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Il Dio della sorpresa

C’è il Dio della legge, ma c’è anche il Dio della sorpresa. Con queste parole Papa Francesco, affronta il difficile compito di aprire la dottrina a realtà sociali e sentimenti che cambiano. La questione del nostro tempo è fare i conti con la tensione verso la libertà che costituisce la cifra della modernità e diventa l’irrinunciabile indicatore di un’etica della responsabilità individuale. Sentiamo oggi di avere bisogno di etica, vale a dire di riferimenti di comportamento, ma sentiamo che vogliamo sceglierli da soli, secondo principi accolti e non imposti, secondo sensibilità e opzioni personali. Sentiamo che il diritto a scegliere non è negoziabile, nessuno vorrebbe cedere la propria libertà in cambio della migliore prigione dorata. Sentiamo che la scelta investe sempre non tanto questo o quel comportamento, ma la nostra identità.
Non mi interessa entrare nel merito di una discussione che riguarda in primo luogo coloro che appartengono e chi si riconoscono nella Chiesa, mi interessa segnalare la capacità esplicativa della categoria di sorpresa come elemento di comprensione del cambiamento. Guardiamo spesso al presente con un atteggiamento di sgomento, non solo per la legittima indignazione verso le storture e del presente, ma anche, molto più di quanto non vogliamo ammettere, per la difficoltà di interpretare fenomeni in evoluzione veloce. Lo sgomento segnala la percezione di discontinuità di fronte ad un futuro che si manifesta di continuo nella nostra vita, ma che non siamo in grado di prevedere.
Nell’era della tecnologia abbiamo maturato l’erronea illusione che il futuro possa essere prevedibile, ma in realtà abbiamo visto fallire molte previsioni, vediamo gli economisti navigare a vista rispetto agli andamenti dei mercati e alla crescita. Anche i Big Data, le tecniche di elaborazione dei dati che cercano di prevedere fenomeni attraverso le tracce dei comportamenti in rete, si sono rivelati meno affidabili di quanto avessimo immaginato. Abbiamo capito che i Big Data registrano speranze e paure, emozioni e intenzioni prima che azioni reali degli individui. In sostanza sovrastimano le emozioni, il principale motore delle nostre scelte.
La sorpresa ci consente di distinguere la qualità di ciò che di nuovo ci si pone di fronte e, come le altre emozioni, ha una funzione indispensabile nella storia evolutiva dell’umanità. La sorpresa, la capacità accogliere il cambiamento, per comprenderlo, per vederne le ambivalenze e gli eventuali problemi che porta con sé, mi pare un antidoto salutare ad atteggiamenti di chiusura, a nostalgie e a ripiegamenti inevitabilmente perdenti e conservatori, a prescindere dalle intenzioni con cui sono espressi. La capacità di lasciarsi sorprendere da ciò che cambia, per comprenderlo, contrasta lo spirito di conservazione, anche coperto dalle migliori intenzioni.
Ricordiamo che ogni apprendimento passa dalla sorpresa, da quello che gli americani chiamano il momento wow! Per tutto questo è importante che i bambini imparino a sorprendersi per tutto ciò che accade intorno ed è importante che gli adulti alimentino la capacità di accogliere il non usuale e il diverso nella vita quotidiana.

Maura Franchi – Laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing, Marketing del prodotto tipico. I principali temi di ricerca riguardano i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@gmail.com

IL PUNTO
La concretezza dei sogni

E’ finita come era ampiamente prevedibile. Con la cacciata del sindaco Marco Fabbri dal Movimento 5 stelle e una conseguente spaccatura verticale, che fotografa il gruppo pentastellato di Comacchio schierato compatto con il suo primo cittadino, mentre i ferraresi appoggiati dal nazionale ne stigmatizzano il comportamento. Ma se torniamo sulla vicenda della Provincia di Ferrara già altre volte trattata non è per entrare nel merito o per nostra fissazione sul tema. Il punto è che questa vicenda è specchio paradigmatico di un’arte di governo che mette a repentaglio la corretta dialettica politica, la quale non può prescindere da un confronto aperto fra tesi contrapposte. Rappresenta quindi un rischio reale che va denunciato.

Le larghe intese, addirittura extralarge nell’anomalo caso della nostra Provincia, non sono un ampliamento della democrazia, come qualcuno ci vuol far credere. Al contrario sono un suo restringimento. Governare tutti insieme significa presupporre che le cose che si possono fare siano semplicemente quelle dettate dal buon senso. Una premessa che non ammette alternative razionali. Se passa questo concetto si cancella ogni margine di dissenso e si confina il pensiero antagonista nelle praterie frequentate da sparuti epigoni di idealità radicali: illusi, sognatori, resistenti che hanno perso il contatto con la realtà dei fatti, le cui fantasie non hanno alcuna concretezza.
Il mondo, secondo gli alfieri del pragmatismo, va governato dai ragionieri, con i piedi ben piantati sulla terra e lo sguardo incollato all’orizzonte dei fogli contabili. Questo è il pericolo dal quale dobbiamo difenderci.

Il messaggio che si tenta di contrabbandare è che le decisioni assunte non siano frutto di scelte, ma si configurino semplicemente come atti che rispondono razionalmente a bisogni diffusi, soluzioni inevitabili che scaturiscono come logica conseguenze a necessità comprovate, secondo una presunta forma di automatismo della ragione a una sola via di transito.

Invece c’è sempre un’altra possibilità, un diverso orizzonte, un percorso differente. Come ci insegna il salmone.

Il pensiero alternativo, oggi più che in passato, è bollato di astrattezza e inconsistenza. Ma se a tenere in piedi il mondo contribuiscono i ragionieri, a cambiarlo, da sempre, sono i visionari. Teniamolo a mente. Con la consapevolezza che questa è epoca di tramonto, che impone grandi, radicali cambiamenti per poter essere preludio a una nuova alba.

IL TEMA
Sguardo vigile sugli inceneritori

C’è chi li vuole patrimonio nazionale (art.35 dello “Sblocca Italia”), chi strumento regionale (tra cui io e Sandro Bratti), chi non li vuole proprio. Bisogna parlarne perché non passi la linea dell’ ‘incenerimento libero. Certo la centralità del problema dei rifiuti è di vari ordini, ma il più importante e delicato è lo smaltimento finale. Per questo una forte e continua attenzione è necessaria non solo per promuovere una indispensabile coscienza civica ma anche per sostenere lo sviluppo di tecnologie appropriate e a loro volta ambientalmente compatibili. Spesso il tema degli impianti viene affrontato come grave minaccia ambientale e non come anche soluzione al problema. A mio avviso gli obiettivi che si devono perseguire nel tempo sono essenzialmente quelli di aumentare la quota destinata al riciclo, di migliorare per quanto possibile la qualità dei rifiuti domestici riducendo sensibilmente le sostanze tossico nocive, ma anche di favorire la termocombustione, destinando solo il rimanente allo stoccaggio definitivo in discarica controllata. Capisco che questa affermazione sia poco popolare. E’ però difficile pensare ad un radicale cambiamento se ancora in discarica si smaltisce oltre il 70% dei rifiuti, se permangono contrasti anche ideologici che, al momento producono principalmente effetti di ritardo e contrapposizione piuttosto che di reale trasformazione del comparto ambientale. Da molti anni ormai a livello internazionale sta crescendo la consapevolezza di dover difendere la sostenibilità ambientale e quindi energie rinnovabili (impianti solari, eolici, idroelettrici, biocombustibili).

Il tema ruota attorno ad alcuni aspetti fondamentali: cambiamento climatico, ambiente e salute, natura e biodiversità, gestione delle risorse naturali e dunque uso sostenibile dei rifiuti. Per questo dobbiamo parlarne di più. Per prevenire e gestire situazioni di conflitto occorre infatti adottare nuovi percorsi e approcci decisionali, improntati all’informazione e al dialogo con i diversi interessi e punti di vista che le comunità locali e i soggetti interessati esprimono, avvalendosi di tecniche per la costruzione di decisioni condivise e consensuali.

La termovalorizzazione in Europa è operativa con circa 300 impianti, di cui buona parte in Svizzera, Danimarca e Francia; in Italia oggi solo l’ 8% è dedicato all’incenerimento.
In sostanza, è del tutto assente su scala nazionale un modello di gestione rifiuti basato sul “sistema di gestione integrata”. Tale modello pone al centro il concetto del recupero e della valorizzazione conseguente delle frazioni merceologiche presenti negli Rsu sia sotto forma di materia che di energia, relegando il ricorso alla discarica solo per quei rifiuti che residuano dal trattamento e che non sono suscettibili di ulteriori valorizzazioni. Va quindi aperta una fase nuova nell’affrontare i problemi. Il dibattito, peraltro accentratosi sui rifiuti di origine urbana, si è concretizzato inizialmente nella contrapposizione tra fautori e avversari della combustione, cui è seguita quella tra sostenitori della linea “tal quale” e sostenitori della linea che privilegia invece la produzione di combustibili derivati, identificabili con la “frazione secca” ed il Cdr precedentemente menzionati.
Tutto bene dunque? Assolutamente no. Bisogna parlarne di più.
Occorrerà evitare di imporre o privilegiare schemi rigidi di gestione o particolari soluzioni tecnologiche, lasciando che sia il mercato, all’interno di un contesto caratterizzato da vincoli più flessibili ma continuamente monitorati, ad adattarsi alle esigenze mutevoli della domanda ed alla volatilità dei prezzi di materie prime ed energia. La strada maestra è l’individuazione di impianti di termoutilizzazione con recupero di energia, a servizio di significativi bacini di produzione, inseriti organicamente in un sistema di gestione dove si realizzino le raccolte differenziate e le discariche diventino così elemento residuale. Il nostro ritardo, che causa problemi non solo al territorio, ma allo stesso sistema produttivo, va superato innovando non solo le procedure e le tecnologie, ma anche sperimentando un approccio basato sulla pianificazione territoriale, su un ruolo forte della programmazione, su una corretta informazione dei cittadini ed un loro crescente coinvolgimento, su una forte politica di alleanza imprenditoriale pubblica e privata, oltre ad un importante fase di esecuzione e affidabilità della gestione.
Non dimentichiamoci allora degli inceneritori, anzi teniamone alta l’attenzione.
La corretta comunicazione pubblica ambientale diventa in proposito un principio fondamentale.

La nascita di molti comitati di cittadini e di rifiuto della tecnologia rende necessaria una profonda riflessione, a partire dalla consapevolezza delle opposizioni e delle loro motivazioni.
Movimenti ambientalisti, comitati volontari e cittadini impegnati esprimono crescenti perplessità, osservazioni di merito e criticità espresse che non si devono né sottovalutare né tantomeno contrastare; tra queste ecco alcune problematiche poste:

  • L’unica via razionale, per la soluzione del problema rifiuti deve passare attraverso una rapida riprogettazione dei cicli produttivi , politica del riciclaggio, riutilizzo spinto.
  • La presenza di un inceneritore disincentiva la raccolta differenziata.
  • La termovalorizzazione è il più costoso sistema per lo smaltimento dei rifiuti
  • La scarsa credibilità che i nuovi impianti emettano inquinanti in “quantità trascurabile”
  • I termovalorizzatori non portano alcun beneficio alle popolazioni
  • Nessun inceneritore può garantire efficienza continuativa,
  • La scelta dell’incenerimento trasferisce le responsabilità ambientali e gestionali alle popolazioni che vivono attorno agli impianti stessi.
  • L’inceneritore non tiene conto dei bilanci energetici basati sull’analisi dell’intero ciclo vitale dei prodotti.
  • La vendita di elettricità sarebbe dovuta andare alle fonti di energia rinnovabile (solare, eolico, biomasse)
  • I limiti sulle emissioni di diossine non sono sinonimo di sicurezza, ma solo di minor rischio sanitario;
  • I termovalorizzatori, funzionano da ”disperditori” di inquinanti, sostanze che spesso ritroviamo a parecchia distanza .
  • Un impianto di incenerimento emette giornalmente alcuni milioni di metri cubi di fumi, alcune decine di chilogrammi di polveri fini e almeno un chilo di metalli pesanti.
  • Contamina pesantemente le catene alimentari con effetti sugli apparati endocrini dell’uomo e degli animali.
  • Molti dei composti chimici emessi durante le fasi di combustione dei rifiuti devono ancora essere identificate.
  • Mancano laboratori in grado di determinare le concentrazioni di pericolosi inquinanti come i PCBs
  • Molti dei composti chimici che si formano per combustione incompleta (organoalogeni) sono altamente tossici, teratogeni, mutageni e cancerogeni.
  • I gas di combustione che si formano contengono sostanze chimiche molto pericolose quali i furani (Pcdfs) e le diossine (Pcdds),
  • Non esistono sistemi di misurazione completa e continua degli inquinanti;
  • Circa il 30% del peso iniziale del rifiuto si ritrova alla fine del ciclo di combustione sotto forma di ceneri altamente contaminate.

Lo scopo di questo articolo non è certo di affrontare nel merito questi temi, ma di indicare l’importanza delle motivazioni e delle corrispondenti controdeduzioni finalizzate alla corretta trasparenza del confronto ispirata da valori di sostenibilità ambientale e rispetto delle opposizioni. A ognuno di questi punti servono risposte chiare e oneste.
Si cita solo a riferimento come in specifico a Ferrara sia stata costituita una specifica struttura (Rab) avente questo scopo e come a livello regionale siano operative strutture di controllo che periodicamente danno indicazioni sui monitoraggi e sui controlli effettuati.

Arzèstula, un viaggio a nord-est tra le macerie dei ricordi

Da Parasacco a Medelana, 16 novembre (prima parte), by Wu Ming 1

Un sogno persistente. Non ho ancora finito la tesi, continuo a raccogliere testimonianze tra anziani parroci e basapilet, beghine di campagna vestite di nero. Strade secondarie mi portano a stradelli ghiaiati e da lì su vialetti sterrati collegati a casolari, sempre col mio registratore. Torno a Ferrara con lo zaino pieno di storie sconnesse, di quando il messale era ancora in latino, il prete ti dava le spalle e il calice di sangue pro vobis et pro multis effundētur, a rimettere i peccati. Ho venticinque anni e devo sbrigarmi, “stringere”, la sessione è dietro l’angolo e il relatore è impaziente, vuoi deciderti o no, hai intervistato cento persone, te la sarai fatta un’idea. Hai letto il libro di Revelli, hai letto il libro di Portelli, hai letto il libro di Bermani e pure quello di Montaldi, che ne pensi del ricordo come fonte storiografica? Hai tracciato lo schema X? Hai fatto i debiti confronti? Un sogno ricorrente. Ogni volta tocco il fondo di una conca di nebbie, intrepida come la prima storica sulla Terra, colei che narra la madre di tutte le storie, e scopro che prima di me è passata un’altra tizia, l’intervistanda è svuotata, ha parlato per ore e non ne vuole più sapere: “Potevate anche mettervi d’accordo, ragazola, se venivate insieme queste cose le dicevo una volta sola… Raccontavo di quando son stata a S. Pietro, del Papa che è
venuto a Consandolo… Ades a son stufa, a voi andar a let.”
Metterci d’accordo. Pare facile, ma io non so chi sia, questa che mi precede. Lo scopro (scoprirò) soltanto in un altro sogno, ma sono episodi a tenuta stagna, ciò che imparo in un sogno non scorre in quello seguente.
Del resto, i sogni non sono il mondo. Nessun papa è mai stato a Consandolo.
Lo devo scoprire ogni volta, che a precedermi è la Scrittrice.

