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Gli ambienti dell’apprendimento nel tempo delle reti

Per una bambina di un anno una rivista è un Ipad che non funziona [vedi]. Tra i 2 e i 4 anni: 4 bambini su 10 usano uno strumento touch screen per giocare o guardare video. I nuovi schemi mentali consentono di usare intuitivamente il medium senza pensare, hanno effetto sulla percezione del corpo e dello spazio, ad esempio la tastiera entra stabilmente negli schemi motori.
Ho riflettuto su questi temi nel corso di una conferenza organizzata da Daniela Cappagli nell’ambito del ciclo promosso da Istituto Gramsci e Istituto di storia contemporanea di Ferrara e rivolto agli insegnanti. Ragionare sui cambiamenti indotti dalle tecnologie sull’apprendimento significa assumere che le tecnologie non sono semplici strumenti, ma pratiche condivise che cambiano le abitudini e le opportunità per gli individui e che creano un nuovo ambiente. Per definizione un ambiente propone sfide di adattamento.
Il termine nativi digitali sottolinea la discontinuità nei modi di utilizzare le tecnologie delle generazioni cresciute al tempo di Internet. Non si tratta però di un concetto anagrafico, ma cognitivo ed esperienziale: è una questione di capacità. Le conseguenze delle tecnologie della comunicazione nella costruzione dell’identità e delle relazioni non sono interpretabili in termini di fuga verso il virtuale. Le reti divengono luoghi del quotidiano, segnati dalla condivisione di esperienze con un numero ampio e indefinito di persone. Si crea un nuovo spazio sociale in cui entrano anche persone mai incontrate dal vivo. Mentre si riducono le distanze relazionali, si crea un’identità fluida e flessibile, ma talvolta precaria e incerta. Cresce l’influenza dei legami deboli, vale a dire dei legami esterni alla famiglia e ai gruppi ristretti, ma le reti non sono egualitarie: non tutti i membri di una comunità usufruiscono gli stessi vantaggi dall’appartenenza ad una stessa rete. Si apre un nuovo contesto di informazioni, che ha aspetti positivi e negativi. Quelli positivi hanno a che fare con l’esplorazione (la rete dilata i contesti entro cui fare esperienza del mondo esterno. Ciò vale per la dimensione privata e individuale quanto per quella pubblica e sociale) e lo scambio di risorse attraverso le sharing practice.
Quelli negativi sono stati fin troppo richiamati. Rischi di superficialità, distrazione, imitazione, persuasione, solitudine, ansia. Più interessante la linea di analisi che sottolinea le trasformazione del funzionamento cerebrale, per effetto di un sovraccarico cognitivo e l’impossibilità di assimilare l’eccesso di informazione o per l’esternalizzazione di funzioni come la memoria.
Diverse ragioni rendono indispensabile che gli insegnanti si misurino con le sfide proposte dal nuovo ambiente del Web. Il Web è una palestra per imparare ad abitare i luoghi sempre più complessi del nostro quotidiano. Il web richiede competenze: competenze tecnologiche sempre più raffinate e competenze sociali per gestire i diversi contesti di relazioni in cui siamo coinvolti, governare gli spostamenti da uno all’altro e per renderli coerenti o almeno non dissonanti tra loro.
Si ampliano le opportunità di espressione creativa: la possibilità di realizzare progetti, di lavorare insieme, di pensare con le mani. Soprattutto, si ampliano gli ambienti di apprendimento informale, quelli più rilevanti per la nostra formazione.

Maura Franchi  è laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi e Social Media Marketing. Studia i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@gmail.com

REPORTAGE
Il Po nel giorno della piena, l’onda sta passando

La paura per ora è passata. L’onda di piena del Po si è registrata a Pontelagoscuro questa notte intorno alle 4, con un secondo picco in mattinata fra le 8 e le 9. Ora la condizione di massima allerta pare si stia attenuando, le acqua defluiscono con livelli di portata in progressiva diminuzione.

Ecco le foto scattate questa mattina dai nostri fotoreporter Roberto Fontanelli e Aldo Gessi
(le immagini dal drone sono pubblicate per gentile concessione di Publiteam photo)

Il brano intonato: Fiorella Mannoia, Il fiume e la nebbia [clic per ascoltare]

L’onda di piena del Po sta passando senza creare danni (foto Gessi – Fontanelli)
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Il Po (foto di Roberto Fontanelli)
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Romafilmcorto, Muroni a un passo dal successo: “Portare al cinema i temi sociali e uscire dall’anestesia”

Ha vinto due premi su tre Tommaso, il film diretto da Vincenzo Mascolo in concorso a Romafilmcorto interpetrato da Monica Guerritore, Giulio Brogi e Stefano Muroni, iperattivo attore di Tresigallo, selezionato a concorrere come migliore attore al festival romano, uno tra i più accreditati dai critici cinematografici. “Anche se non ce l’ho fatta, la soddisfazione è stata grandissima, partecipare da candidato significa essere stati apprezzati per il lavoro svolto a fianco di attori di consolidata esperienza”, racconta rientrando a Tresigallo, dove oggi pomeriggio alle 17.15 è in scena al teatro cittadino insieme agli studenti del Centro preformazione attoriale con Siamo nati proprio adesso! (1943 – 1945: un piccolo paese nella grande pianura della memoria. La guerra, la lotta, la vita), omaggio alle 23 vittime uccise 70 anni fa esatti nel bombardamento piovuto sulla città. “Tommaso si è aggiudicato il Colosseo D’Argento e Monica Guerritore il premio come migliore attrice – spiega – Credo sia un ottimo inizio per un corto legato a un tema di grande attualità come l’eutanasia, trattato finora solo da Marco Bellocchio ne La bella addormentata”. Ancora una volta richiama l’attenzione sui temi sociali del nostro tempo sui quali il cinema dovrebbe aprire nuove e importanti riflessioni. “Temi come l’eutanasia, la precarietà e la sicurezza sul lavoro, trattati da Terremotati il film appena girato a Mirabello, dovrebbero essere un marchio di fabbrica – continua –

romafilmcorto
Stefano Muroni sulla sinistra

La nostra generazione deve parlare dei problemi che la riguardano se vuole lasciare un segno del proprio passaggio e lo deve fare dando alle proprie opere una visibilità intelligente”. Le sue dichiarazioni suonano come un invito ai giovani artisti a difendere il proprio ruolo di protagonisti strappandolo all’anestesia patinata di storie vuote da “telefoni bianchi del XXI secolo” come ama ripetere Stefano, che recitando in “Tommaso”, nato da una sua idea poi messa a punto e sceneggiata da Carla Gravina (nella foto), ha provato emozioni davvero forti. “Lavorare fianco a fianco con Monica Guerritore e Giulio Brogi è stato come realizzare un sogno – racconta – Il sogno di un ragazzino partito da Tresigallo per fare l’attore”. Così è, perché la stoffa dell’attore c’è eccome. E c’è anche la voglia di migliorare, di mettersi alla prova, di vivere la sua professione con determinazione e impegno. “Quest’esperienza mi ha dato tantissimo – conclude – Ho imparato molto, da come si trucca un viso, ai tempi da usare per dare maggior efficacia a una battuta. I consigli di Monica sono stati fondamentali”. E il sogno continua.

Le impervie strade di Montalbano

Sono gli anni ottanta, quelli della morte del banchiere Michele Sindona, della P2 e dell’attentato a papa Giovanni Paolo secondo. Le notizie si apprendono alla radio, al massimo al telegiornale. Montalbano, ancora giovane, ma già molto simile all’uomo maturo dei romanzi più famosi, si muove tra il commissariato, la sua verandina, la passeggiata allo scoglio e le indagini in mezzo alla cultura della sua terra. I Cuffarro contro i Sinagra, Livia e Adelina che apertamente non si sopportano, il dottor Pasquano che lo maledice, la miseria umana più bieca e la passione che diventa delitto e vendetta, a qualsiasi età.
In un’intervista alla televisione, il commissario cita Pirandello, gli serve per fare capire che lui l’apparenza non la scambia per realtà e viceversa, il doppio sa bene dove trovarlo. E il messaggio avrà il suo effetto perchè Montalbano non va mai alla cieca quando agisce e quando dichiara.
Il commissario è uomo acuto, piglia, mette insieme, da un romanzo di Sciascia a un film di James Bond. Al suo fianco la caricatura di Catarella, Mimì Augello sciupafemmine e l’insostituibile Fazio. Ci sono sensazioni che non quadrano, non sa perchè, qualcosa di vago che lo inquieta, un odore che lo punge, ma poi, ipotesi dopo ipotesi alla soluzione finale Montalbano arriva sempre.
I metodi? Più o meno leciti, “ninni catafuttemmo” risponde a Fazio quando l’indagine gli viene tolta dal questore per essere affidata a un collega. È abituato a non percorrere strade troppo battute, gli capita anche di fidarsi di un povero ladro quasi onesto per risolvere un caso. E non sbaglia.
Gli otto racconti parlano di mare e di terra, di giovani donne e vecchie rancorose, mafia e linguaggi della malavita che il commissario sa cogliere molto bene.
E soprattutto sul finire compaiono i notturni, serate morbide e accoglienti con la luna piena “che pariva ‘na mongolfiera”, sono le notti in cui tirare l’alba con Livia alle saline ne vale davvero la pena.

 

Andrea Camilleri, Morte in mare aperto e altre indagini del giovane Montalbano, Sellerio

L’OPINIONE
Le colpe dei padri

Sono state pubblicate sulla stampa le intercettazioni “clandestine” [leggi] del consigliere regionale del M5s Defranceschi che raccolgono i “commenti”, se così si possono definire, dell’ex capogruppo Pd in Regione, Monari, sulla vicenda delle cosiddette “spese pazze” dei gruppi consiliari della passata consigliatura. Diciamo subito che non è un bello spettacolo: per il tono generale di sprezzo e di fastidio nei confronti di chi deve controllare, per la greve ed imbarazzante mediocrità di alcuni commenti, per la concezione distorta che pare emergere dell’impegno politico, in cui all’etica si sostituisce il timore della sanzione.
Indignarsi, oltre che del tutto naturale, è quindi doveroso, almeno per chi è convinto che gestire la cosa pubblica rappresenti una delle occupazioni più nobili a cui possa essere chiamato un individuo. Ma non basta, a maggior ragione se si appartiene ad una delle generazioni che hanno guidato il Paese negli ultimi 20-25 anni. Perché accanto alle specifiche responsabilità etiche e penali che attengono alle singole persone e di cui ciascuno è chiamato a rispondere individualmente, ne esistono di più generali che riguardano l’intero corpo sociale; certamente non tutti nella stessa misura, ma nessuno escluso. Difficile uscire da questa situazione se non si riesce a rendersene conto, accettando di conseguenza anche le critiche aspre delle generazioni più giovani, che si ritrovano a pagare il prezzo dei nostri errori ed a cui troppo spesso molti reagiscono quasi sdegnati, protestando la loro assoluta estraneità.
Viene da chiedere a costoro, ma tu, dov’eri mentre succedeva tutto questo? Se avevi capito cosa stava capitando, cos’hai fatto per impedirlo? O, se no, come hai potuto non vedere? Non era possibile fare qualcosa di più e di diverso? Perché la deriva che ha portato all’emersione e al consolidamento delle tante caste che da parecchi lustri fanno il bello ed il cattivo tempo in Italia ha radici lontane ed è per troppi una consolatoria quanto patetica menzogna affermare che sia stata tutta colpa di Berlusconi e del suo baraccone affaristico-mediatico, scrollandosi così di dosso ogni responsabilità per il solo fatto di averlo sia pur inutilmente contrastato.

SETTIMO GIORNO
Il ‘Patto’, l’Aurora e il tramonto della cometa

LA COMETA – E’ caduto l’ultimo frammento di quella dolcissima poesia che mi raccontavano da bambino davanti alle casette di sughero, alle statuine (la fanciulla che portava i panni a lavare, il calzolaio, il maniscalco…) di un presepio che mia madre realizzava con un amore struggente, ricordo le montagne fatte con i cuscini ricoperti di carta mimetica, le stradine, il pozzo, un piccolo specchio a rappresentare il laghetto in riva al quale si contemplavano oche, galline e pecore, e, poi, la capanna, dove il Bambino, adagiato in mezzo alla paglia, apriva le sua braccine rosee ad accogliere i nuovi fedeli accorsi ad ammirare il grande miracolo di Dio, il cui Figlio ora avrebbe salvato il mondo crudele. Là, sulla capanna, mia madre metteva la stella cometa, richiamo solenne per i Magi. Io immaginavo che quella stella luccicante di strass fosse il vessillo profumato di Dio. Profumo di violetta e di rosa. Ora abbiamo appreso che l’ultima, straordinaria creazione umana , una navicella spaziale, si è dolcemente depositata su una cometa, rimandando a terra immagini e perfino odori. Si è così appreso che la cometa puzza di uovo marcio. Amen.
L’ AURORA – I russi hanno portato via dalla Nieva, da dove minacciava coi suoi cannoni il Palazzo d’Inverno, l’incrociatore Aurora, sulla tolda del quale, preso da una commozione che mi stringeva alla gola, scrissi una poesia (“Non naviga più l’Aurora….”) per glorificare le grandi speranze che la rivoluzione d’ottobre aveva regalato agli uomini. Hanno portato il battello che navigava sulle illusioni di milioni di oppressi in un bacino di carenaggio, dove verrà rimodernato. Speriamo che non cancellino definitivamente il sentore di giustizia che la piccola nave portava ancora con sé.
IL PATTO – E così Renzi e Berlusconi sono riusciti a firmare “Il Patto”, Manzoni direbbe “patto scellerato”, ma abbiamo dimenticato anche il povero Lisander e non abbiamo elementi per giudicare quello che i due hanno democraticamente deciso. Qualcuno afferma che il documento finale cominci così: “Lasciateci lavorare”. Quello che è certo è che stanno per arrivarci addosso altre tasse, la cosiddetta nuova patrimoniale mascherata. Non fatevi ingannare dai titoli “si cambia e si ammoderna il Catasto”. Nella realtà, il nuovo Catasto innalzerà il valore delle case, per cui sarà impossibile, con questa crisi, vendere e comprare, il mercato morirà: aumenteranno gli affitti e i senzatetto, chi ha una casa vecchia ma classificata di lusso dovrà accendere altri mutui per pagare le continue opere di ristrutturazione. Ma nessuno protesta, tutti zitti, il Parlamento è muto davanti allo scempio che si sta facendo del nostro povero paese in via di definitiva demolizione. Giove s’è arrabbiato, sta distruggendo tutto ciò che abbiamo imprudentemente costruito sotto le montagne, sulle rive dei fiumi e dei ruscelli, forse sulle bocche dei vulcani. Ma stiamo tranquilli: “Il Patto” ci salverà.

