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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


L’APPUNTAMENTO
Le tante vie dell’antimafia

Dopo la presentazione di Mafie del Nord. Strategie criminali e contesti sociali, lunedì mattina al dipartimento di Giurisprudenza, la Festa della legalità e della responsabilità 2014 torna ad affrontare il tema del radicamento della criminalità organizzata nel Nord Italia, cambiando però l’angolo di osservazione. L’appuntamento di lunedì con la ricerca curata dal gruppo di sociologi coordinato da Rocco Sciarrone ha rappresentato un momento di riflessione, in cui l’obiettivo era la ricerca di un metodo di studio del fenomeno per coglierne le diverse sfaccettature. La serata di mercoledì alla Sala Boldini, con la proiezione del documentario Romagna Nostra. Le mafie sbarcano in riviera, è stata ancora momento di riflessione, ma quella riflessione che nasce dalla denuncia. Il documentario è, infatti, il frutto dell’impegno dei ragazzi del Gruppo Antimafia Pio La Torre di Rimini che per più di un anno hanno lavorato alla ricostruzione del radicamento della criminalità organizzata tra Ravenna, Rimini, Riccione e San Marino: dal gioco d’azzardo dominato dai calabresi, all’affare del riciclaggio attraverso le strutture alberghiere controllato dalla camorra. Hanno realizzato interviste a giornalisti, avvocati, amministratori pubblici e magistrati, hanno letto gli atti delle inchieste e hanno ricostruito le operazioni della forze dell’ordine. E quando non hanno ricevuto attenzione o risposta da case di produzione e distribuzione a livello locale e nazionale, invece di lasciar perdere, hanno imboccato la strada del crowdfunding sulla piattaforma Produzioni dal basso, raccogliendo in brevissimo tempo i circa 2.000 euro con i quali hanno sostenuto le spese necessarie a realizzare il documentario. “Il nostro obiettivo è abbattere due stereotipi”, hanno spiegato Stefano e Davide, arrivati da Rimini per presentare il loro lavoro, “quello della negazione della presenza delle mafie al Nord” e “quello di una criminalità fatta di colletti bianchi, per cui sarebbe difficile riconoscere i mafiosi perché non utilizzano metodi violenti”. Romagna Nostra è quindi il racconto di fatti, aggressioni, intimidazioni, omicidi e sparatorie, avvenuti negli ultimi 25 anni in riviera.
romagna-nostra-le-mafie-sbarcano-in-riviera-2_673_676Due mezzi, due metodi diversi, che hanno in comune la ricerca, lo studio, la passione, l’onestà intellettuale. Per una maggiore consapevolezza di una realtà che ancora molti non riescono o non vogliono vedere, si possono percorrere entrambe le vie. Entrambi, infatti, la ricerca sociologica di Sciarrone e il documentario dei ragazzi riminesi, arrivano alle stesse conclusioni: “La mafia, lo ripeto ancora una volta, non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano. Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società. Questo è il terreno di coltura di Cosa Nostra con tutto quello che comporta di implicazioni dirette o indirette, consapevoli o no, volontarie o obbligate, che spesso godono del consenso della popolazione.” (Giovanni Falcone)

Ragionare da umani,
ragionare da alberi

Anni fa, durante un corso di specializzazione, rimasi colpita dalle parole di un relatore: “Se vuoi lavorare con gli alberi, ragiona da albero”. Forse si trattava di una battuta, forse era una citazione altrui, di certo chi aveva espresso questo pensiero non era esattamente uno qualunque, infatti si trattava di Gildo Spagnolli, una figura mitica per chi si occupa di giardini e di verde pubblico in Italia. Spagnolli ha praticamente fondato la Giardineria del Comune di Bolzano, da lui diretta con energia e competenza per quarantadue anni, creando un esempio di progettazione e di gestione delle aree verdi urbane, stabile e indipendente dalle logiche elettorali. È sufficiente aprire la pagina del sito della città di Bolzano, scorrere i servizi che fornisce la Giardineria e leggere con quanta chiarezza sono espressi, per renderci conto che stiamo parlando di un altro pianeta. Dal vivaio delle piante, ai giardinieri che le curano, fino ai progettisti e amministratori, la Giardineria fornisce un pacchetto di gestione completa, che delega agli esterni solo alcuni interventi di pulizia. Soprassediamo sul fatto che tutto questo ha determinato una conoscenza della complessità del sistema del verde della città che dovrebbe essere una componente fondamentale di chi lavora in questo settore, vorrei però sottolineare un aspetto della Giardineria che mi piacerebbe fosse obbligatorio ovunque: il vivaio comunale.

È evidente che produrre in proprio il necessario richiesto dai progettisti, garantisce una coerenza totale tra progetto e realizzazione e, soprattutto, la qualità delle piante stesse. Piante sane, ben formate, messe in terra nel momento giusto, sono un’ottima partenza per ridurre i costi di manutenzione nel tempo e permettere di ragionare in termini di piantagioni stabili, evitando il cava-e-metti delle annuali. Nel caso degli alberi, la qualità della pianta dovrebbe essere un obbligo, ma non è così. Gli alberi sono organismi straordinari, la loro forma, caratteristica per ogni specie, è una macchina perfetta che ne garantisce salute e stabilità. Quando un albero crea dei problemi, nella stragrande maggioranza dei casi è colpa degli esseri umani. I casi più frequenti sono quelli della diffusione di malattie che si trasmettono usando attrezzi infetti e non puliti, o ignorando le pratiche di smaltimento del legno malato (come nel caso della epidemia di cancro colorato del platano). Poi ci sono errori di piantagione, specie sbagliata per lo spazio a disposizione, con conseguenti sbancamenti di muretti e pavimentazioni, e errori di potatura. Gli alberi non amano le potature, i tagli su legno vivo sono delle ferite che permettono l’ingresso agli intrusi: funghi, parassiti, malattie varie e che possono compromettere la stabilità perché, interrompendo l’asse di crescita, si formano ramificazioni con angolature che, nel tempo, cedono per il loro peso. Basterebbe questo per pensarci bene prima di pigliare in mano una sega a motore e ridurre una pianta maestosa a uno scheletro di legno, eppure questa convinzione è talmente dura a morire che persino l’animazione di apertura di Google, nel giorno di equinozio d’autunno, ci mostrava degli alberi, che dopo aver perso le foglie, avevano la ramificazione tipica di un albero cimato, o ancora peggio capitozzato.
Intorno a noi è rarissimo vedere un albero con la sua forma caratteristica, perché per decenni ai giovani alberi veniva castrata la punta, si spezzava la “freccia”, il ramo che sale dalle radici e esce dalla terra diretto verso il cielo, per favorire una forma regolare, sferica e innaturale della chioma. Ma non c’è verso, continuiamo a ragionare da umani, “perché si fa così”, ma quello che può avere un senso per un albero da frutto che deve produrre molto e vivere poco, non ne ha per un albero che fiancheggia una strada, che fa ombra in un parcheggio o che ci delizia nei giardini. Per le alberature storiche, ormai, bisogna considerare caso per caso, ma per le nuove piantagioni impariamo a scegliere in base allo spazio disponibile, scegliendo piante ben formate e dritte. Ci sono alberi bellissimi, di tutte le forme e dimensioni e, se non abbiamo lo spazio per un gigante in giardino, impariamo a goderne la bellezza in un parco e a scegliere con criterio i nostri amici vegetali, in modo da evitare di ridurli a patetici moncherini privi di grazia e bellezza. Insomma, bisogna avere buon senso e cominciare a ragionare da alberi, e capire che quando un albero potato vigliaccamente produce uno sproposito di ramificazioni, non lo fa perché si diverte, ma perché ha paura e sta cercando di sopravvivere.

[La foto è di Raffaele Mosca]

IL FATTO
Elogio dell’uovo
oggi è la sua festa

Oggi è la giornata mondiale dell’uovo. Qualcuno potrebbe dire, e allora? Cosa ci importa, con tutti i problemi che abbiamo? A quando il giorno dell’insalata? Ormai c’è un giorno per tutto, ci mancava davvero solo questo. Eppure è già dal 1996 che si celebra questo giorno, quando la Commissione Internazionale di Vienna “Egg Commission” annunciò questo evento per il secondo venerdì di ottobre di ogni anno.
A pensarci bene, indipendentemente dalla convinzione personale sull’eterno dilemma “è nato prima l’uovo o la gallina”, l’uovo è davvero un prodotto naturale alimentare fondamentale, universale, alla base dell’alimentazione quotidiana di ciascuno di noi.
La diffusione dell’uovo nei paesi poveri, secondo la Commissione internazionale e la Fao, potrebbe salvare quegli 842 milioni di persone che in tutto il mondo, specialmente nell’Africa subsahariana, soffrono di fame cronica. Il direttore generale della Commissione ha dichiarato, inoltre, che, rispetto alla carne, la produzione delle uova ha un basso consumo di carbonio ed è più sostenibile ecologicamente. In media una gallina depone all’anno 300/325 uova: circa uno al giorno. Una buona notizia, dunque.
L’uovo è un alimento versatile: ci piace alla coque, sodo, in una bella e farcita omelette, al tegamino, nelle frittate, nelle quiche, nelle crespelle, nelle crepes, nelle mousse, nelle meringhe e nella pasta; i bambini vanno matti per le gialle uova strapazzate, lo zabaglione o le pastine e le torte, profumate di zucchero a velo, che lo contengono.
E’ senza orario, lo possiamo mangiare a qualsiasi ora della giornata, alla mattina a colazione, durante una pausa, a pranzo o a cena. Sodo, fa parte del ricco cestino del picnic che ci accompagna nelle scampagnate primaverili o estive, è quello di Pasqua, colorato, farcito, di cioccolato al latte o fondente. E’ un magico mondo a se’, indipendente, racchiude la vita e la crea. E’ il pulcino che spunta dal guscio, la mamma chioccia che cova, il caldo racchiuso al suo interno, il tepore di una casa.
Ha un costo ridotto, contiene proteine nobili, ha un basso apporto di calorie e grassi, è stupendamente miracoloso dal punto di vista nutrizionale ed economico.
Recentemente assolto dalle accuse di eccessivo apporto di colesterolo, i medici ne consigliano l’uso 3-4 volte a settimana. Perché apporta grandi benefici alla vista (per il suo contenuto di carotenoidi) e alla memoria (per la sua ricchezza in colina che, se assunta in gravidanza è un fattore determinante per sviluppo delle capacità mnemoniche del bambino); perché le proteine dell’uovo sono di altissima qualità, seconde solo a quelle del latte materno, e il tuorlo è uno dei pochi cibi naturali che contengono una buona dose di vitamina D. Questo alimento è importante per cervello e muscoli, ma la lista potrebbe facilmente continuare. I giapponesi ne consumano quasi uno al giorno, gli italiani circa 20 al mese. L’uovo, giudicato «il cibo più buono del mondo» anche da Dante Alighieri, è un alimento davvero unico nel suo genere, perciò oggi, non dimenticate la Giornata Mondiale dell’Uovo. E fatevi una bella frittata.

LA RIFLESSIONE
Fisiognomica e politica

E così passa al Senato il fonologicamente – a seconda degli/delle speakers – detto Jobbs Acht, Jobs Echt e dal premier Renzi Jobs Ek. Naturalmente tra voli di libri, urla, e scalate alla presidenza dove lo sbalordito testimone incontra sconvolgimenti di grigie grisaglie fotografate mentre s’inerpicano sui banchi. E visi deformati dall’ira, gote enfiate (le “enfiate labbia” di dantesca memoria), le barbe sempre più folte (notevole anche quella del sindaco di Roma tenuamente brizzolata), e lo svolazzìo di orribili cravatte.
Ma una notizia lieta viene riportata dai quotidiani: i ‘barbudos’ più famosi d’Italia resteranno nella loro casa e non affronteranno lo stress dell’esibizione delle loro nudità all’Expo milanese. Parlo naturalmente dei Bronzi di Riace.
Alla scompostezza della politica si associa una riflessione.
Per calmarmi dalle desolanti notizie che ci propongono i telegiornali (inequivocabile l’avvio ogni sera, minacciosamente severo, di “mitraglia” Mentana), offre oasi di pace e di bellezza un canale televisivo che propone la musica più fastosamente eseguita da geni solisti e da grandi compagini orchestrali. Osservando quei volti, brutti, belli, giovani e vecchi, si nota una dignità sovrana mai turbata, anzi esaltata, dalle smorfie, dagli atteggiamenti innaturali obbligati dalla necessaria compenetrazione con lo strumento: labbra strette nella compagine degli strumenti a fiato, silenziosi scatarrii tra le trombe, braccia e colli tesi tra gli archi. Tutto si armonizza in una dignità che trova origine e salvezza dalla bellezza e dallo spirito. Se si potesse esprimere in una figura la nobiltà dello spirito, sceglierei quella dell’ottantenne Arthur Rubinstein mentre suona il concerto n.2 di Chopin. Dignità, bellezza, spirito: ciò che dovrebbe essere l’aspirazione dell’umano.
A differenza, e mi dispiace constatarlo, nelle aule parlamentari dove l’umanità più scomposta riduce la fisicità a bisogni primari, quasi tutti appaiono brutti perché scomposti. La fretta – o l’urlo – che dismaga la naturale dignità umana. Sibili, vociate, gesti sconvenienti sono dunque il riflesso di ciò che si pensa debba essere la lotta politica? E a questo punto, l’atteggiamento formale del Presidente della Repubblica appare o dovrebbe apparire modello di comportamento. Sempre più i personaggi della politica si fondono e si confondono con la satira di Crozza e perdono di carisma e di serietà. Ho ripreso in mano uno dei testi più corrosivi della nostra tradizione letteraria contemporanea. Un pamphlet di Carlo Emilio Gadda recitato in Rai, terzo programma il 5 dicembre del 1958 dal titolo “Il guerriero, l’amazzone, lo spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo”. Tra i protagonisti, la dama Donna Clorinda Frinelli, il professor Manfredo Bodoni Tacchi e l’avvocato Damaso de’ Linguagi, scoppia una diatriba sull’importanza del Foscolo, della sua poesia e del periodo storico di cui fu protagonista. Alla vacuità della dama e all’importanza seriosa del professore, si oppone il dissacrante avvocato che Insulta Bodoni Tacchi con l’inversione del nome: TaccaBodoni o ancor più il riferimento a un famoso B. (non è una premonizione ma l’indicazione di Bonaparte detto anche il Nano!) fatta da de’ Linguagi, insultato a sua volta col nome di Linguaggia.
Ecco, dunque, che tutto ritorna alla parola, alla capacità della parola di dire tutto e oltre il tutto; ma quando la parola, ridotta a mezzo politico s’isterilisce e si contrae in se stessa, perde di veridicità e non si conforma più alle cose.
Ancora segnali fisiognomici nel quartetto ferrarese scelto per la Regione. Nella foto ufficiale due candidati, una donna e un uomo, si presentano con l’ormai abusato sciarpone annodato al collo, ultimo riferimento ad un vezzo modaiolo adottato dalla politica. Gli altri due si presentano, invece, con una renziana camicia bianca.
Non sarà un segno di un’imitazione – assai facile da decodificare – che non trova, purtroppo, una sua originalità e semplicità di messaggio?

