Quasi quarant’anni di insegnamento alle spalle e una grande passione per i ragazzi e il loro benessere. Daniele Lodi, insegnante di educazione fisica in provincia di Rovigo, ma ferrarese, assieme agli psicoterapeuti Giovanni Seghi, Massimo Barbieri e Maica Buiani ha scritto Corporeità e difficoltà di apprendimento, edito da La Scuola. Il lavoro è il risultato di anni di osservazione e pratica sul campo. Lodi, il testo, che potremmo anche chiamare manuale per il suo valore, appunto, di utilità pratica, si rivolge a insegnanti e genitori, due mondi che non sempre riescono a comunicare facilmente quando si tratta di affrontare certe difficoltà dei bambini.
“La nostra ambizione è una rieducazione divertente attraverso il gioco e il movimento. Per i docenti mettiamo a disposizione metodi di osservazione che aiutino a interpretare segnali indici di dislessia, iperattività e problemi prassici. Il ruolo delle famiglie è altrettanto importante perché anche in ambito domestico può essere data continuità al lavoro”. Cosa è possibile intuire dai segnali del corpo?
“Molte cose come la lateralizzazione, l’equilibrio, l’orientamento temporale, il ritmo, la gestione del tono muscolare. Da come i bambini si muovono nel gioco, possiamo davvero capire i loro bisogni o i loro malesseri”. Cosa ha rivelato il vostro studio?
“Abbiamo affrontato la dislessia e i bisogni educativi speciali, chiamati Bes. Nel libro abbiamo riportato cinquantadue casi di bambini tra i sette e i trecidi anni della provincia di Ferrara e Rovigo. Dodici bambini, in cinque mesi, sono migliorati del sessanta per cento nelle aree linguistico-matematiche, per fare un esempio. Abbiamo, quindi, pensato proposte di motricità finalizzate a un successo educativo più ampio e a una serena esperienza scolastica e personale”. In che modo?
“Oltre all’osservazione e all’analisi, abbiamo elaborato un ‘kit di intervento’, cioè delle idee operative che insegnanti e genitori possono mettere in pratica con i bambini. Il nostro intento è invitare all’osservazione del bambino e intervenire a partire dalla motoria. C’è un grande bisogno di sostenere le famiglie ed è per questo che collaboriamo con l’associazione Sos dislessia di Ferrara, con il Centro territoriale di supporto, ma anche con Coni e Uisp”. Al di là dell’ambiente scolastico, dove una famiglia può trovare supporto?
“A Pontelagoscuro, nella palestra del centro sociale Quadrifoglio, proponiamo dei test e un corso di motricità finalizzata per i bambini nei quali abbiamo riscontrato qualche difficoltà”. Pionieri della materia?
“Anche il mondo inglese lavora sul corpo più che sul linguaggio e noi riteniamo che il benessere del bambino possa davvero essere raggiunto con la strada del gioco e del divertimento”.
“Il governo deve parlare con i sindacati, ma è arrivato il momento che ognuno faccia il suo mestiere. I sindacati trattano con gli imprenditori”. Così il Presidente del Consiglio Matteo Renzi nello studio televisivo di turno, in questo caso a Otto e mezzo, ha commentato l’incontro fra il governo e le parti sociali sulla legge di stabilità.
Da queste parole sembra che per il nostro capo del Governo il lavoro sia una questione privata, che riguarda solamente i rapporti fra lavoratori e imprenditori nelle aziende, e non un momento di formazione del sé nella società, una dimensione fondamentale della cittadinanza.
Non avendo io nessun titolo per smentirlo, lascio che a farlo siano l’articolo 1 della nostra Costituzione e la lucida interpretazione che ne ha dato venerdì, in occasione della presentazione alla biblioteca Ariostea del volume “Ripartiamo dal lavoro. Anatomia, riconoscimento e partecipazione”, il professor Carlo Galli, celeberrimo studioso delle dottrine politiche dell’Alma Mater, presidente dell’Istituto Gramsci di Bologna e senatore “cooptato dal Pd di Bersani per presunti meriti accademici senza nemmeno le primarie”, come si è definito egli stesso con una buona dose di autoironia.
Cosa significa: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”? Perché i nostri costituenti hanno esordito così? Secondo Galli due sono i motivi. Prima di tutto questa frase sottolinea che “il soggetto si forma attraverso il lavoro”, secondo evidenzia che “il lavoro è legame sociale”. Dunque il lavoro è occasione di crescita del soggetto attraverso la propria creatività, soggetti tra cui poi crea relazioni: “Il problema è come e a quale fine tiene insieme gli uomini”. Secondo i costituenti “il lavoro è il cuore della politica” perché “vi si manifestano i principali rapporti di potere che regolano la società, che poi vengono istituzionalizzati nelle forme democratiche”.
Se riconosciamo e accettiamo questa “originaria politicità del lavoro”, sancita dalla nostra Carta Costituzionale, allora “non possiamo accettare che il lavoro sia una questione che non riguarda le istituzioni, ma solo i cittadini come privati lavoratori e i datori di lavoro, i loro diritti non possono essere trattati come ostacoli al libero e regolare funzionamento della macchina produttiva, mentre il compito della politica e del governo è solo ‘raccogliere i feriti’, cioè aiutare chi perde il lavoro attraverso gli ammortizzatori sociali”.
Questa è una concezione neoliberista in contraddizione con la Costituzione, che delinea un modello di società “non fondata sul mercato”, ma appunto sul lavoro come una delle dimensioni principali di attuazione della partecipazione dei cittadini alla vita della comunità.
Potremmo fermarci qui, ma vorrei aggiungere un altro paio di osservazioni sul ruolo della Repubblica in tema di lavoro: “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori” (art. 35 commi 1 e 2), “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3 comma 2).
STANDING OVATION: I PIU’ ACCLAMATI SPETTACOLI TEATRALI DEL XXI SECOLO
“Caterina de’ Medici”, regia di Paolo Poli, Teatro Comunale di Ferrara, 11 e 12 marzo 2000
Figlia di Lorenzo II duca di Urbino, Caterina de’ Medici sposò nel 1533 il futuro re di Francia Enrico II. Nel 1560 divenne reggente, al posto del figlio Carlo IX ancora in minore età. Sino al 1563, ma anche in seguito, condizionò pesantemente la politica francese, destreggiandosi con astuzia e spregiudicatezza soprattutto riguardo al problema delle fazioni religiose all’epoca in lotta fra loro. Questo è il canovaccio storico sul quale Paolo Poli si è basato per la stesura e l’allestimento del suo nuovo lavoro teatrale, come di consueto una sorta di musical, dal titolo appunto “Caterina de’ Medici”. Ma è stata in specie la prorompente personalità dell’affascinante personaggio cinquecentesco a fornire le linee essenziali dell’interessante rivisitazione, in chiave ironica e attualizzata, delle vicende narrate in almeno una decina di famosi romanzi di Alexandre Dumas.
“Sfaccettata e dura come un diamante, questa strepitosa dark lady cinquecentesca non ha ancora smesso di far parlare di sé. La sua esistenza è stata un lungo, travolgente romanzo d’amore con il potere e la sua disinvoltura nella scelta dei mezzi per conservarlo avrebbe fatto trasalire Machiavelli”. Assolutamente priva di scrupoli, intelligente come solo il cardinale Richelieu seppe esserlo in Francia alcuni decenni più tardi, e perversa, come la più spudorata delle cortigiane, la protagonista è attorniata in scena da una folta schiera di comprimari: i tre figli Francesco II, Carlo IX ed Enrico III, l’infido duca di Angiò, i nemici duchi di Guisa, l’insopprimibile Enrico di Navarra, la bella e intraprendente Maria Stuarda, quindi il mago astrologo Ruggieri e poi buffoni, dottori, profumieri, ecc.
Paolo Poli sfoggia per questa commedia la compagnia delle grandi occasioni: Vittorio Attene, Paolo Calci, Alfonso De Filippis, Paolo Portanti, Giovanni Scifoni, Rosario Spadola (ciascuno dei quali non interpreta mai meno di tre personaggi), oltre ovviamente a se stesso nel ruolo della celebre regina. Le scene sono di Emanuele Luzzati, i costumi di Santuzza Calì, le luci di Alessandro D’Antonio, le musiche di Jaqueline Perrotin, le coreografie di Claudia Lawrence e Alfonso De Filippis. Il testo è stato composto a quattro mani da Paolo Poli e Ida Omboni, la regia è dello stesso Poli.
Ex-Autogrill Cantagallo, Casalecchio sul Reno, 1 dicembre (quarta parte) by Wu Ming 1
4.SEGUE – Tra due ore sarà l’alba, ci prepariamo ad accoglierla.
Dal tetto dell’autogrill, da cento bocche, si alza il vapore dei nostri respiri.
Lucifero, astro del mattino, Venere, unico pianeta dal nome di donna, è visibile a oriente. Splende nel margine destro del mio campo visivo.
Rivolti a settentrione teniamo gli occhi chiusi, lingua contro il palato, respiriamo dal naso. I denti non devono toccarsi.
Mani rilassate davanti all’addome, tra ombelico e pube.
Chi ha una sola mano, le usi comunque entrambe.
Immaginiamo di sorreggere una sfera, una sfera nera, ne saggiamo il peso. I polmoni sono pieni. Ora espiriamo e la sfera inizia a ruotare in senso antiorario, accarezzando palmi e polpastrelli. Sentiamo il movimento, lo assaporiamo, avvertiamo l’attrito leggero della superficie liscia. A ogni espirazione la
rotazione accelera, e quando inspiriamo torna a farsi più lenta.
Avviene diciotto volte.
Da qui in avanti, a ogni espirazione la sfera si ingrandisce ed entra nell’addome, fino ad accarezzare i reni. Inspiriamo, la sfera rallenta e torna alle dimensioni di prima, confinata nel cerchio delle mani.
Avviene novanta, centottanta volte. Le mani sono piene di fuoco.
Adesso, mentre la sfera si espande e si contrae, immaginiamo di ingrandirci a nostra volta, a ogni espirazione siamo sempre più alti. Accanto a noi, all’altezza degli occhi, vediamo la luna.
Puntiamo lo sguardo sulla stella del Nord. Polaris, ultimo astro del Piccolo Carro. Guardiamola: la sua luce viaggia nel vuoto per più di quattrocento anni, prima di raggiungere i nostri occhi e
attivare i fotorecettori.
La luce che vediamo adesso fu irradiata mentre l’Inquisizione processava Galileo, il sapiente a cui dobbiamo il nostro telescopio.
La luce che vediamo adesso fu irradiata mentre s’iniziava a costruire il Taj Mahal, un palazzo lontano, molto più antico del Cantagallo.
La luce che vediamo adesso fu irradiata quasi tredici miliardi di secondi fa.
Tratteniamo il respiro per tredici secondi.
Moltiplichiamo per mille il tempo di questa apnea.
Moltiplichiamo per mille il risultato.
E’ un millesimo del tempo impiegato dalla luce di Polaris per arrivare a noi.
La luce che irradia adesso non la vediamo. La vedrà, tra quattro secoli, chi verrà dopo di noi.
Ora guardate la stella del nord, guardatela con nuovi occhi.
Un giorno, tra dodicimila anni, Polaris verrà rimpiazzata e in quel punto del cielo, al suo posto, vedremo Vega.
Salutiamo Polaris, e ringraziamola. Ha svolto un buon lavoro.
Diamo il benvenuto a Vega.
Ora guardiamo giù, verso il pianeta. Giù, verso il pianeta, tra dodicimila anni.
Dove un tempo sorgeva Bologna, tutto è coperto da un grande bosco.
La sfera entra nell’addome per l’ultima volta. Mentre lo fa si rimpicciolisce fino a scomparire. Portiamo le mani poco sotto l’ombelico e massaggiamoci in senso antiorario.
Immaginiamo di rimpicciolire a nostra volta, a ogni espirazione siamo sempre più bassi, finché non torniamo a terra.
Il Cantagallo non c’è più. Al suo posto, una radura erbosa.
Intorno a noi solo alberi.
Non siamo soli. Altri umani sono intorno a noi, camminano senza urtarci ma non ci vedono.
Siamo andati avanti dodicimila anni meno due ore. Di nuovo mancano due ore all’alba. Questi umani, nostri discendenti, si preparano ad accoglierla, rivolti a settentrione. Il loro sguardo cerca e trova Vega, la stella del nord. Tra le loro mani la sfera si espande e contrae. Nella loro mente, sono già più alti dell’atmosfera. Possono toccare la luna.
Un giorno, fra tredicimila anni, Vega verrà rimpiazzata e in quel punto del cielo, al suo posto, gli umani vedranno di nuovo Polaris.
Salutano Vega, questi nostri discendenti, e la ringraziano. Ha svolto un buon lavoro. Danno il bentornato a Polaris, e noi con essi.
Ora, da quelle altezze guardano giù, verso il pianeta, verso di noi, ma non vedono noi.
Vedono come sarà tra tredicimila anni.
Tra poco scenderanno e, accanto ad essi, i loro discendenti guarderanno verso nord.
E così via, lungo la catena dei millenni, tra glaciazioni, disgeli, nascite e declini di civiltà, fino a vedere la notte dell’ultimo rituale.
Ora torniamo indietro, torniamo qui, al Cantagallo. Ogni espirazione ci porta indietro di mille anni.
Il sole comincia a sorgere. Ci attende una giornata di lavoro, le mani sono colme di energia.
Diamoci da fare.
Dogato e Bologna, ottobre – dicembre 2008. A Graziano Manzoni, “in memoriam”.
Ultimi appelli, stasera e domenica pomeriggio, per godere dello spettacolo “Il Visitatore” tratto da un’opera di Éric-Emmanuel Schmitt con protagonisti Alessandro Haber e Alessio Boni. In questi giorni fra gli spettatori del Teatro Comunale l’entusiasmo è stato contagioso.
Le cinque del pomeriggio è un orario difficile da gestire. Lo confessa Haber, che, scusandosi con i presenti per il leggero ritardo, è accolto da un fiume di applausi e da flash di macchine fotografiche con zoom potentissimi. Lo conferma la compagnia, riunita davanti al tavolo del Ridotto per rispondere alle domande di un pubblico in trepidante attesa. Lo comprendono gli spettatori, tanti e incuriositi, che, ieri pomeriggio, si sono precipitati in Teatro Comunale per assistere all’incontro con il cast dello spettacolo “Il Visitatore”, in scena da giovedì e sino ad oggi pomeriggio alle 16.
La pièce, che, lo scorso giovedì, ha inaugurato la Stagione di Prosa 2014-2015 a Ferrara, vede il ritorno sul palco del Teatro Comunale dell’acclamata coppia Haber-Boni, protagonista della commedia Art nel dicembre 2011. Un ritorno in grande stile, a detta di chi ha già “gustato” l’opera messa in scena dal regista Valerio Binasco, il quale ha acceso i riflettori su un testo di Éric-Emmanuel Schmitt che, in Italia, è stato rappresentato solo una volta da Kim Rossi Stuart e Turi Ferro. Un ritorno che, sfidando l’insensibilità odierna, inchioda lo spettatore alla poltrona per affrontare quesiti seri ed esistenziali senza abbandonare la leggerezza di una commedia esilarante e commovente, scritta da Schmitt quando il teatro scomponeva la personalità di grandi uomini del passato al fine di studiarne le debolezze dell’animo.
