questione del volontariato come “spinta fondamentale per fare funzionare queste manifestazioni, divenute famose oggi ma nate anni fa con l’aiuto di tante persone e pochi spiccioli . Da anni nel mio comune sono attiva come volontaria in diverse associazioni ed in parrocchia, Festivaletteratura mi ha dato la possibilità di scoprire altri volti del volontariato, organizzando sempre in festa e allegria un evento per decine di migliaia di persone, promuovendo cultura e arte”. E come dimenticarsi del divertimento? E’ quello che pensa Virginia, anche lei residente in provincia e alla quarta esperienza, mettendo in risalto come “non ci sarebbe questo grande feeling tra così tanti volontari senza una grande voglia di divertirsi, anche durante i momenti più duri e con tanto lavoro da fare. Questo a mio modo di vedere è la grande fortuna del gruppo di Festivaletteratura”.
Insomma tra tanti biglietti staccati, tanti tavoli spostati, ritmi frenetici, notti quasi insonni tra palestre e campeggi, ci sta tanta voglia di mettersi in gioco e contribuire partecipando a quella che oramai è divenuta una tappa obbligatoria per molti. Queste erano solo alcune delle voci delle più di settecento magliette blu di Festivaletteratura, che si sono già dati appuntamento per l’anno prossimo, sempre a Mantova, dal 9 al 13 di settembre.

L’INCHIESTA
Partigiani oggi, nuove testimonianze: “Senso di responsabilità e coraggio per risollevare il Paese”

3. SEGUE – Continuano ad arrivare in redazione testimonianze che riattualizzano i valori della Resistenza e indicano il significato dell’essere “partigiani oggi”. E noi continueremo puntualmente a darne conto su queste pagine. Abbiamo chiesto a uomini e donne di generazioni diverse, con storie, percorsi, esperienze, formazione differenti di esplicitare i princìpi inderogabili per i quali è necessario impegnarsi e gli ostacoli che si frappongono alla loro applicazione. Nella colonna a destra della home, in alto, abbiamo inserito un logo che riporta il titolo dell’inchiesta; cliccandolo si accede a una videata che visualizza tutti gli interventi pervenuti, nella loro versione integrale.

Licia Vignotto, giovane giornalista e operatrice culturale spiega di aver “pensato a lungo sul tema del valore da difendere, ma l’idea del ‘valore’ non mi piace, come non mi piace l’idea della ‘difesa’. Ci si difende dagli aggressori ma a me sembrano tutti vittime: i ricchi e i poveri, i benestanti e i malestanti. Provo pena – pena sincera – per chi si comporta in modo stupido e nocivo, per gli arrivisti e i carrieristi, per gli avidi, per gli arroganti, per i disonesti. Non c’è niente da difendere, caso mai da diffondere: responsabilità”.

“Sarebbe sufficiente che la gente cominciasse a guardarsi in faccia e a leggere i valori dentro l’Etica del volto e della responsabilità”, fa eco Raffaele Rinaldi, direttore dell’associazione Viale K. Il quale segnala “la mancanza del coraggio necessario a declinare i valori nella tutela della dignità e nella lotta per la libertà della persona, soprattutto dei più deboli. Paradossalmente – rileva – si salvano i valori e si ammazzano le persone. Sappiamo scegliere i valori come i prodotti al supermercato, soprattutto quando si possono applicare forti sconti sull’impegno attivo che ne deriva. Preferiamo la penombra dell’ignavia all’esposizione del partigiano”.

“Mi piacerebbe vedere finalmente una guerra senza armi, una guerra di cervelli che vogliono il meglio per tutti, quel famoso ‘bene comune’, allontanando tutte le nefandezze presenti – afferma la giornalista marchigiana Cristiana Carnevali -. Ma certe volte mi sento impotente di fronte a tanti nani, saltimbanchi e ballerine che popolano la nostra società, occupando posti di rilievo, non soltanto in politica, con incapacità evidenti e soprattutto senza il benché minimo rispetto per Italia e italiani. Per questo restiamo partigiani anche oggi e i valori che perseguiamo sono sempre gli stessi”.

Francesca Succi, giovanissima giornalista particolarmente nota come blogger, introduce un originale punto di vista: “Come donna e giovane sono una guerriera, ogni giorno. Combatto per la libertà, la credibilità, la solidità e la condivisione immacolata. Il mio nemico è rappresentato dallo stereotipo, dalla menzogna, dall’ignoranza e dalla mancanza di tempo. L’unica adeguata difesa è l’energia, che parte dall’interno per confluire esteriormente, producendo risultato”.

Amara la riflessione di Mario Rebeschini, fotografo di pace in tempo di guerre: “Quando in un’assemblea infuocata all’università si voleva creare un momento di attenzione – ricorda – dal megafono si gridava: ‘Attenzione compagni, attenzione, prende la parola un partigiano, il compagno L.P’. Ed ecco L.P. dire parole di condivisione alle nostre battaglie con le raccomandazioni di un padre che stimi. Ma chi ha il coraggio, oggi, di prendere un megafono per ricordarci con forza i grandi valori della Resistenza e il sacrificio di quei milioni di uomini e donne che hanno garantito a tutti un’esistenza degna d’essere vissuta? Poveri partigiani, poveri noi, mi viene da pensare, ma non lo dico a nessuno”.

3. FINE

Cliccando i nomi in grassetto è possibile leggere l’intervento integrale

Leggi la prima puntata dell’inchiesta

Leggi la seconda puntata dell’inchiesta

Leggi i nostri articoli del progetto Treccani “Voci di Resistenza” di Giuseppe Muroni

IL FATTO
i’What’? Cogli
la prima mela

Il 9 settembre è un altro di quei giorni per qualcuno memorabili in cui la Apple annuncia le sue novità per la prossima stagione degli acquisti, che non va dimenticato negli USA inizia con il Thanksgiving, cioè ben prima di Natale. Il carrello di quest’anno contiene un iPhone più grande in due diversi formati (4,7 e 5,5 pollici contro i 4 della generazione precedente), secondo un trend già anticipato da tempo dalla concorrenza asiatica, che trova giustificazione nella necessità di maggiore spazio visivo che app sempre più complesse richiedono. E’ inoltre arrivato il nuovo ed atteso da tempo iWatch, la risposta Apple ai già numerosi dispositivi presenti sul mercato che integrano le funzionalità di un orologio con quelle di monitoraggio di alcuni parametri fisiologici e la misurazione dell’attività fisica. Il nuovo gadget di Apple, oltre ad una maggiore attenzione all’estetica, sorta di marchio di fabbrica dell’azienda, ad un’interfaccia utente estremamente configurabile e la disponibilità di modelli con diverse finiture, pare avere una spiccata vocazione per la comunicazione, naturalmente in combinazione con un iPhone, e dispone di un’interfaccia vocale che consente di dettare direttamente risposte ai messaggi ricevuti. Infine l’annuncio, poco interessante per i feticisti, ma utile per comprendere meglio le strategie a medio termine dell’azienda, di una nuova versione di iWallet, il meccanismo di micro pagamenti da dispositivo mobile con cui Apple sta tentando di acquisire una posizione di preminenza in questo mercato in crescita tumultuosa.
Immancabili anche quest’anno i gruppi di fanatici del marchio in coda da giorni davanti ai negozi per essere i primi ad acquistare o solo prenotare le nuove meraviglie, a qualunque prezzo e solo per poter dire, almeno per qualche settimana: “io ce l’ho e voi no”. Si può osservare tuttavia che dalla morte del fondatore questi eventi hanno avuto una risonanza via via un po’ minore e che le file di cui si diceva sono ogni volta sempre un po’ più corte: viviamo in un’epoca d’altronde in cui tutto si brucia molto rapidamente e poi, forse, di reali novità, di quelle che cambiano le abitudini di milioni di persone, negli ultimi anni non ce ne sono praticamente state. Ciononostante, pur essendo uno che nei confronti di quella che oggi è la società più capitalizzata del pianeta ha sempre avuto un atteggiamento molto distaccato, se non decisamente critico per la politica di quasi totale chiusura dei suoi prodotti, non posso non riconoscere che è grazie a loro che la sintesi funzionale e la diffusione di alcuni oggetti chiave è avvenuta più velocemente di quanto non sarebbe stato altrimenti.
La specialità di Apple non è mai stata infatti quella di inventare tecnologie in sé particolarmente innovative, ma invece di riuscire a definire mix funzionalità hardware e software (cioè strumenti) di qualità elevata, utilizzando quasi sempre tecnologie di terze parti giunte al giusto punto di maturazione, che regolarmente si impongono come riferimento anche per la concorrenza. Con un’attenzione quindi molto più rivolta all’ergonomia ed all’estetica che non alla pura ostentazione tecnologica, anche se, naturalmente, per ottenere quei risultati occorrono tecnologie di primissimo ordine. Per fare un esempio, prima dell’iPhone tentativi di realizzare quello che poi sarebbe diventato lo smartphone ce ne sono stati parecchi. Nokia che era il maggiore produttore di cellulari al mondo, ma anche altri produttori, ci ha provato diverse volte, con prodotti anche interessanti senza tuttavia mai riuscire a trovare la ricetta giusta. In questo caso la scommessa vincente di Apple è stata quella di puntare sulla tecnologia multi-touch e di abbandonare completamente la tastiera meccanica, che poneva vincoli insormontabili alla dimensione dello schermo o costringeva a ricorrere a soluzioni macchinose ed ingombranti. Probabilmente anche il nuovo iWatch costituirà immediatamente un riferimento per la concorrenza che, questa volta nel giro di pochissimo tempo a dimostrare la progressiva perdita del vantaggio strategico dell’azienda di Cupertino, realizzerà prodotti simili ed anche migliori. Il futuro è ormai da tempo orientato verso la diffusione di dispositivi “indossabili” (wearable per gli anglofoni) di piccole dimensioni e non invasivi, dall’orologio ai sensori per uso salutista e sanitario, alle protesi intelligenti (occhiali, lenti a contatto) che diventeranno sempre più comuni. Uniti all’immancabile smartphone, da tenere in tasca, nella borsa o legato in vita, di Apple o della concorrenza, saranno in grado di raccogliere informazioni sui nostri parametri vitali in tempo reale o di inviarci su richiesta supporti informativi di vario tipo, come ad esempio è ormai possibile con i Google Glass.

L’OPINIONE
Il dito e la luna…

Bufera sulle primarie del Pd dell’Emilia Romagna. E’ giusto ricordare che siamo in presenza di indagini, non di condanne. Ma è altamente apprezzabile il gesto di farsi da parte in attesa di chiarire la propria posizione. Così ha fatto Richetti. Così dovrebbe fare Bonaccini. Continuano invece le dichiarazioni fuori posto dell’assessore di Sel Massimo Mezzetti. Si era già distinto nell’attacco ai giudici dopo la sentenza che portò alle dimissioni di Errani. Ora rincara la dose: “Per risparmiare tempo chiediamo alla Procura di Bologna chi vuole alla presidenza della Regione…”. E bravo Mezzetti! Non ti accorgi che continui a replicare la storica frase della destra berlusconiana dopo ogni iniziativa della Magistratura: “Ecco la giustizia ad orologeria!”? In attesa delle decisioni del Pd, a fronte della difficile situazione che si è venuta a creare, inviterei a non guardare il dito, ma la luna… E la luna di questa storia corrisponde non a poche centinaia di euro, ma alla vergogna di una Regione che negli anni scorsi partecipò insieme a tutte le Regioni d’Italia ad approvare quel sistema di privilegi che fu portato a conoscenza dell’opinione pubblica dopo gli scandali che colpirono le regioni del Lazio e della Lombardia. Per me è politicamente e moralmente più grave il sistema legale di benefit che fu approvato a fari spenti da tutte le Regioni che non le singole responsabilità di violazione della legge. In Emilia Romagna il Pd si difende dicendo di essere stata la prima Regione ad iniziare a tagliare questi privilegi. E’ vero. Ma ciò non assolve da due peccati politici e morali imperdonabili: l’averli approvati a suo tempo; non averli mai denunciati prima che arrivassero i magistrati. Eppure Errani fu anche Presidente nazionale della Consulta delle Regioni… Caro Mezzetti, senza l’azione della Magistratura questo Paese sarebbe peggiore di come la casta politica l’ha ridotto in questi decenni di sciagurata corruzione e di sprechi del denaro pubblico.

