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Amori e dissapori, ma la coppia si ricompone a piedi nudi nel parco

Oggi, vogliamo riproporvi qualcosa di vintage, come si direbbe nel linguaggio alla moda, un film del 1967, ma un ever green (sempre per stare alla moda), romantico, frizzante e divertente, come si addice a un fine settimana freddo che invita a stare accoccolati sul divano. Non solo il film è spassoso, ma è anche uno dei miei preferiti, da sempre.
Scritto da Neil Simon, uno dei più rappresentati commediografi e maestro per eccellenza del genere, “A piedi nudi nel parco” è interpretato da due giovani, belli, innamorati e talentuosi, i magnifici Robert Redford e Jane Fonda.

piedi-nudi2Paul e Corie Bratter sono una coppia di sposini freschi di matrimonio e reduci da un’appassionata e focosa luna di miele trascorsa all’Hotel Plaza di New York. Eccoli trasferirsi nella loro prima casa, a Greenwich Village, un piccolo, freddo, scomodo e spoglio appartamento all’ultimo piano di un vecchio palazzo senza ascensore (che fatica arrivare lassù…). Corie, come ogni giovane sposa, è entusiasta, vitale e appassionata e quella piccola casetta, per lei nido d’amore, le sembra un sogno avverato, un castello solo suo e del marito che adora. Paul, avvocato preciso, serio (serioso), prudente e puntiglioso, è meno convinto di quella sistemazione. Tanto lei è imprevedibile, eccentrica e spudorata, tanto lui è prevedibile e convenzionale, due persone molto diverse ma che si amano profondamente. Nel quadretto familiare compaiono presto l’eccentrico e stravagante (e simpaticissimo) vicino abusivo Victor Velasco (Charles Boyer) e Ethel, la benpensante (e borghese) madre di Corie (Mildred Natwick).
piedi-nudi1Dopo svariati litigi, Corie, che è anche molto impulsiva, decide di mettere fine al matrimonio, non all’altezza delle sue elevate aspettative ideali, e caccia Paul, che finisce su una panchina di Washington Square Park, a ubriacarsi e camminare a piedi nudi nel parco, proprio in quella che lei gli aveva indicato come espressione della desiderata spontaneità. Ma quando vede come si è ridotto, Corie comprende di amarlo così come l’ha conosciuto e sposato, un uomo stabile, affidabile e fidato, e di non volerlo cambiare. Mentre Paul e Corie finalmente si riconciliano, anche i maturi Victor ed Ethel, altrettanto diversi, sembrano aver scoperto una speciale sintonia.
Film sulla sperimentazione dei primi dissapori e del vago sospetto d’incompatibilità che attanaglia quando s’inizia a vivere insieme (chi non ci è passato…), sulla nevrosi dell’uomo contemporaneo, solo e fragile nella gestione dei rapporti, e sulla saggia conclusione che il compromesso è la soluzione più saggia per mettere al sicuro un matrimonio. Il tutto condito da mille sorprese e da battute irresistibili. Da rivedere.

“A piedi nudi nel parco” di Gene Saks, con Robert Redford, Jane Fonda, Charles Boyer, Mildred Natwick, USA, 1967, 106 min.

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Scene dal film ‘A piedi nudi nel parco’

LA STORIA
Street art: il mondo delle donne musulmane raccontato
da un uomo, BR1

Lo street artist italiano BR1, classe 1984, nato a Locri, osserva da sempre gli atteggiamenti, le posture, i gesti, le vite delle donne musulmane che indossano il velo e le ha ritratte sui muri di Torino. Sono bellissime. L’obiettivo era quello di sollecitare una riflessione sui valori del velo/copricapo senza togliere alcuna naturalezza ai suoi soggetti. Anche la scelta dei colori accesi e luminosi dà e mantiene una connotazione positiva e di energia. Solitamente il velo è simbolo di negatività e chiusura (oltre che di separazione reale fra il mondo occidentale e musulmano), ma qui, proprio grazie ai toni accesi, non lo è. Qui colora i cieli e le strade, fa fermare a riflettere e osservare.
BR1 vive e lavora a Torino, dove ha studiato legge specializzandosi in diritto islamico. Ha colorato le strade della città con le sue donne ma ha anche partecipato a numerosi festival artistici internazionali ed eventi quali lo “Street art doping”, a Varsavia (2012), o il “Brandalism”, di Londra (2013).

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Copyright BR1, Coca cola, Madrid, 2013

Da ricordare anche la sua presenza a “Integrazione/disintegrazione” di Berlino (2013), a “Donne fra”, organizzato dalla Fondazione Farm, a Favara (2013), o a “Public Arena”, curato dall’Associazione Barriera, a Torino (2013). BR1 ha iniziato a disegnare a 14 anni, lavorando sugli stickers prima, per poi arrivare alle immagini di grandi dimensioni.

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Copyright BR1, Donne musulmane, Bologna, 2010

In alcune interviste, ha confessato di essere sempre stato molto attratto dalla strada e dai suoi muri, che parlano al passante, che ispirano domande per avere risposte. A essi si possono fare domande, anche, e cercare alternative ai dubbi che anche essi pongono.
Il velo l’ha sempre molto ispirato, un oggetto-paradosso, un clash fra culture, non tanto diverso, però, dalla sciarpa nera che indossa la nonna. Esempi presenti anche da noi.
Ama Parigi per la sua grande apertura mentale e multiculturalità e ha una città preferita, la magica, romantica e misteriosa Istanbul.

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Copyright BR1, Proiettili, Torino 2012

Ammette di trovare grande ispirazione da alcune artiste iraniane, come Shirin Neshat, per la sua forza, intensità e passione. Per lui le donne sono tutte uguali, velo o non velo, sono madri, nonne, figlie, sorelle, fumano, mangiano, cucinano, corrono, ridono, sorridono. Hanno tutte le stesse necessità e bisogni, soprattutto d’amore e di rispetto.
Unica differenza, il velo, che varia a seconda dei paesi e che BR1 dipinge con grande precisione e attenzione: quello maghrebino, il burqa afgano, il chador iraniano. La donna, quindi, grande ispirazione degli artisti (come lo è sempre stata…), non ne importa la religione. Le immagini sono scene di vita reale, prese dai giornali, dalle fotografie, dai siti web. Spesso l’artista ritrae importanti personalità del mondo musulmano, scrittrici poetesse, imprenditrici, femministe. Tutte hanno il loro spazio, perché anch’esse vanno conosciute da una società occidentale che spesso le ignora.

Alla bellezza delle donne del mondo dedichiamo, dunque, queste belle immagini colorate, piene di vita, di gioia e di speranza. Aspettandoci, magari, un bel disegno della giovane e incredibile Malala. Perché no.

 

 

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Copyright BR1, Torino, 2012
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Vedi altre opere di BR1

Stress geopatico, gli effetti
sulla salute umana

La radiazione naturale insita all’interno della terra può essere distorta da influenze naturali e artificiali, come le concentrazioni di minerali, faglie, corsi d’acqua e servizi pubblici sotterranei. Quando gli squilibri influenzano il campo magnetico della terra, si possono produrre distorsioni che colpiscono l’uomo.

Così come ci sono sollecitazioni magnetiche solari che vengono dal sole e dalla galattica “zuppa” che sostiene l’universo, ci sono sollecitazioni geomagnetiche che provengono dall’interno della terra. La superficie della terra è tessuta di pattern di linee energetiche che per importanza sono paragonate ai meridiani di agopuntura del corpo umano. La terra è filettata di linee di energia o meridiani di energia elettromagnetica che hanno una forte influenza sulle cose viventi. Gli scienziati hanno dimostrato che questa energia invisibile attraversa tutta la materia e colpisce ogni sistema vivente sul pianeta, in modo negativo o positivo. Gli squilibri ambientali negativi influenzano la fisiologia.

Il dr. Otto Bergsmann, professore presso l’Università di Vienna, ha verificato cambiamenti nei valori sierici di calcio, zinco e serotonina nell’uomo dopo un’esposizione a breve termine nei siti di radiazione terrestre. Anche un’esposizione limitata può minare il sistema immunitario quando siamo esposti a queste forze negative. Trascorrere periodi di tempo più lunghi in ambienti insalubri può gradualmente peggiorare la salute. L’uomo è una creatura elettromagnetica e ogni cellula del sistema vivente è una batteria elettrica. L’impianto elettrico si riflette ancor più sottilmente come l’aura umana, che è un campo elettrico fotografabile e misurabile.
Alterazioni nel funzionamento biologico possono indurre effetti negativi sulla salute. La resistenza dell’organismo a virus e batteri può diminuire quando i ritmi naturali all’interno del corpo sono costantemente distorti. Le persone che soffrono di malesseri hanno una maggiore sensibilità verso la geotermia poiché questa influenza i fluidi delle cellule che rallentano l’omeostasi della matrice proteica; in sostanza la radiazione può indebolire il sistema immunitario e causare molti disturbi. In diversi Paesi europei, prima di acquistare o costruire una casa, viene svolto un sondaggio preventivo per evitare lo stress geopatico.

Il termine stress geopatico viene utilizzato per tutte le radiazioni e campi di disturbo che sono dannosi per gli esseri umani. La ricerca ha dimostrato che possono peggiorare o causare diverse malattie. Geopatico deriva dalle parole greche “geo” che significa “Terra” e “pathos” che significa “malattia” o “sofferenza”, quindi letteralmente “la sofferenza della Terra”. Il termine “stress geopathic” è usato per descrivere le energie negative, noto anche come “raggi nocivi della terra”, che emanano dalla terra e causano disagio per la salute di coloro che vivono nelle vicinanze o sopra di esse. La geobiologia è lo studio dell’influenza delle “energie della terra” su tutte le forme di vita.
I paesaggi, oltre a subire effetti evidenti di inquinamento ambientale, subiscono interruzioni come, per esempio, la costruzione di linee ferroviarie e autostradali, argini, ponti, cave, gallerie, miniere e bunker sotterranei, pali in acciaio, pali, recinzione in metallo, tubature di gas, elettricità e acqua corrente, fognature, fondazioni e costruzioni.
Occorre ricordare a questo proposito, che la Terra ruota attorno al proprio asse e che funziona come un elettro-magnete che genera correnti elettriche nei metalli fusi trovati nel suo nucleo; ha un campo elettromagnetico sulla superficie che oscilla ad una frequenza media di 7,83 Hz, che è quasi identico al gamma di alfa onde cerebrali umane. La vita sulla terra si è evoluta con questo sfondo di campo magnetico, e le creature sono abituate a conviverci e di far fronte alle lievi fluttuazioni causate da tempeste elettriche e dall’attività del sole. Ogni distorsione di questo livello di 7.83 Hz crea uno stress per l’essere umano, con il potenziale di indebolire il sistema immunitario, portando ad una maggiore suscettibilità a virus, batteri, parassiti, ad un maggiore inquinamento ambientale, malattie degenerative e una vasta gamma di problemi per la salute.

Le persone sensibile o deboli, o chiunque sia esposto per un periodo di tempo sufficiente a stress geopatico per superare la regolazione omeostatica naturale del corpo e condurre in una spirale di sofferenza, presentano in un primo momento, un quadro sintomatico non specifico e un po’ confuso.

Sintomi di stress geopatico
I sintomi più frequenti che si verificano in una fase iniziale sono i disturbi del sonno. L’ubicazione del letto del paziente sembra essere il fattore più importante, dopodiché vengono la poltrona preferita, la scrivania, la stanza in cui si trascorre più tempo e più lavoro, e così via. Dormire in una zona geopatica è particolarmente stressante. Può influenzare il sonno causando sonno interrotto o agitato, con incubi, ci si può svegliare la mattina sentendosi più stanchi di quando si è andati a letto. Questo perché la ghiandola surrenale funziona straordinariamente per compensare la radiazione distorta della terra. Il cervello, inoltre, non può rilassarsi in un sonno profondo per riparare e rigenerare il corpo a causa dell’alto contenuto di adrenalina nel sangue. Nel corso del tempo, il fatto che si dorma in questa energia negativa durante la notte, può portare ad uno squilibrio energetico o malattie a lungo decorso.
L’impatto sulla salute dell’esposizione a campi elettromagnetici è debilitante per tutto il corpo. Quindi lo stress geopatico non causa direttamente le malattie, ma indebolisce il sistema immunitario, che a sua volta può indebolire il corpo. I seguenti sintomi possono derivare o amplificarsi con l’esposizione a stress geopatico.
Una lista parziale di sintomi da stress geopatico dovrebbe includere disturbi del sonno, formicolio, intorpidimento e dolore o di braccia e gambe, mal di schiena, stanchezza cronica, dolori e gonfiore, vertigini, asma e allergie, mal di testa frequenti, problemi di visione, disorientamento, perdita di memoria, instabilità, stress, nausea, incapacità di guarire, allergie, cicli mestruali problematici, ansia, svogliatezza, resistenza al trattamento medico, incapacità di assorbire vitamine e minerali, ADD, aggressività, iperattività, depressione e una sensazione generale di malessere, quindi compromettere i sistemi mentali e o il sistema immunitario.
Numerose ricerche dimostrano inoltre che oltre l’85% delle persone che muoiono di cancro sono state regolarmente esposte a stress geotermico. Il dr. E. Hartman, dopo aver trattato per oltre trent’anni con migliaia di pazienti affetti da cancro, ha sostenuto che il cancro è una ‘malattia del luogo’ in cui le persone sono state esposte a stress geotermico per un periodo di tempo. Il dr. Gustav Freiherr von Pohl ha dimostrato al Comitato centrale per la ricerca sul cancro a Berlino, quasi 60 anni fa, che era quasi impossibile ammalarsi di cancro senza aver trascorso qualche tempo in zone geopatiche, soprattutto abitando e dormendo in quesi luoghi. Egli ha anche stimato che la gotta era l’unica malattia non causata o aggravata da stress geopatico.

Indicatori fisici di stress geopatico
La presenza di certi animali, può indicare zone di GS. Gli animali che gravitano sulle linee o zone di GS sono gatti, gufi, lumache, insetti come formiche, batteri, virus, vespe e api. La maggior parte dei mammiferi evitano le aree di stress geopatico. Cavalli e mucche i cui box sono ubicati sopra GS possono diventare malati o inclini a lesioni. In Irlanda, nei tempi antichi, prima di sistemare i box, c’era l’abitudine di lasciare libero il bestiame nei campi, per vedere dove avrebbe dormito, sapendo che non avrebbero dormito in aree di energia negativa.
Altre indicazioni possono venire dalla presenza/assenza di piante: aree di alberi non produttivi di frutta, lacune nelle siepi, la crescita contorta di cespugli, lacune in prati e alberi mancanti possono indicare aree di GS.

Può il livello di stress geopatico essere misurato?
Il dr. Gustav Freiherr von Pohl , il ‘Grand Old Man’ di GS, ha sviluppato una scala per analizzare i punti di forza e gli effetti delle linee contaminate.
La scala va da 1 a 16 con i seguenti effetti:
• fino a 4: nessun effetto;
• 5-6: obesità, gonfiore delle articolazioni, mal di testa, problemi di insonnia, ansia;
• 7-8: disturbi mentali, dipendenze, suicidi, depressione;
• 9 più: cancro, leucemia, sclerosi multipla, Parkinson e molti altri disturbi.

Come liberarsi dello stress geopatico
Tirare letti e scrivanie ad una distanza dalla parete di almeno 60 cm. riduce l’impatto dello stress geopatico. Un foglio di rame piccolo a terra, sia sotto lo scendiletto sia sotto una stuoia quando ci mettiamo i piedi. Camminare a piedi nudi sulla sabbia, erba o terra per 20 minuti al giorno si connette con l’energia di guarigione naturale. Cemento e mattoni lasciati puri senza essere sigillati da resine e pitture che non traspirano, ecc. Rimuovere e modulare i nostri oggetti per riposizionarli in posti a bassa trasmissione elettromagnetica.
Evitare i campi magnetici che creano un flusso di corrente elettrica; qualsiasi apparecchio elettrico o filo può condurre l’elettricità così come i dispositivi wireless. Siamo esposti a loro attraverso le linee ad alta tensione, telefoni cellulari, computer, coperte elettriche, telefono cellulare pali a torre cellulare, contatori intelligenti, fotocopiatrici, saune ecc.

