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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


Vite di carta /
Sulle colline attorno a Gerusalemme.

Vite di carta. Sulle colline attorno a Gerusalemme.

“Sulle colline attorno a Gerusalemme e in Cisgiordania, una serie infinita di insediamenti – con i loro leccati giardini verdi e i tetti rossi che si metastatizzavano nelle vallate come un eritema della terra – stridevano crudelmente con le fatiscenti case arabe sottostanti, dove facevano defluire le proprie acque di scarico e spesso scaricavano la spazzatura”.

L’occhio che guarda il paesaggio appartiene ad Amal Abulheja, tornata in Palestina dopo trent’anni di esilio per ritrovare il campo profughi di Jenin dove è cresciuta. È il 2002 e l'”eritema della terra” è una malattia ormai cronicizzata, nei quasi sessant’anni trascorsi dal conflitto del 1948, in cui i soldati israeliani cacciarono la famiglia di Amal dalle sue terre presso il villaggio di ‘Ain Hod, terre di ulivi, mandorle, fichi, agrumi e ortaggi.

vite di carta sulle colline di GerusalemmeAmal esce dal romanzo di Susan Abulhawa, Ogni mattina a Jenin, libro che ho letto senza potermene staccare e con lo sgomento addosso. L’ho letto nei giorni che hanno preceduto la Giornata della Memoria, mentre ascoltavo svariati telegiornali con gli aggiornamenti da Gaza e da Israele.

Il 27 gennaio ho visitato, qui al mio paese, in una delle sue tappe, la mostra fotografica itinerante Stelle senza un cielo. Bambini nella Shoah, curata dall’Istituto Yad Vashem di Gerusalemme e sostenuta dalla Assemblea legislativa E.R. e dal MEIS di Ferrara.

Ho incamerato dati e commenti da articoli di giornale, ho visto foto di volti e di paesaggi, ho condiviso la condanna a ogni forma di terrorismo, sentito alla tv le voci di alcuni ostaggi ancora nelle mani di Hamas, le dichiarazioni di Netanyahu, le accuse di Israele all’UNRWA, la sentenza inefficace del Tribunale dell’Aia e le parole di Papa Francesco sui bambini vittime della guerra e sul mercato delle armi.

A restituirmi una particolare consapevolezza sul conflitto in atto dallo scorso 7 ottobre, tuttavia, è stato il romanzo di questa giornalista e scrittrice di origini palestinesi la cui vicenda si proietta dentro il libro in alcune vicissitudini della protagonista.

La storia della famiglia Abulheja, costretta nel 1948 a lasciare la casa di ‘Ain Hod per Jenin, è raccontata infatti da Amal, la nipote del patriarca Yehya. La storia della Palestina negli ultimi sessant’anni si intreccia alle vicende di quattro generazioni di questa famiglia, da quella dei nonni di Amal a Sara, la sua unica figlia nata nel 1982 in America e venuta con lei a ritrovare la Palestina nella conclusione del romanzo.

Gli Abulheja assistono alla perdita della terra da parte del loro popolo e alla conquista che ne fanno gli israeliani:  subiscono prima l’esilio e la vita sospesa nei campi profughi della Cisgiordania e in Libano, poi la guerra nelle sue fasi più sanguinose e la drammatica perdita degli affetti più cari.

Dopo la morte del padre, il combattente Yussef disperso in seguito alla guerra dei sei giorni del 1967, e della madre Dalia, Amal deve lasciare Jenin e fare l’esperienza dell’orfanotrofio a Gerusalemme, finché nel 1973 ottiene una borsa di studio negli USA e si trasferisce a Filadelfia. Dei primi anni all’università dice: “Mi trasformai in un inclassificabile ibrido arabo-occidentale, sconosciuto e senza radici…Vissi nel presente, tenendo nascosto il passato“.

Mai come questa volta il filtro della narrativa è servito a farmi concepire il punto di vista di un popolo, quello palestinese, quello che oggi, a sessant’anni dalla cacciata dalle proprie terre, continua a rivendicare la sovranità sui territori della Cisgiordania e della striscia di Gaza, con Gerusalemme Est come capitale.

Al punto in cui si ferma la narrazione di Susan Abulhawa, il 2002, nella Striscia di Gaza si sono verificate almeno altre nove operazioni militari dell’esercito israeliano. Così come Papa Francesco ha affermato di recente alla trasmissione Che tempo che fa, occorre lavorare per la pace nonostante i dati scoraggianti sul floridissimo mercato delle armi che accompagna e tiene viva la guerra. Nonostante l’odio e la sete di vendetta, da una parte e dall’altra.

Pare impossibile oggi districare torti e ragioni nella guerra tra i due popoli. L’eritema della terra, che nel libro Amal vede sotto i suoi occhi, sta lì a mostrare che nemmeno le terre di una parte e dell’altra si possono più districare. La soluzione da tempo invocata dalla comunità internazionale, quella che riserva “due territori per due popoli”, sembra non poter più funzionare.

Cosa rimane? Non resta che entrare ancora una volta nel libro, dove Amal racconta la vicenda straordinaria dei suoi due fratelli costretti a diventare nemici: il primo, Isma’il, rapito da neonato e diventato un soldato israeliano, il secondo, Yussef, che si consacra alla causa palestinese.

Non resta che andare alla fine della storia, quando nel 2001 Amal riceve la visita di questo suo fratello sconosciuto che ha 53 anni e porta il nome David e insieme tentano di riconoscersi e di recuperare le radici comuni, oltre i conflitti e l’odio.

Nel 2002 Amal torna a Jenin con la figlia Sara e con lei frequenta anche i figli di David. La terra di Palestina è cambiata, Jenin è cresciuta in altezza con “baracche costruite sopra a baracche” per dare posto a quarantacinquemila abitanti in due chilometri quadrati e mezzo. Eppure è la radice di vita per Amal e lo diventa presto per Sara, che diviene la depositaria delle storie della famiglia e della causa palestinese.

Espulsa e rimandata negli Stati Uniti, Sara riesce a portare con sé il cugino Jacob, figlio di David, e l’amico Mansur. A Filadelfia, nella vecchia casa in stile vittoriano restaurata dalle mani di Amal, vivono “un’americana, un israeliano e un palestinese”.

Senza passato Amal non ha saputo stare e, lei dice, non possono stare i palestinesi. Guai a essere creature senza memoria: vale per tutti i popoli. Riconoscere i torti commessi, secondo Susan  Abulhawa, può costituire il primo passo verso la pace e la conciliazione.

Nota bibliografica:

  • Susan  Abulhawa, Ogni mattina a Jenin, Feltrinelli, 2011

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

NON UNO DI MENO! Lettera aperta al sindaco di Ferrara per impedire l’abbattimento di 5 alberi maturi in viale Marco Polo

Lettera aperta al sindaco di Ferrara per impedire l’abbattimento di 5 alberi maturi in viale Marco Polo

 Al Sindaco del Comune di Ferrara

Oggetto: riqualificazione accesso est – abbattimento alberi sani – richiesta informazioni.

Gentile Sig. Sindaco,
abbiamo appreso che è in corso di realizzazione un importante progetto di riqualificazione dell’accesso est della città (ponte di San Giorgio), finanziato con i fondi PNRR e abbiamo visto che i lavori sono iniziati con l’abbattimento dell’edificio situato nell’attuale isola spartitraffico di via San Maurelio.
Abbiamo avuto informazione che i lavori potrebbero prevedere in viale Marco Polo l’abbattimento di cinque robinie per far posto a nuovi parcheggi.

Sperando in una sua smentita, le chiediamo di confermarci se tale notizia, che si è diffusa recentemente, corrisponda al vero.

In caso che la notizia sia fondata, le chiediamo di intervenire urgentemente per salvare i cinque alberi sani che ora fanno ombra e abbelliscono il viale Marco Polo.
Abbiamo appreso che il progetto (come illustrato su Cronaca Comune del 23/10/23 ) prevede che i parcheggi che cingono l’attuale isola spartitraffico siano “ricavati su via Marco Polo, grazie a un intervento ad hoc di creazione di un’area sosta con stalli ‘a pettine’.” Non vorremmo che la realizzazione dei parcheggi previsti comportasse l’eliminazione di alberi sani.
Riteniamo che ogni nuovo progetto di intervento pubblico, tanto più in una città della pianura Padana, inquinata, cementificata e surriscaldata, debba essere coerente con i prioritari interventi di adattamento alla crisi climatica (blocco del consumo di suolo e rinaturalizzazione della città in primis ) e che non sia proprio più accettabile sacrificare alberi, e i benefici ecosistemici che ne derivano, per far posto a parcheggi.

Ricordiamo che gli alberi maturi rimuovono gli inquinanti atmosferici circa 70 volte più efficacemente di quelli giovani (Nowak e Dwyer, 2007).

Cogliamo l’occasione per sottolineare che in ogni futuro intervento di riqualificazione urbana la scelta dei materiali per la pavimentazione delle aree destinate a parcheggi, a ciclovie e percorsi pedonali, debba ricadere su pavimentazioni drenanti e non su fondi impermeabili.
Vogliamo sperare che la sua voce possa essere in contrasto con qualsiasi progetto che preveda ulteriore cementificazione e conseguente eliminazione di verde

In attesa di cortese riscontro, inviamo cordiali saluti.

Seguono firme

Marcella Ravaglia
Angela Soriani
Beatrice Pagnoni
Patrizia Dimella
Simonetta Fabian
Maurrizio Penna
Lucrezia Penna
Marcello Guidorzi
Pier Giorgio Cipriano
Francesca Cigala
Rita Casaroli
Amelia Guidorzi
Leonardo Polastri
Marino Pedroni
Andrea Firrincieli
Antonio Raimondo
Paola Gatti
Lidia Goldoni
Elisa Mantovani
Alessandro Tagliti
Lucia Ghiglione
Caterina Orsoni
Corrado Oddi
Bruno Veronesi
Laura Trentini
Stella Messina
Alessandra Guidorzi
Claudia Spisani
Samuele Pampolini
Milena Stefanini
Daniela Schiavi
Sergio Fiocchi
Grazia Ramponi
Gian Paolo Crepaldi
Paola Perrone
Michele Nani
Cecilia Chiappini
Rossana Stefanini
Moreno Ballarini
Marco Sgalla
Patrizia Cavallini
Davide Fiorini
Fabio Guidorzi
Giovanna Foddis
Marianna Mazzanti
Nicola Molino
Michele Fabbri
Alessandra Guerrini
Simonetta Rossi
Laura Corvino
Pietro Soriani
Marco Roboni
Caterina Palli
Daniela Libanori
Adriana Contrastini
Daniela Cataldo
Raniera Gioacchini
Paolo Ceccherelli
Rosa Dalbuono
Maria Grazia Palmonari
Sergio Golinelli
Francesca Solmi
Alberto Urro
Federico Besio
Miriam Cariani
Raffaella Bianchi
Enrico Boari
Lorenza Rabbi
Angela Alvisi
Cristina Boato
Adriana Balestra
Francesco Monini

Per aderire:
Alessandra Guidorzi Cell : 347 8242031  – Email:  alesguidorzi@gmail.co

Parole e figure /
Piccola talpa preoccupata

Piccola talpa preoccupata

Dopo l’uscita a novembre 2023 del primo volume dedicato alla piccola talpa, del coreano Kim Sang-Keun, Kite edizioni presenta il seguito delle avventure: “La preoccupazione di una piccola talpa”. Da non perdere. E da non perdere è anche lo Speciale che trovate in fondo alla Home page di Periscopio.

Abbiamo già incontrato la nostra dolce amica piccola talpa in cerca di amici, con “Il desiderio di una piccola talpa”. Oggi torna a trovarci. Ed è ancora l’amicizia a dominare nella storia “La preoccupazione di una piccola talpa” di Kim Sang-Keun, in uscita in libreria con Kite edizioni il 13 febbraio.

E poi le preoccupazioni, ci sono quelle brutte e quelle belle, quelle brutte che possono anche (magicamente) diventare belle. Di solito alla parola diamo accezione negativa, non è il caso di questo delicato volume.

La nostra piccola talpa è, infatti, molto preoccupata e, zainetto in spalla e guanti di lana arancioni, esce a fare una passeggiata nel bosco sfidando una tempesta di neve – la neve, lei c’è sempre. Spera così di distrarsi e calmare i suoi pensieri in tumulto. Più facile a dirsi che a farsi, la preoccupazione proprio non se ne vuole andare.

A quel punto, mentre fa freddo e la neve si accumula sulla testa come una piccola montagna, le viene in mente un importante consiglio della nonna. Quando hai delle preoccupazioni, diceva, parlane a voce alta e fai rotolare una palla di neve. Quella preoccupazione se ne andrà subito via. Rotolerà.

La piccola talpa non sa bene che cosa significhi, è sempre alla ricerca di un amico e si sente sola, ma prova ad eseguire l’ordine e, rotola rotola, avanti per la sua strada, tutto si risolve in modo divertente e insperato.

Ecco allora che una volpe, un cinghiale, una rana, un coniglio, un orso si ritrovano mentre il sole sorge timidamente e sicuro in lontananza. E insieme avranno una preoccupazione da risolvere, di quelle belle.

Una tenera storia per i più piccoli sul valore dei rapporti familiari e dell’amicizia. In un paesaggio magico e incantato, tipico di ogni favola che si rispetti.

Kim Sang-Keun, La preoccupazione di una piccola talpa, Kite, Padova, 2024, 48 p.

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti. Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara

Le storie di Costanza /
Un capello spaccato in due

Le storie di Costanza. Un capello spaccato in due.

Sei riesci a spaccare un capello in due, ne elimini uno e tieni in mano il secondo, avrai l’impressione di avere in mano il capello originario, semplicemente un po’ più piccolo, più esile. Le cose piccole divise sembrano solo un po’ più piccole mentre le cose grandi divise sembrano decisamente meno grandi.

Provate a dividere a metà una casa, una strada, un fiume, la Terra. Mentre il mondo rimpicciolisce se diviso a metà, dentro i microbi le differenze di lunghezza, altezza, consistenza e spessore prendono una forma e una rilevanza assolutamente diverse.

Una distinzione sancita almeno in parte dal modo in cui lavorano la fisica, la chimica, l’ottica, la medicina e, in altra parte, da quello che noi riusciamo a percepire attraverso l’uso dei sensi. La definizione umana di ciò che è grande e di ciò che è piccolo mi ha sempre incuriosito, è molto relativa, molto soggetta a interpretazione.

Il sole è molto grande rispetto alla terra, molto piccolo rispetto all’intero sistema solare. Trescia è molto grande rispetto a Pontalba e molto piccola rispetto a New York. La mia casa è molto grande rispetto a una roulotte e molto piccola rispetto a un grattacielo. La mia mano è molto piccola rispetto a quella di un giocatore di basket, molto grande rispetto a quella di mio nipote Enrico.

Non c’è niente di più relativo dell’uso che si fa in maniera abituale dei termini grande e piccolo. Grande è un elefante e piccola la formica, grande la giraffa e piccola la talpa. Grande l’anguria e piccola la ciliegia, grande l’ananas e piccola l’albicocca. Ma anche un’ape è grande rispetto a un moscerino e un colibrì è grande rispetto a una farfalla.

Se poi si passa dalla materia ai sentimenti la cosa si complica ulteriormente. Un grande amore è quello di una donna per un uomo, di una madre o di un padre per il proprio figlio. L’amore piccolo sembra non esistere, così come sembra non esistere l’odio piccolo. L’amore e l’odio sono solo grandi.

Però ripensandoci, anche questo ha delle eccezioni. Un piccolo amore può essere quello per il proprio gatto o per il proprio canarino e un piccolo odio può essere quello per il vicino di casa, che canta sempre la stessa canzone nel suo cortile il sabato mattina. I piccoli amori possono però essere considerati da alcune persone grandi e altrettanto vale per i piccoli odi. Sono aggettivi che anche in una sfera dematerializzata, mantengono una dimensione relativa e suggestiva.

È così anche pensando a ciò che dicono le persone a me più prossime. Per Albertino Canali la mia macchina è piccola, per mia madre è grande. Per gli abitanti di Pontalba il mio cortile è grande e per i miei cugini agricoltori, che avevano davanti alla loro cascina una intera aia, piccolo.

Direi che i termini grande e piccolo sono una forte espressione del relativismo nel quale galleggiamo quotidianamente, del fatto che ogni oggetto è definito in maniera relativa rispetto a ciò con cui lo si paragona. Grande e piccolo non sono termini che rappresentano un valore assoluto, ma si confrontano ogni giorno con gli oggetti che ci circondano e con la rappresentazione che attraverso il nostro sistema visivo-cognitivo facciamo.

Mi stupisce sempre quanto una cosa piccola possa fare la differenza, esattamente quanto lo può fare una grande. Uno spillo infilzato in un tallone fa molto male, una zanzara in una tenda da campeggio affollata da persone che vorrebbero dormire, scatena il finimondo. Piccoli e terribili lo spillo e la zanzara, piccolissimi e letali i virus che sanno ammazzare una persona.

Un giorno avevo questi pensieri ricorrenti sul relativismo di alcuni aggettivi molto usati mentre camminavo sullo sterrato dei castagni che costeggia i cancelli di Villa Cenaroli. Nei pressi del primo cancello ho alzato gli occhi verso il curvone che si avvicina all’argine e ho visto Guido camminare in senso contrario preceduto da Reblanco, il suo cane bianco come la neve.  Quando sono arrivata abbastanza vicino, li ho salutati e poi ho chiesto a Guido:

Ma secondo te, Reblanco è grande o piccolo?
– Uff che domanda – mi ha risposto lui
Che differenza fa se è grande o piccolo? sei sempre la solita che cerca di complicarsi la vita
Perché non provi a rispondermi? – gli ho detto io.

Perché non so cosa risponderti. Rispetto ad un topo Reblanco è grande e rispetto ad un elefante è piccolo. Ma che differenza fa che Reblanco sia grande o piccolo? Per me è “grande” quando dorme tranquillo sotto la mia scrivania, quando si accuccia sui miei piedi e, soprattutto, quando non abbaia perché mi vede stanco. Queste sue abilità empatiche lo rendono “grandissimo”.

Hai appena definito la grandezza in senso negativo … quando non abbaia … sei un po’ contorto.
Senta lei, mi stai facendo il terzo grado con questa storia del grande e del piccolo, non capisco nemmeno a che pro. A cosa ti serve? Ad essere più felice?

No – gli ho risposto – Mi serve a comunicare, a usare la parola per stabilire una relazione. I buoni rapporti tra le persone si nutrono del linguaggio, attraverso la parola detta e ascoltata ci proteggiamo dall’odio che invece si nutre di solitudine. Le relazioni senza parole non sono buone, non sono nemmeno relazioni. Nel silenzio si annidano paura e rancore. Gli eccessi di relativismo alimentati spesso dalla solitudine, minano la capacità delle persone di usare la parola, inibiscono la disponibilità all’uso del linguaggio per costruire relazioni. In questo senso gli eccessi di relativismo non mi piacciono, rischiano di annientare l’uso della parola, la sua capacità di diventare la strada dell’amore.

Uff, questo tuo argomentare mi sembra un po’ troppo cervellotico, però un fondo di verità c’è, come in molte delle cose che dici.
– Grazie – gli ho risposto e con quello abbiamo chiuso l’argomento, almeno per quel giorno.

Poi ci siamo messi a camminare nella stessa direzione, risalendo verso il cimitero, Reblanco ci precedeva, annusando il terreno umido e scivoloso, forse era appena passato da là qualche animale selvatico. Ho guardato Guido vestito con i jeans e un giubbotto marrone scuro, le scarpe da trekking e un berretto di lana blu sulla testa.

Non si sarebbe detto in quel momento che è un professore di storia, un intellettuale a cui piace leggere e studiare quasi tutto il giorno. Sembrava perso nella natura che ci circondava, mescolato con essa. Come quei quadri di campagna inglesi pieni di vecchie case, vegetazione e qualche personaggio sullo sfondo che cammina verso casa.

Torniamo indietro – mi ha detto Guido all’improvviso – torniamo verso casa mia.

Ci siamo girati, Reblanco si è fermato e ci ha guardato come se per un attimo fosse indeciso se seguirci o meno, la traccia odorosa che stava seguendo doveva essere accattivante per le sue narici. Poi ha deciso, si è girato e ha cominciato a venire dalla nostra parte con passo deciso. Il momento di incertezza gli è passato.

Sempre bellissimo quel cane, un amico per Guido che lavora nel silenzio, avvolto dalle sue carte e dai suoi pensieri (grandi? piccoli?). Abbiamo camminato guardando nella stessa direzione, la strada la conosciamo molto bene, la direzione anche.

Siamo arrivati davanti a casa di Guido nella via piccola che parte dalla foresteria di Villa Cenaroli. Il portone di casa sua è di legno pesante, la parte sopra tondeggiante. Bello e vecchio, sa di storia anche lui.

Come ti sembra questo portone? – mi ha chiesto Guido
Bello – gli ho risposto
Grande o piccolo? – mi ha chiesto lui
Non lo so, dipende – gli ho detto – rispetto a quello di casa mia è piccolo, rispetto a quello della foresteria della villa è grande.

E che differenza fa?
– La fa – gli ho risposto io.
Un elefante da qui non passa mentre dal portone della villa potrebbe entrare – ho detto.

Inaspettatamente Guido si è messo a ridere.

Ecco il perché di tutto questo disquisire sul grande e il piccolo, vorresti che a casa tua entrasse un elefante!
Macché – gli ho risposto io – è tutt’altro.
Entriamo – ha detto lui
Ok – gli ho risposto.

Ci stavano aspettando vicende storiche di varia natura, ammucchiate sulla scrivania di Guido. In quella casa c’è un’atmosfere curiosa. Il grande e il piccolo mi sono passati temporaneamente dalla testa, l’idea che attraverso le parole si mantengono buone relazioni, no. Non ci sono rapporti tra le persone che non si nutrano del linguaggio.

