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LA RICORRENZA
Tango e dittatura, note sul golpe d’Argentina

di Michele Balboni

Il 24 marzo 1976 il governicchio della “presidenta” Isabelita Peron (all’anagrafe Maria Estela Martinez) veniva cestinato dalla triade Videla, Massera, Agosti rappresentanti delle forze armate “di terra, di mare, di cielo” (per rifare un verso che risuonava su analoghi balconi di casa nostra anni prima). Era il golpe che stravolse la storia contemporanea dell’Argentina.

Formica della storia del tango, microbo della vicenda argentina, mi accingo a proporre al paziente lettore alcune mie considerazioni: se siete ballerini di tango, quindi fortunati seguaci e praticanti del “ballo più bello di sempre”, l’obiettivo sarà suscitare il vostro interesse per la conterraneità degli avvenimenti, se siete amici l’obiettivo sarà condividere impressioni: verso entrambi la mia attenzione sarà di non suscitare noia e magari fornire alcune informazioni.

Il tango alla metà degli anni ’70, anche nella propria terra di nascita, era confinato ai vivi ricordi dei non lontani anni d’oro. Già da un ventennio la produzione musicale pensata per il ballo dell’abbraccio era rinsecchita. Le pregevoli e raffinate creazioni di Astor Piazzola e di pochi altri, alleviavano l’ascolto ma non ravvivavano l’atmosfera delle milonghe. Permanevano lontani lo splendore e la ricchezza del tango diffuso e praticato dall’altra parte del mondo negli stessi anni in cui da noi si preparava la guerra, la si combatteva, se ne curavano le ferite. Forse per reazione alla mondiale tragedia o per omaggio ai “liberatori” i ritmi americani erano proposti ed apprezzati dai giovani. Il tango dormiva il sonno dei giusti, consapevole che il peggio doveva ancora arrivare.

E venne infatti il giorno in cui le trasmissioni tv furono interrotte (non così la partita di calcio Polonia – Argentina), al pari delle libertà più elementari. I nuovi malvagi al potere, con gradi e stellette, si ripromettevano di salvare il proprio Paese, affrancarlo da problemi economici, battere il terrorismo, e quant’altro di utile… La dittatura civico-militare avrebbe prodotto trentamila desaparecidos, un milione e mezzo di esuli, oltre cinquecento bambini “rubati” (la maggior parte dei quali tuttora non identificati), una economia più disastrata di prima, finanche una vera guerra persa (del tipo a noi noto “armiamoci e partite”) con quasi mille morti: alla faccia del “piano di riorganizzazione nazionale”! I Generali (più o meno, uno era un brigadiere, ma tant’è…) all’inizio, presi dalla loro santa missione, non avevano tempo per la cultura, la musica, il tango anche se trovarono attenzione e denaro per proporre l’edizione più costosa e corrotta dei campionati mondiali di calcio.

Nel prosieguo, preso atto che non portavano consenso i carri armati per strada, i centri di detenzione clandestina, le torture a terroristi (pochi) o presunti tali (tanti), si pensò anche al nostro ballo. Venne inventato il giorno internazionale del tango (l’11 dicembre, data di nascita di Carlos Gardel e di Julio de Caro), si fondò l’Orquesta de tango de la Ciudad de Buenos Aires, si finanziò il tuor europeo del sopracitato innovatore del tango. Parallelamente si procedeva però con il progetto Operativo Claridad per disboscare arte, cultura, cinema, giornalismo, letteratura, da ogni voce o comportamento dissenziente dai canoni consigliati. Trovo così al numero 257 della lista di proscrizione per l’anno 1980 il nome Pugliese Osvaldo Pedro musico-director de orquesta (segue numero di carta di identità), autore che sono invece solito abbinare alla melodia di Recuerdo e alla forza di Negracha. Trovo anche al numero 8 (in virtù dell’ordine alfabetico) il cognome di un amico pianista residente nella mia città da anni. E per fortuna che in quella lista si indicavano i nominativi di individui giudicati scomodi, soggetti da ostacolare sul proprio lavoro o perseguire in vari modi, ma non da sequestrare o far scomparire…

Ma il tango stesso come si rapportava agli aguzzini e ai loro mandanti? Immaginiamolo personificato con i modi aristocratici del compositore e pianista Juan Carlos Cobian e la voce e la presenza scenica del grande Carlos Gardel, probabilmente ci direbbe: “E’ vero c’è stato un periodo in cui malvagi mi hanno utilizzato a mia insaputa e, di questo, pur non avendone io alcuna colpa, resto tuttora affranto e contrito. Chiedo perdono a quelli che, catturati da un regime che ha infestato, per oltre sei anni, il Paese in cui sono nato, vennero sottoposti a vessazioni e torture. I dischi che mi ospitavano erano suonati per coprire le loro urla di dolore, affinché dall’esterno dei campi di prigionia clandestini non si udissero gli scempi che dentro stavano avvenendo. E gli stolti torturatori non si accorgevano nemmeno, presi dalla loro malvagità, che i miei cantores alzavano la voce nell’esecuzione ed altrettanto facevano i musicisti usando i toni più alti degli strumenti, gli uni e gli altri protetti dentro i dischi, perché loro stessi non volevano udire quelle urla di dolore. Tornavano poi i brani nella loro normale tonalità quando di nuovo venivano eseguiti in contesti ordinari. Capisco comunque che chi è scappato dal buio di quei seminterrati e chi piange il dolore dei propri cari scomparsi e mai più ritrovati possa ora odiarmi, confondendomi con i carnefici, ma sappia che io stesso sono stato vittima”.
Se lo dicono i fantasmi di due interpreti di tal portata sarà ben vero…

Declinavano i tempi della picana, proseguivano le marce delle madri in Plaza de Mayo, era ampiamente scemato il consenso popolare nonostante il velleitario tentativo di riconquista militare delle gelide isole Falkland-Malvinas, quando il tango veniva impacchettato e portato al Teatro Chatelet di Parigi. Il successo di pubblico e di critica della prima, il 13 novembre 1983, fu enorme. Il tango risorge e rifiorisce, e non a caso ciò avviene proprio a Parigi, laddove all’inizio del secolo si era raffinato e aveva trovato la spinta per tornare nei suoi luoghi di nascita ed essere finalmente apprezzato. Che spettacolo deve essere stato per i fortunati spettatori: coreografia di Juan Carlos Copes, musica del sexteto Mayor (al piano Horacio Salgan), ballano (tra gli altri) Juan Carlos Copes e Maria Nieves, Virulazo e Elvira, Maria e Carlos Rivarola, canta “el polaco” Roberto Goieneche!

Quindi cade la dittatura civico-militare (siamo nell’autunno 1983) e il tango rinasce: una coincidenza? “Il caso non esiste!” dice l’autorevole tartaruga-maestro Oogway nel film “Kung fu Panda”…

In verità il processo di vera rinascita democratica del grande Paese sudamericano, cui dobbiamo il tango, ed anche – non dimentichiamolo – il più grande campione della storia del calcio, non è subitaneo. Così il nostro ballo trova affermazione planetaria un paio di anni dopo quando, lo stesso spettacolo titolato “Tango Argentin” è riproposto a Broadway: sei mesi di repliche. Da allora una crescita e una diffusione continua, perlomeno nella sua componente più spettacolare e praticabile: il ballo. Fino ai giorni nostri.

Tango e dittatura: la rivincita del tango?
Eccoci all’epilogo, abbiamo trascorso alcuni minuti insieme come ballerini e come amici: seguendo il titolo di un recente dvd realizzato dal regista Marco Bechis sulla vita di Vera Vigevani Jarach, una delle fondatrici del movimento Madres de Plaza de Mayo, abbiamo ascoltato insieme, almeno per un po’, “il rumore della memoria”.
Walter Calamita, presidente dell’Associazione 24 marzo – loro sì che hanno titolo per parlare di queste cose – scrive nella sua prefazione al mio romanzo “La Diva del tango – alla ricerca del nino rubato” di un processo dove accanto a Verità e Giustizia si affianca la Memoria, al proposito io nel mio piccolo mi limito a ringraziarvi per avere condiviso con me questa ricorrenza.

IL FATTO
MediCinema, quando il cinema è una terapia

Emozione e sogno sono il primo vero passo verso la guarigione. Per questo Giuseppe Tornatore ha scelto le note oniriche di “Acqua dalla luna” di Claudio Baglioni per il video-spot  da lui diretto a sostegno dell’attività di MediCinema. La presentazione ufficiale alla stampa c’è stata alcuni giorni fa, nella sede romana di Rai Cinema.

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La locandina dello spot di Giuseppe Tornatore

Pochi hanno sentito parlare di MediCinema, un’associazione nata nel 2013 che, ispirandosi a MediCinema UK (organizzazione no-profit attiva in Gran Bretagna dal 1996) si pone l’obiettivo di utilizzare il cinema e la cultura cinematografica a scopo terapeutico negli ospedali italiani.
Il breve spot di Tornatore, tutto realizzato al Policlinico Gemelli di Roma con l’intervento dei soli malati (fra stampelle, barelle e deambulatori), vuole sostenere la campagna di fundraising di MediCinema, volta a costruire la prima sala cinematografica italiana integrata in una struttura ospedaliera pubblica, uno spazio destinato alla ‘cinematerapia’ e alla terapia di sollievo per i degenti del Policlinico Gemelli e i loro familiari. L’idea è di occupare e distrarre, per alcune ore, la mente dei pazienti, allontanarli dalla malattia per un po’, almeno per la durata di una bella pellicola cinematografica. I benefici del cinema (e della cultura in generale) sulla persona, ricorda il regista, sono innegabili, quando si regalano storie, magia e incanto, si creano attimi importanti di emozione, di armonia e di serenità. Bisognerà, quindi, scegliere film che portino all’emozione pura, al sorriso, ma anche alla commozione e all’empatia. Una commissione di medici e psicologi deciderà i titoli più appropriati anche chiedendo a ogni paziente la sua opinione per migliorare quel rapporto difficile, tra chi deve curare e chi deve essere curato.
Vi sono già il sostegno di Rai Cinema (che metterà anche a disposizione il proprio listino) e di Disney Italia. Il regista e sceneggiatore Francesco Bruni assicura l’impegno del Centro autori e dell’Anec (i giovani produttori cinematografici indipendenti). Rai Cinema ha anche annunciato l’avvio della sua più ampia collaborazione con MediCinema Italia, per la quale ha in preparazione varie iniziative di raccolta fondi per completare il progetto di costruzione della sala cinematografica, uno spazio tecnologicamente all’avanguardia, che abbia 120 posti e spazi per i letti dei malati, le loro sedie a rotelle, per i familiari e il personale di assistenza. Il progetto costerà circa 300.000 euro, ci vuole l’impegno di tutti. L’idea è lodevole e pregevole, la si vorrebbe realizzare entro l’estate. Qualcuno l’ha già definita “Nuovo Cinema Gemelli”. Bello.
Il video di Tornatore sarà programmato già in questi giorni nello spazio solidale offerto dal circuito Thespacecinema su tutti i suoi schermi, nelle sue 362 sale per circa 79 mila posti. La cordata di solidarietà continuerà con gli altri circuiti cinematografici che sostengono MediCinema e negli spazi dedicati al sociale delle principali reti televisive.
Per alcune ore di magia in corsia, allora, in un’emergenza col sorriso. Perché, come dice Tornatore, c’è un film di Frank Capra che dà il senso di questa nobile iniziativa, dove la luce della consolazione entra in un’anima ferita. Progetto da sostenere, bello potervi contribuire.

Il brano intonato: Acqua dalla luna di Claudio Baglioni [ascolta]

Per informazioni su MediCinema clicca qui

L’APPUNTAMENTO
Il rischio Isis oggi in Ariostea

L’Iraq, la Siria, la Libia, ora la Tunisia. La progressiva avanzata dell’Isis acuisce la percezione del pericolo. Il terrorismo di matrice islamica appare ormai alle porte dell’Italia. Oggi pomeriggio alle 17 nella sala Agnelli della biblioteca Ariostea si tiene l’atteso incontro organizzato da Ferraraitalia dal titolo “IsIslam? Fanatismi, fondamentalismi, integralismi: terroristi e nuovi crociati”. Fra gli interventi previsti, lo storico Andrea Rossi parlerà di espansionismo e della forza distruttiva di un movimento dogmatico che ha avuto precedenti nel Novecento. Hassan Samid, presidente dell’associazione Giovani Musulmani di Ferrara, non mancherà di tracciare la linea di demarcazione fra i guerriglieri che combattono e compiono barbarie in nome dell’Islam e i principi pacifici di una religione cui aderiscono circa due miliardi e mezzo di persone in tutto il mondo; e al contempo di sottolineare il disagio e le difficoltà che la situazione implica anche per i musulmani residenti. La ricercatrice Zineb Naini parlerà delle origini dell’Isis, dell’influenza dei social media nelal diffusione del loro messaggio, delle rivoluzioni arabe e della Jihad, dei riflessi di stampa nei media italiani e nei media stranieri, delle politiche anti terrorismo e delle strategie adottate per combattere il fenomeno dei ‘freedom fighters’. Menu densissimo con possibilità per il pubblico di intervenire nel dibattito. Coordina i lavori la giornalista di Ferraraitalia Monica Forti.

IL FATTO
In duecentomila per dire no a mafie e corruzione. Don Ciotti: “Urgente una riforma delle coscienze”

Quasi quattro chilometri di strada invasi da una festante e variopinta marea umana. Gente di tutte le età, dagli 8 agli 80 anni, studenti, lavoratori, pensionati, famiglie con bambini e cani al seguito, ieri hanno percorso il cammino fra lo stadio Dall’Ara a piazza VIII agosto a Bologna, per il ventennale di “Venti Liberi”, la manifestazione in memoria delle vittime della mafia.

Cittadini, tra i quali il segretario della Fiom Maurizio Landini e l’ex-magistrato torinese Giancarlo Caselli, e istituzioni, rappresentate dal presidente del Senato Piero Grasso e dalla presidente della Commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi, ma anche dai tanti gonfaloni seguiti dai sindaci presenti in corteo. “Ogni due km si possono contare circa 100.000 persone, i conti sono presto fatti: la piazza già si riempiva, mentre la coda del corteo stava ancora lasciando il Dall’Ara, siamo circa 200.000 persone”, afferma Daniele Borghi, referente d Libera Emilia Romagna. Tutti insieme per affermare con forza insieme a don Ciotti: “La nostra memoria e il nostro impegno perché finalmente la verità illumini la giustizia”.

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Bandiera di Libera

Questo 21 marzo, infatti, non si è festeggiato solo il ventennale di Libera-Associazioni, nomi e numeri contro le mafie, ma ricorrono anche i 25 anni dalla strage del 2 agosto alla stazione di Bologna e dalla strage di Ustica del 27 giugno del 1980: tutti i famigliari sono accomunati dalla richiesta di verità e, insieme a tutti i cittadini italiani, vogliono capire “perché questo Paese si porta dietro questa scia di sangue”, come ha affermato dal palco Margherita Asta, figlia di Barbara e sorella di Giuseppe e Salvatore, morti nella strage di Pizzolungo, nel trapanese, il 2 aprile 1985. “Mi auguro – continua Margherita – che questo sia l’ultimo anno in cui dobbiamo chiedere che il 21 marzo diventi per legge la Giornata nazionale in memoria delle vittime di tutte le mafie”. E dopo la memoria, di nuovo un richiamo all’impegno: “a volte ci chiediamo se questo è un paese realmente democratico”, per cambiarlo “ciascuno di noi può fare qualcosa, pensando che ogni giorno sia il 21 marzo”.

