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Diogene Magazine, la luce della filosofia per rischiarare l’attualità

Non è l’ennesima rivista di sport, di gossip, di moda o di cucina. Da questa settimana, nelle edicole delle province di Ferrara e Rovigo, esce Diogene Magazine, trimestrale di filosofia e arte della casa editrice Diogene Multimedia di Bologna. E già dal prossimo numero la rivista sarà distribuita in una decina di province tra Marche, Emilia Romagna, Veneto e Friuli. Ne parliamo con il direttore Mario Trombino.

Operazione ardita quella di uscire in edicola con una rivista di filosofia. Cosa vi ha mosso?
Si tratta di un’operazione complessa che abbiamo deciso di portare avanti perché vogliamo dialogare con un pubblico più vasto, e solo la distribuzione in edicola lo consente. Per noi è una sfida: trattare dell’attualità attraverso l’ottica della filosofia, mantenendo il rigore tipico di questa disciplina, ma scrivendo in modo chiaro, comprensibile da tutti. L’obiettivo è di passare da una periodizzazione trimestrale ad una mensile, a partire dal 2016.

Cosa possono leggere i lettori nel numero appena uscito?
Il numero appena uscito in edicola è il 38 e in copertina abbiamo proposto il motto “Il sonno/sogno della ragione genera…?” in riferimento alla situazione attuale, gravida di pericoli sotto ogni aspetto, sia economico che sociale e politico. La copertina è stata affidata ad una giovanissima artista, Clelia Rainone. Guai se la ragione dorme! I temi degli articoli della rivista spaziano dal nichilismo, ai festival della filosofia, al delicatissimo tema del rapporto tra etica ed economia.

Quali temi trattate nel complesso?
In estrema sintesi, trattiamo temi legati all’attualità, letti attraverso l’ottica della filosofia. Il motto che la redazione ha scelto e che compare in copertina è “Leggere la realtà con gli occhi dei filosofi”. Come è ovvio, la realtà non è fatta solo di cronaca, ma ha uno spessore storico e teorico, dunque i temi trattati possono essere distinti in questo modo: temi legati all’attualità, ad esempio un certo modello di Europa; temi che sono sempre di attualità, perché ‘perenni’, radicati nell’identità dell’uomo e della natura; e poi l’interesse per le basi filosofiche dell’economia e della politica sta prendendo spazio per l’urgenza della crisi.

Cosa intendete con “Leggere la realtà con gli occhi dei filosofi”?
Su tutti i temi trattati, Diogene Magazine propone strumenti di lettura utilizzando il patrimonio della
filosofia: se una nozione di Aristotele è utile a “leggere” la realtà del nostro tempo, è utilizzata come lo è una nozione filosofica elaborata da filosofi contemporanei. La redazione utilizza l’intero patrimonio della filosofia nella sua storia come qualsiasi professionista nel proprio campo utilizza la “cassetta degli attrezzi” della sua professione.

Quali i destinatari privilegiati?
Qualsiasi persona abbia interesse a utilizzare gli strumenti della filosofia per leggere la realtà. In ogni caso, nessuno escluso a priori.

Come fate per renderla fruibile ad un variegato pubblico di lettori?
Utilizziamo vari tipi di linguaggio. Oltre a quello verbale (utilizzando tutti generi letterari che sono stati utilizzati nel corso di ventisei secoli di storia), dedichiamo un’attenzione particolare al linguaggio iconico, in tutte le sue espressioni (arti figurative, grafica, fotografia), con forte accentuazione dei significati simbolici ed evocativi. Nel n.38 adesso in edicola abbiamo utilizzato, a commento dei testi, una grande varietà di strumenti visivi: fotografie, quadri, prodotti grafici, tutto pur di rendere comprensibile i concetti della filosofia.

Diogene Magazine è una rivista trimestrale di filosofia “per tutti” al suo nono anno di vita, progettata nel 2005 a Pavia da un gruppo redazionale promosso da un professore e giornalista, nonché saggista, Ubaldo Nicola. Era edita dalla Casa Editrice Giunti di Firenze. A partire dall’autunno del 2012 la rivista è stata rilevata da un gruppo redazionale con sede a Bologna che nel luglio 2015 ha dato vita alla Casa editrice Diogene Multimedia, specializzata in filosofia e arte, diretta da Mario Trombino. Con una tiratura di circa 2.000 copie, distribuite in abbonamento, la rivista ha una forte presenza nelle scuole in cui si insegna la materia scolastica “Filosofia”. È distribuita in libreria da Pde. La rivista costa 5 euro, l’abbonamento annuale 18.
Per saperne di più visita il sito di Diogene Magazine [vedi].

Il ritorno al futurismo della nuova Ferrara

Bellissima iniziativa lanciata in questi giorni dal quotidiano cartaceo La Nuova Ferrara, a cura dell’associazione culturale StileItalico: ovvero il noto animatore culturale Alberto Squarcia, comitato scientifico Renzo Orsini e Arianna Fornasari [vedi].
Da domenica scorsa fino al 14 giugno, destinata poi a culminare in una mostra in municipio, retrospettiva sul futurismo storico ferrarese, nello specifico focalizzata sulla “Rivista di Ferrara” a suo tempo (anni’ 30) Ferrara, caratterizzata dalle splendide cover, 35 tavole realizzate e-o curate dal 1933 al 1935 da Mimì Quilici Buzzacchi di esplicita matrice futurista. Ogni giorno inserto delle copertine su La Nuova Ferrara. Della serie, anche nella Ferrara città metafisica, eppur si muove, anche a livello istituzionale: il futurismo è tornato alla ribalta internazionale con la grande mostra retrospettiva al Guggenheim Museum di New Work, nel 2014, a cura di Vivien Green. In micro StileItalico riflette anche in Italia la nuova ormai conclamata attenzione e recupero della memoria e dell’antitradizione futurista, in progress dallo stesso Centenario del 2009 e dopo decenni di revisioni critiche creative del Futurismo storico.
Soprattutto in Italia, invero, tutt’oggi restano sacche acritiche ancora fissate sulla vecchia equazione futurismo-fascismo, parzialmente almeno sconfessata dalla moderna critica d’arte sul futurismo. Più nello specifico, la stessa mostra e iniziativa in questione riflette il cosiddetto secondo futurismo (definizione pure oggi contestata dai critici più recenti), quello più – si diceva – colluso con il ventennio, che coincise storicamente con il trasferimento del futurismo anarchico rivoluzionario delle origini e di Marinetti stesso, in certo senso, come geopolitica ante litteram e sede ufficiale, da Milano a Roma. Invece, il secondo futurismo stesso (Depero, Tato, Fillia, Prampolini, Diulgheroff, Delaunay, Thayat, Benedetta Cappa, Enzo Benedetto, Peruzzi, Delle Site, persino Sironi e nella fase finale lo stesso Fontana, Belloli, ecc.), oggi è giustamente interpretato come la fase in certo senso costruttiva e strettamente estetica del movimento: con particolare attenzione alla nascente cultura di massa, dalla moda alla pubblicità all’illustrazione alla radio alla fantascienza ecc. Il futurismo da arte d’avanguardia rivoluzionaria a avanguardia di massa, solo in parte colluso con il cosiddetto regime e comunque secondariamente, pur in non esorcizzabili evocazioni simboliche nella stessa produzione artistica pittorica e architettonica, ecc.
D’altra parte, chi scrive ha spesso sottolineato nello specifico: specularmente… che facciamo, bruciamo il capolavoro poetico di Majakowsky, “Lenin” o certo suprematismo/costruttivismo Malevjc- Tatlin ecc., per l’evocazione comunista sovietica dichiarata? Negli anni della rivista stessa focalizzata da StileItalico, inoltre, si ricorda il passaggio nel 1929 (pare l’unico) di Marinetti a Ferrara per le celebrazioni su Ludovico Ariosto, quarto centenario, con una memorabile rilettura del poeta sulla Mura degli Angeli, quasi postmoderna (poi nel volume in merito “L’Ottava d’oro“, Mondadori edito per le celebrazioni complessive, testo di Marinetti da chi scrive parzialmente riprodotto nel nostro “Il Futuro del Villaggio”, Liberty House, 1991), come sottolineato recentemente dallo stesso Antonio Saccoccio, promotore contemporaneo con il sottoscritto del futurismo (si veda “Marinetti 70. Sintesi della critica futurista“, Armando editore, 2015, a nostra cura , tra gli autori G. B. Guerri, E, Crispolti, G. Antonucci, G. Di Genova, M. Duranti, G. Carpi e altri).
E sempre in quegli anni, non a caso a Ferrara, fu lanciata dallo stesso Nello Quilici con Italo Balbo, il Corriere Padano, oggi assai meno, con il senno di poi, un foglio di regime che un esempio della complessità stessa della fu rivoluzione/dittatura fascista. Quotidiano che coagulò all’epoca la migliore intellighenzia letteraria nazionale, fascista culturale o meno. Sul fascismo anche come Cultura, non solo Regime, si vedano i diversi volumi del celebre storico insospettabile Emilio Gentile oltre al ben noto Renzo De Felice; sul futurismo storico anche tecno anarchico di sinistra, si veda Riccardo Campa, sociologo della scienza, autore di “Trattato di filosofia futurista“, Avanguardia 21, 2012.
Più nello specifico, Alberto Squarcia da diversi anni si occupa, in Italia e all’estero del futurismo, come collezionista e animatore culturale e artista d’avanguardia, mail art e video, azioni performative, curatore di Porta degli Angeli, ecc. Nel 2009 partecipò inoltre a Futurismo Live, centenario convegno video svoltosi a Ferrara, curato dal sottoscritto con l’associazione Ferrara Video e Arte di Vitaliano Teti, segnalato poi in “Il Futuro del futurismo-palco e retropalco” (Rai due) di F. Cappa, tra le principali celebrazioni [vedi].
Renzo Orsini, critico d’arte e curatore di eventi, collaborazioni anche internazionali, stesso è stato protagonista nel 2007 nella stessa anteprima del Centenario, mostra al Bar Tiffany, “Futurismo Renaissance“, a cura sempre del sottoscritto: nell’omonimo video, sua l’ampia nota critica, video poi proiettato a Roma a un festival del Cinema indipendente a cora di Consequenze, sempre nel 2007 [vedi]. Arianna Fornasari è storica d’arte e scrittrice, autrice di una recente biografia documentaristica sul noto scultore novecentesco Giuseppe Virgili. Sul piano storico pubblicistico, infine, il principale esperto sul futurismo ferrarese, è certamente il critico d’arte Lucio Scardino, con diverse mostre su artisti specifici che hanno almeno attraversato il futurismo storico, non ultimo con il suo libro “Elettriche linee estensi. Piccolo dizionario del futurismo ferrarese” (Liberty House, 1995) [vedi]. Oltre, naturalmente a varie celebrazioni su Corrado Govoni, negli anni ’80, un noto convegno, ricordiamo i contributi di Antonio Caggiano e nel 1996 per il trentennale il volume poetico, tributo contemporaneo a cura del sottoscritto e della rivista Poeticamente di Lamberto Donegà, “Elettriche Poesie” (Librit edizioni, nel volume gli stessi Riccardo Roversi e Marco Tani).

Ferrara Off, al baluardo del teatro tutto il meglio della stagione

Si sente già il profumo dell’estate nell’aria, ma l’associazione Ferrara Off per il momento non sembra voler rallentare il ritmo anzi ha appena dato il via al suo “Best Off” per il pubblico ferrarese. È questo il titolo della terza rassegna organizzata nella sala di viale Alfonso I d’Este, dopo “Ricomincio da uno” e “Luci d’Inverno”. Per il nuovo ciclo di appuntamenti, che è iniziato lo scorso week-end e andrà avanti per tutto il mese di giugno, il direttivo dell’associazione – Giulio Costa, Beatrice Furlotti, Monica Pavani, Roberta Pazi e Marco Sgarbi – ha pensato di proporre il meglio delle rassegne di Ferrara Off, così chi ha perso qualche spettacolo potrà recuperare, e chi non è mai andato potrà curiosare e conoscere meglio quello che succede sul baluardo del Montagnone. Come ci spiega Marco, “siamo spinti dal desiderio di continuare a solleticare il pubblico ferrarese e non con le nostre produzioni, per farlo affezionare al nostro lavoro e il rischio di avere anche serate meno affollate non ci spaventa”.

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Le giovani interpreti di ‘Ci si vede ancora’

“Best Off” è iniziato lo scorso fine settimana con quattro repliche di “Ci si vede ancora”, quella di sabato mattina dedicata alle scuole in occasione della Giornata dell’Europa è stata “affollatissima” ci dice Marco con orgoglio. Lo spettacolo è un adattamento teatrale di “Presque jour” dell’autrice svizzera Sylvie Neeman Romascano. Per continuare il lavoro di sperimentazione con Roberta Pazi e le giovani attrici del Laboratorio teatrale per ragazzi, il regista Giulio Costa ha deciso di amplificare il personaggio dell’adolescente Marie, facendo comparire le tre protagoniste dell’allestimento precedente tutte insieme sulla scena, “senza avvertirmi prima”, ha scherzato sabato sera Roberta Pazzi.

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Giulio Costa in ‘Senza titolo’

Venerdì 15 e sabato 16 maggio sarà proprio Giulio Costa ad andare in scena con “Senza titolo”, Premio Eceplast Festival Troia Teatro 2011, premio del pubblico Finestre di teatro urbano 2011. Il fine settimana successivo (22 e 23 maggio) toccherà a Marco Sgarbi reinterpretare il padre del socialismo in “Marx a Soho”, l’irriverente e umanissima versione del filosofo dello storico Howard Zinn: non solo il teorico di economia politica, ma il rivoluzionario che si appassiona ai moti del 1848 in Europa, alla lotta dell’Irlanda contro l’Inghilterra, che si indigna nel vedere quotidianamente il decadimento morale e materiale cui sono sottoposti gli uomini, nella Londra della sua epoca come nella New York odierna.

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Giulio Costa e Elsa Bossi in ‘Immobili’

Il 5 e 6 giugno Elsa Bossi e Giulio Costa con “Immobili” racconteranno da due punti di vista diversi, a volte dissonanti a volte no, un pezzo di Novecento italiano attraverso la costruzione e decostruzione della casa del popolo “Rinascita” di San Vito di Spilamberto. Last but not least, ogni giovedì di giugno Jorge Alberto Pompé e Marco Sgarbi saranno l’uno di fronte all’altro per il loro “Finto contatto”. “Essendo basato su un canovaccio sul quale si inserisce la nostra improvvisazione, è uno spettacolo sempre in evoluzione – ci spiega Marco – e poi iniziamo le prove dal 24 maggio, quindi tutto può ancora succedere!” E secondo quanto ci ha anticipato Marco potrebbero esserci sorprese sul baluardo del Montagnone anche per i mesi dell’estate inoltrata, perché “è bello sapere che in città c’è qualcosa da fare anche in piena estate per chi non va al mare”.

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Marco Sgarbi in ‘Marx a Soho’

Al termine di tutti gli spettacoli, come è ormai tradizione nella dimensione raccolta della sala di viale Alfonso I d’este, registi e attori incontreranno il pubblico perché Ferrara Off vuole essere non solo un luogo di fruizione, ma anche di incontro e di confronto sull’esperienza teatrale, in cui il pubblico possa sentirsi parte di una comunità. “In fondo – afferma Marco – è questo il nostro modo di concepire il lavoro di compagnia: stare a stretto contatto con gli spettatori, anche di più rispetto al teatro tradizionale, e sottoporci al loro giudizio”. Un impegno con il proprio pubblico che viene premiato dal costante aumento dei tesserati dell’associazione: il 2014 si era chiuso con 470 tesserati, “ad oggi tra rinnovi e nuovi iscritti, siamo intorno alle 750-800 persone”.
Secondo Marco, “L’idea di una comunità in cui incontrarsi e confrontarsi e il rispetto e l’impegno verso il proprio pubblico è ciò che abbiamo in comune con Ferraraitalia, che ci sta aiutando a far conoscere il nostro lavoro e che abbiamo deciso di sostenere nella sua campagna di crowdfunding”.

La campagna “Una redazione condivisa per Ferraraitalia”, iniziata lunedì 11 maggio, ha l’obiettivo di reperire le risorse necessarie perché la nostra redazione possa crescere e rispondere sempre meglio alle sollecitazioni dei lettori che si sentono coinvolti. Per tutte le info sulla campagna di crowdfunding “Una redazione condivisa per Ferraraitalia” clicca qui.

Per saperne di più sulla rassegna “Best Off. Il meglio delle rassegne di Ferrara Off” [vedi].

Foto di © Daniele Mantovani

 

A Trieste approda la magia del cinema latino-americano

Il cinema è uno dei tre linguaggi universali; gli altri due sono la matematica e la musica.” Frank Capra

Abbiamo il piacere di incontrare Rodrigo Diaz, che dal 1996 dirige il Festival del cinema latino-americano di Trieste, una delle vetrine europee più prestigiose di una cinematografia rigogliosa e variegata, che, sia pure non ancora ampiamente distribuita, ha un appeal sempre più ampio tra il pubblico europeo.

Possiamo affermare che esiste un solido collegamento tra il cinema europeo e italiano e la cinematografia del continente latino-americano ?
Il cinema latinoamericano nasce da registi europei, francesi e italiani, autentici pionieri: il primo lungometraggio di animazione della storia del cinema è opera di un italiano originario di Pavia, Quirino Cristiani , emigrato in Argentina, che nel 1917 realizzò El Apóstol, una satira sull’allora Presidente Hipólito Irigoyen. Come se non bastasse, nel 1931 realizzò il primo lungometraggio animato con sonoro Peludópolis. Tanto per sottolineare le caratteristiche innovative del nostro cinema.

