Scrittura verbo-visiva, così l’ha definita il critico ed artista Lamberto Pignotti, oppure “Poesia Totale” (Adriano Spatola), più specificatamente, a seconda dei ‘file’, si narra di poesia sonora, poesia tecnologica e poesia visiva (Perfetti, il Gruppo 70 ed altri).
Per la poesia visiva, nello specifico, dagli anni ’60 e dal Gruppo 70 di Firenze, avanguardia supportata e promossa da critici e artisti quali, infatti, Pignotti, Spatola e altri, protagonista indiscusso, di fama planetaria, nel settore, fu Michele Perfetti, mostre in Italia, Europa, Sud America… e a Ferrara.
Dalle primissime esplorazioni ormai storiche, poesia tecnologica e frammenti quotidiani, “000 più 1″, a poesie tecnologiche visive, “Black Notes”, alle mostre più recenti, “Un excursus a zig zag”, la parola che diventa mutante, post-tipografica, fino all’auto azzeramento nel puro segno, sogno, immagine… e alle personali più relativamente recenti: ad esempio il quasi florilegio storico Virtuale con lo stesso Pignotti (“Belle Lettere”).
Oppure, Perfetti, tra i principali psicopoeti, capace di captare il cosiddetto inconscio tecnologico di Franco Vaccari memoria, altro protagonista di quelle avanguardie, e cristallizzarlo dinamicamente
in opere d’arti inedite al gusto estetico comune.
La poesia come video game senziente, in una nano danza, orizzontale, verticale, obliqua,
dribblando anche, mossa non sempre prevedibile in tale post letteratura sperimentale, certo
ridondante concettualismo.
Michele Perfetti è scomparso nel 2013: così lo ricorda, significativamente l’Archivio Adriano Spatola: “Poco più di un anno fa scompariva a Ferrara Michele Perfetti, poeta visivo della prima ora e fedele sostenitore di questo genere di “controinformazione” letteraria e artistica, sino a farne una missione, per tutta la vita. Nato a Bitonto nel 1931, aveva manifestato già negli anni 50 la sua propensione a nuovi modelli di scrittura poetica, ma fu dopo il 1963, grazie alla scoperta del neonato Gruppo 70 fiorentino, che la Poesia Visiva gli aprì nuovi orizzonti artistici, poetici e politico-filosofici.
All’epoca il Circolo culturale Italsider di Taranto (quando l’acciaieria, ancora statale non si limitava ad avvelenare il territorio) metteva a disposizione uno spazio per i nuovi fermenti che germogliavano a profusione fra i giovani artisti e poeti, consentendo inediti rapporti a livello nazionale e internazionale. Michele Perfetti, con la collaborazione di un altro entusiasta sostenitore di queste novità, Vittorio Del Piano, vi organizzò numerose mostre, collettive e personali. Fra queste una di sue poesie visive intitolata …000+1, in occasione della quale pubblicò il libro qui riprodotto, con le brevi prefazioni di Eugenio Miccini e Lamberto Pignotti: fondatori questi ultimi del Gruppo 70 (movimento a cui Michele Perfetti aveva aderito) insieme con Luciano Ori, Lucia Marcucci, Ketty La Rocca e il musicista Giuseppe Chiari, uno dei pochi artisti italiani presenti nel movimento Fluxus, nato in America e rapidamente divenuto globale.”
da Archivio Adriano Spatola, “Michele Perfetti (1931-2013), la Poesia Visiva come missione” Per leggere il testo completo scarica il pdf [vedi]
Per saperne di più sull’artista visita il sito di Edizioni Riccardi [vedi]
da “Dizionario della letteratura ferrarese contemporanea”, eBook a cura di Roby Guerra (Este Edition-La Carmelina, 2012)
da MOSCA – Un muro che acquista improvvisamente un nuovo look, una parete che rinasce e si risveglia, lasciando da parte le ombre che l’hanno occupata, uno spazio che rivive. Arrampicato su una scala lunga e un pochino instabile, scalpello in mano, berrettino triangolare rigorosamente fatto a mano, un muratore gratta i vecchi mattoni uno a uno, riporta alla luce gli antichi colori, ridà luce a immagini spente e ormai sbiadite. La storia fa capolino, chiede di presentarsi e di non scomparire, di rimanere, magari con un altro vestito, ma di non essere dimenticata, di poter servire ancora a qualcosa e a qualcuno. Non vuole l’oblio, vuole esserci, ancora oggi. Presente e viva.
Piano piano quel muro acquista l’aspetto lindo e inconfondibile delle aree industriali rimesse a nuovo, vecchie ciminiere imperiose, un tempo fumanti, e design ultramoderno, formula vincente dei distretti creativi di New York, Helsinki, Londra o Berlino ma anche di Mosca. Qui le zone industriali occupano un quinto della città, un immenso patrimonio che si presenta agli occhi del turista e dell’abitante curioso man mano che il comune trasferisce la produzione fuori dal centro. Ma l’era post industriale qui è giovane, le aree dismesse di cui il mondo della cultura si impadronisce per dare sfogo alla creatività sono realtà recenti. «Nascono in luoghi che ormai erano non-luoghi, spazi fuori dal tempo – dice Serghey Nikitin, professore universitario di Architettura e storia di Mosca – fabbriche sprofondate in una città per cui non avevano più alcuna importanza, relitti di un’altra epoca». E, allora, in questi luoghi, rinati, fioriscono centri culturali, bar, pub, scuole di fotografia e di design, scuole di danza, musei, ritrovi vari.
Vecchi garage e vecchie fabbriche vengono occupate dall’estro e dalla fantasia. Brulicano di artisti, giovani fotografi e designer. Tutto bolle, tutto ferve. Le menti sfavillano. I luoghi rivivono, di una nuova e splendida vita, ripensata, ricolorata, rifatta, rinnovata.
Così, ad esempio, al Centro d’arte contemporanea Winzavod, s’incontrano e concentrano molte menti creative moscovite. Dopo un lungo isolamento, gli artisti russi si sono messi di nuovo a confronto con i colleghi europei, mostrando, ancora una volta, di non essere da meno. Winzavod è un’ex-fabbrica prima di birra (la Moskovskaya Bavaria) e poi di vino, trasformata, dal 2007, in uno spazio espositivo di più di 20.000 metri quadri, con varie gallerie permanenti e temporanee, librerie, scuole e caffetterie. Un vero e proprio quartiere, dove chi vuole isolarsi dalla confusione della città, si può rifugiare, uno spazio che ha conservato le vecchie strutture in mattone arancione e le tubature a vista, come a voler ricordare che quella è ancora una fabbrica, non più di bevande ma di arte. Io mi ci ritrovo.
Oppure basta andare nella zona della ex fabbrica di cioccolato Einem, aperta nel 1867 dai tedeschi Theodor Ferdinand von Einem e Julius Heuss, nazionalizzata nel 1918 e, nel 1992, ribattezzata Ottobre Rosso, dove si trova molta della vita culturale moscovita attuale. Nel 2007, lo stabilimento fu spostato a nord della città e la centralissima area fu riconvertita, secondo le esigenze più moderne di una capitale in rapida e vorticosa trasformazione. Dal 2010, Ottobre Rosso – il cui nome ben si addice se si osservano i bellissimi bricchi color rosso acceso – non ha più niente a che fare con il cioccolato, se non per il nome che è rimasto sulle classiche tavolette che si acquistano come souvenir. Mi viene in mente il bambino Charlie Bucket dell’omonimo film con Johnny Deep, pur non avendo nulla a che fare, lo so, ma questo posto fa pensare a una favola buona, dal finale dolce e zuccherino, ignoro il perché. Pura e semplice fantasia libera e liberata … Oggi l’area, che si trova di fronte all’imponente monumento di Pietro il Grande che svetta su una altrettanto imponente nave, ospita centri di fotografia dal forte e penetrante odore di pellicola, gallerie moderne e alternative, con esposizioni temporanee, il Museo di fotografia Lumiere, il suo fornito bookshop.
Si parla, a proposito, di archeologia industriale, anche in Italia molte vecchie fabbriche riprendono vita. Nuova vita ai vecchi edifici, allora. Importante per storia e memoria. E se, come diceva Jean Rostand, “un uomo non è vecchio finché è alla ricerca di qualcosa”, cerchiamo il nuovo in quel vecchio, sempre, un vero riciclaggio del passato. Per restare sempre ed eternamente giovani, noi e le vicende di quei luoghi lontani.
Pink Floyd in versione latina in scena a Ferrara: stasera (ore 21) il concerto in Sala Estense, piazza Municipale di Ferrara. Il progetto si chiama “Occulta lunae pars”, ovvero “The dark side of the moon”. I testi sono tradotti in latino da una prof del liceo, Valeria Casadio, adattati in metrica e approvati dagli stessi Floyd. Li porteranno in scena i Mojo Brothers (Silvia Zaniboni – chitarra solista, Nicola Scaglianti – voce, Thomas Cheval – tastiere, Michele e Filippo Dallamagnana – basso e batteria).
“The dark side of the moon” è un album entrato nella storia della musica. Ne racconta alchimie e segreti Stefano Gueresi, musicista e compositore, che le caratteristiche di questi brani le ha approfondite anche grazie a una lunga chiacchierata con Alan Parsons in occasione di una delle sue ultime tournée italiane.
Parlare di un disco come “The dark side of the moon” dei Pink Floyd potrebbe sembrare un’operazione superflua. Quante recensioni ha ricevuto questo disco, la cui copertina indimenticabile fece capolino nelle vetrine dei negozi specializzati a cavallo tra il 1972 e il 1973? Probabilmente è l’opera più famosa della storia della musica rock, e uno dei più venduti in assoluto negli ultimi decenni. Spesso si è parlato della “longevità” di questo gioiello, che a distanza di decenni lascia ancora stupefatti per la qualità del suono e per la genialità delle idee. In effetti si tratta di un lavoro assolutamente unico nel suo genere, unico anche nella storia del complesso inglese, per una serie di motivi contingenti e in virtù di quella alchimia magica che rende possibile la nascita di un capolavoro in determinate situazioni, con un gruppo di lavoro affiatato, uno studio di registrazione speciale , una supervisione attenta e ispirata.
Sicuramente i Pink Floyd erano arrivati a un bivio della carriera. Potevano farsi risucchiare nella schiera dei tanti gruppi pop-rock di un certo rilievo che si sciolsero anzitempo per mancanza di coesione, di vedute, o semplicemente di idee. Potevano finire smembrati e riciclati in tante formazioni diverse come accadde a tanti gruppi storici dell’epoca.”The dark side of the moon” segnò la grande svolta per la band, consacrandola sul gradino più alto della popolarità mondiale, secondi soltanto agli inarrivabili Beatles. La creatività e la magia di queste pagine musicali non furono più replicate dal complesso inglese.
Tanti i motivi. Sicuramente un valore aggiunto fu rappresentato dalla presenza di Alan Parsons in veste di “ingegnere del suono”. Parsons aveva già colaborato con i Beatles durante la lavorazione del celeberrimo “Abbey road”, e dopo l’esperienza con i Floyd e altri gruppi intraprese una fortunatissima carriera solista. “The dark side of the moon” nasce da una stratificazione di ispirazioni, da spunti nati in lunghe sedute di registrazione, in intervalli di sessions, nelle lunghe ore di attesa tra un “take” e l’altro. Di questo lento processo v’è traccia nel video “Pink Floyd at Pompei”, dove, tra una ripresa e l’altra nel magico sito archeologico, tra la posa dei cavi e degli strumenti e l’allestimento del set, scorgiamo il tastierista Richard Wright accennare agli accordi pianistici di “Us and them”, una delle canzoni più suggestive ed eteree dei Floyd.
Alan Parsons valorizzò la vena creativa della band, inserendo molte delle trovate più indovinate. E’ il caso della inquietante e magnetica sovrapposizione dei suoni di sveglie e orologi in una camera di riverberazione in “On the run”. Idea sua l’inserimento dei suoni di un registratore di cassa e di macchine calcolatrici in “Money”, il battito del cuore che scandisce alcuni passaggi delle due suite da venti minuti che compongono il disco. Viene inserito grazie al suo contributo il sax di Dick Parry, malinconico e struggente, ma anche i cori di Lesley Duncan, Lisa Strike e Doris Troy, e la sensazionale voce di Clare Torry per “The great gig in the sky” che conclude la prima parte.
A livello musicale e strumentale i Pink Floyd offrono in questo lavoro il meglio della loro lunga carriera. Il preciso lavoro fatto di ritmi suadenti e di atmosfere oniriche della sezione ritmica di Waters e Mason, i sognanti tappeti sonori delle tastiere di Wright, e il lirismo elegante e profondo della chitarra di David Gilmour, regalano momenti davvero indimenticabili. Così come le voci, molto “british”, quasi indolenti nel raccontare storie di vita quotidiana, dove si parla di stress, di consumismo, della voracità del tempo odierno e anche della mente, delle sue pieghe angosciose e delle sue tare. Evidente il riferimento alla vicenda umana di Syd Barrett, il fondatore del gruppo, che si bruciò letteralmente per l’uso smodato di Lsd abbinato ad altre sostanze allucinogene e a farmaci come il Mandrax. A Syd Barrett verrà dedicato l’intero disco successivo dei Pink Floyd, “Wish you were here”, uscito nel 1975.
“The dark side of the moon” ha venduto decine di milioni di copie in tutto il mondo e ha conquistato più di una generazione, ponendosi senza alcun dubbio tra le opere più importanti della storia della musica moderna. Interessante sentirne, stasera a Ferrara, la versione latina interpretata da una giovane band.
“L’ultima finitura poi, nella quale si scorgeva la sottigliezza di un’arte e esperienza di secoli, stava dandola il reggitore della famiglia, l’anziano, che ripassava attento e leggero, in punta di vanga, le scoline. Striavano queste, rete varia e capricciosa, dietro infinite vene d’acqua da seguire o attrarre o respingere, da arginare e da raccogliere; striavano le fette di quel grigio, forte e fertile limo di Po, che ormai era pronto, assestato, sminuzzato delicatamente; e odorava di un sottile sentore di terra asciutta. Il contadino aveva l’arte avita di riconoscere a palmo a palmo, da un colore della zolla, da un filo di erba vegetata, quasi al fiuto, i più lievi indizi dei minimi tratti dove affiorava acqua interna, o dove ristagnava la piovana a far pozza, con danno futuro del frumento e della canapa. Sulla traccia di tali indizi, apriva con la vanga piccoli solchi, rigagnoli, e meno che rigagnoli, lievi ed accorti inviti all’acqua delle piogge autunnali e delle nevi invernali e degli acquazzoni primaverili, che fluisse alle scoline, ai fossatelli ed ai fossi. Egli era di quelli che sapevano, per antica scienza istintiva, aprire e mantenere senza aiuto di strumenti un declivio di pochi pollici in un solco lungo centinaia di passi. Era l’ultima rifinitura delle terre, dunque, innanzi d’aprir la bocca al sacco delle sementi scelte; innanzi di tornarvi sopra per l’ultima volta a spargere con il gesto largo e regolato del seminatore in testa alla fila dei lavoranti, uomini, donne, ragazzi, che, rastrellando e zappettando con mano leggera, ricoprivano il seme, sotterravano, a che germogliasse, la speranza dell’annata. Finalmente, su ogni fetta seminata veniva piantata una croce di legno o di stelo di canapa, benedetta dal prete.” (Riccardo Bacchelli, “Il mulino del Po” volume secondo, capitolo VII).
La piena del Po è passata, ormai non fa più notizia. Passiamo oltre e dimentichiamo il problema, lo nascondiamo come polvere sotto il tappeto, in attesa di un’altra emergenza che ci metta di fronte alla nostra stupidità. Un problema, sempre lo stesso da anni, qui, lungo gli argini maestri del nostro grande fiume, come in tutte le altre zone sinistrate d’Italia, che si chiama: acqua. Noi siamo acqua, viviamo grazie all’acqua e l’acqua è sacra come sacra è la terra. Gli antichi imparavano a loro spese che a queste divinità bisognava chiedere il permesso per abitare. Il permesso era concesso quando gli uomini imparavano il rispetto della terra e dell’acqua attraverso un’esperienza diretta, brutale, che non lasciava alternative. Questa esperienza diventava cultura.
Una cultura vera, specializzata e molto raffinata, fatta di mille mestieri, come quello descritto da Bacchelli in questa pagina straordinaria, di colui che conosceva “l’arte” di tirare i tracciati delle scoline più fini, il primo elemento di una gerarchia di canali che disegnava la terra della pianura, e sapeva ottimizzare il drenaggio, aiutando l’acqua, nei momenti di abbondanza, a scendere verso i fiumi senza fare danni. Ogni volta che leggo questa pagina mi colpiscono le parole e gli aggettivi che sottolineano la gentilezza verso la terra, la mano di chi la lavorava doveva essere leggera, sottile, attenta, come la mano di un amante che accarezza la sua donna. Siamo diventati dei bruti violenti e la terra ci ripaga con la stessa moneta, nessuna meraviglia, solo la consapevolezza delle migliaia di occasioni sprecate, dello sperpero incalcolabile di denaro pubblico, della colpevole ignoranza e della ipocrisia schifosa e feroce che ci tocca ascoltare nei piagnistei di chi ha sprecato l’occasione di valorizzare questa conoscenza antica, con le tecnologie e i mezzi che abbiamo oggi a disposizione.
“Corso di preformazione attoriale”. Il nome, promettente e ambizioso, prelude a un a un sogno: quello che alcuni adolescenti ferraresi potranno coltivare, impegnandosi nelle molteplici attività proposte dalla scuola di recitazione, con la speranza un giorno di essere parte del panorama artistico nazionale. Il percorso che li attende si svilupperà nell’arco di un biennio e culminerà con la realizzazione di un’opera audiovisiva, ammessa fuori concorso al prestigioso Giffoni Film Festival.
