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LA RIFLESSIONE
La politica dei bisogni nel tempo della globalizzazione consumista

Molte persone condividono l’idea che lo scopo di una società democratica e giusta debba essere quello di garantire la soddisfazione dei bisogni dei cittadini. Su cosa sia bisogno si è discusso per millenni e il dibattito è ancora aperto: già Plutarco sosteneva che “la ricchezza conforme a natura ha i suoi limiti e il suo confine, tracciato tutto intorno dal bisogno come da un compasso”. Egli affermava questo in un tempo in cui la popolazione mondiale poteva essere stimata in poco più di 200.000 milioni di persone, mentre oggi ha superato i 7 miliardi. Il contesto è radicalmente cambiato: egli viveva in un società a contato diretto con la natura, mentre noi viviamo in un ambiente in cui questo contatto è mediato dalla tecnologia, in una società tecnogena molto diversa dalle precedenti. Malgrado questo, allora come adesso, si parla di bisogni e di bisogno.

Qualcuno sostiene che sia possibile individuare bisogni comuni fondamentali e pianificare il modo per soddisfarli.
In prima istanza, sembra molto facile definire cosa serva all’uomo per vivere: aria, acqua, cibo, relazioni personali e sociali, sicurezza, un ambiente conosciuto dove potere esercitare le proprie capacità. Il modo in cui questo sistema di bisogni può essere socialmente organizzato è straordinariamente vario, come dimostrano le ricerche sociologiche, gli studi antropologici e i resoconti etnografici. Tuttavia, quando si isola il singolo individuo dalla propria cultura, dal proprio ambiente e dalle proprie tradizioni, considerandolo semplicemente come una macchina biologica, è molto facile immaginare prima e calcolare poi l’ammontare del bisogno, descrivendolo in termini di risorse ritenute scientificamente indispensabili per vivere. Molti organismi internazionali, a cominciare dalla Banca mondiale, lavorano indefessamente per descrivere il mondo proprio attraverso indici e standard numerici che, prescindendo dai contesti e dalle culture vitali, ci ritornano descrizioni asettiche, basate su statistiche che illustrano nazione per nazione, territorio per territorio, il reddito procapite, la disponibilità di medicinali, l’assunzione calorica giornaliera, la carenza di vitamine, il numero di parti per donna, la disponibilità di posti letto ospedalieri e via discorrendo. Si tratta certo di informazioni preziose, che però descrivono il mondo da uno specifico punto di vista (il nostro) e mostrano sempre, in base ad un puro confronto quantitativo tra i casi migliori e peggiori, la sterminata ampiezza di un bisogno oggettivizzato, universalmente definibile e quantificabile, che lascia intravedere altrettanto formidabili occasioni di consumo.

Qualcuno sostiene che il mercato sia l’unica soluzione per cogliere e soddisfare i bisogni della gente.
Viviamo in un mondo dominato da un’economia di mercato alla cui base sta l’idea di attori razionali orientati egoisticamente a perseguire le loro mete e preferenze soggettive. Il mercato è un’istituzione utilissima, ma come tutte le istituzioni, richiede regole chiare, comportamenti coerenti, condivisione di valori, trasparenza. Se, invece, gli attori che si muovono nel mercato sono più grandi e potenti degli stessi Stati ed Enti che ne dovrebbero regolare ed indirizzare il comportamento (come succede per molte multinazionali, per le banche, per i grandi investitori istituzionali), se l’unico criterio per avere successo nel mercato è la massimizzazione del profitto, è molto improbabile che il sistema possa andare incontro ai bisogni basilari delle persone e, in particolare, di chi possiede poco o non possiede per nulla. In tale contesto, è assai più semplice per i grandi player influenzare chi dovrebbe fare le regole ed è molto più redditizio manipolare attraverso la pubblicità le preferenze ed aspettative di consumatori. Il consumo per creare posti di lavoro, il consumo per far crescere il Pil sostituiscono il bisogno come motore dell’economia e diventano criteri necessari e sufficienti per far prosperare un sistema condannato alla crescita perpetua. In tale sistema, dove si ipotizza che solo le singole persone sappiano cosa è meglio per loro stesse, il consumo stesso rappresenta la prova a posteriori dell’esistenza di un bisogno, a prescindere da ogni tipo di ulteriore considerazione. Il bisogno finisce con il coincidere con la soluzione predisposta socialmente: il bisogno di salute viene sostituito dal bisogno di farmaci e di medici, il bisogno di mobilità dal bisogno di possedere l’automobile.

Qualcuno sostiene che si debba lavorare personalmente sui propri bisogni per acquisire una nuova consapevolezza.
Sospesi tra quanti impongono standard universalistici e quanti manipolano la percezione di ciò che serve, i cittadini sono sempre più spesso smarriti. C’è una straordinaria confusione costantemente alimentata dalla moda e delle strategie di marketing che diventano sempre più influenti e manipolatorie. Il riconoscimento dei limiti e delle fragilità, ma anche delle potenzialità e della creatività umana, apre allora la strada ad un’idea alternativa di bisogno, centrato sul protagonismo diretto della persona umana intesa come essere sociale responsabile e libero. Guardando sinceramente dentro di sé (piuttosto che esclusivamente verso l’esterno), riconoscendo la propria esigenza di vivere in un ambiente controllabile, coltivando la propria capacità di discernimento, sperimentando personalmente, l’uomo avrebbe la possibilità di esplorare e comprendere meglio la natura del proprio bisogno. Potrebbe dunque riconoscere e discriminare tra bisogni e desideri, tra bisogni e mezzi che la società mette a disposizione per soddisfarli; potrebbe rinunciare al consumo e scegliere stili di vita alternativi, cimentarsi nell’esplorazione creativa di soluzioni innovative non ortodosse. Il bisogno, depurato dai fraintendimenti del senso comune, diventa allora il motore di una sfida con cui cimentarsi e la chiave possibile dell’evoluzione interiore.

Qualcuno sostiene che si possano costruire comunità dove ognuno dà in base alle proprie capacità e riceve secondo i propri bisogni.
La valorizzazione della dimensione comunitaria e locale, della rete sociale, consente di guardare al bisogno da una prospettiva che può aiutare il cittadino ad uscire dall’isolamento che lo vede come singolo impotente di fronte al mercato impersonale e alla burocrazia anonima. Ne sono esempio le ormai numerose comunità intenzionali che si aggregano attorno a scopi specifici per fronteggiare insieme bisogni comuni. Bisogni quali l’abitare, lo spostarsi, la cura dei piccoli e degli anziani, la produzione e il consumo del cibo, l’appartenenza e il riconoscimento sociale, diventano in questi casi occasioni per trovare soluzioni che non si risolvono immediatamente ed esclusivamente nel consumo di beni e servizi codificati. Si tratta di un cambiamento basato sull’apprendimento che coinvolge singoli, gruppi, famiglie ed organizzazioni: esso richiede potenziamento di persone, orientamento alla libertà responsabile, capacità di visione e di pensiero sistemico, creatività portata alla concretezza, umana solidarietà: una direzione di sviluppo che porta ad agire fuori dagli schemi e dagli stereotipi, che va in direzione esattamente opposta rispetto alla creazione di consumatori passivi che credono di trovare nel mero consumo la chiave della felicità e di cittadini rissosi in costante competizione tra di loro.

Qualcuno sostiene che, per ottenere una società giusta, una riflessione spassionata sui bisogni dell’uomo e delle comunità che vivono in un ambiente tecnogeno, che non ha precedenti storici e che si evolve molto rapidamente, sia quanto mai urgente.
Una tale riflessione potrebbe forse partire dal riconoscimento e dall’integrazione di modalità di organizzazione del bisogno che possano garantire: un minimo essenziale di benefici per tutti in riferimento ad uno standard condiviso; la possibilità di scegliere tra differenti mezzi di soddisfacimento del bisogno; la libertà di esplorare percorsi di senso creativi alternativi allo statu quo ovvero alternativi al consumo coatto e all’imposizione forzosa di regole burocratiche; infine, la libertà di definire ed organizzare i bisogni su base comunitaria, anche in funzione di specifiche appartenenze culturali.

Ebbene sì, quasi duemila anni dopo Plutarco e in un contesto completamente diverso, c’è ancora bisogno di riflettere sui bisogni, c’è urgenza di nuovi concetti, c’è necessità di trovare nuove soluzioni concrete per soddisfarli: un buon segno e, di sicuro, una sfida che potrà determinare la qualità del nostro futuro.

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L’INTERVISTA
Elena Buccoliero alla direzione del servizio regionale per le vittime di reati gravi

Esiste da dieci anni ed è un servizio di assoluta utilità offerto dalla Regione Emilia-Romagna, eppure pochi ne conoscono l’esistenza, salvo, purtroppo, chi ne ha avuto bisogno. Si tratta della Fondazione emiliano romagnola per le vittime dei reati. Nata nell’ottobre 2004, è stata voluta da Regione Emilia-Romagna, Province e Comuni capoluogo, con l’intento di predisporre un ente in grado di dare sostegno alle vittime di reati molto gravi. La direttrice è una ferrarese, Elena Buccoliero, sociologa e counsellor, che per il Comune di Ferrara segue l’Ufficio diritti dei minori. È inoltre giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Bologna.

L’abbiamo intervistata per capire meglio l’attività della Fondazione, in vista dell’incontro pubblico che si svolgerà domani 11 dicembre alle 18.30 presso la Sala della Musica di via Boccaleone 19.

Da chi è composta la Fondazione?
Ne fanno parte, per ora, soltanto i soci fondatori, cioè appunto Regione, Province, Comuni capoluogo. Sono possibili ingressi di nuovi soci, sia enti pubblici sia soggetti privati. Io sono il direttore dal 1° settembre scorso. Insieme a me lavora un’operatrice brava e paziente, la vera memoria storica della Fondazione, e cioè Patrizia Vecchi, dipendente della Regione. Bisogna dire però che il nostro presidente è una figura d’eccezione: Sergio Zavoli.

Qual è la sua missione?
La Fondazione offre un sostegno rapido e concreto, di tipo economico, alle vittime di reati gravi e gravissimi, per aiutarle a fronteggiare nell’immediato le conseguenze del crimine. Per “reati gravi e gravissimi” si intendono l’omicidio e tutti quei reati che mettono a rischio l’incolumità fisica delle persone, o la loro libertà morale e sessuale; in altri termini, i reati più frequenti sono omicidio tentato e consumato, violenza sessuale, stalking, gravi maltrattamenti in famiglia, rapine particolarmente violente.

Come vengono scelti i casi a cui dare sostegno?
I casi vengono segnalati dai Sindaci dell’Emilia Romagna dove il fatto è accaduto, o dove vive il cittadino che ha subito il reato. Qualche volta, quando la stampa presenta casi di grande rilievo, è la Fondazione stessa a contattare il Sindaco ricordando che la Fondazione è al loro fianco.

Che tipo di sostegno dà la Fondazione?
Il sostegno è di tipo economico ed è sempre basato su un progetto di aiuto calato al caso concreto. Può esserci bisogno di sostenere spese sanitarie, o psicologiche, o assistenziali particolari, possiamo dare impulso al progetto di autonomia di una donna che interrompe la relazione con un partner maltrattante, o sostenere gli studi di un bambino che ha perso i genitori in un omicidio.

Quali sono i casi nella provincia di Ferrara?
Sono stati 11 dal 2005 al 2013, ed anche nel 2014 nuovi casi sono stati presentati ma i dati non sono ancora completi. Sicuramente, per Ferrara e non solo, spiccano le violenze verso donne e minori, ed è della nostra provincia il caso di una donna che, anche grazie al nostro contributo, è riuscita a ritrovare e a riprendere con sé il suo bambino che il partner maltrattante aveva allontanato da lei portandolo all’estero.
La Fondazione si occupa di tutti i reati gravi, ma è vero che gran parte della sua attività si sostanzia nell’aiuto a donne e minori vittime di violenza intra-familiare, sia perché questi reati sono particolarmente odiosi e stravolgono la vita delle persone offese, che spesso non avranno mai un risarcimento dal maltrattante, sia perché in aiuto alle donne esistono i Centri antiviolenza che conoscono la Fondazione e sono di stimolo per il Comune nel presentare le istanze. Credo che nel tempo un’alleanza in qualche modo analoga potrà crearsi anche con i servizi sociali per i minori, con riferimento a casi di bambini vittime di maltrattamenti o di abusi sessuali.

Cos’avete osservato rispetto al fenomeno della violenza in regione? E’ in aumento? Quali i tipi di reato più diffusi?
Purtroppo questo è un discorso che non riusciamo a fare. Non per tutti i reati si viene alla Fondazione – solo per quelli molto gravi, come dicevo – e l’aumento di istanze presentate è dovuto alla migliore conoscenza di questa opportunità, più che all’aumento della violenza. Per capirci, abbiamo ricevuto 5 casi il primo anno, oltre 30 da qualche anno in qua. Ma, appunto, è un fatto di comunicazione, sono convinta che il bisogno ci fosse anche prima.

Chi sono le maggiori vittime di reato? Uomini o donne? Di che età? Sono dati che offrono spunti di riflessione?
Le vittime di reato sono soprattutto donne o bambini. Bisogna dire che ogni reato può colpire più di una persona, se consideriamo non soltanto chi riceve la violenza ma tutti coloro che ne sono colpiti anche indirettamente. Per questo, ad esempio, nei femminicidi, la Fondazione aiuta i bambini che rimangono, mentre la mamma non c’è più e qualche volta neppure il padre, suicida. Anche le violenze sessuali, lo sappiamo, riguardano sempre e soltanto donne. Non sono capace di riflessioni particolarmente acute, se non che i dati confermano una volta di più la presenza di una violenza diffusa e persistente contro le donne e la necessità di prendere in carico questo tema complesso, con risposte complesse, che si muovono su più piani. In questo momento mi pare che la Fondazione, mentre è così difficile per le donne che dicono ‘basta’ trovare un aiuto per ricominciare a vivere, sia un raro appoggio. Non possiamo fare tutto noi, non possiamo fare tutto da soli, ma certo cerchiamo di svolgere la nostra parte.

Quali sono le difficoltà che incontrate?
Posso indicare due tipi di difficoltà, in un certo senso opposte: per un verso, per lavorare meglio abbiamo bisogno di farci conoscere di più e io credo che i nostri destinatari siano coloro che professionalmente hanno a che fare con le vittime dei reati. Assistenti sociali, avvocati, forze di polizia possono indirizzare in modo mirato le vittime di gravi reati alla loro amministrazione comunale per chiedere aiuto alla Fondazione. E poiché l’informazione non è mai abbastanza, e anche dopo 10 anni pochissimi ancora conoscono la Fondazione, a Ferrara l’11 dicembre abbiamo organizzato un incontro di presentazione della nostra realtà, che prosegue con una lettura teatrale sulla violenza intra-familiare. All’incontro che si tiene alle 18,30 nella Sala della Musica, partecipa il presidente della Fondazione, Sergio Zavoli, insieme al Sindaco di Ferrara Tiziano Tagliani, all’avvocato Eleonora Molinari e me. Dopo un piccolo buffet ci sarà poi la lettura teatrale ‘I bambini non hanno sentito niente’, interpretata da Fabio Mangolini insieme agli attori del Teatro dell’Argine.