Non esitate a contattarmi per informazioni relative alla rimodulazione dei mobili e degli oggetti in casa o in giardino, in relazione allo stress geopatico e allo stress elettromagnetico.

nucciorusso@hotmail.com

Disturbi alimentari e angosce
in famiglia

Un seminario per parlare del tema dei disturbi alimentari da una prospettiva piuttosto insolita: quella dei genitori e della famiglia di chi ne è affetto. Nell’incontro “L’impotenza dei genitori di fronte alla potenza dell’immagine”, che si terrà domani (venerdì 24) alle 20,45 presso il B&B Il Frattiero (via Giotto, 2) a Gualdo (Ferrara), Chiara Baratelli – psicoanalista e psicoterapeuta specializzata nella cura dei disturbi alimentari – affronterà non solo i sintomi di anoressia, bulimia e obesità, ma anche il loro impatto sulla famiglia del malato. I disturbi alimentari rappresentano, infatti, una sofferenza che disorienta: sono patologie che coinvolgono tutto l’ambiente familiare e sviluppano una costellazione emotiva complessa e contraddittoria. Per questo la famiglia spesso è “anestetizzata, paralizzata dall’angoscia”, spiega Baratelli. Nei soggetti anoressici, bulimici o obesi l’immagine assume “un’importanza che è difficile scalfire”, ma è fondamentale farlo perché è solo “la superficie dietro cui si celano le reali cause scatenanti della malattia”. Per spezzare questo dominio dell’immagine è fondamentale comprendere la posizione del soggetto rispetto alle logiche familiari e va costruito un percorso di cura su misura del soggetto sofferente. Il ruolo dei famigliari nel percorso di cura e la loro partecipazione alla terapia diventano quindi centrali. E proprio sui passaggi fondamentali che tutta la famiglia deve affrontare, dal riconoscimento dei sintomi al percorso di cura e guarigione da intraprendere insieme, si concentrerà Chiara Baratelli nell’incontro di domani organizzato da Estense ricerca-Associazione Scienza Cultura Arte.

seminario-Chiara-Baratelli

L’INCHIESTA
Siae: c’è chi dice no. Patamu,
il sito dove si possono depositare le opere d’arte e di ingegno

Un’inchiesta in cinque tappe per approfondire le ragioni delle critiche nei confronti della Società italiana autori ed editori.

4.SEGUE – Sentite nie giorni precedenti le obiezioni mosse alla Siae, abbiamo interpellato Adriano Bonforti, creatore di Patamu, un sito dove depositare le opere d’arte e di ingegno.

Quando e come mai hai creato la piattaforma di Patamu?
Patamu è nata da un’esigenza personale che poi si è trasformata in un progetto per la collettività utilizzabile da tutti. Ho iniziato a comporre le mie prime musiche quando avevo 14 anni.
Pochi anni dopo mi proposero di comporre le musiche per uno spettacolo teatrale, e in quell’occasione mi iscrissi in Siae, perché sia io che io produttori dello spettacolo lo percepivamo come un passaggio obbligato e necessario.
Una volta entrato mi sono reso rapidamente conto che a fronte di un costo economico per me rilevante e di forti limitazioni alla mia creatività ed alla mia libertà di diffondere le mie opere, la Siae mi avrebbe dato molto poco in cambio. Posso dunque dire che l’esperienza come iscritto Siae però è stata per me fortemente negativa. Quando mi è stato addirittura chiesto di pagare per mettere online la mia musica (la cosiddetta auto-promozione) ho deciso di disiscrivermi.
Sono tornato libero solo dopo varie vicissitudini burocratiche che sono durate per ben tre anni, durante i quali non ho potuto usufruire liberamente della mia musica. Così ho deciso di costruire in autonomia una soluzione che fosse adatta alle mie necessità, creando un sistema più snello e istantaneo per tutelare le opere attraverso il metodo delle marcature temporali on line, la cui validità è riconosciuta legalmente. Sapevo programmare, avevo il progetto chiarissimo nella mia mente, e con alcuni collaboratori abbiamo creato una prima bozza di quello che sarebbe poi diventato Patamu.
Patamu oggi è una start up riconosciuta come innovativa ed a vocazione sociale dallo Stato italiano, e ha vinto due premi all’innovazione sociale.

Come funziona? In cosa differisce dalla Siae? E’ legale e offre gli stessi servizi?
Patamu è nata come piattaforma per tutelare dal plagio le proprie opere con valore legale, in un modo semplice, efficace ed immediato, e poter poi scegliere con che licenze di utilizzo diffonderle (copyright o Creative Commons). Nel tempo è diventato anche un luogo attraverso il quale informare ed offrire consulenza legale agli artisti ed ai creativi in generale sulle tematiche del diritto d’autore.
Un’importante differenza dalla Siae è l’assenza di vincoli: un artista che depositi il proprio pezzo in Patamu può decidere liberamente di depositarlo in altri luoghi, o di disiscriversi da Patamu istantaneamente, di rilasciare l’opera con le licenze che preferisce. Anche sui costi dei servizi di Patamu non ci sono vincoli: ad esempio per il servizio Basic proponiamo di sostenerci con 10 euro l’anno (che secondo noi è un prezzo molto buono per quello che offriamo) tuttavia è l’autore a scegliere se sostenerci con questa cifra, con una maggiore, od anche senza versare alcun contributo.
Attualmente abbiamo anche vari progetti pilota in cantiere che ci permetteranno di seguire le necessità degli artisti a 360 gradi. Negli anni di attività e crescita di Patamu abbiamo infatti accumulato un importante know how sul territorio italiano, e pensiamo di avere delle ricette importanti per aiutare la diffusione della cultura in Italia, in modo etico e trasparente.
Tuttavia, per arrivare a questo, è necessario passare per l’abolizione del monopolio Siae.
Esiste infatti una legge, promulgata sotto il fascismo, che sancisce il monopolio della Siae sulla riscossione dei compensi sui diritti d’autore (le cosiddette royalties). Tra l’altro, questa legge vale solo per imprese stabilite in Italia, per cui si crea una situazione doppiamente paradossale: lo Stato italiano riconosce l’innovatività e la vocazione sociale di imprese come Patamu, ma impedisce loro di operare pienamente sul territorio italiano facendo concorrenza alla Siae, cosa che invece a realtà estere è permessa. Con un doppio danno per il nostro Paese, sia perché il know how non viene dal territorio ma dall’estero, sia perché i capitali si spostano all’estero. Chi resta in Italia non viene né incoraggiato, né premiato.

Quali sono i vostri numeri?
Ad oggi, solo attraverso il passaparola, più di 3000 utenti hanno depositato quasi 8 mila opere nel nostro sito, stiamo parlando di 1/30 degli iscritti alla Siae. Cerchiamo di fare anche informazione attiva grazie al nostro blog di approfondimento sulle tematiche del diritto d’autore, che ha avuto picchi di 30 mila utenti reali al giorno. Il 60% delle opere sono musicali, il 20% letterarie, il resto sono video, foto ed altre creazioni.

Hai avuto problemi di qualche genere essendo diventato una sorta di concorrente della Siae?
Ci sono state situazioni di velata intimidazione o tentativi di minimizzare il nostro progetto pubblicamente come qualcosa di inutile.
In occasione della nostra recente petizione lanciata su change.org per abolire il monopolio Siae alcune voci hanno sostenuto che il monopolio Siae sarebbe un monopolio naturale, e che anche togliendo il vincolo legale resterebbe operativa solo la Siae perché è questo che gli artisti vogliono.
In realtà in Siae più del 60% degli iscritti, pur portando alla Siae enormi guadagni, non rientra neanche delle spese di iscrizione. Questa fascia di artisti auspica un cambiamento o cerca un’alternativa. Per questo abbiamo lanciato un’importante petizione per abolire il monopolio Siae su change.org (change.org/aboliamomonopolioSIAE).
Penso che abolendo il monopolio emergerebbero realtà molto più efficienti e vicine agli artisti, e che la stessa Siae sarebbe costretta a migliorarsi ed a diventare più trasparente, con un beneficio immenso per la creatività e la cultura in Italia.
Detto in altre parole, se la Siae è in buona fede e lavora davvero al servizio degli artisti, dovrebbe essere la prima a volere l’abolizione del monopolio, nell’interesse dei suoi iscritti. Il fatto che non ci sia questa volontà mi dà da pensare.

Patamu è la prima esperienza di questo genere in Italia?
Ci sono altre esperienze precedenti alla nostra, anche molto importanti per lo sviluppo della consapevolezza e dell’indipendenza degli autori, con alcuni punti in comune con Patamu.
Credo che però siamo stati i primi in Italia a garantire una tutela dal plagio non posticipata ma istantanea, con un deposito informatico a lungo termine dell’opera ed una formula a donazione libera che permette, in caso di necessità, di tutelare un’opera anche a costo zero.

Al di là del vostro sito, avete realizzato anche iniziative?
Ci sono molte iniziative sul territorio organizzate da e con Patamu, o con artisti iscritti a Patamu. Per fare un esempio, in passato abbiamo organizzato i Copyleft Days al Teatro Valle Occupato, con la collaborazione dell’associazione Melting Pro e dell’etichetta Subcava Sonora. A breve parteciperemo al festival delle culture di Napoli. Recentemente il Teatro Olimpico di Roma, per intrattenere il pubblico prima di un concerto, ha trasmesso le musiche dei nostri artisti, mostrando i loro video.
Oppure a Cyberia, un evento sull’open source che si è tenuto a Torino, hanno suonato nostri gruppi che si sono auto-riscossi il diritto d’autore senza passare per la Siae. Questa è una cosa che forse gli artisti non sanno di poter fare, sostituirsi alla Siae riscuotendo direttamente i diritti d’autore oltre al cachet, in piena legalità.
Essere liberi da Siae, per come agisce attualmente la società, sarebbe un vantaggio per tutto il sistema. Faccio un esempio: in occasione di eventi di beneficenza od iniziative senza scopo di lucro, gli artisti possono rinunciare al loro cachet in favore della causa, ma paradossalmente la Siae non permette loro di rinunciare alla riscossione delle royalties (in piena contraddizione con la direttiva europea del febbraio 2014), rendendo più difficile e costosa l’organizzazione di questi eventi.
Se finisse il monopolio della Siae in Italia, potrebbero nascere tante piccole aziende come la nostra che creerebbero molto lavoro per tanti imprenditori ed artisti.
Al momento, siccome fare concorrenza alla Siae sul fronte della riscossione delle royalties è illegale per una start up italiana, noi sopravviviamo solo perché crediamo nel valore etico di quello che facciamo e crediamo fortemente che la nostra presenza possa portare a dei cambiamenti nel sistema culturale italiano. Diversamente, se ci fossimo dovuti basare solo sul ritorno economico, avremmo già chiuso.

Ma quindi tu per vivere cosa fai?
In effetti ho una doppia vita: in Italia sono il fondatore & Ceo di Patamu, che gestisco assieme ad un magnifico team di 10 persone. Allo stesso tempo vivo in Spagna, dove sono ricercatore di Sistemi Complessi e Biomedicina.

4. CONTINUA [leggi la quinta puntata]

Articolo sotto licenza Creative Commons Attribuzione – Condividi allo stesso modo 4.0.

Precedenti articoli dell’inchiesta:

L’OPINIONE
Genova per noi, specchio
di un Paese in disfacimento

Ci vuole grande coraggio e stomaco forte per amare o anche soltanto rispettare il meraviglioso, insopportabile, satanico Paese nostro, calpestato e vilipeso dai suoi sciamannati figli, i quali pensano di aver ricevuto in dono da Dio la licenza di distruggere: personaggi, eventi, ingiustizie, idiozie incombono su di noi in un crepuscolo tempestoso e impietoso, una volta si diceva che gli dei ci puniscono. Osservazione ragionevole, di occasionale sul nostro pianeta c’è poco e l’Italia è una terra asociale, fascistella d’animo, terra di furbastri, delinquentelli e mariuoli di varia specie. Con il cuore gonfio ho seguito in questo torrido autunno di tregenda il nuovo scempio di una regione che agli italiani dovrebbe essere molto cara e non soltanto agli italiani, al mondo abbiamo donato le Americhe, tutto sommato fu latina la grande idea che oltre le Colonne d’Ercole il pianeta continuava e non moriva lì chissà come e chissà perché. Il geniaccio italiano, questo strano popolo, si caricò sulle spalle inglesi, francesi, spagnoli, traghettandoli, grazie Colombo!, oltre oceano e siamo rimasti a guardare come si fa ricchezza, facendoci poi canzonare per la nostra povertà. Ricordo che a un ricevimento in un’ambasciata romana, un funzionario francese, non ricordo di che si stesse parlando, disse, con l’arrogante sicumera di un novello Chauvin, disse “voi italiani avete sempre combattuto per il pane, noi per la gloria” e l’amico che accompagnavo, un vecchio e valentissimo giornalista e scrittore, Manlio Miserocchi, lo guardò di sottecchi e gli rispose freddamente “ognuno combatte per quello che non ha!”, zittendo il maleducato e ignorante transalpino. Il quale, tuttavia, non avrebbe avuto tutti i torti se soltanto avesse voluto condannare la nostra filosofia esistenziale, così protervamente egoista, così ingenuamente provvisoria, ché il futuro per gli italiani non esiste.

Ragionavo fra me e me di queste jatture, mentre alla televisione trasmettevano le spaventose immagini di Genova sconvolta dalle acque che tecnici e politici hanno operato per farle precipitare da monte a valle sempre più impetuose, impossibili da frenare, come le cascate del Niagara. E dicevo a voce alta (parlo sempre a voce alta con la televisione, vezzo dei vecchi): malviventi!, uccidete questa città e questa regione che ci hanno dato artisti, politici, navigatori, poeti, uccidete perchè non sapete far altro. E mi è venuto in mente il racconto che mi fece due anni fa l’amica Dodò subito dopo che il fiume Magra era entrato in albergo, il piccolo, ineguagliabile hotel “Sette archi” di Bocca di Magra, dove da anni trascorro le mie vacanze marine, dal quale vedo le Alpi Apuane, sembrano le Dolomiiti, che si specchano nella larga foce del fiume e nel porticciolo, rifugio per decine, forse centinaia di barche, piccole imbarcazioni a vela e alcuni grandi yacht, i cosiddetti “ferri da stiro” di proprietà di poveretti che chissà se in banca hanno di che pagare le tasse. E’ un panorama unico, incantevole, non contaminato dal rumore delle auto che qui non possono arrivare, un luogo silenzioso che si chiude verso il mare nel parco e nei ruderi di un’antica villa romana. Dalla terrazza della mia camera vedo il paesaggio aprirsi sotto i picchi intagliati dagli uomini, i famosi cavatori di Colonnata. Cavatori anarchici, nella piazzetta del paese hanno affisso una lapide dedicata “a tutti I compagni anarchici uccisi sulla strada della libertà”. Si, quando ci penso il cuore mi si gonfia e lo sguardo corre verso Sud, pochi chilometri e so che deve fermarsi a Stazzema, luogo dell’orrore nazifascista, dove i boia neri, prima di scendere a Marzabotto, uccisero nel 1944 oltre cinquecento donne e bambini, ma le nostre incompatabili enciclopedie ci ricordano soltanto che “nel territorio vi sono cave di marmo” e che il paese conserva la pieve romanica di S. Maria Assunta. Va bene così.

E proprio da questi monti scoscesi della Liguria le bufere hanno scaricato due anni fa una cascata d’acqua, da Bocca di Magra alle Cinque Terre fino a Genova . I liguri non si persero d’animo, non versarono troppe lacrime, non urlarono, abituati a quel silenzio così ben descritto dal grande Biamonti, curvarono la schiena e ricominciarono il loro lavoro di infaticabili formiche . Ma sperarono: quel disastro poteva, doveva essere l’inizio di una ricostruzione ragionevole e ragionata. Niente da fare, lo sciocco languore speculativo italiano ha prevaricato ancora. E’ sempre stato così. Ricordo che nel 1987 si tenne in Comune a Ferrara una solenne riunione di politici e di alti funzionari, presente l’allora presidente del Consiglio Giovanni Goria, che si chiuse con un giuramento: il Po sarebbe stato salvato. Il Po è sempre meno navigabile, continua a essere una fogna a cielo aperto, uno splendido fiume. Morto.

