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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


IL FATTO
‘E’ entrato il sole’ in via De’ Romei: i negozianti fanno il miracolo
e rilanciano la zona

In meno di un anno tre nuovi negozi hanno aperto in via De’ Romei, un quarto inaugurerà a breve. I titolari sono tutti giovani uomini e donne, tra i trenta e i quarant’anni. Hanno una luce particolare negli occhi, sono entusiasti e pieni di idee: vogliono promuovere le loro attività e al tempo stesso rivalorizzare una parte bellissima di centro storico che è morta con l’avvento dei supermercati, dall’inizio degli anni Ottanta. Per animare la strada e le zone limitrofe, hanno di recente ideato e organizzato un evento al quale hanno aderito anche tutti gli altri commercianti e ristoratori. “Via De’ Romei in festa” è stata un’iniziativa spontanea riuscitissima: mercoledì 17 settembre, i negozi sono rimasti aperti, hanno messo fuori i loro banchetti espositivi, offrendo aperitivi con sottofondo musicale, proponendo video e performance di vario tipo.

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La serata di festa

Abbiamo voluto incontrare coloro che la serata l’hanno ideata e organizzata, in particolare i titolari di You and Tea, di Pop Design Store e del negozio d’arte Michelangelo, per sapere quali ingredienti hanno utilizzato per compiere la magia. Ma anche la mitica signora Marisa dell’alimentari all’angolo con Voltapaletto, negozio storico che aprì nel lontano 1946. E le titolari che stanno per aprire la loro bottega dei desideri, il cui nome, “Lasciate entrare il sole”, sintetizza perfettamente lo spirito che anima tutti i commercianti.

You and Tea è al 36 di via De’ Romei, è una Sala da tè che offre oltre 150 varietà di tè e infusi. Sono stati i tre soci ad avere per primi l’idea della festa, abbiamo chiesto a Francesca di raccontarci com’è andata.

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Francesca di You and Tea
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Sala da tè You and Tea

Sapevamo già dall’apertura, nel dicembre 2013, che non era una via di passaggio, pur essendo in pieno centro storico: la gente a Ferrara tende sempre a passeggiare nelle stesse strade, non si avventura in avanscoperta, non entra nei nuovi negozi. I turisti paradossalmente arrivano, perché loro girano tutto il centro e hanno un’apertura a 360°, entrano, guardano, scuriosano dappertutto. Quindi abbiamo cominciato a proporre piccole iniziative per renderci visibili, e quando abbiamo visto che stavano aprendo altri negozi, ci siamo immaginati di poterci mettere insieme.

Come è stata recepita l’idea della serata di festa dagli altri commercianti della via?
All’inizio ci siamo incontrati con Pop Design Store, Michelangelo e la galleria d’arte L’altrove, quando il progetto ha preso forma, abbiamo coinvolto tutti gli altri, anche le attività che si trovano vicino a de’ Romei, come Renata Bignozzi e Il Molo di via Contrari. Di gente ne è venuta tanta, si è creato un bel movimento, molti sono entrati per la prima volta nei nostri negozi, incuriositi e sorpresi.

Come vi siete mossi, avete avuto delle partnership?

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Dj Niko
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Bandzai Sax Quartet

Abbiamo proposto l’evento all’Assessorato alla cultura, turismo e giovani che ci dato il permesso di chiudere la strada. Per animare la serata ci siamo organizzati tra di noi: noi di You and Tea abbiamo chiamato degli amici jazzisti, L’altrove i ballerini di tango, Pop Design Store la Dj StereoSilva, Michelangelo ha invitato un’artista che faceva i ritratti, e via dicendo.

Altri eventi in programma?
Visto che la serata è andata molto bene e che sono stati tutti contenti, pare che ripeteremo. Anche perché solo muovendoci insieme si riesce a creare un evento forte e visibile da cui tutti possiamo trarre beneficio.
Michelangelo e Pop Design Store hanno aperto a giugno, a distanza di una settimana l’uno dall’altro.

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Davide del negozio d’arte Michelangelo

Al titolare di Michelangelo (de’ Romei 27), Davide Personale, abbiamo chiesto le impressioni sulla serata.
L’iniziativa ha funzionato perché c’è stato l’apporto di tutti e, come diceva Totò, “la somma fa il totale”. E’ da ripetere, magari migliorando l’organizzazione, chiedendo un’illuminazione adeguata e, soprattutto, coinvolgendo anche i negozianti di Voltapaletto e via Contrari perché, essendo io all’angolo con Voltapaletto, vorrei che si animasse anche questa parte.

Pop Desing (De’ Romei 19A) è un concept store dove si incontrano design e artigianato. Il titolare, Giorgio Paparo e il suo compagno Massimiliano Di Giovanni, sono stati i veri promotori della serata. Giorgio ha un background romano di negozi e spazi polivalenti, ha vissuto e lavorato a Londra, Firenze, Bologna, e quindi nel Dna una visione innovativa di negozio.

Siamo molto soddisfatti perché ci hanno conosciuto tante persone e perché l’iniziativa ha davvero rianimato la zona. I commercianti più “vecchi”, che non si aspettavano questo successo, si sono complimentati con noi: “Non avevamo mai visto una situazione del genere in questa strada”. Anche i residenti e l’Amministrazione stessa hanno apprezzato perché stiamo portando movimento in una zona che, malgrado la sua centralità, è ancora poco frequentata e conosciuta.

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Massimiliano e Giorgio di Pop Design Store
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Pop Design Store, concept store

Il vostro è un negozio molto particolare, atipico, soprattutto per una città come Ferrara…
Sì, infatti. Nel nostro negozio convivono un’area vendita, in cui trovare oggetti sempre unici e originali, e un laboratorio per la promozione di progetti e collaborazioni. Da noi i giovani creativi possono venire e mostrare il loro talento durante workshop e dimostrazioni. Io stesso progetto e realizzo complementi d’arredo e gioielli. Lo scopo di questo concept store è quello di offrire una selezione d’eccellenza, che affianchi prodotti handmade di piccole realtà imprenditoriali (da tutta Italia, in particolare Ferrara) alle proposte di design contemporaneo di giovani aziende già leader nel settore, che selezioniamo alle fiere più prestigiose in giro per il mondo. Questo ci permette di vendere articoli a un prezzo sempre controllato pur vantando un alto contenuto qualitativo.

Quale futuro vedi per questa zona della città?
Auspichiamo che i ferraresi tornino a passeggiare in questa zona storica e bellissima della città. Che si crei un circuito alternativo alle solite vie del centro e ai tanti franchising che ci vogliono sempre più omologati. Il nostro modello per Via de’ Romei? I quartieri di tante città del nord Europa, in cui convivono botteghe d’arte, artigianato locale e design di innovazione.

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Il negozio della signora Marisa, angolo Voltapaletto

Alla signora Marisa, la veterana della strada, abbiamo chiesto se anche lei ha apprezzato l’iniziativa e se è disposta a ripetere.
Ma certo, una volta noi lo facevamo sempre, tenevamo aperto una domenica al mese, al pomeriggio, ognuno con il proprio banchetto e offrivamo i nostri prodotti. Allora, negli anni ’70, eravamo in tanti: c’era la Pasticceria 2000, c’era una restauratrice, una latteria, una ferramenta, un bibiclaro, un negozio di dolciumi.

La zona a quel tempo era frequentata?
Era una zona commerciale conosciutissima e la gente ci passava regolarmente, anche le donne in pelliccia!

E per finire, il nuovo negozio “Lasciate entrare il sole” (al numero 30) che aprirà l’11 ottobre. Chiediamo a Eleonora Ferrari e Chiara Cicotti di raccontarci come hanno deciso di intraprendere l’attività e cosa ne pensano della serata di festa.

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Tratto della strada che porta a via Giovecca

La serata è stata bellissima, c’era un’atmosfera molto particolare, quasi parigina: i vinili, la proiezione di filmati sui muri, il tango, la mostra di foto giapponesi, e tutto questo mentre la signora Marisa offriva ciccioli e prosecco.

Come mai avete deciso di aprire il negozio in una zona così poco frequentata?
La nostra idea era quella di aprire una piccola bottega dei desideri, piena di cose tutte diverse e particolari, come piacciono a noi; un negozietto di nicchia, un po’ intimo, un posto che rispecchiasse anche il nostro carattere timido e riservato, che non fosse sotto i riflettori. De’ Romei ci è sembrata perfetta.

Siete amiche da tanti anni, avete cinque bellissime bambine, quando avete deciso di mettervi in società e partire sul serio?
E’ nato tutto molto d’istinto, di pancia. Il momento magico è arrivato a fine gennaio scorso, ad una fiera della moda, a Milano, in cui abbiamo sentito che era il momento giusto. Da allora abbiamo cominciato a fare viaggi di ricerca, in Italia e all’estero, tra fiere di moda e piccoli artigiani locali, alla scoperta di marchi sconosciuti e cose deliziose. Ci stiamo divertendo moltissimo, siamo molto in sintonia, e la cosa che ci emoziona di più è che ci capita sempre di scegliere esattamente lo stesso capo: su una parete di mille pezzi, il 99% delle volte veniamo rapite dalla stessa cosa… è quasi imbarazzante!

Voi offrite capi da donna, accessori e bigiotteria altamente selezionati, ma anche mobili, creme, foulard, come definireste il vostro stile?

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Selfie di Eleonora e Chiara durante uno dei loro viaggi

Il nostro stile? Si potrebbe definire fresco, vivace, un po’ caotico. Ci piace mescolare cose belle, anche molto diverse tra loro; adoriamo quell’atmosfera frizzante e dinamica che abbiamo ritrovato in varie fiere e che a Parigi si respira in modo particolare. Quello che troverete in negozio sarà un mix insolito di capi e accessori molto originali, in alcuni casi veri e propri pezzi unici, di gusto e per tutte le tasche.

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logo di “Lasciate entrare il sole”

“Lasciate entrare il sole” è un nome poetico, evocativo. Come l’avete pensato?
Il nome del negozio è stata un’illuminazione: giravamo per Parigi, al Marais, sempre a caccia di novità, e siamo state attratte entrambe da una scritta dipinta su una vetrina: “Laissez entrer le soleil”, una frase positiva, gioiosa, luminosa. Ci siamo subito dette che, se mai avessimo aperto, il nome del negozio sarebbe stato quello.

E luce sia! Ci auguriamo davvero che la zona di De’ Romei ritorni vivace e attrattiva come un tempo, e che gli sforzi dei commercianti vengano sostenuti dall’Amministrazione, con una lungimirante e sapiente strategia.

L’APPUNTAMENTO
Per non voltarsi dall’altra parte.
Educazione alla legalità e alla responsabilità

“La legalità non è un valore in quanto tale: è l’anello che salda la responsabilità individuale alla giustizia sociale, l’io e il noi. Per questo non bastano le regole. Le regole funzionano se incontrano coscienze critiche, responsabili, capaci di distinguere, di scegliere, di essere coerenti con quelle scelte” (don Luigi Ciotti)

Incontri, dibattiti, proiezioni, spettacoli teatrali e persino la simulazione di un processo, questo è il programma della Festa della Legalità e della Responsabilità 2014, che si svolgerà a Ferrara dal 4 al 15 ottobre e che rimette al centro le coscienze. Non è un caso, infatti, che al centro del manifesto ci sia un cervello: varie sono le strade, contrastare, analizzare, coinvolgere, scegliere, ma l’unico comune denominatore è la nostra coscienza critica, la nostra volontà di chiederci il perché di ciò che ci accade intorno. Per farlo però dobbiamo avere gli strumenti, per questo questa quinta edizione si intitola Educare alla Legalità.
Educare significa condividere la propria esperienza perché gli altri ne possano fare tesoro, ed è quello che farà Gherardo Colombo nei due appuntamenti della serata del 13 ottobre alla Sala Estense e della mattina del 14 ottobre alla Sala Boldini. Il primo, intitolato Il rispetto della legalità come responsabilità diffusa e rivolto a tutta la cittadinanza, vedrà la partecipazione del sindaco di Ferrara Tiziano Tagliani e del presidente emerito del Movimento Nonviolento Daniele Lugli. Mentre il secondo sarà un dialogo con gli studenti delle scuole superiori ferraresi sul tema Le regole non fanno la felicità. O sì!?
Educare significa far conoscere e rendere consapevoli degli episodi di illegalità che accadono ogni giorno, ma anche di ogni gesto concreto di impegno che contribuisce a non farci perdere la speranza. Educare significa coinvolgere e far partecipare perché le regole non rimangano sentenze astratte, ma diventino parte del nostro vivere quotidiano. Educare significa anche far riflettere e far divertire, perché la quotidianità è fatta di incontri e da ogni incontro impariamo qualcosa. E una volta consapevoli e capaci di interrogarci, una volta in grado di riconoscere gli indizi e i sintomi dell’illegalità, possiamo scegliere di non voltarci dall’altra parte, di essere responsabili: una responsabilità che non è solo individuale, ma che condividiamo con le istituzioni e con il resto della società.
Per questo legalità, responsabilità e educazione sono le parole chiave di questa quinta edizione della manifestazione. Legalità, responsabilità, educazione, sono purtroppo parole che questo nostro paese sta sempre più lasciando ai margini, mentre potrebbero e dovrebbero essere fra i fondamenti di una società che voglia dirsi civile nel vero senso del termine.

Il programma completo della Festa della Legalità e della Responsabilità è disponibile su provalegalita.wordpress.com.

L’EVENTO
All’Ariostea l’Istituto Gramsci ripercorre
la Grande Guerra degli italiani

Annatevene tutti, lassatece piagne da soli.
Con questa frase, scritta su un muro di Roma ai tempi dell’occupazione tedesca, Enzo Biagi terminava un suo articolo per il Corriere dal titolo Qualche eroe tra la brava gente.
Anche Pirandello e Gadda, a modo loro, hanno trovato eroi negli italiani. Eroi tragici e grotteschi, che vorrebbero farsi beffe ma destinati a essere beffati. La tragedia pirandelliana I vecchi e i giovani è il crollo delle speranze e dei valori risorgimentali di una Italia fresca di recente unità che somiglia terribilmente a quella di oggi; mentre i suoi protagonisti, in piena crisi dell’uomo moderno, non hanno niente da invidiare al nichilismo dell’uomo contemporaneo, così come i vizi che appartengono di diritto all’antropologia dell’italiano medio che sarà dipinto da Alberto Sordi nei suoi indimenticabili ritratti cinematografici – arrivismo, corruzione, pigrizia, malgoverno. La lezione è quella del Gattopardo: perché tutto resti uguale a se stesso, le cose devono cambiare. Ovvero: cambia l’epoca, ma non l’italiano. Quello è ancora il poeta, santo e navigatore; e fondamentalmente buono, come ricordava Biagi nel suo articolo. La cognizione del dolore è invece un ritratto di grande bellezza e dolore. Quello che è il triste Gonzalo, perso tra le figure del padre e della madre tra angosce, timori e nevrosi annaspando nel dramma borghese della perdita materiale e soprattutto affettiva, il barocchismo degli inganni nelle relazioni e nella (scarsa) capacità comunicativa, restando un uomo solo pur nel sollievo della linguaggio di Gadda. I due libri saranno spunto per parlare di Italiani oggi (2 ottobre) con Claudio Cazzola e il 24 ottobre con Rosanna Ansani.

Ubbidisci al comando della tua coscienza, rispetta sopra tutto la tua dignità, madre: sii forte, resisti lontana, nella vita, lavorando, lottando.
Una donna di Sibilla Aleramo è forse il primo romanzo femminista italiano. Quella condizione i cui primi segnali arrivano da un momento buio e triste, e dove sono le donne che all’inizio del Novecento, trovandosi sole, gli uomini tutti partiti per il fronte, assumono quella guida e quella forza che è l’anticipazione e la culla del movimento femminista.
Si arruolano, sono infermiere e operaie, cambiano consistentemente il proprio ruolo sociale e familiare, affrancandosi da quella condizione che descrivevano poetesse e intellettuali (a loro volta criticate per la forte voce di indipendenza); diventano crocerossine, come racconta Hemingway in Per chi suona la campana; cucinano per poveri e orfani, cuciono vestiti di lana per i soldati al fronte, tengono vivi i collegamenti tra combattenti e familiari, vanno a lavorare in fabbrica – preludio di un altro ruolo fondamentale che avrebbero avuto durante la Seconda guerra mondiale, diventano staffette, portando indicazioni militari e notizie e rischiando la vita.
A raccontare i movimenti femminili nell’ambito della Grande Guerra sarà Anna Quarzi il 13 ottobre. Piero Stefani introdurrà invece una forte voce femminile della Seconda guerra mondiale, il 28 ottobre. Quella della partigiana Eliana Millu, maestra elementare, scrittrice, giornalista sopravvissuta al campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, “dove ero il numero A5384”, come ricordava; la voce femminile di Primo Levi, che racconta la guerra sua e di milioni di persone nel libro Fumo di Birkenau, sei racconti-testimonianza sui lager nazisti, scritti nel 1946.

