Vale sempre la pena chiedersi come ci vedono gli altri in base ai nostri comportamenti, o alle nostre leggi. In particolare nel rapporto con culture differenti. Il tema “Inclusione dell’alunno straniero e della sua famiglia” è stato affrontato di recente nel convegno Cisl, organizzato a Ferrara a settembre. L’accento è stato posto sulla scuola come luogo di integrazione, che mette faccia a faccia lingue differenti, giustappone storie da angoli agli antipodi del mondo; si avvale (nei casi migliori) di insegnanti in grado di gestire un avvicinamento, di far sentire a casa, e soprattutto ugualmente amati e accettati, i bambini.
Tutto l’opposto da ciò che viene narrato nel documentario “Container 158” di Stefano Liberti ed Enrico Parenti. Presentata all’interno della rassegna “Italieni” all’ultima edizione di Internazionale, la pellicola racconta la vita del cosiddetto “villaggio attrezzato” di via Salone alla periferia di Roma, abitato da più di un migliaio di persone di etnia Rom – provenienti da Montenegro, Serbia, Bosnia e Romania – che di fatto costituisce l’unico sistema di ghettizzazione in tutta Europa , forma ovviamente condannata dalla Comunità europea, e mette in risalto le difficoltà e la sostanziale chiusura che i bambini si trovano a dovere affrontare in una scuola che tutto sommato sembra non volerli, tra pretesti per cacciarli una volta per tutte e nessuno ‘ius soli’ che rivendichi la loro appartenenza al luogo che per loro è Casa. Vincendo ancora una volta sui diritti umani di base, ignorando bambini che, seppur nati in Italia, non hanno cittadinanza né riescono a parlare correttamente l’italiano, non facendo altro che aumentare il divario invece di fornirgli gli strumenti necessari per sentirsi persone di pari dignità e diritti rispetto a chiunque altro e, di fatto, facilitando l’esclusione da un sistema che per sua costituzione dovrebbe impegnarsi a fare l’esatto opposto, non omologando ma accettando e includendo.
Che insieme all’attenzione e all’affetto sarebbe il compito più importante dell’insegnante, il quale dovrebbe di fatto insegnare a ragionare con la propria testa e a non mettere un muro tra quello che conosciamo – o più spesso crediamo di conoscere – e quello che non arriva dall’orto di casa e che quasi sempre prendiamo per ‘buono’, incondizionatamente. Quello che ci viene dato come regola dal primo giorno di scuola. Quello che tutti si aspettano che noi facciamo. Quello che non necessariamente corrisponde a un concetto di buono e giusto solo perché è scritto o detto da baroni universitari, da sedicenti professionisti, dalla maggioranza. Quello che insegnava a fare il professor Keating dell’”Attimo Fuggente”, che qualunque studente vorrebbe incontrare almeno una volta nella vita, come è successo agli studenti che, venerdì scorso, hanno manifestato da nord a sud per chiedere, tra le altre cose, istruzione libera e gratuita per tutti, diritto di cittadinanza, maggiore coinvolgimento del governo nella riforma sulla scuola, esulando dalla spicciolata di temi che erano stati proposti dall’alto e ponendo l’accento su altri non suggeriti esplicitamente dal governo. Evocando un gesto di presa di coscienza ormai iconografico e salendo in piedi sui banchi, esattamente come nel film esortava a fare Robin Williams a un giovanissimo Ethan Hawke e ai suoi compagni, esortando i suoi studenti a cambiare sempre punto di vista, a dubitare del mondo e a chiedere rispetto, oltre ad imparare ad averne nei confronti di chiunque. A essere persone vere e autonome prima ancora che pacchetti standard di dati sterili, i Pink Floyd ci avevano già messo una pulce nell’orecchio con “Another Brick in the Wall”.
Entrambi i casi aiutano però a fare uscire i lati buoni e utili del web: con gli hashtag di Twitter (#entrainscena, #100 e #labuonascuola) utilizzati dagli studenti che postano riflessioni e iniziative; e con il sito di Occhioaimedia.org, gruppo di associazioni che studiano il tema della mala comunicazione sui vari rapporti tra culture, sui sempreverdi temi del razzismo, del classismo, del pregiudizio sistematico. Cercando di costruire un varco tra quei mattoni ammassati da sistemi sbagliati.
Adesso è ufficiale. Nella nuova squadra di governo della Provincia entrano Fabrizio Toselli, sindaco forzitalico di Sant’Agostino, e Marco Fabbri, primo cittadino pentastellalto di Comacchio. Il neo presidente Tagliani (Pd, giusto per rammentarlo: in questa commistione ci si confonde…) ha conferito oggi le deleghe, coinvolgendo ben otto dei dodici eletti nel Consiglio provinciale. A Toselli è stata attribuita la responsabilità su politiche del lavoro, formazione professionale e attività produttive; a Fabbri quella sul turismo. Dei sindaci che fanno parte del Consiglio l’unico a non avere deleghe è Alan Fabbri: il primo cittadino leghista di Bondeno ha appena ricevuto l’investitura come candidato per il centrodestra alla presidenza della Regione Emilia Romagna da Berlusconi in persona, e nominarlo come sodale in quella che un tempo si sarebbe definita “giunta” deve essere parso troppo persino a Tagliani (che comunque ne ha propiziato l’elezione includendolo nella lista “senza frontiere”). Gli altri cavalieri delegati della tavola rotonda sono invece di fatto “assessori”, anche se ufficialmente non si chiamano così. Perché, ci spiegano, il loro è un ruolo tecnico, puramente amministrativo. Ma allora, perché i designati sono dei politici e non dei tecnici?
La considerazione sorge spontanea. Dal “tutto è politica” degli anni Settanta, all’attuale “è solo gestione amministrativa” sciorinato anche a proposito delle funzioni della nuova giunta provinciale, corre un abisso. Si scivola dagli eccessi di allora alla mistificazione di oggi. Da una parte c’era il debordante entusiasmo ideologico che portava a considerare di ogni azione il riflesso pubblico e la valenza sociale, sino ad annientare la sfera privata; dall’altra parte eccoci ora al ripiegamento di basso profilo che tende a celare con ipocrisia la reale valenza di scelte impegnative per la collettività, che in quanto tali hanno indiscutibilmente un rilievo comunitario e dunque politico.
Non si può negare che chi esercita funzioni di governo svolga una funzione di natura politica, poiché gli orientamenti e gli indirizzi assunti non sono neutri: perseguono una visione e assecondano un disegno di sviluppo che non è necessitato, ma rappresenta una possibile opzione fra tante alternative praticabili: politica, dunque. Perché la politica è precisamente scelta, fatta sulla base di un orientamento, di una prospettiva.
D’altronde, se non fosse così, perché designare politici a svolgere tali compiti? I nuovi “assessori” della “giunta” provinciale mica sono tecnici! Negare questa evidenza e ridurli a esecutori di compiti meramente gestionali significa strumentalmente sminuirne il ruolo e la funzione svolta per avere meno intralci, meno opposizioni, meno inciampi. Rendere apparentemente neutre e inevitabili le scelte che si compiono equivale, in un certo senso, a blindarle, rendendole inattaccabili.
L’abile operazione mirabilmente condotta dal sindaco-presidente Tagliani, che ha riunito nella “giunta” provinciale centrosinistra, centrodestra e Movimento 5 stelle, ha proprio questo segno ed è un capolavoro di stampo democristiano. La tecnica è antica e consolidata: cooptare il dissenso (reale e potenziale) inglobandolo nella cabina di regia per poter esercitare l’arte politica e governare incontrastati.
Il fatto è da qualche tempo conclamato, tra il circolo Delta Po di Legambiente e la giunta 5stelle di Comacchio l’intesa è tramontata. Sono bastati due anni e mezzo di governo per arrivare alla frattura e oggi l’associazione ambientalista sembra essere la più vitale delle forze d’opposizione. A detta di Legambiente, il nodo del problema sta nel mancato rispetto del patto siglato con l’allora aspirante sindaco Marco Fabbri, che guadagnò al ballottaggio oltre il 70 per cento dei voti. Una vittoria schiacciante dettata dal desiderio di cambiare registro e, in alcuni casi, dalla volontà di dare fiducia ai giovani. “Il patto impegnava il sindaco a non consumare il territorio, ma qualcosa nell’arco di un paio d’anni è cambiato radicalmente nella gestione, anche se il sindaco insiste nel negarlo”, precisa Marino Rizzati, presidente del Circolo Delta Po. “Legambiente, mi preme ricordarlo, non è forza politica ma di opinione, non siamo in Consiglio comunale per statuto e per scelta, ciò nonostante non possiamo prescindere da quanto accade”.
Chi vive nell’area del Delta, ricorda, sa di abitare in una terra “in progress”. “Il territorio si modifica continuamente, l’uomo cerca di governarlo, ma deve tenere conto di varianti e cambiamenti climatici prodotti dagli elementi naturali. Piogge torrenziali, vento, mareggiate sono cose conosciute – continua – Abbiamo speso milioni di euro tra commissioni europee, regionali, provinciali, master plan del Parco del Delta del Po per capire cosa dobbiamo fare, lo sappiamo, ma non lo facciamo”. Un esempio? Se non si prende il problema con la dovuta serietà in futuro la costa andrà sott’acqua. “Criticità a parte, c’è da dire una volta di più che viviamo in una zona di grandi ricchezze naturali, bisogna evitare di esaurirle come sta accadendo – continua – L’Amministrazione dimostra di non conoscere né di capire, o semplicemente non vuole capire, l’importanza di decelerare su quello che potrebbe rivelarsi un finto sviluppo urbanistico, anzi un boomerang per il territorio”.
Al centro delle preoccupazioni degli ambientalisti ci sono le tre delibere sul futuro urbanistico di Comacchio votate dalla maggioranza l’11 settembre nella solitudine dell’aula abbandonata dall’opposizione. La decisione prevede accordi diretti tra il Comune e i privati, che puntano alla realizzazione di 190 ettari quadrati di campeggi, una fetta di costa piegata “allo scellerato progetto di ulteriore consumo di territorio già programmato attraverso il Piano Territoriale del Parco del Delta del Po approvato dalla Provincia di Ferrara”, sostiene il circolo. Come dire: il partito del mattone passa alle strutture leggere, ma gratta gratta la musica è la stessa. “L’allarme non è legato ai campeggi quanto alle regalie concesse dall’Amministrazione ai costruttori, che magari negli anni potranno spostare volumi edificabili dei quali già dispongono in termini di realizzazione in altre aree all’interno delle strutture turistiche – dice – La normativa del parco prevede progetti a comparto, penso all’area che va da Porto Garibaldi alla Romea fino alla Fattoria. Alcuni imprenditori per rivalutare un’area staranno al progetto, ma non credo faranno mai gli agriturismi promessi e chi ha più forza economica guadagnerà maggior territorio. Probabilmente esistono già impegni di cui non sappiamo nulla”.
Secondo Rizzati il tradimento dei 5Stelle sta nella retromarcia ingranata sulla gestione comunale. Dopo due anni e mezzo di attacchi al Pd ora fanno parte del Listone, sono alleati degli ex nemici e forse, senza neppure sconfinare nella fantapolitica, in prossimo futuro saranno fuori dal movimento di Grillo, magari uniti in una lista civica appoggiata dai democratici ferraresi. “Quanto sta succedendo è contrario agli indirizzi del Movimento e alle sue linee guida – continua – I nostri grillini avevano assicurato una variante al Prg entro 100 giorni dal loro insediamento, l’obiettivo era mettere in stand by ogni manovra che comportasse il consumo del territorio, si erano anche impegnati per mettere a punto il Piano strutturale comunale (Psc), ma oggi la loro politica è cambiata, non siamo i soli a dirlo”. E ancora: “La storia si ripete, anche Pierotti quando si candidò sindaco promise che non si sarebbe più posato neppure un mattone – continua – dopo un paio d’anni modificò la giunta nella quale erano presenti movimenti civici, per sostituirne i rappresentanti con i politici, così fa anche Fabbri”.
Il cambiamento ha due facce, politico e amministrativo. “Quando abbiamo chiesto al sindaco se fosse al corrente della decisione dell’allora presidente uscente della Provincia Zappaterra di cancellare l’articolo sulla tutela paesaggistica e quelli relativi alla materia idrogeologica, ha risposto che si sarebbe informato. E’ stato elusivo – spiega – Abbiamo capito che gli stava bene, forse discutendo di idrovia con la Provincia sono nate simpatie inaspettate”. Ci sono poi altri nodi dolenti sullo sviluppo. “Penso alla questione legata agli impianti strutturali, depuratori e strade – conclude – Prima di costruire bisogna adeguarli come prevede la legge e pensare anche al mare, quest’anno le cose non sono filate lisce, noi i dati li abbiamo, e non si può continuare a dare la colpa dell’inquinamento delle acque alle porcilaie di altri paesi vicini”.
Critico sulla futura pianificazione della costa anche Davide Michetti dell’Onda. “Quelle delibere hanno dato il via a una speculazione senza senso, ma sono talmente fatte male da prestarsi ai più differenti ricorsi. A Comacchio non c’è bisogno di una distesa infinita di campeggi, ma di cose di rilevanza pubblica come a un talassoterapico a un parco acquatico – dice – Che faremo, tra 10 anni ci lamenteremo dei troppi campeggi come è successo per l’eccesso di case? Già quando fu presentato il piano di stazione di Parco di Comacchio, sembrava fatto su misura per le esigenze di pochi”. Nel frattempo attende una risposta scritta a una sua interrogazione circa il dossier su presunti abusi edilizi di Tomasi costruzioni segnalato dal geometra Loris Rossetti al Comune e respinti al mittente dall’imprenditore. Per ora nessuna risposta. “Anche questo fatto, desta qualche perplessità sul comportamento politico amministrativo della giunta – conclude Rizzati – le risposte di fronte a certi quesiti sono doverose, soprattutto se la tua linea programmatica le mette tra i primi posti nella scala di valori”.
