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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


L’INTERVISTA
Anna Maria Quarzi: la memoria ci salverà

“È stato un viaggio ‘alla ricerca di’ sulle tracce dei cittadini ferraresi di origine ebraica scomparsi ad Auschwitz, ma è stato anche un viaggio nella perdita dei diritti umani”, così la professoressa Anna Maria Quarzi – direttrice dell’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara – descrive la visita degli studenti ferraresi al campo di sterminio di Auschwitz-Bikenau.

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Bambini detenuti ad Auschwitz

Questo viaggio, infatti, rappresenta “la conclusione di un percorso di preparazione e di ricerca svolte dai ragazzi insieme ai loro insegnanti e ai collaboratori dell’Istituto”, sottolinea la professoressa, “perché l’obiettivo che ci siamo posti dall’inizio è stato evitare un’esperienza solamente emotiva, senza la componente della riflessione”. Il progetto Viaggio e memoria tracce, parole, segni sulle orme dei cittadini ferraresi di religione ebraica deportati ad Auschwitz, promosso dall’Istituto di Storia Contemporanea con la collaborazione del Meis-Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah, che ha ricevuto il finanziamento dell’Assemblea Legislativa della regione Emilia Romagna, ruota intorno all’idea di un apprendimento critico, lontano dal ‘dovere della memoria’. Ha perciò coinvolto i ragazzi del liceo artistico Dosso Dossi e dell’istituto tecnico Aleotti attraverso cicli di incontri, lavori di ricerca sulla comunità ebraica ferrarese e sui suoi componenti, la realizzazione di mostre presso il Meis e di uno spettacolo teatrale andato in scena alla Sala Estense. Lo scopo, spiega la professoressa Quarzi, “era far conoscere ai ragazzi ciò che è successo nella loro città, il fatto che i luoghi che vivono quotidianamente sono stati teatro della privazione di diritti e che è accaduto a cittadini pienamente integrati nella vita della comunità ferrarese, di cui anzi spesso erano i protagonisti”. “Anche per la visita al campo di concentramento – continua la direttrice dell’Istituto di Storia Contemporanea – abbiamo voluto guide mirate, che non hanno fatto leva sulle emozioni, ma hanno ricostruito in modo molto oggettivo il funzionamento del campo di Auschwitz, dall’internamento dei primi prigionieri polacchi, alla Soluzione Finale, alle marce della morte. Inoltre il sistema concentrazionario è stato contestualizzato all’interno di un percorso storico-politico che aveva le proprie radici nel pangermanesimo e che ha trovato poi un terreno fertile nell’antigiudaismo polacco di matrice cattolica-popolare”.

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Anna Maria Quarzi è direttrice dell’Istituto di storia contemporanea di Ferrara

Il viaggio si è svolto dal 21 al 25, durante la settimana della lingua italiana nel mondo, “per questo abbiamo fatto tappa anche all’Istituto Italiano di Cultura di Cracovia, scoprendo diversi legami e corrispondenze fra la storia e la cultura italiana e polacca. L’ultimo giorno l’Istituto ci ha messo a disposizione una guida per la visita della città che ci ha portato nel quartiere Kazimierz, la zona dell’insediamento ebraico di Cracovia, e ha concluso il percorso nella cosiddetta Piazza delle sedie: la piazza del ghetto istituito dai nazisti, dove ora c’è un’installazione di due artisti polacchi composta da alcune sedie che vogliono essere l’emblema di una comunità perduta”. Attraverso questa visita “i ragazzi hanno potuto capire come, dopo l’oblio seguito al conflitto, ora la Polonia stia tentando di recuperare la memoria della propria comunità ebraica e delle sue relazioni con la popolazione in maggioranza cattolica”.
“Uno dei momenti più forti – confessa Anna Maria Quarzi – è stata la serata di riflessione e dibattito dopo la visita ad Auschwitz-Birkenau, che i ragazzi hanno avuto con gli adulti dell’Anpi che ci hanno accompagnato: una sorta di dialogo fra le generazioni attraverso cui scambiarsi impressioni e opinioni”.
Ora, come mi spiega infine la professoressa, “iniziamo una nuova fase di questo progetto, con la realizzazione di un video del viaggio e nuovi incontri nelle scuole che vorranno intraprendere questo percorso di approfondimento: il tutto sempre opera degli studenti, che devono rimanere i protagonisti attivi di queste iniziative, in modo che le conoscenze acquisite e le emozioni provate siano uno stimolo per riconoscere gli indizi e gli episodi di discriminazione e privazione dei diritti nella loro vita quotidiana”.

L’OPINIONE
Concertar pallido e assorto: Renzi, Camusso e il modello democratico

E’ abbastanza facile dimostrare che la cosiddetta concertazione c’entra assai poco con gli schemi classici della democrazia rappresentativa, che prevedono modelli in cui la legittimazione del governo si fonda esclusivamente sull’esito del voto popolare a suffragio universale ed escludono di conseguenza che i cittadini possano disporre di un potere di rappresentanza ulteriore per il fatto di essere imprenditori, lavoratori dipendenti, pensionati. In una democrazia rappresentativa la ricognizione dei bisogni e delle necessità presenti a livello sociale è il compito principale della politica, che le traduce nei programmi che partiti e coalizioni sottopongono al giudizio degli elettori.
Altra cosa è evidentemente la gestione dei rapporti che riguardano direttamente le forze sociali, la negoziazione contrattuale in primis, che le vede agire in totale autonomia all’interno del quadro legislativo vigente, sul quale tuttavia il potere politico, legittimato dal Parlamento, può intervenire per ragioni di interesse generale.
In quest’ottica la richiesta delle forze sociali di “contrattare” direttamente con l’esecutivo il contenuto delle leggi che approva il Parlamento ha ben poco fondamento ed è tutt’al più assimilabile ad una legittima attività di lobby. Un conto è infatti il dovere da parte di chi governa di ascoltare tutte le voci del Paese, ben altro sarebbe invece l’obbligo di dover ottenere da alcune di esse una qualche forma di consenso preventivo.
Per anni in molti a sinistra hanno ritenuto che il modello della concertazione, che indubbiamente ha consentito in passato al Paese di superare alcuni momenti difficili, fosse l’espressione di una democrazia più ricca e avanzata, nella quale, alla rappresentanza politica espressa con il voto, si affiancava quella sociale, espressa dalle organizzazioni delle diverse componenti che costituiscono la società. Ma è proprio/ancora vero?
In primo luogo si osserva che questo schema ha certamente rappresentato per le forze di opposizione una sorta di elemento di garanzia, che consentiva di estendere il loro potere di interdizione nei confronti di chi governava al di là dei rapporti di forza in parlamento. In un’ottica puramente difensiva, come è stata quella che per anni ha prevalso, è innegabile che questo modello abbia consentito di limitare qualche danno; anche se non a costo zero, perché è emerso con chiarezza che nella percezione dell’opinione pubblica questa sorta di delega impropria della politica alle rappresentanze dei lavoratori appariva come una forma di indebita commistione e confusione di ruoli, che certamente non aiutava ad acquisire consenso chi si proponeva come forza alternativa. In questo modo inoltre chi governava poteva trovare facili giustificazioni per i propri insuccessi, diluendo di fatto la propria responsabilità di fronte agli elettori ed alimentando la percezione di una sostanziale omogeneità e trasversalità nella gestione della cosa pubblica.
C’è poi un problema più sostanziale, perché la concertazione attribuisce un potere assai ampio a forze la cui reale rappresentatività col passar del tempo è tutta da dimostrare, a maggior ragione in un mondo che cambia molto rapidamente. Basta provare a chiedere, ad esempio, quanti imprenditori si sentano oggi rappresentati da Confindustria ed in quale misura, mentre d’altro canto è del tutto evidente che l’esplosione della disoccupazione e del lavoro precario ha lasciato progressivamente scoperte fasce sempre più ampie ed importanti della società, che le tradizionali organizzazioni dei lavoratori obiettivamente non rappresentano, così come la nascita di nuovi modelli di impresa e paradigmi di iniziativa economica (penso ad esempio al terzo settore) ha ridotto di parecchio la capacità di rappresentanza delle organizzazioni datoriali esistenti.
Non è nemmeno accettabile la posizione di chi fa discendere un’ipotetica imprescindibilità della concertazione addirittura dall’articolo 1 della Costituzione, che assegna sì al lavoro il ruolo di elemento fondante del patto sociale, ma certamente non prescrive e nemmeno suggerisce alcun canale parallelo attraverso il quale i rappresentanti delle categorie sociali, anche a voler prescindere dalle modalità della loro selezione, possano essere interlocutori obbligati dei poteri dello stato.
Molto meglio quindi che ciascuno ritorni al proprio ruolo e si assuma per intero le proprie responsabilità: alle parti sociali quella di portare avanti con tutti i mezzi previsti dalla legge gli interessi dei propri associati e a chi governa l’obbligo di elaborare una sintesi che persegua l’interesse generale, lasciando agli elettori le valutazioni sulla sua efficacia ed equità.

LA STORIA
“Io, figlio di un inquieto Sudamerica
ho ritrovato il sorriso nell’argilla del Po”

Sergio nato in Uruguay, vive a Serravalle, provincia di Ferrara. A casa un bambino di quasi nove anni lo aspetta per giocare, prima di dormire. Sergio, figlio di un padre alcolizzato in una casa senza mattonelle, col pavimento di terra, le porte aperte, una madre affetta da precoce artrite reumatoide. Gli occhi neri, i capelli ricci, una sorella e poco da mangiare. Quel poco gli bastava, però la famiglia cerca fortuna a Buenos Aires perché “per essere felice devi avere, questo il tranello capitalista”.

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Sergio con la sua classe elementare. Seduto in basso, il secondo da sinistra

“A Buenos Aires, nel quartiere popolare Boedo, in frigo c’era sempre la coca cola e io credevo fossimo ricchi. Poi mio padre perse il lavoro. Presi un secchio d’acqua, mi inventai un mestiere lavando le vetrine dei negozi della città ogni pomeriggio, fino a raggiungere 50 pesos al giorno, in un mese diventava la paga di un operaio.”
Intanto, la mattina frequentava il liceo. Un giorno qualcuno gli poggia la mano sulla fronte. E’ un giorno come un altro in cui il sole per l’ennesima volta è risorto. Qualcuno tocca delicatamente la sua testa e chiede “come sta la tua anima, Sergio?”. E’ la professoressa di letteratura Beatriz Luque, un fratello desaparecido e il coraggio di non calare mai la testa di fronte ai militari.

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Manifestazione di protesta contro il default argentino del duemila

Sergio con la cresta punk, poi fricchettone, comunista, anarchico che non perde occasione per gettare la sua rabbia in Plaza de Mayo, negli scontri con la Celere, a lottare contro un sistema iniquo, ingiusto. Osserva questa donna e inizia a credere di poter cambiare. Ha visto tanti amici di infanzia risucchiati nelle favelas, persi per sempre.
Da quel giorno iniziò ad apprezzare la poesia, l’arte. Quel giorno forse ha scelto lui, lo ha convinto a diventare un uomo, nonostante tutto. Sarebbe potuto rimanere tra i vicoli di Buones Aires. Invece, stasera, mentre scrivo, il ragazzo del quartiere Boedo chiude il suo banco colorato di cactus, tartarughe, animali, lune, stelle, e torna da un bambino che lo aspetta per giocare prima di dormire, lì, giù a Serravalle.

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Le ceramiche di Pachamama

Serravalle frazione di Berra, cinquemila anime verso il Delta del Po. Quasi alla foce del Grande Fiume. Serravalle che non va in televisione. Poco distante da Padova, Ferrara, Ravenna, eppure lontana dal mondo perché non appare, sembra non servire. Serravalle provincia di dove finisce la provincia e i ragazzi fuggono a Bologna, a Milano, a Padova. Fuggono, ignari del fatto che non si sfugge al luogo in cui si cresce. Serravalle tra acqua e terra, estremo lembo orientale, adriatico, di un Nord ancora bizantino. Un luogo lontano dal clamore, nel cuore del settentrione. Una scura e profonda pianura il cui suolo sa ancora di mare.

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Nonna Maria

In Patagonia “ho visto la vita da vicino e la mia esperienza dice che chi possiede meno è più generoso”. E’ stato il viaggio più bello prima di approdare in Europa. “Mi manca molto mia nonna. Una donna analfabeta, madre di undici figli. Una persona saggia che per me aveva sempre il sorriso”.  Dopo il diploma sceglie la Scuola di oreficeria statale. E’ andata così: lui lavava le vetrine e, sulla stessa strada, un orafo cileno vendeva la sua merce. Sergio si avvicina per fargli i complimenti e l’orafo lo invita a sedersi: “chiunque è capace di imparare”. Questo episodio fu un ennesimo inizio. Ma nel duemila arrivò il fallimento dell’Argentina. Si ritrovò di nuovo al verde, in mezzo a una strada. Spinto dal bisogno di sostenere se stesso e la propria famiglia. Da clandestino, il nostro ragazzo approda a Madrid, quindi a Bologna. Nella città dei portici si inventa maestro di spagnolo: “La prima volta che vidi la Sala Borsa, sede di una grande biblioteca, non riuscii a trattenere le lacrime. E’ difficile spiegare da dove vengo e cosa sia l’Europa per un ragazzo uruguaiano poco più che ventenne della provincia del Rio Negro. E’ stato prendere uno shuttle per andare su Saturno”, racconta.

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Elisabeth, fondatrice del laboratorio artigianale Pachamama

A Bologna trova lavoro come orafo, viene assunto, legalizzato. Mette da parte un bel gruzzolo, deciso a ritornare in Argentina. Prima però, insieme a tre amici, un ultimo viaggio verso il sud dell’Italia. Nessuno gli poggia la mano sulla fronte, stavolta. Nessuno a chiedergli come stia la sua anima ora che, a migliaia di chilometri da casa, ha dei risparmi. Ora che è quasi un uomo. Il viaggio finisce prima di cominciare. Termina sull’isola d’Elba, dove i suoi occhi neri si fermano su quelli altrettanto scuri di Elisabeth, artigiana, ceramista ferrarese. Mentre gli occhi sono occupati, fermi, lei attraversa l’anima, cammina sui suoi desideri, seguendoli prende asilo nel cuore di Sergio. Neanche sei mesi e viene concepito il piccolo Inaki.

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Elisabeth e Sergio davanti alla loro bancarella

Nel frattempo si è sviluppata Pachamama. Nella antica lingua Incas ‘madre terra’. Il progetto di Elisabeth prende il nome proprio dalla terra. Nulla di meglio per chi, come lei, da tempo lavora con le mani nell’argilla: “Tutto ciò che è pietre preziose, oro, è sporco di sangue”, dice, “Preferisco guidare il mio vecchio furgone Ducati. Preferisco le mani nell’argilla, la nostra ceramica a chilometri 45″, tanto dista Serravalle da Ferrara.

“Nella mia vita è un pesce palla che surfa, non un delfino. Da tempo ho abbandonato gli slogan, i passamontagna, la protesta. Quello in cui credo cerco di dimostrarlo con l’esempio, con la mia vita”, dice il ragazzo del Rio Negro, quello delle vetrine da lavare, l’orafo, l’insegnante di spagnolo, vissuto al Boedo, dove “costa meno una pallottola che un preservativo”, è cresciuto e oggi la sua anima sta bene. A casa un bambino di quasi nove anni lo aspetta per giocare, prima di dormire. Sergio che viene da una casa senza mattonelle, col pavimento di terra. Gli occhi neri, i capelli ricci una sorella e poco da mangiare. Uomo, padre che sa come si diventa uomo. Uomo che sa come fare il padre.

Hasta siempre, cari Sergio ed Elisabeth!

Racconto pubblicato nel blog di Sandro Abruzzese Racconti viandanti [vedi]

LA PROVOCAZIONE
Viva gli yankees, alla faccia dell’ignoranza

I believe very urgent to change our ancient, terrible and modest italian language: we must speak and write american, not american of William Faulkner, too much aristocratic, but the slang of the
metropolitan shantytown and of the cockney-men. It’s necessary to change now because people doen’t understand if you speak italian, all is yankee, also my underpants are yankee and I become a poor little italian idiot, so Renzi says. Do you know Renzi Matteo? He is a young man who doesn’t love democracy, oh my God!

Mi sono accorto a questo punto che stavo scrivendo nella paccottiglia linguistica che contraddistingue la comunicazione scritta e orale tra gli italiani oggi, una sorta di parlata da cui il vecchio, caro idioma di Manzoni depurato in Arno è stato bandito con ignominia per correre velocemente verso un linguaggio che non rappresenta più l’unità culturale di un Paese, ma è il composto di varie ignoranze, le quali, unite in un fascio, determinano l’incomparabile confusione (scusate: casino) di oggi. Pochi giorni fa, leggendo il mio giornale del mattino, mi è scappato l’occhio su una pubblicità di oltre mezza pagina, oh non c’era una sola parola d’italiano! Allora ho chiesto alla nostra collaboratrice domestica moldava, la Dora benedetta, di che cosa si trattasse: non so, mi ha risposto, l’italiano non lo conosco ancora bene. Meno male, ho pensato, siamo in due. Ma ci si immagina quando la Dora vede il telegiornale e affettati signori in grigio fumo di Londra le parlano di spending review? Se dicessero revisione della spesa, povera Dora!, anche lei capirebbe, invece niente, oggi è necessità categorica tagliar fuori dal linguaggio del potere il numero più possibilmente largo di persone, non si sa mai che si aumenti la quantità di coloro che comprendono. But what is fucking around Mr Renzi (letteralmente che cacchio c’entra tutto questo con Renzi?, ma vedete com’è volgare?). C’entra, c’entra, Renzi ormai c’entra sempre: c’è gente alla quale il nostro ineffabile Presidente appare ogni giorno circondato da corone di rose in un effluvio di profumi, è come la Madonna Renzi. Oh my God!

Carissimo Dario Franceschini, ho conosciuto alcuni dati sulla cultura in Italia che definire inquietanti è davvero ridicolo: dunque, nel nostro colto Paese oltre 31 milioni di cittadini non leggono un libro, un solo libro, nell’arco di un anno; i quotidiani perdono copie ogni giorno, se ne vendono meno di quanti ne venissero diffusi nel 1924; le donne, che dovrebbero rappresentare nell’immaginario dei nostri intellettuali la forza rivoluzionaria, proprio non leggono, al massimo le didascalie di quei giornaletti settimanali di pettegolezzo, unica merce ‘culturale’ in allarmante aumento; peggio ancora, il 6 per cento della popolazione non sa leggere né scrivere. Ma quel che più spaventa, caro Dario, è quell’indagine compiuta sui tuoi colleghi in Parlamento, i quali, alle domande culturali rivolte loro, hanno dato risposte alla Totò dei tempi migliori, come “chi era Mao?”, risposta: il capo di una setta religiosa. E in questo paese vogliamo che la signora Dora, tra l’altro bravissima cuoca – non è poco – sappia che cos’è il fiscal drag!