Altra voce della Prima guerra mondiale, discussa da Paola Gnani il 17 ottobre, è quella del poeta austriaco Georg Trakl, morto a 27 anni nella battaglia di Grodek. La decadenza del mondo, tanto inarrestabile quanto, e l’infinita solitudine che avvolge ogni cosa sono i protagonisti delle sue opere. Solitudine, lontananza da Dio, dipendenza da sostanze psicotrope e disagio esistenziale si affiancano a quello fisico: vive lo strazio della Grande Guerra, raccontando la crisi profonda che agitava la società asburgica. Trakl rappresenta il suo dolore intimo con occhio onirico: Grodek, la sua ultima poesia, scritta prima di togliersi la vita, ne è l’esempio più grande e terribile, tanto da sembrarne il testamento. Frutto della sua esperienza al fronte quale medico, testimone dello scontro tra ragione strumentale e istinto di dominio, vi è descritta la bellezza naturale della scena della battaglia che si mescola alla violenza della guerra, realizzando la tragedia personale di Trakl e quella, universale, della guerra.

L’INTERVISTA
Russo: “Promuoviamo il Buskers festival a Open street, la vetrina internazionale dell’arte di strada”

Nessuna città italiana può vantare una tradizione dell’arte di strada come Ferrara. Certo tutto era cominciato con la musica del Buskers Festival, ma dopo 27 anni la manifestazione è diventata portabandiera internazionale delle tante discipline on road. Proprio per questo il festival ha aderito a Open Street, vetrina internazionale nata per incrociare domanda e offerta di un settore artistico oggi diffuso in tutto il Paese e strettamente connesso con le altre piazze d’Europa.

L’appuntamento, in programma dal 9 al 12 ottobre a Milano, è nato dall’esigenza di far incontrare organizzatori e produttori di spettacoli. “L’iniziativa è cominciata a Fermo e ora viene proposta a Milano in spazi prestigiosi. Rispetto alle altre due edizioni, quella meneghina si caratterizza per la presenza del pubblico. Abbiamo lavorato in modo da garantire a ciascuna compagnia un parterre di spettatori a ogni esibizione”, racconta Luigi Russo, presidente della Federazione nazionale artisti di strada (Fnas) e direttore organizzativo del Ferrara Buskers Festival. Open Street, promosso da Comune di Milano, associazione europea Aisbl Open street in collaborazione con Fnas, si gioca tra le piazze del Cannone, Castello, Parco Sempione, ex Cobianchi in piazza Duomo e il Castello Sforzesco. “C’è una parte fieristica aperta solo agli organizzatori – spiega – in sostanza c’è chi pagherà un biglietto e chi potrà guardare gli spettacoli gratuitamente nei luoghi e secondo gli orari previsti dal programma”. Spettacoli per tutti, famiglie, curiosi e organizzatori come nella miglior tradizione della strada. “In Italia l’arte di strada è cresciuta molto, è mutata la qualità così come la competenza del pubblico – continua – Da due indagini di Ipsos e Stage up è emerso che muove lo stesso numero di persone del teatro e delle rassegne cinematografiche”.

Sono 50 le compagnie selezionate tra le 250 interessate a Open Street, vengono da tutti i Paesi d’Europa per esibirsi. Performance, installazioni, show con e senza palco, mostre fotografiche, incontri e dibattiti con star dalle professionalità maturate on the road come Banda Osiris e il mitico Leo Bassi. E tra gli ospiti italiani ci sono Ondadurto Teatro, Teatro Necessario e Jashgawronsky Brothers, nomi di primo piano della scena open air, ma non solo. “Abbiamo artisti e produzioni di tutto rispetto – prosegue – ci troviamo però a dover fare i conti con la necessità di gestire gli spazi delle esibizioni, cosa che a Milano già avviene attraverso la piattaforma Strada Aperta messa a punto da Fnas e utilizzata dal Comune per evitare problemi”. Prenotarsi e avere delle certezze sul luogo dove esibirsi è d’aiuto all’amministrazione pubblica e allo stesso lavoro degli artisti: niente conflitti e meno caos. “L’idea di potersi prenotare da Londra, Roma, Bruxelles, non solo comporta l’aprirsi alla civile convivenza tra lavoratori dello spettacolo di strada e amministrazioni, ma semplifica la vita degli artisti oltre a favorire il formarsi di un circuito europeo – prosegue – Non è bello trovarsi di fronte a casi come quello di Venezia, Fnas ha offerto assistenza legale a un trampolista buttato a terra, un episodio che ci auguriamo non si ripeta”. Anche la strada ha le sue regole da rispettare, specie quando si trasforma in un teatro aperto. In un teatro appunto, non un ring. Benvenga dunque Open Street, una carrellata di professionalità e spettacoli da promuovere con la comunicazione, soprattutto quando le produzioni nascono in Paesi dove l’arte di strada è un capitolo marginale in seno alla cultura.

“Il nostro obiettivo è quello di aumentare le occasioni d’incontro per allargare il mercato artistico soprattutto in Italia – conclude – Con Open Street speriamo di essere sulla buona strada, un plauso va naturalmente al Comune di Milano per la sensibilità e l’attenzione dimostrata verso discipline che hanno il pregio di divertire, coinvolgere e rendere più allegre le nostre città”.

www.openstreet.it

Le angosce dei genitori contemporanei

Se dovessi riassumere quali sono le principali angosce dei genitori contemporanei, ne indicherei principalmente due: l’esigenza di sentirsi amati dai propri figli e quella legata al principio di prestazione.
La prima ribalta la dialettica del riconoscimento. Per risultare amabili occorre dire sempre Sì, eliminare il disagio del conflitto, delegare le proprie responsabilità educative. Tuttavia, senza l’esperienza del limite non c’è esperienza del desiderio che viene risucchiato da un godimento illimitato. Per essere amabili i genitori cedono su tutto, sempre. Non si assumono mai la responsabilità del taglio. E i giovani hanno bisogno di essere tagliati. Tagliati nel dialogo, innanzitutto. Oggi si assiste al culto del dialogo dei mass media: interminabili talk show in cui tutti parlano su tutto e di tutto. Il dialogo deve poter terminare: chi deve mettere un punto dev’essere il genitore. Oggi nessuno si assume la responsabilità del taglio, di mettere questo punto.
È il punto di asimmetria generazionale che implica il conflitto che è fondamentale nella formazione.

La seconda angoscia, legata al principio di prestazione, attiene al fatto che il fallimento dei propri figli non è tollerato. Si tenta di rimuovere l’ostacolo senza lasciar tempo al figlio di poterne fare esperienza nemmeno della difficoltà. Così, incontro genitori che fanno compiti ai figli in modo che risultino sempre pronti e non debbano incappare in frustrazioni dovute al fatto di andare a scuola impreparati. Il desiderio di avere un figlio senza difetti riflette le angosce narcisistiche dei genitori, la loro esigenza di efficienza e la loro necessità di occultare ogni imperfezione.
Incontro genitori, ossessionati dal principio di prestazione, che alla minima difficoltà cambiano scuola ai figli. Questi genitori probabilmente non sanno che la dimensione fondamentale della formazione è il fallimento. Ma i figli devono avere il tempo di elaborare il fallimento. I giovani non sopportano lo scacco perché a non sopportarlo sono i loro genitori.
Una mia paziente riferisce in seduta: “Non aveva senso ciò che chiedevo perché mi davano ciò che volevano”. Il genitore non deve proporsi come esemplare. Il figlio lo dovrà trovare esemplare in un altro tempo, magari più avanti, in un tempo anche lontano, ma non al momento dell’infanzia e dell’adolescenza. L’esempio deve tornare nella memoria successivamente.
La diffusione delle buone conoscenze sull’educazione (con i tanti consigli diffusi dai media in tal senso) non modifica la diffusione delle patologie.
L’eccesso di comunicazione pedagogica di massa indebolisce la posizione di genitore, indebolisce la fiducia nelle proprie intuizioni, per cui spesso ascolto genitori che hanno perso fiducia nelle proprie capacità educative. Chi conosce veramente il proprio figlio è il genitore. Se i genitori valutano l’esigenza di chiedere consigli ad uno psicoterapeuta, lo devono fare a partire da sé, dalla propria esigenza di mettersi in questione e non solo cercando ogni responsabilità nel comportamento del figlio. Il bravo genitore non ha una risposta su tutto. Lascia un vuoto insaturo.
E soprattutto non insiste con la sua domanda. Sa rispettare la differenza e valorizzare la particolarità del proprio figlio, sostenendo attitudini e passioni. Sa parlare della propria mancanza e in ultima analisi – aspetto che non è di minor importanza – non si pone come educatore.

Chiara Baratelli, psicoanalista e psicoterapeuta, specializzata nella cura dei disturbi alimentari e in sessuologia clinica. Si occupa di problematiche legate all’adolescenza, dei disturbi dell’identità di genere, del rapporto genitori-figli e di difficoltà relazionali.
baratellichiara@gmail.com

L’EVENTO
Ferrara si tinge di giallo.
I giorni di Internazionale

Per una volta Matteo Renzi sarà solo di contorno. Ovvio, la sua presenza a Ferrara attirerà l’attenzione di giornalisti italiani e stranieri e la curiosità dell’opinione pubblica. Ma il cuore del festival di Internazionale resta un altro. Lontano dai palazzi della politica e dai suoi protagonisti. Attento alla vita reale delle persone, alle vicende dei popoli. L’ottava edizione si apre giovedì, con un giorno di anticipo rispetto al consueto e con una novità: la rassegna del cinema d’autore che proporrà cinque pellicole che in Italia hanno avuto scarsa distribuzione. “Rientra nella nostra missione culturale”, spiega la curatrice Chiara Nielsen. Il festival, definito dal vicesindaco Massimo Maisto “fiore all’occhiello” di Ferrara, si svolge a un anno esatto dal naufragio e dall’ecatombe di Lampedusa. Anche per questo il tema dei migranti sarà al centro della riflessione, trasversale a vari eventi.

Accanto al dibattito sull’attualità si dipanerà il ragionamento sul mondo dell’informazione, per cercare di intuirne le tendenze e le trasformazioni in atto, con particolare attenzione al giornalismo d’inchiesta, nicchia privilegiata e sempre più riserva indiana poco presidiata.

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Un’immagine della conferenza stampa di presentazione del festival di Internazionale 2014

Fra le novità dell’edizione 2014 c’è anche un più diretto coinvolgimento dell’Università, tradizionalmente cauta nei suoi passi che, sciolte finalmente le riserve, ha deciso di apportare al festival un contributo più significativo e sostanziale del mero conferimento di sale e spazi nei quali svolgere gli incontri. Il rettore Pasquale Nappi e il prorettore Alessandro Somma si sono personalmente impegnati a favorire un diretto coinvolgimento nella programmazione e nella progettazione, che vedrà direttamente partecipi alcuni docenti, fra i quali lo stesso Somma, Patrizio Bianchi, Lucio Poma e Guido Barbujani e idealmente coinvolti gli studenti.

Particolare curioso ma significativo, segnalato dal presidente di Arci Ferrara, Paolo Marcolini, il festival quest’anno ha ottenuto la certificazione Iso 20121 a garantirne la sostenibilità ambientale. Buone prassi che accompagnano il buon giornalismo.

LA STORIA
Giulianelli, da cent’anni
l’occhio sulla città

L’occhio sempre al centro. Prima fotografo, poi ottico e per passione anche pittore e disegnatore, Alberto Giulianelli ha avviato la sua attività in Borgo dei Leoni nel 1914. Ha attraversato due guerre e momenti complessi. Ma oggi i suoi eredi ne celebrano il centenario, sempre nella medesima sede. “Non sono tanti gli esercizi commerciali che vantano una così lunga continuità e per di più ancorati nello stesso luogo”, affermano con emozione e legittimo compiacimento il nipote Giampiero e la moglie Rula. In quello che fu tradizionalmente il negozio di foto per generazioni di ferraresi, oggi c’è un elegante e raffinato emporio che, accanto agli occhiali, espone pannelli e cimeli d’epoca che raccontano la storia dell’attività commerciale e insieme riflettono quella della città.

Sono i tasselli della mostra che i proprietari hanno voluto allestire per festeggiare la ricorrenza, affidandone la cura a Silvia Villani. “Qualunque ferrarese – afferma – conserva una foto celebrativa o ha nel portafogli una fototessera di Giulianelli, un marchio ben radicato nella storia cittadina, percepito come patrimonio comunitario. A questo studio infatti le famiglie hanno affidato nei decenni le loro memorie più care. Io sono andata alla ricerca delle testimonianze qui custodite, che mi hanno consentito di ricostruire un mondo. Fondamentale per questo è stato l’aiuto fornito dalla figlia Giuliana”.
In questa operazione si coglie l’orgoglio dell’imprenditore e insieme la consapevolezza di ciò che significa responsabilità sociale d’impresa. Una condizione che si realizza solo quando l’impresa concepisce se stessa non meramente in funzione del profitto, ma come entità sociale che vive in osmosi con la comunità e può arricchirla, arricchendo se stessa, perché è parte integrante e attiva di quel mondo.

La curatrice della mostra racconta di quando Ferrara, prima dell’Addizione erculea, finiva alla Giovecca e il Borgo dei Leoni, esterno alla città vera e propria, ancora si chiamava Borgo San Leonardo. “Divenne ‘dei Leoni’ dopo una battaglia vinta contro i veneziani per via di due leoni sottratti al nemico e qui tenuti e allevati”. Poi sottolinea come in età contemporanea, nel corso del Novecento, la via diviene tipicamente strada dei fotografi.
Il successo di Giulianelli passa attraverso la ritrattistica fotografica, la foto architettonica e industriale, i reportage degli avvenimenti culturali, politici e mondani. Dal dopoguerra, per impulso del figlio Giorgio, si avvia l’attività di “occhialeria”, che via via diventerà preponderante e poi esclusiva.

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Le autorità intervenute alla presentazione della mostra sui cento anni di attività della foto-ottica Giulianelli

Di tutto questo si trova traccia nella tavole appese alle pareti, attraverso le quali scorrono la vita famigliare e quella sociale della città, fino a sovrapporsi. L’archivio privato si intreccia con quello pubblico, il mondo di Giulianelli racconta la vicenda di Ferrara.
Ci sono i ricordi di eventi, festeggiamenti, incontri mondani, personaggi, luoghi. E c’è anche la testimonianza della bomba che il 28 gennaio 1944 sventrò il borgo e uccise 69 persone che avevano cercato la salvezza nel rifugio antiaereo della Banca d’Italia. Alla storia si uniscono i reperti: foto e stampe d’epoca, dipinti, disegni, bozzetti grafici…
A chiudere la rassegna, ecco i Google glass. Uno sguardo proiettato al futuro, al prossimo centenario, magari. Con fiducia. Nonostante tutto.

La mostra, salutata dall’apprezzamento del vicesindaco Maisto e delle autorità cittadine, sarà aperta al pubblico da domani (2 ottobre), in orario 9-20 allo storico numero 42 di via Borgo dei Leoni.

In Capaci

Quindici votazioni nulle. Da giugno alla Corte costituzionale mancano due giudici. Ma il Parlamento non è in grado di nominare i sostituti che consentirebbero di riprendere l’attività della Consulta. L’elezione si trascina e ha assunto i toni della farsa. Unici candidati restano Luciano Violante voluto dal Pd e Donato Bruno di Forza Italia, su cui gravano ombre di un’inchiesta giudiziaria che lo rende indigeribile a molti. Più che proposti, i loro nomi sono imposti: i partiti giocano al braccio di ferro e non arretrano.
L’arzillo vecchietto che sta al Quirinale, solitamente ciarliero, in questa circostanza si è limitato a un ammonimento per denunciare “la gravità” della situazione, un paio di settimane fa. Renzi fa spallucce e dice che è affare di cui lui non si impiccia, perché (in questo caso) rispetta le prerogative del Parlamento. Una situazione così grottesca ci riporta al maggio del 1992, ai tempi dell’elezione del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, avvenuta al sedicesimo scrutinio, dopo che l’Assemblea per 15 volte aveva votato senza esito. Allora ci volle la strage di Capaci per dare una scossa a partiti, deputati e senatori e forzarli a farsi carico delle loro responsabilità istituzionali. Questa volta cosa dovrà capitare?

LA NOVITA’
Pampapato e ‘ciupeta’, coppia vincente anche sul web

La Camera di Commercio di Ferrara attraverso l’iniziativa “Made in Italy – Eccellenze in Digitale” di Google Italia e Unioncamere, promuove la digitalizzazione delle imprese ferraresi del settore agroalimentare. I prodotti individuati per la provincia di Ferrara sono il pampapato e la coppia di pane ferrarese Igp. Due giovani laureati esperti del web, aiuteranno le Pmi del territorio ferrarese a sfruttare le opportunità offerte dalla rete per far conoscere, nel mercato interno e a livello internazionale, le loro produzione tipiche.