Treno treno delle mie brame, qual è il più bello del reame? Sicuramente lui, sempre e solo lui, l’Orient Express, il treno della magia, dell’amore, del sogno, del mistero, della storia. Lui che partì per la prima volta 130 anni fa, il 4 ottobre 1883, dalla Francia alla Romania, passando per Vienna. Era la prima volta che quel treno sbuffava e cigolava, ma era anche la prima volta che una macchina su rotaia attraversava l’intera Europa, correndo dritta verso Oriente. Nella rumena Giurgiu, i passeggeri erano trasportati attraverso il Danubio via nave fino in Bulgaria, per poi prendere un altro treno per Varna, da dove completavano il viaggio per l’antica Costantinopoli in traghetto.
Un altro percorso cominciò a essere usato nel 1885, raggiungendo Costantinopoli per ferrovia da Vienna a Belgrado e Niš, poi su carro fino a Filippopoli, in Bulgaria, e di nuovo su ferro fino a Costantinopoli. Nel 1889 si completò la linea ferroviaria diretta. I favolosi anni Trenta conobbero l’apice del successo dei servizi di questo favoloso treno, con vari collegamenti in funzione allo stesso tempo: l’Orient Express (che univa Parigi a Istanbul – Costantinopoli prese questo nome nel 1923 – , via Strasburgo, Monaco, Vienna, Budapest e Bucarest), e il Simplon Orient Express (il collegamento con l’Italia fu possibile dal 1919, a seguito dell’apertura del tunnel del Simplon – da cui il nome del treno che copriva quella tratta, che univa Calais e Parigi a Istanbul e Atene via Losanna, Milano, Verona, Venezia, Trieste, Zagabria, Belgrado, Sofia e Salonicco).
In questo periodo di massimo splendore, l’Orient Express divenne famoso per lusso, confort e raffinata cucina. Era frequentato da reali, nobili, diplomatici e ricchi uomini d’affari. La storia del treno più famoso di tutti i tempi, il più romantico, che ha ispirato per generazioni il cinema e la letteratura si intreccerà con un secolo di storia politica europea. La Prima Guerra mondiale si concluse, infatti, a bordo di esso. L’armistizio venne firmato nella carrozza 2419 dell’Orient Express, in sosta presso Compiègne in Piccardia, nel nord della Francia. Il generale Ferdinand Foch impose ai tedeschi sconfitti pesanti risarcimenti e sanzioni, di fatto creando uno dei motivi dell’ascesa al potere di Adolf Hitler. La carrozza 2419 fu conservata in un museo parigino fino al 1940, quando la marcia di Hitler su Parigi si concluse con la resa francese firmata proprio a bordo di questa carrozza, riportata a Compiègne in segno di sprezzo, per essere distrutta subito dopo.
Il genio creativo di Agatha Christie ha poi ambientato il suo romanzo “Assassinio sull’Orient Express” su una carrozza della tratta Simplon Orient Express.
Gli storici ed eleganti vagoni, dagli arredi e dai decori lussuosi e curati, hanno ospitato storie di membri di famiglie reali e borghesi, sono state bombardate, sono rimaste intrappolate in bufere di neve, sono state teatro di romantiche storie d’amore, hanno accolto scrittori e poeti che hanno tratto grande ispirazione dalla raffinatezza dei luoghi e dei profumi. Quei luoghi di indimenticabili avventure, romanzi, film, ci riportano alla mente Dracula di Bram Stoker (mentre Dracula fugge dall’Inghilterra via mare, la cabala che ha giurato di ucciderlo arriva a Parigi a bordo dell’Orient Express, precedendolo a Varna), “Il treno d’Istanbul”, di Graham Greene, la versione del 2004 de “Il giro del mondo in 80 giorni” (un comico inglese, ex Monty Python, Michael Palin che lascia Londra a bordo dell’Orient Express per ripercorrere le tappe del viaggio di Phileas Fogg), la fuga di James Bond in “Agente 007, Dalla Russia con amore”, l’episodio 8 della serie animata “le nuove avventure di Lupin III, intitolato, appunto, “L’Orient Express”.
Un sogno del passato, t’immagini Mata Hari passeggiare per i corridoi, spie che cercano di carpire inconfessabili segreti, contesse russe e austriache con vistose pellicce, grandi cappelli e lunghe sigarette, alti ufficiali che rientrano dalle colonie, profumi intensi e conturbanti che fanno girare la testa, colori accesi che ti lasciano senza parole, lunghe collane di perle e spille un po’ frou frou. Tutto questo mentre dalle tendine bianche leggere e ricamate, entra, con delicatezza, il venticello leggero della sera.
Anche noi per un attimo siamo lì, quasi trasportati da un’incredibile macchina del tempo che ci fa dimenticare tutti i problemi quotidiani. Quell’atmosfera d’altri tempi ci riporta all’odore del cognac e del brandy, alle passioni amorose che si nascondevano dietro le porte, alle chiacchiere e ai pettegolezzi davanti ai bicchieri di cristallo, alle rose offerte alle belle dame, alle parole sussurrate, ai paesaggi di brughiere e colline che scorrevano lentamente sotto gli occhi attenti dei fortunati viaggiatori.
Oggi il percorso rimane lo stesso, c’è chi dice che il fascino sia rimasto immutato, chi lo trova un po’ decadente e spento. Noi lo sogniamo come allora, e come allora lo vogliamo immaginare. Perché quando andremo (perché ci andremo, un giorno), ci perderemo nel passato. Come spesso facciamo, da perfetto viaggiatore-sognatore.
“I sudditi sono coloro che si lamentano senza fare nulla, i cittadini lavorano per far andar meglio le cose”: questa è l’interpretazione che Gherardo Colombo ha dato del primo articolo della nostra Costituzione nella serata di dibattito con Tiziano Tagliani e Daniele Lugli Il rispetto della legalità come responsabilità diffusa. “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro”, secondo l’ex pm milanese questo significa che il nostro Paese può essere veramente una democrazia e una repubblica “se tutti i cittadini lavorano” perché lo sia. Ecco qual è il nesso fra legalità e responsabilità, entrambe parole di per sé astratte, perfino ambigue, se non sostenute da un principio etico: Colombo fa l’esempio delle leggi razziali o della responsabilità di un soldato di fronte agli ordini di un superiore, momenti in cui molti si sono posti o avrebbero dovuto porsi il problema del significato vero e sostanziale di queste due parole. Ma qual è dunque questo principio che sostanzia la forma della legalità e della responsabilità? Di nuovo arriva in soccorso la nostra Costituzione: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3). È bene sottolineare che la responsabilità, appunto, non è dello Stato, ma della Repubblica, cioè di nuovo dell’insieme dei cittadini. Dunque non solo legalità e responsabilità, ma anche solidarietà.
Ha ragione perciò Colombo quando dice di non essere d’accordo con il detto che “il pesce comincia a puzzare dalla testa”: il problema della credibilità delle nostre istituzioni e del rapporto che queste hanno con noi cittadini deriva in parte anche da come e a chi noi diamo il nostro consenso. Essere cittadino responsabile significa libero nelle proprie scelte anche perché consapevole delle conseguenze che queste avranno. Ed ecco l’ultimo, non certo per importanza, termine dell’equazione: la libertà.
Per riunirli tutti questi termini, legalità, responsabilità, solidarietà, libertà, è necessario uscire finalmente dalla visione miope dell’esclusivo interesse individuale e rendersi conto che questo è solo una parte di un interesse collettivo, che proprio in quanto comune è anche di ciascuno. Qui però le istituzioni devono fare un passo in più: devono sempre porsi al servizio di questo bene comune.
Quello che serve è dunque un cambiamento culturale perché si arrivi finalmente a stigmatizzare socialmente i comportamenti contrari al nostro bene comune. Tale cambiamento non può arrivare dall’alto con leggi e riforme, la soluzione è investire nell’educazione e nella formazione di competenze sempre nella consapevolezza che si tratta di un lavoro molto duro e molto lungo, come tutte le cose che vale la pena fare.
Promuovere la lettura attraverso le pagine social, le communities dedicate ai libri, i profili Twitter, youtuber, blog e forum. Parte domani (15 ottobre) la seconda edizione del Social Book Day, ideato e sostenuto da Libreriamo [vedi]. Iniziativa interessante, simpatica e lodevole, oltre che estremamente creativa.
Si può partecipare su Facebook e su Twitter, e non solo. Bastano una frase personale, un pensiero, una citazione del proprio autore preferito, un invito a sostegno della lettura e dei libri e in cui sia sempre presente l’hashtag .
E’ bellissimo leggere, si entra in altri universi, talora paralleli, talora completamente diversi. Si può sfuggire alla realtà, inventarsi un mondo nuovo, vivere un’altra vita.
Penso leggere sia una delle più belle avventure, che sia così straordinario entrare in altre dimensioni, estraniandosi da questa, a volte così difficile. I personaggi siamo noi, possiamo immaginarne storie e finali, passeggiare con loro. Spesso si legge per sopravvivere, per viaggiare con la fantasia quando non se ne hanno i mezzi materiali, per sognare e pensare diversamente dagli altri. Quasi un navigare solo con le proprie idee in poppa.
E’ meraviglioso entrare in libreria, accarezzare le pagine, sentire il profumo della carta dei volumi nascosti fra gli scaffali. I libri sono anche specchi, l’ombra di un vento che ci soffia parole tra i capelli spettinati e ribelli. Un alito leggero che ci accompagna.
Domani lasciate anche voi la vostra impronta. Condividete il libro più bello che avete letto, i pensieri dei vostri autori preferiti, le scene e i paesaggi che vi hanno fatto sognare. Allora leggiamo e compriamoci tanti libri. Domani e non solo…
Parlare di arte e di bellezza non è solo piacevole, ma anche utile e addirittura salvifico, soprattutto in periodi come questi, dominati da eventi tragici e problematici che ci investono di preoccupazioni e percezioni tutte negative. Saper leggere l’arte e il bello, possono aiutare ad innalzarsi ad un livello più alto e nobile, proprio dello spirito umano. Non è quindi una cosa ‘per persone colte’ o per i soli studenti dei licei e delle Accademie d’arte, ma allo stesso tempo non è un’operazione scontata, come in tutte le cose occorrono gli strumenti giusti.
E’ per fornire questi strumenti che Maurizio Villani e Paola Marescalchi, per molti anni insegnanti presso il Liceo classico Ludovico Ariosto, hanno scritto e di recente pubblicato “Filosofia dell’arte”, un caso unico nel panorama editoriale italiano. Presentato il 30 settembre alla Biblioteca Ariostea di Ferrara, il libro è già alla seconda edizione e sarà in libreria a partire dall’8 gennaio, acquistabile on-linesul sito della Libreria Filosofica già dal 1 dicembre [vedi].
Prima di ripercorrere la sintetica e agile presentazione che i due autori hanno proposto al pubblico dell’Ariostea, ricca di citazioni e immagini esemplificative, riportiamo qui il colloquio avuto a margine con ferraraitalia:
Quali prevedete saranno i vostri ipotetici lettori?
“Una volta si diceva le persone colte, anche se non sappiamo se sia un genere antropologico ancora esistente. Battute a parte, abbiamo avuto dei segnali di interesse da parte delle Accademie d’arte perché il nostro libro va a colmare un’area scoperta, non ci sono cose del genere sul mercato italiano.”
Se doveste presentare il vostro libro in due parole, cosa direste?
“Il libro vuole essere un’introduzione alla Filosofia dell’arte. Non è né una storia dell’arte, né un libro di filosofia. Ha una natura mista, ambivalente, e questo si spiega con la sua origine.”
Qual è dunque l’origine di questo lavoro?
“C’è una storia abbastanza lunga e travagliata dietro a questo libro, perché era nato per essere tutta un’altra cosa: doveva essere un manuale di liceo, quando si era ritenuto che i licei artistici dovessero avere un programma di filosofia ad hoc. Nel 2009, incominciammo a lavorare in quella prospettiva, con l’idea di pubblicare per il 2011. Quel progetto di riforma del licei saltò completamente, sostituito dalla riforma della ministra Gelmini. A quel punto, ci siamo chiesti se quel materiale sarebbe potuto servire per una pubblicazione, non più di tipo scolastico ma destinata al mercato in generale. L’editore Mario Trombino della Diogene Multimedia [vedi] ci ha molto sostenuto e abbiamo accettato la scommessa. L’abbiamo naturalmente rivisto e adattato, ma l’impostazione originaria è rimasta.”
Nell’introdurre il libro, Villani spiega che l’impianto sistematico è scandito dai setti grandi paradigmi interpretativi del pensiero sull’arte: il primo, il più importante perché il più duraturo, è l’arte come mimesi, come imitazione della natura, che ebbe origine nel pensiero greco e che ha dominato incontrastato per duemila anni. Altro paradigma importante è quello romantico dell’arte come costruzione (Kant) e dell’arte come creazione (Hegel): l’idea di Hegel, e dei romantici in generale, è che l’arte sia creazione, l’artista è visto come un genio, assimilabile a Dio, nella sua capacità di creare dal nulla un mondo completamente nuovo, il cui influsso credo sia ancora largamente presente nel modo di pensare di oggi. Altri due personaggi, sempre inseriti nel contesto romantico, e per molti versi comparabili, sono Nietzsche e Schopenhauer: del primo l’idea dell’arte come gioco, del secondo l’arte come forma di conoscenza della verità, necessaria per innalzarsi al di sopra del piano del mondo come rappresentazione.