E, in effetti, protagonista della pièce è nientemeno che il celebre dottor Freud, padre della psicoanalisi e, nello spettacolo, vecchio angosciato dagli inquietanti avvenimenti svoltisi in una sola notte. Quella del 22 aprile 1938. In una Vienna conquistata dai nazisti, infatti, Schmitt narra la disperata esperienza vissuta dallo psicoanalista a seguito dell’arresto della figlia Anna, interpretata da Nicoletta Robello Bracciforti, per aver insultato un caporale della Gestapo – alias Alessandro Tedeschi -. L’irruzione nell’abitazione di Freud del militare tedesco non fa altro che precedere la seconda “visita” con cui il protagonista dovrà confrontarsi, abbandonato in una stanza tagliata a metà e con una parte immersa nel buio. Sarà proprio da questa oscurità, infatti, che comparirà il coprotagonista dell’opera, il “disadattato fuori dalla norma” cui Binasco dà le sembianze di un barbone. Un clochard che, interpretato da Alessio Boni, afferma di essere Dio e dimostra al dottore di conoscere ogni segreto della sua vita, dando inizio a quel dialogo serrato in cui il Bene, il Male e l’Amore si mescolano tra loro per dare origine a domande senza risposta e a tentativi di spiegare il senso della vita.
Un dialogo che, dimostrando la forza delle parole, è stato al centro dell’incontro svoltosi con il pubblico ieri pomeriggio. Coordinata da Massimo Marino, la presentazione ha visto Haber e Boni spiegare i tratti più nascosti dei loro personaggi, che, pur essendo destinati a fallire, “rappresentano ognuno di noi”. “Il Visitatore fa breccia nel cuore di Freud” ha spiegato Alessio Boni, che non ha rinunciato a tracciare le somiglianze tra la trama elaborata da Schmitt e un fool shakespeariano: “La trama mi ha ricordato la storia di Re Lear, il sovrano inglese spodestato che comincia a riflettere sui sentimenti e sul senso della vita aiutato dal Buffone Fool” ha aggiunto l’attore ai microfoni del Ridotto. Nessuna perplessità neanche sulla tenuta da clochard con cui Binasco ha dipinto la figura del Visitatore, la quale, secondo alcuni critici, potrebbe alterare l’ambiguità di un personaggio che afferma di essere Dio ma irrompe sulla scena come un diavolo pazzo e tentatore. “L’essenza c’è tutta. Penso che il regista, aprendo il confronto tra un dandy come Freud e un disadattato fuori dalla norma come il Visitatore abbia saputo evidenziare ancora di più la debolezza del padre della psicanalisi” ha spiegato Boni anticipando l’intervento di Haber.
“Freud crolla e, in realtà, rivolge delle domande a se stesso. E’ la storia di un uomo che, dopo aver dedicato la sua vita agli altri, risolvendone i problemi dell’animo, è costretto a fare i conti con i Punti Interrogativi della nostra esistenza: dove andremo? Perché tutto questo?”. Le parole di Haber rimbombavano nel silenzio del Ridotto e il pubblico sembrava immergersi nelle “domande vertiginose” che, come Binasco ha scritto nella Nota di Regia pubblicata nella brochure de Il Visitatore, la commedia ci pone nell’arco di 100 minuti.
E’ stato Boni a interrompere l’alienante atmosfera creatasi nella sala del Teatro Comunale, rivelando di non aver mai visto Haber “così mistico”. Un commento che, anticipando le domande conclusive, ha mostrato al pubblico la complicità con cui i due attori hanno dato inizio a una tournée lunga e impegnativa. “D’altronde, dobbiamo sempre trovare la forza di andare avanti” ha spiegato la compagnia approfondendo l’avventura “dietro le quinte”. Dall’importanza del testo al talento dell’improvvisazione, Haber e Boni hanno tracciato i caratteri di un’esperienza in cui “gli attori hanno giocato a risultare credibili”, come ha affermato l’affascinante interprete del “Visitatore” elogiando Tedeschi per aver reso il caporale nazista una figura personalissima. “D’altronde, è un gioco in cui tutti giocano” ha aggiunto Haber nella fase conclusiva dell’incontro, ammettendo di sentirsi “più buono e vivace”. Merito del personaggio interpretato? L’attore non approfondisce, limitandosi a elogiare il testo della pièce. Ma la lunga digressione psicologica, dedicata all’analisi di un uomo che, calata la maschera di psicoanalista dalla fama mondiale, lascia intravedere “i dubbi e le sofferenze di una società attanagliata da una crisi e morale” sembrano evidenziare una profonda intesa con il Freud portato in scena, questa sera, alle 21.
Un appuntamento da non perdere, a cui lo stesso Haber ha consigliato di partecipare perché “si uscirà dal teatro soddisfatti”. Ma, soprattutto, un appuntamento con noi stessi e con la forza delle parole, che, riscoperta da Schmitt e portata sul palco da Binasco, troverà nell’eccezionale dialogo messo in scena dal duetto il punto di partenza per un coinvolgimento trascendentale ed emozionale, in cui i massimi sistemi dell’Amore, dell’Odio e della Religione aprono le porte alle Domande un’umanità fragile e priva di vincitori. Un’umanità che, vagando nel buio del palcoscenico, è destinata a convivere con due sole certezze: la risposta “sì” e la bravura di una coppia come Haber e Boni che, ancora una volta, è capace di dirci veramente qualcosa.
A dargli il nome di “Ambra di Talamello” fu niente meno che il poeta Tonino Guerra. Il formaggio di fossa, una delizia della zona del Montefeltro, viene fatto stagionare nelle fosse scavate nella roccia arenaria, seguendo un’antichissima tradizione che affonda le sue radici addirittura nel Medioevo; rocce che assumono, una volta riaperte le fosse, un meraviglioso colore ambrato. Talamello, piccolo centro in provincia di Rimini, celebra questa domenica 9 novembre e la prossima questa prelibatezza con la XXIX edizione della “Fiera del formaggio di fossa”: il borgo, che conserva un patrimonio artistico di notevole interesse, diventerà una vera e propria terrazza del gusto, dalla quale si potrà ammirare il suggestivo paesaggio del Montefeltro, assaggiando i migliori piatti della tradizione. Re incontrastato della manifestazione sarà “l’Ambra di Talamello” da degustare presso i banchi della fiera e nei ristoranti del paese, che offriranno interessanti menù a tema, e da accompagnare con i migliori vini della zona.
Anche quest’anno non mancheranno i “gemellaggi gastronomici” con altre produzioni tradizionali dello Stivale, oltre a incontri, conferenze e spettacoli. E se all’evento “trine e formaggio” si fonderanno arte gotica e pittura, si potranno visitare la mostra fotografica “L’altro volto di Talamello” e le caratteristiche sculture di pane realizzate a mano. I bimbi delle scuole di Talamello inoltre, si trasformeranno in mini-guide turistiche per presentare le bellezze del paese, fra le quali spiccano il Museo-Pinacoteca “Gualtieri” e l’intero centro storico, che custodisce importanti opere come il “Crocefisso” di scuola giottesca (Giovanni da Rimini, 1300) e la ‘Cella’, adiacente al cimitero, affrescata nel 1437 da Antonio Alberti da Ferrara.
(dalla redazione di FuoriPorta) Per saperne di più visita il sito FuoriPorta [vedi]
Il sistema nervoso autonomo è responsabile di funzioni vitali importantissime, quali il battito cardiaco, la digestione, l’eliminazione e così via. Esso è parte del sistema nervoso periferico e si occupa di tutte quelle funzioni che non sono controllate dalla nostra volontà. Esiste però anche un aspetto sottile di questo sistema che non è comunemente noto, ovvero che il sistema nervoso autonomo può essere usato per riportarci all’equilibrio se opportunamente attivato.
Il sistema nervoso autonomo è diviso in due rami, il simpatico e il parasimpatico, che rappresentano le “filiali” del sistema nervoso. Il simpatico è legato ad attività che richiedono che una mente vigile; il parasimpatico è legato alle attività più rilassanti, come dormire, mangiare e guardare la tv. Non abbiamo mai in funzione un solo sistema, sono entrambi necessari per far funzionare l’organismo. Tra i due ci deve essere un giusto equilibrio che è la chiave per una buona salute. Le persone che attivano eccessivamente il loro sistema simpatico tendono a soffrire di stress e sintomi correlati, come problemi cardiaci, pressione del sangue alta e insonnia. Le persone che invece attivano prevalentemente il loro parasimpatico possono soffrire di depressione, avere mancanza di motivazione/ambizione e un sistema immunitario indebolito.
L’attivazione del sistema nervoso simpatico è responsabile della ‘lotta’ e della ‘fuga’: aumenta il battito cardiaco e rende il flusso del sangue più veloce, i muscoli sono tesi, i riflessi sono velocizzati e la digestione e l’eliminazione possono essere rallentate o bloccate completamente. In sostanza, attiva tutte le risposte primarie che sono in relazione con la vita.
Viceversa, il ramo parasimpatico, detto anche “il vago”, è responsabile del riposo, del recupero e del relax. L’attivazione del sistema nervoso parasimpatico diminuisce il battito cardiaco, rilassa i vasi sanguigni e i muscoli, consentendo al sangue di portare sostanze nutritive e i rifiuti fuori dalle proprie cellule. Stimola la digestione e rallenta la respirazione.
Fondamentalmente tutte le normali reazioni del corpo sono associate alle attività essenziali che si svolgono durante la giornata e al recupero. Le pressioni della società odierna, spesso sono molto impegnative e diventa difficile mantenere il giusto equilibrio tra questi sistemi, in modo da contrastare la disfunzione del sistema metabolico e l’accelerazione del processo di invecchiamento cellulare, aumentando l’insorgenza di malattie cardiovascolari, diabete, ictus, etc.
È necessario quindi riacquisire un equilibrio consapevole, imparando a gestire le proprie giornate in modo che quando si stimola troppo un sistema, si passi ad un’attività che metta in azione l’altro.
Ad esempio, al lavoro è importante prendersi delle pause durante la giornata; nel week-end, si dovrebbe evitare di dormire davanti alla televisione tutto il giorno.
Un consiglio è cercare di accostare attività lavorative stressanti e sedentarie con attività rilassanti ma allo stesso tempo energetiche, come ad esempio camminare a passo sostenuto o fare sport. E poi, subito dopo pranzo e dopo cena, 3000 passi per migliorare l’equilibrio fra i sistemi e sentirsi in forma!
Lo stile di vita è alla base della buona salute e del benessere.
“Questo è un luogo di esercizio quotidiano, di resilienza: un carattere del quale oggi si parla molto e che ben descrive l’atteggiamento mentale richiesto a una persona che ha subito un trauma grave e cerca di ricominciare a vivere”. A dirlo è Anna Perale, coordinatrice del centro Perez della Città del ragazzo di Ferrara. “E’ come parlare di amore sull’orlo di un abisso. L’abisso per queste persone c’è sempre, accompagna la loro esistenza. La consapevolezza che ciascuno ha della propria condizione e la sostanziale capacità di affrontare la realtà non prescinde da momenti di disperazione e dolore. Il senso di perdita è sempre in agguato. Ci si fa forza reciprocamente, si vive profondamente il senso di solidarietà. Qui si è senza maschere, affrontare la propria disabilità con serenità non è semplice: la serenità va continuamente sostenuta e sorretta”.
Per riuscirci, Anna, i suoi collaboratori Conrad Binder e Maria Grazie Aretusi, il tirocinante Marco Borgatti, la decina di volontari che dedicano una parte del loro tempo e delle loro energie al centro Perez, cercano di offrire ai 28 ospiti della struttura giornate piene e ricche di stimoli. La mattina dalle 8,30 alle 12,15 si lavora: attività di corniceria, tipografia, stampe digitali, assemblaggi manuali di varia natura su commissioni esterne, cioè lavori richiesti e pagati. Poi mansioni di orto-giardinaggio nello spazio esterno al centro, che occupa la palazzina fra l’edificio principale e la palestra della Città del ragazzo.
“Il pomeriggio – riprende Anna, laurea in Farmacia e qualifica di educatrice professionale – alterniamo il laboratorio teatrale all’attività motoria, al ballo, ai canti corali”. Al corso di ballo può partecipare anche chi è in carrozzina o ha problemi di mobilità. Gli educatori della cooperativa Indaco sperimentano per la prima volta in Emilia Romagna tecniche di coinvolgimento che non escludono nessuno. I canti corali sono diretti da una giovane psicologa diplomata al conservatorio musicale: non hanno solo valore ludico, ma anche riabilitativo per chi soffre di afasia o disartria, cioè problemi nell’emissione e nella deglutizione causati, per esempio, dall’intubamento post coma.
Gli ospiti attuali sono tutti in età adulta, come Gianluca Melloni che ha raccontato su ferraraitalia la sua storia [leggi].Il centro è intitolato a Francesco Perez, nobile veronese che nell’Ottocento cedette tutti i suoi beni e si mise al servizio dell’Opera fondata da don Giovanni Calabria, di cui la Città del ragazzo è parte. E’ sorto nel 1999 per fornire sostegno a persone con disabilità conseguenti a trami di varia natura: incidenti, ictus, trombosi, emorragie, ischemie…
“Nel tempo la vocazione della nostra struttura è mutata – racconta Anna Perale, in servizio dal 2006 -. All’inizio forniva essenzialmente un servizio mirato alla valutazione e al reinserimento socio-lavorativo dei traumatizzati. Poi si è progressivamente orientata alla formazione e alla riabilitazione. Comuni, Asl, Azienda ospedaliera, Opera Don Calabria sostengono questo progetto. Le leggi sull’inserimento lavorativo di persone con disabilità sono bellissime – afferma la coordinatrice – ma le aziende fanno fatica ad accettare persone con gravi inabilità. La maggiore collaborazione c’è da parte di enti pubblici, cooperative e imprese del terzo settore. Poi va fatta una considerazione: in un incidente stradale può essere coinvolto chiunque, ma i problemi vascolari normalmente colpiscono persone in età matura, dai 50 anni in su. E persone di questa età incontrano più ostacoli delle altre nel reinserimento”.
Il risultato è che il Perez si è progressivamente trasformato in un centro diurno specializzato, a sostegno di uomini e donne alle prese con una situazione della quale hanno consapevolezza. “A differenza di chi ha disabilità congenite, i nostri ospiti hanno lucida coscienza di un ‘prima’ e di un ‘dopo’ “. Il demone è l’evento che ha cambiato le loro vite. “Il lutto della perdita affiora di continuo. Per chi si trova in questa condizione l’accettazione del proprio stato è faticosissima”. Lo è anche per le famiglie: alcune resistono altre si disintegrano. “I genitori restano sempre accanto ai figli, mogli o mariti non sempre ce la fanno a sostenere i congiunti”.
E nel dolore emergono le sfumature caratteriali di ciascuno. “In generale chi si sente responsabile della propria sorte, per un’imprudenza o un eccesso compiuto, si pacifica con se stesso prima degli altri. Ma chi si reputa vittima non riesce a farsi una ragione di quel che gli è capitato. Non ci si rassegna. Non si perdona. Le domanda ‘perché io’, perché proprio a me’ ricorrono quotidianamente”. Insomma, con la disabilità si convive, con l’evento che ha sconvolto la vita è più difficile. “Ogni giorno si riapre il dialogo su questo. Canto e teatro costituiscono forme espressive che ci aiutano a dare sfogo a queste angosce e a rappresentare tutti i vissuti. La cosa che più conforta è percepire che qui non si è giudicati ma sempre accolti”.
Ogni tanto ci sono momenti di tensione. “Per stemperarli un giorno, anziché incartarci nelle rimostranze, ciascuno ha scritto le cose che lo fanno stare bene. Le abbiamo raccolte in un elenco”. Fra le tante si legge: “Mi fa stare bene sentirmi nel cuore e nei pensieri degli altri”.
