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LA RIFLESSIONE
Internet, un ambiente ‘wow’

Una riflessione sulla rete come ambiente e sulle implicazioni che ciò comporta a livello cognitivo, identitario, relazionale: questo l’intervento di Maura Franchi ieri pomeriggio alla sala Agnelli della biblioteca Ariostea.
Il punto di partenza è considerare internet non più come uno strumento che si può decidere di usare o non usare, ma iniziare a considerarlo un ambiente, cioè “qualcosa di imprescindibile, perché non possiamo fare a meno di abitarlo”. È un passaggio che i cosiddetti nativi digitali non hanno più nemmeno bisogno di fare perché il loro uso delle tecnologie è del tutto intuitivo, non è una questione anagrafica, ma di capacità: la “discontinuità” è segnata dal fatto che l’utilizzo delle tecnologie digitali ormai “è inscritto nei loro schemi mentali”.
La questione diventa quindi essere consapevoli dell’ambiente in cui ci muoviamo, saperne riconoscere sia i rischi sia le opportunità, e compiere così il passo successivo: “dal rifiuto e dalla paura all’inclusione e alla cittadinanza”.
Quali sono dunque le implicazioni a livello di identità e di relazioni? Ormai abbiamo superato la distinzione on/off line, siamo continuamente ‘all line’, per questo la rete è diventata il luogo non solo della “narrazione del sè”, ma della nostra “costruzione identitaria”: l’identità perciò non si forma più attraverso l’interazione con gruppi sociali ben definiti, ma attraverso la condivisione con un numero ampio, aperto e indefinito di persone. Il risultato è un’identità senz’altro più fluida e plurale, ma più precaria e incerta. È infatti inevitabile chiedersi se l’aumento di persone con cui entriamo in contatto significhi una maggiore libertà di confrontarsi con diverse prospettive, oppure implichi il rischio di essere spinti verso identità preconfezionate, perché internet registra ciò che si fa e dice ciò che si vuole. È probabile che siano vere entrambe le cose e che l’importante sia rendersi conto che sta a noi utenti, per rimanere nella metafora dell’ambiente, decidere quale strada prendere. In altre parole la rete è evidentemente una risorsa di relazione, ma è necessario essere consapevoli che la distribuzione di capitale sociale rimane ineguale, da qui la necessità di possedere competenze sociali per gestire i diversi contesti e il moltiplicarsi delle interazioni.
L’altra domanda che si è posta Maura Franchi è che tipo di ambiente sia la rete: è “il paese dei balocchi”, ma non nel senso che forse molti di voi immagineranno. Il web è “un luogo ricco di stimoli”, “non completamente riferito al qui e ora del quotidiano”, in cui avviene “uno spostamento simbolico e pratico verso un’area ludica” e “un’ibridazione gioco-vita”. Il punto di contatto con il processo di apprendimento è “l’eterna sorpresa”: in fondo l’apprendimento è anche “la sorpresa, la meraviglia di conoscere una cosa che prima non si sapeva”. Perché non cercare di sfruttare tutto ciò come molla all’azione e all’apprendimento informale? La chiave è insomma stimolare pratiche condivise e un uso generativo, non passivo, della rete.

L’OPINIONE
La sentenza dell’Aquila/1 Il pro: dagli all’untore

Il Gran Magro, personaggio del romanzo di Gesualdo Bufalino “Diceria dell’untore”, ammetteva paradossalmente l’esistenza di Dio affermando che “non c’è colpa senza colpevole”. E quando il colpevole non si trova o non esiste proprio capita spesso che se ne inventi uno, scelto a caso fra i nemici della comunità, meglio se esterni ad essa. Gli untori, appunto. Come se la presenza di un colpevole esorcizzasse la paura ancestrale di una maledizione divina oppure, al contrario, potesse garantire l’indispensabile capro espiatorio per placare le divinità irate. Perché gli uomini non sopportano l’idea che il loro destino possa essere governato dal caso (il caos primigenio, di cui è fortuito anagramma), al punto che hanno preferito sottomettersi agli dei, accettandone le bizzarrie, pur di evitarlo.
Così per secoli, prima dei lumi, ha funzionato la giustizia: per garantire alla plebe inquieta e spaurita che un colpevole era stato individuato, messo nella condizione di non nuocere, giustamente punito e che nulla c’era quindi più da temere. Migliaia di poveri negromanti, apostati, streghe, satanisti sono stati crudelmente immolati per soddisfare questo bisogno irrazionale di sicurezza. Tempi remoti e bui, ignoranza e superstizione per fortuna passate, dirà qualcuno. Purtroppo, dovremmo accorgercene aprendo i giornali ogni mattina, anche mille anni sono troppo pochi per cambiare nel profondo l’animo umano, che, nei momenti più acuti di crisi e di incertezza, tende inesorabilmente a manifestare impellenti esigenze di rassicurazione, esprimendo la medesima sostanziale indifferenza sul modo in cui vengono soddisfatte. Oggi il rogo da fisico è diventato mediatico o, semmai, giudiziario, ma sempre un rogo rimane.
La sentenza di primo grado al processo de L’Aquila, che condannava la commissione Grandi Rischi perché rea di non aver previsto il terremoto nonostante i presunti segnali premonitori, mi è sempre sembrata una decisione pesantemente inquinata dall’emotività e funzionale allo scopo di placare una comunità attonita e smarrita, che aveva bisogno di colpevoli per darsi una ragione di un evento altrimenti inesplicabile. Non che in quella tragedia di colpe a cui fosse possibile associare un nome ed un cognome non ce ne siano, a cominciare da chi ha costruito senza rispettare le regole o da chi non ha vigilato abbastanza per dolo o per ignavia, ma ciononostante molti preferirono fare propria l’idea che l’imprevedibile potesse essere in realtà previsto e che questo non avvenne per colpa specifica di chi non colse i segni che erano stati inviati. Questa interpretazione, che contrasta platealmente con quanto affermano unanimemente gli scienziati a livello mondiale, esclude tuttavia la comunità colpita da ogni possibile responsabilità, in quanto chi aveva sbagliato non ne faceva parte, mentre lo stesso non si può dire per gli esponenti politici e i tecnici comunali che non avevano vigilato o per gli imprenditori che avevano mal costruito. Significativa a tale proposito l’affermazione del procuratore generale riportata dalla stampa, che per rispondere a chi lo accusava di voler “processare la scienza” afferma: “Non un processo a degli scienziati, ma a dei ‘funzionari dello Stato’ per non aver analizzato correttamente tutti i rischi di quei giorni. Non dolo ma omicidio e lesioni colpose”. Come se, oltretutto, la ricognizione dello status giuridico degli imputati sia rilevante ai fini di ciò che può o non può essere previsto.
Con la sentenza d’appello, almeno così a me pare, viene ristabilita una interpretazione razionale dei fatti e cade per intero l’accusa ai tecnici di non aver saputo prevedere il sisma, mentre rimane in piedi quella alla protezione civile per non essersi almeno precauzionalmente allertata. Dispiace che negli oltre cinque anni trascorsi dal 6 aprile 2009 molte persone avessero ormai interiorizzato come causa principale dei lutti provocati dal sisma l’incapacità dei tecnici di saperlo prevedere, complice in questo una pubblica opinione che spesso tende ad assecondare acriticamente la ricerca di un colpevole ad ogni costo, e che quindi si sono sentite tradite dalla nuova sentenza.

L’OPINIONE
La sentenza dell’Aquila/2 Il contro: un altro disastro senza colpevoli

A due giorni dalla sentenza che ha assolto i sette della commissione Grandi Rischi, L’Aquila fa i conti con l’assenza di un colpevole per il disastro del 6 aprile 2009…
C’è una parola che, ieri mattina, ha invaso le aule del Tribunale de L’Aquila: “vergogna”. Vergogna per lo Stato. Vergogna per gli imputati condannati e poi assolti. Ma, soprattutto, vergogna per un processo la cui sentenza ha sollevato dure proteste contro la Corte d’Appello del capoluogo abruzzese, divenuta oggetto di fischi e urla al termine dell’udienza tenutasi lunedì 10 novembre 2014.
Questa la rabbia dei cittadini presenti in aula ieri mattina, quando il magistrato Fabrizia Francabandera e i giudici a latere Carla De Matteis e Marco Flamini hanno letto la sentenza che ha assolto i componenti della Commissione Grandi Rischi condannati in primo grado a sei anni di reclusione. La sentenza, riaccendendo i riflettori sulle tragiche conseguenze del terremoto che rase al suolo L’Aquila il 6 aprile 2009, ha così ribaltato la conclusione cui era giunto Marco Billi due anni fa. Il giudice monocratico, infatti, aveva ritenuto colpevoli gli imputati per omicidio colposo plurimo e lesioni colpose, disponendo anche le pene accessorie dell’interdizione dai pubblici uffici ed dell’interdizione legale durante l’esecuzione della pena.
Una decisione severa che, pur dando adito ad alcune perplessità, nasceva dalle false rassicurazioni fornite alla popolazione aquiliana cinque giorni prima del disastroso sisma, cui la commissione sarebbe giunta nel corso di una riunione svoltasi il 31 marzo 2009. Ed è proprio quella riunione a essere entrata nel mirino delle critiche e delle proteste che, in queste ore, affollano le televisioni e i blog, scavando tra i fantasmi di un evento dai retroscena confusi e accusando una giustizia sempre più lontana dalle aspettative dei cittadini. Infatti, se per il giudice di primo grado l’incontro si era concluso con “affermazioni assolutamente approssimative, generiche e inefficaci in relazione ai doveri di previsione e prevenzione”, la Corte d’Appello de L’Aquila ha ribaltato la sentenza giudicando incolpevoli gli scienziati e gli ex vertici della Protezione Civile nazionale che, quel 31 marzo, avrebbero rassicurato imprudentemente i cittadini del capoluogo abruzzese.

Alla base della decisione, l’insussistenza del fatto per il direttore del Centro nazionale Giulio Selvaggi, l’allora vicepresidente della commissione Franco Barberi, il direttore dell’ufficio rischio sismico di Protezione civile Mauro Dolce, l’ordinario di fisica all’università di Genova Claudio Eva, il direttore di Eucentre Gian Michele Calvi e l’ex capo Ingv Enzo Boschi, il quale ha rilasciato le proprie osservazioni alla stampa nazionale. “E’ chiaro fin da ora che è una sentenza molto importante. Il giudice è stato coraggioso” ha affermato il geofisico al termine dell’udienza, che, dei sette condannati in primo grado, ha rinnovato la pena solo per Bernardo De Bernardis: due anni di reclusione per l’allora vice di Guido Bertolaso alla Protezione Civile, accusato della morte di tredici persone. “Se fossi stato il padre di una delle vittime avrei fatto la stessa cosa. Una vittima è sempre una vittima. Non ho mai contestato nulla” ha rivelato il condannato alla stampa, approvando una decisione le cui ragioni restano oscure.
D’altronde, le motivazioni della sentenza verranno depositate solo nell’arco di novanta giorni. Solo allora verrà reso pubblico l’iter logico e giuridico che ha spinto la Corte a rigettare l’impianto dell’accusa dopo sette ore di camera di consiglio, nonostante le indiscrezioni abbiano rivelato alcune notizie importanti. Notizie che vedono nella manipolazione mediatica la reale causa di quelle disastrose conseguenze che, cinque anni fa, derivarono dal sisma de L’Aquila, il quale provocò 309 morti e il crollo di un’intera città. “Nessuno ha detto: state tranquilli perché non ci sarà un terremoto. E se anche fosse stato detto, manca il passo successivo, ossia non c’è stata la comunicazione alla popolazione” ha chiarito l’avvocato Carlo Sita, le cui parole sono state condivise da Massimo Giannuzzi: “C’è stato un corto circuito mediatico con le dichiarazioni di De Bernardinis prima della riunione inserite in un articolo sul post-riunione” ha aggiunto il secondo legale degli imputati.
Colpa della stampa, dunque? La domanda, dopo lo shock iniziale, rende il caso appare più spinoso di quanto possa sembrare alla luce delle decise contestazioni scoppiate in Tribunale ieri mattina. Dallo sconcerto del procuratore generale Romolo Como alla “ferita indescrivibile” dell’ex Presidente della Provincia de L’Aquila Stefania Pazzopane, dai pianti dei cittadini indignati alla rabbia di chi è convinto che gli abitanti della città siano stati “uccisi una seconda volta”: il dolore di chi, in una notte, ha perduto le serenità della propria vita quotidiana chiama in tribunale la Giustizia e la pone davanti alla disperazione delle vittime, che, dopo cinque anni, devono fare i conti con decine di inchieste e pochi colpevoli.

La sentenza emessa ieri non rappresenta solo la fine di uno dei tanti processi che hanno cercato – e cercano – di far luce sui misteri de L’Aquila e sui retroscena di un evento offuscato da troppi fantasmi. Essa apre le porte a un vero interrogatorio che vuole fare chiarezza sull’indirizzo adottato da una Giustizia apparentemente sempre più lontana dalla tutela di chi invoca i propri diritti.
Il discutissimo caso Cucchi e l’assoluzione dei boss dei Casalesi accusati di minacce allo scrittore Roberto Saviano e alla giornalista Rosaria Capacchione sono solo alcuni dei processi che hanno dimostrato come la Giustizia possa giungere a soluzioni inaspettate, tali da farci solidarizzare con le vittime e il loro dolore. Processi che ci spronano a invocare una ricerca più accurata delle prove e una soluzione che, per la magistratura, non sempre è possibile realizzare.

Ma, nella sentenza de L’Aquila, forse c’è di più. La privacy dei documenti e delle conclusioni cui giunsero gli imputati il 31 marzo 2009 aprono le porte a una riflessione che, per chi cerca i colpevoli di quel tragico disastro, è del tutto inaspettata. Ipotesi tralasciata dal giudice di primo grado, essa è sembrata riaffiorare in appello, ribadita dallo stesso Giannuzzi. A due giorni di distanza, con l’indignazione dei cittadini ancora viva e l’accusa contro Bertolaso per un processo parallelo a quello appena terminato, l’ipotesi di una diversa visione dei fatti prende piede. E, quando le motivazioni ci saranno rivelate, forse comprenderemo le conclusione che ha dissolto i fantasmi della vicenda. Forse, anche noi, comprenderemo come la fatalità degli eventi, talvolta, ci faccia arrendere a una natura che, per quanto i tentativi di domarla possano essere avanzati, rimane e rimarrà una forza imprevedibile.

Lo scolo e altri incidenti. Le letture ‘contro’ di Tiziano Scarpa

Vent’anni di Feltrinelli a Ferrara. Il compleanno è proprio oggi. Il programma di eventi per la celebrazione del ventennale della libreria si è aperto già nei giorni scorsi con l’interventi, fra gli altri di Tiziano Scarpa.
Pagine spassose ma anche serie, raccontate con sentimento e con perizia, con minuziosità quasi tecnica, accompagnate da una gestualità vivida e ricca, che fluisce senza intoppi regalando riflessioni surreali e delicate, struggenti e umoristiche. A raccontarle, uno Charlot dal pacato accento veneto, un Premio Strega che introduce la sua ultima opera letteraria, “Come ho preso lo scolo”. Comica e surreale, ironica – qualità fortemente raccomandabile in uno stile di vita, assicura – e verista. “Vengo contattato da una rivista pop-medica, patinata. Hai una malattia da raccontarci? mi viene chiesto. Ripercorro mentalmente la mia storia medica – imbarazzantemente senza grossi problemi, unica cosa degna di nota la scarlattina. Sino a quando, dopo alcuni momenti di pensiero libero, non racconto di essermi preso lo scolo, con tutto il parterre psicologico e imbarazzanti disavventure personali che ne seguono”.