Una fantasmagorica Tempesta

STANDING OVATION: I PIU’ ACCLAMATI SPETTACOLI TEATRALI DEL XXI SECOLO
La Tempesta, regia di Giorgio Barberio Corsetti, Teatro Comunale di Ferrara, dal 21 al 26 marzo 2000

Se si esclude l’Enrico VIII, del 1613, composto probabilmente con la collaborazione di John Fletcher, “La Tempesta” (1611) è da considerarsi l’ultimo dramma scritto da William Shakespeare. Si tratta di una sorta di “summa” idealmente autobiografica dell’autore, trasposta nella fiaba e tutta incentrata sul protagonista: Prospero. Il quale, dopo avere subito l’usurpazione dal trono del ducato di Milano da parte del fratello, approda con la figlia Miranda su un’isola deserta o, meglio, abitata unicamente dal malvagio Calibano. Prospero diviene mago, domina l’essere malefico e libera fate ed elfi benigni, tra cui il tenero folletto Ariel. Alla fine, con un prodigio, Prospero scatena una tempesta e fa naufragare sull’isola una nave con a bordo i suoi nemici, compreso il fratello usurpatore. Ma la sospirata vendetta sarà sostituita dall’amore, dal perdono, dal pentimento e dalla felice riparazione dei torti subiti.
«Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni», dice Prospero nel suo monologo della scena prima nell’atto quarto dell’opera. Tuttavia, in questo passo, il grande poeta e drammaturgo di Stratford-on-Avon non intendeva noi esseri umani ma (anticipando Pirandello di tre secoli) noi personaggi, la nostra vaga trasfigurazione sul palcoscenico. Ha avuto dunque ragione il regista Giorgio Barberio Corsetti ad attribuire all’opera shakespeariana una valenza meta-teatrale, sia per ciò che riguarda i contenuti e sia per quanto attiene al codice tecnico-formale adottato nell’allestimento.
Emblematica e funzionale è la scenografia, creata dallo stesso regista con l’assistenza di Cristian Taraborrelli, proposta come una sorta di straordinaria macchina delle illusioni generatrice di fantasmiche apparizioni. Fiori rossi sbocciati nello spazio chiaro, due torri metalliche a tre piani con scalette, un’ampia piattaforma mobile al centro a rivelare e occultare l’antro di Calibano, il tutto stagliato su uno sfondo plumbeo al contempo ideale supporto per le proiezioni video ideate e realizzate da Fabio Iaquone. In questa atmosfera un po’ dechirichiana e un po’ magrittiana, Prospero e il folletto Ariel, entrambi agghindati in completo grigio con panama bianco in testa e bastone coloniale in mano, tramano il gran sortilegio che conduce il primo alla riappropriazione della sua identità e dignità di uomo e il secondo alla libertà di tornare a fondersi e confondersi con gli elementi della natura.
I personaggi principali del dramma: Prospero, Ariel e Calibano, sono interpretati rispettivamente da Fabrizio Bentivoglio, Margherita Buy e Silvio Orlando, coadiuvati dalla compagnia del “Teatro stabile dell’Umbria”.

REPORTAGE
Il Po in piena.
Parte il deflusso

La piena del Po si sta abbassando come quota, ma sarà più lunga. Fortunatamente il colmo dell’ondata in territorio ferrarese dovrebbe essere inferiore rispetto ai livelli attesi. Occorrerà, però, più tempo per il ritorno alla normalità. È questa la sintesi del tavolo riunito oggi in Prefettura per seguire l’evoluzione della situazione.

All’incontro in palazzo Giulio d’Este, presieduto dal prefetto Michele Tortora e coordinato dalla capo gabinetto Maria Teresa Pirrone e dalla delegata per la Protezione civile Serena Botta, hanno preso parte Aipo, Provincia, Comuni, volontari della Protezione civile, Polizie municipali, Polizia provinciale, forze dell’ordine e Vigili del fuoco. Lo comunica una nota dell’ufficio stampa della Provincia di Ferrara.

Intanto, in diretta da Pontelagoscuro, una carrellata di fotografie scattate oggi da Roberto Fontanelli e Aldo Gessi.

[clicca le immagini per ingrandirle]

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Po in piena (foto Fontanelli e Gessi)
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Po in piena (foto Fontanelli e Gessi)
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Po in piena (foto Fontanelli e Gessi)
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Po in piena (foto Fontanelli e Gessi)
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Po in piena (foto di Fontanelli e Gessi)

REPORTAGE
Attendendo Abercrombie.
Jazz club anche da vedere

Un chitarrista di culto come John Abercrombie stasera al Jazz club Ferrara, nella sede del Torrione di San Giovanni, via Rampari di Belfiore 167. In collaborazione con il Bologna jazz festival. L’ingresso, dalle 21,30, è a pagamento. Lunedì, invece, sarà la volta di un doppio appuntamento. Il duo composto da Kenny Barron al pianoforte e Dave Holland al contrabbasso al Teatro comunale Claudio Abbado di Ferrara per una produzione di FerraraMusica. La serata nel Torrione dove ha sede il Jazz club Ferrara, invece, dedicata agli artisti emergenti del lunedì, inseriti nella sezione del cartellone intitolata “Happy go lucky local”, in questa occasione in compagnia del Marcello Molinari Quartet.

Intanto uno sguardo agli ultimi “main concert” con una carrellata di belle immagini: quelle di venerdì scorso (7 novembre 2014) con The Claudia Quintet, il “solo” di John Taylor di sabato 8 e lo Steve Kuhn trio di lunedì 10. Tre appuntamenti frutto della collaborazione tra Jazz club Ferrara e Bologna jazz festival Il reportage fotografico è di STEFANO PAVANI.

[clicca le immagini per ingrandirle]

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The Claudia Quintet con Chris Speed al sax al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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The Claudia Quintet con Red Wierenga alla fisarmonica al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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The Claudia Quintet con John Hollenbeck alla batteria al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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The Claudia Quintet al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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The Claudia Quintet al Jazz club Ferrara venerdì scorso: Matt Moran al vibrafono (foto di STEFANO PAVANI)
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John Taylor al Jazz club Ferrrara (foto di Stefano Pavani)
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John Taylor al Jazz club Ferrrara (foto di Stefano Pavani)
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John Taylor al Jazz club Ferrrara (foto di Stefano Pavani)
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Steve Kuhn Trio con Billy Drummond alla batteria al Jazz club Ferrrara (foto di Stefano Pavani)
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Steve Kuhn con il suo trio al Jazz club Ferrrara (foto di Stefano Pavani)
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Steve Kuhn Trio al Jazz club Ferrrara (foto di Stefano Pavani)
Steve Kuhn Trio al Jazz club Ferrrara (foto di Stefano Pavani)

La rivoluzione di Basaglia: radicalismo e legalità

Nel secondo incontro del ciclo “Passato Prossimo”, la stagione dei diritti in Italia è stata raccontata da una prospettiva del tutto originale: quella di coloro i cui diritti sono spesso negati, i matti, anche se in realtà, per usare le parole di uno che se ne intendeva, “nessuno sa cos’è il malato di mente”. Proprio la figura di Franco Basaglia e la sua rivoluzione civile e sociale, che ha portato alla chiusura dei manicomi, narrati nel libro del giornalista Oreste Pivetta “Franco Basaglia, il dottore dei matti. La biografia”, sono stati al centro dell’incontro: ne è emersa, non a caso, una figura di “irregolare”, difficile da racchiudere dentro una definizione.

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Il giornalista e scrittore Oreste Pivetta, autore del libro “Franco Basaglia. Il dottore dei matti”

Tra quelle che Pivetta e il professor Andrea Pugiotto hanno dato, forse quella più interessante è “un intellettuale del fare”. Grazie al suo orizzonte culturale ampio, che supera i confini dell’accademia italiana e guarda ad altre discipline oltre la psichiatria, porta la visione fenomenologica nella psichiatria: sebbene la loro osservazione e la loro descrizione dettagliata rimangano strumenti preziosi, non si può ridurre il malato ad una serie di sintomi, la psiche umana è complessa e misteriosa e la psichiatria non deve oggettivizzare il malato in una diagnosi. È così che l’attenzione passa dalla malattia al malato, dal sistema di classificazione della patologia alla persona nella sua totalità di corpo e mente. Ma ogni individuo diventa una persona quando ha delle relazioni in un contesto sociale, per questo Basaglia denuncia la realtà di una psichiatria per i poveri e di una psichiatria per i ricchi: “c’è un vecchio proverbio calabrese che dice ‘chi non ha non è’, questa contraddizione esprime nella sua totalità le contraddizioni della nostra società”, così risponde in una famosa intervista a Sergio Zavoli. Due sono le possibili interpretazioni ed entrambe sono ben riconoscibili nella pratica basagliana: la prima è che la malattia psichica è anche malattia sociale, mentre per la seconda chi non ha diritti perde se stesso, dunque per curare il malato è fondamentale restituirgli le facoltà esistenziali, cioè la dignità e la responsabilità esistenziale.

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Copertina del libro

Ma la peculiarità della rivoluzione di Franco Basaglia è la sua natura di “lunga marcia nelle istituzioni per mettere in discussione proprio quelle realtà che limitano la libertà personale”, il suo essere “un’azione che si muove sempre nella legalità”, come ha affermato Pugiotto. Insomma il suo è un radicalismo nei contenuti ma un gradualismo nei metodi.
In conclusione non poteva mancare un bilancio: a 36 anni dalla legge 180, approvata nel 1978, quattro giorni dopo il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro e nove giorni prima dell’approvazione della legge 194 sull’interruzione di gravidanza, dove è arrivato questo cammino progressivo?
I manicomi purtroppo esistono ancora: in Italia infatti sono ancora attivi 6 Opg, ospedali psichiatrici giudiziari, che il Presidente Napolitano ha definito “estremo orrore, inconcepibile in qualsiasi paese appena civile”. La loro chiusura era stata stabilita entro il 31 marzo 2013, ma questa data è slittata di decreto legge in decreto legge e ora dovrebbe avvenire al 1 aprile 2015. Inoltre, secondo Pivetta, non abbiamo ancora del tutto superato il pregiudizio nei confronti dei malati di mente. Queste parole mi hanno ricordato quelle di Mariuccia Giacomini, infermiera all’ospedale psichiatrico provinciale di Trieste, la cui testimonianza è stata raccolta da Renato Sarti nel monologo “Muri. Prima e dopo Basaglia”, interpretato appena una settimana fa da una bravissima Giulia Lazzarini al Teatro Comunale di Occhiobello: non è solo una questione di muri fisici, i muri sono “gli schemi che abbiamo nella testa, questi dobbiamo abbattere”.

“Tu prova ad avere un mondo nel cuore
e non riesci ad esprimerlo con le parole,
e la luce del giorno si divide la piazza
tra un villaggio che ride e te, lo scemo, che passa,
e neppure la notte ti lascia da solo:
gli altri sognan se stessi e tu sogni di loro.
[…]
E senza sapere a chi dovessi la vita
in un manicomio io l’ho restituita:
qui sulla collina dormo malvolentieri
eppure c’è luce ormai nei miei pensieri,
qui nella penombra ora invento parole
ma rimpiango una luce, la luce del sole.”

Un matto (dietro ogni scemo c’è un villaggio) di Fabrizio De Andrè [ascolta]

L’OPINIONE
Voltate pagina!

Settembre 2012. La Guardia di Finanza ha appena compiuto un blitz negli uffici della Regione di viale Aldo Moro. In quei giorni si tiene una drammatica riunione dei capigruppo. Marco Monari (capogruppo Pd), non immaginando di essere registrato dall’ex grillino Defranceschi, fa una serie di dichiarazioni gravi e inquietanti. La registrazione è stata consegnata agli inquirenti, ed è agli atti dell’inchiesta in corso per peculato. Ecco alcune delle affermazioni di Monari. “Tutto quello che non è raccontabile non si può più fare. Ora tutto quello che è stato fatto fino adesso è difficile da raccontare. Se vado da un consigliere e gli dico: con chi sei andato a mangiare? Quello mi risponde: ‘Fatti i cazzi tuoi!’.” “Oltre a non fare nulla e a non capire nulla, spendono un sacco di soldi, questo è il punto.” “Quello della politica è un concentrato di idioti. Il Pd è un partito grande, ci sono molti idioti, è proporzionale.” “L’incrocio dei dati, i rendiconti, sono le nostre mutande, è chiaro? Quando loro hanno i rendiconti dei gruppi, questo lo dobbiamo sapere… quando ce li ha uno che capisce di quella roba lì, ha tutto. Noi alla Corte dei Conti gli stiamo dando non le chiavi di casa, ma la casa.” Monari non trascura niente. Alla fine non poteva mancare l’attacco alla stampa. “Se fossi Berlusconi con cinque reti andrei tutte le sere in tv a dire che quelli della carta stampata sono delle teste di cazzo.” Matteo Richetti, in quell’anno presidente dell’Assemblea Regionale, dice nelle conclusioni: “La parte più critica delle spese ce l’abbiamo su questo: pranzi, cene e rimborsi chilometrici.” Non è necessario commentare. Mi parrebbe di infierire. Solo una considerazione personale. Domenica andrò a votare perché per me l’esercizio del voto è un atto sacro. Ma il grido che si sta levando, in una regione dal passato virtuoso, è forte e chiaro: voltate pagina! Prima che sia troppo tardi per la credibilità delle Istituzioni democratiche e per l’affidabilità di chi dovrebbe sentirsi onorato di rappresentarle.