E la seconda difficoltà?
Beh, riguarda i fondi. La Fondazione gestisce un fondo annuale di gestione composto dalle quote di Regione, Province e Comuni capoluogo, ma la parte delle Province è destinata a ridursi in seguito alla riforma che ne ridimensiona fortemente competenze e risorse. Per la Fondazione questo comporterà un buco, rimediabile perfino facilmente se altri enti locali – Comuni di rilievo, Consorzi o Unioni di Comuni – decideranno di entrare nella Fondazione come soci aderenti, cosa che già lo Statuto consente, con la quota che ragionevolmente si sentono di sostenere.
Nel frattempo la Fondazione prosegue la sua strada e si sta anche guardando intorno: progetti europei, bandi nazionali, sponsor privati sono altrettante strade da percorrere.

11 dicembre
FERRARA
Sala della Musica, Via Boccaleone 19
Ore 18,30 – Tavola rotonda
La Fondazione per le vittime dei reati come strumento di giustizia riparativa
Il caso della violenza contro le donne e i minori
Presentazione della Fondazione emiliano romagnola per le vittime dei reati
Tiziano Tagliani, Sindaco del Comune di Ferrara
Sergio Zavoli, Presidente della Fondazione emiliano romagnola per le vittime dei reati
Elena Buccoliero, direttrice della Fondazione emiliano romagnola per le vittime dei reati
Eleonora Molinari, avvocato, Fondazione forense ferrarese
Buffet
Ore 21 – Lettura teatrale
I bambini non hanno sentito niente”

Per approfondimenti e contatti si può visitare il sito della Fondazione [vedi]

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IL VETRIOLO
Fiera del regalo in stile sovietico

Natale in tono dimesso se non dismesso, l’abbondanza sta solo nel malessere da cui siamo abitati un po’ tutti, precipitare nello sconforto è quasi inevitabile. Soprattutto quando l’estetica tradisce se stessa sprofondando nella barbarie. Ed è subito allergia. Gli agenti provocatori sono dappertutto e sanno come forzare un sistema immunitario mettendo in moto l’intolleranza al brutto. Oramai gratto da giorni e lo faccio con più veemenza quando cammino sotto i portici del Duomo incrociando con gli occhi il parallelepipedo gigante, il mercatino di Natale, che “okkupa” il listone, il salotto della città, trasformandolo in una piazzola da periferia urbana anni Sessanta.
A differenza di quanto succede nelle altre città d’arte, dove le bancarelle di legno mettono allegria con i loro colori, Ferrara si veste di tristezza, rinnega la bellezza, si propone con un arredo da socialismo reale il cui insuccesso estetico è impossibile da negare. E’ brutto. Lo diventa ancor di più quando lo si sposa a forza con il Rinascimento. La struttura del nostro scontento sarà anche pratica – in caso di pioggia grazie al tetto consente al pubblico di fare lo zapping tra un banco e l’altro – ma non si può guardare. Inoltre è figlia di un’evidente schizofrenia: da una parte la città è impegnata a “vendersi” come salotto della cultura e dall’altra non si preoccupa di mantenere un look consono alla propria mission. Per dirla con maggior chiarezza: non c’è fotografo che impegnerebbe uno scatto per il ‘Christmas Market dell’Unità’.
Il prurito, ovvio, aumenta per orgoglio di estetica ferita. E per solidarietà verso Leon Battista Alberti cui si deve il campanile della cattedrale sotto il quale la “cosa” di Natale prende quotidianamente vita. Tanti auguri architetto e abbia pazienza, poi si smonta.

L’estetica della Festa del regalo ci riporta alle atmosfere del socialismo reale. Le due ultime immagini invece mostrano l’eleganza del mercatino dell’artigianato ospitato domenica sempre sul Listone: la compresenza creava un contrasto stridente

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CALENDARIO DELL’AVVENTO
Natale in tutte le lingue del mondo

Si fa presto a dire ‘Buon Natale’, ma quanti Natali esistono e quando hanno avuto origine le festività natalizie?
Ci sono l’inglese Christmas e l’olandese Kerstmisse, che alludono chiaramente al significato religioso cristiano della festività. Il tedesco Weihnacht o Weihnachten, che significa ‘notte sacra’, è più vago e potrebbe essere uno di quegli esempi di commistione e sovrapposizione fra culto cristiano e precedenti culti pagani. Il termine francese Noël, di origine incerta, secondo molti studiosi corrisponderebbe al provenzale Nadau o Nadal, che insieme allo spagnolo Navidad e all’italiano Natale derivano dal latino natalis, ‘nascita, compleanno’: anche se si potrebbe pensare alla nascita del Cristo, di nuovo torna l’ipotesi di una sovrapposizione fra i festeggiamenti cristiani e pagani del 25 dicembre. Nel tardo impero romano, infatti, il 25 dicembre, giorno del solstizio d’inverno del calendario giuliano, si festeggiava la rinascita del Sol Invictus, a sua volta spesso identificato con la divinità di origine orientale Mitra. Dal latino derivano anche i termini che indicano le festività natalizie nelle lingue slave: il polacco Kolenda, il ceco Koleda, il lituano Kalledos, il russo Kolyáda. Insieme al nome greco Kàlanda, derivano tutti dalle Calendae romane, a indicare come i giorni tra il 25 dicembre e il 6 gennaio venissero considerati quasi da subito un ciclo unitario di feste. Completamente diversa la parola usata nel mondo scandinavo: Yule, Jul in danese. Le sue origini sono state ampiamente discusse, ma senza arrivare a conclusioni definitive. L’unica cosa certa è che si tratta del nome di una stagione germanica: probabilmente un periodo di due mesi che copriva la seconda metà di novembre, dicembre e arrivava fino alla prima metà di gennaio.
Ma da quando Natale è il 25 dicembre? È piuttosto sicuro che le prime celebrazioni della nascita di Cristo il 25 dicembre siano avvenute a Roma verso la metà del IV secolo. La più antica fonte sulle celebrazioni in questa giornata è, infatti, il ‘calendario filocaliano’, un documento romano risalente a non prima del 354 d.C., ma che incorpora un documento più antico databile al 336 d.C. Da Roma, anche attraverso la conversione dei Barbari, il Natale si diffuse in tutta l’Europa occidentale. In Oriente, invece, il processo è stato più difficoltoso: qui la nascita del Redentore veniva inizialmente celebrata il 6 gennaio, che non commemorava l’adorazione dei Magi, ma il battesimo. La più tenace nel rifiuto dell’adozione della nuova festività del 25 dicembre è stata la chiesa di Gerusalemme, che sembra averla introdotta solo nel VII secolo. La chiesa armena, dal canto suo, festeggia ancora oggi insieme Natività ed Epifania il 6 gennaio.

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Moda, pittura, poesia, canzoni: ecco l’eclettica Sonia Mariotti

Sonia Mariotti si definisce un’artista dalle mille sfaccettature, che si esprime in molteplici realtà artistiche: dalla qualifica di stilista di moda alla pittura, passando per la scrittura di testi, poesie e canzoni. La sua prima esperienza, in uno studio di registrazione, risale al 1994 con l’incisione del brano “Take my heart”, di cui ha firmato il testo. Il suo più recente cd s’intitola “Murales”, un lavoro che lei definisce un puzzle della sua vita. L’album contiene nove canzoni, con due ospiti d’eccezione quali Zeno Sala (U2 Zen Garden, Tribute Band) nel brano “Regalami chi sei” e Danilo Amerio in “Giocami”.

In questi giorni ha inciso “Pure pain”, il nuovo singolo con relativo video [vedi], si tratta della cover in inglese del suo brano “Libera”, realizzata con uno sguardo verso il mercato estero.

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“Pure pain”, il nuovo singolo di Sonia Mariotti

Iniziamo parlando di “Pure pain”, il tuo nuovo singolo…
“Pure pain” è la rivisitazione di “Libera”, uno dei singoli più belli del mio percorso discografico, che mi ha dato grandi emozioni. Per quanto riguarda il testo, abbiamo scelto di parlare delle guerre e delle atrocità, che sempre più spesso i media ci raccontano quotidianamente.
Nonostante tutte le notizie, mi sembra che non abbiamo la percezione globale di tutto quello che accade attorno a noi ma, da semplici e impotenti spettatori, non possiamo fare altro che assistere alle mostruosità che l’essere umano infligge attraverso il potere. Io l’ho sintetizzata così: “Ci vuole il passo felpato per camminare sulla testa degli angeli”. Il brano si avvale di nomi importanti del panorama musicale italiano, l’arrangiamento, in puro stile “morriconiano”, è di Tato Grieco, il basso di Paolo Costa, le chitarre di Stefano Tedeschi e Gigi Cifarelli, il coordinamento delle batterie di Gabriele Paganoni. Naturalmente non mancano i miei autori del cuore: Sergio Vinci e Dino Vollaro e il produttore Alberto Boi. Ho interpretato il brano come meglio potevo, cercando di dare il mio contributo, basandomi sull’emotività che provocano in me questi tragici avvenimenti.

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Frame del video

Il nuovo video ha raccolto molti consensi sulla tua pagina Facebook…
Il video è stato per me la parte più bella di tutto il lavoro, ci abbiamo messo un’intera estate ma credo sia riuscito molto bene, grazie al “piccolo grande genio” Marco Del Torchio, che è anche un mio carissimo amico. Abbiamo cercato di ricreare dei paesaggi mistici e degradati, distrutti ma pieni di storia, cercando i territori selvaggi più adatti, con l’aiuto del local manager Ivano Badii.Trattando un tema come la guerra, abbiamo preferito utilizzare il bianco e nero, in modo da non avere precisi riferimenti temporali. Sono molto soddisfatta di questo progetto, così come lo è il mio team di lavoro; per quanto riguarda Facebook, spero che i consensi aumentino sempre di più.

Pure pain è pensato per il mercato estero?
Con “Pure pain” ho raggiunto un bellissimo traguardo, una grande soddisfazione dopo vent’anni di lavoro e di gavetta nel mondo della musica, infatti, sotto il severo esame di Vevo, che è il canale Internet di proprietà di Sony music entertainment, Universal music group e Abu Dhabi media company, sono stata scelta come unica rappresentante italiana indipendente. Questo risultato è stato raggiunto grazie al mio curriculum e alla mia storia musicale: tre album, il nuovo singolo e due brani inseriti in compilation. “Pure pain” strizza l’occhio anche al mercato estero, inoltre, ne abbiamo realizzato una versione “Electropop”, ideata e remixata dai bravissimi Special Q.

Singolo e video, in questa Italia ferma al palo, rappresentano la tua volontà di non arrenderti?
No! Non ci si deve arrendere. Io non mi arrendo, ferma non ci so stare. Con questo progetto ci dirigiamo verso il mercato estero, ci si prova almeno. Qui le cose sono complicate, non c’è molto spazio. Anche se credo sempre che la qualità si possa apprezzare dappertutto.

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Sonia Mariotti durante l’incisione del nuovo singolo

Nel tuo album “Murales” hai cantato con Danilo Amerio, com’è nata la vostra collaborazione?
Da ragazzina avevo acquistato un vinile di Danilo, “Buttami Via”, mi piaceva molto. Poi mi sono ritrovata con un suo brano inedito, durante il mio percorso musicale in Accademia, con il maestro Dario Lagostina. Lo cantavo sempre, era la mia valvola di sfogo quando volevo urlare qualcosa a qualcuno, il brano era “Giocami”. Quando intrapresi il percorso discografico, ne parlai con il mio editore, quel brano era mio da sempre. Lui, collaborando con Danilo, è riuscito a farmelo ottenere. Così ci mettemmo in contatto e nacque il duetto. Danilo Amerio è un grande maestro, professionista, autore e interprete. Umanamente è splendido.

I testi delle tue canzoni hanno “un’anima”, quanto sono importanti le parole per te?
I testi sono fondamentali in una canzone. Io arrivo dalla vecchia scuola, quella cantautorale. Devo dire delle cose vere, che mi rappresentano. Mi devo raccontare sempre. Posso trasgredire sulla melodia, magari meno impegnata, ma devo compensare con un testo importante.

CALENDARIO DELL’AVVENTO
Il Grinch

In odor di Natale siamo tutti più buoni. Ma soprattutto felici.
Questa tautologia che proviene dalla notte dei tempi è una nota stonata nella filosofia del Grinch, protagonista dell’apprezzato racconto per bambini “Il Grinch” (“How the Grinch Stole Christmas”) di Theodor Seuss Geisel, noto come Dr. Seuss, pubblicato nel 1957 e fonte della celebre trasposizione cinematografica interpretata da Jim Carrey.
Il Grinch è un omuncolo verdastro, coperto di peli; scorbutico e dispettoso, sostenuto e sarcastico, è sempre pronto a creare zizzania nell’idillico paesino di Chinonsò e dei suoi rosei e paffutelli abitanti, che vivono in perenne preparazione del Natale, vedendo in questa attesa l’unico suo vero senso. Il Grinch vive isolato dai suoi ex concittadini che lo temono e lo tengono a distanza, in un rapporto distorto di affinità elettiva con il paese che non lo accetta e che a propria volta non accetta complice quel Natale che lo tormenta, di cui non riesce ad afferrare il meccanismo, né il senso., decidendo – deliziato – di rubarlo.

“Tutti i Nonsochi a Chinonsò
amavano il Natale…
ma al Grinch,
che viveva appena al nord di Chinonsò,
non piaceva affatto!”

La colpa di questo risentimento sembra essere il cuore, che è “troppo piccolo di due taglie”; e di conseguenza gli rende faticoso non solo amare, ma anche provare entusiasmo e trasporto per un periodo dell’anno il cui seguito festoso – fatto di luci, regali, abbracci e canzoncine – sembra essergli quanto di più orrendo e sgradito possa esserci.

“Sono 53 anni che subisco questa cosa. DEVO impedire a questo Natale di arrivare… ma COME?”

Come in ogni fiaba che si rispetti, però, il protagonista subisce una evoluzione, nel momento in cui si rende conto che il Natale è (dovrebbe essere) molto di più che un circo rumoroso bensì, per chi è credente, generosità e celebrazione di un momento santo. E lo capisce grazie a una bambina che gli mostra, con l’innocenza che può nascere solo dagli occhi di un bambino.

“E poi pensa e ripensa,
gira e rigira e prova,
il Grinch pensò a una cosa
completamente nuova.
«Forse – pensò – il Natale non viene dai negozi, dagli empori,
dal market o dagli altri servizi.
Forse ha un significato più profondo e vitale…
Chissà se è proprio questo il vero senso del Natale!»”

