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Ferrara film corto festival

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La follia del progetto Industriale Eolico sui crinali del Mugello e alcune riflessioni sulla cultura del profitto e i suoi disastri

IL PROGETTO INDUSTRIALE EOLICO SUL MONTE GIOGO DI VILLORE E SUL GIOGO DI CORELLA IN MUGELLO E LA RESISTENZA DEI CRINALI

Si sa. Si sa quale logica micidiale sta dietro la proposta di impianto industriale eolico sul Monte Giogo di Villore e sul Giogo di Corella. Purtroppo si sa, e non si trova pace.

Non si trova pace che si sia potuto arrivare fino a questo punto, che si siano messe in campo tante energie, cittadini, commissioni, luoghi istituzionali, per un progetto che un sano buonsenso avrebbe dovuto bocciare sul nascere, o meglio, che non doveva proprio vedere la luce.

Perché si sa quale nefasta logica è alla base del progetto: una logica di profitto privato.

Purtroppo è esclusivamente il profitto privato che nell’ultimo cinquantennio ha mosso le leve del mondo, con conseguenze catastrofiche sia sul piano sociale (una disparità di ricchezza inaudita e sempre crescente) e sul piano naturale (cataclismi a ripetizione).

Propugnatore di un tale ordine di cose è un organismo geneticamente modificato che pure conserva sembianze umane, un umanoide OGM la cui essenza più intima corrisponde col valore monetario.

Ora questo umanoide è diventato sacerdote di una religione: la religione dell’eolico.  Va predicando che bisogna mettere pale dappertutto, senza discriminare. Il dogma di questa nuova religione dice che ogni luogo va sacrificato al moderno totem della pala eolica. Sacerdoti officianti sono il menagement delle imprese e gli amministratori locali che fanno da chierichetti. Lancia in resta, partono all’assalto del territorio, con le spalle coperte dalle laute vettovaglie che arrivano dalla fortezza Europa.

E giustificano questa “guerra santa” col fatto che la Terra è sull’orlo del collasso (strano poi che questo discorso derivi dal mondo economico-finanziario che, fin qui, è stato il principale responsabile del collasso ambientale).

Ma cosa credi, caro umanoide OGM, che non lo sappiamo anche noi (e invece dubito che TU lo sappia, che ti ostini a muoverti solo ed esclusivamente in base alla legge del profitto), che la civiltà umana gira a 17 tw (terawatt) di consumo di energia istantanea 24 ore su 24? Per fare un confronto, l’energia istantanea rilasciata dalla tettonica delle placche (calore e movimento) si attesta sui 40 TW. Per fortuna sono misure irrilevanti se confrontate con i 130.000 tw di energia istantanea disponibile sulla Terra grazie alla sola azione del sole, e che aspettano solo di essere usati nel migliore dei modi possibili. (Bruno Latour, La sfida di Gaia, 2015).

Non sappiamo invece a quanti terawatt di energia, (e di CO2 immessa nell’atmosfera),  ammonta tutta la produzione  di armi che le potenze industriali vendono per promuovere e fomentare  i conflitti sparsi per il mondo nel proprio interesse. Due esempi per tutti: le due guerre del Golfo e quella in Libia, sostenute dagli USA e dai loro alleati occidentali, dove il pretesto per i gonzi è stato quello di “esportare democrazia”, mentre, nel primo caso era in realtà quello di controllare i pozzi di petrolio, e nel secondo, in Libia,  di evitare la nascita della moneta unica africana che la Libia stava proponendo, e che si sarebbe posta in competizione col dollaro e col CFA, il franco che circola in diversi paesi africani (Manlio Dinucci, 2021).

Di fronte alla crisi sanitaria globale dell’infezione da covid si è fermato il mondo, ma non le guerre e la produzione di armi.

Cosa si può sperare?

È la visione del mondo che deve cambiare, verso una prospettiva rivoluzionaria, dove non sia più il consumo, e l’accaparramento di energia che lo sostiene, lo scopo primario dell’umanità, ma il cambiamento degli stili di vita.

Voi, voi che volete costruire le pale sul crinale di Villore, siete favorevoli a questo discorso e ad agire di conseguenza, o a voi conviene costruire le pale senza cambiare minimamente il corso di un “progresso” che è semplicemente mortale per l’umanità e per il pianeta? E se voi non vi pronunciate, è il vostro agire che parla per voi, un agire che non è altro che un arrembaggio a impadronirsi delle ultime zone intatte della Terra per trarne profitti, come ben dimostra la proposta di impianto industriale in un luogo unico come il Giogo.

Gli interventi invasivi e massivi sul territorio, tanto più se questo territorio è ancora intatto nelle sue componenti fondamentali, vanno vagliati in base a criteri politici e non economici, in base a criteri di salvaguardia e non di distruzione. La scienza di Gaia dice che bisogna creare alternative senza distruggere. Invece fin qua, la stessa governance politico-affaristica che ha provocato il disastro globale, vorrebbe ora, grazie soprattutto ai finanziamenti europei, vestire i panni del medico per risanare.

“Una parte crescente dell’imprenditoria italiana vede nel territorio non un bene essenziale dell’equilibrio ambientale ma una risorsa facile per i propri affari” (Piero Bevilacqua, 2021).

“È la violazione sacrilega, ossia lo sfruttamento delle zone vergini e incontaminate a prefigurare, dopo il genocidio di milioni di animali e di intere specie, il non inauspicabile scenario di un’infezione globale della specie umana, e quindi, prima o poi, di una sua spontanea estinzione” (L’assemblea degli animali, Filelfo, 2020).

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Le foreste, i boschi d’alta quota, le cime, non possono essere oggetto di mire predatorie. Hanno una valenza assoluta, ab-soluta, cioè sciolta da ogni legame con valori di ordine economico, proprio perché sono parte integrante ed essenziale del più vasto mondo naturale.

Anzi, coloro che pongono mire interessate su quei luoghi, che sono scorta di vita e di benessere per i secoli futuri, si pongono automaticamente fuori dal consorzio umano, perché ne minano le basi materiali e morali. Sono luoghi che legano tutti gli umani al di là delle appartenenze politiche, religiose, sociali.

Chi attenta a quei luoghi attenta alla pace e alla convivenza. Perché la bellezza, la  ricchezza e varietà di forme e di colori, fanno parte del patrimonio archetipico di ognuno, tramandato come memoria inconsapevole dall’inizio dei tempi, e rappresentano il limite alle spinte centrifughe e divisive rappresentate da sete di potere e sete di soldi.

Sono luoghi di libertà e di storia, situati lontano dal caos e dalla coazione al consumo, dove lo sguardo non impatta su manufatti umani, ma viaggia fra antichi alberi, distese di prati, torrenti ora più ripidi ora più calmi, e torri, guglie, cupole di monti. Incarnano e tramandano una memoria secolare, relativa a tutti coloro che li hanno abitati e usati, ma senza stravolgerli: boscaioli, carbonai, raccoglitori, mercanti, allevatori, pellegrini, contrabbandieri, monaci, partigiani, uomini di lettere. E anche storia di eserciti, di ecclesiastici, di castelli e conventi.

Uno spazio-movimento, “dove all’apporto dello spazio circostante… si assommano i doni del movimento” (Il Mediterraneo, Fernand Braudel, 2017).

Le pale eoliche verrebbero a distruggere irrimediabilmente questa bellezza che è sì esterna, ma che risuona, filo d’erba per filo d’erba, anche dentro l’animo umano. Secondo una corrispondenza che rivela come anche l’uomo sia natura, e distruggendo questa si distrugge quello: lo si impoverisce, lo si depriva come quando muore una persona cara.

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Ma purtroppo oggi tutto è diventato oggetto di mire speculative. Tutto, anche quei beni primari dono della natura e fondamentali per l’esistenza, come l’acqua. Da quest’anno, negli USA, in California, l’acqua diventerà una merce quotata in borsa, gestita per la gran parte da due colossi del settore, entrambe francesi, Veolia e Suez. Ciò perché si pensa che l’acqua, in un futuro non molto lontano, diventerà una risorsa non rinnovabile, alla stregua delle energie fossili. E ciò richiama gli appetiti inesausti del capitale. Già si stima che entro il 2030 circa 700 milioni di persone potrebbero abbandonare il proprio territorio per mancanza d’acqua. E il rapporto UNESCO 2018 afferma che nel 2050 tre miliardi di persone soffriranno per grave mancanza d’acqua. Dunque, oggi, attentare alle risorse idriche di un territorio, è più di una leggerezza, è un crimine.

A questo punto una domanda sorge spontanea: che fine farebbero, se mai venisse installato l’impianto eolico, le falde acquifere e i numerosi torrenti che scorrono lungo i pendii dei crinali di Villore e Corella, beni primari per la fauna, la flora e le persone del territorio circostante?

Non si sa!

Ma tante cose, relative a questo progetto, restano ignote. Come reagirebbe il suolo con migliaia di tonnellate di cemento? E la fauna migratoria, di cui addirittura è stata negata l’esistenza? E la fauna stanziale? E i costoni, già di per sé franosi, della lunga strada che dalla statale conduce in vetta?

E lo sguardo, e il cuore, e la memoria?

La sete di guadagno nulla rispetta e tutto travolge.

Alterare e in definitiva distruggere il crinale di Villore e Corella con un impianto industriale è, né più né meno, uno fra i tanti attentati ai beni fondamentali della Terra, non solo da un punto di vista ambientale, ma anche da quelli di pacifica convivenza tra umani e regno animale e vegetale.

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La pietas è un sentimento che ti fa riconoscere nell’altro qualcosa, un’essenza, simile in tutto ciò che popola il pianeta Terra. La pietas ti avvicina all’altro, nella sua accezione più vasta di vivente. Ce lo fa sentire nostro pari. La pietas è empatia, che ti avvicina alla sofferenza dell’altro perché leggi quella sofferenza anche come qualcosa di tuo: ognuno è partecipe dell’altro e dell’ambiente in cui vive.

In questo senso il “capitale”, e le persone che lo rappresentano, sono dei “dissimili”. Senza empatia, e per questo si pongono fuori dal consorzio umano, perché non ne condividono lo spirito comune. Non riconoscono, nella vita, un valore comune da difendere. Tutto,- persone e ambienti,- sono considerati nel loro potenziale di lucro. Il mondo dell’azienda non riconosce il bello ma solo l’utile. L’utile per crescere economicamente e avere nuovo e altro potere per continuare nella sua opera di sfruttamento. È una spirale che abbiamo quotidianamente sotto gli occhi, se no non si capirebbe come amplissimi spazi della Terra vengano devastati, bruciati, e poi fatti oggetto di mire speculative. E non si capirebbe nemmeno come l’aumento vertiginoso delle diseguaglianze stia avendo una crescita esponenziale: l’1% della popolazione mondiale detiene il 50% della ricchezza.

Ma sentiamo le parole di papa Francesco: “La protezione ambientale non può essere assicurata solo sulla base del calcolo finanziario di costi e benefici. L’ambiente è uno di quei beni che i meccanismi del mercato non sono in grado di difendere o promuovere adeguatamente… È realistico aspettarsi che chi è  ossessionato dalla massimizzazione dei profitti si fermi a pensare agli effetti ambientali che lascerà alle prossime generazioni?… Il principio della massimizzazione del profitto è una distorsione concettuale dell’economia: se aumenta la produzione interessa poco che si produca a spese delle risorse future o della salute dell’ambiente; se il taglio di una foresta aumenta la produzione, nessuno misura in questo calcolo la perdita che implica desertificare un territorio, distruggere la biodiversità o aumentare l’inquinamento oppure un mutamento significativo nel paesaggio, nell’habitat di specie protette o in uno spazio pubblico” (Laudato si’, Francesco, 2015).

E la politica in tutto questo? La politica non dovrebbe sottomettersi all’economia, al suo potere economico e tecnocratico. Invece ricicla chiacchiere superficiali, resta muta quando dovrebbe parlare e in altri casi manganella chi osa prendere la parola. I politici non vogliono contrastare, non vogliono prendersi la briga di mettersi contro chi ha i numeri per decidere e comandare. In pratica ha rinunziato al suo ruolo di scegliere per il bene comune e ascoltare gli abitanti del luogo. Ma sentiamo ancora papa Francesco: “Nel dibattito [intorno alla realizzazione di un’opera] devono avere un posto privilegiato gli abitanti del luogo, i quali si interrogano su ciò che vogliono per sé e per i propri figli, e possono tenere in considerazione le finalità che trascendono l’interesse economico immediato”.

Purtroppo spesso “gli abitanti del luogo” non vengono informati adeguatamente o non vengono per niente informati, e si riducono a essere “oggetti” da manipolare a opera  delle élite politiche  guidate a loro volta dai veri decisori: i detentori del potere tecnico ed economico.

Tecnocrati ed élite, ormai esaltati nella loro volontà di potenza, e senza che ci sia un reale contropotere di controllo e di verifica, sono capaci di svilire gli ecosistemi e le vite umane a semplici strumenti per perseguire i loro fini privatistici.

Un esempio lampante di questo discorso ce l’abbiamo molto vicino a noi: i crinali di Villore e Corella. Il variegato aspetto della natura che vi regna e degli animali che li popolano sono un antidoto ai virus che stanno infettando l’anima: la competizione spietata con il corollario della violenza, l’omologazione al consumo, la superficialità del possedere e del mostrare. Eppure il capitale è portatore di un virus più forte di qualsiasi antidoto, se è vero che esso è riuscito finora a ridurre il pianeta Terra nelle condizioni boccheggianti in cui si trova, e non intende fermarsi. “L 1% dei ricchi inquina il doppio di tutti i poveri della Terra” (Luca Martinelli, 2020). Il Giogo di Villore è diventato l’ennesima preda da sacrificare per le tasche di pochi azionisti. La calma, il silenzio, i boschi, i colori, gli animali, l’acqua, non avendo valore monetizzabile se restano nel loro stato originario, è come se non avessero valore tout-court. Prendono valore solo se subiscono una trasformazione distruttiva che li ponga in una dimensione generativa di reddito, e reddito per pochi.

Ma chi decide questo? Chi si prende una responsabilità cosi grande da violare un “patrimonio” naturale ricco di diversità, di storia e di cultura; riferimento, risorsa e riparo per un variegato mondo di umani e animali che scelgono di partecipare della sua armonia? Chi è che si prende la responsabilità di eliminare un bene che è il cuore pulsante di un territorio?

Si vorrebbe aprire lo scrigno delle cime del Giogo e rubare tutti i gioielli che contiene. Rubarli, scappare e lasciare macerie e detriti.

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Non si può accettare la colonizzazione delle pale sul Giogo di Villore, il luogo lo rigetta: ci fanno a pugni.

A chi è venuta in mente quest’ idea? Ai dirigenti dell’ azienda proponente? E in che modo? Hanno guardato sugli algoritmi informatici i potenziali luoghi per un impianto eolico? Ma poi, una volta che si sono recati materialmente sul posto e si sono resi conto di quale splendido luogo il “cervellone” gli avesse indicato, non hanno sentito l’esigenza immediata di rifiutare il suggerimento? Non si sono resi conto che in realtà  a una determinata altezza, esposizione, estensione corrispondeva un luogo provvisto di una ricchezza naturalistica, paesaggistica, faunistica, idrica, floristica, storica, insomma di un luogo fornito di anima?

Evidentemente no. E dunque non mi si venga a dire che anche voi, voi uomini e donne dell’azienda, rappresentanti del cieco mondo affaristico-imprenditoriale, ascendete sui monti con sacralità e rispetto. È solo una misera bugia, un’ennesima falsificazione e capovolgimento della realtà. Se veramente salite sui monti con questo spirito, una volta in cima al crinale avreste alzato una preghiera di lode al Signore e sareste ridiscesi compunti e mortificati dell’errore. Invece nulla vi ha toccato, non il paesaggio, non i colori, non il silenzio, perché in realtà siete intoccabili da questi aspetti. Nella vostra testa è balenato il calcolo e nei vostri occhi il segno del denaro, che ha rivestito di sé come un mantello boschi radure fiumi e paesaggio.

Sembrerebbe anacronistico parlare di colonizzazione oggi, ma in realtà esistono processi di colonizzazione moderna non meno feroci di quelli antichi. Basti pensare a cosa succede in quei territori dove sono presenti risorse energetiche di qualunque tipo, dalle fossili ai cosiddetti metalli tecnologici. Infatti come si procede in questi casi: o si interviene militarmente con qualunque pretesto, come per esempio è successo in Iraq, o si comprano le materie preziose direttamente da milizie locali, dopo averle armate, che sfruttano senza scrupoli manodopera ridotta in schiavitù, come succede per i diamanti in Sierra Leone o il coltan in Congo.

Quale risorsa ora è diventata importante alla stregua del petrolio, del rame, dei metalli tecnologici? Il vento. Il vento alla stregua di quelle risorse energetiche. E infatti cosa succede? Come avvoltoi piombano i moderni colonizzatori in funzione dei loro interessi,  non curandosi di alterare la cultura, le tradizioni e l’ambiente autoctono.

Ma se loro non tengono conto di questi aspetti, perché letteralmente accecati dalla sete di profitto, cosa pensare dei politici locali che ne avallano le scelte? Che tipo di sete ha mosso questi ultimi? Eppure costoro qui ci sono nati, conoscono l’incredibile bellezza e unicità di quell’ampio fazzoletto di crinale incastonato come una gemma nel più vasto territorio del Mugello. Perché sono andati dietro acriticamente senza sollevare obiezioni? Non si rendono conto che così si giocano il futuro del loro territorio, dal momento che il Mugello possiede una sola, vera e imperitura ricchezza: la natura, il paesaggio, meritevole di investimenti  adeguati alla sua vocazione?

C’è da chiedersi in cambio di che cosa hanno dato questo appoggio. Cosa li ha mossi. La paura di opporsi al moderno Leviatano: il mostro immane e distruttore che tutto comanda e tutto divora: territorio, coscienza, passato e futuro?

Che cosa, si può sapere che cosa? Che cosa fa la politica? Si fa complice di quello che sarebbe, né più né meno, un colpo di mano, un atto sacrilego? Un sacrilegio che calpesterebbe millenni di equilibrata sinergia tra uomo e ambiente e che ha plasmato lo scintillio dei crinali così come ora li possiamo vivere e ammirare?

Si sa cosa interessa ai manager: il massimo profitto da dividere tra gli azionisti.

Ma gli amministratori? I loro azionisti sono i cittadini. Eppure sembra che invece siano loro gli azionisti dell’impresa, talmente la stanno favorendo, proteggendo, coccolando.

Facciamo parlare i fatti:

1) ai primi di dicembre 2019 alcuni amministratori del Mugello si fanno parte attiva per una gita all’impianto industriale eolico di Rivoli Veronese, costruito dalla stessa ditta interessata a Villore, anche se i due luoghi in questione sono diversissimi e non confrontabili in nessun modo, basti solo portare due dati: l’impianto di Rivoli è a 3 chilometri dal casello autostradale, quello proposto a Villore è a 45 chilometri; nel primo caso il dislivello da supererare si aggira sui 300 metri, nel secondo sui 1000, con relativo sventramento di tutto ciò che è sul percorso;

2) in data 20 giugno 2020, di fronte a un pacifico e composto flash-mob di una cinquantina di cittadini contrari al progetto nel comune di Vicchio, sono sopraggiunti i carabinieri con seguente accompagnamento in caserma e denuncia di almeno sette partecipanti;

3) l’esplicita chiamata dei carabinieri  avvenuta poi il 7 ottobre 2020, davanti ai locali dell’Unione dei Comuni del Mugello a Borgo San Lorenzo, nei confronti di alcuni cittadini che chiedevano informazioni in merito a un incontro “privato” che stava per tenersi in quei locali tra gli amministratori e i vertici della ditta. Come se potesse essere “privato” un incontro in cui si sta trattando di interessi economici enormi relativi a una vasta area pubblica con le caratteristiche uniche che conosciamo.

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Pare che il Mugello sia diventato una provincia da colonizzare, senza che nessuno, o quasi, di coloro che hanno la responsabilità di guidare la Cosa Pubblica, sia disposto ad alzare una voce forte e chiara in sua difesa.

Come mai i nervi saltano così facilmente? Non si accetta di essere sindacati su scelte che pure dovrebbero essere massimamente trasparenti e vagliate dall’intera comunità?

In realtà questi sono chiari esempi dove la dignità del cittadino, lungi dall’essere valorizzata, viene calpestata e il cittadino ridotto a semplice contribuente e passivo utente dei servizi.

Viene penalizzata e negata la massima funzione del cittadino: quella della “cittadinanza attiva” (Ardeni, Bonaga, 2020), da esercitare in termini di controllo, progettazione, capacità d’inchiesta ecc.

Le amministrazioni dovrebbero favorire l’aggregazione delle risorse della società civile, l’espressione del potenziale latente del corpo sociale.

Diritto-dovere dei cittadini è far sentire la propria voce, la propria opinione, soprattutto quando dissente da quella degli amministratori pubblici.

La cittadinanza è una struttura inclusiva, e non può essere marginalizzata con la repressione.

Conviene qui ricordare la famosa concezione aristotelica: “Si non est civis non est homo”. E cioè, in quanto civis (cittadino) ogni individuo ha un suo ruolo all’interna della civitas e collabora alla retta gestione della res pubblica.

Qui invece, presso di noi, si assiste al paradosso di cittadini a cui non viene riconosciuto il diritto-dovere di fare la loro parte nel contribuire a indirizzare una linea di gestione del territorio che pure abitano. E solo perché la loro opinione contrasta con quella del dominus, il quale addirittura li criminalizza, obbligandoli ogni volta a dichiarare le proprie generalità alla forza pubblica, quando addirittura non vengono condotti in caserma.

Eppure oggi più che mai c’è bisogno del controllo attivo dei cittadini. Perché il potere economico coincide col potere tecnologico, entrambi sono concentrati in un soggetto unico, che dunque ha una capacità di pressione e condizionamento enormi sul livello politico tale da renderlo di fatto succube alla sua volontà.

Insomma, ogni volta che sono in ballo interessi economici gestiti dal potere tecno-finanziario, deve verificarsi una scelta politica che coinvolga la comunità, proprio perché questo enorme potere, lasciato nelle mani di pochi, può essere esercitato a danno dell’interesse generale.

Qualunque discorso che riguarda una collettività deve anche venir controllato collettivamente.

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Invadendo le cime del Giogo si erodono le basi materiale e morali di una comunità.
Le basi materiali riguardano l’utilizzo che quella comunità ha fatto e fa del territorio e che si può ulteriormente incentivare: dalle risorse agresti, alla rete di agriturismi a un turismo qualificato  non consumistico, il cosiddetto “turismo lento” e consapevole, che ha per scopo un rapporto e uno scambio rispettoso con l’ambiente. Un rapporto non guastato dai ritmi alterati del consumo e della competizione, ritmi, questi ultimi, “dove gli uomini non trovano la felicità in una condizione di pace mentale…, ma al contrario in un continuo scorrere del desiderio da un oggetto all’altro. La conquista del primo non fa che aprire la via al successivo, cosicché, accecati dal loro tornaconto, sono destinati a desiderare senza tregua, a costo di distruggere gli altri e alla fine se stessi” (L’assemblea degli animali, Filelfo, 2020).

Le basi morali riguardano le tradizioni ancestrali che si stratificano in un dato territorio. Se queste tradizioni vengono cancellate tramite l’alterazione dell’ambiente, viene cancellata anche la memoria che ne era alla base e le perpetrava.  Subentra una sorta di alienazione dal proprio stesso passato, e dalle figure degli antenati che lo hanno popolato.