Poi il professore passa rapidamente in rassegna lo sviluppo storico del rapporto tra l’arte e il bello. Nella cultura tra ‘800 e ‘900 non c’era alcun dubbio, ciò che rendeva artistica un’opera per i romantici era la bellezza. In realtà, se si approfondisce, si riscontra che, dall’antichità in avanti, la concezione del bello non è univoca: c’è il bello come manifestazione del bene in Platone, il bello come manifestazione del vero in Heidegger (“Nell’opera si attua la storicizzazione della verità”, Heiddeger), come simmetria, e così via fino ad arrivare al Novecento con le Avanguardie artistiche che portano addirittura alla dissoluzione del bello come criterio estetico.
Da Duchamp a Warhol, dall’”Orinatoio” alla “Scatola di zuppa Campbell”, succede che l’arte rompe con tutti i canoni della tradizione, ponendo alla filosofia la sfida enorme di riformulare nuove categorie estetiche e ricostruire un sistema interpretativo. Su questo dato di fatto si muovono, per esempio, i pensatori della scuola di Francoforte (da Benjamin ad Adorno). Famosa è la tesi del sociologo Bauman, secondo il quale il concetto di bello estetico ha avuto uno slittamento, passando dall’esperienza dell’arte all’esperienza della “ricerca del piacere e del consumare”, e che quindi colloca lo svuotamento dell’estetica nel passaggio della società contemporanea alla società consumistica. Altro pensatore interessante in questo senso è Coleman Danto, un filosofo americano, morto di recente, nel 2013. Partendo da Duchamp e Warhol, osserva che l’unico sistema categoriale per la comprensione di queste forme di espressione artistica è quello della filosofia, che diventa la chiave interpretativa dell’arte contemporanea, l’unica possibilità per permettere allo spettatore di capire le opere.
Nel libro le medesime tematiche vengono affrontate da Marescalchi da un punto di vista complementare, quello dell’arte. Con un’acrobazia spettacolare Marescalchi fa dialogare le opere classiche di Mirone e Zeusi Parrasio con quelle iperrealiste di Duane Hanson, Estes, Wateridge e Ron Mueck, dimostrando che il paradigma classico dell’arte come imitazione non sia svanito, anzi. Plinio e il vecchio e Boccaccio, assertori del “bello perché sembra vero” tanto da portare l’occhio ad ingannarsi, non si sarebbero mai immaginati che sarebbe arrivato un momento nell’arco del Novecento, in cui il visivo senso degli uomini sarebbe stato colto veramente in inganno.
Questo succede con le opere degli iperrealisti americani, come i “Turisti” (1970) di Duane Hanson, sculture a grandezza naturale, dotate di tutti gli accessori come scarpe, occhiali e vestiti, opere impressionanti che, ad una prima occhiata, traggono lo spettatore veramente in inganno. Stesso discorso per “The architect’s house” di Wateridge (2009) o “In bed” di Ron Mueck (2005), e per la pittura le “Cabine telefoniche” di Estes (1967), dipinto a olio su tela che riproduce esattamente ciò che vede, partendo da una fotografia. Le opere appena citate non sono presenti nel libro perché Marescalchi dichiara di aver privilegiato solo le cose che le piacciono, e l’iperrealismo non è tra quelle. Ma l’iperrealismo si prestava bene ad introdurre in modo sintetico tutta la parabola della filosofia dell’arte, dalla cultura classica a quella contemporanea.
Il confronto prosegue, e Platone, Aristotele, Hegel, Schopenhauer, Nietszche, Freud si trovano a dialogare con Fidia, Giotto, Picasso, Munch, De Chirico, Warhol, mostrando le molteplici sfaccettature del rapporto tra arte e natura, i suoi possibili ruoli nel mondo umano (dall’arte come forma di conoscenza all’arte come espressione della psiche) e il legame tra l’arte e il bello, fino a toccare una domanda più che mai attuale: cos’è “arte” e cosa non lo è?
M. Villani, P. Marescalchi, “Filosofia dell’arte”, Ed. Diogene Multimedia, Bologna, 2014, pp. 274
Maurizio Villani ha insegnato Storia storia e filosofia al Liceo Classico Statale “Ludovico Ariosto” di Ferrara, attualmente è professore di Storia della filosofia presso l’istituto superiore di Scienze religiose di Ferrara e membro del Consiglio direttivo della Società filosofica italiana.
Paola Marescalchi ha collaborato con Renato Barilli presso la cattedra di Storia dell’arte contemporanea (Università di Bologna) ed ha insegnato Storia dell’arte al Liceo classico statale “Ludovico Ariosto” di Ferrara.
Perché ragionare di “buona Scuola”, come il primo ministro Renzi ha intestato il proprio progetto di intervento sul sistema scolastico del nostro Paese?
Innanzitutto perché aggettivi qualificativi come ‘buono’ nella realtà non qualificano proprio nulla, se non un sentire individuale, se mai anche condiviso, ma che non sfugge alla soggettività di chi lo esprime.
In secondo luogo perché la ‘scuola’ non è cosa che possa essere trattata senza ragionare sulle cause ultime, vale a dire sul servizio che oggi l’istruzione è chiamata a fornire alla comunità.
Scuola significa gran parte della cultura nostra e delle future generazioni, vuol dire il patrimonio di saperi che ci accompagnerà per tutta la vita, quel bagaglio di conoscenze che ci rende e renderà i nostri giovani cittadini attivi.
Scuola è termine che non ha più nulla in comune con il significato che i greci attribuivano alla parola ‘scholé’, tempo libero, noi potremmo anche interpretarlo, forzando un poco e perché ci piace, come tempo liberato, tempo in cui ognuno attraverso l’istruzione si affranca dalla schiavitù dell’ignoranza.
Per la nostra tradizione ‘scuola’ è il luogo deputato all’istruzione per eccellenza. Ecco ‘l’istruzione’, la parola chiave, perché di questo si tratta. E se ‘buona’ si deve dire, dunque sia la “buona Istruzione”. Allora dovremmo interrogarci intorno a cosa è una buona istruzione.
Intanto chi stabilisce qual è un’istruzione buona e cos’è l’istruzione cattiva?
Se sappiamo guardarci attorno ci rendiamo subito conto che la possibilità di decidere in merito da tempo ci è sfuggita di mano. Sempre più gli Stati del mondo, tra la fine del secolo scorso e gli inizi di questo, sono stati defraudati della loro autonomia. Del resto le stesse proposte di nuovi saperi, contenute nel progetto del governo, ricalcano le ricette imposte dalla globalizzazione dei mercati, dal ‘coding’ all’economia.
Semplicemente perché la crescente società ‘civile’ globale è andata sviluppando sulla Terra forme di scolarizzazione che sono la fotocopia le une delle altre, mentre i tradizionali ‘Stato-nazione’ hanno perso potere anche sul versante dell’istruzione dei loro cittadini.
Ciò è accaduto senza che ce ne accorgessimo, ma nella storia dell’educazione, che è oggetto fragile e delicatissimo, sono sempre state le ideologie a prevalere su ogni altra considerazione. Così negli anni quello che è stato sfacciatamene contrabbandato come spirito riformatore senza riforme, altro non era che l’assecondare i cambiamenti imposti dalle concezioni neoliberali del libero mercato e dell’economia dei consumi, adombrando il valore dei diritti umani e il ruolo che l’istruzione, la buona istruzione, gioca per la loro affermazione e tutela.
Anziché servire i diritti di ogni singolo uomo e di ogni singola donna, l’istruzione è stata monopolizzata e manipolata per costruire una società mondiale ad un’unica dimensione: quella del mercato, della competizione, della crescita economica e del consumo.
Tramontate le forme tradizionali della educazione nazionale che tendevano a formare cittadini leali e patriottici, emozionalmente legati ai simboli dello Stato, si è passati alla assoluta fedeltà ai mercati e alla loro dipendenza.
Nel frangente, il diritto delle persone ad autodeterminare la propria vita, a vivere l’esistenza che desiderano, come direbbe l’economista Amartya Sen, si è eclissato.
Non è questo il tema primo con cui ogni discorso sull’istruzione oggi dovrebbe iniziare?
Di un’istruzione intesa al servizio delle persone e non del mercato come neppure dello Stato, ma grande strumento di scelta per la propria esistenza e per il bene delle esistenze degli altri. Si può ancora continuare a tradire il significato vero della scuola come luogo deputato all’istruzione per eccellenza?
Vogliamo finalmente porre al centro le persone, i giovani in carne e ossa? Questa è l’occasione che, a meno di virate dell’ultimo minuto, “la buona Scuola” del governo ha perso insieme a quel millantato aggettivo qualificativo che proprio ‘buona’ come promette non può essere.
Intanto nel mondo c’è chi non si arrende. Chi pensa che sia possibile un modello globale di scuola al servizio dell’uomo. Una scuola della buona istruzione che insegni agli studenti come vivere a lungo, condurre un’esistenza felice, tutelare l’ambiente che ospita le nostre esistenze e combattere le diseguaglianze sociali. Come fare della globalizzazione non la prigione delle nostre vite, ma una grande occasione di libertà, di partecipazione ad una comune e condivisa cittadinanza planetaria.
Su questo sono impegnati gruppi, associazioni, organizzazioni nel mondo come l’Human rights education network, United nations’ cyberschoolbus, World wildlife fund’s education programs, Earth charter initiative, North american association for environmental education, il Globe program e altri ancora.
È sufficiente visitare i loro siti internet per rendersi conto che non si tratta di sogni ad occhi aperti, ma che un’altra scuola, la scuola della ‘buona Istruzione’ è possibile.
La democrazia odia la perfezione e ama la perfettibilità. Per questo attribuisce importanza al metodo dell’ascolto, del dialogo, della mediazione, dell’apprendimento individuale e collettivo permanente. La democrazia è il regime che sostiene gli individui nell’organizzare le loro vite e le loro scelte come meglio preferiscono. La democrazia richiede qualità diffuse che gli antichi chiamavano virtù: onestà, competenza, fiducia, solidarietà, verità.
La differenza epocale introdotta dalla democrazia moderna, laica e plurale è che queste virtù sono sempre a rischio, perché il regime democratico non è autoritario, paternalistico o pedagogico. Culture, religioni, ideologie, gruppi, associazioni, individui, sono tutti alla pari. La vita quotidiana di una società democratica è una fatica di Sisifo continua. Il masso del bene comune che si spinge in alto, può essere in ogni momento precipitato in basso da controspinte negative. Ma anch’esse sono legittime e normali. Una buona società e una cultura civica sono il risultato di inclusione e connessione fra le varie soggettività che abitano la polis. Ma si tratta di un processo precario perché la democrazia deve tenere in equilibrio due spinte che rischiano, in ogni momento, di lacerarla: la sua innata e originaria logica espansiva e universale; e la continua differenziazione prodotta dalla società degli individui che si basa sul rispetto dell’unicità e dell’originalità di ogni uomo e ogni donna. Uguali ma diversi. Il collante tra queste spinte è la coscienza del limite e del rispetto del valore dell’altro e della reciprocità.
Questa rapida sequenza di concetti e principi mi è venuta alla mente leggendo il messaggio pastorale del vescovo di Ferrara, monsignor Luigi Negri. Affermazioni apodittiche; linguaggio truculento; visione demonizzante della modernità; negazione della libertà di scelta; idea della donna come persona irresponsabile e colpevole. Insomma, monsignor Negri esibisce su ogni tema che affronta uno stile aggressivo, non interessato al dialogo, ma solo a dire (stavo per scrivere comandare…) agli abitanti della polis democratica e laica come si deve vivere rettamente e quali sono i principi e i valori assoluti e indiscutibili da rispettare.
Fiorenzo Baratelli è direttore dell’Istituto Gramsci
Davvero divertente e interessante, questo libro dall’insolito formato rettangolare edito dalla Scuola di scrittura Omero di Roma. Insolito e originale non solo per la sua forma, ma anche, e soprattutto, per il contenuto: 180 strisce dei Peanuts di Charles M. Schultz accompagnate da rapidi e brillanti consigli di scrittura da parte di autori come Ray Bradbury, Ed McBain, Clive Cussier, Sidney Sheldon, Danielle Steel, Cherie Carter-Scott, Catherine Ryan Hyde o Fannie Flagg, per citarne solo alcuni. Tutti dialogano con Snoopy, lo consigliano, lo seguono, gli danno opzioni, spunti e suggerimenti, lo aiutano e l’accompagnano nella difficile quotidianità della scrittura.
Questo simpatico “manuale” andrebbe letto da tutti, giornalisti e scrittori in erba (ma anche da quelli più esperti), da chiunque si appresti ad affrontare la temuta e misteriosa pagina bianca.
Divertente e istruttivo allo stesso tempo, potrebbe essere facilmente usato come testo d’insegnamento e orientamento in qualsiasi scuola di scrittura.
La prefazione al libro è di Monte Schulz, il figlio del creatore delle famose strisce dei Peanuts, che racconta come il padre amasse i libri e la letteratura, con i suoi oltre tremila volumi che ricoprivano le pareti del suo studio e cataste accumulate sulla scrivania, in attesa di essere lette.
Il dono del talento di un artista e la sua responsabilità, secondo Charles, consistevano nel dover esprimere la bellezza e il dolore del mondo per tutti quello che non riuscivano a farlo. Si legge per ascoltare le voci degli altri e imparare, anche da esse. Schulz scriveva ascoltando Brahms, Beethoven o un qualsiasi cantante country. E in quell’ambiente fatto di parole e note aveva inventato Snoopy, Charlie Brown e gli altri. Un sogno che sarebbe diventato realtà.