Fiorenzo Baratelli è direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara

LA CURIOSITA’
Il caffè più sostenibile?
E’ in Italia…

L’italianissimo illy è il caffè più sostenibile al mondo. Lo ha recentemente stabilito un’inchiesta indipendente dell’International consumer research & testing ltd. (Icrt), un’associazione di difesa dei diritti dei consumatori che coopera nella ricerca e nel test di prodotti, composta da una quarantina di organizzazioni, tra cui l’italiana Altroconsumo, di 33 paesi sparsi nei 5 continenti e la cui partecipazione è aperta ai gruppi che agiscano unicamente nell’interesse dei consumatori, non facciano pubblicità e siano indipendenti dal commercio, dall’industria e dai partiti politici.

Icrt ha, dunque, collocato la triestina illycaffè al primo posto per l’impegno di responsabilità nei confronti dei coltivatori di caffè nel Sud del mondo, analizzandone le politiche sociali, economiche e ambientali attuate nei confronti dei coltivatori nei vari Paesi produttori (America Latina, Africa e Asia), in termini di sostenibilità sociale e ambientale, trasparenza, coinvolgimento attivo. In particolare, l’azienda ha costituito solide, affidabili e costruttive relazioni dirette con i piccoli coltivatori, inserendoli anche in attività di formazione volte ad aiutarli a migliorare la qualità del proprio caffè e riconoscendo loro un prezzo profittevole. L’azienda ha operato, e opera, per garantire a questi produttori condizioni di vita adeguate oltre che per abbattere l’impatto ambientale della produzione di caffè. Questo, grazie a una valutazione diretta e certificata dell’impatto sociale delle proprie attività. Il caffe è, infatti, vissuto e considerato non solo come un piacere ma, soprattutto, come un’importante espressione della ricchezza dei diversi Paesi e simbolo dell’unione tra diverse culture e, come tale, un modello di riferimento per altre colture e per gli scambi commerciali internazionali.
Sono circa 25 milioni nel mondo le famiglie coinvolte nella coltivazione del caffè: la responsabilità nei loro confronti delle aziende che operano in questo settore è cruciale. Expo 2015, di cui illycaffè è Official coffee partner, sarà un’occasione importante di sensibilizzazione anche su questo. In tale ambito, illycaffè è stata la prima azienda al mondo ad avere ottenuto, nel 2011, da Dnv Business sssurance, la certificazione Responsible supply chain process, che attesta l’approccio alla sostenibilità da parte dell’azienda in tutte le sue attività, con particolare attenzione alla catena di fornitura. Si tratta di un modello innovativo, poiché mette al centro la qualità del caffè prodotto e la creazione di valore per tutti gli stakeholder. L’esigenza è sempre più avvertita dai moderni consumatori finali che vogliono poter scegliere un caffè equo (e quindi “pulito”) oltre che di qualità. Un esempio italiano tutto da seguire.

Foto di Elisabetta Illy

Maria Luisa Pacelli: “Dal prof. Ranieri Varese mi aspetterei critiche argomentate”

da: Maria Luisa Pacelli, Direttore Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara, Fondazione Ferrara Arte

In genere non amo entrare in polemiche riguardanti Ferrara Arte o i musei di cui sono responsabile. Credo, infatti, che siano i risultati a dover parlare. Oltre a ciò, temo l’eccessiva semplificazione di argomenti complessi, che porta spesso a imprecisioni e a fraintendimenti. Ma alcune precisazioni in questo caso sono d’obbligo.

A proposito di fraintendimenti, durante la conferenza stampa di mercoledì scorso, in riferimento al professor Varese, non ho detto in nessun modo che non sia un interlocutore accreditato, al contrario: proprio perché a esprimersi è uno studioso autorevole con esperienza di direzione museale, mi aspetto critiche argomentate e puntuali, non generiche, come ad esempio nel passaggio in cui scrive: «…limitatezza delle offerte che non siano quelle espositive a loro volta non eccezionali a causa non solo di difetti di progettazione ma anche del venir meno del sostegno bancario, assenza di strumenti di promozione e di conoscenza». Le critiche sono assolutamente legittime, ma mi piacerebbe sapere quali sono i difetti della progettazione, o a cosa alluda il professore quando parla di assenza di strumenti di promozione (per le mostre, per i musei?) o di conoscenza (di chi? rispetto a cosa?).

Detto questo, non posso a mia volta non entrare nel merito di altre le riflessioni fatte dal professor Varese, sempre relativamente a Ferrara Arte. Penso innanzitutto che questa istituzione sia stata e sia ancora un’opportunità per Ferrara. Non a caso, molte città della regione, e non solo della regione, ne hanno seguito l’esempio con maggiore o minore continuità o successo, basti pensare a Ravenna, Forlì, Bologna, Padova, Rovigo. Si può, naturalmente, non essere d’accordo con la mia opinione, non trovo tuttavia accettabile che, ancora in maniera piuttosto generica e per questo insidiosa, nel primo intervento si scriva che Ferrara Arte «è responsabile, nel bene e nel male, della situazione attuale», per poi elencare una serie di problemi, che vanno dalla diminuzione dei pernottamenti, al calo dei visitatori delle mostre e dei musei, compreso il Castello (il cui numero dei visitatori, indipendentemente da Ferrara Arte, è peraltro in sensibile aumento da due anni), e, infine, smentire questa affermazione nel secondo intervento.

Ci sono molti altri punti toccati dal professor Varese che mi piacerebbe approfondire, non necessariamente per dissentire con lui, qui mi limito per ovvie ragioni di spazio a un paio. Nel suo secondo intervento è scritto che, incoerentemente da quanto affermato nell’articolo 2 dello Statuto della Fondazione, niente è stato fatto oltre alle mostre. Vorrei ricordare i cicli di conferenze, i concerti, le rassegne cinematografiche, gli spettacoli che, spesso in collaborazione con altre istituzioni o associazioni cittadine, sono stati organizzati in occasione delle esposizioni, per non parlare delle innumerevoli attività di approfondimento dedicate agli studenti di ogni ordine e grado. Tutto ciò è documentato e documentabile, se poi vogliamo discutere della qualità di queste iniziative, sono a disposizione.

Infine, un argomento che giustamente sta molto a cuore al professor Varese, è la tutela e la valorizzazione del patrimonio, che a suo parere soffre a causa di Ferrara Arte. In risposta a ciò vorrei ricordare alcuni fatti, che elenco. Delle ultime quattro mostre presentate al Palazzo dei Diamanti due erano dedicate al patrimonio cittadino (Antonioni e la mostra dedicata alla collezioni dei musei di Palazzo Massari). Due delle tre mostre in programmazione nei prossimi anni sono legate alla storia dell’arte e della cultura ferrarese (Pittura metafisica e Orlando Furioso). Attraverso le mostre il nostro patrimonio è stato promosso anche al di fuori delle mura cittadine e dei confini nazionali (solo per fare due esempi, la mostra di Antonioni a Bruxelles e, il prossimo anno, a Parigi, o la mostra sulle collezioni del Massari a Palazzo Pitti). Le mostre di Ferrara Arte non sono solo un’opportunità di promozione e valorizzazione, ma anche di tutela: esemplare da questo punto di vista è stata la rassegna Immagine e persuasione, organizzata con il Seminario Arcivescovile e l’Arcidiocesi e con i Musei Civici di Arte Antica. Per questa mostra, lo ricordo a ingresso gratuito, è stata restaurata la Crocifissione di Carlo Bononi della chiesa delle Sacre Stimmate e si è aperto al pubblico un luogo di grandissimo interesse storico artistico come Palazzo Trotti Costabili. Ogni qual volta l’oggetto delle mostre lo ha consentito, si inoltre è lavorato in collaborazione e con i musei: la rassegna sull’età di Borso d’Este del 2007, ad esempio, ha coinvolto non solo i Musei Civici di Arte Antica, ma anche il Museo della Cattedrale e la Pinacoteca, sinergie si sono istituite tra il Museo Boldini e la mostra Boldini nella Parigi degli impressionisti, durante la quale, non a caso, si è registrato un forte incremento dei visitatori del Museo. Centrata sul patrimonio e sulla stretta collaborazione tra istituzioni della città è anche l’iniziativa presentata alla stampa mercoledì scorso che, oltre a rendere fruibili opere delle collezioni del Massari chiuso per restauro, promuove e valorizza un monumento assolutamente centrale per Ferrara.
In conclusione, credo che la discussione sul ruolo di Ferrara Arte nel sistema museale ferrarese e rispetto al patrimonio della città non possa ignorare ciò che in questo ambito è stato fatto, o dare per scontato che sia stato fatto poco e male, senza argomentazioni puntuali o una seria disamina critica. Inoltre, fermo restando che si può e si deve sempre provare a fare meglio, ritengo che in un periodo – ormai molto lungo – in cui le risorse disponibili per la cultura sono sempre più scarse in questo paese, e quelle destinate agli enti locali in costante e vertiginosa diminuzione, questa città abbia fatto molto per promuovere la cultura in generale e il proprio patrimonio in particolare, e questo anche grazie a uno strumento come Ferrara Arte.

LA RICORRENZA
Arte, percorsi tematici e App per non dimenticare la lunga notte del ’43

“E i segni dei proiettili, lievi, sì, ma però chiaramente visibili, che nonostante un recente restauro si vedono ancor oggi butterare qua e là l’antica spalletta contro la quale furono allineati i condannati a morte? L’epoca dei massacri, di quelli veri, è ormai così lontana, che non c’è da meravigliarsi se un occhio distratto, sfiorando appena questi segni, ne riconosca tanto poco la natura da attribuirli facilmente all’esclusiva opera del tempo, […]”

Il 15 novembre del 1943 non è una data importante solo per la memoria ferrarese, è un passaggio fondamentale per la storia nazionale: storici del calibro di Claudio Pavone ritengono che la strage del Castello Estense sia il primo eccidio di guerra civile in Italia. Sono passati appena due mesi dall’armistizio dell’8 settembre e a Verona si sta tenendo il primo Congresso della Repubblica Sociale Italiana: proprio qui viene data la notizia che Igino Ghisellini, il federale di Ferrara, è stato assassinato nei pressi di Bologna. Immediatamente dall’assemblea si levano le grida di vendetta: “A Ferrara! Tutti a Ferrara!”. Le squadre da Verona arrivano in città verso le 20.
“Chi potrà mai dimenticare le lentissime ore di quella notte? Fu una veglia interminabile per tutti; con gli occhi che bruciavano fissi a scrutare attraverso le fessure delle persiane le vie immerse nel buoi dell’oscuramento; col cuore che sobbalzava ogni minuto al crepitio delle mitragliatrici, o al passaggio repentino, anche più fragoroso, dei camion di uomini armati”.
Nella notte vengono prelevate dalle loro case e portate alla Caserma della milizia, in piazza Beretta, 72 persone: antifascisti, molti ebrei, alcuni cittadini considerati traditori per non essersi iscritti alla Repubblica Sociale, oppositori del regime in genere. Fra loro e i 34 antifascisti, ebrei, oppositori del regime che erano già nelle carceri di via Piangipane dal 7 ottobre si selezionano i dieci cittadini da passare per le armi per punire la morte del Federale Ghisellini. All’alba del 15 novembre davanti a Castello Estense vengono fucilati Emilio Arlotti, Pasquale Colagrande, Mario e Vittore Hanau, Giulio Piazzi, Ugo Teglio, Alberto Vita Finzi, Mario Zanatta; sulle mura presso i Rampari di San Giorgio Gerolamo Savonuzzi e Arturo Torboli; infine il giovane ferroviere Cinzio Belletti, che tornando dal lavoro ha assistito alla strage, viene inseguito per non essersi fermato all’alt e assassinato in via Boldini. I cadaveri verranno lasciati davanti al muretto del Castello per tutta la mattina, come monito per i ferraresi. Solo l’Arcivescovo Ruggero Bovelli, con un duro intervento presso le autorità fasciste, riuscirà a far spostare i corpi.
“Erano undici: riversi, in tre mucchi lungo la spalletta della Fossa del Castello, lungo il tratto di marciapiede esattamente opposto al caffè della Borsa e alla farmacia Barilari: e per contarli e identificarli, da parte dei primi che avevano osato accostarsi (di lontano, non parevano nemmeno corpi umani: stracci, bensì, poveri stracci o fagotti, buttati là, al sole, nella neve fradicia), era stato necessario rivoltare sulla schiena coloro che giacevano bocconi, nonché separare l’uno dall’altro quelli che, caduti abbracciandosi, facevano tuttora uno stretto viluppo di membra irrigidite”.

lunga-notte-eccidio-1943
Sagome e biografie delle 11 vittime della strage

Da giovedì davanti alla “antica spalletta” del fossato, sul marciapiede davanti alle lapidi, ci sono le sagome e le biografie di quelle 11 persone, non solo vittime, per impedire che i segni dei proiettili possano essere equivocati. Inoltre quelle lapidi, insieme ad altri luoghi della memoria in città, sono diventate una delle tappe del percorso urbano “ResistenzamAPPe – Guerra e Resistenza in Emilia-Romagna settant’anni dopo”, applicazioni informatiche multimediali scaricabili su differenti supporti (smartphone, tablet, pc), contenenti 29 percorsi dei nove capoluoghi di provincia regionali sui temi della Seconda guerra mondiale e della Resistenza. La responsabilità della trasmissione della memoria di quelle vite e di quegli eventi torna a essere di ogni ferrarese, perché non accada nuovamente ciò che è avvenuto all’indomani del 15 novembre: “la voce che subito circolò – una diceria messa in giro ad arte, era chiaro -, secondo la quale nessuno di Ferrara aveva partecipato al massacro, nessuno di Ferrara si era macchiato di quel sangue, […] Ebbene nessuno che non fosse di Ferrara, e molto pratico, per giunta, della città, avrebbe potuto rintracciare a colpo sicuro il Consigliere Nazionale Abbove non già nel suo palazzo di corso Giovecca, ma nello studio-garçonière […] E i due Cases, padre e figlio […] chi altri, se non qualcuno che ne conoscesse perfettamente il rifugio – qualcuno di Ferrara, dunque! – sarebbe stato in grado di indirizzare proprio lassù, in cima a quel polveroso labirinto di scale semicrollanti, i cinque scherani mandati a prelevarli?”.