Costanza e il suo mondo sono solo apparentemente diversi e distanti dal mondo che usiamo definire “reale”, e quasi sovrapponibili ad ogni mondo interiore.
Chi fosse interessata/o a visitare gli articoli-racconti di
 Costanza Del Re, può farlo cliccando [Qui]

La Fondazione Ferrara Arte va chiusa: è un ente opaco, costoso, pletorico, fuori dal controllo del Consiglio Comunale

La fondazione Ferrara Arte va chiusa:  è un ente opaco, costoso, pletorico, fuori dal controllo del Consiglio Comunale

Le forze di opposizione, dalle ultime notizie di cronaca, hanno chiesto al sindaco di Ferrara di revocare il mandato di Presidente di Ferrara Arte al dottor Vittorio Sgarbi. Non è rimuovendo un Presidente, discusso e discutibile, che si possono risolvere i molti problemi creati dalla presenza della Fondazione Ferrara Arte. La richiesta è inefficace: è la struttura che va abolita, frutto di una passata scelta politica che ha danneggiato Ferrara sin dal suo sorgere.

Non è inutile ricordare alcuni fatti. Sindaco Roberto Soffritti, nel 1991, viene fondata Ferrara Arte con la bizzarra e preoccupante motivazione che le regole amministrative comunali rallentavano e intralciavano l’attività delle gallerie d’arte moderna: andavano quindi eluse.

Promotore non fu Franco Farina, ormai al termine del suo incarico, ma Andrea Buzzoni, che gli era stato affiancato e che gli subentrerà: Buzzoni fu membro del comitato fondatore e curatore scientifico e organizzativo del nuovo istituto. Il Consiglio di Amministrazione fu costituito da tre componenti: Sindaco presidente e Assessore alla Cultura per il Comune, il terzo rappresentava la Provincia.

Vi fu l’impegno a non assumere personale, perché ogni attività sarebbe stata gestita dallo stesso organico delle Gallerie d’Arte Moderna: mutavano solo i riferimenti contabili. Non vi era aggravio di spesa per l’Amministrazione Comunale, la quale continuava a controllare ogni cosa.

Oggi la situazione è, in maniera significativa, mutata. Presidente il dottor Vittorio Sgarbi; il 22 ottobre 2021 è stato, di nuovo, profondamente modificato lo Statuto della Fondazione. È stata eliminata la coincidenza Sindaco-Presidente; il Consiglio di Amministrazione è stato allargato e il Comune non ne ha più il controllo; è stata istituita la figura del Direttore; è stato previsto un Comitato Culturale, mai attivato.

Al Direttore, che attualmente riceve un compenso di 55mila euro, viene richiesta “comprovata e specifica esperienza nell’ambito delle attività museali e nella gestione di eventi culturali e artistici”. È stato nominato il dottor Pietro Di Natale; l’unica qualifica che possiede è quella di essere ‘referente scientifico delle collezioni di arte moderna della Fondazione Cavallini Sgarbi’ e come tale coinvolto nelle attività da quella Fondazione promosse.

Il personale, dal nulla, è giunto a 18 unità a tempo indeterminato, per una spesa complessiva di 650mila euro. Ricordo che i musei d’arte antica hanno 10 dipendenti, 5 quelli di arte moderna. Una subalternità evidente.

L’Amministrazione comunale stanzia ogni anno una somma che oscilla fra 1milione150mila/1milione 300mila euro, senza possibilità di incidere sulle scelte e sui programmi, senza che il Consiglio Comunale possa intervenire ed esprimere sue indicazioni.

Il sito della Fondazione si caratterizza per una profonda opacità. I verbali del Consiglio di Amministrazione sono consultabili solo in sede, non si dice con quali modalità; i progetti triennali di attività, se esistono, non sono visibili; i costi delle singole esposizioni non sono analitici; i dati dei visitatori per ogni singola iniziativa non sono indicati.

Tutto questo dimostra come la Fondazione Ferrara Arte sia un istituto ormai completamente sciolto da legami organici con la Amministrazione comunale, la quale eroga una cifra consistente, a fondo perduto, senza alcun potere di indirizzo. Tutto questo a detrimento della capacità operativa e progettuale dei musei civici; tutto questo a impedimento della creazione di un sistema museale oggi inesistente e invece necessario.

Al convegno “Musei a Ferrara Problemi e Prospettive” (18-19 novembre 2011), nella relazione introduttiva, Francesca Zanardi Bargellesi scriveva: Continuiamo a registrare che la fondazione di Ferrara Arte è stata fatta senza tenere in alcuna considerazione l’esistenza dei musei, ai quali di fatto si contrappone, sottraendo risorse e capacità operativa. La mutata situazione economica, la difficoltà a continuar nella politica delle grandi mostre, dovrebbe indurre ad un rapporto sinergico con la realtà museale cittadina, ma non se ne vede segno.”.

Da allora la situazione si è sempre più negativamente sviluppata così da porre con urgenza il problema della chiusura di un ente costoso, pletorico, privo di controllo, incapace di collegarsi con il contesto ferrarese. Tralascio, volutamente, il discorso sulle iniziative: spesso di modestissima qualità.

È necessario ridare all’eletto Consiglio Comunale la capacità di intervenire in un settore che caratterizza l’attività dell’Amministrazione. È necessario ridare ai musei civici la dovuta centralità, rafforzarne competenze e strumenti.

Per leggere gli altri interventi di Ranieri Varese apparso su Periscopio clicca sul nome dell’autore.

Il neoliberismo è in crisi: l’alternativa è reazionaria

Il neoliberismo è in crisi: l’alternativa è reazionaria

Scrivo queste mie considerazioni, sollecitato anche dai ragionamenti di Bruno Turra nel suo articolo del 29 dicembre scorso su Periscopio (vedi qui). Li ho trovati in gran parte interessanti e condivisibili, ma alcuni parziali e altri non convincenti, per cui mi pare importante approfondirli.

In primo luogo, occorre analizzare più precisamente il fenomeno del neoliberismo, e anche la sua evoluzione. Parlo di evoluzione, perché l’ideologia e la pratica del neoliberismo è mutata nel corso del tempo e, del resto, non poteva essere diversamente. Il neoliberismo, inteso come politiche concrete (non come teoria, che risale a molto prima, almeno dalla fondazione della Mont Pelerin Society nel 1947 da parte di economisti e intellettuali, in primis l’austriaco Friedrich von Hayek) muove i suoi passi e si afferma progressivamente a partire dagli anni ‘80 del secolo scorso.

Reagan negli Stati Uniti e la Thatcher nel Regno Unito sono quelli che lo promuovono, almeno a livello di scelte di governo. Il neoliberismo nasce come risposta al capitalismo keynesiano che si era affermato in Occidente dopo la seconda guerra mondiale, che aveva prodotto sviluppo economico supportato da una forte spesa pubblica e da significativi incrementi salariali. Il rovescio della medaglia era stato il forte restringimento dei profitti, per cui, negli anni ‘70, secondo diversi studi, il tasso di profitto lordo relativo alle grandi imprese industriali nei Paesi del G7 aveva subito una caduta stimabile attorno al 50% rispetto ai decenni precedenti. Ciò, assieme al primo segnale di crisi dell’egemonia politica della superpotenza statunitense, rappresentata dalla sconfitta della guerra in Vietnam negli anni ‘70, ha provocato una reazione delle classi dominanti, che non hanno più accettato il compromesso keynesiano e hanno progettato un nuovo paradigma dello sviluppo capitalistico: il neoliberismo, appunto.

Partendo dalla globalizzazione dei mercati, il neoliberismo è approdato progressivamente ad un unico mercato mondiale, finalizzato, in primo luogo, ad abbattere il costo del lavoro in Occidente (assieme ad un forte attacco al potere dei sindacati), mediante lo spostamento della produzione nei Paesi meno sviluppati;  a questo ha associato una spinta all’innovazione tecnologica, trainata dal forte sviluppo dell’informatica e, successivamente, dalle piattaforme digitali.
Ulteriore componente fondamentale del neoliberismo è l’amplificazione dell’economia del debito e della finanza: la massimizzazione dei profitti non passa più semplicemente dalla fabbricazione dei prodotti, ma attraverso il “fare i soldi con i soldi”, alimentando a dismisura debito pubblico e privato e creando nuova moneta e nuova finanza al di fuori dei canali ordinari con cui sostenere l’attività economica.

Questo enorme castello di carta – giacché di questo si tratta, quando si parla di economia basata sul debito – doveva, inoltre, avere la funzione di stabilizzare i consumi e i redditi delle famiglie, assieme all’importazione di merci ad un costo minore. A corollario di quest’impostazione non poteva non esserci una forte ritrazione dell’intervento pubblico, l’attacco ai pilastri classici di fondo del Welfare (previdenza, istruzione e sanità), il riassoggettamento alle logiche di mercato dei beni comuni, dall’acqua all’energia ai trasporti, nuovamente visti come settori “produttivi” in grado di generare profitti. Insomma, un sistema compiuto e inedito, che per la prima volta si proponeva l’unificazione del mondo, un capitalismo feroce, interamente votato al predominio assoluto del mercato e della finanza globale, senza mediazioni sociali e con l’emarginazione del ruolo della politica, ma supportato dall’unica superpotenza rimasta, quella statunitense. Non a caso, esso, come tutti i sistemi pervasivi, ha prodotto una sua ideologia “forte”, contrassegnata dal mercato come unico regolatore e da un individualismo esasperato, che non ha mai sposato la causa dei diritti umani universali, anche nella loro forma astratta (il famoso motto della Thatcher per cui “la società non esiste, ci sono solo gli individui”).

Oltre a rimodellare il sistema economico e sociale, l’onda neoliberista ha letteralmente messo fuori gioco le ideologie della sinistra. Distrutta quella di ispirazione comunista, fortemente indebolita quella socialdemocratica.
Quella fascista o neofascista non ha avuto lo stesso
andamento: da una parte, perché essa era già stata fortemente ridimensionata dalla seconda guerra mondiale e dal modello economico di stampo keynesiano affermatosi subito dopo; dall’altra perché, come argomenterò dopo, la stessa non si presentava come alternativa reale al neoliberismo, ma semmai come una sua variante, non a caso oggi risorgente.

Invece, le culture del ‘900 della sinistra sono state completamente spiazzate dalla teoria e dalla pratica del neoliberismo: quella comunista, travolta dal crollo dell’Unione Sovietica, ma prima ancora dalle sue contraddizioni interne, in particolare dalla mancanza di democrazia e da una pianificazione economica rigida e centralizzata; ma anche quella di stampo socialdemocratico, costretta dapprima sulla difensiva dall’attacco alla diminuzione del prelievo fiscale e allo Stato sociale, che ne erano stati i tratti fondanti, e poi completamente subalterna, se non addirittura ancella, ai fasti della globalizzazione, vista come fenomeno progressista, e nella rincorsa alla conquista del ceto medio (la celebre “terza via” di blairiana memoria, che ha contagiato tutta la famiglia delle esperienze socialdemocratiche, facendo loro perdere l’anima). Il tutto, tentando di ritagliarsi una parvenza di identità (debole) nell’affermazione dei diritti individuali e civili, questi sì declinati in modo astratto.

Va, però, aggiunto che, a fronte dell’aggressione neoliberista, ha iniziato a muovere i suoi passi una nuova narrazione nel campo della sinistra, antiliberista, altermondialista e internazionalista. Per intenderci,  quella animata dai movimenti sociali, protagonisti della protesta a Seattle nel 1999 contro la riunione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio e poi dai Forum sociali mondiali, da Porto Alegre nel 2001 in avanti, passando per Genova nel 2001 contro il G8, protesta duramente repressa proprio dagli artefici del neoliberismo rampante.

La storia, però, va avanti e anche il neoliberismo trova inciampi non banali. Parlo della Grande Crisi del 2007-2008, generata dall’insolvenza dei mutui “subprime”, allargatasi a tutto il sistema bancario e finanziario mondiale, a partire dal fallimento della Lehman Brothers.  Una crisi che ha segnato uno spartiacque nella storia dei sistemi economici e sociali, paragonabile a quella di Wall Street degli anni ‘30 del secolo scorso, e che, in particolare in Europa, è andata avanti negli anni successivi, con la crisi dei debiti pubblici, a partire dalle vicende greche e italiane. Non solo ci troviamo in quegli anni alla crisi del castello di carta dell’economia del debito: in realtà, dagli anni ‘80 in cui il neoliberismo si à affermato, proprio perché con la sua forza ha cambiato il mondo, lo scenario economico e sociale dell’ultimo decennio è profondamente diverso da allora, con cambiamenti che non erano del tutto previsti e neanche auspicati dai fautori del neoliberismo.

In estrema sintesi, sono almeno quattro gli sconvolgimenti epocali indotti proprio dalla fase espansiva del capitalismo neoliberista:

1 ) il mondo, inteso come mercato mondiale e modello di sviluppo, si è davvero unificato e ha iniziato a far emergere nuovi e drammatici problemi, a partire dal cambiamento climatico (che per la prima volta mette in discussione la vita umana nel Pianeta) e dai fenomeni migratori, determinando un flusso inarrestabile dai Paesi poveri a quelli del ricco Occidente e verso le metropoli urbane dei Paesi poveri – circolazione che, a differenza del movimento dei capitali, è tutt’altro che libera;

2 ) sono avanzati nuovi soggetti statuali importanti (oltre che grandi aziende monopolistiche) che assurgono al ruolo di potenze regionali significative, se non di vere e proprie superpotenze: Cina, in primo luogo, gli Stati che compongono i cosiddetti BRICS  (Brasile, Russia, India e Sudafrica), sempre meno disposti a tollerare l’egemonia statunitense e che – almeno Cina e Russia- si muovono in una logica neoimperiale;

3 ) ancora, è cresciuta notevolmente la concorrenza per il predominio tecnologico e per l’accaparramento delle materie prime tra i vari sistemi economici e statuali, che, come sempre accade, sfocia progressivamente nella guerra commerciale e nel protezionismo;

4 ) infine, è aumentata fortemente la disuguaglianza tra i Paesi nel mondo, con quelli più poveri che vedono aumentare la distanza non solo nei confronti di quelli già sviluppati, ma anche rispetto a quelli che si sono agganciati al traino della globalizzazione. La disuguaglianza sociale torna a segnare una frattura anche all’interno dei Paesi ricchi, con la forte diminuzione dei redditi che vanno al lavoro, con la sua trasformazione in lavoro precario e povero, e anche un serio impoverimento dei ceti medi, che scivolano verso il basso della scala sociale.

Tutte queste modificazioni profonde fanno sì che, oggi, la fase ascendente del neoliberismo si stia esaurendo e si stia delineando una sua “crisi strutturale.
Intendiamoci bene: non è che la “crisi” del neoliberismo significhi il venir meno dei suoi meccanismi fondativi. Il fatto che il neoliberismo non abbia mantenuto le sue “promesse” meravigliose non apre di per sé la prospettiva di un mondo migliore: le classi dominanti, in primis il mondo dell’economia e della finanza, intendono continuare come prima, ma “turbate” dall’incertezza e scoprendo un po’ di filantropia (vedi l’ultima riunione del World Economic Forum a Davos), scelgono di sostituire l’egemonia perduta con il comando.
Al posto della globalizzazione indiscriminata viene avanti la “deglobalizzazione selettiva”, cioè si privilegiano gli “amici” e non si guarda solo alle logiche di mercato, per cui si va ad investire in India e non più in Cina; il protezionismo economico avanza e si mischia con il nazionalismo e, come accaduto altre volte nella storia, le guerre commerciali e neoimperiali diventano guerre vere e proprie, che hanno anche il “pregio” di sostenere il complesso militare- tecnologico-industriale e diventano, come insegnava von Clausewitz, semplicemente un altro mezzo con cui continuare la politica.

Per non parlare del salto tecnologico che sta producendo l’intelligenza artificiale, dominata da alcuni grandi oligopoli e che si può orientare verso una logica di controllo sociale spinto e non controllabile dai ceti subalterni.

In questo scenario rientra in gioco la politica, e specificamente, quella di una destra estrema e reazionaria (non quella di una pseudosinistra sbiadita e incolore, che, al massimo, asseconda i dettati neoliberisti). Quella, per intenderci, di Trump e di tanti epigoni in giro per il mondo, da ultimo Milei in Argentina, e anche quella nostrana. Quella che restringe diritti e democrazia, che la fa sempre più rassomigliare ad un’autocrazia, che intende procedere ulteriormente a tagliare le tasse ai ricchi, privatizzare lo Stato sociale, dare un ordine al mondo semplicemente basandosi sul nazionalismo e sui rapporti di forza.
Qualcuno si sta chiedendo come Trump, una figura che ha riabilitato la possibilità del colpo di Stato in America, goda di un seguito significativo e possa rappresentare un candidato concorrenziale per le elezioni presidenziali di quest’anno negli Stati Uniti: ebbene, non è difficile vedere che Trump è un buon interprete delle paure e dei “tradimenti” della globalizzazione e del neoliberismo.

A questo punto, diventa ineludibile la famosa domanda del “che fare” per chi ha in mente e nel cuore l’idea di un altro mondo, giusto e possibile.

(1 continua)

Photo cover copyright Corey Torpie Photography

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Anna Zonari: Mi candido per… un’altra Ferrara. Una donna sindaca può fare la differenza

Mi candido per… un’altra Ferrara. Una donna sindaca può fare la differenza.  il testo integrale dell’intervento di Anna Zonari alla Assemblea promossa dal gruppo La Comune di Ferrara e aperta alle forze della  Coalizione.

Ferrara, 28 gennaio 2024 : “Mi candido per…”. Anna Zonari lancia per prima la sfida a Fabbri e alla Giunta di Destra. In poco più di 15 minuti, davanti a una sala piena come un uovo, a dove verrà ufficializzata la Coalizione promossa da La Comune di Ferrara per sostenere la sua candidatura,  Anna Zonari racconta perché ha deciso di scendere in campo e perché la sua  la sua proposta per Ferrara è nuova e diversa, a partire dal metodo e da un programma di governo chiaro e coraggioso. ” Sono convinta che una donna sindaca può fare la differenza”. Mi voterà chi vuole cambiare davvero, compresi tanti  ferraresi che hanno smesso di votare, che sono stati abbandonati dalla vecchia politica.
(Effe Emme)

MI CANDIDO

Mi pare importante ricostruire il percorso che La Comune di Ferrara ha svolto da settembre ad oggi.
Importante ricordare che, come gruppo di cittadine e cittadini,  siamo partiti da due assunti di base:
l’importanza che sia la società civile, il mondo del volontariato sociale e culturale e la parte attiva della cittadinanza che conosce il territorio e le comunità di persone, i problemi, ma anche le risorse, a confrontare le proprie idee, indicare i programmi per una Ferrara all’altezza delle grandi sfide del nostro tempo.
– l’importanza del metodo partecipativo, che ha coinvolto non solo la società civile, ma è sempre stato aperto a tutto il tavolo dell’alternativa, i cui rappresentanti hanno potuto dare il proprio contributo attivo.

La prima parola chiave che vorrei sottolineare è quindi METODO.
La nostra esperienza politica autonoma nasce dal basso e non solo per portare avanti contenuti, ma anche per sperimentare un diverso modo di fare politica, sia nella costruzione del programma, sia per la scelta del candidato o candidata a sindaco.
Rivendichiamo questo diritto. Il diritto di sperimentare un diverso modo di fare politica, perché significa fare pratica di democrazia.
Il sistema elettorale vigente è a doppio turno, proprio per incoraggiare gli elettori a esprimere un voto sincero, vicino alle proprie sensibilità, al primo turno e non un voto strategico, in nome di una presunta unità.
In questi mesi, abbiamo sempre detto alle forze politiche che si riconoscessero nel metodo e nei contenuti che emergevano strada facendo, di portare anche i propri candidati.
2, 3, 4, 5 candidati…

Avevamo proposto un metodo partecipato anche per l’individuazione della candidatura più adatta a portare avanti un programma condiviso.
La complessità è vero che rende le cose più difficili, ma fa parte della vita.
Individuare in maniera condivisa dei criteri per scegliere, per semplificare la complessità, è indispensabile nella vita, come nella politica, a maggior ragione se l’obiettivo di un gruppo è l’unità.
Scegliere un metodo per prendere decisioni condivise, per gestire i conflitti, prima che diventino guerre, simbolicamente parlando, ma anche letteralmente parlando. Probabilmente è una delle sfide più grandi che abbiamo come gruppi umani.
Assistiamo con angoscia a quello che avviene in Palestina, mentre ricordiamo gli orrori del nazi fascismo, come monito per non dimenticare. E invece pare che dimentichiamo di continuo.
Allora affrontare la complessità è faticoso, ma è urgente, a livello globale, come a livello locale.
A livello locale, la candidatura di Laura Calafà e il sottrarsi a quello che lei ha definito un “campo di battaglia”,  ha mostrato cosa succede quando non vi è trasparenza nell’individuazione dei criteri alla base delle scelte, e cosa succede se prevalgono i vecchi metodi della politica, capaci anche di “falli” a gamba tesa…
Si generano conflitti, spaccature, malumori.  E’ quello che è successo nel tavolo dell’alternativa.
La non chiarezza sui criteri di scelta, non è vero che ha semplificato il contesto.
Ha creato divisione, disagio e incertezza all’interno di tutti i gruppi politici.
L’appello che facciamo è di interrogarsi sul metodo, prima ancora che sull’unità.
Non è un dettaglio su cui si può soprassedere.
Cambiare il modo di fare politica”. Lo chiedono tantissimi cittadini, disincantati e stanchi di vedere gli stessi “giochi” politici ripetersi ogni volta. Anche per questo in tanti non votano più.