Abbiamo voluto incontrare il tutor del progetto, Andrea Migliari (responsabile del Servizio sistema qualità e comunicazione, progetti speciali), e i due giovani “digitalizzatori” Lucia Romanelli e Daniele Borrelli, per capire meglio in cosa consiste e cosa offre agli imprenditori del settore.

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i promotori dell’iniziativa

“Il Progetto è promosso e finanziato da Camera di commercio, Google Italia e Unioncamere, con un grosso investimento dunque da parte di tutto il sistema camerale – spiega Migliari -. Google e Unioncamere si sono occupati della formazione dei ragazzi coinvolti e Google, in particolare,  della divulgazione del progetto, utilizzando due diversi canali: da una parte, implementando una piattaforma in cui vengono raccolte e presentate le esperienze delle imprese che l’anno scorso hanno preso parte al progetto [vedi]; dall’altra, realizzando vere e proprie gallerie digitali che mirano a promuovere alcune produzioni d’eccellenza come, nel nostro caso, le ceramiche graffite ferraresi [vedi].
Il progetto è partito a inizio settembre e terminerà a fine febbraio, con una durata complessiva di sei mesi. A breve presenteremo il progetto in conferenza stampa, siamo un po’ in ritardo ma solo perché vorremmo avere la conferma della presenza dei responsabili, in modo da dare consistenza e risalto alla presentazione.

Chiediamo ai giovani ‘digilizzatori’, Lucia Romanelli (27 anni, laurea in lingue e specializzazione in Internazionalizzazione e comunicazione d’impresa) e Daniele Borrelli (28 anni, laureato in Tecnologie della comunicazione audiovisive e multimediali e specializzato in Produzione multimediale) di spiegarci la genesi del progetto.

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pagina home del sito “Eccellenze in digitale”

“Eccellenze in digitale” è la prosecuzione di un progetto pilota del 2013 che si chiamava “Distretti sul web”: lo scorso anno erano coinvolti 20 distretti produttivi d’Italia, quest’anno invece c’è un focus sulle produzioni d’eccellenza del Made in Italy, da qui il nome del progetto. Per Ferrara sono stati individuati per la provincia di Ferrara il pampapato e la coppia di pane ferrarese.

In Emilia Romagna quali altri prodotti sono stati selezionati?
In Emilia Romagna, oltre Ferrara, aderiscono altre 3 Camere di commercio: Reggio Emilia con Parmigiano Reggiano e Aceto Balsamico, Piacenza con vini e salumi e Forlì-Cesena con il settore agroalimentare e turistico.

Quanto tempo hanno le Pmi per aderire?
Gli imprenditori interessati al progetto, completamente gratuito, possono compilare la scheda di adesione on-line entro il 31 ottobre, questo per avere il tempo necessario per sviluppare al meglio la strategia, metterla in pratica e vederne i primi risultati nei mesi successivi.

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Lucia Romanelli e Daniele Borrelli, i giovani “digitalizzatori” scelti per la provincia di Ferrara

Se un imprenditore volesse aderire, come deve fare?
Iscriversi è facile, basta andare sulla pagina del sito della Camera di Commercio [vedi], e scegliere se contattarci telefonicamente o compilare un breve modulo on-line. In entrambi i casi si prevede poi un incontro qui in Camera di Commercio, presso il Servizio qualità e comunicazione, Largo Castello 6.

Come state procedendo ora, in questa fase iniziale del progetto?
Le prime due settimane ci sono servite per monitorare il settore analizzando il livello di digitalizzazione delle imprese che producono pampapato e coppia: abbiamo fatto un’indagine per capire quante hanno il sito web, quante una pagina Facebook, se già vendono on-line, ecc. Nell’ultima settimana abbiamo cominciato a prendere i primi contatti, ad oggi ne abbiamo già una decina, alcuni li abbiamo intercettati noi, altri hanno visto l’annuncio sul sito.

Quali strumenti web proponete agli imprenditori ferraresi e quali pensate si adattino meglio al mercato del pampato e del pane coppia?

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coppia ferrarese
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pampapato ferrarese

Gli strumenti varieranno in base alla situazione dell’azienda e alla strategia che ha intenzione di attuare. Ci saranno aziende più interessate al mercato locale, come forse nel caso della coppia perché si tratta di un prodotto fresco, per le quali sarà opportuno migliorare la propria presenza sul territorio, con la promozione per esempio di eventi tramite Facebook. Altre, probabilmente quelle che producono Pampapato, possono puntare a strumenti come l’e-commerce o un sito appetibile per i buyers esterni che aprano di più ai mercati esteri, magari con una campagna ad hoc sotto Natale. Ma non è detto, ogni azienda si costruirà la propria strategia, caso vuole che proprio oggi abbiamo incontrato un imprenditore di pane coppia che vuole puntare sull’export.

Il vostro ruolo è quindi di consulenza e avviamento, giusto?
Sì, il nostro compito è quello di diffondere il ‘verbo’ del digitale, di far avvicinare gli imprenditori a questi strumenti web che, sfortunatamente, in Italia non vengono ancora sfruttati perché non c’è confidenza; in realtà molti di questi sono facili da usare, gratuiti, e possono dare grandi risultati con piccoli investimenti, sfatando l’idea che solo le grandi aziende possono permetterselo. Noi, come digilizzatori, ci occupiamo di tutta la parte relativa alla comunicazione e alla presenza virtuale. Vorremmo trasmettere delle conoscenze generali sul web e sugli effetti che ha nell’economia reale, per farne comprendere l’importanza e le opportunità: avere, ad esempio, un sito ben organizzato, fruibile anche da mobile e da cellulare, localizzare l’attività in rete ovvero avere la geolocalizzazione su Google, con orari d’apertura, riferimenti e link al sito o alla pagina Facebook; ma anche delle nozioni specifiche su alcuni strumenti che permettono all’imprenditore di monitorare autonomamente la propria presenza web e orientare la sua strategia di conseguenza. Un esempio banale: se il sito riceve molte visite dalla Russia, si potrebbe tradurre il sito anche in Russo.

Una volta terminata la fase di avviamento, le aziende dovranno camminare con le proprie gambe o li seguirete anche dopo?
Con il termine del progetto finirà anche la nostra consulenza, ma l’obiettivo principale è quello di educare le Pmi ferraresi al digitale ed evitare che si rendano conto troppo tardi del suo enorme potenziale. Ci teniamo a dire che questo progetto non vuole fare concorrenza alle web agencies, ma anzi valorizzarne il ruolo, facendo capire che molto spesso è meglio affidarsi a professionisti, a figure esperte e preparate, ed evitare il ‘fai da te’. Inoltre daremo una mano alle aziende per inserirsi all’interno di Italian quality experience, una piattaforma implementata da Unioncamere che raccoglierà tutte le imprese agroalimentari italiane in occasione dell’Expo di Milano. Al momento è ancora in fase di allestimento, ma presto sarà on-line e rappresenterà un importante biglietto da visita per le nostre aziende e i prodotti del Made in Italy.

Il progetto coinvolge 52 Camere di commercio per un totale di 107 ragazzi selezionati tra oltre 3500 candidature da tutt’Italia. I giovani digilizzatori hanno seguito un percorso di formazione molto intensivo a Roma, nella sede di Unioncamere, guidati dal responsabile del Centro studi Unioncamere, Domenico Mauriello, e da Diego Ciulli, Senior policy analyst in Google.

IL FATTO
Una corsa in bus da 88 euro

Chiedo scusa se torno ad occuparmi di autobus. Ma è un puro caso che proprio in questi giorni un’amica m’abbia raccontato d’averne preso uno, convinta di avere ancora una corsa sul suo abbonamento. Si sbagliava la poverina. Perché il controllore all’esibizione del “titolo di viaggio” le ha inflitto una multa di 88 euro. Sì, ottantotto euro. Cinquantotto volte il costo del biglietto!
Ho scoperto che le sanzioni sono regolamentate dall’art. 40 della legge regionale n. 30 del 1998, che prevede, oltre al pagamento del biglietto, una penale che va da 40 a 150 volte il costo della corsa. Non è però dato sapere con quali criteri, se non quelli personali del controllore, si decida se quaranta o centocinquanta. Per cui le ragioni della multa pagata, corrispondente a cinquantotto volte il costo del biglietto, anziché un’altra cifra compresa tra 40 e 150, sono nella mente di chi l’ha inflitta o forse riportate a verbale.
Ma la questione non è questa. Mi viene invece da pensare che il nostro Paese è da diverso tempo malato di “accanimento terapeutico”. Un accanimento spersonalizzato che non guarda in faccia a nessuno e che non sente ragioni, che ha finito per produrre, oltre al rigetto, effetti tragici, se pensiamo a quei piccoli imprenditori che si sono tolti la vita perché non in grado di saldare i propri conti con Equitalia.
Un Paese esasperato dal baratro della spesa pubblica e del suo debito e, che per questo, si è incattivito contro i suoi cittadini, si è fatto sempre più sospettoso e malfidente, con tasse che crescono, con sanzioni che anziché sancire puntano a rimpinguare le varie casse pubbliche in rosso, che fa pagare gli oneri di un mal digerito stato sociale a chiunque contravvenga, a prescindere dalle ragioni o dalle abitudini.
Un Paese dove le amministrazioni pubbliche possono rinviare ‘sine die’ il pagamento dei loro creditori. Ma se è il cittadino a sgarrare, non dico non c’è perdono, che sarebbe davvero troppo, non c’è proprio tolleranza, la normale, civile, umana tolleranza.
Quando il sistema di controllo assume i connotati di un sistema offensivo della persona e del cittadino non siamo più di fronte alla volontà di garantire il rispetto della legge, la convivenza civile, la giustizia sociale, ma di fronte al sopruso sociale. Lo Stato e la sua burocrazia divengono il Leviatano di Hobbes che divora i suoi cittadini, lo Stato assoluto che tutto sottomette a sé.
Insomma si ha l’impressione ormai di vivere in un Paese dove “lo Stato è stato” nel senso del participio passato del verbo essere.
Forse gli ottantotto euro che la mia amica dovrà pagare serviranno ai bilanci dell’Acft, a migliorare il servizio, certo hanno peggiorato però il suo rapporto con il pubblico, come l’eccesso nelle sanzioni e nelle imposte peggiora il nostro rapporto con lo Stato e le amministrazioni locali, perché anziché sentirsi cittadini ci si sente sudditi, non ci si sente più parte di una comunità condivisa, ci si rinchiude nel proprio particolare, ci si rifugia, per difendersi, nel proprio individualismo. Come negare che tutto ciò ha fornito e fornisce ossigeno alla demagogia populista e ha alimentato l’affermarsi delle ricette neoliberiste in tutti questi anni.
Il rapporto tra Stato e cittadino è ancora una questione estremamente attuale e centrale della nostra democrazia.
Noi vorremo uno Stato e amministrazioni pubbliche capaci di costruire cittadinanza, non il proliferare di individualismi, come invece ci sembra che da diversi anni sia andato sempre più accadendo nel nostro Paese.
C’è differenza tra cittadino e individuo. Il cittadino si sente parte di una polis e ha a cuore il bene comune, l’individuo si sente separato dagli altri, punta ai suoi interessi personali. Le politiche liberiste, le politiche dell’austerità hanno generato il tramonto del cittadino a favore dell’individuo che cerca di difendersi dalla comunità, anziché partecipare e contribuire al suo sviluppo.
Questo è il prezzo che ognuno di noi sta pagando alla crisi, e sanzioni come quelle dell’Actf, ma anche tutte le altre, aiuteranno forse a risanare i bilanci, ma certo aggravano le patologie di cui ormai la nostra convivenza e la nostra democrazia da tempo soffrono.
Forse è il caso di aprire una seria riflessione a partire dalla nostra Actf, non certo per eliminare le sanzioni a chi contravviene, ma per porre modalità e limiti che non le rendano vessatorie.

Filastrocca dell’articolo diciotto

Ci vorrebbe l’articolo prima del nome,
son poche le lettere di cui si compone.
Se non lo metti è un po’ imbarazzante,
come una bancarella senza ambulante.
Uno può essere determinativo
e, se non sei davvero creativo,
serve ad indicare con precisione,
gli oggetti, gli animali e le persone.
Ci vorrebbe l’articolo sopra al giornale,
che non può essere sempre cordiale,
tutti, altrimenti, posson capire
che chi lo fa è per farsi gradire.
Di verità c’è bisogno dentro un’inchiesta,
il giornalismo non è diventar cartapesta.
Serve per far conoscere a tutta la gente
che c’è chi ha tutto e chi non ha niente.
Ci vorrebbe l’articolo numero diciotto,
difende chi lavora da un ragazzotto
che con fare arrogante e da guascone,
si pavoneggia quasi fosse un padrone.
Dice: «Non è così che si crea lavoro»,
abbagliando con denti lucenti di fluoro.
«Matteo, che strana idea di uguaglianza:
vuoi toglier diritti, così tutti son senza.»
Se servirà scenderemo anche in piazza;
tu puoi meditare stando in terrazza.
Però sappi che rimarremo a lottare:
questa proposta è da cancellare.
Se c’è bisogno lo scrivo a filastrocca:
l’articolo diciotto non si tocca!
Serve a resistere a questa grande indecenza,
di dignità e di speranza non siam mica senza.

IL FATTO
L’incesto e il reato

È stata diffusa in questi giorni, non senza alcune imprecisioni giuridiche e terminologiche, che il Consiglio Etico tedesco (Deutscher Ethikrat) avrebbe “depenalizzato” l’incesto: più precisamente, “le relazioni consensuali tra fratelli adulti.”

A ben vedere, il Consiglio Etico si rivolge ad un caso ben preciso (come l’unione matrimoniale e sessuale tra fratelli che hanno vissuto separati dalla nascita o dalla prima infanzia, per poi incontrarsi in età adulta, inconsapevole l’uno della familiarità dell’altro) e propone di conseguenza una “revisione” in modo tale che quest’unione, invero rarissima, non sia punibile di principio.

Se vogliamo entrare ancor più nel particolare, il Consiglio Etico intende rivedere il paragrafo 173 del codice penale tedesco, che proibisce e punisce i rapporti sessuali tra consanguinei adulti anche quando il rapporto di parentela è “estinto” (erloschen). Al contrario, resta intonso e valido il paragrafo immediatamente successivo paragrafo 174, che proibisce e punisce i rapporti sessuali così come anche solo il tentativo di compiere simili atti con minori vincolati da rapporto di parentela (naturale o acquisita).

In altri termini, il Consiglio Etico non “depenalizza” l’incesto bensì si interroga sulla validità del paragrafo 173 e solleva il legittimo dubbio se questo, in linea di principio, non contraddica gli Art 7-9 della Carta dei diritti dell’uomo europea che stabiliscono, in particolare, che “Ogni individuo ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e delle
sue comunicazioni” (Art 7) e che “Il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio” (Art 9).

La preoccupazione del Consiglio Etico è soprattutto di carattere teorico e può venire riformulata in questo modo: poiché il paragrafo 174 del codice penale proibisce e punisce già ciò comunemente si intende per “incesto,” ovvero il rapporto sessuale con minori, sia in condizioni di apparente consenso e tanto più in condizioni di costrizione, c’è da chiedersi quale sia la rilevanza del paragrafo 173 che estende questa proibizione anche ad adulti consenzienti persino in caso di estinzione del legame giuridico di familiarità e se questo invece non contraddica le leggi fondamentali dell’uomo.

Dal punto di vista prettamente giuridico, mi trovo d’accordo con questa delibera del Consiglio Etico, forse trascinato da argomentazioni e cavilli talmudici in cui mi sento particolarmente a mio agio e che ben affrontano tematiche incestuose (per i più coraggiosi, rimando a questo testo).

Più problematiche sono piuttosto le motivazioni collaterali che il Consiglio Etico espone nel corso delle sue varie comunicazioni con il pubblico e con le quali intende motivare ulteriormente la non punibilità di una relazione incestuosa nei termini sopra indicati (tra adulti consenzienti anche qualora il vincolo familiare sia estinto):

1. lascia perplessi l’affermazione che l’“orrore dell’incesto” (Inzestscheu, un termine freudiano) sia di per sé così forte da essere un tabù sociale, per cui l’“incesto” non rappresenterebbe davvero “un problema sociale,” bensì un “sintomo di una condizione familiare già turbata” (ein Symptom bereits gestörter Familien), come sostiene il prof. Hans-Jörg Albrecht, membro del Consiglio Etico e docente presso lo Max-Planck-Institut. Tutto qui… come se cent’anni di psicoanalisi fossero passati invano.