Esiste un filone del cinema italiano che ha influenzato il vostro?
Certamente il neorealismo italiano è stato per molto tempo l’ispirazione principale per il nostro cinema: “Roma città aperta” di Rossellini è stato, per tutti e per tanto tempo, il paradigma a cui ispirarsi. Un aneddoto: Aldo Francia, un pediatra di Viña del Mar, emigrato in Cile dopo aver terminato il Liceo a Torino, nei primi anni ’60 in viaggio in Europa vede a Parigi appunto “Roma città aperta”; ne resta così impressionato che, tornato in patria, si reinventa cineasta, e fonda quello che ancora oggi è il più importante Festival di cinema esclusivamente dedicato al cinema latinoamericano, appunto il Festival di Viña del Mar. Una piccola curiosità: nel 1969 Ernesto Che Guevara, ucciso l’anno precedente in Bolivia, fu nominato presidente ad memoriam del Festival.
Lo stesso Aldo Francia realizzò due classici del nostro cinema: “Valparaíso mio amor”, omaggio alla città, e “Ya no basta con rezar”, che fu un manifesto dell’impegno sociale dei cattolici per il superamento delle ingiustizie sociali.

Altre influenze tra il nostro e il vostro cinema?
Il Centro sperimentale di cinematografia è stato da sempre un punto di riferimento per i nostri autori: figure note a chi conosce la nostra storia, personaggi come Fernando Birri, i cubani Julio García Espinosa eTomás Gutiérrez Alea, coscienza critica delle Revolución, autore tra l’altro di “Fragole e cioccolato”, abbastanza distribuito in Europa, sulla repressione della omosessualità, e dello spassoso e grottesco “La morte di un burocrate, un carro funebre in giro per Cuba”, si sono tutti formati al Centro, come anche il Nobel Gabriel García Márquez. Evidenzio infine la grande influenza di Cesare Zavattini sui nostri cineasti, per quanto riguarda le tecniche di sceneggiatura e di ripresa.

Quale è lo stato del vostro cinema?
A mio parere è un cinema con una grande varietà tematica; vedi, per troppo tempo in Europa si pensava a noi come un cinema ‘impegnato’, con una spiccata vocazione sociale, insomma a un cinema monotematico. Invece il nostro è un continente con una grande vitalità, e il nostro cinema attuale rispecchia questa varietà e questa esuberanza. Anche i festival europei hanno grande attenzione; Cannes in primis, ma non dimentichiamo al Festival del cinema di Roma l’affermazione di “Un cuento chino” di Sebastián Borensztein.

Per finire, notizie sulla prossima edizione del Festival?

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La locandina dell’edizione 2014

Il Festival del cinema latinoamericano, nato nel 1985, ha trovato, dopo qualche peregrinazione, la sua sede di elezione a Trieste; un contesto favorevole e ideale per la bellezza della città, crocevia internazionale di cultura, con un pubblico attento e competente; possiamo vantare infine sulla ottima e fattiva collaborazione con le istituzioni locali. Dal 17 al 25 ottobre dunque appuntamento a Trieste, nelle prestigiosi sedi del Museo Revoltella e del Teatro dei Fabbri, per un Festival dedicato a Gabriel García Márquez, del quale stiamo ricostruendo le sceneggiature originali tratte dai film, che andranno ad arricchire l’archivio del Festival, realizzato in collaborazione con la Università di Trieste.

 

Per saperne di più sulla prossima edizione del Festival del cinema latino americano di Trieste clicca qui.

Oltre il Circolo polare artico alla scoperta del popolo Sami

2. SEGUE – Dopo quasi 2000 chilometri dalla partenza dal sud Norvegia, lasciamo il parallelo del Circolo polare artico per salire ancora più in alto. Circa 600 chilometri ci dividono ancora dal nostro obiettivo. Il panorama cambia in continuazione o perlomeno così appare in quanto il sole è tornato a splendere con forza.
Riprendiamo a percorrere i fiordi in una serie infinita di curve e controcurve, e dopo ore di guida realizziamo che la costa opposta è lì, a pochi chilometri di mare davanti a noi. Meglio a questo punto provare l’esperienza dei traghetti navetta che attraversano quel braccio di fiordo e che puntualissimi ci raccolgono ad un molo e ci lasciano a quello opposto; il tempo globale è lo stesso ma almeno ci siamo riposati.

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Sole di mezzanotte

Ciὸ che sorprende noi mediterranei in questa stagione estiva all’estremo nord è che passano le ore serali, notturne, ma c’è sempre luce; in questa parte boreale artica del globo, nel periodo estivo (da circa metà maggio a fine luglio) il sole non scende mai sotto l’orizzonte, fenomeno chiamato nel suo culmine sole di mezzanotte, pertanto la luce naturale pare non venga mai spenta, un interminabile tramonto. In inverno la situazione si capovolge. Non nascondo che dopo diversi giorni, questa ‘anomalia’, per noi comporti qualche fastidio; in pratica per poter dormire qualche ora ci si deve barricare in albergo, chiudere perfettamente le finestre affinché il chiaroscuro delle due, tre di notte, ci consenta di riposare per alcune ore.

Ripartiamo verso Narvik una piccola cittadina con un passato minerario visibile dai ricordi sparsi in città che raccontano di miniera. Per diverse centinaia di chilometri la strada diventa uno stretto nastro a saliscendi sulla quale è impossibile superare code di autotreni che vanno e vengono. I limiti di velocità sono severi o almeno la polizia ha la reputazione di essere severa, pertanto superiamo i limiti dove la piatta strada ci consente di vedere almeno 2 km avanti; un altro vantaggio è rappresentato dal fatto che non vi sono case sul bordo strada, non c’è nulla per chilometri e chilometri.

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Renne al pascolo

Finalmente incontriamo il primo assembramento di renne al pascolo (una è bianca, una vera rarità) governate dai primi Sami o Lapponi. Il popolo Sami, nomade, si suppone abiti la parte nord della penisola scandinava, Lapponia o Sapmi in lingua Sami, da circa 10.000 anni. A Drag piò essere interessante visitare il Circolo culturale lappone, ma ciò che colpisce è l`apparente normalità esistente nei rapporti fra la cultura norvegese e quella nomade dei Lapponi. Alcune persone che abbiamo incontrato ci confermano che l’allevamento delle renne e il profitto conseguente ricavato, riconosciuto al popolo Sami, è la ragione di questa pacifica convivenza.

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Allevatore di renne Sami
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Allevatrice di renne Sami

Ci fermiamo per i rituali acquisti sotto le tende Sami (praticamente le stesse che siamo abituati a vedere nei film western) che si possono trovare lungo la strada. Artigianato in legno, pelle di renna e osso gli oggetti da acquistare, abiti manufatti da loro, ma il trofeo più ambito è l’impalcato delle corna delle renne. Nulla di crudele o violento in quanto è lo scarto della macellazione degli animali allevati, ma più è ramificato e più ti inorgoglisci. Anche noi cadiamo in questa trappola e ne compriamo tre, pagate con carta di credito sotto le tende! (fra i due rami di corna rimane un pezzo di osso di scatola cranica con un ciuffo di peli originali).
Non rimane che salire ancora a nord e deviare a sinistra verso le isole Lofoten di un fascino unico per la loro morfologia e disposizione, con montagne appuntite che circondano mini villaggi di case rosse e gialle. Di nuovo sul continente per riprendere il viaggio verso nord fra alte piramidi di grigliato in legno sui quali ancora vi sono le aringhe da essicare e tanti magazzini nei quali sono depositati milioni di stoccafissi, i quali irradiano in alcuni punti del percorso un odore insopportabile.
Superata Alta, l’ultimo centro abitato importante, siamo veramente a tiro. Poche decine di chilometri nel Finmark e apparirà l’isola di Magerøia, che raggiungiamo con l’ultimo traghetto e sulla quale si trova, all’opposto della stessa isola, Capo Nord.

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Honningsvåg

Approdiamo a Honningsvåg, poche case colorate e poi attraversiamo l’isola in un clima veramente emozionante. Sarà anche che il tempo è peggiorato ed è freddo, circa 5 °C, e poi le nuvole basse e grigio plumbeo con un vento fortissimo, ma ciὸ rende il contesto come avremmo voluto trovarlo qui all’estremo nord europeo. Non ho dimenticato l`equipaggio familiare che decisamente ha sopportato con pazienza un lungo percorso. E i motociclisti? Non ne abbiamo incontrati moltissimi, loro pare preferiscano affrontare il viaggio in un clima estremo, quello invernale per godersi le aurore boreali. Dopo una lunga ultima porzione di strada in salita, finalmente a Capo Nord, che parrebbe voler svelare il nostro agognato imponente globo terrestre in acciaio simbolo di NordKapp proprio all`ultima curva.
Capo Nord 71° 10′ 21″ di latitudine nord e 25° 47′ 40″ di longitudine est (comune di NordKapp) é una falesia alta 307 metri a strapiombo sul mare che si affaccia sul Mare Glaciale Artico.

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Mappa della Norvegia

Circa 2500 chilometri da Lindesnes nel sud Norvegia e circa 5000 da Bologna e dove la luce non scende. Di fronte solo il mare aperto senza confine fino al vicinissimo Polo Nord. Scrive l`esploratore e naturalista italiano Francesco Negri arrivato qui nel 1664 nel suo resoconto di viaggio “Viaggio settentrionale fatto e descritto da Francesco Negri da Ravenna”: “Mi trovo qui a Capo Nord, al punto estremo del Finmark alla fine del mondo. Qui alla fine del mondo finisce la mia curiosità, torno a casa soddisfatto.” Noi invece rimaniamo curiosi.

FINE

Leggi la prima parte.

OPERAZIONE CROWDFUNDING
In due giorni, dieci percento dell’obiettivo raggiunto

Siete sintonizzati? Siete crowfundizzati? Pare proprio di sì. Davvero. Grazie a tutti. A due giorni dal lancio della nostra campagna di raccolta fondi dal basso, pensata con l’obiettivo di ottenere i finanziamenti necessari alla costituzione di una cooperativa e dell’avvio di una sede che non sia più solo virtuale, ecco una prima valutazione.
Stiamo andando bene, ci siete, cari lettori, ci seguite, ci sostenete. Credete in noi. In due giorni, 15 sostenitori e il 10 percento dell’obiettivo raggiunto. Già. Sorridiamo, sentiamo la vostra presenza forte e calorosa. I nostri fedeli lettori. Presenti e costanti.
Quando siamo partiti, sapevamo di poter contare sul nostro e il vostro entusiasmo, sulla forza dei nostri convincimenti, sulla volontà di condividere e scambiare opinioni con un lettore attento e critico.
Continuate a sostenerci, per dare voce e forza alle idee e solide basi a questo progetto di informazione indipendente.

LA NOTA
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Un anno fa alcuni amici, incontrandosi, si sono chiesti: perché Ferraraitalia? Quel giorno ci siamo risposti cosi:
“Il giornalismo online in questi ultimi anni ha innescato una profonda trasformazione del nostro modo di informarci. Le notizie sono immediatamente disponibili attraverso la rete, continuamente aggiornate, facilmente reperibili. L’informazione è abbondante, la cronaca è ampiamente garantita. Quel che risulta carente è una chiave di interpretazione dei fatti, uno strumento di analisi capace di fornire una lettura che si spinga oltre la superficie degli avvenimenti. FerraraItalia ha questa ambizione: offrire commenti, analisi, punti di vista che contribuiscano alla formazione di una più consapevole coscienza del reale da parte di ciascuno e a vantaggio di tutti, come imprescindibile condizione per l’esercizio di una cittadinanza attiva e partecipe. Ferraraitalia è un quotidiano indipendente globale-locale che sviluppa un’informazione verticale tesa all’approfondimento, perseguito con gli strumenti giornalistici dell’inchiesta, dell’opinione, dell’intervista e del racconto di vicende emblematiche e in quanto tali rappresentative di realtà più ampie, di tendenze, di fenomeni diffusi”.

Alcuni, anziani come me ma giovani dentro, e tanti giovani veri avevano il sorriso di chi ci voleva provare.
In verità già da alcuni mesi si stavano ottenendo importanti risultati (oltre 80.000 prime visite) e attenzione diffusa. Già molte rubriche e importanti adesioni a scrivere, a partecipare, a contribuire. Ci presentavamo con queste slide.

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Ora quei numeri si sono triplicati. FerraraItalia è un quotidiano letto e riconosciuto da molti. La cosa che mi piace di più quando ne parlo è il sorriso di simpatia e l’apprezzamento ad uno stile condiviso. Cosa chiedere di più? in basso a destra compariva la criticità: risorse economiche.

Oggi si chiama crowdfunding ma si legge: aiutate questi ragazzi a crescere, a fare nascere una cooperativa, a realizzare un sogno. Ora frullano in testa tante belle idee che nei prossimi mesi si possono attuare.
Con l’aiuto di tutti. Grazie

IL FATTO
Crowdfunding per Ferraraitalia. Stavolta la notizia siamo noi

Ferraraitalia ha scelto la strada del crowdfunding e ha avviato una campagna di finanziamento che durerà 90 giorni, sino al 9 agosto. L’obiettivo è raccogliere cinquemila euro per strutturare il giornale in uno cooperativa-laboratorio che possa rappresentare una concreta opportunità occupazionale per alcuni dei giovani collaboratori che con intelligenza e passione si sono impegnati nello sviluppo del progetto. Al contempo vorremmo dotarci di uno spazio redazionale che ora non c’è, idealmente aperto al contributo dei lettori, che sia luogo di elaborazione materiale e intellettuale, di incontro e di confronto. La piattaforma che ci ospita è quella di Ideaginger [vedi la nostra pagina]. Il crowdfunding è anche una cartina di tornasole per verificare tangibilmente il grado di affezione dei nostri lettori.

Chiedo scusa se in questo frangente compio uno strappo all’etichetta giornalistica e parlando di noi mi esprimo in prima persona. Confesso che per me è un momento bello e anche un po’ emozionate. E’ come vedere crescere una creatura e all’improvviso ritrovarsela alle soglie della maturità. Non siamo ancora al diciottesimo anno, ma al diciottesimo mese sì: per un giornale non sono pochi. Ferraraitalia si è sviluppato in fretta, siamo un gruppo saldamente coeso e unito da vincoli sinceri di amicizia e lealtà. Mi stoppo, non vorrei scivolare in accenti deamicissiani. Però è vero: siamo tanti e ci vogliamo bene. Della nostra comunità sentiamo parte anche i lettori. In questo anno e mezzo abbiamo pubblicato quasi diecimila articoli e ci hanno letto in circa 240.000 persone in tutto il mondo.

Ora vorremmo trasformare il nostro impegno in un’impresa-laboratorio aperta alla partecipazione dei lettori e attenta alle loro esigenze, che possa con continuità, organicità e sistematicità sviluppare il proprio lavoro in un’ottica di autentica condivisione comunitaria. Per questo chiediamo un contribuito a chi apprezza ciò che stiamo facendo. Abbiamo dunque avviato la campagna di crowdfunding. Ci hanno già dato fiducia e supporto alcune importanti realtà attive nel territorio, che hanno deciso di aiutarci nella campagna e hanno per questo messo a disposizione le ricompense per i sottoscrittori del crowdfunding: corsi, libri, quaderni, cene, escursioni, soggiorni…

Si può contribuire anche con 10 euro, che significano 3 centesimi al giorno a sostegno della libertà di informazione di un quotidiano web che attraverso inchieste, opinioni e interviste offre chiavi di interpretazione del mondo in cui viviamo. Cerchiamo, attraverso il peculiare modello che abbiamo definito di ‘informazione verticale’, di sollecitare la formazione di autonomi e consapevoli punti di vista, a vantaggio di ciascuno e nell’interesse della collettività: perché è solo da un confronto aperto, privo di pregiudizi e da un inesausto dialogo che si può generare il vero progresso.
Chi è in linea può concretamente aiutarci a proseguire la marcia.

EVENTUALMENTE
‘Ossi di seppia’, novantesimo della pubblicazione

da organizzatori

Martedì 12 maggio alle ore 17 (Sala Agnelli, presso la biblioteca Ariostea) incontro organizzato dall’Istituto Gramsci e dall’Istituto di Storia Contemporanea per il novantesimo della pubblicazione della raccolta di poesie di Eugenio Montale “Ossi di seppia”: un capolavoro assoluto del novecento. Ne parleranno Gianni Venturi e Fiorenzo Baratelli. L’intento dei relatori sarà quello di inquadrare “Ossi di seppia” nel contesto di una sintesi della vita del poeta genovese e della sua poetica. La speranza è di incentivare la lettura di un testo tra i più belli della nostra tradizione letteraria.