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Il corteo nel centro di Bologna
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Il corteo in Piazza Maggiore

L’intervento don Luigi Ciotti, fondatore e presidente di Libera, si apre con un omaggio al pontefice, che nell’edizione 2014 della Giornata della memoria e dell’impegno a Latina ha voluto incontrare i famigliari delle vittime delle mafie e che quest’oggi era a Scampia a ribadire la scomunica per chi fa parte delle organizzazioni mafiose e ad affermare che “la corruzione puzza, è putrefazione”. Papa Francesco e don Lugi Ciotti: due esempi di una Chiesa che invita a guardare al cielo “senza dimenticare le responsabilità qui sulla terra”.
Anche don Ciotti si scaglia contro i misteri d’Italia: “il nostro è un Paese di stragi, ancora in gran parte impunite, ancora troppe ombre” gravano sulla nostra storia recente, ma “la democrazia è incompatibile con il potere segreto”. Il tono della sua voce si fa ammonitorio nei passaggi sulla prescrizione, sul falso in bilancio, e soprattutto della corruzione, “il più grave rischio della democrazia, l’avamposto delle mafie”. Le sue parole sono pesanti come macigni e inchiodano la classe politica alle proprie responsabilità: “niente negoziati”, “eccessi di prudenza”, “ci sono questioni che chiedono di schierarsi”.

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Il coordinamento di Ferrara
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Presidio Giuseppe Francese, Ferrara

E infine mette in guardia: “chi non vuole una legge contro la corruzione fa un favore alle mafie”. È preoccupato don Ciotti perché ormai “non si può più parlare di infiltrazione, quella delle mafie è occupazione”, resa possibile dal fatto che “in questi anni hanno trovato porte aperte e strade spianate”. Per questo “c’è bisogno di una nuova Liberazione dalla presenza criminale e dalle varie forme di corruzione, c’è bisogno di una nuova Resistenza etica, sociale, politica”. Proprio qui nella terra di don Dossetti, uno dei padri della nostra Costituzione, don Luigi afferma con forza che la riforma più urgente non è quella della Carta Costituzionale, ma “quella delle coscienze” perché “la legalità spesso è scritta più nei codici che nelle coscienze”.
Le prime scintille di questa rivoluzione devono essere nella scuola, dove è necessario far crescere “coscienze inquiete”, che vadano alla ricerca dell’altro da sé e che abbiano il coraggio di seguire la via della verità e della giustizia anche quando è scomoda. La sua speranza sono i tanti ragazzi presenti oggi in piazza e quelli che incontra nel suo costante peregrinare per l’Italia: “giovani determinati e schierati dalla parte della giustizia e della pace”, ma allo stesso tempo “portatori di una nostalgia del futuro” perché troppo spesso le istituzioni italiane e quelle europee ragionano in termini di cifre economiche e di bilancio, piuttosto che in termini di dignità e di diritti dei propri cittadini.
In questi 20 anni, il movimento dell’antimafia ha raggiunto molti traguardi, ora per don Ciotti è giunto il momento di voltare pagina tutti insieme e mettersi ancora una volta in gioco con coraggio. Per tre volte ripete il suo “non basta”: non basta mettere una targa, non basta intitolare una piazza, nemmeno una manifestazione come quella di oggi sembra essere sufficiente. “Questi nomi ci devono scavare dentro: ci devono dare la forza e la motivazione per un impegno ancora più determinato e consapevole”. I nomi scanditi dal palco sono 1035, quelli delle vittime delle mafie e delle stragi, come 1035 sono i palloncini bianchi liberati in cielo al termine della manifestazione: ognuno porta legato un nome e passerà a chi lo raccoglie il testimone della memoria e dell’impegno.

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IL FATTO
Mimetizzata da uomo per sopravvivere

E’ di qualche giorno fa la notizia, diffusa da Al Arabiya, un’emittente televisiva degli Emirati Arabi Uniti, di una donna egiziana costretta a lavorare vestendosi come un uomo per ben 43 anni. La notizia è legata al fatto che, a causa di tale situazione protrattasi nel tempo, la donna, Sisa Abu Daooh, 64 anni, è stata insignita dal governo egiziano del titolo di “madre ideale”. Questo perché Sisa ha dovuto lavorare, optando per la soluzione mimetica, per mantenere la figlia Houda e assicurarle una vita serena e dignitosa. Rimasta vedova quando era incinta, poco dopo la nascita della bambina, Sisa aveva indossato una lunga e coprente tunica, anonime scarpe maschili e un avvolgente turbante. Un copricapo che nascondesse capelli e lineamenti, che oscurasse ogni minima traccia di femminilità. Nessun segno di donna. In una parte del mondo dove la cultura più diffusa non vedeva di buon occhio le donne lavoratrici, Sisa aveva potuto svolgere, indisturbata, diversi lavori, dalla costruzione dei mattoni in un’azienda fino al lustrascarpe per strada, nella trafficata, turbolenta, difficile e frenetica città del Cairo. Inoltre, negli ultimi anni avrebbe aiutato anche la famiglia della figlia, che nel frattempo si era sposata, perché il marito aveva perso il lavoro a causa di una malattia.
Il riconoscimento di “madre ideale” le è stato conferito dalla Direzione della solidarietà sociale del governatorato di Luxor. Nella difficoltà e nel non senso, un segnale positivo.
Questa storia mi ha ricordato subito, oltre che la situazione di molte rappresentanti del gentil sesso in zone “difficili” del mondo, il drammatico ‘Osama’, un,intensa e cruda pellicola afghana del 2003, di Siddiq Barmak, dove tre donne (una ragazzina di 12 anni, la madre e la nonna), sopravvissute alla repressione delle manifestazioni di protesta organizzate dalle donne afgane all’inizio del regime talebano, non possono uscire di casa senza essere accompagnate da un uomo, pena una severa punizione, né, tantomeno, lavorare. Manca il cardine, un uomo, ed ecco allora che la madre (Zubaida Sahar) decide, insieme alla nonna, di travestire la giovane figlia da maschio: l’unico modo per procurarsi un lavoro e un po’ di pane per sopravvivere. Da quel momento, Maria (Marina Golbahari) si chiamerà Osama (nome dal destino tragico) e comincerà a vedere la vita con nuovi occhi. Dopo aver iniziato il suo nuovo lavoro come aiutante di un lattaio, Osama viene portata, insieme a tutti i maschi del quartiere, alla scuola religiosa “Madrassa”, che è anche un centro di addestramento militare… Qui, a differenza di Sisa, vi è un dolore penetrante, una pura tragedia, e se nascere donna non è mai semplice e può portare a incrociare difficoltà di vario genere, in alcuni paesi, come l’Afghanistan, può assomigliare a una vera condanna. Qui, infatti, la condanna è totale, senza via di scampo, perché, senza amore, senza sorriso, senza speranza e senza futuro, si cresce come un uomo, fingendo di esserlo, fino a quando la scoperta porterà a un’altra condanna, ancora peggiore. E, allora, si fissano il buio delle stanze, delle caverne, delle scuole religiose che non perdonano, dell’inganno per sopravvivere che non viene perdonato. Mentre a Sisa si’, è stato perdonato. Almeno in parte.
Avevamo anche già visto un’altra donna travestita da uomo che, da anni, svolgeva il lavoro di maggiordomo presso un albergo, e accarezzava pure l’idea di sposarsi. Il maggiordomo perfetto, Albert Nobbs, nella Dublino del 1890, un lavoratore impeccabile, perfetto perché discreto, attento, efficiente, preciso, silenzioso, perfetto forse proprio perché, in realtà, era una donna, che dall’età di 14 anni si vestiva da uomo, abbandonata dal marito di cui aveva preso sembianze e mestiere. La condizione femminile nell’età vittoriana era anch’essa scandalosa, fatta di abusi e soprusi verso il personale femminile che lavorava (poco e solo in posizioni basse e subordinate), di mancanza di diritto al lavoro e al decoro. Ancora oggi, e troppo spesso, bisogna giocare a ricoprire il ruolo di uomo, essere come un uomo, dal carattere forte (perché a molti pare che solo un uomo lo possegga veramente), dimostrare di assomigliarvi o, semplicemente, travestirsi da uomo, chi come Osama, chi come Albert, chi come Sisa. E anche se facendo questo si ha un qualche riconoscimento, opinabile e discutibile, bisognerebbe riflettere un po’ di più perché questo travestimento, fittizio o reale che sia, non debba essere più necessario. Progressi lenti ve ne sono, ma sempre troppo lenti.

Ferraraitalia raddoppia e diventa quotidiano più settimanale

Ferraraitalia si sdoppia e aggiunge alla propria vetrina il settimanale, che sarà online ogni giovedì pochi minuti dopo la mezzanotte. Confidiamo sia una gradita novità per i nostri lettori, in particolare per i tanti che ci hanno segnalato l’esigenza di fruire di un tempo maggiore per la lettura.

Il nuovo impianto mantiene la cadenza quotidiana di aggiornamento nella sezione superiore del giornale (quella caratterizzata dal mosaico fotografico) che continuerà ad ospitare Accordi, Germogli e Immaginario. Nel medesimo spazio, inoltre, troveranno collocazione le rubriche. Nel corso della giornata pubblicheremo note, commenti, interviste, segnalazioni d’attualità.

Rimane attiva – con aggiornamenti orari – anche la seguitissima sezione “comunicati stampa” nella quale trovano spazio tutti i dispacci a carattere informativo (non commerciale) che gli uffici stampa inviano alla redazione. La nostra regola di pubblicazione è ferrea: nessuna alterazione a testi, titoli e immagini. Garantiamo così un libero luogo di espressione ai comunicatori, mentre il lettore ha la possibilità di conoscere i dispacci integralmente, nella loro versione originale, esattamente come sono stati concepiti ed elaborati dagli estensori, senza modifiche, tagli e interpretazioni proprie del lavoro di rielaborazione tipicamente giornalistica. Abbiamo scelto di fare un passo indietro, per non inficiare il pieno diritto di intervento. Riservandoci ovviamente la possibilità, in altro spazio, di formulare, nel merito dei contenuti trattati, le nostre valutazioni e interpretazioni.

Il settimanale, la grande novità online da stanotte, sarà invece composto da una ventina di articoli, disponibili con evidenza nella sezione primo piano sino al mercoledì successivo, organicamente concepiti per illustrare i vari ambiti di vita comunitaria: società, costume, lavoro, economia, politica, cultura, spettacoli, sport… Racconteremo secondo il nostro uso i personaggi, le vicende, le storie emblematiche. Il taglio informativo non muta: interviste, inchieste, opinioni formulate in prospettiva glocal e seguendo la logica “dell’informazione verticale”, cioè dell’approfondimento.

L’obiettivo di Ferraraitalia è immutato e rafforzato da questo nuovo tassello che arricchisce il mosaico: favorire la conoscenza, stimolare la riflessione, ampliare lo spazio pubblico di intervento mettendo a confronto differenti punti di vista per favorire la formazione di giudizi autonomi basati sulla comprensione dei fatti e il rispetto delle differenti convinzioni.

Emilio Bulfon
l’uomo che sussura agli acini
alla scoperta dei vini perduti

“Antichi vitigni che sembravano scomparsi, fagocitati dai rovi e dall’incuria degli uomini, in un territorio storicamente vocato alla viticoltura, ma che la passione di Emilio Bulfon ha fatto rinascere a nuova vita”. Questo si legge sul raffinato sito che presenta i vini coltivati con passione e cura appunto dall’azienda del signor Bulfon. La piccola didascalia che introduce al suo regno è introdotta dal marchio di casata – un logo dipinto dallo stesso viticoltore – che riproduce una sorta di cenacolo, con Cristo e gli apostoli intenti nella mescita del vino. “Mi diletto di pittura e ho stilizzato un affresco medievale di una chiesa qua vicino, quella di Santa Maria dei Battuti. Ho scelto un particolare dell’Ultima cena di Cristo e l’ho riproposto in varie tonalità cromatiche per le nostre etichette”.

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Il logo della cantina Bulfon

Emilio Buffon è un eclettico, ma la sua vera passione è per l’uva. “Già mio nonno e poi mio padre coltivavano la vite e facevano il vino. Praticamente si può dire che sono nato e cresciuto in cantina”. Da quasi mezzo secolo produce vino nella sua azienda, a Valeriano, in provincia di Pordenone fra la medievale Spilimbergo e San Daniele del Friuli, celebre per l’omonimo prosciutto. “E’ una vita ormai, ho cominciato nel ’64, da Cividale mi sono spostato in questa zona per vinificare per altri produttori. Guardandomi in giro mi sono incuriosito di ceppi secolari coltivati da persone anziane. Lo facevano per autoconsumo, in tempi di miseria il vino è una risorsa importante. Quei vitigni erano mi erano sconosciuti e quegli uomini mi hanno permesso di prenderne le gemme. Il professor Costacurta mi ha aiutato a scegliere i cloni. Da lì è incominciato tutto”.
E poi com’è andata? “Molti si incuriosirono alla nostra ricerca, fra questi Luigi Veronelli e Bruno Pizzul. Ma i produttori non erano interessati. Così nel ’72 ho preso questo appezzamento e ho incominciato a produrre da me, con amore. L’ho fatto per il nostro territorio, per salvaguardare una delle sue tipicità, che sono nel vino, nella gastronomia e nell’arte”. E con grande saggezza aggiunge: “Ho capito una cosa in tutti questi anni: quando credi di sapere in realtà non sai niente”.

La particolarità di questa cantina sta proprio nella ricerca e nella riscoperta di antiche qualità, considerate a lungo perdute, che oggi invece si possono apprezzare ancora, grazie al lavoro del fondatore, unico a coltivarle dopo averle pazientemente recuperate.
I suoi vini hanno nomi inconsueti, derivazione diretta del dialetto friulano: in totale sono otto i vitigni autoctoni coltivati: i rossi Piculìt neri, Forgiarìn, Cjanoria, Cordenossa; i bianchi Ucelùt, Sciaglìn, Cividìn; e il Moscato rosa. Undici le varietà vinificate, fra cui cinque rossi, quattro bianchi (inclusi un frizzante e uno spumante) e un rosato. La produzione si arricchisce ulteriormente di tre grappe monovitigno. Le etichette sono tutte impreziosite dai disegni di Bulfon. “I clienti si aspettano che il vino sia sempre uguale. Ma non può essere così, il vino è vivo e cambia. Solo la chimica lo fa tutto uguale. Ma questo per molti è difficile da capire”.

I rari vini dell’azienda Bulfon sono stati presentati a Ferrara la scorsa settimana al ristorante ‘Le querce’ durante una cena-degustazione dell’Onav, l’Organizzazione degli assaggiatori che in provincia è rappresentata dal delegato Lino Bellini e dal segretario Ruggero Ciammarughi, con la collaborazione di Renzo Cervi di Anag (assaggiatori grappa). Grande in sala era la curiosità fra i convenuti, tutti appassionati di vini, che hanno potuto apprezzare sei differenti qualità, con pieno gradimento in particolare per Sciaglin frizzante, Cividin e Piculìt neri. Sono figli di quegli antichi vitigni coltivati per secoli sulle colline del Friuli occidentale, che fino a una trentina d’anni fa sembravano scomparsi.

onav5Emilio Bulfon, sorretto da tenacia e passione, con l’aiuto della moglie Noemi e dei figli Lorenzo e Alberta, ha il merito di avere ridato vita a ciò che si credeva perduto per sempre. E con la collaborazione degli esperti dell’Istituto sperimentale di Conegliano, con cura ha selezionato, reimpiantato, coltivato e vinificato quei tesori della sua terra. Un lavoro importante, il suo, sotto il profilo della cultura enologica e della tutela della memoria locale. Nel tempo sono giunti numerosissimi, autorevoli e prestigiosi riconoscimenti. Nel 1987 la provincia di Pordenone, riconoscendone il valore, gli ha conferito una medaglia d’oro, cui ha fatto seguito la benemerenza ricevuta nel 2010 nell’ambito di Vinitaly. Traccia di questa paziente e preziosa opera e dei ventiquattro vitigni autoctoni recuperati è conservata in un volume a carattere storico-scientifico intitolato “Dalle colline spilimberghesi nuove viti e nuovi vini”, curato dallo stesso Bulfon con Ruggero Forti e Gianni Zuliani.