LA STORIA
Il Cos padre di tutti i Forum

di Daniele Lugli

Torna il tema della partecipazione, da ultimo con il bell’intervento di Giovanni Fioravanti su Ferraraitalia, nel quale si parla di Forum, di partecipazione civica, di vita di quartiere.
Forse può essere di qualche interesse ricordare al riguardo un’importante esperienza ferrarese dell’immediato dopoguerra, promossa e sostenuta principalmente da Silvano Balboni (Ferrara 1922-1948), la cui opera di antifascista, amministratore, educatore sociale non è molto conosciuta. Si tratta dell’attività del Centro di Orientamento Sociale (COS).

Il COS nasce a Perugia su iniziativa di Aldo Capitini alla liberazione della città: la sua prima riunione è del 17 luglio 1944. Suo motto è “Ascoltare e parlare: non l’uno senza l’altro”. Diceva Capitini “chi può parlare ascolta più profondamente”. E’ luogo di libero e costante approfondimento dei temi più sentiti dalla comunità. A Perugia, accanto al COS centrale sorgono COS rionali ed altri nella provincia. Anche fuori dall’Umbria l’iniziativa prende piede. Tornato a Ferrara, nell’estate dal ’45 dalla Svizzera, dove si era rifugiato sul finire del ’43 per sfuggire a stringenti ricerche, Balboni si impegna subito per l’avvio del COS e la prepara con gli amici più vicini. Ci vorrà più tempo del previsto e la prima riunione del Centro di Orientamento Sociale di Ferrara si tiene lunedì 4 marzo1946 alle ore 18.15 all’Auditorium comunale.

Grande è il successo del primo incontro. La gente è venuta ad una riunione non più solo per ascoltare ma ha parlato. Ha posto all’ordine del giorno una serie di temi, a partire da quelli minuti e quotidiani – Nelle scatole di latte evaporato Unrra si nota un foro stagnato, c’è manomissione? L’autolettiga della Cri funziona male; c’è responsabilità? Il mangime per i polli è troppo caro e così la crusca venduta dai Consorzi agrari. L’assistenza sanitaria è troppo frazionata (Eca, Onmi, assistenza bellica, antitubercolare, reduci) e i furbi ne approfittano. Perché idraulici ed elettricisti non vengono a casa quando li chiami e costano così caro? Il problema delle strisce spartitraffico nel centro. Quali sono le prospettive dello stabilimento della Gomma sintetica? –  prendendo l’impegno di affrontarli. Viene messa a disposizione la sala del Consiglio in Castello Estense, sede della Amministrazione provinciale. Non si salta una settimana. Nel maggio del ’47 in una lettera a Capitini conta 50 incontri nel COS di città. Ci sono infatti anche COS, se pure meno assidui, nelle delegazioni, promossi sempre da Balboni. Notevole ad esempio l’attività di partecipazione alla base dell’istituzione della Delegazione di Gaibanella e la posizione del COS di Pontelagoscuro, contraria alla collocazione della ricostruzione decisa dal Comune, dopo la distruzione bellica, non più nel vecchio centro: sarà confermato l’orientamento dell’Amministrazione, con il voto contrario di Silvano Balboni, e nascerà Ponte nuovo.

Il tenersi del Cos in una sede istituzionale (in Castello fino a luglio, nel Salone del Plebiscito, Palazzo comunale, dopo cena) e l’essere divenuto Balboni assessore comunale agevolano certo il contatto con istituzioni, autorità, responsabili in genere. Ciò pone però anche il problema dell’autonomia e dell’indipendenza del COS garantita da impegno, indipendenza personale e rigore morale di Balboni. Il COS di Ferrara diventa un fatto di interesse cittadino, riconosciuto come uno strumento utile di conoscenza e controllo. La stampa cittadina ne annuncia gli incontri, ne riporta i resoconti, dibatte i temi affrontati dal Cos. È considerevole il contributo alla razionale e civile discussione dei problemi che il Cos dà in un momento nel quale la provocazione ed il sospetto sono strumenti usuali della lotta politica e si diffondono allarmi e voci incontrollate.

Nel tempo si nota uno spostarsi dai temi più minuti ad argomenti di più ampio respiro, anche sciolti da uno stretto legame locale. Un esempio è il Convegno Ferrarese sul problema religioso moderno che prende l’avvio il 17 dicembre del 1946 e poiché non è tema da concludersi in una serata prosegue un martedì dopo l’altro per dodici martedì, concludendosi l’11 marzo 1947.

Si svolge nella grande sala, allora sede dell’Università Popolare, sopra il Teatro Nuovo. Sono presentate e discusse 16 relazioni. Segue la discussione una media di 200 persone (molti i giovani e le donne). Il convegno, al quale con vari ospiti partecipano buona parte degli intellettuali ferraresi, alcuni tra i quali allora giovanissimi, desta attenzione e curiosità: ne vengono date notizie sulla stampa e ne conseguono polemiche. Le relazioni del sacerdote don Mario Mori, del pastore evangelico Zeno Tonarelli, del rabbino Leone Leoni, dell’ex prete, scomunicato vitando,  Ferdinando Tartaglia possono dare un’idea del ventaglio delle posizioni e dell’ampiezza del confronto..

Dimostrato che i temi più difficili possono essere portati a un contatto più largo che non si creda e affermato nei fatti che non vi sono limiti al discutibile si ritorna nella vecchia sede Consiglio comunale e a temi più consueti. Diceva Capitini che era bene discutere di patate e di ideali, non le une senza gli altri.

I problemi di funzionamento dei servizi pubblici e dell’istituzione di nuovi, del funzionamento più corretto dell’attività amministrativa, dell’assetto complessivo della città restano al centro dell’interesse del COS. In questo senso il COS viene a configurarsi in alcuni momenti quasi come un autorevole organo consultivo dell’Amministrazione per le più importanti decisioni da assumere. Il COS di Ferrara svolge un lavoro importante di vaglio, di preparazione e di critica rispetto alle decisioni amministrative. Il buon funzionamento delle assemblee, dove si va per ascoltare e parlare, ha creato uno spazio di confronto e di incontro di competenze tecniche, responsabilità politiche e amministrative e consenso popolare.

“Il COS lavora per la democratica trasparenza delle Amministrazioni. Controllate attraverso di esso coloro che avete eletto nelle elezioni amministrative”, recita un invito del COS, che non sembra aver perso di freschezza ed attualità. Ma il COS è anche altro: accanto ai problemi più schiettamente politici e amministrativi vengono in evidenza questioni di grande respiro. Le questioni del divorzio, della libertà e della ricerca religiosa, dell’obiezione di coscienza sono al centro di un confronto appassionato. Le conclusioni del COS ferrarese anticipano così di un quarto di secolo le faticose conquiste nel nostro Paese di diritti civili, quali appunto divorzio e obiezione di coscienza,  Sono temi centrali per la nuova socialità, alla quale lavorano Capitini e i suoi amici e che si vorrebbe caratterizzassero la Costituzione in via di elaborazione. Le posizioni del COS di Ferrara sono inviate al Ministero per la Costituente, che aveva promosso una consultazione degli Enti Locali. Il COS di Ferrara ha carattere esemplare: Nelle circolari che intendono promuovere la diffusione dell’esperienza è scritto: Chi vuole precise indicazioni su che cosa sono i COS (Centri di Orientamento Sociale), sul loro funzionamento, sul modo di istituirli, può rivolgersi a Silvano Balboni (Ferrara, Corso di Porta Romana 62 ) o a Aldo Capitini.

Non è qui il luogo per analizzare le cause della crisi dei COS sostanzialmente affidati al difficile volontariato di pochi cossisti. Già alla fine del ’47 delle decine di COS costituiti in tutta Italia risultano in costante attività solo quelli di Perugia, Ferrara, Firenze e Teramo.

I partiti si preparano allo scontro elettorale del ’48, si dividono in fronti contrapposti, contano le forze, radunano le truppe: è il momento dello schieramento, senza tentennamenti e discussioni. Non è tempo di COS.

A Ferrara il COS prosegue però anche nel 1948, con attività importanti. Il Cos resta fino all’ultimo al centro dell’esperienza e dell’impegno di Sivano Balboni, che ne tenta il rilancio e l’estensione sul territorio nazionale e provinciale. Balboni muore a 26 anni di fulminea malattia il 7 novembre 1948. Il Cos, anche se la sigla proseguirà per qualche tempo, non gli sopravvive, né a Ferrara, né altrove.

“Ci mancò poi quell’orizzonte sereno nel quale si inscrivevano i nostri incontri e scontri” come ebbe occasione di dirmi Pasquale Modestino. Resta solo Capitini a firmare la circolare n.5 dicembre 1948 Sviluppo del lavoro dei C.O.S., nella quale si concentra la riflessione sull’esperienza e la speranza  una ripresa “dal basso” dell’iniziativa per la quale gli è venuto meno il decisivo contributo di Silvano. Lo scritto si apre così Silvano Balboni, iniziatore del COS di Ferrara, è morto il 7 novembre 1948. La sua presenza e il suo servizio continuano.

 

Istruzioni di Aldo Capitini per costituire i Centri di orientamento sociale

  1. Un Cos è una riunione aperta a tutti per discutere tutti i problemi
  2. Molto importante è la periodicità, cioè stabilire un giorno e ora fissi per ogni settimana
  3. Il promotore del Cos forma un gruppo o comitato per eseguire tutto ciò che occorre al funzionamento di un Cos
  4. E’ bene che i componenti del Comitato siano indipendenti o di diversi partiti
  5. L’impegno del Comitato è di tenere il Cos aperto a tutti e di ammettere la discussione anche su temi proposti dal pubblico
  6. Uno del Comitato presiede la riunione

L’OPINIONE
Il dramma della povertà

Povertà, emarginazione, miseria, sono temi al centro dell’attenzione da sempre e che ora rischiano di diventare centrali nella nostra società. Tante indagini ne rilevano ormai la gravità; sta crescendo il disagio economico (quasi la metà delle famiglie dichiara di avere difficoltà economiche). La mancanza delle risorse necessarie per la vita delle famiglie e delle persone è un grande tema critico (“ povertà economica”) su cui vorrei esprimere qualche concetto anch’io.

Il rischio di povertà sta crescendo nelle famiglie sia al nord che al sud, tra i giovani, tra gli anziani, nei disoccupati, ma anche tra i lavoratori.
L’esigenza di affrontare il tema della povertà non solo nella sua dimensione economica, ma anche nella sua caratterizzazione di “esclusione sociale” impone infatti riflessioni più vaste e articolate, ma soprattutto richiede un maggiore coinvolgimento di tutti.

La natura multidimensionale della povertà è infatti ormai ampiamente riconosciuta non solo sul piano dell’economia, ma soprattutto a livello politico-sociale. Aumentano le categorie più vulnerabili e non comprendono più solo la quota degli anziani (di cui uno su quattro è a rischio povertà), ma stanno coinvolgendo anche in modo crescente persone giovani sole e famiglie numerose. Gli studi di analisi delle disuguaglianze indicano in questi ultimi anni infatti forti modificazioni sia nella struttura che nella composizione della nuova povertà.

È in generale modificata e aumentata la mobilità temporale dei redditi delle famiglie e conseguentemente sono di molto aumentati l’insicurezza delle famiglie e il loro senso di vulnerabilità nei confronti di eventi negativi. Ad una povertà tradizionale si aggiunge dunque una fascia di sofferenza e di disagio allargata costituita da famiglie monoreddito o con un solo genitore a basso reddito. Spesso poi è la perdita del lavoro la causa di un crescente indebitamento e dunque situazione di sofferenza.

Forse si deve ripartire dal riconoscimento di diritti: riconoscere il diritto delle persone in condizioni di povertà e di esclusione sociale di vivere dignitosamente e di far parte a pieno titolo della società. Serve una rinnovata responsabilità condivisa e di partecipazione, anche se certamente la prima cosa che viene spontaneo chiedere è quella di accrescere la partecipazione pubblica alle politiche e alle azioni di inclusione sociale, sottolineando la responsabilità collettiva e dei singoli nella lotta alla povertà e all’esclusione sociale e l’importanza di promuovere e sostenere le attività di volontariato.

