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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


La “fine della Storia” produce morte
L’opposizione fa bene alla salute

La “fine della Storia” produce morte. L’opposizione fa bene alla salute.

 

La democrazia è viva se chi governa ha una vera opposizione che consenta agli elettori di esprimersi. C’è stato un tempo della nostra prima Repubblica in cui Enrico Berlinguer, segretario del Partito Comunista Italiano, pur essendo all’opposizione – e sembrava senza speranze di poter governare – disse “si governa anche dall’opposizione”. Intendeva che è possibile, anche se si è minoranza in Parlamento, avanzare proposte  che possono trovare (in tutto o in parte) il consenso di chi governa. Negli ultimi decenni però la politica (e la democrazia) hanno trovato un temibile concorrente che si situa fuori dal Parlamento e dalla politica: il “dio denaro” che regna in Terra, al posto del “dio trino” che una volta governava sia in cielo che in terra.

Intendiamoci: le lobby ci sono sempre state, ma oggi hanno assunto un potere enorme. L’economia è sempre stata importante sin dall’antichità, ma Etica e Politica l’hanno tenuta sempre a bada. Con Niccolò Machiavelli nel 1500 ha fatto un primo “salto” sganciandosi dall’Etica (“il fine giustifica i mezzi”). Un secondo passo lo ha fatto con Adam Smith (1776), ponendo le basi per diventare “moderna”, quando egli dice “non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse”, dimenticando però che lo stesso Smith aveva scritto nella Teoria dei sentimenti morali (1759): “Per quanto egoista lo si possa supporre l’uomo ha evidentemente nella sua natura alcuni principi che lo inducono a interessarsi alla sorte degli altri e che gli rendono necessaria la loro felicità”. Infine, un terzo grande salto lo ha fatto di recente (nel 1999), quando Bill Clinton ha deciso che tutte le banche potevano speculare, abolendo una legge che il più rinomato presidente democratico (Roosevelt) aveva emanato per porre fine alla crisi del 1929. Da allora la gran parte dei profitti si fa non investendo nell’economia reale, ma speculando su tutto l’immaginabile.

Il 1999 seguiva a un decennio in cui era crollato il comunismo reale in Urss e il capitalismo era ormai considerato l’unico “verbo”, al punto che Francis Fukuyama professò “la fine della Storia”. Ma come dice l’adagio “l’orgoglio precede la caduta”, sia nella cultura occidentale che in quella orientale. Il nostro teatro ha cinque atti che vanno in crescendo (presentazione, dialogo-scontro, conflitto tra le due regine); ma nel quarto atto c’è una pausa-riflessione che porta, nel quinto atto, alla conclusione. Così anche nella cerimonia del tè: il quarto sorso (pausa-caduta) è in discontinuità con la crescita dei primi tre sorsi: piacere, felicità, pienezza e precede il quinto e ultimo sorso, quello della saggezza-armonia. In sostanza: la cultura universale ci racconta che se non ci si ferma a riflettere e non si fa anche un passo indietro, la crescita per la crescita, la crescita infinita è patologica e produce morte.

Così sta avvenendo nel mondo odierno per l’Occidente, che ha sempre dato le carte al mondo intero spiegando come si vive e si produce (produci, consuma e crepa, cantavano i Cccp), come si fa economia e finanza. E’ come se fossimo al terzo atto, al culmine di una hybris, di un delirio di potenza e di crescita infinita (e relativa depredazione della Natura) che è mortale. Ciò avviene perché non ci sono apparentemente avversari o alternative. Se nel secondo dopoguerra fu costruita la miglior società occidentale (welfare, uguaglianza, tasse sui ricchi) lo si è dovuto proprio alla competizione con il suo opposto (Urss). Si doveva pur dimostrare che la società liberal democratica era migliore dell’oppositore comunista. Crollato il comunismo, nel 1991 siamo ripiombati in un incubo dominato da disuguaglianze, impoverimento e guerre reali.

L’Europa “inclusiva” e sempre più “estesa ad est” che avanza senza guardare a ciò che accade nella realtà, ha prodotto una enorme opposizione che si è materializzata alle ultime elezioni con l’avanzata dei sovranisti, passati dal 18% dei voti al 26%. Negli Stati Uniti Donald Trump ha rimesso al centro alcuni principi che, al di là delle polemiche, sono stati assunti dallo stesso Biden negli ultimi 4 anni della sua amministrazione:

  • bisogna difendere il ceto medio se perde reddito;
  • bisogna difendere il lavoro e il reddito degli operai americani spiazzati dalla globalizzazione e dalle de-localizzazioni delle stesse multinazionali americane in paesi dove il costo del lavoro è molto più basso;
  • bisogna regolamentare l’immigrazione perché non diventi una forma di concorrenza e uno strumento per ridurre i salari dei propri concittadini;
  • bisogna imporre dazi alle merci cinesi a costo di pagare tutti come consumatori qualcosa di più, pur di difendere il lavoro made in Usa;
  • bisogna ridiscutere il ruolo di Organizzazioni internazionali come il WTO che regolano i commerci nel mondo;
  • bisogna rinunciare a voler controllare il mondo e concentrarsi sullo sviluppo del proprio paese.

Su tutti i primi cinque punti l’amministrazione Biden ha seguito le orme di Trump e in alcuni casi le ha anche superate. L’unico punto su cui c’è un reale dissenso è l’ultimo, in quanto Trump vuole concentrarsi sul fare “great again” gli Stati Uniti, mentre i Democratici sono ancora convinti di poter controllare il mondo. Ma forse sarebbe meglio dire che più dei Dem agisce un potere dietro le quinte (trasversale): ildeep state, lo stato profondo, formato dalle 15 agenzie di intelligence, dal Pentagono, dalle lobby militari e da molti ambienti economici e finanziari che fanno una montagna di soldi con le guerre, la globalizzazione deregolamentata e che sono favorevoli ad un clima di tensione mondiale, in cui gli affari possano prosperare e la gente possa avere sempre più paura. E su questo punto non è difficile dare ragione a Trump che ha infatti chiuso la guerra in Afghanistan, mentre i Democratici le hanno tutte aperte negli ultimi 20 anni. Trump è un uomo di destra e d’affari torbidi, ma serve a poco accusarlo delle sue (poco edificanti) inclinazioni sessuali o pensare di batterlo con un processo della magistratura. Bisogna affrontarlo nel merito delle sue proposte, sapendo che solo migliorando le condizioni reali degli americani si potrà vincere.

Fa quindi piacere che Kamala Harris, la nuova avversaria di Trump, abbia accolto il suggerimento dei suoi spin doctors a cimentarsi sul merito delle questioni che Trump ha messo in discussione, “buttando all’ aria” decenni di sacre convinzioni delle nostre economie concorrenziali (capitalistiche) e facendo sentire i leader delle forze “tradizionali” (democratici, socialisti, verdi, liberali, ma anche conservatori) non più i padroni di casa che per lignaggio devono governare, ma costringendoli a confrontarsi su ciò che sta a cuore ai loro cittadini.

Ovviamente tra il comunista (a modo suo e in conflitto con l’Urss) Berlinguer e l’uomo d’affari Trump fuori dagli schemi (“strano” ora lo chiama Harris) c’è una enorme differenza, e il parallelismo potrà sembrare azzardato, ma sono entrambi temibili oppositori a cui lo Stato profondo si oppone – o si oppose. Al primo fu impedito di fatto di fare un governo di unità nazionale con Moro, il secondo è appena sopravvissuto ad un attentato per un puro colpo di fortuna: se non si fosse voltato all’ultimo secondo per fare vedere un grafico sull’immigrazione… e tutto questo nonostante le super finanziate quindici agenzie di intelligence americane.

Per certi versi / PARTIRE

PARTIRE

partire
È un po’
Finire
Un libro
Prima di un altro
C’è un ponte
Da salire
È fatto di barche
Ognuna col suo
Viaggio
Una farfalla
Di vento e ricordi

Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Le voci da dentro /
Dino Tebaldi: “Tutti in classe”

Dino Tebaldi (1935-2004)

 

Questo capitolo del libro “Dietro le sbarre” di Dino Tebaldi inizia a raccontare l’esperienza di alcune persone detenute che, all’interno della Casa Circondariale di Via Arginone, hanno scelto di frequentare la scuola. Quando ricevono il permesso di lasciare le celle per partecipare alle lezioni, si avverte forte in loro l’orgoglio di andare ad imparare. Dino ci sorprende ancora una volta sia con la sua narrazione precisa e partecipata che con un finale bellissimo, in cui dimostra concretamente il senso del suo impegno educativo.
(Mauro Presini)

 

Tutti in classe

di Dino Tebaldi 

Appena arriva la “chiamata” – dall’area pedagogica – dell’agente di turno, i detenuti-scolari ottengono il “via”. Lasciano le celle, uno ad uno, con la cartellina sotto braccio come se andassero ad un “congresso internazionale”: in quel momento, sui volti di ciascuno di loro s’accende il sorriso. Si sentono orgogliosi dell’impegno quotidiano, che li distingue dagli altri detenuti; e dell’opportunità di vivere fuori della cella per la mattinata intera.
Nella Casa Circondariale di Via Arginone, essi – malgrado tutto – sono diventati “studenti”.
A tredici anni – ha scritto uno di loro – avevo dovuto lasciare la scuola, ed andare al lavoro…“. Adesso, invece, chi vuole può recuperare qualcosa.
Per arrivare all'”area pedagogica” debbono fare tanta strada… a piedi, quasi un percorso ad ostacoli: in lunghi corridoi, interrotti da tanti cancelli; le scale, esse pure bloccate ad ogni rampa, da altrettante barriere; ed agenti, ad ogni “svolta”, incerti se mostrare la faccia arrabbiata, oppure se frenare un tantino il sorriso spontaneo.
I detenuti-scolari sono nella lista “buona”, e posson passare.
Qualcuno degli agenti li guarda con amicizia, e dà loro strada con la stessa raccomandazione che si sente davanti a tutte le scuole: “Fate i bravi, ed imparate…!”. Arrivano alla spicciolata e tirano un lungo sospiro appena intravvedono il loro bidello: vale a dire l’agente di turno nell’ “area”, che apre e chiude – secondo la regola – l’ultimo dei cancelli, e li fa andare “da soli” nell’aula.
II maestro se li vede arrivare con spavalda giovinezza: perfino J. Antonio, sudamericano, nonno venti volte, per numero d’anni maggiore di tutti, ma per il resto il più giovanilmente impegnato di tutti.
Dice poche cose in lingua italiana, ma capisce quasi tutto. Legge
ogni cosa con accento spagnolo, ma chiede spiegazione delle parole per lui troppo ostiche. Capisce ed esulta, e – con parole tutte sue – dice il suo entusiasmo: “Adesso estudiente… Tante cose imparare. Quando piccolo, no scuola abastanzia. Tredici anni, lavorare… Adesso estudiente… compiti in cella, tanto pensare, tanto contento…”.
Mehmet – un turco che, per smentire una diffusa convinzione nostrana, non fuma nemmeno per la rabbia – arriva dopo aver “lavorato”: è contento di aver sempre da fare: “Mattina, pulizia nella Casa: prendere paga. Poi, scuola di alfabetizzazione: imparare lingua italiana. Pomeriggio, scuola media: imparare ancora tante cose…”.
Gli domando: “Alla sera, riposi guardando la TV?
Pare che l’abbia scandalizzato: “Noo, mai guardare TV, Quando non frequentare, di giorno ho guardato: non bella cosa! Adesso, di giorno, sempre a scuola: bella cosa. Di sera, nella cella, io pregare…
Io tanto pregare per mia famiglia
”.
Io non so per quali ragioni Mehmet sia qui. Non voglio neanche sapere.
So però ch’è dentro da quattro o cinque anni, ed ancora ci dovrebbe
stare per quasi altrettanti: “Spero espulsione: meglio andare nel mio paese, dove vedere mia moglie e miei due figli”.
In aula, insieme con i quaderni, ha portato le foto dei due bambinelli: “Questo Abdullah, otto anni; questa, Hafiza, sei anni. Appena nata, quando io partito da Turchia…”.
Gli scende una lacrima, ed è subito una lacrima mia.
Cerco di rincuorarlo, di prepararsi col dolore di oggi alla grande gioia del giorno in cui tornerà.
Sì, quel giorno grande gioia. Adesso, in mio cuore grande dolore:
io mai mandato soldi per miei bambini…
”.
Le parole mie non posson bastare, per ridurre il guaio che – in Turchia – la famiglia di Mehmet vive da anni. Lo conosco soltanto da quando sono entrato qui dentro come maestro, con grande timore da parte mia, con vera paura da parte di mia moglie e di altri.
Adesso Mehmet è il mio “prossimo”, che cercavo sul mio cammino. Il suo è il mio dolore; i suoi figli lontani sono i miei nipotini.
Mia moglie ha adottato con me un bambino indiano: ogni mese gli invia una certa sommetta che gli consente di sopravvivere e di frequentare la scuola presso le Suore della Carità di Bangalore.
Ai due figli di Mehmet provvederò io stesso, per quello che posso.
Ho deciso guardando le foto di Abdullah e di Hafiza: oggi stesso – rinunciando a vanità consumistiche – farò il primo versamento postale.

Cover: La palestra del carcere di Ferrara.

Per leggere le altre uscite di Le Voci da Dentro clicca sul nome della rubrica. Per leggere invece tutti gli articoli di Mauro Presini su Periscopio, clicca sul nome dell’autore

Università estiva di Attac 2024 “La cura del futuro”

Università estiva di Attac 2024 “La cura del futuro”

13-15 settembre 2024

New Camping Le Tamerici

Via della Cecinella 3 – Cecina Mare (LI)

Scarica la Presentazione dell’Università estiva 2024 di Attac Italia

Scarica il Programma dell’Università estiva 2024 di Attac Italia

Scarica le informazioni sui costi, prenotazioni e logistica dell’Università estiva 2024

Leggi la scheda: Chi sono le relatrici e i relatori dell’Università estiva 2024 di Attac Italia

 

Programma

Venerdì 13 settembre 2024

ore 17.00 – 19.00

Il futuro nelle mani della finanza?

partecipano

Clara Mattei (Docente di Economia New School for Social Research di New York)

Alessandro Volpi (Docente di Storia contemporanea Università di Pisa)

 

Sabato 14 settembre 2024

ore 10.30 – 12.30

Il futuro nelle mani della guerra?

partecipano

Federica D’Alessio (giornalista e redattrice di Micromega)

Stefano Risso (Attac Italia)

 

ore 14.30 – 17.00

Il futuro nelle mani del fossile?

partecipano

Elena Gerebizza (ricercatrice e campaigner di ReCommon)

Beatrice Negro (ricercatrice Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa)

 

ore 17.00 – 19.30

Il futuro nelle mani dell’Intelligenza Artificiale?

partecipano

Marco Schiaffino (giornalista esperto di nuove tecnologie)

Michela Tuozzo (ricercatrice di Diritto Costituzionale Università di Napoli Federico II)

 

Domenica 17 settembre 2024

ore 10.30 – 13.00

Dov’era l’Io, fare il ‘noi’. Le alternative

partecipano

Lara Monticelli (docente di Sociologia University College of London)

Marco Rovelli (scrittore e musicista)

Maria Francesca De Tullio (Rete nazionale dei beni comuni)

Marco Bersani (Attac Italia)

 

www.attac-italia.org

  