Fra le nuove generazioni poetiche, storicamente parlando dal/del duemila, parallelamente a sterili imitazioni del passato sempre care ai letterati italiani, è possibile osservare almeno due direzioni innovative (a livello, ora, ovviamente succintissimo). L’una, erede del futurismo e delle avanguardie, continua a sperimentare e scoprire il nuovo, tra “poesia totale” (Adriano Spatola) e neoavanguardia (Paolo Ruffilli); l’altra pur attraversando tale tradizione del nuovo, viene anche da un altro moderno, tra simbolismo ed ermetismo, inventando la nuova bellezza con sguardi forse meno eretici ma più sereni. Fra i nuovi poeti, Riccardo Roversi opta probabilmente per quest’ultimo gioco poetico, come traspare nelle opere finora pubblicate. In “Serenezze”, “Nonostante” e “Proesie”, i versi e le parole sono combinate ed elaborate con mano leggera ma persuasiva, la poesia come Farfalla intelligente in volo libero… La poesia di Roversi nasce dal linguaggio, ma è un al di là, innesta nel simbolo le varianti e le possibilità dell’anima umana, vaghe ma al passo coi tempi, illuminate; nello stesso tempo l’autore miscela la parola nella bellezza, senza eccessi appunto linguistici, distante dall’intellettualismo di certa poesia italiana. Nell’ultimo, Roversi incontra il futurismo della parola che si abbandona alla sperimentazione, come in “Nonostante”, quando il paesaggio in primo piano evoca la “Padania” di Corrado Govoni o lo stesso Paolo Buzzi, forse il più classicheggiante dei poeti futuristi, dove Roversi in “Serenezze” e “Proesie” insiste felicemente sul verso prezioso e musicale. Tale non frequente alchimia tra sperimentazione e nuovo classicismo elettronico è poi consapevolmente emersa nelle opere successive, ovvero in “Trappola Minimale”, soprattutto con il canovaccio poetico-teatrale di “Periplo di Millennio” (Este Edition, 1999), più volte messo in scena a Ferrara e altrove con la regista parigina Alexandra Dadier: quest’ultimo percorso, appare più prossimo al Teatro d’avanguardia e alla Poesia sperimentale, tra surrealismo e teatro dell’assurdo remixati in chiave postmoderna.
Un postmoderno, peraltro già post anch’esso, poiché – per così dire – di stile europeo o persino neorinascimentale, come nell’umanesimo italiano fiorentino, come trend successivo chiarissimo anche nel Roversi critico letterario (‘segnalato’ anche nel libro manifesto “Nuova Oggettività” a cura di Sandro Giovannini), o (tra le numerose opere più recenti, tra letteratura, guide su Ferrara e monografie ecologiche) in “Canzoni Scordate” (Este Edition, 2011). Parole e segni oltre l’esperimento artistico, verso – ora – un’avanguardia virtuosa evidenziata anche da chi scrive in “Futurismo per la Nuova Umanità” (Armando editore, 2012). Recentemente, Riccardo Roversi (come si sa anche giornalista del Resto del Carlino Ferrara e editore), già noto per un antologico volume sulla parola ferrarese contemporanea (“Percorsi Letterari Ferraresi, Liberty House), ha dato alle stampe una esemplare ricognizione sulla letteratura estense dal Rinascimento a oggi: 50 letterati ferraresi, da Celio Calcagnini e Pietro Bembo a Corrado Govoni e Giorgio Bassani, etc., recuperando anche parecchie figure del passato di grande stoffa letteraria perdute o quasi nella memoria attuale. E con la casa editrice Este Edition ha curato una recente rassegna di gran spessore nazionale “Autori a Corte”, con ospiti i vari Achille Occhetto, Roberto Pazzi e Marcello Simoni. Ha collaborato e collabora con numerose riviste: tra esse Roma Futurismo Oggi e Teatro.it (Portale del Teatro Italiano), Ferraraitalia ecc.
da Roby Guerra “Dizionario della letteratura ferrarese contemporanea”, Este Edition, La Carmelina ebook, 2012
Per saperne di più di Riccardo Roversi visita il suo sito [vedi] e quello di Este Edition [vedi].
ideazione Marco Martinelli e Ermanna Montanari con Ermanna Montanari,
Roberto Magnani, Alice Protto, Massimiliano Rassu incursione scenica Fagio
musica Luigi Ceccarelli spazio scenico e costumi Ermanna Montanari
luci Francesco Catacchio, Enrico Isola montaggio ed elaborazione video Alessandro Tedde, Francesco Tedde realizzazione suono Edisonstudio Roma foto di scena Enrico Fedrigoli regia Marco Martinelli produzione Teatro delle Albe – Ravenna Teatro
in collaborazione con ERT Emilia Romagna Teatro Fondazione
Inizio spettacolo ore 21, domenica ore 15.30. Riposo il lunedì e il giovedì
“Tutto parte dalla domanda con cui si apre questa Vita: è distante la Birmania? Evidentemente no. È ‘poco lontano da qui’, come ogni luogo del pianeta. La Birmania nella nostra Vita è una maschera per parlare anche di noi. Si racconta il lontano per trovarlo sorprendentemente ‘prossimo’.
C’è qualcosa di scandaloso nella vita di Aung San Suu Kyi: la mitezza d’acciaio, la compassione, la ‘bontà’, un termine che avrebbe fatto storcere il naso a Bertolt Brecht. La nostra Vita è anche un dialogo con Brecht, con quella Anima buona del Sezuan che qualche anno fa volevamo mettere in scena. Non lo facemmo allora, e questa Vita ci ha spiegato anni dopo il perché. La ‘bontà’ intesa come la intende Aung San Suu Kyi, e come prima di lei una teoria di combattenti, da Rosa Luxemburg a Simone Weil, da Gandhi a Martin Luther King, da Jean Goss a Aldo Capitini, (più i tanti, innumerevoli ‘felici molti’ di cui ignoriamo il nome), è scandalo in quanto eresia, ovvero, etimologicamente, scelta: si sceglie di non cedere alla violenza, alla legge che domina il mondo, si sceglie di restare ‘esseri umani’: nonostante tutto.
Interrogarci sulla vita di Aung San Suu Kyi ha significato interrogare il nostro presente: cosa intendiamo per ‘bene comune’? Per ‘democrazia’? Cosa significano parole come ‘verità e giustizia’? Ha senso usare queste parole, e come? Non sono ormai usurate, sacrificate sull’altare della chiacchiera dei media? O hanno senso proprio partendo dalla volontà di un sereno, paradossale, gioioso ‘sacrificio di sé’? Di un silenzioso, non esibito eroismo del quotidiano? Di un cercare nel quotidiano ‘ciò che inferno non è’, e dargli respiro, spazio, durata?”
Intolleranze alimentari, allergie, intossicazione spesso nemmeno riconosciute come tali, “malattie autoimmuni”… Viviamo in un ambiente fortemente inquinato, continuamente sottoposti a rischi e insidie per la nostra salute. Dalla scienza medica “ufficiale” non sempre arrivano risposte soddisfacenti. Iniziamo un viaggio nei sentieri della medicina alternativa.
“Il medico dovrebbe tornare a fare il terapeuta, senza deliri di onnipotenza”. Che a sostenerlo sia proprio un medico rende l’affermazione particolarmente significativa. “Terapia significa ‘aiutare’, aiutare il nostro organismo a ritrovare il proprio equilibrio”.
Il discorso, partito dalla medicina ‘ufficiale’ e transitato per quelle alternative, è scivolato sulla fitoterapia e sulla possibilità che i benefici che ne derivano possano talvolta essere indotti da una sorta di effetto placebo. “Poco conta – ammette il dottor Angelantonio Pedata – quel che importa è il risultato e il benessere dell’individuo”.
Il dottor Pedata ha quarant’anni di esperienza alle spalle e una specializzazione in pediatria. Da tempo segue un approccio olistico, ossia orientato alla valutazione dell’equilibrio complessivo dell’organismo. Ha un ambulatorio a Ostia e ogni 15 giorni è a Ferrara per incontrare i suoi pazienti. “La prima cosa che devo capire è perché quella persona è seduta davanti a me, qual è il sintomo, il disagio che avverte. Ma questo non basta: devo sapere chi ho dinnanzi, come è fisiologicamente: come mangia, come dorme, come va di corpo, come sono le mestruazioni, che cosa c’è nella sua storia medica (che cosa t’abbiamo fatto noi medici! – scandisce con amabile autoironia – T’abbiamo tolto, tonsille, appendice, imbottito d’antibiotici…)”.
Insomma, non si parla della ‘malattia’ ma dell’equilibrio di un individuo. “Per comprendere la patologia devo inquadrare il soggetto, le sue componenti mentali, emozionali, caratteriali…”.
L’approccio è sostanzialmente differente da quello cui siamo ormai abituati. La sensazione è chi il dottor Pedata applichi i fondamenti della cura così come li concepisce il filosofo Paul Ricoeur, nel senso di reale presa in carico, di solidale alleanza medico-paziente per il ripristino delle condizioni di benessere. Anche nella diagnostica non segue i percorsi convenzionali. “Dopo un approfondita indagine sulla persona, mi avvalgo delle tecniche della biorisonanza e della bioimpedenza, verificando la risposta dell’organismo”. Alla base di questo metodo c’è l’idea che la salute è il risultato di un complessivo equilibrio energetico.
Un comune disturbo viene analizzato non solo comparando i valori rilevati con quelli standard, ma considerando stili e abitudini di vita del paziente poi applicando in fase terapeutica i principi della bioenergia. “Questo tipo di approccio – sostiene Pedata – è molto diffuso in Paesi come Austria e Germania, mentre da noi è demonizzato e ridicolizzato. L’Ordine dei medici a riguardo non si pronuncia…”.
Cerchiamo allora di capire meglio questo sistema di cura basato sul riequilibrio energetico. “Il punto di partenza – spiega il medico – è la valutazione dei flussi negativi che l’ambiente esercita sull’essere umano. Oggi si parla molto di malattie ‘autoimmuni’. Il problema è che il sistema-uomo è andato in tilt a seguito delle continue aggressioni che subisce a causa dell’inquinamento, di cibi adulterati, dei farmaci stessi… Così per difesa spara in tutte le direzioni, cannoneggia le formiche!”.
Per tutelarsi dai rischi occorre agire preventivamente “curando le persone quando ancora non presentano sintomi di cedimento massivo – spiega Pedata – Bisogna essere attenti ai segnali, ai primi disagi e contrastare il malessere con terapie chelanti”, ossia con sistemi orientati a eliminare le tossine che si accumulano nell’organismo e nel sangue.
Il sistema è quello del drenaggio, della disintossicazione. Da cosa? “Dai metalli che assorbiamo: il ferro, il piombo, il mercurio, l’alluminio, il cadmio. Stanno ovunque: nei cibi, nell’acqua, nelle sigarette, nell’aria, nelle scatole in cui si conservano gli alimenti, nei manufatti con i quali siamo costantemente in contatto… E sono alla base di tante comuni patologie: cefalee, insonnia, depressione, ansia, irritabilità, coliti, ma anche allergie, perdite di memoria, osteoporosi, alzheimer”.
Negli Stati Uniti questo tipo di intervento è molto praticato ormai da tempo. Sono i rimedi agli effetti della moderna civiltà. Basti pensare che la quantità di piombo nel nostro organismo nel corso degli ultimi cento anni è aumentata di 500 volte…
Il dottor Pedata applica con successo i suoi metodi. Da molti anni ha virato su questo versante rimettendo in discussione l’approccio tradizionale che spesso si rivela perdente. “A Ostia sono attivo da sempre, a Ferrara da un anno svolgo il mio lavoro collaborando con il dottor Marco Morelli, un collega che si occupa di equilibrio neuro-motorio, specializzato in patologie rachidee e problemi posturali. E” lui che mi indirizza la maggior parte dei pazienti. Inizio ogni processo di disintossicazione con l’impiego di farmaci omeopatici e lo porto avanti fino al ristabilimento dei normali equilibri bioenergetici della persona in cura”.
Un cartellone di appuntamenti musicali di grande rilievo quello in programma al Jazz club Ferrara. Questa sera – nella sede del Torrione di San Giovanni, via Rampari di Belfiore 167 – l’appuntamento con The Claudia quintet: Chris Speed clarinetto e sax tenore, Matt Moran vibrafono, Red Wierenga fisarmonica, Robert Landfermann contrabbasso e John Hollenbeck batteria. Domani, invece il grande lirismo del pianista inglese John Taylor, tra i massimi esponenti della musica contemporanea.
Entrambi questi ultimi appuntamenti sono frutto della collaborazione tra Jazz club Ferrara e Bologna jazz festival. L’ingresso, dalle 21,30, è a pagamento.
Ma intanto ecco le belle immagini dell’ultimo “main concert”: quello di lunedì scorso con i Sonic Boom, Uri Caine al piano e Han Bennink alla batteria. Il reportage fotografico è di STEFANO PAVANI.
Da BERLINO – Non dovrebbe stupire se si riempiono i locali per una conferenza di stampo accademico, tenuta da rinomato professore americano della prestigiosa università del Michigan a Ann Arbor nonché attivista gay. Se non vogliamo indulgere in lazzi di tardo-berlusconismo (in cui evidentemente continuiamo a vivere come dimostrano recenti discutibilissimi servizi fotografici su stampa prezzolata), dovremmo dire che la sessualità ovviamente è una componente fondamentale della natura umana, sia essa negata con ascetismo, esagerata con la pornografia, normalizzata con i diritti umani oppure vivisezionata con gli studi accademici.
È da questo punto che è iniziata la brillante conferenza di David Halperin, tenuta abilmente al berlinese Institute for Cultural Inquiry tra istrionismo, ironia, filosofia greca (in greco) e post-strutturalismo.
Dopo un inizio brillante, Halperin passa a trattare un passo di Analitici Priori (Anal. 68a25-27) sulla teoria del male preferibile per cui di fronte ad un bene maggiore ed un male maggiore è (eticamente) preferibile un bene minore ed un male minore. È curioso però che Aristotele spieghi questo sillogismo applicandolo al caso dei rapporti sessuali ed erotici (Anal. 68a39-b2) per cui si giunge alla conclusione che è preferibile avere un partner che è innamorato ma non vuole avere rapporti sessuali piuttosto che un partner che non è innamorato ma preferisce avere rapporti sessuali. Per Aristotele la verità di questo sillogismo risiede appunto nella differenza tra amore e attrazione sessuale con l’implicito presupposto che l’amore sia fondamentalmente migliore del sesso: “amore quindi è preferibile al rapporto sessuale secondo il desiderio erotico” (Anal. 68b2-6).
La questione quindi è fino a che punto amore e sesso si possono sovrapporre? Oppure, per dirla altrimenti, a cosa serve il sesso?
Il rigore analitico di Aristotele non sembra lasciare scampo: qualsiasi sia lo scopo, questo è comunque sottoposto all’amore persino a costo della sua sparizione.
Osservando però il sillogismo più attentamente nel testo greco Halperin è in grado di dimostrare due cose: innanzitutto che il rapporto d’amore / sessuale qui indicato non è eterosessuale bensì omosessuale, più specificatamente “pederastico” secondo l’uso greco, cioè un “rapporto” tra un maestro (più anziano) e pupillo (più giovane); questa asimmetria quindi si riverbera quindi sulla vera natura del sillogismo che stabilisce un ruolo attivo di dare amore e il ruolo passivo di ricevere in cambio non amore bensì benevolenza.