Mi son svegliata all’improvviso, con tanto freddo intorno.
Ingrottita.
Ingrottita? “Ingrottirsi”. Questo verbo in italiano non esiste. Ingrutiras, rattrappirsi, accartocciata nel sacco a pelo per via del gelo. Minima detonazione, parola che torna dall’infanzia, sciabordìo nella testa. La lingua della madre risospinta fino a me.
Eccomi qui, dopo tanti anni, sui mont ad Parasac.
I monti di Parasacco in realtà non esistono. Nessuna altura, a Parasacco. Nessuna altura tutt’intorno. Anche prima della Crisi la Bassa era bassissima, scodella di bruma e terra grigia. I “monti” di Parasacco son due piccoli dossi, dune coperte d’erbacce, in quello che era un cortile privato. Solo una vecchia battuta, un cliché d’antecrisi.
“Dove sei stato in vacanza?”, chiede Tizio.
Sui mont ad Parasac!”, – risponde Caio, cioè da nessuna parte.
Sarcasmo da contadini.
Parasacco era un villaggio di poche case, sull’ansa di una strada che s’infrattava verso sud dalla Rossonia, poco prima del bivio per Medelana. La Rossonia continuava a correre fino all’Abbazia di Pomposa. Il viandante, invece, scendeva nel comune di Ostellato, ammirando capezzagne di tristezza.
Medelana, paesello già spettrale alla fine del secolo scorso, ora poco più di una bava grigioverde all’orizzonte. Quand’ero ragazza, andar a Madlana significava andare a vedere i porno. A Medelana c’era un cinema, i miei compagni di scuola ci andavano già da minorenni. Pellegrinaggi mesti in comitiva, immagini ferme proiettate in sequenza su un lenzuolo, per dare un’illusione di movimento: cazzo dentro, cazzo fuori, cazzo
dentro, cazzo fuori, schizzo, si ricomincia. Poi il cinema chiuse.
Ogni tanto lo riaprivano per una tombolata, sempre più di rado, infine si spense.
Poco distante, l’ex-fabbrica di “stampi da caccia”. Anatre di plastica. Il muro maestro è crollato, la pioggia ha sciolto gli scatoloni e i palmipedi sono fuggiti. Anatre di plastica nel canale
San Nicolò, anatre nel Po di Volano. Ai miei tempi era più basso e stretto. Dopo la Crisi si è alzato, certamente più di un metro, e si è allargato. Adesso è un Signor Fiume.
Eccola, invencible armada di anatre in viaggio verso il mare.
Quelle che non s’impiglieranno nei canneti, chissà dove finiranno. Forse arriveranno, tra cent’anni, fino alla Grande Macchia, vortice di immondizia che galleggia nel Pacifico e prima o poi raccoglie ogni pezzo di plastica finito in acqua. La immagino sotto il sole, la Macchia: una distesa quieta, aromatica.
Baciata dal sole. Fotodegradantesi.
Anatre, eccomi qui. La voglia di tornare è cresciuta veloce com al canarin d’Alvo.
Pensa che mi torna in mente. Una storia di prima che nascessi, qualcuno aveva venduto a un certo Alvo un anatroccolo, spacciandolo per canarino. Alvo lo mise in gabbietta e quello crebbe, crebbe, crebbe finché… dall’aneddoto nacque il modo di dire. At cresi com al canarin d’Alvo si diceva ai nipotini da una visita all’altra, si diceva agli undicenni durante l’estate. Ma sto divagando, mi chiedevo…
Mi son svegliata all’improvviso, con tanto freddo intorno. Un lucore pallido abbraccia il mondo, foschia si alza da acquitrini e grandi stagni che un tempo erano campi, foschia come quand’ero ragazza. A nord-est si allunga una striscia frastagliata. La superstrada per Porto Garibaldi. Quel che ne resta.
Cerco la casa della mia infanzia.

Giorni fa, entrata a Ferrara, ho trovato l’anastatica di un vecchio dizionario. Pagine gialle e deformi, macchie di muffa. Il Vocabolario Ferrarese-Italiano di Luigi Ferri, 1889. L’ho letto lungo il pellegrinaggio, voce per voce, pagina dopo pagina, accampata sotto antichi cavalcavia, seduta sul rotolo del sacco a pelo, gambe dolenti dopo migliaia di passi nel fango.
Che tetra sfilata di parole estinte! Frasi idiomatiche che usavano le nonne, perse molto prima della Crisi.

Argur
Zarabigul
Arzèstula

…ramarro, formicaleone, cinciallegra…

Sciorzz
Baciosa
Capnegar

…lucciola, chiurlo, capinera…

Ricordi vaghi, sussulti, vibrare incerto di neuroni.
Alievar.
Lepre.

Già quand’ero piccola, nei campi dietro casa non c’erano più lepri. Sterminate, tutte. Ne vidi una soltanto a nove anni, già putrefatta, forse l’ultima del suo mondo. Sterminio: prima degli enti mancarono le parole. E adesso che gli “enti” tornano, e chiurli ne sento spesso e le sere d’estate è pieno di lucciole, le parole sciorzz e baciosa son più morte che mai.
La controbonifica è in corso, lenta, contrastata ma inesorabile.
L’oriente della vecchia provincia è sotto il livello del mare, scende anche di quattro metri e l’acqua s’impunta, vuole tornare nei luoghi da cui fu espulsa. La Commissione mantiene il minimo di controllo, ma alcune idrovore non funzionano più e interi comuni hanno capitolato. Chissà che ne è stato delle Magoghe. Era il luogo abitato più basso d’Italia.
Davamo per scontato il territorio intorno a noi. Pochi si fermavano a pensare che, ogni profano giorno, qualcuno doveva controllare e pompare via l’acqua, perché le nostre case non fossero allagate. Levo una preghiera per quei lavoratori del Consorzio. Li ringrazio per quello che hanno fatto, e ringrazio chi di loro è rimasto a vigilare. Li ringrazio per questo lavoro di Sisifo, mantenere emerse porzioni di una terra che, presto o tardi, capitolerà di fronte al mare. Le acque salate già si innalzano, la costa annega lenta. Almeno così raccontano i viaggiatori, così racconta il radioamatore di Porto Tolle.
Penso a te, guardiano della bonifica. Non so chi ti stia dando un salario, né come né quanto. Non so cosa pensi di salvare, non so cosa vuoi che non si perda, non so cosa sogni mentre sogno, ma so che qualcosa stai salvando, e sono tua alleata, tua sorella. Io come te, tu come me, cerchiamo nel passato un avvenire.
Oggi, ad ogni modo, le acque nei canali sono ferme. Da una settimana il cielo ci risparmia, incombe triste ma non lacrima.

Della casa della mia infanzia resta poco, spaccata com’è da rampicanti, piegata verso nord dal pino crollatole addosso. Ed è così piccola… Quand’ero cirula, mi circondava come una reggia.
D’inverno ci teneva caldi, fuori la neve copriva la terra e sotto il manto, come tuberi, restavano i ricordi dei giochi al sole.
Aprile passava tra gli scrosci, la pioggia ci sorprendeva e riparavamo sotto i portici dei fienili, molti già abbandonati.
L’estate arrivava all’improvviso, senza dir ne asino ne porco. Ci mettevamo al sole, bevevamo limonate, facevamo filo, chiacchiere che non erano nulla, eppure erano noi.
Ora la casa è tanto piccola, o forse io sono più alta. Ho almeno una spanna di fango sotto gli scarponi.
Gli dèi sono stati buoni con papà e mamma. Se ne sono andati prima di vedere la Crisi, né oggi vedono questo.
Il sole è già basso. Non voglio entrare. Sento di non essere forte abbastanza.
Da una breccia nei muri consumati scivola fuori una cosa pelosa. E’ un ratto. No, un furetto. Un furetto, si allontana senza guardarmi, si infila tra gli arbusti. E’ di certo un discendente di bestiole da compagnia inselvatichite, che i padroni non fecero in tempo a sterilizzare.
La Crisi arrivò prima del veterinario.

Non riesco a dormire, leggo. E’ quasi l’alba, ma leggo. La luce del falò fa tremare le lettere.

A bissabuo
Snestar
Barbagul

…a zig-zag, di traverso, bargigli…

Pinguel
Budloz
Rugnir

…palato, cordone ombelicale, nitrire…

Vedere le macerie di una lingua strizza il cuore. Ogni parola che si estingue è una casa che cede, si piega e si infossa, affonda nella sabbia.
Queste erano parole abitate, esseri umani le riempivano di vita e di storie.
Vedere le macerie può farti immaginare com’era la casa.
Immaginare i passi, i bimbi che correvano, le voci che passavano di stanza in stanza… Ma non puoi abitare le macerie come si abita una casa. Le macerie non torneranno casa. La casa non esiste più.
Alzo gli occhi dal libro e a lungo cerco le Pleiadi, ma non le trovo.
E’ il mio ultimo giorno qui. Domani tornerò a sud-ovest.

Racconto apparso nell’antologia “Anteprima nazionale. Nove visioni del nostro futuro invisibile.” A cura di Giorgio Vasta, Minimum Fax, Roma 2009.
© 2009 by Wu Ming 1, [vedi]
Foto Andreas Trepte

 

Le mie lacrime per Leopardi

A volte credo che la difesa delle proprie convinzioni passi anche attraverso un sano e corretto rifiuto di discussione che non sia veramente motivata. Tutto nasce dall’avere visto “Il giovane favoloso” e di esserne rimasto così turbato (sì lo confesso anche con le lacrime invano ricacciate indietro) proprio perché avevo la certezza di trovarmi di fronte a un capolavoro dovuto alla regia di Martone e alla bravura di uno dei più grandi attori dei nostri tempi, Elio Germano. E quando sento certi colleghi “esperti” catalogare il film come puerile e didattico mi salta la mosca al naso. Si spieghino gli illustrissimi accademici e non e mi diano le ragioni “vere” di questo atteggiamento sussurrato con la boccuccia a “cul de poule”. Loro sono abituati al Leopardi e alla sua protesta civile secondo le indicazioni del mio maestro Binni e di Cesare Luporini? Va bene. Ma che dire come qui, nel film, l’infelicità e il dolore mettano in causa attraverso il dubbio la protesta del nostro stato e alla fine trovano una spiegazione attraverso la “social catena” umana della “Ginestra” che nel dolore trova e dà senso al vivere?
Altro che il “romantico” Leopardi a cui ci avevano abituato. Si romantico perché titanico: come Chopin ridotto fino alla mia generazione a musicista da signorine.
Ha ragione la mia amica Anna Dolfi autore di tre splendidi saggi su Leopardi ad avermi rimproverato la mia indifferenza verso quel poeta in tanti anni di commercio intellettuale. Ma non è mai troppo tardi. Anch’io alla mia venerabile età sono arrivato attraverso un film a capire le ragioni leopardiane. E per questo che difendo questo valore ritrovato nel momento che solo l’eticità di quella posizione è “rimedio unico ai mali” che in questo nostro deluso e deludente presente ci renderebbe degni di chiamarci popolo o meglio nazione. E i giovani lo sanno. Mi dicono che a Firenze la proiezione per le scuole superiori sia stata seguita in religioso silenzio e che Martone fino alle una di notte ha dovuto rispondere alle domande dei ragazzi.
Alla buonora! E perciò non mi vergogno d’aver pianto e di difendere questo film che è o sarà amato dalla meglio gioventù…

La supremazia del battito

Molto in fondo, oscuro e oscurato da sopvrapposizioni di anni ci sta il cuore primitivo, nucleo emotivo di tutto. A teorizzarlo è Craig Nolan, antropologo e accademico.
Mara Abbiati, sua moglie, scultrice di gatti nel tufo, quel cuore primitivo lo sente sotto la pelle che batte sempre più forte. Il cuore erutta e fa rumore (dum dum dum), si impone su ogni convenzione, buon senso, opportunità e logica. Basta sollecitarlo e parte. Proprio come aveva scritto suo marito Craig, attento studioso di uomini e civiltà lontane.
Ci prova Maria a fare resistenza a Ivo, così diverso e distante da lei, ci prova a seppellire il cuore primitivo che sente lì pronto ad attivarsi, è tutto un battere, un dominio di sensazioni e istinto. È un’attrattiva irrazionale quella che Mara sente, i gesti sono la logica conseguenza di un non senso che prevale.
Ma sono poi così diversi lei e Ivo? Quando si trovano vicinissimi, quando si sentono l’uno nell’altra, sembrano coincidere più che divergere. Mai si sarebbe avvicinata a uno come Ivo, eppure. Perchè questo fa il cuore primitivo: spacca. Così come si spacca il blocco di tufo che Mara sta scolpendo quando Ivo le è accanto, troppa forza, troppa brutalità nelle sue braccia forti di donna artista che non riesce a domarsi. È violenta, senza misura, piena di rabbia e tutto va in frantumi. Crac.
“Cuore primitivo” è un romanzo di suoni, rimbombi e sottofondi. De Carlo è abilissimo nel far sentire ciò che sta succedendo attorno a Craig, Mara e Ivo, ma soprattutto dentro di loro. Fa rumore il sangue bollente che scorre, il cuore che accelera, gli impulsi che attraversano i corpi.
Che fare dopo quello che è successo? Qualcosa si è spaccato. O aperto. Dipende da dove lo si guarda. Mara non può ignorare il blocco di marmo che è andata a prendere insieme a Ivo, sì proprio il marmo che lei aveva sempre rifiutato, è la sua nuova materia, una nuova scultura l’attende da quel blocco informe, qualcos’altro deve nascere dalle sue mani. Un’altra opera d’arte vuole liberararsi da quella pietra.
Ivo non capisce perchè una donna come Mara lo possa attrarre e gli faccia venire certi pensieri, non gli appartiene quell’approccio con le donne, lui è sempre stato diverso. È Mara che è diversa dalle altre, è concreta, materica. Sente che sta per precipitare in un senso di vuoto se lei se ne va. Stesso vuoto dentro di lei, quanto tempo potrebbe metterci a superarlo? Ma ha senso sforzarsi di capire l’incontrollabile?
Craig nota e sa, sa che quell’atteggiamento di Mara è chiaro indice di frattura, sa che c’entra la legge del cuore primitivo di fronte al quale l’equilibrio di coppia, già molto messo alla prova, non può reggere.
Supremazia del battito fuori controllo, dum dum dum.

Andrea De Carlo, Cuore primitivo, Bompiani 2014

La cura del verde nei giardini, sapiente rispetto della spontaneità

SIEPI E RECINZIONI VERDI (prima parte)

Quando si parla di giardini e della loro cura, spesso si finisce per sembrare dei presuntuosi che pensano di avere la verità in mano. In realtà, la complessità dell’argomento è tale, che riuscire a mettere dei paletti esaurienti a un discorso è praticamente impossibile. Ogni soggetto ha tante di quelle possibilità e varianti, che alla fine chi scrive risulta o troppo superficiale o troppo perentorio. Uno degli argomenti più spinosi è sicuramente quello della potatura. Secoli di immagini di giardini con siepi potate ad arte e alberi costretti nelle forme più bizzarre e innaturali, hanno messo radici nell’immaginario collettivo trasmettendo un’idea di bellezza legata all’ordine e alla geometrizzazione delle forme spontanee. Questo tipo di potature ha un senso anche ai nostri giorni, perché un taglio preciso, eseguito con regolarità su piante di buon carattere, rimane una tipologia di manutenzione che può essere programmata calcolando costi e tempi con una certa precisione. Ma cosa succede quando una siepe, impostata per diventare un muro vegetale, viene abbandonata per un paio di anni? Come sempre basterebbe dare un’occhiata in giro, sbirciare nei cortili altrui per capire che forse, la comune siepe, non sia la scelta più oculata per fare una recinzione. Tutti abbiamo almeno una siepe di troppo, io ne ho più di una da vent’anni in quel laboratorio di vita che è il mio giardino; per questo, penso di poter dare qualche spunto di riflessione a chi sta valutando come risolvere il problema dei confini.
Dal punto di vista delle essenze, si potrebbero datare i giardini dal tipo di arbusto scelto per fare la recinzione. Ci sono state le mode del cipresso Leylandii, del lauroceraso e da almeno una decina di anni, della fotinia, tutte piante comuni, sempreverdi, rustiche e a rapida crescita. Il Leylandii – x Cupressoyparis leylandii – è una pianta finta, selezionata dall’uomo per avere una specie vegetale in grado di creare dei muri verdi. Se non viene potata regolarmente, in pochi anni raggiunge i 6 metri di altezza e si allarga in modo scomposto. Da usare solo se si è sicuri di poterla mantenere circoscritta e in ordine, con un taglio in pendenza più largo alla base, per favorirne l’illuminazione e far scivolare l’acqua.
Il lauroceraso – Prunus lauroceraso – è una pianta bellissima, le sue foglie lucide di un verde splendente sono veramente spettacolari. È molto rustica, le mie piante sono state danneggiate soltanto dal cattivo drenaggio del terreno: risolto con la creazione di un tombino, che raccoglie l’acqua in eccesso e la indirizza, attraverso una tubazione sotterranea, in un canale; e da una invasione di oziorrinco: bestiolina ingorda che ha divorato i bordi delle foglie, l’ho lasciata fare per qualche anno e alla fine è morta di indigestione. Il lauroceraso tollera molto bene le potature fatte sul legno, quelle meccaniche, che stracciano le foglie, sono una cosa da incivili. Il vigore di questa pianta è sconcertante. Ho fatto l’errore di piantarne alcune in doppia fila, a un certo punto erano diventate così larghe che le potai dall’interno, creando una specie di grotta che usavano i bambini per giocare. Oggi la taglio cercando di dare una forma libera, con curve mosse che sembrano naturali, l’effetto è molto bello, ma richiede una manutenzione maniacale. Nonostante la sua bellezza, non è una pianta adatta ai giardini di dimensioni comuni, al limite può essere allevata come un piccolo albero, perché si stabilizza sui 4/5 metri. Se avessi più coraggio la toglierei perché si sta mangiando metà dello spazio del mio giardino e ho sempre meno energia per tenerla ridotta.
Infine la fotinia – Photinia x fraseri “Red Robin” – un arbusto che si comporta come il lauroceraso, leggermente meno vigorosa, ma che se non viene potata si allarga per metri. Il colore rosso brillante del nuovo fogliame è uno dei motivi del suo successo, ma quello che continuo a non capire è il fatto che, nonostante sia una pianta da tenere continuamente sotto controllo, venga diffusa e consigliata come la soluzione migliore per creare delle barriere vegetali anche in spazi molto ridotti.
Su questo dubbio mi fermo, e lascio in sospeso fino alla prossima settimana.