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Prima edizione, Gobetti editore, 1925
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Carabba edizioni, 1931
ossi-seppia-novantesimo
Edizione Einaudi, 1942
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Mondadori, 2003

PAGINE DI GIORNALISMO
Quando ci illudevamo di poter cambiare il mondo con un articolo

9. SEGUE – Era il 21 dicembre del 1976, si sentiva già da molti giorni l’odore di Natale, in pratica psicologicamente eravamo in festa. Milano, dominata dalla splendente Madunina, aveva acceso ogni possibile luce, ma non ci si vedeva niente, la nebbia, quella di una volta, copriva tutto: uomini, cose, palazzi e alberi natalizi. Ricordo che, entrando al giornale (Il Giorno), il portiere canticchiava ridendo “… e la nebia che belessa la va giò per i pulmùn”. Nebbia e Milano formavano allora una coppia di sposi inseparabili, oggi meno, ha vinto il divorzio, fortunatamente. Presi l’ascensore e salii al secondo piano, piano nobile, direzione, segreteria, redazione grafica. Come succede spesso in Italia, la proprietà, l’Eni, quando fu il momento di costruire la sede del giornale, mandò l’architetto negli Usa a vedere com’erano edificate le sedi dei quotidiani, gli architetti tornarono e dissero che erano tutte in orizzontale: perfetto, si misero al lavoro e costruirono un piccolo grattacielo di nove piani di vetro, tutto verticale, una redazione a ogni piano, il grande lavoro dei redattori era andare su e giù: “c’è il tal dei tali?”, “è in ascensore”. Al secondo piano, il segretario di redazione mi accolse con un sorriso poco confortante, mi sembrava di scherno: io ero tranquillo, di solito mi telefonavano per andare in qualche posto, spesso assurdo, quando stavo per mettere in bocca la prima forchettata di spaghetti, la mia minestra: quel giorno era ormai pomeriggio e, quindi, il pericolo doveva considerarsi superato. Sempre con il sorriso a fior di labbra, il segretario De Monticelli, mi informò che a Vienna gli anarchici avevano occupato la sede dell’Opec, l’organizzazione dei principali Paesi produttori di petrolio, e sequestrato una ventina di ministri arabi. E allora?, chiesi, “roba tua – rispose – vai a Vienna, dice il direttore”, e il sorriso si accentuò, “vai dalle segretarie, prendi il biglietto, l’aereo rulla sulla pista”. Lo guardai con odio, “te set on pirla” gli dissi, il suo sorriso si allargò. L’autista del giornale mi accompagnò a Linate, mi chiesi se l’aerostazione esistesse ancora o fosse stata mangiata dalla nebbia, era stata mangiata dalla nebbia, nessun volo fino… non si sapeva. Tornai al giornale. In segreteria dissi che sarei partito in treno, ma l’ultimo treno possibile era già partito, il prossimo mi avrebbe sbarcato a Vienna dopo mezzogiorno del 22 dicembre, tanto valeva rimanere a Milano e inventare un pezzo da inviato in redazione. E in auto?, chiesi a una delle segretarie. La risposta fu immediata: con questa nebbia gli autisti non s’azzardano a partire. Cominciavo già ad accarezzare l’idea di andare a preparare l’albero di Natale per mio figlio Enrico, quando il collega Enzo Lucchi romagnolo pataca ma grande giornalista, mi disse “dài, ti accompagno io, guidiamo un po’ per uno, vado a casa, faccio una borsa e arrivo”. Ero incastrato. Lucchi era il motociclista vestito di pelle nera che attraversa di tanto in tanto la scena di “Amarcord” di Fellini, Scureza era il personaggio. Con Fellini, Lucchi aveva abitato a Roma, entrambi lavoravano per pochi soldi a Paese Sera, poi ognuno aveva fatto carriera, Fellini più di Lucchi. Arrivò, Enzo, dopo una mezzora, aveva una sacca da marinaio norvegese e una pelliccia bianca, di orso?, anche questa è della marina norvegese, mi spiegò. Inutile dirgli che non c’era tanto freddo, non si sa mai, disse. Lucchi era così, pensava ancora al giornalismo romantico, un cocktail composto da fantasia, avventura, coraggio e buona scrittura. Era davvero un altro giornalismo, allora avevamo ancora l’illusione di poter raccontare le cose come se i padroni non ci fossero, pensavamo ingenuamente di poter cambiare il mondo con un articolo o un’inchiesta. Eravamo un po’ coglioni, ma preferisco ancora oggi i pataca ai lacchè brutalizzati al computer da piloti ignoti, noi le cose le vedevamo e le toccavamo, mica ce le raccontava il computer (scusate, considerazioni da vecchio, ogni tanto mi scappa).
Partimmo con l’auto del giornale. Se possibile, la nebbia diventava sempre più fitta, il nostro doveva essere l’unico automezzo in circolazione. Mentre guidavo, Enzo Lucchi leggeva ad alta voce il dispaccio dell’Ansa sui fatti di Vienna: una ventina di ministri dell’Opec prigionieri nella sede dell’organizzazione di un commando guidato da un famoso terrorista, rimasto sempre abbastanza misterioso, Ilich Ramirez Sanchez, noto col nome di battaglia “Carlos”. Quando arrivammo alla frontiera austriaca, la polizia ci chiese dov’eravamo diretti, poi uno domandò “ciornalisti?”, “ya” risposi. “Vienna? Die grosse katastrofen”. Giungemmo nella capitale austriaca alle sette del mattino. Noi non lo sapevamo, ma in quel momento un aereo con a bordo Carlos e il resto della banda, decollava. L’attacco, con sparatoria, di quella che si definiva “braccio armato della rivoluzione araba”, aveva raggiunto un accordo con le autorità viennesi. Nella sede dell’Opec rimanevano soltanto tre cadaveri, un libico, un iracheno e un vecchio poliziotto austriaco. Noi scrivemmo due povere cronache, un vero flop giornalistico, riprendemmo la macchina e tornammo: nel baule rimaneva il pelliccione bianco: Lucchi non l’aveva indossato.

9. CONTINUA [leggi la decima puntata]

Leggi la prima, la seconda, la terza, la quarta , la quinta, la sesta , la settima , l’ottava puntata.

L’APPUNTAMENTO
“Democrazia in musica”. Mauro Rolfini porta sul palco mezzo secolo di note libere

Il suo viaggio è la musica. Contemporanea, libera da pentagramma e tonalità, ma supportata dalla tecnica. E’ con questo spirito che il compositore e musicista Mauro Rolfini, ha sposato la ricerca proponendo tre concerti organizzati in collaborazione con l’Associazione Olimpia Morata, nella sala della Musica di via Boccaleone 19. L’ultimo degli appuntamenti autoprodotti e legati tra loro da un percorso storico che va dalla fine degli anni Sessanta ai giorni nostri, è per sabato, 9 maggio, alle 21.

sextetLa minirassegna chiude con il sestetto Cercando il Caso di cui fanno parte oltre a Rolfini (sax), Silvia Bolognesi (contrabbasso), Natalie Peters (voce), Simone Sferruzza (batteria), Walter Prati (violoncello) e Giancarlo Schiaffini (trombone/conduction). “Al pari delle altre l’esibizione sarà registrata e sarà prodotto un cd, che chi desidera può acquistare da Pistelli e Bartolucci”, spiega. “Non credo nell’e-commerce, il rapporto diretto con il cliente finisce con l’arricchire solo il gestore del servizio on line, nelle cui tasche va una percentuale troppo alta”, dice. Il giudizio è definitivo, ma fa parte del personaggio insofferente ai troppi lacci di un mercato, che ritiene irrispettoso degli artisti. Rolfini fa un altro mestiere, è un commerciante, proprio per questo quando non lavora cura con passione la musica, mantenendola al di fuori e al di là della scena musicale.

“Non avere committenti significa non subire le esigenze altrui e poter proseguire in una ricerca personale che, passando per la conoscenza di differenti artisti, mi porta ad apprezzare l’improvvisazione, il dialogo paritario tra musicisti – spiega – non sto parlando di suonare da autodidatti, ma di farlo insieme, senza sostenere alcun leader. Nessuno suona sopra gli altri, tutti lo facciamo disponendo della tecnica, ma senza tener conto delle regole imposte da mille anni di storia, laddove la musica è stata codificata nel pentagramma da Guidone d’Arezzo”. Nessun leader, niente vincoli né simboli, anarchia dunque? “Direi democrazia in musica. Cultura e tecnica restano nel dna di chi cerca nuove proposte, non stiamo parlando di spontaneismo, bensì di piccoli gruppi consapevoli e desiderosi di dare un’idea sonora diversa. E’ un po’ come sottrarsi a una dittatura di simboli sopravvissuti nei secoli, tra l’altro a dirla tutta, le persone hanno sempre fatto musica anche prima della comparsa pentagramma”.

La prende da lontano, ma a interessarlo maggiormente sono gli artisti internazionali poco frequentati dal grande pubblico, che dalla fine degli anni ’60 hanno esplorato linguaggi e panorami sonori inusuali. Lo dimostrano i precedenti appuntamenti della minirassegna, intitolati rispettivamente Ballet for Anthony Braxton e To be Ornette dedicati a due maestri del free jazz. Ed è comunque un’espressione riduttiva per definire dei giganti: “Possono piacere o meno, ma restano dei ricercatori a cui si deve molto, hanno aperto la strada anche alla musica contemporanea – conclude – Chi parla di musica d’elite, omette di pensare alla cultura musicale nella sua interezza, nel mio piccolo cerco di produrre qualcosa che vi rientri. Certo lo stimolo dovrebbe arrivare anche da chi è deputato politicamente a sostenere la cultura, si dovrebbe avere il coraggio di favorire la sperimentazione oltre che il business”. Per info

LA SEGNALAZIONE
Corpo, voce, spazio: la scena teatrale come laboratorio educativo

Cicimbù – Zona Teatrale, laboratorio di sperimentazione educativa della Fondazione teatro comunale Claudio Abbado di Ferrara, è una realtà vivace e in continua crescita, che quest’anno festeggia i dieci anni dalla nascita. Durante il laboratorio, i partecipanti sperimentano, attraverso giochi individuali e di gruppo, l’espressività del corpo, della voce, dello spazio, della luce e del colore. Grazie alle sue fondatrici, Cristina Gualandi, drammaturga e formatrice, e Lorenza Rizzatti, illustratrice di libri per bambini e formatrice, Cicimbù ogni anno coinvolge nelle sue attività un centinaio di famiglie (con ragazzi fra i 7 e i 18 anni), e, dopo aver partecipato a festival nazionali di Teatro dei ragazzi, oggi si propone di creare legami con realtà che svolgono attività simili alla sua, nella provincia e nella regione. Con questo obiettivo, il gruppo teatrale ha programmato l’evento “Teatro dritto e rovescio”, che si terrà domani (sabato 9) alle 17 al teatro Comunale, coinvolgendo altri 4 gruppi simili della città: oltre a due gruppi di Cicimbù (uno di 8 alunni delle scuole medie e uno di 9 alunni delle scuole superiori), vi sono il gruppo Teatro Cosquillas (misto di scuola elementare e medie, con 12 ragazzi) e il gruppo di 31 allievi del progetto Dante laboratorio, di Eugenio Sideri, del liceo sociale Carducci di Ferrara che ha un indirizzo dedicato a musica e spettacolo. Abbiamo chiesto a Cristina Gualandi come si svolgerà il pomeriggio di sabato. E ci ha incuriosito. A inizio anno è stato definito un tema sul quale i gruppi si sarebbero dovuti cimentare per creare, in maniera indipendente, una performance di 10-15 minuti. Il tema era quello del volto. Sabato pomeriggio, alle 14.30, a porte chiuse, i gruppi condivideranno i loro lavori, un’occasione per i ragazzi per conoscersi fra di loro e familiarizzare. Dopo lo scambio, verrà fatto entrare il pubblico. Interessante sarà la coda del progetto che prevede che i gruppi si esibiscano nelle scuole della città durante l’intervallo dalle lezioni, per condividere esperienze didattiche ed emozioni, e la pubblicazione di un quaderno che documenti l’educazione attraverso il teatro, in una rete allargata, oltre Ferrara.
Infatti, questo evento vuole dar vita a una rete di confronto e di scambio tra le molte realtà stabili di sperimentazione educativa che usano gli strumenti del teatro, nella regione Emilia Romagna, a partire dalla provincia di Ferrara. Perché, secondo i promotori, e’ necessario avere momenti di condivisione con chi si impegna sullo stesso terreno, per dare nuovi stimoli e nuova vitalità al lavoro teatrale ed educativo che viene svolto da questi gruppi, un lavoro importante che affianca le famiglie e la scuola, e che spesso rimane invisibile. Da vedere.

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E alla Biagio Rossetti preside, genitori e insegnanti ridipingono la scuola

Sono stati giorni impegnativi per i docenti d’Italia, uniti (quasi) tutti contro la “buona scuola” del presidente Renzi. Tra il tanto parlare, cortei e minacce, ho avuto la possibilità di capire come dovrebbe realmente essere una scuola degna di definirsi buona. L’esempio di unione e cooperazione per lo svecchiamento di un edificio scolastico pubblico, per il bene dei più piccoli, è stato dato dal preside, dalle insegnanti e dai genitori della Scuola primaria “Biagio Rossetti”, in via Valle Pega. Lo scorso settembre, rientrati dalle vacanze estive, i docenti ebbero una triste sorpresa, perché, a causa di alcuni tagli comunali, i lavori di imbiancamento promessi erano stati rinviati. La maestra Laura Lodi, referente del plesso, mi racconta che, stanchi di vedere le mura imbrattate e le aule spente e senza vita, in collaborazione con le altre maestre e con il preside Massimiliano Urbinati, decisero di contattare i genitori dei bambini per trovare insieme una soluzione.

“E’ stato un progetto sviluppato in poco tempo – spiega Cristina Pellicioni, mamma e presidente del Consiglio d’istituto – ma studiato nei minimi particolari. Innanzitutto, serviva il consenso dei genitori, che sono stati subito entusiasti dell’idea, e anche tutte le autorizzazioni dal Comune, perché volevamo esser certi di fare tutto secondo le norme”.
L’ultimo fine settimana di settembre il gruppo di docenti e genitori, che si sono autotassati per poter acquistare tutti i materiali e le vernici, grazie alla gentilezza di un padre, Loris Rambaldi che le ha fornite a prezzo di costo, hanno iniziato i lavori. Donatella Rambaldi e Laura Lodi mi raccontano che i bambini, dopo i primi lavori, non avevano notato grandi differenze.
“Durante le prime due giornate ci siamo concentrati sulle grandi pulizie e abbiamo imbiancato le aule, quindi il lunedì successivo le classi erano più pulite ma sempre spoglie. I bambini forse si aspettavano subito dei risultati. La vera sorpresa per loro è stata a lavori finiti, dopo il primo fine settimana di ottobre. Erano estasiati, volevano essere accompagnati nelle aule dei loro compagni e vedere cosa cambiava. Hanno amato i nuovi colori e il loro atteggiamento nei confronti dell’ambiente è cambiato: si curano sempre che i banchi non tocchino le pareti e cercando di mantenere tutto pulito”.
Immaginate delle aule tutte uguali, spoglie, con le pareti macchiate dagli anni e tinte di un marroncino spento e cupo. Ecco, ogni stanza adesso racconta una storia: le porte colorate ti invitano ad aprirle per scoprire piccoli mondi tinti di lilla, verde, giallo e turchese, pieni di vita e di disegni. Il lavoro di coordinamento e di mano d’opera più complessa è stato gestito da Loris, esperto nel settore.
“Ci siamo occupati anche degli arredi di ogni stanza, perché volevamo che anche gli armadi e la cattedra fossero ben integrati con il resto della stanza. Io ho un colorificio e negli anni mi sono appassionato alla bioedilizia e al restauro, quindi sono stato ben felice di partecipare al progetto “Over the rainbow”, perché so bene che i bambini reagiscono ai colori in modo diverso dagli adulti. I docenti hanno scelto la tinta della loro aula con cura, basandosi sugli studi dei colori per stimolare l’attenzione dei più piccoli. E’ stato possibile acquistare una nuova libreria grazie alla donazione dell’associazione Auser e speriamo di ricevere delle donazioni anche per il prossimo progetto”.
I lavori non sono ancora terminati: dopo l’aula giardino, in cui i bambini curano le piantine portate dalla maestra o dai genitori, e l’aula “arcobaleno”, il prossimo passo è dedicarsi agli spazi comuni, come corridoi, bagni e la mensa scolastica e il preside Urbinati vorrebbe estendere il progetto al di fuori della scuola primaria.
“Io vedo la scuola come una cooperativa, in cui c’è collaborazione tra coloro che ci lavorano e i genitori, perché l’educazione che si impartisce in queste stanze ha successo solo se combacia con quella insegnata a casa. Abbiamo deciso di creare il progetto “Over the rainbow” perché ripristinare la qualità della vita nell’ambiente di lavoro significa migliorare le prestazioni. Sono compiti che spetterebbero alle istituzioni pubbliche ma o si aspettano gli enti locali o si cerca di creare qualcosa da soli. Secondo me la buona scuola è proprio quella che parte dal basso e, con questi gesti, cerca in tutti i modi possibile di migliorarla. Spero che il progetto venga accettato con lo stesso entusiasmo e partecipazione anche dai genitori del Bombonati e della Dante Alighieri”.

Tracce degli Scrovegni a Ferrara nel ‘giardino segreto’ di palazzo Scroffa

Per una curiosa come me, amante dei giardini, lo scorso fine settimana nella mia città, Ferrara, era un’opportunità troppo ghiotta. Un’occasione da non lasciarsi assolutamente sfuggire, per nulla al mondo, come si direbbe. La manifestazione sui Giardini estensi, di cui abbiamo parlato [vedi], avrebbe, infatti, avvolto la città di colori e di profumi. Le avrebbe dato quella luce che un po’ mancava, perché le nuvole passeggiavano per un cielo imbronciato che, tuttavia, si manteneva silenzioso e discreto e non osava piangere. Il tempo reggeva, qualche nuvoletta non avrebbe fermato la mia avanzata verso il verde. Fra una peonia, una margherita, una rosa, una petunia e un’orchidea, volevo assolutamente vedere uno dei giardini privati aperti per l’occasione, uno di quei posti che mi attirava come il miele un un orso, un miele dolce e profumato. Quel giardino m’incuriosiva, in tanti anni non ero riuscita mai a entrarvi. Dovevo vederlo, ora. Parlo del bellissimo giardino di palazzo Scroffa, in via Terranuova, che nel week end sarebbe stato aperto al pubblico per una mostra di quadri di Ludovica Scroffa, una dei proprietari di quella meraviglia.