LA COMUNE DI FERRARA HA ESPRESSO LA MIA CANDIDATURA

La mia candidatura a sindaca di questa città nasce quindi all’interno del percorso metodologico che ho delineato poco fa. Quando siamo partiti non pensavo a questa possibilità.
All’interno dell’area de La Comune si era pensato ad altri nominativi, di persone molto in gamba e competenti, ma i diretti interessati non hanno dato la loro disponibilità a candidarsi.
Prima di Natale, dopo alcuni giorni di riflessione personale non facile e non a cuor leggero, ho scelto di fare un passo avanti, di metterci la faccia, la passione e la speranza.
Abbiamo fatto sondaggio fatto girare tramite email ai partecipanti agli incontri e circa 120 persone hanno risposto: l’85% si è dichiarato favorevole alla mia candidatura. E così, eccomi qua.
Qualcuno mi ha detto: “Ma ti tiè mata, ma chi te lo fa fare?”
La coerenza con quello in cui credo profondamente. La necessità di non voltarmi dall’altra parte. Se tutti aspettiamo che sia sempre qualcun altro ad assumersi le responsabilità, come pensare che le cose possano cambiare? Da sempre credo nella responsabilità personale. Ciascuna/o deve fare la propria parte
La mia è quella di portare avanti un programma condiviso per il futuro di Ferrara e un metodo diverso di fare politica.

MI CANDIDO PER

  1. A) Portare avanti e sviluppare la “Traccia Condivisa per Cambiare Ferrara”. Questa traccia diventerà, strada facendo, un programma elettorale. Procederemo sempre con un metodo partecipativo. Recepiremo nuove indicazioni.
    Da febbraio saremo nei quartieri, nelle frazioni, ma anche a casa delle persone, per presentare le nostre proposte, per ascoltare, creare relazioni.

La traccia condivisa è partita dalla necessità di mettere al centro le persone:
– i bambini, che hanno il diritto a respirare aria pulita (siamo una delle città più inquinate d’Italia), di vivere in una città più verde, che significa anche più sicura (se circolano meno auto), di crescere in luoghi di aggregazione inclusivi, che li aprano alle differenze culturali;
– i giovani, che possano sperimentare la loro crescente autonomia, abitando in una città capace di orientarli in modo efficace nei diversi ambiti del loro sviluppo, che li supporti nella progettazione del loro futuro, con spazi per lo studio, per il co working, per la socializzazione, con una mobilità accessibile e sostenibile e un piano casa adatto;
– le persone anziane, che sono sempre di più nella nostra città, che hanno il diritto ad avere nel territorio, soprattutto decentrato, un’offerta diffusa di punti di ascolto e accompagnamento, di semplificazione e di accesso a servizi di welfare, culturali, di socializzazione;
le tante persone con fragilità: chi è malato o ha una disabilità o una ridotta autosufficienza o vive in condizioni di precarietà non va lasciato solo.

PER FARE QUESTO,LA TRACCIA CONDIVISA INDICA 5 DIREZIONI:

1 ) DECARBONIZZAZIONE, MOBILITA’ E RIGENERAZIONE URBANA
La crisi eco climatica non aspetta. Non c’è più tempo. Ondate di calore, alluvioni, siccità, aumento delle diseguaglianze sono già una realtà, proprio qui, a casa nostra.
Basta bla bla bla. E’ urgente un Piano per decarbonizzare Ferrara che significa molte cose: transizione energetica, mobilità, rigenerazione urbana, biodiversità, sistemi produttivi e sociali sostenibili, riduzione del consumo di suolo.

2) BENI COMUNI
L’acqua è di tutti. E’ un diritto umano essenziale ed universale. C’è stato un referendum dieci anni fa. Ha vinto l’acqua pubblica. Ma questo bene primario per eccellenza nel Comune di Ferrara è ancora in mano al privato. La pubblicizzazione della raccolta dei rifiuti urbani e del servizio idrico si può fare, come dimostrano tanti Comuni. E bisogna spegnere uno dei due inceneritori.

3) DEMOCRAZIA PARTECIPATA
La democrazia rappresentativa non è più sufficiente. Non ce lo inventiamo noi. Per amministrare una città c’è bisogno di tutti i portatori di interesse. C’è bisogno di amministratori sinceramente interessati a capire il territorio, partendo dall’ascolto, dal dialogo non occasionale con le cittadine e i cittadini, di tutte le età, dai bambini fino alle persone anziane. Sì, anche i bambini hanno diritto ad essere ascoltati. La democrazia partecipata è un metodo per interpretare la politica e va praticata durante tutto il mandato.

4) CULTURA
La Cultura riguarda tutte e tutti e tutta la città, così come gli spazi pubblici che non possono più essere utilizzati a scopo privato. E’ importante valorizzare e sostenere la cultura che esiste in città, la città Patrimonio Unesco, ma anche la cultura che si produce ogni giorno, mettendo a disposizione anche dei giovani, degli artisti, dei creativi più spazi e più sostegno.
Sviluppare il sistema bibliotecario cittadino come punto di riferimento anche per altre attività.
Investire in un turismo che produca reddito, non mordi e fuggi, capace di promuovere percorsi attrattivi, anche in collaborazione con altre città vicine.
Organizzare eventi culturali rispettosi della sostenibilità ambientale.

5) WELFARE DI COMUNITA’, DIRITTI E CITTADINANZA
Desideriamo che Ferrara si caratterizzi sempre di più come una città sicura e a misura di fragilità umane, una città impegnata nella riduzione delle diseguaglianze e delle discriminazioni, che promuova la pace, la non violenza, e che garantisca i diritti di cittadinanza e a non essere discriminati per provenienza culturale, genere, orientamento sessuale, religioso.
Oggi a Ferrara ci sono alcune migliaia di nuclei familiari sotto la soglia di povertà ed un numero imprecisato di persone che vivono intorno ai livelli minimi di sopravvivenza, che significa che, al primo imprevisto, vanno in rosso. Serve un piano di contrasto alle povertà e di promozione della salute e del benessere.

MI CANDIDO PER

B) Creare una SQUADRA di persone competenti, capaci di coordinare gruppi di lavoro sulle questioni che portiamo avanti. Squadra per me non significa solo assessori e/o consiglieri comunali, ma un sistema capillare di cittadine e cittadini già impegnati in città sui temi prioritari, che danno una mano con le loro competenze, esperienze e proposte.
Non sarò quindi una candidata sindaca sul modello di un uomo solo o una donna sola al comando.
Amo i gruppi, sono cresciuta nei gruppi, ne ho fatti nascere tanti. Amo questo modello ed è questo modello che ho intenzione di portare avanti.

MI CANDIDO PER

C) Eleggere una sindaca donna dopo 65 anni di mandati maschili.
Dal 1950 al 1958 Ferrara ha avuto una Sindaca, Luisa Gallotti Balboni, la prima sindaca donna di un comune capoluogo italiano. Ferrara, nei successivi 65 anni, ha visto solo sindaci uomini.
Io ci credo che una donna sindaca può fare la differenza e con me ci credono tantissime donne, che in queste ultime settimane si sono fatte sentire, incoraggiandomi e dandomi la loro disponibilità per la campagna elettorale.
Vedrete una campagna elettorale piena di donne. Ne arriveranno sempre di più. E questo mi rende felice, perché le donne sono in prima linea in tutti i settori strategici della nostra società: nelle attività di cura delle persone, nella sanità, nella scuola, nel volontariato. Credo che una donna sindaca, possa fare la differenza.
Impariamo a usare la parola “sindaca”. Anche l’Accademia della Crusca incoraggia in tal senso.
La lingua italiana è viva e può essere un potente motore di cambiamento.

MI CANDIDO PER

D) Una campagna elettorale concentrata sul programma per la città e sull’ascolto della cittadinanza.
Nel primo incontro de La Comune di Ferrara, a settembre, più di 100 persone hanno lavorato in 6 tavoli di lavoro, di cui uno under 30, delineando i tratti fondamentali di una campagna elettorale.
Io intendo portare avanti quanto emerso in quell’incontro. Lo sintetizzo.
I programmi vanno resi comprensibili ai cittadini. Le persone devono capire quello di cui si sta parlando e che il programma è lì per rispondere ai bisogni, per migliorare la qualità della vita delle persone.
Eviteremo il più possibile di cadere in contrapposizioni, in polarizzazioni, evitando un linguaggio bellico e di farci dettare l’agenda dagli altri e dalla propaganda.
Staremo concentrati sugli obiettivi reali. Useremo un linguaggio semplice, positivo e un po’ di satira per sorridere. Faremo una campagna dal basso, fatta di relazioni con le persone, dalla periferia a centro.
Porta a porta.

Ringrazio le forze politiche a cui do la parola, che hanno deciso di sostenere la Traccia condivisa per cambiare Ferrara e il metodo di lavoro.

Le foto di copertina e nel testo sono di Valerio Pazzi

La sentenza del TAR non ha bocciato solo gli ambientalisti ma il futuro del Mugello e dell’Appennino

La sentenza del TAR non ha bocciato solo gli ambientalisti ma il futuro del Mugello e dell’Appennino

All’indomani della Sentenza del TAR del 10 gennaio 2024, il Comitato per la Tutela dei Crinali Mugellani Crinali Liberi esprime il massimo disappunto per le sentenze emesse: il ricorso di Italia Nostra e C.A.I. viene dichiarato “improcedibile” per motivi procedurali in quanto presentato prima del pronunciamento del Consiglio dei Ministri, che nel settembre 2022 superava il parere negativo delle Sovrintendenze e del suo stesso Ministero della Cultura, approvando definitivamente il PAUR della Regione Toscana “Impianto eolico Monte Giogo di Villore”; il ricorso del Comune di San Godenzo viene invece “respinto” in quanto le contestazioni riportate sono giudicate infondate a seguito dell’analisi della documentazione avanzata dai diversi settori tecnici della Regione Toscana in approvazione del PAUR.

In poche parole il TAR ha sposato in toto le ragioni della Regione Toscana per l’approvazione del progetto di AGSM-AIM e per l’opposizione ai ricorsi.
Nel primo caso, infatti, evitando di entrare nel merito non ha preso in considerazione nessuna delle consistenti ragioni per cui le associazioni ambientaliste chiedevano l’annullamento dell’autorizzazione; nel secondo caso ha interpretato le innumerevoli richieste d
i integrazione, la copiosa ma spesso insufficiente documentazione presentata dal proponente, e per finire le giravolte procedurali e i numerosi aggiramenti della normativa attuati nella Conferenza dei Servizi (C.d.S.), come “sintomo di grande accuratezza e precisione nel voler realizzare l’opera al meglio grazie all’inserimento di improbabili accorgimenti tecnici volti alla presunta mitigazione dei danni”.
Un giudizio del tutto errato per chi ha seguito passo passo tutto l’iter lungo e travagliato della C.d.S. e conosce bene le numerose osservazioni dei cittadini, delle associazioni ambientaliste e quelle dei diversi enti tecnici e amministrativi, che hanno dimostrato solo e soltanto l’inconsistenza del progetto per l’impianto eolico, la mancanza di documentazione importante e imprescindibile (come ad esempio quella relativa allo smaltimento delle terre e rocce da scavo da cui ha preso avvio l’inchiesta penale), il pericolo per la biodiversità dell’area, i rischi ambientali per il territorio.
Tutto ciò dimostra che
di fatto il dissenso consapevole – costruito sugli studi indipendenti della fauna a rischio di estinzione, sulla biodiversità della zona, sulla presenza di acque superficiali e sotterrane a rischio sparizione, sulle forti criticità sismiche e idrogeologiche che caratterizzano tutto questo tratto di Appennino – non ha spazio e voce in una procedura giudiziaria amministrativa regionale.

Per difendere l’Appennino e le sue montagne alla Regione Toscana sarebbe bastato accogliere fin dall’inizio i numerosi pareri contrari all’impianto industriale eolico Monte Giogo di Villore, perché è un progetto sbagliato fin dalla nascita, cioè dalla scelta della sua collocazione. Ma chi governa la Regione l’ha voluto politicamente e l’ha fatto approvare tecnicamente contro ogni ragionevole dubbio, contro il volere del territorio mugellano, contro l’interesse dei propri cittadini e la propria millenaria cultura della bellezza e del paesaggio!

Il Comitato Crinali Liberi è sempre più convinto della fondatezza delle proprie ragioni ed esprime ancora una volta il netto dissenso rispetto al modo di procedere di forzatura in forzatura, non solo in sede di Conferenza dei Servizi, ma anche nei lavori, fin dall’apertura dei cantieri.
È “inspiegabile” come l’Amministrazione regionale abbia consentito l’inizio dei lavori in assenza del progetto esecutivo, della relazione sismica e della relativa autorizzazione. Altrettanto “inspiegabile” è l’assenza totale di vigilanza degli enti preposti sull’avanzamento dei lavori, già costata alle ditte esecutrici fior di sanzioni, denunce e “ingiunzioni al ripristino” grazie soltanto alle segnalazioni di semplici cittadini che hanno, loro sì, attentamente osservato cosa stava succedendo, e all’intervento seguente della forza pubblica allertata. Questo modo di fare delle imprese nell’esecuzione di tutte le grandi opere, è diventata ormai la norma: procedere al di fuori delle regole e pagare le penali per i problemi causati, se individuati; tanto i soldi in ballo sono tanti e ci sono anche per questo genere di spese. Per le imprese costruttrici è più conveniente fare così che rispettare la normativa ambientale.

Forse anche per questo malcostume, tutto italiano, insieme al clima anche l’aria è cambiata: tante persone in Mugello e ovunque nel nostro Belpaese si sono svegliate, hanno aperto gli occhi sulla realtà e si sono rese conto che i supereroi del green”, i decantati promotori della transizione energetica, non sono altro che avidi speculatori e colonizzatori di territori “lontani dal loro giardino”. Sono loro i veri Nimby, espropriatori di terre altrui, conquistadores dell’Appennino Mugellano.

Se davvero crollerà il baluardo del Giogo di Villore seguirà la colonizzazione industriale di tutta la dorsale appenninica toscoemiliana-romagnola, come già dichiarato dal proponente durante l’inchiesta pubblica. Alle comunità resteranno solo i danni: perdita di spazi agricoli e produttivi, di biodiversità e di bellezza, degradazione del territorio, scomparsa e inquinamento degli approvvigionamenti idrici, incremento del rischio di frane in montagna e allagamenti a valle; di contro nessun vantaggio energetico fruibile. Per questo è iniziata la collegiale e determinata battaglia dei Comitati e delle Associazioni a difesa di tutto l’Appennino.

Il Monte Giogo di Villore è diventato in questi anni uno dei simboli toscani della lotta in difesa della terra e dei beni comuni, della vita delle comunità montane, delle specie rare e protette, minacciate di estinzione, che popolano i crinali e i torrenti mugellani, delle foreste e dell’acqua, dei produttori che vivono e si prendono rispettosamente cura ogni giorno della montagna.
La voce dei crinali si leverà sempre più forte e non si lascerà silenziare. Sappiamo bene quanto questo progetto sottrarrà i territori alle comunità, quanto i suoi sentieri – tra cui il Sentiero 00 Italia, GEA (grande escursione appenninica) ed E1 (Europa 1) – verranno interdetti al passaggio dei camminatori, quanto saranno compromessi per sempre da cemento, rumore a livello 5, infrasuoni, onde elettromagnetiche e degrado industriale. Ogni cantiere e ogni operazione, ogni prelievo e ogni manomissione verranno attentamente osservati, documentati e resi pubblici.

Degli esiti di queste sentenze del TAR può esultare e rallegrarsi solo chi non vive e non ama questi territori, vocati all’escursionismo, al turismo, alle produzioni tipiche locali, alla conservazione e alla protezione degli ultimi ecosistemi naturali ricchi di biodiversità autoctona. Può gioire chi non ha capito che la transizione ecologica ha in questi territori, così come sono, i migliori alleati per la mitigazione climatica, per la presenza di boschi secolari e sorgenti di acque di alta qualità, di pratiche di produzione virtuose e rispettose degli equilibri ambientali per ottenere prodotti di eccellenza. Può gioire soltanto chi vuole confondere le persone spacciando la speculazione e il land grabbing (furto di territorio) come transizione energetica.

Per questi motivi il Comitato chiamerà a nuove forme di protesta tutta la cittadinanza e tutte le realtà attive sul fronte dei beni comuni.

Per certi versi / Carol

Carol

Si chiamava
Carol
Era
Un Elleboro
Del samba
Delle favelas
Del Carnevale
Stava sbocciando
Di passione
Per
Una ragazza
Con cui vivere
La loro fioritura
Troppo
Per i suoi
Aguzzini
Troppo
Per i suoi
Assassini
Una colpa
Una macchia

Loro
Sono la macchia
Che sempre
Porteremo
La macchia nera

Carol
Rosa
Del bagnasciuga
Questo
Voglio dirti
Noi non siamo
Fatti per essere
Cancellati
Siamo fatti
Per ricominciare

Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

A PROPOSITO DI BOLOGNA 30

A PROPOSITO DI BOLOGNA 30

Quello che ha fatto Bologna fa parte di quelle strategie vincenti messe in campo da molte città europee, da ormai più di venti anni, per realizzare una mobilità veramente sostenibile e non può che essere giudicato in termini positivi.

È solo l’inizio di questo percorso (cartelli stradali e controlli) che, se vogliamo raggiungere il traguardo di una vera sostenibilità e della conversione ecologica, dovrebbe evolvere verso un ridisegno della città e verso forme di mobilità che lascino sempre meno spazio alle automobili, soprattutto per gli spostamenti brevi che sono, statisticamente, i più numerosi.

I dati evidenziano che il 73,9% dei percorsi a Bologna ha origine e destinazione entro i confini comunali, sottolineando l’importanza di concentrarsi sulla mobilità locale. La distribuzione degli spostamenti per lunghezza mostra una chiara prevalenza a breve e medio raggio, con il 32,4% a distanze inferiori a 2 km e il 42,7% a scala urbana (2-10 km).

Il progetto “Città 30” è dettagliatamente delineato nel Volume Due del Piano Particolareggiato (aprile 2023), che fornisce analisi approfondite e modalità di implementazione. Si prevede di eliminare il traffico di attraversamento, ridurre le velocità su scala urbana e proteggere attrattori sensibili come le ‘zone scolastiche’. L’obiettivo è individuare e riqualificare le ‘zone residenziali’, oltre a identificare e migliorare i luoghi di incontro/socializzazione.

Come ecologisti possiamo capire che per tanti bolognesi, abitanti orgogliosi della Motor Valley tanto promossa e difesa da Bonaccini & C., possa essere doloroso modificare qualcosa nella nostra ossessiva dipendenza dall’automobile. D’altra parte, come dice il sito turistico della Regione Emilia-Romagna, “in questa regione la passione per le corse e i motori scorre nelle vene”.
È proprio questa ossessione il nostro problema ed è la patologia da curare, non da far progredire, dando fiato alle posizioni più estreme e forcaiole della destra bolognese che cavalca i dubbi e l’ignoranza di tanti cittadini. Ovviamente guidati dal ‘Capitano’ che fra una pasta da difendere e un salame da abbracciare è oramai in pieno stato confusionale (richiamato alla realtà anche dai suoi sindaci e dai 13 milioni stanziati per questi progetti dal Ministero di cui è a capo).

È opportuno riflettere sull’andamento incoerente che ha caratterizzato per anni il dibattito sulla mobilità sostenibile, ricordiamo il referendum sulla pedonalizzazione nel centro di Bologna, da una parte, l’eccessiva presenza di veicoli e del loro utilizzo, la fervida volontà, dall’altra, di promuovere ad ogni costo il Passante di Mezzo, l’ennesimo e inutile, ampliamento del fascio tangenziale – autostrada. Una scelta che risulta non solo poco praticabile, ma anche estremamente dannosa e inquinante, come emerge chiaramente dai dati relativi agli spostamenti precedentemente citati.

L’Amministrazione comunale di Bologna sicuramente avrebbe potuto e dovuto fare meglio, da luglio a oggi, costruire una visione, a trasferire orgoglio civico ai cittadini per una transizione energetica ed ecologica della città (Bologna aderisce anche alla Missione Clima dell’Europa per una città decarbonizzata al 2030 invece che al 2050). Tutte critiche che è giusto avanzare, ma questo non può oscurare un progetto che dimostra la fattibilità di un modello diverso di mobilità e di città anche in Italia e in Emilia-Romagna, un modello ambientalmente e socialmente sostenibile, con un buon sistema di trasporto pubblico e con ampie possibilità di migliorare la pedonalità e la ciclabilità.

Rete Giustizia Climatica e Ambientale Emilia Romagna

L’ombra dell’olocausto ci raggiunge:
Interroghiamoci sul confine tra responsabilità individuale e collettiva.

di Bruno Montesano
Questo articolo è uscito con altro titolo su Valigia blu del 27.01.2024

L’ombra dell’olocausto ci raggiunge: interroghiamoci sul confine tra responsabilità individuale e collettiva. Ma non cerchiamo scorciatoie, è un errore, prima ancora di essere un’offesa infame, dare dei nazisti agli israeliani o agli ebrei. 

I morti sono morti, le vittime sono uguali davanti alla loro condizione. Dimitri D’Andrea e Renata Badii, interrogandosi sul senso della memoria e sulla comparabilità tra i genocidi, con le conseguenti gerarchie delle vittime a volte proposte, scrivevano in “Sterminio e stermini. Shoah e violenze di massa nel Novecento” (il Mulino, 2010) che è “possibile” e “necessario pensare la gerarchia del male come compatibile con l’uguale dignità delle vittime”.
Scrivevano, al fine di fare questa doppia azione, che per valutare i genocidi bisognasse considerare la coerenza tra obiettivi e mezzi per realizzarli. Più il nesso è forte, maggiore è l’intensità genocidaria. “Affermare che tutte le vittime innocenti meritano uguale rispetto non significa rimuovere la questione della diversa grandezza della colpa dei responsabili politici, significa neutralizzarla rispetto al piano della dignità delle vittime”.

Questo tipo di riflessione può essere utile per ragionare sul Giorno della memoria, in particolare alla luce del processo per genocidio a Gaza in corso presso la Corte internazionale di Giustizia dell’Aja, dopo il caso presentato dal Sudafrica contro Israele.