Osteopatia in ambito
neonatale e pediatrico

L’osteopatia in ambito neonatale e pediatrico rappresenta una reale medicina preventiva. In caso di nascita naturale, rappresenta una terapia imperiale ed elettiva che permette al neonato di superare il trauma da parto. Anche in caso di cesareo, l’osteopatia permette il ripristino del meccanismo di respirazione primario, un meccanismo che controlla tutte le fasce del tessuto del neonato e che avviene prima del normale respiro toracico, già intorno alla quarta settimana di vita intrauterina. L’osteopata si prende attenzione del bebè considerandolo come una un’unica unità funzionale di corpo, emozioni, mente e spirito.
In molti Paesi del nord Europa e negli Stati uniti, viene data grande importanza al ruolo dell’osteopata che affianca l’ostetrica in sala parto, assistendo alla dinamica del parto per poi verificare, nell’immediato, se la dilatazione e la contrazione delle ossa del cranio, che sono collegate al sacro attraverso la dura madre (una membrana quasi inestensibile), avviene rispettando i limiti fisiologici.

osteopatia-neonataleDurante il passaggio della testa del feto lungo il canale del parto, si determina un modellamento delle ossa craniche ed uno stimolo meccanico essenziale per uno sviluppo regolare di tutto il corpo. Se questo viene a mancare, come in caso di parto cesareo, l’intervento dell’osteopata può rendersi necessario per favorire una crescita più corretta possibile. La pressione subita dal cranio al momento della nascita può rappresentare un fattore determinante per l’ossificazione delle ossa craniche. Inoltre, la pressione e la compressione che il cranio riceve, nel passaggio dal canale pelvico, può creare irritazioni dei nervi cranici del neonato. In età fetale il bambino possiede una grande malleabilità delle ossa del cranio e, a causa dell’espulsione e delle enormi pressioni cui è sottoposta la testa durante la nascita, questi può subire una deformazione del cranio stesso. Si spiega infatti come, per via di un difficile travaglio, molti neonati abbiano una forma strana del cranio (ad esempio un cranio allungato, naso più schiacciato, occhio più chiuso…). Spesso le deformazioni del cranio durante l’espulsione si riassestano completamente col tempo. Talvolta, però, se la nascita è stata difficoltosa, questo processo non si verifica in maniera completa, con conseguenti alterazioni di mobilità di alcune ossa craniche, non ancora saldate, e la possibilità quindi di sviluppare disfunzioni a carico del sistema visivo e occlusale. I tessuti conservano spesso le asimmetrie delle pressioni e degli stiramenti subiti. Ogni regione del corpo può essere lesa e a causa dell’interdipendenza, ogni disequilibrio si ripercuote a distanza.

osteopatia-neonatale

Nel parto cesareo, a causa del gioco di pressioni, si possono riscontrare problemi. Vi è una notevole pressione all’interno della pancia ed una pressoché nulla nell’ambiente esterno. Il feto, durante il passaggio diretto dall’ambiente fetale al mondo esterno, è sottoposto ad una forza come di trazione del cranio in senso trasversale ed una successiva difficoltà di adattamento alle nuove pressioni. In entrambi i tipi di parto, se l’adattamento fisiologico del cranio non avviene, l’osteopata può intervenire per riequilibrarlo e per permettere una migliore fisiologia, eliminando le disfunzioni ed evitando che queste si possano manifestare in futuro. A seconda della disfunzione cranica presente, nel bambino possono infatti manifestarsi successivamente problematiche specifiche. Difficoltà respiratorie, suzione, irrequietezze, allergie, asma, faringiti, riniti, sinusiti, otiti, adenoidi, possono essere legate ad un’alterazione del movimento delle ossa del cranio o di una scorretta mobilità del diaframma toracico.

Sintomi legati a problemi di disfunzione cranica al momento della nascita:
• la presenza di disturbi del sonno, suzione difficoltosa, rigurgiti, difficoltà a deglutire, agitazione e irritabilità, coliche possono essere legate ad una tensione o compressione delle suture o dei tessuti membranosi intracranici che tendono a creare un’irritazione di strutture nervose alla base del cranio;
• le alterazioni a carico della colonna e del sacro possono dare luogo a manifestazioni posturali che si evidenzieranno durante la crescita come scoliosi, dismetrie e dimorfismi degli arti inferiori (ginocchia vare, valghe, alterazioni dell’arco plantare);
• la presenza di emicranie, cefalee, strabismo, cattive occlusioni possono essere legate a lesioni o tensioni delle membrane intracraniche o cranio-sacrali .

Desidero far comprendere che gli studi sul cranio e sul suo movimento sono ormai una realtà e che, nel mondo culturalmente avanzato, gli osteopati qualificati intervengono già due ore dopo la nascita, in collaborazione con i medici specialisti.
E’ importante dare ai futuri genitori questo tipo di informazioni, i pediatri dovrebbero documentarsi di più e divulgare l’importanza della scienza osteopatica in ambito craniale.

“I tessuti posseggono una loro memoria” (J. Barral) e tutto rimane impresso.
Per questo è importante l’osteopatia nei bambini, perché evita che le disfunzioni si strutturino.

LA PROPOSTA
Un disegno unitario per rivitalizzare piazza Castello e piazza Repubblica

Proviamo a immaginare Repubblica e Castello come un’unica piazza. Un enorme contenitore urbano di oltre cinquemila metri quadri (centotrenta di lunghezza con un’ampiezza media di quaranta) tutto da reinventare. Oggi piazza Castello è ridotta a disordinato e poco dignitoso parcheggio semiabusivo in cui autorizzati, ‘parautorizzati’ e affini – specie la mattina – sostano senza pietà e senza adeguato controllo o disciplina accanto al monumento più rappresentativo della città.
Piazza Repubblica in compenso non si sa nemmeno cosa sia: retrobottega di ‘soft drugs’, ripostiglio di negozi che tengono vetrina in via Garibaldi, area di sgambamento barboncini, munita solo di un triste lavacro (una fontana peraltro senz’acqua) cinta da alberi maleodoranti (le loro bacche in certi periodi dell’anno sono davvero fetenti, fateci caso: quell’odorino che sentite non sono escrementi di cani, sono gli alberi!).

Le due piazze contigue andrebbero certamente liberate dai veicoli, ripensate nell’arredo e nell’utilizzo e potrebbero forse essere ricongiunte in un unico disegno urbanistico, chiudendo il varco d’accesso fra la chiesetta di san Giuliano e il muretto del castello, creando così un rettangolo sghembo, una sola grande piazza con elementi interni di richiamo che diano unitarietà all’area.

Lo spazio così ridefinito potrebbe più agevolmente sviluppare con sistematicità quella vocazione che già negli anni ha sedimentato: quella di essere teatro di eventi, spettacoli, concerti. Potrebbe continuare a dare ospitalità ai mercatini d’arte, antiquariati e modernariato. E potrebbe persino rappresentare una soluzione per la spinosa questione del mercato del venerdì, offrendo un accettabile punto di compromesso fra chi considera accettabile che i banchetti dei venditori ambulanti stazionino in pieno centro e coloro invece che vorrebbero allontanarli dalla zona monumentale. Se proprio non si vuole evitare di esibire maglie e mutande in piazza, per una volta alla settimana allestire il mercato in questo grande e un po’ defilato contenitore sarebbe forse un male sopportabile anche per chi, come noi, lo considera – letteralmente – fuori luogo.
La grande piazza Repubblica-Castello e l’ampia strada di accesso dal fronte di viale Cavour potrebbero infatti ospitare, se non proprio tutti, almeno gran parte dei venditori, creando magari due aree mercatali distinte: una fra piazza Travaglio e corso Porta Reno. L’altra, appunto, fra piazza Castello e piazza Repubblica.

In ogni caso le auto dovrebbero essere bandite da tutta l’area. Normalmente ne stazionano una quarantina, con particolare accanimento nella prima parte della giornata. Non è accettabile che per il comodo di qualche decina di persone si comprometta il decoro di una piazza così rappresentativa, il cui godimento deve essere sempre garantito a tutti i cittadini e ai turisti, che nel centro storico di una città patrimonio Unesco si attendono di poter ammirare i monumenti e non di dover sopportare un parassitario traffico automobilistico.

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Piazza Castello e sullo sfondo piazza Repubblica

IL RICORDO
La sua Africa.
Vita di Giorgio Giaccaglia
il dottore buono di Tharaka

Questo libro “è la testimonianza che nella vita esistono dei valori”, scrive Gian Pietro Testa nella postfazione, e che ogni tanto “il mondo ha una buona stella che gli permette di andare avanti”.
Mercoledì 15 ottobre alle 18, al Ristorante Guido e Galleria d’Arte Marchesi di via Vignatagliata 46, Gian Pietro Testa, noto scrittore e giornalista ferrarese, presenta il libro di Giorgio Giaccaglia, “Storie africane di un chirurgo atipico”.

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Giorgio Giaccaglia

Anestesista e chirurgo, dopo aver lavorato diversi anni al Sant’Orsola di Bologna, dal 1982, per vent’anni, Giaccaglia è stato primario anestesista agli ospedali del Delta di Lagosanto e San Camillo di Comacchio, e l’ideatore del progetto di Gestione delle Emergenze per la Regione Emilia-Romagna. Negli gli ultimi 13 anni della sua vita si è dedicato all’assistenza delle popolazioni africane, fondando due ospedali missionari, uno in Kenya, a Tharaka, e uno in Tanzania.

Il libro è un racconto-diario delle sue esperienze di medico in Eritrea, Kenya e Tanzania, scritto quando la sua salute stava già declinando a causa di una grave malattia, tra il 2009 e il 2011. Testa e Giaccaglia erano legati da un ultratrentennale rapporto, fatto di amicizia e condivisione, nato ai tempi della spedizione umanitaria in Eritrea a sostegno della popolazione, durante la guerra contro l’Etiopia: era il 1979 e nel mondo dominava la Guerra fredda, il giornalista inviato dall’Unità descriveva gli eventi nei suoi reportage giornalistici, mentre il medico ne affrontava le emergenze sanitarie.

“Era un’avventura straordinaria: in breve tempo riuscimmo a operare in territorio di guerra. Mai nessuna équipe italiana, dopo la Seconda guerra mondiale, era andata in una zona bellica per portare soccorso medico chirurgico.”

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Eritrea 1979. I primi da destra, Gian Pietro Testa e Giorgio Giaccaglia

Testa andò una seconda volta in Africa con l’amico medico, quando quest’ultimo decise di costruire un ospedale a Tharaka, con loro portarono un mattone della Cattedrale di Ferrara, dono della Curia, e che sarebbe stata la prima pietra dell’ospedale.
Poi, “era l’inverno del 2009”, ricorda Gian Pietro Testa con grande commozione, “dovevamo andare a sciare a St. Moritz, lui mi chiama e mi dice: “Questa volta non posso venire amico mio, ho un tumore al pancreas.” E da quel momento si dedicò a scrivere, con le forze che gli rimanevano, le sue storie africane.”

Nel racconto il medico ripercorre i momenti difficili e tragici ma anche le soddisfazioni, ricorda i nomi, i volti e le ferite dei suoi pazienti, le figure che gli indicarono la strada del suo percorso umano e cristiano, e tutti i colleghi che condivisero la realizzazione del suo sogno: portare soccorso alle popolazioni “più povere e più diseredate della terra” e costruire ospedali in zone dimenticate dal mondo. Racconta anche di tutti coloro che, associazioni, amici, enti, istituzioni, aiutarono l’iniziativa giaccagliana. Tante le foto a documentare il lavoro di quegli anni. Esperienze straordinarie di un uomo di grandi capacità professionali e di immensa generosità, che nel suo “fare” per chi ha più bisogno ha dato senso a tutto il proprio esistere.

Giorgio Giaccaglia, “Storie africane di un chirurgo atipico. Mpira… Wapi?”, Ed. Pendragon, Bologna, 2014, pp. 155

Io sono Li, storia
d’immigrazione e d’amicizia

Una storia d’immigrazione difficile, dura e complessa ma anche una bellissima storia d’amicizia, fatta di tenerezza, di attenzioni e di grande umanità.

Shun Li (Zhao Tao) passa le sue giornate fra un duro lavoro, senza orari, né pause né diritti, e un’anonima (e triste-grigia) casa, prima in un laboratorio tessile della più sperduta e tentacolare periferia romana, poi nella piccola, nebbiosa e umida Chioggia. Lavora per rimborsare il suo debito, fatto dei soldi necessari a ottenere un permesso di soggiorno per l’Italia e dei documenti per farvi arrivare il figlioletto di otto anni. Per “aspettare la notizia” dell’estinzione del debito e dell’arrivo del piccolo.

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Locandina del film

L’Italia è sullo sfondo, questa terra di sogni, speranze e desideri, dove una laguna, come quella veneta, accoglie ma anche intrappola, come l’acqua che non arriva tutta al mare. Chioggia sarà l’acqua ma anche la sua osteria, un posto caldo e accogliente, dove Li trova lavoro, ma anche comprensione, in tanta solitudine, e amicizia. Quell’amicizia che sfida ogni barriera, quella di Bepi (Rade Sherbedgia), “il poeta” pescatore di origini slave, immigrato in Italia ai tempi di Tito, trent’anni prima. Una fuga poetica, un dialogo silenzioso, sommesso e intenso fra culture.

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Li e “il poeta”, una scena del film

Ma l’amicizia tra i due turba le due comunità, quella cinese e quella chioggiotta, che ostacolano questo nuovo e avvincente viaggio, di cui forse hanno semplicemente ancora troppa paura. I pregiudizi restano duri a scalfiggere e a morire.
Ci sono lirica, poesia, sorrisi, leggerezza, delicatezza, incontri fra solitudini che si sfiorano, frasi non dette, situazioni insolite e insolute, in questo film. Quasi una favola.
Il paesaggio è spesso opaco ma un bel giorno è illuminato dalle lanterne, a forma di fiore in carta velina rossa, usate nella festa del grande poeta cinese Qu Yuan (340-278 a.C.) luci tremolanti che scorrono sulla laguna. Le poesie si parlano, qui. Sommessamente.
L’integrazione si dimostra difficile. Le due comunità non hanno una vera possibilità di comunicazione e il pubblico ha bisogno dei sottotitoli per comprendere la lingua di entrambe (cinese e dialetto di Chioggia). Shun Li un giorno deve andare.

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Una scena del film

Se le speranze sembravano perse, un felice colpo di scena salva Li, che si sentiva già condannata a lavorare per sempre per ripagare il suo debito: un giorno, inaspettatamente, arriva il figlio. Qualcuno ha pagato per lei e non si tratta certo di un italiano, al quale non è concesso farlo (anche se tutti abbiamo pensato all’amico Bepi).
Bepi si trasferirà dal figlio a Mestre e morirà presto, malinconico, ma è anziano. Per questo non ci sono lacrime, solo il rimpianto di non aver potuto rivedere per l’ultima volta Shun Li, che in suo onore innalzerà una pira di fuoco bruciando il suo “casone” (la palafitta utilizzata come rimessa e riparo dai pescatori), che lo stesso Bepi le ha lasciato.
Tutto, qui, è unito dall’amore per la poesia, la vita e le piccole cose.
Film toccante e sincero, una favola tenera, dolce-amara che non lascia certo indifferenti.