REPORTAGE
Volti e nomi dal Mercato della Terra di Slow Food

Sabato 18 ottobre è partito a Ferrara il Mercato della Terra di Slow Food. Una trentina i produttori del territorio selezionati, alcuni saranno fissi, altri ruoteranno in funzione della stagionalità. Ogni sabato mattina, dalle 8 alle 13, ci saranno 20/25 produttori-espositori con prodotti locali.

Di seguito le foto dei banchetti di sabato scorso… (clicca le immagini per ingrandirle)

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Az. agr. bio Il X° Boattino di Sara Mantovani, Masi San Giacomo (Fe)
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Mortadella di Salumi Bonfatti, Renazzo (Cento, Fe)
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Az. Agr. Fondo Boschetto di Silvia Cavicchi, Fossanova San Marco (Fe)
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Vivaio del sole di Giuliana Artioli, Ferrara
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Pasta la Romagnola Bio di Paola Fabbri, San Biagio di Argenta (Fe)
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Miele dell’apicoltura di Riccardo Sarto, Terraviva (Fe) e Rocca Malatina (Mo)
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Az. Agr. Cuor di lavanda di Dolcetti Dario, Migliarino (Fe)
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Pescheria Edoardo, Porto Viro, Rovigo
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Il teatro del gelato di Marco Gruppioni, Sant’Agostino (Fe)
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Torrefazione Penazzi di Alberto Trabatti, Ferrara
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Riso Baldo dell’Az. agr. Giancarlo Fogagnolo, Jolanda di Savoia (Fe)
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Az. agr. Belmur, di Maurizio Murino, Masi Torello (Fe)
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Uova delle galline ovaiole ruspanti di Edoardo Poli, Quartesana (Fe)
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Pasta fresca, Casa famiglia del Fienile di Baura, Coop. Integrazione lavoro (Fe)
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Il pane ferrarese macinato a pietra del “Mulino del Po”, Ro (Fe)
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Salumeria e gastronomia dei F.lli Rizzieri, Focomorto (Fe)
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Azienda vinicola Mattarelli, Vigarano Pieve (Fe)
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Il caviale dello storione del Po di Cristina Maresi, secondo le antiche ricette de Le Occare, Runco (Fe)
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Birrificio FM di Silvia e Roberto, Località per Volano, Pomposa (Fe)
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La gente
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La gente… e non solo…

E allora esageriamo: limousine nuziale in stile Cenerentola

da MOSCA – Povera Cenerentola… sigh! A vedere una simile rielaborazione, se così possiamo chiamarla, della sua carrozza da fiaba, inorridirebbe sicuramente. Un sussulto, un singhiozzo, e, magari, pure un sudorino ghiacciato davanti a tanta opulenza, tutt’altra cosa dell’eleganza.

E’ questa la nuova limousine in stile Cenerentola, messa a punto, in Russia, su una Chrysler PT Cruiser, di moda tra le spose che la sognano, la chiedono e la vogliono per il giorno del fatidico sì. Noi siamo abituati a vedere la nostra eroina, in colori tenui, delicati, scendere le scale, verso il suo bel principe, dolce e romantica, fra il blu e l’azzurro, con una pallida luna che illumina la scena.

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Cinderella, disegno di Maria Sciarnamei

E ce la immaginiamo arrivare su una carrozza che sembra di panna e di canditi, leggera. E invece no, qui la si pensa diversamente (come su molte altre cose, d’altronde…). La Chrysler, rigorosamente bianca, modificata con forme arrotondate che ricordano una carrozza delle favole, per trasportare le fanciulle all’altare, è la nuova moda che dilaga in Russia, dove i nuovi milionari sono sempre di più alla ricerca delle estreme frontiere del lusso.

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Chrysler PT Cruiser, interni

Ecco, allora, la straripante vettura, che ostenta al suo interno un bar attrezzato, sedili in pelle contrapposti, come quelli delle carrozze, sui quali troneggia la pacchiana scritta “exclusive limo”, luci al neon e sontuosi vasi e calici di cristallo per lo champagne, probabilmente per ricordare la famosa scarpina. Il tetto è stato alzato per consentire agli sposi di uscire dalla porta in piedi. Sulle fiancate vi sono pompose e arzigogolate decorazioni floreali in rilievo e sia davanti che sul retro sono appese piccole lanterne di charme (charme?).

allora-esageriamoEsclusiva lo è certamente, forse addirittura unica, tanto da fare girare la testa a chi la vede passare lungo le strade russe, incuriosito. Tutto molto esclusivo, ma la strabiliante creazione non ha forse superato i confini del kitsch? Stucchevole, direi, ma ai posteri l’ardua sentenza…
Il sogno di tutte (o quasi) le donne è quello di avere un matrimonio da favola con un vestito da principessa, una cerimonia romantica e un ricevimento sfarzoso e pieno di amici.
Allora, Limousine, Chrysler russa, Bentley, spider o cabriolet? A ciascuno il suo. C’è anche la sposa che a Napoli, però, nel giorno più importante della sua vita, in chiesa ci arriva in autobus, a bordo del “Pollicino”, il minibus dell’Anm (Azienda napoletana mobilità).

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Napoli, bus Anm

A noi piace di più. Diverse visioni. Per rendere originale la cerimonia di nozze, l’azienda di Napoli ha lanciato la campagna “Bus Married”, mettendo a disposizione della futura moglie una delle vetture pubbliche per una giornata indimenticabile. Un pullman di linea personalizzato, con fiori, palloncini e scritte. La sposa sceglierà, ovviamente, percorso e fermate. L’importante è scendere alla fermata giusta…

LA STORIA
“At sàlut Dino, ti grànd”

Dino Sarti (Bologna, 20 novembre 1936 – Bentivoglio (BO), 11 febbraio 2007) è stato chansonnier e showman, artista di night-club e di cabaret, autore di canzoni, attore e scrittore, ma soprattutto un grande figlio di Bologna.
Il 14 agosto 1974 il Comune di Bologna, su idea del sindaco Renato Zangheri, organizzò per i bolognesi rimasti in città, uno spettacolo in piazza Maggiore, incaricando Dino Sarti di condurli verso il ferragosto. Quella sera migliaia di persone si ritrovarono in piazza per applaudire il cantante bolognese, nonostante lo scetticismo che aleggiava in città: “Me a dégh che al séndick l’è dvintè màt: fèr un spetàcuel propri incû che a Bulagna a gni è inciòn!”.
Dopo quel concerto Dino Sarti diventò ancora più famoso in città e le sue canzoni iniziarono a essere conosciute nel resto d’Italia, facilitato dal fatto che erano metà in dialetto e metà in italiano. Da “Spomèti” a “Bologna campione”, da “Tango Ibezéll” a “Viale Ceccarini Riccione”, dalla giovane che cerca “Un biglietto del tram per Stella” lungo via Indipendenza fino a “Prova d’amore”, ispirata al personaggio felliniano di Lallo, grazie a Tonino Guerra che gli aveva fatto leggere in anteprima la sceneggiatura di “Amarcord”.
La carriera dello “sciomen” petroniano ebbe inizio a metà degli anni cinquanta, quando si esibiva nelle balere e alle feste dell’Unità, smessi gli abiti di operaio metalmeccanico. Nel 1958, dopo aver partecipato alla prima edizione del Festival di Castrocaro, grazie al maestro Pino Calvi, ottenne un contratto discografico e incise il suo primo 45 giri: “Giorgio/La pasta asciutta”.
Nel 1972 collaborò con Donatella Moretti, per cui scrisse “Malgrado ciò ti voglio bene” e con Fred Bongusto, firmando i testi di “Non è un capriccio d’agosto” e “Un’occasione per dirti che ti amo”. In quel periodo si esibiva regolarmente al Derby, il famoso locale milanese.
È stato anche un interprete di cover, rigorosamente in dialetto bolognese, di brani stranieri, specialmente della scuola francese, come nel caso di “Non, je n’ai rien oublié” di Charles Aznavour, tradotta in “No, an me scurdarò mai” oppure “In dal pôrt d’Amsterdam” di Jaques Brel, autore anche di “Les vieux”, diventata “I vic’”. La sua parodia di “New York, New York” tradotta in “A vag a Neviork”, fu molto apprezzata, per non parlare di “Dormi Brel”, un omaggio al grande chansonnier belga, scritto insieme a Castellari e “Nathalie” di Gilbert Becaud. Sua la sigla dello sceneggiato tv “Il passatore”, scritta con il maestro Piero Piccioni.
A metà strada tra un cantautore e uno show man, il cantore di Bologna ha avuto il suo periodo d’oro tra gli anni ’70 e ’80, di lui Enzo Biagi diceva: “…le canzoni di Dino Sarti, hanno il sapore del pane all’olio e rispecchiano il carattere della mia gente…”.
Dino Sarti scriveva i testi delle sue canzoni, mentre le musiche erano quasi tutte di Corrado Castellari, noto per avere composto successi per Mina, Milva, Iva Zanicchi, Ornella Vanoni, Adriano Celentano, Stefania Rotolo e Fabrizio de Andrè (sua la musica de “Il testamento di Tito”).
Sarti era dotato di un particolare umorismo, che sapeva trasferire al pubblico, sia dal vivo sia per mezzo dei dischi; il primo dei quattro volumi di “Bologna invece” vendette oltre 100mila copie. Era insuperabile nel descrivere luoghi, personaggi, tic e stereotipi del bolognese medio. Il suo era un microcosmo di personaggi oramai relegati nella memoria di chi ha vissuto quei tempi e in qualche film di Pupi Avati.
Oltre che cantante è stato attore nello sceneggiato televisivo “Fontamara”, diretto da Carlo Lizzani, nei film “Vai alla grande” di Salvatore Samperi, e “Dichiarazioni d’amore” di Pupi Avati e in un carosello dell’Alka Seltzer, diretto da Gillo Pontecorvo (episodio: “Sala di consiglio” 1972).
Intensa anche l’attività di scrittore, iniziando da “Vengo dal night”, dove ripercorre la sua infanzia e con essa la storia di Bologna, cui sono seguiti “Il tango è imbecille?”, ”O si è bolognesi o si sa l’inglese” e “Quanto zucchero?”.
Simpatia e slanci di generosità erano una caratteristica di Sarti, per esempio Clearco, un suo fan di Genova che gli ha dedicato una pagina su Facebook, ci ha confidato di avergli scritto una lettera, ricevendo una risposta scritta e un cd “fatto in casa”, con canzoni rimaste inedite.
Per meglio comprendere lo stato d’animo del cantante bolognese, durante gli ultimi anni di vita, riportiamo uno stralcio di quanto scrisse Maurizio Cevenini (scomparso nel 2012), in occasione del funerale: “… Piazza Maggiore 14 agosto; anche lì c’ero, fresco di diploma quell’estate la passai a Bologna e il ferragosto di quell’anno fu memorabile. Erano davvero quarantamila, più della grande festa per la vittoria del referendum sul divorzio di quel 1974. Forse fu da quella sera, dalle parole di Zangheri, che Bologna stava cambiando, tre anni dopo arrivò lo schiaffo violento del ’77 che riportò tutti con i piedi per terra. Ma quella sera fu indimenticabile, tenne la scena per ore il nostro caro Dino e forse non si accorse, anche se ci furono altri appuntamenti, che la sua città il suo dialetto lo stavano abbandonando. Questa è la verità e me ne accorsi qualche anno fa quando incontrandolo, ospite di un matrimonio, mi disse che tutti i sindaci di Bologna, allora c’era Guazzaloca ma valeva anche per gli altri dopo Zangheri, lo avevano dimenticato. Lo diceva un po’ a tutti e oggi nel giorno del suo funerale guardando i muri spogli del Pantheon della Certosa ci vergogniamo. Come capita sempre più spesso con i figli di questa terra che se ne vanno in silenzio, trascorrendo lontano dalla città gli ultimi anni della loro vita. Non è stato il più grande ma certamente il più popolare cantante del dialetto bolognese. At sàlut Dino, ti grànd”.

La priorità è il lavoro. Appello a sostegno della manifestazione della Cgil del 25 ottobre

“Lavoro, dignità, uguaglianza per cambiare l’Italia”. A sostegno delle motivazioni che sono alla base della manifestazione nazionale indetta dalla Cgil a Roma per sabato prossimo (25 ottobre) è stato redatto e sottoscritto un appello di adesione da parte di trenta cittadini ferraresi che ne condividono i presupposti e invitano alla partecipazione. #tutogliioincludo
Il lavoro che manca è l’urgenza del Paese, che brucia il futuro delle giovani
generazioni e costringe milioni di persone alla precarietà. La politica del governo non
affronta questo dramma anzi da’ continuità alle politiche liberiste fin qui praticate dai
predecessori: tagli di spesa pubblica che alimentano la spirale recessiva e liberalizzazioni
del mercato del lavoro che accentuano la precarietà.
Con il Jobs Act il Governo si spinge dove non erano riusciti i governi di destra:
svuotare a fondo lo Statuto dei diritti dei lavoratori incidendo così sulle tutele che
garantiscono la libertà e la dignità dei lavoratori e delle lavoratrici, la tutela dal
licenziamento arbitrario, la tutela della dignità professionale del lavoratore, il diritto di non
essere video-sorvegliati.
La Costituzione, che era entrata nei luoghi di lavoro con lo Statuto, ne verrebbe
espulsa.
Lo si vorrebbe fare in nome e per conto di quegli stessi lavoratori precari che non
possono organizzarsi in sindacato perché non possono godere di quegli stessi diritti,
accusando paradossalmente di non riuscire a rappresentarli un sindacato indebolito da sei
anni di recessione e da 15 anni di legislazioni liberiste!
E lo si fa utilizzando la menzogna secondo cui questi diritti sarebbero “eccentrici” nel
contesto competitivo europeo cercando così di nascondere l’incapacità politica di aggredire
le vere anomalie della situazione italiana e cioè il livello abnorme raggiunto dall’evasione e
dalla corruzione e la presenza soffocante della criminalità organizzata.
Si alimenta, a questo scopo, una frammentazione rancorosa della società giocando
pericolosamente sulla contrapposizione giovani-anziani, lavoratori attivi-pensionati,
lavoratori autonomi-dipendenti, dipendenti privati-dipendenti pubblici, lavoratori pubblici
in divisa-lavoratori pubblici in borghese … negando la funzione di ricomposizione degli
interessi propria delle rappresentanze sociali.
Con l’imposizione del voto di fiducia su una legge delega di inusitata vaghezza, il
governo compie un altro passo nella direzione della contrazione della democrazia,
impedisce la normale dialettica parlamentare, utilizza il risultato del voto per il Parlamento
Europeo come plebiscito che delegittima il Parlamento nazionale, anticipa il risultato delle
riforme istituzionali trasferendo il potere legislativo nella mani dell’esecutivo.
Una sola proposta alternativa è realisticamente in campo davanti a questa deriva
politica: la piattaforma con la quale la Cgil chiama a manifestare il 25 ottobre a Piazza San
Giovanni che rivendica un piano straordinario per l’occupazione giovanile, la riscrittura
della legislazione del lavoro per ridurre la precarietà, lo stanziamento delle risorse
necessarie a dare tutele universali contro la disoccupazione, la riunificazione del mercato
del lavoro attraverso l’estensione dei diritti a chi ne è privo, la difese delle conquiste di
civiltà.
Per questo aderiamo alla manifestazione e facciamo appello alla partecipazione.
Fiorenzo Baratelli
Guido Barbujani
Claudio Bariani
Gabriele BelcastroSalvatore Belcastro
Silvia Belcastro
Daniela Cappagli
Sandro Cardinali
Daniele Civolani
Marco Contini
Tito Cuoghi
Carmelo Damigiano
Elia Fioravanti
Giovanni Fioravanti
Monica Forti
Sergio Gessi
Alessandro Grossi
Antonio Ianni
Daniele Lugli
Paolo Mandini
Renata Patrizi
Lina Pavanelli
Mauro Presini
Valeria Sitta
Franco Stefani
Piero Stefani
Elisabetta Tampieri
Ranieri Varese
Luana Vecchi
Gianni Venturi
Emanuela Zucchini

L’INCHIESTA
Siae: c’è chi dice no. L’avvocato Aliprandi: “Troppa burocrazia, poca trasparenza”

Un’inchiesta in cinque tappe per approfondire le ragioni delle critiche nei confronti della Società italiana autori ed editori.