L’azienda, immersa nel verde di Valeriano (frazione di Pinzano al Tagliamento), si compone della cantina, di un punto vendita con sala degustazioni e offre anche possibilità di alloggio agrituristico. I visitatori hanno l’opportunità di compiere visite guidate fra i vigneti e di fare escursioni in collina con la bicicletta. I dintorni sono suggestivi e conservano importanti tesori d’arte: il castello dei conti Savorgnan, un sacrario austroungarico, il ponte di Pinzano sul Tagliamento e un ambiente naturale sostanzialmente incontaminato. Alberta, la figlia di Emilio, storica dell’arte, è pronta ad accompagnarli in visita.
“Abbiamo grandi spazi – spiega il figlio Lorenzo -, l’estensione è di quasi sedici ettari, di cui nove coltivati a vigneto esclusivamente di varietà autoctone friulane recuperate. Il nostro tentativo è coniugare l’innovazione tecnologica in campo enologico con la valorizzazione del territorio”. La modernità, che sposa la tradizione nel rispetto dell’ambiente e della storia.

La bontà dell’acqua erogata: in casa, al bar, al ristorante

Uno dei principali aspetti che è necessario tenere in considerazione quando si parla di servizio di erogazione dell’acqua è la qualità del prodotto che viene distribuito agli utenti, cioè la qualità dell’acqua. Gli enti gestori del servizio idrico, nell’ambito del rispetto del principio di trasparenza, hanno l’obbligo di rendere pubblici i principali valori caratteristici (durezza, residuo fisso, concentrazione di ioni di idrogeno, ecc.) relativi all’acqua erogata. Questi valori costituiscono indicatori oggettivi della qualità dell’acqua fornita, ma non bisogna dare per scontato che a una buona qualità oggettiva dell’acqua corrisponda sempre una altrettanto buona qualità percepita della stessa da parte del cittadino-utente fruitore del servizio. Forse è anche per questo che troppe persone preferiscono l’acqua minerale.
Se si considera l’opinione espressa dalle sole utenze domestiche, a livello regionale si può rilevare una discreta e generale soddisfazione per la qualità dell’acqua che esce dai rubinetti di casa.
Elementi informativi dello stesso taglio si ritiene avvengano dalla analisi del “non domestico” ovvero del mondo del lavoro. L’acqua che esce dai rubinetti riveste un ruolo significativamente importante per quanti svolgono un’attività legata alla gestione di ristoranti/trattorie/pizzerie, bar/caffè, forni/pasticcerie, nelle industrie di produzione alimentare e nei negozi di ortofrutta.
Con riferimento alle utenze domestiche, l’analisi dei fattori di soddisfazione/insoddisfazione della qualità dell’acqua che si possono considerare per definire un’acqua di buona qualità sono:
– la durezza, intesa in termini di presenza o assenza di calcare;
– il sapore, l’odore e il colore dell’acqua globalmente intesi, ossia quei fattori che concorrono a qualificare l’acqua come bevanda.
Un indicatore della qualità dell’acqua, che merita una trattazione a sé stante, riguarda infatti la bontà dell’acqua come bevanda. L’indicazione dei parametri di qualità dell’acqua distribuita sono relativi a:
– parametri organolettici e chimico fisici (pH, residuo fisso a 180° , durezza totale);
– principali sostanze indesiderabili (ammoniaca, nitrati, nitriti, ossidabilità Kubel);
– principali sostanze disciolte (cloruri).
Per quanto attiene in particolare la qualità dell’acqua si ritiene che i gestori debbano individuare idonee modalita’ di comunicazione per l’acqua erogata ai vigenti standard di legge; in particolare, si ritiene si debbano impegnare a fornire i valori caratteristici indicativi dei principali parametri relativi all’acqua distribuita, tra cui :
– durezza totale in gradi idrotimetrici (_F) ovvero in mg/l di Ca;
– concentrazione ioni idrogeno in unita e decimi di pH;
– residuo fisso a 180 _C in mg/l;
– nitrati in mg/l di NO in base 3 e nitriti in mg/l di NO in base 2;
– ammoniaca in mg/l di NH in base 4;
– fluoro in micron/l di F e cloruri in mg/l di Cl

Il tema critico non è solo la qualità dell’acqua all’uscita dell’impianto, su cui comunque è utile divulgare le conoscenze di base riguardanti le caratteristiche qualitative dell’acqua di rete per uso domestico grazie alla intensa e qualificata attività degli organi di controllo in materia (Sanità, Aziende Usl, Arpa e Ato), ma si ritiene che si possa anche avviare una maggiore informazione sulla distribuzione, segnalando la differenza tra qualità alla fonte e qualità finale dopo la distribuzione. Più in generale si ritiene anche che si possa iniziare a parlare delle criticità di alcuni depuratori, purificatori, addolcitori, membrana osmotica, filtri composito e meccanici che sono sicuramente strumenti utili per il miglioramento della qualità dell’acqua se ben curati, ma che se non gestiti con una precisa manutenzione, possono essere causa di aumento quantità batterica, di riduzione cloro, di modifica della organoletticità, o comunque possono non essere non sempre funzionali.
Serve dunque un ulteriore sforzo di trasparenza e di corretta informazione e di miglioramento degli strumenti informativi. Non basta dunque assicurare la corrispondenza dell’acqua erogata ai vigenti standard di legge, serve un maggiore impegno verso altri impegni quali, ad esempio, la realizzazione del Manuale della qualità, la certificazione di prodotto e di servizio, e magari la carta d’identità (con etichetta). In questa regione sicuramente abbiamo buoni elementi di eccellenza, ma non ci si deve fermare e anzi dobbiamo rafforzare la consapevolezza che siamo ancora in ritardo sulla cultura dell’acqua: sui consumi, sul suo valore e soprattutto sulla volontà di berla.

LA NOTA
La forza della vita

Subito non l’avevo proprio notata. Poi mi è parso di scorgere qualcosa. Allora mi sono avvicinato, ho osservato meglio: e ho strabuzzato gli occhi. Era nata proprio lì, dove nessuno poteva immaginare: nel basamento di metallo di un posacenere abbandonato in terrazzo. Una graziosa, esile piantina. Poco più di un germoglio incastonato nel freddo metallo. È stata una sorpresa autentica, una meraviglia ancor più grande di quella che si rinnova ogni volta che si vedono fili d’erba o un fiore spuntare dal cemento. Quella piantina, nata fra il metallo, fragile e caparbia testimoniava la potenza dell’essere, la volontà assoluta di esistere: contro ogni logica, contro ogni aspettativa, contro ogni ragione.
Mi ha intenerito, quasi commosso. La forza della vita, più grande d’ogni cosa.

L’EVENTO
Capire gli adolescenti, una giornata di studio promossa da Promeco

Domani a Giurisprudenza, dalle 8,45 alle 17, “Tutti gli adolescenti vanno a scuola”, a cura di Promeco.

“L’occhio non vede cose ma figure di cose che significano altre cose” scriveva Italo Calvino. È senz’altro quello che ci succede quando guardiamo ai nostri ragazzi, gli adolescenti, specie quelli che sono sempre in lotta con il loro tempo e con la loro esistenza. Possiamo proprio dire che ci accorgiamo di loro come figura, ma poi ci sfugge tutto l’altro che significano. È inutile, non sappiamo vederli, e così sovente ce la caviamo dicendo che hanno problemi, problemi di adattamento. È davvero strano che i problemi ce li abbiano sempre loro, e mai noi adulti, genitori, insegnanti. E allora cercare di cambiare il punto di vista, cercare di andare a fondo, scoprire ‘cosa significano’, che è certo faticoso, non privo del rischio di conflitti, è una responsabilità tutta nostra, bisogna apprendere a farlo, con pazienza.
Da diversi anni, nelle scuole secondarie di primo e secondo grado del nostro territorio si realizza con successo un progetto che non a caso si chiama “Punto di vista”. È condotto dagli operatori di Promeco, un servizio pubblico del Comune di Ferrara, convenzionato con l’Azienda Usl, che dal 1992 supporta scuole, insegnanti e genitori nella loro funzione educativa. Il servizio svolge soprattutto interventi di prevenzione del disagio adolescenziale, legato all’uso e abuso di sostanze, alle difficoltà relazionali, alle prevaricazioni, bullismo e cyberbullismo, che si manifestano all’interno delle realtà scolastiche.
Sebbene siano quasi trentacinquemila i nostri ragazzi che dalla primaria alla secondaria di secondo grado frequentano gli istituti scolastici statali e paritari tra città e provincia, la nostra è una terra pigra a parlare di scuola. A occuparsi seriamente della scuola dei propri figli. Per cui può accadere che esperienze uniche e preziose come quelle realizzate in quasi venticinque anni di attività da Promeco nelle nostre scuole passino inosservate a quanti non siano addetti ai lavori, esperienze accumulate sul campo, costruite giorno dopo giorno nel rumore d’aula, a contatto con i ragazzi, gli insegnanti e i genitori,
L’occasione di richiamare l’attenzione dei nostri lettori sul debito di riconoscenza che come genitori, educatori, insegnanti abbiamo nei confronti di Promeco, dei suoi operatori e dei suoi numerosi progetti messi al servizio della comunità, delle nostre scuole e dei nostri ragazzi, ci è offerta dalla giornata di studio che Promeco terrà domani 18 marzo presso la facoltà di Giurisprudenza, intitolata “Tutti gli adolescenti vanno a scuola”.

Promeco prende avvio nel 1991 attraverso i finanziamenti messi a disposizione dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri per la lotta alla droga e negli anni ha sviluppato e sempre più qualificato la sua presenza nelle scuole attraverso protocolli con gli Enti locali, la Prefettura, l’Ufficio scolastico provinciale fino a lavorare in sintonia con l’Università di Ferrara e di Bologna, consolidando la sua struttura anche in termini di ricerca e innovazione. Ciò ha consentito agli operatori di Promeco di realizzare nelle nostre scuole in modo continuativo interventi di prevenzione, di formazione di operatori e di insegnanti, di sostegno e di counselling ai ragazzi e alle famiglie.
Si tratta di un patrimonio di conoscenze e di esperienze al servizio dei bisogni della adolescenza e della formazione dei nostri giovani, che ci pongono di fronte a problematiche sempre più complesse, quelle che trovano soprattutto noi adulti, genitori e insegnanti spesso disorientati, impreparati ad affrontarle.
In particolare è dal 2008 che Promeco realizza nelle scuole il progetto “Punto di Vista. L’operatore a scuola”. L’operatore a scuola si integra nella vita della classe, costituisce una presenza competente per affrontare positivamente i momenti di crisi che in comunità complesse come sono le scuole richiedono attenzione, cura, delicatezza, rispetto, ma anche competenza nell’affrontarli, nel rispondere alle sfide, alle richieste di attenzione che i giovani rivolgono agli adulti, a volte in modo goffo, poco comprensibile, altre volte con comportamenti provocatori. “Punto di vista” in questi anni ha costituito una risorsa, del tutto originale a livello nazionale, che nella sua articolazione, si è dimostrata efficace nel rispondere ai bisogni di una adolescenza sempre più difficile e complessa, superando i tradizionali interventi specialistici e spesso frammentari, poco efficaci e deresponsabilizzanti.
La giornata di studio di domani è, dunque, un appuntamento importante per la città e per la responsabilità che portiamo nei confronti delle nostre ragazze dei nostri ragazzi, soprattutto perché non capita tutti i giorni che ci si fermi a riflettere su loro, sulla loro crescita, sulla loro scuola. Per Promeco non sarà solo l’occasione per compiere un bilancio dei tanti anni di attività promossa nelle scuole, ma per ricordare a tutti noi di non perdere di vista le nostre scuole e i nostri giovani, il terreno dell’istruzione, dell’educazione, della formazione richiedono che la nostra riflessione si focalizzi sulla loro centralità in ambito preventivo, saldando gli interessi degli insegnanti, delle famiglie e degli operatori del territorio per individuare, affrontare e cercare di risolvere i problemi che ragazze e ragazzi sempre più manifestano.
Nel corso della giornata i ricercatori dell’Università di Bologna presenteranno lo studio di valutazione condotto sulle esperienze realizzate negli ultimi tre anni, mettendolo a disposizione degli esperti e dei decisori politici. Un modo per condividere in ambito pubblico i risultati dell’indagine, di definire concretamente la qualità del progetto e i possibili sviluppi futuri.
Aprirà i lavori l’intervento del sindaco di Ferrara Tiziano Tagliani, ma sono stati chiamati a portare il lor contributo il professor Luigi Guerra, Direttore del Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna, il dottor Stefano Versari, direttore generale dell’Ufficio Scolastico Regionale, l’assessore regionale Patrizio Bianchi, per concludere con l’intervento di Massimo Recalcati dal titolo “Si può apprendere e desiderare. Riflessioni sulla bellezza e sulla crisi della scuola’.
Un programma quello della giornata di studio di domani per ricordarci che tutti gli adolescenti, o quasi, vanno a scuola, non solo per apprendere informazioni e competenze, ma per essere se stessi, per riconquistare la singolare bellezza di crescere e di riuscirci.

“Tutti gli adolescenti vanno a scuola. La prevenzione nei processi formativi: un progetto possibile”
Mercoledì 18 marzo 2015, ore 8.45 – 17
Dipartimento di Giurisprudenza
C.so Ercole I D’Este 37 – Ferrara

Il programma completo [leggi]

La scuola come spazio pubblico

Certo la Finlandia non è l’Italia, né per estensione geografica né per popolazione, ma è un Paese che ha dimostrato come l’istruzione sia una priorità assoluta della politica.
Recentemente si è tenuto a Helsinki un seminario su ‘Istruzione e spazio pubblico’. Solo pensare alla relazione tra i due campi per noi sarebbe inimmaginabile. Noi opteremmo per temi più politicamente impegnati come ‘Istruzione e servizio pubblico’, ma ormai sempre più vuoti e sempre più inutili.
A me sembra che ‘istruzione e spazio pubblico’ abbia già alle spalle ‘istruzione e servizio pubblico’, l’abbia già acquisito come dato permanente del suo Dna, come dato da non rimettere in discussione o minacciare come può accadere da noi.
Al seminario hanno partecipato architetti e scienziati sociali provenienti da diversi Paesi europei per discutere di edilizia scolastica come spazio urbano, didattico e politico. Sono sufficienti questi tre aggettivi per comprendere l’angustia dei nostri ragionamenti intorno all’edilizia scolastica, presi come siamo dal dover rincorrere i nostri ritardi, i pericoli di strutture fatiscenti, mai scaturite da un ragionamento intorno all’istruzione, alla scuola, al suo essere spazio pubblico e urbano.
La scuola come luogo di vita non solo per gli alunni che la frequentano, ma anche per le famiglie, per la gente del quartiere, la scuola che si propone di fornire benessere e comfort.
La scuola spazio pubblico accogliente, aperta alla luce naturale, la scuola dove i bambini vanno a piedi nudi, godono di arredi appositamente studiati, di divani circondati da caldi tappeti dove poter leggere comodamente.
Per gli architetti finlandesi progettare una scuola è una questione di orgoglio e di prestigio, non solo per gli investimenti pubblici messi a disposizione, ma per la centralità sociale che assume ogni edificio destinato a fornire, in dimensiona umana, istruzione e cultura agli alunni come alle persone del quartiere.
Un certo numero di giovani architetti sta progettando nuove scuole con una qualità formale in grado di generare un ambiente educativo invidiabile non solo da noi, ma dalla maggioranza dei Paesi europei.
Sono spazi flessibili che possono ospitare molteplici funzioni, la mensa si trasforma facilmente in un teatro o in auditorium. La flessibilità è necessaria affinché le scuole siano anche spazi urbani al servizio dei cittadini, non solo biblioteche di quartiere, ma luoghi di concerti, luoghi di incontro per gli adolescenti. Potremmo parlare di una scuola porosa, capace di vivere e servire il respiro del quartiere, di assorbirne gli umori e di risponderne alle esigenze. La porosità con l’ambiente si traduce in una buona appropriazione da parte del pubblico e in una buona integrazione nel tessuto urbano.
Non edifici pubblici costruiti all’insegna dell’austerità e del contenimento economico, ma edifici progettati con la premessa dell’eccellenza. Perché la molteplicità d’uso e di funzione degli edifici dell’istruzione pubblica è innanzitutto una scelta di razionalizzazione, perché la polifunzionalità di quartiere, o comunque urbana, consente di evitare la costruzione non necessaria di altri edifici e la relativa spesa pubblica, la densificazione della città, oltre a produrre un notevole risparmio energetico.
Forma e sostanza sono strettamente correlate. Prendersi cura delle scuole, del loro design è il primo passo per raggiungere l’eccellenza nel sistema di istruzione. Creare spazi utili e armoniosi promuove l’efficacia della scuola e di conseguenza il consapevole rispetto per l’istruzione da parte degli studenti.
La scuola come spazio pubblico è questo luogo versatile, integrato nella città, non recintato, aperto e accessibile, in cui bambine e bambini, ragazze e ragazzi imparano a vivere insieme, ma si mescolano anche con estranei, adulti, giovani e anziani. È luogo che può incorporare occasioni e semi del conflitto, ma è soprattutto luogo di cittadinanza viva, di cittadinanza non predicata, ma praticata, luogo di autentica urbanità.