Io sono Li, di Andrea Segre, con Zhao Tao, Rade Sherbedgia, Marco Paolini, Roberto Citran, Giuseppe Battiston, Giordano Bacci, Spartaco Mainardi, Zhong Cheng, Wang Yuan, Amleto Voltolina, Andrea Pennacchi, Guo Qiang Xu, Sara Perini, Federico Hu, Hi Zhijian, Ni Jamin, Francia-Italia 2011, 100 mn.

LA STORIA
L’agronomo che studia l’inquinamento e sogna
di coltivare la terra

Andrea Mantovani, 27 anni, una laurea in agronomia in tasca e un sogno nel cassetto, aprire un’azienda agricola a Comacchio, la sua terra d’origine. Ma le possibilità di farlo, per sua stessa ammissione, sono ridotte a un lumicino: troppi costi e sostegno quasi inesistente ai progetti dei giovani. E il dottorato di ricerca oscilla tra l’improbabile e l’improponibile. “Non solo è difficile ottenerlo, ma non si concilia neppure con le esigenze e la possibilità di costruirsi un lavoro. Alla fine del dottorato, sei troppo vecchio per il mercato – spiega – Siamo in Italia, la ricerca non ha la giusta considerazione, del resto lo si vede dall’arretratezza della nostra agricoltura, povera di innovazione al contrario di quanto succede in altri paesi, come ad esempio la Francia. Non è un problema legato alla tecnica, bensì alla nostra politica agricola”.

Niente di nuovo sotto il sole, i giovani come Andrea non possono evitare di accarezzare l’idea di trasformarsi in migranti laureati. Al momento pare la sola alternativa al vuoto proposto dal nostro Paese, dove l’Istat ha rilevato tra i giovani fino ai 25 anni un tasso di disoccupazione pari al 44,2 per cento. E’ una realtà inconfutabile, tuttavia la passione e l’amore per un mestiere specializzato non si sfalda di fronte alle difficoltà. E per Andrea non è stato diverso. Parte della sua scelta di studi è maturata in Legambiente Circolo Delta Po, frequentato fin dalle scuole elementari nella consapevolezza dell’importanza di frenare l’inquinamento. “Sarà per questo che la tesi finale del quinquennio riguarda la qualità delle piogge e i cambiamenti climatici prodotti dall’uomo”, racconta.

Quattrocento campioni raccolti nell’azienda agricola sperimentale dell’Università di Bologna Alma Mater, analizzati nell’arco di un anno grazie alla collaborazione con il laboratorio di Chimica dell’Università di Bologna, hanno scattato una fotografia di quanto succede nelle campagne vicino alla città, dove agricoltura e industria convivono fianco a fianco. “L’azienda si trova a ridosso di Bologna, in zona Castenaso e dintorni dove insistono alcune piccole realtà industriali, l’autostrada e un termovalorizzatore che brucia rifiuti – spiega – La tenuta è praticamente assediata e risulta ricca di nitrati e solfati. Lo si è stabilito dopo differenti approfondimenti, perché la lavorazione agricola rendeva i campioni raccolti quasi neutri, sembrava non ci fosse nulla di particolarmente anomalo, invece è stato rilevato un inquinamento superiore a quanto ci si aspettava”.

Relativi a polveri sottili, nebbie, piogge e depositi nel terreno, i dati sono stati comparati con quelli del centro cittadino, assai più sano dal punto di vista della qualità dell’aria. “I provvedimenti presi, che vanno dalla revisione degli impianti di riscaldamento alla limitazione del traffico, sembrano aver dato risultati positivi – continua – E’ invece evidente quanto ci sia da fare sul fronte industriale, il sistema è troppo vecchio per rispondere alle eco esigenze attuali. Le imprese dovrebbero essere messe in condizioni di sposare innovazioni tali da limitare i danni all’ambiente e alla salute delle persone”. I danni alla vegetazione, frutta e verdura inclusi, sono in parte la conseguenza di un immobilismo che danneggia indirettamente l’uomo quando mangia e respira il peggio del progresso. Eppure si sa. La diagnosi di malattia figlia delle piogge acide è conclamata, del tutto nebulosa la cura, un interrogativo stampato sullo sfondo di mille ritardi, primo tra i quali il rispetto del Protocollo di Kyoto sul quale, per dirla con Andrea, siamo molto indietro.
Il rimedio dovrebbe arrivare da politiche illuminate, ma il buio è dappertutto, siamo ancora all’anno zero stretti tra silenzio politico, arretratezza e interessi di categoria.

Data la situazione è normale chiedersi: cosa succede ai dati raccolti dagli universitari? Li si tiene in considerazione o sono solo una pratica fine a se stessa? “A livello accademico hanno un loro peso specifico – prosegue – Ma non è chiaro se vengano utilizzati da Arpa (Arpa è l´Agenzia regionale per la prevenzione e l´ambiente dell´Emilia-Romagna, ndr), sarebbe una cosa auspicabile, tanto più che comporterebbero un esborso di denaro inferiore rispetto alle analisi”. Nel Paese dei “doppioni” – dove Andrea troverebbe utile estendere lo studio alle città emiliano romagnole per mettere a punto soluzioni ambientali – tutto è possibile. Del resto ricerca e innovazione sono la cenerentola italiana: perché mai affannarsi nel tentativo di prendersi e dare futuro? Molto meglio adagiarsi su una comoda poltrona. E’ questione di essere fedeli alla tradizione.

LA PROPOSTA
Sculture, arredi floreali e caffetteria per il Giardino delle duchesse

Basterebbe davvero poco. Poco per rendere il Giardino delle duchesse uno spazio piacevole e accogliente. Così è desolante. Ed è un peccato perché questo salotto verde in pieno centro storico è una chicca che ha pochi eguali nelle altre città d’arte. Ferrara lo ha riscoperto solo nel 2007, dopo secoli di abbandono, in occasione delle celebrazione per la Ferrara rinascimentale volute dalla giunta Sateriale. Ma per recuperare quello scrigno i Verdi si battevano già da vent’anni.
Le sporadiche aperture iniziali sono divenute via via sempre più frequenti nel corso di tutto l’anno per impulso dell’attuale Amministrazione. Vengono ospitate presentazioni di libri, incontri, spettacoli musicali, eventi ludici, commedie, iniziative enogastronomiche, la pista di pattinaggio sul ghiaccio, intrattenimento per bambini.

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Il Giardino delle duchesse visto dal cielo

Ma per quanto riguarda il decoro, poco si è fatto. Al di là di uno spelacchiato prato e di una gettata di ghiaia non si è andati. E pensare che in questo caso non servirebbe nemmeno un particolare investimento per rendere dignitoso e gradevole il luogo. Basterebbe qualche arredo floreale, magari neppure a carico del Comune, facendo appello (come avviene in tante altre realtà e talvolta anche Ferrara) a professionisti del settore: chiedendo ai vivaisti, per esempio, di allestire alcune aiuole, che conferirebbero vivacità all’ambiente e avrebbero per loro carattere promozionale. Magari esponendo anche sculture, opera d’arte, introducendo qualche elemento di arredo che rendesse il luogo meno triste e spoglio di quanto ora non sia.

Le cronache antiche citano splendide aiuole di bosso dai fantasiosi sviluppi, dovute all’abilità dei celeberrimi giardinieri estensi. Si menzionano alberi da frutto, piante medicinali e ornamentali ad abbellire un magnifico prato, dove le duchesse (da Eleonora d’Aragona a Margherita Gonzaga) trovavano quiete e refrigerio nelle calde giornate d’estate.
Il Giardino delle duchesse fu realizzato tra il 1473 ed il 1481 nell’ambito delle trasformazioni del palazzo ducale volute da Ercole I d’Este. Era dotato di una mitizzata fontana dorata e viene descritto come luogo paradisiaco circondato da bellissimi loggiati.

Quello spazio verde, un tempo riservato al ristoro del duca e della corte, è ora un patrimonio pubblico che merita di poter essere goduto appieno, in tutta la sua bellezza.

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Edificio attualmente adibito a magazzino

Sette anni fa, duranti i lavori di recupero dell’area che si presentava come incolta sterpaglia, venne estirpato qualche albero e incomprensibilmente demolita una graziosa minuscola cappelletta ottocentesca. E’ rimasto però un vecchio edificio in mattoni, attualmente utilizzato come ricovero di attrezzi e magazzino comunale. Potrebbe essere trasformato in un locale pubblico di ospitalità, con caffetteria e magari un piccolo bookshop o uno spazio multimediale, analogamente a quanto si è fatto con gradevole effetto nel giardino un tempo trascurato di palazzo Schifanoia, ora rifiorito come luogo di sosta e intrattenimento.

 

 

L’OPINIONE
Ascolto, partecipazione e democrazia

Per chi avesse ancora dei dubbi sul significato dei termini “Campagna di ascolto e di consultazione” relativi alla “Buona Scuola” di Matteo Renzi, consiglio di visionare la puntata del videoforum organizzato da Repubblica tv [vedi], a cui ha partecipato il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini. Si ottiene la conferma che la “Buona Scuola” sia una proposta di riforma aperta… ma solo ai commenti e non alle proposte!
Ovvero… chiunque è libero di commentare sul sito le idee espresse dal premier ma né il ministro né il presidente del Consiglio si faranno influenzare dalle sollecitazioni ricevute.
È la democrazia diffeRENZIata, baby!
Ovvero… il governo presenta un’idea, lascia che gli altri si esprimano (non importa dove, come ed in quanti lo faranno) e scaduti i termini annuncerà trionfalmente che la sua idea (che non verrà affatto cambiata) diventerà legge in forza dei commenti positivi ricevuti (l’operazione on-line è talmente poco trasparente che chi gestisce quel sito sa bene come fare per arrivare a quel che vuol dimostrare).
Dalla visione del filmato si ricava anche un’altra certezza: il Ministro dell’Istruzione non conosce affatto la Legge di Iniziativa Popolare per una Buona Scuola per la Repubblica!
Se ne ricava quindi che, di fronte all’ignoranza di chi amministra e alla presunzione di chi propaganda, l’unica possibilità di cambiamento continua ad essere quella che parte dal basso cioè da ciascuno di noi.
Ovvero… possiamo discutere della Lip negli organi collegiali, nelle assemblee, nelle riunioni, negli incontri politici e sindacali ed in tutte le altre occasioni utili per richiamare l’attenzione su questo disegno di legge, già presentato al Senato in agosto e alla Camera in settembre, dal titolo: “Norme generali sul sistema educativo d’istruzione statale nella scuola di base e nella scuola superiore. Definizione dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di nidi d’infanzia“.
In pratica, una prima risposta è quella di organizzare dibattiti e proporre confronti fra la Buona Scuola di Matteo Renzi e la Legge di Iniziativa Popolare per una Buona Scuola per la Repubblica.
Qualcuno non sarà contento, certi boicotteranno, altri si disinteresseranno ma gli interessati parteciperanno ed è soltanto attraverso la vera partecipazione che ci può essere vero ascolto quindi vera democrazia.

Vedi il filmato sotto per avere conferma di quanto affermato [clic]

Rosi Braidotti fra tardo capitalismo, etica e resistenza

Quando si pensa alla “filosofia” solitamente la si identifica con una disciplina accademica, occupata di qualche questione oscura di metafisica, logica o qualsivoglia altra problematica potenzialmente separata se non addirittura drammaticamente lontana dalla realtà. Insomma, una sorta di incredibile lusso intellettuale che privilegerebbe i privilegiati tra i già privilegiati stati occidentali.
Non è di questa filosofia bensì di una moderna se non “postmoderna” critica dell’ideologia (Ideologiekritik) che si fa appassionata alfiere la filosofa femminista Rosi Braidotti, star degli “studi di genere” e volitiva assertrice di una nuova “filosofia impegnata” che smetta di orientarsi al passato, di occuparsi di “filosofi morti,” piuttosto che accetti di affrontare ciò che si chiamava una volta “lo spirito del tempo.”

Come ha eloquentemente sostenuto in una gremitissima lezione di filosofia presso il berlinese Institute for Cultural Inquiry (Ici Berlin), è tempo che la filosofia assuma su di sé compito di analizzare, esaminare e infine giudicare l’evoluzione del “tardo capitalismo” che non è solamente l’ultima versione del capitalismo di marxiana memoria bensì una vera e propria “mutazione” rispetto al capitalismo classico. Non diversamente da ciò che nel film Matrix si chiamava (riferendosi all'”umanità”) un virus che si espande esaurendo le risorse vitali? Braidotti descrive il “tardo capitalismo” come una mutazione letale del capitalismo classico che ovvero non tende più semplicemente allo sfruttamento dell’uomo per il profitto ma allo sfruttamento di ogni forma vitale secondo una varietà di formulazioni politiche ed economiche che declinano il concetto foucaultiano di “biopotere” in termini piuttosto tenebrosi: un capitalismo che avanza implacabile come un bulldozer, ovvero come una macchina che non ha più uno scopo se non se stessa, quindi un complesso volitivo di potere e desiderio (un altro punto centrale della biopolitica di Foucault) che potenzialmente tende allo sfruttamento totale e definitivo di ogni risorsa vitale e ambientale arrivando addirittura a produrre “nuove forme vitali” in vitro, in laboratorio.

Rispetto a questa diagnosi alquanto sconfortante della postmodernità, Rosi Braidotti oppone una “soggettività nomade” che non è semplicemente una “teoria filosofica” (Rosi Braidotti direbbe: “una metafora”) bensì una autentica pratica vitale che si oppone a ciò che Spinoza (il vero eroe del pensiero nomade) chiamava il vero male etico: il nichilismo maniaco-depressivo che nulla sia possibile se non ciò che è effettivamente dato nel qui è ora – ovvero un presente dominato da desideri inconsci manipolati se non inculcati dalle multinazionali del “tardo capitalismo” come consumo, shopping, tecnolgIa e così via.

Al contrario, Rosi Braidotti invoca una filosofia che impropriamente si potrebbe chiamare una “psicoanalisi della filosofia” cioè una pratica di pensiero che sia da un lato un inno alla vita e dall’altro una firma di resistenza contro ciò che il “tardo capitalismo” costruisce, produce e inculca in modo cieco.

La psicoanalisi a cui Braidotti pensa è sopratutto quella di Jacques Lacan – che ammette che l’inconscio sia effettivamente, per ragioni strutturali, un amalgama linguistico indecifrabile se non in minima parte ma allo stesso tempo ritiene che una via d’uscita sia da individuare nella capacità di negoziare con l’inconscio appunto rinunciando ad una soggettività costruita su stereotipi e aspettative “maschiliste,” “patriarcali,” è così via – aprendosi invece ad una soggettività nomade: cioè la consapevolezza che siamo infranti, plurilingui, multipli e plurali.