Ma il Grinch è anche e soprattutto quel pezzetto (piccolo o grande) che sta in ognuno di noi, a Natale e nella vita. Ci immedesimiamo facilmente nella sua perplessità sardonica, ma anche nella sua unicità che ci rende diversi da una massa, che ci fa a volte sentire fuori posto o inadeguati.
Che insegna a sentire il senso autentico delle cose, libere dalla zavorra che si chiamano forma e apparenza; e a trovare il senso di essere accettati per quello che si è, ascoltare un altro punto di vista e vedere ogni cosa con occhi nuovi. Anche il Natale.

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Sofistica, l’arte del no

Da BERLINO – La relazione tra tragedia e la sofistica di Gorgia, il famoso oppositore e interlocutore di Socrate, è stata il punto di partenza per una brillante conferenza, come spesso capita, tenuta all’Institute for Cultural Inquiry Berlin, del famoso filosofo Simon Critchley, grande divulgatore della decostruzione in America.

La storia della filosofia comincia con la famosa lotta per la supremazia tra la sofistica, incentrata sul “no”, un nichilistico “no” a tutto e la filosofia che è una affermazione della verità e del rigore argomentativo. Il platonismo poi diffuso nelle sue varie mutazioni si fonde tanto sull’esistenza della verità e su una salda ontologia: dalla combinazione dei due si è sviluppata una filosofia fortemente normativa e moralista.

Filosofia come attività tragica è invece ciò che Critchley propone sulla scia del primo Nietzsche, quello dell’inizio della Origine della Tragedia, che propone la “non verità” come la fonte della vita.
La lezione è cominciata con il famoso detto che “l’uomo è misura di tutte le cose” per cui, per converso, il filosofo è colui che si occupa delle cose divine. Ma è soprattutto l’arte sofistica della contraddizione, quella non ancora infusa della moralità (o moralismo) di Socrate, che Critchley avvicina al linguaggio della tragedia. La tragedia è infatti caratterizzata da enormi ambiguità morali che costituiscono appunto una sorta di “versione teatrale” della sofistica: l’ambiguità del resto è il grande nemico della filosofia e, implicitamente, della democrazia.

Il vero nocciolo della disputa tra filosofia e sofistica è il fatto che noi abbiamo solo linguaggio ma il linguaggio è precisamente, concretamente e tragicamente qualcosa di diverso dalla realtà, per cui si hanno le tre famose leggi della sofistica, una sofisticata (e crudele) satira del pensiero filosofico e della sua pretesa di dire la verità:

1. niente esiste;
2. se qualcosa esiste, è inconoscibile;
3. se è conoscibile, è incomunicabile.

La sofistica si oppone alla filosofia, appunto con argomenti capziosi, confondendo piani del discorso, appunto sofismi.

Ma se si getta un altro sguardo alla sofistica si può trovare anche qualcos’altro: il tentativo di praticare una sorta di “pensiero femminile” che si oppone a quello che Derrida avrebbe chiamato “fallo-logocentrismo”, cioè l’idea che il discorso filosofico debba assolutamente essere fertile, fecondo, produttivo, stabilendo una discendenza di “opere,” cioè libri, opere, testi e così via…

Cosa però possa essere una filosofia consapevolmente conscia della sofistica, Critchley non lo dice. Evidentemente è, ironicamente, un’opera ancora tutta da scrivere. O, meglio, ancora tutta da dire.

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LA STORIA
Nuova vita a colori.
I fiorai di Roma

Tempo fa, durante un corso di fotografia a Roma, mi è stato chiesto di aggirarmi per la città e trovare una storia interessante e originale da descrivere solo con le immagini.
Mi sono imbattuta in molta bellezza, in tantissimi colori e personaggi strani. Ma a colpirmi sono stati loro, gli extracomunitari che mantengono fiorita la città con i loro chioschi agli angoli delle strade, appoggiati sugli antichi sanpietrini, alle saracinesche graffiate o alle colonne imponenti delle più belle piazze frequentate dai turisti.

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Fioraio a Roma in una delle foto di Simonetta Sandri scattate fra il quartiere della Garbatella, Campo de’ Fiori e Piazza di Spagna

Ognuno di loro mi ha raccontato una storia, di emigrazione felice o infelice, di difficoltà incontrate, di pianti e di sudori ma anche di umanità sfiorata e di amicizia ritrovata.
Ognuno di loro è stato accolto, ognuno di loro ha avuto una seconda opportunità.
Ognuno pronto, lì, per la strada, a riempire di colore una vita grigia, a offrire un consiglio a un uomo innamorato, a un’anziana signora che ha perso la strada, a un ragazzino che cerca fiori per la nonna, a una mamma che vuole abbellire la sua tavola, a un’amica che vuole consolarne un’altra, a un amico che vuole diventare altro.
Ognuno lì, con la sua voglia di fare e di vivere, con la sua fantasia e la sua creatività, pronto a distribuire bellezza, ventiquattro ore al giorno, con il sole e con la pioggia.

Torna in mente una frase di Antoine de Saint-Exupéry: “Se tu vuoi bene a un fiore che sta in una stella, è dolce, la notte, guardare il cielo. Tutte le stelle sono fiorite”.

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Fioraio a Roma (foto di Simonetta Sandri)
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Fioraio a Roma (foto di Simonetta Sandri)
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Fioraio a Roma (foto di Simonetta Sandri)
Negozio di fiori a Roma (foto di Simonetta Sandri)
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Negozio di fiori a Roma (foto di Simonetta Sandri)
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Negozio di fiori a Roma (foto di Simonetta Sandri)
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Fioraio a Roma (foto di Simonetta Sandri)
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Fioraio a Roma (foto di Simonetta Sandri)
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Negozio di fiori a Roma (foto di Simonetta Sandri)
tartaruga

Elogio della lentezza

Dopo ‘La sindrome della rana’ che rischia di rimanere bollita, ‘La città della conoscenza’ questa settimana si occupa di lumache e tartarughe, con ‘L’elogio della lentezza’. Non sono gli animali dell’Imperatore di Borges, ma sempre bestiole utili alle nostre riflessioni.

L’analogia fra la nostra mente e il computer pare ormai far parte del senso comune. Tanto che abbiamo perso di vista, se è il computer che deve tendere ad imitare i meccanismi del nostro cervello o se dobbiamo essere noi ad apprendere a funzionare come un elaboratore. In attesa di una fantascientifica era di osmosi tra la macchina e l’uomo, prima che il processo si avvii, per progressiva atrofizzazione di quanto non sia coinvolto nello smanettamento di iPhon, tablet e tastiere, concediamoci un intervallo di sano ‘slow’. Prendiamoci il gusto di andare controcorrente, di fare come Ribelle, la lumaca della favola di Sepúlveda, che in viaggio sul carapace di una tartaruga scopre l’importanza della lentezza.
Le tartarughe le hanno affrescate anche i pittori del Vasari, oltre cinque secoli fa, nel soffitto del Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio a Firenze. Sono tartarughe a vela, una sorta di simbiosi tra animale e macchina ante litteram. Sì, perché ognuna porta inalberata sul carapace una vela gonfia di vento, con la scritta ‘festina lente’, affrettati lentamente, ossimoro quanto mai significativo.
Sono queste immagini a suggerire al professore Lamberto Maffei, presidente dell’Accademia dei Lincei ed ex direttore dell’Istituto di Neuroscienza del Cnr, di scrivere ‘L’elogio della lentezza’, edito da il Mulino.
Il professore Maffei ci spiega, con buona pace dei cognitivisti della Human Information Processing, che non siamo multitasking, che non siamo biologicamente predisposti per eseguire più programmi contemporaneamente. Il nostro cervello e il computer hanno ben poco in comune ed è quanto mai pernicioso per la salute della nostra corteccia cerebrale tentare di imitare, o addirittura competere, con la rapidità dei nostri ‘processing device’.
Sarebbe sufficiente pensare alla storia dell’evoluzione del cervello umano, per comprendere che si tratta di una macchina lenta, con i suoi tempi e le sue sequenze. La velocità, i ritmi frenetici, la convulsione non convengono a lui, tanto meno a noi che dai suoi impulsi facciamo discendere le nostre reazioni, che, per via della fretta, spesso si rivelano ingannevoli e avventate.
In un mondo in cui viviamo continuamente con l’incubo del tempo insufficiente, del tempo perduto, fermarsi dal correre forse a molti può apparire un lusso. Ma chi non ha gridato almeno una volta, come Mafalda di Quino, ‘fermate il mondo che voglio scendere’, per avere la soddisfazione di guardarlo da fuori, manifestando così la sua avversione per i pensieri deboli e veloci?
Sebbene l’inglese, da questo punto di vista, non dia molte garanzie, è tutto un fiorire di slow city, slow food, slow motion, fino allo slow touring come indubbie espressioni del bisogno di prendersi un po’ di respiro, della necessità di riscoprire i vantaggi dei tempi lunghi. Tanto da celebrare la giornata mondiale della lentezza, il 13 maggio.
Potete pure visitare il sito dell’associazione italiana “Vivere con lentezza” (www.vivereconlentezza.it). È un progetto nato per riflettere e far riflettere sui danni economici, sociali, personali e ambientali determinati da una vita ad alta velocità. Propone di ripensare al valore sociale del lavoro per uno sviluppo economico in armonia con l’uomo e con l’ambiente. Promuove uno stile di vita in contrapposizione con i ritmi frenetici della nostra agenda quotidiana, fornendo l’elenco dei primi 14 “comandalenti”, per trovare la velocità giusta nella vita.
Per esempio: se fate la fila, in un supermercato, davanti a uno sportello in banca, in un locale pubblico, non cedete alla tentazione della rabbiosa insofferenza, e approfittatene piuttosto per fare una nuova conoscenza, o ascoltare una storia. Non inzeppate l’agenda di impegni, così come non provate a fare sempre più cose contemporaneamente. E non dite mai: non ho tempo. Anche perché non è vero, e la lentezza è molto più di una possibilità, come ci ricorda il funzionamento del nostro cervello. Lento dalla nascita.
Esiste anche ‘La pedagogia della lumaca’, è un libro che ha scritto un uomo di scuola, di Cesena, Gianfranco Zavalloni, purtroppo ci ha lasciati da poco, a soli cinquantaquattro anni. Per una scuola lenta e non violenta, rispettosa del tempo e soprattutto della vita dei nostri bambini e ragazzi.
Sapremo ritrovare tempi naturali? Sapremo attendere una lettera? Sapremo piantare una ghianda o una castagna nella consapevolezza che saranno i nostri pronipoti a vederne la maestosità secolare? Sapremo aspettare?
Sono alcune delle domande a partire dalle quali Gianfranco Zavalloni cerca di fornire risposte con il suo libro. È un invito a genitori, insegnanti, educatori a riflettere insieme sul senso del ‘tempo educativo’ e sulla necessità di adottare strategie didattiche di rallentamento.
Daniel Kahneman, premio Nobel nel 2002, in ‘Pensieri lenti e veloci’, edito da Mondadori, ci richiama alla lentezza proprio per evitare gli errori sistematici del nostro pensare. Soprattutto quelli così diffusi come i pregiudizi, che sono dovuti non al fatto d’essere vittime delle nostre emozioni, ma alla struttura particolare dei meccanismi cognitivi.
Che la mente sia logica e razionale è un assunto dogmatico. L’ipotesi che la nostra mente sia soggetta a errori sistematici è ormai largamente dimostrata.
È sconcertante il limite della nostra mente, l’eccessiva sicurezza con cui crediamo di sapere, la nostra evidente incapacità di riconoscere quanto siano estese la nostra ignoranza e l’incertezza del mondo in cui viviamo.
Questo perché la mente rischia il buio nel sovrapporsi di decisioni troppo rapide e noi rischiamo di compiere le scelte sbagliate.
Dunque la riscoperta della lentezza potrebbe essere una buona terapia contro i nostri ‘bias’, falsi concetti, e gli effetti dello stress digitale, dove tutto viene comunicato in tempi record attraverso e-mail, sms, tweet.
Forse è il caso di rispolverare il vecchio adagio ‘rifletti prima di parlare’, per lasciarsi prendere dal ritmo delicato della lentezza, per apprendere ad ascoltare l’altro, per imparare il dialogo e come la vera conoscenza apprezzi i tempi lunghi.

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EVENTI
Manga e kimono.
Voci di Kappa festival

Grandi occhi – specchio dell’anima – e divise scolastiche dal taglio severo e iconico. E’ l’incipit della passione di Massimiliano De Giovanni per il Sol Levante. Bolognese e co-fondatore di Kappalab, fonte di produzione editoriale incentrata sul Giappone, ne traspone l’idea centrale a Ferrara (“La Bologna di una volta”, come la definisce) attraverso il Kappa Festival, con l’intento di raccontare il suo Paese delle meraviglie. E di raccontarlo toccando aspetti differenti, che si notano nell’ambizioso programma che ha di fatto aperto il sipario sabato scorso e chiude oggi, lunedì 8 dicembre.

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Testi, inchiostro e pennini al Kappa Festival

“Questa – spiega De Giovanni – è l’edizione zero, il cui format scelto è ricalcato da Officina del Vintage; in quanto tale è e sarà in divenire. Il nocciolo è la mostra mercato allestita agli Imbarcaderi di Castello Estense, in cui saranno allestite tre aree ben distinte, ognuna delle quali legata a un aspetto: la prima sarà dedicata all’oggettistica varia della tradizione giapponese (il contenitore magico da cui si attinge per il lemma kappa, creatura del folklore giapponese che definisce la manifestazione), con particolare attenzione al settore tessile – un vasto assortimento di kimono; la seconda sarà dedicata a Starshop, il primo distributore italiano nel settore librerie specializzate per fumetti e manga; il terzo imbarcadero ospiterà invece aziende produttrici della cultura pop, che in Occidente è spesso associata al Giappone, tra cui libri e dvd”.

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Stand di prodotti giapponesi a Ferrara per il Kappa Festival

La varietà dell’offerta culturale si rispecchia anche negli ospiti che intervengono, e nel ricchissimo tessuto culturale del Paese che viene restituito proponendo alternanza tra contemporaneità e tradizione, tra arte e sperimentazione, in un mix di professionisti internazionali e nomi noti.
“Non si può parlare di Giappone – dice Massimiliano – senza pensare a un nome che già racchiude la sua storia: il maestro dell’animazione Hayao Miyazaki di cui saranno proiettati “La città incantata” e “Principessa Mononoke”. E a Lupin III, di cui avremo ospite uno dei papà putativi italiani, Guglielmo Signora. E’ uno dei disegnatori assoldati dal creatore di Lupin, Monkey Punch, per dieci nuove storie del ladro gentiluomo, ormai diventato cult. Sempre in tema di fumetti, interviene la illustratrice Yocci, già collaboratrice della rivista Internazionale. Un terzo appuntamento cinematografico previsto è quello di “Thermae Romae”, originale commedia basata sull’omonimo manga di Mari Yamazaki. La musica è un altro dei capisaldi. Il dj tedesco Schneider TM accompagna la ballerina Tomoko Nakasato, i cui passi di danza sono riproiettati sulla stessa danzatrice grazie agli effetti videofeedback di Takehito Koganezawa.