Il palazzo era stato edificato fra la fine del ‘400 e gli inizi del ‘500, come testimonia l’iscrizione di Giovanni Bellaja, datata 2 agosto 1503, rinvenuta nel sottotetto dell’edificio durante i lavori di ristrutturazione resisi necessari dal terremoto del 2012. Si estendeva da via Terranuova a via Vecchie, includendo abitazioni e scuderie. A metà del ‘600, parte del complesso fu acquistato dal conte Giuseppe Scroffa, trasferitosi da Vicenza. Alcuni studiosi di araldica ritengono che la famiglia derivasse dallo stesso ceppo degli Scrovegni di Padova. Quello che è certo è che un ramo di essa si trasferì a Ferrara nel XVII secolo, e qui, l’8 maggio 1677, un conte Giuseppe, con deliberazione del magistrato decemvirale, ottenne la cittadinanza ferrarese. Agli inizi del ‘900, la famiglia Scroffa divenne proprietaria dell’intero stabile di via Terranuova e ridisegnò il giardino nella configurazione attuale.
Qui si possono ammirare piante secolari, il Gingkobiloba e il folto Cercis Siliquastrum (o albero di Giuda), dal diametro di oltre 4 metri e dai fiori color rosa vivace, oltre che piante di ogni tipo, amorevolmente e attentamente curate dal proprietario, il conte Francesco. Rose, iris, glicini, sicomori, peonie, agapanti, nasturzi, tulipani, camelie, plumbago, orchidee e gardenie.
In questo posto magico, incontro sia Francesco che Ludovica, entrambi molto gentili e disponibili, come solo le persone dal cuore generoso sanno essere. Francesco cura personalmente questo giardino, che lui stesso definisce il giardino segreto. E questo mi fa tornare alla memoria uno dei miei libri preferiti, l’omonimo racconto di Frances Hodgson Burnett. Come non innamorarsi subito di questo posto…

Documentandomi un po’, scopro che i due fratelli sono i nipoti di Edoardo Scroffa, penultimo Conte di Pentolina, borgo medievale a sud-ovest di Siena. In effetti, Ludovica, con la quale mi sono intrattenuta a chiacchierare nel mezzo di quel giardino magnifico, mi ha parlato di Pentolina, e di quando, da piccola, con la nonna, aveva imparato a dipingere la natura in quella tenuta estesa della campagna toscana. Nel tono della sua voce e nei suoi occhi, ho percepito la forza di quei colori e di quei ricordi. Me la sono immaginata giovane, bella, serena e tenace, intenta a dipingere i suoi fiori con la leggerezza dei suoi pensieri e il vento fra i lunghi capelli chiari. L’ho vista correre fra le colline sinuose, alla ricerca di un fiore prezioso da pressare per riprodurlo fedelmente qualche settimana dopo. Sì, perché la tecnica di Ludovica, oggi, parte proprio dalle foglie e dai fiori pressati, colorati nella parte posteriore e appoggiati delicatamente sulla tela, per lasciare un’impronta reale ma arricchita da una fantasia molto personale. Quasi una traccia leggera che vuole lasciare un ricordo di sé che può, però, variare le sensazioni dello spettatore, perché lui saprà cogliere le proprie sfumature e tracce, quelle a lui più congeniali. I quadri che Ludovica Scroffa espone nel suo giardino ferrarese, un’artista che vive tra la città estense e Firenze, sono immersi in esso, quasi a perdersi con esso. Infinitamente.

Quando si varca la soglia dell’imponente portone, si è affascinati da colonne, antichi porticati e lanterne che accolgono il visitatore e lo introducono in un mondo incantato.

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Giardino di palazzo Scroffa – Foto FeDetails

L’esplosione di colori è immediata, colpisce subito il violetto, e gli alberi imponenti che guidano verso un angolo nascosto. Rose rosse ci attraggono, quello che meraviglie è che vicino ad esse, piantine di pomodori fanno capolino quasi a volerci dire che il rosso è sempre rosso, poco importa da dove arriva. Ludovica, mentre mi parla, mi offre delle fragole (e questo mi riporta ancora al colore rosso, un gesto gentile e spontaneo che mi piace davvero tantissimo). In una bella corrispondenza di sensazioni e dolce armonia, mi confessa di avere iniziato a dipingere con la voglia di portare la natura nelle case, lei che è natura pura nelle curve di pennellate delicate che disegnano ombre di storie felici. Anche la sua piccola pronipote pare avere ereditato quella passione per la pittura, e per mano, così come avevano fatto con lei, passeggiano per il giardino fiorito, in cerca d’ispirazione. Un’ispirazione che arriva a chiunque voglia entrare in quella favola. Su un tavolino di una delle sale che si affacciano sul giardino, vi è un libro per lasciare firme e commenti. Mi sono permessa di annotare una sola cosa: “Un angolo di paradiso, dove un angelo dipinge”. Questo è, se vi pare.

Galleria fotografica a cura di Simonetta Sandri.

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L’APPUNTAMENTO
Ri-scossa: Ferrara a tre anni dal terremoto, fra ricostruzione e ripensamenti

A tre anni dal sisma che ha squassato le nostre vite, ci interroghiamo sul presente e il futuro della città. Stanno arrivando i finanziamenti per il ripristino degli edifici pubblici danneggiati e l’occasione è propizia a cittadini e amministratori per valutare le linee di intervento in funzione di ciò che Ferrara vorrà essere nei prossimi anni: spazi e luoghi, laddove è possibile, non vanno semplicemente ripristinati, ma concepiti e plasmati in coerenza con un progetto di sviluppo organico.
Con l’ausilio di esperti, lunedì 18 maggio alle 17 in biblioteca Ariostea, nell’ambito del ciclo “Chiavi di lettura: opinioni a confronto sull’attualità“, organizzato da Ferraraitalia, faremo la radiografia dello stato del patrimonio artistico e architettonico, valuteremo le oscillazioni dei flussi turistici e sentiremo il racconto di chi ancora è costretto a vivere fuori casa.

“La buona scuola siamo noi”. Il fotoracconto della protesta degli insegnanti contro il governo

“No alla buona scuola di Renzi”. Erano più di trecento i partecipanti alla manifestazione indetta per protestare contro il disegno di legge predisposto dal governo per stabilire le nuove regole che disciplineranno l’istruzione pubblica. Il flash mob si è tenuto in piazza in occasione dello sciopero generale di martedì. Sul Listone erano presenti soprattutto insegnanti. Sui loro striscioni e palloncini un’affermazione: “La buona scuola siamo noi”.

Ecco il racconto per immagini del fotoreporter Luca Pasqualini.

Il museo vivo della conoscenza

Sono piccoli gioielli, creati da maestri artigiani a partire dalla fine del’400, e poi diventati oggetti di moda e di collezioni-culto nel corso dell’800. Poi basta; c’è stato un lungo oblio. Adesso queste opere a smalto su rame del Rinascimento italiano diventano oggetto di nuovi studi, catalogate per la prima volta in maniera sistematica grazie a una collaborazione internazionale. In campo il museo del Louvre e la fondazione Cini di Venezia. Con Ferrara – già culla del Rinascimento, dove li si modellava, acquistava e desiderava – che torna a puntare i riflettori su questi piccoli capolavori di artigianato artistico. Il salone del Restauro, dal 6 al 9 maggio a Ferrara Fiera, ospiterà infatti lo studio del progetto e il lancio di un nuovo museo che renda la conoscenza viva all’interno della comunità. Lo racconta per noi Letizia Caselli dell’Università Iuav, Istituto universitario di architettura di Venezia.
Appuntamento venerdì 8, ore 10,30-12,30 nella sala Diamanti, alla Fiera di Ferrara, via della Fiera 11.

di Letizia Caselli*
Con gli auspici del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo sarà promosso a partire da maggio 2015 il progetto internazionale “La città dei musei. Le città della ricerca”, con l’idea di un nuovo museo, il museo della viva conoscenza.
Un luogo in cui si incontrano e discutono le intelligenze di Paesi diversi legati da progetti comuni. In cui proprio le intelligenze, le persone sono il vero capitale sociale.
In un momento in cui si pone l’urgenza di riflettere assieme su un futuro possibile fatto non solo di grandi mostre e di consumo effimero, ponendo il giusto accento sullo status e il ruolo del “patrimonio comune” pressoché dimenticato o dominato dalla retorica della globalizzazione, nel più vasto contesto delle preoccupazioni politiche e culturali delle società e dei differenti Paesi.
Aspetti che dialogano con l’esigenza accademica “aperta” che cerca di ripensare i valori da tramandare, il canone scientifico da proporre proprio a partire dagli oggetti del patrimonio comune con una nuova e ritrovata funzione per l’istituto museale
Tutto questo mentre il mondo dei musei italiani ha risorse drasticamente ridotte, personale scientifico insufficiente, terziarizzazione spinta non solo dei servizi ma anche della produzione culturale drasticamente tagliata. Un mondo in cui le opere “giacciono”.
L’occasione del progetto internazionale dedicato al corpus mondiale degli smalti su rame detti veneziani del Rinascimento italiano promosso dal Département des Objets d’art del Musée du Louvre in collaborazione col Centre de Recherche et de Restauration des Musées de France e la Fondazione Giorgio Cini di Venezia, consente di mettere in campo sul territorio la presenza di uno dei più grandi musei del mondo insieme a istituzioni italiane di prestigio – presenza che può essere opportunamente indirizzata alla creazione di ulteriori scambi e progetti – dato il percorso già tracciato ad opera solo delle singole volontà e soprattutto dagli stessi temi e metodi di ricerca innovativi proposti ad ampio raggio, in chiave risolutamente interdisciplinare.
Testimonianza di squisita raffinatezza nel più ampio contesto della produzione culturale e sociale del Rinascimento italiano, tali opere d’arte suscitano oggi una collaborazione di alto livello tra ricercatori francesi e italiani.
Si tratta di una produzione esclusiva e rara – ci sono pervenuti meno di trecento oggetti in rame smaltato – tradizionalmente riferita a Venezia da Émile Molinier già nel 1891 e negli anni venti da Lionello Venturi, che l’ha immessa nell’asse della storiografia italiana.
Il metallo, che dà la forma all’oggetto, fa da supporto ad una decorazione riccamente colorata, formata da vetri bianchi, blu, viola o verdi, posti a strati su un fondo di vetro bianco opaco o su una miscela di colore bianco e traslucido. Il tutto è ornato da lumeggiature in rosso e turchese e la doratura assume un ruolo molto importante in questa decorazione caratterizzata da un fantasioso repertorio floreale e vegetale.
Ammirati e collezionati nell’Ottocento – periodo in cui si formarono le principali collezioni europee –, questi oggetti, la cui origine risale alla fine del Quattrocento, furono poi dimenticati.
La maggioranza dei pezzi, presenti nei principali musei e collezioni del mondo, è formata da servizi composti principalmente da coppe a volte con coperchio, piatti, bacili, saliere, brocche e fiaschette. Altre tipologie includono cofanetti, candelabri e uno specchio mentre alcune paci, ampolline e reliquari attestano anche un uso religioso.
Mai catalogati e pressoché inediti sono stati studiati scientificamente, con gli orientamenti della ricerca ora rivolti a studiare la datazione, a impostare i criteri della la cronologia, delle forme e della decorazione ripensando la questione dei luoghi o del luogo di produzione, con il ruolo di Venezia da approfondire e indagare.
Lavoro proposto per la prima volta al grande pubblico italiano insieme all’aspetto tecnico e materico che caratterizza la preziosa tipologia artistica.
Un’esperienza forte questa della ricerca sugli smalti detti veneziani, che pone alla comunità scientifica internazionale, pur senza alcuna sponsorship, la necessità e l’urgenza di porre la cultura e la conoscenza – e al massimo grado – al centro dei grandi processi di trasformazione del nostro tempo.
Si tratta di cogliere la felice ma piccola circostanza di un movimento “vivo” e nuovo di studio tra Italia e Francia, di intrecci di alto e vario livello, per lanciare e discutere un modello di sviluppo a scala più grande insieme a una contaminazione positiva e a una visione costruttiva del futuro.
Visione in cui istituzioni, università e musei devono innanzi tutto formarsi e formare per poter affrontare una realtà in cui sono richieste figure diversamente tornite da quelle di oggi, in cui vanno declinati e focalizzati nodi specifici di ricerca poi condivisi tra Paesi diversi, in allineamento con le tendenze che si stanno affermando nelle principali città europee anche in funzione di finanziamenti e progetti concreti.
Dimensioni infine che andranno ricercate e individuate singolarmente – da ognuno – per essere poi conosciute, elaborate, trasmesse in una prospettiva culturale evoluta e poste all’intera collettività sociale e istituzionale.
Una città dei musei dunque non separati dalla vita normale di tutti i giorni – “musealizzati” e “tombificati” – ma musei come elemento dinamico, essenziale del tessuto urbano animato da un movimento d’insieme alla scoperta della sua propulsione conoscitiva.

* Letizia Caselli è ricercatrice dell’Università Iuav

Programma Seminario di studio

VENEZIA E PARIGI. GLI SMALTI DIPINTI SU RAME DETTI VENEZIANI DEL RINASCIMENTO ITALIANO
MUSEI E RICERCA INTERDISCIPLINARE. UNA NUOVA ALBA DEL PATRIMONIO CULTURALE

Lancio del progetto internazionale
“La città dei musei. Le città della ricerca”
Ferrara, Salone dell’Arte del Restauro e della Conservazione dei Beni Culturali e Ambientali XXI edizione
Venerdì 8 maggio 2015
Sala Diamanti – Padiglione 5
Ore 10.30-12.30

Indirizzi di saluto

Alto rappresentante del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo

Introduce e coordina Letizia Caselli, responsabile scientifico del progetto internazionale “La città dei musei. Le città della ricerca”

Françoise Barbe, Le corpus mondial des émaux peints sur cuivre dits vénitiens de la Renaissance italienne, conservatrice, Département des Objets d’Art, Musée du Louvre, Paris

Béatrice Beillard, Les altérations des émaux avec une approche détaillée sur les émaux dits vénitiens du Musée du Louvre, restauratrice al Musée du Louvre, Paris

Discussione

Introduce e coordina Ileana Chiappini di Sorio, presidente onorario Amici dei Musei e Monumenti Veneziani e Università Ca’ Foscari di Venezia

Prolusione di Tommaso Montanari, Università degli Studi di Napoli Federico II
Musei: luoghi di pensiero o di intrattenimento?

Discussione e conclusioni

Interviene Giovanni Alliata di Montereale, nipote di Vittorio Cini

Servizio di traduzione simultanea

“Alimentarsi di beni culturali, energia per il cervello”. Aperta la ‘cucina’ al salone del Restauro

“Nutrire il pianeta, energia per la vita”, questo è lo slogan di Expo 2015 che ha appena aperto le proprie porte a Milano. Marcello Balzani – professore del dipartimento di Architettura dell’ateneo ferrarese e responsabile scientifico del Teknehub di Ferrara – ha coniato per noi lo slogan “Alimentarsi di beni culturali, energia per il cervello”: ecco così spiegato il patrocinio di Expo alla XXII edizione di “Restauro. Salone dell’arte del restauro e della conservazione dei beni culturali e ambientali”, che si svolge a Ferrara Fiere fino al 9 maggio.

salone-restauro“Centocinquantaquattro fra convegni, seminari e incontri in 4 giorni”, “uno dei rarissimi casi di connubio tra parte espositiva e parte convegnistica”, così descrive “Restauro” l’architetto Carlo Amadori di Acropoli srl, il capo progetto della manifestazione. Quest’anno il consueto appuntamento con il mondo del restauro e della conservazione dei beni culturali e ambientali a Ferrara apre le proprie porte al pubblico più tardi rispetto al solito proprio in ragione dell’importante riconoscimento arrivato dalla manifestazione milanese: “Abbiamo colto questa occasione per poter avere un aumento di internazionalizzazione”, spiega Amadori.