Tutti i virgolettati sono estratti da “Una notte del ’43” di Giorgio Bassani

Foto di Federica Pezzoli

Luigi Dal Cin, fiabe sulla scia della psicanalisi

Pur ancora giovane in ottica letteraria, Luigi Dal Cin è tra gli scrittori neo-estensi più convincenti e di successo, con traduzioni anche estere, in Giappone ad esempio.
Dal Cin scrive fiabe, “Storia di un ciliegio” (Castalia, 2006), una delle sue numerose pubblicazioni ma, contrariamente a certi stereotipi, l’autore recupera la fiaba nel suo archetipo atemporale, anzi trans temporale, il desiderio come centro di gravità del suo talento fabulatorio, la tradizione come futuro anteriore…
Insomma, sulla scia della miglior psicoanalisi, da Bruno Bettelheim a M.L. Von Franz, Dal Cin, narra la fiaba come narrazione diversamente postmoderna, in un tourbillon immaginario dove (licenza poetica) il Gatto con gli stivali gioca con Goldrake o lo stesso Harry Potter, Biancaneve con la principessa Leila di Guerre Stellari, verso un inedito moderno antico.
Va da sé, certa cifra psicomagica, modulata con ‘sconcertante’ e rara parola-comunicazione, non a caso di intensa valenza empatica: il Piccolo Principe… o Piccolo Hans in piena salute, piroette senza gravità riaffiorano alla luce del sole o del cielo azzurro, lanciando l’autore – Dal Cin – da tempo ai vertici della letteratura italiana per ragazzi, senza tecnicismi…
Come nella miglior fiaba o fabula, Dal Cin dribbla le parole, le trasmuta in immagini automatiche, evoca semplicemente il bambino ritrovato – e spesso celato – nell’adulto corazzato, indicibile motore incantato della fantasia atemporale. Sullo sfondo naturalmente romantico degli stessi Andersen, Grimm e Perrault.
Fino ad oggi circa 90 (!) pubblicazioni per la vena felice e intensissima del nuovo Rodari italiano, tra le quali: “E il lupo non passa!”, “Insieme si fa festa!”, “La casa del vento”, “Un mare di amici” (con cd musicale). Non ultimo, Dal Cin ammirabilmente in costante tour, incontri d’autore vari, con ragazzi e bambini platea privilegiata, come promotore della letteratura per ragazzi, preziosa azione neo-didattica per i figli del web, cibo mentale e tecnomagico fondamentale per l’uomo cibernetico di oggi.
Inoltre, più recentemente, per il sempre produttivo scrittore, da segnalare le news (anche con ulteriore amplificazione tradizionale e global), “Il grande albero delle rinascite”, “Nel bosco della Baba Jaga. Fiabe dalla Russia” (Panini ed.), Premio Andersen 2013, “I sogni del serpente piumato. Fiabe e leggende dal Messico” (Panini ed.) “Ciak, il cinema! Lo sguardo di Michelangelo” (Ferrara Arte), e cronaca live “Il canto delle scogliere. Fiabe dalla Scozia” (Panini ed.), presentato per il ventennale della Libreria Feltrinelli, a cura del Gruppo del Tasso e di Matteo Bianchi.

*da Roby Guerra, “Dizionario della letteratura ferrarese contemporanea”, Este Edition-La Carmeliana, 2012

Condanna e forza delle parole

La più ingiusta tra le sentenze emesse in questo infelice Paese è quella che ha assolto i pregiudicati responsabili delle minacce allo scrittore Roberto Saviano, Iovine e Bidognetti, ed ha condannato il loro avvocato per minacce mafiose. Come è possibile una tale aberrazione? Lo stesso scrittore, in un primo momento, sembrava se non soddisfatto, perlomeno sollevato di un atto di giustizia che poteva permettergli di esclamare “sono guappi di cartone”. Ma l’assurdità della sentenza veniva di lì a poco immediatamente riscontrata dallo scrittore. Come è possibile che chi si fa interprete di un pensiero e pronuncia quelle parole-minacce possa, senza l’assenso di chi lo ha assunto, poterle dire? Male ha quindi fatto l’Associazione nazionale Magistrati di Napoli a esprimere “amarezza e sconcerto” per le ulteriori parole di Saviano che hanno così sferzato la decisione dei giudici: “una cosa all’italiana, a metà, senza coraggio”. Questo processo, d’altronde, si fonda e si basa sulla forza della parola, sulla sua possibilità di documentare la verità (o la menzogna), anche al prezzo che si paga per avere pronunciato-scritto certe parole. Saviano ha affondato l’arma acuminata della parola (e della parola che più contiene un alto tasso di verità, quella d’autore) nel marcio degli affari mafiosi e, a forza di parole, ne ha rivelato l’aspetto terribile e oscuro della declinazione delittuosa di quegli affari. Se dunque la parola ha svelato l’inganno e il delitto, come contrappeso ha richiesto la perdita di libertà di chi le ha usate condannando lo scrittore a una prigionia molto peggiore di quella che i boss scontano in carcere: quella che si concretizza nella perdita della libertà di movimento, condizionata dalla sorveglianza a cui Saviano è sottoposto per avere salva la vita o perlomeno per sopportare quella condanna che le sue parole hanno provocato e che i mafiosi temono più di ogni altra cosa. Non c’è successo, agiatezza economica, autorevolezza mondiale che possa compensare quella ossessiva e ossessionante prigionia virtuale. La forza delle parole rimane dunque terribile (o consolatoria) anche nell’era delle più sofisticate versioni mediatiche dell’espressione umana. Una condanna terribile di fronte alla quale appare sconcertante il lamento dell’Associazione nazionale Magistrati di Napoli che trova nel commento dello scrittore una induzione a consolidare quel sentimento diffuso di sfiducia dei cittadini verso le istituzioni, soprattutto verso i magistrati.

Forse tacere era meglio.

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Copertina del romanzo di Amos Oz, “Giuda”

Questa riflessione si accompagna alla lettura di uno dei libri più affascinanti che mi sia capitato di leggere, “Giuda” di Amos Oz, uscito quest’anno e immediatamente tradotto in italiano presso Feltrinelli dalla grande Elena Loewenthal. Si conosce da tempo la grandezza dello scrittore e la sua inquieta e complessa vicenda di israeliano che capisce e condivide le ragioni dei palestinesi o del mondo arabo. Questo romanzo, claustrofobico come possono essere le prigioni erette dalle parole, narra le vicende di un giovane studioso che vuole interpretare la figura di Cristo dal punto di vista dell’ebraismo e di capire quella di Giuda, che per Shemuel il venticinquenne protagonista, si concretizza tra sogno e realtà come colui che ha tradito il Cristo per troppo amore. Nella foresta di simboli costruita dalle parole che irretiscono personaggi e lettori, si staglia la città-simbolo della nostra coscienza umana, Gerusalemme, ed ecco apparire come una disperata consolazione la città delle città, il cuore che pulsa alimentato dal sangue di diverse religioni. Oz affida alla magia delle parole, alla consolazione delle parole, la descrizione della luna, l’astro sanguigno che illude e rivela: “Non so se amo Gerusalemme o la soffro soltanto, Ma quando sto via per più di due o tre settimane comincia ad apparirmi in sogno, e sempre al chiaro di luna”, dice Atalia la matura donna che turba i sogni di Shemuel. Ed ecco apparire la luna che rivela nella sua luce la prigione in cui si proietta l’ombra di Gerusalemme: “… la luna spuntò improvvisamente sopra i tetti di tegole, era rossa ed enorme, come un sole impazzito che torna dal buio e fa irruzione nella notte, contro ogni legge di natura,” Una luna che “versava da lassù un pallore scheletrico che sbiancava i muri di pietra delle case” E la luna che in ebraico “si chiama levanah, bianca” (p. 137) frattanto perde il suo colore di sangue “era salita sopra le mura del museo Bezalel e illuminava tutta la città di un chiarore spettrale, diafano”.

“Che fai tu luna in ciel, dimmi, che fai/ silenziosa luna? “ Dolce e chiara è la notte e senza vento, / e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti posa la luna, e di lontan rivela / serena ogni montagna”. Quasi un secolo e mezzo prima, Giacomo si era posto le stesse domande che Shemuel non sa né vuole esprimere: prigioniero delle parole.

Nel romanzo si discute il concetto di amore universale con un ragionamento terribile che solo la forza del sillogismo sa rendere concepibile. Al suo primo incontro con il vecchio intellettuale a cui Shemuel dovrà fare da badante intellettuale, questi sta parlando al telefono con un suo amico ed ecco che mentre scruta l’aspetto del giovane, Gershom Wald dice! “[…] anche se in fondo in fondo la diffidenza, la mania di persecuzione e financo l’odio per tutto il genere umano sono delitti molto meno gravi dell’amore per tutto il genere umano: l’amore per il genere umano ha un sapore antico di fiumi di sangue”. Esso trascina “i paladini della redenzione del mondo, che in ogni generazione ci sono piombati addosso per salvarci senza che ci fosse modo di salvarsi da loro.”

“ Che non potrebbero fare le persone come noi se non discorrere?”

Di nuovo la forza della parola e la sua condanna: difendersi e capire cos’è l’amore del mondo presso i fanatici delle religioni. Opporglisi con la forza delle parole. E come si sa i mafiosi di ogni paese si rivolgono a una religione snaturata che uccide in nome dell’amore.

Come i mafiosi che vengono scagionati, come l’amore predicato tra i fanatici di diverse religioni, come Gerusalemme contesa e illuminata dalla luna.

Forza delle parole. Condanna delle parole.

L’INTERVISTA
Premio Bassani: Macke, ‘Creare una nuova Europa sugli ideali di Italia Nostra’

Il Premio è stato istituito da Italia Nostra in onore di Giorgio Bassani, presidente nazionale dell’associazione dal 1965 al 1980, nel decennale della scomparsa (2010). Di carattere nazionale e con cadenza biennale, il premio è destinato a uno scrittore-giornalista distintosi negli ultimi due anni per i propri scritti o per interventi a favore della tutela del patrimonio storico, artistico, naturale e paesaggistico del Paese.

Per entrare profondamente nella visione e nel contesto del Premio, abbiamo intervistato Carl Wilhelm Macke, unico giornalista tra i componente della giuria, di nazionalità tedesca, grande amico di Giorgio Bassani e Paolo Ravenna, amante della nostra città al punto di vivere tra Monaco di Baviera e Ferrara.

Come amico ed estimatore di Bassani, come definiresti questo Premio?
Giorgio Bassani scrive racconti e romanzi fino attorno agli Settanta, poi si dedica quasi totalmente a Italia Nostra, producendo un’enorme quantità di scritti sulla tutela del patrimonio del nostro Paese. In questo senso, si può dire che questo premio è dedicato al ‘secondo’ Bassani.

Tu sei uno scrittore e un giornalista tedesco, probabilmente hai quindi un punto di vista molto particolare rispetto ai componenti italiani della giuria, cosa significa per te Italia Nostra e il Premio “Giorgio Bassani”?
A chi mi chiede perché sono diventato socio di Italia Nostra pur essendo tedesco, rispondo che l’Italia ha il 65% del patrimonio europeo in termini di beni culturali e quindi, a pensarci bene, tutti gli europei dovrebbero asserire che “l’Italia è Nostra” e farsi soci. Anzi, vorrei ribaltare il ragionamento: forse Italia Nostra è un po’ poco, sarebbe meglio chiamare l’associazione Europa Nostra e creare una nuova Europa sugli ideali di Italia Nostra.

Non è possibile replicare il modello di Italia Nostra in Germania o in altri Paesi europei?
Me l’hanno chiesto varie volte in Germania, nelle interviste o tra colleghi. Ci ho pensato molto e la risposta è no: non è possibile perché manca il contesto in cui l’associazione è nata e attualmente si scivolerebbe facilmente nel nazionalismo. Italia Nostra ha una storia antifascista: è nata nel dopoguerra, negli ambienti dell’alta borghesia romana, fiorentina e milanese, con una connotazione decisamente democratica, europeista e antifascista. Se si proponesse, ora, di fondare nel mio Paese, un circolo chiamato Germania Nostra, si rischierebbe di richiamare tutte quelle componenti neo-naziste della società. Questo perché è l’idea della nazione che è molto diversa. Quindi, di nuovo, la cosa migliore sarebbe esportare lo spirito di Italia Nostra, quella particolarissima e forte eredità che Bassani e Ravenna ci hanno lasciato, in Europa.

Si potrebbe allora aprire la giuria anche ad altri componenti stranieri…
Assolutamente sì, sarebbe una grande svolta.

Tornando al Premio, come avviene la selezione dei candidati e che tipo di lavoro c’è dietro al Premio? Quale, in due parole, il ‘back stage della premiazione’?
Tutte le sezioni di Italia nostra sono invitate a fare una proposta, indicando uno scrittore/giornalista e inviando i nominativi agli uffici centrali di Italia Nostra a Roma. Qui vengono raccolti tutti i materiali relativi alla produzione scritta dei candidati, sia on line che off line, e inviati ai componenti della giuria che hanno il compito di leggere e valutare. Purtroppo quest’anno abbiamo solo quattro candidati, nelle edizioni precedenti ne avevamo una decina. Le candidature sono segrete, noi della giuria ci ritroveremo sabato mattina al Caffè Europa per un ultimo confronto vis-à-vis e la decisione finale.

Avete già un’idea di chi sarà il vincitore?

Io personalmente ho già la mia proposta, ma staremo a vedere.