Il 27 gennaio, da più parti, è stato contestato come una forma di imbalsamazione ritualistica del ricordo della Shoah. Divenuto un passaggio consolatorio – e non perturbante come dovrebbe essere – per le coscienze europee, svolge anche un ruolo nell’istituzionalizzazione delle estreme destre come ‘non antisemite’. È ormai chiaro che non antisemite non vuol dire più antifasciste, se tanto Le Pen, quanto la AFD o La Russa possono impunemente dirsi tali. Fascisti e postfascisti usano strumentalmente la vicinanza ad Israele e il contrasto all’antisemitismo per far dimenticare il proprio passato e per legittimare il razzismo verso altre minoranze. Cionondimeno, Soros rimane il loro nemico preferito.

Oggi, oltre a quel tipo di valutazione, si vede l’esplosione di un altro genere di critica che mette in relazione Shoah e Israele. Masha Gessen ha ricevuto diverse critiche per il suo intervento sul New Yorker, “All’ombra dell’Olocausto”. Nel testo avanzava la possibilità di criticare il fascismo israeliano, sulla scorta di nobili esempi, tra cui la lettera di Hannan Arendt firmata da Einstein contro Begin nel 1948. Inoltre, Gessen criticava giustamente la torsione che la memoria ha avuto in paesi come la Germania, dove in nome della propria responsabilità si bastonano le varie forme del dissenso contro occupazione e apartheid in Israele-Palestina. Avanzava poi un paragone tra Gaza e un ghetto sotto l’occupazione nazista.

All’ombra dell’Olocausto non è accusabile di essere antisemita e mette in fila fatti noti a chi segue la questione dell’uso strumentale dell’antisemitismo. Tuttavia, se una critica gli può essere mossa, è di non presentare un’analisi approfondita delle affinità tra Germania nazista e Israele, fermandosi alle comparazioni. Ma, soprattutto, ci si chiede perché il paragone tra il male a Gaza e altri mali debba avere come referente la Shoah. La storia non sembra infatti difettare di esperienze di estrema violenza.

Una risposta potrebbe essere che il paragone deriva dal fatto che se Israele esiste in virtù della Shoah, e ogni critica è ricondotta a quell’evento, o alla potenzialità di una sua ripetizione, il nesso si impone da sé. Inoltre, e conseguentemente, se gli ebrei fanno della memoria un elemento centrale della loro vita pubblica, come possono non aver imparato che non si disumanizza una popolazione, non la si ammazza indiscriminatamente, non le si nega il diritto all’autodeterminazione?

Sulla scorta di questi ragionamenti, a fronte dello sterminio dei palestinesi fatto da altri ebrei ci si chiede a che serva ricordare lo sterminio degli ebrei.

In parte è naturale farlo. Collegare Shoah e azioni di Israele è quanto fa, in segno speculare, la destra israeliana, e alcuni esponenti delle comunità ebraiche nella diaspora. Il trauma della violenza antisemita del passato viene spesso usato per difendere qualunque scelta dei governi israeliani nel presente. Non a caso, uno dei principi che ispiravano alcuni esponenti del sionismo ruotava intorno all’idea che non ci si sarebbe più fatti ammazzare, che alle prossime minacce o violenze si sarebbe risposto con la forza. Never again può essere declinato anche come un’assunzione della responsabilità dell’autodifesa contro l’esterno. “Gli ebrei vi piacciono solo se son morti, mai se vogliono vivere”.

Il sionismo è anche questo. Volere uno Stato-nazione è anche questo: dato che nessuno ci ha protetto, ora ci proteggiamo da soli. E magari attacchiamo anche. La logica dello Stato-nazione costringe a un certo grado di violenza. La solidificazione di un popolo in uno Stato porta a istituzionalizzare la violenza rendendola legittima. E monopolizzandola.

Il cosiddetto “nazismo” delle vittime

In alcuni contesti, e in particolare durante il Giorno della memoria, si tende a ribaltare il nazismo contro gli ebrei in nazismo degli ebrei israeliani. La storia di questa scorciatoia intellettuale è lunga. Si pensi, ad esempio, alla lettera privata di Italo Calvino a Franco Fortini in cui scrisse che in Israele le vittime si erano fatte carnefici. Edgar Morin, in un intervento tradotto da Repubblicaen passant, ha scritto la stessa cosa, pur se all’interno di un ragionamento complessivamente condivisibile.

Per vari ordini di ragione questa mossa è infame. Sgomberiamo il campo dalla prima obiezione, che recita così: “Ma l’accusa di nazismo è rivolta agli israeliani, non agli ebrei!”. Si dà infatti il caso che la maggioranza che opprime i palestinesi in Israele-Palestina sia qualificata come ebraica. Ebrei e israeliani sono insiemi distinti ma, in alcune conformazioni, sovrapponibili.

Non conta qui valutare se gli ebrei siano un popolo o meno – non esistono i popoli in generale, essendo sempre astrazioni selettive determinate ex post e solidificatesi attraverso rituali e istituzioni pubbliche. Conta ricordare che quella ebraica è un’identità che non riguarda solo l’appartenenza religiosa, ma anche altri elementi. Posto che non esistono mai identità dotate della qualità dell’univocità, l’identità ebraica è specificamente complessa rispetto agli elementi che solitamente si usano per definirla, trovandosi a cavallo tra religione e cultura, essendo stata geograficamente dispersa e linguisticamente eterogenea.

Una seconda obiezione potrebbe essere: “Ma è il governo di Israele a essere nazista non gli israeliani”. Ma, legittimamente, si potrebbe arrivare a dire che non fu la Germania nella sua totalità complessiva a essere nazista. Sono maggioranze, sono le istituzioni, sono i governi, sono i soggetti che esercitano la violenza legittima a essere imputabili. E però quindi si pone il tema del rapporto tra le varie componenti di una società, così come delle varie forme di partecipazione, consenso e complicità. Questa obiezione ha più valore.

Tuttavia la questione rimane. Anche qualificando il governo, e volendo buona parte della società israeliana, come fascista – termine, eventualmente, più appropriato, e, per quanto mi riguarda, condivisibile a patto che si usi lo stesso metro con le nostre società europee infestate dalle destre radicali –, il problema del confine tra la responsabilità individuale e collettiva rimane.
Ma gli ebrei contro l’occupazione nella diaspora e in Israele non sono dissenzienti verso un’identità, un’essenza intrinsecamente maligna, ma verso una specifica conformazione istituzionale-politica, storica, data. Non si oppongono a degli ebrei carnefici in fedeltà alla vecchia identità di vittime. Scelgono politicamente che fare. Questo è ciò che conta, non le metafisiche delle identità collettive.

Così come c’è una questione temporale e logica: ci si potrebbe chiedere infatti in che modo sei milioni di morti potrebbero essere ritenuti responsabili per l’attuale massacro a Gaza, i pogrom in Cisgiordania e i decenni di occupazione ai danni palestinesi.
O se ci siano vantaggi a stabilire se esistano popoli sempre innocenti, o sempre colpevoli.
Sembrerebbe piuttosto che la traiettoria storica non riguardi popoli ma, eventualmente, altri aggregati. E, soprattutto, che non abbia nessuna teleologia.

Inoltre, se sei milioni di ebrei sono stati massacrati in Europa, non sarebbe forse il caso di chiedersi quale dovrebbe essere il soggetto che dovrebbe interrogarsi il 27 gennaio – e magari più frequentemente anche in altre date, o, addirittura, quotidianamente? La Shoah è un problema europeo: ricordarla non è un tributo agli ebrei.

Certo, anche qui, si potrebbe dire: ma che responsabilità hanno gli europei contemporanei di quanto avvenuto nel passato? Posto lo stesso tema distintivo, tra responsabilità individuale e collettiva, si potrebbero avanzare alcune differenze. Le istituzioni europee non si sono completamente de-fascistizzate da un lato – su questo si guardi, per un Giorno della memoria senza Schindler’s list, il grande film di Jean Marie Straub Solo violenza può dove violenza regna –, il razzismo non è stato estirpato (al contrario) e, dall’altro, forme di fascismo si ripropongono, sia in senso lato, sia specificamente con soggetti che vengono da quella storia politica che oggi siedono ai vertici delle istituzioni.

Non serve usare la Giornata della memoria contro gli ebrei, perché “le vittime” non sono tali al fine di imparare una lezione. E qualora esistesse una categoria eterna delle vittime, comunque si potrebbe confidare abbastanza tranquillamente sul fatto che tendenzialmente da esperienze come la Shoah – o dal colonialismo, per pensare ad altri eventi di violenza di massa istituzionalizzata – non si traggono lezioni.
Usiamo questo ricordo per interrogarci su come interrompere razzismo e violenza, qui e altrove, senza accollare in modo razzista il fardello della memoria solo a un segmento della società – gli ebrei – rimproverandolo per farne un uso sbagliato.

Per tornare a quanto scrivono D’Andrea e Badii: “Parlare di una unicità della Shoah, o stabilire che esistono sterminatori più crudeli di altri e forme di male politico più estreme di altre non equivale, quindi, a garantire «esclusività» al dolore delle vittime di questo specifico sterminio, e non implica alcuna relativizzazione o, addirittura, giustificazione”.

Bruno Montesano
Dottorando in Mutamento sociale e politico (UniTo/UniFi), ha studiato alla School of Oriental and African Studies (Soas) di Londra. Si occupa del rapporto tra razzismo, economia e cittadinanza. Collabora con la rivista “Gli Asini”, con “il manifesto” e altre testate e progetti giornalistici.

Giornata della Memoria – Ferrara e Carla Neppi Sadun il 29 gennaio alla Sala Estense

Carla Neppi Sadun, una bambina scampata alla deportazione in prima visione su Rai Storia oggi 27 gennaio alle 18:40. Ospite a Ferrara, alla Sala Estense il 29 gennaio alle 10:00.

Ferrara e la storia di Carla Neppi Sadun saranno protagoniste oggi, 27 gennaio alle 18:40, in prima visione su Rai Storia, in occasione del Giorno della Memoria. Uno degli ultimi testimoni diretti della persecuzione antiebraica, iniziata con le leggi razziali fasciste del 1938, sarà al centro de “Le leggi razziali. Una storia ferrarese” di Andrea Orbicciani, regia di Pasquale D’Aiello.

“La puntata di Rai Storia, che avrà al centro la storia di questa donna ferrarese, appena una bambina quando scampò la deportazione, sarà un importantissimo tassello che si inserisce nelle ricorrenze che il 27 gennaio commemorano le vittime dell’olocausto, cui la città di Ferrara, anche quest’anno, aderisce con sentita e attenta partecipazione”, così il sindaco di Ferrara che ricorda anche come la città accoglierà Carla Neppi Sadun il 29 gennaio, ospite alla Sala Estense per raccontare la sua vicenda  e incontrare le scuole del territorio (“Cinque Storie in cinque oggetti”, lunedì ore 10, organizzato dal Meis e dall’Istituto di storia contemporanea).

Carla Neppi Sadun, all’epoca, aveva sette anni e abitava a Ferrara. Da qui, nel 1943, fu costretta a fuggire con tutta la famiglia per evitare la deportazione, nascondendosi in uno sperduto villaggio dell’appennino emiliano. Racconta le proprie vicissitudini e quelle dei suoi familiari, ripercorrendo i luoghi della città dove ha trascorso l’infanzia: la casa paterna dove hanno dimorato sette generazioni della sua grande famiglia; la piccola scuola ebraica nell’antico ghetto di Ferrara, dove ha potuto proseguire gli studi dopo essere stata cacciata dalla scuola elementare statale vietata agli ebrei; la sinagoga tedesca frequentata dalla sua famiglia, che nel 1941 fu devastata dai fascisti, che bruciarono i libri sacri. E ancora, il suggestivo cimitero ebraico della città, dove riposano quasi tutti i suoi familiari, tranne la zia Olga e lo zio Gino Emanuele, affermato medico di Milano, entrambi arrestati dai nazifascisti, per essere poi deportati e uccisi ad Auschwitz. Completano il racconto le voci della storica Anna Foa e di Amedeo Spagnoletto, direttore del Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah (MEIS) di Ferrara, importante punto di riferimento per la trasmissione della storia e della cultura ebraica in Italia.

Alcune immagini durante le riprese con Carla Neppi Sadun per lo speciale di Rai Storia, avvenute a Ferrara, e foto d’archivio della facciata esterna della sinagoga di via Mazzini a Ferrara.

 

Presto di mattina /
Il mondo storpiato

Presto di mattina. Il mondo storpiato

Un mondo storpiato

Prova a cantare il mondo storpiato.
Ricorda di giugno le lunghe giornate
e le fragole, le gocce di vin rosé,
e le ortiche implacabili a coprire
le dimore lasciate dagli esuli.
Devi cantare questo mondo storpiato.
Hai visto navi e yacht eleganti
Alcuni dinanzi avevano un lungo viaggio,
ad attendere altri era solo il nulla salmastro.
Hai visto i profughi andare da nessuna parte,
hai sentito cantare di gioia i carnefici.
Dovresti cantare il mondo storpiato».
Canta il mondo storpiato
e la penna grigia perduta dal tordo,
e la luce delicata che erra, svanisce
e ritorna.
(Adam Zagajewski, Prova a cantare un mondo storpiato, Interlinea, Novara 2019, 95).

Per il poeta e scrittore polacco Zagajewski (1945-2021) poesia è come «un volto umano, un oggetto che può essere misurato, descritto, catalogato, ma è anche un appello» (ivi, 9).

Appello a non tradire la memoria perché sarebbe un tradire anche la memoria di tutte le vittime di oggi: il tradimento della memoria è il silenzio.

In un’intervista ad Avvenire il 23 ottobre 2019 alla domanda in che misura egli sia stato segnato dalla tragedia della guerra, sebbene sia nato nel ’45, risponde: «Oh sì, è vero. La Shoah, il massacro di ebrei europei che ha avuto luogo principalmente nel territorio polacco, mi perseguita di continuo. Le immagini di bambini ebrei portati nei campi di sterminio sono insopportabili e il tempo non fa nulla per ammorbidirlo. Sono nato un mese dopo che le macchine della morte in Europa fossero arrestate, quindi l’ho sempre considerato una specie di eredità difficile».

Un piccolo popolo scrive a Dio

«Tutto è cominciato con i treni. Perché avranno inventato la macchina a vapore, la locomotiva e la ferrovia? Perché? Ne avevano davvero bisogno? Non bastavano le diligenze? Non si poteva andare a piedi, dormendo su balle di fieno e bevendo acqua di fonte? Il cavallo non è forse una creatura perfetta, forte e paziente? I nostri pittori amavano ritrarre cavalli, in riposo o in corsa.

Le prime ferrovie potevano sembrare un idillio: minuscole stazioni rischiarate da lampioni a gas, il capostazione con la sua bella divisa pulita e ben stirata, i cassieri baffuti, i ritratti di imperatori assonnati. Ma c’erano anche degli osservatori avveduti. Il famoso quadro di Turner che raffigura un treno in corsa cela in sé fascinazione e spavento insieme.

Allora non si poteva ancora prevedere la cosa più importante. Non si poteva intuire a che sarebbero serviti i treni, quale fosse la loro funzione principale, ma ancora nascosta. Perché i treni servono a deportare le piccole etnie. È difficile farlo in diligenza. Il carro che condusse Maria Antonietta alla ghigliottina non avrebbe potuto contenere tutta una nazione. Le carrozze servivano a portar via giusto un pugno di filomati (amanti dell’apprendimento) semiassiderati.

I treni invece! I vagoni merci o quelli bestiame si prestano perfettamente a deportare grandi masse umane. E così è stato. La macchina a vapore ha svelato le sue più segrete potenzialità solo in tempi relativamente recenti. Forse noi non siamo un popolo piccolissimo.

Ma la definizione può anche essere ribaltata: piccolo è quel popolo che può essere contenuto in vagoni merci. Piccolo e debole. Che lì dentro soffoca per mancanza d’aria. Ti risparmiamo i particolari. Pianti, gemiti, odio, risse, ogni tanto un flebile gesto di compassione.

Meglio non descrivere come si vive in un vagone merci. Duravano tanto, quei viaggi? Oh sì, tanto, perché i treni coprivano grandi distanze. Si fermavano spesso al semaforo, dando la precedenza ai convogli militari. Grida bestiali risuonavano nel silenzio.

Ma Ti avevamo promesso di non scendere nei dettagli. Bocca chiusa e pennino spuntato. A volte il viaggio durava una settimana o più. Gente ammassata. Schiacciata. Ossa contro ossa, spalla contro spalla, come in un amplesso non voluto.

Lo si poteva credere il sogno realizzato di molti nazionalisti: un concentrato di popolo, con un’unica volontà, corpo addosso a corpo, cranio contro cranio, la fine di ogni capriccio individualista. “Scrivete le vostre memorie” – consigliano loro gli amici intellettuali.

Ma come, dal momento che si tratta di cose che non si possono raccontare? Se hai spintonato via qualcuno mentre distribuivano le razioni e per questo sei riuscito a sopravvivere all’inverno, come fai a dirlo? Come fai a ricordarlo? Hanno deportato un popolo, è tornato uno sguardo.

Ci sarà sempre un posticino per uno come me, autore di sempre nuove lettere, di lagnanze e proteste. Segue firma illeggibile, una folata di vento gelido» (Un piccolo popolo scrive a Dio, in Adam Zagajewski, Tradimento, Adelphi, 2007, 128-129; 132; 136).

Prova a cantare un mondo storpiato

Nelle vie e nelle piazze aggrondate
si addensano grandine e tempesta,
eppure la luce non muore.
I poeti, invisibili come minatori,
nascosti sottoterra,
costruiscono per noi una casa:
ma loro non possono,
non possono abitarli.
(Prova a cantare un mondo storpiato, 73).

Ogni sguardo abbassato, come ogni poesia non detta, è un appello mancato: «Questo è il mio tradimento. Il silenzio» (ivi, 114).

“Occorre guarire dal silenzio” e lo si fa ogni volta che si alza lo sguardo, là dove “si addensano grandine tempesta” eppure là “la luce non muore”; là dove si osa la presa della parola fuoriesce mondo possibile perché la poesia, ci insegna Zagajewski, è ricerca della luce nelle tenebre, del suo fulgore nella caligine.

Ogni poesia, anche la più breve,
può trasformarsi in un poema che da sé deduce un mondo,
sembra che potrebbe persino esplodere,
perché ovunque si nascondono smisurate
riserve di meraviglia e ferocia e pazienti
attendono il nostro sguardo, che le può liberare
e sviluppare, come si sviluppa un fiocco di strada d’estate –
solo non sappiamo cosa prevarrà, e se il nostro ingegno
reggerà il passo di una così ricca realtà;
e quindi, per questo, ogni poesia deve parlare
della totalità del mondo; purtroppo non siamo
abbastanza attenti, le nostre bocche sono
strette e centellinano le immagini, come
l’avaro di Molière.
(Zagajewski, Guarire dal silenzio, Mondadori, Milano 2020, 33).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Meglio tardi che mai: Il Comune di Ferrara annuncia l’inizio del percorso partecipato sulla ex caserma, ma il Forum vuol vedere quando e come.

Meglio tardi che mai: il Comune di Ferrara annuncia finalmente l’inizio del percorso partecipato sulla ex caserma Pozzuolo del Friuli, ma il Forum vuol vedere quando e come.

Il Forum Ferrara Partecipata prende atto, ad un anno dalla promessa del Sindaco sollecitato anche dall’intero Consiglio Comunale, che inizierà un percorso partecipato dai cittadini per individuare soluzioni condivise per il recupero dell’ex area militare “Pozzuolo del Friuli”, in quel punto così delicato della città tra via Cisterna del Follo e via Scandiana, a fianco di Palazzina di Marfisa, di Palazzo Bonacossi, di Palazzo Schifanoia e della basilica di Santa Maria in Vado.
Lo abbiamo appreso da notizie di stampa e, ufficialmente, dalle dichiarazioni dell’Assessore all’ambiente Alessandro Balboni, pubblicate dal quotidiano municipale Cronaca Comune, in cui si dà conto dell’incarico assegnato ad una società di progettare le modalità del percorso partecipato dal basso.

Il Forum esprime soddisfazione per questo avvio, al quale ha probabilmente contribuito la mobilitazione di questi mesi, e attende fiducioso di conoscere la data di inizio del percorso e le sue modalità organizzative: da qui si potrà apprezzare la sincerità e la sollecitudine dell’amministrazione comunale nel garantire il massimo tasso di democrazia e partecipazione, che immaginiamo simile alle modalità delle “assemblee dei cittadini” ormai collaudate in alcune città italiane e in parecchie europee.

Nel frattempo il Forum proseguirà il suo presidio del venerdì mattina sotto il Volto del cavallo iniziato nel luglio scorso, avendo cura di comunicare questa novità ai tanti cittadini che chiedono informazioni. I sit-in continueranno almeno finché non verrà comunicata una data certa di inizio del percorso partecipativo.

Poliamore? Istruzioni per l’uso

Poliamore? Istruzioni per l’uso

L’odierno diritto di famiglia, nella società nordamericana e occidentale, sta confrontandosi con una pluralità di modelli e conformazioni familiari che rivendicano un riconoscimento, sia di status sociale, sia di normazione legislativa.

Restando fermo che il modello tuttora imperante, e ampiamente propagandato, è quello della famiglia eterosessuale monogamica fondata sul matrimonio, la realtà dei fatti ha dimostrato che si tratta non di una “essenza” naturale nella sua eternità, bensì, di una conformazione storica, soggetta al cambiamento.

Le coppie di fatto e same sex sono state recentemente assimilate in diversi Paesi occidentali al modello matrimoniale, mentre rimangono difficilmente codificabili due fenomeni attualmente in aumento: le famiglie unipersonali, dette anche famiglie “improprie” (i single) e le famiglie poliamorose. Tralasciando i single, che nella loro im-proprietà non aspirano a connotati matrimoniali e sono quindi scarsamente rivendicativi,  il concetto e le esperienze di poliamore avanzano, specialmente negli Stati Uniti,

Come di consueto, i prodotti culturali di importazione americana sono ovviamente imitati, anche se riveduti e corretti nella loro versione italiana, e quindi anche in Italia, si comincia parlare di poliamore: cos’è?  come si fa?

