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“Polo museale regionale, una discussione sul nulla”

di Ranieri Varese

L’essere cittadino ferrarese, senza alcuna altra qualifica, è, spero, titolo sufficiente per intervenire sul tema della mozione presentata da ‘Forza Italia’ e approvata nel Consiglio Comunale del 3 novembre. I giornali quotidiani di Ferrara hanno tutti dato notizia della richiesta, avanzata alla regione Emilia-Romagna, del riconoscimento di Ferrara come sede di ‘polo museale regionale’. In realtà sia nel testo approvato che nel dibattito non si è mai parlato di musei ma solo di sviluppo turistico e tutto si è concluso, con prevedibile banalità, in una richiesta di fondi così da potere organizzare due esposizioni all’anno, invece di una.

Mi chiedo in primo luogo cosa significa ‘polo museale regionale’: nessuno degli intervenuti ha specificato una formula che non fa riferimento ad un assetto legislativo, regionale o nazionale. Esistono i ‘poli museali’, basti pensare a Firenze o a Venezia, ma si tratta di forme organizzative interne alla Amministrazione dello Stato e non comprendono altri enti.

A Ferrara esistono musei diocesani, statali, universitari e civici. La formula è inapplicabile; è invece applicabile e istituibile il ‘sistema musei’ il quale, secondo la legislazione regionale, può comprendere, e nelle città dove esiste come Modena, Ravenna, Rimini comprende, istituti di diverse amministrazioni.
Il risultato è economia di scala, programmazione concordata, progetti comuni sia per quanto riguarda la tutela che la valorizzazione. Ritorno economico, per quanto possibile.
I finanziamenti regionali privilegiano questa formula che consente risultati molto più incisivi; Ferrara non ha saputo o non ha voluto muoversi in questa direzione: chi ha fatto tale scelta doveva mettere in conto il costo del muoversi in controtendenza rispetto alle scelte regionali.

La mozione che si richiama ai musei non parla, incoerentemente, del loro rapporto con le mostre, a Ferrara inesistente. Affida la salvifica ‘seconda esposizione’ a ‘Ferrara Arte’ che è responsabile, nel bene e nel male, della situazione attuale la quale così può essere sintetizzata: calo generalizzato dei visitatori ai musei e alle mostre, compreso il Castello; modesto numero dei pernottamenti; inadeguata sede espositiva; scarsa attenzione delle amministrazioni proprietarie verso i problemi dei musei, aggravati dai postumi non risolti del terremoto; modestia e limitatezza delle offerte che non siano quelle espositive a loro volta non eccezionali a causa non solo di difetti di progettazione ma anche del venir meno del sostegno bancario; assenza di strumenti di promozione e di conoscenza.
Tutti problemi che le associazioni cittadine avevano insieme analizzato ed indicato nel convegno Musei a Ferrara: problemi e prospettive del novembre 2011 i cui atti sono stati pubblicati nel novembre 2012. Gli interrogativi e i suggerimenti sono ancora attuali.
Non esiste la contrapposizione ‘mostre e musei’ se non nella attività di chi privilegia l’uno o l’altro. La proposta, ampiamente motivata e documentata, delle associazioni era la creazione di una sinergia che invitasse il visitatore delle esposizioni a percorrere la città per conoscerne il ricco e affascinante patrimonio di storia, costituito da edifici monumentali, chiese, spazi verdi, musei.

La materia esiste visto che Ferrara è stata dichiarata, dall’Unesco, ‘patrimonio della umanità’; esistono le competenze, l’Università ha il compito di crearle, ove siano assenti. Esistono i problemi e, in molti, la volontà di risolverli.
Confesso un, lieve, senso di smarrimento di fronte alla non conoscenza e alla superficialità dimostrata, congiuntamente, senza distinzione, da chi ha votato un documento nel migliore dei casi insignificante.

LA RIFLESSIONE
La democrazia e il principio di maggioranza

Se circolasse più cultura nel dibattito politico e istituzionale in corso, forse riusciremmo ad evitare un eccesso di personalizzazione che lo contraddistingue. I leader contano. I consensi sono decisivi. Ma è importante capire la concezione che guida i capi e chi li segue. Intanto una misura igienica potrebbe essere non farsi impressionare dalle legittime e semplificate propagande agitate dagli attori politici in campo.
Andiamo alla sostanza. Faccio solo un esempio. A dispetto dei classici della liberal-democrazia (Tocqueville, Stuart Mill…) che avevano ben chiaro il problema, oggi sta imperando un’equazione semplice e pericolosa: democrazia uguale a principio di maggioranza. Vediamo le obiezioni di due studiosi liberali del nostro tempo. J. Habermas scrive: “La regola della maggioranza, considerata esclusivamente come regola di maggioranza, è sciocca perché essa non è mai soltanto una regola di maggioranza. La cosa importante e decisiva sono i mezzi attraverso cui una maggioranza riesce infine a essere maggioranza. Il bisogno essenziale, in altri termini, è migliorare i metodi e le condizioni di ciò che è informazione, dibattito, discussione e convincimento.” (“Fatti e norme” Guerini e Associati). In uno dei classici sulla democrazia del nostro tempo (“La democrazia e i suoi critici” Editori Riuniti), l’americano Robert Dahl immaginando alla maniera platonica un dialogo tra ‘Maggioritario’ e ‘Critico’, segnala come una delle obiezioni più forti contro la regola della maggioranza sia proprio la sua “neutralità rispetto al merito delle questioni”.
Delineata la cornice teorica, proviamo a verificare se ci dice qualcosa circa il modo in cui si sta svolgendo il dibattito pubblico nel nostro paese. Se chi governa (il paese o un partito…) manifesta insofferenza verso le minoranze; si rifiuta di trattare e mediare; abusa del ricorso ai decreti legge e al voto di fiducia; invita chi non condivide la posizione della maggioranza ad adeguarsi nel voto parlamentare, o ad andarsene dal partito; come possiamo giudicare tutto ciò? Grande innovazione? Un cambia-verso? Penso che stiamo da troppo tempo ristagnando dentro una palude che non ci consente neanche di intravedere quale è il vero e complesso cimento che ci aspetta: far evolvere la classica democrazia rappresentativa verso una convivenza virtuosa con la democrazia partecipativa e deliberativa. Il nuovo orizzonte è una democrazia come forma sociale e non solo come fatto istituzionale e politico. Le parole chiave del nuovo lessico democratico dovrebbero essere: società della conoscenza, apprendimento continuo, cittadinanza attiva e informata.

Fiorenzo Baratelli, direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara

LA SEGNALAZIONE
Tass, la memoria sempre accesa. Crowdfunding per l’archivio web dell’opera di Stefano Tassinari

“Vorremmo realizzare un sito che raccolga l’opera di Stefano Tassinari: le testimonianze sonore, video, fotografiche e testuali della sua vita e del suo impegno”.
Così amici e compagni dello scrittore scomparso nel maggio di due anni fa annunciano l’intenzione di creare un archivio della memoria che renda accessibili a chiunque i materiali partoriti dall’intelletto creativo del celebre Tass. Tra loro Luca Gavagna, Stefania De Salvador, Agostino Giordano, i componenti dell’Itc Teatro dell’Argine, Stefano Massari, Wu Ming 1.

stefano-tassinari“I materiali saranno organizzati in modo da consentire l’accesso ai documenti per categorie e per data. Abbiamo pensato di utilizzare una piattaforma di raccolta fondi (crowdfunding) per rendere possibile a tutti di sostenere il progetto. La piattaforma prescelta è www.produzionidalbasso.com, una organizzazione attiva da molti anni che ci consente di raccogliere i fondi senza trattenere alcuna percentuale per sé. il periodo in cui il progetto è disponibile alla raccolta è di quattro mesi e scadrà il 6 gennaio 2015. Il sito www.stefanotassinari.it è già stato acquisito ed attivo. Dobbiamo popolarlo di tutti i materiali che in gran parte sono raccolti e conservati in attesa di utilizzo. Cerchiamo di raccogliere 2.450,00 euro per progettare e realizzare il sito, effettuare la standardizzazione dei materiali, acquistare uno spazio Vimeo per ospitare i filmati, pagare dominio e spazio web per almeno 4 anni”.

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Stefano Tassinari con Francesco Guccini

Giovedì sera all’Itc di San Lazzaro, in occasione della proiezione di “Tass”, il film-documentario di Stefano Massari, sono stati raccolti per la causa 125 euro. “Abbiamo superato la metà del budget previsto per la realizzazione del sito www.stefanotassinari.it. Ora siamo a 1.344,00 euro. Con un colpo di coda ce la possiamo fare”. I sostenitori finora sono 44. E restano due mesi di tempo per contribuire. Ferraraitalia lo farà e invita i propri lettori a sostenere questo progetto

Di Stefano Tassinari sulla pagina del crowdfunding vengono riportate le significative note biografiche presenti su Wikipedia, la libera enciclopedia del web. Nato a Ferrara il 24 dicembre 1955, morto a Bentivoglio l’8 maggio 2012, è stato scrittore, drammaturgo e sceneggiatore italiano. Ha pubblicato diversi romanzi e suoi racconti sono presenti in una decina di antologie, pubblicate in Italia e in alcuni Paesi stranieri.
Autore di testi teatrali, letture sceniche e di programmi radiofonici per Rai Radio 3, è stato ideatore e direttore artistico di varie rassegne letterarie, tra le quali “La parola immaginata” e “Ritagli di tempo” (Itc Teatro di San Lazzaro). È stato autore di documentari televisivi girati, oltre che in Italia, in Nicaragua, Spagna, Francia, Portogallo ed ex Jugoslavia.
stefano-tassinariHa curato la messa in scena di decine di opere letterarie di scrittori italiani e stranieri – scrive ancora il sito – collaborando con attori e registi (tra gli altri: Leo Gullotta, Marco Baliani, Ottavia Piccolo, Silvano Piccardi, Antonio Catania, Matteo Belli, Ivano Marescotti, Laura Curino e Renato Carpentieri), musicisti (tra gli altri: Paolo Fresu, Riccardo Tesi, Mauro Pagani, Yo Yo Mundi, Têtes de Bois, Casa del vento, Mario Arcari, Armando Corsi, Antonello Salis, Daniele Sepe, Patrizio Fariselli, Jimmy Villotti, Paolo Damiani e Gianluigi Trovesi) e fotografi (tra gli altri: Mario Dondero, Giovanni Giovannetti, Tano D’Amico, Raffaella Cavalieri, Luca Gavagna e Dario Berveglieri).
Vicepresidente dell’Associazione Scrittori Bologna, ha scritto di letteratura su quotidiani e riviste. È stato direttore e fondatore di Letteraria (rivista semestrale di letteratura sociale), legata dapprima ai nuovi Editori Riuniti e poi dal 2010 a Edizioni Alegre. È stato prima militante di Avanguardia operaia, poi segretario della federazione ferrarese di Democrazia Proletaria, infine (dopo una parentesi nei Verdi arcobaleno), è stato militante del Partito della Rifondazione comunista, fondatore e animatore del circolo Prc “Victor Jara” di Bologna. È scomparso nel 2012 all’età di 56 anni dopo una lotta contro una grave malattia durata otto anni.

stefano-tassinariNella pagina che esorta alla sottoscrizione a sostegno del sito stefanotassinari.it è presente anche il ricordo che Wu Ming 1 ha dedicato a Stefano Tassinari sotto il titolo “Una vita…”, un intervento pubblicato dalla Nuova Rivista Letteraria numero 6, dell’ottobre 2012, edizioni Alegre, che proprio Tassinari fondò e diresse sino all’ultimo.
“Nei mesi scorsi – scrive Wu Ming 1 – abbiamo udito e letto tanti aggettivi, come mani che cercano di afferrare un mulinello d’acqua. Forse potranno raccogliere gli oggetti che il mulinello aveva attratto e faceva vorticare (un barattolo, l’ochetta di plastica di un bimbo, il berretto di un pescatore), ma il mulinello stesso no, non si può stringere tra le dita.
Stefano era «poliedrico», ovvero simile a un solido che presenta più facce piane poligonali. Stefano era «eclettico», colui che sceglie, che fa una cernita e mette insieme oggetti diversi. Stefano era «versatile», quindi in grado di cambiare direzione. Mah. È vero che un vocabolo non è la sua etimologia – altrimenti dovremmo chiamare «denaro» (che sta per dieci) solo i biglietti da dieci euro e le monete da dieci centesimi – ma quando un vocabolo è abusato e diventa cliché, allora perde forza immaginifica, e quando viene pronunciato suona debole e spossato, come stesse per cadere all’indietro, per riaccasciarsi sulla propria origine. E così, «poliedrico» evoca la geometria: punti e linee, lati diritti, angoli appuntiti. «Eclettico» fa pensare a uno che pesca di qua e di là. «Versatile» richiama una banderuola agitata dai venti.
Nessuno di questi attributi può rendere l’idea dell’attività molteplice di Stefano come scrittore giornalista drammaturgo autore e conduttore radiofonico e televisivo organizzatore di festival rassegne e presentazioni di libri promotore di iniziative viaggiatore militante politico intellettuale marxista commentatore sportivo. Ho tolto le virgole perché non c’era separazione tra questi aspetti del suo fare, né spaziale né temporale. Noi stiamo cercando di ricostruire e mappare questo concatenamento esteso un’intera vita, senza la pretesa di afferrare il vortice, ma ponendo attenzione agli oggetti che il vortice aveva raccolto – eklektos, appunto: se diciamo che a essere eclettico non è l’individuo ma il concatenamento stesso, allora il termine suona meno stereotipato – e fatto ruotare insieme. Questo numero speciale di Letteraria è un primissimo sguardo d’insieme, al quale seguirà un lungo (e prevedibilmente accidentato) lavoro di composizione di un archivio.

I promotori del progetto spiegando, per chi non ha dimestichezza con Paypal ed è interessato a sostenere il progetto, che si può fare anche un normale bonifico in conto corrente a Luca Gavagna: “Provvederò io a versarlo sul conto Paypal dedicato”.

Il conto (intestato a Luca Gavagna presso Cassa di Risparmio di Ferrara) è
IBAN: IT36Z0615513001000000005383
descrizione/causale: sito Stefano Tassinari

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L’EVENTO
In scena il Giappone di Mishima, un prisma dai Colori proibiti

È molto difficile fare una sintesi della figura e dell’opera intellettuale di Yukio Mishima (1925-1970). Fra i massimi esponenti della letteratura giapponese contemporanea, più volte candidato al premio Nobel per la Letteratura, in Europa spesso travisato e tacciato di fascismo, in realtà interprete di una personale visione del nazionalismo nipponico, che si concentrava sul culto per l’Imperatore come ideale astratto, incarnazione dell’essenza del Giappone tradizionale. Alberto Moravia lo ha definito un “conservatore decadente”.

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Yukio Mishima

Alle spalle Kimitake Hiraoka, questo è il suo vero nome, aveva una biografia complicata, come lo è la storia del Giappone nel secondo dopoguerra, sempre sul filo tra innovazione e tradizione, apertura e conservazione culturale. Le tensioni che vive ed esprime attraverso la sua opera e il suo attivismo politico lo porteranno all’estremo gesto del suicidio rituale: il seppuku, che in Occidente abbiamo da sempre erroneamente definito harakiri. Il Teatro Comunale Claudio Abbado di Ferrara ha deciso di commissionare uno spettacolo che su questa figura intellettuale ambivalente e complessa, affidandolo alla compagnia Dulcamara e a Sayoko Onishi, grande interprete di New Butoh. La scelta di questa danza, creata da Tatsumi Hijikata e Kazuo Ohno in Giappone all’indomani della Seconda Guerra mondiale, non è un caso: il butoh è nato proprio con la messa in scena di un romanzo di Mishima e in comune hanno la natura provocatoria e una costante e quasi maniacale ricerca estetica. Alla vigilia del debutto in prima nazionale sul palco estense all’interno del ciclo Focus Japan, abbiamo incontrato Sayoko Onishi in una delle pause delle prove.