La presentazione del progetto ha coinciso con l’inaugurazione della sede di Fonè Teatro. E c’è un misto di orgoglio, felicità e soddisfazione nelle dichiarazioni rilasciate dal suo presidente, Massimo Malucelli, quando proclama ufficialmente l’apertura della scuola e della sede dell’associazione in via Arianuova 128. Partecipe di tutto anche il direttore artistico del Giffoni, Claudio Gubitosi, a testimoniare la solidità del sodalizio. L’evento è stato scandito dall’avanscoperta del nuovo “quartier generale”, dove tre piani spaziosi e accoglienti ospiteranno tutti coloro che, appassionati di recitazione, decideranno di sfidare sé stessi nell’attesissimo corso.
“E’ un progetto che ha superato il mio sogno di sempre” ha affermato il direttore artistico del corso ed ex allievo di Fonè Stefano Muroni, il quale, insieme a Malucelli, ha descritto il programma dell’attività ripercorrendo la sua ricca esperienza professionale. Dal triennio trascorso presso il Centro Sperimentale di Cinematografia alla stimolante carriera di conduttore intrapresa al Giffoni Film Festival, il giovane attore di Tresigallo ha ricordato ai presenti che, con l’impegno e la determinazione, ogni desiderio può essere realizzato. E, con un pizzico di fortuna, addirittura superato: “Ho già lavorato con importanti figure del mondo del cinema, come Monica Guerritore e Giorgio Colangeli. Sono state occasioni che hanno oltrpassato le mie aspettative”, ha aggiunto Muroni, ricordando quando, da bambino, gli amici appassionati di calcio non capivano il suo sogno di diventare attore. “Per questo, oggi, ho voluto impegnarmi in questo corso di preformazione, offrendo ai ragazzi un’opportunità per vivere fino in fondo la loro passione” ha concluso rivolgendosi soprattutto ai giovani talenti ferraresi che, presenti all’inaugurazione, si metteranno in gioco nel corso promosso da Fonè.
Un’opportunità accolta con entusiasmo anche dal vicesindaco nonché assessore alla Cultura Massimo Maisto, il quale ha chiarito le ragioni per cui il Comune di Ferrara ha patrocinato questa iniziativa. “C’era l’esigenza di promuovere una cultura diffusa – ha spiegato – scommettendo su un lavoro capillare e quotidiano al fine di stimolare i giovani in età scolastica. La nostra città ha bisogno di attività creative e fantasiose, senza perdere il senso della professionalità”, ha aggiunto il vicesindaco, che non ha negato di aver appoggiato il progetto anche per motivi personali: “Mi ha colpito la sfida lanciata da Stefano, il suo coraggio di rischiare proponendo idee nuove” è stato il commento dell’assessore, seguito dalle dichiarazioni rilasciate da Paolo Govoni. Ribadendo la necessità di finanziare le attività culturali e artistiche per contrastare l’attuale crisi economica, il direttore della Camera di Commercio di Ferrara ha elogiato il progetto teatrale realizzato da Fonè. Un progetto che, riscoprendo le qualità del territorio, “valorizza i giovani e stimola il cambiamento sociale grazie alle eccellenze”.
“Possiamo rilanciare una società pronta a cambiare e a riproporsi” ha aggiunto Malucelli nel corso dell’inaugurazione, caratterizzata anche dall’intervento di Paolo Marcolini. Il presidente Arci ha dichiarato di apprezzare un’idea che “cerca di unire il mondo della recitazione e della cultura all’attività imprenditoriale”. Due realtà diverse e contrastanti, due “iceber alla deriva” che, come affermato da Malucelli, “hanno deciso di intraprendere un percorso nuovo coordinando gli sforzi e l’impegno per realizzare un obiettivo condiviso”. Grazie a un programma che vede Ferrara scintillare tra le stelle della cultura e dell’arte, l’inaugurazione della sede di via Arianuova si è trasformata in un’occasione per riscoprire la ricchezza di un Paese alla deriva. Una ricchezza che è stata elogiata anche da Gubitosi, figura di spicco dell’inaugurazione svoltasi martedì. Spronando i presenti a impegnarsi nella ricostruzione di uno Stato che deve tornare al primo posto nella classifica dei Paesi più visitati al mondo, il direttore artistico di Giffoni si è soffermato sulle potenzialità del cinema e del teatro italiani. “Non dobbiamo delocalizzarci, ma, coscienti della nostra cultura, dobbiamo impegnarci a esportarla. Il festival che ho realizzato a partire dal 1973 punta proprio a questo e abbiamo contatti con molti Paesi esteri, come il Qatar” ha spiegato Gubitosi, complimentandosi con Muroni. “E’ un buon elemento. Mi piacciono la sua arroganza, la sua presunzione e la sua ambizione”, ha scherzato il direttore artistico, il quale, senza nascondere quella verve napoletana che mette in luce le potenzialità di una regione dalle mille sfaccettature, si è rivolto ai ragazzi del corso incentivando il loro lavoro.
Certo, non mancheranno i sacrifici, “fondamentali per ricostruire le briciole”. Ma Gubitosi non ha dubbi e, concludendo l’intervento prima dell’atteso banchetto offerto dal ristorante pizzera catering L’Archibugio, ha ricordato a tutti i presenti la necessità di amare sé stessi: “Solo se vi amate, riuscirete in questo mestiere. Se non lo fate, cambiate lavoro”. Parole incoraggianti. Ma, soprattutto, parole di sfida e di sprone, che condurranno i talenti di domani alla scoperta di un‘esperienza unica, in cui la passione, coniugandosi con l’arte, darà origine a qualcosa per cui varrà la pena essere spettatori.
Il palcoscenico del Teatro comunale Claudio Abbado come “spazio ludico, allo stesso tempo indeterminato e regolamentato”, nove “adolescenti kamikaze” che rispondono in diretta a un corpus di quesiti, condividendo un inventario di comportamenti, ma senza sapere in base a quali parametri di selezione verranno chiamati in gioco: “ciascuno risponde in diretta autodefinendosi”. Questo è la performance ideata da Francesca Pennini e Angelo Pedroni di CollettivO CineticO insieme ai nove ragazzi che sono andati in scena ieri sera: Tilahun Andreoli, Samuele Bindini, Thomas Clavez, Marco Calzolari, Camilla Caselli, Jaques Lazzari, Matteo Misurati, Emma Saba, Martina Simonato.
Ma in realtà c’è di più perché, partendo dal concetto di indeterminazione e di sperimentazione caratteristico del grande compositore, diventa un percorso, un processo alla ricerca della definizione e dell’autodefinizione del sé, anche in relazione agli stimoli che provengono dal contesto esterno.
I nove adolescenti che abitano il palco hanno memorizzato una serie di gesti associati a stati d’animo, conformazioni emotive e comportamenti e viene loro chiesto di “rappresentarli” a comando. In un angolo giace, infatti, quello che diventa una sorta di principio generatore: un computer portatile, che Angelo usa per proiettare le istruzioni ai performers. L’habitat viene costruito gradualmente, Angelo si procura gli oggetti necessari e li dispone sul palcoscenico dopo averli mostrati per qualche secondo al pubblico, rendendo evidente il meccanismo teatrale, ‘mettendolo in scena’ tramite la sua composizione in tempo reale davanti agli occhi degli spettatori. I ragazzi poi siedono muti sulle panche, si alzano a turno o in gruppo per andare a occupare il palco eseguendo i gesti imparati dai propri corpi, rispondendo in maniera diretta alle istruzioni proiettate sul fondale, fino a che Angelo non suona un gong che determina il passaggio al quadro successivo.
Come nelle pagine di un bestiario medievale, con l’aria sulla quarta corda di Bach in sottofondo, gli spettatori vedono aprirsi davanti ai loro occhi una sorta di inventario umano diviso in tre capitoli. Il primo capitolo è quello delle descrizioni degli “esemplari”: esemplari pessimisti, logorroici, che parlano da soli o che sanno mentire. Gli adolescenti che si riconoscono nella descrizione si alzano in piedi e stanno fermi per qualche secondo davanti al pubblico, fino al suono del gong che li manda a sedere. Il secondo capitolo si intitola “comportamento”: gli esemplari egocentrici sono chiamati al comportamento di salto, quelli disorganizzati al comportamento in codice e quelli stitici al comportamento di canto, oppure ancora gli esemplari arrapati – naturalmente tutti maschi – al comportamento lisergico. Infine nel terzo capitolo tutti e nove compongono azioni coreografiche: dall’addestramento all’equilibrio, dall’allarme alla transumanza alla competizione, dalla costruzione alla decostruzione, quando ciascuno prende un oggetto dell’habitat portandolo fuori dalla scena.
“Age”, spiega Francesca Pennini seduta fra i ragazzi di entrambi i cast – quelli del 2014 e quelli del 2012, che non hanno voluto perdere la tappa ferrarese del loro spettacolo – nell’incontro con il pubblico al termine dello spettacolo, non è uno spettacolo sull’adolescenza ma gioca con la capacità degli adolescenti “di reagire a una situazione mutevole, non predeterminata, come in fondo è la vita che si sta costruendo”. Porta quindi in scena contemporaneamente il coraggio e la sfrontatezza, ma anche tutta la fragilità di quella delicatissima fase della vita che è l’adolescenza, in cui attraverso la continua sperimentazione della propria identità in divenire il gioco si trasferisce dalla fantasia alla realtà: questi nove ragazzi, come tutti i propri coetanei, non sanno cosa li aspetterà nello spettacolo proprio come non sanno cosa li aspetta nella vita. Allo stesso tempo, questi giovani sulla scena sono estremamente sicuri: nascondono l’emozione, sanno come affrontare la sfida, anche grazie al lungo percorso di ‘addestramento’ attraverso cui Francesca e Angelo li hanno guidati. Sembra che voglia dirci anche questo: l’incertezza può essere affrontata dotandosi degli strumenti della conoscenza e dell’allenamento.
Per leggere l’intervista a Francesca Pennini pubblicata su ferraraitalia [vedi]
“Dobbiamo fornire agli editori ulteriori ricerche e risultati riguardanti i rapporti fra tipo di supporto (iPad, Kindle, carta) e contenuto del testo; dovremmo comprendere quali tipi di testo sono meno influenzati dalla lettura digitale e quali invece dovrebbero essere letti sul cartaceo. Sto pensando che ci sia una notevole differenza fra la lettura di una breve storia su uno schermo, quando non necessariamente devi prestare attenzione a tutte le parole, ed una storia letteraria più complessa, qualcosa come l’Ulisse, che richiede una sostanziale concentrazione per essere letta”.
Queste sono le conclusioni alle quali è giunta la ricercatrice norvegese Anne Mangen della Stavanger University dopo aver studiato 100 lettori ai quali era stato dato da leggere lo stesso libro. Metà dei lettori lo hanno letto nella versione cartacea e metà nella versione digitale (ebook). La ricerca ha mostrato come i lettori su Kindle fossero peggiori dei lettori sul cartaceo nel ricordare la successione degli eventi raccontati nel libro (The Guardian, Giovedì 19 Augusto 2014 [leggi]).
Insomma, per Natale dovremmo regalare libri o iPad/Kindle/computer?
Sembra che i libri cartacei siano in via di estinzione. Di loro esistono poche specie che ancora popolano la Terra e che fra qualche anno scompariranno definitivamente per lasciare la loro nicchia ecologica alla prole filogenetica: il libro digitale. Dobbiamo trasferire tutto su piccoli supporti con grandi memorie, oppure leggere su ebook fa perdere capacità mnemoniche e cognitive?
Leggiamo per vari motivi: per imparare, per divertimento, per passare il tempo, per acquisire informazioni prima di un incontro di lavoro. Qualcuno ha affermato che la tecnologia digitale aiuta la lettura. C’è sicuramente differenza fra lettura ricreativa e lettura di un testo sul quale si dovrà sostenere un esame. L’ebook permette collegamenti ipertestuali, che sono uno stimolo ed allo stesso tempo un altissimo rischio di dispersione. Il modo di leggere sta cambiando. Molti di noi hanno problemi crescenti di attenzione e concentrazione: leggere per intero un lungo articolo in internet è molto complicato, l’attenzione si perde facilmente. Ci si perde in un continuo inseguimento delle parole. Quale problema risolve l’ebook? Sicuramente quello del volume e dello spazio dei libri cartacei. Tuttavia il libro cartaceo ha un peso, ha un’impaginazione personale, occupa spazio, ci da informazioni visive e tattili che rafforzano le nozioni. Sappiamo quanto manca alla fine. Le librerie offrono un potente aiuto alla memoria: spesso basta guardare gli scaffali per riattivare il ricordo delle informazioni. Scorrere una lista su un monitor non ha lo stesso effetto. Io ricordo perfettamente il colore della copertina dei libri che ho letto, conosco sicuramente la posizione dei libri nel mio studio, anche per quel libro che ho sfogliato l’ultima volta dieci anni fa.
Gli ebook vengono proposti come la sicura chiave dell’evoluzione del libro, l’obbligato passaggio al digitale. Vi sono numerosi esempi di tentativi digitali introdotti sul mercato e considerati sicuri mezzi del nostro futuro e poi inesorabilmente falliti e/o caduti nell’obsolescenza (cambiamento di sistemi operativi, formati di file ora illeggibili, memorie di massa non più leggibili, vari tipi di cd/dvd non più leggibili dai lettori digitali). Erano tentativi per un successo economico: una scommessa sul mercato dell’elettronica, sopravvissuti qualche anno, ci hanno illuso di essere eterni. Gli abbiamo dato fiducia concedendogli le foto più care dei nostri viaggi, gli scritti più complicati e personali dei nostri ricordi. L’ebook si può rompere, la batteria diminuirà la sua capacità d’immagazzinare energia, lo schermo si graffierà. Quando il nostro ebook sarà obsoleto dovremmo gettarlo e comprarne un altro, trasferendo tutto il suo contenuto nella nuova memoria. Produrremo un altro rifiuto elettronico. Il lettore digitale è più ecologico di un libro cartaceo? I risultati di vari studi non hanno ancora chiarito quale delle due soluzioni sia più ecologica [leggi in pdf]. L’iPad è responsabile di circa 130 kg di emissioni di gas-serra equivalenti di CO2 durante la sua vita media. Il libro stampato in media è responsabile per circa 4 kg [leggi]. Senza una totale trasparenza nelle informazioni fornite dai produttori di supporti digitali, non è chiaro tuttavia quanto i rifiuti siano ecologicamente riciclabili e quanto si stia effettivamente cercando di migliorare la loro efficienza energetica.
Ho la sensazione che la proposta dell’ebook sia davvero spinta da interessi economici dei grandi produttori, piuttosto che da effettivi vantaggi per il lettore. Un iPad costa mediamente circa 250 euro (un Kindle costa circa 60 euro) ai quali vanno sommati gli acquisti di ebook (circa 7 euro a libro). Se in due anni leggessi circa 20 ebook, avrei una spesa di 140 euro ai quali sommare l’acquisto dell’iPad (per un totale di 390 euro). Se avessi acquistato gli stessi libri, ma in forma cartacea avrei speso circa 300 euro (per un ipotetico costo di 15 euro a libro). Naturalmente, durante i due anni ho avuto da amici ebook gratuiti e ne ho scaricati di piratati. Alla stessa maniera, ho ricevuto in prestito qualche libro cartaceo. Ovviamente mi auguro che in questi due anni il mio iPad non si guasti. Il vantaggio mi sembra davvero puramente volumetrico, e comunque usando l’iPad non saprò come riempire la mia nuova libreria ikea.
Per Umberto Eco ci sono due tipi di libro, quelli da consultare e quelli da leggere.
La lettura del cartaceo riguarda le sensazioni, l’animo, l’arte visiva, letteraria e musicale. Se ha ragione la ricercatrice norvegese, siamo più propensi a ricordare in dettaglio ciò che leggiamo sul cartaceo. Se vogliamo allora provare le sensazioni dell’anima dobbiamo leggere un libro di carta. L’anima ricorda meglio. Il libro per la memoria, l’ebook per gli affari ed il divertimento.
La lettura non è divertimento leggero. L’energia spesa nella lettura dell’imparare è preziosa e desidererei che ciò che imparo rimanesse con me il più a lungo possibile. Alla fine di un bel libro siamo rimasti delusi non potendo più partecipare alle storie e frequentare i personaggi del romanzo. Gli ultimi capitoli li abbiamo millesimati, sperando che la posizione del segnalibro arretrasse ogni volta che riprendevamo in mano il libro. Le ultime pagine le abbiamo centellinate, come l’ultimo sorso di quell’ottimo vino che abbiamo gustato quella volta. Poi abbiamo voltato l’ultima pagina, chiuso il libro ed ammirato la copertina. “La forma libro è determinata dalla nostra anatomia” (Umberto Eco, La bustina di Minerva, 17/03/1995).
Abbiamo bisogno di sapere quanto manca alla fine: è quello che stiamo cercando da sempre.
Appuntamento per gli amanti del miglior jazz-samba quello di domani, sabato 29 novembre (ore 21.30), al Jazz club Ferrara con due maestri del proprio strumento come Toninho Horta e Ronnie Cuber. Un originale dialogo in musica che unisce Brasile e Stati Uniti e valica i confini geografici e distanze culturali.
Stasera, venerdì 28 novembre, a partire dalle 20 lo spazio del Torrione è invece dedicato a “Somethin’else”, la mini rassegna musical-gastronomica all’interno del cartellone jazz. L’abbinamento di oggi è tra cucina indiana e sonorità tradizionali con le note di raga selezionate ed eseguite, per tablas e sitar, da Stefano Grazia e Mauro Fava (in sostituizione di Paolo Avanzo), maestri nazionali della tradizione musicale d’Oriente.
Nel Torrione di San Giovanni, in via Rampari di Belfiore a Ferrara.
In attesa uno sguardo alle immagini del fotografo Stefano Pavani, che documenta la serata di venerdì scorso con il “modern mainstream” che ha sancito l’ultimo appuntamento in collaborazione con il Bologna jazz festival. Gli scatti in rigoroso bianco e nero documentano l’esibizione del quartetto di una stella del jazz: il pianista George Cables coadiuvato dal drumming di Victor Lewis e dai virtuosi Piero Odorici, ai sassofoni, e Darryl Hall al contrabbasso.