3. SEGUE Oggi la parola passa a Simone Aliprandi, avvocato esperto in materia di diritti d’autore, specializzato in creative commons, copyleft e open source.

Perché si oppone alla Siae?
Io tecnicamente non mi oppongo alla Siae e ci tengo a precisarlo una volta per tutte. L’attività che svolgo sul tema Siae ha squisitamente un intento divulgativo e informativo. E se spesso i miei interventi si soffermano su aspetti critici del modello Siae è perché appunto questi aspetti critici stanno iniziando a raggiungere l’attenzione del grande pubblico, anche grazie ad attività di informazione come quella svolta da me e da altri colleghi. Ad ogni modo, non amo molto essere qualificato come uno genericamente contro la Siae. Innanzitutto perché essere contro la Siae in sé non ha molto senso; la Siae è un’istituzione pubblica e quindi si comporta in un determinato modo perché la legge italiana ed europea glielo consente. Poi bisogna anche dire che la Siae fa un lavoro prezioso (quello dell’intermediazione dei diritti d’autore) che qualcuno deve pur fare; che questo lavoro si possa fare con metodi più moderni ed efficienti è un’altra questione.

In base alla sua esperienza di consulente, quali sono le principali richieste o problematiche che gli artisti che revocano la loro iscrizione, o che non si iscrivono affatto, incontrano?
Una delle motivazioni più ricorrenti è di carattere banalmente economico. Essere associati o mandanti Siae ha dei costi fissi, mentre gli introiti che un autore può ricevere come proventi Siae sono commisurati a quanto le sue opere vengono effettivamente utilizzate. Ne consegue che, salvo il caso di opere di particolare successo, molti autori si trovano a versare in quote annuali più di quanto raccolgono. Da lì la legittima domanda: “Ma allora che senso ha?!”
Un’altra motivazione, che possiamo definire più tecnica, è il passaggio ad un’altra collecting society estera alternativa alla Siae. È questo il caso, ad esempio, di autori che hanno esigenze particolari, legate al tipo di mercato cui si rivolgono e al tipo di utilizzazioni che vengono fatte delle loro opere.
Infine, inutile negarlo, c’è anche una motivazione essenzialmente ideologica. La Siae, proprio a causa dei suoi punti dolenti (eccessiva burocrazia, poca trasparenza) non riscuote sempre grande simpatia tra gli utenti e questo fa sì che molti preferiscano prenderne le distanze.

Che cos’è il copyleft?
Il termine copyleft nasce negli anni 80 in seno al movimento del software libro e può essere oggi utilizzato con vari significati. Nel suo senso più ampio fa riferimento ad un modello alternativo di gestione del diritto d’autore attuato con l’applicazione di licenze che consentano la libera ridistribuzione delle opere e in alcuni casi anche la loro modifica. Le licenze più note su questo modello sono le licenze del progetto Gnu per quanto riguarda il software e le Creative Commons per tutti gli altri tipi di opere creative.

Quanto è diffuso questo modello?
E’ difficile quantificare, dato che le opere rilasciate con licenze open sono sparse per tutta la rete. Però basti pensare che, per qualsiasi ricerca venga fatta su Google, tra i primi risultati si trova quasi sempre una contenuto sotto licenza Creative Commons: cioè una voce di Wikipedia. L’enciclopedia libera che tutti siamo ormai soliti consultare è infatti uno degli esempi di maggior successo del modello copyleft. E se consideriamo che ad oggi la versione inglese di Wikipedia contiene più di 4 milioni e mezzo di articoli…

Auspica una fine del monopolio Siae dei diritti d’autore? Pensa sia possibile?
In generale i monopoli legali (cioè creati dalla legge) non sono segno di un sistema economico molto moderno. Ma c’è sempre il rischio che la liberalizzazione di un servizio faccia ancora più danni se non fatta con le dovute accortezze. Quello che auspico è che si arrivi ad una seria riflessione sulle nuove esigenze poste dai nuovi mercati digitali e globalizzati e che quindi si faccia una legge che ponga le giuste basi per un’evoluzione liberalizzata e concorrenziale dell’intermediazione dei diritti d’autore. Da un po’ di tempo si discute di una imminente direttiva europea che ponga i principi di base affinché tutti gli stati dell’Ue che ancora hanno situazioni di monopolio siano tenuti a innovare le loro normative. E vista l’inerzia del legislatore italiano in materia di diritto d’autore, l’intervento dall’alto dell’Unione Europea sembra l’unica soluzione.

3. CONTINUA [leggi la quarta puntata]

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Precedenti articoli dell’inchiesta:

IL FATTO
Parole di cioccolato

Non ti dico buongiorno, ti dico Nutella. Il nuovo spot pubblicitario della famosa crema gianduia spalmabile va molto oltre le strategie commerciali che Vance Packard descrisse nel suo “I persuasori occulti”, uscito nel 1957 e ripreso nei primi anni Ottanta. Allora Packard illustrò, destando un notevole scalpore, le tecniche seduttive che volevano dimostrare i presunti effetti benefici derivanti dal consumo o dall’uso di un determinato prodotto. Eravamo però di fronte a consigli più o meno convincenti da seguire, a tentativi più o meno riusciti di orientare i comportamenti, realizzati dalle grandi multinazionali. Nel caso nostro invece siamo alla manipolazione del linguaggio, all’intervento semantico che modifica le consuetudini, insinuante e carezzevole. Molto più delle parole o del gergo che diventano modi di dire comuni e che però poco a poco spariscono.
Quindi, buongiorno si può dire Nutella, in tante maniere – afferma la pubblicità – scrivendo su una confezione un pensiero, una frase, esprimendo un sentimento verso chi ti è caro. Personalizzando il messaggio.
È sottinteso che così si comincia meglio la giornata e che tutto potrà andare bene. Se poi le cose dovessero andar male, se per esempio ci si dimentica dell’anniversario di matrimonio, o di un compleanno, o di una ricorrenza importante, o di non so che altro, niente paura: non si chiede perdono, si chiede Nutella, dice sempre lo spot. La pubblicità ci invita a cambiare il linguaggio in nome di una crema, ma insomma, la vita è comunque dolce. Che volete di più?

Ferrara vista con gli occhi
di uno studente fuorisede:
“Troppo autolesionismo,
serve uno scatto d’orgoglio”

Sono quasi dieci anni che frequento Ferrara, scolasticamente parlando, nonostante la mia residenza nella provincia di Mantova. E da quando ho cominciato il liceo, in provincia, ho sempre osservato come la tradizione dei ferraresi sia fortemente improntata sulla critica (più o meno costruttiva), sull’accusa, sulla denuncia. Tutte propensioni fondamentali in un Paese libero e democratico che, tuttavia, diventano utili davvero soltanto se orientate a una ricerca costruttiva verso il miglioramento. Invece no. Noto purtroppo che la principale forma di valutazione dei ferraresi circa il territorio nel quale vivono sia spesso frutto di un pensiero molto autolesionista, un pensiero incentrato ad evidenziare particolarmente solo i problemi e le negatività che a tutto porta meno che all’innovazione e al cambiamento della triste ed immobile situazione odierna. E pensando a ciò molto intensamente negli ultimi tempi, ormai iscritto al terzo anno di Università e dopo aver conosciuto molta gente qua residente, mi sorgono spontanee, sempre più prepotenti, alcune domande: possibile che la critica non diventi autocritica? Che non si possa cominciare a valutare non solo ciò che non va, ma anche e soprattutto ciò che di unico e fantastico è presente in questo territorio? Tra i ferraresi sembra ormai tradizione dimenticarsi della storia della loro città, che l’ha portata coerentemente a essere uno dei luoghi più unici e caratteristici non solo in Europa ma nel mondo. Ora, sono ben consapevole che il mio “sfogo” (se così possiamo chiamarlo) possa risultare inutile e frutto di pressappochismo (oltre al fatto che questo sentimento critico lo si ritrova quasi sempre anche nelle altre città) ma, al contrario, sono sempre più convinto che quello che qui serve sia un cambiamento di mentalità.
Penso a una presa di coscienza di ciò che ci circonda. Com’è possibile non valorizzare il più possibile la cultura ferrarese esaltandone i caratteri tipicamente medievali e quelli che hanno ne hanno segnato la grandezza rinascimentale? Grande meta di un turismo che approda a Ferrara quasi inconsapevole dell’antica atmosfera che si respira per le sue strade, tra le vie dei borghi e l’imponente centro storico. Com’è possibile non valorizzare la tradizione gastronomica, fiore all’occhiello di un Paese già al top a livello mondiale e proprio per questo ai vertici delle preferenze internazionali? Come si può non essere orgogliosi di vivere sulle sponde del Po, a pochi passi dal Delta e dal mare, in un paesaggio costellato di infinite campagne e terre rigogliose? E come dimenticarsi dell’università, modesta nelle (obbligate) dimensioni ma assolutamente competitiva con le ben più grandi realtà presenti in città vicine? E ancora, del suo riconoscimento di città delle biciclette, dei suoi numerosissimi festival estivi, della grande propensione all’organizzazione di eventi artistici?
Lo so, a parole è troppo semplice parlarne. Più difficile è rimboccarsi le maniche ed agire. Ma solamente ricominciando ad amare queste terre e queste tradizioni si potrà tornare ad essere stimolati, consapevoli di contare e di essere importanti. Perché quindi non sognare di tornare a vedere la Ferrara di un tempo, culla di tradizione, terra di storia, gloriosa patria estense? Una Ferrara che conta non solo in Emilia (dove sempre più viene considerata l’ultima ruota del carro) ma a livello nazionale, o ancora più in grande? Io in primis, da esterno, comincerei da qui per scrivere pagine più rosee per il futuro. Basta vedere tutto solo in negativo. Basta credere sempre solo ai complotti. Basta considerare Ferrara solamente come una città “immobile”. Per farla rinascere è prima di tutto obbligatorio tornare ad amarla e considerarla per quella che è: una città Patrimonio dell’Unesco. E se neanche il riconoscimento di questa eccellenza sarà sufficiente, allora sì che inevitabilmente bisognerà ammettere di aver sciupato, appunto, un vero e proprio patrimonio.

Nell’immagine in evidenza “Umarells” (foto di Irene Brognati)

lavoro

IL TEMA
Un po’ di chiarezza su articolo 18 e riforma del lavoro

Alzi la mano chi dal dibattito sui media ha capito cosa cambierà con il Jobs Act, la riforma del lavoro di Matteo Renzi e Giuliano Poletti. Dopo l’incontro al centro sociale Acquedotto devo ammettere che comincio ad avere le idee più chiare. È stato il professor Paolo Pini, docente di economia politica presso l’ateneo estense, a diradare un po’ la nebbia che, seguendo – lo ammetto – solo il dibattito mediatico su questo argomento, avvolgeva il vituperato disegno di legge delega sul mercato del lavoro dal nome così modaiolo ed esterofilo.
Il docente ha passato in rassegna quelli che ha chiamato i quattro pilastri di questa riforma: riduzione del cuneo fiscale, politica industriale per il manifatturiero italiano e il made in Italy, ricomposizione del mercato del lavoro tramite il contratto a tutele progressive, semplificazione delle norme sul lavoro. È venuto fuori che, per quanto riguarda i primi due, nel Jobs Act è stato fatto ben poco: non si è intervenuti sulle tre voci più importanti del cuneo fiscale, cioè i contributi previdenziali e sociali a carico dei lavoratori e dell’impresa e le imposte sul salario lordo a carico del lavoratore, e la politica industriale è “materia non pervenuta, a meno che non si ritenga che politica industriale sia sinonimo di privatizzazioni”, ha affermato il docente.
Ma le osservazioni più interessanti sono emerse a proposito del contratto a tutele progressive e delle correlazioni fra flessibilità, aumento dell’occupazione e della stabilizzazione dei contratti, maggiore investimento delle imprese sui lavoratori con conseguente aumento della produttività e quindi dell’efficienza. Prima di tutto, secondo Pini, il mercato del lavoro italiano non sarebbe affatto uno dei più rigidi: “Fra i Paesi industrializzati è diventato uno dei più flessibili”. In altre parole, “dato che si faceva fatica a smantellare il mercato del lavoro tutelato, si è creato a fianco un mercato del lavoro privo di tutele e poi è stato fatto crescere”, mentre l’altro si starebbe estinguendo con il tempo e i pensionamenti. Dunque, paradossalmente, della modifica dell’articolo 18 in realtà non ci sarebbe nemmeno così bisogno perché il turn over avviene sostituendo contratti tutelati con nuove forme senza tutele. Inoltre Pini ha dimostrato con tanto di dati e grafici Ocse e ministeriali che non ci sono evidenze empiriche che una maggiore flessibilità aumenti l’occupazione o la successiva stabilizzazione dei contratti, e ancor di meno favorisce la produttività, che dipende sì dalle risorse umane, ma soprattutto dagli investimenti in innovazione e formazione e dall’organizzazione del lavoro. Ad aggravare la situazione, il continuo succedersi di riforme senza monitoraggio dei risultati di quelle precedenti: si procede così a una nuova modifica dell’articolo 18, senza prima aver promosso analisi, indagini, studi di un qualsiasi tipo sulla precedente modifica a firma Fornero.
Infine una panoramica sulle attuali condizioni del mondo produttivo italiano: nonostante tutte le riforme che si sono succedute in questi ultimi convulsi anni di crisi, non c’è stato sicuramente un aumento dell’occupazione e men che meno è aumentata la produttività (ammettendo che la soluzione sia produrre di più e non produrre meglio e cose diverse).
“Ma se la flessibilità sul mercato del lavoro l’abbiamo fatta, cosa manca? – si è chiesto in conclusione il professor Pini – Manca flessibilità dentro le imprese: non abbiamo cioè lavorato sull’organizzazione del lavoro all’interno delle aziende”. In altre parole la produttività non ha nessuna relazione con la precarietà, anzi quando c’è è negativa, ma è collegata agli investimenti in ricerca e sviluppo, in formazione, all’organizzazione della produzione. Chi pensa ancora che il problema sia l’articolo 18?

L’INTERVISTA
Michael Sfaradi: “Io, scomodo reporter di guerra svelo le mistificazioni dei vostri giornali”

Reporter di guerra e romanziere, Michael Sfaradi israeliano originario di Roma, ha fatto tappa a Ferrara per raccontare la sua esperienza al fronte israelo-palestinese nei periodi più caldi degli ultimi anni. Torna in Italia un paio di volte l’anno per promuovere la sua attività di romanziere e di analista di uno dei più strategici e controversi scenari di conflitto senza soluzione di continuità, quello che più di ogni altro può determinare il destino dell’occidente e dell’Europa in particolare. Nel corso di un seguito dibattito alla Galleria Mario Piva – moderato dal nostro direttore Sergio Gessi e partecipato dallo storico ferrarese Andrea Rossi – Michael Sfaradi ha puntato il dito su quella che definisce una campagna mediatica diffamatoria nei confronti di Israele. L’informazione ufficiale, sostiene, è sbilanciata a favore dei palestinesi, non tiene conto della realtà dei fatti ma tende a mistificare gli eventi nell’interesse di un’unica parte. Un’azione che non giova né al giornalismo né al lettore, ma favorisce la disinformazione. Sfaradi non solo né è convinto, ma si batte attraverso il suo scomodo e pericoloso lavoro – che certo non gli garantisce lo stipendio – per riportare notizie vissute in diretta. E’ questione di professionalità.
Gli abbiamo rivolto alcune domande per cercare di indagare una professione difficile che coinvolge umanamente, obbliga al confronto con una realtà cruda e impone rigidi confini al proprio scrivere.