La potenza dell’immagine, l’impotenza dei genitori

Riprendendo alcuni spunti di riflessioni dall’ultima conferenza, tenuta la settimana scorsa in provincia di Ferrara, vorrei sottolineare cosa accade nelle famiglie in cui un componente si ammala di un disturbo alimentare.
Vi è inizialmente un effetto anestetico del sintomo sulla famiglia, nel senso che i genitori non vogliono vedere cosa sta accadendo al figlio o alla figlia, perché troppo angosciante.
I genitori sono vittime del sintomo e anche i destinatari; il sintomo veicola un messaggio che è da decodificare per i genitori.
Il sintomo costringe i genitori ad assumere comportamenti paradossali e controproducenti , come ad esempio chiudere la cucina a chiave o mettere lucchetti al frigorifero o alla dispensa. Tutta la famiglia ruota attorno al potere del sintomo, che si impone e detta legge. Tutti i tentativi di controllo sono destinati, tuttavia, a fallire. Più ci si concentra sul cibo, che rappresenta la punta dell’iceberg di un disagio molto più profondo, e più paradossalmente, involontariamente, lo si rinforza. Quando il disturbo alimentare diventa evidente, all’anestesia si sostituisce l’angoscia e compaiono sentimenti contrastanti: ansia, paura, rabbia, senso di impotenza e fallimento. Proprio perché il disturbo alimentare è un sintomo complesso è fondamentale che anche la famiglia compia un percorso di cura. A volte, in casi iniziali di disordini alimentari, è sufficiente che la famiglia faccia un percorso di cura e quindi si ridisponga in altro modo nella relazione perché il figlio o la figlia guariscano. I genitori all’inizio della terapia vengono per il soggetto che manifesta il disagio, lontani da una loro implicazione soggettiva, non capisco perché la figlia o il figlio si sono ammalati. Arrivano in terapia con una domanda di cura per il figlio o la figlia, chiedendo che tornino come prima. Poi incontrano la propria impotenza che si rispecchia nel corpo emaciato della figlia e nel rendersi conto del potere che il sintomo stesso ha sulla figlia. Il corpo emaciato rimanda a loro un “tu non sei stato…”. Si chiedono perché tale sciagura sia capitata proprio a loro. Poi durante il percorso terapeutico intuiscono che c’è una loro implicazione nel sintomo. Per far ciò occorre attraversare la propria impotenza, il proprio senso di colpa e di fallimento e imparare a non farsi angosciare da un sintomo così terrificante, che consuma il corpo del figlio fino a farlo scomparire e a metterlo, a volte, a rischio di vita. L’anoressia-bulimia punta a incrinare e lacerare il sentimento di amore materno e paterno e l’idea di essere stati dei buoni genitori. Occorre aiutare i genitori ad uscire dalla colpa o dalla banalizzazione educativa per ritrovare una propria indispensabile centralità, la loro soggettività e il loro dolore rispetto a ciò che accade. I genitori devono imparare a rinunciare all’idea di salvare la figlia a tutti i costi, solo così potranno realmente aiutarla. I genitori passano da una richiesta iniziale di aiutarli ad aiutare la figlia o il figlio, quindi dal sintomo del figlio, a una domanda di sapere su di sé,cioè una domanda di cura: dal “come si fa” al “perché mia figlia non mangia?”, quindi si aprono ad un’interrogazione soggettiva. Una madre riferisce in seduta parlando della figlia: ”Lei esibisce fiera quanto è dimagrita, sembra compiaciuta di come si è ridotta..a volte penso che lo faccia per ferirmi mostrandomi come si è ridotta per colpa mia. Ma oggi so che ridursi così è anche una scelta e ho iniziato a capire che la colpa che comunque sento dentro di me non è la stessa di prima che mi manipolava e ricattava. Oggi è più un mio dolore e mi sento più libera dagli artigli dell’anoressia”. Occorre imparare a prendere le distanze dal sintomo per impoverire il suo potere e far emergere il messaggio criptato che sintomo contiene. È indispensabile inoltre restituire ad ogni membro la specificità della sua posizione e la particolarità della sua parola.

Chiara Baratelli, psicoanalista e psicoterapeuta, specializzata nella cura dei disturbi alimentari e in sessuologia clinica. Si occupa di problematiche legate all’adolescenza, dei disturbi dell’identità di genere, del rapporto genitori-figli e di difficoltà relazionali. baratellichiara@gmail.com

LA RIFLESSIONE
Notizie e approfondimenti. In Rete è il tempo dell’informazione verticale

In principio la Rete non fu Verbo, ma solo canale: mezzo tramite il quale trasmettere contenuti concepiti e sviluppati secondo le logiche dei media tradizionali. Così abbiamo assistito alla fase in cui i quotidiani semplicemente riversavano in pdf i propri materiali cartacei e in seguito visto nascere goffi prototipi di giornali digitali dai contenuti tendenzialmente statici. E’ servito un po’ di tempo affinché le potenzialità di internet fossero comprese appieno e si dispiegassero in innovativi progetti editoriali realmente capaci di esaltarne le più specifiche connotazioni.

Oggi, immediatezza, interattività, multimedialità sono i tratti distintivi del giornalismo online. Così come lo sono la possibilità di personalizzare i percorsi di lettura e l’opportunità di archiviare e attingere notizie, interrogando con facilità infinite banche dati pregne di una quantità inimmaginabile di informazioni in continua espansione. La rete, da mero contenitore si è fatta contenuto. Ma non solo nel senso indicato da Mc Luhan quando segnala che il mezzo è il messaggio poiché condiziona in maniera determinante la fruizione da parte dell’utente; la rete è contenuto soprattutto perché ha imposto nuove logiche e nuovi modelli di informazione a livello di produzione e ha quindi indotto la definizione di un nuovo standard giornalistico. E in quanto contenuto, ormai prevalente fra i giovani, la rete impone il proprio verbo, condizionando anche i media tradizionali e costringendoli a riconsiderare se stessi alla luce delle nuove abitudini.

Di questo fenomeno, al di là degli aspetti sostanziali, sono un’esteriore e appariscente spia l’adozione, da parte dei vecchi media, di format grafici che emulano, o talvolta solo scimmiottano iconograficamente, gli attributi propri dell’online. La rete fa tendenza. E ora, dopo avere affermato le proprie peculiarità in termini di status e dignità di prodotto, può tornare a fungere simultaneamente anche da canale senza snaturare se stessa e senza porre a rischio l’acquisita identità. In quanto canale, la rete e gli strumenti che ne sono propaggine (computer, smartphone, tablet eccetera) assecondano i bisogni attuali, anche fungendo da supporto a prodotti editoriali semplicemente trasferiti in formato digitale.

I libri costituiscono l’esempio più eclatante di questa rigenerata attitudine: i contenuti restano di base statici ma si arricchiscono di una serie di funzioni interattive, che vanno dal banale segnalibro elettronico alla possibilità di scrivere commenti a margine del testo o di ottenere simultanee traduzioni oppure esplicazione dei significati, all’opportunità di condividere la propria esperienza con altri utenti/lettori o semplicemente con se stessi, attraverso la reticolare diffusione del contenuto sui vari supporti che ciascun utente possiede. Analogamente i quotidiani hanno sostituito i primordiali pdf del giornale con le attuali versatili edizioni digitali, linfa che alimenta le speranze di rilancio del settore. La leva virtuosa è quella degli abbonamenti alle versioni elettroniche di un prodotto che, siffatto, abbatte i costi di stampa e di distribuzione, consegue il vantaggio di essere replicabile all’infinito senza aggravi economici e risulta accessibile anche dal più remoto luogo della Terra, purché connesso a internet.

Fra i giovani l’abitudine di leggere online si sta affermando come tendenza diffusa e irreversibile. Questo dovrebbe indurre a riconsiderare le ragioni che finora hanno determinato l’esclusione dalla vetrina digitale di alcuni segmenti del mercato giornalistico. Per le sue intrinseche caratteristiche la rete si è infatti affermata precipuamente come vettore di comunicazione della cronaca, nella sua immediatezza: gli eventi trovano istantanea visibilità nello spazio sconfinato di internet. Ma essendo internet nel frattempo divenuto anche il caffè del ventunesimo secolo potrebbe risultare ora il luogo appropriato pure per l’approfondimento, un ambito in precedenza escluso poiché considerato incongruente. Invece, proprio a modello di ciò che sta facendo l’industria editoriale con il libro, anche la concezione giornalistica del tradizionale ‘periodico’, che per sua natura richiede un ampio respiro, potrebbe trovar espressione in rete, giovandosi di alcune peculiarità del mezzo, pur senza sfruttarne appieno tutte le risorse.

L’approdo online dell’informazione periodica che, specie all’estero, ha già segnato qualche punto a proprio favore, avrebbe il merito di dare spazio a ciò che più è carente nel panorama dell’informazione online: l’approfondimento – declinato nelle principali forme che gli sono proprie: opinione, inchiesta, intervista – inteso come espressione del tentativo di fornire un’interpretazione ai fatti che vada oltre la volontà di rappresentarli nella loro immediatezza. D’altronde la ricerca di significato – il senso più profondo degli avvenimenti che risiede al di sotto della superficie delle notizie – è compito precipuo del giornalismo che si esercita quando al dovere di raccontare si affianca la volontà di riflettere. Trasferire anche in rete questa propensione contribuirebbe a compensare un deficit che le nuove generazioni (quelle più avvezze all’utilizzo dei mezzi digitali) attualmente scontano più delle altre: la diffusa assenza nei media online di un filo di spiegazione, di un tentativo di mettere ordine alle cose del mondo fornendo al cyberlettore una chiave di comprensione.

‘La cuccagna’. Omaggio a Luciano Salce e Luigi Tenco

“La cuccagna” è un film del 1962 diretto da Luciano Salce (quest’anno ricorre il 25° anno dalla sua scomparsa) con Donatella Turri, Umberto D’Orsi e Luigi Tenco, tutti e tre alla loro prima esperienza cinematografica.
La storia, come l’Odissea, si sviluppa in diverse situazioni e con tanti personaggi, dividendosi tra momenti amari e grotteschi, con qualche divertente ironia, tante idee e inaspettate sorprese, come quella di Tenco che canta e suona con la sola chitarra “La ballata dell’eroe” di Fabrizio De André.
Quest’opera è stata frettolosamente considerata “minore” nella vasta filmografia di Salce, che in quel periodo aveva ottenuto grandi soddisfazioni con “La voglia matta”, capostipite di un genere (o di una degenerazione) giovanile-vacanziero, inoltre, proveniva dal successo de “Il federale”, dove si rivelò Ugo Tognazzi.

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La locandina

Il film è ambientato in pieno boom economico, ma diversamente dal precedente “La voglia matta”, che descriveva le vicissitudini di un quarantenne nel pieno della crisi di mezz’età, Salce punta l’attenzione su argomenti particolarmente scottanti quali l’obiezione di coscienza, l’omosessualità, il suicidio e l’anti-militarismo.
Una delle scene più grottesche è quella in cui un colonnello, interpretato dallo stesso Salce, emula Napoleone ordinando ai suoi uomini di attaccare e aprire il fuoco nel corso di un’esercitazione. Ironia e sarcasmo non risparmiano imprenditori improvvisati, finanzieri senza scrupoli e cialtroni di varia specie, tutti intenti a sfruttare uno dei periodi d’oro dell’economia italiana. Sia “La voglia matta” sia “La cuccagna”, furono vietati ai minori di 14 anni, pur senza la presenza di scene violente o di sesso.
Le collaborazioni sono tutte di primo piano, infatti, oltre allo stesso regista, il soggetto porta la firma di Luciano Vincenzoni, Carlo Romano e Goffredo Parise, con il contributo di Alberto Bevilacqua; la colonna sonora è di Ennio Morricone, il quale insieme a Salce (alias Pilantra) scrisse anche le canzoni “Fra tanta gente” e “Quello che conta”, incise in seguito da Luigi Tenco. Enrico Menczer, collaboratore storico di Luciano Salce e di Giuliano Montaldo, ha dato un tocco inconfondibile alla fotografia in bianco e nero del film. La presenza di un cast di giovani ed esordienti di talento, ha certamente giovato alla freschezza del film.

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I protagonisti e Luciano Salce

La trama descrive l’odissea di Rossella, una giovane ragazza in cerca del primo lavoro, necessario per rendersi indipendente e sfuggire a una famiglia ottusa e indifferente.
Nella calura estiva di Roma la ragazza passa da una delusione all’altra, incontrando una serie di personaggi improbabili, arrivisti e profittatori, ma avrà la fortuna di conoscere Giuliano, un giovane introverso e arrabbiato interpretato da Luigi Tenco.
In tanto squallore Giuliano è l’unica persona che cerca di aprirle gli occhi e la guida nella dura realtà della vita, mentre intorno a lei l’indifferenza di una classe borghese mediocre le ruba la giovinezza e le aspirazioni.
La ricerca dell’impiego è il pretesto narrativo per descrivere la società di quel periodo, che in certi aspetti non è troppo dissimile da quella di oggi; nei rari momenti in cui la ragazza torna a casa, trova la sua famiglia sempre davanti al televisore, ‘ostaggio’ dei quiz di Mike Buongiorno e della pubblicità.
Giuliano ha ricevuto la cartolina-precetto e dovrebbe andare sotto le armi; ma questo è contro il suo convincimento. I due ragazzi, dopo un lungo peregrinare, decidono di porre fine alla loro vita (una tragedia che avrebbe coinvolto Tenco cinque anni dopo), ma desisteranno dal loro intento correndo mano nella mano, in un finale aperto e senza soluzioni preconfezionate.

L’interpretazione di Luigi Tenco è una rivelazione, il cantante genovese smette gli abiti di musicista per indossare quelli di attore, in un ruolo che forse gli assomiglia anche caratterialmente, dandogli spessore e credibilità. In precedenza aveva avuto soltanto un’occasionale esperienza in un fotoromanzo per la Bolero Film e in seguito fece brevi apparizioni in due film di carattere musicale.
Chi si aspetta un ‘musicarello’ si sbaglia, qui ci troviamo di fronte a un film importante e alla prima prova di attore di Tenco, che avrebbe potuto cambiare il suo futuro, se soltanto ce ne fosse stata l’occasione.
“La cuccagna” partecipò alla Mostra Cinematografica di Venezia del 2008 nella retrospettiva “Questi fantasmi: cinema italiano ritrovato (1946-1975)”, curata da Tatti Sanguinetti e Sergio Toffetti. La rassegna comprendeva una trentina di film del periodo definito il più “fiammeggiante” della storia del cinema italiano, rimasti a lungo sepolti in archivio o destinati alla visione notturna di qualche palinsesto, ma in genere trascurati dalle storie del cinema.
Il film rappresenta un ponte tra un tardo neo-realismo e la commedia all’italiana, uniti e amalgamati dalla pungente ironia e dai toni grotteschi tipici di Luciano Salce. Negli anni Sessanta non fu considerato un capolavoro e dopo la programmazione nelle sale cinematografiche fu quasi impossibile poterlo vedere in televisione. Una delle poche eccezioni si deve all’emittente sarda Videolina e recentemente al canale Iris, che lo trasmette in orari per sonnambuli.

Il film di Salce, finalmente, è disponibile su DVD ed è reperibile nei migliori store on-line.
Guardarlo con gli occhi di oggi è molto differente rispetto al passato; alcuni film non reggono il passare del tempo, altri acquistano una nuova considerazione.

LA RICORRENZA
Bambini, per Halloween
dolcetto e tesoretto:
è il giorno del risparmio

Il 31 Ottobre compie 90 anni la giornata mondiale del risparmio, legata a un importante economista e politologo italiano, Maffeo Pantaleoni, che ne ispirò la proclamazione in un discorso tenuto a Milano nel 1924, durante il Primo congresso internazionale del risparmio, organizzato dall’Associazione mondiale delle Casse di risparmio.
Il risparmio fu proposto come base dell’educazione della società, come disciplina fondamentale della comunità, per un uso migliore, individuale e sociale, della ricchezza.
Oggi, dopo tanti anni e tante crisi economiche mondiali, il risparmio è ancora alla base di una finanza che voglia essere reale motore di sviluppo delle comunità locali. Una crescita complessiva: sul piano economico, sociale, civile.
Quest’appuntamento dovrebbe coinvolgere, in primo luogo, i bambini che devono sapere cosa significa rompere i propri salvadanai per potersi comprare il gioco o il libro tanto sognato. Da piccoli avevamo le mille lire a settimana da conservare, la paghetta tanto attesa che finiva nel maialino o nella scarpa di ceramica, dalle quali ci si aspettava il miracolo alla fine dei due o tre mesi necessari per raccogliere il gruzzoletto.
Nei nostri primi anni di vita, e con l’educazione di genitori attenti e sapienti, si consolidano numerose abitudini che verranno mantenute per sempre. Tra queste, proprio quelle legate alla gestione e al rispetto del denaro. Questa giornata è così significativa, dunque, perché ricorda ai bambini l’importanza di cominciare a risparmiare sin da piccoli: infatti, solo chi inizia presto ad accantonare parte del suo denaro, nel tempo potrà costruirsi un patrimonio senza sforzi eccessivi. Non tutto e subito, ma poco e piano piano. Un lavoretto nel giardino o un aiuto alla nonna leggermente retribuiti fanno di noi dei buoni e giovani risparmiatori (e lavoratori).
Nel raggiungimento di quest’obiettivo “sociale”, anche la finanza ha un ruolo nevralgico. Negli anni successivi al 1924, sempre più istituti di credito aderirono a questa giornata e soprattutto le banche cooperative la festeggiano ancora oggi, esprimendo in alcuni punti fondamentali la “finanza che vogliamo” (vorremo): una finanza responsabile, sostenibile, responsabilmente gestita e orientata al bene comune; una finanza attenta ai bisogni della società, composta da soggetti diversi, per dimensione, forma giuridica, obiettivi d’impresa; promotrice di strumenti per costruire il futuro; che abiti le piazze, parli il linguaggio delle persone e sia trasparente; che non sia autoreferenziale, ma al servizio; che sia capace di riconoscere il merito e di darvi fiducia; che possa insegnare a gestire il denaro, nelle diverse fasi della vita, con consapevolezza; che sia capace di accompagnare e sostenere processi di crescita, sfide imprenditoriali, progetti di vita; che permetta a un numero diffuso di persone di avere potere di parola, d’intervento, di decisione. Che sia motore di rispetto, supporto, guida, accompagnamento e aiuto.
L’educazione al risparmio rimane un tema attuale, tanto più che varie banche regionali promuovono giornate educative per gli studenti, non perché diventino un Paperon de Paperoni ma perché comprendano l’importanza del mettere da parte, quell’essere simpatiche e attente formichine che i nostri nonni ci insegnavano a essere.
Felice risparmio a tutti.