2. non meno problematico sarebbe il cosiddetto “ruolo simbolico” del divieto dell’incesto, non originalmente sollevato da Claudia Jarzebowski, ricercatrice di Storia Contemporanea alla Freie Universität, per cui tale “valore” non sarebbe “universale” bensì suscettibile di oscillazioni e trasformazioni nel corso del tempo e nel passaggio tra culture. Tutto, qui… con buona pace, per dire, della universalità dell’incesto affermata da Rousseau e della sua raffinitissima decostruzione da parte di Derrida ne Della Grammatologia, ormai quasi cinquant’anni fa.

3. più plausibili sarebbero piuttosto le argomentazioni di Markus M. Nöthen, direttore dell’Istituto di Genetica umana a Bonn, che stabilisce come questioni di salute pubblica correlate ad eventuali relazioni incestuose non possono legittimamente venire motivate per proibire di principio l’incesto (dal momento che un simile principio contrasta con la Carta dei diritti dell’uomo e stabilirebbe anche un precedente per ogni tipo di relazione sessuale). Si tratta tuttavia di un argomento debole, sicuramente secondario rispetto alla preoccupazione teorica di cui sopra (il contrasto tra il paragrafo 173 e la Carte dei diritti dell’uomo). Tra l’altro, il riferimento al principio di sanità sembra poco convincente proprio perché è quello che porta a tassare prodotti dannosi per la salute come il tabacco, proprio perché i danni che provoca sono poi oggetto di cure da parte del Servizio sanitario nazionale.

Concludo questa breve incursione in terra giuridica tedesca non nascondendo la mia perplessità sull’attualità effettiva di simili proposte giuridiche che assomigliano piuttosto ad un pilpul talmudico piuttosto che ad un intervento socialmente e giuridicamente rilevante: insomma, una “pietanza” giuridica molto forte, “pepata” (pilpul, appunto) che poco serve se non a lasciare con la bocca in fiamme per qualche tempo a chiedersi “perché ho mangiato una cosa così piccante?”

Scuole vincenti

Allenarsi a giocare la partita della propria vita o quella che gli altri ti impongono?
Sempre più studiare, andare a scuola è diventata una sfida, non più con se stessi ma contro gli altri.
Non bisogna riuscire solo nelle interrogazioni e nei compiti in classe, si è caricati anche della responsabilità di tenere alti i risultati ai test nazionali e internazionali del proprio istituto, della regione e del Paese che si abitano.
Finisce che per la comunità non sei più tu a contare, ma il tuo profitto, le tue performance, perché se non sei all’altezza fai arretrare tutti, arrechi un danno all’immagine del tua nazione nella competizione scolastica divenuta ormai globale.
Così il “Centro risorse per la buona scuola” – sì, proprio come da noi ora, per dire della scarsa fantasia – di Detroit ha creato il network “Champion schools”, Scuole vincenti.
Questa rete è una comunità di apprendimento professionale che collega tra loro le Scuole vincenti, fornendo ai dirigenti elementi di confronto, scambi, sfide comuni per nuovi sviluppi e nuovi successi tra pari.
Le scuole vincenti usufruiscono di veri e propri allenatori, addestrati dall’Università del Michigan. Questi ‘coach’, come si dice oggi, sono selezionati e assunti dalle scuole stesse per sostenere ed accrescere il rendimento scolastico degli studenti.
Insomma le distanze tra la scuola e un campo di calcio, tra il successo scolastico e la palla in rete si assottigliano sempre più. Del resto quante volte la metafora della partita è stata usata a proposito dello studio. Ma qui, ciò che preoccupa, è che le Champion schools ci suggeriscono come i test Oces Pisa e la World Bank siano riusciti a ridurre l’istruzione e la vita scolastica ad una forsennata corsa per occupare i posti migliori nelle classifiche scolastiche internazionali.
È questa ormai la ‘ratio studiorum’ della nostra epoca.
Per questo occorrono buoni allenatori che aiutino a massimizzare le proprie capacità naturali per vincere la partita, per essere meglio degli altri, per essere i campioni. Non si va a scuola per imparare a vincere se stessi, ma per vincere il campionato mondiale del capitale umano.
E così vale per le scuole del Michigan. Ogni scuola è responsabile del piano di miglioramento e dei risultati ottenuti, mentre l’allenatore, che come nel gioco sta ai bordi del campo, fornisce alla scuola assistenza tempestiva, consulenza competente e sostegno efficace lungo tutto il percorso.
Il Centro risorse per la buona scuola di Detroit forma il personale delle scuole affinché queste possano conseguire la certificazione di Champion schools, prepara a divenire allenatori professionali che possano aiutare le scuole a migliorare notevolmente i propri risultati.
Quando le scuole incontrano difficoltà, questi allenatori intervengono per facilitare la soluzione dei problemi, aiutano a pensare, a studiare la situazione per individuare strategie più efficaci di miglioramento.
Un allenamento riuscito deve produrre una mentalità, un insieme di abilità, di conoscenze generali per rendere la scuola competitiva.
C’è qualcosa di stonato nel piano del Centro di risorse per la buona scuola di Detroit, perché alla finalità prima di promuovere il successo scolastico di ogni alunno, si è sostituita quella di far ottenere alla scuola buoni risultati.
Così l’obiettivo di intervenire innanzitutto sulle competenze socio-emotive dei ragazzi, finisce per piegare i bisogni d’ogni singolo alunno alle necessità imposte dagli obiettivi e dai traguardi che la scuola si propone di raggiungere. Allora si ha l’impressione che l’educazione non sia più formazione, ma manipolazione per essere vincenti, una sorta di ‘doping’ psicologico in una scuola che vince perché drogata.
La preoccupazione è che anche il nostro Paese possa cedere a questa deriva della competizione mondiale.
La recente circolare del Miur sulla valutazione delle scuole non sgombra certo il campo da questa ombra. L’uso del corpo ispettivo per verificare gli esiti conseguiti dalle singole istituzioni scolastiche nei test nazionali e internazionali, e per la conseguente messa appunto dei piani di miglioramento, potrebbe preludere, di fronte all’urgenza di scalare le classifiche nazionali e mondiali, all’imboccare la scorciatoia dell’ispettore-coach, dell’ispettore-allenatore, anziché all’affermarsi di professionisti riflessivi all’interno della scuola e di una sana prassi di ricerca-azione, da noi mai praticata.
Allora dovremmo tornare a ragionare sulle altisonanti affermazioni delle nostre premesse educative, sulla centralità della persona, sulle finalità della scuola che devono essere definite a partire dall’alunno che apprende, sullo studente al centro dell’azione educativa come riportato da tutte le Indicazioni nazionali. Già la ‘Buona scuola’ del governo Renzi di studenti non ne parla, gli studenti al momento restano gli innominati utilizzatori finali, i convitati di pietra. Non vorrei che su questo il Paese finisse colpevolmente per distrarsi.

I sogni preziosi della candida Lili

L’attrazione per questa copertina è immediata, non fosse altro che per il disegno e i colori tenui che mi ricordano le favole e un ambiente delicato da bambini sereni. L’autore poi, è uno dei miei preferiti, con il suo “Neve”, parte della bellissima trilogia dei colori, che mi ha fatto a lungo riposare e sognare durante i freddi pomeriggi invernali.
Da sempre Maxence Femine rappresenta per me l’essenza della Francia delicata, della sua poesia, del suo romanticismo, della sua voglia e capacità di sognare ad occhi aperti e di realizzare anche tanti di quei sogni lontani. Questo libricino è un’autentica fiaba, ricorda delle belle e croccanti crêpes spolverate di zucchero alla vaniglia, profuma di ‘marshmallows’, di torte alla fragola, di pasticcini e cioccolatini del meraviglioso Ladurée, quelli esposti nelle scintillanti e grigio-rosa-azzurre vetrine dell’elegante e chic Saint Germain des Près, di colorati, morbidi e tondi ‘macarons’ golosamente farciti da attenti e abili pasticcieri dall’alto cappello bianco. Di zucchero filato.

Dalla copertina che ci introduce Lili con i suoi capelli neri elettrizzati e il suo vestito bianco candido (ancora il colore della neve…), ci troviamo subito immersi in una bella fiaba per bambini e adulti, accompagnati da illustrazioni di giovani talenti realizzate per un concorso organizzato dall’editore Lafon, che ha stampato il volume in Francia. Partiamo da Lili, dicevamo, la piccola mercante di sogni dal curioso tavolino colmo di scatoline che racchiudono i sogni che vende per strada, per conoscere (e adorare) subito Malo che, il 2 Novembre, giorno del suo undicesimo compleanno, sparisce nella Senna, coinvolto in un incidente del taxi che lo accompagnava alla festa per lui organizzata dai genitori in un grande e probabilmente lussuoso albergo parigino. Attraverso un misterioso e curioso oblò il bambino si ritrova, improvvisamente, in un ambiente grigio, incolore, un po’ nebbioso, il Regno delle Ombre, solo, senza rumori, senza altri esseri umani intorno a lui, attorniato da personaggi che si riveleranno strani, ombre e spettri spesso poco gentili. In questo mondo che ricorda quello di “Alice nel Paese delle Meraviglie”, Malo incontra un albero e un gatto parlanti, Arthur e Mercator, e, soprattutto, Lili, occhi color dell’oro, vestito bianchissimo, collant viola e scarpe verdi, che assomiglia molto alla sua cara amica Clarisse. Lili è l’unico personaggio colorato che Malo incontra, gli altri hanno tutti le tonalità del bianco e del nero. Lili ha con sé un tavolino ripiegabile e tantissime scatoline dai vari colori che contengono ciascuna un sogno. L’antagonista è lo spettro Dom Perlet, brutto e cattivo, come in ogni tradizione di fiaba che si rispetti, metà stregone e metà alchimista, proprietario di un grosso gatto nero e che tiene mano il destino della piccola Lili. La obbliga, infatti, a vendere i sogni (alla centesima vendita la bambina sarà libera) e maledice Malo, colpevole di aver pagato un soldo in meno per una di quelle magiche scatoline. Il bambino potrebbe anch’esso essere trasformato in uno spettro se entro l’alba non ripagasse il debito con gli interessi. Debito che diventa subito di dodici bruzoni (specie di dobloni). L’avventura consisterà nel cercare di vendere le scatole dei sogni, catturati da Lili con una retina per farfalle, prima al Clown Bianco, poi al Mago Septimius, al pittore Otto, al Barbone celeste.
Ci sentiamo un po’ su una giostra variopinta e giochiamo insieme con Lili e Malo vero il finale. Leggeri e felici ci arriveremo insieme a loro, sorridendo, quasi volando.
Maxence Fermine, “La piccola mercante di sogni”, Bompiani, 2013, 206 p.

L’OPINIONE
Italia col freno tirato.
Pensieri macroeconomici

Tentare di parlare di macroeconomia con parole semplici non è facile. Si tratta di un tema complesso, che comunque spesso viene affrontato da addetti ai lavori in cui ai cittadini rimane la sensazione continua di impotenza rispetto alle criticità che si aggravano sempre e non si risolvono mai. Bisognerebbe trovare il modo di rendere comprensibile la situazione e non solo di chiedere sacrifici. I cittadini lo chiedono. Pur avendo anche qualche titolo per parlarne, non credo di essere all’altezza, proverò dunque solo a interpretare alcuni concetti in libertà.
Non si può non partire da una certezza: l’andamento dell’attività economica ha deluso le attese di ripresa. L’economia per molti è riuscita a interrompere la fase di caduta, ma non è ancora riuscita ad avviare una fase di recupero dei livelli produttivi. Molti contavano su una ripresa della fiducia a cui però non ha corrisposto una fase di rafforzamento del ciclo economico. Questo è un punto critico, tuttora difficile da spiegare, e che rende più complessa la valutazione delle condizioni dell’economia italiana.
La stima preliminare del Pil relativa al 2014 si sta rivelando peggiore delle attese e i segnali poco incoraggianti, provenienti dagli indicatori congiunturali europei, definiscono un quadro per l’anno in corso particolarmente deludente. In realtà, il processo di continua revisione al ribasso delle previsioni è una caratteristica che ha accomunato l’intero periodo della crisi; l’economia italiana ha cioè costantemente deluso anche le attese più prudenti per diversi anni.
Il confronto Usa-Ue non aiuta. Le tendenze recenti hanno fatto emergere un ampliamento nelle divergenze fra la situazione congiunturale americana ed europea. E le distanze in termini di crescita fra Usa ed eurozona paiono allargarsi ancora. Gli indicatori della congiuntura Usa vanno infatti molto meglio di quelli europei. In America il recupero della domanda di lavoro è riuscito in tempi relativamente brevi a contrastare la disoccupazione, mentre in Europa la criticità sul mercato del lavoro è aumentata nel corso degli ultimi mesi, ma il problema c’è da anni. I dati degli ultimi periodi non sono confortanti, e non a caso la Bce si è detta preoccupata delle tendenze in corso. Forti sono i rischi che la congiuntura dell’area euro e l’aumento della disoccupazione possano trascinare l’eurozona verso una fase di deflazione. La classica relazione disoccupazione-inflazione sembra cioè rappresentare in maniera abbastanza efficace quanto sta accadendo nell’area euro. Se il sistema dovesse entrare in una fase di deflazione, la probabilità di una nuova recessione il prossimo anno si farebbe concreta. Uno dei problemi più gravi poi è dato dalla disoccupazione.
In Italia, in particolare, il numero di disoccupati continua ad aumentare e il tasso di disoccupazione è salito. L’indicatore ha toccato il suo picco nel Mezzogiorno dove ha raggiunto un quinto della popolazione, risultando particolarmente drammatico per le donne e i giovani. Purtroppo il numero di occupati è diminuito in tutti i settori economici, in particolare nell’agricoltura e nelle costruzioni, ma anche nell’industria la riduzione è rallentata, così come nel terziario. La gravità che accomuna l’andamento dell’occupazione nei vari settori è che si tratta dell’andamento peggiore che ha caratterizzato le regioni meridionali, concorrendo ad ampliare sempre di più il divario tra Nord e Sud del Paese.
Un tema sicuramente da approfondire però è che la debolezza della congiuntura italiana è in contraddizione con la relativa vivacità degli indicatori del clima di fiducia, in miglioramento per alcuni mesi, ma già in ripiegamento di recente. Se i dati sulla fiducia delle famiglie non hanno dunque chiarito l’analisi sulla divergenza fra valutazioni qualitative e comportamenti reali, invece, purtroppo, quelli sulla fiducia delle imprese hanno addirittura contribuito ad ampliare il divario.
Per questo fine anno si prospettano confermati i rischi di tensioni geopolitiche, a partire dal persistente grave rallentamento del commercio con i paesi dell’Europa dell’est. Il persistere di un freno all’export ci priverebbe dell’unica componente in grado di fornire un sostegno allo sviluppo, condizionando quindi anche le prospettive per il 2015. L’evoluzione della crisi ha già provocato una caduta delle esportazioni verso la Russia da parte delle economie dell’area euro, e nei prossimi mesi l’interscambio con l’area dell’Europa orientale dovrebbe rallentare ulteriormente per effetto dell’embargo sugli scambi commerciali. Alla crisi politica si è aggiunta ad una fase di contrazione delle esportazioni verso i paesi emergenti. A questo si aggiunge che gli indicatori congiunturali per l’Italia hanno iniziato a peggiorare, più di quelli del resto dell’area euro.
L’incertezza continua a condizionare i comportamenti delle famiglie, e questo potrebbe influenzare l’andamento del tasso di risparmio nel corso dei prossimi mesi. La previsione al ribasso delle stime di crescita per il 2014, potrebbe acutizzare anche un ridimensionamento delle prospettive per il prossimo anno.
Saranno lunghi i tempi per una riattivazione del ciclo degli investimenti degli imprenditori. Il loro obiettivo principale resterà quello di minimizzare il fabbisogno di liquidità e ridimensionare il grado di esposizione verso le banche. Ridurre i costi, ridurre i rischi, limitare le variabili.
Le difficoltà che hanno caratterizzato la nostra economia sembrano infatti riconducibili ad una particolare cautela delle imprese al momento nella definizione dei propri programmi di spesa, ma anche da parte delle famiglie. Questa prudenza è coerente con un cambiamento nei comportamenti di consumo, come si diceva, legato alla percezione di prospettive di medio termine molto incerte.
In sintesi, in Italia la crescita non riparte nonostante diversi indicatori avessero anticipato una ripresa. La probabilità di una variazione positiva del Pil quest’anno si è molto ridotta e, a meno di un’inversione di tendenza a breve, anche le stime sul 2015 la sembrano confermare. La finanza pubblica dunque risente di questo quadro macro e si dimostra distante dal rispetto degli obiettivi istituzionali, nonostante gli impegni presi. E’ allora difficile, anche con un programma di riforme ambizioso, ribaltare le aspettative di crescita. Le modeste attese di crescita condizionano le prospettive di stabilizzazione del rapporto fra debito pubblico e Pil. L’inversione del ciclo negativo sarà dunque più faticosa del previsto.
La ripresa sarà lenta e fragile, ma non si deve pensare che non sia possibile. Ci vorrà solo più tempo.