Michael Sfaradi (primo a sinistra) durante la conferenza tenuta a Ferrara alla galleria Mario Piva, con Andrea Rossi, Sergio Gessi, Monica Forti
Michael Sfaradi (primo a sinistra) durante la conferenza tenuta a Ferrara alla galleria Mario Piva, con Andrea Rossi, Sergio Gessi, Monica Forti

Il lavoro ti porta periodicamente in Italia per raccontare la tua esperienza di free lance. Quali sono i motivi che ti spingono a farlo?
Vengo a smontare pezzo per pezzo ciò che dicono e scrivono di Israele, nella maggior parte dei casi si tratta di diffamazione di un intero Stato. Lo faccio con prove alla mano, studiate da specialisti volontari che passano al setaccio filmati e immagini più visti nel mondo. Si tratta di materiale spesso costruito a tavolino o attraverso montaggi sporchi che illustro durante le mie serate. Il giornalista deve raccontare quanto vede, non deve dedicarsi alla narrazione né tanto meno deve assecondare il pubblico alimentandone convinzioni errate, più è scomodo più è fedele al suo lavoro. Lo deve fare con maggior convinzione soprattutto ora che la libertà di stampa è minata dai poteri forti intenzionati a orientare l’informazione a seconda dei propri interessi

Cosa è cambiato nella tua vita da quando hai conosciuto la guerra in diretta?
Sono cambiati i parametri di rapportarsi con la vita, cose prima fondamentali passano in secondo piano, gli orizzonti diventano diversi anche per quanto riguarda il proprio privato.

Di recente hai realizzato una serie interviste particolarmente significative, tra cui quelle a Israel Hasson dello Shin Bet, i servizi segreti di controspionaggio israeliano oggi deputato del partito Kadima; a Noam Shalit, padre del caporale dell’esercito Gilad Shalit sequestrato da Hamas poi liberato; a Bat Ya’or, autrice dei libri “Eurabia” e “Verso il califatto universale” nelle quali descrive le strategie islamiche nei confronti delle democrazie Rahel Frenkel, madre di uno dei tre ragazzi rapiti e uccisi dai terroristi di Hamas in giugno.
Quali si sono trasformate in un vero e proprio incontro?
Ognuna è un incontro, c’è sempre un contatto umano indispensabile per mettere a proprio agio l’intervistato e liberarne le risposte permettendogli di raccontare la sua verità, un’intervista ben riuscita sta nella completezza delle risposte. Ovviamente ci sono interviste ostili, in quel caso finisce in una litigata.

Quali sono i limiti del reportage di guerra?
E’ rappresentato dalle redazioni, da come adattano le notizie, per questo il reporter non solo deve esporsi il più possibile durante il suo lavoro, ma deve assicurarsi sia pubblicato senza tagli, altrimenti può anche stare a casa. Chi sente l’odore di cordite, vede i luoghi degli scontri, i morti, chi suda nel giubbotto antiproiettile, che è blu e non verde come si scrive erroneamente, deve pretendere la salvaguardia dell’integralità dei propri articoli.

Tra gli analisti dello scacchiere mediorientale chi è il più vicino alla tua visione dei fatti?
Maurizio Molinari de ‘La Stampa’ è quello che certamente ha capito come stanno le cose. I suoi report dalla striscia di Gaza sono i più onesti anche se non mancano piccoli adattamenti su alcune specifiche notizie.

Come pensi evolverà la crisi mediorientale e cosa comporterà?
A Gaza nel peggiore dei modi. Gli aiuti concessi, 5 miliardi e mezzo di dollari, finiranno con il finanziare una nuova guerra contro Israele. Da Hamas non si è preteso nulla in cambio, non è stato chiesto né il rispetto del cessate il fuoco, né di sospendere gli atti terroristici, anzi è ripresa la produzione di missili e si continuano a scavare tunnel per fare irruzione in Israele. Anche se la trattativa politica dovrebbe essere la cosa migliore per cercare di imboccare la via della pace, la possibilità è sempre più remota: Hamas e Fatah non sono disponibili, l’indipendenza della Palestina prevede per loro stessa ammissione la distruzione di Israele.

Pochi giorni fa in Gran Bretagna è stata approvata una mozione laburista con cui si chiede il riconoscimento dello Stato Palestinese cosa ne pensi?
La notizia è uscita parzialmente, si è omesso di riferire l’intero contenuto della richiesta che prevede degli obblighi dei palestinesi verso la comunità internazionale tra cui la rinuncia alla distruzione di Israele. Tra l’altro la mozione è passata alla presenza di soli 270 dei 646 membri del Parlamento britannico, se i numeri fossero stati diversi le cose, con tutto probabilità, sarebbero andate in un altro modo. Queste iniziative non fanno bene alla diplomazia, si dimentica che mancano le condizioni previste dall’Onu affinché possa nascere uno stato palestinese. Quella britannica è stata una decisione dannosa per le trattative di pace, l’Europa dovrebbe fare da garante, essere super partes, invece rischia di perdere la sua affidabilità mostrandosi più incline verso una parte degli attori. Dispiace assistere alla mancanza di analisi politica e dei fatti, non si può ignorare che in mezzo a tanti fuggiaschi dalla guerra ci sono anche terroristi in erba diretti in Europa, non è un bel sintomo. Le prove generali di quello che succederà lo abbiamo già visto in Francia con la ribellione delle banlieux l’Europa sarà colta impreparata perché non sa o non vuole vedere le cose come stanno.

Per info: www.michaelsfaradi.it

Il vetro dinamico: l’edificio camaleonte e il futuro virtuoso dell’architettura

Attribuire un significato etico alla funzione del “vetro” nel terzo millennio, simbolo dell’architettura contemporanea verticale estrema, può risultare una tagliente provocazione. Può sorprendere, infatti, come l’eterea leggerezza e la trasparenza di questo materiale ormai associato all’high-tech costruttivo e alla sfida al cielo, possano essere coniugate alla concreta e non più negoziabile sostenibilità.
L’aurea del “vitrum”, a cui la millenaria storia dell’architettura ha riservato uno spazio predominante, come quando nelle scintillanti vetrate delle cattedrali gotiche significava “stupore e fede”, oggi rappresenta ancora un riferimento unico nelle modalità tecnologiche applicate al risparmio energetico, alla produzione di energia dal sole e nel prossimo futuro influenzerà, come vedremo, i nostri comportamenti quotidiani.
Il vetro, nelle sue multiple rappresentazioni, è oggi il protagonista della modernità nelle grandi metropoli, nel design ardito, nell’innovazione, nella ricerca più avanzata. Nel 1931, scriveva a tal proposito Albert Eistein: “La preoccupazione per l’uomo e il suo destino deve sempre costituire il principale obiettivo di tutti gli sforzi tecnologici […] affinché le creazioni della nostra mente siano una benedizione e non una maledizione per il genere umano. Non dimenticatevi mai di questo nel mezzo dei vostri diagrammi e delle vostre equazioni.” (Mario Livio, “L’equazione impossibile”, Rizzoli, 2005).
Un appello raccolto dai dipartimenti Ricerca e sviluppo dell’industria vetraria che, grazie ai loro “diagrammi ed equazioni”, con un grande balzo tecnologico in avanti e dopo otto secoli dall’Officina di Chartres, ci consentono di perseguire nell’architettura delle costruzioni gli obiettivi comunitari del piano di salvaguardia ambientale ed energetico 20-20-20 e quelli più severi ipotizzati per il 2050.
Un obiettivo inscindibile e inderogabile quello della riduzione dei consumi e delle emissioni in atmosfera, frutto di una nuova sensibilità: Innovazione, Sostenibilità, Salvaguardia ambientale, nella sintesi una forma di “responsabilità sociale concreta”, possibile anche grazie ai giganteschi investimenti immessi nella ricerca dai grandi gruppi mondiali produttori di vetro.
edificio-camaleonteOggi il “fabbricato camaleonte”, ossia l’edificio che si trasforma in base al tempo e al sole, sogno e desiderio di tutti gli architetti di questi ultimi duecento anni e fino ad ora mai realizzato, è una realtà a portata di mano.
E`stupefacente: fondere le peculiarità intrinseche del vetro ai comportamenti selettivi dei metalli applicati in superficie, utilizzando come catalizzatore del sistema l`insieme delle più recenti ed estreme tecnologie e nanotecnologie. Le tecnologie di deposizione su vetro di oltre quindici strati sovrapposti ultrasottili di metallo e di ossidi metallici, per un totale di non piu`di 6/700 angström, consentiranno “le applicazioni dinamiche” indispensabili per bilanciare energeticamente le dilatate trasparenze delle nostre auto, delle nostre residenze a sviluppo orizzontale e verticale, credute spesso potenziali “macchine iperenergivore”, grazie alla disponibilità sul mercato di un ultimo concetto funzionale di nuova generazione che oggi identifichiamo come famiglia dei vetri cromogenici.
Nella sostanza, vetrazioni che modificano il proprio stato di trasparenza alla lunghezza d’onda del visibile e all’infrarosso (principio di selettività), attraverso processi chimici o fisici reversibili quando esposti alla luce solare o alla variazione della temperatura superficiale, oppure quando sottoposti ad un impulso elettrico, quando condizionati dalle temperature superficiali e abbinati a liquidi polimerici aggiunti alla vetrazione. Da oggi, e nel prossimo futuro, potremo avere fabbricati cangianti ma soprattutto, in alcune versioni, le partizioni in vetro della nostra abitazione o dei nostri uffici che vivono insieme a noi nella mutevolezza della giornata e al clima delle stagioni, cambieranno “il proprio status di trasparenza” attraverso il touch-screen di uno smartphone.

Di seguito, in sintesi, le diverse tipologie di prodotto di questa famiglia, riferibili alle tecnologie elencate sopra, nella modalità autoregolante o indotta da comandi esterni: vetri fotocromatici (alcuni componenti minerali del vetro reagiscono in modalità fotochimica e reversibile alla componente Uv dello spettro solare; quando esposti alla luce i vetri si scuriscono e al buio riacquistano la trasparenza; vetri termocromici (modificano la loro trasparenza allo spettro solare, sulla scorta della variazione di temperatura sulla loro superficie esterna); sono assimilabili a questi le tipologie di vetri gascromici o termotropici.
Ma dove la sperimentazione e la ricerca hanno fatto passi enormi, rendendo disponibile il prodotto dal laboratorio al pubblico in tempi brevissimi, è la tipologia dei vetri elettrocromici dinamici. Due le tecnologie disponibili: una a cristalli liquidi e una a strati metallici sovrapposti in sequenza. Entrambe modificano la trasparenza della vetrata allo spettro solare quando sottoposte ad un impulso elettrico a bassa tensione, quando comandato manualmente attraverso un potenziometro o un comando remoto, oppure con un telefono, se necessario può essere integrato nel sistema di controllo energetico del fabbricato. Si possono comandare al momento fino a quattro diverse trasparenze alla luce, coincidenti con altrettanti carichi di soleggiamento oppure condizionabili alla frequentazione degli ambienti, ma senza mai perdere il controllo delle immagini all’esterno. Una sofisticazione ulteriore del sistema dinamico è possibile attraverso l`integrazione di celle fotovoltaiche nel sistema, che consentono di captare l’energia necessaria per alimentare il sistema elettrico di modulazione necessario per regolare la dinamicità della vetrazione.
Non tarderanno le applicazioni in larga scala di questi innovativi e rivoluzionari prodotti in vetro cromogenico dinamico, ricchi di una forte caratterizzazione sociale. Si modificherà il nostro comportamento nel privato: abitazioni e autovetture verranno utilizzate con minori sprechi di energia e, nel contesto pubblico, ottimizzeremo al meglio i consumi negli uffici, negli ospedali, nelle scuole, aumentando il comfort negli ambienti, con la consapevolezza di un agire quotidiano integrato al meglio nel processo di miglioramento del collettivo, connesso alla natura, più responsabile, sostenibile ed etico.

marco bonora info@studiodelvetro.it www.studiodelvetro.it

IL FATTO
Interrogare la memoria. Studenti ferraresi in viaggio per Auschwitz

Sono partiti oggi i ragazzi del liceo artistico Dosso Dossi e dell’istituto tecnico Aleotti coinvolti nel progetto “Viaggio e Memoria: tracce, parole, segni sulle orme dei cittadini ferraresi di religione ebraica deportati ad Auschwitz”.
Il viaggio, che durerà fino a sabato 25 ottobre, conclude un percorso frutto della collaborazione fra i due istituti superiori ferraresi, l’Istituto di storia contemporanea e il Meis-Museo dell’ebraismo italiano e della shoah, che ha permesso ai ragazzi di approfondire le tematiche storiche della dittatura fascista e dell’olocausto, ripercorrendo le vicende della propria città e dei suoi cittadini di fede ebraica in quegli anni travagliati.
I ragazzi viaggeranno in pullman, ha spiegato Anna Maria Quarzi – direttrice dell’Istituto di storia contemporanea di Ferrara – nella conferenza stampa di presentazione, “perché ripercorreremo il più possibile le tappe del terribile viaggio degli ebrei ferraresi verso il campo di Auschwitz-Birkenau”.
Tornano alla mente le riflessioni che, da alcuni anni a questa parte, alcuni studiosi della storia e della memoria della Shoah, ma anche studiosi della storia dell’ebraismo ed esponenti della comunità ebraica fanno a proposito dei viaggi della memoria, dei luoghi della memoria e delle giornate celebrative. In un’intervista a Repubblica del gennaio 2014, Anna Foa ha parlato del rischio di “diventare professionisti della memoria” e, a proposito delle visite al Museo di Auschwitz, ha confessato “Sentire la spiegazione didascalica della guida mi ha dato fastidio. I luoghi hanno una loro forza sconvolgente perché evocano ciò che è accaduto”. La retorica non funziona, troppe complessità, troppi interrogativi. Per questo, ha continuato la studiosa in quell’intervista, “è sbagliato somministrare ai ragazzi una doccia di memoria dall’alto, come fosse una medicina”.
Qui sta il pregio del lavoro che hanno affrontato i ragazzi ferraresi insieme con i loro insegnanti, è tutto nella parola greca istoría, che significa ricerca, conoscenza attraverso l’indagine. Questo viaggio arriva, infatti, a conclusione di un lungo percorso di approfondimento che ha calato le vicende storiche nei luoghi che loro conoscono, nelle vie, nelle piazze e fra i banchi che frequentano ogni giorno. Una conoscenza affiancata dalla richiesta di riflessione e di rielaborazione personale non solo della storia e della memoria di quegli avvenimenti, ma di ciò che significa la memoria nell’esperienza di ciascuno di loro. Da qui la mostra del gennaio scorso, realizzata a partire da un concorso indetto fra gli studenti delle scuole medie e superiori della provincia, e allestita dai ragazzi del liceo artistico presso le sale del Meis in via Piangipane e lo spettacolo teatrale ideato dagli studenti dell’istituto tecnico. Viaggio e Memoria tracce, parole, segni sulle orme dei cittadini ferraresi di religione ebraica deportati ad Auschwitz ha insomma il pregio di non considerare la memoria un rito consolatorio, una narrazione del passato senza alcuna incrinatura, ma uno strumento per costruire il futuro a partire dalle proprie radici, senza temerne gli aspetti più ambigui. Per questo il titolo del concorso che darà vita alla mostra di quest’anno è Le radici del futuro. Tracce, parole, segni.

L’INTERVISTA
Uno spritz con Nabokov
e De André: al tavolo
del bar buona musica e bookcrossing

Bookcrossing, una pratica in voga, che difficilmente però si associa a un bar. Fa eccezione il Bar91 di via San Romano. Qui lo scambio di libri è un’abitudine: fra un caffè e uno spritz chiunque può entrare e lasciare un libro, in una piccola libreria pronta ad accoglierli, fra le bottiglie e i sandwich che stanno dietro il bancone del locale. Clemente Gandini ne è il proprietario.

Come e quando ti sei avvicinato al bookcrossing?
L’ispirazione nasce da un piccolo locale a Ghiare di Berceto, in Val di Taro. Era pittoresco: nella saletta di una piccola stazione ferroviaria c’era questa libreria aperta e completamente libera, in cui chi passava poteva prendere un libro e lasciarne un altro. L’idea mi colpì anche visivamente, oltre a darmi lo spunto di poterlo fare, in un futuro non lontano. E così è stato.

Quali iniziative avete adottato per coinvolgere le persone e farvi conoscere?
Un paio di settimane fa abbiamo fatto questo esperimento: da mezzogiorno a mezzanotte, per ogni libro che ci veniva portato in dono da aggiungere alla nostra libreria, noi offrivamo un caffè. Abbiamo intitolato questo appuntamento “Un caffè per un libro”. Per l’occasione avevamo ideato e distribuito segnalibri disegnati da Marco Jannotta, artista ferrarese e amico. L’iniziativa ha avuto successo e abbiamo in programma di ripetere questa esperienza, magari periodicamente, battezzando un determinato giorno della settimana una volta al mese.