Costi, prenotazioni e logistica 
COSTI UNIVERSITA’
Importante: nella proposta di pernottamento non è prevista la biancheria da letto e da bagno, che, di conseguenza, deve essere portata dai partecipanti, o può essere affittata in loco al costo di 7,00 euro/persona (biancheria da bagno) e 9,00 euro persona (biancheria da letto)
Soggiorno 2 notti
 1. IN BUNGALOW IN QUATTRO
(monolocali in legno per 4 persone /zona giorno con divano-letto matrimoniale, angolo cottura, bagno con doccia; piccolo separé e due letti singoli)
solo pernottamento: 59 euro a persona
(il prezzo è calcolato su 22 euro/g/persona + 15 euro iscrizione Università)
pernottamento e cena: 109 euro a persona
(il costo della cena -acqua e caffè compresi, vino e altre bevande escluse- è di 25 euro/g/persona)
2. IN BUNGALOW IN TRE
(stesse condizioni di cui sopra)
solo pernottamento: 69 euro a persona
(il prezzo è calcolato su 27 euro/g/persona + 15 euro iscrizione Università)
pernottamento e cena: 119 euro a persona
(il costo della cena -acqua e caffè compresi, vino e altre bevande escluse- è di 25 euro/g/persona)
3. IN BUNGALOW IN DUE
(stesse condizioni di cui sopra)
solo pernottamento: 75 euro a persona
(il prezzo è calcolato su 30 euro/g/persona + 15 euro iscrizione Università)
pernottamento e cena: 125 euro a persona
(il costo della cena -acqua e caffè compresi, vino e altre bevande escluse- è di 25 euro/g/persona)
4. BUNGALOW OCCUPATO DA UNA PERSONA
(stesse condizioni di cui sopra)
solo pernottamento: 125 euro
(il prezzo è calcolato su 55 euro/g/persona + 15 euro iscrizione Università)
pernottamento e cena: 175 euro
(il costo della cena -acqua e caffè compresi, vino e altre bevande escluse- è di 25 euro/g/persona)
5.  IN CAMPER
(stesse condizioni di cui sopra)
solo pernottamento39 euro a persona*
(il prezzo è calcolato su 12 euro/g/persona + 15 euro iscrizione Università)
*al prezzo va aggiunta la quota di 17 euro/g per la piazzola, da dividere fra gli occupanti il camper
pernottamento e cena: 89 euro a persona*
(il costo della cena -acqua e caffè compresi, vino e altre bevande escluse- è di 25 euro/g/persona)
*al prezzo va aggiunta la quota di 17 euro/g per la piazzola, da dividere fra gli occupanti il camper
6.  IN TENDA
(stesse condizioni di cui sopra)
solo pernottamento39 euro a persona*
(il prezzo è calcolato su 12 euro/g/persona + 15 euro iscrizione Università)
*al prezzo va aggiunta la quota di 14 euro/g per la piazzola, da dividere fra gli occupanti la tenda 
pernottamento e cena: 89 euro a persona*
(il costo della cena -acqua e caffè compresi, vino e altre bevande escluse- è di 25 euro/g/persona)
*al prezzo va aggiunta la quota di 14 euro/g per la piazzola, da dividere fra gli occupanti la tenda 
Soggiorno 1 notte
 1. IN BUNGALOW IN QUATTRO
(stesse condizioni di cui sopra)
solo pernottamento: 37 euro a persona
(il prezzo è calcolato su 22 euro/g/persona + 15 euro iscrizione Università)
pernottamento e cena: 62 euro a persona
(il costo della cena -acqua e caffè compresi, vino e altre bevande escluse- è di 25 euro/g/persona)
2. IN BUNGALOW IN TRE
(stesse condizioni di cui sopra)
solo pernottamento: 42 euro a persona
(il prezzo è calcolato su 27 euro/g/persona + 15 euro iscrizione Università)
pernottamento e cena: 67 euro a persona
(il costo della cena -acqua e caffè compresi, vino e altre bevande escluse- è di 25 euro/g/persona)
 
 3. IN BUNGALOW IN DUE
(stesse condizioni di cui sopra)
solo pernottamento: 45 euro a persona
(il prezzo è calcolato su 30 euro/g/persona + 15 euro iscrizione Università)
pernottamento e cena: 70 euro a persona
(il costo della cena -acqua e caffè compresi, vino e altre bevande escluse- è di 25 euro/g/persona)
 
 4. BUNGALOW OCCUPATO DA UNA PERSONA
(stesse condizioni di cui sopra)
solo pernottamento: 70 euro
(il prezzo è calcolato su 55 euro/g/persona + 15 euro iscrizione Università)
pernottamento e cena: 95 euro
(il costo della cena -acqua e caffè compresi, vino e altre bevande escluse- è di 25 euro/g/persona)
5. IN CAMPER
(stesse condizioni di cui sopra)
solo pernottamento27 euro a persona*
(il prezzo è calcolato su 12 euro/g/persona + 15 euro iscrizione Università)
*al prezzo va aggiunta la quota di 17 euro/g per la piazzola, da dividere fra gli occupanti il camper
pernottamento e cena52 euro a persona*
(il costo della cena -acqua e caffè compresi, vino e altre bevande escluse- è di 25 euro/g/persona)
*al prezzo va aggiunta la quota di 17 euro/g per la piazzola, da dividere fra gli occupanti la tenda o il camper.
6. IN TENDA
(stesse condizioni di cui sopra)
solo pernottamento27 euro a persona.
(il prezzo è calcolato su 12 euro/g/persona + 15 euro iscrizione Università)
*al prezzo va aggiunta la quota di 8 euro/g per la piazzola, da dividere fra gli occupanti la tenda
pernottamento e cena52 euro a persona.
(il costo della cena -acqua e caffè compresi, vino e altre bevande escluse- è di 25 euro/g/persona)
*al prezzo va aggiunta la quota di 8 euro/g per la piazzola, da dividere fra gli occupanti la tenda.
Partecipazione senza soggiorno 
In caso di non soggiorno, si paga solo l’iscrizione all’Università, il cui costo, indipendentemente dai giorni di frequenza, è 15 euro.
In questo caso, si consiglia di segnalare per tempo il nominativo, mentre il pagamento verrà fatto direttamente in loco.
 
ISCRIZIONI UNIVERSITA’
 
Le iscrizioni sono aperte sino al 8 settembre 2024 (ma naturalmente è meglio farlo prima possibile). Dopo la data indicata, si dovrà prenotare contattando direttamente il campeggio
Al momento della prenotazione è necessario versare una caparra corrispondente al 20% dell’importo complessivo sul seguente conto bancario :
Conto corrente  intestato a : Attac Italia
Codice IBAN : IT15 Q050 1803 2000 0001 1116 704
specificando nella causale “iscrizione università”
per prenotarsi scrivere a segreteria@attac.org
per ulteriori informazioni: www.attac-italia.org
per contatti diretti: Marco Bersani 3294740620
 
COME RAGGIUNGERE IL POSTO
 
IN AUTOMOBILE
Da nord:
Percorrere l’autostrada A12 fino al casello di Rosignano Marittimo, imboccare la SS1 in direzione Grosseto e uscire a Cecina Centro. Seguire le indicazioni per Marina di Cecina. Percorrere Viale Galliano, fino alla successiva Via della Cecinella.
Da sud:
Percorrere la SS1 in direzione Livorno e uscire a Cecina Centro e seguire per Marina di Cecina.
Percorrere Viale Galliano, fino alla successiva Via della Cecinella.
Da est:
Percorrere la Fi-Pi-Li fino all’innesto sull’autostrada A12, proseguire per Rosignano Marittimo, prendere la SS1 in direzione Grosseto e uscire a Cecina Centro. Seguire le indicazioni per Marina di Cecina. Percorrere Viale Galliano, fino alla successiva Via della Cecinella.
IN TRENO
La stazione di riferimento è Cecina. Distanza 4 km. Dalla stazione partono regolarmente bus navetta che raggiungono Via della Cecinella.
Se sei arrivato fin qui, vuol dire che ti interessa ciò che Attac Italia propone. La nostra associazione è totalmente autofinanziata e si basa sulle energie volontarie delle attiviste e degli attivisti. Puoi sostenerci aderendo online e cliccando qui . Un tuo click ci permetterà di continuare la nostra attività. Grazie”

Officina Claudio Cavazza

Officina Claudio Cavazza

Non ricordo quando è morto Claudio Cavazza. Ho chiesto ad alcuni amici comuni. Niente.
Sappiamo solo che era di Agosto. E di Agosto ne sono già passati tanti e io arrivo tardi. Arrivo troppo dopo.

Claudio non era un tipo tanto simpatico. Chi gli voleva bene doveva impegnarsi.
Litigioso, aggressivo (a parole), polemico, logorroico e pesante come alcuni comunisti di una volta. Fedele alla linea per purezza d’animo verso i suoi ideali non certo per obbedienza.

L’ho conosciuto quando la ex Iugoslavia si è frantumata. In quel periodo molte anime diverse della città, ma con una sorprendente sintonia, avevano creato il Coordinamento Ferrara per la Pace.
E come rappresentante di se stesso, cane sciolto ma sostenitore delle buone cause del branco, c’era anche Claudio.

Voi gente per bene che pace cercate,
la pace per far quello che voi volete,
ma se questo è il prezzo vogliamo la guerra,
vogliamo vedervi finir sotto terra,
ma se questo è il prezzo lo abbiamo pagato,
nessuno più al mondo dev’essere sfruttato.
(Contessa di Paolo Pietrangeli)

Alle riunioni faceva uscite provocatorie: armi, azione, non solo manifestazioni pacifiche ma al dunque, nella pratica, era il primo ad “esserci”.
Aveva un fisico bestiale, due mani grandi, forti che usava per costruire e inventare. FARE!

Poco adatto alla vita famigliare, era un padre che per il figlio ha donato tutto.
Sempre in cerca di una nuova innamorata, ma troppo esigente per trovare la donna giusta.
Si doleva di non essere colto, ma leggeva tanto come un autentico intellettuale e sempre cose serie di politica, sociologia, storia contemporanea, economia.

Ha tentato più volte, con tenacia e pazienza, di alfabetizzarmi alla politica. Poi si è arreso e mi ha assecondato nel mio mondo fatto di confidenze e sentimenti.
Ma oggi lo voglio ricordare, perchè con le sue grandi mani coraggiose ha costruito case, acquedotti, coltivato caffè, mais, andando lontano in diversi paesi del Sudamerica.

Aveva cominciato, ancora ragazzo, partecipando chissà come alla guerra d’indipendenza algerina, depositate le armi, operaio scomodo e ribelle, è diventato padrone di se stesso, creando una sua impresa artigianale, si è dedicato a esperienze locali alternative e di estrema sinistra, che non bastavano alla sua esigente caparbietà.

Vicino alla pensione, stanco di una Emilia Romagna stinta e deludente, si è trasferito a La Spezia, perchè lì c’era ancora chi si batteva da vero comunista. Ha ristrutturato una bella casa a colpi di martello, portando su e giù cariole come vagoni merci. Una casa di pietra a pochi chilometri dal mare, ma al mare non c’è mai stato, non c’era tempo per oziare, assolutamente meglio parlare con la gente.

Compagni, avanti, il gran partito
Noi siamo dei lavorator
Rosso un fior c’è in petto fiorito
Una fede c’è nata in cor
Noi non siam più nell’officina
Entroterra, nei campi, in mar
La plebe sempre all’opra china
Senza ideale in cui spera
(da: L’internazionale)

Quando c’era da fare “una rivoluzione” lui c’era sempre e, direi, pur con tante battaglie vinte, alla fine ha perso, restando, comunque, un combattente indomabile.

È morto solo. A Città del Messico. In ospedale, quando il suo corpo e il suo cuore da gigante ha ceduto.
Arrivava dal Guatemala, dopo aver vissuto e cooperato nel Chapas, con la convinzione che era lì il terreno favorevole per sconfiggere il capitalismo occidentale e le dittature e le povertà del mondo. Aveva questa fiducia rinnovata dalla storia dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale e del Subcomandante Marcos,

Tu amor revolucionario
Te conduce a nueva empresa
Donde esperan la firmeza
De tu brazo libertario
(Hasta Siempre, Comandante di Carlos Puebla)

Ha toccato con mano un sistema in cui si sottolineava l’importanza di essere autonomi rispetto a un governo ingiusto e corrotto. Gli piaceva che non volessero vivere di assistenza, ma grazie a progetti di autoproduzione. Le Aguascalientes (amministrazioni territoriali indigene) vietavano di coltivare e commerciare droga e di trafficare migranti e impegnavano gli abitanti a curare la natura. Le decisioni erano prese con un sistema collettivo e la criminalità trovava poco spazio per infiltrarsi. Gli sembrava di aver ritrovato il comunismo militante.

De pie, luchar
Que vamos va a triunfar
Avanzan ya
Banderas de unidad
(da: El pueblo unido jamàs serà vencido di Sergio Ortega)

Ma dai suoi racconti o dall’idea che mi sono fatta io ascoltando, la storia non è andata proprio così. Io, che non ho voluto leggere i suoi libri o accompagnarlo, non so neppure spiegare bene cosa è successo davvero.
So che, anche lì, ha litigato con i campesinos e i rivoluzionari addomesticati del luogo, perchè all’interno delle Aguascalientes nel tempo si erano abituati al fatto che progetti solidali e dollari li portavano i gringos, che i narcos non si potevano toccare.

Eppure, anche se neppure a loro era del tutto simpatico per il suo assolutismo, ha portato commercio, coltivazioni più redditizie, orti e sistemi rudimentali ma sufficienti di irrigazione, artigianali acquedotti per avere l’acqua in casa, realizzando tutto con pochi danari e molta perizia. Non si è arreso, ha studiato economia e agricoltura, ha cercato alleati esperti in queste cose e ha cercato di educare e dare l’esempio.

Claudio Cavazza, ospite a Storiedimondi, Cies Ferrara

Con le sue grandi mani sapeva fare tutto.

De acero son
Ardiente batallón
Sus manos van
Llevando la justicia y la razón
(da: El pueblo unido jamàs serà vencido di Sergio Ortega)

Il suo corpo da gigante sapeva fare sforzi sovrumani. La sua intelligenza creativa sapeva risolvere ogni difficoltà pratica.
Ma è morto.
Pare in Agosto.

Voleva che la sua vita potesse essere raccontata ma, anche Alberto Melandri, che si era preso la briga di scrivere la non comune vita di questo ingombrante amico è morto, e adesso non si riescono a trovare i pezzi.

Claudio bestemmiava come solo sa fare un comunista di altri tempi, era arrogante, scomodo, stancante e della sua vita pare non ci sia una testimonianza, se non evanescente, tragicomica per un uomo concreto, che dava sostanza e forma ai suoi ideali.

Il mio desiderio per lui? Realizzare un Laboratorio Artigianale o intitolare una Associazione che promuove l’intelligenza delle mani e del costruire con il nome Officina Claudio Cavazza.