Se il politico è personale

Anni fa si diceva che il personale è politico. Oggi pare di capire che valga l’inverso. Più che i partiti, ci sono i leader.
Ci riflette sopra Antonio Polito sul supplemento del Corriere “La lettura”. “Partito personale”, “il secolo monocratico”, “governo personale”, sono espressioni usate da chi se ne intende per descrivere il presente. Così accade che anche il consenso si manifesta per un capo, più che per un partito.

Ma c’è un rovescio della medaglia. Il fallimento della persona può diventare automaticamente quello politico. E qui, davvero curioso, il personale torna ad essere tremendamente politico, paradossalmente proprio perché il politico si è fatto così tanto personale. D’accordo, la storia è piena di capi, re e imperatori, dalla vita privata-sentimentale burrascosa, ma la differenza è che ora c’è l’opinione pubblica che vede e, soprattutto, giudica molto più di prima.

Certamente il pericolo della gogna mediatica è sempre dietro l’angolo, ma il problema non sembra più stare nella tentazione incontenibile di guardare dentro il buco della serratura, quanto nel fatto che gli stessi leader hanno posto il loro ambizioso protagonismo alla guida dei destini del Paese, per vincere resistenze, lacci e lacciuoli, che impediscono le necessarie e urgenti trasformazioni (le riforme strutturali).

Prendiamo il caso del presidente francese François Hollande. Se mente privatamente alla propria compagna: «ti giuro non c’è un’altra», il sospetto corrente è che possa farlo anche al Paese. Un po’ la stessa cosa accaduta oltreoceano ai tempi di Bill Clinton. Il punto di quel sexgate non era tanto cosa succedesse dentro la stanza ovale della Casa Bianca, quanto il timore dilagante che il presidente potesse avere mentito agli americani.
Trappola simile quella in cui è cascato anche Berlusconi: «Un leader – scrive Polito – che si fa manipolare dai procacciatori di sesso per animarsi le serate, può essere manipolabile quando maneggia l’interesse nazionale».
La storia si ripete, in sostanza, con Dominique Strauss-Kahn, potenziale astro della Francia socialista, tramontato prima ancora di sorgere per avere stancato i transalpini con le sue avventure notturne. Aggiungiamo che l’opinione pubblico-mediatica è diventata nel frattempo interdipendente e globale e la frittata è fatta.

Succede così, per esempio, che i cittadini-contribuenti tedeschi abbiano comprensibilmente ritenuto non indifferente per la sorte dei propri stessi risparmi scoprire come passava le serate il premier italiano, mentre la Banca centrale europea iniettava miliardi di euro per finanziare il nostro debito pubblico.
Se i rapporti tra paesi che condividono frontiere, commerci e moneta, si devono necessariamente basare sulla fiducia, si comprende come la credibilità diventi la valuta più pregiata. E quando la credibilità di una nazione dipende così tanto da quella personale del suo leader, non si può più puntare il dito contro un’opinione pubblica guardona, nel nome della separazione delle sfere pubblica e privata.

C’è addirittura chi ha provato a stabilire una regola matematica fra le scappatelle dei leader e le conseguenze macroeconomiche sulle rispettive comunità nazionali. Proviamo a farci caso. Una volta colto sul fatto, Hollande per recuperare credibilità ha decisamente sterzato le proprie politiche economiche verso quell’austerità dei conti pubblici tanto cara alla scuola del rigore che spadroneggia in Ue. Il che significa torchiare cittadini e servizi.
Esattamente, si direbbe, come le serate galanti di Arcore hanno accelerato di fatto la svolta rigorista del governo Monti «e dunque – conclude Polito – tutto sommato gli italiani hanno pagato con l’Imu anche la casa delle olgettine».

Ora l’Italia si è affidata ad un boy scout, ma non può bastare perché se il politico è diventato personale, la Politica rimane un’altra cosa.

L’OPINIONE
Articolo 18,
il vero obiettivo
è l’elettorato di destra

Cerchiamo di capire. Perché Renzi vuole abolire l’art.18? Perché ha sfidato ogni logica di merito? Ripetiamo l’elenco. Se vuoi allargare i diritti a chi non ne ha, perché toglierli a chi li ha? Se l’art. 18 è solo un totem, perché lo si vuole abbattere? Se l’obbiettivo è riformare e semplificare il funzionamento del mercato del lavoro, perché non ci si concentra su questo? E, soprattutto, perché ricorrere a bugie e silenzi? Le bugie: non sono quarant’anni che non si tocca l’art.18, ma solo due. E cos’è quest’araba fenice delle tutele crescenti? I silenzi: da dove arrivano i quindici miliardi di euro che servono per estendere gli ammortizzatori sociali? Ritorniamo alla domanda: perché questo accanimento? A me pare una sfida con un obiettivo politico. Renzi punta decisamente a fare il pieno dell’elettorato di destra. Ecco perché gli serve una vittoria simbolica. Lo snaturamento del Pd avanza a marce forzate. Tutte le questioni che dovrebbero connotare l’identità di una forza di sinistra democratica e libertaria sono state archiviate: corruzione, evasione fiscale, giustizia, diritti civili. Che fare? Per il popolo di sinistra la via è stretta e piena di macigni. Pesa una memoria tragica di scissioni e rotture. C’è una ‘vecchia guardia’ che viene dal Pci che ha fallito. Non si intravede all’orizzonte un nucleo di nuova classe dirigente alternativa a quella renziana. I tentativi fatti a sinistra del Pd in questi anni sono tutti abortiti. Nel frattempo, però, il contenitore Pd è interamente occupato dai renziani della prima, seconda, terza ora. La minoranza è ridotta a comparsa lamentosa e patetica. Il fallimento delle primarie in Emilia-Romagna fotografa bene lo stallo drammatico in cui ci troviamo: il candidato dell’apparato vince senza convincere; il candidato trattato come ostile al partito sfiora il quaranta per cento dei pochi che hanno votato. Cosa dire? In democrazia niente è irreversibile, e tutto è possibile. Anche che accada un imprevisto positivo. Vedremo…

LA STORIA
Vita da campanari

di Alessandro Porcari

Un’antichissima tradizione animata da un allegro esercito di appassionati. Torna a crescere il numero dei campanari in Emilia Romagna. Forza fisica, ritmo e un piccolo segreto: un bicchiere di vino.

«Lasciatevi dondolare». Il campanile della cattedrale di San Pietro oscilla, come fosse in atto un piccolo terremoto. A scatenare il movimento, quintali di bronzo spinti da mani robuste. Così uno dei campanari della cattedrale di San Pietro a Bologna aveva rassicurato gli ospiti del concerto, prima che il suono abbracciasse il cielo attorno alle Due Torri. Seduti attorno alle campane, oppure in piedi lungo i muri di mattoni, o sulle travi di legno che reggono questi antichi strumenti musicali, c’è spazio solo per pochi fortunati in cima ad uno dei monumenti meno conosciuti di Bologna.
Il campanile si muove come una culla, ma è inutile negarlo, ci si sente un po’ precari, lassù dove Bologna sembra così piccola. Ma è tutto normale, i campanili devono essere così flessibili. «Queste torri hanno resistito anche al terremoto del 2012. Solo alcuni di loro sono stati danneggiati, magari nelle guglie, ma non nella struttura architettonica. Crolla la chiesa non il campanile, come a Mirabello: il campanile è intatto, accanto alle macerie dell’edificio religioso», ci dice Mirko Rossi, professore di chimica in un istituto professionale modenese, presidente dell’Unione campanari bolognesi. Come lui, nel cuore dell’Emilia-Romagna, ci sono trecento detentori di questa antichissima tradizione, ma non bastano.

Professore, siete in via di estinzione?
No, abbiamo superato la fase critica. Ora siamo in controtendenza, c’è una riscoperta di questa antichissima arte, soprattutto tra i giovani. Grazie a loro, la nostra età media sta scendendo verso i 40 anni, dieci anni in meno rispetto a qualche anno fa. Ci sono persino squadre di campanari formate da ventenni. Dobbiamo fare ancora molto però. Il nostro territorio si estende tra la diocesi di Bologna, Imola, Faenza e parte della diocesi di Ferrara. Ci sono circa 300 campanili. Se volessimo suonare tutte le campane il giorno di Pasqua, servirebbero 1200 campanari, quattro volte il nostro numero attuale.

Come ci si avvicina a questa tradizione?
Non ci sono scuole per campanari. Per noi la vetrina principale sono le feste religiose. Quando suoniamo nelle parrocchie, coinvolgiamo sempre i ragazzi e lanciamo la proposta di unirsi a noi. In alcuni casi, come per le Quarantore di Cento, le scolaresche vengono a trovarci. Così i campanari diventano un evento. Altre volte ci contattano grazie al nostro sito internet.
Chi vuole, si mette d’accordo con una squadra del posto, e nelle sere in cui ci sono le prove, inizia a frequentare. A macchie di leopardo nel territorio ci sono campane a disposizione per imparare, ospitate spesso da palestre. C’è una certa cura delle relazioni. Ci si ritrova per fare le prove, ma è un pretesto per stare insieme, si mangia, si allenano braccia e gambe. Questo consente di coinvolgere più gente in modo genuino, soprattutto se i campanari della zona fanno gare e c’è una bella competizione.

Quanti mesi di formazione servono?
Un apprendista campanaro può impiegare un anno perché possa avere un esperienza spendibile in un concerto. È necessario imparare ad affiatarsi con il resto del gruppo. Le squadre sono composte da quattro persone. All’inizio si fa con le campane legate per non disturbare i residenti della zona. Ci sono quattro categorie: giovani, la terza, la seconda e la prima. L’apprendimento certamente continua, non si ferma mai e prosegue con la propria squadra con cui ci si esercita.
Il campanile della cattedrale di Bologna è un punto di arrivo, perché ci sono le campane più pesanti della diocesi, e poi ci sono oscillazioni rilevanti della struttura che vanno gestite. Ci sono campanari con grande esperienza che non saprebbero gestire campane come quelle di San Pietro.
Le mani dei ragazzi non sono abituate al lavoro, rispetto agli anni ’70 quando le capacità manuali erano più accentuate. Devono imparare a tenere le campane in piedi con corde che bruciano le mani, creano vesciche e i risultati tardano ad arrivare soprattutto rispetto ai dolori che invece sono immediati. I più motivati resistono, altri lasciano.

Quanto pesa una campana?
Anche nei concerti più piccoli la campana grossa arriva a diversi quintali. A San Pietro la campana principale pesa oltre tre tonnellate. Serve forza fisica, colpo d’occhio e il ritmo per evitare aritmie. Non si tratta di un problema semplicemente sonoro. Se sbagliamo nel ritmo, la torre si muove in modo non dovuto e questo aumenta lo sforzo fisico del campanaro, rendendo persino impossibile il suono della campana stessa. In casi estremi si arriva alla rotazione totale, un errore che nelle gare comporta la squalifica. A quel punto bisogna fermarsi e aspettare che il campanile si fermi per poter riprendere.

Tanto sacrificio, quanto guadagna un campanaro?
Questo è volontariato. Se va bene ci danno un piccolo rimborso spese. Spesso nel centro di Bologna, i campanari suonano un’intera mattina e ricevono dieci-quindici euro a testa. La nostra vera ricompensa è la cena parrocchiale e soprattutto un bicchiere di vino. È una tradizione antichissima: si saliva con l’olio nelle bronzine e un bicchiere di vino per il campanaro. Anche oggi durante i concerti, recuperiamo le forze bevendo.

La tradizione riguarda anche il dialetto…
Tutto il lessico, la terminologia è rigorosamente dialettale. Bologna è la prima città del Nord cristiano in cui il suono delle campane venne codificato, in modo che i suoni possano creare un’armonia, senza sovrapporsi. Fu un’idea della cappella musicale di san Petronio, probabilmente affascinata dalle campane del piccolo carillon portato da Carlo V per l’incoronazione nella basilica cittadina, nel 1530. A volte parliamo in italiano per rispetto verso gli ospiti, per farci comprendere. Ma la partenza, il lancio della prima campana viene chiamato con una formula dialettale bolognese, fissa, in modo che nessuno di noi possa sbagliarsi.

Come giudica la salute dei nostri campanili?
Buona, perché i campanari si prendono cura anche della struttura. Se una finestra presenta dei problemi, la ripariamo, se ci sono dei buchi, vengono tappati. Le viti vengono strette, le campane oliate. Diversa è invece la condizione dei campanili elettrificati. Dove i campanari non salgono, succede esattamente quanto avviene per qualsiasi edificio non abitato: va in rovina. In passato sono stati fatti interventi devastanti che hanno reso impossibile il nostro mestiere. Un documento dell’arcidiocesi tutela il suono manuale delle campane; occorre conciliare il suono a mano e suono elettrico. Così possiamo conciliare tradizione e modernità.

Si dice che a suonare le campane si diventi sordi, le sue orecchie in che condizioni sono?
(ride, ndr) Quando me lo chiedono rispondo: «Come… come? Cosa dice?». E’ una diceria. Basta un po’ di ovatta o i tappini espandibili che si usano anche nelle industrie. Io ho cominciato a 13 anni, ne ho 47 e non ho problemi di udito. Per i giovani le assicuro che è molto peggio la discoteca. A 25 anni, durante una visita medica dissi della mia passione per le campane, mi misero in cabina, con un pulsante da schiacciare ad ogni rumore, per verificare le condizioni del mio udito. Quando uscii, mi dissero: «Lei è un caso strano: non ha problemi di udito». Vi garantisco che ho conosciuto campanari di 90 anni che non hanno problemi.
Il vero rischio è per le mani. Una presa sbagliata può portare a un dito un po’ schiacciato tra il battaglio e la campana. Il corpo a corpo non è lontano, è chiaro che la campana sfiora sempre il campanaro. Noi abbiamo travi oblique di legno, su cui il campanaro appoggia le spalle; così sa di essere a distanza di sicurezza per non farsi male.

Da Bologna al resto di Italia, c’è un legame tra i campanari italiani?
Sì, c’è una specie di consulta nazionale. Ma tra noi ci sono tradizioni, metodi di montaggio differenti. Penso alla tradizione ambrosiana, a quella vicentina. Basta superare il Po, per trovare grandi ruote di ferro sui campanili. Sono campane che prevedono tecniche di suono diverse da quella bolognese. Se volessi suonarle, dovrebbero formarmi partendo da zero.

[www.lastefani.it]

provincia-ferrara

Tiziano Tagliani è il nuovo presidente della Provincia.
Eletti i dodici consiglieri

da: ufficio stampa Provincia di Ferrara

Al termine delle prime elezioni della Provincia trasformata dalla riforma Delrio in ente di secondo livello, cioè non più eletta dai cittadini ma da sindaci e consiglieri comunali del territorio, il nuovo presidente è Tiziano Tagliani, sindaco di Ferrara.
I dodici consiglieri che entrano nel nuovo Consiglio provinciale, tutti della lista “Provincia insieme”, sono:
Fabrizio Toselli (sindaco di Sant’Agostino) con 7.633 voti, Marco Fabbri (sindaco di Comacchio) con 7.437 voti, Bianca Maria Vitelletti (consigliera comunale di Ferrara) con 7.420 voti, Nicola Rossi (sindaco di Copparo) con 6.705 voti, Piero Lodi (sindaco di Cento) con 6.600 voti, Elisabetta Soriani (consigliera comunale di Ferrara) con 6.529 voti, Nicola Minarelli (sindaco di Portomaggiore) con 6.410 voti, Antonio Fiorentini (sindaco di Argenta) con 6.243 voti, Diego Viviani (sindaco di Goro) con 6.139 voti, Gianni Michele Padovani (sindaco di Mesola) con 5.450 voti, Cristiano Di Martino (consigliere provinciale uscente) con 4.780 voti e Alan Fabbri (sindaco di Bondeno) con 4.759 voti.
Hanno votato in cifra assoluta per Tagliani presidente della Provincia in 242.
In tutto si sono recati alle urne in 293 (pari all’82,54 per cento) su un corpo elettorale di 355 unità, di cui 195 uomini e 98 donne. In 62, dunque, non hanno partecipato al voto.
I voti validi espressi invece per il Consiglio provinciale sono stati 287.
Il risultato del voto finale del Consiglio provinciale è frutto del calcolo dei voti di preferenza unitamente a quello ponderale del peso demografico attribuito alle sei fasce nelle quali sono stati raggruppati i Comuni, a seconda delle rispettive popolazioni:
fino a 3mila abitanti i Comuni di Formignana e Masi Torello; da 3001 a 5mila i Comuni di Goro, Jolanda di Savoia, Lagosanto, Mirabello, Ro, Tresigallo, Voghiera; da 5001 a 10mila i Comuni di Berra, Fiscaglia, Mesola, Ostellato, Poggio Renatico, Sant’Agostino, Vigarano Mainarda; da 10.001 a 30mila Argenta, Bondeno, Codigoro, Comacchio, Copparo e Portomaggiore; da 30.001 a 100mila il Comune di Cento e oltre i 100mila abitanti il solo Comune di Ferrara.