Ma questo è solo l’anticipo di una lettura scenica che si rivela riflessiva, senza essere pretestuosa: Scarpa osserva il mondo attraverso una vicenda personale mostrandoci qualcuno che fa rientrare il linguaggio dentro di sé attraverso le proprie esperienze restituendolo al pubblico. Stimolare il lettore a sfondare le sue esperienze personali per andare oltre, aprire una singola anta di una finestra e incoraggiarlo ad aprire la seconda. Così racconta di come, durante una lettura pubblica in piazza a Treviso contro ordinanze razziste pane quotidiano delle amministrazioni leghiste – il razzismo istituzionale che limita l’uguaglianza di fatto tra le persone – arrivi a interrogarsi sul valore della voce e sull’importanza del microfono e, in generale, di qualunque strumento di amplificazione della voce quale mezzo del potere – quale veicolo della possibilità di farsi ascoltare, negata ai più.
La voce è strumento, che necessita però di farsi sentire ed essere trasmessa, per essere completamente realizzata. Ne esistono molti esempi: da San Francesco, che in una delle sue prediche zittisce le rondini, a Mussolini, che utilizza per la prima volta il microfono nel 1926, al fenomeno dell’urlatore Beppe Grillo, e sullo stretto legame tra strumenti di comunicazione e potere.

Ne è perfetto esempio la manifestazione pacifica del 2011 Occupy Wall Street contro gli abusi del capitalismo finanziario. Privati del microfono in virtù di una legge interpretata restrittivamente, risolvono il divieto creando uno human mike, un microfono umano, causando un effetto a catena nella ripetizione di una stessa frase, partendo da molti singoli per poi “contagiare” gruppi sempre più folti. Nel quale l’ascolto non è passivo ma rende chiunque responsabile e partecipe di ciò che dice, in quanto ogni persona è veicolo e primo passo verso il diffondersi di un contenuto. Diffusione che è virale, secondo una classica definizione della sociologia contemporanea, ma che porta, a differenza dell’ambito da cui è presa in prestito – quello medico – qualcosa di buono e inaspettato. Portandogli in dono, attraverso il romanzo Stabat Mater. Una sorpresa: un romanzo ambientato nella Venezia del XVII secolo ambientato in un definito lirico e intimista, nato anch’esso da una storia personale – il luogo di nascita di Scarpa, un ex orfanotrofio musicale – viene regalato dal Comitato Nazionale per il diritto alle Origini Biologiche ai componenti della Commissione di Giustizia della Camera dei Deputati mettendo in discussione una legge la cui assurdità – la possibilità, da parte delle persone orfane, di essere messe a conoscenza della propria famiglia di origine al compimento dei 99 anni di età – nega di fatto questo diritto a chiunque voglia conoscere le proprie origini; e diventando simbolicamente il luogo – l’unico – in cui il silenzio è ammesso, cioè la lettura.

Perché forse, come suggerisce Travaglio, le vittime della censura non sono solo i personaggi imbavagliati per evitare che parlino, ma anche e soprattutto quei cittadini che non possono più far sentire la propria voce.

L’OPINIONE
Politica indecente

Quarantuno consiglieri regionali su cinquanta dell’Emilia Romagna sono indagati dalla magistratura per aver effettuato spese private con i soldi pubblici. Alcune precisazioni sono d’obbligo. Le accuse vanno provate. Gli indagati hanno il diritto di dichiararsi innocenti. Non tutti gli indagati sono sullo stesso piano per i reati attribuiti: alcuni sono clamorosamente scandalosi, altri forse frutto di superficiale disattenzione. Fatte queste doverose premesse garantiste, il giudizio politico e morale sull’intera vicenda deve essere severo. L’immagine di una Regione dal passato virtuoso ne esce a pezzi. Dopo il flop di partecipazione alle primarie del Pd, c’è da aspettarsi un crollo della partecipazione al voto. Questo sarebbe un dato negativo di per sé, perché si tratterebbe di una conferma della drammatica crisi di legittimità della politica e di sfiducia verso chi la rappresenta nelle Istituzioni. Come stanno reagendo i candidati? Intanto, va registrato l’errore di Bonaccini nel non aver preteso dai candidati un certificato di totale estraneità rispetto alle indagini in corso. E così troviamo nella sua lista la sgradevole presenza di indagati. Ciò che, però, è più grave è lo svolgimento della campagna elettorale: fiacca, di nessun interesse pubblico, silente sulle cause antiche del degrado che la magistratura sta evidenziando. La sinistra nella nostra regione vantava una riconosciuta diversità sul piano della dirittura morale, del rigore e della serietà dei suoi politici. Oggi, per l’opinione pubblica sono tutti uguali. E in questo mare inquinato della cattiva politica, pescano a piene mani gli avventurieri dell’antipolitica. Non si accusi di qualunquismo chi denuncia amareggiato questa deriva. Si metta, invece, mano ad una vera e severa autoriforma dei partiti fatta di recupero di onestà, competenza, passione civile, dedizione al bene pubblico. Insomma, come diceva un vecchio amico, quando sul cruscotto si accende la luce rossa che segnala pericolo, bisogna cercarne la causa e i responsabili, non dare una martellata al cruscotto…

Fiorenzo Baratelli direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara

L’INCHIESTA
Salute a rischio. Morelli:
il benessere è nell’equilibrio
delle energie vitali

2. SEGUE – Riprendiamo il nostro viaggio nei sentieri della medicina alternativa.

“Se mettiamo una pianta al buio con una luce laterale, la pianta cresce seguendo il fascio luminoso. Così sostanzialmente si comporta ogni essere vivente: per sopravvivere adatta i propri equilibri alle condizioni ambientali, tendendo a un nuovo equilibrio che però può anche essere causa di patologie: la pianta, per esempio, piegandosi potrebbe cadere e morire”.
A parlare è il dottor Marco Morelli, un medico che una decina d’anni fa ha abbandonato il lavoro ambulatoriale e ospedaliero e ha avviato collaborazioni con vari colleghi e centri di cura in giro per l’Italia. E’ operativo a Padova, Mantova, Milano, Roma e nel fine settimana anche a Ferrara, dove risiede. Il dottor Morelli ha focalizzato i suoi studi andando alla ricerca di soluzioni a casi per i quali la medicina tradizionale fatica a trovare risposte.
“Sono sempre stato affascinato dalle capacità del nostro organismo di gestire il proprio equilibrio dinamico e ho maturato la convinzione che ogni malattia, sia, in prima istanza, il venir meno della capacità di preservare tale equilibrio energetico. Per questo mi sono orientato sulla biofisica e sugli effetti dei campi pulsati nella medicina, perseguendo il riequilibrio psico-neuro-endocrino-immunologico del paziente”

Tradotto per una persona che non ha particolari cognizioni mediche, come si può esplicitare il concetto?
Possiamo parlare di riequilibrio neuro-motorio globale che perseguiamo attraverso un approccio olistico, cioè considerando l’organismo nella sua complessità e nelle sue interazioni. La vera terapia consiste nel fornire l’informazione giusta per ritrovare l’equilibrio biofisico perduto. Dal 2003 mi sono avvicinato agli studi biofisici all’Università di Firenze, trovando subito riscontri clinici a questa mia idea. Per la verità l’idea è vecchissima e già Marconi aveva intuito che un tessuto malato emetteva un campo elettromagnetico diverso da un tessuto sano.
Il corso di neuroscienze che ha riorientato il mio metodo terapeutico ha chiarito che le patologie hanno alla base uno stress legato a neurotrasmettitori. L’esempio, per capirci, è l’effetto fototropico nelle piante a cui facevo riferimento prima. Per gli animali è la stessa cosa: attraverso meccanismi neuroendocrini gli ormoni dello stress, in particolare il cortisolo, esercitano una funzione determinante nell’alterare le difese immunitarie e i riflessi motori, nel diminuire la memoria…

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Il dottor Marco Morelli

Si tratta di acquisizioni recenti?
A questa consapevolezza si è giunti già negli anni Settanta, grazie a ricerche sul cortisone. Cito in particolare un noto esperimento. Alle cavie cui era stato regolarmente somministrato, il cortisone aveva indotto ipertensione, ipertrofie delle ghiandole surrenali, ulcere. Paradossalmente gli stessi effetti furono rilevati anche su due cavie che, scappando, si erano sottratte all’esperimento: anche loro, quando vennero ritrovate, mostrarono gli stessi sinotomi delle altre, pur non avendo assunto cortisone. Anziché decretare il fallimento dell’esperimento si comprese ciò che era accaduto: se ne dedusse cioè che scappare, nascondersi, non mangiare, era stata la causa scatenante che aveva prodotto i medesimi effetti del cortisone iniettato in vena. Ciò ha portato a concludere che quando l’organismo si adatta allo stress altera i propri equilibri e genera processi patologici.

E questo cosa significa?
Che lo squilibrio energetico è in grado di causare la malattia. Senza negare la validità della quattromila pagine della ‘Patologia generale medica’, si può ammettere questo assunto. D’altra parte è stato lo stesso Roger Penrose, celebre fisico quantistico, a porre in relazione l’entropia, il caos dell’energia nel sistema e la malattia. Direi che il bisogno di riequilibrare le energie nasce da qui.

Quali tipi di patologie può curare questo tipo di approccio?
La bioenergia trova il suo miglior impiego in tutti i casi di squilibrio posturale favorendo il riequilibrio nei casi in cui si manifestano fenomeni di dismetria. Il trattamento è utile a recuperare le situazioni di stress correlate e a favorire la ripresa del controllo neuro-motorio sia a livello fisico che psichico. È efficace nei casi di lombalgia, sciatalgia, cervicalgia; nel trattamento delle cefalee; degli esiti di fratture, artrosi, ernia discale, sindrome tunnel carpale, rachialgia, fibromialgia, scoliosi, artrite. La metodologia non è invasiva, è indolore, è priva di effetti collaterali. I risultati sono duraturi.

Immagino non siate in tantissimi a seguire questo approccio…
Lei dice in Italia? Vero. In Austria, come in Germania, Ungheria, Slovenia nelle università e negli ospedali si applicano le teorie biofisiche ai campi elettromagnetici pulsanti, con metodologie analoghe a quelle che pratichiamo noi.

Presumo però che la gran parte dei suoi colleghi mostri una certa diffidenza, o sbaglio?
Sì, mi ha letto nel pensiero. Ma è comprensibilissimo. Queste cose nelle università italiane non si insegnano. Ma a Bochum, per esempio, vicino a Dortmund, c’è un grande centro di eccellenza per lo studio e la cura delle neuro-degenerazioni accreditato della Comunità europea, un complesso ospedaliero a otto piani dove si utilizza anche un sistema di medicina integrata come quella che applichiamo noi per trattare Parkinson, Sla, eccetera. Ma anche a Vienna si pratica normalmente la terapia biofisica.
Però c’è molta diffidenza. Persino un’autorità come il Nobel per la Medicina Luc Montagnier ora che si occupa di omeopatia ed elettromagnetismo viene guardato con sospetto. Oltretutto sta sviluppando anche studi interessantissimi sulle staminali, con la prospettiva di generare cellule a minor costo. Ma questo forse non piace all’industria farmaceutica…

Ci sono stime o statistiche su quanti malati scelgono questo tipo di approccio alternativo?
No, siamo troppo piccoli per essere oggetto di stime o statistiche. Nel corso di neuroscienze che ho seguito a Firenze e che ha orientato la mia pratica medica saremmo stati in 30 o 40. Per come funziona l’università italiana si indirizzano gli studi affinché le persone si adeguino tutte all’utilizzo di una certa tecnica. Girando il mondo mi sono accorto però che c’erano anche altre metodiche.

Come procede la ricerca?
Gli ultimi studi sono sui vari tipi di onda e sugli effetti che ciascuno può produrre: dalle recenti valutazioni, abbiamo visto che il segnale ciclotronico di ogni ione ha una sua funzione. Classificando gli effetti, si genera una banca dati che consente di applicare per ogni specifico caso il tipo di energia più appropriata alle necessità del soggetto.

Questo consente di risolvere anche quelle patologie che la medicina tradizionale fatica ad affrontare?
Sì. La medicina convenzionale non riesce in certe patologie a trovare la causa eziologica, perché se esulo da un’alterazione che possiamo immaginare chimica la medicina tradizionale si ferma.

E a riguardo delle nuove malattie cosiddette autoimmuni qual è il suo pensiero? Ha senso definire alcune patologie ‘autoimmuni’ o è una formula salvifica adottata dalla classe medica per non ammettere la propria attuale incapacità di affrontare quel particolare disturbo?
L’autoimmunità e un’alterazione del sistema immunologico che agisce contro componenti del nostro organismo. La medicina convenzionale si ferma a questa evidenza. La ricerca sta progredendo, ma per quel che so un po’ a senso unico, poiché si cerca di individuare la proteina in grado di instaurare il processo di alterazione del linfocita, che è la cellula che gestisce la reazione immunologica. E si sta vedendo che ci sono virus in grado di alterare il genoma, cioè le caratteristiche genetiche dei linfociti.
Spesso si trattano queste malattie neurodegenerative, autoimmuni o reumatiche con cortisonici che abbassano il livello delle difese immunitarie, con l’idea che riducendo l’attività immunitaria conteniamo anche le risposte e l’aggressione autoimmune.
Ma se di un deficit immunologico stiamo parlando, si tratta di un deficit di energia. Ecco, allora la necessità di una ‘fasizzazione’, come la chiamano i fisici, cioè di un riequilibrio energetico che dobbiamo propiziare, perché è proprio l’equilibrio dei campi elettromagnetici che induce un corretto bilanciamento degli elementi vitali.

CONTINUA

LEGGI LA PRIMA PARTE DELL’INCHIESTA:
(Salute a rischio: “Ripristinare l’equilibrio bioenergetico e disintossicarsi”)

LA CURIOSITA’
La piadina romagnola ora è Igp

La piadina romagnola è tradizionalmente cotta sulla ‘teggia’, un piatto di terracotta, ma più semplicemente si utilizza una piastra di metallo o di pietra refrattaria, il ‘testo’. I primi a cucinarne una versione rudimentale sono stati gli Etruschi, i quali furono i pionieri nella coltivazione e lavorazione dei cereali e quindi nella produzione di “sfarinate”, che somigliavano molto al “pane” di Romagna, anch’esso preparato senza lievito e cotto su una piastra di metallo o di pietra.
Le rudimentali piade continuarono a essere prodotte anche nell’antica Roma, dove rappresentavano un cibo da ricchi perché dovevano essere mangiate appena cotte; già dopo qualche ora, infatti, diventavano dure e non masticabili, quindi non erano adatte ai plebei che, invece, necessitavano di un alimento a lunga conservazione.