RIFLETTENDO
Sotto lo stesso cielo

Quante volte, ho guardato al cielo… ma il mio destino è cieco… e non lo sa! / E non c’è pietà, per chi non prega e si convincerà… che non è solo una macchia scura… il cielo! / Quante volte, avrei preso il volo… / Quanti amori conquistano il cielo! Perle d’oro, nell’immensità! / Qualcuna cadrà, qualcuna invece il tempo vincerà! Finche avrà abbastanza stelle… il cielo! / … Ma che uomo sei, se non hai… il Cielo / (“Il Cielo” di Renato Zero)

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Sotto il cielo di Tripoli
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Nuvole scure a Tripoli

Il cielo è uno dei più grandi misteri della Natura, luogo dove perdersi con i pensieri, i sogni, i desideri, le speranze. Lo sguardo rivolto all’orizzonte approda sempre a lui quando si pensa a un futuro migliore, quando si sogna di scappare, di cambiare il proprio destino, di mollare gli ormeggi, di scalare le cime dei propri limiti, di volare via, di sorprendere e di sorprendersi, di sorridere e di ridere, di emozionarsi, di giocare una partita seria nel teatro della nostra esistenza, di seguire le nostre aspirazioni e i nostri ideali. Aldilà di lui e delle sue morbide e sinuose nuvole di panna, vediamo il nostro amore lontano, aspettiamo il momento di accarezzarne dolcemente la testa al prossimo tenero e infinito abbraccio che, abbagliato dal cielo immenso, non pare poi più così distante. Guardiamo all’insù, persi nei cirri ricamati, immersi nella purezza del creato, avvolti dagli abbracci dei raggi del sole che attraversano la luce come fulmini d’amore. Quella luce che filtra lascia quasi intravvedere il radioso Aladino che ci passa accanto avvolto dal calore delle stelle, e che, seduto sul tappeto volante insieme alla sua Jasmine, le canta “Ora vieni con me, verso un mondo d’incanto, Principessa è tanto che il tuo cuore aspetta un sì. Quello che scoprirai, è davvero importante. Il tappeto volante ci accompagna proprio lì. Il mondo è tuo, con quelle stelle puoi giocar. Nessuno ti dirà che non si fa. E’ un mondo tuo per sempre”.

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Sul Mar Nero

Come la bella Jasmine anche noi avremo la sensazione che il mondo è nostro, percepiremo di come sia sorprendentemente nostro con accanto qualcuno che amiamo, sopra il cielo, nel cielo e attraverso il cielo, e realizzeremo che, guardando in giù, nulla vale la stella che ci sta accanto e che ci sta sfiorando. Percepiremo che si sta volando fra i diamanti e le gemme, sulle ali delle comete, avvolti nella magia di un mondo che ci appartiene, che vuole bene proprio a noi diventati un leggero corpo celeste, quasi un’aurora boreale. Il cielo è, dunque, Amore, prima di tutto, soprattutto quando è azzurro e limpido, e ancora di più da quando c’è qualcuno in particolare, “Tu che di stelle vesti il cielo”, canterebbero i Modà. Ma il cielo è Amore anche quando è rosso, impulsivo, curioso, caldo e acceso come i sentimenti più belli, come il desiderio di vedere e respirare tutto a due, semplicemente solo restando abbracciati. Il tramonto trafigge cuori, cancella ogni timore, spazza via ogni remora nel lasciarsi andare alla vita e alla sua intensa carica di energia. Il cielo è energia pura, metallo liquido che fonde anime, volontà e speranze. L’aria vibra, trepida. Con lui diventiamo fabbricanti di sogni, l’uno l’inizio dell’altro, anche la disneyana bella Anastasia concorderebbe. Sentiamo una voce: “Quando tu guarderai il cielo, la notte, visto che io abiterò in una di esse, visto che io riderò in una di esse, allora sarà per te come se tutte le stelle ridessero. Tu avrai, tu solo, delle stelle che sanno ridere!”; anche noi percepiamo di avere quelle stelle in cielo solo per noi, insieme al nostro fedele amico il Piccolo Principe che guarda in alto con il nostro stesso identico sentire. Noi che nel deserto rimaniamo colpiti dall’immensità del cielo e del suo colore azzurro che contrasta con il giallo intenso della sabbia arsa dal sole, noi che vediamo le nuvole avvilupparsi come il fumo di un vulcano impetuoso. Noi che nella fredda notte del Sahara guardiamo all’insù e che ci domandiamo “se le stelle sono illuminate perché ognuno possa un giorno trovare la sua”.

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Cielo del deserto libico

Talora il cielo piange, quando piove. Qualche volta è arrabbiato, come quando si azzuffa con le nuvole scure che, tuttavia, si lasciano attraversare dai raggi del sole, arrendendosi, alla fine, alla luce del creato. Talora quello stesso cielo è estremamente timido, arrossito di fronte ad alcune confessioni di audaci innamorati, talaltra è roseo e violetto, rincuorato dalle loro infinite tenerezze. E allora il sole lo riscalda al tramonto, lo avvolge nella sua luce arancione di amico e amante, lo bacia. Talora, il cielo è una vera poesia quando è accarezzato dalla neve. Perché la neve è una poesia. Una poesia che cade dalle nuvole in fiocchi bianchi e leggeri. Questa poesia arriva dalle labbra del cielo, dalla mano di Dio. Ha un nome. Un nome di un candore smagliante. Neve. Così Maxence Fermine descrive quello che spesso ammiro d’inverno fuori dalla finestra della mia casa moscovita, fiocchi candidi che mi fanno guardare l’orizzonte infreddolito come me e che, in fondo, lasciano spazio a sogno e attesa di un abbraccio forte che presto mi riscalderà. Il cielo è grigio ma il candore dei fiocchi, che cadono lentamente e intensamente, imbianca ogni pensiero. Presto una coltre morbida, avvolgente e accogliente, ricoprirà ogni paura e ombra di dubbio che potessero essere rimasti annidati nell’angolo di una mente ora leggera. Come una stretta di ali fra angeli. Come vorrei avere le ali per volare sulle nubi possenti e contare i fiocchi uno a uno… Ci vengono in mente gli angeli de “Il Cielo Sopra Berlino”, Damiel e Cassiel, che vedono in bianco e nero un cielo plumbeo che potrebbe essere quello che vedo io oggi, e che osservano le anime dei passanti, ne ascoltano i pensieri, quello di una donna incinta, di un pittore, di un uomo che pensa alla sua ex ragazza. Percepiamo la berlinese statua della Vittoria svettare verso un cielo divenuto azzurro limpido grazie solo al sogno di una pace vera e duratura, terso come quello che abbraccia le cupole panciute delle cattedrali ortodosse russe. Quelle cupole sono così azzurre che si confondono con quel cielo, diventano quasi una sola cosa con esso, fondendosi, unendosi, in un abbraccio avvolgente.

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Mosca, Parco di Kolomenskoe, cupole di una cattedrale ortodossa

Qualcuno dipinge, all’ombra di quelle cupole, qualcuno legge, a voce bassa, avvolto dalla sua bianca lunga barba, qualcun altro ricama all’uncinetto per confezionare i regali dell’imminente Natale. Chi dentro un bar ben caldo e accogliente, chi nello spazio comune della Chiesa dedicato ai fedeli di sempre. Le candele riscaldano. E mentre la loro piccola e fioca luce infonde calore ai cuori infreddoliti, le preghiere che esse hanno ispirato salgono verso l’alto. Verso il cielo, perché esso è libero, aperto, sincero, sereno, fedele amico pur nella sua incostanza e nella sua continua mutevolezza. Perché il cielo è di tutti.

“Il cielo è di tutti” di Gianni Rodari

Qualcuno che la sa lunga
mi spieghi questo mistero:
il cielo è di tutti gli occhi
di ogni occhio è il cielo intero.

È mio, quando lo guardo.
È del vecchio, del bambino,
del re, dell’ortolano,
del poeta, dello spazzino.

Non c’è povero tanto povero
che non ne sia il padrone.
Il coniglio spaurito
ne ha quanto il leone.

Il cielo è di tutti gli occhi,
ed ogni occhio, se vuole,
si prende la luna intera,
le stelle comete, il sole.

Ogni occhio si prende ogni cosa
e non manca mai niente:
chi guarda il cielo per ultimo
non lo trova meno splendente.

Spiegatemi voi dunque,
in prosa od in versetti,
perché il cielo è uno solo
e la terra è tutta a pezzetti.

Foto di Simonetta Sandri
Testo pubblicato su BioEcoGeo Febbraio-Marzo 2014

Parigi val bene una messa, Lucrezia no!

Arrivo dunque nella ben amata città. E appena scorgo gli alberi dei giardini del Lussemburgo i ricordi si affoltiscono e mi sopraffanno. La giornata è di un grigio neutro e alla svolta di Place de la Sorbonne scatta imperiosa la proustiana memoria involontaria e ricordo la prima Lilla imperiosamente portata dentro una sporta dal mai dimenticato amico Pommier nell’aula dove io, il suo babbo umano, avrebbe blaterato su non mi ricordo chi. E lei supremamente intelligente zitta fino allo scatto dell’applauso che sanciva la fine della sua coscrizione cullata dalla voce impostata del non peloso. L’albergo è un due stelle ( si prende ciò che il convento passa. E poi siamo “intellettuali” pronti a ogni sacrificio!) con una grande finestra che guarda il lato della Sorbona. Incredibile il bagno : un metro e mezzo per uno dove ancora la doccia ha la tenda di plastica e il water minacciosamente non permtte di alzare la ciambella perché fisicamente non ci si starebbe più. Ma la pulizia è somma, gli asciugamani impeccabili e cambiati giornalmente- Insomma Maigret non si sarebbe lamentato.

Arriva l’amico Michel (guai chiamarlo alla francese Paolì, accentato alla fine e non Paoli per sottolineare la sua ascendenza italiana). Andiamo da Polydore scoperto non molti anni fa e consigliato da Sateriale allora sindaco quando la grande scommessa era portare Ariosto al Louvre. E ci siamo riusciti nonostante l’indifferenza o il dispetto di certi “feraresi” che poi l’han fatta pagare cara. Folla enorme: si mangia sui tavoli con le tovaglie a quadretti bianchi e rossi, seduti sulle panche. Chiedo le coquilles Saint Jacques: finite. Le confit de canard: terminato. Ripiego sul salmone affumicato ma tanto chi se n’importa. Fuori c’è lei, la città dei sogni, con il suo charme appannato ma ancora non sconfitto dall’omologazione mondiale.

Il giorno dopo incontro con i colleghi in un bistrot davanti al Pantheon ( e dove se no?). La giornata sembra uscita da un film di Disney: cielo azzurro, sfolgorante, “un’aura dolce e sanza turbamento avere in sé” (ti pare che non ci ficco un po’ di lui, Durante detto Dante?), e sous le ciel de Paris chi scrive, gode. Il pensiero allora si ripiega e si specchia sulla Montagne Sainte Geneviève, sulla rue Mouftard ad afferrare il senso del tempo, a catturarlo e a deporlo nello scrigno segreto del ricordo.

Si dà inizio alle cinque ore di discussione della tesi sul rapporto Pavese-Nietsche. Un lavoro “impeccable” direbbero i francesi: 720 pagine che forse cambieranno l’interpretazione della storia culturale torinese tra gli anni Trenta e Cinquanta del secolo scorso. Faccio il dotto, cito gli amici “pavesini”, quelli scomparsi e quelli ancora in attività. Esagero a sparare a zero contro certi semiologi in terra di Francia, insopportabili, a cui la cultura italiana si è prostrata. Infine una festa spagnola in rue Mouftard: champagne, e meravigliosi spiedini. Ho fatto la conoscenza di Emiliò (mi raccomando con l’accento sulla o) il canino della dottorata e ancora Parigi sorrideva agli adolescenziali tremori del puer-senex felice.

Il giorno dopo, che si conclude qui all’aeroporto dove scrivo in attesa del volo, una fredda e rigida città tra brevi piogge e folate di vento attende il cacciatore di ricordi. Discendo Boulevard Saint-Germain e per fare dispetto a Sartre scelgo il Café de Flore invece che Aux deux magots. Per 5 euro riesco a bere un caffè quasi italiano. E mi guardo intorno e scopro quanto di parigino ci sia nelle insegne dei negozi. Quello che mi piace di più è proprio accanto al Café e si chiama “L’écume des pages”, la schiuma delle pagine pieno di matite e fogli e quaderni da scatenare la più intensa libidine. Poi un negozietto di stracci di lusso si chiama “Paul Ka” e si pronuncia Polka. Arriva Clizia non d’origine montaliana ma machiavellica, pura ferrarese, che mi porta al Musée Maillol a vedere la sbandierata mostra sui Borgia. Ahimè! Ma come potevo non andare dopo aver perso anni a studiare la Lucrezia e portarla in giro per l’Europa compresa Parigi? Quadri sublimi: il meglio che si potesse arraffare nei musei più importanti del mondo. Ma la presentazione, ma la storia… da far inorridire qualsiasi persona di mediocre cultura. Nonostante che il grande A A ( Alberto Arbasino) ne avesse parlato con sufficienti censure e con irrisione palese. Di fronte a un ritratto in cui Lucrezia (o chi per lei) viene dipinta di una bruttezza straordinaria, la didascalia recita che la dama era considerata tra le più belle del reame. E il mostrificio continua a sparare le massime ovvietà sulla “debauche” dei Borgia sugli incesti, le vendette, gli assassinii che fanno concorrenza al film (io l’ho visto!!!) su Lucrezia interpretata da Martine Carol. Quasi quasi ci si potrebbe iscrivere al partito borgiano se ancora ci fosse un Gregorovius o la grande Maria Bellonci.
E quindi Lucrezia non vale la messa.
Come un flaneur d’altri tempi m’avvio verso il Louvre dove incontrerò la cara amica Monica. Si va a mangiare in un localino specializzato in thè; ricordiamo i tempi fastosi della mostra e del convegno al Louvre su Ariosto e le arti: la folla, l’eccitazione e lo stupore d’incontrare tanti tifosi del divino Ludovico. Le chiedo se mi fa passare a salutare gli amici che stabilmente ti guardano dale pareti del museo più bello del mondo. Helas! Quando stiamo per arrivare si ricorda che oggi è il giorno di chiusura e che non ha chiesto il permesso speciale per accedervi. Pazienza sarà come un altro desiderio che si realizzerà nel tempo.
Un colloquio a tu per tu con Amore e Psiche giacenti di un modesto scalpellino che si chiamava Antonio e di un innamorato della bellezza che si chiama Gian Antonio.

E Trivago consiglia il capodanno a Ferrara

Italiani già alla ricerca di idee per un capodanno super, nonostante manchino ancora due mesi abbondanti a San Silvestro. In loro soccorso si propone il sito di Trivago [vai]. Fra le undici migliori località, selezionate in base alla qualità degli eventi offerti, c’è anche Ferrara, collocata al sesto posto dopo Milano, Roma, Venezia, Torino, Sirmione e a precedere Orvieto, Napoli, Lecce, Livigno e Bard.
“Ferrara, in occasione di capodanno, fa le cose in grande (per la precisione: in grandissimo!) – scrive Simone Sacchini sul sito Checkin Trivago [vedi] -. Anche per questo inizio 2015 lo spettacolo dei fuochi a ritmo di musica vi lascerà l’impressione di essere in un colossal americano tutto effetti speciali”.
Il più celebre portale per la ricerca di hotel in Italia e nel mondo indica come attrattive non solo i fuochi d’artificio, ma gli “eventi di ogni sorta che la città e soprattutto il magnifico Castello Estense offriranno”. Nel reindirizzare i curiosi al sito ufficiale “capodannoferrara” [vedi] “per scoprire tutto su mercatini, musica, eventi, pattinaggio su ghiaccio, divertimento in piazza”, Trivago indica le proprie preferenze. Il “Banchetto rinascimentale dei Duchi d’Este al Castello Estense con musica d’epoca, in compagnia della Corte Ducale rappresentata da guardie, paggi, ancelle e nobili vestiti con eleganti abiti (una cosa folle!); e l’appuntamento a teatro nelle splendide sale del Ridotto del Teatro Comunale ‘Claudio Abbado’, dove vi aspetta un’elegante serata tra piatti raffinati e vini doc, in compagnia di artisti musicali”.
Non c’è che dire: una gran bella vetrina per la nostra città, che farà la gioia di ristoratori, albergatori, amministratori e stuzzicherà l’orgoglio dei ferraresi.

LA STORIA
La favolosa ‘Banda Biscotti’
ovvero i detenuti-pasticceri

In poco tempo, sono passati dal carcere di Verbania agli scaffali di Eataly e dei colorati e innovativi negozi solidali di Altromercato. Con impegno, tenacia e abilità, sono riusciti a far entrare la ‘dolcezza’ dietro le sbarre.
Parliamo dei dolci e profumati biscotti prodotti dai detenuti del carcere di Verbania, sulla sponda piemontese del Lago Maggiore, dal quale, ogni mattina, si leva un delizioso profumo di burro, cacao, miele, mandorle, zucchero, cannella e vaniglia.
A produrre questa delizia, sono i detenuti della Banda Biscotti, impegnati nel laboratorio di pasticceria del carcere che, dal 2009, sforna ogni giorno delicati baci di dama, gustose lingue di gatto, leggere margherite, fragranti damotti e polentine, perché, come dice un loro slogan “anche i cattivi fanno cose buone, anzi buonissime”.