L’INTERVISTA
Caritas, termometro della crisi:
in 5 anni 15mila pasti in più.
Don Valenti: “Drammi sempre più frequenti”

di Giuseppe Fornaro

Settantaduemila pasti, 83 tonnellate di pacchi viveri, 54mila euro di assistenza economica attraverso il pagamento delle utenze, 150 volontari solo per la mensa. Sono i numeri della povertà. O meglio i numeri dell’assistenza fornita dalla Caritas diocesana di Ferrara-Comacchio agli indigenti e alle persone in stato di difficoltà anche temporanea.
Abbiamo provato ad aprire una finestra su questo mondo che appare così distante e invece ci sta intorno, ci è contiguo se questi, come sembra, sono i numeri. Numeri ai quali corrispondono persone con i loro drammi sempre più frequenti in un momento di crisi economica che non accenna a finire. Tutto è reso precario al punto che ciascuno è su una linea di confine e varcare quella soglia oggi, purtroppo, è sempre più facile e frequente. Basti pensare ai pasti forniti: nel 2009 erano 57mila, 15mila meno di adesso.
Abbiamo incontrato don Paolo Valenti nella parrocchia dell’Addolorata, direttore della Caritas per ventuno anni fino a gennaio scorso quando ha passato la mano ad un laico, Paolo Falaguarda. La Caritas è nata con lui proprio ventuno anni fa con la mensa e l’ambulatorio medico in via Brasavola dov’è tutt’ora.

Secondo la sua esperienza, in questi anni è cambiata la povertà e come?
È sempre molto difficile definire la povertà. C’è chi non ha niente da mangiare, chi non ha una casa, chi si trova in una situazione di mancanza di lavoro oppure di mancanza di diritti. La povertà è estremamente variegata. Oggi ci sono delle nuove povertà dettate dalla crisi che si aggiungono alla povertà precedente. In questo periodo di crisi nei centri d’ascolto abbiamo visto che la presenza di persone italiane rispetto a quelle straniere è aumentata, non perché siano diminuite quelle straniere, anche se per via della crisi molti stranieri sono tornati a casa e altre sono arrivate e ora sono in una situazione di estremo disagio. Però sono aumentate molto le povertà italiane. Questo è un dato di fatto. Quando si parla di lavoro giovanile, si pensa a quelli tra i 18 e i 30 anni, ma c’è una fascia tra i 30 e 45 anni che non ha mai avuto nemmeno una occasione di lavoro. Questa è la triste e cruda realtà. Sappiamo tutti che dopo i 30 anni trovare lavoro è un’impresa come scalare l’Everest in una situazione dove il lavoro non c’è soprattutto qui da noi e questo è un ulteriore impoverimento della città. Se uno mi chiedesse in che settore cercare lavoro direi di fare la badante, per via dell’invecchiamento della popolazione, perché è il settore dove forse si riesce di più a trovare lavoro. Non vedo altre prospettive.
Come centro ascolto della Caritas abbiamo anche situazioni relative al sovra indebitamento che seguiamo come Fondazione antiusura a livello regionale. Si lavora sulla prevenzione dell’usura, famiglie che sono sull’orlo dell’indebitamento che può portare a chiedere soldi facili. Questo è un problema di cui bisogna capire le cause. A volte sono cause relative alla perdita del lavoro, altre un imprevisto in famiglia che non ci voleva, come una malattia. Qui stiamo parlando di una fascia di persone che non è mai stata nell’ambito della povertà, non sono quelli che vengono a mangiare alla mensa della Caritas. Poi ci sono persone che proprio a causa della crisi si affidano alla fortuna. Il problema del sovra indebitamento da gioco è un problema fortissimo. Nei periodi di crisi le persone scommettono di più. Può essere il bingo, la slot machine, il gratta e vinci. C’è un aumento spropositato di questi fenomeni. Quando un anziano comincia a giocare sistematicamente e a spendere anche 50 euro alla settimana in un mese diventano 200 euro e sulla pensione quei soldi pesano forte e parliamo di 50 euro quando va bene. Anche questo ricorso al credito facile delle finanziarie o alle revolving card creano grossi problemi perché non ci si rende conto degli interessi che si vanno a pagare. Allora qui si cerca di aiutare anche attraverso dei professionisti. Se poi interviene anche la perdita del lavoro è terribile con tutte le spese da pagare: l’affitto, o il mutuo, le utenze, ecc. Nel 2013 come Caritas abbiamo pagato utenze per 54mila euro.

Quindi a differenza dell’immagine che si ha all’esterno la Caritas non fornisce solo i pasti. Che tipo di attività svolgete?
La parte più impegnativa è l’ascolto. Il centro d’ascolto è fondamentale. Devi sempre metterti in ascolto della persona che viene da noi. Non è che una persona viene e ci dice che non riesce a pagare una bolletta e noi gli diamo i soldi. Non funziona così. L’ascolto, invece, è fondamentale per capire perché la persona si trova in questa difficoltà. Spesso e volentieri su cento casi 99 sono tamponamenti di situazioni di emergenza. Se si riesce a portare una persona su cento da uno stato di difficoltà ad uno di indipendenza è un gran successo. Altrimenti si tamponano situazioni che non si sa come risolvere.
Poi ci sono servizi essenziali che vengono forniti come la mensa che l’anno scorso ha fatto 72mila pasti, pranzo e cena. Dal centro d’ascolto sono passate più di mille persone. Abbiamo distribuito pacchi viveri per 83 tonnellate. Seimila accessi per il servizio docce e distribuzione vestiti. Da quest’anno poi offriamo anche la colazione. Abbiamo aperto casa Betania. Abbiamo aperto un dormitorio femminile con dodici posti. Siamo entrati nel progetto accoglienza profughi, soprattutto donne e bambini. Abbiamo due ambulatori da dove passano tutti i profughi che arrivano prima di essere destinati alle varie associazioni che hanno dato la disponibilità all’accoglienza. Poi c’è tutto il mondo del volontariato che gira intorno.
L’ambulatorio lo abbiamo aperto nel ’95 con medici di base volontari perché allora per i clandestini non era prevista alcuna assistenza medica. I medici si costituirono in associazione, sistemammo l’ambulatorio e poi attraverso convenzioni col Comune, l’Ausl e l’Arcispedale S. Anna, l’azienda farmaceutica municipale, le farmacie private ci fu la possibilità di dare assistenza agli stranieri. Persino il dispensario si rivolgeva a noi per la prevenzione della tubercolosi perché altrimenti loro non sarebbero riusciti ad intercettarli tutti. Era un servizio di carattere sociale importante. Poi ci fu la legge voluta da Rosy Bindi che garantisce l’assistenza sanitaria a tutti. A quel punto l’ambulatorio non era più necessario. Ultimamente l’esigenza si è riproposta a seguito di quella norma che prevede l’obbligo da parte dei medici di denunciare i clandestini.

Per fornire tutti questi aiuti, da dove vengono le risorse?
Innanzitutto, dal tanto vituperato otto per mille, ma che per noi è essenziale dal punto di vista economico. Poi ci sono le offerte, i lasciti. Per noi l’offerta non è solo il denaro, ma anche il cibo. Innanzitutto c’è il banco alimentare, pur con tutte le difficoltà, e poi c’è, in collaborazione con la grande distribuzione degli ipermercati coop, il “Brutti ma buoni” cioè confezioni di cibo assolutamente commestibile, ma il cui involucro non si presenta bene e che resterebbe invenduto; c’è il last minute market; la raccolta di cibo nelle parrocchie. Questo è oro. Anche il cotto non venduto dell’Ipercoop andiamo a prenderlo tutti i giorni. Questo è un lavoro importante. Tutta questa roba andrebbe distrutta con uno spreco di risorse. L’idea del professor Andrea Segrè, inventore del Last minute market, è stata un’idea geniale grandissima. Insomma, bisogna fare in modo che lo spreco non vada a danno delle persone. Il Centro servizi al volontariato ci dà una grossa mano in questo senso nel cercare il modo di inserirsi nel circuito dei “brutti ma buoni”, del last minute market parlando con le amministrazioni dei supermercati.
A volte non pensiamo a quanto sprechiamo. Ad esempio, gli indumenti. Ci sono cassonetti della Caritas, di Humana e della Croce Rossa. Ogni settimana solo noi Caritas viaggiamo intorno ad otto-nove tonnellate di indumenti recuperati. La parte utilizzabile si riusa, tutto ciò che non si può utilizzare, che è la stragrande maggioranza, viene rivenduta a ditte di Prato per il recupero dei filati e i soldi che ricaviamo li utilizziamo per le nostre attività. Se pensiamo a quanto ciascuno di noi scarta per noi volontari ogni cambio di stagione è una manna.

Dal quadro che ha descritto mi sembra che venga fuori in questa città una rete anche istituzionale di solidarietà abbastanza solida.
La cosa bella è la grande collaborazione, non ci si fa la guerra.
La gestione delle risorse, che siano economiche o alimentari o i vestiti, deve essere razionalizzata perché noi non possiamo permetterci lo spreco. Per questo stiamo cercando di costituire una banca dati degli interventi che vengono fatti per le persone per evitare che ci possa essere qualcuno che ci marcia e che fa il giro delle diverse associazioni. Per carità, ci sta anche questo, non ci si deve scandalizzare, però dobbiamo cercare di aiutare più persone possibile. La povertà ha sempre avuto le sue strategie da quando esiste l’umanità.
Mi viene in mente quel cartello contro l’accattonaggio davanti al supermercato che fa un po’ ridere. Davanti la mia parrocchia le persone che chiedono sono aumentate anche perché le chiese chiudono (ride, ndr). Poi c’è quello che chiede e basta, c’è quello che arriva alterato dall’alcol e quello non è nemmeno controllabile e in quel caso chiami la polizia che lo allontana. Noi diciamo sempre: evitiamo di dare, perché non sai mai dando dei soldi senza una verifica se fai del bene o del male. Se si presenta una persona insistente che puzza di alcol, capisco che uno li dà per liberarsene, ma non lo stai aiutando. Per questo sono importanti i centri di ascolto per capire i bisogni delle persone.

A questo punto non possono non chiederle se anche lei crede che ci sia una sorta di racket dietro l’accattonaggio?
Dipende dal tipo di accattonaggio. Esiste indubbiamente la spartizione delle zone. Poi si sa che l’accattonaggio minorile, soprattutto tra i nomadi, è una forma di sfruttamento. Direi che in questo senso è racket. Poi se è al livello malavitoso questo non ho le competenze per dirlo.

Una domanda un po’ provocatoria, mi rendo conto, ma chiedo a lei che è un uomo di fede quanto può essere frustrante occuparsi di povertà? Perché è come voler svuotare il mare col secchiello, i poveri sono in continuo aumento.
Come dicevo prima quando si riesce a risolvere un caso su cento si esulta. Il resto si tampona. La fede ci aiuta ad avere sempre uno sguardo di speranza per dire che l’ultima parola sulla vita non ce l’ha la morte. Secondo, quello che ci dice la fede è di avere sempre un occhio particolare di attenzione verso gli altri, particolarmente verso gli ultimi. Quando parliamo di opzione preferenziale verso i poveri, parliamo di qualunque tipo di poveri. Significa che se c’è una persona in uno stato di bisogno quella ha la precedenza rispetto ad un’altra. È quello che avviene normalmente in una famiglia. Se una madre ha due figli ed uno sta male, dedicherà naturalmente più attenzioni a quello che sta male perché è in uno stato di bisogno. Questo è un atteggiamento umano normale che vivono tutte le famiglie indipendentemente dalla fede. Credo che questo atteggiamento andrebbe recuperato a livello sociale, cioè chi è in stato di necessità merita attenzione. E quindi evitare le guerre tra poveri, ma soprattutto avere l’atteggiamento di dire che se un altro riceve quello che ho ricevuto io deve prevalere un sentimento di gioia perché finalmente anche lui questa sera avrà da mangiare e in quella famiglia ci sarà almeno una serata di serenità. Ecco, questo lo dobbiamo recuperare molto. Invece, si cerca sempre di dire “prima noi poi loro”, una differenziazione che rischia di essere estremamente pericolosa perché dal punto di vista dell’attenzione verso l’altro non c’è un prima e un dopo. Chi è in uno stato di necessità non può essere lasciato da solo. Non dico che si risolva tutto. Non sono un esperto di politica economica, non sono un politico, però credo che certi principi devono essere tenuti. Anche di fronte alla polemica su “Mare Nostrum” o mare di altri come si fa a fermare un fenomeno come quello? O ti metti a sparare, ma questo non ha mai fermato nessuno, come dimostra la frontiera tra il Messico e gli Usa. A livello internazionale occorre un’altra politica. Tutti parlano di cooperazione internazionale, ma dove la vediamo? Dov’è? Dicono: aiutiamoli a casa loro. D’accordo, ma perché fino adesso non si è fatto? Perché la cooperazione internazionale non funziona? Perché si ricade sempre nei fenomeni di corruzione? Se si è così capaci di andare a bombardare, credo si abbiano anche le forze per cercare di impostare una politica anche di forza, di pressione sui governi per dire “caro mio adesso se vuoi ti aiutiamo”. Io credo anche nel commissariamento di un governo. Questo non vuol dire ledere i principi della democrazia, ma proprio per il rispetto della democrazia cercare di creare quella rete di solidarietà che è necessaria.
È chiaro che nessuno ha la bacchetta magica e sconfiggere la povertà è un sogno. Anche i nostri stili di vita incidono parecchio. Nell’uso del denaro, che vuol dire uso delle risorse, ci sta la tua mentalità di come le usi, di come sprechi. Se vai a giocartelo alle slot machine è chiaro che diventi tu un costo per la società perché devi essere curato.

Qual è l’identikit della persona in difficoltà oggi?
Più che persone singole si tratta di famiglie giovani, possono essere italiane o straniere, in prevalenza straniere che chiedono un aiuto soprattutto per le utenze, l’affitto. Famiglie giovani con due figli. Poi ce la povertà cronica.
Non dimentichiamo un altro fenomeno che è andato crescendo. Il disagio mentale. La malattia mentale, la depressione sono un altro fenomeno che non accenna a diminuire, anzi con la crisi aumenta. Parliamo di persone giovani dai trenta ai quarant’anni. Uomini e donne.

Del resto quando non c’è una prospettiva di futuro la depressione è la patologia correlata, come si dice…
Se uno perde il lavoro e ha anche dei figli non sa come fare. Nella povertà non c’è nulla di romantico. Guareschi mette in bocca a don Camillo che la povertà è un dramma. Un conto è la povertà che uno sceglie consapevolmente, la povertà religiosa alla S. Francesco, ma quella è un patto, l’ho scelta io, un altro è la povertà subita. Quello è un dramma. Comunque, l’emergenza è il lavoro perché a questo è legato tutto: la dignità della persona, il costituirsi e portare avanti una famiglia, garantire un futuro, la stabilità di una casa.

Si parla si parla si parla, quanto tempo è che si dice che ‘l’anno prossimo’ la crisi sarà passata?
Adesso si è già spostata al 2015. Anche perché tutto quello che era il risparmio dei genitori di molte famiglie ormai è stato raschiato. So di famiglie che dicono che adesso va bene perché c’è la pensione dei genitori, ma dopo? Quando non ci saranno più? Come mangeranno? Su questo mi sembra si stia battendo la fiacca. Io non ho la soluzione, se ce l’avessi la direi. Se non si riparte garantendo un lavoro che sia dignitoso. Certi tipi di contratto come i voucher sono stati una grande invenzione però stanno diventando un alibi, un lavoro a chiamata senza diritti. Una forma di caporalato. Che futuro hai davanti lavorando in questa maniera? Anche due ragazzi che si vogliono sposare cosa mettono su? Insomma, il lavoro è la priorità. A livello politico bisogna muoversi tanto su questo. A parole il mondo si cambia. Quello sono capace anch’io di farlo.

Sicuramente lei ha fatto più di molti politici…
(Si schermisce con un sorriso, ndr) Beh, insomma, la cosa bella di questi ventuno anni è stato il volontariato. La passione dei volontari. Noi non chiediamo il certificato di battesimo a nessuno che voglia fare il volontario. Quando aprimmo, i primi volontari furono quattro mormoni. Ognuno fa quello che sa fare. Ci sono tanti pensionati che sono una forza incredibile. L’ambulatorio medico fu messo su dal dottor Giancarlo Rasconi, sua moglie era la ginecologa di riferimento al Sant’Anna. Tutto queste persone hanno dato molto. C’è tanta gente che ha voglia di mettersi in gioco, bisogna dargli l’occasione e un ambiente adatto.