Dalla logica piuttosto complessa del male minore si deduce quindi che Aristotele presuppone una connessione finalistica tra sesso e amore ovvero che il sesso ha come finalità intrinseca l’amore e quindi come tale può persino sparire quando il suo scopo è terminato.
L’argomento che Halperin muove contro questo edificante sillogismo aristotelico è forse crudo ma è stato posto con notevole eleganza, non priva però di una certa triste ironia: un gay può frequentare una sauna gay per avere contatti sessuali da parte di persone che senza alcuna ombra di dubbio non sono interessati né a lui in quanto persona bensì a lui i quanto “corpo,” corpo desiderante (oppure come si usa dire nella più bieca pornografia di basso livello “meathole”). Si tratta di una sorta di scambio crudele ma giusto, si sembrerebbe dire, per cui essere desiderati esclusivamente per il proprio corpo e nient’altro è irrefutabilmente vera proprio perché accade in questi termini. Ma non è questa però la confutazione più veritiera dell’edificante sillogismo aristotelico? Ovvero che il sesso abbia senso quando non ha senso (oltre che se stesso)?
È nello scontro tra queste due probabilmente estreme posizioni che si profila ma ahimè si interrompe l’interessante disquisizione suggerendo che sarebbe necessaria una combinazione tra sesso (qui declinato in termini crudelmente omosessuali) e un amore-erotismo (declinato in termini tipicamente romantici) una sorta di “queer sexuality” che implichi una complessa dialettica (addirittura metafisica) l’una con l’altra.
Era gremita la sala del cinema Apollo per la proiezione in anteprima del nuovo film di Ermanno Olmi “Torneranno i prati”, anticipata in videoconferenza da alcune interviste agli attori da parte del critico cinematografico Gianni Canova e da altre clip con interviste al regista stesso, impossibilitato ad essere presente in sala a causa di una lieve malattia che, da qualche giorno, lo costringe in ospedale. Per la stessa ragione, Olmi non ha potuto presenziare martedì alla prima assoluta della sua nuova fatica, alla presenza del ministro Franceschini e del presidente Napolitano.
Sì perché c’era molta attesa per “Torneranno i prati”, film girato sugli altopiani di Asiago interamente sommersi di neve, mettendo in scena una notte dei soldati italiani al fronte e in trincea, durante gli ultimi durissimi combattimenti della prima guerra mondiale nel 1917. Un film ambizioso ma allo stesso tempo essenziale, girato in condizioni reali al limite dell’estremo e ultimato in tempo per le ricorrenze del centenario del primo conflitto. Una trama non costruita, senza una narrativa ben specificata, una storia volta puramente a descrivere, mostrare, una vera e propria “esperienza della memoria” come intende specificare Olmi nella sua intervista, “un modo per ricordare coloro che non hanno più avuto memoria se non tramite le fanfare; non serve ricordare tutti i giorni, basta farlo in maniera corretta”.
Ed ecco che l’intento è pienamente riuscito, la pellicola emoziona e immerge lo spettatore all’interno della trincea rendendolo partecipe di tutte le atrocità che i nostri soldati vissero all’interno di quei luoghi di tortura, un’esperienza sicuramente inedita e particolare, nuova per quanto riguarda la filmografia bellica. Negli occhi degli ottimi protagonisti (tra i quali Claudio Santamaria, Alessandro Sperduti, Francesco Formichetti, Andrea Di Maria), spesso rivolti in camera, si legge tutta la disperazione e la rassegnazione di coloro che erano uomini prima che soldati, inconsapevoli prima di partire per il fronte di quello che avrebbero dovuto passare e della snervante e terrorizzante attesa quale era diventata quella guerra, per la prima volta statica ed immobile, priva di assalti e attacchi di massa. La profonda e interminabile aria di quiete e pace che solo nelle nevose notti in quota si può assaporare, ha tutt’altro sapore quando anche il singolo movimento di una volpe, il fruscio di un larice, la luce di un razzo segnaletico, diventano presagi per un bombardamento, ancora una volta, nuovamente, il timore di perdere la vita.
Tutto ciò Ermanno Olmi riesce a metterlo ben in risalto nel suo lavoro, diretto con la solita maestria anche all’età di ottantatré anni e supportato egregiamente dal figlio Fabio, abile direttore della fotografia e complice sulla scelta della decolorazione della pellicola: quello che apparentemente sembra un bianco e nero è in realtà gioco di luce, ogni particolare significativo viene esaltato e il colore potenziato, in modo tale da far cadere l’occhio di chi guarda esattamente dove dovrebbe cadere nella mente del regista. Anche la scelta dei brani musicali, diretti da Paolo Fresu, è perfetta: pochi ma significativi, poiché è il silenzio che regna e “se il cuore non è felice, non si può fare musica”.
Un film quindi assolutamente ben riuscito e da diffondere per la sua capacità di narrare non una storia ma, al contrario, le vite dei soldati al fronte, il nome dei quali nel film mai viene pronunciato dagli stessi e mai menzionato dagli altri: si diventava numeri, semplici numeri che potevano solamente trasformarsi in gradi militari e in qualche onorificenza. Olmi anche in questo caso ci ricorda l’indegno destino verso il quale milioni di uomini, giorno dopo giorno con sempre più consapevolezza, andavano in contro, ammonendo tutti che “in guerra non esistevano “omini” ma, al contrario, identità che oggi dobbiamo essere in grado di tenere in considerazione. Gli “omini” al massimo sono quelli che comandano”. Il ricordo, quindi, imprescindibile nelle nostre vite e doveroso per rispettare chi ha dato la vita con consapevolezza per donarci quello che oggi abbiamo, venendo inesorabilmente dimenticato sotto la neve in inverno, disteso in un prato in primavera. Torneranno (forse) i prati. Rimanga sempre la memoria.
Fine anni Cinquanta, il tranquillo paese di Lansquenet-sous-Tannes, nella tenuemente colorata campagna francese. Qui la parola d’ordine è, appunto, tranquillità, calma, il volersene stare lontani da problemi, complicazioni e storie strane. I cambiamenti non sono ben visti, dalla bigotta e perbenista comunità del villaggio, sulla quale vigila, attento, il morigerato, serio e stimato sindaco Conte de Reynau, impegnato a salvare le apparenze del suo tentennante matrimonio e le cui parole d’ordine sono sempre e solo tre: duro lavoro, moderazione e autodisciplina.
Ma il vento del nord ha ben altri piani, lui è irrequieto, agile, curioso, spensierato e fresco e, un bel giorno, decide di portare con sé la bella nomade e stravagante Vianne Rocher (Juliette Binoche), che arriva a Lansquenet con la figlia Anouk. Due spiriti leggeri e liberi, proprio come quel vento che le accompagna. Ecco allora la sorpresa, quel cambiamento che fa paura a tutti, quella novità che spaventa e che fa parlare: Vianne apre un grazioso ed elegante negozio di cioccolato, la grande tentazione, con vetrine accattivanti e tentatrici che si affacciano proprio di fronte alla chiesa. Gli equilibri della comunità sono sconvolti, e non solo da questa iniziativa, ma anche dall’arrivo di un gruppo di nomadi, alla cui guida si trova l’affascinante Roux (Johnny Depp). Un mix esplosivo.
Tratto dall’omonimo romanzo della scrittrice britannica Joanne Harris, Chocolat, questa bella favola, dove si fantastica di libertà, di lotta a tutto ciò che è convenzionale, offre la possibilità alla cioccolata di scatenare una vera e propria guerra. Strano ma vero.
L’antitesi fra il Bene e il Male è la storia di sempre: novità contro tradizione, desiderio contro astinenza, istinto personale contro buon senso comune, amore contro odio, tolleranza contro intolleranza, chiusura contro apertura, gentilezza contro indifferenza, dolce contro amaro. Vianne rappresenta la Vita in tutta la sua forza e i suoi istinti primordiali: ha una figlia ma non è mai stata sposata, non frequenta affatto la chiesa, offre ai penitenti cioccolata durante la Quaresima e ospitalità agli zingari di passaggio, è bella e passionale.
Lo scontro tra i sostenitori del buon costume e questa “strega cattiva” fa scoppiare le antiche tensioni da sempre represse, trasformandosi in una battaglia senza esclusione di colpi che spaccherà in due Lansquenet. Ma la giovane donna è buona e piena di amore per il prossimo: accoglie Josephine, umiliata e picchiata dal marito, fa riavvicinare la vecchia Armande (una fantastica Judi Dench) al suo nipotino vittima delle restrizioni della madre e si mostra amichevole nei confronti della comunità nomade, la cui permanenza è boicottata dai pregiudizi di tutti gli altri. L’amore è l’ingrediente fondamentale delle fiabe, e in questa è raccontato davvero in ogni forma: di una madre per la figlia, di una nonna per il nipote, di due anziani che riscoprono l’emozione perduta. Da parte sua, l’anticonformista Vianne non potrà che legarsi a un’anima libera e senza radici come la sua, quella di Rioux, zingaro chitarrista dallo sguardo magnetico e col fascino da gentiluomo.
Con l’apertura della cioccolateria un vento di cambiamento comincia a soffiare in città, risvegliando le emozioni dei cittadini e degli spettatori. Vianne riesce a cogliere i desideri delle persone e a indirizzarle sul sentiero che hanno smarrito, senza forzarle, ma accompagnandole, con la capacità di saper ascoltare e capire chi ci circonda.
Al centro di tutto, dicevamo, il cioccolato, in tutte le sue belle, molteplici e buone forme, che ci ricorda i piaceri della vita, quelli così piccoli e dolci che ci rendono umani. Perché lasciarsi andare ogni tanto fa bene, il potere liberatorio del piacere e dell’appagamento sono unici, senza inutili sensi di colpa. Allora lasciatevi andare un po’ pure voi, anche con un solo cioccolatino, e la vita sarà sicuramente più bella (e dolce….).
Chocolat, di Lasse Hallström, con Juliette Binoche, Judi Dench, Johnny Depp, Alfred Molina, Carrie-Anne Moss, Lena Olin, Victoire Thivisol, Hugh O’Conor, Peter Stormare, USA, 2000, 121 mn.
La persona che scrive questa testimonianza soffre di una disabilità gravemente invalidante: la perdita di memoria a breve termine. Ha padronanza di sé e si comporta in maniera normale. E’ sposato, padre di due figli, ha una vita sociale. Rammenta il passato, ma i suoi ricordi presenti durano pochi minuti. Fatica ad apprendere informazioni nuove e deve sistematicamente usare agenda e taccuino per scrivere tutto quel che fa e le procedure che deve osservare. Può capitargli, per esempio, di entrare in un ufficio, svolgere un’operazione e all’uscita avere dimenticato ciò che ha appena fatto. Per evitare di ripetere all’infinito le medesime azioni deve tener nota di ogni cosa. Ad assisterlo è il personale del centro Perez della Città del Ragazzo. La sua toccante testimonianza è anche un grande inno alla vita.
Mai dire: “E’ finita” di Gianluca Melloni
Dodici anni fa ero un brillante ingegnere meccanico in carriera: a 40 anni, dopo solo 14 anni di esperienza lavorativa, ero direttore generale di una azienda con 30 dipendenti che operava nel settore della produzione di autovetture. Si progettavano e si producevano impianti per iniezione gas metano e gas propano liquido per veicoli con motori a combustione interna. Quando mi fu proposto di ricoprire la carica di direttore generale, mi sembrò di vivere un sogno. Prima di laurearmi in ingegneria meccanica, quando mi domandavano che cosa avrei voluto fare da grande, rispondevo:
il direttore generale di un’azienda che lavora nel settore dell’auto (di cui sono sempre stato un grande appassionato). Molti mi guardavano stupiti di tanta determinazione e chiarezza nella visione della vita lavorativa, altri sorridevano. Quindi si era concretizzato il sogno della mia vita.
Ma il lavoro era molto faticoso, 10 – 12 ore al giorno, 80 – 100 mila chilometri all’anno percorrendo, anche due volte la settimana, il tratto di autostrada che da Bologna porta a Torino, sommando ad essi 10 – 15 viaggi in aereo per raggiungere Wolfsburg nel nord della Germania, sede di Volkswagen, piuttosto che Londra, per recarmi negli stabilimenti della Rover, oppure Parigi per contattare Renault, per promuovere la nostra azienda con lo scopo di acquisire nuovi ordini.
Molto spesso capitava che alla sera, quando ero a letto, prima di addormentarmi pensavo che tutto fosse fantastico. Una moglie comprensiva con un carattere forte ma, al tempo stesso, dolce e amorevole, ottima educatrice dei nostri due figli, capace di risolvere in modo efficace la gestione della casa e tutti i problemi tipici di ogni famiglia, mi aiutava tantissimo. Con Lei mi sentivo sicuro e affrontavo le difficoltà del lavoro, i lunghi viaggi e le fatiche delle 12 ore in ufficio, sereno e tranquillo.
Ma un brutto giorno il motore si è… fuso. Era un sabato d’ estate del 2003, parlavo con mia moglie e, improvvisamente caddi a terra privo di sensi. Corsa in ospedale, Tac e diagnosi veloce: “cranio faringioma“ da asportare in pochissimo tempo. Io non sapevo neanche che cosa fosse, ma tre giorni dopo la mia perdita di sensi ero in sala operatoria. L’operazione durò 12 ore e vi risparmio la descrizione, perché ancora oggi mi viene la pelle d’ oca a pensarci. Dopo l’operazione un lungo periodo di riabilitazione, per riacquistare una discreta mobilità e… la perdita del posto di lavoro.
Dopo otto mesi d’ ospedale mi venne proposto di fare un’ esperienza in un centro di riabilitazione socio-occupazionale e formazione per attività lavorative: la “Città del Ragazzo”, distante tre chilometri dalla città. Rimasi stupito, perché la conoscevo soltanto come una scuola professionale per l’avviamento al lavoro di ragazzi con un trascorso difficile e come il luogo dove ci sono tre campi di calcio, sui quali giocai quando avevo 12 – 13 anni. Accettai!
L’esperienza vissuta è e sarà indimenticabile. Personale qualificato, psicologi, ingegneri e tecnici specializzati gestiscono il centro di formazione in modo molto professionale per formare personale qualificato da impiegare nell’industria locale e riqualificare professionisti o lavoratori, obbligati a cambiare vita a causa di incidenti con gravi disabilità acquisite (come nel mio caso!).
Oggi posso dire che, dopo le esperienza vissute, arcispedale Sant’Anna, medicina riabilitativa San Giorgio e Città del Ragazzo, sono tornato ad essere sufficientemente autonomo nelle attività quotidiane in famiglia e in quelle lavorative proposte, pur riconoscendo che, in alcune occasioni, devo essere ancora aiutato. La memoria infatti non è, e non sarà mai più, quella di una volta. Forse non sarò più in grado di lavorare 12-13 ore al giorno, di guidare 100-120mila chilometri in un solo anno, ma potrò insegnare ai miei figli che la vita non è soltanto lavoro e carriera ma anche famiglia e amici e che si deve sempre avere fiducia nelle persone che ti aiutano a ritrovare la strada, anche quando attorno a te c’è il buio.
Sono molto riconoscente alle persone che lavorano al centro Perez della Città del Ragazzo, come a tutto il personale che lavora nell’istituto.