Su, lottiam, l’Ideale nostro alfine sarà
L’Internazionale, futura umanità
Su, lottiam, l’Ideale nostro alfine sarà
L’Internazionale, futura umanità
(da: L’internazionale)

Per leggere gli articoli di Giovanna Tonioli su Periscopio clicca sul nome dell’autrice

L’evasione fiscale ci farà perdere lo stato sociale (se non facciamo qualcosa)

L’evasione fiscale ci farà perdere lo stato sociale (se non facciamo qualcosa)

L’evasione fiscale c’è in tutti i paesi del mondo ma in Italia è particolarmente alta. Le stime del Governo stesso indicano circa 87 miliardi annui, una cifra analoga alla spesa pubblica per tutta l’Istruzione, Università inclusa. Ciò è dovuto ad almeno 6 fattori:

  1. la numerosa presenza di lavoratori autonomi e piccole imprese in rapporto ai dipendenti (in Italia solo gli autonomi sono circa 7 milioni  rispetto a 17 milioni di dipendenti, mentre in Gran Bretagna sono 4,3 milioni rispetto a 28,5 milioni di dipendenti). Ovviamente è più facile controllare 4 milioni che 7 milioni di contribuenti, specie se è radicata una diffusa cultura dell’evasione;
  2. il sottofinanziamento atavico delle Agenzie fiscali (Entrate e Guardia di finanza);
  3. la scarsa volontà dei partiti (specie di centro-destra) di usare tutte le 200 banche dati oggi disponibili per fare emergere l’evasione;
  4. una legge sulle successioni che di fatto consente una elusione fiscale (evasione per legge) ai ceti ricchi e più abbienti del paese; lo Stato incassa dalle successioni ogni anno meno di 2 miliardi, mentre potrebbe incassare dieci volte tanto tassando in modo equo chi eredita oltre un milione di euro;
  5. varie leggi che favoriscono sia i ricchi che qui prendono la residenza – paghi al massimo 100mila euro di imposta annua anche su redditi milionari, ora salita a 200mila – sia le imprese (super ammortamenti,…), ma soprattutto lo spostamento nei paradisi fiscali dei profitti. In un recente lavoro basato su dati macroeconomici, Wier e Zucman mostrano come dal 1970 al 2019 la quota dei profitti delle multinazionali spostata verso i paradisi fiscali sia aumentata a livello mondiale dal 2 al 37%, per un ammontare globale di circa 1.000 miliardi di dollari. Negli stessi anni la perdita collegata al profit shifting è passata dallo 0,1 al 10% del gettito mondiale delle imposte sul reddito societario. Per l’Italia, nel periodo 2015-2019, gli autori stimano che dai 20 ai 30 miliardi di utili siano stati trasferiti all’estero, sottraendo circa il 15-20% del gettito dell’imposta sul reddito delle società;
  6. infine, ed è forse la cosa più grave, i ricorrenti condoni che mandano un messaggio esplicito della serie: “se non paghi vedrai che prima o poi, anche se ti beccano, faranno un condono che metterà a posto le cose”. Ora il Governo tenta una nuova strategia: il concordato biennale, facendo pagare solo il 12% sui profitti non dichiarati, se sono però al massimo il 30% in più del dichiarato. Staremo a vedere. “Nullum crimen, nulla poena sine lege”: non a caso negli Stati Uniti il 30% dei detenuti lo è per evasione fiscale. In Italia non c’è nessuno in carcere per gli stessi motivi. Non a caso l’Agenzia delle Entrate ha accumulato 1.200 miliardi di imposte non versate in 25 anni.

Nella tabella che segue sono indicati (fonte Governo e Agenzia Entrate) i livelli di evasione del 2023.

Si potrà notare che per i dipendenti l’evasione è del 2,4%, per gli autonomi del 69,7%. L’evasione delle imposte sui redditi ha la sua corrispondenza poi in una evasione dell’Iva. I contribuenti che dichiarano più di 200mila euro all’anno sono solo 130mila, ma sappiamo che vengono vendute ogni anno oltre 200mila auto di lusso, che ci sono 100mila proprietari di barche da 10 metri in su e sono 5 milioni i proprietari di seconde case e terze case di vacanza.

Molto alta anche l’evasione dell’ IMU (22%) sulle seconde case, specie in alcune regioni del Sud. Esso varia (fonte Corte dei Conti https://www.corteconti.it/Download?id=d829a9c3-96c7-460b-8994-7e96a5ed9603) dal 40% del gettito teorico in Calabria al 10,9% in Emilia-Romagna e presenta valori più elevati nelle Regioni meridionali: Campania 34,3% del gettito teorico, Sicilia 33,3% e Basilicata 31,2%. Valori più bassi si osservano, invece, in Valle d’Aosta 11,5%, in Liguria 13,5% e nelle Marche 14,3%. Qui sono i Comuni inadempienti (scambio elettorale) a riscuotere le imposte. Ancora peggio vanno le cose per i Comuni del Sud per le tariffe dell’acqua (per quelli che la gestiscono in house, cioè di loro amministrazione), per le tariffe degli asili nido e scuole infanzia (quelle poche che ci sono), per le mense scolastiche e gli affitti degli immobili comunali, la tassa sul suolo pubblico. Si riscuote in media il 65%, ma per i Comuni calabresi si scende al 31-35%, in Campania al 40-47%, in Lazio al 50-57%. Oggi una parte degli ammanchi viene coperto dallo Stato, ma con l’autonomia differenziata questo trasferimento cesserà. Al Sud come noto la base imponibile è minore che al Nord. Bassa base imponibile, non volontà di riscuotere le imposte e incompetenza amministrativa portano a chiedere la procedura di dissesto finanziario in 139 Comuni dal 2019 al 2023, quasi tutti in Sicilia, Campania, Calabria e Lazio.

(Per sapere chi sono, si veda la cartina a pag. 372 del rapporto (citato) della Corte dei Conti per gli anni 2021-22-23).

Il problema è che il Governo attuale di centro-destra (si veda il rapporto 2023 sull’evasione del Ministero dell’Economia https://www.mef.gov.it/documenti-pubblicazioni/rapporti-relazioni/index.html#cont_7) è costretto a trovare risorse per finanziare alcuni benefici che vuole riconoscere ai ceti deboli e medi, ma senza tassare i ricchi e dovendo subire l’austerity imposta dall’Europa per rientrare dal debito pubblico, che impone una riduzione della spesa di 12 miliardi all’anno per 7 anni. Altri 11 miliardi servono per confermare lo sgravio fiscale al Sud per le assunzioni (fino a 35mila euro all’anno); altri ancora ne servono per il riconfermare il cuneo fiscale.

Per fortuna, le entrate nei primi sei mesi del 2024 vanno molto bene (+10 miliardi sul 2023) per via dell’aumento degli occupati dipendenti, da cui arrivano automaticamente imposte e oneri sociali obbligatori, e soprattutto per le dichiarazioni dei redditi di chi è stato coinvolto nel superbonus 110% (ingegneri, geometri, architetti, elettricisti, idraulici, imprese edili, altri fornitori) che, almeno, sono stati obbligati (coi “bonifici parlanti”) a dover certificare le spese e quindi impossibilitati all’evasione fiscale. Ciò spiega perché le dichiarazioni dei redditi dei geometri, ingegneri, elettricisti ed idraulici siano lievitate dal 2019 al 2022, mentre questo fenomeno non si è avuto nelle altre categorie (commercialisti, dentisti, baristi,…). Ci sono molte categorie dove il reddito dichiarato è ancora minore di quello di un dipendente, il che non corrisponde al vero – senza nulla togliere ai maggiori orari di lavoro e alle responsabilità di avere una propria impresa, con tutte le incertezze e i rischi correlati. Lo “scambio” in Italia è l’elevata evasione fiscale di molti piccoli, medi e grandi imprenditori che da sempre sono un bacino elettorale soprattutto dei partiti di centro-destra.

Il Dipartimento delle Finanze del Ministero dell’Economia ha elaborato un rapporto con dati inediti delle dichiarazioni sia di persone fisiche sia di società di persone e di capitali (dal 2019 al 2022) e anche con un dettaglio territoriale da cui emergono anomalie clamorose. Il primo aspetto (già citato) fa vedere che se si creano modalità obbligatorie per evitare o ridurre l’evasione, le dichiarazioni quasi raddoppiano (da 36mila a 61mila per elettricisti ed idraulici) che ora dichiarano più dei dentisti, avvocati, ingegneri e quasi come i commercialisti. Bar e pasticcerie dichiarano di guadagnare mille euro al mese, ma se si toglie Bolzano e Milano scendono in media a 750 euro al mese. Il caso dei balneari è clamoroso, anche perché usano un’area demaniale da decenni (c’è chi la usa anche da 100 anni) e non solo si rifiutano di tornare a gara – pur con le indennità in caso di perdita dell’esercizio che sono dovute per gli investimenti fatti – ma anche di pagare un minimo di imposte. I dati per provincia mostrano differenze clamorose che solo in piccola parte sono imputabili ai maggiori ricavi delle città più ricche: per cui a Bolzano un dentista dichiara in media 134mila euro, a Roma 44mila, come a Potenza e Campobasso. Vale anche per i tassisti, dai 27mila di Venezia-Mestre ai 20mila di Firenze e Bolzano, ai 19mila di Milano e agli improbabili 10mila di Roma e 9mila di Napoli e Palermo.

Una volta questi dati venivano distribuiti anche per ogni provincia ma, suscitando proteste e malumori in chi versava correttamente le imposte, si è deciso di non farlo più. Ora i dati ci sono ma vengono forniti solo in forma aggregata e ai giornalisti oppure te li devi elaborare tu perdendo ore di lavoro: viva la trasparenza!

(Fonte: Dipartimento Finanze, Ministero dell’Economia su dati Agenzia Entrate, 2024).

In conclusione e come si potrà vedere leggendo i dati:

  1. l’evasione rimane alta ma si sta riducendo per la crescente informatizzazione e per le necessità dei Governi di finanziare riduzioni fiscali per chi paga alte imposte;
  2. è cresciuta la possibilità di evadere le imposte da parte delle grandi imprese e multinazionali ma ora crescono azioni internazionali ed europee tese a limitare questo gravissimo fenomeno, dovuto ad una voluta globalizzazione senza regole;
  3. l’impoverimento in atto dei ceti medio-bassi che pagano le imposte costringerà, prima o poi, i Governi a dover ridurre l’evasione o tassare i super ricchi, se non si vuole smantellare il welfare state, cioè la più grande conquista sociale dell’Europa degli ultimi 75 anni.

 

Storie in pellicola / In CORTO d’Opera

Grande cinema in piccolo formato: un’ampia offerta dedicata al cortometraggio, forma espressiva che rappresenta un laboratorio di linguaggi, sguardi e temi tra i più vivi, sperimentali e innovativi del panorama cinematografico e audiovisivo.

Un ricco panorama di personaggi e di storie raccontate da registi emergenti o affermati, che declinano una grande varietà di stili narrativi e di punti di vista sulla nostra realtà: il 22 giugno è partito “In corto d’opera”, un progetto dedicato ai cortometraggi, realizzato in collaborazione con Rai Cinema, che riguarda diversi canali Rai.

I corti saranno in onda in prima visione assoluta in seconda serata su Rai 3 (il venerdì) e su Rai 5 (sabato e giovedì). Si è partito con “Il barbiere complottista” e l’opera prima “Being My Mom”. Oggi, su RaiPlay, è disponibile l’intera collezione di 36 corti.

“In corto d’opera” vuole essere il primo passo della Direzione Cinema e Serie Tv per valorizzare l’attività di Rai Cinema che da anni svolge un fondamentale lavoro di scouting e selezione di cortometraggi. È realizzato in collaborazione con il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, con cui Rai Cinema ha definito un accordo per l’acquisto dei cortometraggi di diploma degli studenti della Scuola Nazionale di Cinema nell’intenzione di aprire uno spazio di visibilità e promozione sulle reti e sulle piattaforme Rai a tutti gli allievi del terzo anno.

L’iniziativa, a cura di Marta Lauro e Vanessa Strizzi, nasce dal desiderio di dar luce ai lavori di registi emergenti e anche affermati, per creare un appuntamento fisso dedicato al cortometraggio, forma espressiva che rappresenta un laboratorio di linguaggi, sguardi e temi tra i più vivi, sperimentali e innovativi del panorama cinematografico e audiovisivo.

La proposta editoriale accoglie più generi e argomenti, proprio per offrire una visione quanto più articolata della realtà dei corti italiani.

Molti i titoli da scoprire. Tra questi, “Il barbiere complottista” di Valerio Ferrara – ex allievo del Centro Sperimentale di Cinematografia e vincitore di prestigiosi premi e competizioni come la sezione Cinef del Festival di Cannes – che in maniera ironica, racconta quanto una teoria, se pur assurda, sia in grado di diffondersi e diventare virale e credibile.

Oppure due corti, invece, che ruotano intorno ad una delle pagine più drammatiche della nostra storia: “Butterflies in Berlin” e “Venti minuti” parlano, da punti di vista differenti, dell’odio e della discriminazione vissuti durante il Secondo Conflitto Mondiale.

Sulla diversità, e nello specifico sulla disabilità motoria, è invece costruito “Torto marcio”, che ironizza sul senso civico delle persone, mostrando quanto basterebbe un giusto rispetto del prossimo a prescindere della sua condizione fisica. La diversità include anche il colore della pelle, come raccontano le due opere “Capitan Didier” e “Come a Mìcono”, al cui centro sono rispettivamente l’importanza dei sogni di un bambino di origine subsahariana e il valore dell’accoglienza di un paese italiano del Sud.

Alternando comicità e dramma, “Tre volte alla settimana” e “Tria – Del sentimento di tradire” indagano le insidie nascoste nelle relazioni familiari, descrivendo come la dipendenza dal gioco, il pettegolezzo o ancora strane usanze e tradizioni rischiano di far perdere di vista le cose più importanti.

Con “You – Story and Glory of a Masterpiece”, “Beauty” e “Unica” si viaggia invece verso una versione distopica, fantastica e talvolta anche spaventosa della realtà.

Mentre è altrettanto paurosa, ma stavolta tristemente reale, la dimensione che vivono le protagoniste di “Corpo unico” di Mia Benedetta, con Vittoria Puccini, e di “Big” di Daniele Pini, corti che denunciano il tristemente attuale tema della violenza sulle donne.

Da ricordare anche il corto Marco Bellocchio, del 2021 “Se posso permettermi” con Fausto Russo Alesi e Pier Giorgio Bellocchio. Un uomo che si aggira per le strade di una cittadina di provincia interpellando donne sconosciute e dispensando osservazioni impietose che rivelano vizi e limiti nascosti nel loro animo.

Molte (altre) le sorprese da scoprire. Un bellissimo progetto.

APPUNTAMENTO SU RAIPLAY: https://www.raiplay.it/collezioni/incortodopera

 

La cura del futuro

La cura del futuro

«È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo». Così scriveva il filosofo Mark Fisher, rendendo palese una contraddizione fondamentale che attraversa il tempo presente. L’economia capitalistica è senza dubbio il “sistema” che domina il nostro pianeta e la nostra società umana e contemporaneamente, mentre produce una massa imponente di beni effimeri destinati a diventare rifiuti e una concentrazione di ricchezza finanziaria per élite, sta consumando rapidamente il futuro di tutte e tutti. Che in gioco ci sia il futuro, nel senso più profondo del termine, è sotto gli occhi di tutti.

La guerra sembra ormai divenuta lo strumento privilegiato della riorganizzazione dei rapporti di forza geopolitici a livello planetario, e quanto sta succedendo sia in Ucraina, sia in Medio Oriente rischia di rendere reale la possibilità di un terzo conflitto mondiale. La crisi eco-climatica ha ormai raggiunto livelli ben oltre la soglia di guardia, e mentre investe quotidianamente l’esistenza di tutte le persone, rischia a breve di rendere inabitabile il pianeta per sempre più estese fasce di popolazione. La disuguaglianza sociale sta toccando dimensioni sinora mai conosciute e, smascherando la narrazione del capitalismo come “migliore dei mondi possibili”, sta di fatto polarizzando le esistenze delle persone nella divisione in vite degne e vite da scarto. La democrazia, resa orpello formale dei grandi interessi finanziari, non solo viene espropriata, ma rischia addirittura di smettere di essere desiderabile per le fasce più svantaggiate della popolazione.

Nonostante queste evidenze, l’idea che il modello capitalistico sia una costruzione storica e non una dimensione metafisica dell’esistenza umana fatica a trovare spazio e, dentro le culture dominanti, in maniera trasversale agli schieramenti politici, resta preponderante la convinzione che l’insieme di queste crisi non abbia alcuna pregnanza “sistemica”, ma che, al contrario, saranno ancora una volta il mercato e le innovazioni tecnologiche (questa volta “green” e “digital”) a rimettere il mondo sui giusti binari.