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I pacchetti di frollini

Frollini per tutti i gusti, che i detenuti con pene inferiori ai tre anni creano e vendono ogni giorno nei circuiti fuori dal carcere, grazie alla Cooperativa sociale Divieto di sosta nata, nel 2007, nella stessa ridente Verbania. Grazie all’art.21 della legge 354/1975, sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà.
A tutti viene data una seconda opportunità, quella di apprendere un mestiere per trovare un lavoro una volta usciti, di riscattare un errore, di vedere una nuova luce, di trovare una nuova strada, insomma, di avere una speranza.
La Banda Biscotti è nata, nel 2008, da un’idea del cuoco del carcere di Verbania, Gianluca Giranni, della Fondazione casa di carità arti e mestieri, che organizzava corsi di cucina per i carcerati. Nel 2009, viene aperto il laboratorio Banda Biscotti, che oggi conta una sede, appunto, dentro la casa circondariale, una nella scuola di formazione penitenziaria adiacente, un’altra nel carcere di Saluzzo e una a Verzuolo.

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Il logo

Il marchio, che racconta in maniera davvero autoironica la sua storia, ha avuto subito successo. Nel 2010, è arrivato sugli scaffali della fiera milanese “Fai la cosa giusta” e non è, poi, sfuggito all’attenzione di Ctm Altro mercato, che ha inserito i biscotti nel proprio circuito, distribuendoli nelle oltre 300 botteghe in tutta Italia sotto l’etichetta “Solidale italiano, economie carcerarie”. I gruppi di acquisto solidale (Gas) hanno iniziato a far entrare i prodotti nei loro circuiti virtuosi, e si è arrivati, infine, negli Ipercoop, nei più piccoli e illuminati negozi di provincia e a Eataly, la famosa catena alimentare di punti vendita di medie e grandi dimensioni specializzati nella vendita di generi alimentari italiani di qualità, fondata da Oscar Farinetti.
Oggi, dal laboratorio verbanese escono circa 120 kg di biscotti al giorno, in pacchetti da 200 grammi che costano dai tre ai quattro euro. Chi ci lavora, oltre al corso di cucina nella casa circondariale, deve aver fatto un tirocinio di sei mesi, retribuito con 600 euro al mese. Poi si passa all’assunzione attraverso la citata cooperativa Divieto di sosta, con l’obiettivo di lavorare per un reinserimento dei detenuti nella società civile.

banda-biscottibanda-biscottiLe avventure della Banda Biscotti, sono, allora, davvero un buon esempio di come si possa passare il tempo in carcere per e a imparare qualcosa. Perché siamo di fronte a esseri umani con voglia di riscatto, ai quali è giusto dare questa possibilità.
Una storia di evasione, di libertà e dolcezze. Una storia che ha dato vita anche ad una serie, “Condannati a creare dolcezze”, che ha partecipato al progetto “Are you series?”, pensato da Milano Film Festival, volto alla produzione di una web serie in 10 episodi che racconti il mondo del non profit italiano, attraverso l’utilizzo di soluzioni creative e linguaggi innovativi. Illogica lab, laboratorio creativo nato dall’incontro tra le personalità creative di Giorgia Di Pasquale, Claudia Palazzi e Clio Sozzani, ha scelto così di partecipare raccontando le avventure della Banda Biscotti.
Perché l’isolamento e i pregiudizi nei confronti dei carcerati si abbattono anche così.

Per saperne di più visita il sito della Banda Biscotti [vedi]  e vedi un video di Repubblica [vedi]

Riscopriamo la Sala dei ferraresi della Galleria di Palazzo Cini

Mercoledì 29 ottobre 2014, alle ore 17.30 – Casa Cini, Ferrara

E’ una doppia ricorrenza quella che la Fondazione Cini di Venezia ha voluto ricordare quest’anno con una serie di eventi eccezionali e di altissimo livello: il trentennale dall’apertura della Galleria di Palazzo Cini e il 60° anniversario della nascita dell’Istituto di Storia dell’Arte avvenuta nel 1954 per volontà dello stesso Vittorio Cini.
In questa occasione ha riaperto infatti al pubblico la Galleria che restituisce alla città di Venezia e anche a noi ferraresi l’opportunità di vedere meravigliosi capolavori toscani e del Rinascimento ferrarese.

E’ in questo contesto che si inserisce l’incontro “La Sala dei ferraresi della Galleria di Palazzo Cini” che si terrà a Ferrara, mercoledì 29 ottobre 2014 ore 17.30 a Casa Cini (via Boccacanale di Santo Stefano 26), casa natale di Vittorio Cini.
Il dottor Alessandro Martoni dell’Istituto di Storia dell’arte della Fondazione Cini di Venezia illustrerà i capolavori della collezione di artisti come Cosmé Tura, Ercole De’ Roberti, Baldassare d’Este, Dosso Dossi e Ludovico Mazzolino, dandoci l’occasione di riappropriarci della figura di Vittorio Cini, nostro conterraneo, imprenditore e grande collezionista di opere d’arte, fondatore e mecenate della Fondazione Giorgio Cini di Venezia, di rivedere le opere della la Sala dei Ferraresi della Galleria (proiezione) e poter riapprezzare quel patrimonio che è anche nostro.

L’incontro è promosso dal quotidiano online ferraraitalia.it, in collaborazione con Casa Cini di Ferrara, e con il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Ferrara, della Galleria di Palazzo Cini di Venezia e dell’Associazione Amici dei Musei e Monumenti ferraresi.
La conferenza sarà presieduta e introdotta da Massimo Maisto vicesindaco e Assessore alla cultura del Comune di Ferrara, da don Ivano Casaroli direttore di Casa Cini di Ferrara e da Gianni Venturi presidente Amici dei Musei di Ferrara.

La conferenza s’inserisce come secondo momento di un percorso teso ad illustrare la formazione di quel prezioso scrigno che è la collezione Cini, e che si compone dei seguenti appuntamenti organizzati dall’Associazione Amici dei Musei:
Conferenza introduttiva alla visita della Galleria di Palazzo Cini: lunedì 20 ottobre 2014 ore 17.00, Circolo Unione (via Borgoleoni 59), ingresso libero, tenuta dalla professoressa Ileana Chiappini di Sorio.

Visita alla Galleria di Palazzo Cini a Venezia: venerdì 31 ottobre 2014

L’OPINIONE
Una Spal da Oscar riscalda il cuore biancoazzurro di Ferrara

di Enrico Testa

Premio Oscar ma non solo. Mi scappava di scrivere cose che non sono riuscito a leggere nei vari teatri di parole biancazzurre. Cose, numeri, fatti che, invece, mi sembrano importanti per distribuire meriti, e non solo, ai diversi protagonisti di questo inizio di stagione spesso – purtroppo – ma non è una novità, offuscato dall’euforia o dalla depressione da singolo risultato e quindi del momento e da giudizi, tutti legittimi, ma basati su poche informazioni.

Parto dall’inizio. Estate. La Spal viene ancora una volta sbertucciata da Indiani e si butta (per fortuna) su Oscar Brevi. Qualche acquisto viene fatto con lungimiranza già al termine della stagione della Promozione oppure comunque prima dell’arrivo di Brevi. Si tratta, tra gli altri, di Ferretti (costo sui ventimila euro compreso lo stipendio in accordo con il Milan), Gasparetto (stipendio tra i più alti, diciamo sui settantamila), Finotto, Miglietta, Aldrovandi. Poi arriva Brevi e, una volta fallite alcune trattative (Arma, Frediani oltre a giocatori dall’ingaggio pesante per le casse della Spal o dalle ambizioni più importanti loro e delle società di appartenenza) tocca trovare alternative. Qui arriva il primo dei meriti del tecnico. Uno serioso, poco espansivo, magari neppure simpatico che poco piace ai mass media abituati a rapporti più “amicali” e confidenziali. Uno, però, che sa il fatto suo e il cui curricula seppur… breve dice parecchio. Basti guardare la stagione da poco archiviata in un Catanzaro costruito dalle macerie diventato poi la sorpresa del campionato grazie a un lavoro incredibile sulla difesa.

Brevi vede quello che ha, chiede alla società quanto e come si può spendere, e poi capisce e si adegua. Altro merito. Perché, bisogna dirlo e scriverlo e capirlo e anche apprezzarlo, i Colombarini sono gente seria a cui la Ferrara nel pallone deve la sopravvivenza e un futuro comunque certo a prescindere dai risultati che arriveranno e che sono già arrivati, ma sono anche gente parsimoniosa che nel calcio fronte Spal ci sono capitati per spirito di servizio e cittadinanza, e per salvare una baracca ormai affossata. Mai il passo più lungo della gamba, in sostanza, attenzione al budget, spazio zero a voli pindarici. Tutto assolutamente sacrosanto e meritorio. Con un piccolo distinguo che non deve essere letto come reato di lesa maestà ma, semmai, come una concessione a un tifoso, chi scrive, che per lavoro ha a che fare da tempo con la Lega Pro e categorie limitrofi. Il piccolo distinguo, vado subito al punto, è il seguente. Anzi, sono i seguenti perché sono due. Il primo è un chiodo fisso, un pallino, una presunzione (anche) di avere su questo punto la certezza della ragione. Il settore giovanile. Dovrebbe essere la base di partenza di chiunque, visto il calcio italiano di oggi, ancora di più per chi milita in terza serie. Esempio a caso. Il Bassano (Lega Pro come la Spal) investe circa 380mila euro all’anno nel suo vivaio. I biancazzurri circa 180. Secondo, attualissimo esempio. Il costo tecnico della Spal di questa stagione, tra acquisti, cessioni, contributi per i giovani, ingaggi ma anche, appunto, contributo per i giovani, incassi super (qui il pubblico meriterebbe il vero Oscar alla carriera) e frattaglie varie alla fine porterà un disavanzo di circa duecentomila euro. Sarà un capolavoro anche in caso di sola salvezza, un miracolo se la squadra arriverà tra le prime otto, un’impresa leggendaria alla Paolo Mazza se succederà quello che nemmeno scrivo.

Ecco il perché di questi pensieri in libertà. Il perché nasce da alcuni fatti. Il primo: causa riforma della Lega Pro difficilmente, anzi quasi certamente, succederà mai più di ritrovarsi in un girone così mediamente scarso come quello in cui oggi la Spal sta facendo la sua ottima figura. Il secondo: grazie al tecnico e ad alcuni colpi indovinati dalla società, i biancazzurri così come sono oggi arriveranno tra le prime otto. Non è poco, attenti a non sottovalutare un piazzamento del genere o a sopravvalutare la rosa della squadra. Tutto questo per dire che la sacrosanta gestione economica della proprietà – questo posso distaccarlo alla voce “appello” – avrebbe bisogno di un’eccezione immediata e nemmeno complicata. Un’occasione così, insisto, non ricapita più. Un difensore esagerato (il classico baluardo), una mezzala super e un attaccante di scorta alla Labardi, uno veloce da mettere anche a mezzora dalla fine quando non riesci a sbloccare la partita, a gennaio li porti a casa tutti insieme con meno di duecentomila euro. Per carità, è facile fare i conti con i soldi degli altri (e chi i soldi ce li ha e li mette potrebbe usare un’espressione più colorita) ma che la situazione e la possibilità biancazzurra sia questa lo dice il livello del girone, i risultati delle cosiddette favorite, la classifica. Un piccolo sforzo e ne riparliamo a fine stagione. Se ci prendo mi accontento di una maglia per la mia infinita collezione.

Scherzi a parte, e per tornare al vero motivo di questo articolo, cioè all’esaltazione dell’allenatore Brevi, credo valga la pena di buttare giù altri numeri. Questi. La Spal, come investimenti, non è tra le prime otto del girone. L’ingaggio massimo di questa squadra, circa 75mila euro per un paio di giocatori, è inferiore a più di un centinaio di giocatori tra i tre gironi. Con queste premesse è chiaro che il lavoro del tecnico sia fin qui eccezionale. Quando le cose andavano male e tutti, ma proprio tutti, già puntavano alla testa dell’Oscar, si diceva e scriveva che aveva fatto il mercato lui, voluto i giocatori suoi, sbagliato ogni scelta. Anche qui, parole, parole, soltanto parole. Brevi ha voluto Fioretti – ma soltanto dopo che gli hanno detto no per Arma, Virdis e altri tre che d’ingaggio volevano il doppio – ha voluto Filippini che come rapporto qualità prezzo è costato un piatto di brustoline, e si è portato Germinale (anche qui a due euro o quasi), ha insistito su Capece (costo irrisorio, scelta più che azzeccata), ha consigliato Legittimo. Punto. Non me ne vogliano gli altri idoli spallini (se indossi questa maglia per me sei un idolo a prescindere) ma con i giocatori messi sul foglio presentato al tecnico, a inizio stagione – quasi tutti poi accasati altrove perché le cifre non erano alla portata – Brevi avrebbe già cinque punti di vantaggio minimo. L’errore vero, poi in parte rimediato, è stato quello di farsi prendere la mano all’inizio. Qui il tifoso, nel senso più positivo del termine, Mattioli ha sparato alto sia con il tecnico sia con Miglietta (altro errore: non il fatto di acquistarlo sia chiaro, ma non tenerlo oltre che gestire malissimo la faccenda). Tanti nomi altisonanti, tanti giocatori forti, una lista della spesa lunga così ma fuori budget. Perché, sempre giustamente, è la proprietà che gestisce i danè. L’entusiasmo del Pres e la sua spallinità assoluta e indiscussa e commovente non erano, e non sono ancora (ma qui continuo a sperare…), in linea con le finanze. Ma pazienza. Guardiamo avanti. Senza esaltazioni o depressioni ma sapendo che fin qui questa Spal merita soltanto applausi perché sta facendo un torneo sopra le sue possibilità. Anche, o soprattutto, per merito del manico che si chiama Oscar. Uno che cambia modulo ogni partita, se serve, che tatticamente non ne sbaglia una, che si inventa Capece in quella posizione, che caratterialmente (e speriamo un giorno anche come risultati soprattutto se sarà ancora qui) assomiglia a Capello.

Avevo premesso, che il personale ritorno – impedito da impegni professionali sia ben chiaro – a trattare vicende spalline necessitava di motivazioni forti e convinzioni precise e speranze importanti. In ordine: la classifica della Spal, la bravura di Brevi, il sogno di un mercato di gennaio che possa riportare, una vita dopo, la Spal là dove nemmeno voglio scriverlo.

* Enrico Testa, caporedattore RaiSport

 

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Presta una mano al capitale umano

Best seller negli Stati Uniti, “Il trionfo della città” di Edward Glaeser, professore di economia all’università di Harvard è stato pubblicato in Italia nel 2012 dalla Bompiani. Glaeser ci conduce in un viaggio lungo i secoli e attraverso i continenti, per rivelarci i volti nascosti della “più grande invenzione dell’uomo”, la città. La dimensione urbana è la culla di miracoli fisici, economici e culturali. Per progredire, le città devono attrarre la gente in gamba e far sì che essa possa lavorare collaborativamente, solo così si può ripetere un evento come fu, nella storia delle città e del mondo, il Rinascimento a Firenze.
Insomma, al termine della lettura appare con tutta evidenza che sono le nostre città il punto migliore da cui partire per il rilancio del nostro Paese.
Non manca un manifesto programmatico, proposto in dieci paragrafi. A noi interessa quello intitolato “Presta una mano al capitale umano” e da questo attingiamo ampiamente per sostenere ancora una volta le ragioni della “Città della Conoscenza”.
È famosa la frase di Rousseau che “le città sono l’abisso della specie umana”, ma poi sappiamo che lui vedeva le cose esattamente all’opposto, a partire dall’istruzione.
Dell’istruzione scrive l’economista Glaeser riportando indagini e statistiche. Innanzitutto affermando che l’istruzione è l’indicatore più affidabile della crescita urbana, perché il prodotto pro capite cresce nettamente se la città offre buona istruzione, altrimenti no. Poiché città e scuole si integrano a vicenda, la politica dell’educazione è un ingrediente vitale del successo urbano.
È sufficiente confrontare il reddito annuale dei laureati con quello dei diplomati della scuola media superiore, anche se in Italia le differenze non sono così marcate come altrove, per rendersi conto che è conveniente studiare.
Tra le nazioni, un anno in più di scolarizzazione – si pensi che da noi si parla di ridurre di un anno la secondaria di secondo grado – si accompagna a un 37% in più di reddito pro capite che è un dato rimarchevole, dato che un anno in più di scolarizzazione fa crescere generalmente le remunerazioni individuali del 20%. Le ricadute che si hanno a livello di Paese dalla scolarizzazione sono alte proprio perché esse includono anche tutti i benefici indotti dall’avere concittadini istruiti, compreso governi locali e nazionali più affidabili.
Scrisse Thomas Jefferson che “Se una nazione pensa di restare ignorante e libera, in una condizione di civiltà, si aspetta una cosa che non è successa mai e mai succederà”.
Il legame tra istruzione e democrazia è forte, non tanto perché le democrazie investono di più sull’educazione, ma perché la conoscenza genera democrazia.
Secondo uno studio condotto sulle leggi dell’istruzione obbligatoria attraverso i vari Stati, gli individui che ricevono più scolarizzazione in virtù di queste leggi diventano più impegnati sul piano sociale.
L’istruzione non migliora semplicemente le prospettive economiche di una regione; contribuisce anche a creare una società più giusta. Dare un buona istruzione ai bambini meno fortunati può essere da solo il miglior modo per aiutarli a diventare degli adulti prosperi.
Se però è facile inneggiare all’istruzione, difficile è poi migliorare i sistemi scolastici. Trent’anni di ricerche hanno dimostrato che se si impegnano semplicemente dei soldi su questo problema, non si ottiene un granché. I più importanti risultati vengono raggiunti con interventi preventivi del tipo Head Start, il programma del Dipartimento della salute e dei Servizi alla persona degli Stati Uniti per ridurre gli svantaggi di partenza.
Ma per promuovere veramente l’istruzione c’è bisogno di una riforma sistematica, non solo di più soldi a disposizione. È ciò che a nostro avviso sembra mancare al progetto ‘la buona Scuola’ di questo governo e, se proprio ‘buona’ si deve usare, avremmo preferito ‘la buona Istruzione’.
Con abbastanza denaro a disposizione e un governo competente potremmo essere in grado di creare un accesso universale a un’eccellente istruzione puramente pubblica.
Ma la qualità dell’istruzione si gioca a partire dalle nostre città, perché il capitale umano costituito dai loro abitanti è l’ingrediente primo del loro successo.
Poiché il valore delle nostre scuole dipende dal talento dei loro insegnanti, la città su questa parte rilevante del capitale umano non può essere distratta. Le ricerche hanno dimostrato enormi divari di rendimento educativo tra gli insegnanti migliori e quelli meno buoni.
E allora prendersi cura delle proprie scuole, investire sulla loro eccellenza è il modo migliore per tutelare il futuro dei nostri figli, perché solo l’istruzione di qualità, con strutture efficienti e docenti all’altezza del compito può produrre persone sempre più capaci perché competenti.