IL RITRATTO
La signora Yulia, ai margini della scena

da MOSCA – La signora Yulia è perplessa. Ne ha viste tante ormai e la prima di questa sera non fa eccezione. Coreografi inglesi, americani, italiani, francesi, spagnoli o russi, sempre la stessa storia. Balletti, opere, operette, concerti, poco cambia. Libri, libretti, cataloghi, cd, dvd, cartoline, fotografie, penne, matite, magliette, tutto uguale. Lei sta lì, spettacolo dopo spettacolo, sipario dopo sipario, passo dopo passo, nota dopo nota, bacchetta dopo bacchetta e vede sempre la stessa scena. Qualche piccola variante, forse, ma di scarso rilievo. Lei che sogna di viaggiare lontano, alla fine del mondo, magari in Polinesia, che a malapena sa dove si trova sulla cartina, si trova sempre lì, ogni sera, ogni settimana.
Vende qualche oggetto, ha un salario minimo fisso ma è pagata anche in base a quanto vende. E di vendite se ne fanno poche, in quel tempio dell’arte. E poi le signore eleganti, dai tacchi alti vertiginosi e le parure sfavillanti hanno borsette piccole, pochette che contengono a malapena un rossetto scintillante, uno specchietto lezioso e un leggero fazzoletto ricamato. Sempre loro, donne eteree, dalle gambe lunghe come quelle delle gazzelle, i colli sottili e adornati di perle, oro e diamanti, le spalle chiare coperte da morbide mantelle di pelliccia, le mani lunghe, affusolate e curate. Certo non come le sue, con qualche macchia e screpolatura a causa del vento che ogni mattina, ogni sera, si scontra con le sue dita, il suo viso oltre che con il suo foulard colorato sempre troppo leggero. Quando va e quando torna, quando rientra nella sua casa normale. Quelle donne eleganti, invece, arrivano spesso con un colbacco di volpe argentata, loro che non ne hanno davvero bisogno, proprio no, loro che sono sempre al caldo, al riparo delle loro autovetture scure e lucide di grande cilindrata. L’autista aspetta fuori, nel parcheggio riservato a pochi, di fronte a quel teatro lussuoso che non tutti si possono permettere. Eppure proprio tante persone normali vorrebbero vedere quei balletti, sentire quelle note, sognare con quelle musiche. Quelle eleganti e bionde signore sembrano sfilare, essere lì solo per quello. Belle, bellissime, splendide, curate, ben pettinate, perfettamente truccate, profumate, laccate, quasi conservate sotto vuoto. Non mancano i barracuda che girano intorno, le api che ronzano invano, le muscolose guardie del corpo sono fuori a prevenire l’avvicinamento alle regine.
Tutte le sere la stessa scena, pensa Yulia, tutte le volte una sfilata simile, una parata di bellezza finta, imbalsamata e vuota. Qualche giovane coppia o qualche straniero curioso e stravagante a volte cambiano un po’ il solito panorama. Ma la scena resta sempre la stessa. Nulla cambia. Sempre la stessa storia.

L’APPUNTAMENTO
Lo spettro di un nuovo medioevo. Lunedì 23 c’è “IsIslam?” con Ferraraitalia, per capire i nuovi fondamentalismi

Esiste un Islam moderato? Cos’è cambiato nel rapporto con le comunità islamiche all’indomani dei sanguinosi attentati in Europa? Quali sono le possibili strategie per combattere il terrorismo dell’Isis, la più aggressiva e ricca organizzazione fondamentalista? Quali strumenti ha la politica per stroncare l’ascesa di un integralismo, che infiamma il Medioriente e ha messo radici nel cuore del nostro continente. Quale ruolo gioca l’informazione italiana nel comunicare quanto sta accadendo? Questi alcuni dei quesiti che saranno affrontati nel corso dell’appuntamento promosso da Ferraraitalia, intitolato “IsIslam? Fanatismi, fondamentalismi, integralismi: terroristi e nuovi crociati”, in programma alle 17 di lunedì 23 marzo nella sala Agnelli della Biblioteca Ariostea. L’incontro, condotto dalla giornalista Monica Forti, vede tra gli ospiti Zineb Naini, giornalista di Mier Magazine e ricercatrice dell’Università di Bologna specializzanda in antiterrorismo, lo storico Andrea Rossi e Hassan Samid, presidente dell’associazione Giovani musulmani di Ferrara.

L’avvento e l’espansione del califfato, supportata anche dalla crescente adesione di foreign fighters – giovani europei spesso arruolati attraverso la chiamata dei social network -, è una delle realtà tra le più inquietanti del mondo contemporaneo su cui si sono concentrate le intelligence dei Paesi occidentali. Secondo un rapporto dell’intelligence americana i foreign fighters confluiti in Isis provengono da 50 Paesi diversi e sono più di 7 mila, abbracciano la guerra santa o rimangono in Europa per seminare il terrore. Sono al servizio dell’Islam oscurantista del califfo Al Bagdadi, fondato sul rifiuto della democrazia e della laicità.

Siamo di fronte all’avanzata di un nuovo medioevo? L’intensificarsi della campagna mediatica contro l’Italia ha avuto il suo effetto dirompente con la comparsa in video della bandiera nera sulla cupola di San Pietro, il simbolo della cristianità. La minaccia ha immediatamente aperto un capitolo attraversato da timori e dall’intensificarsi di un neorazzismo che sta dilagando nel Paese. Il dialogo con gli stranieri e le giovani generazioni di religione musulmana nate in Italia, si è fatto maggiormente difficoltoso e dominato dalla reciproca diffidenza. Nel contempo si sa poco o nulla di questa nuova e fluida ondata di terrorismo, che ad ogni nefandezza commessa può contare su migliaia e migliaia di tweet di simpatizzanti, usa i bambini come kamikaze e fa proseliti tra giovani uomini e donne acculturati oltre che nei ceti meno abbienti come quelli residenti nelle periferie parigine.

Cosa si nasconde dietro l’esasperazione del tema religioso? Che rapporto c’è tra recenti “rivoluzioni” arabe e Jihad? I canali di finanziamento del califfato, il cui controllo si estende su circa 56mila chilometri di terra fra Iraq e Siria, sfuggono ai meccanismi dell’economia internazionale, le risorse accumulate, incassi da 2milioni di euro al giorno – come ha segnalato nel 2012 Matthew Levitt, direttore dell’Intelligence e antiterrorismo di Washington – non possono essere colpite da embargo. Pertanto la sfida consiste nello stroncare il contrabbando di petrolio, le estorsioni, bloccare i rapimenti di occidentali, le donazioni e il contrabbando di reperti archeologici. Sarà possibile? Le nazioni dell’Europa condivideranno realmente la lotta al terrorismo islamico? E quale parte avranno Iran e Arabia Saudita, che oggi, a differenza di quanto è accaduto fino a poco tempo fa, sono inclini a mettere un freno all’avanzata di Al Bagdadi i cui uomini si sono macchiati dei più atroci delitti. Secondo l’osservatorio siriano dei diritti umani dal 28 giugno al 14 dicembre del 2014, Isis ha giustiziato 1878 persone di cui 1175 civili, senza contare le persone scomparse. Numeri sommari quanto raccappriccianti, che l’Onu è intenzionato a catalogare come crimini di guerra contro l’umanità.

LA RICORRENZA
Un’altra primavera per celebrare l’immaginifico Tonino

Quando si parla di Tonino, pensiamo tutti subito solo a lui, a Tonino Guerra che, oggi avrebbe compiuto 95 anni, oggi, a tre anni dalla sua morte, avvenuta nello stesso mese di marzo, il 21. Sempre a Sant’Arcangelo di Romagna, fedele alla sua terra, nonostante un lungo soggiorno a Roma e un intenso girovagare per il mondo.
Chi nasce a primavera, con la vita che sboccia, non può che andarsene a primavera.
Il mese di marzo è dunque il suo, quello dell’indimenticabile e meraviglioso Tonino, un periodo dove le iniziative in suo ricordo si svolgono da Rimini a Riccione, passando per Santarcangelo, Pennabili, San Marino e Urbino fino alla lontana, ma a lui vicina, Mosca. Tutte organizzate dall’associazione culturale a lui dedicata (www.toninoguerra.org).

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Carla Fracci

Cosi, il 12 marzo, a Rimini sono state presentate le ‘Giornate dedicate a Tonino Guerra’, che si tengono dal 13 al 31 marzo in molti luoghi, fra Romagna e Marche, organizzate tra passeggiate, cori per bambini (anche da Kiev) e bellissimi spettacoli. Con una coda, come si diceva, in Russia: una mostra dei mosaici realizzati su suoi disegni sarà inaugurata, il 23 marzo, al Museo statale Puskin di Mosca, seguiranno poi due serate dedicate dai suoi amici intellettuali, una serata alla Casa degli scrittori di Mosca, un nuovo libro di traduzioni, una mostra più grande in settembre a Solianka, mentre il Parco Hermitage progetta ‘il villaggio di uccelli e costruzione della fontana L’albero dell’acqua inventata da Tonino’. Tra le iniziative, il 15 marzo, con i sindaci della Romagna si parlerà di uno dei progetti sospesi di Tonino, il ‘Museo Letterario Diffuso’. Il 16 marzo, giorno del suo compleanno, al Teatro Sanzio di Urbino, ci sarà anche la grande Carla Fracci a danzare per lui, in uno spettacolo del coreografo russo Nicolay Androsov, con la regia del marito dell’indimenticabile e sempre eterea étoile, Beppe Menegatti. Il coreografo russo Androsov ha firmato cinque pezzi ispirati all”Albero dei pavoni’ di Tonino. Insieme alla Fracci si esibiranno Natalia Krapivina, una delle star del Balletto di Mosca (per la precisione, del teatro di Danza Stanislavsky e Nemorivich), e la bambina Emma Colombari. Fra gli ospiti, oltre al regista, anche il compositore Bruno Contini.
Carla ha firmato una nota che ricorda Tonino Guerra come “una luce autentica nel mondo della cultura italiana”.

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La piazza di Sant’Arcangelo con la fontana

Un altro dei bei progetti di Tonino, ora divenuto concreto, sarà, invece, presentato il 21 marzo a Santarcangelo: la fontana con la pigna (Tonino aveva progettato l’intervento di modifica della fontana di piazza Ganganelli a Santarcangelo, aggiungendo l’elemento decorativo della pigna e creando nuovi gradevoli giochi d’acqua).

E, sempre il 21, a Novafeltria si esibiranno al teatro comunale i bambini dell’Istituto Tonino Guerra mentre, a Pennabilli, ci sarà il concerto di Petruscianskij. Anche il Premio Nobel Dario Fo ha inviato una nota, sottolineando l’eclettismo del Maestro dalle ‘poesie sconvolgenti e semplici’, un coltivatore di frutti dimenticati, un artista che faceva ‘cose impossibili impiegando dal legno alla pietra, pezzi di ferro torti e fusi col fuoco’, compresi i ciottoli di fiume. Indimenticabile. Perché, come diceva lui, ‘ la bellezza è già una preghiera’. Dalla Romagna, dunque, alla Russia, con amore.

Dario Fo, messaggio per Tonino:

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Tonino Guerra

A Pennabilli, in provincia di Rimini, su una collina, ci stanno alberi in quantità. Tutti o quasi sono piante che danno frutti, ma non frutti comuni, piuttosto sono di un genere dimenticato e ritrovato grazie a un’idea di Tonino Guerra, aiutato da gente non comune come era lui. Lì crescono l’Azzeruolo, il Giuggiolo, la Corniola, il Biricoccolo. Pensi subito che siano frutti inventati da Tonino Guerra, uno a cui non piaceva il normale, il comune e la banalità. Il tutto ha un nome che ci fa capire quale fosse l’intento straordinario di Tonino: creare l’Orto dei frutti dimenticati. E poi la ricerca delle fonti d’acqua pura e i boschi da dove, seguendo ritmi geometrici antichi, si può proiettare la propria ombra su una meridiana composta di pietre che indicano l’ora. Mi son trovato spesso in strani luoghi della Romagna dove immancabilmente incontravo Tonino da stampatori che decoravano tele tirate a mano e poi poste sotto una pressa che imponeva a colori tratti da radici d’albero, da tuberi e da terra che produce gialli e rossi di raccontare storie impossibili. Un giorno sono entrato in un’antica fabbrica dove si costruiscono porte di legni diversi che fanno subito venire in mente bassorilievi realizzati con tratti di legno incastrati uno nell’altro con ritmi che producono composizioni cromatiche e plastiche inimmaginabili. Erano opere inventate da Tonino per clienti che amavano l’inconsueto e la magia. Tonino Guerra era considerato uno che fa cose impossibili impiegando dal legno alla pietra, pezzi di ferro torti e fusi col fuoco, e poi sapeva scegliere sassi modellati dall’acqua dei fiumi e comporre ritmi legando uno all’altro ciottoli e massi nati proprio per raccontare insieme. Poi scriveva anche poesie sconvolgenti e semplici, così che le potessero recitare soprattutto i bambini.
Il messaggio di Carla Fracci e Beppe Menegatti:
Partecipare al ricordo di una persona, scritto maiuscolo, PERSONA, come Tonino Guerra è un grande onore. Tonino Guerra è stato un grande Italiano ed è una luce autentica nel mondo della cultura Italiana. Tonino Guerra ha toccato tutti i punti della grande autentica cultura Italiana illuminandoli di autenticità. Si parlerà di un testo di alto valore poetico, di una sceneggiatura di altissimo valore che si presta ad una straordinaria rappresentazione teatrale Parole – Poesia – Musica – Canto e Danza. Lo scritto di Tonino Guerra si intitola L’Albero dei Pavoni.
Tonino stato anche uno squisito pittore. Noi a casa abbiamo un ricordo bellissimo che lui stesso ci donò a Rimini per una serata in onore e ricordo di Federico Fellini, un suo quadro-bozzetto.