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Sayoko Onishi

Da dove è nato il titolo Mishima, l’angelo del nulla?
“Mishima era un vero artista: non solo scrittore di romanzi, ma anche drammaturgo e poeta, inoltre attore e regista. Angelo del nulla perché questa figura di grande spessore, che trasmette l’immagine di uomo potente, quando si analizzano meglio la sua vita e le sue opere si rivela una persona molto sensibile e fragile, che cela un grande amore. Quest’espressione vuole sottolineare soprattutto il fatto che non si riesce mai a cogliere fino in fondo la sua identità: nella sua vita ha tante facce, quella dell’artista e quella dell’ideologo nazionalista di estrema destra, quella del padre e del marito, quella dell’omosessuale. In lui si ritrovano tanti mondi separati, ognuno dei quali è a sé stante, un po’ assurdo, e non coglie interamente la realtà di Mishima: non si sa a quale di questi mondi appartiene, non si sa dove sta veramente”
Mishima è uno dei maggiori autori nipponici contemporanei, forse quello più conosciuto in Occidente, e allo stesso tempo è un personaggio complesso e contraddittorio, a tratti ambivalente, e spesso la sua opera è travisata e strumentalizzata. Come avete lavorato su questa figura?
Per lo spettacolo siamo partiti dai due estremi della sua opera: il suo primo romanzo, quello più autobiografico, Confessioni di una maschera e La decomposizione dell’angelo (pubblicato in Italia anche con il titolo di Lo specchio degli inganni, ndr), l’ultimo della tetralogia Il mare della fertilità. Da questi due lavori abbiamo tratto la maggiore ispirazione, ma in realtà tutte le sue opere, la sua intera biografia, dall’infanzia difficile con la figura opprimente della nonna e quella autoritaria del padre fino al gesto estremo del seppuku (suicidio rituale tramite sventramento, ndr), danno forma allo spettacolo. Affrontare una figura così complessa e contraddittoria non è stato facile, soprattutto per me che devo essere Mishima: ho dovuto intraprendere un viaggio che mi permettesse di interpretare un uomo, soprattutto un uomo come lui, nello stesso tempo fragile e energico, con una sensibilità e un lato femminile molto sviluppati, ma fedele ai valori tradizionali militaristi della società giapponese. Attraverso vari quadri narrativi tentiamo di esplorare tutti questi volti di Mishima, fino alla sua elevazione spirituale dopo il seppuku.

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Yukio Mishima

La rappresentazione di una delle opere di Mishima, ‘Colori proibiti’, viene considerata l’atto di nascita del Butoh. C’è quindi un legame intrinseco fra quest’autore e questa forma di danza…
Mishima frequentava molto i fondatori dell’arte butoh e questi a loro volta erano molto influenzati dalle sue riflessioni e dalla sua opera. Il maestro Yoshito Ono, il figlio di Kazuo Ohno uno dei fondatori della danza butoh, mi ha raccontato che questo rapporto non è iniziato nel migliore dei modi: Mishima non sapeva che la pièce era ispirata al suo Colori proibiti, ne è venuto a conoscenza solo poco prima della messa in scena e ha deciso di assistere, infastidito perché nessuno aveva chiesto il suo permesso. Vedendo lo spettacolo però si è molto emozionato e poi da lì è nato questo rapporto di confronto e influsso reciproco
Sayoko, lei è una delle più importanti esponenti del cosiddetto New Butoh, può spiegarci meglio come si è evoluta questa forma di danza?
Nel tempo ci sono state molte contaminazioni culturali, anche perché in origine i danzatori butoh erano solo giapponesi, mentre ora non più, inevitabilmente la loro cultura entra in gioco nel loro modo di interpretare questa danza. Io stessa vivo fuori dal Giappone da molti anni e dal 2000 abito a Palermo, dove ho avuto una grande crescita artistica. Non c’è più lo stereotipo del butoh, ma come dice il maestro Yoshito il butoh è avanguardia quindi non si deve fermare, deve essere in continuo sviluppo
Ormai da un po’ di anni ha eletto come patria d’adozione la Sicilia, perché questa scelta? Quali sono le differenze e, se ne esistono, le similitudini fra le sue due ‘case’?
Sono arrivata in Sicilia a Palermo perché invitata come coreografa e insegnante dell’Associazione Siciliana Danza, per la quale ormai ho creato ormai diversi lavori con danzatori e attori. La differenza più evidente è che i siciliani sono molto più espansivi e irruenti, noi giapponesi al contrario siamo più riservati, tranquilli, persino troppo formali forse. In comune però abbiamo questa grande intensità delle emozioni che non riveliamo mai fino in fondo e nei miei laboratori di butoh è come se questa intensità accumulata dentro quasi esplodesse.

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Sayoko Onishi

Sayoko Onishi ha cominciato lo studio del butoh a Hokkaido con Ipei Yamada all’interno della compagnia Hoppoh-butoh-ha. La sua formazione comprende inoltre la danza classica e contemporanea, il tai chi e il Chigong. Collaboratrice di Yoshito Ohno, nel 2000 ha dato inizio alla sua carriera artistica in Europa con il trasferimento a Palermo, che le ha permesso di collaborare con l’associazione siciliana ‘Danza’, mentre da coreografa ha cooperato con la Deutsche Oper di Berlino e si è esibita da solista in importanti teatri internazionali.

LA PROVOCAZIONE
Cambiamenti climatici, letale indifferenza

Troppo spesso di fonte a certe informazioni sui cambiamenti climatici e sulle gravità ambientali il nostro atteggiamento è distante e passivo. Sembra che non ci interessi o quantomeno che non siamo in grado di comprendere quale potrebbe essere il nostro ruolo e quale sia la nostra responsabilità. Perché questa indifferenza? Forse la dimensione del problema che riteniamo troppo distante da noi? Forse la situazione presentata appare senza soluzione? Forse la gravità è cosi elevata che ci rende impotenti? Eppure non è cosi. Abbiamo, tutti, più responsabilità e più possibilità di reagire. Vorrei fare un esempio citando alcuni dati.
Esperti ci hanno ricordato alcune questioni importanti:
1. la concentrazione atmosferica dell’anidride carbonica e di altri gas con simile effetto – detti “gas serra” – è aumentata; le emissioni di gas serra dipendono dalle attività produttive e merceologiche umane; la temperatura media della Terra tende ad aumentare. E’ difficile negare che l’aumento della produzione e dei consumi fa aumentare la massa di anidride carbonica che viene immessa nell’atmosfera ogni anno; il solo consumo di circa 10 miliardi di tonnellate all’anno, complessivamente, di carbone, petrolio e gas naturale, comporta una immissione nell’atmosfera di circa 25 miliardi di tonnellate di anidride carbonica. L’aumento della concentrazione dell’anidride carbonica nell’atmosfera è la causa dei mutamenti climatici dannosi all’economia, alla salute e alla vita.
2. la prossima guerra sarà quella del clima. Le maggiori città europee potrebbero essere sommerse dall’aumento del livello dei mari. La previsione più rilevante è che il riscaldamento farà scogliere i ghiacci artici, diluendo la salinità dell’Atlantico. Di conseguenza, si interromperà la corrente del Golfo, quella corrente mite che parte dal golfo del Messico per lambire Inghilterra, Irlanda e Mare del Nord. Violente tempeste abbatteranno le barriere costiere rendendo inabitabile gran parte dell’Olanda. Città come l’Aja verranno sommerse dalle acque e dovranno essere abbandonate. Entro venti anni il Nord Europa diverrebbe siberiano, e la popolazione si trasferirebbe più a Sud. Gli iceberg arriverebbero al largo del Portogallo. Disordini e conflitti interni lacereranno l’India, il Sud Africa e l’Indonesia. Aree ricche come gli Stati Uniti e l’Europa diventeranno fortezze e alzeranno il ponte levatoio per impedire l’afflusso di milioni di profughi da terre sommerse dalle acque o regioni incapaci di produrre raccolti. Giappone, Corea del Sud e Germania si doteranno di capacità nucleari al pari di Iran, Egitto, Corea del Nord mentre Cina, India e Pakistan saranno tentati di usare la bomba.
3. le concentrazioni di gas serra nell’atmosfera hanno raggiunto i più alti livelli “in 800 mila anni”, “resta poco tempo” per riuscire a mantenere l’aumento della temperatura entro i 2 gradi centigradi: è la sintesi del rapporto del Gruppo di esperti sul clima dell’Onu (Ipcc). Le emissioni mondiali di gas serra devono essere ridotte dal 40 al 70% tra il 2010 e il 2050 e sparire dal 2100, ha spiegato il Gruppo intergovernativo di esperti sul clima (Ipcc) nella più completa valutazione del cambiamento climatico dal 2007 ad oggi. La temperatura media della superficie della Terra e degli Oceani ha acquistato 0,85°C tra il 1880 e il 2012, hanno aggiunto gli esperti dell’Ipcc riuniti a Copenaghen.
La terza notizia è di ieri. “L’azione contro il cambiamento climatico può contribuire alla prosperità economica, ad un migliore stato di salute e a città più vivibili”: lo ha detto il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon. La prima è tratta da un vecchio libro di Giorgio Nebbia “Nessi tra i cambiamenti climatici e l’economia”. La seconda è tratta dal rapporto del Department of Defence (in siglia, DoD) americano e risale a oltre venti anni fa.
Faremmo bene a preoccuparci un poco di più e a trovare la soluzione, partendo dal nostro comportamento. Oggi, non domani.

Un liceo esclusivo contro l’esclusione

Ne hanno scritto quest’estate Le Monde e il Guardian, rilanciata in settembre dalla rivista Internazionale, la notizia per noi della Città della Conoscenza è di quelle golose. Una storia tipo il “Principe e il povero” di Mark Twain, una storia di solidarietà tra condizioni sociali opposte, una storia di riscatti.
La reggia è il prestigioso, esclusivo liceo Buffon nel quindicesimo arrondissement di Parigi, gli attori i suoi studenti e i giovani di cui l’associazione Impulsion 75 si prende cura, per riconciliarli con se stessi, con la famiglia, con la società. L’obiettivo è quello di contrastare gli effetti della dispersione scolastica e di combattere l’emarginazione sociale. Qualcosa che tocca la carne viva del nostro Paese, col suo 17,6% di drop out che ci colloca nelle retrovie delle classifiche Ocse, con circa 70 miliardi di costo all’anno, pari al 4% del Pil.
Il problema investe soprattutto il Sud Italia, con punte del 35% nella sola Sardegna e Sicilia, con Caltanissetta che totalizza il 41,7% di dispersione al termine del quinquennio delle superiori.
Negli ultimi 15 anni, il 31,9% degli studenti delle superiori non ha portato a compimento il suo percorso di studi, ben uno su 3. Giovani tra i 15 e i 24 anni che per effetto della rigidità del nostro sistema scolastico, si affacciano alla vita già perdenti, destinati ad essere cittadini a metà, neppure precari del lavoro, ma precari della vita.

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Il preside con alcuni dei ragazzi

L’esperienza che nasce dall’incontro tra il liceo Buffon di Parigi e l’associazione Impulsion 75 sta a dimostrare che anche la scuola può mostrare il suo volto migliore, che tante sono le strade che si possono percorrere per recuperare tutte quelle ragazze e quei ragazzi che la scuola non ha saputo trattenere e che la chiave di tutto è la fiducia, avere fiducia nei giovani, offrire loro possibilità e alternative, essere in grado di incontrare i loro bisogni che sono soprattutto di essere accettati e ascoltati.
E così il liceo Buffon ha fatto, aprendo le sue aule e i suoi laboratori a questi giovani, spesso etichettati come ‘difficili’, mettendo a disposizione i suoi insegnanti e i suoi studenti. Ha accolto i ragazzi e le ragazze dell’associazione Impulsion 75. Più di 150 giovani, alcuni dei quali con precedenti penali, che hanno ricominciato a sperare, frequentando un corso di cinque settimane per recuperare autostima e costruirsi una prospettiva di impiego.

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Laboratori di teatro

Mentre loro frequentano queste “classi preparatorie per l’occupazione e il futuro”, i loro colleghi, più fortunati, studiano nelle aule vicine per prepararsi ad entrare nelle università francesi. Ma l’incontro ha creato solidarietà e aiuto reciproco, una sorta di ‘cooperative learning’ sui generis, del tutto originale, una presa in carico dei loro compagni arrabbiati contro tutto e tutti, offrendo loro amicizia, aiuto, consigli e, perché no, l’esempio che si può anche non odiare la scuola.
Hanno iniziato in palestra con il tirare di pugni, un modo per conoscersi e per non temersi, per costruire quelle amicizie che solo i ragazzi sanno impalcare. Sì perché, tra le altre cose, il progetto di Impulsion 75 prevede questo.
Il programma organizzato dal liceo Buffon e Impression 75 dura cinque settimane e comprende sport, corsi di teatro, seminari che vanno dall’autostima al diritto, dalla salute all’impresa.

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Allenamenti di pugilato al Liceo Buffon

È proprio la possibilità di fare sport che spesso convince questi ragazzi ad accettare l’offerta di Impulsion 75, a tentare di recuperare un vivere regolare e ordinato delle loro giornate. Alle 9,30 si inizia con il pugilato o uno sport di squadra. Due mattine alla settimana c’è l’improvvisazione teatrale. Durante la pausa pranzo i ragazzi siedono con gli altri studenti e con gli insegnanti del liceo Buffon che li sostengono e li incoraggiano a progredire.
Nel programma di recupero di Impulsion 75 c’è pure il gioco, è il Parigi express che si svolge in giro per la città per imparare a relazionarsi correttamente con gli altri. Ogni mercoledì si visita una grande azienda e qui ci si ferma a mangiare. Alla fine dello stage di cinque settimane, le ragazze e i ragazzi perfezionano il loro progetto professionale, girano un video di presentazione di sé, si allenano a sostenere i colloqui di lavoro, impersonando loro il ruolo dei reclutatori, mentre i candidati sono interpretati dai loro compagni studenti del liceo Buffon.
I risultati sono impressionanti. Nel 2013 l’86% dei ragazzi coinvolti nel programma ha trovato un lavoro o ha frequentato un corso di formazione.
Seimila euro è il costo per ragazzo di questo progetto, finanziato per metà dal pubblico, stato, enti locali, Unione europea e per metà con fondi privati. Ben poca cosa, se si pensa che i francesi hanno calcolato in 230.000 euro nell’arco di una vita il costo di ogni ragazzo che abbandona la scuola. In Francia sono 140.000 ogni anno, da noi oltre 180.000.
Il nostro Paese che ha una splendida storia di inclusione e di integrazione nella scuola, ancora stenta a far fronte all’emergenza della dispersione scolastica. Le timide proposte di questo governo di aprire le scuole per corsi di recupero pomeridiani fanno sorridere di fronte alla portata di una esperienza come quella qui raccontata.
La scuola di tutti non può escludere nessuno. Se accade, è difficile che possa essere colpa solo di chi ancora sta crescendo, e non, prevalentemente, di chi, adulto, è già cresciuto.
Per questo una scuola è davvero aperta solo se sa mettersi a disposizione piena delle necessità di quanti ha escluso.

Per saperne di più leggi il servizio su Le Monde  [vedi] e visita il sito di Impulsione75 [vedi] in lingua francese.

Arzèstula, attraversare l’utero della terra e rinascere

Dal Parco della Chiusa all’ex-autogrill Cantagallo, Casalecchio sul Reno, 26-27 novembre (terza parte) by Wu Ming 1

3.SEGUE – Gli alberi caduti sono molti e chiudono i sentieri con fusti fradici, scivolosi. Tocca scavalcarli, scalarli, le suole troppo infangate per fare attrito, così cado, due, tre volte, e quando riprendo il cammino affondo fino alle caviglie. Sono costretta a piccole deviazioni per pulirmi le suole su rocce e sterpi. Alla mia destra scorre il Reno, possente, non lo vedo ma sento il rombo, di là dalla striscia di bosco della golena, oltre le barriere di ontani e salici e i grovigli di canneti.
Finalmente arrivo al ponte, passerella d’acciaio uguale a come l’ho lasciata. La infilo di buon passo e lì mi appare, il fiume, e mi commuove, azzurro come uno stereotipo ma diverso da ogni altra cosa, il fiume. Scende dall’Appennino e attraversa la grande pianura, percorso inverso al mio.
Dall’altra parte mi attendono le vecchie colline di ghiaia della Sapaba, oggi colline e basta, coperte di piante, verdi da ferire gli occhi. Me le lascio alle spalle camminando più svelta, una frenesia improvvisa mi muove le gambe, via il cappuccio, via la sciarpa, sono quasi a casa, a casa! Un tempo qui c’era un campo nomadi, ma oggi quasi tutta Italia è campo nomadi, e forse buona parte del mondo, ma io sono a casa. Giro verso destra, imbocco un ultimo sentiero ed eccolo. Il Cantagallo.