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George Cables al pianoforte al Jazz club Ferrara (foto Stefano Pavani)
George Cables Quartet: Victor Lewis alla batteria (foto Stefano Pavani)
George Cables Quartet: Piero Odorici al sassofono (foto Stefano Pavani)
George Cables Quartet: Darryl Hall al contrabbasso (foto Stefano Pavani)
George Cables Quartet al Jazz club Ferrara (foto Stefano Pavani)
George Cables Quartet: Victor Lewis alla batteria (foto Stefano Pavani)
George Cables Quartet: Victor Lewis alla batteria (foto Stefano Pavani)
George Cables Quartet: Victor Lewis alla batteria (foto Stefano Pavani)
George Cables Quartet al Jazz club Ferrara (foto Stefano Pavani)
George Cables al pianoforte con il suo quartetto al Jazz club Ferrara (foto Stefano Pavani)
George Cables al pianoforte con il suo quartetto al Jazz club Ferrara (foto Stefano Pavani)
George Cables al pianoforte con il suo quartetto al Jazz club Ferrara (foto Stefano Pavani)
George Cables Quartet al Jazz club Ferrara (foto Stefano Pavani)
George Cables Quartet: Odorici al sassofono e Hall al contrabbasso (foto Stefano Pavani)
George Cables Quartet: Odorici al sassofono e Hall al contrabbasso (foto Stefano Pavani)
George Cables Quartet al Jazz club Ferrara (foto Stefano Pavani)
Circa tremila nuovi casi in più ogni anno Italia, quattrocento in Emilia Romagna e, l’anno passato, ventotto nel Ferrrarese, dove i sieropositivi sono più di 600, cinquecentotrentasei dei quali trattati con tre differenti farmaci indispensabili a cronicizzare l’infezione, che contagia principalmente persone sessualmente attive tra i 25 e i 40 anni. Sono i numeri della sieropositività, che solo a Ferrara comporta una spesa farmaceutica di 4milioni di euro a carico della sanità pubblica.
Non è emergenza, ma è necessario mantenere i riflettori accesi su un’infezione “dimenticata” ma sempre in agguato, sicché la campagna d’informazione deve ripartire con rinnovata forza concentrandosi sull’”amore sicuro e consapevole”. Si ricomincia da un corso di formazione riservato ai giornalisti, che il 29 novembre vedrà lo psicologo e psichiatra Stefano Caracciolo concentrarsi sulla comunicazione dei dati collegati alla malattia e lo farà affrontando un percorso per immagini tratte da film sull’Aids. Il programma prosegue con un’anteprima domenica pomeriggio, alle 17.30, in piazza Municipale, dove va in scenaWrite Aids flash mob, seicento palloncini rossi formeranno la scritta Hiv, un’installazione accompagnata dalla presenza di uno stand informativo.
Da oggi e fino al 5 dicembre la Sala Arengo del Comune (chiuso il sabato) ospita la mostra Write Aids story: l’Aids attraverso occhi e pensieri dei giovani; lunedì alla Sala Estense, dalle ore 8.30, si alternano differenti incontri con le scuole, che nei giorni successivi toccheranno gli istituti superiori “Monaco”, “T.L. Civita” di Codigoro e il “Remo Brindisi” del Lido degli Estensi. Il progetto, alla cui realizzazione hanno collaborato la Commissione interaziendale per la lotta all’Aids, gli operatori di Free Entry, il Comune, l’Avis ferrarese e provinciale, l’Afm (farmacie comunali) e l’Associazione Ferrara by Night, ha un obiettivo preciso: sensibilizzare il pubblico e di conseguenza prevenire il contagio da Hiv. E’ questo lo scopo di “World Aids day”, la giornata mondiale contro l’Aids celebrata l’1 dicembre.
“L’Aids non passa di moda, non è stato sconfitto – ricorda l’assessore alla Sanità Chiara Sapigni – E’ necessario rafforzare la prevenzione”. E’ l’unica via per contenere i casi di contagio che avvengono attraverso il sangue e i rapporti sessuali con persone infette e spesso ignare di esserlo. “E’ una realtà di cui si tende a parlare poco, ma ogni anno si rileva lo stesso numero di nuovi casi che si aggiungono ai vecchi”, spiega l’infettivologa Laura Sighinolfi dell’azienda ospedaliera.
“Stiamo lavorando attraverso nuovi mezzi di comunicazione tra cui i social network per raggiungere un maggior numero di persone estranee ai percorsi di prevenzione tradizionali avviati nelle scuole e al Sert, dove alcuni utenti hanno suggerito diversi metodi informativi soprattutto all’interno delle famiglie chiamate a confrontarsi con questa realtà”, racconta Luisa Garafoni, direttore del Sert. Rispetto e consapevolezza sono le due parole d’ordine su cui si basa la guerra alla sieropositività perché “tutto dipende dalla scelta personale dei propri comportamenti sessuali”, dice Garafoni ricordando quanto adolescenti e giovanissimi siano i più colpiti dalle malattie sessuali, mentre i tossicodipendenti, pur rimanendo una categoria a rischio, sono la più sotto controllo rispetto a fasce di popolazione meno informate sull’infezione.
Le fotografie possono raggiungere l’eternità attraverso il momento. Henri Cartier-Bresson
E’ esposta a Roma, dal 26 settembre 2014 fino al 25 gennaio 2015, presso il Museo dell’Ara Pacis, la mostra retrospettiva Henri Cartier-Bresson.
L’abbiamo visitata a pochi giorni dalla sua inaugurazione, in un settembre romano ancora tiepido, di quelli che invitano a stare fuori, all’aria aperta, e a guardare tutto con altri occhi. Se poi si ama (si adora) la fotografia e si sa che, nella Capitale, espone il suo Maestro, i giochi sono fatti. Pronti, via, allora. Ed eccoci in fila.
Il genio per la composizione, la straordinaria intuizione visiva e la capacità di cogliere al volo i momenti più fugaci come i più insignificanti fanno di Henri Cartier-Bresson (1908-2004) uno dei più grandi fotografi del ventesimo secolo. Nel corso della sua lunga carriera, percorrendo il mondo e posando lo sguardo sui grandi momenti della storia, Cartier-Bresson è riuscito a unire alla potenza della testimonianza la poesia. Tre periodi scandiscono la sua opera: il primo, dal 1926 al 1935, durante il quale Cartier-Bresson frequenta i surrealisti, compie i primi passi in fotografia e affronta i suoi primi grandi viaggi; il secondo, dal 1936 al 1946, corrisponde al periodo del suo impegno politico, del lavoro per la stampa comunista e all’esperienza del cinema; il terzo periodo, dal 1947 al 1970, va dalla creazione della cooperativa Magnum Photos fino alla fine della sua attività di fotografo. Riduttivo sarebbe dunque individuare nella sola nozione di “istante decisivo”, che per lungo tempo è stata la chiave principale di lettura delle sue immagini, la sintesi del suo lavoro.
Questa retrospettiva ripercorre cronologicamente il suo percorso, per mostrare che non c’è stato un solo Cartier-Bresson ma diversi. E tutti meravigliosi.
La mostra propone, infatti, una nuova lettura dell’immenso corpus d’immagini di Cartier-Bresson, coprendo l’intera vita professionale del fotografo. Sono esposte oltre 500 opere tra fotografie, disegni, dipinti, film e documenti, riunendo le più importanti icone ma anche le immagini meno conosciute del grande maestro: 350 stampe vintage d’epoca, 100 documenti tra cui quotidiani, ritagli di giornali, riviste, libri manoscritti, film, dipinti e disegni.
Il percorso espositivo, ben fatto e davvero molto ricco, è diviso in nove parti.
Dopo un’Introduzione che sintetizza gli ingredienti della storia, ossia l’inclinazione artistica (“Ho sempre avuto la passione per la pittura” scrive Cartier-Bresson. “Da bambino, la facevo il giovedì e la domenica, ma la sognavo tutti gli altri giorni”), un assiduo apprendistato, un po’ di atmosfera del periodo, aspirazioni personali e molti incontri, le altre sezioni corrispondono alle diverse fasi della vita e del lavoro dell’artista.
La sezione I comprende le prime fotografie, con gli anni di apprendistato, i rapporti con gli americani a Parigi, le influenze fotografiche, il viaggio in Africa. Siamo negli anni Venti, sotto il doppio segno della pittura e della fotografia, praticate prima in modo amatoriale e poi sviluppatesi attraverso tappe fondamentali come il viaggio in Africa, tra il 1930 e il 1931. La sezione II, Viaggi fotografici, è dedicata al Surrealismo, alle peregrinazioni fotografiche in Spagna, Italia, Germania, Polonia e Messico. Grazie a René Crevel, conosciuto a casa di Jacques Émile Blanche, Cartier-Bresson comincia a frequentare i surrealisti nel 1926. E’ soprattutto l’atteggiamento surrealista a segnarlo: lo spirito sovversivo, il gusto del gioco, lo spazio lasciato all’inconscio, il piacere degli andirivieni urbani, la predisposizione ad accogliere il caso.
La terza sezione riguarda l’impegno politico. Come la maggior parte dei suoi amici surrealisti, Cartier-Bresson condivide molte posizioni politiche dei comunisti: un feroce anticolonialismo, un incrollabile impegno nei confronti dei repubblicani spagnoli e una fede profonda nella necessità di “cambiare la vita”. Dopo le violente rivolte organizzate nel febbraio del 1934 a Parigi dall’estrema destra, percepite come un rischio che l’ondata del fascismo europeo dilaghi anche in Francia, il suo impegno si fa più tangibile. Firma numerosi manifesti di “richiami alla lotta” e di “unità d’azione” delle forze di sinistra. Nel corso dei suoi viaggi in Messico e negli Stati Uniti, tra il 1934 e il 1935, le persone che frequenta sono molto impegnate nella lotta rivoluzionaria. Di ritorno a Parigi, nel 1936, la posizione di Cartier-Bresson si radicalizza e partecipa con regolarità alle attività dell’Associazione degli scrittori e artisti rivoluzionari, cominciando anche a lavorare per la stampa comunista. Nella sezione IV, dedicata alle guerre, scorrono le immagini del suo film sulla Guerra civile spagnola e si può vedere la sua attività durante la Seconda guerra mondiale (fotografo dell’esercito, prigioniero, fuggiasco, combattente della Resistenza) per documentare il ritorno dei prigionieri.
Nel febbraio del 1947, Cartier-Bresson inaugura la sua prima grande retrospettiva istituzionale al Museum of Modern Art di New York. Poco dopo, con Robert Capa, David Seymour, George Rodger e William Vandivert, fonda l’agenzia Magnum, che in poco tempo diverrà uno dei riferimenti mondiali per il fotoreportage di qualità. Cartier-Bresson decide di diventare un reporter a pieno titolo, impegnandosi nell’avventura della Magnum. Dal 1947 agli inizi del 1970, si susseguono viaggi e reportage in tutto il mondo, lavorando per quasi tutti i grandi giornali illustrati internazionali. Siamo così arrivati alla sezione V, quella del reporter. Senza accorgercene.
Segue la sezione VI, quella dedicata a Henri reporter professionista: è lui il primo fotogiornalista a entrare in URSS dopo la morte di Stalin. E poi Cuba, “L’Uomo e la Macchina” e la serie Vive la France. La fotografia dopo la fotografia (sezione VII) segna l’epoca della fine dei reportage e quella di una fotografia più contemplativa. Ricompare il disegno. Conclude la mostra, l sezione VIII, ricognizione, ovvero quella del tempo della riconsiderazione degli archivi (dai documenti al lavoro), delle mostre retrospettive e dei libri. Siamo arrivati all’iconizzazione di Henri Cartier-Bresson.
La mostra è accompagnata da un ampio ed esaustivo catalogo (pubblicato da Contrasto, foto) con saggi di studiosi, esperti e testi inediti di Cartier-Bresson.
Si muore tutte le sere, si rinasce tutte le mattine: è così. E tra le due cose c’è il mondo dei sogni.
Museo dell’Ara Pacis, Lungotevere in Augusta, Roma, dal 26 settembre 2014 al 25 gennaio 2015. Mostra realizzata dal Centre Pompidou di Parigi, a cura di Clément Chéroux, in collaborazione con la Fondazione Henri Cartier-Bresson, promossa da Roma Capitale, Assessorato alle Politiche Culturali e Centro Storico – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e prodotta da Contrasto e Zètema Progetto Cultura.
Ringraziamenti vanno all’Ufficio stampa di Contrasto per il materiale fornito.
La foto di copertina è presa da Internet.
3.SEGUE – Riprende l’indagine di Ferraraitalia sulle nuove patologie e “l’altra medicina”, con una riflessione del nostro esperto, il dottor Nuccio Russo.
L’organismo possiede al suo interno le forze biodinamiche e biocinetiche che gli permettono di mantenere l’equilibrio o di restaurare il benessere. Queste forze si esercitano attraverso i due sistemi neurovegetativo ed endocrino che lavorano in sinergia tra loro.
Attualmente non si parla più semplicemente di sistema immunitario ma di sistema neuro-psico endocrino-immunitario, quindi è inevitabile la relazione tra psiche, sistema immunitario e funzionalità organica.
Come il corpo sa riconoscere le aggressioni esterne, così la mente sa riconoscere quello che ci è proprio da quello che ci è estraneo. I fattori psicologici sono una causa molto frequente delle allergie, sembra infatti che lo stress abbia un ruolo importante perché aumenta la sensibilità individuale. E’ come se si innescasse una sorta di rapporto alterato tra l’individuo e il mondo circostante.
D’altra parte, sappiamo tutti che se si è allergici al polline, agli acari, alla polvere, ecc. ma anche a persone e situazioni sgradite. La reazione che si manifesta sul piano immunitario è paragonabile ad analoghe insofferenze su altri piani.
La nuova scienza della neuro-psico-endocrino-immunologia insegna che il nostro sistema immunitario è paragonato a un organo supplementare di percezione-relazione con il mondo circostante, una sorta di “sesto senso”. L’individuo può rispondere all’ambiente che lo circonda con moti di aggressività che lo coinvolgono simultaneamente sul piano immunitario, nervoso ed endocrino. Sotto questa luce, l’allergico ricerca qualcosa contro cui volgere la propria aggressività repressa o dissimulata e, a questo punto, si perde la corretta percezione dei ruoli, non essendo più chiaro chi sia l’aggredito e chi l’aggressore.
Dunque le malattie allergiche richiamano la nostra attenzione su più fattori:
– predisposizione costituzionale;
– abitudini alimentari;
– capacità di disintossicarsi (a livello fisico e psichico);
– aspetto legato alla psicosomatica;
– ambiente più o meno sano in cui si vive.
Pertanto l’approccio alle allergie deve essere necessariamente olistico, altrimenti occorrerà accontentarsi di soffocare l’ennesima reazione infiammatoria auto-provocata, senza comprendere e quindi guarire alla radice la problematica.
La reazione allergica può essere intesa, come d’altronde tutte le sintomatologie che richiamano ad una lettura corpo-mente, come il campanello d’allarme di un sistema che ha perso i suoi equilibri naturali e che attraverso i sintomi esprime il suo bisogno d’attenzione.
Il primo a ipotizzare una correlazione tra alimenti e malattie fu Ippocrate (460-370 a.C.), il quale comprese che il cibo poteva essere causa di manifestazioni patologiche come l’orticaria e la cefalea. Successivamente se ne occupò Galeno (131-210 d.C.) che pare curasse malati di allergia alimentare.
Il corpo e la mente nella loro unità funzionale, possono ricompattare alleanze chimiche e psichiche in tutte quelle disfunzioni quali stress, frustrazioni, attacchi di panico o di abbandono, che sono l’evidente comunicazione di uno stato di disagio generale che produce poi la reazione allergica.
Per ogni individuo esistono determinate sostanze, talvolta assolutamente insospettabili, che lo intossicano e che quindi sono incompatibili con il proprio sistema immunitario.
Ingerendo tali alimenti si verifica un fenomeno di reazione citotossica che distrugge parte dei globuli bianchi; gli enzimi liberati entrano in circolo, attaccano i tessuti e provocano irritazione in intere aree del corpo con conseguenti reazioni di tipo allergico a catena. Tali reazioni sono dette intolleranze alimentari ritardate o incompatibilità alimentari tipiche del metabolismo ritardato.
Con sintomi diversi da soggetto a soggetto, le incompatibilità alimentari producono disturbi che si manifestano anche a distanza di tempo dall’ingestione dell’alimento responsabile; diverse sono le allergie classiche che, invece, si manifestano immediatamente con l’assunzione del cibo reattivo (reazione mediata). Talvolta allergie ed incompatibilità possono coincidere. A seconda dell’alimento e del relativo grado di sensibilità si possono avere svariati sintomi, spesso talmente abituali che il soggetto, seppur malamente, convive con loro quasi in una sorte di assuefazione, considerandoli normali. I sintomi sono strettamente individuali poiché le tossine, che si formano durante i processi di incompatibilità alimentare, hanno un organo-bersaglio specifico per ognuno.
Di seguito alcuni sintomi legati alle intolleranze alimentari: Sintomi generali: stanchezza, ritenzione idrica, borse oculari, sonnolenza postprandiale, alitosi, aumento sudorazione. Sistema nervoso: cefalea, ansia, depressione, irritabilità, scarsa memoria, difficoltà di concentrazione, vertigini, vampate di calore. Apparato respiratorio: difficoltà di respirazione, asma, tosse, rinite allergica, sinusite. Apparato cardiocircolatorio: alterazione della pressione arteriosa, palpitazioni, extrasistole, aumento della coagulabilità del sangue. Apparato gastroenterico: gonfiore, senso di nausea, dolori e crampi addominali, gastrite, colite, disturbi dell’alveo, diarrea, stitichezza, eruttazione, aerofagia, prurito anale, emorroidi. Apparato urogenitale: cistiti, infiammazioni urogenitali, sindrome premestruale. Apparato muscolo-scheletrico: crampi, spasmi, tremori muscolari, debolezza muscolare, dolori articolari, Epidermide: prurito locale e generalizzato, acne, eczema, dermatite, vari Inestetismi: cellulite, soprappeso, obesità.