Fotografia di Raffaele Mosca

L’APPUNTAMENTO
Ferrara in jazz, l’emozione continua

Non c’è che dire: per gli appassionati di jazz e di musica in generale sarà una scorpacciata. Da oggi e fino al 30 aprile del prossimo anno il Jazz Club Ferrara si è fatto promotore di “Ferrara in jazz 2014—2015” con musicisti affermati e giovani che sono più di semplici promesse. Le sinergie del sodalizio presieduto da Andrea Firrincieli con Ferrara Musica e Bologna Jazz Festival hanno permesso di allestire un ciclo di concerti all’altezza delle altre rassegne che l’Emilia – Romagna ospita da tempo.
La rassegna ha tre patrocini (Regione Emilia-Romagna, Provincia e Comune di Ferrara) e tre sponsor (Caffè Meseta, Banca di Romagna, Endas Emilia-Romagna); si articola nelle sezioni “Main concert” (da stasera al 20 dicembre), “Happy go lucky local”, dedicata soprattutto ai giovani musicisti italiani (20 ottobre-22 dicembre), “Today” (in collaborazione con Ferrara Musica) e “Somethin’ else” (nove serate tematiche alla scoperta dei suoni e dei sapori del mondo – dalla Francia, al Brasile, alla musica klezmer – ogni sabato sera dal 25 ottobre al 22 novembre, poi ogni venerdì sera dal 28 novembre al 26 dicembre). Infine, per la “Vetrina giovani artisti”, patrocinata dalla Regione, la mostra personale del fotografo emiliano Matteo Mangherini (1-26 dicembre).
Il concerto di stasera con il quintetto del giovane trombettista californiano Ambrose Akinmusire apre il ciclo dei “Main concert” (tutti al Torrione, con inizio alle 21,30) che la direzione artistica di Francesco Bettini ha pensato in grande. Poi sarà subito leggenda il 24 ottobre con l’Organ Quartet del sassofonista Lou Donaldson, protagonista dell’hard bop e soprattutto, negli anni ’60 e ’70, del soul jazz.
A seguire, con ritmo mozzafiato, le collaborazioni con Bologna Jazz Festival: partenza con il quartetto della clarinettista e sassofonista israeliana Anat Cohen (31 ottobre). In crescendo, il duo Uri Caine (piano) – Han Bennink (batteria) che presenteranno “Sonic Boom”, lavoro recentissimo in cui la creatività non ha confini. Si proseguirà con il Claudia Quintet (7 novembre), con il pianista inglese John Taylor, musicista di estrema sensibilità e di grande lirismo espressivo (8 novembre), il trio del pianista Steve Kuhn, con Palle Danielsson al contrabbasso e Billy Drummond alla batteria) di scena il 10 novembre e con il trio composto da John Abercrombie (chitarra), Gary Versace (organo), Adam Nussbaum (batteria), formazione di grande livello e di collaudata esperienza (15 novembre).
Ancora, potremo sentire il quartetto del pianista George Cables che torna al Torrione in compagnia di Victor Lewis (batteria), Darryl Hall (contrabbasso) e Piero Odorici (sassofoni) il 21 novembre. Poi, il duo Toninho Horta (voce, chitarra) – Ronnie Cuber (sax baritono) il 29 novembre, lo “Spiritual Trio” di Fabrizio Bosso (6 dicembre), la “Mob Peppers” guidata dal sassofonista Pee Wee Ellis (7 dicembre), la formazione “The Unusual Suspect“ guidata dall’organista Pat Bianchi (13 dicembre), il quartetto di Shawn Monteiro (20 dicembre).

Segnaliamo infine i due appuntamenti al Teatro Comunale nell’ambito della stagione di Ferrara Musica: quello con la pianista giapponese Hiromi Uheara (martedì 28 ottobre, ore 20,30) e l’altro con il duo Kenny Barron (piano) – Dave Holland (contrabbasso) (17 novembre, 20,30).

Per informazioni: www.jazzclubferrara.com; mail jazzclub@jazzclubferrara.com

(f.s.)

Quando il treno squarcia lo schermo

“La vita è fatta di cose reali e di cose supposte: se le reali le mettiamo da una parte, le supposte dove le mettiamo?” (Totò)

Il cinema nasce come documento e rappresentazione del reale, come la famosa e mitizzata prima proiezione dei Lumière di un treno in corsa, che si narra terrorizzasse gli inesperti spettatori; il cinema pratica sin dagli esordi dunque l’irruzione di una realtà catapultata sullo schermo e nella sala.
Lo scorso anno, felice e forse non casuale coincidenza, a Venezia vince il Leone d’Oro della 70° edizione “Gra” di Gianfranco Rosi, documentario sulla periferia romana, e al Festival del Film di Roma vince “Tir”, in realtà un docufilm, vicinissimo al documentario, nel quale un attore ha accettato di vivere come un autista di tir per tre mesi.
Esistono tanti autori, spesso giovani, che, grazie alla libertà autoriale derivante dal low budget del documentario (niente attori, niente studi, set a costo zero, ecc.), introducono stili e contenuti originali, proponendo luoghi meno illuminati e frequentati dai media e dal cinema di consumo.
Tanto per ricordarne alcuni tra i più significativi, Costanza Quatriglio che, oltre al drammatico corto “Con il fiato sospeso” su ricercatori deceduti per danni da laboratorio, con “Terramatta” ha vinto il Nastro d’Argento 2013; Gianfranco Pannone, che recentemente ha presentato con successo il suo “Sul vulcano”, esuberante rappresentazione del rapporto tra la gente e il Vesuvio; Giovanni Piperno, con il suo umanissimo e rutilante “Le cose belle” sulla gente di Napoli; il film di esordio più entusiasmante degli ultimi anni “Fuoristrada”, un film di Elisa Amoruso, prodotto con poche decine di migliaia di euro, menzione speciale a Roma 2013, imperdibile; Valentina Zucco Pedicini con “Dal profondo”, tutto girato in miniera con donna minatrice protagonista, vincitore al Festival del film di Roma 2013; i già affermati Andrea Segre, autore, tra l’altro, di “Io sono lì” e “La prima neve”, e Daniele Vicari, che dopo il successo di Diaz ha realizzato “La nave dolce” sullo sbarco della nave Vlora nel porto di Bari.
E poi Alessandro Falco che con “La strada di Raffael” vince a Locarno 2013, Marco Santarelli menzione speciale al Festival di Roma 2013 con “Lettere al Presidente”, e ancora “I fantasmi di San Berillo” di Edoardo Morabito vincitore al Festival di Torino 2013.

TEST DI CULTURA CINEMATOGRAFICA
Ed ora, il test di intrattenimento; stavolta vi chiamiamo a indovinare dalla foto il nome degli attori

Risposte: [clic per vedere]

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LA SEGNALAZIONE
L’anticonformismo di Leopardi

“Dolce e chiara è la notte e senza vento”. Quando Leopardi comincia a recitare “La sera del dì di festa” lo spettatore è delicatamente trasportato all’interno della biblioteca del palazzo di famiglia che, nella scena, è illuminata a giorno da una Luna tonda e scrutatrice. Si tratta solo di una tra le tante inquadrature che Martone dedica alla natura, lasciando che la voce del poeta culli lo spettatore per suscitare le emozioni più profonde. Come se i versi di Leopardi, interagendo con le musiche di sottofondo realizzate dal notevole musicista tedesco Apparat, siano in grado di far rivivere il più grande autore della letteratura italiana, protagonista de “Il giovane favoloso”.
Anche il titolo emblematico del film uscito nelle sale italiane un paio di giorni fa punta i riflettori sulla figura di Giacomo Leopardi, che il regista ha affidato alla formidabile recitazione di Elio Germano. Circondato da un cast coi fiocchi, dove Massimo Popolizio veste i panni del severo Conte Monaldo, padre del poeta, e Michele Riondino impersona il fedele – o quasi – amico Ranieri, l’attore si è destreggiato con le poesie e le sofferenze dell’autore marchigiano per ben 137 minuti, durata complessiva dell’opera trasmessa, a Ferrara, dal cinema Apollo.
Focalizzandosi sulla giovinezza malinconica e solitaria che Leopardi trascorre a Recanati, il film dipinge la vita del poeta attraverso una sceneggiatura lenta e descrittiva. La natura semplice del paese marchigiano si sussegue in un gioco di colori e di immagini, che Martone alterna in frazioni di secondo. Così, disorientando il pubblico anche grazie alla recitazione dei celeberrimi “Idilli”, Martone si avvia pian piano verso la seconda parte dell’opera cinematografica, che vede Leopardi ingobbito e prigioniero dei ricchi salotti fiorentini. La nuova esistenza, lasciando il posto alle disillusioni, porta Giacomo a perdersi nella maturata bellezza di Fanny Targioni Tozzetti: le difficoltà a socializzare e la sfiducia nella natura umana, che rendono l’autore scontroso e – talvolta – addirittura saccente, si mescolano così al desiderio di amare ed essere amato.
La ricerca dell’affetto sarà il punto di partenza per capire fino in fondo la fase napoletana della poesia leopardiana, a cui Martone dedica quasi tutta la terza parte del film.
Tra squallidi bordelli e donne superstiziose, sarà proprio questa esperienza a “liberare il poeta”, come Germano ha affermato in una recente intervista. Il contatto con la povertà e la morte, che Martone riporta sulla scena attraverso i cupi colori di una città sconvolta dal colera, sembrano dipingere lo squallido paesaggio de “La Ginestra” e la necessità di realizzare una maggiore unione tra gli uomini.
Un’unione tra mortali che assume un significato duraturo e universale. Perché Leopardi “ha una natura antica che però sa guardare avanti” ha spiegato Martone a Repubblica, anticipando il messaggio del film: “E’ un poeta che parla a chiunque senta l’urgenza di rompere le gabbie che dall’adolescenza in avanti tutti noi percepiamo intorno”. Da L’infinito a Paralipomeni della Batracomiomachia, le opere citate nel film non ci offrono solo una biografia attenta del poeta, ma mescolano riflessioni e sentimenti per spingerci verso la libertà senza tempo tipica dei giovani.
Scoprire l’autore per riscoprire noi stessi: questo è l’obiettivo che il regista ha cercato di realizzare soffermandosi sui classici temi leopardiani, come le illusioni e la natura, che egli ci mostra grazie alla forza delle immagini e ai profondi dialoghi. Personalità forti e burbere, deboli e affettuose ruotano intorno al protagonista, che, in momenti diversi, “ci dice cose diverse”, assumendo la stessa posizione “ribelle” occupata da Pasolini negli anni Sessanta: “Un non allineato, un anticonformista poco compreso dai contemporanei” ha aggiunto Martone, il quale, arricchendo il film di riferimenti all’Unità d’Italia e alle opposizioni tra gruppi ideologici diversi, sembra portare sulla scena il disagio politico e sociale attuale, il quale riflette la solitudine dell’individuo.
Il mondo che cambia, le tensioni internazionali e le difficoltà economiche di una crisi interminabile sono solo alcune delle vicende che sembrano smontare le rosee previsioni improvvisate dal venditore di almanacchi al passeggere disilluso.
Ma sarebbe scolastico ridurre la riflessione di Leopardi a un pessimismo senza vie di fuga. Martone lo sa bene e, immortalando i silenzi delle viuzze di Recanati e la rigogliosa natura di Torre Annunziata, apre le porte alla sensibilità del poeta, che si può conoscere usando solo “anima e cuore”. Perché, nonostante i malanni fisici, ridotti al minimo dalla regia, Leopardi continuerà ad aiutarci a guardare oltre il confine, aprendo le porte al suo desiderio di infinito. Un desiderio che, demolendo le barriere del tempo, ci fa capire come, nonostante tutto, “il naufragr c’è dolce in questo mare”.

Gaia Conventi e i Gumwriters

Gaia Conventi, scrittrice emiliana (Goro, Ferrara) è penna giovane e dal talento speciali nell’era di internet. Tra le curatrici del bellissimo e iconoclastico blog tecno dada “Gumwriters”, ha edito in questi anni, diversi libri a quattro mani con Stefano Borghi, tra cui “Sulfureo. Racconti in giallo e nero”, (2007), “Chiaro di Lama” (2008), “I deliziosi delitti di Littletown” (2005) tutti edizioni Edigiò, Enigma Pagano (Edizioni Carta e Penna, 2008), oltre – da sola – “Una scomoda indagine e un cane fetente” (Caravaggio Editore 2008), grazie al premio vittorioso al concorso Adamantes.
Non ultimo una chicca del 2009: vincitrice del Gran giallo città di Cattolica, Mystfest, 2000 con il racconto “La morte scivola sotto la pelle”.
Nel 2011, l’e-book “Giallo in Zucca” (Este Edition, 2011) e con la scrittrice bolognese M.S.
Avanzato, una gemma particolarmente rilevante e nazionale, il soft erotic noir “Cipriavaniglia” (premiato in un concorso di genere).
La cifra letteraria di Gaia spicca per una non frequente (altrove) sintesi tra parole noir-dark raffinate e medium, messaggio corrosivo e combattente, singolare fata amazzone in versione net moderna.
Modulazioni della parola distanti da certo manierismo del genere: anzi, il brivido è intriso di libido atipica, deliziosamente neocinica alla Onfray, una femme fatale cyber che – attraverso parole… vocali colorate di un Rimbaud neogotico – fa il surf nella net-sfera e nel reale con dis-incanto contemporaneo.
Numerose, inoltre anche le performance poetanti della Conventi, lirico-pungenti secondo il personaggio, forse la personalità letteraria femminile nuova più interessante e avvincente da Ferrara in questo primo Duemila.

Per saperne di più su Gaia Conventi [vedi]
da: “Asino Rosso, giornale futurista on line”

IL FATTO
Gli scienziati al governo: non trivellare l’Adriatico, ma sviluppare le energie rinnovabili

Un gruppo di 22 docenti e ricercatori dell’Università e dei Centri di Ricerca di Bologna, guidato dal chimico Vincenzo Balzani, ha scritto una lettera aperta al Governo di severa critica riguardo la Strategia energetica nazionale, recentemente ribadita nel decreto Sblocca Italia. La lettera è pubblicata sul sito energiaperlitalia [vedi] insieme ad un appello per lo sviluppo di una strategia energetica integrata basata su sobrietà, efficienza energetica e sviluppo delle energie rinnovabili.
Secondo gli scienziati firmatari della lettera, il problema energetico deve essere affrontato congiuntamente da almeno cinque prospettive diverse (scientifica, economica, sociale, ambientale e culturale) e la sua soluzione non può prescindere dal fatto che la fine dell’era dei combustibili fossili è inevitabile e che ridurne l’uso è urgente per limitare l’inquinamento dell’ambiente e contenere i cambiamenti climatici. La lettera e l’appello sottolineano anche che la transizione dall’uso dei combustibili fossili a quello delle energie rinnovabili sta già avvenendo in tutti i Paesi e che, sviluppando le energie rinnovabili e le tecnologie ad esse collegate, l’Italia ha un’occasione straordinaria per trarre vantaggi in termini economici (innovazione nelle aziende, nuovi posti di lavoro, riduzione dell’inquinamento) dalla transizione energetica in atto.
Anziché dare impulso allo sviluppo delle energie rinnovabili e promuovere una cultura basata su sobrietà ed efficienza, la strategia energetica del governo facilita ed incoraggia le attività di estrazione di quantità, peraltro marginali, di petrolio e gas in tutto il territorio nazionale, comprese aree densamente popolate, tutta la costa del mare Adriatico e zone di inestimabile importanza storica, culturale ed artistica come quelle di Venezia e Ravenna. Tutto ciò in contrasto con le affermazioni di voler ridurre le emissioni di gas serra e, cosa ancor più grave, senza considerare che le attività di trivellazione ed estrazione ostacolano e, in caso di incidenti, potrebbero addirittura compromettere la nostra più importante fonte di ricchezza nazionale: il turismo.