La mia famiglia mi accoglie festante. Manco da quaranta giorni, da quando decisi di scendere nei miei luoghi, tornare all’origine, far chiarezza nella mente e nel corpo. Da settimane registravo interferenze nelle visioni, provocate dalle ondate di calore, vampate che mi arrembavano da dentro. Le sentivo nel petto, le sentivo alla nuca. Arrivavo al rituale stanca, dopo nottate insonni, infastidita da pisciate urticanti e dall’attrito dei polpastrelli su mucose asciutte, innervosita da ogni cosa. A volte scoppiavo a piangere durante il racconto e contagiavo gli altri, tutto si inceppava. L’ingresso nella nuova età turbava la mia funzione, la menopausa mi obbligava ad affrontare il futuro spicciolo, a chiedermi che sarebbe stato di me e del mio posto nel mondo. Addio definitivo alla fertilità: un contraccolpo anche per me, infertile da sempre per capriccio dell’utero. Dovevo fermarmi, ritrarmi, ritrarmi e ripensare tutto, ricordare tutto, lontana da qui, innestata in un altro tempo. E scuotere il corpo, metterlo alla prova.
– Stasera celebriamo! Si mangia, si beve e si fa l’amore! – annuncia Nita. E’ bello rivederla. Quaranta giorni fa, nel salutarmi, la sua voce era rotta e disforica. Oggi squilla come i telefoni di quand’ero bimba. Nita ha venticinque anni, io ne sto per compiere cinquantadue. Siamo il vice e il versa. Mentre ero via, lo so, è stata lei a dirigere il rituale, a vedere, ad avviare il racconto. Ho fiducia, so che ha lavorato bene. Le ho insegnato
molto di quello che so.
Molto, sì, ma non tutto. Io stessa non so di sapere molte cose, dunque non sono in grado di insegnarle.
Io vedo, e molto di più non saprei dire.
Io sono la veggente del Cantagallo, la donna che guida questa famiglia, che vede e racconta i futuri remoti. Ho attraversato la mia crisi nella Crisi, e sono tornata dove sto meglio, per vivere con quelli che amo, invecchiare con quelli che amo, e un giorno morire con quelli che amo al mio fianco.
Eccoli, ridono, mi abbracciano e baciano. Gli abbracci di chi ha un solo arto mi inteneriscono, sono sghembi, ricordano la posa di un danzatore di sirtaki.
Eccoli, i miei piccoli, con le loro malattie, le loro forze, le loro speranze. Saluto Antioco, che ha la sindrome di Capgras. Se mi guardasse in volto non mi riconoscerebbe, gli apparirei come un’estranea che mi somiglia, manichino di carne con le mie fattezze. Per volermi bene, per volere bene a chiunque, deve chiudere gli occhi, perché la voce, quella, rimane vera. Abbassa le palpebre, mi ascolta e sorride.
Saluto Ileana, che ha la sindrome di Fregoli. Non mi guarda nemmeno, si muove con gli occhi umidi verso Nita, la abbraccia emozionata e la saluta… chiamandola col mio nome. Nita non la corregge, io nemmeno. Va bene anche così.
Saluto Ezio, che è quasi cieco ma non lo sa, si rifiuta di saperlo. Ha la sindrome di Anton. Mantiene lo sguardo spento puntato sul mio naso, forse il mio viso è solo una macchia pallida, e forse nemmeno quella, ma Ezio è felice di rivedermi e dice: “Hai un’espressione radiosa, il viaggio ti ha proprio fatto bene!” Saluto Demetra, Tiziano e Lizebet, che non soffrono di alcuna sindrome. Saluto Edo, Yassin, Pablo e Natzuko. Saluto i bimbi che mi si aggrappano alle gambe. Saluto i cani e le capre, saluto col pensiero ogni animale e ogni pianta nella nostra orbita, intorno a questo mondo di profughi splendenti, questa nazione messa insieme in un vecchio autogrill, a cavallo di un’autostrada sgombra, dove suscita meraviglia il raro passaggio di veicoli a motore. Quest’autogrill che può ancora funzionare come tale, perché diamo ristoro e riparo ai viandanti, perché viandanti lo siamo stati tutti, prima di arrivare qui da vicino o da lontano.
Reietti. Reietti che ogni mattina afferrano il futuro per la coda e fanno sci d’acqua sul presente, lieti di esserci, pronti ad affrontare il giorno, ad allevare e coltivare, insegnare ed educare, partire per esplorare, tornare per raccontare.

Notte fonda, la luna è un filo curvo e non c’è ombra di nubi. Guardo l’A1 dalla lunga vetrata che la sormonta. Ogni pietra, ogni lastra, ogni chiodo e vite del Cantagallo potrebbe narrare un milione di storie.
Qui, nel 1972, i dipendenti entrarono in sciopero improvviso e spontaneo, per non dover fare il pieno e servire il caffè a un politico di allora, Giorgio Almirante. Ne nacque una canzone popolare, forse una delle ultime, ancora la ricordo: “Arrivato che fu al Cantagallo / ha di fronte un bel ristorante / meno male, pensava Almirante: / cosi almeno potremo mangiar. / Tutti fermi, le braccia incrociate, / non si muove nessun cameriere. / Niente
pranzo per camicie nere, / a digiuno dovranno restar.”
Oggi sembra un mito dell’Età del Bronzo.
– Chi era Al Mirante? – mi ha chiesto Nita un pomeriggio d’estate.
– Era il capo dei fascisti.
– E chi erano i fašisti?
Qui, la notte di Capodanno del 2002, fu battuto il primo scontrino nella nuova valuta, l’euro. Ne scrissero i giornali. Il cittadino detentore del primato si chiamava Lorenzo. Il suo acquisto: una confezione di chewing-gum pieni d’aspartame.
Ricordi della Seconda Età del Cancro.
– Cos’era lo spartame? – mi ha chiesto Pablo una sera d’autunno.
– Una cosa dolce che faceva molto male alla salute, ma tutti la
mangiavano e bevevano.
– E perché, se faceva male?
Qui, nel 2006, un camionista gridò di avere indosso una cintura esplosiva e seminò il panico nel ristorante. Esigeva che la polizia gli sparasse, altrimenti avrebbe fatto saltare l’edificio. Desiderava essere ucciso. Il Cantagallo fu evacuato e le autorità chiusero il tratto di A1 da Casalecchio a Sasso Marconi. Fu il caos in mezza
Italia. Dopo un’ora di trattativa, la polizia convinse l’uomo ad arrendersi. Sotto il giaccone aveva un cuscino, il filo del detonatore era il caricabatteria del cellulare. Disse che aveva problemi lavorativi, era sfruttato e la sua famiglia stava andando in pezzi.

La mia invece no. Dopo la festa, c’è ancora musica suonata in qualche stanza. Qualcuno si aggira discutendo, altri ronfano, rassicurati, avvinghiati l’uno all’altro nei sacchi a pelo.
Salgo sul tetto, dove abbiamo costruito la specola. E’ una notte ideale per vedere gli astri. Notti così son meno rare di una volta, la Crisi ha reso tersa la volta celeste, non ti senti più sul fondo di un bicchiere d’orzata fluorescente.
Non tocco il telescopio. Si vede a occhio nudo l’ammasso delle Pleiadi, figlie di Atlante e Pleione.
Quando ti perdi tra acqua e terra, fissa il cielo notturno, frugalo in cerca di segreti. Lo spazio profondo sarà là per attirarti, supplizio di Tantalo fatto di vuoto.
Dopo, calerai di nuovo lo sguardo, rinfrancata, conscia del tuo baricentro.
Ho attraversato l’utero della terra, ho visto il rompersi delle acque e sono rinata.
Di nuovo al mondo, di nuovo al mio posto.
Per me.
E per gli altri.

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LEGGI LA SECONDA PARTE

Racconto apparso nell’antologia “Anteprima nazionale. Nove visioni del nostro futuro invisibile.” A cura di Giorgio Vasta, Minimum Fax, Roma 2009.
© 2009 by Wu Ming 1, [vedi]

L’APPUNTAMENTO
Un passato tanto prossimo quanto ignoto

“Qualche anno fa in un’indagine giovanile emerse che per molti studenti furono le Brigate Rosse a mettere la bomba in piazza Fontana a Milano e molti non sapevano nemmeno chi fosse Aldo Moro: ce n’è abbastanza per tentare di recuperare la ‘memoria smemorata’ dei nostri giovani”. Queste le motivazioni che hanno spinto il professor Andrea Pugiotto – Ordinario di Diritto costituzionale nell’Università di Ferrara – a realizzare “Passato Prossimo. Pagine recenti di storia costituzionale”, ciclo d’incontri promosso dal Dottorato di ricerca in Diritto costituzionale di cui è il coordinatore, che si terrà con cadenza settimanale ogni venerdì, dal 7 novembre al 5 dicembre, alla Libreria Ibs di piazza Trento Trieste. La “scarsa consapevolezza della storia contemporanea” riscontrata negli anni in molte matricole universitarie lo ha convinto della “necessità di offrire dal punto di vista didattico momenti di studio, di apprendimento, di riflessione”, che parallelamente potessero divenire, anche per i docenti delle scuole medie superiori e i loro alunni, un’occasione di approfondimento “su una parte di storia che spesso non si raggiunge nei programmi scolastici”.

Cinque i temi affrontati: stragismo, diritti civili, terrorismo, partitocrazia e populismo. Ogni incontro prenderà le mosse da un evento e da un libro, che “diverranno il detonatore della riflessione”: la bomba di piazza Fontana (7 novembre), la chiusura dei manicomi (14 novembre), i 55 giorni del rapimento di Aldo Moro (21 novembre), il sistema politico fino alla sua implosione con Tangentopoli (28 novembre), la crisi della rappresentanza politica e l’avvento dei partiti carismatici (5 dicembre).

“Dopo una lettura scenica affidata all’attore Marcello Brondi – spiega ancora il professor Pugiotto – ci sarà l’intervento di uno storico mirante a ricostruire il contesto in cui si inserisce l’evento narrato dal libro. A seguire, il dialogo tra l’autore del volume in questione e un costituzionalista dell’Università di Ferrara, per rendere dialettico e non reticente il confronto fra gli ospiti. Poi la palla passerà al pubblico, che potrà rivolgere le proprie domande ai relatori”. Ad affiancare questi incontri, due monologhi teatrali di Mauro Monni che “si svolgeranno alla Sala Estense alle 21 con ingresso libero”: martedì 11 novembre “Feltrinelli. Una storia contro”, dedicato alla vicenda umana, professionale e politica dell’editore Gian Giacomo Feltrinelli; martedì 25 novembre “La solitudine del Re”, incentrato sulla figura umana e politica di Aldo Moro.

“Un’iniziativa di questo tipo – sottolinea il docente di Diritto Costituzionale – può nascere dalla fantasia di una persona, ma ha bisogno di molte gambe per camminare. E poiché credo fermamente in un ateneo che si apra alla sua città, gli incontri non si svolgeranno in aule universitarie. Infatti, per il quarto anno consecutivo, saranno ospitati presso la libreria Ibs che si conferma così uno dei polmoni culturali di Ferrara. Inoltre ho cercato e ottenuto l’appoggio di molti enti, pubblici e privati: oltre al patrocinio dell’ateneo estense e del Comune e della Provincia di Ferrara, il sostegno della Fondazione Forense e della Fondazione dell’Ordine dei giornalisti dell’Emilia Romagna e della Banca Generali Private Banking. Hanno collaborato alla realizzazione anche Arci, l’Ordine degli avvocati di Ferrara e l’Ordine dei giornalisti dell’Emilia Romagna”.

A conclusione della nostra conversazione il professor Pugiotto precisa: “Il sottotitolo ‘pagine recenti di storia costituzionale’ nasce dalla consapevolezza che è difficile capire il ruolo della Costituzione come regola e limite al potere se non si colloca la Carta Costituzionale all’interno delle dinamiche storiche, politiche, istituzionali del nostro paese. Da qui la volontà di organizzare questi incontri: riflettere e comprendere le dinamiche di fasi storiche importanti della nostra vita nazionale può essere una chiave di lettura preziosa per capire meglio il presente, dove s’intravede – secondo me – più del nuovo che avanza, il vecchio che ritorna sotto mentite spoglie”.

Il programma aggiornato degli appuntamenti è disponibile su www.facebook.com/passatoprossimo2014 [vai]

La favola vera del paese Riciclone

C’era una volta (chissà dove?, chissà quando?) un paese in cui si viveva bene; c’era il sole, il mare, qualche volta la neve e la gente era davvero simpatica.
Mangiava, dormiva, studiava, lavorava, giocava…
Per fare questo aveva bisogno di poche cose che usava e riusava; poi quando queste cose sembravano non servire più… mistero: c’era sempre qualcuno che se ne occupava trasformandole in qualcosa di completamente diverso, ma nuovamente utile. Tutto avveniva in modo naturale. Vivevano così comodamente che non si erano mai preoccupati di sapere chi fosse questo qualcuno, dove abitasse e come facesse.
Si ritrovarono però, inconsapevolmente, a inventare le cose più strane, creando nuovi materiali… mischiando e rimischiando davano forma ai loro desideri.
Più passava il tempo più si sentivano nuove esigenze: necessità di strumenti, di attrezzature particolari, di prodotti di ogni genere. Cominciarono ad aumentare carta, plastica, vetro, metalli e altro ancora.
Erano soprattutto gli imballaggi a fare da padrone: in ogni angolo delle strade si trovavano mucchietti di cassette, scatole e bottiglie.
Qualche frigorifero, qualche lavatrice, dei mobili e perfino dei materassi giacevano abbandonati su aree verdi o sugli argini dei fiumi. Come mai?
Forse qualcosa si era rotto? Il “mistero” misterioso che prima faceva sparire tutto adesso lasciava cumuli di cose! Con il tempo la popolazione si rese conto che tutto ciò stava diventando un grande problema. Innanzitutto diede un nome a queste montagne di “cose vecchie”: spazzatura, rifiuti, immondizia, pattume… Poi decise di raccogliere i rifiuti e di portare tutto su un prato, ma presto il prato non bastò più. Pensò allora di utilizzare aree dei paesi vicini, ma anche questa, con il trascorrere del tempo, si dimostrò non essere la soluzione più adatta: infatti anche i paesi vicini cominciavano ad avere problemi per i troppi rifiuti. Si diffuse allora una grande preoccupazione che coinvolse l’intera popolazione.
Si riunì dunque il gruppo dei saggi per tentare di risolvere il problema. Iniziarono a studiare “come si faceva prima”, scoprirono il grande meccanismo della natura che non lasciava resti, né produceva rifiuti. Ipotizzarono ingegnosi sistemi per aiutare la natura, per accelerare i processi di trasformazione. Dopo aver scartato alcune proposte che non davano garanzie per il futuro, decisero di affrontare con grande determinazione la questione, coinvolgendo tutti gli abitanti del paese.
Furono individuate soluzioni che taluni considerarono eccessivamente drastiche; tuttavia la maggior parte della popolazione le valutò come ragionevoli e, soprattutto necessarie.
I saggi presero a parlare con gli abitanti per indurli a ridurre la quantità di rifiuti prodotti (con scarsi risultati: molte cose erano troppo belle e troppo “utili”, era difficile rinunciare a qualcosa…, le loro borse della spesa erano sempre più traboccanti di nuovi prodotti considerati “indispensabili”) e a raccogliere i materiali scartati in modo separato. Un po’ per gioco, un po’ per la nascita di programmi e incentivi e un po’ per obbligo iniziò la raccolta differenziata.

Come fiori spuntarono campane di tutti i colori e gruppi di ragazzi trovarono lavoro in questa attività. I terreni, impoveriti dal tempo e dalla continua produzione di frutti, furono arricchiti con il compost ottenuto dagli scarti degli stessi prodotti agricoli e così si riprese a vedere il paesaggio di una volta.
Certo non fu facile, anche perché era necessario mettersi d’accordo con altri paesi e si sa come spesso ciò sia difficile, tuttavia i risultati che si ottennero, nonostante le molte difficoltà iniziali, facevano ben sperare.
I saggi ritennero necessario reperire risorse nuove per nuovi impianti, per produrre calore ed energia elettrica, per bruciare rifiuti, per non rovinare il territorio con brutte discariche, per non inquinare. Ritennero soprattutto necessario mettere d’accordo tante persone, che però svolgevano lavori diversi e quindi erano portatori d’interessi diversi. Vennero raccolti carta, vetro, plastica, metallo: materiali che dovevano essere riciclati, non smaltiti! Per questo iniziarono anche a discutere sulle soluzioni tecnologiche migliori e nacquero i primi contrasti tra produttori, distributori e consumatori.
I saggi pensarono di tassare di più chi non collaborava e di premiare chi lo faceva. Avviarono anche dei controlli e qualche risultato iniziò ad arrivare. I frigoriferi non più utilizzati vennero raccolti in specifici centri, fu venduta più carta riciclata, i rifiuti pericolosi erano trattati a parte; insomma, poco alla volta venne rallentato il grande pericolo della invasione dei rifiuti! Ma tutto questo non bastava e non basta; i saggi stanno ancora lavorando per far crescere imprese serie e persone ragionevoli. Tuttavia ci sono molte presenze scomode, molti esempi del passato che fanno capolino sull’argine di un fiume, in una vallata, a volte anche dietro l’angolo di casa… ma questa è storia recente che voi tutti conoscete.