Il ruolo dell’osteopata
L’osteopata utilizza la via d’accesso al corpo attraverso la lettura della mappa corporea tracciata dalla psiche sul corpo e dalla ricerca dei traumi fisici e psichici che condizionano il corpo nello svolgimento delle sue funzioni naturali.
Attraverso l’osservazione visiva e manuale interpreta la mappa e individua i punti di restrizione mantenuti nell’organismo che contribuiscono ad alimentare il disagio o il sintomo, come appunto nel caso delle allergie.
Noi sappiamo che le allergie vengono dall’aggressione degli antigeni alle nostre superfici di contatto. Queste non sono solo la pelle, ma anche tutte le parti interne collegate all’esterno attraverso gli orifizi, come l’intestino, gli alveoli polmonari, tutte quelle zone, cioè, rivestite da mucose: dove c’è una mucosa, c’è un tessuto linfoide con dei globuli bianchi e delle immunoglobuline, quindi una prima difesa contro i microbi esterni.
L’intervento dell’osteopata aiuta l’individuo a ritrovare l’equilibrio funzionale, uno dei punti di partenza per la risoluzione del conflitto anche sul piano mentale. L’osteopatia rientra in un percorso di medicina integrata che prevede il contributo di varie specialistiche mediche, psicologiche, di medicina naturale e terapie del benessere che, sia sul piano della diagnosi che della cura, in sinergia tra loro aiutano l’individuo a capire l’origine del sintomo ‘allergia’ e a trovare la propria strada nella ricerca dell’equilibrio naturale perduto.
San Pietroburgo è una delle città più visitate al mondo. Io stesso l’ho visitata qualche mese fa e sono rimasta affascinata dalla sua storia, dalla sua arte, dalla sua cultura e dalla sua bellezza. Ma, grazie a questo film del 2013, “The age of Kommunalki”, trovato mentre cercavo informazioni sulla città, ho scoperto, con immenso stupore, che, dietro le splendide facciate da cartolina del centro, realizzate da alcuni dei migliori architetti dell’epoca, si nasconde un mondo particolare, sconosciuto alla maggior parte dei visitatori: il mondo dei “kommunalki”, le case comuni. La parola mi era nota da alcuni romanzi (li avevo trovati in “A Mosca, A Mosca!” di Serena Vitale o nel più recente “Tra le mura del Cremlino”, di Paul Dowswell), ma non mi ero mai veramente avvicinata a questa realtà.
Si tratta di un altro mondo, particolare, diverso, terribile, ostico e duro, per certi aspetti, curioso, interessante, sorprendente, umano, caloroso, protettivo e familiare, per altri. Ancora oggi, a quasi 100 anni dalla rivoluzione di ottobre, molte persone di diversa estrazione sociale e provenienza, vivono insieme, occupando stanze all’interno di grandi appartamenti e condividendo spazi comuni come una cucina, servizi igienici, un bagno e un corridoio. Gli abitanti di questi ambienti hanno provato sulla loro pelle le conseguenze del tentativo di calare nella quotidianità un concetto utopico, quello della “vita in comune”, che nel periodo sovietico richiamava il pensiero di Tommaso Moro o di Tommaso Campanella. Proprio questa constatazione sarà il punto di partenza, oltre che il filo conduttore, per una riflessione sul significato moderno di comunità, di relazioni umane, e sulla trasformazione sociale ed economica che sta investendo le città stesse.
Il film-documentario che vi consigliamo questa settimana dunque, è girato interamente a San Pietroburgo, nel 2012, città che, a quella data, ospitava ancora 101.303 kommunalki, nei quali in cui vivevano e vivono 660.000 persone. Un abitante su nove, quelli che vengono chiamati i “podselentsy”, gli inquilini. E parla di questa difficile vita in comune.
Il film, ricco tanto dal punto di vista storico che umano, inizia con l’intervista a uno dei protagonisti principali della storia, che è del tutto reale, Aleksey Khashkovsky, che ci presenta l’edificio nel quale si trova l’appartamento che percorreremo, un bellissimo palazzo aristocratico, costruito nel 1906, dove, prima della rivoluzione, avevano vissuto anche il famoso poeta Michael Kuzmin, il cantante lirico Fëdor Ivanovič Šaljapin o artisti del Mariinsky e il cui proprietario era stato anche il famoso matematico Andrey Alekseevich Kiselev. Durante la rivoluzione bolscevica l’edificio era stato requisito e trasformato in “kommunalka”, uno spazio di vita in comune, partendo dall’idea che la convivenza faceva parte dell’ideologia politica dell’epoca, una maniera, per lo Stato, di retribuire i suoi operai con un alloggio, sempre vicino al luogo di lavoro, la fabbrica. La mancanza degli alloggi a Leningrado aveva aiutato il diffondersi del fenomeno.
Il palazzo, in cui ci troviamo per tutto il film, ha 9 stanze, in una superficie di 346 m2, e ospita 20 persone. C’è chi viene e c’è chi va. Vi sono due servizi igienici, un bagno e una cucina grande. Qui ognuno ha il suo tavolo per evitare discussioni, vi sono due cucine a gas con due fornelli per famiglia, per aver la possibilità di cucinare tutti allo stesso tempo. In questo luogo comune si parla, si discute, si controlla il piatto del vicino che cuoce e lo si avverte se sta bruciando o se è troppo cotto, qui si beve il tè tutti insieme. Si festeggiano insieme anche le ricorrenze, come i compleanni o gli anniversari, si cucina solo dopo che si è tutti usciti per andare al lavoro. Nel bagno, si hanno a disposizione 15-20 minuti a testa per lavarsi, non ci si trucca mai in questo locale, o si perde tempo prezioso per gli altri.
La toilette è separata, comune anche quella, si fa la fila per usarla. Tutti in rigorosa e rispettosa attesa. La casa, però, era pensata, originariamente, per gli aristocratici, con una sala da pranzo e una per la servitù che la usava come luogo per la preparazione e la distribuzione del cibo: non è, quindi, adatta all’utilizzo passato e attuale dei “kommunalki”. Nel 1957, vi abitavano 33 persone, in una sola stanza stavano anche 8 persone. Nello stesso vano, si possono ritrovare una macchina per cucire, la zona notte, una cyclette, un frigorifero e un tavolo. Una mini-casa in un mini-spazio. Tatyana Sigolina ha un piccolo e curato camino e dei bei fiori bianchi profumati, nel suo angolo di vita.
All’inizio, sono tutti estranei ma, poi, si deve diventare più attenti al prossimo, alle diversità culturali e bisogna trovare un linguaggio comune. Ci vogliono pazienza, resistenza, forza di superare le difficoltà, ma alla fine si diventa amici intimi, ci si rispetta e… non è così male… ammettono i giovani amanti del rock Evgeny e Pavlov.
Ci si aiuta nelle emergenze, non si è mai soli, nel bene e nel male. Gli anziani raccontano storie ai più piccini, le babushke (le nonne), come Larisa, sono sagge, affettuose, hanno pazienza e rispetto verso gli altri. Tutti aiutano tutti.
Galina Ilmer confessa che non si può mai stare soli, in un “kommunalka”, ma che, come in famiglia, se si è tristi o qualcosa non va, ci si può sempre chiudere nella propria stanza. Come facevamo da ragazzini quando eravamo arrabbiati. C’è poi anche l’aneddoto carino dell’italiano Roberto, che, all’epoca fidanzato con Julia, poi diventata sua moglie, non comprendeva come si potesse vivere in quel luogo e in quella maniera. Per rassicurarlo, l’anziana amica di Julia aveva iniziato a farsi chiamare da lei zia. Così si sarebbe pensato che si era in famiglia. Ma quando Roberto aveva chiesto dove si gridava il bidè, che ridere…
Siamo di fronte a una reliquia di cui liberarsi? Qualcuno pensa proprio di sì. Perché l’idea della comune non ha resistito, l’individualismo dell’essere umano emerge e non perdona. Oggi, in questi luoghi d’altri tempi, rimangono soprattutto gli anziani, con le loro basse pensioni, chi guadagna troppo poco per potersi permettere un appartamento al centro di San Pietroburgo, chi è appena arrivato da fuori, chi subaffitta da titolari del diritto a vivere fra quelle mura. Il titolo acquisito non si perde, mai. Intere famiglie hanno vissuto lì dentro, bambini oggi cresciuti. E se lo Stato ti manda via, ti deve ricollocare.
Sarà pure un’utopia ma è meraviglioso stare nel centro della città, ammette Aleksey, dove con un solo sguardo si vede tutto, dalla cattedrale di San Isacco alla prospettiva Nevski. Queste case, però, oggi cadono a pezzi, case che sono come organismi viventi, dove tutto è in relazione, dove curarsi seriamente non significa solo badare all’estetica (quindi alle facciate degli edifici) ma anche prestare attenzione al proprio interno (quindi alle strutture delle abitazioni). Lo Stato, tuttavia, a San Pietroburgo come in altre città russe, si preoccupa di preservare il patrimonio storico-artistico nella parte che vede il turista, quella esterna. Questo è, dunque, anche un film- denuncia di tale situazione, del degrado, dei crolli, dei soffitti che stanno marcendo, dei muri che crollano, dei calcinacci che cadono. Come si può vivere in un monumento? Dove sono i restauri, gli interventi necessari e l’Unesco? Si domanda qualcuno.
La proprietà comune è, in realtà, una terra di nessuno. Spesso si occupano spazi con cose inutili per delimitare il proprio territorio, per marcare i propri confini, così come fanno i paesi, così come si fa in guerra. Si tratta di una questione psicologica. Occupando e delineando spazi si esiste. Ma la realtà vera è un’altra, o almeno così dovrebbe essere.
“Il mondo intero è diventato un grande kommunalka. Ci siamo tutti dentro, ogni nazione fa parte di un kommunalka. Anche se in Europa tutti hanno deciso di isolarsi, in realtà convivono in un unico spazio comune. Devi solo imparare a comunicare e a negoziare con gli altri, per vivere e sopravvivere in questo mondo globalizzato”. Ci dice Evgeny Yalovegin, in chiusura. Nulla di più vero e saggio, in questo momento storico così complesso, dove l’orientamento e la via paiono persi.
The Age of Kommunalki, di Francesco Crivaro e Elena Alexandrova, con Aleksey Khashkovsky, Lilija-Elizaveta Alexandrova, Varvara Alexandrova, Ilya Alexandrov, Larisa Gromova, Evgeny Ilmer, Antonina Kharlamova, Evgeny Yalovegin, Tatyana Sigolina, Italia, 2013, 65 mn.
Per informazioni sul film (in russo ma con sottotitoli in italiano) visita il sito [vedi] e quello di Undergofilm [vedi].
Intanto domani al via la prima parte del protocollo del progetto Drain Brain
Il nuovo pletismografo sviluppato dall’Università di Ferrara che servirà all’astronauta Samantha Cristoforetti per eseguire il protocollo sperimentale del progetto Drain Brain, è pronto per essere spedito sulla Stazione Spaziale Internazionale (ISS).
Dopo l’inevitabile delusione a causa dell’esplosione del razzo Antares avvenuta lo scorso 28 ottobre, un secondo pletismografo è stato realizzato ed è pronto per essere inviato sulla ISS.
Come ci spiega Angelo Taibi, project manager del progetto e ricercatore del Dipartimento di Fisica e Scienze della Terra di Unife…“La qualifica del secondo pletismografo secondo le specifiche NASA, ha rappresentato una vera e propria corsa contro il tempo. Per non pregiudicare l’esecuzione dell’esperimento in orbita da parte del capitano Cristoforetti, l’ASI e la NASA ci hanno dato l’opportunità di spedire il nuovo dispositivo elettronico con il prossimo razzo della società americana SpaceX, il Falcon 9, che verrà lanciato dal Kennedy Space Center in Florida il prossimo 16 Dicembre”. (http://www.nasaspaceflight.com/2014/11/crs-5-dragon-mission-iss-evaluating-december-target/).
“Inoltre – prosegue Taibi – ci tengo a ricordare che il pletismografo è stato interamente sviluppato all’interno del Dipartimento di Fisica e Scienze della Terra in collaborazione con la sezione di Ferrara dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, INFN. Sia la progettazione che la realizzazione di tale strumento diagnostico hanno rappresentato un’eccellenza in termini di affidabilità e sicurezza e voglio ringraziare tutte le persone che con grande passione e competenza hanno collaborato a questo progetto così ambizioso.”
Il pletismografo è un sofisticato strumento portatile e non invasivo che misura variazioni di capacità elettrica associata a variazioni di volume del sangue, tramite sensori che possono essere applicati a qualunque segmento cilindrico del corpo.
Roberto Calabrese, Direttore del Dipartimento di Fisica e Scienze della Terra, aggiunge…“Il nostro Dipartimento ha una lunga tradizione ed è conosciuto internazionalmente non solo per le ricerche di base, ma anche per la fisica applicata. Questa ricerca, in particolare, avrà un impatto sociale molto forte per gli studi del Prof. Paolo Zamboni, Direttore del Centro di Malattie Vascolari di Unife, sul ritorno venoso e la fisiologia della circolazione cerebrale.”
In attesa della consegna del nuovo pletismografo e del primo test per misurare il ritorno venoso cerebrale in condizioni di microgravità, domani, venerdì 28 novembre, ci sarà il primo contatto con la nostra astronauta. Infatti, presso la sede della Kayser Italia, azienda partner di Unife nella realizzazione del progetto Drain Brain, il responsabile del progetto, Paolo Zamboni, guiderà da remoto Samantha Cristoforetti che dovrà effettuare da sola un esame ecografico del collo, utilizzando uno scanner ad ultrasuoni già in dotazione sulla ISS.
Ferraresi i nove performers adolescenti, ferrarese la regista Francesca Pennini e l’assistente drammaturgo Angelo Pedroni, entrambi componenti della compagnia ferrarese CollettivO CineticO che recentemente vinto il premio “Rete critica” come migliore compagnia italiana 2014. Eppure il nuovo allestimento 2014 della performance <age> non era ancora stato rappresentato a Ferrara nella sua forma integrale. Ha debuttato a Ravenna in settembre, poi ci sono state date al Teatro Vascello a Roma, a Milano, a Potenza e ha vinto il premio “Jurislav Korenić” come miglior regia al Festival Mess a Sarajevo, nei prossimi mesi sarà a Parma, Modena, Firenze e Fermo. Abbiamo intervistato la regista Francesca Pennini alla vigilia della prima messa in scena di al Teatro Comunale Claudio Abbado di Ferrara, stasera 27 novembre.
Il progetto originale del 2012 è stato il vincitore del “Bando Progetto Speciale Performance 2012. Ripensando Cage” ed è partito da una “affinità di principi” di cui il titolo è quasi un emblema: i segni < > simboleggiano la C di Cage, ma racchiudono anche graficamente l’età di performers, tutti fra i 16 e i 18 anni. Come ci spiega Francesca, l’idea è che “gli adolescenti sono i performers migliori per uno spettacolo su John Cage, per il loro spirito di sperimentazione e la propensione al rischio e al mettersi in gioco, legati alla loro fascia di età che è una fase di indeterminazione della vita. Incarnano quindi lo spirito sperimentatore di John Cage, il suo spirito un po’ bambino”.
Lo spettacolo è strutturato come una sorta di “atlante di tipologie umane che cambia ogni sera”, i performers non sanno quello che li aspetta, hanno imparato una serie di regole e un inventario di comportamenti associati a stati d’animo, conformazioni emotive, alcuni dei quali “universali”, altri nati “dall’osservazione dei ragazzi e dal contesto in cui noi e loro operavamo”; i ragazzi vengono poi chiamati ad agire o meno in base “a come si definiscono” in quel dato momento. “Dichiarano quindi la verità sulla loro identità, sulla loro condizione reale e sulla loro filosofia di vita”, da qui la forza e la delicatezza insieme di questo lavoro: “la forza di portare in scena non dei personaggi, ma se stessi nella totale verità del momento perché tutto avviene sul palcoscenico; al tempo stesso portano in scena la loro intimità, il che rende delicatissima la loro posizione, come le nostre scelte nello strutturare di volta in volta descrizioni e comportamenti dello spettacolo, ma anche la relazione che si crea con lo spettatore”. È quindi un vero e proprio mettersi in gioco in maniera totale quello che Angelo e Francesca chiedono a questi nove adolescenti: “la forza e il coraggio di esporre qualcosa di delicato” perché sul palco emerge “una dimensione altrimenti inavvicinabile, totalmente privata”.
Descrizioni, azioni performative e coreografiche non sono casuali, Francesca e Angelo sono gli artefici di questa sorta di improvvisazione regolamentata: “non giochiamo sull’aleatorietà, ma su un senso di indeterminazione legato soprattutto alla condizione dei performers che entrano in un certo stato di presenza che non sarebbe uguale se sapessero prima cosa deve accadere, però a livello registico noi bilanciamo ogni singola replica cercando di dare una coerenza alla personalizzazione di ciascuno”. perciò possiede sia “una dimensione strutturata, matematica” che svela il processo di costruzione dell’artificio scenico e coreografico, sia “un elemento incontrollabile che viene semplicemente innescato senza che si sappia come accadrà quella determinata sera”, ovvero la reazione in scena dei ragazzi.
A questo punto non potevamo non chiedere come sono stati scelti questi nove ‘esemplari umani’. “Questa volta alle audizioni sono venuti tantissimi ragazzi, ma i principi di selezione sono rimasti gli stessi di due anni fa: l’eterogeneità, la differenziazione, per creare un assortimento umano il più articolato possibile, però con il denominatore comune della propensione del mettersi in gioco e della voglia di sfidare la propria condizione”. “Abbiamo dovuto aggiornare i metodi di lavoro – ci ha detto Francesca – perché questi ragazzi non sono i sostituti, per così dire, del cast precedente, sono persone nuove. Quindi abbiamo lavorato sugli stessi principi, ma ritarandoci sulle esigenze di questo gruppo”.