«Non è possibile risolvere i problemi utilizzando lo stesso modello di pensiero che li ha creati» diceva Albert Einstein, chiarendo come il problema non sia solo rimettere il mondo sui giusti binari, ma porre radicalmente in discussione la direzione verso la quale quei binari portano.
Ciò che oggi sembra mancare non sono tanto le lotte, le vertenze, le pratiche che suggeriscano nuove modalità di organizzare le relazioni sociali, bensì la fiducia in un orizzonte di cambiamento generale, fuori e oltre la dimensione capitalistica. È come se il modello fosse una moderna versione dell’Idra dalle molte teste e che ogni lotta e conflitto ne affronti una, quella che più direttamente l’attacca, pensando tuttavia come impossibile colpirne il corpo, impedendone così la riproduzione.

È proprio su questo terreno che vanno invece avviate due rivoluzioni culturali.
La prima serve a rovesciare la “cosmogonia” della narrazione liberista, che considera l’economia come l’universo dentro il quale tutto accade, la società come un luogo unicamente deputato all’estrazione di valore, la natura come serbatoio esterno da cui estrarre beni all’infinito. L’inversione di rotta deve al contrario affermare come la natura sia l’universo dentro il quale tutto accade, la società sia il luogo dove le persone decidono come organizzare la vita comune e l’economia torni ad essere semplicemente il luogo dentro il quale la società determina come produrre e scambiarsi beni e servizi.
La seconda rivoluzione culturale serve a rovesciare l’ideologia liberista dell’autonomia dell’individuo. Una narrazione che esalta l’indipendenza e che favoleggia dell’uomo artefice del proprio destino e dell’uomo ‘che non deve chiedere mai’. Uomo non a caso, verrebbe da dire. Perché la vita reale non è fatta di indipendenza, bensì di relazione«Un infante senza una madre non sopravvive» scriveva lo psicanalista inglese Donald Winnicott, segnalando come, sin dalla nascita, la nostra sopravvivenza sia possibile solo ed esclusivamente dentro una relazione di cura. Allargando questo orizzonte, potremmo dire che neppure la diade infante-madre potrebbe sopravvivere senza una natura che fornisca loro acqua e nutrimento.

È dunque il paradigma della cura – di sé, dell’altra, dell’altro, del vivente, del pianeta – quello su cui può essere riorganizzata una società capace di futuro e radicalmente alternativa a quella attuale, basata sul paradigma del profitto. Si tratta di ripensare un altro modello ecologico, sociale e relazionale a partire dal prendersi cura di come riconoscimento della vulnerabilità dell’esistenza e dell’interdipendenza fra le persone e fra queste e la natura dentro la quale sono immerse. E si tratta del prendersi cura con come nuovo fondamento della relazione sociale e base di una nuova democrazia.

Forse è proprio il paradigma della cura così inteso a poter diventare l’elemento di convergenza di tutte le culture ed esperienze altre: sia perché rappresenta ciò di cui c’è assoluto bisogno in un momento storico in cui è a rischio l’esistenza della vita umana sulla Terra, sia perché intorno a quel paradigma è possibile costruire una nuova società, che sia ecosocialista e femminista invece che capitalista e patriarcale; equa, inclusiva e solidale invece che predatoria, escludente e diseguale.

Approfondiremo queste riflessioni nella sessione estiva dell’Università di Attac Italia, che si terrà a Cecina Mare (Li) il 13-15 settembre prossimi (https://attac-italia.org/universita-estiva-di-attac-2024-la-cura-del-futuro/).

 

Questo articolo è già apparso con altro titolo su Volere la luna  il  12 agosto 2024

Parole a Capo
Margherita Bigoni: alcune poesie tratte da “Questo tempo”

La poesia deve avere in sé qualcosa che è barbaro, immenso e selvaggio.”
(Denis Diderot)

 

MI DISSOCIO DA ME STESSA

 

Mi dissocio da me stessa
La nostalgia mi è entrata dentro
E non sento altro
Che i suoi aghi nel petto.
Vorrei scappare
Da questo dolore intenso
E vorrei abbracciare
La mia famiglia intera.
So che la mia esperienza
E la mia prospettiva
Sono date da ciò che
Mi incute sofferenza e timore
La mia vita
Non sarà
Più
La stessa?

Da un lato
Sapere che tutto sta cambiando
Mi rincuora,
Ma questo stesso cambiamento
Che avviene sotto la mia pelle
Mi fa orrore.
Vorrei avere il coraggio
Ma tremo
In questo letto che non è il mio.
Non so più chi sono
E non so cosa diventerò.
Rimango aggrappata
Alle lenzuola di casa mia.
Il dolore che provo
Non è così terribile, vero?
Ai miei occhi
Sto perdendo
Tutto ciò che ho di certo.
Distanza da me stessa
Distanza dalla terra.
Io mi appartengo.

 

*

 

VOCE

 

Lei è
Una voce
Pronunciata
Con gli occhi
Di chi ascolta
La terra
Con mani
Piene di fiori.

 

*

 

PEZZI

 

Stacca pezzi
Della sua stessa carne
E li dà in pasto
Al mondo rovesciato.
Spera di vedere
Se stessa
Tutti insieme
E di formarsi una vita
Dove il mondo
E le cose dell’universo
Le appartengano
Così come
Nel cielo
Il fenomeno delle nuvole.
Si distacca, si contorce, e si ricompone.
Tutta è sua.

 

*

 

INTOLLERANZA

 

Questo inesprimibile senso
Di soffocamento
Ha dove appoggiarsi.
È forse l’odore di morte
O l’ingiustizia di anime
Uccise e violate.
Come posso
Aver fiducia
Di un mondo fallito?
I mostri uccidono
Ma nessuno – tranne coloro che non esistono più –
Ne pagano le conseguenze.
È giusto così?
Come fai a respirare?
Fermiamo il tempo
Così da non poter più
Commettere errori.
Cosa può fare una parola
Contro una bomba?
O contro un soldato
Pronto a fucilarti?
Guardano gli altri
Ma c’è bisogno di rumore,
Un urlo mondiale,
Più forte dello scoppiare dei bombardamenti,
Un urlo comune
Per fermare
Il genocidio
Ingiusto, intollerabile,
Chi tace e non muove un dito
Ha già ucciso.

 

*

 

NON È COLPA TUA, È GRAZIE A TE

 

Ho vissuto tutta la mia vita
Soffocando tra
I sensi di colpa
Per chi credevo di essere
E la vergogna
Per chi diventavo ogni giorno.
Te lo devo dire:
tu non sei la malattia.
Tu non sei quella definizione di sofferenza.
Non è colpa tua.
Lo so che non fa
Alcuna differenza
Finché non ci credi anche tu.
Quando ti libererai da quel peso
Capirai così tante cose
E la tua anima
Si infiammerà di vita.
E sarai in grado
Di vedere con i tuoi occhi
Quanto la vita ti può dare.
Potrai sentire così forte
L’amore che ti meriti
E tutto il tuo essere
Sarà un giardino
Dove le radici delle piccole cose della vita
Cresceranno
Rendendoti così orgogliosa
Di essere chi sei
Ogni giorno.
Ci saranno
Così tanti fiori
Che coglierli
Non sarà un peccato
Perché
Stai vivendo la tua vita.

 

Margherita Bigoni è nata a Ferrara nel luglio del 1997, ha una grande passione per la lettura di romanzi e di poesie. Ha iniziato a scrivere sin da piccola nei suoi vari diari, per poi passare a racconti e poesie che esprimono i suoi stati d’animo e ciò che le accade. Tutto ciò che scrive è dovuto ad un impulso istintivo, un bisogno naturale di tirare fuori ciò che inizialmente nasconde, che le brucia dentro. Ha scritto e autopubblicato tre raccolte di poesie (“Mani fragili”, “Qualsiasi cosa accada, io rimango qui”, “Questo tempo”) e una raccolta di racconti intitolata “Alcune parti di me”.

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com per una possibile pubblicazione nella rubrica. 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 243° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

 

 

MOSTRA
Focus sul Centro Video Arte di Ferrara al museo MamBo di Bologna

Uno speciale evento espositivo che racconta l’esperienza pioneristica del Centro Video Arte di Ferrara: è quello offerto in questo momento dal MamBo, il Museo d’Arte Moderna di Bologna. Meritevole il fatto che uno dei più importanti musei di arte moderna e contemporanea d’Italia dedichi un approfondimento all’esperienza ferrarese. La rassegna è allestita in una delle sale del percorso museale permanente, collocato all’interno di quelli che erano gli spazi industriali dell’ex Forno del pane, in via Don Minzoni, facilmente raggiungibile dalla centrale via Indipendenza.

“Una ricerca polivalente. Esperienze dal Centro Video Arte di Ferrara” è il titolo della mostra  inaugurata giovedì 27 giugno e visitabile fino a domenica 13 ottobre 2024 al MamBo. Ad ospitare un riassunto del percorso video-artistico compiuto dal centro ferrarese è la Project Room, lo spazio riservato a quei fenomeni, eventi, personalità o organizzazioni che hanno avuto un ruolo fondamentale nella recente storia culturale di Bologna e dell’Emilia-Romagna.

Centro video arte – Una ricerca polivalente foto ODeCarlo

Il progetto è realizzato attraverso la collaborazione tra il museo bolognese e le Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara. È curato da Chiara Vorrasi, conservatrice responsabile delle Gallerie ferraresi, e Uliana Zanetti, responsabile del patrimonio del MamBo. L’intendimento – spiega una nota del Settore Musei Civici di Bologna – è quello di “celebrare le attività, a circa cinquant’anni dalla fondazione e a trenta dalla chiusura, del Centro Video Arte di Ferrara, unica istituzione artistica espressamente dedicata in Italia alla produzione di video-tape. Ideato da Lola Bonora nel 1973, e da lei stessa guidato per l’intero corso della sua durata, il Centro Video Arte diviene sin dal suo esordio parte integrante della Galleria Civica d’Arte Moderna di Ferrara diretta da Franco Farina“.

Tra i diversi percorsi intrapresi dal Centro Video Arte diretto, l’esposizione si concentra su due aspetti: la video-registrazione di performance e la realizzazione di opere d’arte in forma di video-installazioni e video-sculture. A testimonianza di questi aspetti sono stati selezionati i lavori di alcuni degli artisti più esemplificativi che hanno gravitato attorno alle esperienze del centro ferrarese.

Particolare dell’allestimento
Opere del centro video arte di Ferrara
La Project room del Mambo – foto ODeCarlo

Ecco allora la sequenza di disegni su cartoncino di uno degli artisti italiani più celebri nell’ambito delle videoinstallazioni come Fabrizio Plessi. Firmata da Maurizio Camerani la grande video-scultura, che già alla fine degli anni Ottanta anticipava tematiche ambientali per un artista che è stato tra i più giovani rappresentanti del movimento e che in questi anni ha continuato ad esporre su tutto il territorio nazionale. La video-installazione di Enzo Minarelli, “La Bandiera” (1989), indaga invece gli aspetti, cari a questo autore, che riguardano la poesia sonora e visiva. Completano l’esposizione le proiezioni video, fruibili da due monitor di vecchia generazione. Attraverso uno di questi apparecchi il visitatore può prendere visone del documentario a colori che illustra “Tempo liquido” di Fabrizio Plessi (1990), “Il filo di Arianna” di Claudio Cintoli (1974), “The Box of Life” di Federico Marangoni (1978). Un altro monitor consente di visualizzare il videotape sulla “Discussione sulla struttura e sulla sovrastruttura” di Giuseppe Chiari (1977), la pellicola in 16 mm del regista e pittore Sylvano Bussotti legato al gruppo Fluxus e a John Cage che documenta “RARA (film) guardato al pianoforte dall’Autore” (1978) e “Sentire/Ascoltare” di Claudio Ambrosini (1979).

Sala dedicata al Centro ferrarese alla 1.a Settimana internazionale della Performance
Performance di Abramovic-Ulay alla Galleria d’arte moderna bolognese nel 1977

Per il MamBo e per i musei civici bolognesi questo omaggio non è comunque un episodio isolato. Una sezione documentaria stabile collocata al piano rialzato del MamBo – sullo stesso livello dove sono esposte le collezioni del Museo Morandi – racconta l’esperienza del Centro Video Arte ferrarese in tre teche dedicate a momenti diversi.

Ci sono pannelli fotografici che testimoniano come il Centro Video Arte fu ospite insieme agli ‘scandalosi’ performer Marina Abramovic e Ulay della prima Settimana Internazionale della Performance, curata nel 1977 da Renato Barilli in collaborazione con Francesca Alinovi, Roberto Daolio e Marilena Pasquali alla Galleria d’arte moderna bolognese, in sinergia con lo svolgimento dell’allora neonata Arte Fiera di Bologna.

Cataloghi sull’esperienza Video Arte (GioM)

Un’altra teca di questa parte artistico-documentale è dedicata ai cataloghi dell’attività di Video Arte. Un reperto riguarda la mostra su questo tema realizzata nel 1980 a Torino. Un altro documenta la mostra dedicata al periodo che va  dal 1973 al 1979, esposta a Palazzo dei Diamanti di Ferrara nel 2015.

Articolo di Dede Auregli (fotoGioM)

Un articolo della fine degli anni Settanta, a firma della critica d’arte e curatrice Dede Auregli inquadra in maniera emblematica l’eco suscitata dall’esperienza ferrarese nell’universo culturale e artistico nazionale. Il ritaglio, è tratto da una pagina del quotidiano “l’Unità” del 24 marzo 1978, ed è una prestigiosa testimonianza del riconoscimento della pioneristica attività ferrarese e del luogo che ne ospita le attività, elogiato fin dal titolo come “Un gioiello di nome ‘Sala polivalente'”.

La Palazzina Polivalente ‘gemella’ di quella che ospita Spazio Antonioni, a Ferrara

L’esposizione in corso fino all’autunno sul Centro di Video Arte è completata dal grande pannello sulla “Cronologia” che segna le tappe storiche del lavoro prodotto da Ferrara in ambito video-artistico. Si parte dal 1973, quando Lola Bonora e Carlo Ansaloni vengono incaricati dal presidente della Regione Emilia-Romagna per sperimentare l’uso documentario del video. Altra tappa quella del 1977 con appunto l’apertura della Sala Polivalente, anch’essa diretta da Lola Bonora, accanto a Palazzo Massari, nuova sede della Galleria Civica d’Arte Moderna di Ferrara, che permette di ampliare la programmazione con performance, spettacoli musicali e teatrali, letture di poesia, rassegne cinematografiche. Importante il punto segnato nel 1980, quando la Videoarte approda a Torino con una mostra, dove sono incluse le opere monocanale di Lola Bonora, Maurizio Bonora, Claudio Cintoli, Maurizio Cosua, Janus, Klara Kuchta, Christina Kubisch, Giuliano Giuman, Franco Goberti, Lorenzo Lazzarini, Elio Marchegiani, Armando Marrocco, Fabrizio Plessi, Angela Ricci Lucchi e Yervant Gianikian, Gretta Sarfati, Guido Sartorelli, Nanda Vigo e William Xerra, Claudio Zoccola.

Andy Warhol a Ferrara nel 1975 intervistato da Franco Farina e Lola Bonora

Un’opera che potrebbe essere utile integrare nel rilancio di quell’esperienza è il lavoro curato in tempi recenti dalla docente dell’Università di Ferrara Patrizia Ada Fiorillo, che ha in qualche modo sancito la consacrazione storico-accademica dell’attività culturale e artistica di Palazzo dei Diamanti e del contiguo Centro di Video Arte di Ferrara. Quasi 25 anni dopo il termine di quell’esperienza, la docente di Fenomenologia dell’arte contemporanea di Unife ha deciso di avviare uno studio sistematico di ricerca e documentazione. Per far questo ha coinvolto diversi altri studiosi e collaboratori. Ne è uscito il volume “Arte contemporanea a Ferrara” (Mimesis edizioni) a cura appunto della professoressa Fiorillo, che nel 2017 ha avuto il grande merito di fissare una testimonianza articolata e filologicamente strutturata sul ruolo propulsore svolto da Palazzo dei Diamanti in ambito artistico-intellettuale, che rende Ferrara protagonista di quanto di più innovativo accade in quegli anni in Italia e nel mondo. Particolare attenzione è infatti data al periodo che dal 1973 al 1993 fu segnato dalla direzione di Franco Farina per le Civiche gallerie e di Lola Bonora per il Centro di Video Arte. Io stessa ho avuto il compito di evidenziare le forti risonanze nazionali e internazionali del lavoro che veniva fatto a Ferrara. Nel capitolo dedicato a “La comunicazione, la stampa e l’editoria” sono venuti fuori i tanti e prestigiosi attestati di stima arrivati da critici, giornalisti e intellettuali attraverso pagine di giornali, magazine. Ma anche lettere e scambi personali che dalla direzione di corso Ercole d’Este si diramano nel mondo, da Parigi a New York. Per dei pionieri multimedia ante-litteram.