L’INTERVISTA
Entrano in scena gli aspiranti attori. Malucelli: “Puntiamo su comicità e commedia dell’arte”

“Dalla commedia dell’arte alla comicità contemporanea”. Il nome dell’iniziativa promossa da Fonè Teatro parla chiaro e, a partire dal prossimo giovedì, accenderà i riflettori sul panorama teatrale ferrarese attraverso un’operazione coordinata e innovativa. Un’operazione che, selezionando gli iscritti attraverso il provino che si terrà il 30 ottobre 2014, si articolerà in un laboratorio dove archetipi rappresentativi della condizione umana e canovacci contemporanei formeranno la compagnia “I Buffoni Divini”, pronta a diventare un organismo indipendente e di rilevanza nazionale. L’iniziativa, che garantirà una borsa di studio per il partecipante più meritevole, punterà alla creazione di uno spettacolo replicato in varie situazioni e, come si evince dal programma, prevede due incontri serali a settimana.
A intrattenere i dodici attori che supereranno il provino saranno alcuni temi fondamentali per la formazione di chi giudica il teatro non un semplice hobby: dalle tecniche di improvvisazione alla drammaturgia di personaggi intramontabili, come Innamorati e Capitano, Fonè Teatro ha stilato un programma ricco e dinamico, il quale, diviso in due parti, approfondirà anche la situazioni drammaturgiche contemporanee e i processi creativi di un teatro che “apre il cuore dello spettatore”. Così ha dichiarato a FerraraItalia Massimo Malucelli, direttore dell’iniziativa, rimarcando la valenza sempre attuale dell’intramontabile commedia dell’arte, un genere destinato a smuovere l’animo del pubblico per condurlo nelle infinite varianti del mondo del teatro e della recitazione…

Diamo uno sguardo alle origini dell’iniziativa promossa da Fonè Teatro. Da dove nasce questa idea? Quali altre attività realizzate dalla scuola l’hanno preceduta?
Fonè Teatro racchiude 25 anni d’esperienza a Ferrara. La commedia dell’arte e altri generi affrontati dalla scuola hanno arricchito il panorama ferrarese nel corso di questi anni e rafforzato i rapporti con i Paesi stranieri, dall’Inghilterra agli Stati Uniti, alla Spagna, Fonè ha avuto modo di affrontare già altre volte la commedia dell’arte attraverso provini, attività e corsi teatrali.

Quali sono gli elementi che rendono la commedia dell’arte ancora attuale?
La commedia dell’arte è il fondamento del teatro occidentale. Grazie a essa, il teatro contemporaneo è in grado di aprirci il cuore con le risate e la capacità di immaginare una comune condizione umana condivisa da tutti, come hanno fatto Stanlio e Ollio. Il carattere attualizzante della commedia sta dunque nella sua universalità e nell’universalità dei suoi archetipi, che ribaltano le coordinate del reale per trasformare la drammaticità in comicità. Prendete un tema difficile come la morte: è affrontato con quella risata e quella fantasia che, in ogni epoca, ci aiutano a sopravvivere.

Ci sono opere che porrà al centro dell’attenzione durante le lezioni del corso?
Più che le opere, mi concentrerò sullo spettacolo. D’altronde, alla commedia non interessa il testo: preferisce basarsi sul canovaccio. Nel corso dell’iniziativa, cercherò di adottare le stesse modalità di lavoro adottate dall’autore inglese, dando io stesso una forma al percorso della compagnia. Sono gli attori a diventare gli autori. Molière si avvicina alla commedia dell’arte, ma la nostra attività procede in modo indipendente dai grandi del passato.

Quanto conterà il percorso storico teorico della Commedia dell’Arte alla comicità contemporanea? Come si svolgeranno le lezioni?
Non bisogna dimenticare che l’attività si incentra sul lavoro di un teatrante, non su quello di un professore. Certo, la teoria è importante e il corso vi dedicherà alcune parti della lezione, ma il teatro, più che studiarlo, lo si deve fare. Senza conoscere il palcoscenico, l’attore è come un medico che non ha mai sezionato un cadavere: un’incompletezza che, oggi, rende imperfetto il teatro occidentale e che limita la preparazione di chi si è iscritto al Dams. Proprio per offrire agli attori l’opportunità di fare teatro, ho previsto 80 ore da dedicare al corso a cui si aggiungeranno le ore incentrate sulla messa in scena. A ciò seguirà il tour nazionale de “I Buffoni Divini”, portati in giro da Fonè Teatro il prossimo anno. La nuova compagnia potrà quindi decidere se proseguire collettivamente oppure se scindersi in percorsi individuali, affrontati dagli attori autonomamente.

Di certo, la partecipazione di Giffoni Film Festival sarà una rampa di lancio da non sottovalutare…
Fonè ha instaurato con Giffoni un fortissimo legame, che offrirà prestigio e pubblicità all’iniziativa. E’ il più grande Festival del cinema giovanile, che si sta espandendo in tutto il mondo. Ma se lo merita: è una multinazionale che lavora sulla qualità. Non è un caso che Truffaut l’abbia descritta come quell’occasione destinata a creare il nuovo pubblico, le “nuove leve” del teatro.

Il programma del corso esalta la contemporaneità. Attraverso quali tecniche verranno adattati personaggi tipici, come Pantalone e Zanni, alle situazioni attuali?
Più di tecniche, che vengono solo applicate, parlerei di processi creativi. Variano continuamente e consentono di sfruttare il materiale sotto una luce diversa. Per farle capire questo processo, le ricordo una scena de “La vita è bella”. Quando Benigni si offre di tradurre gli ordini del militante tedesco e trasforma il suo discorso in un gioco innocente e terribile al tempo stesso, la regia ha applicato la medesima tecnica che attueremo noi nel corso del laboratorio: adatteremo i personaggi alla vita contemporanea attraverso la nostra creatività, esattamente come Benigni ha trasformato il dramma più profondo in poesia e divertimento. La commedia lo faceva 400-500 anni fa, il cinema lo ha fatto con Chaplin, noi ci proviamo nel corso del laboratorio.

Nel programma si legge che il corso è rivolto ad attori, registi e studiosi di teatro. Quanto sarà importante la preparazione ricevuta e l’esperienza nelle attività promosse dal laboratorio?
Ovviamente devono esserci delle potenzialità a livello avanzato.

Archetipi e attori. Quanto conterà l’indole dei partecipanti per l’esercizio di questi ruoli?
Sarà importante, ma le possibilità sono diverse. Ho conosciuto persone estroverse che, pur essendo apparentemente avvantaggiate, si sono mostrate superficiali e inadatte a personificare un certo personaggio. Altre, invece, più timide, hanno evidenziato una creatività del tutto inaspettata. Ma molto dipende dal ruolo con cui si ha a che fare.

Tra le materie trattate durante il corso spiccherà il rapporto con il pubblico. Quali sono i mezzi che sfrutterà per metterlo in pratica? Non ritiene che, in una realtà dove il “filtro” dello schermo divide attore e spettatore, questo legame sia più difficile da realizzare?
Sì, ritengo che sia un grande problema, poiché, oggi, si dà sempre meno importanza al teatro. Ma, allo stesso tempo, penso che la gente continui ad aver bisogno del contatto fisico e, per rivitalizzare questo settore, è necessario capire che il teatro è un’occasione per esserci. Un’occasione che deve conquistare il pubblico senza annoiarlo, come accade in gran parte delle rappresentazioni odierne. Il teatro non deve essere una pizza, ma, riprendendo le parole di Bertolt Brecht, deve divertire. Per farlo, dobbiamo puntare alla comicità, uno dei pochi mezzi che ci permettono di uscire dallo schermo.

L’iniziativa è volta a rilanciare l’esperienza teatrale. Com’è stata accolta? Ha notato interesse fino a oggi?
Assolutamente sì. La pagina Facebook dedicata all’iniziativa gode di grande attenzione. Ma i bilanci si trarranno alla fine, anche se speriamo di mantenere alto l’interesse finora mostrato.

Ma guardiamo al teatro sotto una luce più ampia. Come giudica una città come Ferrara che, in passato, ha lanciato non pochi attori?
Il panorama teatrale ferrarese, negli ultimi 25 anni, si è molto ampliato. Nel 1990, quando cominciai a impegnarmi in queste attività, la città era vuota e solo a Pontelagoscuro si poteva scorgere un po’ di movimento. Oggi, le cose sono cambiate e, grazie a interazioni con l’università e il territorio esterno, Ferrara ha fatto molta strada. Ma continuo a lavorare per creare una culturale “generale”, in grado di conquistare anche l’interesse della Provincia.

Quali altre iniziative sta progettando? Cosa dovremo aspettarci?
Ci sono tante idee in cantiere. Oltre ad arti corsi attivati in città, ricordo l’inaugurazione della stagione teatrale a Tresigallo, dopo che, per molti anni, è stata interrotta. Inoltre, puntiamo alla realizzazione di festival e di iniziative nei territori provinciali più lontani, mantenendo i contatti con i nostri Paesi gemellati, come Spagna e Scozia.
Infine, ricordo l’inaugurazione della nuova sede di Fonè Teatro, programmata per il 25 novembre prossimo. Vi parteciperà anche il Presidente del Giffoni Film Festival e ve lo posso assicurare: sarà un evento che non passerà inosservato. Incrocio le dita e spero di riuscire a coordinare il tutto!

LA SEGNALAZIONE
Ferrara e la Grande Guerra, manifesti che hanno fatto la storia

Una mostra per ripercorrere la Grande Guerra nella nostra città che, forse non tutti lo sanno, durante il primo conflitto mondiale è stata dichiarata non solo ‘zona di guerra’, ma addirittura ‘zona di operazioni militari’. L’esposizione “Sui muri di Ferrara. La prima guerra mondiale attraverso i manifesti” è curata da Enrica Licci e Dolores Daghia, docenti del Laboratorio per la Didattica dell’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara: “Come insegnanti abbiamo pensato prima di tutto ai ragazzi e abbiamo voluto mettere in luce aspetti poco conosciuti della I Guerra Mondiale, temi che in classe spesso non si affrontano, cercando anche di dare la prospettiva di chi ha vissuto questi eventi”.

Fra le tante discontinuità segnate dalla prima guerra mondiale c’è anche quella della comunicazione: in questo campo la modernità del primo conflitto novecentesco segna un salto di qualità grazie all’uso di nuovi strumenti come la macchina fotografica, la radio, il cinema e i manifesti, utilizzati per informare, ma soprattutto per mobilitare quelle che sembrano essere le protagoniste del nuovo secolo, le masse. Nella mostra curata da Enrica Licci e Dolores Daghia ci si concentra sui manifesti originali scelti dalle delle collezioni del Museo del Risorgimento e della Resistenza per evidenziare come lo stile e il linguaggio cambino nel corso delle fasi conflitto e a seconda dello scopo del documento: “Abbiamo voluto far parlare questi manifesti, perché sono interessanti sì dal punto di vista storico, ma anche dal punto di vista linguistico”. A spadroneggiare è naturalmente il tono magniloquente e retorico della propaganda nazionalista: dal “decalogo dell’italiano” all’annuncio che “il contegno dell’Austria ha trascinato anche la patria nostra nell’immane conflitto che insanguina tutta l’Europa”. Al suo servizio vengono messe anche le arti grafiche e così le forme eleganti e nobili del liberty passano dalle illustrazioni per i manifesti pubblicitari delle grandi esposizioni internazionali a quelle per i manifesti e le cartoline per il prestito nazionale. Dopo Caporetto, invece, il messaggio predominante è l’appello all’unità e alla solidarietà. I manifesti vengono utilizzati però anche per informare la popolazione, per esempio sugli sviluppi delle trattative di Versailles: proprio il proclama del Presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando sugli sviluppi al tavolo della pace è, fra quelli esposti, uno dei migliori esempi di un nuovo stile comunicativo che si potrebbe definire ‘poco diplomatico’.

Sui muri di Ferrara. La prima guerra mondiale attraverso i manifesti rimarrà aperta fino al 9 novembre nella Sala Mostre del Museo del Risorgimento e della Resistenza di Ferrara e sarà visitabile dal martedì alla domenica dalle 9.30 alle 13 e dalle 15 alle 18.

Ecologia del web

Vorrei proporre una riflessione sull’ansia da web, cercare – anche personalmente – qualche spazio per una sorta di ecologia del web, si potrebbe dire riprendendo il vecchio e autorevole titolo di Bateson “L’ecologia della mente”. Non mi riferisco tanto alla perpetua connessione, al fatto che controlliamo di continuo i messaggi ricevuti, che rispondiamo alle mail di lavoro anche la domenica mentre stiamo parlando con amici, non mi riferisco solo al senso di spaesamento che avvertiamo se il nostro operatore ci disconnette momentaneamente. Sarebbe relativamente facile trovare una disciplina per tutto questo.
Mi riferisco, soprattutto, all’ansia da prestazione che ci prende quando navighiamo in rete, al senso di inadeguatezza sollecitata dall’abbondanza di articoli interessanti relativi al nostro campo di interesse, alla sensazione continua di non essere abbastanza aggiornati, di avere perso questa o quella importante ricerca, e così via. Eppure è un enorme vantaggio poter consultare articoli scientifici dalla propria postazione, scorrere i titoli dei più prestigiosi giornali internazionali, verificare lo stato dell’arte nel nostro ambito di lavoro. Ma poi, quando leggiamo tutto questo? Dove mettiamo la carta stampata sui contenuti che ci sembrano irrinunciabili? Dopo quanto tempo dimentichiamo il nome del file in cui abbiamo archiviato il succulento frutto di una fortunata ricerca di nuovi materiali? Il Web si muove ad un ritmo incredibile e media un numero crescente di servizi; enfatizza la velocità e la volatilità di ogni informazione, diffusa e bruciata nello stesso tempo. Gli utenti si aspettano in tempo reale (o quasi) le risposte. Siamo sommersi da notifiche e ci pentiamo di avere chiesto informazioni perché non ci liberiamo più delle proposte che ne seguono.
Tutto il sovraccarico che ne scaturisce non è sano e allora emerge l’idea dello “slow web”. Su questo obiettivo nasce il sito theslowweb.com [vedi] che propone idee per non essere sopraffatti dalle tecnologie. La pagina intende fornire buoni esempi, tentare di elaborare linee guida, esplorare ulteriormente la psicologia e le ragioni per una lentezza del web.
In definitiva, la filosofia che anima il movimento Slow Web non è improntata a nessun rifiuto, ma propone una sorta di autodifesa da rischi di schiavitù. D’altra parte, rapidamente una pratica così pervasiva diviene un’abitudine che può essere malsana e che forse limita, piuttosto che accrescere, la nostra capacità di informarci, di metterci in relazione, di capire meglio il nostro tempo e così via. Un’abitudine che forse abbassa, piuttosto che elevare, la nostra efficienza e produttività, poiché le ore spese in rete sono sottratte al lavoro, allo studio, al sonno e al riposo. Ognuno lamenta questo problema rispetto al proprio lavoro: il fatto di essere sommerso da un flusso costante di informazioni e di essere sotto pressione per rispondere immediatamente. Alcuni software stanno cercando di risolvere il problema di questa sovrabbondanza di informazioni, per evitarci tra l’altro le improbabili risposte che talvolta capita di dare a chi ci scrive, come “la mail non funziona bene”, o “forse il messaggio è finito nello spam”. Ma al di là dei dispositivi, sarebbe meglio riflettere sulle ragioni che inducono dipendenza e magari trovare il modo di trovare il modo migliore di sfruttare un’opportunità, senza che diventi un vincolo. Ciò vale per le persone come per le organizzazioni.

Maura Franchi – Laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing, Marketing del prodotto tipico. I principali temi di ricerca riguardano i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand. maura.franchi@gmail.com

LA RIFLESSIONE
Oltre la protesta: l’orizzonte della sinistra

La Cgil e la sua manifestazione di Roma sono roba vecchia, il Pd della Leopolda è il nuovo. Tra futuro e passato volete restare ancorati al passato? Fatti vostri, il mondo è cambiato, il posto fisso non c’è più, noi andiamo avanti. Questo è stato il messaggio di Matteo Renzi concludendo la kermesse di Firenze.
In realtà le cose escono dalle metafore usate ad effetto dal premier – quelle ad esempio del “pensionato che pensa non finiranno mai i lavori nella stradina sotto casa sua”, o di chi “si ostina a rimanere aggrappato all’articolo 18, che è come azionare lo smartphone con un gettone” – e investono ben altri terreni. Per esempio, se abbiano ancora cittadinanza i partiti nel senso tradizionale, o se siano inutili orpelli del passato. Chi sia oggi e cosa sarà domani la sinistra. Perché ci si ostina a combattere la precarietà con le manifestazioni di piazza. E tralasciamo le battute (“non lasceremo riportare il Pd al 25%” o “non consentiremo di fare del Pd il partito dei reduci”) che fanno parte dell’armamentario polemico del momento.
Le questioni fondamentali che stanno sotto la pelle del discorso di Renzi suscitano interrogativi importanti. Provo ad evocarne tre. Primo: chi è chi lavora? Una persona o una merce? Deve avere dei diritti, oltre che dei doveri? Deve essere tutelato o una volta stipulato un contratto va tutelato a discrezione di chi gli dà lavoro? Secondo. Cos’è un sindacato? Un organismo che esercita delle tutele e difende dei diritti collettivi oppure un soggetto che sarebbe meglio eliminare perché con la sua azione inceppa lo sviluppo di un Paese? Terzo. Deve ancora esistere una sinistra che stia dalla parte delle persone più deboli e meno garantite, quando invece oggi la dinamica sociale ed economica offre tantissime opportunità solo a chi voglia provarci?
Renzi è abile, sa quando accelerare e quando frenare. Vuol far passare l’idea che è investito di una missione (“ce la siamo cercata noi la bicicletta” “farò al massimo due legislature” vuol dire, si badi, che il potere politico uno se lo prende e se lo mantiene finché vuole, a meno di sconquassi). Conta sulla superficialità dell’opinione pubblica, che bisogna folgorare con battute e slogan efficaci.
Tutto questo però non significa commettere l’errore di liquidare il premier e le sue idee in modo semplicistico, affermando, come si sente dire, che ha rimesso a nuovo e sta realizzando le idee di Berlusconi. Potrebbe essere vero, ma sarebbe troppo poco. Poco per il sindacato – penso ovviamente alla Cgil – che deve ripensare le proprie strategie e sburocratizzarsi, riorganizzarsi in una situazione sociale ed economica in vorticoso cambiamento, assumendo l’orizzonte europeo e internazionale come una costante della propria azione, non mantenere rendite di posizione e non perdendo mai il legame con i soggetti che intende difendere (tra i quali i tantissimi giovani che ho visto a piazza San Giovanni). Poco per la sinistra, che deve riposizionare in fretta idee e concetti nel XXI secolo, senza dimenticare mai che lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla donna, nelle sue diverse varianti, purtroppo esiste ancora.

