Skip to main content

Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


L’INTERVISTA
Eraldo Affinati: “Sogno una scuola senza classi, senza voti, senza registri”

Eraldo Affinati, insegnante e scrittore affermato, fondatore a Roma della “Penny Wirton”, scuola di italiano per stranieri, vive e lavora a Roma. Insegna italiano e storia nell’Istituto professionale di Stato “Carlo Cattaneo”, presso la succursale della Città dei Ragazzi. Elencare le opere di Affinati sarebbe davvero troppo lungo, i campi sono i più vari, ma solo apparentemente distanti tra loro, perché tutte accomunate dalla cifra del loro autore in cui vocazione pedagogica e letteraria si fondono. Abbiamo incontrato Eraldo Affinati alla Città del Ragazzo di Ferrara, dove è stato chiamato dalla Provincia e da Promeco a parlare nel corso di formazione per i docenti degli enti di Istruzione e Formazione professionale.

La prima domanda che ci viene da formulare di fronte ad Affinati è forse la più banale, ma per noi, soprattutto oggi, la più importante. Cosa significa essere un insegnante?
Credo che un insegnante sia il responsabile dello sguardo altrui. Prendersi in carico le richieste interiori ed esteriori degli scolari significa innanzitutto conoscerli. Capire da dove vengono. Cosa fanno e cosa pensano. Quali sono le loro passioni, i loro problemi. Se non si conquista la fiducia dei ragazzi è difficile spiegare il programma. Essere un insegnante vuol dire anche trasmettere la tradizione e ristabilire le gerarchie di valore nel mare magnum a volte indifferenziato del Web. Formare la coscienza dei futuri cittadini. Trasformare il compito scolastico in un’esperienza conoscitiva.

Eraldo Affinati, scrittore affermato. Che relazione c’è tra l’insegnante e lo scrittore Affinati?
L’insegnante e lo scrittore sono i custodi della parola. Senza dimensione verbale anche i sentimenti sono destinati a restare grumi emotivi. Essendo io figlio di due orfani, sin da ragazzo ho dovuto combattere contro la mancanza delle parole. E’ questa la ragione che spiega il rapporto fra la mia tensione pedagogica e la mia vocazione letteraria. Sia nell’insegnamento sia nella scrittura vorrei risarcire i miei genitori di quello che loro non hanno avuto. Lo faccio per interposta persona, cercando di coinvolgere i miei studenti.

I giovani emarginati dalla scuola, i giovani così detti difficili, sono giovani privati della parola perché non hanno ascolto, come i giovani figli dell’immigrazione che ancora non possiedono le parole della nostra lingua. Esiste una pedagogia della parola?
Penso di sì, anche se non può essere schematizzata in un metodo unico. Senza verbi non si vive. Senza nomi si muore. La scuola oggi deve ritrovare le fonti delle parole: desideri espressivi, volontà di comunicazione, tensione comunitaria. Se non si fa prima questo lavoro sull’identità dei ragazzi, si rischia di lavorare solo sulle tecniche che presto si dimenticano.

Il valore delle parole. Ma che parola queste ragazze e questi ragazzi devono incontrare perché sia restituita loro dignità, autostima, fiducia in se stessi, per sentirsi accolti?
Bisogna partire dagli stessi scolari per risvegliare in loro lo spirito critico. Non dobbiamo limitarci a spostare un contenuto da un luogo all’altro. Faccio un esempio: stavamo leggendo alcuni versi di Giuseppe Ungaretti. A un certo punto Romoletto, uno dei ragazzi più difficili, mi chiese: dove è sepolto questo poeta? Al cimitero del Verano a Roma, gli risposi. E lui soggiunse: perché non andiamo a visitare la sua tomba? Lo presi in parola. Il giorno dopo, insieme a tutta la classe, andammo a rendere omaggio alla salma di Ungaretti. In quel momento le parole di Romoletto divennero vere.

Lei ha scritto ‘Elogio del ripetente’. Non rischia di apparire una presa d’atto dei fallimenti del nostro sistema scolastico? Un atto di sfiducia nei confronti della scuola pubblica?
In realtà la nostra scuola pubblica, nella sua struttura complessa e variegata, è giustamente inclusiva: basti pensare agli insegnanti di sostegno, fiore all’occhiello del sistema italiano. Tuttavia oggi ci sono emergenze nuove legate, ad esempio, agli studenti non italiani, per i quali non si fa ancora abbastanza. Inoltre, come sapeva Don Milani, se la scuola si occupasse solo di quelli che vanno bene, assomiglierebbe a un ospedale che vuole curare i sani. E’ necessario coinvolgere e recuperare tutti, anche perché le classi eterogenee sono sempre le migliori. I deboli imparano dai forti: questo è sicuro. E’ vero anche il contrario: i forti hanno bisogno dei deboli. Ma come fa un docente da solo a curare le eccellenze, gli iperattivi, i dislessici, i caratteriali e gli L2? Io resto fiducioso: non a caso il mio “Elogio del ripetente” finisce con una bibliografia per un’altra Italia. Un elenco non di libri, ma di nomi di persone che ho incontrato nei miei giri nelle scuole: professori e dirigenti che si mettono in gioco e si rimboccano le maniche lavorando tutti i giorni con quello che hanno a disposizione.”

Nei sui libri ‘La Città dei Ragazzi’ e ‘Vita di vita’ aleggia la figura del padre. Per essere insegnanti bisogna essere dei ‘padri o delle madri a fondo perduto’?
“In Vita di vita” racconto la storia di un viaggio africano sulle tracce di un mio studente che, dopo incredibili avventure, ha ritrovato la madre di cui non aveva saputo più nulla da quando, a soli sette anni, era stato costretto a lasciarla. Nel romanzo ci sono però anche le storie dei miei studenti italiani, ai quali io avevo detto di leggere alcuni brani di lettere scritte da loro coetanei morti da eroi nella Prima Guerra Mondiale e durante la Resistenza. Il testo ha un doppio finale: uno alle Fosse Ardeatine dove i ragazzi italiani e quelli stranieri si abbracciano di fronte agli eroi; l’altro riguarda Santino, un ragazzo bocciato che sfonda i banchi di scuola. Il lavoro dell’insegnante assomiglia a quello dei genitori: educare significa ferirsi. Farlo a fondo perduto vuol dire rinunciare al riscontro immediato. Un figlio o uno scolaro ti porta sempre in un luogo che tu non prevedi. Come adulto devi prenderne atto, senza rinunciare al ruolo che eserciti.”

Il Penny Wirton, del romanzo di D’Arzo Silvio, fugge di casa per sottrarsi alla vergogna di non avere avuto un padre nobile, per poi tornare e ritrovare nell’amore della madre la dignità della propria condizione umana e sociale.Penny Wirton è la metafora di ogni immigrato, che ha lasciato le proprie radici, che ritrova l’amore della madre nell’apprendere una lingua che non è la sua, che non è quella materna?
E’ bello dirlo così. Khaliq, il protagonista di “Vita di vita”, ha fatto esattamente questo. Ecco perché nel libro si esprime in una lingua-bambina, ancora allo stato fetale. E oggi si sente responsabile del villaggio che ha accolto sua madre, in Gambia. Infatti non esita a inviare aiuti economici per sostenere, nel suo piccolo, quella comunità.

Bene. Veniamo al suo sogno. La Penny Wirton che ha fondato a Roma con sua moglie è il sogno di un’altra scuola. Ce lo vuole raccontare questo sogno?
E’ una scuola senza classi, senza voti, senza registri, basata sull’uno a uno. I docenti sono volontari che prestano gratis la loro opera. A fondo perduto, per l’appunto. All’inizio eravamo io, mia moglie, Anna Luce Lenzi (con la quale ho scritto ‘Italiani anche noi’, manuale di apprendimento dell’italiano) e pochi altri. Oggi siamo centinaia, non solo a Roma, anche in Calabria, grazie all’attività di Marco Gatto; a Padova, con il sostegno di Enrica Ricciardi; Aversa, con Patrizia Cuomo. Presto apriremo nuove sedi in Toscana, a Lucca e Colle Val d’Elsa.

Davvero grazie Eraldo Affinati. Il sogno continua…

L’APPUNTAMENTO
Argentina, combattendo la dittatura
a passi di tango

“La Diva del tango” (Faust Edizioni), di Michele Balboni, patrocinato dal Comune di Ferrara e dall’Ambasciata Argentina in Italia, ha un pregio indiscutibile. Ti impedisce, dopo averlo terminato, di usare impropriamente il termine ‘desaparecidos’. Termine che spesso utilizziamo per indicare un allontanamento, un’assenza quasi volontaria. Ancora, ti costringe a ricordare la storia, quella dell’Argentina e della sua dittatura degli anni Settanta, quando i bambini venivano ‘rubati’ ai genitori. Ti costringe a capire l’impegno ancor oggi costante delle “abuelas de Plaza de Mayo” guidate da Estela de Carlotto, le nonne alla ricerca dei nipoti oggi adulti. Ti costringe a riflettere sul valore dell’identità famigliare e territoriale. Sull’importanza di assomigliare a qualcuno, nei tratti del corpo e nel temperamento. Ti costringe a riflettere su quei valori a noi così cari, come l’autonomia e l’individualismo, che in verità reggono solo se siamo circondati da qualcuno che ci ama. Ma rivelano la loro debolezza laddove sono la conseguenza della sottrazione di legami, laddove il risultato sarà quella vecchiaia senza ricordi dell’infanzia, di cui tutti, anche i più cinici di noi, hanno bisogno. Balboni racconta tutto questo con la strategia del Tango, con la sensualità e la disperazione che lo contraddistinguono. Il Tango di Balboni non è quello di Rodolfo Valentino con la rosa in bocca, che tante generazioni ha fatto sognare. E’ quello ‘interiore’, che scorre nelle vene di MariSol, figlia di Inès e di un generale della dittatura argentina. Chi scrive ha letto il libro con la curiosità ingannevole di un titolo che riconduce a un romanticismo che, per fortuna, non c’è. Sono pagine interamente giocate sugli ossimori concettuali, sul contrasto tra disperazione ed energia. Perché la disperazione sprigiona energia, che volge a sua volta in bellezza, sensualità, ricerca. E’ un romanzo popolato di tante figure diverse, che fa da specchio alla vita dei giorni nostri; che gioca attorno alla ‘coppia’, che non è solo quella che si esibisce nel tango, ma è quella che si ricongiunge sul fronte degli affetti famigliari. Alla fine, al lettore rimane una domanda: esiste davvero una libertà assoluta, definitiva, a sua volta liberatoria?. Forse, le pagine suggeriscono, esiste solo nella conoscenza. Conoscenza delle nostre origini, conoscenza della nostra storia, conoscenza del mondo.
In copertina è l’immagine Madre e Hija, realizzata da Jorgelina Paula Molina Planas, una ‘nipote’ ritrovata, che ne ha concesso la divulgazione. Perfetta sintesi de “La Diva del tango”.

L’autore presenterà il libro sabato 15 novembre alle 21.45, alla Casona del Tango, via Smeraldina 35, Ferrara.

Ferraraitalia ha raccontato la storia vera a cui il romanzo si ispira [vedi]

Un vecchio e un bambino…
‘Comunque vada, proteggimi’

Un bambino silenzioso, un nonno-orco, un adulto sociopatico e un amico che sarebbe meglio non incontrare mai. Sono i protagonisti di “A bocca chiusa” (Newton Compton) dell’artista ferrarese Stefano Bonazzi, presentato alla libreria Giralibri di Argenta. Ispirazioni alla Raymond Carver e Philip Roth, il romanzo si è già guadagnato un paragone con “Io non ho paura” di Niccolò Ammaniti.
La scrittura visiva, fotografica, quasi chirurgica nella sua linearità, racconta le azioni nude e crude, componendo una sorta di fiaba nera in due parti.
La prima vede, da un lato, un bambino costretto a trascorrere le vacanze estive in una casa in cui – “The Others” docet – non filtra luce perché le persiane delle finestre sono perennemente chiuse, e sfoga il suo essere bambino costruendo mondi con i Lego, seduto sul tappeto, e disegnandoli, con la scatola dei pennarelli e un blocco di fogli di carta. Dall’altro, un nonno che conosce schiaffi al posto di carezze, che porta in giro il nipote sull’unico essere che abbia mai davvero amato (un Iveco rosso dal motore potente e rumoroso), che osserva guardingo l’umanità, con tratti fisici e psicologici più simili a un animale che non a un uomo.
La seconda, scritta in terza persona per riuscire a prenderne le distanze, vede un adulto svuotato e apatico, costruito a tavolino dagli psicofarmaci e da un lavoro meccanico, kafkiano senza davvero essere in colpa per qualcosa, assente e desideroso solo di scomparire da se stesso; fino a quando a comparire nella sua vita sarà un bambino il cui segno distintivo è un cappottino rosso, il cappottino rosso del Cappuccetto di Perrault come quello giallo della salvifica Ivy di “The Village” e un amico pericoloso di nome Luca.
Soggetti fortemente connotati attraverso le azioni che compiono, pur non possedendo nome proprio – sono semplicemente “nonno” e “bambino”, i protagonisti – si associano potenzialmente a chiunque, contenitori delle loro azioni riprovevoli e innocenti, malate e improvvise, vissute attraverso gli occhi di un bambino o di adulti sopraffatti dalle proprie esperienze. E che avevano ispirato il titolo inizialmente proposto dall’autore, anch’esso filtrato attraverso gli occhi e le azioni, e che risuona come avvertimento e speranza: “Comunque proteggimi”.

IL CASO
Un negozio di Altromercato in via Garibaldi. David Cambioli: ‘Equo ma non condiviso’

Altraqualità è la maggiore e la più longeva delle due cooperative di commercio equo presenti nella provincia di Ferrara (la seconda è Baum). E’ tra le sei maggiori cooperative di commercio equo in Italia e da dodici anni si occupa di importare e distribuire a livello nazionale prodotti artigianali e alimentari realizzati nel Sud del mondo. A fianco della loro principale attività, da un paio di anni stanno cercando partner disponibili ad aprire un negozio in centro, per dare risposta alle tante richieste provenienti dai consumatori e dalle realtà attente al tema dell’economia sostenibile, di colmare il vuoto che si è creato dopo che l’unica bottega presente in città, quella di Commercio Alternativo in via Darsena, ha chiuso. Ma qualcosa è andato storto, la rete solidale non ha funzionato come avrebbe dovuto: il 28 giugno scorso Altromercato, la più grande cooperativa di commercio equo italiana con sede a Bolzano e Verona, ha aperto un negozio monomarca in via Garibaldi 26, senza avere minimamente informato e tantomeno coinvolto Altraqualità, già attiva sul territorio dal 2002.

Ne abbiamo parlato con David Cambioli, presidente di Altraqualità, per capire cos’è realmente successo, cosa non ha funzionato e come ci sono rimasti in cooperativa.

negozio-altromercato-cambioli
Il negozio di Altromercato in via Garibaldi a Ferrara

Siamo rimasti molto sorpresi perché non ne sapevamo nulla, l’abbiamo saputo quasi per caso, da altri. Il fatto che nessuno dei rappresentanti di Altromercato, il presidente, gli amministratori delegati, il direttore, abbia provato nemmeno a contattarci per vedere se c’era la possibilità di collaborare, ci ha naturalmente amareggiato. Ma soprattutto ci fa pensare allo scarso livello di sincerità e fiducia nelle relazioni tra le cooperative, atteggiamento che mina alla base le modalità di lavoro del commercio equo. Dispiace rendersi conto di come, per alcuni, per uscire da un momento di difficoltà l’unica modalità sia quella della concorrenza piuttosto che la cooperazione, ossia l’opposto di ciò che dovrebbe essere il commercio equo.


Come dovrebbero essere le modalità di cooperazione nel commercio equo?

negozio-altromercato-cambioli
Laboratorio di in produttore colombiano, Sapia di Bogotà

Il Commercio equo è una forma di cooperazione che opera con realtà, comunità, Paesi per così dire in via di sviluppo, che prevede norme etiche come il riconoscimento di salari giusti, condizioni di lavoro accettabili, assenza di sfruttamento tantomeno minorile. Ma è anche un’attività di cooperazione sui generis, in quanto si esplica attraverso rapporti commerciali. Ed è una realtà in cui i rapporti umani sono tenuti molto in considerazione, direi sempre con i produttori dei Paesi in via di sviluppo, a quanto pare meno in Italia, tra gli attori stessi del commercio equo.