Snoopy arrampicato di fronte alla sua macchina da scrivere, sulla sua famosa cuccia sotto il cielo vigile, è un’immagine costante e ispiratrice: il simpatico bracchetto, come molti di noi, è sempre alla ricerca delle frase, della parola, del paragrafo, del racconto, della storia, insomma dell’illuminazione. E mostra la vera determinazione dello scrittore, il suo impegno costante a cercare parole, personaggi, idee, situazioni e momenti giusti. Allora, anche lui ha bisogno di consigli, di un tutor illuminato, come si direbbe oggi.
Partendo dalla storica e indimenticabile “era una notte buia e tempestosa”, Daniel Steel ricorda a Snoopy che scrivere è un lavoro davvero duro e faticoso, scrivere bene ma anche scrivere male. Un mestiere spesso stressante per la sua incertezza, accompagnato dalla paura, dall’eccitazione, dalla fantasia ma anche da tanta disciplina. Vi sono dolore e sofferenze nell’avventura dello scrivere ma il senso di vittoria e di sopravvivenza possono essere davvero molto entusiasmanti. Come fare una lunga maratona o scalare una montagna. Snoopy potrebbe scegliere un’altra carriera, ma Danielle dubita che lui, come lei, lo farebbe mai. Allora Sidney Sheldon consiglia Snoopy di lavorare molto sull’idea del suo romanzo, perché sia avvincente e brillante, Cherie Carter-Scott gli suggerisce le dieci regole per scrivere bene (quasi un manuale di sopravvivenza, perché il nostro libro deve aiutare qualcuno in qualcosa), Catherine Ryan Hyde gli consiglia di studiare bene il suo spazio di mercato editoriale e di accettare l’idea che le sue probabilità di successo sono in po’ di più di quelle della lotteria, ma non troppo. E poi c’è Fannie Flagg, che ricorda come scrivere non abbia nulla a che fare con le lauree, il vocabolario o l’analisi delle frasi ma semplicemente con il grande desiderio di raccontare una storia. Questa storia però, dice John Leggett, deve svolgersi in un luogo preciso. Ci dobbiamo ritrovare li, insieme al lettore, vivere con lui e i personaggi, sentendosi accaldati, assetati e sudati se siamo in Honduras o infreddoliti se siamo in Alaska. Dobbiamo vedere il sole cuocere la sabbia e le piazze, il vapore alzarsi dalla terra accaldata, la nebbiolina a alzarsi e far cadere goccioline sui nostri vestiti. Dobbiamo essere lì, tutti insieme. Per mano. Perché scrivere, ricorda J.F. Freedman in chiusura del volume, “è il miglior lavoro che io conosca, perché ti permette di aver il controllo completo di quello che fai e puoi davvero creare qualcosa dal niente”. E questo, aggiungo io, è un potere meraviglioso, unico, un dono, quasi magico. Davvero fortunato chi sa (e può) farlo.
Guida di Snoopy alla vita dello scrittore
A cura di Barnaby Cornad e Monte Schulz, traduzione di P. Restuccia, Omero Editore, 2012, 200p.
Come andrà a finire la trattativa sulla Thyssenkrupp nessuno lo sa, mentre ci si arrovella e ci si divide sul jobs act, altri 550 lavoratori – che dovrebbero godere (se presi singolarmente) dell’art.18 – stanno ugualmente perdendo il loro lavoro, a dimostrazione che il problema non è esattamente quello così ideologico delle tutele, ma è molto più ampio, una politica industriale latitante da anni, anche per colpa sindacale e politica, mancanza totale di politiche per lo sviluppo, crisi economica universale da cui si fatica a trovare la giusta ed equa soluzione, industriali poco inclini ad investire ma invece molto inclini a spostare le produzioni in zone più favorevoli dal punto di vista delle relazioni industriali, e sostanziale incapacità di chi governa politica ed economia di fare programmi a medio termine che vadano oltre le propaganda ma che siano capaci di creare sviluppo.
Consapevole di dire una cosa impopolare aggiungerò che questi 550 lavoratori della Thyssenkrupp hanno dalla loro una piccola, forse impercettibile, fortuna, che forse non salverà i loro posti di lavoro, ma che, certamente, dà a loro una visibilità mediatica, pertanto invito tutti noi, mentre leviamo il nostro grido di protesta per salvare i posti di lavoro alla Thyssenkrupp di pensare anche a tutti quei lavoratori invisibili ai più, dipendenti di piccole aziende che stanno fallendo, artigiani e commercianti e lavoratori autonomi che dopo aver fatto i salti mortali per resistere si devono arrendere alla mancanza di una prospettiva, senza, peraltro, avere alcun tipo di salvagente, se non i pochi risparmi, probabilmente erosi dalla resistenza e dalla cocciutaggine tipica dei piccoli imprenditori.
Però i nostri media ci fanno vedere sopratutto il premier che inaugura stabilimenti tipo, che si interfaccia con imprenditori di successo mentre, purtroppo, il resto del paese sta affogando tra debiti, tasse, gabelle e mancanza di prospettive.
Proviamo quindi a mettere in moto il nostro pensiero e riflettiamo su cosa vorremmo che la politica facesse e proviamo a non rinchiuderci nel nostro privato, a non abbandonarci alle nostre malinconie, perché è solo in questo modo che – tutti insieme – potremmo indurre chi ci governa a togliersi gli sfavillanti abiti e indossare vesti più umili, adatte ad ascoltare anche i più deboli e coloro che, da sempre, sono tartassati.
Liberatela. Piazza Savonarola è assediata dalle auto. Prigioniera innanzitutto dei taxi: a volte, come questa mattina, più che per il fabbisogno di Ferrara sembrano calibrati per quello della stazione di Roma! Fra vetture pubbliche, auto di servizio, autorizzati (non si sa a che titolo) e avventori vari capita di contare una ventina di veicoli, in uno spazio di 40 metri per 40 all’ombra del monumento più prezioso.
Dovrebbe essere il salottino buono della città questo, incastonato fra i gioielli degli estensi. Invece il povero Savonarola dall’alto della sua statua ci biasima sdegnato, dovendo respirare ancora fumi: non quelli esalati dalle fascine del rogo, ma quelli delle marmitte delle vetture che insensatamente gli ronzano attorno. Un’ingiusta condanna per lui e per noi.
Siamo seri: qualcuno pensa davvero che davanti al castello serva la compresenza di otto-dieci taxi? Magari! Vorrebbe dire che la città s’è svegliata dal torpore. Invece gli autisti stanno lì a fare filò: e grazie! è più piacevole farlo lì fra i monumenti che altrove… Ma mica si devono spedire in periferia. Basterebbe traslocarli in corso Porta Reno o nei pressi dei giardini di viale Cavour, nel raggio di un centinaio di metri le alternative ci sono. Qual è il problema?
Pur senza citarli direttamente, il vescovo di Ferrara monsignor Luigi Negri nel suo messaggio pastorale, con il consueto raffinato eloquio, stavolta si scaglia ‘ex cathedra’ contro aborto, fecondazione eterologa ed eutanasia.
Le cose che spaventano sono due: il richiamo a una verità assoluta, indiscutibile (il terribile dogma) e i toni da crociata. Il vescovo parla di “ultima radicale sfida che riceviamo dal nostro tempo di fronte alla quale dobbiamo insorgere come un solo popolo, quello dei cristiani”. E aggiunge: “Io non ho paura a parlare di battaglia quando la battaglia, come nel nostro caso, è espressione di amore alla Verità che è Dio, al bene, al bello e al giusto. Non ho paura di dire che la Chiesa o combatte questa battaglia per la verità e per la salvezza della vita umana – anche nei suoi aspetti fisici – o, umanamente parlando, finirà per schierarsi con i colpevoli di questo delitto contro Dio e contro l’umanità”.
Alla scienza e alla laicità del pensiero – che traggono impulso dalla ricerca e dal libero intelletto – monsignor Negri contrappone la verità divina, rivelata e dunque statica e incontestabile. E a sua difesa schiera la Chiesa e il popolo dei cristiani.
Il vescovo conia una metafora ardita. “In tutto il mondo c’è il pericolo dell’Ebola, ma credo che questo contagio si potrà fermare; non so però se si potrà fermare il contagio di un’’Ebola culturale, ‘spirituale’ e delle ‘coscienze’ che tenta di distruggere l’umanità in noi ed accanto a noi. La sua forza sembra invincibile e condiziona pesantemente la nostra vita quotidiana, togliendola dai sentieri della fede”. Monsignor Negri, a sostegno del proprio dire, fa riferimento “al grande filosofo tedesco” Robert Speamann e a ciò che egli definì “sentieri oscuri del nulla”.
Tanto per capire di chi si sta parlando, Speamann asserisce che “la verità è una sola e non si basa sulla reciprocità. L’uomo è capace di verità perché senza di essa, intesa oggettivamente, non si riesce a rendere ragione dell’esperienza. Al fondamento di questa garanzia c’è Dio”.
La verità è in Dio, dunque la verità è dogma: verità oggettiva, rivelata che non ammette dubbi.
E’ chiaro quale terribile spettro evochi questa impostazione. Sono affermazione e riferimenti che prefigurano lugubri scenari, quelli – per restare al gioco delle allegorie – di nuovi roghi culturali.
Noi invece abbiamo a cuore un altro paradigma, quello di scientificità coniato dal filosofo Karl Popper, secondo il quale verità è ciò che transitoriamente appare tale sulla base del criterio di verificabilità. In questa prospettiva, conoscenza e progresso procedono sulla base di congetture (ipotesi) e confutazioni (negazioni della validità dell’ipotesi, cioè della verità temporaneamente affermata, che scaturiscono da continue verifiche del postulato).
Così procede la scienza, così si sviluppa la conoscenza. In un sapere fluido, non cristallizzato. Ciò che è vero oggi può essere negato domani sulla base di nuove scoperte e nuove acquisizioni, in considerazione delle evidenze che un continuo, incessante percorso di ricerca, condotto senza preconcetti, potrà rivelare nell’infinito cammino del progresso intellettuale.
E’ un modello, questo, che allude a una società aperta al confronto, al dialogo, permeabile ai differenti punti di vista, orientata alla definizione di soluzioni condivise a problemi comuni. Con Gustavo Zagrebelsky ci schieriamo dalla parte del dubbio, non per negare la verità ma per cercare senza pregiudizi di avvicinarsi ad essa.
Il 14 Ottobre, il bellissimo e magico Hermitage (o Ermitage) di San Pietroburgo celebra i suoi 250 anni con un evento cinematografico unico e spettacolare, trasmesso nelle sale italiane. La proiezione avrà luogo solo quel giorno, a Ferrara sarà al Cinema Apollo alle ore 21.
250 anni, tanti, ma allo stesso tempo così pochi per arrivare a contenere tanta bellezza. È, infatti, il 1764 quando la zarina Caterina II acquista 225 dipinti della raccolta d’arte di un mercante berlinese: nasce così, in pieno secolo illuminista, il primo germe dell’Hermitage, il museo russo che rappresenta una delle mete più amate dei viaggiatori di tutto il mondo. La zarina lo immagina come un luogo isolato, un eremo non lontano dalla Prospettiva Nevskij e con una magnifica vista sul fiume Neva: in francese ‘un petit ermitage’ dove godersi momenti di rigenerante riposo, circondata solo da pochi amici intimi e da opere d’arte. Il tour del film di Margy Kinmonth (regista pluripremiata anche per altre opere sulla storia del Teatro Mariinsky e sul balletto e l’opera russe) guiderà gli spettatori alla scoperta di alcuni dei tre milioni di pezzi conservati nel sontuoso scrigno di San Pietroburgo. Da quel 1764, infatti, la collezione si è allargata enormemente: la zarina Caterina non mancava di allargare pian piano la preziosa raccolta, man mano che se ne presentava l’occasione. Né furono da meno gli altri zar della dinastia Romanov, che anno dopo anno arricchirono la collezione aprendola al pubblico a metà Ottocento, quando per le vie della città si incontravano i grandi scrittori russi, Pushkin, Gogol, Dostoevskij, Tolstoj e Cechov. Così, passeggiando per le sue belle, luccicanti e sontuose sale, l’Hermitage è un vero tuffo nel passato, un concentrato di meraviglie che ha visto passare ricevimenti, momenti storici e rivoluzioni che ci fanno essere quello che siamo oggi.
Qui la città di San Pietroburgo viene chiamata la Venezia del Nord, e l’impressione di essere a Venezia a volte c’è davvero: i colori del crepuscolo, i canali, i ponti, la luce che si riflette nell’acqua, la sensazione di attraversare la storia, di esservi immersi a ogni piccolo passo, di vedere personaggi misteriosi, principesse, principi e, perché no, anche fantasmi.
L’Hermitage parla italiano, non solo per i suoi Bartolomeo Rastrelli (che lo ha progettato fra il 1754 e il 1762 per la zarina Elisabetta), e Giacomo Quarenghi (al quale Caterina II, succeduta a Elisabetta diede ordine di costruire il teatro dell’Ermitage il teatro di corte che venne completato nel 1787), ma anche per i corridoi che sembrano quelli del Vaticano (scoprirò che la zarina aveva dato ordine di copiarli), i quadri di Leonardo da Vinci (qui c’è la “Madonna Benois” dipinta fra il 1478 e il 1482 e la “Madonna Litta” del 1590), le sculture di Giacomo Canova (qui si trovano quattro sue sculture fra le quali la bellissima “Amore e Psiche”), di Michelangelo“Ragazzo accovacciato”, Michelangelo(attribuito a lui il “ragazzo accovacciato”) e, infine, per il gemellaggio fra la città e Venezia (la Fondazione Ermitage Italia si trova ora nella città lagunare, dopo il trasferimento non privo di polemiche dalla nostra Ferrara, che, lasciatemi dire, non ha saputo cogliere l’opportunità di un tale gemellaggio). L’amore per l’Italia si respira nelle stanze ma anche nella città. E anche in altre città della Russia. La bellezza si parla con la bellezza, nessun miglior linguaggio per intendersi.
Ma in questo anniversario, godiamoci questo posto da sogno. Noi ci siamo andati recentemente. Eccovi allora alcune belle immagini, che vogliamo condividere con voi, cari lettori.
Buona passeggiata, allora, e fate buoni sogni…
A tutti capita di pensare al futuro e quasi sempre lo viviamo con l’ansia dell’incognito. Cosa sarà di noi? Molti economisti, politici, intellettuali, spesso si sono misurati su questo tema. Proverei a parlarne anche io, senza la presunzione di avere certezze. Solo per dare qualche spunto di riflessione.
In una sintesi parziale e personale direi che siamo a questo punto: è cresciuta la popolazione (e con questa l’immigrazione e il razzismo), sono aumentate le diversità sociali e culturali, sono cresciuti i problemi di alimentazione e sofisticazione (vedi alimenti transgenici), è cresciuto il degrado ambientale e metropolitano (industrializzazione, urbanizzazione, criticità nei trasporti), vi è stata dispersione delle risorse idriche e naturali, con conseguente cambiamento del clima (catastrofi atmosferiche), ma soprattutto è aumentato lo squilibrio ricchezza-povertà e la disuguaglianza sociale.
Stigliz, nel suo libro “La globalizzazione e i suoi oppositori”, ci ha ricordato che la globalizzazione ha creato una società civile globale, ha migliorato le condizioni di salute e il tenore di vita, ha cambiato il modo di pensare della gente, ha servito gli interessi dei paesi industrializzati, ma non ha funzionato per molti poveri del mondo, ha determinato problemi all’ambiente, ripercuotendo l’instabilità a livello globale.
In generale, mi pare dunque che i principali trend di mutamento ci abbiano portato grandi rivoluzioni nel campo dei valori e nella produzione di simboli. La gestione dei sistemi tramite il sapere è stata sostituita da subsistemi interdipendenti a livello globale; i rapporti virtuali hanno vinto sui rapporti fisici. Questo, in contrasto con la crescita della creatività e della dimensione estetica. Nonostante il tempo libero abbia prevalso sul tempo di lavoro (anche se non ci sembra) e sia aumentata la consapevolezza che la qualità della nostra vita sia diventata una priorità. In fondo i nuovi valori emergenti sono diventati l’affettività, la soggettività, l’etica, l’affidabilità, l’estetica, anche se in contrasto tra loro.
Pesanti sono a proposito le riflessioni di Jacques Attali nel suo libro “Breve storia del futuro”, di cui ho sintetizzato alcuni passaggi: l’uomo di domani percepirà il mondo come una totalità al proprio servizio; vedrà l’altro come uno strumento per la propria felicità; un mezzo per procurarsi piacere e denaro. Non penserà più a preoccuparsi per gli altri: perché dividere se si deve combattere? Nessuno penserà più che la felicità altrui gli possa essere utile. La maggior parte non avrà più un posto di lavoro fisso. Per i più giovani viaggiare sarà il segno del progresso verso l’iperclasse. Delocalizzazione delle imprese ed emigrazione dei lavoratori ridurranno i redditi. La precarietà e la slealtà diventeranno la regola. Le leggi verranno sostituite con dei contratti, la giustizia con l’arbitrato. La fine della libertà, in nome della libertà.
In contrapposizione, i valori della società industriale sono diventati la massimizzazione della efficienza e della produttività, l’accentramento delle informazioni e del potere, la sincronizzazione dei tempi di vita e di lavoro, le economie di scala e la parcellizzazione delle mansioni, ma soprattutto la disoccupazione. Insomma, abbiamo rafforzato valori antagonisti. Lo sviluppo tecnologico ha accresciuto le disuguaglianze.
In un accennato ciclo dei fondamentali atteggiamenti intellettuali, siamo così passati dalla teologia e dal razionalismo, all’empirismo, al relativismo, allo scetticismo e al cinismo. Insomma ci siamo impegnati a farci del male.
Sennet nella “Cultura del nuovo capitalismo” ci ricorda che l’etica del lavoro sta cambiando e che tendono a scomparire i confini tra politica e consumo. Bisogna agire a breve, e nel breve, perché l’uomo deve essere flessibile (il “saper fare” moderno, l’artigiano della modernità). Ai lavoratori viene chiesto di comportarsi con maggiore flessibilità, di essere pronti a cambiamenti con breve preavviso, di correre continuamente qualche rischio, di affidarsi meno ai regolamenti e alle procedure formali.
Vorrei però credere anche che il pensiero positivo (senso dell’essere e progresso mentale) potrà vincere. Credo nello sviluppo della mente, della tecnologia multimediale come strumento di comunicazione per i diritti all’informazione, alla libertà individuale e al rispetto dei vincoli del collettivo, ai progressi della medicina, alla flessibilità nell’istruzione e nel lavoro (anche nella sua destrutturazione spaziotemporale).
In fondo anche Bauman (“La società individualizzata”) crede nella progressiva individualizzazione della società contemporanea, nonostante permangano sentimenti di paura per i singoli, apatia politica e paura di abbandono. Tocca a noi riprendere la vecchia arte di mantenere legami e valori. Insomma proviamoci.
Ho letto che a Los Angeles gli amministratori stanno prendendo in considerazione l’idea di introdurre una lotteria per premiare i cittadini che andranno a votare per le elezioni locali, come soluzione per contrastare la bassa affluenza alle urne. Il progetto di lotteria è all’esame del Consiglio comunale che discuterà l’istituzione di un premio da 100mila dollari da dividere in quattro premi di 25mila dollari, o in 100 premi da mille dollari ciascuno per gli elettori più fortunati. La proposta scaturisce dal tentativo di invertire una tendenza al ribasso nella partecipazione degli elettori. Lo scorso anno, solo il 23 per cento degli elettori di Los Angeles ha partecipato alle elezioni amministrative, contro il 37 per cento del 2001. Coloro che hanno proposto l’idea argomentano: “Considerando che la nostra democrazia è una democrazia rappresentativa, se circa il 23 per cento delle persone scelgono i leader della città, dobbiamo chiederci se questi stanno davvero rappresentando la maggioranza”. Certo quando si parla di maggioranza o minoranza, è difficile ignorare la base reale sulla quale tale maggioranza viene calcolata.
Il problema esiste, al di là delle norme elettorali ed è riduttivo e ingenuo vederlo unicamente come l’esito di una caduta di reputazione delle istituzioni e dell’azione pubblica e, quindi, come un fenomeno che potrebbe essere invertito con una svolta di onestà. Condizione questa imprescindibile e auspicabile. La questione riguarda anche la trasformazione epocale dell’idea di partecipazione. Sul piano del rapporto con le istituzioni, credo che l’esercizio della cittadinanza vada spostandosi dalla decisione al controllo: da anni, del resto, il cinema americano ha messo in scena grandi campagne di opinioni sollecitate da episodi di corruzione o da scelte lesive della salute dei cittadini.
La partecipazione sta cambiando profondamente forma in una pluralità di modi. E’ stato coniato il termine di “hashtag activism” per descrivere quella forma di attivismo che si esprime con un post o con un like, senza che ciò comporti alcun serio impegno rispetto al tema, una modalità di risposta sociale superficiale che avrebbe il solo obiettivo di sentirsi a posto con la coscienza e poter dire di avere fatto qualcosa. Questa espressione “debole” di cittadinanza tende a banalizzare le questioni, producendo ulteriore disinformazione piuttosto che una crescita di sensibilità. Ma, obietterà qualcuno, è difficile stabilire in quali casi una campagna di opinione svanisca senza lasciare alcuna traccia e quando contribuisca a portare un tema all’attenzione dell’agenda politica.
Altre forme di partecipazione vanno profilandosi come contributo al bene comune: ad esempio, molte delle informazioni che noi utilizziamo in rete derivano dal fatto che i cittadini si scambiano esperienze in rete. Queste informazioni nelle città possono migliorare il traffico, ridurre i costi dell’inquinamento, massimizzare i vantaggi della creatività, ridurre i costi di molti servizi. È la sharing economy che comprende ormai diversi progetti nati grazie ai processi collaborativi che riguardano la sostenibilità ambientale, la riduzione dello spreco, Il salone dell’innovazione sociale del 7-8 ottobre a Milano ha trattato questi temi. Segnalo un solo titolo: “La sospesa: spesa consapevole, reciprocità, innovazione”. (www.csreinnovazionesociale.it)
Maura Franchi – Laureata in Sociologia e in Scienze dell’educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing, Marketing del prodotto tipico. I principali temi di ricerca riguardano i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand. maura.franchi@gmail.com
Milioni di persone muoiono di fame ogni giorno nei Paesi del Terzo Mondo, mentre altrettante soffrono di sovrappeso ed obesità nei paesi occidentali. Purtroppo il problema, che è oggi in costante crescita, colpisce specialmente i bambini e gli adolescenti. I dati raccolti dal ministero della Salute mostrano che la percentuale dei ragazzi italiani (fascia compresa tra i 6 e i 17 anni) che sono in eccesso di peso, ammonta al 26,9%, percentuale che aumenta tra i bambini che hanno dai 3 ai 10 anni (35,7%).
Le cause scatenanti questa grave problematica sono numerose. Prima di tutto, un’eccessiva e scorretta alimentazione nella fase infantile, è premonitrice di obesitá nella fase adulta. Se i bambini, nei loro primi anni di vita, ingeriscono un quantitativo esagerato di calorie e vengono nutriti nella maniera sbagliata, prendono peso che difficilmente riusciranno a perdere nel corso degli anni. Ciò avviene perchè l’iperalimentazione determina, oltre ad un aumento di volume delle cellule adipose (ipertrofia), anche un aumento del loro numero (iperplasia), pertanto, da grandi sará possibile ridurre le dimensioni delle cellule, ma non eliminarle.
Sono sempre stata contraria al comportamento ultraprotettivo di alcuni genitori perchè, personalmente, credo che per i bambini (e non solo!) sia una gioia mangiare gelati, merendine confezionate e in generale tutto quello che viene comunemente definito “junk food”. Sicuramente non si tratta di alimenti genuini, ma se mangiati sporadicamente di certo non danneggiano gravemente il nostro organismo! Sono le quantitá che devono essere tenute sotto controllo. Una corretta alimentazione è fondamentale per la crescita del bambino e il buon esempio deve venire prima di tutto dai genitori. Molti bimbi invece non mangiano frutta e verdura, privandosi così di principi nutritivi fondamentali; spesso inoltre i genitori, o perchè a causa del proprio lavoro non hanno tempo per cucinare o perchè invece non amano farlo, abituano i figli al cibo dei take-away. Ricordo una sera di aver accompagnato due miei amici in un McDonalds di Milano e di essere rimasta scioccata nel vedere che i consumatori erano soprattutto adolescenti e bambini in compagnia dei genitori.
Altro fattore responsabile dell’obesitá è la familiaritá. Nei ristoranti mi capita spesso di vedere adulti esageratamente grassi che invitano e spronano i propri figli, giá evidentemente in sovrappeso, a mangiare porzioni enormi di cibo. Provo solo tanta rabbia nei confronti dei primi e tanta pena per i secondi. Sono sicura che vedere il proprio bambino godere di ciò che mangia renda un genitore felice, perchè sono perfettamente d’accordo con chi sostiene che il cibo sia uno dei “piaceri della vita”; tuttavia, quei genitori che hanno abitudini alimentari scorrette e le trasmettono ai propri figli, dovrebbero capire che con tale comportamento non fanno il loro bene, ma ne danneggiano gravemente la salute. L’esempio della famiglia è quindi fondamentale: se i genitori non seguono una dieta equilibrata non possono infondere alcuna educazione alimentare.
Altro fattore determinante l’obesitá è la sedentarietá: quando i miei genitori erano bambini, i maschi giocavano con le macchinine, con il trenino elettrico o si trovavano nei cortili a giocare a pallone; le femmine invece vestivano le bambole o inventavano giochi da fare all’aperto. Quando io ero bambina si giocava con le Barbie, con le carte dei Pokemon o con i primi game boy e tamagotchi. Oggi invece tutto è diventato virtuale: i ragazzi passano troppe ore davanti ad uno schermo a giocare ai video games o direttamente online. Anziché incontrarsi fuori, ci si ritrova in casa dove si sta seduti per ore davanti a qualcosa che concretamente non esiste, rischiando di sviluppare lo Iad (Internet Addiction Disorder): si calcola che oggi in Italia il 70% della popolazione mostra segni di dipendenza da pc. Oltre al rischio di questa patologia, una sovraesposozione agli schermi porta gli individui a muoversi di meno, bruciare meno grassi e calorie e, di conseguenza, ad aumentare di peso.
L’esercizio fisico è di fondamentale importanza per il bambino che cresce in quanto, oltre a farlo dimagrire lo rende più attivo, contribuendo a ridistribuire le proporzioni tra massa magra (tessuto muscolare) e massa grassa (tessuto adiposo).
A tutti questi elementi si aggiunge il fatto che oggi non sappiamo cosa mangiamo, quali sostanze, conservanti e coloranti vengono usati dalle industrie. Ciò che è certo è che anche le adolescenti soffrono di cellulite, mentre 50 anni fa questo era un disturbo raro e sconosciuto alla maggior parte delle ragazze.
Abbiamo la fortuna di vivere nel paese che ha la cucina migliore al mondo, quella più variegata e saporita, ed è giusto apprezzarla, ma senza abusarne. Come in ogni cosa, gli eccessi sono sempre sbagliati e controproducenti. Chi è genitore deve capire che i figli non vanno costretti a mangiare, ma devono essere educati ed abituati a gustare i cibi e a scegliere quelli più salutari. Bisogna far loro capire fin dalla più tenera etá l’importanza di avere una vita sana, a cui sport ed alimentazione contribuiscono in maniera fondamentale. I giovani invece devono imparare a viziarsi quanto basta e a non abusare di hotdog e hamburger; a ridurre le ore spese davanti agli schermi e, perchè no, riscoprire i giochi e i passatempi di una volta.
L’obesitá non deve mai essere sottovalutata: spesso gli individui tendono ad ingrassare a causa di un malessere, un vero e proprio disturbo psicologico (stress, dispiaceri, solitudine, inadeguatezza,…), che può venir loro trasmesso o dai genitori o dalla societá in cui crescono. Nel rapportarsi con gli altri i bambini/ragazzi in sovrappeso possono perdere la propria stima, chiudersi in se stessi creando un proprio mondo parallelo in cui trovare conforto nel cibo o incappare nella problematica opposta e cadere nel baratro dell’anoressia.
L’alimentazione è uno dei tanti aspetti dell’educazione e come tale deve essere impartita dai genitori ai figli, ovvero da chi giá la possiede a chi ancora deve apprenderla. Purtroppo però non tutti gli adulti hanno questa accortezza e non prestano sufficiente attenzione ai disagi e ai problemi a cui spesso i figli vanno incontro; non si rendono conto che usano il cibo come arma per sopperire alle proprie sofferenze, facendo diventare ciò che dovrebbe essere un piacere una forma di dipendenza.
In qualità di assiduo praticante dueruotistico, mi permetto di aggiungere il mio interessato parere ai tanti e tanti espressi nel dibattito che ferve in città sull’opportunità di emanare un provvedimento che consenta ai ciclisti di circolare contromano sulle strade a senso unico: NO!
Essendo i ciclisti ferraresi, nella loro intierezza, sia detto con rispetto, figli di madri di dubbia moralità – autoctoni, extracomunitari, intracomunitari, turisti, viandanti, parenti in visita compresi, sarà l’aria che volete che vi dica – se gli dai il dito del tragitto contromano loro si prendono il braccio dell’Impunità Totale. Già adesso, risalgono i sensi unici con la cocciuta frenesia dei salmoni in preda a fregola da accoppiamento, costringendo gli sventurati automobilisti che vengono giù tranquillamente per il loro verso a farsi da parte per non asfaltare gruppi di badanti ucraine in libera uscita, ragazzini che sciamano compulsando lo ‘smartfon’, pensionati che avanzano a pettine da marciapiede a marciapiede litigando sulla Spal e dispensando pacate espressioni di biasimo “ch’a ‘t jena al zzadròn a tì e a tuta la tò raza, arnani!” al pilota che li obbliga a restringere la formazione col rischio di strifelarsi la mano nel contatto manubrio con manubrio.
La delibera del Sindaco, dio non voglia, farebbe cadere tutta la variegata fauna dei pedalatori estensi nel delirio di onnipotenza, facendoli sentire autorizzati a salire sui marciapiedi affollati, passare col rosso, girare all’esterno delle piste ciclabili, viaggiare di notte senza fanali e catarifrangenti. Cosa che già fanno di prassi, intendiamoci, ma almeno con un qualche sottile senso di colpa.
Insomma, si finirebbe per creare un’emergenza umanitaria: non tanto per i ciclisti, che dai tempi dei tempi sono adusi a prevaricare tutte le altre categorie, nessuna esclusa, compresi gli autisti di tir, bensì per tutte le altre categorie, nessuna esclusa compresi gli autisti di tir di cui sopra, che rischiano di sbarellare di brutto, già ora che i bigaroli sono calmierati, figurarsi dopo.
Diventare vecchi per alcuni è un privilegio, ma per altri un problema. In questa regione gli anziani sono quasi un milione di persone (di cui la metà sono ultrasettantacinquenni). Nell’ultimo decennio l’incidenza della popolazione anziana è aumentata e tra vent’anni circa un terzo degli anziani avrà più di ottanta anni.
Crescono però fortunatamente anche gli anziani autosufficienti e i pensionati impegnati nel sociale.
E’ possibile pensare ad una importante e crescente forza civile che sia disponibile per gli altri, in cui l’anziano non sia indicatore di criticità ma anzi protagonista nella solidarietà? Ora che anche io sto entrando in questa categoria, me lo sto chiedendo spesso.
Mi piacerebbe chiamare in aiuto gli esperti delle scienze come geriatria (branca della medicina che si occupa non solo della prevenzione e del trattamento delle patologie dell’anziano, ma anche dell’assistenza psicologica, ambientale e socio-economica), gerontologia (scienza che studia le modificazioni derivanti dall’invecchiamento) e geragogia (scienza che studia tutte le possibilità per invecchiare bene).
Io però so che aumentano i bisogni e le richieste di offerta sostenibile in molti settori e territori e si potrebbe pensare di sviluppare un welfare sociale, sussidiario e non sostitutivo, sui temi della qualità della vita. Quando una città ha una buona qualità di vita, significa, infatti, che la maggioranza della sua popolazione può fruire di una serie di vantaggi politici, economici e sociali che le permettono di sviluppare con discreta facilità le proprie potenzialità umane e condurre una vita relativamente serena e soddisfatta. Su questi principi si stanno misurando da molto tempo istituzioni e associazioni, ma il loro impegno non è sufficiente se non produce processi di innovazione.
Se a questo dato di necessità si aggiunge che sul piano culturale si fa largo la convinzione che il sociale sia quasi un fattore produttivo, allora credo ci debba essere qualche ragione in più per contribuire a ripensare i rapporti sociali nel nostro territorio.
Bisogna allora aumentare l’area della responsabilità e sviluppare progettualità.
Dobbiamo promuovere l’impegno degli anziani nel volontariato e aumentare l’impegno civico; penso che il volontariato sia ricerca di relazioni con altri riconosciuti titolari di diritti e per questo dobbiamo metterci a disposizione per gli altri in una logica di reciprocità e responsabilità, per favorire in una parola lo sviluppo della “cultura della vecchiaia”.
L’invecchiamento attivo può dare agli anziani di domani la possibilità di sentirsi valorizzati con semplici opportunità di restare occupati e condividere la loro esperienza lavorativa, ma soprattutto di continuare a svolgere un ruolo attivo nella società. Serve qualche attenzione prioritaria a partire dalla opportunità di partecipare pienamente alla vita della società e consentire alle persone anziane di dare un valido contributo con il loro volontariato, ma soprattutto di permettere alle persone della terza età di vivere in modo autonomo grazie a strutture che tengano conto delle loro esigenze (alloggi, infrastrutture, sistemi informatici e trasporti).
La domanda dunque a questo punto è: come si fa?
Forse si deve accelerare prima di tutto la costruzione di reti di collaborazione e di relazione all’interno di strutture esistenti con le varie associazioni presenti sul territorio, con tutte le risorse disponibili, sia di carattere economico che sociale, a partire dal volontariato e dalla promozione sociale fino all’associazionismo sindacale. Per affrontare il duro, faticoso, difficile lavoro di “lavorare insieme, in modo integrato”, unica condizione per massimizzare l’efficienza e l’efficacia. Mi rendo conto che sono cose che si dicono sempre, ma che si fanno raramente.
Mi sia permessa una citazione che considero centrale. (Da la percezione di sé e ruolo politico degli anziani- Rapporto Sociale anziani Rer, gennaio 2010):
“Emerge una condizione soggettiva degli anziani che ne evidenzia la qualità e di massima la possibilità di poter contribuire in maniera ancora sostanziale allo sviluppo della vita sociale e civile della comunità regionale” “Se l’obiettivo per le giovani generazioni è di accelerare l’assunzione di responsabilità, bisogna dunque chiedersi come gli anziani (individualmente, collettivamente, attraverso le proprie rappresentanze ed organizzazioni) possono concorrere a questo scopo. L’assunzione di responsabilità può avvenire soprattutto attraverso la dimostrazione che non si tratta di una attribuzione sostitutiva (cioè prendi tu le responsabilità che fino ad ora sono state mie), ma attraverso un superiore livello di condivisione; prendiamoci, ognuno secondo le nostre possibilità, le responsabilità di tutti.”
La capacità delle persone, una volta invecchiate, di condurre vite socialmente ed economicamente attive è un diritto. È questa, in sintesi, la concezione di active ageing (“invecchiamento attivo”) espressa dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Ocse) e tenuta in gran conto da parte della stessa Commissione Europea, la quale prevede che entro il 2050 il tasso medio europeo di dipendenza degli anziani sarà attorno al 50%: ciò significa che se oggi, in Europa, ci sono circa 4 persone in età attiva per ogni persona over 65, nel 2050 ce ne saranno solo due. Politiche di integrazione lavorativa e di inclusione socio-culturale degli anziani possono dunque diventare elementi centrali di sviluppo, rafforzando la partecipazione della persona anziana alla vita attiva della comunità e contrastando le conseguenze negative legate a sensi di solitudine e inutilità sociale.
Essere anziani al giorno d’oggi significa fare esperienza di grandi cambiamenti nei ruoli assunti all’interno della famiglia e della società: basti pensare al pensionamento, da alcuni vissuto come perdita di un ruolo sociale, o alla scomparsa del coniuge, l’allontanamento dei figli, tutte occasioni che comportano la perdita di importanti punti di riferimento. Le relazioni sociali possono essere una risorsa fondamentale per l’anziano, il primo baluardo contro la solitudine, ma soprattutto, sostiene la psicoterapeuta Emanuela Boldrin, è utile “diffondere l’idea che la vecchiaia è una fase di vita, non necessariamente legata alla patologia e che rappresenta il naturale proseguimento di ciò che si era prima. È importante far vivere il concetto di cambiamento non come una limitazione ma come una nuova possibilità per coltivare diversi interessi e passioni”.
In ognuno di noi deve crescere la disponibilità a sperimentare e sviluppare nuovi progetti per il valore sociale. In successivi articoli proverò a fare qualche esempio e mi piacerebbe ritrovare la voglia di molti nel cercare soluzioni.
STORIA DELL’INDUSTRIALIZZAZIONE FERRARESE (SESTA PARTE)
L’immediato secondo dopoguerra vide Ferrara alle prese con i disastri arrecati dal conflitto bellico: migliaia d’ettari di terre sommerse a causa dei danni provocati agli impianti idrovori, i ponti crollati sul Po, i nodi ferroviari impraticabili, le principali industrie della zona a nord-ovest distrutte, Pontelagoscuro rasa al suolo dai bombardamenti. Il numero dei braccianti agricoli superò le centomila unità e il pilastro della produzione agricola ferrarese, la canapa, entrò in una crisi irreversibile.
Nel corso degli anni Cinquanta, Ferrara divenne la capitale della produzione di mele, sorsero così magazzini, impianti frigoriferi, strutture per la lavorazione e la commercializzazione della frutta, imprese per il suo trasporto, fabbriche di imballaggi, industrie per la produzione e la conservazione, distillerie per la trasformazione in alcool della frutta di scarto. Il lavoro agricolo subì dunque un processo di “meccanizzazione”, incentivando la nascita di molte imprese dedite alla lavorazione dei terreni. Al contempo si insediò nella zona industriale il grande complesso della Montecatini, che rese la città un polo chimico di importanza nazionale.
Anche Ferrara fece la sua parte negli anni del “boom economico”, sebbene con caratteristiche strutturali diverse da quelle del modello emiliano, che privilegiava le piccole e medie imprese integrate fra loro. Verso la fine degli anni Sessanta, con l’esaurirsi del “miracolo economico”, entrarono in crisi alcune delle prime aziende della pionieristica industrializzazione ferrarese, come la Zenith e la Lombardi, oltre a diversi zuccherifici e conserve alimentari. «Ma mentre vecchi impianti smantellavano e vecchie gloriose imprese cessavano di esistere, altre novità stavano emergendo a fianco e al di sotto della tradizionale realtà produttiva. Stava decollando una rete di imprese artigianali e di piccole industrie più legate al mercato locale e al contesto emiliano. Anche Ferrara entrava nella graduatoria delle province italiane a maggiore incremento del reddito, pur conservando caratteristiche, contraddizioni e squilibri nel mercato del lavoro, forte stagionalità nell’occupazione, elevati indici di disoccupazione giovanile»*.
__________ * F. Cazzola, Economia e Società (XIX-XX secolo), in F. Bocchi (a cura di), La Storia di Ferrara, Poligrafici Editoriale, Bologna 1995.
Un fatto storico misterioso da cui partire, un bel po’ di studi e la passione per la scrittura a dare voce alla fantasia. Duilio Chiarle, piemontese che nella vita lavora nella pubblica amministrazione, ha pubblicato “Le notti buie dei franchi” (ilmiolibro.it), un giallo storico ambientato a Tours nell’anno 781 dopo Cristo. Una morte misteriosa, un investigatore dell’epoca, personaggi della corte carolingia e un’accurata ambientazione come contorno.
Chiarle, alla base del romanzo vi sono numerose fonti storiche e letterarie, oltre che una ricca bibliografia che lei ha consultato, è evidente il tentativo di documentare un’epoca considerata ‘buia’. Da dove è partito?