Bisogna promuovere una società più coesa, sensibilizzando i cittadini sui vantaggi derivanti da una società senza povertà ed emarginazione, e una società che sostiene la qualità della vita (incluso la qualità dell’occupazione), il benessere sociale (incluso il benessere dei bambini) e le pari opportunità per tutti, garantendo anche lo sviluppo sostenibile e la solidarietà intergenerazionale e intragenerazionale. Serve una maggiore coesione, ma a parole siamo tutti bravi.
Serve però un maggiore impegno e soprattutto servono azioni concrete.
Magari partendo da piccole cose quali la riduzione dei costi dei servizi collettivi (a partire da tariffe sociali per l’energia elettrica, l’acqua, i servizi collettivi, etc). Non è una priorità generale, ma è ciò di cui mi sono occupato in passato e per questo ne parlerò in un prossimo articolo.

Dalle numerose indagini sul disagio socio-economico è noto infatti che l’incidenza della povertà nel ciclo di vita delle famiglie presenta un tipico andamento a U. Il rischio di povertà è alto quando si hanno in famiglia bambini piccoli, si abbassa quando il capofamiglia raggiunge l’apice della carriera lavorativa e i figli escono progressivamente di casa (tranne quelli che restano perché non sanno dove andare…), infine torna ad aumentare tra i pensionati.
Questo andamento di massima è noto da tempo, così come le sue origini. La causa di fondo consiste nei noti difetti strutturali del nostro sistema di protezione sociale.
In Italia “l’emergenza sociale” riguarda 15 milioni di persone di cui la metà ufficialmente sotto la soglia della povertà, ma altrettanti si collocano poco sopra, dunque da considerare ad alto rischio. Anche l’Emilia Romagna si trova a dover fare fronte a questa emergenza: l’indice di povertà delle famiglie è salito negli ultimi anni a livelli molto preoccupanti; oltre mezzo milione di emiliano-romagnoli vivono sotto la soglia di povertà.

Deve crescere dunque l’attenzione in particolare su alcune aree critiche quali l’immigrazione, la povertà e l’esclusione sociale, perché, come era inevitabile, la crisi economica globale ha purtroppo iniziato a fare sentire i suoi effetti anche nel welfare di quelli che una volta erano considerati territori agiati.
Nella nostra regione sono state fatte molte cose importanti prevedendo norme per la promozione della cittadinanza sociale e per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali. Vi è sempre stato tra le priorità il contrasto alla povertà ed ai fenomeni di esclusione sociale. Ma ora si deve fare di più.

Bisogna rivedere i piani sociali di zona per monitorare e localizzare le caratteristiche del sistema socio-economico locale. Bisogna rivedere le linee di riforma dei servizi sociali che negli anni hanno coinvolto enti e amministrazioni in un importante sforzo culturale per valorizzare principi e strumenti innovativi a garanzia del diritto di cittadinanza sociale.
Quel sistema integrato di welfare non si è sviluppato e potenziato nel tempo a sufficienza.
Si ritiene che proprio in una logica integrata di sistema si riesca a caratterizzare lo sviluppo di un territorio, in quanto l’evoluzione delle esigenze e dei nuovi bisogni della popolazione porta ad allargare l’orizzonte delle scelte verso un riordino del welfare in funzione del valore sociale complessivo.
La strategia di riferimento è saper congiungere la ricerca di integrazione delle politiche sociali attraverso l’impegno concertato di tutte le istituzioni e la partecipazione integrata dei vari soggetti pubblici e privati che a vario titolo fanno parte dei diversi settori della vita sociale (ambiente, cultura, lavoro, casa, educazione, etc).

Certo non è facile e non ho certo soluzioni migliori rispetto a chi si sta impegnando da molto tempo, ma mi piacerebbe molto che anche attraverso questo giornale se ne parlasse di più. Io proverò solo nei prossimo giorni a proporre qualche riflessione che ho sviluppato negli anni scorsi scrivendo per la regione un “report sociale”.

IL FATTO
Fuori legge
i sacchetti di plastica
non biodegradabili

Per molti questa è una notizia come tante altre, per alcuni è una rivoluzione. Attenzione ai sacchetti di plastica. Soprattutto se non sono biodegradabili. Si comincia anche a individuare responsabilità e non solo principi.
Con la pubblicazione in Gazzetta ufficiale della legge 11 agosto 2014, n.116, di conversione del decreto-legge 91/2014 (il cosiddetto ‘decreto competitività’), sono entrate in vigore le norme che regolano le sanzioni per commercializzazione di sacchetti di plastica non biodegradabili, anche se ceduti a titolo gratuito. I commercianti, da un paio di settimane, non possono utilizzare sacchetti non conformi alla norma, “nemmeno cedendoli come omaggio”.
Ne dà notizia il sito www.rifiutilab.it, sempre attento alle novità in materia ambientale; e soprattutto ce lo ricorda la Confesercenti che ci dice come, attraverso la normativa nata del 2011, il nostro Paese sia riuscito a raggiungere una riduzione del 50% in tre anni del volume degli shopper in circolazione, passando da circa 180 mila tonnellate nel 2010 a poco più di 90 mila nel 2013 e ha migliorato qualità e quantità del rifiuto organico, creando un vero e proprio modello di raccolta differenziata. Ora dipende anche da noi fare rispettare questa importante regola.

Syria 9 settembre, il folle amore per la vita

Per tutti questi mesi mi hanno chiamata “folle”.

Ero l’irresponsabile.

Hanno discusso di me la prudenza e il buon senso.

“Sei pazza” – dicevano.

Per tutti questi mesi ho pensato avessero ragione loro.

Erano quasi riusciti a convincermi, sì.

Convincermi d’esser stata folle, irresponsabile ed avventata.

Ho pensato fino ad oggi che avessero ragione loro.

Non si tratta di ragione. Si tratta di cuore.

Ti ho dato la vita in un luogo di morte.

Alla luce in un tempo buio.

Ti ho messo al mondo in un territorio di guerra.

Sei nato in Syria, oggi, 9 settembre 2014.

In questo Paese che ha messo al mondo anche me.

In questo Paese che non sa più cosa sia la pace.

In questo Paese che non conosce la compassione.

Sei nato senza un padre, perché tuo padre ha scelto la guerra.

Sei nato orfano perché la guerra se l’è preso.

Ho pensato che avessero ragione loro.

Ma non si tratta di ragione, si tratta di cuore.

Ora, che finalmente ti stringo tra le mie braccia so che

la ragione può lasciare il passo all’amore,

la morte alla vita, il buio alla luce.

Sei nato in Syria, oggi, 9 settembre 2014 e sei la mia scheggia di pace.

Valentina Preti

(testo presentato al Giardino delle Duchesse di Ferrara nell’ambito della rassegna ‘Schegge di pace’ organizzata dalla Proloco. L’autrice fa parte dell’associazione culturale ‘Pennuti e contenti’, vedi blog)

LA STORIA
Lampo, vita di un cane viaggiatore

A fine giugno sono andata all’Isola d’Elba per girare un reportage per la web tv dell’Ispra, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, dove lavoro. Con la mia collega Lorena abbiamo preso un treno diretto a Piombino e, al ritorno, abbiamo fatto scalo alla stazione di Campiglia Marittima. Qui pomeriggio afoso, scenario da Far West e, inaspettata, una storia da scrivere.
Quella di Lampo, il cane viaggiatore. L’ho incontrato prima su un quadro, appeso al bar della stazione con tanto di dedica da parte delle Ferrovie Italiane, mentre sorseggiavo te freddo e menta.
Poi in una statua che gli è stata dedicata e che è nel giardino della stazione, coperta da due pini.
Infine nel racconto del barista, che, ringrazio, per essersi lasciato incalzare dalle domande.
La storia, che ha fatto il giro del mondo, in sintesi è questa qua.
Siamo nei primi anni cinquanta e un cane randagio si aggira nella stazione di Livorno. Un giorno un capostazione chiama l’accalappiacani e un ferroviere per salvarlo lo getta su un carro merci diretto a sud.
Arrivato a Campiglia Marittima, il cane scende dal treno e dopo qualche giorno viene praticamente adottato dal vice capostazione Elvio Barlettani che, a causa della sua velocità, lo chiama Lampo.
Da Campiglia, un nodo ferroviario con molto traffico, Lampo è in grado di prendere un treno per dovunque. Sale solo su treni passeggeri, nascondendosi sotto un sedile quando sente arrivare il controllore. Viaggio dopo viaggio Lampo visita ogni stazione nel raggio di 300 chilometri da Campiglia, diventando una presenza ben conosciuta.
La notte dorme nella stazione, ma al mattino salta sul treno locale per Piombino per accompagnare Virna Barlettani, la figlia del vice capostazione, a scuola e riprendere il treno per Campiglia subito dopo. Nel pomeriggio ritorna in treno a Piombino per riaccompagnare Virna a casa e poi di nuovo a Campiglia. Un giorno, però, il cane rimane intrappolato in una porta e il treno in partenza deve essere fermato per liberarlo. Un ispettore, che osserva l’accaduto, ordina di farlo sparire: Lampo viene caricato un treno per il lontano sud, con le istruzioni di abbandonarlo in aperta campagna, lontano da ogni stazione.

cane-lampo
Il leggendario Lampo, protagonista di un libro inglese per bambini

Dopo cinque mesi, malato e ferito, Lampo tornerà. Diventerà famoso e finirà sui giornali nazionali ed esteri. Sarà anche filmato da diverse troupe televisive. Morirà nel 1961 e alla stazione di Campiglia Marittima sarà eretta una statua in suo onore.
Elvio Barlettani, il vice capostazione, ha scritto un libro sulla sua storia intitolato “Lampo il cane viaggiatore” edito dalla casa editrice La Bancarella di Piombino. E’ catalogato fra le letture per l’infanzia, ma è un’iniezione di poesia ed energia raccomandabile anche agli adulti. Soprattutto a quelli che dimenticano di essere stati bambini.
Esiste anche un libro a fumetti in inglese intitolato “Famous dogs: Lampo the travelling dog” realizzato da James E. McConnell e pubblicato dalla Look and Learn.

Per saperne di più: [clic per vedere]
La storia di Lampo cane viaggiatore (Club Amici della Ferrovia)
Lampo, the travelling dog (Copertina, Look and Learn)
Lampo, il cane viaggiatore sul sito ‘Il cane insegna’

 

 