C’è una prevalenza di genere, tra i libri che vengono portati?
C’è grande eterogeneità di testi, tra narrativa e saggistica, e libri per tutti i gusti: da Lolita di Nabokov (in una fantastica prima edizione, ndr) a Storia degli Stati Uniti di Allan Nevins e Henry Commager, da Niente di vero tranne gli occhi di Giorgio Faletti a Cronache italiane di Stendhal, passando per la popolare trilogia Cinquanta sfumature di Ellroy. Poi Buchi neri e universi neonati di Stephen Hawking, Pagine gialle di Forattini, W l’organizzazione di Townsend. C’è persino un libro in russo (Le profezie di Nostradamus) e qualche testo sulle fate in inglese. E l’elenco è molto vasto, siamo a quota 90 libri circa. Questa ricchezza rispecchia anche la grande varietà e mescolanza umana delle persone che entrano: studenti universitari, clienti del bar, giovani e meno giovani, appassionati e curiosi.

C’è qualcosa che accomuna le persone che entrano qui attirate dall’iniziativa?
Alla base esiste un profondo senso del dono. Non c’è ritorno economico di nessun tipo; nessuno dei libri che vedi è stato acquistato né sarà venduto. Sono tutti regalati, arrivati, piovuti; e non abbiamo notato mai leggerezza o superficialità in chiunque si avvicina all’iniziativa, né, viceversa, eccessivo attaccamento all’oggetto che potrebbe caratterizzare un bibliofilo. A volte qualcuno entra e chiede quasi con timidezza “Posso lasciare un libro?”, come a chiedere se qualunque opera sia bene accetta. E lo è, naturalmente. É il senso di condivisione alla base del tutto, e naturalmente grande passione per la lettura, la letteratura e i libri in generale. Nella prospettiva di un ingrandimento della libreria, abbiamo intenzione di applicare anche un timbro per identificare un libro che passa per i vari luoghi che ha toccato nel proprio viaggio, in modo simile al codice unico con cui vengono identificati volumi appartenenti a uno stesso circuito tipico del concetto di bookcrossing, come se si potesse tracciare la rotta seguita dal libro nel suo viaggio.

Non vi occupate solo di letteratura ma anche di arte. Da dove arrivano i bellissimi quadri?
Nel corso di questa edizione di Internazionale a Ferrara, in collaborazione con Zamenhof Art e Ferrara Art Festival esponendo opere di Fiorenzo Bordin, Mario d’Amico, Ivo Stazio e Marica Zorkic, dal titolo “Istantanee di una città immaginata”, i cui quadri sono ancora esposti nel nostro locale. Per Racket Festival, serie di mostre al Palazzo della Racchetta durante tutto il mese di settembre e la prima settimana di ottobre, abbiamo curato il servizio bar.

Accompagnati dalle note di Fabrizio de André la sciamo questo singolare bar: la musica d’autore ne conferma la vocazione culturale e alternativa.

LA STORIA
Ritratto di amiche

Sono sedute una di fronte all’altra, non si vedevano da tempo.
Che piacere rincontrarsi dopo tanti anni. Tante vite sono passate sotto i loro occhi e pensieri, tante gioie e tanti dolori, tanti amici e tanti nemici, tanti successi e tante delusioni. E poi gli amori iniziati e finiti, i figli nati e partiti lontani, i lavori terminati e perduti, i baci regalati e rubati, gli anni che sono passati. Tania e Anna si abbracciano, si baciano sulle candide guance, si accarezzano i capelli curati, morbidi e lucidi, lasciati liberi dai loro copricapi invernali già necessari per la prima neve. Vestite di stelle, si sono date appuntamento in una sala da tè moscovita, dall’atmosfera molto retrò e liberty, se non altro perché li’ parla e si mangia francese. Chez Paul, il classico nome che si ritrova un po’ ovunque a Parigi o in altra città della Francia. La musica in sottofondo è quella della colonna sonora di W.E., di Abel Korzeniowski, un vero genio delle note e della loro armonia.
Una musica del ritorno, dell’amore complicato, dell’amicizia ritrovata, del legame oltre la vita. Quella musica che proprio ora mi sta ispirando, che mi porta in questa scena finemente colorata, dai dolci sapori del miele e dei macaron, del tè al gelsomino e delle zollette di zucchero di canna a forma di cuore e di pulcino. E’ quasi una scena d’altri tempi.
Intorno ci sono note, dolcezza, spensieratezza, libertà, voglia di vivere e amicizia.
I giornali appoggiati sui tavolini lasciano intravedere la pagina degli spettacoli, balletti, concerti ma anche esposizioni e spettacoli del circo. La parte degli annunci presenta alcuni cerchi, marchiati a inchiostro rosso intenso, su annunci di scambi di amicizia e di conversazioni russo-francese. Sono stropicciate, perché vissute, studiate, lette e rilette, consumate dalla ricerca di qualche cosa. Chissà se accarezzate trepidando o se scartate con impeto, distrazione, rabbia.
Tutto lì dentro sa un po’ di attesa.
Alle pareti ci sono immagini in bianco e nero della Parigi degli anni trenta, qualche riproduzione di foto di Henri Cartier Bresson; ci sono poi anche ritratti che ricordano i bei lineamenti delle donne degli impressionisti. Una pare proprio la bella e dolce Jeanne Samary, di Auguste Renoir, che, oggi, se ne sta tranquilla nelle enormi e luminose sale dell’Hermitage.

chez-paulTania e Anna si guardano, si possono specchiare ciascuna negli occhi verdi trasparenti dell’altra, hanno visto talmente tanto spesso le stesse cose che ormai si assomigliano. Hanno quasi la stessa espressione, lo stesso colore di occhi, gli stessi vestiti, lo stesso cappellino, la stessa gonna, gli stessi stivali, le stesse rughe, le stesse espressioni.
Quasi fossero allo specchio. E stasera lo sono davvero, senza schermi né difese. Si parlano, si capiscono, si sono perse di vista negli anni ma si sono ritrovate oggi, cambiate ma uguali.
La vita non è poi così diversa, ci sono sicuramente delle varianti, ma la sostanza resta la stessa, per tutti. Tania e Anna continuano a parlare, si sorridono, si commuovono, si confessano. Come le amiche di sempre, quelle che sono state e che sono rimaste. E, dolcemente, si guardano allo specchio. Riflessi di luce si diffondono nell’aria leggera profumata di caramello e di tiglio. Bello ritrovarsi, senza più distanze né troppe speranze. Lo specchio parla da sé.

I caldi colori del romantico autunno

da MOSCA – L’autunno, iniziato ufficialmente Il 23 settembre, è ormai nella sua piena maturazione. Stagione romantica, di foglie che cadono, di colori caldi e avvolgenti. Ci sono il marrone, il beige, il giallo e il verdino spento, ma anche il rosa delle luci delle case che rimbalza sui vetri come in un colorato e felice caleidoscopio. Gli alberi si spogliano, fanno cadere i vestiti secchi pronti per il prossimo rigoglio primaverile, quando ci sarà la nuova rinascita. Alcuni si addormenteranno nel lungo e rigido inverno, altri intrecceranno i loro rami secchi in un lungo e forte abbraccio che li scalderà. Perché l’unione farà la forza.

com-autunno-alberi-fogliecom-autunno-alberi-foglieI bambini nelle scuole prepareranno orsetti e spaventapasseri da ritagliare, alberi, cornici e copertine da colorare, lavoretti per i genitori e i nonni, magari già pensando al Natale. E poi ci sono uva, mele, castagne, mandorle, noci, cachi e clementine. L’odore dei mandarini sbucciati. Cestini di frutta secca e ghirlande di pigne autunnali.
Spuntano cappotti, cappelli, guanti e sciarpe, soprattutto qui a Mosca, dove inizia già a fare freddino. Da un palazzo antico si sente suonare l’omonima stagione di Vivaldi. Le note leggere di pianoforte accompagnano le passeggiate di chi va a zonzo per la città.

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Mosca, autunno 2014
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Mosca, autunno 2014

Per molte culture, l’Equinozio d’autunno è un giorno di celebrazioni, un momento speciale nel quale le forze di luce e tenebra sono in perfetto equilibrio. Anche per noi è un passaggio importante, un tempo per la meditazione, per rivolgersi all’interno, durante il quale la separazione tra visibile e invisibile si assottiglia fino quasi a scomparire. Nella memoria delle antiche popolazioni celtiche, l’Equinozio autunnale veniva festeggiato col nome di Mabon: il giovane dio della vegetazione e dei raccolti. Indicato col nome di Maponus, nelle iscrizioni romano-britanne, è il figlio di Modron, la Dea Madre: rapito tre notti dopo la sua nascita, fu imprigionato per lunghi anni fino al giorno in cui venne liberato da Culhwch, cugino di Re Artù. Il suo rapimento è l’equivalente celtico del rapimento greco di Persefone. Nell’antica Grecia si celebravano i Grandi misteri eleusini, che rievocavano appunto il rapimento di Persefone, figlia della dea Demetra che regolava i cicli vitali della terra, condotta agli inferi dal dio Ade che ne fece la sua sposa. La leggenda racconta che Demetra, come segno di lutto e fin quando non riebbe sua figlia, rese impossibile il germogliare delle sementi e delle piante e sterile la terra. Ogni autunno si rivive il sacrificio degli dei che, dopo le gioie e le glorie amorose della primavera e dell’estate, dopo aver dato con la massima potenza fecondante i frutti a tutti gli esseri viventi, sono costretti a declinare nel buio della Terra. Che però resta casa, ventre, madre, riparo accogliente.
L’equinozio è anche il tempo del seme, delle radici officinali, delle potature, del compost e dell’acqua. In Francia, dal 1793 al 1805, questo giorno divenne il Primo dell’anno e in Giappone ancora oggi è una festività dedicata agli avi e alla famiglia.
Da poco passato l’equinozio, passeggiamo fra i colori, sapendo che i posti più belli in questo momento dell’anno sono sicuramente Canada e Giappone, ma che noi siamo qui. Contenti, comunque, di poter respirare una fresca aria di casa, sotto le stelle.
E allora, benvenuto dolce, timido, caldo e sereno autunno.

Foto di Simonetta Sandri

In occasione dell’arrivo dell’’autunno il New Yorker ha selezionato 40 sue bellissime copertine autunnali. Il settimanale statunitense è celebre anche per la bellezza e varietà delle sue copertine. Tra queste, alcune traggono spunto dagli elementi classici dell’autunno: foglie secche che cadono al suolo, alberi spogli, nature morte, quasi tutto in tinte virate all’arancione. Ce ne sono anche altre, però, che reinventano gli stessi elementi e ci aggiungono un po’ di fantasia, come quella del 12 settembre del 1994, con impiegati in giacca e cravatta che camminano sui trampoli con le loro valigette, mentre alle loro spalle si staglia lo skyline di New York [vedi].

L’INCHIESTA
Siae: c’è chi dice no. Andrea Caovini: “Il monopolio è anacronistico”

Un’inchiesta in cinque tappe per approfondire le ragioni delle critiche nei confronti della Società italiana autori ed editori.

2. SEGUE Nella prima parte del nostro viaggio Sara “Dagger Moth” Ardizzoni ha illustrato le ragioni che l’hanno indotta a cancellarsi dagli elenchi della Siae. Oggi parla Andrea Caovini, musicista e attivista per la tutela della musica originale.

Di cosa ti occupi e quali sono le ragioni delle tue critiche alla Siae?
Come occupazione principale faccio il musicista e l’organizzatore di eventi di promozione per la musica originale, non sono iscritto Siae ed il dissenso nasce proprio dall’ingerenza della Siae nei riguardi dei miei eventi personali, con richieste secondo me indebite.

Qual è la tua posizione nei confronti della Siae e del diritto d’autore?
La Siae ed il diritto d’autore sono spesso trattati come argomenti complementari, ma non lo sono. Il diritto d’autore nasce con la creazione di un’opera, non con l’iscrizione della stessa alla Siae. La Siae ha il compito principale di raccogliere e ridividere i proventi derivanti dall’utilizzo di opere, se ciò non serve perché il giro d’affari è tale da essere curato direttamente dall’autore la Siae è oltre che inutile dannosa e rappresenta un costo al posto di un ricavo…

Secondo te come dovrebbe essere regolamentato il diritto d’autore?
L’autore deve avere piena disponibilità del suo diritto, quindi deve essere libero di gestirlo secondo sua coscienza, regalarlo quando vuole e lo reputa giusto, farselo pagare caro quando caro quando lo ritiene opportuno, quindi il mandato a Siae deve poter essere adattato all’uso.
Ancor meglio sarebbe se il diritto fosse gestito in un mercato di libera concorrenza. Faccio un esempio: in un evento in beneficenza vogliono usare una mia canzone come sigla, la regalo. La vuole la Bmw per una pubblicità, voglio un milione di euro. Mi piace l’operato della Siae in merito ai diritti televisivi ma non in merito agli eventi di musica live, vorrei poter dare loro mandato solo per ciò che apprezzo del loro agire.

Al momento si possono fare scelte selettive come tu auspichi?
Sì, si può sia limitare il mandato alla Siae, escludendo ad esempio i live dai loro compiti di riscossione, sia iscriversi ad una collecting estera: costano meno, a volte hanno iscrizioni una tantum e non annuali e soprattutto sono obbligate da statuto a reinvestire nella musica parte dei proventi in diversi casi. Il problema rimane in parte in quanto in Italia anche se io sono iscritto alla società francese o spagnola è sempre la Siae ad occuparsi della riscossione con delega da parte delle società estere, quindi, vuoi o non vuoi, parte dei miei soldi le passerebbero comunque per le mani.

Periodicamente ritorna in circolazione la notizia secondo la quale il monopolio della Siae sarebbe finito, è vero?
Il monopolio della Siae non può finire se non cambia la legge 633 del 1941 che glielo concede. Al tempo stesso nessuno vieta ad un cittadino dell’Unione Europea di utilizzare i servizi di uno qualsiasi degli stati membri, quindi a tutti gli effetti il monopolio non esiste più.
Quella notizia che dal 2012 ci passeggia intorno cambia o cambierebbe di poco lo stato delle cose. Fermo restando che la revisione di una legge del 1941 di stampo fascista e che detta un monopolio è necessaria quanto è anacronistico il suo contenuto.

2. CONTINUA [leggi la terza puntata]

 

Articolo sotto licenza Creative Commons Attribuzione – Condividi allo stesso modo 4.0.

Nella foto di Werner Swan, il musicista Andrea Caovini

Precedente articolo dell’inchiesta:
Dagger Moth, un’artista ferrarese che ha revocato l’iscrizione alla Siae

LA RIFLESSIONE
Le tecnologie digitali e il reddito di cittadinanza

La crisi ha riportato in auge uno spettro che ha accompagnato lo sviluppo industriale: il timore che la tecnologia, le macchine, possano distruggere il lavoro e l’occupazione, lasciando fasce di popolazione in balia della miseria. Fino a qualche anno fa si guardava con sufficienza alle rivolte dei luddisti nell’Inghilterra del XIX secolo, ritenute, a ragione, infondate e basate su paure irrazionali. Oggi, il dubbio che le nuove tecnologie digitali, pur garantendo sviluppi ancora oscuri ai non esperti, possano anche distruggere occupazione in modo irreversibile sta prendendo nuovamente piede ed appare, anche ad autorevoli esperti, una prospettiva assolutamente probabile, per non dire quasi certa. Effettivamente, negli ultimi due secoli, la tecnologia ha grandemente contribuito a spostare milioni di persone dal settore agricolo a quello industriale e poi, da questo, a quello dei servizi. Ora, le nuove tecnologie digitali, in rapida diffusione, hanno alcune caratteristiche distintive rispetto alle tecnologie che hanno animato la rivoluzione industriale: da un lato, esse si reggono su una gigantesca infrastruttura fisica tangibile, dall’altro, sono sempre più spesso in grado di simulare e riprodurre operazioni che, fino a poco tempo fa, si pensava fossero attributi del cervello e patrimonio esclusivo della cognizione umana. Superata questa soglia, messo sotto esame il comportamento del cervello, agganciato stabilmente il comportamento umano alle applicazioni tecnologiche, si aprono scenari che, ad un tempo, esaltano e preoccupano. La domanda diventa dunque quanto mai attuale: la tecnologia digitale crea o distrugge lavoro? Oppure semplicemente lo trasloca spiazzando quote crescenti di popolazione che rischiano così di essere espulse dai processi di consumo e di creazione di valore?