LA PROVOCAZIONE
Pet-tax

La cosa è segretissima, ma qualche indiscrezione è trapelata dagli addetti ai lavori: al Mise (Ministero dello sviluppo economico) stanno lavorando alacremente alla conclusione di un accordo con Facebook per introdurre una tassa sulla pubblicazione a qualunque titolo sul social network di foto e filmati di cagnetti e gattini. La Pet-tax, così viene indicato nei corridoi del ministero il nuovo balzello, avrà una struttura fortemente progressiva e consentirà, secondo le stime prudenziali degli esperti, di raccogliere oltre 10 mld di euro ogni anno. Lo schema su cui stanno lavorando i tecnici prevede, sempre stando alle indiscrezioni, un costo fisso per chi pubblica una foto o un filmato avente per soggetto uno o più animali domestici: l’idea sarebbe quella di fissare la tassa in 10 centesimi per le foto e in 5 centesimi al secondo per i filmati. Per cui ad esempio una ripresa della durata di 30 secondi che mostra il cane e il gatto di casa giocare come fratelli di latte costerebbe 1,5 euro. Cifre modiche, dicono al ministro, per non comprimere in misura inaccettabile il diritto costituzionale dei proprietari di animali di rendere edotti i propri amici virtuali della gioia di possederne anche a quattro zampe.
Ad ogni condivisione, tuttavia, il valore dell’imposta aumenterebbe: o del 100%, come sostengono i falchi, oppure del 50%, come suggerisce un sottosegretario la cui consorte è una nota esponente della Lav. Facebook incamererebbe il 10% di quanto riscosso per i diritti di esazione e per compensare il costo di sviluppo del software in grado di riconoscere automaticamente le foto ed i filmati da tassare. Si potrà pagare con carta di credito o PayPal, mentre è in fase avanzata di negoziazione la convenzione con gestori telefonici ed Isp per l’addebito diretto in bolletta. Sempre su proposta del sottosegretario citato, per venire incontro ai tanti malati di condivisione compulsiva ed irrefrenabile, si sta studiando l’ipotesi di proporre forme di abbonamento che prevedano un numero predefinito di condivisioni mensili (si pensa attorno alle 50) per un prezzo forfettario (si ragiona sulla cifra di 3 euro). Al superamento della soglia, ogni pubblicazione ulteriore dovrebbe essere obbligatoriamente preceduta da un messaggio che indica il superamento del bonus. I falchi del ministero, più interessati al gettito che alla rieducazione ed al riscatto dalle dipendenze, pare siano fieramente contrari all’idea, in nome della libertà del cittadino di impiegare le proprie risorse come meglio ritiene opportuno. Un altro sottosegretario, che si dice abbia una relazione più che affettuosa amicizia con una giovane esponente di un noto sindacato pensionati, si sta invece battendo per ottenere forti sconti per gli over 65, mentre il gruppo dei falchi pare intenzionato a richiedere la previsione di specifiche sovrattasse per chi pubblica contenuti multimediali che abbiano come soggetto animali esotici o di grossa taglia. Il provvedimento, che viene ormai dato in dirittura d’arrivo, dovrebbe essere contenuto nel prossimo decreto omnibus del governo dal titolo “SvegliaItalia”.
Per il momento è tutto. In caso di ulteriori novità vi terremo informati.

REPORTAGE
Musica per immagini al Jazz club Ferrara

Un  cartellone di appuntamenti musicali di grande rilievo quello in programma al Jazz club Ferrara. Questa sera – nella sede del Torrione di San Giovanni, via Rampari di Belfiore 167 – l’appuntamento con Sonic Boom: Uri Caine a piano e Fender Rhodes; Hans Bennink alla batteria. L’ingresso, dalle 21,30, è a pagamento.

Ma intanto ecco le belle immagini dell’ultimo “main concert”: quello di venerdì scorso con Anat Cohen Quartet. Il reportage fotografico è di STEFANO PAVANI.

[clicca le immagini per ingrandirle]

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Anat Cohen Quartet ospite al Jazz club Ferrara 2014 (foto di STEFANO PAVANI)
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Anat Cohen Quartet ospite al Jazz club Ferrara 2014 (foto di STEFANO PAVANI)
Anat Cohen Quartet ospite al Jazz club Ferrara 2014 (foto di STEFANO PAVANI)
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Uno dei componenti dell’Anat Cohen quartet ospite al Jazz club Ferrara 2014 (foto di STEFANO PAVANI)
Anat Cohen Quartet ospite al Jazz club Ferrara 2014 (foto di STEFANO PAVANI)
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Uno dei componenti dell’Anat Cohen quartet ospite al Jazz club Ferrara 2014 (foto di STEFANO PAVANI)
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La clarinettista Anat Cohen ospite al Jazz club Ferrara con il suo quartetetto (foto di STEFANO PAVANI)
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La clarinettista Anat Cohen ospite al Jazz club Ferrara 2014 con il suo quartetetto (foto di STEFANO PAVANI)
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La clarinettista Anat Cohen ospite al Jazz club Ferrara 2014 con il suo quartetetto (foto di STEFANO PAVANI)

LA RIFLESSIONE
Quello che riga le macchine

Si ripetono con una certa regolarità anche a Ferrara episodi di vandalismo: gomme di auto bucate, specchietti retrovisori o cristalli frantumati, ruote di biciclette piegate, specchi viari rotti, auto rigate o addirittura date alle fiamme…. L’ultimo caso è di sabato, capitato in via Baluardi.
Il vandalismo ha una duplice connotazione: da un lato genera insicurezza diffusa, dall’altro segnala una situazione di disagio sociale. Rispetto alla criminalità comune gli atti vandalici hanno normalmente un minore livello di pericolosità, ma un maggiore potere destabilizzante poiché non sono associabili ad alcuna logica intelligibile e come tali non sono in alcun modo prevedibili. Mentre il pericolo derivante da situazioni criminose è in linea di massima circoscrivibile in un ambito di situazioni note, dell’atto vandalico si può essere vittime in ogni frangente e in ogni momento, senza alcuna ragione.
Proprio la gratuità del gesto, ossia la completa assenza di motivazioni e presupposti razionali, la sua totale inutilità anche per chi lo pratica, rende ancor meno accettabile la conseguenza a chi la subisce. Un ladro ruba per avidità o per bisogno, un vandalo distrugge senza alcun fine. Le ragioni che spingono un uomo a compiere una rapina sono facilmente comprensibili e paradossalmente il trauma che la vittima subisce risulta in questa senso meno arduo da rielaborare rispetto allo shock che subisce l’individuo a cui viene bruciata l’auto senza un perché (o al quale viene lanciato un sasso da un cavalcavia).

vandalismi

Nell’assenza apparente di motivazioni alla base degli episodi vandalici sta l’aspetto sociale della questione. Il vandalismo infatti è fine a se stesso, è conseguenza più della noia di vivere che di un istinto di ribellione. Gli atti di vandalismo si producono di norma in situazione che il sociologo Durkheim indicherebbe come di “anomìa”, cioè di assenza di regole condivise e introiettate. L’atto vandalico esprime il rifiuto di un’identità sociale collettiva o quantomeno la mancanza di consapevolezza dei valori socialmente condivisi. Non è un caso se bersagli dei raid vandalici sono spesso oggetti di pubblica utilità: lampioni dell’illuminazione stradale, cabine telefoniche (fin quando ne sono esistite!), monumenti. Agli occhi e alla coscienza del vandalo quei beni comuni non hanno alcun valore. Di più: il vandalo si sente estraneo, non partecipe, indifferente alla vita della comunità, rispetto alla quale non si percepisce come componente ma come atomo isolato.
Il tornaconto di queste bravate è dimostrare a se stessi la capacità di agire sulla realtà, determinandone una mutazione. Il soggetto acquisisce per un momento una visibilità, in quanto agente attivo. Poco importa che tale identità resti avvolta nell’anonimato e non sia socialmente riconosciuta. L’effetto è in termini di autoconsiderazione. Il soggetto atomizzato scopre di essere un elemento in grado di interagire con la totalità che lo circonda e nei confronti della quale avverte e sente ricambiata indifferenza. L’atto vandalico, poi, in genere diventa notizia sul giornale e l’individuo vede riconosciuto il proprio protagonismo in una modalità che ne attesta e documenta la rilevanza.
Gli atti vandalici vanno dunque repressi con severità, ma la difficile prevenzione deve essere svolta a livello sociale. Quando ragazzi e ragazze, uomini e donne si sentono partecipi e in sintonia con il contesto in cui vivono non accadono episodi di vandalismo. Il rimedio, dunque, è riuscire a trasmettere il senso delle cose, il valore delle relazioni, degli affetti, il rispetto per i delicati equilibri comunitari.

Se le parole sono la forma di un pensiero impotente

Il linguista Lakoff mette in luce la forza del linguaggio nel plasmare la morale e le opinioni politiche. Le narrazioni che gli individui elaborano sui diversi fatti in cui sono coinvolti o che giudicano, costituiscono delle cornici che orientano i modi di pensare e hanno un significato morale. Le parole sono contenitori per le idee, condensano categorie di giudizio che la mente incorpora nei circuiti neuronali. Il linguaggio è “incorporato” quindi, nel senso che contribuisce a lasciare tracce nella nostra corteccia cerebrale, che supportano poi i modi del pensare. Per questo le metafore possiedono una forza cognitiva e influenzano profondamente i pensieri e le posizioni che gli individui credono di avere elaborato sulla base di scelte razionali. Per questo il linguaggio che usiamo incide sulle nostre azioni.
Per fare un solo esempio, certe forme espressive (ognuno ne può richiamare alla mente con dovizia, attorno ad uno degli intercalari diffusi “non me ne frega un c.!”,) dispongono gli individui in un atteggiamento, in uno stato di subalternità, precludono la comprensione e anche la critica, sanciscono l’abdicazione a qualunque responsabilità individuale. In altre parole, assumendo le analisi dei linguisti, lo schema mentale che si instaura legato a quella frase si trasferisce ad altri contesti di vita, di pensiero e di azione. Per questo è importante l’attenzione al linguaggio di bambini e adolescenti: non è una questione di educazione formale, non si tratta di fastidio per il turpiloquio, si tratta di evitare che si formi un pensiero “impotente”.
Il linguaggio è il veicolo di una narrazione, come si dice con un’espressione appropriata, ma così abusata da perdere valore e da rappresentare la notte in cui tutti i gatti sono neri. Se pensiamo al nostro linguaggio quotidiano, vediamo le espressioni di cui siamo ostaggio. Intanto i superlativi: fantastico, straordinario, eccellente, pazzesco (certo il più emblematico della serie), oppure: drammatico, terribile, fastidiosissimo, etc. Queste locuzioni ledono il principio della sobrietà e, soprattutto, annullano con termini onnicomprensivi, l’esigenza di cercare modi sottili per esprimere e descrivere ciò che si intende mettere all’attenzione dell’interlocutore. In sostanza, non dicono nulla. Poi ci sono altre espressioni divenute insopportabili, le classificherei sotto il denominatore comune dell’empatia: tra queste le più pelose: “devo esserti sincero”, “come tu sai bene”, subdole perché tendono a togliere spazio di dissenso a chi ascolta. I talk show sono infarciti di questo tipo di frasi.
Altre espressioni riflettono l’idea di verità come testimonianza che si è andata affermando: “intendo”, “voglio dire”. Alcune modalità sono semplicemente comiche, ad esempio “letteralmente” per confermare la veridicità di ciò che si sta dicendo, “spesso e volentieri” applicato ad episodi sgradevoli.
Qualche giorno fa uno studente venuto a sostenere un esame orale, per esprimere la sua adesione alla mia domanda e il suo interesse al testo, intercalava con “fichi” una gran parte delle risposte. Come sapranno coloro che sono pratici della lingua, nella provincia di Parma, il termine è un modo “educato” per dire “f…”, universale ed eterna locuzione, che esprime l’universo semantico prevalente nei maschi (in tutti i tempi).

Maura Franchi – Laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing, Marketing del prodotto tipico. I principali temi di ricerca riguardano i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@gmail.com

Un giovane favoloso e gli altri giovani

Ritornando su “Il giovane favoloso” [vedi], il bellissimo film di Martone, ho molto apprezzato il commento di Valerio Magrelli su “La Repubblica”. Lo scrittore propone un inusitato paragone tra Leopardi e l’Uomo ragno, due super eroi solitari che si realizzano nel mito e nel simbolo del sacrificio e della salvezza. Non voglio commentare questo curioso ma non poi così bizzarro paragone. Ciò che invece riempie il cuore di speranza e d’emozione sta nel fatto di constatare l’enorme successo di questa opera presso un pubblico giovanile normalmente più attratto dalle situazioni dell’horror o dei vampiri innamorati o dei lucchetti sul ponte segno d’eterno amore.

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La locandina del film

La protesta di Leopardi (e uso questa bella definizione coniata dai più innovativi studiosi del poeta, Binni e Luporini, che ancora regge dopo decenni della sua formulazione) sembra scuotere la presunta indifferenza dei giovani e avvicinarli a un personaggio-poeta direbbe il grande Contini reale e nello stesso tempo simbolico visto e commentato attraverso due arti che in sé contengono il massimo di verità: la poesia e il cinema. Credo che la qualità dell’opera di Martone consista non solo nell’interpretazione critica del poeta di Recanati ma nella sua resa simbolica e filmica. Giacomo ovvero della scoperta della necessità della vita e dell’impegno (e non mi vergogno ad usare un termine che produrrà qualche brivido d’insofferenza presso i ‘colleghi’ accademici) nella social catena umana che spazza via ogni sentimentalismo e sospiro verso il destino dell’”infelice” per eccellenza, qui visto secondo il suggerimento di Magrelli. Come il supereroe che sconfigge i mostri provocati dal sonno della ragione. Tutto questo con un uso raffinatissimo dell’immagine giocata con riferimenti straordinari alle arti visive del neoclassicismo e del primo romanticismo. Come mi attestano due cari amici tra i massimi studiosi di quel periodo storico, Fernando Mazzocca e Carlo Sisi, che hanno offerto al regista e alla moglie, storica dell’arte, indicazioni figurative straordinarie. Dal riferimento palese a ambientazioni ‘Empire’ nelle strepitose immagini della Firenze qui descritta, tra le citazioni palesi a opere di Canova e di Foscolo o di Roma vista con gli occhi dei viaggiatori del “Grand Tour” o dei pittori della scuola di Posillipo per l’eruzione dell’Etna o della Napoli infernale, dove però il punto di debolezza del film sta nell’episodio di Giacomo al bordello con quel gioco del ‘s’agapò’ assai discutibile. Ma ciò che tiene è la robustezza del linguaggio filmico, anzi come si diceva una volta dello “specifico filmico”. Un’operazione che ricorda certe scelte di Antonioni per “Deserto rosso” o per “Blow Up” con le costruzioni del paesaggio non reale ma derivato dalla sua cultura artistica. Più delle sontuose messe in scena di Visconti a cui sembra talvolta ispirarsi Martone (e penso a “Morte a Venezia”).

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Il regista, Mario Martone

Insomma sempre più innamorato di quelle scelte e di quella dichiarazione artistica del film di Martone, sottolineo di nuovo la grande importanza e la scommessa vinta non solo dal regista ma di tutta l’équipe: dal grandissimo Elio Germano (e ai ‘supercilious’ che trovano grottesco il suo cambiamento fisico dovuto al progredire della malattia consiglio una maggiore informazione specifica ‘de visu’) ai comprimari (esclusa forse la troppo popputa Silvia), che hanno provocato e che provocano tanto entusiasmo nei giovani.