Colonizzare industrialmente il Giogo è come se si cancellasse una lingua e una cultura. Un cuore antico che smette di battere.

E dunque l’ordine morale ha a che fare con l’interiorità dei viventi. La distruzione di un ambiente è anche una distruzione interna. “Questo Universo è un unico essere vivente che contiene in sé tutte le specie, avendo un’unica anima in tutte le sue parti” (Plotino, Enneadi).

Se esiste un’anima del mondo e tutti ne fanno parte, quello che accade all’anima esterna, all’anima del mondo, accade anche all’anima interiore, di ognuno.

La salute psichica e la salute del pianeta si salvano se recuperiamo quella sorta di sapere naturale che è propria delle specie viventi non umane. Nel momento in cui l’umano si distacca dagli altri animali approda all’incapacità di fare il bene comune (Thomas Hobbes, Leviatano, 1651).

Per gli animali, il bene comune non è diverso da quello dei singoli. Per gli umani, e in particolare per alcuni rappresentanti della sua specie, il bene dei singoli viene perseguito a discapito del bene comune, anche se ciò potrebbe comportare la distruzione dell’Eden. Che nel nostro caso è a portata di mano, di gambe, di occhi: il Giogo, che nel suo isolamento ha conservato quella conoscenza naturale e primordiale propria del vivente non umano.

La conoscenza naturale del mondo è quella che ci permette ci credere nelle realtà durature, credere che al mattino ti svegli e ritrovi intatto il tuo giardino dell’Eden.

Il mondo del business, del profitto, con la sua voracità predatoria, mina alla base il sogno del risveglio, e lo trasforma nell’incubo del risveglio.

Se l’anima esterna soffre non può esserci redenzione per l’anima individuale (L’anima del mondo e il pensiero del cuore, James Hilman, 2002). Se gli uccelli migratori avranno il passo sbarrato da ostacoli enormi; se i rapaci moriranno schiantati su strani, ipnotici oggetti rotanti; se castagni secolari verranno sradicati; se i grilli a migliaia verranno schiacciati sotto le ruote degli escavatori, l’anima di ciascuno di noi si impoverisce e soffre. Perde ricchezza e profondità, perde vita e vitalità, perde speranza. E se là dove ci aspettavamo paesaggio, silenzio, sguardo libero e colori intensi, troviamo manufatti umani che hanno alterato e dissacrato il tempio della natura; se nessun luogo più conserva ciò che lo faceva unico e particolare; se nessun luogo più si offre come porto, allora l’uomo si sente tradito dai suoi stessi simili e si scopre in una prigione anziché in un tempio.

Un recente studio dell’università dell’Aquila ha documentato come il territorio italiano “è ormai disseminato di barriere e ostacoli alla continuità ecologica” e che il patrimonio naturale italiano è sottoposto a un progressivo impoverimento.

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Il Mugello è  stato pubblicamente definito, da alcuni amministratori locali che pure ora propendono per il progetto eolico, “il polmone verde della Toscana”. Ebbene, con quale logica, con quale coerenza vanno poi ad appoggiare,- e i loro atti stanno a dimostrarlo,- una terapia (le pale), che quel polmone vanno a bucarlo, a infettarlo. Una misura che risulta cancerogena, con susseguente sicura metastasi, se è vero che le 8 pale sul crinale di Villore sarebbero solo un cavallo di Troia per altre svariate pale da dispiegare lungo il crinale. D’altra parte l’hanno detto proprio loro, i manager della ditta proponente, che entro il 2030 ottomila chilometri di crinali devono essere occupati da pale eoliche!

Vogliono trasformare il variegato e colorato volto del mondo in monotonia, uniformità, deserto. “Il deserto della modernità” (James Hilman).

Le passeggiate ordinate e preorganizzate sotto le pale: così muore la vitalità del desiderio, la vitalità del cuore, la ricchezza immaginativa dell’animo umano. Non ci resta che la famelica acquiescenza davanti agli “spettacoli” preparati da altri.

Una devastazione feroce dell’ambiente, come la domesticazione dei crinali, viene fatta passare come una misura utile e necessaria (ma per chi?) e, per l’ambiente, poca cosa, una banalità.

La banalità del male!

Il male spesso non è quella cosa feroce e inaudita che spesso si crede, ma a volte si riduce a una domanda in carta bollata, magari articolata in un progetto, a cui ne segue un’altra e un’altra ancora, rimbalzando da un ufficio all’altro, da un’Unione dei Comuni a un assessorato regionale, fino a un bollo finale che autorizza la catastrofe.

Bisogna capire, una volta per tutte, che nella produzione di energia va superato il concetto di profitto.

E non è un’utopia. Anzi, ciò comincia a sembrare possibile grazie alla discussione in Parlamento di un disegno di legge delega sulla base di direttive europee. Il disegno di legge riguarda un esempio di economia circolare, dove il consumatore è anche produttore.

Si tratta delle cosiddette “comunità energetiche”, i cui potenziali soggetti sono: i condomini; i centri commerciali; vie di città/quartieri di paese; distretto industriale; aree agricole interne. Comunità che sfrutterebbero l’energia da fonti rinnovabili (per lo più fotovoltaico) di ridotte dimensioni e nelle immediate prossimità  degli edifici degli utenti.

I vantaggi sono molteplici: eliminazione della spesa dell’intermediazione (non compriamo la corrente da nessuno dal momento che la produciamo da soli); eliminazione della dispersione della rete (dal momento che la corrente si produce in loco); e infine accesso agli incentivi (che per una volta non vanno ad arricchire nessuno) e ai super-bonus fiscali (Daniela Passeri, Livio De Santoli, 2021). I Comuni dovrebbero farsi promotori di simili progetti, anziché dei mega-impianti distruttori di ambienti e di bio-diversità, e che risultano sempre più sorpassati.

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Ma ora consideriamo un aspetto che forse fin qui è stato trascurato. Il Giogo di Villore-Corella, con l’aria, le piante, la rete dei torrenti e gli animali che lo popolano, non ha importanza solo in relazione agli umani che lo rispettano e ne usufruiscono, ma ha un’importanza “per sé”, in quanto dotato di una propria soggettività.

Il crinale ha una sua voce, un suo canto, un suo profumo, che vuole tenere così com’è e continuare a spandere intorno. Non vuole farsi sopraffare dal rumore dei rotori, dalle ferite al suo corpo, dal puzzo degli scarichi e degli oli minerali.

“Aisthesis” era la parola che i greci usavano per indicare la percezione o sensazione. E in quella parola c’è il doppio significato di estetico e estatico. Cioè qualcosa al di fuori di me, percepito coi sensi, ha ridestato la mia meraviglia e il mio stupore. E cosa può ridestare meraviglia e stupore se non l’anima di qualcosa? Infatti il sentimento estatico dello stupore si accende in noi quando cogliamo il segreto, l’intimità di qualcosa: fosse una persona, un’opera d’arte, un paesaggio. E cos’è questo segreto se non la sua anima? Il suo segreto ha colpito la mia anima (e il mio cuore). È un incontro che è anche condivisione, è un riconoscersi, un ritrovarsi. Una consonanza. Perché, evidentemente, qualcosa di comune già ci univa, anche se a nostra insaputa.

Non è il cervello la vera sede della conoscenza, ma il cuore, che percepisce e sente allo stesso tempo, che è capace di penetrare l’essenza altrui.

Il cervello calcola, il cuore si meraviglia, si apre all’altro, alla sua parte più recondita. Il cuore è capace di sentire la soggettività degli oggetti, il loro valore in quanto entità viventi, laddove il cervello vede solo cose inanimate da sfruttare.

Le pale sul crinale sarebbero il sintomo di una malattia: l’an-estesia del cuore.

An-estetizzato il cuore a sentire l’anima delle cose, nemmeno l’anima del crinale viene riconosciuta, e allora lo si può ammazzare tranquillamente e definitivamente. E con esso ammazzare anche un pezzo della nostra anima.

A tutto vantaggio del freddo calcolo an-estetico, che schiaccia l’umano a oggetto materiale, a oggetto da indirizzare unicamente per il consumo: merce tra merce.

Laddove darsi il tempo di osservare le qualità di un luogo, i particolari, i colori, gli odori, i sapori, le qualità tattili; conoscerlo attraverso un rapporto intimo, attraverso “un naso animale”, contribuirebbe a rallentare il ritmo della civiltà. Fermarci su ciascun evento limiterebbe la nostra fame di eventi, rallenterebbe la corsa dei consumi.

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Perché si svende un territorio che incarna memoria e bellezza, passato e futuro? Perché?

Per leggerezza, per arroganza, per mancanza di visione futura, per interesse, per accrescere potere, per non sapersi opporre al potere dei soldi, per non saper dire “NO”, per non saper ascoltare la propria voce profonda e la voce di chi quel “NO” sa gridarlo a piena voce e se ne infischia dei soldi, della paura e della sottomissione? È paura di inimicarsi il potente di turno? È il timore reverenziale di amministratori di piccoli comuni di fronte a chi è in grado di manovrare milioni di euro?

Non è possibile che si svenda il proprio territorio, la sua ricchezza e bellezza, così a cuor leggero, senza colpo ferire, senza avanzare dubbi o incertezze, anzi facendo da protettori e facilitatori.

Allora vorremmo che qualcuno che ha responsabilità pubbliche provi a ragionare, a vedere che in alcuni casi la moneta è carta straccia, serve solo a devastare. Vorremmo che gli nascesse qualche interrogativo, che vedesse la  complessità di una situazione ma anche la sua semplicità: che mai alterazione e distruzione possono portare vantaggi duraturi.

Forse si risponde a richieste di istanze superiori: vertici regionali e/o di partito, a cui bisogna dimostrare che anche “il Mugello fa”. Non importa cosa sia questo “fare”, qualunque cosa sia, anche un disfare, un rovinare. Ma il “Mugello fa”! Laddove, nel Mugello, per “fare” veramente  bisognerebbe salvaguardare con le unghie e coi denti, e valorizzare, quello che c’è e com’è, perché resti “il polmone verde della Toscana”. E per “valorizzare” intendiamo accompagnare con progetti mirati la vocazione naturale del territorio, non progetti che lo stravolgono e ne tradiscono il passato e le aspettative future.

È questa la gara ardua di chi ha veramente a cuore questo luogo e non uniformarlo alla rovina generale.

L’impianto industriale altererebbe un equilibrio tra tutti i fattori naturali che persiste da secoli. Alterarlo significa distruggerlo, trasformarlo in altro da quello che è ora: irriconoscibile per l’uomo e per la stessa natura.

Gli elementi della montagna: suolo, fauna, vegetazione, falde acquifere, se alterati si avviano inevitabilmente verso il degrado, come dimostrano i vari “deserti” che puntellano la superficie del globo.

Avremo anche dei deserti eolici?

Infine, parafrasando la filosofa Luisa Muraro, vogliamo fare un appello.

Cari amministratori, non prestatevi alle dubbie manovre di chi ha potere economico e tecnocratico.  Non lasciate che siano loro a parlare e a decidere per voi. Non siete politici a loro disposizione. Siete politici che possono e devono migliorare la qualità del loro territorio: date il vostro contributo, crediamo che lo sapete fare. Vi chiediamo, in sostanza, una prova della vostra indipendenza. Mirate alla vostra libertà e al bene comune.

Cover: Immagine dei Crinali Mugellani

Lo spettacolo “I dialoghi della vagina” alla Sala Estense il 25 gennaio alle 21

Il 25 gennaio alle 21.00 arrivano a Ferrara “I dialoghi della Vagina” con una serata alla Sala Estense, in Piazza del Municipio.

Lo spettacolo, prodotto da Teatro al Femminile, è scritto e diretto da Virginia Risso, giovane artista torinese pluripremiata e poliedrica nel panorama teatrale italiano. È una commedia dove l’interazione con il pubblico abbatte non solo la quarta parete, ma anche tabù e luoghi comuni legati all’universo femminile.

In scena, insieme all’autrice, Gaia Contrafatto, anche lei piemontese e collaboratrice di Teatro al Femminile. L’irresistibile capacità delle attrici di raccontare e raccontarsi regala allo spettatore una performance esilarante e molti spunti di riflessione.

Gaia Contrafatto – foto di Guido Milli

A fare da sfondo in scena, le opere di Elena Romanovskaya. La pittrice vive in una piccola cittadina russa, dove la sua Arte è vista come un osceno tabù e così le viene negata la possibilità di esporre i suoi quadri. La collaborazione con l’artista dimostra tre dei principi saldi di Teatro al Femminile: inclusione, condivisione e creazione di luoghi che accolgano flussi e fermenti artistici.

Gaia Contrafatto (sx) e Virginia Risso (dx) – foto di Massimo Forchino
Virginia Risso, autrice, attrice e regista dello spettacolo I dialoghi della Vagina – foto di Massimo Forchino

Nel 2022, I dialoghi della Vagina ha vinto il premio Miglior spettacolo e Miglior Attrice (Virginia Risso) al Concorso nazionale Lo strappo nel cielo di carta (VV) ed è stato selezionato al Festival del Teatro Aperto (PZ), al Milano Fringe Festival e al Catania Fringe Festival, dove ha ottenuto il Premio COMICS.

La serata è organizzata da Torino città per le donne, associazione di promozione sociale che ha come obiettivo di produrre un cambiamento radicale e fare di Torino una città in cui le donne abbiano piena cittadinanza, pari libertà e opportunità di sviluppo personale e sociale; la questione femminile è cruciale non solo per il superamento delle diseguaglianze ma anche per lo sviluppo sociale, economico, ambientale e culturale delle città. L’associazione, fra le attività principali, ha recentemente promosso una legge di iniziativa popolare per modificare la legge elettorale regionale e introdurre la doppia preferenza di genere.

“I dialoghi della Vagina” sono una produzione Teatro al Femminile, scritto e diretto da Virginia Risso, con Virginia Risso e Gaia Contrafatto, scene di Elena Romanovskaya, costumi di Estelle Vintage, tecnico audio-luci Simone Ravera

Per info e acquisto biglietti scrivere a torinocittaperledonne@gmail.com

Foto cortesia Torino città per le donne, foto in evidenza Virginia Risso (sx) e Gaia Contrafatto (dx)

TRA DISASTRI AMBIENTALI E CRITICITÀ ECONOMICO-SOCIALI: IL CASO DELL’EMILIA-ROMAGNA
Convegno  a Bologna, Sala Consiliare Quartiere Porto-Saragozza, 17-18 febbraio 2024

LA CRISI DEL MODELLO NEOLIBERISTA
TRA DISASTRI AMBIENTALI E CRITICITÀ ECONOMICO-SOCIALI: IL CASO DELL’EMILIA-ROMAGNA
Convegno  a Bologna, Sala Consiliare Quartiere Porto-Saragozza, 17-18 febbraio 2024

La Rete per l’Emergenza Climatica e Ambientale ER, assieme a Diritti alla Città e Osservatorio urbano di Bologna, ha deciso di promuovere questo convegno, perché intendiamo produrre un pensiero strutturato sulle dinamiche economiche, sociali e ambientali che riguardano, in primo luogo, la nostra regione.
Non è più credibile continuare a magnificare la bontà del “modello emiliano-romagnolo”, da prendere a riferimento anche per gli altri territori. Tali dinamiche stanno dentro il pensiero unico e la pratica del neoliberismo, rispetto al quale il “modello emiliano- romagnolo” può prestare maggiore attenzione ad alcuni tratti di solidarietà ed inclusione sociale, ma che, tuttavia rimane inscritto in quel paradigma. Neoliberismo che, peraltro, oggi attraversa una crisi strutturale, che non implica necessariamente, anzi, un suo possibile ripensamento in termini positivi, ma che, senz’altro, fa sempre più fatica a riproporre la sua logica di crescita “infinita”, fondata sul primato del mercato e della finanza.

Presto di mattina /
Dimorare nella differenza

Presto di mattina. Dimorare nella differenza

Poesia, un dimorare nella differenza

Od anche, come qui confesserai:
– Questa nuda parola, questo dire
che non può mai essere inutile,
questo equilibrio di pensiero ed atto
che si svela in pronunzia, e non è
che coscienza, un silenzio parlante,
questo muto snidare in se stesso
l’altrui, e l’Altro, che dal sé distinto
incombe, e promuove l’esistere
nel nome di Lui, e il parlare
nel nome di tutti, questo, mi pare,
nella mia miseria, il promiscuo
sentire che sussurra: – poesia.
(Carlo Betocchi, Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1996, 367.

Lo Sguardo, la parola, il gesto tendono al luogo che è loro proprio: “l’altrui, l’Altro”. Come la poesia essi tendono alla differenza quale loro dimora, verso un luogo che incombe e tuttavia incoraggia e muove verso un più esistere: «un passo, un altro passo,/ e inciampicando nel divino esistere/ io giungo a riconoscermi nel sasso/ che sospira all’eterno, in alto, in basso» (ivi, 285).

Sant’Agostino direbbe che «un peso non trascina soltanto al basso, ma al luogo che gli è proprio. Il fuoco tende verso l’alto, la pietra verso il basso» (Confessioni, 13, 9). L’identità è come pietra, profondità dentro di sé, l’alterità è fuoco che sale verso un altrove per tornar vivi, per ritrovarsi in altri.

Carlo Betocchi è qui poeta dell’alterità e della differenza, di questo fuoco che è l’altro da sé, un perdersi nel “cuore di ciascuno altro” per ritrovarsi, e il suo nome proprio, non un numero, si rivelerà nella tua cura, uniti nella differenza.

La tua mente illusoria rifiutala
se non ha altri argomenti che te:
e il tuo cuore, se non ha che i tuoi
lamenti. Non avvilirti
compassionandoti. Sii non schiavo di te,
ma il cuore di ciascun altro: annullati
per tornar vivo dove non sei
più te, ma l’altro che di te si nutra,
distinguilo dal numeroso,
chiama ciascuno col suo nome
(ivi, 327).

Sono di là da qui,
son l’altro, o sto per diventarlo;
per farmi riconoscere
uso queste parole;
son le stesse d’un tempo,
ma non son più lo stesso,
io, perché di là da qui,
dove resto nascosto,
vado già ricercandomi
(ivi, 564).

Una poesia quella di Betocchi che anche calcando i “lunghi passi della prosa” dimora così nella differenza di un’altra differenza: «Dov’è la mia casa? Forse, invecchiando, finalmente m’incammino: forse, compresi meglio i miei affetti saprò distaccarmene. Oh, da vecchio, andarsene con i lunghi passi della prosa! E nessuno che possa lamentarsene. Diranno: – Com’è cambiato! È diventato un altro!» (ivi, 254).

Credere: dimorare nella differenza

Come tutti

Anch’io salii le scale del mio non sapere,
anch’io come te, come l’altro, come molti
non avevo parola che dicesse il possibile
(entro il credibile, entro quel ch’è da credere,
e non è mio, è di tutti); eppure mi son fatto
così, uno che parla a stormi di versi
affamati di verità, come passeri nel gelo
d’inverno, come tutti i beati poveri, tutti
i santi beati che hanno lasciato se stessi
per trovar l’Altro, il vero, il solo sapiente
(ivi, 449).

Credere è di tutti, sì, proprio di tutti! È un verbo che nasce dalla fame di ciò che fa vivere; è ricerca del pane del senso, principio della relazione all’altro. Credere è vivere. È pure quel pane spezzato e condiviso per poter vivere insieme e oltre: è l’incomparabile grazia della differenza d’altri.

Si sta come il seme che buca la terra solo grazie alla terra, che si muove, si radica profondo, sale e vive e porta frutto ancora e ancora, di stagione in stagione, solo grazie alla grazia della differenza. Differenti dimore sono per lui il sole, la pioggia, il vento, le mani che l’hanno piantato e poi si prendono cura di seminarlo di nuovo. Così è possibile una primigenia parola al bambino solo nella misura in cui trova un garante, ad aspettarlo, se trova l’altro.

L’origine dell’umano credere è così già tutto in un primo sguardo, silenzio, parola, gesto sorgivi e primigeni di tutte le altre parole, silenzi, sguardi e gesti che seguiranno e serviranno a intraprendere cammini e costruire le dimore della differenza.

Credere è allora, già al primo spiraglio di luce, un osare e rischiare la differenza, aprendo gli occhi. Credere è inserzione nella differenza là dove lo spirito e la parola s’incarnano, entrano dentro il corpo dell’umano rinunciando al privilegio di una identità immutabile, solitaria, incontaminata: «pur essendo nella vita di Dio, spogliò se stesso assumendo la condizione di servo» (Fil 2, 6).

È ciascuno innestato all’altro per ferita, inserzione carnale nella differenza là dove si arrischia se stessi giocandosi il tutto per tutto nelle prove e nel destino d’altri. Questo credere, che è di tutti, è preferire e rischiare la realtà per l’apparenza, la verità per la menzogna, divenendo così quel credere generativo e costitutivo nel tempo della propria autenticità: ci fa veri.

È pertanto quel credere che sta prima di ogni fede e credenza, di ogni tradizione e determinazione storiche e finanche della religiosità umana. È là dove tutto è dato e tutto da donare; dove tutto è fatto e tutto da fare, dove tutto è già e tutto non ancora. Credere è il luogo della libertà, quella libertà che si affida, che osa la differenza.

Fare posto: la debolezza del credere

Credere: «il termine significa talvolta aver confidenza in qualcuno o in qualcosa, altre volte il termine significa credere alla realtà o a quello che si vede, altre ancora fidarsi di quel che viene detto… Il credere pone un rapporto a qualcosa d’altro. Sotto questo triplice aspetto, il termine implica sempre il supporto dell’altro, che costituisce ciò su cui si deve poter contare… Il credere si mantiene dunque tra la riconoscenza di un’alterità e l’istituzione di un contratto, sparendo nel caso in cui uno dei due termini viene meno» (Michel de Certeau, Una pratica sociale della differenza: credere, in La pratica del credere, Medusa, Milano 2007, 29-30).

È stato il gesuita francese Michel de Certeau (1925- 1986)Le marcheur blessé (l’itinerante ferito), titola la sua biografia a cura di François Dosse – che ha tematizzato con un suo saggio dal medesimo titolo la debolezza del credere.

Far posto a una differenza significa ospitare, fare credito ad una forza della debolezza: così per de Certeau «credere significa “venire” o “seguire” (gesto segnato da una separazione), uscire dal proprio luogo, essere disarmato da questo esilio fuori dalla identità e dal contratto, rinunciare così al possesso e alla eredità, per essere offerto alla voce dell’altro e dipendere dalla sua venuta o dalla sua risposta.

Attendere così dall’altro la morte o la vita, aspettare dalla sua voce l’alterazione incessante del proprio corpo, avere come tempio l’effetto, nella casa, di un distanziarsi da sé attraverso un capovolgimento che “fa segno”, ecco senza dubbio ciò che l’interruzione credente introduce all’interno o nell’interstizio di ogni sistema, ciò che la fede e la carità connotano, o ciò che rappresenta la figura di Gesù itinerante, nudo e sacrificato, cioè senza luogo, senza potere e, come il clown di H. Miller, forever outside, “per sempre fuori” di sé, ferito dallo straniero, convertito all’altro senza essere tenuto da lui» (La debolezza del credere, Fratture e transiti del cristianesimo, Città aperta, Troina (En), 276).

Mai senza l’altro

Come nessun uomo è uomo da solo“mai senza l’altro”, “pas sans toi”, “non senza di te” è stato il leitmotiv del suo itinerario di pensiero e di vita − così lo si è pure nel credere: «Nessun uomo è cristiano da solo, per se stesso, ma sempre in relazione all’altro, in un’apertura a una differenza invocata e accettata con gratitudine.