Chicago, la città dove l’apprendimento non finisce mai

È possibile abbattere la barriera che divide l’apprendimento a scuola dall’apprendimento fuori della scuola? Ci ha provato con successo Rahm Israel Emanuel, attuale sindaco di Chicago e già Capo di Gabinetto di Barack Obama. Emmanuel è forse l’unico politico ad aver condotto la sua campagna per l’elezione a sindaco su una piattaforma di riforma della scuola. Una volta eletto ha mantenuto gli impegni, mettendo la città di Chicago a disposizione dell’apprendimento continuo: “Where learning never stops”.
Chicago City of Learning è il primo sforzo del genere che si realizza in una grande città degli Stati Uniti, lo seguiranno i sindaci di Los Angeles, Dallas, Columbus, Pittsburgh, Washington.
Un’iniziativa innovativa che interconnette le opportunità di apprendimento per i giovani in modo da consentire ad ognuno di perseguire e sviluppare i propri interessi.
Attraverso CCOL, che dispone della piattaforma online https://chicagocityoflearning.org/, bambini e giovani, dai quattro ai ventiquattro anni, possono intraprendere sempre nuovi percorsi di conoscenza, esplorare le numerose risorse della città e scoprire cosa fare e apprendere, accumulando crediti, un portafoglio elettronico, archiviato nel badge personale che garantisce il riconoscimento permanente dei risultati ottenuti attraverso le proprie attività.
Il badge digitale registra di volta in volta il livello a cui si è giunti, le conoscenze e le abilità acquisite in una varietà di contesti di apprendimento non tradizionali. Più si progredisce, più si amplia la possibilità di nuove e più avanzate esperienze, di conoscenze più approfondite e di opportunità speciali. I crediti acquisiti, infatti, consento ai giovani di accedere a stage, a posti di lavoro e sono riconosciuti sia come credito scolastico, sia per l’accesso ai college.
Chicago City of Learning muove dalla convinzione che nessuna istituzione da sola può preparare i nostri giovani per il loro futuro, che l’apprendimento non si può esaurire tra le pareti delle aule scolastiche.
Mette a disposizione dei suoi giovani cittadini tutte le risorse della città, le sue organizzazioni, le scuole, le sue agenzie e le istituzioni culturali, perché operino in sinergia per sostenere i loro percorsi di apprendimento e di formazione, a partire dai quattro anni fino ai ventiquattro, li guidino e li assistano nell’esplorare e approfondire i loro interessi, sviluppare i loro talenti, scoprire le loro passioni, e in questo modo iniziare a tracciare i loro percorsi di vita verso il futuro.
Chicago City of Learning è il prodotto di una potente collaborazione tra le istituzioni civili e culturali che si preoccupano profondamente della città e dei suoi giovani.
L’apprendimento connesso sfrutta le possibilità dell’era digitale per rendere il sapere più ricco e più rispondente alle esigenze e alle opportunità del nostro tempo.
Le conoscenze, si sa, persistono più a lungo, sono più durature quando si collegano alla vita di chi studia, quando gli apprendimenti scolastici si connettono agli interessi che i giovani coltivano al di fuori della scuola, quando trovano supporto nelle reti sociali che incoraggiano hobby e abilità, che forniscono la possibilità di creare e produrre cose reali nel mondo reale, consentendo di tracciare percorsi chiari e personalizzati in grado di guardare avanti.
Accedendo alla piattaforma ChicagoCityOfLearning.org/CPS e creando il proprio account, il giovane utente può scegliere sia attività divertenti, sia percorsi di apprendimento, online o da vivere nel proprio quartiere o, ancora, attività organizzate dai partner del progetto come biblioteche, musei, parchi, associazioni e ancora altro.
Quando i partecipanti apprendono una nuova abilità o si impegnano in un programma, guadagnano crediti che vengono memorizzati direttamente sul badge, andando ad arricchire il proprio “portafoglio elettronico” che vale per la scuola come per i potenziali datori di lavoro.
Ogni volta che un giovane guadagna crediti, riceve suggerimenti per affrontare nuovi percorsi di apprendimento, altri programmi e attività che possono essere interessanti. Pertanto viene invitato a “salire di livello”, ad ampliare o approfondire le proprie conoscenze, ad acquisire competenze nuove. I giovani possono collegare una opportunità di apprendimento a quella successiva, una attività svolta in classe ad una online, a un programma di quartiere o di una istituzione cittadina.
«I learn best when… I can be myself» è la filosofia di Chicago City of Learning, in sostanza si apprende meglio quando si può essere se stessi.
Si tratta di esperienze che ci consentono di toccare con mano il nostro provincialismo e i nostri ritardi. Viene da sorridere a pensare alle timide iniziative di “scuole aperte” di casa nostra, spesso asfittiche e ben lontane dal respiro e dalla prospettiva, dal disegno programmato di un sindaco e di una città orgogliosi di essere “campus” di apprendimento per i propri giovani.
Che cosa ci vuole per diventare una Città di apprendimento? Ci vuole crederci. Amministratori e politici che riescano a capire che non c’è futuro per la città se non si investe sui giovani e sulla conoscenza.
L’istruzione non è più compito da delegare in esclusiva allo Stato centrale, sempre più è compito di cui avere grande e rinnovata cura a livello locale, perché sono i saperi e i giovani la ricchezza del presente e del futuro della nostra città.
Gli strumenti ci sono, a partire dalla valorizzazione delle autonomie scolastiche, aprendole al dialogo con l’intera città, coinvolgendole in un progetto condiviso, chiamandole a rendere conto del loro operato.
Una città per l’apprendimento, “Where learning never stops”. Perché farlo? Perché le nostre ragazze e i nostri ragazzi meritano d’essere incoraggiati al piacere della scoperta, all’esplorazione, a promuoverne la curiosità, la resilienza e le competenze del ventunesimo secolo, vivendo in modo compiuto la loro città e tutte le risorse che essa offre. Perché è questo, forse, l’unico vero modo per insegnare loro a rispettarla. Perché è un potente aiuto a mantenere e consolidare quanto appreso sui banchi di scuola, perché lo sviluppo di competenze e l’esperienza degli stage promuovono la possibilità di riuscita nel lavoro, perché si riducono le differenze e gli svantaggi, perché è offerta a tutti, senza distinzione, l’opportunità di sviluppare i propri talenti e le proprie ambizioni.

In regione si voterà il 23 novembre per il Consiglio e il nuovo presidente

L’indiscrezione arriva dal sito online dell’edizione bolognese del Corriere della Sera. Sarebbe il 23 novembre la data scelta dal governo e dai vertici regionali per il rinnovo del Consiglio regionale e per la nomina del nuovo presidente del governo dell’Emilia Romagna. Gli elettori dovranno scegliere il successore di Vasco Errani, dimissionario a seguito della condanna in appello che ha ribaltato il verdetto di primo grado del processo noto come ‘Terremerse’. Da viale Aldo Moro fonti autorevoli assicurano che manca solo l’ufficialità del provvedimento.

L’INCHIESTA
Idrovia, per il bypass di Ferrara
servirebbero 40 milioni di euro

SEGUE – Il fatto che l’idrovia possa restare una bella incompiuta com’è nell’auspicio di molti, può andare bene sino a che l’Europa non chiederà conto delle inadempienze, ossia del fatto di avere riqualificato l’asta del Po rendendola navigabile senza però garantire la possibilità di transito ai natanti addetti al trasporto merce di classe quinta.
Per capire meglio il tema, vediamo un po’ di dati sull’opera, valutando quel che era previsto, quel che è stato fatto e i prossimi passi da compiere.

La vicenda dell’idrovia nasce nel ’99 quando le quattro regioni lambite dal Po (Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna) decidono di farne una via d’acqua e siglano un patto per dar corpo all’ipotesi caldeggiata dall’allora ministro Bersani. Ci sono voluti nove anni prima che gli intenti diventassero progetti esecutivi.
Il tratto ferrarese è costituito da un percorso di 70 chilometri compresi fra la conca di Pontelagoscuro e Porto Garibaldi. Per quanto riguarda la città, il disegno originario prevedeva un canale circondariale da scavare attorno al nucleo abitato, per consentire alle imbarcazioni di immettersi nel Po di Volano senza transitare per il centro storico. Ma la Provincia, capofila del progetto, ha deciso di agire diversamente, senza in realtà trovare alcuna opposizione da parte degli altri soggetti coinvolti. Neppure di coloro che oggi polemizzano, senza però all’epoca avere mai alzato un dito per opporsi, pur avendo avuto i titoli per farlo.

Il nuovo canale, lungo circa 7,5 chilometri, si sarebbe staccato dal Po all’altezza di Sabbioni per raggiungere da qui il Volano. Il costo stimato per l’opera sfiorava i 39 milioni di euro. Ma il bypass non è stato realizzato e attualmente il collegamento avviene tramite il canale Boicelli che attraversa la zona industriale lambendo il petrolchimico sino all’immissione del canale Burana, il quale poco più a valle assume la denominazione di Po di Volano.
Le ragioni che hanno fatto propendere per il riadattamento dell’idrovia esistente (Boicelli-Burana), al di là dei costi ingenti per realizzare gli oltre 7 chilometri della nuova tratta, come ha ricordato a ferraraitalia l’ex presidente della Provincia Pier Giorgio Dall’Acqua, sono il forte impatto paesaggistico dell’opera e i rischi connessi ad eventuali fenomeni alluvionali connessi al Po.

Il problema è che l’attuale passante non consente il transito delle imbarcazione di quinta classe europea come previsto da progetto. Un impedimento virtuale se nessuno ne chiederà conto; e ‘virtuoso’ nel senso che preserva la navigazione a scopo turistico da una commistione con mezzi commerciali che sarebbe di disturbo…
La realizzazione comunque si avvia al completamento, previsto per la fine del prossimo anno. Stefano Capatti, ricercatore del Centro documentazioni e studi di Ferrara, proiettando lo sguardo in avanti, nel febbraio scorso ha sostenuto, proprio su questo giornale, che “la sostenibilità di un’opera così imponente richiede una gestione efficiente ed efficace nel connettere l’asta navigabile a porti, ferrovie, strade. I criteri di scelta del porto da scalare per una nave sono molti e, a loro volta, i soggetti che a diverso titolo ne determinano le priorità, sono una moltitudine, non solo armatori o personale di bordo. Nell’ottica auspicata dall’Unione europea (partecipazione dei privati) – ha aggiunto il ricercatore del Cds – si può ipotizzare il coinvolgimento anche finanziario di una società logistica (o di un gruppo di privati) che offra un ‘global service’, compresa la gestione dell’idrovia per quanto concernono i trasporti interni (e i rapporti con le altre idrovie) e la localizzazione e gestione dei nodi integrati (fiume-ferrovia-aereo-mare), per rilanciare il trasporto locale via mare. Si tratterebbe del primo e più moderno servizio presente in Italia, dove semplificazione e fluidità garantirebbero alle nostre imprese un servizio innovativo”.

2. CONTINUA

Leggi la prima parte

Guarda il video-promo dell’idrovia realizzato da Regione Emilia Romagna e Provincia di Ferrara

“TASS – Storia di Stefano Tassinari” alla Sala Boldini

da: Arci Ferrara

Mercoledì 10 settembre, alle ore 20:30, la Sala Boldini ricorda la figura di Stefano Tassinari con la proiezione di “TASS” il documentario di Stefano Massari presentato in anteprima all’ultima edizione dei Biografilm Festival di Bologna.

Stefano Tassinari è stato scrittore, giornalista, poeta, critico letterario, musicista, autore teatrale, operatore culturale, militante politico. Muore a 56 anni, nel maggio del 2012 dopo una lunga malattia. Il film racconta, intrecciando i ricordi di molti tra i tantissimi amici e compagni di strada, la sua vicenda umana, politica e culturale: dalle origini ferraresi agli anni romani nel cuore della contestazione degli anni 70’, al ritorno a Ferrara con la prosecuzione dell’attività politica, contestualmente all’inarrestabile creazione e condivisione di esperienze musicali, teatrali, oltre che di riviste e rassegne letterarie; dagli inizi della sua carriera letteraria all’approdo a Bologna, che è divenuta la sua città d’elezione, il suo definitivo punto di riferimento operativo.

Il film è il racconto corale di artisti, intellettuali, scrittori, uomini politici che gli sono stati accanto in tantissime vicende culturali: Pino Cacucci, Mauro Pagani, Mario Dondero, Marcello Fois, Alberto Bertoni, Carlo Lucarelli, Bruno Arpaia, Marco Baliani, Claudio Lolli, Fausto Bertinotti, Filippo Vendemmiati, Luca Gavagna, Andrea Satta, Pier Damiano Ori, Concetto Pozzati e molti, molti altri.
Stefano Tassinari è stato un inesauribile “motore di cultura”. Un uomo governato da una coerenza radicale ma capace di orizzonti capillari e vastissimi. Un uomo di grande rigore e di generosità autentica, senza compromessi, diventato nel corso degli anni un punto di riferimento, un interlocutore cruciale per tantissimi protagonisti del mondo culturale e politico.

Prima della proiezione interverranno:
– il regista Stefano Massari,
– l’Assessore alla Cultura del Comune di Ferrara Massimo Maisto,
e gli amici e collaboratori Roberto Formignani, Luca Gavagna, Laura Magni, Roberto Manuzzi, Marco Caselli Nirmal e Giorgio Rimondi.

L’ingresso alla serata è libero.

L’ultimo scatto di Andrey Stenin

Da MOSCA – Venerdì 5 Settembre, Mosca. Un collega mi avverte del suo arrivo in ritardo in ufficio per la presenza di traffico intenso in una zona a pochi passi da noi. Il traffico e la presenza di tante persone, colleghi giornalisti o gente comune non rimasta indifferente, sono la reale causa di un rallentamento all’altezza dell’agenzia russa di stampa internazionale Rossiya Segodnya, sul larghissimo Zubovsky Bulvar. Fiori rossi ovunque, tristezza e lacrime, qui si sta svolgendo la cerimonia commemorativa del fotoreporter di guerra Andrey Stenin, ucciso nell’est dell’Ucraina, le cui ultime notizie risalivano allo scorso 5 agosto.