Una volta scelti, infatti, questi “adolescenti kamikaze” sono stati sottoposti ad un vero e proprio “percorso di addestramento” scherza Francesca. Sono partiti dall’essere spettatori per poter acquisire una maggiore consapevolezza “della relazione fra il performer e lo spettatore e del fatto che stare in scena non significa solo imparare ed eseguire meccanicamente una serie di gesti, ma è legato al comprendere cosa significa esporsi sul palcoscenico”, poi “abbiamo lavorato sul loro coraggio, la loro capacità di essere pronti a reagire e a esporsi nel quotidiano con una sorta di performance mimetiche che nessuno doveva rilevare per sottolineare che il loro terreno di addestramento non erano le prove all’interno del teatro ma la loro vita quotidiana, come in fondo è lo spettacolo: uno scambio tra il teatro e la vita”. Francesca ci confessa che “è un metodo peculiare ed è stato molto divertente: si sono scambiati bagagli, letti, hanno fatto le performance a scuola mentre i professori li interrogavano senza che lo scoprissero”. Tutto ciò è servito non tanto per quello che poi dovranno eseguire in scena, ma per addestrarli “al modo in cui lo fanno, che deve essere radicale”.
Non poteva mancare l’ultima fatidica domanda sui progetti futuri. Dopo i 5 debutti di quest’autunno, l’ultimo dei quali sarà Amleto al Teatro Vascello a Roma il 6 e 7 dicembre, la prossima sfida per Francesca e il CollettivO CineticO sarà “il nostro primo lavoro per l’infanzia”, legato a un progetto del Teatro delle briciole che fa parte dei teatri stabili d’innovazione: “abbasseremo ulteriormente la soglia d’età con cui ci relazioniamo”.
Alice Mizrachi è una giovane artista di New York. Attraverso la pittura, i vivaci murales colorati e le stampe, Alice raffigura personaggi le cui relazioni ed emozioni riflettono il suo punto di vista personale del contesto sociale. Cerca, infatti, di diffondere una forte empatia attraverso progetti sito-specifici che costituiscano risposte visive positive alle questioni sociali che riguardano gli abitanti di una determinata zona o quartiere.
Nel suo ruolo di artista (e anche d’insegnante), Alice lavora per potenziare e ispirare le donne e le ragazze, elevandole a veri archetipi sacri ed esplora l’arte come una sorta di percorso di guarigione, per le comunità e gli individui, tramite la stessa espressione creativa. Il tutto con progetti che aiutino a esprimere le proprie idee su temi come l’ambientalismo, l’identità e la comunità, in generale. Con un focus sulla figura astratta, attraverso il colore, le linee e i modelli, il lavoro di Mizrachi attinge a una riserva interna di spontanea e pura emozione. Con forti legami con il mondo dei graffiti dell’arte urbana, l’artista si concentra sulla vibrante tranquillità della vita cittadina.
Ha co-fondato, nel 2006, Younity, un collettivo artistico femminile che ha fornito una vera piattaforma professionale a centinaia di donne, dando loro la possibilità di partecipare a mostre, tavole rotonde, produzioni di murale, e laboratori giovanili.
Insegna, occasionalmente, all’università e partecipa attivamente alle discussioni su arte e attivismo; conduce anche laboratori di sviluppo personale.
Le sue opere sono state esposte al Museo di Washington Dc d’Arte contemporanea. E’ rappresentata dalla Mighty Tanaka Gallery di New York e dalla Bazel Gallery di Tel Aviv, e il suo lavoro è stato esposto in gallerie di tutto il mondo. Hanno scritto di lei The New York Times, The New York Daily News, Time Out NY, New York Magazine, Huffington Post, Marie Claire, Juxtapoz e Street Art di New York.
In un’intervista ha detto: “Faccio arte per diffondere sentimenti di amore, comunità, empowerment e guarigione. Per me la pittura è sempre stata un atto di autoguarigione. Quando inizio a lavorare, ricreo la superficie incontaminata di una tela bianca o di una parete vuota, con il colore e il modello. Attraverso l’esperienza fisica della pittura, trasformo le mie paure e ansie per il mondo in caratteri semplici che sono raffigurati nelle relazioni con gli altri e il loro ambiente. Questi personaggi trasmettono messaggi positivi, spesso di speranza e di ottimismo ed esprimono emozioni che sono volutamente accessibili a tutti i telespettatori, soprattutto ai bambini. Mi sforzo di fare dell’arte un’esperienza inclusiva che permetta agli spettatori di qualsiasi età o esperienza di avere una positiva interazione con l’arte”.
Per saperne di più dell’artista visita il sito [vedi] e le pagine Facebook [vedi] e Pinterest [vedi]
Le intense attività di informazione e le varie iniziative di relazioni esterne (incontri, riunioni, convegni, seminari, etc.) che fortunatamente vengono svolte anche sul nostro territorio propongono un interrogativo: sono fatte nel rispetto dell’ambiente?
Si può infatti pensare anche di proporre un impegno generale di fare “evento” pensando alla salvaguardia dell’ambiente nel quale viviamo perchè per partecipare non occorre inquinare. Si svolgono, infatti, centinaia di iniziative utilizzando materiali usa e getta e lasciandosi dietro migliaia di euro sprecati in cose futili, montagne di rifiuti, tonnellate in più di CO2.
Proponendo le eco-iniziative si intende quindi promuovere e incentivare le esperienze migliori nel campo della riduzione dei consumi, degli sprechi e del riciclaggio promuovendo nel contempo una maggiore attenzione sui problemi generali dell’ambiente. L’organizzazione di iniziative che garantiscono azioni per una corretta riduzione degli sprechi, conferenze dove il materiale cartaceo è ridotto al minimo, sostituito da supporto usb, dove i fogli stampati siano certificati Fsc (Forest stewardship council) a garanzia del rispetto dell’ecosistema. Facendo attenzione alla realizzazione di manifesti, depliant e altro materiale pubblicitario, di un corretto utilizzo dei mezzi di informazione, ai consumi energetici della struttura che ospiterà il convegno e dei mezzi con cui i relatori e ospiti, in base alla distanza, raggiungeranno il luogo del convegno e così via. Così come rispettando la raccolta differenziata di plastica, vetro, carta e lattine; adottando accorgimenti per ridurre i rifiuti (ad esempio le bottiglie d’acqua con vuoto a rendere, oppure somministrare al tavolo dei conferenzieri l’acqua in brocca e bicchieri in vetro).
Pensare a delle eco-conferenze in cui l’usa e getta è completamente sostituito da materiali riutilizzabili, come ad esempio in occasione di pranzi o buffet, fare attenzione affinché ci siano piatti in ceramica e bicchieri in vetro con posate riutilizzabili o in materiale biodegradabile, per poterli separare assieme ai resti della ristorazione. Ma anche l’uso moderato di condizionatori nei periodi estivi, l’uso di impianti di illuminazione con lampade a basso consumo energetico, l’impiego di personale volontario nell’assistenza ai relatori e ai partecipanti, nella distribuzione dei vari materiali; l’utilizzo di gadget-borse magliette, cappellini-prodotti secondo i criteri del commercio equo e solidale, con tinte e materiali naturali. Inoltre indicazioni per muoversi a piedi, in bicicletta (magari mettendone a disposizione) o con mezzi pubblici. In due parole, un modo globale di essere ad impatto zero con il controllo della produzione di CO2 nella preparazione e realizzazione di eventi, accompagnandoli con iniziative promozionali esterne di forestazione e di tutela ambientale.
Un sogno? Non del tutto qualche buon esempio c’è già stato. Ve ne siete accorti con i Buskers? Io si.
Il Progetto eco festival è nato nel 2011 all’interno del Ferrara Buskers festival, manifestazione di arte di strada che ha mosso diverse centinaia di migliaia di spettatori da tutta Italia e in misura significativa anche dall’estero, coinvolgendo l’intera città di Ferrara. Gli obiettivi specifici sono stati:
– ridurre lo spreco nell’organizzazione e nella fruizione del Festival;
– fissare standard sempre più elevati di rispetto ambientale nell’organizzazione di un grande evento;
– creare una speciale attenzione verso tematiche quali innovazione, responsabilità sociale e partecipazione;
– creare una vetrina delle aziende più attente all’ambiente e della creatività eco-sostenibile.
Le azioni che hanno sostanziato il Progetto Ecofestival sono state dichiarate, misurate e alla fine certificate da ente terzo (Bureau Veritas). Bravi.
L’artista è figlio del suo tempo; ma guai a lui se è anche il suo discepolo o peggio ancora il suo favorito. Friedrich Schiller
L’arte può essere estro bizzoso e riflessione etica. Questo è Servet Kocyigit (Kaman, 1971), artista turco nella sua prima personale italiana curata da Silvia Cirelli alle Officine di Milano da oggi 27 novembre al 7 febbraio, intitolata “Il siero della verità”. Incongruenza e paradosso trovano terreno fertile nell’artista turco che, al pari di un Kafka artistico, sperimenta nel proprio lavoro l’eterno equilibrio tra culture: mitteleuropea e plurilinguistica la prima; eternamente scissa e riunita dalle due fedi religiose che la identificano, la seconda.
Al pari dello scrittore, che descrive l’alienazione personale e umana nella grottesca metamorfosi da uomo a insetto, Kocyigit mette in scena la ricerca dell’identità culturale e le tensioni da lui vissute in quanto protagonista di una storia culturale e geografica ricca di contrasti, ambivalenze e contraddizioni da lui stesso vissute, bambino durante gli anni Ottanta che per l’Occidente erano l’apice di un benessere economico ma che per la Turchia rappresentano la summa destabilizzante del terzo golpe militare, dopo i precedenti degli anni 1960 e 1961.
Sono le stesse parole della curatrice a raccontarlo: “L’arte diventa dunque per Kocyigit la ‘parola’ con la quale esprimersi liberamente, lo strumento col quale raccontare le fratture della propria generazione, il senso di sradicamento e la sempre più evidente consapevolezza di una realtà vulnerabile e precaria.” E lo diviene attraverso codici comuni, realtà conosciute e quotidiane.
Il linguaggio verbale accompagna le installazioni, descrivendole; e creando scollamento tra ricercatezza stilistica e banalità, tra nobiltà dell’opera e pressappochismo delle parole che lo descrivono, scarne e limitanti nella loro impossibilità di catturare l’effettiva materia. Ne sono esempi “Sometimes”, in cui una scritta con lettere di stoffa sembra minimizzare la preziosità del materiale, inscenando una mania ossessiva.
Il contra necessità di richiamare alla memoria oggetti e storie passate, senza snaturarle né attualizzarle, ma semplici attimi condensati nel tempo portati nel presente, nella vita di tutti i giorni, mostrando l’impossibilità a una loro attualizzazione contingente e di una armonia eterna, a patto di non snaturarli: sono personaggi felliniani come l’uomo dei palloncini in “Night Shift” e il mulo da soma dei villaggi in “Mountain Zebra”.
Sono secchi per l’edilizia contenenti rappresentazioni in lana del mondo in “Orbit” e video ritraenti globi di lana concepiti e realizzati da mani maschili e femminili, che si completano dando luogo a una morbida verità in “99 Years”. E un’attesa, surreale e sofferente attesa di una celebrità che tuttavia non arriva. In una spasmodica attesa del nulla. Aspettando Godot. Rappresentazione del grottesco in situazioni quotidiane; ritrae con sarcasmo Don Chisciotte che contempla l’assurdo nella sua battaglia esasperante, storica e umana, nel suo dialogo surreale tra realtà e una immaginazione in cui i mulini a vento non sono forse una realtà assurda. E dove si cerca, ironicamente, il Siero della Verità (“Truth Serum”).
Le immagini per gentile concessione del Courtesy of Servet Kogyigit e di Officina dell’Immagine, Milano
La psicosomatica da sempre individua la corrispondenza tra la mente e il corpo, sottolineando come certe questioni irrisolte possano manifestarsi ed esprimersi nel corpo lasciando segni reali e tangibili. Del resto, la psicoanalisi insegna che l’inconscio è strutturato come il linguaggio: quando parliamo, esprimiamo spesso più di quanto vorremmo dire e ciò è l’espressione del nostro inconscio.
Vediamo alcuni esempi di espressioni non solo ‘parlanti’, ma che possono incarnarsi nel corpo come sintomi. Modi di dire come “ho un buco allo stomaco”, a volte si incarnano nel corpo ammalandolo davvero. Le emozioni e i conflitti attuali o remoti sono più determinanti di quello che pensiamo. Ciò non significa perdere di vista la componente fisica: i sintomi o i fenomeni patologici devono essere indagati in modo complementare, da un punto di vista psicologico e fisiologico. I sintomi psicosomatici, spesso, pur non organizzandosi in vere e proprie malattie, si esprimono attraverso il corpo, coinvolgono il sistema nervoso autonomo e autoimmune che risponde a una situazione di disagio psichico o di stress.
Sono invece considerate clinicamente malattie psicosomatiche quelle malattie alle quali normalmente si riconosce una genesi psichica, nelle quali si verifica un vero e proprio stato di malattia con segni indiscutibili di lesione in un organo bersaglio. Le malattie somatiche sono l’espressione di uno dei meccanismi difensivi più arcaici, con cui l’organismo attua una manifestazione diretta del disagio psichico attraverso il corpo.
In queste malattie, l’ansia, la sofferenza e le emozioni in genere sono troppo dolorose per poter essere vissute e sentite e trovano una via di sfogo nel corpo attraverso il disturbo fisico. Tutte le loro capacità difensive tendono a tener lontani contenuti psichici inaccettabili, a costo di distruggere il corpo. In questo senso una persona, incapace di accedere al proprio mondo emotivo, potrebbe non percepire rabbia, frustrazione o stress, per una difficile condizione lavorativa e neppure immaginare una possibile connessione tra la sua ulcera e le emozioni o i vissuti relativi al loro lavoro.
Quando il corpo si difende da emozioni dolorose e intollerabili manifesta il proprio disagio su alcuni organi, detti bersaglio. È il meccanismo di azione dei disturbi psicosomatici. Ad esempio quando si soffre spesso di gastriti, bruciori di stomaco o altri disturbi digestivi, spesso l’atteggiamento tipico è “mandare giù” con troppa frequenza le offese della vita. Queste persone, con il motto “porgere l’altra guancia”, covano spesso rabbie e risentimenti profondi. In questo modo costringono lo stomaco ad una lenta e complessa “digestione” della rabbia”. In pratica, sono vittime di troppa ‘diplomazia’. Vista nell’ottica psicosomatica, la cefalea può indicare il bisogno di allentare l’eccessivo controllo razionale e quindi, il desiderio di lasciare più spazio all’intuizione. Di solito, infatti, chi soffre di mal di testa ha una mente lucida e razionale (fin troppo), che deve tenere sempre tutto controllo senza cedere e lasciarsi andare mai. E ancora, dal punto di vista psicosomatico, la pelle rappresenta simbolicamente il confine tra sé e gli altri. Quando c’è un disagio, possono manifestarsi delle eruzioni cutanee: anche eczemi e altre affezioni delle quali non ci sappiamo spiegare l’origine. Queste possono rivelare che non si hanno ben chiari i propri confini e che per difendersi si cerca, metaforicamente, di tenere lontani gli altri. A livello intestinale poi la stitichezza può essere indice di un attaccamento eccessivo ai beni materiali, ma può anche rappresentare la paura di portare alla luce contenuti inconsci ed emozioni dalle quali non si riesce a prendere le distanze. La colite, invece, può affiggere chi è solito fare scenate, non reprime rabbia e aggressività, tranne poi provare disprezzo verso se stesso per quello che ha fatto: l’intestino si fa carico simbolicamente di questi sensi di colpa e tenta di spazzarli via simbolicamente con gli attacchi di colite. Le vaginiti e le cistiti, invece, affliggono prevalentemente due tipi di donne: le ansiose-irritabili (spesso ipocondriache, si stressano con facilità, tendono a scaricare a livello genitale, ansie, paure e rabbie) e le remissive ad oltranza (con senso del dovere molto spiccato, tendono a sacrificarsi ma anche, proprio per questo, ad accumulare tensioni nel corpo e soprattutto nell’area genitale). Quindi, alla luce di quanto ho sintetizzato, imparare a verbalizzare le proprie emozioni è la condizione migliore per non incappare in spiacevoli sintomi che ammalano il corpo. Chiara Baratelli, psicoanalista e psicoterapeuta, specializzata nella cura dei disturbi alimentari e in sessuologia clinica. Si occupa di problematiche legate all’adolescenza, dei disturbi dell’identità di genere, del rapporto genitori-figli e di difficoltà relazionali.
baratellichiara@gmail.com
Abbiamo appena mandato la prima donna italiana nello spazio, ma l’Italia sembra ancora ben ancorata a un’immagine stereotipata della figura femminile e dei rapporti di genere. Oltre alle leggi, quello che serve è un cambiamento culturale che si ottiene smuovendo le coscienze con tutti i linguaggi che abbiamo a disposizione per suscitare una riflessione più duratura e toccare corde più profonde rispetto all’indignazione momentanea in occasione del 25 novembre.
Per questo fino al 6 dicembre nel Salone d’onore del Palazzo municipale sarà visitabile la mostra “Mozzafiato. Storie di ordinaria violenza”, curata dalla Galleria del Carbone nell’ambito del progetto “Violenza di genere e rete locale” promosso dal Comune di Ferrara in collaborazione con Centro donna giustizia, Movimento nonviolento e Centro di ascolto per uomini maltrattanti. “Mozzafiato” è una collettiva formata da una ventina di opere fra fotografie, acquerelli e olii su tela, attraverso le quali alcuni artisti ferraresi, tra cui Sima Shafti, Luca Zarattini, Alessandro Passerini e Laura Shlumper, hanno voluto esprimere il proprio impegno in questa battaglia culturale.