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Lo scalone monumentale in stato di degrado del convento di Santa Maria in Vado

Il patrocinio di Expo si affianca così al sostegno che “Restauro” fin dall’inizio riceve dal Mibact, anzi quest’anno l’economia della cultura, da sempre “il nostro orientamento e il nostro programma, viene a coincidere con la linea assunta dal ministero per i Beni e le attività culturali e il turismo”, sottolinea Amadori. Proprio la riforma attuata dal Mibact troverà a “Restauro” numerosi momenti di approfondimento. Altro tema molto sentito, questa volta per quanto riguarda l’Emilia Romagna, è la ricostruzione post-sisma, a cui “Restauro” rivolge fin dal 2013 una doverosa attenzione. “Stiamo entrando nella fase di ricostruzione e rivitalizzazione dei centri storici colpiti – ci spiega l’architetto – e “Restauro” è l’occasione per fare il punto della situazione soprattutto su quest’ultimo tema che è fondamentale, dopo la prima fase della messa in sicurezza”. Per questo “ci sarà un padiglione intero dedicato al post-terremoto con una mostra specifica chiamata “Terreferme. Emilia 2012: il patrimonio culturale oltre il sisma”, curata dal segretariato regionale per l’Emilia-Romagna: la narrazione di ciò che è stato fatto e di come sono state rese più efficienti le procedure di intervento per la salvaguardia del patrimonio culturale, ma soprattutto un racconto rivolto al futuro perché la condivisione della conoscenza è lo strumento più forte per la tutela del patrimonio culturale.
Al termine della nostra conversazione non potevamo non chiedere all’architetto perché all’inizio di questa avventura, che ha portato il Salone del restauro a diventare un’eccellenza a livello nazionale e internazionale, la scelta è caduta su Ferrara. “Il primo anno tutto è partito da un’iniziativa coordinata da me e dall’Istituto dei beni culturali della Regione Emilia Romagna. Abbiamo chiesto alla Regione quale poteva essere la sede ideale per il tema che volevamo trattare e da subito l’indicazione è stata Ferrara, che in quel periodo aveva tra l’altro appena terminato il nuovo quartiere fieristico su progetto di Vittorio Gregotti. Da allora siamo rimasti anche in forza dell’importanza via via data dalla città al ruolo dei beni culturali: Ferrara è stata dichiarata patrimonio dell’Unesco non solo per il centro storico, ma anche per il territorio circostante e ha un’attività culturale di tutto rispetto. Non si può poi dimenticare l’importante presenza della facoltà di Architettura e del Teknehub, che sono partner fondamentali della manifestazione”.
Proprio con il professor Balzani, responsabile scientifico del Teknehub, abbiamo parlato di due degli appuntamenti più importanti di questa edizione: Smart museum e Inception, candidato in uno dei rami di finanziamento del programma quadro europeo Horizon 2020 e ammesso al finanziamento dalla Commissione.

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Restauro conservativo della ‘Madonna del cardellino’ di Raffaello Sanzio (150)

Partendo dalla riforma del ministero, “che sta mettendo al centro il tema del museo e una politica di riconfigurazione dei ruoli museali, abbiamo individuato questo tema trasversale dello Smart museum: “una sorta di logo per varie iniziative per comprendere la problematica museo a 360°, non solo a livello nazionale, ma anche europeo e internazionale”. Uno degli aspetti più interessanti, secondo quanto ci spiega Balzani, è che la prospettiva si allarga al sistema museo: “dalla politica conservativa alle possibilità di sviluppo nel e per il territorio”. Il tutto con l’obiettivo di uscire dal luogo comune per molti italiani che il museo sia solamente “un edificio”, una specie di “zoo dei beni culturali”, dove si ammirano per esempio quadri e pale d’altare fuori dalla loro collocazione originale e quindi, per forza di cose, risemantizzati: il museo è “un’idea”, che entra in relazione “con lo spazio, con il territorio” e, non ultimo, con la comunità e con essi può e deve trovare “intersezioni”, per esempio con il turismo e con le industrie dell’artigianato artistico, mettendo insomma “a sistema lo straordinario patrimonio artistico e culturale diffuso italiano”.

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Marcello Balzani

A questo punto Balzani rientra nel suo ruolo di professore e ci domanda: “Perché l’Italia ha un patrimonio culturale così imponente?” “La risposta che non si dà mai, ma anche la più indiscutibile, è che li abbiamo conservati e protetti, altrove li hanno abbandonati, persi, distrutti. L’Italia da almeno 200 anni percorre la strada della conservazione”, ora la nuova grande scommessa è “mettersi insieme agli altri, uscire dai confini italiani e sforzarsi di creare rapporti internazionali. Il Salone del restauro di Ferrara rappresenta un’occasione in questo senso perché crediamo che non si può essere bravi da soli, si è più bravi insieme agli altri”.
Arriviamo così a Inception. “Inclusive cultural heritage in Europe through 3D semantic model”, questo è il suo nome per esteso, si è classificato primo su 87 partecipanti alla call di Horizon 2020 per le tecnologie applicate ai beni culturali. Verrà sviluppato da un consorzio di quattordici partner provenienti da dieci paesi europei, guidato però dal Dipartimento di architettura dell’Università di Ferrara. Per questo, per Balzani, è l’“occasione per dire che gli italiani sono bravi, perché vincere una call europea non è una cosa banale: abbiamo lavorato intensamente e fatto un progetto di grande serietà. Il messaggio positivo da lanciare è: mettendoci insieme e facendo squadra possiamo vincere”.

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Elaborazione in 3D della Piazza dei Miracoli a Pisa

Tra le principali innovazioni proposte: le metodologie innovative per la realizzazione di modelli 3D e lo sviluppo di una piattaforma open standard per contenere, implementare e condividere i modelli digitali. Il progetto risponde al tema dei “contenuti” che si trovano sul web a proposito dei beni culturali, che “spesso sulla rete sono banalizzati e diventano strumenti di consumo per poi fare altro”. Per quanto riguarda la tecnologia con Inception “abbiamo spostato l’attenzione dall’idea del bene culturale come oggetto allo spazio in cui si ritrovano le persone: ci siamo detti analizziamo anche lo spazio dei beni culturali e lo spazio come bene culturale in se stesso. Pensandoci bene è un’interpretazione molto italiana: l’Italia è piena di grandi spazi d’arte non solo di grandi opere d’arte, viviamo in centri storici e vicino ad aree archeologiche, siamo sempre immersi in una qualità del paesaggio che unica al mondo”.
Tutto ciò avendo sempre in mente “un approccio inclusivo ai beni culturali”: “quando i cittadini si avvicinano alle piattaforme web affrontando il tema dei beni culturali si devono ritrovare”, in altre parole bisogna superare la dinamica dualistica banalizzazione-iperspecializzazione. “Dobbiamo trovare i significati corretti per definire i contenuti dei beni culturali”: “la cultura è sempre una scelta che non deve essere contaminata dalla superficializzazione del sistema attuale dell’on-line”. “Inception – conclude Balzani – può essere una grande opportunità per far emergere questi temi e risolverli attraverso la tecnologia stessa, orientata finalmente a dare un significato e un contenuto” che devono essere spiegati, capiti, condivisi e utilizzati, uscendo dalla logica degli effetti speciali e da “un rapporto di consumo a basso livello di interazione formativa”.
A “Restauro” saranno presentati, come da tradizione, numerosi casi di restauri eccellenti: lo stato di avanzamento del progetto di risanamento della Domus Aurea sotto la guida della Soprintendenza archeologica di Roma e il progetto di illuminazione a led della Cappella Sistina a cura del professor Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani, sono solo due esempi. A questi bisogna aggiungere la delegazione scientifica costituita in collaborazione con il Louvre di Parigi, che porterà a Ferrara la presentazione ufficiale del progetto internazionaleLa città dei musei. Le città della ricerca”, promosso dal Mibact e coordinato da Letizia Caselli. Infine l’importante appuntamento con Icom (International council of museums) in vista della 24° Conferenza generale, che si terrà a Milano nel luglio 2016 e tratterà il tema del rapporto tra musei e paesaggi culturali.
Proprio in ragione della grande attenzione riservata in questa edizione 2015 al tema del museo e del suo rapporto con il territorio e la comunità, a “Restauro” non poteva mancare l’Anmli – Associazione nazionale dei musei di enti locali e Istituzionali. Sono circa tremila in tutta Italia, molto diversificati fra loro, “rappresentano l’ossatura del sistema museale italiano”, come sottolinea Anna Maria Visser, presidente dell’Associazione fino al 2006, e in ragione di questa loro diffusione capillare “hanno un fortissimo legame con il territorio, le città e le comunità, di cui sono espressione e specchio”. In altre parole il loro è un “ruolo importante, ma allo stesso tempo delicato e mutevole perché svolgono una funzione di cerniera fra diversi aspetti e istanze”.
Il convegno AnmliMuseo e comunità”, che si svolgerà nel pomeriggio di venerdì 8 maggio, arriva in un “momento molto delicato di trasformazione perché la riforma del Mibact ormai sta per partire. “Ponendo al centro i musei, anche con i poli museali regionali – spiega la professoressa Visser – offre la possibilità di integrare le realtà museali sul territorio con un mandato forte per una gestione sinergica”: insomma “può essere la chiave di volta per cercare di porre fine alla separatezza che è esistita fino ad ora”.

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Anna Maria Visser

Lo scopo dei vari interventi sarà fornire spunti di riflessione sulla partecipazione degli utenti, soprattutto quelli più prossimi ai musei, “non solo in termini di audience e turismo, ma in un’ottica più ampia di fruizione critica”. Verranno anche portati esempi concreti di musei chesono usciti dalle proprie mura, andando a cercare il territorio”: la loro “capacità di innovazione” risiede nella ricerca di “fruizione partecipata e costruzione di nuovi significati e appartenenze”. “In fondo non è che il ritorno al “museo civico” nel senso proprio di questa espressione”, conclude Anna Maria Visser.
Come avrete capito a “Restauro” il cibo per la mente a disposizione è veramente molto, al pubblico rimane la scelta se assaggiare un po’ di tutto o scegliere oculatamente alcune prelibatezze.

Il programma della manifestazione in continuo aggiornamento è consultabile al sito [vedi].

‘World fair trade week’: all’anti-Expo con ‘AltraQualità’ Ferrara è nel mondo del commercio etico

Tra due settimane inizia la World fair trade week, il ‘contraltare’ di Expo 2015 Milano. Dal 23 al 31 maggio infatti Milano diventerà capitale mondiale del commercio equo con 300 delegati da tutto il mondo, 240 espositori, oltre 100 ricercatori. A promuovere l’evento mondiale sono Wfto – World fair trade organization (Organizzazione mondiale del commercio equo), il suo corrispondente italiano Agices – Equo Garantito (Assemblea Generale Italiana del Commercio Equo e Solidale), in collaborazione con il Comune di Milano. Ma tra gli effettivi ideatori, promotori e organizzatori anche una delle maggiori cooperative di commercio equo italiane, AltraQualità di Ferrara. Il presidente David Cambioli ci racconta come è nato e come si svolgerà questo evento di portata internazionale che ha una forte matrice ferrarese.

E’ un caso che la Settimana del commercio equo mondiale sia stata organizzata proprio in concomitanza con Expo o è stata una scelta?

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World fair trade week, Rio da Janeiro 2013

Non è un caso, all’ultima edizione della World fair trade week, nel 2013 a Rio de Janeiro, noi come Agices abbiamo proposto di organizzare l’edizione del 2015 in Italia, affiancandola ad Expo che per i temi affrontati, il diritto al cibo e alla sovranità alimentare, si sposava particolarmente bene con il commercio equo e solidale, noi da sempre ci occupiamo di queste tematiche, anche se da una prospettiva piuttosto diversa. La nostra proposta è stata accettata e anche il periodo era perfetto perché la World fair trade week si svolge abitualmente tra maggio e luglio. Abbiamo quindi coinvolto il Comune di Milano che ha mandato un suo funzionario già a Rio de Janeiro, siglando di fatto il passaggio ufficiale delle consegne. Da allora è partita la nostra macchina organizzativa e la World fair trade week 2015 [vedi] rischia di diventare l’evento più importante che ci sia mai stato al mondo sul commercio equo.

In cosa consiste l’evento e cosa potremo trovare alla World fair trade week?

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Calendario eventi della Settimana mondiale del commercio equo e solidale

Oltre alla consueta Conferenza biennale del Wfto (24/27 maggio) [vedi] a cui parteciperanno oltre 300 delegati delle organizzazioni di commercio equo provenienti da ogni parte del mondo, abbiamo organizzato altri eventi collaterali di grande interesse: il “Fair & ethical fashion show” (spazio ex Ansaldo di zona Tortona, 22/24 Maggio) [vedi], tre giorni di esposizione dove il mondo della moda coniugherà tessuti, stili, tendenze con la responsabilità della filiera produttiva; la “Fair cuisine” (evento diffuso, 16/31 maggio) [vedi], settimana in cui una settantina dei migliori ristoranti della città e non solo proporranno menù con prodotti equosolidali; poi la “Milano fair city” (Fabbrica del vapore, zona Garibaldi, 28/31 maggio) [vedi], che è l’evento centrale della manifestazione, prima fiera mondiale del commercio equo, con circa 240 espositori di cui 70 produttori provenienti da tutto il mondo, Africa, Asia, America latina (mai tanti produttori sono stati raggruppati insieme), organizzazioni di commercio equo e associazioni di economia sociale e solidale italiane e un nutrito programma culturale. Infine, un Simposio al Politecnico di Milano Bovisa (29/31 maggio) in cui interverranno professori e ricercatori da tutto il mondo che si confronteranno su tematiche relative al commercio equo [vedi].

In che termini ha contribuito AltraQualità nell’organizzazione dell’evento?

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Locandina dell’evento

Per quanto riguarda l’aspetto organizzativo siamo completamente coinvolti, perché siamo tra gli organizzatori della World Fair Trade Week 2015. Inoltre abbiamo proposto l’evento sulla moda etica, personalmente sono anche il responsabile dell’organizzazione del “Fair & ethical fashion show”. Per quanto riguarda iniziative particolari, assieme ai nostri partner di Scambi Sostenibili (centrale equosolidale di Palermo) e a ChocoFair (organizzazione che costruisce progetti di filiera equosolidale sul cacao), abbiamo organizzato un incontro per presentare un nuovo prodotto, la crema spalmabile “Sabrosita” realizzata in Italia da Nco Nuova cooperazione organizzata con il cacao prodotto dalla Cooperativa colombiana Asoprolan. Nco lavora su terreni confiscati alla criminalità organizzata nelle aree del casertano, mentre Asoprolan si occupa di convincere gli agricoltori ad abbandonare la coltivazione della coca, sostituendola con il cacao di elevata qualità.

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Nando Dalla Chiesa

All’incontro, oltre ai rappresentanti delle nostre cooperative, abbiamo invitato il presidente di Asoprolan, una delle responsabili colombiane di Unodoc, l’agenzia delle Nazioni unite che lotta contro il traffico di stupefacenti e che sostiene i produttori in questione, e Nando Dalla Chiesa, professore associato di Sociologia della criminalità organizzata e presidente onorario di Libera.

Quindi non solo commercio equo in senso stretto, ma etica, rispetto per l’ambiente, cooperazione e legalità…

Sì, abbiamo cercato di dare un taglio ampio per mostrare tutti gli aspetti cha possono contribuire a creare un’economia alternativa. Il focus della settimana consisterà nel rendere evidente l’impegno di cooperative, imprese ed organizzazioni che a vario titolo vincolano la propria attività produttiva e commerciale al perseguimento di una giustizia economica che rispetta persone e ambiente, contribuendo alla riduzione di povertà, esclusione sociale e dissesto ambientale.

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Il logo della Fiera mondiale della moda etica

Per quanto riguarda il “Fair & ethical fashion show” l’idea è stata quella di mettere insieme a Milano, capitale della moda in Italia e non solo, diverse esperienze di moda gestite con criteri etici, secondo diverse declinazioni. Questo per capire e mostrare qual è lo stato dell’arte, quali sono gli attori che ci lavorano e quelli che se ne stanno interessando, e stimolare la creazione di una rete di rapporti tra di essi. Come AltraQualità ci siamo sentiti di lavorare all’organizzazione di questa fiera perché promuovere un discorso di moda etica è uno dei nostri interessi principali: insieme ad Altromercato, siamo le sole cooperative in Italia a sviluppare collezioni di abbigliamento e accessori equosolidali. Come AltraQualità abbiamo creato un marchio di abbigliamento etico che si chiamaTrame di storie”[vedi] creato dalla nostra stilista Maria Cristina Bergamini [vedi]. In questo senso, Milano sarà una grande vetrina per noi operatori di moda etica dato che non abbiamo molte occasioni per farci conoscere e nemmeno grosse risorse da investire in piani di comunicazione e marketing del prodotto.

Il 24 aprile scorso si è svolto il Fashion Revolution Day [vedi], organizzato a livello mondiale in occasione dell’anniversario della strage di Rana Plaza. Il tema della moda etica è di estrema attualità.
E’ così, la nostra idea è sempre stata quella di far uscire la moda etica dall’ambito ristretto del commercio equo e coinvolgere tutti gli operatori della moda e dell’abbigliamento per mostrare loro che un abito può essere bello ed etico allo stesso tempo: sono ormai passati i tempi in cui l’abbigliamento etico era considerato un prodotto per cooperative e associazioni del settore; ora ci sono invece marchi che si sono specializzati e fanno prodotti di alta qualità sia dal punto di vista del design che dei tessuti.

In un certo senso quindi ogni azienda potrebbe fare moda etica, giusto?

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Modello di Yoj di Laura Strambi, marchio italiano che utilizza tessuti di produttori di commercio equo

Assolutamente sì, tutte le aziende di abbigliamento possono fare moda etica, anche le grandi firme se lo fanno con determinati criteri, come garantire una giusta retribuzione e ambienti di lavoro decenti, evitare il lavoro infantile, porre un’attenzione particolare al fattore ambientale perché, in pochi lo sanno, ma l’abbigliamento ad oggi è purtroppo il settore che genera il maggiore impatto negativo sull’ambiente, sia a livello di produzione (colori e tinte), sia a livello di coltivazione delle fibre (utilizzo enorme di acqua), sia a livello di rifiuti: negli ultimi quindici anni la quantità di rifiuti tessili è cresciuta in maniera esponenziale, milioni di tonnellate gli scarti prodotti ogni anno. Questo perché l’abbigliamento da una trentina d’anni funziona con l’idea dell’‘usa e getta’, con collezioni che cambiano molto spesso, inducendo la gente ad acquistare e buttare, comprando e indossando capi a buon mercato, che durano poco perché di qualità pessima, prodotti senza nessun rispetto per i lavoratori e per l’ambiente. E’ chiaro che seguendo criteri etici forse alcuni dovranno rinunciare a profitti enormi così come non si potranno più vendere magliette a pochi euro. Fare moda etica è ormai un’esigenza imprescindibile per tutti coloro che lavorano nel settore, perché la sensibilità sta crescendo a livello internazionale e ci sono sempre più persone che chiedono una particolare attenzione alle modalità di produzione.