Mi sono imbattuta in questo concetto prima di tutto a livello teorico, nella sede universitaria di Feminist Studies di Coimbra, dove hanno tradotto il poliamore con un grafico con tante freccette: ogni freccia rappresentava una relazione che collegava  due individui, oltre che fra di loro, ad altre persone attraverso: durevoli legami amicali, parentali, sentimentali, sessuali (questi ultimi rigorosamente dichiarati).

La definizione accademica che mi è stata data  del complicato grafico era di “non monogamia etica”, dove sono superati di un balzo le torture delle bugie, del sospetto, del tradimento, della gelosia.  Tutto nel poliamore è dichiarato, razionalizzato e, specialmente, consensuale. La “non monogamia etica” nasce infatti in contrapposizione alla non monogamia “non etica”, detta volgarmente “tradimento”, e probabile causa del crescente numero di separazioni e divorzi a livello mondiale.
La scelta del partner è di accettare di entrare o meno nel poliamore, dove non ci sono sorprese perché tutto è preventivamente dichiarato. La premessa teorica del rapporto poliamoroso non è di possedere un valore aggiunto rispetto alla monogamia (anche seriale), ma di razionalizzare la rete di relazioni che ognuno di noi  intrattiene, senza nasconderle al partner.

Confesso che la mia principale preoccupazione, di fronte a questa rivelazione, è stata di non riuscire a disegnare il grafico, complesso nella sua conformazione come un granello di neve al microscopio. Anche chi non è in un rapporto di coppia ha infatti la sua più o meno ricca rete di relazioni, unica, irripetibile, proprio come un cristallo.

Uno dei limiti che ho subito riscontrato nel poliamore è la pianificazione delle relazioni, in contrapposizione alla fluidità e imprevedibilità che le dovrebbe contraddistinguere. Poi mi sono rassicurata pensando ai tempi di importazione dell’idea nella nostra Italia: laica a parole, ma profondamente cattolica nei fatti.
Invece ho dovuto presto ricredermi: una mia alunna di quindici anni, alla domanda su con chi vivesse, mi ha risposto:
–  “Con i miei genitori, che sono separati, ma vivono insieme, con i loro rispettivi fidanzati.” 
– “E vanno tutti d’accordo?”
– “Certo, sono amici ed escono spesso tutti insieme” .
Ho cercato di non spegnere con ulteriori domande e commenti il sorriso e lo sguardo fiducioso con cui parlava, ed ho annuito.

Recentemente la sorella di un mio amico mi ha raccontato che al primo appuntamento organizzato tramite  Tinder, il suo ipotetico nuovo partner ha dichiarato di essere in un poliamore composto da lui, la sua ex (che non era riuscito a lasciare), e da un’altra ragazza. In questo caso il poliamore le è stato presentato con i connotati di un harem, in cui il soggetto maschile intratteneva rapporti sessuali con due donne, possibilmente tre, se lei accettava. Saggiamente non ha accettato. Mentre le altre due componenti del poliamore hanno accettato di “condividere” il partner. Bisogna ammettere che come inizio di una nuova relazione, la presentazione del poliamore con queste modalità non è molto coinvolgente. Probabilmente la maggioranza delle ragazze avrebbe rifiutato.

C’è il rischio che dalla versione poliamorosa che si sta diffondendo fra i giovani scaturisca l’ennesima trappola maschilista, che giustifica la vigliaccheria di non riuscire a chiudere una relazione, aggiungendo una o più donne al rapporto insoddisfacente.

La critica a questo modello poliamoroso “in aggiunta” nasce soprattutto dalla constatazione che molte donne hanno pagato con la vita la loro decisione di interrompere una relazione che non funzionava più.
La sbandierata trasparenza del poliamore non deve essere un nascondiglio in cui, dopo aver eliminato le bugie dette agli altri, si accumulano quelle dette a se stessi, perpetuando un modello di comportamento opportunistico che aspira al massimo senza la fatica della scelta, del conflitto, della rinuncia. In questo caso in questa “non monogamia” non ci trovo niente di etico.  

Un poliamore appagante deve avere possibilmente il carattere della simmetria, come nel caso della ragazzina con i genitori separati che hanno entrambi un nuovo partner, diversamente può diventare un modello di vita subìto e fonte di sofferenza del componente che ha meno rapporti (specie sessuali)

Un’altra criticità che riscontro nel poliamore è che spesso non viene dichiarato come tale, ma con l’espressione “frequento altre persone oltre a te” . In questo caso, conseguenza specialmente dei contatti via social, diventa fondamentale la più totale reciprocità: non dare l’esclusiva sentimentale ad una persona che a sua volta non la dà.
Anche nel poliamore le donne non possono smettere di difendersi da pratiche di dominio che, anche se sembrano buttate fuori dalla porta, rientrano facilmente dalla finestra con un colpo di vento.

Storie in pellicola / Garrone vola agli Oscar

Se “Oppenheimer” fa incetta di candidature (ben 13) ai Premi Oscar 2024, edizione numero 96, a fare notizia è il nostro “Io capitano”, di Matteo Garrone, in corsa come miglior film straniero. Non sarà facile, ma tifiamo tutti per lui.

Già incluso tra i finalisti dei Golden Globe, battuto sul filo di lana dal film francese vincitore della Palma d’Oro a Cannes (“Anatomia di una caduta”), due candidature ai premi European Film Awards, “Io capitano”, di Matteo Garrone, ha vinto due premi importanti alla scorsa edizione del Festival del Cinema di Venezia: il Leone d’argento per la miglior regia e il premio Marcello Mastroianni per il miglior attore emergente a Seydou Sarr, uno dei protagonisti della storia. Oggi il lungometraggio arriva nell’Olimpo: entra nella cinquina che concorre nella categoria miglior film straniero agli Oscar 2024, con rivali di grande calibro, Wim Wenders con “Perfect days” (Giappone), Juan Antonio Garcia Bayona con “La società della neve” (Spagna), İlker Çatak con “The teachers’ lounge” (Germania) e Jonathan Glazer con “La zona d’interesse” (Regno Unito). La sfida sarà ardua e impervia – soprattutto con Wenders – ma Garrone ha molte chances di portare a casa l’ambita statuetta. Potrebbe essere gradito ai membri dell’Academy.

Ci sono tutti gli ingredienti per piacere: il tema, la realtà, la fotografia, l’abilità tecnica, la favola, i sogni, l’avventura, l’Odissea. E ancora i buoni e i cattivi, l’amicizia, la fratellanza, i colori vivaci del Senegal che man mano sbiadiscono (e le magliette che diventano color pastello), il deserto, il mare, l’orizzonte, le piattaforme petrolifere, la terra. Tanti gesti di umanità, dignità e gentilezza in mezzo all’inferno. E, soprattutto, la scelta, le scelte.

Si esce dal cinema come se ci avessero dato un pugno allo stomaco, un po’ storditi, perché lo sconforto, la forza, l’orrore e la violenza di alcune immagini e situazioni fronteggiano momenti di bellezza, di grande umanità, tenerezza e grazia.

La sinossi di “Io capitano” lo descrive come “una fiaba omerica che racconta il viaggio avventuroso di due giovani, Seydou e Moussa, che lasciano Dakar per raggiungere l’Europa. Un’Odissea contemporanea attraverso le insidie del deserto, i pericoli del mare e le ambiguità dell’essere umano”. Tutto, in questa coproduzione italo-belga girata per 13 settimane fra Africa ed Europa, parla di vita. Di realtà, di crescita, evoluzione e speranza.

Set nel deserto, foto ARRI

Tratto dai racconti di molti immigrati che hanno fatto lo stesso percorso, il film nasce da un’idea del regista sceneggiata insieme a Massimo Gaudioso, Andrea Tagliaferri e a Massimo Ceccherini, che già aveva affiancato Garrone alla scrittura di “Pinocchio”. A dirigere la fotografia il bravissimo Paolo Carnera.

Per la precisione, l’ispirazione arriva dalla storia vera di Mamadou Kouassi Pli Adama, immigrato ivoriano arrivato dalla Libia su un gommone in Italia, oggi attivista e leader del Movimento Migranti e Rifugiati di Caserta e del Centro Sociale ‘Ex Canapificio’: “quanti morti che ho visto davanti a me…”, ha detto, emozionato per tale candidatura, “sono la voce di chi non ce l’ha fatta”.

“Sono partito da un’immagine, quella che poi è diventata la scena finale del film. Parto sempre da un’immagine nei miei film”, racconta il regista. La storia del film comincia, però, diversi anni fa: un amico del regista, che gestisce un centro di accoglienza in Sicilia, gli aveva raccontato la vicenda di un minorenne, Fofana Amara, che aveva portato in salvo centinaia di persone su un’imbarcazione partita dalla Libia, ma una volta in Italia era stato accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina ed era finito in carcere per sei mesi, un reato per cui oggi in Italia si rischia fino a trent’anni. “Mi aveva colpito la vicenda di questo ragazzo, me lo sono immaginato come poi ho mostrato nella scena finale del film”, dice. Per arrivare a girare, però ci ha messo anni, anche per la raccolta di testimonianze e materiale fotografico, oltre sei mesi per scrivere la sceneggiatura: “Ero pieno di dubbi”, continua, “temevo la retorica, oppure che il mio sguardo potesse essere inadeguato a raccontare questa storia, che potesse sembrare il tentativo di speculare sulla sofferenza degli altri; invece, poi a un certo punto ho sentito che il film era maturo, è come se avesse scelto me. Ho avuto la necessità di girarlo”. “Ogni pezzetto del film è legato al racconto di qualcosa realmente avvenuto”, confessa.

Seydou Sarr, foto ARRI

Molto interessante la lettura della critica Paola Casella, secondo la quale “in un certo senso Garrone fa cominciare il suo racconto dal suo film precedente, perché i due protagonisti Seydou (Seydou Sarr) e Moussa (Moustapha Fall) sono Pinocchio e Lucignolo in partenza per il Paese dei Balocchi, circondati da gatti e volpi pronti a predare sulla loro ingenuità”. In effetti, quella dimensione onirica la si ritrova anche in alcune scene come quella in cui Seydou è costretto ad abbandonare nel deserto una donna che non ce la fa più a camminare e che muore tra le sue braccia e lei vola, sulle ali del vento. O nello spirito che porta Seydou a rendere visita alla madre che dorme.

Il film è in parte epico, è un viaggio scelto e voluto da due ragazzi sfrontati e impavidi che sognano la musica, un ‘road movie’ che parla di passaggio all’età adulta, di separazione traumatica da origini, radici e affetti, di sfida con sé stessi, di pericolo di perdersi e di soccombere. Lo stesso Garrone confessa di aver pensato a “Pinocchio” ma anche all’“Isola del tesoro” di Robert Louis Stevenson e a “Cuore di tenebra” di Joseph Conrad.

Tranne qualche parte in francese e italiano, il regista ha, sorprendentemente, diretto il film in Wolof, la lingua madre del 40 per cento dei senegalesi, pur non parlandola, facendosi quindi aiutare dagli interpreti e raccontando, ogni mattina, agli attori, che non avevano mai letto la sceneggiatura, cosa sarebbe successo sul set. Da queste spiegazioni loro interpretavano, con delicatezza, bravura, dedizione, serietà e ironia.

In sequenza, foto ARRI

A piacere è il fatto che questo film, che affianca sonorità africane e rock, non è il racconto di un viaggio in fuga dalla miseria e dalla fame, ma una scelta autonoma di avventurarsi oltre il Mediterraneo. Un viaggio ‘di conoscenza’ verso il sogno precluso chiamato Europa, un viaggio alla scoperta del mondo al quale la madre di Seydou è assolutamente contraria, tanto da averglielo vietato: “Devi respirare la stessa aria che respiro io”, nel tentativo di proteggere lui dai pericoli e sé stessa dalla sua perdita.

“Io capitano” è soprattutto una parabola sulla necessità di assumersi la responsabilità delle proprie azioni e scelte, incarnata nella figura nobile di Seydou che, invece di pensare solo alla propria sopravvivenza, si fa carico degli altri, fino a portare con sé anche il loro ricordo di chi non è arrivato alla meta.

Empatico, autentico, commovente, bellissimo.

In bocca al lupo, allora, Matteo, di cuore, e Ad maiora.

 

Io capitano, di Matteo Garrone, con Seydou Sarr, Moustapha Fall, Issaka Sawagodo, Hichem Yacoubi, Doodou Sagna, Italia, Belgio, 2023, 121 minuti.

Foto in evidenza di Greta de Lazzaris

Dal 29 gennaio su Sky Cinema e NOW

Diario in pubblico /
Parlare come mangiare

Diario in pubblico. Parlare come mangiare

Se dovessimo controllare il lessico che imperversa nella radio e nella televisione saremmo presi da sconforto, in quanto non si tratta di un rinnovamento della parola, renovatio verbis, quanto di un distorcimento della pronuncia e del significato.

Se ai miei tempi suonava già fastidiosa l’aspirazione consonantica toscana, ovvero la gorgia, o la trasformazione laziale della in b, o la trasformata in essce dell’Emilia-Romagna e via pronunciando, ora la dizione trascura e contorce non solo le ormai acclarate “deformazioni” proprie a una regione linguistica, ma ne inventa altre con la suggestione della scrittura usata nei social.

Sono poi imperanti parole che si ripetono ossessivamente prima fra tutte Percorso, la cui pronuncia va da Percorzo a Percorscio, o l’ossessivo Whow pronunciato da una massa di inintelligenti di fronte alla trionfante entrata di una bambolotta da social.

Non si vuole qui sottolineare quanto ormai sia travolta la lingua dai nuovi mezzi di comunicazione, ma come ormai sia inaffidabile, salvo per una cerchia sempre più ristretta, l’uso e l’abuso, non solo di nuovi termini, ma della stessa concezione della lingua nazionale.

È ormai evidente come il dilagare dell’anglomania abbia prodotto una deformazione mondiale dell’uso della lingua. Ma con diverse condizioni rispetto a quelle che nei secoli scorsi produssero il passaggio dal latino al volgare e soprattutto l’adozione del francese, come espressività universale dal diciottesimo secolo in poi.

Sembra quasi che l’uso della lingua sia un prodotto commestibile: si parla come si mangia. In tal modo la lingua si adatta, ad esempio ai nuovi gusti e mistioni. Vedi la pizza all’ananas o i cocktails con le foglie d’oro.

Un esempio lampante si raccoglie nella nostra città, a sentire come si esprimono gli “umarel” presenti in piazza. Sconvolgente. Si pensi ancora alle interviste che si fanno a testimoni di delitti o violenze. Impressionanti proprio dal punto di vista espressivo. Peggio ancora la lingua dei giovani che prepotentemente entra anche nelle scuole, costringendo gli insegnanti ad accettare quell’eloquio.

Non si pensi che questa nota nasca come sfogo del barboso docente, ma invece è indotta proprio dall’attenzione prestata alla lingua dei mezzi di comunicazione.

E a mio parere meglio allora adottare il dialetto che sdraiarsi su questa lingua finta.

Per leggere gli altri articoli di Diario in pubblico la rubrica di Gianni Venturi clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Ferrara: Parte la Coalizione per battere la destra

Liberiamo Ferrara! Parte la Coalizione per battere la destra. Anna Zonari è Candidata Sindaca.

Domenica 28 gennaio alle 9,30 si terrà una assemblea pubblica promossa da La Comune di Ferrara, a cui parteciperanno anche le forze politiche e la società civile che si riconoscono nella “traccia condivisa” per un programma elettorale. L’incontro si svolge presso la Sala macchine di Grisù, in via Poledrelli.


Come è noto, La Comune di Ferrara ha avviato da mesi un percorso in tre tappe, attraverso metodi e strumenti partecipativi reali, perché sia la società civile parte attiva nella stesura dei programmi e nella scelta dei candidati alle elezioni amministrative del 2024.

Nella prima tappa di novembre sono state individuate le cinque direzioni principali per costruire un programma elettorale. È la “traccia condivisa”, ancora aperta ad altri contributi:

– decarbonizzazione e rigenerazione urbana,


– Beni Comuni da riconquistare,


– strumenti di democrazia partecipata,


– una cultura grande come una città,


– welfare di comunità diritti e cittadinanza.


Nella seconda tappa di dicembre si sono raccolte le prime disponibilità di cittadini/e a rendersi protagonisti attivi della campagna elettorale.


Nella terza tappa di domenica 28 gennaio, sempre aperta a tutti i cittadini, La Comune di Ferrara presenterà la candidatura a sindaca di Anna Zonari.


All’ingresso della Sala macchine di Grisù è previsto un tavolo di accoglienza: per gustare le bevande si prega di portare la propria tazza.

 

Rigenerazione Urbana e Città Decarbonizzata:
riflessioni per governo democratico di Ferrara

RIGENERAZIONE GENTRIFICATA, CITTÀ DECARBONIZZATA, SENSO COMUNE:
RIFLESSIONI PER UN’AZIONE DI GOVERNO A FERRARA

I progetti di rigenerazione urbana riguardano di norma una “parte” di città, ad esempio un’area industriale dismessa, uno scalo ferroviario non più utilizzato, un’area militare abbandonata o altre situazioni simili. Al contrario la riflessione sulla città decarbonizzata o sulla città della transizione ecologica, si rivolge al “tutto”. Una strategia complessa, incentrata sulla rigenerazione urbana, sul blocco del consumo di suolo, sulla decarbonizzazione dovrebbe quindi associare la “parte” e il “tutto”.

Oggi invece si tende a spacciare come “tutto” quello che avviene o si propone per una “parte”, dandogli un significato olistico, non riscontrabile nei fatti, anche perché i vantaggi dell’azione rigenerativa sono selettivi, non riguardano tutti (es. la gentrificazione di un’area urbana, un tempo marginale, che porta alla sostituzione della popolazione residente).

Non esiste dunque un atto rigenerativo al di fuori di una strategia condivisa (che non significa che tutti sono d’accordo). Un progetto rigenerativo trova senso solo dentro una politica urbana, in grado di gestire i processi trasformativi, cercando di bilanciare gli effetti sociali indotti dal valore, a mio parere non negoziabile, del diritto alla città per tutti.

Disuguaglianze urbane e gentrificazione

Se non si opera seguendo questa prospettiva, il rischio è che le azioni rigenerative siano selettive, perché quando si risana un quartiere popolare i valori immobiliari cambiano. Si generano dei processi di espulsione della popolazione meno abbiente verso le parti più esterne della città che, se non dotate di un efficiente sistema di mobilità pubblica, determinano, per chi vi abita, una situazione sfavorevole ambientalmente (ricorso necessario all’auto privata) e socialmente (marginalizzazione della componente economicamente più debole della popolazione).

L’esperienza ci racconta che il recupero dei bacini portuali dell’East London, la rigenerazione delle aree portuali di Boston o Brooklyn, quello degli scali ferroviari di Milano o Londra, per giungere anche a Copenaghen, modello di città eco-sostenibile, frequentemente rafforzano le disuguaglianze urbane.

Interventi quali: creazione di nuovi parchi e aumento degli alberi in città, riqualificazione dei waterfront, mitigazione delle isole di calore, ridisegno degli spazi pubblici anche per gestire gli effetti indotti dalle acque piovane, recupero di vecchi edifici esistenti per trasformarli in uno studentato o in una attrezzatura pubblica, interventi per la mobilità sostenibile, fanno parte di quelle azioni di adattamento che normalmente ritroviamo nei progetti di rigenerazione urbana.

Essi hanno certamente un effetto positivo sulla transizione ecologica, ma scatenano anche investimenti finanziari e immobiliari di lusso che generano disuguaglianze e allontanano sempre più i cittadini a basso reddito. Solamente una strategia fondata su “valori non negoziabili”, da definire all’interno di un processo partecipativo con le comunità locali, può dare un senso ampio e condiviso a quelle azioni.

Diversamente il rischio è quello di una rigenerazione neoliberista fondata sulla egemonia delle rendite immobiliari che producono gentrificazione, che a sua volta, a cascata, determina la necessità di introdurre forme di privatizzazione o semi-privatizzazione dello spazio urbano.

Un esempio storico è l’impossibilità di accedere alle spiagge demaniali perché impropriamente privatizzate dai titolari delle concessioni, ma anche l’impossibilità di sedersi su di una panchina pubblica, perché tolte per favorire la distesa dei dehors delle attività commerciali e impedire il “bivaccamento“, o ancora il rafforzamento di dinamiche di segregazione (quartieri di edilizia pubblica in degrado) e auto-segregazione (gated communities dove risiede l’élite) socio-economica.

Va quindi evitato che la città della transizione ecologica slitti verso una eco-gentrificazione trasformata in strumento di esclusione o espulsione. Un esempio, l’idea della “città dei 15 minuti” (che sessant’anni fa i progetti dell’Ina-Casa avevano ben chiara) diventa in questa prospettiva una retorica, che può diventare azione concreta solo nelle parti rigenerate, dove un certo tipo di commercio di prossimità e di servizi alla persona sono possibili grazie alle condizioni economiche dei residenti. Per gli altri rimangono gli ipermercati, i centri commerciali, che continuano a crescere come funghi nelle aree periurbane, rendendo difficile il ricorso ad una mobilità non incentrata sull’automobile privata.

Alcuni esempi: Vienna e Copenaghen.

Anche esempi ecologicamente virtuosi come Copenaghen andrebbero riletti criticamente, come dimostrano le vicende de Mjølnerparken, un quartiere operaio ed etnico dove vivono 1.600 residenti in gran parte di origine “non-occidentale” (nuova categoria classificatoria introdotta nel dibattito danese) destinato a scomparire sotto la spinta della rigenerazione “gentrificata”.

In Europa ci sono però anche esperienze come Vienna, che potremmo considerare la capitale europea dell’edilizia sociale. La città vanta una lunga tradizione in questo senso e oggi il 42% della popolazione vive in affitto in alloggi sovvenzionati o a canone calmierato, gestiti da associazioni edilizie senza scopo di lucro, sovvenzionate con fondi pubblici, e questi alloggi non sono necessariamente destinati solo ai gruppi più poveri e marginali.