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Mosca, davanti all’agenzia stampa, foto di Simonetta Sandri

Da allora, la stampa russa e internazionale si erano mobilitate, sfilando per le strade del mondo con il suo giovane ritratto, accompagnato dallo slogan “Liberate Andrey”. Si sarebbe scoperto solo qualche giorno fa che Andrey era stato ucciso, poco dopo la sua scomparsa, nel corso di un bombardamento contro un convoglio di mezzi che trasportavano centinaia di rifugiati, scortato dalle milizie, nella zona di Donetsk. Stenin è il quarto giornalista russo che muore lavorando, seguendo i fatti di guerra in Ucraina, come era avvenuto anche, ricordiamo, al fotografo italiano Andrea Rocchelli, nel mese di maggio. Oltre ad Andrey, altri tre giornalisti russi sono periti nel conflitto, il corrispondente Igor Kornelyuk, l’ingegnere video Anton Voloshin e il cameraman Anatoly Klyan. I suoi colleghi dicevano che Andrey “non poteva mai stare fermo”, che viveva sotto il fuoco delle artiglierie e che era estremamente appassionato e coinvolto dal suo mestiere di fotoreporter, che aveva intrapreso dal 2003.

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Andrey Stenin a lavoro, foto RIA Novosti

Voleva immortalare gli eventi, sempre, lasciare traccia di quanto di terribile l’uomo poteva essere capace di fare. Era stato in Siria, nella striscia di Gaza, in Crimea durante il referendum, in Egitto, in Libia, in Kirghizistan e in Turchia. L’unico pezzo scritto da lui, ad accompagnare le fotografie, è quello di Libia, intitolato “Come abbiamo lottato per Ras Lanuf e la Libia libera”: ha sempre voluto parlare solo per immagini e con le immagini.
Insignito del premio “Camera d’Argento” nel 2010 e nel 2013, Stenin, dal 2003, aveva lavorato nel giornale Rossiyskaya Gazeta, con il portale Gazeta.ru e, nel 2008, aveva iniziato ad occuparsi esclusivamente di fotografia, lasciando bruscamente il giornalismo classico (che non amava come la fotocamera), operando come freelance per Itar-Tass, Ria Novosti, Kommersant, Reuters, Associated Press, France Press. Collaborava con Ria Novosti dal 2009 (chiusa il 9 dicembre 2013 e sostituita dall’agenzia russa di stampa internazionale Rossiya Segodnya) e, dal 2014, era diventato l’inviato speciale di Rossiya Segodnya.

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Ritratto di Andrey Stenin, foto RIA Novosti

Andrey è stato insignito post mortem dell’Ordine del Coraggio, con decreto firmato dal presidente Vladimir Putin, proprio lo stesso scorso venerdì. Di lui restano centinaia di coraggiosi e intensi scatti, molti dei quali esposti davanti alla sede moscovita dell’agenzia stampa e l’annuncio recente della creazione di un premio internazionale annuale di fotogiornalismo in sua memoria. Riposa ora nel cimitero Troyekurovskoye di Mosca. Amaramente e tristemente, se ne va un altro giovane reporter trentatreenne, talentuoso e visionario, che ha sacrificato la propria vita perché la gente sappia la verità, per il diritto di tutti gli uomini di avere un’informazione obiettiva, chiara e multilaterale.

IL FATTO
Google celebra Ariosto, un bel regalo per Ferrara

Oggi gli utenti italiani di Google, mentre digitavano le loro ricerche sul motore più utilizzato al mondo, si sono trovati di fronte ad un doodle molto caro ai ferraresi: quello che ricorda il 540° della nascita di Ludovico Ariosto, l’illustre poeta reggiano di nascita, ma ferrarese d’adozione.
L’Ariosto è nato infatti a Reggio Emilia l’8 settembre del 1474, primo di dieci fratelli.
Si è poi trasferito a Ferrara in giovane età per frequentare l’università, prima gli studi di legge, presto abbandonati, poi quelli umanistici, da cui il suo amore per la poesia in volgare, che lo porterà a comporre il suo più celebre poema: L’Orlando Furioso (una stesura durata anni, dal 1505 al 1532).
“Vari sono gli elementi del doodle – scrive Roberto Russo su Books Blog, il primo ad aver commentato la notizia – vediamo il drago (che forma la scritta Google), l’ippogrifo, la lancia, la donzella sull’isola. I riferimenti sono vari e appartengono tutti all’opera dell’Ariosto. È proprio a Ludovico Ariosto, infatti, che abbiamo la prima descrizione dell’ippogrifo, questa creatura alata che rappresenta un cavallo alato. Scrive Ariosto nel canto VI dell’Orlando furioso:

Non è finto il destrier, ma naturale,
ch’una giumenta generò d’un Grifo:
simile al padre avea la piuma e l’ale,
li piedi anteriori, il capo e il grifo;
in tutte l’altre membra parea quale
era la madre, e chiamasi ippogrifo;
che nei monti Rifei vengon, ma rari,
molto di là dagli aghiacciati mari.

Quivi per forza lo tirò d’incanto;
e poi che l’ebbe, ad altro non attese,
e con studio e fatica operò tanto,
ch’a sella e briglia il cavalcò in un mese:
così ch’in terra e in aria e in ogni canto
lo facea volteggiar senza contese.
Non finzion d’incanto, come il resto,
ma vero e natural si vedea questo.

Al canto IX troviamo invece la fanciulla e il drago. Leggiamo:
Voi dovete saper ch’oltre l’Irlanda,
fra molte che vi son, l’isola giace
nomata Ebuda, che per legge manda
rubando intorno il suo popul rapace;
e quante donne può pigliar, vivanda
tutte destina a un animal vorace,
che viene ogni dì al lito, e sempre nuova
donna o donzella, onde si pasca, truova;

Nello specifico del doodle odierno, comunque, troviamo una delle scene più celebri dell’Orlando furioso. C’è Ruggiero che cavalca l’ippogrifo salva Angelica dal mostro marino. Però Angelica, una volta messa in salvo, non sposerà Ruggiero ma preferirà Medoro, provocando l’ira dei cavalieri che le facevano la corte e la follia di Orlando”.

Una sorpresa bella e inspettata quella di Google, che coglie impreparata la città in cui l’Ariosto ha scelto di vivere fino alla fine dei suoi giorni e che oggi non gli tributa nessun particolare evento.
E’ auspicabile che questo insperato ritorno di immagine per il poeta e, indirettamente, per Ferrara, possa stimolare tanti a riprendere in mano le sue opere e, perché no, a vistare i suoi luoghi.

I gelati sono buoni (ma costano milioni)

La scorsa settimana il premier Matteo Renzi, dopo il Consiglio dei Ministri in cui ha presentato il piano per le grandi opere, si è proposto alla stampa nel cortile di Palazzo Chigi con un cono gelato per replicare al settimanale inglese The Economist che nell’ultimo numero lo “fotomontava”, con un gelato in mano, insieme a Francois Hollande, Angela Merkel e Mario Draghi su una barchetta che affonda fatta con una banconota da 20 euro.

Ha dimostrato un buona capacità di usare la propria ironia (dal gelato usato come sbeffeggio al gelato usato come simbolo di orgoglio nazionale) ed un ottima competenza nell’arte di vendere quello che non ha (in questo caso i soldi per finanziare le promesse fatte sulle grandi opere).

Pochi giorni fa il premier Matteo Renzi, dopo il Consiglio dei Ministri, si è presentato alla stampa con un volumetto rosso in mano (dalla grafica caratterizzata da uno stile che sta fra quello del “Mulino Bianco” e quello dei “Looney Tunes”) per presentare la sua “rivoluzione” scolastica che ha chiamato: “Una buona scuola”.

Fra le altre cose il premier ha detto: “A voi chiedo di essere protagonisti e non spettatori”, “Vi propongo un patto, un patto educativo, non l’ennesima riforma, non il solito discorso che propongono tutti i politici”, “Ci sarà una grande campagna d’ascolto fatta attraverso Internet, per una rivoluzione”.

Anche in questo caso ha dimostrato un buona capacità di usare la propria ironia (dalla strizzatina d’occhio ammiccante che vuol dire: “Io non sono un politico come tutti gli altri perché siete voi i protagonisti” alla presunzione di pensare che sia ascolto quello fatto contando i click del mouse dei “mi piace/non mi piace” su una pagina di Internet) ed un ottima competenza nell’arte di vendere quello che non ha (anche in questo caso i soldi per finanziare le promesse fatte sulla scuola).

In primis, mi chiedo se questo stile del Presidente del Consiglio debba considerarsi un esempio di meritocrazia anche per gli insegnanti: dimostrare una buona capacità di usare la propria ironia per attirare l’attenzione ed un ottima competenza di vendere quello che non si ha per formare nuovi speculatori.

Viene da chiedersi anche:

1) se nel Patto del Nazareno siano comprese lezioni di “affabulazione mediatica” da parte del socio più anziano e marpione verso il socio più giovane ed ambizioso;

2) in quanti crederanno ad una serie di belle intenzioni e di progetti interessanti senza preoccuparsi delle ricadute che i pericolosi stravolgimenti democratici inseriti in altri punti avranno sulla dignità degli insegnanti e sul ruolo della scuola, intesa come organo costituzionale;

3) se ci sarà più attenzione a quello che sembra esserci o più a quello che manca (ad esempio un piano di investimenti condiviso con il Ministero dell’Economia e delle Finanze, la restituzione degli oltre 8 miliardi di euro sottratti negli anni scorsi, un’idea complessiva della scuola che formi cittadini consapevoli, un impegno all’integrazione e ai nuovi saperi, il rinnovo del contratto di lavoro per il personale);

4) se, sapendo che la lingua inglese e l’educazione motoria già si insegnano nelle nostre scuole, la proposta di aumentare le ore per queste materie obblighi la scuola a diminuire le ore di altre materie (quali?) oppure accresca l’orario settimanale di frequenza scolastica per gli studenti;

5) se la scarsa originalità mostrata dal premier nella scelta di definire la sua proposta: “buona scuola” (lui è di certo al corrente che il 31 luglio scorso è stato presentato al Senato il disegno di legge “Norme generali sul sistema educativo d’istruzione statale nella scuola di base e nella scuola superiore. Definizione dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di nidi d’infanzia” che ripropone la Legge di Iniziativa Popolare per una “Buona Scuola” per la Repubblica già presentata nel 2006) denoti un calo di inventiva o sia invece frutto del tentativo di sostituire il “Buona Scuola” del 2006, frutto di un percorso partecipato con il “Buona Scuola” di Matteo Renzi, frutto di un protagonismo confermato.

Il primo “Buona Scuola” infatti “presenta l’esito di un dibattito e di un percorso che ha coinvolto in modo democratico migliaia di genitori, docenti e studenti di varie parti d’Italia, che hanno avuto così l’opportunità di riflettere e condividere un’idea di scuola composita e complessa. Un percorso articolato, lungo, onesto e sofferto che ha visto ciascuno fare i conti con le idee e i bisogni dell’altro, nella ricerca della migliore mediazione possibile e che è scaturito nella raccolta di oltre centomila firme”, il secondo “Buona Scuola” invece si presenta come uno spot commerciale dalla grafica patinata e dalle evocazioni suggestive, che invita calorosamente ad acquistare a scatola chiusa un prodotto non ancora sperimentabile per la mancanza di finanziamenti, senza nemmeno il diritto di recesso da parte del consumatore.

Alla fine viene da rispondersi che, quella presentata in conferenza stampa dal premier Matteo Renzi, più che una “buona scuola” appare più come una “buona suola”.

That’s all folks!