Diverse sono le attività che mi sono state proposte e che sono offerte alle persone che, come me, hanno acquisito una disabilità in età adulta: recitazione nel laboratorio teatrale; palestra con attività motoria adattata due volte la settimana; laboratorio di canto corale; ballo adattato con istruttori qualificati che mi stanno insegnando a ballare di nuovo il “ tango“ e il ”valzer”; corniceria nella quale svolgo quotidianamente la mia attività principale; presenza una volta alla settimana al museo Ugo Marano, dove sono esposte le opere più importanti dello scultore, con l’obiettivo di portare in quel luogo i manufatti delle attività produttive svolte da persone disabili e svantaggiate presso la Città del Ragazzo, per farli conoscere ad un pubblico più vasto.
Sorrido quando ripenso alla risposta che un tempo davo alla domanda: Che cosa c’è alla Città del Ragazzo? Ed io rispondevo: tre campi di calcio. Ora, mio malgrado ma anche per mia fortuna, conosco molto bene il mondo che si apre alla fine di quel lungo viale che da via Comacchio porta all’ ingresso principale della Città del Ragazzo. Sì, in questo mondo super competitivo, c’è un luogo accogliente e ci sono persone che operano soprattutto per aiutare gli altri.
Dopo aver letto l’importante analisi che Ranieri Varese compie sulla richiesta approvata in Consiglio comunale di rendere Ferrara polo museale regionale e le sue lucide considerazioni che mettono in evidenza l’impossibilità di procedere su quella strada, vista la mancanza di un assetto legislativo specifico, leggo sui giornali e vedo con stupore sulla tv locale l’indignata e stizzita reazione della dottoressa Luisa Pacelli, direttore di Ferrara Arte e dei Musei civici d’arte moderna che invita il professor Varese a confrontarsi sui risultati da lei ottenuti con le mostre organizzate da Ferrara Arte. Non mi risulta dalla lettura del testo che Varese abbia mai “bocciato” le mostre dei Diamanti, ma ha solo messo in rilievo ed è acclarata la non interazione tra musei e mostre. Un discorso assai complesso che le più importanti Associazioni culturali hanno tentato di instaurare ma che non ha avuto seguito. Mi sembra che questa precisazione sia necessaria, in quanto è indubitabile che le decisioni sulle mostre e sulle proposte sono fatte in assoluta autonomia dalle Amministrazioni e dalla Fondazione Ferrara Arte, senza richiedere alcuna possibilità di confronto con le Associazioni o con coloro che sentono il problema culturale fondamentale per lo sviluppo della città anche visto, ma non prevalentemente, come risorsa turistica. Varese ha puntualizzato il suo intervento non da storico dell’arte ma da competente cittadino privato. Tuttavia non è detto che non si possa e non si debba avanzare qualche riserva sulla politica culturale della città. E in questo caso parlo anch’io come privato cittadino.
Le Associazioni culturali hanno richiesto da anni un tavolo di confronto ma questo non è mai stato instaurato. Abbiamo chiesto di essere tenuti al corrente delle decisioni, avendone in qualche modo la competenza: vedi il tentativo di proseguire sulla linea percorsa con il convegno Musei a Ferrara 2011 che non è stato mai preso in considerazione. La risposta è stata sempre e comunque negativa. Penso pure che le eccellenze e i valori che Ferrara ha saputo esprimere non siano adeguatamente coinvolte nella politica culturale della Amministrazione ferrarese. Ad esempio, ho saputo che l’attesa e meritoria mostra prevista nel 2016 sulla prima edizione dell’Orlando Furioso e il suo riflesso nelle arti non vede nel comitato scientifico il curatore di quella preziosa edizione (la prima dopo quella seguita personalmente dall’Ariosto stesso) il professor Marco Dorigatti dell’Università di Oxford che ha lavorato per e nell’Istituto di Studi Rinascimentali di Ferrara che si è fatto carico della splendida edizione presso la casa editrice Olschki.
Sia chiaro non è necessario rendere conto di scelte che molto giustamente seguono un iter scientifico già impostato e che dà buoni frutti, ma non ci si lamenti poi se qualche obiezione si può e si deve avanzare. Ancora una volta mi pare evidente che il concetto di “ferraresità” venga usato in modo non pertinente.
Grazie comunque a Ranieri Varese per la lucidità con cui ha saputo porre in evidenza un problema non certamente secondario, se ancora Ferrara si vuole fregiare dell’ambiziosa definizione di “città d’arte e di cultura”.
Diego Bianchi della trasmissione “Gazebo” di Rai Tre, ha compiuto un piccolo capolavoro con la puntata andata in onda domenica 2 novembre. Una lezione d’informazione. E pensare che è bastato accendere la telecamera sulla manifestazione a Roma, il 29 ottobre, degli operai delle acciaierie di Terni, preoccupati per il loro posto di lavoro e per il futuro delle loro famiglie. Con tanti saluti ai tanti (troppi) salotti televisivi che, ormai, hanno stufato anche Maria vergine.
La telecamera di Bianchi ha filmato un’autentica galleria degli ‘erori’, detto alla romanesca.
Primo erore.
I lavoratori inscenano la loro manifestazione sotto le finestre dell’ambasciata tedesca nella capitale, in via San Martino della Battaglia. Nome che si rivelerà come un triste presagio per quello che è successo poi, purtroppo.
Il luogo è stato scelto perché le acciaierie appartengono alla teutonica ThyssenKrupp.
Finalmente, dopo cori e fischi, le porte dell’ambasciata si aprono e una delegazione di metalmeccanici viene ricevuta.
Il risultato del conciliabolo è un comunicato stilato da un funzionario uber alles, affetto da imperdonabile stipsi del tipo: In data odierna (un bell’incipit burocratico non si nega mai a nessuno) una delegazione di lavoratori delle acciaierie di Terni è stata ricevuta nella sede diplomatica della Repubblica federale tedesca in Italia…
Non ci voleva un mago per capire che un testo del genere avrebbe fatto spazientire anche il Dalai Lama. Se solo si fosse aggiunto, metti, che l’ambasciatore si sarebbe attivato in tutti i modi per rispondere alle preoccupazioni dei lavoratori, non avrebbe richiesto una fornitura straordinaria d’inchiostro. Ma dalla diplomazia nibelunga non è uscita una parola in più.
Così, invece di concludersi lì, la manifestazione decide di proseguire sotto le finestre del ministero delle attività produttive per avere qualche risposta meno offensiva.
Il problema è che nessuno che guida il corteo sa come arrivarci.
E siamo al secondo ‘erore’ fatale.
Le forze di polizia schierate e fino a quel momento in pratica inoperose, perdono il controllo della situazione. Anziché interloquire, per esempio, con il leader Fiom, Maurizio Landini, presente alla manifestazione quasi dall’inizio, per chiedere il tempo necessario per organizzare le cose e poi, chessò, scortare il corteo per le strade fino al ministero, vanno in confusione. Le immagini di Gazebo mostrano un paio di dirigenti di polizia che non sanno più cosa fare e a un certo punto parte l’ordine di “caricare”. Diego Bianchi, a scanso di equivoci, trasmette almeno un paio di volte l’ordine. Si scatena il putiferio e iniziano a picchiare i manganelli, con i risultati finiti su tutti i Tg.
Il volto del dirigente di polizia da cui è partito l’ordine è sembrato l’immagine plastica di un Paese nel quale contano più le conoscenze della conoscenza; nel quale merito e capacità rischiano di trovarsi relegati fra manganelli e scudi, anziché con la trasmittente in mano, sempre rassegnati ad eseguire in silenzio gli ordini surreali dei figli di qualcuno.
La fine dell’esemplare puntata è affidata alle parole di Marco Damilano, giornalista dell’Espresso e ospite fisso della trasmissione di Rai Tre. Dopo avere definito giustamente le riprese “Un documento eccezionale”, ha riportato le dichiarazioni testuali rese alla Camera il giorno dopo, il 30 ottobre, dal ministro dell’Interno, Angelino Alfano, su quanto è avvenuto e cioè il terzo erore clamoroso della vicenda.
Parole che fanno letteralmente a pugni con le immagini andate in onda e viste da chiunque.
Fa pensare se un ministro non riesce nemmeno ad ottenere dalla propria struttura l’esatta ricostruzione dei fatti, smentita platealmente dalle immagini di una semplice telecamera.
Hanno ragione Dose e Presta della trasmissione radiofonica “Il ruggito del coniglio”, quando ironizzano sul fatto che al ministro senza il quid, più che una mozione di sfiducia ne andrebbe mossa una di sgomento.
Ultima considerazione.
Tanto per dirne una, diventa persino comprensibile se il commissario europeo per la Crescita e gli investimenti, Jyrki Katainen, decide di fare il pelo e contropelo alla manovra di stabilità del governo italiano, quando all’estero vedono un ex presidente del Consiglio condannato a far passare il tempo agli anziani in una casa di riposo; un presidente della Repubblica che deve rispondere all’avvocato difensore del capo dei corleonesi sulla trattativa stato-mafia; e quando una semplice e pacifica manifestazione di lavoratori, giustamente preoccupati per il loro futuro, viene gestita con uno stile che farebbe rabbrividire persino l’estensore del Manuale delle giovani marmotte.
Pellegrino Artusi (1820-1911), nativo di Forlimpopoli, è stato il più famoso gastronomo romagnolo, la sua opera ha attinto in gran parte dalle tradizioni della cucina della sua terra.
Il manuale gastronomico di Artusi intitolato “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”, dopo un iniziale insuccesso, nel 1891 fece raggiungere al suo autore la popolarità. Il volume è in stampa da oltre cent’anni, tradotto in diverse lingue e, di fatto, è stato inserito nel canone della letteratura italiana. Dal 1997 la città di Forlimpopoli, in onore del suo famoso concittadino, attribuisce, nell’ambito della festa artusiana, il premio che porta il suo nome.
Nel 1913 Antonio Sassi realizzò un primo censimento della cucina “del popolo”, ritenuta più rispettosa della tradizione romagnola, elencando poche voci: la piadina, i cappelletti (in brodo o asciutti), i passatelli (in brodo o asciutti) e il pollo arrosto. La piadina, che alcuni documenti fanno risalire al 1371 e di cui in Romagna esistono numerose varianti secondo le zone, è una focaccia non lievitata che si prepara con farina di frumento, strutto o olio di oliva, sale e acqua, cotta su un piatto di terracotta chiamato “testo”. La piadina (oppure la pizza fritta) può essere abbinata a salumi, erbe e formaggi freschi, tra cui lo squacquerone, solitamente accompagnato dai fichi caramellati.
Prendendo come riferimento la letteratura popolare romagnola è possibile individuare altri primi piatti: i manfrigoli, pasta in brodo preparata nelle cene funebri (al ritorno dai funerali), gli gnocchi di patata, i tortelloni e le lasagne al forno. Per quanto riguarda i secondi non manca la carne lessa (indispensabile per la preparazione del brodo), la carne ai ferri (pancetta, castrato, salsiccia, braciola di maiale, costolette di agnello); tra i salumi la salsiccia, il salame, il prosciutto e la coppa. L’elenco dei dolci comprende, tra gli altri, la ciambella, i sabadoni (tortelli ripieni di castagne cotte e marmellata di mele, pere cotogne o fichi) e la saba, uno sciroppo prodotto con la riduzione a fuoco lento del mosto d’uva bianca o rossa, usato per bagnare i sabadoni.
L’identità della cucina romagnola nasce dalla cultura popolare e contadina, che si esprime soprattutto nelle minestre, la cui sfoglia deve essere rigorosamente “fatta in casa” con farina, uova e senz’acqua. Oltre alle minestre già citate, dalla sfoglia (tirata a mattarello) si ricavano: tagliatelle, tagliolini, quadrettini, maltagliati, strichetti (farfalline) e garganelli. Sempre con la sfoglia, ma senza uova sono fatti gli strozzapreti.
Il vertice della cucina marinara è rappresentato dal “brodetto”, che in Romagna si esige robusto e casalingo, denso di conserva di pomodoro, di aceto e di pepe nero; le capitali del brodetto sono Cervia, Cesenatico e Cattolica. Altrettanto deciso è il sapore del pesce in graticola (la rustìda), infilzato negli spiedini e cosparso con una panatura all’aglio e al prezzemolo. Per meglio degustare queste specialità non possono mancare i vini romagnoli, quelli più noti sono il Sangiovese (rosso) e i bianchi Trebbiano e Albana di Romagna.
Quella con Alessio Boni è iniziata come conversazione su “Il visitatore”, il testo di Éric-Emmanuel Schmitt che da oggi a domenica, insieme ad Alessandro Haber, porterà al teatro comunale Claudio Abbado di Ferrara con la regia di Valerio Binasco. Il drammaturgo francese immagina che nella Vienna del 1938, mentre il padre della psicanalisi sta preparando la sua fuga dall’Austria dell’Anschluss e già presagisce la fine a causa del cancro alla gola che ormai non gli dà pace, Freud riceva la visita di un misterioso individuo con il quale inizia una sorta di duello verbale sui grandi temi dell’Umanità. È proprio Boni a impersonare questo enigmatico personaggio, che per tutta la durata dello spettacolo insinuerà in Haber-Freud e nel pubblico il dubbio sulla sua vera identità: è quel Dio del quale il grande scienziato ha sempre negato l’esistenza o è un pazzo che si crede Dio?
Presto però la nostra è diventata una chiacchierata sul dubbio, sul mistero, sull’etica e la morale, sulla società e sulla contemporaneità in cui non c’è più spazio per la persona e per le diverse dimensioni che racchiude.
Questo testo affronta grandi temi, si potrebbe dire le grandi domande che l’umanità si pone da sempre, però lo fa con grande semplicità, senza altisonanti discorsi filosofici, persino con un pizzico di humor…
Credo sia proprio la forza de “Il Visitatore” di Schmitt e in fondo del teatro, che dalle sue origini cerca di avvicinare la gente, anche quella non ferrata su un determinato settore, prendendo degli spunti, gli aspetti più importanti dell’argomento che vuole trattare, e portandoli in scena, con drammaticità o ilarità, facendo interagire personaggi. In questo caso attraverso l’escamotage di un dialogo tra Freud, il massimo degli atei, e Dio, ovviamente il massimo della fede, ci si porta a casa un sunto dell’esistenza dell’essere umano, poi spetta allo spettatore approfondire il discorso. Qui si scende il primo gradino, poi sta allo spettatore addentrarsi nel tentativo di capire chi è l’uomo pensante e quello non pensante, dov’è l’etica, cos’è la morale, ognuno ha la sua in questa vita, ma dove sta il limite che non si può trascendere in termini sia di etica sia di morale? Questo è il tema, non è una questione di religione, di credenti e non credenti, si cerca di mostrare entrambi i punti di vista: da qui scaturisce il dialogo interessante, tanto che a volte si parteggia per Freud e a volte per Dio, perché entrambi hanno dalla loro argomenti interessanti. La cosa importante è far pensare l’essere umano, certo in modo ilare, leggero, perché vuole essere un input, uno stimolo alla riflessione.
Paul Ricoeur ha definito Freud uno dei tre ‘maestri del sospetto’, insieme a Marx e a Nietzsche. Qui però viene rappresentato in un momento di crisi personale che il misterioso visitatore non farà che aumentare: è come se il dubbio che ha instillato negli altri ora colpisse le convinzioni sulle quali ha costruito tutta la sua vita. O no?
Il dubbio è fondamentale, è una follia pensare di poter avere solo certezze: si prende un personaggio straordinario, con una grande mente, come Freud e in un momento di fragilità lo si colpisce ai fianchi per causare un cambiamento. Schmitt prende un personaggio tutto d’un pezzo, un nichilista, un agnostico e gli infonde il dubbio, ma non sulla fede, bensì su se stesso, sul suo pensiero e sulle sue convinzioni. In altre parole il dubbio non è più una fragilità, diventa una componente fondamentale dell’essere umano, che impedisce che avvitarsi su se stessi, perché spinge al confronto con l’altro, che può dare una chiave di lettura diversa della vita.