ANSA ULTIM’ORA: “DETURPATA LA STATUA DEL GENERALE VANNACCI”

ANSA ULTIM’ORA: “DETURPATA LA STATUA DEL GENERALE VANNACCI”

Durante l’inaugurazione, mediante caduta del telo che la ricopriva, della statua dedicata al generale Vannacci, fortemente voluta dal Sindaco leghista e da tutto il Consiglio comunale di Cieloduro, ridente paese alle pendici delle Alpi Orobiche, le autorità ed il pubblico presente hanno potuto constatare che l’opera d’arte era stata violata da ignoti durante la notte.

Julius Erving ABA

La statua, rigorosamente in marmo bianchissimo, allo scopo di evitare il poco italico colore nero del bronzo fuso, appariva ora interamente ricoperta da uno strato di nerissima pece. Il basco d’ordinanza, probabilmente rimosso con uno strumento da taglio a batteria, sostituito da una parrucca riccia, nera e cespugliosa, su imitazione della chioma “Afro” di Julius Erving, quando militava nella scomparsa lega di pallacanestro statunitense ABA.

Allo stesso modo il fucile d’assalto, che l’artista altoatesino Hans Adler, stimato Maestro dell’Accademia ariana “Scultori bianchi”, aveva scolpito fra le braccia del generale, è stato rimosso e sostituito dal pallone da basket, a spicchi bianchi, rossi e blu, della sopraccitata lega.

Il generale Vannacci, ai microfoni della rinnovata E.I.A.R., ha rivelato che una dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Namibia e Gabon Sud Occidentale, oscuri – in quanto neri, cioè oscuri – mandanti dell’orrendo crimine contro l’italianità, insita nell’opera che lo rappresenta.

Intanto, nel piccolo paese di Cieloduro, è caccia agli esecutori del misfatto.

I cani molecolari hanno fiutato una pista a Monza, dentro l’Autodromo, mentre i rilevamenti e la ricostruzione dell’opera in origine, mediante AI, da parte dei RIS di Parma, hanno portato alla scoperta che la statua non rappresentava affatto l’italianità, prima della deturpazione, ma piuttosto Enresto Che Guevara in Bolivia, o al massimo Silvio Berlusconi con la bandana, dopo il trapianto dei capelli.

Saputa la notizia, il generale è diventato nero dalla rabbia, si è dimesso dal partito, e c’è chi giura di averlo sentito intonare ripetutamente, chiuso in bagno, da solo: “Vorrei la pelle nera”…

Per leggere gli altri articoli, racconti e parodie di Stefano Agnelli clicca sul nome dell’autore

Parole e figure / “Finestre”: perché le cose sono spesso diverse da come appaiono

Una sera, una ragazzina si affaccia al davanzale di casa sua e inizia a curiosare oltre le finestre del palazzo di fronte. Ma che cosa sono le ombre che intravvede?

Forse quelle ombre… non sono davvero quello che sembrano!

“Finestre”, di Lola Svetlova, edito da Carthusia, è uno di quei grandi libri senza parole, che racconta storie attraverso la sola magia delle immagini.

È il vincitore dell’undicesima edizione del Silent Book Contest Gianni De Conno Award 2024, primo concorso internazionale dedicato al libro senza parole, un’impegnativa scommessa per il mondo internazionale dell’illustrazione: gli illustratori sono chiamati a partecipare a un concorso per la realizzazione di un libro “silenzioso” e valutati da un’importante Giuria Internazionale.

“Siamo arrivati all’undicesima edizione di questo straordinario concorso che ogni anno dà voce e spazio a illustratrici e illustratori provenienti da tutto il mondo che hanno la voglia e il coraggio di cimentarsi nella creazione di un silent book. La qualità dei lavori quest’anno era davvero alta e la giuria degli esperti ha avuto difficoltà a selezionare i finalisti” spiega Patrizia Zerbi, editrice di Carthusia, membro della giuria e responsabile del SBC.

“L’albo illustrato vincitore di questa edizione, “Finestre”, ci ha colpito per lo stile deciso e la tematica molto attuale: in un’epoca in cui pregiudizi e stereotipi sembrano avere la meglio nella formazione delle nostre opinioni, l’autrice ci ricorda che spesso è importante cambiare prospettiva e non fermarsi alle apparenze.”

La narrazione di inizia nel buio della camera da letto di una ragazzina che trascorre la serata affacciata al davanzale e osserva cosa succede nelle stanze illuminate della casa di fronte, dove si muovono delle strane ombre che sembrano qualcosa… ma in realtà sono tutt’altro!

Sembra un topolino o una signora che fa la magia ma è una giovane che mangia sushi, oppure una copia che litiga mentre sono ragazzi che ballano. Un coccodrillo, un alieno? Ma noo…

In un vero e proprio “gioco” per immagini, con le sue figure ricche e simpatiche dai tratti e colori decisi, dai tratti quasi infantili, questo silent book racconta l’importanza di non fermarsi ai primi sguardi e di non farsi ingannare dagli stereotipi.

“L’idea è partita dalla mia passione per la psicologia e le dinamiche sociali, che mi ha portato a raccontare una storia che fosse allo stesso tempo divertente ma anche profonda, che spiegasse che al di là del velo della percezione possono nascondersi cose straordinarie” racconta l’autrice Lola Svetlova. “La partecipazione al concorso nasce dalla mia convinzione che i libri per bambini non siano solo una forma d’arte, ma una missione verso un futuro migliore. Ci tenevo molto a partecipare a questo viaggio di trasformazione”, conclude.

Un tenero e divertente libro senza parole, che ci racconta in modo giocoso che a volte le cose vanno ben al di là delle apparenze. Anzi, spesso.

Dedicato “a tutti coloro che sono stati oscurati da stereotipi e fraintendimenti”.

Lola Svetlova vive ad Almaty, in Kazakistan, ed è un’artista di professione, autrice e illustratrice con la passione per i libri per bambini. I suoi lavori si distinguono per palette di colori caldi e tecniche di supporto miste.

Le voci da dentro /
Dino Tebaldi: “Il tam tam che spaventa” (1995)

Dino Tebaldi (1935-2004)

 

Il maestro Dino Tebaldi, in questo quarto capitolo del libro “Dietro le sbarre”, racconta con la sua caratteristica abilità narrativa i timori dei suoi alunni della scuola carceraria in merito alla possibilità di una espulsione dall’Italia “che li può rimandare nell’inferno dal quale sono fuggiti, illusi che in Italia ci fosse il paradiso”. Il suo stile inconfondibile riesce a coinvolgere pienamente il lettore senza costringerlo ad inventarsi giudice.
(Mauro Presini)

 

Il tam tam che spaventa

di Dino Tebaldi 

Sono entrati in aula già spaventati, ma a me non hanno detto che cosa li spaventava. Tra loro borbottavano in arabo, ed io ero escluso dalla conversazione.
Si sono accorti del mio imbarazzo, ed uno ha rotto il ghiaccio: “È vero che tutti espulsi da Italia?“.
Ecco il problema!
Radio, televisione ne parlano da giorni, a tutte le ore, con accenti drammatici. I giornali aggiungono la loro, anche se qui arrivano a pochi.
I detenuti hanno sentito, carpito, e capito qualcosa.
Il tam tam delle carceri ha detto il resto: quasi certamente più del dovuto.
E tutti si sono spaventati per una espulsione che li può rimandare nell’inferno dal quale sono fuggiti, illusi che in Italia ci fosse – e, nascosto, ci sia – il paradiso; oppure spaventati di tornare in una famiglia che potrebbe respingerli; o di rimpatriare – comunque- a mani più vuote di quando sono venuti via, come se tanti anni in Italia – attraverso inenarrabili umiliazioni – non avessero prodotto alcun frutto, nemmeno la conoscenza d’un alfabeto o d’una cultura di cui hanno sentito vantare la dimensione.
Adesso hanno in testa idee catastrofiche.
Vivono in un mare di interrogativi,
Hanno voglia – da ieri o da chissà quando – cli porre domande a qualcuno: a chi si trova nella medesima barca, ed a chi sembra più saldo coi piedi su terra ferma.
Ho improvvisato una risposta, credendo di dar loro un tantino di calma: “No! Non tutti gli immigrati saranno espulsi. Solo quelli venuti clandestinamente, che mancano di lavoro e hanno commesso reati: spaccio di droga, sfruttamento della prostituzione, violenze gravi…”.
Quasi una risata a commento: “Allora, maestro, tra poco ci salutiamo…”.
Ed ognuno a dirmi il proprio caso, con occhi spauriti, la voce angosciata, l’attesa d’un parere da parte mia anche se io non potrei mai risolvere il loro problema: “La legge ancora non è stata votata. Non si sa di preciso quali saranno i reati che comporteranno l’espulsione, né i tempi, le modalità, ecc.”.
Ed altri a precisare: “Io, ¡n Italia con visto turistico… Io non clandestino… Adesso, io qui dentro… Visto scaduto…”.
Le situazioni sono diverse, e ciascuna può essere chiara per chi ha competenza di leggi, oppure confusa per chi non se n’intende.
Io non sono un avvocato ma voi potete rivolgervi al giudice di sorveglianza”.
Una voce caustica: “E chi Io vede…? Io /to chiesto colloquio…”.
Subito varie conferme: “Io, chiesto colloquio con educatrice; però educatrice mai parlato con me…”
Invito alla calma: “Io sono soltanto il maestro, e posso fare per voi soltanto il maestro…”.
Una voce insiste: “Spiegare com’è la legge; Lei maestro; lei capisce i giornali…”.
Le facce sono tutte serie al massimo grado. prometto che oggi, domani e domani l’altro leggerò bene i quotidiani, e poi spiegherò in classe.
La voce di prima: “Maestro spiegare, perché non poliziotto…”.
Adesso tutti mi guardano con occhi benevoli e fiduciosi.
Ricordo che le leggi non hanno valore retro-attivo, ma per far capire questo concetto impegno tempo e parole, ed improvviso autentiche sceneggiate come ho visto in una strada qualsiasi d’una calda città del Meridione.
Prima che la legge sia operante – concludo – passerà tempo: almeno due o tre mesi. L’espulsione non sarà automatica, per chi adesso sta qui dentro. Dovrà essere il tribunale ad ordinare l’espulsioneLa legge difende i più deboli… Io prego perché la legge possa essere giusta, perché colpisca i cattivi e sia clemente con quelli buoni…”.
Uno mi chiede un favore: “Pregare perché espulso: nel mio paese,
vedere parenti…”.
Un altro: “Pregare anche per mia espulsione: io sono venuto in Italia per un week-end, e dopo cinque anni sono ancora qui. È ora che io torno nel mio paese…”.
Tra i nord-africani c’è grande sconcerto.: “Qui mangiare e dormire…
– dice uno di essi – Nel mio paese niente lavoro, e niente mangiare… Di là, io scappare ancora…”.
Il più giovane di tutti mi chiama a lui vicino, e – a mezza voce –
confida: “Io partito da casa sei anni fa, per cercare lavoro. Io tornare
senza soldi, senza mestiere, senza regalo per la mia mamma…
“.
C’è tanta gente – in Italia – che vorrebbe mandare via ogni straniero.
Ma in Italia c’è anche gente – per fortuna – che vuole il rispetto delle leggi fondamentali dell’uomo.
Il disegno di legge sugli immigrati, del quale si parla, è richiesto da una parte della maggioranza: “Se il governo vara il decreto, vedrà approvata la legge finanziaria… Se no, sarà messo in crisi… L’Italia, da troppo tempo, è in crisi…“.
Non c’è scampo: il capo del governo ha promesso il decreto, e forse lo metterà ai voti fra qualche giorno. Ma non è detto che il governo riesca – con questo stratagemma – a salvarsi. Ed un nuovo decreto arriverà fra mesi e mesi, forse fra un anno: potrebbe rettificare i contenuti del decreto del quale si parla.
In galera c’è gente che si trova nelle condizioni invocate per un rimpatrio forzato: clandestini, spacciatori di droga, violenze…
A guardarli, per un mese e mezzo di scuola, non avrei potuto capirlo. Adesso, invece, non posso più dubitare: “Allora, maestro, fra poco ci salutiamo…”.
In classe, oggi, erano otto: due contenti d’essere rispediti a casa, sei disperati. Le mie parole non hanno contato gran che. Però tutti m’hanno detto: “Grazie, maestro, lunedì tu a noi spiegare la legge… “.
Un maestro carcerario non può non dare risposte, perché agli allievi-detenuti manca la serenità per guardare il futuro. Ed io, oggi, mi sono sentito dalla loro parte.

Cover: la fotografia utilizzata in copertina è di Francesco Cocco ed è tratta dalla pubblicazione “Repertorio di immagini degli spazi trattamentali delle carceri in Emilia-Romagna”, a cura del Garante delle persone sottoposte a limitazione della libertà personale. 

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Il merlo e la Liz
(un racconto)

Il merlo e la Liz

Sei troppo grossa! Sei troppo nera! La gente avrà paura di te. Come faccio a tenerti.”

La Liz, una cucciola di lupo senza mamma e senza casa, guardò la bambina e d’improvviso le zompò addosso riempiendole la faccia di leccotti e dandole piccole testate con quel muso dalla lingua rosa e senza denti.

Esagerata”, le dice la bambina stringendola tra le braccia e pensando che, da quel goffo grosso scuro animale non si sarebbe più separata.

Cresceva la bambina e cresceva, ma molto più velocemente, la cucciola.

La Liz e la bambina

Dopo un anno la Liz sembrava proprio il lupo cattivo di Cappuccetto Rosso e quando camminavano per strada i bambini si giravano spaventati urlando: “Aiuto il lupo” e le mamme e gli altri proprietari di cani scansavano preoccupati quella coppia.

Esagerata”, la sgridava benevolmente la bambina, “mangi troppo, corri troppo, non stai mai ferma, fai paura alla gente”.

E la Lizettona, che non era più una cucciola, le zompa addosso e le bagna la faccia con la sua grande lingua salivosa, dandole spinte affettuose con quel testone dal muso feroce e dalle bianchissime enormi zanne.

Il tempo passava felice tra giochi, zuppe gigantesche, corse, abbracci e…disastri.

Liz, molla!”, urla arrabbiata la bambina quando la Liz insegue le galline del vicino.

Cane cattivo”, si dispera quando per giocare con la palla calpesta tutti i fiori del giardino e fa buchi grandi come canyon.

Nooo!” ancora si lamenta guardando le sue scarpe preferite finite a pezzi dai morsi di quella stupida cagnolona testona.

La Liz diventa triste quando viene sgridata. Tanto triste. E mette la coda tra le gambe, piega la sua testona da un lato per capire meglio e guarda la bambina aspettando il perdono.

Esagerata Lizettona”, alla fine dice la bambina vedendo quel bestione dispiaciuto e implorante.

E a quelle parole, zac! La Liz scatta come un lampo ed è subito addosso alla bambina per cercare abbracci.