Si tratta di un aggiornamento della tradizionale critica dell’ideologia che richiede la capacità di estraniarsi dalla “realtà” quanto basta per poter gettare uno sguardo critico su ciò che ci circonda: una realtà di cui il tardo capitalismo rappresenta solo una delle possibili varietà. Contro questa Braidotti propugna una filosofia che sia fondata su due pilastri concettuali: resistenza (al tardo capitalismo) e etica (del dono contro l’etica del profitto). Diversamente dai post strutturalisti francesi come Derrida e Lacan, questo impegno etico non vivrebbe in una sorta di malinconica rassegnazione per un’alterità (politica e culturale) che non si “incarnerà” mai effettivamente in questo presente bensì una vigorosa affermazione di sé, seguendo il riso omerico di Nietzsche così come la filosofia di Deleuze e Guattari. Sarebbe quindi in questo l’aspetto più “affermativo” cioè “positivo” o “creativo” di questo pensiero nomade.

Eppure nonostante l’incredibile energia dialettica e argomentativa di Rosi Braidotti non si può mancare di osservare che il tardo capitalismo, per quanto efficace e “globalizzato” perché impone meccaniche produttive sfruttatrici, sia tuttavia ancora una forma politica e sociale per i privilegiati dei privilegiati dei privilegiati – mentre il resto dell’umanità soffre di condizioni di vita che potremmo appena definire premoderne.

IL RICORDO
Vajont, quell’onda
che ancora ci travolge

di Alessandro Oliva

Nove ottobre 2014: una data che ci riporta a una tragedia che ancora oggi è in grado di scatenare dolore, rabbia e sofferenza. Sono passati cinquantun anni dal disastro del Vajont. Catastrofe epocale su cui pesano oltre duemila morti e la distruzione di interi paesi, sciagura terribile che ha goduto di momenti di notorietà e oblio, il Vajont è una ferita insanabile per la cui memoria si è lottato e si continua a combattere. Lo ha fatto per prima Tina Merlin, la battagliera cronista dell’Unità, e poi hanno portato il loro solido contributo Marco Paolini e Renzo Martinelli, per giungere infine a Mauro Corona con la sua “La voce degli uomini freddi”.

La storia di questa tragedia annunciata è molto lunga e non si è ancora conclusa. Comincia con il progetto di un’ ambiziosa società idroelettrica, la Sade, che decide di costruire un’enorme diga nella valle del Vajont, tra Veneto e Friuli, nonostante si palesino rischi sempre più evidenti, e si trascina ancora oggi negli echi e nei segni tangibili delle ricostruzioni,delle cause civili e penali e degli esodi. Nel mezzo, alle 22,39 del 9 ottobre 1963, una catastrofe con oltre duemila vittime, uccise dall’onda assassina nata dalla titanica frana del monte Toc nel bacino della diga.

Le operazioni per tenere in vita il ricordo di questo disastro si ripetono ormai annualmente, in forma istituzionale e spontanea. Ci sono eventi, manifestazioni e commemorazioni, escono libri e film, flussi turisitici sempre più consistenti si recano sul luogo del disastro. Nonostante l’ignoranza di molti, i rari accenni nei libri di storia e l’occultamento passato della vicenda, troppo scomoda per gente troppo importante, il Vajont sembra dunque pian piano consolidarsi nella memoria collettiva. E’ importante, benché i rischi siano molteplici. Innanzitutto, nella crescente mole di contributi e commemorazioni, quello di una sua omologazione e “anniversarizzazione”, ”ovvero il ricordare limitatamente a una data e a un’occasione commemorativa mettendo in luce solo certi aspetti, magari quelli emotivi, adombrando i presupposti e la vera natura della tragedia. In secondo luogo e conseguentemente, la mancanza di ricadute pratiche, sociali e concrete.
E’ bene dunque che si esca dal silenzio di un ricordo relegato a una dimensione locale, ma non perdendo di vista cosa fu realmente il Vajont. E perché.

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La diga del Vajont

L’essenza del disastro si colloca infatti dietro agli avvenimenti, dietro alla fiancata di montagna che precipita nel lago artificiale della diga, scatenando un’onda di morte e devastazione. Fu una tragedia verificatasi, come dichiara Maurizio Rebershack, in senso greco, cioè di responsabilità pienamente umana, culmine di un processo di soprusi e prevaricazioni imposto dalla Sade con la collusione dello Stato; fu uno degli esempi più terribili dell’avidità e degli uomini, disposti a negare un fallimento e il pericolo sempre più evidente e arrivare a sacrificare duemila anime soltanto per il profitto, per mantenere la propria credibilità e affermare con sicurezza di poter dominare la natura; fu un periodo, un percorso lungo e difficile segnato dalla necessità di ricostruire, di fare giustizia, di andarsene, di emigrare e abbandonare la propria casa; fu il perfetto ritratto di una nazione infetta e corrotta; fu, infine, anche una sciagura destinata a ripetersi: come non poter pensare alla negligenza nella frana di Stava (1985, 268 vittime), all’incoscienza nell’alluvione di Sarno e Quindici (1998, 160 vittime) e non riuscire notare gli inquietanti parallelismi con il terremoto dell’ Aquila, (2009, 309 vittime)…

Tutte queste catastrofi hanno in comune la prevedibilità, l’irresponsabilità, l’imprudenza, una visione limitata e una totale e sconvolgente mancanza di coscienza e apprendimento da parte del passato. Che cosa ci ha insegnato allora il Vajont, concretamente? A quanto pare, ben poco. Politici, tecnici, scienziati e consulenti sembrano non aver ancora imparato la lezione, continuando a credere di poter plasmare la natura e il mondo a loro piacimento, a discapito dei notevoli rischi. E noi, noi comuni cittadini, che cosa abbiamo appreso? Marco Paolini, autore del “Racconto del Vajont”, afferma nell’introduzione all’ultima edizione, intitolata “Il Vajont e l’Aquila, due tragedie parallele”, che in questi casi le responsabilità si ampliano, non si può solamente puntare un dito d’accusa o ricorrere al vittimismo. Ogni scelta e ogni azione che impatta sul nostro ambiente ci coinvolge; siamo responsabili di ciò che ci circonda e dobbiamo imparare a prendercene cura e a lottare per esso.

Il mondo sta cambiando. Lo percepiamo, ma lo stiamo anche capendo? Ne siamo pienamente consapevoli? Consumiamo risorse naturali che ci hanno detto essere limitate, assistiamo a azioni distruttive del territorio, deforestazione, cambiamenti climatici, siccità, terremoti, inondazioni e frane, ma preferiamo occuparci di rischi e rendimenti finanziari. Intanto però stanno crescendo i conflitti ambientali, al cui interno procrastinano la mancanza di dialogo, la poca informazione, le scarse competenze, ma anche gli interessi economici, l’iniqua distribuzione di vantaggi per pochi e di svantaggi per molti che sono costretti a subire. Le ricadute ovviamente sono anche economiche, sociali, e tecniche.

Che cosa ci può insegnare allora il Vajont? Per citare nuovamente Paolini, a farci un nodo al fazzoletto, a prendere coscienza di un capitolo buio e maturare dei bisogni per una storia più luminosa: di fiducia, di trasparenza, di qualità, di sicurezza, di rispetto ambientale, di prevenzione e di certificazione; soprattutto, di coscienza civica come valore fondamentale, di un vero e proprio sentimento civile che ci porti, nel nostro quotidiano, a diventare responsabili per la collettività e in quanto collettività. Per questo giocherà un ruolo fondamentale il concorso, lanciato quest’anno, denominato «Vajont 50+ – Il mio Vajont», destinato a coinvolgere le scuole medie e superiori di tutta Italia, in modo da dare il via a una serie di riflessioni sulla tragedia: perché nulla è più pericoloso della nostra indifferenza.

LA STORIA
Gli anni del vinile:
c’era una volta Rca Italia

Nel secondo dopoguerra la Rca (Radio Corporation of America), con sede a New York, era una delle più importanti case discografiche degli Stati Uniti; fondata nel 1919 come compagnia radiofonica, nel 1929 aveva acquistato la Victor Talking Machine Company, entrando così nel mercato discografico.
Nel 1949, Frank M. Folsom, vice presidente della RCA Victor, fu ricevuto in udienza privata da Papa Pio XII, il quale in ricordo dei bombardamenti americani che colpirono il quartiere di San Lorenzo, gli chiese l’installazione di una fabbrica nel borgo romano. La società americana, già decisa ad aprire uno stabilimento in Italia, dopo quell’incontro scelse Roma come sede, inizialmente vicino a Villa Borghese e, nel 1951, al Km 12 della via Tiburtina.

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Sede Rca Italia in via Tiburtina

I primi anni furono stampati per lo più dischi di provenienza dalla Rca statunitense, (Elvis Presley e Harry Belafonte in primis), anche perché la casa madre non era interessata a promuovere più di tanto gli artisti italiani; le poche registrazioni di quegli anni riguardavano Domenico Modugno, Nilla Pizzi e Katyna Ranieri.
Alla fine del 1954 la casa madre propose di chiudere la sede romana, il cui bilancio era in perdita. Papa Pio XII incaricò Ennio Melis, uno dei suoi segretari laici, di verificare lo stato dell’azienda.

Melis, che affidò l’amministrazione a Giuseppe Ornato, vide nell’azienda un enorme potenziale, questa intuizione lo portò a diventare il responsabile della politica intrapresa dalla RCA Italiana nei 30 anni successivi. Per molti aspetti la visione di Melis ricorda quella di Enrico Mattei con l’Agip.

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Harri Bellafonte

Le prime decisioni furono di portare tutta la produzione sui 45 giri, abbandonando il 78 giri, trasferire studi e uffici presso lo stabilimento di via Tiburtina e scegliere Vincenzo Micocci come direttore artistico. I due promossero la costruzione di nuovi studi di registrazione e l’assunzione di giovani e promettenti musicisti, tra cui Ennio Morricone e Luis Enriquez Bacalov. I primi cantanti ingaggiati furono i famosi “quattro moschettieri”: Nico Fidenco, Gianni Meccia (per lui Melis, con Micocci, coniò il termine “cantautore”), Jimmy Fontana ed Edoardo Vianello. Nello stesso anno il direttore artistico mise sotto contratto Rita Pavone e Gianni Morandi, che negli anni successivi dominarono le classifiche di vendita.
Negli anni successivi la RCA ingaggiò come direttore artistico Nanni Ricordi, che portò in “dote” artisti quali Sergio Endrigo, Gino Paoli, Luigi Tenco ed Enzo Jannacci. In quel periodo la RCA Italiana divenne la casa discografica leader per le vendite, grazie ai successi dei cantautori e di Gianni Morandi e Rita Pavone, abbinando quindi la canzone d’autore a quella di consumo.

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La sede di Via Tiburtina non era soltanto il luogo degli uffici, delle registrazioni e della
stampa dei dischi, si trattava di una vera e propria “cittadella della cultura”. Il bar della RCA è stato il salotto “temporaneo” in cui, per tanti anni, è passata tutta la cultura italiana.Tra i tanti frequentatori: Pier Paolo Pasolini, Arthur Rubinstein, John Huston, Vittorio De Sica, Sergio Leone, Luigi Magni, Ettore Scola, Giuseppe Patroni Griffi, Pasquale Festa Campanile, Elio Petri, Dario Argento, Alberto Sordi e Alberto Moravia. Un altro importante luogo di ritrovo è stato il “Cenacolo”, una sorta di campus situato in via Nomentana.
Il successo dei dischi degli anni ‘60 fu spesso dovuto agli arrangiamenti di Morricone e Bacalov, che non si limitavano all’orchestrazione, ma cercavano nuove sonorità ed effetti, inoltre, un ruolo importante lo ebbe anche la tecnologia, notevolmente all’avanguardia per quell’epoca.

Gli anni settanta continuarono con i grandi successi dei cantautori e dei nuovi cantanti, tra i tanti nomi citiamo Lucio Dalla, Claudio Baglioni, Ivano Fossati, Renato Zero, Gabriella Ferri, Nicola di Bari, Fiorella Mannoia, Nada, Riccardo Cocciante, Schola Cantorum, Angelo Branduardi, Stefano Rosso, Anna Oxa, Ron, Antonello Venditti, Francesco De Gregori e Rino Gaetano. Venne anche stipulato un accordo per la distribuzione della Numero Uno, la casa discografica di Mogol e Lucio Battisti, che produceva anche Formula 3, Bruno Lauzi e la PFM.

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In quegli anni si ebbe un primo periodo di crisi economica, dovuto al calo del mercato discografico italiano e a una serie di errori, tra cui il flop delle cassette Stereo 8, imposto dalla casa madre. Nel 1978 la RCA perse Baglioni e Venditti e alcuni cantanti non raggiunsero gli obiettivi di vendita previsti.

Negli anni 80 altri artisti lasciarono la Rca (tra questi Paolo Conte, Francesco De Gregori e Ivano Fossati) e non furono ingaggiati personaggi di rilievo, una delle rare eccezioni fu Luca Carboni. Nel 1983, avendo saputo che la Bmg Ariola era interessata all’acquisto della RCA e che quindi si doveva ridurre il personale (da 600 a 200 dipendenti), Melis decide di lasciare l’azienda.

Gli edifici della sede storica di Via Tiburtina sono stati in parte trasformati, sopravvivano quelli che furono gli studi di registrazione (già drasticamente ridotti negli anni ’80, dopo l’uscita di Melis), la palazzina dirigenti, il magazzino e pochi altri. Questi palazzi sono oggi utilizzati come magazzini per ditte di abbigliamento e calzature.
L’idea di realizzare un museo sta diventando sempre più sentita e a nostro avviso anche dovuta.

Documented, storia di un americano in cerca di identità

In inglese, ‘to document’ significa documentare, attestare. L’origine etimologica è il latino ‘documentum’, a sua volta derivato di ‘docere’: informare, far sapere.
Che è uno dei compiti del giornalista. Che è il mestiere di José Antonio Vargas, penna di alcune tra le più prestigiose testate americane – Washington Post e Huffington Post, solo per citarne alcune – e premio Pulitzer 2008, maggior riconoscimento per un giornalista statunitense.
José è letteralmente un informatore, uno che scrive, ma per la legge americana non è documentato, non ha traccia scritta di sé che valga per la legge, quindi ‘undocumented’: un immigrato senza documenti. Questo perché dalle Filippine, paese di origine della sua famiglia, è arrivato all’età di dodici anni negli Stati Uniti per raggiungere i nonni materni senza carta verde né Visa, né un qualsiasi altro regolare documento di cittadinanza. E scoprendo la verità quasi per caso.
Fino a quando nel 2011 non decide di dichiarare pubblicamente il suo stato di senza documenti con un lungo articolo sul New York Times, percorrendo in lungo e in largo il paese per raccontare la sua storia alle persone attraverso la campagna “Define Americans” (Definisci gli americani).

Chiedersi cosa significhi essere americani, da dove abbia origine la parola, è la chiave del discorso che Vargas sottolinea più volte. Perché la prima riflessione che viene spontanea è che gli Stati Uniti sono stati creati da persone che arrivavano dal mondo intero, ma da sempre il governo americano allontana chiunque non sia in possesso dei documenti necessari – solo durante l’amministrazione di Obama sono state due milioni le persone deportate. Mettendo in luce una legislazione assurda e macchinosa che termina sempre a un punto morto, perché per un adulto non è possibile regolarizzarsi se non attraverso il matrimonio e che altrimenti prevede un iter di messa in regola che può durare più di dieci anni; che separa famiglie – frequente il caso di chi, all’interno della stessa famiglia, è cittadino regolare e chi no – e che non offre possibilità concrete a chi vorrebbe, ma non può, costruirsi qui una vita, pur con tutte i limiti del caso – pagare regolarmente le tasse, frequentare scuole, lavorare.