Nella “Descriptio Provinciæ Romandiolæ”, il Cardinal legato pontificio Anglico de Grimoard, ne fissa per la prima volta la ricetta: “Si fa con farina di grano intrisa d’acqua e condita con sale, si può impastare anche con il latte (per rendere la pasta più soffice e friabile) e condire con un po’ di strutto”.
Le varianti prevedono l’aggiunta del bicarbonato, dell’olio d’oliva e del miele. Una volta pronto, l’impasto è diviso in piccole porzioni da stendere con il matterello. Per quanto riguarda il sale, negli ultimi anni viene sempre di più utilizzato quello di Cervia (Ravenna), famoso per la purezza del cloruro di sodio e l’assenza di altri sali, più amari, contenuti normalmente nell’acqua di mare. Anche Virgilio cita la piadina nel VII libro dell’Eneide quando scrive di una “exiguam orbem”, un disco sottile che una volta abbrustolito era diviso in larghi quadretti. Il grande poeta romagnolo Giovanni Pascoli ne parla nella sua poesia intitolata “La piada” (tratta da “I nuovi poemetti”): “Ma tu, Maria, con le tue mani blande domi la pasta e poi l’allarghi e spiani; ed ecco è liscia come un foglio, e grane come la luna […]”.
La piadina è un cibo semplice, che nel corso dei secoli ha identificato e unificato la terra di Romagna sotto un unico emblema, passando da simbolo della vita rustica e campagnola (pane dei poveri) a prodotto di largo consumo. Il termine piada (localmente piê, pièda, pìda) da cui il diminutivo piadina deriva da una parola italiana settentrionale piàdena “vaso”, dal latino medievale plàdena o plàtena, da plathana, a sua volta dal greco pláthanon ossia piatto lungo, teglia.

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La pizza fritta può sostituire la piadina romagnola

La piadina può sostituire il pane per accompagnare moltissimi piatti, in primis i salumi (prosciutto, salame, salsiccia stagionata o coppa), i ciccioli di maiale, la porchetta, la salsiccia cotta alla brace o alla piastra (con la cipolla). E’ consigliata anche con lo squacquerone, un formaggio fresco a pasta molle tipico della Romagna, fatto di latte vaccino intero crudo e cagliato, di origine rurale, che ha conquistato i palati più esigenti. Una tipica farcitura consiste nell’abbinare il prosciutto insieme alla rucola e allo squacquerone oppure quest’ultimo con fichi caramellati. Alcune varianti dolci prevedono la spalmatura di crema gianduia, confettura o crema di nocciole spalmabile.

Un’altra tipica preparazione è quella del crescione, basata sull’omonima erba, che si trova lungo i fossati. La sfoglia è farcita, ripiegata e chiusa prima della cottura. Per renderla più saporita, nel ripieno, sono aggiunti aglio, cipolla o scalogno. Questa tradizione deriva dal largo uso che si è sempre fatto nella cucina romagnola delle erbe, comprese le foglie della barbabietola o bietole. L’alternativa moderna al crescione alle erbe è rappresentata da quello ripieno di pomodoro e mozzarella. Negli ultimi anni si è diffuso il cosiddetto ‘rotolo’, preparato farcendo una piadina sottile che è poi avvolta su se stessa.
Una buona abitudine romagnola è quella di gustare la piadina così com’è, servita in un foglio di carta, utile per assorbire l’unto in eccesso. E’ venduta in appositi chioschi, diffusi in tutta la Romagna, caratteristici perché colorati a bande verticali, con colori standardizzati per le varie località. La piadina è possibile trovarla anche confezionata, presso la grande distribuzione.

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La piadina è differente da zona a zona

A seconda della zona di preparazione, ci sono alcune differenze tra piadina e piadina, per quanto riguarda la forma e la consistenza. Nel ravennate e nel forlivese è spessa e soffice, mentre nel riminese è più sottile e talvolta di diametro leggermente maggiore.
Nel 2013 è nato il Consorzio di tutela e promozione della piadina romagnola, fondato da quattordici produttori in rappresentanza di tutta la zona di lavorazione consentita dal Disciplinare di produzione: le tre province di Ravenna, Rimini e Forlì-Cesena e parte della Provincia di Bologna. In sintesi esistono due varianti di questo prodotto, che da pochi giorni ha ottenuto il riconoscimento e quindi la registrazione del marchio Igp (Indicazione geografica protetta): la piadina terre di Romagna e piada romagnola (variante di Rimini).
Il suggello definitivo è arrivato dalla Direzione generale agricoltura della Commissione europea, l’organo preposto alla registrazione delle Denominazioni di origine, che, dopo averlo pubblicato sulla Gazzetta ufficiale, ha dato il via libera al Regolamento di registrazione (Gazzetta ufficiale Ue, Regolamento N. 1174/2014).
Il Disciplinare della piadina riminese prevede uno spessore fino a 3 mm e un diametro da 23 a 30 cm; e per la piadina delle terre di Romagna uno spessore da 4 ai 10 mm e un diametro inferiore dai 15 ai 30 cm.

La politica gassosa e l’appetitoso Quirinale

Come scrive Massimo Cacciari sull’Espresso, in tempi di politica liquida, e forse già allo stato gassoso, è usuale il lamento sulla qualità della classe dirigente nostrana.
Gli esempi, solo negli ultimi tempi, non mancano.
Se si presta orecchio alle indiscrezioni filtrate dal Quirinale e sulle intenzioni del presidente della Repubblica, che i bene informati danno particolarmente irritato, di lasciare anzitempo l’incarico vista l’inconcludenza sulle riforme, quella elettorale in testa, il festival delle dichiarazioni è in pieno terreno paradossale.
E’ da quando c’era al governo Berlusconi che Giorgio Napolitano predica, invano, che serve una nuova legge elettorale.
Ora che, dopo la sentenza della Corte, l’Italia è rimasta con l’invertebrato Consultellum e con un percorso riformatore che rischia l’approdo con ben un sistema di voto per ciascuno dei due rami del Parlamento, invece di un’autocritica per l’imperdonabile inerzia su un tema che torna nel dibattito politico con la stessa ciclicità del mito dell’eterno ritorno, si assiste sbigottiti alla fiera delle autocandidature per il Quirinale, con tanto di sconcertante lotteria dei nomi: la donna, il giovane, l’outsider, l’uomo di esperienza, il tecnico, quello non sgradito … Manca solo la casalinga di Voghera e poi siamo a posto.
Se anche la prima carica dello Stato rientra nell’avanspettacolo è davvero un problema.
A proposito di legge elettorale, senza entrare nel merito dell’ultima proposta sul tavolo, basta ascoltare un qualsiasi tg negli ultimi giorni per far precipitare in caduta libera qualsiasi mento. Ciascuno cerca di scaricare sull’altro la responsabilità dello stallo. Da una parte, al Pd (che qualcuno già chiama PdL, Partito della Leopolda), la colpa di cambiare in corsa le regole di un patto del Nazareno, che nessuno ha mai visto scritto da nessuna parte. Per contro, la palla viene rilanciata nella metà campo dell’altro PdL, nel quale il leader non riuscirebbe più a tenere i suoi e dove, come profetizzato da Corrado Guzzanti, ognuno fa un po’ come gli pare.
La conclusione è che si sentono dichiarazioni modello premi un bottone, che potrebbero essere buone per qualsiasi argomento: “Se c’è la reale intenzione di sedersi al tavolo e dialogare costruttivamente per cercare una soluzione noi ci siamo, con tutta la determinazione e la coerenza che abbiamo sempre dimostrato”. Naturalmente sempre al servizio del Paese.
Immaginiamo che al termine delle illuminanti parole il cameraman, perché ormai è inutile un giornalista, sia pronto a dare uno zuccherino, come si fa con i cavalli di razza.
Per quanto ci riguarda, telecamere e taccuini potrebbero cominciare a fare a meno di inseguire questo bla bla da calo glicemico, anche solamente per vedere l’effetto che fa. Chissà che pure nelle redazioni non inizi una sana spending review e si usino risorse, professionalità ed intelligenze, per le notizie vere.
Nel frattempo, in questa bolgia si riaprono inaspettatamente dei varchi, ad esempio, per fare scendere la soglia di sbarramento fino al livello del prodotto interno lordo nazionale, così possono continuare ad entrare allegramente nella mangiatoia anche gli organismi monocellulari.
Un altro esempio imperdibile arriva dalla campagna elettorale per la Regione Emilia-Romagna.
Se qualcuno ha visto il Tgr in queste sere ha potuto ascoltare gli spot dei vari candidati.
C’è chi è per la valorizzazione del territorio, chi per favorire gli insediamenti produttivi, chi per la ricerca e l’innovazione, chi dinamicamente vuole il voto per voltare pagina e chi, anche in pochi secondi, incespica sulle poche parole.
Il massimo lo raggiunge quello che non resiste alla tentazione di dare una sbirciatina sul foglio che tiene rigorosamente fuori campo, lasciando trasparire dallo sguardo il panico di perdersi nel pur breve viaggio mentale tra un soggetto e il predicato verbale.
La sensazione, in generale, è di trovarsi di fronte a quel tale che tempo fa disse: “Non sono venuto da Lodi per lodarvi, né da Piacenza per piacervi. Sono venuto da Chiavari”.

LA TESTIMONIANZA
Fuga dal confine orientale

Fuga dal confine orientale è il senso di una tragedia dolorosa che il lunghissimo tempo della guerra fredda ha lasciato nell’ombra e che, a seguito della caduta del muro di Berlino e della dissoluzione della Jugoslavia del dopo Tito, si è pensato bene di ricordare e non solo per la storia ma per la profondità di sentimenti perduti.

Mi è capitato di leggere un piccolo libretto bianco*, offertomi in un incontro amichevole, dove il consegnatario si è spinto nel dire “…se hai tempo di leggerlo”, quasi a sottolineare che di quelle tragedie umane e familiari quasi nessuno si occupa più.
A riguardo, preme fare una carrellata sul contenuto del libro e coglierne i passi più significativi che debbono servire ad ognuno di noi, anche in questi anni difficili di convivenza, dove non sempre i sentimenti si colgono nelle persone.
D’altronde moltissimi ignorano quanto è accaduto ai confini orientali tra il ’43 e il ’45 e oltre (Dalmazia, Istria, Pola, Fiume), nulla si sa dell’esodo dei 350.000 profughi e dei 10.000 gettati nelle foibe realizzando la prima pulizia etnica del dopoguerra, per estinguere qualsiasi segno di italianità su quelle terre.

Ecco allora riportati alcuni brani:
“[…] ma mancano i soldi anche per comprare lo stretto necessario. La gente si lamentava sottovoce e solo con persone fidate perché c’era gran paura in giro. Ogni tanto spariva un amico, un parente o un conoscente senza lasciare nessuna traccia.”

“[…] nella mia famiglia, polenta e patate erano il cibo quotidiano, ma papà cercava sempre di rasserenarci facendo tacere ogni piccola voce discordante. Siamo italiani e dobbiamo rimanere tali, senza rinnegare niente, non dobbiamo lamentarci.”

“[…] era comune il dolore di lasciare gli amici e i luoghi cari della nostra infanzia. Quella notte non si è dormito. Si passava da un letto all’altro chiedendo: “ Tu cosa dici? Che cosa ci accadrà? Dove andremo?”.

“[…] ho subito l’amputazione degli affetti familiari, ho accettato la privazione della libertà, ho sopportato dure discipline ma la mia adolescenza così assoggettata mi ha formato e ne sono stato fiero: oggi mi sento moralmente obbligato a far da testimone di vicende che sono state tenute nascoste.”

“[…] ricordo ancora con un brivido, perché sento ancora nelle orecchie, il fischio dei proiettili sparati mentre raggiungevo il rifugio scavato nella roccia.”

“[…] Ora il mio filo di ricordi mi riporta là: ad ogni soffio di vento sento la bora, le stelle che vedo nel cielo sono le stesse del cielo della mia Fiume e sempre nel cuore li porterò.”

Che dire se non chiedere perdono e richiamare quanto detto recentemente: “… la nuova consapevolezza esige che le vicende dei confini orientali, con la dovuta conoscenza delle foibe, entrino a far parte della nostra formazione pedagogica”, e ancora, “… l’olocausto degli italiani di Istria e Venezia Giulia, uno dei punti più acuti delle tragedie che l’Europa ha conosciuto nel ‘900.”

E sulla pulizia etnica in questi mesi non mancano drammi e tragedie: dai Paesi africani al Medio oriente, dal Sud est asiatico a luoghi quasi sconosciuti, ma la coscienza degli uomini e le organizzazioni internazionali restano ancora nel silenzio.
Ma fino a quando dovremo lottare per la dignità umana? E’ la risposta che tutti siamo chiamati a dare, e non solo per pacificare la nostra coscienza.
La guerra sembra, ancora, un grido inascoltato.

* “Fuga dal confine orientale, memorie di in esilio. Ricordo di una tragedia dolorosa: un popolo, diversi destini” di Alceo e Nidia Ranzato (edizione in proprio)

Ecosistema urbano, verso
una mobilità a basso tasso
di motorizzazione

E’ stato di recente pubblicato il report annuale Ecosistema Urbano (XXI edizione) sulla vivibilità ambientale dei capoluoghi di provincia italiani realizzato in collaborazione con l’Istituto di Ricerche Ambiente Italia e Il Sole 24 Ore. Un tema di grande attualità e importanza. Dal rapporto emerge come le città italiane in cui si vive meglio sono Verbania, Belluno, Bolzano, Trento e Pordenone. Legambiente evidenzia come anche in queste città alcuni indicatori risultino non completamente positivi. Per Trento la criticità è data dall’inquinamento dell’aria, per Belluno e Verbania la salute della rete idrica e per Udine la depurazione delle acque. Purtroppo l’Emilia Romagna in passato punto di riferimento importante ora non c’è più.
Ecosistema Urbano, quest’anno si concentra in modo particolare sulla qualità delle politiche ambientali dei capoluoghi di provincia, per osservare come le amministrazioni locali gestiscono la mobilità, la gestione dei rifiuti e delle acque e, in generale, la qualità del proprio territorio. Le analisi di Legambiente evidenziano come le città italiane vadano a tre velocità: lente, lentissime e statiche. Gli indicatori selezionati da Legambiente sono 18 (104 capoluoghi di provincia italiani) così distribuiti: tre indici sulla qualità dell’aria (concentrazioni di polveri sottili, biossido di azoto e ozono), tre sulla gestione delle acque (consumi, dispersione della rete e depurazione), due sui rifiuti (produzione e raccolta differenziata), due sul trasporto pubblico (il primo sull’offerta, il secondo sull’uso che ne fa la popolazione), cinque sulla mobilità (tasso di motorizzazione auto e moto, modale share, indice di ciclabilità e isole pedonali), uno sull’incidentalità stradale, due sull’energia (consumi e diffusione rinnovabili).
Quattro indicatori su diciotto selezionati per la classifica finale (tasso di motorizzazione auto, tasso di motorizzazione moto, incidenti stradali e consumi energetici domestici) utilizzano dati pubblicati da Istat. L’intero rapporto è scaricabile sul sito di Legambiente.
Vittorio Cogliati Dezza, presidente nazionale di Legambiente, in premessa dice: “Quello che serve è una sintesi che superi la frammentazione e mostri una capacità politica di pensare e di immaginare un modo nuovo di usare il territorio e consumare l’energia, un altro tipo di mobilità a basso tasso di motorizzazione e con alti livelli di efficienza e soddisfazione, spazi pubblici più sicuri, più silenziosi, più salutari, più efficienti e meno alienanti, dove si creino le condizioni per favorire le relazioni sociali, il senso del vicinato, del quartiere, della comunità. Per imboccare questa strada serve un impegno del Paese, un piano nazionale che assegni alle città un posto di primo piano nell’agenda politica, una capacità reale di semplificare e delegiferare, migliorando i controlli.”