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La performance di mostra della nota artista giapponese Yumi Karasumaru alla palazzina Marfisa di Ferrara

Restando sul “classico”, si incontra il concerto della soprano Chisako Miyashita che affianca a un repertorio classico di canzoni tradizionali nipponiche brani della scuola partenopea tradotti in giapponese e reinterpretati. “Questo è uno dei cortocircuiti temporali e geografici pensati per l’occasione. L’altro appuntamento dedicato alle arti visive è “Korosù – To kill”, la personale dell’artista alla Palazzina di Marfisa d’Este, che gioca sullo scarto tra categorie di rappresentazione: accanto ai ritratti della famiglia di Marfisa d’Este, l’artista e performer Yumi Karasumaru espone e mette in scena ritratti da lei realizzati.

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Una delle foto che raccontano la tragedia di Fukushima al Kappa Festival

“Accanto a questo Giappone – continua De Giovanni – c’è anche quello devastato dallo tsunami del 2011 che ha distrutto la regione del Tohōku. Da qui hanno ricominciato i sopravvissuti, che hanno raccontato, attraverso le fotografie esposte, in che modo hanno ricominciato da zero dopo la catastrofe naturale. E dell’aiuto ricevuto dai volontari dell’associazione Kakeashi no Kai, cooperativa giapponese nata e sostenuta dalla produzione di artigianato locale, con il doppio intento di creare opportunità di lavoro, i cui proventi saranno destinati agli stessi sopravvissuti”.
Ma il Giappone del Kappa Festival è anche quello visto tra curiosità e pregiudizi. Accanto al testo, un metatesto di curiosità e verità che si mescolano trovando nelle penne di Keiko Ichiguchi e Davide Bassi una interessante soluzione di luoghi comuni, nei loro libri “Non ci sono più i giapponesi di una volta” e “Scusi, manca molto per il Giappone?”, in cui raccontano aneddoti e disavventure sullo scambio-scontro tra culture. Cucina giapponese, arte del bonsai, usanza dello Hanami e massaggio shiatsu completano l’itinerario attorno al punto dove sorge il sole.

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LETTERA APERTA
Cara Daria…

Quella sera il tramonto non finiva mai. Avevo diciassette anni, non lo sapevo che eravamo felici. (L’amore che ti meriti, Daria Bignardi)

Cara Daria,
Permettimi di darti del tu. Alcune cose ci accomunano. Entrambe siamo di Ferrara, abbiamo studiato al liceo classico Ludovico Ariosto, siamo nate negli anni sessanta ed entrambe scriviamo (anche se di questo ti chiedo venia, abbiamo risultati e successi ben diversi). Per questo, dunque, mi prendo la libertà del libero e leggero “tutoyer”, come direbbero i francesi. Spero non ti dispiaccia troppo.
Volevo semplicemente ringraziarti per questo nuovo libro, uno splendido regalo fatto a me e a molti ferraresi come me, che ci ha portato a ripercorrere le strade della nostra città, spesso amata-rinnegata-fuggita, che ci ha fatto rivedere parte del suo passato e dei suoi misteri, a volte dolorosi. Un dono importante in un momento così difficile per il nostro paese, dove ricordarsi della nostra storia e delle nostre origini forse ci può aiutare un po’.
Domandandoci, insieme a Alma e Toni, come si fa a meritarsi l’amore e, soprattutto, quanto se ne meriti realmente, abbiamo camminato per le vie della nostra città silenziosa, deserta, assente, ovattata, immobile, impermeabile, intima, nostalgica, irreale, grigia ma sempre invitante. Ne abbiamo riscoperto le profonde radici reali, ci siamo ricordati degli orti cittadini, delle prime visite al cimitero ebraico, della pace qui ritrovata e dei pensieri confusi qui maturati, abbiamo calpestato i ciottoli di via Vignatagliata, fermandoci al quel numero che tu citi più volte e dove ora abitano i miei più cari amici d’infanzia. Incredibile e fortunata coincidenza, per me. Abbiamo rivisto con Toni e Michela i manifesti dei vecchi film de l’Apollo, ripercorso con lei i vecchi bar di via Carlo Mayr, quella via dove ora abito quando sono in Italia e che ha visto trasformare quei locali mal arieggiati e fumosi in locali alla moda, oggi ritrovo di artisti e scrittori. Tutto cambia, tutto scorre. Ma l’anima di Ferrara resta. Un’anima che sa di latte caldo con il miele. Una famiglia. Un enorme e unico diamante nascosto, come quello che si pensava incastonato in una delle punte del Palazzo dei Diamanti che, proprio per questo, ogni settimana erano “sbeccate” da mani ignote. Qualcuno lo cercava, tenacemente imperterrito. Una fantasia che ci incuriosiva, da bambini, e ci faceva sognare di misteri, tesori e ricchezze lontane.
Quel “ticchettio soffocato di un orologio invisibile”, il rumoroso orologio a molle nascosto nel cassetto, fa anch’esso parte dei ricordi della mia infanzia, così come la villetta bianca del mare con il barbecue in giardino, non lontana dal laghetto infestato di zanzare. Gli argini del Po, poi… come non ricordare le gite in bicicletta lungo le braccia di quel fiume imponente e protettivo, e le mura cittadine, lo spiazzo erboso alla fine di Corso Ercole I d’Este che porta ai bastioni fiancheggiati da platani, tigli e alberi maestosi. Il verde cittadino qui inizia a confondersi con la campagna che inizia poco lontano, lo sguardo si perde nei colori e nei ricordi. Un battito d’ali di farfalla ci risveglia per un attimo da quel viaggio nel tempo. Ma ci siamo. Siamo lì con te, con Toni, con il suo figlio in grembo che vuole nascere sereno, con la tenacia e il coraggio di una giovane donna sicura di sé.
Mentre Toni, nella nebbia mattutina attraversata da raggi di sole, cerca di svelare il temibile segreto della scomparsa di Maio, fratello della madre, noi la seguiamo, persi tra la voglia di risolvere quel mistero e la nostalgia per tutto quello che abbiamo vissuto in quella città, per la storia che abbiamo immaginato scorrere, leggendo le lapidi del ghetto o quelle delle mura del Castello Estense, per le tombe e i monumenti che abbiamo visto nella Certosa, incerti, perché ci viene alla memoria l’immagine sfuocata di una grande scultura alata dedicata a Italo Balbo che ora non ritroviamo … ma forse si tratta di un ricordo lontano appartenente a un altro luogo…
Alma ricorda una foto di famiglia, una di quelle che fanno pensare a “come eravamo felici”. Chi di noi non ha avuto lo stesso pensiero di fronte a una vecchia fotografia dai colori sbiaditi. Ma è solo nostalgia per una gioventù perduta o lo eravamo davvero?
E allora, cara Daria, ancora grazie per questo viaggio nel passato più recente, che è anche il mio, un passato che ora, da lontano, ricordo con affetto e nostalgia. In questo istante, anche io mi sto sicuramente domandando quanto amore mi meriti e perché. Ora che ce l’ho e che non lo voglio perdere. Cercherò di darne più che posso, solo questo posso dirti.
Un abbraccio affettuoso, cara Daria, da una ferrarese lontana ma vicina.

Daria Bignardi, L’amore che ti meriti, Mondadori, 2014, 247 pp.

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La Melancolia di Dürer: presentimento del cambiamento

Capita a volta di ascoltare grandi studiosi che sono anche grandi comunicatori, in grado di trasmettere in pochi minuti e in poche parole concetti e temi su cui i colleghi hanno speso fiumi di inchiostro. Con queste persone la divulgazione non è più, o non è solo, semplificazione per i non addetti alla materia, ma è come una sorta di contagio: trasmettono curiosità e passione, voglia di apprendere e di approfondire.
A me è successo assistendo anni fa allo spettacolo “Variazioni sul cielo”, sul palco del Teatro Comunale Margherita Hack narrava le difficoltà e lo stupore di fronte ai misteri del cosmo e sfiorava con delicata semplicità teorie complesse come quella del multiuniverso, senza alcuna banalizzazione. È accaduto di nuovo giovedì pomeriggio ascoltando nel Salone dei Mesi di Schifanoia Massimo Cacciari interpretare l’incisione “Melencolia” di Albrecht Dürer.
L’occasione è stata l’apertura del Convegno “La “Melencolia” di Albrecht Dürer 500 anni dopo (1514-2014)”, che è appena terminato: un modo per “festeggiare il compleanno di questa figura alata, enigmatica, sofisticata e complessa”, come l’ha definita Andrea Pinotti – docente di Estetica presso l’Università degli studi di Milano – che dopo 500 anni conserva ancora intatta la sua potenza espressiva e simbolica.
A precedere l’intervento di Cacciari sono state le parole di Aby Warburg – citato dal direttore dell’Istituto Studi Rinascimentali Marco Bertozzi – che con il suo saggio “Arte italiana e astrologia internazionale nel Palazzo Schifanoia di Ferrara” ha reso celebri gli affreschi astrologici del Salone: “un foglio di conforto umanistico contro il timore di Saturno”, la “melancolia sprofondata in sé stessa”, così il celebre intellettuale tedesco descriveva l’incisione raffigurante lo spirito dell’artista nel momento creativo, un “genio pensieroso all’opera”.
Cacciari ne ha dato invece un’interpretazione “epocale” perché “immagini di questo tipo non sono indovinelli di cui bisogna trovare la soluzione”, non per niente “è una delle opere che più mi inquietano al mondo”, ha confessato. Il filosofo ha passato in rassegna gli elementi dell’incisione partendo dalla cometa, quella stessa cometa che in quegli anni appare nei cieli del Nord Europa e da sempre è ritenuta un segno, che nello stesso tempo “annuncia e pone fine”. La figura in primo piano non è solo l’artista, ma “un genio alato, che ha in sé qualcosa di demiurgico”, come dimostra la combinazione numerica del quadrato magico che la sovrasta, che è la stessa del Timeo platonico. Ai suoi piedi e nelle sue mani un libro e strumenti che giacciono inerti, inutili e disordinati: “un ‘mucchio’ di buoni strumenti, utilizzabili, ma inutilizzati”, come le chiavi che porta alla cintura. Secondo Cacciari questa figura è “un grande ordinatore, costruttore che non costruisce più, non disigilla più, è inoperoso”. Tuttavia “è ben desto, attende, guarda e anela” verso la luce della cometa, “pre-sente il cambiamento che quella cometa annuncia”. Il suo tempo dunque è passato, ma questa figura alata rimane “monumentale perché finita, nel senso di compiuta non fallita”. La drammaticità di quest’opera starebbe proprio qui: la cometa non è un segno apocalittico, non porta la fine dei tempi, ma una renovatio, un cambiamento d’epoca: “crisi e rinnovamento stanno insieme”, ecco il significato dell’arcobaleno che quasi la incornicia. Di questa renovatio è emblema anche il putto che incide la tavoletta: anche lui è un essere alato, ma per poter compiere questo rinnovamento deve crescere e diventare “tanto forte da poter compiere la scalata” di quella scala di legno che gli sta a fianco.
In questa incisione dunque non si può leggere solo “un programma definito che bisogna scoprire come un indovinello”, come per tutte le immagini segno – nel senso di semata – dei propri tempi esistono più piani di lettura: qui sono raffigurati “un ordine che si va compiendo, che è già compiuto, ma anche i segni della rinascita”. “Non dimentichiamoci – aveva premesso Cacciari – che di lì a 3 anni avrebbe avuto inizio la Riforma” e Lutero avrebbe affisso le sue 95 tesi alle porte della cattedrale di Wittemberg.

annunciazione

CALENDARIO DELL’AVVENTO
L’Annunciazione secondo Erri De Luca

Si avvicina il Natale e noi della redazione di FerraraItalia abbiamo pensato a un regalo per voi che ci leggete da ormai più di un anno. Fin dall’inizio abbiamo cercato di raccontarvi giorno per giorno storie e vicende da un punto di vista inusuale, così abbiamo immaginato un originale calendario dell’Avvento letterario, attraverso il quale ogni giorno da qui al 24 dicembre proporremo un racconto, una fiaba, un aneddoto, una poesia, una filastrocca, che parli del Natale.

Partiamo dunque dal principio: dall’Annunciazione. Ma lo facciamo, appunto, da una prospettiva particolare: attraverso la testimonianza di Maria. Non l’icona sacra, non l’Annunciata quasi imperturbabile di Antonello da Messina, ma Miriam, la fanciulla ebrea di Galilea che avrà il coraggio di essere vergine e madre, figlia del suo Figlio. A dar voce a Miriam/Maria, “operaia della natività” e “fabbrica di scintille”, come lui stesso la descrive, è Erri De Luca nel delicato e dolcissimo piccolo grande racconto “In nome della madre” (Feltrinelli 2006).

«La voce del messaggero era arrivata insieme a un colpo d’aria. Mi ero alzata per chiudere le imposte e appena in piedi sono stata coperta da un vento, da una polvere celeste, da chiudere gli occhi. Il vento di marzo in Galilea viene da nord, dai monti del Libano e dal Golan. Porta bel tempo, fa sbattere le porte e gonfia la stuoia degli ingressi, che sembra incinta. In braccio a quel vento la voce e la figura di un uomo stavano davanti a me.
Nella nostra storia sacra gli angeli hanno un normale corpo umano, non li distingui. Si sa che sono loro quando se ne vanno. Lasciano un dono e pure una mancanza. Neanche Abramo li ha riconosciuti alle querce di Mamre, li ha presi per viandanti. Lasciano parole che sono semi, trasformano un corpo di donna in zolla di terra.
Ero in piedi e l’ho visto contro luce davanti alla finestra. Ho abbassato gli occhi che avevo riaperto. Sono sposa promessa e non devo guardare in faccia gli uomini. Le sue prime parole sul mio spavento sono state: “Shalom Miriam”. Prima che potessi gridare, chiamare aiuto contro lo sconosciuto, penetrato nella mia stanza, quelle parole mi hanno tenuto ferma: “Shalom Miriam”, quelle con cui Iosef si era rivolto a me nel giorno del fidanzamento. “Shalom lekhà” (Pace a te, ndr), avevo risposto allora. Ma oggi no, oggi non ho potuto staccare una sillaba dal labbro. Sono rimasta muta. Era tutta l’accoglienza che gli serviva, mi ha annunciato il figlio. Destinato a grandi cose, a salvezze, ma ho badato poco alle promesse. In corpo, nel mio grembo si era fatto spazio. Una piccola anfora di argilla ancora fresca si è posata nell’incavo del ventre».

Comincia così con “l’accensione della natività nel corpo femminile” il racconto di una gravidanza avventurosa, portata avanti da una ragazza che sceglie di sfidare ogni costume e ogni legge di allora e che ne avrà ragione.