Quali criteri utilizzate per la scelta?
Personalmente, non essendo esperto né di arte né di temi quali l’ambiente e il paesaggio, esprimo un giudizio puramente letterario-giornalistico, mi concentro sulla qualità della scrittura e soprattutto sull’impegno civile che emerge dalla produzione dei candidati. Sul riconoscere l’impegno civile sono stato ‘formato’ molto bene dall’Avvocato Paolo Ravenna, grande amico di Bassani, primo presidente e fondatore della sezione di Italia Nostra a Ferrara. Paolo Ravenna era una persona di una intelligenza finissima, molto rigoroso e geniale: le sue intuizioni, le sue idee e i suoi progetti per Ferrara, basti pensare alla restituzione storica delle Mura e all’Addizione verde del Parco urbano, ricordano la lungimiranza dei duchi Estensi di epoca rinascimentale. Sia Bassani che Ravenna avevano, inoltre, una mentalità un po’ anglosassone: da loro ho imparato a distinguere tra la retorica del fare e la sobrietà dell’impegno civile, tra imperativi meramente estetici e obiettivi di grande respiro.

Per concludere, quali sono quindi gli ideali che stanno alla base dell’impegno civile di Italia Nostra?
Direi gli stessi su cui si basavano Bassani, Ravenna ma anche altri grandi intellettuali italiani, come per esempio Pier Paolo Pasolini, che tra l’altro era un grande amico di Bassani: sentirsi italiani, legati alle proprie origini ma senza cadere nel nazionalismo; essere aperti, pensare in grande, a livello europeo e simbolicamente internazionale; essere portatori di un regionalismo moderno, a tutela del territorio ma senza ambizioni secessioniste e reazionarie stile Lega Nord. In due parole, amare il proprio Paese avendo coscienza del mondo.

PRGOGRAMMA DEL PREMIO “GIORGIO BASSANI” E DEL CONVEGNO DI ITALIA NOSTRA
Sabato 15 novembre – a partire dalle ore 10.00
Convegno “Il Po e il suo delta: tutela integrata e sviluppi di un grande sistema ambientale europeo”, Castello estense (sala dell’imbarcadero 2) organizzato da Italia Nostra sezione di Ferrara.
Domenica 16 novembre – ore 10.30
Premio Nazionale Giorgio Bassani
Proclamazione del vincitore, preceduta dalla lectio magistralis di Paolo Maddalena, vicepresidente emerito della Corte Costituzionale sul tema “Il territorio bene comune”.

LA GIURIA
Alessandra Mottola Molfino, Presidente nazionale di Italia Nostra, Storica dell’arte e Museologa
Salvatore Settis, Consigliere nazionale di Italia Nostra, docente di Archeologia presso la Scuola Normale di Pisa, saggista
Gherardo Ortalli, docente di Medievistica presso l’Università di Venezia, componente del Comitato scientifico internazionale della Fondazione Giorgio Cini e del Comitato scientifico della Fondazione Benetton studi e ricerche
Luigi Zangheri, docente di Storia del giardino e del paesaggio e di restauro dei parchi e giardini storici presso l’Università degli studi di Firenze
Gianni Venturi, direttore dell’Istituto di Studi rinascimentali, presidente dell’Associazione amici dei musei e dei monumenti ferraresi, studioso dell’opera di Giorgio Bassani
Anna Dolfi, docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università di Firenze, presidente del Comitato per il centenario della nascita di Giuseppe Dessì, studiosa dell’opera di Giorgio Bassani
Carl Wilhelm Macke, giornalista di Monaco di Baviera, segretario generale dell’Associazione umanitaria “Giornalisti aiutano giornalisti”, cultore dell’opera e del pensiero di Giorgio Bassani

L’EVENTO
Precarietà, futuro, utopia: la parola ai cittadini

di Francesca Tamascelli

Un esperimento di partecipazione collettiva avrà luogo domani a Ferrara. Il salone di Wunderkammer, gli ex magazzini generali di via Darsena, sarà infatti punto di ritrovo di cittadini curiosi di capire cosa sia questo nuovo progetto promosso dal Comune di Ferrara: il Future Lab dal titolo “Quali facce ha la precarietà?” [vedi il video].

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La locandina del FutureLab

Non è semplice spiegare cosa sia un Future Lab e c’è il rischio di confonderlo con quello che non è: una conferenza, una lezione frontale, un brainstorming. Per cominciare, Future Lab non è il titolo di un evento, ma il nome di una metodologia. Fu il tedesco Robert Jungk a ideare questo strumento partecipativo, attualmente molto utilizzato nei Paesi del nord Europa per la pianificazione ed il miglioramento dei servizi al cittadino. E’ una metodologia basata sulla cittadinanza attiva, attraverso cui è possibile fare emergere “dal basso” esigenze e aspirazioni dei cittadini nonché ipotesi di cambiamento.
Future lab è dunque la forma, il contenitore. Il contenuto invece è variabile, a seconda dell’aspetto sociale che si vuole indagare. In questo caso, la precarietà: non solo quella lavorativa, bensì la precarietà a 360°, che sempre più e sempre più spesso arriva a coinvolgere tutti gli ambiti del vivere quotidiano e ad intaccare la possibilità di progettualità future. Una precarietà che oramai sembra essere descrittiva della dimensione esistenziale contemporanea.
Capiamo meglio, però, come funziona un Future Lab. I passaggi sono prestabiliti e consistono in tre tappe fondamentali: la distopia, l’utopia e il progetto. La distopia, con scopi di catarsi e di chiarificazione, serve a focalizzarsi su ciò che non funziona del presente. Per farlo, porta alle estreme conseguenze i tratti negativi che caratterizzano la sfera dell’argomento in questione. Ai presenti verrà chiesto: dove andremo a finire, se continueremo così? Le risposte saranno raccolte mediante brainstorming di parola, in plenaria.

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FutureLab, una faccia del totem

L’utopia è il secondo passaggio e serve a sviluppare una visione positiva del futuro, sufficientemente lontana da poter essere, appunto, utopica: in che mondo vorremmo vivere tra 200 anni? Come dovrebbe essere la società, in relazione al nostro tema di discussione? Questo, forse, il passaggio più complesso, non tanto per la difficoltà intrinseca del pensiero utopico, quanto per la grande diffidenza che abbiamo sviluppato verso l’utopia. Si pensa forse che l’utopia, radicata nel terreno dell’ideologia e del pensiero teorico, sia appannaggio di quei pensatori che hanno scritto libri mirabili ma non sono stati veramente in grado di incidere sulla realtà, isolati in esercizi mentali poco concretizzabili. In un momento di grave crisi, di tangibile tensione sociale, con atmosfere nebbiose e pesanti da tagliare con il coltello, chiedere alle persone di liberare energia utopica è rischioso: la proposta potrebbe essere accolta con diffidenza, chiusura, se non addirittura intolleranza. “Basta parole! A cosa servono? Cosa cambiano? Parliamo parliamo parliamo, poi torniamo a casa e tutto resta come prima”. Pensiero comprensibile, ma non per forza corretto. Rilegittimare l’utopia è importante, non (solo) perché l’uomo è di tendenza un pensatore, ma perché i progetti più concreti hanno bisogno di visioni, e non sono realizzabili se prima non abbiamo individuato un orizzonte, una meta da raggiungere. Utopia. U-topos, “nessun luogo”. L’utopia non è un luogo da raggiungere, è un orizzonte da inseguire per raddrizzare il percorso. Non è una destinazione, bensì una direzione.
Parole parole parole. Non siamo ancora convinti. E allora passiamo alla terza fase: ipotesi di progetti. I partecipanti, i cittadini, si attiveranno in gruppi di lavoro che, seguendo l’indicazione dell’utopia prescelta, si impegneranno a tratteggiare la strada “da qui a lì”: quali passi possiamo fare per incamminarci nella direzione dell’orizzonte desiderato? Le proposte concrete (progetti, servizi e quant’altro possa essere implementato a livello di comunità) verranno poi sottoposti all’attenzione dell’amministrazione comunale, presente nella persona di Chiara Sapigni, assessore alla Salute e Servizi alla Persona.
La giornata di Future Lab sarà condotta da Vincenza Pellegrino, sociologa dell’Università di Parma, e supportata da formatori che guideranno i gruppi di lavoro. Per stimolare il pensiero divergente necessario a ragionare in termini di distopia/utopia, è stato richiesto il contributo di Teatro Nucleo, per “incursioni teatrali” utili a stimolare idee e partecipazione.
Davvero l’amministrazione ha intenzione di ascoltare le proposte dei cittadini, oppure si tratta solo di un “contentino”? La domanda sorge spontanea, disabituati come siamo a contare qualcosa nelle decisioni pubbliche. Forse vale la pena di lasciare momentaneamente da parte interrogativi disillusi e provare a investire energia sulle proprie possibilità di partecipare in modo propositivo al dialogo e a progettualità condivise.

Se lo scetticismo permane, probabilmente l’unico rimedio è partecipare, correndo il rischio di provare il piacevole stupore di doversi ricredere.

Per informazioni, è possibile visitare la pagina facebook [vedi] oppure inviare una mail a
t.gradi@comune.fe.it. L’evento, a partecipazione libera e gratuita, è promosso da Comune di Ferrara in collaborazione con Regione Emilia Romagna, Provincia di Ferrara, Agenzia sanitaria e sociale regionale, Ausl Ferrara, Community Lab, Teatro Nucleo.

Radiofreccia, ovvero il fascino nascosto della provincia

Quasi vent’anni dopo (il film è del 1998), vogliamo ritornare all’esordio della regia di Luciano Ligabue, al suo Radiofreccia che descrive perfettamente la provincia emiliana, quel luogo dove molti di noi sono nati e cresciuti, quel posto odiato-amato dal quale tanti sono fuggiti e scappati, ma al quale sono spesso ritornati con amore per le proprie antiche radici, con nostalgia per i luoghi caldi, chiusi, protettivi, amichevoli e familiari che ci accoglievano da adolescenti, per quel movimento che c’era e che mancava.

radiofreccia
La locandina del film

Ligabue descrive i fossi, i bar, che si possono tranquillamente chiamare Mario, Sport o Laika senza cambiare sostanza, ma narra anche la fine di una stagione, di quegli anni ’70 vissuti sul filo tra voglia di libertà, bramosia di comunicare col mondo, sete di nuove idee ed eroina, bombe, violenza e tradizione. In quel momento storico, difficile e complesso per il nostro Paese, nascevano anche le radio libere che diffondevano un senso di sogni, di respiro libero, di scelte svincolate da legami commerciali e da censura.
Ci sono poi gli amici, le emozioni vissute e traspirate con loro e attraverso di loro, un microcosmo di nomi, cognomi e soprannomi. Come non ricordare l’abitudine tipica della provincia di affibbiarsi nomignoli strani o di chiamarsi per cognome. E allora ecco Bonanza, fissato con il cinema, Kingo, che sente di avere affinità con Elvis, Virus, che cerca di attirare l’attenzione ingurgitando qualsiasi cosa gli capiti a tiro, e il barista, che è anche l’allenatore della squadra di calcio del paese, interpretato da Francesco Guccini.
Il primo a prendere sul serio le parole del barista-filosofo è Bruno che, con passione e coinvolgendo qualche amico, cerca di creare il proprio spazio on air. Finalmente Bruno (Luciano Federico) riesce ad avere la sua radio che i suoi amici Iena (Alessio Modica), Boris (Roberto Zibetti), Tito (Enrico Salimbeni) e Freccia (Stefano Accorsi) riescono a sentire anche a Brescello, a oltre 30 km a Correggio. Finalmente Bruno può trasmettere la sua musica, le sue canzoni, perché le canzoni sono quelle che non tradiscono mai. Bruno alla radio ci crede, perché in qualcosa bisogna pur credere. Anche con tanta voglia di divertirsi insieme e di ritagliarsi la propria libertà.
Freccia e i suoi amici vanno avanti, ognuno per la sua strada, chi passando dalla galera, chi giudicando il prossimo, chi sposandosi, chi raccontando e chi cadendo nella “nuova” moda dell’eroina per poi uscirne, ma per poi cadere ancora, per amore, per ossessione, per rabbia o perché non ci si è nascosti a sufficienza dal mondo. Già perché, come afferma Freccia, il mondo fuori è brutto e pericoloso, nel senso che “la vita non è perfetta, solo nei film la vita è perfetta, nei film la vita non ha tempi morti”.

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Ligabue durante le riprese del film

Ligabue racconta con i ritmi della commedia questa storia tratta dalla sua raccolta di racconti “Fuori e dentro il borgo”, una storia semplice, ritmata dall’accento emiliano. La colonna sonora coglie nel segno, passando da David Bowie (“Rebel rebel”), ai Doobie Brothers (“Long Train Running”), a Lou Reed (“Vicious”) fino ai Creedence Clerawater Revival (Run Throught The Jungle”); aggiungendo il suo tocco personale con “Ho perso le parole” (perse in seguito a una di quelle morti senza senso e giustizia di Freccia che, deluso da questioni amorose, si rifugia nell’eroina) e “Metti in circolo il tuo amore”, per passare alla scelta di accompagnare l’ultimo cammino di Freccia, il vero protagonista, con “Can’t help falling in love”, suonata dalla banda di Correggio.
Film meritevole per la profondità psicologica di trama e personaggi, per lo spaccato della provincia e degli anni ‘70, per i sogni e le delusioni che accompagnano la vita di ciascuno di noi e che ci accomunano, senza alcuna distinzione.

di Luciano Ligabue, con Luciano Federico, Stefano Accorsi, Francesco Guccini, Serena Grandi, Patrizia Piccinini, Italia, 1998, 112 mn.