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Maglie di Yoj di Laura Strambi, stilita di grandi marche

Per concludere, penso che moda etica non sia un settore o una nicchia, si tratta di moda tout court. Forse più che di moda etica dovremmo parlare di etica nella moda. Un abito di un grande stilista può essere etico se segue i criteri di cui sopra. Ad esempio, all’interno del “Fair & ethical fashion show” saranno esposti abiti disegnati e confezionati appositamente con i tessuti di produttori di commercio equo da una casa di moda che da anni lavora nell’ottica della sostenibilità, Yoj di Laura Strambi, una nota stilista milanese che ha lavorato per grandi firme. Questo è il futuro della moda che vogliamo indicare attraverso il Fair & ethical fashion show”.

La luce di mezzanotte all’incrocio dei ghiacci. Viaggio a Capo Nord fra fiordi, trolls e renne

Il sogno inseguito, la meta agognata di ogni motociclista? Intervistateli e in maggioranza vi diranno Nordkapp, in italiano Capo Nord, il lembo estremo superiore del mondo scandinavo, oltre il Circolo polare artico dove si incrociano Norvegia, Svezia, Finlandia.
Perché proprio Capo Nord? Da secoli, da quando nel 1533 l`esploratore inglese Richard Chancellor vi approdò nel suo viaggio alla ricerca del passaggio a nord-est verso il Pacifico, rappresenta per gli amanti della scoperta e degli avventurosi di ogni rango e appartenenza un luogo simbolo; nel linguaggio dei bikers è uno di quei posti che non possono mancare nelle mète di un uomo, di un motociclista.

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Vista aerea dei fiordi norvegesi

Noi, la mia famiglia di tre persone più il sottoscritto, nell’agosto di circa vent’anni fa non siamo partiti in moto (non siamo motociclisti), ma abbiamo percorso le tappe in aereo, in aliscafo, in pullman super lusso, di notte, noleggiato un’auto nell’ultimo tratto prima della meta, e ancora in treno con il vagone letto. Obiettivo, conquistare il luogo più a nord dell’Europa o perlomeno, dalle mappe, il luogo abitato più a nord, e così vorremmo rimanesse.
Ma andiamo per ordine. A quel tempo il volo utile era Bologna-Stavanger via Copenhagen. Stavanger è una media città di mare che si trova sulla costa sud-ovest della Norvegia, nella regione del Rogaland, sulla stessa latitudine di Oslo e Stoccolma. Bastano pochi giorni, passeggiando e curiosando, per orientarci ed ambientarci in un altro mondo fra case basse in legno colorato e tetti spioventi, fiori ovunque e candele accese alle finestre la sera, anche in agosto (nelle cantine degli abitanti vi sono scorte inimmaginabili di candele multicolori e nei dintorni molte originali fabbriche di candele).

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I fiordi, specchi d’acqua

Fra i piccoli giardini molto ben curati che contornano le case, notiamo la raccolta differenziata due decenni prima che in Italia e, con somma meraviglia e anche con invidia, osserviamo il pennone conficcato nel prato verde che porta l’immancabile bandiera norvegese. In alcune escursioni nel territorio siamo continuamente circondati da fiumi con acque limpide e ruscellanti, medie formazioni rocciose spoglie, colline basse verdi punteggiate da case rosse, alcune con un consistente tappeto erboso e alberi sul tetto, ma in maggioranza le case sono bianche, costruite con tavole di legno poste in orizzontale sovrapposte. E ci accompagna sempre durante il viaggio, l’immancabile fortissimo vento.
Visitiamo a Flekkefjord il quartiere olandese con le sue ordinatissime case dalle moltepici finestre e poi Farsund e Lindesness, il punto più a sud della Norvegia a migliaia di chilometri dal nostro traguardo, con il faro biancorosso da scalare carico di fascino.

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Il Preikestolen

È qui che arriviamo al primo fiordo, il Lysefjord. Questi bracci di mare si incuneano nell`entroterra per diversi chilometri, fino ad alcune centinaia, occupando perlopiù valli glaciali che trasformano la costa norvegese in un esteso e bizzarro pizzo di origine naturale. Impressionano le verdi pareti scoscese che circondano il lento avanzare del traghetto; in particolare segnalo il Pulpit Rock o Preikestolen in norvegese, un balcone naturale a sbalzo sul fiordo posto ad una altezza di 604 metri sull`acqua.
Incontriamo colonie di foche, case isolate, cascate e infine avviene l’atterraggio dove i traghetti terminano la loro corsa in questo imbuto naturale, per portare non solo i turisti ma anche tutto ciὸ che è indispensabile alle piccole comunità impiantate sul percorso e al terminal, Lysebotn, dove invece si è sviluppato un nucleo abitato consistente.

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Solbakk, incisioni rupestri

Da non perdere la spiaggia di Solbakk con le enormi rocce scolpite da iscrizioni vichinghe e i boschi circostanti fra i quali si muoverebbero liberamente, come vuole la tradizione norvegese, i trolls. Chi sono i trolls? La loro leggenda prende corpo nell`atmosfera fiabesca dei boschi norvegesi, quando la luna è in alto nel cielo e tutto può accadere; queste strane creature escono dai loro nascondigli solo dopo il tramonto, per ritornarci al mattino prima che sorga il sole, in quanto i raggi solari potrebbero pietrificarli. Alquanto bruttini, vagamente simili agli umani, con lunghi nasi e quattro dita per mano e piede, questi abitanti imprendibili sono di natura estremamente timidi e buoni, ma meglio rispettarli e rispettare il loro habitat.

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Sognefjord

Lasciamo Stavanger, che ritroveremo al ritorno, per la prima tappa verso nord navigando sull’aliscafo di linea destinazione Bergen, una deliziosa cittadina con case multicolori in legno e tetti spioventi. Atterriamo nel vivacissimo vecchio porto, il Bryggen, sotto un sole splendido, dove ci attende un mercato stupendo di fiori e pesci di ogni razza e colore, i giganteschi granchi, fiori e sopratutto fragole, tante fragole ovunque, per strada, nei mercati, nei costosi ristoranti. Da qui si entra con una escursione nel Sognefjord lungo 203 km, il più lungo della Norvegia.
Una nota di colore, a Bergen sono ubicate la casa di Babbo Natale e la casa dei Trolls, che rappresentano per la città una curiosa attrattiva.
La seconda tappa è percorsa in pullman granturismo di notte, il Nor-Way Bussekspress. Attraversiamo una zona impervia dove per circa 750 chilometri si entra all’interno della Norvegia. Le fermate sono diverse e frequentate anche perché il pullman pare il mezzo di trasporto più comodo e sicuro per spostarsi in questa parte del Paese. Il bus è dotato di un bar rifornito di bevande calde e fredde, di servizi igienici comodi e i sedili sono distanziati in modo tale che sia possibile potersi addormentare pur nella difficoltà della situazione.
Dopo 14 ore di curve, tornanti, strapiombi mozzafiato, caffè e un incontro ravvicinato con un’alce gigante che ci attraversa la strada all’improvviso, arriviamo a Trondheim. Sono circa le sette del mattino, quando il pullman ci lascia alla stazione ferroviaria principale e, fortunatamente, in queste città del profondo nord la vita è già in forte movimento. Trondheim, posizionata a circa un quarto del nostro percorso, è una città di origine vichinga risalente a circa l`anno Mille, possiede una università famosa in Norvegia e consiglio una visita all’imponente cattedrale.
Ci aspetta ora per la tappa successiva un’auto prenotata dall’Italia: una Volvo familiare decisamente capiente e ci auguriamo comoda. Siamo in quattro con diversi bagagli e dobbiamo affrontare un percorso lungo, armandoci di pazienza e di spirito di adattamento: più facile a dirsi che a farsi.
Guidiamo lentamente verso nord per l’impossibilità di sorpassare a causa della strada stretta (l’unica disponibile) e per i continui saliscendi.
Abbiamo perduto la vista del mare tranne che per alcuni piccoli tratti, in realtà sono le rientranze di piccolo fiordi. Dopo una notte passata a Mo I Rana riprendiamo la guida verso nord. Il panorama è cambiato: dalle gole montane passiamo alla collina in alcuni casi verde e con punte rocciose che si specchiano nei fiordi che sfioriamo, per poi apparire nel proseguo decisamente brullo e piatto.

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Polarsirkel

Intorno non si vede un albero, solo una strada stretta e diritta mentre la luce si è fatta plumbea; entriamo nella zona del Nordland, la Norvegia artica, e varchiamo il Circolo polare artico o Polarsirkel a 66° 33` 39“ di Latitudine nord.
Il primo obiettivo é centrato, ci immortala nella foto ricordo un cicloturista tirolese al quale ricambiamo il favore. Capo Nord è ancora lontano lassù in alto.

1. CONTINUA

Punte-Alberte

IL FATTO Punte Alberete, abbattuti alberi secolari. Gli ambientalisti: “Sfregio all’oasi”

Certe storie non si vorrebbero raccontare, ma si deve. Da qualche tempo Punte Alberete è stata sfregiata, settecento dei suoi alberi, soprattutto farnie e pioppi bianchi “cittadini” dell’habitat europeo, sono stati tagliati con la sega a motore. Molti erano secolari e sani, come rivelano i ceppi mozzati e conficcati nella terra a testimonianza di uno scempio di cui l’Europa potrebbe presto chiedere conto. “L’assurdità è che moltissime delle chiome erano rivolte verso l’oasi, interne rispetto alla statale. La paventata pericolosità per il traffico stradale e per chi percorre il sentiero interno, non giustifica il taglio indiscriminato che, se non fosse stato per gli ambientalisti, sarebbe toccato a duemila piante”, dicono dall’argentana Ardeola birding association di cui fanno parte ornitologi, esperti ambientali, guide escursionistico ambientali e appassionati. “Quanto è successo coinvolge tre enti, il Parco del Delta del Po, il Comune e la Provincia di Ravenna, che hanno dato il nullaosta all’operazione – dicono – Tutto è partito da una segnalazione arrivata in Prefettura, rimbalzata in Comune dove si è deciso di procedere al taglio. La Provincia ha dato l’ok facendo riferimento al Ptcp (Piano territoriale di coordinamento provinciale e il Parco ha detto sì: è stata una strage eseguita in assenza del controllo di esperti”. Nella denuncia c’è amarezza, rabbia e preoccupazione.

“Ci lascia di stucco la superficialità e la cecità con cui è stato autorizzato il disboscamento, che potrebbe rivelarsi un grave precedente utile a legittimare azioni analoghe in altri luoghi di pregio naturalistico attraversati da strade carrabili. Pensiamo alle foreste del Casentinese, al Bosco di Mesola, ma anche a tante altre zone di pregio di tutto il Paese – dicono – In questo specifico caso le maestranze hanno fatto piazza pulita di alberi sui quali bastava intervenire in maniera diversa e facendo riferimento alle valutazioni previste per ogni singola pianta. Alcuni alberi potevano semplicemente essere regolati, invece è stato un macello”. Piante secolari buone oramai solo da bruciare e chissà dove sono finiti tutti quei tronchi.

“Non si può trattare una risorsa ambientale e socioeconomica, unica per le sue caratteristiche, come un viale cittadino piantumato artificialmente – continuano – Stiamo parlando di un’altra cosa, di angoli irripetibili in Europa e forse anche nel mondo”. L’indignazione è alle stelle per quell’atto di violenza alla natura che, a detta degli associati, ha scavalcato le normative europee in vigore nelle zone di protezione speciale (Zps) di cui Punta Alberete è un gioiello nello scrigno del Parco e di Rete Natura 2000, lo strumento dell’Unione Europea di conservazione delle biodiversità. “Abbiamo scritto una lettera di biasimo al sindaco di Ravenna, ma non c’è stata ancora nessuna risposta”, concludono con desolazione.

Il costo del taglio del bosco pare abbia comportato un esborso di circa 200 mila euro, attinti dai proventi degli indennizzi versati da Eni per l’emungizione di gas, recuperato attraverso le trivellazioni nel Parco, più volte denunciate dagli ambientalisti come un’aggravante dello sprofondamento delle sue valli (subsidenza, ndr). Come dire: il danno e la beffa a scapito di un bene comune del cui valore naturalistico e socioeconomico, evidentemente, non ci si è ancora resi conto.
Per esigenze di marketing si fa del parco il fiore all’occhiello del turismo internazionale, si punta sulla riserva della biosfera Unesco del Delta del Po con l’intento di attirare gli appassionati di un habitat unico e poi lo si trascura al punto da non riconoscergli neppure una dignità interregionale, impigliata da decenni in differenti orpelli politici. Le due regioni cui fanno capo i due versanti del Parco diviso dal Po, si dicono ambientaliste, ma non si fanno scrupoli di guardare ciascuna al proprio business: l’Emilia-Romagna è stata l’unica a non dichiararsi contraria al capitolo trivellazioni del decreto “Salvaitalia” e il Veneto, in tempi ormai andati, non disdegnava il raddoppio della centrale elettrica di Porto Tolle oramai in disarmo. Con buona pace della natura.
E’ la schizofrenia italiana. Nell’attesa di decidere cosa si vuole fare di un gioiello naturalistico, Punte Alberete è stata denudata di parte delle sue chiome. Sulla vicenda la Regione ha avviato un approfondimento: “Proprio questa mattina sono state spedite le lettere con cui interpelliamo gli enti sull’accaduto. Abbiamo richiesto copia delle autorizzazioni, della valutazione di incidenza ambientale e contemporaneamente abbiamo interessato la forestale per capire come è stato eseguito il taglio”, dice Enzo Valbonesi, responsabile del Servizio Parchi e Risorse forestali regionali.

La chiave di volta, a quanto pare, starebbe proprio nella valutazione di incidenza ambientale, che dovrebbe tener conto dello stato di ogni singola pianta per calibrare gli interventi di manutenzione nelle zone protette. Se così non fosse stato, il caso di Punte Alberete potrebbe trasformarsi nell’ennesima procedura d’infrazione mossa dall’Europa. Ormai le segnalazioni sugli sfregi ambientali sono talmente tante da aver spinto la Commissione per l’ambiente della Ue a redigere, in marzo, un pilot con il quale si richiamano gli enti competenti alla corretta applicazione del diritto comunitario.

LA SEGNALAZIONE
Il romanzo, la scoperta di un mondo. Profumo d’Australia nelle nuove pagine di Cinzia Tani

“Scrivere un romanzo significa stendere un progetto e documentarsi; significa restituire l’atmosfera dei luoghi, i gesti di una persona o un animale. Da lettrice, quando chiudo un romanzo voglio avere visitato un luogo nuovo, conoscere qualcosa in più di ciò che già sapevo prima di aprirlo. Da scrittrice, voglio trovare il ‘mot just’ che professava Flaubert, quella parola che a volte sfugge dalla rete verbale che sto tessendo e che poi, pazientando e ostinandomi, arriva. Questo vale, in generale, per l’intera resa di ciò che scrivo: in Australia ho trascorso ore sotto un albero, aspettando che un koala allungasse la zampa per afferrare una foglia, al fine di renderne al meglio la gestualità, l’impressione, come se il lettore potesse provare quello che io provavo.”

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Presentazione alla libreria Feltrinelli di Ferrara per ‘Autori a corte’

Questo è il punto di partenza con cui Cinzia Tani, autrice radiotelevisiva, scrittrice e docente in vari corsi di scrittura creativa, racconta la protagonista del suo nuovo romanzo storico “Storia di Tonia” (Mondadori, collana Omnibus) nella presentazione-intervista in compagnia del giornalista Sergio Gnudi alla libreria Feltrinelli per il ciclo “Autori a corte. Outside“.
Storia tramata nella storia, che scivola tra sentimenti di amore e rivalsa, di rancore e gratitudine. C’è la vicenda che funge da traino del romanzo: la truffa, da parte di un marchese francese, ai danni di poveri veneti che comprano lotti di terra in Nuova Irlanda con la speranza di un futuro. Così, nel 1880 si affaccia la storia di Tonia, sedicenne che insieme alla famiglia di contadini parte da Bassano del Grappa cercando fortuna.
Gli snodi del romanzo scorrono tra episodi storici – una Sydney buia, in attesa che venga illuminata dall’esperimento riuscito di Guglielmo Marconi, nel prologo; i ‘bushranger’ australiani, sorta di Robin Hood, spesso romantici; la battaglia di Gallipoli, in cui trovarono la morte più di un migliaio di giovani australiani, fieri di combattere per la prima volta per l’impero inglese – e umane passioni – la morte della madre di Tonia, il suo matrimonio con il cugino che non ama e la passione per Lester, gentile figlio della casa in cui Tonia presta servizio; dissapori tra i figli, due avuti con il marito e due gemelli con il grande amore della sua vita; il rancore del suo primogenito nei confronti di Mark, figlio prediletto di Tonia che pure gli salverà la vita inchiodando al muro le sue certezze.