Il caso di Vargas esplode a livello nazionale e porta alla luce l’assurdità e le contraddizioni del sistema di leggi che governano e permettono la concessione della cittadinanza, assumendo proporzioni nazionali. Grazie a lui, il governo viene finalmente indotto a considerare seriamente i Dreamers, sostenitori della proposta di legge DreamAct fondata sulla possibilità, per i ragazzi non ancora diplomati e residenti negli Stati Uniti. Mettendosi dalla parte di quelle 11mila persone che oggi lo sono, e finendo sulla prima pagina del Time che gli dedica un servizio con l’intento di smuovere il governo e le coscienze di chi già possiede quel pezzo di carta utile a essere considerato cittadino, raccogliendo pareri e voci disparate e ricavandone ritratti contraddittori. Questa è la parte del viaggio riuscita: è la sua vittoria a favore di tutti i giovani fino ai 30 anni, ma ancora in itinere per quanto riguarda una legge più generale.

Il documentario, scritto da lui stesso, mescola la incessante ricerca di riconoscimento legislativo, e quindi agli occhi del mondo, alla ricerca dei profondi legami familiari e affettivi costruiti e scissi nel corso della sua vita. Non senza momenti di leggerezza, ripercorre la sua vita da bambino, adolescente e poi adulto di successo, mostrandone le battaglie collettive e le sofferenze personali – il delicato e labile rapporto con la madre, che non vede da quando fu lei a dargli di fatto una speranza di una vita diversa mettendolo nelle mani di chi lo fece entrare negli Stati Uniti – ma soprattutto con se stesso e il proprio essere nel mondo, rivendicando quella firma ormai celeberrima che compare in calce a ogni suo articolo, e che chiunque può riconoscere come talento che adesso vuole spianare la strada per altri mille che reclamano, a gran voc,e di essere riconosciuti e prendersi il Paese dei Sogni.

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Otto anni dopo, l’omaggio
ad Anna Politkovskaïa

Una cinquantina di giornalisti ha commemorato, ieri a Mosca, l’assassinio della giornalista Anna Politkovskaïa, uccisa nel 2006. Davanti all’entrata della sua ex redazione, quella del giornale Novaïa Gazeta, hanno deposto delicati fiori di giornale, vicino a una stele innalzata in suo nome. Tra le persone giunte a rendere omaggio a questa giornalista nota per le sue forti critiche alla politica del Cremlino in Cecenia, c’erano i figli Ilia e Vera, il capo redattore della Novaïa Gazeta, Dmitri Mouratov, e molti colleghi.
Il 7 ottobre 2006, Anna rientrava a casa dopo aver fatto la spesa, come faceva regolarmente, come molti lavoratori fanno ogni giorno. Era un giorno qualunque, come tanti altri. L’assassino l’ha attesa all’entrata del palazzo. Aveva 48 anni ed era attivamente impegnata nella denuncia dei crimini commessi in Cecenia. La sera del dramma, il giornale presso il quale lavorava aveva immediatamente avanzato due ipotesi: una vendetta da parte di Ramzam Kadyrov, vice Primo Ministro della Repubblica cecena, uomo vicino a Putin, o al contrario, una macchinazione per indebolirlo. Da allora si sono svolti tre processi. Il primo (ottobre 2008-febbraio 2009), non aveva condotto ad alcuno risultato (mancanza di prove contro gli imputati, vizi di forma, ricorso alla Corte Suprema) ma, nel dicembre 2012, in un secondo processo, l’ex-tenente colonnello Dmitri Pavliucenkov, responsabile all’epoca della sezione pedinamenti della polizia di Mosca, era stato condannato a 11 anni di reclusione per aver organizzato il pedinamento della Politkovskaïa e fornito l’arma all’assassino, in cambio di 150.000 $. Il terzo processo, nell’estate 2014, aveva visto la condanna, da parte del Tribunale di Mosca, di cinque persone, fra le quali Rustam Makhmudov (l’esecutore), Lom-Ali Gaitukaev (l’organizzatore), e il citato Dimitri Pavliouchenkov (per aver fornito l’arma del crimine). La severità delle pene (ergastolo per i primi due) aveva ridato credibilità alla giustizia russa, accusata di eccessiva connivenza con il potere. Ma l’accusa non è mai riuscita a trovare il vero mandante. C’è chi ha chiamato in causa il Cremlino, almeno per la protezione accordata al mandante, chi, vista l’origine dei protagonisti e la natura degli scritti di Anna ritiene che il dossier ceceno sia comunque il cuore del problema e della sua soluzione. Resta il fatto che Anna Politkovskaïa è, ed è stata, da molti considerata il simbolo del giornalismo e della liberta di stampa. Il suo assassinio ha commosso, e commuove ancora, il mondo intero e suscita indignazione della stampa e delle organizzazioni a difesa dei diritti umani. Oggi ci s’interroga ancora sulle ragioni della sua morte e la stampa e gli internauti sottolineano il brutto “scherzo del destino”, che ha voluto che il 7 ottobre fosse, allo stesso tempo, il giorno della triste commemorazione e quello del 62˚ compleanno del presidente russo. C’est la vie, putroppo.

LA STORIA
L’uomo in piedi

Un battello scorre lungo la Moscova, gli ultimi bagliori di sole e di caldo prima del corto fresco autunno e del lungo rigido inverno. Fine settembre, e qualcuno cerca di respirare gli ultimi aliti di calore. Quasi a volerli imprigionare, accantonarli per un po’, per tirarli fuori al momento opportuno, quando il camino scoppiettante scalderà stanze e cuori.
Su quel battello ci sono anch’io, pronta a cogliere idee, ispirazioni e sensazioni, a carpire e immaginare segreti di donne e uomini che riposano sulle placide rive del fiume.
Il verde sgargiante colpisce lo sguardo, i rami degli alberi si specchiano nell’acqua che scorre lenta e pacifica. La trasparenza c’è, qua e là, solo a volte, quasi sparpagliata da uno gnomo dispettoso. Gente che parla, ragazzi che fanno un chiassoso picnic, anziane signore che ricamano all’uncinetto, famiglie con i cani, innamorati che si sussurrano dolci frasi all’orecchio. Tutto ispira calma, serenità e voglia di evasione. Anche se i grandi palazzi della periferia che svettano verso il cielo sembrano esseri un po’ mostri dalle cento teste, intorno a noi c’è pace. Qualche dacia di legno immersa nel bosco, che sembra una casetta delle favole, si contrappone a quegli alveari brulicanti di anime, enormi. Le case ecologiche dalle finestre che sorridono si scontrano con quelle di cemento e ferro, dove non ci sono tendine ricamate né vasi di fiori colorati sui davanzali. Le amache dei giardini sul fiume stridono di fronte ai pilastri e ai piloni di cemento che sorreggono quei mostri. Tuttavia convivono, talora si strizzano l’occhio.
Quel fiume, grande ma tranquillo, porta con sé vite e storie, momenti di felicità e di solitudine, pensieri e riflessioni, sogni vicini e lontani, ricordi passati e piani futuri.
Tutto scorre, lì come nella vita. Da spettatori curiosi, siamo interessati a immaginare.
Ecco allora che il mio sguardo cade su un anziano signore in piedi. Capelli bianchi, rughe sul viso abbronzato (come tutto il corpo, d’altronde), costumino un po’ succinto per la sua età (un tantino sgambato sul di dietro…), fissa un cartello con scritto “vietato nuotare”. Gli sta di fronte, impassibile, immobile. Sembra pensare, mi tuffo o non mi tuffo, ma in realtà prende semplicemente il sole. Nulla di più banale. Parlando con alcuni amici, scoprirò, infatti, che i russi prendono il sole in piedi… Bello, sicuramente, non avere segni del costume, quelli che attraversano impunemente un bel decolleté o una bella schiena, o di pieghe di pancia e collo, ma quale italiano che, pigramente e serenamente, si stende al sole, con la sua bibita ghiacciata e il suo giornale colorato, lo farebbe mai? Certo che sono strani, questi russi… A me però quello stoico signore ispira tanta simpatia, e a voi?

Ranieri Varese:
“Il recupero del Panfilio,
segno di vitalità e arricchimento
del patrimonio cittadino”

di Ranieri Varese

In riferimento alla proposta di recupero del canale Panfilio, rilanciata da Ferraraitalia, ospitiamo l’autorevole intervento del prof. Ranieri Varese.

Assente da Ferrara non ho potuto partecipare al dibattito sulla sistemazione della parte terminale di viale Cavour e l’inizio di corso Giovecca proposto dall’onorevole Alessandro Bratti e ripreso da FerraraItalia [leggi]. Il tema si lega alle visite guidate da Francesco Scafuri alla riscoperta di viale Cavour, al ricordato parere di Carlo Bassi (2004) sulla riapertura del canale Panfilio, riesumazione di una proposta di modifica al piano regolatore di Ferrara che, in anni lontani, facemmo insieme io e Roberto Pazzi.
Credo che preliminare alla partecipazione sia sapere di cosa si parla. La storia del canale Panfilio e di viale Cavour è stata ricostruita analiticamente, utilizzando la documentazione archivistica, da Luciano Maragna (2008): al suo testo va fatto riferimento.
Il canale, a partire dal XVII secolo, univa Pontelagoscuro a Ferrara, consentiva l’accesso in città di merci e viaggiatori. Le molte immagini sette-ottocentesche che rimangono restituiscono una situazione integrata, con viali alberati, alzaia, ponti e, in prossimità del Castello, l’attività delle lavandaie.
In previsione del collegamento ferroviario Bologna-Ferrara l’Amministrazione Municipale deliberò la costruzione di un ampio viale di collegamento che facilitasse l’ingresso al centro cittadino. Nel 1862 iniziarono i lavori di copertura che terminarono nel 1880.
Non tutti furono d’accordo. La Gazzetta Ferrarese, giornale liberale e moderato, letto dalla maggioranza dei ferraresi scrisse: “Tutto finisce – esclamammo vedendo l’opera in distinzione commessa sul tronco superiore del cavo Panfilio nel più bel centro della nostra Città – e pensando in nostra mente non essere possibile l’idraulica odiernamente manchi di metodi e sistemi sicuri, coi quali avere potuto rendere salutevole l’aria, bello all’occhio, utilmente navigabile l’intiero corso di quel canale, per modo anche di vedere le barche e i trabaccoli da mare approdare al nostro Estense Castello, come era due secoli fa, non abbiamo non potuto non gridare quando vedemmo tanta distruzione – tutto finisce.” (6 maggio 1862)
Lo storico Gualtiero Medri (1963) raccoglie le motivazioni di tale scelta: “Il Municipio decretò la costruzione di un’ampia, decorosa strada, per accogliere degnamente in città e guidare al centro, i forestieri che arrivavano in Vapore. E la strada si ottenne, e bella, colmando il vetusto canale Panfilio”.
Lo stesso studioso, allo stesso modo, giustifica l’allargamento e la demolizione, avvenute negli anni ’50 del secolo scorso, di corso Porta Reno: “Ampia e dignitosa arteria atta ad accogliere il flusso dei mezzi e delle persone che animano la movimentatissima strada che ci unisce a Bologna… il maggior accesso meridionale a Ferrara sarà finalmente degno del centro monumentale della Città”.
Oggi sono profondamente mutati i modi per garantire l’ingresso nei centri urbani e, mi pare giustamente, si tende ad ampliare la zona pedonale e a dirottare verso l’esterno il traffico automobilistico e commerciale. Una occasione organizzata per potere meglio conoscere Ferrara, le sue strade, i suoi monumenti. Per poterla consapevolmente percorrere.
Va ricordato che la città era costruita sull’acqua, lo segnalano i toponimi e l’andamento di molte vie; il canale Panfilio era l’elemento che nella progressiva chiusura dei canali manteneva il ricordo di una antica vocazione e corrispondeva ad esigenze che non erano solo di immagine ma anche ragione di vita quotidiana.
Il ricupero del Panfilio, in modi e forme da discutere e verificare, ricostituirebbe un elemento di continuità che si è perduto, ridarebbe, non solo per i turisti ma anche per i ferraresi, un elemento in più per confermare quelle qualità che il riconoscimento Unesco ha dichiarato e che vanno continuamente confermate.
La attuale amministrazione, in una situazione difficile e complessa, ha saputo tenere sotto controllo il bilancio, ridurre il debito, mantenere, nella sostanza, i servizi. Manca quel colpo d’ala che, in passato, ha portato, ad esempio, alla realizzazione del ‘progetto mura’ o del ‘parco urbano’.
La riapertura del Panfilio potrebbe essere quel segnale che sino ad ora non si è visto: certamente costoso ma con una ricaduta di immagine e una riconsiderazione di Ferrara che, nel tempo, potrebbe rivelarsi scelta, anche economicamente, oculata e saggia.
E’ auspicabile, sarebbe un segno di vitalità e di civiltà, che il dibattito e la verifica delle opinioni si allargasse sino a produrre pubblici confronti, proposte concrete, progetti operativi.