I rappresentanti di Altromercato vi conoscevano? Sapevano della vostra esistenza e del vostro progetto di aprire un punto vendita in centro a Ferrara?

negozio-altromercato-cambioli
La showroom di Altraqualità
negozio-altromercato-cambioli
Artigianato e abbigliamento

Naturalmente, siamo entrambi soci dell’Associazione generale italiana del commercio equo e solidale Agices e partecipiamo regolarmente alle assemblee e ad altre attività. Tra l’altro, proprio in Agices da almeno tre anni è stato avviato un tavolo di confronto tra operatori per cercare di trovare strategie comuni di sviluppo, soprattutto a fronte della crisi che ha toccato tutti noi ed il Paese in generale. Questi confronti hanno contribuito a migliorare il clima e favorire il dialogo tra i vari importatori, utilizzando lo strumento della coesione proprio per dare una risposta alla crisi. Vedere che, dopo tutti gli incontri e i discorsi fatti insieme, succedano cose come questa delude e sgomenta un po’. Fondamentalmente si tratta di una brutta pagina di rapporti, laddove dovrebbero essere diversi: si cerca tanto di cambiare il commercio, ma bisognerebbe ricordarsi che il commercio è fatto principalmente di rapporti e che questi vanno curati.

Appena saputo dell’apertura del negozio, voi avete mandato una lettera ad Agices sulla questione [vedi], chiedendo di diffonderla a tutti i soci. Altromercato a questo punto vi ha contattato, quali motivazioni ha addotto?

negozio-altromercato-cambioli
Prodotti alimentari di commercio equo e bio

Sì, dopo la lettera ci hanno contattato, c’è stato anche un incontro dedicato a questa questione, in cui si sono mostrati tutti molto contriti e pentiti, ma a tutt’oggi non abbiamo avuto spiegazioni coerenti. Ci tengo però a precisare che non è nostra intenzione lamentarci né fare polemica, questa lettera l’abbiamo scritta principalmente per fare chiarezza e per esprimere il nostro disappunto. Il problema non è l’esclusiva o la ‘ferraresità’, benvenga che a Ferrara aprano negozi di commercio equo e che gli attori provengano anche dall’esterno. Non è un problema commerciale, ognuno ha il diritto di perseguire le proprie strategie commerciali in autonomia; dispiace per la modalità, perché questa poteva essere l’occasione ideale per realizzare qualcosa insieme, sperimentando nuove forme e nuove partnership, esattamente ciò di cui si è sempre parlato in Agicies, soprattutto negli ultimi tre anni. In più, c’è da dire che la nostra esperienza sul territorio avrebbe potuto giovare ad Altromercato in termini di rete e di attivazione di canali di comunicazione con i singoli consumatori e con le realtà più attente come i Gas e le associazioni cittadine.

Aprirete comunque un vostro punto vendita in centro, nonostante l’apertura del negozio di Altromercato?

negozio-altromercato-cambioli
Logo del decennale di Altraqualità

Sì, ci stiamo ragionando. Dalla primavera scorsa stiamo lavorando al progetto con la Coop. Ex Aequo di Bologna (che da 15 anni gestisce una bottega a Bologna in via Altabella), ad oggi stiamo valutando la fattibilità. Se decideremo di aprire, lo comunicheremo immediatamente e proporremo a tutti coloro che possono essere interessati in loco, Altromercato compreso, di collaborare affinché l’operazione possa andare a vantaggio di diverse realtà e avere maggiore margine di successo.

Altraqualità ha sede a Ferrara, in via Toscanini 11/A (zona via Veneziani)

– Sito di Altraqualità [vedi] e pagina Facebook della linea di abbigliamento etico Trame di storie  [vedi]

– Pagina Facebook del negozio di Altromercato di via Garibaldi 26 [vedi]

– Sito dell’Associazione generale italiana del commercio equo e solidale Agices [vedi]

LA RICORRENZA
Gentilezza, gentilezza che ci sfugge tuttavia…

Giornata mondiale della gentilezza oggi, non una giornata qualsiasi, una data non scelta a caso, perché coincide con la giornata della Conferenza del world kindness movement a Tokyo nel 1997, conclusasi con la firma della Dichiarazione della Gentilezza.
E di gentilezza ne abbiamo davvero bisogno. Nei gesti, nei sogni, nelle parole, quella gentilezza d’animo che rincuora, che avvolge, che risana, che riattiva la voglia di scambiare pensieri e idee, impressioni e sentimenti. Quella gentilezza che ci serve, come ci servono il respiro, l’empatia, la delicatezza, la condivisione, l’amicizia, l’amore.
Oggi questa parola strana sembra un’eccezione, una rarità, al punto che ci stupiamo quando ci lasciano il passo o ci aprono la porta, quando non ci urtano in aeroporto o in treno, quando non ci ribaltano per terra in un autobus o in una fila al supermercato.
E’ bello essere gentili, sempre all’ascolto, disponibili, ma è, talora, difficile. A volte scambiamo i gentili per deboli, quelli che non alzano la voce, in un mondo che urla per cercare di ottenere rispetto, quelli che non si fanno sentire per davvero. Ma sono loro, invece, i più forti. La gentilezza dovrebbe essere la regola, quella norma che caratterizza l’uomo per la sua sola natura di anima pensante (e, in teoria, intelligente).
Così a Roma, all’aeroporto di Fiumicino, oggi i viaggiatori saranno accolti dagli addetti ai lavori con fiori rossi (oltre 15.000 gerbere) e un flash mob “drum circle” eseguito dagli “Airport Helper”. In Francia, la rivista Psychologies ha lanciato un appello per una maggiore gentilezza sul luogo di lavoro e uno studio degli psicologi dell’università di Washington, John Gottman e Robert Levenson, ha scientificamente provato che la gentilezza è il segreto per la durata di un rapporto di coppia felice. Per anni hanno monitorato alcune coppie mentre cucinavano, parlavano, passavano il tempo insieme, durante i racconti, misuravano con gli elettrodi le reazioni dei loro corpi. Il risultato è stato sorprendente, le coppie che mostravano di interessarsi ai bisogni emozionali dell’altro, sono quelle diventate solide e inossidabili nel tempo. Bello e vero.
C’è poi il Movimento mondiale per la gentilezza che si prefigge lo scopo di “diffondere quanto più possibile il principio ispiratore, che vuole in ognuno di noi la disponibilità a comprendere i problemi del nostro prossimo e cercare di risolverli, ricevendone in cambio la soddisfazione intima e preziosa di aver aiutato qualcuno. […] l’obiettivo emergente risulta essere una più profonda e concreta diffusione della gentilezza fra i concittadini, del senso civico, del rispetto delle regole, della cosa pubblica, dell’ambiente e delle persone, nel quadro di una più armonica convivenza tra gli uomini”. Perché la gentilezza è contagiosa e ci aiuta a vivere meglio nella società”.
Diffondiamo allora cortesia, altruismo, generosità, disponibilità, serenità, buona educazione, buone maniere, diciamo grazie-per favore-prego-scusa. Spiazziamo tutti.
La gentilezza, come un virus, coinvolge chiunque ne venga a contatto. Oggi è l’occasione perfetta per diffonderla. Pratichiamo e praticate gentilezza a casaccio e atti di bellezza privi di senso, oggi e non solo.

Il discorso della gentilezza amorevole (Buddha)

“Questo è quanto deve essere fatto da colui che è abile nel rispetto del bene
avendo ottenuto la condizione di pace:
sia egli valente, retto, integro,
dal cortese eloquio, gentile e non arrogante.
Sia soddisfatto e parco,
sia frugale e abbia pochi obblighi,
abbia i sensi quieti e sia maturo,
non sia impudente e non abbia avido desiderio quando questua nelle famiglie.
Non commetta alcuna vile azione
per cui altri saggi possano biasimarlo.
Possano tutte le creature essere felici ed in pace,
che la loro mente sia felice.
Che qualsiasi creatura,
sia essa mobile o immobile, senza eccezione,
lunga, grande,
media o corta, minuscola o corpulenta,
visibile o invisibile,
che viva vicino o lontano,
già nata o in procinto di nascere,
che tutte queste creature – dico – abbiano una mente felice.
Che nessuno mortifichi l’altro,
che nessuno, in qualsivoglia situazione, disprezzi l’altro,
che nessuno, per collera o risentimento,
desideri il male dell’altro.
Così come una madre difende suo figlio,
il suo unico figlio, a costo della vita,
allo stesso modo, nei riguardi di tutte le creature,
si deve sviluppare un’illimitata attenzione mentale
e una gentilezza amorevole per tutto il mondo.
Sviluppi un’illimitata attenzione mentale,
diretto verso ogni plaga,
senza alcun impedimento, senza inimicizia, senza rivalità.
Quando sta in piedi, cammina o è seduto,
quando giace fino a che non si addormenta,
sia ben risoluto nella consapevolezza:
tale condizione è detta divina, in questo mondo.
Non aderendo ad alcuna opinione,
virtuoso ed in possesso della visione interiore,
eliminando la brama dei piaceri sensuali,
mai più invero entrerà in un grembo materno”.

LA SEGNALAZIONE
Ospitalità a costo zero? Nella settimana del baratto si può

Dal 17 al 23 novembre potremo tutti partecipare alla sesta edizione dell’iniziativa nella quale migliaia di Bed & Breakfast italiani offrono ospitalità ai turisti accettando come pagamento beni, servizi e tante altre cose: una vacanza in cui la fantasia, la produttività, la curiosità, la creatività, l’inventiva, l’emozione e la competenza sostituiscono il denaro.

ospitalità-barattoIl baratto è stato per secoli alla base dell’economia familiare e, in un momento di contrazione dei consumi e di crisi come quello odierno, si rivela una buona soluzione.
Allora, c’è chi offre gentile ospitalità in cambio di prodotti della terra o di manufatti artigianali, buone e genuine marmellate, gustosi dolci casarecci o olio d’oliva spremuto a freddo in cambio di una camera. E persino legna da ardere. Il tutto con entusiasmo.
Per ben dormire, si possono anche offrire servizi fotografici o produzioni di siti web e di video su youtube per promuovere le strutture ospitanti, lezioni di lingua straniera o di musica, lavori di giardinaggio o di tinteggiatura e poi anche libri, collezioni di fumetti e d’arte, biancheria da letto o da casa, magari ricamata a mano, lavori a maglia o all’uncinetto, pizzi e merletti, giocattoli per bambini. E tanto altro.

ospitalità-barattoSaranno molte le occasioni da cogliere al volo per godersi una piccola e meritata vacanza senza spendere nulla, nemmeno un euro, negli angoli più belli e suggestivi d’Italia.
Lanciata nel 2008 dal portale www.bed-and-breakfast.it, l’iniziativa, grazie alla quale i Bed and Breakfast (B&B) italiani offrono ospitalità in cambio di beni e servizi, piace e si allarga. Tanto che, per la sesta edizione, al via, come sempre, nella terza settimana di novembre, sono ormai 2200 le strutture che aderiscono e oltre 800 quelle che hanno fatto del baratto una filosofia di vita accettando lo scambio tutto l’anno. Per una settimana intera, ospite e gestore saranno svincolati dal pagamento in denaro e privilegeranno solo l’aspetto umano dell’ospitalità, che caratterizza il popolo italiano.

Siamo di fronte a un vero e proprio mercato virtuale, dove partecipare è semplice. Lo si può fare in diversi modi:
1) Scegliendo sul sito web dell’iniziativa la destinazione desiderata [vedi] e contattando direttamente i B&B trovati attraverso il modulo “Contatta e Baratta”, o direttamente ai recapiti forniti dal sito. Meglio, prima, dare un’occhiata alla “lista dei desideri” dei B&B trovati, per capire se ciò che si propone è in linea con i desideri dei B&B prescelti.
2) Inserendo la propria proposta di baratto nella sezione “Proponi qualcosa da barattare con un soggiorno in B&B” [vedi], e scegliendo, se si vuole, una regione di preferenza. I gestori della regione prescelta visioneranno le proposte di baratto e ricontatteranno gli interessati, se interessati a loro volta.
3) Postando le proprie idee di baratto sulla sempre animata pagina Facebook dedicata [vedi] e attendendo una risposta da parte dei B&B attraverso il canale social.

La Settimana del Baratto è l’idea giusta per una vacanza fantasiosa, economica e ricca di contatti umani, all’insegna dello scambio di esperienze di vita e di professionalità: un interessante, curioso e insolito viaggio alle origini di ospitalità e riconoscenza.
A voi, allora, e alle vostre idee… e buon divertimento!

Il cappotto del poeta
per vestire i sogni
di un’adolescenza controcorrente

In questo film del regista Luca Dal Canto, si respira l’atmosfera poetica e artistica della città di Livorno, infatti, i veri protagonisti della storia sono il poeta Giorgio Caproni autore di “Ultima preghiera” (da cui trae spunto il cortometraggio), tratta dall’opera “Versi livornesi” e Piero Ciampi autore della struggente canzone intitolata “Livorno”, qui eseguita da Luca Faggella. Il brano ha il compito di sottolineare la parte centrale del film, dove il protagonista è privato del cappotto di lana appartenuto al poeta livornese: “… triste triste, troppo triste questa sera, questa sera, lunga sera. Ho trovato una nave che salpava, questa sera, eterna sera…”.

cappotto-lana
La locandina del film

La trama del film racconta di Amedeo, un adolescente molto diverso dai suoi coetanei, che nella sua stanza ha appeso il poster del cantautore Piero Ciampi e che dal suo walkeman a cassette (non un Mp3), invece di ascoltare canzoni preferisce la compagnia delle poesie di Giorgio Caproni. Questi suoi atteggiamenti lo portano a scontrarsi col padre, che lo preferirebbe più determinato a cercarsi un lavoro dopo la scuola dell’obbligo, definendo la poesia, una questione di esclusivo interesse da parte di “vecchi e femminucce”.
Un giorno un suo amico trova nella cantina del nonno il cappotto di lana appartenuto al grande poeta e decide di regalarlo ad Amedeo, il quale non vorrà più toglierselo di dosso. Il film è ambientato nel mese di agosto in una città di mare e l’evidente stranezza del ragazzo viene mal sopportata dal padre, il quale provvede a fare sparire quel vecchio cappotto.
L’immaginazione del ragazzo esce dal contesto logico del tempo in cui vive, per rifugiarsi nella più creativa immaginazione, luogo dove incontrerà il poeta livornese e la madre di questi, in un susseguirsi di avvenimenti, che porteranno il padre del ragazzo ad apprezzare Caproni e a promettergli l’iscrizione al tanto desiderato Liceo classico.
Tra i numerosi pregi del film emerge quella che possiamo definire come la splendida fotogenia di Livorno, esaltata dalle melodie di Piero Ciampi e dalla dolcezza dei versi di Caproni, in una sorta di magica sinergia, che propone al meglio i paesaggi di questa città toscana. Non mancano citazioni allo scultore livornese Amedeo Modigliani, che presta il nome al protagonista del film.
Ottima l’interpretazione degli attori, dal giovane Francesco Aloi a Marco Conte (il padre di Amedeo) e Laura Palamidessi, Gabriele Di Palma e Sergio Giovannini, ben diretti da Dal Canto, che da anni si occupa di cinema, essendo stato anche aiuto regista di autori quali Enrico Oldoini, Daniele Luchetti, Sergio Rubini.
Il cortometraggio ha vinto numerosi premi, tra i quali: miglior film al XVIII VideoCorto di Nettuno, Migliore sceneggiatura a Versi di Luce 2013 di Modica (RG) e miglior film di fiction al XIV Festival Internazionale Malescorto (Malesco – VB). Anche il protagonista del film è stato premiato in varie occasioni, tra cui come miglior attore protagonista all’Eiff 2012 di Nardò.
Nel 2013 è stato selezionato, in concorso, al ZeroTrenta CortoFestival, che si svolge ogni anno ad Argenta, in provincia di Ferrara. Il film è stato trasmesso in TV sul canale Cooming Soon e ammesso alla rassegna del Caffè letterario di Roma, ora è liberamente visibile su YouTube.

cappotto-lana
Luca Dal Canto dirige Francesco Aloi

Una domanda al regista Luca Dal Canto. Nel tuo film “Il cappotto di lana” hai inserito le poesie di Giorgio Caproni, le canzoni di Piero Ciampi e hai attribuito il nome di Modigliani al protagonista. Lo stesso schema lo hai riproposto nel tuo nuovo corto “Due giorni d’estate”. Storia, fiction e arte si fondono e si completano nel tuo stile narrativo?
In entrambi i cortometraggi ho cercato di raccontare come la cultura sia fondamentale per la crescita di un ragazzo. Purtroppo nella società odierna si dà sempre meno spazio a questo aspetto, rischiando di smarrire nell’oblio intere generazioni di giovani (ma anche di adulti). Da qui la mia idea di raccontare con leggerezza storie in cui sono la cultura, l’arte, lo studio a trionfare sulla superficialità della nostra contemporaneità. Livorno, la mia città, ha nella sua storia decine di illustri figure nel campo della pittura, della letteratura, della musica… e quindi è stato facile e anche divertente andare a ripescare personaggi purtroppo spesso dimenticati.