Un pomeriggio, dopo aver corso a perdifiato, la bambina e il suo cane si sdraiarono sull’erba a guardare in su.

D’improvviso arrivò un merlo che, in quella pausa, cominciò a fare un gran baccano. Cantava a squarciagola, non stava mai fermo, svolazzava in qua e in là da farti girare la testa, zampettava in su e in giù, a destra e a sinistra, quando si fermava per qualche istante ti osservava allegro piegando la testolina da un lato.

Guarda Liz”, dice la bambina, “fa proprio come te. Scommetto che, se tu ti trasformassi in un altro animale, saresti proprio come quel merlo nero”.

La Liz, che si stava rotolando sul prato, si fermò come se un pensiero le avesse attraversato la mente. Poi sentì il rombo di una moto e via! Corse abbaiando all’inseguimento dell’intruso.

La bambina cresceva e diventava grande, anche la Liz era diventata una Lizettona grossa e forte con un vocione che faceva davvero paura e una scodella grande come l’equatore. La gente che non la conosceva aveva un po’ paura e non credeva che potesse essere un cane affettuoso e giocherellone.

Se saltava, le persone subito urlavano, se apriva la bocca per un sorriso, quelle zanne splendenti facevano drizzare i capelli. Chi non la conosceva, quando la vedeva per la prima volta, la evitava o addirittura scappava, c’era anche chi le diceva brutte parole cattive.

La Liz si mortificava, e allora piegava da un lato la testa per capire meglio.

Qualche volta la bambina cercava di aiutarla e spiegava alla gente che la Liz era buona, che cercava solo la loro amicizia, ma la Liz era così grossa e soprattutto così nera che non c’era ragione che tenesse.

Uno strano giorno la Liz fece una cosa che la bambina pensava fosse impossibile: non toccò neanche un boccone della sua grande zuppa.

Che starà succedendo?” si chiese perplessa e rimase in attesa.

La liz e il merlo con le stelle

Quello stesso giorno accadde un’altra cosa straordinaria, il nero merlo lucente si andò a posare sul prato soleggiato, vicino vicino alla cagnolona che lo guardò assopita lasciandolo fare.

Alla bambina sembrò persino che si parlassero, che si dicessero qualcosa di molto segreto.

Guardandoli sorrise e si disse ”Se dovessi disegnare l’anima del mio cane, la farei proprio come il merlo lucente quando vola”.

Arrivò il giorno dopo, e la Liz non toccò ancora neanche un boccone. Quando la bimba si avvicinò un po’ preoccupata, la Lizettona le diede la zampa. Alla bimba piaceva quando al suo comando “Dà la zampa!” la Liz, tutta concentrata e attenta, si sedeva e le appoggiava sgraziatamente la zampa sulla mano. Diceva “Bravo cane!” e sapeva che a lei piaceva tanto sentirsi dire “Bravo cane”. E così non la smetteva più di battere la sua zampona sulla sua manina rosa.

La bambina perciò le disse “Bravo il mio cane!” e la Liz sorrise.

In quel momento arrivò svolazzante e fischiettando il merlo.

La Liz lo guardò, si accucciò lentamente vicino alla bambina, il muso sul suo grembo e si addormentò.

La nera Lizettona non si risvegliò mai più. Ma da quel giorno, tutti i giorni, il merlo si mostrava alla bambina facendo il solito baccano: cantava, volava in qua e là, in alto e in basso, becchettava questo e quello e non stava mai fermo.

Esagerato” gli diceva la bambina ridendo, contenta di avere vicino a sé, per sempre, l’anima nera

e allegra della sua Liz.

N.B. Illustrazioni elaborate al computer di Giovanna Tonioli

Supplenti & Precari
Come si fanno i concorsi per insegnanti in Italia

Supplenti & Precari. Come si fanno i concorsi per insegnanti in Italia 

 

Premessa generale: uno dei rischi maggiori dell’Italia è l’emigrazione crescente dei suoi abitanti –quasi tutti giovani, dei quali un terzo laureati. Nel 2023 il saldo migratorio con l’estero è stato +274mila persone: sono arrivati 360mila stranieri e ne sono partiti 34mila (saldo +326mila stranieri), inoltre sono espatriati 108mila italiani e ne sono arrivati 55mila (saldo -53mila italiani).

Secondo uno studio di Nicola Bianchi e Matteo Paradisi su dati INPS, dal 1985 al 2015 diminuisce del 34% la percentuale di giovani che finisce nel quartile più alto dei salari e aumenta del 16% quella degli anziani. In sostanza i giovani hanno (rispetto a una volta) salari più bassi e fanno meno carriera. Per questo la probabilità che i giovani assumano posizioni manageriali è diminuita in 30 anni di 2/3, mentre è cresciuta dell’87% tra gli anziani. Dati che stroncano tutta la diffusa retorica sul fatto che le innovazioni e il digitale favorirebbero i giovani. Trent’ anni fa un laureato che entrava in azienda era favorito solo per il fatto di avere la laurea. Oggi deve fare i conti con molti altri laureati e con quei diplomati che avendo già lavorato a lungo hanno esperienza, a conferma che per le imprese il lavoro (e non solo lo studio) è formativo.

Uno Stato che è in declino demografico e che spende per formare giovani che poi vanno a lavorare all’estero è la premessa per una crisi futura (pensionati inclusi). Per questo si dovrebbe fare il massimo per crescere nei settori dove i salari sono alti -manifattura, ricerca- mentre noi puntiamo su turismo ed edilizia.

A proposito di gente che scappa o scapperà dall’Italia. Anche il prossimo settembre sarà record di supplenti: 250mila (di cui 111mila di sostegno). Se si escludono i docenti di sostegno, il personale a contratto determinato sarà di 172mila nel 2024-25 (era di 114mila unità nel 2017-18, fonte: Corte dei Conti), nonostante il nuovo concorso per 45.124 posti (ma quelli vacanti sono in realtà 64.156 dopo la mobilità).

Guandalini e Zappatore su Il Mulino, (https://madrugada.blogs.com/il-mio-blog/2024/07/la-formazione-degli-insegnanti-di-nuovo.html), propongono di risolvere il caos generato negli ultimi 20 anni sui concorsi dei docenti della scuola pubblica, con l’istituzione di una laurea magistrale (5 anni) seguita da un anno di tirocinio retribuito, in modo da risolvere definitivamente l’annoso problema dei precari e dare qualità nella selezione dei docenti. La proposta prevede che dopo un primo triennio di materie (lettere, matematica,…) ci siano due anni di laurea magistrale dedicata alla metodologia di come si insegna, seguiti da un anno di tirocinio retribuito e da un tutor, in modo da avere al termine l’idoneità e il lavoro a tempo indeterminato. La proposta è condivisibile per i nuovi, ma non affronta il problema di come sistemare l’enorme numero di precari (ben 234.576 supplenti attuali) che sono cresciuti in 8 anni (fonte Uil scuola) dal 12% del personale (2015) al 24% di oggi.

Un dato abnorme ed assurdo per uno Stato che dovrebbe erogare un servizio pubblico. Ciò è dovuto ad un sistema di reclutamento che definire inadeguato e frammentato è un eufemismo e che ha accresciuto i precari, dalla renziana Buona Scuola ad oggi. Fino a ieri però si trattava spesso di “precari tutelati”, in quanto molti ottenevano l’incarico annuale di 12 mesi o di 10 (integrabile con 2 mesi di indennità di disoccupazione), e quasi sempre si vedevano rinnovato il lavoro nell’anno seguente (ottenendo più punti, si saliva nelle graduatorie che vengono rinnovate ogni tre anni). Così ha funzionato negli ultimi 20 anni, per cui nella scuola abbiamo precari anche con 10-12 anni di lavoro, mai stabilizzati. Questo dimostra che il pubblico si comporta come il peggior padrone privato: nessuno tollererebbe 10-12 anni di rinnovi con contratti a tempo determinato.

Da settembre 2024 però non sarà più così. Il nuovo Ministro cambia musica. Si stima che 150mila precari che hanno insegnato per vari anni possano finire senza lavoro, in quanto le regole dei concorsi sono state cambiate: chi non ha l’abilitazione non può più andare in “prima fascia”, avvantaggiando i neo laureati che non hanno mai insegnato ma che si abiliteranno attraverso i 30 crediti (CFU, 120 ore di lezione), ottenuti pagando università statali o private o enti di formazione che li hanno avviati negli ultimi 12 mesi.

Chi invece ha lavorato negli ultimi 10 anni non si è mai potuto abilitare perché tali corsi abilitanti negli ultimi 10 anni non venivano organizzati. Ora, dovendo contemporaneamente lavorare, fa più fatica sia a farli che a pagarli e così rischia di rimanere senza lavoro, perché dall’anno prossimo avranno la preferenza coloro che hanno ottenuto l’abilitazione.

Il nuovo Governo ha infatti deciso che l’unico criterio per entrare in “prima fascia” sarà l’abilitazione, mentre gli anni di lavoro fatti conteranno pochissimo. Ciò dimostra che nella cultura dominante della scuola e di chi al Ministero fa le norme per selezionare gli insegnanti (ieri di sinistra, oggi di destra) il lavoro svolto di tanti anni non conta. Ma quelli che hanno lavorato sanno che è vero quello che ha detto benissimo Guia Soncini:Nessuno sa lavorare se non dopo anni che lavora, l’università nel migliore dei casi t’insegna a studiare, a lavorare t’insegna solo lavorare”.

Si stanno intanto concludendo gli esami del maxi concorso che recluta 45mila posti. Questa volta la copertura sarà integrale perché il nuovo Ministro ha deciso di renderli più facili. Mentre infatti nei concorsi precedenti su 100 posti disponibili ne venivano coperti circa 20, in quanto la selezione era durissima, ora è il contrario: su 100 posti disponibili coloro che superano l’esame di concorso sono il doppio, dei quali metà andranno a posto subito e l’altra metà avrà 3 punti in più in graduatoria, in attesa di sapere quale sarà il loro futuro di vincitori di concorso, ma senza il posto. Una cosa all’italiana, più unica che rara.

Al di là del fatto che questo ministro sembra meno autolesionista del precedente -che senso ha avuto, in anni passati, su 100 posti necessari reclutarne solo 20?-, in nessun caso tra i criteri di attribuzione punti in graduatoria vi è mai stato un punteggio significativo in base agli anni di lavoro svolti. Conta un esame scritto a base di quiz a crocette e, se lo passi, un orale che vede i seguenti punteggi: 40 per l’esposizione dell’argomento assegnato su cui ti devi preparare con 24 ore di anticipo, 35 per la metodologia con cui presenti la lezione, 20 per la domanda specifica e 10 per la conoscenza dell’inglese. Per il tempo di lavoro già prestato puoi avere massimo 6 punti (2 punti l’ anno per un massimo di 3 anni), i quali pesano per il 5% sul totale dei punti (95% teoria, 5% pratica).

Sarebbe stato equo dare la possibilità anche a questi insegnanti di ottenere l’abilitazione e, soprattutto, aggiungere un punteggio significativo per ogni anno di lavoro (accanto agli altri indicatori). Si può ragionevolmente supporre che più si insegna più si impara ad insegnare. Inoltre chi insiste ad insegnare in Italia può considerarsi motivato, visti i modesti salari…

Chi non si abilita sarà discriminato, con tanti saluti da parte di uno Stato che mostra il volto del peggior padrone privato. Intanto a settembre le scuole, soprattutto al nord, si ritroveranno come sempre con 250mila supplenti. Il Ministro Valditara continua a parlare del «grande piano di assunzioni» del governo Meloni e prevede a novembre un altro concorso (chiesto dal Pnrr). Ma non basterà certo per risolvere il problema strutturale delle assunzioni nella scuola italiana.

“Basi blu”, il programma della Marina Militare da 1.760 milioni di euro

“Basi blu”, il programma della Marina Militare da 1.760 milioni di euro

articolo originale su Peacelink del 16 agosto 2024

Risultano già finanziati 559,36 milioni. Il programma nasce dall’esigenza, di adeguare le capacità di supporto logistico delle principali Basi navali italiane (Taranto, La Spezia e Augusta), nonché di quelle delle Basi secondarie (Brindisi, Messina, Cagliari, Ancona, Venezia, Napoli e Livorno).
9 febbraio 2024
Documentazione Parlamento Italiano
Fonte: Programma pluriennale di A/R n. SMD 06/2023, denominato “Basi Blu”, relativo all’adeguamento e ammodernamento delle capacità di supporto logistico delle basi navali della Marina militare

Il programma in esame – si legge nella scheda tecnica – nasce dalla esigenza, di adeguare le capacità di supporto logistico delle principali Basi navali italiane (Taranto, La Spezia e Augusta), nonché di quelle delle Basi secondarie e di supporto logistico presenti nel Paese (Brindisi, Messina, Cagliari, Ancona, Venezia, Napoli e Livorno), in termini di spazio disponibile per l’ormeggio in banchina e di impianti preposti alla fornitura dei servizi principali. Oltre alla realizzazione delle opere marittime, funzionali ad ampliare le banchine disponibili per l’ormeggio, saranno potenziati i servizi essenziali di base, come lo scarico e il trattamento di acque nere e grigie, migliorate le capacità di distribuzione dei combustibili ed adeguate le reti elettriche sulla base delle maggiori esigenze di carico. La realizzazione di tali opere – si legge ancora nella scheda – consentirà alla nostre basi di avere una minore impronta ambientale e di adeguarsi ai nuovi standard della NATO, consentendo di ospitare gruppi navali dell’Alleanza o di altri Paesi alleati.

Di seguito sono indicati i principali interventi previsti.

Taranto. L’intervento – già parzialmente finanziato con il Fondo di sviluppo e coesione nell’ambito del Contratto istituzionale di sviluppo dell’area di Taranto – prevede il dragaggio dei fondali e il consolidamento strutturale delle banchine della Stazione Navale Mar Grande di Taranto, nonché l’ampliamento della stessa, con la realizzazione di due nuovi moli, di cui uno che sostituirà un molo già esistente ma non più rispondente al requisito. Inoltre, verranno adeguati i principali impianti presso tutti i posti d’ormeggio presenti nella Base.

La Spezia. L’intervento prevede di incrementare la capacità ricettiva della base navale e di ottimizzare gli spazi esistenti. Le attività infrastrutturali includono il dragaggio dei fondali, la ristrutturazione degli approdi esistenti e l’ampliamento del numero di ormeggi disponibili (attraverso la costruzione di nuovi moli e il banchinamento di spazi attualmente non necessari). Contemporaneamente verranno adeguati anche gli impianti elettrico, idrico, dati e imbarco combustibile presso tutti i posti d’ormeggio.

Augusta. L’intervento prevede una serie d’interventi finalizzati all’ammodernamento delle opere marittime e dei servizi in banchina presso le aree tecnico-operativa (banchina Tullio Marcon) e tecnico- logistica (tra cui l’Arsenale). Si prevede anche la realizzazione di una struttura operativa per l’Ufficio operazioni portuali, presso il compendio logistico-alloggiativo di Campo Palma.

Basi secondarie e di supporto logistico. L’intervento prevede l’ammodernamento delle infrastrutture, delle opere marittime e dei servizi in banchina della base di Brindisi, finalizzato all’ormeggio e al supporto logistico principalmente delle unità navali maggiori di nuova generazione impiegate per operazioni anfibie. È inoltre previsto l’adeguamento delle opere marittime, dei servizi e delle infrastrutture di supporto logistico e abitative presso le basi di supporto logistico destinate a ospitare il naviglio minore di nuova costruzione (CagliariMessinaAnconaVeneziaNapoli e Livorno).
Riguardo alle condizioni contrattuali e facoltà di recesso, la relazione precisa che le norme che disciplinano la materia contrattuale pubblica nell’ordinamento, peraltro di derivazione comunitaria, sono rappresentate dal nuovo Codice dei Contratti (D.Lgs. 31 marzo 2023 n. 36).