Tre giovani cantanti ferraresi all’Ariston per le finali nazionali
di una voce per Sanremo

Alice Guerzoni ferrarese di 29 anni, Denis Mazzini 21 anni di Portomaggiore e Noemi Ragazzi 18enne di Bondeno sono i giovani cantanti ferraresi che sfideranno un centinaio di promesse canore provenienti da tutta Italia al centro Roof dell’Ariston di Sanremo, per le semifinali e finali nazionali di “Una Voce per Sanremo 2014 – sezione editi”. L’obiettivo e quello di piazzarsi nei primi 15 che darebbe loro la possibilità di tentare il passaggio alla fase delle selezioni di Sanremo Giovani. L’associazione ferrarese Merkaba Eventi mandataria del concorso per Emilia e Veneto ha selezionato durante il tour invernale 13 talenti, che si dovranno presentare alle ore dieci all’Ariston, per compiere le procedure amministrative laddove successivamente sarà comunicato l’ordine di entrata dei partecipanti e in seguito (dalle ore 11 alle ore 20) si aprirà la competizione. I semifinalisti presenteranno un brano edito in lingua italiana, della durata massima di tre minuti e mezzo, poi, il giudice unico Grazia Di Michele – vocal-coach della trasmissione Amici di Maria De Filippi – elencherà i nomi dei 30 cantanti finalisti. Alle ore 21 i ragazzi riproporranno la canzone e tre ore dopo si svolgerà la cerimonia di premiazione che stabilirà ufficialmente chi saranno i 15 cantanti nominati a partecipare, tramite la casa discografica “Bao Bello Music” di Fabio Ciacci, il “patron” della manifestazione, alle selezioni discografiche “giovani” per la 65esima edizione Festival della Canzone Italiana di Sanremo.

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Alice Guerzoni di Ferrara
Noemi-Ragazzi-Bondeno
Noemi Ragazzi di Bondeno
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Denis Mazzini di Portomaggiore
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Il ferrarese Denis Mazzini con Mimmo Turone
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Martina Berneschi (assessore di Portomaggiore), Noemi Ragazzi e la vocalist Iskra Menarini

L’INTERVISTA
Rinaldi tra Don Chisciotte, Gramsci e Sancho Panza: “Al fondo di tutto c’è la persona”

Il “potere” è l’immondizia della storia degli umani
 e, anche se siamo soltanto due romantici rottami,
sputeremo il cuore in faccia all’ingiustizia giorno e notte:
 siamo i “Grandi della Mancha”,
Sancho Panza… e Don Chisciotte! (Don Chisciotte, Francesco Guccini)
Sono fortunata, è un pomeriggio tranquillo nell’ufficio di via Mambro, da dove Raffaele Rinaldi coordina i servizi dell’Associazione Viale K, con cui collabora dal 2002 e di cui è direttore dal 2012. Raffaele ha tempo per quella che diventerà una lunga chiaccherata ed è di buon umore perché in mattinata sono passate a salutarlo alcune persone che sono state al centro di accoglienza e ora, passo dopo passo, stanno riemergendo da quella che lui chiama la “Ferrara di sotto, una Ferrara che non vede nessuno”.
Inizia così la nostra conversazione, e subito mi rendo conto che Raffaele nutre una passione profonda per ciò che fa, a differenza di molti ha trovato non un modo ma il suo modo di contribuire alla costruzione di una società fondata sulla persona: “Il fondamento di tutto è la persona, ognuno nel suo lavoro è chiamato a umanizzare il mondo”. Per questo la prima cosa di cui mi parla è proprio il suo lavoro: “E’ vedere i numeri, le statistiche diventare carne e ossa, uomini, donne, famiglie, giovani coppie, la faccia scavata dall’angoscia di cadere in uno stato di povertà, oppure di non riuscire più a risalire la china. Vedo volti, ascolto storie, biografie, non c’è spazio per l’omologazione. Il problema si pone dopo aver dato loro un pasto caldo e un posto dove dormire, cosa faccio ora? Bisogna lavorare sulla promozione della persona, ma prima la devi riconoscere come persona: non c’è la categoria degli immigrati, quella dei poveri, devi saper guardare in faccia le persone per accorgerti veramente della profondità del disagio”.

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Raffaele Rinaldi direttore dell’associazione Viale K

La sua collaborazione con l’associazione di don Bedin è cominciata quando ha raggiunto la sua famiglia a Ferrara dalla Puglia, più precisamente da Monte Sant’Angelo. Chiuso lo stabilimento petrolchimico di Manfredonia, il papà fra Milano, Marghera, Gela e Ferrara – queste le possibili mete messe a disposizione dall’azienda – sceglie quest’ultima perché “è una città a misura d’uomo e l’Emilia è una regione accogliente”. Raffaele si paga la specialistica di filosofia con un lavoro stagionale allo zuccherificio, con la speranza di diventare insegnante. Nel frattempo continua l’esperienza di volontariato che ha già iniziato in Puglia. “Quando hai deciso che questo sarebbe stato il tuo lavoro?”, gli chiedo. “Quando il responsabile è stato trasferito nella nuova struttura di Sabbioncello don Domenico mi ha accennato alla possibilità di prendere il suo posto. Devo essere sincero, prendermi la responsabilità di coordinare le strutture, mettermi in contatto con le istituzioni, con i servizi sociali, non mi sembrava ancora alla mia portata. Poi la cosa ha preso piede e mi ha appassionato, soprattutto quando mi sono reso conto che non è solo questione di assistenza, si tratta di costruire dei percorsi per fare in modo che, insieme o dopo l’accoglienza, si possano dare ai ragazzi gli strumenti per riuscire a venire fuori dalle situazioni di bisogno. E questo lo puoi fare solo insieme alle istituzioni”. La cosa più stimolante per Raffaele sembra essere “rispondere ai bisogni che di volta in volta arrivano dal territorio articolando la prassi della solidarietà: noi rispondiamo al bisogno della persona, non alla categoria”.
Tante le fonti da cui trae l’ispirazione per questo suo impegno quotidiano: il personalismo comunitario di Mounier, per cui esistono una trascendenza verticale e una “trascendenza orizzontale”; Dante, che non reputa gli ignavi degni neppure dell’Inferno, “sciaurati, che mai fuon vivi”; Gramsci, per il quale “chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano”. E poi l’articolo 3 della Costituzione, che al comma 2 recita “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica”. “La lotta alla povertà – chiosa Raffaele – non può essere lasciata al buon cuore delle anime belle, bisogna restituire libertà alle persone escluse, dando loro dignità, ognuno deve potersi esprimere e partecipare alla vita della comunità: se io non ho diritti, come posso partecipare?”. Infine il Vangelo, in particolare la parabola del buon samaritano: “la domanda – mi spiega Raffaele – non è chi è il mio prossimo, ma a chi tu ti fai prossimo: non è tanto avvicinarsi a chi ti è lontano, ma non allontanarti da chi ti è vicino, chinarti su quei volti, e accompagnarli in un percorso di vita”.
Ora, gli dico scherzando, passiamo alle domande difficili: cos’è per te la povertà oggi? “È non saper riconoscere la povertà come tale, ma soltanto come disordine dell’arredo urbano. Non c’è più la persona: nell’odierna cultura dello scarto se lavori e produci bene, altrimenti non sei niente, anzi devi toglierti dai piedi perché dai fastidio. Danno fastidio i senza fissa dimora che dormono sulle panchine, ma non per la loro situazione, perché sono brutti da vedere. Viviamo in una bolla di sapone, bella ma effimera, abbiamo perso l’esperienza della relazione. Come diceva don Tonino Bello, la povertà è il sacramento delle nostre miserie, cioè non la vogliamo vedere perché rimanda alla miseria che abbiamo dentro”. Per non parlare poi della strumentalizzazione della povertà: “La cultura dello scarto, come la chiama Bauman, produce una rappresentazione sociale dei poveri, degli immigrati fondata sulla paura per raccogliere consensi e distrarre dai veri problemi come il lavoro o la giustizia sociale”.
Le ultime domande sono per la sua esperienza politica come candidato di Sel, a maggio scorso alle amministrative e ora alle regionali. “Ho sentito parlare Nichi Vendola negli anni ’80 quando non ero ancora maggiorenne e il progetto di Sel mi è piaciuto in quanto marca molto sul discorso della giustizia sociale, un’alternativa per la costruzione di un welfare forte, ma fino a quando mi hanno chiesto di candidarmi sono rimasto solo un simpatizzante”. “Il mio lavoro ha già una sua forte dimensione politica, quello che vorrei fare è dare un contributo per ottenere il passaggio dalla carità alla giustizia, non più dare qualcosa per carità quando spetterebbe per giustizia. Vorrei che questa fetta di popolazione di cui mi occupo avesse una voce nelle istituzioni, perché il terzo settore può dare un grande contributo alla costruzione di una società più giusta, anzi lo sta già facendo”.

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Il Don Chisciotte di Salvador Dalì

Secondo Raffaele il punto da cui partire è il passaggio dall’assistenza al “welfare generativo” cioè “l’assistenza non come un costo, ma come un investimento sulle persone che poi con le loro capacità e per quello che sono in grado di fare a loro volta fanno qualcosa per gli altri, restituiscono l’aiuto offerto loro. Ad esempio attraverso micro-comunità che possano avere una funzione di incubatori, moltiplicatori, delle capacità e della solidarietà”. Ma Raffaele non è solo un utopista, un idealista alla Don Chisciotte, personaggio che pure ama molto, in lui c’è anche un sano realismo alla Sancho Panza, che sicuramente gli deriva dal suo lavoro. Quando parla della “macchina della politica” afferma, citando don Milani, che “è inutile avere le mani pulite se le tieni in tasca”, e aggiunge “in politica devi operare delle scelte difficili, si fa presto ad andare fuori in piazza, il difficile poi è cambiare le cose da dentro il sistema: le scelte, gli sbagli, le alleanze, però stai dentro il gioco della politica e non ti puoi sottrarre”. Insomma “le impennate utopiche” vanno bene, ma poi si ha a che fare con la sofferenza reale qui e ora: “I bei sogni senza politica rimangono miraggi, e la politica senza sogni è solo amministrazione. La politica, pur se difficile e deludente a volte, rimane l’unica strada per realizzare quei progetti a servizio dell’uomo”.

L’OPINIONE
Le belle bandiere
e gli ideali
che meritano rispetto

Ieri, nel guardare le immagini in televisione della bella manifestazione sindacale, il mio animo profondamente malinconico, per un attimo, ha rivissuto altre manifestazioni altrettanto partecipate, ho cantato con il silenzio del pensiero canzoni di lotta operaia, ho alzato il pugno sinistro chiuso ed ho aperto e sventolato la mia bandiera rossa… E’ vero, noi ex comunisti siamo così, nonostante tutto ci emozioniamo nel vedere un popolo unito in una missione di lotta, nel vedere le bandiere rosse sventolare all’unisono, si, lo ammetto, anche io, malinconicamente, lascio correre la mia anima all’emozione. In fondo non c’è niente di male, anzi, è bello essere parte di una storia condivisa ed avere condiviso con tanti compagni momenti di lotta, quindi al bando tutti coloro che guardano ciò con il disgusto del ben pensante borghese e radical chic. Poi, però, con il raziocinio dei miei 58 anni, con il peso sulle spalle della crisi economica che ha distrutto le mie certezze e che ha minato le mie residue speranze, ho lasciato in disparte la passione, ho ridotto le mie emozioni ed ho lasciato spazio ai numeri della razionalità.
Così, dopo gli attimi di pura irrazionalità mi sono ritrovato ad analizzare freddamente quanto vedevo, ma quanto, sopratutto, ascoltavano le mie orecchie, ed allora, solo allora, ho compreso che l’elemento scatenante le mie emozioni erano le stesse parole usate negli anni, gli stessi slogan, e, quasi, gli stessi visi incazzati (aggiungo giustamente incazzati), ed è stato nel duro risveglio alla realtà che ho veramente compreso la mia distanza da ambedue le manifestazioni che si sono svolte ieri, da una parte quella marea di compagni che chiedevano, magari usando parole desuete, solo di modificare un decreto pur necessario, e dall’altra quella sorta di manifestazione autocelebrativa del leader che vuole cambiare il Paese, ma che, sino ad ora, è riuscito solamente a convincere parte degli italiani che lo ha cambiato attraverso i suoi spot proclami.
Nella mia totale solitudine e senso di abbandono ho compreso come sia davvero giunto il momento di cambiare, rendendole più aderenti alla realtà odierna, le regole del lavoro, come sia necessario che tutti, e sottolineo tutti, partecipino alla stesura di una politica industriale di largo respiro, e che segni una strada da seguire per dare all’Italia ed ai suoi cittadini provati, uan prospettiva di crescita, che sia ormai urgente che persino il sindacato analizzi meglio il proprio ruolo modificando messaggi e linguaggi, proprio per evitare di essere schiacciati da questo nuovo leader schiacciasassi che vuole lasciare vittime sul suo percorso. Ora non so esattamente cosa si debba fare, ma certamente, dopo la manifestazione di ieri, il nostro segretario, premier, non può più irridere un sindacato che fa il suo mestiere (magari usando metodi e parole superate) ma sopratutto non può fingere che tutti quei suoi concittadini hanno deciso di andare a Roma a manifestare il proprio dissenso, sopratutto non può farlo utilizzando la comunicazione tipica del tycon di Arcore (lui ha a cuore 60 milioni di italiani non un milione), è giunto il momento in cui Renzi debba dimostrare di essere un vero leader e non solo un bravo piazzista, deve comprendere le ragioni della piazza e incontrare i suoi rappresentanti per vedere di trovare un compromesso al rialzo alla sua legge delega.
Vedremo se tutto ciò accadrà, vedremo nelle prossime settimane, l’unica certezza è che questo orso cinquantottenne ormai è orfano di quello che per tanti anni è stato il partito per cui ha lavorato nel tempo libero. Ma non è solo.

Arzèstula, evocando il futuro anteriore dal limitare del bosco

San Vito, 22 novembre, di nuovo verso Bologna (seconda parte) by Wu Ming 1

Agguato di un predone solitario, nascosto tra gli arbusti della pieve di San Vito. Due centimetri più a destra e mi avrebbe spaccato il naso, ma già mi spostavo all’indietro e il bastone mi ha sfiorato. Ci aveva messo tutta la forza, e ha perso l’equilibrio.
L’ho visto cadere male e battere un gomito su un sasso.
Ouch! – ha fatto, come nei fumetti che trovi nei fossi, mezzi sciolti. Storie imputridite. Ho trovato anche mazzette di euro. Consumate, e comunque inutili. Almeno qui.
Si è rimesso in piedi, ora mi fissa curioso. E’ magro (chi non lo è?), ha occhi verdi e capelli incolori. I cenci che indossa mi ricordano qualcosa. Li riconosco: divisa e pastrano da
carabiniere.
– Non sei di queste parti, si vede.
– E da cosa? Io sono nata qui, anche se adesso vivo lontano.
Sente la voce e come coniugo il verbo, s’illumina: – Ah, ma sei una donna! Non si capiva mica!
Alzo il cappuccio e abbasso la sciarpa. Vede che ho una certa età, vede le rughe e il suo sorriso un po’ si attenua, ma non scompare.
– Vivi lontano? E cosa sei tornata a fare?
– Potrei risponderti che sono affari miei. – rispondo, ma lieve, senza metterci ostilità.
Ridacchia. – Sarebbe più che lecito. E se ti chiedo come ti chiami? Va bene anche un nome qualsiasi.
Gliene dico uno, il mio. Mi porge la mano, la stringo, è fredda.
– Io sono Matteo. – mi dice.
– Sei un predone, Matteo?
Moche moche! Io pensavo che c’eri tu, predone! Proprio perché non ti ho mai vista prima.
– Sono solo una che passa.
– Viaggi da sola. Non hai paura?
– Come tutti. Né di più, né di meno. Ma tu cosa facevi tra i cespugli?
– Andavo di corpo. – risponde pronto, senza esitare. – O meglio, non avevo ancora cominciato. E adesso m’è andata indietro.
Comunque, tornerà. – E ride ancora, stavolta più sonoro.
Per un po’ stiamo in silenzio. Ci guardiamo intorno. Lungo via Ferrara non più asfaltata, i platani sono immensi. Grandi rami che nessuno ha più potato s’intrecciano ovunque e formano un tetto, là in alto. La vecchia statale sembra ormai una galleria. In basso, qualcuno continua a estirpare le erbacce, sposta i rami caduti, riempie le buche più grosse. La carreggiata è sassosa ma percorribile.
– Già che ci sono ti chiedo un’altra cosa, prometto che non ti fa incazzare, va bene?
Gli offro un cenno d’assenso.
Bon. Cosa fa il governo? Ce n’è ancora uno, dove stai tu?
– No. Lo spettro del governo è sempre a Sud.
– Lo immaginavo. Qui si fa viva solo la Commissione. – L’ex carabiniere che credevo un bandito alza le spalle. – Ci aiutano, per modo di dire. Vai a capire il perché.
– Lo fanno in cambio dei servizi che rende il governo. Dormi dentro la chiesa? – gli domando.
– Dormo dove decidono i piedi. E cos’è che fa il governo, esattamente?
– Pattuglia le coste, i confini d’Europa. Lo Ionio, il Tirreno… Ferma e respinge gli illegali.
– Cioè li ammazza. Io lo so come vanno certe cose, c’ero in mezzo. – E a questo punto ci vorrebbe una pausa, un momento pensoso, ma l’uomo tira diritto: – Pazzesco, c’è ancora qualcuno che vuole venire in ‘sto pantano?
– Parti d’Italia tirano avanti, e comunque in Africa è peggio. Ma sai, molti non lo fanno per fermarsi qui, è che l’Italia è l’anello debole. Loro arrivano, se ci riescono, e salgono, se ci riescono.
Vanno su in Europa.
– A far che? C’è ancora del lavoro? – mi chiede.
– Penso di sì, qualcosa del genere.
Poi una domanda la faccio io: – Ogni quanto si fa viva la Commissione? Sono giorni che attraverso la provincia e non ho ancora visto un funzionario.
– Dipende. Arrivano in elicottero. Sono gli unici ad avere carburante. Alcuni sembrano cinesi.
In elicottero? In questi giorni ho visto alianti e deltaplani, ho visto mongolfiere e perfino un dirigibile, ma nessun elicottero, mai. E col rumore che fanno, non mi sarebbero sfuggiti.
Forse, ho pensato ad alta voce, perché Matteo ribatte: – Ne arrivano, ne arrivano. Atterrano nelle piazze dei paesi, consegnano le razioni, fanno riunioni coi consigli comunali…
– Consigli comunali? Sono ripartite le elezioni?
– Beh, per modo di dire… I commissari non volevano, ma la gente s’organizza. Io lo so bene, son consigliere pure io.
– Ah, sì? E di quale comune?
– Gambulaga.
– Non faceva comune, ai miei tempi.
– Tutto cambia. Soprattutto i tempi. Hai qualcosa da mangiare?
Nella sacca ho le rane pescate ieri. Sono tante, le ho cotte allo spiedo, carne sciapa ma croccante. E ho un mazzo di radicchio selvatico. Matteo mi mostra una borraccia amaranto. – C’è anche da bere. Acqua pulita, depurata con l’allume della Commissione.