Link per la visione integrale del film [vedi]

sintomo-medico-sintomo-psicoanalitico

Sintomo medico e sintomo psicoanalitico

Il sintomo racchiude in sé la ragione di essere della psicoanalisi stessa. Potremmo dire che la psicoanalisi ha come scopo e limite il fatto di togliere il sintomo con le parole. Attraverso la verbalizzazione delle emozioni pian piano si arriva a svelare il significato particolare che il sintomo veicola.
Lo psicoanalista attraverso le parole, quelle del soggetto che soffre e le sue proprie, in quanto partner di questo soggetto, lavora per arrivare ad una modificazione del reale, del reale che è il sintomo, che morde nella carne e nello spirito, con effetti anche nel corpo.
La medicina e la psicoanalisi hanno a che fare, tutte e due, con una domanda di guarigione. In entrambe, le parole sono cruciali. Eppure esse si oppongono. Si oppongono proprio sullo statuto del sintomo. Il sintomo medico non è il sintomo psicoanalitico, sebbene il sintomo psicoanalitico prenda le mosse, spesso, dal sintomo medico. II sintomo medico può avere, eventualmente ma non necessariamente, una dimensione preanalitica. Il sintomo medico si contraddistingue per il fatto di essere un segno, segno di una malattia. Il sintomo analitico è invece “parlante” perché non si indirizza al medico, ma al soggetto stesso in cui esso si manifesta.
Mentre il sintomo medico riguarda l’organismo, il sintomo analitico riguarda il soggetto. Mentre il sintomo medico è indice univoco, il sintomo analitico è ciò che fa segno al soggetto di un senso che rimane oscuro al soggetto stesso, un senso che rimane vago ed equivoco e che attraverso la cura psicoanalitica va svelato. Freud affermava che “Il sintomo è significante di un significato rimosso dalla coscienza del soggetto”. Il lavoro dello psicoanalista consiste quindi nell’aiutare il soggetto a rivelare il significato criptato del sintomo che il soggetto incarna.
Il sintomo si presenta come una risposta articolata a questi interrogativi che investono il soggetto nel cuore del suo essere stesso. Per questo il sintomo ha struttura di significante. Lo psicoanalista, che è colui che opera tramite le parole, sa che le sue interpretazioni e i suoi interventi, verbali e non verbali, se hanno un’incidenza sul sintomo è proprio perché il sintomo ha la stessa struttura di linguaggio: il sintomo nasconde e rivela al tempo stesso il desiderio inconscio del soggetto, e sarà compito dell’analista far venire allo scoperto questo desiderio inconscio, che di per sé è rimosso e che quindi rimane spesso misconosciuto all’ignaro individuo in cui esso abita.
Per questi motivi l’approccio medico differisce da quello psicoanalitico nel rapportarsi al sintomo.
Il medico punta ad eliminare il sintomo e la guarigione medica coincide con la scomparsa del sintomo stesso. Lo psicoanalitica punta a svelare ciò che di enigmatico il sintomo veicola come significato oscuro al soggetto stesso, in modo da fornire al soggetto strumenti meno patologici per affrontare ciò che in realtà stava cercando di trattare con il sintomo. Solo acquisendo strumenti alternativi il soggetto potrà scegliere di abbandonare il sintomo che funge da stampella con cui affacciarsi al mondo. Per questi motivi la guarigione in psicoanalisi non coincide con la scomparsa del sintomo, come invece accade nella guarigione medica. Anzi spesso il sintomo è l’ultima cosa che scompare nel corso di una psicoanalisi.

Chiara Baratelli, psicoanalista e psicoterapeuta, specializzata nella cura dei disturbi alimentari e in sessuologia clinica. Si occupa di problematiche legate all’adolescenza, dei disturbi dell’identità di genere, del rapporto genitori-figli e di difficoltà relazionali.
baratellichiara@gmail.com

LA RIFLESSIONE
Internet, un ambiente ‘wow’

Una riflessione sulla rete come ambiente e sulle implicazioni che ciò comporta a livello cognitivo, identitario, relazionale: questo l’intervento di Maura Franchi ieri pomeriggio alla sala Agnelli della biblioteca Ariostea.
Il punto di partenza è considerare internet non più come uno strumento che si può decidere di usare o non usare, ma iniziare a considerarlo un ambiente, cioè “qualcosa di imprescindibile, perché non possiamo fare a meno di abitarlo”. È un passaggio che i cosiddetti nativi digitali non hanno più nemmeno bisogno di fare perché il loro uso delle tecnologie è del tutto intuitivo, non è una questione anagrafica, ma di capacità: la “discontinuità” è segnata dal fatto che l’utilizzo delle tecnologie digitali ormai “è inscritto nei loro schemi mentali”.
La questione diventa quindi essere consapevoli dell’ambiente in cui ci muoviamo, saperne riconoscere sia i rischi sia le opportunità, e compiere così il passo successivo: “dal rifiuto e dalla paura all’inclusione e alla cittadinanza”.
Quali sono dunque le implicazioni a livello di identità e di relazioni? Ormai abbiamo superato la distinzione on/off line, siamo continuamente ‘all line’, per questo la rete è diventata il luogo non solo della “narrazione del sè”, ma della nostra “costruzione identitaria”: l’identità perciò non si forma più attraverso l’interazione con gruppi sociali ben definiti, ma attraverso la condivisione con un numero ampio, aperto e indefinito di persone. Il risultato è un’identità senz’altro più fluida e plurale, ma più precaria e incerta. È infatti inevitabile chiedersi se l’aumento di persone con cui entriamo in contatto significhi una maggiore libertà di confrontarsi con diverse prospettive, oppure implichi il rischio di essere spinti verso identità preconfezionate, perché internet registra ciò che si fa e dice ciò che si vuole. È probabile che siano vere entrambe le cose e che l’importante sia rendersi conto che sta a noi utenti, per rimanere nella metafora dell’ambiente, decidere quale strada prendere. In altre parole la rete è evidentemente una risorsa di relazione, ma è necessario essere consapevoli che la distribuzione di capitale sociale rimane ineguale, da qui la necessità di possedere competenze sociali per gestire i diversi contesti e il moltiplicarsi delle interazioni.
L’altra domanda che si è posta Maura Franchi è che tipo di ambiente sia la rete: è “il paese dei balocchi”, ma non nel senso che forse molti di voi immagineranno. Il web è “un luogo ricco di stimoli”, “non completamente riferito al qui e ora del quotidiano”, in cui avviene “uno spostamento simbolico e pratico verso un’area ludica” e “un’ibridazione gioco-vita”. Il punto di contatto con il processo di apprendimento è “l’eterna sorpresa”: in fondo l’apprendimento è anche “la sorpresa, la meraviglia di conoscere una cosa che prima non si sapeva”. Perché non cercare di sfruttare tutto ciò come molla all’azione e all’apprendimento informale? La chiave è insomma stimolare pratiche condivise e un uso generativo, non passivo, della rete.

L’OPINIONE
La sentenza dell’Aquila/1 Il pro: dagli all’untore

Il Gran Magro, personaggio del romanzo di Gesualdo Bufalino “Diceria dell’untore”, ammetteva paradossalmente l’esistenza di Dio affermando che “non c’è colpa senza colpevole”. E quando il colpevole non si trova o non esiste proprio capita spesso che se ne inventi uno, scelto a caso fra i nemici della comunità, meglio se esterni ad essa. Gli untori, appunto. Come se la presenza di un colpevole esorcizzasse la paura ancestrale di una maledizione divina oppure, al contrario, potesse garantire l’indispensabile capro espiatorio per placare le divinità irate. Perché gli uomini non sopportano l’idea che il loro destino possa essere governato dal caso (il caos primigenio, di cui è fortuito anagramma), al punto che hanno preferito sottomettersi agli dei, accettandone le bizzarrie, pur di evitarlo.
Così per secoli, prima dei lumi, ha funzionato la giustizia: per garantire alla plebe inquieta e spaurita che un colpevole era stato individuato, messo nella condizione di non nuocere, giustamente punito e che nulla c’era quindi più da temere. Migliaia di poveri negromanti, apostati, streghe, satanisti sono stati crudelmente immolati per soddisfare questo bisogno irrazionale di sicurezza. Tempi remoti e bui, ignoranza e superstizione per fortuna passate, dirà qualcuno. Purtroppo, dovremmo accorgercene aprendo i giornali ogni mattina, anche mille anni sono troppo pochi per cambiare nel profondo l’animo umano, che, nei momenti più acuti di crisi e di incertezza, tende inesorabilmente a manifestare impellenti esigenze di rassicurazione, esprimendo la medesima sostanziale indifferenza sul modo in cui vengono soddisfatte. Oggi il rogo da fisico è diventato mediatico o, semmai, giudiziario, ma sempre un rogo rimane.
La sentenza di primo grado al processo de L’Aquila, che condannava la commissione Grandi Rischi perché rea di non aver previsto il terremoto nonostante i presunti segnali premonitori, mi è sempre sembrata una decisione pesantemente inquinata dall’emotività e funzionale allo scopo di placare una comunità attonita e smarrita, che aveva bisogno di colpevoli per darsi una ragione di un evento altrimenti inesplicabile. Non che in quella tragedia di colpe a cui fosse possibile associare un nome ed un cognome non ce ne siano, a cominciare da chi ha costruito senza rispettare le regole o da chi non ha vigilato abbastanza per dolo o per ignavia, ma ciononostante molti preferirono fare propria l’idea che l’imprevedibile potesse essere in realtà previsto e che questo non avvenne per colpa specifica di chi non colse i segni che erano stati inviati. Questa interpretazione, che contrasta platealmente con quanto affermano unanimemente gli scienziati a livello mondiale, esclude tuttavia la comunità colpita da ogni possibile responsabilità, in quanto chi aveva sbagliato non ne faceva parte, mentre lo stesso non si può dire per gli esponenti politici e i tecnici comunali che non avevano vigilato o per gli imprenditori che avevano mal costruito. Significativa a tale proposito l’affermazione del procuratore generale riportata dalla stampa, che per rispondere a chi lo accusava di voler “processare la scienza” afferma: “Non un processo a degli scienziati, ma a dei ‘funzionari dello Stato’ per non aver analizzato correttamente tutti i rischi di quei giorni. Non dolo ma omicidio e lesioni colpose”. Come se, oltretutto, la ricognizione dello status giuridico degli imputati sia rilevante ai fini di ciò che può o non può essere previsto.
Con la sentenza d’appello, almeno così a me pare, viene ristabilita una interpretazione razionale dei fatti e cade per intero l’accusa ai tecnici di non aver saputo prevedere il sisma, mentre rimane in piedi quella alla protezione civile per non essersi almeno precauzionalmente allertata. Dispiace che negli oltre cinque anni trascorsi dal 6 aprile 2009 molte persone avessero ormai interiorizzato come causa principale dei lutti provocati dal sisma l’incapacità dei tecnici di saperlo prevedere, complice in questo una pubblica opinione che spesso tende ad assecondare acriticamente la ricerca di un colpevole ad ogni costo, e che quindi si sono sentite tradite dalla nuova sentenza.

L’OPINIONE
La sentenza dell’Aquila/2 Il contro: un altro disastro senza colpevoli

A due giorni dalla sentenza che ha assolto i sette della commissione Grandi Rischi, L’Aquila fa i conti con l’assenza di un colpevole per il disastro del 6 aprile 2009…
C’è una parola che, ieri mattina, ha invaso le aule del Tribunale de L’Aquila: “vergogna”. Vergogna per lo Stato. Vergogna per gli imputati condannati e poi assolti. Ma, soprattutto, vergogna per un processo la cui sentenza ha sollevato dure proteste contro la Corte d’Appello del capoluogo abruzzese, divenuta oggetto di fischi e urla al termine dell’udienza tenutasi lunedì 10 novembre 2014.
Questa la rabbia dei cittadini presenti in aula ieri mattina, quando il magistrato Fabrizia Francabandera e i giudici a latere Carla De Matteis e Marco Flamini hanno letto la sentenza che ha assolto i componenti della Commissione Grandi Rischi condannati in primo grado a sei anni di reclusione. La sentenza, riaccendendo i riflettori sulle tragiche conseguenze del terremoto che rase al suolo L’Aquila il 6 aprile 2009, ha così ribaltato la conclusione cui era giunto Marco Billi due anni fa. Il giudice monocratico, infatti, aveva ritenuto colpevoli gli imputati per omicidio colposo plurimo e lesioni colpose, disponendo anche le pene accessorie dell’interdizione dai pubblici uffici ed dell’interdizione legale durante l’esecuzione della pena.
Una decisione severa che, pur dando adito ad alcune perplessità, nasceva dalle false rassicurazioni fornite alla popolazione aquiliana cinque giorni prima del disastroso sisma, cui la commissione sarebbe giunta nel corso di una riunione svoltasi il 31 marzo 2009. Ed è proprio quella riunione a essere entrata nel mirino delle critiche e delle proteste che, in queste ore, affollano le televisioni e i blog, scavando tra i fantasmi di un evento dai retroscena confusi e accusando una giustizia sempre più lontana dalle aspettative dei cittadini. Infatti, se per il giudice di primo grado l’incontro si era concluso con “affermazioni assolutamente approssimative, generiche e inefficaci in relazione ai doveri di previsione e prevenzione”, la Corte d’Appello de L’Aquila ha ribaltato la sentenza giudicando incolpevoli gli scienziati e gli ex vertici della Protezione Civile nazionale che, quel 31 marzo, avrebbero rassicurato imprudentemente i cittadini del capoluogo abruzzese.

Alla base della decisione, l’insussistenza del fatto per il direttore del Centro nazionale Giulio Selvaggi, l’allora vicepresidente della commissione Franco Barberi, il direttore dell’ufficio rischio sismico di Protezione civile Mauro Dolce, l’ordinario di fisica all’università di Genova Claudio Eva, il direttore di Eucentre Gian Michele Calvi e l’ex capo Ingv Enzo Boschi, il quale ha rilasciato le proprie osservazioni alla stampa nazionale. “E’ chiaro fin da ora che è una sentenza molto importante. Il giudice è stato coraggioso” ha affermato il geofisico al termine dell’udienza, che, dei sette condannati in primo grado, ha rinnovato la pena solo per Bernardo De Bernardis: due anni di reclusione per l’allora vice di Guido Bertolaso alla Protezione Civile, accusato della morte di tredici persone. “Se fossi stato il padre di una delle vittime avrei fatto la stessa cosa. Una vittima è sempre una vittima. Non ho mai contestato nulla” ha rivelato il condannato alla stampa, approvando una decisione le cui ragioni restano oscure.
D’altronde, le motivazioni della sentenza verranno depositate solo nell’arco di novanta giorni. Solo allora verrà reso pubblico l’iter logico e giuridico che ha spinto la Corte a rigettare l’impianto dell’accusa dopo sette ore di camera di consiglio, nonostante le indiscrezioni abbiano rivelato alcune notizie importanti. Notizie che vedono nella manipolazione mediatica la reale causa di quelle disastrose conseguenze che, cinque anni fa, derivarono dal sisma de L’Aquila, il quale provocò 309 morti e il crollo di un’intera città. “Nessuno ha detto: state tranquilli perché non ci sarà un terremoto. E se anche fosse stato detto, manca il passo successivo, ossia non c’è stata la comunicazione alla popolazione” ha chiarito l’avvocato Carlo Sita, le cui parole sono state condivise da Massimo Giannuzzi: “C’è stato un corto circuito mediatico con le dichiarazioni di De Bernardinis prima della riunione inserite in un articolo sul post-riunione” ha aggiunto il secondo legale degli imputati.
Colpa della stampa, dunque? La domanda, dopo lo shock iniziale, rende il caso appare più spinoso di quanto possa sembrare alla luce delle decise contestazioni scoppiate in Tribunale ieri mattina. Dallo sconcerto del procuratore generale Romolo Como alla “ferita indescrivibile” dell’ex Presidente della Provincia de L’Aquila Stefania Pazzopane, dai pianti dei cittadini indignati alla rabbia di chi è convinto che gli abitanti della città siano stati “uccisi una seconda volta”: il dolore di chi, in una notte, ha perduto le serenità della propria vita quotidiana chiama in tribunale la Giustizia e la pone davanti alla disperazione delle vittime, che, dopo cinque anni, devono fare i conti con decine di inchieste e pochi colpevoli.

La sentenza emessa ieri non rappresenta solo la fine di uno dei tanti processi che hanno cercato – e cercano – di far luce sui misteri de L’Aquila e sui retroscena di un evento offuscato da troppi fantasmi. Essa apre le porte a un vero interrogatorio che vuole fare chiarezza sull’indirizzo adottato da una Giustizia apparentemente sempre più lontana dalla tutela di chi invoca i propri diritti.
Il discutissimo caso Cucchi e l’assoluzione dei boss dei Casalesi accusati di minacce allo scrittore Roberto Saviano e alla giornalista Rosaria Capacchione sono solo alcuni dei processi che hanno dimostrato come la Giustizia possa giungere a soluzioni inaspettate, tali da farci solidarizzare con le vittime e il loro dolore. Processi che ci spronano a invocare una ricerca più accurata delle prove e una soluzione che, per la magistratura, non sempre è possibile realizzare.