Didascalia
1705 Pianta di Ferrara. Il tracciato del Canale Panfilio

LA RIFLESSIONE
Mafia al Nord,
mafie del Nord

Il problema oggi non è che si parla poco di mafia, ma come se ne parla, questa affermazione è un buon punto di partenza per tentare di fare ordine fra i tanti spunti di riflessione arrivati dalla presentazione di “Mafie del Nord. Strategie criminali e contesti locali” (Donzelli 2014), tenutasi ieri al dipartimento di Giurisprudenza.
Partiamo dall’inizio: Mafie del Nord è il terzo volume frutto delle ricerche sul fenomeno della criminalità organizzata condotte da un gruppo di ricercatori coordinato da Rocco Sciarrone, professore di Istituzioni di sociologia e processi di regolazione e reti criminali all’Università di Torino, i precedenti sono Mafie vecchie, mafie nuove (2009) e Alleanze nell’ombra (2011), entrambi editi da Donzelli.
Sette regioni: Lazio, Toscana, Lombardia, Piemonte, Emilia, Liguria e Veneto. 232 interviste a quelli che gli autori definiscono ‘testimoni qualificati’: magistrati, forze dell’ordine, associazioni antimafia, associazioni di categoria, sindacalisti, funzionari pubblici, giornalisti. Cento documenti analizzati, fra ordinanze, sentenze e atti giudiziari, a cui vanno aggiunti i rapporti istituzionali periodicamente pubblicati sulla criminalità organizzata. Questi sono i numeri e le fonti di una vera e propria indagine sociologica condotta fra 2012 e 2013 dal gruppo di lavoro capitanato da Sciarrone. Punto di partenza dello studio: uscire dai luoghi comuni e dalle generalizzazioni ormai ampiamente diffuse sull’infiltrazione della criminalità nelle regioni del centro-nord, analizzando il fenomeno con la ‘cassetta degli attrezzi’ degli scienziati sociali e proponendo una metodologia che studia in profondità vicende concrete per poi sottoporle a comparazione.
In realtà sarebbe meglio parlare di ‘fenomeni’ di radicamento al plurale, perché non esiste un solo modello applicabile alle varie realtà, ma un quadro complesso di non facile interpretazione, fatto di tanti tasselli di informazioni che è necessario mettere a sistema se si vogliono comprendere a pieno i meccanismi di funzionamento. Di questo quadro fa parte un’ampia zona grigia, fatta di imprenditori, liberi professionisti, funzionari pubblici, esponenti politici, in cui i criminali, definiti nel libro ‘professionisti della violenza ed esperti in relazioni sociali’, creano il proprio capitale sociale. Per questo è fondamentale avere una prospettiva capace allo stesso tempo di scendere in profondità e di ampliare lo spettro dell’analisi. Come afferma il colonnello Pieroni – 28 anni di servizio in Campania, Calabria e Puglia e la maxi-operazione Crimine contro la ‘ndrangheta reggina all’attivo, prima di diventare il comandante provinciale dei Carabinieri di Ferrara – è fondamentale saper “leggere i segnali perché qui la mafia investe ed entra in punta di piedi e solo dopo si fa riconoscere per quella che è”.
E arriviamo così a un altro spunto interessante, o sarebbe meglio dire allarmante, emerso durante la mattinata: la necessità soprattutto qui al Nord di uscire da un’ottica “mafiocentrica”, come l’ha definita Sciarrone, e acquisire la consapevolezza che questa zona grigia “non è sempre una struttura fatta di cerchi concentrici con i mafiosi al centro”. Spesso, avverte Sciarrone, “si tratta di una rete di configurazioni variabili dove i mafiosi non sono sempre i più forti”: dunque la situazione è ancora più grave e pericolosa perché significa che l’illegalità è talmente diffusa che queste reti ormai “potrebbero funzionare anche senza la mafia”.
Si è poi parlato di quali azioni concrete intraprendere per limitare al minimo l’espansione di queste reti di infiltrazione e radicamento. Antonio Viscomi, docente all’Università di Catanzaro, ha proposto una riflessione in grado di ricomprendere tutte le altre soluzioni in una visione unitaria, per questo il suo è stato il terzo spunto interessante della giornata.
L’area grigia indagata da Sciarrone dimostra l’esistenza di quella che Viscomi ha definito “mafiosità”, cioè di una “cultura mafiosa” diffusa che ci deve spingere a mettere in discussione il nostro comportamento quotidiano e a confrontarci con una forte emergenza educativa su questi temi. Non si può puntare tutto solo sulla legalità: dalla legalità bisogna passare alla responsabilità, nel senso di “farsi carico della comunità in cui si vive”: non è una questione solo di regole, bisogna recuperare il valore dei comportamenti etici come contributo alla costruzione di una società più giusta in tutti i sensi.
“Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”: sapete dove sta scritto?

L’OPINIONE
Considerazioni in 3D sulla marginalità dell’Italia

Qualche mese fa, prima dell’estate, Beppe Grillo intervistato da Vespa fece ridere il mondo con alcune incredibili sparate [vedi] sulle stampanti 3D, ad oggi usate a suo dire per produrre turbine per motori aerei e come dispenser di oggetti a piacere, collocate a servizio dei cittadini nei comuni americani. Qualcosa di molto simile a quello che faceva Robby nel film di fantascienza del 1956 “Il pianeta proibito” [vedi]: evidentemente nella mente dell’ex-comico, nato nel 1948, i ricordi dell’infanzia diventano sempre più difficili da distinguere dalla realtà.
Sono convinto che altrove il leader di un movimento politico che ha preso il 25% dei voti alle elezioni e delirasse in quel modo verrebbe istantaneamente sommerso da critiche e lazzi dai principali organi di informazione, mentre da noi la cosa è passata praticamente sotto silenzio, tranne che fra gli addetti ai lavori. D’altra parte è spesso evidente, tolte poche lodevoli eccezioni, la difficoltà con la quale molti operatori dell’informazione approcciano temi che abbiano un qualche contenuto tecnologico o scientifico. Quel che ne esce sono di solito pastoni confusi, spesso zeppi di imprecisioni, che puntano sul sensazionalismo per catturare l’attenzione dei lettori. Ma soprattutto sono questi ultimi che non sembrano interessati alla tecnologia e alla scienza, considerandole letteralmente quasi come curiosità di altri mondi, a meno naturalmente che non si tratti dell’ultimo costosissimo gadget telefonico da esibire agli amici.
Siamo d’altronde uno dei Paesi in Europa in cui l’indice di penetrazione della banda larga è più basso, molto inferiore alla copertura potenziale del territorio garantita dagli operatori e nonostante che i prezzi siano fra i più competitivi. Discorso analogo si può fare per la diffusione dei Personal Computer. Chi fosse interessato ai dati di dettagli li può trovare sul sito della Commissione Europea a questo link [vedi].
Questa situazione sta determinando in pratica e come qualcuno qualche anno fa prevedeva, l’esclusione del nostro Paese dall’elenco di quelli in cui le innovazioni di prodotti e servizi arrivano per prime, escluso, per ora, gli amati telefonini o almeno quasi tutti. Non si tratta di orgoglio nazionale ferito, naturalmente, ma di un segnale di marginalizzazione che deve preoccupare, perché pone il Paese al di fuori dei flussi dell’innovazione e ne rallenta la modernizzazione, cioè in ultima istanza la fuoriuscita dalla crisi. Come esempio recente si può prendere la decisione di Netflix [vedi] di non aprire per il momento il servizio in Italia, mentre esso è già disponibile in Gran Bretagna, lo sarà a brevissimo in Francia e qualche mese dopo in Germania ed in altri Paesi. Per chi eventualmente non lo sapesse Netflix è un operatore americano di servizi di intrattenimento accessibili tramite internet che si pone come concorrente ai servizi tv a pagamento, sia satellitari che via cavo. Negli Usa ha ormai circa 50 milioni di abbonati ed ha iniziato da qualche anno a produrre contenuti in proprio.
Si tratta in questo caso solo di un esempio e qualcuno potrebbe addirittura essere contento di non subire un’ennesima colonizzazione mediatica, non considerando che la marginalizzazione non porta mai all’indipendenza e toglie la possibilità di poter competere con i propri prodotti sulle nuove tecnologie. Un analogo discorso potrebbe essere fatto per quello che riguarda l’e-commerce, la cui scarsa diffusione nelle nostre aziende oltre che per i consumatori finali (vedere i dati della Commissione linkati sopra) rallenta lo sviluppo economico del Paese. Certamente qualcosa si è mosso negli ultimi anni ma è ancora decisamente troppo poco: come al solito, mentre gli altri corrono, noi ci accontentiamo di camminare.
Ci sono evidentemente delle cause e delle responsabilità precise dietro tutto ciò. Fra le prime, come accennavo, la scarsa propensione a considerare l’innovazione un argomento di pubblico interesse e di intervento politico, fra le altre la chiara, quanto miope, volontà del polo televisivo privato di rallentare lo sviluppo di internet. Sintomatica a questo proposto la decisione presa a suo tempo di sovvenzionare sotto la voce incentivi alla larga banda anche la vendita dei decoder per il digitale terrestre. Adesso questo atteggiamento dilatorio è sostenuto anche dal principale operatore di pay-tv satellitare, che vede nell’Italia un mercato nel quale poter più facilmente resistere alla nuova concorrenza.
Gli obiettivi europei per il 2020 prevedono che tutte le abitazioni di ogni Paese della Comunità abbiano a disposizione una connessione ad internet ad almeno 30 Mbit/sec ed almeno il 50% possa contare su 100 Mbit/sec. I principali Paesi europei sono sulla buona strada e, nonostante la crisi, riusciranno a raggiungere quell’obiettivo o, almeno, ad andare vicino al suo raggiungimento. L’Italia, se le cose non cambiano rapidamente, rischia di mancarlo clamorosamente. E’ indubbiamente questa una delle tematiche su cui il governo in carica è chiamato a dimostrare la sua dichiarata intenzione di ”fare” e su cui si gioca una parte importante della propria credibilità. I passi fatti finora sono a mio parere ancora troppo timidi, nonostante l’alibi della scarsità di risorse disponibili e l’indubbia difficoltà a mettere mano a realtà complesse quali la razionalizzazione dell’infrastruttura informatica della Pubblica Amministrazione.
Tornando da dove eravamo partiti, cioè alle stampanti 3D, bisogna tuttavia notare che in questa particolare tecnologia l’Italia esprime una presenza di tutto rispetto, sia sul piano dell’innovazione di prodotto sia su quello della diffusione presso i nuovi artigiani digitali, che ormai vengono definiti con il termine maker. Si tratta infatti di una tecnologia relativamente a basso costo ed alla portata se non proprio di tutti, senz’altro di molti; persino io sono riuscito a costruirne una comprando le parti necessarie da diversi negozi online sparsi per il mondo. E’ un esempio che dimostra come la capacità e l’inventiva made in Italy, quando non frenate da carenze infrastrutturali, riescano ad emergere con ottimi risultati. Purtroppo non è sufficiente.

IL FATTO
Hong Kong, la rivoluzione degli ombrelli: le reti
e un sorvegliato speciale

Ogni giorno, gli abitanti di Hong Kong si muovono per la loro città brulicante e affollata, accompagnati sempre dal loro ombrello, per proteggersi dalla pioggia scrosciante ma anche dal sole cocente. Dallo scorso fine settimana, invece, gli studenti che si battono per chiedere, oltre al suffragio universale, una maggiore autonomia dalla Cina, ne hanno fatto il loro simbolo. Con essi si sono protetti dai lacrimogeni lanciati dalla polizia per disperdere i manifestanti, giovani, pacifici e disarmati. O meglio, armati solo dei loro telefonini. E vedremo con che potenza li hanno usati… Ma quali sono le ragioni della protesta?

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Il logo della rivoluzione

Dal 1997, Hong Kong, ex colonia britannica, è una Regione amministrativa speciale con una certa autonomia, ma, nella pratica, controllata dalla stessa Cina. Gli accordi siglati a suo tempo tra Cina e Inghilterra prevedevano che la regione diventasse gradualmente sempre più democratica con le prime elezioni a suffragio universale a partire dal 2017. Queste elezioni avrebbero dovuto scegliere il capo del consiglio esecutivo che governa la città. Attualmente la carica è assegnata da una commissione elettorale composta da 1200 persone e totalmente filocinese. Per la Cina le elezioni libere rappresentano una concessione che potrebbe convincere altri Stati ad avanzare simili rivendicazioni. Così, al posto di normali votazioni democratiche, il governo cinese ha deciso che a contendersi la poltrona di capo dell’esecutivo saranno solo tre candidati che necessiteranno comunque dell’approvazione di Pechino. Da qui sono iniziate manifestazioni e proteste. E l’ombrello è diventato il simbolo, sul web, dei ragazzi che protestano. Il tutto partito, secondo l’Huffington Post, da un tweet del reporter di Abc News, Auskar Surbakti, che ha segnalato un grafico anonimo che si è servito di un ombrello inserito nel simbolo della pace per disegnare il “logo” di questa rivoluzione.

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Joshua Wong Chi-fung

I leader del movimento sono identificati in due giovani universitari, Joshua Wong Chi-fung e Wong Hon-leung ein, che avrebbero fondato il movimento #OccupyCentral, nel 2011. Joshua ha diciassette anni, occhiali neri e viso da bravo studente. Un giovane ‘apparentemente innocuo’ che la Cina sta dipingendo come una minaccia, magari pure una spia al servizio di potenze straniere quali gli Stati uniti (la fantasia dei governi in certi casi non ha limite). E’ stato definito dalla autorità cinesi come un “estremista”, e pure pericoloso. La sua popolarità è aumentata quando è stato arrestato durante gli scontri. Rilasciato due giorni dopo, è ora considerato la “voce” dei giovani della rivoluzione, sorvegliato speciale della Cina.

La manifestazione è iniziata fra il 27 e 28 settembre scorso, quando gran parte delle vie principali del quartiere d’affari Admilralty sono state invase. Il 28, i giovani manifestanti hanno occupato la sede del governo. E qui, i lacrimogeni hanno trovato gli ombrelli. Quando è scesa la notte sulle vie invase da tante anime, i manifestanti si sono serviti della luce dei loro smartphone per formare un’onda luminosa, quasi a formare un cerchio magico.

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I manifestanti © AFP
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I manifestanti © Alex Ogle/AFP/Getty Images

I social media hanno, in generale, giocato un ruolo fondamentale, come spesso è avvenuto nelle rivoluzioni degli ultimi anni (si pensi a Facebook durante la primavera araba). Si è, infatti, parlato delle “reti della rivolta”. Le riunioni e gli appuntamenti in strada si organizzano con WhatsApp o con FireChat, l’applicazione creata dalla società californiana Open Garden del francese Micha Benoliel per aggirare la censura. Quest’applicazione è particolarmente innovativa: servendosi del dispositivo della rete Mesh che permette d’inviare messaggi a persone vicine che usano la stessa rete, tramite intermediari-ponte, senza passare per il proprio operatore e con la semplice connettività Bluetooth, essa permette di comunicare “off the grid” (funziona quindi anche se non vi è alcuna connessione a Internet). Tuttavia, secondo Lacoon mobile security (un gruppo di ricercatori sulla sicurezza mobile) pare che sia stato recentemente inventato un virus in grado di colpire, per la prima volta, il sistema mobile di Apple per “creare caos” fra i mezzi di comunicazione dei manifestanti di Hong Kong. La guerra è aperta, pure su questo fronte.

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Il governo reagisce con la schiuma e lacrimogeni
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Le notizie hanno rimbalzato sui social network

Anche Twitter è stato un mezzo potente per diffondere immagini e messaggi. Oltre a Facebook. “Per una rivoluzione servono occhiali, una mascherina e FireChat”, scrive su twitter Stanislav Shalunov, un matematico russo esperto di internet, menzionando l’applicazione che consente oggi ai manifestanti di Hong Kong, e ad altri in futuro, di comunicare fra loro anche in assenza di segnale. Un’ulteriore dimostrazione che la tecnologia, ancora una volta, può aiutare a riunirsi, parlare, dimostrare, protestare e a far conoscere la realtà. A tutti, senza distinzione. ‘Affaire à suivre’, direbbero i francesi.