Un capitale inagito

Il Rapporto Censis del 2014, presentato a Roma qualche giorno fa, propone spunti di riflessione sociologica ben più ricchi di quelli sintetizzati nelle consuete note di stampa. Per questo, ogni anno cerco di ascoltare in diretta la presentazione del Rapporto, lasciandomi attraversare dalle mille suggestioni che incrociano i miei “lavori in corso”. Del resto, sono proprio le infinite connessioni possibili tra i fenomeni a determinare il fascino del pensiero sociologico.
Dal Rapporto esce un quadro preoccupante: una società molto differenziata, molecolare, ad alta soggettività, che galleggia su antiche mediocrità e in cui i singoli soggetti sono, a dir poco, a disagio. Il concetto di capitale inagito mi pare una delle immagini chiave del Rapporto. Se il capitale può essere considerato come moneta in movimento, ci troviamo in una grave fase di stagnazione: né il capitale delle persone, né quello delle imprese, né il capitale finanziario, né quello culturale trovano terreni per esprimersi. Così i capitali, pure esistenti, restano congelati per l’assenza di aspettative che permea i diversi mondi.
In assenza di riferimenti e di orientamento e in un clima di pesante incertezza, prevale l’adattamento alla mediocrità: le persone tengono denaro liquido per fronteggiare eventuali imprevisti, le imprese non investono.
Il Rapporto descrive una società che non sa pensare in termini sistemici, in cui aumenta la solitudine degli individui che, non potendo scegliere una direzione, vagano distribuendosi in mondi che non fanno sistema, rinunciando a investimenti progettuali e collettivi. Così, il mondo della gente comune, pure esprimendo vitalità, è incapace di produrre azioni, vive nella sua rabbia, e non sa andare oltre. Non è una moltitudine passiva quella descritta, perché sa scegliere (pensiamo alla capacità di sopravvivenza di fronte alla contrazione delle risorse), manifesta interessi in diversi campi, ma non va oltre il livello individuale. Gli individui esprimono bassa fiducia nel prossimo, solo un quinto della popolazione sente di potersi fidare degli altri, trascorrono una quantità di tempo in solitudine, sono sotto occupati, esprimono ansia per il futuro (solo il 17% si sente abbastanza sicuro), attribuiscono un bassissimo valore all’intelligenza (solo il 7%, la percentuale più bassa nel quadro europeo).
Come si fa a mobilizzare il capitale inagito, ad invertire questa deflazione delle aspettative, in un contesto in cui la politica è tutta impegnata in una lotta interna allo Stato e all’occupazione dello spazio istituzionale? E’ questa la domanda che propone De Rita, che paventa tre rischi: quello di un secessionismo sommerso, un pericolo di populismo, un pericolo di un autoritarismo soft. Al contrario servirebbe una politica in grado di ricostruire legami sociali, di ridare energie allo sviluppo, non appiattendosi sull’attesa di qualche debole segno di ripresa.
Ma, all’indomani dell’ennesimo “sacco di Roma”, difficile immaginare una palingenetica rinascita. Né mi convince il richiamo ai corpi intermedi come via di aggregazione, in polemica con l’attuale ridimensionamento del loro ruolo ad opera di una politica decisionista, a dire il vero più a parole che nei fatti. Il tema della ricostruzione dei legami sociali, erosi da molti fattori sociali ed economici che riguardano la profondità del cambiamento epocale in cui ci troviamo, resta il tema di riflessione. Ciò nella consapevolezza che, per citare il Rapporto, la società “cambia non attraverso svolte (momenti magici decisivi), ma attraverso processi di transizione, necessariamente lenti e silenziosi”.

Maura Franchi è laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing, Marketing del Prodotto Tipico. I principali temi di ricerca riguardano i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le tendenze e i significati dell’alimentazione.
maura.franchi@gmail.com

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SETTIMO GIORNO
Politica alla frutta, case sfitte e senzatetto: c’è qualcosa che non va

D’accordo, sono collerico, intransigente, estremista, pessimista, o, come dicevano alcuni compagni (quando esistevano ancora) “catastrofista e avventurista”. Ero, insomma, un rivoluzionario inaccettabile all’interno dei partiti moderati e borghesi del nostro Paese, nessuno escluso. Ricordo un congresso del Pci a Roma quando era cominciata la lunga marcia dei miglioristi impegnati a togliere di mezzo i massimalisti-settari-giacobini e rivedo, là nella platea del teatro che ospitava l’assemblea, rivedo Umberto Terracini, vecchio amico con il quale avevamo fatto alcuni importati processi, l’ultimo quello della risiera di San Sabba a Trieste, era là il povero Umberto, nessuno era al suo fianco, né dietro né davanti in una sala gremita a dimostrare la solitudine di chi è capace di pensare: gli andai vicino e lo abbracciai. Come va, Umberto, gli chiesi e lui girò la testa di fianco a sinistra e poi a destra e rispose, ecco, vedi come sto, mi hanno lasciato solo i compagni: Umberto era l’uomo che aveva scritto la nostra Costituzione, la più liberale, aperta e moderna al mondo.
Fatto questo doveroso autodafè, oggi posso aggiungere che purtroppo avevo ragione e, sinceramente, essere cassandre è un mestiere non molto gratificante. Ma tant’è, proviamo a fare questo compitino settimanale senza piangersi troppo addosso.
LA FRUTTA – Siamo alla frutta, forse al caffè, l’Italia è in ginocchio, ma non ci sono le forze per rimetterlo in piedi, il nostro è un paese affondato nelle deiezioni di schiere di disonesti, tutti d’accordo nel derubare e derubarsi a vicenda e non si creda che sia possibile circoscrivere la cacca a Roma, purtroppo il guano è dovunque, anche nelle nostre virtuose province. Il famoso modello emiliano-romagnolo? Pfui! Finito, anche qui la poltrona è il simbolo e la meta di ragazzotti a cui la politica serve per fare una misera ieri dal giornalaio una signora mia amica, basta – ha detto – bisogna dare in mano il paese a un solo uomo, abbiamo già avuto Mussolini, ho risposto,, è lo stesso, ha ribadito. Ecco il fascismo che è avanzato prepotente, ho pensato, ma non si può più fare una sola marcia su Roma, troppe marce in tutte le direzioni. Ci vorrebbe una vera rivoluzione, ma chi la fa? La Lega? Ma va. La faranno gli ex sindaci, bocciati come amministratori ma promossi, chissà in base a che cosa, a sagaci managers.
LE ABITAZIONI – Nelle nostre città ci sono centinaia di migliaia di abitazioni vuote, molte mai occupate e centinaia di migliaia invendute, eppure strilliamo che bisogna riprendere a costruire per dare fiato al mercato immobiliare. I senzatetto? Ci penseranno la cariche della polizia ad allontanarli. Mi pare che ci sia qualcosa che non funziona.
LA EKPHRASI – Estrapolo la parola da un veloce depliant trovato al bar come invito turistico per la grande mostra sul Bastianino che si apre ai Diamanti. Ora tutti sanno che cosa significa “ekpfrasi”, parola coniata negli anni Trenta dal grande studioso d’arte Roberto Longhi, è un vocabolo entrato prepotentemente anche nel nostro lessico, familiare e popolare, la signora Giuseppina l’ha sempre sulle labbra, anche quando si rivolge al nipotino “ciò, Radames vam a tor un’ekphrasi.” E quanta ne debbo prendere, nonna?, “mezz chilo, va là”. Ma è il simpatico depliantino a spiegarci l’arcano: “i lampi sono quelli che agitano una scena creativa post rinascimentale e controriforiformata che si è infoscata”. Finalmente chiaro. Speriamo che il turista non s’incavoli.

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IL FATTO
Parentesi Brevi
e storie Semplici

Era già tutto previsto. Il feeling fra la Spal e il suo allenatore Oscar Brevi non è mai scattato. Incomprensioni e tensioni sono iniziate già dall’estate e si sono trascinate durante i cinque mesi di permanenza a Ferrara del mister milanese. Un carattere chiuso, schivo, poco incline alla socialità, un atteggiamento apparentemente distaccato la domenica quando dalla panca osserva la squadra senza mai concedere alla platea la sensazione di trascinare i giocatori con i suoi moniti o le sue indicazioni, una scarsa attitudine alle relazioni pubbliche: tutto questo ha impedito che fra il tecnico e l’ambiente spallino scoccasse la scintilla. C’è stato un momento di euforia quando la Spal – apparentemente archiviate le iniziali difficoltà – ha inanellato una significativa serie di risultati utili, sino a issarsi al vertice della graduatoria. Ma nell’ultimo mese e mezzo la squadra è andata a precipizio sino a farsi risucchiare dalle ultime. Così come da tanti pronosticato e da molti auspicato Brevi è stato esonerato: come usualmente avviene è l’allenatore a pagare il conto per tutti.

Oscar Brevi è da poche ore un ex, una figurina della Spal che arricchisce le troppe pagine amare degli anni Duemila. Nel secolo nuovo la Spal non ha ancora vinto nulla: ha ottenuto una promozione per ripescaggio in C1 nel 2008, è poi precipitata in serie D causa la mancata iscrizione del 2012, si è ritrovata in Seconda divisione (ex C2) lo scorso anno grazie alla fusione con la Giacomense e ha conservato a giugno la permanenza nella Lega Pro unica con un faticato ottavo posto, l’ultimo utile per non risprofondare fra i dilettanti. Ora, come a ogni cambio di timoniere, si aprirà un nuova ciclo e con esso rifiorirà la speranza. Speriamo si accompagni finalmente a orizzonti di gloria.

Il brano intonato: Riccardo Cocciante, Era già tutto previsto

AGGIORNAMENTO DELLE 19
E’ Leonardo Semplici, 47 anni, già tecnico di Figline Valdarno e Fiorentina Primavera, il nuovo allenatore della Spal

roberto-soffritti

IL FATTO
Un ‘think tank’. E il ritorno di tribuna politica con Soffritti, Sateriale e Tagliani

Nel mondo anglosassone esistono ormai da più di 100 anni, ma l’espressione è stata coniata negli Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale per denominare le sezioni speciali del Dipartimento della Difesa formate da scienziati, ufficiali ed esperti allo scopo di ragionare sull’andamento del conflitto e sulle prospettive di lungo periodo: da qui il gioco di parole ‘think’ (pensiero) ‘tank’(serbatoio ma anche carro armato). Nel panorama politico americano questi organismi assicurano dati, informazioni, consigli e previsioni ai decisori pubblici, analizzano la situazione, ma rimangono un passo indietro rispetto allo scontro politico quotidiano, ragionano in termini di strategie, scenari e produzione di ricerca e idee. Ma se i think tank statunitensi hanno la funzione di centri di ricerca, dibattito e riflessione sulle politiche pubbliche, economiche, industriali, in Italia – dove sono una realtà relativamente recente – sembra essersi oramai affermato il modello del think tank personale: una sorta di nuovo consigliere del Principe, da ItalianiEuropei a FareFuturo, da Folder di Antonio Di Pietro a Mezzogiorno Europa, nato per volontà dell’attuale Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
“Pluralismo e dissenso”, il think tank ferrarese presentato in conferenza stampa dallo storico esponente dei Radicali cittadini Mario Zamorani e dal giovane Paolo Niccolò Giubelli, si rifà a modelli del calibro dell’Istituto Bruno Leoni e sembra perciò voler tornare al modello anglosassone: uno strumento informale di elaborazione e discussione, un gruppo di persone che vogliono approfondire temi e proporre soluzioni, essere di stimolo agli amministratori cittadini sulle politiche locali, “creare un’agenda politica”, come ha affermato Zamorani. Il nome nasce dalla volontà di creare uno spazio politicamente trasversale in cui poter parlare “in maniera pluralistica” e in cui dare voce al dissenso “poco accettato nelle formazioni politiche odierne”. Per ora ci sono un sito internet (pluralismoedissenso.altervista.org) e un gruppo di circa dodici aderenti, fra i quali: Sergio Caselli, Ilaria Baraldi, Leonardo Fiorentini, Romeo Savini, Corrado Padovani, Giorgio Rambaldi e Pasquale Longobucco. Inoltre ci sono già in cantiere le prime iniziative pubbliche, a partire da un ciclo di incontri come “tentativo di lettura degli ultimi 31 anni di storia ferrarese”, continua Zamorani, 31 come la somma degli anni di governo dei tre sindaci invitati: i 16 anni di Roberto Soffritti, i 10 di Gaetano Sateriale e i 5 del primo mandato di Tiziano Tagliani. La modalità scelta è quella delle “prime tribune politiche televisive in bianco e nero” con il politico sottoposto al “fuoco di fila” di diversi giornalisti, in questo caso dei principali quotidiani locali, le cui domande non saranno su un tema specifico predefinito, ma avranno lo scopo di far emergere “gli elementi caratterizzanti positivi e negativi” di ciascuna amministrazione e, alla fine, “come è cambiata Ferrara in questi anni”. Il primo a sottoporsi a questo fuoco incrociato, il 12 dicembre alle 17 nella Sala dell’Arengo in Municipio, sarà Roberto Soffritti, in gennaio toccherà poi a Sateriale, infine dovrebbe rispondere Tagliani, che però non ha ancora dato conferme ufficiali. Tutti gli incontri saranno aperti al pubblico, verranno ripresi e poi resi disponibili sul sito del think tank.

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La precaria arte dell’equilibrio

L’avvocato Guido Guerrieri, quello autoironico e brillante dei romanzi precedenti di Gianrico Carofiglio e protagonista de “La regola dell’equilibrio” (Einaudi, 2014), si è incupito. Potrebbe essere malato, per un giorno crede di esserlo, e quel giorno cambierà tutti quelli che verranno dopo perchè non si può riportare indietro la lancetta, fosse anche solo di ventiquattr’ore. Fragilità e precarietà, pensieri per quello che e per quello che non, se le analisi non fossero state sbagliate.
Ci sono momenti in cui Guido fatica a mettere ordine dentro di sè, gli si ripropone il passato fatto di luoghi non più suoi e ora abitati da altri, un senso di estaraneità lo manda lontano, lontano anche da Sara, la sua ex moglie che è diventata moglie di qualcun altro. Eppure si erano amati, avevano riso assieme, anche sofferto, com’è possibile che il tempo annichilisca i legami che ci erano sembrati solidi e veri quando li stavamo vivendo.
Guido accetta di difendere un giudice accusato di corruzione, non è facile trovare equilibrio fra etica, deontologia e ricerca della verità. L’equilibrata interpretazione dei fatti che Guido crede di avere seguito, salta e saltano molti altri meccanismi in equilibrio fino a quel momento. La realtà non si adatta più a quell’immagine di se stesso, non c’è corrispondenza, la realtà che Guido scopre è insopportabile, troppo pesante. La regola dell’equilibrio morale “consiste nel non mentire a noi stessi sul significato e sulle ragioni di quello che facciamo e di quello che non facciamo. Consiste nel non cercare giustificazioni, nel non manipolare il racconto che facciamo di noi a noi stessi e agli altri”. Tutto questo Guido lo sa quando si trova davanti a una scelta professionale e morale difficile, un dilemma acuto, ha bisogno, allora, di rifugiarsi nelle sue nicchie, la libreria notturna “Osteria del caffellatte” e il sacco da boxe con cui il dialogo è più che altro un cazzotto verso se stesso. Il tempo, come Guido arriva a capire, non è la conta lineare dei giorni, ma sono alcuni fatti che accadono e ci permettono di quantificarlo dandogli un significato, questa è la vera unità di misura, la vera conta che ti fa vedere quello che avevi dato per scontato.
Annapaola, un’investigatrice privata che lo aiuta nelle indagini, è quanto di più lontano ci possa essere da una donna ferma e rassicurante, è un punto in perenne movimento, è ambigua e maledettamente attraente. Guido se ne potrebbe innamorare, c’è complicità tra di loro e, a un certo punto, tutto sarà finalmente più chiaro, quasi in equilibrio.