ECOSISTEMA URBANO
XXI Rapporto sulla qualità ambientale dei comuni capoluogo di provincia

L’INTERVISTA
Alleluja e Tresette, il western di George Hilton

George Hilton (al secolo Jorge Hill Acosta y Lara) è nato e vissuto in Uruguay, dove ha iniziato a lavorare giovanissimo come attore di teatro, sino a quando si è trasferito in Argentina (a Buenos Aires), per sviluppare la sua carriera artistica.
L’esordio nel cinema italiano risale al 1965 con “Due mafiosi contro Goldfinger” e “I due figli di Ringo”, due parodie con protagonisti Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, ma sarà con il successivo “Le colt cantarono la morte e fu… tempo di massacro”, di Lucio Fulci, che George Hilton inizierà a diventare uno dei protagonisti della fortunata stagione del cinema italiano, conosciuta come “Spaghetti-Western”.

Si è trattato di un filone cinematografico molto in voga nel periodo tra il 1964 e il 1978, un genere che rompeva la visione mitica ed epica del western classico, introducendo una struttura narrativa più dinamica, esasperando la violenza e lo spargimento di sangue al servizio dell’antieroe, quasi sempre privo di ideali e solitamente spinto da interessi personali o vendicativi. Basti pensare ai personaggi interpretati da Clint Eastwood nella trilogia del dollaro e da Franco Nero in “Django”, in contrapposizione agli “eroi” americani: John Wayne, Glenn Ford o al Gary Cooper di “Mezzogiorno di fuoco”. Il risultato di quest’operazione fu che i western made in Usa improvvisamente sapevano di muffa.
Caratterizzati da budget ridotti all’osso, gli “spaghetti” venivano spesso girati in Spagna, nel deserto di Tabarnas in Almería, altri invece furono ambientati ai confini tra Lazio e Abruzzo.
Tra le varianti più significate del genere ci furono il gotico, dove gli scenari cupi e cimiteriali sostituivano la tipica solarità degli scenari western (“I quattro dell’apocalisse” di Lucio Fulci), sino ad arrivare a peplum, brillante, thriller e al weir western, in cui potevano convivere cowboy e dinosauri.
Al genere è stato reso omaggio, nel corso della 64° Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia del 2007, con una retrospettiva di 32 titoli. Il padrino dell’operazione è stato il regista statunitense Quentin Tarantino.

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Alleluja e Tresette

Nel 1967 George Hilton partecipa a sette produzioni del filone Western, tra cui “Il tempo degli avvoltoi” e “Professionisti per un massacro” di Nando Cicero, assumendo spesso il ruolo di protagonista e iniziando ad avere successo anche fuori dai confini nazionali.
In quel periodo diventa una delle maggiori star del cinema italiano, lavorando al fianco di Franco Nero, Klaus Kinski e Van Heflin. Il suo personaggio più noto è quello di Alleluja, creato dalla penna di Tito Carpi e dal regista pugliese Giuliano Carnimeo (si firmava con il nome di Anthony Ascott), protagonista di: “Testa t’ammazzo, croce… sei morto, mi chiamano Alleluja” e “Il west ti va stretto, amico… è arrivato Alleluja”.

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Nel personaggio di Tresette

“Testa t’ammazzo …” segna una svolta nel western di Carnimeo, che comporta anche un cambiamento nella contestualizzazione storico-geografica; non sarà il West degli anni ottanta del XIX secolo, ma il Messico della seconda metà degli anni sessanta. George Hilton è l’interprete ideale di questo nuovo sottogenere, grazie al suo fare brillante e scanzonato. Il regista pugliese confezionerà su misura per lui il personaggio di Tresette: “Lo chiamavano Tresette… giocava sempre con il morto” del 1973 e “Di Tresette ce n’è uno, tutti gli altri son nessuno” del 1974.

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Il carillon in “Lo chiamavano Tresette…”

Nel primo film incuriosisce l’enorme carillon che il protagonista porta con sé, chiaro riferimento al duello finale di “Per qualche dollaro in più” di Sergio Leone, dove si sfidano Clint Eastwood, Lee Van Cleef e Gian Maria Volontè. “Alleluja” e “Tresette” rappresentano l’evoluzione del western ironico di Enzo Barboni e dei personaggi di “Trinità”. Si tratta di film divertenti, senza pretese, ma dinamici e privi dei tempi morti, di cui gli emuli di Sergio Leone abbondavano nelle loro pellicole, per riempire evidenti vuoti di sceneggiatura.

Qualche domanda a George Hilton. Quali sono stati i registi più importanti con cui ha lavorato in Italia?
A Lucio Fulci devo il mio primo successo nel cinema con “Tempo di massacro” e a Enzo G. Castellari l’incremento di questo successo. Sergio Martino mi ha dato la possibilità di “cambiare pelle”, perché non si poteva vivere di solo western, soprattutto per un attore come me che veniva dal teatro.

Michelangelo Antonioni e Vittorio De Sica, cosa la lega a questi due grandi registi?
Ero tra i candidati per la parte di protagonista di “Professione reporter” di Antonioni, ma non ho potuto farlo perché la distribuzione americana impose Jack Nicholson. Per quanto riguarda il maestro De Sica, all’epoca mi convocò per interpretare una parte ne “Il giardino dei Finzi Contini” ma alla fine fu preferito Fabio Testi, perché ritenuto più adatto in quel ruolo.

Che ricordo ha di Franchi e Ingrassia, con cui ha lavorato agli inizi della sua carriera in Italia?
Di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia conservo un grande ricordo, sia come attori sia come amici.

Ha sempre avuto un buon rapporto con il suo pubblico, ieri le lettere e oggi Facebook…
Ho sempre avuto un grande feeling con i miei fan, ma oggi grazie a Facebook i contatti sono cresciuti ancora di più, fino al punto di ricevere ogni giorno un’infinità di attestati di stima, che mi fanno enorme piacere e di cui ringrazio tutti di cuore. Oggi dopo 60 film da protagonista, girati in tutto il mondo, mi sento un uomo appagato e fortunato. Ringrazio il destino che mi ha fatto venire in Italia, che è la mia patria di adozione.

L’EVENTO
Olga Peretyatko
a Bologna: una voce
per Rossini

Ennesimo viaggio, ennesimo articolo di giornale. Su una rivista patinata italiana scopro un evento importante e interessante a Bologna, con un altrettanto interessante artista.
Forse, vivendo a Mosca, sono particolarmente attenta agli scambi culturali italo-russi, ma per chi fosse nei paraggi, potrebbe essere davvero uno spettacolo unico, da non perdere. Tanto più che è gratuito (e interattivo) e che al Conservatorio di Mosca, dove canterà il prossimo 7 dicembre, non si trovano biglietti.

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Locandina dell’evento

Si tratta del soprano Olga Peretyatko, artista russa trentaquattrenne, innamorata del bel canto e di Rossini, in particolare, e italiana d’adozione, per il suo matrimonio con il maestro Michele Mariotti, direttore dell’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna, con il quale vive e lavora, in totale simbiosi. E si tratta dello spettacolo che si terrà al Teatro Manzoni di Bologna, il 15 novembre alle 18, intitolato “Una voce per Rossini”.

Figlia di un cantante lirico, Olga è nata e cresciuta sul palcoscenico, nella romantica, leggiadra e artistica San Pietroburgo, iniziando la sua carriera musicale all’età di 15 anni, nel coro giovanile del celebre teatro Mariinsky. Ha proseguito i suoi studi presso la Hanns Eisler-Hochschule für Musik di Berlino e vinto numerosi premi internazionali. A partire dal 2007, si è esibita al Deutsche Oper Berlin, al Théâtre des Champs-Elysées a Parigi, a La Fenice di Venezia, al festival dell’Opera di Rossini di Pesaro, al Festival La Folle Journée di Nantes.

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In scena

Ha guadagnato l’attenzione internazionale grazie a l’”Usignolo”, la prima opera teatrale scritta da Igor Stravinskij, nell’acclamata produzione di Robert Le Page alla prima del Festival di Aix-en-Provence nel 2010, e alla sue successive performance a Toronto, New York, Lione e Amsterdam. Ha ricoperto il ruolo di Adina ne “L’elisir d’amore” a Lille, di Lucia di Lammermoor al Teatro Massimo di Palermo, di Gilda nel Rigoletto a La Fenice di Venezia. Nel 2011, Olga Peretyatko ha debuttato come Giulietta (“I Capuleti e i Montecchi”) a Lione e Parigi, nel 2014, alla Scala di Milano (nel ruolo di Marfa, in “Una sposa per lo Zar”), e al Metropolitan di New York (nel ruolo di Elvira, ne “I Puritani”), nel 2015, sarà Violetta nella “Traviata” all’Opera di Losanna. Il soprano ha un contratto con una nota casa discografica e il suo primo cd singolo “La Bellezza del Canto” con arie di Rossini, Verdi, Donizetti, Massenet e Puccini, del 2011, è stato accolto da grande successo di pubblico e critica. Lo stesso per il suo secondo album, “Arabesque”, dell’estate 2013. Oggi è nota e applaudita.
In un’intervista, il soprano ha dichiarato: “devo molto all’Italia, e in particolare a Rossini, perché tutto è iniziato a Pesaro, nell’estate 2006, quando Alberto Zedda mi scelse per interpretare la Contessa di Folleville nel Viaggio a Reims realizzato dalla sua Accademia rossiniana. E già in quell’occasione suonava l’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna. Con questa serata, voglio ringraziare anche loro, che mi sono stati vicini fin dall’inizio della mia carriera, oltre a Bologna, che poi è diventata la mia città”.

“Una voce per Rossini”, Olga Peretyatko a Bologna in uno show multimediale, orchestra del Teatro comunale di Bologna, direttore da Alberto Zedda.

Dalla funambolica aria della Contessa di Folleville, dal Viaggio a Reims alla scena del carcere, dal Tancredi, passando per la grandiosa pagina “Bel raggio lusinghier”, durante la quale Semiramide attende l’arrivo dell’amato. C’è l’eterna e multiforme musica di uno dei più amati compositori italiani al centro dello spettacolo multimediale “Una voce per Rossini”, in programma sabato 15 novembre alle 18 al Teatro Manzoni di Bologna, con ingresso libero fino a esaurimento dei posti disponibili. Protagonista il soprano russo Olga Peretyatko, insieme all’Orchestra del Teatro Comunale cittadino diretta da Alberto Zedda.  [vedi]

La censura, da Totò
a Marlon Brando

Nelle nostre società più evolute gli artisti sono liberi nella loro espressione. Eppure in Italia un film, per poter essere proiettato in sala, ha bisogno di un nulla osta che viene rilasciato da una Commissione di ‘esperti’ del Ministero beni attività culturali e turismo, Direzione cinema.
Il nulla osta si può non concedere, negando dunque ad un autore/artista la possibilità di mostrare al pubblico la sua opera e causando un enorme danno economico alla produzione.

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Locandina dell'”Ultimo tango a Parigi”

Il caso forse più clamoroso fu nel 1972 con “Ultimo Tango a Parigi” di Bernardo Bertolucci: “la commissione non può non rilevare con vivo rincrescimento, come la crudezza e la virulenza del dialogo e l’audacia e lo spinto realismo di talune sequenze si risolvano in una indiscutibile offesa a quel buon costume […]esprime parere contrario alla sua proiezione in pubblico.” Solo dopo una serie di tagli fu concesso il divieto ai 18 anni, peraltro un solerte magistrato arrivò al vero e proprio rogo delle pizze e il film fu recuperato grazie ad una copia privata nell’archivio del regista tedesco Reiner Fassbinder.

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Locandina di “Totò che visse due volte”

Stessa sanzione subì il film di Ciprì e Maresco “Totò che visse due volte”, per il quale nel non lontano 1998 così ci si espresse: “Si ravvisa una forzatura che vuole degradare la dignità del popolo siciliano […] offensivo del buon costume […] esplicito atteggiamento di disprezzo per il sentimento religioso, squallore di scene sacrileghe e di sessualità perversa e bestiale […]”. Toni da Inquisizione che si commentano da soli. Alla fine il Consiglio di stato, cui ricorsero, riconobbe il loro diritto.

 

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Locandina di “Totò e carolina”

Fu censurato anche Monicelli, che disse: “Il più massacrato dei miei film, e forse più di tutti i film dell’epoca, è “Totò e Carolina”, in cui c’era una satira della polizia, del clericalismo e una specie di esaltazione umoristico-comica delle sezioni comuniste.”
Per inciso, moltissimi film di Totò furono peraltro censurati con divieti 14/16/18 anni, povero Principe De Curtis…
Ancora nel 2012 è stato negato il nulla osta a un piccolo film indipendente, parodia dello splatter, “Morituris”, facendone peraltro la fortuna come pubblicità, perché “negli atti di violenza viene impiegato un topolino come oggetto sessuale”, la commissione non colse evidentemente la ironia.
Ma il danno forse maggiore deriva dal Testo unico della radiotelevisione, che prevede che i film vietati ai 14 possano andare in onda solo dopo le 22,30, e quelli ai 18 solo dopo la mezzanotte. La autocensura dei produttori e degli autori è immaginabile: avere o no un divieto fa infatti cambiare radicalmente il valore commerciale del film, inducendo gli autori ad una prudenza che spesso nuoce alla loro libera espressività.

Nonostante i recenti tentativi riformatori dei ministri Veltroni e Urbani, la censura resta lì. E considerando le frontiere illimitate del web, dell’home video etc., appare oramai anacronistica e obsoleta. Pronta però ad artigliare la libertà degli autori più coraggiosi o eretici, e quella del pubblico, cui viene negata la libertà di scelta.

Il gioco stavolta è indovinare il film nel quale è detta la battuta e l’attore che la pronuncia. In qualche caso tra parentesi un suggerimento… per le risposte clicca qui.

1) “La più sorprendente scoperta che ho fatto subito dopo aver compiuto sessantacinque anni è che non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare!”

2) “Molti uomini hanno vita di quieta disperazione: non vi rassegnate a questo, ribellatevi, non affogatevi nella pigrizia mentale, guardatevi intorno. Osate cambiare, cercate nuove strade.” [leggi la risposta]

3) “Amare significa non dover mai dire mi spiace”

4) “Un tizio che faceva un censimento una volta provò ad interrogarmi. Mi mangiai il suo fegato con un bel piatto di fave ed un buon Chianti”

5) “Mamma diceva sempre: la vita è come a una scatola di cioccolatini, non sai mai quello che ti capita.”

6) “Io ho viste cose che vuoi umani non potreste immaginarvi… e tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. E’ tempo di morire.”

7) “Ma tu conosci il tedesco? ‘No, ma me lo immagino.” (Un classico della commedia italiana, uno dei

8) “È la storia della mia vita: se c’è una ciliegia col verme, tocca sempre a me.” (Il più famoso film della più amata di Hollywood)

9) “Pare che tu sappia molte cose di me… sai che non porto le mutandine, non è così Nick?”

10) “Voi gridavate cose orrende e violentissime e voi siete imbruttiti. Io gridavo cose giuste e ora sono uno splendido quarantenne.”

11) “Quando un uomo con la pistola incontra un uomo con il fucile, quello con la pistola è un uomo morto.”

12) “Non mi assomiglia pe’ gnente.”