E così mangiamo insieme, sul limitare del boschetto dietro la pieve.
– Tira vento. – dico. – Perché non entriamo in chiesa?
– E’ pericoloso, là dentro. C’è Dio. Qui fuori siamo al sicuro.
Accetto la risposta, senza chiedere ulteriori spiegazioni.
– Stai tornando a casa tua? – domanda Matteo. Il consigliere comunale che stava per uccidermi ha voglia di parlare.
– Sì. Vicino a Bologna. Casalecchio.
– Fino a Casalecchio a piedi?
– Dopo Ferrara circola qualche mezzo. E tanti cavalli. Chiederò un passaggio, come per venire qui. In un campo ho visto mongolfiere ancorate. Vedrò se si possono usare, sarebbe ancora meglio.
– Non c’è più nessuno che spara ai palloni?
– Penso di no. Succedeva solo ai primi tempi.
– E hai soldi per il passaggio?
– Quelli ormai servono a poco. La Commissione li cambia in voucher, ne ho qualcuno. Per un po’ ci concentriamo sul cibo, le mandibole lavorano, la lingua mescola, si attivano i succhi gastrici.
– Per Ferrara sei passata?

Il sogno di qualche notte fa. Città irreale. In mezzo alla nebbia scura di una mattina d’inverno, un fiume di gente passa sulle Mura e sono davvero tanti, più di tutti i morti di ogni tempo. Tengono bassi gli sguardi e ogni tanto sospirano. Cavalcano il
Montagnone e poi giù per Alfonso d’Este, fin dove il Po di Volano passa sotto il ponte. Vedo uno che conoscevo, e lo chiamo: “Rizzi! Tu eri con me a Udine, davanti al monumento ai caduti. Il cadavere che hai sepolto nell’orto ha cominciato a buttare le gemme? Secondo te farà i fiori, quest’anno? Oppure la ghiacciata ha rovinato il giardino? Mi raccomando, tieni lontano il cane. Quello scava, gli uomini gli piacciono!”
– …per Ferrara sei passata? Io non ci vado da otto anni, e sono solo venti chilometri.
– Sì, ma non mi sono fermata. Mi hanno detto che è pericolosa.
– L’ultima volta che ci sono stato, – riattacca Matteo – la Crisi era molto recente. Al mercato nero, benzina ne trovavi ancora, e sono andato in motorino a vedere il Petrolchimico. Era tutto un viavai di funzionari della Commissione, capirai, tutte quelle sostanze tossiche, pronte a sversarsi e far morire tutto… Gli impianti reggevano, e ho sentito che resistono ancora oggi. Un po’ di produzioni erano già dismesse prima della Crisi, e quella
volta mancavano già un tot di silos, pieni di ammonio o non so che. Portati via, chissà dove.
– In Africa, mi sa.
– Eh, già. – dice, ma non aggiunge nulla.
Seguono minuti di pace, dai pori essuda la stanchezza, i muscoli spurgano tossine, e anche la mente si ritempra. La vista si aguzza e le orecchie cessano di ronzare. Il compagno di pranzo mi lancia occhiate, ma sono io la prima a riprendere il discorso.
– Hai detto che qui la gente si organizza. Raccontami: cosa fa un consiglio comunale?
Bah. – dice in un piccolo scoppio. – Non molto. Decide come distribuire gli aiuti, raduna i volontari per estirpare le erbacce dai campi… Scrive ai parenti dei morti… Io facevo il carabiniere, si vede, no? Quando è scoppiata la Crisi ero a Cosenza. Per tornare
ho preso un treno come quelli che vedevi nei documentari, tipo in India, con la gente anche sul tetto… Ci ho messo due giorni, si fermava in paesini che non avevo mai sentito nominare… Tu che lavoro facevi?

L’altro sogno ricorrente. Ho ventotto anni, sto scrivendo il mio primo romanzo. Racconta la vita di giovani seminaristi negli anni del Concilio Vaticano II. I loro amori proibiti, le dispute
teologiche, i loro conflitti, la morte di uno di loro. Vengono da famiglie contadine, devote ma non troppo, e devo dipingere uno sfondo di religiosità popolare. Mi serve la dimensione
“antropologica” dei cambiamenti avvenuti allora. In realtà sto prendendo due piccioni con una fava, perché uso i materiali della mia tesi di laurea. Non si butta mai via niente.
Nel sogno, chissà perché, incontro le persone intervistate tre anni prima. Mi raccontano tutto, di nuovo, da capo, contente come sono di vedermi. Mi congedo da loro soddisfatta, conscia che sarà un bel libro, poi… Scopro che, dietro di me, ogni volta arranca lei, la Storica. Morde la mia polvere, ma sono sempre io. Ho ancora venticinque anni e sono indietro con la tesi. Arrivo tardi e nessuno vuol più parlare con me, perché sono gia stata li.
– …lavoro facevi?
– La scrittrice. – rispondo a Matteo.
– La scrittrice? E cosa scrivevi?
– Romanzi. O almeno li chiamavano così.
– Romanzi. – E si ferma a pensare. – Ne leggevo anch’io, ma scritti da donne mi sa di no. Leggevo polizieschi, roba così.
– Sì, prima della Crisi andavano molto. Ma oggi, chi li leggerebbe?
– E’ vero. Adesso cosa fai?
Le parole precedono il pensiero: – Faccio ancora la scrittrice, in un certo senso, però non scrivo più.
– Che strana frase. Cosa vuol dire?
– Che oggi non scrivo: vedo.
– In che senso?
– Il futuro. Vedo il futuro.
Pausa.
– Sei… com’è che si dice… un’indovina?
– Non so se è quella la parola.
– Però vedi il futuro. E’ per quello che hai evitato la randellata?
E allora sai dirmi cosa ci aspetta?
– No. No a entrambe le domande. Non mi occupo di futuro spicciolo.
– “Spicciolo”. Tu parli e io non ti capisco. E che strano verbo, “occuparsi”… Non lo sentivo da un sacco di tempo.
– Sì, mi occupo di qualcosa. Del futuro anteriore. Quello che viene dopo il futuro spicciolo. Lo vedo e lo racconto.
– A chi?
– Ho una famiglia, e molto numerosa. Racconto il futuro anteriore, insieme lo vediamo, e tutti stiamo meglio. Dipendono da me, e sto tornando da loro.
– Mi sembra giusto. – commenta. – Insomma, ti sei presa, mmm, una vacanza. Lo so che la parola non è quella, voglio dire che avevi bisogno di staccare un po’, di vedere il posto dove sei nata, è così?
La semplicità che era difficile a dirsi.
– Sì. E’ proprio così. – Poi, saltando mille passaggi: – Ti ricordi come si dice in ferrarese “cinciallegra”?
Matteo non sembra sorpreso. Tace, si concentra. Guarda i rami degli alberi e il tetto della pieve. Si alza in piedi, beve un sorso dalla borraccia e cammina in tondo, lento. Lentissimo. Io non ci sono più, è perso nei ricordi d’infanzia. Nemmeno i suoi, probabilmente: quelli di sua madre. Quelli di sua nonna, e più in là. Infine si blocca e spalanca gli occhi. Punta in alto l’indice della destra, rigido e diritto come l’asta di una bandiera. Si gira verso di me ed esclama:
Arzestula! Ma perché me l’hai chiesto? C’entra col futuro anteriore?
E in quel momento la sentiamo, l’Arzèstula, e la vediamo anche, sul ramo di un frassino spoglio dietro la pieve. Gialla e nera, perfetta nella forma, struggente meraviglia dell’Evoluto.
Restiamo a bocca aperta, qui, adesso.

Racconto apparso nell’antologia “Anteprima nazionale. Nove visioni del nostro futuro invisibile.” A cura di Giorgio Vasta, Minimum Fax, Roma 2009.
© 2009 by Wu Ming 1, [vedi]

L’INTERVISTA
Il Made in Italy nel Cinquecento,
svelato dalla ferrarese Federica Veratelli

Il Made in Italy non è cosa dei nostri giorni. Al contrario, il prestigio di cui gode oggi, ha radici ben più antiche delle case di moda e design che oggi affollano i mercati internazionali.
Le produzioni italiane di lusso erano infatti conosciute al di fuori dello stivale già in epoca rinascimentale. Abiti, gioielli, mobili, armi, strumenti, libri, dipinti, sculture e tanto altro ancora usciva dal nostro territorio e si diffondeva soprattutto al Nord, grazie all’infaticabile opera dei mercanti italiani.

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La copertina del libro

Questi scambi economici, ma anche diplomatici, che tanto ci raccontano della nostra storia di allora e di oggi, sono illustrati in un ricco volume dal titolo “À la mode italienne. Commerce du luxe et diplomatie dans les Pays-Bas méridionaux. 1477 – 1530”, scritto dalla ferrarese Federica Veratelli ed uscito per la prestigiosa casa editrice universitaria francese Septentrion.

Federica Veratelli, storica dell’arte attualmente residente a Parigi, nei giorni scorsi è stata invitata dall’Istituto di studi rinascimentali di Ferrara a presentare, per la prima volta in città, il frutto delle sue ricerche…
“Il mio lavoro negli Archivi dipartimentali del Nord di Lilla è durato quattro anni. Quando sono arrivata là, su incarico dell’Università di Valenciennes et du Hainaut-Cambrésis e della Regione Nord-Pas de Calais, ho trovato una città piovosa e degli archivi molto tetri: mi sono subito detta che non ce l’avrei mai fatta!”.

federica-veratelliQuel che la studiosa si è trovata davanti da spogliare, è stata una mole immensa di registri contabili, ricevute, inventari, lettere, nelle lingue utilizzate nei Paesi Bassi a cavallo tra Quattro e Cinquecento, tra cui il Francese antico, il Fiammingo, l’Italiano e il Latino…
“Gli archivisti che custodiscono il celebre fondo della Chambre des comptes de Lille, ovvero la contabilità centrale dei duchi di Borgogna e d’Asburgo, mi hanno dovuto insegnare a leggere, perché la scrittura dell’epoca è per noi pressoché incomprensibile. Il loro consiglio è stato: procedi lettera per lettera. Potete immaginare lo sconforto avendo davanti tutto quel materiale. Dopo un anno però ho imparato piano piano a trascrivere i documenti e a comprendere l’importanza di quel fondo per la storia del nostro Paese in ambito europeo durante il Rinascimento”.
Ed oggi Veratelli è diventata una delle principali referenti dell’archivio per l’interpretazione delle lettere e delle minute diplomatiche cinquecentesche.

Secondo i documenti che hai studiato, quali erano gli oggetti italiani maggiormente richiesti all’epoca?
C’erano varie richieste: si va dai tessuti preziosi, probabilmente l’articolo più richiesto tessuti grezzi o lavorati (provenienti da Firenze, Lucca, Genova) per confezionare abiti lussuosi, da cerimonia o per uso privato, e per arredare gli ambienti privati (foderare i cuscini, tende, tutto l’addobbo per il letto, lenzuola e profumi compresi, etc.), alle candele benedette direttamente dal Papa, ai cofanetti lavorati con la tecnica della pastiglia provenienti da Venezia, ai cavalli e a tutto l’equipaggiamento equestre per le cerimonie e per la guerra (armi comprese), gioielli, in misura minore dipinti e sculture perché più rari’.

Dalle tue ricerche, puoi trarre qualche conclusione su come sono cambiati il gusto e la moda da allora ad oggi? E in che modo quegli oggetti hanno influenzato i nostri gusti attuali?
Questa ricerca ha evidenziato come fosse ricca e variegata la richiesta di prodotti made in Italy fuori d’Italia presso le corti europee, e come questi fossero già riconosciuti e apprezzati come tali, e distinti da altri oggetti o prodotti importati invece dalla Spagna o dalla Germania, o da culture extra-europee. Direi che già si può osservare, a questa altezza cronologica, dalla seconda metà del Quattrocento in poi, un vero e proprio gusto per il made in Italy che si sarebbe protratto in seguito, fino a, senza esagerare, ai giorni nostri, con qualche pausa storica più o meno corta. Questo dimostra che sin da allora l’Italia pullulava di know-how che sapeva valorizzare, esportare e vendere ai sovrani stranieri, e che costituiva uno dei nostri tratti più distintivi. Un valore che ci distingue ancora oggi nel mondo e dobbiamo continuare a valorizzare in Patria e fuori.

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Mostra “Memling. Rinascimento fiammingo”, Scuderie del Quirinale, Roma

Federica Veratelli è anche tra i collaboratori del percorso espositivo della mostra “Memling. Rinascimento fiammingo”, in corso alle Scuderie del Quirinale a Roma (fino al 18 gennaio 2015). Si è inoltre occupata della realizzazione di un saggio in catalogo e di alcune schede, assieme al curatore, Till-Holger Borchert, conservatore del Museo di Bruges e uno dei massimi esperti di pittura fiamminga, che le ha chiesto di contribuire con alcuni documenti sui committenti italiani di Hans Memling, emersi durante le sue ricerche, che hanno permesso di identificare dei ritratti, e dunque di associare una storia d’immigrazione ad un volto.

A questo proposito, il 29 ottobre alle 18,30 a Roma, Federica Veratelli terrà un incontro su “Lusso e diplomazia. I clienti italiani di Hans Memling”, la vita, le attività e le carriere di mercanti, banchieri, agenti e diplomatici italiani installati nelle Fiandre alla fine del Quattrocento. Uno spaccato sorprendente, ricostruito a partire da documenti d’archivio inediti, sulla vita dei committenti di Hans Memling, tra cui spiccano alcuni membri della famiglia fiorentina dei Portinari (Tommaso, Folco e Benedetto).

Foto di Davide Pedriali
Per saperne di più [vedi]

LA STORIA
Filiera cortissima e vendita diretta, la rivoluzione della Corte dei Sapori

Una famiglia eccezionale, madre, padre e quattro fratelli. Un’attività iniziata cinquant’anni fa dal nonno Francesco. Un grande senso dell’innovazione e il coraggio di cambiare per adattarsi alla contemporaneità. Questi gli ingredienti del successo dell’Azienda agricola Corte dei Sapori di Volania di Comacchio, che ha sviluppato negli ultimi anni una virtuosissima filiera corta che va dall’allevamento di bovini alla coltivazione dei foraggi per il nutrimento, dalla lavorazione alla vendita diretta delle carni, dalla coltivazione di ortaggi come asparagi, zucche e pomodori alla trasformazione in sott’oli e conserve. Hanno un loro punto vendita in azienda, riforniscono gruppi d’acquisto in città, partecipano a sagre e mercati. Li potremo incontrare anche quest’anno a Ferrara, alla 64° Giornata del Ringraziamento organizzata da Coldiretti, che si terrà sabato 8 e domenica 9 novembre in p.zza Trento Trieste.

Da allevamento tradizionale, dedito soltanto all’allevamento e alla vendita del bestiame, l’azienda si trasforma quando subentrano i giovani figli Danilo e Matteo.

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L’allevamento

Chiediamo a Danilo Bassi di raccontarci che cosa ha comportato il salto da allevamento tradizionale ad azienda innovativa, premiata nel 2012 con l’Oscar Green.
All’inizio io e mio fratello avevamo semplicemente aumentato il numero di capi di bestiame e introdotto anche pecore e maiali, ma questo non bastava: il mercato dei bovini variava da un anno all’altro, il costo dei capi è altissimo e capitava che i commercianti non pagassero, da qui la voglia di effettuare una svolta e diventare più indipendenti.

 

 

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La nuova stalla

Nel 2010 abbiamo messo su la macelleria, laboratorio e negozio, e abbiamo imparato il mestiere. Ora abbiamo tutto qui in azienda, dalla coltivazione del mangime all’allevamento degli animali, dalla macelleria al negozio; abbiamo accorciato la filiera e siamo molto contenti perché possiamo controllare personalmente e gestire tutto, l’allevamento, la produzione, la vendita diretta.

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Il punto vendita in azienda

Abbiamo inaugurato il negozio l’8 dicembre 2010 e iniziato così una nuova catena agricola, che comincia e finisce tutta nei nostri 40 ettari di proprietà. Ora ci lavoriamo tutti, ognuno con le proprie mansioni: mio fratello Matteo gestisce l’allevamento e i terreni, io il negozio e la lavorazione delle carni, mia mamma, mia sorella Sara e mia cognata sono le addette alla preparazione delle carni e alla vendita diretta, mio padre Luigi dà una mano a mio fratello per l’allevamento e si dedica alla preparazione e conservazione ortaggi.

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La mamma e la sorella Simona preparano le carni

Oltre ad aumentare la produzione e puntare alla vendita diretta, Danilo e Matteo hanno ammodernato le strutture, installando un impianto fotovoltaico che soddisfa interamente il fabbisogno energetico dell’azienda e acquistando un tunnel per la conservazione del foraggio. Proprio per questa conversione (filiera corta, lotta integrata, vendita diretta, fotovoltaico, tunnel) che testimonia la volontà di procedere in senso ecologico e sostenibile, vengono premiati nel 2012 con l’Oscar Green, un premio che la Coldiretti conferisce ogni anno all’impresa agricola più innovativa del territorio.