Ma, nella sentenza de L’Aquila, forse c’è di più. La privacy dei documenti e delle conclusioni cui giunsero gli imputati il 31 marzo 2009 aprono le porte a una riflessione che, per chi cerca i colpevoli di quel tragico disastro, è del tutto inaspettata. Ipotesi tralasciata dal giudice di primo grado, essa è sembrata riaffiorare in appello, ribadita dallo stesso Giannuzzi. A due giorni di distanza, con l’indignazione dei cittadini ancora viva e l’accusa contro Bertolaso per un processo parallelo a quello appena terminato, l’ipotesi di una diversa visione dei fatti prende piede. E, quando le motivazioni ci saranno rivelate, forse comprenderemo le conclusione che ha dissolto i fantasmi della vicenda. Forse, anche noi, comprenderemo come la fatalità degli eventi, talvolta, ci faccia arrendere a una natura che, per quanto i tentativi di domarla possano essere avanzati, rimane e rimarrà una forza imprevedibile.

Lo scolo e altri incidenti. Le letture ‘contro’ di Tiziano Scarpa

Vent’anni di Feltrinelli a Ferrara. Il compleanno è proprio oggi. Il programma di eventi per la celebrazione del ventennale della libreria si è aperto già nei giorni scorsi con l’interventi, fra gli altri di Tiziano Scarpa.
Pagine spassose ma anche serie, raccontate con sentimento e con perizia, con minuziosità quasi tecnica, accompagnate da una gestualità vivida e ricca, che fluisce senza intoppi regalando riflessioni surreali e delicate, struggenti e umoristiche. A raccontarle, uno Charlot dal pacato accento veneto, un Premio Strega che introduce la sua ultima opera letteraria, “Come ho preso lo scolo”. Comica e surreale, ironica – qualità fortemente raccomandabile in uno stile di vita, assicura – e verista. “Vengo contattato da una rivista pop-medica, patinata. Hai una malattia da raccontarci? mi viene chiesto. Ripercorro mentalmente la mia storia medica – imbarazzantemente senza grossi problemi, unica cosa degna di nota la scarlattina. Sino a quando, dopo alcuni momenti di pensiero libero, non racconto di essermi preso lo scolo, con tutto il parterre psicologico e imbarazzanti disavventure personali che ne seguono”.

Ma questo è solo l’anticipo di una lettura scenica che si rivela riflessiva, senza essere pretestuosa: Scarpa osserva il mondo attraverso una vicenda personale mostrandoci qualcuno che fa rientrare il linguaggio dentro di sé attraverso le proprie esperienze restituendolo al pubblico. Stimolare il lettore a sfondare le sue esperienze personali per andare oltre, aprire una singola anta di una finestra e incoraggiarlo ad aprire la seconda. Così racconta di come, durante una lettura pubblica in piazza a Treviso contro ordinanze razziste pane quotidiano delle amministrazioni leghiste – il razzismo istituzionale che limita l’uguaglianza di fatto tra le persone – arrivi a interrogarsi sul valore della voce e sull’importanza del microfono e, in generale, di qualunque strumento di amplificazione della voce quale mezzo del potere – quale veicolo della possibilità di farsi ascoltare, negata ai più.
La voce è strumento, che necessita però di farsi sentire ed essere trasmessa, per essere completamente realizzata. Ne esistono molti esempi: da San Francesco, che in una delle sue prediche zittisce le rondini, a Mussolini, che utilizza per la prima volta il microfono nel 1926, al fenomeno dell’urlatore Beppe Grillo, e sullo stretto legame tra strumenti di comunicazione e potere.

Ne è perfetto esempio la manifestazione pacifica del 2011 Occupy Wall Street contro gli abusi del capitalismo finanziario. Privati del microfono in virtù di una legge interpretata restrittivamente, risolvono il divieto creando uno human mike, un microfono umano, causando un effetto a catena nella ripetizione di una stessa frase, partendo da molti singoli per poi “contagiare” gruppi sempre più folti. Nel quale l’ascolto non è passivo ma rende chiunque responsabile e partecipe di ciò che dice, in quanto ogni persona è veicolo e primo passo verso il diffondersi di un contenuto. Diffusione che è virale, secondo una classica definizione della sociologia contemporanea, ma che porta, a differenza dell’ambito da cui è presa in prestito – quello medico – qualcosa di buono e inaspettato. Portandogli in dono, attraverso il romanzo Stabat Mater. Una sorpresa: un romanzo ambientato nella Venezia del XVII secolo ambientato in un definito lirico e intimista, nato anch’esso da una storia personale – il luogo di nascita di Scarpa, un ex orfanotrofio musicale – viene regalato dal Comitato Nazionale per il diritto alle Origini Biologiche ai componenti della Commissione di Giustizia della Camera dei Deputati mettendo in discussione una legge la cui assurdità – la possibilità, da parte delle persone orfane, di essere messe a conoscenza della propria famiglia di origine al compimento dei 99 anni di età – nega di fatto questo diritto a chiunque voglia conoscere le proprie origini; e diventando simbolicamente il luogo – l’unico – in cui il silenzio è ammesso, cioè la lettura.

Perché forse, come suggerisce Travaglio, le vittime della censura non sono solo i personaggi imbavagliati per evitare che parlino, ma anche e soprattutto quei cittadini che non possono più far sentire la propria voce.

L’OPINIONE
Politica indecente

Quarantuno consiglieri regionali su cinquanta dell’Emilia Romagna sono indagati dalla magistratura per aver effettuato spese private con i soldi pubblici. Alcune precisazioni sono d’obbligo. Le accuse vanno provate. Gli indagati hanno il diritto di dichiararsi innocenti. Non tutti gli indagati sono sullo stesso piano per i reati attribuiti: alcuni sono clamorosamente scandalosi, altri forse frutto di superficiale disattenzione. Fatte queste doverose premesse garantiste, il giudizio politico e morale sull’intera vicenda deve essere severo. L’immagine di una Regione dal passato virtuoso ne esce a pezzi. Dopo il flop di partecipazione alle primarie del Pd, c’è da aspettarsi un crollo della partecipazione al voto. Questo sarebbe un dato negativo di per sé, perché si tratterebbe di una conferma della drammatica crisi di legittimità della politica e di sfiducia verso chi la rappresenta nelle Istituzioni. Come stanno reagendo i candidati? Intanto, va registrato l’errore di Bonaccini nel non aver preteso dai candidati un certificato di totale estraneità rispetto alle indagini in corso. E così troviamo nella sua lista la sgradevole presenza di indagati. Ciò che, però, è più grave è lo svolgimento della campagna elettorale: fiacca, di nessun interesse pubblico, silente sulle cause antiche del degrado che la magistratura sta evidenziando. La sinistra nella nostra regione vantava una riconosciuta diversità sul piano della dirittura morale, del rigore e della serietà dei suoi politici. Oggi, per l’opinione pubblica sono tutti uguali. E in questo mare inquinato della cattiva politica, pescano a piene mani gli avventurieri dell’antipolitica. Non si accusi di qualunquismo chi denuncia amareggiato questa deriva. Si metta, invece, mano ad una vera e severa autoriforma dei partiti fatta di recupero di onestà, competenza, passione civile, dedizione al bene pubblico. Insomma, come diceva un vecchio amico, quando sul cruscotto si accende la luce rossa che segnala pericolo, bisogna cercarne la causa e i responsabili, non dare una martellata al cruscotto…

Fiorenzo Baratelli direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara

L’INCHIESTA
Salute a rischio. Morelli:
il benessere è nell’equilibrio
delle energie vitali

2. SEGUE – Riprendiamo il nostro viaggio nei sentieri della medicina alternativa.

“Se mettiamo una pianta al buio con una luce laterale, la pianta cresce seguendo il fascio luminoso. Così sostanzialmente si comporta ogni essere vivente: per sopravvivere adatta i propri equilibri alle condizioni ambientali, tendendo a un nuovo equilibrio che però può anche essere causa di patologie: la pianta, per esempio, piegandosi potrebbe cadere e morire”.
A parlare è il dottor Marco Morelli, un medico che una decina d’anni fa ha abbandonato il lavoro ambulatoriale e ospedaliero e ha avviato collaborazioni con vari colleghi e centri di cura in giro per l’Italia. E’ operativo a Padova, Mantova, Milano, Roma e nel fine settimana anche a Ferrara, dove risiede. Il dottor Morelli ha focalizzato i suoi studi andando alla ricerca di soluzioni a casi per i quali la medicina tradizionale fatica a trovare risposte.
“Sono sempre stato affascinato dalle capacità del nostro organismo di gestire il proprio equilibrio dinamico e ho maturato la convinzione che ogni malattia, sia, in prima istanza, il venir meno della capacità di preservare tale equilibrio energetico. Per questo mi sono orientato sulla biofisica e sugli effetti dei campi pulsati nella medicina, perseguendo il riequilibrio psico-neuro-endocrino-immunologico del paziente”

Tradotto per una persona che non ha particolari cognizioni mediche, come si può esplicitare il concetto?
Possiamo parlare di riequilibrio neuro-motorio globale che perseguiamo attraverso un approccio olistico, cioè considerando l’organismo nella sua complessità e nelle sue interazioni. La vera terapia consiste nel fornire l’informazione giusta per ritrovare l’equilibrio biofisico perduto. Dal 2003 mi sono avvicinato agli studi biofisici all’Università di Firenze, trovando subito riscontri clinici a questa mia idea. Per la verità l’idea è vecchissima e già Marconi aveva intuito che un tessuto malato emetteva un campo elettromagnetico diverso da un tessuto sano.
Il corso di neuroscienze che ha riorientato il mio metodo terapeutico ha chiarito che le patologie hanno alla base uno stress legato a neurotrasmettitori. L’esempio, per capirci, è l’effetto fototropico nelle piante a cui facevo riferimento prima. Per gli animali è la stessa cosa: attraverso meccanismi neuroendocrini gli ormoni dello stress, in particolare il cortisolo, esercitano una funzione determinante nell’alterare le difese immunitarie e i riflessi motori, nel diminuire la memoria…

marco-morelli
Il dottor Marco Morelli

Si tratta di acquisizioni recenti?
A questa consapevolezza si è giunti già negli anni Settanta, grazie a ricerche sul cortisone. Cito in particolare un noto esperimento. Alle cavie cui era stato regolarmente somministrato, il cortisone aveva indotto ipertensione, ipertrofie delle ghiandole surrenali, ulcere. Paradossalmente gli stessi effetti furono rilevati anche su due cavie che, scappando, si erano sottratte all’esperimento: anche loro, quando vennero ritrovate, mostrarono gli stessi sinotomi delle altre, pur non avendo assunto cortisone. Anziché decretare il fallimento dell’esperimento si comprese ciò che era accaduto: se ne dedusse cioè che scappare, nascondersi, non mangiare, era stata la causa scatenante che aveva prodotto i medesimi effetti del cortisone iniettato in vena. Ciò ha portato a concludere che quando l’organismo si adatta allo stress altera i propri equilibri e genera processi patologici.

E questo cosa significa?
Che lo squilibrio energetico è in grado di causare la malattia. Senza negare la validità della quattromila pagine della ‘Patologia generale medica’, si può ammettere questo assunto. D’altra parte è stato lo stesso Roger Penrose, celebre fisico quantistico, a porre in relazione l’entropia, il caos dell’energia nel sistema e la malattia. Direi che il bisogno di riequilibrare le energie nasce da qui.

Quali tipi di patologie può curare questo tipo di approccio?
La bioenergia trova il suo miglior impiego in tutti i casi di squilibrio posturale favorendo il riequilibrio nei casi in cui si manifestano fenomeni di dismetria. Il trattamento è utile a recuperare le situazioni di stress correlate e a favorire la ripresa del controllo neuro-motorio sia a livello fisico che psichico. È efficace nei casi di lombalgia, sciatalgia, cervicalgia; nel trattamento delle cefalee; degli esiti di fratture, artrosi, ernia discale, sindrome tunnel carpale, rachialgia, fibromialgia, scoliosi, artrite. La metodologia non è invasiva, è indolore, è priva di effetti collaterali. I risultati sono duraturi.

Immagino non siate in tantissimi a seguire questo approccio…
Lei dice in Italia? Vero. In Austria, come in Germania, Ungheria, Slovenia nelle università e negli ospedali si applicano le teorie biofisiche ai campi elettromagnetici pulsanti, con metodologie analoghe a quelle che pratichiamo noi.

Presumo però che la gran parte dei suoi colleghi mostri una certa diffidenza, o sbaglio?
Sì, mi ha letto nel pensiero. Ma è comprensibilissimo. Queste cose nelle università italiane non si insegnano. Ma a Bochum, per esempio, vicino a Dortmund, c’è un grande centro di eccellenza per lo studio e la cura delle neuro-degenerazioni accreditato della Comunità europea, un complesso ospedaliero a otto piani dove si utilizza anche un sistema di medicina integrata come quella che applichiamo noi per trattare Parkinson, Sla, eccetera. Ma anche a Vienna si pratica normalmente la terapia biofisica.
Però c’è molta diffidenza. Persino un’autorità come il Nobel per la Medicina Luc Montagnier ora che si occupa di omeopatia ed elettromagnetismo viene guardato con sospetto. Oltretutto sta sviluppando anche studi interessantissimi sulle staminali, con la prospettiva di generare cellule a minor costo. Ma questo forse non piace all’industria farmaceutica…

Ci sono stime o statistiche su quanti malati scelgono questo tipo di approccio alternativo?
No, siamo troppo piccoli per essere oggetto di stime o statistiche. Nel corso di neuroscienze che ho seguito a Firenze e che ha orientato la mia pratica medica saremmo stati in 30 o 40. Per come funziona l’università italiana si indirizzano gli studi affinché le persone si adeguino tutte all’utilizzo di una certa tecnica. Girando il mondo mi sono accorto però che c’erano anche altre metodiche.

Come procede la ricerca?
Gli ultimi studi sono sui vari tipi di onda e sugli effetti che ciascuno può produrre: dalle recenti valutazioni, abbiamo visto che il segnale ciclotronico di ogni ione ha una sua funzione. Classificando gli effetti, si genera una banca dati che consente di applicare per ogni specifico caso il tipo di energia più appropriata alle necessità del soggetto.

Questo consente di risolvere anche quelle patologie che la medicina tradizionale fatica ad affrontare?
Sì. La medicina convenzionale non riesce in certe patologie a trovare la causa eziologica, perché se esulo da un’alterazione che possiamo immaginare chimica la medicina tradizionale si ferma.

E a riguardo delle nuove malattie cosiddette autoimmuni qual è il suo pensiero? Ha senso definire alcune patologie ‘autoimmuni’ o è una formula salvifica adottata dalla classe medica per non ammettere la propria attuale incapacità di affrontare quel particolare disturbo?
L’autoimmunità e un’alterazione del sistema immunologico che agisce contro componenti del nostro organismo. La medicina convenzionale si ferma a questa evidenza. La ricerca sta progredendo, ma per quel che so un po’ a senso unico, poiché si cerca di individuare la proteina in grado di instaurare il processo di alterazione del linfocita, che è la cellula che gestisce la reazione immunologica. E si sta vedendo che ci sono virus in grado di alterare il genoma, cioè le caratteristiche genetiche dei linfociti.
Spesso si trattano queste malattie neurodegenerative, autoimmuni o reumatiche con cortisonici che abbassano il livello delle difese immunitarie, con l’idea che riducendo l’attività immunitaria conteniamo anche le risposte e l’aggressione autoimmune.
Ma se di un deficit immunologico stiamo parlando, si tratta di un deficit di energia. Ecco, allora la necessità di una ‘fasizzazione’, come la chiamano i fisici, cioè di un riequilibrio energetico che dobbiamo propiziare, perché è proprio l’equilibrio dei campi elettromagnetici che induce un corretto bilanciamento degli elementi vitali.

CONTINUA

LEGGI LA PRIMA PARTE DELL’INCHIESTA:
(Salute a rischio: “Ripristinare l’equilibrio bioenergetico e disintossicarsi”)

LA CURIOSITA’
La piadina romagnola ora è Igp

La piadina romagnola è tradizionalmente cotta sulla ‘teggia’, un piatto di terracotta, ma più semplicemente si utilizza una piastra di metallo o di pietra refrattaria, il ‘testo’. I primi a cucinarne una versione rudimentale sono stati gli Etruschi, i quali furono i pionieri nella coltivazione e lavorazione dei cereali e quindi nella produzione di “sfarinate”, che somigliavano molto al “pane” di Romagna, anch’esso preparato senza lievito e cotto su una piastra di metallo o di pietra.
Le rudimentali piade continuarono a essere prodotte anche nell’antica Roma, dove rappresentavano un cibo da ricchi perché dovevano essere mangiate appena cotte; già dopo qualche ora, infatti, diventavano dure e non masticabili, quindi non erano adatte ai plebei che, invece, necessitavano di un alimento a lunga conservazione.