Questo non significa che le politiche neoliberiste che in Europa (non solo ovviamente) caratterizzano la trasformazione delle città dagli anni Ottanta, non siano arrivate a Vienna. Anzi le pressioni del mercato privato diventano sempre più forti. Ma la municipalità sta contrastando queste dinamiche, costruendo nuovi quartieri pubblici, ricorrendo alle grandi riserve di terreni edificabili di cui dispone.

Questo le permette di esercitare un certo controllo sul mercato, influenzando anche la qualità di ciò che si costruisce in termini di processo e progetto, ponendo regole agli imprenditori immobiliari e non subendole, come accede spesso nei processi di rigenerazione, dove i comuni si limitano al ruolo di facilitatori di progetti privati.

Ferrara e rigenerazione urbana: progetti e problemi

Anche a Ferrara sarebbe opportuno che i progetti di rigenerazione urbana proposti, la trasformazione degli edifici dismessi in studentati, la discussione sul rafforzamento della mobilità 30, la trasformazione discutibile a parcheggio delle mura sud (con annesso discount in via di costruzione), fossero collocati dentro una strategia.

Abbiamo un esempio di buona pratica nel primo recupero delle Corti di Medoro (e non si capisce perché non sia stato preso a modello per il Feris), esistono inoltre i documenti di programmazione come il PUG o il PUMS, ma spesso sono “quaderni” di buone intenzioni, che possono dare vita a progetti di natura completamente diversa, dipende da che parte si tira la coperta.

I progetti in corso oggi evidenziano chiaramente un ambientalismo di facciata. La volontà reale di andare in una direzione o nell’altra emerge dalla valutazione di ciò che una città sta facendo, dai progetti che si stanno portando avanti e le dichiarazioni del sindaco di Ferrara e della sua giunta sui problemi della casa, della mobilità, sui grandi eventi che si stanno programmando nel parco Bassani e in Piazza Trento e Trieste, che si leggono sulla stampa, vanno in una direzione che rendono vuote di significato le belle intenzioni dichiarate nei documenti di pianificazione.

Pensare Ferrara come una città che progressivamente dovrà decarbonizzarsi, ma che nel frattempo può lavorare per diventare una “Città Parco” e una “Città Campus”, significa definire delle finalità che inquadrano una strategia al cui interno vanno inquadrate le azioni che definivo sopra, ma anche le risposte a problemi quotidiani quali:

  • i rifiuti dilaganti;
  • la mobilità e la sosta selvaggia;
  • lo stato dei marciapiedi e delle piste ciclabili;
  • l’inadeguatezza del trasporto pubblico;
  • la crisi abitativa;
  • la violenza che si riscontra nelle strade della città (alla faccia della sicurezza) anche nelle relazioni interpersonali che hanno bandito la gentilezza e la cortesia;
  • gli allagamenti delle strade, quando piove intensamente;
  • la pessima qualità dell’aria nonostante tutti gli alberi piantati;
  • il calo del turismo e in particolare di qualità (per intenderci quello straniero, che spende);
  • l’economia che stenta e il nostro essere sempre fanalino di coda nelle classifiche sulla qualità;
  • lo spacciare l’apertura di supermercati come rigenerazione urbana mentre nel PUG si dichiara la città di 15 minuti;
  • il degrado dell’area di Darsena city lungo il Burana;
  • il perseguire una idea di città-prigione e segregazionista, invece di puntare verso una politica inclusiva sui migranti che avrebbe anche, in prospettiva, importanti ricadute economiche per la città e il paese;
  • infine, ma non da ultimo il razzismo latente che si respira in città.

Ferrara: progettazione urbana e governo democratico della città.

Qualcuno si è mai interrogato sulla qualità urbana delle entrate a Ferrara (città Unesco per la qualità del suo progetto urbanistico storico)? In particolare, da Via Bologna, da Via Modena e da Via Ravenna?

Come la gran parte delle periferie urbane, anche la nostra si presenta come insieme di contrasti e conflitti, di frammenti e interruzioni, di brutti edifici finiti e altri che lo diventeranno appena completati, di retri di capannoni con depositi di rifiuti affacciati sulle vie principali.

Strade cariche di auto, che vanno a passo d’uomo in molte fasce orarie, che riversano i loro gas di scarico in una atmosfera che le statistiche ci dicono essere una delle peggiori del paese. Auto che vagano alla ricerca di un parcheggio il più vicino possibile a dove si deve andare, visto che gli è concesso. Insomma, un paesaggio urbano dissonante rispetto ad una città storica, ricca, articolata ma minacciata da usi impropri.

Forse per chi governa oggi questa città la democrazia si identifica con la libertà di fare ciò che si vuole e non si identifica in un sistema organizzato di regole che tutti devono approvare e rispettare, dopo averle discusse e condivise. La libertà è il diritto di fare ciò che le leggi permettono, perché quando si fa ciò che le leggi (o le regole) proibiscono non c’è più libertà, prevale la condizione homo homini lupus.

Quindi se fai notare a un signore di mezza età e al suo giovane figlio che, scendendo dal loro SUV, gettano degli scatoloni ai piedi di un cassonetto, che quei cartoni vanno piegati e posti dentro il cassonetto o portati in discarica, ti senti rispondere che loro fanno quello che vogliono. E se fai presente alla signora che se parcheggia in zona ciclo-pedonale, in terza fila o sul marciapiede, la sua auto impedisce il passaggio alle persone che camminano, ti risponde di non rompere i c……i.

Poi arrivato al caffè, dove a volte ti siedi per bere qualcosa, senti una anziana signora che racconta all’amica che è la prima volta che esce dopo un anno, perché è stata travolta da un monopattino e l’hanno operata alla schiena, o se ti affacci alla finestra di casa vedi un signore in bicicletta volare dopo l’impatto con un’auto in accelerazione nell’incrocio tra Corso Isonzo e le vie Garibaldi e Cassoli.

Mi si dirà sono comportamenti individuali, non è responsabilità dell’amministrazione pubblica, certo ma quando i comportamenti individuali scorretti diventano ricorrenti significa che qualcosa non funziona nella costruzione del senso comune. E questo si orienta anche grazie ai comportamenti delle persone che hanno rilevanza pubblica.

Papa Francesco nei suoi testi consacrati alla crisi ambientale ci ricorda che ogni cambiamento ha bisogno di motivazioni e di un cammino educativo. Dagli articoli letti in questi ultimi tempi su temi quali CPR, problema dell’abitazione sociale, mobilità urbana l’impressione è che la strada che si intende tracciare sia alquanto diseducativa, in particolare se promossa da persone che ricoprono ruoli istituzionali.

Diseducativa perché non si stimola il confronto aperto e franco sulle questioni in gioco, nelle quali si è in disaccordo ma, al contrario, si denigra e si delegittimano gli interlocutori. Quindi la domanda per le prossime elezioni da rivolgere ai candidati non riguarderà solo le politiche, i progetti e quindi i programmi (che prima o poi conosceremo!) che si intendono attuare, ma anche come si intende governare: condividendo e includendo o comandando e denigrando?

Cover: Murales in una periferia urbana (foto di Romeo Farinella)

Per leggere tutti gli articoli e gli interventi di Romeo Farinella, clicca sul nome dell’autore

Con “Il potere di tutti” di Aldo Capitini si apre il ciclo di incontri “Libri per la pace”:
Venerdì 26 gennaio alle 16 alla Sala Polivalente del Grattacielo

Venerdì 26 gennaio alle 16,00 presso la Sala Polivalente del Grattacielo, si apre il ciclo di incontri “Libri per la pace” con “Il potere di tutti” di Aldo Capitini. Ne parliamo con Pasquale Pugliese del Movimento Nonviolento. 

 “La pace è un problema troppo importante oggi per lasciarlo nelle mani dei governanti e dei diplomatici”.  (Aldo Capitini)

Queste parole, di estrema attualità mentre si accendono focolai di guerra in diversi luoghi del pianeta neppure troppo lontani dall’Unione Europea, sono state scritte esattamente sessant’anni fa, nel 1964, da Aldo Capitini, in uno dei suoi ultimi libri intitolato “Il potere di tutti”.

È questo il primo testo preso in esame dal ciclo “Libri per la pace” proposto dal Laboratorio per la pace dell’Università di Ferrara, con un’ampia partecipazione di associazioni e realtà del territorio, che per tutto il 2024 presenterà ogni mese un libro come occasione di approfondimento.

Del “Potere di tutti” si parlerà venerdì 26 gennaio alle ore 16,00 presso la Sala Polivalente del Grattacielo, con Pasquale Pugliese, del Movimento Nonviolento, introdotto dai docenti Alfredo Mario Morelli e Giuseppe Scandurra, che coordinano il Laboratorio, e da Elena Buccoliero della redazione di Azione nonviolenta.

Il testo è una raccolta di scritti brevi elaborati negli anni 1964-68 da Aldo Capitini, filosofo e pedagogista, fondatore del Movimento Nonviolento. L’autore, che aveva avversato la dittatura fascista ed era stato per questo più volte incarcerato, in quest’opera si interroga sul tema del potere. Riconosce il passo avanti decisivo portato dalla Costituzione e dalle istituzioni democratiche, ma ritiene che anche la democrazia sia insufficiente se non sorretta dalla continua partecipazione dei cittadini alla vita pubblica, in un orizzonte più ampio che chiama omnicrazia o potere di tutti. Questo è per lui il passaggio necessario per una società migliore, in cui i cittadini esercitino un controllo dal basso delle istituzioni cominciando dal locale per arrivare alle decisioni supreme, quali quelle sui rapporti internazionali.

L’attualità dei temi è palese nell’attuale situazione locale e globale. “Noi siamo convinti che le popolazioni si fidano troppo dei governi”, scrive Aldo Capitini. “La guerra è voluta, preparata e fatta scoppiare da pochi, ma questi pochi hanno in mano le leve del comando. Se c’è chi preferisce lasciarli fare, e non pensarci, divertirsi e tirare a campare, noi dobbiamo pensare agli ignari, ai piccoli, agli innocenti, al destino della civiltà, dell’educazione e della progressiva liberazione di tutti. Noi dobbiamo dire NO alla guerra ed essere duri come le pietre”. E più avanti: “Un’ora di guerra atomica può distruggere la vita di tutto un popolo. Una ragione di più per cominciare molto presto a imparare e insegnare che il rifiuto attivo della guerra è oggi una rivoluzione”. Una rivoluzione nonviolenta.

L’incontro è promosso dal Laboratorio per la Pace e dal Laboratorio Studi Urbani dell’Università di Ferrara in collaborazione con la Biblioteca Popolare Giardino, la Rete per la pace di Ferrara e il Movimento Nonviolento di Ferrara. 

Il successivo appuntamento, organizzato insieme al Movimento Federalista Europeo, si terrà nella libreria IBS-Libraccio venerdì 2 febbraio, alle ore 17,30, presentando il testo di Francesco Ronchi “La scomparsa dei Balcani

 

Cover : Aldo Capitini – foto LaPresse Torino/Archivio storico

Parole e figure / Storia a strisce

Dal grande illustratore lituano Kęstutis Kasparavičius, capace di fondere surreale e quotidiano nelle avventure dei suoi animali antropomorfi, più umani degli uomini, un albo che unisce fantasia, humour e grazia in uno stile unico e senza tempo: “Storia a strisce”, edito da Iperborea

Una storia per tutti quelli che hanno le strisce, con tanto di armoniosa e felice famiglia zebrata e papà Zebra che svuota il frigo, perennemente affamato e indaffarato tutto il giorno a battere gli zoccoli sulla tastiera di un computer e a scacciare le mosche dallo schermo con la coda. Allora provviste siano! È davvero il momento di andare al mercato.

È una bella e piacevole mattina d’estate, perfetta per un giro al mercato. C’è chi si prepara a fare compere, chi si affretta verso casa, già carico di acquisti. Il mercato è davvero immenso, ci si può trovare di tutto, ce n’è per tutti i gusti, fra le file dei banchi colorati. Montagne di cavolfiori, verze, cavoli cappucci bianchi e rossi, insalate, spinaci, sedani, carote ed erbe aromatiche dai profumi inebrianti da far girare la testa. Ricorda un poco il mercato Trionfale romano. Perdersi è un attimo.

“Se ci perdiamo, cerca delle strisce”, dice mamma Zebra a Zebrina. Ma quando Zebrina si perde al mercato e comincia a trottare per la città, scopre che non ci sono poi così poche strisce in giro: il signor Orso con la sua cravatta a strisce, le strisce pedonali, la bacchetta strisce del vigile urbano, le calze a strisce del lavandaio Castoro, le betulle al parco cittadino dove Volpetta pota le siepi, la panchina verniciata da Coniglio che lascia strisce sulla schiena di Alce, le Tigri in spiaggia… perfino i tasti del pianoforte di Capretta e le note scritte su un foglio! Ma allora anche la musica può essere a strisce?

Che avventure, e a lieto fine (ovviamente)… Quotidiano e fantastico si fondono con una grazia unica nell’universo poetico di Kęstutis Kasparavičius. Dove perdersi per un pò.

Kęstutis Kasparavičius (1954) è il grande padre degli illustratori lituani e uno dei più rappresentativi autori del suo paese. I suoi libri si distinguono per il tratto preciso delle illustrazioni ad acquerello e per lo humor surreale e poetico delle storie che raccontano. Dopo gli studi di musica e design, dal 1984 ha illustrato più di 60 libri ed è autore di 15 libri tradotti in più di 25 lingue. Per 13 volte è stato selezionato per la Mostra degli Illustratori alla Bologna Children’s Book Fair, dove nel 1994 ha ottenuto il premio «Illustratore dell’Anno» dell’UNICEF e nel 2003 l’“Award for Excellence”. Più volte candidato all’IBBY Hans Christian Andersen Award e all’Astrid Lindgren Memorial Award, le sue opere sono state inserite nella IBBY Honor List e nei White Ravens.

Kestutis Kasparavicius, traduzione di Adriano Cerri, Storia a strisce, Iperborea, collana I miniborei, 2023, 32 p.

 

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti. Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara

Quel che nasce sulle rovine delle stragi:
viaggio in una democrazia di carta.

Quel che nasce sulle rovine delle stragi. Dalla lotta di Mario Sanna all’amianto, al Vajont, al PFAS. Viaggio in una democrazia di carta

C’è un fungo noto perché in grado di nascere nei territori più devastati. È stato la prima forma di vita a emergere sulle macerie di Hiroshima e a Fukushima. Come riesce a vivere tra le rovine che abbiamo generato? La stessa domanda sorge incontrando la storia di Mario Sanna, che nel terremoto di Amatrice del 2016 ha visto morire il figlio Filippo di 22 anni, e di tutte le associazioni che sono nate sulle macerie delle tanti stragi italiane (Amatrice, Viareggio, Genova, Vajont, Livorno, l’amianto, il PFAS…), molte delle quali oggi raccolte nella rete Noi 9 ottobre. Nonostante le perdite violente e ingiuste, nonostante le umiliazioni di una giustizia zoppa e di una politica arrogante, lottano da anni, chi da decenni, per chiedere una società diversa. La loro lotta è già un modo di creare una società nuova. Una società nella quale, ad esempio, il concetto di prevenzione è importante almeno quanto quello di resilienza. Questo  articolo di Carlo Perazzo1 è stato scritto in solidarietà a Mario Sanna e alla rete “Noi 9 ottobre”.

Mi rivolto, dunque siamo2

Più di un anno fa la rivista Altraparola ha pubblicato un articolo che proponeva una riflessione sulla violenza del presente, esprimendo solidarietà alla lotta di un uomo, Mario Sanna, che nel terremoto di Amatrice del 2016 vide morire il figlio Filippo di 22 anni.

Al tempo Mario stava portando avanti il suo secondo sciopero della fame, strumento della sua lotta non-violenta per l’istituzione di un fondo per i familiari delle vittime del terremoto. Lo sciopero si concluse dopo dodici giorni, con la promessa da parte dell’allora governo Draghi che il fondo sarebbe stato istituito.

Se già quella promessa aveva tardato tanto ad arrivare, il cambio di governo ha di fatto azzerato i risultati ottenuti. Non dovrebbe servire, ma è utile eliminare subito ogni dubbio legato al (falso) problema della scarsità delle risorse, che quasi di riflesso fa dire a moltә che sì, un fondo per i familiari delle vittime sarebbe cosa buona e giusta, ma in tempi così critici lo Stato non può avere soldi per tutto: ribadiamo perciò che l’istituzione del fondo (40 milioni di euro, poi diventati 150 milioni includendo anche il terremoto dell’Aquila) avrebbe chiesto al governo italiano un impegno simile a quello dedicato l’anno scorso per il “bonus tv e decoder” (68 milioni di euro); molto inferiore rispetto alle spese militari, che hanno superato la cifra mostruosa dei 25 miliardi di euro, o ai sussidi che lo Stato continua a erogare alle attività inquinanti legate alle fonti fossili (41,8 miliardi di euro nel 2022)3.

Ma, come si dice, spesso al danno si somma la beffa: non solo né lo scorso governo né quello attuale hanno istituito il fondo per i familiari delle vittime, ma anzi, negli ultimi mesi agli abitanti delle zone colpite sono arrivate cartelle esattoriali con tanto di interessi, commissioni e sanzioni, legate ai tributi che lo Stato aveva sospeso a causa dell’emergenza sisma. Per di più, la Protezione civile ha deciso di chiedere alle persone un affitto per le SAE (Soluzioni Abitative di Emergenza) dal 2020 al 2022 come “contributo ai costi sostenuti dallo Stato”.

Quando lo scorso 24 agosto, anniversario del terremoto, dopo le solite parole vuote e retoriche dei vari rappresentanti delle istituzioni – su tutti il ministro per la protezione civile Musumeci – Mario Sanna ha parlato a nome dei familiari delle vittime e a nome, se si può, anche delle vittime, qualcuno ha deciso di silenziare il microfono. Mario non è violento, non è offensivo, mantiene una calma che impressiona e si limita a dire quella semplice verità scomoda che lo Stato non vuole sentire e non vuole legittimare: i familiari sono stati abbandonati; le vittime sono state umiliate; lo Stato mette quotidianamente il profitto davanti alla tutela dei cittadini e poi, per gli anniversari, viene a piangere retoricamente e senza vergogna di fronte a chi piange dentro ogni giorno.

Questa è la violenza strutturale della nostra società: violenza gratuita che viene esercitata quasi in automatico; violenza burocratica, dove gli automatismi prevalgono sull’umanità; violenza politica, quando togliere tutto e anche di più, persino la voce, pone la cittadinanza in uno stato di disperazione e soggiogamento tale per cui nulla sembra davvero poter migliorare e allora è inutile combattere.

Eppure, malgrado questa violenza assurda, ci sono cittadinә che non abbassano la testa, che hanno la centratura e la forza per poter continuare a esigere la giustizia del buon senso e della nostra Costituzione, di un’etica minima senza cadere nel trabocchetto della violenza che replica violenza. Si rivoltano e nella loro rivolta ci siamo tuttә noi, volenti o nolenti, consapevoli o meno. Come diceva Camus: «nell’esperienza, assurda, la sofferenza è individuale. A principiare dal moto di rivolta, essa ha coscienza di essere collettiva, è avventura di tutti»4.

Il nostro mondo è ormai dentro una palude di assurdità e se la società, la cultura, la politica nascevano anche per trovare un senso all’assurdo dell’esistenza, oggi sono prima di tutto queste dimensioni ad alienare l’umano ponendolo in un angosciante non-senso politico. Tuttavia esistono ancora esperienze che continuano a disegnare un orizzonte diverso, dove le idee di destino comune, di relazionalità, di insieme, rappresentano le fondamenta e non qualcosa di ormai perduto per sempre sotto i colpi dell’individualismo e dell’egocentrismo.

Questo 9 ottobre, a sessant’anni precisi dalla strage del Vajont – strage di “Stato-mercato” paradigmatica per tutte quelle che avverranno dopo – Mario ha ripreso lo sciopero della fame e andrà avanti a oltranza finché la sua richiesta non sarà accolta. Sarebbe sciocco pensare che questa sia la “sua” battaglia. Si tratta, piuttosto, di mettere in gioco la cosa più evidente e immediata che si ha – forse anche la più importante – ovvero la propria vita, per un senso di dignità, di limite, di giustizia basilare che riguarda tuttә. Si tratta di dire, a un certo punto, no. Lo Stato non può fare quello che vuole, il mercato non può fare quello che vuole, c’è un limite, e è il mio corpo, la mia vita. Se si vuole schiacciare anche questo limite, se si sceglie di andare avanti in questa ingordigia di potere arrogante, strafottente e violento, ci sia almeno la costrizione a dichiararsi assassini. Può uno Stato che si dice democratico lasciar morire i suoi cittadini e le sue cittadine? Si, lo può, perché lo fa quotidianamente, pur nascondendosi ogni volta. Bene: questa volta però non può nascondersi. Se sceglie di andare avanti nella sua violenza lo dovrà fare alla luce del sole convincendo tutti e tutte che si può lasciare che un uomo rischi la propria vita così, chiedendo la più piccola delle giustizie in nome di un figlio morto a 22 anni.

Fuori da ogni retorica, dovremmo stare accanto e ringraziare Mario e tutte le persone che come lui si ribellano, perché è anche grazie alle loro silenziose rivolte che noi continuiamo a essere parte di un mondo vivo, e non semplici e miseri ingranaggi di un meccanismo senza più senso. La lotta di Mario riguarda tuttә perché se vincesse cambierebbe il futuro di tuttә quellә che domani sarebbero nelle sue condizioni e nelle condizioni di suo figlio Filippo.

La sua storia, come quella di molti altrә familiari di vittime di stragi oggi riunitә nella rete “Noi 9 ottobre”5, ci permette di alzare gli occhi al cielo, renderci conto di che consistenza è fatto il nostro mondo e lottare con forza affinché se ne possa costruire un altro migliore. Per seguire e raccontare la sua lotta https://www.facebook.com/ilsorrisodifilippo?locale=it_IT .

Lo strappo nel cielo di carta

Il fu Mattia Pascal offre un’immagine folgorante: cosa accadrebbe se, in un spettacolo di marionette, Oreste, sul punto di vendicare il padre, si accorgesse di uno strappo nel cielo di carta del teatrino in cui va in scena? Perderebbe improvvisamente ogni obiettivo e la sua azione si rivelerebbe senza senso. Gli cadrebbero le braccia: sarebbe la fine dello spettacolo e, forse, l’inizio di qualcos’altro.