S. Agostino: si definiscono nuovi scenari per la riqualificazione della piazza

La Giunta di Sant’Agostino (Fe) si è espressa sulle proposte dei cittadini per la riqualificazione della piazza. Detto così sembra solo uno sterile passaggio amministrativo, si tratta invece del primo processo partecipato che sia stato fatto nel paese. Un precedente esemplare di democrazia dal basso, che, secondo le parole del vicesindaco Simone Tassinari, diventerà prassi anche per il futuro.
Da gennaio a giugno, gruppi di cittadini coordinati dagli operatori di Less is more, si sono riuniti per decidere che fare nella piazza centrale di Sant’Agostino, sede del municipio abbattuto dopo il terremoto.
Ferrara Italia ha seguito questo percorso di cittadinanza attiva come media partner (potete rileggere gli articoli digitando ‘Sant’Agostino’ nel motore di ricerca del nostro sito), intuendo che si trattasse di un precedente storico per questa comunità, un’esperienza che avrebbe mutato il modo di intendere il governo locale. E così è stato. Certo non stiamo parlando di grandi numeri, la partecipazione è stata variabile da alcune decine di persone ad un centinaio, ma per chi c’è stato è stata un’esperienza intensa e formativa. Ci sono stati confronti tra generazioni, visioni politiche, approcci diversi al territorio, si è discusso, a volte animatamente, ci si è divisi e riconciliati, perché il tema era fonadamentale per tutti: il luogo in cui si vive.
Da questo lungo percorso, fatto di incontri, camminate di quartiere, pranzi comunitari e focus group di progettazione, sono emerse tre proposte:
costruire una copertura nella piazza, sotto alla quale opsitare varie attività come mercati ed eventi;
costruire un edificio là dove c’era il municipio;
lasciare la piazza vuota.
L’amministrazione si è riunita ed ha espresso lo stesso parere dei cittadini che avevano già votato la loro preferenza: una piazza coperta.
“Ora – ha spiegato Tassinari (Pd) – si tratta di trovare i finanziamenti per realizzare questo progetto originale, innovativo e moderno, che ci permetterà oltre che di rendere più fruibile la piazza, anche di schermare il palazzone sul fondo che non piace a nessuno”.
Il prossimo passo sarà un concorso di idee che nel 2015 chiamerà a raccolta professionisti del settore per proporre ipotesi progettuali per realizzare la piazza coperta. Saranno poi la cittadinanza e l’amministrazione a scegliere la migliore.
Sant’Agostino prova dunque a guardare avanti, dopo aver perso il 30% del proprio patrimonio immobiliare soprattutto a causa del terremoto, come ha riportato Chiara Biagi, architetto di Tecnicoop, società incaricata di redigere il Piano della Ricostruzione. Connesso a questo, ora, un gruppo di architetti e professionisti coordinati da Saveria Teston, sta lavorando anche al Piano Organico che si deve occupare di favorire il ripristino delle condizioni di vita, la ripresa delle attività economiche e la riduzione della vulnerabilità nei Comuni che hanno subito danni a causa del sisma.

LA SEGNALAZIONE
Gino Paoli
canta Piero Ciampi

Pochi giorni fa Gino Paoli ha compiuto 80 anni, la stessa età che avrebbe oggi Piero Ciampi, nato cinque giorni dopo.
“Ha tutte le carte in regola”è l’album tributo che Gino Paoli dedicò, nel 1980, a Piero Ciampi, pochi mesi dopo la sua scomparsa.
Ciampi, livornese, è stato un artista dalla controversa personalità, geniale e maledetto, capace di liriche assolute e di vuoti di vita, ruvido e allo stesso tempo dolce, oltre al suo lirismo e alla fragilità interiore. Le donne sono state importanti nella sua esistenza, anche se ha perso quelle che gli hanno regalato una vita.
Il merito principale di Paoli è stato quello di aver portato Ciampi alla Rca di Melis, che ne percepì l’enorme potenziale, pur essendo consapevole dell’inaffidabilità del personaggio. Andando contro il parere di tutti, lo tenne per lungo tempo in azienda, ammettendo che si trattava di una sua debolezza. Melis credeva che quella “piccola luce”, che lui emanava, fosse importante per tutti gli altri autori, per fare vedere che la canzone non era soltanto svago o competizioni canore, ma poteva entrare in zone di comunicazione più elevate.

Le canzoni di Ciampi sono melodiche, tradizionali e allo stesso tempo innovative, fuori dagli schemi della tipica canzone italiana basata strofa e inciso. Si distinguono per il particolare sarcasmo dei testi, che spiazza chi le ascolta e sorprende chi le comprende. Non manca l’autoironia, la capacità di strappare un sorriso e allo stesso tempo immalinconire. Il tutto è reso “canzone” grazie alle composizioni musicali di Gianni Marchetti e Pino Pavone.
Per realizzare questo lavoro Paoli si affidò a validi strumentisti quali Gianni Guarracino (magistrali i suoi interventi con la chitarra elettrica e quella classica), Antonio Esposito, Fabrizio d’Angelo alle tastiere, Franco del Prete alla batteria, Rosario Iermano alle percussioni, Elio d’Anna sax e Aldo Mercurio basso e chitarra basso.

carte-in-regolaL’album

“Ha tutte le carte in regola” è qui proposta in versione reggae, le parole sono scandite con partecipazione da Paoli, che interpreta il brano con maestria, consapevole che parla di un grande amico e di un artista. La musica è di Gianni Marchetti (scomparso nel 2012), che con lui creò un sodalizio artistico e umano, come pochi nell’ambito della musica italiana. Marchetti era attratto dalle “poesie cantabili” di Ciampi, spesso scritte su tovaglie di carta, e quest’ultimo riusciva a esprimerle al meglio proprio grazie a musiche non convenzionali.

“Don Chisciotte”, scritta con Gianni Marchetti, porta anche la firma di Pino Pavone, autore, amico e collaboratore, che ha vissuto in prima persona il dramma umano e artistico di Ciampi. In questo brano l’artista livornese si confronta con il simbolo del perdente per antonomasia e lo fa con la forza e il vigore delle parole, affrontando i potenti e i prepotenti, armato della sola chitarra, consapevole che può sempre rifugiarsi nel cuore della sua Dulcinea. E guai a chi la tocca!

“Livorno”, scritta interamente da Ciampi, è un capolavoro assoluto, che riassume in poche strofe la profonda disperazione di chi, abbandonato da tutti e da ogni cosa, cammina solo per la sua città in cerca di qualcuno, con la speranza di incontrarlo casualmente dietro ad ogni angolo. Ciampi vive la notte, in un susseguirsi di speranze, che svaniscono con l’apparire di una nave, metafora della morte.

“Tu no” è la canzone dell’amore necessario, del tempo passato e ricordato, dell’amore ricambiato di Gabriella, ma oramai perduto a causa dell’egoismo dell’artista, delle sue distrazioni e del dolore dato. E’ la canzone del lirismo del dolore. In tanti hanno cantato questo brano, e l’hanno fatto anche molto bene, ma rimane ineguagliata l’interpretazione dello stesso Ciampi, eseguita a occhi chiusi e a braccia conserte a “Senza Rete”, la nota trasmissione RAI, nell’estate del 1970.

Piero Ciampi
Piero Ciampi

“Io e te Maria”, canzone scritta da Ciampi e Marchetti, è un soliloquio poetico in forma di serenata, una delle più orecchiabili armonie dei due autori, intercalata da cambi armonici e di tempo. Questo brano non ha nulla di tragico, anche se parla dell’assenza della donna amata, di Maria, che non c’è, ma si immagina che troverà comunque quello che rappresenta: l’amore.

In “Sporca estate” Ciampi canta l’innocenza, confessa la mancanza dei figli e si lascia andare ad alcune amare considerazioni sulla sua vita, dove ha ed è stato “rimorchiato”, sino a essere definitivamente scaricato. Vorrebbe incontrare i suoi figli per portarli a cena sulle stelle, ma loro non ci sono. Un testo lineare reso unico da quell’espressione figurata, che punta verso il cielo.

“Ma che buffa che sei” è una canzone che Ciampi ha dedicato a una donna che ha amato, dove alterna frasi estremamente dure a definizioni altrettanto dolci. In pochi versi sono stravolti concetti e sentimenti, passando dalla deplorevole violenza del pugno dato alla sua donna, al profondo dispiacere per il gesto e infine al sottile compiacimento di essersi sostituito a Dio nel modellarne il naso.

Completano l’album i brani: “Il merlo”, “Il vino”, “Disse non Dio, decido io”.

Gino Paoli
Gino Paoli

Piero Ciampi disse: “Per sapere cos’è la solitudine bisogna essere stati in due, altrimenti bisogna che qualcuno ti racconti cosa sia la solitudine”. Gino Paoli ci racconta la solitudine dell’artista livornese, con un disco tributo di indubbio valore, realizzato con ottimi strumentisti e tanto amore. L’album è disponibile su iTunes.

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L’EVENTO
Dalla parte dell’acqua. Accadueo riapre a Bologna: “Ridurre gli sprechi, ripensare tariffe e incentivi”

Tra pochi giorni inizia H2O a Bologna, un’occasione importante per gli addetti ai lavori e gli esperti del settore dell’acqua. Il qualificato programma di convegni e seminari tecnici di rilievo internazionale sarà uno dei fattori d’eccellenza della rassegna. Ci saranno oltre settanta convegni e circa 400 relatori da tutto il mondo; tutti i più importanti referenti pubblici e privati del settore acqua in Italia e nel mondo. Si terrà dal 22 al 24 ottobre e in concomitanza verranno organizzate altre due importanti manifestazioni: Smart City Exhibition, dedicata alla città e Saie dedicata al mondo delle costruzioni. Si aspettano diecimila visitatori (nella scorsa edizione a Ferrara sono stati circa settemila).
“Il settore dell’acqua continua ad essere di grande interesse industriale e soprattutto di grande importanza ambientale”, dicono i responsabili di BolognaFiere Marino Capelli e Pierfrancesco Pighetti. “Oltre ai temi classici di interesse generale sulla regolazione, sulle innovazioni tecnologiche e sugli aspetti economici finanziari oltreché gestionali, saranno approfonditi tutti i nodi attuali tra cui la attuazione della direttiva quadro sulle acque, il risparmio della risorsa e beni comuni, l’analisi delle acque e la sua qualità, la dinamica degli investimenti e dei finanziamenti, la regolazione tariffaria e molto altro, poi come sempre sono previsti dei focus specifici su protezione sistemi idrici, sul telecontrollo e automazione, sui misuratori di portata, sulle analisi delle reti fognarie, nei gestione sistemi informativi”.

All’interno di H2O vi sarà anche la Conferenza Internazionale Water Ideas 2014. La Conferenza di tre giorni sarà dedicata alla presentazione e alla discussione delle più recenti e innovative strategie, tecniche e applicazioni nella gestione dei sistemi idrici urbani a livello internazionale con particolare attenzione al coinvolgimento della ricerca scientifica, di avanzate esperienze gestionali e dei progetti europei in corso del settore. Vi sono poi i temi che si affronteranno nelle Conferenze CH4 all’interno di Accadueo che avrà innanzitutto come ospite protagonista l’istituzione nazionale di maggior prestigio ed autorevolezza: il Cig (Comitato italiano gas). Così come si affronteranno i temi delle misura, con le applicazioni dei contatori intelligenti e le prospettive di applicazione delle smart grid alle reti di distribuzione del gas. Con le associazioni industriali dei Distributori (Anigas e Federutility) si affronterà l’attualissimo tema del “dialogo” tra le aziende di vendita ed i distributori, con particolare attenzione ai temi dello “switch” e del taglio fornitura per morosità.
Soddisfatto Andrea Cirelli, referente scientifico dell’evento: “Sul tema dell’acqua molte cose sono avvenute sia a livello internazionale e nazionale sia a livello regionale; si tratta di un buon segnale che indica come stia crescendo la sensibilità generale su questo fondamentale tema. La situazione delle infrastrutture idriche e della gestione dell’acqua è fortemente critica; per tentare un superamento della cronica debolezza strutturale sono necessari ingenti investimenti; è opportuno valutare dove e come reperire queste risorse. Serve un approccio moderno e sostenibile al problema della qualità dei corpi recettori, sia in senso generale, sia in funzione della specificità degli usi. Bisogna incentivare la riduzione degli sprechi, migliorare la manutenzione delle reti di adduzione e di distribuzione, ridurre le perdite, favorire il riciclo dell’acqua ed il riutilizzo delle acque reflue depurate. E’ necessario si sviluppi una cultura economica dei servizi pubblici ambientali e una maggiore attenzione sia a livello di costi che soprattutto di prezzi e dunque di tariffe. Il sistema tariffario è uno degli aspetti fondamentali e forse più critici nel sistema di gestione dei servizi ambientali. A me tuttavia piace insistere molto sulla qualità. Un approccio moderno e sostenibile al problema della qualità deve fare riferimento alla qualità dei corpi recettori, sia in senso generale, sia in funzione della specificità degli usi; bisogna incentivare la riduzione degli sprechi, migliorare la manutenzione delle reti di adduzione e di distribuzione, ridurre le perdite, favorire il riciclo dell’acqua ed il riutilizzo delle acque reflue depurate. Bisogna sensibilizzare gli utenti al risparmio nell’utilizzo dell’acqua per uso domestico, ma anche contenere e ridurre lo spreco di acqua – anche potabile – negli usi produttivi e irriguo, in particolare incoraggiare e sostenere “anche con incentivi economici” specifiche ricerche e studi per migliorare l’utilizzo dell’acqua nei processi produttivi. Lo sviluppo di una cultura economica dei servizi pubblici ambientali è il vero tema: serve maggiore attenzione sia a livello di costi che soprattutto di prezzi e dunque di tariffe, ma soprattutto serve percorso di civiltà verso uno sviluppo di una cultura economica dei servizi pubblici locali.”
Per Duccio Campagnoli, presidente di BolognaFiere, lo scenario di riferimento per il settore idrico nei prossimi anni sarà caratterizzato da nuova regolazione tariffaria che impatterà favorevolmente sugli investimenti del settore idrico. Ci dice: “Nei prossimi anni proseguirà l’azione di trasformazione e adeguamento del settore idrico integrato ad opera di Aeegsi, l’Autorità per l’Energia Elettrica e il Gas e il Sistema Idrico, che nel dopo referendum del giugno 2011 è divenuta il soggetto decisionale in materia. Alla luce del nuovo quadro regolatorio, e quindi alla presenza di regole certe e note ex ante, sta dunque emergendo un accresciuto interesse a sostenere gli investimenti previsti nel settore da parte di istituti finanziatori, sia nazionali, sia esteri. Le nuove tariffe approvate dall’Aeegsi consentiranno lo sviluppo di oltre 4,4 miliardi di investimenti nei prossimi 4 anni (pari a 32,5 euro di investimento medio annuo per abitante). Nonostante la forte disparità con gli altri paesi europei (con una media di 80 euro/ab/anno di investimenti) l’Italia riprende un nuovo percorso virtuoso di sviluppo degli investimenti in parte bloccato negli ultimi tre anni.” Un’occasione di informazione e di approfondimento da non perdere.