Nella “Descriptio Provinciæ Romandiolæ”, il Cardinal legato pontificio Anglico de Grimoard, ne fissa per la prima volta la ricetta: “Si fa con farina di grano intrisa d’acqua e condita con sale, si può impastare anche con il latte (per rendere la pasta più soffice e friabile) e condire con un po’ di strutto”.
Le varianti prevedono l’aggiunta del bicarbonato, dell’olio d’oliva e del miele. Una volta pronto, l’impasto è diviso in piccole porzioni da stendere con il matterello. Per quanto riguarda il sale, negli ultimi anni viene sempre di più utilizzato quello di Cervia (Ravenna), famoso per la purezza del cloruro di sodio e l’assenza di altri sali, più amari, contenuti normalmente nell’acqua di mare. Anche Virgilio cita la piadina nel VII libro dell’Eneide quando scrive di una “exiguam orbem”, un disco sottile che una volta abbrustolito era diviso in larghi quadretti. Il grande poeta romagnolo Giovanni Pascoli ne parla nella sua poesia intitolata “La piada” (tratta da “I nuovi poemetti”): “Ma tu, Maria, con le tue mani blande domi la pasta e poi l’allarghi e spiani; ed ecco è liscia come un foglio, e grane come la luna […]”.
La piadina è un cibo semplice, che nel corso dei secoli ha identificato e unificato la terra di Romagna sotto un unico emblema, passando da simbolo della vita rustica e campagnola (pane dei poveri) a prodotto di largo consumo. Il termine piada (localmente piê, pièda, pìda) da cui il diminutivo piadina deriva da una parola italiana settentrionale piàdena “vaso”, dal latino medievale plàdena o plàtena, da plathana, a sua volta dal greco pláthanon ossia piatto lungo, teglia.

piadina-romagnola
La pizza fritta può sostituire la piadina romagnola

La piadina può sostituire il pane per accompagnare moltissimi piatti, in primis i salumi (prosciutto, salame, salsiccia stagionata o coppa), i ciccioli di maiale, la porchetta, la salsiccia cotta alla brace o alla piastra (con la cipolla). E’ consigliata anche con lo squacquerone, un formaggio fresco a pasta molle tipico della Romagna, fatto di latte vaccino intero crudo e cagliato, di origine rurale, che ha conquistato i palati più esigenti. Una tipica farcitura consiste nell’abbinare il prosciutto insieme alla rucola e allo squacquerone oppure quest’ultimo con fichi caramellati. Alcune varianti dolci prevedono la spalmatura di crema gianduia, confettura o crema di nocciole spalmabile.

Un’altra tipica preparazione è quella del crescione, basata sull’omonima erba, che si trova lungo i fossati. La sfoglia è farcita, ripiegata e chiusa prima della cottura. Per renderla più saporita, nel ripieno, sono aggiunti aglio, cipolla o scalogno. Questa tradizione deriva dal largo uso che si è sempre fatto nella cucina romagnola delle erbe, comprese le foglie della barbabietola o bietole. L’alternativa moderna al crescione alle erbe è rappresentata da quello ripieno di pomodoro e mozzarella. Negli ultimi anni si è diffuso il cosiddetto ‘rotolo’, preparato farcendo una piadina sottile che è poi avvolta su se stessa.
Una buona abitudine romagnola è quella di gustare la piadina così com’è, servita in un foglio di carta, utile per assorbire l’unto in eccesso. E’ venduta in appositi chioschi, diffusi in tutta la Romagna, caratteristici perché colorati a bande verticali, con colori standardizzati per le varie località. La piadina è possibile trovarla anche confezionata, presso la grande distribuzione.

piadina-romagnola
La piadina è differente da zona a zona

A seconda della zona di preparazione, ci sono alcune differenze tra piadina e piadina, per quanto riguarda la forma e la consistenza. Nel ravennate e nel forlivese è spessa e soffice, mentre nel riminese è più sottile e talvolta di diametro leggermente maggiore.
Nel 2013 è nato il Consorzio di tutela e promozione della piadina romagnola, fondato da quattordici produttori in rappresentanza di tutta la zona di lavorazione consentita dal Disciplinare di produzione: le tre province di Ravenna, Rimini e Forlì-Cesena e parte della Provincia di Bologna. In sintesi esistono due varianti di questo prodotto, che da pochi giorni ha ottenuto il riconoscimento e quindi la registrazione del marchio Igp (Indicazione geografica protetta): la piadina terre di Romagna e piada romagnola (variante di Rimini).
Il suggello definitivo è arrivato dalla Direzione generale agricoltura della Commissione europea, l’organo preposto alla registrazione delle Denominazioni di origine, che, dopo averlo pubblicato sulla Gazzetta ufficiale, ha dato il via libera al Regolamento di registrazione (Gazzetta ufficiale Ue, Regolamento N. 1174/2014).
Il Disciplinare della piadina riminese prevede uno spessore fino a 3 mm e un diametro da 23 a 30 cm; e per la piadina delle terre di Romagna uno spessore da 4 ai 10 mm e un diametro inferiore dai 15 ai 30 cm.

La politica gassosa e l’appetitoso Quirinale

Come scrive Massimo Cacciari sull’Espresso, in tempi di politica liquida, e forse già allo stato gassoso, è usuale il lamento sulla qualità della classe dirigente nostrana.
Gli esempi, solo negli ultimi tempi, non mancano.
Se si presta orecchio alle indiscrezioni filtrate dal Quirinale e sulle intenzioni del presidente della Repubblica, che i bene informati danno particolarmente irritato, di lasciare anzitempo l’incarico vista l’inconcludenza sulle riforme, quella elettorale in testa, il festival delle dichiarazioni è in pieno terreno paradossale.
E’ da quando c’era al governo Berlusconi che Giorgio Napolitano predica, invano, che serve una nuova legge elettorale.
Ora che, dopo la sentenza della Corte, l’Italia è rimasta con l’invertebrato Consultellum e con un percorso riformatore che rischia l’approdo con ben un sistema di voto per ciascuno dei due rami del Parlamento, invece di un’autocritica per l’imperdonabile inerzia su un tema che torna nel dibattito politico con la stessa ciclicità del mito dell’eterno ritorno, si assiste sbigottiti alla fiera delle autocandidature per il Quirinale, con tanto di sconcertante lotteria dei nomi: la donna, il giovane, l’outsider, l’uomo di esperienza, il tecnico, quello non sgradito … Manca solo la casalinga di Voghera e poi siamo a posto.
Se anche la prima carica dello Stato rientra nell’avanspettacolo è davvero un problema.
A proposito di legge elettorale, senza entrare nel merito dell’ultima proposta sul tavolo, basta ascoltare un qualsiasi tg negli ultimi giorni per far precipitare in caduta libera qualsiasi mento. Ciascuno cerca di scaricare sull’altro la responsabilità dello stallo. Da una parte, al Pd (che qualcuno già chiama PdL, Partito della Leopolda), la colpa di cambiare in corsa le regole di un patto del Nazareno, che nessuno ha mai visto scritto da nessuna parte. Per contro, la palla viene rilanciata nella metà campo dell’altro PdL, nel quale il leader non riuscirebbe più a tenere i suoi e dove, come profetizzato da Corrado Guzzanti, ognuno fa un po’ come gli pare.
La conclusione è che si sentono dichiarazioni modello premi un bottone, che potrebbero essere buone per qualsiasi argomento: “Se c’è la reale intenzione di sedersi al tavolo e dialogare costruttivamente per cercare una soluzione noi ci siamo, con tutta la determinazione e la coerenza che abbiamo sempre dimostrato”. Naturalmente sempre al servizio del Paese.
Immaginiamo che al termine delle illuminanti parole il cameraman, perché ormai è inutile un giornalista, sia pronto a dare uno zuccherino, come si fa con i cavalli di razza.
Per quanto ci riguarda, telecamere e taccuini potrebbero cominciare a fare a meno di inseguire questo bla bla da calo glicemico, anche solamente per vedere l’effetto che fa. Chissà che pure nelle redazioni non inizi una sana spending review e si usino risorse, professionalità ed intelligenze, per le notizie vere.
Nel frattempo, in questa bolgia si riaprono inaspettatamente dei varchi, ad esempio, per fare scendere la soglia di sbarramento fino al livello del prodotto interno lordo nazionale, così possono continuare ad entrare allegramente nella mangiatoia anche gli organismi monocellulari.
Un altro esempio imperdibile arriva dalla campagna elettorale per la Regione Emilia-Romagna.
Se qualcuno ha visto il Tgr in queste sere ha potuto ascoltare gli spot dei vari candidati.
C’è chi è per la valorizzazione del territorio, chi per favorire gli insediamenti produttivi, chi per la ricerca e l’innovazione, chi dinamicamente vuole il voto per voltare pagina e chi, anche in pochi secondi, incespica sulle poche parole.
Il massimo lo raggiunge quello che non resiste alla tentazione di dare una sbirciatina sul foglio che tiene rigorosamente fuori campo, lasciando trasparire dallo sguardo il panico di perdersi nel pur breve viaggio mentale tra un soggetto e il predicato verbale.
La sensazione, in generale, è di trovarsi di fronte a quel tale che tempo fa disse: “Non sono venuto da Lodi per lodarvi, né da Piacenza per piacervi. Sono venuto da Chiavari”.

LA TESTIMONIANZA
Fuga dal confine orientale

Fuga dal confine orientale è il senso di una tragedia dolorosa che il lunghissimo tempo della guerra fredda ha lasciato nell’ombra e che, a seguito della caduta del muro di Berlino e della dissoluzione della Jugoslavia del dopo Tito, si è pensato bene di ricordare e non solo per la storia ma per la profondità di sentimenti perduti.

Mi è capitato di leggere un piccolo libretto bianco*, offertomi in un incontro amichevole, dove il consegnatario si è spinto nel dire “…se hai tempo di leggerlo”, quasi a sottolineare che di quelle tragedie umane e familiari quasi nessuno si occupa più.
A riguardo, preme fare una carrellata sul contenuto del libro e coglierne i passi più significativi che debbono servire ad ognuno di noi, anche in questi anni difficili di convivenza, dove non sempre i sentimenti si colgono nelle persone.
D’altronde moltissimi ignorano quanto è accaduto ai confini orientali tra il ’43 e il ’45 e oltre (Dalmazia, Istria, Pola, Fiume), nulla si sa dell’esodo dei 350.000 profughi e dei 10.000 gettati nelle foibe realizzando la prima pulizia etnica del dopoguerra, per estinguere qualsiasi segno di italianità su quelle terre.

Ecco allora riportati alcuni brani:
“[…] ma mancano i soldi anche per comprare lo stretto necessario. La gente si lamentava sottovoce e solo con persone fidate perché c’era gran paura in giro. Ogni tanto spariva un amico, un parente o un conoscente senza lasciare nessuna traccia.”

“[…] nella mia famiglia, polenta e patate erano il cibo quotidiano, ma papà cercava sempre di rasserenarci facendo tacere ogni piccola voce discordante. Siamo italiani e dobbiamo rimanere tali, senza rinnegare niente, non dobbiamo lamentarci.”

“[…] era comune il dolore di lasciare gli amici e i luoghi cari della nostra infanzia. Quella notte non si è dormito. Si passava da un letto all’altro chiedendo: “ Tu cosa dici? Che cosa ci accadrà? Dove andremo?”.

“[…] ho subito l’amputazione degli affetti familiari, ho accettato la privazione della libertà, ho sopportato dure discipline ma la mia adolescenza così assoggettata mi ha formato e ne sono stato fiero: oggi mi sento moralmente obbligato a far da testimone di vicende che sono state tenute nascoste.”

“[…] ricordo ancora con un brivido, perché sento ancora nelle orecchie, il fischio dei proiettili sparati mentre raggiungevo il rifugio scavato nella roccia.”

“[…] Ora il mio filo di ricordi mi riporta là: ad ogni soffio di vento sento la bora, le stelle che vedo nel cielo sono le stesse del cielo della mia Fiume e sempre nel cuore li porterò.”

Che dire se non chiedere perdono e richiamare quanto detto recentemente: “… la nuova consapevolezza esige che le vicende dei confini orientali, con la dovuta conoscenza delle foibe, entrino a far parte della nostra formazione pedagogica”, e ancora, “… l’olocausto degli italiani di Istria e Venezia Giulia, uno dei punti più acuti delle tragedie che l’Europa ha conosciuto nel ‘900.”

E sulla pulizia etnica in questi mesi non mancano drammi e tragedie: dai Paesi africani al Medio oriente, dal Sud est asiatico a luoghi quasi sconosciuti, ma la coscienza degli uomini e le organizzazioni internazionali restano ancora nel silenzio.
Ma fino a quando dovremo lottare per la dignità umana? E’ la risposta che tutti siamo chiamati a dare, e non solo per pacificare la nostra coscienza.
La guerra sembra, ancora, un grido inascoltato.

* “Fuga dal confine orientale, memorie di in esilio. Ricordo di una tragedia dolorosa: un popolo, diversi destini” di Alceo e Nidia Ranzato (edizione in proprio)

Ecosistema urbano, verso
una mobilità a basso tasso
di motorizzazione

E’ stato di recente pubblicato il report annuale Ecosistema Urbano (XXI edizione) sulla vivibilità ambientale dei capoluoghi di provincia italiani realizzato in collaborazione con l’Istituto di Ricerche Ambiente Italia e Il Sole 24 Ore. Un tema di grande attualità e importanza. Dal rapporto emerge come le città italiane in cui si vive meglio sono Verbania, Belluno, Bolzano, Trento e Pordenone. Legambiente evidenzia come anche in queste città alcuni indicatori risultino non completamente positivi. Per Trento la criticità è data dall’inquinamento dell’aria, per Belluno e Verbania la salute della rete idrica e per Udine la depurazione delle acque. Purtroppo l’Emilia Romagna in passato punto di riferimento importante ora non c’è più.
Ecosistema Urbano, quest’anno si concentra in modo particolare sulla qualità delle politiche ambientali dei capoluoghi di provincia, per osservare come le amministrazioni locali gestiscono la mobilità, la gestione dei rifiuti e delle acque e, in generale, la qualità del proprio territorio. Le analisi di Legambiente evidenziano come le città italiane vadano a tre velocità: lente, lentissime e statiche. Gli indicatori selezionati da Legambiente sono 18 (104 capoluoghi di provincia italiani) così distribuiti: tre indici sulla qualità dell’aria (concentrazioni di polveri sottili, biossido di azoto e ozono), tre sulla gestione delle acque (consumi, dispersione della rete e depurazione), due sui rifiuti (produzione e raccolta differenziata), due sul trasporto pubblico (il primo sull’offerta, il secondo sull’uso che ne fa la popolazione), cinque sulla mobilità (tasso di motorizzazione auto e moto, modale share, indice di ciclabilità e isole pedonali), uno sull’incidentalità stradale, due sull’energia (consumi e diffusione rinnovabili).
Quattro indicatori su diciotto selezionati per la classifica finale (tasso di motorizzazione auto, tasso di motorizzazione moto, incidenti stradali e consumi energetici domestici) utilizzano dati pubblicati da Istat. L’intero rapporto è scaricabile sul sito di Legambiente.
Vittorio Cogliati Dezza, presidente nazionale di Legambiente, in premessa dice: “Quello che serve è una sintesi che superi la frammentazione e mostri una capacità politica di pensare e di immaginare un modo nuovo di usare il territorio e consumare l’energia, un altro tipo di mobilità a basso tasso di motorizzazione e con alti livelli di efficienza e soddisfazione, spazi pubblici più sicuri, più silenziosi, più salutari, più efficienti e meno alienanti, dove si creino le condizioni per favorire le relazioni sociali, il senso del vicinato, del quartiere, della comunità. Per imboccare questa strada serve un impegno del Paese, un piano nazionale che assegni alle città un posto di primo piano nell’agenda politica, una capacità reale di semplificare e delegiferare, migliorando i controlli.”

ECOSISTEMA URBANO
XXI Rapporto sulla qualità ambientale dei comuni capoluogo di provincia

L’INTERVISTA
Alleluja e Tresette, il western di George Hilton

George Hilton (al secolo Jorge Hill Acosta y Lara) è nato e vissuto in Uruguay, dove ha iniziato a lavorare giovanissimo come attore di teatro, sino a quando si è trasferito in Argentina (a Buenos Aires), per sviluppare la sua carriera artistica.
L’esordio nel cinema italiano risale al 1965 con “Due mafiosi contro Goldfinger” e “I due figli di Ringo”, due parodie con protagonisti Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, ma sarà con il successivo “Le colt cantarono la morte e fu… tempo di massacro”, di Lucio Fulci, che George Hilton inizierà a diventare uno dei protagonisti della fortunata stagione del cinema italiano, conosciuta come “Spaghetti-Western”.