Come pensa il mondo

Viviamo tempi in cui cercare di capire come pensano i nostri vicini nel mondo, forse può aiutare ad orientarci tra gli scompigli di questo condominio globale.
È difficile per menti rigorosamente illuministe come le nostre concepire l’esistenza di altre forme di pensiero, eppure già Kant ci avvertiva che la ragione è un’isola nel mare dell’irrazionale.
Intanto, noi che siamo terra e culla di ‘uni’-versità, proviamo i primi scricchiolii alle nostre certezze di fronte a coloro che al di là di un braccio di Mediterraneo, oltre l’equatore, coltivano il sogno di un mondo diverso, come Paul Wangoola, fondatore e presidente di Mpambo, ‘multi’-versità africana, in Uganda.
Lui spiega: «Una multiversità differisce da una università nella misura in cui essa riconosce che l’esistenza di forme di sapere alternative è importante per l’insieme della conoscenza umana». Wangoola sostiene che per risolvere i problemi dell’umanità, oggi è necessario trovare una sintesi tra i saperi propri delle singole tradizioni indigene e le moderne conoscenze scientifiche.
D’altra parte, se il cervello è fisiologicamente per tutti lo stesso, altrettanto non si può dire della mente, tanto da scoprire l’esistenza di una vera e propria geografia del pensiero. Ce la racconta Richard Nisbett, docente di psicologia sociale e direttore del programma Culture and cognition dell’Università del Michigan.
Per Nisbett il processo di adattamento all’ambiente ha prodotto ‘formae mentis’ differenti e conseguentemente condotte, e metodi di conoscenza che tra loro divergono. È il caso dell’Occidente verso i paesi del Confucianesimo, Cina, Giappone e Repubblica Democratica Coreana. Basti considerare l’olismo culturale proprio di quest’ultimi, per cui ogni essere è parte di un tutto, ampio e interdipendente e, all’opposto, il nostro individualismo che ci induce a ritenere noi stessi come unici e liberi di agire.
Il lavoro di Nisbett è interessante perché sfata la presunzione che esista una sola strada che conduce alla conoscenza. È un’insidia alla premessa fondamentale dell’Illuminismo occidentale, all’idea che la ragione umana sia identica ad est come a ovest, a nord come a sud del mondo. Per Howard Gardner, il guru delle intelligenze multiple, il lavoro di Nisbett è una provocazione per gli scienziati cognitivisti che ritengono ovunque unico il modo di pensare.
Ma già altri studi hanno indirettamente anticipato le conclusioni a cui giunge Nisbett. È il caso delle ricerche condotte da Marlene Brant Castellano tra gli Indiani del Canada, molte sono le differenze nei processi che conducono alla conoscenza tra le popolazioni aborigene e i colonizzatori. Innanzitutto le fonti del sapere che sono la tradizione, l’esperienza diretta, le rivelazioni dei sogni, le visioni e le intuizioni la cui origine è spirituale.
Per la Castellano la conoscenza degli aborigeni si fonda sull’esperienza personale e non ha alcuna pretesa di universalità. Mentre il pensiero occidentale assume l’esistenza di verità individuate attraverso la ragione o il metodo scientifico, per gli Indiani del Canada due persone possono tranquillamente avere visioni diametralmente contrapposte di uno stesso evento che sono accettate entrambe come valide.
Ancora esistono differenze nei modi di pensare, e quindi di fare cultura, tra società a impronta collettivista e società decisamente individualiste. Influenze religiose e culturali concorrono a determinare i diversi caratteri del pensiero e della conoscenza.
Nel modello del capitale umano il sapere è prodotto dalla scienza e il fine fondamentale d’ogni esistenza risiede nell’accumulazione di ricchezza, la conoscenza è il mezzo per conseguire la crescita economica, mentre per la maggior parte dei credi religiosi essa si piega al servizio dei disegni di una o più divinità.
L’educazione nuova, l’educazione progressiva, alla cui tradizione si rifanno oggi i modelli scolastici dell’Occidente, promette di formare le persone a farsi carico della società e della giustizia sociale. La maggioranza delle culture indigene e delle religioni considererebbero questi obiettivi come ingenui e impossibili da realizzare.
Come possono le persone ricostruire un mondo che è, secondo il punto di vista di molte dottrine religiose e di tante minoranze culturali ed etniche, inconoscibile e spirituale?
Come si può definire la giustizia sociale al di fuori del contesto di una teologia religiosa?
Giustizia sociale vuol dire fornire a tutti le stesse possibilità di accumulare beni o significa la possibilità di godere di una vita fortemente comunitaria, diretta da un’etica spirituale?
Di certo ogni paradigma educativo deve considerare le proprie finalità in funzione dei caratteri culturali di cui è espressione. I modelli educativi del capitale umano supportano i principi dell’individualismo sociale, mentre i modelli progressivi tendono a supportare le società di tipo collettivistico.
La ricognizione delle varie differenze nel pensare del mondo suggerisce un interrogativo sul significato della globalizzazione, in particolare per quanto attiene alla globalizzazione delle pratiche formative. Queste differenze sopravviveranno nel futuro o finiranno per convergere in un senso comune del conoscere e del pensare il mondo? O porteranno a un scontro costante sulle finalità e sui contenuti dell’educazione? Il rischio vero è che la globalizzazione unisca i mercati ma non gli uomini, che nessuno di noi riesca mai a riscattarsi dalla tirannide di essere un mezzo anziché un fine.

Internazionale cambia faccia sul web e sceglie le notizie divergenti

C’erano tutti ieri mattina alla Sala Estense di Ferrara, il direttore Giovanni De Mauro, la redazione al completo, amministratori e soci della rivista, per presentare ai loro lettori e al pubblico del festival la loro ultima novità editoriale: il nuovo sito di Internazionale sarà on-line tra qualche giorno ed è stato il frutto di un lungo lavoro che coinvolge un team di una decina di persone. Per la realizzazione del nuovo formato web, si sono rivolti al mitico Mark Porter, grafico britannico che nel 2009 aveva già curato magistralmente il restyling del settimanale, e che è intervenuto in videoconferenza da Londra. “Con questo nuovo sito abbiamo fatto una doppia scommessa, – dice De Mauro – vogliamo entrare nel mondo delle news, senza fare concorrenza all’Ansa o a Repubblica, ma facendo qualcosa di radicalmente diverso dagli altri: le notizie che saranno presenti dovranno essere talmente diverse e divergenti che, comparandole con quelle degli altri quotidiani, il lettore dovrà chiedersi dove sta l’inganno. L’altra sfida è cercare di rompere la barriera di specie tra quotidiani e riviste.”

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La redazione, gli amministratori e soci della rivista presenti all’incontro

Giovanni De Mauro e Martina Recchiuti, girano in piedi sul palco del teatro divertiti e disinvolti, passando da una slide all’altra nel ripercorrere le tappe della storia dei loro siti: dal primo tentativo che risale al 1997 (Internazionale fu uno dei primi giornali on-line insieme all’Unione sarda) in cui comparivano solo alcuni contenuti di testo, al format del 2001 in cui cominciano a comparire alcune foto, poi piccoli aggiustamenti fino ad arrivare al 2009, anno in cui chiedono a Information Architects di ridisegnare il sito. Ma Giovanni De Mauro è sincero, e ci racconta che, qualche anno fa, chiedendo ad un amico e collega esperto di web, cosa ne pensasse del sito, questo rispose: “Questo sembra il sito di un giornale in cui si capisce che la redazione sta facendo altro.” E’ stato da lì che hanno cominciato a prendere seriamente a mano il sito, ma con il privilegio di poter lavorare con calma, perché il settimanale andava benissimo, una curva sempre in crescita, e anche i lettori on-line erano tanti, anche se con i suoi 663.270 ‘mi piace’ la pagina Facebook batteva e batte ancora il sito. Tra le motivazioni che portano alla scelta di fare un sito all’avanguardia, c’è infatti la necessità di rendersi meno dipendenti da Google: “Con Google non possiamo competere, circa il 60 – 65 % dei lettori on-line proviene da Fb, e questo significa che siamo molto dipendenti da questo flusso di traffico. Questo non ci dispiace, ma vogliamo aumentare e diversificare i flussi di traffico, perché nel momento in cui Fb dovesse decidere di limitare i suoi flussi, saremmo nei pasticci”. E finalmente, ecco la nuova testata… e gli applausi dei fan risuonano nel teatro:

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Il nuovo sito in anteprima

• scompare la curva (sul web non funziona, si è scelto di sostituirle anche nel cartaceo) • la font è Lion (si legge come si scrive, non come leone), la stessa del cartaceo • il titolo è in stencil (maschera normografica) • in alto una serie di 3 foto • la colonna di sinistra è uno stream di notizie, un rullo di materiali informativi aggiornati (notizie, portfoli, tweet, opinioni) che scorre semplicemente in ordine cronologico • la colonna di destra è di approfondimento, la redazione riprende il controllo sulle notizie, raccogliendo le notizie che ritiene più significative in senso giornalistico e le collega a tutto ciò che ruota loro attorno, materiale pubblicato negli ultimi minuti, giorni, tempi, cercando di ripercorrere la storia della notizia.

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Pagina dei temi

• alcuni temi che dichiarano la “faziosità” della redazione • le foto sono grandi, ad alta risoluzione (come nel cartaceo), senza skin o banner pubblicitari che le coprono (alle pubblicità è dedicato uno spazio diverso) • ci sarà una sezione video (brevi video di grandi testate straniere), l’idea è quella di autoprodurne di propri su temi italiani, col tempo anche una sezione reportage • scompaiono gli spazi per i commenti • scompaiono i contatori dei ‘mi piace’ di Twitter e Fb (condizinano il lettore) • solo due tag in fondo ad ogni articolo (altre saranno invisibili).

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Mark Porter

E come ciliegina sulla torta, compare sullo schermo Mark Porter, capello brizzolato e occhialino nero, easy ma puntuale e incisivo come sempre: “Non ho voluto fare un sito qualunque. Stiamo parlando di un contesto giornalistico, quindi ho voluto fare un ‘sito tipografico on-line’, dove l’imperativo è la leggibilità. Un sito che avesse un’armonia tipografica con la rivista, ma con elementi fruibili sul web. E’ anni che pensiamo a come trasporre il cartaceo sul web, ora ci siamo riusciti ma, devo essere sincero, non tutto il merito nostro, è grazie alle nuove possibilità del web: poter utilizzare lo stesso carattere, poter tenere presente almeno i tre formati mobile, tablet, desktop, fino a due anni fa non ci saremmo riusciti.”

L’OPINIONE
Ricette per la ripresa: ricerca e investimenti
o lo scalpo dei sindacati

di Diego Carrara

Ma è proprio vero che nel nostro Paese non si può fare sviluppo e far ripartire l’occupazione senza mettere mano allo statuto dei lavoratori e soprattutto all’articolo18?
Assistendo ad un dibattito, nell’ambito del festival di Internazionale, (cui doveva partecipare anche Maurizio Landini) abbiamo capito, o per essere più chiari, abbiamo avuto conferma che non è così, che si può fare politica industriale e relazioni sindacali in maniera positiva, senza mettere in discussione l’articolo 18 e i diritti acquisiti.
L’esatto contrario di quello che ha propugnato, da piazza Municipale a Ferrara, il presidente del Consiglio Matteo Renzi pochi giorni fa, contro l’attuale Statuto dei lavoratori.
Al dibattito organizzato da Cgil, Fiom e Chimici Cgil ha partecipato, oltre a vari esponenti sindacali anche Patrizio Bianchi, assessore regionale a Scuola e Università e noto economista industriale.
Quello che è uscito, tra l’altro, da questo confronto è che già oggi in Emilia Romagna e anche a Ferrara, terra di multinazionali oltre che di Pmi, si firmano contratti di lavoro (con la Fiom e non solo) e accordi con la Regione che innovano l’organizzazione produttiva per aumentare la produttività e soprattutto il valore aggiunto delle produzioni, senza toccare l’articolo 18.
L’economista ferrarese ha ricordato che quello che chiedono le multinazionali, ma anche le imprese locali più dinamiche, per continuare a produrre in Emilia Romagna, è più ricerca più formazione e maggiore integrazione tra il percorso scolastico e lavoro, nonché una rete efficiente di subfornitori.
Quindi più investimenti pubblici sul fronte della ricerca e dell’Università, per rimanere sulla difficile frontiera dell’innovazione, per presidiare ed alimentare quelle produzioni ad alto valore aggiunto, necessarie per rimanere competitivi sui mercati internazionali. Nell’ultimo accordo fatto nella nostra Regione, infatti, quello della Ducati (gruppo Volkswagen), si integrano maggiormente scuole professionali e lavoro, ed inoltre, l’orario di lavoro si riduce a 30 ore settimanali senza sacrificare l’occupazione.
Del resto appena due anni fa l’economista Marianna Mazzucato, sempre al festival internazionale aveva presentato un lavoro che oggi è stato pubblicato con il titolo di: “Lo Stato Innovatore” dove dimostra che i prodotti commerciali come Iphone sono frutto di progetti finanziati con miliardi di dollari dallo stato federale Statunitense.
Essa stessa ricorda come “Obama ha permesso a Marchionne di acquistare Crysler con soldi americani, ma l’ha obbligato a investire nei motori ibridi. Renzi si è limitato a guardare Fiat spostare la sede fiscale allo scopo di pagare meno tasse”. E quando è stato ricordato, alla stessa Mazzucato che Renzi ha inserito nella sua biblioteca personale anche il libro in questione, ha risposto in questo modo: “Non è servito. E’ sconsolante che discuta di articolo 18 e di riforma del mercato del lavoro come se fossero una priorità… E non basta la promessa di qualche sgravio fiscale o di sfoltire la burocrazia: servono gli investimenti, che in Italia sono ai minimi storici. Come si fa in questo contesto a parlare di Statuto dei lavoratori?”
Già, come si fa? Eppure basterebbe guardarsi intorno e magari utilizzare quelle esperienze industriali sviluppatesi nelle nostre regioni di punta come l’Emilia Romagna, invece di cercare la luna nel pozzo. Ma siamo proprio sicuri che il premier voglia far ripartire il Paese attraverso la politica industriale e non invece utilizzando lo scalpo del sindacato da esibire ai mercati, convinto che solo in questo modo si possano far ripartire gli investimenti?
Se così fosse venga pure in Emilia Romagna, ma non a pontificare genericamente sul lavoro, come ha fatto spesso, fino ad ora, ma per apprendere quelle esperienze che possono far crescere davvero l’Italia senza riportare indietro l’orologio della storia economica e sindacale del nostro Paese.