Comacchio sfida Argenta a Sereno variabile

Le telecamere di “Sereno Variabile” tornano a inquadrare la provincia di Ferrara, a conferma di un connubio ormai consolidato con il nostro territorio che già aveva ospitato la troupe televisiva nel febbraio e nel settembre dello scorso anno.
Domani (18 ottobre) la puntata del celebre e longevo programma di viaggi e turismo di Raidue condotto da Osvaldo Bevilacqua, sarà incentrata sui comuni di Comacchio e Argenta, protagonisti di una singolare sfida in cui dovranno mettere in mostra le proprie eccellenze e proporre il meglio delle rispettive offerte turistiche. Cultura, enogastronomia, tradizioni, eventi, natura, sport: questi e molti altri i temi che verranno trattati. E ogni comune dovrà giocare le proprie carte migliori.
Vista anche la concomitante sagra, Comacchio punterà sulla tradizione gastronomica legata all’anguilla, sulle escursioni a bordo delle tipiche imbarcazioni locali e sulla bellezza dei fenicotteri; di contro Argenta opporrà la bellezza naturalistica delle sue Valli, i suoi Musei (Museo delle Valli, Museo della Bonifica e Museo dell’Oasi di Campotto) e le attività di dog therapy dell’associazione “ChiaraMilla”. Nel corso della puntata Bevilacqua sarà accompagnato da tre persone della zona che seguiranno i set e che daranno la loro amichevole valutazione sulle proposte presentate, decretando così il vincitore della sfida. Fra i personaggi coinvolti anche Carl Willhelm Macke, cronista tedesco innamorato di Ferrara ove ha preso casa e soggiorna qualche mese all’anno, presidente dell’Associazione Giornalisti aiutano giornalisti”collaboratore e corrispondente per Ferraraitalia da Monaco di Baviera. La troupe della Rai già da da qualche giorno è al lavoro per le riprese della puntata, la messa in onda è alle 17,10 di domani su RaiDue.

Medianeras, l’amore ai tempi della crisi

Buenos Aires, 2011, piena crisi economica. In mezzo a tanta folla, c’è chi vive isolato, alienato, solo, perso in un mondo virtuale, quello della rete (una rete in cui ci si può anche perdere), in una città triste perché volta le spalle al suo fiume. Una città alveare, architettonicamente inquietante (parallelismo interessante tra architettura e vita, tra monolocali e amori), infestata dai cavi, da una tecnologia wireless che connette tutti continuamente e ovunque, da linee cellulari che hanno sostituito la complessità della lingua con un linguaggio contratto e primitivo tipico dei telegrafici messaggi sms.

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La locandina del film

Non ci si parla, non ci si comprende, non ci si ascolta, non ci s’incontra se non virtualmente, si è distanti, lontani, se pur materialmente, talvolta, così vicini. Vite isolate come enormi e mastodontici isolati, grigie, tristi, diverse, parallele.
In questo ambiente un po’ desolante, si ritrovano i due protagonisti, Martin (Javier Drolas), fobico web designer che prova a uscire dal suo isolamento voluto, e Mariana (Pilar Lopez De Ayala), appena uscita da una lunga storia d’amore, architetto senza lavoro con una vita totalmente caotica, come l’appartamento in cui si rifugia.
Martin e Mariana vivono in edifici opposti sulla stessa strada, ma non si sono mai incontrati.

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Una scena del film: ci si cerca tra la folla

Percorrono gli stessi luoghi, ma non si sono mai accorti l’uno dell’altra. Malinconici, entrambi attendono di aprire una finestra “illegale” sul lato cieco degli edifici in cui vivono (i medianeras sono queste facciate alle quali sono appesi manifesti pubblicitari bruttini) che gli permetta un nuovo sguardo sul mondo, una nuova prospettiva, un nuovo affaccio, un nuovo respiro. Attendono impazienti quella finestra, quello sguardo che li porti a contatto con chi stanno più o meno consapevolmente cercando.

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Una scena del film: Wally

Mariana cerca il suo Wally, il personaggio dalla maglia a righe che non trova, fin da ragazzina, nel suo fumetto preferito. Allestisce vetrine di negozi con manichini con cui ha un rapporto morboso, è claustrofobica. Martin farfalleggia qua e là, lavora con il suo psichiatra, va a improbabili appuntamenti al buio. Il destino vuole, però, unire questi due animi solitari. Alla fine. Entrambi, insomma, sono single e sociopatici. Tristi come i palazzi della città e la loro medianera, ma fatti per piacersi e stare insieme.
Un poema visivo legato alla relazione tra individui e spazio architettonico, un forte racconto interiore di chi cerca libertà, comprensione e amore, la ricerca di un senso a una vita persa nel cemento e nel metallo. Un film sulla solitudine moderna e la voglia di sopravviverle.

Medianeras di Gustavo Taretto, con Javier Drolas, Pilar López de Ayala, Inés Efron, Rafael Ferro, Germania-Spagna-Argentina, 2014, 95 mn.

L’INTERVISTA
Tassonomia di giovani scrittori in giallo

Incontro Alberto Amorelli e Matteo Bianchi dell’associazione Gruppo Tasso, molto conosciuta nel territorio ferrarese. Ci troviamo in biblioteca Ariostea, loro ‘buen retiro’, per fare quattro chiacchiere.

Il nome, innanzitutto. Tasso è un riferimento preciso alla scelta del poeta in antitesi perenne ad Ariosto; c’entra la sua contemporaneità, il suo essere prototipo del letterato, un innovatore del suo tempo, ben diverso dalla figura di cortigiano?
M. C’entra la volontà di creare qualcosa che avesse come cifra uno dei simboli di Ferrara e che non riprendesse necessariamente il culto di Ludovico Ariosto. Elemento che è stato sfruttato anche nel logo, creato dall’effigie di un tasso con una corona di alloro, quasi a dare un significato di sapienza irriverente, a non prenderci troppo sul serio. In realtà il gruppo è di fatto una associazione di persone con competenze, passioni e interessi affini ma anche molto diversi. Ci siamo quindi trovati con un grado zero di competenze, accomunati da una fortissima spinta aggregativa. La cifra del nostro gruppo è l’eterogeneità, che ne è anche la forza: il risultato è la formazione di un gruppo di autori e poeti che hanno voglia di dire la loro, di confrontarsi e ovviamente in cui ognuno potesse esprimersi.

Di cosa vi occupate all’interno del gruppo?
A. Creiamo eventi di diverso tipo. Uno di questi è GialloFerrara, nata dalla necessità di capire come si potesse dare uno scatto di originalità che connettesse letteratura ed eventi, e creare curiosità intorno alla letteratura che si è svolta lo scorso luglio. E l’occhio è caduto sulla letteratura gialla per diversi motivi: è molto seguita, molto letta, è popolare, va a pesca nella vita di tutti i giorni senza necessariamente fermarsi alla soluzione di un enigma; è una sorta di abito che può veicolare altri concetti. Carlo Lucarelli e Agatha Christie, Hercules Poirot e Sherlock Holmes sono alcune delle nostre fonti di ispirazione creativa.

Come è stato articolato GialloFerrara?
A. Dall’11 al 13 luglio sono state preparate conferenze, improvvisazioni in piazza, piccoli flashmobs che hanno avuto un buon impatto sul pubblico; e poi eventi in Biblioteca Ariostea e presso La Feltrinelli con 16 moderatori d’eccezione che sono rinomati giallisti, tra cui Maurizio De Giovanni, Lorenza Ghinelli, Marcello Simoni. E poi Romano De Marco e Gianluca Morozzi, che torneranno a trovarci l’8 novembre in occasione del bis dell’evento. E per festeggiare il ventennale de La Feltrinelli, con cui abbiamo in programma una collaborazione che durerà tutto il mese di novembre; logistica e nomi sono stati concordati insieme a Erika Cusinatti, direttrice del punto vendita; per il quale ci occuperemo sia della direzione artistica che dell’organizzazione logistica che prende spunto da Rinascimento – nuovo stile di comunicazione, media ed eventi interno dell’associazione, composta da Irene Lodi, Silvia Franzoni, Ciro Patricelli, Annalisa Bertasi e Matteo (Bianchi, n.d.r.); e dall’altro della messa a punto materiale e pratica, della messa in scena che coinvolge la città. Da un punto di vista pubblicitario già nel corso di questa edizione sono stati utilizzati i social, abbiamo creato account Twitter a Instagram per postare aggiornamenti sull’evento, cosa che si ripeterà.

Il giallo quale genere letterario tipicamente si sposa bene con il tema della cucina: il colpevole che viene svelato durante la “tavolata” catartica, penso anche alla tragicomica cena rivelatrice di Rocky Horror Picture Show, in cui tutte le magagne vengono alla luce…
M. Sempre all’interno del grande pentolone di Giallo Ferrara ci sono le cene con delitto, che puntano a un grado zero tra creatore e creazione, tra divertimento e spremitura di meningi. Sono vere e proprie cene la cui trama è rielaborata da Alberto (Amorelli, ndr) in base a materiali interessanti trovati in rete, plot modificati in base a luoghi, persone e fatti desiderati. Ogni tavola è composta di partecipati alla cena e semiprofessionisti nelle vesti di detective, ognuno dei quali doveva dare indizi e spunti, mettere la pulce nell’orecchio, dare una precisa direzione, coinvolgendo i partecipanti anche attraverso rappresentazioni estemporanee. E ognuno di loro indossava qualcosa di giallo: un foulard, una maglietta… gli ingredienti di fondo erano l’atmosfera spiritosa e il brano da amalgamare, letteralmente, cercando la soluzione del mistero e trovando il colpevole.

Abbiamo spaziato tra Tasso, Ariosto e giallisti italiani contemporanei. Qualche altro nome che sarà protagonista di un vostro prossimo progetto?
M. Corrado Govoni, di cui ricorrerà il cinquantesimo anniversario di morte il 24 giugno 2015. In quel giorno è già programmato, in Sala Agnelli presso la Biblioteca Ariostea, un convegno di studi govoniani, e in cui sarà presentata la pubblicazione di Angelo Andreotti e Matteo Bianchi dal titolo “Govoniano. Annuario di poesia comparata e critica letteraria”, Edizioni L’Arcolaio; questa parte propedeutica si concluderà con un reading teatralizzato che si svolgerà a Tamara, paese natale del poeta. Nel mese di maggio poi sono previste lezioni sulla poetica govoniana a due voci, con Alberto (Amorelli, ndr).

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I giovani scrittori del Gruppo del Tasso

La poesia è un’altra costante che ritorna, insieme al giallo, all’interno del Tasso…
A. Per un altro nostro progetto, intitolato 24 ore della poesia, che abbiamo proposto a marzo 2013, ci siamo ispirati al popolarissimo programma di cucina Master Chef per titolare il vincitore di una gara di improvvisazione poetica, un contest a tema: il Master Poet. Quindi come vedi il tema della popolarità ritorna! Durante tutta la giornata di venerdì e sabato poi chiunque poteva proporre ad alta voce stralci delle poesie preferite, in qualunque lingua. L’aspetto musicale è affascinante e delicato, è quel collegamento tra poesia ed evocazione. Ognuno ha potuto esprimere liberamente se stesso, e nel farlo ha reso pubblica una sua passione letteraria condividendola con altre persone. Sempre in Ariostea poi nel corso del 2012 era di scena la rassegna di poesia contemporanea In gran segreto.

Una idea che avete in mente e che vorreste realizzare.
M. Il 2016 sarà il cinquecentenario della prima edizione dell’Orlando Furioso.
Sarebbe fantastico calare tutta la città in una atmosfera d’altri tempi. Nel Rinascimento, magari, epoca grande in cui esplode la bellezza estense, usufruendo, questo è il sogno, del patrimonio culturale che è rimasto: costumi, musica, storia, immaginario. Mi piace pensare a scenari onirici, momenti tra rievocazione e messa in scena della vita dell’Ariosto e scene tratte dalle sue opere… che so, Astolfo che se ne va in sella al suo cavallo, diretto verso una luna di carta. Oppure, nella contrada di San Giovanni, di trampolieri con maschere di fiamme in pelle che vagano per le strade…
A. Piuttosto che mettere gente in costume davanti alle vetrine, vestire le vetrine stesse per calare nell’epoca. In fondo è già stato fatto una volta: durante la Giostra del Monaco, manifestazione della contrada di San Giacomo, sono state battute le monete del Duca. Questo non è che un piccolo esempio delle potenzialità che potrebbero definire una manifestazione e realizzare quello che abbiamo in mente. Creare, riprendendo il titolo di uno dei miei libri preferiti una vera e propria festa mobile.

LA STORIA
Gli scatti di vita della fotografa errante che amava Kapuściński

“È importante che tu mantenga la capacità di esperire, che ci siano cose che ti stupiscano, che ti possano scuotere. È importante che non ti colga la terribile malattia dell’indifferenza”. Nel libro di Ryszard Kapuściński “Il mondo in un taccuino”, così traboccante di sagge meditazioni, di osservazioni precise e di autocritiche annotazioni di diario, ho trovato questo imperativo di vita, che per i giornalisti dovrebbe addirittura essere qualcosa come il primo comandamento del loro mestiere.

Se si vuole presentare la fotografa e scrittrice ‘nomade’ Monika Bulaj, non può mancare il nome di questo grande reporter internazionale polacco deceduto due anni fa. Lei stessa lo cita sovente e, se si scorrono le sue immagini, si avverte in continuazione quanto lei sia stata segnata dalla visione del mondo e dall’ethos professionale del suo connazionale polacco. Ma Kapuściński non è sicuramente l’unico maestro o l’unico modello di Monika Bulaj. Altri nomi devono essere citati. Tra i fotografi, il brasiliano Sebastiano Salgado, l’italiano Luigi Ghirri e specialmente la spagnola Cristina Garcia Rodero, ma forse anche registi come Andrej Tarkovskij e Theo Angelopoulos.
Modelli per il suo stile di scrittura sono tra gli altri, lo scrittore svizzero Nicolas Bouvier con le sue leggendarie annotazioni su un viaggio in Afghanistan e Iran (“L’esperienza del mondo”), Zbigniew Herbert, uno dei più grandi scrittori di viaggio del XX secolo, e Paolo Rumiz del quotidiano italiano La Repubblica, insieme con il quale Monika Bulaj ha intrapreso anche alcuni grandi viaggi attraverso l’Europa e fino a Gerusalemme. Due libri sono qui da segnalare: “Gerusalemme perduta” e il libro sull’Italia di Rumiz, mai abbastanza lodato, “La leggenda dei monti naviganti”, ai quali Monika Bulaj ha collaborato come fotografa. Ed è un caso che leggendo i suoi libri e osservando le sue immagini mi venga sempre in mente anche il nome di Joseph Roth, il grande ebreo in cammino lungo i confini di questo “angolo d’Europa maltrattato e disdegnato”, come egli scrive nelle sue annotazioni di un viaggio attraverso la Galizia.
Kapuściński però gioca forse un ruolo del tutto particolare, semplicemente perché egli, per la prima volta durante gli anni del comunismo, con i suoi straordinari reportage dall’Africa e dal Medio Oriente, ha aperto a Monika Bulaj, come a molti altri polacchi, una finestra sul mondo.
Anche lui aveva questa indomabile curiosità verso il mondo e verso gli uomini sconosciuti e verso le loro religioni, i riti, le feste e le danze. Effettivamente contro “la terribile malattia dell’indifferenza” da lui deplorata, Monika Bulaj appare essere altrettanto invidiabilmente immune come contro la caccia allo scoop, all’effetto, allo scandalo, che è così distruttiva nella nostra cultura del percepire. Da Kapuściński ella ha preso forse anche quell’umiltà discreta e il rispetto per l’altro, senza i quali non si potrebbe mai conquistare la fiducia degli uomini di cui si scrive o ai quali, come nel suo caso, si vorrebbe talvolta arrivare molto vicino con la macchina fotografica. E’ molto importante per comprendere il suo lavoro, come una volta lei stessa ha dichiarato in una conversazione, che tanto in qualità di fotografo quanto di ‘travel writer’ si gioisca del proprio lavoro e dell’incontro con lo straniero e con l’altro. Di nuovo anche qui emerge la vicinanza a Ryszard Kapuściński, che in uno dei suoi ultimi discorsi ha definito l’incontro con l’altro come una “delle più grandi sfide del XXI secolo”.

Monika Bulaj è nata a Varsavia, andava a scuola quando ancora c’era il comunismo, ma ha concluso a Varsavia i suoi studi universitari in storia, antropologia e filosofia quando già il muro di Berlino era caduto. “Avevo alle mie spalle la grande cultura polacca”, ha detto una volta in un colloquio, “ma intorno a me c’era anche il grande vuoto del presente comunista”.

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Un pastore nomade Sheva

Il fatto che fotografie con motivi provenienti dal mondo ebraico e anche dalla cultura dei Rom e dei Sinti, completamente spinti al margine dell’Europa, giochino un ruolo così importante nel lavoro di Monika Bulaj, lo si deve anche alla sua origine polacca o, per esprimersi in maniera un po’ più generale, alla sua provenienza dall’Europa orientale. Da bambina, e poi più tardi negli anni della formazione scolastica e universitaria, ha conosciuto il forte antisemitismo polacco, quello comunista così come quello di alcune parti della Chiesa cattolica. La sua particolare curiosità per una cultura che i nazisti volevano estirpare e che negli anni comunisti della Polonia è stata rimossa, spesso anche apertamente combattuta, ha forti radici biografiche, da lei apertamente rivelate in un suo racconto sulla casa della nonna. E oggi è il razzismo contro i Rom, che va diffondendosi in quasi tutti i Paesi dell’Europa orientale, ma anche occidentale, che l’ha motivata a svolgere le sue ricerche fotografiche negli accampamenti Rom della Slovenia, della Slovacchia o in Italia.