‘Giorni felici’ con la strepitosa Giulia Lazzarini

STANDING OVATION: I PIU’ ACCLAMATI SPETTACOLI TEATRALI DEL XXI SECOLO
Giorni felici, di Samuel Beckett, regia di Carlo Battistoni, Teatro Comunale di Ferrara, dal 18 al 22 aprile 2001

Finale col botto per la stagione di prosa 2000/2001 del Teatro Comunale: “Giorni felici”, del maestro del teatro dell’assurdo Samuel Beckett, nell’ormai quasi mitica interpretazione di Giulia Lazzarini e con la memorabile regia di Giorgio Strehler (qui ripresa da Carlo Battistoni). In merito a quest’opera del grande drammaturgo irlandese, ebbe ad affermare nel 1963 il regista pioniere del teatro dell’assurdo Roger Blin: «Il problema principale di questo testo è evidentemente quello dell’interpretazione, di trovare un’attrice capace di recitare questa parte enorme». Circa vent’anni fa Giulia Lazzarini vinse la sua formidabile sfida con un’interpretazione magistrale.
Samuel Beckett completò la stesura di “Happy Days” nel maggio del 1961. La “prima” mondiale ebbe luogo a New York, nel settembre di quell’anno, al Cherry Lane Theatre per la regia di Alan Schneider e con l’interpretazione di Ruth White. Alla fine del 1962, Beckett concluse la traduzione del testo in francese: “Oh les beaux jours”, che fornì al regista Roger Blin, il quale lo allestì nel settembre del 1963 alla Biennale di Venezia e, subito dopo, all’Odéon di Parigi, con l’interpretazione di Madeleine Renaud. La versione italiana: “Giorni felici”, andò in scena nell’aprile del 1965 al Teatro Gobetti; la regia del dramma, presentato dal “Teatro Stabile di Torino”, venne affidata a Roger Blin e il ruolo della protagonista a Laura Adani. E nel maggio del 1982 toccò a Giorgio Strehler fornire la propria versione al “Piccolo” di Milano, come s’è detto con la strepitosa interpretazione di Giulia Lazzarini.
La trama, se così può essere definita, è implosiva. Winnie, la protagonista, interrata fino alla cintola su una montagnola erbosa nel primo atto e fino al collo nel secondo, è alla ricerca di piccole gioie, di minuscole possibilità di consolazione. D’altra parte, vicino a lei sta Willie, suo marito, distratto e apatico, che non reagisce alle sollecitazioni della moglie. Willie continua a leggere gli annunci sul giornale, poi nel secondo atto appare vestito elegantemente, con guanti e cilindro, dunque caricaturale. Winnie sa che un tempo avrebbe potuto renderlo felice, ora sa di non essere più quella di una volta, così non le resta che trascorrere i suoi giorni cercando una fittizia felicità con parole vuote e oggetti inutili. È il fallimento dell’amore: fuori di noi stessi c’è il nulla. Le parole del monologo di Winnie sono quelle con cui «si ammantano di importanza le poche cose insignificanti che riempiono la nostra giornata, con cui si nasconde a se stessi, prima ancora che agli altri, la realtà della propria condizione».

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IL FATTO
Unife fa 13%, in forte aumento le matricole

Aumento delle immatricolazioni, problemi della ricerca scientifica, finanziamenti europei e prospettive derivanti dalle prossime leggi governative, oltre alle già citate criticità degli ultimi anni, sono stati i temi principali affrontati ieri dal rettore Pasquale Nappi al Teatro “Abbado” durante l’annuale cerimonia di inaugurazione dell’Anno accademico., 624° di attività. Nappi ha annunciato con orgoglio il significativo aumento degli immatricolati di Unife (+13% rispetto al 2013-14), un dato in assoluta controtendenza rispetto alla media nazionale e di grande importanza per il mantenimento dell’eccellente numero di iscritti all’Università di Ferrara, forte delle sue 17.500 presenze (delle quali la metà fuori sede).
Molti docenti dell’Università e i direttori dei dodici dipartimenti hanno fatto da cornice sul suggestivo palcoscenico alla tradizionale relazione del rettore, giunto al suo quinto ed ultimo anno di mandato. Anni caratterizzati da non pochi eventi e fatti significativi e spesso difficili (terremoto e riforma Gelmini su tutti) che sono serviti da spunto per il suo discorso.

I numeri sciorinati sul palco del Comunale confermano l’importanza del conseguimento di una laurea per l’ingresso nel mondo del lavoro e sottolineano la centralità delle attività accademiche, soprattutto quelle che concernano la ricerca, quest’ultima dalla grande tradizione in Italia ma anno per anno, come risaputo, sempre più colpita da continui tagli. Nappi assicura che nonostante le difficoltà a cui ancora si dovrà andare incontro nel prossimo futuro, Unife potrà contare su bandi e finanziamenti che sbloccheranno diversi fondi per nuove apparecchiature e borse di studio, menzionando in questo versante gli ottimi risultati raggiunti dal Tecnopolo.

Triste il dato sui finanziamenti pubblici all’Università per il nostro Paese che ci confina tra gli ultimi posti in europa, obbligandoci a trovare urgentemente soluzioni e nuove strategie per non perdere la competitività con il resto del mondo. Su questo versante, tuttavia, il Rettore non ha nascosto la sua speranza di intravedere uno spiraglio di miglioramento con le prossime mosse attuate dal Governo: un monito, quello di Nappi, che nonostante la consapevolezza della difficile fase che tutto il mondo sta attraversando si possa cominciare, senza più tagli o modifiche in corsa, ad attuare piani d’azione verso il mondo delle Università volti a far ripartire l’intera macchina. In quest’ottica, viene ben accolto il patto di stabilità promosso dal governo attraverso il quale si spera di poter tornare ad assumere più personale docente a tempo indeterminato, invertendo una rotta che prosegue da anni (rispetto al -15% di tagli al corpo docenti a livello nazionale, Unife può “vantare” un -7,5%) e che potrebbe tornare a far crescere, anche qualitativamente e con un adeguato ricambio generazionale, l’intero settore. A conclusione del suo intervento, il rettore menziona i grandi progetti di Unife per il prossimo futuro, tra i quali il concorso di progettazione per la nuova Scuola di medicina a Cona, il parcheggio a copertura fotovoltaica del S. Anna e la rivalutazione degli edifici storici di via Savonarola, pensati come spazi molto più aperti e accessibili, oltre alla recente scoperta di tracce decorative quattrocentesca rinvenute nella Chiesa di Santa Agnesina.

A confermare l’interesse del governo nel risollevare l’Università è stato l’”ospite” Dario Franceschini, ministro dei Beni e della attività culturali e del turismo, dettosi orgoglioso di “tornare nella mia città ma anche e soprattutto nella mia Università”. Il ministro ferrarese ha specificato che i dati illustrati rispecchiano la dura realtà ma che, nonostante tutto, è iniziata una (anche seppur lenta) inversione di tendenza. “Per troppo tempo”, afferma Franceschini, “si è pensato a come imitare i campus universitari, soprattutto quegli statunitensi, dimenticandoci che nel nostro Paese abbiamo vere e proprie città-campus e Ferrara ne è un grande esempio”, base dalla quale partire per rimettere l’università e la cultura al centro delle priorità, anche del governo. È tempo quindi di rivalutare il patrimonio culturale italiano anche mediante l’Università, considerando quindi quest’ultima e la cultura stessa come investimento non solo politico-istituzionale anche per preservare i tanti talenti che, altrimenti, continueranno a scappare dall’Italia. Franceschini ha concluso sottolineando come il nostro paese sia amato in tutto il mondo mentre noi lo amiamo sempre meno, una contraddizione che ci deve far aprire gli occhi per riuscire a “vedere l’Italia nello stesso magnifico modo con il quale la vedono i milioni di turisti che vengono a farci visita”.

È stato poi il turno del sindaco di Ferrara Tiziano Tagliani, interessato a sottolineare fortemente il grandissimo legame tra Unife e la città come valore aggiunto in tutti i sensi, dato importante considerato anche che non tutte le città sono universitarie, ma non ancora sufficiente: per il sindaco infatti una città-universitaria è tale solamente se l’interesse dell’una con l’altra è reciproco, “la città deve sentirsi università e l’università parte di un’identità cittadina, non in competizione”. E proprio sulla questione della competizione si è soffermato Tagliani, auspicando un mondo universitario sempre più improntato sulle alleanze e sulle collaborazioni piuttosto che sulle competizioni, soprattutto a livello regionale, che da sempre contraddistinguono il mondo accademico.

In conclusione dell’evento, il professore associato di Storia dell’Arte moderna Francesca Cappelletti ha tenuto la prolusione sul tema “Le ragioni della storia dell’arte. Ricerca universitaria, patrimonio culturale e territorio”, un ulteriore modo per sottolineare l’importanza della cultura nel nostro paese, spiegando dettagliatamente il ruolo fondamentale dell’arte negli ultimi secoli come ulteriore supporto alla ricerca scientifica e la valenza futura di questa disciplina sempre più incentrata sul legame saldo con territorio e società.
Importante infine la consegna del titolo di professore emerito a Arrigo Manfredini, ordinario di Istituzioni di Diritto romano e Diritto romano dell’Università di Ferrara, docente molto amato da molte generazioni di studenti (lo stesso Rettore afferma di aver sostenuto con lui l’esame al primo anno) e dal grande impegno scientifico ed istituzionale.

Tirando le somme, il 624° anno di attività per l’Università sarà sicuramente ancora soggetto a molte difficoltà, ma l’interesse e gli impegni presi dai relatori dell’evento lascia qualche lume di speranza per l’inizio di una nuova fase, più rosea, innovativa ed improntata sul futuro. Una cosa è certa: Unife è linfa vitale per Ferrara, un’isola felice per tanti studenti che hanno trovato in questa sede un punto di forza per formarsi e mettere le radici per la propria carriera. Gli ottimi risultati degli studenti che da sempre caratterizzano il prestigio di Unife devono essere supportati da provvedimenti che davvero puntino al miglioramento dell’instabile situazione odierna. Solo così potremo vantarci, davvero, di vivere in una città (per dirla con Tagliani) che realmente vive per l’Università, e viceversa.

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La Grande Cecità

È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio e il sentimento, l’emozione e la paura… Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile. “La Grande Bellezza”, Jep Gambardella

C’era una volta una bellezza imperiale, una cultura magistrale e unica, una fantasia indefinibile. C’era una volta una civiltà che aveva creato leggi e regole.
C’era una volta una storia fatta di vittorie e di conquiste, di primati e di grandi uomini, oratori, pensatori, architetti, scrittori, scultori, mecenati e artisti.
C’era una volta una città che costruiva i grandi acquedotti, che ospitava Michelangelo, Raffaello e Bernini. Una città di fiori, di canzoni, di Madonne affrescate agli angoli delle strade, di carrozze con i cavalli, di vento fresco che accarezzava capelli e cupole.
C’era una volta la città del cinema, della dolce vita, della bellezza. C’era una volta Roma.
Oggi che gli scavi che ritrovano il più grande bacino idrico mai ritrovato della Roma imperiale si mescolano a enormi scandali che la travolgono, siamo vicini a questa bellezza perduta ancora più di prima. Insieme a Jep Gambardella, che ne “La Grande Bellezza” ci riporta al pesante connubio tra memoria e sperpero che affanna questa meravigliosa città, a un film dal titolo antifrastico, usato cioè per rivelare la “grande bruttezza”, per raccontare, in maniera simile alla bellezza in disfacimento delle nature morte barocche, la vanitas vanitatum, la fatica di un mondo che fa perdere un sacco di tempo e che «accoglie tutti come un grande catino» (P. Sorrentino, Hanno tutti ragione, Feltrinelli), dove si confondono, fermentando l’uno nell’altro, alto e basso, grandezza e meschinità, musica sacra e ritmo techno. Un turbinio di bene e male.

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Jep Gambardella

In questo film, ora più che mai attuale, siamo persi nella vanità capitolina, in un mondo che si guarda vivere, spesso senza far nulla, proprio come Jep, che si perde e vaga/divaga tra inutili e frenetiche feste in terrazza, incontri vacui, maschere e apatia, sogni strani e camminate solitarie lungo il fiume Tevere. Crisi d’identità che ci attanaglia? Tentativo di ritrovare una spiritualità perduta come quella che solo nell’eterna Roma si può cercare e, magari, ritrovare? Un pensiero al niente rappresentato da questa società italiana ormai così drammatica e vicina al collasso, una realtà in cui viviamo a noi estranea e che molti non comprendono più?
Roma ci lascia sempre senza parole, nel bello e nel brutto, la capitale mondiale dei tramonti, del monumentale, della bellezza che incombe, ovunque, che da’ brividi e pretende venerazione, che scioglie le paure ma che ci lascia perplessi di fronte all’attuale contraddizione di un disfacimento di consumi e di moralità che fa molto male.
Ci si crede intellettuali, come alcuni degli amici di Jep, solo perché si leggono libri dai titoli altisonanti o perché non si ha o non si guarda la televisione, si vive in un disfacimento trasversale di una commedia-tragedia delle apparenze.

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La solitudine del protagonista
tanta-bellezza
Veduta del cupolone

Una Roma nascosta sfila in questo film, una Roma che c’era e c’è ancora ma che spesso vorremo ritrovare. Una bellezza che non sfugge ma che si confonde, che ci consuma nel dubbio di come si possa coniugare con tanta bruttezza. Non vogliamo dare giudizi politici o morali di alcun genere. Siamo solo confusi, spaventati da chi tale bellezza non vede.