Porto di Augusta

Durata e costo del programma

Il programma è concepito secondo un piano di sviluppo pluriennale, di prevista conclusione nel 2033. Si fa presente che la scheda tecnica prevedeva l’avvio del progetto già nel 2023, articolandolo in 11 anni (2023-2033).

L’onere complessivo dell’impresa è stimato in 1.760 milioni di euro. Risultano già finanziati 559,36 milioni, a valere sul bilancio ordinario del Ministero della Difesa nell’ambito delle risorse disponibili a legislazione vigente. Il completamento del programma, per il restante valore previsionale complessivo di circa 997,64 milioni, sarà realizzato attraverso successivi provvedimenti di finanziamento.

 

Quali sono i mezzi che compongono la Flotta Marina Militare?

Stando agli ultimi dati, risalenti al mese di marzo del 2022, la Flotta Marina Militare italiana è composta da 53 unità armate, così suddivise:

  • 2 Portaerei
  • 8 Sottomarini
  • 4 Cacciatorpediniere missilistici
  • 11 Fregate
  • 11 Pattugliatori d’altura
  • 4 Pattugliatori costieri
  • 10 Cacciamine
  • 3 Navi d’assalto anfibio

Queste unità della Forza Navale italiana sono organizzate in due gruppi da battaglia con capacità Blue-Water, ossia avente la possibilità di operare con larga autonomia e su vasta scala, lontano dalla madrepatria in pieno mare aperto. La nave ammiraglia, ossia quella su cui viene imbarcato lo Stato Maggiore della Forza Navale, oggi è la portaerei Cavour. La Flotta della Marina Militare vede coinvolte imbarcazioni appartenenti ad epoche radicalmente differenti: si va dalla più antica, ossia la Fregata Missilistica Libeccio, classe 1983, alla più moderna, ovvero il Pattugliatore d’Altura Polivalente Paolo Thaon di Revel, varato nel 2022.

Alle suddette unità armate, si aggiunge una moltitudine di imbarcazioni considerate “in disponibilità”. Queste, in caso di necessità, hanno la possibilità di essere convertite in navi da combattimento.

Fonte

Note: Comandi ed Enti della Marina Militare Italiana
https://www.marina.difesa.it/noi-siamo-la-marina/organizzazione/comandi-basi-enti/Pagine/default.aspx

Presto di mattina /
Edith Stein, o dell’empatia

Presto di mattina. Edith Stein, o dell’empatia

Umanità contemplativa

 Se ciò che io dico risuona in te,
è semplicemente perché siamo entrambi
rami di uno stesso albero.
William Butler Yeats

Venerdì 9 agosto sono andato al Carmelo a celebrare con le sorelle carmelitane, era la memoria di una santa loro consorella, filosofa e mistica e martire di origine ebraica, vittima della Shoah: Edith Stein, Teresa Benedetta della Croce, (Breslavia, 12 ottobre 1891 – Auschwitz, 9 agosto 1942) e pure patrona d’Europa.

Teresa Benedetta ha lasciato un’incisiva testimonianza di una donna intellettuale del secolo scorso che, spinta da una incessante ricerca della verità, la trovò nella forma di una umanità contemplativa: “una verità non senza amore e un amore non senza verità”.

L’umanità contemplativa è quella rivolta verso il Padre, e con quello sguardo del Padre nostro negli occhi guardare gli altri specialmente chi è povero, emarginato, sofferente; è un’umanità ospitale, come quella del Cristo sempre in ricerca degli smarriti di cuore, sempre in cammino con le donne e gli uomini incontrati lungo la via.

Così, nell’empatia, Edith scopre la giusta distanza per stare accanto agli altri e insieme per sentire dentro l’umanità dell’altro: la radice non è la foglia, i rami non sono il tronco eppure scorre in loro la stessa linfa. Ma non è forse anche il vangelo esperienza di empatia? E, non è forse il vangelo il riconoscersi e il sentire di Cristo in ogni uomo? «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40).

Nel 1913 Edith è studentessa a Gottinga, frequenta le lezioni di Edmund Husserl sulla fenomenologia; diventa sua discepola e assistente e consegue con lui la laurea (summa cum laude) a Friburgo in Bresgovia. L’ultimo capitolo della tesi Il problema dell’empatia (Studium, Roma 1998), titola: L’empatia come comprensione delle persone spirituali.

Nella presentazione ad un’altra edizione della stessa tesi, il sociologo Achille Ardigò scrive: «Gli atti di empatia che compiamo verso un altro da noi non sono necessariamente e propriamente – la Stein lo sottolinea con grande nettezza – parte della mediazione culturale che attinge ad un patrimonio comune. Sono l’essenza della capacità di istituire comunicazioni intersoggettive sino a mettersi nei panni dell’altro, anche con sconosciuti, anche con stranieri; sono la condizione genetica di ogni comunicazione, quindi di ogni inizio di società.

Edith Stein, con una particolare freschezza e finezza di analisi introspettiva si direbbe che cerchi di ripensare in sintesi tutta la teoria dell’ammirato Maestro, attraverso questo concetto di esperire empatico… L’empatia si colloca, dunque come un ponte tra le due rive del fiume della vita personale e collettiva. Porta l’unità fenomenologica nella realtà duale» (E. Stein, L’empatia, FrancoAngeli, Milano 2002, 11-12; 13).

La fenomenologia aprì così a molti studenti di Husserl l’orizzonte della fede e la dimensione comunitaria proprio per questa “intenzionalità” della coscienza del volgersi fuori, ed uscire da sé, dal soggettivismo e sperimentare la realtà come conoscenza, intelligibilità derivante dal contatto con l’altro, come intersoggettività tra individui; il fenomeno dell’intreccio tra l’esperienza dell’io e quella dell’altro dà corpo alla verità senza ledere la libertà propria.

L’incontro con il filosofo Max Scheler la avvicina anche al cattolicesimo. Nel gennaio del 1915 superò l’esame di stato. All’inizio della prima guerra mondiale aveva scritto: “Ora non ho più una mia propria vita”. Durante la guerra frequentò un corso d’infermiera e prestò servizio in un ospedale militare austriaco presso i degenti del reparto malati di tifo. In particolare prestò servizio in sala operatoria, vedendo morire tantissimi giovani.

La fonte e la notte

Le letture della messa che narravano di due figure di valore del primo e nuovo testamento, la regina Ester e la Samaritana che incontra Gesù, mi sono sembrate empatiche per provare a tracciare un profilo di Teresa Benedetta della croce. Tanto che all’omelia ho iniziato così:

«Signore, manifestati nel giorno nella nostra afflizione, e a me dà coraggio” (Ester 4,17): è questa la preghiera che avvicina e fa corrispondere la regina Ester e la sua storia a quella di Edith Stein nella sua notte oscura, quando le SS piombarono nel monastero delle Carmelitane di Echt, in Olanda dove si era rifugiata. Edith prese per mano la sorella Rosa e disse: «Vieni, andiamo, per il nostro popolo».

Nel testo Essere finito ed essere eterno Edith scriveva: «Se l’anima si apre interiormente alla vita divina, essa stessa, e per suo tramite il corpo, viene formata ad immagine del Figlio di Dio, da essa partono “fiumi di acqua viva”, che hanno il potere di rinnovare mediante lo spirito il volto della terra» (in La mistica della croce scritti, Città nuova, Roma, 41).

Viene descritta qui la medesima esperienza: l’esperienza dell’essere cercati e del cercare Dio in “spirito e verità” nell’incontro con Gesù. Di qui il riferimento alla Samaritana, una pagina del vangelo che ha illuminato e dato forma alla ricerca di verità e alla vita di Teresa Benedetta della Croce.

Così la “fonte” e la “notte” e, per dirla con Giovanni della Croce, “il cantico delle sorgente”, mi sono sembrati le immagini di valore adeguate, almeno per oggi, per dire di colei a cui si addicono le parole di Dio al suo popolo, la sua intima empatia a questa donna figlia di Sion e serva di Yahweh; «Il Signore si è legato a te nel cuore e ti ha scelta… perché nella tua piccolezza il Signore ti ama» (Dt 7,7).

Così anche ora Teresa Benedetta della Croce ci affida il fluire dell’acqua viva che in lei è zampillata, quella della sua testimonianza carmelitana assimilata alla scuola di Giovanni della Croce:

Ben so io la fonte che sgorga e scorre, anche se è notte!
Quell’eterna fonte sta nascosta,
ma ben so io dov’essa ha sua dimora,
anche se è notte…
So ch’esservi non può cosa più bella,
che cieli e terra bevon d’ella, anche se è notte.
La sua chiarezza mai non s’offusca,
so che ogni luce da essa è venuta,
anche se è notte.
(Giovanni della croce, La fonte, “Cantico dell’anima che si rallegra di conoscere Dio per fede”).

L’esperienza della fede: uno schiarirsi delle tenebre

Significativo pure il ritornello del salmo: «Signore tu rischiari le mie tenebre».

Credere «non è un mero accettare il messaggio della fede solo per sentito dire − dice Edit Stein − ma un essere toccati interiormente e uno sperimentare Dio». Un immedesimarsi con l’altro. Così la fede è una forma radicale di empatia; l’empatia stessa di Gesù per i credenti, egli e il suo vangelo sono il luogo della fede: del suo principiarsi, del suo progredire e del suo andare verso un compimento.

Anche Edmond Husserl intuì la questione dell’empatia senza riuscire a trovare una chiara rappresentazione. La risposta venne proprio dalla sua studentessa e poi assistente Edith. Avviene con l’empatia un immedesimarsi, andando come a tentoni seguendo tracce, orme dentro di sé, un cercare le tracce degli altri, dell’Altro in “spirito e verità”.

Scrive nella Storia di una famiglia ebrea, Citta nuova, Roma 1992, 360: «Era un grande lavoro, perché la dissertazione aveva assunto dimensioni enormi. In una prima parte, ancora sulla scorta di alcuni accenni di Husserl nelle sue lezioni, avevo esaminato l’atto dell’“intuizione” come un particolare atto della conoscenza.

Di lì, tuttavia, ero arrivata a una cosa che mi stava particolarmente a cuore e di cui mi sono occupata in tutti i miei scritti successivi: la costruzione della persona umana. Nell’ambito di quel primo lavoro, questo esame era necessario per far capire come la comprensione di nessi intellettuali si distinguesse dalla semplice percezione di condizioni psichiche.

Riguardo a tali questioni le conferenze e gli scritti di Max Scheler, come pure le opere di Wilhelm Dilthey erano stati di grande importanza per me. Di seguito all’estesa mole di letteratura sull’intuizione che avevo preso in considerazione, aggiunsi alcuni capitoli sull’intuizione in campo sociale, etico ed estetico».

Empatia: il risveglio della coscienza, decisione della libertà per un cammino di trasformazione

«Si assimila la Scientia Crucis − dirà in seguito Teresa Benedetta della Croce − se si vive fino in fondo il peso della Croce, ma come è possibile questo?». La via è quella dell’immedesimarsi con l’altro, che tuttavia non genera una fusione, ma un’unione nella diversità, uniti nella differenza, salvaguardando e maturando la libertà di coloro che si immedesimano l’uno nell’altro.

Perché tutta la realtà (è uno dei principi della fenomenologia studiata da Edith Stein) può essere compresa, esperita solo in modo intersoggettivo attraverso l’esperienza di altri individui e quest’esperienza è detta appunto empatia. Sono i suoi legami reali, a volte faticosi e perfino drammatici, a permettere l’accesso alla realtà del mondo e a quella dello spirito.

Chiariamo. L’empatia non è un rispecchio emotivo, ma costituisce un invito, una chiamata a seguire dei «fili sottili, appena visibili», i quali suggeriscono una direzione promettente di sviluppo. Dall’empatia può nascere una sequela come quella tra Gesù e i suoi, tra la santa Madre Teresa d’Avila ed Edith. Essa non serve a nulla se non muove alla decisione, senza una partenza verso l’oltre, l’altrove. Senza mettersi in cammino l’empatia rimane sterile, frustrante: essa richiede e presuppone l’impegno, il gusto e lo sforzo delle relazioni.

È come una spinta che risveglia quello che in noi dorme, sonnecchia o è nascosto; quello che solo immedesimandosi con l’altro viene alla luce e fa sviluppare quanto è inespresso ancora in noi. L’empatia scopre nell’altro qualcosa che attrae e seduce. Geremia è l’esperto, ma anche Maria di Magdala non è da meno.

Edith−Teresa Benedetta attirata all’inizio da un’ospite inquietante come l’agnosticismo, poi il nichilismo incontrato nell’ambito universitario di Gottinga scopre, anzi è letteralmente sorpresa ed attirata da un ospite inatteso, che rinviene inizialmente attraverso la lettura di un libro, entrando per caso nella biblioteca di amici che l’ospitavano.

Era il testo La vita di Teresa d’Avila, e così attraverso Teresa scopre pure l’empatia verso il Cristo. È stato questo il momento chiave della sua vita: «Nell’estate del 1921 La vita della nostra Santa Madre Teresa mi era capitata tra le mani e aveva posto termine alla mia lunga ricerca della vera fede».

Era arrivata al Cristo non già per via di speculazione, bensì grazie a una profonda convinzione ottenuta attraverso il processo e la pratica dell’empatia. Così fu contagiata dalla stessa passione amorosa di Teresa per Gesù e la sua umanità, scoprendo attraverso la santa Madre che l’Amato è vivo ed era presente nel Castello della sua stessa anima e faceva strada con lei.

Il Castello interiore rappresentava la sua stessa anima, e la preghiera era la chiave del Castello e delle molte dimore. Se empatia è contatto con la realtà, partecipazione e acquisizione emotiva della realtà del sentire altrui, sarebbe stato allora possibile sentire cum Christo per Christo in Christo e da qui un «sentire comunitario e partecipato»: sentire cum Ecclesia e cum Mundo.

È possibile nascere di nuovo? Ogni volta che si ama e si è amati

È possibile, Signore, che sia nuovamente generato
chi ha già oltrepassato la metà della vita?
Tu lo hai detto, e per me fu realtà
Una lunga vita grave di colpa e di sofferenza
mi lasciò.
Sinceramente ricevo il bianco mantello
che essi mi pongono sulle spalle,
luminosa immagine della purezza!
Io tengo in mano la candela.
La sua fiamma annuncia
che in me arde la tua vita santa.
Il mio cuore è ora diventato una mangiatoia/che attende il tuo.
… Oh, nessun cuore d’uomo può comprendere
ciò che tu prepari a coloro che ti amano.
Ora ti possiedo e non ti lascio mai più.
Dovunque vada la strada della mia vita
tu sei accanto a me:
nulla mi può separare dal tuo amore.
(Testo poetico di Teresa Benedetta in Stare davanti a Dio per tutti. Vita. Antologia, scritti, a cura di Giovanna della Croce, Edizioni O. C. D., Roma 1991; citato in Città di vita, Marzo-Aprile 2/2004, 117).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Patria, individuo, impresa: l’educazione civica di Valditara

Patria, individuo, impresa: l’educazione civica di Valditara

La nuova proposta anticipa la revisione delle indicazioni nazionali e delle linee guida relative al primo e al secondo ciclo di istruzione. La scuola reagirà

Si tratta delle nuove linee guida per l’insegnamento dell’educazione civica, che sostituiranno le precedenti, introdotte solo quattro anni fa dalla ministra Azzolina e rispetto alle quali la Flc Cgil aveva espresso riserve in assenza di scelte ordinamentali conseguenti in termini di tempi, spazi, risorse di organico.

Criticità tutte confermate, almeno a quanto è dato di sapere, considerato che il provvedimento, trasmesso al Consiglio superiore della pubblica istruzione, non è stato fino ad oggi inviato alle organizzazioni sindacali.