IL DOSSIER
Le mafie in Emilia: cronaca di un insediamento

La lista “L’altra Emilia Romagna” ha presentato al ristorante 381 di piazzetta Corelli il dossier 2012-2014 “Emilia Romagna: cose nostre. Cronaca di un biennio di mafie in E.R.”. Il documento non è un’esauriente indagine scientifica, ma “una cassetta per gli attrezzi” dal carattere e dalla passione militanti per aiutare chiunque sia interessato a capire “come sono arrivate e come si muovono le mafia in Emilia Romagna”, ha spiegato uno degli autori, Gaetano Alessi di AdEst, che insieme all’Associazione Pio La Torre e al Gruppo dello Zuccherificio ha curato la realizzazione del documento.
“Nelle scuole spesso diciamo che la mafia è una montagna di merda, è vero, ma bisogna fare i conti anche con il fatto che la mafia è una montagna di soldi, di interessi, di affari”, continua Gaetano, animato da quell’indignazione che spinge all’impegno: nel suo caso, prima per realizzare tre dossier e ora per parlarne, spostandosi da una parte all’altra della regione dopo il lavoro.
In Emilia Romagna le mafie hanno mostrato entrambe queste facce, per questo ormai non si può più parlare di un’infiltrazione serpeggiante e di colletti bianchi: 9 attentati, 221 danneggiamenti seguiti da incendio, 301 incendi e 1.149 rapine, questi nel 2011 i cosiddetti ‘reati spia’, cioè commessi con metodi chiaramente mafiosi (Fonte: Mosaico di Mafie e Antimafia-Dossier 2012, curato da Fondazione Libera Informazione e Osservatorio Nazionale sull’informazione per la legalità e contro le mafie).
Gaetano ha elencato le attività della criminalità organizzata, che vanno dal “traffico d’armi e uomini nel porto di Ravenna” all’usura al gioco d’azzardo, fino ad arrivare al loro ‘core business’, del quale fanno persino “fatica a riciclare i proventi”: il traffico di droga, con Bologna trasformata in un “centro internazionale del narcotraffico”, dove si tenevano veri e propri summit fra i capi delle organizzazioni criminali italiane e straniere. Una regione che, nel 2012, era “prima in Italia per lavoro nero, seconda per l’impiego di irregolari e al quarto posto per il riciclaggio di denaro sporco”, in cui “il 70% delle opere pubbliche viene dato in subappalto con il sistema del massimo ribasso”, non può stupire più di tanto che gli stessi mafiosi affermino che “il modello emiliano va esportato perché funziona”, come rivela Alessi. Forse a sorprendere è il fatto che, secondo quanto riportato su “Emilia Romagna: cose nostre”, delle 5.192 operazioni sospette segnalate nel 2012 la quasi totalità proviene da sportelli bancari e uffici postali, mentre meno di 15 sono segnalate da avvocati, commercialisti, notai, revisori ecc. Oppure, per quanto riguarda l’usura, il fatto che secondo il Magistrato Lucia Musti “le intimidazioni denunciate sono state pochissime, quello che abbiamo trovato l’abbiamo trovato grazie alle operazioni di ascolto, alle intercettazioni”. Per SoS impresa l’8,6% degli esercizi commerciali o paga il pizzo o è vittima di usura, ma la “gente con il naso spaccato dice di essere caduta per le scale”, afferma Gaetano. E dovrebbero quantomeno sorprendere anche le affermazioni di Marcello Coffrini, sindaco Pd di Brescello, che parlando di Francesco Grande Aracri – fratello del boss Nicolino Grande Aracri, condannato in via definitiva per associazione di stampo mafioso e sorvegliato speciale del tribunale di Reggio Emilia – lo definisce “uno molto composto, educato, che ha sempre vissuto a basso livello”.
La concretezza si fa stringente arrivando all’affare della ricostruzione post-sisma: nel complesso gli uffici antimafia delle Prefetture della regione hanno ricevuto oltre 32.000 istanze nel 2013 adottando 28 interdittive, mentre secondo i dati forniti dalla Prefettura di Bologna nel giugno 2014 sono 31 le aziende non ammesse alle ‘white list’: 11 a Modena (1.360 le iscrizioni su 4.200 richieste), tre a Ferrara (677 su 1.228) e 7 a Bologna (453 su 788). Il pericolo più concreto è che chi deve verificare che le aziende che si aggiudicano appalti e cantieri per la ricostruzione dell’Emilia terremotata siano ‘in regola’ non abbia le risorse per farlo. Come spesso accade in Italia, dice Gaetano “si fa una buona norma, ma poi non la si mette in grado di funzionare. Il rischio è che con la scusa delle pastoie burocratiche si tolgano i controlli e si bypassino le white list”, lasciando che la ricostruzione venga gestita da una mano invisibile: a questo punto c’è da sperare che sia ancora solo quella del mercato.

LA NOVITA’
Approdano all’Ariostea volumi preziosi e rari: ‘Anche una miniatura di Crivelli’

Di fronte alla bellezza estetica e all’aura del tempo che avvolge codici miniati e cinquecentine, spesso la storia, ma forse sarebbe meglio dire il viaggio che compiono questi preziosi oggetti è una delle ultime cose cui si pensa. E poco si pensa anche al lavoro e alla complessità delle ricerche per appurarne l’autenticità, prima, e conservarli e restaurarli, poi. È, invece, esattamente quello che abbiamo pensato durante l’incontro “I libri del Paradiso. Recenti acquisizioni di manoscritti e libri a stampa”, in cui sono stati presentati tre nuovi acquisti del patrimonio librario antico della Biblioteca Ariostea. È stato come se, per una volta, fossimo passati dall’altra parte del banco di distribuzione dei volumi, per addentrarci nella parte meno conosciuta delle attività di una biblioteca: la ricerca e l’acquisizione di volumi di pregio. “In una fase in cui le biblioteche sono sempre più assorbite dalle esigenze e dai servizi della biblioteca pubblica”, si cerca di riprendere l’attività di “recupero e conservazione dell’antico” con l’obiettivo di “coniugare e tenere in equilibrio queste due anime della biblioteca”, ha sottolineato Enrico Spinelli, direttore del Servizio biblioteche e archivi del Comune di Ferrara.
Il primo volume di cui è stata narrata la storia è un’edizione “fantasma” dell’Orlando Furioso, stampata a Venezia da Girolamo Scoto nel 1567. Mirna Bonazza (responsabile manoscritti e rari) e Arianna Chendi (responsabile acquisizioni e trattamento del libro) l’hanno ironicamente definita fantasma perché non è menzionata nei repertori e per trovare una sua descrizione bisogna tornare indietro al XIX secolo, poi di nuovo il ritorno all’oblio. Stando a quanto ricostruito da un biglietto ritrovato all’interno: dalla tipografia veneziana degli Scoto, che con Girolamo erano arrivati alla terza generazione di stampatori specializzati in edizioni musicali, la cinquecentina è arrivata a Torino nella casa di un medico professore universitario, che poi l’ha donata al nipote, anch’egli medico; poi riappare a metà del XIX secolo in una rinomata libreria antiquaria milanese e infine, probabilmente dopo essere passata fra le mani di qualche collezionista, in un’altra libreria antiquaria di Verona, che nell’estate del 2013 contatta la biblioteca Ariostea per proporle l’acquisto dell’esemplare. Ma non è finita qui, anzi da quel momento sono cominciate le ricerche per accertarne l’autenticità, stabilita alla fine tramite lo stemma della filigrana.
Il secondo pezzo presentato è un frammento miniato dell’Officium defunctorum, databile agli anni fra 1461 e 1465, appartenente alla cultura artistica ferrarese dell’epoca di Borso d’Este: è stato infatti realizzato da quel Taddeo Crivelli che insieme a Marco de Rossi ha miniato gran parte della meravigliosa Bibbia di Borso d’Este. L’importanza di aver ricondotto a Ferrara questo esemplare deriva non solo dal fatto che appartiene “al periodo d’oro della miniatura ferrarese”, ma anche dall’essere “uno dei rarissimi frammenti rimasti dei circa 25 libri d’ore realizzati da Crivelli”. A questi si aggiunge l’edizione facsimilare, a cura dell’Istituto dell’enciclopedia italiana, del Decameron di Boccaccio commissionato da Borso d’Este per donarlo a Teofilo Calcagnini, che ricopriva la carica di Compagno del duca. Anche qui ritroviamo le preziose miniature di Crivelli. L’originale del codice è oggi conservato presso la Bodleian library di Oxford, dove è arrivato nel XVIII secolo dopo essere stato acquistato da sir Thomas Coke di Holkham, grande collezionista di codici miniati: ha viaggiato sul continente, acquistando in Francia e in Fiandra, in Italia è riuscito ad assicurarsi oltre 600 manoscritti, la sua raccolta si conserva ancora a Holkham Hall ed è una delle più importanti collezioni private di libri e manoscritti dell’Inghilterra.

Aiuto, lo stomaco brucia!

Quando una porzione dello stomaco scivola verso l’alto, in molti casi si tratta di quella che i medici chiamano un’ernia iatale con reflusso gastroesofageo.
L’ernia iatale è un problema piuttosto diffuso, sembra che interessi fino il 60% della popolazione. La patologia è causata dal passaggio di una porzione dello stomaco dall’addome al torace, attraverso un foro del diaframma, chiamato iato diaframmatico esofageo.
Tale sindrome riduce notevolmente la qualità della vita a causa di una serie di sintomi tipici (cervicalgia, dorsalgia, dolori al petto cefalea) e atipici (ad esempio la raucedine) che ne conseguono. Il trattamento manipolativo osteopatico si dimostra essere un metodo efficace per diminuire la sintomatologia di questa patologia. Infatti, in molti casi, l’ernia iatale ha una componente osteopatica importante in quanto, indipendentemente dalla sua tipologia, è quasi sempre l’espressione di un disequilibrio delle fasce a livello gastro-esofageo.

Si distinguono due diversi tipi di ernia iatale:
1) Ernia da scivolamento: è la più frequente (circa il 90% dei casi); si caratterizza per il passaggio di una porzione dello stomaco attraverso lo iato esofageo, provocando reflusso gastro-esofageo.
2) Ernia da rotolamento: condizione più rara e pericolosa della precedente. In questo caso la giunzione tra stomaco ed esofago rimane nella sua sede naturale mentre il fondo dello stomaco passa nel torace.

Le cause
In effetti, la tendenza allo scivolamento verso l’alto di una parte dello stomaco è data da tensioni muscolo-fasciali non fisiologiche che coinvolgono l’intero sistema fasciale.
Una causa importante è l’allentamento dei tessuti connettivi e la perdita di tono basale che si verificano con l’andare degli anni. Ma in queste condizioni si vedono tipicamente anche pazienti fra i 35 e i 50 anni. Una cifosi toracica acquisita si sviluppa con un cambiamento nel rapporto tra la giunzione cardi-esofagea ed il diaframma, con una riduzione dell’efficienza sfinterica. Gli interventi chirurgici possono provocare, invece, tensioni disuguali in tutti i tessuti connessi con le cicatrici. Certe occupazioni lavorative possono contribuire alla destabilizzazione della giunzione gastro-esofagea. I lavori sedentari favoriscono il rilasciamento dei legamenti della giunzione gastro-esofagea. In sostanza, si tratta di cause meccaniche che generano problemi meccanici.
In medicina interna l’ernia iatale o dello iato esofageo può essere dovuta a brevità congenita dell’esofago; erniazione del cardias entro il torace; sacca gastrica posta nello iato lateralmente all’esofago.

I sintomi
I sintomi che più spesso accompagnano il reflusso esofageo, con o senza ernia iatale, sono: pirosi, rigurgito, dolore epigastrico o retrosternale, aggravato da certi movimenti, per esempio flessione in avanti del corpo; dolori di stomaco, vomito acquoso e filamentoso, alito acido, dolore nella parte inferiore del petto, dolore esacerbato da tosse ed espirazione forzata, dolore all’ingestione di cibi solidi, cefalee spesso alleviate dal vomito. L’ernia iatale e il reflusso gastro esofageo non si presentano sempre insieme ma hanno in comune fattori predisponenti simili.

I rimedi

E’ importante sottolineare ancora una volta che la patologia dell’ernia iatale con reflusso gastroesofageo trattata fino ad ora è di esclusiva competenza medica nella diagnosi e come tale va sottoposta ad uno specialista specifico.
Diverso è il discorso relativo ai sintomi accusati dal paziente, sintomi che possono essere affrontati, in seconda battuta e con più o meno possibilità di successo a seconda dei casi, con terapie manuali, laddove una visita osteopatica appropriata ne riscontri la necessità. L’osteopatia, oltre ad avere una grande efficacia per i dolori articolari e muscolari, possiede una serie di tecniche specializzate per il trattamento della zona viscerale, che permettono di ridurre drasticamente l’insorgenza dei vari sintomi.
Esiste una dinamica viscerale precisa che può essere modificata. Quindi, applicando una serie di tecniche specifiche, si permette all’organo di trovare la sua fisiologia naturale ed i disordini legati alla restrizione di mobilità saranno così corretti.
La sintomatologia è spesso legata al reflusso gastroesofageo e alle sue complicazioni. Lo scopo del trattamento osteopatico consiste nel rinforzare e rilassare la giunzione gastro-esofagea, attraverso l’induzione concentrata in questa zona e di aprire qualsiasi fissazione fibro-muscolare della giunzione e delle strutture circostanti.

Per ottenere una maggiore efficacia le tecniche vanno eseguite in una sequenza specifica:
– ascoltare l’addome;
– liberare le zone di inserzioni del fegato;
– liberare il piloro e lo stomaco;
– liberare la giunzione gastro-esofagea;
– manipolare le fissazioni scheletriche importanti che persistono (ad esempio le articolazioni costo-condrali);
– normalizzare le fissazioni craniche e sacrali.