IL FATTO
L’India e il ministero dello Yoga

Nell’ambito di un rimpasto di governo, ieri, il premier indiano, Narendra Modi, ha istituito un dicastero che avrà il compito di promuovere le pratiche ascetiche e meditative e le medicine tradizionali, in particolare Ayurveda, Yoga, Unani, Siddha e Omeopatia (si chiamerà Ministero dell’AYUSH). È la prima volta che un tipo di medicina ascetica e non tradizionale copre un ruolo ministeriale indipendente dalla Sanità pubblica. E poteva accadere solo in India.
Modi, vegetariano e salutista, pratica lo yoga da sempre, ogni giorno al su risveglio alle 4h30, e vorrebbe che il mondo intero riconoscesse il valore di questa pratica. A settembre scorso, aveva persino chiesto all’Onu di considerare la proclamazione di una ‘giornata mondiale dello yoga’. In occasione dell’incontro con Obama, durante il viaggio in America, il presidente indiano ha vantato con lui i meriti di questa disciplina indiana tradizionale. Intervenendo domenica scorsa in occasione del congresso mondiale dell’ayurvedica, medicina tradizionale praticata in India, il primo ministro ha dichiarato: “lo yoga ha acquisito un riconoscimento mondiale per coloro che vogliono vivere senza stress e scelgono di avere un approccio olistico della salute (…) La medicina ayurvedica porterà agli stessi risultati se sarà presentata in modo corretto come stile di vita”. Per la gioia dei milioni di praticanti lo yoga nel mondo.

Ayurveda: medicina tradizionale utilizzata in India fin dall’antichità.
Yoga: pratiche ascetiche e meditative. Nel linguaggio corrente, s’intende un insieme di attività che spesso poco hanno a che fare con lo Yoga tradizionale, che comprendono ginnastiche del corpo e della respirazione, discipline psicofisiche finalizzate a meditazione o a rilassamento.
Unani: forma di medicina tradizionale praticata nei paesi mediorientali e del sud asiatico.
Sidda: termine sanscrito che significa «realizzato, ottenuto o perfetto». Secondo la filosofia indiana, il Siddha è colui che ha raggiunto la perfezione.
Omeopatia: medicina naturale, non convenzionale.

Principali tipi di Yoga
Lo yoga, come tutte le discipline di ricerca di sé stessi, dovrebbe iniziare con un rituale, preciso e sempre uguale, che “circoscrive” e focalizza le energie positive, crea uno spazio “sacro” in cui il praticante può liberamente muoversi, “sacralizzando” così tutto ciò che esegue. Anche i grandi saggi di tutte le tradizioni iniziatiche insegnano che uno spazio è sacro, nel momento in cui è dichiarato tale. Praticando yoga in una stanza è importante cambiare l’aria e accendere un bastoncino d’incenso. Si può mettere una ciotola d’acqua ai quattro lati, per purificare le quattro porte della vita: i punti cardinali. Ci si rivolge al Cielo sopra di noi e alla Terra sotto che sostiene, poi al Sud, all’Ovest, al Nord e all’Est, con la coscienza che a Est sorge il sole, quindi è da quel punto che inizia la nascita dell’adepto e il suo conseguente cammino verso la conoscenza.

Ci sono vari tipi di Yoga:
Il Karma Yoga, lo yoga dell’azione, si fonda sul servizio disinteressato: il praticante si dedica ad agire senza aspettarsi il frutto delle proprie azioni, ovvero agisce per il bene comune, per migliorare l’ambiente intorno a sé e aiutare il prossimo senza fini egoistici.
Il Jinana Yoga, lo yoga della conoscenza, si è sviluppato attorno allo studio sistematico delle scritture antiche legate allo yoga.
Il Bhakti Yoga, lo yoga della devozione, si sviluppa attorno alle pratiche appunto “devozionali”. La devozione è l’emozione che si sperimenta quando il nostro cuore comincia a battere con il ritmo dell’Amore Incondizionato.
L’Hata Yoga, forse il più conosciuto, in quanto si sviluppa intorno alle asana, le posizioni, e alle tecniche di respirazione, pranayama. Oggi è spesso praticato in modo semplificato nelle palestre ma anticamente comprendeva esercizi anche estremi volti a provocare un radicale cambiamento nella fisiologia corporea per portare la mente verso stati di coscienza particolari.
Il Raja Yoga, lo yoga regale, è il processo meditativo con tutte le sue parti e diversi yogi nel corso dei secoli si sono dedicati e si dedicano a questo modo di praticare, ritirandosi sulle montagne e nelle foreste in isolamento per potersi dedicare totalmente alla meditazione.
Il Laya Yoga, la pratica del riassorbimento: attraverso particolari tecniche meditative, si apprende a riassorbire la mente nei livelli più interni dell’esistenza individuale favorendo l’espansione della coscienza.
Il Nada Yoga, lo yoga del suono, attraverso il quale si può raggiungere uno sviluppo della propria coscienza.
Il Svara Yoga, si basa sulla consapevolezza del flusso del respiro attraverso le narici e ha lo scopo di guidare il praticante nel compiere le varie attività della vita quotidiana in modo che siano sincronizzate con il flusso dell’energia vitale.

Il moralismo in cattedra

Concedetemi di dedicare la pagina della Città della Conoscenza di questa settimana all’espressione di tutta la mia indignazione. Almeno per chiedere scusa io, cittadino qualunque di questo Paese ormai spento e arenato, al giovane Daniele Doronzo, 17 anni di Barletta, perché certamente la scuola e le istituzioni non lo faranno.
Della sua vicenda si è occupata Repubblica, giovedì 6 novembre, con un bell’articolo in prima pagina di Giuliano Foschini.
Daniele è giovane, per tutti un ragazzo non ordinario, davvero un genio della fisica. Il suo sogno è fare uno stage al Cern e, sebbene non ancora diplomato, ci riesce. Per tutto il tempo dello stage è seguito da Gabriella Pugliese, dell’Istituto nazionale di fisica nucleare di Bari, che racconta come ancora oggi al Cern continuino a chiedere di lui. Persino la dottoressa Fabiola Gianotti, ora nuovo direttore del Cern, ne è rimasta subito colpita.
Ma Daniele frequenta una scuola ‘falsa amica’, il liceo classico di Barletta. La passione per la fisica non lo trattiene, non solo vuole andare al Cern, ma anche prepararsi all’ingresso nelle università americane. Per fare questo gli è necessario anticipare di un anno la maturità, del resto la legge lo consente a tutti gli studenti che negli anni precedenti hanno conseguito almeno otto in ogni materia.
È giusto il caso di Daniele, studente brillante. Ma Daniele dal punto di vista del comportamento lascia a desiderare, arriva a scuola in ritardo e in gita scolastica ha ‘persino osato’ sfidare i professori facendo un bagno in mare. Daniele va punito con un sette in condotta e, nonostante la sua bravura, anche con un sette nella sua materia preferita, la fisica. La punizione deve essere esemplare, soprattutto agli occhi degli altri alunni. Come conseguenza Daniele non può anticipare l’esame di Stato e deve dire addio ai suoi sogni.
Daniele al Cern ci è andato ugualmente, perché quegli adulti intelligenti che non ha incontrato nella scuola, fortunatamente li ha trovati al di fuori; inoltre, a proposito di ‘brain drain’, ora Daniele è in America a San Francisco per prepararsi agli esami.
In questa storia la nostra scuola e gli insegnanti ci fanno una figura da ‘ignoranti’, da ‘capre’, come direbbe Sgarbi, uno delle mie parti.
Capite la confusione? È come mescolare pere con patate. La scuola italiana è ancora questa, tu potrai anche essere un genio, ma se non rispetti la disciplina, prima di tutto devi essere educato! Ecco il vizio d’origine del nostro sistema scolastico: educare anziché istruire. Lo diceva un ministro dell’istruzione del regno, già nel lontano 1894, un certo Guido Baccelli: “Istruire il popolo quanto basta, educare più che si può”.
Non si tratta di uno dei tanti fatti di colore a cui il nostro Paese è ormai avvezzo. I docenti hanno ritenuto loro dovere abbassare la media dei voti di Daniele, a prescindere dal suo profitto. La motivazione? “Ci sfidava, il nostro compito non è promuovere i talenti ma educarli”.
Sì, avete letto bene, alla faccia del successo formativo! Non promuovere i talenti? Ma dove siamo? E noi cittadini dovremmo pagare una simile scuola, un simile preside e simili insegnanti, con l’arroganza di presumere d’aver ragione? Cosa ce ne facciamo di questa scuola che tutto uniforma ed omologa al ribasso?
Disciplina e profitto si mescolano indifferentemente in un unico calderone. La scuola non ha il suo articolo 18 che tuteli gli studenti dalla stupidità di certi insegnanti e di certi ministri.
Anzi i giovani sono mine vaganti che vanno controllati ed educati, perché ancora nel terzo millennio c’è qualcuno che pensa che sono più importanti le convenzioni dell’istruzione.
Il caso di Daniele per la sua enormità ha raggiunto le cronache nazionali, ma è solo emblematico di una situazione più diffusa di quanto si creda. Di un moralismo d’accatto che ancora spira il suo vento in molte delle nostre scuole.
Una scuola moralista e burocrate che certifica non il tuo sapere reale, ma la tua condotta sociale, non di adulto, ma di ragazzo che cresce, che deve ancora conquistare se stesso e tutto della vita, messo di fronte al tribunale di adulti incapaci di educare, perché incapaci prima di tutto di essere degli autentici educatori.
Ma la questione va raccontata tutta fino in fondo. Perché nel nostro paese dal 2009 vige il Dpr n.122, voluto dall’allora ministro Gelmini, con il quale è stato introdotto il cinque in condotta e il principio che la condotta faccia media con le altre discipline. Si è data così legittimità ad un’aberrazione didattica e educativa, proprio nel luogo per eccellenza deputato all’istruzione, per cui il numero delle pere può fare media con il numero delle patate.
“Si torna, dunque, a una scuola del rigore che fa del comportamento un elemento significativo per formare la personalità dei ragazzi” dichiarò allora il ministro.
Il comportamento che fa media con il profitto, l’ossessione di piegare il ramo storto della gioventù. La punizione che non distingue, che non dialoga, che è stupida perché non si limita a sanzionare la tua condotta, ma si spinge fino a mortificare e umiliare la tua intelligenza. Qualcosa che proprio nella scuola non avrebbe mai dovuto trovare una simile cittadinanza.
Ciò che preoccupa di più è che nessun proclama di renziana ‘buona scuola’ può oggi essere credibile, se non si esprime chiaramente innanzitutto la volontà di mettere mano a questo decreto così bislacco, perché la sua permanenza legittima qualunque presunta ‘buona scuola’ ad essere per davvero una ‘scuola cattiva’.

Domani alla Sala Estense “Feltrinelli. Una storia contro”

da: ufficio Comunicazione ed Eventi Unife

Prosegue il ciclo Passato Prossimo. Pagine recenti di storia costituzionale, promosso dal Dottorato di ricerca in Diritto costituzionale dell’Ateneo, con lo spettacolo teatrale “Feltrinelli”. Una storia contro, del regista e attore Mauro Monni. Attraverso la parabola umana, politica e culturale del miliardario editore anarchico Gian Giacomo Feltrinelli, lo spettacolo restituisce la dinamica degli eventi politici e istituzionali del nostro paese, in quella stagione che passò sotto il nome di strategia della tensione.

Lo spettacolo si terrà presso la Sala Estense (Piazzetta Municipale, Ferrara), martedì 11 novembre, con inizio alle ore 21.00. L’ingresso è libero.

Quanto agli incontri presso la Libreria IBS.it Bookshop (Piazza Trento e Trieste, Ferrara), il prossimo appuntamento in calendario sarà venerdì 14 novembre, alle ore 17.00. Tema: la stagione dei diritti. A partire dalla biografia di Franco Basaglia scritta da Oreste Pivetta, si discuterà della legge n. 180 del 1978 e della chiusura dei manicomi negli anni dell’affermazione dei diritti civili e sociali. Interverranno, oltre all’Autore del libro, i costituzionalisti Giuditta Brunelli e Andrea Pugiotto, e l’attore Marcello Brondi.

L’OPINIONE
Acqua: almeno 70 miliardi per i prossimi 30 anni. Alla ricerca di investimenti e buone pratiche

Sul tema dell’acqua è utile continuare a parlare. Recentemente ad H2O vi sono state occasioni importanti di approfondimento. Quello dell’idrico è un settore a elevato fabbisogno di investimenti il cui finanziamento è stato storicamente sostenuto da contributi pubblici erogati dalle amministrazioni centrali e periferiche, talvolta anche messi a disposizione dalle istituzioni comunitarie, accanto alle risorse reperite dai gestori. Tra i vari studi sul tema merita una particolare citazione quanto elaborato e presentato da RefRicerche. Ne sintetizzo i contenuti sul consistente fabbisogno di investimenti da un lato, e l’esigenza di finanziare quegli investimenti.
Secondo una stima basata sulla pianificazione vigente il fabbisogno del settore per i prossimi 30 anni sarebbe di circa 70 miliardi di euro, stima peraltro sottostimata secondo gli analisti di Ref e certamente ben lontana dagli 80 euro/abitante/anno che si investono mediamente nei paesi Ocse. Serve una scala finanziaria efficiente nel servizio idrico, dice Ref. Il finanziamento delle opere del servizio idrico dovrà poter contare sull’apporto di risorse da parte di privati: istituti di credito, fondi pensione, assicurazioni, fondi infrastrutturali. Per le realtà minori una serie di strumenti finanziari, quali mini bond e hydro bond, non conosce ancora un adeguato sviluppo. La finanza di progetto presuppone dimensioni apprezzabili e una solida cultura finanziaria e manageriale. Consolidamento e capacità di fare rete sono gli ingredienti di un percorso di ricerca della scala finanziaria “efficiente”. Possono sembrare temi complessi e lontani dai cittadini, ma in verità rappresentano il cuore del problema per una corretta gestione del ciclo idrico integrato.