Lasciamo un attimo in sospeso questa domanda per analizzare brevemente il nostro rapporto con queste tecnologie ed alcune conseguenze che ne derivano. In questo preciso momento ognuno di noi è connesso ad un dispositivo digitale collegato in rete (altrimenti caro lettore non potresti leggere questo articolo). Per il semplice fatto di essere connessi stiamo fornendo informazioni al sistema: lo facciamo quando telefoniamo da qualsiasi dispositivo, quando usiamo il navigatore dell’auto, quando facciamo zapping in tv o quando ci sintonizziamo su una stazione radio. Lo facciamo quando usiamo il bancomat o la carta di credito e quando scarichiamo ed usiamo una qualsiasi app. Forniamo informazioni quando entriamo ed usciamo dall’autostrada usando il telepass, quando facciamo acquisti online o quando usiamo una tessera fedeltà o quando usiamo i social network. Certo, in alcuni casi paghiamo e, in cambio, riceviamo servizi che a volte ci semplificano la vita; in altri casi, non paghiamo nulla ignorando però che la nostra partecipazione gratuita è l’elemento chiave per generare enormi profitti. Non sono ne siamo consapevoli, ma forniamo informazioni ogni volta che passiamo sotto l’occhio di una telecamera di videosorveglianza ed ogni volta che usiamo la nostra tessera sanitaria; quando attraversiamo il tornello della metropolitana o prendiamo posto su un treno o un aereo. Finora tutte queste informazioni erano archiviate su supporti poco interattivi, sostanzialmente isolate tra di loro: la tecnologia digitale consente ora, con sempre maggiore facilità, di collegarli e renderli facilmente accessibili. Ma non solo. L’internet delle cose sta collegando sempre più strutture ed oggetti in gigantesche reti che producono quantità immense di dati digitali. Su piccola scala lo vediamo nelle applicazioni domotiche e, crescendo di livello, nelle applicazioni industriali di workflow management, nelle tecnologie di traffico intelligente, nelle nascenti smart city, negli ecosistemi militari, nella rete di calcolatori che gestiscono la finanza globale.
Da un lato, dunque si sta costruendo un nuovo ambiente, digitale, intelligente, caratterizzato da una sensoristica estremamente diffusa che raccoglie informazioni in modo sempre più automatico, depositandola in database sempre più capienti, numerosi ed interconnessi. Dall’altro, noi stessi offriamo continuamente informazioni a questo ambiente attraverso i nostri comportamenti quotidiani e non solo per il fatto di essere connessi consapevolmente alla rete internet che conosciamo. Le tecnologie digitali consentono di valorizzare tutto questo moltiplicando esponenzialmente la produzione di informazione, trasformando informazioni inutilizzabili in disponibili immediatamente, annullando i costi della raccolta di informazione e, in ultima istanza, conferendo valore d’uso enorme a qualcosa che prima, pur potenzialmente presente, non poteva essere utilizzato facilmente. Ovviamente questo è possibile se esistono le infrastrutture per farlo e se i cittadini continuano a funzionare come comoda fonte di informazione. Si tratta, a ben vedere, di una situazione senza precedenti che, per certi versi, ribalta la consolidata logica di un mercato dove ogni cosa ha un prezzo riconoscibile; dietro l’uso gratuito di molta tecnologia di comunicazione vediamo infatti la realtà, piuttosto inquietante per alcuni versi, di un sistema dove noi stessi (o meglio tutte le nostre scelte e comportamenti) siamo la merce che viene venduta. Big Data è il nome attraverso cui si riconosce il nuovo campo disciplinare destinato a governare questa immensa mole di informazioni digitali.
Tutto questo pone ovviamente davanti a sfide gigantesche non ultima quella del lavoro che qui ci interessa. E’ assai probabile infatti che l’applicazione massiccia delle tecnologie digitali porterà all’abbattimento di moltissimi posti di lavoro anche nel settore dei servizi (inteso in senso allargato), seguendo il medesimo trend di quanto successo nell’agricoltura prima e nell’industria poi. Porterà anche ad aprire nuovi settori occupazionali tutti da esplorare e ad alto contenuto di innovazione e creatività. Forse, spingerà anche molte persone a guardare con rinnovato interesse ad attività più semplici e naturali. Che ne sarà tuttavia della centralità del lavoro come strumento principe per la costruzione dell’identità e giusto mezzo per guadagnare da vivere?

Con tale domanda lasciamo anche questo scenario possibile, per prendere in esame un’altra vecchia idea poco conosciuta che sembra conservare una forte carica utopica: quella del reddito di cittadinanza (o reddito minimo universale o reddito base). Come noto, si tratta di un’erogazione monetaria garantita ad intervalli di tempo regolari e per tutta la vita di una persona. Viene riconosciuta a tutti coloro che hanno cittadinanza e residenza, per consentire una vita minima dignitosa; l’erogazione è cumulabile con altri redditi derivanti da lavoro, da impresa e da rendita ed è indipendente dal tipo di attività lavorativa, dalla nazionalità, dall’orientamento sessuale, dal credo religioso e dalla posizione sociale. In un mondo caratterizzato da un surplus di produzione che impone una sfrenata corsa al consumo, in un contesto che pone forti interrogativi circa la proprietà e l’uso degli enormi archivi di informazioni digitali, dove l’informazione è importante, largamente disponibile e manipolabile, l’idea di un reddito di cittadinanza sembra sia pertinente, al di là di ogni doverosa considerazione di tipo morale, che necessaria (pensiamo alla crescente forbice tra ricchi e poveri, effetto non secondario dall’avvento delle nuove tecnologie).
Possiamo dunque pensare che i cittadini ricevano un trasferimento monetario per il semplice fatto di fornire comunque informazioni indispensabili al sistema anziché pagare per ottenerne i servizi? In uno scenario caratterizzato, se non dalla fine del lavoro, quantomeno da una sua fortissima crisi, può essere il reddito di cittadinanza la soluzione capace di semplificare e rilanciare il sistema di welfare, garantire la copertura dei bisogni essenziali, salvaguardare gli spazi di intrapresa e produrre quel minimo di giustizia sociale che il vecchio modello non sembra più in grado di garantire?

Torniamo a giocare

Questa settimana parliamo di gioco. E chi meglio della Lego esemplifica l’idea di gioco? La Lego non poteva resistere alla tentazione di avere un mercato anche per adulti e così ti inventa il Lego Serious Play. “Un gioco per allenatori e atleti dell’esistenza umana ai nostri tempi. Sono gli ‘inner games’, i giochi interiori, con l’illusione di liberarci da tutto ciò che ci potrebbe ostacolare nell’appagamento dell’ossessione del successo. Insomma, la storia è sempre la stessa giocare per vincere.”

Da sempre le nostre mani hanno servito la mente. Ora invertire le gerarchie del nostro corpo può sembrare sorprendente. Eppure la superiorità del cervello nella specie umana deve cedere di fronte al pragmatismo delle mani. Con le mani si può pensare. È la scoperta delle neuroscienze che la Lego, la famosa casa danese, quella dei mattoncini della nostra infanzia, ha fatto propria con il metodo Lego Serious Play, Lsp. La parola ‘serious’ non manca di suggerirci qualcosa di più di un semplice gioco. Ma si sa che quando sono gli adulti a mettersi a giocare è già tutta un’altra storia.
Si tratta di un servizio di consulenza offerto da un facilitatore, o allenatore o coach, certificato Lego Serious Play, con l’obiettivo di favorire il pensiero creativo attraverso l’uso dei mattoncini Lego. I partecipanti lavorano su problemi aziendali – reali o immaginari – attraverso scenari sviluppati con le costruzioni tridimensionali Lego, da cui il nome “gioco serio”.
Il metodo, in uso dagli anni ’90 in numerose aziende ed università europee, è descritto come “un processo appassionato e pratico per costruire fiducia, impegno e intuizione”. Promette una veloce, profonda e significativa comprensione del mondo e delle sue possibilità. Si presenta come indispensabile per imparare a comunicare in modo efficace, per attivare l’immaginazione, per affrontare il lavoro con maggiore fiducia, impegno e intuizione.
In realtà nulla di nuovo, ma come sempre giungiamo in ritardo a scoprire le cose più semplici che ogni giorno stanno sotto i nostri occhi.
Seymour Papert, matematico, informatico, pedagogista sudafricano, naturalizzato statunitense, ce l’aveva già descritto con il suo ‘costruzionismo’, guarda caso, introducendo il concetto di ‘artefatti cognitivi, cioè oggetti che facilitano lo sviluppo di specifici apprendimenti.
È stato tra i primi ad adottare Lego come strumento per l’educazione e la didattica, sfruttando la stretta relazione che esiste fra le mani ed il cervello. Ce l’aveva detto nei primi decenni del secolo scorso anche Maria Montessori, ma ora le ricerche nel campo neuroscientifico confermano che le mani sono connesse con circa il 70/80% delle nostre cellule celebrali. Ciò implica che sfruttando queste connessioni neurali, attraverso la stimolazione simultanea di mani e cervello nella costruzione materiale di un artefatto, è possibile sollecitare l’apprendimento e il pensiero creativo.
Il fatto è che questo giocare, proposto agli adulti dalla Lego Serious Play, non è più quello dei bimbi per esplorare il mondo e conoscere se stessi.
Il gioco è studiato per primeggiare nella vita e nel lavoro. Il gioco è un allenamento per vincere la partita non insieme agli altri ma contro gli altri. Il gioco simbolico dei bambini qui si fa gioco di simulazione, di contesti virtuali per progettare e programmare le mosse vincenti quando sarà il momento vero della vita. Non mancano neppure i siti web che offrono corsi per apprendere a raggiungere prestazioni eccellenti in ambito lavorativo, sportivo e nella propria vita quotidiana. Un gioco per allenatori e atleti dell’esistenza umana ai nostri tempi.
Sono gli ‘inner games’, i giochi interiori, con l’illusione di liberarci da tutto ciò che ci potrebbe ostacolare nell’appagamento dell’ossessione del successo.
Insomma, la storia è sempre la stessa giocare per vincere.
Ancora una volta la strada intrapresa è quella di piegare il capitale umano alle regole inflessibili del mercato. Ben altra cosa dall’utilità vera del gioco, dalla via segnata da Seymour Papert.
Non c’è età in cui l’essere umano non abbia bisogno per esistere della mediazione del gioco, non per vincere, ma per imparare e comprendere.
Secondo Papert, la nostra mente ha bisogno di materiali da costruzione appropriati, esattamente come un costruttore: il prodotto concreto può essere mostrato, discusso, esaminato, sondato e ammirato.
La difficoltà ad assimilare concetti non è dovuta alla loro complessità o formalità, ma alla povertà culturale dei materiali che usiamo come mediatori, che dovrebbero rendere il concetto semplice e concreto. Perché è soprattutto con l’aiuto di artefatti cognitivi che l’uomo da sempre apprende.
Pensiamo allo sviluppo della conoscenza che hanno prodotto i computer e la rete, veri artefatti di supporto all’istruzione per tutti, ad ambienti di apprendimento che aiutano a costruirsi nuove idee.
Come negare che il computer con le sue opportunità, o la televisione stessa, non sia il gioco per eccellenza della nostra epoca.
Ormai con un click interagiamo con il mondo, si formano comunità di apprendimento senza gerarchie, si creano e si condividono idee, l’errore è fonte di confronto, si impara in modo significativo.
Il rischio vero è che nel gioco della vita siano ben altri a prendersi gioco di noi, pretendendo di insegnarci a vivere una vita che non è la nostra.

LA STORIA
Quel caffè nella via
dei Lucchesi

E’ un giorno di sole e di pioggia sotto il cielo di Ferrara. La città oscilla tra la tentazione di cedere al grigio cupo dell’inverno e il torpore azzurro di questa seconda estate d’ottobre. I suoi mattoni in cotto recitano, obbedienti, la loro parte senza sbavature: lividi, seriosi col grigio, vividi e accesi appena stesi al sole.
Guardo fuori dalla finestra e scorgo un convento lottizzato. Morte le ultime suore rimaste, è sopravvissuta la piccola chiesa. Gli appartamenti hanno un costo altissimo. Chissà cosa avrebbe pensato in proposito Cristo. Di sicuro lo avrebbe atteso un Grande Inquisitore qualsiasi, accusandolo di eresia. In qualche modo sarebbe finito comunque, di nuovo, tra i pali di una croce o le maglie roventi di una graticola.

Osservo le finestre, le grondaie, i tetti. Trovo quei versi di Franco Fortini che dicono “Qua e là, sul tetto, sui giunti / e lungo i tubi, gore di catrame, calcine / di misere riparazioni. Ma vento e neve, / se stancano il piombo delle docce, la trave marcita / non la spezzano ancora.
Penso con qualche gioia / che un giorno, e non importa / se non ci sarò io, basterà che una rondine / si posi un attimo lì perché tutto nel vuoto precipiti / irreparabilmente, / quella volando via”.

Scendo in strada e piovono foglie in corso Isonzo. Intorno nessuno pare curarsene. Le foglie di platano ricoprono l’asfalto. Imbocco via Garibaldi. In via Lucchesi una volta dimoravano gli industriali, i commercianti d’olio toscani, da lì il nome. Oggi trovo la saracinesca chiusa e mi viene alla mente che, dopo 35 anni, Michele Maglione se n’è andato via. L’avevo conosciuto per via del suo ottimo caffè. I nostri accenti si erano presi, incollati, riconosciuti. Michele Maglione, napoletano dagli occhi azzurri di ghiaccio, ha aperto il caffè di via Lucchesi una quindicina di anni fa. Con il timore dell’outsider, ha messo in piedi un locale che offriva esclusivamente caffè delle più svariate miscele. Non altro. Oggi, a distanza di anni, molti tentano di emularlo.

caffetteria-lucchesi
La caffetteria di via Lucchesi
In precedenza aveva vissuto in qualche posto sperduto dell’Africa e commerciato in legname, Michele. Rientrato in Italia, a Ferrara decise di tornare alle origini. Darsi una calmata. Una boccata di vita sedentaria. Le origini, quelle di quando, a sedici anni, passava il tempo nell’azienda di torrefazione dello zio, a Napoli. Questa è, in parte, la vicenda del Caffè di via Lucchesi.
Oggi la saracinesca di questa storia minuta, semplice, è chiusa.

Un giorno, dopo mezza vita emiliana, Michele vende il caffè a due donne. Due sorelle che si impegnano a conservarlo così come lui lo aveva concepito. Vende la sua creatura e acquista un pezzo di terra rossa verso la Murgia brindisina, nel parco degli ulivi secolari, in mezzo a due mari. Prova a realizzare un vecchio sogno, Maglione. Quello di costruirsi una casa fatta di quel legno che tante volte aveva maneggiato e che conosce bene. Poi affittare camere a qualche turista di passaggio, coltivare la terra, preparare il caffè, stavolta per sé e per i propri ospiti.

Qualcuno sostiene sia un viaggio, questa piccola Odissea chiamata vita. Altri, col volto accigliato, parlano di una perpetua lotta, di un’infinita Iliade senza vincitori, in cui risultiamo tutti assediati, vinti. Stretto tra questi pensieri, mi accontento di Ferrara con una saracinesca abbassata e una storia da raccontare. Mi basta un sabato pomeriggio di una vecchia città ostinata, che fa ancora il suo mestiere. In cui la gente vive, sogna, si innamora, riparte. In cui di continuo qualcuno approda, mentre alla stazione qualcun altro saluta.