Consigli
– non andare a letto subito dopo il pasto;
– non indossare cinture o indumenti stretti;
– dormire su un cuscino alto;
– evitare la posizione declive;
– non tenere le braccia in alto e la testa inclinata indietro a lungo

Alimentazione
I sintomi collegati all’ernia iatale sono il reflusso gastroesofageo che dà luogo alla patina linguale, e/o a rigurgiti acidi, ad una sensazione di bocca amara e secchezza della bocca.
Per questo motivo è ottimale masticare molto i cibi, ed evitare soprattutto cioccolato, latticini, pomodoro, alcolici, fumo, caffè, agrumi, bevande gasate, e cibi acidi in generale come melanzane, peperoni, aglio e cipolla (specialmente se crudi), menta, eucalipto (quindi attenzione anche ai prodotti come caramelle balsamiche e tisane, eventualmente per problemi da raffreddamento si possono usare prodotti a base di propoli). Come antiacido oltre ai citrati alcalini, è possibile usare il kuzu, una radice giapponese reperibile in erboristeria e nei negozi biologici. Se si ha la bocca amara o acidità in gola, si possono fare risciacqui e gargarismi con acqua tiepida e bicarbonato di sodio
Un trucco che funziona molto bene è di consumare pasti di piccola quantità e più frequenti, limitando al massimo le bevande (possibilmente solo acqua) bevute durante i pasti, altrimenti i succhi digestivi sono diluiti e la digestione peggiora tendendo a far risalire il cibo e ad esalare acidità. Inoltre, occorre agevolare la digestione evitando di consumare frutta e dolci a fine pasto, in modo da uniformare il tipo di cibi da digerire, iniziare a bere acqua calda appena svegliati, prima di coricarsi, e lontano dai pasti.
Per questo sarebbe utile portarsi dietro un termos di acqua calda anche sul posto di lavoro e in vacanza, bevendone un po’ per volta durante tutta la giornata, lontano dai pasti. Sarebbe meglio mangiare cibi cotti e iniziare i pasti con zuppe, minestre con cereali integrali, per tenere così lo stomaco e l’apparato digerente caldi e pronti alla digestione, evitando cibi secchi e freddi.

Il letto di foglie

Siamo in autunno e cadono le foglie. I miei tigli, come sempre, lo fanno all’improvviso, da un giorno all’altro, rovesciando sulla terra il loro regalo annuale di materia organica. Da anni ho smesso di accanirmi sulle foglie cadute e ho imparato ad accettare il loro disordine naturale come una risorsa. Non ho pratini-moquette da coltivare, quindi posso lasciarle ad ingrassare la terra; al limite, siccome sono così tante che se le lasciassi avrei un effetto pacciamatura controproducente anche per le margherite, ogni anno ne raccolgo dei mucchi e poi le distribuisco sotto le siepi, dove le lascio tranquille a decomporsi. Con questo sistema ottengo dell’ottimo terriccio e concimo le piante.
In pratica le foglie secche mi risolvono due problemi in un colpo solo: la pacciamatura e la produzione di compost. Di cosa sto parlando? La pacciamatura è uno strato di materiale che si mette sulla terra per impedire alle erbacce di crescere, riducendo i costi e i tempi per la manutenzione, e per mantenere un certo grado di umidità alla base delle piante. Si possono usare materiali inerti come la corteccia a scaglie, le palline di argilla o di pomice, oppure la ghiaia. La corteccia sarebbe materia organica, ma non si decompone tanto in fretta quindi la considero inerte. Per avere un effetto duraturo e significativo, lo strato di pacciamatura dovrebbe essere profondo almeno 15 cm. Per calcolare quanto ne occorre si moltiplica questo spessore per la superficie da coprire, se riduciamo lo strato si accorciano anche i costi e l’effetto, quindi, per economizzare si è diffusa una pratica, brutta da vedere e anche poco efficace, che è quella di stendere tra la terra e la pacciamatura uno strato di teli di varia natura, di solito si tratta di materiale plastico nero o verde, raramente di tessuto di iuta. Provate a guardare in giro, vi sembra bello vedere queste frange di plastica spuntare ai bordi delle aiuole? Ma questo è il minimo, trovo che sia diabolico mettere la pacciamatura per impedire alle erbacce di crescere e lasciare gli spazi liberi per l’impianto di irrigazione a goccia, perché dove i teli hanno dei tagli o delle aperture, la gramigna, irrobustita dall’acqua che bagna le piante ornamentali e ingrossata da metri di radice sotto traccia, cresce benissimo e per toglierla di solito si finisce per sollevare tutto lo strato di tessuto che era stato messo per impedirne lo sviluppo. Risultato: per economizzare sulla manutenzione ordinaria, che sarebbe il periodico diserbo manuale, abbiamo una serie di aiuole pubbliche e non, dove le piante sono soffocate da gramigna e stoppioni tanto robusti quanto brutti da vedere.
Nel settore pubblico proporre alternative è una battaglia persa, davanti allo scudo impenetrabile del controllo delle spese e alla necessità elettorale di far finta di essere amici dell’ambiente, con inutili aiuole e fioriere, non c’è logica o buon senso che tenga. Mi ripeto, ma il consiglio è sempre lo stesso, guardiamoci attorno, usiamo la testa e prima di lasciarci convincere dalla sirena “del tanto si fa così”, proviamo a pensare a soluzioni diverse, in questo caso, se la pacciamatura e l’impianto di irrigazione a goccia sono incompatibili, scegliamo quello che per noi è prioritario e per il resto si proceda manualmente, con la vanga o con l’innaffiatoio, oppure, possiamo valutare una pacciamatura di tipo naturale, per esempio sotto le siepi di confine, nelle aiuole dall’assetto più libero o nell’orto, usando paglia o foglie sane e friabili, come quelle dei tigli o di altri alberi e cespugli che abbiamo a disposizione, invece di buttarle nel cassonetto dell’umido.
Con la parola compost si indica, in modo generico, il prodotto della decomposizione di materiale organico vegetale che può essere utilizzato come ricco terriccio o concime. La natura si composta da sola grazie ai nostri amici batteri, che combinandosi con l’aria, fanno tutto il lavoro. Anche in questo caso, le mode creano delle abitudini stupide. La decomposizione puzza. Quindi siccome vogliamo fare gli ambientalisti ma non abbiamo voglia, tempo e pazienza, acquistiamo ai centri commerciali dei bidoni mimetici come un sommergibile nucleare e lo posizioniamo in giardino. L’entusiasmo porta a raccogliere scarti vegetali di ogni genere, l’ho fatto anch’io, con una specie di truzzara vecchio stile dove per qualche mese ho cercato di ammassare foglie e avanzi di cucina. Alla fine il mio giardino puzzava come una discarica e non avevo né tempo né voglia di arieggiare questo pattume rovesciandolo con il forcone per ringalluzzire i batteri, quindi l’esperimento è durato pochissimo.
Lasciamo perdere i bidoni e anche le polverine magiche che velocizzano il processo e aspettiamo che la natura faccia il suo lavoro per noi. Se abbiamo delle piante di rose o piante che durante l’estate abbiano avuto parassiti o malattie, raccogliamo tutte le foglie malate e invece di gettarle nel giardino del vicino portiamole nel cassonetto “varie ed eventuali”; con le foglie sane invece, facciamo dei mucchi, o stendiamole sotto le siepi, fra un anno il nostro giardino ci ringrazierà con uno strato morbido e profumato di terriccio fantastico.

Aiutiamo la pallavolo

Ultimamente, grazie alle ragazze della nazionale, in molti hanno seguito la pallavolo. Poi non importa che non abbiano vinto i mondiali; hanno dimostrato di essere forti, battendo anche chi poi ha vinto. Questo risultato ha ridato valore alla pallavolo, soprattutto femminile (ma anche il maschile è ben seguito).
A Ferrara la pallavolo era in passato uno sport importante che poteva contare su molti tifosi entusiasti di poter seguire il campionato di serie A1 nel maschile e di B1 nel femminile; ma ancora più importante è che anche ora tantissimi giocatori, a tutti i livelli, frequentano e amano questo sport (d’inverno in palestra e d’estate in spiaggia). A livello femminile è in assoluto il più seguito; non solo dalle centinaia di giocatrici tesserate, ma anche a livello giovanile e scolastico coinvolgendo migliaia di genitori e collaboratori di ogni genere. Si potrebbero citare tante società e ancor più squadre che sorrette da impegnati dirigenti ogni anno rivivono e rivitalizzano questo meraviglioso sport di squadra. Tante ammirevoli persone, bravi allenatori e soprattutto tante ragazze e ragazzi che lo praticano.
Chi ha seguito qualche partita potrà ben comprendere quanta determinazione, quanta grinta e soprattutto quanto spirito di gruppo si ritrova in questo sport.
E’ però triste accorgersi come il volley, in questo periodo di assenza di risultati sportivi di alto livello, sia abbastanza a margine della cronaca sportiva e viva nell’indifferenza di molti ferraresi. Anche tramite questo giornale ci aspettiamo sia condiviso lo spirito di questo articolo e si attivi una rinnovata attenzione perché questo sport non sia dimenticato. Andare con i propri figli a vedere una partita di pallavolo è molto bello; ancora più bello è andare a vedere una partita dei propri figli.

L’INTERVISTA
Eraldo Affinati: “Sogno una scuola senza classi, senza voti, senza registri”

Eraldo Affinati, insegnante e scrittore affermato, fondatore a Roma della “Penny Wirton”, scuola di italiano per stranieri, vive e lavora a Roma. Insegna italiano e storia nell’Istituto professionale di Stato “Carlo Cattaneo”, presso la succursale della Città dei Ragazzi. Elencare le opere di Affinati sarebbe davvero troppo lungo, i campi sono i più vari, ma solo apparentemente distanti tra loro, perché tutte accomunate dalla cifra del loro autore in cui vocazione pedagogica e letteraria si fondono. Abbiamo incontrato Eraldo Affinati alla Città del Ragazzo di Ferrara, dove è stato chiamato dalla Provincia e da Promeco a parlare nel corso di formazione per i docenti degli enti di Istruzione e Formazione professionale.

La prima domanda che ci viene da formulare di fronte ad Affinati è forse la più banale, ma per noi, soprattutto oggi, la più importante. Cosa significa essere un insegnante?
Credo che un insegnante sia il responsabile dello sguardo altrui. Prendersi in carico le richieste interiori ed esteriori degli scolari significa innanzitutto conoscerli. Capire da dove vengono. Cosa fanno e cosa pensano. Quali sono le loro passioni, i loro problemi. Se non si conquista la fiducia dei ragazzi è difficile spiegare il programma. Essere un insegnante vuol dire anche trasmettere la tradizione e ristabilire le gerarchie di valore nel mare magnum a volte indifferenziato del Web. Formare la coscienza dei futuri cittadini. Trasformare il compito scolastico in un’esperienza conoscitiva.

Eraldo Affinati, scrittore affermato. Che relazione c’è tra l’insegnante e lo scrittore Affinati?
L’insegnante e lo scrittore sono i custodi della parola. Senza dimensione verbale anche i sentimenti sono destinati a restare grumi emotivi. Essendo io figlio di due orfani, sin da ragazzo ho dovuto combattere contro la mancanza delle parole. E’ questa la ragione che spiega il rapporto fra la mia tensione pedagogica e la mia vocazione letteraria. Sia nell’insegnamento sia nella scrittura vorrei risarcire i miei genitori di quello che loro non hanno avuto. Lo faccio per interposta persona, cercando di coinvolgere i miei studenti.

I giovani emarginati dalla scuola, i giovani così detti difficili, sono giovani privati della parola perché non hanno ascolto, come i giovani figli dell’immigrazione che ancora non possiedono le parole della nostra lingua. Esiste una pedagogia della parola?
Penso di sì, anche se non può essere schematizzata in un metodo unico. Senza verbi non si vive. Senza nomi si muore. La scuola oggi deve ritrovare le fonti delle parole: desideri espressivi, volontà di comunicazione, tensione comunitaria. Se non si fa prima questo lavoro sull’identità dei ragazzi, si rischia di lavorare solo sulle tecniche che presto si dimenticano.

Il valore delle parole. Ma che parola queste ragazze e questi ragazzi devono incontrare perché sia restituita loro dignità, autostima, fiducia in se stessi, per sentirsi accolti?
Bisogna partire dagli stessi scolari per risvegliare in loro lo spirito critico. Non dobbiamo limitarci a spostare un contenuto da un luogo all’altro. Faccio un esempio: stavamo leggendo alcuni versi di Giuseppe Ungaretti. A un certo punto Romoletto, uno dei ragazzi più difficili, mi chiese: dove è sepolto questo poeta? Al cimitero del Verano a Roma, gli risposi. E lui soggiunse: perché non andiamo a visitare la sua tomba? Lo presi in parola. Il giorno dopo, insieme a tutta la classe, andammo a rendere omaggio alla salma di Ungaretti. In quel momento le parole di Romoletto divennero vere.

Lei ha scritto ‘Elogio del ripetente’. Non rischia di apparire una presa d’atto dei fallimenti del nostro sistema scolastico? Un atto di sfiducia nei confronti della scuola pubblica?
In realtà la nostra scuola pubblica, nella sua struttura complessa e variegata, è giustamente inclusiva: basti pensare agli insegnanti di sostegno, fiore all’occhiello del sistema italiano. Tuttavia oggi ci sono emergenze nuove legate, ad esempio, agli studenti non italiani, per i quali non si fa ancora abbastanza. Inoltre, come sapeva Don Milani, se la scuola si occupasse solo di quelli che vanno bene, assomiglierebbe a un ospedale che vuole curare i sani. E’ necessario coinvolgere e recuperare tutti, anche perché le classi eterogenee sono sempre le migliori. I deboli imparano dai forti: questo è sicuro. E’ vero anche il contrario: i forti hanno bisogno dei deboli. Ma come fa un docente da solo a curare le eccellenze, gli iperattivi, i dislessici, i caratteriali e gli L2? Io resto fiducioso: non a caso il mio “Elogio del ripetente” finisce con una bibliografia per un’altra Italia. Un elenco non di libri, ma di nomi di persone che ho incontrato nei miei giri nelle scuole: professori e dirigenti che si mettono in gioco e si rimboccano le maniche lavorando tutti i giorni con quello che hanno a disposizione.”

Nei sui libri ‘La Città dei Ragazzi’ e ‘Vita di vita’ aleggia la figura del padre. Per essere insegnanti bisogna essere dei ‘padri o delle madri a fondo perduto’?
“In Vita di vita” racconto la storia di un viaggio africano sulle tracce di un mio studente che, dopo incredibili avventure, ha ritrovato la madre di cui non aveva saputo più nulla da quando, a soli sette anni, era stato costretto a lasciarla. Nel romanzo ci sono però anche le storie dei miei studenti italiani, ai quali io avevo detto di leggere alcuni brani di lettere scritte da loro coetanei morti da eroi nella Prima Guerra Mondiale e durante la Resistenza. Il testo ha un doppio finale: uno alle Fosse Ardeatine dove i ragazzi italiani e quelli stranieri si abbracciano di fronte agli eroi; l’altro riguarda Santino, un ragazzo bocciato che sfonda i banchi di scuola. Il lavoro dell’insegnante assomiglia a quello dei genitori: educare significa ferirsi. Farlo a fondo perduto vuol dire rinunciare al riscontro immediato. Un figlio o uno scolaro ti porta sempre in un luogo che tu non prevedi. Come adulto devi prenderne atto, senza rinunciare al ruolo che eserciti.”