Tradizionalmente gli investimenti nel settore idrico hanno potuto contare principalmente sul sostegno di contributi pubblici, un apporto di risorse contrattosi nel tempo che, ragionevolmente, non sarà sufficiente a fronte dell’ingente fabbisogno del settore nei prossimi anni. Sarà dunque sempre più necessario favorire l’intervento di finanziatori privati e ricorrere agli strumenti più adeguati presenti sul mercato per colmare il deficit di investimenti che caratterizza il servizio idrico integrato in Italia. Per finanziare le infrastrutture, osservano gli analisti, le aziende possono ricorrere a capitale di debito. Una prima via possibile, in questo caso, è quella della finanza aziendale (credito bancario, prestiti obbligazionari), in cui “la garanzia del creditore è l’insieme dei flussi di cassa dell’impresa e viene monitorato il rapporto tra debito e patrimonio netto, tra margine operativo lordo, oneri finanziari e debito”. Nel caso del credito bancario, l’accesso è fortemente limitato per le piccole gestioni, in particolare quelle monoservizio; sono soprattutto le grandi aziende, adeguatamente strutturate e patrimonializzate, a beneficiare del credito bancario, con rare eccezioni. Per le realtà minori, che incontrano difficoltà ad accedere al credito, si è aperta negli ultimi anni la via dei mini bond e hydro bond. In alternativa alla finanza aziendale, si può ricorrere alla finanza di progetto , che implica “un elevato livello di indebitamento in rapporto al patrimonio netto” e assume il flusso di cassa dell’opera a garanzia del rimborso.
Può essere attivata per un singolo progetto o per un insieme di opere afferenti a un’unica concessione (concession finance). “A causa del maggiore rischio connaturato allo strumento – spiegano gli analisti di Ref Ricerche – il project finance è un canale di finanziamento riservato a istituti di credito o a investitori con un mandato di sostegno agli investimenti nei settori di pubblica utilità”. Infine i project bond, obbligazioni destinate a finanziare progetti infrastrutturali di pubblica utilità che possono essere emessi dai concessionari di infrastrutture e servizi e dalle società titolari di un contratto di partenariato pubblico-privato. I project bond possono anche essere utilizzati come modalità di rifinanziamento del project financing quando le opere sono già realizzate. Questi strumenti, spiegano gli analisti, “non hanno ancora trovato sviluppo, principalmente perché più onerosi rispetto alle emissioni di obbligazioni in ragione della necessità di un rating del progetto. Gli investitori istituzionali sembrano poi non gradire molto il progetto in fase di costruzione laddove il merito di credito è ancora inferiore al giudizio di investment grade”.
Sono temi complessi da seguire e forse di alta finanza, ma vanno considerati seppur nel rispetto di un principio cardine: l’acqua è un bene primario, legato all’ambiente, alla salute e alla vita dell’uomo, su cui è necessario affermare il controllo pubblico: dunque, la proprietà pubblica dell’acqua è un principio inderogabile. Non è un prodotto commerciale, bensì un patrimonio che va protetto difeso e trattato come tale .
A titolo esemplificativo ripropongo gli investimenti prioritari per il settore acquedotto ed a seguire quelli per fognatura e depurazione.
Con riferimento al solo settore acquedottistico, si evince un fabbisogno in termini di aumento della sicurezza del rifornimento e di contributo alla tutela quantitativa degli acquiferi. Bisogna raggiungere e mantenere nel tempo un livello appropriato di riserva di potenzialità degli impianti di produzione rispetto ai valori attuali e a quelli previsti di domanda; bisogna favorire la differenziazione delle fonti primarie utilizzate, mediante la valorizzazione delle risorse disponibili localmente, lo sviluppo di nuove fonti di rifornimento da acque superficiali, una maggiore integrazione delle diverse reti di adduzione principale; ma soprattutto è necessaria una tutela più rigorosa della qualità degli acquiferi mediante la gestione controllata degli emungimenti e delle aree di salvaguardia. Per quanto attiene invece gli investimenti prioritari in fognatura e depurazione si rendono necessari notevoli investimenti infrastrutturali sugli impianti di depurazione e sulla razionalizzazione delle fognature, privilegiando sistemi di collegamento sovracomunali. Nei territori vi è spesso un elevato numero di piccoli agglomerati che necessitano opportuni adeguamenti; si deve promuovere un graduale incremento degli investimenti nel settore depurazione destinati a tale voce. Si registra infatti spesso un certo ritardo rispetto ai limiti temporali fissati dalla normativa.

In grande sintesi servono interventi per razionalizzare, potenziare e migliorare la qualità della rete acquedottistica; per razionalizzare ed adeguare il sistema depurativo; per adeguare gli scarichi, ai sensi della Dgr n.2241/2005; per migliorare l’efficacia del servizio di reti acquedottistiche e fognarie ; per eseguire lavori urgenti di mantenimento ed emergenza, con particolare riguardo alle opere fognarie e depurative e alla riduzione delle perdite negli acquedotti; per completare il sistema informativo territoriale delle reti e degli impianti destinati all’erogazione del servizio idrico integrato. Insomma c’è molto da fare.

L’APPUNTAMENTO
E venti! Feltrinelli festeggia a Ferrara
fra libri e autori

Da Tiziano Scarpa ad Alessandro Baricco: un cartellone di appuntamenti dedicati a chi ama la scrittura e la lettura per festeggiare i 20 anni della libreria Feltrinelli, a Ferrara in via Garibaldi 30. L’iniziativa è promossa dalla libreria cittadina – diretta da Erika Cusinatti – con associazione culturale Gruppo del Tasso – diretta da Matteo Bianchi – e Comune, Provincia di Ferrara, Ente Palio, associazione Pietre Alate.

L’idea è quella di trasformare quest’occasione in una sorta festival cittadino, con l’obiettivo di consolidare la tradizione Feltrinelli nel tempo e promuovere cultura a partire da una realtà privata. La rosa dei personaggi coinvolti nel progetto è molto varia per iniziative e contenuti: dalla letteratura alla musica, passando per televisione e cucina. Iniziativa cardine sarà la possibilità, durante tutto il mese di novembre, di acquistare un libro e donarlo alla scuola materna Aquilone di Ferrara. In mostra, intanto, una carrellata di fotografie sul Palio ferrarese.

Alessandro Baricco sarà ospite venerdì 21 novembre al cinema Boldini con il suo monologo Novecento, edito proprio vent’anni fa da Feltrinelli, ma sabato scorso c’è stato anche Tiziano Scarpa e, in occasione del giorno del compleanno – mercoledì 12 – lo “Swing ai frutti rossi” del Trio del Conservatorio Frescobaldi con Scavo, Colloca e Zattini. La chitarra di Leonardo Veronesi (sabato 29 ore 17.30 e domenica 30 ore 11), poesia con Paolo Ruffilli (domenica 16, ore 11), Massimo Scrignòli (sabato 29, ore 11) e Giancarlo Pontiggia (domenica 23, ore 11), fumetti e fantasy con Alberto Amorelli e il disegnatore Alberto Salis (sabato 15, ore 11), noir con Stefano Bonazzi e Paolo Panzacchi (sabato 15, ore 17.30), burattini con Davide Bregola (domenica 23, ore 17.30) e letteratura per ragazzi con Luigi Dal Cin (domenica 16, ore 17.30), storie di vita con Eraldo Baldini (giovedì 27, ore 17.30), Francesca Viola Mazzoni (sabato 22, ore 11) e Alessandro Mastroluca (venerdì 21, ore 17.30), autobiografie con Kitty Vinciguerra e Laura Corsini (venerdì 14, ore 17.30), gialli e psicologia con Romano De Marco (domenica 22 alle 17.30 in libreria e alle 20.30 al ristorante L’Orlando), scuole letterarie con Martino Gozzi (venerdì 21 alle 21 al Boldini con Baricco) e novità con Giovanni Montanaro (mercoledì 19, ore 21), autore esordiente di Feltrinelli.

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Vincent Zandro alla libreria Feltrinelli di Ferarra

Guest inaugurale, martedì scorso, Vincent Zandri che ha preso parte all’evento cittadino presentando in anteprima “Moonlight Sonata”, il suo primo poliziesco tradotto in italiano edito da Meme Publishers, originale casa editrice che punta sul mercato digitale con sede tra Ferrara e Parigi e partner della manifestazione in rosso. Detective story contemporanea dal gusto noir incentrato sulle vicende del poliziotto Dick Moonlight intriso di musica e malinconia, humour e realismo cittadino in una Albany in bilico tra bucolico e Far West contemporaneo, in cui la maggior parte degli abitanti possiede un’arma; dai locali affollati di fumo e gente che si ubriaca, malavitosi e scrittori alternativi – veri personaggi lost-in-time, il soggetto ha convinto Marco De Luca, direttore editoriale di Meme, che ha proposto un accordo di edizione aggiudicandosi l’esclusiva dei suoi prossimi romanzi.

La direttrice del punto vendita Erika Cusinatti punta molto sull’angolo riservato agli scrittori ferraresi, a ora vanto esclusivo del punto Feltrinelli della città estense. “L’eterogeneità – dice – è un tratto distintivo anche del nostro pubblico: tra saggistica e narrativa, la libreria è frequentata da studenti universitari e persone che amano farsi consigliare sul libro da scegliere. Una linea particolarmente curata è quella dedicata ai bambini da 0 a 6 anni. Una prerogativa a ora solo nostra, di cui andiamo fieri, è poi l’angolo dedicato agli autori ferraresi, tanto di fama già consolidata quanto di autori esordienti, a cui abbiamo associato una gigantografia bicolore del Castello Estense, icona di Ferrara”.

Ecco una piccola carrellata di immagini legate alla libreria Feltrinelli cittadina di due soci del Fotoclub Ferrara: GIORGIA MAZZOTTI e STEFANO PAVANI.

[clicca le immagini per ingrandirle]

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Feltrinelli Ferrara compie 20 anni: la direttrice Erika Cusinatti con lo scrittore Tiziano Scarpa (foto di Stefano Pavani)
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Feltrinelli Ferrara compie 20 anni: la direttrice Erika Cusinatti con lo scrittore Tiziano Scarpa (foto di Giorgia Mazzotti)
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Feltrinelli Ferrara compie 20 anni: la direttrice Erika Cusinatti, lo scrittore Tiziano Scarpa e il direttore del Gruppo del Tasso Matteo Bianchi (foto di GIORGIA MAZZOTTI)
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Ingresso della libreria Feltrinelli di Ferrara (foto di STEFANO PAVANI)
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Libreria Feltrinelli di Ferrara: persone (foto di Giorgia Mazzotti)
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Libreria Feltrinelli di Ferrara: persone (foto di Giorgia Mazzotti)
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Libreria Feltrinelli di Ferrara: persone (foto di Stefano Pavani)
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Libreria Feltrinelli di Ferrara: persone (foto di Stefano Pavani)
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Libreria Feltrinelli di Ferrara: persone (foto di Giorgia Mazzotti)
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Libreria Feltrinelli di Ferrara: frequenze di passaggio (foto di Giorgia Mazzotti)
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Libreria Feltrinelli di Ferrara: frequenze di passaggio (foto di Giorgia Mazzotti)
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Libreria Feltrinelli di Ferrara: frequenze di passaggio (foto di Giorgia Mazzotti)

LA SEGNALAZIONE
A tu per tu con Karl Marx

È un Karl Marx squisitamente umano quello che il pubblico si ritrova davanti in questi sabati sera al Teatro Off di Ferrara. Il leggendario Marx, interpretato da Marco Sgarbi con naturalezza e autenticità, ‘si fa uomo’ e si mette a nudo raccontando della propria vita, della sua amata moglie Jenny di cui dice «quello che lei ha fatto per me è di un valore incalcolabile», delle tre carissime figlie sopravvissute alla miseria, degli altri tre scomparsi precocemente, oltre che dell’esperienza dei bassifondi di Soho, a Londra, che ne ispirarono i famosi scritti di denuncia e di analisi sociale ed economica del sistema capitalistico.
Con la pièce di Howard Zinn “Marx a Soho” si ha il piacere di incontrare un Marx ironico e disincantato, che arriva a dire «Mettetevi in testa una cosa: non sono marxista!» prendendo di fatto le distanze dal personaggio creato ad hoc dagli adulatori e dalle manipolazioni del suo pensiero.
Lo spettacolo, diretto da Giulio Costa, ha un’impostazione particolare, fortemente incentrata nel creare relazioni sia con il personaggio che con il pubblico, con cui si cerca un rapporto costante durante la rappresentazione.
Anche a fine spettacolo gli spettatori vengono direttamente coinvolti per una chiacchierata con l’attore; così a fine monologo Marco Sgarbi smette i panni di Marx e arriva sul palco con in mano una tazza di tisana a base di acqua, miele e limone, e si comincia a parlare della messa in scena appena vista. Tante, incalzanti e attente le domande degli spettatori/interlocutori che chiedono prima di tutto come sia riuscito ad entrare in un personaggio così “mastodontico”: “Per entrare nel personaggio di Karl Marx, si è proceduto per sottrazione, fino ad arrivare alla spontaneità” – racconta Marco Sgarbi – “ho messo nel personaggio ciò che mi appartiene e che si avvicina di più al lavoro di Zinn. La mia immagine di Marx prima di questo lavoro era un po’ stereotipata, si rifaceva agli studi liceali. Solo addentrandomi nel testo ho visto emergere l’Uomo. Per questo ciò che ho fatto non è stato altro che impersonare semplicemente un essere umano, che parla alla gente, a un pubblico. ‘Grazie a Dio un pubblico, proprio come dice la prima battuta del testo”.
L’operazione di coinvolgimento e condivisione con il pubblico riesce molto bene, complice l’atmosfera intima dello spazio, e ne nasce anche un dibattito su vari temi: l’urgenza dell’agire, del far sì che le cose accadano, della passione per il cambiamento – che Marx ha avuto per tutta la vita – che precede e va oltre l’aspetto teorico. Si è parlato inoltre del tema della miseria/ricchezza del mondo contemporaneo: “Marx che ritorna nel mondo al giorno d’oggi, a New York, uno dei centri nevralgici dell’economia contemporanea (per un errore torna nella Soho newyorkese, non nella Soho di Londra), non sarebbe stato forse più colpito dalla ricchezza che dalla miseria, come invece emerge in questa pièce?” chiede una spettatrice. Sgarbi risponde che scegliere New York è stato un escamotage, una scelta simbolica; Zinn ha voluto mettere al centro del suo lavoro la miseria, per denunciare come ancora oggi una grande parte del mondo sia soggetta a miseria e diseguaglianza. Un’altra spettatrice si complimenta dicendo: “C’è un’intelligenza pura in questo lavoro!”.
Per questo viene naturale riprendere una delle battute più accattivanti del testo: «Potete spargere la voce, Marx è tornato!…» anche se per poco più di un’ora a replica: l’ultima in programma sabato prossimo 15 novembre al Teatro Off di Viale Alfonso I d’Este, 13 nell’ambito della rassegna di monologhi intitolata “Ricomincio da uno”  [vedi].

Lo spettacolo è tratto dal testo scritto nel 1999 dallo storico americano Howard Zinn ed è stato co-prodotto in occasione del 131° anniversario della morte di Karl Marx dalla Fondazione Aida, Teatro stabile Innovazione Verona, e dall’Associazione culturale Arkadiis di Occhoibello.

George Simenon
e la sua scandalosa Betty

Aeroporto di Roma Fiumicino. Alla partenza lascio un pezzettino di cuore, in quest’ultima pillola di dolce e serena estate romana, accompagnata da un sentimento di amore e di fedeltà. Fedeltà all’amore stesso, alla città eterna che forse un giorno mi aprirà le braccia per ospitarmi a lungo.
M’intrufolo in libreria, come sempre prima di partire. Cerco qualcosa, come al solito. Un ultimo acquisto di testi nella mia lingua, un sacchetto di carta riciclata che mi accompagnerà sull’aereo per Mosca. Sugli scaffali colmi, invitanti e colorati intravvedo, curiosa, l’ultimo testo del belga Georges Simenon, “Faubourg”.