Dal 1993 vive in Italia, prima a Bergamo, ora a Trieste. I suoi primi viaggi fotografici, sempre connessi con forti interessi antropologici, risalgono alla metà degli anni Ottanta. Per il suo progetto “Genti di Dio” è stata in viaggio vent’anni e se si osservano le sue foto, si intuisce a quali disagi, ma anche a quali gioie, queste escursioni in villaggi e comunità, spesso situati ben lontano delle principali vie di comunicazione, siano legate. Nel testo d’introduzione al libro Monika Bulaj, facendo una sintesi dei suoi molti viaggi, scrive: “A piedi, in bicicletta, su slitte, trattori, barconi, ho imparato a indagare i limiti dei mondi di fede, a rallegrarmi quando arrivo tra persone nuove e, contemporaneamente, a essere impaziente di parlare con i vecchi prima che scompaiano, insieme ai loro ricordi”.
E’ così, si deve essere entrambe le cose, paziente e impaziente, se ogni volta nuovamente ci si mette in cammino, come fa Monika Bulaj, verso i confini dell’Europa o verso i luoghi dimenticati degli altri continenti, alla ricerca delle “antiche religioni che stanno per sfaldarsi”, come scrisse Benjamin, e degli uomini che in esse cercano ancora un sostegno, e forse anche lo trovano. Pazienza e impazienza, un soffermarsi meditativo e talvolta anche un ritmo rapidissimo mi sembrano essere caratteri tipici dei suoi lavori. Alcuni scatti sono ad esempio focalizzati in modo molto nitido su persone anziane, sui cui volti si possono leggere innumerevoli storie provenienti da una vita lunga, faticosa, vissuta da qualche parte ai confini dimenticati dell’Europa. Se il fotografare, come ha scritto lo scrittore inglese John Berger, è un altro modo di raccontare, allora qui siamo circondati non solo da immagini ma da innumerevoli racconti.

Nel mio primo incontro con Monika Bulaj, lei portò una lista di Paesi nei quali aveva fotografato negli ultimi anni: Bielorussia, Albania, Ucraina, Polonia, Slovacchia, Romania, Bulgaria, Serbia, Macedonia, Turchia, Grecia, Siria, Etiopia, Israele, Italia, Azerbaigian, Libia, Marocco e Iran. Un panorama di Paesi che in un primo momento mi ha lasciato, come mitteleuropeo conservator-stazionario, semplicemente senza parole. E poi mi mostrò, per ciascuno dei Paesi nominati, una quantità enorme di fotografie, la cui mole è impressionante tanto quanto la qualità, la scelta dei motivi o, se si vuole, il messaggio. Ma non è importante far notare qui la quantità del lavoro di Monika Bulaj.
Molto più significativo e decisivo per la comprensione delle immagini è mettere in risalto l’irrinunciabile credo che guida il suo nomadismo fotografico. Una volta in una conversazione ha descritto così la sua comprensione del lavoro da fotografa: “A me piacciono le situazioni nuove. A tutti posso sempre consigliare il massimo dell’attenzione, il massimo rispetto, la massima umiltà e gioia. In questo modo la fotografia può diventare anche un’esperienza spirituale. Essere una brava fotografa non dipende dall’attrezzatura tecnica che uno si trascina dietro nelle proprie ricerche. Ben più importante è lo sguardo, una grande pazienza ma poi anche un agire estremamente veloce”.

L’enumerazione di Paesi e regioni che negli anni passati Monika Bulaj ha visitato e in cui ha scattato le sue foto, mostra già quanto poco stanziale sia, benché già da alcuni anni viva in Italia. Monika è un po’ polacca, un po’ italiana, europea? Forse di più, è una ‘nomade’. “I Polacchi”, ha scritto una volta Zbiegnew Herbert, sono fondamentalmente “un popolo veramente dinamico e proprio dalla loro storia esageratamente incitati al nomadismo”. In questo senso, se allora proprio si vuole, si può forse dare a Monika Bulaj l’etichetta di una “polacca nomade”, ma soprattutto una nomade che attraversa confini non solo geografici, con macchina fotografica e taccuino.

Traduzione dal tedesco di Elena Alessiato

Meno tumori tra vegetariani e vegani? Forse…

Lo scopo di questo articolo è che ci sia una reale informazione sulla qualità dei cibi e sulla consapevolezza di ciò che mangiamo, poi ognuno è libero di vivere la propria vita.

Comincio con un breve racconto: l’ingegnere francese André Simoneton, gravemente ammalato e senza speranza di guarigione, riacquistò la salute con il vegetarismo. Era un esperto in elettromagnetismo, e negli anni ’30 e ’40 collaborò allo studio della vibrazione degli alimenti utilizzando i lavori di altri importanti ricercatori. Ogni alimento, come ogni essere vivente, oltre ad avere un potere calorico (chimico-energetico) ha anche un potere elettromagnetico (vibrazionale). Servendosi di apparecchiature scientifiche, misurò la quantità di onde elettromagnetiche degli alimenti, classificandoli in base a queste (A. Simoneton, “Radiations des aliments”).

La composizione degli alimenti

LE CELLULE
Le cellule sono l’elemento fondamentale di cui sono composti tutti i tessuti di un organismo, sia esso umano, animale o vegetale. E’ una singola unità di materiale vivente capace di autoriprodursi. Una cellula assomiglia ad un uovo e si compone di: nucleo, la parte centrale adibita alla riproduzione e all’accrescimento della cellula; citoplasma, elemento che consente alla cellula di contattare ed interagire con l’ambiente esterno, è infatti in grado di irritarsi, contrarsi, assorbire, espellere e respirare. Nel citoplasma si trovano corpuscoli di varia forma e volume che fanno parte del sistema vivente della cellula (mitocondri, ecc.).

ACIDO/BASICO – IL COMPROMESSO VITALE
Tutte le reazioni che definiscono le condizioni essenziali di un ambiente in cui la vita sia possibile, si svolgono nell’ambito di determinati valori, tra questi il più importante è il rapporto acido/basico. All’interno del nostro organismo questo rapporto dovrebbe sempre rimanere costante, si possono però creare delle condizioni troppo acide (per eccesso di potassio) oppure troppo basiche (per eccesso di sodio).
Per misurare il rapporto acido/basico viene utilizzato un termine di paragone chiamato pH. Nel campo medico, il pH viene utilizzato per misurare i liquidi organici ed in particolare il sangue, la saliva e l’urina. Questi liquidi vengono definiti:
– ACIDI, quando il pH è compreso tra 0 e 7,06;
– NEUTRI, quando il pH è uguale a 7,07;
– BASICI o ALCALINI, quando il pH è compreso tra 7,08 e 14,14.

CONOSCERE LE CALORIE, COSA SONO E COME SI MISURANO
La dietologia ufficiale insegna che quando un cibo viene ingerito, viene dapprima triturato nella bocca, poi scomposto nei suoi elementi fondamentali e quindi assorbito dall’organismo. A questo punto subisce, ad opera dell’ossigeno, un’ulteriore trasformazione chimica (ossidazione) che produce calore, come se l’organismo ‘bruciasse’ in tanti piccoli fuochi i prodotti ingeriti.
Il calore (energia termica o calorie), che un alimento è in grado di produrre, può essere misurato con una speciale apparecchiatura di laboratorio. Tale misura viene espressa in calorie (unità di energia termica). Una caloria corrisponde alla quantità di calore capace di far aumentare di 1° C la temperatura di 1 litro d’acqua.
Le calorie fornite dai principi nutritivi sono le seguenti:
1 grammo di proteine produce circa 4,5 calorie,
1 grammo di grassi produce circa 9 calorie,
1 grammo di carboidrati produce circa 3,75 calorie,
1 grammo di alcool etilico produce circa 7 calorie.

Ma il concetto di caloria è incompleto ed ingannevole. Sappiamo che la dieta ufficiale ci dice quante calorie vengono fornite da un certo alimento ma NON ci informa affatto di quante calorie il corpo deve consumare per poterlo digerire, assimilare e liberarsi dalle tossine derivate da tali processi. Pertanto il concetto di caloria è incompleto e molto ingannevole. Un pezzo di carne, ad esempio, che teoricamente fornisce circa 4,5 calorie al grammo, ne consuma probabilmente altrettante nelle tre ore necessarie per la sua digestione ed assimilazione. Questo spiega perché alcune diete si basano sulla carne per far dimagrire.
Il dr. G. Wilson (“A new slant to diet”), ha verificato che un alimento introdotto nel corpo umano, si trova in un ambiente assai diverso da quello in cui viene bruciato per valutarne le calorie. Questa verifica è stato fatta misurando il flusso di energia nervosa nel corpo, prima e dopo pasti composti di vari tipi di alimenti.
Si è così riscontrato che certi alimenti costringono il corpo ad un grande dispendio di energia per poterli utilizzare. Questa manifestazione energetica ha portato a credere che gli alimenti in oggetto accrescano l’energia corporea, mentre è vero il contrario: terminati i processi digestivi ed assimilativi, il corpo si ritrova con le riserve energetiche diminuite.

Il rapporto tra alimentazione e tumori
E’ un diffuso luogo comune: mangiare più frutta e verdura fa bene alla salute. Ora, una vasta ricerca rivela che non solo ciò è vero, ma che chi fa una dieta vegetariana ha anche meno probabilità di ammalarsi di cancro rispetto a chi fa una dieta a base di carne. Non è la prima volta che un’affermazione di questo genere proviene dalla comunità scientifica internazionale: la novità, tuttavia, è che non c’era mai stato uno studio così ampio e prolungato nel tempo sulla questione. I risultati sono impressionanti: i vegetariani hanno il 45 per cento di probabilità in meno di ammalarsi di cancro del sangue e un 12 per cento in meno di ammalarsi di qualsiasi tipo di cancro, rispetto a coloro che fanno una dieta carnivora.

Pubblicato sul British Journal of Cancer e ripreso oggi con grande rilievo dalla stampa nazionale britannica, lo studio ha seguito lo stato di salute di 61 mila persone nel corso di 12 anni. “Ricerche precedenti avevano indicato che la carne può aumentare il rischio di cancro all’intestino, cosicché i nostri risultati sono apparsi plausibili da questo punto di vista”, dice al quotidiano Guardian di Londra la dottoressa Naomi Allen, ricercatrice del Cancer Research della Oxford University e co-autrice del rapporto. “Ma non sappiamo perché il cancro del sangue ha un’incidenza più bassa nei vegetariani”. La differenza, un 45 per cento di probabilità di ammalarsi in meno, è enorme, e riguarda sia la leucemia che altri tipi di cancro del sangue. Non solo, ma chi si nutre di verdura, frutta e pesce, evitando la carne, ha anche il 12 per cento di rischio in meno di ammalarsi di qualsiasi altro tipo di tumore, afferma la ricerca.

“Sono dati significativi”, osserva la dottoressa Allen, “anche se vanno presi con un po’ di cautela poiché si tratta del primo ampio studio di questo genere in materia. Abbiamo bisogno di farne altri e di saperne di più. Per esempio dobbiamo scoprire quale aspetto di una dieta a base di verdura, frutta e pesce protegge dal cancro. E dobbiamo stabilire quanto influisce positivamente una dieta vegetariana, così come quanto influisce negativamente una a base di carne”. Lo studio fa parte di un progetto internazionale a lungo termine chiamato “European prospective investigation into cancer and nutrition”, che andrà avanti, ad Oxford e in altri centri di ricerca sul cancro.

Altri studi hanno comunque già dimostrato che mangiare carne, o perlomeno mangiarne troppa, può essere nocivo. Non solo per la salute degli umani, tanto per cominciare, ma pure per quella del pianeta: l’anno scorso un rapporto della Commissione dell’Onu sul Cambiamento climatico ha esortato a rinunciare alla carne almeno una volta alla settimana poiché la produzione di carne, ovvero gli allevamenti di bovini, produce da sola un quinto delle emissioni di gas nocivi. Un rapporto della World cancer research fund, due anni or sono, ha raccomandato di non mangiare più di 300 grammi di carne alla settimana a causa del rapporto tra una dieta altamente carnivora e il cancro all’intestino. E nel 2005 uno studio finanziato dal Medical research council britannico e dalla International agency for research on cancer, ha riscontrato che mangiare due porzioni di carne al giorno, l’equivalente di un panino con la pancetta e di una bistecca, aumenta del 35 per cento il rischio di cancro all’intestino.
Il problema non si limita al consumo di carne per quanto riguarda il maltrattamento degli animali, ma comprende anche la produzione di latte e uova a livello industriale. Ad esempio, i metodi usati per far produrre più latte alle mucche o le condizioni in cui sono costrette a sopravvivere le galline ovaiole, considerate vere e proprie macchine da produzione e non esseri viventi, e di come venga tagliato il becco ai pulcini per evitare che crescendo si feriscano tra loro, visto gli stretti spazi in cui sono ammassati.
Certo, è sbagliato fare crociate contro chi non vuole passare ad essere vegetariano o vegano, non deve per questo essere condannato, si rischia di entrare nell’estremismo: ho letto commenti di vegani convinti che tanto sbandieravano l’amore per gli animali, scagliarsi con rabbia e odio verso chi non lo è. Le abitudine alimentari rientrano in un più vasto quadro culturale, e per questo motivo sono difficili da modificare.

Consigli per una sana alimentazione
Il passo migliore credo sia quello di orientarsi sempre di più verso l’acquisto di prodotti biologici, ottenuti con il rispetto verso l’ambiente e gli animali. E confermo anche che la cucina vegana è molto più varia della tradizionale, vengono utilizzati cereali, legumi ed altri prodotti di cui la maggior parte delle persone non conosce nemmeno l’esistenza (qui una lettura consigliata, A. Taum, G.P. Vanoli, “Guida alla salute naturale”).
Ogni alimento ha delle proprietà nutrizionali buone ma anche delle controindicazioni. Ogni alimento, mangiato in eccesso, causa problemi a non finire: dalle intolleranze, alle allergie, ai malori di stomaco, alle tossine. E questo vale per ogni alimento, verdura, frutta, carne, formaggi e così via.

LA RICORRENZA
Uniti per sradicare la povertà. In Italia è un problema per 16 milioni di persone

Domani (17 ottobre) sarà la Giornata internazionale per lo sradicamento della povertà così proclamata dall’Assemblea generale delle Nazioni unite nel 1992, dopo che, il 17 ottobre 1987, più di centomila persone si erano riunite al Trocadéro di Parigi (dove era stata firmata la Dichiarazione universale dei diritti umani, nel 1948), per ricordare le vittime della povertà estrema, della violenza e della fame. Da allora, e quindi da oltre vent’anni, si celebra ogni anno.

La povertà è stata definita come “una condizione umana caratterizzata da prolungata o cronica privazione delle risorse, delle capacità, delle alternative, della sicurezza e della necessaria possibilità di godere di adeguati livelli di stile di vita e di altri diritti civili, culturali, economici politici e sociali” (United nations committee on social, economic and cultural rights, 2001). Durante questa giornata, s’intende quindi promuovere la consapevolezza della necessità di sradicare la povertà e la miseria – terribili e inaccettabili piaghe – in tutti i Paesi del mondo, in particolare in quelli via di sviluppo, il primo degli Obiettivi del millennio, da raggiungere entro il 2015. Per fare questo, bisogna concentrarsi seriamente sulla condizione dei bambini (e delle famiglie che vivono in povertà) e sul bisogno di realizzare i loro diritti alla sopravvivenza, alla salute e all’educazione, a un ambiente protettivo che li tuteli da sfruttamento e abusi.
In questo giorno vanno ascoltati tutti, bambini, giovani, genitori e persone che lavorano con loro per capire cosa fare realmente poter fare per sradicare la povertà e l’esclusione.
Secondo le ultime stime Istat, in Italia, nel 2013, il 12,6% delle famiglie è in condizione di povertà relativa (per un totale di 3 milioni 230 mila) e il 7,9% lo è in termini assoluti (2 milioni 28 mila). Le persone in povertà relativa sono il 16,6% della popolazione (10 milioni 48 mila persone), quelle in povertà assoluta il 9,9% (6 milioni 20 mila).
Questa parola ‘povertà’’ ci sembra d’altri tempi, parte di un vocabolario vecchio e obsoleto, legata a un documentario o a un film in bianco e nero, quando l’Italia usciva dalla guerra o quando i migranti salivano sulle navi per cercare fortuna lontano.
Eppure, oggi, anche in Italia si può essere poveri con un telefonino in tasca, con un bel televisore o un super tecnologico computer sulla libreria di casa. Basta non avere abbastanza per provvedere autonomamente a sé e alla propria famiglia. E questo è spesso il caso, anche nel nostro bel Paese. La nozione di povertà sicuramente varia, per definizione e percezione, e alcuni possono pensare che quella di un italiano non sia comparabile a quella di un abitante di un paese in via di viluppo. Ma, se non si ha una vita dignitosa, il concetto è, alla fine, esattamente lo stesso. La miseria di un Terzo mondo che compromette la sopravvivenza non cambia la sostanza del problema di coloro che vivono in povertà nei paesi più industrializzati, non così poveri da non potere soddisfare i bisogni primari, ma costretti, comunque a vivere di stenti e umiliazioni. A questi si aggiungono i barboni, i senzatetto, i disoccupati cronici, gli immigrati non integrati. Massimo Livi Bacci, Professore di Demografia presso l’Università di Firenze, scrive che “il grado di civiltà della società si misura anche dalla capacità di distribuire la ricchezza e di attenuare gli effetti negativi delle disuguaglianze”.
Non possiamo che essere d’accordo. Il 17 ottobre, dunque, riflettiamo anche su questo.