Questo mondo del volontariato è veramente bello e andrebbe rivalutato tanto di più e ripreso nelle motivazioni: la gratuità, il tempo dedicato, la formazione. Ferrara da questo punto di vista non è seconda a nessuno.

LA STORIA
Pittrice ti voglio parlare…

Parco di Kolomenskoe, un po’ fuori Mosca, non tanto a dire il vero, il tempo di arrivarci in circa quindici-venti minuti di metropolitana. Incredibile come qui, a poche stazioni, ci si trovi velocemente e improvvisamente immersi nel verde e nella natura.

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Chiesa della Madonna di Kazan

Sotto il sole caldo, qui gli edifici bianchi sembrano ancora più bianchi e svettano nel verde accecante del soffice e delicato prato del parco che si estende lungo la Moscova per circa 390 ettari. Residenza estiva degli zar nel sedicesimo secolo, questo posto è incantevole. Alcuni tetti sono verdi, altri turchesi, tutti degni di un’antica fiaba russa. La loro forma è oblunga o a cupola, a seconda che ci si presentino davanti agli occhi la Chiesa dell’Ascensione, le porte di pietra o la Chiesa della Madonna di Kazan. S’innalzano verso il cielo, imponenti, seri, sicuri, maestosi, severi e altezzosi.
Ci ritroviamo, sorpresi e ammirati, in un mondo a sé stante, azzurro, solitario, quasi indipendente, lontano da ogni preoccupazione e rumore (solo qualche cinguettio e miagolio), secondo alcune leggende, scenario dello scontro fra San Giorgio e il drago.
Da lontano scorgo una signora anziana, con il capo coperto da un vecchio cappellino ricamato all’uncinetto, seduta, quasi accucciata, su un seggiolino di legno che sembra quello di un bambino o di un regista di piccola statura. Proprio per questo suo essere piccolina e per la posizione assunta m’intenerisce molto. Di fronte all’imponente Chiesa ortodossa si sta immaginando quell’immenso e potente drago e forse lo disegna. Ha con sé pennelli, barattolini, vasetti, un cavalletto di legno, qualche tavolozza, una tela e tanti colori, tanti quanti quelli delle ali di quel drago. E’ stata una pittrice, da giovane, di quelle che dipingevano a Montmartre, a Piazza Navona, lungo la Stari Arbat. Ritratti, paesaggi, gatti, cani, coppie di sposi e tanti giardini e fiori. Tutto nasceva dalle sue mani, miracolosamente, come un bocciolo fiorito. Non le importava, allora, cosa disegnava, bastava guadagnare per poter vivere di arte. Per convincere i genitori, prima, e gli amici, poi, che con la bellezza si riusciva a sopravvivere.
Dopo tanti anni era riuscita a diventare una pittrice abbastanza nota, grazie anche all’aiuto di un’amica gallerista di San Pietroburgo, città d’arte e di cultura. La sua avvenenza giovanile l’aveva sicuramente facilitata ma lei, Olga, era anche molto risoluta e sicura della strada scelta. Allora era forte, fisicamente e moralmente, e per quanto piccolina di statura aveva solcato mari e monti, guidata e accompagnata solo dal suo grande sogno. Che un giorno era divenuto realtà. Per un breve periodo aveva anche vissuto in Umbria, in un piccolo villaggio medievale che le aveva regalato nuove amicizie, passioni e, ammetteva, anche un bel carnet di ricette di cucina, diventate ispirazioni di piatti finiti anch’essi sulle sue tele. Olga aveva disegnato, dipinto, ricamato, pregato, scritto, letto, sognato, amato e quasi mai odiato. Non era capace di odio, proprio no. Questo sentimento non faceva e non fa parte del suo Dna. Anche quando era stata trattata male, magari umiliata e rifiutata, aveva sempre accettato quello che la vita le portava. Sempre, e tenacemente, convinta di poter inseguire il sole come “il piccolo e anticonformista Gabbiano Jonathan, che riesce a intravedere una nuova via da poter seguire, una via che allontana dalla banalità e dal vuoto del suo precedente stile di vita, e comprende che oltre che del cibo un gabbiano vive della luce e del calore del sole, vive del soffio del vento, delle onde spumeggianti del mare e della freschezza dell’aria”.
Negli anni aveva iniziato a dipingere nuovi soggetti, era passata a immagini religiose, altari, chiese, cupole. Forse la dimensione mistica aveva guadagnato terreno con la vecchiaia, con la voglia di pace e tranquillità. Oggi Olga è in pensione, se così la si può chiamare, vista la sua misera entità, e ancora dipinge, un po’ per quell’antico piacere della bellezza, un po’ per vendere a qualche turista attirato dalla sua ancora intensa vivacità.

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Parco di Kolomenskoe, aiuola di fiori

Ogni domenica prende allora i sui colori e le sue tele e cambia parco o giardino, in cerca d’ispirazione. Oggi la vediamo qui, a Kolomenskoe, domani la potremo trovare altrove. Le sue gracili spalle ricurve inteneriscono, per il peso che portano, per quanto hanno sopportato. Perché Olga, in tutto questo, aveva dovuto lasciare il suo bambino in un orfanotrofio, la bellezza non era stata sufficiente, da sola, per tutto. Quel bambino che, nascosto dietro un ramo o un tronco disegnato, compare sempre nei suoi dipinti. Guardando bene, da vicino, lo vedrete anche voi.

L’EVENTO
Internazionale a Ferrara ovvero dell’importanza di unire i puntini

Chi è Oleg? Me lo sono chiesta qualche tempo fa leggendo in rete la notizia dell’arresto di Oleg Vorotnikov in seguito a una rissa all’ex ospizio di Santa Marta di Venezia. L’articolo diceva che l’uomo è ricercato, che rischia l’estradizione in Russia, da cui è scappato con la famiglia nel 2013, e dove il processo a cui andrebbe incontro non sarebbe clemente né imparziale. Una raccolta di firme a favore dell’attivista (alcuni nomi: Zerocalcare, Andrea Lissoni, la crew di scrittori Urban Code) riesce però a farlo rilasciare dal carcere di Santa Maria Maggiore e a scongiurare l’estradizione. Della notizia e dei suoi protagonisti non si parla in modo diffuso, ma in parte conosco già la loro storia, che è anche la storia di Voina, grazie alla visione del proiezione del documenario Tomorrow realizzato da Andrey Gryazev e proposto al festival di Internazionale nel 2012.

Collettivo russo nato nel 2007, attraverso provocatorie azioni artistiche, Voina critica l’omofobia, l’autoritarismo, la strumentalizzazione della religione a fini politici, l’ormai divenuto stato di polizia russo. Con crudezza e assenza di filtri, racconta spaccati di vita dei componenti del collettivo, tra arresti, azioni sovversive, falli disegnati sul grande ponte di Mosca, rappresentazioni estemporanee, incarcerazioni e vita familiare sempre in bilico tra sostenitori e detrattori, tra filo del rasoio e le telefonate ai parenti su Skype, tra l’ammirazione di chi li sostiene e la violenza ideologica di chi li vorrebbe zitti e assenti.

Stesso posto e stesso anno. In sala Estense, poco lontano dal cinema Boldini in cui ho assistito alla proiezione, ascolto il fumettista Igort raccontare Quaderni russi, il suo nuovo lavoro a nuvolette, che diviene anche l’occasione per parlare con il pubblico di Femen, movimento femminista ucraino le cui componenti manifestano in topless contro le discriminazioni sociali e sessiste, intenzionate a scuotere le coscienze di un Paese ancora associato, nell’ottica estera, al turismo sessuale o alla delinquenza. O, ancora, delle Pussy Riot, due delle quali – Yekaterina Samutsevich e Nadezhna Tolokonnikova – cullate nell’embrione di Voina per poi prendere la propria strada.
Sono solo alcune delle storie collegate da un comune progetto o da un comune effetto, da una stessa idea e dalla stessa forza artistica, due punti uniti da una linea di pensiero chiara e originale che viene tracciata grazie alla matita di Internazionale.

Raccontare storie e persone, cercare connessioni naturali e nascoste tra eventi, soggetti, situazioni, darne una interpretazione a più voci di fronte a un pubblico, dare voce a chi e cosa una voce spesso non ce l’ha, oppure rischia di finire perduta tra le pieghe di una informazione (tema conduttore di questa edizione che inizia venerdì), nascoste in trafiletti o nell’oblio. Storie che vale la pena ascoltare e collegare, su cui riflettere. Come quelle del medico congolese Denis Mukwege, fondatore in sud Kivu di un ospedale per le donne vittime di stupro, del regista alternativo statunitense Robert Altman e del programmatore Aaron Swartz, dalla vita tanto geniale quanto drammatica, del coraggioso fotoreporter di guerra Giles Duley e del visionario presidente della multinazionale dei sogni Pixar e Walt Disney Studios Edwin Catmull, che saranno alcune delle protagoniste di questa edizione.
E chissà quale forme assumeranno i puntini che saranno uniti tra 3, 4 e 5 ottobre.

[Vedi il video di presentazione del festival]

L’OPINIONE
Considerazioni inattuali sulla politica e i suoi derivati

Da qualche tempo i quotidiani sono particolarmente polposi e le riviste che li accompagnano sembrano volumi in quarto. Quando mai tanta abbondanza? Fosse un’offensiva Marchionne-Renzi? Fossero mitragliate di twitter ed esternazioni? Fossero le dolenti note ispirate alla celebre “Melancolia” di Dürer che escono dal labbro stretto di Bersani? Macché! Sono pagine, decine e centinaia, che presentano la moda italiana per lei, per lui e per entrambi. Magnifiche confezioni presentate da stupefatte modelle/i che ti guardano con disgusto, irritazione e noia stringendo le preziose stoffe attorno alle loro gambucce, spallucce, testine, mentre avanzano con quel ritmo ondulante e artefatto che fa la gioia degli stilisti e dei fotografi. Perfetta metafora della politica italiana e dei loro protagonisti. Magnifici lavori che si adattano all’artificio di chi non sarà mai così annoiato, tetro, indifferente, scostante e falso come deve essere il comportamento dei modelli/e.

Una saturazione così evidente degli affari della politica con lo scontro gigantesco sull’articolo 18, sul job act, sulla lotta senza quartiere tra magistratura e politica tanto che ne risentono i talk show fino a ieri padroni incontrastati della serata televisiva: cadono Floris, Giannini, Santoro e le Gabbie, i Virus, le Piazze pulite. La ‘ggente’ non ne può più di esternazioni, di insulti, di veleni sussurrati a fior di labbra. Salta perfino fuori il vecchio ma sempre valido appellativo di ‘amico’ per definire il più odiato o disprezzato tra i contendenti (molto amato in area Pd). Perfino le contorsioni di De Magistris non suscitano sconcerto se non l’ironia del grande Francesco Merlo che firma uno dei suoi pezzi più strepitosi su La Repubblica: La Nemesi beffarda di Giggino ‘a manetta paladino della legalità che resiste alla legge. Le considerazioni del grande giornalista, che analizza i soprannomi di cui si riveste il sindaco di Napoli (oltre ‘a manetta, ‘o skipper, ‘o scassatore, ‘a promessa) culminano nell’ultima, a me cara perché cita un mio grande maestro Luigi Russo: Giggino Banderas è l’ultimo dei soprannomi. E’ la mamma che gli cucì la toga in 48 ore il giorno della tesi di laurea. La mamma che gli ha insegnato a tenere il Vangelo sempre sul comodino. Ma forse la mamma, che è l’erede del grande italianista Luigi Russo, mai aveva pensato a un destino di ‘ammuina populista’, di giudice ‘sciuè sciuè’. Un pezzo formidabile che pone ancora una volta in luce il carattere degli italiani a cui va la responsabilità della collezione nuova della moda e del comportamento dei politici.

Non so se dell’ammuina fa parte il comportamento del sindaco di Comacchio che sfida i rigori del grande statista a cui fa capo il suo partito. Non so se l’ammuina centri con la lotta per la conquista della presidenza della Regione Emilia-Romagna tra accuse e chiarimenti, tra rifiuti e resistenze: Bonaccini, Richetti, Balzani con il prolungamento della passerella dei modelli che sfilano fin sotto lo Scalone. Modonesi, Calvano, Zappaterra, Zaghini mentre il Sindaco s’industria, si defila e fa la voce grossa davanti alle sofferenze e ai trionfi con Marattin che parte per Roma spremendo una lacrimuccia. Non mi se ne voglia di queste parole scritte per ‘alleviare’ il cuore oppresso. Anch’io, nonostante avessi giurato mai, ieri ho votato alle primarie. Anch’io sento l’angoscia del presente. Anch’io trovo rifugio in quel benessere che solo la frequentazione della cultura alta può provocare. E ne fanno fede le sale stipate dei ferraresi e no che ieri sono accorsi all’Ariostea a sentir parlare di Matteotti e alla Pinacoteca dei Diamanti di Dosso Dossi. Poi si esce, e poco lontano già comincia la sagra europea delle bancherelle. Per favore, per favore amico Dario, fai che la cultura, i musei, non diventino sagre ma riescano a sconfiggere i modelli, con le loro facce annoiate e rivelino solo la bellezza delle stoffe dell’’ingenium’ italiano, della preziosità di un pensiero che non ha bisogno se non di riconoscere la verità e l’etica, là dove dovrebbe essere imperativo che si trovi e si frequenti: nella politica.

Fatti più in là

Rifletto sul tema del conflitto tra generazioni a partire da una infelice scorciatoia linguistica: rottamazione. Non varrebbe la pena di parlarne se questa non riflettesse una linea di azione che investe ogni mondo e istituzione, ben oltre la politica. Il conflitto tra generazioni è fisiologico, cambiano però i contenuti su cui tale conflitto si fonda, anche se assume sempre la veste di una differenza di visioni del mondo.
Negli anni Sessanta il conflitto aveva come oggetto la libertà contro l’autorità: libertà di scegliere il proprio corso di vita, di rompere i vincoli della tradizione e delle appartenenze. In una fase di espansione, di crescita dei consumi e del benessere di massa, quella generazione sentiva strette le gabbie della cultura del dopoguerra, le regole del costume e della morale corrente. Proponeva la ricerca di autenticità, comportamenti tra i sessi più paritari, il diritto di mettere in discussione istituzioni sacre come il matrimonio e la famiglia, di seguire le proprie vocazioni. Gli adulti rispondevano con inviti alla moderazione, ma vi erano, tra gli adulti, maestri venerati dai giovani, filosofi ascoltati (anche troppo talvolta) che, non a caso, hanno a volte assunto il ruolo di cattivi maestri. Il conflitto generazionale era avvertito prima di tutto sul piano privato (anche se il Sessantotto viene associato alla piazza) e si giocava in nome di una vita più libera e autentica.
Sul piano politico, anche allora la nuova generazione accusava quella precedente di avere tradito le speranze di un mondo nuovo, più giusto, e cercava nuovi modi per accelerare il corso della storia. Sul piano del lavoro, però, non vi era una rilevante divergenza di posizione tra generazioni. Gli adulti avevano un lavoro abbastanza garantito, erano immersi in un’innovazione che cambiava gradualmente le condizioni, automatizzava i processi, alleviando la fatica, migliorando i luoghi di lavoro e introducendo diritti. I giovani entravano in quel mondo senza troppa fatica, al termine di una scuola che era diventata più facile.
Qual è la differenza tra quel conflitto e quello attuale? La differenza sta nelle risorse che oggi, rispetto ad allora, sono in gioco. Vivevamo allora una fase di eccezionale crescita, i Paesi occidentali crescevano e, insieme ai tassi di occupazione, crescevano i salari e i consumi.
Se la torta non si può allargare, allora bisogna che si riduca il numero di persone chiamate al banchetto. Oggi, in questo tempo di risorse scarse, le nuove generazioni hanno fretta di liberare spazi, cercano di farsi posto: non c’è tempo di affiancare, ma si deve sostituire. Ogni persona matura, indipendentemente dalla qualità che esprime, occupa uno spazio e impedisce ad un giovane di essere occupato.
Tutto ciò ha fatto che sì che un termine come rottamazione sia diventato l’emblema dello scontro tra generazioni. Non è avvenuto solo in politica. I lavoratori maturi, in tutti i contesti, si sentono guardati con un’aria di attesa, più o meno paziente, con l’orologio in mano, più o meno come dal dottore si guarda l’orologio aspettando che arrivi più in fretta possibile il proprio turno.
Ma qual è il criterio di qualità per il ricambio generazionale? Il colore della camicia, la dimestichezza con Twitter, i centimetri di tacco? Mi si dirà che in politica una generazione compromessa deve essere sostituita con una che, in quanto giovane, non ha ancora fatto in tempo a sguazzare nella corruzione. Certo, se è così, non occorrerà molto tempo per imparare.
Il punto è che il clima di trepidante attesa con cui i più giovani guardano i più adulti affinché si tolgano dai piedi, investe anche ambiti in cui la corruzione non c’entra e su cui contano competenze, spessore culturale e perché no, esperienza.