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La copertina della nuova edizione Adelphy

Lo prendo, lo colgo quasi come si fa con un bel fiore, all’interno della copertina giallo-canarino cerco se Adelphi ha pubblicato pure “Betty”. Sto aspettando che esca l’omonimo di Roberto Cotroneo (che comprerò subito), ma voglio leggere l’ispirazione prima, mentre attendo. Trovo il titolo, chiedo alla cassiera, me lo porta, gentile e saltellante. Pago e ancora prima di imbarcare mi tuffo nelle prime righe delle 140 pagine che all’arrivo avrò finito di leggere (e così è stato…). Farò un viaggio nel viaggio, come sempre quando volo, come sempre quando mi muovo solo con libri, pensieri e bagagli leggeri riempiti unicamente d’idee.
Questo libro va letto con calma, attentamente, assaporato, ma non resisto. Nelle tre ore e mezzo di aereo lo divoro, pagina dopo pagina, riga dopo riga, mi tuffo nella complessa psiche femminile, nelle difficoltà e nei dubbi di essere donna che molte di noi ben conoscono. Accarezzo e apprezzo un‘introspezione del personaggio molto minuziosa, incisiva, cesellata alla perfezione. Come vorrei sapere scrivere in quel modo…

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La locandina del film di Claude Chabrol tratta dal romanzo di Simenon

Betty, che strana creatura. Una giovane splendida e turbolenta dalla condotta arditamente scandalosa approdata sullo sgabello di un bar dei parigini Champs-Elysées, con la testa confusa e intorpidita dall’alcol. Accanto a lei, alla deriva, indomabile e indomata, siede un uomo del quale non ricorda nulla. Un uomo che, tuttavia, scompare quasi subito per lasciare a lei tutta la scena. Ombra, tante zone d’ombra s’intravvedono da subito. Calze smagliate, la sensazione di sporcizia, bicchieri di whisky, vestito costoso stropicciato e stanco, un assegno milionario in tasca, in borsetta una lettera da lei scritta e sottoscritta. M’immagino la borsetta, una sorta di piccola pochette marrone argentato a forma di cuore dal pomello rotondo di cristallo. Un clic e si apre un mondo. Uno scatto sul mondo disperato, lacerato e oscuro che la circonda. Potrei fotografarla così come la vedo e me la immagino.
Betty è una donna sola, senza sogni, bella ed elegante ma trasandata, logorata dalla vita, da se’ stessa, dalla propria insoddisfazione, da un istinto che la induce a percorrere strade proibite e detestabili, da un richiamo del vizio che le fa rifiutare la vita normale, fatta di un marito ricco, delicato, attento e perdutamente innamorato, di due figli leziosi, di una borghese e calda casa tranquilla e ben arredata, di sfumature di tenerezza. L’alcol la fa perdere nel fondo del suo bicchiere peccaminoso e costantemente alzato, regolarmente pieno, nella grigia parigina “tana degli svitati” di Mario. Nel fumo di pensieri e sogni ormai lontani e persi.
In un’atmosfera incisiva e intensa, Simenon descrive un animo ribelle e disadattato, un quadro femminile ben dipinto in cerca dell’amore e, allo stesso tempo, del suo opposto, ossia del lacerante disagio di una punizione continua, iniziata da bambina e mai cessata.

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Georges Simenon

La lettura tiene sul filo del rasoio, con maestria e tensione che solo Simenon possiede. I sentimenti sono contrastanti. A volte fatico a capire questa psiche complessa, sono combattuta nel pensare se Betty sia una donna perduta o ritrovata, una vittima o un carnefice. Betty vorrebbe perdersi, cancellarsi, o magari semplicemente trovare qualcuno che si prenda cura di lei. Ed ecco un’amica, Laura, quasi una madre, che l’accoglie teneramente credendo di redimersi, ignorando, tuttavia, dove tutto questo la condurrà. Ignara della tragedia che questo incontro comporterà.
Un romanzo da leggere, che racconta l’implosione di una donna persa, l’insano vagare nel nulla e nel vuoto, alla ricerca del proprio io e magari dell’amore che qualcuno potrebbe rivolgere alla donna, a lei, a LEI perché lei, al suo vero io e alla sua vera essenza, non al suo ruolo e alla sua posizione nel mondo.

Un libro avvincente, drammatico, non facile, emotivamente intrigante, che denuda, con procedimento quasi psicanalitico, i pochi personaggi che scorrono sulla scena; un racconto che colpisce, per la sua anomala protagonista e per la sua conclusione, che fa riflettere su come e quanto, a volte, l’animo femminile possa essere torbido, complesso, intrigante, emozionante, inspiegabile e, talora, davvero del tutto imprevedibile. Perché non è sempre chiaro chi sia il vincitore e chi lo sconfitto. E sta a noi immaginarlo.

LA RIFLESSIONE
Prima Guerra Mondiale,
le ragioni per ricordare

Ci sono vari motivi per commemorare la Grande Guerra di cui ricorre il centenario. Un impegno civile orientato in senso pacifista: ricordare l’ecatombe fratricida dei soldati, in molti casi sepolti l’uno accanto all’altro nei cimiteri di guerra, e l’esperienza drammatica della popolazione civile per far sì che non si ripetano. Si aggiunge la motivazione europeista: l’Europa unita come alternativa alle guerre che hanno insanguinato per secoli il nostro continente, fino ad arrivare ai due terribili conflitti del Secolo Breve, senza dimenticare che sul fronte italo-austriaco hanno combattuto quasi tutti i paesi che oggi fanno parte dell’Unione Europea. Si può poi ricordare anche la narrazione memoriale che vuole la Prima Guerra Mondiale come l’ultima delle guerre risorgimentali italiane, che ha completato l’unità nazionale, trascurando la complessità degli eventi e delle esperienze umane nelle regioni di confine come il Trentino o il Friuli Venezia Giulia.

Abbiamo dunque a che fare con un quadro composito di motivazioni eterogenee, a cui bisogna aggiungere l’elemento di una memoria oramai senza ricordo, perché non è più possibile attingere alle testimonianze di coloro che hanno avuto esperienza diretta della Grande Guerra. Infine, senza nulla togliere al legittimo sforzo commemorativo, spesso da queste memorie manca la storia, con tutte le sue complessità e ambiguità. Il pur doveroso racconto delle esperienze e delle sofferenze sembra a volte prendere il sopravvento sull’analisi delle cause e degli effetti, che sono stati enormi dal punto di vista politico e sociale: la scomparsa degli imperi e la nascita o trasformazione di nuovi stati, la rivoluzione bolscevica e la guerra civile che ne è derivata, le crisi politiche in Italia e nella Repubblica di Weimar da cui si sono sviluppati i regimi dittatoriali che hanno trascinato nuovamente l’Europa nella tragedia. È proprio qui che i musei, come quello del Risorgimento e della Resistenza, assumono un’importanza fondamentale: i monumenti e i luoghi della memoria, come le trincee o i cimiteri di guerra, non hanno una specifica funzione didattica, il loro ruolo è evocare e la loro dimensione è simbolica. Al contrario i musei, in ragione della loro funzione pedagogica, richiedono una riflessione attenta ai contenuti: gli oggetti che raccolgono ed espongono sono sì dei segni, ma anche entità concrete con una propria storia e una propria capacità di comunicare significati. Intrecciando diverse forme di apprendimento, i musei devono quindi assolvere al compito di costruire la solida intelaiatura di un racconto storico il più completo possibile, affiancando la scuola, perché se è vero che i ragazzi sono i destinatari principali dell’appello a ricordare, è alle loro coscienze critiche che bisogna fare appello, non solo alle loro emozioni.

Museo_Storico_Italiano_della_Guerra_MGR
Museo Storico Italiano della Guerra

Anche di questo si è parlato sabato nel corso della presentazione della “Guida ai documenti della I Guerra Mondiale”, conservati nel Museo del Risorgimento e della Resistenza di Ferrara. Daniele Ravenna, dirigente del Mibact, ha segnalato come il percorso “a tutela della memoria storica della Prima Guerra Mondiale” da parte delle istituzioni statali inizia con la legge 78 del 2001, quando per la prima volta “si sono fissati una serie di principi per affermare che esiste un patrimonio storico della Grande Guerra, formato da tutto ciò che è testimonianza materiale”, dai documenti ai monumenti, dalle trincee ai cimiteri di guerra, fino ad arrivare ad oggi, “al tema del centenario”. “Celebrazioni e tutela del patrimonio stanno procedendo insieme”, grazie anche alla collaborazione tra il Comitato scientifico della Presidenza del consiglio presieduto da Franco Marini e il Mibact. Secondo Ravenna, la caratteristica principale delle celebrazioni è “la valorizzazione delle diversità e delle specificità delle tante realtà italiane, sono quindi tantissime le iniziative in preparazione sul territorio”, a cui il ministero dei Beni culturali partecipa attraverso le Soprintendenze. A livello centrale, “la Presidenza del Consiglio ha promosso l’iniziativa Cento monumenti per il Centenario, che si propone di restaurare cento monumenti ai caduti in tutta Italia, mentre noi del Mibact abbiamo avviato due azioni: il censimento dei monumenti, con il quale abbiamo già realizzato circa seimila schede che saranno fra poco disponibili in rete, e il portale www.14-18.it, progettato per ospitare il materiale delle istituzioni pubbliche e dei privati, diventando così una grande banca dati nazionale sulla Prima Guerra Mondiale”.

Elogio della gentilezza

Il 13 novembre si celebra la Giornata mondiale della gentilezza. La data ricorda una conferenza tenutasi a Tokio nel 1997 che ha dato vita al World kindness movement, una sorta di movimento per la Gentilezza.
L’arte delle buone maniere sembra ritornare di moda, con libri, corsi e movimenti internazionali per la riscoperta della cortesia. Per molti anni la gentilezza è stata considerata espressione di un atteggiamento formale a cui venivano contrapposte virtù come spontaneità e autenticità. Quando ero all’università, i più ‘spontanei’ (sempre maschi per la verità) erano quelli che ti entravano in casa con le scarpe infangate, aprivano il frigorifero, si impossessavano del divano e trovavano assolutamente ovvio fermarsi a cena.
Come Norbert Elias ha argomentato con “La civiltà delle buone maniere”, il rapporto tra spontaneità e educazione è socialmente e storicamente condizionato: anche le forme di convivenza più ovvie e quotidiane hanno alle spalle un processo di genesi storica. Le buone maniere cominciano ad affermarsi alla fine del Medioevo, con l’avvento della società di corte, una sorta di laboratorio dove si perfezionano tecniche di autodisciplina degli impulsi spontanei – per lo più violenti – cui i liberi cavalieri medievali potevano dare incontrollata soddisfazione. Si costruiscono così quei codici di comportamento che sono di fondamentale importanza nello sviluppo dell’età moderna. Si tratta di codici che sono nel contempo etici ed estetici e che vengono riassunti in parte nelle norme del galateo, termine che pare desueto, ma che regola – tacitamente – i comportamenti in ogni contesto sociale.
Oggi la società di massa rende affollati molti luoghi della vita quotidiana, produce “densità” e talvolta nervosismo; mentre crescono le nostre attese di rispetto, ci sentiamo spesso sottoposti a sopraffazioni, ingiustizie, maturiamo sentimenti di frustrazione e di disagio nei confronti di numerose situazioni. Lo spazio pubblico viene avvertito come lo spazio del sopruso e dell’indifferenza: aiutare l’utente a compilare un modulo incomprensibile o a risolvere il problema del pagamento del ticket nel caso la macchinetta sia rotta, potrebbero essere piccole azioni che migliorano il servizio. Siamo così poco abituati a riceverle che le consideriamo doti personali.
Forse per questo, avvertiamo la necessità di applicare, almeno nello spazio personale, paradigmi di relazione, modalità di esistenza, cifre estetiche orientate al benessere personale. Cito alcune pagine per coloro che volessero diventare ‘più gentili’ www.actsofkindness.org [vedi] pubblica risultati di ricerche e azioni di gentilezza. Il sito www.gentletude.com [vedi] propone uno stile di vita fondato sulle buone maniere, campagne di educazione per le scuole e un premio annuale dedicato alle buone pratiche. In generale, queste iniziative esprimono la ricerca di azioni che servano a migliorare il proprio spazio di vita e il cui esito dipende da noi.
La gentilezza non ha solo una dimensione relazionale, ma investe il senso civico, la natura l’ambiente e ogni relazione sociale. Nello spazio pubblico sarebbe auspicabile una formazione alla gentilezza come dimensione dell’efficienza e dell’efficacia del servizio; nello spazio privato praticare la gentilezza significa dare un piccolo contributo al benessere e al miglioramento della convivenza sociale.

Maura Franchi – Laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing, Marketing del prodotto tipico. I principali temi di ricerca riguardano i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@gmail.com

IL FATTO
Allarme, i predoni dell’acqua tentano
“una privatizzazione strisciante”

All’indomani dell’ennesima alluvione a Genova, a inizio ottobre, molti hanno rilanciato le critiche e gli interrogativi sul decreto Sblocca Italia, pubblicato in Gazzetta ufficiale a metà settembre, soprattutto in materia di impatto sulla (non) gestione del territorio e sulle politiche di (non) tutela ambientale. Ebbene all’interno del ‘capo III’, proprio quello sulle misure urgenti in materia ambientale e per la mitigazione del dissesto idrogeologico, c’è l’articolo 7 “Norme in materia di gestione di risorse idriche”: in altre parole il ciclo dell’acqua. L’obiettivo di questo articolo, insieme ai provvedimenti contenuti nella Legge di stabilità, “non è rendere maggiormente efficace la gestione, ma ritornare a favorire la privatizzazione dei servizi pubblici”, ancora una volta in barba al risultato del referendum del 2011: è l’allarme lanciato dal Forum italiano dei movimenti per l’acqua nell’incontro di sabato pomeriggio a palazzo Bonacossi. Secondo quanto afferma Paolo Carsetti, attivista del Forum, l’articolo 7 dello Sblocca Italia configura una vera e propria “modifica dei principi base dei servizi del ciclo integrato dell’acqua”, non solo imponendo “un gestore unico per ogni territorio”, ma arrivando anche a definire “chi debba essere questo gestore”. Il testo, infatti, dispone l’affidamento al gestore il cui bacino complessivo sia “almeno pari al 25 per cento della popolazione ricadente nell’ambito territoriale ottimale di riferimento”: dunque si favoriscono le grandi multi-utility quotate in borsa in nome di una presunta razionalizzazione all’interno di economie di scala. Parallelamente nella Legge di stabilità si esercita, per usare un eufemismo, una certa pressione sugli enti locali: in un momento in cui sono strangolati dai tagli e dal patto di stabilità, si inserisce un provvedimento per cui chi sceglierà di “cedere le proprie quote di partecipazione” potrà “usare le somme ricavate al di fuori del patto di stabilità”. Per questo Carsetti parla di una “privatizzazione strisciante”: l’obiettivo è lo stesso del governo Berlusconi e del ministro Ronchi, ma non si ripete l’errore di esplicitarlo per non correre il rischio di una possibile mobilitazione dei cittadini come è avvenuto con i referendum.
mani_cerchio_acquaÈ stato Corrado Oddi, componente del Comitato acqua pubblica di Ferrara, a riportare tutti con i piedi in terra ferrarese: “Oltre ai provvedimenti legislativi, ci sono già studi su come le multi-utility si spartiranno i profitti nei prossimi anni”. Iren, A2A, Acea e Hera potranno contare su “2 miliardi in più di margine operativo lordo” attraverso l’acquisizione delle circa 60 aziende di servizi che ancora rimangono sparse sul territorio, tra le quali per esempio il Cadf che opera nel Basso ferrarese, e “Cassa depositi e prestiti avrebbe già deciso di stanziare 500 milioni di euro per favorire questo tipo di operazioni”. E proprio parlando di Cadf (Ciclo integrato acquedotto depurazione fognatura – Consorzio acque del Delta), da più di un anno e mezzo il Comitato acqua pubblica di Ferrara ha avviato un dialogo con i sindaci del Basso ferrarese per esplorare le possibili strade per una sua ri-pubblicizzazione e molti di loro sembravano favorevoli, “almeno a parole” ha specificato Marcella Ravaglia, altra componente del Cap locale. Allora perché nessuno dei sindaci, pur invitati, ha partecipato all’incontro di sabato pomeriggio? Soprattutto perché dopo aver commissionato uno studio di fattibilità sulla trasformazione del Cadf in azienda speciale di diritto pubblico, secondo quanto afferma Ravaglia, “si è deciso di non renderlo pubblico”?