Il manifesto col programma dettagliato delle iniziative in programma [vedi]

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Quando la passione per l’arte bruciava più della politica: la figura di Alfonso I d’Este nel nuovo volume di Vincenzo Farinella

Venerdì 20 marzo alle ore 15, presso la sala dei Comuni del Castello estense, l’Associazione amici dei musei e dei monumenti ferraresi presenterà in prima nazionale l’importante volume di Vincenzo Farinella* dal titolo “Alfonso I d’Este, le immagini e il potere: da Ercole de’ Roberti a Michelangelo”, esperto di arte italiana del Rinascimento e professore associato di Storia dell’arte moderna all’Università di Pisa.

Alfonso I d’Este (1476-1534) rappresenta un caso esemplare, nell’Italia rinascimentale, del rapporto strettissimo esistente tra mecenatismo artistico e attività politica: il duca di Ferrara fu infatti uno dei mecenati più acuti ed esigenti della sua epoca, mosso da una sincera passione per le arti. Paolo Giovio, il grande storico comasco che di Alfonso I scrisse una fondamentale biografia, ricorda che il signore estense stupiva e in fondo anche scandalizzava i suoi contemporanei per un eccentrico interesse rivolto alle arti meccaniche, praticate in prima persona, senza timore di sporcarsi le mani: non solo partecipava alla fusione dei cannoni che posero Ferrara all’avanguardia della tecnica bellica cinquecentesca, ma si dilettava a lavorare nei laboratori di corte, producendo vasellame in ceramica, oggetti di legno intagliato e forse anche esercitandosi nell’attività pittorica. Questo profondo interesse per le arti, insieme alle inclinazioni famigliari testimoniate da due grandi committenti, i genitori Ercole I d’Este ed Eleonora d’Aragona, e la sorella, Isabella d’Este Gonzaga e rinsaldato dal rapporto di amicizia che lo legò negli anni della giovinezza ad un grande maestro come Ercole de’ Roberti, lo spinsero, una volta diventato duca nel 1505, non solo a servirsi di “artisti di corte” modernissimi, come lo scultore veneziano Antonio Lombardo e il pittore padano Dosso Dossi, ma a richiedere opere anche ai massimi del suo tempo, da Fra’ Bartolomeo a Tiziano, da Raffaello a Michelangelo, con la lucida volontà di trasformare Ferrara in una capitale dell’arte italiana.

Per ricostruire la figura di Alfonso I d’Este è risultato necessario ripartire dalla sua biografia: un’esistenza avventurosa, sempre vissuta da principale protagonista di quel drammatico trentennio iniziale del Cinquecento che vide l’Italia diventare territorio di conquista da parte delle grandi potenze europee. Alfonso si allea prima con la Francia e poi con l’Impero e scontrandosi con la Chiesa romana (tanto da essere scomunicato da ben tre pontefici, Giulio II, Leone X e Clemente VII ), ma riuscendo comunque a salvaguardare la libertà di Ferrara e dello stato estense. Non esistendo una ricostruzione moderna affidabile della vita di Alfonso I, Marialucia Menegatti, con la sua profonda conoscenza degli archivi di Modena, Ferrara e Mantova, si è impegnata in una vastissima ricognizione volta a realizzare una vera e propria cronistoria biografica dove appuntare, anno per anno, gli eventi che videro il duca protagonista: un’appendice che occupa oltre 200 pagine del volume, destinata a diventare una più vasta opera autonoma, con l’obiettivo di fornire finalmente agli studiosi quella base di dati storico-archivistici necessaria per riconsiderare il ruolo storico giocato da Alfonso I nelle “guerre d’Italia”.

Il riesame delle principali commissioni artistiche del signore di Ferrara, a cui Vincenzo Farinella si è dedicato ormai da quasi un quindicennio, seguendo passo passo la vita di Alfonso I d’Este, ha così potuto approdare a una chiara prospettiva del nesso arte/politica evidentissimo nella maggior parte delle opere patrocinate da questo mecenate, così appassionato e al tempo stesso così lucidamente conscio del significato ideologico delle arti visive. Così lo studiolo del duca nel suo appartamento privato in Castello, decorato dallo splendido apparato di marmi cesellati da Antonio Lombardo, viene letto come una risposta alla congiura ordita dai fratelli del duca e come un tentativo di realizzare uno “specchio del principe”, dove delineare le virtù morali e i modelli politici necessari ad un’attività di buon governo. Le scintillanti miniature di Matteo da Milano per il Libro d’Ore di Alfonso risultano una testimonianza della vera e propria guerra per immagini ingaggiata con Giulio II, mentre anche un capolavoro come il Cristo della moneta di Tiziano può essere interpretato come un’arma ideologica nel duello senza esclusione di colpi che ha contrapposto il duca estense a Leone X. Del camerino delle pitture, l’impresa più ambiziosa e prestigiosa del mecenatismo di Alfonso I, viene analizzata la complessa iconografia dei dipinti di Giovanni Bellini, Dosso Dossi e Tiziano, incentrata sulle figure esemplari di Bacco, Venere ed Enea, avanzando anche una nuova ipotesi ricostruttiva dell’ambiente dove si erano concentrati alcuni dei massimi capolavori del primo Cinquecento, come ad esempio il tizianesco Bacco e Arianna ora alla National Gallery di Londra. Infine si dà conto di altre importanti commissioni ducali, tra cui la perduta Leda richiesta a Michelangelo, un’estrema allegoria politica affidata a Tiziano oppure il mirabolante Giove pittore di farfalle di Dosso per la “delizia” del Belvedere. La rievocazione di questo luogo di ozio e di piacere, posto su un’isoletta in mezzo al Po, ad un passo dalle mura della città, completamente distrutto quando Ferrara a fine Cinquecento cadde nelle mani rapaci delle “arpie romane”, è affidata, oltre che all’esame delle opere d’arte realizzate per decorarlo, alla ristampa, in coda al volume, e alla traduzione curata da Giorgio Bacci, del poemetto Pulcher visus di Scipione Balbo, dove, al pari delle celebri ottave dell’Orlando furioso dedicate a questo “paradiso del principe”, viene evocata l’ambizione di creare un’immagine di quella mitica età dell’oro che il principe prometteva ai suoi sudditi.

* Vincenzo Farinella è professore associato di Storia dell’arte moderna all’Università di Pisa. Ha studiato l’arte italiana del Rinascimento nei suoi rapporti con l’antichità classica, pubblicando numerosi libri e contributi. Si occupa inoltre di pittura dell’Ottocento e del primo Novecento. Tra le sue ultime pubblicazioni, “Raffaello” (Milano 2004) e “Dipingere farfalle. Giove, Mercurio e la Virtù di Dosso Dossi” (Firenze 2007).

Vincenzo Farinella, “Alfonso I d’Este, le immagini e il potere: da Ercole de’ Roberti a Michelangelo”, con la “Cronistoria biografica di Alfonso I d’Este di Marialucia Menegatti” e il “Pulcher visus” di Scipione Balbo, a cura di Giorgio Bacci, Milano, Officina Libraria, 2014, pp. 1042 con 319 figg. in bianco e nero e a colori.

L’OPINIONE
Nino Cristofori, il nume protettore della città

Nino Cristofori se n’è andato in silenzio dopo una lunga e penosa malattia. Il rispetto dovuto all’uomo però non implica il silenzio ipocrita e l’annullamento del dissenso su un certo modo di intendere la politica e sulla maniera di praticarla, nel suo caso non da semplice comprimario ma spesso da prim’attore.

L’editoriale del Carlino Ferrara di oggi rappresenta efficacemente l’idea che una certa parte della città aveva di lui. Scrive il caporedattore Cristiano Bendin: “Sono molti i ferraresi che, in questi mesi di tormentata vicenda Carife, hanno sussurrato: se ci fosse stato Cristofori, nessuno avrebbe osato fare ciò che è stato fatto alla Carife”. E conclude: “Non sappiamo se ciò sia vero. Ma quasi certamente, con lui vivo e vitale, Ferrara non sarebbe stata trattata così. E forse starebbe un po’ meglio…”.

Questo è il punto. Con la sua ‘protezione’ la città (forse) starebbe un po’ meglio. Questo afferma Bendin, questo realisticamente pensano in tanti. E’ possibile, anzi, è verosimile, perché così è fatta l’Italia. E la cosa mi deprime.
Io penso che una banca (Carife inclusa), come una qualsiasi impresa, se non è in grado di stare in piedi non debba essere tenuta in vita per compiacenza politica. E invece è stato proprio seguendo questa concezione che negli anni ruggenti della Democrazia cristiana si sono alimentati carrozzoni decotti, sprecando risorse pubbliche e alimentando il debito dello Stato, sino all’attuale voragine.
E la sensazione è che, finita la Dc, non sia finita la logica dello spreco e dell’indebito soccorso agli amici degli amici.

Carife è solo un esempio incidentale, magari la vicenda è diversa e andava semplicemente governata con avvedutezza; ma non parlo di questo, mi riferisco al criterio d’azione che qualcuno sembra rimpiangere, legato all’idea di un nume tutelare in grado di riaggiustare le cose a favore del paesello quando ci sono problemi da risolvere o occasioni da cogliere.

Beh, a me la logica da padrini che sta dietro questa immagine non piace proprio. Mi sembra lo specchio peggiore del nostro Paese.

IL CASO
Due anni di biciclettate contro spaccio e degrado in zona stadio: dalle finestre applausi e fischi

“Ciao quartiere”, scandisce ad alta voce la ragazza che apre il corteo di una ventina circa di persone.

“Comitato Zona Stadio: biciclettata per riqualificare il quartiere. Unitevi alle pedalate per un quartiere migliore. Nella biciclettata toccheremo i punti nevralgici del quartiere: piazza Castellina, la zona dell’acquedotto, via Oroboni e il grattacielo”. Annuncia al megafono Massimo Morini, presidente del comitato nato il 15 marzo 2013, che ieri ha festeggiato il secondo compleanno con tanto di pasticcini, brindisi e palloncini legati ai manubri.

“Due anni di biciclettate – racconta al megafono un altro signore mentre pedala sotto le finestre di via Oroboni – cento serate in strada, due fiaccolate, dieci presìdi contro il degrado e lo spaccio di droga”.

“Buonasera signora siamo tornati – dice un signore rivolgendosi ad una donna che si affaccia alla finestra – siamo qui per voi. Se saremo in tanti, verremo ascoltati. Non nascondetevi dietro alle finestre”.

“All’inizio ci davano per morti dopo due mesi – spiegano dal comitato – ci dicevano che eravamo dei patetici, che non avevamo di meglio da fare. Abbiamo ricevuto delle offese, ci hanno anche tirato dell’acqua in testa, e gettato i vetri per terra, ma noi andiamo avanti contro il degrado e lo spaccio di droga”.

Non tutti infatti apprezzano l’iniziativa di questi cittadini. C’è chi la considera eccessiva o non risolutiva rispetto al problema o anche molesta per i rumore degli slogan declamati al megafono e dei fischietti. Per il comitato questo è invece proprio lo strumento di disturbo a quelli che loro vedono come attori del degrado della zona, ovvero gli spacciatori.

“Salviamo il quartiere”, grida una signora. “E allora pulitelo”, gli urla laconico di rimando un signore da un cortile.

Ma c’è anche qualcuno che si affaccia dalle finestre ad applaudirli. Di certo, conseguenza o meno della loro presenza, per le strade, quando passa il corteo, non si vede nessuno di sospetto.

“Ci troviamo ogni venerdì sera alla 21 nel Piazzale Giordano Bruno di Via Cassoli – spiega Morini – lo scopo è monitorare il quartiere. Stiamo valutando con il Comune altre iniziative per riqualificare la zona, per farla rivivere, perché per migliorare la qualità di un quartiere la cosa più importante è viverlo. I residenti della zona non sono molto partecipi, un nostro grosso problema è quello di coinvolgere i cittadini. Il coinvolgimento è difficile, e stiamo cambiando tipo di iniziative per invogliare le persone ad uscire di casa e partecipare attivamente.”

“Purtroppo ogni volta che abbiamo messo i volantini ce li hanno tolti – spiega un signore – così abbiamo creato un blog: http://comitatozonastadio.wordpress.com”.

“E non si dica che non c’è neanche un cane” scherza Morini, riferendosi alla mascotte a quattro zampe del comitato.

(foto di Stefania Andreotti)

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IL FATTO
“Carcere duro e isolamento per gli anarchici”: manifestazione di solidarietà

Hanno rinunciato alle bombe carta e ai petardi davanti al carcere per una manifestazione dai toni più pacifici nel centro della città, i militanti di area antagonista che hanno ribadito ieri la loro solidarietà ai detenuti anarchici dell’Arginone.

Si sono dati appuntamento in piazza Castello a Ferrara in una cinquantina circa. Hanno abbandonato le proteste più agitate che li avevano contraddistinti finora, per un sit in di sostegno a nove anarchici attualmente rinchiusi nella casa circondariale. Si tratta di Lucio Alberti, Graziano Mazzarelli e Francesco Sala, accusati di reati contro i cantieri della Tav Torino – Lione, Michele Fabiani, Gianluca Iacovacci e Adriano Antonacci condannati per reati con finalità eversive, Francesco Porcu condannato per il sequestro Silocchi, e Alfredo Cospito e Nicola Gai, condannati per aver gambizzato nel 2012, a Genova, Roberto Adinolfi, amministratore delegato di Ansaldo Nucleare.

“Sono una giornalista, c’è qualcuno di voi con cui posso parlare?”. Non finisco la frase che il ragazzo che ho accanto mi volta le spalle e se ne va. Un altro, quasi parlando fra sé dice: “Noi non parliamo coi giornalisti”. “Perché?”, chiedo. “Perché è già tutto scritto qui” e mi passa il volantino che porta la firma di compagne e compagni contro il carcere e il suo mondo.

E’ un’occasione persa per approfondire alcuni temi, come le condizioni dei detenuti all’interno del carcere di Ferrara, la sproporzione delle pene per i militanti No Tav, la disumanità di misure come l’isolamento. Si poteva parlare per ore, invece il messaggio alla città è stato affidato alla lettura integrale del volantino tramite microfono.

“In particolare, nel carcere di Ferrara esiste una sezione speciale chiamata Alta Sorveglianza 2 (AS2), in cui vengono rinchiusi prigionieri anarchici, che vengono accusati dallo Stato di inseguire, nei modi più svariati (come, ad esempio, dei sabotaggio o delle azioni dirette contro il potere) quel crimine chiamato libertà. Negli ultimi giorni, nel carcere di Ferrara, è successo qualcosa a cui dare voce nelle strade. Successivamente all’isolamento imposto ad un prigioniero (Alfredo Cospito , ndr) avvenuto il 13 febbraio, dopo un alterco con una guardia, gli altri detenuti in AS2 hanno fatto una battitura (sbattere pentole e altre suppellettili su porte e finestre per protesta, ndr) della durata di tre giorni. In seguito, hanno ricevuto una notifica in cui vengono informati che avrebbe avuto luogo un consiglio disciplinare entro dieci giorni con le accuse di sommossa e disturbo.
Il 28 febbraio Alfredo è tornato dall’isolamento. Lo stesso giorno è stato portato via Graziano (Mazzarelli, ndr). Dopo il consueto processino i compagni sono stati tutti condannati a 15 giorni di esclusione dalle attività comuni, ovvero nei prossimi mesi ognuno dei prigionieri finirà in punizione per due settimane, Nel frattempo sono stati trasferiti dal carcere di Alessandria altri due prigionieri anarchici (Porcu e Iacovacci, ndr)”.

Ad ascoltare le loro parole sono per lo più vigili, polizia e carabinieri che fanno da cornice alla piazza. I passanti prendono il volantino più distratti che interessati.
Le domande ai manifestanti rimangono sospese in questo pomeriggio di struscio cittadino, dove si poteva parlare e non lo si è fatto.