Questa passione dell’altro non è una natura primitiva da ritrovare, non è qualcosa di cui ci rivestiamo o che si aggiunge per rafforzare le nostre competenze, le nostre acquisizioni: è una fragilità che spoglia le nostre solidità e introduce nelle nostre forze necessarie la debolezza del credere.

Forse una teoria o una pratica diventa cristiana quando, nella forza di una lucidità o di una competenza, entra come una ballerina il rischio di esporsi all’esteriorità, la docilità all’estraneità che sopravviene, la grazia di fare posto – cioè di credere – all’altro. Proprio come “l’itinerante”, il “pellegrino” di Angelus Silesius, non […] nudo, né vestito, ma spogliato» (ivi, 287).

La debolezza del credere è dovuta all’attesa dell’altro, alla sua imprevedibilità. Le sue vie non sono le nostre, né i suoi pensieri i nostri. Debolezza dovuta alla distanza, non dissimile da quella che c’è tra il cielo e la terra, così è tale quella dell’altro che lascia esposti al rischio della sua assenza, come abbandonati al proprio nulla. È tuttavia una debolezza che nasconde una forza, quella di un altro che sarà in te.

Credere è cedere la tua disperazione a chi è più forte di te. In questo resistere arrendendoti, il nulla, la solitudine e la disperazione stessa si spaccano, non sono più solo tue ma diventano d’altri, o come direbbe de Certeau, mutando in una “frattura instauratrice”, diventano forma stessa del credere, legame di alleanza.

Anche il poeta parla di una disperazione che si spacca e s’apre una feritoia in cui passare oltre. Così, chi crede è un transiliens, colui che passa al di là di sé per fare posto e lasciar entrare l’altro da sé. Il passer blessé, il passatore ferito, che il Dio della pace ha ricondotto dai morti.

Non chiamare disperazione
la disperazione,
se non è ancora più forte,
se non è ancora a quel punto
che si spacca,
che s’apre una feritoia,
nemmeno la disperazione
è tua, cèdila
a chi è più forte di te,
attendi, accetta d’esser colmo
del tuo nulla;
scamperai da te stesso,
non saprai come, un altro sarà in te
(Betocchi, 327).

Seminati nella debolezza

Ciò che «è seminato nella debolezza, risorge nella potenza» (1Cor 15,43). Ecco la fede di Paolo che indica ai cristiani quale sia la forza nascosta nella debolezza del credere: «Il Signore mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”.

Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,9-10).

La debolezza del credere prega con gemiti inesprimibili, quelli dello Spirito del Risorto ricorda ancora Paolo: «anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio» (Rm 8, 26-27).

Lo stesso annuncio dell’evangelo di Dio è declinato nella debolezza. L’evangelizzazione si presenta e si attua così nella forma stessa della debolezza del credere: «Anch’io, fratelli, quando venni tra voi, non mi presentai ad annunciarvi il mistero di Dio con l’eccellenza della parola o della sapienza.

Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso. Mi presentai a voi nella debolezza e con molto timore e trepidazione. La mia parola e la mia predicazione non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio». (1Cor 2,1-5).

Precisando tuttavia la qualità di questa potenza che dimora nella debolezza perché «ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini… quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti;» (1Cor 1,25).

Sinodalità: camminare insieme nella differenza

Anche la sinodalità come il credere è l’esperienza di dimorare nella differenza. Anzi, è proprio una pratica sociale ed ecclesiale della differenza. Il credere è il legame ramificato che lega una pluralità di differenze; soggetti distanti uniti ad un atto di parola, ad un pronunciamento di convergenze, ad una decisione comune per orientare cammini al futuro.

E il loro dire, l’assenso del credere si deve poi declinare in un fare, poiché il fare verifica il dire e garantisce l’autenticità del credere e della sua attestazione, scongiurando così l’ammonimento evangelico: “dicono ma non fanno”.

«Questa iscrizione del dire nel fare e del fare nel dire costituisce il credere in una pratica dell’attesa. A partire da questa prospettiva, la formula che indica al credente la sua posizione potrebbe essere: “tu lo credi se lo fai, e se non lo fai tu non ci credi”» (Certeau, Pratica del credere, 36-37).

Vi leggo in queste parole il cammino sinodale della Chiesa nelle sue tre fasi “narrativa”, “sapienziale” e “profetica”: l’ascolto di tutti, il discernimento comune, il cambiamento delle pratiche nella forma di una conversione pastorale, ecclesiale e sociale. La tradizione ecclesiale non è qualcosa di fissato una volta per sempre: è «un passaggio sempre in movimento», perché il vangelo diviene una realtà sempre in via di realizzazione nella storia, non solo attraverso un dire, ma con un fare.

L’esperienza sinodale come esperienza dell’altro, dell’alterità corrisponde così alla figura di colui che è in viaggio insieme con altri nei mondi della differenza, all’incontro con il povero, con il Cristo povero nei poveri.

Così la sinodalità dovrebbe essere esperienza di povertà, scoprendo anche la propria. Questa scoperta frutto di ascolto, discernimento e decisione per un cambiamento (le beatitudini) ha una funzione di contestazione in una società e in una chiesa in cui stili di vita, ricchezze, culture e religioni cessano di essere un “buon annuncio” per l’umano e per il creato.

Ma è pure pratica di conversione, una contestazione creatrice a partire da un noi ecclesiale secondo l’evangelo per far vivere ancora una volta la speranza per il futuro.

L’aspetto più importante del Sinodo ecclesiale in questa fase sapienziale, – fase del con/spire, “respirare insieme” con lo spirito del Cristo povero tra i poveri – potrebbe essere lo stesso aspetto che padre Yves Congar al Concilio annotava nel suo diario personale il primo febbraio 1964 scrivendo che

«L’aspetto più importante del Concilio non è quello di far votare dei testi, bensì quello di creare uno spirito e una coscienza nuova, e questo richiede tempo». Il tempo del nostro sinodo è quello di continuare a dimorare, praticando insieme la differenza, a partire da e attraversando quello scarto/ferita della differenza che c’è sempre tra noi e il vangelo.

È ora tempo di ritornare in quella dimora della differenza che è la poesia, “promiscuo sentire” ci ha detto Carlo Betocchi. L’invito è per tutti al «coraggio di credere e di esistere dentro il fiore della carità», anche per quella fede che al nostro sguardo sembra impalpabile, grigia come cenere fredda, pur essa, inconsapevole, silente, prega e riprega.

Sento anch’io il bisogno come il poeta di essere tanto più libero in Lui − questo è credere – e Lui libero in me, e amarlo, amarlo nel nome angosciato di tutti, per esser conscio che tutti sono a Lui eguali, sua umanità e così finalmente amarli come fossero Lui.

C’è verità nel coraggio
di credere e d’esistere,
e dentro il fiore della carità.
C’è nel fiume, che mena l’acqua,
tutta, la fievole delle rive, –
e la violenta della corrente:
e nel fuoco, fiamma e faville,
e grigia impalpabile cenere
che, dal suo letto spento,
fredda, prega e riprega Iddio
(ivi, 535).

Sì, m’accorgo, mio Dio
(la confessione è tenera, ma l’animo è aspro),
che d’una cosa in più, forse,
aveva bisogno il tuo servo:
quanto più libero in Te,
quanto – aveva bisogno –
d’essere conscio dei suoi simili,
cui non solo la morte l’eguaglia
ma la consuetudine con il peccato.
E d ‘avere un poco d’orgoglio
non era male,
d’essere come se fosse solo,
e d’amarti come fosse Te stesso,
nel nome, angosciato, di tutti
(ivi, 326).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

CHI È RESPONSABILE DELLA GUERRA A GAZA?

Chi è responsabile della guerra a Gaza?

Secondo Save The Children, l’organizzazione internazionale che si occupa di tutela dell’infanzia, dall’inizio del conflitto a Gaza (7/10/23), in media più di dieci bambini al giorno, hanno perso un arto. Inoltre, a causa della paralisi del sistema sanitario causata dal conflitto, molte delle operazioni sono state eseguite senza alcuna anestesia.

Dai dati del Ministero della Sanità di Gaza, nei tre mesi trascorsi dal sette ottobre, circa 22.000 palestinesi sono stati uccisi e altri 57.000 feriti, con bambini mutilati e uccisi a un ritmo devastante e intere famiglie massacrate ogni giorno. A più di 1.000 bambini e bambine sono state amputate una o entrambe le gambe, senza l’anestesia.

Ciò è dovuto alla paralisi del sistema sanitario causata dal conflitto e della grave carenza di medici, infermieri e forniture mediche come anestetici e antibiotici. Il sistema sanitario di Gaza è al collasso: solo 13 dei 36 ospedali rimangono parzialmente funzionanti, ma operano in modo limitato e instabile a seconda della possibilità di accesso al carburante e alle forniture mediche di base. I nove ospedali parzialmente funzionanti nel sud stanno operando al triplo della loro capacità. Inoltre, secondo l’OMS, solo il 30% dei medici di Gaza, in servizio prima del conflitto, lavora ancora.

Si fa fatica a commentare una situazione di questo tipo, indigna e annienta, per l’orrore, per l’impotenza, per il fallimento di tutti i trattati sull’infanzia e di tutte le azioni di salvaguardia dei bambini miseramente fallite. Credo che nessun essere ragionevole, dotato di un minimo di cuore e di misericordia umana, possa trovare una giustificazione ad un orrore di questo tipo, men che meno adducendo giustificazioni politiche, economiche, storiche, antropologiche, sociali.

Mi fa orrore, tra tutti gli orrori, l’amputazione degli arti dei bambini. Già l’amputazione è un trauma indicibile, senza anestesia rischia di far impazzire una persona e di togliergli qualsiasi possibilità di una vita normale. Questo sta succedendo e, in quanto dramma universale, è un dramma di tutti, di ciascuno di noi, delle nostre famiglie e dei nostri bambini.

A mio nipote viene da piangere a sentir parlare dei bambini di Gaza, evita l’argomento perché il suo sistema emotivo non è in grado di reggerlo. Spero non sia sufficiente per fargli odiare tutti gli esseri adulti esistenti sulla terra. Mi ha già chiesto più volte perché nessuno fa niente per quei poveri bambini e io faccio fatica a rispondergli. Gli ho già detto più volte che sono tutti impotenti, che nessun organismo internazionale riesce a fare qualcosa e, in questa affermazione, trovo una tristezza adulta che mi addolora.

L’amputazione è un trauma violento e può verificarsi in maniera netta (per esempio un taglio) o in seguito a strappamento. Nel primo caso i margini sono più riconoscibili, mentre nel secondo i tessuti appaiono più lacerati e la sutura di ciò che resta più delicata. Le amputazioni si diffusero massicciamente durante la guerra civile americana (12 aprile 1861 al 23 giugno 1865) e la rimozione di un arto era la procedura chirurgica più comune negli ospedali da campo.

Circa 60.000 interventi chirurgici, tre quarti di tutte le operazioni eseguite durante la guerra civile, furono amputazioni. Anche se apparentemente drastica, l’operazione aveva lo scopo di prevenire complicazioni mortali come la cancrena. A volte eseguita senza anestesia, e in alcuni casi lasciando il paziente con sensazioni dolorose nei nervi recisi.

La maggior parte dei chirurghi della Guerra Civile erano ben addestrati, e i libri di medicina dell’epoca descrivono con precisione come e quando le amputazioni potevano essere eseguite e quando era appropriato. In molti casi, l’unico modo per cercare di salvare la vita di un soldato ferito era appunto amputare un arto frantumato. Quei medici hanno dovuto ricorrere ad una misura così drastica perché un nuovo tipo di proiettile è stato diffuso proprio in quella guerra.

Nel 1840 un ufficiale dell’esercito francese, Claude-Etienne Minié, inventò un nuovo proiettile. Si differenziava dalla tradizionale palla rotonda a moschetto, perché aveva una forma conica. Quel proiettile, che all’epoca della guerra civile era comunemente chiamato la palla Minié, era estremamente distruttivo. La versione comunemente usata durante la Guerra Civile era fusa in piombo ed era del calibro 58, che era più grande della maggior parte dei proiettili usati oggi.

Quando la palla Minié colpiva un corpo umano, faceva disastri. I medici che curavano i soldati feriti erano spesso perplessi di fronte ai danni causati. Un libro di testo medico pubblicato un decennio dopo la guerra civile A System of Surgery di William Tod Helmuth descrive in modo molto dettagliato gli effetti delle palline Minié. Un orrore assoluto, sembra di leggere la storia della fine del genere umano.

Il poeta Walt Whitman, che aveva lavorato come giornalista a New York City, viaggiò dalla sua casa di Brooklyn al fronte di battaglia in Virginia nel dicembre 1862, dopo la battaglia di Fredericksburg. Rimase scioccato da uno spettacolo raccapricciante e così scrisse nel suo diario:

“Trascorsa buona parte della giornata in una grande casa di mattoni sulle rive del Rappahannock, usata come ospedale dopo la battaglia – sembra aver ricevuto solo i casi peggiori. All’esterno, ai piedi di un albero, noto un mucchio di piedi amputati, gambe, braccia, mani e così via, un carico completo per un carro a un cavallo”.

Comincia così la storia moderna sulle amputazioni in guerra e così prosegue, un orrore dopo l’altro, una guerra dopo l’altra, fino ad arrivare ai giorni nostri. Adesso tutto questo fa ancora più impressione e il dramma si amplifica ancora di più, perché senza arti restano dei bambini inermi e innocenti, senza alcuna colpa se non quella di essere nati in quel tempo, in quel luogo maledetto. La storia prosegue il suo cammino, ma l’orrore che porta con sé la guerra è sempre spaventoso. La guerra porta odio. Dove c’è odio viene distrutta la vita. Lo vediamo quotidianamente, purtroppo.

Mi fanno un po’ impressione quei tentativi un po’ maldestri, fatti da persone influenti, a cui resta un minimo di cuore, di portare via da Gaza bambini orfani. Portarne via 10, 50, 100 per placare la nostra coscienza, per provare a trovare una consolazione, prima personale e poi mediatica, a ciò che è già successo.

Come se il desiderio di maternità e paternità che alberga in molti esseri umani adulti potesse riversarsi su quei pochissimi bambini salvati dal massacro (salvati?) e questo potesse essere una risposta adeguata al dramma. La risposta adeguata non c’è stata. Nessuno l’ha trovata, credo che in questo ci siano enormi responsabilità collettive che però non svincolano il singolo, anzi lo inchiodano davanti alla sua identità e al senso della sua vita.

Secondo Hannah Arendt, la causa principale della responsabilità collettiva è politica e non riguarda le norme giuridiche e morali, che sono accomunate invece dal riferirsi sempre alla persona e a ciò che la persona ha fatto. La responsabilità collettiva riguarda quelle azioni di più persone che i soggetti hanno compiuto “come gruppo”, e che, come individui isolati, non avrebbero potuto realizzare. Parlare di una responsabilità collettiva implica un pericolo, che è quello di sottostimare o addirittura eliminare la responsabilità individuale.

Hannah Arendt, ad esempio, afferma che il grido “siamo tutti colpevoli” pronunciato dai tedeschi riguardo ai crimini nazisti ebbe come conseguenza quella di discolpare coloro che invece erano colpevoli, perché “quando tutti sono colpevoli, nessuno lo è”.

Riflettendo su tutto questo, e tornando a ciò che sta succedendo a Gaza, mi sembra che le responsabilità siano strumentalmente tutte collettive, come se ci volessimo dimenticare che spesso i drammi dipendono da catene di errori compiuti da individui, che ricoprivano in quel momento ruoli politici rilevanti.

Agganciati ai singoli anelli della catena di errori si possono trovare singole responsabilità decisive, che avrebbero anche potuto determinare conseguenze diverse. Penso ad esempio ai capi di Stato. Non è vero che i capi di Stato hanno le stesse responsabilità che ho io e non è vero che la loro possibilità di azione e di intervento è come la mia. Altrimenti non avrebbe senso alcun processo di delega, di cui la politica necessita per esistere.

Questo non toglie che ciascuno nel suo piccolo abbia delle responsabilità, ma rimarca come ognuno di noi ha delle responsabilità dirette come singolo, delle responsabilità di delega (politiche) e delle responsabilità collettive in quanto appartenenti a un gruppo. Io non voglio la guerra! Non voglio nessuna guerra! Se lo dice un capo di Stato, o più capi di Stato è lo stesso che lo dica io? Ovviamente no.

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Storie in pellicola / “Maestro”, il biopic di Leonard Bernstein firmato Bradley Cooper

Dal 20 dicembre su Netflix, il film “Maestro”, di Bradley Cooper (e prodotto, tra gli altri da Martin Scorsese e Steven Spielberg), applauditissimo alla 80° Mostra del cinema di Venezia, coinvolge ed emoziona.

‘L’arte deve saper suscitare domande’, per il grande direttore d’orchestra Leonard Bernstein era il principio guida. Ci sono tutti gli ingredienti che servono a un buon prodotto, in “Maestro”, il nuovo film da regista e protagonista di Bradley Cooper, che aveva già debuttato alla regia con “A Star is Born”: entusiasmo, passione, tempesta e impeto, sogni, libertà (e pure libertinismo), talento, aspirazioni, amore, famiglia, e, soprattutto, tanta musica. Ai recenti Golden Globe non ha vinto nulla, ma qualcuno parla di Oscar.

Un film in bianco e nero, che passa al colore solo in un secondo momento, con lo scorrere inesorabile del tempo, che racchiude momenti di leggerezza romantica e di dramma d’autore e qualche tocco di musical. Fino all’abile impiego della camera fissa quando l’incombere della malattia invade tutto e non lascia spazio più a nulla.

Si parte dalla fine della storia, un Leonard anziano e provato (Bradley Cooper, che firma anche la sceneggiatura), con un lungo flashback che ripercorre la sua vita e la nostalgia per l’amore della sua vita, l’attrice Felicia María Cohn Montealegre (una sensazionale Carrey Mulligan), dalla quale il maestro ebbe tre figli.

A dominare sullo schermo il carisma di Bernstein, eclettico e poliedrico personaggio, un direttore d’orchestra, pianista e compositore famoso in tutto il mondo, anche di musical popolari, su tutti, per il suo “West Side Story”.

Carrey Mulligan e Bradley Cooper, foto Netflix

Nato nel 1918 in Massachusetts da immigrati ucraini di religione ebraica, Bernstein iniziò a suonare il piano della zia in giovane età, da autodidatta, per poi prendere s lezioni e diventare a sua volta insegnante per i ragazzi del quartiere. Le sue prime esibizioni in orchestra risalgono al 1932, tre anni prima di iscriversi a Harvard per studiare musica. Dagli anni Quaranta, fin dalla sostituzione casuale di Bruno Walter per un concerto alla Carnegie Hall, iniziò ufficialmente una carriera folgorante soprattutto come direttore di orchestra (nel 1946 fu invitato da Arturo Toscanini, che all’epoca viveva negli Usa, a dirigere la Nbc Symphony Orchestra e nel 1953 fu il primo americano a dirigere l’orchestra della Scala di Milano).

Carrey Mulligan e Bradley Cooper, foto Netflix

Polemiche a parte sul naso, a piacere anche il racconto garbato di una bisessualità raccontata apertamente, senza moralismi, dove la vita di Felicia oscilla fra un innamoramento che diventa grande amore e una frustrazione per la doppia vita di un marito geniale e carismatico, doppia vita a lei nota ma, obtorto collo, tollerata.

Bradley Cooper e Matt Bomer, foto Netflix

Il film si concentra sull’intenso rapporto con Felicia, durato, fra alti e bassi, oltre 30 anni, nonostante le relazioni di Leonard con vari uomini, a cominciare dal rapporto con David Oppenheim (Matt Bomer). Il divorzio – per poter vivere con Tom Cothran (Gideon Glick), manager radiofonico e compositore – arriva nel 1976. Un anno dopo, la coppia torna però a vivere insieme, per la malattia di Felicia che la porta alla morte nel 1978. Subentra poi Kunihiko Hashimoto, grande amore di Bernstein, un giovane giapponese impiegato in una società di assicurazioni che gli rimane accanto fino alla sua morte, nel 1990.

Un film delicato, poetico, riflessivo, romantico, intelligente, originale e molto esistenziale. Rapiti dalle musiche, tutte di Leonard Bernstein, ma senza esagerare.

Secondo la sinossi ufficiale, questa pellicola è “una lettera d’amore per l’arte e la vita, un ritratto epico ed emozionate sull’amore e la famiglia”. Verissimo. Da vedere.

Maestro, di Bradley Cooper, con Bradley Cooper, Carey Mulligan, Matt Bomer, Gideon Glick,Vincenzo Amato, Maya Hawke (II), USA, 2023, 129 minuti.

Foto in evidenza e nel testo di Netflix

 

Parole a Capo
Sofia Zoli: Due poesie

La notte non è meno meravigliosa del giorno, non è meno divina; di notte risplendono luminose le stelle, e si hanno rivelazioni che il giorno ignora.
(Nikolaj Berdjaev)

 

Naufragi

Nella notte
ogni città è paese di provincia
Metropoli appiccica
nelle albe di giorni pigri
Un letto grande
ad accorciare le distanze
È rumore nel silenzio
questo caffè lavorato
Accompagna circolare voce automatica
– Linea 33

Le mie mani conoscono bene
i tagli della carta
i calli della neve e
l’ultima porta chiusa
– che è ben poco –
Le tue, la mia schiena
scarlatta e bruciata
di segni che voglio
contare a numeri familiari
di botte prese
sincera e incompresa

Tace,
a lasciarti vincere l’ultima volta
una pace
i cui morti hanno tutti il mio volto.

Io fiore di muro
cresciuta vent’anni
nel posto sbagliato
ho imparato a farmi zattera
salpare verso i confini
dimenticare questa nazione morta giovane

Un bacio é un naufragio
e nessuna carezza
a far sbocciare il grano difficile
della fiducia
e davvero poca fatica
a non confondermi
Subito
Con il petto di altri

ho diviso la mia sigaretta
con chi vive le notti
a compagne distratte
accompagna un sorriso
chi conosce il freddo
e riconosce il mio
dove gli altri non comprendono
– a chi tutto e
a chi niente
Me l’han detto
raccogliendo
un ricordo squartato dal fango,
mi accorgo
nel tuo rumore
essere stata falena
giunge a cantilena
una strofa d’amore
dedicata a me sola

Dice –
che è normale,
un cane randagio
Impara tardi
a farsi carezzare
smette presto di perdonare
Dispera in silenzio il dolore
di vedere
I propri germogli fiorire altrove
Ma quasi – li annaffia.

La rabbia ha un codice sacro
è intenzione, distruzione
è creazione e innovazione
ché ogni tanto ci crede
di poter cambiare il mondo
e poi
ne piange le frane.

Ricorda che le parole
sono solo parole
che serve azione e costruzione,
distrazione quando l’asfalto
ha lo stesso sapore per giorni
ma tu sai anche se neghi,
agli occhi basterà uno sguardo
un richiamo nel traffico
a rifugiarsi in braccia nuove
a rendermi colpevole ancora
di non aver detto
abbastanza
quello che volevi sentire.

Un giorno fuggiranno
i capelli rimasti
testardi ad aspettarti,
sanno anche loro
ci vuole – spazio
e un sesso nuovo
A completarsi certi
Che basti dirsele certe cose.