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La copertina

“In un romanzo storico – precisa l’autrice – trovo che la parte più invitante siano i fatti della storia che sono poco conosciuti.” L’approccio al concreto per poi intavolare una storia romanzata fa parte anche di altri generi letterari affrontati dalla scrittrice, tra cui il fumetto “Unità speciale”, esperimento condotto per la collana “I tipi dell’Eura editoriale” e focalizzato sull’unità dei Ros.
É la realtà che diventa letteratura, sono le emozioni che devono restare impresse sulla carta attraverso le parole senza dilungarsi in eccessi, senza appesantire la scrittura pur descrivendo e dando un’anima tanto ai protagonisti quanto ai personaggi minori. Non di sole prime ballerine vivono i suoi romanzi, infatti: l’intero corpo di ballo è lungo e altrettanto interessante. “I personaggi talvolta sfuggono dalla mia penna e vivono una vita propria, attirandosi l’amore e l’attenzione del lettore. Questo accade a Pietro in “Lo stupore del mondo“, incentrato sulla figura di Federico II; questo ancora accade a Virginia in “Storia di Tonia”. É come accorgersi all’improvviso di un personaggio che è rimasto per lungo tempo in un angolo, in disparte: lo si nota e ci si innamora di lui, ci si accorge delle sue qualità.”
Il tutto attraverso una costante attività di fatica: lavoro incessante, ricerche, riletture e controlli. “Notti bianche” con un finale di soddisfatto traguardo.

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Cinzia Tani alla presentazione del suo nuovo romanzo ‘Storia di Tonia’ (Mondadori), nell’ambito di ‘Autori a corte. Outsider’, tra Vincenzo Iannuzzo e Federico Felloni (foto di Giorgia Pizzirani)

 

IL FATTO
“Non vorrei dovermene andare dall’Italia”. Lettera aperta di una giovane musicista al ministro Franceschini

E’ il ‘nostro’ ministro, perché Dario Franceschini è di Ferrara, e la città ne è orgogliosa. Ecco perché Marianna Musotto – trombettista 28enne palermitana, diplomata al Conservatorio di Trapani, laureata in Solismo a Siena, forte di corsi di perfezionamento all’Accademia di Santa Cecilia, a Roma – comparsa recentemente su diverse riviste nazionali con una esplicita richiesta al titolare del dicastero della Cultura di mostrare più attenzione per la musica classica, ha pensato di prendere le vie ‘estensi’. Non solo le scoccia un po’ essere stata ignorata – la lettera è del 5 marzo – ma soprattutto le ‘ruga’ perché dei giovani si parla sempre, dice, poi quando siamo noi a parlare… potremmo tacere. “Questa è la sensazione che riceviamo”. E a lei, giustamente, non sta bene. “Anche perché questo governo si è tanto riempito la bocca dei giovani poi nulla, col Jobs act siamo a posto”. Il suo discorso è semplice: “Capisco bene che il Ministro ha cose più importanti da fare che rispondere a me, ma a parte che un cenno si può dare, o fare dare, il punto è che io sollevo un problema reale – insiste – quello della perdita di identità del Paese su un fronte importante, la musica classica. E quello dei cervelli in fuga, che non tocca solo le discipline scientifiche. C’è anche gente, come me, che dall’Italia non vorrebbe proprio andarsene. E che in questo Paese, dove la musica classica è nata, vorrebbe rimanerci”. Tenace, Musotto ha recentemente fondato con il pianista Francois Agnello il Duo Vocalise. Insieme si sono dati una missione. “Divulgare la musica classica, che non è solo di nicchia, che non è solo per ‘vecchi’. Anzi, potrebbe offrire molto ai giovani”.

Ecco la lettera integrale, che FerraraItalia ha deciso di pubblicare.

Palermo, 5 marzo 2015

On. Dario Franceschini
Ministro Ai Beni e alle Attività Culturali e al Turismo

Gentil.mo Ministro,
mi chiamo Marianna Musotto, trombettista palermitana, ho 28 anni, un diploma al Conservatorio di Trapani, una laurea in Solismo a Siena, mi sono perfezionata con la Prima Tromba del Maggio Fiorentino, Andrea Dell’Ira, ho frequentato corsi alla prestigiosa Accademia di Santa Cecilia a Roma, ho fondato col pianista Francois Agnello il Duo Vocalise.
E vorrei non dovermene andare dall’Italia. Vorrei non dover nutrire la voce ‘cervelli in fuga’, vorrei stare qui, nel Paese in cui mi sono istruita, formata, che però troppo poco spazio lascia non tanto ai sogni, quanto a traguardi raggiungibili.
Amo la musica classica, come lei – ho letto anche i suoi libri – la narrativa. Eppure, in questo Paese, per la musica classica c’è troppo poco spazio.
Leggevo in questi giorni alcune sue dichiarazioni fatte a Bologna, a 3 anni dalla scomparsa di Lucio Dalla, in cui sostiene che i testi musicali, essendo vicini alla poesia, dovrebbero diventare materia d’insegnamento.
Ecco, nel condividerla, mi spingo oltre e le chiedo perché in Italia, dove nel 1501 è stata pubblicata la prima opera scritta su musica a caratteri mobili, c’è così poco amore e investimento verso questa disciplina.
Le parole d’ordine, anche sulla cultura, sono diventate ‘costi’ e ‘tagli’. Quasi che il grande contributo di entusiasmo, energia, professionalità che noi giovani possiamo dare, tornando a riempire i teatri, non possa tradursi in ritorno economico. Ci date una possibilità? Vi ricordate che ci siamo? La musica classica non è una sconosciuta, per nessuno.
Si vuole fare credere che è un genere di nicchia, ma non è così. Certo, va divulgata. Può essere accessibile a tutti. Deve diventare accessibile a tutti, magari portandola nelle piazze e nelle chiese. Tutti i cittadini hanno il diritto di usufruirne e tutti i giovani artisti di praticarla.
Io ho 28 anni e non vorrei andarmene da questo Paese, che è il mio. Sarebbe un fallimento.
Ma a che prezzo devo rimanere fedele a questa ‘etica’? Non ci sono audizioni, le grandi orchestre sono in crisi, non ci sono etichette di musica classica.
Si mercanteggia il business con la cultura.
Che futuro c’è? Anzi, c’è un futuro?
Io studio 5 ore al giorno, con pazienza e costanza, come me tutti i colleghi. Ma intravedere il traguardo è di una difficoltà immensa perché in realtà non c’è.
E non ne faccio una questione di genere, che sarebbe fin troppo facile, perché su questo fronte le penalizzazioni sono per tutti e sono semmai anagrafiche.
E tralascio, per evitare la ridondanza – le istanze vere, in questo Paese, vengono registrate come retorica – il discorso, completamente assente, della meritocrazia, che pare un ‘vezzo’ seppure anche il Governo di cui lei fa parte lo abbia posto tra i suoi obiettivi .
Oggi un artista, a meno che non pratici la musica leggera o abbia risorse economiche di diversa provenienza, non può vivere della propria arte.
E intanto, grazie a una produzione spropositata di talent, si consolida l’inganno sul concetto di talento, che non presuppone neppure più lo studio, se non parziale.
Io, però, a 28 anni sono stanca, sono esausta. Non voglio l’asciare l’Italia, non voglio andare in usufrutto ad altri Paesi, come la Francia, per fare un esempio, dove ci sono maggiori canali di realizzazione.
Parlate tanto dei benefici che porterà il Jobs Act, e se così sarà non posso che esserne contenta, per i miei coetanei soprattutto.
Ma anche la cultura è lavoro. Desiderare di praticare la propria arte, per cui si è investito tempo e denaro e sacrificio, non è un vezzo. L’artista, non è un mestiere di serie b.
L’arte, anche lei lo ha detto tante volte, è qualcosa che nobilita l’uomo e la società in cui vive.
Se anche noi giovani cediamo, se finiamo la benzina dell’entusiasmo, se andiamo altrove, cosa rimarrà della nostra identità? Dell’identità del nostro Paese?

Marianna Musotto

L’EVENTO
Sui muri di Bologna torna il Cheap street poster art festival

Da oggi fino al 10 maggio, Bologna ospita la terza edizione di Cheap, unico festival in Italia focalizzato sulla street art che elegge a supporto privilegiato la carta. I luoghi d’intervento sono i muri cittadini di grandi dimensioni, tendenzialmente in periferia, e le tabelle affissive in disuso del centro storico, che vengono abilmente e intelligentemente recuperate. I muri sono affidati a street artist di fama internazionale che realizzano interventi sito specifici, mentre le ex tabelle affissive di proprietà del Comune diventano una galleria a cielo aperto che ospitano opere di poster art selezionate tra tutte quelle pervenute attraverso una Open call. Tra le novità di questa edizione saranno proposti un intervento indoor totalmente in carta e un ampio e vario calendario di mostre. Tutto molto interessante e innovativo.
Per quanto riguarda gli interventi sito specifici, nei quartieri San Vitale, San Donato, Porto e Navile, operarenno i main artist invitati per l’edizione 2015: Levalet (Francia), NemO’s (Italia), Vinz Feel Free (Spagna), Madame Moustache (Francia), Bifido (Italia) e Ufocinque (Italia), tutti caratterizzati da una predilezione spesso esclusiva per l’utilizzo della carta, ciascuno con decise e precise peculiarità tecniche. Vediamoli.

Levalet [vedi]
Piazza Azzarita, Parcheggio | 1-3 maggio

cheap-festival-street-artcheap-festival-street-artInaugurera’ la serie d’interventi murari in programma, cominciando a lavorare, dall’1 maggio, all’interno del quartiere Porto. All’anagrafe Charles Leval, Levalet è un poster artist francese nato nel 1988. Cresciuto in Guadalupa, prosegue i suoi studi di arti plastiche a Strasburgo, cominciando a sperimentare interazioni con lo spazio pubblico attraverso la video installazione. Insegnante d’arte durante il giorno, Levalet inizia a intervenire nelle strade di Parigi dal 2012, proponendo paste up dal forte impatto performativo e spingendo al limite il concetto di “site specific”. Cerca accuratamente luoghi architettonicamente ben caratterizzati e spesso defilati, e, dopo questa fase esplorativa tra le strade della città, realizza in studio sagome di figure umane a grandezza naturale dipinte a mano con la china nera, ottenendo una resa di alta qualità fotografica. Le silhouettes di carta sono poi incollate sui muri, creando vere e proprie “mise en scène” che inglobano gli elementi architettonici preesistenti, talvolta integrati con i più svariati oggetti: dai libri agli ombrelli, fino alle stecche da biliardo. Percorse da un’ironia pungente che sfocia nella denuncia sociale, l’artista tratteggia un’umanità vittima della frenesia metropolitana. Per Cheap Festival, Levalet realizzerà un intervento composto da 30 sagome che verranno posizionate sull’edificio giallo di maggiori dimensioni tra i tre antistanti al Paladozza, in piazza Azzarita; i tempi di lavorazione previsti sono dall’1 al 10 maggio.

NemO’s [vedi]
Ippodromo, via dell’Arcoveggio | 2-10 maggio

cheap-festival-street-artcheap-festival-street-artIl secondo intervento sarà quello di NemO’s, che lavorerà in via dell’Arcoveggio, dal 2 al 10 maggio. Street artist italiano nemmeno trentenne, NemO’s inizia a lavorare in strada utilizzando vernici spray, poi sostituite dai pennelli; progressivamente, introduce la carta. Dopo una prima stesura di pittura acrilica su muro, NemO’s v’incolla sopra carta riciclata sminuzzata, applicata come tessere di un mosaico; spesso si tratta di vecchi quotidiani, con una predilezione per le pagine de Il Sole 24 ore, la cui tonalità rosata è funzionale alla riproduzione di una texture che mima l’epidermide umana. La terza fase di lavorazione prevede un ulteriore intervento ad acrilico sulle campiture create con la carta: NemO’s definisce a pennello i dettagli del corpo umano, al centro di tutte le sue opere. Ne risulta un intervento semipermanente, che si modifica a seconda del caso e delle condizioni atmosferiche. Progressivamente, infatti, le tessere di carta si staccano, in una sorta di decomposizione che rende mutevole l’opera, svelando lentamente lo scheletro dipinto su muro. L’immaginario creato dall’artista è popolato da personaggi impegnati in azioni poetiche e surreali, con un forte ricorso al paradosso, funzionale a una critica sociale che va dalla denuncia alla rappresentazione del disagio esistenziale dell’uomo contemporaneo.

Vinz Feel Free [vedi]
Autostazione, viale Masini | 3-10 maggio

cheap-festival-street-artcheap-festival-street-artQui, dal 3 al 10 maggio, lavorerà il terzo Main Artist invitato dall’organizzazione del Festival: lo spagnolo Vinz Feel Free. Nato nel 1979, Vinz inizia la sua attività in strada nel 2011, con il progetto “Feel Free”, che riflette sul concetto di libertà individuale inserita nel più ampio contesto della società contemporanea, considerata da diversi fondamentali punti di vista: politico, economico, massmediatico e ambientale. La base di partenza delle sue opere è un suo scatto fotografico; le immagini vengono poi stampate in bianco e nero, a grandezza naturale, su carta, ricombinate in composizioni e affisse al muro con la colla. Le testa di animali, riccamente dettagliate, vengono invece dipinte a mano con gli acrilici, creando forti contrasti cromatici che amplificano ulteriormente l’impatto delle immagini nel loro complesso per un’allegoria della società contemporanea di sapore quasi kafkiano.

Madame Moustache [vedi]
Palestra Boxe “Le torri”, via Ada Negri | 4-9 maggio

cheap-festival-street-artcheap-festival-street-artSu questi muri interverrà Madame Moustache, street artist francese nata nel 1982 e attiva in strada dal 2010. La tecnica del collage è al centro della sua produzione: partendo da vecchie riviste, principalmente degli anni Sessanta e Sessanta, e da fotografie di fine Ottocento, Madame crea composizioni di immagini e parole che fungono quasi da “prototipi”; gli originali vengono infatti successivamente ingranditi e stampati in bianco e nero in grande formato, per poi essere affissi al muro con la colla. Talvolta l’artista interviene ulteriormente sulla stampa aggiungendo un solo colore, spesso il rosso, attraverso la tecnica del pouchoir, in voga negli anni Venti per la coloritura manuale di cartoline postali illustrate o fotografiche. L’intento è di divertire. Madame crea un universo fantastico, giocoso, popolato da soggetti ricorrenti: donne con i baffi, gatti con il corpo di pesce, armi da fuoco, accompagnati da frasi che funzionano come fulminanti aforismi, in contrasto con uno stile in cui traspare una raffinatezza che si prende cura di ogni singolo dettaglio. Il muro verrà ufficialmente presentato alla città sabato 9 maggio alle 16.00.

Bifido [vedi]
Scuola dell’infanzia Mago Merlino, Via Azzo Gardino 63 | 4-9 maggio

cheap-festival-street-artcheap-festival-street-artOltre a Levalet, il quartiere Porto ospiterà l’opera di un secondo Main Artist, che interverrà nell’area attigua al polo composto dal Parco del Cavaticcio, dove si affacciano la Cineteca, il Mambo e il Cassero. Casertano d’origine, Bifido lavora esclusivamente con la carta. Il linguaggio che predilige è la fotografia, in bianco e nero o a colori, per stampare sagome di grandi dimensioni che affigge direttamente al muro con la tecnica del paste up. Corrosivo, irriverente, di grande impatto nella sua immediatezza, Bifido solleva temi sociali di attualità, prediligendo come soggetti i bambini. Significativa è una delle frasi che sceglie per definire la sua poetica: “I bambini trovano il tutto nel nulla, gli adulti il nulla nel tutto”.

Ufocinque + Werther [vedi]
TPO, via Casarini 17/5 | 2-10 maggio

cheap-festival-street-artcheap-festival-street-artPer la prima volta in assoluto nella storia del Festival un main artist invitato dall’organizzazione non realizzerà un progetto nello spazio urbano. È il caso di Ufocinque, che con il suo assistente Werther proporrà il progetto Chrono-philia: un’installazione realizzata interamente in carta che sarà inaugurata sabato 9 maggio, alle ore 22.00, in occasione del party di chiusura. In origine membro attivo della scena del writing italiano, Matteo Capobianco aka Ufocinque (Novara, 1981) inaugura a soli 13 anni la sua produzione in strada. È la scoperta della tecnica dello stencil, insieme ai suoi studi in design al Politecnico di Milano, a fare da cartina di tornasole per un cambio di rotta del suo percorso artistico. Ufocinque mette al centro della sua produzione l’utilizzo della carta, facendone rivivere la sua origine etimologica (dal greco “charássō”: incidere, scolpire).

Open call 2015
Oltre al focus sul supporto carta, il lancio di una “Open call for artist”, non esclusivamente rivolta agli street artist ma aperta anche a illustratori, fotografi e grafici, è uno degli elementi che maggiormente differenzia Cheap da altri eventi dedicati all’arte urbana. L’edizione 2015 ha visto un aumento del numero dei partecipanti, arrivato a quasi quattrocento. Si è allargato anche il bacino di provenienza delle opere, che conta 31 paesi: Italia, Brasile, Venezuela, Australia, Serbia, Belgio, Slovenia, Germania, Ecuador, Giappone, Cina, Francia, Germania, Svizzera, Messico, Repubblica Domenicana, India, Ungheria, Polonia, Grecia, Romania, Spagna, Ucraina, Croazia, Pakistan, Cile, Scozia, Hong kong, Canada, Giordania, Olanda. In totale, gli artisti selezionati sono 206. Le opere saranno installate dal 7 al 10 maggio nelle vie San Felice, Ugo Bassi, Sant’Isaia, Santa Caterina, Irnerio, dell’Abbadia, Zamboni, Mascarella, San Vitale, Ca’ Selvatica, D’Azeglio, Strada Maggiore.