Le cattive compagnie

Chi ha avuto a che fare con una compagnia telefonica avrà levato gli occhi al cielo più di una volta.
Per concludere un contratto e avere un servizio, cioè per incassare soldi, qualsiasi operatore può impiegare anche solamente una decina di minuti.
Il tempo necessario per apprezzare i benefici di una tecnologia in grado di facilitare la vita in modo sorprendente.
Poi, dal momento in cui hai messo la firma sopra un foglio, inizia la via crucis.
Possono anche trascorrere mesi prima che qualcuno si faccia vivo e venga a casa per montarti l’attrezzatura arrivata per posta e per la quale hai implorato l’aiuto di un tecnico, perché fra cavi e libretti d’istruzioni, la cui lettura implica tempi di vita davvero poco saturati, uno non sa da che parte girarsi.
Così si entra nel meraviglioso mondo del wifi.
Quando poi si arriva al momento di disdire anche solo una parte del servizio, ad esempio una chiavetta che non si usa, la via crucis si fa anche in salita degna del tour de France.
Torni dall’operatore che ti ha fatto il contratto, il quale ti dice che è semplicissimo. Basta collegarsi in internet sul sito della compagnia e disdire ciò che non serve, oppure ti indica una seconda strada che, anche facendosela spiegare più volte, non si capisce quale sia.
“Ma non potrebbe collegarsi lei direttamente in rete e, dati contrattuali alla mano, farmelo ora?”, domandi. Purtroppo l’operatore ti risponde che non può farlo e nemmeno è possibile parlare con un essere umano che ti faccia la procedura.
Torni a casa e provi. Sul sito della compagnia telefonica per orientarsi servirebbe una guida alpina. Si può addirittura arrivare a chattare con un ignoto operatore, il quale ti sottopone una batteria di domande da fare perdere il senso dell’orientamento. E non solo, per la verità.
Può capitare che l’operatore, che per comodità potremmo chiamare Cristina, mosso da pietà ti chiami pure.
Finalmente, si potrebbe pensare. Nulla di più sbagliato. La telefonata si dimostrerà per niente risolutiva, perché nemmeno la pur suadente Cristina ti dice che può farlo personalmente e che devi ritornare a complulsare il sito della compagnia telefonica. Ha accesso a tutti i tuoi dati contrattuali personali, forse anche quante volte ti soffi il naso in un giorno, ma quella cosa non è abilitata a farla. Salvo, al termine della conversazione, chiederti di valutare da uno a dieci il grado di soddisfazione dell’assistenza.
Dopo ulteriore tempo indefinito di navigazione senza meta e dopo aver oltrepassato barriere di username, password, batterie di domande fino a: “il tuo amico preferito nella vita”, e levato inutilmente gli occhi al cielo per invocare assistenza divina, alzi infine bandiera bianca.
Non rimane che la strada legale, viene da dire, per la ovvia gioia di avvocati e associazioni di consumatori.
Prima considerazione conclusiva: si sbaglia a pensare che burocrazia e muri di gomma siano un problema unicamente della pubblica amministrazione italiana, perché questa cortina fumogena alzata ad arte parla da sola su trasparenza e semplificazione anche nel privato. La formula magica “Customer satisfaction”, non a caso declinata in inglese, assomiglia più alla presa in giro che alla soddisfazione del cliente.
Seconda considerazione conclusiva: mi pare che esperienze come queste siano lo specchio esatto di un Paese, che ha sempre visto i cittadini non come soggetti di diritti ma come delle mucche da mungere.
Il 4 novembre si celebra la festa dell’unità nazionale. Ecco, sarebbe meglio piantarla con i fiumi di retorica sul sentimento di coesione nazionale e cominciare, piuttosto, a far sentire i cittadini italiani meno estranei e più in casa loro, almeno nel proprio Paese.

L’INCHIESTA
Siae: c’è chi dice no. Dagger Moth, l’artista ferrarese che ha revocato l’iscrizione

Un’inchiesta in cinque tappe per approfondire le ragioni delle critiche nei confronti della Società Italiana Autori ed Editori.

Contrariamente a quanto molti pensano, l’iscrizione di un artista alla Siae, la Società italiana autori ed editori, non è obbligatoria. C’è infatti chi dice no. Da qualche tempo, sono sempre di più gli artisti, in particolare musicisti, ma anche organizzatori di eventi e gestori di locali, che sollevano critiche rispetto all’operato e al monopolio di questa istituzione. Un’approfondita riflessione sul tema è stata fatta in occasione di ‘Borderline’, festival delle etichette e delle produzioni indipendenti, il primo in Italia completamente esente Siae, tenutosi a Ponticelli di Malalbergo.
Ma perché opporsi alla Siae? “Della Siae critichiamo la mancanza di trasparenza”, dice Nena organizzatrice del Festival. “Inoltre – prosegue Eugenia, ideatrice della manifestazione – anche chi sceglie di proporre solo musica libera dalla Siae subisce vari controlli, e con tutti i cavilli legali non si può mai stare tranquilli, perché il rischio di una multa c’è sempre”. Quindi anche un locale che fa musica dal vivo e propone solo artisti non iscritti alla Siae, finisce con l’essere, appunto, borderline, al limite della legalità.
Tra i musicisti italiani che hanno revocato la propria iscrizione alla Siae, c’è la ferrarese Sara Ardizzoni, in arte Dagger Moth [vedi video-intervista].

Qual è la tua esperienza con la Siae?
Mi ero iscritta alcuni anni fa come autrice di musiche e testi in seguito all’uscita di un disco registrato con la mia band precedente, Pazi Mine, poiché, essendoci affidati ad un ufficio stampa-editore, era stata una scelta un po’ obbligata. A dire il vero sono stata dubbiosa fin dall’inizio sull’utilità della cosa, perché, pur essendo perfettamente d’accordo sui principi, cioè la protezione del diritto d’autore e la sua “monetizzazione” (che teoricamente dovrebbe essere a favore principalmente dell’autore, soprattutto nell’ottica di chi cerca di vivere del lavoro di musicista), ero molto perplessa dalle modalità di applicazione e dalla poca chiarezza che aveva sempre contraddistinto le dinamiche del macchinario Siae, almeno ai miei occhi.

Cosa comportava per te l’iscrizione alla Siae?
Da anni ormai l’iscrizione come autore associato non comporta più un esame di teoria musicale ma è sufficiente la corresponsione di una quota iniziale – non irrilevante – per iscriversi, poi un versamento annuale per mantenere il proprio status. Tuttavia se non si ha il peso di un big del panorama musicale, la capacità di interagire con le scelte dell’ente direi che è praticamente nulla.
Questo sul piano economico. Su quello pratico e burocratico, ha comportato, nel mio caso, in quanto mi auto produco, il districarsi da sola in tutta una serie di scartoffie per il deposito dei brani, la richiesta dei bollini (con relativa varietà dei prezzi a seconda del tipo di contrassegno), e la modulistica generica. Last but not least, la consultazione dei corposi bollettini inviati a casa con i resoconti dei guadagni (nei quali, a mio avviso, viene davvero sprecata un sacco di carta, mentre le informazioni utili sono poche e non immediate).
Tutte faccende per cui si richiede per lo più di interfacciarsi con lo sportello regionale di Bologna che rispetto a Ferrara non è lontanissimo ma non è nemmeno a due passi, quindi un minimo di costi c’è pure lì, o si spedisce per raccomandata o si va di persona.
Girando parecchio e confrontandomi spesso sul territorio nazionale con altri musicisti e organizzatori, mi pare inoltre di notare che non ci sia una gran chiarezza su vari argomenti, dalla compilazione dei borderò ai permessi per i live, mi imbatto in modus operandi sempre diversi, per lo più in base alle informazioni fornite dai vari uffici Siae. Però, ribadisco, questa è puramente la mia esperienza personale.
Altra operazione piuttosto brigosa, sul senso della quale mi sono interrogata più volte: depositare il cartaceo degli spartiti nell’era digitale (o almeno fino al periodo in cui ero ancora iscritta funzionava così). Di questi tempi direi che sarebbe tanto più comodo, preciso ed efficace, depositare i semplici file, invece vengono ancora richiesti i cartacei con le trascrizioni, a meno che non si tratti di intrascrivibile musica concreta. Ma qualora ci sia una qualche parvenza melodica ne viene richiesta la scrittura. In particolare della linea melodica principale sul piano strumentale (che nel caso dei miei brani ad esempio non è così facilmente rintracciabile), poi la melodia della voce e relativo testo…
Il dubbio che mi è sempre sorto qui è: dovendo depositare i brani in modo diciamo parziale in caso di plagio come si procederebbe per stabilire torto e ragione?

Come mai hai deciso di annullare la tua iscrizione?
Beh molto semplicemente nel mio caso, visto il rapporto costi/ricavi non aveva alcun senso, non mi conveniva. Inoltre, cosa non secondaria, nell’ultimo anno la quota annuale da corrispondere per rimanere iscritti era praticamente raddoppiata… e mi pare che la novità non fosse stata notificata chiaramente, né giustificata. Se già nutrivo dubbi questa è stata un po’ la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Per non parlare di tutta una serie di informazioni poco confortanti trovate qua e là, curiosando su internet col desiderio di saperne di più (faccio in particolare riferimento a tutta una serie di articoli relativi ai comportamenti della Siae su svariate questioni, anche a livello europeo, e, data la specificità della materia, rimando ad esempio agli articoli dell’avvocato Guido Scorza, per chi ne volesse sapere di più).
Inoltre ammetto che un argomento che tuttora mi genera qualche ulteriore dubbio è la ripartizione dei proventi derivanti dai borderò. Ho cercato di documentarmi in merito ma al momento non sono riuscita a chiarirmi granché le idee.

L’annullamento dell’iscrizione alla Siae è una procedura complessa?
Ho semplicemente scaricato, compilato ed inviato via mail un modulo di recesso che la stessa Siae mette a disposizione sul suo sito, tutto qua, almeno questo è stato facile.

Come ti tuteli ora?
Sto valutando alcune ipotesi, tra cui Patamu, un sito che dovrebbe rilasciare in automatico – in seguito all’upload del materiale – una marcatura temporale che garantisce la paternità dell’opera, ma non si occupa della valutazione e raccolta dei compensi. A quanto ho capito questo compito attualmente compete solo alla Siae, e anche qualora ci si iscriva ad una società estera comunque quella dovrà passare attraverso la Siae, quindi si ritorna al punto di partenza. Ma per quanto riguarda la monetizzazione, al momento gravito in un circuito talmente di nicchia che mantenersi iscritta sarebbe solo un’attività in perdita.

Pensi che sia una strada percorribile anche da altri artisti?
Ribadisco che la mia è una scelta personale, e tutto dipende dal percorso che un artista vuole seguire con la sua musica, e probabilmente anche dal genere di musica. L’unica cosa che posso dire è che molti piccoli artisti si iscrivono nella speranza di diventare famosi, depositare una futura hit, un tormentone radio-televisivo, o un brano che magari venga incorporato nella colonna sonora di qualche mega produzione cinematografica. Nell’attesa che questo accada, spesso i proventi sono praticamente un’elemosina a fronte di un prezzo da pagare non irrilevante. Il tutto appesantito da quello che mi sembra ancora un sistema un po’ arretrato ed appesantito da una burocrazia pachidermica. Del resto snellezza e trasparenza in Italia non la fanno da padrone su nessun fronte. Magari se tutte le persone che si riconoscono in una descrizione simile chiedessero il recesso forse un po’ di disagio potrebbe essere almeno percepito.
Poi se qualcuno ha modo di guadagnare cifre corpose grazie a passaggi radio-televisivi o grazie ad un’attività live intensa e remunerativa durante l’anno meglio per lui! Ma non credo che questa descrizione rappresenti l’associato medio, almeno non tra quelli che conosco io. Unica cosa che posso raccomandare è di essere curiosi ed informarsi, e farsi anche venire qualche dubbio sull’utilità effettiva dell’iscrizione, poi ognuno valuti il suo caso.
Noto ancora che parecchi amici si iscrivono un po’ alla cieca, perché magari va fatto e poi se ne disinteressano totalmente… ma anche colleghi che fanno i musicisti di professione spesso non sanno rispondermi a domande specifiche ma basiche su certe dinamiche che riguardano il rapporto diretto tra Siae e autori. Mentre secondo me varrebbe la pena chiedersi spesso se effettivamente vengano fatti i nostri interessi.

1. CONTINUA [leggi la seconda puntata]

Articolo sotto licenza Creative Commons Attribuzione – Condividi allo stesso modo 4.0

Nell’immagine in alto, Sara “Dagger Moth” Ardizzoni è fotografata da Werner Swan

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LA STORIA
Murales di Blu fra Bologna e Comacchio

Il bello dell’arte di strada, dei murales, è che ti colpiscono così: all’improvviso. Giri l’angolo e – inaspettati – ci sono loro. Scritte, colori, segni, là dove pensavi solo cemento e asfalto. Te li trovi sotto un cavalcavia mentre, tutto preso dal traffico, fatichi a girarti e a soffermarti; oppure si rivelano appiccicati lì, su un muretto di un condominio che stavi solo aggirando; sei in un quartiere popolare o periferico qualsiasi e su una parete – tacchete – ecco che ti folgorano, mentre andavi avanti a testa bassa. Allora ti fermi, osservi, rifletti. Questo, in effetti, fa la street art. Ti sorprende e – di sorpresa – ti fa pensare. Questo fa Blu, l’artista ormai famoso in tutto il mondo, che mantiene segreta la vera identità, ma che ormai fa parlare di sè festival internazionali e siti specializzati o meno, inclusa la libera enciclopedia online Wikipedia.

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Opera di Blu e Ericailcane a Bologna su un edificio di via Zanardi

Chi va in treno da Ferrara a Bologna, Blu deve averlo visto tante volte: è l’autore di quei murales con elefante e altre figure un po’ stravolte e furtive su un edificio fatiscente in via Zanardi, che ora – ahimè –  rischia di essere demolito. Era suo anche un grande graffito sul ponte di via Stalingrado, con la volta d’ingresso per le macchine trasformata in una gigantesca bocca che inghiottiva il traffico. Adesso quel pezzetto di città è stato rifatto, plasmato in un avveniristico complesso edilizio. Ma dentro, sotto al cavalcavia che ora sostiene edifici e uffici dell’Unipol, c’è ancora un colossale uomo sdraiato che si intravede nell’eterna oscurità del tunnel.

Altre opere di Blu sonoa Berlino, Lisbona, Londra, persino in Perù. Denunciano l’avidità del denaro che avvolge le bare lasciate dalle guerre, raccontano la mostruosità del consumismo che ci trasforma in contenitori di cibo e oggetti, ribaltano il ruolo di uomo consumatore di animali in feticcio consumato, ipotizzano la rivalsa delle biciclette sulle automobili.

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Murales di Blu in via Spina a Comacchio (foto di SERGIO FORTINI e SILVIA MAZZANTI)

Dove magari, invece, non ce lo si aspetta proprio è fuori da Ferrara. Vai verso il mare e svolti a Comacchio, piccola e fotografatissima capitale del Delta del Po. Certo, bisogna uscire dai soliti itinerari turistici. Lo hanno fatto due ferraresi, che quei luoghi se li sono andati a cercare e li hanno immortalati per il concorso indetto da Acer, l’azienda per le case popolari. Loro, Sergio Fortini e Silvia Mazzanti, Blu l’hanno scovato così. In via Spina. Grazie a queste foto, poi esposte in palazzo Municipale durante il festival Internazionale a Ferrara, ora possiamo ricordare che, a Comacchio, Blu ha realizzato alcune delle sue prime opere importanti. Gli anni erano quelli del 2005, 2006 e 2007. E a Comacchio, in settembre, veniva organizzato lo Spinafestival. Un festival dedicato proprio all’arte di strada, ai graffiti, ma anche a video, fotografie, installazioni.

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Murales di Lucy McLauchlan in via Spina a Comacchio (foto di SERGIO FORTINI e SILVIA MAZZANTI)

Ecco Blu è lì, splendido e incontaminato nel corpo umano sezionato a mostrare corpi e altri corpi come una matrioska anatomica, nella mano che si impadronisce di un pezzo di muro insieme alle piume trasformate in volti sul petto dell’uccello di un’altra artista come Lucy Mclauchlan. Bello. E bella anche l’idea di Acer di fare un concorso fotografico su luoghi così poco fotografati, di solito fuori dagli schemi artistici, lontani dai circuiti patinati, pittoreschi, turistici. E, lì, eccola, l’arte di strada. Vive qui; e qui è, per sorprenderci.