Il Penny Wirton, del romanzo di D’Arzo Silvio, fugge di casa per sottrarsi alla vergogna di non avere avuto un padre nobile, per poi tornare e ritrovare nell’amore della madre la dignità della propria condizione umana e sociale.Penny Wirton è la metafora di ogni immigrato, che ha lasciato le proprie radici, che ritrova l’amore della madre nell’apprendere una lingua che non è la sua, che non è quella materna?
E’ bello dirlo così. Khaliq, il protagonista di “Vita di vita”, ha fatto esattamente questo. Ecco perché nel libro si esprime in una lingua-bambina, ancora allo stato fetale. E oggi si sente responsabile del villaggio che ha accolto sua madre, in Gambia. Infatti non esita a inviare aiuti economici per sostenere, nel suo piccolo, quella comunità.

Bene. Veniamo al suo sogno. La Penny Wirton che ha fondato a Roma con sua moglie è il sogno di un’altra scuola. Ce lo vuole raccontare questo sogno?
E’ una scuola senza classi, senza voti, senza registri, basata sull’uno a uno. I docenti sono volontari che prestano gratis la loro opera. A fondo perduto, per l’appunto. All’inizio eravamo io, mia moglie, Anna Luce Lenzi (con la quale ho scritto ‘Italiani anche noi’, manuale di apprendimento dell’italiano) e pochi altri. Oggi siamo centinaia, non solo a Roma, anche in Calabria, grazie all’attività di Marco Gatto; a Padova, con il sostegno di Enrica Ricciardi; Aversa, con Patrizia Cuomo. Presto apriremo nuove sedi in Toscana, a Lucca e Colle Val d’Elsa.

Davvero grazie Eraldo Affinati. Il sogno continua…

L’APPUNTAMENTO
Argentina, combattendo la dittatura
a passi di tango

“La Diva del tango” (Faust Edizioni), di Michele Balboni, patrocinato dal Comune di Ferrara e dall’Ambasciata Argentina in Italia, ha un pregio indiscutibile. Ti impedisce, dopo averlo terminato, di usare impropriamente il termine ‘desaparecidos’. Termine che spesso utilizziamo per indicare un allontanamento, un’assenza quasi volontaria. Ancora, ti costringe a ricordare la storia, quella dell’Argentina e della sua dittatura degli anni Settanta, quando i bambini venivano ‘rubati’ ai genitori. Ti costringe a capire l’impegno ancor oggi costante delle “abuelas de Plaza de Mayo” guidate da Estela de Carlotto, le nonne alla ricerca dei nipoti oggi adulti. Ti costringe a riflettere sul valore dell’identità famigliare e territoriale. Sull’importanza di assomigliare a qualcuno, nei tratti del corpo e nel temperamento. Ti costringe a riflettere su quei valori a noi così cari, come l’autonomia e l’individualismo, che in verità reggono solo se siamo circondati da qualcuno che ci ama. Ma rivelano la loro debolezza laddove sono la conseguenza della sottrazione di legami, laddove il risultato sarà quella vecchiaia senza ricordi dell’infanzia, di cui tutti, anche i più cinici di noi, hanno bisogno. Balboni racconta tutto questo con la strategia del Tango, con la sensualità e la disperazione che lo contraddistinguono. Il Tango di Balboni non è quello di Rodolfo Valentino con la rosa in bocca, che tante generazioni ha fatto sognare. E’ quello ‘interiore’, che scorre nelle vene di MariSol, figlia di Inès e di un generale della dittatura argentina. Chi scrive ha letto il libro con la curiosità ingannevole di un titolo che riconduce a un romanticismo che, per fortuna, non c’è. Sono pagine interamente giocate sugli ossimori concettuali, sul contrasto tra disperazione ed energia. Perché la disperazione sprigiona energia, che volge a sua volta in bellezza, sensualità, ricerca. E’ un romanzo popolato di tante figure diverse, che fa da specchio alla vita dei giorni nostri; che gioca attorno alla ‘coppia’, che non è solo quella che si esibisce nel tango, ma è quella che si ricongiunge sul fronte degli affetti famigliari. Alla fine, al lettore rimane una domanda: esiste davvero una libertà assoluta, definitiva, a sua volta liberatoria?. Forse, le pagine suggeriscono, esiste solo nella conoscenza. Conoscenza delle nostre origini, conoscenza della nostra storia, conoscenza del mondo.
In copertina è l’immagine Madre e Hija, realizzata da Jorgelina Paula Molina Planas, una ‘nipote’ ritrovata, che ne ha concesso la divulgazione. Perfetta sintesi de “La Diva del tango”.

L’autore presenterà il libro sabato 15 novembre alle 21.45, alla Casona del Tango, via Smeraldina 35, Ferrara.

Ferraraitalia ha raccontato la storia vera a cui il romanzo si ispira [vedi]

Un vecchio e un bambino…
‘Comunque vada, proteggimi’

Un bambino silenzioso, un nonno-orco, un adulto sociopatico e un amico che sarebbe meglio non incontrare mai. Sono i protagonisti di “A bocca chiusa” (Newton Compton) dell’artista ferrarese Stefano Bonazzi, presentato alla libreria Giralibri di Argenta. Ispirazioni alla Raymond Carver e Philip Roth, il romanzo si è già guadagnato un paragone con “Io non ho paura” di Niccolò Ammaniti.
La scrittura visiva, fotografica, quasi chirurgica nella sua linearità, racconta le azioni nude e crude, componendo una sorta di fiaba nera in due parti.
La prima vede, da un lato, un bambino costretto a trascorrere le vacanze estive in una casa in cui – “The Others” docet – non filtra luce perché le persiane delle finestre sono perennemente chiuse, e sfoga il suo essere bambino costruendo mondi con i Lego, seduto sul tappeto, e disegnandoli, con la scatola dei pennarelli e un blocco di fogli di carta. Dall’altro, un nonno che conosce schiaffi al posto di carezze, che porta in giro il nipote sull’unico essere che abbia mai davvero amato (un Iveco rosso dal motore potente e rumoroso), che osserva guardingo l’umanità, con tratti fisici e psicologici più simili a un animale che non a un uomo.
La seconda, scritta in terza persona per riuscire a prenderne le distanze, vede un adulto svuotato e apatico, costruito a tavolino dagli psicofarmaci e da un lavoro meccanico, kafkiano senza davvero essere in colpa per qualcosa, assente e desideroso solo di scomparire da se stesso; fino a quando a comparire nella sua vita sarà un bambino il cui segno distintivo è un cappottino rosso, il cappottino rosso del Cappuccetto di Perrault come quello giallo della salvifica Ivy di “The Village” e un amico pericoloso di nome Luca.
Soggetti fortemente connotati attraverso le azioni che compiono, pur non possedendo nome proprio – sono semplicemente “nonno” e “bambino”, i protagonisti – si associano potenzialmente a chiunque, contenitori delle loro azioni riprovevoli e innocenti, malate e improvvise, vissute attraverso gli occhi di un bambino o di adulti sopraffatti dalle proprie esperienze. E che avevano ispirato il titolo inizialmente proposto dall’autore, anch’esso filtrato attraverso gli occhi e le azioni, e che risuona come avvertimento e speranza: “Comunque proteggimi”.

IL CASO
Un negozio di Altromercato in via Garibaldi. David Cambioli: ‘Equo ma non condiviso’

Altraqualità è la maggiore e la più longeva delle due cooperative di commercio equo presenti nella provincia di Ferrara (la seconda è Baum). E’ tra le sei maggiori cooperative di commercio equo in Italia e da dodici anni si occupa di importare e distribuire a livello nazionale prodotti artigianali e alimentari realizzati nel Sud del mondo. A fianco della loro principale attività, da un paio di anni stanno cercando partner disponibili ad aprire un negozio in centro, per dare risposta alle tante richieste provenienti dai consumatori e dalle realtà attente al tema dell’economia sostenibile, di colmare il vuoto che si è creato dopo che l’unica bottega presente in città, quella di Commercio Alternativo in via Darsena, ha chiuso. Ma qualcosa è andato storto, la rete solidale non ha funzionato come avrebbe dovuto: il 28 giugno scorso Altromercato, la più grande cooperativa di commercio equo italiana con sede a Bolzano e Verona, ha aperto un negozio monomarca in via Garibaldi 26, senza avere minimamente informato e tantomeno coinvolto Altraqualità, già attiva sul territorio dal 2002.

Ne abbiamo parlato con David Cambioli, presidente di Altraqualità, per capire cos’è realmente successo, cosa non ha funzionato e come ci sono rimasti in cooperativa.

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Il negozio di Altromercato in via Garibaldi a Ferrara

Siamo rimasti molto sorpresi perché non ne sapevamo nulla, l’abbiamo saputo quasi per caso, da altri. Il fatto che nessuno dei rappresentanti di Altromercato, il presidente, gli amministratori delegati, il direttore, abbia provato nemmeno a contattarci per vedere se c’era la possibilità di collaborare, ci ha naturalmente amareggiato. Ma soprattutto ci fa pensare allo scarso livello di sincerità e fiducia nelle relazioni tra le cooperative, atteggiamento che mina alla base le modalità di lavoro del commercio equo. Dispiace rendersi conto di come, per alcuni, per uscire da un momento di difficoltà l’unica modalità sia quella della concorrenza piuttosto che la cooperazione, ossia l’opposto di ciò che dovrebbe essere il commercio equo.


Come dovrebbero essere le modalità di cooperazione nel commercio equo?

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Laboratorio di in produttore colombiano, Sapia di Bogotà

Il Commercio equo è una forma di cooperazione che opera con realtà, comunità, Paesi per così dire in via di sviluppo, che prevede norme etiche come il riconoscimento di salari giusti, condizioni di lavoro accettabili, assenza di sfruttamento tantomeno minorile. Ma è anche un’attività di cooperazione sui generis, in quanto si esplica attraverso rapporti commerciali. Ed è una realtà in cui i rapporti umani sono tenuti molto in considerazione, direi sempre con i produttori dei Paesi in via di sviluppo, a quanto pare meno in Italia, tra gli attori stessi del commercio equo.

I rappresentanti di Altromercato vi conoscevano? Sapevano della vostra esistenza e del vostro progetto di aprire un punto vendita in centro a Ferrara?

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La showroom di Altraqualità
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Artigianato e abbigliamento

Naturalmente, siamo entrambi soci dell’Associazione generale italiana del commercio equo e solidale Agices e partecipiamo regolarmente alle assemblee e ad altre attività. Tra l’altro, proprio in Agices da almeno tre anni è stato avviato un tavolo di confronto tra operatori per cercare di trovare strategie comuni di sviluppo, soprattutto a fronte della crisi che ha toccato tutti noi ed il Paese in generale. Questi confronti hanno contribuito a migliorare il clima e favorire il dialogo tra i vari importatori, utilizzando lo strumento della coesione proprio per dare una risposta alla crisi. Vedere che, dopo tutti gli incontri e i discorsi fatti insieme, succedano cose come questa delude e sgomenta un po’. Fondamentalmente si tratta di una brutta pagina di rapporti, laddove dovrebbero essere diversi: si cerca tanto di cambiare il commercio, ma bisognerebbe ricordarsi che il commercio è fatto principalmente di rapporti e che questi vanno curati.

Appena saputo dell’apertura del negozio, voi avete mandato una lettera ad Agices sulla questione [vedi], chiedendo di diffonderla a tutti i soci. Altromercato a questo punto vi ha contattato, quali motivazioni ha addotto?

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Prodotti alimentari di commercio equo e bio

Sì, dopo la lettera ci hanno contattato, c’è stato anche un incontro dedicato a questa questione, in cui si sono mostrati tutti molto contriti e pentiti, ma a tutt’oggi non abbiamo avuto spiegazioni coerenti. Ci tengo però a precisare che non è nostra intenzione lamentarci né fare polemica, questa lettera l’abbiamo scritta principalmente per fare chiarezza e per esprimere il nostro disappunto. Il problema non è l’esclusiva o la ‘ferraresità’, benvenga che a Ferrara aprano negozi di commercio equo e che gli attori provengano anche dall’esterno. Non è un problema commerciale, ognuno ha il diritto di perseguire le proprie strategie commerciali in autonomia; dispiace per la modalità, perché questa poteva essere l’occasione ideale per realizzare qualcosa insieme, sperimentando nuove forme e nuove partnership, esattamente ciò di cui si è sempre parlato in Agicies, soprattutto negli ultimi tre anni. In più, c’è da dire che la nostra esperienza sul territorio avrebbe potuto giovare ad Altromercato in termini di rete e di attivazione di canali di comunicazione con i singoli consumatori e con le realtà più attente come i Gas e le associazioni cittadine.

Aprirete comunque un vostro punto vendita in centro, nonostante l’apertura del negozio di Altromercato?

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Logo del decennale di Altraqualità

Sì, ci stiamo ragionando. Dalla primavera scorsa stiamo lavorando al progetto con la Coop. Ex Aequo di Bologna (che da 15 anni gestisce una bottega a Bologna in via Altabella), ad oggi stiamo valutando la fattibilità. Se decideremo di aprire, lo comunicheremo immediatamente e proporremo a tutti coloro che possono essere interessati in loco, Altromercato compreso, di collaborare affinché l’operazione possa andare a vantaggio di diverse realtà e avere maggiore margine di successo.

Altraqualità ha sede a Ferrara, in via Toscanini 11/A (zona via Veneziani)

– Sito di Altraqualità [vedi] e pagina Facebook della linea di abbigliamento etico Trame di storie  [vedi]

– Pagina Facebook del negozio di Altromercato di via Garibaldi 26 [vedi]

– Sito dell’Associazione generale italiana del commercio equo e solidale Agices [vedi]