Tutta l’azione si svolge nell’appartamento viennese di Freud e questo costringe il pubblico a concentrare la propria attenzione sul dialogo fra i protagonisti. Sintomo di grande fiducia nel potere della parola?
Siamo nella Vienna del 1938 nello studio del fondatore della psicanalisi, ma potremmo essere nell’ufficio del Presidente del Consiglio ieri mattina, in una delle stanze dei bottoni a Wall Street, addirittura in uno degli uffici dell’Onu, perché quando i due personaggi interagiscono in realtà è l’Uomo che parla, e ultimamente c’è una grande necessità, almeno credo, di ritornare all’Uomo, anche per capire da dove viene questa crisi, che è in realtà è una crisi etica prima ancora che economica.
Padre Turoldo una volta in un’intervista disse “In tanti anni che insegno, in scuole private e non, ho conosciuto tutte le classi sociali, ma quando chiedo ‘Cosa vuoi diventare da grande?’ Tutti i bambini, senza alcuna distinzione, mi rispondono con una professione, non ci sono mai stati una bimba o un bimbo che mi abbiano risposto ‘Voglio diventare un uomo’. Diventare un uomo è una delle cose più difficili e importanti di questa vita, ma quasi nessuno la prende seriamente, invece fin da piccoli si tenta di capire cosa fare per potersi inserire nella società, perché altrimenti si è delle nullità. In realtà l’importante non è la professione, ma la base su cui si fonda il nostro operare come uomini e donne, quello che sta succedendo è che la società sta perdendo la sua umanità. Ricostituiamo il senso vero dell’essere uomo, del porci in una relazione con gli altri, una relazione che può essere anche dialettica, che non è solo condivisione, ma può essere anche scontro: questo è il messaggio di Schmitt sul palcoscenico.
Rimanendo in tema, immagino che l’interazione in scena fra lei e Haber sia molto forte. Come è cambiato con il passare delle date il vostro modo di interagire sul palcoscenico?
Tutte le volte è una sfida e un’esperienza diversa, Haber è un professionista che si dà totalmente, quindi si sente una grande professionalità e un grande confronto in scena. Non ci poniamo delle domande sul fatto di evolverci, di cambiare: dopo la prima, lo spettacolo diventa dell’attore e del pubblico, quindi noi percepiamo, ascoltiamo, sentiamo il pubblico e gli rispondiamo, perciò a volte attraverso pause, accenti e tempi diversi cambia il senso che diamo alle battute. Il lavoro dell’attore quando va in scena è sentire il termometro del pubblico, quindi è inevitabile che l’interazione in scena porta a una continua evoluzione.
In conclusione: perché dovremmo venire a vedere Il visitatore?
Quante volte ultimamente ti sei fermata a pensare a te stessa come donna nei confronti del mondo? La verità è che non si parla e non si riflette più su certe cose, si va avanti con la propria vita quotidiana, pensando solo a portare a casa dei risultati. Non si considera più l’importanza del dialogo come occasione di arricchimento interpersonale, sembra non esserci più la voglia di ascoltarsi l’un l’altro, di percepire se stessi come singoli e come esseri in relazione con gli altri, di darsi, eppure è una cosa fondamentale: bisogna vivere ciò che si fa. Ecco in questo testo, invece, questo anelito c’è, perché c’è la possibilità di fare una sorta di terapia di gruppo con il pubblico: spero con questo testo di ampliare l’orizzonte dei dubbi e restringere quello delle certezze del pubblico, spero che si torni a casa con delle domande e con la voglia di allargare il proprio spirito, leggendo un libro o andando a vedere una mostra. La cosa meravigliosa del teatro è proprio la possibilità di estraniarsi per due ore per parlare e riflettere sull’essere umano, sui sentimenti umani: qui sta la sua sacralità, perché parla dell’uomo e comunica emozioni preziose, che colpiscono e possono rimanere dentro il nostro intimo tutta la vita.
Presentata a Ecomondo la quinta edizione del report “Sulle tracce dei rifiuti”: dati e mappe per scoprire dove va a finire la raccolta differenziata, che nel ferrarese è già arrivata a quota 54,1%.
La sfida della green economy: così si controlla la filiera del riciclo
Tracciare la filiera del riciclo, dare garanzie sull’effettivo recupero dei rifiuti, rendere chiaro il processo che si attiva grazie allo sforzo dei cittadini nel fare la raccolta differenziata. Sono questi gli obiettivi di “Sulle tracce dei rifiuti”, il report con cui il Gruppo Hera illustra ogni anno i dati sull’effettivo avvio a recupero dei rifiuti raccolti in modo differenziato.
Uno sforzo di trasparenza verso la comunità locale, per mettere in luce il forte impegno della multiutility sul fronte della sostenibilità, che si snoda durante tutto il processo di gestione dei rifiuti: dalla raccolta fino al processo che permette di dare nuova vita ai materiali che la società scarta. Quella del recupero è infatti una filiera chiave della cosiddetta green economy, tra i settori più promettenti per il futuro dell’economia italiana, europea e mondiale.
Il recupero della raccolta differenziata sale a quota 93,8%
Secondo i dati contenuti in “Sulle tracce dei rifiuti”, in Emilia-Romagna e nel Nord Est, i risultati parlano chiaro: nel 2013 è stato recuperato il 93,8% di verde, organico, carta, plastica, vetro, legno, metallo e ferro. Un dato in leggero miglioramento rispetto al 2012, quando si è recuperato il 93,5%. In media, dunque, la quantità di rifiuti scartata dagli impianti nel processo di recupero (perché, ad esempio, non idonea a essere riciclata o inquinata da corpi estranei) è di appena il 6,2%.
Il report, giunto alla quinta edizione, è stato presentato oggi a Rimini a Ecomondo, la più importante fiera dedicata al mondo del riciclo e alle energie rinnovabili.
Le mappe delle aziende della green economy che recuperano: 191 impianti, di cui 9 nel ferrarese
Sulle tracce dei rifiuti si presenta quest’anno in una versione tutta nuova, con 8 mappe, una per ogni materiale raccolto con la differenziata, che permettono di scoprire quali e dove sono i principali impianti che si occupano del recupero finale dei rifiuti.
In totale gli impianti di recupero coinvolti sono ben 191, di cui 47 collocati nel territorio servito dal Gruppo Hera e, in particolare, 9 nel ferrarese (in prevalenza impianti di recupero della plastica e della carta): attraverso l’impegno nella raccolta differenziata da parte dei cittadini alimentano il settore della green economy dedicato al recupero.
Del ferro non si butta via niente, del verde e del legno quasi nulla
Dall’analisi dei dati, anche quest’anno verificati dall’ente di certificazione indipendente DNV-GL, si nota subito che il materiale che si può recuperare totalmente è il ferro: se ne raccolgono 2,3 kg per abitante e il 100% viene reimmesso sul mercato o trasformato per il riuso nelle industrie metallurgiche o nelle acciaierie. Anche del verde si recupera tantissimo: nel 2013 nel territorio gestito da Hera il 96,6% di sfalci e potature hanno trovato nuova vita negli impianti di compostaggio producendo fertilizzanti e terricci o, in misura minore, in impianti a biomasse producendo energia rinnovabile. Il legno è stato recuperato per il 97,3% (sui 18,1 kg raccolti per abitante) ed è servito a produrre pannelli, cippato o pellet. La plastica, in particolare, viene recuperata all’87% (nel 2012 era all’84,9%), mentre il recupero della carta viaggia ora intorno al 93,8% (sui 61,6 kg raccolti per abitante). L’organico si attesta al 91,5% (con 48 kg annuali per abitanti), il vetro al 94,1%. Infine, i metalli come gli imballaggi in alluminio, acciaio e banda stagnata, al 94%.
Tutti i dati sono disponibili on line nella sezione interattiva e navigabile dedicata a questo tema all’indirizzo www.gruppohera.it/sulletraccedeirifiuti.
Il report, inoltre, sarà in distribuzione nei prossimi giorni anche presso le stazioni ecologiche, gli urp dei comuni più grandi e i principali sportelli clienti del Gruppo.
Raccolta differenziata del Gruppo al 54% nei primi 9 mesi del 2014, a quota 54,1% nel ferrarese
Il miglioramento della percentuale di rifiuti recuperati è legata anche ai buoni progressi della raccolta differenziata: nelle province dell’Emilia-Romagna servite da Hera il dato ha già raggiunto nei primi 9 mesi del 2014 il 54%, in aumento di oltre un punto percentuale rispetto allo stesso periodo del 2012 e di oltre 10 punti percentuali sopra la media nazionale (43,3%).
Nel territorio ferrarese a settembre 2014 la raccolta differenziata è arrivata al 54,1%, in lieve miglioramento rispetto al 53,8% nello stesso periodo del 2013.
La regione Emilia-Romagna, con 142 kg pro capite, è al primo posto in Italia per raccolta di frazione organica, materiale considerato un indicatore importante per valutare la diffusione e l’efficacia della raccolta differenziata nel suo complesso. Emilia-Romagna ed Hera sono ai vertici anche per la raccolta pro capite di carta, plastica, legno e metalli. Le alte rese della raccolta differenziata sono dovute, in particolare, all’assimilazione e alla capillarità dei servizi presenti con differenti modelli di raccolta per i vari target di utenza e i diversi fabbisogni.
Più qualità, meno costi: grazie alla differenziata si risparmiano fino a 24 euro all’anno
Lo scorso anno nel territorio servito da Hera la spesa per il servizio di igiene urbana di una famiglia media di 3 persone in una casa di 80 mq è stata di circa 236 euro. Grazie a una raccolta differenziata di qualità, è stato stimato per il 2013 un risparmio di circa 24 euro per famiglia, pari al 10% della bolletta.
La legge prevede, infatti, che dai costi del servizio di raccolta differenziata, che vanno a comporre le tariffe, vengano detratti sia i contributi che gestori e Comuni ricevono dal Conai (Consorzio nazionale imballaggi) sia i ricavi derivanti dalla vendita del materiale. Il Conai, che non ha fini di lucro e si occupa di avviare a effettivo recupero i rifiuti di imballaggio, si finanzia tramite i contributi delle aziende che producono imballaggi e la vendita dei materiali raccolti. In questo modo, può riconoscere a Comuni e gestori dei contributi economici utili a sostenere la raccolta differenziata. Maggiori sono le quantità e la qualità dei rifiuti raccolti in modo differenziato e ceduti al Conai, più alta sarà la cifra percepita da Comuni e gestori, che potrà poi andare ad abbassare i costi per il cittadino.
Nel 2013 i ricavi ottenuti dal Conai e dalla vendita dei materiali sono stati pari 23,6 milioni di euro, utili a coprire il 25% dei costi per raccolta e recupero di carta e cartone, vetro, plastica, lattine, legno e ferro.
Ecco perché è importante separare bene i rifiuti: fa bene all’ambiente e anche al portafoglio.
Venier: “Grazie agli investimenti nella green economy si generano 800 milioni di euro di indotto”
“Il report che abbiamo presentato oggi è unico in Italia: è una finestra di trasparenza verso i cittadini, che si aggiunge alla rendicontazione che il Gruppo porta avanti da anni con il Bilancio di Sostenibilità e con il report “In Buone Acque” sulla qualità dell’acqua del rubinetto” ha commentato Stefano Venier, Amministratore Delegato del Gruppo Hera. “I risultati positivi sui quantitativi recuperati e sulla differenziata dimostrano l’impegno sempre maggiore del nostro Gruppo nel migliorare l’efficienza di tutta la filiera del riciclo, settore chiave della green economy. A questi numeri siamo arrivati anche grazie a oltre 2 miliardi di euro di investimenti negli ultimi 12 anni: uno sforzo importante che vale 800 milioni di euro all’anno di indotto solo per la parte generata da Hera. Abbiamo inoltre dotato il territorio di impianti come i biodigestori, che recuperano la frazione organica e producono energia elettrica, e di impianti di selezione a lettura ottica per i rifiuti secchi. La tecnologia, da un lato, e lo sforzo dei cittadini, dall’altro, sono quindi gli ingredienti di una ricetta vincente, che proietta il territorio gestito da Hera tra quelli più virtuosi in Europa nella gestione dei rifiuti”.
Temerari e coraggiosi, onesti e puri. I coniugi Alessandra e Stefano Galliera dell’Azienda Fondo Novelle di Porporana sono rimasti gli unici produttori ad animare il mercato contadino del Centro Acquisti il Doro, sul lato del Self di Via Modena, con il banchetto della loro frutta su cui sventola la bandiera gialla Coldiretti. Nato quattro anni fa, dall’idea originale e meritevole dei responsabili del Centro Acquisti il Doro, che avevano messo a disposizione gratuitamente il loro piazzale, il mercato per varie ragioni non è riuscito ad attecchire. Tutti i produttori presto lasciano, tranne i Galliera che stoicamente resistono nel nome di un impegno e di un progetto; riescono col tempo a farsi la loro clientela di affezionati, traendone una fonte di soddisfazione economica e personale. I Galliera sono la prova che il progetto può funzionare, dedicandoci il proprio tempo, la costanza e credendoci… credendo nel “mercato che non c’è”.
Ad Alessandra Galliera chiediamo di raccontarci com’era partito questo mercato.
Il mercato è stato inaugurato ufficialmente il 7 dicembre 2011 e battezzato “I Sapori del Doro”. All’inizio eravamo partiti bene: eravamo una decina, c’era una bella varietà di prodotti (carne, formaggio, miele, frutta, verdura e fiori) e riempivamo il parcheggio. Poi, dopo quattro mesi, piano piano, a scalare, hanno cominciato a stare a casa un po’ tutti, fino ad arrivare a maggio del 2012 quando siamo rimasti solo in tre: noi, Balboni di San Martino con frutta e verdura e Malaguti di San Carlo col miele.
Questa è una bellissima iniziativa, anche perché arricchisce e dà un tocco di genuinità all’offerta commerciale della zona. Perché gli altri produttori hanno desistito solo dopo quattro mesi?
Perché in soli quattro mesi non si era creato il giro, cosa tra l’altro molto prevedibile visto che avevamo iniziato in pieno inverno, quando la varietà di prodotti come frutta e verdura a km 0 è naturalmente esigua e la stagione non favorevole. Poi c’è stato il terremoto e la Malaguti del miele, che veniva proprio dalle zone più colpite, non è più venuta. Anche la Balboni, a quel punto, ha preferito rinunciare per dedicarsi ai mercati che già aveva.
Quindi a giugno 2012 siete rimasti completamente soli?
Sì, siamo rimasti soli. Abbiamo continuato a venire tutte le settimane, certe mattine con un freddo da morire, ma adesso sono contentissima perché ho un bel giro di clienti affezionati, alcuni sono diventati veri e propri amici: c’è chi si ferma a chiacchierare, c’è chi mi porta il caffè e chi mi presta dei libri, perché parlando hanno saputo che amo leggere. La mia bancarella non è soltanto un punto vendita, è diventata anche un punto d’incontro. Qui sono nate amicizie e questo è l’aspetto che mi dà più soddisfazione e che mi ripaga dei sacrifici fatti in questi quattro anni. Lavoro tantissimo, certe mattine non ho il tempo di respirare e arrivo alla mezza che non me ne accorgo nemmeno. Ora lavoro molto anche con le prenotazioni, i clienti mi prenotano le cassette di frutta di settimana in settimana. Essendo rimasta da sola, mi sono anche scelta la giornata ideale, mi spiego: all’inizio il mercato era di mercoledì, ma io ho preferito spostare al martedì perché in concomitanza c’è il mercato dell’abbigliamento, dall’altra parte della strada, e questo può agevolare un po’ tutti, noi e loro. Grazie ad Elisa Casari, che ci ha dato il permesso, da qualche anno siamo presenti con la bancarella due volte la settimana: il martedì e il venerdì.