La Grande Bellezza, di Paolo Sorrentino, con Italia/Francia, con Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli, Roberto Herlitzka, Isabella Ferrari, Giorgio Pasotti, Vernon Dobtcheff, Serena Grandi, Luca Marinelli, Giulia Di Quilio, Massimo Popolizio, Giorgia Ferrero, Pamela Villoresi, Carlo Buccirosso, Ivan Franek, Stefano Fregni, 2013, 142 mn

romanzo-criminale

LA PROVOCAZIONE
L’odore del marcio

“C’è del marcio in Danimarca”… Perfino troppo banale riportare la celebre frase shakespeariana per applicarla al “marcio” romano. L’intuisce subito il magistrato-scrittore Giancarlo de Cataldo che chiosa: “D’altronde, che a Roma ci fosse del marcio, era da tempo sotto gli occhi di tutti”

Ma che odore ha il marcio di Roma? Lo si ricava dalle impressionanti testimonianze raccolte nelle intercettazioni telefoniche che raccontano nell’uso straniante di una lingua “di mezzo” gli afrori, le puzze, le abitudini dei gregari dell’immenso marciume: ascelle mal lavate, piedi sporchi, fiati vinosi, perfino scoregge. Tutto l’armamentario di quegli uomini “veri” che ubbidiscono a coloro che intrattengono rapporti col mondo di sopra. E allora ecco che quella puzza viene coperta da profumi grevi, costosi e al feromone.
E intorno la desolazione di un marciume che prima che simbolico è reale: odor di carcere, di periferie abbandonate, di campi rom dove in una roulotte sgangherata possono vivere in otto.

Ricordate il famoso “medioevo prossimo venturo”? il celebre libro di Roberto Vacca che indicava lo sfaldamento dei grandi sistemi industriali e sociali.
Eppure il tempo attuale, il tempo romano è molto peggio di quel medioevo più pulito e meno disgustosamente puzzolente.

La cupola romana poi è il perfetto esempio di una società sessuofobica che incita alla prostituzione e al disprezzo totale verso la donna. La sua figura simbolo è la puttana, colei che deve indossare i panni della seduttrice e andare a battere per incastrare l’acquirente: “Devi vendere il prodotto amico mio, eh. Bisogna fare come le puttane adesso, mettiti la minigonna e vai a batte co’ questi”.

Infine il linguaggio di cui Filippo Ceccarelli procura un importante campionario su “La Repubblica” che sicuramente non ha la nobiltà del romanesco ma si mescida in una lingua gutturale, tronca, priva anche di quelle espressioni che dovrebbero, secondo le indicazioni dei linguisti, esprimere le esigenze di quel complesso sociale che è quello della borgata, del villaggio, di una società familiare o appena al di sopra della famiglia.

E all’ossessione delle tronche di cui Ceccarelli esibisce un campionario assai indicativo: “Piglià, pagà, comprà, prosciugà, rubbà” si intrecciano le grevi locuzioni sessuali dove ogni parola può essere commentata con “cazzo” con la frase principe per esprimere fastidio, noia, preoccupazione “non ce poi rompe er cazzo così, eh”. I soprannomi su cui svetta il “Cecato”–Carminati e via schifeggiando.

La domanda che molti di noi si potrebbero fare è questa. Possibile che anche le frange più estreme di una rappresentanza politica che copre tutto o quasi l’arco costituzionale o quasi possa essere stata sedotta da simili personaggi? Possibile che per fare affari si trascini nel marcio la prassi e i valori democratici? Sembrano domande ovvie, inutili e perfino melense. E forse lo sono se non si ragiona più secondo un punto di vista etico.

E allora la puzza del marcio t’afferra alla gola e non ti fa più respirare.
Altro che le denunce pasoliniane, altro che il pessimo riferimento agli scrittori che potrebbero aver influenzato questo modo di pensare e d’agire.

Wagner idolo assieme a Nietzsche della propaganda nazi-fascista, Pound uno straordinario poeta a cui si intitola una casa di estrema ed eversiva destra. E ora Tolkien e la sua “terra di mezzo”.
Pure fregnacce che vorrebbero “nobilitare” con un pensiero il marcio che c’è in Danimarca= Roma o l’Italia intera. Faremo tra poco così anche con Rimbaud mercante di schiavi e sommo poeta?

Ecco il punto. La cultura nella sua forma più nobile espressa da Goethe con il termine “Kultur” può e deve reagire a questa ulteriore umiliazione che gli infami della cupola romana vorrebbero – complice la modesta e tendenziosa stampa giornalistica di ogni versante, pur con le debite eccezioni – affibbiargli.

Fosse pure con la sfida con cui Farfarello il capo diavolo alla caccia dei violatori del mondo di sotto (l’inferno dantesco) inizia la sua caccia. I diavoli aspettano il cenno del capo: “Per l’argine sinistro volta dienno; / ma prima avea ciascun la lingua stretta / coi denti verso lor duca per cenno; / ed elli avea del cul fatto trombetta”

Mi scusino i miei venticinque lettori (forse meno) di questo linguaggio non proprio modello di lingua alta.
Ma all’indignazione le parole servono e debbono servire.

Lucio Scardino, porno-scrittura d’autore

Tra le numerose ormai performance cartacee di Lucio Scardino, focalizziamo lo zoom sul suo forte vertice letterario: “Doctor Jacki. Uno strano caso” (La Carmelina, 2010). Lucio Scardino riassembla con stile culturalmente scorretto uno dei capolavori del nuovo immaginario tecnoscientifico, all’epoca aurorale: il notissimo “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde” di Stevenson. Persino, secondo la cifra ben nota letterario-sociale dello Scardino letterato (più conosciuto come critico d’arte ed editore), innestata nel volume con particolare e non facile intuizione.

Certa icona modernissima del Doppio, simultaneamente esistenziale e strettamente scientifica (come appunto nel Dottor Jeckyll…) è ricombinata con formula ben calcolata sulla questione più civile e sociale della sessualità alternativa o variabile, quella gay o omosessuale nello specifico, oggi anni duemila, solo parzialmente risolta ed accettata socialmente.
Scardino convince appieno a livello letterario: nessuna ostentazione paraporno o trash, la penna è sempre di squisito estetismo per così dire sintetico, vocali e consonanti come fuochi d’artificio apparentemente solo spettacolari, invece giocattoli pronti alla detonazione, contro pregiudizi e infami buon sensi, di tutte le classi o gruppi sociali, anche quelli a volte eccessivamente auto referenti come alcune stesse associazioni d’area.
Insomma, la rotta poetica e culturale è quella individuale, anti-collettiva quasi, alla Oscar Wilde o alla Genet: la diversità sessuale evocata non come Ossessione della Normalità e della normalizzazione, ma come eresia personale e sociale: da qui, forse, il complementare e parallelo sfondo del romanzo di Stevenson. Libera scienza in libero stato e libera sessualità….
Certo substrato noir stesso attinge all’archetipo letterario: crea sia gothic ottocentesco che quasi dark del duemila, soft, suffragato da una ritmica della parola e della narrazione postmoderna e minimalista ma dopo il moderno… quasi insiemistica letteraria secondo le analisi magari di un Franco Rella o della stessa Nadia Fusini e – più attualmente, forse – dello stesso Vitaldo Conte, docente di Belle arti a Roma, promotore della Trans art letteraria e artistica “estrema”. Per una atopia raffinata e giustamente provocatoria alla luce del sole o del giorno… della parola e della sessualità libera interumana in quanto tale, al di là dei codici stessi soggettivi banalmente sociologici.
Lucio Scardino, noto editore ferrarese [vedi] e critico d’arte nazionale, ha all’attivo anche numerosi volumi poetici sempre di felice trasgressione linguistica e letteraria: in particolare, “Poesie erotiche e no” e “Suicidi tentati. Poesie risorgimentali e no” (entrambe Liberty House).
Ulteriormente da segnalare un exploit (invero poco evidenziato a Ferrara): Lucio Scardino recentemente incluso in una delle antologie (letteralmente) contemporanee più rilevanti e “sovversive” del nostro tempo (e per certo eterno buon senso delle caste e delle province letterarie).Ovvero “Le Parole tra gli uomini”, antologia di poesia “gay” da Saba al presente (Baldoni edizioni), segnaliamo solo alcuni nomi: Palazzeschi Aldo, De Pisis Filippo, Pasolini Pier Paolo, Testori Giovanni, Pecora Elio, Bellezza Dario [vedi]

*da Roby Guerra “Dizionario della letteratura ferrarese contemporanea”, Este Edition-La Carmelina, ebook 2012

politica-populismo

Eletti ed elettori, una pericolosa alternanza di diffidenza e populismo

Dopo l’ultimo incontro del ciclo Passato Prossimo con Piero Ignazi [vedi-link all’articolo] ci eravamo lasciati con il punto fermo della crisi del modello del partito di massa novecentesco e alcune domande sul processo di personalizzazione dei partiti italiani. Proprio dall’indebolimento del modello novecentesco di partito e dal tema del leader e del suo rapporto con gli elettori è partita l’analisi dell’appuntamento conclusivo di Passato Prossimo: “Populismo. Crisi della rappresentanza politica e partiti carismatici”, ospiti d’onore lo storico Giovanni Orsina, dell’Università Luiss di Roma, e il suo volume “Il berlusconismo nella storia d’Italia” (Marsilio, 2013).
Orsina sembra pensarla come Ignazi, la nostra peculiarità non sta nella crisi dei partiti del ‘900 o in un rapporto fra leader ed elettorato filtrato ormai quasi totalmente dai media, “l’unicum italiano è che in nessun altro Paese occidentale si ha una crisi politica, o meglio di un regime democratico, negli anni Novanta”: in altre parole Tangentopoli. È Tangentopoli, secondo Orsina, a far balzare improvvisamente il sistema italiano da una forma ancora molto basata sull’organizzazione e le strutture dei partiti a una basata sul “leader mediatico”.
Ma se Mani Pulite è la causa immediata della nascita politica di Berlusconi e del berlusconismo, Orsina è convinto che le radici di questa retorica antipolitica siano più profonde e necessitino di un’analisi di lungo periodo dei rapporti fra élite e popolo in Italia. La tesi di fondo del volume, infatti, è che il nostro Paese si caratterizzi per una profonda sfiducia reciproca fra élite politiche e istituzioni pubbliche da una parte, e ‘popolo’ dall’altra. La responsabilità di tale sfiducia andrebbe attribuita a élite sempre in cerca di soluzioni “ortopedico-pedagogiche”, come le definisce lo storico romano nel volume, per riformare le masse e costringerle ad accettare la modernità: un tentativo che accomunerebbe le classi dirigenti risorgimentali, il fascismo e la ‘repubblica dei partiti’ instaurata nel 1946. Nel 1994, l’imprenditore di Arcore avrebbe perciò avuto successo non solo per le sue risorse finanziarie o per il suo talento comunicativo, ma perché ha detto alla società italiana ciò che questa voleva sentirsi dire: che il problema italiano non era il popolo ma lo Stato e perciò era possibile e necessaria una nuova classe dirigente, formata di persone competenti ed estranee ai vecchi partiti. Il berlusconismo ha insomma ribaltato il paradigma di D’Azeglio “fatta l’Italia occorre fare gli italiani”, valido dall’Unità fino a quel momento, asserendo che la politica “non deve pretendere di essere migliore del Paese e di cambiarlo”. E forse questo è ciò che lo accomuna agli altri populismi italiani descritti nel volume “Il partito di Grillo” curato da Piergiorgio Corbetta e Elisabetta Gualmini dell’Istituto Cattaneo: quello moralizzante di Di Pietro, quello terrigno della Lega e quello delle reti web del comico genovese.
Secondo Orsina il problema è che le classi dirigenti italiane, piuttosto che pensare a come strutturare i meccanismi istituzionali, si sono sempre chieste ‘chi deve stare al potere’, perché le cose sarebbero funzionate e i problemi si sarebbero risolti solo con le élite giuste. Da qui la tendenza all’eticizzazione del discorso politico, con la divisione non più fra opinioni diverse, ma fra opinioni giuste e sbagliate, con queste ultime delegittimate ed estromesse dal dibattito: il che rappresenta il fallimento nella costruzione della dialettica politica.

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L’OPINIONE
Cari dirigenti del Pd e della Lega, questa è la vostra colpa

Pensiamo di averle viste tutte, ma poi arriva una nuova inchiesta che scoperchia un vaso di pandora della corruzione ancora più aberrante. Il sistema mafioso e criminale che governava Roma è al di là di ogni immaginazione. Lo schifo e la nausea crescono, ma le reazioni sono le stesse di sempre. C’è un ministro che si giustifica per aver partecipato ad una cena con commensali impresentabili. C’è il segretario del Pd che azzera gli organi dirigenti del partito romano. C’è il commissario designato, Matteo Orfini, che annuncia un repulisti generale e assemblee pubbliche. Ma nessuno risponde ad una domanda che ogni cittadino normale si fa. Come è stato possibile che due personaggi come Salvatore Buzzi e Massimo Carminati diventassero i padroni della politica e degli affari romani? Stiamo parlando di un assassino e di un ex terrorista organico alla famigerata banda della Magliana. Ha ragione Roberto Saviano: “Buzzi e Carminati, in qualsiasi altro Paese condurrebbero la loro vita lavorativa sotto una strettissima sorveglianza, per dimostrare con il loro comportamento che si può uscire diversi dal carcere.” E invece la politica e la Lega delle Cooperative ha concesso loro una fiducia cieca, senza esercitare un doveroso controllo. Questa è la vostra colpa, cari dirigenti della Lega e del Pd. Lo so che la destra è egemone in questa cloaca. Ma mi rivolgo alla mia parte perché è la mia storia che viene infangata, condivisa con milioni di persone oneste e perbene. Accadde anche con lo scandalo della Coop-costruttori più di vent’anni fa: nessuno vedeva, nessuno sapeva, nessuno parlava. E’ sempre più chiaro dove ci ha portato la denigrazione e l’oblio che circondò la denuncia sulla ‘questione morale’ fatta da Enrico Berlinguer nel 1981. E c’è ancora qualcuno che osa offendere con i titoli di giustizialismo e moralismo chi chiede onestà e moralità! Se non c’è uno scatto per cambiare verso. Se l’indignazione non si trasforma in azione politica per spazzare via questo letame, il dato dell’astensione registrato nella nostra regione diventerà nazionale alle prossime elezioni. E allora non varrà dire che è un fatto secondario, perché la tragedia seppellirà con le sue gravi conseguenze queste dichiarazioni sciocche e irresponsabili.

Fiorenzo Baratelli è direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara

Antico e nuovo testamento nell’arte ferrarese della Pinacoteca

da: Associazione Guide Turistiche di Ferrara e Provincia

La Pinacoteca Nazionale di Ferrara offrirà ai visitatori l’opportunità di ammirare, ancora una volta in un’ottica diversa, le opere esposte nei suggestivi saloni del Palazzo dei Diamanti.
Domenica 7 dicembre si potrà rivivere un affascinante viaggio nel tempo, attraverso l’analisi delle antiche figure di patriarchi e santi dell’Antico e del Nuovo Testamento, protagoniste dei quadri dal Medioevo fino all’età barocca.
La visita a cura dell’Associazione Guide Turistiche di Ferrara e Provincia permetterà di conoscere curiosità ed aneddoti caratteristici dello spirito di ogni epoca e che, generalmente, sfuggono all’osservazione.
Per il tour tematico della durata di un’ora e mezza circa non è richiesta la prenotazione.
Il luogo di ritrovo previsto è il cortile del Palazzo dei Diamanti alle ore 10:15 con ingresso alla Pinacoteca alle ore 10:30.
Il prezzo della visita è di 4 euro a persona; gratuito per i bambini fino a 11 anni.
L’accesso al Museo, in conformità al decreto Franceschini che stabilisce l’ingresso gratuito nei musei statali ogni prima domenica del mese, sarà libero.
L’iniziativa in calendario sarà seguita l’anno prossimo da altre visite guidate tematiche al fine di rendere ancora più affascinanti, anche per il pubblico ferrarese, le splendide opere racchiuse all’interno della Pinacoteca.