(foto di Stefania Andreotti)

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A un passo dalla felicità

Pietro Paladini, in un giorno qualunque, perde tutto: il lavoro, la patente, il telefono, la figlia che se ne va, la fiducia. Ma Pietro non ha voluto tutto questo, la sua colpa è essersi fidato delle persone sbagliate e di non avere capito che, con sua figlia Claudia, le cose erano finite già da un pezzo. E a pensarci bene, intuisce anche quando. E via con l’elenco delle cose che non ha più, i genitori, la moglie, il cane, il fratello, una litania infinita di autocommiserazione che importa solo a lui.
Una scossa tellurica spazza via tutto, anche la relazione con D., una donna con cui la somma di tenerezza, rispetto, attrazione non è mai diventata “un qualche luminoso tutt’uno”.
Pietro è costretto a mettersi in fuga, scappa da Roma, ritorna al nord, ritorna da lei, da Marta, da cui erano sempre fuggito. È nel momento di massimo spaesamento che Pietro vede la vita che non ha vissuto, o meglio, il “passo” di distanza che l’ha staccato da Marta. È da lei che è sempre scappato, in tutti questi anni, ma non lo sapeva. Anni di finzione a sè e agli altri, a sua moglie che tanto sapeva e che lui non ha mai amato. Ora può dirlo.
Marta, sorella della moglie, è l’unica che Pietro abbia sempre amato, quindi evitato. Non può più fare finta di niente, dopo che, per una vita, ha fatto finta di niente.
Vedere Marta lo inchioda alla sua “imperdonabile colpa”, quella di essere sempre stato, appunto, a un passo da lei, dal dirglielo, dal farlo, dopo averla abbandonata tanto tempo prima.
Mezzo svenuto tra gli scaffali di un supermercato, tra l’indifferenza di tutti, deve dire a Marta quanto è scappato e quanti ha trascinato con sè.
Ancora non capirebbe bene cos’ha combinato se non fosse sua figlia Claudia, adolescente, a spiegargli la teoria delle terre rare: “la loro estrazione comporta la distruzione dei minerali che le contengono (…). Si parte da un essere solitario, che di per sè è abbastanza comune, per ottenere qualcosa invece di raro e difficile da raggiungere. Perciò quando si arriva ad avere la cosa difficile da raggiungere, l’essere solitario non c’è più”.
Pietro per trovare e ammettere, ha dovuto distruggere, ha dovuto trovarsi abbandonato e tradito, ha dovuto trovarsi davanti a Marta, bella come una gemma su cui si posa un raggio di luce.

Sandro Veronesi, Terre rare, Bompiani

PAGINE DI GIORNALISMO
Il silenzio omertoso dei giornali sul banchiere di Dio

4. SEGUE – I vincitori hanno sempre scritto la loro storia da tramandare ai posteri, sì che l’ardua sentenza manzoniana sia la conclusione spontanea di quell’operazione di cui potere e giornalismo sono responsabili nel bene e soprattutto nel male, chi non crede a quest’affermazione vada a rileggersi, o a leggere se non l’ha fatto prima, il “De bello gallico”, in cui Cesare, impegnato nella conquista della Gallia, indica sempre nel povero Vercingetorige l’assalitore brutale e infido. La medesima storia del nostro glorioso Risorgimento dovrebbe essere riletta in questa chiave, ma il vincitore era Cavour, il quale aveva liquidato Garibaldi, socialista e massone, e aveva costruito l’Italia come voleva Casa Savoia.
Queste, però, sono considerazioni che fanno parte del bagaglio dell’esperienza da me maturata in anni di lavoro,considerazioni che non si accordavano certamente con la carica di entusiasmo e di speranza con cui ero entrato nel truffaldino mondo dell’informazione.

Ero arrivato alla Gazzetta Padana, il vecchio “Corriere Padano” di Italo Balbo, subito dopo la laurea e mi avevano messo in cronaca, andavo a fare il giro di nera in questura, dai carabinieri, in ospedale. In verità avevo già collaborato al giornale ma con articoli culturali, incoraggiato dallo scultore Annibale Zucchini e dalla pittrice Mimì Quilici Buzzacchi di cui avevo curato anche una mostra al chiostrino di San Romano. Così quell’immersione nella cronaca – manovalanza giornalistica – fu un salutare bagno di umiltà, ora non si fa più il “giro”, le notizie ti arrivano direttamente sul tuo computer, fanno bella mostra di sè e non devi far altro che metterle in pagina, per le notizie più importanti le autorità convocano una conferenza stampa e tu scrivi praticamente sotto dettatura. Recriminare non serve. Bisognava riempire le pagine e in una città di provincia non era facile, d’estate poi!, ricordo il silenzio e il caldo che entravano insieme dai finestroni aperti, il capocronista ti guardava e, senza sprecare parole, ti diceva di inventare qualcosa: di solito ci pensava un collega più anziano, scapigliato come doveva essere un giornalista, esteticamente truccato da giornalista, giacchetta un po’ bistrattata, camicia abbondantemente bagnata sotto le ascelle. Lui, il collega, si metteva in posa davanti alla Olivetti e cominciava a battere freneticamente il tasto delle maiuscole, sembrava che dovesse scrivere “I promessi sposi”, invece il foglio rimaneva impietosamente bianco, ma, dopo un po’ di falsa battitura, lo scrittore si fermava e diceva guardando in alto “faccio un capocronaca sulla necessità di dotare le nostre Mura di una grande Parco delle rimembranze con i busti degli uomini più famosi della città”. Detto questo, chinava il gran capo al direttore d’orchestra e dava inizio alla sinfonia e la macchina per scrivere riempiva di suoni la sala della cronaca: il capocronaca, cioè l’articolo che apre le pagine della città, è il pezzo più importante, quello sul quale dovrebbe reggersi il notiziario locale.

Ora in quel periodo, se volevi, c’era da scrivere: il clamoroso caso dell’omicidio compiuto sulle Mura (altrochè Parco delle Rimembranze!) da un giovane folle, subito chiamato “il vampiro”, il quale aveva violentato un bambino e poi lo aveva ucciso. La polizia aveva messo sotto inchiesta i ferraresi noti per le loto tendenze omosessuali, ma poi aveva trovato il vero responsabile. Ma, prima di ogni altro fatto, c’era il famoso “caso Giuffrè”, Giovan Battista Giuffrè, il cosiddetto “banchiere di Dio”, l’uomo della Curia che prendeva soldi a prestito e li restituiva con interessi incredibilmente alti, un giuoco che inevitabilmente sarebbe arrivato al capolinea, come avvenne regolarmente al primo intoppo del giro truffaldino e santificato; decine e decine di uomini d’affari, di professionisti e di agricoltori rimasero a secco nell’ultimo vortice d’interessi pompati.
Ma era pur sempre un argomento tabù per le persone importanti coinvolte, dal vescovo, al possidente, all’avvocato, all’ingegnere, al commerciante, al medico. I nomi non si potevano fare, si sussurravano alle orecchie degli amici più stretti, sicuri che comunque le sibilanti delazioni avrebbero avuto larga audiens, c’era soltanto da restituire la palla, la quale, così, rimbalzava da bocca a orecchio, ogni volta aggiungendo o togliendo qualche saliente particolare, insomma, le notizie circolavano molto in sordina e le bocche stavano ben attente a non aprirsi davanti alle orecchie degli indiscreti, in primo luogo i giornalisti. I quali, d’altra parte, erano conniventi, un giornale era di proprietà degli industriali, un altro degli agricoltori: chi mai avrebbe potuto rompere il muro di silenzio, sul quale, naturalmente in sedia gestatoria, la Chiesa innalzava solerti preghiere a Dio perché fosse cameratescamente protettore dei sacri segreti finanziari.

Ma non riuscì nemmeno al sommo creatore d’impedire che la faccenda giungesse fino alle pagine dei giornali nazionali, sui quali la Curia locale aveva meno potere, ma erano pur sempre notizie molto parziali, si parlava di tale Casarotti, braccio destro di Giuffrè, si parlava molto in generale di professionisti, di agricoltori (sempre gli stessi che negli Venti avevano sovvenzionato le bande armate di Italo Balbo), di imprenditori: “il tale professore, primario in ospedale, ha perso 14 milioni…, dicevano i sapienti, si aspettava di guadagnarne altri quattordici, ma la mano della giustizia…”, Il giuoco era questo, tu prestavi 2 e ti veniva rimborsato 4, allora tu reinvestivi 4, sicuro che avresti ricevuto 8 e, intanto, con quel vorticare di milioni si costruivano case e chiese, te Deum laudamus, chiosavano le suore. Insomma, con il vampiro e con il banchiere di Dio Ferrara riuscì a sgranchirsi le membra intorpidite da una pigrizia che aveva lasciato nelle teste dei borghesi una gromma difficile da scalfire.

4. CONTINUA [leggi la quinta puntata]
leggi la prima, la seconda, la terza puntata

L’imperdibile meraviglia del cosmo

STANDING OVATION: I PIU’ ACCLAMATI SPETTACOLI TEATRALI DEL XXI SECOLO
“Variazioni sul cielo”, ideato da Margherita Hack e Sandra Cavallini, Teatro Comunale di Ferrara, dal 18 al 19 marzo 2006

Va subito detto che si tratta di un allestimento che ha poco a che fare con il teatro di prosa vero e proprio, ma che si prevede fin dalle premesse d’un interesse tale da apparire francamente imperdibile. Si tratta di un adattamento non ricavato, come di consueto, da un’opera drammaturgica o letteraria di uno scrittore inteso nel senso canonico del termine, ma ispirato ad un trattato scientifico, di carattere divulgativo fin che si vuole ma pur sempre scritto da uno scienziato, per la precisione da un astrofisico.
Il celebre scienziato protagonista è uno dei nomi più eminenti dell’astrofisica internazionale: Margherita Hack, e il trattato in questione è “Sette variazioni sul cielo”, un suo libro pubblicato nel 1999. L’adattamento che va in scena questa sera, dal titolo “Variazioni sul cielo” e nato da uno studio di Sandra Cavallini e da un disegno creativo di Fabio Massimo Iaquone, «parte dagli occhi azzurri di Margherita Hack, dal suo sguardo sull’universo e dalla sua storia di scienziata per arrivare ad esplorare i confini del visibile. La saggezza e la passione di questa grande ricercatrice accompagnano quasi sottobraccio a fare della conoscenza un gioco attorno ai limiti dell’umano, con la delicatezza e la semplicità di chi accarezza il mistero senza violarlo o banalizzarlo, né rileggerlo con paura». Le sette parti, più un prologo e un epilogo, che compongono lo spettacolo sono: Prologo, Adamo ed Eva; 1) Ampliando la conoscenza dei cieli; 2) Formule, Il peccato di Aristarco, l’altra vergogna; 3) Bilance, il paradosso dell’esplorazione; 4) Ufo, La vita nel cosmo, qualsiasi qualcuno; 5) La controversa origine dell’universo, guardando in su e conversando; 6) Apocalisse, paure; 7) Eva, liberalità della natura, multiverso; Epilogo, Sulla luna rubata.
“Variazioni sul cielo”, ideato da Margherita Hack e Sandra Cavallini, vede sulla scena l’interpretazione prevalentemente ‘fisica’ di Sandra Cavallini, sullo sfondo delle creazioni video di Fabio Massimo Iaquone e sulle musiche dal vivo C-Project e musiche originali di Valentina Corvino. Lo spazio scenico è di Cristian Taraborrelli, la regia di Fabio Massimo Iaquone, ed è prevista la partecipazione straordinaria della stessa Margherita Hack.

IL FATTO
Nei Paesi post-comunisti l’istruzione resta una cosa seria: Mosca in vetta

da MOSCA – Sul numero di Internazionale del 29 gennaio scorso, leggevo il “Malumore dalla Russia” di Tullio De Mauro e mi colpiva questa sua affermazione: “nei paesi postcomunisti l’istruzione continua a essere una cosa seria. Gli adulti hanno livelli di competenza più alti della media internazionale, la Russia lascia indietro di molti punti i paesi leader dell’occidente. E le università russe attraggono il 4% degli studenti migranti, quasi quanto le francesi, come le giapponesi, più delle canadesi. Tuttavia anche in Russia diminuiscono i fondi per le università pubbliche. Partendo dai dati del ministero dell’istruzione, pare che […] l’aumento del numero di studenti, la fuga di cervelli per basse retribuzioni e la contrazione di risorse pubbliche, richiederebbero ripensamenti e strategie innovative nella didattica e nell’organizzazione e amministrazione delle università. Ma i docenti […] sono arroccati su posizioni conservatrici. Rifiutano ogni cambiamento e intanto non si arresta il declino della qualità dei risultati”.

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Edificio principale dell’università Mgu di Mosca

Non metto in discussione il punto sulla diminuzione di risorse pubbliche, non avendo dati a disposizione né avendo approfondito il tema, ma noto con piacere che alcune di quelle strategie innovative auspicate da De Mauro sono già state avviate dalle università russe. Prima di descriverne alcune, è di qualche giorno fa la notizia che l’università statale Lomonosov di Mosca, Mgu (in russo Московский государственный университет имени М.В.Ломоносова, fondata nel 1755, la più grande e la più antica università della Russia) è salita al 25esimo posto nel World Reputation Ranking, la classifica mondiale delle università, realizzata dal giornale britannico Times insieme all’agenzia Thomson Reuter. Per la realizzazione dell’indagine, che ha preso in considerazione i cento migliori atenei del mondo, sono state valutate oltre 10.000 università in 140 paesi. La classifica si basa su criteri di qualità, professionalità e servizi, ai quali si aggiungono il tipo di programmi, il numero di pubblicazioni e le citazioni all’interno di articoli scientifici. Si tratta della posizione più alta raggiunta da un ateneo russo. L’anno scorso la MGU si trovava tra le prime sessanta. Quest’anno, nella classifica è stata inserita, per la prima volta, anche l’Università statale di San Pietroburgo, che occupa la posizione 71-80. La sede attuale dell’università moscovita, fu realizzata da Stalin negli anni Cinquanta nell’ambito di un progetto per costruire sette enormi grattacieli, le cd. ‘Sette Sorelle’. La sede della MGU è ancora oggi il più alto dei sette palazzi staliniani, 240 metri per 36 piani, con oltre 5.000 stanze, affacciate su circa 33 km di corridoi, un teatro, una sala per concerti, un museo, una biblioteca, una piscina, una stazione di polizia, un ufficio postale, una lavanderia e una banca.

Ottimo risultato, dunque, per questo istituto, ben meritato aggiungerei (corsi di lingua, mi dicono, impeccabili). Ma, come dicevamo, alcune novità didattiche importanti segnano il passo di questi atenei russi che stanno dimostrando apertura e grande voglia di innovare. Così, ad esempio, l’Università Statale di Medicina Pirogov e l’Università Statale di Milano hanno recentemente avviato un corso di laurea internazionale in medicina che consente di ottenere il doppio titolo, valido sia in Russia sia in Italia. A breve toccherà anche alla facoltà di Biologia di Torino, ossia una specialità, due lauree. All’università Pirogov i futuri medici possono, infatti, seguire contemporaneamente il programma adottato dall’ateneo italiano e da quello russo. La selezione degli studenti avviene sulla base dell’Imat, il test internazionale di accesso alle facoltà di Medicina gestito dall’Università di Cambridge. Per iscriversi è necessario un certificato che attesta un buon livello di conoscenza dell’inglese ma le lezioni, pur in inglese, prevedono anche lo studio obbligatorio della lingua italiana. Gli studenti dovranno imparare l’italiano, perché nell’arco di tre anni dovranno recarsi in Italia, dove proseguiranno gli studi facendo pratica con i pazienti negli ospedali. Per la prima volta alla Pirogov è stato creato un dipartimento di scienze umane, che comprende l’insegnamento di una serie di discipline come la bioetica, la storia della medicina, il latino, la filosofia. A guidare il dipartimento sarà il professor Emiliano Mettini, toscano.
Anche l’Istituto di cultura e lingua russa di Roma (nato nel 1991) ha siglato nuovi accordi con quattro importanti università russe per favorire l’arrivo di studenti italiani negli atenei della Federazione e realizzare soggiorni studio per tutti. Gli accordi riguardano la stessa MGU, l’Università di Minsk, l’Università Statale di San Pietroburgo Spgu e quella di Novosibirsk. A ciò si aggiunge la possibilità di seguire corsi preparatori per immatricolarsi, successivamente, alla MGU. Importante è immergersi nel paese in cui si parla la lingua di studio, raggiungere una certa padronanza linguistica, viaggiare, conoscere la realtà locale ed essere circondati dalla lingua russa tutto il giorno per ottenere gli stimoli necessari al salto di qualità. Ciò che fa la reale differenza è quello che c’è fuori dall’aula. Non possiamo che essere d’accordo.