E a ragione un’insegnante protesta in una lettera aperta contro la discriminazione sociologico-culturale che intenderebbe separare la visione del film, adatta ai liceali e non invece a tutti i giovani studenti, qualsiasi scuola essi frequentino.
Da parte nostra non vogliamo essere di nuovo portatori, come purtroppo i tempi della contemporaneità politica inducono a sospettare, di una nuova e ben più pericolosa distinzione mediatica tra le diverse forme d’insegnamento. Ma per fortuna i giovani questo infido suggerimento lo snobbano e lo disprezzano.

di Mario Martone, con Elio Germano, Michele Riondino, Massimo Popolizio, Anna Mouglalis, Valerio Binasco, biografico, 137 min., Italia, 2014

Pubblico in scena e Shakespeare si recita a soggetto

STANDING OVATION: I PIU’ ACCLAMATI SPETTACOLI TEATRALI DEL XXI SECOLO
Romeo and Juliet, Delirio organizzato. Teatro Comunale di Ferrara, 22 e 23 febbraio 2000

Alcuni anni fa Paolo Rossi raccontò durante un suo spettacolo che un giorno, fermato da una pattuglia della polizia stradale per un semplice controllo, l’agente incaricato gli chiese le generalità e lui rispose: «Sono Paolo Rossi». E l’agente a sua volta replicò tendendogli la mano: «Piacere, Marco Tardelli». Ecco, forse il problema dell’artista comico Paolo Rossi è stato per un certo tempo quello di riuscire a farsi prendere sul serio. Ci ha provato anche con la satira politica, però ha continuato “solo” a divertire. Poi, dopo una malattia che lo ha tenuto lontano dalle scene e costretto alla degenza in ospedale per settimane, si è detto: «Ho cominciato col non riconoscermi in quello che facevo e a non vederne l’importanza. E di questo ho sofferto abbastanza. Perché è un lavoro che mi piace: sono un privilegiato, quindi devo sentirmi responsabile. E rischiare».

E così è nato “Romeo and Juliet”. Un progetto teatrale coraggioso e atipico, uno spettacolo dove pirandellianamente si recita a soggetto, con la differenza però che gli “attori” arruolati ogni sera fra il pubblico non solo non conoscono i ruoli che in qualche modo devono interpretare ma sanno di diventare personaggi solo nel momento stesso in cui vengono coinvolti. Sicché la dissacrazione della più famosa fra le tragedie di Shakespeare si trasforma in pretesto per un teatro di “rianimazione”, nel doppio senso di animazione spettacolare e di ri-animazione dallo stato catalettico in cui versa certa arte del palcoscenico. Dunque alla base di tutto c’è la tanto osannata e al contempo denigrata tradizione della commedia dell’arte o, com’è stata definita in Italia dal Cinquecento fino a Goldoni, commedia “all’improvviso”: senza un copione ma con un semplice canovaccio o soggetto sul quale improvvisare. Di suo, Paolo Rossi aggiunge la fantasia sardonica dell’istrione che chiama il pubblico a contribuire alla realizzazione dell’evento.
In una scena teatrale predisposta al “delirio organizzato” annunciato nel sottotitolo, con due televisori accesi sul palcoscenico ad uso di «quelli che si annoiano», per circa due ore succede di tutto: dalla riscoperta di certi intrinseci significati del testo alla generale demifisticazione, dai momenti di rispettosa recitazione del copione al caos del “dietro alle quinte” nelle le prove più impegnative. L’insieme condito con la parodia, mutatis mutandis, di una sorta di pirandelliano teatro nel teatro. L’ostilità fra i Montecchi e i Capuleti viene espressa da un generale scambio di insulti di una metà degli spettatori contro l’altra metà, la casa di Giulietta è trasformata in una discoteca e il suicidio di Romeo in uno spot di pasticche alla menta.

Inno alla libera ricerca del sè

Ci vuole coraggio per diventare liberi. Liberi da, liberi per. Filippo Cantirami è un giovane studente bocconiano, brillante, di ottima famiglia e col futuro spalancato. Non ha nemmeno troppo da desiderare, tutto davanti a lui è strutturato, terso e solido. Il meglio (il meglio per chi poi?) c’è già: un master a Londra dopo la laurea e una specializzazione negli Stati Uniti. Invidiabile. Del resto, Filippo, sin da piccolo, con i genitori si è sempre comportato con compiacenza, cioè con quella forma di obbedienza col sorriso per rendere felici gli altri e, di riflesso, anche un po’ se stessi.

Filippo potrebbe andare avanti così, i suoi genitori se lo aspettano, anzi, non potrebbero pensare a nulla di diverso da parte sua che ha sempre fatto tutto così bene su quel sentiero già tracciato.
Ma, un giorno, complice la lontananza da casa, Filippo si sfila da quella vita che non è la sua, e non lo è mai stata, perchè non la vuole e se ne costruisce a poco a poco un’altra libera e scelta.
Filippo finalmente vuole qualcosa e la fa. Ed è felice perchè “è esattamente dove vuole essere e fa esattamente quel che vuole fare”. Una felicità intima, privatissima, che non vive dell’approvazione degli altri né di un’aspettativa soddisfatta verso il padre e la madre. Filippo è quello che è, ama sentirsi dentro qualcosa di vago e indefinito, ancora da scoprire.
I genitori Guido e Nisina, per una serie di casualità, vengono a sapere che il loro Filippo non è quel Filippo che pensavano che fosse o come loro lo conoscevano. Guido e Nisina non sanno più nulla di lui perchè non sanno chi sia quel ragazzo che fa cose così diverse, si porta addirittura dietro delle pecore, ma perchè lo fa?
Saltano gli schemi di riconoscibilità, Filippo non combacia più con quel modello che loro avevano creato e, soprattutto, in cui avevano tanto creduto. I filtri con i quali lo avevano guardato si appannano perchè tutto è diverso da prima.
Filippo è altro ed è lontano, chissà dove, a vivere una nuova libertà che nutre la sua identità. Filippo rivuole il tempo che gli è stato sottratto quando gli sembrava che non ci fosse tempo per nulla o per tutto ciò che non fosse la sua volontà. Vuole sentire scorrere le ore, accorgersi del mentre e cogliere il fluire della vita.
Filippo è ora capace di riscattare il tempo e riannodarlo: sono passati anni da quella notte nella quale, studente, aveva conosciuto una ragazza di cui aveva perso le tracce. Poche ore assieme a lei e poi più nulla. Il tempo adesso ce l’ha, ha tutto il tempo che vuole, bello disteso davanti. E ha la libertà di andarla a cercare.

Paola Mastrocola, “Non so niente di te”, Einaudi, 2013

LA STORIA
Il podestà ebreo di Ferrara

di Hans Woller

Quella di Renzo Ravenna è una vicenda senza precedenti. Egli fu il primo e l’unico ebreo a diventare podestà dopo la marcia su Roma dell’ottobre 1922. Tra il 1926 e il 1938, rivestì questa carica di spicco più precisamente a Ferrara, una delle prime roccaforti del fascismo, dove fino agli inoltrati anni Trenta esercitava un potere quasi incontrastato il vero numero due del regime, nonché più importante antagonista di Mussolini, Italo Balbo.
Si tratta forse di un’eccezione dalla natura straordinaria che non richiede particolari spiegazioni per la storia del fascismo e degli ebrei in Italia? Al contrario. Ilaria Pavan, giovane storica e docente a Pisa, riesce infatti trovare un legame tra la biografia di un podestà ebreo, raccontata con grande partecipazione emotiva, e uno schizzo della storia di Ferrara in epoca fascista, un’analisi della comunità ebraica locale e la rappresentazione di una famiglia antica e ben ramificata, smembrata dopo il 1943 e quasi completamente cancellata nei campi di sterminio tedeschi. Chi ne vuole sapere di più, può leggere le opere di Giorgio Bassani “Il giardino dei Finzi-Contini” e “Le storie ferraresi”, oppure, appunto, “Il podestà ebreo” di Ilaria Pavan, figura che ritroviamo tra l’altro nella grande opera di Bassani insieme ad altri ferraresi legati a Ravenna, di cui Pavan racconta, i quali, per un motivo o per l’altro, avevano fatto parlare di sé.
Renzo Ravenna proveniva da una famiglia ebrea benestante e ben integrata, difficile da eguagliare nell’orgoglio che provava nei confronti della madrepatria italiana e della propria città, Ferrara. Come accadde a molti dei suoi coetanei delle diverse comunità ebraiche, nel 1914 e 1915 fu anche lui preso dalla febbre nazionalista: si fece fautore dell’entrata in guerra dell’Italia, fu chiamato alle armi e tornò a casa dalla guerra solo nel 1919, insignito di molte medaglie, per concludere i suoi studi di giurisprudenza e iniziare la sua attività di avvocato e politico comunale di Ferrara. Un ruolo decisivo giocò qui la sua lunga amicizia con Italo Balbo, il “principe elettore” fascista di Ferrara e dintorni che prese Ravenna sotto la propria ala per proteggerlo con tutte le sue forze. Eppure l’ebreo di buona famiglia non era un fascista della prima ora né tantomeno uno squadrista convinto. Balbo stimava e aveva bisogno dell’avveduto giurista, che ne capiva di amministrazione e denaro e che, aspetto ancora più importante, godeva di un’ottima reputazione, mentre lui, al contrario, combatteva da tempo contro problemi di immagine legati alla sua fama di uomo spiccio e facinoroso.
Ravenna conferì una certa serietà al potere esercitato da Balbo a livello locale e regionale e fece per tale motivo una brillante carriera: divenne consigliere comunale, poi capo dell’organizzazione di partito della città e infine, nel 1926, fu chiamato a rivestire la carica di podestà, alla quale si dedicò pressoché completamente, raggiungendo importantissimi risultati. Durante la sua carica, Ferrara visse un vero e proprio rinascimento culturale. Si dedicò poi soprattutto al potenziamento delle infrastrutture e all’industrializzazione della città. Secondo un necrologio del 1961, Ravenna avrebbe addirittura “concepito la Ferrara moderna”.
Non c’è da meravigliarsi, quindi, se il podestà ebreo godesse di grande popolarità; addirittura il Vescovo fu un suo stretto amico. Tra il 1934 e il 1935, l’atmosfera cominciò tuttavia a cambiare, e non solo a Ferrara, ma in tutta Italia, dove si cominciò a prendere di mira gli ebrei che occupavano posizioni di spicco nello Stato e nella società per allontanarli. La pressione arrivava dal Ministero dell’interno di Roma, che si serviva naturalmente di numerosi uomini in loco, i quali a loro volta rafforzavano la pressione esercitata dall’alto e le conferivano una sorta di legittimazione plebiscitaria. Ravenna riuscì a resistere solo grazie alla protezione garantita da Balbo, ma dovette cominciare a guardarsi da numerose ostilità, dichiarate o nascoste.
Nella primavera del 1938, quando la campagna contro gli ebrei stava per raggiungere il suo apice, il Ministero dell’interno attaccò nuovamente Ravenna. Esigeva la sue dimissioni, adducendo come unico motivo le sue origini ebraiche e riuscendo alla fine a imporsi anche contro la volontà di Balbo. Nel Marzo 1938, Ravenna lasciò la sua carica per motivi di salute.
Il varo delle leggi razziali nell’autunno del 1938 ebbe conseguenze tragiche per le comunità ebraiche italiane. Anche a Ferrara, dove a quel tempo vivevano ancora tra i 700 e gli 800 ebrei, i correligionari di Ravenna furono oggetto di continue vessazioni. Settantasette studenti e dieci insegnanti e docenti ebrei furono per esempio costretti a lasciare le scuole pubbliche. Furono colpiti anche i figli di Ravenna, il quale fu poi escluso dalla Milizia, cacciato dall’elegante club cittadino e congedato dalle Forze armate. Poté tuttavia continuare a esercitare la professione di avvocato e gli riuscì anche di mantenere i contatti con la sua vecchia rete di conoscenze e amicizie, alla quale appartenevano anche cattolici dichiarati e fascisti convinti. Colpì soprattutto il comportamento di Italo Balbo, che non esitava a trascorrere le vacanze al mare con Ravenna e a farsi vedere con lui nel centro di Ferrara quando questi tornava a far visita alla città natale.
Anche per questo Ravenna non pensò mai alla fuga o all’emigrazione. Ma la situazione cambiò nell’autunno del 1943, quando tutto il Nord Italia occupato dai tedeschi divenne teatro di arresti e retate. E Ferrara ne fu colpita in modo particolarmente drastico. “Le deportazioni”, come racconta Pavan, “furono messe in atto dalle autorità della Repubblica di Salò con estrema efficienza burocratica” (traduzione di Paola Baglione). Ravenna riuscì a sottrarsi a questo progetto di morte fuggendo in Svizzera, dove si salvò assieme alla moglie e ai figli, mentre otto dei suoi parenti più stretti trovavano la morte nei campi di sterminio dell’Est Europa.
Tutto sembra suggerire che Ravenna, dopo il 1938, cominciò ad allontanarsi dal fascismo, per arrivare alla rottura definitiva nel 1943. Questo non portò tuttavia ad un allentamento del legame di natura nazionalista con la madrepatria o a una rivalutazione critica del suo ruolo nel regime fascista. Si definiva un leale servitore della propria città, il cui sacrificio non era stato sufficientemente premiato. Si considerava una vittima e non rese mai conto a nessuno del suo essere stato anche “reo” e servitore di un regime criminale. Non sorprende in questo contesto che Ravenna, fino alla sua morte nel 1961, fece tutto il possibile per riabilitare la figura di Italo Balbo, che ai suoi occhi rimase l’amico ammirato di sempre, ignorando con leggerezza il fatto che fosse stato anche un fascista senza scrupoli.
Tale ristrettezza di vedute fu una delle strategie di sopravvivenza di Ravenna e probabilmente rese possibile anche la sua reintegrazione a Ferrara, la quale dopo il 1945, dietro la facciata del potere della sinistra, rimase per molti aspetti quella di prima. Ilaria Pavan rivisita la storia di quest’uomo con grande sensibilità, eseguendo un’accurata analisi delle fonti e servendosi delle più moderne tecniche di ricerca, che alla fine non lasciano più alcun dubbio sulle origini autoctone e profonde delle leggi razziali e sul ruolo giocato da molti fascisti nel genocidio nazionalsocialista perpetrato contro gli ebrei. Ne nasce un piccolo capolavoro che, illustrando una vicenda unica, racconta ciò che poteva accadere agli ebrei durante il periodo fascista. Speriamo che venga tradotto presto in tedesco.

Ilaria Pavan, “Il podestà ebreo. La storia di Renzo Ravenna tra fascismo e leggi razziali”, Laterza, Roma/Bari, 2006

Hans Woller è ricercatore presso l’Institut für Zeitgeschichte di Monaco. Le sue ricerche riguardano in generale la storia sociale e politica del XX secolo in Italia e in Germania, e in particolare i decenni del fascismo, del nazionalsocialismo e del dopoguerra.

Traduzione dal Tedesco a cura di Paola Baglione

Marcello Simoni, i libri maledetti

Marcello Simoni, comacchiese, anche animatore culturale ben noto per la cultura in estate sui Lidi della riviera ferrarese. Praticamente inedito in Italia, aveva già pubblicato saggi storici e archeologici, sbarcò a suo tempo persino all’estero, in Spagna.
L’Impronta, infatti, casa editrice del gruppo Algada lanciò sul mercato spagnolo la sua opera prima: “L’enigma dei Quattro Angeli”, primo romanzo che viene da certo solco fantastorico attualmente in voga, tra “Il Nome della Rosa” di Eco e il “Codice Da Vinci” di Dan Brown, la stessa fantascienza di Evangelisti, particolarmente suggestivo e di forte audience per gli amanti della lettura. Benefico ritorno alla scrittura come mistero, reinventato in chiave moderna, su sfondi storici re-immaginati, quasi micro brainstorming alla ricerca di universi paralleli, secondo certe teorie quasi esoteriche della fisica contemporanea.
Poi, con l’opera prima in Italia, “Il mercante dei libri maledetti” (Newton Compton, 2012), medesima vincente cifra letteraria, ancor più raffinata ipnotica, è clamorosamente ‘esploso’ un bestseller all’americana quasi, vincitore del Premio Bancarella 2012.
Un successo francamente strameritato, per uno dei migliori nuovi scrittori contemporanei italiani, capace di mixare alta letteratura e appunto narrazioni di grande audience, fascino misterioso (oltre certa moda facile del ‘noir’), non a caso proveniente da aree prossime a Spina e agli etruschi, archetipi oggi parlanti tramite una penna – Simoni è anche storico/archeologo – non comune, non solo letteraria, ma potente e solida, in certo senso di diamante ‘scientifico’.
Ulteriormente, Simoni ha confermato la grande freschezza (e audience) dell’opera d’esordio in Italia, in particolare con i romanzi successivi (sempre per Newton Compton) fino al recentissimo, “L’abbazia dei cento peccati” (2014), ovvero “La biblioteca perduta dell’alchimista”, “Il labirinto ai confini del mondo” (con cui ha completato la trilogia inaugurata con l’opera prima italiana), “L’isola dei monaci “, Premio Lizza d’Oro 2013. L’ ultima opera, “L’abbazia dei cento peccati”, ambientata a Ferrara, Pomposa e Reims, è un nuovo vertice narrativo che ne fa oggi forse lo scrittore di punta ‘neostense’ e postmoderno: un delizioso fanta gothic all’italiana.