LA STORIA
Zoa, ovvero come andare controcorrente in Russia

Sappiamo bene, ormai, come la street art possa essere un potente veicolo di messaggi, grande palcoscenico a cielo aperto che raggiunge un enorme e diversificato pubblico. A volte attento, a volte meno, ma comunque un mondo ‘sui generis’, potente, ‘esposto’, spesso involontariamente, a grida di aiuto o a necessità di veicolare messaggi sociali di vario tipo e intensità. Talora questi messaggi sono anche politici, come il caso di Aleksandra Kachko in Russia, a San Pietroburgo. L’artista, conosciuta come Zoa (vedremo poi perché…), dipinge il suo dissenso contro Putin e per questo è stata più volte arrestata. Artisti di strada come Jef Aerosol, Banksy, Mat Benote, Cartrain, Dan Witz, Tod Hanson, Invader, Michael Kirby, Viso Collo, Ellis Gallagher, Vhils, Os Gemeos, Swoon, Twist, 108 e Sten Lex si sono guadagnati l’attenzione internazionale per il loro lavoro e hanno goduto di una popolarità più benevola. Hanno, per così dire, vita più facile.

zoa-controcorrente-russiaDi Zoa (potremo chiamarla anche Sasha, il diminutivo affettuoso, in Russia, usato per le ragazze che si chiamano Alexandra), non si trova molto in rete, almeno non in italiano o in inglese, salvo un’intervista del 2011 che le era fatta dopo l’arresto per aver partecipato ad alcune manifestazioni, diciamo, non troppo pro Putin. Di lei si sa che ha oggi 28 anni, che non è fra gli artisti più noti nel suo campo, ma che merita menzione.

zoa-controcorrente-russiaPerché Sasha è una donna coraggiosa, che ha studiato da sola, senza incoraggiamento familiare, con un padre ex saldatore e problemi con l’alcol. Ma pare che lei non voglia parlare di questo, né tanto meno essere oggetto di inutili e sterili vittimismi. Lei è forte e attiva, e cerca di parlare con i colori. Oggi fa l’architetto a San Pietroburgo, non vive, quindi, grazie ai suoi graffiti ma di essi ne fa una bandiera importante di attivista per i diritti civili.
Sasha ha iniziato a manifestare, avvicinandosi alla politica, nel movimento Strategia 31 (fondato dallo scrittore Eduard Limonov, oggi leader del partito Altra Russia), che ogni fine mese si riunisce a Mosca e in altre città della Russia, per protestare contro la violazione dell’articolo 31 della Costituzione, che sancisce il diritto a manifestare pubblicamente, in modo pacifico. Meno pacifica la reazione della polizia, si dice.

zoa-controcorrente-russiaA parte alcuni manifesti preparati in quell’occasione, Sasha ha iniziato a fare graffiti politici, nell’ottobre 2010, dopo l’arresto dell’amico Aleksander Pesotskij, incriminato ex art. 282, ossia per l’accusa di ricostituzione del partito bolscevico.
Passeggiando per la già fresca San Pietroburgo, recentemente, ho visto qualche graffito, ma se si comparano Ekaterinburg e Perm (e alla stessa Mosca), dove si fanno festival di street art (ovviamente, non a sfondo politico), qui non si vede molto. A Mosca, invece, forse perché è la capitale, forse perché è più aperta o semplicemente più popolata e frequentata da vari movimenti artistici, si incrociano più muri dipinti. Basti ricordare che qui aveva spopolato colui che era stato definito il Bansky russo, Pavel 183, deceduto giovane ma che aveva, e ha, lasciato forte impronta e ricordo nella città.

zoa-controcorrente-russiaTra i soggetti realizzati da Sasha ce ne sono anche molti di tema femminista, come, ad esempio, un disegno su sfondo rosa di una donna crocifissa, con la scritta “il Patriarcato uccide”, messaggio forte in un Paese, peraltro, molto religioso. Sasha dice che, all’estero, spesso la donna russa è vista come emancipata ma che, nella realtà, solo alcune donne (la minoranza) lo sono, e che molte altre appartengono a una cultura rigidamente patriarcale. Secondo lei, l’Unione sovietica era meno sessista perché era necessario che le donne lavorassero nelle fabbriche e aumentassero la produttività, ma sempre per l’interesse nazionale. Sasha lotta contro quella che viene definita, spesso, una normalità: una donna maltrattata dal marito non è vista come un problema. Non si deve tollerare e perdonare. Alcune sue opere toccano il tema dell’aborto o dell’arresto di femministe.

Finora, l’abbiamo sempre chiamata Sasha, ma in Russia chi la conosce la conosce come Zoa, nome nato per caso: un bel giorno qualcuno ha attaccato un annuncio sui suoi graffiti: «Sono interessata a incontrare un uomo. Zoja» e lei ha deciso di adottarlo come nome. Ha preso quella forma come una sorta di messaggio, di suggerimento, di battesimo.

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Mostra di graffiti sociali, “Matite femministe”, Mosca, ottobre 2013

Zoa ha partecipato anche alla mostra di graffiti sociali, “Matite femministe”, organizzata a Mosca nell’ottobre 2013, nel quadro della biennale d’arte contemporanea.

In alcune dichiarazioni, Zoa ha ricordato di avere effettuato 20-30 opere originali ma che, per la loro natura effimera, l’attenzione ad esse dedicata dalla polizia e dagli incaricati di ripulire le strade, sono rimaste visibili per poco tempo. Alcune hanno vissuto un solo giorno, altre un po’ di più. Ma lei spera di avere comunque passato un messaggio.

Foto da Il Fatto quotidiano [vedi]

IL PERSONAGGIO
John Berger, la giusta misura delle parole

Il teatro comunale di Ferrara è gremito per la giornata conclusiva del Festival di Internazionale. Attende lo scrittore e critico d’arte inglese John Berger, venuto a dialogare con il collega nigeriano Teju Cole su arte e scrittura. Comincia male. Almeno per me. Il traduttore simultaneo non va. Sono costretto ad affidarmi al mio orecchio arrugginito per tradurre a braccio una conversazione in inglese. Cole è troppo giovane, parla un inglese spedito. Perdo le sfumature. Altro discorso vale per l’ospite d’onore.

Misura bene le parole, Berger. Gli da il peso, l’importanza che meritano. Sembra sappia che ha a che fare con un’arma potente, precisa. Un’arma che seduce, in alcuni casi uccide. La giornalista Maria Nadotti gli chiede cosa rappresenti per lui la lingua madre .

La faccia solcata dai quasi novant’anni di età, le pause di chi non deve nulla a nessuno e si prende tutto il tempo che gli serve. Racconta una piccola storia, John. La scena è questa: siede al bancone di un pub qualsiasi della sua Inghilterra. Lui che da una vita risiede in un villaggio della Francia alpina. Inizia a discorrere con un vicino mentre si beve della birra. Accade di frequente, in Inghilterra, magari guardando un match della premier league. Alla fine, il tizio si complimenta con John per l’ottimo inglese. Forse avrà pensato di trovarsi di fronte a un forestiero che parli perfettamente una lingua straniera.

Quindi ride di un sorriso sincero, il nostro Berger. Ride di un ricordo normale che ancora lo diverte e contagia una platea attenta. Di quelle che si costruiscono negli anni. Ecco! Questa una sua parziale risposta su cosa sia una lingua madre.

L’altra, quella che mi entra nel petto senza filtri, la spara in conclusione del suo intervento sull’argomento: “la lingua è figlia di una puttana”.

John Berger sul palco del teatro comunale cammina col passo sincopato dettato dal ritmo della vecchiaia. Veste un abbigliamento casual, semplice come le parole limpide che sceglie di pronunciare. Si concede solo un paio di calzini a righe orizzontali. Forse sono l’unico lembo di chi pare stare al mondo con misura. Scende le scale. Si risiede e affronta una interminabile fila di lettori in attesa di una firma, di una dedica.

Non si diventa grandi per caso. Esistono diverse misure di grandezza, questo è vero! Berger ha mostrato parte della sua. Ho inteso i suoi occhi che guardano intorno. Ho inteso che per uno come lui il mondo è un pozzo profondo. C’è chi si affaccia ad osservarlo, e chi, come John Berger, in qualche modo vi si immerge. Non riesce a farne a meno. Solo così potrà dirci che sapore ha la sua acqua. Il mondo è un pozzo profondo e a me pare che John vi abbia passato la vita immerso dentro. Altri non riescono che a vedere una pozzanghera. Si specchiano pigramente sulla sua superficie.

Per una domenica mattina di un ottobre ancora estivo, gremito di giovani che affollano Ferrara e la trasformano in una piccola capitale, direi che non è poco. Non è male finire con le parole, la misura, la lingua madre di John Berger.

Perché una scuola difficile è più democratica

Spesso gli insegnanti, a tutti i livelli di istruzione si lamentano del fatto che i bambini, gli adolescenti, i giovani non sanno più nulla, cercano scorciatoie per superare un compito, non hanno voglia di fare fatica e sembrano pochissimo interessati a qualcosa che non sia il semplice risultato per l’esame. Per lo più questa riflessione viene da insegnanti che hanno vissuto alle origini, come studenti, l’inizio di questa scivolosa china e che, dopo più di un trentennio, ne subiscono, dall’altra parte della cattedra, le rovinose conseguenze.
La scuola facile allora – mi riferisco ai primi anni Settanta – era considerata una condizione della democrazia, quando si pensava che solo riducendo la difficoltà, fosse possibile ai ragazzi provenienti da famiglie culturalmente deprivate, raggiungere traguardi di istruzione un tempo appannaggio della classe borghese. A distanza di decenni, è necessario riflettere sul fraintendimento all’origine dell’errore per porvi rimedio.
Perché la scuola facile non è utile a chi la frequenta? Semplice: perché riduce le capacità. Vi sono molte ragioni, che andrebbero declinate rispetto ad ogni livello del processo formativo. Nelle scuole elementari la facilità (che in questo caso si traduce nell’enfasi sulla spontaneità e la creatività) non abitua all’ordine che è necessario per ogni risultato, nelle scuole medie e superiori non insegna il rigore delle argomentazioni, l’esigenza di solide fondamenta per qualunque vocazione, la necessità di confrontarsi con il passato. All’università la scorciatoia ferale è l’idea che solo ciò che è immediatamente utile possa favorire il mitico “ingresso nel mercato del lavoro”, espressione ormai ammantata di fastidiosa retorica e di pelosa falsità.
Non è corretto attribuire la colpa alla svogliatezza degli studenti. La svalutazione della cultura umanistica, come della ricerca scientifica di base, del valore della scrittura hanno origini lontane. L’assoluto fastidio per ciò che non è “utile” alle competenze ha ristretto la testa di intere generazioni di ministri prima che di studenti.
Il punto è che tutto ciò nuoce ai giovani proprio rispetto alla possibilità di raggiungere un buon lavoro. Il mercato del lavoro attuale, e ancor più quello futuro, sarà sempre più competitivo, togliendo qualunque speranza che il titolo di studio sia sufficiente per avere un’occupazione decente. Solo i migliori ce la faranno. E i migliori saranno quelli che hanno studiato di più e che hanno accettato sfide difficili. Sarebbe indispensabile, per invertire la deriva, una discussione onesta sulla mistificazione che ne sta all’origine: l’idea che in una società di massa l’inclusione avvenga per diritto, abbassando la soglia di ingresso piuttosto che innalzando la qualità per superare privilegi di posizione sociale.

Maura Franchi – Laureata in Sociologia e in Scienze dell’educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing e Web Storytelling, Marketing del prodotto tipico. I principali temi di ricerca riguardano i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@gmail.com

Tu sola dentro una stanza. Giornalismo partecipativo e potere del web, la rivolta viaggia in rete

Ala’a ha diciannove anni, frequenta il primo anno di università ed è raro che si stacchi da Internet, se non per dormire. Fino a poco tempo fa, la sua vita era uguale a quella di qualunque altra ragazza della sua età: uscire con gli amici, andare al centro commerciale, studiare. Fino alla rivoluzione in Siria. Perché Ala’a vive a Chicago insieme alla sua famiglia di esuli siriani. Lei è lo hub, il nodo centrale che unisce centinaia, migliaia di cittadini siriani di mettersi in contatto, unirsi, manifestare, unire i singoli individui in gruppi e i gruppi in aggregazioni ancora più potenti e grandi contro la dittatura di Assad, calco di quella già perpetrata dal padre che tenta di mettere a tacere il popolo bombardando civili, picchiando attivisti, torturando chiunque venga catturato e trovato in possesso di tecnologie utilizzando la baashia (letteralmente: fantasma), forma di repressione violenza assai simile allo squadrismo.

Perché la parola chiave dell’intera storia è proprio tecnologia, o meglio Internet, attraverso cui gli attivisti sono coordinati e possono postare immagini e filmati che costituiscono già la prova inconfutabile della colpevolezza del governo. Non super partes, ma in medias res. Dentro la rete, nella stanza della sua casa in periferia da cui è collegata al suo Paese di origine, a diecimila chilometri di distanza, alle strade percorse dai suoi amici virtuali, alle case distrutte e abbandonate, al rumore dei bombardamenti incessanti e delle azioni violente contro donne e bambini, contro uomini lasciati a morire per strada o in ex cliniche in cui non è possibile curare adeguatamente nessuno. Ala’a è parte attiva della rivolta in Siria, aiuta lo scambio di informazioni filtrandole attraverso i social media e la rete di citizen journalism che dimostra come sia l’informazione proveniente dai cittadini, da chi vive sul territorio, possa creare un effetto a catena sul giornalismo globale. Perché a fare giornalismo sono le persone di tutti i giorni, armate solo di camera e telefonino con cui filmare proteste e brutalità della dittatura; mentre chi ha scelto di restare e affrontare a suo modo il regime si chiede cosa aspetti l’Onu a intervenire in una situazione di questo tipo, in un territorio privo di no-fly zone, dopo la tiepida decisione di sei punti programmatici da fare rispettare – a ora completamente ignorati dal regime siriano.

Posta su Youtube video e foto, date, luoghi e traducendo informazioni, didascalie e notizie perché possano comprenderle un grande numero di persone. Perché diventino virali, perché possano essere condivise, diffuse. Perché il sentimento e la reazione che ne scaturiscono non siano episodi singoli e lontani ma contribuiscano a creare una rete di condivisione. Oscura gli account Facebook dei suoi amici e delle persone con cui è in contatto quando vengono arrestate, così che non vengano messi in contatto con altri dissidenti e non ne carpiscano informazioni attraverso la tortura e l’estorsione. Compra materiale tecnologico la cui novità depisti i militari da cui vengono intercettati; microcamere, bluetooth, miniregistratori. e lo spedisce oltreoceano nei Paesi limitofi, dove poi sarà recuperato dagli attivisti siriani. Riunisce altri immigrati siriani per raccogliere voci anche nel luogo in cui abita. Forza del documentario è creare un naturale collegamento tra lo scenario geopolitico contemporaneo e tante storie personali, piene di coinvolgimento e passione, coraggio e impegno politico, che costruiscono attivamente un movimento di protesta e un potentissimo sistema di informazione, strumento per fare sentire alta la voce e dare modo di non ignorare, di non poter scivolare in un negazionismo che per altre epoche storiche e situazioni altrettanto drammatiche si sta facendo, o si tenta di fare.

Uno dei temi ricorrenti di questa edizione di Internazionale è stato il web, e le mille potenzialità che offre. Che ha assunto a tutti gli effetti il ruolo cruciale che ebbero, durante la rivoluzione americana, pamphlet e macchina da stampa, e che oggi è assunto da iPhone e Facebook, da Twitter e Skype. Perché è attraverso questi mezzi che Ala’a resta in contatto con quelli che definisce i suoi amici siriani, di Damasco e di Hama.
Che conosce solo attraverso la rete, ma con cui condivide a tutti gli effetti ideali, sogni e speranze. Le cui vite si intrecciano, senza toccarsi fisicamente ma scorrendo sul sottile filo del web. Con quella di Bassan, brillante studente e regista che segue passo passo i manifestanti, filmando esplosioni e correndo a perdifiato per scappare dai cecchini che sparano a vista e che resta ucciso da una di queste esplosioni.
Con quella di Aous, studente che sogna di diventare un medico, che guida i manifestanti di Damasco e filma ciò che vede ma che abbandonerà la videocamera per imbracciare un fucile unendosi all’Esercito Siriano Libero, composto da disertori che scelgono di andare contro al potere pur di non dover combattere contro la propria gente.
Con quella di Omar, ventitreenne studente di architettura ucciso nel corso di una protesta, una delle anime a distanza di Ala’a che la ragazza si riprometteva, a guerra finita e a regime rovesciato, di andare a conoscere di persona.
Perché in Siria, come giù in Egitto e in Tunisia, è solo questione di tempo.

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La locandina di #chicago girl

#chicagoGirl: the Social Network Takes on a Dictator
Docufilm di Joe Piscatella
Siria-Usa 2013, 74′