L’EVENTO
Sul Mercato della Terra di Ferrara aleggiano i Venti Liberi della legalità

La Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, che si tiene ogni anno il 21 di marzo, compie venti anni e per questo ventennale Libera, l’associazione di associazioni presieduta da don Luigi Ciotti ha scelto Bologna. Una scelta dovuta non solo ai recenti fatti di cronaca, che spingono a mantenere sempre più alta l’attenzione su quello che è ormai il radicamento delle organizzazioni mafiose nei territori del Nord Italia, una scelta per dire che anche oltre la Linea Gotica l’antimafia c’è e ha le antenne tese, come dimostra anche la pubblicazione dell’ultimo dossier “Mosaico di mafie e antimafia” realizzato dalla Fondazione Libera Informazione e voluto dall’Assemblea legislativa dell’Emilia-Romagna. La decisione è caduta sul capoluogo emiliano anche perché, in accordo con le associazioni dei famigliari, insieme alle vittime delle mafie si celebreranno gli anniversari della strage del 2 agosto alla stazione di Bologna e della strage di Ustica del 27 giugno del 1980. Inoltre nei giorni immediatamente precedenti verrà ricordato anche l’eccidio di Srebrenica. Vittime innocenti delle mafie e vittime delle stragi, oltre che dal ricordo e dall’impegno di tutti, sono legate dalla domanda di verità e giustizia che si alza forte ogni anno da parte dei loro familiari. Ancora oggi, infatti, per il 70% delle vittime innocenti di mafie non è stata fatta verità e, quindi, giustizia. E lo stesso diritto alla verità è ancora oggi negato ai familiari di chi ha perso la vita nelle stragi.
In tutta Italia sono già iniziate o inizieranno a giorni le iniziative di avvicinamento a “Venti Liberi”, questo il titolo scelto per la manifestazione bolognese del 21 marzo, e anche a Ferrara il Comune, insieme al Coordinamento Provinciale di Ferrara di Libera, ad Arci, alla Pro Loco Voghiera, al Movimento Nonviolento, al Laboratorio MaCrO del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Ferrara, a Slowfood e a Teatro Off, in collaborazione con Avviso Pubblico – Enti Locali e Regioni per la formazione civile contro le mafie, hanno organizzato un nutrito programma di eventi.
Come affermato da Donato La Muscatella, referente del Coordinamento Provinciale di Libera, nella conferenza stampa di presentazione di oggi nella sala dell’Arengo della Residenza comunale, “in questa giornata si capisce che questa battaglia può essere portata avanti solo se tutti quanti fanno la propria parte; molto spesso si attribuisce alle vittime innocenti delle mafie la connotazione di eroi, ma il loro eroismo civile non deve servire però come alibi per disfarci della responsabilità che ciascuno di noi ha”. La memoria e l’impegno sono i due cardini imprescindibili, l’uno senza l’altro è inefficace: la memoria non deve essere puramente celebrativa, ma deve spingere all’azione e all’impegno nel solco di una strada che già altri hanno tracciato. A Ferrara i “100 passi verso il 21 marzo” iniziano oggi sabato 14 marzo: dalle 10 alle 13 al Mercato della Terra presso il Baluardo del Montagnone in viale Alfonso I D’Este, i volontari del Coordinamento hanno organizzato un banchetto con i prodotti delle cooperative di Libera Terra, coltivati sui terreni confiscati alle mafie e, insieme a Slow Food, una presentazione dei prodotti, seguita da un aperitivo e da una degustazione di vini (offerta minima 3 euro). Domenica 15 marzo dalle 15, in Piazza Castello, la Pro Loco di Voghiera propone una nuova art session: la colorazione partecipata di un camioncino che la Pro Loco Voghiera e il Coordinamento di Ferrara di Libera doneranno alla cooperativa “Rita Atria” di Trapani nell’ambito del progetto “Libera Ferrara e Voghiera per ridare vita alla terra”. Un esempio di come la solidarietà alle cooperative che lavorano sui terreni confiscati possa diventare impegno concreto. Isabella Masina, presente all’incontro con i giornalisti nella doppia veste di volontaria della Pro Loco e di Vicesindaco di Voghiera, ha anche ricordato l’appuntamento del 18 marzo a Gualdo di Voghiera: l’intitolazione del parco pubblico di viale IV Novembre alle “Vittime delle Mafie”.
Il pomeriggio del 17 marzo Nando Dalla Chiesa sarà ospite dei seminari MaCrO, organizzati dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Ferrara: docente a Milano dell’unico corso di sociologia della criminalità organizzata in Italia, ex componente della commissione parlamentare antimafia e ora presidente del comitato antimafia voluto da Pisapia a Milano, Dalla Chiesa è più che titolato per parlare di mafie al nord.
Alle 18.30 al caffè-ristorante 381 storie da gustare di piazzetta Corelli ci sarà poi l’inaugurazione della mostra fotografica “Immagini dal Presidio studentesco Ferrarese Giuseppe Francese” con scatti sulle attività dei ragazzi e sul viaggio che alcuni di loro hanno intrapreso sulla Nave della Legalità. Silvia, la referente del Presidio Giuseppe Francese, in conferenza stampa ha spiegato cosa questi ragazzi intendano con la parola impegno: “molti di noi pensano di non avere responsabilità per le brutture, come le mafie, che ereditiamo dalla società esistente, il nostro impegno è far capire a chi ha la nostra età che non siamo solo la società del futuro, ma anche quella del presente e che già oggi possiamo lavorare per cambiare le cose”.
Alle 20.30 infine al Cinema Boldini Arci Ferrara ha organizzato la proiezione del film “Le Mani sulla Città” di Francesco Rosi, a soli due mesi dalla scomparsa del regista: il film vincitore del Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia sarà proiettato nella versione restaurata dalla Cineteca Nazionale di Bologna (ingresso libero).
La giornata del 21 marzo, in concomitanza con le iniziative di Bologna, prevede a Ferrara un’installazione multimediale, proiettata per tutta la giornata nella Residenza Municipale e in Piazza Municipale, in cui i Consiglieri Comunali leggeranno gli oltre 900 nomi delle vittime della violenza mafiosa. Mentre alle 11, il Teatro Off proporrà una lettura dal titolo “Rifiutate i compromessi”, ispirata alle testimonianze delle vittime delle mafie. L’assessore alla Sanità, Servizi alla Persona, Politiche Familiari del Comune di Ferrara Chiara Sapigni ha comunque voluto sottolineare che quel giorno a Bologna “saremo in tanti, con rappresentanze anche dalle scuole, al corteo che attraverserà la città fino a piazza VIII agosto”.

Tutti gli aggiornamenti sul programma delle iniziative:
www.libera.it
www.memoriaeimpegno.it
provalegalita.wordpress.com

“Novantadue”, il fango della trattativa sui cadaveri di Falcone e Borsellino

Per Ferrara questa è stata una settimana densa di eventi importanti sul tema mafia: dopo la conferenza di don Luigi Ciotti [leggi], tenutasi martedì al liceo Ariosto, giovedì sera è andato in scena al Teatro De Micheli di Copparo lo spettacolo “Novantadue, Falcone e Borsellino vent’anni dopo”, di Claudio Fava e con la regia di Marcello Cotugno.
Un evento organizzato in collaborazione con l’Università di Ferrara che, grazie alle tariffe agevolate e le navette gratis per gli studenti, ha visto partecipare molti giovani.

IMG_1939Novantadue è la storia di due uomini del nostro tempo: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Uomini e non eroi, come viene ben specificato durante la rappresentazione, perché per entrambi l’etichetta di “servitori dello Stato” era più consona al loro ruolo. Proprio loro che tutto volevano essere meno che eroi, servitori di quello stesso Stato che gli ha abbandonati, lasciati soli, rei di aver creduto fino alla fine di poter dare continuità concreta al maxi-processo da loro avviato e scontratisi, infine, contro una trattativa troppo forte e ben avviata, a loro sconosciuta.
Lo spettacolo inizia proprio dalle fasi di completamento dell’istruttoria del maxi-processo, nel 1985. I due magistrati, “nascosti” sull’isola dell’Asinara, firmano gli ultimi documenti ed incominciano ad interrogarsi. Probabilmente iniziano da qua a parlare per la prima volta di loro stessi, di quello che hanno costruito, delle loro paure e, inevitabilmente, della morte. E in rapido tempo si arriva così, attraverso fatti più o meno salienti della storia, al 1992 appunto, anno della sentenza e delle condanne che andarono chiudendo il più grande processo penale della storia, ma anche e soprattutto l’anno degli attentati di Capaci e via D’Amelio.
Falcone e Borsellino (ben interpretati rispettivamente da Filippo Dini e Giovanni Moschella) ci vengono raccontati in un susseguirsi, spesso frenetico e dal forte impatto emotivo, di monologhi introspettivi, dialoghi con il pubblico, dichiarazioni realmente rilasciate, racconti della loro vita quotidiana. I loro interlocutori, a volte giudici, altre mafiosi, altre ancora pentiti (ognuno di questi interpretati dal “tuttofare” Fabrizio Ferracane), non sono altro che un climax ascendente di scoperte atte a prendere consapevolezza di quello che stava accadendo a loro insaputa. Nell’euforia e nella quasi convinzione di avere davvero rifilato un durissimo danno alla mafia, giorno dopo giorno, emerge pesante come il piombo la sensazione, sempre più netta, che il disegno già costruito è quello noto come “trattativa Stato-Mafia”.
Ed è proprio attorno a questa assurda verità che lo spettacolo sembra costruire il suo vero obiettivo. A più di vent’anni di distanza, non possiamo che rimanere ancora increduli davanti alla solitudine e ai complotti ai quali vennero lasciati in balia i due magistrati palermitani. E in Novantadue Falcone e IMG_1938Borsellino sembrano guardarci per davvero dritti negli occhi, impotenti, passati nel giro di qualche settimana dalla vittoria ad un inesorabile sconfitta. Due morti praticamente annunciate, raccontate con immane brutalità dai loro assassini compiaciuti dal loro gesto. Borsellino, dopo la morte dell’amico, ha praticamente solo il tempo di rendersi conto che la fine è vicina anche per lui, niente più scudi e niente più difese. Tutto è già stato scritto, ma rimane una certezza: con la mafia non si tratta, fino alla fine. E la fine arriva, rapida e cupa come il fumo nero generato da quell’enorme esplosione provocata da chili di tritolo. Ma solo un attimo prima di questa tragedia, sempre Borsellino trova il tempo di guardare ancora una volta negli occhi noi del pubblico, come se fosse presente per davvero, e confidarci quello che apparentemente sembra essere un ultima dichiarazione: la sua certezza è di essere stato un buon padre, la speranza è che i suoi figli diventino più consapevoli di ciò che li circonda rispetto alla generazione dei loro padri.

Tuttavia questa speranza è forse, ancora oggi, un enorme interrogativo. Probabilmente molti altri giovani presenti in teatro avranno condiviso ciò e si saranno chiesti se abbiamo imparato qualcosa, noi tutti, da questi due grandi uomini. Perché la sensazione che la mafia oggi, dopo quei fatidici giorni di ventitré anni fa, sia diventata meno forte perché meno “attiva” sul campo e più silenziosa, è un pensiero molto diffuso. Don Luigi Ciotti questo lo ha spiegato bene e queste sue parole quindi (dette da uno che Falcone e Borsellino li conosceva eccome) siano insieme a questo spettacolo un monito per sensibilizzarci, interrogarci ed anche stupirci a nostra volta. Replicare settimane come questa è un dovere; ne gioviamo noi stessi, la nostra società, il nostro futuro e soprattutto la memoria di chi, per questa battaglia ancora aperta, ha sacrificato la propria vita.

Giuliana Berengan, raffinato atelier culturale

Protagonista negli anni Ottanta con un noto atelier culturale in via Romei, Giuliana Berengan, con Massimo Roncarà, da decenni ormai inventa ‘avantgarde’ culturale, tra promozione, teatro,
letteratura, marketing culturale, in Italia, Svizzera, Giappone e altri Paesi.
Riguardo l’Atelier Il Passaggio, tra le numerose iniziative letterarie, ancora negli anni Ottanta ospitò il giovane Aldo Busi, presentando forse la sua opera più innovativa, “Seminario della gioventù”.
I due sono figure assolutamente uniche nel panorama culturale ferrarese, spesso attardato: e da più lustri Giuliana Berengan ed equipe – della quale ricordiamo, tra le numerose operazioni artistiche, bellissimi volumi dedicati alle dame storiche del Rinascimento estense, e uno degli scritti più belli sulle celebrazioni di Lucrezia Borgia – sorvolano, dribblano, provocano e prendono felicemente in giro, appunto, certo passatismo ferrarese.
Tra le prodezze neodadaiste e literary, ma scientifiche, alla Feyerabend o Noam Chomsky,
segnaliamo la campagna Save the World (Salvare le Parole, 2004), sorta di Biblioteca d’Alessandria versione pocket del Duemila. Oppure, tempi recenti, sempre sul femminile più libero di certa retorica tardo femminista – altrove da evidenziare il paradossale gastronomico quasi diario, “La cucina delle Donne a Ferrara”, (Tosi edizioni, 2008), a firma Giuliana Berengan, poi riedito e amplificato, la rara performance poetica nelle stanze di Palazzo Schifanoia,
“Verbodrammi Nomadi”, per Wislawa Szymborska (2012), Premio Nobel per la poesia. E costanti iniziative letteraria sul femminile e la letteratura contemporanea. Non ultimo, cronaca live, la Berengan a suggello della sua potenza conoscitiva e intellettuale (qua a Ferrara da un certo punto sublimata dall’interfaccia istituzionale politico-culturale in quanto politicamente scorretta, si segnalarono anche mini fatwa local stile relativamente e micro… Oriana Fallaci) ha celebrato l’ultimo 8 Marzo delle donne con un esordio giornalistico culturale strepitoso e significativo sul Wall Street International. “Parole per Nostalgia”, sempre nel proiect atemporale Save the Words [leggi].
I libri (alcuni) di Giuliana Berengan: “La cucina delle donne a Ferrara. Storie, ritratti, ricette di cuoche sconosciute” (2013, Este Edition); “Favolosi Cappelli” (2007, Tosi), “Favolose Parole” (Edizioni Associate, 2006); Giuliana Berengan (a cura di) “Le dame della corte estense” (Ferrara : F.D.A.P.A., 1998).