Questa è la prova che la costanza premia, e allora come mai nel tempo non si sono trovati altri produttori per ripopolare questo mercato, come mai la Coldiretti non ha promosso ulteriormente l’iniziativa?
Questo non lo sappiamo, anche perché il Centro Acquisti il Doro ha sempre continuato a mettere a disposizione gli spazi gratuitamente a chiunque fosse interessato, Coldiretti e non. Io ho provato anche personalmente a coinvolgere dei produttori che conosco, ne sono passati due o tre ma non hanno continuato.
Ma perché allora, qual è il problema?
Il problema è che chi arriva si aspetta degli incassi immediati, mentre il mercato è tutto da costruire e bisogna investirci del tempo. Io ho impiegato quattro anni, da sola, a costruirmi la fiducia dei clienti. Noi poi siamo puri, portiamo solo ed esclusivamente i nostri prodotti, mele e pere d’inverno, albicocche, ciliegie, pesche e tutta la frutta estiva, senza aggiungere al banco altri prodotti per ‘mantenerci’ i clienti: noi vendiamo esclusivamente i nostri prodotti di cui possiamo garantire in prima persona, non siamo rivenditori e vogliamo continuare con questo spirito. Ecco perché a fine dicembre ci fermiamo e riprendiamo a maggio dell’anno dopo. Ultimamente, spinti dalle richieste degli stessi clienti, ci siamo messi a coltivare qualche orticola, come zucche, patate e cipolle, per andare loro incontro e soddisfare al meglio le richieste. Ma il nostro prodotto d’eccellenza rimane la frutta.
Questo mercato quindi per voi è diventata una fonte di reddito importante, è così?
Sicuramente non è una fonte di reddito rilevante per l’azienda che ha bisogno di ben altre entrate, ma è diventato un grande aiuto come supporto al reddito familiare, soprattutto da quando è venuto a mancare il mio stipendio , in quanto la ditta per cui lavoravo ha chiuso. Ora il mercato del Centro Acquisti il Doro è diventato il mio lavoro e ne sono fiera.
Elisa Casari, responsabile commerciale del Centro Acquisti il Doro di proprietà della società NL Properties Srl, è l’ideatrice di quest’iniziativa; a lei chiediamo com’è nata l’idea di sviluppare un mercato a km 0 nel parcheggio del loro piazzale.
Come azienda siamo sempre stati attenti alla sostenibilità; per fare solo un paio di esempi, siamo stati i primi a Ferrara a costruire nel 2007 un edificio a destinazione direzionale e commerciale in classe A (quello che si trova sempre nel perimetro del parcheggio e che ospita, tra glia altri, la sede del Coni) e siamo tra i consulenti di Solidaria che sta realizzando il primo progetto di co-housing a Ferrara. Nel 2011, avendo spostato l’entrata del Self sul lato di via Bongiovanni, i parcheggi del piazzale sul lato via Modena prospicienti la vecchia entrata del Self venivamo molto meno utilizzati, così abbiamo pensato al mercato contadino a km 0, con prodotti locali a filiera corta, nello spirito della sostenibilità e del rispetto dell’ambiente. Così abbiamo contattato Campagna Amica e Coldiretti per mettere insieme un certo numero di produttori disposti a provare.
Un vero peccato che il mercato non abbia preso piede, vi dispiace?
Sì, un peccato. Dispiace che non se ne colga il valore e che i produttori vengano attirati solo dai mercati più radicati e remunerativi. Noi siamo convinti che questo mercato possa svilupparsi perché è su un crocevia molto frequentato, ma come in tutte le cose ci vuole del tempo; il mercato di Porta Paola, che ora sta andando molto bene, ci ha messo dieci anni a prendere piede e ora c’è una lunga lista d’attesa per entrare.
Le condizioni per il radicamento del mercato ci sono tutte: spazio gratuito, possibilità di parcheggio, a soli 2 km dal Castello Estense, il mercato d’abbigliamento nei pressi. Come giornale abbracciamo e sosteniamo l’iniziativa, ottima in un contesto di crisi come quello che stiamo attraversando. Qualche tua parola per promuoverla ulteriormente?
A noi piacerebbe molto dare vitalità a questa parte del piazzale. Siamo a completa disposizione, il mercato è aperto a tutti i produttori locali a km 0 che operano con metodi sostenibili e in un sistema di filiera corta. Non ci importa a quale associazione appartengono, ma siamo molto attenti al prodotto: la merce esposta deve essere al 100% quella prodotta in azienda, non si possono rivendere prodotti di altri. Per evitare un’insana concorrenza, non possiamo ospitare due bancarelle che vendono lo stesso prodotto, è una questione di correttezza; quindi ben vengano aziende che producono carne, formaggi, birra, vino, pane e tutti i prodotti del nostro territorio, compresi manufatti di artigiano locale. I produttori interessati possono contattarci direttamente o tramite le proprie associazioni. Approfitto dello spazio che ci date su questo giornale per ringraziare i coniugi Galliera che, coraggiosi e temerari, hanno di fatto tenuto in vita il nostro progetto.
Il mercato “I Sapori del Doro” si tiene nel piazzale del Centro Acquisti il Doro, dalla parte di via Modena, davanti al parcheggio del Self, il martedì e il venerdì dalle 7.30 alle 13.
Per saperne di più sull’avvio del mercato il 7 dicembre 2011 [vedi]
Per saperne di più dell’Azienda agricola Fondo Novelle visitare il sito Agrizero.it [vedi]
Per saperne di più sul Centro Acquisti il Doro visita il sito [vedi] e la pagina Facebook [vedi]
Nel 1954 nella Germania dell’Est, alcuni archivisti ritrovano casualmente in un bunker appartenuto al regime nazista un filmato muto di circa 60 minuti, senza sceneggiatura, intitolato “Il ghetto”: era un documentario girato dai nazisti nel ghetto di Varsavia nel 1942 per 30 giorni consecutivi, esattamente dal 2 maggio al 2 giugno, tre mesi prima della rivolta.
E’ la storia ripresa dal film proiettato lunedì sera al cinema Boldini (grazie alla collaborazione fra Meis, Memorial della Shoah di Parigi, Pitigliani Kolno’a Festival di Roma e Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara) nell’ambito della giornata di studio sul Ghetto di Varsavia. Titolo dell’opera “A film unfinished”, autrice l’israeliana Yael Hersonski.
Sotto gli occhi dello spettatore scorrono immagini di ebrei benestanti che sembrano totalmente indifferenti alla sorte della maggioranza della popolazione del ghetto, che vive in condizioni di estrema sofferenza: ebrei ben vestiti entrano in una macelleria, ignorando i bambini che chiedono l’elemosina oppure non prestano attenzione ai cadaveri abbandonati sul marciapiede.
Il film appare da subito una risorsa straordinaria per ricercatori e studiosi della Shoah, proprio perché si presenta come un documento originale, una fonte storica, inoltre è uno dei rarissimi filmati dei ghetti girati dai nazisti. Le pellicole vengono consegnate allo Yad Vashem di Gerusalemme creato l’anno precedente, ma non verranno mai mostrate interamente al pubblico. Nei documentari sulla Shoah si selezionano solo le scene che mostrano la grande sofferenza dei prigionieri del ghetto, mentre le scene sugli interni borghesi vengono tralasciate perché, in breve, non si sa come spiegarle. Solo alla fine degli anni Novanta, quando in Ohio due studiosi che stanno cercando materiale filmico sulle Olimpiadi di Berlino ritrovano un’altra bobina con ulteriori 30 minuti, finalmente si comprende la vera natura del documentario. Qui, infatti, si vede il lavoro dei cineasti nazisti per cercare l’inquadratura più efficace, quella più funzionale ai loro scopi propagandistici. Alcune scene sono state girate più volte, con gli ebrei costretti a recitare il ruolo di attori.
Nel 2006 Yael, studente di cinematografia e nipote di una sopravvissuta emigrata in Israele, alla ricerca della propria storia famigliare negli archivi dello Yad Vashem si imbatte in queste bobine e decide di rimontarle fedelmente, rendendo però ancora più evidenti i diversi piani di realtà e mistificazione che si intrecciano in questo documentario che è anche fiction. Per farlo ha chiesto a cinque sopravvissuti del ghetto di commentare la proiezione e ha inserito brani dai diari di Adam Cerniakov, il capo dello Judenrat del ghetto di Varsavia, della testimonianza di uno dei cameramen, Willy Wist, e dai rapporti redatti minuziosamente ogni settimana da Heinz Auerswald, il commissario nazista che sovrintendeva all’organizzazione del ghetto.
Lavori come questo sono di fondamentale importanza per aiutarci a capire quanto sia difficile utilizzare le immagini come fonti, in particolare nel caso della Shoah: siamo di fronte a immagini autentiche dal punto di vista storico, ma costruite e manipolate a fini di propaganda. A questo proposito Barbie Zelizer nel suo “Remembering to forget. Holocaust memory through the camera’s eye”, afferma che non sappiamo ancora abbastanza sul modo in cui le immagini aiutano a narrare gli eventi collettivi e su quale delle due, le immagini o le parole, riesca ad avere il sopravvento in caso di confronto fra ciò che le parole ci dicono e ciò che le immagini ci mostrano. Ancora di meno sappiamo sul funzionamento delle immagini come veicoli della memoria collettiva: le immagini aiutano a stabilizzare la natura mutevole della memoria collettiva nel cinema, nella tv e nella fotografia, però quando le si usa per dare forma al passato collettivo le difficoltà sorgono dal fatto che esse non rendono evidente come costruiscono ciò che ci fanno vedere e quindi ricordare.
È proprio questo processo di costruzione e stratificazione nel tempo che il lavoro di Yael ci aiuta a comprendere. In altre parole: non basta vedere, bisogna guardare dietro e intorno all’obiettivo, interpretare, sempre nella consapevolezza che l’inquadratura ci offre solo una particolare prospettiva della realtà.
Carissimo direttore, ti scrivo come cittadino indignato, offeso, preoccupato, arrabbiato. Come cittadino perché vedo restringersi ogni giorno di più gli spazi democratici che con tanta fatica la mia generazione, pur tra errori e presunzioni, ha tentato di aprire alla società; come progressista (se vuoi comunista) perché mi accorgo con orrore che la sinistra è morta. Se esistevano ancora dubbi in proposito, il proditorio attacco poliziesco ai lavoratori delle acciaierie di Terni – che ci ha riportato indietro ai tempi funesti di Scelba – ha dimostrato quanto sia reale il grido disperato di coloro che credono sia possibile costruire un paese non dominato dalla voracità di quattro padroni spelacchiati (e dai loro interessati scagnozzi). Mi pare che l’aggressione scelbiana di Roma sia stata una gentile concessione del nostro governo a un gruppo padronale che ai suoi tempi ha sconvolto il mondo, fornendo a Hitler le armi per ammazzare milioni di persone: sto parlando naturalmente dei Krupp, un gruppo onnivoro che presumo non dispiaccia alla Merkel. E la Merkel non dispiace al boyscout Renzi, pronto a rispolverare Bava Beccaris e a non chiedere scusa, come avrebbe potuto e dovuto fare dopo le manganellate, ai lavoratori, i quali – non dimentichiamo – sono pure coloro che lo hano portato al governo. Eletto no: il presidente Napolitano ha cancellato le elezioni, preferendo le nomine dirette, in rapida successione un-due-tre, Monti-Letta-Renzi. Ma è così: il Vangelo secondo Matteo è fatto in questo personalissimo modo, si va al potere sull’onda di una incazzatura popolare vastissima e poi, su consiglio di Berlusconi (che era considerato nemico del popolo) si cancellano i diritti dei lavoratori, tanto che il presidente degli industriali dice va bene così; ma quello che più mi sconforta, mi addolora, mi fa versare le ultime lacrime tenute in serbo per queste evenienze è l’atteggiamento dei politici (o politicanti?) di sinistra: dove sono, che cosa fanno, che cosa dicono? Un po’ di masturbazione davanti alle accomodanti telecamere e poi a casa, la minestra è pronta.
Nella mia lunga vita lavorativa, tra gli altri incarichi, ho avuto quello di direttore dei “Problemi della transizione”, trimestrale di dibattito ideologico del Pci di Bologna: scorro i nomi dei redattori e collaboratori, da Zangheri a Pietro Ingrao, erano i nomi di intellettuali di sinistra, abituati a discutere e a non avere verità preconfezionate in tasca anche se le carriere fatte avrebbero potuto concedere loro di sprecare qualche volta il pronome personale “io”. Adesso l’”io” si spreca, caro direttore, il Vangelo di Matteo ce lo in segna. Sanno tutto loro, i vari Renzi. Ma perché noi che, invece, sappiamo niente non ricominciamo a discutere, a mettere insieme un po’ di idee nuove, ma veramente nuove, lasciando a Renzi onere e onore di fare patti con Berlusconi? Proviamo a capire se, oltre il decotto capitalismo, esiste qualcosa d’altro. Proviamo.
Caro Gian Pietro, attraverso questo giornale – e quindi anche con il tuo prezioso contributo – cerchiamo ogni giorno di fare esattamente ciò che auspichi: mettere insieme un po’ di idee nuove, fornire stimoli alla riflessione e aprire spazi di confronto. La tua indignazione è condivisa da tanti, però è difficile indirizzare positivamente la rabbia per propiziare una svolta reale, un cambiamento radicale. Ci esorti ad analizzare in particolare le ragioni della crisi della sinistra. Tempo fa abbiamo avviato un’inchiesta sulla crisi della partecipazione e della rappresentanza politica, nei prossimi giorni intendiamo riprenderla con nuovi interventi e altre analisi. In fondo anche questa è una chiave di lettura dell’eclissi della sinistra, perché lo scollamento fra istituzioni e cittadini ne contraddice i valori fondanti: se non c’è condivisione e coinvolgimento della base, se anziché ampliare si riducono i luoghi di confronto e si delegano le scelte a soggetti sempre più distanti e sempre meno controllabili, si svilisce il concetto di democrazia partecipativa che è linfa e baluardo della sinistra. Vogliamo approfondire questo ragionamento, contiamo di farlo anche con l’ausilio della tua intelligenza. (s.g.)
Lo confesso: a volte, organizzo scioperi all’interno della classe. Lo so che sarebbe meglio non farlo ma, al presentarsi di certe condizioni, credo sia proprio necessario. Infatti, durante la conversazione che precede la scrittura di un testo, mi accorgo che diversi bambini ripetono spesso le parole “bello“, “buono“, “bravo” per descrivere un oggetto, una persona, una situazione, mentre io vorrei che si sforzassero nella ricerca di sinonimi più precisi.
Così, dopo averli ascoltati, improvvisamente mi alzo in piedi e, con tono deciso, annuncio che:
“È proclamato uno sciopero delle seguenti parole: bello, buono, bravo e dei loro rispettivi femminili.
Le condizioni di lavoro a cui sono sottoposte queste tre parole non sono più sostenibili.
È in atto infatti un grave sfruttamento di questi vocaboli che potrebbe portare inevitabilmente ad una omologazione dei testi e ad un appiattimento semantico.