C’è poi chi per dare una testimonianza usa il proprio corpo e il linguaggio universale della danza: ecco allora l’idea di un flash mob, organizzato dalla coreografa e danzatrice Caterina Tavolini, ieri a partire dalle 18 in diversi punti del centro storico di Ferrara, dalla galleria Matteotti al sagrato del duomo a piazza Savonarola. Nella caotica frenesia quotidiana, sei movimenti lenti e silenziosi eseguiti da un gruppo di donne vestite di nero, ciascuna con qualcosa di rosso, per affermare la propria presenza, rifiutare questo presente e sperare in un futuro in cui finalmente non ci sia più bisogno del 25 novembre.
Infine la parola torna protagonista attraverso il teatro: l’appuntamento è per febbraio-marzo 2015 quando si terrà la nuova edizione de “I monologhi della Vagina”, spettacolo teatrale di beneficenza contro la violenza sulle donne, versione italiana del testo di Eve Ensler. Per gentile concessione degli organizzatori, pubblichiamo le riprese integrali della terza edizione, tenutasi alla Sala Estense di Ferrara lo scorso 8 Marzo. [vedi] Per rimanere aggiornati visitare il sito [vedi].
E per riflettere ancora, il 18 novembre alla Camera, alla presenza della presidente Laura Boldrini, è stato presentato “Rosa Shocking. Violenza, stereotipi…e altre questioni del genere”, un report realizzato da Intervita in collaborazione con Ipsos in cui si ricorda che, nonostante la nuova legge contro i femminicidi, ogni tre giorni in Italia una donna viene uccisa dal partner, dall’ex compagno o da un familiare. Ma in questa ricerca ci sono dati forse ancora più scioccanti: il 79% delle intervistate nel sondaggio Ipsos ritiene che se un uomo viene tradito è normale che possa diventare violento, il 77% che se ogni tanto gli uomini diventano violenti è per il troppo amore e il 78% che per evitare di subire violenza le donne non dovrebbero indossare abiti provocanti. Se, in aggiunta, ben il 61% delle donne ritiene che i panni sporchi si lavano in famiglia, come stupirsi che solo il 7,2% di chi subisce violenza denuncia l’accaduto?
È ben poco consolante che l’85% del campione ritenga che anche gli uomini debbano occuparsi delle faccende domestiche, quando per circa 1 uomo su 2 il matrimonio è “il sogno di tutte le donne”, per quasi 7 intervistati su 10 è più facile per una donna fare dei sacrifici e 1 intervistato su 3 ritiene che la maternità sia l’unica esperienza che consente ad una donna di realizzarsi completamente, senza contare che per quasi 6 italiani su 10 è pressoché normale utilizzare un bel corpo di donna a fini commerciali.
C’è ancora molto da fare.
Foto di Aldo Gessi
Altri articoli pubblicati da ferraraitalia sulla ricorrenza della “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne” 2014: alcuni dati [vedi], la celebrazione del 22 novembre a Ferrara [vedi], la testimonianza [vedi]
I risultati delle ultime elezioni regionali, dati che gli istituti di ricerca, studiando l’andamento della partecipazione elettorale in Emilia Romagna, una delle storiche regioni rosse, quella più strutturata e di modello, non esitano a definire clamorosi.
L’astensione esplode nel confronto: astenuti 2.150.000 con voti validi 1.200.000, quasi a dare eccezionale significato alle parole seggi vuoti e politiche spoglie.
Sui flussi: sul totale degli elettori cedono i due partiti andati bene nelle europee e cioè il Pd e M5s con il 15,5 e l’8% rispettivamente; la Lega nord prende da FI (2,3), Pd (1,2), Fdi (0,7), M5s (0,5).
Per una rapida consultazione, ecco un quadro generale del voto del 23 novembre 2014, quello europeo sempre del 2014, e quello regionale del 2010 e relativi confronti in variazioni assolute e relative.
Lo schema evidenzia quanto segue:
– il Pd ha perso oltre più della metà e un terzo rispetto europee 2014 e regionali 2010
e per Ferrara una maggiore differenza pari al 58,7%; rimane comunque di gran lunga il primo partito in tutte le nove provincie;
– la Lega nord può rivendicare il successo elettorale e nella Romagna sfiora il massimo storico; il candidato Alan Fabbri ottiene un risultato brillante nel ferrarese, la Lega ha superato FI in tutte le nove province;
– Forza Italia, in soli sei mesi i suoi consensi si sono ridotti del 63% ed otto elettori su dieci abbandonano il partito votato nel 2010; forte è la crisi del partito di Berlusconi e non è più perno all’interno della coalizione di centro-destra;
– il Movimento 5 stelle subisce un cospicuo arretramento e perde, in sei mesi, due elettori su tre, soprattutto a Piacenza, Ferrara e Parma;
– le forze della Sinistra radicale hanno perso tra 11/13%, un dato pesante stante i piccoli numeri dei tre partiti di riferimento.
Per quanto riguarda il ‘partito degli astenuti’, proviamo ad entrare nelle motivazioni che hanno spinto gli elettori-astenuti a rimanere a casa, seguendo, prima, un ordine di importanza, per poi darne una scala di valore da 1 a 10.
Ordine di importanza:
a) pensare “tanto vince il Pd” perché ancora una regione rossa;
b) gli scandali dei consiglieri regionali ed episodi di sperperi e privilegi;
c) le polemiche tra il Premier Renzi e la Cgil sulle politiche del lavoro;
d) l’esaurirsi del modello emiliano e l’idea di una forte discontinuità nel cambiamento;
e) un Grillo ormai antisistema ed un movimento non più capace ad intercettare la protesta;
f) la caduta del berlusconismo e una FI non più perno del centro-destra.
La scala dei valori per il Pd, FI e M5s trova alcune motivazioni comuni ed altre sono solo peculiari e così riassunte:
Partito Democratico:
punti 2 – tanto vince il Pd
punti 5 – gli scandali
punti 3 – polemiche Renzi / Cgil + l’esaurirsi del modello emiliano
Movimento 5 Stelle:
punti 3 – tanto vince il Pd
punti 6 – Grillo antisistema e non intercetta la protesta
punti 1 – gli scandali
Forza Italia:
punti 4 – tanto vince il Pd
punti 3 – gli scandali
punti 3 – la caduta del berlusconismo e non più perno del centro-destra
Va, infine, precisato che alcuni segnali anticipavano già un certo malessere nell’elettorato, anche tra quello di appartenenza ed in particolare:
– per la lunghezza della crisi economica e le risposte non adeguate per uscirne;
– la mancanza del lavoro per i giovani e i tantissimi ammortizzatori sociali che producevano mancato reddito, le povertà crescenti anche nel ceto medio;
– il dualismo nel Pd tra Bersani e Renzi sul cambiare verso e la discontinuità dal passato;
– i guai di Berlusconi e lo spezzatino del Pdl;
– la corruzione e gli scandali nella Pubblica amministrazione;
– nel Pd la forte caduta degli iscritti da alcuni anni e un nuovo ruolo delle primarie.
Per concludere possiamo dire che la quota di voti perduti attraversa, soprattutto, le tre maggiori forze politiche e cioè Pd, M5s e Fi mentre il guadagno passa nelle mani della Lega nord che meglio ha interpretato il disagio sociale e la protesta, intercettando la gran parte degli elettori moderati ma anche, se pur in minima parte, dal centro-sinistra e da Grillo, mentre la Sinistra radicale, che somma ben tre partiti e forse altri spezzoni dei verdi, è ormai spinta al nanismo dei piccolissimi numeri.
Certamente la disaffezione è anche sintomo della caduta della rappresentanza democratica che, però, non è solo nella presenza delle forze politiche nelle istituzioni ma attraversa anche le forze sociali tutte e questo resta il principale scoglio per poter guardare oltre e ripartire dall’inizio per il futuro del Paese.
Fonti: Istituto Cattaneo – Centro italiano studi elettorali dell’Università Luiss – altre società di sondaggio e marketing politico – Rassegne stampa – Fondazioni
da MOSCA – Il tempio del balletto, della musica, dell’amore, della bellezza. Questo rappresenta, per tutti noi, il celebre Teatro Bol’šoj, ovvero Il Grande Teatro (il nome ufficiale è, tuttavia, Gosudarstvennyj akademičeskij Bol’šoj teatr Rossii, ossia “Gran Teatro nazionale accademico di Russia”). La meta di tanti appassionati di danza che giungono a Mosca. E per gli appassionati che ancora non lo sapessero, in Italia molti spettacoli del Bol’šoj si possono vedere al cinema [vedi].
E allora addentriamoci nella storia di questo teatro e negli spazi meravigliosi da poco ristrutturati.
Questo luogo da sogno sorge nello stesso luogo dove sorgeva il teatro Petrovskij che era stato inaugurato nel 1780 e incendiato nel 1805. Nel 1819 fu bandito un concorso per il progetto del nuovo teatro, competizione vinta da Andrej Michajlov. Tuttavia, il suo progetto fu ritenuto troppo costoso e il governatore di Mosca, Dmitrij Vladimirovič Golicyn, incaricò l’architetto Giuseppe Giovanni Bove di modificarlo. Bove, in russo Osip Ivanovič Bove, era nato a San Pietroburgo nel 1784, figlio del pittore Vincenzo Giovanni che da Napoli si era trasferito, nel 1782, a Pietroburgo al seguito dell’ambasciatore napoletano Antonino Maresca, duca di Serracapriola.
I lavori del nuovo progetto cominciarono nel 1820 ed il nuovo Gran (Bol’šoj) Teatro Petrovskij fu inaugurato il 18 gennaio 1825, con il balletto Cendrillon di Fernando Sor. Nel 1853, un incendio causò seri danni alla struttura, che fu riaperta nel 1856. L’interno fu realizzato su disegno dell’architetto italo-russo Alberto Cavos (1853-1856). Oltre a questo, Cavos, figlio del compositore Catterino Cavos, disegnò anche gli interni del teatro Mariinskij di San Pietroburgo (1859-1860). Ancora italiani che mettevano il loro buon (e rinomato) gusto.
Dopo tanti anni di gloria, l’edificio storico del teatro, che oggi è anche raffigurato sulla banconota da 100 rubli, sarebbe stato chiuso per restauri dal 2005 con l’obiettivo di riportare la struttura agli antichi splendori pre-comunisti. Durante l’epoca di Stalin, infatti, erano stati eliminati gli imponenti lampadari, gli stucchi e tutto quanto potesse evocare il lusso del periodo zarista. Il teatro fu trasformato anche in sede di riunioni e congressi di partito con strutture che ne avevano compromesso l’acustica. Quel luogo andava riportato ai suoi splendori, lo si doveva rivedere com’era nato, come luogo di arte, libera da ideologie. La cerimonia di inaugurazione del nuovo Bol’šoj è avvenuta il 28 ottobre 2011.
Oggi noi lo abbiamo visto in tutto il suo rinnovato splendore. Abbiamo varcato quelle porte e quegli archi imperiali, sentendoci, anche noi, un po’ zar e zarine, ascoltando le note di Giselle, ammirando la sua leggerezza, il suo volare sulle punte, come una magica farfalla, percependo tutta la forza del cosmo intorno a noi, attraversando quei corridoi magici, con un’emozione indescrivibile. Proprio perché quest’emozione è difficile da descrivere e perché va davvero provata, almeno una volta nella vita, non vogliamo spendere troppe parole che, comunque, non sarebbero adeguate. Vi lasciamo allora solo alle immagini, ad alcune fotografie scattate per portarvi con noi. Buon sogno.
Un anno fa nasceva Ferraraitalia e il suo logo per la prima volta appariva sul web. Da allora sono passati 365 giorni e arrivati 231.401 lettori. Insieme abbiamo seguito l’ascesa di Matteo Renzi e il declino di Berlusconi, detto addio a Nelson Mandela, Claudio Abbado, Arnoldo Foà; tremato per i nubifragi e le esondazioni che hanno piegato le nostre terre; assistito alla rielezione della giunta comunale e formulato proposte concrete per migliorare la nostra città. Abbiamo raccontato storie e approfondito vicende con inchieste e interviste mirate.
In dodici mesi attorno a questo giornale più che il classico gruppo redazionale si è creata una comunità di individui che condividono principi e valori e hanno desiderio di porsi in comunicazione fra loro e con gli altri. Con molti lettori del quotidiano online e della pagina Facebook si è stabilita una forte sintonia. Di tutto questo ci sentiamo orgogliosi. E personalmente sono grato ai lettori e riconoscente a ciascuno dei collaboratori. Non è retorica: alla stima intellettuale si unisce un solido legame d’affetto.
Scrivo queste righe in uno stato d’animo particolare, mentre sono di ritorno da Auschwitz. I piani di riflessione si intrecciano. La storia e il presente ci interrogano sul cammino percorso e quello da compiere. Socrate diceva: c’è un solo bene, la conoscenza; e un solo male, l’ignoranza. È riduttivo ricondurre a ignoranza la bestiale malvagità dei carnefici? Ignoranza dell’umanità che alberga in ogni essere vivente, ignoranza del dovere di carità verso un’altra creatura… Forse è poco di fronte all’orrore del male assoluto, ma a scavare, quale altra radice può avere anche la più efferata crudeltà se non l’indifferente ignoranza del principio dell’inviolabilità della vita? E all’opposto, non è la conoscenza che ci rende assetati di altra conoscenza, che ci spinge alla ricerca, al confronto, che induce al rispetto dell’altro? Chi conosce si apre, chi ignora si difende, per paura o arroganza.
Le parole di George Santayana (“chi non ricorda il passato è destinato a riviverlo”) ripropongono il dovere della testimonianza e della divulgazione della conoscenza.
Al riguardo, la sola cosa che sento di voler aggiungere è l’auspicio che trovi accoglienza l’appello di Hans Jonas all’etica della responsabilità, che impone a ciascun individuo il dovere di considerare le conseguenze future delle proprie scelte e dei propri atti.
Responsabile è vivere con pienezza il proprio ruolo comunitario. Anche per questo il dilagante distacco dalla vita pubblica va contrastato. Ci spaventa chi lo considera “un problema secondario”. Siamo per la condivisione e il dialogo, sempre. È il cardine della democrazia. L’ascolto è un dovere e deve essere autentico.
Ferraraitalia sin dal primo giorno ha assunto l’impegno di fornire interpretazioni e chiavi di lettura per favorire la conoscenza della realtà. Vogliamo stimolare la partecipazione e il coinvolgimento di ognuno nella sfera civile. Questo continueremo a fare, nel rispetto di tutte le opinioni.
La storia è ciclica, si ripete; e con essa corsi e ricorsi di vario tipo. Sono le “fluttuazioni cicliche” di cui parlava Hobsbawm, e che possono calzare a pennello a più di una idea, di una categoria.
É il caso dell’ottica adottata da Officina del Vintage, mercato ed esposizione del vintage alla sua seconda edizione, ambientato nei suggestivi Imbarcaderi del Castello Estense. Svoltasi nel fine settimana e organizzata da Giorgio Paparo, ha visto confermati gli ottimi numeri dell’anno scorso, circa 4000 presenze.
“Vintage – spiega Paparo – è per definizione un prodotto creato e utilizzato almeno venti anni prima del momento contingente. Il passato è una perenne fonte di ispirazione. Ora sono gli anni Ottanta a essere tornati di moda. Prima di loro, del revival sono stati protagonisti gli anni Settanta e prima ancora i Sessanta. Questa è la magia del vintage, la sua storia: creare novità con materiali e oggetti del passato; reinventare ciò che già è stato, dargli nuova vita e talvolta nuova forma. Che è cosa differente dall”usato’, da cui si distingue non perché, e non solo, perché è già stato utilizzato; e che non è puramente rétro, ovvero un oggetto creato a modello di un pezzo d’epoca, ma perché è unico e irripetibile nel suo genere, perché divenuto simbolo e icona di un periodo, caratterizzandolo e connotando momenti e situazioni cristallizzate in un eterno attimo di tempo.” Nel percorso sotterraneo allestito per l’occasione si incontrano tessuti pregiati, capi che hanno fatto la storia della moda; originali oggetti di design, pezzi di arredamento, cartoline, poster; libri di musica e litografie; romantiche cloches che si contendono la scena con scanzonati floppy anni Settanta, mentre da una mensola occhieggiano fedore composte e sorprendenti tube dal sapore steampunk. Ma anche pantaloni a zampa d’elefante, giacche con frange stile texano e giacche tempestate di paillettes posati accanto a mobili di legno antico decorati – “Sono vissuti d’epoca, ritrovamento prezioso nella casa di mia madre”, spiega Monica, una delle espositrici.
Officina del Vintage è il frutto di una ricerca, di un viaggio che ha preso inizio molto tempo fa dalla personale collezione di bottoni dell’artista di origine romana: vere opere d’arte, metallo e stoffa, cesellature e incisioni, forme geometriche e fiori, alcuni dei quali montati su anelli, che porta a scoprire nelle fiere di settore in tutta Italia. Paparo, che nasce grafico, comincia ad affiancare alla propria attività lavorativa l’esposizione pubblica dopo averla scoperta e apprezzata in altre città del Paese: “In molti luoghi il vintage era una realtà da molto tempo consolidata. Proprio girando l’Italia ho capito che nel vintage c’erano possibilità di scoperta e ricerca. E soprattutto che era arrivato il momento giusto per fare tesoro delle esperienze vissute, da me e da chi condividesse in parte questa mia storia personale, per creare qualcosa che coinvolgesse l’esperienza che avevo accumulato per portarlo a Ferrara, creando una esperienza che la raccontasse in una mostra-mercato in cui il pezzo importante viene scoperto ed esposto, ma anche che fosse occasione di confronto e scambio. Non mi definisco purista del vintage, ma cultore e appassionato del vintage di ricerca.”