Per maggiori informazioni visita il sito del festival [vedi].
Si ringrazia Elisa Visentini per il materiale gentilmente fornito dall’ufficio strampa del Festival.

L’EVENTO
La festa è in strada: grande successo per via de’ Romei

Grande successo ieri sera per la festa di via de’ Romei. Tante persone che non si sono fatte intimidire dall’aria ancora umida e fredda e dagli accenni di pioggia, si sono riversate nella via del centro che ha proposto uno street party all’insegna della creatività. Negozianti, artigiani, ristoratori, galleristi, baristi, dj, pittori, residenti hanno messo in strada i loro banchi e offerto alcune ore di piacevole intrattenimento sotto le stelle. Alle 22,30 la parrucchiera stava ancora facendo la messa in piega ad una cliente e i bambini stavano giocando a nascondino nel riconquistato vicolo Mozzo Tegola. Una bella esprienza che vi avevamo raccontato qui [leggi] e che probabilmente si ripeterà in giugno e poi a settembre.
Il 12 giugno, ha anticipato uno degli ideatori dell’iniziativa Massimiliano De Giovanni, il tema sarà quello enogastronomico e il titolo: Brew Street Market, la festa dei sapori in via de’ Romei. Una parte importante l’avrà il pub Il Molo che da anni seleziona le migliori birre del Regno Unito.

Nell’attesa vi riproponiamo alcuni momenti suggestivi attraverso gli scatti del Gruppo Igers Ferrara, immancabile, come ad ogni evento.

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Suicidio di una banca. “Carife travolta dall’ambizione di fare Gruppo. Ma può ancora tornare il gioiello che fu”

La notizia è fresca. Il sindaco ha ottenuto dai commissari di Carife la conferma che il Fondo interbancario impegnerà i trecento milioni considerati necessari per garantire l’operatività dell’istituto di credito cittadino. Dunque il fallimento, per ora, è scongiurato.
Il tema però resta incandescente. Posta in sicurezza la banca, persistono i dubbi sul suo futuro e le incognite per i piccoli azionisti. Tagliani ha chiesto che il valore delle azioni sia preservato. Per i risparmiatori, che si trovano fra le mani un titolo che a un certo punto era schizzato a 41 euro e ora è quotato a 3,18, è davvero il minimo.

Mentre si attende che si diradino le nebbie che persistono all’orizzonte, vale la pena ancora una volta volgere lo sguardo a ritroso per domandarsi come si sia potuti arrivare sino a questo punto. L’interrogativo l’abbiamo posto a un alto funzionario della Cassa di Risparmio di Ferrara che, per prudenza, ha chiesto di mantenere l’anonimato.
“La banca fino all’inizio degli anni 2000 era davvero un gioiello. Io potevo visionare i bilanci e dunque avevo la situazione precisa sotto controllo. Sussistevano tutti i presupposti perché le cose andassero avanti così, sarebbe stato sufficiente mantenere la dimensione locale.
Ricordo che le rilevazioni della Banca d’Italia ci collocavano fra le prime in Italia nella categoria delle piccole. Addirittura la raccolta superava gli impieghi”.

Chi aveva retto il timone della banca in quel periodo?
Il presidente era Bertoni che fin dal suo avvento nel 1995 aveva introdotto criteri manageriali mostrando indubbiamente grandi capacità. Si era però trovato subito in contrasto con il direttore Bianchi, che pure era un buon professionista. Lo liquidò e il suo licenziamento, a seguito di un ricorso, costò alla banca una cifra enorme, circa 4 milioni di euro di indennizzo… Al posto di Bianchi scelse Bacchelli, un commerciale puro che per aumentare la redditività ci spiegò che dovevamo aumentare gli impieghi. Ma il nuovo corso fu gestito lucidamente, le filiali di Ferrara e quelle di Rovigo si mostrarono molto efficienti e puntualmente eseguivano gli input della direzione. Allargando le maglie del credito arrivammo ad avere 100.000 correntisti, un numero enorme. Lo spread era interessante per la banca e il rientro era ottimo. In quel periodo le cose funzionavano al meglio, mantenevamo la dimensione di banca locale e lo stesso Bacchelli si mostrava prudente e talvolta addirittura frenava le filiali quando riteneva che si ponessero budget eccessivi, dunque si procedeva con giudizio nella politica di sviluppo. La raccolta continuava ad essere ancora un po’ superiore agli impieghi e a fine anno gli obiettivi erano sistematicamente centrati in pieno. Carife in sostanza realizzava quella che da sempre stata la sua missione di istituto di credito al servizio del territorio.

E che cosa è successo poi?
I guai sono incominciati con l’arrivo di Murolo, la banca fu guastata dalla sua ambizione sfrenata. Fu scelto come direttore nel 1999, un anno dopo la nomina di Santini a presidente. Era stato direttore della Cassa di Risparmio di Mirandola e coltivava amicizie influenti nell’ambiente politico modenese: intimo di Giovanardi, divenne capogruppo della Dc in consiglio comunale. Si mise in testa di trasformare Carife in gruppo bancario, attraverso la progressiva acquisizione di banche di dimensioni ridotte presenti in zone in cui la Cassa non c’era. Nel 2002 con l’innesto di Commercio e Finanza iniziammo il nuovo cammino. Secondo Murolo le banche che via via sarebbero entrate nel gruppo avrebbero dovuto mantenere la loro autonomia. Ma si scelsero istituti troppi piccoli per essere autonomi. Ricordo che il direttore sostenne che le banche che avrebbero mostrato di funzionare sarebbero rimaste, le altre sarebbero state rivendute. Solo io obiettai che se le banche sono troppo piccole non stanno in piedi se non con il supporto per la capogruppo. E segnalai che rivendere quelle zoppe non sarebbe stato semplice, sicché alla fine avremmo pagato noi il conto. Purtroppo i fatti mi hanno dato ragione.

Murolo come reagì?
Scrollò le spalle e intraprese le acquisizioni programmate: nel 2003 Banca di Treviso, Popolare di Roma, Credito veronese, poi nel 2004 la Banca Modenese dell’avvocato Samorì e la Banca Farnese di Piacenza e ancora, nel 2008, la minuscola Banca di credito e di risparmio di Romagna con sede a Forlì. L’unica che ci rendeva un piccolo utile, circa 7 milioni annui, era la società di leasing Commercio e Finanza di Napoli che, d’altra parte ci costringeva a impegnare ogni anno circa un miliardo di euro di finanziamenti a rischio.

In tutta questa vicenda qual è stato il ruolo di Santini?
Ha sempre accettato le scelte di Murolo, d’altra parte lo aveva voluto lui. Una volta ci disse che dopo sua moglie quello con Murolo era stato il matrimonio più felice della sua vita.
L’unica volta in cui forse si trovò in disaccordo fu quando direttore propose di esternalizzare alcuni servizi, se ben ricordo quelli della gestione del personale e del magazzino. Si trattava di un’operazione che non aveva senso, perché le funzioni erano correttamente assolto e all’interno e appaltandole avremmo dovuto sobbarcarci costi supplementari e ci saremmo trovati dei dipendenti da ricollocare. Quello trovata non passò.

Cosa ha determinato il crack della banca?
La vera causa dell’affondamento sono stati i costi esagerati sostenuti per il funzionamento del gruppo, rispetto all’esigua redditività assicurata dalle piccole banche che lo costituivano.

E nonostante l’evidenza nessuno ha sollevato il problema in consiglio di amministrazione?
No, perché alla fin fine ciascuno dei membri traeva qualche beneficio dalla situazione: riceveva incarichi all’interno delle banche del gruppo e girava allegramente l’Italia…

Ma i fallimenti di Coop Costruttori e Cir non hanno influito sulle sorti di Carife?
No, se non marginalmente. La Costruttori entra in crisi nel 2003 e Carife all’epoca era esposta con un finanziamento da 50 milioni di euro che rimase all’incaglio. Ma in previsione di quello che sarebbe potuto accadere erano stati fatti in anticipo gli opportuni accantonamenti e quindi il crack non ha creato particolari dissesti alla banca. D’altronde negli anni precedenti, grazie all’ingente movimentazione di soldi e ai finanziamenti concessi con relativi interessi, Carife con Coop Costruttori aveva fatto buoni affari e realizzato significativi guadagni. Ma nemmeno la vicenda di Mascellani, per quel che mi risulta, ha inciso più di tanto. Piuttosto sono pesati i 140 milioni di euro concessi in finanziamento a una stessa società, quella dei fratelli Siano. Si tratta proprio dell’operazione per la quale il direttore Murolo è stato imputato, processato e condannato in primo grado, salvo poi essere assolto in appello.
Pesanti furono anche lo scoperto di 50 milioni prestati a Caltagirone e l’esborso sostenuto per l’acquisizione della Banca Modenese, per la quale Samorì aveva chiesto un sacco di soldi che a Murolo evidentemente non parvero troppi perché glieli diede.

E poi la storia come prosegue?
Il regno di Murolo si conclude nel 2009 con l’esautoramento deciso della Banca d’Italia, al suo posto vengono designati prima Grassano, poi nel 2011 Fiorin che non riescono a invertire la rotta. La fase del commissariamento incomincia nel 2013. L’ultimo bilancio reso pubblico, quello del 2012, segnala ancora un attivo di 350 milioni di euro, verosimilmente impiegati in questi tre anni per coprire le perdite e le sofferenze.

Ora si profila la scialuppa di salvataggio del Fondo interbancario…
I 300 milioni che il Fondo si è reso disponibile a versare corrispondono alla cifra di garanzia stimata per ricapitalizzare la banca e dotarla di un patrimonio. La decisione di intervenire certo non prescinde da un’altra valutazione: se Carife andasse in fallimento lo stesso Fondo interbancario dovrebbe – per legge – rifondere i creditori, per un importo presumibile di circa un miliardo e 400 milioni di euro. Ritengo perciò che abbiano valutato più conveniente stanziare i 300 milioni per il salvataggio della banca!

Che ruolo immagina abbia avuto la Banca d’Italia in questo frangente?
È verosimile ci sia stata una pressione. Alla Banca d’Italia il fallimento non conviene, tantopiù che in una simile evenienza sarebbe particolarmente imbarazzante dover giustificare l’aumento di capitale autorizzato nel 2011, quando la situazione era già ampiamente compromessa.

Che valutazione dà delle manifestazioni di interesse dei mesi scorsi da parte della Banca Popolare di Vicenza e di Caricento?
La Popolare di Vicenza, che è banca aggressiva, è stata stoppata a seguito di verifiche contabili, ma credo nutrisse un interesse autentico. Mentre Cento ritengo sia stata semplicemente la vedetta che agiva per conto d’altri, probabilmente la Banca Popolare dell’Emilia-Romagna

In conclusione cosa ci possiamo attendere?
Appena quindici anni fa Carife era ancora un gioiello, può tornare ad esserlo se sarà riportata alla dimensione d’azione che le è propria, quella locale.

Chi può condurla su questa strada?
Le condizioni propizie per una ripartenza possono essere garantite solo da una banca forte.

Pensa a qualcuno in particolare?
Ritengo che se arrivasse banca Intesa, come ora qualcuno sussurra, si prospetterebbe la possibilità che a Carife fosse garantita l’autonomia e la salvaguardia del marchio, come è accaduto in questi anni con Carisbo. Sarebbero le condizioni migliori e i giusti presupposti per un significativo rilancio. Con il proprio consolidato marchio, Carife potrebbe ambire a riprendere il suo spazio commerciale e a un ampio recupero della clientela storica.

Fondazione Rita Levi-Montalcini: una onlus per il diritto allo studio di bambine e donne africane

di Giulia Menicucci di Ploomia

Il diritto all’istruzione è uno dei diritti fondamentali sanciti da diversi documenti nazionali e internazionali e dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, che infatti afferma: “Ogni individuo ha diritto all’istruzione gratuita e obbligatoria almeno per quanto riguarda le classi elementari e fondamentali; l’istruzione deve essere indirizzata al pieno sviluppo della personalità umana ed al rafforzamento del rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali; essa deve promuovere la comprensione, la tolleranza, l’amicizia fra tutte le Nazioni, i gruppi razziali e religiosi, e deve favorire l’opera delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace”.
Avere accesso all’istruzione non significa soltanto avere la possibilità di imparare a leggere e a scrivere, ma acquisire tutti quegli strumenti e quelle capacità che permettono di acquisire competenze professionali e formative. Non è infatti un caso che i Paesi dove il tasso di analfabetismo è molto alto le condizioni sociali ed economiche in cui verte la popolazione sono spesso critiche. Nessun Paese nella storia è infatti mai uscito da condizioni di arretratezza sociale ed economica senza passare per la scolarizzazione delle proprie popolazioni.

che impara a scrivere
Bambine africane

Nel continente africano il problema dell’analfabetismo è fortemente presente: in questo continente infatti il 70% della popolazione è analfabeta, ed in alcuni Paesi la percentuale si alza drammaticamente sfiorando i picchi del 90%. La situazione è ancora più preoccupante se prendiamo in considerazione il problema da una prospettiva femminile: per le bambine infatti l’accesso alla scolarizzazione è ancora più difficile, spesso a causa di pregiudizi culturali e di genere, e anche qualora queste riescano ad accedere agli studi, spesso sono obbligate ad abbandonarli prematuramente.

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Una mamma che impara a scrivere, con in braccio il suo piccolo

Per questo motivo la Fondazione Rita Levi-Montalcini onlus dal 2001 opera attraverso 152 progetti umanitari in 35 nazioni per sostenere e fornire istruzione e formazione alle donne africane. In questo modo la fondazione si prefigge di dare a bambine, ragazze e donne africane gli strumenti e le capacità per affermarsi a livello sociale ed economico in modo da poter contribuire in maniera attiva allo sviluppo delle sociale e culturale dei propri paesi. In Etiopia ad esempio, ad Awassa, è stato lanciato un progetto di alfabetizzazione per 150 donne. I corsi sono inseriti in un programma di promozione della salute e di formazione professionale: dopo i corsi di alfabetizzazione e approfondimento linguistico le donne potranno accedere infatti a un percorso formativo professionale a partire dalle proprie capacità e competenza come corsi di sartoria, per la trasformazione di prodotti agricoli, di panetteria, di preparazione degli alimenti, di allevamento, ed inoltre corsi sull’imprenditorialità e d’informatica.

 

Le donne dell’Isis

di Zineb Naini

Pensiamo ormai di sapere cosa gli uomini vogliano ottenere nel combattere, ma con le quotidiane notizie di schiavismo, stupro e violenze domestiche c’è da chiedersi perchè le donne avrebbero il desiderio di unirsi all’Isis.

Per ora il numero di donne e ragazze che viaggiano per raggiungere le file dell’auto proclamatosi califfato islamico (Isis) è relativamente basso. Le cifre non sono esatte, ma si valuta che tra il 10 e il 20% degli europei che si uniscono all’Isis siano donne. Queste donne sono giovani, colte e provengono dalla classe media, ma sentono comunque il bisogno di unirsi al “jihad” per vivere quella che definiscono una vita “più islamica” sotto il califfato. Tra i motivi che si possono identificare per spiegare questo fenomeno c’è sicuramente la disillusione e il disaffetto verso la società che le circonda, nonché l’accettazione e l’interiorizzazione del discorso politico occidentale caratterizzato dal “noi e loro”.

A questi si unisce anche un dose cospicua di romanticizzazione della lotta e della rivoluzione come mezzo per combattere il senso di inadeguatezza che caratterizza un grande numero di giovani e adolescenti. La religione, nel caso in questione, enfatizza questo disagio, che da personale diviene sociale, per poi andare a confinarsi nel buco nero dell’estremismo.

Gli uomini sono attratti dall’Isis, e dai fondamentalismi vari, per via di un’esagerata cultura di violenza e di appartenenza che giustifica l’odio ed un’oltraggiosa espressione di machismo. La religione, in questo rapporto di attrazione quasi passionale, si colloca tra le ultime priorità. A questo fenomeno gli esperti di sociologia e di sicurezza internazionale hanno dato il nome di “jihad cool”. Ma questo ancora non piega come una donna musulmana possa essere attratta da un ambiente così iper maschilista.

Nel complesso mondo dell’Isis le donne sono attratte dalla promessa di fare da supporto agli uomini nel loro jihad, di offrire loro conforto e di crescere ed educare la prossima generazione di combattenti; non sono semplicemente oggetti del sesso come le definisce la maggior parte della stampa. Il fatto di non riuscire a mettersi nei panni di queste donne fa si che gli analisti, per la maggior parte occidentali, non riescano a realizzare come in una realtà così estrema, violenta e maschilista, l’unico modo per le donne di prendere parte ai combattimenti e di acquisire lo stesso status che gli uomini acquisiscono, sia il matrimonio.

La storia ci insegna che le donne sanno essere crudeli e violente nella lotta per i loro ideali quanto e più degli uomini. Quindi, anche se è difficile da credere, questo fenomeno è facilmente ascrivibile all’infinita lotta delle donne per la parità dei sessi. In un modo controverso, le donne che si uniscono all’Isis aspirano proprio alla parità, come i loro colleghi uomini vogliono la gloria e, soprattutto, aspirano ad essere chiamate “jihad cool”, non oggetti del sesso.