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Invecchiare sani si puo’

Per invecchiare bene occorre innanzitutto considerare la vecchiaia come un’età della vita, con le sue prerogative e opportunità proprie. E’ anche vero però che più invecchiamo e più ci ammaliamo, in quanto biologicamente si assiste ad una generale riduzione del numero delle cellule (atrofia) e ad una diminuzione dell’efficienza funzionale, accompagnata da modificazioni organiche e predisposizione ad una serie di disturbi.
Ma se si riuscisse a rallentare o modulare il processo di vecchiaia, ci si potrebbe ammalare molto meno e, al giorno d’oggi, con la prevenzione si può.
Terenzio scriveva “Senectus ipsa morbus est”, la vecchiaia stessa è una malattia. Questa tesi è ancora vera dopo oltre due millenni? Personalmente credo di no. E’ una teoria arbitraria, priva di veri fondamenti scientifici e dovrebbe essere smentita anche dal fatto che oggi si invecchia sempre più in buona salute. Non si tratta certo di trovare l’elisir di lunga vita ma di rimanere sani più a lungo, eccezionalmente liberi dalle malattie. Non esistono miracoli ma buon senso.
Ci sono molte teorie sul processo di vecchiaia, una delle più accreditate è l’endocrinosenescenza. Secondo questa teoria, invecchiamo perché le ghiandole che producono gli ormoni, le ghiandole endocrine, col passare degli anni incominciano a non funzionare più correttamente.

A questo proposito si possono verificare due condizioni:

1) inversione del ritmo circadiano di produzione ormonale;
2) diminuzione relativa-assoluta della produzione ormonale.

Un ritmo circadiano è un ritmo caratterizzato da un periodo di circa 24 ore. Il termine “circadiano”, coniato da Franz Halberg, viene dal latino circa diem e significa appunto “intorno al giorno”. Esempi di ritmo circadiano sono il ritmo veglia-sonno, il ritmo di secrezione del cortisolo e di varie altre sostanze biologiche, il ritmo di variazione della temperatura corporea e di altri parametri legati al sistema circolatorio. Oltre ai ritmi circadiani sono stati identificati e studiati vari ritmi circa settimanali, circa mensili, circa annuali.
I ritmi circadiani dipendono da un sistema circadiano endogeno, una sorta di complesso “orologio interno” all’organismo che si mantiene sincronizzato con il ciclo naturale del giorno e della notte mediante stimoli naturali come la luce solare e la temperatura ambientale, ma anche stimoli di natura sociale (per esempio il pranzo in famiglia sempre alla stessa ora). In assenza di questi stimoli sincronizzatori (per esempio in esperimenti condotti dentro grotte o in appartamenti costruiti apposta) i ritmi continuano ad essere presenti, ma il loro periodo può assestarsi su valori diversi, per esempio il ciclo veglia-sonno tende ad allungarsi fino a 36 ore, mentre il ciclo di variazione della temperatura corporea diventa di circa 25 ore.
Per quanto riguarda invece la diminuzione relativa-assoluta della produzione ormonale, basti dire che ci sono persone che a partire dalle undici della sera acquistano una carica incontenibile, che non andrebbero mai a dormire e la mattina non c’è verso di tirarle giù dal letto, e pur dormendo molte ore non hanno un sonno riposante. Si svegliano stanche. Tutto questo accade perché questo tipo di persone ha un ritmo di produzione del cortisolo circadiano invertito.

Ma cosa ha di tanto speciale il cortisolo?
Il cortisolo è un ormone che viene prodotto, assieme all’adrenalina, dal surrene, una piccola ghiandola collocata sopra il rene. Entrambi gli ormoni consentono di mettere immediatamente a disposizione le nostre riserve di energia, per far fronte alle situazioni di pericolo. La nostra biologia non è mutata ed è uguale a quella dell’uomo primitivo il quale si trovava sovente in condizioni di pericolo in cui doveva prendere una decisione rapida: combattere o fuggire. Adrenalina e cortisolo – mettendoci immediatamente a disposizione le riserve di energia – servono per affrontare questo tipo di situazioni. Non a caso vengono chiamati ormoni dello stress e antistress. Se la nostra biologia non è cambiate rispetto a quella dell’uomo primitivo, sono però cambiate le condizioni esterne. L’uomo primitivo, dopo avere affrontato una situazione di emergenza, poteva tirare il fiato, riposarsi, ricostituire le riserve di energia e consentire al surrene di preparare nuove scorte di adrenalina e cortisolo. Oggi è difficile trovarsi in condizioni di pericolo come quelle vissute dai nostri lontani antenati, ma il meccanismo adrenalina-cortisolo si attiva lo stesso perché le situazioni stressanti, pur essendo meno intense, sono più frequenti, quasi continuative. Il cortisolo infatti – ma anche il testosterone, gli estrogeni e altri ormoni – viene prodotto in maggiore quantità alle otto del mattino: nel corso della giornata la sua produzione tende a diminuire fino al minimo serale che ci consente di addormentarci. Se però continuiamo a richiedere al surrene continue ‘iniezioni’ di cortisolo, arriviamo a un punto in cui questa ghiandola comincia a perdere i colpi e a produrre sempre minori quantitativi dell’ormone.

Stando così le cose, dobbiamo domandarci, possiamo assicurarci uno stile di vita tale che ci permetta di arrivare alla vecchiaia con efficienza e senza malattie? Può una vita sana condurre al benessere totale della persona? La risposta è: assolutamente sì.
Per rafforzare la nostra convinzione è bene ricordare la massima del saggio Seneca che, nel De Brevitate Vitae, dice: “La vita non è breve ma è l’essere umano a renderla tale, disperdendosi e sciupando il tempo in mille vane occupazioni […] in un mangiare disordinato e troppo abbondante e uno stress brutale”.
Anche Pablo Neruda ci dà indicazioni validissime quando dice, “Muore lentamente chi non si appassiona più, chi preferisce il nero su bianco e i puntini sulle i, chi evita le emozioni che fanno battere il cuore.”
La vecchiaia è vita: imparare ad invecchiare è imparare a vivere.

L’OPINIONE
Vergogna: parola abusata che per l’Eternit riacquista il suo significato etico

Il nodo ti prende alla gola. “Al magòn”, come si dice nella nostra lingua materna. E assieme a questa sensazione di scoramento e di vuoto il senso di una colpa, di una grave colpa, che sovrasta un popolo che non ha saputo trovare la sua auspicata, cercata, invocata unità nazionale.
Fatti apparentemente inauditi ci martellano, ci sconvolgono. Fatti a cui non si sa dare un senso: il cerimoniale mafioso dei “santisti” sfacciatamente esibito, non nel paesino nascosto di qualche landa meridionale ma nell’altezzoso Nord dove al giuramento in cui s’invoca la luna e la notte, i santi e la connivenza fino alla morte, si mescola il ricordo di coloro che un tempo “fecero l’Italia”, gli eroi laici del pensiero nazionale.
E ancora. L’impunità del volere mafioso che nel processo in cui si giudica la persecuzione portata a Roberto Saviano e alle sue denunce, assolve “in punta di legge” il mafioso e si condanna l’avvocato.
Infine, la sentenza che assolve il/i responsabili della malefica “polvere bianca” (non la droga ma ciò che è peggio della droga, il veleno dell’amianto) che ha distrutto famiglie, persone innocenti, paesi: come una nuova e inaudita pestilenza.
Cerco una spiegazione ma non la trovo, se non una traccia, nell’accorato commento che Gad Lerner pubblica su La Repubblica: che la via per il miliardario svizzero fosse anche agevolata dal sistema giuridico italiano era ben chiara. Così, scrive Lerner: “Ci ha pensato la Cassazione, infine. I calcoli di Schimidheiny sulla malagiustizia italiana erano ben riposti. La legge del più forte ha prevalso sulla sofferenza di una comunità civile che per anni ha continuato a inalare le fibre cancerogene del suo Eternit.”
Questo nome minaccioso che rimanda a un’eternità di distruzione e di dolore…
Allora vengono in mente le parole sul garantismo, sul giudizio che può cambiare e sulla necessità di affidarsi per la definitiva assoluzione o condanna al terzo grado. E ci domandiamo “immagonati” come siamo, “Può la ragione prevalere sul sentimento?”, “Può la legge, pur applicata con rigore, trascurare la voce o meglio l’urlo di chi ha perso affetti e persone care. La prescrizione al posto dell’evidenza del male non combattuto ma assolto?”. Possono le regole imporsi sulla umanità?

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Cave nel Parco delle Alpi Apuane

La tristezza di questa ormai copiosa serie di sconfitte sul piano etico viene alleviata da un pensiero alto che s’incarna, si diceva una volta, in un “aureo” libretto scritto da Paolo Maddalena, vice presidente emerito della Corte Costituzionale “Il territorio bene comune degli italiani”, introduzione di Salvatore Settis (Donzelli editore, 2014). Maddalena ha tenuto un’appassionata conferenza introduttiva (e basta col termine “lectio magistralis” talmente abusata da non significare più nulla) al conferimento del premio Bassani istituito da Italia Nostra che si è svolto a Ferrara pochi giorni orsono e che ha dichiarato vincitori un giornalista di vaglia come Francesco Erbani e un giovane economista, Luca Martinelli, che si è impegnato a portare la sua esperienza specifica nel denunciare lo scempio delle Alpi Apuane o i tristi contraccolpi sul paesaggio nella costruzione dell’autostrada Mestre-Orte. Ai due vincitori a cui s’affiancano gli altri valorosi difensori di ciò che Maddalena sottolinea già dal titolo del “Territorio bene comune degli italiani” e che vinsero le passate edizioni del premio: Antonio Mazzeo e Tomaso Montanari andrebbe di nuovo rivolta la domanda. Può il diritto in nome delle regole, mandare liberi chi si è reso colpevole non solo della morte di tante persone ma dell’avvelenamento di un paese quale Casale Monferrato?

La rigorosa disamina condotta da Maddalena vuole mettere in evidenza che il territorio italiano è non dei privati o tantomeno dei politici che governano (o dovrebbero governare) in nome del “popolo sovrano” bensì degli italiani.
Ma gli italiani si rendono conto del grandissimo privilegio-onere che dà loro la Costituzione italiana, oppure si comportano come “itagliani”? Ancora una volta “un volgo disperso che nome non ha”. Purtroppo.

LA RICORRENZA
Di genere si muore, fermiamo la violenza sulle donne

Il 25 novembre è la “Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”, ma parlare di femminicidio e violenza di genere un giorno all’anno non basta, sono i numeri a dimostrarlo. È di pochi giorni fa la notizia della morte di 13 donne in India, dopo essere state sottoposte a intervento di legatura delle tube nell’ambito della campagna di sterilizzazione di massa voluta dal governo. È accaduto nello stato centrale di Chhattisgarh: più di 80 donne (una ogni due minuti) sono state operate in poche ore nell’accampamento di sterilizzazione eretto in un ospedale in disuso: circa 60 si sono sentite male, venti sono ancora in rianimazione e si teme che non riescano a farcela.

In un anno, in India, quattro milioni di donne sono state sterilizzate, contro i solo 110.000 uomini che sono ricorsi alla vasectomia: è evidente che il peso della contraccezione grava esclusivamente sulle prime, mentre gli interventi di vasectomia maschile, più semplici e meno rischiosi, sono socialmente osteggiati. A Chhattisgarh alle donne sottoposte alla procedura sono state date 1.400 rupie, circa 18 euro; altri governi locali offrono come incentivi automobili ed elettrodomestici alle donne che accettano di farsi sterilizzare volontariamente – bisognerebbe chiedersi quanto siano spinte dall’autodeterminazione e quanto dai mariti o dal bilancio famigliare.

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In Italia le scarpe rosse sono diventate il simbolo contro il femminicidio e la violenza sulle donne in genere

Ma non c’è bisogno di andare a cercare in India per trovare abusi e soprusi sulle donne. In mancanza di statistiche e di raccolta dei dati nelle sedi ufficiali, Casa delle donne di Bologna è l’unica associazione in Italia che si occupa di raccogliere i numeri sul femminicidio mediante l’esame della stampa nazionale e locale. Nell’ottava indagine, condotta per l’anno 2013, le volontarie hanno evidenziato un incremento del fenomeno rispetto agli anni precedenti, con 134 donne uccise. Questo nonostante la nuova legge di ottobre e la ratifica della Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne e la violenza domestica. Mentre vengono confermati altri dati degli anni precedenti: i femminicidi riguardano per lo più donne italiane (70%), sono commessi da uomini italiani (70%), interessano tutte le fasce di età, anche se nel 2013 si ha un’incidenza maggiore tra i 36 e i 45 anni, mentre nel 2012 si registrava nella fascia 46-60. Secondo l’indagine questi delitti trovano origine nella relazione di genere: nel 58% dei casi l’autore è stato il partner attuale o ex della donna. Questi numeri aiutano a inquadrare e analizzare un fenomeno, ma è evidente che dietro queste cifre ci sono drammi personali e famigliari e vite scippate. Donne uccise per gelosia. Donne uccise perché avevano lasciato. Donne uccise perché maltrattate per anni. Donne uccise perché donne.
Il 25 novembre è la “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne” e a Ferrara le istituzioni, l’associazionismo femminile e di categoria, le società sportive, le istituzioni e le associazioni culturali e artistiche hanno creato un composito programma di iniziative dal respiro lungo, che arriverà fino a dicembre e che coinvolgerà tutto il territorio provinciale: la presentazione ufficiale alla cittadinanza sarà sabato 22 novembre alle 10 al Mercato Coperto di via Boccacanale di Santo Stefano.
Questa collaborazione e questo impegno a lungo termine sono un segnale positivo perché, come ha affermato Paola Castagnotto del centro Donne e giustizia nella conferenza stampa di presentazione del programma, “la ricorrenza è un giorno all’anno, ma se si parla di violenza di genere un giorno solo all’anno non serve a nulla: il tema è strutturale perciò serve una presenza strutturale e strutturata”. Ancora più condivisibili le parole di Castagnotto quando afferma che “non è un problema di lacrime, è un problema di responsabilità. C’è ancora molta strada da fare”.

Per maggiori informazioni e aggiornamenti sul calendario delle iniziative [vedi]

Un’asta ‘a orologeria’: il mistery psicologico di Tornatore

“E come è vivere assieme ad una donna?” “E’ come partecipare ad un’asta. Non sai mai se la tua offerta sarà la più alta”. Virgil in “La migliore offerta”, Giuseppe Tornatore.
Atmosfera intrigante e un po’ retro e un ricco e noto banditore d’asta esperto di antiquariato e di arte, che organizza i suoi intrighi con un amico di lunga data che partecipa, per lui, alle aste, non troppo lecitamente. E poi un caveau segreto blindato dove raccoglie una collezione inestimabile di opere d’arte, ritratti, soprattutto, di donne.

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Virgil, il ricco, elegante e misantropo banditore d’asta

Quelle che lui, il protagonista, Virgil Oldman (un freddo, controllato e severo, ma bravissimo, Geoffrey Rush) chiama le sue donne, donne non reali, perché Virgil, misantropo, preferisce così, quelle donne dipinte e inoffensive che l’amico (Donald Sutherland) gli procura. Virgil è colto, elegante ed eccentrico, rifiuta qualsiasi contatto umano, indossa sempre un paio di guanti e non incrocia mai lo sguardo delle rappresentanti il gentil sesso. E poi tanti enigmi.

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La locandina del film

Questi gli ingredienti principali di “La migliore offerta”, un film che ha stile, perfezione, tanta bellezza, ma anche tanta fragilità e incomprensione. Perché l’ombroso Virgil è fragile psicologicamente, in fondo: quando si confronta con la passione per una donna reale (mai provata prima), perde l’orientamento e la testa.
Tutto inizia e cambia quando, un pomeriggio, gli telefona un personaggio misterioso, la giovane ereditiera Claire, che gli rivela che i genitori le hanno lasciato una villa enorme, bellissima ma diroccata e hanno stabilito l’obbligo che a fare la perizia all’intera illustre dimora sia proprio lui. Lusingato, Virgil accetta ma l’ereditiera, sfuggente e misteriosa, si rivela un personaggio impossibile, diserta gli appuntamenti adducendo mille scuse e alla fine gli rivela di essere affetta da agorafobia, per cui vive nella villa da reclusa e non vuol essere vista da nessuno, pur essendo (si dice e si comprende) bellissima.

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La giovane e bella ereditiera

La routine è turbata e sconvolta. Il confronto con la vita e la realtà saranno distruttive per Virgil, personaggio nevrotico e ossessivo. Il finale sarà inaspettato. Intrigante tutta la storia, il mistero e i luoghi in cui il film è girato: si passa dall’accogliente e familiare Alto Adige, alla romantica Vienna fino alla magica Praga. Il mistero è alimentato dalla scoperta, durante i numerosi sopralluoghi alla villa, di alcuni ingranaggi, che si sospettano risalire all’epoca di Jacques de Vaucanson, cui la storia attribuisce la costruzione del primo automa mai realizzato.
Bella e accurata la sfilata di quadri e di opere d’arte, un’autentica meraviglia per collezionisti e conoscitori ma anche per semplici amatori. Conquistano anche le musiche, che sono di Ennio Morricone.
Un vero e intrigante giallo che tiene con il fiato sospeso, sulle spine, fino all’ultimo. Un catalogo di vite con tanto di villa dalle atmosfere hitchcockiane.

La migliore offerta, di Giuseppe Tornatore, con Geoffrey Rush, Jim Sturgess, Sylvia Hoeks, Donald Sutherland, Philip Jackson, Italiua, 2012, 124 mn.