Obbligare l’amore
a una sola forma
adattarlo a conferma ogni giorno
d’essere un po’ meno soli
urlare solo per dirsi addio

Io – per andarmene –
Ho camminato
in punta
di piedi
per amarti
ho mostrato il difetto
E le ossa ancora rotte
– Chissà cosa non ho capito.

Basterà un gettone
a lavare il profumo
Io – continuerò a indossarlo
Senza dirlo mai
Ininterrotta parlando nel freddo
Nasconderò le mie guance a cercarlo
Sorriderò di questa cura
(mai meritata)
e ricorderò che sono bella
anche quando non mi guardi
e se volevi guardarmi
–   ormai
Me ne sono già andata.

*

 

Uomini nudi

 

Oh amore che follia
Pensare io sia
Una donna da riporto.
Amore, l’altro giorno mi han detto che son bella
E io ho negato e ringraziato
Mi son voltata e ho sorriso:
Certo lo sono.
Certo credete
non conosca il fascino
Della mia rabbia e della mia verità
Di quanto sia io
Meravigliosa e terribile.
Così vi lascio
Pensare di poter conquistare
Una corrente del sud.
Così vi lascio
Felici quando vi bacio
E mi preparo
Al vostro ripudio.
Voi, che vi innamorate della tempesta
Ma siete senza vestiti.

Sofia Zoli (Faenza). Ha 22 anni e ha fondato un progetto culturale, In BiancoUn progetto di cultura scondita (https://www.instagram.com/inbianco.culturascondita/ Instagram) che sta andando bene, collabora con un’associazione culturale di Forlì (si chiama Candischi https://www.instagram.com/candeidischi/) ed è tra i “poeti” della LIPS (Lega Italiana Poetry Slam).

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

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Vite di carta /
“Dieci donne” e due dodici.

Vite di carta. Dieci donne e due dodici.

Dieci donne è il titolo del libro di Marcela Serrano uscito presso Feltrinelli nel 2011 con la bella traduzione di Michela Finassi Parolo e Tiziana Gibilisco.

Nove donne si confessano stando in gruppo dalla psicoterapeuta che hanno in comune, lei le vede arrivare tutte insieme dalla finestra dell’istituto dove potranno parlarsi, le accoglie e le ascolta. Ascolta e basta.

vite di carta. dieci donne e due dodiciSono loro che nel corso del racconto di sé, fluente e ricco di una introspezione che nel tempo si è fatta generosa, includono lei, Natasha, e ne spiegano il valore dentro le rispettive vite.

Ognuna di loro mette in chiaro i dolori e le fragilità che l’ha portata alla psicoterapia, nessuna tralascia di indicare quanto sia stato importante il sostegno avuto da Natasha.

Per esempio vengono rimarcate certe frasi che dice spesso per suscitare il dialogo,  oppure la tenerezza con cui si avvicina alla sostanza umana che le contraddistingue una per una.

Sono venuta qui, oggi. Erano mesi che ci pensavo e ora eccomi seduta nella grande cucina della mia Tata storica, quella che ha assistito a tutta la mia infanzia stando a casa mia come lavorante di mia madre.

Ritrovo in un minuto le coordinate della sua vita familiare: la stanza ben riscaldata perché si muove poco dopo l’ultima operazione all’anca, l’ultima di una serie, lo schermo gigante della tv perennemente accesa, l’affacciarsi sul davanzale della finestra di gatti e cagnolini che a turno chiedono di entrare.

E parla a ruota libera. Mentre la ascolto mi sento beata per la narrazione della sua vita che ritrovo e che abbiamo interrotto per troppo tempo. Non sono Natasha ma sì, la situazione è speculare a quella del libro e in fondo è la stessa: una donna parla e un’altra è venuta per ascoltarla.

Chi sentisse da fuori capirebbe che mi vuole bene da sempre: non mi include certo nel racconto della vita quotidiana nella quale non ho posto in questi ultimi anni, ma fa veloci incursioni nella mia infanzia, dice che qualcuno dei suoi quattro figli (ora quarantenni ) è stato come me in qualche piccola cosa. Una, la terzogenita, porta il mio stesso nome.

Oggi mi parla dei due nuovi nipotini nati da pochi mesi e le brillano gli occhi. Ora sono quattro i nipoti, tutti maschi. Provo a chiamarli i moschettieri per stemperare il rimpianto che le oscura lo sguardo mentre dice che il marito, che non c’è più, sarebbe stato felice di conoscerli uno ad uno. E subito rialza il capo, tornando a parlare dei due più piccoli, le esce anche una risata delle sue.

Viene allo scoperto il suo buon carattere, una vera miniera di forza che l’ha tenuta su, sempre. Gliela riconosco e gliela invidio bonariamente, credo di avergliela copiata negli anni in cui sono diventata adulta, se non altro ho costruito una buona impalcatura che ho chiamato compostezza e con quella tento di mantenere almeno la forma nei momenti duri.

La ascolto e intanto faccio entrare nella stanza le altre dieci donne: sono figure femminili di carta, ma hanno titolo per stare qui, ognuna con la sua parabola di vita.

Luisa è vedova di un desaparecido e rivive nel suo racconto i trent’anni che ha passato nell’attesa tenace che il suo Carlos tornasse, intanto che ha tirato su i figli e sbarcato il lunario con fatica. Andrea, una giornalista di successo, si rifugia nella solitudine del deserto di Atacama per rimettere in discussione ogni singolo pezzo che compone la sua vita frenetica. E così via con la storia delle altre.

La decima donna, Natasha la psicoterapeuta, non parla in prima persona ma affida alla sua fedele assistente il racconto della propria. Chi legge, e finora ha raccolto su di lei i giudizi delle altre, trova dispiegato nell’ultimo capitolo il nastro della sua esistenza. Una vita fatta di impegno familiare e professionale, di passioni e di spostamenti da un continente all’altro fino al Cile dove il libro è ambientato.

Di tutta la profondità della sua persona e della sua competenza nella psicoterapia mi sorprende una scheggia di poche straordinarie parole. Mi autorizza a credere che altrettanto forte quanto stare ad ascoltare chi ci parla e ci guarda negli occhi sia leggere le vite. Che anche la lettura sia una forma di ascolto.

Le parole sono queste: Natasha arriva stanca dopo una lunga giornata di lavoro e chiede alla sua assistente, donna umbratile e lettrice sterminata, “Raccontami della vita là fuori”. “Se per fuori intendi i personaggi dei miei romanzi…” “Sì, loro…raccontami che cosa fanno, che cosa dicono, che cosa pensano.

Nota bibliografica:

  • Marcela Serrano, Dieci donne, Feltrinelli, 2011

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Risposta ad Ernesto Galli della Loggia: l’inclusione scolastica accresce l’empatia, la solidarietà, la prossimità.

di Tonio Dall’Olio
Pubblicato su Mosaico di pace il 15 01.2024

No, caro Ernesto Galli della Loggia, l’inclusione scolastica non solo non reca alcun svantaggio ai “normodotati” ma, a sentire centinaia di testimonianze, accresce l’empatia, la solidarietà, la prossimità…

che devono stare ugualmente a cuore alla scuola. Quella dell’abolizione delle classi differenziali destinate ad alunni disabili o affetti da ritardi cognitivi o da disturbi nella socializzazione finiva per diventare una segregazione umiliante per scolari, studenti e rispettivi genitori, ma soprattutto non favoriva la crescita e l’apprendimento trattandosi di problematiche diverse che meritavano un sostegno ad hoc.
Caro Ernesto Galli della Loggia, anche se lei cita un testo recente e fa riferimento alla realtà dei fatti, per quanto mi sforzi non riesco a darle ragione. Se davvero vuole spendere la sua tastiera per qualcosa di utile al prossimo, proponga di migliorare la formazione e la dedizione dei docenti e del sistema di sostegno piuttosto che il ripristino del sistema di apartheid.
Non si offenda, il termine mi è germogliato spontaneamente dopo aver letto nel suo articolo anche del danno che provocherebbe la presenza degli stranieri “incapaci di spiccicare una parola d’italiano”. Infine consenta anche a me di suggerirle un testo piccolo piccolo. Si chiama “Lettera a una professoressa”. Potrebbe tornarle utile.

Quella cosa chiamata città /
MILETO 1982

Quella cosa chiamata città. MILETO 1982

I monti Mycale e il Thorax definiscono la piana alluvionale del fiume Meandro. Nell’antichità erano due isole, oggi prolungano verso il mare il gruppo dei monti Aydin che delimita il lato nord dello stretto bacino del fiume.

A sud, la piana è racchiusa dal massiccio del monte Latmos e più sotto dal monte Grion, da cui si stacca un’appendice che duemila anni prima di Cristo era un promontorio proteso in una insenatura dell’Egeo, in seguito divenuta una piana fertile.

Siamo sulla costa egea settentrionale della Turchia, al di sotto di Troia ed Efeso. Sul lato sud del promontorio si trova la città oracolare di Didyma, mentre sull’altro versante si trova Mileto, di cui ora parleremo.

Nel 1982, ritrovare la città non fu semplice, richiese uno sforzo rilevante di interpretazione delle mappe a nostra disposizione, associato anche ad un po’ di fortuna.

Mileto, Il teatro, 1982

Fondamentale fu la capacità di associare l’immagine che avevo in mente della città con le forme del paesaggio nel quale ci trovavamo a vagare, senza il supporto di alcuna indicazione stradale. Nella mia testa tutto ruotava attorno all’acqua, allora ero inconsapevole del ruolo giocato dalle modificazioni del territorio. Il promontorio lo vedevo come una sorta di dito che si conficcava nel mare Egeo e sul quale la città era sorta.

Ricordo una giornata molto luminosa, una luce pulita che creava una sorta di gioco di ombre con netti contrasti, e in questa ricerca spasmodica di un promontorio bagnato su tre lati dal mare, che in realtà non esisteva più, ecco apparire su di un’altura delle strane pietre biancastre ammassate una sull’altra che, viste in lontananza, sembravano delle concrezioni calcaree, che avevano come sfondo una piana in alcuni tratti limacciosa.

Consapevole che la luce prende forma quando incontra l’ombra, avvicinandomi le “pietre” iniziano ad assumere la forma di linee luminose alternate ad altre ombrose, alcune orizzontali, altre verticali, generate dalle scanalature delle colonne, o meglio dei frammenti di colonne doriche e corinzie ammassate alla rinfusa sul terreno insieme a capitelli e pezzi di trabeazione: eravamo giunti a Mileto.

Mileto, ruderi, 1982

Ci siamo arrivati a causa di una mia infatuazione per una mappa che un professore aveva presentato a lezione all’IUAV di Venezia. Il viaggio alla scoperta della antica città greca aveva seguito un percorso iniziato nell’altopiano anatolico, irrazionale, zigzagante e disarticolato, lasciandosi alle spalle insediamenti trogloditi, città sotterranee, caravanserragli abbandonati.

La pianta di Ippodamo di Mileto (V secolo a.C.)

La geometria ortogonale concepita da Ippodamo da Mileto era diventata una città, adattandosi alle irregolarità del promontorio, ma cosa era successo quando il principio geometrico aveva incontrato quel sito specifico?

Che rapporto si era stabilito tra la regola del modello ippodameo e la conformazione dei principali luoghi urbani o ancora, come l’architetto aveva regolato l’orientamento della città vista la particolare conformazione di quell’appendice rocciosa?

Queste erano alcune curiosità che avevo condiviso con i miei compagni di viaggio, per giustificare il fuori percorso e vincere le loro perplessità, probabilmente senza appassionarli.

Questa città, dove aveva vissuto una comunità di cittadini che abitava, lavorava, discuteva e concepiva visioni del mondo, che aveva generato numerose colonie urbane era ora deserta, abbandonata, nemmeno degna di un cartello stradale.

Indelebile rimane l’immagine dall’alto dell’agorà, un tempo probabilmente, attraversata da una via colonnata, che sembrava reggersi, instabile, sull’acquitrino che ne occupava l’invaso. Quel giorno oltre a noi, solo un pastore sostava con le sue pecore, che con il loro brucare tenevano puliti i ruderi dell’antica città, e ci osservava distratto e silenzioso, forse anche perplesso.

Tutte le foto, compresa quella di copertina sono di Romeo Farinella

Per leggere tutti gli articoli e gli interventi di Romeo Farinella, clicca sul nome dell’autore

 

 

 

La Bella Addormentata dovrà aspettare ancora.
Ferrara e il suo polo chimico: una lunga storia … di occasioni perdute

La Bella Addormentata dovrà aspettare ancora.
Ferrara e il suo polo chimico: una lunga storia … di occasioni perdute

Ferrara è stata definita dal CDS,  nel corso della presentazione dell’Annuario Economico Ferrarese 2023,  “la Bella Addormentata” …  tanto addormentata al punto da non essere stata in grado di svegliarsi neppure con i baci del principe Azzurro, manifestati nel corso degli anni attraverso le tante occasioni che si sono avvicendate e purtroppo perdute.

La favola dei fratelli Grimm ci racconta che dopo cento anni avvenne l’incantesimo e tutti vissero felici e contenti.

Purtroppo a Ferrara l’incantesimo non si è ancora verificato e sembra lontano dal verificarsi nonostante, dal dopoguerra ad oggi, si siano alternati diversi “principi azzurri” nelle forme delle tante occasioni, che la “comunità ferrarese” e in particolare coloro che hanno il potere e le disponibilità decisionali, non sono stati capaci di cogliere.

Una storia da raccontare

La storia che voglio raccontare (chiamarla favola forse è riduttivo, … ma fino un certo punto) parte nel dopoguerra in un territorio sottosviluppato ove era presente un latifondo diffuso, con decine di migliaia di braccianti con basso reddito, poche aziende industriali legate prevalentemente all’autarchia degli anni ’30 e ’40, l’assenza di scuole professionali adeguate e grossi problemi di qualità della vita, soprattutto nella parte orientale, …la Bassa.

La lungimirante scelta imprenditoriale della Montecatini, di entrare con tempestività nel settore Petrolchimico a guerra appena finita, creando a Ferrara il primo polo petrolchimico dell’Europa continentale, si era dimostrata vincente in quanto creava il presupposto per la realizzazione di un bacino industriale foriero di possibili ricadute sul piano occupazionale, scientifico, formativo, culturale in un’area vasta.

“L’iniziativa della Montecatini includeva anche la realizzazione di un piccolo laboratorio di controllo ed appoggio alle attività produttive dello Stabilimento, inizialmente di mero supporto ai primi impianti del Petrolchimico basati tutti su tecnologie d’acquisizione  –  leggiamo sul libro “Ferrara e il suo Petrolchimico, volume primo”, edito da CDS nel 2006 – che ebbe successivamente sempre più un ruolo di carattere creativo, verso cioè l’individuazione e lo sviluppo di veri nuovi prodotti e processi, in linea con la missione innovativa della Montecatini e della sua pregressa notevole cultura chimico-tecnologica”.

La scelta fondamentale e vincente fu quella del professore Giulio Natta, Premio Nobel per la chimica nel 1963, che pensò di sviluppare, proprio a Ferrara, le tecnologie di processo dei nuovi originali materiali da lui concepiti presso il Politecnico di Milano, principalmente il polipropilene (PP) e gli elastomeri olefinici etilene-propilene (EPR).

Ferrara capitale della ricerca

E da lì che ebbe origine il rilevante successo della ricerca ferrarese, unico nell’intero panorama italiano, che trascende i limiti del puro, sia pur eccellente, risultato scientifico ed industriale, che è poi alla base del successo stesso; una ricerca che si pone come obiettivo prioritario la individuazione e comprensione di tutte le complesse fenomenologie coinvolte molto spesso in ogni passaggio chimico, fisico, tecnologico, ingegneristico del progetto studiato e di ogni sua parte, ossia “vedere e capire le cose dal di dentro”, come insegnava il professore Giulio Natta.

La responsabilità nelle problematiche di scale-up, nella gestione degli impianti pilota, il coinvolgimento nella gestione degli impianti industriali, nella qualità dei prodotti e nella fase della loro commercializzazione spingeva la ricerca ferrarese alla sempre più completa comprensione di tutti quei fenomeni che la ricerca pura ed asettica di laboratorio, di tipo accademico e universitario, quale era quella sviluppata negli altri istituti, non vedeva, o non voleva vedere, lasciando ad altri, a valle, i compiti considerati “più vili” ma, guarda caso, anche più difficili ed allo stesso tempo avvincenti.

Purtroppo la presenza di uno stabilimento con un impianto di cracking della virgin nafta, il cuore pulsante di un petrolchimico e decine di impianti che producevano materie prime, prodotti di base per il settore, plastiche, elastomeri, ecc., condotti da diverse migliaia di addetti provenienti da ogni parte del Paese e non solo, non fu sufficiente a creare un indotto adeguato, peraltro realizzato in altre province della Regione e nelle regioni anche distanti dalla nostra, … non a Ferrara.

la prima occasione perduta

L’elevato contenuto scientifico e tecnologico del Centro Ricerche Giulio Natta, che sfornava centinaia di brevetti e soluzioni tecnologiche di avanguardia con riconoscimenti a livello internazionale, fu messo a disposizione per affrontare nuove tematiche di ricerca di interesse sociale in un’ottica di sponsorizzazione regionale”, come recita un promemoria emesso il 18 febbraio 1983 (quaranta anni fa !!!) a seguito di un incontro della Direzione del Centro con la Regione Emilia Romagna. Nonostante la formalizzazione di un apposito ufficio (Centro Incontri Tecnici) in città, accessibile a tutti, con la presenza di tecnici specializzati e accreditati “disponibili a fornire consulenza e assistenza tecnica alle aziende interessate”, non si registrarono risultati degni di nota … la straordinaria proposta innovativa andò praticamente deserta.

E siamo alla seconda occasione perduta

Ora passiamo ad anni più recenti, siamo nel maggio del 2001 in occasione dell’Accordo di Programma per la riqualificazione del polo chimico di Ferrara, realizzato per favorire uno sviluppo ecocompatibile, attraverso la costruzione  e il mantenimento nel Polo di condizioni di coesistenza tra tutela dell’ambiente e sviluppo nel settore chimico e la promozione dell’inserimento di nuove attività, siglato  tra la Regione Emilia-Romagna, il Ministero dell’Industria, l’Osservatorio chimico nazionale, Unindustria Ferrara, Federchimica, le Organizzazioni sindacali confederali e di categoria, Comune, Provincia e le aziende insediate.

L’Accordo fu accompagnato dal successo di una importante bonifica delle aree inquinate del Petrolchimico, praticamente unica a livello nazionale, con la messa a disposizione nello stabilimento di decine di ettari idonei per l’installazione di impianti industriali, … e anche qui dopo una ventina di anni non si è visto alcun risultato, nonostante che la collocazione del territorio bonificato sia in una area interamente attrezzata anche dal punto di vista dei servizi tecnologici e già pronta per la costruzione di impianti.

La terza occasione perduta è alle porte.

Arriviamo ai giorni nostri, con la recente straordinaria innovazione legata al progetto MoReTech del Centro Ricerche Giulio Natta, salutato con notevole favore a livello internazionale come altre iniziative del genere che, come è noto, sarà industrializzato da Lyondellbasell in Germania anche perchè con la chiusura del cracker di Porto Marghera si è sostanzialmente messo “un bastone fra le ruote” allo sviluppo della tecnologia del riciclo molecolare delle materie plastiche a Ferrara. Anche in questo caso si butta al vento una occasione di sviluppo del Petrolchimico che avrebbe avuto ricadute favorevoli per tutto il territorio.

La speranza è l’ultima  a morire … ma l’andamento della storia sa tanto di quarta occasione perduta.

Ho riportato in breve quattro opportunità di sviluppo strategico del Petrolchimico (una ricerca più approfondita potrà senz’altro evidenziarne altre) e del territorio in cui esso vive da ottanta anni, che si sono succedute con scadenza ventennale senza essere diventate occasione di crescita e che  tra l’altro sono scivolate via senza particolari emozioni da parte di chi conta a Ferrara dal punto di vista finanziario, economico, formativo,  produttivo, politico, ecc.

La “Bella Addormentata” dovrà aspettare ancora.

Anna Zonari: “Indignata per le parole offensive di Fabbri contro il vescovo Perego, la Chiesa e il volontariato”

Anna Zonari: “Indignata per le parole offensive e menzognere di Fabbri contro Perego

A margine dei ripetuti attacchi del Sindaco Alan Fabbri a monsignor Giancarlo Perego, Vescovo di Ferrara e Comacchio, pubblichiamo questa dichiarazione della candidata Anna Zonari.

“Leggo con sgomento e profonda indignazione le sprezzanti parole rivolte dal Primo Cittadino di Ferrara Alan Fabbri al Vescovo Giancarlo Perego. Una comunicazione offensiva e menzognera, che viene messa in atto oggi a Ferrara, perfettamente in linea con la macchina del fango in atto da tempo a livello mediatico contro la Chiesa di Papa Francesco dalla stampa e dagli esponenti politici di destra.
Scagliarsi oggi, a Ferrara, contro Monsignor Perego significa disprezzare le persone, credenti o non credenti, che osano disobbedire al vento dell’odio e dell’indifferenza che soffia potente in questa città sempre più autoritaria e in questo Paese.
Il Sindaco Fabbri dovrebbe sapere (oppure lo sa benissimo ma fa finta di non saperlo)  che a Ferrara sono migliaia i cittadini che, ogni giorno, si impegnano concretamente contro le diseguaglianze, le discriminazioni, i soprusi, nel volontariato delle parrocchie, delle associazioni e anche per semplice “umanità”, come chi spontaneamente la notte scorsa è andato in soccorso di chi rischia l’assideramento, sotto un portico del centro storico.
Il sindaco pensa di raccogliere voti in nome dell’indifferenza e dell’egoismo, moltiplicando le luci per oscurare la realtà (e la verità) di una città sofferente,  ma esiste una Ferrara che si ribella e si ribellerà sempre di più a questo tentativo di indurire i cuori e resisterà, resterà umana.”.

Anna Zonari

Cover: il sindaco Alan Fabbri e il vescovo Gian Carlo Perego (foto di agenzia Dire)

Mezzogiorno abbandonato

Taglio del Fondo di perequazione, rimodulazione Pnrr, utilizzo improprio del Fondo di coesione, accelerazione dell’autonomia. La strategia del governo sul Sud

di Roberta Lisi
(tratto da Collettiva del 15.01.2024)

RIDURRE I DIVARI

A voler essere obiettivi occorre ammettere che in gran parte le differenze tra Nord e Sud del Paese non sono frutto del fato cinico e baro, ma di scelte precise compiute nel corso degli anni. Senza scomodare come è avvenuto il processo di unificazione dell’Italia, basti ricordare che le ingenti risorse che sono state impiegate per dotare il settentrione di infrastrutture materiali e immateriali non sono state in egual modo destinate al meridione. Non sarà mica un caso che l‘Autostrada del Sole arrivi solo fino a Napoli, così come l’alta velocità ferroviaria si fermi a Salerno. E potremmo a lungo proseguire ricordando come l’insediamento di industrie private ha faticato a realizzarsi, anche per mancanza di strade e ferrovie efficienti. A pagarne le conseguenze sono innanzitutto i cittadini e le cittadine di quei territori e poi tutto il Paese. È stata l’Europa, assegnandoci la quota maggiore di risorse del fondo per Next Generation Eu, a dirci che quei divari vanno colmati.