Lottiamo tutti insieme per la ricerca delle parole giuste.“
Ormai i bambini mi conoscono e capiscono che, quando scherzo, lo faccio seriamente; per cui il messaggio gli arriva e ne tengono conto nei loro testi scritti.
Purtroppo non riesco a far così con i politici di professione: pensate che ne esistono di quelli che abusano dell’aggettivo “Buona” per definire “Buona Scuola” il loro strano miscuglio di proposte.
Riassumo brevemente i contenuti della “Buona Scuola” dal punto di vista di un “sindacalista delle parole“:
– la (quasi certa) condanna da parte della Corte di giustizia europea ad assumere docenti precari è propagandata come la più grande assunzione di massa;
– la competizione fra le scuole e l’introduzione degli “scatti di competenza” al personale esaspereranno i conflitti nella scuola senza migliorare la didattica;
– il far pagare ai privati (soprattutto alle famiglie) i costi della scuola pubblica servirà a recuperare soldi pubblici per finanziare le scuole private;
– le parole: inglese, informatica, impresa, che erano le tre parole-chiave del ministro Letizia Moratti (del governo Berlusconi), sono le stesse del ministro Giannini (del governo Renzi);
– nonostante si alluda all’importanza dell’inglese, della musica, dell’educazione motoria, un bambino o una bambina, alla fine dei cinque anni della scuola primaria, avrà effettuato meno ore di queste discipline rispetto a quelle che attualmente sono previste;
– “Fondata sul Lavoro“, che è il titolo di un capitolo della “Buona Scuola” di Matteo Renzi, ha un soggetto sottinteso, al fine di confondere e lasciar intendere che la scuola debba essere subordinata alla formazione di lavoratori e non, prima di tutto, all’istruzione ed alla formazione di cittadini.
Insomma io penso che, per rendere più chiara la definizione della “Buona Scuola”, ci sarebbe bisogno di sostituire quel “Buona” oppure di aggiungere qualche altro vocabolo per spiegarla meglio.
Dopo aver letto e studiato attentamente la proposta di Matteo Renzi ed averci riflettuto, ho deciso di fare le mie proposte. Sono indeciso fra queste tre: “Buondì Scuola” (per una scuola sponsorizzata e ricoperta di glassa); “Buona Suola” (per una scuola deteriore e collocata al giusto livello); “Affondata sul Lavoro” (per una scuola precaria e dipendente dagli imprenditori).
Dopo aver letto le proposte di Confindustria per la scuola ed aver verificato le moltissime analogie con la proposte di Renzi, l’ultima mi sembra essere quella più precisa.
Le canzoni di Luigi Lopez hanno arricchito per oltre vent’anni la scena musicale italiana, sino ad arrivare ai successi americani. Con Carla Vistarini ha scritto numerose canzoni, tra cui, “La voglia di sognare”, storica hit di Ornella Vanoni del 1974, “La nevicata del ’56” interpretata da Mia Martini, “La notte dei pensieri” per Michele Zarrillo e “Mondo” per Riccardo Fogli, primo di una lunga serie di pezzi scritti per il cantante dopo la sua uscita dai Pooh. Tra i riconoscimenti ottenuti: il premio per la migliore canzone straniera alla 8ª edizione del World popular song festival of Tokyo, con “Ritratto di donna” interpretato da Mia Martini e il 1º Primo premio assoluto alla 13ª edizione dello stesso festival (1982), con il brano “Where Did We Go Wrong”. Lopez è noto al grande pubblico anche per avere scritto e interpretato “Pinocchio perché no?”, sigla delle nuove avventure di Pinocchio, l’edizione italiana del cartone animato giapponese ispirato all’omonimo burattino di Collodi.
Quarant’anni di carriera, una vita dedicata alla musica, come hai iniziato?
Nel 1965 ero il “chitarrista elettrico” degli Shocks, il mio gruppo. In una magica serata ci esibimmo al Titan Club di Roma, come band di supporto dei mitici Gun. Alla fine della performance, vennero nel mio camerino a congratularsi nientemeno che Gianni Boncompagni e i Rokes, con Shel Shapiro in testa. Avevo fatto una buona impressione e fu Gianni a propormi di scrivere canzoni, aiutandomi con i suoi preziosi consigli. È cominciata così, poi arrivò il mio primo contratto di esclusiva con l’Apollo Records di Edoardo Vianello, che m’introdusse professionalmente nel grande mondo della Rca Italiana.
Per tanti anni Carla Vistarini ha scritto i testi delle tue musiche …
Quando cominciai ad avere credibilità come compositore, la convinsi a scrivere il testo di una mia musica. Le sue poesie mi commuovevano, perché non provare, mi chiedevo? Non fu facile farla accettare dai miei collaboratori, dai vari produttori ma bastò la sua “Mi sei entrata nel cuore”, cantata dagli Showmen, a farla entrare di diritto nella grande famiglia dei parolieri italiani.
Sei uno dei pochi autori che hanno scritto canzoni per Mina e Ornella Vanoni, una bella soddisfazione?
Due grandi antagoniste? O due insuperabili contendenti? Beh, comunque entrambe nel mio “libro dei record”. Ancora non saprei dire chi di queste due immense interpreti sia la mia preferita; me le tengo strette, strettissime nell’album delle mie soddisfazioni più preziose. Brani quali “Ancora dolcemente”, “Mi piace tanto la gente”, “La voglia di sognare”, come potrei mai decidere per l’una o per l’altra? Impossibile!
“Delfini”, in altre parole l’incontro con Domenico Modugno e Franco Migliacci, che ricordo hai della vostra collaborazione?
Modugno, Domenico, Mimmo, chiamiamolo come più ci piace, il grande “Mr. Volare” aveva davvero le ali. Durante la registrazione non volle che sulla sua voce fosse messo nessuno dei tecnologici effetti che avrebbero potuto aiutare la sua performance. Straordinario e insuperato maestro.
“Here I go again”, interpretata da Julie Anthony, ha vinto dischi d’oro in giro per il mondo, così come “Another chapter” eseguita da John Rowles …
Si tratta di ennesimi regali della mia fortunata avventura americana. Ero in vacanza a Londra, davanti a Buckingham Palace, intento ad ammirare il cambio della guardia, quando alle mie spalle sentii qualcuno intonare un’inconfondibile melodia, c’era una ragazza con le guance punteggiate di lentiggini, che canticchiava la mia “Here I go again”, in quei giorni al top delle classifiche in Australia.
Al World popular song festival di Tokyo hai vinto con “Where did we go wrong”…
Nel 1982 rappresentavo gli Usa e vinsi il primo premio, il “Golden grand prize”, con la mia canzone “Where did we go wrong” eseguita da Anne Bertucci, con i versi di Nat Kipner (primo produttore dei Bee Gees e straordinario autore) e l’arrangiamento di Jimmie Haskell (arrangiò “If you leave me now” dei Chicago).
“La nevicata del ‘56” fu eseguita per la prima volta al Cenacolo della Rca italiana?
“La nevicata del ’56” fu scritta non meno di 35 anni fa con la collaborazione di Fabio Massimo Cantini. Non potevo immaginare che Carla Vistarini ponesse su quelle nostre semplici note, una vera e propria “poesia”, un affresco di Roma, evocativo di un evento indimenticabile, che la canzone ha contribuito a fissare per sempre nell’immaginario e nei ricordi di tanti italiani. Fu Gabriella Ferri (era il 1975 o giù di lì …) ad ascoltare per prima la nostra canzone. Con la mia chitarra e un’indicibile emozione la eseguii seduto al centro di una stanza del Cenacolo, il piccolo “ateneo musicale” voluto dalla Rca, per favorire gli incontri e gli scambi di idee fra gli “emergenti” della cosiddetta “scuola romana”. Gabriella Ferri era accompagnata dal suo produttore Piero Pintucci, invitata espressamente per ascoltare quella che le era stata annunciata come la canzone “perfetta”, per proseguire la serie dei suoi successi legati a Roma. Ricordo come fosse ieri il silenzio che si creò durante l’ascolto, e alla fine Gabriella mi abbracciò commossa: aveva gli occhi bagnati di lacrime. Contrariamente alle attese, la nostra canzone rimase nel cassetto per oltre quindici anni, fino ai giorni che precedettero la partecipazione di Mia Martini al Festival di Sanremo 1990, dove conquistò il meritatissimo premio della critica.
Luigi Lopez oggi?
Con mio figlio Riccardo è nata un’intesa musicale assai promettente, lo scorso anno la nostra canzone “Sailor”, cantata da Riccardo, ha scalato le classifiche di tutte le radio web, staremo a vedere …
La foto in evidenza, scattata a Manciano (Grosseto), è di Giuseppe Barbagallo e Carlo Paoletti
Non c’è pace in casa Bejzaku, Giuba è tornata da poco, ha ottenuto l’asilo politico, ma suo marito Afrim, agli arresti domiciliari da nove mesi nella loro abitazione di Berra, dove vivono con quattro dei cinque figli ancora minorenni, rischia di essere rimpatriato in Kosovo. “La scarcerazione è prevista l’11 di novembre, se non mi concederanno l’asilo richiesto circa un mese fa, l’epilogo potrebbe essere davvero disastroso per la mia famiglia – racconta – Mi hanno già destinato al Cie di Milano e poi mi spediranno in Kosovo, mia terra d’origine dove non ho più un parente. Siamo tutti in Italia, ci abito dal 1985, ho comprato l’abitazione dove risiedo, i miei figli sono nati e vanno a scuola qui”. La sua è una lotta contro le lancette dell’orologio, tra una settimana potrebbe ritrovarsi dietro le sbarre del Cie (Centro di identificazione e espulsione) di Milano, ultima stazione prima di tornare in Kosovo. “Se la risposta non arriverà in tempo o sarà negativa o tutte e due le cose, mi sarà impedito di mettere piede in Italia per 10 anni, così dice la legge”, spiega.
La prospettiva non lo entusiasma di certo, per quanto rom, apolide, la sua vita è ormai nel Basso ferrarese. Nel bene e nel male. “Fino a due anni fa non ho avuto problemi con il permesso di soggiorno, lavoravo con incarichi rinnovati di volta in volta, poi mi sono ritrovato a spasso – continua – automaticamente sono diventato un clandestino”. Nell’arco di un breve tempo ha totalizzato un paio di espulsioni, racconta, ed è cominciata una battaglia a colpi di ricorsi per opporsi ai provvedimenti di legge. E’ stato un susseguirsi di perquisizioni, controlli, foto segnaletiche arricchite, racconta, da una “gita” al Cie di Roma. “Non mi hanno trattenuto a causa di un problema di salute certificato, così dopo poche ore sono rientrato in città insieme ai carabinieri”, spiega.
Due uomini, un’auto e diverse ore per un’andata e ritorno a vuoto a Fiumicino. Una telefonata avrebbe potuto evitare il piccolo ma sostanziale dispendio di soldi pubblici e di tempo improduttivo per il personale delle forze di pubblica sicurezza? Chissà, ancora una volta comunque gli evidenti limiti della “Bossi-Fini” e della sua applicazione riverberano sulle tasche del contribuente. La missione si è rivelata più o meno inutile e si incastona nella complicata questione migratoria, che dovrebbe esser valutata con diversi pesi e misure a seconda dei casi incontrati. Ma siamo ancora all’anno zero e le emergenze finiscono con l’inghiottire vecchi e nuovi problemi dell’accoglienza.
Non tutte le storie sono uguali, ricorda Afrim ripercorrendo la sua e, soprattutto, quanto è accaduto dopo aver lasciato il Cie romano. “Sembrava mi dovessero lasciare in stazione con 30 euro in tasca, li avrei dovuti usare per tornare, erano meno della metà del costo del biglietto. Un’assurdità – prosegue – A un certo punto c’è stato un contrordine, mi hanno portato a Copparo in guardiola, doveva essere l’anticamera di un espatrio diretto deciso dall’Ufficio Immigrazione di Ferrara”. Nella notte le condizioni di salute di Afrim si sono fatte critiche. “Perdevo sangue, a quel punto hanno chiamato l’ambulanza. L’infermiera, dopo aver chiesto cosa fosse successo, disse subito che si trattava di una sceneggiata, lo fece senza neppure attendere la diagnosi di un medico – continua – Fui ricoverato per quattro giorni a Cona. Quella prima notte, in attesa delle visite di routine, ho dovuto sopportare le battute di chi in ospedale attribuiva l’emorragia all’aver ingoiato dei palloncini pieni di droga. Furono gli stessi carabinieri a difendermi, a spiegare che non ero in stato di arresto e la droga non c’entrava nulla. Umanamente parlando è stato un approccio orribile”. Era l’inizio di novembre del 2013, quella notte, ricorda, quattro militari dell’Arma piantonarono la sua stanza per poi scomparire alle 11 del mattino. “E’ difficile dimenticare – conclude – non si pretende solidarietà, ma almeno il rispetto della persona. Certe cose, soprattutto quando si tratta di illazioni, non possono essere taciute e hanno il sapore di un dichiarato razzismo”.
Tanto tempo fa mi fu chiesto di scrivere un pezzo su Giorgio La Pira, avendolo studiato come tra i padri costituenti, ed oggi mi sento spinto a richiamarlo anche perché il nostro Presidente del Consiglio su La Pira ci ha scritto la sua tesi di laurea.
Sappiamo tutti che stiamo vivendo un periodo complesso e complicato e che gli ultimi anni non ci hanno aiutato ad uscire dalle nostre criticità. Un Paese ancora bloccato sulle sue contraddizioni, chiamato ad un “cambiare verso“ in un percorso che però si mostra pieno di resistenze, in cui poteri e lobby trasversali impediscono quel necessario processo di ammodernamento. L’Italia, e l’Europa a cui siamo fortemente legati, non potrà più continuare a farsi trascinare nella palude degli eterni conflitti.
Se questo è, e non appare solo in superficie, serve un supplemento dell’anima, e cioè serve entrare dentro ai problemi, inserirsi nel tessuto sociale, quello vero, che vive la dura quotidianità famigliare; occorre capire e coglierne i sentimenti, le passioni, i dolori, le tribolazioni, ma anche le speranze di nuove generazioni che si sentono lontane ed abbandonate. Ricordare chi sta ai confini della convivenza civile o chi ci può cadere, chi ha sì il lavoro ma precario, frammentato, turbato e quasi senza una visione. Oggi serve capire queste condizioni difficili del vissuto e insieme riportarle alla dignità della persona umana.
Consigliare a Matteo Renzi di rileggersi la sua tesi di laurea, potrebbe forse rinvigorire il suo pensiero e rafforzarne le motivazioni, per condurci finalmente fuori dal guado. Ciò non impedisce di essere severi e severissimi con i privilegi, la corruzione, quelle governance diffuse e moltiplicate, piene di intrallazzi, di costi impropri, di continue diseconomie e di carsiche minacce a tagliare i servizi, che si possono e si debbono evitare rimodellando le organizzazioni e riallocando le risorse.
C’è un passaggio storico tra La Pira e Mattei su una difficoltà aziendale a Firenze che potrà essere di aiuto, un esempio; ma anche tanti altri aspetti che forse si ritrovano in quella accennata tesi di laurea.
Lasciamo questa proposta e questa possibilità al nostro Presidente e forse, partendo da qui, quel cambiare verso troverebbe un sentimento che a volte la politica dimentica con estrema facilità; ciò dovrebbe servire anche per gli altri interlocutori che spingendo troppo non aiutano ad uscire dal guado dove ci siamo fermati per troppo tempo.
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