*da Roby Guerra, Dizionario della letteratura ferrarese contemporanea, eBook Este Edition-La

IL FATTO
Blitz di Fratelli d’Italia alla coop Camelot. L’accusa di Spath, la risposta di De Los Rios

Ieri mattina c’è stata una visita inaspettata per i lavoratori della cooperativa Camelot. Guidati dal consigliere comunale Paolo Spath, alcuni militanti di Fratelli d’Italia An, tra cui i dirigenti provinciali Fabrizio Florestano, Alessandro Balboni e Stefano Barbieri, si sono presentati davanti al cancello di via Fortezza con bandiere e volantini per protestare contro le modalità di accoglienza ai rifugiati e ai profughi.

“La nostra iniziativa è nata – ha spiegato il consigliere Spath – perché c’è stata un delibera di giunta che ha approvato la richiesta di accogliere a Ferrara 64 rifugiati con un finanziamento di oltre 900 mila euro. Così abbiamo deciso di andare in modo provocatorio con dei cartelli e un salvadanaio per raccogliere offerte per la cooperativa. Il nostro non vuole esser un attacco alla sua attività sociale, ma alle problematiche della gestione dei rifugiati. Sono tre i punti che contestiamo. Innanzitutto non siamo d’accordo a monte con l’assegnazione di tutti questi aiuti dallo Stato. Poi Camelot lavora in maniera monopolistica e i soldi vanno rendicontati in modo più ampio. Infine 448 € è la pensione minima di un pensionato sociale, mentre un calcolo approssimativo ci dice che un profugo ci costa 1100 € mensili, quindi c’è una forte disparità. Tra l’altro a loro rimangono in tasca pochi soldi, quindi tutto viene speso nella filiera: noi non vogliamo che qualcuno speculi su queste persone. Non siamo contrari al sostegno ai rifugiati, ma prima vogliamo vederci chiaro, infatti l’hashtag dell’iniziativa è proprio #vediamocichiaro. Come Fratelli d’Italia e Alleanza Nazionale abbiamo chiesto lo stop agli sbarchi e chiediamo che tutti i richiedenti asilo siano maggiormente controllati perché l’Unione Europea ha detto che il 10% di chi chiede asilo, non ne ha diritto. Inoltre queste persone vengono da paesi dove c’è il terrorismo e rischiamo delle infiltrazioni. Presenteremo anche un’interpellanza comunale in merito alla gestione dei fondi sia a livello locale che nazionale: dopo lo scandalo romano deve essere resa più chiara possibile per tutti, a partire da chi lavora nelle cooperative.
Quella a Camelot è un’assegnazione diretta, non ci sono altre strutture che lo fanno, perciò pretendo la rendicontazione dei passaggi e una spesa esattamente commisurata a quello che serve.
Anche le nostre famiglie sono in difficoltà, noi vogliamo avere la contezza che chi ha lo status ne abbia realmente la necessità”.

Avete parlato con gli operatori della cooperativa mentre eravate lì?
No – ha spiegato Spath – è uscito solo un operatore che ci ha detto: fate quello che vi pare e se ne è andato. Poi noi eravamo lì con i giornalisti, stavamo rispondendo alle domande e non c’è stato il momento.

L’operatore a cui si riferisce il consigliere Spath è Carlo De Los Rios, direttore della cooperativa Camelot.
Non sapevamo nulla di questa iniziativa – ha detto De Los Rios – fino a quando li abbiamo visti qui sotto. Sono sceso per chiedere cosa stessero facendo, e l’unica cosa che hanno fatto, è stata rassicurarmi che poi avrebbero tolto tutti i volantini che avevano attaccato. Ma nessuno mi ha fatto domande, non hanno cercato di interagire con noi, non cercavano i contenuti per approfondire il tema, ma solo di fare il blitz. Questa è una roba che puzza di qualche decennio fa. Il punto è che i soldi ci sono stati assegnati grazie a un bando vinto arrivando terzi su circa 420 a livello nazionale. Una cosa di cui bisognerebbe andare fieri invece che accusarci.

Fratelli d’Italia chiede trasparenza nei conti, proviamo a fare un po’ di chiarezza sulla questione?
Il bando che abbiamo vinto è triennale, il finanziamento è partito nel 2014 e arriva fino al 2016. I rifugiati sono già qui dall’anno scorso, per cui questa in realtà è una non notizia. Noi riceviamo 723 mila euro dallo Stato ogni anno per l’accoglienza, la protezione e l’integrazione di 64 richiedenti asilo. A questa erogazione statale va aggiunto un cofinanziamento comunale di 181 mila euro che però non si traduce in soldi che entrano nelle nostre casse, ma è la stima complessiva di servizi che vengono forniti. La parte a carico del Comune è di 30-35 mila euro, che equivale al valore del lavoro dei dipendenti comunali che si occupano dei migranti, sommata alle spese di canone per la scuola di Vallelunga che accoglie 20 persone. I restanti 150 mila euro circa sono i progetti di supporto che vengono offerti dalle realtà del territorio: come Brutti ma buoni di Coop Estense o Last minute market per riutilizzare il cibo invenduto, l’accesso a strutture sportive con Uisp, o ad attività culturali e ricreative con Arci. Ma ancora una volta chiariamo che non sono soldi che ci vengono in tasca, sono servizi messi a disposizioni gratuitamente, la cui valorizzazione, tradotta in cifre, può essere inserita come cofinanziamento.

E i 723 mila euro annui come vengono utilizzati?
Con una parte paghiamo l’affitto degli appartamenti dove vengono sistemati i richiedenti asilo. E’ una politica di accoglienza più dispendiosa rispetto a metterli tutti in un unico stabile, ma pensiamo sia anche un trattamento più umano per loro e una soluzione per creare meno impatto sul territorio.
Poi li usiamo per vitto e alloggio, mezzi di trasporto come bicicletta o biglietto dell’autobus, corsi di italiano, mediazione e interventi culturali, servizi sanitari, integrazione lavorativa e tutela legale, e una parte li diamo cash per le loro spese.
La cosa che mi preme sottolineare è che sarebbe auspicabile che non ci fossero i presupposti per questi interventi, ma la realtà indipendente da noi è che queste persone sono costrette a fuggire perché nei loro Paesi ci sono guerre e persecuzioni individuali o generalizzate. Detto questo, qui a Ferrara questi soldi vengono interamente spesi sul territorio e diventano decine di posti di lavoro, contratti di tipo subordinato dei nostri operatori tutti laureati, soldi che vengono spesi nei supermercati, nelle case che non erano occupate, ma sfitte da anni, negli esercizi commerciali, in tutte le attività che queste persone fanno. E i lavori che poi vanno a fare i rifugiati, colmano i vuoti lasciati dagli italiani. In sostanza quelli che passano da noi, sono soldi che rimangono qua. Tra l’altro ci sono accordi con gli amministratori locali perché le spese alimentari vengano fatte nei negozi del territorio. Non si tratta di speculare sulle disgrazie, ma di gestire in modo sostenibile un’emergenza. Ricordo comunque che il diritto alla protezione delle persone che fuggono dal loro paese, è sancito dall’articolo 1 della Convenzione di Ginevra. Su come usiamo i finanziamenti dei progetti ministeriali, ci sono ovviamente controlli severi da parte di figure preposte, noi siamo tenuti a tenere tutte le rendicontazioni.

Per quanto tempo viene seguito un rifugiato?
Quando arrivano qui, i migranti sono richiedenti asilo, ai tribunali il dovere di decidere se hanno diritto allo status di rifugiato. L’iter per il riconoscimento può essere più o meno lungo a seconda delle pratiche. Una volta ottenuta la protezione, hanno diritto di essere seguiti altri sei mesi.

A margine di questa querelle locale, che rispecchia comunque malumori nazionali, quel che concerne trasparenza e assegnazioni, lo lasciamo agli organi competenti. Quello che ci riguarda invece, è questa guerra tra poveri, dove si contrappongono categorie deboli come i pensionati a quelle più che deboli, indifese, come i migranti che scappano dalle guerre o dal terrorismo. Mettendola su questo piano, non ci perdono i cittadini ferraresi, o i rifugiati, ci perdono il senso civico, la dignità, l’umanità, la solidarietà.

il blitz di Fratelli d’Italia alla coop Camelot
il volantino di Fratelli d’Italia
il volantino di Fratelli d’Italia
il volantino di Fratelli d’Italia

Piccola grande storia di un amore che non finisce

Sono bellissimi, sexy, affascinanti e seducenti, di una fisicità sorprendente, di quelle che avvolgono, attraggono, turbano, coinvolgono, un po’ sconvolgono. Lei, Elena (Kasia Smutniak), ragazza di buona famiglia, con ambizioni imprenditoriali, abbandonati gli studi, si mette a fare la cameriera in un caffè di Lecce, con il sogno di aprire un suo locale, insieme all’amico Fabio, gay e fantasioso. Lui, Antonio (Francesco Arca, l’ex tronista di “Uomini e Donne”, oggi interprete del “Commissario Rex”), meccanico, omofobo, forte, rude, ma con una solida cultura del corpo muscoloso pieno di tatuaggi (e per questo, estremamente virile), vagamente razzista, con un linguaggio spesso popolare e un po’ scurrile, insomma non proprio il classico buon partito per una ragazza borghese di provincia. Ma con l’amore non si dialoga. L’anno, il 2000.

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La locandina

I due s’incontrano e si scontrano in una giornata di pioggia, sotto la pensilina affollata di una fermata dell’autobus. Scatta la scintilla che lavora inesorabilmente sui contrari, che alla fine spesso si attraggono. Nasce un rapporto impetuoso, di passione, ma anche di grande e intenso amore. Elena e Antonio, contro il loro stesso ambiente, fatto di amici che li osteggiano e di un’amicizia da fronteggiare (la migliore amica di Elena, Silvia / Carolina Crescentini, esce inizialmente con Antonio ma s’innamorerà, a sua volta, dell’elegante e beneducato fidanzato di Elena, Fabio / Filippo Scicchitano), s’innamoreranno perdutamente e dovranno sostenere le prove della vita e, soprattutto, quelle della malattia che colpirà lei tredici anni dopo il loro primo incontro e il loro matrimonio. Ci sono anche una splendida Elena Sofia Ricci, esilarante zia eccentrica e ‘borderline’, una profonda Carla Signoris, madre della Smutniak nonché sorella della Ricci con cui darà vita a interminabili e spassosi battibecchi, Luisa Ranieri, per pochi minuti in scena ma impeccabile nell’interpretare l’amante napoletana kitsch di Arca e una toccante Paola Minaccioni, irriconoscibile nel ruolo di una malata terminale.

allacciate-cintureSiamo di fronte a una storia forte, intensa, drammatica, disegnata da donne e uomini comuni, fatta anche di ospedali, di sedute di chemioterapia, di capelli che cadono e parrucche, di magrezza, di occhi segnati, di tanta immensa sofferenza. La malattia di Elena è un vero sconvolgimento, un rendersi conto della propria inadeguatezza e piccolezza di fronte al mistero e alle tragedie della vita, ma, allo stesso tempo, rappresenta un’occasione inattesa per la coppia, quella per ritrovarsi, per ritornare al passato di giovani innamorati, ai luoghi dei loro incontri, ai colori intensi della passione che, alla fine, pare non essersi mai persa, l’entusiasmo delle promesse fatte nei momenti di speranza di un futuro felice, di un miracolo da compiersi. Ritrovato tutto ciò, a Elena e Antonio non resta che allacciare le cinture, stretti l’un l’altro, e ripartire. Con una speranza ritrovata e una forza nuova per combattere la terribile malattia. La loro piccola storia non è più una storia piccola.
Film intenso, pieno di passione, toccante e commovente.

“Allacciate le cinture”, di Ferzan Ozpetek, con Kasia Smutniak, Francesco Arca, Filippo Scicchitano, Francesco Scianna, Carolina Crescentini, Italia, 2013, 110 mn.

L’EVENTO
Se il Role play fa Primavera

Nella Primavera, dipinta da Sandro Botticelli nel 1478, al centro c’è una figura femminile, che domina la composizione: è una dama elegantissima, vestita di bianco, con un velo trasparente in testa, ornata di gioielli e ricami in oro, un mantello drappeggiato e sandali d’oro.
Ora, che cosa accadrebbe se, toccando il famoso quadro del ’400, con l’aiuto di un facilitatore esperto e di una voce narrante, la Primavera per una volta potessimo essere noi? O perché no, Cupido che svolazza sopra di lei, o una delle Grazie danzanti o, ancora, Mercurio, il bel ragazzo con il mantello rosso, la spada, l’elmo e i calzari?

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La locandina

Per scoprirlo l’occasione c’è: è lo spettacolo di improvvisazione teatrale esoterica “Parola all’arte. La Primavera di Botticelli” condotto da William Giangiordano, straordinario formatore e comunicatore con una laurea in Storia dell’Arte, e Francesca Ragusa, archeologa e direttrice della Università della terza età di Asti (Utea), dove è la prima docente di esoterismo in Italia. Lo spettacolo va in scena mercoledì 18 marzo alle ore 20.30 presso l’Associazione La Rosa dei Venti (via delle Armi 5/A), Mulino Parisio a Bologna.
Noi abbiamo intervistato Francesca Ragusa, che ci guida alla scoperta dell’evento.

Come nasce l’idea dello spettacolo?
L’idea nasce dall’eclettismo, ovvero dal desiderio di unire più campi di studio, avendo come denominatore comune l’Arte. Il primo è quello della comunicazione umana verbale e non verbale, con un’attenzione particolare agli aspetti umani ed emozionali. Il secondo è lo studio del teatro greco nel suo aspetto e potere catartico: attraverso la messa in scena dei personaggi del quadro non solo si mettono a fuoco emozioni, drammi e aspetti interiori ma si tracciano anche possibili percorsi di vita legati a scelte e comportamenti attivati al momento. Per ultimo c’è il contributo della fisica quantistica, in base alla quale siamo tutti connessi e quindi, connettendoci a un’opera d’arte, possiamo sperimentare sempre nuove vie di comunicazione e condivisione di esperienze.

In pratica che cosa avviene sulla scena?

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Francesca Ragusa e William Giangiordano
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Momento dello spettacolo di role play

L’aspetto più sorprendente è proprio che è impossibile rispondere a questa domanda. La tecnica del Role Play artistico è un lievito magico che di volta in volta, spettacolo dopo spettacolo, crea rappresentazioni sempre nuove e diverse. Mi spiego meglio. Nella rappresentazione io tengo le fila della narrazione, leggendo e orchestrando il canovaccio, la cornice entro la quale si svolge l’azione scenica. In pratica sono la voce narrante che segue un copione di ispirazione. William, il nostro comunicatore e facilitatore, il nostro “big boy”, recluta i vari personaggi dal pubblico chiedendo chi voglia liberamente interpretare una parte piuttosto che un’altra. Gli attori scelti tra il pubblico attraverso il contatto con l’opera d’arte si immedesimano nei vari personaggi e li interpretano nel loro modo unico e irripetibile, esprimendo il loro vissuto, le loro emozioni, la loro sensibilità. E dall’interazione tra i vari personaggi nascono dinamiche, percorsi, una trama che sarà ogni volta diversa, originale, autenticamente umana. Un modo semplice ed efficace per evidenziare gli ambiti di miglioramento, propensioni e capacità delle persone. E scoprire sempre nuovi aspetti dell’essere uomini.

Perché avete scelto proprio la Primavera del Botticelli?
Come tutti sappiamo il 21 marzo è la data ufficiale dell’inizio della primavera. Noi abbiamo voluto celebrare questo evento essoterico, questa contingenza temporale “esterna”, comune e che tutti possono vedere, con un evento esoterico, che faciliti l’esplorazione dell’interiorità, dell’invisibile, di ciò che è dentro di noi e che rimane spesso latente e inespresso. Così come abbiamo fatto con tanti altri spettacoli che stiamo replicando in giro per l’Italia come associazione Immaginati. Il calendario delle attività sarà presto visibile sul sito www.immaginati.eu, ora in fase di restyling e implementazione.