TAGLI AL PNRR

Il ministro Fitto sembra non saperlo e non interessarsene, visto che nel piano di revisione del Pnrr ha proposto tagli per quasi 16 miliardi ma ben 7,6 riguardano finanziamenti per progetti del Mezzogiorno, dalla riqualificazione delle periferie ai piani urbani integrati, passando per il contratto di sviluppo di Salerno. Ultimo ma non per importanza, l’eliminazione di un miliardo destinato alla riconversione verde dell’ex Ilva di Taranto che proprio in queste ore rischia la chiusura. Non solo i tagli, ma anche la rimodulazione di alcuni finanziamenti colpiscono indirettamente il Sud. Lo spiega Luca Bianchi, direttore generale della Svimez che dice: “La rimodulazione ha sostanzialmente spostato le risorse da singoli progetti al Repower Eu cioè a incentivi alle imprese. Chiaramente, in assenza di un disegno industriale, rischiano di andare di più dove le imprese sono, quindi più al Centro-Nord. Temiamo che questa rimodulazione possa comportare un’ulteriore perdita relativa di risorse per il Sud”. Non solo, è sempre il direttore della Svimez a manifestare la preoccupazione che la riserva del 40% di stanziamenti destinati al Mezzogiorno non venga, così, rispettata.

 

RALLENTAMENTI SU LENTEZZE

 

Sempre il ministro Fitto, seguendo una strategia che sembra essergli cara, accentrare tutto il possibile, ha decretato la chiusura di otto Zes retroportuali che dopo anni di ritardi avevano cominciato a funzionare, per istituirne una sola allocata a Palazzo Chigi nel suo dicastero. Grande la perplessità della Cgil, sia a livello nazionale che territoriale. Anche Bianchi evidenzia una preoccupazione: “Se in linea generale l’idea di un’unica struttura potrebbe essere positiva dal punto di vista di un coordinamento reale degli interventi nei diversi territori meridionali, il rischio che tutto si fermi è reale. Occorre fare il piano strategico della Zes unica, che però non è stato ancora avviato. Il crinale tra successo e fallimento della Zes unica dipenderà dalla capacità di attuarla”.

LA DISTRAZIONE DEL FONDO DI COESIONE

L’ultima denuncia arriva dal presidente della Campania De Luca, che minaccia di denunciare Fitto per la mancata assegnazione di 20 miliardi del Fondo sviluppo e coesione. Già il segretario nazionale della Cgil Christian Ferrari sosteneva: “L’utilizzo delle risorse del Fondo di sviluppo e coesione, per compensare quanto verrà tagliato con la cancellazione di molti progetti del Piano nazionale di ripresa e resilienza, è il classico gioco delle tre carte, perché già destinate per l’80% allo sviluppo del Sud”. E non solo, anche i presidenti di Calabria e Sicilia, eletti dal centrodestra, si sono lamentati della decisione del governo su richiesta del ministro Salvini, di destinare alla costruzione del famigerato ponte sullo stretto ben 1,6 miliardi del Fondo Coesione sottraendoli alle due regioni che magari avrebbero potuto utilizzarli per realizzare infrastrutture indispensabili ai cittadini di quei territori.

 

DULCIS IN FUNDO

 

Ma la vera ciliegina amara su una torta già assai indigesta è arrivata pochi giorni fa. Con un tratto di penna sono cassati i 4,4 miliardi del Fondo di perequazione destinato proprio a ridurre le differenze tra Nord e Sud. Era stato il governo Conte 2 a stanziare quelle risorse in vista dell’autonomia. Non solo, il Fondo è stato svuotato e proprio domani arriva all’esame dell’aula del Senato il testo sull’autonomia di Calderoli. Tre giorni di tempo per licenziarlo senza modifiche, questa la volontà del ministro.

IL VERO ALLARME

Lo lancia ancora il direttore Bianchi, è un allarme assai preoccupato: “L’azzeramento del Fondo di perequazione è stato un pessimo segnale. Pur essendo assolutamente insufficiente, era un primo tentativo di avviare, nell’ambito dell’attuazione del federalismo, un processo reale di perequazione strutturale, cioè di riallineamento delle offerte infrastrutturali”. E al pessimo segnale segue, appunto, l’arrivo in aula del testo Calderoli. Chiosa il dirigente della Svimez: “L’allarme per noi più elevato, più drammatico è la prosecuzione del percorso di attuazione dell’autonomia differenziata, perché al di là delle risorse, quella potrebbe essere la vera pietra tombale su qualunque prospettiva di riallineamento dei divari di cittadinanza tra Sud e Nord. Questa è la principale preoccupazione e questo rimane il tema principale su cui concentrarsi”.

ASSENZA DI POLITICHE O STRATEGIA?

Nelle tre ore di conferenza stampa di inizio d’anni, Meloni non ha mai pronunciato la parola Mezzogiorno. Dimenticanza o scelta strategica? La considerazione di Ferrari è netta: “L’esecutivo non ha idee, non ha una strategia, non investe sul Mezzogiorno. Soprattutto – conclude Ferrari – non ha alcuna intenzione di risolvere la sua crisi sociale sempre più acuta e in questo modo danneggia l’intero Paese, che ha bisogno, per crescere in maniera solida e strutturale, di ridurre diseguaglianze e divari territoriali, e di rilanciare innanzitutto le aree più svantaggiate”.

 

“Un tetto di cuori”.
Appello del gruppo di cittadini che assiste chi a Ferrara un tetto non ce l’ha

Appello del gruppo di cittadini che assiste chi a Ferrara un tetto non ce l’ha.  Il loro nome è “Un tetto di cuori” : ancora una volta il volontariato supplisce alla carenza del servizio pubblico. 

“Un tetto di cuori”. Questo è il nome scelto da un gruppo di persone che non volevano restare indifferenti al disagio ed alla sofferenza di quegli esseri umani che anche a Ferrara, come purtroppo in quasi tutte le altre città, compaiono come per incanto all’imbrunire raggomitolati sui loro miseri giacigli fatti di cartone in diversi punti del centro.

E sono solo una minima parte, quella più visibile, dei tanti esseri umani che passeranno la notte all’addiaccio in edifici fatiscenti della periferia. Il volontariato come ormai consuetudine, non solo supporta ma spesso si sostituisce alle Istituzioni pubbliche in quello che sarebbe un loro preciso compito ma che la carenza di finanziamenti e qualche volta di volontà, rende da tempo quasi impossibile sostenere.

Ed ecco quindi che da settimane ormai, con l’arrivo del freddo, donne e uomini mossi dallo stesso spirito di solidarietà, si danno appuntamento nei diversi punti del centro città nei quali ormai sanno di trovare persone alla disperata ricerca di calore, soprattutto umano verrebbe da dire.
Non solo bevande calde, panini e dolci, coperte, maglioni e guanti quindi ma soprattutto chiacchiere, sorrisi ed abbracci è ciò che viene offerto a queste persone che più che senza tetto sono senza affetto.

Non manca tuttavia l’attenzione alla pulizia dei ripari di fortuna ricavati sotto i portici, ed ecco quindi che vengono distribuiti scope, stracci e sacchi per i rifiuti, per lasciare pulito ed evitare così che i residenti od i negozianti non si limitino ad essere purtroppo indifferenti ma diventino addirittura insofferenti richiedendo l’intervento delle Forze di Polizia, costringendo questi esseri umani alla disperata ricerca di rifugi che diano loro la possibilità di sopportare le temperature gelide e di sopravvivere almeno a quella notte, e per le altre si vedrà.

E nell’attesa che finalmente le Istituzioni si decidano ad assolvere il loro dovere sociale che non è quello di emarginarli scacciandoli ma di accoglierli sostenendoli, “Un tetto di cuori” cerca di affiancarli con quel rispetto e quella cura la cui mancanza è quasi sempre all’origine del loro disagio.

E da qui infine il duplice appello lanciato dal gruppo “Un tetto di cuori”;
– alle Istituzioni pubbliche ad assumersi finalmente  la loro precisa responsabilità
con interventi più empatici che burocratici;
– ed ai ferraresi tutti ad essere almeno più tolleranti e magari solidali con questi loro “fratelli”, contattando la redazione redazione di Periscopio (redazione@periscopionline.it)  per fornire la propria disponibilità al gruppo “Un tetto di cuori” con l’intento di allargare e rafforzare questo “tetto” anche con i loro “cuori”.

 

Un tetto di cuori

Parole e figure /
“L’atelier sul mare”, o il potere dell’Arteterapia

Un bellissimo e delicato libro della giapponese Rimako Horikawa, “L’atelier sul mare”, edito dalla casa editrice bolognese Kira Kira, ci porta nel mondo dell’arte e delle storie del cuore, quelle che fanno bene

“Tutte le persone possono creare una storia dentro il loro cuore, perché lì dentro siamo tutti liberi. Disegna pure ciò che c’è così com’è. Non importa come viene”.

Piace fin dalla copertina dai colori tenui e dove una finestra ci porta ad osservare il mare. Lo sguardo si perde lontano, nell’azzurro infinito. Piace anche la camera della nonna, quella dove tutti, da bambini, ci siamo sentiti felici e a nostro agio. Spensierati e curiosi, con occhi e orecchie ben aperti. In attesa del budino alla vaniglia. E poi Kira Kira ci ha abituati alla delicatezza di un Giappone magico, fantasioso e mistico.

Una nonna condivide con la nipotina un ricordo prezioso e speciale della sua infanzia, partendo da un quadro appeso alla parete che la ritrae da bambina. Una settimana d’estate passata nello studio di una pittrice che abitava da sola in una casa dal soffitto alto in riva a mare, una vecchia amica della madre assorbita dalle sue tele e colori; una settimana in cui aveva dipinto molto giocherellando con gli acquerelli, plasmato argilla, letto una montagna di albi illustrati e di libri di pittura, giocato con il gatto, dormito in un comodo letto cigolante, ascoltato il frinire degli insetti e tanta musica, guardato il mondo a testa in giù, come in una danza, passeggiato lungo la riva del mare a guardare le onde e le conchiglie e a sentire l’odore delle alghe, scoperto l’arte e liberato la creatività. Senza più fogli bianchi. Senza un solo minuto di noia.

Mentre il cielo si colorava di arancio e si cenava con piatti inventati da quella poliedrica e libera pittrice, sorseggiando nei bei calici acqua al profumo di cocomero. E chiacchierando, tanto. Quelle letture che l’avevano fatta innamorare di tanti paesi stranieri e diventare insegnante di inglese…

Il racconto di formazione, che lascia a bocca aperta, fa sognare e perdersi, ispirato da un ricordo d’infanzia dell’autrice (“da bambina imparai a dipingere da una pittrice che abitava vicino a casa mia… fu il primo adulto a non trattarmi come una bambina”, scrive), evoca l’atmosfera di un momento speciale e fuori dall’ordinario e, attraverso tavole dettagliate e colte, sottolinea il potere salvifico dell’arte. Sempre. Con le mani intinte e perse nelle tonalità più svariate, con le dita e le piante dei piedi che riempiono fogli. Dando forma e colore a ciò che si è visto con il cuore. Meraviglioso. Unico.

Rimako Horikawa, L’atelier del mare, Kira Kira, Bologna, 2023, 32 p.

Nel 2021, “L’atelier del mare” ha vinto il Bunkamura Les Deux Magots Literature Award. Nel 2022, ha ricevuto il 53° Kodansha Picture Book Award e il 71° Shogakukan Children’s Publishing Culture Award ed è stato premiato nel Moe Children’s Book Shop Award, la classifica dei trenta libri preferiti dalle librerie giapponesi per bambini e ragazzi.

“L’Atelier sul mare” è patrocinato dall’Associazione Art Therapy Italiana, che promuove la pratica dell’Arteterapia e della Danzamovimentoterapia in Italia, attraverso la formazione di professionisti in grado di progettare e condurre interventi specifici in ambito sanitario, sociale e educativo, e contiene una prefazione della fondatrice Mimma Della Cagnoletta.

Rimako Horikawa, Foto Kosuke Adachi

Rimako Horikawa è nata a Tokyo nel 1965 ed è cresciuta in una famiglia amante dell’arte e le piace disegnare fin da quando era molto piccola. Si è laureata all’Università di Belle Arti della sua città. È sia una pittrice apprezzata che espone in Giappone sia un’autrice e illustratrice di picture book per diversi editori giapponesi. Il suo occhio e la sua coscienza sono sempre alla ricerca di qualcosa di interessante.

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti. Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara

Vincenzo Mollica, “L’arte di non vedere”, da Roma a Milano attraverso il mondo

Per la prima volta in teatro, Vincenzo Mollica presenta il suo spettacolo “L’arte di non vedere”. All’Auditorium Parco della Musica di Roma l’11 gennaio e a Milano, al Teatro degli Arcimboldi, il 15 gennaio. Uno spettacolo indimenticabile.

Roma, Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone, Sala Sinopoli. Tutto esaurito. Sfilata di vip, nelle prime file della platea: ci sono Fiorello con la moglie Susanna Biondo, Mara Venier, Renato Zero, Paola Cortellesi con il marito Riccardo Milani, Maria Grazia Cucinotta, Alberto Matano, Clemente Mimun. Noi più in fondo, ma ci siamo.

È un evento speciale e coinvolgente, questo monologo di due ore di Vincenzo Mollica, accompagnato al pianoforte dal gentile e attento cantautore Enrico Giaretta.

“L’Arte di non vedere”, Auditorium Parco della Musica, foto Simonetta Sandri
“L’Arte di non vedere”, Auditorium Parco della Musica, foto Simonetta Sandri

Una confessione intima e sincera. Un momento di grande emozione, commozione e risate, di fronte a un uomo che si racconta, che fa i conti con malattie e cecità – annunciatagli fin dall’età di sette anni e fatta di visione con un occhio solo fino a poco tempo fa -, senza alcuna autocommiserazione ma con grande ironia, presenza di spirito e di adattamento, quello che solo le grandi anime coraggiose sanno inventarsi.

Tantissimi gli aneddoti di una vita ricca e piena di soddisfazioni, costellata da grandi incontri con i più importanti personaggi del mondo dello spettacolo, riempita da quelle interviste che hanno fatto di Mollica un unicum, un faro per ogni giornalista che con quel mondo si confronta. Ineguagliabile, irripetibile, inimitabile, irraggiungibile.

“Omerico non lo sarò mai per le poesie, ma per mancanza di diottrie”, esordisce.

“Devo tutto a due grandi maestri”, continua, “a Federico Fellini che mi ha insegnato l’arte di vedere e ad Andrea Camilleri che mi ha insegnato quella di non vedere”.

I racconti degli incontri con Federico Fellini – di cui Mollica ha scritto molto – sono fra i più emozionanti, la bellezza di chi ha avuto il privilegio di lavorarci fianco a fianco, con i pranzi preparati da Giulietta e le scorribande per le vie di Roma. Quella Roma che era la ‘Hollywood sul Tevere’, bei tempi che furono.
C’è tanta Roma in questo spettacolo e il pubblico lo sente: sullo schermo scorrono le immagini di spezzoni con Alberto Sordi, Gabriella Ferri, Renato Zero, Nino Manfredi. Applausi ogni volta che sul video sfila un viso noto che non c’è più. Un bell’omaggio del pubblico a tanti personaggi dello spettacolo italiano e non.

Dai video del repertorio Rai rivediamo le battute con Paolo Conte, Lucio Dalla, Roberto a Benigni, Franco Battiato, ma a coinvolgere è, soprattutto, l’incontro con la grande Alda Merini che, a distanza, dialoga con Adriano Celentano, che lei adorava.

Unici e divertenti i racconti di Marcello Mastroianni che mente a Fellini, dicendo di trovarsi a girare in Grecia per nascondere le sue infedeltà, che vola a New York per cenare con Faye Dunaway dopo un pranzo a base di fagioli (il suo cibo preferito) o che “schiva con regalità” gli oggetti lanciatigli addosso da una Catherine Deneuve inferocita per le sue infedeltà. Una donna tradita che gli rimprovera pure di credere di saper recitare…

Toccanti i racconti degli scambi con Andrea Camilleri, uniche le strofe di canzoni intonate per lui da Bruce Spreengsten, Sharon Stone, Lady Gaga, George Clooney.

Gli aforismi messi in musica da Giaretta, “Molliche di Mollica”, sono originali, molti, rivisitati, li si ritrovano nel suo libro “Scritto a mano pensato a piedi: aforismi per la vita di ogni giorno”, altri sono brevi pensieri che giungono dalla pagina Instagram di Mollica, la sola, confessa, che ora riesce in qualche modo a gestire.

Belli anche i disegni che sfilano sullo sfondo, di, fra gli altri, Andrea Pazienza e Milo Manara, a ricordare la passione del cronista per il mondo dei fumetti.

Ma le parole più amichevoli e tenere sono tutte per Rosario Fiorello, l’amico di sempre che lo incoraggia e sostiene e che l’ha trasformato in pupazzo, perché “sono l’unico entrato in televisione come un personaggio in carne ed ossa e uscito come un pupazzo”, scherza.

E poi, ricorda, “ho avuto anche il grande onore di essere un personaggio dei fumetti della Disney, Vincenzo Paperica”, il simpatico cronista paperopolese con la passione per il cinema, nato grazie alla mano di Giorgio Cavazzano, apparso per la prima volta nella storia di “Paperino Oscar del centenario” su “Topolino” n.2074 del 29 agosto 1995 (nel 2021, è anche uscito, con Giunti, “Papershow”, una raccolta delle 12 migliori storie a fumetti di Topolino che hanno per protagonista il personaggio di Paperica).

Sullo sfondo, nello schermo gigante, appare, allora, il sorridente papero e il giornalista ancora scherza: “quando vado al cimitero e vedo le immagini sulle lapidi, sono sicuro del fatto che nessuno dei defunti abbia mai scelto la sua. Sono foto terribili, con espressioni improbabili e impossibili. Per questo ho chiesto a mia moglie Rosa Maria, di mettere, sulla mia tomba, quella di Paperica, con la frase qui giace Paperica, in vita fu Mollica”.

Ci auguriamo, sinceramente, che quel momento arrivi tardi, tardissimo, caro Vincenzo, abbiamo ancora bisogno di te. Tanto. In attesa che mamma Rai, di cui ti senti parte da sempre, – e quanto lo hai ripetuto -, presenti a tutti, presto, questa bella serata.

Dimenticavo la parte più bella. Chiude lo spettacolo una ‘standing ovation’ del pubblico, sulle note di “Azzurro”. Cantiamo tutti, con le lacrime agli occhi.

Estratto video da Corriere TV

Cinquant’anni fa Andy Wharol era a Ferrara invitato da Franco Farina.
Oggi Vittorio Sgarbi, dopo la “mostra pacco” di BANKSY, ci riprova con Mapplethorpe.

Ferrara “città d’arte e di cultura” appare oggi un significante senza significato, un contenitore incontinente, un’indossatrice che deve apparire interessante senza accendere nessun altro interesse che non sia rivolto solo ed esclusivamente alla forma esteriore delle vesti con cui viene vestita, presentata e offerta al pubblico pagante.

Di fronte all’uso esteriore banalmente seduttivo che viene fatto dell’arte e della cultura a Ferrara e per arginare il dilagante fenomeno di narrazioni incomplete, decontestualizzate e alterate che ci sta portando alla nebulizzazione dei confini tra falso e vero e alla scomparsa del pensiero critico, verrebbe innanzitutto voglia di invocare la massima dello scrittore Karl Kraus: “Quando il sole della cultura vola basso, i nani hanno l’aspetto di  giganti”.

L’atteggiamento assunto dalla nostra città negli ambiti artistici e culturali ufficiali, fa sorgere interrogativi inquietanti. Impossibile non porseli.

Quanto dovremo attendere affinché azioni veramente culturali rendano la nostra comunità consapevolmente attiva e partecipe alla vita pubblica, unita nelle differenze, erede della propria tradizione, orgogliosa della propria storia e determinata a preservare il patrimonio materiale e immateriale da incurie, abbandono e speculazioni scorrette?

L’arte potrà nuovamente stimolare il dialogo sociale e politico, fungendo da catalizzatore per la riflessione e la discussione su questioni rilevanti?

Saprà di nuovo sfidare le percezioni esistenti, stimolare la curiosità, potenziare la creatività e invitare a considerare differenti prospettive di pensiero?

Se sì, come fare affinché tutto ciò avvenga o ri-avvenga di nuovo?

Una risposta teorica potrebbe arrivare da Marco Tullio Cicerone il quale sosteneva che le opere d’arte non sono solo ornamenta, ma sono da considerare monumenta: non luoghi di svago e passatempo, ma luoghi di costruzione della società civile, attraverso i quali non solo difendere il passato, ma costruire il futuro.
Ma quando il sole della cultura vola basso, mai così in basso come oggi a Ferrara, talmente raso terra da illuminare solo piccole forme e lunghissime ombre, è perché ci troviamo in presenza di nani o di giganti?

In entrambi i casi, cosa fare?

Una risposta pratica che è tutto un programma – anzi è il programma delle cose da fare – arriva da Bernardo di Chartres il quale sosteneva che quando “Siamo come nani sulle spalle dei giganti, possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non certo per l’acume della vista o l’altezza del nostro corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti”.

In altre parole, se anche fossimo in presenza di veri e propri giganti, la cosa da fare è innalzarci per vedere meglio e più lontano di loro.

Cominciando da BANKSY, non autorizzato e tradito

Nella grafica del manifesto/copertina catalogo della mostra a cura di Stefano Antonelli, Gianluca Marziani e Acoris Andipa organizzata da Fondazione Ferrara Arte e Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea, in collaborazione con Associazione Culturale MetaMorfosi, la dicitura UNAUTORIZED (non autorizzata) risulta illeggibile

Il concetto che è stato alla base dell’evento espositivo “Un Artista Chiamato Banksy ospitato presso la Civica Galleria Comunale di Arte Moderna Palazzo dei Diamanti di Ferrara dal 30 maggio al 27 settembre 2020, è il primo che merita di essere riproposto per i motivi che hanno sollevato critiche sulla sua non autenticità, sulla sua liceità e sull’effettivo valore dei contenuti espressi  all’interno di un contenitore di eccellenza apprezzato a livello internazionale proprio per le metodologie espositive totalmente differenti sino ad allora adottate.

Vittorio Sgarbi, in qualità di neoeletto presidente della Fondazione Ferrara Arte e di artefice della mostra, è stato criticato apertamente nei contenuti e nella forma fin dal momento in cui, in campagna elettorale, ha cominciato a speculare sul fatto sensazionale che lui, se eletto, avrebbe portato Banksy a Ferrara.

La nuova gestione della giunta Fabbri sì è pertanto presentata con una proposta espositiva a pagamento che ha avuto come risultato finale una delle più grandi truffe dell’arte moderna contemporanea, contemporaneamente rifilata all’artista, al pubblico e all’arte.

Un atto inaugurale di un nuovo corso politico-culturale che non ha preannunciava niente di buono e che presagiva qualcosa di ancora peggio, lasciando intravvedere fin da subito precise volontà di orientare – se non di dirottare – l’arte e la cultura ferrarese in direzioni demagogiche, personalistiche e clientelari.

Aderendo in pieno al solito cliché che quando si parla di Banksy e quando si organizzano mostre sulle sue opere si parla di un artista inglese vivente la cui vera identità è sconosciuta, considerato uno dei maggiori esponenti di quella che viene genericamente definita Street Art (disciplina considerata giuridicamente illegale e vandalica), nell’ambito della mostra sono state esposte 100 opere provenienti da collezioni private sotto forma di serigrafie, manifesti, poster, copertine di dischi, adesivi, t-shirt e memorabilia che riproducono le solite icone, la bambina con il palloncino, il lanciatore di fiori, l’elicottero militare con il fiocco rosa, giocatori che anziché con le bocce giocano con bombe a mano, pensando così di dare in pasto al gusto del pubblico quello che s’aspetterebbe se fosse presentato solo come un simpatico vignettista satirico diventato genio per l’abilità dimostrata nel gestirsi al limite della legalità e rimanendo nascosto e anonimo per convenienza e strategia mediatica.