LA RICORRENZA
Quando c’era il Muro:
‘Mir caravane’, artisti per la pace

di Luca Gavagna

Nel 1989 una carovana di duecento attori provenienti da tutta Europa intraprese un viaggio dalla Russia alla Francia. Si mossero con Caravan e roulotte, gli spettacoli si tennero in otto tendoni da circo che viaggiarono al seguito della carovana.
Erano compagnie provenienti da diversi paesi: Unione Sovietica, Polonia, Repubblica Ceca, Germania, Spagna, Francia, Gran Bretagna, Italia. Le tappe furono: Mosca Leningrado, Varsavia, Praga, Berlino Ovest, Copenaghen, Basilea, Losanna,  e Blois.
L’iniziativa si chiamò “Mir caravane” che in russo significa Carovana della Pace. Fu un’iniziativa importante sia dal punto di vista culturale che politico,  anticipatrice dei grandi sconvolgimenti che si sarebbero verificati pochi mesi dopo.
Uno dei gruppi organizzatori fu il Teatro Nucleo di Ferrara. Le foto raccontano di una sessione fotografica con Nicoletta Zabini, attrice ferrarese del Teatro Nucleo, proprio di fronte al muro di Berlino che sarebbe stato abbattuto il 9 novembre 1989.

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Gli artisti della Carovana per la Pace del 1989
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Nicoletta Zabini, attrice ferrarese del Teatro Nucleo
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Nicoletta Zabini dinanzi al Muro di Berlino
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Ancora Nicoletta Zabini: il Muro sarebbe stato abbattuto di lì a poco, il 9 novembre

Imparare a leggere
il linguaggio del corpo

Quasi quarant’anni di insegnamento alle spalle e una grande passione per i ragazzi e il loro benessere. Daniele Lodi, insegnante di educazione fisica in provincia di Rovigo, ma ferrarese, assieme agli psicoterapeuti Giovanni Seghi, Massimo Barbieri e Maica Buiani ha scritto Corporeità e difficoltà di apprendimento, edito da La Scuola. Il lavoro è il risultato di anni di osservazione e pratica sul campo.
Lodi, il testo, che potremmo anche chiamare manuale per il suo valore, appunto, di utilità pratica, si rivolge a insegnanti e genitori, due mondi che non sempre riescono a comunicare facilmente quando si tratta di affrontare certe difficoltà dei bambini.
“La nostra ambizione è una rieducazione divertente attraverso il gioco e il movimento. Per i docenti mettiamo a disposizione metodi di osservazione che aiutino a interpretare segnali indici di dislessia, iperattività e problemi prassici. Il ruolo delle famiglie è altrettanto importante perché anche in ambito domestico può essere data continuità al lavoro”.
Cosa è possibile intuire dai segnali del corpo?
“Molte cose come la lateralizzazione, l’equilibrio, l’orientamento temporale, il ritmo, la gestione del tono muscolare. Da come i bambini si muovono nel gioco, possiamo davvero capire i loro bisogni o i loro malesseri”.
Cosa ha rivelato il vostro studio?
“Abbiamo affrontato la dislessia e i bisogni educativi speciali, chiamati Bes. Nel libro abbiamo riportato cinquantadue casi di bambini tra i sette e i trecidi anni della provincia di Ferrara e Rovigo. Dodici bambini, in cinque mesi, sono migliorati del sessanta per cento nelle aree linguistico-matematiche, per fare un esempio. Abbiamo, quindi, pensato proposte di motricità finalizzate a un successo educativo più ampio e a una serena esperienza scolastica e personale”.
In che modo?
“Oltre all’osservazione e all’analisi, abbiamo elaborato un ‘kit di intervento’, cioè delle idee operative che insegnanti e genitori possono mettere in pratica con i bambini. Il nostro intento è invitare all’osservazione del bambino e intervenire a partire dalla motoria. C’è un grande bisogno di sostenere le famiglie ed è per questo che collaboriamo con l’associazione Sos dislessia di Ferrara, con il Centro territoriale di supporto, ma anche con Coni e Uisp”.
Al di là dell’ambiente scolastico, dove una famiglia può trovare supporto?
“A Pontelagoscuro, nella palestra del centro sociale Quadrifoglio, proponiamo dei test e un corso di motricità finalizzata per i bambini nei quali abbiamo riscontrato qualche difficoltà”.
Pionieri della materia?
“Anche il mondo inglese lavora sul corpo più che sul linguaggio e noi riteniamo che il benessere del bambino possa davvero essere raggiunto con la strada del gioco e del divertimento”.

LA RIFLESSIONE
Fondata sul lavoro

“Il governo deve parlare con i sindacati, ma è arrivato il momento che ognuno faccia il suo mestiere. I sindacati trattano con gli imprenditori”. Così il Presidente del Consiglio Matteo Renzi nello studio televisivo di turno, in questo caso a Otto e mezzo, ha commentato l’incontro fra il governo e le parti sociali sulla legge di stabilità.
Da queste parole sembra che per il nostro capo del Governo il lavoro sia una questione privata, che riguarda solamente i rapporti fra lavoratori e imprenditori nelle aziende, e non un momento di formazione del sé nella società, una dimensione fondamentale della cittadinanza.
Non avendo io nessun titolo per smentirlo, lascio che a farlo siano l’articolo 1 della nostra Costituzione e la lucida interpretazione che ne ha dato venerdì, in occasione della presentazione alla biblioteca Ariostea del volume “Ripartiamo dal lavoro. Anatomia, riconoscimento e partecipazione”, il professor Carlo Galli, celeberrimo studioso delle dottrine politiche dell’Alma Mater, presidente dell’Istituto Gramsci di Bologna e senatore “cooptato dal Pd di Bersani per presunti meriti accademici senza nemmeno le primarie”, come si è definito egli stesso con una buona dose di autoironia.
Cosa significa: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”? Perché i nostri costituenti hanno esordito così? Secondo Galli due sono i motivi. Prima di tutto questa frase sottolinea che “il soggetto si forma attraverso il lavoro”, secondo evidenzia che “il lavoro è legame sociale”. Dunque il lavoro è occasione di crescita del soggetto attraverso la propria creatività, soggetti tra cui poi crea relazioni: “Il problema è come e a quale fine tiene insieme gli uomini”. Secondo i costituenti “il lavoro è il cuore della politica” perché “vi si manifestano i principali rapporti di potere che regolano la società, che poi vengono istituzionalizzati nelle forme democratiche”.
Se riconosciamo e accettiamo questa “originaria politicità del lavoro”, sancita dalla nostra Carta Costituzionale, allora “non possiamo accettare che il lavoro sia una questione che non riguarda le istituzioni, ma solo i cittadini come privati lavoratori e i datori di lavoro, i loro diritti non possono essere trattati come ostacoli al libero e regolare funzionamento della macchina produttiva, mentre il compito della politica e del governo è solo ‘raccogliere i feriti’, cioè aiutare chi perde il lavoro attraverso gli ammortizzatori sociali”.
Questa è una concezione neoliberista in contraddizione con la Costituzione, che delinea un modello di società “non fondata sul mercato”, ma appunto sul lavoro come una delle dimensioni principali di attuazione della partecipazione dei cittadini alla vita della comunità.
Potremmo fermarci qui, ma vorrei aggiungere un altro paio di osservazioni sul ruolo della Repubblica in tema di lavoro: “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori” (art. 35 commi 1 e 2), “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3 comma 2).

Caterina de’ Medici, prorompente dark lady del Cinquecento

STANDING OVATION: I PIU’ ACCLAMATI SPETTACOLI TEATRALI DEL XXI SECOLO
“Caterina de’ Medici”, regia di Paolo Poli, Teatro Comunale di Ferrara, 11 e 12 marzo 2000

Figlia di Lorenzo II duca di Urbino, Caterina de’ Medici sposò nel 1533 il futuro re di Francia Enrico II. Nel 1560 divenne reggente, al posto del figlio Carlo IX ancora in minore età. Sino al 1563, ma anche in seguito, condizionò pesantemente la politica francese, destreggiandosi con astuzia e spregiudicatezza soprattutto riguardo al problema delle fazioni religiose all’epoca in lotta fra loro. Questo è il canovaccio storico sul quale Paolo Poli si è basato per la stesura e l’allestimento del suo nuovo lavoro teatrale, come di consueto una sorta di musical, dal titolo appunto “Caterina de’ Medici”. Ma è stata in specie la prorompente personalità dell’affascinante personaggio cinquecentesco a fornire le linee essenziali dell’interessante rivisitazione, in chiave ironica e attualizzata, delle vicende narrate in almeno una decina di famosi romanzi di Alexandre Dumas.
“Sfaccettata e dura come un diamante, questa strepitosa dark lady cinquecentesca non ha ancora smesso di far parlare di sé. La sua esistenza è stata un lungo, travolgente romanzo d’amore con il potere e la sua disinvoltura nella scelta dei mezzi per conservarlo avrebbe fatto trasalire Machiavelli”. Assolutamente priva di scrupoli, intelligente come solo il cardinale Richelieu seppe esserlo in Francia alcuni decenni più tardi, e perversa, come la più spudorata delle cortigiane, la protagonista è attorniata in scena da una folta schiera di comprimari: i tre figli Francesco II, Carlo IX ed Enrico III, l’infido duca di Angiò, i nemici duchi di Guisa, l’insopprimibile Enrico di Navarra, la bella e intraprendente Maria Stuarda, quindi il mago astrologo Ruggieri e poi buffoni, dottori, profumieri, ecc.
Paolo Poli sfoggia per questa commedia la compagnia delle grandi occasioni: Vittorio Attene, Paolo Calci, Alfonso De Filippis, Paolo Portanti, Giovanni Scifoni, Rosario Spadola (ciascuno dei quali non interpreta mai meno di tre personaggi), oltre ovviamente a se stesso nel ruolo della celebre regina. Le scene sono di Emanuele Luzzati, i costumi di Santuzza Calì, le luci di Alessandro D’Antonio, le musiche di Jaqueline Perrotin, le coreografie di Claudia Lawrence e Alfonso De Filippis. Il testo è stato composto a quattro mani da Paolo Poli e Ida Omboni, la regia è dello stesso Poli.

Arzustèla, accogliendo l’alba
rivolti a settentrione

Ex-Autogrill Cantagallo, Casalecchio sul Reno, 1 dicembre (quarta parte) by Wu Ming 1

4.SEGUE – Tra due ore sarà l’alba, ci prepariamo ad accoglierla.
Dal tetto dell’autogrill, da cento bocche, si alza il vapore dei nostri respiri.
Lucifero, astro del mattino, Venere, unico pianeta dal nome di donna, è visibile a oriente. Splende nel margine destro del mio campo visivo.
Rivolti a settentrione teniamo gli occhi chiusi, lingua contro il palato, respiriamo dal naso. I denti non devono toccarsi.
Mani rilassate davanti all’addome, tra ombelico e pube.
Chi ha una sola mano, le usi comunque entrambe.
Immaginiamo di sorreggere una sfera, una sfera nera, ne saggiamo il peso. I polmoni sono pieni. Ora espiriamo e la sfera inizia a ruotare in senso antiorario, accarezzando palmi e polpastrelli. Sentiamo il movimento, lo assaporiamo, avvertiamo l’attrito leggero della superficie liscia. A ogni espirazione la
rotazione accelera, e quando inspiriamo torna a farsi più lenta.
Avviene diciotto volte.
Da qui in avanti, a ogni espirazione la sfera si ingrandisce ed entra nell’addome, fino ad accarezzare i reni. Inspiriamo, la sfera rallenta e torna alle dimensioni di prima, confinata nel cerchio delle mani.
Avviene novanta, centottanta volte. Le mani sono piene di fuoco.
Adesso, mentre la sfera si espande e si contrae, immaginiamo di ingrandirci a nostra volta, a ogni espirazione siamo sempre più alti. Accanto a noi, all’altezza degli occhi, vediamo la luna.
Puntiamo lo sguardo sulla stella del Nord. Polaris, ultimo astro del Piccolo Carro. Guardiamola: la sua luce viaggia nel vuoto per più di quattrocento anni, prima di raggiungere i nostri occhi e
attivare i fotorecettori.
La luce che vediamo adesso fu irradiata mentre l’Inquisizione processava Galileo, il sapiente a cui dobbiamo il nostro telescopio.
La luce che vediamo adesso fu irradiata mentre s’iniziava a costruire il Taj Mahal, un palazzo lontano, molto più antico del Cantagallo.
La luce che vediamo adesso fu irradiata quasi tredici miliardi di secondi fa.
Tratteniamo il respiro per tredici secondi.
Moltiplichiamo per mille il tempo di questa apnea.
Moltiplichiamo per mille il risultato.
E’ un millesimo del tempo impiegato dalla luce di Polaris per arrivare a noi.
La luce che irradia adesso non la vediamo. La vedrà, tra quattro secoli, chi verrà dopo di noi.
Ora guardate la stella del nord, guardatela con nuovi occhi.
Un giorno, tra dodicimila anni, Polaris verrà rimpiazzata e in quel punto del cielo, al suo posto, vedremo Vega.
Salutiamo Polaris, e ringraziamola. Ha svolto un buon lavoro.
Diamo il benvenuto a Vega.
Ora guardiamo giù, verso il pianeta. Giù, verso il pianeta, tra dodicimila anni.
Dove un tempo sorgeva Bologna, tutto è coperto da un grande bosco.
La sfera entra nell’addome per l’ultima volta. Mentre lo fa si rimpicciolisce fino a scomparire. Portiamo le mani poco sotto l’ombelico e massaggiamoci in senso antiorario.
Immaginiamo di rimpicciolire a nostra volta, a ogni espirazione siamo sempre più bassi, finché non torniamo a terra.
Il Cantagallo non c’è più. Al suo posto, una radura erbosa.
Intorno a noi solo alberi.
Non siamo soli. Altri umani sono intorno a noi, camminano senza urtarci ma non ci vedono.
Siamo andati avanti dodicimila anni meno due ore. Di nuovo mancano due ore all’alba. Questi umani, nostri discendenti, si preparano ad accoglierla, rivolti a settentrione. Il loro sguardo cerca e trova Vega, la stella del nord. Tra le loro mani la sfera si espande e contrae. Nella loro mente, sono già più alti dell’atmosfera. Possono toccare la luna.
Un giorno, fra tredicimila anni, Vega verrà rimpiazzata e in quel punto del cielo, al suo posto, gli umani vedranno di nuovo Polaris.
Salutano Vega, questi nostri discendenti, e la ringraziano. Ha svolto un buon lavoro. Danno il bentornato a Polaris, e noi con essi.
Ora, da quelle altezze guardano giù, verso il pianeta, verso di noi, ma non vedono noi.
Vedono come sarà tra tredicimila anni.
Tra poco scenderanno e, accanto ad essi, i loro discendenti guarderanno verso nord.
E così via, lungo la catena dei millenni, tra glaciazioni, disgeli, nascite e declini di civiltà, fino a vedere la notte dell’ultimo rituale.
Ora torniamo indietro, torniamo qui, al Cantagallo. Ogni espirazione ci porta indietro di mille anni.
Il sole comincia a sorgere. Ci attende una giornata di lavoro, le mani sono colme di energia.
Diamoci da fare.

Dogato e Bologna, ottobre – dicembre 2008.
A Graziano Manzoni, “in memoriam”.

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Racconto apparso nell’antologia “Anteprima nazionale. Nove visioni del nostro futuro invisibile.” A cura di Giorgio Vasta, Minimum Fax, Roma 2009.
© 2009 by Wu Ming 1, [
vedi]