Skiantos – I gelati sono buoni (ma costano milioni)

LA STORIA
Un giorno in Italia, i protagonisti siamo noi

di Alessandro Oliva

E’ forse incredibile pensare che 44.197 video girati come contributo e materiale fondante di un bizzarro progetto audiovisivo possano venire scremati e assemblati da una esperta squadra di selezionatori e montatori coordinati da un regista premio Oscar per poi venire dotati di una colonna sonora, di movimento ed intenzionalità narrativa ed infine costituire un film di grande impatto visivo ed emotivo?
Istintivamente verrebbe da dire che è impossibile o troppo difficile, ma è proprio da questo processo che è nato Italy in a day, documentario realizzato su iniziativa di Gabriele Salvatores e presentato pochi giorni fa fuori concorso alla 71esima Mostra di Venezia.

Il film, diretto discendente di Life in a day, documentario diretto da Kevin Mcdonald e prodotto da Ridley Scott, realizzato grazie al monumentale lavoro di selezione e montaggio di oltre 80.000 video, è una forma audiovisiva totalmente innovativa, generata dagli utenti e per questo acclamata come democratica e descritta come Social Movie. In questo nuovo modello di film si palesa un obiettivo tanto semplice quanto ambizioso: regalare una panoramica dell’ Italia, dei suoi abitanti e della loro vita in un giorno qualsiasi, il 26 ottobre 2013, grazie a riprese, spezzoni, corti realizzati dagli italiani stessi.

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Il logo di ‘Italy in a day’, progetto sviluppato sotto la regia di Gabriele Salvatores

Non si può prevedere il risultato di un simile esperimento e io, che sono in sala durante l’anteprima veneziana, non so cosa aspettarmi. Da un lato credo che sarà inevitabile ritrovarsi di fronte a scene grezze e volgari, dall’altro provo una sorta di oblio, mi sento come un foglio bianco su cui il film è pronto a scrivere e dipingere. Non si capisce se per uno scherzo del destino o se intenzionalmente, ma prima della proiezione viene consegnato il Leone d’Oro a Thelma Schoolmaker, storica montatrice di Martin Scorsese, quasi a ribadire l’importanza di questo specifico momento dell’arte filmica.

Infine le luci si spengono e tutti attendiamo di vedere un giorno italiano in 75 minuti.
Quello a cui assistiamo è strabiliante: piccoli frammenti si legano l’uno all’altro secondo una suddivisione temporale e tematica che ci porta dall’alba al tramonto, dalle prime luci al buio. In essi gli italiani si raccontano e mostrano: alcuni sono abbracciati ai loro cani o gatti, altri sotto le coperte, alcuni si ritraggono in sport estremi, molti si baciano. Ci sono astronauti, medici, testimoni di giustizia, pensionati, anziani, barboni e molti giovani, alcuni disoccupati, altri oramai fuori dall’Italia. I sentimenti si alternano: gioia, umorismo, divertimento, cupezza, perplessità, determinazione, rimorso, amarezza e riflessività travolgono lo spettatore, in un caleidoscopio emozionale. Il film ha una vita sua, va avanti a ritmo serrato e poi ti lascia respirare, ti porta nell’intimità più profonda e poi ti fa sfrecciare nelle strade, nelle montagne e nei fiumi. Le immagini colpiscono, si susseguono una dopo l’altra sul sentiero tracciato dalla musica. La sala ride, piange e applaude.
Al termine della proiezione siamo tutti storditi, gli spettatori se ne vanno barcollanti, tra di loro ci sono anche alcuni dei realizzatori dei video.

Uscito, non posso fare a meno di chiedermi che cosa abbiamo visto. Certo, un trionfo dell’internet culture e un nuovo genere di film, ma è un puzzle di piccole realtà o un ritratto illusorio? La risposta probabilmente è entrambe. Sicuramente non è stato mostrato tutto, mancano molti tasselli come la mafia, la corruzione, altre cose di cui ci dovremmo vergognare e altre di cui dovremmo andare fieri. L’ onnicomprensività in un film forse non può esistere, e per varie ragioni: contributi non poi così numerosi, necessità selettive da sposarsi a un formato fruibile, quindi la semplice impossibilità di riprendere o fare riferimento a tutto. Un film, proprio per la sua costituzione, non può rivelarci il reale, perché è orientato, perché è un racconto che subisce l’influsso dei suoi autori, sempre e comunque. Il quadro, nella sua interezza, difficilmente è realistico, ma, gli spiragli di realtà sono molti perché, nonostante tutto, Italy in a day ritrae un paese con persone semplici, modeste, dignitose, desiderose di condividere senza quell’esibizionismo piaga dei social network e per questo, a mio modo di vedere, vere. L’Italia che ho visto rappresentata allora non è veritiera, né magari quella di tutti i giorni, ma è di certo un’ Italia umana, che mi ha emozionato e che mi ha reso fiero, che dovrebbe renderci tutti fieri.

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L’OPINIONE
Doppi incarichi: il silenzio degli ‘innocenti’

Non si capisce fino in fondo del perché alcune suonerie, che da un po’ di tempo suonano con fragore nelle stanze dei palazzi romani ed in alcune Regioni del nostro Paese, stiano producendo in alcuni territori, ferrarese compreso, uno sconquasso della politica.
Anche da questa testata, in alcune circostanze, fu sollevato il problema, non nuovo, del cachet dei manager, degli amministratori unici, dei doppi e tripli incarichi pubblici, di anomali rimborsi spese, e anche per aggiornamento dei dossier aperti per danno erariale e per dissipazione del patrimonio pubblico.
Sono cose minute, piccoli errori, ci siamo sbagliati, è poca cosa, incidono marginalmente sui bilanci, rivedremo le singole posizioni, sono tutte le considerazioni che si sentono, tra le righe e a bassa voce, nei corridoi della politica e relativi collegamenti.
Tutto sembra scoppiato dopo le dimissioni del presidente Errani e a seguito delle mezze richieste di candidature, dalle presidenze agli assessori, dai consiglieri al listino, aspettando che da lassù qualcuno decida liste, organigrammi e altro che lasciamo alla fantasia del lettore.
Niente premi, prima si è detto di sì e poi di no, con qualche ni; stipendi troppo alti e vergognosi, bonus senza senso, troppi Comuni, e senza la Provincia ci sarà il caos, le Camere di commercio che si debbono fondere, sgonfiare le Regioni, le municipalizzate, almeno un terzo in rosso da tre anni, in un numero pazzesco, impensabile il proliferare delle aziende partecipate, dettano il quadro, dove sindaci, amministratori, candidati di ogni sorta, segretari di partito, capigruppo, consiglieri la sparano grossa per essere ancora più renziani.
Che sia un modo per rafforzare le candidature è ormai opinione diffusa, ma si sappia, però, che sono gli stessi che alcuni anni fa osannavano lo smacchiatore del giaguaro e, prima ancora, i capi delle tante sigle partitiche che hanno attraversato questi ultimi anni della Seconda Repubblica.
Ma ci sono ancora le primarie, o forse non ci sono più, una sana competizione tra concorrenti a tutti i livelli non aiuta a scegliere senza però fare telefonate o costituire piccole cordate tra segreterie, circoli e feste di partito.
Il programma, quale programma, quali risorse, quali priorità, quale sviluppo, quale welfare, quali territori, non dovrebbero essere il riferimento per gli elettori che debbono conoscere, per scegliere veramente in libertà?
Come andrà a finire non si sa, certamente non dovrà stare nelle cose della vecchia politica. Quel cambiare verso, finalmente, anche se può sembrare un po’ abusato e sfilacciato. Presto si capirà se è un’illusione, se è solo un sogno, se la speranza comincerà a farsi strada oppure no.
Per poter voltare pagina, questi atteggiamenti di certo non aiutano e non vorremo che con le solite indifferenze tutto restasse nella conservazione.
Il silenzio ancora una tattica, la politica lo spazio dei pochi, le fragilità di un territorio, come il nostro, ancora per continuare a soffrire.
Aspettiamo…

I giochi on line che passione

In questa estate piovosa mi sono ritrovata, per caso, a scaricare sull’iPhone un gioco ora molto in voga: a dire il vero mi ha spinto la curiosità piuttosto della noia. Avevo sempre resistito alle offerte di partecipazione alle diverse pratiche ludiche a cui qualche amico di rete mi aveva invitato. Ma questa volta ho deciso di provare, forse perché nessuno mi aveva invitato a farlo.
Non ho pratica di altri giochi tranne questo: BubbleWitch Saga2. Guardando in rete ho visto che il gioco esiste da tempo; ho visto, inoltre, che in rete è possibile leggere istruzioni per superare i diversi step senza ricevere blocchi e riducendo costi. Questo perché, se i tentativi di superare un livello falliscono, BubbleWitch impedisce per un po’ di giocare a meno che non si voglia comprare un’ulteriore possibilità.
L’obiettivo del gioco è quello di sparare delle bolle colorate cercando di accoppiarne tre o più dello stesso colore. La scena è composta da una sorta di percorso in cui Stella e i suoi gatti hanno bisogno d’aiuto per scacciare gli spiriti malvagi che stanno affliggendo il regno. Superando i livelli, riusciamo a liberare il Paese delle streghe! Si può giocare soli o con gli amici per vedere chi ottiene il punteggio più alto.

I giochi on line sono molto diffusi e sono una faccenda da adulti – altro che adolescenti svogliati – un’abitudine che occupa i viaggi in treno, le pause ai semafori, le file alla posta, l’attesa nelle code degli uffici e persino al ristorante. La ripetitività, la velocità e anche la musica creano una sorta di dipendenza, per cui è difficile smettere di giocare finché se ne ha la possibilità. Inoltre, una volta scaricata l’App, un avviso sull’iPhone e sull’IPad ricorda di giocare.
Internet assorbe una quota crescente di tempo. Alcune ricerche hanno tentato di calcolare il numero di ore sottratte da Internet per mandare mail, cercare informazioni, gestire social network, scaricare e vedere video, ecc. ad altre attività. Il tempo non sembra essere sottratto alle relazioni sociali dirette, come molti avevano paventato agli esordi dei social network, bensì al tempo di lavoro. Per ogni minuto che l’americano medio impiega per divertirsi on line vengono spesi circa 16 secondi di lavoro, 9 di tv e 7 secondi di sonno. Spendiamo meno tempo a guardare la tv, a riposarci e a pensare, dunque. Non è corretto parlare di ore sottratte (l’allocazione del tempo è necessariamente mutevole nel tempo), piuttosto di un tempo maggiormente saturato, senza pause.

Per gli adulti questo tipo di giochi è attrattivo perché consente di mettere alla prova qualche tipo di abilità, ma soprattutto di impegnare tempo senza fatica, senza neppure dovere cercare qualcuno con cui parlare. Niente di male potremmo dire.
Ma mi preoccupa la tendenza a cercare in modo ossessivo un antidoto alla noia, a saturare ogni momento vuoto con un’attività che consenta di passare il tempo, mi preoccupa l’incalzare dell’impazienza, l’incapacità di attendere semplicemente che un’idea arrivi con i tempi suoi o che un cuoco in cucina finisca di preparare il nostro piatto. Non ci arrabbieremo più per le code alle poste (ma perché dovremmo poi in futuro andare alle poste, visto che tutto viaggia on line?), non cercheremo più un’amica a cui telefonare per fare due chiacchiere, non ci preoccuperemo di fare l’abbonamento a Sky o di comperare dvd per trascorrere una buona serata davanti alla tv evitandone i programmi.
Ma la domanda più inquietante riguarda l’inevitabile proliferare di individui annoiati in un tempo in cui il lavoro resterà poco, saltuario e, per molti, poco motivante. Tutto questo tempo libero che dovrà convivere con una limitazione di risorse culturali ed economiche, proporrà l’esigenza di inventare altri modi per impiegarlo, magari con la terza edizione della Saga di Bubble Witch.

Maura Franchi (sociologa, Università di Parma) è laureata in Sociologia e in Scienze dell’educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing e Web Storytelling, Marketing del prodotto tipico. I principali temi di ricerca riguardano: i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@unipr.it

Opere eccelse e valorizzazioni intelligenti, ‘Great’ Britain!