Cosa non ha mostrato la non mostra su Banksy è che la maggior parte delle sue opere sono nate in funzione dei e per i luoghi in cui sono realizzati, che le “tele” su cui le ha dipinte sono i muri e che i muri su cui ha dipinto le sue opere più significative – cioè quelle gratuite e pubbliche che lo hanno consacrato come uno dei massimi esponenti sì della street art, ma della street art di denuncia e di protesta – si trovano nel Lower East Side di New York, cioè in uno dei luoghi di nascita e diffusione del Graffitismo Metropolitano degli anni ’70; nella baraccopoli di Calais, cioè nella “Jungle” umana che raccoglie i migranti in fuga dai più cruenti scenari di violenze e crimini di guerra subiti da popolazioni civili in Medioriente e Africa; in Palestina, all’interno della Striscia di Gaza e, in maggior parte, in Israele sul muro di oltre settecento chilometri che l’esercito israeliano che lo ha costruito chiama Barriera di Separazione o Security Fence; la popolazione civile palestinese che lo subisce -nonostante l’illegalità riconosciuta a livello mondiale dall’Assemblea Generale dell’ONU e dalla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja- lo chiama Muro della Vergogna o Muro dell’Apartheid.

Quello che a Ferrara è sfuggito dal clichè è stato colto in maniera spontanea e approfondita (vedasi i commenti dello stesso Banksy sulla bacheca della sua pagina ufficiale Instagram @banksy, la pagina Facebook “Banksy a Fe a Fake” e la pubblicazione da parte della casa editrice ferrarese La Carmelina di un catalogo non ufficiale definito “apocrifo” curato da Franco Ferioli e Federico Felloni “Palestine Bad Art: Massima destinazione del writing”, video di Nicola Jesu Cattani della presentazione del libro visibile a questo indirizzo.  Critiche anche su tutta una serie di stridenti differenze di stile, dal momento che la mostra che avrebbe dovuto raccogliere tutto il pensiero e tutta l’opera artistica di Banksy, oltre ad essere stata organizzata senza la sua presenza e contro la sua volontà, non è nemmeno stata in grado di programmare alcuna iniziativa collaterale.

Nessun incontro, nessuna conferenza, nessun coinvolgimento ludico-didattico o laboratoriale, solo comprensibili insoddisfazioni da parte di coloro che si sono recati alla cassa per pagare un biglietto di ingresso dal costo di molto superiore a quello che gli avrebbe garantito i medesimi risultati di una connessione telefonica per poter accedere alla pagina on line dell’artista e scaricare liberamente gran parte dei contenuti cartacei esposti in sala.

Non ha nemmeno avuto luogo la sbandierata presenza – annunciata direttamente dal sig. Sindaco Alan Fabbri a coronamento del “grande successo” della mostra – del celebre musicista e dj inglese Daddy G, talmente vicino all’ambiente artistico del misterioso Banksy, da rifiutarsi di prendere parte ad un evento anche da lui giudicato falso, offensivo e lesivo.

Quando si organizzano e si propongono mostre di un artista vivente che le considera inappropriate, non ufficiali e non autorizzate, cioè condotte senza il suo coinvolgimento, senza la sua presenza e contro la sua volontà, è l’atteggiamento etico e morale degli artefici che inizia a vacillare, aprendo il campo a dubbi legittimi sul vero significato, sul valore e sull’appartenenza dell’arte, fermo restando che svincolare l’arte e la produzione artistica dall’artista cui appartiene, è un’operazione di pirateria condotta sia a livello personale e individuale che a livello collettivo e pubblico.

L’opera d’arte ridotta a variabile decorativa

L’uso strumentale degli artisti in chiave personalistica fa emergere il ruolo del culturale contro la cultura, il valore della quantità contro la qualità, il vantaggio del privato contro il pubblicoL’opera d’arte, ridotta a variabile decorativa, diviene illustrazione del pensiero critico.

La mostra espositiva, declinando in mostra propagandistica da “leggere” per farsi eleggere, risalta quello di sensale come unico compito del curatore, attribuisce il merito della paternità a un demagogo populista e diviene evento che scorre attraverso narrazioni non appropriate, pubblicazioni poco approfondite, saggi per niente «saggi», per poi sfociare in una molteplice offerta di vendita prodotti di merchandising e di oggettistica da art-shop.

Appena Banksy ha bollato la mostra un fake, cioè falsa e non autorizzata, si è compreso che ad essere falsi e non autorizzati sono stati il titolo, la mostra, la sede che l’ha ospitata, l’artefice e i curatori che l’hanno presentata in modo scorretto, incompleto e strumentale, compiendo un oltraggio artistico, una speculazione economica e una prevaricazione intellettuale che offende i concetti di libertà di espressione artistica e di libertà di pensiero politico e sociale.

Quello che è emerge dalle sale comunali d’arte moderna a Ferrara è un vero tradimento, la perdita di un doppio concetto:
– ogni artista è sempre stato libero di stabilire chi, come e dove possa ritenersi autorizzato a diffondere il significato e il valore della propria opera;
– il metodo conoscitivo offerto dalla storia dell’arte è sempre stato attento a considerare qualsiasi fenomeno di espressione artistica in relazione all’ambiente e al contesto storico, sociale e culturale di riferimento.

Tutto questo con riflessi negativi non solo a livello locale, provinciale o regionale, ma anche a livello nazionale e internazionale, in tutti quei contesti in cui ogni esempio apportato dalle precedenti esperienze e attività espositive del Palazzo aveva brillato di luce propria come ognuno dei Diamanti scolpiti sulle proprie pareti esterne. 

Franco Farina ed Andy Warhol 

Ciò che risulta inconcepibile è che non si sia riusciti a comprendere come la Galleria Comunale d’Arte Moderna Palazzo dei Diamanti non possa avere come scopo istituzionale quello di operare contro la volontà degli artisti e quello di strumentalizzarne l’operato. Oltretutto, fingendo di seguire le orme dei “giganti” del passato, facendo esplicito riferimento ai meriti conseguiti dal lavoro svolto dalle equipe dei predecessori e da uno dei suoi direttori più emeriti come il Maestro Franco Farina, colui cioè che invitò Andy Warhol a venire a Ferrara quando era considerato, al pari del Banksy odierno, l’esponente più conosciuto della Pop Art.

Nell’autunno del 1975, Ferrara era come New York e Corso Ercole d’Este come la 47a Strada: Andy Warhol passava il tempo tra il Palazzo Diamanti e il ristorante La Provvidenza.

“Ladies and Gentlemen” era il titolo della mostra, organizzata dal direttore Franco Farina e dai suoi collaboratori, dedicata ai ritratti dei travestiti afroamericani che animavano le notti del The Gilded Grape, uno dei locali più frequentati dall’ambiente underground newyorkese negli anni ’70.

Sbarcato per la prima volta in Italia e in Europa, Andy Warhol trascorse qualche settimana a Ferrara per allestire la mostra, presenziare all’inaugurazione e e incontrare il pubblico, gli intellettuali, gli artisti e i giornalisti, tra i quali anche Pier Paolo Pasolini, che venne invitato a scrivere un testo critico sulla sbalorditiva esposizione dei duecento ritratti di donne transgender afro e portoricane.

Vitorio Sgarbi e Robert Mapplethorpe

Nell’autunno del 2023, quello che avrebbe dovuto essere l’evento di punta della programmazione espositiva di Palazzo dei Diamanti a Ferrara, la mostra-dialogo tra il fotografo Robert Mapplethorpe e il pittore Filippo de Pisis, la cui inaugurazione avrebbe dovuto tenersi il 23 marzo 2024, è stato annullato.

Mapplethorpe, autoritratto, Robert Mapplethorpe Foundation ©

A spingere la Robert Mapplethorpe Foundation a far saltare tutto è stata la scelta del titolo della mostra, proposto dal Presidente di Ferrara Arte Vittorio Sgarbi: “Fiori e cazzi”.

A nulla sono valsi i tentativi da parte degli organizzatori di modificare il titolo della mostra, tramite una nota pubblicata dal Comune di Ferrara in occasione della Fiera Internazionale del Turismo di Rimini: “Fallo coi fiori” oppure “Filippo de Pisis e Robert Mapplethorpe, tra grazia e dannazione”.

La nota ufficiale a firma di Vittorio Sgarbi Segretario alla Cultura e Presidente della Fondazione Ferrara Arte, Alan Fabbri Sindaco e Marco Gulinelli Assessore alla Cultura, si conclude speranzosa che Sarà un inedito viaggio tra fotografia e pittura con sorprendenti parallelismi tra i due giganti delle rispettive arti”.
Ma il contenuto della nota e i nuovi titoli non sono serviti a fare cambiare idea alla Robert Mapplethorpe Foundation e al suo direttore Joree Adilman“estremamente turbato dal titolo”– nemmeno quando Sgarbi ha argomentato le motivazioni che lo hanno spinto a proporre come primo titolo Fiori e cazzi: a ispirarlo sarebbe stata un  frase dello stesso Mapplethorpe, che, secondo Sgarbi, sarebbe questa: “cerco la perfezione nella forma, lo faccio con i ritratti, lo faccio con i cazzi, lo faccio con i fiori”.

Mentre invece la frase è questa: «Cerco la perfezione nella forma. Lo faccio con i ritratti. Lo faccio con i peni. Lo faccio con i fiori. Non c’è differenza da un soggetto all’altro. Cerco di catturare tutto quello che mi appare scultoreo”.

E dall’interno di questi due poli iniziali e finali, Banski e Mapplethorpe , entrambi negativi, che si è composta la nuova forma di fare arte e cultura nella Ferrara di Alan Fabbri e del grande ispiratore Vittorio Sgarbi. 

Se vorremo riprendere il cammino culturale che la città di Ferrara merita, dovremo rialzarci e cambiare strada. E guardare a quanto di originale, di nuovo, e di importante la nostra città ha rappresentato per la cultura e per l’arte internazionale.

Per approfondire:

https://www.palazzodiamanti.it/mostre/un-artista-chiamato-banksy/

https://www.mapplethorpe.org/foundation

https://www.kermes-restauro.it/salta-la-mostra-de-pisis-mapplethorpe/

https://www.comune.fe.it/it/z/1931/view?modelClass=elitedivision%5Camos%5Cnews%5Cmodels%5CNews&view=detailNews

https://www.fanpage.it/spettacolo/persohttps://www.kermes-restauro.it/salta-la-mostra-de-pisis-mapplethorpe/naggi/vittorio-sgarbi-pronta-una-mostra-che-si-chiama-fiori-e-caz-ma-i-moralisti-non-me-la-faranno-fare/

Per leggere tutti gli articoli e gli interventi su Periscopio di Franco Ferioli, clicca sul nome dell’autore, oppure visita la sua rubrica Controcorrente

Per certi versi / Ai Baci

AI BACI

I baci
Sono
Numeri
Irrazionali
E internazionali
Che bella
La lingua
Che parla
A un’altra
lingua
Senza traduzione
Ah i baci
Più di Catullo
Sono infiniti
Non decimali
Non periodici
Non hanno
Radici
Sono fatti
Per essere
Inseparabili
Amici
Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
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Tasse, disuguaglianze, povertà e armamenti:
Istantanee di un’Italia decadente

Tasse, disuguaglianze, povertà e armamenti: istantanee di un’Italia decadente

La pressione fiscale sui contribuenti onesti è al 47,4%: così titolava il giorno dell’Epifania in un suo comunicato la CGIA di Mestre (Associazione Artigiani e Piccole Imprese), aggiungendo che lo scorso anno i contribuenti italiani fedeli al fisco hanno subìto quasi 5 punti di tassazione in più rispetto al dato ufficiale, che l’anno scorso si è attestato al 42,5 per cento. Perchè una tale differenza? “Il nostro Pil, come del resto quello di molti altri Paesi dell’Unione Europea, comprende anche gli effetti dell’economia non osservata – sottolinea la CGIA di Mestre – il cui contributo alle casse dello Stato è per definizione nullo. Pertanto, alla luce del fatto che la pressione fiscale è data dal rapporto tra le entrate fiscali e il Pil, se da quest’ultimo storniamo la componente riconducibile al sommerso, il peso del fisco in capo ai contribuenti onesti sale inevitabilmente, consegnandoci un carico fiscale reale per il 2023 del 47,4 per cento. Si tratta di un livello di 4,9 punti superiore a quello ufficiale che, invece, si è attestato al 42,5 per cento.”

La CGIA di Mestre prende atto che nel 2023 il prelievo fiscale è finalmente sceso rispetto all’anno precedente: la pressione fiscale è diminuita di 0,2 punti percentuali, grazie alla rimodulazione delle aliquote e degli scaglioni dell’Irpef e al modesto aumento del Pil. Analogamente, anche nel 2024 il peso complessivo delle tasse e dei contributi sulla ricchezza prodotta nel Paese dovrebbe scendere. “Tuttavia – osserva sempre l’associazione – è verosimile ritenere che la gran parte degli italiani, purtroppo, non se ne sia accorta, poiché allo stesso tempo è cresciuto il costo delle bollette, della Tari, dei ticket sanitari, dei pedaggi autostradali, dei servizi postali, dei trasporti, etc. Insomma, se le tasse sono diminuite, il peso delle tariffe invece è salito creando un effetto distorsivo. In sintesi, i contribuenti non hanno potuto beneficiare pienamente della diminuzione della pressione fiscale perché, nel frattempo, sono aumentate le tariffe che, a differenza delle tasse, statisticamente non vengono incluse tra le voci che compongono le entrate fiscali.”

Salari fermi da oltre trent’anni, ricchezze sempre più nelle mani di pochi, divari tra nord e sud e tra uomini e donne, aumento della pressione fiscale e dell’inflazione e un lavoro sempre più precario, povero e malpagato stanno ingrossando giorno dopo giorno le file delle povertà, ove già faticano ad andare avanti oltre 5,6 milioni di poveri assoluti, pari al 9,7% della popolazione. Una povertà diventata ormai un fenomeno strutturale e non più residuale come in passato. Nel presentare l’ultimo rapporto Caritas su povertà ed esclusione sociale in Italia dal titoloTutto da perderedon Marco Pagniello, direttore di Caritas Italiana sottolineava che: “la presenza di oltre 2,1 milioni di famiglie povere è una sconfitta non solo per chi ne è direttamente coinvolto, ma anche per l’intera società, perché così essa si trova a dover fare i conti con la perdita di capitale umano, sociale, relazionale che produce gravi e visibili impatti anche sul piano dei diritti.

La Legge di Bilancio del Governo Meloni, come ha evidenziato Sbilanciamoci!, non fa nulla per cercare di arginare le povertà in continua espansione, per combattere seriamente l’evasione e il sommerso e per cercare di ridurre le disuguaglianze. Al contrario, favorisce l’evasione fiscale e i privilegiati, taglia i fondi alla sanità e al welfare, criminalizza i migranti, non guarda in alcun modo alla lotta a diseguaglianze e cambiamenti climatici, devolve miliardi di euro a un’opera dannosa e inutile come il Ponte sullo Stretto e aumenta le spese militari. “In Italia, si legge in un recente rapporto di Greenpeace, la crescita della spesa per le armi (+132%) tra il 2013 e il 2023 supera anche quella della spesa pubblica in conto capitale per la costruzione di scuole (+3%), ospedali (+33%) o impianti di trattamento delle acque (che ha registrato addirittura un trend negativo: -6%).”

Sbilanciamoci! nella sua contromanovra, a proposito di fisco, scrive che: “gli interventi da mettere in campo per una riforma fiscale organica e seriamente redistributiva sono dunque di segno opposto rispetto al disegno del governo Meloni e sono quelli delineati dalla campagna Tax the Rich di Sbilanciamoci! . Occorre innanzitutto invertire la tendenza alla frammentazione della base imponibile Irpef riconducendo a tassazione progressiva tutte le fonti di reddito. Anziché appiattire ulteriormente la struttura delle aliquote Irpef, occorre potenziare la progressività aumentando il numero di scaglioni in modo da poter alleggerire il carico fiscale delle fasce di reddito più basse. Sul fronte della tassazione della ricchezza, risulta ormai improrogabile l’introduzione di una tassazione patrimoniale progressiva che vada a colpire i patrimoni milionari (superiori al milione di euro) e le successioni dei grandi patrimoni, andando a incidere sulla trasmissione intergenerazionale delle disuguaglianze. Infine, occorre delineare una vera tassazione delle rendite finanziarie per colpire le attività altamente speculative e rimettere al centro l’economia reale.”

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“Le 7 Ave Maria”, di Elisa Piffanelli, domenica 14 gennaio alla basilica di San Giorgio

Domenica 14 gennaio alle h. 18.00 a seguito della messa presso la basilica di San Giorgio verranno proposti ascolti musicali di brani scritti per la Vergine Maria.

Il progetto, intitolato “ le 7 Ave Maria “ creato e diretto da Elisa Piffanelli, nasce con la volontà di portare ascolti musicali ispirati da un sentire intimo, dolce, accorato. un tema unico declinato in vari modi.

Gli ascolti si svolgono in ambiti sacri per la Bellezza artistica, architettonica, e la spiritualità dei luoghi di culto, resi unici e vari sia per i brani proposti sia per le timbriche degli strumenti scelti: duo voce e pianoforte, oppure violino e pianoforte, trio violino voce e pianoforte, quartetto d’archi e voce, trio d’archi, pianoforte e voce.

Autori non solo tra i più celebri quali Schubert, Gounod, Caccini, Verdi ma anche C. Gomez, Piazzolla, Howard, Kaldalons, Ocko hanno scritto intensi brani dedicati alla Vergine Maria.

Da Novembre ad oggi sono stati effettuati ascolti presso il monastero di Sant’Antonio in Polesine, la parrocchia di Santo Spirito, il santuario del Poggetto , la Basilica di San Giorgio.

“È la delicatezza del sentire che mi muove a ricercare musiche dedicate alla Vergine Maria – spiega Elisa Piffanelli – mi affascina come sia stato curato da molti musicisti, più e meno noti, la preghiera alla Vergine Maria accumuna molti artisti non solo compositori ma anche poeti Alda Marini, ad esempio “.

I brani prendono vita grazie alla preziosa voce di Serena Dominici, mezzo soprano, assieme ad Elisa Piffanelli (pianoforte), Vanessa Avanzi (pianoforte) e giovani musicisti che scelgono di volta in volta di aderire

Scopo del progetto è avvicinare i giovani a suonare e a sentirsi tutt’ uno tra arte, spirito e musica.

Piffany Ensemble esegue musiche per cerimonie (matrimoni, battesimi, funerali) interventi nell’ambito dedicato ai diritti delle donne e per la valorizzazione delle piccole imprese al femminile.

Per contatti info@elisapiffanelli.it oppure wa 373 78 03 540

Leggi anche articolo di Simonetta Sandri, Elisa, esploratrice di suoni

Gli spari sopra /
Intervista a Karl Marx

Intervista a Karl Marx

«Ciao Ka!»

«Ciao Cri!»

«Eh quindi? Cioè volevo dire, anzi non sono bene cosa volevo dire, sarebbero tante, troppissime le domande che vorrei farti, vorrei chiederti soluzioni, opinioni, vorrei che mi, anzi ci, indicassi la via, ci dessi una mano a trovare il bandolo della matassa, ma ancor di più vorrei chiederti perché?»

«Beh intanto io sarei morto da una cento quarantina d’anni, le tue perplessità e domande mi sembrano assai poco chiare, altresì dovrei essere io a chiedere a te e a voi perché? Si certo io sono stato veggente, ho visto lo sviluppo della vostra misera società con un secolo d’anticipo, ho visto nascere e morire poeti, economisti, scrittori, politici, donne e uomini del popolo che hanno creduto in me, le masse, il famoso proletariato, vedeva in noi una speranza, l’unica. Il quarto stato come dal bel dipinto di Pellizza marciava verso la propria autodeterminazione. Poi, cos’è successo?»

«Ok Ka, ma non è che puoi farmi il verso, sei tu l’economista, filosofo, poeta e il libero pensatore, il traino delle masse, se lo sapessi di sicuro non sarei un alienato all’interno di una fabbrica»

«Vabbè, intanto noto che hai utilizzato un termine a me caro e che è in un certo qual senso uno dei perni del mio pensiero, che ti ricordo non essere marxista, mi spiego meglio, io KM ero Comunista, il mio pensiero era marxista in quanto nasceva da me medesimi. Vabbè non è troppo chiaro, ma non è questo il punto.»

«Esatto, qual è il punto, dove si è fermato il nostro cammino, dov’è che i posteri hanno sbagliato, come è stato che ti hanno messo da parte?»

«E ridaje con queste domande. Secondo me bisogna partire da lontano, molto lontano. In vita le nostre teorie, le mie e quelle di Federico, ma pure di altri compagni, anarchici, socialisti, non riuscirono ad attecchire come avremmo voluto. Ti ricordo che noi inventammo o almeno cercammo di perseguire la democrazia (con buona pace degli antichi greci), che all’epoca non esisteva come concetto. Oppure era solo e esclusivamente appannaggio delle classi dominanti, la borghesia stava plasmando i propri partiti, pure qualcuno progressista, altrettanto vero che la Rivoluzione Francese già da cinquanta anni prima della mia nascita aveva abbozzato l’idea di raggruppamenti di persone che perseguivano una stessa idea o ideale, parola che nei vostri tempi ha assunto una accezione negativa, non ho mai capito il perché. Questo era il nostro punto di partenza. Il proletariato industriale stava nascendo in Inghilterra ed è lì dove io pensavo ci sarebbe stata la scintilla rivoluzionaria, certamente non in Russia, dove era da poco stata superata la servitù della gleba e il popolo non aveva la benché minima coscienza di classe. Chiaro questo, sì?»

«No»

«Vabbè, non è che sei poi tanto sveglio»

«Mai detto questo, sono solo diplomato con il minimo dei voti»

«Va bene, riprendiamo il concetto, la Russia era l’ultima delle nazioni europee che aveva le potenzialità per far vincere la rivoluzione, semplicemente perché non esisteva una classe, in grado di emanciparsi. Ma lì avvenne, grazie a Vladimiro e ai Bolscevichi. La rivoluzione fu cruenta, come tutte le rivoluzioni, è un concetto mutuato dalla fisica. Vlad, pur con errori fece un gran lavoro, lui, la Russia e i comunisti divennero una speranza per i derelitti e per i bisognosi, i mezzi di produzione divennero dello stato, e in estrema sintesi la dittatura del proletariato fu messa in pratica. Chiaro sì, cosa intendevo per dittatura del proletariato? No, credo proprio di no, i posteri, gli studiosi, gli elaboratori del mio pensiero, su questo concetto non ce  l’hanno mai fatta a fare chiarezza, a rendere ineccepibile il concetto. Dittatura del proletariato è un ossimoro, il comunismo non può essere dittatura, perché è il popolo che decide per se stesso, per il proprio bene, per la propria dignità. Ho sempre apprezzato George Horwell, dai tempi in cui combatteva con le Brigate internazionali in Spagna e lui nel suo simpatico romanzo lo spiega bene, uguali vuol dire uguali, non come i maiali che divennero più uguali degli altri e ricondussero la fattoria alla schiavitù e al culto della personalità impersonato da quel famoso Giuseppe che mai ha rappresentato il mio pensiero e la mia visione? Chiaro questo concetto?»