Si è trattato di un filone cinematografico molto in voga nel periodo tra il 1964 e il 1978, un genere che rompeva la visione mitica ed epica del western classico, introducendo una struttura narrativa più dinamica, esasperando la violenza e lo spargimento di sangue al servizio dell’antieroe, quasi sempre privo di ideali e solitamente spinto da interessi personali o vendicativi. Basti pensare ai personaggi interpretati da Clint Eastwood nella trilogia del dollaro e da Franco Nero in “Django”, in contrapposizione agli “eroi” americani: John Wayne, Glenn Ford o al Gary Cooper di “Mezzogiorno di fuoco”. Il risultato di quest’operazione fu che i western made in Usa improvvisamente sapevano di muffa.
Caratterizzati da budget ridotti all’osso, gli “spaghetti” venivano spesso girati in Spagna, nel deserto di Tabarnas in Almería, altri invece furono ambientati ai confini tra Lazio e Abruzzo.
Tra le varianti più significate del genere ci furono il gotico, dove gli scenari cupi e cimiteriali sostituivano la tipica solarità degli scenari western (“I quattro dell’apocalisse” di Lucio Fulci), sino ad arrivare a peplum, brillante, thriller e al weir western, in cui potevano convivere cowboy e dinosauri.
Al genere è stato reso omaggio, nel corso della 64° Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia del 2007, con una retrospettiva di 32 titoli. Il padrino dell’operazione è stato il regista statunitense Quentin Tarantino.

george-hilton
Alleluja e Tresette

Nel 1967 George Hilton partecipa a sette produzioni del filone Western, tra cui “Il tempo degli avvoltoi” e “Professionisti per un massacro” di Nando Cicero, assumendo spesso il ruolo di protagonista e iniziando ad avere successo anche fuori dai confini nazionali.
In quel periodo diventa una delle maggiori star del cinema italiano, lavorando al fianco di Franco Nero, Klaus Kinski e Van Heflin. Il suo personaggio più noto è quello di Alleluja, creato dalla penna di Tito Carpi e dal regista pugliese Giuliano Carnimeo (si firmava con il nome di Anthony Ascott), protagonista di: “Testa t’ammazzo, croce… sei morto, mi chiamano Alleluja” e “Il west ti va stretto, amico… è arrivato Alleluja”.

george-hilton
Nel personaggio di Tresette

“Testa t’ammazzo …” segna una svolta nel western di Carnimeo, che comporta anche un cambiamento nella contestualizzazione storico-geografica; non sarà il West degli anni ottanta del XIX secolo, ma il Messico della seconda metà degli anni sessanta. George Hilton è l’interprete ideale di questo nuovo sottogenere, grazie al suo fare brillante e scanzonato. Il regista pugliese confezionerà su misura per lui il personaggio di Tresette: “Lo chiamavano Tresette… giocava sempre con il morto” del 1973 e “Di Tresette ce n’è uno, tutti gli altri son nessuno” del 1974.

george-hilton
Il carillon in “Lo chiamavano Tresette…”

Nel primo film incuriosisce l’enorme carillon che il protagonista porta con sé, chiaro riferimento al duello finale di “Per qualche dollaro in più” di Sergio Leone, dove si sfidano Clint Eastwood, Lee Van Cleef e Gian Maria Volontè. “Alleluja” e “Tresette” rappresentano l’evoluzione del western ironico di Enzo Barboni e dei personaggi di “Trinità”. Si tratta di film divertenti, senza pretese, ma dinamici e privi dei tempi morti, di cui gli emuli di Sergio Leone abbondavano nelle loro pellicole, per riempire evidenti vuoti di sceneggiatura.

Qualche domanda a George Hilton. Quali sono stati i registi più importanti con cui ha lavorato in Italia?
A Lucio Fulci devo il mio primo successo nel cinema con “Tempo di massacro” e a Enzo G. Castellari l’incremento di questo successo. Sergio Martino mi ha dato la possibilità di “cambiare pelle”, perché non si poteva vivere di solo western, soprattutto per un attore come me che veniva dal teatro.

Michelangelo Antonioni e Vittorio De Sica, cosa la lega a questi due grandi registi?
Ero tra i candidati per la parte di protagonista di “Professione reporter” di Antonioni, ma non ho potuto farlo perché la distribuzione americana impose Jack Nicholson. Per quanto riguarda il maestro De Sica, all’epoca mi convocò per interpretare una parte ne “Il giardino dei Finzi Contini” ma alla fine fu preferito Fabio Testi, perché ritenuto più adatto in quel ruolo.

Che ricordo ha di Franchi e Ingrassia, con cui ha lavorato agli inizi della sua carriera in Italia?
Di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia conservo un grande ricordo, sia come attori sia come amici.

Ha sempre avuto un buon rapporto con il suo pubblico, ieri le lettere e oggi Facebook…
Ho sempre avuto un grande feeling con i miei fan, ma oggi grazie a Facebook i contatti sono cresciuti ancora di più, fino al punto di ricevere ogni giorno un’infinità di attestati di stima, che mi fanno enorme piacere e di cui ringrazio tutti di cuore. Oggi dopo 60 film da protagonista, girati in tutto il mondo, mi sento un uomo appagato e fortunato. Ringrazio il destino che mi ha fatto venire in Italia, che è la mia patria di adozione.

L’EVENTO
Olga Peretyatko
a Bologna: una voce
per Rossini

Ennesimo viaggio, ennesimo articolo di giornale. Su una rivista patinata italiana scopro un evento importante e interessante a Bologna, con un altrettanto interessante artista.
Forse, vivendo a Mosca, sono particolarmente attenta agli scambi culturali italo-russi, ma per chi fosse nei paraggi, potrebbe essere davvero uno spettacolo unico, da non perdere. Tanto più che è gratuito (e interattivo) e che al Conservatorio di Mosca, dove canterà il prossimo 7 dicembre, non si trovano biglietti.

olga-peretyatko
Locandina dell’evento

Si tratta del soprano Olga Peretyatko, artista russa trentaquattrenne, innamorata del bel canto e di Rossini, in particolare, e italiana d’adozione, per il suo matrimonio con il maestro Michele Mariotti, direttore dell’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna, con il quale vive e lavora, in totale simbiosi. E si tratta dello spettacolo che si terrà al Teatro Manzoni di Bologna, il 15 novembre alle 18, intitolato “Una voce per Rossini”.

Figlia di un cantante lirico, Olga è nata e cresciuta sul palcoscenico, nella romantica, leggiadra e artistica San Pietroburgo, iniziando la sua carriera musicale all’età di 15 anni, nel coro giovanile del celebre teatro Mariinsky. Ha proseguito i suoi studi presso la Hanns Eisler-Hochschule für Musik di Berlino e vinto numerosi premi internazionali. A partire dal 2007, si è esibita al Deutsche Oper Berlin, al Théâtre des Champs-Elysées a Parigi, a La Fenice di Venezia, al festival dell’Opera di Rossini di Pesaro, al Festival La Folle Journée di Nantes.

olga-peretyatko
In scena

Ha guadagnato l’attenzione internazionale grazie a l’”Usignolo”, la prima opera teatrale scritta da Igor Stravinskij, nell’acclamata produzione di Robert Le Page alla prima del Festival di Aix-en-Provence nel 2010, e alla sue successive performance a Toronto, New York, Lione e Amsterdam. Ha ricoperto il ruolo di Adina ne “L’elisir d’amore” a Lille, di Lucia di Lammermoor al Teatro Massimo di Palermo, di Gilda nel Rigoletto a La Fenice di Venezia. Nel 2011, Olga Peretyatko ha debuttato come Giulietta (“I Capuleti e i Montecchi”) a Lione e Parigi, nel 2014, alla Scala di Milano (nel ruolo di Marfa, in “Una sposa per lo Zar”), e al Metropolitan di New York (nel ruolo di Elvira, ne “I Puritani”), nel 2015, sarà Violetta nella “Traviata” all’Opera di Losanna. Il soprano ha un contratto con una nota casa discografica e il suo primo cd singolo “La Bellezza del Canto” con arie di Rossini, Verdi, Donizetti, Massenet e Puccini, del 2011, è stato accolto da grande successo di pubblico e critica. Lo stesso per il suo secondo album, “Arabesque”, dell’estate 2013. Oggi è nota e applaudita.
In un’intervista, il soprano ha dichiarato: “devo molto all’Italia, e in particolare a Rossini, perché tutto è iniziato a Pesaro, nell’estate 2006, quando Alberto Zedda mi scelse per interpretare la Contessa di Folleville nel Viaggio a Reims realizzato dalla sua Accademia rossiniana. E già in quell’occasione suonava l’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna. Con questa serata, voglio ringraziare anche loro, che mi sono stati vicini fin dall’inizio della mia carriera, oltre a Bologna, che poi è diventata la mia città”.

“Una voce per Rossini”, Olga Peretyatko a Bologna in uno show multimediale, orchestra del Teatro comunale di Bologna, direttore da Alberto Zedda.

Dalla funambolica aria della Contessa di Folleville, dal Viaggio a Reims alla scena del carcere, dal Tancredi, passando per la grandiosa pagina “Bel raggio lusinghier”, durante la quale Semiramide attende l’arrivo dell’amato. C’è l’eterna e multiforme musica di uno dei più amati compositori italiani al centro dello spettacolo multimediale “Una voce per Rossini”, in programma sabato 15 novembre alle 18 al Teatro Manzoni di Bologna, con ingresso libero fino a esaurimento dei posti disponibili. Protagonista il soprano russo Olga Peretyatko, insieme all’Orchestra del Teatro Comunale cittadino diretta da Alberto Zedda.  [vedi]

La censura, da Totò
a Marlon Brando

Nelle nostre società più evolute gli artisti sono liberi nella loro espressione. Eppure in Italia un film, per poter essere proiettato in sala, ha bisogno di un nulla osta che viene rilasciato da una Commissione di ‘esperti’ del Ministero beni attività culturali e turismo, Direzione cinema.
Il nulla osta si può non concedere, negando dunque ad un autore/artista la possibilità di mostrare al pubblico la sua opera e causando un enorme danno economico alla produzione.

censura-cinema
Locandina dell'”Ultimo tango a Parigi”

Il caso forse più clamoroso fu nel 1972 con “Ultimo Tango a Parigi” di Bernardo Bertolucci: “la commissione non può non rilevare con vivo rincrescimento, come la crudezza e la virulenza del dialogo e l’audacia e lo spinto realismo di talune sequenze si risolvano in una indiscutibile offesa a quel buon costume […]esprime parere contrario alla sua proiezione in pubblico.” Solo dopo una serie di tagli fu concesso il divieto ai 18 anni, peraltro un solerte magistrato arrivò al vero e proprio rogo delle pizze e il film fu recuperato grazie ad una copia privata nell’archivio del regista tedesco Reiner Fassbinder.

censura-cinema
Locandina di “Totò che visse due volte”

Stessa sanzione subì il film di Ciprì e Maresco “Totò che visse due volte”, per il quale nel non lontano 1998 così ci si espresse: “Si ravvisa una forzatura che vuole degradare la dignità del popolo siciliano […] offensivo del buon costume […] esplicito atteggiamento di disprezzo per il sentimento religioso, squallore di scene sacrileghe e di sessualità perversa e bestiale […]”. Toni da Inquisizione che si commentano da soli. Alla fine il Consiglio di stato, cui ricorsero, riconobbe il loro diritto.

 

censura-cinema
Locandina di “Totò e carolina”

Fu censurato anche Monicelli, che disse: “Il più massacrato dei miei film, e forse più di tutti i film dell’epoca, è “Totò e Carolina”, in cui c’era una satira della polizia, del clericalismo e una specie di esaltazione umoristico-comica delle sezioni comuniste.”
Per inciso, moltissimi film di Totò furono peraltro censurati con divieti 14/16/18 anni, povero Principe De Curtis…
Ancora nel 2012 è stato negato il nulla osta a un piccolo film indipendente, parodia dello splatter, “Morituris”, facendone peraltro la fortuna come pubblicità, perché “negli atti di violenza viene impiegato un topolino come oggetto sessuale”, la commissione non colse evidentemente la ironia.
Ma il danno forse maggiore deriva dal Testo unico della radiotelevisione, che prevede che i film vietati ai 14 possano andare in onda solo dopo le 22,30, e quelli ai 18 solo dopo la mezzanotte. La autocensura dei produttori e degli autori è immaginabile: avere o no un divieto fa infatti cambiare radicalmente il valore commerciale del film, inducendo gli autori ad una prudenza che spesso nuoce alla loro libera espressività.

Nonostante i recenti tentativi riformatori dei ministri Veltroni e Urbani, la censura resta lì. E considerando le frontiere illimitate del web, dell’home video etc., appare oramai anacronistica e obsoleta. Pronta però ad artigliare la libertà degli autori più coraggiosi o eretici, e quella del pubblico, cui viene negata la libertà di scelta.

Il gioco stavolta è indovinare il film nel quale è detta la battuta e l’attore che la pronuncia. In qualche caso tra parentesi un suggerimento… per le risposte clicca qui.

1) “La più sorprendente scoperta che ho fatto subito dopo aver compiuto sessantacinque anni è che non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare!”

2) “Molti uomini hanno vita di quieta disperazione: non vi rassegnate a questo, ribellatevi, non affogatevi nella pigrizia mentale, guardatevi intorno. Osate cambiare, cercate nuove strade.” [leggi la risposta]

3) “Amare significa non dover mai dire mi spiace”

4) “Un tizio che faceva un censimento una volta provò ad interrogarmi. Mi mangiai il suo fegato con un bel piatto di fave ed un buon Chianti”

5) “Mamma diceva sempre: la vita è come a una scatola di cioccolatini, non sai mai quello che ti capita.”

6) “Io ho viste cose che vuoi umani non potreste immaginarvi… e tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. E’ tempo di morire.”

7) “Ma tu conosci il tedesco? ‘No, ma me lo immagino.” (Un classico della commedia italiana, uno dei

8) “È la storia della mia vita: se c’è una ciliegia col verme, tocca sempre a me.” (Il più famoso film della più amata di Hollywood)

9) “Pare che tu sappia molte cose di me… sai che non porto le mutandine, non è così Nick?”

10) “Voi gridavate cose orrende e violentissime e voi siete imbruttiti. Io gridavo cose giuste e ora sono uno splendido quarantenne.”

11) “Quando un uomo con la pistola incontra un uomo con il fucile, quello con la pistola è un uomo morto.”

12) “Non mi assomiglia pe’ gnente.”

IL FATTO
L’India e il ministero dello Yoga

Nell’ambito di un rimpasto di governo, ieri, il premier indiano, Narendra Modi, ha istituito un dicastero che avrà il compito di promuovere le pratiche ascetiche e meditative e le medicine tradizionali, in particolare Ayurveda, Yoga, Unani, Siddha e Omeopatia (si chiamerà Ministero dell’AYUSH). È la prima volta che un tipo di medicina ascetica e non tradizionale copre un ruolo ministeriale indipendente dalla Sanità pubblica. E poteva accadere solo in India.
Modi, vegetariano e salutista, pratica lo yoga da sempre, ogni giorno al su risveglio alle 4h30, e vorrebbe che il mondo intero riconoscesse il valore di questa pratica. A settembre scorso, aveva persino chiesto all’Onu di considerare la proclamazione di una ‘giornata mondiale dello yoga’. In occasione dell’incontro con Obama, durante il viaggio in America, il presidente indiano ha vantato con lui i meriti di questa disciplina indiana tradizionale. Intervenendo domenica scorsa in occasione del congresso mondiale dell’ayurvedica, medicina tradizionale praticata in India, il primo ministro ha dichiarato: “lo yoga ha acquisito un riconoscimento mondiale per coloro che vogliono vivere senza stress e scelgono di avere un approccio olistico della salute (…) La medicina ayurvedica porterà agli stessi risultati se sarà presentata in modo corretto come stile di vita”. Per la gioia dei milioni di praticanti lo yoga nel mondo.

Ayurveda: medicina tradizionale utilizzata in India fin dall’antichità.
Yoga: pratiche ascetiche e meditative. Nel linguaggio corrente, s’intende un insieme di attività che spesso poco hanno a che fare con lo Yoga tradizionale, che comprendono ginnastiche del corpo e della respirazione, discipline psicofisiche finalizzate a meditazione o a rilassamento.
Unani: forma di medicina tradizionale praticata nei paesi mediorientali e del sud asiatico.
Sidda: termine sanscrito che significa «realizzato, ottenuto o perfetto». Secondo la filosofia indiana, il Siddha è colui che ha raggiunto la perfezione.
Omeopatia: medicina naturale, non convenzionale.