Il brano intonato: Le sorelle Bandiera, Fatti più in là [clic per ascoltare]

Maura Franchi (Sociologa, Università di Parma)

Laureata in Sociologia e in Scienze dell’educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing e Web Storytelling, Marketing del prodotto tipico. I principali temi di ricerca riguardano: i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@gmail.com

IL FATTO
Vanno in scena
i giorni del sisma

Poche tende, un binario sul quale scorre la telecamera e una troupe di una trentina di persone che si affannano sul prato dietro le scuole materne di Mirabello. Sono iniziate le riprese di “Terremotati – La notte non fa più paura”, storia di amicizia, amore e speranza a cui lavorano, senza sosta da oltre un anno quattro giovani professionisti del cinema e un comunicatore.

Sono le tre del pomeriggio, l’attore Stefano Muroni si concentra sotto una tenda in attesa del ciack, il giornalista Samuele Govoni spedisce ai giornali le foto della mattinata, il regista Marco Cassini tiene d’occhio il monitor e Ilaria Battistella, il produttore esecutivo fa di tutto e di più. Terremotati è la loro scommessa, fatta di contenuti, passione e know-how.
“L’idea di fare il film a casa nostra mi è piaciuta fin dal primo momento, credo sia utile anche per stimolare chi come me è nato a Ferrara e ha dovuto studiare altrove per dare concretezza al proprio mestiere”, racconta Ilaria diplomata al Centro sperimentale di Cinematografia di Milano. Insieme ai suoi compagni di studi prima e di avventura poi, fa parte dell’associazione “Da Ferrara alla Luna” nata per gestire la produzione, ma anche per creare in città un piccolo centro cinematografico dedicato all’audiovisivo professionale.

La sceneggiatura, fedele al tragico incedere del terremoto, è lo specchio dei tempi nel quale gli effetti del sisma riflettono l’incertezza del lavoro, s’intrecciano con l’esperienza della morte, con i sussulti di una crisi economica e occupazionale senza precedenti. E’ una storia emiliana, ma è la storia di un Paese dove la vita non è più la stessa. Per nessuno, né per gli imprenditori né per gli operai, come dimostrano le tante testimonianze raccolte durante la preproduzione.

Terremotati rappresenta il Paese reale fotografato in corsa. “Avendo un budget risicatissimo e tenuto conto che il crowdfounding deve ancora cominciare, giriamo con ritmi serrati – spiega Ilaria – Dobbiamo fare in due settimane quanto si fa in almeno un mese e mezzo”. Sostenuta dall’entusiasmo, da alcune proposte relative alla distribuzione al vaglio dell’associazione e dall’idea di portare il film nei festival stranieri e italiani più prestigiosi, non ultimo il Giffoni con cui esiste una collaborazione, la troupe procede a passo spinto.
“E’ un piacere vederli lavorare, hanno cuore e passione. Sanno fare, possiedono strumenti e conoscenza, purtroppo quel che manca, ma non solo a loro, sono le opportunità per dimostrare il proprio talento”, dice Maria Rita Storti, l’insegnante che ha investito 20 mila euro nel progetto credendo nel suo valore sociale e umano.

A fare la differenza è proprio il contenuto, ne è convinto anche Giorgio Colangeli, il Salvo Lima del Divo e nel 2007 vincitore del David di Donatello come miglior attore non protagonista del film “L’aria salata” di Alessandro Angelini. In Terremotati, Colangeli che calca la scena dal ‘74, è Lorenzo, il padre di Leonardo- Stefano Muroni, protagonista della pellicola insieme a Giulio – Walter Cordopatri. “Mi è piaciuta la sceneggiatura – spiega – E’ un’esperienza interessante, oltre che un modo di mantenere un profilo etico alto. Con la mia presenza mi auguro di portare al progetto un po’ di visibilità. Noi tutti speriamo di lavorare per la qualità e di imboccare un percorso che porta all’estero, è un iter comune a gran parte dei film d’autore, un passaggio importante per poi imporsi in Italia con la giusta eco”.

Il problema della distribuzione, ricorda Giorgio Colangeli, riguarda quasi tutte le produzioni non commerciali, che possono comunque contare su piccole realtà indipendenti, vere e proprie agguerrite task force decise a raggiungere il risultato. Un risultato talmente cercato da meritare il tocco della fortuna per il combattivo impegno che sa conquistare chi ne percepisce l’energia.

Il dinamismo dell’economia ferrarese a cavallo tra Otto e Novecento

STORIA DELL’INDUSTRIALIZZAZIONE FERRARESE (QUARTA PARTE)

Con l’Unificazione della penisola sotto la dinastia dei Savoia, si aprì per la Valle Padana un favorevole ventennio di espansione agricola e di un più vivace dinamismo economico, benché continuassero ancora a persistere diffuse zone di arretratezza. Sulle terre prosciugate dalle bonifiche, che avevano richiamato nel Ferrarese schiere di braccianti e di terrazzieri, incominciò ad insediarsi la grande azienda capitalistica, dedita alla produzione cerealicola su vasta scala e aperta al mercato nazionale e internazionale. Tuttavia, l’inizio dell’industrializzazione, con l’impianto in provincia di mulini a vapore, di zuccherifici e di canapifici, non fece che rimarcare la limitativa stagionalità dell’impiego della mano d’opera: la campagna saccarifera, ad esempio, occupava i lavoratori per non oltre sessanta giorni nell’arco di un intero anno. La conseguenza fu che non venne affatto risolto il problema della disoccupazione, anzi, il fenomeno era destinato ad aggravarsi.
Bisogna comunque ammettere che, alle soglie della Prima guerra mondiale, l’espansione produttiva era stata notevole: la produzione del frumento era passata da poco più di 500.000 a oltre 1.200.000 quintali, la nuova coltura della barbabietola da zucchero si era rapidamente affermata favorendo l’insediamento dei primi stabilimenti saccariferi, la coltivazione della canapa continuava ad espandersi. E da questa positiva contingenza traeva alimento anche l’attività industriale, infatti nel 1914 le imprese industriali della provincia di Ferrara erano diventate oltre milleseicento e occupavano quasi quindicimila lavoratori, di cui circa duemila impiegati nel settore della lavorazione dei metalli e la maggior parte dei rimanenti nelle industrie trasformatrici dei prodotti dell’agricoltura.

Briciole di un amore in sfacelo

“Cosa diavolo ti è successo?” / “Non lo so. E non mi importa”.

Rebecca Winter è stata una famosa fotografa, è stata la seconda moglie di Peter che non ha smesso di sposarsi ogni dieci anni ed è stata una newyorkese molto inserita. E a trentasei anni è stanca di raccattare briciole. “Natura morta con briciole” è la fotografia (oltre che il titolo del romanzo di Anna Quindlen, edizioni Cavallo di Ferro, 2014) di uno scorcio, sono i resti di una cena di altri e a cui non si è andati, sono i rimasugli che un marito lascia prima di andare a letto con la solita sfacciata noncuranza.
Quei bicchieri da vino sporchi e quelle forchette unte in mezzo a piatti accatastati si trovano lì per lei, sono la sua vita che, una mattina, all’alba inizia a fotograre. La luce che penetra dalla finestra la sveglia, lo scenario davanti è la notte di Peter con gli amici, la sua ennesima esclusione. Rebecca ne fa arte che i critici definiscono “un’elevazione e al tempo stesso un’accusa alla vita e al lavoro delle donne”, ma solo lei sa la stanchezza e la rabbia che c’erano state dietro a quelle immagini che diventano, giorno dopo giorno, la serie Piano da cucina. Seguono altre foto, assieme alla rabbia di Peter che non si è realizzato come avrebbe voluto e che vede la moglie farsi strada a partire dagli avanzi disordinati di una cena, mollati perché lei li sgomberasse.
Poi Peter se ne va con un’altra donna e la fortuna, si sa, ha i suoi rovesci. Rebecca lascia tutto, la città, la società, la casa e va lontano, a sessant’anni, in un cottage perso tra i boschi dove nuovi legami nascono per necessità e resistono per amore.
Rebecca continua a fotografare e si imbatte nelle tracce inquietanti di un’altra vita, chissà di chi. Queste immagini misteriose e un po’ sinistre le regaleranno una nuova stagione di celebrità nella serie di fotografie Croce bianca, proprio quando la solitudine è diventata per lei stile di vita e malattia interiore.
In una notte di tempesta capita l’irreparabile, l’amore e la morte corrono paralleli. Jim è con lei, ha quasi vent’anni di meno e una ruvidezza rassicurante. Solo Jim può sciogliere il mistero delle immagini Croce bianca perché lui è il custode di quel segreto.
Solo perché ormai nella sua vita c’è Jim, Rebecca potrà rispondere “sono felice” all’amica che le chiede cosa diavolo le sia successo.

LA STORIA
Detenuti in attesa di giudizio. Non solo marò in India

di Valerio Lo Muzio

Succede che, durante un viaggio in India, tre amici decidano di assumere dell’eroina prima di addormentarsi insieme in un grande lettone di una stanza d’albergo, succede che all’indomani malauguratamente uno dei tre non si svegli più, succede che i due amici vengano accusati di omicidio e condannati in primo grado all’ergastolo. Sarebbe l’incipit di un possibile film, ma questa purtroppo è la vera storia di Tomaso Bruno, trentenne di Albenga, che insieme con l’amica Elisabetta Boncompagni da oltre 4 anni e mezzo scontano una condanna di primo grado all’ergastolo nel carcere indiano di Varanasi.
Sulla loro vicenda un film uscirà. ‘Più libero di prima’ è il titolo, a dirigerlo sarà Adriano Sforzi, la produzione è di Articolture Bologna e Ouvert di Torino. Il giovane regista, già vincitore di un David di Donatello per il cortometraggio ‘Jody delle giostre’, dovrà affrontare una sfida non facile: non solo la storia è tortuosa da raccontare, ma le maggiori difficoltà sono date dai costi davvero ingenti: le trasferte in India costano, e i numerosi rinvii del tribunale indiano per emettere la sentenza definitiva (il processo è stato rimandato ben tre volte) mettono a repentaglio il budget. Ora la data finale della sentenza programmata dalla Corte indiana, quella che dovrebbe decidere la sorte dei due ragazzi è programmata per metà ottobre (del resto, non stupisce la lunghezza dei tempi della giustizia indiana, vedi il caso dei due marò italiani), per finanziare il viaggio finale di Sforzi ed il suo team è stata indetta una campagna di crowdfunding.
Questa triste storia inizia il 28 dicembre 2009, quando Tomaso, Elisabetta ed il suo fidanzato Francesco Montis, si recano in viaggio in India. Il giorno prima della partenza i tre giovani decidono di consumare della droga, la mattina dopo, Francesco Montis non si sveglierà più. Il referto post mortem, redatto da un oculista e non da un medico legale, parla di morte per strangolamento, nonostante non ci siano segni evidenti e nell’autopsia si faccia cenno ad un’emorragia cerebrale, alla quale non viene dato assolutamente alcun peso. Per la polizia indiana e per i giudici non ci sono dubbi: è un omicidio passionale, nonostante la sentenza affermi che non ci sono abbastanza prove per dimostrare l’omicidio: il fatto che i tre dormivano nello stesso letto (cosa inconcepibile per la cultura del luogo) è di per sé una prova valida. Ecco che impressione si è fatto il regista Adriano Sforzi.

In meno di un mese avete raccolto il 92% dei fondi per il film. Te l’aspettavi?
No, assolutamente no, non ne ero neanche convinto, perché sono ligure e conosco i liguri (scoppia a ridere, ndr) però, un po’ lo speravo perché so che i liguri sono anche persone molto di cuore. La campagna di crowdfunding, serve a finanziare quest’ennesimo viaggio in india. La produzione, Ivan Olgiati di Articolture di Bologna e Stefano Perlo di Ouvert di Torino, hanno finanziato i primi viaggi, assumendosi anche il rischio che il film non si girasse. Lo scorso anno quindi, abbiamo iniziato le riprese e c’è stato il primo rinvio in tribunale con un anno di attesa. Attorno alla storia di Tomaso ed Elisabetta si è creata una vera e propria comunità, si è pensato quindi di coinvolgerli soprattutto per tenerli uniti. Infatti una delle cose più positive che sono successe in questa storiaè che un piccolo paesino della Liguria come Albenga, si è scoperta comunità, cosa molto difficile negli anni Duemila.

A cosa serviranno questi soldi, che spese andranno a coprire?
Sul nostro sito (www.indiegogo.com) è specificato chiaramente, a cosa servono i finanziamenti. Siamo andati lì con un direttore della fotografia professionista, attrezzature professionali, ci sino da coprire le spese dei viaggi, degli spostamenti, il vitto e l’alloggio, le assicurazioni. Purtroppo tutte queste spese dovremo affrontarle di nuovo, a causa dell’ennesimo rinvio decretato dalla Corte indiana.

Ecco, parliamo di questo rinvio, il 16 settembre era prevista l’ udienza presso la Corte Suprema, poi è tutto è saltato in quanto mancava l’avvocato difensore, come affronterete queste vicende nel film?
Tutte queste vicende avranno un ruolo marginale nel film, perché vorrei rappresentare la crescita di Tomaso. Sarà principalmente un romanzo di formazione, scritto a mano da Tomaso, in quanto il film è soprattutto tratto dalle lettere che Tomaso ha scritto in questi lunghi 4 anni passati in carcere.

Cosa scrive Tomaso ai suoi genitori in queste lettere?
Nelle prime lettere, Tomaso descrive gli avvenimenti di quei giorni, ma la cosa che più mi ha colpito è che ogni volta scrive ai genitori :“State tranquilli perché questa storia finirà”. E’ sorprendente come questo giovane, rinchiuso in un carcere da 4 anni, senza acqua, senza elettricità e con altri 150 detenuti, dice agli altri di stare tranquilli. Tomaso chiude spesso le sue lettere con un “Forza Inter”, è tifosissimo e si fa spedire dalla mamma dei pacchi da 100 copie de ‘La gazzetta dello sport’ per tenersi informato sul campionato italiano. Sul muro della cella ha disegnato una classifica della serie A, questo lo tiene in Italia, lo tiene vivo, ancorato alle sue radici, e lo rimanda a quel bar dove noi vedevamo ’90 minuto.

Nella homepage del sito piùliberodiprima.it c’è una citazione di Tommaso, che recita: “Sono entrato in carcere in India come un ragazzo in perenne conflitto con se stesso. Oggi sono talmente tranquillo che non provo nemmeno un pizzico di odio verso i responsabili di questa vergognosa ingiustizia”. Insomma Tommaso pare aver acquistato una consapevolezza, cosa ha trovato secondo te? Perché è così sereno nonostante sia in carcere?
Cosa ha trovato veramente non lo so, ma credo che sia giusto raccontare come ci sia arrivato a questa serenità. Tomaso è arrivato a questa frase dopo aver passato 4 anni e mezzo in carcere per un delitto che non ha commesso. Credo fermamente che questa sua evoluzione può essere utile a tutti. Mi sono convinto a realizzare il film quando ho capito che questa, poteva essere una storia universale, utile davvero a chiunque. Mi chiedevo cosa potessi fare per Tomaso, di fronte quest’enorme ingiustizia ti senti impotente, l’unica cosa che potevo fare era raccontare in un film la sua storia.

Se nella sentenza definitiva dovessero essere condannati che farete, girerete lo stesso le scene?
E’ un’ipotesi che non prendo neanche in considerazione, il mio film finisce con Tomaso che ritorna a casa, non voglio pensare a nient’altro, perché è talmente assurda tutta questa storia, che non voglio credere che continui. Quindi ora attendiamo altro tempo, ma poi gireremo il finale come dico io, non come dicono loro.

Nel 2012 Le Iene, sono andate a Varanasi, in carcere con le telecamere e i due ragazzi hanno ammesso l’assunzione di droghe, pensi che quest’ammissione abbia contribuito a far spegnere i riflettori su questa vicenda?
Purtroppo è così, proprio in quel filmato, la serenità con cui Tommy ha ammesso di aver provato per la prima volta l’eroina è la serenità con cui io affronterò questo racconto. La droga fa parte della storia di Tomaso e purtroppo anche quelle persone che pensano che chi si droga è per forza un assassino fanno parte di questa storia. Anche perché nel referto dell’autopsia redatto da un’oculista si fa cenno ad un ematoma interno nella testa di Francesco Montis, che non è causato da nessuna botta, quindi è molto ma molto probabile che la causa della sua morte sia quella. Bastava che un qualsiasi medico valutasse quell’autopsia per dire che Checco è morto di overdose e mandare a casa quei due ragazzi.

(ha collaborato Sirio Tesori)

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