LA STORIA
Una Lanterna brilla in Emilia: l’osteria apprezzata anche da Carlo Petrini e Vandana Shiva

L’Osteria La Lanterna di Diogene di Solara di Bomporto (Modena) unisce buona tavola e impegno sociale, impegnando una dozzina di ragazzi disabili, alcuni sono anche soci fondatori. Con il loro impegno nei campi, nella stalla e nell’osteria, i ragazzi sostengono l’attività della Lanterna. Da qualche anno l’osteria, fondata nel 2006, è recensita anche nella Guida Slow Food Osterie d’Italia perché, oltretutto, utilizzano solo ed esclusivamente prodotti biologici km 0, tra cui i formaggi e lo yogurt dell’Azienda Casumaro che si trova sempre a Solara, le uova e il riso dell’Azienda Cerutti di Burana di Bondeno, nel ferrarese. Tra queste realtà imprenditoriali non si è solo instaurato un ottimo rapporto, ma è nata una grande amicizia e un tessuto di relazioni sul territorio che loro definiscono ‘casa’. Dall’amicizia all’amore il passo è breve: i produttori Elisa Casumaro e Stefano Cerutti si sono sposati a settembre 2013 e il pranzo nuziale è stato interamente preparato dai ragazzi della Lanterna. Una favola vera che vale la pena raccontare.

Siamo andati a cena alla Lanterna di Diogene con Elisa Casumaro* e Stefano Cerutti**, per ascoltare da loro questa bella storia, e dalle parole di Giovanni Cuocci che gestisce l’osteria insieme agli altri soci.

Elisa, come hai conosciuto i ragazzi della Lanterna?

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Elisa Casumaro in azienda, con una dei suoi vitellini

Mia mamma lavorava in un’azienda che ogni anno a Natale fa doni alle realtà che hanno bisogno di essere sostenute, non in denaro ma in termini di beni utili. Per anni, a dicembre, veniva a casa e chiedeva a mio papà: “Noi ce l’abbiamo un vitellino da regalare alla Lucciola per Natale?”, e l’anno dopo, “Ce l’abbiamo un maialino per la Lucciola?”. E mio padre le rispondeva sempre: “Ma cosa se ne fanno di questi animali?”. Questo una decina di anni fa, finché non abbiamo iniziato a conoscerci meglio e a collaborare in modo più consistente.


Giovanni, come si è sviluppato poi il rapporto con l’Azienda Casumaro?

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Giovanni Cuocci davanti all’entrata dell’osteria

Cercavo buoni latticini, sono andato a visitare l’azienda e ho cominciato ad utilizzare i loro prodotti per l’osteria. Fino a quando, nel 2007, Elisa ha tenuto per noi un bellissimo laboratorio su come fare il formaggio. E’ stato un momento molto intenso: per Elisa era la primissima esperienza, ora tiene regolarmente laboratori per le scuole perché l’azienda è fattoria didattica; per noi è stato come aprirci al territorio, tessere una nuova e profonda relazione. Da allora stiamo crescendo insieme.

E Stefano Cerutti, quando lo avete conosciuto?

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Stefano Cerutti durante una visita guidata alla riseria

Ecco, mi ricordo che c’è stato un momento particolare in cui Elisa ha cominciato a fare degli strani e ripetuti inviti, chiedendomi se per caso non mi servissero delle uova, se non avessimo bisogno di qualche gallina, perché lei aveva conosciuto un ragazzo che allevava le galline e produceva uova biologiche; diceva che era un ragazzo bravissimo, che dovevamo conoscerlo. Beh, di lì a poco erano fidanzati! Ed effettivamente i prodotti erano ottimi e abbiamo cominciato ad utilizzarli. Quindi ora abbiamo i formaggi bio di Casumaro, le uova e il riso bio di Cerutti… vitellini, maialini… e le famose galline! Una grande famiglia.

Entrando in osteria ho visto una foto in cui Carlo Petrini di Slow Food vi fa visita e so anche che siete recensiti nella guida di Slow Food Osterie d’Italia. Ci vuoi raccontare qualcosa a proposito?

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Visita di Carlo Petrini alla Lanterna, a seguito del terremoto in Emilia del 2011

Volentieri. Io conoscevo già Slow Food perché m’interessavo di cibo e gastronomia. Poi c’è stata l’illuminazione con il libro di Petrini “Buono, pulito e giusto”: leggendolo, sembrava che parlasse di noi, della nostra scuola, della realtà della Lucciola… era identica, tant’è che mi chiedevo come avesse fatto a scrivere di noi senza conoscerci. Da lì è nato il desiderio di incontrarlo e di portarlo alla Lanterna. L’occasione è arrivata in occasione del Convegno mondiale del biologico, nel 2008: Petrini era tra i relatori, la cena ‘clou’ si sarebbe tenuta nel ristorante di un amico, il convegno era organizzato dall’allora Assessore all’agricoltura della Provincia di Modena, Graziano Poggioli, infaticabile promotore del biologico che io conoscevo. Non c’era storia, io dovevo essere lì quella sera, a cena con loro, a costo di fare il cameriere. E così è stato, il proprietario del ristorante ha aggiunto un posto a tavola e mi sono seduto in mezzo a loro: non mi pareva vero, avevo alla mia sinistra Carlo Petrini e alla destra Vandana Shiva, la famosa attivista e ambientalista indiana. Un sogno.

Hai cenato con Carlo Petrini e Vandana Shiva? Continua, non ti fermare…

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La Lanterna di Diogene, la scultura che si trova nel giardino dell’osteria

Non solo, ma c’erano anche il filosofo ed economista francese Serge Latouche, l’allora presidente di Slow Food Italia Roberto Burdese e tutta una serie di personalità nel campo del biologico e della sostenibilità. Io non ho fiatato per tutta la serata, ascoltavo a più non posso. Alla fine, mi hanno chiesto chi ero e cosa ci facevo lì. Gli ho raccontato della Lanterna e della Lucciola, di come la scuola raccontata da Petrini fosse identica alla nostra, infine ho invitato Petrini a venirci a trovare. Lui era impegnatissimo in quei giorni e io non volevo rischiare che non venisse, così il giorno dopo ci siamo presentati al convegno, abbiamo aspettato che finisse il suo intervento, poi l’abbiamo rapito.

Avete rapito Petrini?
Sì, ho detto a Simona, una ragazza down che lavora in osteria e che è cresciuta con noi, “Simo, la macchina è in moto, lo carichiamo e ce ne andiamo.” E lei, tutta seria e presa nella parte, è andata e gli ha detto “Io sono qui per rapirti, andiamo!”. Lui si è fatto una gran risata e ha cominciato a guardarsi intorno per vedere dov’ero. Finite le interviste con i giornalisti, l’abbiamo portato qui all’Osteria e abbiamo mangiato insieme i tortelloni preparati dai ragazzi. Lui è rimasto molto contento e da quel momento non ci siamo più lasciati, tant’è che dopo il terremoto si è fatto promotore di una campagna a sostegno della nostra attività perché ne eravamo usciti distrutti [vedi]. La foto che hai visto entrando è stata scattata qualche giorno dopo il terremoto, quando Petrini e tutti i fiduciari di Slow Food sono venuti a cena qui, proprio per darci il coraggio e la spinta per ripartire. Siamo diventati una Comunità del cibo di Terra Madre e partecipiamo anche al Salone del Gusto di Torino.

Ma raccontami un po’ dei ragazzi e del gruppo che ruota attorno alla Lanterna…
Sì, finora ho raccontato qualche aneddoto simpatico ed emblematico, ma la storia della Lanterna è un’altra, è la storia di diverse persone che si sono messe insieme e che sono capaci di lavorare in gruppo. La nostra è una cooperativa, tra i soci ci sono anche alcuni ragazzi con patologia cresciuti al Centro di terapia integrata per l’infanzia La Lucciola [vedi]. Le scelte vengono fatte insieme e il mio voto vale come quello di ognuno di loro, come quello di Caterina per esempio.

Giovanni chiama Caterina che sta servendo ai tavoli. Cate ha 26 anni, lavora come aiuto cuoca e cameriera, ed è tra i soci della Lanterna. Da principio un po’ timorosa, Caterina comincia a raccontarsi, dimostrando un’incredibile consapevolezza di sé e della propria patologia.

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Caterina (a sinistra) e Carlo Petrini in visita alla Lanterna

Io sono arrivata alla Lucciola che avevo 16 anni, perché a scuola non mi trovavo tanto bene. Io venivo tutte la mattina da Bologna, perché noi abitavamo là. Poi, siccome venire alla Lucciola mi piaceva tanto, con la mia famiglia abbiamo deciso di avvicinarci e ci siamo trasferiti a San Giovanni in Persiceto. Alla Lanterna mi hanno insegnato tante cose, mi hanno insegnato a lavorare insieme e che cos’è la dignità. Qui hanno capito i miei problemi e le mie difficoltà, perché io ho avuto una vita difficile, spesso mi viene voglia di piangere per la mia patologia.

Di quali attività ti occupi qui alla Lanterna, Caterina?
Durante il giorno pulisco le verdure che verranno preparate per la cena, lavo i piatti, dò da mangiare ai maiali che sono alleviamo nel bosco, il giovedì facciamo i tortelloni di ricotta, i tortelloni di zucca, i maccheroni al pettine, le tagliatelle, ecc. La sera invece faccio la cameriera. Fare la cuoca mi piace tanto e anche stare in mezzo alla gente, tutte queste cose mi danno molta soddisfazione.

Stefano, tornando a voi, raccontaci dell’amicizia con Giovanni e di com’è nata l’idea di far preparare il pranzo del matrimonio dai ragazzi della Lanterna…
La Lanterna è il posto che ci piace di più al mondo. Qui è stato il nostro primo appuntamento. Ancora adesso, quando siamo stanchi, dopo aver girato tutta la settimana per mercati contadini e consegne, venire a mangiare qui è la cosa che più ci rappacifica col mondo. Qui troviamo degli amici e stiamo bene, finalmente tranquilli. Inoltre sono davvero bravi, si mangia benissimo e utilizzano prodotti ottimi. Per noi è una grande soddisfazione vedere che i nostri prodotti vengono valorizzati e usati al meglio. Per tutti questi motivi, ci siamo sempre detti che se mai ci fossimo sposati, avremmo fatto preparare il pranzo dalla Lanterna.

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Il caseificio di Maurizio Casumaro a Solara di Bomporto (Modena)

*L’Azienda agricola Casumaro è un’azienda a conduzione familiare che si occupa di allevamento da generazioni. Dopo un lungo percorso di conversione al biologico, nel 2010 aprono il caseificio e si certificano biologico su tutta la filiera. Elisa Casumaro è l’anima dell’azienda: figlia del proprietario, 30 anni, laureata in Ingegneria industriale, è addetta alla gestione dei mercati, degli ordini per i Gas, si occupa delle visite didattiche e del marketing.

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La risaia dell’Az. agricola Cerutti a Burana di Bondeno

**L’Azienda agricola Cerutti è un’azienda storica a conduzione familiare che negli anni è passata attraverso varie trasformazioni: da azienda frutticola, piano piano si è convertita fino a dedicarsi totalmente alla coltivazione del riso e all’allevamento di galline ovaiole. L’azienda è certificata biologica in tutto e per tutto. Stefano è l’intestatario insieme al padre, ha 37 anni, è perito agrario e si occupa principalmente della coltivazione del riso, dell’allevamento delle ovaiole, gestisce i mercati contadini e le consegne a Gas, negozi e ristoranti.

I prodotti di Cerutti e Casumaro si possono trovare anche a Ferrara: a Terraviva Bio di Dalle Molle (via delle Erbe 29) e da Bergonzini Uber (via Garibaldi 1).
I prodotti di Cerutti si trovano anche al Mercato contadino del venerdì a Porta Paola (banchetto di Io Bio), a GiroBio in via Terranuova.

Le foto in cui compare Carlo Petrini sono pubblicate nel sito di Slow Food.

Per visitare il sito della Lucciola [vedi]
Per visitare il sito della Lanterna [vedi]
Per saperne di più suo produttori, visita i siti dell’Az. Agricola Casumaro [vedi], quello dell’Az. Agricola Cerutti [vedi] e il sito Agrizero.it [vedi]

L’INTERVISTA
Paolo Rossi, Arlecchino del terzo millennio

L’anno scorso ha aperto la stagione del Teatro di Occhiobello con “L’amore è un cane blu”, “un concerto visionario popolare lirico e umoristico”, come lo definiva lui stesso nelle note di regia. Sabato 22 novembre Paolo Rossi torna nel ferrarese per mettere in scena al Teatro De Micheli di Copparo il suo “Arlecchino” del nuovo millennio: uno spettacolo che, come il costume della maschera della tradizione popolare, sembra essere un insieme variopinto di varie suggestioni. Dai suggerimenti del grande regista Giorgio Strehler, alla tradizione popolare, al romanzo “Opinioni di un clown”, la realtà quotidiana e i sogni, queste le fonti di ispirazione per uno spettacolo che ha il preciso obiettivo di essere ogni sera diverso: un assemblaggio di monologhi, canzoni in divenire, fatti personali, ricordi, sogni, storiellette e riflessioni sia sulla professione del comico oggi sia su quel che accade nel nostro Paese.

(S)punto di partenza: se andassimo in una birreria di Amburgo, come potremmo adeguare Arlecchino a quel luogo per sbarcare il lunario? Questo “Arlecchino” promette di essere una serata di delirio organizzato, in cui a farla da padrone saranno l’improvvisazione e l’interazione con il pubblico, come lo stesso Rossi ci ha anticipato nell’intervista che ci ha concesso prima dello spettacolo.

Da dove è nata l’idea di questo “Arlecchino”?

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Paolo Rossi

È una questione ‘personale’ perché anni fa Giorgio Strehler mi propose di iniziare a preparare un Arlecchino del terzo millennio suggerendomi di prendere i miei pezzi da stand-up comedian, i miei monologhi, le mie affabulazioni e riscriverli declinandoli alla forma della commedia dell’arte. Poi lui è scomparso e purtroppo non se ne è fatto nulla, però mi è stato riproposto poco tempo fa dal Centro ricerca teatrale di Milano, nella forma di una specie di esperimento in cui ci si confrontava fra i vari Arlecchino, cioè con i vari attori che hanno interpretato la maschera, fra i quali Ferruccio Soleri. Da qui poi è nato questo spettacolo in cui, com’è di solito nel mio stile, porto sul palco l’attore, cioè quello che conosce il mestiere, il personaggio, quello che interpreta o che evoca, ma anche la persona. Insomma una montagna russa tra vero e falso, tra l’inventato e il realmente accaduto: insieme ai virtuosi del Carso, che mi hanno accompagnato già in “L’amore è un cane blu”, diamo vita a una serata basata sull’improvvisazione.

In fondo però è anche una riflessione sul tuo mestiere di attore e soprattutto di attore comico: vi chiedete come adattare lo spettacolo ai vari luoghi e alle diverse occasioni in cui potrebbe essere messo in scena.
Sì, in realtà è un modo abbastanza ironico di riflettere su dove possiamo andare a lavorare durante la crisi: matrimoni, divorzi, funerali, circoncisioni. Bisogna andare a cercare il lavoro dove c’è, quindi la serata è composta di varie proposte. Alcuni sono miei brani storici che ho riscritto completamente proprio seguendo le indicazioni di Strehler, alcuni sono brani nuovissimi e poi, come dicevo prima, c’è una gran dose di improvvisazione e di interazione del pubblico

L’Arlecchino che vedremo in scena non è quindi il servitore di due padroni di Goldoni e neanche lo Zanni della commedia dell’arte italiana, sei andato a pescare una versione ancora più ‘ancestrale’?
Sempre dietro suggerimento di Giorgio Strehler ho usato come riferimento il primo Arlequin, che andava e veniva dall’aldilà. Come si va e si viene dall’aldilà? Con i sogni: è lì che si incontrano le persone che non ci sono più, le situazioni scomparse. In altre parole le proposte, le idee che presento durante lo spettacolo sono quelle che mi vengono molto spesso dai sogni.

Come il vestito della maschera della tradizione popolare, anche questo spettacolo perciò è un patchwork dei tuoi pezzi che ricuci ogni volta in maniera diversa attraverso l’improvvisazione?
Oltre ai miei vecchi pezzi, ci sono quelli totalmente nuovi, che forse sono ancora di più rispetto ai primi, ci sono canzoni inedite di Gian Maria Testa, e poi grazie all’improvvisazione ogni sera succedono cose nuove: ogni sera ci si rilancia e si inventa. Goldoni ha fissato la drammaturgia in modo da bloccare l’improvvisazione, che in quel periodo in effetti era poco professionale. Noi invece siamo professionisti dell’improvvisazione credo, quindi riprendiamo la pratica.

In “Opinioni di un clown”, un’altra delle fonti di ispirazione per il tuo Arlecchino, il clown di Böll si schiera contro un paese in pieno miracolo economico, noi ci troviamo nella situazione opposta. Le tensioni e lo scoramento che stiamo vivendo entrano in questo spettacolo? Come?
Entra in una maniera che mi è stata suggerita proprio da un sogno con un mio collega che non c’è più: il primo compito di un comico, di un saltimbanco oggi è quello di portare conforto, ma non in senso pietistico, quello che oltre a tirar su di morale – e già questo sarebbe abbastanza oggi – offre un punto di vista diverso, insinua un dubbio più che dare un messaggio, fa domande, magari quelle che si fanno tutti. Io parlo della realtà, in questo senso Arlecchino è uno spettacolo politico nel senso generale, non della satira degli anni ’90, perché non si può fare la parodia della parodia, l’imitazione di un’imitazione. Noi cerchiamo di trovare altre vie, parliamo dei problemi reali, della strada, andiamo nel piccolo e nel quotidiano, non inseguiamo i fatti eclatanti.

Qual è il suo ruolo lo hai già detto, ma chi è Arlecchino nella società contemporanea?
Lo possiamo fare in tanti, è un ruolo aperto, non c’è copyright.

Nell’ultimo periodo stai facendo laboratori con i giovani, ti sei fatto un’opinione su questa ‘famigerata’ categoria anagrafica?
Ti parlo del mio campo: personalmente non credo alle compagnie generazionali, non hanno mai funzionato in teatro. In realtà, per quanto possiamo passare per sperimentali, innovatori, trasgressivi, per esserlo fino in fondo bisogna affidarsi alla tradizione. Io credo che una compagnia debba essere trasversale, deve avere il ragazzo come il novantenne perché questa mescolanza crea esperienza.

L’anno scorso hai portato “L’amore è un cane blu” a Occhiobello, quest’anno con “Arlecchino” vai in scena a Copparo, perché questa predilezione per le realtà più ‘intime’?

Sono un saltimbanco, perciò vado ovunque mi chiamano: con questo spettacolo siamo disponibili anche per matrimoni, divorzi, eccetera. Poi, a titolo personale, vengo con grande piacere perché io ho giocato a calcio fino in prima categoria e a Copparo ho segnato uno dei più bei goal della mia vita. Me lo sogno ancora adesso: sono partito da metà campo e sono arrivato in porta, non so ancora come sono riuscito a prendere la palla e a fare quell’azione. Anzi penso proprio che andrò a vedere se quel campo esiste ancora.

Hollywood, premiati i ‘mostri’ di Federico Alotto

“Io vedo i mostri”, di Federico Alotto, è un cortometraggio horror, che si rifà al “cinema di genere” italiano. Il film è ambientato in una situazione notturna, dove il mostro, nascosto nel buio di una cantina, è pronto a scavare nelle paure più intime. Il film tiene lo spettatore col fiato sospeso, sino all’ultimo respiro, sorprendendolo nel finale.

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Locandina del film

“I see monsters” (il titolo nell’edizione internazionale) ha vinto il premio come miglior film straniero al prestigioso International Beverly Hills film festival (BHff) di Hollywood, Los Angeles. Si è trattato di un successo importante completato dal premio assegnato ad Andrea Zirio, protagonista del film, quale migliore attore.
Alotto ha frequentato il conservatorio sotto la guida del maestro Paolo Russo, ha collaborato con numerosi musicisti tra cui Elio, Baustelle, Fratelli di Soledad e l’Orchestra di Fondazione Crt. Nel 2012 ha realizzato il primo lungometraggio intitolato “L’uomo col cappello”, girato in un mese con un budget ridottissimo. Il film ha ottenuto una buona accoglienza ed è stato premiato con una menzione speciale, all’Ecologico international film festival di Gallipoli.

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Federico Alotto riceve il premio al BHff di Hollywood

“Io vedo i mostri” si può classificare con quello che fu definito “cinema di genere” (una rarità tra i cortometraggi), una cinematografia sviluppatasi tra gli anni ‘60 e ‘80, che traeva spunto dai film di maggiore successo (specialmente americani), con l’obiettivo di proporre sequel a dir poco impossibili e di creare dei veri e propri filoni. Tra gli autori più noti citiamo Enzo G. Castellari, Lucio Fulci, Joe D’Amato, Mario Bava, Umberto Lenzi, Fernando di Leo e Ciro Ippolito, quest’ultimo autore e regista di “Alien 2 sulla terra”. Questi film erano realizzati con budget ridottissimi, attori e registi sconosciuti, ma la ristrettezza economica era superata dall’ingegno e da soluzioni innovative, che ne decretarono la fortuna, sino a farli uscire dai confini nazionali.
Il ritorno di questo genere cinematografico si deve senza dubbio al regista Quentin Tarantino e alla sua fortunata produzione: “Kill Bill”, “Pulp fiction”, “Django unchained” e “Bastardi senza gloria”, il titolo è un omaggio al film del 1977 di Enzo G. Castellari “Quel maledetto treno blindato”, uscito negli Stati Uniti con il titolo “Inglorious Bastards”, che Tarantino ha storpiato in “Inglourious Basterds”.

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Immagine della pagina Fb del film

Il cortometraggio di Alotto narra la storia del piccolo Giulio e della sua paura di recarsi in cantina. La scena iniziale inquadra e caratterizza i protagonisti: un padre trasandato e poco comunicativo, un bambino timido che a fatica riesce a tagliare la sua bistecca e una madre inquietante, concentrata esclusivamente sul porre in un certo modo la bottiglia del vino sulla tavola. La buona tecnica di regia, l’ottima fotografia di Valerio Sacchetto e il perfetto sincronismo dell’azione scenica, da parte degli attori, catturano l’attenzione dello spettatore, senza rivelare in anticipo lo sviluppo della storia. Nella loro dettagliata caratterizzazione i tre protagonisti creano comunque una sorta di ‘normalità’ narrativa, bruscamente interrotta nel momento in cui il bambino si reca in cantina. Mentre questi è intento a versare il vino nella bottiglia, si rivela la presenza di un’altra persona, che vive segregata nel locale. Il finale è drammatico e svela finalmente chi siano i veri mostri.

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Il regista Federico Alotto a sinistra, il protagonista Andrea Zirio, al centro

Gli elementi tipici del cinema di genere (horror/thriller) ci sono tutti: un’ambientazione notturna, una cantina buia, il mostro nascosto nell’oscurità. Si tratta di situazioni inserite in un contesto di suspense, in grado di attirare l’attenzione dello spettatore. La storia si sviluppa in due ambienti diversi e allo stesso tempo simili. La sala da pranzo è calda e accogliente, nonostante i genitori del bambino sembrino creature mostruose, poi la scena si sposta all’interno di un locale spoglio e scarsamente illuminato, dove scarafaggi, topi e oscure creature appaiono più rassicuranti.
Valerio Sacchetto ha avuto il merito di ricreare ambienti in cui le ombre e la quasi assenza delle luci immergono lo spettatore in un’atmosfera horror, come per le scene girate nella cantina in cui si inizia a percepire la presenza di un nuovo elemento. Gli attori hanno offerto un’interpretazione convincente e credibile, caratterizzando senza eccessi i loro personaggi.

“I see monsters” ha vinto anche il Crimson screen horror film festival (best short e best cinematography), che si svolge negli Usa a Charleston in South Carolina e il premio per il migliore cortometraggio horror al “Winter film awards” di New York City. Il film è stato presentato, tra gli altri, al Torino film festival e al Film leben festival (best horror short) di Llmenau (Turingia) in Germania. E’ attualmente in concorso al “Nasicae short movie festival”, che si tiene a Castenaso (Bo) dal 22 al 23 novembre.

“Io vedo i mostri” di Federico Alotto, con Andrea Zirio, Alessia Pratolongo, Vanina Bianco Giulio Caterino, sceneggiatura Emanuela Kalb, cortometraggio, genere horror, 2013, Italia, produzione La Carboneria, con il sostegno di Rotary Club Torino Castello – Ass. Cult. Adrama

Trailer ufficiale [vedi]

L’EVENTO
Iperealismo e atmosfera d’antan nei ritratti chic di Corcos

di Anna Maria Fioravanti 

Corcos, un “artista fatto per piacere, come la sua pittura, attenta, levigata, meticolosa: donne e uomini come desiderano d’essere, non come sono”, scriveva Ugo Oietti nel 1933.
Ritrattista della ricca società internazionale e dei più importanti intellettuali dell’epoca, il livornese Vittorio Matteo Corcos (Livorno 1859-Firenze 1933) perfezionò il suo stile inconfondibile a Napoli con Domenico Morelli, poi, accanto a De Nittis e all’abile mercante Goupil a Parigi, dove soggiornò per sei anni, dal 1880 al 1886. Virtuosismo tecnico, ricerca della bellezza ideale e solida preparazione culturale plasmano fatalmente la sua attenzione per la sofisticata eleganza di un mondo femminile elitario, dove donne bellissime e di alto rango impongono un modello estetizzante, misto di realtà e finzione. Frequentazioni ‘giuste’ lo mettono in contatto con Degas, Manet, Caillebotte, Zola, Edmond de Goncourt, De Nittis, arricchendo così della lezione naturalista la tenuta figurativa, la sicurezza del tocco, gli abili accordi cromatici di ritratti femminili a pastello alla Watteau.

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Vittorio Amedeo Corcos, Autoritratto, (1913), Galleria degli Uffizi, Firenze

In realtà, i suggerimenti dell’Impressionismo non lo attirano, tanto che più volte dichiarò i propri dubbi e resistenze nei confronti dell’avanguardia francese. Al contrario, a Parigi, Corcos era considerato il “peintre des jolies femmes”, creature dalle carni rosee, dalle labbra rosse come il sangue, dai glauchi occhi lucenti, dai veli bianchi”. Se da un lato il suo realismo esasperato e quasi fotografico è alla base della lunga e fortunata carriera di ritrattista di successo, conteso dalla mondanità più esclusiva, dall’altro l’incomprensione della critica modernista sottolineava il suo stile conservatore, desideroso di compiacere i gusti del pubblico.
Verso la fine dell’Ottocento le richieste per i suoi ritratti s’intensificano, allargando il giro alla committenza imperiale (ritratti di Guglielmo II, della moglie Augusta Vittoria e di Amelia d’Orleans 1905). Qui Corcos ricorre alla tradizione aulica della ritrattistica di corte di età neoclassica attingendo a modelli di Mengs, Batoni e Giovanni Battista Lampi, perfezionando una forma di ritratto mondano adatto a celebrare principesse ed anche celebri artiste di teatro come la soprano Lina Cavalieri (1903). Ed è proprio in questo ritratto che si confronta con Giovanni Boldini, l’altro grande ritrattista interprete, più di lui, dello spirito della donna moderna, eroina letteraria ma colta con “effetto di verità” dal tocco disinvolto ed eccentrico: come Boldini, anche Corcos ha grande capacità di captare e fissare sulla tela lo ‘status’ delle sue modelle e rendere il dettaglio prezioso sia esso un tessuto o un’ambientazione.
Ma il gusto descrittivo non sempre è finalizzato ad accentuare i risvolti emotivi, psicologici e sentimentali. A smentire tale affermazione un po’ affrettata che nasce ai margini della vasta antologica (con più di 100 opere) di Padova, è il dipinto intitolato “Sogno” (1896), un quadro giudicato modernissimo fin dalla sua prima esposizione. Corcos raffigura una giovane donna, Elena Vecchi, vestita con sobria e raffinata eleganza. Seduta su una panchina dove sono posati tre libri, un cappellino di paglia e l’ombrellino, protende lo sguardo intenso verso lo spettatore. Anche la posa disinvolta con le gambe accavallate e il mento posato sulla mano, esprime tutta la sicurezza della giovane donna intellettuale moderna, che non teme di mostrarsi inquieta e appassionata come simbolicamente indicano i petali di rosa sparsi a terra.
E di nuovo vediamo l’artista attratto dal simbolismo in una grande opera “Lettura sul mare” (1910), dipinta a Castiglioncello dove risiedeva per lunghi periodi in una lussuosa villa situata a Punta Righini (quella villa sarà acquistata poi nel 1963 da Alberto Sordi). Qui è la figliastra Ada a rappresentare con sguardo malinconico le inquietudini giovanili in un chiarore abbacinante, con il mare alle spalle, in abito bianco: è seduta al centro fra due giovani ragazzi con un libro aperto sulle ginocchia: uno è sdraiato sul muretto, l’altro è seduto. Tutti sono assorti, chi nella lettura, chi in riflessioni su quanto letto.
I tre libri dalla copertina gialla delle edizioni Flammarion sono in bella vista in primo piano. Un iperrealismo magico ferma l’immagine come un fotogramma e lascia nella luce bianca sottili segni di inquietudine. Quell’inquietudine che Pascoli, Carducci e D’Annunzio, assidui frequentatori del salotto letterario fiorentino della famiglia Corcos e del cenacolo del Marzocco hanno interpretato con grande maestria.
Un deciso rinnovamento di mezzi espressivi e delle tecniche pittoriche che molto debbono alla fotografia, lo faranno emergere come protagonista nella rappresentazione della vita moderna, di quello spirito anticonformista ed elitario che caratterizzò l’epoca dannunziana del decadentismo. Monumentale è il ritratto della famiglia Moschini (1910), dove l’individuazione delle figure della madre attorniata dai quattro figli e dal padre seduto al limite della scena, contro lo sfondo del litorale livornese di Castiglioncello giunge alla traduzione fedele delle fattezze dei modelli ritratti nei loro raffinati ambiti estivi. E, come una foto d’epoca, ci restituisce il clima sentimentale e mondano in cui l’opera si cala. Nel virtuosismo di una gamma coloristica rosata che esalta gli incarnati, le vesti, la balaustra marmorea, il ritratto della famiglia Moschini rientra nell’atmosfera rarefatta preraffaellita di Lawrence Alma Tadema (1836-1912), in cui figure panneggiate all’antica sono ritratte sullo sfondo di paesaggi marini e avvolte da romantico languore e raffinata indolenza.
Tutto ciò lascia affiorare il milieu culturale dell’alta borghesia e dell’aristocrazia che amavano essere celebrate secondo un gusto nutrito di cultura letteraria e figurativa e da una sensibilità psicologica profondamente in sintonia con la temperie culturale del tempo che l’artista coglieva nello sguardo dei suoi effigiati tanto da affermare: “In un ritratto quel che conta sono gli occhi: se quelli riescono come voglio il resto viene da sé”.
Che Corcos sia stato affascinato dal gusto decadentista di Alma Tadema e dalla sua rivisitazione dell’antico come prototipo della bellezza e armonia universale lo denunciano i precisi richiami che spesso affiorano nelle sue opere come i petali di rosa, le pose sensuali e le scenografie classicheggianti. Nel bellissimo dipinto “In lettura sul mare”, il giovanotto in impeccabile abito di lino bianco disteso sulla balaustra, è citazione letterale di famose opere dell’artista anglo-olandese, cui lo univano affinità elettive per la pittura elegante e purista e per la passione idealizzante dell’universo femminile.

Corcos. I sogni della Belle Époque, a cura di Ilaria Taddei, Fernando Mazzocca e Carlo Sisi, Padova, Palazzo Zabarella, Fondazione Bano, fino al 14 dicembre.

Cinquanta sfumature di freddo

Da MOSCA – Fa freddo, ma non per tutti allo stesso modo. Per me si gela, per qualcun altro fa fresco. Al punto da meritarsi un bel bagnetto (con)gelato. Strani questi russi. Si sa che sono forti e resistenti fisicamente (e non solo), ma la passeggiata a piedi nudi sul ghiaccio mi mancava e non smetterà mai di stupirmi. Come se non bastasse, meglio mettersi anche il costume, lasciando asciugamani e ciabatte a riposarsi sulla neve fresca calpestata. Non servono. La scaletta rossa fiammante attende.
Eccoci, allora, seduti a osservare, stupiti, caldamente fasciati e avvolti in sciarpe di delicata e morbida lana di mohair, in cappotti imbottiti e scarpe adatte ai meno trenta, un aitante e muscoloso ragazzo russo che, tranquillo e disinvolto si avvicina a una pozza d’acqua ghiacciata. Brrr… Tuffo invernale, per schiarirsi le idee e riposarsi dalla movimentata e indaffarata settimana del suo ufficio nel centro cittadino. Un momento di relax, una terapia d’urto per persone sane e allenate. Molto sane e molto allenate.
I colleghi russi mi raccontano che tuffarsi nell’acqua gelida non è nulla di così spaventoso. Quando la temperatura dell’aria si aggira sui -20 e quella dell’acqua è di +2, la sensazione è come se ci si stesse immergendo nel latte appena munto. L’importante, dicono, è avvolgersi subito in un asciugamano, appena usciti dall’acqua.
Questo, almeno, è quello che dicono anche le persone che, nella notte dell’Epifania ortodossa (in gennaio), accorrono numerose per tuffarsi in un buco scavato nel ghiaccio.

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Bagno nell’acqua ghiacciata

Scoprirò, infatti, che il tradizionale bagno nell’acqua gelida di una fonte battesimale, per ricordare il Battesimo (kreshenie) di Gesù Cristo nel fiume Giordano per mano di Giovanni Battista, si effettua ogni anno, nella notte tra il 18 e il 19 gennaio e che esso è accompagnato da bagni di massa nell’acqua ghiacciata: ci si cala in apposite aperture praticate nel ghiaccio e illuminate, chiamate ‘prorub’ o ‘iordani’. Non si tratta di un rito obbligatorio per la tradizione ecclesiastica russa, ma molti lo fanno.
Il presidente dell’associazione internazionale Marafonskoe Zimnee Plavanie (Nuoto invernale di fondo), Vladimir Grebenkin, ricorda che chi decide di calarsi nello ‘iordan’, in occasione del Battesimo di Gesù, deve indossare abiti caldi prima di arrivare all’acqua, bisogna essere ben coperti: scarpe comode, calze grosse di lana, guanti di lana, cappello, maglione, biancheria termica. Il costume da bagno va indossato a casa, prima di uscire. Occorre preparare anche un sacchetto con la biancheria di ricambio, un asciugamano e delle ciabatte. Inoltre, è bene portare con sé un tappetino o un asciugamano da stendere per terra sotto i piedi. Stando alle sue parole, prima del bagno bisogna spogliarsi dal basso verso l’alto: togliere prima le scarpe. Le calze, invece, si possono togliere solo dopo che si è rimasti in costume: si mettono le ciabatte e ci si avvicina all’apertura nel ghiaccio. Se si sentono le dita delle mani o dei piedi intirizzite, è necessario muoversi un po’, fare una corsetta o qualche esercizio per riscaldarsi. Solo dopo ci si può calare in acqua. Non c’è bisogno di nuotare: se si è scesi da una scaletta o entrati in acqua camminando, fino al petto, bisogna trattenere il respiro e immergersi tre volte, facendosi il segno della croce. Si deve uscire subito dall’acqua, asciugarsi con un telo di spugna e vestirsi dall’alto verso il basso, coprendo per primo il torace e infilandosi subito le ciabatte. Da non dimenticare guanti e cappello e, dopo il bagno, bisogna asciugarsi accuratamente il corpo intero. Il tutto in massimo sette minuti, senza restare in acqua più di trenta secondi. Un rito da seguire attentamente, se non ci si vuole ammalare o prendere qualche brutto e inutile acciacco. Mistico forse, ma duro.
In questo periodo dell’anno, per tale importante rito, le vasche sono allestite all’interno di chiese o cappelle, anche se la maggior parte delle volte si tratta di semplici buchi a forma di croce praticati nel ghiaccio di fiumi o di stagni. Le celebrazioni iniziano con una funzione serale in chiesa, dopo la quale il sacerdote benedice l’acqua delle vasche. I fedeli raccolgono l’acqua benedetta in recipienti e la portano a casa, dove la utilizzeranno per lavarsi, berla o semplicemente custodirla come una reliquia. Si ritiene che l’acqua santa abbia delle proprietà uniche. L’anno scorso, a Mosca, sono state preparate oltre 40 fonti battesimali, ognuna delle quali provvista di pronto soccorso, bagnini e illuminazione, oltre che di tende riscaldate in cui cambiarsi e riscaldarsi dopo il tuffo. A beneficio dei credenti ma anche di chi vuole solo “mettersi alla prova”.
Questo signore, allora, intravvisto al parco di Serebryaniy Bor (o “spiaggia d’argento”, a nord di Mosca, dove un severo pope barbuto, armato dei suoi “instrumenta regni”, redarguì alcuni passanti che passavano e scattavano fotografie), era un semplice bagnante o si preparava al famoso rito di gennaio?

L’INCHIESTA
Partiti e partecipazione, Civati: nella politica attuale trasformismo e opportunismo

3.SEGUE – Riprendiamo la nostra inchiesta sul declino della politica. Nelle prime due puntate abbiamo considerato la crisi della partecipazione sulla base del drastico calo delle iscrizioni ai partiti, accompagnato dall’eclissi della figura del militante così come si era tradizionalmente connotato. Abbiamo poi analizzato i dati, in costante vertiginosa riduzione, di affluenza degli elettori alle urne fra il 1948 e il 2013. Oggi sentiamo una voce autorevole, quella di Giuseppe Civati, leader della minoranza pd, che a Matteo Renzi contesta, oltre a molte scelte, anche l’accentuazione del ruolo di leadership e il conseguente deficit di democrazia interna al partito. Abbiamo però mantenuto la conversazione al riparo dalle polemiche di questi mesi per considerare il tema nei suoi corretti termini strutturali.

Perché sempre meno persone sono disponibili a impegnarsi in politica?
C’è un dato di fondo significativo: l’aumento dell’astensione dal voto indica uno scollamento fra cittadini e istituzioni. Chi si sente escluso e non rappresentato tende a una sorta di autoemarginazione. E poi c’è un adeguarsi all’idea che la politica la fanno i leader nazionali, il che porta anche ad appiattirsi su un concetto molto televisivo della politica stessa.

L’idea di un contributo disinteressato appare inattuale, oggi più che chiedersi cosa posso fare io per la mia comunità a o per il mio partito si ragiona all’opposto: cosa può fare il partito per me. E’ davvero questo il meccanismo principale sulla base del quale si decide se assumere un impegno politico?
Le persone sono molto confuse. Incide anche il fatto che la politica ha perso i suoi riferimenti… Le “larghe intese” sono spiazzanti per molti. Poi c’è la sudditanza verso i mercati, la finanza, le istituzioni sovranazionali: tutto appare distante, remoto, non controllabile. C’è chi dice che bisognerebbe recuperare una connotazione più nazionalistica – in senso buono – per avere la sensazione di poter incidere nelle decisioni, altrimenti è difficile motivare all’impegno. E poi in Italia, da sempre, c’è un rapporto patologico fra cittadini e politica che è un misto fra sudditanza, ribellione, repulsione che in queste condizioni si amplifica.

Un’altra distorsione riguarda la logica decisionale: l’impressione è che sovente si agisca non nel rispetto del principio di responsabilità che il politico dovrebbe avere ben presente, ma secondo convenienza. E’ d’accordo?
C’è un vizio antico, quello del trasformismo… In politica si vive per il successo momentaneo, si opera spesso per mantenere il potere. E d’altra parte anche i giudizi tengono conto della capacità dei leader di suscitare adesione attorno alle loro proposte. La politica normalmente è valutata sulla base del consenso che è in grado di generare: quello vince quindi funziona.
Noi in Italia abbiamo un’esperienza emblematica: cito un esempio, non quello di Matteo Renzi ma Berlusconi: ha sempre stravinto, ha sempre esercitato un condizionamento psicologico su molti italiani e alla fine i risultati si sono visti: la soluzione più gradita non sempre è la migliore per il Paese. E infatti io ritengo che si debba anche essere capaci di sostenere cose impopolari motivandole; o all’opposto spiegando come la tal cosa sia molto popolare ma non sia quella giusta in quella certa fase. Si cercano semplificazioni e vie dirette, ma le cose non sono così banali, la politica è più complessa di uno spettacolo. Chi prende più applausi non è necessariamente quello che ha la soluzione giusta, se ci riduciamo a questa logica ne paghiamo il conto e pregiudichiamo il nostro futuro.

E come si possono riavvicinare i giovani alla politica quella lungimirante e responsabile?
Spiegando loro tutto questo e facendogli anche capire che le cose di cui stiamo discutendo, a cominciare dai sistemi elettorali, dal lavoro, dall’economia, alla fine avranno un’incidenza spaventosa sulle loro vite e anche sulla loro felicità. Poi c’è il problema di fondo che è quello dell’assunzione di responsabilità verso se stessi e verso gli altri. Richiede a ognuno di noi la disponibilità di prendersi cura anche degli altri.

3.CONTINUA 

LEGGI LA PRIMA PARTE DELL’INCHIESTA
LEGGI LA SECONDA PARTE DELL’INCHIESTA

IL RICORDO
Piero Calamandrei, la scuola come organo vitale della Costituzione

Tanti sono stati i volti del padre costituente Piero Calamandrei che la nipote Silvia, presidente della Biblioteca Archivio Piero Calamandrei di Montepulciano, ha illustrato agli studenti dei Licei Ariosto e Roiti e degli Istituti Aleotti e Bachelet, ieri mattina in Sala consiliare. Il giovane, classe 1889, di formazione repubblicana mazziniana, che considerava il primo conflitto mondiale come “il compimento del Risorgimento”, salvo poi rendersi conto una volta al fronte che quei “fanti contadini” venivano mandati allo sbaraglio “senza saper il perché, senza neppure “chiedere il perché”.

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Piero Calamandrei

Il grande oratore capace di muovere e di commuovere, aveva scoperto questa sua capacità proprio in occasione della Grande guerra, pronunciando un discorso interventista dopo la morte dell’irredentista socialista Cesare Battisti, e poi usandolo in seguito nei suoi numerosi discorsi commemorativi per i caduti dei due conflitti mondiali e della Resistenza, uno dei quali proprio dallo scalone del municipio di Ferrara, il 15 novembre 1950, per ricordare l’eccidio del muretto del Castello. Il giurista che ha creduto nel diritto “non come questione tecnica”, ma stimolo interiore a “difendere attraverso il rispetto delle leggi uguali per tutti quella consapevolezza dell’uguaglianza di tutti gli uomini davanti allo spirito che è per chi ascolti la storia la conquista più alta e meno rinunciabile della nostra civiltà cristiana”. Proprio da questa consapevolezza dell’esistenza di un corpus di leggi interiori, non scritte, quelle di cui parlavano Antigone e Cino da Pistoia, deriva il suo sforzo costante per attuare la Costituzione che aveva concorso a scrivere e che, allora come oggi, è “più promessa che realizzata”.
E uno degli strumenti più forti, ma meno utilizzati, per attuare questa nostra Costituzione è la scuola. “Difendiamo la scuola democratica: la scuola che corrisponde a quella Costituzione democratica che ci siamo voluti dare; la scuola che è in funzione di questa Costituzione, che può essere strumento, perché questa Costituzione scritta sui fogli diventi realtà”, scrive Calamandrei nel 1950 per il suo discorso al III Congresso dell’Associazione a difesa della scuola nazionale. E sempre in questo discorso affermava: “se si dovesse fare un paragone fra l’organismo costituzionale e l’organismo umano, si dovrebbe dire che la scuola corrisponde a quegli organi che nell’organismo umano hanno la funzione di creare il sangue, gli organi ematopoietici, quelli da cui parte il sangue che rinnova giornalmente tutti gli altri organi, che portano a tutti gli altri organi giornalmente, battito per battito, la rinnovazione e la vita”. E ancora nel 1956, l’anno della sua morte, tornava a definire la scuola “un organo della Costituzione”: “non c’è dubbio che in una democrazia, se si vuole che la democrazia prima si faccia e poi si mantenga e si perfezioni, si può dire che la scuola a lungo andare è più importante del Parlamento, della Magistratura, della Corte Costituzionale […] la coscienza dei cittadini è la creazione della scuola, dalla scuola dipende come domani sarà il Parlamento, come funzionerà domani la Magistratura, cioè quale sarà la coscienza e la competenza degli uomini che saranno domani i legislatori, i governanti e i magistrati”. Una scuola che sia veramente luogo di formazione della classe dirigente futura, non può essere che una scuola “aperta a tutti. I capaci ed i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”: ecco perché secondo Calamandrei l’articolo 34 era “l’articolo più importante della nostra Costituzione”.

REPORTAGE
Jazz club Ferrara, musica anche per gli occhi

Un  cartellone di appuntamenti musicali di grande rilievo quello in programma al Jazz club Ferrara. Venerdì – nella sede del Torrione di San Giovanni, via Rampari di Belfiore 167 – è in arrivo il George Cables quartet: Piero Odorici ai sassofoni, George Cables al piano, Darryl Hall al contrabbasso, Victor Lewis alla batteria. L’ingresso, dalle 21,30, è a pagamento.

Ma intanto ecco le belle immagini dell’ultimo “main concert”: quello di sabato scorso con il chitarrista di culto John Abercrombie in trio con Gary Versace (organo) e Adam Nussbaum (batteria). Entrambe le serate in collaborazione con il Bologna jazz festival. Il reportage fotografico è di STEFANO PAVANI.

[clicca le immagini per ingrandirle]

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John Abercrombie al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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John Abercrombie al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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John Abercrombie organ trio (foto di Stefano Pavani)
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John Abercrombie al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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Adam Nussbaum alla batteria e Gary Versace all’organo (foto di Stefano Pavani)
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Adam Nussbaum alla batteria e Gary Versace all’organo (foto di Stefano Pavani)
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Gary Versace all’organo (foto di Stefano Pavani)
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Gary Versace all’organo (foto di Stefano Pavani)
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John Abercrombie al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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John Abercrombie al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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Adam Nussbaum alla batteria e Gary Versace all’organo (foto di Stefano Pavani)
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John Abercrombie organ trio (foto di Stefano Pavani)

Sangue di Giove e Pagadebit, gli antichi vini di Romagna

La Romagna, soprattutto nella parte collinare e pedemontana delle Provincie di Forlì-Cesena e Ravenna (compresa Faenza), vanta una gloriosa tradizione vitivinicola, grazie alla posizione favorevole tra Appennino e pianura, composizione e varietà dei terreni e vitigni acclimatati da secoli.
I vini romagnoli hanno una storia che si perde nella notte dei tempi. Dei cinque che possiamo definire classici, due vitigni (Sangiovese e Trebbiano) sono i più diffusi nel territorio nazionale, padri maggioritari di molti vini, anche di grande pregio. Gli altri tre sono: Albana, Pagadebit e Cagnina.

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Grappoli di uva Sangiovese

Le prime notizie riguardanti il Sangiovese (a bacca rossa) risalgono al lontano ‘600; quando durante un banchetto tenuto nel monastero dei frati cappuccini in Santarcangelo di Romagna, alla presenza di Papa Leone XII, fu servito questo vino prodotto dagli stessi monaci. Ne fu chiesto il nome e un monaco disse che quel vino rosso si chiamava “Sunguis di Jovis”, Sangue di Giove (Sanjovese). Col passare degli anni, il Sangiovese assunse a simbolo della terra di Romagna, pur essendo diffuso in quasi tutto il territorio nazionale ed è il vitigno tradizionalmente più importante dell’areale toscano.

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Grappoli di uva Albana

L’Albana è un vitigno cosiddetto “a bacca bianca” (foglia grande e pentagonale, buccia di colore giallo intenso) ed è coltivato nelle provincie di Forlì-Cesena, Ravenna e Bologna. L’origine di quello che è definito il “biondo nettare di Romagna” sembra risalire ai tempi dei romani. Se ne trova traccia negli scritti di quell’epoca che riferiscono di Galla Placidia, figlia dell’imperatore Teodosio. Molto più probabilmente il suo nome deriva dalla qualità dell’uva chiara, che è considerata la migliore delle uve bianche, da cui “Albus” (bianco per eccellenza), Albana. Il paese di riferimento di questo vino è Bertinoro, arroccato su una piccola collina tra Forlì e Cesena. Dal 2011 è nata la nuova denominazione Romagna Albana (certificato Docg).
Il Pagadebit è un vino a “bacca bianca”, composto per l’85% dal vitigno Bombino Bianco, che resiste a qualsiasi condizione climatica. Il suo nome deriva dal fatto che i contadini, grazie alla sua resistenza riuscivano sempre a pagare i debiti contratti nell’annata vitivinicola. Una volta era usanza stipulare contratti sulla parola, detti appunto Pagadebit.
Il Trebbiano fa parte di una delle famiglie di vitigni a bacca bianca, tra i più diffusi in Italia, presente nell’uvaggio di moltissimi vini Doc. L’origine, in Romagna risale ai periodi Etrusco e Romano, dove i colonizzatori impiantarono vitigni dopo la bonifica e l’appoderamento delle terre. Col passare degli anni, dall’antico ceppo di Trebbiano ne è nata una famiglia coltivata anche negli Usa in California. Un buon Trebbiano di Romagna si sposa con tutti i formaggi freschi molli della sua zona (Robiola, Raviggiolo, Casatella e Squacquerone).
La Cagnina è un vino a “bacca rossa” di antica coltivazione, particolarmente dolce e amabile, pronto da bere subito dopo la vendemmia, che si ottiene per almeno l’85% dalle uve del vitigno “Refosco” localmente denominato “Terrano”. Di questo vino se ne parla sin dall’epoca Bizantina durante la quale fu importato dalla Dalmazia e dall’Istria, in occasione dell’acquisto di pietra calcarea per la costruzione dei monumenti storici di Ravenna. Le prime notizie di questo caratteristico vino risalgono al XIII secolo e si riferiscono alla vite e al vino friulano (barbatelle di Terrano d’Istria o del Carso, sinonimi di Refosco d’Istria o del Carso).
Nel 2013 l’Emilia-Romagna è risultata la quinta regione Italiana nell’esportazione di vino.

LA STORIA
Fotografia e arte digitale di Stefano Bonazzi: dell’amore e di altri demoni

Voglio fare lo scrittore, o il pittore, o magari tutti e due. Forse scriverò un libro e disegnerò le illustrazioni! Così la gente mi capirà.

Da sempre appassionato di grafica e design, nerd per vocazione, studente all’istituto alberghiero.
A 20 anni frequenta un corso di grafica multimediale a cui segue uno stage in agenzia, e comincia a comporre immagini e parole. A scattare fotografie; rielaborandole, aggiungendo, mescolando, per poi creare cose sue. A distruggere quei corpi armoniosi e perfetti creati al mattino, durante il lavoro di webmaster e grafico, immersi in una luce artificiale come i legami fasulli da cui rifugge.
Soggetti e scenari che conserva inizialmente per sé, nell’anonimato di un portatile sulla scrivania; che poi pubblica su Flickr e Deviantart in una parabola ascendente sino al Toca.me di Monaco di Baviera, festival di grafica di livello mondiale, in cui si classifica terzo vincendo una suite. Cominciando a creare seriamente, alla ricerca di gallerie che rappresentino il suo stile. Espone a Miami e Seoul, a Verona e Milano, in personali e collettive. I suoi sono risultati di processi di manipolazione di fotografie originali attraverso l’abbozzo con carboncino e il ritocco digitale con Photoshop, tecniche di colorazione alternativa e illustrazione di fotografie attraverso rendering e Poser per gli effetti 3D, a volte dietro lastre di plexiglass. Ricreando quello accade nella vita reale, raffigurando l’incomunicabilità del mondo contemporaneo, l’impossibilità di essere realmente se stessi in una perfezione imposta ed esasperata, traducendo lo smarrimento e l’incertezza di qualcuno che cerca a volte un altro qualcuno, a volte un altrove.

– Perché indossi quello stupido costume da coniglio?
– E tu, perché indossi quello stupido costume da uomo?

Solo maschere su corpi nudi o ben vestiti in accostamento grottesco esseri strani e alienati, solitari e talvolta soli, basiti e immobili come i paesani statici e alienati di Grant Wood, i ritratti criptici e ambigui di Mark Ryden, l’umanità dolente di Roger Bowlen, gli ansiogeni acquarelli provocatori di Gottfried Helnwein in un circo mai festoso ma alienante, decadente come in universi malati. Ma veri più che mai, questi personaggi grigi che prendono le distanze, freaks orgogliosi di esserlo, dalla finzione di una realtà che opprime con abbaglianti colori di plastica, rivelando la parte notturna dell’essere umano.

Armoniose ballerine ingessate nei tutù neri in attitudes su rocce nere; impeccabili donne-tailleur nascoste da maschere antigas e musi di animali senza vita; figure femminili fuse in bicchieri di latte o spente in una nuvola fumo, come sigarette tristi, inverni nucleari alla Gia Carangi, grotteschi manichini in abito da sera si fanno ammirare da un invisibile pubblico; dame prendono il tè sedute a un tavolino dimenticato. Viandanti con l’unica guida di girandole colorate; eleganti nobiluomini in tuba e bastone che attraversano campi di fiori, o tristi Pierrot compianti persino dall’adorata luna; bimbi sperduti in balìa di navi di carta. Distorte mescolanze tra Bianconigli e malefici Cappellai Matti che ingannano una Alice al di qua non di uno specchio ma di un armadio; gentiluomini nei frac neri prigionieri di spiagge invase da ombrelli abbandonati; violinisti in costumi barocchi intonano melodie statiche, imprigionate su una pagina patinata, che nessuno ascolterà; Forrest Gump con ventiquattrore studiano l’orologio, attendono un autobus che non passerà mai.

28 giorni, 6 ore, 42 minuti, 12 secondi… ecco quando il mondo finirà.

Composizioni statiche come i ritratti di Annie Leibovitz, che ne mantengono solo la limpidezza stilistica e ne perdono il candore del bianco e del nero; scene che disorientano lo spettatore, animali domestici che provocano disagio quanto gli insetti claustrofobici di Floria Sigismondi.
Panorami angoscianti e desolati, crudi e disturbati come le narrazioni di Lynch, onirici e fiabeschi come le storie di Tim Burton, immobili ed evocativi come i soggetti inanimati di Hiroshi Sugimoto, evanescenti e desaturati come i campi lunghi di Riccardo Varini.
Sono polverosi deserti o mondi metafisici, di un’ironia esasperata e soffocante. Cieli azzurri ma non celesti, come occhi che guardano passivi panorami accecanti. Mari color della pece e palazzi abbandonati. Sale pubbliche desolate, distorte distese d’erba. Enormi palloncini, mongolfiere sottosopra. Lampade addormentate, sedie di legno in vana attesa. Arcolai e poltrone boudoir. Ospedali deserti, arcate gotiche che raccolgono confessioni non dette.
Mondi da cui non si fa ritorno, il cui silenzio urla qualcosa che resta intrappolato nell’impossibilità di urlare il proprio nome, come imprigionato in una bolla d’acqua. Sono spiazzi desolati di un circo abbandonato, prati disseminati di piccole case sospese da fili di marionette; vagoni di metropolitane deserti e asettici che avviluppano queste caricature umane, a volte; altre le osservano maligne e silenziose, realtà pesanti e allucinatorie, il nulla che avanza inghiottendo gli abitanti di Fantasia attratti da esso morbosamente e senza chiave di accesso né uscita. Spazio ostile o interiore di chi lo occupa, che quasi lo plasma.
Plasma del mezzo che distrugge la vita ma che la ricrea, nelle visioni di qualcuno che cerca a volte un altro qualcuno, a volte un altrove.

REPORTAGE
Po, bello e spaventoso.
Nuova piena

Una nuova ondata di piena per il fiume Po è attesa in territorio ferrarese tra il pomeriggio e la serata di oggi, mercoledì 19 novembre. Non ci dovrebbero essere, però, rischi di tracimazioni degli argini. L’unico problema resta quello delle infiltrazioni, sul quale l’attenzione dell’intera struttura di coordinamento provinciale proseguirà almeno fino a domenica. Questa la sintesi del tavolo convocato ieri in Prefettura per seguire gli sviluppi della situazione.
Confermata la chiusura della pista ciclabile destra Po, che va da Stellata di Bondeno fino a Gorino passando per Pontelagoscuro, Ro, Serravalle e Mesola. L’Anas al momento assicura, invece, che non chiuderà il ponte stradale di Pontelagoscuro. L’attuale livello dell’acqua, a quota 2,68, è infatti ancora sufficientemente lontano dalla soglia dei 3,5 metri, considerati il limite di sicurezza. Anche FS (ferrovie dello Stato) esclude la chiusura del ponte ferroviario, grazie agli interventi fatti dopo la piena del 2000.

L’incontro di ieri in Prefettura, presieduto dal prefetto di Ferrara, Michele Tortora e coordinato dalla delegata della Prefettura per la Protezione civile Serena Botta, ha visto la partecipazione di Protezione civile della Provincia, Aipo, Ferrovie dello Stato, Anas, servizio tecnico di Bacino del Po di Volano, forze dell’ordine, polizia provinciale e polizie municipali, vigili del fuoco, Comuni di Ferrara e gli altri Comuni interessati, Coordinamento del volontariato della protezione civile e servizio veterinario.

Intanto una carrellata di fotografie di questo fiume, bello e spaventoso, scattate ieri da Roberto Fontanelli e Aldo Gessi.

[clicca le immagini per ingrandirle]

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Acqua e terra ieri sul Po (foto Gessi e Fontanelli)
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Acqua alta sulle rive del destra Po (foto Gessi e Fontanelli)
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Acqua alta sulle rive del destra Po (foto Gessi e Fontanelli)
Lavori sulle rive del destra Po (foto Gessi e Fontanelli)
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Lavori sulle rive del destra Po (foto Gessi e Fontanelli)
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Lavori sulle rive del destra Po (foto Gessi e Fontanelli)
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Il mulino sul Po a Ro di Ferrara (foto Gessi e Fontanelli)
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Il fiume a Pontelagoscuro (foto Gessi e Fontanelli)
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Il fiume a Pontelagoscuro (foto Gessi e Fontanelli)

La Carta dell’informazione ambientale per affrontare i rischi

La carta dei servizi non serve. Lo dicono alcuni gestori e lo pensano alcuni cittadini che non l’hanno mai letta. Purtroppo è così. Lo dice Federconsumatori che di recente ha presentato la sua terza ricerca nazionale sulle carte del servizio idrico. Nonostante sia presente in quasi tutti i capoluoghi di Provincia la sua efficacia è ancora un problema (si ricorda che Aeegsi esclude aumenti tariffari in assenza di Carta dei servizi) e che raramente è frutto di un confronto con le associazioni dei consumatori, quasi fosse solo uno strumento del gestore. E’ utile in particolare ricordare che il decreto ministeriale di riferimento indica importanti indicatori standard su molti temi critici a partire dalla risposta alle richieste scritte degli utenti e ai reclami; sul tema complesso della morosità in cui è prevista la sospensione del servizio; il tempo di preavviso di interventi programmati (almeno 24 ore prima) e molto altro.
La analisi della Federconsumatori ha evidenziato differenze spesso esagerate tra i vari gestori. Ad esempio sul tempo di esecuzione dell’allacciamento si va da un tempo massimo di 126 gg ad un tempo medio di 35 gg (si ricorda che su questo indice è prevista una indennità nel caso non venga rispettato il tempo massimo di esecuzione dell’allacciamento). Il tempo di attivazione della forniture in media è di 9 giorni, ma si sono riscontrai anche casi di 60 gg; così come il tempo di allaccio alla pubblica fognatura il tempo medio sia di 46 gg, ma va da 7 a 180 gg! per non parlare del tempo di rettifica delle fatture da pochi giorni a quasi sei mesi; ai tempi di risposta scritta agli utenti che in media è di 26 giorni. Per quanto riguarda le modalità con le quali i gestori comunicano agli utenti i dati sulla qualità dell’acqua, dalle risposte ricevute risulta che la modalità più diffusa è il sito web (35% dei casi), solo l’11% dei gestori pubblica le informazioni sulla bolletta. Vi sono poi grandi differenze di applicazione ad esempio tra indicatori in giorni di calendario e giorni lavorativi (le cose cambiano molto!). In conclusione solo la metà dei gestori è dotato di certificazione della qualità. Insomma uno scenario ampio e variegato che deve essere meglio regolamentato perché le motivazioni di reclamo dei cittadini sono sempre troppe e tra queste si citano: anomalie contrattuali (errori attivazione, cessazione, voltura; anomalie standard (mancato rispetto degli standard); anomalie addebiti/errori di fatturazione (applicazione categorie, tariffe, acconti, conguagli, modalità di recapito bollette, frequenze fatturazione, pagamenti, modalità di incasso); anomalie consumo (reclami su letture, perdite occulte, consumo anomalo); anomalie relative all’accessibilità del servizio (difficoltà di comunicazioni telefoniche, attesa agli sportelli, comportamento del personale); anomalie erogazione del servizio (qualità/quantità acqua, pressione, interruzioni/ripristini, rotture, danneggiamenti durante lavori) e anomalie contatore (contatore difettoso, verifica/sostituzione contatore).
Per il futuro, ci attendiamo quindi, da parte dei soggetti regolatori, l’Aeegsi a livello nazionale e gli Enti di Gestione d’Ambito (Ega) a livello locale un maggior impegno per quanto riguarda la disciplina delle carte dei servizi e in generale la tutela degli utenti; un maggior coinvolgimento delle associazioni degli utenti (partecipazione e controllo) come previsto negli atti sopra richiamati; iniziative dirette ad informare e formare, gli utenti e le loro associazioni, sulle numerose e complesse novità che nell’ultimo periodo ha rivoluzionato la regolazione nei servizi idrici.
Infine una nota positiva. La Federazione Italiana Media Ambientali (Fima) ha presentato la Carta dell’informazione ambientale che si andrà a definire nei prossimi mesi. “La creazione della Carta nasce dalla consapevolezza, visti i cambiamenti climatici e le situazioni critiche che essi portano con sè, del ruolo dell’informazione la cui responsabilità è totale. Portare a conoscenza dei cittadini i temi della crisi ecologica è una responsabilità particolarmente gravosa: sottacere un’informazione o dare voce ad una fonte sbagliata equivale a rendersi partecipi involontari di un disastro. La trattazione di questi temi cambia il ruolo del giornalista stesso che non è solo cronista, ma attore consapevole: riportare l’accaduto, sovente significa anticipare gli stessi eventi, raccontando le dinamiche che li potranno precedere. Fornire quindi ai cittadini e ai decisori politici strumenti utili su cui pianificare e costruire il futuro delle prossime generazioni. La Carta intende garantire una informazione adeguata dei delicati temi ambientali attuali, che non dia spazio ad errori interpretativi, a false credenze o a dicotomie inesistenti”. Faccio un grande tifo per questa iniziativa.

LA RIFLESSIONE
L”esercito civile’
degli anziani

Sul tema degli anziani mi resta da affrontare la parte più difficile, ovvero fare qualche proposta. Abbiamo assodato che la vita si è allungata e la vecchiaia, più lunga che nel passato, ci impone di riflettere e di ridefinire il ruolo sociale ed economico degli anziani. Partiamo da una constatazione evidente, e cioè che la terza età è fatta di varie fasi, o di diversi momenti, che non possono essere letti come una lunga anticamera verso il tramonto. Su questo principio proviamo a essere creativi e fare qualche buon esempio (in verità mi aiutano le tante buone pratiche che sono state portate avanti da Auser e altre strutture impegnate su questo). Riprendiamo per punti i concetti principali:

  • È crescente il numero di anziani
  • Crescono gli anziani autosufficienti e i pensionati impegnati nel volontariato
  • Possibile dunque pensare ad una forza proattiva civile disponibile per gli altri
  • L’anziano non come indicatore di criticità ma anzi protagonista nella solidarietà
  • Aumentano i bisogni e le richieste di offerta sostenibile in molti settori e territori
  • Serve disponibilità a sperimentare e sviluppare nuovi progetti per il valore sociale

In questa logica diventa importante sviluppare un welfare sociale, sussidiario e non in competizione, il cui compito non è dunque quello di stare sul mercato, ma di dare risposte qualificate ai cittadini e ai loro bisogni crescenti, in un coinvolgimento attivo sui temi della qualità della vita. Nel difficile confine tra volontariato e attività sociali, tra mercato del lavoro e assistenza, si deve trovare il giusto equilibrio a supporto della cooperazione sociale e delle organizzazioni Onlus, non in sovrapposizione, ma anzi in modo da sviluppare l’utilizzo di strumenti imprenditoriali a fini di solidarietà in un sistema sussidiario. Le cose qui scritte hanno l’obiettivo di proporre una eventuale integrazione di contenuti rispetto all’ampio impegno che già viene svolto da molte istituzioni sulla promozione delle politiche sociali e di quelle educative, sullo sviluppo del volontariato, dell’associazionismo e del terzo settore. Si può cercare di stimolare la creatività e la capacità di proposta indicando alcune possibilità che si potrebbero sviluppare sul territorio e che potrebbero ritrovare a Ferrara e provincia un fertile terreno di crescita e di espansione. Di seguito, assieme a mie proposte come referente passato di progetti speciali in Auser Emilia Romagna, utilizzo anche una ricerca fatta in passato sulle buone pratiche, svolte da circoli Auser a livello regionale, e propongo qualche esempio come proposta generale dunque da migliorare e implementare. Partirei dall’area di servizio alla persona su cui vi è un grande impegno istituzionale a cui si può pensare di aggiungere un maggiore supporto del volontariato in azioni di accompagnamento, di assistenza e di supporto. Qualche esempio: Accompagnamento al lavoro Assistenza a persone in difficoltà temporanea (es per infortuni) o permanente (per handicap) finalizzato a costruire un sistema sociale di servizi per l’impiego accessibile ai soggetti in difficoltà individuale o sociale rispetto al mercato del lavoro; azione finalizzata a facilitare e accompagnare i soggetti disabili nell’inserimento lavorativo. Servizi a domicilio Assistenza per farmaci a domicilio, spesa a domicilio, etc per non autosufficienti, magari prevedendo convenzioni con commercianti che offrono servizi a domicilio (lavanderie, supermercati, panifici, edicole, etc) e supporto logistico. Oltre a servizi alla quotidianità, come la pulizia della casa, stirare, fare la spesa, lavare i piatti, fare giardinaggio e piccole opere manutentive. Assistenza domiciliare anziani Sostenere la vita indipendente, per far continuare a vivere nel proprio domicilio e nel proprio tessuto sociale, evitando isolamento, senso di inutilità, decadimento senile. Nel caso di persona anziana che vive sola e che ha problemi di autonomia nella vita quotidiana a domicilio, rendere disponibili servizi di assistenza domiciliare saltuaria o programmata che possono prevedere interventi prevalentemente sociali e socio-sanitari. Centri sociali tempo libero Centri di socializzazione territoriali per attività culturali, tempo libero, assistenza. Possibilità di creare una rete ed un sistema integrato di compartecipazione. Strumento di confronto per la condivisione di pratiche orientate. Può essere una soluzione per quelle persone anziane che vivono sole o con famigliari con scarsa disponibilità di tempo, che possono trascorrere la giornata in compagnia di altre persone anziane, operatori specializzati e volontari, ma anche seguire specifici programmi di riattivazione e mantenimento, socializzazione e animazione, rientrando a casa la sera. La partecipazione alle attività individuali e di gruppo organizzate nel centro diurno favorisce il mantenimento dell’autonomia personale e sociale. Portineria sociale Svolge mansioni di base (distribuzione posta, pulizie condominiali, etc) ma anche punto di riferimento per i condomini (aiutare, socializzare, etc) per bisogno di compagnia (fare una passeggiata, aiutare a fare la spesa, disbrigare pratiche d’ufficio, recarsi dal medico, fare cure terapiche, esami clinici, etc) o anche punto di ritrovo di zona per trascorrere il pomeriggio insieme, fare una partita, leggere il giornale, ascoltare musica, giocare a tombola, etc. Nonni adottano studenti Si tratta di un accordo scambio tra un anziano che ha una casa ed uno studente fuorisede che la cerca ed in cambio offre un aiuto domestico e qualche servizio di assistenza. Risponde ad esigenze economiche degli studenti (e rischio di mercato nero) e soprattutto crea compagnia per gli anziani soli. Organizzare una forma di interscambio delle informazioni (domanda-offerta) e supporti per incontro. Assistenza animali domestici Crescono gli animali d’affezione per fare compagnia. L’apparente superficialità del tema invece rappresenta un punto di riferimento, di assistenza e di supporto per molti e le esigenze quotidiane di motorietà, bisogni fisiologici, igiene, etc per alcuni rappresentano problemi gravi da risolvere. La domanda di servizi da parte di persone impegnate e occupate è crescente. Servizi vari (pratiche, commissioni, etc) Spesso le esigenze di rapporti di sportello (poste, banche, uffici pubblici, etc) e di code (per abbonamenti, servizi, etc) possono rappresentare difficoltà per certe persone con difficoltà ad uscire (assistenza) ma rappresentano anche una perdita di tempo o comunque un disagio per molte persone disposte a riconoscere un corrispettivo per la prestazione richiesta (offerta di mercato) Organizzazione gruppi di acquisto La richiesta di prodotti di consumo, ma anche la opportunità di vantaggi economici (costi del prodotto) e di qualità (es il biologico, il fresco) spesso fanno nascere gruppi di famiglie che si accordano per acquisti cumulativi al fine di arrivare direttamente al produttore (riduzione di filiera e di prezzo d’acquisto). I gruppi di acquisto sono formati da consumatori che decidono di unirsi per acquistare all’ingrosso i prodotti alimentari e di consumo per poi distribuirli tra le proprie famiglie. Le motivazioni che spingono a creare un gruppo d’acquisto sono il più delle volte economiche, dal momento che acquistare direttamente dai produttori, anziché nei supermercati, significa risparmiare sui prezzi delle merci. Altre volte però la scelta dei prodotti è dettata da ragioni etiche e solidali.

Orsi, Leoni e Leopardi

Il più antico dei premi cinematografici è come noto l’Oscar, nato nel 1929, da una frase di una redattrice che, vedendo la statuetta, esclamò “Somiglia proprio a mio zio Oscar!”. L’intento della istituzione del premio era la celebrazione dei nascenti fasti della settima arte; dopo di lui il modello fu seguito da molte altre cinematografie.
In Italia il più famoso è senz’altro il Festival internazionale d’arte cinematografica di Venezia, il primo in Europa. La prima edizione si svolse nel 1932, sulla terrazza dell’Hotel Excelsior, con la partecipazione di divi famosi come Greta Garbo, Clark Gable, Joan Crawford.
In Europa nel frattempo assistiamo alla nascita del Festival di Cannes, la cui prima edizione si svolse nel 1946. A seguire, nel 1951 si tenne la prima edizione del Festival di Berlino: Il film d’apertura fu “Rebecca, la prima moglie”. A soli sei anni dalla seconda guerra mondiale, Berlino tornava alla ribalta internazionale in una città in gran parte ancora distrutta.
E poi via via altre analoghe iniziative come il Festival del film Locarno, San Sebastian in Spagna, i Cesar in Francia, mentre oltre oceano si affermano i Golden Globes e il Sundance.
Ma quanto sono utili i festival e i premi a orientare le scelte del pubblico e a determinare il successo anche commerciale del film?
Certamente l’Oscar al miglior film/regia ha quasi sempre un appeal sostanziale: negli ultimi anni i film premiati, “Il signore degli anelli”, “Il ritorno del re”, “Million dollar baby”, “Non è un paese per vecchi”, “The millionaire”, “Il discorso del re”, “The artist”, “12 anni schiavo”, hanno avuto un positivo riscontro commerciale.
Ma se passiamo a Venezia, Cannes o Berlino, il discorso si fa diverso: “Sacro GRA”, Leone 2013, ha incassato abbastanza in Italia, se pensiamo che era un documentario, ma all’estero è stato praticamente assente. Il caso “Kerenes”, Orso 2013, in Italia ha incassato pochissimo e quasi niente negli Usa; sorte migliore Cannes, che con “The Tree of life di Malick”, “Amour” di Haneke e infine “La vita di Adele” di Kechiche ha dimostrato maggiore capacità di attrarre pubblico e incassi.

In sostanza, è importante la promozione svolta dai festival, ma alla fine la parola passa, come giusto, al pubblico e ai suoi mutevoli e talvolta imprevedibili gusti.

Il gioco stavolta è indovinare premi e festival… per le risposte clicca qui.

1) Il titolo di almeno due film che hanno vinto più premi Oscar in assoluto.

2) Quale film che ha vinto la Palma d’oro a Cannes 2014?

3) Chi fra questi attori non ha mai vinto l’Oscar: George Clooney, Leonardo Di Caprio, Tom Hanks, Sean Penn, Russel Crowe?

4) Indicare il nome di almeno tre registi italiani che hanno vinto l’Oscar.

5) I due film italiani che hanno vinto l’Oscar come miglior film straniero prima de “La grande Bellezza”

6) Le due attrici italiane che hanno vinto l’Oscar per la migliore interpretazione femminile.

7) Il solo attore italiano vincitore dell’Oscar per la migliore interpretazione maschile.

8) Chi è l’attrice che ha vinto più Oscar?

9) Il regista americano che ha vinto più Oscar.

10) La prima regista, italiana, ad aver avuto la nomination per la miglior regia.

L’INCHIESTA
Il comitato Stop Or-Me: “Con l’autostrada nel Ferrarese aumenta il rischio idraulico”

2.SEGUE – Abbiamo chiesto al comitato Stop Or-Me di Ferrara di spiegarci a cosa serve l’autostrada.
“Nelle intenzioni dei progettisti, la Orte – Mestre, una volta completata, permetterà, a livello nazionale, di creare una connessione del traffico su gomma tra la direttrice adriatica e quella tirrenica meridionale, in quanto è previsto un ulteriore raccordo da Orte a Civitavecchia.
A livello internazionale si realizzerebbe il congiungimento tra il Mar Tirreno e l’Europa centrale e orientale. Da Orte a Ravenna l’attuale superstrada sarà adeguata con qualche variazione di percorso e la realizzazione delle corsie d’emergenza (solo in questo modo si può istituire un pedaggio). Da Ravenna a Mestre sarà costruito un nuovo tracciato diverso dall’attuale Romea”.

Il tratto ferrarese della Orte-Mestre secondo il progetto
Il tratto ferrarese della Orte-Mestre secondo il progetto

In che modo interesserebbe il territorio ferrarese?
“Nel tratto emiliano – romagnolo la Orte – Mestre passerebbe per le province di Ravenna e di Ferrara. I comuni ferraresi attraversati dall’autostrada sarebbero: Argenta, Comacchio, Ostellato, Fiscaglia, Codigoro, Berra, Mesola. Nel nostro territorio sono previste due uscite, una a Comacchio e l’altra a Codigoro”.

Che impatto avrà su ambiente, infrastrutture, attività produttive e popolazione?
“La costruzione dell’autostrada è costosa e devastante, in quanto provoca gravi danni ambientali a carico di importanti zone di interesse storico, paesistico e ambientale. Comporta un elevato consumo di suolo, e il frazionamento di numerosi fondi agricoli. Sono previsti 147 sovrappassi, 226 sottovie, 20 cavalcavia, 139 km. fra ponti e viadotti, 64 km. di gallerie, 83 nuovi svincoli e 15 aree di servizio.
Accentua il rischio idraulico, in particolare nelle aree più fragili, come quelle che attraverserebbe nel ferrarese, che sono totalmente al di sotto del livello del mare, caratterizzate da delicati sistemi di scolo e irrigazione e talora da torbiere sepolte, fenomeni di subsidenza naturale e antropica, nonché rischi di allagamento da fiumi e da canali”.

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Il tratto romagnolo dell’attuale E45

Quali sono le ragioni per cui vi opponete alla sua costruzione?
“La finanza di progetto ha già evidenziato che le grandi opere sono un ottimo affare per i concessionari meno per la collettività.
Sempre rimanendo in ambito autostradale è sotto gli occhi di tutti il fallimento della BreBeMi, un’opera che doveva costare inizialmente 800 milioni per i 62 Km che corrono tra Brescia e Milano che alla fine ha triplicato i suoi costi complessivi, passando a 2,4 miliardi comprensivi degli interessi . Il costo di un km di autostrada della Brebemi è passato da 12 milioni di euro, di qualche anno fa, a 36 milioni a km e il concessionario ha già ottenuto la proroga della concessione perché i flussi di traffico erano stati sovrastimati, esattamente come succederebbe per la Orte – Mestre.
Inoltre, nel tratto ferrarese del tracciato che attraversa la Valle del Mezzano, potrebbe compromettere un’importante zona di protezione speciale (ZPS) di quasi 19.000 ettari, dove nel tempo si è creato un sito unico fra bonifica, agricoltura e ambiente, di grande valore paesistico e ornitologico.
Infine costruendo una nuova autostrada, si privilegia il trasporto su gomma a scapito di quello ferroviario e di quello marittimo, considerati più sostenibili”.

Quali alternative proponete?
“Le alternative esistono e sono assai meno costose, ma non se ne vuole parlare: basterebbero alcuni interventi di riqualificazione della E45, poi da Ravenna sarebbe possibile deviare i tir dalla statale 309 verso Ferrara mediante il completamento della variante alla statale 16, realizzata per oltre metà già una trentina di anni fa, poi abbandonata. Un completamento già previsto, tra l’altro, nel Piano dei Trasporti della Regione Emilia-Romagna.
La statale Romea così sgravata sarebbe più che sufficiente per supportare il traffico locale e di media percorrenza e potrebbe essere messa in sicurezza da subito e finalmente valorizzata sotto il profilo turistico. La deviazione dei tir sull’asse A13 sarebbe anche più logica visto che la linea degli interporti si sviluppa proprio tra Ferrara, Rovigo e Padova.
Un tracciato autostradale, oltre a inquinamento acustico ed aumento di Co2, significa ponti, svincoli, aree di servizio, cavalcavia, dunque l’impatto con il nostro paesaggio, riconosciuto dall’Unesco per la sua ‘coerenza culturale’, sarebbe tremendo.
Sarebbe tra l’altro totalmente in contrasto con la valorizzazione del territorio del delta del Po, una delle più importanti aree protette d’Europa, e con la proposta della sua candidatura al programma Man and the Biosphere (Mab) Unesco: il marchio della Riserva di Biosfera rappresenta un riconoscimento utile non solo per la salvaguardia dell’ambiente ma anche per lo sviluppo delle attività economiche e sociali del territorio).
Il potenziamento del trasporto marittimo e ferroviario consentirebbero collegamenti più rapidi, più economici e meno impattanti rispetto alla gomma”.

Ma c’è traffico sufficiente per giustificare la costruzione di una nuova autostrada?
“Rispondiamo citando le parole Thomas Bucher, uno dei gestori del Global Infrastructure Fund (tra i primi fondi di investimento del mondo specializzato in infrastrutture) il quale afferma: ‘In Italia ci aspettiamo che la crescita dei volumi di traffico resti strutturalmente debole. Anzitutto i flussi demografici indicano una popolazione in declino, in secondo luogo l’Italia ha già uno dei più alti tassi di motorizzazione a livello globale. L’attuale crisi finanziaria ha avuto un impatto significativo in Italia, riducendo il traffico quasi dell’8% nel primo semestre 2012’. Quindi la risposta è no”.

E se durante i lavori di realizzazione, i privati rimangono senza soldi, che succede?
“C’è la Cassa Depositi e Prestiti. Viene chiamata in causa ogniqualvolta si vuole realizzare un’opera pubblica ma si è a corto di risorse: li infatti si può attingere ai 223 miliardi di euro affidati alle Poste da 24 milioni di italiani. Trasformata in SpA nel 2003 per poter concedere prestiti anche a privati, purché per la costruzione di opere pubbliche, tra le prime operazioni della Cassa-Spa sono stati proprio i finanziamenti per le autostrade (Benetton, poi non utilizzati; Autovie Venete, Concessioni Autostradali Venete per il passante di Mestre).
La cronaca degli ultimi anni insegna che non tutti i progetti autostradali si riveleranno redditizi. Ma, per male che vada, la Cassa non fallirà perché sarà lo Stato, cioè noi contribuenti, a ripianare le eventuali perdite e questo dà sicurezza alle banche che si affiancano nei piani di finanziamento. Quel che è certo è che la stragrande maggioranza dei clienti delle Poste non ha la minima idea di come vengono utilizzati i soldi e forse non sanno nemmeno cosa sia la Cdp”.

Chi fa parte del comitato Stop Or-Me a Ferrara?
“Le componenti locali del coordinamento sono: Alternativa, Gentedisinistra, Ferrara città sostenibile, Legambiente Comacchio, Stop consumo territorio di Argenta, M5S Ferrara, Lipu Ferrara, Ferrara per Tsipras, Www Ferrara, Naturalisti Ferraresi.
A livello nazionale oltre alle Organizzazioni ambientaliste e politiche prima citate hanno aderito numerose altre associazione presenti sul territorio, e con il diffondersi dell’informazione speriamo che altre si uniscano alla protesta”.

Cosa avete fatto finora?
“Abbiamo organizzato a febbraio un incontro pubblico con Luca Martinelli giornalista di Altreconomia che si occupa da tempo della Orte – Mestre (e che la scorsa domenica è stato insignito a Ferrara da Italia Nostra del Premio Giorgio Bassani Giorgio Bassani per la “battaglia delle Apuane”, ndr).
Abbiamo più volte sollecitato il dibattito sulla stampa locale, organizzato un intervento a maggio alla assemblea nazionale della Lipu in occasione della Fiera del birdwatching di Comacchio, volantinato ad Argenta dove finisce la “nuova “ SS16 , volantinato al Festival di Internazionale”.

Ed ora? Secondo il sito di Unioncamere Veneto, i lavori potrebbero iniziare già entro la fine del 2015. Per adesso di certo si sa solo che l’opera, da progetto, è articolata in quattro lotti e dovrebbe realizzarsi entro il 2020.
Dato l’impatto sulla provincia di Ferrara forse varrebbe la pena che istituzioni e società civile si interrogassero su quel che sta per accadere.

FINE

Leggi la prima parte

 

L’IDEA
Il fioraio anche di notte

Li ho visti per la prima volta a Mosca, l’anno scorso, colorati, illuminati, spensierati, solitari, allegri e disponibili. Sempre aperti. Sono lì, nelle strade, negli aeroporti, negli ipermercati pronti a dispensare profumo e colori a chiunque, in ogni momento del giorno e della notte, voglia portare un tenero e gentile momento a qualcun altro.
Sono loro, i variopinti distributori automatici di fiori, coloro vengono in aiuto quando il fiorista è chiuso, quando hai fretta e ti sei dimenticato di un avvenimento importante o semplicemente quando vuoi portare un improvviso pensiero gentile. Carino.

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Un distributore automatico di fiori

All’aeroporto di Sheremetevo, vedi sempre qualche marito o fidanzato accogliere l’amata con un bel mazzo di fiori in mano. Alle cene spesso si portano fiori freschi, così pure ai compleanni. Non importa se a fare gli anni è un uomo o una donna, anche se tendenzialmente si portano alle signore o alle signorine. I fiori sono ovunque qui, anche quando fa freddo, anche quando la neve ricopre, candidamente, luoghi e pensieri, anche quando il termometro affigge, impassibile, il segno meno. Incredibile.
Avere la possibilità di trovare fiori sempre e ovunque è un bel segno di civiltà, un messaggio diretto alla bellezza, alla delicatezza e alla gentilezza. Ci piacerebbe vedere questi distributori anche nelle nostre strade, nelle nostre vie, a dare fioca luce a qualche vicoletto. Gli esteti e i cultori della bellezza del nostro patrimonio si strapperanno i capelli, immaginando la vetrata di un distributore in mezzo a tanta arte. Basterà allora trovare un posto riparato e discreto. Meglio un fiore che sorride da un vetro che un palazzo antico occupato da luccicanti vetrine di McDonald’s. O sbaglio ?

LA STORIA
Henghel Gualdi: suonò con Armstrong a Sanremo, Hemingway lo ascoltava a Cortina

Henghel Gualdi è stato uno dei più grandi interpreti jazz del clarinetto, uno strumento che deve la sua fama al genio di Benny Goodman. Fabrizio Meloni, 1° clarinetto del Teatro alla Scala di Milano, di Gualdi ha detto: “Suona un jazz puro fatto di morbide atmosfere, suoni e colori da ricordare…”. Non meno positivo è il giudizio di Giacomo Soave, insegnante di clarinetto al Conservatorio “A. Vivaldi” di Alessandria: “Clarinettista meraviglioso, con stupende doti naturali, espressivo nel fraseggio, personalissimo nel vibrato. Suona lo strumento come se fosse un violino. Per questo lo porto ad esempio ai miei allievi”.

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Henghel Gualdi

Henghel si avvicinò alla musica jazz, affascinato dalle big band americane. Dopo la fine del conflitto organizzò un’orchestra con tre sezioni di fiati e quattro ritmi, iniziando a esibirsi in pubblico. Scriveva le parti, arrangiava, dirigeva e suonava. Aveva trovato il modo di essere felice facendo musica. Di quel periodo, nel suo libro di memorie, scrisse: “Terminò anche la guerra, e all’insaputa di mio padre andai a suonare subito con un’orchestra. Alla fine mi diedero una “amlire”, una moneta d’occupazione americana del valore di mille lire dell’epoca […]”. Per diversi motivi il padre non fu contento della scelta del figlio.

Nel 1954 vinse il concorso radiofonico “Bacchetta d’oro Pezziol”, organizzato dalla Rai, prevalendo su artisti e orchestre importanti: Peppino Principe, Happy Boys di Nino Donzelli (in cui cantava Mina), Fred Buscaglione, Renato Carosone, Bruno Canfora. Di lì a poco, ebbe il primo contratto discografico con la Cgd di Milano. Tre anni dopo vinse anche il Benny Goodman italiano, confermandosi il miglior talento jazz nazionale. Henghel ammirava profondamente Benny Goodman, lo considerava sopra a tutti gli altri clarinettisti, lo conobbe a Roma quando venne per incidere un brano per il film “Fantasma d’amore” di Dino Risi, fu l’inizio di una bella amicizia. Avrebbe voluto seguirlo in America ma non lo fece. Questo fu uno dei grandi rimpianti della sua vita.

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Armstrong a Sanremo, dietro di lui Henghel Gualdi

Nel 1962 fu nominato direttore artistico dello Zecchino d’Oro di Bologna, fino al 1965, collaborando con una giovanissima Mariele Ventre. La svolta della sua carriera avvenne nel 1968, quando suonò con Louis Armstrong al Festival di Sanremo. Un giorno il grande trombettista gli chiese: ”Ehi paps, do you like skotch?” (ti piace il whisky?), notando gli evidenti capillari sul naso, “No”, rispose Gualdi, “lambrusch!”. Louis scriveva brani di jazz che, a suo dire, avrebbero dovuto eseguire durante il festival. Henghel sapeva che si poteva presentare solo una canzone, anche se gli sarebbe piaciuto suonare altri pezzi con lui, ma per l’ammirazione e la stima che nutriva nei suoi confronti non osò contraddirlo.
Henghel suonò con i migliori artisti: Bill Coleman, Chet Baker, Count Basie, Sidney Bechet, Albert Nicholas, Lionel Hampton, Rex Steward, Gianni Sanjust. Una sera a Milano, durante un suo concerto, Gerry Mulligan salì sul palco e lo accompagnò al pianoforte. Ernest Hemingway si recava all’Hotel Cristallino di Cortina d’Ampezzo per ascoltarlo e Orson Welles non perdeva occasione per richiedergli “Stardust”, complimentandosi al termine di ogni esecuzione.
Suonava anche con la “Doctor Dixie Jazz Band”, che si esibì in oltre 700 concerti in Italia e in Europa e partecipò a diverse edizioni di Umbria Jazz. A questo proposito il grande clarinettista diceva: “ A Bologna ho un appuntamento settimanale, il venerdì, nella cantina della “Doctor Jazz Band” di Leonardo “Nardo” Giardina. Cerco sempre di non mancare, non solo perché mi diverto a suonare, ma anche perché, essendo i componenti tutti professori e medici, la mia salute è assicurata”.

henghel-gualdiIl regista Pupi Avati gli chiese di collaborare, con Amedeo Tommasi, alla colonna sonora del film “La mazurca del fico fiorone”, in seguito lavorarono insieme anche in altre produzioni: “Jazz Band”, “Cinema”, “Le stelle nel fosso” e “Dancing Paradise”.
Quando Henghel formò la sua prima orchestra, aveva in mente un progetto preciso: quello di affinare il gusto del pubblico, pur sapendo che i frequentatori delle sale da ballo erano distratti e disattenti, ma era convinto che sarebbe riuscito a migliorarne la sensibilità musicale. Queste sue ‘contaminazioni’ non furono ben viste dai ‘puristi’, che non sopportavano il jazz suonato nella sala da ballo; guarda caso proprio il luogo in cui questo genere si era originariamente affermato.
Verso la fine del 1989, partecipò alla tournée americana di Luciano Pavarotti, vincendo la nota fobia per il volo, le sue performance furono accolte con grande successo. Una leggenda metropolitana racconta che il tenore modenese riuscì a convincerlo a volare dicendogli: “… pensa, se dovesse cadere l’aereo diventeresti famosissimo perché sullo stesso aereo di Pavarotti”. No, non è vero, non furono queste le sue parole, ma il grande Luciano riuscì a trasmettergli un po’ della sua sicurezza.

Negli ultimi anni di vita preferiva risiedere a Cattolica, cittadina in cui si è sempre trovato bene e dove i suoi polmoni respiravano meglio. In Romagna, trovò una realtà musicale che sapeva apprezzare la sua arte, sia come spettacolo sia come indispensabile terapia. Il grande musicista argentino Giora Feidman, conosciuto come il Re del klezmer, di Gualdi disse: “You are an angel who shares his soul with the clarinet”, sei un angelo la cui anima è una cosa sola con il clarinetto.

Su iTunes è disponibile lo splendido album “Dall’America a … Pupi Avati”, un doppio album per conoscerlo e per ricordarlo.

I bambini di Giove

Non c’è un sapere per i bambini e uno per i grandi. Una delle tante stupidità su cui costruiamo e abbiamo costruito ragionamenti inutili. C’è il sapere punto e basta. Che si può apprendere a tutte le età, se incontri uno che te lo sappia insegnare. E questa è la difficile, stupenda professione del maestro.
È sempre la grande idea del tutto a tutti, che non ha smesso d’essere valida da quando, circa quattro secoli fa, il ceco Comenio lanciò al mondo la sua sfida pedagogica. Non sono trascorsi cinquant’anni da che Bruner ne ha fatto la base del suo ‘apprendere ad apprendere’, convinto che sono sufficienti una palla ed un muro per spiegare anche a un bambino di tre anni il concetto di rifrazione.
Certo bisogna saperlo fare. Per questo si diviene ‘maestro’ agli altri, a prescindere che si insegni alla scuola dell’infanzia o all’università, nella bottega o per la strada.

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La copertina del libro

È questo che dimostra Franco Lorenzoni, rendendoci partecipi di un anno di scuola con i suoi ragazzi, nel libro che Sellerio ha pubblicato a ottobre, “I bambini pensano grande”. Ci narra che è possibile un’altra scuola, una scuola di pensieri, di matematica e di filosofia profonda. Una scuola come tutte le scuole dovrebbero essere, dalla parte di chi cresce e crescendo stupisce e si interroga, vive l’originale avventura di chi si incammina verso la conoscenza.
Il succedersi dei giorni nella classe di Lorenzoni ha l’anima intelligente, capace di ‘interlegere’, delle bambine e dei bambini per i quali nulla è troppo grande per il solo semplice fatto che loro sarebbero troppo piccoli, così si ritrovano a parlare dei numeri pazzi, per poi giungere, con rigore e metodo scientifico, alla scoperta dei numeri non razionali.
Ognuno non è solo a guardarsi crescere come spettatore di sé, ma nella relazione con le compagne e i compagni apprende l’arte del dialogo, l’ascolto, il saper interrogarsi, fino a penetrare la profondità delle cose. Si dialoga con Anassimandro, Talete, Pitagora, Socrate, insieme ci si avventura ad esplorare la caverna del mito di Platone, ad apprendere dalla tragedia greca e dalla tragedia della vita, come può essere l’improvvisa morte di un compagno.
Una scuola che entra nella scuola, in questo caso quella di Atene, dipinta da Raffaello, dove gli alunni, sebbene appena decenni, non provano timidezze nei confronti dei personaggi lì rappresentati. Dialogano con loro, come si dialoga con il passato e i suoi grandi, con loro si immedesimano fino a decidere di metterli in scena, fino a ridisegnare la pittura di Raffaello perché “Il disegno è te che non sei te”, come alcuni di loro hanno a scrivere.
La cifra didattica è condurre i ragazzi all’origine dei saperi, la scuola si offre a loro come terreno della conoscenza in divenire, luogo di conquiste e di scoperte, istante dopo istante, giorno dopo giorno.
È la scuola dove alunne e alunni pensano grande, la scuola di Franco Lorenzoni, maestro a Giove di Terni. Qui Giove non è solo il nome del piccolo comune umbro, è davvero una profezia, una vocazione per il mito, l’arte, la scienza, la cultura classica, il teatro, il corpo. Per esplorare le strade dell’umanità e del sapere che sono giunte fino a noi, a partire da quel mondo che un giorno di oltre 2000 anni fa si è provato a disegnare un certo Eratostene di Cirene.
È la scuola dove nel dialogo tra maestro e alunni si susseguono le ‘sorprese illuminanti’, le ‘sorprese produttive’ che spianano la strada all’accesso in territori sempre nuovi, ad accogliere le sfide lanciate di volta in volta dal sapere, per conoscere sempre di più. Un sapere mai già confezionato, un sapere di fronte al quale sei chiamato a ripercorrere con le tue compagne e con i tuoi compagni la stessa fatica con la quale l’umanità prima di te è giunta a conquistarlo.
La grandezza della scuola che il maestro Franco Lorenzoni sa mettere in pratica non dovrebbe stupirci per la sua singolarità, ma per la nostra ottusità, per i nostri ostinati ritardi, per i nostri continui mancati appuntamenti, per i debiti che le nostre banalità culturali, le nostre pigrizie istituzionali, le nostre colpe politiche hanno accumulato nei confronti dell’infanzia e dei giovani in generale.
Lorenzoni non viene dal nulla, Lorenzoni non è un artista dell’istruzione, Lorenzoni è un professionista colto e preparato come dovrebbero essere tutti coloro che praticano la professione docente, è un professionista che nella pratica didattica quotidiana ha saputo condurre a sintesi decenni di ricerche e di riflessioni pedagogiche. E come Lorenzoni riconosce, l’origine è la stessa che ha guidato Lodi e Ciari e altri come loro per tanti anni, ripercorrendo l’insegnamento del maestro di Bar sur Loup, Célestine Freinet, agli inizi del secolo scorso.
Per troppo tempo questo nostro Paese, che ancora resta “Il paese sbagliato” denunciato da Mario Lodi, si è messo a posto la coscienza celebrando i suoi vari maestri eccellenti, per poi continuare tranquillamente tutto come prima, nella più totale indifferenza e se mai lasciandosi trasportare dal reflusso delle grandi questioni pedagogiche come grembiule sì, grembiule no!
Ma bisogna avere dell’infanzia non l’idea di un tempo senza la parola, da trascorrere nei giochi perché inadatto alle cose dei grandi. Questa è l’infanzia che noi continuiamo a raccontarci, ma non è quella vera delle bambine e dei bambini, come tali li definiamo con quella orrenda, fuorviante etimologia da ‘bambo’, cosa sciocca.
Gli alunni di Giove con il loro insegnante praticano la potenza della loro età, la peculiarità, la ricchezza inaspettata d’essere bambini, come dovrebbe essere ogni giorno nella scuola di tutti.
I loro pochi anni non sono qualcosa che li sminuisce, al contrario consentono loro di “pensare grande”, meglio dei grandi stessi, perché per loro è più semplice, perché crescere incammina sulla strada del difficile, dell’arduo, della scoperta e dello stupore. Non saranno artisti, ma degli artisti hanno i doni, l’occhio, la parola acuta nella sua spontaneità, l’originalità e la pregnanza dello sguardo, l’ostinata curiosità.
Ma è necessario che ogni bambina e bambino incontri sulla sua strada adulti davvero convinti che le età dell’infanzia valgono in sé e per sé, che sono un’età a tutto tondo, non un’età incompiuta, non qualcosa che ‘manca di’.
Semmai è proprio il contrario, sono gli adulti ad aver qualcosa di meno dei bambini, perché hanno perso della crescita la freschezza e la capacità semplice, immediata di interrogare e dialogare in confidenza con la vita.

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Se questo è un Paese… L’Italia “grande assente” sul “Fondo Perpetuo” per salvare Auschwitz

da: Laura Rossi

Non riesco a comprendere il motivo per cui l’ Italia sia la “grande assente” sul “Fondo Perpetuo” per salvare Auschwitz. Nemmeno un euro!!
Trentuno Paesi hanno partecipato alla raccolta iniziata nel 2009 su richiesta della Polonia, dove il campo di sterminio ha sede.
La Germania, conscia della sua” colpevolezza” nell’ Olocausto, ha donato 60milioni sui 120 necessari; L’ Italia, NO, come forse nemmeno chi è pienamente innocente può fare! L’ Italia dimentica l’emanazione delle sue leggi razziali che hanno trascinato nei campi di sterminio milioni di innocenti e dimentica l’alleanza con Hitler!
Tra i grandi paesi europei, oltre all’ Italia solo la Spagna non ha donato un solo euro. Mancano ancora 18milioni di euro….
Non credo sia una questione di denaro, anche se la linea difensiva sarà sicuramente questa, ma di disinteresse totale.
Vergognosa quest’ Italia che dimentica Primo Levi ” Se questo è un uomo”, tra le cronache più tremende di Auschwitz e tutti gli altri. Vergogna!
Il Vaticano ha donato…… L’ Italia NO!
L’Italia non ha donato per salvare Auschwitz, ma in compenso continua a elargire milioni di euro al terrorismo, alle Ong che odiano gli ebrei e Israele.
Bravissima Italia, fai sempre più pena…..

Laura Rossi – Italia e Israele-

L’INCHIESTA
Orte-Mestre, la nuova autostrada che unisce e divide l’Italia

Nel 2015 potrebbero già iniziare i lavori per la realizzazione della nuova autostrada Orte Mestre che collegherà il Nord-Est con il Centro Italia.
Una grande opera di cui, se non fosse per i comitati Stop Or-Me sorti lungo tutta la tratta interessata, si saprebbe poco o nulla. E questo non promette nulla di buono.
Nella seduta del 10 novembre, il Comitato interministeriale per la programmazione economica (Cipe), ha approvato il progetto preliminare per il collegamento autostradale Orte-Mestre, ora parzialmente servito dalla superstrada che collega Orte a Ravenna.
E’ dal 2001 che se ne parla, poi l’ingente costo ne ha sempre bloccato la realizzazione. Fino a che il decreto ‘Sblocca Italia’ voluto da Renzi nel settembre scorso, ha rimesso in pista questa nuova autostrada che partendo da Orte nel Lazio arriverebbe a Mestre in Veneto, 396 chilometri di asfalto che attraverserebbero 5 regioni, 11 province e 48 comuni. E’ in progetto l’ampliamento dell’attuale tracciato della E45 e la costruzione ex novo del tratto mancante fra Ravenna e Mestre, che attraverserebbe il territorio ferrarese interessando i comuni di Argenta, Comacchio, Ostellato, Fiscaglia, Codigoro, Mesola e Berra secondo riportato nella valutazione di impatto ambientale dell’opera fatta nel 2010 dal ministero dell’Ambiente.
Se ci si prende la briga di leggere tutto il decreto, non si troverà citata da nessuna parte l’autostrada. E anche questo non promette nulla di buono.
Ma, come spiega bene Luca Martinelli, giornalista di ‘Altreconomia’ “il gioco è tutto in un comma, il quarto dell’articolo 2, che modifica il ‘decreto del Fare’ del 2013 aprendo le porte della defiscalizzazione per l’autostrada tra Lazio e Veneto”.
“Lo stato garantisce, e ci guadagnano i privati”, sintetizzano i comitati.
L’opera sarà finanziata interamente dai privati, ma con un mancato introito dello Stato di 1,87 miliardi di euro, che sarà riconosciuto ai concessionari sotto forma di sconti fiscali Ires, Irap e Iva nell’arco dei primi 15 anni di gestione, per un totale nominale cumulato di 9 miliardi di euro. Un modo meno eclatante di concedere un contributo a fondo perduto.
Così, prosegue Martinelli “la defiscalizzazione è per tutti, anche per un vecchio progetto, pensato in un altro momento storico ed economico, come la Orte – Mestre”.
E oggi i comitati Stop Or-Me si chiedono che senso abbia, in una provincia così legata al territorio come Ferrara, costruire un’autostrada, che mette a rischio alcuni dei suoi delicati ecosistemi.

Chi c’è dietro? Come si legge sul sito di Unioncamere Veneto, proponente dell’infrastruttura, insieme all’Anas, è il consorzio guidato dalla Gefip Holding, società di Vito Bonsignore, nata a Torino nel 2003. Dell’associazione temporanea di impresa fanno inoltre parte: Società Banca Carige Spa, Efibanca Spa, Egis Projects Sa, Ili Autostrade Spa, Mec Srl, Scetaroute Sa, Technip Italy Spa, Transroute International Sa.

Vito Bonsignore, frontman di questo progetto, è un imprenditore, è stato europarlamentare europeo eletto nel Gruppo del Partito Popolare Europeo, fondatore del Popolo delle Libertà con Berlusconi prima e del Nuovo Centro Destra con Alfano poi. Fa dunque parte dello stesso partito di Maurizio Lupi, ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, che siede nel Cipe, il Comitato che ha appena dato il via libera al progetto.
Ama il cemento e l’asfalto, infatti è stato direttore tecnico e direttore generale della Società autostrade Torino-Alessandria-Piacenza, consigliere di amministrazione dell’Istituto mobiliare italiano e dell’Insud Spa e amministratore delegato della società Torino-Milano.
Condannato in forma definitiva per corruzione, abuso e turbativa d’asta nella costruzione dell’ospedale di Asti.

La spesa prevista per l’autostrada, fanno sapere dal comitato ferrarese Stop Or-Me, è di circa 10 miliardi di euro.
Si dice che col project financing i cittadini non dovranno metterci un euro, ci pensa il mercato.
“In realtà – dice Roberto Cuda nel suo libro ‘Strade senza uscita’ – le società che costruiscono autostrade si ripagano degli investimenti riscuotendo i pedaggi per tutta la durata della concessione. Sono pertanto gli automobilisti a pagare la costruzione e la manutenzione e non i cosiddetti ‘privati’ (banche o costruttori)”.
E a chi dice che quest’opera creerà posti di lavoro, i comitati rispondono che un’adeguata manutenzione della già esistente E45 potrebbe farlo, senza deturpare l’ambiente e sconvolgere la vita di intere comunità come rischia di succedere a causa del previsto raddoppio dell’attuale arteria.

1. CONTINUA

 

L’IDEA
Un ‘future lab’ di utopisti consapevoli e visionari per politiche sociali innovative

Sabato lo spazio Wunderkammer di via Darsena si è trasformato in una sorta di macchina del tempo, una finestra su un futuro possibile e soprattutto desiderabile. Il metodo usato per questo esperimento è il Future Lab: uno strumento partecipativo che ha lo scopo di individuare utopie e risorse presenti nella comunità per collaborare con i decisori politici nell’elaborazione di progetti sociali innovativi.

utopia-visioneQuesta metodologia è nata alla fine degli anni ’80, partendo dal presupposto che per le persone spesso è più semplice sviluppare critiche che riflettere per individuare soluzioni a misura d’uomo. Attraverso questi laboratori di cittadinanza attiva, invece, ciascuno può sperimentare la propria capacità immaginativa, anche attraverso linguaggi creativi come il teatro, per rispondere ai problemi del territorio e della collettività: condividere bisogni, conoscenze, esperienze, aspettative, per tentare di dar vita a un’intelligenza collettiva che possa ideare a una visione collettiva di futuro.
La proposta dell’amministrazione provinciale e comunale ferrarese, in collaborazione con la regione Emilia Romagna, l’Agenzia sanitaria e sociale regionale Ausl di Ferrara e Teatro Nucleo, è stata lavorare insieme alla sociologa Vincenza Pellegrino sul tema della precarietà e delle molteplici facce che assume nella nostra contemporaneità.
La sfida per i partecipanti è stata passare dalla domanda “dove stiamo andando?” all’interrogativo “dove vogliamo andare?”. La parola chiave: visione.

utopia-visioneutopia-visioneVisione teatralizzata di un futuro distopico, dove la cittadinanza non è più un diritto di ciascuno, ma viene assegnata con un’estrazione a sorte e un colloquio per verificare se si è dei tipi ‘giusti’. Visione del presente, in cui la precarietà cambia volto a seconda delle generazioni e a seconda della cittadinanza, ma per tutti significa sentire il fiato troppo corto per pensare veramente al futuro: “(P)asso i gio(R)ni s(E)nza (C)ertezze (A)spettando un futu(R)o che (I)nvano s(O)gno”. Poi la parola è passata ai Visionari, cioè a coloro che a partire dalla condivisione di problemi e di bisogni comuni, hanno proposto la propria visione di futuro.

utopia-visioneutopia-visioneÈ venuto fuori che i visionari non mancano, a mancare è la volontà di dar credito alla nostra immaginazione e quindi la capacità di pensare a degli strumenti per realizzare ciò che immaginiamo: da bambini ci insegnano che diventare adulti significa fare i conti con la realtà, smettere di immaginare altri mondi possibili, ma la verità è che “possiamo avere delle utopie, iniziamo a collaborare per realizzarle” è l’invito di Vincenza Pellegrino. Altro evento abbastanza sorprendente: smettendo di preoccuparci di dire cose intelligenti per sforzarci di dire cose utili, le idee intelligenti e creative sono emerse da sole e sono state anche tante.

Dall’alleanza fra le generazioni all’ascolto dell’altro come pratica comunitaria quotidiana, da una nuova cultura del lavoro a una diversa concezione del mondo della scuola, al centro la persona e le sue relazioni con la comunità, quella cui appartiene e quella che potrebbe contribuire a costruire. Forse, volendo condensare tutte queste visioni in una: un futuro inclusivo in cui scelta non sia sinonimo di angoscia, sofferenza, rinuncia, ma di opportunità. Scoprire, o meglio costruire, le strade per arrivarci è un compito che le istituzioni condividono con i cittadini.

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Per tutti coloro che si sentono un po’ utopisti [vedi]
Le foto sono di Francesca Tamascelli e Serena Maioli e ritraggono alcuni momenti della giornata.

IL FATTO
“Non servono grandi opere per salvare il Po”. Idee a confronto sul futuro del Grande Fiume

Corre gonfio d’acqua il fiume e corre anche il presidente della Provincia, il sindaco Tiziano Tagliani che da Pontelagoscuro, letto del sorvegliato speciale dove oggi è attesa l’onda di piena, si sposta all’Imbarcadero del Castello. Giusto per un saluto ai partecipanti del convegno “Il Po e il suo Delta: tutela integrata e sviluppo di un grande sistema ambientale europeo” organizzato sabato da Italia Nostra nell’ambito del Premio Bassani. Il messaggio di Tagliani è chiaro, il grande corso d’acqua deve tornare a essere protagonista della sua storia al di là di politica, confini e interessi regionali, leggi e normative che si incrociano tra loro mettendone a dura prova l’esistenza. E’ tempo di costruire una cultura del fiume per unire città, paesi e campagne che su di esso vivono. Sono le continue emergenze ambientali a suggerirlo, eppure i tagli alle risorse dei parchi e alle aree protette imposti dalla spesa pubblica mettono a rischio un tesoro fortemente provato dall’inquinamento. La retromarcia è d’obbligo così come è opportuno sviluppare vecchie e nuove aree protette per difendere la biodiversità, il cuore della qualità della vita nostra e delle generazioni future. L’allarme suona da tempo: la pianura Padana attraversata dal fiume è tra le più “avvelenate” d’Europa, la longevità delle sue popolazioni è inferiore rispetto a quelle di altri luoghi. I pesci autoctoni sono sempre meno, sono stati spodestati da carpe e siluri, invasori agevolati dall’azione dell’uomo, come ha spiegato parlando di biodiversità ittica Giuseppe Castaldelli dell’Università di Ferrara. I dati indicano la necessità di creare un corridoio ecologico unico, ben governato e coordinato nel migliore dei modi.

Una nuova cultura del fiume comune a città e paesi della valle del Po

Per salvare il fiume non c’è bisogno di grandi opere tanto meno di sbarramenti per renderlo navigabile 365 giorni l’anno come suggerito dal progetto sulla sua bacinizzazione. Gli studi di fattibilità – gli ultimi dei quali commissionati dalle regioni a AiPo (Agenzia interregionale del Po) nel 2013 – un costo di 2 milioni di euro, finanziati per il 50 per cento dall’Europa e pagati, per quanto riguarda la tranche più recente, 500 mila euro dalla nostra Regione, 100 mila dal Veneto e 400mila dalla Lombardia.
L’idea sulla carta spinge soprattutto sulla produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili che risulterebbe pari al 3 per cento di quella nazionale, ma il geologo Marco Bondesan è convinto dell’antieconomicità dell’operazione. “Come Italia Nostra – dice – dobbiamo insistere sul paesaggio e la sua salvaguardia”. Un passaggio necessario per garantire la sicurezza idraulica in presenza di un fiume costretto a scorrere in spazi ristretti rispetto al passato, dei cambiamenti climatici, dell’aumento del cuneo salino, della diminuzione della portata del fiume e di tutti gli elementi di rischio emersi in questi anni.
“I 250 chilometri del Po che vanno da Piacenza a Mesola sono interessati per l’80 per cento dai siti della Rete natura 2000 che proteggono habitat e specie naturali di interesse comunitario – ricorda Enzo Valbonesi del Servizio Parchi e Risorse forestali della Regione Emilia – Romagna – a differenza di quelli di altre regioni sono dotati di piani di gestione e misure di conservazione previste dalla direttiva comunitaria Habitat. Le specie più minacciate , così come nel resto della pianura padana sono i pesci, gli anfibi e i rettili che più di tutti sono dipendenti dalla qualità e quantità delle acque superficiali”. Le aree rivierasche del medio e basso corso del Po non sono state perimetrate né pianificate dalle regioni interessate, solo l’Emilia-Romagna e la Lombardia si sono adoperate in questo senso, mentre il Veneto è intervenuto unicamente nell’area deltizia. “Siamo di fronte a forme di tutela che rischiano di avere un’efficacia molto debole, perché manca la volontà di superare una sorta di federalismo ambientale finora praticato in proprio, quando i problemi del Po consigliano di fare il contrario”.

I pericoli della bacinizzazione

Valbonesi denuncia i pericoli del progetto di sbarramenti pensati per regimentare il fiume ma destinati a danneggiare la pesca e il turismo. Il gioco di conche – che in base a calcoli ritenuti inattendibili da Giancarlo Mantovani, direttore del Consorzio di Bonifica Delta del Po, dovrebbero comunque fornire un apporto d’acqua sufficiente alle esigenze del Delta – imprigionerebbe gran parte della silice e di alcuni fosfati indispensabili al nutrimento di molluschi, crostacei e pesci che vivono o si riproducono nelle aree lagunari e salmastre del Delta e più complessivamente dell’Alto Adriatico. “La vitalità del mare dipende dall’afflusso di acque dolci e ricche di sali minerali che arrivano dal bacino padano veneto a cui il Po concorre per circa il 70 per cento – prosegue – Nella sola Sacca di Goro la produzione annua di molluschi va da 8mila a 15 mila tonnellate, un valore economico valutato tra i 50 ed i 100 milioni di euro, un’industria che impiega circa 1.500 operatori. Frenare l’apporto dei nutrimenti sarebbe un disastro”. Cosa potrebbe succedere? L’esempio più calzante risale alla siccità del 2003, da aprile a settembre le portate del fiume furono così basse da dimezzare il trasporto dei sali nutrienti. Risultato: una perdita di 7 mila tonnellate di cozze.

Danni al turismo e alla pesca

Gli sbarramenti in corso di progettazione da parte di Aipo (Agenzia interregionale per il Po), ha denunciato Valbonesi, limiterebbero anche il trasporto di sabbia mettendo in pesante difficoltà il litorale ferrarese e romagnolo in via di arretramento e bisognoso di continui ripascimenti attraverso il trasporto di sabbia prelevata al largo della costa, operazione dai costi notevoli a carico delle Regioni.
Rischi da valutare e decisioni politiche da prendere anche sul destino delle aree protette del Delta. “Alla positiva volontà di regioni, enti locali e operatori economici di candidare il Delta tra le riserve della Biosfera dell’Unesco – ha concluso – dovrebbe corrispondere l’impegno di dare vita a un unico Parco per superare la frammentazione attuale”. Siamo l’unico caso europeo a disporre di un Delta tutelato da due parchi, quando la gestione unitaria sarebbe assai più logica e utile alla salvaguardia ambientale.

L’impegno dell’onorevole Bratti per un unico Parco del Delta del Po

Sulla bacinizzazione l’onorevole Alessandro Bratti si è detto nettamente contrario dimostrandosi sorpreso che un simile progetto, voluto a suo tempo dal Governo Berlusconi e recentemente stralciato dall’elenco delle grandi opere, stia andando avanti attraverso AiPo per volontà delle Regioni. Secondo il deputato è bene aggiornare il progetto Valle Po voluto da Province e Comuni rivieraschi e ammesso al finanziamento del Cipe per 180 milioni di euro. All’interno del cosiddetto “collegato ambientale” della Finanziaria, approvato in prima lettura dalla Camera da qualche giorno e di cui Bratti è stato relatore, si è fatto un passo avanti verso l’istituzione dell’autorità di Distretto del Po. L’obiettivo del Distretto è rendere più autorevole pianificazione e programmazione dell’intero bacino del Po curate finora dall’Autorità di Bacino sia sul piano della difesa del suolo che della prevenzione dal rischio idraulico. “Il Po non ha bisogno di grandi opere, spesso devastanti come la centrale di Porto Tolle, ma di interventi di ripristino curati dalle istituzioni locali – ha detto il deputato – interventi che diano nuovamente alle comunità il senso di appartenenza al grande fiume”. Favorevole a un unico Parco del Delta, Bratti si è impegnato ad adoperarsi insieme al ministro della Cultura Dario Franceschini perché nella riforma della legge quadro sui parchi, presto all’esame del Parlamento, venga inserito un articolo sul Delta, elaborato insieme al collega rodigino Diego Crivellari, che porti entro sei mesi alla costituzione di un parco interregionale. Non è mai troppo tardi.

Il sax di Fausto Papetti

Fausto Papetti (Viggiù, 28 gennaio 1923 – Sanremo, 15 giugno 1999) è stato uno dei sassofonisti più popolari e apprezzati dal pubblico italiano per oltre 30 anni, grazie ai suoi dischi, che riproponevano successi italiani e internazionali in versione strumentale. Le compilation, vendute anche all’estero (Germania, Spagna e Sudamerica in primis), erano intitolate semplicemente “Raccolta”, contraddistinte da un numero ordinale.

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Papetti iniziò la carriera nel 1955 formando il gruppo de “I Menestrelli del Jazz”, insieme a Pupo De Luca alla batteria, Ernesto Villa al contrabbasso, Giampiero Boneschi (poi sostituito da Gianfranco Intra) al pianoforte ed Ezio Leoni alla fisarmonica. Come strumentista, verso la fine degli anni ’50, suonò per la giovane Mina e nel suo periodo “jazz” con Chet Baker, in occasione dell’incisione di alcuni dischi nel 1959 e nel 1960 (“1959 Milano Session”, “Sings and Plays” e “Chet Baker with Fifty Italian Strings”). In sala di incisione il sassofonista era insieme a Franco Cerri, Gianni Basso, Renato Sellani, Franco Mondini e Glauco Masetti, il gotha del jazz italiano.
Nel 1959 firmò il contratto per la Durium, inizialmente come strumentista, e poco tempo dopo come sax solista, in occasione dell’incisione del brano “Estate violenta”, composto da Mario Nascimbeni quale colonna sonora dell’omonimo film diretto da Valerio Zurlini. Il singolo ebbe un ottimo riscontro nelle vendite, tale da convincere la casa discografica a produrre il primo Lp del sassofonista: “Fausto Papetti – Sax alto e ritmi”.

sax-papettiTra i musicisti che lavorarono con lui, oltre al già citato Pupo De Luca (attore nella serie TV Nero Wolfe, nel ruolo di Fritz il cuoco), ci furono Tullio De Piscopo (dalla 15ª alla 34ª raccolta), Aldo Banfi, Reddy Bobbio (pianista, arrangiatore e co-autore), Luigi Cappellotto e Giancarlo Sorio (arrangiatore e co-autore). Nel 1968 incise, con il trombonista jazz Mario Pezzotta, l’album “Due stili, due strumenti”, l’incontro tra due generi assolutamente diversi: easy listening e dixieland.

Lp, Stereo 8 e soprattutto le musicassette del grande sassofonista erano molto apprezzate dagli automobilisti (l’autogrill era la sosta obbligata per l’acquisto delle sue raccolte). Le note del suo sax accompagnavano spesso le attività che si svolgevano in luoghi quali ristoranti, sale d’aspetto, alberghi e negozi. Il successo fu tale che per tutti gli anni Settanta furono pubblicate sino a due raccolte l’anno, che immancabilmente raggiungevano i vertici delle classifiche; quella più venduta fu la 20ª, giunta al primo posto della Hit Parade nel 1975. I suoi dischi si caratterizzavano anche per le copertine in cui comparivano, specialmente negli anni ’70, giovani donne discinte, un po’ hippy e casual, mai volgari.

sax-papettiCol suo sax, Fausto Papetti, per quasi 40 anni e con oltre 900 canzoni (numero stimato), ha intrattenuto il pubblico facendo apprezzare il suo sound e gli arrangiamenti “easy listening” dei grandi successi. Da Gli Alunni del Sole di ‘”A Canzuncella” a “Balla balla ballerino” di Lucio Dalla, dai Pink Floyd di “Shine on you crazy diamond” fino a “Jamming” di Bob Marley, passando per generi quali disco-music, colonne sonore di film e TV (tra tutte “A blue shadow” di Berto Pisano), evergreen italiani e internazionali.
Il suo segreto era quello di sapere rileggere qualsiasi tipo di brano musicale, attenuandone le “ruvidità” e facendone prevalere la melodia.
Le sue fonti ispiratrici furono Stan Getz, sassofonista di fama mondiale, e Miles Davis. Amava i Pink Floyd, i Beatles, Ennio Morricone, mentre nel classico preferiva Schubert, Mozart e Chopin. Nei momenti di relax era solito sedersi al piano ed eseguire pezzi classici. Aveva una predilezione per Tony Bennett, Stevie Wonder, Barbra Streisand e Frank Sinatra. Le canzoni che amava suonare erano: “Feelings”, “Stardust”, “Take Five” e negli ultimi tempi “Caruso” di Lucio Dalla.
Papetti creò un vero e proprio genere, imponendo in campo discografico le produzioni strumentali, la stessa formula fu adottata da altri valenti sassofonisti, tra cui Gil Ventura, George Saxon e Johnny Sax e da strumentisti quali Pier Giorgio Farina, Federico Monti Arduini (Il guardiano del faro) e Santo & Johnny.

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Oltre alle “Raccolte”, la Durium pubblicava altri dischi di Papetti, come nel caso di “I remember”, “Old America”, “Evergreen”, “Bonjour France”, “Made in Italy”, “Ritmi dell’America Latina”, “Cinema anni ’60”, ”Cinema anni ’70”. Con il passare degli anni Internet ha amplificato e diffuso le sue canzoni, facilmente reperibili su You tube e iTunes. Le sue compilation continuano a essere pubblicate su CD, in Facebook è attiva la pagina gestita dalla figlia Cinzia, su Tumblr sono disponibili le mitiche copertine dei dischi, mentre eBay consente l’acquisto dei vecchi Lp e musicassette, tramite asta.

Fausto Papetti era un uomo molto riservato, che amava la famiglia, il mare e la musica. Non gli piaceva andare in Tv, temeva l’aereo e rinunciò ad appuntamenti importanti proprio per la paura di volare. Alcuni delegati del Bolshoi, lo invitarono a tenere dei concerti a Mosca, ma lui rifiutò, per lo stesso motivo disse di no allo Scià di Persia Reza Palevi, che lo voleva al ricevimento in onore degli astronauti scesi per primi sulla luna. Non si rese mai conto di quanto fosse popolare in tutto il mondo e passò gli ultimi giorni della sua vita pensando alla musica e a nuovi progetti.

Si ringrazia per la collaborazione Cinzia Papetti, figlia di Fausto.

LA STORIA
Btoy alla riscossa

Torniamo alle nostre donne street artist, che avevamo lasciato riposare per un attimo, e avventuriamoci alla scoperta di nuovi nomi. Ce ne sono sempre di nuovi, bellissimi colori e opere piene di vita ed energia, come solo le donne, talora, sanno fare.
Eccoci, allora, alla spagnola Andrea Michaelsson, un’artista poliedrica conosciuta nel suo mondo variopinto come Btoy. Nata nel 1977, a Barcellona, Andrea ha studiato legge per quattro anni, prima di comprendere che quella non era la sua strada (quale coincidenza e nota percezione…). E allora ha iniziato a impegnarsi nella fotografia, frequentando l’Istituto di studi fotografici della sua città. Oggi è conosciuta per i suoi raffinati, dettagliati, femminili, delicati, colorati, originali, curati e precisi stencil.
Btoy si è concentrata sulla street art alla morte della madre, nel 2002, all’età di 26 anni, trovando nella pittura e nell’arte un modo di sfuggire al dolore, per non pensare, per distrarre la sua mente. Le fotografie scattate durante quel periodo all’Istituto sono state la base di partenza dei suoi disegni e l’hanno aiutata a identificare con precisione i lineamenti e i dettagli dei personaggi che ritraeva. Ispirata dalle fotografie di Henri Cartier-Bresson e dalle attrici hollywoodiane, come Clara Bow e Louise Brooks, Btoy ha presto iniziato a usare Photoshop per incorporare e combinare la fotografia con i dipinti, arrivando così a ben identificare luci e ombre, in una tecnica raffinata di stencil.
Sono iniziati esperimenti che hanno visto unirsi varie tecniche, incluse l’uso di spray e d’inchiostri. Il risultato è stato un’esplosione sensazionale di colori.
I suoi stencil mettono sempre in risalto le donne, i loro volti, i loro colori, le loro espressioni, la loro bellezza e vitalità. Spesso includono ritratti di donne belle e famose, del passato (icone degli anni ‘50) ma anche del presente. Il mondo femminile è presentato in tutta la sua bellezza e intensa delicatezza.
Dopo aver molto collaborato con l’artista Ilya Mayer e con vari amici svedesi, francesi e inglesi, oggi lavora da sola, con il suo stile unico che la contraddistingue, creando poster, stampe e murales. Anche se ha partecipato a molte mostre in giro per il mondo (da Los Angeles a Citta del Messico e Bruxelles), oltre che nella sua Barcellona, Btoy preferisce mettere le sue opere in posti “vecchi” e un po’ dimenticati e trasandati. Perché, soprattutto qui, c’è bisogno di bellezza.

Per saperne di più visita il sito di Tboy [vedi].

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