La sua fonte di ispirazione è da sempre la strada, lo street style che si rivela fecondo di idee e ispirazioni, in cui si riversa il mondo, in cui è possibile osservare tutto e tutti. La strada come sinonimo di vita vissuta. Non alla ricerca di un bello assoluto e quasi statico, canonico; ma piuttosto di un dettaglio, di una particolarità, di un colore che colpisca la curiosità e la fantasia e rende un oggetto unico, della storia di un capo, di ciò che c’era prima che nascesse in quanto oggetto, ma che già esisteva nella sensibilità e nella mente di chi l’ha concepito.
Questo è anche il caso del vintage dei remakers, che utilizzano tessuti e materiali di una volta per ricollocarli in creazioni contemporanee. Rivisitandoli, stravolgendoli, cambiando prospettiva: a una giacca, le cui maniche complete di bottoni divengono tasche per una borsa originale; piuttosto che a lampade i cui steli sono costituiti da vasi di vetro; o ancora abiti in cui protagonista di ago e filo non è stoffa, ma carta da parati. Come se gli oggetti potessero avere una seconda possibilità; non solo di mostrarsi, ma anche di vivere una diversa funzione in cui l’ecosostenibilità è la punta di diamante di un processo in cui il materiale non viene scartato, ma riciclato. E come se l’artista, sorta di prestigiatore, estraesse da uno di quei magnifici cappelli a falde larghe un coniglio dietro l’altro.
“L’importante – aggiunge Paparo – è che sia vero vintage, ed è proprio per questo che anche lo scorso anno abbiamo proposto prima l’informazione su questo tema a ogni singolo espositore, tenendo alla specifica di questo concetto, per una consapevolezza condivisa tanto dall’espositore, quanto dal pubblico che prende coscienza di ciò che vede. E del fatto che l’arte non è puro e semplice frutto di una mente edonista o vanitosa, né faziosa; ma, al contrario, di un ricercatore che mette a disposizione una collezione e una ricerca personale. É il caso di Betty Concept, che utilizza tessuti storici per creare revival.”
Informazione che ha dato i suoi frutti: “Abbiamo notato che nel pubblico di questo anno c’era maggiore consapevolezza; se l’anno scorso il sentimento predominante nei visitatori era la curiosità, quest’anno possiamo dire sia stata la ricerca, già sapientemente dosata e seminata. Le borse sono indubbiamente l’articolo che ha riscosso grande successo, seguite a ruota dagli occhiali da sole. La grande novità è stato l’avvicinamento all’artigianato, all’hand-made: questo è il caso di Ricicli.”
Unitamente alla fiera mercato, il corredo necessario di appuntamenti e incontri aggiuntivi per immergere il visitatore in una vera e propria cornice culturale che fosse non semplice sfondo ma complemento, accessorio, intrattenimento: film e musica Northern Soul, dedicato alla musica popolare nera degli anni Sessanta, lo spettacolo teatrale Sono Fred dal whisky facile dedicato alle canzone di Fred Buscaglione, sino alle sigle dei cartoni animati cult anni Ottanta interpretati dai Raggi Fotonici; incontri con artigiani, designer e artisti che raccontano il processo realizzativo degli oggetti e come utilizzare materiale di recupero per le proprie creazioni; passeggiate alla ri-scoperta di itinerari tra architettura e urbanistica razionalista del primo Novecento. E ancora fotografia, stile e moda delle acconciature femminili, dalle seducenti flappers degli anni Trenta ai caschetti e alle cotonature degli anni Sessanta. Per terminare con un candido set fotografico i cui protagonisti sono due sedie dal sapore medievale, un austero telefono in bachelite e due drappi rossi che corona la fine del percorso in cui il tempo, fermato ad almeno vent’anni prima, mostra che il passato, prima o poi, ritorna sempre.
Le foto della seconda edizione dell’Officina del Vintage a Ferrara sono di Giorgia Pizzirani
Spesso si discute su temi complessi senza fissare dei riferimenti certi. Ad esempio: cosa è stato migliorato in dieci anni nel ciclo dell’acqua? Cercherò di dare qualche riferimento.
Sul tema dell’acqua è sicuramente cresciuta l’attenzione generale in questi anni, sia a livello internazionale e nazionale sia a livello regionale; si tratta di un buon segnale che indica come stia crescendo la sensibilità generale su questo fondamentale tema, tuttavia siamo ancora lontani da considerare sufficiente il livello raggiunto.
Un contesto così complesso ed arretrato impone una efficace politica degli investimenti che si continua a stimare su valori molto alti e calcolati in oltre mille euro per abitante.
La struttura del settore evidenziava in sintesi:
– obsolescenza della rete acquedottistica che si riflette nell’elevato grado di dispersione, in media del 27%;
– prelievi idrici per abitante (circa 1000 m3/anno) superiori di oltre un terzo alla media europea;
– un terzo della popolazione servita dalla rete acquedottistica non dispone sempre di acqua;
– elevata frammentazione gestionale, dovuta alla gestione separata delle diverse fasi del ciclo dell’acqua ed al dimensionamento su scala comunale della rete idrica;
– estrema frammentazione dell’offerta, che determina basse economie di scala;
– significativa prevalenza numerica delle gestioni pubbliche, in particolare di quelle dirette da parte dei Comuni;
– scarsa presenza di operatori privati presenti nella depurazione e nella conduzione tecnica, ma non nella gestione di pubblico servizio.
Da un confronto sugli ultimi dieci anni del sistema idrico italiano risulta che:
– dieci anni fa il fatturato complessivo era di circa 4 mld di euro di cui acquedotto 68%, depurazione 20%, fognatura 12%, per un quantitativo generale di 6.000 milioni m3 acqua erogata. Oggi il fatturato è di circa 5,2 miliardi di euro a fronte di 5,8 miliardi di metri cubi fatturati;
– pressoché stazionaria è l’occupazione di circa 49.000 addetti complessivi di cui il 69% impiegato nella distribuzione;
– il numero dei gestori dieci anni fa era oltre 8000 (42% pubblici, 8% privati, 50% miste) oggi invece si stima siano meno di mille;
– gli investimenti previsti sono passati da 40 a 70 miliardi di euro;
– il costo medio di un metro cubo di Sii (per un consumo di 150 m3) dieci anni fa era di 0,90 euro/m3 (acq. 0,40, fgn 0,10, dep. 0,25, qf 0,1), mentre oggi è di 1,26 euro/m3 (acq. 0,56, fgn 0,16, dep. 0,40, qf 0,14);
– a livello nazionale le perdite di rete, espresse in percentuale considerano i volumi immessi in rete e i volumi fatturati i volumi immessi passano dal 39% di dieci anni fa al 37% a oggi (dato poco attendibile).
– a livello regionale la situazione è molto simile per quanto riguarda la riduzione delle perdite, infatti allora le perdite erano circa il 28% ed ora sono circa il 26%;
– analizzando la spesa per il servizio idrico integrato a livello nazionale, la spesa media per un consumo di 150 m3 annui era di 135 euro annui (57-320, importi minimi e massimi), mentre oggi è di 190 euro annui (sempre con un range molto ampio tra 80-450).
Rimane una perplessità: si sono fatti passi avanti, ma l’impressione è che il settore dell’acqua non abbia ancora quella attenzione che un servizio pubblico richiede. Speriamo le cose migliorino.
I voti al Pd in Emilia Romagna sei mesi fa alle elezioni europee erano 1.200.000, oggi sono diventati 500.000. E rispetto alle regionali del 2010 ne mancano 300.000. Poi c’è il dato choc dell’astensione. Anche gli altri partiti e forze varie, tranne la Lega, sono andati male. Perché mi soffermo sul Pd? Perché sono rimasto impressionato dalle dichiarazioni di Renzi. “Abbiamo vinto”. “Non siamo mai stati così forti.” “Il dato dell’astensione è secondario.” Si rende conto di ciò che sta dicendo? Sta parlando non di una regione qualunque, ma del luogo simbolo della forza della sinistra e della partecipazione civica. Del resto, che conoscenza può avere della storia e della realtà dell’Emilia Romagna un segretario che conclude la campagna elettorale a Bologna vantandosi di aver strappato il maggior applauso attaccando il sindacato? Costringendo il candidato Bonaccini a dire il giorno dopo che in questa regione i rapporti con il movimento sindacale sono buoni. Non a caso chi è stato eletto nelle file del Pd è giustamente preoccupato per questo disastroso risultato elettorale, a cominciare dal suo neo-Presidente. Ad essere onesti intellettualmente, quella del Pd è una vittoria sulle macerie della propria forza, della rappresentanza e dell’autorevolezza della Regione come Istituzione. Insomma è tutto da ricostruire. Francamente, non mi ha mai impressionato il mito costruito da mass media, sponsor e tifosi vari attorno alle capacità comunicative del giovanotto di Rignano sull’Arno. Comunque ero disposto a fare qualche concessione al riguardo. Ultimamente, però, ne ha ‘bucate’ diverse. Inoltre, per uno che ha l’ambizione di durare vent’anni, è preoccupante la ripetizione monotona e noiosa degli stessi lazzi, offese e fervorini sul ‘fare’ e sul futuro radioso e felice che starebbe preparando… a nostra insaputa. Caro Matteo, forse sarebbe l’ora che tu ‘cambiassi-verso’ se vuoi durare un po’ più di Monti e Letta.
Fiorenzo Baratelli, è direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara
Quel giorno Ferrara era avvolta da un clima mite e piacevole di fine ottobre. La gente era ancora seduta fuori dai bar della città e faceva quello che è solita fare nelle tarde ore del mattino. Beveva un aperitivo, una coca-cola, un espresso. Anche un mio caro amico ferrarese era seduto in un bar, all’ombra dell’imponente Castello e protetto dalla statua del Savonarola. Gli occhiali oscurati dal sole e la barba grigia ed elegante gli conferivano un fascino senza tempo. Mi invitò a sedere e bere qualcosa con lui. Per decenni aveva lavorato in un liceo, inizialmente nella sua città d’origine Piacenza, poi a Bologna e infine a Ferrara. È un grande esperto di storia italiana e per questo ogni conversazione con lui si rivela sempre molto istruttiva. Si destreggia nella lingua italiana con invidiabile ironia e un’immensa ricchezza lessicale. Grazie alla sua esperienza decennale di lettore della stampa italiana e conoscitore di numerose biografie di protagonisti della politica attuale, sa usare perfettamente il linguaggio delle allusioni e delle bizzarre teorie del complotto per spiegare a uno straniero tutti i segreti della politica italiana, davanti e dietro le quinte. Per essere più precisi, dovrei meglio parlare al passato. Dalla sua ironia, una volta così colorita, è scomparsa oggi ogni traccia di amenità e fantasia. Guarda al mondo attorno a sé solo con pessimismo e quando parla della “Sinistra” lo fa solo con parole furibonde e piene di sarcasmo. Di Renzi non vorrebbe nemmeno parlare; al solo pensiero gli viene la nausea. Secondo lui non è altro che un giovane fiorentino fascista da salotto e discepolo modello di Berlusconi. Per consacrarsi al potere ha tradito tutti gli ideali e i valori della Sinistra, continua con un tono molto amareggiato. Cosa potevo replicare a questo così disilluso profluvio di parole sulla rovina in corso? Il mondo di Matteo Renzi e dei suoi seguaci non è mai stato il mio. La sgarbatezza, l’arroganza e la sfacciataggine con le quali mandano alla rottamazione la generazione precedente alla loro, della quale faccio parte anch’io, sono difficili da tollerare. Il “sogno ingenuo di un mondo del lavoro di soli vincenti, tutto energia, ottimismo e sorrisi, una specie di Truman Show che tiene fuori dalla porta, e lontano dalle telecamere, la durezza del conflitto e l’umiliazione di tante vite a perdere” (Michele Serra ) è per me un vero e proprio incubo. Dopo la ‘lectio magistralis’ di sinistra del mio amico ferrarese, seduto al tavolo di un bar ai piedi del Castello, riesco tuttavia a comprendere ancora meglio perché questa tradizionale Sinistra italiana arranca e brontola in un angolo morto della storia, come dice una tipica espressione bavarese. Durante questi incontri con i ‘compagni di strada’ della Sinistra, sempre più frequenti negli ultimi anni e segnati da note di sarcasmo e scoraggiamento, penso sempre a una conversazione tra Vittorio Foa e la sua amica Natalia Ginzburg (“È difficile parlare di sé”, Einaudi, 1999). Nel maggio 1990, per quattro domeniche consecutive, Natalia Ginzburg partecipò a un ciclo a lei dedicato della trasmissione radiofonica ‘Antologia’ in onda su Radio Tre. Uno dei partecipanti alla trasmissione era Vittorio Foa, suo caro amico dagli anni delle lotte antifasciste. Alla fine della trasmissione fra di loro si è sviluppata una breve, amichevole ma anche emblematica divergenza di opinioni sul futuro a venire. Marino Sinibaldi, il conduttore della trasmissione di allora, bene sintetizza il giudizio di Foa su di lei: “Probabilmente Vittorio Foa pensa ci sia in lei un pregiudizio, come dire, nel guardare il mondo, ci sia uno schermo di pessimismo e di tristezza. Di questo credo la accusi, affettuosamente e amichevolmente, immagino.” Poi la Ginzburg: “Sì, sì, sì… Può darsi che io abbia del nero, della malinconia… Però il mondo non è allegro, il mondo in cui viviamo non è allegro.”
“No, neanche per idea,” risponde Foa “ma Natalia, i bambini nascono. I bambini nascono”. La laconica risposta dell’eterno ottimista Vittorio Foa non mi incita ad applaudire Renzi e il suo “Truman Show”. Ma neanche una Sinistra politica che, come il mio amico, intelligente ma così pessimista, si rinchiude nelle segrete del Castello di Ferrara, riesce a dare speranza ai bambini di oggi. Se gli intellettuali un tempo membri fedeli della ‘Comunità della Sinistra’ non fanno altro che, in tempi di crisi economica e repentini cambiamenti a livello globale come quelli odierni, parlare del tradimento dei loro “sogni di sinistra” (ma ci ricordiamo quali erano questi sogni?), allora i bambini di oggi presto si scorderanno persino della loro esistenza.
Camminiamo per strada e scrutiamo la gente, lo facciamo tutti, lo facciamo spesso. Vediamo una donna vestita bene e ci chiediamo dove abbia comprato quelle splendide scarpe; incrociamo un padre che sgrida il proprio figlio e ci domandiamo cos’abbia combinato per averlo fatto arrabbiare così tanto; ci taglia la strada una ragazza grassa, magari con una ciambella zuccherata in mano, e subito pensiamo “quella dovrebbe mangiare di meno!”. Ma chi siamo noi per giudicare ciò che non conosciamo? Magari sta mangiando quella ciambella perché ha avuto una pessima giornata e trova nel cibo una valvola di sfogo; magari invece è l’unico vizio che si concede una volta ogni tanto; oppure se ne frega di quello che pensa la gente perché lei ama il suo corpo così com’è.
Ho cercato di conoscere un po’ meglio queste persone che io preferisco definire “con qualche chilo di troppo”, intervistandole, cercando di entrare nelle loro menti e immedesimandomi nelle loro situazioni. Ho ricevuto diverse risposte che non mi aspettavo, in particolar modo da quelle persone che credevo di conoscere bene, ma che in realtà indossano spesso una maschera per non far capire al mondo come si sentono effettivamente. Alcuni candidati mi hanno risposto in maniera sintetica, non so se per scarso interesse o perché parlare di tale argomento crea loro fastidio o imbarazzo. Altri, invece, si sono letteralmente aperti. Una ragazza in particolare, Carolina, a fine intervista mi ha confidato: “Per la prima volta ho potuto dire tutto quello che penso e che ho dentro. Tante volte quando i miei amici mi prendono in giro, pur sapendo che lo fanno in maniera scherzosa, vorrei dir loro tutto quello che ho detto qui”. Questa ragazza, che per giunta è anche una cara amica, è una delle persone che più mi hanno sorpreso. Quando le ho detto che non pensavo si sentisse così riguardo a se stessa, perché io la considero estremamente solare, allegra e serena, mi ha risposto: “Grazie al mio carattere riesco a camuffare bene i miei sentimenti, in realtà sono una persona molto insicura, proprio a causa del mio corpo”.
Prima di soffermarmi sull’aspetto psicologico però ho posto domande generali sullo stile di vita che conducono. La maggior parte dei candidati mi ha detto che consuma mediamente i tre pasti principali e qualche spuntino a metà mattina/pomeriggio. Inoltre è emerso che quasi nessuno è solito mangiare nei fast-food; al contrario, tutti mi hanno detto di consumare frutta e verdura in ampie quantità. La seguente è la risposta che è andata per la maggiore: “Ho una dieta equilibrata, ma ogni tanto mi concedo qualche sgarro”.
Ho successivamente chiesto loro quanto tempo dedicano allo sport e quante ore invece passano seduti e davanti ad uno schermo. Giulia mi ha detto: “Purtroppo, trascorrendo otto ore al giorno a lezione, non ho molto tempo da dedicare all’attività fisica, quindi cerco di camminare il più possibile. Non passo troppo tempo davanti al pc, ma potrei effettivamente passarne di meno”. Ilaria ha condiviso e aggiunto: “Molte ore le dedico allo studio e non pratico nessuno sport; mi limito ad andare a correre o a camminare piuttosto che spostarmi con i mezzi pubblici”. Francesco invece fa baseball qualche volta a settimana, ma anche lui sottolinea che: “Tra lavoro e studio passo tantissime ore seduto e molto spesso davanti ad un computer”. Gli altri candidati non hanno risposto molto diversamente, tranne qualche rarissima eccezione“. Ho quindi potuto dedurre che una delle principali cause dell’aumento di peso è la sedentarietà, la scarsa attività fisica condotta dal campione intervistato.