«Si questo a me è chiaro, credo di ripeterlo a pappagallo dai tempi delle elementari, ma a tutt’oggi esiste gente che si ritiene dei compagni che sta storia non l’ha ancora digerita.»

«Proseguiamo perché la storia è ancora lunga, dalla presa del Palazzo d’inverno a oggi è passato davvero tanto tempo e io benché l’avessi vista lunga mai mi sarei immaginato un mondo con queste fattezze. Anche se il concetto di fondo lo avevo capito. Ma andiamo con ordine. Nel secolo breve, quel famoso novecento dove noi e le nostre idee acquisimmo dignità, grazia alle speranza (disattese) della Russia, ma soprattutto per merito di pensatori che fecero progredire il mio pensiero, nella politica ma anche nelle arti. Ora i nomi li conosci, in Italia vi furono ragazzi che ebbero davvero a comprendere ciò che io volevo dire, Antonio, Giuseppe, Enrico, Pietro, Lucio, Luciana, Nilde e tante altre donne e uomini del partito, ma pure nella poesia, Pier Paolo, Jan Paul, Pablo, Vladimir, Nazim e tanti, tantissimi altri dopo e prima di loro. In quel ‘900 il quarto stato davvero camminò e trainò le messe. Insegnò ai proletari a leggere e a scrivere, insegnò ai cafoni a non togliersi il cappello davanti al padrone, insegnò a lottare per i diritti di tutti, questo facemmo noi comunisti. Questo fu il percorso e il lungo cammino di autodeterminazione. Gli anni sessanta e settanta, pur nella violenza furono anni di grande fermento, dove la reazione pareva sconfitta. Ma così non fu.

Il capitale il nostro grande nemico, si sviluppò e diventò all’apparenza umano, anzi, vi furono davvero casi in cui il capitalista aveva a cuore l’operaio, ma furono casi e pure quelli ora sono morti. Il superfluo, l’inutile divenne religione, gli anni ’80 del famoso edonismo sancirono l’inizio della fine. Da lì in poi cominciaste a vergognarvi di essere comunisti mentre altri vollero essere più comunisti di me, dando spazio alla moderazione, alla reazione, al trionfo del capitale. Produci, consuma e muori, questo è il vostro percorso di vita.»

«E quindi? Il capitalismo ha vinto?»

«No ragazzo mio, siamo noi ad avere perso. Il capitale continua, anzi amplifica ciò che ha sempre fatto, aumenta le disuguaglianze, crea sfruttati e sfruttatori, definisce confini e frontiere, cataloga i popoli in vincenti e sconfitti, accende focolai di guerra sempre e solo per gli stessi motivi, potere, imperialismo, religione (ricordi l’oppio dei popoli?). Un manipolo di oligarchi che detiene la ricchezza di tutto il mondo, i pochi contro i tanti, gli ultimi che combattono e si uccidono fra loro arricchendo i potenti pancioni che nascondono i soldi sporchi di sangue, olio e petrolio nelle stesse banche di un secolo fa. Con una grande differenza rispetto ad allora, non c’è più nessuno che prende per mano i miserabili e li conduca nella speranza di un avvenire migliore. Il sole dell’avvenire si sta spegnendo nel trionfo del capitale che continua a mettere gli ultimi contro i penultimi, gli umili contro i derelitti, gli operai contro gli operai, mandando al macello generazioni di giovani, inquinando e desertificando l’unico pianeta che avete, andando a passi da gigante incontro all’ignoto.»

«Quindi Ka, l’inevitabile è oramai raggiunto?»

«Sì in effetti l’avevo vista lunga, ma non sono mai stato un mago. Se posso darvi un consiglio, rileggetemi e e soprattutto capite ciò che ho scritto, magari una nuova speranza esiste e che non sia ancora una volta ciò che scrisse un tizio … “proletari di tutto il mondo unitevi”»

«Ciao Ka, e grazie di tutto»

La lunga storia della corruzione in Italia:
intervista a Isaia Sales, meridionalista e studioso della camorra

La lunga storia della corruzione in Italia: intervista a Isaia Sales, meridionalista e studioso della camorra. È dall’Unità che conviviamo con il fenomeno. Isaia Sales: “Le élite si autoassolvono e i cittadini non ne percepiscono la gravità”

di Roberta Lisi
pubblicato su Collettiva del 1.01.2024

L’ultimo in ordine di tempo è l’arresto per corruzione del sindaco di Palma Campania, Nello Donnarumma di Fratelli di Italia. Insieme a lui sono indagate altre 7 persone e i reati ipotizzati sono “degni di nota”, tanto più in una stagione di grandi risorse pubbliche europee pronte per essere investite mentre il governo cerca di allentare i controlli di legalità e togliere i cosiddetti lacci e laccioli dalle procedure per gli appalti pubblici. I reati ipotizzati nell’inchiesta della Procura di Nola su corruzione e appalti truccati, dunque, che hanno portato agli arresti domiciliari – oltre all’amministratore locale – anche un’altra persona, sono corruzione, turbata libertà degli incanti, falso in atto pubblico, depistaggio e subappalto non autorizzato.

Di pochi giorni fa, invece, la notizia dell’indagine sui Verdini e la corruzione all’Anas. E mentre arrivano i fondi del Pnrr, il governo di centrodestra modifica la legge sui contratti pubblici consentendo l’assegnazione di opere senza gara per il 90% dei casi, indebolisce l’Anac, cerca di svuotare di poteri di controllo della Corte dei Conti, abolisce il reato di abuso d’ufficio e vuole attenuare la legge Severino.

Isaia Sales, meridionalista e grande studioso della camorra e in generale delle mafie, per anni ha insegnato a Napoli all’Università Suor Orsola Benincasa presso il Dipartimento di Giurisprudenza “Storia delle mafie”. Lo studioso ritiene che la corruzione accompagni la storia d’Italia dalla sua unità ad oggi, ma che non susciti riprovazione sociale.

Il caso Verdini, forse sarebbe più corretto definirlo Verdini/Salvini, ha di nuovo acceso i riflettori sulla corruzione, fenomeno che pensavamo superato. Distrazione, sottovalutazione o cosa?
È comodità di pensiero, fa sì che la corruzione esista solo quando la si scopre. È confortante, consente di immaginare di vivere in un Paese non così cattivo come lo si dipinge. La corruzione, quindi, viene sottovalutata perché la si scopre poco e quando la si scopre i colpevoli pagano poco, pochissimi finiscono in galera. Siamo, in realtà, di fronte a un paradosso: uno dei fenomeni più continuativi e diffusi della storia d’Italia è ampiamente sottovalutato e quindi – in questo modo – si fa il gioco proprio dei corrotti. Si ha l’impressione che la corruzione esista, ma come fatto eccezionale, solo quando la si scopre. Ma non è affatto un’eccezione. Anzi, come dicevo, la corruzione è il fenomeno di maggiore continuità della storia italiana.

Non è un reato legato al bisogno, è un reato delle classi dirigenti. Perché non si riesce a estirparla? Perché dall’Ottocento a oggi non è cambiato quasi niente?
Proprio perché è un fenomeno di classi dirigenti. Non solo si autoassolvono, ma hanno tutta la possibilità di farla franca. In gran parte i corrotti sono ricchi, possidenti, benestanti e, spesso, in Italia controllano anche la grande stampa, hanno quindi la possibilità di mettere la sordina al fenomeno. Sostengo da tempo che la criminologia vada in tilt quando parla di corruzione, perché la ritiene fondata su reati commessi dalle classi pericolose, in genere formate da persone in stato di deprivazione, ignoranti, quindi reati commessi per bisogno o per ignoranza. Ma la corruzione è esattamente il contrario, chi la commette è benestante, ha la possibilità e la capacità di farne parlare poco, di stabilire pene poco afflittive. Le élite si difendono, esiste una sorta di impunità nella corruzione, altro elemento continuativo della nostra storia.

Non sarà che il vero problema italiano, per quanto riguarda la corruzione ma non solo, è la straordinaria debolezza delle classi dirigenti? Lo dico al plurale perché sono quelle della politica, quelle economiche, imprenditoriali, fino forse anche a quella giuridica e intellettuale

Assolutamente sì! Ed è un fenomeno interessante anche dal punto di vista dello studio della cultura, o meglio della sottocultura delle classi dirigenti. La corruzione è ancora più preoccupante di altri reati perché è compiuta da uomini e donne dello Stato, della legge, da persone che hanno fatto e fanno le leggi, da rappresentanti dello Stato. E quindi, se c’è una lunga dimestichezza dell’Italia e delle classi dirigenti con la corruzione, dobbiamo porci la domanda, se non siamo in presenza di un ordinamento giuridico alternativo a quello ufficiale. Ritengo che siamo di fronte al fatto che le stesse classi dirigenti, oltre a fare le leggi, si siano organizzate in maniera tale da avere una specie di impunità dando vita a regole diverse da quelle dello Stato. Questa la ragione della lunga continuità nella storia italiana: accanto alla legge esiste una modalità di gestire il potere fuori dalla legge. Il potere coincide con l’abuso, questo è l’elemento culturale impressionante della corruzione, è un reato compiuto da coloro che dovrebbero applicare la legge, che dovrebbero rappresentare lo Stato e che invece fanno cose contro lo Stato e contro la legge.

La Francia ha una storia unitaria molto più lunga della nostra, ma anche un apparato burocratico molto più solido del nostro. Forse alcuni anticorpi rispetto alla corruzione risiedono proprio in questo: burocrazia e senso dello Stato. Ed è questo che in Italia manca. Non so se derivi dalla storia unitaria molto più breve, o dal ventennio fascista, ma è come se i vari corpi dello Stato in realtà non si sentissero per davvero parte fino in fondo dello Stato. È una sensazione sbagliata?

È così. Noi non abbiamo senso dello Stato. Bisognerebbe interrogare la nostra storia per capire perché. La corruzione riguarda anche altri paesi e altre nazioni. Quello che cambia in Italia è che quando si è presi nelle maglie della giustizia per il reato di corruzione non si perde prestigio, autorità, stima e qualche volta succede che si venga addirittura rieletti nel comune, nella regione o in Parlamento. È come se avessimo una riserva verso lo Stato e una diffidenza verso la cosa pubblica. Sembrano valere in alcuni ambienti le parole di un personaggio di Sciascia, che affermava che chi non ruba sottrae qualcosa alla sua famiglia. Questo è il paradosso della corruzione in Italia, non che esista, ma che chi la pratica viene considerato un potente che sa fare il suo mestiere. L’idea dello Stato come riconoscimento di un bene pubblico è una cosa ancora da costruire nella formazione delle classi dirigenti italiane.

In altri paesi i fenomeni corruttivi suscitano riprovazione sociale, da noi no. Non solo, esiste una sorta di stima aggiuntiva, di aurea di autorevolezza nei confronti di chi esercita il suo potere in maniera così distorta e corrotta. Forse questo fenomeno è legato anche alla subalternità dei cittadini rispetto all’esigibilità dei diritti. Troppo spesso il diritto diventa favore elargito.

La vicinanza tra clientela, corruzione e mafia è una cosa che andrebbe indagata. Non sono la stessa cosa in assoluto, perché si può essere clientelari senza essere corrotti, si può essere corrotti senza legami con la mafia, però queste tre modalità appartengono a un’idea dello Stato come fatto privato. Cioè il potere coincide con la capacità di privatizzare ciò che è pubblico, la capacità del politico è di mettere a disposizione di una cerchia ristretta di persone i beni pubblici e questo lo fa attraverso la clientela, la corruzione o anche i rapporti con la mafia. E la corruzione è uno dei pochi reati in cui non esiste una vittima apparente, perché tutti quelli che ne sono coinvolti ne beneficiano. E questo è un problema, da tempo penso che sarebbe opportuno che l’Istat, per esempio, facesse uno sforzo per comunicare quanti morti ci sono stati in Italia a seguito di fenomeni corruttivi, dai ponti crollati agli edifici costruiti male, basti pensare alle vittime del Ponte Morandi di Genova o a quelle dello Studentato de L’Aquila. Se non mettiamo nelle statistiche ufficiali i morti a causa di corruzione non avremo consapevolezza del costo sociale che paghiamo. Dovremmo fare qualcosa per rendere più consapevoli gli italiani e le italiane che la corruzione ha dei costi economici, sociali e umani altissimi. Non è un reato senza vittime, la vittima è lo Stato, sono gli inermi cittadini e cittadine che a causa della corruzione hanno pagato con la vita a seguito di opere malfatte.

E forse tra le vittime della corruzione andrebbero annoverati anche il costo economico e il mancato sviluppo del Paese.

E infatti alcuni studiosi hanno calcolato che, nei paesi più corrotti, c’è un minore sviluppo economico dove c’è maggiore corruzione. In genere c’è un costo che si distribuisce sulla collettività e una riduzione della crescita di quel Paese. La cosa a cui tengo di più, però, è proprio questa: rendere consapevoli che esiste un costo economico e un costo umano della corruzione.

Oltre a rendere evidenti i costi umani, sociali ed economici della corruzione, quali sono le medicine e quali gli anticorpi che andrebbero immessi nel sistema Italia per cominciare a limitare il fenomeno?

Domanda non da poco, me la cavo dicendo che in Italia è necessario costruire il senso dello Stato.  Abbiamo appartenenze familiari, locali ma non abbiamo ancora appartenenze a ciò che è pubblico. Insomma, è su questo che bisogna investire moltissimo, almeno rispetto alle nuove generazioni e nella formazione di una burocrazia adeguata al valore dello Stato. Una nazione è più considerata e ha più stima di sé se c’è una classe politica che non pratica questi fenomeni. In sostanza, possiamo fare tutti gli sforzi di questo mondo verso la formazione di nuove generazioni della burocrazia, ma se la classe dirigente del Paese continua ad essere così tollerante con i Verdini di turno, non c’è da essere molto ottimisti.

Parole a Capo
Daniela Stasi: “Il respiro del lombrico” e altre poesie

I poeti lavorano di notte quando il tempo non urge su di loro, quando tace il rumore della folla e termina il linguaggio delle ore
(Alda Merini)

 

Il respiro del lombrico

Contienimi Vita, nel tuo
respiro

Qualunque sia, il Figlio che ti chieda
riparo

Che io diventi farfalla

o lombrico,
cieco.

 

Il Perdono

Si possono ripercorrere, a ritroso
i propri passi

affidandoli alle stelle dell’emisfero
opposto?

Mi dicono che la terra ruoti, per giorni
interi

per ritrovarli, qualunque sia l’orientamento
scelto.

 

Se il perdono lasciasse una traccia

Se il perdono lasciasse una traccia
e bastasse seguire quella, che tu segnasti
a fare l’alba, all’esausto mio ‒ Mi spiace ‒

forse riuscirei a deviare, dalla mia faccia:
quella che più non si voltò; per riuscire a ruotare
in avanti ‒ del guardare ‒ il senso amaro del suo

‒ Abbandonare ‒

 

Afasia d’amare

Vorrei che alla fine
di me rimanesse
il sorriso sull’uscio

Della mia assenza
a rimediare
all’afasia d’amare.

(poesie tratte da “Il respiro del lombrico“, Il Convivio Editore, 2023)

 

L’esserci-necessario

Ci sono
Come non ci fosse
Altra necessità
Che l’esserci
Già stata

(inedito)

 

Il tempo interrotto

Cosa vuol dire che, da oggi, non esisti
più, alla tua vita?

Lo chiedo a te, dal tuo punto di vista,
non dal mio!

Quello di chi non corre, contro il tempo,
ma gli corre incontro: così che – per te –
non è mai passato, il mio tempo
a scorrere.

Al contrario di me, che faccio a gara,
per accertare quale ragione arrivi prima;
se anche quella arrivi a te – prima –
che a me.

E il tempo – interrotto – a chi rimane
tale e quale com’è, tutto intero?

(inedito)

Daniela Stasi è nata a Milano, dove vive e lavora, si è laureata in Architettura, ad indirizzo storico-critico, svolgendo la propria attività professionale nel mondo dell’editoria e della comunicazione.
La poesia  rappresenta, da sempre, lo strumento principe delle sue istanze espressive, su cui far convergere – per distillarle – tutte le parole elaborate nel corso dei suoi studi, specie in ambito filosofico e spirituale.
Le sue poesie sono presenti in alcune Antologie:  tra cui, la più recente, quella curata da Giuseppe Vetromile; nell’ambito del progetto “Transiti Poetici”; e “Riflessi – Rassegna critica alla poesia contemporanea – ” Edizioni Progetto Cultura, a cura di Patrizia Baglione. E’ co-amministratrice de Le Finestre: blog e pagina Facebook ; con un proprio focus sulla Poesia delle Donne.
Ha partecipato, inoltre, ad alcuni progetti poetici a più voci: come quelli promossi dal gruppo di poete de “La Stanza della Poesia” dell’Associazione culturale Apriti Cielo, di Milano.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Storie in pellicola /
“La chimera” e la sua dea etrusca come risposta alternativa a “Barbie”

“La chimera” e la sua dea etrusca come risposta alternativa a “Barbie”

È la civiltà sepolta in un passato remoto il grande polo di attrazione del film “La chimera”. Questo universo rintracciabile con fatica e mezzi incerti sottoterra è la spinta irresistibile che muove i protagonisti dell’ultimo film della regista Alice Rohrwacher e che incanta  uno spettatore disponibile a farsi trasportare da questa poetica scarna e visionaria. Uno spettatore o spettatrice che, alla fine, vorrebbe scendere, visitare quelle tombe etrusche, vedere da vicino quelle pitture di uccelli e vegetazione che trasformano le cavità nel sogno di un Eden. E – soprattutto – si vorrebbe poter girare intorno a quella statua che viene rinvenuta alla fine per rimirarla meglio, godersela e apprezzarne tutti i dettagli.

Ricostruzione della tomba etrusca della scenografa Emita Frigato

La scoperta della scultura della dea degli animali segna il culmine della vicenda. La candida e levigata fanciulla rimasta nascosta sotto i devastanti impianti industriali della centrale termoelettrica è la rivelazione visiva più imponente e anche la rappresentazione materiale di un culto femminile che non ha eguali. Un magnifico contraltare in versione di donna per tutti quelli che sono da sempre amanti della figura di Francesco d’Assisi, del suo messaggio di celebrazione del creato e dell’iconografia che lo rappresenta mentre predica al lupo e ancor di più di quella che lo inserisce davanti a un variegato uditorio di uccelli. La dea – nel film – i volatili li accoglie in cima alla testa tra la capigliatura marmorea, mentre in braccio tiene un pesce e un felino è al suo fianco.

“San Francesco predica agli uccelli” di Giotto – Basilica di San Francesco, Assisi 1292-1296
Illustrazione della statua della dea di Fabian Negrin per il film “La chimera”

Un film di questa stessa annata come “Barbie” ha messo in scena il divario tra la supremazia dell’universo femminile nell’immaginario del gioco e il predominio maschile che contraddistingue il mondo reale persino nell’emancipata società occidentale americana.

Scena del film “Barbie”

Il film “La chimera” invece, in tutt’altro stile e maniera, accenna al divario tra quest’antica civiltà matriarcale e quella patriarcale del mondo contemporaneo.

O’Connor con regista – foto Simona Pampallona

“Mi piacciono gli etruschi, perché era una società dove comandavano le donne” dice il personaggio di Melodie, interpretata dall’attrice Lou Roy Lecollinet deliziosamente piena di vitalità, di carne e di buona predisposizione d’animo.

Il cerchio si chiude con la rivelazione della vera identità del fantomatico collezionista e cultore dei reperti archeologici, il riverito Spartaco che solo nelle scene finali rivela volto e personalità. E un’identità che non è quella dell’uomo che il nome faceva immaginare.

Scena dell’asta ne “La chimera”

Alle mie amiche il film “Barbie” non è piaciuto: troppo legato a un prodotto commerciale, troppo rosa, troppo lungo. Neanche “La Chimera”, però, hanno sopportato: troppo autoriale, troppo scarno con un’immagine che volutamente replica le imperfezioni della vecchia pellicola, che usa improvvise rotazioni di camera e talvolta riprese velocizzate.

Locandina del film “La chimera”

Serve, ovviamente, un atto di sospensione dell’incredulità per apprezzare l’una o l’altra, un’accettazione della lettura, dell’immaginario e dei tempi che in entrambi i casi offrono le registe: l’americana Greta Gerwig e la nazionale Alice Rohrwacher.

La caduta del sogno nel film “Barbie”
La discesa archeologica ne “La chimera”

Ma “La chimera” lascia più spazi, più aria, più rimandi poetici. Ci sono richiami alla cinematografia felliniana con la statua che vola agganciata al cavo aereo come il Gesù de “La dolce vita” e poi in Sorrentino. Solo che questa volta la scultura è quella di una divinità del creato, una dea.

Leggi su Periscopio:
– Catina Balotta: “Succede a Barbieland”
– Simonetta Sandri: “Tempo di Barbie

NOA HA APERTO GLI OCCHI?
Da cosa devo “riprendermi”? Alcuni dicono che la mia visione della vita è crollata il 7 ottobre. È così?

Noa ha aperto gli occhi? Da cosa devo “riprendermi”? Alcuni dicono che la mia visione della vita è crollata il 7 ottobre. È così?

Dalla sua pagina Facebook (Gennaio 2024)

Cari amici

Una settimana fa ho tenuto un discorso in una manifestazione a Tel Aviv organizzata da un gruppo chiamato “Standing Together”. Arabi ed ebrei israeliani lavorano e manifestano insieme. Alla fine sono riuscito a mettere i sottotitoli in inglese. Sento che sia il mio contributo più importante fino ad oggi, all’orribile situazione in cui ci troviamo. Voglio aggiungere un punto importante:

Questo discorso è rivolto ai miei concittadini israeliani. Sono la mia gente, mi prendo la responsabilità per loro. Mi auguro che lo stesso tipo di discorso venga fatto da un cantante palestinese/arabo/musulmano, o da chiunque altro, in qualsiasi parte del mondo arabo, rivolto al suo popolo. Osare essere critici, sfidare lo status quo, insistendo sul fatto che deve esserci un altro modo.

A parte la mia amica Mira Awad, cittadina israeliana palestinese, non ho ancora sentito una voce del genere. È estremamente importante… aspetto e spero… per non dire, prego… di ascoltarlo. Se conosci una voce simile, per favore condividila con me. Spero che quest’anno porti benessere e progresso, empatia, gentilezza e pace a tutti noi.

Ultimamente mi è stato chiesto se sono già tornata sobria.

E mi chiedo: da cosa esattamente? Come se avessi vissuto in un sogno e avessi finalmente aperto gli occhi?

Come se fossi ubriaca, avessi le allucinazioni, corressi in un campo di fiori? Come se mi fossi ingannata e improvvisamente avessi visto la luce, la saggezza e la “salvezza” che hanno portato Israele al peggior massacro della sua breve storia, nel giorno più nero, il 7 ottobre?

E forse è vero il contrario? Sono un attivista per la pace da 28 anni, da quell’orribile notte del 4 novembre 1995, quando Gil Dor e io eravamo sul palco, orgogliosi e gloriosi, cantando “una luce brillerà” per le centinaia di migliaia di persone che nella piazza erano venute a cantare. “sì alla pace, no alla violenza”, una serata che si è conclusa con un violento atto di terrore compiuto dal terrorista ebreo Yigal Amir, la cui casa non è stata distrutta, e che è celebrato come un eroe da alcuni membri del governo israeliano!