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L’OPINIONE
L’inglese aziendal-finanziario del professor Renzi

Propongo un dialogo immaginario fra due rottamatori a proposito della cosiddetta buona scuola di Matteo Renzi.
Per comodità userò le loro iniziali anziché i loro nomi; quelle del primo rottamatore sono PD (che sta per Primo Decisini) e quelle del secondo sono PDL (cioè Pier Devoto Liberista).
P.D: Ci vediamo tomorrow al barcamp per organizzare il crowfunding?
F.I: Ok boy, sinceramente avrei proposto un world café per un Fab Lab .
P.D.: Ahimé non possiedo ancora il know how e purtroppo conosco solo i Fab Four.
F.I.: Sei un bonus a nulla!
P.D.: Se io sono old perché non conosco il significato di B.Y.O.D., tu sei proprio un hackaton!
F.I.: Non ti si può dire N.E.E.T.: hai la coding di paglia!
P.D.: Basta così: nonostante la spending review ti confesso che sei il mio user friendly preferito.
F.I.: Se vuoi essere cool fatti un work in progress tutto tuo!
P.D.: Se non la smetti di offendere chiamerò la policy .
F.I.: Sai cosa ti dico: Voucher a quel paese!!!
Ho scelto questo dialogo introduttivo, zeppo di termini inglesi (usati anche a sproposito) perché nella proposta cosiddetta di “buona scuola” del Presidente del consiglio Matteo Renzi succede la stessa identica cosa.
Nonostante si premetta che la proposta è stata “offerta ai cittadini italiani: ai genitori e ai nonni che ogni mattina accompagnano i loro figli e nipoti a scuola; ai fratelli e alle sorelle maggiori che sono già all’università; a chi lavora nella scuola o a chi sogna di farlo un giorno; ai sindaci e a quanti investono sul territorio”, l’impiego massiccio del linguaggio inglese non è affatto alla portata di tutti.
Sentendomi il primo degli ignoranti, mi rivolgo a coloro i quali non conoscono a fondo il significato di alcune parole contenute nel documento la “buona scuola”, per offrirne una traduzione e poi ipotizzare il senso del loro impiego.

Le frasi fra virgolette sono prese letteralmente dalla proposta “La Buona Scuola”:
Barcamp: rete internazionale di non conferenze aperte i cui contenuti sono proposti dai partecipanti stessi. Gli eventi si occupano soprattutto di temi legati alle innovazioni sull’uso del world wide web, del software libero e delle reti sociali.
Blended learning: nella ricerca educativa si riferisce ad un mix di ambienti d’apprendimento diversi.
Bring your own device: la traduzione è “porta il tuo dispositivo”. “La didattica viene fatta sui dispositivi di proprietà degli studenti e le istituzioni intervengono solo per fornirle a chi non se lo può permettere.”
Co-design jams: gruppo composto da professionisti operanti in diversi settori che credono nel design collaborativo, come strumento per dare risposte agli scenari complessi della società odierna.
Coding: programmazione.
Content and language integrated learning: insegnamento di una materia in un’altra lingua. “Va esteso significativamente anche nella scuola primaria e nella scuola secondaria di primo grado”.
Crowdfunding: la traduzione potrebbe essere “raccolta di denaro”. “Coinvolge tutti i cittadini e mira ad incentivare meccanismi di microfinanziamento diffuso a favore della scuola. I docenti, i genitori, gli studenti stessi saranno protagonisti.”
Data school nazionale: traduzione “dati della scuola”. “Tutti hanno l’esigenza di fare comprendere i propri dati, le sfide di bilancio, di amministrazione, di policy.”
Decision making: drocesso che porta a prendere una decisione, da parte di un individuo o di un gruppo.
Design challenge: “Una gara aperta per identificare la miglior soluzione tecnologica che aumenti la fruibilità delle informazioni.”
Digital makers: produttori digitali. “Ogni studente avrà l’opportunità di vivere un’esperienza di creatività e di acquisire consapevolezza digitale anche attraverso l’educazione all’uso positivo e critico dei social media e degli altri strumenti della rete.”
Early leavers: abbandono scolastico precoce. “Sono giovani disaffezionati ad una scuola che non riesce a tenerli con sé”.
Fab Lab: dall’inglese ‘fabrication laboratory’ è una piccola officina che offre servizi personalizzati di fabbricazione digitale.
Gamification: è l’utilizzo di elementi mutuati dai giochi e delle tecniche di game design in contesti esterni ai giochi
Good Law: traduzione “buona legge” ma nel contesto viene impiegato come semplificazione. “Da subito il Miur elaborerà delle Linee Guida perché i propri atti siano elaborati in un linguaggio comprensibile e di facile attuazione”.
Hackathon: evento al quale partecipano, a vario titolo, esperti di diversi settori dell’informatica: sviluppatori di software, programmatori e grafici web. “Per aumentare l’impatto dell’apertura, lanceremo in autunno il primo hackathon sui dati del Ministero, dalle stanze del Ministero”.
Living lab: nuovo approccio nelle attività di ricerca che consente agli utilizzatori di collaborare con i progettisti nello sviluppo e nella sperimentazione dei nuovi prodotti ad essi destinati.
Matching fund: proposta di un percorso che porta l’impresa a tornare protagonista. Uno scambio di valore che porta a crescita e sviluppo del business. “Il Governo valuterà di mettere a disposizione finanziamenti per fare matching fund”.
Mentor: persona che fa da guida e da consigliere ad una persona con minore esperienza.
Nudging: accessibilità. “All’estero li chiamano ‘good law’ e ‘nudging’, noi lo chiamiamo semplificazione, accessibilità, attuazione.”
Opening up education: educazione aperta. Consentirà agli studenti, agli operatori del settore e agli istituti di istruzione di condividere risorse educative aperte e liberamente utilizzabili. “Stiamo scommettendo sul fatto che la scuola abbia già in sé le soluzioni per il suo rinnovamento”.
Policy: linea di condotta.
Problem solving: indica il processo cognitivo messo in atto per analizzare la situazione problematica ed escogitare una soluzione
Service design: attività di pianificazione e organizzazione di personale, infrastrutture, comunicazione e materiali di un servizio, con lo scopo di migliorarne l’esperienza in termini di qualità ed interazione tra il fornitore del servizio e il consumatore finale.
Social impact bonds: obbligazioni ad impatto sociale. “Sono strumenti che mirano a creare un legame forte tra rendita economica e impatto sociale”.
School bonus: bonus fiscale per un portafoglio di investimenti privati (da parte di cittadini, associazioni, fondazioni, imprese) nella scuola.
School guarantee: mirato a premiare in maniera più marcata l’investimento nella scuola che crea occupazione giovanile.
Voucher: all’inglese (to) vouch: attestare, garantire. Sono documenti emessi da agenzie ai propri clienti, come conferma del diritto a godere di specifici servizi, in essi indicati e già pagati in precedenza all’agenzia stessa.
World cafés: metodologia che si ispira ai vecchi caffè, creando un ambiente di lavoro che inviti i partecipanti ad una discussione libera ed appassionata. [1]

“Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!” diceva Nanni Moretti in una scena del film “Palombella rossa”, rivolgendosi ad una giornalista.
“Chi parla male, fa in modo che gli altri pensino male” dico io rivolgendomi a chi scrive di “buona scuola” in un modo che rasenta l’arroganza.
Perché, dunque, in un documento simile dove si parla di buona scuola, di semplificazione e di linguaggio comprensibile, si usano così tante parole prese dal vocabolario aziendal-finanziario?
Tento qualche risposta elementare…
Perché si cerca di stupire con effetti speciali (“Noi ne sappiamo a pacchi, voi non sapete niente”).
Perché l’uso della lingua inglese offre un esempio di modernità (“Noi siamo moderni, voi siete vecchi”).
Perché il linguaggio tecnico è usato dagli specialisti (“Noi conosciamo, voi siete ignoranti”).
Perché il linguaggio specialistico impedisce la comprensione a tutti (“Noi abbiamo studiato, voi non sapete”).
Perché il linguaggio difficile crea subordinazione (“Noi vi stupiamo con i paroloni, voi dovete fidarvi”).
Traducendo con il vecchio vocabolario pedagogico le parole della “buona scuola”, l’idea che esce dalla lettura complessiva e dalla sua traduzione è quella di uno stile aziendale, competitivo, classista, emarginante, ipocrita ed ignorante.
Quindi, se si usa un linguaggio simile, si sceglie di comunicare qualcosa a qualcuno, proprio in quel modo.
La proposta di “buona scuola” è scritta con un “cattivo linguaggio” perché esso contraddice alcune affermazioni di principio e sostiene invece l’idea di una scuola paragonabile ad un’azienda.
Ho sempre sostenuto che, volendolo, addirittura le leggi si possono scrivere in maniera buona, semplice e comprensibile; ne è un esempio l’articolo uno della Lip ovvero del Ddl “Norme generali sul sistema educativo d’istruzione statale nella scuola di base e nella scuola superiore. Definizione dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di nidi d’infanzia”.

Art. 1. (Princìpi)
1. Il sistema educativo di istruzione statale:
a) si ispira a princìpi di pluralismo e di laicità;
b) è finalizzato alla crescita e alla valorizzazione della persona umana, alla formazione del cittadino e della cittadina, all’acquisizione di conoscenze e competenze utili anche per l’inserimento nel mondo del lavoro, nel rispetto dei ritmi dell’età evolutiva, delle differenze e dell’identità di ciascuno e ciascuna, secondo i princìpi sanciti dalla Costituzione, dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e dalla Convenzione sui diritti del fanciullo;
c) concorre altresì a rimuovere gli ostacoli di ordine economico, sociale, culturale e di genere, che limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini e delle cittadine;
d) garantisce la partecipazione democratica al suo governo da parte di docenti, educatori, personale ausiliario-tecnico-amministrativo, genitori e studenti.

Ancora a proposito di parole, nelle 136 pagine de “La Buona Scuola”, il termine “competizione” batte il termine “cooperazione” 5 a 0 (il primo viene nominato 5 volte, il secondo nessuna) mentre il vocabolo “economia” batte “costituzione” 8 a 2. Vorrà pur dire qualcosa!
In conclusione, se la scuola della Gelmini era quella delle tre I: Internet, Inglese, Impresa, quella di Matteo Renzi si caratterizza per essere quella delle tre F: Falsa, Frivola e Furba, perché mette in vendita vecchie idee liberiste spacciandole per nuove proposte, perché mette in vendita proposte superficiali spacciandole per affascinanti, perché mette in vendita la scuola spacciandola per un’azienda.

[1] Naturalmente sono ben accetti i suggerimenti di tutti coloro che sono in grado di fornire una definizione migliore dei termini inglesi che ho indicato.

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Iris e Velia, i due volti di Roberta Pazi

Un tavolo, una sedia. Un paio di pantofole. Non c’è altro sul palcoscenico del Teatro Off, ma la stanza si trasforma durante la narrazione, per riempirsi di oggetti e storie, quelli delle due protagoniste e degli invisibili personaggi che entrano, più e meno fugacemente, nelle loro vite. Dalla porta a destra del palcoscenico entra Roberta Pazi, interprete dei due personaggi femminili di “Sola in casa” e “Spogliarello”, due monologhi di Dino Buzzati, adattati per la regia di Giulio Costa, in scena questi sabati sera al Teatro Off.

Sono Madame Iris, cartomante sola e ansiogena terrorizzata dal killer che sta facendo strage di prostitute nella via in cui abita, e Velia, spregiudicata donna che campa di espedienti, alle spalle degli uomini, cadendo infine in uno stato di follia. Iris cerca, ascolta, titubante e sospettosa, guarda la pioggia cadere dalle finestre enormi che danno sulla strada buia. Velia pretende, urla, osa, tradisce e provoca; ha speranza, è sempre in ritardo con i pagamenti. Tra le due, nessuno stacco, nessuna pausa. Solo “Mes amis, mes copains” cantata da Catherine Spaak.
Iris si trasforma in Velia, nel caos di un palcoscenico già predisposto al disordine e alla rincorsa, imbrattato di carte da gioco e tovaglia; epilogo della presa di consapevolezza di Iris, e preludio dell’affannata rincorsa verso qualcosa che non troverà.
A fine spettacolo abbiamo chiesto all’attrice qualcosa sui personaggi da lei interpretati: “Sono personaggi attualissimi; soprattutto Velia, è una donna che può trovare collocazione anche ai giorni nostri.” racconta Roberta Pazi. “Madame Iris e Velia sono due donne diametralmente opposte – continua – e paradossalmente è proprio questa opposizione che ha facilitato il creare un legame tra due figure così differenti, creando una complementarietà tra i due personaggi così differenti.”
Iris è barricata in casa, introiettata in un mondo suo, un guscio ovattato, protetto dai quattro muri che fanno da scudo alla sua anima, similmente allo scarafaggio che rincorre per tutto il pavimento. Le carte con cui legge la vita sono un placebo alle sue paure, alle quali in realtà non crede neppure lei, nonostante ne abbia fatto il proprio mestiere.
Velia è ingorda e calcolatrice, proiettata all’esterno, si prende – o cerca di prendersi – ciò che vuole; si butta nella vita in modo viscerale, vorrebbe divorarla salvo poi esserne divorata essa stessa, dagli errori che commette, dal modo in cui usa le persone e dalla speranza di cambiare finalmente vita, salvo finire dimenticata e sola, impazzita”.

Pur vivendo vite agli antipodi, in sfere caratteriali ben connotate, entrambe si illudono: Madame Iris è lusingata dal finto interesse che l’orologiaio, in realtà il killer, mostra nei suoi confronti; Velia tenta di rifarsi una verginità morale aprendo un bar, che però sarà spazzato via dai debiti. Entrambe, al termine delle loro travagliate storie, trovano la liberazione: Iris dalle sue paure, Velia dal suo orgoglio.
Sono ben differenti anche i modelli e le suggestioni attraverso cui vengono caratterizzate le due protagoniste: “Mi sono ispirata a Franca Valeri per caratterizzare il personaggio di Iris: le attese, le pause, i tentennamenti buffi e ironici, il tono esitante, quasi da maestrina. “Venere in pelliccia”, nella versione di Roman Polanski tratto dall’omonimo romanzo erotico di Leopold von Sacher-Masoch, è invece stata l’ispirazione per il personaggio di Velia”.

“Tranne che il buio” sarà in scena sabato 6 e 20 dicembre alle ore 21 al Teatro Off di Viale Alfonso I d’Este, 13 nell’ambito della rassegna di monologhi intitolata “Ricomincio da uno” [vedi].

Foto di © Daniele Mantovani