*da Roby Guerra, “Dizionario della letteratura ferrarese contemporanea”, Este Edition, La Carmelina eBook, 2012 [vedi]

Per saperne di più, visita il sito della New Compton [vedi], il sito del “Premio Bancarella” [vedi] e una recensione de “L’abbazia del cento peccati” [vedi].

L’INTERVISTA
Finis, romanzo di confine: nel cuore della pianura Padana l’eterna lotta per il potere

“Finis” è un termine latino, sta per confine. Franco Fregni lo ha scelto come titolo per il suo romanzo d’esordio. La storia è ambientata nel Duecento, secolo di confine fra il fulgore del mondo medievale, con l’affermazione del sistema dei Comuni sullo sfondo dello scontro fra Impero e Papato, e la susseguente crisi del modello feudale. I protagonisti della narrazione si muovono in una terra – di confine anch’essa – collocata nel cuore della pianura Padana, “il Finale” (Finale Emilia) dove l’autore è nato e dove “l’Alberone” (topos ricorrente del racconto) tracciava il punto – di incontro e di stacco insieme – dei possedimenti di Ferrara, Modena, Bologna.

“La storia è sempre stata una mia grande passione – confessa Fregni che proprio in Storia si è laureato – ma per scrivere questo libro ho dovuto studiare molto e consultare un sacco di documenti: è stato interessante e anche molto divertente”.
Giornalista, l’autore di Finis ha girovagato – prima da cronista poi come direttore – un po’ in tutta Italia, da Trento a Roma, da Palermo a Bolzano, da Modena alla Romagna.
“L’ispirazione mi è venuta dopo il terremoto del 2012 e, come spesso ci accade, fortuite circostanze hanno accompagnato questa intenzione: dopo avere impegnato i precedenti 12 anni alla direzione della Voce di Romagna ho avuto infatti proprio in quel periodo qualche mese di libertà”.

finisE’ quasi un bisogno che sospinge Fregni a transitare dalla misura della cronaca a quella del racconto come a voler immortalare una storia che il presente stava sgretolando. “Tutto nasce dallo sgomento per il crollo della famosa ‘torre dei modenesi’, proprio nell’imminenza del ottocentesimo anniversario della sua costruzione – riferisce – così mi sono idealmente proiettato in quel tempo per ambientarvi la vicenda che avevo in mente”.
I protagonisti del racconto sono di fantasia, ma l’ambientazione e i riferimenti storici sono veri e rigorosamente verificati. Si incontra Federico II di Svevia, per esempio, e san Francesco… “Ci sarebbero mille storie da narrare su quell’epoca: i primi cinquant’anni del Duecento sono una fase densa di avvenimenti straordinari”.

Come è proceduto il lavoro?
Studiavo e scrivevo. L’idea iniziale è stata plasmata e orientata in base alle acquisizioni che via via facevo. La prima parte della trama era nella mia testa il resto è venuto a seguito degli studi.
Tra battaglie, amori, dispute politiche e teologiche e cacce con i rapaci – l’altra grande passione dell’epoca che accomuna molti personaggi del romanzo – si arriva a un epilogo a sorpresa in cui si finisce per scoprire anche che Marco Polo aveva sangue emiliano nelle vene.

Già, lei avanza quest’ipotesi suggestiva e un po’ bizzarra. Sulla base di quali elementi?
Azzardo questa possibilità suggerita dal titolo della sua opera più celebre ‘Il Milione’ di cui non si è mai compresa la radice e ho immaginato che Emilion potesse essere l’appellativo attribuito a Marco Polo per indicarne l’origine: Emilion, Emiliano… L’ho fatto sulla base di alcuni riscontri storici ma ammetto che è una tesi ardita, benché plausibile.
Focalizzare quell’epoca nel romanzo è servito a ricordare anche a me stesso come le nostre città fossero al centro della zona più ricca e fiorente d’Europa, dunque del mondo: tutta la pianura padana da Milano a Venezia era il fulcro della civiltà di allora, l’altro polo era la Francia.

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La torre civica di Finale Emilia distrutta dal terremoto del 2012

Ha ricordato che l’ispirazione e l’urgenza di scrivere è affiorata dopo il terremoto: forse il bisogno di ricreare le radici recise dal terribile sisma?
Dopo il sisma abbiamo ascoltato affermazioni che in parte fotografavano la realtà di quei giorni e in parte esprimevano una concezione epica circa lo spirito indomito della nostra gente. C’è del vero e c’è della retorica in questo. La realtà odierna dimostra che il terremoto è stato un colpo durissimo per tante aziende e molte famiglie. Ma è anche vero che queste nostre zone sono sempre state intraprendenti, coese, una comunità fondata su valori profondi. Mi riferisco ovviamente non sono a Finale, dove la vicenda ha luogo, ma a tutto il comprensorio fra Ferrara, Modena, Bologna e Reggio. Terre all’epoca capaci di sfidare imperatori, re e papi…
Il mio intento è stato anche mostrare come l’attuale livello di benessere che attribuiamo allo stato sociale proprio della nostra regione non è merito solamente di un partito come talvolta si tende a dire, ma è il risultato di una storia antica e di un sentimento di indipendenza e di autonomia che fa parte dello spirito vivo della comunità.
La stessa rete associazionista tipica del nostro paesaggio sociale è frutto di una storia di relazioni civili che hanno da sempre caratterizzato la vita economica e sociale di questi nostri luoghi. C’è un orgoglio profondo e un radicato senso civico di appartenenza che traccia un robusto filo di continuità in queste popolazioni. Ma basta pensare a Ferrara: c’è più storia lì che nella metà delle città d’Europa.

Il terremoto è servito anche a ridestare questi sentimenti?
In momenti così ti rendi conto che l’appartenenza a un luogo non è una banalità, nemmeno per me che ho vissuto altrove per tanti anni. L’appartenenza ti rende quel che sei. Negli usi sperimentati c’è lo spirito profondo della comunità. La realtà di oggi ci mostra però come tanti nostri paesi siano diventati dormitori per immigrati. Questa massiccia presenza ha dei pro e dei contro: di certo sta determinando un mutamento dell’identità, specie nei paesi più piccoli dove il fenomeno si avverte maggiormente. Sono tutte situazioni sulle quali occorre riflettere avendo coscienza che ormai nelle nostre scuole in tante classi c’è una prevalenza di ragazzi extracomunitari e che i cittadini del futuro saranno loro.

Nel romanzo accanto alla grande storia entrano anche temi esistenziali come la vicenda dei due fratelli…
Esprimono l’ambivalenza dell’animo umano. Uno opera come predicatore, l’altro è un guerriero, ma poi mostrano punti di contatto e si innamorano della stessa donna. Sono carne della stessa carne. E’ un modo per dire che, al di là delle apparenze, uno non è mai tutto in una maniera o tutto in un’altra. La nostra natura è ambigua e complessa.

Che accoglienza ha avuto Finis?
Chi legge fa gran complimenti e questa senz’altro è per me una soddisfazione. Le recensioni di stampa sono buone e numerose, ma è una meraviglia relativa perché faccio parte della categoria… Il problema del romanzo è la distribuzione. D’altronde ho scelto di affidarmi a un editore serio ma piccolo, le Edizioni del Girasole. A differenza di quanto succede normalmente non ho dovuto pagare per essere pubblicato, ma ciò comporta un prezzo in termini di presenza del libro sugli scaffali. Perché la conoscenza di questo romanzo si diffonda ci vorrà tempo, ma le cose richiedono sempre tempo.

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Franco Fregni

Il romanzo è anche metafora una del potere, come segnala Paolo Pagliaro nella sua prefazione?
Da giornalista l’idea che mi sono fatto frequentando ambienti di potere è che sfidarlo non sia semplice. Per arrivarci devi indubbiamente possedere delle qualità, quelle che ti rendono autorevole per essere indicato come guida. Ma da lì in poi però occorre dimostrare una reale capacità di comando che non tutti possiedono. In questo senso Federico II rappresenta un eccellente esempio di come l’interpretazione che gli uomini danno del potere possa risultare contraddittoria e controversa: per alcuni è stato tiranno e despota, per altri magnanimo e illuminato.

Sfidare il potere non è semplice diceva, ma poi le teste cadono…
Essere stato vicino ai potenti per ragioni di lavoro mi ha fatto capire che ci sono tante componenti e meccanismi che decretano il successo e poi la caduta di chi sta al vertice.
In questa nostra epoca gli elettori mostrano propensione per personaggi come Berlusconi e Renzi credendoli capaci di tutto perché prestano fede alle loro funamboliche promesse. Non vedono e spesso non immaginano invece i condizionamenti che subiscono e le manovre delle quali loro stessi sono ostaggio. Personaggi così non arrivano per caso al potere ma sono lì perché considerati affidabili rappresentanti di gruppo di interesse che agiscono, si badi, non nella ristrettezza dei nostri confini ma in uno scenario europeo e mondiale.

Quindi c’è da dar credito a interpretazioni complottiste che qualcuno, spesso sbeffeggiato, propone?
Se Berlusconi cade per il bunga bunga (che pure è un fatto reale) le domande da porsi sono chi ha consentito che la notizia trapelasse, perché proprio in quel momento e chi lo ha scaricato. Insomma bisogna cercare di capire sempre quali interessi sono in gioco e chi li alimenta.
Le scelte passano sopra le nostre teste. I veri centri di potere sono sempre più remoti. L’Italia è oggi periferia dell’impero. Non abbiamo più sovranità sulla politica estera, sulle strategie militari e, quel che forse è peggio, sulle scelte economiche. D’altronde se uno Stato non batte moneta non ha più alcuna sovranità e capacità di incidere sui meccanismi della propria crescita e del proprio sviluppo. Crediamo forse di poter risollevare il problema del lavoro e della disoccupazione per decreto?

Quali siepi, quali piante? Prima regola, mano leggera e testa pensante

SIEPI E RECINZIONI VERDI (seconda parte)
Alzare un muro o una siepe per dividere una proprietà e separare uno spazio privato da quello pubblico, è un gesto talmente abituale che nel farlo non ci poniamo troppe domande. Per prima cosa ci preoccupiamo dei costi, di certo non pensiamo che l’atto stesso di recintare sia all’origine della storia del giardino, un fatto che trova riscontro nell’etimologia comune del termine che in tutte le lingue, antiche e moderne, parlate in Occidente e nel Medio oriente, significa sempre: luogo protetto, recinto, chiuso, quindi il giardino non è altro che il luogo delimitato per eccellenza. Nel passato, l’uomo è riuscito a sopravvivere nel deserto e nelle foreste isolando uno spazio in cui era presente l’acqua e dove era possibile coltivare piante commestibili, poi, nei secoli, il recinto ci ha protetto dai pericoli, ci ha separati dal caos, dall’inciviltà e dalle cose brutte. Da cosa dobbiamo difenderci oggi? Quando penso alla fatica e alle cure necessarie per tenere in ordine una siepe di arbusti sempreverdi, mi chiedo sempre perché ci impuntiamo su una pratica che alla fine dei conti non ci difende nemmeno dai ladri e che, nel migliore dei casi, impedisce al nostro vicino di vederci in mutande. Il desiderio di un avere uno spazio a tutti costi privato, mi sembra ancora più assurdo quando penso che, nel tanto sudato isolamento del nostro giardinetto, ci mettiamo davanti a un computer e non ci facciamo nessun tipo di scrupoli nel metterci a nudo di fronte al mondo, spellandoci vivi nell’arena dei social network.
La bellezza di una siepe ben curata è sicuramente un ottimo motivo per desiderarla. Muri verdi di tasso e di carpino, barriere profumate di alloro, lecci potati ad arte, hanno lasciato un bel corredino di immagini dure a morire nel nostro immaginario collettivo, peccato che la bacchetta magica che le ha rese possibili, siano tempo, mezzi e braccia. Guardiamoci attorno, le siepi che circondano i nostri giardini non sono nemmeno lontane parenti di quelle meraviglie che gli eserciti di giardinieri del passato, riuscivano a coltivare e mantenere. Ci siamo illusi di poter sostituire la nobiltà del tasso, con cipressi leylandi e simili, magari con un bel fogliame argentato e a rapida crescita, ma con quali risultati? Siamo sicuri che quelle cose che abbiamo in giardino, rosicchiate da potature incostanti, piene di ciuffi che scappano da tutte le parti, secche alla base, siano proprio quelle che avevamo sognato? Potrei fare un elenco di tutte le nefandezze che si possono osservare camminando in città, le prime che mi vengono in mente sono le siepi con le foglie larghe tranciate dai tagliasiepi a motore, ma quelle che mi mettono tristezza sono quelle potate fino al legno perché, dopo anni di crescita libera, sono diventate troppo invadenti, in particolare quelle segate in sezione con tanta malagrazia da mostrare il loro interno nudo circondato da una corona di vegetazione. Se abbiamo lo spazio per una recinzione larga mezzo metro, perché ci ostiniamo a piantare siepi che in pochi anni si allargheranno per metri? Continuo a farmi delle domande, ma quali potrebbero essere le risposte alternative al tormentone “perché si fa così”? Innanzitutto, provare a ragionare con senso critico: una siepe può stare in campagna o in città, quindi guardare per un attimo che cosa ci circonda e magari pensare che il nostro microcosmo diventerà parte del paesaggio, sarebbe già una buona partenza. La prima analisi la facciamo con gli occhi, è un esercizio facile: cosa vediamo? Vediamo case, palazzi nuovi o vecchi, condomini, cortili, altri giardini, altre recinzioni, oppure ci sono campi, frutteti, ecc. E poi cominciamo a chiederci che effetto farà la nostra siepe in quel contesto. Non è difficile, ma per la nostra mentalità, quando si parla di giardino, è quasi impossibile uscire dalla logica dei desideri personali e ragionare in termini di immagine collettiva del paesaggio. Ogni caso ha la sua storia e il suo sviluppo, ma osservare il contesto e avere la consapevolezza del fatto che una siepe è una cosa viva, di sicuro, ci guiderà verso scelte meno banali della solita barriera di sempreverdi, per lo meno ci indicherà che se stiamo in città non potrà avere una forma libera come una siepe di campagna ma dovrà essere potata e in ordine, per non occupare la strada o i marciapiedi; quindi, se non abbiamo il tempo per farlo o i mezzi economici per garantirne una potatura ottimale, frequente e regolare, cerchiamo alternative. Un muro o una recinzione artificiale possono diventare un sostegno per rampicanti, ci sono tipologie per tutti i gusti, la cosa importante è non fare di un muro una siepe, coprendolo completamente di vegetazione. Avere mano leggera quando si pianta è sempre una buona partenza, usare la testa e non smettere di ragionare, è la cosa migliore.

LA RIFLESSIONE
Trasformare gli anziani in giovani di terza generazione

Quando una città ha tra la sue caratteristiche positive quella di essere un buon riferimento per gli anziani, allora diventa un valore da non perdere e anzi da sviluppare in tutte le sue opportunità e Ferrara è sicuramente una città (e una provincia) a dimensione di anziani e questo la rende migliore.
Migliorare la qualità della vita e il benessere diventa allora uno degli obiettivi prioritari di chi svolge un ruolo politico per il territorio, perché quando una città ha una buona qualità di vita significa che la maggioranza della sua popolazione può fruire di una serie di vantaggi ambientali, economici e sociali che le permettono di sviluppare con discreta facilità le proprie potenzialità umane e permettere di condurre una vita relativamente serena e soddisfatta.
Questi obiettivi si ottengono principalmente riconoscendo il valore dei fruitori di servizi collettivi e sviluppando un welfare sociale che possa dare risposte ai cittadini e ai loro bisogni crescenti, possibilmente in un coinvolgimento attivo, sui temi appunto della qualità della vita.

È crescente a Ferrara il numero di anziani e crescono fortunatamente gli anziani autosufficienti e i pensionati impegnati nel volontariato. Per questo si può pensare che qualche anziano sia utile come valida risorsa della terza generazione. Di questo vorrei parlare, perché a mio avviso è possibile pensare ad una importante e crescente forza civile che sia disponibile per gli altri, in cui l’anziano non sia indicatore di criticità, ma anzi protagonista nella solidarietà.
L’invecchiamento è un processo che interessa tutti; il fenomeno è graduale e progressivo, lo sappiamo. Tuttavia la vecchiaia può assumere un significato positivo e può essere vissuta nel modo giusto… non è soltanto il momento della saggezza, ma può essere anche quello della creatività.
Ci si può allora chiedere se vi siano persone disponibili ad operare nel sociale tra coloro che hanno con merito e capacità lavorato tutta una vita e che ora, per anzianità e pensionamento, si ritrovano ad avere tempo, disponibilità, ma non sanno come impegnare queste fondamentali risorse.