UN DIARIO INGLESE-SCOZZESE

C’è sempre un ritorno, purtroppo, agli usi e costumi che per un breve
tempo ti sei lasciato alle spalle, in questo caso funestato dagli
indegni accoglienza e trasporto delle compagnie low cost. Ma così è:
ora viaggiare significa spostarsi da un punto all’altro. E’ come un
trasloco più che un’esperienza. Tuttavia ad Edimburgo ci sarebbero state
“loro” ad aspettarmi! Le Grazie che nella loro pudicissima nudità
ispirarono Foscolo a scrivere i versi più belli del suo poemetto. “Loro”
sono state create in due versioni. La prima e più famosa per Josephine
Bonaparte che, alla sua morte, venne acquistata dallo zar di Russia ed
esposta all’Ermitage. La seconda, per adornare la residenza del duca di
Bedford a Woburn Abbey, dove Foscolo le vide e le descrisse.
Qualche anno fa la proprietà di Woburn Abbey venne messa in vendita e le
Grazie stavano per prendere il volo se non che, di fronte alle proteste
degli inglesi e degli scozzesi, si decise di comprarle (ah Mibact,
prendi esempio…) così ora trionfalmente sono locate per sette anni alla
National Gallery di Edimburgo e per altri sette al British Museum di Londra.
“Loro” sono mie amiche da sempre. Passeggiando sulla collina di
Bellosguardo dove ho abitato 25 anni, colloquiavo con le belle dee
nell’esatto punto in cui Foscolo alzò il grido di gioia e di
riconoscenza a Firenze: “Te beata gridai…” ; poi divenni responsabile
dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e “loro”, sempre
fedeli, mi allietavano con l’intreccio perfetto e musicale delle braccia
intrallacciate (lo so, è un neologismo e non lo ripudio!).
Arrivo dunque alla National Gallery di Edimburgo ma “loro” avevano
cambiato casa e si erano spostate a Londra. Altro che i viaggi dei
Bronzi di Riace per l’Expo milanese! Le Grazie viaggiano con passo lento
sfiorando il suolo a passo di danza e si lasciano ammirare proprio per
dimostrare la loro gratitudine a chi, un popolo, le ha volute per sé e
con sé. Ho ritrovato comunque altri amici del cuore nella casa della
bellezza edimburghese, appesi come le antiche collezioni su più livelli
in una stordente e fantastica provocazione da sindrome di Stendhal che
ti rende ubriaco per troppa bellezza. In una parete tanti piccoli
ferraresi, poi Guercino e Domenichino a volontà e un favoloso Tiziano che
ancora una volta è stato acquistato con il contributo pubblico e
privato. Rembrandt e Vermeer, Claude e Poussin ti ammiccano dalle pareti
e tu pensi che tutto questo è a tua disposizione senza spendere una lira,
o meglio una sterlina, così entusiasticamente dai il tuo obolo per
ringraziare di tanta munificenza e liberalità. Altro che togliere la
gratuità agli over 65! E fosse solo questo. Come mi ha insegnato una
cara amica che lavorava alla Bbc, per mangiare bene e a prezzo giusto
occorre frequentare i ristoranti dei musei, quasi sempre ottimi e a
prezzi sopportabili (a proposito di ciò che si potrebbe fare anche a
“Ferara”). Tra i migliori, quello della National Gallery di Londra dove,
I remember, gli amici mi festeggiarono dopo la conferenza ariostesca che
Marco Dorigatti ed io tenemmo proprio in quella sede (400 persone
nell’Auditorium della Gallery). Lì, tra uno scone e l’altro, ho
parlato con i giovani camerieri quasi tutti italiani che corrono a
Londra a rimediare un boccon di pane per proseguire gli studi e riuscire
a sostenersi; cosa che in patria è ormai a loro preclusa. Una
meravigliosa generazione che espia i nostri errori e le nostre
debolezze. Che vergogna e che rimorso. Ad Edimburgo il ristorante del
museo si chiama Contini e va da sé quanto sia stato affascinato da quel
nome. Lì una bellissima ragazza mi confidò che non sarebbe più voluta
ritornare a casa. Programmava un passaggio negli Usa per cercarsi quella
conoscenza e consapevolezza del mondo nuovo che le si spalancava
davanti e che noi non siamo riusciti ad offrirle. Nell’altro Contini,
quello del Castello, per un’influenza astrale la ragazza che ci accolse
era una mia antica allieva di filosofia a Firenze. Gli occhi le
brillavano a ricordare i suoi maestri e lo strappo che le è costato
lasciare gli studi per farsi una vita decente. Ora che ha finito i
corsi di fotografia, pensa anche lei di trasferirsi negli Usa. “Cosi è se
vi pare”, avrebbe commentato chi ne sapeva tanto di straniamento e
ingiustizia. Pirandello.
E la commozione a sentire alla Royal Albert Hall di Londra una
meravigliosa esecuzione della seconda sinfonia di Rachmaninov nei
concerti Proms che la Bbc offre per più di un mese (ogni sera un
concerto diverso) a prezzi irrisori. Addirittura la platea dell’immenso
teatro era vuota di sedili e giovani e anziani seduti per terra
ascoltavano senza pagare il concerto. E questo anche per quaranta volte
di seguito. Non voglio con questo dire che l’erba del vicino è sempre
più verde; voglio solo ricordare che ci sono modalità e interventi
diversi dai nostri, spesso irrigiditi e mal governati da antichi
pregiudizi o da soluzioni ormai obsolete. Non voglio ancora sostenere
che le soluzioni vincenti siano quelle straniere, ma trovo assai
condivisibile quanto un turismo intelligente possa giovare alla causa
dell’arte. Edimburgo non è più grande di Firenze per numero di abitanti, anche se
il suo territorio è molto più vasto. Le sue memorie sono
paesaggisticamente perfette ma non sempre all’altezza della qualità
architettonica. Eppure il Castello attira folle mai viste in un misto
di cose banali e straordinarie. I bus a due piani incessantemente
portano migliaia di visitatori a vedere la residenza reale e il panfilo
Britannia e i cannoni del Castello. Certo! Un kitsch intelligente e che
mai scende a livelli indecorosi. E da noi? Possibile che non si trovi il
mezzo di rendere la casa dell’Ariosto un luogo vivo e frequentabile? O
la cella del Tasso? O la Magna domus? E via elencando. Manca una capacità
organizzativa che si scontra con la diffidenza e l’indifferenza
ferrarese. Basta programmare gli “eventi”: il resto vada come vada. Si
è tentato nel tempo, ma la continuità è esclusa in chi poi trova che è
più facile chiamare turisti con buskers e baloons che valorizzare con un
piano intelligente uno dei più bei musei del mondo: quello della
cattedrale, umiliato e negletto da una sbagliatissima esposizione.
Sognare che la Pinacoteca nazionale venga frequentata indipendentemente
dalle mostre rimarrà ancora un sogno irrealizzato? E che il Castello
trovi finalmente una sua “originalità” esponendo se stesso è troppo a
chiedere e a esigere per “Ferara, stazione di Ferara”?

Della conservazione post-mortem

Per la prima volta in Italia, sarà l’Università di Ferrara ad ospitare il Congresso Internazionale Taphos 2014, che si terrà da mercoledì 10 a sabato 13 settembre nell’Aula Magna del Dipartimento di Economia e Management (via Voltapaletto, 11), organizzato dal gruppo di Paleontologia e Paleoecologia del Dipartimento di Fisica e Scienze della Terra e dal gruppo di scienze preistoriche ed antropologiche del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Ateneo estense.

Tema del congresso è la tafonomia, cioè tutti quei processi fisico-chimici che intercorrono dalla morte di un organismo al suo rinvenimento come fossile. Queste ricerche mirano essenzialmente ad identificare gli ambienti del passato attraverso la ricostruzione della “scena del crimine”. Le ricerche tafonomiche non sono limitate alla Paleontologia, ma riguardano anche altre discipline come la Geologia, la Preistoria e l’Archeologia.

taphos-ferraraAl congresso, che si articola in due giornate scientifiche (11 e 12 settembre), parteciperanno esperti provenienti da 15 paesi, e le comunicazioni saranno pubblicate all’interno di un volume speciale degli Annali di Unife, sezione Fisica e Scienze della Terra. Le due giornate scientifiche saranno affiancate da tre escursioni (10 e 13 settembre), una alla Pesciara di Bolca (Verona), tra le più importanti località fossilifere del mondo, a Tonezza del Cimone (Vicenza), con la visita a successioni sedimentarie del Giurassico Inferiore, al Deposito pleistocenico della Grotta di Fumane (Verona) e al Museo di Preistoria e Paleontologia di S. Anna d’Alfaedo.

“La Tafonomia ha vari obiettivi – spiegano Davide Bassi e Renato Posenato paleontologi del Dipartimento di Fisica e Scienze della Terra ed organizzatori del congresso – tra i quali i modi diversi di preservazione della materia organica e degli scheletri, la durata ed il riconoscimento dell’eventuale rielaborazione post-mortem, la descrizione di tutti i processi che hanno influenzato le associazioni fossili (ad esempio la predazione e l’attività umana) e l’interpretazione degli ecosistemi marini e continentali del passato. Lo scopo delle nostre ricerche è quindi ricostruire gli ambienti del passato con il massimo dettaglio decifrando ed interpretando le informazioni preservate nel registro fossile”.

Le bonifiche come fenomeno di proto-industrializzazione

STORIA DELL’INDUSTRIALIZZAZIONE FERRARESE (PRIMA PARTE)

L’inizio della grande stagione delle bonifiche e delle trasformazioni fondiarie del territorio ferrarese ha coinciso con l’Unità d’Italia, allorché quasi tutte le maggiori bonifiche di epoca rinascimentale erano ormai ricadute in balia di valli e paludi. Dopo alcuni sfortunati tentativi, prima da parte dell’ingegner Cesare de Lotto per conto del Consorzio del 1° Circondario scoli di Ferrara e, poco più tardi, da parte del conte Francesco Aventi sulle sue valli Gualenga e Burina in località Tresigallo e Formignana, il momento cruciale della bonifica giunse nel 1871, quando fu costituita a Londra la Ferrarese land reclamation company limited, finanziata da uomini d’affari inglesi e da banchieri italiani.
«Partì così la nuova Grande Bonificazione Ferrarese, dopo che la nuova società concessionaria, la Società Bonifica Terreni Ferraresi, aveva acquistato in proprietà ben 15.182 ettari di valli. Sul piano tecnico d’impresa consistette nel convogliare fino a Codigoro tutte le acque di scolo del comprensorio, tanto quelle “alte” quanto quelle “basse”, che affluirono unite al gigantesco impianto di sollevamento a vapore sorto in riva al Volano ed entrato subito in funzione nel 1874. […] Agli inizi del Novecento il territorio della Grande Bonificazione era ormai una delle aree cerealicole più produttive del Paese. Le grandi aziende di bonifica che cominciarono ad operare nella parte orientale della provincia di Ferrara tra Po e Volano erano destinate a segnare in profondità la storia economica e sociale dell’intera provincia»*.

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*F. Cazzola, La bonifica, in F. Bocchi (a cura di), La Storia di Ferrara, Poligrafici Editoriale, Bologna 1995.