Sono poi passata al secondo fattore responsabile dell’obesità, la familiarità. A questa domanda la maggior parte dei candidati mi ha risposto che nella loro famiglia nessuno è obeso, ma in sovrappeso sì. “Tendiamo tutti ad allargarci molto facilmente e velocemente se non ci regoliamo”, ha affermato Carolina. Le risposte a questa domanda hanno in realtà toccato entrambi gli estremi: chi mi ha detto di non aver nessun membro della famiglia in sovrappeso e chi invece ha affermato che “tutti nella mia famiglia hanno problemi di peso” (Stefano).
Ho infine chiesto loro quale pensano sia la causa responsabile del loro peso in eccesso e mi hanno dato le risposte più disparate. Giulia ha detto “credo che il mio sovrappeso sia dovuto a un misto di golosità e di pigrizia: golosità perchè mi piace mangiare e pigrizia perchè quando inizio le diete poi tendo a non essere molto costante nel seguirle”. Anche Maria Elena ha attribuito al suo sovrappeso le stesse motivazioni. Altri sono stati molto sinceri e schietti nel dire “amo mangiare”. Sia Stefano che Riccardo amettono di continuare ad ingerire cibo anche quando sono già sazi o quando non hanno appetito perché “resistere alle tentazioni è davvero molto difficile” e “se entro in cucina e trovo qualcosa che mi piace, la mangio e basta”. Tutti gli individui intervistati hanno provato a seguire delle diete, chi andando dagli specialisti, chi affidandosi alle diete proposte sulle riviste e in rete. “Non mi interessava il tipo di dieta, bastava dimagrire in un modo o nell’altro”, afferma Ilaria drasticamente. Per alcuni di loro queste hanno avuto successo, altre sono state abbandonate perché non efficaci o per la scarsa costanza dell’individuo stesso. Una risposta mi ha particolarmente colpito: “Ho provato a seguire moltissime diete, sia casalinghe che proposte da dietologi. L’ultimo nutrizionista però mi ha dato una dieta che era più un ciclostile, non era fatta su misura per me, infatti non dimagrivo molto, ma lui invece che cambiarmela continuava a fare insinuazioni, accusandomi di mangiare di nascosto e facendomi passare uno dei periodi più brutti della mia vita. Ero molto stressata psicologicamente per questo e, arrivata al limite, non sono più andata alle visite perché, prima di andare a farmi controllare da lui, mi costringevo a giorni di digiuno. Per colpa sua ho perso un po‘ la fiducia nei medici ed è per questo che ho iniziato a seguire diete da sola. Per un periodo ho fatto la Dukan (una dieta totalmente proteica molto restrittiva) che mi ha fatto perdere 7 chili subito; successivamente però ho passato mesi di stallo, non perdevo più niente e appena ho ricominciato ad introdurre alimenti “normali” ho subito ripreso tutti i chili che avevo perso”.
Dopo questa risposta ho deciso di approfondire l’aspetto psicologico di questa problematica che oggi in Italia colpisce sempre più giovani. Ho notato che, in linea di massima, possiamo distinguere tre categorie di persone in sovrappeso:
Le prime hanno un rapporto conflittuale con il proprio corpo, ne è un esempio Carolina: “Non mi piaccio per niente, ogni volta che mi guardo allo specchio non trovo una cosa di me che mi piaccia e questo mi condiziona costantemente. Mi domando spesso cosa la gente pensi di me. Cammino per strada e mi sento a disagio, entro in un negozio e mi sento bruttissima perché nessun vestito mi sta bene. Sono inoltre sempre prevenuta con i ragazzi perché parto dal presupposto che “sono grassa, quindi non potrò mai piacergli”. In sostanza, do la colpa al mio fisico per tutto e mi sento sempre a disagio in ogni occasione”.
Le seconde hanno invece imparato a convivere con il proprio corpo, seppure mantenendo con esso un rapporto altalenante. “Spesso non mi piaccio, ma cerco sempre di sdrammatizzare”, afferma Lorena. “Con il mio corpo ho un rapporto più o meno pacifico, almeno fino a quando non devo mettere un vestito. Lì litighiamo, ma poi facciamo pace”, ci racconta Giulia.
La terza categoria racchiude quelle persone che si apprezzano per quello che sono. Ciro dice apertamente “amo il mio corpo e non mi sono mai sentito a disagio con gli altri”. Anche Claudia afferma “sto molto bene con me stessa perché con il tempo ho imparato ad apprezzarmi e ad amarmi per quella che sono”. Elena spiega: “la consapevolezza è arrivata con il tempo; alla fine ti rendi conto che il tuo peso non ti identifica, non ti definisce di più di quanto lo facciano un colore di capelli o un vestito. Perché io non sono sovrappeso, ho del peso in più, e capire questa differenza è fondamentale”.
Un percorso ad ostacoli, che non tutti sono in grado di portare a termine. Arrivare a questa consapevolessa non è mai facile per nessuno, tutti noi abbiamo qualcosa del nostro corpo che cambieremmo, ma riuscire ad accettarsi richiede fatica e coraggio, e provo solo tanta stima per chi cammina a testa alta, sicuro di sé.
SEGUE – Io figlio, io padre
Secondo me mio padre si è trovato tra capo e collo dei figli senza pensare bene cosa volesse dire. Per come l’ho conosciuto e per come ha trattato noi, non aveva in testa un progetto di famiglia. Aveva forse un progetto di coppia, all’inizio, nella sua ottica. Veniva da una famiglia a dir poco disastrosa, perciò… io posso, non giustificare ma capire. La cosa che non gli perdonerò mai è il fatto che non si è mai messo in discussione.
T’imbarbaglia. Se si convince di una cosa devi pensarla come lui per forza, se no te lo dimostra e se non ci riesce volano i bicchieri, i piatti. Ha un livello di perversione che rasenta la schizofrenia. È anche una persona in gamba e io sono convinto che ci seppellirà tutti, ma secondo me è proprio malato: un aspetto della malattia mentale molto difficile da scoprire specie per un bimbo, anzi per quattro bimbi, che ci sono nati, perché quello che fa tuo padre quando sei piccolo è quello che si fa, quello che va fatto. Non hai la capacità di dire: “non va bene”. Sono cresciuto in un ambiente che, per molto tempo non sapevo che cosa volevo e chi ero.
La mia paura è proprio quella di diventare… non dico come lui, perché qualche passo l’ho fatto, ma a livello viscerale so di essere molto lontano da tutto quello che leggo su Azione nonviolenta. Non mi piace la violenza, okay, ma mi scopro atteggiamenti verbali, con i miei figli e a volte con mia moglie, per cui capisco che ho un bel po’ di strada da fare.
In casa, a volte, do delle risposte violente, cioè non basate sul rispetto e ancora meno sull’ascolto, che a me è mancato tantissimo e che sto cercando di sviluppare il più possibile, però è faticoso. Ha a che fare con la tua pancia, la tua stanchezza, il fatto che devi rielaborare sul momento quello che sta succedendo perché i bimbi sono istintivi, devi essere pronto a capire la situazione.
Sono riuscito fino ad ora a non picchiarli mai e incrocio le dita di riuscirci sempre perché so cosa vogliono dire le botte di un padre, sono la cosa peggiore. Meglio forse la carica della polizia durante una manifestazione, meglio i lacrimogeni o il carcere. Le botte di un padre ti fanno male due volte, per il dolore fisico e perché quella sberla è dettata dall’ira. Almeno, nel mio caso non era la punizione che tanti genitori ritengono valida per educare i figli quando sbagliano. Era uno scoppio d’ira perché “hai osato contraddirmi, hai osato fare il furbo con me”. E la cosa più stronza è che quella cosa lì ti si mette nella pancia e non va mai via, è una collera inconsapevole. Nutri un senso di vendetta, nel tempo, che ti viene fuori quando hai dei figli. Prima puoi avere atteggiamenti scostanti, a volte arroganti, ma i figli sono lo specchio migliore: li guardi e sei davanti a te stesso.
Quello che mi fa paura, e vado da una psicologa per questo, è che non voglio ripetere gli errori di mio padre. Non voglio neanche mettermi la carta igienica in bocca piuttosto che urlare o picchiare, vorrei arrivare a dominare la rabbia. Non so se ci riuscirò ma so che un ceffone adesso vuol dire un disastro per i prossimi trent’anni, per i bimbi e per me, perché quello che fai ti torna indietro. Con mio padre ho trovato la strategia: ho chiuso del tutto, soprattutto per preservarmi.
Mi chiama al lavoro – non si è mai preoccupato di sapere che lavoro faccio e che orari ho, posso dirti che il capo per niente ti fa un cazziatone – quel giorno mi cerca sul cellulare sette volte ma in quel momento non posso parlare. Un’altra persona, se vede che non rispondi la prima volta aspetta che tu la richiami ma lui no, lui non accetta il rifiuto. Alla settima volta lascia un messaggio in segreteria e io chissà perché vado in bagno ad ascoltarlo.
Al di là delle parole, che non ricordo ma sono sempre le stesse, se avevo una pistola mi sparavo. Questa è l’unica cosa che sono riuscito a pensare per un quarto d’ora: la faccio finita. Quando sono tornato in me, nel me che conosco meglio, mi sono detto: “ma quanto potere ha ancora questo figlio di puttana su di me!?”. Perché vedi non ho pensato: gli sparo. Ho pensato: mi sparo. Da quel giorno non rispondo più, se lascia un messaggio in segreteria lo cancello senza ascoltarlo. O quasi. L’altro giorno ho fatto lo sbaglio di sentire le prime parole: “Bravo, sei proprio bravo… Tuo padre è anziano, non ti vergogni, non mi rispondi neanche…”.
Ho poca speranza che lui cambi, ma ammesso che succeda non penso che la sofferenza che ho dentro se ne possa andare. Lui è un vecchio, fisicamente non fa più paura anche se è ancora forte, però un messaggio in segreteria mi mette in queste condizioni.
VOLEVA ESSERE L’ARTEFICE DEL MONDO
Qualcosa di sano da qualche parte c’era. Forse nell’alchimia tra noi fratelli. La maggiore ha subito più di tutti: ingiurie, violenze psicologiche. Quando si laureò, a gran fatica studiando e lavorando, e con un buon punteggio, all’inizio viveva in una casa senza finestre perché era l’unico affitto che riusciva a permettersi quando è scappata di casa. Nonostante tutto ce l’ha fatta e noi fratelli le abbiamo preparato una festicciola di nascosto, dato che mio padre aveva ostacolato i suoi studi in tutti i modi. Non penso per gelosia. Semplicemente non tollerava che qualcosa succedesse intorno a sé fuori dal suo controllo.
Un giorno – ero alle medie, avevo 12-13 anni – dimenticai di dirgli che andavo con la scuola a fare una visita guidata in una zona che lui conosce benissimo. Quando tornai e glielo dissi furono botte, ma botte, tanto che mia a madre lo pregò di smettere. Non ha mai tollerato che qualcosa esistesse senza che lui ne fosse l’artefice.
Per tanto tempo non sono riuscito a spiegarmi l’origine di tutta questa cattiveria. La cosa che mi ha ferito di più è stata la perversione che gli psicologi chiamano malattia. È veramente perversa la sua tortura psicologica, gode a sottometterti.
Anche tu ti arrabbi quando non sei l’artefice del mondo?
No. Mia figlia ha una grande capacità di provocare. Sai l’atteggiamento tipico dell’adolescente? Quando ti svegli alle sei e venti ogni mattina, corri tutto il giorno come un cretino e vedi che alle undici e mezzo di sera non sono ancora a letto, t’incazzi. Quando chiami la più grande a tavola per cinquanta volte e c’è la pasta che a lei piace, e alla fine si siede e dice “che schifo” e non la mangia, t’incazzi. Però il modo in cui mi arrabbio ha la matrice di quello che ho vissuto. Lancio gli oggetti con la stessa rabbia di mio padre.
Lui arrivava, magari dovevi riferirgli una telefonata e te lo ricordavi un’ora dopo. Tirava il bicchiere dove capitava e se ti scansavi in tempo bene, sennò fa lo stesso. Poi continuava: c’erano altri sette bicchieri in tavola. Questa è l’ira che non mi riconosco.
La psicologa mi spiega che io non sono mio padre. Per fortuna o sfortuna ho mio padre dentro, per cui sono anche mio padre ma non soltanto questo e, comunque, devo stare attento. Per adesso cerco di arginare l’ira per non fare danni. Vedo però che l’atteggiamento dei miei figli almeno apparentemente non è di paura anche quando ho un attacco di collera, io invece avevo proprio il terrore.
Era una battaglia continua. Abitavamo in una villetta con due porte, sul davanti e sul dietro. Quella sul retro portava in garage ed era chiusa dall’interno con un catenaccio. Mio padre arrivava, suonava il campanello sul davanti, e noi dovevamo aprire dietro per farlo entrare con la macchina. Dopo un po’ non suonava più il campanello, dava un colpo di clacson e dovevi scappare dietro ad aprire nel tempo che lui arrivava. Dopo ancora non c’era nessun clacson, lui passava, noi dovevamo riconoscere il motore della sua auto e aprire. Se non trovava aperto erano botte. Ci eravamo organizzati che, quando lo sentivamo, noi ragazzi uscivamo dal davanti e andavamo al campetto, così potevamo dire che non eravamo in casa. Così, tutti i giorni a combatterci.
Magari un figlio sta guardando la tv e non si accorge del motore…
Già, ma i bimbi sono al servizio dei genitori. E devono obbedire in qualsiasi circostanza. Lui sapeva che lo sentivamo arrivare, noi sapevamo che lui lo sapeva: quando ti dico che era perverso.
LA PSCICOTERAPIA, LA MEDITAZIONE, IL DESIDERIO DI CAPIRE
Dopo sette anni di analisi ho avuto due figli. Prima facevo le condoglianze a chi era incinta.
Avevi paura di avere bambini?
Non paura, cinismo. Come ti permetti di mettere al mondo un figlio con tutta la sofferenza che c’è al mondo? Era un periodo in cui leggevo Huxley, Blake e cose del genere… E comunque un figlio assolutamente no, troppe tribolazioni ho visto nella mia famiglia. Mia moglie era convinta di volere dei bambini, poi mi sono convinto anch’io e sono ben contento di averli fatti ma c’è stato un lavoro analitico, dietro, anche tosto.
All’inizio della terapia mi ero appena laureato e facevo fatica coi soldi, volevo dimezzare le sedute ma la psicologa mi disse: è troppo poco. Così ho raddoppiato, sono andato in analisi due volte alla settimana e poi tutte le domeniche a camminare, ore e ore sui colli a buttare fuori la rabbia. Se ci ripenso non so come ho fatto, ci vuole una notevole energia emotiva per andare in analisi specie se stai molto male.
Tante volte sono uscito di lì pensando: passo dritto al rosso. Sceglievo il crocevia più pericoloso… All’ultimo frenavo e dicevo: ne parlo con la psicologa la prossima volta. Non so davvero cosa mi ha trattenuto. Una piccolissima parte di me ha tenuto a freno questa tendenza di dargliela su. Toccare la propria merda è faticoso anche perché non puoi dare la colpa a nessuno, capisci che è la tua.
Secondo il buddismo io ho scelto di nascere in questa famiglia. Ho sempre detto che quel giorno dovevo essere ubriaco. Non ho capito, non so, perché sono nato in una famiglia così perversa e violenta.
Sei buddista?
Non so nemmeno che cosa voglia dire. I cristiani li riconosci perché vanno in chiesa, i musulmani in moschea. E i buddisti?
Sono appartenuto per un po’ di anni ad una organizzazione che si considera buddista ma che non ritengo tale, però un po’ ho approfondito, questo sì. Ho conseguito una pratica buddista. Comunque in tante culture e filosofie c’è questa convinzione, che tu sei nato per uno scopo, e lo ritengo abbastanza vero.
Ma non riuscirò mai a sedermi a un tavolino, come con te, con mio padre, a dirgli quello che penso.
Che cosa vorresti dirgli?
Anche solo ricordargli dei momenti. Belli… Belli per lui. Non per mia madre che doveva preparare tutto. In qualunque gita lui pretendeva di mangiare le tagliatelle al ragù tenute in caldo da mia madre.
Come sei riuscito a scrivergli una lettera di ringraziamento?
Non lo so. Cambia tutto quando aspetti un bimbo. Ma non rinnego quella lettera, è vero che non ci è mai mancato niente fisicamente e capisco la difficoltà di mantenere quattro figli. Non mi posso lamentare da quel punto di vista, è vero.
Le lettere ai miei le ho volute scrivere identiche: “Carissimi genitori”. Volevo sapessero che stavo scrivendo a entrambi anche se erano già separati e sono contento di averlo fatto, lo farei ancora. Se il cibo e i vestiti sono quello che ti consente di sopravvivere, tanto di cappello, grazie. È chiaro che tutto il resto è mancato.
Ci ho messo un bel po’ a rendermi conto che non ho avuto un padre. Pensavo di averne avuto uno stronzo e cattivo, in realtà no. Non è un padre quello che tradisce la moglie, la picchia…
No, non ho avuto un padre. Lui è il contrario di quello che nella mia testa è il concetto di padre e anche di marito. Si vantava di essere il pater familia, usava anche il latino, ma giustamente, era proprio il padrone. Coerente.
È ancora stronzo adesso. Non cambierà mai. Devo togliermi l’illusione di parlare con lui e concentrarmi sul parlare con la parte di mio padre che è dentro di me.
Elena Buccoliero è Sociologa e counsellor, da molti anni collabora con Azione Nonviolenta, rivista del Movimento Nonviolento. Per il Comune di Ferrara lavora presso l’Ufficio Diritti dei Minori. È giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna e direttore della Fondazione emiliano romagnola per le vittime dei reati.
Questa testimonianza è stata pubblicata la prima volta su Azione Nonviolenta, il periodico del Movimento Nonviolento che ha dedicato un numero tematico alla violenza di genere. La ripubblichiamo qui per gentile concessione dell’autrice, in occasione della “Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”.
Per saperne di più sulla nonviolenza in Italia e nel mondo [vedi]
Altri articoli pubblicati da ferraraitalia sulla ricorrenza della “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”: alcuni dati [vedi] e la celebrazione del 22 novembre a Ferrara [vedi]
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