Nel cielo di carta della nostra società non c’è uno strappo, ma decine di squarci tali da far crollare il teatrino intero. Cosa accadrebbe se moltә, ad un certo punto, se ne accorgessero? Case e ponti che non dovrebbero crollare; treni che non dovrebbero deragliare; acque che non dovrebbero essere inquinate; dighe che non dovrebbero essere costruite… Queste storie, queste stragi, sono gli strappi della nostra democrazia: impossibili in uno Stato di diritto, eppure inevitabili quando questo risulta assoggettato alle dinamiche del profitto.

Il paradosso è spiegato bene dal sociologo Antonello Petrillo in una ricerca sull’amianto:

«la storia dell’Isochimica appare […] incredibile, ossia incompatibile con la visione strutturata della realtà propria del nostro mondo, del nostro percepirci cittadini di un paese democratico ed economicamente progredito, dotato di un sistema giuridico evoluto e di poteri opportunamente bilanciati, pronti a intervenire nel caso di violazioni della norma e ad assicurare a ciascun individuo – se non il benessere – almeno il rispetto dei principi fondamentali di libertà e dignità della vita umana. […] appare difficile ipotizzare che un giovane cittadino italiano possa uscire di casa al mattino, alla ricerca di un lavoro, aspettandosi di incontrare […] un luogo da incubo come Isochimica… Eppure»6.

Isochimica fu la ditta che negli anni Ottanta si occupò di togliere l’amianto da gran parte dei treni italiani. Nell’Irpinia post-terremoto si presentò come la possibilità del riscatto lavorativo, assumendo 400 operai, molti appena maggiorenni, e facendoli lavorare senza protezioni, controlli e garanzie. Dovevano ritenersi fortunati di avere almeno un lavoro. Moltissimi si ammalarono e tutt’oggi si ammalano a causa dell’amianto respirato e l’inquinamento ambientale a seguito del processo di smaltimento illegale dei rifiuti tossici (interramento e abbandono) sta avendo un enorme impatto sul territorio e la cittadinanza.

Affinché “democrazia” non diventi una parola vuota, un teatrino di carta, è necessario osservare gli strappi, raccontarli, portarli in piazza, nelle scuole, dappertutto. Anche onorarli, insieme a chi lotta per non perderne la memoria, perché essi sono il termometro che indica la salute della nostra società.

Politicizzare i disastri

Sul finire degli anni Settanta una certa socio-antropologia cominciò ad interessarsi allo studio dei disastri, da quelli ambientali a quelli industriali7. L’obiettivo era di superare l’analisi tecno-centrica di questi fenomeni, legata alle scienze naturali e ingegneristiche. Si trattava di evidenziare la natura profondamente sociale e politica di tutti i disastri, di studiare il tipo di sviluppo economico e di società che avevano creato le condizioni della loro possibilità. Tutt’oggi è evidente una sorta di coazione a spostare l’attenzione sulle questioni tecniche o “naturali”: il ponte era progettato male; il monte è franato; il terremoto non può essere previsto. Affermazioni nette e apparentemente indiscutibili, che provano a chiudere il discorso appellandosi a una certa neutralità dei fatti. Ma, nel mondo umano, nulla è esclusivamente “naturale” e i fatti sono letteralmente “fatti”, cioè costruiti, frutto di dinamiche complesse in cui l’interazione umana è fondamentale. Si tratta di cambiare prospettiva e porre domande diverse: perché urbanizzare lì e proprio in quel modo? A che bisogno risponde la tale industria, la tale produzione, quel tipo di infrastruttura? Perché non dare priorità a quell’intervento di messa in sicurezza? Il terremoto – forse – è della Terra; i danni che esso produce sono inevitabilmente legati alle scelte fatte dalla società colpita.

Oggi la questione ecologica impone di superare quella forma mentis obsoleta che concepisce la “natura” come qualcosa di separato dall’umano: noi siamo la natura e l’antropocene8 ci mostra che la “natura” è in realtà piena di scelte sociali.

C’è una storia raccontata da Didier Fassin, noto esponente dell’antropologia medica, che ci aiuta a comprendere bene questa dinamica; la storia politica sociale di una patologia, il “saturnismo infantile”.

Nel 1981 alcuni pediatri di Lione raccontarono di un bambino di cinque anni con gravi e incomprensibili disturbi neurologici; dopo vari interventi notarono che il tasso di piombo nel sangue era più alto della norma e individuarono la causa nell’assorbimento di scaglie di vernice al piombo, presente nei vecchi condomini. Quattro anni dopo ci fu a Parigi un caso simile, con la differenza che un’assistente sociale si preoccupò di andare a vedere di persona le condizioni dell’appartamento in cui viveva la bimba malata, scoprendo che moltissime famiglie, povere e perlopiù provenienti dall’Africa subsahariana, abitavano in strutture terribili, a stretto contatto con le vernici al piombo incriminate, per altro fuori legge dal ’48. Dopo le prime ricerche nella zona di Parigi, il 99% dei casi gravi di questa patologia riguardava bimbә di origini africane. Esperti e specialisti della sanità francese, inizialmente scettici rispetto alla “causa vernici”, formularono ipotesi culturaliste: forse il problema era il tipo di inchiostro usato dai marabutti nello scrivere le formule coraniche, o forse il trucco delle madri. Quando non ci fu più dubbio sulle vernici al piombo, continuarono a ingegnarsi per trovare risposte culturali al problema, domandandosi come mai bimbә africanә avessero questo istinto di mangiare gli intonaci dei muri. Arrivarono persino a sostenere che si trattasse di “geofagia”, derivante dall’usanza delle madri in gravidanza di succhiare l’argilla. Questa storia emblematica evidenzia con chiarezza che quella malattia, che nel 1999 in Francia riguardava – seppur con conseguenze molto meno gravi – il 2% dei e delle bambinә, è frutto «dell’evoluzione delle politiche dell’immigrazione e della chiusura delle politiche immobiliari sociali […], un problema di sanità pubblica le cui cause sono sociali più che culturali e le cui soluzioni riguardano le questioni urbane più che quelle mediche»9. Non c’entra la natura e tantomeno la cultura; il problema è politico e sociale.

Oggi ad esempio, grazie alla battaglia di alcunә cittadinә, conosciamo il disastro sanitario legato al PFAS nel Veneto. Bimbә, ragazzә, con un alto tasso di sostanze tossiche nel sangue fortemente legate a problemi cardiovascolari, endocrini e tumorali. Non c’è nulla di naturale o di accidentale: è il frutto di uno sviluppo industriale incontrollato, di scelte politiche ed economiche precise. L’unica differenza che c’è tra la tragedia del PFAS e il saturnismo infantile in Francia, è che quest’ultimo evidenziava una profonda questione di classe: erano solo gli e le ultimissimә ad essere colpitә. Oggi il livello di nocività che il mondo capitalista produce è così alto, complesso e diffuso che tuttә, più o meno benestanti e aventi diritto, siamo colpitә.

Non sono “gli ultimi” a vivere nel Veneto degli sversamenti tossici, in una casa non a norma in zona sismica, o ad attraversare un ponte autostradale non manutentato, bensì potenzialmente tuttә. Solo l’1% può permettersi di vivere nelle enclave lontano da tutto e di viaggiare in jet privati.

Dal ’63, anno del Vajont, ad oggi, sono moltissime le stragi di natura politica e sociale, frutto di scelte di Stato e di mercatoMigliaia di persone innocenti ci indicano lo strappo nel cielo di una democrazia sempre più di carta.

Le stragi sono una lente di ingrandimento: amplificano i comportamenti impliciti delle strutture statali, delle aziende, della cittadinanza; sono fratture che permettono di svelare le contraddizioni della “normalità”. Un’antropologia delle stragi10 è uno sguardo in (almeno) due direzioni: da una parte lo “Stato-mercato” nudo, che sacrifica chi dovrebbe tutelare per gonfiare poche tasche già piene e poi si difende senza ritegno, forte della sua violenza, o fa proclami vuoti; dall’altra tutto ciò che nasce dopo, la forza di chi sa vivere tra le rovine e lotta affinché possano non esserci nuove, evitabili, macerie.

Nello specchio delle stragi: rischio, resilienza o prevenzione?

Se dagli anni Ottanta si è affermata l’idea che globalizzazione, modernizzazione industriale e tecnologica comportassero anche l’affermarsi di una “società del rischio”11, le stragi offrono la possibilità di riflettere criticamente sulla risposta pubblica a tale trasformazione.

Il concetto di resilienza è ormai di moda: nelle scienze fisiche il termine indica la proprietà di un materiale di resistere ad una forza senza spezzarsi; in quelle sociali e psicologiche la capacità di resistere e reagire a eventi traumatici o di grande intensità. Oggi è al centro delle politiche della Commissione Europea e di quelle italiane del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). La resilienza, per sua natura, entra in gioco dopo lo strappo; al lato opposto, prima di esso, c’è un altro concetto importante che però non è più di moda: la prevenzione. Se la risposta pubblica al rischio non si traduce nei termini della prevenzione, dovrebbe suonare un campanello d’allarme. La resilienza è molto importante di fronte ad eventi eccezionali e imprevedibili; ma se diventa programmatica e strumento di governo, rivela che ormai l’eccezione è diventata la norma e nulla è più prevedibile. Dietro questa lettura si cela una grossa deresponsabilizzazione della politica pubblica a spese dei singoli e delle comunità: come a dire, “imparate a essere forti e a reagire agli imprevisti da cui ormai, con questo mercato, questa crisi ecologica, questi virus, noi Stati non possiamo più tutelarvi”. La differenza è sostanziale: se la prevenzione è per tuttә, la resilienza come programma politico invece ammette che si salvi solo chi ha una certa forza.

Non è un caso che il rischio e la capacità di rilanciare siano temi di mercato: un po’ come se tuttә fossimo imprenditori di noi stessә non solo economicamente, ma esistenzialmente. È l’esistenza a essere un investimento rischioso, senza tutele.

La sociologia dei disastri ci mostra come, in un mondo in cui il più importante indicatore di benessere è ancora il PIL, un terremoto che rade al suolo interi paesi è positivo; anche le malattie sono produttive: «Pfizer, Johnson & Johnson e AstraZeneca nell’ultimo anno hanno corrisposto ai propri azionisti 26 miliardi di dollari»12.

Nello specchio delle stragi che società vediamo? Indubbiamente vediamo creparsi il patto implicito che dovrebbe garantire tutela, diritti, giustizia. L’ossessione per la “sicurezza” che negli ultimi anni è diventata perno delle politiche di tutti i governi, non si oppone al rischio ma, puntando l’attenzione su pericoli relativi e superficiali, rappresenta l’altra faccia della stessa medaglia: a fronte di decreti, investimenti in sorveglianza, inasprimento del paradigma poliziesco, viene a mancare la sicurezza più importante, quella dei diritti. Come notano alcuni giuristi, il “diritto alla sicurezza” è una perversione (propagandistica) della “sicurezza dei diritti”13: se il diritto alla salute è garantito (art. 32), se lo sono la tutela rispetto all’iniziava economica privata (art. 41) o il diritto ad un giusto processo (art. 111), siamo già al sicuro.

Le stragi raccontano “insicurezze ignorate”14 deliberatamente, che espongono la vita e la salute di migliaia di persone al rischio più radicale. In nome di cosa? È di fronte a questa domanda che nello specchio delle stragi emerge una triste costante: il profitto. Le stragi sono sconvolgenti perché ci dicono che nuove forme di accumulazione di capitale avvengono anche in casa nostra, non solo nel “sud” del mondo: per garantire dividendi maggiori si può permettere che crollino i ponti, esplodano i treni, si inquinino le acque e quindi che muoiano e si ammalino le persone, noi, i nostri figli e le nostre figlie.

Queste stragi sono il corpo dei concetti critici che da anni riempiono i libri: sono la carne della postdemocrazia, del finanzcapitalismo, della necropolitica. Sono la torcia che illumina uno Stato colluso con un modello che si presentava come economico (il capitalismo), diventato invece di governo, di visione e costruzione del mondo, eretto su una violenza strutturale continuamente occultata.

E perciò esse sono la grande occasione: sono i fatti dai quali partire per rileggere il mondo in cui crediamo di vivere. Possono essere la fine dello spettacolo di marionette e l’inizio di qualcos’altro.

Vita tra le rovine

C’è un fungo divenuto famoso perché in grado di nascere nei territori più devastati della terra. È stato la prima forma di vita a emergere sulle macerie di Hiroshima e a Fukushima, dopo il disastro nucleare. L’antropologa Anna Tsing15 ne racconta la storia ponendo una domanda semplice e centrale: come riesce a vivere tra le rovine che abbiamo generato? La stessa domanda sorge inevitabilmente incontrando la storia di Mario Sanna e di tutte le associazioni che sono nate sulle macerie di queste stragi italiane, molte delle quali oggi raccolte nella rete Noi 9 ottobre. Nonostante le perdite violente e ingiuste, nonostante le umiliazioni di una giustizia zoppa e di una politica arrogante, lottano da anni, chi da decenni, per chiedere una società diversa. Ciò che emerge con più forza non è la richiesta di giustizia per il passato, ma quella per il futuro, il motto “mai più” che non riguarda loro, ma noi che abbiamo avuto la fortuna di non trovarci al loro posto. Se moltә di loro hanno perso tutto ciò che di più importante avevano, non hanno perso la forza di lottare affinché altrә, sconosciutә eppure simili, non perdano a loro volta tutto. Testimonianza di umanità e vitalità preziosa: un esserci per l’altrә, e per di più sconosciutә. È qui che queste lotte sono forse più radicali di molte altre.

Esse sono osservabili come richieste di democrazia partecipativa16, che pretende che le strutture pubbliche lavorino rispettando i mandati costituzionali, includendo la cittadinanza nei processi decisionali e garantendo quella “sicurezza dei diritti”. In quest’ottica, queste associazioni stanno lottando per la democratizzazione della democrazia. E noi, qui, dalla parte fortunata – per ora – del paese, dovremmo sentire la pelle d’oca e una profonda gratitudine per questa tenacia al servizio di tuttә.

Senza l’inclusione della cittadinanza nei processi decisionali e programmatici non può esistere una società sostenibile. La democrazia rappresentativa, di fronte allo strapotere del mercato, fa acqua da tutte le parti. È in questo snodo che la rete “Noi 9 ottobre” e tutte le realtà che ne fanno parte, consapevoli della brutalità e della violenza di una democrazia fittizia, aprono un sentiero da percorrere. Nel loro lavoro non c’è solo una critica, una denuncia, ma lo studio, la propositività, la richiesta di partecipare alla “cosa pubblica” con i loro corpi segnati dalla violenza di Stato.

Mentre alcunә aspettano con timore il collasso della società industriale e finanziaria, queste storie, esattamente come quelle di altri popoli violentati lontano dai nostri occhi, ci dicono che il collasso è già in corso e che però è possibile fare vita sulle macerie e lottare affinché si sottraggano spazi alla barbarie.

L’importanza sociale della “verità condivisa”

John Galtung, uno dei più importanti studiosi sui temi della pace e della violenza, propone di tripartire la violenza in diretta, strutturale e culturale. La prima è evidente, la seconda è frutto di strutture sociali che permettono il suo replicarsi, la terza è però la più pericolosa, perché subdola giustifica e legittima la violenza stessa, crea le condizioni di possibilità per le altre due.

Da anni queste associazioni si battono contro due forme di violenza culturale importantissime: la desocializzazione17 dei fatti e la costruzione selettiva e strumentale della memoria. Desocializzare una strage significa relegarla all’ambito privato, generare nella società un atteggiamento di generico dispiacere per quelle famiglie, come se il fatto riguardasse solo loro. È un problema dei singoli, non una questione sociale. Spesso politica e media puntano l’attenzione su questo piano “intimista”. Conviene, non mette in discussione un intero sistema, non spaventa troppo il resto della cittadinanza, non implica cambiamenti: la giustizia poi metterà il punto finale alle vicende, si dice. Nel frattempo il dramma viene ridotto al familiare.

La costruzione selettiva della memoria risponde soprattutto alla necessità politica di creare una storia comune del paese. Il passato è sempre ricostruito dal presente che sceglie cosa e come ricordare. L’Italia è un paese dalla memoria contraddittoria, piena di “fratture”18, di strappi appunto, e la storia del cimitero del Vajont19, di fatto strappato alle famiglie e spersonalizzato, è un emblema di quanto violenta possa essere questa dinamica.

La verità giudiziaria è indubbiamente importante, anche per la memoria, ma, oltre al fatto che spesso non arriva a causa delle prescrizioni e delle ostruzioni, non è tutto. Laddove la verità giudiziaria mette un punto e chiude le vicende, quella sociale apre, serve a ripartire cambiando. Pensiamo al caso della “Commissione per la verità e la riconciliazione” in Sud Africa: per superare il trauma e le violenze dell’apartheid non bastava una giustizia punitiva, ma occorreva che le vittime fossero al centro dei processi e della ricostruzione della verità; non la voce del giudice ma delle persone. Al di là della complessità e dei risultati di quell’esperienza di giustizia riparativa20, la cosa qui importante è che lo Stato, in un meccanismo del genere, è disposto a cedere parte del suo potere sovrano affinché sia la società a stabilire una “verità condivisa” essenziale per ripartire. Come ricordano le esperienze delle stragi italiani, le condanne dei singoli non sono tutto, perché “le persone passano, ma il meccanismo resta”, come dicono le associazioni dei familiari delle vittime.

La lotta di queste associazioni diventa ancora più significativa perché non si ferma alla “punizione dei colpevoli”, bensì punta allo svelamento di un sistema che produce morte e alla necessità di un cambiamento dei suoi presupposti, affinché domani non si producano gli stessi effetti.

Cosa succederebbe se domani lo Stato ammettesse realmente che Amatrice, Viareggio, Genova, Vajont, Livorno, Casalecchio di Reno, l’amianto, il PFAS e tutte le altre storie rispondono ad una stessa logica politicamente consentita, quando non stabilita? Non si tratta di banalizzare e appiattire differenze e complessità, piuttosto di essere in grado di far emergere le somiglianze strutturali di queste esperienze.

Una società sostenibile è una società inclusiva, e per includere c’è bisogno di un minimo sfondo di “verità comune”. La storia dell’Italia contemporanea è anche quella del “capitalismo dei disastri”21 e quella di queste stragi: la loro verità, lungi dall’essere un verdetto giudiziario, può essere il punto di partenza per una società diversa. Le stragi di “Stato-mercato” non rappresentano il passato, bensì il futuro: così come il Vajont era in qualche modo il futuro di Viareggio e questo il futuro del ponte Morandi, e così via. Cominciare a dare loro il giusto peso sociale, politico e culturale, significa cominciare a lavorare per un futuro radicalmente diverso.

Mario Sanna col suo sciopero della fame non sta chiedendo una giustizia personale che punti a risarcire il danno non risarcibile che può essere la morte di un figlio. Mario fa luce sulla verità che la maggior parte di noi non vuole vedere e mette in gioco la sua vita per qualcosa che riguarda tuttә. Si rivolta affinché tuttә noi possiamo essere.

 

Note:

1Antropologo, insegna storia e filosofia e lavora nelle cure palliative. Si occupa di violenza strutturale, ecologia e antropologia della morte. Ha scritto Quale rifugio? Razzismo di Stato e accoglienza in Italia, Sensibili alle foglie 2022 e In comune. Nessi per un’antropologia ecologica, Castelvecchi, 2023. Questo articolo riprende spunti e temi già esposti nella postfazione al libro di Lucia Vastano, Papaveri rossi. Noi, vittime del profitto, di prossima ripubblicazione.

2Si veda Albert Camus, Mi rivolto, dunque siamo. Scritti politici, Elèuthera, 2008 e Albert Camus, L’uomo in rivolta, Bompiani, 1994.

3Si veda il report annuale di Legambiente Stop sussidi ambientalmente dannosi, sul sito dell’associazione. Questi sussidi non solo rallentano la necessaria transizione all’utilizzo di fonti energetiche rinnovabili e meno inquinanti, ma continuano a sostenere attività obsolete e inutili, oltre a supportare aziende che continuano, incredibilmente, ad aumentare i loro profitti.

4Albert Camus, L’uomo in rivolta, Bompiani, 1994, p. 26.

5Si veda https://comune-info.net/morire-di-profitto-n9i-ottobre/

6Antonello Petrillo, a cura di, Il silenzio della polvere. Capitale, verità e morte in una storia meridionale di amianto, Mimesis, Milano-Udine, 2015, pp. 161-162.

7Si veda Mara Benadusi, Antropologia dei disastri. Ricerca, attivismo, applicazione, Antropologia pubblica, 1 (1/2), 2015 e Pietro Saitta, a cura di, Fukushima, Concordia e altri disastri, Editpress, Firenze, 2015

8Il termine intende definire la nostra epoca, in cui l’essere umano, con le sue attività successive alla rivoluzione industriale, è riuscito a modificare i processi climatici e geologici. Nel dibattito si propongono anche i termini di Capitalocene (usato da Moore per indicare che non tutte le società hanno questa responsabilità, ma solo quelle a funzionamento industriale-economico capitalista) o Piantagionocene (avanzato da Haraway per indicare il modello economico-politico coloniale e schiavista come elemento centrale del processo di sfruttamento estrattivista).

9Didier Fassin, Cinque tesi per un’antropologia medica critica, Rivista della Società italiana si antropologia medica / 37, aprile 2014

10L’antropologia ha spesso studiato le comunità umane e le dinamiche sociali a partire da uno spaesamento iniziale del ricercatore. Classicamente questo spaesamento era rappresentato dallo stretto rapporto con mondi e società molto diverse da quella di appartenenza, che richiedevano un’osservazione in grado di non dare nulla per scontato. In questo senso, le stragi rappresentano uno sconvolgimento radicale di ciò che pensiamo essere la nostra società e perciò sono in grado di far emergere dinamiche importanti – spesso nascoste – del funzionamento sociale e politico del nostro mondo.