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Danilo allestisce il banco

Come sta andando il vostro negozio?
Sta andando bene, perché la gente sta riscoprendo la passione per le cose genuine e vuole sapere quello che mangia. Quando vengono qui possono verificare con i propri occhi come lavoriamo, vedere come alleviamo gli animali e come vengono nutriti. Non sarebbe stata la stessa cosa se avessimo aperto il negozio in un paese, lontano dall’azienda. Avere coltivazione, azienda e negozio nello stesso luogo è sinonimo di massima trasparenza tra produttori e clienti finali.

 

 

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I sott’oli alla zucca

Oltre al negozio, avete attivato anche altre tipologie di vendita diretta come la fornitura a gruppi d’acquisto e la presenza a sagre e mercati…
Sì, oltre ad avere il punto vendita di Campagna Amica qui in azienda e rifornire il ristorante di nostra sorella Simona (La tagliata del Lido degli Estensi), serviamo due gruppi d’acquisto di Ferrara (Parchino Schiaccianoci e Gas Kappa), siamo ospiti fissi al mercato contadino di Alfonsine, facciamo alcune sagre in zona come quella dell’Anguilla di Comacchio o come la Giornata del Ringraziamento in p.zza Trento Trieste a Ferrara, che quest’anno sarà l’8 e 9 novembre. In più, da due anni, riforniamo con i nostri prodotti le botteghe di Campagna Amica di Faenza e Lugo.

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Il banchetto della Corte dei Sapori a “Cibi d’Italia”, Roma 2012

Come mai una collaborazione con le botteghe di Faenza e Lugo, che non sono proprio a due passi?
Questa è una storia bellissima che va molto oltre l’aspetto commerciale. La collaborazione con le botteghe risale al settembre 2012, quando abbiamo partecipato a “Cibi d’Italia”, primo Festival nazionale all’aperto dei cibi e delle tradizioni del Made in Italy agroalimentare, organizzato al Circo Massimo di Roma dalla Coldiretti. Eravamo in tantissimi, produttori agricoli, allevatori e pastori giunti da tutte le regioni italiane, noi rappresentavamo la provincia di Ferrara, il nostro vicino di stand dalla provincia di Imola, si trattava di un produttore di Faenza, Mengozzi. Durante quei quattro giorni intensi ed entusiasmanti, ci siamo conosciuti ed è nata un amicizia.

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Sara Bassi spilla il vino alla spina di Tarroni

Da lì abbiamo fatto visita alle rispettive aziende ed è nato l’accordo di scambiarci i prodotti e venderli ognuno nei propri punti vendita, il mio qui a Volania, il suo in centro a Faenza e a Lugo: lui mi avrebbe rifornito dei suoi trasformati, succhi di frutta e marmellate prodotti con la sua frutta, io l’avrei fornito dei miei salumi, formaggi e vasetti di sughi pronti e sott’oli. E così è stato, da allora ci riforniamo a vicenda ed è nato un bellissimo rapporto. Sempre grazie a loro abbiamo conosciuto un giovane produttore di vino biologico di Riolo Terme che ha una cantina sua (Tarroni), e ora ci riforniamo da lui per il vino che vendiamo alla spina.

Insomma, non vi fermate mai… altri progetti?
A dire il vero, sì. Ci piacerebbe attrezzarci per la vendita della carne anche in sagre e mercati, acquistando un furgoncino frigo attrezzato, di quelli con il banco: ora possiamo vendere solo i nostri salumi, i formaggi e i trasformati, per noi vorrebbe dire molto poter vendere anche la carne, il nostro prodotto per eccellenza. Ma prima occorre trovare posto in altri tre o quattro mercati fissi, perché comprare il furgone freezer significa fare un grosso investimento, occorre prima trovare una certa continuità con le vendite.

Siete già attivi in questo senso, avete già dei contatti?
Sì, ci stiamo attivando ora per Comacchio, Ferrara e Ravenna. A Ravenna però non possiamo rientrare tra i produttori del mercato contadino perché non siamo della provincia, ma potremmo avere il posto nel mercato normale, essere invitati per sagre ed eventi, partecipare ai mercati estivi che si svolgono a Cervia, Lido Adriano, ecc.

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Il salame di 2,20 m., premio della lotteria

So che ogni anno, l’8 dicembre, fate la festa per l’anniversario dell’apertura del negozio, possiamo invitare anche i nostri lettori?
Certo, quest’anno si svolgerà domenica 7 dicembre e siete tutti invitati in azienda dove allestiamo una piccola sagra coi nostri prodotti. Quest’anno avremo anche una novità: sarà presente il nostro nuovo produttore di vino biologico che proporrà degustazioni abbinandole a ciò che prepariamo, porchetta, salsiccia alla griglia, salumi e formaggi. Poi una sorpresa: chi vince la lotteria si porta a casa un salame lungo 2,20 metri, completo di tagliere in legno fatto su misura!

Per saperne di più visita la pagina Facebook dell’azienda [vedi] e le pagine relative nel sito Agrizero [vedi]

LA RICORRENZA
Ode alla pasta,
nel mondo si festeggia

Il 25 ottobre, si festeggia la giornata mondiale della pasta, simbolo dell’Italia, ma anche di ritrovo tra amici e in famiglia, di pranzo della domenica. Parte delle nostre radici.
L’amiamo, la prepariamo, la compriamo, la mangiamo, l’abbiamo mangiata in tutti i modi, vista in tutti i film, con i nostri Totò, Peppino, Alberto, Sofia, Marcello e Aldo.

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Sofia Loren

C’è chi dice che furono gli arabi del deserto i primi a essiccare la pasta per garantirne una lunga conservazione, poiché nelle loro peregrinazioni non avevano sufficiente acqua per prepararla ogni giorno (dando così vita ai cilindretti di pasta forati in mezzo per permettere una rapida essiccazione). Chi sostiene questa tesi, si basa sul più antico libro di cucina di ‘Ibn ‘al Mibrad (del IX secolo), in cui appare un piatto molto comune tra le tribù beduine e berbere, ancor oggi conosciuto in Siria e in Libano: si tratta della rista, maccheroni essiccati conditi in vario modo, consumati soprattutto con le lenticchie. La rishta che ho conosciuto io, sono le leggere (e buonissime) tagliatelle cotte al vapore dell’Algeria o della Libia, qui accompagnate da agnello, ceci e cipolle. Gustoso.
Qualcun altro, e soprattutto la tradizione, attribuisce a Marco Polo, l’introduzione della pasta in Italia, di rientro da un viaggio nella misteriosa, ricca e lontana Cina. Tuttavia, molti documenti rivelano l’esistenza della pasta in Italia prima del viaggio del celebre veneziano. Tra questi, un testo del 1154, una sorta di guida turistica dove il geografo arabo Al-Idrin menziona un “cibo di farina in forma di fili” chiamato triyah che si preparava a Palermo. Un’altra testimonianza risale a un testo del 1244, una sorta di certificato in cui un medico di Bergamo assicura guarigione al suo paziente a patto che non si cibi, tra gli altri alimenti, nemmeno di pasta. Interessante.
Nel 1279, poi, in un documento del notaio Ugolino Scarpa, si trova la parola “macaronis”. La confusione intorno al termine dura fino al ‘700, quando i napoletani se ne appropriano definitivamente e i maccheroni diventarono il loro vero manifesto: cibo semplice per i poveri ma di regale qualità, quasi a voler sottolineare la supremazia della grande fantasia dei poveri che acquistano così una profonda dignità. Fantastico.
Goethe, nel suo Viaggio in Italia, quando arriva a Girgenti racconta: “Non essendoci alberghi di sorta, una brava famiglia ci ha alloggiati in casa propria (…). Una portiera verde ci separava con tutto il nostro bagaglio dai padroni di casa, affaccendati nello stanzone a preparare maccheroni, e maccheroni della pasta più fine, più bianca e più minuta. Questa pasta si paga al più caro prezzo, quando, dopo aver presa forma di tubetti, vien attorta su se stessa dalle affusolate dita delle ragazze, in modo da assumere forma di chiocciole. Ci siamo seduti accanto a quelle graziose creature, ci siamo fatti spiegare le varie operazioni e apprendemmo così che quella specie di pasta si fa del frumento migliore e più duro, detto “grano forte”. Stupefacente.

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Totò alle prese con una bella spaghettata

La pasta non entrò subito nelle mense dei ricchi, anche perché veniva mangiata con le mani (cosa che avviene ancora oggi in molti paesi del Nord Africa). Poi, all’inizio del XVIII secolo il napoletano Gennaro Spadaccini, ciambellano di corte, utilizzò una forchetta a 4 punte. Da allora la pasta entrò negli ambienti aristocratici e iniziò a fare il giro del mondo. Miracoloso.
Oggi la pasta è adattata, cambiata, colorata, levigata, lavorata e, infine, festeggiata. Si trova in cima alla piramide alimentare come alimento completo, appagante, semplice da preparare, economico, allegro e salutare. Unico.
Anche il grande Aldo Fabrizi s’interrogava sulle sue origini, ecco cosa scriveva…

Chi sarà stato?
Ho letto cento libri de cucina.
de storia, d’arte, e nun ce nè uno solo
che citi co’ la Pasta er Pastarolo
che unì pe’ primo l’acqua e la farina.

Credevo fosse una creazione latina,
invece poi, m’ha detto l’orzarolo,
che l’ha portata a Roma Marco Polo
un giorno che tornava dalla Cina.

Pe’ me st’affare de la Cina è strano,
chissà se fu inventata da un cinese
o la venneva là un napoletano.

Sapessimo chi è, sia pure tardi,
bisognerebbe faje… a ‘gni paese
più monumenti a lui che a Garibardi.

(Aldo Fabrizi, “Ricette e considerazioni in versi”)

Buona festa della pasta, allora. E buon appetito. A tutti voi, vicini e lontani.

LA PROVOCAZIONE
Fantacronaca
di un’insubordinazione elettorale: “Nessuno di voi”

E’ più facile vincere alla lotteria o cambiare le cose con il voto? Un Paese senza nome. Una città senza nome. Una giornata di elezioni amministrative. Ma qualcosa non va per il verso giusto. La gente non va al mare, non diserta i seggi. Vota in massa, ma vota scheda bianca.

L’apparato governativo è in allarme e sospetta l’esistenza di un complotto: “si tratta di una congiura anarchica o di sconosciuti gruppi estremisti” si affrettano a dichiarare agli organi di informazione “un’azione finalizzata al sovvertimento dell’ordine pubblico e alla destabilizzazione” ripetono con fermezza. Il Governo decreta, inizialmente, lo stato di assedio della città e, successivamente, non riuscendo a piegare la resistenza civile della popolazione, la abbandona e trasferisce la capitale altrove. La previsione che la città cada in preda al caos non si verifica, grazie al senso di responsabilità dei cittadini.

Questo descrive José Saramago nel suo “Saggio sulla lucidità” del 2004. Un’utopia, forse un sogno dello stesso Saramago.

E’ possibile immaginare uno scenario simile in occasione delle elezioni regionali dell’Emilia Romagna, in programma il prossimo 23 novembre? Possibile sì, decisamente improbabile.

Questa riflessione parte dalla convinzione che si otterrebbero cambiamenti più efficaci se i cittadini votassero scheda bianca o rifiutassero esplicitamente al seggio la scheda elettorale. Per molti, tradizionalmente rispettosi del nostro sistema democratico, sarebbe una scelta dolorosa, sofferta ma consapevole e dettata dalla necessità di dare una svolta e cambiare veramente la nostra classe politica. Quali possibilità infatti abbiamo oggi di cambiare l’attuale sistema con il nostro voto?

E’ ingenuo votare un candidato perché “è una brava persona”: il candidato non può prescindere dal partito (o movimento o lista) di cui fa parte, con tutti i suoi limiti e le sue criticità. Decontestualizzando il candidato, la persona, dal grande contenitore in cui è inserito, si cade in un banale errore di inconsapevolezza, non riconoscendo i diktat e le regole del contenitore stesso, alle quali questa persona dovrà sottostare.

Analizziamo allora i tre principali contenitori i cui leader populisti, che condividono l’opportunismo e la demagogia di stampo televisivo, sono sempre in scena con tweet, declami, urla, slides, fotografie, mentre salutano e abbracciano la folla, senza mai rispondere a una vera domanda.

Il Partito Democratico da anni sta portando avanti una politica economica che si è dimostrata nei fatti fallimentare: il partito ha votato a favore di tutti i trattati che impongono l’austerità all’Italia con privatizzazioni dei beni pubblici e tagli alla spesa. Ma non si può dichiarare di voler difendere il lavoro se non si inizia ad investire e creare occupazione. E’ desolante uno Stato caritatevole che conforta i lavoratori con pochi spiccioli (80 euro) tolti dalla bocca di altri; uno Stato deve essere imprenditore, deve investire e difendere i beni pubblici (sanità, istruzione, trasporti, acqua, energia, casa, sicurezza). Purtroppo il Pd non è il partito che dichiara di essere, ma si inserisce nella lunga tradizione trasformista di stampo giolittiano che ha sempre caratterizzato la sinistra italiana. Non c’è nulla di cui stupirsi, la storia inevitabilmente si ripete.

Forza Italia, se ancora esiste come partito, è troppo impegnato a salvarsi dal fallimento totale per capire quale politica economica perseguire: al governo ha sostenuto i trattati europei e ha votato per il pareggio di bilancio in Costituzione, all’opposizione si è dichiarato partito “anti-euro” e “anti-austerità” ma negli ultimi tempi, dopo il famoso patto del Nazareno, è diventato il più fedele alleato del Pd di Renzi. Non sarà di certo questo partito, che in tanti anni di governo non è riuscito a difendere l’industria italiana e la piccola e media impresa, a poter rilanciare l’occupazione in Emilia Romagna.

Il Movimento 5 Stelle è un fenomeno particolare: sono numerose le posizioni critiche verso l’attuale politica economica e monetaria, ma l’eterogeneità del movimento e l’opprimente e angosciosa presenza delle direttive che provengono via blog dal suo vertice (Grillo-Casaleggio) non consentono l’adozione di una linea politica precisa ed efficace, facendo scadere la discussione sotto i frazionamenti e la schizofrenia interna al movimento stesso.

Gli altri partiti non sono una realtà in grado di impostare una precisa azione di governo e molto spesso ricadono in un autocompiacimento e narcisismo tipico di una mentalità elitaria, autoreferenziale e salottiera.

Quindi nessuno, nella situazione attuale, può rappresentare un vero cambiamento che possa creare subito occupazione e dare impulso alla nostra economia.

E’ “antipolitica” non dare ragione a chi sostiene che “il voto è un diritto e un dovere”?

Anni fa il giornalista Paolo Barnard scrisse: “Il voto, così come inteso nel dettato costituzionale dei Paesi come l’Italia, non è libero. […] Non è libero perché offre al cittadino una sola scelta, e non l’altra scelta, che sarebbe in assoluto la più importante”. Questo viscido meccanismo rende quasi impossibile sbarazzarsi del Potere vigente che continua ad autoalimentarsi, voto dopo voto.

Votando possiamo semplicemente confermare il sistema partitico disponibile, scegliendo all’interno di una gabbia di partiti oltre alla quale non c’è nessuna possibilità e dalla quale non ci viene data possibilità di uscire. Non possiamo fare l’azione cruciale, perché non ci è permesso, cioè sfiduciare l’intero sistema partitico disponibile, per fare spazio ad altro.

La scheda bianca, ora capite, dovrebbe avere il significato di una casella aggiuntiva sulla scheda elettorale: ‘nessuno di voi’. E a questa scelta di non voto dovrebbero corrispondere un numero in meno di politici eletti. Il cittadino non può essere costretto a votare “il meno peggio”, non può essere costretto a scegliere fra “schifo” e “miseria”.

Il cittadino deve riappropriarsi della sua lucidità, quella di cui parla Saramago, riempiendo le urne elettorali con 50.731.312 (*) di “nessuno di voi”, lasciando un Parlamento temporaneamente deserto. Per poi ripartire con una politica più sana e seria.

(*) italiani attualmente aventi diritto al voto

Davide Bregola, i ‘Racconti Felici’ di un ex nomade psichico

Con “Racconti Felici” (Sironi editore, 2003) Davide Bregola approda meritatamente sul palcoscenico letterario nazionale, dopo la ‘felice’ avanguardia con Nomade Psichico (Mantova), da cui recupera il racconto ‘lungo’ “La lenta sinfonia del male”. Bregola, originario di Ferrara (Bondeno) è tra i nomi più interessanti della scrittura padana contemporanea, tra gli eredi della svolta postmoderna di un certo Tondelli.
Le caratteristiche essenziali di Bregola, già esplicite fin dagli esordi (“Overdrive Interstellar”, di taglio neofuturista), vale a dire una scrittura non convenzionale né lineare, ma a zig zag, per salti quasi ‘quantici’, sulla scia appunto postmoderna, decollano con “Racconti Felici” in un volo letterario di affascinate bellezza glaciale…
Sia gli echi futuristici, magari via Soffici, che quelli meno ostici (Zavattini), finanche agganci formali con l’italiano Baldini o l’inglese McEwan, trasmettono la parola dell’era elettronica e spaziale da frequenze minimali.
Bregola, ancora letterariamente giovane, per la cronaca, ha già avuto anche importanti riscontri critici su L’Unità, Famiglia Cristiana, Il Domenicale, Il Giornale, ecc.
Recentemente da segnalare, in un percorso in progress e eccellente con sinergie letterarie con anche lo stesso Roberto Pazzi, uno splendido “Lettera agli Amici sulla Bellezza” (Liberamente, 2008), non frequente esempio di postmodern ‘valoriale’. Non ultimo il surrealistico “Tre allegri malfattori” (Barbera editore) e alcuni volumi dell’ultimo Bregola sul gioco e il bambino homo ludens, dove l’utopia diventa “didattica” 2.0; significativamente segnalati in particolare dal mondo letterario e dalla stampa nazionale “L’acchiapparime. Manualetto divertente per inventare rime, ninnenanne, filastrocche, indovinelli, poesie e raccontini” (Barney edizioni) e “I giochi più belli di tutti i tempi “(Barbera editore).

da Roby Guerra, “Dizionario della letteratura ferrarese contemporanea”, Este Edition-La Carmelina eBook, 2012 [vedi]

Per saperne di più visitare il blog di Davide Bregola [vedi], la recensione del libro sul sito della Sironi [vedi] e un riscontro critico sul Giornale [vedi].