Principali tipi di Yoga
Lo yoga, come tutte le discipline di ricerca di sé stessi, dovrebbe iniziare con un rituale, preciso e sempre uguale, che “circoscrive” e focalizza le energie positive, crea uno spazio “sacro” in cui il praticante può liberamente muoversi, “sacralizzando” così tutto ciò che esegue. Anche i grandi saggi di tutte le tradizioni iniziatiche insegnano che uno spazio è sacro, nel momento in cui è dichiarato tale. Praticando yoga in una stanza è importante cambiare l’aria e accendere un bastoncino d’incenso. Si può mettere una ciotola d’acqua ai quattro lati, per purificare le quattro porte della vita: i punti cardinali. Ci si rivolge al Cielo sopra di noi e alla Terra sotto che sostiene, poi al Sud, all’Ovest, al Nord e all’Est, con la coscienza che a Est sorge il sole, quindi è da quel punto che inizia la nascita dell’adepto e il suo conseguente cammino verso la conoscenza.

Ci sono vari tipi di Yoga:
Il Karma Yoga, lo yoga dell’azione, si fonda sul servizio disinteressato: il praticante si dedica ad agire senza aspettarsi il frutto delle proprie azioni, ovvero agisce per il bene comune, per migliorare l’ambiente intorno a sé e aiutare il prossimo senza fini egoistici.
Il Jinana Yoga, lo yoga della conoscenza, si è sviluppato attorno allo studio sistematico delle scritture antiche legate allo yoga.
Il Bhakti Yoga, lo yoga della devozione, si sviluppa attorno alle pratiche appunto “devozionali”. La devozione è l’emozione che si sperimenta quando il nostro cuore comincia a battere con il ritmo dell’Amore Incondizionato.
L’Hata Yoga, forse il più conosciuto, in quanto si sviluppa intorno alle asana, le posizioni, e alle tecniche di respirazione, pranayama. Oggi è spesso praticato in modo semplificato nelle palestre ma anticamente comprendeva esercizi anche estremi volti a provocare un radicale cambiamento nella fisiologia corporea per portare la mente verso stati di coscienza particolari.
Il Raja Yoga, lo yoga regale, è il processo meditativo con tutte le sue parti e diversi yogi nel corso dei secoli si sono dedicati e si dedicano a questo modo di praticare, ritirandosi sulle montagne e nelle foreste in isolamento per potersi dedicare totalmente alla meditazione.
Il Laya Yoga, la pratica del riassorbimento: attraverso particolari tecniche meditative, si apprende a riassorbire la mente nei livelli più interni dell’esistenza individuale favorendo l’espansione della coscienza.
Il Nada Yoga, lo yoga del suono, attraverso il quale si può raggiungere uno sviluppo della propria coscienza.
Il Svara Yoga, si basa sulla consapevolezza del flusso del respiro attraverso le narici e ha lo scopo di guidare il praticante nel compiere le varie attività della vita quotidiana in modo che siano sincronizzate con il flusso dell’energia vitale.

Il moralismo in cattedra

Concedetemi di dedicare la pagina della Città della Conoscenza di questa settimana all’espressione di tutta la mia indignazione. Almeno per chiedere scusa io, cittadino qualunque di questo Paese ormai spento e arenato, al giovane Daniele Doronzo, 17 anni di Barletta, perché certamente la scuola e le istituzioni non lo faranno.
Della sua vicenda si è occupata Repubblica, giovedì 6 novembre, con un bell’articolo in prima pagina di Giuliano Foschini.
Daniele è giovane, per tutti un ragazzo non ordinario, davvero un genio della fisica. Il suo sogno è fare uno stage al Cern e, sebbene non ancora diplomato, ci riesce. Per tutto il tempo dello stage è seguito da Gabriella Pugliese, dell’Istituto nazionale di fisica nucleare di Bari, che racconta come ancora oggi al Cern continuino a chiedere di lui. Persino la dottoressa Fabiola Gianotti, ora nuovo direttore del Cern, ne è rimasta subito colpita.
Ma Daniele frequenta una scuola ‘falsa amica’, il liceo classico di Barletta. La passione per la fisica non lo trattiene, non solo vuole andare al Cern, ma anche prepararsi all’ingresso nelle università americane. Per fare questo gli è necessario anticipare di un anno la maturità, del resto la legge lo consente a tutti gli studenti che negli anni precedenti hanno conseguito almeno otto in ogni materia.
È giusto il caso di Daniele, studente brillante. Ma Daniele dal punto di vista del comportamento lascia a desiderare, arriva a scuola in ritardo e in gita scolastica ha ‘persino osato’ sfidare i professori facendo un bagno in mare. Daniele va punito con un sette in condotta e, nonostante la sua bravura, anche con un sette nella sua materia preferita, la fisica. La punizione deve essere esemplare, soprattutto agli occhi degli altri alunni. Come conseguenza Daniele non può anticipare l’esame di Stato e deve dire addio ai suoi sogni.
Daniele al Cern ci è andato ugualmente, perché quegli adulti intelligenti che non ha incontrato nella scuola, fortunatamente li ha trovati al di fuori; inoltre, a proposito di ‘brain drain’, ora Daniele è in America a San Francisco per prepararsi agli esami.
In questa storia la nostra scuola e gli insegnanti ci fanno una figura da ‘ignoranti’, da ‘capre’, come direbbe Sgarbi, uno delle mie parti.
Capite la confusione? È come mescolare pere con patate. La scuola italiana è ancora questa, tu potrai anche essere un genio, ma se non rispetti la disciplina, prima di tutto devi essere educato! Ecco il vizio d’origine del nostro sistema scolastico: educare anziché istruire. Lo diceva un ministro dell’istruzione del regno, già nel lontano 1894, un certo Guido Baccelli: “Istruire il popolo quanto basta, educare più che si può”.
Non si tratta di uno dei tanti fatti di colore a cui il nostro Paese è ormai avvezzo. I docenti hanno ritenuto loro dovere abbassare la media dei voti di Daniele, a prescindere dal suo profitto. La motivazione? “Ci sfidava, il nostro compito non è promuovere i talenti ma educarli”.
Sì, avete letto bene, alla faccia del successo formativo! Non promuovere i talenti? Ma dove siamo? E noi cittadini dovremmo pagare una simile scuola, un simile preside e simili insegnanti, con l’arroganza di presumere d’aver ragione? Cosa ce ne facciamo di questa scuola che tutto uniforma ed omologa al ribasso?
Disciplina e profitto si mescolano indifferentemente in un unico calderone. La scuola non ha il suo articolo 18 che tuteli gli studenti dalla stupidità di certi insegnanti e di certi ministri.
Anzi i giovani sono mine vaganti che vanno controllati ed educati, perché ancora nel terzo millennio c’è qualcuno che pensa che sono più importanti le convenzioni dell’istruzione.
Il caso di Daniele per la sua enormità ha raggiunto le cronache nazionali, ma è solo emblematico di una situazione più diffusa di quanto si creda. Di un moralismo d’accatto che ancora spira il suo vento in molte delle nostre scuole.
Una scuola moralista e burocrate che certifica non il tuo sapere reale, ma la tua condotta sociale, non di adulto, ma di ragazzo che cresce, che deve ancora conquistare se stesso e tutto della vita, messo di fronte al tribunale di adulti incapaci di educare, perché incapaci prima di tutto di essere degli autentici educatori.
Ma la questione va raccontata tutta fino in fondo. Perché nel nostro paese dal 2009 vige il Dpr n.122, voluto dall’allora ministro Gelmini, con il quale è stato introdotto il cinque in condotta e il principio che la condotta faccia media con le altre discipline. Si è data così legittimità ad un’aberrazione didattica e educativa, proprio nel luogo per eccellenza deputato all’istruzione, per cui il numero delle pere può fare media con il numero delle patate.
“Si torna, dunque, a una scuola del rigore che fa del comportamento un elemento significativo per formare la personalità dei ragazzi” dichiarò allora il ministro.
Il comportamento che fa media con il profitto, l’ossessione di piegare il ramo storto della gioventù. La punizione che non distingue, che non dialoga, che è stupida perché non si limita a sanzionare la tua condotta, ma si spinge fino a mortificare e umiliare la tua intelligenza. Qualcosa che proprio nella scuola non avrebbe mai dovuto trovare una simile cittadinanza.
Ciò che preoccupa di più è che nessun proclama di renziana ‘buona scuola’ può oggi essere credibile, se non si esprime chiaramente innanzitutto la volontà di mettere mano a questo decreto così bislacco, perché la sua permanenza legittima qualunque presunta ‘buona scuola’ ad essere per davvero una ‘scuola cattiva’.

Domani alla Sala Estense “Feltrinelli. Una storia contro”

da: ufficio Comunicazione ed Eventi Unife

Prosegue il ciclo Passato Prossimo. Pagine recenti di storia costituzionale, promosso dal Dottorato di ricerca in Diritto costituzionale dell’Ateneo, con lo spettacolo teatrale “Feltrinelli”. Una storia contro, del regista e attore Mauro Monni. Attraverso la parabola umana, politica e culturale del miliardario editore anarchico Gian Giacomo Feltrinelli, lo spettacolo restituisce la dinamica degli eventi politici e istituzionali del nostro paese, in quella stagione che passò sotto il nome di strategia della tensione.

Lo spettacolo si terrà presso la Sala Estense (Piazzetta Municipale, Ferrara), martedì 11 novembre, con inizio alle ore 21.00. L’ingresso è libero.

Quanto agli incontri presso la Libreria IBS.it Bookshop (Piazza Trento e Trieste, Ferrara), il prossimo appuntamento in calendario sarà venerdì 14 novembre, alle ore 17.00. Tema: la stagione dei diritti. A partire dalla biografia di Franco Basaglia scritta da Oreste Pivetta, si discuterà della legge n. 180 del 1978 e della chiusura dei manicomi negli anni dell’affermazione dei diritti civili e sociali. Interverranno, oltre all’Autore del libro, i costituzionalisti Giuditta Brunelli e Andrea Pugiotto, e l’attore Marcello Brondi.

L’OPINIONE
Acqua: almeno 70 miliardi per i prossimi 30 anni. Alla ricerca di investimenti e buone pratiche

Sul tema dell’acqua è utile continuare a parlare. Recentemente ad H2O vi sono state occasioni importanti di approfondimento. Quello dell’idrico è un settore a elevato fabbisogno di investimenti il cui finanziamento è stato storicamente sostenuto da contributi pubblici erogati dalle amministrazioni centrali e periferiche, talvolta anche messi a disposizione dalle istituzioni comunitarie, accanto alle risorse reperite dai gestori. Tra i vari studi sul tema merita una particolare citazione quanto elaborato e presentato da RefRicerche. Ne sintetizzo i contenuti sul consistente fabbisogno di investimenti da un lato, e l’esigenza di finanziare quegli investimenti.
Secondo una stima basata sulla pianificazione vigente il fabbisogno del settore per i prossimi 30 anni sarebbe di circa 70 miliardi di euro, stima peraltro sottostimata secondo gli analisti di Ref e certamente ben lontana dagli 80 euro/abitante/anno che si investono mediamente nei paesi Ocse. Serve una scala finanziaria efficiente nel servizio idrico, dice Ref. Il finanziamento delle opere del servizio idrico dovrà poter contare sull’apporto di risorse da parte di privati: istituti di credito, fondi pensione, assicurazioni, fondi infrastrutturali. Per le realtà minori una serie di strumenti finanziari, quali mini bond e hydro bond, non conosce ancora un adeguato sviluppo. La finanza di progetto presuppone dimensioni apprezzabili e una solida cultura finanziaria e manageriale. Consolidamento e capacità di fare rete sono gli ingredienti di un percorso di ricerca della scala finanziaria “efficiente”. Possono sembrare temi complessi e lontani dai cittadini, ma in verità rappresentano il cuore del problema per una corretta gestione del ciclo idrico integrato.

Tradizionalmente gli investimenti nel settore idrico hanno potuto contare principalmente sul sostegno di contributi pubblici, un apporto di risorse contrattosi nel tempo che, ragionevolmente, non sarà sufficiente a fronte dell’ingente fabbisogno del settore nei prossimi anni. Sarà dunque sempre più necessario favorire l’intervento di finanziatori privati e ricorrere agli strumenti più adeguati presenti sul mercato per colmare il deficit di investimenti che caratterizza il servizio idrico integrato in Italia. Per finanziare le infrastrutture, osservano gli analisti, le aziende possono ricorrere a capitale di debito. Una prima via possibile, in questo caso, è quella della finanza aziendale (credito bancario, prestiti obbligazionari), in cui “la garanzia del creditore è l’insieme dei flussi di cassa dell’impresa e viene monitorato il rapporto tra debito e patrimonio netto, tra margine operativo lordo, oneri finanziari e debito”. Nel caso del credito bancario, l’accesso è fortemente limitato per le piccole gestioni, in particolare quelle monoservizio; sono soprattutto le grandi aziende, adeguatamente strutturate e patrimonializzate, a beneficiare del credito bancario, con rare eccezioni. Per le realtà minori, che incontrano difficoltà ad accedere al credito, si è aperta negli ultimi anni la via dei mini bond e hydro bond. In alternativa alla finanza aziendale, si può ricorrere alla finanza di progetto , che implica “un elevato livello di indebitamento in rapporto al patrimonio netto” e assume il flusso di cassa dell’opera a garanzia del rimborso.
Può essere attivata per un singolo progetto o per un insieme di opere afferenti a un’unica concessione (concession finance). “A causa del maggiore rischio connaturato allo strumento – spiegano gli analisti di Ref Ricerche – il project finance è un canale di finanziamento riservato a istituti di credito o a investitori con un mandato di sostegno agli investimenti nei settori di pubblica utilità”. Infine i project bond, obbligazioni destinate a finanziare progetti infrastrutturali di pubblica utilità che possono essere emessi dai concessionari di infrastrutture e servizi e dalle società titolari di un contratto di partenariato pubblico-privato. I project bond possono anche essere utilizzati come modalità di rifinanziamento del project financing quando le opere sono già realizzate. Questi strumenti, spiegano gli analisti, “non hanno ancora trovato sviluppo, principalmente perché più onerosi rispetto alle emissioni di obbligazioni in ragione della necessità di un rating del progetto. Gli investitori istituzionali sembrano poi non gradire molto il progetto in fase di costruzione laddove il merito di credito è ancora inferiore al giudizio di investment grade”.
Sono temi complessi da seguire e forse di alta finanza, ma vanno considerati seppur nel rispetto di un principio cardine: l’acqua è un bene primario, legato all’ambiente, alla salute e alla vita dell’uomo, su cui è necessario affermare il controllo pubblico: dunque, la proprietà pubblica dell’acqua è un principio inderogabile. Non è un prodotto commerciale, bensì un patrimonio che va protetto difeso e trattato come tale .
A titolo esemplificativo ripropongo gli investimenti prioritari per il settore acquedotto ed a seguire quelli per fognatura e depurazione.
Con riferimento al solo settore acquedottistico, si evince un fabbisogno in termini di aumento della sicurezza del rifornimento e di contributo alla tutela quantitativa degli acquiferi. Bisogna raggiungere e mantenere nel tempo un livello appropriato di riserva di potenzialità degli impianti di produzione rispetto ai valori attuali e a quelli previsti di domanda; bisogna favorire la differenziazione delle fonti primarie utilizzate, mediante la valorizzazione delle risorse disponibili localmente, lo sviluppo di nuove fonti di rifornimento da acque superficiali, una maggiore integrazione delle diverse reti di adduzione principale; ma soprattutto è necessaria una tutela più rigorosa della qualità degli acquiferi mediante la gestione controllata degli emungimenti e delle aree di salvaguardia. Per quanto attiene invece gli investimenti prioritari in fognatura e depurazione si rendono necessari notevoli investimenti infrastrutturali sugli impianti di depurazione e sulla razionalizzazione delle fognature, privilegiando sistemi di collegamento sovracomunali. Nei territori vi è spesso un elevato numero di piccoli agglomerati che necessitano opportuni adeguamenti; si deve promuovere un graduale incremento degli investimenti nel settore depurazione destinati a tale voce. Si registra infatti spesso un certo ritardo rispetto ai limiti temporali fissati dalla normativa.

In grande sintesi servono interventi per razionalizzare, potenziare e migliorare la qualità della rete acquedottistica; per razionalizzare ed adeguare il sistema depurativo; per adeguare gli scarichi, ai sensi della Dgr n.2241/2005; per migliorare l’efficacia del servizio di reti acquedottistiche e fognarie ; per eseguire lavori urgenti di mantenimento ed emergenza, con particolare riguardo alle opere fognarie e depurative e alla riduzione delle perdite negli acquedotti; per completare il sistema informativo territoriale delle reti e degli impianti destinati all’erogazione del servizio idrico integrato. Insomma c’è molto da fare.