LA RIFLESSIONE
Il pollo di Trilussa e altri complotti

Credo di non sbagliare se affermo che le nozioni di statistica in possesso della stragrande maggioranza degli italiani non vadano oltre l’acuta osservazione del grande poeta romanesco: se tu mangi un pollo ed io no, in termini statistici possiamo affermare che abbiamo mangiato mezzo pollo a testa, anche se a me, per esempio, il pollo non piace proprio. Detta così è la sacrosanta denuncia di un imbroglio, spesso tentato per turlupinare chi ha di meno e convincerlo di essere parte di un mondo di cui invece al massimo può percepire solo vaghi e distanti bagliori. D’altra parte la media aritmetica (tanti polli diviso tante persone) è il solo modo, necessariamente approssimativo, per esprimere con un unico numero la sintesi di una realtà molto più complessa. Se devo stabilire se in Italia si consumino più o meno polli pro capite che in Germania il consumo medio è probabilmente lo strumento più adeguato. Il problema quindi non è il numero, ma l’uso che se ne fa.
Per avere un’immagine più completa e realistica ho però bisogno di possedere altre informazioni. Se associo al consumo di polli il reddito delle persone, svelo immediatamente ogni possibile imbroglio, perché risulterà chiaro che il consumo è funzione della condizione economica; solo che al posto di un unico numero ne avrò una serie di lunghezza uguale al numero di classi di reddito considerate. Volendo poi tenere conto di un altro fattore, per capire ad esempio nelle diverse fasce di reddito come varia il consumo con al variare dell’età delle persone, il numero di dati che devo calcolare aumenta. Non basta più un elenco di numeri, ma serve una tabella, ad esempio con le classi di reddito sulle righe e quelle di età sulle colonne, che contiene N X M valori (dove N indica il numero delle classi di reddito e M quello delle classi di età. Volessi aggiungere un altro parametro, ad esempio il sesso, avrei bisogno di un’ulteriore dimensione, ottenendo così una specie di cubo e così via. Superate le tre dimensioni gli esempi geometrici risultano ostici, ma si può andare avanti a piacimento.
In sostanza, più la mia conoscenza della realtà vuole essere precisa, tanto più grande è il numero di dati che mi occorrono per rappresentarla. Non c’è niente da fare. Si consiglia pertanto di diffidare a priori di chiunque cerchi di convincerci di qualsiasi cosa relativa a fenomeni di un certa complessità esclusivamente esibendo quattro numeri.
C’è poi un altro problema, sul quale nemmeno Trilussa ci può aiutare: come si fa infatti a procurarsi tutti i dati che servono? Per alcuni, tipo quelli anagrafici ed economici, è relativamente semplice perché esistono organismi pubblici, nazionali ed europei come ad esempio l’Istat o Eurostat, che hanno il compito di calcolarli con una certa periodicità. La loro natura pubblica rappresenta, fino a prova contraria, un indice di affidabilità in quanto ad accuratezza ed assenza di forzature. Occorrerà semmai approfondire bene il significato preciso di ciascun dato, che spesso è riconducibile a definizioni standard a volte di difficile comprensione per i non specialisti. Il rischio altrimenti è quello di usare dei numeri corretti che però descrivono un fenomeno in parte diverso da quello a cui si è interessati. Volendo essere pignoli, ma a volte è necessario, bisognerebbe sempre cercare di capire con quali metodologie sono stati calcolati e partendo da quali fonti primarie.
Se le informazioni che servono non sono state calcolate da nessun ente affidabile bisogna procurarsele in qualche altro modo. Il metodo più semplice è quello di chiedere l’informazione desiderata a tutti diretti interessati; portando così a termine un’indagine di tipo esaustivo. La cosa, come si può ben immaginare, funziona solo se il numero di persone coinvolte è piccolo e se il richiedente ha, per qualsiasi motivo, buone probabilità di ricevere una risposta. In tutti gli altri casi questo metodo risulta impraticabile.
Esistono a tale proposito due tipi di approcci, il primo prevede l’utilizzo di metodi a campione e l’altro, disponibile solo da pochissimo, consente di ricavare le informazioni desiderate, rigorosamente in forma anonima, dai dati raccolti per altri scopi da soggetti quali, ad esempio, gli operatori telefonici, i gestori di catene della grande distribuzione, le aziende ferroviarie, le compagnie aeree, ecc. Lavorando su grandi moli di dati è a volte possibile ricavare alcune informazioni, che pure non sono direttamente disponibili, in via totalmente induttiva, associandole alla presenza di marcatori caratteristici che sono invece noti. Ovviamente in questo caso la qualità dei dati ottenuti è intrinsecamente più bassa di quella che si avrebbe con una misura diretta. Questi metodi, per poter essere utilizzati in modo lecito, devono lavorare su dati che non siano riconducibili a persone fisiche identificabili: il garante della privacy ha il compito di vigilare su questo delicatissimo aspetto.
Sui campioni ci sarebbe tantissimo da dire. Basti solo osservare che la definizione stessa di campione è al limite contraddittoria. Un campione è infatti “buono” se è rappresentativo di una determinata realtà e consente perciò di misurarne indirettamente qualche caratteristica sconosciuta. E’ evidente che questa rappresentatività non può essere direttamente verificata a priori: se lo fosse conoscerei infatti anche la caratteristica che mi interessa. A definire campioni che siano ragionevolmente utilizzabili si arriva perciò attraverso qualche calcolo statistico che aiuta a capirne la dimensione minima e, soprattutto, molta esperienza specifica. Naturalmente, dato che la bontà effettiva di un campione, che vuol dire in pratica verificare che la caratteristica che mi interessa misurare sia legata nel modo ipotizzato alle altre note che sono state utilizzate per la sua composizione, può essere accertata solo a posteriori, spesso capita che in presenza di importanti cambiamenti di ordine sociale, fatti eclatanti che abbiano inciso sulle convinzioni consolidate delle persone, ecc., le regole fin lì utilizzate per il suo confezionamento risultino essere sbagliate. Il tormentone di ogni elezione fra previsioni, exit poll e proiezioni ne è la prova inconfutabile.
Anche qui, di conseguenza, meglio diffidare di chi si presenta armato da sfilze di cifre sostenute da pochi e confusi (o troppo semplificati) ragionamenti. I dati sono utili solo se si possiede una sufficiente conoscenza di un argomento, che consenta di comprenderne il significato.
Al termine di questo elenco di considerazioni senz’altro banali per molti un piccolo aneddoto. L’altro giorno, 13 ottobre 2014, due dei quattro computer fissi che ho a casa hanno smesso di funzionare quasi in contemporanea: uno si è bloccato, senza volerne sapere di ripartire, l’altro rifiutava di accendersi, nonostante funzionasse benissimo fino a qualche giorno prima. La probabilità di un evento del genere, uguale al prodotto delle probabilità di guasto di ogni singolo computer (diciamo una volta ogni 2 anni), è talmente bassa da far pensare ad un’azione intenzionale da parte di qualcuno che mi vuole male (cioè ad un complotto), agli effetti collaterali dell’attività di un potere forte che se ne frega dei danni provocati (una sovratensione nella rete elettrica Enel) o ad un segnale sovrannaturale (l’effetto di un fulmine, di quelli con l’indirizzo del destinatario). Dopo le opportune verifiche e riparazioni è risultato che non si trattava di nulla di tutto questo: due banalissimi guasti fra loro del tutto indipendenti. Come a dire: non è vero che a pensar male si indovina sempre. E’ solo una questione di probabilità.

LA STORIA
Il magazzino della memoria

“Siamo partiti in un giorno di pioggia, cacciati via dalla nostra terra, che un tempo si chiamava Italia e uscì sconfitta dalla guerra, hanno scambiato le nostre radici, con un futuro di scarpe strette e mi ricordo faceva freddo, l’inverno del ’47 “. Queste sono le prime strofe del brano “Magazzino 18” di Simone Cristicchi, che dà il titolo anche allo spettacolo teatrale attualmente in scena nei teatri Italiani e istriani.

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Le tappe del tour che terminerà nell’aprile 2015

Il 4 ottobre il musical-civile scritto da Simone Cristicchi e da Jan Bernas, con la direzione del Maestro Valter Savilotti della Fvg Mitteleuropa orchestra e la regia di Antonio Calenda, ha iniziato la sua seconda stagione, che terminerà ad aprile 2015 al Teatro Biondo di Palermo. In Emilia Romagna lo spettacolo sarà rappresentato il 14 novembre al Teatro Masini di Faenza, il 15 novembre a Bellaria (RN) al Teatro Astra, il 16 novembre al Teatro della Rocca a Novellara (RE), il 6 febbraio a Cento (FE) all’Auditorium C. Govoni e dal 19 al 22 marzo all’Arena del Sole di Bologna. Dato il successo, vengono aggiunte continuamente nuove date.

Il musical, così come la canzone, trae spunto da quello che è diventato un luogo simbolo di quell’esodo: il magazzino numero 18 del Porto Vecchio di Trieste, dove furono stoccate le masserizie dagli esuli, che abbandonarono le terre cedute nel 1947. Questo luogo diventò così un enorme catasta di masserizie, con una miriade di oggetti suddivisi per tipologia, classificati con nomi e numeri, che testimoniano ancora oggi la tragedia di un popolo sradicato dalla propria terra. Tavoli, sedie, armadi, specchiere, cassapanche, attrezzi da lavoro, ritratti, giochi, fotografie in bianco e nero, quaderni e libri di scuola, oramai sono dimenticati e pieni di polvere.
Furono circa 250.000 le persone che dopo la firma del trattato di pace di Parigi del 1947 e il memorandum di Londra del 1954, abbandonarono tutti i loro beni e imballarono le poche cose, che riuscirono a portare via, preferendo andare verso l’Italia.

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L’esterno del magazzino 18 a Trieste

La struggente canzone di Simone Cristicchi tocca corde molto sensibili per chi ha vissuto questo dramma. Bisogna inoltre riconoscergli il merito di essere riuscito a coinvolgere l’opinione pubblica. Il testo della canzone, apparentemente semplice nella sua espressione, supera l’argomento specifico, proiettando chi lo ascolta in una situazione che potrebbe essere benissimo riportata ai giorni nostri. Magazzino 18 è un luogo della memoria, che si è dimenticato, dove però possiamo inoltraci idealmente per cercare le nostre radici e soprattutto per evitare che drammi simili si ripetano ancora: “… sono venuto a cercare mio padre, in una specie di cimitero, tra masserizie abbandonate e mille facce in bianco e nero, tracce di gente spazzata via, da un uragano del destino, quel che rimane di un esodo, ora riposa in questo magazzino”.

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Cristicchi all’interno del Magazzino 18 di Trieste

Gli oggetti hanno sempre un forte potere evocativo, portano i segni di chi li ha posseduti e utilizzati. Cristicchi ha spiegato che nel momento in cui è entrato in quel deposito, che contiene ben duemila metri cubi di masserizie, ha percepito la grandezza di quella storia e si è stupito di come non fosse conosciuta in Italia. Quando ne è uscito, ha sentito come se quei mobili gli avessero parlato. In quell’occasione gli fu regalata una sedia e sotto la seduta c’era ancora ben leggibile il nome del proprietario. Da quel momento ha iniziato la ricerca sull’esodo insieme a Jan Bernas, con cui ha scritto il musical, dopo aver letto numerosi testi ed avere parlato con tanti esuli e residenti istriani. Dal 1947 in poi, le famiglie in fuga dalle terre cedute alla Jugoslavia lasciarono le loro cose in deposito, con l’idea di venire a riprenderle, una volta ricostruita la propria esistenza. Molte persone sono ritornate a riprendersi ciò che era loro, molte altre invece non si sono fatte più vive. Fino al 1978 al Porto Vecchio c’era ancora un ufficio distaccato della Prefettura che attendeva il ritorno dei legittimi proprietari. Dal 1988 tutti questi beni sono affidati all’Irci, l’Istituto regionale per la cultura istriano-fiumano-dalmata. Una parte del contenuto del magazzino sarà destinato al nuovo Museo dell’Irci, mentre per il restante materiale deve ancora essere presa una decisione. Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un simbolo di un “tempo bloccato”.

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Il cantautore italiano Simone Cristicchi

In questi giorni su Facebook l’artista romano è impegnato perché la ripresa televisiva di “Magazzino 18” venga riproposta su Rai 1 nel giorno della memoria, il 10 febbraio 2015, in prima serata e non a tarda notte come è accaduto quest’anno.
Il brano di Simone Cristicchi fa parte del suo recente disco intitolato “Album di famiglia”, di cui vi consigliamo anche la canzone “Cigarettes”, che nel finale propone un breve recitato di Nino Frassica. Si tratta di un brano molto attuale, forse anche qualcosa di più: “Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri… molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina, ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti…”. Questo testo che risale al 1912 è tratto da una relazione dell’Ispettorato del congresso americano sugli immigrati italiani negli Stati uniti d’America.

LA PROVOCAZIONE
Cercasi Balzac disperatamente

Balzac! Cercasi un Balzac disperatamente per raccontare le dinasty del nostro tempo. Con un profluvio di figli nati da diverse mogli e fidanzate e conseguenti crolli in Borsa, posizionamenti strategici in ad mentre la torta sembra non corrispondere all’appetito dei convitati. Ultimo straordinario racconto quello del proprietario di Luxardo Luxottica tra le poche industrie solide del nostro Paese. Qui si compiono saghe e tragedie (poco greche) con bi-matrimoni: il tempo di sposarsi poi di divorziare, fare figli con altre/altri indi risposare la signora che a sua volta ritorna onusta di prole. E tutti devono entrare in ditta: cuore di mamma e di papà. Peccato che l’imparzialità dimostrata da Del Vecchio nel distribuire per sei il patrimonio in parti uguali –ma, per carità! che i pargoli stiano lontani dalla ditta- s’incrina poi con le ambizioni di mamma a cui spetta la “legittima”.

Crolla il titolo in Borsa poiché sembra che gli investitori amino poco le aziende familiari come ben ha dimostrato il torvo Marchionne, ormai indissolubilmente legato per l’immagine a Crozza, nell’operazione Fiat che non c’è più e nel conseguente titolo Fca (honny soit qui mal y pense!) Fiat Chrysler Automobiles, siglato con viso d’angelo da Elkann che suona la campanella. Un immaginario assai folto di pretendenti al trono. La saga di B. aveva aperto la strada tra alcuni figli destinati a proseguire l’operato politico del babbo, altri a lavorare col Milan e altri ancora apparentemente renitenti a ruoli prestabiliti. Invano Dante blaterava a suo tempo quanto fosse stolido obbligare i figli a seguir le orme dei padri. Ma si sa Lui era menagramo e invidioso delle fortune altrui.
Così al povero Renzi ancora una volta viene imputata la colpa d’aver tentato il bravo ad della Luxardo Luxottica per affiliarlo al suo partito.