Da allora, ho assistito al deterioramento del mio amato Paese nell’abisso in cui ci troviamo oggi. Un incubo in piena regola. Dopo l’assassinio del primo ministro Yizchak Rabin, i miei occhi si sono oscurati e ho lottato per trovare la luce, ostinatamente e costantemente.

Una linea diretta, rossa come il sangue, può essere tracciata tra questi due eventi, il 4 novembre 1995 e il 7 ottobre 2023. E sì, lo so, è iniziata molto prima di quell’orribile omicidio, è una storia lunga, complicata, continua e complessa. Capisco la complessità, del resto sono un artista, la complessità è al centro della mia esistenza. Ma per me era il 4 novembre 1995.. Il giorno in cui Yitzchak Rabin perse la vita e la mia vita cambiò per sempre.

Quindi da cosa dovrei “riprendermi”?

La mia fede nell’umanità, nel valore di ogni vita umana, nell’uguaglianza e nella giustizia? Devo rinunciare alla convinzione l’umanità possa riparare qualsiasi cosa? No, non possiamo riportare in vita i morti (ancora) ma possiamo almeno provare a evitare altre morti, altre vittime, altre famiglie in lutto, vite distrutte, anime spezzate con occhi vuoti, dolore e agonia?

Devo “riprendermi” dall’idea che tutto è possibile con il duro lavoro e la buona volontà, anche di fronte a ciò che viene percepito come il “male ultimo, puro”?

Cosa c’è di più che osservare Berlino, dove risiedono decine di migliaia di israeliani, dove Mira Awad, Gil Dor ed io ci siamo esibiti sul palco della Filarmonica di Berlino solo poche settimane fa, in una manifestazione che chiedeva il rilascio degli ostaggi e porre fine a ogni violenza, raccogliendo fondi per Women Waging Peace, Women of the Sun e le famiglie degli ostaggi? Berlino, quella era la Germania nazista solo pochi minuti fa in termini storici…?

Da cosa devo “riprendermi”? Alcuni dicono che la mia visione della vita è crollata il 7 ottobre. È così?

Non è piuttosto una visione della vita arrogante, separatista, suprematista, settaria, sciovinista, militarista, fascista, patriarcale, cieca, pessimista, cinica, “gestrice dei conflitti”, egoista, avida, intrisa di menzogna, avvelenata dalla corruzione, dalla frode?

e la violazione della fiducia, corrotta e, peggio ancora, messianica, che è crollata in un mare di sangue, lacrime e agonia che nessuna parola può descrivere???

Sono orgogliosa di ogni momento di attività per la pace, l’uguaglianza e l’esistenza condivisa, con Gil Dor e infiniti amici e colleghi in 33 anni di carriera internazionale, e non ho intenzione di mollare… è vero il contrario.

L’attività, che in sostanza, consiste nel rompere i muri. E così vengono costruiti tanti muri, invece di creare una situazione in cui non sono più necessari. Si costruiscono tanti muri per evitare di vedere l’altro, chiunque non sia “noi”. E i muri di mattoni non sono niente in confronto ai muri del cuore! Un cuore nato puro e amorevole, cementato nella pietra e nel filo spinato.

Partiamo dai deboli, dai perseguitati, dai poveri, dalle minoranze della nostra società in tutti i settori, religioni, forme e dimensioni, per arrivare ai richiedenti asilo, ai sopravvissuti all’olocausto, alle madri single, ai lavoratori stranieri, alle persone con disabilità, ai soldati che tornano dalla guerra con disturbo da stress post-traumatico, e l’elenco è lungo…e poi uomini, donne, bambini e anziani che vivono nei territori occupati e a Gaza… tutti sono invisibili per gran parte della nostra società.. Come se fossero non carne e ossa come noi, come se tra loro non ci fossero buoni e cattivi, assassini e angeli, santi e criminali, terroristi e bambini, guerrieri e madri, e tante persone che vogliono semplicemente vivere e non morire…  Semplicemente come noi.

Lev Tolstoj scriveva: “se provi dolore, sei vivo. Se senti il dolore dell’altro, sei umano”.

Allora, da cosa devo “diventare sobria”? Non è forse chiaro che la folle agenda jihadista, che santifica la morte e si sforza di creare “Shahid” in massa, che sacrifica consapevolmente persone innocenti sull’altare di un culto della morte distorto, NON è un partner per il dialogo o il compromesso?Non è questa una ragione sufficiente per NON consegnare loro valigie piene di soldi, o dire, come ha detto un ministro del governo israeliano, e cito: “Hamas è una risorsa”?

Allora, da cosa dovrei “riprendermi”?

Ora la tendenza è quella di disumanizzare il tuo avversario (a Gaza) in modo da poterlo distruggere senza interferenze.

Mi chiedo quale sia la soluzione di tutti questi geni alla disumanizzazione rivolta agli israeliani e agli ebrei ovunque? Non sono chiaramente due facce della stessa medaglia? La stessa spada che ci ucciderà tutti?

Il mio amico Said Abu Shakra dice: ricorda, quando punti il dito contro qualcuno, tre dita puntano proprio verso di te. C’è molta ricerca interiore e molta resa dei conti da fare. E ora, questa terribile guerra sanguinosa, e su così tanti fronti!! In primo luogo, ognuno di noi in guerra con se stesso, lottando per non cedere al dolore, alla disperazione e all’ansia, per non lasciare che la rabbia e il sentimento di tradimento ci facciano impazzire, per resistere alle anime spezzate delle famiglie di i rapiti, la preoccupazione e la paura nei loro occhi selvaggi, che da soli possono farti impazzire!!

E la guerra a Gaza, con un’organizzazione terroristica omicida, e nel Nord con Hezbollah, e nello Yemen, e in Siria, e in Libano, e in Cisgiordania, i terroristi palestinesi e israeliani dilagano, e molti dei nostri bambini sono trascinati in questo incubo. compreso il mio!

E sullo sfondo la minaccia iraniana e l’intera Jihad islamica, e questo prima ancora che iniziassimo con il fiasco rappresentato dall’opinione pubblica internazionale, dall’antisemitismo globale, dalla vergogna e dall’orrore, dal collasso totale del sistema!

Ma, signore e signori, credo che ci sia una cosa che può porre fine a TUTTE queste guerre. Sì, fino alla FINE! Né in un giorno, né domani, forse saranno necessarie una o due generazioni, ma una volta che il processo sarà iniziato, e gli sarà permesso di crescere e acquisire slancio, renderà tutte le guerre che ho appena descritto marginali, persino ridicole, fino a quando, alla fine, saranno scomparirà.

Si tratta di un’iniziativa pubblica immediata per una soluzione diplomatica con l’obiettivo di porre fine al conflitto israelo-palestinese e raggiungere la pace con l’intero mondo arabo. Non sono un personaggio militare. Non ho intenzione di dare consigli su come gestire un’operazione militare, così come non mi aspetterei consigli da Hertzy HaLevi (il nostro comandante in capo) sulla poesia di Leah Goldberg o Johan Sebastian Bach. All’IDF è stata presentata un’enorme sfida e auguro loro buona fortuna! Ma posso certamente indicare la direzione in cui voglio andare e chiedere al mio Paese di fare lo stesso.

1. Liberare tutti gli ostaggi, in ogni modo possibile, immediatamente, adesso! Punto.

2. Le dimissioni immediate di tutto questo orribile governo che rappresenta nientemeno che una minaccia esistenziale per Israele. Sotto il loro controllo, Israele ha vissuto la catastrofe più orribile da quando è stata fondata. Un governo che ha sulle mani il sangue di persone innocenti. Un governo che, mentre parliamo, continua a incitare, dividere, odiare e mentire, agendo con negligenza criminale, distruggendo la nostra democrazia e rubando dalle casse pubbliche in un modo che sfida ogni logica o empatia umana e distrugge violentemente ogni senso di solidarietà, tutto questo mentre i nostri figli e le nostre figlie vengono riportati a casa nelle bare e noi piangiamo l’indescrivibile perdita e danno che ha devastato i pilastri della nostra stessa esistenza! Se non si dimettono, noi popolo li elimineremo, costringendoli a dimettersi, esercitando il nostro diritto democratico di manifestare in massa, non dopo la guerra ma OGGI! dobbiamo iniziare a ridefinire ORA  un governo sano e dignitoso che pianificherà e realizzerà la scrupolosa ripresa del nostro Paese, un processo troppo profondo e lungo per essere descritto qui.
3. Soprattutto, la dichiarazione immediata e la volontà di attuare un accordo globale con l’intervento e il patrocinio internazionale, guidato dai paesi arabi moderati e dagli Stati Uniti, con l’obiettivo di porre fine al conflitto israelo-palestinese! Un accordo che porterà sicurezza ad entrambe le parti, rafforzerà i poteri moderati e spingerà gli estremisti negli angoli bui e, se possibile, all’inferno, a cui appartengono. Un accordo che consentirà e sosterrà la ricostruzione di ciò che è stato così orribilmente distrutto, a Gaza e in Israele, la distruzione fisica ed emotiva e i valori condivisi che devono essere ricostruiti e ricreati, per il bene della vita e di un nuovo orizzonte per tutti .
È possibile? Ovviamente lo è. Puoi sempre trovare partner per la pace, devi semplicemente DESIDERARE veramente di vederli. Sono sempre stati lì, e dopo il 7 ottobre… forse anche più che mai. Se sentire tutto questo dalla bocca di qualche cantante non ti impressiona, sei il benvenuto ad ascoltare una conferenza online tenuta dal mio amico Ami Ayalon, ex capo della Marina e dei servizi segreti israeliani, un eroe decorato e uomo di merito indiscutibile.
Quindi sì, sono tornata sobria. Ho aperto gli occhi e vedo davanti a me i cittadini di Israele, vedo brave persone qui, oltre confine e oltre oceano, ebrei, musulmani cristiani, palestinesi, persone a cui possiamo e dobbiamo tendere la mano, anche nelle ore più buie ora, e con loro camminare senza paura, Verso la luce.

Noa (Achinoam Nini)

IL RICORDO
Luisa Gallotti Balboni, a Ferrara la prima sindaca d’Italia

Questo articolo di Daniele Lugli, un amico, un maestro, un grande ferrarese che ci ha lasciato l’anno scorso, è apparso su Periscopio  quasi 8 anni fa, il 28 maggio del 2016. Lo ripubblico integralmente, così come Daniele l’aveva pensato e scritto, per ricordare una figura che la nostra città ha dimenticato. Luisa Gallotti Balboni è stata sindaca di Ferrara (e non senza polemiche) dal 1950  fino al 1958: la prima donna in Italia guidare una città capoluogo. Dopo di lei a Ferrara solo uomini, forse perché la politica è prodiga di complimenti alle donne, ma le ha sempre tenute fuori dalla stanza dei bottoni. Non si sa mai che potrebbero combinare…
Francesco Monini

Luisa Gallotti Balboni, a Ferrara la prima sindaca d’Italia

di Daniele Lugli 

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Luisa Gallotti Balboni (foto Archivio centrale dello Stato, Senato della Repubblica)

Ci sono molte persone, in particolare donne, in grado di ricordarla, anche in questa circostanza, molto meglio di me. In primo luogo quelle che hanno realizzato il libro “Una donna ritrovata: sulle tracce di una sindachessa” (Spazio libri, 1992), curato da Delfina Tromboni e Liviana Zagagnoni, o quelle che le hanno, anche in tempi successivi, dedicato articoli. In copertina del libro c’è una bella illustrazione, opera di Paola Bonora: un filare di pioppi, o meglio di piope (in ferrarese è femminile), tutte alte uguali, ma una fa un’ombra più lunga. Così Luisa, donna tra le donne, ma con una singolarità che la contraddistingue: primo sindaco donna in Italia di una città capoluogo.
Ricordare Luisa Gallotti Balboni è importante per tutti, donne e uomini, per chi l’ha conosciuta e per chi non l’ha conosciuta, perché il suo nome viene legato a una scuola, perché me ne ha richiamato vivamente il ricordo. Di lei molto si potrà dire. Una sua biografia potrà credo essere messa a disposizione di tutti gli interessati. Non sarò io a fare questo. Dovrei dire della sua opera negli anni della ricostruzione di Ferrara, così duramente colpita dalla guerra, della sua azione per nuovi servizi, come la prima farmacia comunale, ancora in apprezzata attività, o della municipalizzazione della nettezza urbana o delle iniziative culturali. Mi limiterò invece a poche osservazioni legate al voto, delle donne e alle donne, al luogo che le viene intitolato, che è una scuola, e al mio ricordo personale.

Nel marzo del 1946 si vota anche a Ferrara per le elezioni amministrative, seguirà nel giugno il voto al referendum e alle politiche. Per le donne è la prima volta. La conquista del voto non è stata una passeggiata. Dopo la Prima Guerra Mondiale il voto alle donne è nel programma non solo dei socialisti, da molto sostenitori del suffragio universale, ma pure dei popolari e dei fascisti. Sembra cosa fatta: il 9 marzo 1919 è approvato un ordine del giorno per l’ammissione delle donne al voto amministrativo e politico. La legge è approvata nel settembre alla Camera, ma non giunge al Senato e quindi decade, per la caduta anticipata della legislatura, dovuta all’occupazione di Fiume da parte dei legionari di D’Annunzio. Fiume era governata, mentre se ne reclamava l’annessione all’Italia, dalla Carta del Carnaro, che prevedeva il diritto di voto alle donne. Come promesso, il Presidente del Consiglio Mussolini riconosce il suffragio femminile a partire dal voto amministrativo, ma la riforma degli Enti locali del 1925, non più elettivi, la rende inoperante. L’estensione del diritto del voto politico neppure si pone, venendo abolito anche per i maschi.

È del 31 gennaio 1945 il decreto legislativo luogotenenziale n. 23, che conferisce il diritto di voto alle donne maggiorenni, sollecitato da Togliatti e De Gasperi accogliendo la proposta sul voto e pieni diritti politici alle donne, avanzata fin dall’ottobre del 1944 dall’Udi e dalle altre associazioni femminili e ribadito con una lettera comune il 9 gennaio del 1945. Non basta però: con questo decreto le donne erano ammesse al voto, ma non erano ancora dichiarate eleggibili. Questa possibilità sarà attribuita il 10 marzo del 1946.

Quell’anno vengono elette a Ferrara due consigliere Luisa Gallotti Balboni e Maria Teresa Testa Pomini, entrambe nella lista del Pci, con 30.740 preferenze la prima e 30.739 la seconda. Il Partito comunista, che ha ricevuto la più alta percentuale di voti, dà prova assieme della sua attenzione al ruolo delle donne e della sua capacità organizzativa nel dosare le preferenze. Sono 2 donne in un consiglio con 50 componenti. Oggi a Ferrara le consigliere sono 8 su 33, in proporzione sono dunque sestuplicate. E i consigli comunali della provincia sono anche più femminili: nel totale la loro percentuale, rispetto a quella del 1946, è moltiplicata per otto. Nella Giunta che si costituisce non ci sono donne. Entrerà, come assessore alla Pubblica Istruzione e alla Cultura la Balboni appunto, alla fine del 1948, in un rimpasto di Giunta provocato dalle dimissioni del Sindaco e dalla morte del giovane Silvano Balboni, che non risulta parente del marito di Luisa, Pietro Balboni. Un precedente, a volerlo cercare, c’era: nella giunta nominata dal CLN alla Liberazione di Ferrara, di ben 15 componenti, 11 effettivi e 4 supplenti, tra i supplenti c’erano due giovani donne Angelina Bazzocchi, vedova Zanatta, e Gina Paolazzi, vedova Colagrande. I loro mariti sono stati fucilati al muretto del castello nel novembre del 1943. La loro presenza in giunta finisce però nel luglio del 1945 con la riduzione della Giunta a 12 componenti di cui 3 supplenti. Ora, su 10 componenti, nella Giunta di Ferrara 4 sono donne e la media è la stessa, considerate tutte le giunte comunali della provincia.

Il 25 marzo del 1950 Luisa Balboni viene nominata sindaco dal Consiglio comunale. Anche il Sindaco Curti, subentrato a Buzzoni, è stato fatto decadere. Travagliata è la vita della prima Amministrazione comunale elettiva alla cui guida si sono succeduti il sindaco Buzzoni, il prosindaco Marcolini, il sindaco Curti, già assessore con Buzzoni, il prosindaco Bardellini. L’elezione della Balboni è annullata dal Prefetto con una inconsistente motivazione, come sarà riconosciuto dal Consiglio di Stato nel novembre del 1951. La sua nomina non solo è in vario modo osteggiata. Ma appare quasi uno scandalo. Oggi nella nostra provincia su 23 sindaci in carica 7 sono donne. La situazione non è equilibrata, ma non è confrontabile con quella di allora: su oltre cento comuni capoluogo uno solo aveva un sindaco donna. Alla convalida della sua nomina Luisa si trova ad affrontare le molteplici urgenze legate alla rotta del Po. E’ allora che ne sento parlare a scuola dalla mia professoressa Antonietta Cavalini, che sollecita iniziative di solidarietà e vicinanza a nostri compagni – non ce n’erano in classe con me, ma in altre in forte rapporto con la mia classe sì – provenienti dalle zone alluvionate.

Qualche mese dopo la Balboni visiterà la nostra classe, che era sperimentale in vista della scuola media unica, arrivata dieci anni dopo, priva delle innovazioni che hanno caratterizzato la sperimentazione. La ricordo ancora alla mostra di fine anno dei lavori della nostra classe dedicati a Leonardo da Vinci, per i 500 anni dalla nascita. La Balboni è una donna di scuola, professione esercitata prima dell’impegno assorbente in ambito amministrativo e politico. Lo è per professione, insegnante di lingue, e per vocazione. A lei si deve in gran parte il consolidamento e la diffusione della scuola materna, sorta a Ferrara a partire dalla Casa del Bambino per iniziativa principale di quel Silvano Balboni prima ricordato che, esule in Svizzera, aveva stretto legami decisivi per quella realizzazione. Era stato il primo impegno dell’assessora, subentrando a Faust Athos Poltronieri, antifascista, già di Italia Libera, eletto nelle liste del Pci, collaboratore di Silvano Balboni nell’avvio della Casa del bambino.

Nella mia piccola esperienza di amministratore, prima a Codigoro e poi a Ferrara, le scuole per l’infanzia hanno rappresentato un elemento essenziale. Sento perciò come vivo e particolarmente vicino l’impegno nel settore di Luisa Balboni, prima come assessore e poi come sindaco. Nel maggio del 1952 è rieletta in Consiglio e di nuovo Sindaca, così pure avviene nel maggio del 1956. Non completa l’incarico per candidarsi al Senato dove viene eletta nel maggio del 1958. I senatori sono 315, le senatrici 3. Una è la nostra Luisa, le altre due sono le socialiste Giuliana Nenni e Giuseppina Palumbo. Un’annotazione: sia la Balboni, sia la Nenni, che ho ben conosciuto, sono elette nella nostra circoscrizione, coincidente con la regione. Ora le senatrici elette, in quello che forse sarà l’ultimo Senato elettivo, sono quasi cento. E nella nostra circoscrizione superano i maschi: sono 13 su 22.

Ho insistito su questi aspetti elettorali, a partire dalla istituzione che ci è più vicina, anche se non ritengo che il voto sia il solo e neppure il più importante strumento di democrazia operante. Considero però grave e preoccupante, proprio perché non priva di valide motivazioni, la disaffezione alla politica e alla partecipazione, anche alla più semplice che si esprime con il voto.

Molte cose sono cambiate nelle nostre istituzioni e nelle nostre leggi elettorali dai tempi di Luisa Balboni. Molti altri cambiamenti si profilano. Alcuni non li ho condivisi, né condivido quelli che si sono decisi recentemente. Ma la mia opinione è rilevante solo per me. Molte speranze nella Repubblica democratica, succeduta a una dittatura ventennale, sono però certamente andate deluse, ma non è il disimpegno delle cittadine e dei cittadini che può porvi rimedio, può solo aggravare una crisi della democrazia e della convivenza civile, con danni per tutti e ciascuno. Nel dopoguerra c’era un Paese e una città da ricostruire su basi diverse da quelle che avevano portato alla dittatura e alla guerra. In questo Luisa Gallotti Balboni si è spesa. Oggi non è necessario un impegno minore, in una situazione che appare complessa e densa di pericoli. Parlare in una scuola d’infanzia è aprirsi alla fiducia e alla speranza, come mi ha insegnato Aldo Capitini : Il bambino è il figlio della festa; ogni data di nascita è un natale… una prova del portare al massimo il nostro impegno . Riandare col pensiero alla sindachessa, e quindi agli anni della mia formazione e di un piccolo, personale, sentito, impegno civile, mi è stato utile, spero non sia stato sgradito a voi.

Leggi anche
Giorgia Mazzotti “Luisa, a Ferrara prima sindaca italiana”

Per leggere su Periscopio tutti gli articoli e gli interventi di Daniele Lugli (Suzzara, 1941, Lido di Spina 2923) clicca sul nome dell’autore.

Parole e figure /
Sembra questo, sembra quello

“Sembra questo, sembra quello”, di Maria Enrica Agostinelli: un classico per aiutare i bambini a distinguere un’immagine da un particolare e a farci capire (bambini e adulti) che c’è molto altro dietro le apparenze.

Oggi presentiamo uno straordinario libro di immagini, dedicato alla prima infanzia e giunto alla nona edizione, una filastrocca illustrata in rima, un evergreen sull’illusorietà dell’apparenza: Sembra questo, sembra quello”, di Maria Enrica Agostinelli.

Sembra questo, sembra quello… sembra brutto, invece è bello, sembra un cesto, ma è un cappello, sembra un monte, ma è un cammello… ma cos’è veramente? L’importante è capire che si può sempre sbagliare e che spesso quel che sembra non è come appare…

Si comincia con ciò che pare una fiamma ardente, per poi rivelarsi una parte della cresta di un galletto; si prosegue con un apparente fiore giallo (in realtà parte di un becco del pappagallo) e ci si snoda attraverso cappellini che paiono cestini e ali del pipistrello “travestite da ombrelli”. Ombrello o cammello? Piante o elefante? Mondo o occhio tondo? Basta guardare bene per scoprirlo, fra disegni deliziosi.

E poi c’è il signor Ivo che sembra buono, ma è in realtà animato da pessime intenzioni (a discapito del suo aspetto mite), poiché regge dietro la schiena un bastone, e il suo alter-ego, il signor Tono, che sembra cattivo a causa di un aspetto tetro, mentre tiene in realtà un simpatico fiorellino dietro la schiena e dunque è …

Non c’è quindi alcuna trama, in “Sembra questo, sembra quello”, si chiede solamente al bambino di interagire, di giocare con la sua vista e di sforzarsi a percepire quanto vede rappresentato in ogni pagina, per poi decostruire con dolcezza le piccole certezze, facendogli capire come spesso si confonda una parte con il tutto.

E che, dubbio dopo dubbio, con delicata dialettica e spirito critico che piano piano si sviluppa, non sempre tutto non è come pare. E poi, bello trasferire nozioni, immergersi un mondo nuovo e, senza (pre)giudizio, vedere da prospettive differenti…

Maria Enrica Agostinelli, Sembra questo, sembra quello, Milano, Salani, 2019, 48 p.

Maria Enrica Agostinelli (1929-1980) è nata a Varese. Ha lavorato vari anni in un’agenzia pubblicitaria raggiungendo poi un grande successo grazie alle collaborazioni con Gianni Rodari, Bruno Munari e Italo Calvino.

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara