Io sono PTOF, figlio di POF, della tribù dei RAV, della terra desolata del MIUR; uno degli ultimi sette saggi: CUD, FIS, LIM, MOF, PON, TIC, USR.
PTOF, il grande PTOF, colui che HERA, colui che INDIRE e colui che VALES.
PTOF, l’innovatore PTOF, colui il quale ha sfidato e sconfitto i temibili DSA, che ora vagano per il mondo cercando qualcuno che gli possa regalare un BES.
PTOF, il risolutore PTOF, che è sceso nelle acque del lago INVALSI, si è cibato degli AFAM e, tra le ninfe OCSE, si è accoppiato con CLIL generando PNSD.
PTOF, il decisionista PTOF, che ha battuto gli otto draghi alati: ASL, DES, GLH, GLIP, PAI, PEI, PDF, PDP.
PTOF, il determinato PTOF, che si è immerso tra le alghe del CSPI e, con i suoi compari PDM e ANVUR, ha sconfitto i due demoni: TFR e TFS.
PTOF, l’incredibile PTOF nipote di ARAN, che ha visto le due creature mitologiche: DS e DSGA scendere tra le nebbie del CCNL e, con l’arma micidiale del PDM, distruggere i popoli provenienti dagli OOCC.
PTOF, il triennale PTOF, che si è alleato con il mitico ANP e le leggendarie FAQ e, calpestando i paesi di ATA, CTP e GAE, sta lottando contro le pericolose RSU.
Questo scherzo che ho scritto mi è stato ispirato da qualche vignetta che circola in rete e da uno sketch comico di Aldo, Giovanni e Giacomo, che trovate qui sotto.
Ecco ciò che penso: finché noi insegnanti continueremo ad accettare l’uso di odiosi acronimi rendendo il nostro modo di parlare sempre più esclusivo ed escludente, non riusciremo ad essere sufficientemente comprensibili al di fuori del nostro mondo.
Finché non sapremo spiegare con un linguaggio chiaro e semplice i nostri problemi e le nostre prospettive, non riusciremo a convincere con efficacia della bontà delle ragioni per cui lottiamo contro la cosiddetta “buona scuola renzusconiana”.
Finché non riusciremo a fare questa grande fatica necessaria, non sapremo contagiare efficacemente l’opinione pubblica con le nostre preoccupazioni e le nostre convinzioni.
Quindi concludendo: se “a parole lorde, orecchie sorde”, “a buon intenditor poche parole”… ma buone!
Legenda dei 45 acronimi usati:
AFAM: Alta Formazione Artistica e Musicale
ANP: Associazioni Nazionale Presidi
ANVUR: Agenzia Nazionale di Valutazione del sistema Universitario e della Ricerca
ARAN: Agenzia per la RAppresentanza Negoziale
ASL: Azienda Sanitaria Locale
ATA: Amministrativo, Tecnico ed Ausiliario
BES: Bisogni Educativi Speciali (ma anche bacio in dialetto romagnolo)
CCNL: Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro
CLIL: Content and Language Integrated Learning
CSPI: Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione
CTP: Centro Territoriale Permanente
CUD: Certificato Unico Dipendente
DES: Disturbi Educativi Specifici
DS: Dirigente Scolastico
DSA: Disturbi Specifici di Apprendimento
DSGA: Direttore dei Servizi Generali e Amministrativi
FAQ: Frequently Asked Questions
FIS: Fondo di Istituto
GAE: Graduatorie Ad Esaurimento
GLH: Gruppi di Lavoro sull’Handicap
GLIP: Gruppi di Lavoro Interistituzionali Provinciali.
HERA: Multiutility che si occupa di rifiuti, acqua, gas ed energia elettrica (non è un acronimo)
INDIRE: Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa
INVALSI: Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema Educativo di Istruzione e Formazione
LIM: Lavagna Interattiva Multimediale
MIUR: Minitero Istruzione Università e Ricerca
MOF: Miglioramento Offerta Formativa
OCSE: Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico
OOCC: Organi Collegiali
PAI: Piano Annuale per l’Inclusività
PDF: Profilo Dinamico Funzionale
PDM: Piano Di Miglioramento
PDP: Piano Didattico Personalizzato
PEI: Piano Educativo Individualizzato
POF: Piano dell’Offerta Formativa
PON: Programma Operativo Nazionale
PNSD: Piano Nazionale Scuola Digitale
PTOF: Piano Triennale dell’Offerta Formativa
RAV: Rapporto di Auto Valutazione
RSU: Rappresentanza Sindacale Unitaria
SIDI: Sistema Informativo Dell’Istruzione
TFR: Trattamento di Fine Rapporto
TFS: Trattamento di Fine Servizio
TIC: Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione
USR: Ufficio Scolastico Regionale
VALES: VALutazione E Sviluppo
“Luana s’est pendue. Elle n’est plus…” dice il chirurgo di Parigi dove Luana aveva lavorato per un decennio. “Luana s’è impiccata. Luana non c’è più”.
Il dramma di Luana Ricca si è consumato un paio di settimane fa: catanese, chirurga che aveva coniugato talento e capacità, abbandonati su una corda all’età di 38 anni. La notizia sui giornali è scivolata via. Invece c’è tanto da dire. Luana aveva dimostrato ampiamente all’estero le sue qualità di chirurga, ma nelle strutture sanitarie italiane non era riuscita a trovare uno spazio adeguato.
Il suo non è soltanto il dramma di una persona, di una famiglia, di parenti e amici. Non è il caso di una persona depressa che pone fine alla sua esistenza. E’ un dramma che coinvolge l’intera società perché è una sconfitta della meritocrazia.
Luana era una giovane catanese laureata in medicina e specializzata in chirurgia all’Università di Roma. Dopo la specializzazione, era emigrata a Parigi per completare la formazione nella chirurgia dei trapianti d’organo, ma soprattutto per trovare uno spazio dove dimostrare il talento e le capacità. C’era riuscita, e a Parigi aveva lavorato per un decennio guadagnandosi stima e rispetto. Ma il tarlo della nostalgia dell’Italia, della famiglia (intanto s’era sposata e aveva avuto un figlio), la portò a cercare spazi in Italia. Era riuscita a trovare un posto nell’Asl dell’Aquila, anche se di profilo più basso rispetto alle sua aspettative e alle capacità. Ma per scelte aziendali inspiegabili, certamente lontane dalle norme della meritocrazia, Luana era stata trasferita a Sulmona. Era divenuta un semplice numero di un’azienda sanitaria.
Luana non ha retto allo stress. “Luana s’è pendue.” Su quella corda ha lasciato appesi i sogni, ma soprattutto le gravi accuse al sistema. E’ questo l’argomento che propone con forza il drammatico caso della giovane chirurga suicida.
L’Italia è un Paese diviso in lobby. Ormai lo sanno tutti e quasi non fa più notizia. Ma questa verità diventa drammatica quando è applicata a un sistema che ha il compito di proteggere e curare la salute.
Le lobby sono le entità nascoste, apparentemente senza nomi, ma sempre bene individuabili, che dietro le quinte decidono tutto, che stanno dietro tutti i poteri, dalle più alte cariche dello Stato fino alle amministrazioni più periferiche. Assumono, spostano persone da un compito all’altro, da un posto all’altro, nominano dirigenti, promuovono o bocciano senza possibilità di appello.
Di quali lobby parlo? Sono tante, politiche-partitiche, settali interne ai partiti, massoneria, lobby cattoliche di CL o di Opus Dei, finanziarie e professionali utili a chi comanda, ecc, ecc. In passato ci sono stati anche scandali sulle nomine di dirigenti della sanità basate esclusivamente sull’associazione a qualcuno di questi poteri occulti.
Tutte le scelte sono basate sul principio che un associato a una di quelle lobby o un amico va sempre preferito a tutti gli altri, comunque e ovunque.
Qualche giorno fa un amico mi ha informato che ci sono in atto spostamenti e arruolamenti in vista nel mondo della sanità nostrano. Tizio andrà là, Caio verrà qua, il Tal’altro avrà quel compito, ecc. ecc.
Conosco da sempre questo sistema di spartizione dei posti e del potere locale. Ma resto sconcertato ogni volta perché la domanda è sempre la stessa. Viene seguito il criterio delle competenze? La risposta, purtroppo, è sempre No. Viene seguito soltanto il criterio dell’interesse personale e di gruppi. Anche da noi esistono professionalità che altri ci invidiano, ma vengono sacrificate alle logiche delle lobby.
Il punto dolente conclusivo è che il sistema è marcio e non vedo alcuna iniziativa di risanarlo, perché il guasto sta in alto, nella testa di chi lo protegge, che nomina e mantiene lo statu quo. Le amministrazioni locali si accontentano di sentirsi dire che sono bene accette alla gente, ma non hanno alcuna voglia di intervenire, perché sono esse stesse integrate nel sistema.
Siamo tutti addolorati per Luana. Ci stringiamo ai familiari. Ma come si potrà spiegare al figlio, quando sarà adulto, che la madre è stata vittima e martire di questo sistema marcio?
Troppo da dire, ma lo sconforto e la commozione paralizzano. E poi le parole che si dicono in queste circostanze sono povera cosa. Come si fa a riassumere il senso di una vita? Chi è stato Paolo Mandini? E’ stato un uomo buono e giusto. Nella vita pubblica e nella vita privata. Attenzione, perché sembrano parole scontate e banali. Lo sono se le si pronuncia così tanto per dire, non se fanno riferimento ad una persona concreta che ha incarnato e praticato il significato di quelle grandi parole. Come politico, Paolo è stato fra i più amati dirigenti del Pci della nostra provincia. Era unanime l’apprezzamento per la sua intelligenza, la considerazione della sua autorevolezza morale, la simpatia per le sue risorse di uomo ironico, il riconoscimento per la sua generosità e lealtà. Era uomo puntuto e acuto nella polemica politica, ma il suo bersaglio non era mai la persona, sempre le posizioni sostenute. E’ per questo che tutti gli volevano bene e lo stimavano: amici e avversari. Eppure i passaggi difficili nella sua vita di coraggioso combattente non sono mancati. E’ stato funzionario del Pci, ma non ha mai corrisposto alla caricatura che molti hanno fatto di quella figura di ‘rivoluzionario professionale’ ormai figlia di altri tempi. I suoi interventi nelle riunioni di partito non erano giaculatorie servili verso la dirigenza, né verso la mitica ‘linea del partito’. Era una persona libera. Ha vissuto la politica come passione, non come mestiere. Mai sfiorato da calcoli personali, né dal pernicioso morbo del carrierismo. La politica per Paolo era scontro di idee, progetti, valori. Era un uomo etico. Paolo non era un teorico, era un uomo d’azione. E, senza sentire il bisogno di citarlo, possedeva le tre qualità che, secondo Max Weber, sono decisive per determinare la vocazione del politico di razza: la passione, nel senso di dedizione appassionata ad una causa; l’inscindibile nesso fra etica della convinzione (credere in certi valori) ed etica della responsabilità (valutare sempre le conseguenze degli atti che si compiono); infine la lungimiranza. Quante volte , nelle nostre appassionate discussioni quotidiane ci facevamo la domanda: se la politica è lotta, forza, potere, vale la pena cercare un ethos della politica? O la politica deve ridursi a nuda potenza? O peggio, a scambio di favori all’interno di una casta chiusa? O a miserabile corruzione? Paolo, non ha mai smesso di credere nella ‘bella politica’. Come amministratore pubblico, è stato un protagonista assoluto nella vita del Consiglio Comunale sia come consigliere, capogruppo, sia come assessore. Per quest’ultimo aspetto mi sento di affermare, senza timore di essere smentito, che Paolo Mandini è stato il più grande assessore allo Sport che finora ha conosciuto la nostra città. E, in conclusione, non posso non ricordare l’amico. Sono fra coloro che ha avuto il privilegio di godere della sua amicizia. Anche per questo prezioso bene, di cui a volte la vita ci fa dono, Paolo possedeva doti naturali. Era generoso, simpatico, conviviale. Attore assoluto nel gruppo amicale che si ritrovava ogni mercoledì per la sua capacità di narrazione di aneddoti e scherzi pensati e fatti ad altri cari amici nella sua lunga, impegnativa, ma anche gioiosa militanza politica. Il Pci è stato per Paolo, e per molti di noi, una dura scuola di vita, ma anche una solidale esperienza di comunità larga. Non era un idillio la vita in quel ‘partito-chiesa’. Fatti duri e dolorosi, errori seri e anche catastrofici ne hanno costellato l’esistenza. Ma quanta bella umanità abbiamo conosciuto: operai, lavoratori, insegnanti. Donne e uomini che credevano che la politica fosse uno strumento per trasformare gli individui in cittadini, non in spettatori tifosi e plaudenti del capo di turno. Questo è il mio ricordo di un uomo onesto e perbene, che ha sempre tenuto la schiena dritta senza arroganza, esibizioni inutili o stucchevoli narcisismi. La politica e la città hanno un debito verso Paolo. Negli anni ottanta del secolo scorso fu lui a denunciare il degrado della politica che un certo sistema di potere aveva prodotto e il cui simbolo è la cupa e ammonitrice presenza del Palazzo degli Specchi. Si sappia che Paolo è morto con una ferita aperta nel suo animo: la mancanza di riconoscimento della giustezza della battaglia morale e politica che insieme a pochi compagni e amici ingaggiò dentro l’allora Pci e poi Pds. Solo Roberto Montanari espresse pieno riconoscimento, in varie circostanze, per quello sparuto manipolo di coraggiosi che osarono la ‘scalata al cielo’ mettendosi contro una parte del potente gruppo dirigente del Pci e dell’allora fortissima coop-costruttori. Furono sconfitti, ma poi i duri fatti diedero loro ragione. E a Paolo va il merito principale. Ma quella vicenda segnò la sua fine pubblica e una dolorosa emarginazione. Oggi, gli sia restituito pieno onore politico. Inoltre, le Istituzioni pubbliche tengano presente il servizio decennale reso al bene pubblico da questo uomo capace e probo. E trovino il modo di ricordarlo con adeguati atti simbolici che ne perpetuino la memoria. Per ciò che mi riguarda, sono stato suo amico e lui è stato mio amico. Cosa c’è di più bello nella vita? La maggior parte dei morti tace. Per gli amici non è così. Gli amici continuano a parlare. Infine, un grato e commosso pensiero per la figlia Stefania, la moglie Paola, il genero Luca, il nipote Sandro che hanno sempre circondato Paolo, fino all’ultimo, di tanto amore, cura e affetto.
Venti spettacoli tra i quali sette gratis, oltre ottanta allievi, cinque corsi annuali e altrettanti workshop gratuiti, un numero di soci che supera le 1300 unità: è questo il bilancio dell’anno appena trascorso per il teatro Ferrara Off, solida e vivace associazione culturale ferrarese, raccontato da Roberta Pazi durante la conferenza stampa di presentazione della prossima rassegna trimestrale svoltasi ieri proprio tra le mura del teatro di viale Alfonso d’Este. “Teatro d’inverno” è il titolo della rassegna invernale, che promette tante novità pur mantenendo l’impostazione tradizionale che da sempre contraddistingue gli spettacoli di Ferrara Off, quella ovvero del teatro performativo, che lascia quindi spazio all’interazione tra attore e pubblico mettendo al centro proprio quest’ultimo come vera parte attiva della rappresentazione.
Ospiti della conferenza stampa anche l’assessore al patrimonio del Comune di Ferrara Roberto Serra e il direttore artistico della Fondazione Teatro Comunale Marino Pedroni.
“Anche grazie al teatro Off si può riscontrare che Ferrara è una città che investe sulla cultura“ ha affermato Serra, felice che “attività culturali come questa riescano a trovare conferme poiché crediamo che la nostra città debba vivere di queste realtà”. Parlando degli spazi nei quali è situato il teatro, Serra ha poi ricordato che “come giunta riteniamo che tra questi spazi, oggi ambulatoriali e di proprietà del Comune, debba essere collocata e intensificata la ricca rete di attività culturali presenti nel nostro territorio”.
A confermare questa necessità anche Pedroni, il quale spiega quanto sia fondamentale “impegnarsi nell’intento di favorire la nascita di una Città Teatro. Abbiamo visto nascere Ferrara Off tre anni fa – ha continuato – e senza dubbio oggi possiamo dire che si conferma come una delle novità più interessanti sia per quanto riguarda proposte e numeri sia per quanto riguarda la qualità delle rassegne e delle attività proposte”.
A proposito di “Teatro d’inverno”, e quindi di tutto ciò che andrà in scena a partire da sabato 16 gennaio fino al mese di marzo, sono intervenuti Marco Sgarbi e Giulio Costa. Sgarbi ha sottolineato che “nell’impossibilità di creare una rassegna tradizionale di più mesi, la nostra scelta è ricaduta nel stilare una programmazione trimestrale che, tuttavia, ci permette di costruire tutto pezzo per pezzo, in modo tale così da poterla selezionare totalmente ascoltando anche soci e spettatori”. Uno sguardo su un teatro che parte proprio dallo spettatore, quindi, il quale è vera linfa vitale di teatro Off e “aiutato dallo spazio che il teatro stesso mette a disposizione – ha concluso – che aiuta sicuramente ad entrare completamente nel lavoro, che al dunque è la nostra finalità”. Costa ha poi aggiunto come “tutta la rassegna è volta alla dimostrazione del processo di creazione dello spettacolo, un modo per aprire le porte sul proprio lavoro che per noi significa mantenere l’identità di questo luogo e degli spettatori che lo animano”.
All’interno della nuova rassegna, tra i riconfermati “Sabati d’inverno”, tre sono i lavori teatrali e uno quello di danza. Tra questi viene proposta la trilogia “Arrivano dal mare!” di Gigio Brunello, artigiano a tutti gli effetti, veneto, che costruisce letteralmente con le sue mani opere e scena. Tre sono le storie che egli propone: “Vite senza fine” (16 gennaio) che narra storie di quotidianità operaia, “Teste calde” (13 febbraio) basato su racconti del Risorgimento ed infine “Lumi dall’alto” (12 marzo), tratto da una storia vera d’immigrazione; il 30 gennaio sarà la volta di “Homo ridens” della giovane e contemporanea compagnia del Teatro Sotterraneo, il 6 febbraio spazio a Elisa Mucchi e al suo spettacolo di danza “Poema degli atomi” e, infine, il contrabbasso di Simone Di Benedetto e l’ideatrice del fortunato Festival della Fiaba di Modena, Nicoletta Giberti, con “Il fedele Giovanni” racconteranno fiabe per giovani e adulti il 27 febbraio.
Presentate anche le “Domeniche d’inverno”, il tradizionale appuntamento gratuito della domenica di Ferrara Off con la pittura, le performance e la poesia. In questa rassegna Giacomo Cossio tornerà a parlare di De Chirico il 17 gennaio e il 14 febbraio, Monica Pavani farà immergere il pubblico nelle poesie di Giorgio Bassani nel centenario della sua nascita, infine il 6 marzo “Taciti ascolti”, performance di approfondimento sulla violenza contro la donna a cura di Marisa Antollovich, Rita Lovato e Roberta Pazi.
Un’ultima menzione per la rassegna nella rassegna “L’inverno dei bambini”, la conferma dello spazio per i più piccoli che Ferrara Off mette in scena con gli spettacoli “3 regine, 2 re, 1 trono”, “I musicanti di Brema” e “Lumi dall’alto”.
L’ultima volta che entrai nel Petrolchimico, nella seconda metà degli anni ’80, fu per capire il funzionamento di un impianto di nuova generazione, in compagnia del responsabile della produzione e di un delegato sindacale. Allora lavoravo all’Unità e mi occupavo spesso dell’industria chimica.
La mia visita fu possibile grazie all’intervento del consiglio di fabbrica. Precedentemente avevo cercato di documentarmi su un librettino, uno dei molti scritti dal sindacato unitario, sulle prospettive dello stabilimento di Ferrara e sulle sorti della chimica italiana e mondiale. Sì, mondiale: perché dal Petrolchimico sono scaturite analisi dettagliate e proposte di alto livello che, spesso, insieme alle iniziative di lotta, hanno costretto i rappresentanti delle aziende a cambiare opinione al tavolo delle trattative e, sovente, a rinunciare a propositi di riduzioni di personale e al taglio di produzioni.
Il sindacato unitario, espressione di Cgil, Cisl e Uil, ha saputo governare periodi di durissima ristrutturazione al “fabbricone” senza mai scendere su un terreno di scontro becero e violento, anche grazie ad un rapporto peculiare tra operai, tecnici, ricercatori, impiegati . Questa, e non un’altra, è la storia di decenni, e questa è la scuola sindacale in cui è cresciuto Luca Fiorini, che conosco da ragazzo e di cui ho sempre apprezzato la serietà, l’educazione, la riservatezza. Io sto con Luca, insieme a tanti altri.
La vicenda di Fiorini, delegato della Filctem-Cgil licenziato da Lyondell Basell per una diatriba al tavolo delle trattative sull’integrativo aziendale, non è un mero fatto personale: è emblematica di come talune aziende vogliono far andare le relazioni industriali a Ferrara e in Italia. Da una parte, con ciò che si conosce sino ad ora, la misura del licenziamento appare spropositata e illogica. Sarà il giudice del lavoro a stabilirne l’esatta portata. Dall’altra, si è rotto nel peggiore dei modi un clima che nei decenni ha permesso che la storia del Petrolchimico continuasse. Ci sono stati momenti molto aspri, nel conflitto sindacale, ma nessuna delle parti è mai andata oltre un limite considerato invalicabile.
Basell ha scelto invece lo scontro. Lo ha fatto dopo aver dichiarato, per esempio, che il Centro ricerche “Giulio Natta” è un’eccellenza a livello mondiale, ma mettendo in sordina che a quel Centro hanno dato intelligenza e vita, oltre che risultati industriali ed economici di valore, centinaia di persone, in diverse forme. Persone come Luca.
Adriano Olivetti ha scritto che i lavoratori traggono indubbiamente un vantaggio dall’impresa, ma che l’impresa, per un altro verso, ha un debito verso di loro. Per questo non credo che aver scelto lo scontro sia lungimirante. Né oggi, né domani.
E arrivata su Sky tg24 la vicenda relativa alla casa terremotata di Vigarano. I coniugi Zaniboni, che ne sono proprietari, nel 2012 sono stati costretti ad abbandonare il loro alloggio a seguito del sisma. I tecnici della Protezione civile, i vigili del fuoco e i periti del Comune l’avevano tutti concordemente dichiarata inagibile certificando il livello di rischio più grave (E) che significa pericolo di crollo. Ma qualche mese fa, a sorpresa, gli stessi tecnici comunali hanno ritrattato la loro precedente valutazione certificando che la casa – contrariamente a quanto affermato tre anni prima e in seguito confermato da numerosissime autorevoli perizie – è invece è perfettamente agibile. Di conseguenza il sindaco ha revocato l’ordinanza del 2012 dichiarando che la corretta classificazione è la “A” che non comporta alcun rischio e quindi nessun diritto di indennizzo.
Da qui è iniziata l’odissea della famiglia Zaniboni, che oltretutto si trova ora a dover vivere in una casa in affitto per la quale il Comune non riconosce più neppure il rimborso. Ma quel che è peggio nell’impossibilità di fatto di rientrare nella loro abitazione per il rischio concreto che una nuova eventuale scossa possa mettere in pericolo la loro vita e quella dei loro figli. Questo in lacrime ha raccontato la signora Gloria al giornalista Flavio Iserrnia di Sky in un lungo servizio, di ben quattro minuti, andato in onda ieri in più edizioni di tg di Sky 24.
Fino ad ora solo FerraraItalia si era occupata del caso. L’improvvisa ribalta nazionale si spera possa contribuire a fare chiarezza e rendere giustizia. Ha dichiarato Andrea Zaniboni all’intervistatore: “Chiedo solo che ci sia riconosciuto ciò che ci spetta: “Cinque se è cinque, cento se è cento, nulla se è nulla”.
Per fortuna esiste qualcosa che non si può abbattere, qualcosa che ha un colore trasparente, che trasuda energia da ogni sua diramazione, che infonde speranza ovunque ci si trovi e di fronte a qualsiasi avversità. Una parola magica, amica, a volte difficile da conquistare, ma unica, inafferrabile, inarrestabile, irrinunciabile, senza prezzo. Spesso siamo ignari di cosa significhi non averla; quando la si ha sempre avuta, quando per essa non si è dovuto lottare, quando ci è stata regalata fin dalla nostra nascita, quando non ci si misuri con la sua assenza. La libertà. Colorata di azzurro.
“C’era una volta un gigantesco albero azzurro al centro di una città. Era bellissimo e altissimo e più forte di qualsiasi altro. I suoi rami infiniti attraversavano le finestre e le porte delle case”. Questo è l’incipit del meraviglioso libro “L’Albero Azzurro”, del giovane scrittore iraniano Amin Hassanzadeh Sharif, pubblicato in Italia da Kite Edizioni, nella traduzione di Giulia Belloni.
Questi giovani autori iraniani non smettono di stupire. Amin è originario di Teheran, ma vive a Bologna, dove è approdato nel 2011 per perfezionarsi ai corsi dell’Accademia di Belle Arti. Le sue illustrazioni sono state pubblicate in tutto il mondo dall’editore Shabaviz e gli hanno portato vari riconoscimenti, fra cui il prestigioso premio “Golden Pen” della Biennale Internazionale di Belgrado, nel 2007.
La copertina de “L’albero azzurro”
“L’albero azzurro” è la prima storia interamente ideata, scritta e illustrata dall’artista iraniano: narra di un grande albero dal colore azzurro, che segna le esistenze degli abitanti di un villaggio inventato e imprecisato, un racconto “senza tempo e senza luogo”, come lo definisce lo stesso Amin. È un libro di poche pagine, che si divora in pochi minuti, ma che si sfoglia e ri-sfoglia, che fa fermare gli occhi più volte sulle sue illustrazioni e i suoi colori delicati ma intensi. I disegni sono bellissimi, una rara perla di fantasia, grandi tavole realizzate con la tecnica dello scratch e con colori a olio. Resterete affascinati da quei tratti in cui i diversi toni di marrone mettono in risalto il blu della pianta, una pianta che pare arrampicarsi sulle pagine, senza paura, senza ritegno, senza vergogna, arrivando su su, in alto in alto, verso i vostri pensieri liberi, leggeri e affascinati. Lunghi rami snelli, che paiono le braccia di un’elegante e aristocratica signora d’altri tempi, sembrano volersi intrecciare con i vostri sogni avvolti dal colore.
Quell’albero speciale e innocente era testimone della vita tranquilla degli abitanti del paesino che vivevano a stretto contatto con lui, amandolo, rispettandolo e condividendone la crescita giorno dopo giorno. Ma come accade in molte favole, i cattivi attendono imperterriti e impavidi, annidati dietro l’angolo: in questo caso il perfido figuro è l’invidioso e fosco re del villaggio, che odia quell’albero imponente perché la sua fama e la sua bellezza offuscano quelle del palazzo reale. Ogni anno, quindi, ordina ai suoi uomini ubbidienti e servizievoli di alzare le mura di cinta e di tagliarne tutti i rami che si avvicinano troppo al palazzo, ma ogni volta qualcuno riesce a valicare le mura. Incurante del potere. L’invidia porta le persone a essere cattive e il re non fa eccezione. Le conseguenze del suo gesto saranno inaspettate.
Perché la libertà, preziosa, sempre svetta e alla fine trionfa. Non la si può abbattere, perché troverà comunque il suo magico spazio azzurro nei meandri di ogni cattiveria e perfidia umana. Bella morale, in un mondo in cui si parla tanto di libertà senza comprenderla veramente.
Da secoli la scienza economica poggia le sue teorie su ipotesi relative alle condotte umane, in particolare sulla pretesa razionalità dei comportamenti individuali. Ma è sufficiente esaminare la razionalità attribuita agli operatori economici, dal punto di vista dei fattori cognitivi ed emotivi, per demistificare l’homo economicus e la sua fede nell’autoregolamentazione del mercato.
Le conseguenze di quei presupposti sono oggi sotto i nostri occhi, lì a dimostrare l’insostenibilità materiale dell’attuale sistema di produzione, distribuzione e consumo. Lo sviluppo tecnico raggiunto, la dimensione della popolazione mondiale, richiedono ora il riallineamento delle nostre economie in funzione di una crescita sostenibile – crescita zero o addirittura de-crescita – con un forte accento sulla localizzazione, in contrapposizione alla globalizzazione.
Rimediare agli enormi guasti ereditati dalla cultura industriale richiede azioni correttive che vanno ben al di là delle politiche degli Stati, preoccupati di garantire gli equilibri sociali più che il benessere delle persone. Saranno probabilmente necessari grandi sforzi a livello ambientale, sociale e culturale per almeno un paio di generazioni.
Ci sarebbe una notevole quantità di buone ragioni per giungere a elaborare un nuovo modello economico, alternativo all’attuale. Sono diverse le strade che da varie parti si prova a intraprendere. Il mondo fortunatamente non sta fermo.
Nel secolo della conoscenza, nel secolo che ha ereditato dal precedente espressioni come “gestione della conoscenza”, “sviluppo basato sulla conoscenza”, divenute familiari anche al linguaggio dell’economia, sarebbe auspicabile un paradigma economico capace di descrivere una società i cui comportamenti, anziché essere fondati sul possesso e sullo scambio di beni, poggiassero sul valore della conoscenza.
In fondo al tunnel non pare di vedere la luce, se non ci viene in soccorso quella che ci può derivare dal sapere. E allora i legami tra economia e conoscenza sono di quelli molto stretti, non di quelli lasciati alla presunta razionalità degli individui, ma al loro sapere e alle loro competenze. Apprendimento, innovazione e competitività fanno tutti parte di una stessa filiera, che produce conoscenza, beni e risorse intangibili. L’economia è fatta di consapevolezze e di responsabilità, di saperi diffusi, che non possono stare solo da una parte, ma che devono appartenere a tutti, di modo che non vi sia chi sa e può e chi non sa e subisce. L’economia della conoscenza, fondata sulla conoscenza, è la rivoluzione della nostra epoca. Ma bisogna farla. Non possiamo stare ad attendere che un simile sistema economico giunga a poggiare su un solido terreno scientifico, perché di tempo ce n’è ancora tanto prima che questo possa accadere, nel frattempo occorre che iniziamo dal nostro quotidiano.
Economia fondata sulla conoscenza significa innanzitutto particolare attenzione per ogni fase di gestione della conoscenza, a partire dalla sua natura e creazione, passando alla sua diffusione, trasformazione e distribuzione, fino al suo utilizzo. Conoscere richiama consapevolezza e responsabilità. L’economia della conoscenza non è l’economia del profitto, dell’utile. È l’economia dell’etica, della responsabilità di ciascuno nei confronti degli altri. La consapevolezza della ricaduta delle mie scelte e del mio agire sui miei simili, nella produzione come nella distribuzione e nel consumo. La cultura della responsabilità sociale e politica, dell’accountability, direbbero gli anglosassoni, quell’accountability che è la precondizione dei diritti umani e dello stato di diritto, da cui discende l’etica d’impresa e delle condotte individuali.
In un recente articolo Richard Heede, cofondatore e direttore del Climate Accountability Institute, attribuisce il 64% delle emissioni mondiali di anidride carbonica e metano a sole 90 grandi aziende: questa è una chiara questione di etica della responsabilità, gravemente inevasa e senza conseguenze per i responsabili, che dalle loro condotte hanno tratto guadagni e ricchezze sulla pelle dell’umanità.
L’economia della conoscenza è anche questo, forse non ha bisogno di forconi per scendere in piazza, ma che funzioni la filiera delle informazioni, dei saperi e delle consapevolezze, perché queste stanno alla base di ogni agire che si proponga di cambiare ed innovare.
Se si pensa alla città come ad un sistema economico complesso, quanto abbiamo scritto finora appare rilevante dal punto di vista della vita urbana. Le persone abitano le città perché hanno naturalmente scelto di vivere insieme e di condividere tra loro cose, soprattutto beni immateriali.
Entrambe le questioni costituiscono il cuore della crescita fondata sulla conoscenza, hanno implicazioni economiche profonde. Anzi, questi due aspetti costituiscono i pilastri dell’economia della conoscenza: il valore della conoscenza, lo scambio di beni immateriali. Se l’esperienza della maggior parte dell’umanità di oggi è urbana, se le città sono oggi i motori dello sviluppo socio-economico e culturale, se la maggior parte delle nuove dinamiche è basata sulla conoscenza, sicuramente una scienza economica dello sviluppo urbano fondato sulla conoscenza diventa rilevante.
La vicinanza che comporta la città, il condividere insieme la vita, aiutano la formazione di una consapevolezza etica, aiutano il senso di responsabilità che portiamo gli uni nei confronti degli altri, fino alla condivisione di saperi e conoscenze, per apprendimenti e consapevolezze sempre più diffuse. È qui che la conoscenza e la città si incontrano: un nuovo motivo per interpretare e promuovere le transazioni di valore umano.
La lettera è già arrivata in Vaticano. E il numero dei firmatari è sorprendente: in trecento, quasi tutti ferraresi, aderendo all’appello dell’associazione ‘Pluralismo e dissenso’, hanno sottoscritto la missiva rivolta a papa Francesco “per rilevare come le parole dell’Arcivescovo della nostra comunità di Ferrara, Mons. Luigi Negri, si discostino troppo frequentemente e su troppe questioni da quelle del Papa”. I firmatari manifestano il “diffuso e significativo senso di disagio sia fra i cattolici che fra i non cattolici”, dovuto alle frequenti esternazioni del vescovo, che “usa spesso parole non ispirate a misericordia e a carità ma, anzi, sembra, persino al loro contrario”.
La raccolta di firme è iniziata alla fine di novembre e in poco più di 15 giorni, attraverso il sito dell’associazione e il passaparola, si arrivati a una massiccia adesione. A testimoniare che le “affermazioni dell’Arcivescovo, distoniche quando non antitetiche addirittura” rispetto alle parole che si è soliti udire da papa Francesco, risultano “divisive” e generano sconcerto nella comunità ferrarese.
Conclusa la raccolta delle firme il 15 dicembre, la scorsa settimana la lettera è stata inviata in Vaticano: a papa Francesco, al cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei e a monsignor Nunzio Galantino, che della Conferenza episcopale italiana è segretario generale. Si attendono reazioni…
Alla vigilia del suo secondo compleanno, Ferraraitalia cambia pelle ma non anima. Rinnoviamo la grafica e l’organizzazione dei contenuti per renderli più aderenti ala realtà di un giornale che in questi due anni è molto cresciuto. Ma i principi-guida restano gli stessi di sempre: vogliamo concorrere attraverso un’informazione libera, uno sguardo attento e non superficiale a fornire chiavi di interpretazione della realtà, affinché ciascuno possa maturare una personale opinione, edotta e consapevole.
Tante sarebbero le cose da dire in questo frangente, che è un po’ come un nuovo inizio. Le riassumo in un’unica espressione, essenziale e sincera: grazie.
Grazie ai lettori che ci hanno sempre dimostrato affetto e offerto concreto sostegno, come nel frangente del crowdfunding in virtù del quale oggi Ferraraitalia ha una casa e una concreta prospettiva di stabile realizzo davanti a sé. Al numero 88 di via Borgo dei Leoni opera il nostro gruppo di lavoro, in uno spazio laboratoriale di coworking, condiviso con gli amici sociologi di Sistemi umani. Per i giovani collaboratori è un’ottima palestra che mi auguro possa prepararli a una gratificante vita professionale: magari proprio al servizio di Ferraraitalia, un giornale che è anche comunità e spazio condiviso – non solo idealmente – e permeabile, fucina di idee e di concrete realizzazioni, nell’ambito editoriale e della comunicazione in senso più ampio.
Vorrei esprimere individualmente anche a ciascuno di loro e a tutti i collaboratori il mio personale ringraziamento, ma l’elenco sarebbe lungo e non potendo citare tutti preferisco non menzionare nessuno. Stringo però ognuno in un forte e sincero abbraccio.
Scoprirete online il nuovo Ferraraitalia, cari lettori, già da dopodomani: mercoledì 18 novembre rappresenta per noi una nuova data da ricordare. Mettiamo nel conto la possibilità di qualche disservizio per le prossime ore, in conseguenza degli interventi tecnici che si renderanno necessari per implementare il nuovo sito. Speriamo che la nuova veste che abbiamo scelto vi piaccia e soddisfi le vostre attese.
Restiamo insieme, restiamo uniti nel segno dei valori che ci contraddistinguono: il rispetto, la solidarietà, la giustizia, la lealtà, la continua ricerca della verità che per noi non sarà mai dogma.
Sono ore drammatiche per tutti. Viviamo una contingenza che rende incerto il futuro.
Ma, lo abbiamo scritto nelle ore immediatamente successive alle stragi di Parigi e lo ribadiamo qui, ora, con forza e convinzione: soprattutto, restiamo umani.
Come non rievocare quel ‘tempio di luce’, dopo l’insuperabile mostra a Palazzo dei Diamanti dedicata a “I de Chirico dei de Chirico” (1970) – con l’insigne maestro presente all’evento – che Franco Farina aveva creato a Palazzo Massari sulla storia della Metafisica per immagini luminose… Giulio Carlo Argan la definì, in un’intervista sull’Espresso, una delle più originali e geniali esposizioni-didattiche di quegli anni e così Calvesi ed Andrea Emiliani la citarono più volte, come straordinario esempio, in molte loro lezioni su la museologia.
Quell’esperienza originale ed unica è diventata nel tempo solo un ricordo e frutto di molte tesi di laurea.
Ora a cento anni dalla loro creazione tornano a Ferrara i rari capolavori metafisici che Giorgio de Chirico dipinse nella città estense tra il 1915 e il 1918. La mostra, organizzata dalla Fondazione Ferrara Arte e dalla Staatsgalerie di Stoccarda in collaborazione con l’Archivio dell’Arte Metafisica e curata da Paolo Baldacci e Gerd Roos celebra questa importante stagione dell’arte italiana e documenta la profonda influenza che queste opere ebbero su Carlo Carrà e Giorgio Morandi, e poco dopo sulle avanguardie europee del dadaismo, del surrealismo e della Nuova oggettività.
Giorgio de Chirico, nato a Volo in Tessaglia dove suo padre si era trasferito per incarichi inerenti alla sua professione di ingegnere, aveva frequentato il Politecnico di Atene, studiandovi ingegneria e belle arti. Deciso a consacrarsi definitivamente alla pittura, nel 1906 de Chirico si reca a Monaco, richiamato dall’opera dei romantici tedeschi, e soprattutto di Arnold Böcklin. Tre anni dopo raggiunge l’Italia, soffermandosi a Milano e a Torino e trasferendosi a Firenze.
Torino, che già aveva eccitato la fantasia di Nietzsche, turbò profondamente anche il giovane artista: essa favoriva in lui il sensibilizzarsi di quel nuovo rapporto con il reale in ragione del suo stesso ordinamento urbanistico, per il quale i Castellamonte avevano predisposto un geometrico disegno di lunghe prospettive di strade e di viali, interrotte dalle ampie e solenni pause delle piazze.
Fra il 1910 e il 1911, a Firenze, dopo aver accumulato tante esperienze insieme visive e spirituali, egli dipinge le prime opere metafisiche, come L’enigma dell’ora, e nel luglio dello stesso anno si reca a Parigi, dove esporrà al Salon d’Automne e agli Indépendants. Fioriscono così, quasi per prodigio, quei dipinti destinati a dischiudere un nuovo corso all’arte moderna: Melanconia e Stanchezza dell’infinito del 1912,
La torre, Composizione metafisica e Piazza d’Italia del 1913 e il 1914.
“Le piazze italiane” di de Chirico sono inaccessibili come un castello kafkiano;
similmente a un labirinto dispongono di cento aperture ma celano la chiave del proprio segreto. Esse dichiarano per prime la condizione dell’uomo diventato straniero al proprio mondo.
A Parigi de Chirico era entrato in relazione d’amicizia con gli esponenti delle avanguardie e, in particolare con Guillaume Apollinaire. Proprio nel 1914 egli dipinge il ritratto del poeta, detto anche Ritratto premonitore in quanto la testa di Apollinaire appare centrata da un proiettile, ciò che purtroppo accadrà di lì a qualche anno sul fronte occidentale. Apollinaire, come del resto Picasso, aveva subito intuito l’importanza della proposta metafisica di de Chirico, tanto che non esitò a definirlo “il più stupefacente pittore del suo tempo”.
Ritornato in Italia allo scoppio della guerra, de Chirico viene mobilitato e inviato a prendere servizio all’ospedale militare di Ferrara dove nel gennaio 1917, incontra Carlo Carrà, inviatovi in degenza per disturbi nervosi.
Il dialogo fra Carrà e de Chirico si svolge intenso, con reciproci contributi d’idee, ma, in particolare, sull’onda dell’entusiasmo per un rinnovato contatto con la grandezza della tradizione italiana, quella che riesce magicamente ad esprimere la “seconda realtà”.
“Natura morta con manichino” di Giorgio Morandi, 1919 (Museo del ‘900, Milano)
“La condition humaine” di René Magritte, 1933
A Ferrara – “la più metafisica delle città d’Italia” come dice de Chirico – prende avvio così la Pittura Metafisica. Ai due artisti si affiancherà anche Giorgio Morandi (1890 – 1964), proveniente dalla vicina Bologna, egli pure interessato analista del muto dialogo delle forme e degli oggetti. Fra la quiete è il fratello di de Chirico, Andrea, in arte Andrea Savinio (1891–1952).
La cultura aggiornata e cosmopolita di Savinio, scrittore e musicista oltre che pittore, sarà di stimolo per tutti: i discorsi di Savinio contemplano infatti le cento significazioni diverse che una cosa può assumere ove sia rappresentata in modo tale da abdicare a quella misura di conoscenza che è costituita dalla sua stessa destinazione strumentale, ma si dilatano fino a investire le possibilità evocative insite nelle associazioni desuete delle immagini e ad inquisire l’arte visionaria del passato.
Il repertorio iconografico dei pittori metafisici intanto si allarga e si arricchisce con l’assunzione del manichino. I manichini potrebbero assumere a monumenti all’uomo senza qualità, condannato dal progresso meccanico di cui generalmente reca i simboli: la squadra, gli strumenti di precisione, la lavagna che attende le formule
che condizioneranno la nostra esistenza. L’artista, sempre più solo, si è rifugiato nella contemplazione delle cose e le ha trovate derubate del loro senso ordinario:
da loro non attende una risposta logica, ma occulta. Cerca di indovinare se stesso in quel mondo,e si trova, appunto, dinanzi a un manichino. Se un ultimo spunto dell’antica saggezza gli rimane, questo è l’ironia: e talora i manichini sono proprio intrisi d’un velo d’ironia. Se poi un ultimo slancio della perduta “humanitas” riaffiora, ecco il manichino tentare un abbraccio con un altro essere di analogo destino, come in Ettore e Andromaca.
Aveva detto Carrà: “Nell’opera d’arte c’è talvolta Iddio, più spesso vi si nasconde il diavolo”. La pittura metafisica sfugge al regno del sublime e a quello del demoniaco per situarsi in un’altra categoria: nel limbo del magico. Un limbo: il territorio ideale che non ha l’apertura per la fuga, né il baratro per la perdizione.
Altrettanto importante è la presenza di Giorgio Morandi, il cui percorso verso la sospensione metafisica e il realismo magico è documentato da un ristretto gruppo di tele realizzate tra il 1916 e il 1919: dalla famosa Natura morta rosa fino a quelle coi busti di manichino e con i vasi sul tavolo rotondo del 1919.
Attraverso poche ma essenziali opere di Filippo de Pisis, il primo e più fedele compagno ferrarese di de Chirico, si può seguire il singolare percorso che sviluppa una visione personale della metafisica, dai primi collage dadaisti fino alle opere degli anni Venti, dense di citazioni dalle opere dell’amico: Natura morta accidentale, 1919-20, I pesci sacri, 1926, Natura morta con gli occhi, 1923.
L’influenza capillare della pittura metafisica sulle avanguardie europee del dopoguerra, avvenuta soprattutto tramite la diffusione della rivista ” Valori plastici” e le mostre itineranti organizzate dal suo editore Mario Broglio – è documentata da una serie importante di opere di Man Ray, Raul Hausmann,
Gorge Grosz, René Magritte, Salvator Dalì e Marx Ernest, che realizzarono straordinari capolavori ispirati ai temi e alle iconografie ferraresi di de Chirico e Carrà.
“De Chirico a Ferrara. Metafisica e avanguardie”, in mostra al palazzo dei Diamanti di Ferrara da oggi al 28 febbraio 2016
“Un sindaco ha il dovere di tutelare il Comune da richieste infondate e negare i contributi non dovuti”. Così Barbara Paron, primo cittadino di Vigarano Mainarda replica alla denuncia della famiglia Zaniboni, [leggi]che lamenta di essere stata discriminata nella gestione dei fondi assegnati per la ricostruzione post-sisma. La loro casa, infatti, classificata ‘E’ all’epoca del terremoto, con conseguente ordinanza di sgombero, è stata recentemente riclassificata come ‘A’: i tecnici comunali, cioè, hanno convertito la certificazione di inagibilità del 2012 in una di abitabilità senza che alcun intervento sia stato fatto. “Nell’emergenza del terremoto le cose si sono fatte in fretta, con l’ausilio di tanti volontari – spiega il sindaco – dando priorità alla sicurezza, nel dubbio si è preferito escludere rischi ed essere restrittivi”.
Da ‘E’ ad ‘A’, cioè da massimo rischio a nessun rischio, è un bel salto però…
Io mi fido dei nostri tecnici comunali. I proprietari hanno tentato di forzare la mano, cercando di convincerli che la casa era inagibile e che andava mantenuta la classe ‘E’. Ma loro assicurano che non ci sono problemi di natura strutturale in quell’abitazione. I periti interpellati dalla famiglia Zaniboni però dicono il contrario, lo sa?
Ne hanno cambiati tanti di tecnici e avvocati in questo periodo. E’ da agosto che li riceviamo e li ascoltiamo. Abbiamo dedicato loro tanto tempo. Sono venuti con i periti, con il legale, abbiamo avuto molti incontri, ma si sono sempre comportati in modo ostile. C’è però un documento particolarmente significativo: è la perizia giurata dell’autorevole architetto Gatti, che fra l’altro è consulente del Tribunale di Perugia: lui non ha dubbi e conferma che la casa è a rischio, che i danni sono strutturali e che la corretta classificazione è la ‘E’. Che ne pensa?
Noi questa perizia non l’abbiamo mai ricevuta. Strano. Sta dicendo però che se gliela presentassero ora sarebbe disponibile a rivedere l’ordinanza?
Ho sempre detto: ‘non un euro di più, non uno di meno di ciò che è dovuto’. Noi siamo sempre stati aperti al dialogo e disponibili alla ricerca di una soluzione, loro hanno preferito percorrere altre vie, si sono rivolti al Tar. La strada ormai è segnata. Quindi non offre alla famiglia Zaniboni alcuna disponibilità a rivedere la questione e considerare un risarcimento danni?
Quel che c’era da fare l’abbiamo fatto. Per noi la pratica è chiusa. La procedura seguirà il suo corso.
Da tre anni vivono in un appartamento in affitto. La loro casa, colpita dal terremoto, è stata dichiarata inagibile con ordinanza comunale e classificata a grado di rischio E, il più alto. Ma un paio di mesi fa il Comune di Vigarano è ritornato sui suoi passi e il sindaco Barbara Paron ha emesso una nuova ordinanza, stavolta di revoca della precedente, collocando l’abitazione in classe A (nessun danno e rischio) e autorizzando la famiglia, composta da padre, madre e due figli, uno dei quali minorenne, a rientrare come se nulla fosse accaduto. In mezzo però ci sono stati tre lunghi anni di abbandono dalla residenza e soprattutto la paura di tornarci a vivere. Perché tutti i tecnici e i periti consultati dalla famiglia Zaniboni certificano che la struttura è gravemente danneggiata e inagibile e una nuova scossa potrebbe essere fatale e porre a repentaglio la vita degli occupanti. Metterla in sicurezza e riparare i danni del sisma ha costi esorbitanti, nell’ordine di centinaia di migliaia di euro.
Più che comprensibile, dunque, lo sconcerto, l’avvilimento e la rabbia dei proprietari. I quali hanno tentato in ogni modo di spiegare le proprie ragioni. Ma in Municipio continuano a sbattere contro una stessa risposta, sempre la stessa, un diniego senza appello. Così si sono rivolti al Tar, al Prefetto, al Difensore civico e a qualificati periti. Fra questi l’architetto Stefano Gatti, che opera anche come consulente del Tribunale di Perugia. Interpellato per la sua riconosciuta autorevolezza, in 72 pagine di perizia giurata conferma i danni strutturali e i conseguenti rischi e legittima la richiesta formulata dai signori Zaniboni, che attendono un contributo per provvedere al ripristino delle condizioni di agibilità. Ciò che afferma coincide sostanzialmente con il contenuto della relazione dei tecnici incaricati dalla protezione civile che hanno compilato la famigerata scheda Aedes confermata anche dai tecnici incaricati dai proprietari. Tutto quadra, insomma; salvo che ora il Comune, a tre anni di distanza, ha cambiato idea ed è tornato sui propri passi ricusando ciò che per primo aveva certificato dopo il terremoto.
“Ricordo quella notte con sgomento – racconta la signora Gloria. Già nel pomeriggio l’orologio a pendolo si era fermato due volte: si tratta di meccanismi molto sensibili e questo strano fatto – mai accaduto prima – mi aveva inquietata, mi era parso presagio di qualcosa la cui drammaticità però certo non potevo immaginare. La notte ho avvertito quel boato spaventoso avvicinarsi e immediatamente sono corsa nella stanza dei miei figli, li ho abbracciati stretti mentre sentivo cadere su di noi la sabbia dalle tavelle del soffitto. Non credevo saremmo sopravvissuti…”.
Le tracce della violenza del sisma sono visibili anche nel giardino che cinge la casa, a ridosso della ciclabile del Burana. Il cappello di un camino in pietra si è staccato dal basamento e ha fatto un giro di novanta gradi su se stesso. Evidenti crepe passanti hanno tagliato la base di numerose colonne che sorreggono il tetto e non c’è stanza del fabbricato che non porti il marchio della violenza subita. Fa impressione vedere l’ abitazione abbandonata a se stessa, due volte vittima di una sorte malevola, muta testimone di una situazione grottesca e paradossale, che la famiglia Zaniboni sta vivendo come un nuovo terremoto esistenziale.
“Proviamo un miscuglio di sconcerto e ribrezzo passando per le strade del nostro paese quando osserviamo che stalle e fienili fatiscenti e inutilizzati prima della scossa ora sono stati totalmente ricostruiti grazie ai contributi per il sisma. Non capiamo sulla base di quale criterio si siano utilizzati i fondi pubblici, visto che a noi viene negata la possibilità di rientrare in sicurezza nella nostra abitazione, compromessa proprio dal terremoto” commentano amaramente i proprietari.
Il nostro immobile oltretutto, ristrutturato fra il 1995 e il 1998, era in perfette condizioni. A questo punto, esasperata, la famiglia Zaniboni rivolge a noi e – ancora una volta – a se stessa tutti gli interrogativi che la tormenta. Perché ben quattro tecnici della protezione civile hanno stimato il danno pericoloso al punto da dichiarare la casa inagibile? Perché tutti i tecnici ai quali l’hanno fatta vedere (ben nove, tra ingegneri e architetti) l’hanno considerata compromessa dal punto di vista strutturale e per questo bisognosa di un indispensabile intervento di messa in sicurezza?”.
A questi rovelli se ne aggiungono altri, relativi alle recenti decisioni assunte dal sindaco che, sconfessando le precedenti ordinanze, ha dichiarato la piena agibilità della casa. “Perché – si domandano ancora i proprietari – se il criterio adottato dai nostri amministratori è di far rientrare i terremotati nelle proprie case ‘in sicurezza’ per noi questa cautela non vale e ci viene beffardamente risposto che il rientro in casa che il Comune ora ci consente ‘è una facoltà e non un obbligo’?”.
L’ impresa 3M Costruzioni – a cui la famiglia Zaniboni si è rivolta per chiudere le tante crepe e provvedere a un ripristino di minima – si è addirittura rifiutata di intervenire, confermando che il fabbricato è compromesso strutturalmente e l’impresario non avrebbe svolto il lavoro per non assumersi responsabilità su quel che potrebbe capitare in futuro…
“Ma tutto questo ai responsabili del Comune evidentemente non interessa – concludono sconsolati -. Tanto se la casa dovesse un giorno crollare a seguito di altre scosse e in conseguenza al fatto di non essere stata messa in sicurezza, peggio per chi ci rimane sotto… Tanto nessuno ha mai colpa di niente”.
La frustrazione, però, non ha generato inerzia. La famiglia Zaniboni sta combattendo con determinazione la partita per vedere riconosciuti i propri diritti. Ha fatto ricorso al Tar, si è rivolta al Prefetto, al Difensore Civico e non è intenzionata a fermarsi.
“Siamo anche pronti a mettere persa la casa, ma vogliamo batterci con tutti gli strumenti e le nostre forze contro chi, con il proprio comportamento, atti e decisioni, sta mettendo a repentaglio la nostra vita. Lo facciamo per i nostri figli, affinché almeno loro possano credere negli ideali e nelle istituzioni. Vogliamo ottenere un ripristino della legalità che in tutta questa vicenda è stata arbitrariamente travisata e negata. Per questo motivo abbiamo deciso di rendere pubblica la nostra storia, magari simile a tante altre. Vogliamo far sentire la nostra voce pensando possa rappresentare anche coloro che per mancanza di coraggio, forza, determinazione oppure per sfiducia non hanno potuto o voluto parlare e lottare”.
Sembra incredibile ma è tutto vero. Provate a chiedere oggi ai giovani chi è Jimi Hendrix, o John Coltrane, oppure i Led Zeppelin: in molti risponderanno facendo spallucce. Accade quindi che “Smells like teen spirit” diventi una geniale trovata di Miley Cyrus e “These boots are made for walking” un quotato brano originale di Jessica Simpson. Il disinteresse nei confronti della musica del Novecento ha comportato inevitabilmente un arretratezza culturale diffusa soprattutto nelle nuove generazioni (ma non solo), le quali si trovano impreparate nel momento in cui decidono di avvicinarsi ad uno strumento.
La locandina con gli eventi della rassegna
Con la rassegna “Guida all’ascolto” è l’Associazione Musicisti di Ferrara a cercare di colmare queste lacune, riproponendo per il tredicesimo anno consecutivo una serie di eventi per meglio approfondire tutti i principali periodi musicali degli ultimi decenni. “Ci piace pensare che la musica è linguaggio – ha spiegato il presidente di Amf Roberto Formignani durante la presentazione della rassegna – certo si può ascoltare tutto senza sapere bene con cosa abbiamo a che fare, ma bisognerebbe sempre cercare di avere più riferimenti culturali possibili per essere sicuri di comprendere meglio ciò che si ascolta. Per chi poi si avvicina nella pratica alla musica, conoscere bene ciò che si suona aiuta indubbiamente a trasmettere meglio al pubblico le sensazioni che si provano durante gli ascolti”.
Undici sono gli appuntamenti (tutti di sabato alle 15:30, a partire dal 14 novembre) proposti dagli organizzatori: lo storico batterista di Vasco Rossi, Daniele Tedeschi, parlerà dell’evoluzione della batteria attraverso un focus su Gene Krupa e Vinnie Colaiuta, mentre Claudio Ceroni racconterà le gesta del grande chitarrista ‘fulmine a due dita’ Django Reinhardt, che Formignani ricorda essere il “protagonista di Sultan of Swing dei Dire Straits, legato anche a Ferrara poiché utilizzava una chitarra del liutaio di Cento Mario Maccaferri”.
Spazio poi all’armonica – strumento spesso in secondo piano ma dalle grande storia – al basso nella Black Music, ai grandi cantanti, alla canzone napoletana raccontata da Sergio Jacuvella e ai tre grandi ‘Kings’ del blues, Albert, B.B. e Freddie. Infine un confronto tra il Progressive italiano e internazionale spiegato da Antonello Giovanelli e Limite Acque Sicure, Morrissey & The Smiths raccontati da Roberto Roversi e l’immancabile ricordo attraverso filmati originali e testimonianze del festival di Woodstock, narrato da Ricky Scandiani.
“Guida all’ascolto” si conferma quindi una panoramica ampia e assolutamente completa sulla storia della musica moderna, gestita da persone sia interne che esterne alla scuola e impreziosita quest’anno, ogni primo e terzo giovedì del mese (a partire da dicembre), dalle session di musica d’insieme guidate e aperte a tutti.
Entusiasta dell’iniziativa e dei grandi numeri raggiunti dalla Scuola di Musica Moderna (già raccolti oltre 560 iscritti, dei quali la maggior parte giovani e giovanissimi) è anche l’assessore Massimo Maisto, il quale ha ricordato che la scuola ferrarese è “la realtà di maggior successo in tutta l’Emilia-Romagna e una delle più apprezzate a livello nazionale. Numeri importanti – ha proseguito – non solo per quanto riguarda le iscrizioni ma anche e soprattutto per l’intento riuscito di avvicinare in questi spazi tantissime persone desiderose di approcciare con la contemporaneità, oltre che per aver dato a tanti giovani, oggi bisognosi di orientarsi, i giusti punti di riferimento”.
Si inizia e si finisce al buio, sul palco di Teatro Off; quell’oscurità tanto cara a Hoffmann e a Friedrich, a Schlegel e a Novalis.
Piccola perla del romanticismo tedesco, “Storia meravigliosa di Peter Schlemihl” di Adalbert von Chamisso è andata in scena a Teatro Off venerdì e sabato nello spettacolo “Una vita senz’ombra” diretto e interpretato da Giulio Costa e già presentato in occasione del Festival della Fiaba di Modena nella seconda edizione, il cui tema era “Ombra e male nella fiaba”.
“Volevamo riportare la fiaba alle origini – racconta Costa – ovvero un racconto orale fantastico che affonda le proprie radici nelle tradizioni più antiche. A questa storia mi sono appassionato molto, mi interessava mettere a fuoco i sentimenti di Peter Schlemihl, il protagonista, nei confronti della società. Mi sono calato nella narrazione, lavorando sul modo in cui, scoprendo il mondo e le vicissitudini negative che affronta, il protagonista sviluppa qualcosa di sé; come riesca a riscattarsi senza ombra. La solitudine a cui è condannato non è vissuta come una colpa, bensì come una via di uscita, al pari di una possibilità di uscire da se stesso e trovare una soluzione alla propria vita. Il mio Peter è un uomo che deve essere privato di tutto per potersi rimettere in gioco”.
Da un punto di vista linguistico, il testo è attualizzato grazie a una proposta verbale che glissa sulle forme letterarie arcaiche, più pure e ostiche, smussato quanto basta per rendere il testo originale più intelligibile e colloquiale.
Lo Schlemihl di Chamisso è l’autore stesso che si trova a fare i conti con l’essere un senza patria, lui letterato poetico e malinconico prima costretto a scappare dalla Francia allo scoppio della rivoluzione, poi a prendere le armi nell’esercito prussiano, infine respinto dal grande amore di gioventù Cérès Duvarnay. Si avvicina in questo al Kafka della “Metamorfosi”, che arriverà a pensare a se stesso come insetto, anche lui apolide nell’animo e dalla tormentata personalità; e a Goethe, suo contemporaneo, che già affronta il tema di vendersi l’anima al diavolo nel suo celebre “Faust”, cronologicamente a metà tra quello breve e fastoso dell’elisabettiano Marlow, e quello filosofico e cerebrale di Thomas Mann.
Eppure non è un uomo senza qualità, questo Peter. Il suo cognome anticipa la sua sorte, che sembra stabilita nel momento stesso in cui incontra il riccone Thomas John che già si è venduto all’offerente in grigio: lo “Shlemiel”, maschera del folklore ebraico, rappresenta il candido, l’ingenuo, lo sfortunato. Chi vive ai margini e non riesce a integrarsi con qualsivoglia classe sociale, tanto da non poter quasi essere considerato un essere di questo mondo – banalmente un uomo, altro legame di kafkiana memoria.
L’ombra non ha vita propria, ma è merce di scambio inconsapevole, srotolata via in un perturbante amalgama di voracità e totale indifferenza; è di una sostanza diversa da quella di Peter Pan che scappa dal suo proprietario, argento vivo che fa di testa propria. Nel testo originale, diventa ennesima prova di accettazione sociale e soprattutto della realizzazione di sé come individuo: in questo piccolo capolavoro, l’autore rielabora il tema della mancanza dell’ombra tipico di fiabe e racconti popolari come quello del Diavolo di Salamanca in cui il demonio tenta di rubare l’anima a un uomo ma riesce a portargli via solo l’ombra. Prendendogliela, lo condanna a essere privato dell’unica cosa che accomuna tutti, e di cui tutti vengono privati solo quando arriva la morte, e solo allora: chi scoppia di salute e chi è morente, chi è ricco e chi non ha un tetto sulla testa, chi è giovane e chi è vecchio. Somiglia a una metafora in cui si mette in guardia che è pericoloso desiderare qualcosa, e ancora di più lo è ottenerlo; l’unica speranza di salvezza reale è offerta da un bene super partes, dalla bellezza che si configura come pace armonica e laboriosa – non è un caso che Schlemihl trovi la serenità solo una volta venuto a conoscenza dell’ospedale costruito grazie al suo denaro.
L’uomo in grigio che si trova sulla strada del protagonista è un Mary Poppins che sciorina meraviglie dalla sua borsa magica piccola ma senza fondo; non per fare qualcosa di buono e utile, ma per comprare anime. Un satanasso che diventa il deus ex machina dell’ingenuo Peter che, disprezzato dagli uomini per la sua povertà e ignorato dalle donne per la sua timidezza, vede nell’offerta dell’uomo misterioso la possibilità di lasciare le sue misere spoglie: la ricchezza perpetua in cambio della sua ombra. Senza presagire che quella che sembra essere la soluzione a tutti i suoi problemi diventa foriera di un problema ben più grosso, un contrappasso a cui non può sfuggire. Una volta ottenuto prestigio economico, Schlemihl viene messo al bando e temuto proprio per quella particolarità che lo rende unico, certo, ma soprattutto diverso; una diversità non comprabile neppure con tutto il denaro del mondo, e a causa della quale non può sposare Mina, la donna che ama. Di nuovo bandito dal mondo della superficie, Schlemihl saprà riscattarsi in due modi: regalando al fedele servitore Bendel la prodigiosa borsa dispensatrice di denaro e problemi, e rifiutando un ennesimo patto che gli avrebbe portato via l’anima.
Ma Costa, nel momento stesso in cui le luci si abbassano e lui esce lentamente di scena, offre al pubblico la sua ombra, che pur lui non vede. L’attore sceglie due espedienti particolari per calarsi nella parte del protagonista: togliendosi le scarpe non appena entrato in scena, ribaltamento del fatto che alla fine della storia Peter entra in possesso degli stivali delle sette leghe; e dando le spalle al pubblico, voltandosi per andarsene per sempre. Incanto e ambiguità si alternano in una lettura che fa i conti con interiorità e pensiero di Schlemihl, ne propone una lettura-monologo intensa, dinamica e a tratti ironica.
Lo spettacolo sarà di nuovo portato in scena venerdì 13 e sabato 14 novembre, sempre alle 21.
Trovi cose strane, profumate e buone, come le noci moscate chiuse dentro il loro guscio, da schiacciare e poi grattugiare nella loro inusuale e speziata morbidezza. Ci sono cioccolate fondenti allo zenzero, altre alla menta e alcune con riso soffiato e quinoa, che sono cereali senza glutine. Poi quadri grandi o piccoli che sulle prime potresti trovarli smaccatamente esagerati e kitsch, con tutta quell’abbondanza di piante, quella vivacità di colori, quella sovraccarica quantità di verde e di piume variopinte; ma sono dipinti della foresta amazzonica del Brasile, dove la natura è davvero così, smodata, come a noi – qui dalla pianura – appare inverosimile possa essere. Prosegui e trovi bambolotti che ti guardano dai loro seggiolini, passeggini e carrozzine di seconda mano, ambientati nel bel mezzo del porticato dei carmelitani della Ferrara medievale. Vai oltre e una griglia filtra le antiche arcate con sfilze di collane e bracciali in legno e perline.
E’ il “Mercatino della fantasia” con le cose in vendita per aiutare le persone della cittadina brasiliana di Parauapebas, che si trova quasi dentro la foresta pluviale dell’Amazzonia. Il mercatino lo organizza, come avviene ormai ogni anno, don Roberto Sibani della parrocchia ferrarese di Pilastri. Ha cominciato a farlo nel 1995, adesso sono vent’anni esatti. Nel frattempo con il ricavato di questa e altre iniziative, là, sono state costruite case per ragazze madri, laboratori e anche una piscina. Gironzoli e attraversi un mondo parallelo tra ciabattine, giacche e gioielli vintage tutto intorno al pozzo del chiostro di San Paolo, in pieno centro città ma così estraniante, esotico, confusamente generoso.
“Mercatino della fantasia”, aperto tutti i giorni ore 8-19 fino al 3 dicembre. Nel Chiostro grande di San Paolo, tra piazzetta Schiatti e corso Porta Reno 60, Ferrara.
Seggiolini e giocattoli nel chiostro pro Brasile (foto Giorgia Mazzotti)
Pantofole nel Chiostro di San Paolo, Ferrara (foto Giorgia Mazzotti)
Tele dipinte dal Brasile a Ferrara (foto Giorgia Mazzotti)
Tele e roba di stoffa a Ferrara (foto Giorgia Mazzotti)
Spezie al Mercatino della fantasia (foto Giorgia Mazzotti)
Cioccolate equo solidali (foto Giorgia Mazzotti)
Spezie e tè nel Chiostro di San Paolo (foto Giorgia Mazzotti)
“Era come se si fosse lacerato un velo. Vidi su quel volto d’avorio l’espressione dell’orgoglio cupo, del potere spietato, del terrore vile – di una disperazione intensa e irreparabile”. Forse un ultimo barlume di coscienza in cui Kurtz rivive la sua esistenza prima di lanciare quel “grido che non era più di un sospiro”: “Che orrore! Che orrore!”
La locandina di Tenebra
E’ Marlow che descrive la fine di Kurtz in “Cuore di tenebra” di Joseph Conrad: è come la fine di un incubo. Ma se non fosse andata così? Se Kurtz fosse riuscito a fuggire, Marlow dietro di lui a inseguirlo? È questo lo spunto da cui sono partiti Natasha Czerok e Davide Della Chiara per ideare “Tenebra”, il loro nuovo lavoro dopo I.n.f.e.r.n.o.: un “dramma pop liberamente ispirato al testo del signor Joseph Conrad” prodotto da Teatro Nucleo in collaborazione con CrowdArts. Natasha e Davide sono in scena insieme a Lorenzo Magnani, che ha anche collaborato alla realizzazione delle musiche originali, in un certo senso le chiavi di lettura di quanto accade durante la performance.
Dopo averlo inseguito a lungo, Marlow ritrova Kurtz nel salotto di un appartamento fra videogiochi, sit-com e junk-food: simboli eletti a rappresentanza del benessere frutto di un nuovo imperialismo senz’anima. Al centro Natasha e Davide portano l’avidità: l’avidità innanzitutto di Kurtz che lo porterà alla pazzia, ma anche l’avidità di Marlow nel conoscere la tenebra di Kurtz.
Il primo studio di “Tenebra” andrà in scena da oggi a sabato 7 novembre al Teatro Julio Cortazar alle ore 21.30 (per maggiori info clicca qui). Prima della prima abbiamo fatto qualche domanda ai registi-protagonisti, Natasha e Davide.
Da dove nasce la scelta di “Cuore di tenebra” di Conrad?
La risposta alla domanda è intrinseca allo spettacolo. Ci siamo chiesti da dove partire per analizzare il “nostro” problema con l’Africa e “Cuore di Tenebra” è la lente di ingrandimento che abbiamo usato. Un testo reazionario e rivoluzionario insieme, se pensiamo che venne pubblicato a episodi su una rivista, il “Blackwood Magazine”, letta dalla borghesia conservatrice inglese di fine Ottocento. La denuncia che traspare dalle parole di Conrad è insidiosa, perché non esprime un giudizio diretto in un’unica direzione, ma pone molti dubbi: il testo, infatti, è stato severamente criticato da alcuni intellettuali africani, Chinua Achebe in primis. Sono però proprio questi dubbi a rendere “Cuore di tenebra” interessante per noi donne e uomini bianchi del terzo millennio. Conrad mette a nudo i nostri vizi e i nostri demoni, primo tra tutti l’avidità.
Già il celeberrimo “Apocalypse Now” era un’attualizzazione di “Cuore di tenebra”, come critica al nuovo imperialismo statunitense, nel vostro “Tenebra” quali legami avete trovato con l’attualità? O meglio quali imperialismi prendete di mira?
Eni è tra le principali compagnie petrolifere presenti in Nigeria e a Ferrara pare ci sia un serio problema con i nigeriani che girano in bicicletta… Assistiamo a una lunga serie di situazioni paradossali, di cui siamo perfettamente coscienti e complici. L’imperialismo che prendiamo di mira è quello che tutti noi ci portiamo dentro, quando ci chiudiamo nei nostri salotti per godere di un ‘benessere-maleavere’ che vediamo sempre più pericolosamente minacciato.
Come avete lavorato sul testo e sui personaggi? C’è qualche aspetto che avete privilegiato?
Per quanto riguarda “Cuore di Tenebra”, il testo in inglese ci sembrava suonasse meglio, per questo abbiamo deciso di muoverci su entrambe le lingue: l’originale inglese e la traduzione italiana. Abbiamo inserito anche alcuni testi più didascalici e di attualità, e una chiave di lettura fornitaci da Kipling con il suo poema “Il fardello dell’uomo bianco”.
Per quanto riguarda i personaggi, ci siamo concentrati sul conflitto tra i due protagonisti del romanzo, Marlow e Kurtz, configurandone i vizi e le banalità a scapito degli aspetti epici ed eroici.
Dopo il lavoro site specific “I.n.f.e.r.n.o.”, una nuova collaborazione alla regia fra te, Natasha, e Davide…
Il laboratorio teatrale “Succede Qui” dal quale è nato “I.n.f.e.r.n.o.” era l’inizio di un percorso che stiamo sviluppando e di cui “Tenebra” è uno step ulteriore. Per esempio, da quel laboratorio ci siamo avvicinati a nuovi allievi e compagni di lavoro, tra cui Lorenzo Magnani che in “Tenebra” cura la parte tecnica e sonora in scena, sue anche le letture dei testi off.
Anche in questo caso lo spettacolo ha il proprio luogo di rappresentazione migliore fuori sale non convenzionali, in spazi ampi e senza palco.
Sì, è vero. Non abbiamo potuto evitare di immaginare il salotto di Kurtz in mezzo a un grande parcheggio, a una piazza o in un distributore di benzina. Detto questo, il teatro si presta a situazioni polimorfe, perché non sfruttarle? In questo senso, ci interessa studiare allestimenti che possano incontrare il più ampio range di pubblico possibile.
Cosa resta di Expo 2015? Ancora poche ore e la macchina meneghina dell’esposizione mondiale chiuderà i battenti al pubblico, lasciando sul terreno numeri, conti, opportunità colte e opportunità perse.
Nella girandola di cifre che si rincorrono in queste ore fa molta eco il numero di biglietti venduti, che dovrebbero aver superato i 20 milioni: parrebbe quindi che il traguardo delle presenze auspicato dagli organizzatori sia stato raggiunto. Invece, in una conferenza stampa dello scorso aprile, Giuseppe Sala – Commissario Unico di Expo e amministratore delegato della società Expo (i cui soci sono ministero dell’Economia e delle Finanze, Regione Lombardia, il Comune, la Provincia e la stessa Camera di Commercio di Milano) aveva chiaramente spiegato che per “un pareggio di bilancio sarebbe necessario vendere 24 milioni di biglietti.”. Forse i conti non tornano ancora, ma le cifre esatte verranno comunicate dalla stessa Expo nelle prossime settimane.
Il bilancio di Expo non sarà dunque chiaro e leggibile già da domani, ma cosa resterà di Expo per l’economia italiana è fin d’ora tema di dibattito. Da una ricerca commissionata dalla Camera di Commercio ed Expo Spa, coordinata nel 2013 da Alberto Dell’Acqua (docente di Finanza aziendale alla Sda Bocconi) con Giacomo Morri ed Enrico Quaini, il giro d’affari che ha ruotato e ruoterà intorno ad Expo è e sarà di circa 23 miliardi di euro.
Per quello che riguarda l’indotto, fra i risultati degli investimenti della società Expo e dei Paesi partecipanti e l’effetto dei flussi turistici, la stima era di circa 14 miliardi, ma questa è ovviamente una cifra ipotetica, che si potrà verificare solo nei prossimi anni, a consuntivo delle ricadute reali. Altro capitolo è il valore della legacy – l’eredità – che secondo lo studio di Dell’Acqua supererebbe di poco i 6 miliardi di euro: in questo campo Expo si andrà a scontrare con la reputazione pre-Expo del Paese. L’effetto delle nuove relazioni industriali e imprenditoriali portate da Expo stesso saranno soggette alle politiche economiche nazionali e locali dei prossimi anni e questo pone oggettivamente dei dubbi. Se le stime venissero confermate, il ‘Pil’ dell’Expo sarebbe di 10 miliardi, spalmati da qui al 2020: a conti fatti aggiungerebbe solo un paio di decimali di punto all’anno alla crescita nazionale. A fronte di un investimento pubblico di 1,3 miliardi di euro e data la relatività dei dati di previsione sui benefici futuri, i dubbi sul successo reale per il sistema Italia portato avanti da alcuni economisti non sembrano del tutto infondati.
Altra voce interessante da valutare la nascita di circa 190.000 posti di lavoro: un dato rilevante, anche se si tratta di una stima che va dal 2012 al 2020, quindi anche gli effetti sull’occupazione saranno stimabili solo sul lungo termine e verranno valorizzati e consolidato solo a fronte di politiche nazionali incisive. La Cgil Lombardia, in una lettera aperta alle istituzioni, ha richiesto di certificare le competenze dei lavoratori di Expo. “Chi ha lavorato in Expo ha diritto a vedersi certificate le competenze acquisite. Molti lavoratori erano giovani alla prima o primissima occupazione o disoccupati in fase di riconversione professionale. Per potersi ricollocare non servono promesse, ma poter spendere il valore della professionalità acquisita”. Secondo Benaglia, segretario lombardo del sindacato, la Regione Lombardia, a fronte di un protocollo con cui tutte le parti sociali avrebbero accettato di mettere in campo più flessibilità per il lavoro in Expo, aveva promesso 20 milioni di euro per sostenere l’ingresso e il riorientamento dei lavoratori. Nel frattempo l’agenzia Openjobmetis ha siglato un accordo sindacale per un progetto di continuità professionale per i circa 400 lavoratori impegnati a Expo, con corsi di riqualificazione e ricollocazione. Qualcosa si muove.
Da lunedì faremo i conti con il dopo-Expo e – bilanci a parte – sbirciare cosa succede quando un’esposizione mondiale come questa finisce è interessante. Ci sono da smontare i padiglioni e bonificare un milione di metri quadri di terreno, innanzitutto. Poi bisognerà capire come riutilizzare tutta l’area espositiva, estesa quanto 140 campi di calcio.
Alcuni Paesi non hanno ancora ben definito cosa accadrà delle loro strutture, una volta smantellate e caricate sui cointeners, mentre altri hanno le idee chiare. Qualche Stato le riporterà a casa per farne centri di ricerca, mall, biblioteche, monumenti, altri invece li hanno destinati ad altri usi, come il Principato di Monaco che trasferirà la propria in Burkina Faso, per diventare la sede della Croce Rossa. O come l’oasi degli Emirati Arabi, che andrà a Masdar City, la città green progettata dall’archistar Norman Foster e le sfere di vetro che ospitano la biodiversità dell’Azerbajan saranno installate in un parco pubblico di Baku.
E noi? Per adesso si sa per certo che Palazzo Italia rimarrà in piedi nel post evento, come spiegato da Diana Bracco, commissario dei contenuti del Padiglione Italia. “La mostra allestita dentro la struttura si dovrebbe prolungare oltre il 31 ottobre”, ha spiegato la Bracco, ma bisogna capire chi dovrebbe gestire la mostra e come si può rendere accessibile in mezzo ai cantieri di smontaggio, che proseguiranno almeno fino al 30 giugno 2016. Probabile una chiusura temporanea e la riapertura a fine lavori. Anche il Padiglione zero – quello che documenta il rapporto uomo-cibo e la filiera alimentare – dovrebbe restare.
Il governo, nel frattempo, per bocca del ministro all’Agricoltura Maurizio Martina, durante la giornata dedicata all’eredità di Milano 2015 ha ufficializzato la sua volontà di entrare nella società Arexpo, proprietaria dei terreni di Expo. Questo perché entrerà a fare parte del progetto di realizzazione di un polo della ricerca e dell’innovazione, che dovrebbe sorgere proprio sul milione di metri quadrati sui quali sorge Expo. A quanto pare, inoltre, la gestione del sito potrebbe restare allo stesso gruppo di lavoro che ha guidato la nave di Expo e curerà la smobilitazione del sito entro il 2016, via ai lavori nel 2017 e conclusione entro il 2020.
La prospettiva più accreditata vede metà dell’intero sito riutilizzato come polo tecnologico-universitario. L’idea di Assolombarda è di creare una Silicon Valley tutta italiana e – a quanto dichiarato da Fabio Benasso, Ad di Accenture e responsabile per Assolombarda di “Milano post-Expo” – lo Stato dovrebbe investire circa un miliardo, i privati i fondi necessari per le loro strutture. Le manifestazioni di interesse raccolte da Arexpo sono però anche altre: l’università Statale, Consob, Coni e Coop.
Cacciatore di nuvole, cacciatore di vento, a volte anche cacciatore di storni. Sì, quegli uccelli simili a passeri, che proprio in queste settimane si muovono tutti insieme come ammassi di puntini scuri e – nel cielo – formano figure cangianti e immense sopra ai nostri occhi. Un cacciatore armato, però, sempre e solo di macchina fotografica, magari pure di teleobiettivo o grandangolo; cartucce mai. Un’attività, la sua, che raggiunge fama, professionalità e gloria soprattutto negli Stati uniti d’America, che consacrano la figura dei “cacciatori di tornado” con romanzi, film e vere e proprie figure professionali dedicate ad avvistamenti meteorologici e alla loro prevenzione. Eppure questa vocazione ritrova ispirazione, spazi e materia prima anche in questa nostra pianura padana, versione ridotta delle grandi pianure americane, ma comunque non avara di occasioni tempestose.
Dino Gasparetto è il quarto da sinistra, durante un Tornado tour (foto Gino De Grandis)
A giocare in casa nel ruolo di cacciatore di tornado è Dino Gasparetto, classe 1979, ingegnere ambientale che in orario di ufficio lavora per la Regione Veneto, poi esce, alza gli occhi al cielo e insegue meccanismi ingovernabili e stupefacenti che si scatenano nell’aria. La sua passione originaria è quella per i fenomeni atmosferici e se le scelte di studio, prima, e di lavoro poi, l’hanno portato ad analizzare rischi meccanici e idrologici, il suo primo amore resta legato ai grandi fenomeni naturali, alla fisica che scatena tempeste e alla chimica che crea mescolanze che possono esplodere così come rimanersene miracolosamente tranquille.
Raccontare l’esperienza di un cacciatore di tornado, però, non è facile. Guardi le foto che scatta ed è un attimo trovarsi a nominare cicloni e uragani. Guai, invece, a usare questa superficialità nel parlare di fenomeni atmosferici tanto precisi e seri attribuendo caratteristiche catastrofiche a quella che, magari, è solo una pioggia più intensa del solito. Gasparetto ti mette in guardia ed entra nel merito e nelle sfumature del maltempo tirando fuori un vocabolario più complicato che, sulle prime, ti spiazza. Ti fa capire che c’è un’eccessiva e sbagliata tendenza a chiamare “tornado” tutto quello che potrebbe vagamente diventarlo e casomai non lo diventerà mai; stessa cosa per le famose “trombe d’aria” con cui si definiscono sferzate ventose poco più violente del normale. Come chiamare, allora, tutto questo? «Alcuni temporali – spiega Gasparetto – possono diventare supercellulari e tra questi tipi di temporali di livello più violento ci può essere una supercella che genera un tornado». Ecco, una “supercella”: è questo il termine corretto che non utilizziamo mai. Qualcosa di più forte di una tempesta, che contiene la forza bruta della tromba d’aria e del tornado, ma che non è detto che la tiri fuori.
Anche commenti e definizioni di intensità del maltempo – che tendiamo a tradurre con aggettivi spaventosi o grandiosi – nel linguaggio dell’esperto, si trasformano in una terminologia di precisione matematica che lascia un po’ interdetto chi non se ne intende. «Come avviene per i terremoti – racconta Dino Gasparetto – i tornado si classificano secondo una scala numerica, la Enhanced Fujita Scale (EF-Scale), che si basa sui danni provocati e sulla velocità raggiunta dal vento. Questa scala va da EF0 ad EF5 e gli effetti al suolo sono esponenziali. Un EF0 può danneggiare tetti o alberi, un EF5 è in grado di radere al suolo una casa».
Una decina di anni fa questo ingegnere con la vocazione per l’avventura segue il corso da “cacciatore di tornado” al Centro meteo dell’Arpa di Teolo, l’Agenzia regionale per la prevenzione e protezione ambientale del Veneto, a una manciata di chilometri da Abano Terme, in provincia di Padova. Dalla teoria alla pratica, nel 2007 si iscrive al suo primo tornado-tour e sbarca a Oklahoma city, Stati uniti del sud. «Durante quel viaggio – racconta – una notte si scatena una supercella a 200 metri di distanza e vediamo sollevarsi in aria uno di quei fienili in metallo che lì vengono usati per tenere gli attrezzi. Una specie di grande igloo che inizia a volare, fortunatamente dalla parte opposta a quella dove eravamo accampati noi». Sempre in quell’occasione – ricorda – «ho visto cadere in mezzo ai campi dei tronchi e degli alberi interi, che svolazzavano come fossero foglie».
Un’esperienza impressa in modo indelebile. E che poi rende intollerabile sentire parlare in maniera sensazionalistica di trombe d’aria ogni qualvolta semplicemente ci sono temporali. «Nella maggior parte dei casi – dice l’esperto –ci sono in effetti dei danni materiali, ma si trattadella conseguenza di violente raffiche lineari (non associate a vortici), che fuoriescono dal fronte avanzante del temporale, cioè dal vento che si forma davanti al fenomeno temporalesco (il “downburst”)».
La critica principale di Gasparetto riguarda l’invenzione di «termini privi di senso come “bomba d’acqua”, l’attribuzione di nomi fantastici alle alte o basse pressioni, titoli sui giornali che richiamano fantomatiche trombe d’aria quando in realtà sono solo raffiche di vento lineari e non vorticose, la confusione tra fenomeni totalmente differenti come uragani e tornado, la distinzione inesistente tra tornado e tromba d’aria». Parole – dice – che rivelano una cultura meteorologica nazionale ancora molto distante da quella statunitense, e che però crea confusione anche in termini di prevenzione. Perché, a forza di creare allarme, poi non si riescono più a fronteggiare in maniera seria i casi davvero allarmanti.
Capito che bisogna essere più cauti quando si scrive e si commentano casi di maltempo, cerchiamo di capire da che parte cominciare. Dov’è che ha visto gli spettacoli naturali più memorabili? «Gli Stati uniti offrono lo spazio perfetto, in particolare il Kansas, con le sue distese infinite di campi, dove i temporali più violenti si scatenano tra maggio e giugno. Ma anche nelle nostre pianure è possibile vederne. Io ho cominciato a interessarmi a queste cose perché ero affascinato dai racconti che facevano i miei nonni di una tromba d’aria terribile a cui avevano assistito. Per la prima volta, poi, a 12 anni, mi sono trovato in mezzo a un fenomeno del genere in una frazione di Rovigo vicinissima a dove abitavo io, era il 1991. Nella zona costiera della provincia di Ferrara, di Rovigo e di Venezia le condizioni potenzialmente si sono, perché dall’Adriatico arriva abbastanza umidità che si può scontrare con le correnti fredde del nord Europa. A quel punto l’elemento decisivo è il vento, che deve essere variabile sia in velocità (“shear”) sia in direzione». E’ quel tipo di vento lì, imprevedibile e bizzoso, che può fare da detonatore al mix esplosivo di umido e freddo.
Anche nel bel mezzo della pianura padana ci si può trovare in situazioni pericolose. Quali precauzioni bisogna prendere? «Bisogna tenere la giusta distanza di sicurezza – dice Gasparetto – che deve essere sempre funzionale all’intensità del fenomeno che si sta inseguendo. Qualche centinaio di metri può bastare per tornado deboli, mentre occorrono almeno un paio di chilometri di distanza per quelli violenti. Superare certi limiti diventa inutile e pericoloso. L’obiettivo di un “cacciatore di tornado” è quello di cristallizzare l’emozione in una foto o in un filmato, quindi deve essere sempre garantita la migliore visibilità, che significa rimanere fuori dalla zona di pioggia e di grandine. E’ la grandine la cosa peggiore, perché può raggiungere dimensioni e forza di proiettili, in grado di disintegrare il parabrezza di un’auto».
E che sensazioni prova, fisicamente, il cacciatore di tornado, quando gli capitano veri tornado o trombe d’aria? «La sensazione più forte che mi resta impressa è sicuramente il ricordo del rumore, un suono cupo e profondo, simile a quello di un treno merci che ti sta per travolgere. Poi c’è la forza del vento in entrata nel temporale (quello che si chiama “inflow”), che è un vento caldo e umido che va ad alimentare la cella temporalesca e che, specie prima della formazione di un tornado, raggiunge notevole intensità. Diverso è il vento in uscita dal temporale (“outflow”), che è freddo e secco, ma altrettanto intenso. Ma quello che un buon cacciatore deve evitare sempre è di trovarsi nell’area investita dal downburst, l’area più fredda. E’ lì che si scatena l’inferno. Non è più spettacolo, ma disastro, una forza naturale che non lascia scampo a cose né a persone».
Bene. Quando il vento soffia e fischia la bufera cercheremo di fare tesoro di queste informazioni. Intanto ci godiamo le nuvole che passano e che Gasparetto cattura, bianche o minacciosamente scure che siano, purché abbastanza contrastanti per occhi abituati al predominante grigiore indistinto della nebbia. E magari alzeremo il naso in su, a goderci il fluire spettacolare degli stormi di storni che in queste settimane passano, diretti verso le zone più calde del sud, sperando di non trovarne troppe tracce su finestre, terrazze o parabrezza della macchina. Niente di meglio, allora, delle immagini del cacciatore di tornado e altre tempeste, da guardare ben riparati.
Storni in questi giorni nel nostro cielo (foto Dino Gasparetto)
Storni (foto Dino Gasparetto)
Nuvole (foto Dino Gasparetto)
Un’intensa nuvola-muro sopra Rovigo fotografata da Dino Gasparetto
Giuseppe entra in una casa di cura per guarire da un leggero malessere. Anna si trova di passaggio in una città straniera. Quello che succede a due persone comuni dopo l’incipit è grottesco, forse strapperebbe un sorriso a Marco Ferreri.
Anna e Giuseppe sono i protagonisti di “Sette piani” e “Non aspettavano altro”, i due racconti di Dino Buzzati letti da Maria Paiato in una delle serate dedicate dall’attrice italiana – premio Duse e due volte Premio Ubu – alla narrativa italiana, dal titolo “Racconti italiani”, nella stagione da poco inaugurata di Teatro Off di Ferrara.
Il fantastico e il surreale, chiavi di lettura adatte per gli universi di Buzzati, si alternano parimenti nella serata. Giuseppe e Anna sono allora due vittime inconsapevoli e sopravvissute (ancora per poco), o forse solo due problematici inetti, non capaci di ribellarsi a un destino ha già deciso per loro?
Nell’interpretazione dell’attrice trovano spazio tanto il kafkiano e forse incolpevole protagonista, quanto il carnefice che lo rinchiude in uno spazio entropico di silenzio, o in uno dilatato da urla e pregiudizi, con la precisione chirurgica di un bisturi, dove l’incapacità di intendersi tra il protagonista e chi gli sta intorno è un problema linguistico e semiotico.
“Amo i testi che ho scelto perché amo i loro autori, che rappresentano una letteratura del ‘900 poco frequentata e che vale la pena riscoprire” racconta l’artista.
Nel primo racconto Giuseppe Corte, un avvocato il cui cognome è svergognato da ciò che subisce, sente niente altro che che un leggero malessere diffuso nel corpo entra in una linda casa di cura dai sette piani in cui la parola d’ordine è gerarchia: dall’alto verso il basso, la salute dei pazienti va lentamente scemando dal settimo al primo piano.
Barbablù è dietro l’angolo, non ci si può sottrarre alle regole del bizzarro ospedale; e così
Tra il processo del signor K e la metamorfosi di Gregor Samsa si avvia la fine dell’avvocato che di piano in piano trova la sua fine. Ogni volta per un motivo diverso, per una scusa diversa, Giuseppe passa di giorno in giorno dal piano più alto, un panottico ombelico del mondo con vista sulle fronde verdi e opulente, a quelli intermedi (compreso il temutissimo quarto piano di quelli che non sono né sani né gravissimi, una sorta del dantesco “cammin di nostra vita”), in mano a medici negligenti e lassisti, mentre la sua salute va inspiegabilmente peggiorando e da un semplice eczema arriva presto all’ora dell’addio, steso su di un letto dal quale si vede il mondo fuori diventare più scuro, le chiome degli alberi nascoste per sempre. Come avvolto nel suo sudario, il malato non più immaginario spira vaneggiando nel buio, in un letto al primo piano, in cui si trova per una serie di sfortunate coincidenze; oramai tagliato il flebile cordone che separava lui, “quasi sano”, da tutti gli altri, “malati”.
Immanente discesa lenta e inesorabile, lontana dal buffo mistero di una discesa verso l’ignoto, l’ospedale accoglie un progressivo mutare delle stagioni dell’uomo fino al capitolo finale, dove il letto diventa simbolo della bara. “Questo racconto è una metafora della vita: l’ultimo passaggio del testo racconta delle finestre che si chiudono ermeticamente, fino all’ultima: la fine è giunta”.
Il secondo racconto vede la viaggiatrice Anna che si ritrova con l’amico Antonio in una città straniera. Chiede un bagno, ma stranamente non lo trova, nessuno sembra disposto a cederglielo.
Il suo bisogno negato e il suo legittimo tentativo di essere ascoltata le valgono un pubblico linciaggio, morale e fisico. Quella folla che la osserva prima stranita esprimersi in italiano standard a fronte del dialetto popolano si rivela poi inferocita arrivando al linciaggio, sotto l’incredulità immobile del suo compagno di viaggio. Straniera in terra consolidata, sfida le regole bagnando un piede nella fontana riservata ai bambini mentre la canicola estiva non impedisce agli abitanti di restarne religiosamente ai bordi, bagnandosi solo le mani. La straniera sfida non tacitamente le regole più e meno tacite della comunità e mette il piede in acqua; alla richiesta di toglierlo, non cede e continua imperterrita. La situazione però precipita all’improvviso: è presa di peso e punita per quella sua limpida presa di posto di sé contro il mondo, che si rivela popolato di mostri ben nascosti sotto spoglie di persone per bene, persino tranquille.
La folla inferocita è la stessa delle esecuzioni seicentesche, dei linciaggi dei neri americani negli anni Trenta negli Stati Uniti; ma è anche quella da cui metteva in guardia Elias Canetti del capolavoro sociologico “Massa e potere”. La timida richiesta iniziale di Anna è seguita dalle urla e si chiude con un nuovo silenzio, questa volta sintomo inequivocabile di morte. Le braci sono ormai spente, si vede solo levarsi un fil di fumo che non è sinonimo di speranza ma del resto di un pasto feroce. “In questo racconto c’è tutta la ferocia dei totalitarismi che hanno devastato il secolo scorso, in cui l’essere stranieri decretava una vera e propria esclusione dal gruppo, dalla società”.
Le letture del ciclo “Racconti italiani” di Maria Paiato proseguiranno domani sera a Teatro Off con testi di Tommaso Landolfi e il 30 ottobre con testi di Ennio Flaiano.
Mentre Expo 2015 a Milano si avvia a salutare gli ospiti che ne hanno visitato i padiglioni da tutto il mondo, si configurano già i luoghi più amati.
Ai primi posti quello dedicato al Kazakistan, la cui capitale Astana ospiterà la prossima esposizione universale programmata per il 2017, dedicata all’energia del futuro. Ore di attesa per vedere mele, tulipani e storioni, prodotti-bandiera del Paese che ha ottenuto l’indipendenza dalla ex Unione Sovietica nel 1991, ospite di uno dei più grandi giacimenti petroliferi al mondo.
Diversi Paesi hanno già garantito la propria presenza all’evento, che focalizzerà l’attenzione sul futuro sostenibile ricordando l’inevitabile transizione energetica verso un futuro sostenibile, mentre il commissario generale Anuarbek Mussin attende la risposta dell’Italia, fiducioso che ci sarà, in virtù dei rapporti che la legano al Kazakistan.
Ma anche per motivi meno economici e più sottili.
Motivi che bene evidenzia l’etnologo e regista Andrea Segre nel suo ultimo documentario, “I sogni del mare salato”, presentato nell’ambito Documentari dell’ultima edizione del Festival di Internazionale a Ferrara. Il film, appartenente al progetto Fuorirotta (www.fuorirotta.org), che accoglie diari, reportage, documentari e fotografie, raccontando i migranti e suggerendo nuove mete di viaggio e di scambio con gli altri.
Il film “non ha pretese di inchiesta”, racconta il regista Andrea Segre; bensì ha la foggia di “un viaggio in una umanità che sta vivendo ciò che in Italia si è vissuto cinquanta anni fa.
Quello che si può scoprire facendo domande ai propri genitori, o ai propri nonni, sempre tutelando le persone che vivono la realtà che visito – e che non potranno più farsi una volta scomparse le memorie storiche.”
Tessendo in maniera tecnica una analogia di fondo che rende difficile essere positivi. Perché ora, in Italia, la festa è finita; sembra i soldi siano fuggiti, così come le promesse e le speranze che accompagnavano la generazione nata nel secondo Dopoguerra. E non è un caso se al racconto di viaggio di oggi di Segre in Kazakistan si alternano fotografie d’epoca tratte dall’archivio personale del regista e da quello storico dell’Eni, dove è ritratto il boom degli anni Sessanta, il miracolo economico, finalmente la ripresa dopo stenti e difficoltà finita la guerra.
Ragazze in dolcevita e cappotto a quadri che scherzano e ridono, ragazzi in comitiva si abbracciano pensando al futuro dietro l’angolo, con la certezza di essersi lasciati alle spalle un passato ingombrante e disseminato di pezzi da ricomporre. Passato che in Kazakistan è ancora così forte e accentuato dala “jurta” in una campo desolato, dove per sette giorni si saluta mangiando, bevendo e cantando un figlio delle steppe che se ne è andato. Pescatori kazaki di Jambai nel fotogramma successivo a quello in cui compaiono pescatori di Chioggia, quei laghi salati che custodiscono i sogni di una intera popolazione.
Paese in ascesa, dove la crescita economica procede spedita, il Kazakistan di oggi somiglia infatti molto all’Italia degli anni Sessanta. Una gallina le cui uova d’oro si chiamano petrolio e gas (il cui primo importatore è attualmente proprio l’Italia), in cui non c’è più posto per essere poveri, mentre si spera di diventare sempre più ricchi. Il successo di chi se ne va verso le città per lavorare in multinazionali, di chi guadagna quattro volte la pensione dei propri genitori cozza contro la realtà vista da chi per scelta o necessità – pastori, contadini, bambini – è rimasto nelle immense steppe che ruotano immobili intorno al Mar Caspio, l’occhio di acqua salata che ricorre nel titolo.
Lo scetticismo degli anziani è latente, opposta alla realizzazione in itinere dei più giovani; non bastano gli stipendi alti dell’oro nero per spazzare via un senso di malinconia che pervade chi è rimasto ad abitare città fantasma, oramai dominate da trivelle instancabili, custodi giganteschi di un Paese i cui abitanti ritornano solo per costruire nuove sentinelle di ferro e acciaio; dove se uno torna è solo per costruire altri fatiscenti palazzi del petrolio che svettano sulla steppa desolata, e non per restare: questo significherebbe ammettere che il sogno ha delle falle aperte, che l’acqua comincia a sgorgare da tubi lasciati aperti per errore. E non si tratterebbe dell’acqua salata del sogno.
Ciò che domina è il miracolo economico, la paura di essere esclusi e il desiderio di farne parte.
I primi operai che lavorano per l’energia dei Paesi satellite dell’Est; l’entusiasmo di chi apre una nuova attività, caschi da lavoro e tute in bianco e nero di fianco a impiegati usciti da master londinesi che vanno all’ufficio in taxi con autista, tutto scorre parallelo al Kazakistan di oggi.
Dove per ogni ristorante inaugurato c’è una apprendista (non più giovane) che lavora in un caffè.
E c’è il desiderio, un giorno non lontano, di aprire un ristorante, magari alla moda occidentale – magari lasciandoci accanto il “kuyrdak”, piatto tradizionale del posto. Ma ancora c’è da correre, mentre la giornata termina facendo i conti a matita su un pezzo di carta.
Corre veloce il progresso, somiglia a quello che un passo dopo l’altro ci porta a rimpiazzare, l’iPhone 6 al posto del 5, sembra raccontare tra le righe il documentario di Segre.
L’importante sembra essere non avere tempo per ricordare o provare nostalgia, di rallentare e chiedersi dove si sta andando, e in che modo. E pensare che Godot lo hanno aspettato invano non aiuta. Spesso però aiuta ricordare che il viaggio è tanto importante quanto l’arrivo, nonostante spesso tutto quello che si trova sia solo una porta a vetri appannati con la scritta “Chiuso”.
E’ un avvenimento unico, storico, un’apertura sperata e attesa. Finalmente. Lo avevamo auspicato qualche tempo fa (leggi) e in questi giorni la Corte Penale Internazionale (Cpi) dell’Aia pare andare nella giusta direzione. Davanti a essa, infatti, è apparso per la prima volta, lo scorso 30 settembre, Ahmad Al Faqi Al Mahdi, accusato di aver commesso crimini di guerra nella città di Timbuktu, nel nord del Mali, attaccando e distruggendo monumenti storici ed edifici religiosi, tra il 30 giugno e il 10 luglio 2012. Per la prima volta nella storia, la Corte (tribunale internazionale, istituto nel 1998, competente a giudicare individui che abbiano commesso gravi crimini di rilevanza internazionale come genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra) persegue un imputato per il crimine di guerra di distruzione di monumenti storici ed edifici religiosi. Era ora. Un buon segno, un buon inizio, un passo necessario e urgente verso una tutela di beni dimenticati. Ma vediamo i fatti.
Da gennaio 2012, il Mali (paese povero ma bellissimo e culturalmente ricco) è attraversato e “scombussolato” da un conflitto armato non-internazionale di difficile comprensione. La città di Timbuktu, che, nell’immaginario collettivo, evoca tempi lontani, luoghi remoti e favole misteriose, è controllata da vari gruppi islamici terroristici legati ad “Al Qaeda in the Islamic Maghreb” (Aqim). L’imputato di oggi, Al Faqi (soprannominato Abou Tourab), nato ad Agoune, a un centinaio di chilometri da Timbuktu), circa trent’anni fa, era membro di uno di questi gruppi (“Ansar Dine”, movimento tuareg associato a Aqim) e capo della brigata “Hesbah” (“brigata dei costumi”), coinvolta nella distruzione di 9 mausolei costruiti tra il XIII e il XVII secolo, di una moschea e di oltre 4.000 manoscritti originali. Siti Unesco, fra l’altro.
Chi non ha visitato il Mali difficilmente può immaginare il tesoro che esso racchiude, per la storia dell’uomo e della civiltà. Quando, nel 2009, ho varcato la soglia di Timbuktu, ho percepito la forza di quella storia, visitando i luoghi che custodivano centinaia di antichi manoscritti. Era come entrare in una caverna di una favola, quella che contiene il tesoro che si cerca da lungo tempo. Il solo pensiero di una loro possibile violazione e distruzione fa male, mani nemiche che osano toccare e intaccare le tradizioni e le storie passati dei popoli. Macchiarle di oblio, sfregio, terrore e distruzione. Per cercare di punire tale vergogna, la Camera Preliminare della Cpi ha quindi fissato la data di inizio dell’udienza per la conferma delle accuse (18 gennaio 2016) a carico di Al Faqi, nell’ambito della quale si deciderà se le prove presentate dal Procuratore integrino i presupposti ragionevoli al fine del riconoscimento della sussistenza della responsabilità penale, individuale o in concorso, in capo all’indagato, per aver commesso il crimine di guerra di distruzione di monumenti storici ed edifici religiosi. In caso positivo, avrà inizio il processo vero e proprio. Tale caso è il primo (The Prosecutor v. Ahmed Al Faqi Al Mahdi, ICC-01/12-01/15) riguardante il conflitto in corso in Mali attualmente in esame presso la CPI. Il Governo del Mali ha riferito la situazione alla Corte il 13 luglio 2012 (con la lettera del Ministero della Giustizia n.0076/MJ-SG, leggi qua). Il 16 gennaio 2013, il Procuratore aveva aperto un’indagine inerente i presunti crimini di rilevanza internazionale commessi sul territorio maliano a partire dal gennaio 2012. Il mandato di arresto di Al Faqi era stato spiccato il 18 settembre 2015 e il 26 settembre le autorità del Niger lo avevano consegnato al Centro di detenzione della Corte nei Paesi Bassi. I monumenti distrutti sono: i mausolei Sidi Mahmoud Ben Omar Mohamed Aquit, Sheikh Mohamed Mahmoud Al Arawani, Sheikh Sidi Mokhtar Ben Sidi Muhammad Ben Sheikh Alkabir, Alpha Moya, Sheikh Sidi Ahmed Ben Amar Arragadi, Sheikh Muhammad El Micky, Cheick Abdoul Kassim Attouaty, Ahamed Fulane, Bahaber Babadié, e la moschea Sidi Yahia.
Aspettiamo gennaio 2016, e vedremo. Seguiremo l’affaire. Auspicando che sia solo l’inizio per la punizione di tali crimini. Contro un integralismo inaccettabile.
Il blocco 21 di Auschwitz – quello italiano, chiuso dal 2011 – “riaprirà, ci mancherebbe altro…”, assicura il ministro alla Cultura Dario Franceschini, “ma i tempi – precisa Daniele Ravenna, direttore generale del Mibac – non saranno brevi”. La vicenda è surreale e costituisce uno sfregio alla memoria dei 7.500 ebrei italiani deportati. Ferraraitalia l’ha raccontata già nel gennaio scorso [leggi qua].
In sintesi, è accaduto questo: nel 2007 la direzione del museo di Auschwitz ha approvato nuove linee guide per le opere esposte, prevedendo allestimenti di taglio pedagogico-illustrativo. Dopo quattro anni di infruttuosi contenziosi con i vari governi italiani che si sono succeduti alla guida del Paese, il padiglione è stato chiuso d’autorità dai responsabili museali perché ‘il Memoriale’ (questo il titolo dell’installazione artistica multimediale, proprietà dell’Associazione nazionale ex deportati) “non corrispondeva più agli standard richiesti”.
“L’opera, collocata nel blocco 21 alla fine degli anni Settanta, in effetti è molto connotata culturalmente e storicamente – afferma Ravenna – è fatiscente e in ogni caso non è più ritenuta adeguata dai responsabili del museo, perciò va trasferita. Il padiglione è ancora chiuso perché si deve provvedere alla rimozione”.
Sono però già trascorsi otto anni da quando il problema è stato posto, quattro da quando è stato chiuso il blocco 21. E già da tempo la Regione Toscana si è offerta di dare ospitalità all’opera sfrattata, tant’è che a fine gennaio scorso era stata annunciata la sua “imminente collocazione” in uno spazio espositivo dell’Ex3, centro d’arte contemporanea.
Evidentemente c’è stato il solito intoppo, perché il trasferimento non è stato fatto. A confermarlo è ancora Ravenna: “Individuata la nuova collocazione, si sono dovute trovare le coperture economiche, reperite nei fondi del ministero della Cultura. Ora il ‘Memoriale’ verrà smontato, trasportato e rimontato a Firenze a cura dell’Istituto centrale dei beni culturali e dell’Opificio delle pietre dure”.
Però ancora nulla si sa del futuro allestimento al blocco 21. “Verrà costituito un comitato scientifico che se ne occuperà”. Ma il fatto che non siano stati designati neppure i componenti della commissione fa supporre che la questione non si risolverà in fretta. “I tempi prevedibilmente non saranno brevissimi – ammette Ravenna – di buono però c’è che i fondi già ci sono perché la Presidenza del Consiglio ha già da tempo riservato una somma importante al riparo dalle varie manovre finanziarie”.
Ma se nessuno decide di accelerare, la vergogna del padiglione italiano chiuso si protrarrà ancora per chissà quanto.
Dipende. Si è speso l’aggettivo “storico” per definire l’accordo siglato questa mattina a Ferrara alla presenza dei ministri Franceschini, Giannini, Pinotti e del sottosegretario all’Interno Bocci. Ma il buon esito non è proprio scontato. Oggetto: l’attuazione di un programma di valorizzazione di tredici “aree e immobili pubblici di eccellenza” della nostra città. Alla base c’è un’intesa ampia e trasversale fra apparati dello Stato. Si tratta di edifici e luoghi storici cittadini, le cui traversie sono ben note e si trascinano da decenni. Proprio per questo la speranza si accompagna alla cautela. I presupposti ci sono, ma la prudenza è d’obbligo. Il fatto che si siano mossi alcuni pesi massimi delle istituzioni, ciascuno ribadendo la convinzione che questo sperimentato a Ferrara è “un modello”, sembra un positivo auspicio. Ma l’esito non è scontato. L’esperienza insegna.
Oltre al Comune di Ferrara sono coinvolti nei progetti di valorizzazione l’Agenzia del Demanio, i ministeri dell’Interno, della Difesa, dell’Istruzione, dei Beni culturali, le Agenzie del Demanio e delle Entrate, la Regione Emilia Romagna. I commensali sono qualificai. Gli ingredienti per ridisegnare il volto della città ci sono tutti, ma se il risultato sarà dolce o amaro dipenderà dalla reale dedizione di chi li dovrà combinarli in un appetitoso menu. E i cuochi non sono ministri, sindaci e presidenti che oggi affollavano la Pinacoteca di palazzo dei Diamanti per la firma dell’atteso accordo: come sempre siamo nelle mani dei funzionari, alcuni solerti, altri pigri. Vedremo.
Di cosa stiamo parlando precisamente? Di immobili e aree che passano finalmente “nella disponibilità dell’amministrazione locale”; una formula che significa sostanzialmente una cosa: edifici e aree in disuso saranno recuperati, altri occupati saranno liberati e restituiti alla pubblica fruizione.
Quattro sono dislocati lungo il perimetro delle mura sud: si tratta di una porzione dell’ex Mof (destinato a verde e residenze), dell’ex carcere di via Piangipane nel quale già si sta realizzando il museo dell’Ebraismo italiano e della Shoah, del teatro Verdi (“sarà una piazza coperta”, spiega il vicesindaco Maisto), i locali della dismessa caserma Caneva ricavata all’interno dell’ex convento di Sant’Antonio in Polesine.
Altri due si trovano sull’asse centrale di congiunzione fra la città medievale e quella rinascimentale, lungo la direttrice Cavour-Giovecca: l’ex casa del Fascio (poi Genio civile) e la cella di Torquato Tasso (sarà aperta e inserita nei percorsi di visita turistici) con il contiguo auditorium in previsione della sua riapertura al pubblico; a margine di questo comparto è l’area della stazione ferroviaria e dei grattacieli, anch’essa ricompresa nell’accordo.
Tre si affacciano su corso Ercole d’Este (secondo lord Byron “la strada più bella d’Europa”): parliamo di palazzo Furiani (attuale sede della Polstrada), della caserma Bevilacqua (dove si trova l’ufficio passaporti della Questura, di fronte a palazzo Prosperi-Sacrati, nel quadrivio rossettiano) e del poligono di tiro del ministero della Difesa che una volta sgombrato libererà un suggestivo corridoio verde per l’accesso al centro storico dalla porta degli Angeli, parallelo per un tratto a corso Ercole d’Este.
Poi ci sono l’ex convento di San Benedetto (per il cui recupero c’è già un adeguato stanziamento economico garantito dall’Agenzia delle Entrate), l’aeroporto (“sarà il parco sud della città”, precisa l’assessore Fusari) e l’area di Pratolungo, in prossimità di Cona.
Insomma, la razione è ottima e abbondante. Ce n’è abbastanza per ripensare la città, ridefinirne gli usi e le prospettive. Servono per questo idee e denaro. Date per scontate le prime (anche se in verità la ‘visione’ in passato talvolta è parsa appannata), i soldi – si dice solitamente – “non sono un problema”, ma in genere lo dicono quelli che li hanno. Nel caso specifico, alcuni interventi sono già finanziati, altri invece necessiteranno dell’elaborazione di un piano di investimenti.
Il sindaco Tiziano Tagliani ha parlato di “emozione e grande soddisfazione” sostenendo che si dischiude un orizzonte nuovo per la città. E’ uno sforzo paziente che oggi giunge a risultati concreti – ha aggiunto -. Chiudiamo una fase storica caratterizzata da incertezze e conseguenti difficoltà di gestazione dei progetti degli enti locali. Accordo di oggi è un punto di arrivo su obiettivi condivisi: Pinotti, Giannini Franceschini e Bocci rappresento il governo, Bonaccini testimonia il pieno coinvolgimento della Regione. Attiviamo un volano di dinamismo per la città e la sua economia, che implica lavoro, sviluppo e valorizzazione del patrimonio. Calano sulla città i pezzi di un immenso puzzle che ora prende forma“.
“E’ un accordo che consente di guardare al futuro – ha dichiarato l’assessore all’Urbanistica Roberta Fusari – porta nuova linfa ai cantieri (quelli in cui si elaborano le strategia e quelli in cui materialmente si realizzano le opere) e consente di orientare il riassetto urbanistico“.
Dario Franceschini, ricordando il “legame personale con tutti i luoghi oggetto di questa valorizzazione” ha segnalato come “di solito quando c’è un progetto che coinvolge immobili dello Stato comincia un andirivieni con i ministeri che mette a rischio il sistema nervoso degli amministratori locali. Per giungere a questo importante risultato è stato prezioso il lavoro svolto dal ferrarese Daniele Ravenna, figlio di Paolo (alla citazione scatta l’applauso dei presenti a sottolineare l’affetto e la gratitudine per il rimpianto presidente di Italia nostra, ndr) che lavora con me al ministero. L’accordo riguarda luoghi significativi, come il monastero di Sant’Antonio in Polesine e la cella del Tasso ove si fece rinchiudere lord Byron alla ricerca dell’ispirazione del poeta.
Con l’acqusizione delle caserme Furiani e Bevilacqua e del poligono di tiro si prospetta la possibilità di definire il percorso del borgo rinascimentale, a completamente dell’itinerario storico della città, al quale il Meis aggiungerà una perla preziosa. Se il modello qui varato funzionerà, lo esporteremo dicendo orgogliosamente è stato sperimentato a Ferrara”.
“E’ un modello che stiamo cercando di applicare in ogni città del Paese – conferma Roberto Reggi direttore dell’Agenzia del demanio. Qui è stato compiuto un passo per coordinare e integrare gli interventi di numerosi soggetti. Esiste un solo patrimonio pubblico del Paese – ha sottolineato – che va a valorizzato in maniera adeguata al di là di chi sono i soggetti proprietari. C’è un baratto anche di natura tecnica e amministrativa perché oltre ai beni si scambiano anche conoscenze e competenze tecniche. Impegno deve essere di tutti nella piena consapevolezza degli interessi del Paese.
Questa operazione porterà lo Stato a risparmiare risorse importanti in locazioni passive perché verrà razionalizzato l’utilizzo degli spazi. A Ferrara è prevista minore spesa per affitti per un milione e duecentomila euro. Sulla base di quanto realizzato qua potremo rilanciare questo modello su scala nazionale”.
Rossella Orlandi direttrice dell’Agenzia delle entrate, parla nello specifico del complesso di San Benedetto, “che sarà recuperato grazie a interventi e a uno specifico impegno finanziario dell’Agenzia. Firmiamo con convinzione questo accordo, è un esempio tipico di tutela dell’eccellenza, una base solida su cui costruire il futuro del Paese”.
Stefano Bonaccini, presidente della Regione Emilia Romagna, ricorda come “già nel 2008 venne sottoscritto un programma d’area per il recupero di aree storiche. Oggi si incrementa quel piano. Questa è la dimostrazione che c’è un’Italia che funzione. Qui, pezzi dello Stato che si mettono insieme per valorizzare il patrimonio comune attraverso un progetto di riqualificazione e rigenerazione urbana. Si mettono in condizione il territorio e la comunità di recuperare valore grazie alla rivitalizzazione del patrimonio culturale e artistico. In prospettiva deve tornare in campo l promozione del turismo all’estero come ‘prodotto-Italia’ nella sua unitarietà. Ogni regione e ogni località ne avrà di riflesso un beneficio.
Questo è davvero un esempio – ha concluso – un modello che vorrei fosse replicato in tutte le città dell’Emilia Romagna”.
Anche per Giampiero Bocci, sottosegretario del ministero dell’Interno, “il patrimonio pubblico rappresenta una grande opportunità per il Paese: sottoscriviamo gli impegni consapevoli che si opera per ottimizzare le risorse dello Stato superando l’attuale dispersione. E’ il buon senso prima ancora dell ‘spending review’ a suggerire questi comportamenti e queste scelte. Per noi non vedo ricadute negative, perché anche la sicurezza si può gestire meglio investendo sugli uomini e risparmiando sulle sedi”.
“Torno con molto piacere in questa città e lo sottolineo – ha dichiarato il ministro Stefania Giannini, oggetto di contestazioni nella sua recente visita a Ferrara – Presentiamo un modello che vorremmo esportare. Ripartire dalla valorizzazione della città come sede di rilancio del Paese, integrando patrimonio tangibile e intangibile. L’Auditorium di Ferrara da 40 anni attende il recupero. E’ un dovere rendere fruibili questi frammenti di storia e di bellezza. Qui sta la capacità di risposta concreta della buona politica”.