Ciò che mi preme sottolineare non è tanto il riflesso etico provocato da un serial talmente avvincente da far impallidire la perfida Alexis di “Dallas” (come eravamo ingenui ai nostri tempi nel dividere così drasticamente il bene dal male. Ormai lo fa solo “Un posto al sole”) quanto la perversione giornalistica che s’impadronisce dell’argomento e gli dedica lo stesso spazio dell’emergenza di Genova proponendo un involontario parallelo tra “angeli del fango” un appellativo sbagliatissimo per queste persone. Che angeli! Uomini e donne che sanno di sudore e di fatica e che propongono appunto l’immagine della meglio gioventù (che sa rispondere con dignità al genovese G.) e la jeunesse dorée forse anch’essa inconsapevole di un destino.

Così l’urgenza di uno scrittore che potesse robustamente raccontare queste vicende ( se proprio andasse male al posto di Balzac andrebbe bene Zola) si trasforma in un quesito etico che sembra ulteriormente soffocato dal delirio della parola ormai dissociata dalle cose: religiosi che fanno paragoni tra scelte di vita e l’Ebola, Un G. che scuotendo la canuta chioma nel solenne spazio di un luogo sacro per le memorie promette sfracelli e rivoluzioni a ogni piè sospinto e invita d andare a spalare il fango non solo a Genova ma anche nei palazzi del potere. Vladimir Luxuria che va a cena da B.( tartufi e chiacchere politiche) e che per far la spiritosa umilia il movimento dei diritti civili dichiarando che il signore di Arcore dopo tante donne fa bene interessarsi ai problemi dei gay. O all’esternazione di non so quale patron messo ai vertici sportivi che parla di scimmie e di banane a proposito di giocatori “negri”.
Ma che ne sanno tutti costoro ma anche i loro narratori di cosa sia la potenza della parola che resterà quando di loro nessuno si ricorderà più?

Il più grande eversore della lingua e della narrativa italiane l’immortale Carlo Emilio Gadda ce l’aveva col Foscolo e con tutta la retorica patriottarda che l’uso ossessivo della sua poesia era servita fino alla Grande Guerra a esaltare la figura dell’eroe ( e cosa non sono ora i personaggi qui descritti se non gli eroi del nostro tempo?) Scrisse perciò un pamphlet che venne recitato alla radio nel 1959. Memorabile così come memorabili i commenti alle poesie foscoliane. Uno per tutti Riferendosi ai versi del poemetto “Le Grazie” e all’invito che vi si rivolge a Canova di entrare nel tempio eretto per custodirvi quelle dee così scrive: “L’inizio è una sciarada “Entra e ad-ora”: che bel verso! Ma chi entra nel tempio dove è il gruppo in marmo di queste tre femmine abbracciate “ed ad-ora” cioè s’inginocchia a mani giunte, si trova con la faccia adorante all’altezza del culo delle Grazie”.

Così come il matto sull’albero nell’”Amarcord” felliniano che urla “Voglio una donna!!!” anch’io urlo “ Voglio dell’etica!!!”

Il brano intonato: Fabrizio De André, Ottocento [clic per ascoltare]

LA DENUNCIA
Avanti e indietro da Cona
con i campioni delle analisi

E se provassimo a darci una mossa, a sentire il dovere ognuno di fare la propria parte?
Perché questo paese seduto non inizia ad alzarsi in piedi? A darsi una scossa, a destarsi?
A noi non serve una spending review, a noi servirebbe una ‘rousing review’. In poche parole la sveglia! Destarsi! Muoversi!
Non passa giorno che non ci si debba stupire per le cose che non vanno e per le quali sarebbe sufficiente un pizzico di buona volontà per migliorarle. Ma nessuno si fa carico, neppure di denunciarle, tanto non è problema suo, e così tutto si trascina nel tempo, diventa consuetudine fino a divenire norma, non scritta, ma ‘norma’.
E siccome telefonando a uffici tipo ‘relazioni con il pubblico’ o chiedendo spiegazioni di persona è come sbattere contro un muro di gomma, non resta che condividere con il maggior numero di persone possibile cosa ti accade, con la speranza che qualcuno si accorga che forse, guarda caso, si potrebbe anche cambiare.
Conoscete il contrassegno per auto che facilità la mobilità dei portatori di handicap? Ebbene che non vi capiti di smarrirlo o che addirittura ve lo rubino, perché c’è anche chi fa questo.
Nella sfortunata ipotesi che tutto ciò vi accada e siate costretti a chiederne un duplicato, non è che ve lo consegnano subito, avendo già tutti i dati necessari alla pratica, visto che almeno una volta ve lo hanno rilasciato. No, dovrete attendere almeno un mese. E nel frattempo? Peggio per voi, non potrete usare l’auto, come se in quel mese la vostra condizione di disabile fosse sospesa. Incredibile. Quando basterebbe che vi rilasciassero un permesso provvisorio. No. Pare impossibile da fare. Cosa lo impedisca devo confessare che non riesco ancora a comprenderlo. E questo succede a casa nostra, in questa nostra città.
Se poi avete bisogno del laboratorio di Anatomia Patologica per una citologia urinaria su tre campioni, siete costretti a farvi Ferrara-Cona avanti e indietro per ben quattro volte. Perché?
Perché ognuno dei tre campioni va consegnato singolarmente al laboratorio ogni giorno e in fine l’ultima volta per ritirare il referto delle analisi.
Eppure una soluzione molto semplice ci sarebbe. Basterebbe consegnare il tutto all’Asl di via Cassoli, la quale provvederebbe a farli pervenire al laboratorio di Cona. Lo stesso referto delle analisi potrebbe essere ritirato in via Cassoli, facendo risparmiare almeno un viaggio a Cona per questa specifica necessità.
A Padova, che non è all’estero, l’azienda universitaria ospedaliera, né più né meno come la nostra, fornisce appositi contenitori che consentono di consegnare i campioni delle urine una volta sola e tutti insieme.
E siccome tutti ormai abbiamo il fascicolo elettronico, che dovrebbe far risparmiare carta e tempo, il referto delle tue analisi potrebbero caricartelo lì, come la logica vorrebbe. No, nel tuo fascicolo elettronico personale non ce n’è neppure l’ombra, se lo vuoi devi andartelo a prendere a Cona.
Aggiungete a questo che la vostra patologia vi esenta dal pagare il ticket, la prescrizione del vostro medico riporta il vostro codice esenzione. Sarebbe sufficiente presentarlo allo sportello del laboratorio perché tutto sia risolto. No. Troppo logico e normale. Il laboratorio vuole il foglio rilasciato da una delle casse dell’Asl. Così siccome in mano avete solo la prescrizione del medico, siete costretti a farvi la fila per non pagare e per sentirvi dire che al laboratorio dovrebbe essere sufficiente la sola prescrizione medica. Ma evidentemente tra amministrazione e operatori non corre una buona comunicazione, infatti tutte le volte è la stessa storia.
Perché tutto questo? Insipienza? Indolenza? Tram tram? Incompetenza?
Noi siamo il paese dove l’uso dei ‘digital device’ è per molti ancora un arcano, dove l’uso della carta si moltiplica insieme alla burocrazia. Dove spesso e volentieri è l’utente al servizio dell’azienda pubblica e non viceversa, dove lavoro e tempo si sprecano nelle attese estenuanti di appuntamenti ad orario regolarmente elastico, dove lo spirito di coda si stempera nell’aritmetica del tagliando con il numero del tuo turno. Forse mettere mano a queste tante piccole cose quotidiane, varrebbe più di qualunque spending review, di qualunque taglio alla spesa pubblica.
Molto probabilmente da tagliare c’è tanta nostra disorganizzazione, tanto nostro lasciar correre le cose così come sono, all’italiana, ma anche alla ferrarese.

I disturbi alimentari: uno specchio dei nostri tempi

I disturbi alimentari (anoressia, bulimia e obesità) sono in aumento e il loro esordio si è abbassato anche a fasce di età molto piccole. Per questo si rende indispensabile un lavoro di prevenzione e sensibilizzazione soprattutto nelle scuole.
La psicoanalisi legge l’anoressia e la bulimia come patologie dell’amore e non dell’appetito, come malattie del cuore e non dello stomaco. Sono solitamente il segno di una separazione difficile dalla famiglia di origine. La posizione di rifiuto del cibo mira ad introdurre una separazione dall’incollamento all’altro. Vi è una continua oscillazione tra desiderio di essere autonomi e paura dell’abbandono. Il vomito stesso, quando presente, ha il significato di introdurre uno iato tra sé e l’altro, unico spazio a volte in cui il soggetto riesce a “dire la sua”.
I disturbi alimentari rappresentano una sofferenza che disorienta: sono patologie che coinvolgono tutto l’ambiente familiare e sviluppano una costellazione emotiva complessa e contraddittoria. Figli che o non dicono nulla o dicono tutto, genitori che esprimono nei confronti dei figli sentimenti contrastanti e ambivalenti.
È evidente il potere del rifiuto che costringe i genitori a ruotare attorno al sintomo generando in realtà in questo modo l’effetto opposto. Come afferma Lasegue nel 1873: “L’eccesso di insistenza provoca un eccesso di resistenza. Una sola concessione li farebbe passare dallo stato di malati a quello di bambini capricciosi”.
Un genitore in preda all’angoscia parla così della figlia malata: “Non so più come comportarmi, le parole del medico non hanno avuto alcun effetto su di lei, ma su di me sono state tremende”. La comparsa di tali sintomi produce nella famiglia una sorta di anestesia inizialmente, nel senso che può accadere che nessuno dei componenti della famiglia si accorga del dimagrimento eccessivo della figlia o del figlio, che sono comunque abili a nascondere la magrezza via via raggiunta sotto abiti sempre più larghi.
L’anoressica – bulimica chiama in causa non tanto l’altro della domanda, ma l’altro del desiderio, cioè è come se dicesse all’altro: “Dammi quello che sei a partire da ciò che io sono per te”. Il soggetto fa di sé una mancanza per essere per l’altro una presenza. Scarnifica il proprio corpo per scavare una presenza nell’altro e testare così il segno d’amore nell’altro, ovvero verificare quanto l’altro sia disposto a perderlo.
Occorre evitare che il sintomo diventi il fulcro della politica familiare, il detentore del potere. I disagi alimentari sono segno di una comunicazione interrotta, di un non detto, di ciò che il soggetto non ha potuto o non è riuscito a dire. Una madre dice in terapia:”Mia figlia è un muro, fa quello che vuole, non rende più conto di niente a nessuno protetta dall’immunità della sua malattia che mette tutti noi a tacere”. Padre e madre temono sempre di sbagliare e sono perennemente alla ricerca di una causa. In realtà non c’è mai un’unica causa, ma una serie di condizioni concorrono a produrre tali disagi, disagi che sono profondi e di cui il copro si fa teatro.
L’anoressia-bulimia è l’ultima spiaggia, un tentativo disperato di non crollare del tutto nel baratro della depressione. Nella cura solitamente le madri sono più portate a chiedere sull’urgenza, mentre i padri sono più lenti nel prendere posizione davanti al terapeuta, più dubbiosi e hanno l’esigenza di razionalizzare. I fratelli se presenti vanno accolti, perché spesso soffrono in silenzio, per paura di occupare un proprio spazio.
Non c’è mai una risposta universale alle domande dei genitori, ogni caso è una storia unica e particolare. Va interrogata la posizione del soggetto rispetto alle logiche familiari e va costruito un percorso di cura su misura del soggetto sofferente.

Chiara Baratelli, psicoanalista e psicoterapeuta, specializzata nella cura dei disturbi alimentari e in sessuologia clinica. Si occupa di problematiche legate all’adolescenza, dei disturbi dell’identità di genere, del rapporto genitori-figli e di difficoltà relazionali. baratellichiara@gmail.com

Berlusconi, Luxuria e il machismo del soldato

Da BERLINO – In questi giorni in cui la transgender Vladimir Luxuria, nota figura televisiva ed esponente della sinistra italiana, fa visita al decaduto e nient’affatto “diversamente eterosessuale” Silvio Berlusconi, triste satiro della ahimè decadente Italia, partecipo alla conferenza non senza sorpresa piuttosto interessante di Shaka McGlotten presso l’Institute for Cultural Inquiry.

Vestito (o meglio vestita) in una giacchetta di pelle che espone il suo corpo muscoloso e tatuato, pesante maquillage e tacchi a spillo, Shaka McGlotten insegna Gender Studies alla prestigiosa Suny, la maggiore università pubblica della East Coast, e con fare gentile illustra la “via del drag queen” come un metodo radicale e certamente non rivolto a tutti per combattere quello che Foucault chiamava il “fascismo in ciascuno di noi” ovvero ciò che si materializza come amore per il Potere – più spesso anche solo il potere (minuscolo se non meschino).

Tra ironia, disincanto e passione civile McGlotten ha analizzato alcune figure di “drag queen” che sfruttano la loro figura e senz’altro la loro presenza scenica per proporre una forma di lotta politica che si incrocia con “live performances” non diversamente da come la scena inglese ospitava la musica Punk come controcultura o, più recentemente, in tutt’altra modalità Borat di Shasha Baron Cohen.

Vanno notate soprattutto due figure attive sulla scena israelo-palestinese che contestano il “machismo” tanto del “soldato oppressore” israeliano quanto quella del “civile resistente” arabo – ciascuno veicoli di una versione stereotipata, rigida e aggressiva di “mascolinità,” di cui chiara rappresentazione sono sia la politica nazionalista di Netanyahu sia il drammatico terrorismo praticato delle varie fazioni arabe.

Da un lato è stata ricordato (o ricordata) Rafaat Hattab di origine araba che in diversi spettacoli teatrali ha attaccato l’omofobia virulenti nella società israeliana presentandosi come “The bride of Palestine” che canta un inno libanese di resistenza sotto la minaccia armata di un uomo con la pistola che poi le spara.

Un’altra importante performance è quella di Liad Hussein Kantorowicz vestito (o vestita) da “domina,” con un certo gusto fetish e para-nazista, che “comanda” un ingenuo e mite cittadino israeliano che cosa e come votare, denunciando quindi l’aspetto grottesco della presunta “unica democrazia” del Medio Oriente, non certo contestandone la democraticità formale bensì esponendone il carattere morbosamente ambiguo, quando, come nota McGlotten, il servizio segreto interno (il famigerato Shin Beth) afferma che difenderà il carattere “ebraico” di Israele “ad ogni costo,” suggerendo così che anche persino la “democrazia” possa venire annoverata tra i possibili “costi.”

Si tratta di una forma di lotta politica che forse non può avere una ricaduta pratica effettiva per la maggior parte della popolazione civile ma di cui andrebbe colto e apprezzato il
carattere irrisorio, irriverente e anticonvenzionale come rimedio, magari solo temporaneo, per una vita politica, specialmente quella italiana, che non galleggia più semplicemente sull’ipocrisia ma se ne nutre.

LA NOVITA’
Per contrastare la crisi la Uil sponsorizza i certificati di credito di Zibordi e Cattaneo

“Per quel che ne so è la prima volta che un sindacato attribuisce al sistema monetario attuale una significativa responsabilità per la mancanza di lavoro e l’aumento della disoccupazione”. Claudio Bertoni, uno degli storici animatori del ‘Gruppo cittadini per l’economia’ di Ferrara, saluta con entusiasmo l’iniziativa della Uil, che oggi in conferenza stampa ha sostanzialmente annunciato di abbracciare le tesi da loro propugnate con tenacia ormai da un paio d’anni. Si tratta delle proposte formulate dagli economisti Marco Cattaneo e Giovanni Zibordi per contrastare la crisi con l’immissione sul mercato monetario di un’ingente quantità di liquido, attraverso certificati di credito fiscale, l’emissione di Bot a valenza fiscale e la creazione di un sistema di banche pubbliche attualmente inesistenti in Italia. “Proposte non nostre ma che abbiamo fatto nostre e sostenuto dopo accurati studi”, ribadisce Bertoni. Il quale spiega che “la validità sta innanzitutto nella possibilità di ridare liquidità al sistema senza dover per forza uscire dall’eurozona e senza violare i trattati”.

“Si tratta di proposte serie – sottolinea – eppure fino ad ora derise da molti, perché non lette e non capite. Ma a questo coro di incomprensione già in passato avevano fatto da contrappunto significativi apprezzamenti come quelli espressi da valenti studiosi come Stefano Sylos Labini e Giorgio Ruffolo nel libro ‘Il film della crisi’ edito da Einaudi”.

Il paradosso attuale è quello di un’economia che soffre non per mancanza di prodotti o di manodopera, ma per mancanza di denaro nelle mani di aziende e famiglie. “La soluzione proposta è quella di dare ai cittadini e agli imprenditori più potere di acquisto sostanzialmente attraverso una forte riduzione degli oneri fiscali”.

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