Senza la paura d’essere felici

Patrick cerca Raquel, lei è scomparsa dalla sua vita e dalla tela che stava dipingendo. Com’è possibile che un quadro perda un’immagine e una vita perda quella persona che ci stava dentro?
Il quadro mai dipinto di Massimo Bisotti (Mondadori, 2014) è un romanzo di ricerca dell’altro con cui ci si aiuta a ritrovare anche se stessi, smarriti ma con un obiettivo davanti.
Patrick lascia la sua città, Roma, e insegue, lucido e confuso, le deboli tracce che ha per ritrovare Raquel. Approda a Venezia, al Punto Feliz, un posto che diventerà il suo nuovo baricentro di affetti, è il punto felice perchè è questo ciò che Patrick sta cercando: “Quello che scopri allora nella tua anima è il punto felice. Una quiete insolita che sovrasta il tutto senza prevaricare niente e nessuno. Sovrasta te stesso e le tue preoccupazioni. Sospende i vecchi battiti per regalartene di nuovi”.
Il quadro mai dipinto è una storia sulla forza dei desideri, quelli scomodi da raccontare agli altri, quelli che si mettono giù in fondo abbastanza inascoltati finché non si impongono cambiando il corso delle cose.
Raquel è scappata e Patrick non sa ancora perchè, arriverà alla verità solo dopo altri smarrimenti e nuove consapevolezze. I luoghi che Patrick visita parlano di lei, di Raquel, le coincidenze sono fatali e determinanti per capire che le occasioni che la vita porge, senza una libera scelta che successivamente le confermi, sono nulla e resteranno per sempre alle spalle fino a scomparire.
Raquel è quell’amore che capita e che poi continui a scegliere con una meraviglia rinnovata, è il diritto alla felicità che – e Patrick lo scoprirà – , è “coesistere”, ricerca senza affanno, arresto e nuovo inizio, è centrare la vita in divenire mettendola in equilibrio come la bolla di una livella.
Ma dalla felicità spesso le persone fuggono per paura di non saperla cercare, perchè è più facile incrociare le braccia e preferire la penombra e allora si fa resistenza alla felicità, come verso una cosa che costa fatica e troppa incertezza, come se accontentarsi ed essere contenti fossero stessa cosa.
Il viaggio di Patrick è una partenza che se ne frega delle previsioni del tempo, è un dare per essere, ben al di là del dare per avere, è una scelta che non mette la gioia da una parte e la paura dall’altra, ma ne fa una pasta unica, è un rimestare anche il brutto e il pericolo, è avere la vertigine di fronte a un sentimento, ma poi riuscire a guardarlo.
Patrick ha scelto per il tutto, perchè, alla fine, l’amore che si affaccia solo a metà non è amore.

IL FATTO
Marattin nello staff di Renzi a Palazzo Chigi, al sindaco Tagliani la delega al Bilancio

Negli ambienti comunali ormai si dà per certo che l’assessore Luigi Marattin accetterà l’invito di Renzi di entrare a far parte della sua ristretta squadra di consulenti economici.
Ma al momento non è prevista la nomina di un sostituto. La novità di queste ore, infatti, è che la delega al bilancio sarebbe assunta direttamente dal sindaco Tiziano Tagliani. Non è quindi ipotizzabile, al momento, alcun rimpasto nella compagine di giunta.
Questo, almeno, sino a quando non sarà chiaro che la scelta di Marattin sia definitiva e davvero incompatibile con il suo attuale incarico di amministratore comunale. Tagliani ha, infatti, molta fiducia nelle capacità e nelle competenze del suo collaboratore. E prima di accettare l’idea di doversene privare definitivamente, vuole essere certo che da Roma fra qualche settimana o qualche mese non parta un treno di ritorno. Pur di riportarlo in squadra, il sindaco sarebbe probabimente pronto a riavere il suo assessore anche solo part-time.

L’EVENTO
Naufraghi della vita alla ricerca di un brandello di felicità

Sventolano la bandiera palestinese, abbracciandosi, sorridendo, con gli occhi lucidi, emozionati, felici. Tra gli applausi. Quindici minuti di standing ovation per Io sto con la sposa joint venture di tre registi Gabriele Del Grande, Antonio Augugliano e Khaled Soliman, presentata giovedì al Festival del Cinema di Venezia. E’ un storia vera, di libertà e speranza. Una sfida di squadra, una scommessa, ma soprattutto è meglio di una denuncia giornalistica destinata restare confinata nel clamore temporaneo dei media. Proprio così la pensa il giornalista e regista Gabriele Del Grande, cronista dal fronte siriano, che ha incontrato a Milano i profughi-attori della fuga da conflitti e miseria.

Il film, sostenuto con 100 mila euro raccolti grazie al crowdfounding, al contrario di un articolo “usa e getta” tocca i cuori. Resta nella memoria quanto l’escamotage dei cinque fuggitivi, palestinesi e siriani, che grazie a un’idea maturata dai registi sono riusciti ad arrivare in Svezia sfruttando il matrimonio e il suo corteo quale passepartout per varcare le frontiere senza attirare l’attenzione. Ce la fanno. E noi con loro.

Nella sala silenziosa, ogni tappa, ogni passaggio, ogni risata, ogni brindisi, canzone e ricordo hanno intessuto tra i cinque protagonisti e il pubblico un legame d’affetto. Perché la vita è più forte della ragione di Stato e dell’ipocrisia di cui è infarcita a discapito dell’essere umano.
Io sto con la sposa – divenuto in un solo pomeriggio il caso del festival veneziano, accompagnato dall’apparizione di tante giovani donne in abito bianco – è una storia contro la legge. E’una vicenda carica di disperata attualità, all’apparenza inadatta per il red carpet di Venezia, che gli ha riservato a sorpresa un’accoglienza inattesa, soprattutto alla luce dello strisciante razzismo innescato dagli effetti della crisi economica e dall’ignoranza di chi si sente derubato dei propri diritti e servizi.

Poeta lo sposo, scampato al naufragio costato la vita a 500 persone al largo di Lampedusa, rapper il ragazzino che ha attraversato il mare insieme al padre, dissidenti marito e moglie decisi a dare una cittadinanza e una possibilità di futuro ai propri figli, palestinese con cittadinanza italiana uno dei registi, giovane donna bella, forte e istruita la sposa, che cercava di dimenticare il fischio delle bombe ascoltando la musica in cuffia. Sono loro il cast, sono loro ad approdare a Milano per poi intraprendere il viaggio verso nord con una manciata di auto e i vestiti da cerimonia.

Il corteo prende la via dei contrabbandieri tra Italia e Francia, la stessa strada tra i monti percorsa in passato dagli italiani diretti oltralpe in cerca di lavoro. Camminano, in abito lungo e doppio petto, lasciandosi alle spalle il nostro Paese, prima tappa verso il grande nord dove il clima è freddo ma il domani sembra meno grigio. E’ la via della clandestinità, raccontata dal muro di una casa diroccata sul quale, insieme agli altri messaggi, lo sposo scrive i nomi di uomini, donne e bambini conosciuti e annegati nell’attraversata. Una lapide improvvisata per tanti fantasmi di cui le istituzioni non conoscono il nome ma ai quali i profughi non negano la memoria, anzi. Il loro ricordo è forza. Nel film c’è voglia di vivere, di lottare e ridere, i dialoghi ne sono la testimonianza più immediata e, come ovvio, sono lo spunto di tante domande. Cielo e mare, due vie di fuga, accolgono in modo silenzioso le riflessioni della sposa: “il cielo e il mare sono di tutti”. Sono vie da percorrere in libertà, ma se si nasce nella parte sbagliata del mondo ciò che è normale diventa l’eccezione.

Il bicchiere di vino in mano, il più anziano dei protagonisti, si chiede perché mai deve dare le impronte digitali come un delinquente, perché una famiglia di 13 persone deve pagare 13 mila euro e morire inghiottita dalle onde per rincorrere nuove opportunità di vita. Per la verità ce lo chiediamo anche noi, consapevoli del fatto che se si sta male in un posto se ne cerca un altro dove campare meglio. Lo abbiamo fatto e lo facciamo quotidianamente, scappando all’estero con lauree e specializzazioni inutilizzabili nel nostro Paese.

Qualcuno crede davvero di poter fermare la fuga? Un po’ di pubblica sincerità e di reale impegno politico europeo non guasterebbe. E allora “Io sto con la sposa”, con gli abbracci trionfanti di chi ce l’ha fatta, dimenticandosi persino della macchina da presa che per un attimo, quasi a voler tradurre un’emozione, si fissa sul tetto del treno. E’ tempo di festa, è come essere andati in meta. Ed è subito Svezia.

La Natura che ci meritiamo

La vicenda dell’orsa e del raccoglitore di funghi è una di quelle storie che mi fanno arrabbiare a prescindere. Vogliamo la Natura con la N maiuscola, ma non abbiamo il coraggio e l’umiltà per viverla. Portiamo i nostri bambini nelle fattorie didattiche per vedere gli animaletti, ma se i nostri adorati pargoli si sporcano le scarpine di cacca facciamo una tragedia, se poi si beccano un morso o si piantano una spina in un ditino, facciamo causa all’azienda. L’educazione alla Natura e all’Ambiente dovrebbe essere qualcosa di quotidiano che parte dal rispetto e dalla conoscenza del nostro ambiente di vita. La parola ecologia indica fondamentalmente la scienza che studia gli equilibri. Ragionare in termini ecologici significa fare un sforzo per cercare di vivere rispettando l’ambiente che ci circonda, che non è un jungla inesplorata, ma un contesto antropizzato da secoli di storia, che ne hanno alterato completamente l’assetto originario, quindi, per fare un esempio, mettere delle fioriere in piazza Duomo non è ecologico, ma solo stupido e costoso, le piazze sono fatte di pietra e architetture , non hanno bisogno di fiorellini e piantine asfittiche per diventare più belle e più “ecologiche”. Le piazze devono respirare, accogliere, insegnare convivenza e civiltà, chiuderle con paletti e fioriere trascurate, è un modo per tradire la loro storia, non capire il loro equilibrio. Le città sono organismi complessi e non mi stancherò mai di ripeterlo, ci sono tantissimi posti fuori dalle piazze per piantare alberi. Se perdiamo di vista chi siamo e qual è il nostro ambiente, diventa facile illudersi di trovare la Natura ogni tanto tanto, magari andando per boschi, a rompere le scatole a plantigradi con uno sviluppato senso materno.
Viviamo tutti situazioni prive di buon senso, troppo facilmente ci lamentiamo del troppo sole o della troppa pioggia come se fosse possibile una Natura a comando con un pulsante per regolare sole, vento, neve e pioggia in funzione delle ferie. Cercare un equilibrio non è facile per nessuno, ma provo un’ammirazione enorme per chi ci riesce in modo onesto e senza fare proclami. Ammiro in modo particolare le persone che scelgono di vivere in un ambiente dove la Natura ha ancora il sopravvento e non per fare una vacanza o per fare dello spettacolo, ma come scelta di vita e lavoro, la loro è una fatica senza scorciatoie. A volte succede che la tua strada incroci una di queste persone eccezionali e la vita ti fa un regalo. Raccontare come ho conosciuto il signor Ruggero non è importante, quello che conta è la vita di quest’uomo, che da trentacinque anni porta ogni anno le sue pecore dalle Alpi del Lusia alla pianura friulana, fin quasi al mare, seguendo le strade della transumanza. La sua esperienza è raccontata in un libro magnifico curato da Valentina Musmeci, intitolato Un anno col baio. Il baio è il termine generico che indica il pastore. Ruggero è il baio: un armadio di uomo, scarpe pesanti, occhi vispi che brillano in mezzo a capelli e barba grigia, una voce sorprendentemente gentile in un fisico da troll che ti conquista all’istante con la sua ironia. Scoprire per caso il suo lavoro di pastore e avere in mano il libro che lo racconta, è stato sorprendente. Man mano che leggo le pagine e guardo le splendide fotografie, mi accorgo di un mondo parallelo, un mondo che sta davanti ai miei occhi eppure è nascosto. Tanti si alzano prima dell’alba per andare al lavoro, ma un conto è farlo passando dal letto all’automobile, un altro è scrollarsi l’umidità dal sacco a pelo e andare a piedi, prima che il sole sorga, per poter attraversare le strade senza dare troppo fastidio a chi sta in automobile. In questo gesto c’è una grande lezione. Ruggero non è un nostalgico, sa benissimo che se non ci fossero gli extracomunitari a mangiare carne di pecora avrebbe già chiuso bottega, lui non porta le bestie a spasso per fare della retorica del “bel tempo che fu”, fa il suo mestiere, un mestiere scelto per passione e in totale libertà, un lavoro con gli uomini, pecore, asini e cani, rispettati dal primo all’ultimo. Il baio cerca l’equilibrio, senza far troppi danni, con il suo mondo che è fatto soprattutto di animali, pioggia, sole, vento, gelo, merda, vita e morte, ma anche di vite altrui, automobili, orti, campi coltivati, strade asfaltate. Senza rispetto non c’è storia, non c’è equilibrio, non c’è conoscenza, non c’è la vera meraviglia, quella che si merita chi accetta la Natura per quello che è: dura e pura. Grazie Ruggero, e grazie a Valentina Musmeci per averlo raccontato.

Valentina Musmeci, Un anno col baio. Dalle Dolomiti all’Adriatico con un pastore errante e duemila pecore, Ediciclo editore, Portogruaro (VE), 2014