11Ulrich Beck (1986), La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma, 2000

12Si veda https://www.oxfamitalia.org/guadagni-azionisti-big-pharma-bastano-a-vaccinare-africa/ consultato il 5/12/2021

13Marco Ruotolo, Diritto alla sicurezza e sicurezza dei diritti, intervento al convegno “Costituzione e sicurezza tra diritto e società, Roma, 2013

14Salvatore Palidda, a cura di, Resistenze ai disastri sanitari, ambientali ed economici nel Mediterraneo, DeriveApprodi, Roma, 2018

15Anna L. Tsing (2015), Il fungo alla fine del mondo. La possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo, Keller, Rovereto, 2021

16Umberto Allegretti, a cura di, Democrazia partecipativa: esperienze e prospettive in Italia e in Europa, Firenze University press, Firenze, 2010

17Paul Farmer, An anthropology of structural violence, “Current Anthropology”, University of Chicago press, 2004

18John Foot, Fratture d’Italia, Rizzoli, Milano, 2009

19Si veda il documentario di Lucia Vastano e Maura Crudeli “I Vajont”, 2016.

20Marta Vignola, Processare la Storia. Diritto alla memoria e narrazione nella giustizia di transizione, Funes. Journal of narratives and social sciences, Vol.1 / n. 2, anno 2017

21Naomi Klein, Shock economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri, Rizzoli, Milano, 2007.

Una sindaca donna non è solo una vocale, è tutta un’altra storia: a tu per tu con Anna Zonari

Una sindaca donna non è solo una vocale, è tutta un’altra storia: a tu per tu con Anna Zonari

Anna Zonari, è lei oggi l’unica candidata dell’opposizione a scendere in campo contro la corazzata mediatica della giunta Fabbri, mi dà appuntamento al bar Stella di via Porta Mare. Il posto l’ha scelto lei: “non disdegno le pasticcerie del centro ma questo posto mi piace, c’è modo di parlare tranquillamente, fuori dal caos delle colazioni e degli aperitivi”. Ci appartiamo a un tavolino e le spiego subito la mia idea di intervista: raccontare ai ferraresi qualcosa in più di Anna Zonari, non solo le sue posizioni politiche e la sua idea di città futura. E comincio dall’ultimo suo post del suo profilo Facebook:  In questi giorni ho ricevuto messaggi da parecchie persone, molte donne, conosciute durante il mio percorso di vita in ambiti anche molto diversi e che non sentivo da tempo. Mi hanno detto delle parole importanti, balsamiche. “Ti sostengo”, “Grazie per la tua candidatura”, “Ti dò la disponibilità per dare una mano in campagna elettorale”. Trovo questo molto confortante e rinforza la mia decisione. Dopo 65 anni di sindaci ferraresi, vuoi vedere che saranno le donne a fare un cambio di passo?
Anna Zonari è ufficialmente candidata alla carica di Sindaca di Ferrara.  Ci puoi raccontare quando e perché hai deciso di fare questo passo? 

“La Comune di Ferrara” è nata per esprimere una idea di politica diversa, autonoma, che parte dal basso, dalla società civile e dalla conoscenza dei problemi, ma anche delle risorse della nostra comunità.
Una politica che dialoghi in maniera stabile e non occasionale con le cittadine e i cittadini.
Il percorso partecipativo che abbiamo avviato in questi mesi, ha coinvolto centinaia di persone ed ha portato alla creazione di un “Quasi programma”, che ha messo al centro 5 temi prioritari e obiettivi concreti da realizzare. Una traccia ancora aperta ad integrazioni ma che già indica una visione ben precisa di città. La mia candidatura è la naturale conseguenza di questo percorso dal basso. Ti dico sinceramente, sei mesi fa, di tutto mi sarei aspettata ma non di candidarmi, e quando è emersa questa possibilità, quando mi è stato chiesto,  ho avuto alcuni giorni di dubbi, di… tremarella, poi ho deciso di buttarmi, di accettare la sfida. Ferrara può e deve cambiare e io non posso voltarmi dall’altra parte.

Si sente dire spesso che è ora che le donne facciano un passo avanti, che una prima cittadina donna sarebbe una bella novità per Ferrara. Tu ci credi o pensi sia solo una frase fatta, una captatio benevolentiae. Ad esempio Laura Calafà …

Io ci credo. Le donne sono in prima linea in tutti i settori strategici della nostra società: nelle attività di cura delle persone, nella sanità, nella scuola, nel volontariato. Credo che una donna sindaca, possa portare un vento nuovo anche nei modi di fare politica, a partire dalla concretezza che di solito ci caratterizza, dalla propensione al dialogo, all’apertura e alla collaborazione.
La fine dell’esperienza di Laura Calafà, con cui siamo rimaste in contatto, mi ha colpito molto.  E mi ha fatto pensare. Insomma, non si può dire che ci sia stata una corsa a tenersi stretta l’unica candidatura femminile che era emersa nel cosiddetto Tavolo dell’Alternativa dominato come sempre dagli uomini, anzi, “sotto il tavolo” c’è stato invece uno sgambetto in piena regola. Se far politica significa questo, non è questa la politica a cui credo e per cui mi voglio impegnare. Penso anche alla prossima campagna elettorale: temo che andremo incontro a un approccio basato sulla competizione frontale, con un certo quantitativo di testosterone in circolo. No, per me, esattamente come per Laura, la politica è un’altra cosa.  Come ha detto lei, in un ring tutto maschile, le donne rischiano di essere relegate in una posizione “ancillare”.

Eppure dal 1950 al 1958 Ferrara ha avuto una Sindaca, Luisa Gallotti Balboni, il primo sindaco donna di un comune capoluogo italiano.

Luisa Gallotti Balboni nei suoi 8 anni di mandato come sindaca, si è occupata della Ricostruzione di Ferrara, mettendo al centro quelli che erano i temi cruciali del Dopo Guerra: scuola e povertà. Però, guarda caso, nei successivi 65 anni, ha visto solo sindaci uomini.
Mettere al centro la scuola, lottare contro la povertà. I temi cari a Luisa Gallotti Balboni sono purtroppo ancora attuali. Oggi a Ferrara ci sono alcune migliaia di nuclei familiari sotto la soglia di povertà ed un numero imprecisato di persone che vivono intorno ai livelli minimi di sopravvivenza. Ciò significa che, al primo imprevisto, sono in rosso, come abbiamo visto durante la pandemia quando migliaia di persone hanno utilizzato i buoni spesa e i contributi a fondo perduto.  E vogliamo parlare dei 4 “barboni” che da due settimane dormono al gelo fuori dall’ufficio anagrafe? Basta, è ora che anche a Ferrara si affronti il problema, non solo con interventi a pioggia, ma costruendo un vero piano di contrasto alle povertà e alle diseguaglianze. E’ quello che c’è scritto nel nostro programma.

Secondo te come e quanto sarebbe diversa Ferrara con una Sindaca Donna?

Molto diversa. Con concretezza, obiettivi ambiziosi, barra dritta verso una precisa visione di città e al contempo capacità di coordinare una squadra di lavoro che “metta a terra” progetti ed innovazione. La parola squadra rimanda ad una precisa visione politica, dove è il gruppo di persone, competenti e coordinate, un punto essenziale. Non c’è un uomo solo o una donna sola al comando.
Credo che sia un traguardo lavorare già in campagna elettorale per la costruzione di una squadra che significa non solo assessori e/o consiglieri comunali, ma una rete di cittadine e cittadini già impegnati in città sui temi prioritari, che diano una mano con le loro competenze, esperienze e proposte, per rinforzare quel sistema capillare e di prossimità che chiamiamo comunità.

Tu da sempre sei nel mondo del volontariato. Che cosa è, cosa rappresenta, cosa fa il volontariato a Ferrara?

Il volontariato a Ferrara è come il tessuto connettivo per il corpo. Un tessuto che ha la funzione di collante, di garantire supporto, unire e proteggere gli altri tipi di tessuti. E’ un mondo molto eterogeneo che coinvolge centinaia e centinaia di organizzazioni e decine di migliaia di cittadine e cittadini attivi, credenti e non credenti, che ogni giorno dell’anno, spesso senza fare tanto rumore, si occupano dei più fragili e della propria comunità. Nei momenti di emergenza – lo abbiamo visto con la pandemia, con la guerra in Ucraina, con l’alluvione – è il nostro salvagente. Per questo motivo non va solo ringraziato, ma supportato, nei fatti.
I temi della co programmazione e della co progettazione sono cruciali, così come il tema degli spazi che vanno garantiti e non sottratti. Spazi per le associazioni e spazi di incontro, per le persone.

Venendo a domande più personali, so che da qualche anno hai scoperto “il bosco”. Qualcuno ti ha trovato un epiteto affettuoso: “Anna dei Boschi”. Ce ne vuoi parlare?

Amo camminare in solitaria nei boschi dell’Appennino romagnolo. Attraverso questa esperienza,  è cresciuta in me la consapevolezza che la natura, la biodiversità hanno una grossa funzione nel produrre benessere psico-fisico negli individui ed enormi benefici eco sistemici.
Nel 2022, ho lanciato una campagna di raccolta fondi per salvare dal taglio un lembo di foresta e all’appello hanno risposto, con un semplice passaparola e una pagina facebook, più di 200 donatrici e donatori, moltissimi ferraresi. Sono stati raccolti in meno di 3 mesi 38.000 euro ed ora quei  24 ettari sono salvi e con loro, tutta la vita che li abita.
Anna dei Boschi nasce con questo bell’esempio di cittadinanza attiva.

Ma Anna Zonari, direbbe Totò, “come nasce”? La tua famiglia? 

Ho 53 anni, sono psicologa. Ho una figlia di 19 anni, al primo anno di università. Mia mamma, comunista da sempre. Mio padre, socialista da sempre. Avevo con me anche Emily, una cagnolina meravigliosa, è morta un mese fa a 15 anni. Un dolore immenso, chi ama i cani può capirmi benissimo. Ma dal canile di Assisi c’è Evita in arrivo: 8 anni, di cui 7 passati in gabbia. Festeggeremo insieme la mia elezione. Poi le amiche e gli amici, tanti, tantissimi, a Ferrara e in tutta Italia. Gioco a carte, a Trionfo e a Burraco. Amo camminare nel bosco, ma questo l’ho già detto.

Sei coordinatrice dell’equipaggio di terra ferrarese di Mediterranea Saving Humans, più di 100 soci e tantissime iniziative.

Nel 2021 è nato anche a Ferrara un equipaggio di terra di Mediterranea Saving Humans. In due anni e mezzo abbiamo quintuplicato i tesseramenti, segno che sono tante le persone che desiderano capire meglio cosa sta succedendo alle frontiere di mare e di terra di questa “Fortezza Europa” e dire no ad una politica di morte e di respingimenti illegali, verso migliaia di esseri umani, donne uomini e bambini, alla ricerca di una vita più dignitosa. Qui abbiamo in ballo il tema dei diritti civili universali dell’uomo, calpestati ogni giorno dalle politiche in atto da anni, sia europee che nazionali.

Torniamo a Ferrara, alla politica e alle elezioni. Pensi che la tua candidatura possa intercettare il voto di chi non vota più?

Alle ultime elezioni comunali del 2019 quasi il 40% degli aventi diritto non è andato a votare o ha votato scontento. Personalmente conosco molte persone, anche anziane, che hanno rinunciato ad una delle maggiori conquiste delle democrazie moderne. Il voto è sancito dalla nostra Costituzione e, al tempo stesso, un dovere civico. Eppure il disincanto è in crescita, insieme ad una generalizzata sfiducia nei confronti dei partiti, delle istituzioni e della politica.
La percezione diffusa è che, al di là delle differenze tra le proposte e idee dei vari candidati e delle diversi coalizioni, per la vita dei cittadini cambierà quasi nulla. Credo che la candidatura di una cittadina, espressione della società civile, possa motivare molte persone, in particolare donne, ad andare a votare. Dico un’altra cosa: io non farò il solito appello agli astensionisti che fanno i politici, in campagna elettorale inviterò personalmente chi non ha votato a parlare con me: una ad una, uno ad uno.

L’anno trascorso, ma tutti i 5 anni della Giunta Fabbri, sono stati pieni zeppi di luci, di feste, di concerti. Un riassunto di tutto, un simbolo, potrebbe esser l’enorme Stella di Natale collocata in piazza Municipale, oppure il contestato mega concerto di Bruce Springsteen al Parco Urbano.

Il bisogno di leggerezza e di divertimento appartiene a tutte e tutti! Tuttavia, solo luci, concerti ed eventi se non sono accompagnati da politiche serie che affrontino i reali bisogni dei cittadini e della città, non saziano. E’ come ricevere un pane che non sfama davvero. Può piacere esteticamente, ma se non è nutriente, rimani con la pancia vuota. E, prima o poi, te ne accorgi che la pancia è vuota, perché brontola.
Per quanto riguarda la non volontà di questa Amministrazione di organizzare il concerto del grande Bruce Springsteen in una location più consona ai grandi eventi, area di cui si dotano tutte le città moderne, ciò evidenzia il tipo di sensibilità culturale ed ambientale di chi governa la città.
Lo scempio del Parco Urbano poteva essere risparmiato, senza rinunciare al divertimento. Il Parco Urbano va riportato alla sua vocazione originaria ecologica, l’Addizione Verde di Paolo Ravenna che, assieme al parco delle Mura, è considerato un gioiello dalla miglior cultura urbanistica, nonché polmone verde della città.

Eppure la gente, i ferraresi, sono contenti. Almeno è quello che si sente in giro…

A me pare che ci sia molta propaganda. La destra è molto brava e ha anche molti soldi per fare propaganda e presentare Ferrara come il Paese del Balocchi. Se si vuole però essere seri e concreti, basta leggere l’Annuario socio economico ferrarese: la maggioranza dei cittadini vede calare i propri redditi, i salari, le prestazioni di welfare, mentre parallelamente crescono inquinamento (siamo la città più inquinata dell’Emilia Romagna, tra le più inquinate d’Italia), la minaccia climatica (ondate di calore, siccità, alluvioni), le diseguaglianze, la povertà.  I giovani non trovano prospettive occupazionali e vanno via.
Continuiamo ad essere il fanalino di coda delle città emiliano romagnole.

A proposito di Fabio Anselmo, è probabile che sarete voi due a concorrere per il Centro Sinistra. Cosa pensi di lui, lo conosci?

L’ho incontrato solo una volta, non posso dire di conoscerlo. Senz’altro è una brava persona, un ottimo professionista che si spende per i diritti civili e fa della trasparenza e della legalità la sua bandiera. Io e Anselmo siamo diversi, abbiamo un approccio diverso, forse ci rivolgiamo anche ad un elettorato differente, ma “stiamo dalla stessa parte”, insieme dobbiamo mandare a casa la giunta Fabbri-Naomo-Balboni, che per Ferrara è stata una sciagura. Ma, vorrei dirlo in primis al Pd che è il promoter di Anselmo, niente sgambetti questa volta.

Andrete da soli o con altre formazioni politiche?

Fin da subito, abbiamo chiarito che il percorso è aperto a chi si riconosce e vuole sostenere il (quasi) programma e nelle modalità di un’altra politica che vogliamo promuovere.
Nella terza tappa del nostro percorso partecipato, domenica 28 gennaio, invitiamo le forze politiche che si riconoscono nella “traccia condivisa” ad esprimersi e a sostenere la mia candidatura. Alcuni partiti e raggruppamenti ci hanno già detto di essere interessati a fare una coalizione con noi di “La Comune di Ferrara”. Altri, a quanto sento, dopo aver appoggiato nel Tavolo la candidata Laura Calafà invece di Anselmo, appoggeranno la candidatura  Pd-5 Stelle di Fabio Anselmo. Non lo capisco ma lo rispetto.
In ogni caso, con un sistema elettorale a doppio turno, è positivo che l’opposizione si presenti con coalizioni e due candidati: io e Fabio Anselmo. Sostenere il contrario, totemizzando l’idea dell’unità come valore assoluto e della necessità di un candidato unico, significa negare il senso stesso del nostro sistema elettorale, che nasce appositamente per valorizzare la pluralità di idee con il primo turno, e garantire il massimo della rappresentatività del sindaco con il secondo turno.

COMITATO NO CPR: UNA PICCOLA GRANDE VITTORIA

FERRARA, COMITATO NO CPR: UNA PICCOLA GRANDE VITTORIA

Apprendiamo dalla stampa che il CPR a Ferrara (forse?) non si farà!
La mobilitazione serve! Fin dal primo annuncio di un CPR (Centro di Permanenza e Rimpatrio) a Ferrara la società civile si è mobilitata, con riunioni, informazione capillare e un grande incontro di centinaia di persone al cinema Apollo l’undici dicembre scorso.

Una prima grande vittoria che ha portato Sindaco e senatore Balboni a passare dal racconto “CPR uguale a maggiore sicurezza” a “CPR meglio non farlo qui”!
Alla luce della mobilitazione che ha visto scendere in campo quasi 50 organizzazioni della società civile ferrarese, che hanno sensibilizzato la popolazione sulla realtà di questi centri c’è stato un clamoroso dietrofront.
I CPR sono, come ampiamente documentato anche recentemente dalla stampa nazionale, luoghi in cui vengono rinchiusi cittadini stranieri senza permesso di soggiorno, reato amministrativo non penale, privati dei diritti umani essenziali, senza una vera tutela legale e senza cure mediche adeguate. “Non luoghi” in cui si verificano, per disperazione, disordini, abusi di psicofarmaci, episodi di autolesionismo, fino al suicidio.
Cavalcare la propaganda che l’istituzione dei CPR aumenta la sicurezza è una menzogna, utile solo a generare preoccupazione nella popolazione e ad essere cavalcata in campagna elettorale.
Ribadiamo il nostro NO a un CPR a Ferrara e ovunque, e continuiamo la mobilitazione confermando tutte le iniziative in campo dall’incontro pubblico per le informazioni legali, la mobilitazione davanti a tutte le prefetture emiliano romagnole e la manifestazione regionale NO CPR.

Infine siamo pronti a mobilitarci in qualsiasi Comune della nostra provincia e in qualunque provincia della regione, in stretta sinergia con le Istituzioni, le associazioni e i Comitati dell’Emilia Romagna.

Comitato NO CPR
Adoc Ferrara, Agesci Ferrara, ANPI Ferrara, ARCI Ferrara, Arcigay “Gli occhiali d’oro”, Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII Zona Emilia, Associazione La Villetta, Associazione Nadiya Odv, Associazione Piazza Verdi, Associazione Rugby 27, Associazione Viale K, Auto-mutuo aiuto in rete ODV, Azione Cattolica Ferrara-Comacchio, Biblioteca popolare Giardino, Centro Donna Giustizia, Centro sociale La Resistenza, CGIL Ferrara, Circolo Laudato Sì Ferrara-Comacchio, Cittadini del mondo, Comitato Alba nuova ODV, Comunità Emmaus, Dammi la mano APS, Emergency Ferrara, Federconsumatori Ferrara, Fondazione Migrantes Ferrara, Forum Ferrara Partecipata, Gruppo del Tasso aps, Il Mantello, Istituto Gramsci Ferrara, Koesione 22, La Comune di Ferrara, La società della ragione, Masci Ferrara, Mediterranea Saving Humans Ferrara, Movimento Nonviolento Ferrara, Movimento Rinascita Cristiana Ferrara, Pax Christi Ferrara, Periscopio online, Rete giustizia climatica, Stop border violence, Sunia Ferrara, Tutori nel tempo, UDU Ferrara, Ultimo Rosso Aps, Unione Donne in Italia Ferrara, UIL Ferrara, Uniat Ferrara.

In copertina: Centro per il rimpatrio di Palazzo San Gervasio, Potenza (foto Basilicata news).

Germogli /
Il guaio della natura

Il guaio della natura

“Se la natura fosse una banca l’avrebbero già salvata”
Eduardo Galeano

Non si possono fare sempre pensieri intelligenti. Questo infatti non lo è, è un pensiero che mi è arrivato perché non riuscivo a dormire, una fantasia, un anticipo di sogno. Che il guaio della natura, faceva così questo pensiero, il guaio della natura è che è troppo sparpagliata. Guardi un sito di viaggi e avventure nel mondo e te ne accorgi, oppure non serve,  esci di casa e vedi la natura tutta sparpagliata. La natura è l’albero striminzito all’angolo della via, la natura è il giardinetto del quartiere, la natura è quel bosco che ami e hai sempre sognato di tornarci. Ma la natura è la neve che ancora non arriva, il Tibet. il deserto rosso, il mare dei sette mari, il grano pieno di papaveri. La natura è decisamente esagerata. Esagerata e sparpagliata per tutto il pianeta.

Forse, e qui è arrivato un altro pensiero, come se io volessi darle un consiglio alla natura. Non posso salvarla, ma un consiglio non si butta mai via. Forse questo secondo pensiero è ancora meno intelligente del primo, ma alla natura, sparpagliata come dicevo prima, assediata dall’economia dal cemento dalla tecnica, moribonda o giù di lì, può far comodo anche la fantasia di un nottambulo.

Cara natura (è chiaro, io amo la natura) perché non ti concentri? Perché non raduni tutte le tue bellezze? Dovresti diventare il concentrato di tutto: mare, monti, uccelli, libellule, alberi, acqua, neve, vulcani eccetera. Diventare una cosa sola. Compatta, Potente, Alta e forte come un gigante delle fiabe.  Poi dovresti andare a Davos. A Davos c’è un portone blindato come una cassaforte, dentro ci sono gli uomini più potenti del mondo. Tu non bussare, sei un gigante alto 6 metri, puoi spalancarla con due dita. Ecco, sei entrato nel famoso salotto di Davos

“Azz MADRE NATURA! “, gridano loro, tremando come budini di vaniglia.
E tu, saltando i convenevoli: “Allora? Volete salvarmi sì o no? Sto perdendo la pazienza!”. Anzi, la pazienza l’avevi già persa. E Anche noi.