“Diciamo che fantasia e ricerca sono andate di pari passo intrecciandosi continuamente. Ho consultato un centinaio di volumi, di cui cinquanta sono stati decisivi per la stesura dell’opera. Per citare solo alcune delle fonti che mi hanno aiutato nella ricostruzione di quegli anni, importanti sono state le lettere di Carlo Magno, Henri Pirenne, Barbero, Vita di Carlo Magno di Eginardo. La morte misteriosa di cui parlo è un fatto storico su cui io azzardo una congettura, la vittima è un personaggio della corte carolingia. Anche l’investigatore Aucario è realmente esistito, misterioso pure lui, una primula rossa del suo tempo”. Perchè proprio l’anno 781?
“In quell’anno capitano diverse cose importanti, ad esempio l’ambasceria di Bisanzio a Carlo Magno, Pipino re d’Italia e altri avvenimenti documentati storicamente”. Un libro ricerca?
“Sì, ci sono molte notizie sui franchi, armi, alimentazione, costumi, cultura, superstizione, ho cercato di andare oltre il fatto noir e ricostruire i dettagli dell’epoca funzionali alla storia”.
La notte, citata nel titolo quasi in tautologia con buia, è un elemento ricorrente nel romanzo…
“E’ vero, sembra una tautologia, ma in realtà la notte del medioevo era molto più buia di quella di adesso. La notte è una presenza fissa, è inquientante, è la foresta con le belve, la notte è pericolo, agguato, paura e demoni. Il buio è anche, nell’opera, l’oscurità dell’animo, qualcosa di non ben chiaro interiormente. La notte ha sempre esercitato fascino, anche all’epoca, ne scrive un trattato il monaco Fredagiso di Tours, ad esempio”. Il mistero poi si risolve?
“Senza svelare il finale, posso anticipare che dopo 1200 anni, provo a indagare su un segreto di stato…”
Ho optato per una cifra neutra, oggettiva, selezionando per la letteratura ferrarese del nostro tempo, scrittori genericamente lineari e-o sperimentali (poeti video e-o digitali inclusi): opzione esclusivamente s-oggettiva creativa e meritocratica, secondo me; autori celebri, noti, meno noti, poco noti, audience o meno dei nomi e degli scrittori “storicizzati”. Non un mero dizionario meccanico, ma spesso la focalizzazione dell’opera più rilevante: secondo criteri critici, prossimi, sia a certa analisi transtestuale e aperta, suggerita, ad esempio dal postmoderno essenzialmente francese, Deleuze, Baudrillard, sia da figure celebri ma liminari quali Franco Rella, sia lo stesso Giorgio Colli che definì poeta anche chi vive come tale, al di là (ovvio relativamente) del prodotto-opera in sé. Tutti contemporanei, eccetto pochissimi, selezionati per certo ruolo archetipico fondamentali per la letteratura ferrarese (e non solo) di fine secolo e del primo Duemila. A partire da Corrado Govoni.
Corrado Govoni, nato a Ferrara (Tamara di Copparo, 1884), spirato a Roma (Anzio, 1965) resta tutt’oggi il più geniale poeta ferrarese del XX secolo, uno dei più grandi della letteratura italiana contemporanea. Dopo anni di relativo oblio, a partire dal trentennale della morte, l’editoria e l’ambiente poetico nazionale hanno riportato all’attenzione Corrado Govoni, capace di assurgere a suo tempo fra i protagonisti del futurismo e tra i più fedeli amici (almeno nella fase eroica dei primi tempi) di Marinetti e Palazzeschi: il carteggio di quest’ultimo con Govoni appare significativo, e altrettanto un eloquente tributo postumo del poeta al fondatore Marinetti (citato da De Maria in “Marinetti e il futurismo”). Tale riscoperta segue la riscoperta stessa del Futurismo, di cui sono stati recentemente promotori i vari Benedetto, Grisi, Agnese, Tallarico, Verdone e De Maria (ecc.).
Nel trentennale della morte (1995), Ferrara stessa con la rivista “Poeticamente” gli ha dedicato un omaggio contemporaneo, “Elettriche Poesie”, ricordandolo come poeta vivo e vitale di questi anni duemila (anche in “Rete a Ferrara” in versione trailer). Negli anni Ottanta, la città dedicò al poeta un importante convegno (centenario della nascita) ben puntualizzato anche da Antonio Caggiano, il noto critico e scrittore nonché cronista d’arte del Resto del Carlino. Corrado Govoni fu autenticamente futurista, cavalcò la rivoluzione della poesia italiana e mondiale, scoprì lo spirito moderno con colori squisitamente artistici. Al passo con i futuristi e con le avanguardie, Corrado Govoni immaginò e sperimentò un rinascimento moderno in netta polemica con il modernismo volgare e materialista che ha poi dominato l’intero XX secolo: Corrado Govoni anticipò – pure – con esiti raramente uguagliati, la Poesia visiva e le Neoavanguardie del secondo Novecento; e i vari Spatola, Sanguineti e Perfetti provengono tutti dalla lezione govoniana. Alle soglie del 2000, in particolare, i toni non solo aggressivi, ma aurorali, sereni e cosmici della poesia govoniana, rispetto alla ‘tradizione’ futurista (ad esempio, tra l’anarchismo letterario di Marinetti e il lirismo meccanico di Soffici), ci indicano autentiche preveggenze ecologiche di ovvia importanza: in Govoni, l’utopia futurista diventa un’utopia verde, futuribile, come è evidente anche in certo suo crepuscolarismo, una visione della macchina, tra i bordi di Spengler e lo stesso Marinetti.
Letto oggi, in Govoni non vibrano più soltanto virilismo guerriero, automobili, aeroplani e radio bellicose, ma anche auto elettriche, centrali solari e sensualità: la poesia del futuro come ecologia dirompente…
da “Dizionario della letteratura ferrarese contemporanea”, eBook a cura di Roby Guerra (Este Edition-La Carmelina, 2012)
Per ulteriori informazioni, visitare la pagina su Corrado Govoni in Wikipedia [vedi], la pagina di Roby Guerra [vedi] e il sito di Este Edition [vedi]
L’annuncio della Volkswagen di voler sostituire con i robot una parte dei circa 32 mila lavoratori che andranno in pensione dal 2015 al 2030 è un cambiamento destinato ad avere ripercussioni importanti. La decisione della casa automobilistica tedesca è di natura economica: il costo del lavoro oggi è superiore ai 40 euro/ora contro gli 11 dell’Est Europa, i 10 della Cina; ma il robot oggi arriva a 5 euro all’ora e forse costerà ancor meno in futuro.
La Volkswagen continuerà ad assumere giovani ai livelli attuali, ha detto il capo del personale Horst Neumann. Ma non è solo questo il punto. Che nell’industria avanzata il ricorso ai sostituti meccanici sia in crescita non è una novità, mentre sotto i nostri occhi sta cambiando la natura del lavoro e l’apporto umano nei processi manifatturieri dei paesi dell’Ocse si sta profondamente modificando. Insomma, non più solo ‘homo faber’.
La robotica peraltro, invade sempre più le nostre esistenze: nelle aziende, nelle case, negli uffici, negli ospedali. Secondo l’International Federation of Robotics tra il 2012 e il 2015 verranno venduti nel mondo 15,6 milioni di robot. In Giappone oggi le vendite di sostituti meccanici superano le 20 mila unità all’anno in cui sono comprese modelle, badanti, cuochi robot. Tra l’altro, l’Italia è il quarto paese al mondo per l’utilizzo dei robot nella chirurgia. Arriveremo forse al personal robot, mentre si sta sviluppando la sperimentazione per ottenere umanoidi sempre più simili a noi.
Qualche considerazione. La prima: il cambiamento della natura del lavoro vedrà – sta già vedendo – tutti i soggetti interessati alle prese con questo problema. Il robot non si ammala, non protesta, non va in ferie, lavora 24 ore su 24: come sarà la fabbrica di un non lontano futuro? Meglio pensarci già da ora.
Seconda considerazione: lo sviluppo della robotica, che riguarderà applicazioni attualmente inimmaginabili in aggiunta a quelle attuali, è uno dei settori della nuova economia: anche in Italia, anche in Emilia-Romagna, dove possono svilupparsi nuove realtà produttive.
Da ultimo, cambierà il senso della vita. Se la rivoluzione elettronica in trent’anni ha così tanto modificato le nostre esistenze – non sempre in meglio – quella robotica cosa comporterà? Per adesso, abbiamo come principale termine di paragone la fantascienza o i film come “Blade Runner”. Tra pochi anni, che passeranno velocemente, non saremo più dentro un film.
Alberi, rive del fiume, canne e foglie. Sono pezzetti di terra e acqua, di natura e cielo alle pareti per festeggiare l’88° compleanno della pittrice del Po, Carolina Marisa Occari. All’opera delicata e intensa dell’artista scomparsa pochi mesi fa, la Casa dell’Ariosto di Ferrara dedica una mostra nel giorno della sua nascita. Domani alle 17,30 l’inaugurazione con le opere di una vita intera. Disegni, acquerelli e incisioni realizzati dal 1946 al 2013.
Curatori della mostra e del catalogo – edito da Marsilio – i figli dell’artista, Licia e Luca Zampini. Al critico Gianni Cerioli il compito di raccontare i percorsi dell’opera e dalla vita di Carolina.
Nata a Stienta – 18 chilometri da Ferrara e e 31 da Rovigo, di cui è frazione – a Ferrara studia e prende la maturità artistica al Dosso Dossi. A Bologna si iscrive all’Accademia di belle arti, dove è allieva di Giorgio Morandi, da cui impara così bene l’arte dell’incisione. Nel 1954 le sue acqueforti e riproduzioni a stampa ricevono il premio dell’Accademia per l’incisione e il primo premio per il bianco e nero dall’Università di Bologna. Ma, soprattutto, la sua capacità di rendere in bianco, in nero e in grigio paesaggi e immagini naturali le valgono la proposta del grande maestro e insegnante. Al termine degli studi, Morandi le chiede ufficialmente di fargli da assistente. Lei ci pensa, ma poi rinuncia. “Voleva restare vicina al suo fiume” racconta il figlio. Vicina al Po, che l’ha ispirata in tanti disegni e incisioni, anche durante l’alluvione del Polesine del ’51, quando realizza tante opere, ora conservate in collezioni private, all’Accademia dei Concordi di Rovigo e alla Cassa di risparmio del Veneto-Intesa San Paolo.
Luca – che il talento artistico materno lo ha riversato nella fotografia – ama ricordare Carolina con le mani quasi sempre macchiate d’inchiostro e i vestiti “pieni di patacche”. Una luce speciale illumina il suo sgardo, mentre ricorda una madre attentissima, che pure incarnava lo stereotipo del genio, capace di illuminazioni artistiche folgoranti, eppure tante volte così inconsapevole del mondo intorno o dei dettagli pratici. “Era un po’ persa – ride Luca – distratta. Figurarsi che da ragazza, sovrappensiero, una volta raccontava di essersi presentata a un distributore di benzina per fare il pieno al motorino, salvo poi rendersi conto di essere in sella alla bicicletta!”. Anche l’altra figlia Licia, che ha curato la catalogazione di tutte le opere, ha raccontato sorridendo del caos artistico degli oggetti della mamma, con alcuni disegni rintracciati perfino in mezzo ai panni.
Madre e artista, del resto, sono le due anime parallele di Carolina creatrice. Che anziché fare l’assistente del grande maestro Morandi si sposa e, dal 1958 al 1963, dà alla luce quattro figli. Intanto insegna a Tresigallo, Codigoro e altri comuni ferraresi per una ventina d’anni. Resta quindi così poco spazio e tempo per la sua vocazione artistica. Che però torna fuori appena i bambini crescono, e che la fa ricominciare a dipingere dal 1976. Da quel momento non smette più. In golena, nelle valli o seduta nel giardino della vecchia casa sul Delta del Po, Carolina acquerella fronde d’alberi e argini, tratteggia il vecchio ciliegio della sua gioventù, l’olmo, la quercia, come pure il verde intenso che coglie nel cortile alberato sotto la sua casa, nel condominio di via Francesco del Cossa affacciato sull’Istituto Canonici Mattei di Ferrara.
Le sue opere ora sono in mostra alla Casa dell’Ariosto, via Ariosto 67. Ingresso libero. Promotori dell’evento il Comune di Ferrara, Ferrara Arte, Biennale donna, Cassa di Risparmio del Veneto. Dal 12 ottobre al 7 dicembre 2014, ore 10-12,30 e 16-18, chiuso lunedì.