L’APPUNTAMENTO
E venti! Feltrinelli festeggia a Ferrara
fra libri e autori

Da Tiziano Scarpa ad Alessandro Baricco: un cartellone di appuntamenti dedicati a chi ama la scrittura e la lettura per festeggiare i 20 anni della libreria Feltrinelli, a Ferrara in via Garibaldi 30. L’iniziativa è promossa dalla libreria cittadina – diretta da Erika Cusinatti – con associazione culturale Gruppo del Tasso – diretta da Matteo Bianchi – e Comune, Provincia di Ferrara, Ente Palio, associazione Pietre Alate.

L’idea è quella di trasformare quest’occasione in una sorta festival cittadino, con l’obiettivo di consolidare la tradizione Feltrinelli nel tempo e promuovere cultura a partire da una realtà privata. La rosa dei personaggi coinvolti nel progetto è molto varia per iniziative e contenuti: dalla letteratura alla musica, passando per televisione e cucina. Iniziativa cardine sarà la possibilità, durante tutto il mese di novembre, di acquistare un libro e donarlo alla scuola materna Aquilone di Ferrara. In mostra, intanto, una carrellata di fotografie sul Palio ferrarese.

Alessandro Baricco sarà ospite venerdì 21 novembre al cinema Boldini con il suo monologo Novecento, edito proprio vent’anni fa da Feltrinelli, ma sabato scorso c’è stato anche Tiziano Scarpa e, in occasione del giorno del compleanno – mercoledì 12 – lo “Swing ai frutti rossi” del Trio del Conservatorio Frescobaldi con Scavo, Colloca e Zattini. La chitarra di Leonardo Veronesi (sabato 29 ore 17.30 e domenica 30 ore 11), poesia con Paolo Ruffilli (domenica 16, ore 11), Massimo Scrignòli (sabato 29, ore 11) e Giancarlo Pontiggia (domenica 23, ore 11), fumetti e fantasy con Alberto Amorelli e il disegnatore Alberto Salis (sabato 15, ore 11), noir con Stefano Bonazzi e Paolo Panzacchi (sabato 15, ore 17.30), burattini con Davide Bregola (domenica 23, ore 17.30) e letteratura per ragazzi con Luigi Dal Cin (domenica 16, ore 17.30), storie di vita con Eraldo Baldini (giovedì 27, ore 17.30), Francesca Viola Mazzoni (sabato 22, ore 11) e Alessandro Mastroluca (venerdì 21, ore 17.30), autobiografie con Kitty Vinciguerra e Laura Corsini (venerdì 14, ore 17.30), gialli e psicologia con Romano De Marco (domenica 22 alle 17.30 in libreria e alle 20.30 al ristorante L’Orlando), scuole letterarie con Martino Gozzi (venerdì 21 alle 21 al Boldini con Baricco) e novità con Giovanni Montanaro (mercoledì 19, ore 21), autore esordiente di Feltrinelli.

ventennale-feltrinelli-ferrara
Vincent Zandro alla libreria Feltrinelli di Ferarra

Guest inaugurale, martedì scorso, Vincent Zandri che ha preso parte all’evento cittadino presentando in anteprima “Moonlight Sonata”, il suo primo poliziesco tradotto in italiano edito da Meme Publishers, originale casa editrice che punta sul mercato digitale con sede tra Ferrara e Parigi e partner della manifestazione in rosso. Detective story contemporanea dal gusto noir incentrato sulle vicende del poliziotto Dick Moonlight intriso di musica e malinconia, humour e realismo cittadino in una Albany in bilico tra bucolico e Far West contemporaneo, in cui la maggior parte degli abitanti possiede un’arma; dai locali affollati di fumo e gente che si ubriaca, malavitosi e scrittori alternativi – veri personaggi lost-in-time, il soggetto ha convinto Marco De Luca, direttore editoriale di Meme, che ha proposto un accordo di edizione aggiudicandosi l’esclusiva dei suoi prossimi romanzi.

La direttrice del punto vendita Erika Cusinatti punta molto sull’angolo riservato agli scrittori ferraresi, a ora vanto esclusivo del punto Feltrinelli della città estense. “L’eterogeneità – dice – è un tratto distintivo anche del nostro pubblico: tra saggistica e narrativa, la libreria è frequentata da studenti universitari e persone che amano farsi consigliare sul libro da scegliere. Una linea particolarmente curata è quella dedicata ai bambini da 0 a 6 anni. Una prerogativa a ora solo nostra, di cui andiamo fieri, è poi l’angolo dedicato agli autori ferraresi, tanto di fama già consolidata quanto di autori esordienti, a cui abbiamo associato una gigantografia bicolore del Castello Estense, icona di Ferrara”.

Ecco una piccola carrellata di immagini legate alla libreria Feltrinelli cittadina di due soci del Fotoclub Ferrara: GIORGIA MAZZOTTI e STEFANO PAVANI.

[clicca le immagini per ingrandirle]

libreria-feltrinelli-ferrara-via-garibaldi-20-anni
Feltrinelli Ferrara compie 20 anni: la direttrice Erika Cusinatti con lo scrittore Tiziano Scarpa (foto di Stefano Pavani)
libreria-feltrinelli-ferrara-via-garibaldi-20-anni
Feltrinelli Ferrara compie 20 anni: la direttrice Erika Cusinatti con lo scrittore Tiziano Scarpa (foto di Giorgia Mazzotti)
libreria-feltrinelli-ferrara-via-garibaldi-20-anni
Feltrinelli Ferrara compie 20 anni: la direttrice Erika Cusinatti, lo scrittore Tiziano Scarpa e il direttore del Gruppo del Tasso Matteo Bianchi (foto di GIORGIA MAZZOTTI)
libreria-feltrinelli-ferrara-via-garibaldi-20-anni
Ingresso della libreria Feltrinelli di Ferrara (foto di STEFANO PAVANI)
libreria-feltrinelli-ferrara-via-garibaldi-20-anni
Libreria Feltrinelli di Ferrara: persone (foto di Giorgia Mazzotti)
libreria-feltrinelli-ferrara-via-garibaldi-20-anni
Libreria Feltrinelli di Ferrara: persone (foto di Giorgia Mazzotti)
libreria-feltrinelli-ferrara-via-garibaldi-20-anni
Libreria Feltrinelli di Ferrara: persone (foto di Stefano Pavani)
libreria-feltrinelli-ferrara-via-garibaldi-20-anni
Libreria Feltrinelli di Ferrara: persone (foto di Stefano Pavani)
libreria-feltrinelli-ferrara-via-garibaldi-20-anni
Libreria Feltrinelli di Ferrara: persone (foto di Giorgia Mazzotti)
libreria-feltrinelli-ferrara-via-garibaldi-20-anni
Libreria Feltrinelli di Ferrara: frequenze di passaggio (foto di Giorgia Mazzotti)
libreria-feltrinelli-ferrara-via-garibaldi-20-anni
Libreria Feltrinelli di Ferrara: frequenze di passaggio (foto di Giorgia Mazzotti)
libreria-feltrinelli-ferrara-via-garibaldi-20-anni
Libreria Feltrinelli di Ferrara: frequenze di passaggio (foto di Giorgia Mazzotti)

LA SEGNALAZIONE
A tu per tu con Karl Marx

È un Karl Marx squisitamente umano quello che il pubblico si ritrova davanti in questi sabati sera al Teatro Off di Ferrara. Il leggendario Marx, interpretato da Marco Sgarbi con naturalezza e autenticità, ‘si fa uomo’ e si mette a nudo raccontando della propria vita, della sua amata moglie Jenny di cui dice «quello che lei ha fatto per me è di un valore incalcolabile», delle tre carissime figlie sopravvissute alla miseria, degli altri tre scomparsi precocemente, oltre che dell’esperienza dei bassifondi di Soho, a Londra, che ne ispirarono i famosi scritti di denuncia e di analisi sociale ed economica del sistema capitalistico.
Con la pièce di Howard Zinn “Marx a Soho” si ha il piacere di incontrare un Marx ironico e disincantato, che arriva a dire «Mettetevi in testa una cosa: non sono marxista!» prendendo di fatto le distanze dal personaggio creato ad hoc dagli adulatori e dalle manipolazioni del suo pensiero.
Lo spettacolo, diretto da Giulio Costa, ha un’impostazione particolare, fortemente incentrata nel creare relazioni sia con il personaggio che con il pubblico, con cui si cerca un rapporto costante durante la rappresentazione.
Anche a fine spettacolo gli spettatori vengono direttamente coinvolti per una chiacchierata con l’attore; così a fine monologo Marco Sgarbi smette i panni di Marx e arriva sul palco con in mano una tazza di tisana a base di acqua, miele e limone, e si comincia a parlare della messa in scena appena vista. Tante, incalzanti e attente le domande degli spettatori/interlocutori che chiedono prima di tutto come sia riuscito ad entrare in un personaggio così “mastodontico”: “Per entrare nel personaggio di Karl Marx, si è proceduto per sottrazione, fino ad arrivare alla spontaneità” – racconta Marco Sgarbi – “ho messo nel personaggio ciò che mi appartiene e che si avvicina di più al lavoro di Zinn. La mia immagine di Marx prima di questo lavoro era un po’ stereotipata, si rifaceva agli studi liceali. Solo addentrandomi nel testo ho visto emergere l’Uomo. Per questo ciò che ho fatto non è stato altro che impersonare semplicemente un essere umano, che parla alla gente, a un pubblico. ‘Grazie a Dio un pubblico, proprio come dice la prima battuta del testo”.
L’operazione di coinvolgimento e condivisione con il pubblico riesce molto bene, complice l’atmosfera intima dello spazio, e ne nasce anche un dibattito su vari temi: l’urgenza dell’agire, del far sì che le cose accadano, della passione per il cambiamento – che Marx ha avuto per tutta la vita – che precede e va oltre l’aspetto teorico. Si è parlato inoltre del tema della miseria/ricchezza del mondo contemporaneo: “Marx che ritorna nel mondo al giorno d’oggi, a New York, uno dei centri nevralgici dell’economia contemporanea (per un errore torna nella Soho newyorkese, non nella Soho di Londra), non sarebbe stato forse più colpito dalla ricchezza che dalla miseria, come invece emerge in questa pièce?” chiede una spettatrice. Sgarbi risponde che scegliere New York è stato un escamotage, una scelta simbolica; Zinn ha voluto mettere al centro del suo lavoro la miseria, per denunciare come ancora oggi una grande parte del mondo sia soggetta a miseria e diseguaglianza. Un’altra spettatrice si complimenta dicendo: “C’è un’intelligenza pura in questo lavoro!”.
Per questo viene naturale riprendere una delle battute più accattivanti del testo: «Potete spargere la voce, Marx è tornato!…» anche se per poco più di un’ora a replica: l’ultima in programma sabato prossimo 15 novembre al Teatro Off di Viale Alfonso I d’Este, 13 nell’ambito della rassegna di monologhi intitolata “Ricomincio da uno”  [vedi].

Lo spettacolo è tratto dal testo scritto nel 1999 dallo storico americano Howard Zinn ed è stato co-prodotto in occasione del 131° anniversario della morte di Karl Marx dalla Fondazione Aida, Teatro stabile Innovazione Verona, e dall’Associazione culturale Arkadiis di Occhoibello.

George Simenon
e la sua scandalosa Betty

Aeroporto di Roma Fiumicino. Alla partenza lascio un pezzettino di cuore, in quest’ultima pillola di dolce e serena estate romana, accompagnata da un sentimento di amore e di fedeltà. Fedeltà all’amore stesso, alla città eterna che forse un giorno mi aprirà le braccia per ospitarmi a lungo.
M’intrufolo in libreria, come sempre prima di partire. Cerco qualcosa, come al solito. Un ultimo acquisto di testi nella mia lingua, un sacchetto di carta riciclata che mi accompagnerà sull’aereo per Mosca. Sugli scaffali colmi, invitanti e colorati intravvedo, curiosa, l’ultimo testo del belga Georges Simenon, “Faubourg”.

simenon-betty
La copertina della nuova edizione Adelphy

Lo prendo, lo colgo quasi come si fa con un bel fiore, all’interno della copertina giallo-canarino cerco se Adelphi ha pubblicato pure “Betty”. Sto aspettando che esca l’omonimo di Roberto Cotroneo (che comprerò subito), ma voglio leggere l’ispirazione prima, mentre attendo. Trovo il titolo, chiedo alla cassiera, me lo porta, gentile e saltellante. Pago e ancora prima di imbarcare mi tuffo nelle prime righe delle 140 pagine che all’arrivo avrò finito di leggere (e così è stato…). Farò un viaggio nel viaggio, come sempre quando volo, come sempre quando mi muovo solo con libri, pensieri e bagagli leggeri riempiti unicamente d’idee.
Questo libro va letto con calma, attentamente, assaporato, ma non resisto. Nelle tre ore e mezzo di aereo lo divoro, pagina dopo pagina, riga dopo riga, mi tuffo nella complessa psiche femminile, nelle difficoltà e nei dubbi di essere donna che molte di noi ben conoscono. Accarezzo e apprezzo un‘introspezione del personaggio molto minuziosa, incisiva, cesellata alla perfezione. Come vorrei sapere scrivere in quel modo…

simenon-betty
La locandina del film di Claude Chabrol tratta dal romanzo di Simenon

Betty, che strana creatura. Una giovane splendida e turbolenta dalla condotta arditamente scandalosa approdata sullo sgabello di un bar dei parigini Champs-Elysées, con la testa confusa e intorpidita dall’alcol. Accanto a lei, alla deriva, indomabile e indomata, siede un uomo del quale non ricorda nulla. Un uomo che, tuttavia, scompare quasi subito per lasciare a lei tutta la scena. Ombra, tante zone d’ombra s’intravvedono da subito. Calze smagliate, la sensazione di sporcizia, bicchieri di whisky, vestito costoso stropicciato e stanco, un assegno milionario in tasca, in borsetta una lettera da lei scritta e sottoscritta. M’immagino la borsetta, una sorta di piccola pochette marrone argentato a forma di cuore dal pomello rotondo di cristallo. Un clic e si apre un mondo. Uno scatto sul mondo disperato, lacerato e oscuro che la circonda. Potrei fotografarla così come la vedo e me la immagino.
Betty è una donna sola, senza sogni, bella ed elegante ma trasandata, logorata dalla vita, da se’ stessa, dalla propria insoddisfazione, da un istinto che la induce a percorrere strade proibite e detestabili, da un richiamo del vizio che le fa rifiutare la vita normale, fatta di un marito ricco, delicato, attento e perdutamente innamorato, di due figli leziosi, di una borghese e calda casa tranquilla e ben arredata, di sfumature di tenerezza. L’alcol la fa perdere nel fondo del suo bicchiere peccaminoso e costantemente alzato, regolarmente pieno, nella grigia parigina “tana degli svitati” di Mario. Nel fumo di pensieri e sogni ormai lontani e persi.
In un’atmosfera incisiva e intensa, Simenon descrive un animo ribelle e disadattato, un quadro femminile ben dipinto in cerca dell’amore e, allo stesso tempo, del suo opposto, ossia del lacerante disagio di una punizione continua, iniziata da bambina e mai cessata.

simenon-betty
Georges Simenon

La lettura tiene sul filo del rasoio, con maestria e tensione che solo Simenon possiede. I sentimenti sono contrastanti. A volte fatico a capire questa psiche complessa, sono combattuta nel pensare se Betty sia una donna perduta o ritrovata, una vittima o un carnefice. Betty vorrebbe perdersi, cancellarsi, o magari semplicemente trovare qualcuno che si prenda cura di lei. Ed ecco un’amica, Laura, quasi una madre, che l’accoglie teneramente credendo di redimersi, ignorando, tuttavia, dove tutto questo la condurrà. Ignara della tragedia che questo incontro comporterà.
Un romanzo da leggere, che racconta l’implosione di una donna persa, l’insano vagare nel nulla e nel vuoto, alla ricerca del proprio io e magari dell’amore che qualcuno potrebbe rivolgere alla donna, a lei, a LEI perché lei, al suo vero io e alla sua vera essenza, non al suo ruolo e alla sua posizione nel mondo.

Un libro avvincente, drammatico, non facile, emotivamente intrigante, che denuda, con procedimento quasi psicanalitico, i pochi personaggi che scorrono sulla scena; un racconto che colpisce, per la sua anomala protagonista e per la sua conclusione, che fa riflettere su come e quanto, a volte, l’animo femminile possa essere torbido, complesso, intrigante, emozionante, inspiegabile e, talora, davvero del tutto imprevedibile. Perché non è sempre chiaro chi sia il vincitore e chi lo sconfitto. E sta a noi immaginarlo.