L’obiettivo di fondo è la trasformazione dei bisogni dei cittadini in diritti, contrastando tutto ciò e tutti coloro che intendono trasformare i diritti in bisogni. Prenderne atto non è più sufficiente e dunque si deve poter pensare a come produrre processi di innovazione nel welfare, a partire proprio dal territorio, dai bisogni dei cittadini e magari in rapporto con tutti i soggetti sociali e gli enti locali.

Un buon programma diventa dunque quello di promuovere l’impegno degli anziani nel volontariato e aumentare l’impegno civico; si deve pensare il volontariato come la ricerca di relazioni con gli altri riconosciuti titolari di diritti e per questo ci si deve mettere a disposizione per gli altri in una logica di reciprocità e responsabilità. Un approccio logico che si propone è dunque di analizzare quanto valga la relazione di sistema tra proposte istituzionali e offerte individuali di disponibilità in un ampio contesto di offerta di servizi utili al benessere dei cittadini.
Questo impegno significa ricercare con la disponibilità di tempo e la voglia di fare di rinnovare l’impegno per combattere la solitudine e per ritrovare il senso dello stare insieme. Oggi questo si chiama “Housing sociale e welfare community”.

Indica genericamente il bisogno di compagnia, per fare una passeggiata, aiutare a fare la spesa, disbrigare pratiche d’ufficio, recarsi dal medico, fare cure terapiche o esami clinici e molto altro di cui si avverte la necessità.
Può però anche essere l’occasione di ritrovo di zona per trascorrere il pomeriggio insieme, fare una partita a carte, leggere il giornale, ascoltare musica, giocare a tombola o altre attività di svago, ma può anche valorizzare una innovativa politica abitativa sociale (abitazioni temporanee, cohousing, fondi assistenza, finanziamenti etici, etc) e dunque ampliare il tema dell‘abitare, promuovere una politica abitativa che realizza tipologie edilizie diversificate, flessibili, facilmente fruibili e con sistemi di servizi integrati per categorie sociali in difficoltà.
Io però mirerei anche più in alto.

Se la città infatti è un insieme di case, queste non devono diventare il rifugio di solitudini, ma anzi lo strumento per permettere la condivisone di momenti di socializzazione e di senso del collettivo.
Esiste infatti anche una opportunità più qualificante per recuperare le esperienze “alte” di professionalità che possono (anzi devono) offrire le proprie competenze per supportare i giovani, per qualificare il fare impresa, per formare e per rafforzare la capacità intellettuale e delle competenze che un sistema collettivo può dare.
Nel complesso tema della transizione, ovvero nel passaggio dal mondo della scuola (soprattutto universitaria) al mondo del lavoro potrebbe essere utile l’esperienza di chi “ha già vissuto” e ha fatto “alcuni errori”. Penso a percorso formativi di supporto intergenerazionale e di corsi di apprendimento. Anche il costoso e impegnativo ruolo del controllo e della verifica potrebbe essere degno di attenzione (già mi vedo le facce dei contrari).

Tutto il gusto della vita nella colazione da Tiffany

“Se io trovassi un posto a questo mondo che mi facesse sentire come da Tiffany… comprerei i mobili e darei al gatto un nome”.
Holly Golightly è una vera matta, bella, elegante, dolce, femminile, originale, ma allo stesso tempo tenera, solitaria e ingenua. Un’autentica icona ancora oggi.

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Una delle locandine

La prima sequenza di “Colazione da Tiffany”, film del 1961 diretto da Blake Edwards, con Audrey Hepburn e George Peppard, tratto dall’omonimo romanzo di Truman Capote, si apre con la dolcissima melodia di “Moon River” e l’immagine della Quinta Strada di New York, deserta nelle prime e rugiadose ore del mattino. Un taxi giallo si ferma, ne esce una giovane ragazza che si avvicina alla vetrina della splendente gioielleria Tiffany, tenendo tra le mani un sacchetto dal quale estrae una brioche e un bicchierino di caffè. E’ così che fa colazione: indossa un sontuoso abito, una collana importante e molto appariscente e porta un diadema tra i capelli; i grandi occhiali da sole nascondono appena un’aria malinconica e sognante.

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La mitica Holly

E’ la nostra Holly, tanto amata e invidiata, donna-bambina dal fisico elegante e asciutto… quasi una leggera gazzella sregolata e un po’ (molto) ansiosa. Timorosa di quella partita di caccia che è la vita, dei dispiaceri e delle difficoltà che essa comporta. Paurosa, spontanea e fragile, Holly è alla continua ricerca di un uomo capace di amarla, di prendersi cura di lei, di seguirla, di proteggerla, come molte altre donne. Anche se tutti gli uomini con i quali è uscita sono da lei definiti come dei “super vermi”, in fondo al cuore cerca il principe azzurro, ma non lo ammette.

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La locandina del film restaurato

Finché, un bel giorno, incontra l’affascinante e biondo Paul Varjak, il suo nuovo vicino di casa scrittore (e anche per questo sognatore), che non esita a chiamare “tesoro” e a battezzarlo Fred, come il suo amatissimo fratello al fronte. Paul è mantenuto da una donna sposata, Liz, la sua arredatrice, un po’ come Holly che vive grazie al sostegno dei suoi numerosi accompagnatori. La simpatia che nasce fra i due è immediata. Holly è strana, ha il telefono nella valigia per non sentirlo troppo, conserva un paio di ballerine nel frigorifero, di mattina beve latte e champagne, ha un gatto che adora, senza nome, perché lui non le appartiene, perché nessuno appartiene veramente a nessun altro.
E’ tanto fresca, simpatica, vivace e allegra quanto malinconica, solitaria e indipendente, proprio come il suo gatto. Paul, un po’ svogliato (ma è tanto romantico e attento), sopravvive grazie a lavoretti vari ed è sempre in cerca d’ispirazione. Bella coppia.

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The happy end

Scatterà finalmente la scintilla fra i due e Paul saprà come far cadere muri e resistenza, con un amore immenso, come quelli che si sognano da sempre. Film intrigante, divertente, avvincente e a lieto fine, con un finale romantico sotto una pioggia che spazza via ogni dubbio e timore. Oggi ce n’è bisogno, di film così. Il tutto accompagnato dal bellissimo tubino nero di Audrey, dai suoi guanti bianchi di seta, dalla passione per Tiffany (come non averla…) e da una splendida musica di Henry Mancini, vincitrice dell’Oscar alla migliore colonna sonora nel 1962.

Colazione da Tiffany di Blake Edwards, con Audrey Hepburn, George Peppard, Patricia Neal, Buddy Ebsen, Mickey Rooney, USA 1961, 115 mn.

LA RICORRENZA
Eduardo, già trent’anni senza di lui

Il 31 ottobre 1984, il più grande attore del teatro italiano del ‘900, l’immenso, fantasmagorico e intramontabile autore di testi come “Napoli Milionaria”, “Questi fantasmi!”, “Natale in casa Cupiello”, moriva, a Roma, all’età di 84 anni.

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Eduardo

Ricordiamo tutti la sua intensità, la sua forza, il suo coraggio, la sua franchezza, la sua sincerità, il suo viso magro, smunto, scavato, scarnito e malinconico, la voce afona e velata dovuta agli abiti umidi indossati nei primi e lontani camerini teatrali scavati nella roccia, la sottile ironia e l’umanità di Eduardo De Filippo. Napoli sempre con lui, in lui. Tutto questo se ne andava, tristemente, Eduardo salutava per sempre il suo pubblico.

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Sandro Pertini lo nomina senatore a vita

Aveva scritto e interpretato oltre 55 commedie, con una carriera iniziata al Teatro Valle di Roma nel 1904 (quando a soli 4 anni era apparso in braccio a un attore) e la sua prima commedia, scritta nel 1920, “Farmacia di turno”. C’erano stati, poi, l’incontro con Pirandello agli inizi degli anni Trenta, le commedie degli anni quaranta (“Filomena Marturano” e “Napoli Milionaria”), e la messa in scena, nei primi anni settanta di diverse sue commedie a Londra e New York dirette da Laurence Olivier, fino alla nomina, nel 1981, a senatore a vita, voluta dall’indimenticabile Sandro Pertini.

eduardo-de-filippoOggi, ci sarà il suo ricordo in Senato, e l’opera “Le voci di dentro”, in scena al San Ferdinando di Napoli, verrà riproposta su Rai 1, nella replica del 2 novembre delle 16.45, con la regia d’eccezione di Paolo Sorrentino. Da non perdere.
I suoi capolavori gli sono sopravvissuti, nello spazio e nel tempo, ogni parola in più è pura retorica, l’omaggio a questo piccolo e immenso uomo è d’obbligo. Solo un pensiero, allora. Un onore averlo fra gli italiani.
E noi lo vogliamo ricordare così, con il suo ultimo discorso, un vero inno al teatro [vedi] e con una sua bellissima poesia. Perché Eduardo è sempre Eduardo, uomo-galantuomo.

Si t”o sapesse dicere
Ah… si putesse dicere
chello c’ ‘o core dice;
quanto sarria felice
si t’ ‘o sapesse dì!

E si putisse sèntere
chello c’ ‘o core sente,
dicisse: “Eternamente
voglio restà cu te!”

Ma ‘o core sape scrivere?
‘O core è analfabeta,
è comm’a nu pùeta
ca nun sape cantà.

Se mbroglia… sposta ‘e vvirgule…
nu punto ammirativo…
mette nu congiuntivo
addò nun nce ‘adda stà…

E tu c’ ‘o staje a ssèntere
te mbruoglie appriess’ a isso,
comme succede spisso…
E addio Felicità!

Previsioni meteo, chiedetele alle vostre ginocchia!

Il rapporto tra medicina e meteorologia è antico, Ippocrate era sicuro ci fosse un rapporto molto stretto; stessa conclusione per i maestri della tradizione cinese. Tutti noi poi, spesso ci affidiamo più al corpo che ai siti ufficiali per capire come vestirci prima di uscire di casa. Addirittura ci sono persone con artrosi che affermano di poter prevedere il tempo con le ginocchia, perché è vero, le ginocchia sono la parte del nostro corpo che ‘sente’ di più i cambiamenti meteo, e anche a livello scientifico si è scoperto di recente il legame tra dolore al ginocchio e previsioni del tempo.
Ciò non significa che si debbano prender per buone le previsioni del tempo di tutti i sofferenti di artrite: per ora la scienza ha attribuito valore oggettivo alla sensibilità meteoropatica delle sole artriti al ginocchio, senza peraltro poter proporre alcuna valida spiegazione di questa misteriosa ma evidente correlazione tra clima e intensità del dolore.
Come dicevamo, la relazione tra il dolore e il tempo è stata ampiamente studiata, soprattutto nelle persone con artrite. Ma mentre un certo numero di studi ha dimostrato che l’elevata umidità accoppiata ad una bassa pressione atmosferica è di fatto associata a dolore o rigidità alle articolazioni, deve ancora essere stabilita una relazione veramente oggettiva tra il tempo e la gravità dell’artrite. Per esempio, i pazienti con artrite o artrosi non denunciano forti aumenti dei sintomi durante il bagno o il nuoto. Inoltre, i pazienti tollerano facilmente oscillazioni della pressione atmosferica durante il volo nei pressi di una tempesta.

Se è vero che c’è un legame tra meteorologia e dolori articolari, che cosa causa allora il dolore?

Poiché non vi è ancora alcuna conclusione scientificamente provata sul rapporto tra il tempo e l’artrosi, una spiegazione plausibile è che comunque i cambiamenti del tempo influenzano i legamenti già offesi e si gonfiano, irritando i nervi. Un altro dato è che il liquido all’interno dell’articolazione si espande quando la pressione dell’aria scende, causando rigidità e dolori.
Ma questi legami trovano sempre maggiori conferme: Robert Jamison, professore alla Harvard medical school spiega che “il legame è diretto ed ha motivazioni biologiche”. Stesso parere viene espresso dal Centro reumatologia di Cordoba in Argentina che ha appena ripubblicato uno studio del 2010, aggiornandolo: “Per chi soffre di artrite, ma non solo c’è una relazione matematica tra i due fattori. Anche se poi varia da soggetto a soggetto”. Da noi se ne sono occupati gli scienziati del Cnr, secondo i quali manifesta i sintomi un italiano su quattro. Gli studi sulle cavie animali aggiungono prove. E non è solo una questione di previsioni del tempo, il clima ha un’incidenza diretta sulla nostra salute. Secondo una ricerca della Società europea di cardiologia, che ha passato al setaccio 16mila pazienti, il freddo aumenta i rischi di infarto: ogni 17 gradi Fahrenheit le probabilità salgono del 7%. Influenze negative le possono avere anche l’esposizione al vento e gli sbalzi di pressione atmosferica che mandano in tilt l’ipotalamo (struttura del sistema nervoso che controlla la nostra temperatura corporea). Durante i cambiamenti climatici ci sarebbe una riduzione delle endorfine con conseguente diminuzione della soglia del dolore (cioè il livello al di sotto del quale non sentiamo dolore, e al di sopra di cui lo avvertiamo).

Come contrastare i dolori articolari legati al tempo
Per contrastare gli effetti della metereopatia, occorre rinforzare le difese immunitarie, cercando di tenere sotto controllo lo stress. Bisogna stare il più possibile all’aria aperta, anche d’inverno, non tenere troppo alto il riscaldamento (18-20°), non avere in casa aria né troppo umida né troppo secca, evitare ambienti fumosi, areare spesso, a meno che non si abiti vicino ad arterie molto trafficate, poiché l’aria che entrerebbe sarebbe peggiore di quella che esce, dal momento che l’inquinamento atmosferico è una delle cause dirette dell’abbassamento delle difese immunitarie.
Da uno studio del Centro di ricerche in bioclimatologia medica, biotecnologie e medicine naturali dell’Università degli studi di Milano del 2002, risulta che ricostituenti e sedativi naturali sono ottime cure contro il “mal di tempo”. Per i soggetti stressati tè verde, caffè d’orzo, tisane di tiglio, camomilla, salvia, biancospino ed ulivo sono un toccasana. Per i soggetti depressi, invece, meglio i preparati a base di iperico, ginseng, pappa reale, propoli e miele.

L’INTERVISTA
Anna Maria Quarzi: la memoria ci salverà

“È stato un viaggio ‘alla ricerca di’ sulle tracce dei cittadini ferraresi di origine ebraica scomparsi ad Auschwitz, ma è stato anche un viaggio nella perdita dei diritti umani”, così la professoressa Anna Maria Quarzi – direttrice dell’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara – descrive la visita degli studenti ferraresi al campo di sterminio di Auschwitz-Bikenau.

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Bambini detenuti ad Auschwitz

Questo viaggio, infatti, rappresenta “la conclusione di un percorso di preparazione e di ricerca svolte dai ragazzi insieme ai loro insegnanti e ai collaboratori dell’Istituto”, sottolinea la professoressa, “perché l’obiettivo che ci siamo posti dall’inizio è stato evitare un’esperienza solamente emotiva, senza la componente della riflessione”. Il progetto Viaggio e memoria tracce, parole, segni sulle orme dei cittadini ferraresi di religione ebraica deportati ad Auschwitz, promosso dall’Istituto di Storia Contemporanea con la collaborazione del Meis-Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah, che ha ricevuto il finanziamento dell’Assemblea Legislativa della regione Emilia Romagna, ruota intorno all’idea di un apprendimento critico, lontano dal ‘dovere della memoria’. Ha perciò coinvolto i ragazzi del liceo artistico Dosso Dossi e dell’istituto tecnico Aleotti attraverso cicli di incontri, lavori di ricerca sulla comunità ebraica ferrarese e sui suoi componenti, la realizzazione di mostre presso il Meis e di uno spettacolo teatrale andato in scena alla Sala Estense. Lo scopo, spiega la professoressa Quarzi, “era far conoscere ai ragazzi ciò che è successo nella loro città, il fatto che i luoghi che vivono quotidianamente sono stati teatro della privazione di diritti e che è accaduto a cittadini pienamente integrati nella vita della comunità ferrarese, di cui anzi spesso erano i protagonisti”. “Anche per la visita al campo di concentramento – continua la direttrice dell’Istituto di Storia Contemporanea – abbiamo voluto guide mirate, che non hanno fatto leva sulle emozioni, ma hanno ricostruito in modo molto oggettivo il funzionamento del campo di Auschwitz, dall’internamento dei primi prigionieri polacchi, alla Soluzione Finale, alle marce della morte. Inoltre il sistema concentrazionario è stato contestualizzato all’interno di un percorso storico-politico che aveva le proprie radici nel pangermanesimo e che ha trovato poi un terreno fertile nell’antigiudaismo polacco di matrice cattolica-popolare”.