Dopo la presentazione di Mafie del Nord. Strategie criminali e contesti sociali, lunedì mattina al dipartimento di Giurisprudenza, la Festa della legalità e della responsabilità 2014 torna ad affrontare il tema del radicamento della criminalità organizzata nel Nord Italia, cambiando però l’angolo di osservazione. L’appuntamento di lunedì con la ricerca curata dal gruppo di sociologi coordinato da Rocco Sciarrone ha rappresentato un momento di riflessione, in cui l’obiettivo era la ricerca di un metodo di studio del fenomeno per coglierne le diverse sfaccettature. La serata di mercoledì alla Sala Boldini, con la proiezione del documentario Romagna Nostra. Le mafie sbarcano in riviera, è stata ancora momento di riflessione, ma quella riflessione che nasce dalla denuncia. Il documentario è, infatti, il frutto dell’impegno dei ragazzi del Gruppo Antimafia Pio La Torre di Rimini che per più di un anno hanno lavorato alla ricostruzione del radicamento della criminalità organizzata tra Ravenna, Rimini, Riccione e San Marino: dal gioco d’azzardo dominato dai calabresi, all’affare del riciclaggio attraverso le strutture alberghiere controllato dalla camorra. Hanno realizzato interviste a giornalisti, avvocati, amministratori pubblici e magistrati, hanno letto gli atti delle inchieste e hanno ricostruito le operazioni della forze dell’ordine. E quando non hanno ricevuto attenzione o risposta da case di produzione e distribuzione a livello locale e nazionale, invece di lasciar perdere, hanno imboccato la strada del crowdfunding sulla piattaforma Produzioni dal basso, raccogliendo in brevissimo tempo i circa 2.000 euro con i quali hanno sostenuto le spese necessarie a realizzare il documentario. “Il nostro obiettivo è abbattere due stereotipi”, hanno spiegato Stefano e Davide, arrivati da Rimini per presentare il loro lavoro, “quello della negazione della presenza delle mafie al Nord” e “quello di una criminalità fatta di colletti bianchi, per cui sarebbe difficile riconoscere i mafiosi perché non utilizzano metodi violenti”. Romagna Nostra è quindi il racconto di fatti, aggressioni, intimidazioni, omicidi e sparatorie, avvenuti negli ultimi 25 anni in riviera. Due mezzi, due metodi diversi, che hanno in comune la ricerca, lo studio, la passione, l’onestà intellettuale. Per una maggiore consapevolezza di una realtà che ancora molti non riescono o non vogliono vedere, si possono percorrere entrambe le vie. Entrambi, infatti, la ricerca sociologica di Sciarrone e il documentario dei ragazzi riminesi, arrivano alle stesse conclusioni: “La mafia, lo ripeto ancora una volta, non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano. Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società. Questo è il terreno di coltura di Cosa Nostra con tutto quello che comporta di implicazioni dirette o indirette, consapevoli o no, volontarie o obbligate, che spesso godono del consenso della popolazione.” (Giovanni Falcone)
Anni fa, durante un corso di specializzazione, rimasi colpita dalle parole di un relatore: “Se vuoi lavorare con gli alberi, ragiona da albero”. Forse si trattava di una battuta, forse era una citazione altrui, di certo chi aveva espresso questo pensiero non era esattamente uno qualunque, infatti si trattava di Gildo Spagnolli, una figura mitica per chi si occupa di giardini e di verde pubblico in Italia. Spagnolli ha praticamente fondato la Giardineria del Comune di Bolzano, da lui diretta con energia e competenza per quarantadue anni, creando un esempio di progettazione e di gestione delle aree verdi urbane, stabile e indipendente dalle logiche elettorali. È sufficiente aprire la pagina del sito della città di Bolzano, scorrere i servizi che fornisce la Giardineria e leggere con quanta chiarezza sono espressi, per renderci conto che stiamo parlando di un altro pianeta. Dal vivaio delle piante, ai giardinieri che le curano, fino ai progettisti e amministratori, la Giardineria fornisce un pacchetto di gestione completa, che delega agli esterni solo alcuni interventi di pulizia. Soprassediamo sul fatto che tutto questo ha determinato una conoscenza della complessità del sistema del verde della città che dovrebbe essere una componente fondamentale di chi lavora in questo settore, vorrei però sottolineare un aspetto della Giardineria che mi piacerebbe fosse obbligatorio ovunque: il vivaio comunale.
È evidente che produrre in proprio il necessario richiesto dai progettisti, garantisce una coerenza totale tra progetto e realizzazione e, soprattutto, la qualità delle piante stesse. Piante sane, ben formate, messe in terra nel momento giusto, sono un’ottima partenza per ridurre i costi di manutenzione nel tempo e permettere di ragionare in termini di piantagioni stabili, evitando il cava-e-metti delle annuali. Nel caso degli alberi, la qualità della pianta dovrebbe essere un obbligo, ma non è così. Gli alberi sono organismi straordinari, la loro forma, caratteristica per ogni specie, è una macchina perfetta che ne garantisce salute e stabilità. Quando un albero crea dei problemi, nella stragrande maggioranza dei casi è colpa degli esseri umani. I casi più frequenti sono quelli della diffusione di malattie che si trasmettono usando attrezzi infetti e non puliti, o ignorando le pratiche di smaltimento del legno malato (come nel caso della epidemia di cancro colorato del platano). Poi ci sono errori di piantagione, specie sbagliata per lo spazio a disposizione, con conseguenti sbancamenti di muretti e pavimentazioni, e errori di potatura. Gli alberi non amano le potature, i tagli su legno vivo sono delle ferite che permettono l’ingresso agli intrusi: funghi, parassiti, malattie varie e che possono compromettere la stabilità perché, interrompendo l’asse di crescita, si formano ramificazioni con angolature che, nel tempo, cedono per il loro peso. Basterebbe questo per pensarci bene prima di pigliare in mano una sega a motore e ridurre una pianta maestosa a uno scheletro di legno, eppure questa convinzione è talmente dura a morire che persino l’animazione di apertura di Google, nel giorno di equinozio d’autunno, ci mostrava degli alberi, che dopo aver perso le foglie, avevano la ramificazione tipica di un albero cimato, o ancora peggio capitozzato.
Intorno a noi è rarissimo vedere un albero con la sua forma caratteristica, perché per decenni ai giovani alberi veniva castrata la punta, si spezzava la “freccia”, il ramo che sale dalle radici e esce dalla terra diretto verso il cielo, per favorire una forma regolare, sferica e innaturale della chioma. Ma non c’è verso, continuiamo a ragionare da umani, “perché si fa così”, ma quello che può avere un senso per un albero da frutto che deve produrre molto e vivere poco, non ne ha per un albero che fiancheggia una strada, che fa ombra in un parcheggio o che ci delizia nei giardini. Per le alberature storiche, ormai, bisogna considerare caso per caso, ma per le nuove piantagioni impariamo a scegliere in base allo spazio disponibile, scegliendo piante ben formate e dritte. Ci sono alberi bellissimi, di tutte le forme e dimensioni e, se non abbiamo lo spazio per un gigante in giardino, impariamo a goderne la bellezza in un parco e a scegliere con criterio i nostri amici vegetali, in modo da evitare di ridurli a patetici moncherini privi di grazia e bellezza. Insomma, bisogna avere buon senso e cominciare a ragionare da alberi, e capire che quando un albero potato vigliaccamente produce uno sproposito di ramificazioni, non lo fa perché si diverte, ma perché ha paura e sta cercando di sopravvivere.
Oggi è la giornata mondiale dell’uovo. Qualcuno potrebbe dire, e allora? Cosa ci importa, con tutti i problemi che abbiamo? A quando il giorno dell’insalata? Ormai c’è un giorno per tutto, ci mancava davvero solo questo. Eppure è già dal 1996 che si celebra questo giorno, quando la Commissione Internazionale di Vienna “Egg Commission” annunciò questo evento per il secondo venerdì di ottobre di ogni anno.
A pensarci bene, indipendentemente dalla convinzione personale sull’eterno dilemma “è nato prima l’uovo o la gallina”, l’uovo è davvero un prodotto naturale alimentare fondamentale, universale, alla base dell’alimentazione quotidiana di ciascuno di noi.
La diffusione dell’uovo nei paesi poveri, secondo la Commissione internazionale e la Fao, potrebbe salvare quegli 842 milioni di persone che in tutto il mondo, specialmente nell’Africa subsahariana, soffrono di fame cronica. Il direttore generale della Commissione ha dichiarato, inoltre, che, rispetto alla carne, la produzione delle uova ha un basso consumo di carbonio ed è più sostenibile ecologicamente. In media una gallina depone all’anno 300/325 uova: circa uno al giorno. Una buona notizia, dunque.
L’uovo è un alimento versatile: ci piace alla coque, sodo, in una bella e farcita omelette, al tegamino, nelle frittate, nelle quiche, nelle crespelle, nelle crepes, nelle mousse, nelle meringhe e nella pasta; i bambini vanno matti per le gialle uova strapazzate, lo zabaglione o le pastine e le torte, profumate di zucchero a velo, che lo contengono.
E’ senza orario, lo possiamo mangiare a qualsiasi ora della giornata, alla mattina a colazione, durante una pausa, a pranzo o a cena. Sodo, fa parte del ricco cestino del picnic che ci accompagna nelle scampagnate primaverili o estive, è quello di Pasqua, colorato, farcito, di cioccolato al latte o fondente. E’ un magico mondo a se’, indipendente, racchiude la vita e la crea. E’ il pulcino che spunta dal guscio, la mamma chioccia che cova, il caldo racchiuso al suo interno, il tepore di una casa.
Ha un costo ridotto, contiene proteine nobili, ha un basso apporto di calorie e grassi, è stupendamente miracoloso dal punto di vista nutrizionale ed economico.
Recentemente assolto dalle accuse di eccessivo apporto di colesterolo, i medici ne consigliano l’uso 3-4 volte a settimana. Perché apporta grandi benefici alla vista (per il suo contenuto di carotenoidi) e alla memoria (per la sua ricchezza in colina che, se assunta in gravidanza è un fattore determinante per sviluppo delle capacità mnemoniche del bambino); perché le proteine dell’uovo sono di altissima qualità, seconde solo a quelle del latte materno, e il tuorlo è uno dei pochi cibi naturali che contengono una buona dose di vitamina D. Questo alimento è importante per cervello e muscoli, ma la lista potrebbe facilmente continuare. I giapponesi ne consumano quasi uno al giorno, gli italiani circa 20 al mese. L’uovo, giudicato «il cibo più buono del mondo» anche da Dante Alighieri, è un alimento davvero unico nel suo genere, perciò oggi, non dimenticate la Giornata Mondiale dell’Uovo. E fatevi una bella frittata.
E così passa al Senato il fonologicamente – a seconda degli/delle speakers – detto Jobbs Acht, Jobs Echt e dal premier Renzi Jobs Ek. Naturalmente tra voli di libri, urla, e scalate alla presidenza dove lo sbalordito testimone incontra sconvolgimenti di grigie grisaglie fotografate mentre s’inerpicano sui banchi. E visi deformati dall’ira, gote enfiate (le “enfiate labbia” di dantesca memoria), le barbe sempre più folte (notevole anche quella del sindaco di Roma tenuamente brizzolata), e lo svolazzìo di orribili cravatte.
Ma una notizia lieta viene riportata dai quotidiani: i ‘barbudos’ più famosi d’Italia resteranno nella loro casa e non affronteranno lo stress dell’esibizione delle loro nudità all’Expo milanese. Parlo naturalmente dei Bronzi di Riace.
Alla scompostezza della politica si associa una riflessione.
Per calmarmi dalle desolanti notizie che ci propongono i telegiornali (inequivocabile l’avvio ogni sera, minacciosamente severo, di “mitraglia” Mentana), offre oasi di pace e di bellezza un canale televisivo che propone la musica più fastosamente eseguita da geni solisti e da grandi compagini orchestrali. Osservando quei volti, brutti, belli, giovani e vecchi, si nota una dignità sovrana mai turbata, anzi esaltata, dalle smorfie, dagli atteggiamenti innaturali obbligati dalla necessaria compenetrazione con lo strumento: labbra strette nella compagine degli strumenti a fiato, silenziosi scatarrii tra le trombe, braccia e colli tesi tra gli archi. Tutto si armonizza in una dignità che trova origine e salvezza dalla bellezza e dallo spirito. Se si potesse esprimere in una figura la nobiltà dello spirito, sceglierei quella dell’ottantenne Arthur Rubinstein mentre suona il concerto n.2 di Chopin. Dignità, bellezza, spirito: ciò che dovrebbe essere l’aspirazione dell’umano.
A differenza, e mi dispiace constatarlo, nelle aule parlamentari dove l’umanità più scomposta riduce la fisicità a bisogni primari, quasi tutti appaiono brutti perché scomposti. La fretta – o l’urlo – che dismaga la naturale dignità umana. Sibili, vociate, gesti sconvenienti sono dunque il riflesso di ciò che si pensa debba essere la lotta politica? E a questo punto, l’atteggiamento formale del Presidente della Repubblica appare o dovrebbe apparire modello di comportamento. Sempre più i personaggi della politica si fondono e si confondono con la satira di Crozza e perdono di carisma e di serietà. Ho ripreso in mano uno dei testi più corrosivi della nostra tradizione letteraria contemporanea. Un pamphlet di Carlo Emilio Gadda recitato in Rai, terzo programma il 5 dicembre del 1958 dal titolo “Il guerriero, l’amazzone, lo spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo”. Tra i protagonisti, la dama Donna Clorinda Frinelli, il professor Manfredo Bodoni Tacchi e l’avvocato Damaso de’ Linguagi, scoppia una diatriba sull’importanza del Foscolo, della sua poesia e del periodo storico di cui fu protagonista. Alla vacuità della dama e all’importanza seriosa del professore, si oppone il dissacrante avvocato che Insulta Bodoni Tacchi con l’inversione del nome: TaccaBodoni o ancor più il riferimento a un famoso B. (non è una premonizione ma l’indicazione di Bonaparte detto anche il Nano!) fatta da de’ Linguagi, insultato a sua volta col nome di Linguaggia.
Ecco, dunque, che tutto ritorna alla parola, alla capacità della parola di dire tutto e oltre il tutto; ma quando la parola, ridotta a mezzo politico s’isterilisce e si contrae in se stessa, perde di veridicità e non si conforma più alle cose.
Ancora segnali fisiognomici nel quartetto ferrarese scelto per la Regione. Nella foto ufficiale due candidati, una donna e un uomo, si presentano con l’ormai abusato sciarpone annodato al collo, ultimo riferimento ad un vezzo modaiolo adottato dalla politica. Gli altri due si presentano, invece, con una renziana camicia bianca.
Non sarà un segno di un’imitazione – assai facile da decodificare – che non trova, purtroppo, una sua originalità e semplicità di messaggio?
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