Infine, il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, indica il “tema della valorizzazione dei beni eccellenti del patrimonio pubblico di una città” addirittura come un “dovere patriottico. Sono beni – spiega – che hanno fatto la storia e sono nel cuore”. Nello specifico riconosce: “Non ha più senso che tratteniamo in seno alla Difesa luoghi come il poligono di tiro, in pieno centro storico, la cui indisponibilità preclude la fruizione di percorsi e itinerari funzionali al totale godimento della città. Luoghi così vanno liberati nell’interesse di tutti. Abbiamo già rimesso in movimento 500 immobili da quando siamo in carica. Sosteniamo le necessità della difesa quando sono reali, ma i beni e le strutture utili allo sviluppo del Paese vanno restituiti e resi disponibili”.
Per concludere, un’indicazione di marcia: “Bisogna alzare lo sguardo e dare orizzonti di riferimento – dichiara convinta -. Sottoscrivo l’esortazione del vostro sindaco Tagliani”.
E’ meglio organizzare workshop o laboratori? Mandare un tweet o un cinguettio? Parlare di argomenti popolari o mainstream?
Il dilemma tra la voglia di usare termini in voga e quella di essere chiari può mettere in difficoltà. Se uno vuole vedersi un film, la scelta è abbastanza ovvia e difficilmente preferirebbe dedicarsi alla visione di una pellicola, ma nemmeno di un lungometraggio. Anche per chi ‘twitta’ non è forse il caso di cominciare a cinguettare. Magari – però – della musica mainstream potremmo fare a meno, e ascoltare semplicemente gruppi o cantanti più di tendenza.
Un angolo dedicato a questa riflessione sul linguaggio e sull’uso o l’abuso di parole in inglese – la lingua straniera dominante – lo riserva il festival Internazionale, a Ferrara nel weekend appena passato, in un incontro organizzato in biblioteca Ariostea. Il titolo è già una bella cosa: “In parole semplici”. Due termini brevi, chiari, in italiano. La scheda informativa precisa poi che l’iniziativa va ad affrontare “Anglicismi, calchi e neologismi. Come tradurre restando dalla parte del lettore”.
A parlare di questo tre esperte come la traduttrice Bruna Tortorella; Licia Corbolante, blogger che per Microsoft si è occupata di terminologia; Serena Di Benedetto, che traduce documenti per la Commissione Europea. Con in più il contributo inaspettato di Tullio De Mauro – il linguista italiano forse più noto, nonché socio dell’Accademia della crusca, l’istituzione che da quattro secoli mette insieme gli studiosi della lingua italiana che fanno un po’ da guardiani per mantenere un italiano pulito e dignitoso.
Tullio De Mauro, docente di linguistica e accademico della crusca
Chiarezza per chiarezza, De Mauro interviene per fare notare come già il termine “anglicismi” sia di per sé un eccessivo omaggio alla lingua inglese: “In italiano – dice il linguista, presente tra il pubblico della biblioteca comunale – si dice anglismi, come del resto francesismi o italianismi. Anglicismo è la trasposizione letterale del termine inglese ‘anglicism’”. Ma la gente – si prova a obiettare – ormai usa anglicismo, e non anglismo… “La gente – risponde lui deciso – se proprio deve esprimere questo concetto, dice semplicemente che sono parole inglesi”. Accidenti, ecco quanto siamo sottomessi a questa tendenza a piegare l’italiano verso la predominanza inglese.
La traduttrice Bruna Tortorella (foto da Internazionale)
Ma di chi è la colpa di questa dipendenza anglofila? “Una delle cause – spiega Licia Corbolante – può essere la pigrizia, perché si trova un termine già confezionato altrove e si evita di fare la fatica di pensare bene cosa significhi per tirarlo fuori dal mondo da cui proviene e calarlo nel nostro linguaggio. Nella maggior parte dei casi la traduzione è possibilissima ed efficace. Come nel caso di coffee-break. Basta dire pausa-caffè!”. La traduttrice Ue, Serena Di Benedetto, spezza una lancia a favore della capacità di sintesi dell’inglese, pronto a esprimere un’idea in poche e brevi parole, che magari indicano qualcosa di tecnologico e per il quale non c’è un termine equivalente. “E’ il caso di weekend per indicare il fine settimana o dello scanner, che sennò bisognerebbe chiamarlo apparecchio-che-si-usa-per-riprodurre-documenti-o-immagini in formato digitale. Oppure del catering per la ristorazione portata in un posto da una cucina esterna o del badge che si timbra per entrare in ufficio”. Quello – suggerisce però qualcuno in sala – è poi il cartellino. “Sì – ribatte la Di Benedetto – ma ormai è diventato meno usuale chiamarlo così, tant’è che si è creato anche il verbo che indica l’azione di badggiare (anche se non si sa poi bene come si debba scrivere)”. Il rischio, fa notare la traduttrice Bruna Tortorella, è quello di creare termini farlocchi, a forza di usare troppe parole di cui non si padroneggia bene l’origine. “Lo stage – dice la Tortorella – per noi è una specie di tirocinio, ma per americani e inglesi è solo il palco del teatro. Oppure living, derivato dal termine ‘living room’ che vuol dire soggiorno, ma che così spezzato come titolo di una testata di arredamento in realtà definisce solo l’attività di vivere”.
A dar man forte all’inglese, oltre a pigrizia e snobismo, ci si mette – infine – un modello imposto tante volte dall’alto, addirittura dal governo italiano o da definizioni create a livello istituzionale. Ecco allora i ticket, per indicare il contributo da pagare per avere prestazioni sanitarie o farmaci convenzionati. Oppure il Jobs act che definisce la nuova legislazione in materia di contratti di lavoro. Tra gli ultimi nati ci sono gli hot spots per dire campi di raccolta per gli immigrati. In tutti questi casi l’inglese sembra un po’ un velo pietoso per alleggerire la brutalità di parole più dirette e più chiare. Come se si sentisse il bisogno di stemperare la necessità di pagare le cure, quella di ridimensionare i diritti dei lavoratori o di evocare la presenza di campi profughi. Ben venga l’italiano, allora, con la schiettezza di un bell’incontro al posto dei meeting, un buon panino al posto di hamburger e sano cibo anziché artificioso food. E che non si dica che non è sexy, perché l’italiano può essere sinteticamente e semplicemente figo!
Un’inchiesta giornalistica raccontata dietro le quinte: il lavoro della redazione, la ricerca di fonti attendibili, interviste, sopralluoghi, ma anche dichiarazioni e frasi scottanti registrate con telecamere nascoste. A rivelare i segreti del mestiere arrivano a Ferrara tre inviati di “Presa diretta”, la trasmissione di Rai3 condotta da Riccardo Iacona.
I temi che verranno affrontati saranno quelli di inquinamento ambientale, smaltimento illegale di rifiuti, traffico e abbandono di materiale radioattivo. L’incontro – aperto a tutti – è in programma per domani, giovedì 8 ottobre 2015, a Ferrara con alcuni giornalisti del programma tv e con il parlamentare ferrarese Alessandro Bratti, presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sulle Attività illecite legate al ciclo di smaltimento dei rifiuti.
Lo studio di “Presa Diretta” con Ricardo Iacona e Giulia Bosetti durante la puntata sulle cooperative
La giornalista di “Presa Diretta” Giulia Bosetti
Un’occasione sia per gli addetti ai lavori sia per i curiosi per scoprire il lavoro giornalistico svolto dalla redazione Rai nella cosiddetta “terra dei fuochi” (la zona tra le province di Napoli e Caserta), dove c’è stato un massiccio scarico illegale di rifiuti anche tossici da parte della criminalità organizzata. La definizione di questo tipo di reato, compiuto dalle ecomafie in quell’area della regione campana, è stata resa di dominio pubblico anche grazie alla popolarità del libro “Gomorra” in cui Roberto Saviano ne documenta la storia.
A spiegare come avviene e quali conseguenze ha questo traffico di materiali terribili che avvelenano appunto la “terra dei fuochi” saranno i giornalisti televisivi Giulia Bosetti, Federico Ruffo, Elena Stramentioli. Perché quelle sostanze che vengono gettate in campi e fossi finiscono per intaccare tutto l’ambiente intorno, dai prodotti agricoli alle falde sotterranee fino alle produzioni alimentari più rinomate. Un disastro che viene allo scoperto anche in seguito all’improvvisa e crescente diffusione di tumori precoci, soprattutto tra le donne che abitano in quel territorio.
Scena del film “La mafia uccide solo d’estate” con Pif e Cristiana Capotondi
Coordina l’incontro il responsabile dell’ufficio stampa del Comune di Ferrara, Alessandro Zangara. L’appuntamento fa parte del calendario della “Festa della legalità e della responsabilità”, partita a fine settembre e che proseguirà anche con la proiezione di film sul tema al cinema Boldini, dove già stasera (ore 21) verranno proiettati alcuni documentari e sarà disponibile un banchetto (dalle 19,30) con i prodotti dell’associazione Libera.
Il programma dettagliato della “Festa della legalità e della responsabilità” si può consultare su CronacaComune, il quotidiano online del Comune di Ferrara.
“Le leggi sui delitti ambientali e le inchieste giornalistiche” è in programma per domani, giovedì 8 ottobre 2015, alle 18 in Sala della musica, Chiostro di San Paolo, via Boccaleone 19, a Ferrara. L’incontro – riconosciuto come formativo dall’Ordine dei giornalisti dell’Emilia-Romagna – è gratuito e aperto a tutti.
Giardini che c’erano e che ci sono ancora un poco. Sono quelli che ti porta a vedere la visita guidata “Verde estense”, organizzata all’interno di Internazionale, a Ferrara da ieri e fino a oggi pomeriggio. Il giro è gratuito, ma per partecipare bisogna prenotarsi all’Infopoint sul listone, in piazza Trento Trieste (oggi, domenica 4 ottobre 2015, ore 9-11). Oppure ci si può provare, a presentare sul posto, sperando che qualcuno che si è prenotato non ci sia.
Il giro vale il rischio. Perché quelli che si vanno a vedere non sono tanto i giardini che ci sono, ma soprattutto quelli che avrebbero potuto esserci, quelli favolosi di un tempo andato e quelli che qualcuno – come Giorgio Bassani o i duchi estensi – ha immaginato. Luoghi che magari si conoscono anche già, dove si è passati tante volte, ma da riguardare con occhi nuovi.
Giardino delle duchesse a Ferrara con l’attrice e regista del Teatro Ferrara off, Roberta Pazi (foto Giorgia Mazzotti)
Giardino delle duchesse a Ferrara (foto Giorgia Mazzotti)
Si parte dal Giardino delle duchesse, il cortile in cui si entra sia dal portone aperto su via Garibaldi 6 sia da piazza Castello. Qui la prima, bella sorpresa adesso è di trovarlo sgombro, vuoto, senza tutte quelle panche, bancarelle, casette tirolesi che tante volte lo affollano. Vabbè: in un angolo ci sono delle transenne e una ruspa; il terreno è chiazzato di pozzanghere che colmano il terreno sconnesso; la ghiaia si alterna a un praticello sparuto. Però, finalmente, si può spaziare con lo vista e immaginare questo luogo che accoglieva gli ospiti di Palazzo ducale (ora Municipio) e – soprattutto – ci si può riempire gli occhi dell’albero che troneggia lì in un bell’angolo, con le sue foglie rigogliose e i rami carichi di pomi verdi e tondi, che tra un poco si trasformeranno in cachi arancioni.
Il percorso prosegue dentro al castello e poi giù in corso Ercole I d’Este, la strada ferrarese dei giardini. A partire dal cortile con chiostro e pozzo del palazzo più celebre, che è Palazzo dei Diamanti, con una sbirciatina a quelli di tutti gli altri signori che accolsero l’invito ducale di dotarsi di un palazzo circondato da fronde, fiori e frutti. In mezzo c’è Parco Massari, giardino pubblico da diversi decenni. Lo storico Francesco Scafuri, in veste di guida, spiega perché è un luogo sempre così piacevole. Nel 1852 i conti Massari lo comprano e decidono di trasformare le aiuole rigide e i sentieri retti in uno spazio curvilineo e il più possibile simile a qualcosa di naturale, quasi selvatico. Non più giardino all’italiana, geometrico e schematico, ma parco di alberi e sentieri tortuosi, un luogo dove perdersi e fantasticare; dove riflettere, gioire o lasciarsi andare alla malinconia in sintonia con la natura.
Infine il giardino di palazzo Trotti Mosti. Niente di speciale, tutto sommato, a vedere questo prato con un po’ di alberi e un muretto intorno che affianca la sede del dipartimento di giurisprudenza, in corso Ercole I d’Este 37. Così, almeno, lo si può giudicare se ci si passa distratti e superficiali. La spiegazione dello storico rivela invece che proprio questo potrebbe essere uno dei giardini più cercati della città, da parte tanto dei ferraresi quanto dei visitatori di Ferrara: il romanzesco parco che dà il titolo al “Giardino dei Finzi-Contini” di Giorgio Bassani. Proprio quello, sì. A rivelarlo a Scafuri un signore ormai molto anziano, che gli ha raccontato la sua frequentazione dell’edificio negli anni ’30, all’epoca abitazione della famiglia Pisa, di origine ebraica. E che ha voluto fargli sapere come nella lettura del romanzo più famoso di Bassani lo avessero colpito tanti particolari della case e del giardino che aveva visto proprio lì dentro. La distesa verde, certo, era un po’ diversa da adesso, molto più grande, tanto da scavalcare vie ed edifici arrivando fino in via Pavone.
La realtà e l’espansione edilizia cittadina hanno ristretto lo spazio del verde, ma la mente può partire da questi luoghi aperti e ricominciare a spaziare.
Bicicletta per altoparlanti accompagna la visita guidata ai giardini (foto Giorgia Mazzotti)
Parco Massari di Ferrara raccontato dallo storico Francesco Scafuri (foto Giorgia Mazzotti)
Intervento del Teatro Nucleo a Parco Massari (foto Giorgia Mazzotti)
Giardino di palazzo Trotti Mosti, a Ferrara (foto Giorgia Mazzotti)
“Parlare della minestra è inutile, assaggiarla è meglio”. Con verve tipicamente toscana, Massimo Malucelli non disdegna la battuta neppure quando parla di teatro, infrangendone la sacralità così solennemente proclamata e platealmente praticata in scena da tanti suoi colleghi… “Il teatro è esperienza, l’invito è a fare un assaggino”. L’occasione per sperimentare il menu è offerta, lunedì 5 ottobre, dalla lezione che fa da anteprima al laboratorio teatrale che si dipanerà sino a maggio con incontri a cadenza settimanale. “Si può presentare chi è curioso, liberamente, senza impegno. Sentirà due chiacchiere sulla filosofia che c’è dietro questo progetto e sulla mia concezione del teatro – spiega Malucelli che alterna al palco la ‘cattedra’ – ma soprattutto avrà la possibilità di mettersi alla prova, sperimentare direttamente, facendo un’esperienza minima ma pratica – non intellettuale – sentendo le parole e le emozioni attraversare il proprio corpo e diventare recita”. E se la minestra piace?
Se la minestra, dopo l’assaggio, piace c’è possibilità di continuare a degustarla una volta alla settimane sino a maggio Come è strutturato il corso e a chi è rivolto?
A tutti coloro che desiderano partecipare, senza alcun limite o vincolo. La prima parte è più prettamente pedagogica. Se il giochino diverte poi lo si applica, con una serie di esercitazioni finalizzate ad acquisire le tecniche di recitazione fino a metterle in pratica riunendo fantasia e contenuti in un personaggio. Il crogiolo di questa esperienza è lo spazio teatrale… La fantasia diviene concreta nel corpo e il teatro offre una grande opportunità: quando il contenuto transita dalla testa al corpo diventa storia teatrale. Dobbiamo fare diventare veri i fantasmi. Gli allievi si impratichiranno quindi attraverso appropriati esercizi. E applicheranno poi le loro acquisizioni a un personaggio e a una storia, fino a presentarsi in scena per raccogliere il riscontro del pubblico. Così la recita completa il suo itinerario e diviene esperienza comunitaria.
Avviata in battuta, la conversazione in battuta si chiude. Alla nostra richiesta di un giudizio sui suoi colleghi, un grande attore contemporaneo, un modello da indicare ai suoi allievi, Malucelli replica pronto: “Il signor Matteo Renzi! E’ un teatrante nato, riesce come pochi a trasformare con l’intonazione il senso dell’espressione verbale, creando magistralmente l’effetto del sottinteso: il signore in questione avrebbe dovuto fare teatro… Eh si, il teatro andrebbe rivalutato, potrebbe essere una grande potenzialità per il Paese!”.
Per info:
www.foneteatro.it
massimo.malucelli@gmail.com
347 5997889