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Anna Maria Quarzi è direttrice dell’Istituto di storia contemporanea di Ferrara

Il viaggio si è svolto dal 21 al 25, durante la settimana della lingua italiana nel mondo, “per questo abbiamo fatto tappa anche all’Istituto Italiano di Cultura di Cracovia, scoprendo diversi legami e corrispondenze fra la storia e la cultura italiana e polacca. L’ultimo giorno l’Istituto ci ha messo a disposizione una guida per la visita della città che ci ha portato nel quartiere Kazimierz, la zona dell’insediamento ebraico di Cracovia, e ha concluso il percorso nella cosiddetta Piazza delle sedie: la piazza del ghetto istituito dai nazisti, dove ora c’è un’installazione di due artisti polacchi composta da alcune sedie che vogliono essere l’emblema di una comunità perduta”. Attraverso questa visita “i ragazzi hanno potuto capire come, dopo l’oblio seguito al conflitto, ora la Polonia stia tentando di recuperare la memoria della propria comunità ebraica e delle sue relazioni con la popolazione in maggioranza cattolica”.
“Uno dei momenti più forti – confessa Anna Maria Quarzi – è stata la serata di riflessione e dibattito dopo la visita ad Auschwitz-Birkenau, che i ragazzi hanno avuto con gli adulti dell’Anpi che ci hanno accompagnato: una sorta di dialogo fra le generazioni attraverso cui scambiarsi impressioni e opinioni”.
Ora, come mi spiega infine la professoressa, “iniziamo una nuova fase di questo progetto, con la realizzazione di un video del viaggio e nuovi incontri nelle scuole che vorranno intraprendere questo percorso di approfondimento: il tutto sempre opera degli studenti, che devono rimanere i protagonisti attivi di queste iniziative, in modo che le conoscenze acquisite e le emozioni provate siano uno stimolo per riconoscere gli indizi e gli episodi di discriminazione e privazione dei diritti nella loro vita quotidiana”.

L’OPINIONE
Concertar pallido e assorto: Renzi, Camusso e il modello democratico

E’ abbastanza facile dimostrare che la cosiddetta concertazione c’entra assai poco con gli schemi classici della democrazia rappresentativa, che prevedono modelli in cui la legittimazione del governo si fonda esclusivamente sull’esito del voto popolare a suffragio universale ed escludono di conseguenza che i cittadini possano disporre di un potere di rappresentanza ulteriore per il fatto di essere imprenditori, lavoratori dipendenti, pensionati. In una democrazia rappresentativa la ricognizione dei bisogni e delle necessità presenti a livello sociale è il compito principale della politica, che le traduce nei programmi che partiti e coalizioni sottopongono al giudizio degli elettori.
Altra cosa è evidentemente la gestione dei rapporti che riguardano direttamente le forze sociali, la negoziazione contrattuale in primis, che le vede agire in totale autonomia all’interno del quadro legislativo vigente, sul quale tuttavia il potere politico, legittimato dal Parlamento, può intervenire per ragioni di interesse generale.
In quest’ottica la richiesta delle forze sociali di “contrattare” direttamente con l’esecutivo il contenuto delle leggi che approva il Parlamento ha ben poco fondamento ed è tutt’al più assimilabile ad una legittima attività di lobby. Un conto è infatti il dovere da parte di chi governa di ascoltare tutte le voci del Paese, ben altro sarebbe invece l’obbligo di dover ottenere da alcune di esse una qualche forma di consenso preventivo.
Per anni in molti a sinistra hanno ritenuto che il modello della concertazione, che indubbiamente ha consentito in passato al Paese di superare alcuni momenti difficili, fosse l’espressione di una democrazia più ricca e avanzata, nella quale, alla rappresentanza politica espressa con il voto, si affiancava quella sociale, espressa dalle organizzazioni delle diverse componenti che costituiscono la società. Ma è proprio/ancora vero?
In primo luogo si osserva che questo schema ha certamente rappresentato per le forze di opposizione una sorta di elemento di garanzia, che consentiva di estendere il loro potere di interdizione nei confronti di chi governava al di là dei rapporti di forza in parlamento. In un’ottica puramente difensiva, come è stata quella che per anni ha prevalso, è innegabile che questo modello abbia consentito di limitare qualche danno; anche se non a costo zero, perché è emerso con chiarezza che nella percezione dell’opinione pubblica questa sorta di delega impropria della politica alle rappresentanze dei lavoratori appariva come una forma di indebita commistione e confusione di ruoli, che certamente non aiutava ad acquisire consenso chi si proponeva come forza alternativa. In questo modo inoltre chi governava poteva trovare facili giustificazioni per i propri insuccessi, diluendo di fatto la propria responsabilità di fronte agli elettori ed alimentando la percezione di una sostanziale omogeneità e trasversalità nella gestione della cosa pubblica.
C’è poi un problema più sostanziale, perché la concertazione attribuisce un potere assai ampio a forze la cui reale rappresentatività col passar del tempo è tutta da dimostrare, a maggior ragione in un mondo che cambia molto rapidamente. Basta provare a chiedere, ad esempio, quanti imprenditori si sentano oggi rappresentati da Confindustria ed in quale misura, mentre d’altro canto è del tutto evidente che l’esplosione della disoccupazione e del lavoro precario ha lasciato progressivamente scoperte fasce sempre più ampie ed importanti della società, che le tradizionali organizzazioni dei lavoratori obiettivamente non rappresentano, così come la nascita di nuovi modelli di impresa e paradigmi di iniziativa economica (penso ad esempio al terzo settore) ha ridotto di parecchio la capacità di rappresentanza delle organizzazioni datoriali esistenti.
Non è nemmeno accettabile la posizione di chi fa discendere un’ipotetica imprescindibilità della concertazione addirittura dall’articolo 1 della Costituzione, che assegna sì al lavoro il ruolo di elemento fondante del patto sociale, ma certamente non prescrive e nemmeno suggerisce alcun canale parallelo attraverso il quale i rappresentanti delle categorie sociali, anche a voler prescindere dalle modalità della loro selezione, possano essere interlocutori obbligati dei poteri dello stato.
Molto meglio quindi che ciascuno ritorni al proprio ruolo e si assuma per intero le proprie responsabilità: alle parti sociali quella di portare avanti con tutti i mezzi previsti dalla legge gli interessi dei propri associati e a chi governa l’obbligo di elaborare una sintesi che persegua l’interesse generale, lasciando agli elettori le valutazioni sulla sua efficacia ed equità.

LA STORIA
“Io, figlio di un inquieto Sudamerica
ho ritrovato il sorriso nell’argilla del Po”

Sergio nato in Uruguay, vive a Serravalle, provincia di Ferrara. A casa un bambino di quasi nove anni lo aspetta per giocare, prima di dormire. Sergio, figlio di un padre alcolizzato in una casa senza mattonelle, col pavimento di terra, le porte aperte, una madre affetta da precoce artrite reumatoide. Gli occhi neri, i capelli ricci, una sorella e poco da mangiare. Quel poco gli bastava, però la famiglia cerca fortuna a Buenos Aires perché “per essere felice devi avere, questo il tranello capitalista”.

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Sergio con la sua classe elementare. Seduto in basso, il secondo da sinistra

“A Buenos Aires, nel quartiere popolare Boedo, in frigo c’era sempre la coca cola e io credevo fossimo ricchi. Poi mio padre perse il lavoro. Presi un secchio d’acqua, mi inventai un mestiere lavando le vetrine dei negozi della città ogni pomeriggio, fino a raggiungere 50 pesos al giorno, in un mese diventava la paga di un operaio.”
Intanto, la mattina frequentava il liceo. Un giorno qualcuno gli poggia la mano sulla fronte. E’ un giorno come un altro in cui il sole per l’ennesima volta è risorto. Qualcuno tocca delicatamente la sua testa e chiede “come sta la tua anima, Sergio?”. E’ la professoressa di letteratura Beatriz Luque, un fratello desaparecido e il coraggio di non calare mai la testa di fronte ai militari.

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Manifestazione di protesta contro il default argentino del duemila

Sergio con la cresta punk, poi fricchettone, comunista, anarchico che non perde occasione per gettare la sua rabbia in Plaza de Mayo, negli scontri con la Celere, a lottare contro un sistema iniquo, ingiusto. Osserva questa donna e inizia a credere di poter cambiare. Ha visto tanti amici di infanzia risucchiati nelle favelas, persi per sempre.
Da quel giorno iniziò ad apprezzare la poesia, l’arte. Quel giorno forse ha scelto lui, lo ha convinto a diventare un uomo, nonostante tutto. Sarebbe potuto rimanere tra i vicoli di Buones Aires. Invece, stasera, mentre scrivo, il ragazzo del quartiere Boedo chiude il suo banco colorato di cactus, tartarughe, animali, lune, stelle, e torna da un bambino che lo aspetta per giocare prima di dormire, lì, giù a Serravalle.

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Le ceramiche di Pachamama

Serravalle frazione di Berra, cinquemila anime verso il Delta del Po. Quasi alla foce del Grande Fiume. Serravalle che non va in televisione. Poco distante da Padova, Ferrara, Ravenna, eppure lontana dal mondo perché non appare, sembra non servire. Serravalle provincia di dove finisce la provincia e i ragazzi fuggono a Bologna, a Milano, a Padova. Fuggono, ignari del fatto che non si sfugge al luogo in cui si cresce. Serravalle tra acqua e terra, estremo lembo orientale, adriatico, di un Nord ancora bizantino. Un luogo lontano dal clamore, nel cuore del settentrione. Una scura e profonda pianura il cui suolo sa ancora di mare.

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Nonna Maria

In Patagonia “ho visto la vita da vicino e la mia esperienza dice che chi possiede meno è più generoso”. E’ stato il viaggio più bello prima di approdare in Europa. “Mi manca molto mia nonna. Una donna analfabeta, madre di undici figli. Una persona saggia che per me aveva sempre il sorriso”.  Dopo il diploma sceglie la Scuola di oreficeria statale. E’ andata così: lui lavava le vetrine e, sulla stessa strada, un orafo cileno vendeva la sua merce. Sergio si avvicina per fargli i complimenti e l’orafo lo invita a sedersi: “chiunque è capace di imparare”. Questo episodio fu un ennesimo inizio. Ma nel duemila arrivò il fallimento dell’Argentina. Si ritrovò di nuovo al verde, in mezzo a una strada. Spinto dal bisogno di sostenere se stesso e la propria famiglia. Da clandestino, il nostro ragazzo approda a Madrid, quindi a Bologna. Nella città dei portici si inventa maestro di spagnolo: “La prima volta che vidi la Sala Borsa, sede di una grande biblioteca, non riuscii a trattenere le lacrime. E’ difficile spiegare da dove vengo e cosa sia l’Europa per un ragazzo uruguaiano poco più che ventenne della provincia del Rio Negro. E’ stato prendere uno shuttle per andare su Saturno”, racconta.

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Elisabeth, fondatrice del laboratorio artigianale Pachamama

A Bologna trova lavoro come orafo, viene assunto, legalizzato. Mette da parte un bel gruzzolo, deciso a ritornare in Argentina. Prima però, insieme a tre amici, un ultimo viaggio verso il sud dell’Italia. Nessuno gli poggia la mano sulla fronte, stavolta. Nessuno a chiedergli come stia la sua anima ora che, a migliaia di chilometri da casa, ha dei risparmi. Ora che è quasi un uomo. Il viaggio finisce prima di cominciare. Termina sull’isola d’Elba, dove i suoi occhi neri si fermano su quelli altrettanto scuri di Elisabeth, artigiana, ceramista ferrarese. Mentre gli occhi sono occupati, fermi, lei attraversa l’anima, cammina sui suoi desideri, seguendoli prende asilo nel cuore di Sergio. Neanche sei mesi e viene concepito il piccolo Inaki.

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Elisabeth e Sergio davanti alla loro bancarella

Nel frattempo si è sviluppata Pachamama. Nella antica lingua Incas ‘madre terra’. Il progetto di Elisabeth prende il nome proprio dalla terra. Nulla di meglio per chi, come lei, da tempo lavora con le mani nell’argilla: “Tutto ciò che è pietre preziose, oro, è sporco di sangue”, dice, “Preferisco guidare il mio vecchio furgone Ducati. Preferisco le mani nell’argilla, la nostra ceramica a chilometri 45″, tanto dista Serravalle da Ferrara.

“Nella mia vita è un pesce palla che surfa, non un delfino. Da tempo ho abbandonato gli slogan, i passamontagna, la protesta. Quello in cui credo cerco di dimostrarlo con l’esempio, con la mia vita”, dice il ragazzo del Rio Negro, quello delle vetrine da lavare, l’orafo, l’insegnante di spagnolo, vissuto al Boedo, dove “costa meno una pallottola che un preservativo”, è cresciuto e oggi la sua anima sta bene. A casa un bambino di quasi nove anni lo aspetta per giocare, prima di dormire. Sergio che viene da una casa senza mattonelle, col pavimento di terra. Gli occhi neri, i capelli ricci una sorella e poco da mangiare. Uomo, padre che sa come si diventa uomo. Uomo che sa come fare il padre.

Hasta siempre, cari Sergio ed Elisabeth!

Racconto pubblicato nel blog di Sandro Abruzzese Racconti viandanti [vedi]

LA PROVOCAZIONE
Viva gli yankees, alla faccia dell’ignoranza

I believe very urgent to change our ancient, terrible and modest italian language: we must speak and write american, not american of William Faulkner, too much aristocratic, but the slang of the
metropolitan shantytown and of the cockney-men. It’s necessary to change now because people doen’t understand if you speak italian, all is yankee, also my underpants are yankee and I become a poor little italian idiot, so Renzi says. Do you know Renzi Matteo? He is a young man who doesn’t love democracy, oh my God!

Mi sono accorto a questo punto che stavo scrivendo nella paccottiglia linguistica che contraddistingue la comunicazione scritta e orale tra gli italiani oggi, una sorta di parlata da cui il vecchio, caro idioma di Manzoni depurato in Arno è stato bandito con ignominia per correre velocemente verso un linguaggio che non rappresenta più l’unità culturale di un Paese, ma è il composto di varie ignoranze, le quali, unite in un fascio, determinano l’incomparabile confusione (scusate: casino) di oggi. Pochi giorni fa, leggendo il mio giornale del mattino, mi è scappato l’occhio su una pubblicità di oltre mezza pagina, oh non c’era una sola parola d’italiano! Allora ho chiesto alla nostra collaboratrice domestica moldava, la Dora benedetta, di che cosa si trattasse: non so, mi ha risposto, l’italiano non lo conosco ancora bene. Meno male, ho pensato, siamo in due. Ma ci si immagina quando la Dora vede il telegiornale e affettati signori in grigio fumo di Londra le parlano di spending review? Se dicessero revisione della spesa, povera Dora!, anche lei capirebbe, invece niente, oggi è necessità categorica tagliar fuori dal linguaggio del potere il numero più possibilmente largo di persone, non si sa mai che si aumenti la quantità di coloro che comprendono. But what is fucking around Mr Renzi (letteralmente che cacchio c’entra tutto questo con Renzi?, ma vedete com’è volgare?). C’entra, c’entra, Renzi ormai c’entra sempre: c’è gente alla quale il nostro ineffabile Presidente appare ogni giorno circondato da corone di rose in un effluvio di profumi, è come la Madonna Renzi. Oh my God!

Carissimo Dario Franceschini, ho conosciuto alcuni dati sulla cultura in Italia che definire inquietanti è davvero ridicolo: dunque, nel nostro colto Paese oltre 31 milioni di cittadini non leggono un libro, un solo libro, nell’arco di un anno; i quotidiani perdono copie ogni giorno, se ne vendono meno di quanti ne venissero diffusi nel 1924; le donne, che dovrebbero rappresentare nell’immaginario dei nostri intellettuali la forza rivoluzionaria, proprio non leggono, al massimo le didascalie di quei giornaletti settimanali di pettegolezzo, unica merce ‘culturale’ in allarmante aumento; peggio ancora, il 6 per cento della popolazione non sa leggere né scrivere. Ma quel che più spaventa, caro Dario, è quell’indagine compiuta sui tuoi colleghi in Parlamento, i quali, alle domande culturali rivolte loro, hanno dato risposte alla Totò dei tempi migliori, come “chi era Mao?”, risposta: il capo di una setta religiosa. E in questo paese vogliamo che la signora Dora, tra l’altro bravissima cuoca – non è poco – sappia che cos’è il fiscal drag!