Dalle prime indiscrezioni, risulta che il testo delle linee guida definisca a livello nazionale curricoli prescrittivi, modificando radicalmente i traguardi e gli obiettivi di apprendimento e aggiungendo ulteriori contenuti. Di nuovo, e sempre “senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”, si cerca di scaricare sulle scuole la responsabilità di tutto ciò che viene definito “emergenza educativa e sociale”, dal bullismo/cyberbullismo alla violenza di genere, dall’abuso del digitale (dopo aver messo in campo scelte politiche e risorse tutte a sostegno del digitale come panacea di tutti i mali) all’incidentalità stradale, dalle dipendenze da sostanze all’educazione alimentare allo sport.

Ma soprattutto, l’operazione che sta per essere portata a termine anticipa la più complessiva revisione delle indicazioni nazionali e delle linee guida relative al primo e al secondo ciclo di istruzione, nel tentativo di imporre alle scuole di ogni ordine e grado la visione ideologica ben nota del ministro Valditara e dell’intera compagine governativa.

La prospettiva della nuova educazione civica è chiara: formare al significato e al valore della Patria, rafforzare la coscienza di una comune identità italiana, secondo una logica identitaria-nazionalistica e individualistica. A questo scopo viene addirittura attribuito strumentalmente alla carta costituzionale un profilo “personalistico” distorto e pervasivo per cui la società esiste solo in funzione dello sviluppo dell’individuo; per il resto l’approccio al tema della Costituzione rimane di tipo nozionistico, associato alla conoscenza dell’inno e della bandiera nazionale. Nulla si dice della matrice antifascista e dei valori democratici fondanti, perché lo scopo è rafforzare il senso di appartenenza alla comunità nazionale

Una prospettiva, quella del senso di appartenenza alla Patria, implicita anche nel significato e nel valore attribuiti all’integrazione delle/gli alunne/i che provengono da contesti migratori, in un’ottica assimilazionistica e adattiva, sottovalutando che solo la chiave di lettura interculturale e la pedagogia inclusiva possono offrire gli strumenti per affrontare le sfide del futuro.

E poi i richiami alla cultura del lavoro, da insegnare fin dal I ciclo, pari pari coincidente con la cultura d’impresa intesa come iniziativa economica privata basata sulla proprietà privata. E ancora all’educazione finanziaria e assicurativa come strumento per valorizzare e tutelare il patrimonio privato confermano l’idea di scuola aziendalistica, funzionale a un sistema che tutto subordina all’economia del profitto.

Si tratta, quindi, di linee guida che intenzionalmente non colgono la complessità del reale, rivolgono uno sguardo nostalgico al passato e sono portatrici di una sottocultura miope e reazionaria che sicuramente la scuola italiana saprà respingere per affermare il valore di una conoscenza laica, plurale, inclusiva e democratica.

Manuela Calza, segretaria nazionale Flc Cgil

 

Un trimestre (di buon reddito) non fa primavera

Un trimestre (di buon reddito) non fa primavera

Esulta il Governo, perché l’Ocse dichiara che i redditi reali delle famiglie (media per abitante) in Italia sono cresciuti nel 1° trimestre del 2024 più che in tutta Europa e Usa (+3,4% a fronte di una media Ocse di +0,9%). Ma è lo stesso Ocse a ricordare che siamo ancora sotto del 5,4% rispetto al livello raggiunto nel 2007 prima della grande recessione, mentre tutti gli altri Paesi sono già ritornati sopra. Gli andamenti dell’economia sono significativi considerando almeno un anno sull’altro (non un trimestre sull’altro); inoltre bisognerebbe non dividere il reddito generato in modo piatto tra tutti gli abitanti (ottenendo la media del pollo di Trilussa), ma considerando chi ha avuto forti incrementi (e sappiamo chi sono, i ricchi e super ricchi) e chi invece (poveri, operai, ceto medio) non ha avuto aumenti reali post inflazione.

L’opposizione ha potuto facilmente rispondere che, se si considera il periodo di Governo del centro-destra (dal 3° trimestre 2022 ad oggi) l’incremento dell’Italia è inferiore (+1,9%) a quello medio Ocse (+2,8%) e non poteva che essere così vista:

la bassa dinamica dei salari

la riduzione degli aiuti ai poveri

il taglio dell’indicizzazione di 3 milioni di pensioni

la mancata introduzione del salario minimo, presente in quasi tutta Europa.

Il confronto con la Germania fa capire quanto reddito abbiano perso gli italiani dal 2007 ad oggi. Ben venga l’aumento del 1° trimestre 2024, dovuto anche agli ingenti investimenti del PNRR (che non ci saranno più dal 2028). Il problema sono gli investimenti strutturali, che mancano in Italia. Ma quando le cose vanno bene per le imprese come per banche, assicurazioni, imprese energetiche, (lauti ricavi e ancor più lauti profitti), c’è una gran corsa a distribuire i dividendi agli azionisti più che ad investire.

Kimia Yousofi, Julio Velasco: come fare politica senza essere politici

Kimia Yousofi, Julio Velasco: come fare politica senza essere politici.

Di Imane Khelif, ora fresca medaglia d’oro del pugilato algerino, questo giornale si è già occupato qui. Oltre a lei, ci sono altre due figure dell’Olimpiade di Parigi appena terminata che si stagliano nette sopra l’orizzonte virtuale di Periscopio.

La prima è quella di Kimia Yousofi, atleta afgana portata a Parigi dalla federazione australiana, nazione dove vive attualmente. Nel 2021 a Tokyo aveva fatto da portabandiera ufficiale dell’Afghanistan. Subito dopo la fine di quelle Olimpiadi, il suo paese tornò nelle mani oscurantiste e feroci dei talebani. A Parigi è stata eletta nuovamente portabandiera del suo paese, ma stavolta ad opera di un “comitato olimpico afghano” in esilio, ed ha corso una batteria dei 100 metri arrivando nettamente ultima. Al termine della gara, ha rovesciato il pettorale e, a favore delle telecamere, ha mostrato cosa ci aveva scritto sopra: “Istruzione, i nostri diritti“. Ai microfoni ha poi rincarato la dose: “Non mi sono mai occupata di politica, faccio solo ciò che ritengo sia vero e giusto. Posso parlare con i media. Posso essere la voce delle ragazze afghane. Posso dire cosa vogliono: vogliono diritti fondamentali, istruzione e sport. Questa è la mia bandiera, questo è il mio paese”.

Attraverso un gesto elementare come scrivere quattro parole a penna, Kimia Yousofi ha compiuto un atto politico di portata enorme. Ha utilizzato un palcoscenico globale per rivendicare quello che le donne afghane chiedono ma senza poterlo fare, se non a rischio della vita. Ha riacceso un faro sulla tragica situazione dell’Afghanistan, del quale i media mainstream non parlano più da quando il potere è tornato ad essere talebano. La potenza del suo gesto è paragonabile a quella, forse ancora più dirompente, di Tommie Smith e John Carlos, oro e bronzo per gli Stati Uniti ai 200 metri maschili delle Olimpiadi del 1968, che alzarono un pugno chiuso guantato di nero sul podio durante l’inno americano. “Quei pugni alzati erano dedicati a tutti quelli che erano a casa, nei quartieri poveri di Chicago, Oakland e Detroit, a chi stava nel Queens e a Brooklyn, a tutti i fratelli e le sorelle, i padri e le madri a Birmingham, Atlanta, Dallas, Houston, St Louis, New Orleans” dichiarò Tommie Smith nella sua autobiografia. Il gesto è del 16 ottobre: ricordiamo che il 4 aprile dello stesso anno fu assassinato Martin Luther King.

 

Uno dei propositi dichiarati di Periscopio è quello di fare un’informazione “verticale”. Tecnicamente, nel gergo aziendale, la comunicazione verticale è quella che trasmette informazioni tra diversi livelli della struttura organizzativa. Julio Velasco, allenatore della nazionale femminile di pallavolo vincitrice dell’oro a Parigi, è un esperto di comunicazione verticale. Talmente esperto che molte aziende lo chiamano per tenere seminari ai capi su come si costruisce e si gestisce un gruppo di lavoro.

La stampa e i media sono intasati in questi giorni soprattutto dal riportato delle frasi di Velasco, che vengono circondate da un’aura profetica che lo accredita come una sorta di santone laico: etichetta che lo stesso coach argentino si incarica di togliersi di dosso, ogni volta che riafferma il contrario di quello che gli vorrebbero mettere in bocca i giornalisti: che non è un maestro di vita; che non ha chiuso nessun cerchio, non avendo rimuginato affatto in questi anni sulla circostanza di non avere ancora vinto un’Olimpiade; che la stampa italiana deve piantarla di nutrire un’ossessione per la vittoria che genera solo ansia. Un elemento di curiosità nella storia dell’argentino trapiantato in Italia è sicuramente il passaggio da militante comunista negli anni immediatamente precedenti l’avvento della sanguinaria dittatura di Videla, a “precettore” di manager che vogliono carpire dalle sue labbra i segreti per essere un buon leader. Il cerchio che si chiude allora potrebbe essere: da precettore destituito (ai tempi di Videla, per ragioni politiche) a precettore osannato (e ben pagato) dai padroni del vapore. Infatti sospetto che, più che nella filosofia – se uno ha studiato filosofia non deve essere per forza il nuovo Immanuel Kant – lui eccella in senso pratico. Alla domanda su come si sopravvive alla dittatura, risponde: “Dipende dal tipo di dittatura. Innanzitutto, non bisogna mai perdere le misure di sicurezza, altrimenti si rischia di non raccontarla. In Argentina, molta della gente uccisa le aveva sottovalutate. Ad esempio, mio fratello fu preso a casa di mia madre. Non militava più e si sentiva sicuro. Sbagliava. In secondo luogo, resistere. Non solo politicamente. Nelle piccole cose. Bisogna sforzarsi di non diventare come gli altri, come quelli che fanno da sostegno alle dittature. Quindi è fondamentale essere onesti e accettare le differenze. Di ogni tipo”. Accettare e comprendere le differenze, altra dimostrazione di pragmatismo: una volta capito che certe leve (ad esempio, l’orgoglio) funzionavano sui maschi ma non sulle femmine ha avuto l’intelligenza di cambiare approccio, investendo energie sulla componente affettiva e togliendo un po’ della polvere dei secoli di educazione patriarcale che condizionano l’agire femminile: la donna non deve rischiare, e non deve fare errori (altro motivo per non rischiare).  L’autorevolezza che gli viene riconosciuta ben oltre i suoi eccellenti trascorsi agonistici, deriva anche dal fatto di saper ascoltare e modulare le proprie convinzioni sulla situazione concreta. Come è tipico delle grandi personalità (e quindi anche raro), mentre è lui che esce da se stesso per incontrare l’altro (per usare le sue parole), sembra essere il mondo ad andare verso Velasco.

La cosa che mi sento di rimproverare non a lui, che appare davvero una magnifica persona, ma al velaschismo modaiolo aziendalista, è che quello che è riuscito a fare con le azzurre di volley, ovvero cementare un gruppo lacerato da alcuni ego ipertrofici, può essere un ottimo insegnamento anche per le aziende, a condizione che si comprenda che un’azienda non è una squadra di pallavolo o di calcio, e che la competizione aziendale non equivale alla competizione agonistica. Quando Velasco racconta ai manager che teneva bassi i compensi fissi e massimizzava i premi di risultato per selezionare i giocatori sulla base della loro disponibilità incondizionata – cioè non condizionata da un compenso economico sicuro – un brivido mi corre lungo la schiena: non per disistima verso l’oratore, ma per la capacità di equivocare del suo uditorio. L’aneddoto ha senso in un contesto agonistico in cui la performance è parte integrante del contenuto della prestazione, ma può essere molto pericoloso se calato bovinamente nelle aziende: ci sono già troppi fenomeni che rappresentano il lavoro quotidiano come un torneo, dove però a vincere sono solo gli amministratori delegati e i grandi azionisti. 

Parole a Capo
Tania Chimenti: “Sono la più grande ottimista” e altre poesie inedite

Nominare un oggetto equivale a sopprimere i tre quarti del godimento della poesia, che è dato dall’indovinare poco a poco: suggerirlo, ecco il sogno.
(Stephane Mallarmé)

 

Sono la più grande ottimista.
Quando arriva la telefonata,
penso all’invito ad una festa
o alla vincita:
“Buongiorno,
dunque lei è l’infermiera?
Magari c’è un errore,
un semplice scambio di nome.”
L’avviso respingo,
rinnego ogni referto,
chiamo in mia difesa la gioia:
le ultime sbronze con le donne,
le giornate più liete di poesia.
“Nessun indugio, vada al sodo.
Preferisco la lama fendente
alla diagnosi incerta,
al dubbio indecente.
La morte è sincera,
non promette.
Dica, dunque, sono di fretta.”

 

*

 

Moriremo
per sfinimento, come
falene librate ai lampioni.
Meglio sarebbe accettare
le ombre, forse i bui,
senza foro d’uscita
dello sparo:
la luna.

 

*

 

La gioia è appoggiata ai teli
sulle ringhiere dei terrazzi,
le case al mare lo sanno.
Mentre i giovani asciugano
i capelli al vento
nessuno si accorge del tempo:
le efflorescenze saline
risalgono, coprendo
di bianco.

 

*

 

Promettiamoci
che chi di noi
andrà via prima
lascerà aperta
la fessura dei mondi
ascolteremo
contaminazioni
canti
voci
rivelazioni.
Promettiamoci
che nessun
agghiacciante silenzio
sarà un addio.

 

*

 

È controvento
Che misuriamo la potenza del volo
La struggente sensazione di cadere
Gli occhi sprofondano nel precipizio
Poi finalmente il decollo
Il vento in faccia
Impiuma come ali
Le nostre braccia

 

(Ringrazio Tania Chimenti per averci inviato queste poesie inedite)

TANIA CHIMENTI (Bari, 1968). Da sempre legata alla sua città natale, è qui che ha completato gli studi scientifici e conseguito la laurea in Giurisprudenza.
Inizialmente responsabile del personale in una multinazionale, attualmente è consulente aziendale. La passione poetica è personale ma diventa bisogno di condivisione e urgenza di esplorare.
Ha partecipato a diversi concorsi ricevendo menzioni di merito e le sue liriche sono presenti in alcune antologie. Ha pubblicato la sua prima silloge poetica “Abbracciami Cielo” nel marzo 2023 e la sua seconda silloge nel 2024 “Versi orfani di ignoto destinatario” (Macabor editore). In “Parole a capo” sono state pubblicate altre poesie di Tania Chimenti il 16 novembre 2023.

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com per una possibile pubblicazione nella rubrica. 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 242° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

 

Vite di carta /
“La portalettere” di Francesca Giannone.

Vite di carta. La portalettere di Francesca Giannone.

“Devi leggere La portalettere, è troppo bello. Lo cominci e non ti stacchi più”. Dopo essermelo sentito dire più e più volte, ho chiesto e avuto in prestito il libro da Federica, che è nel gruppo di lettura della biblioteca del mio paese.

Eccomi qui ad aspettarla davanti al nostro bel Castello Lambertini da poco restaurato. Non esco mai di pomeriggio e oggi fa molto caldo, ma per un libro… Federica arriva e riparte sulla sua auto in un battito di ciglia, eppure fa in tempo a sorridere porgendomi il volume e a dirmi che le fa piacere passarmelo. “Buona estate, e grazie” le rispondo, grata per questa sintonia.

La sera comincio la lettura senza sapere nulla sulla trama e sulla scrittrice. Ho aspettative altissime e il senso critico a mille: in queste condizioni è difficile stabilire una sereno patto tra me lettrice e la voce narrante. Difatti per le prime cento pagine procedo attratta dal racconto ma anche pronta a trovarci qualche difetto, come nel caso di Anna, la protagonista, che ha una personalità forte, ma poco sfumata. Così monolitica da risultare inverosimile.

Vengo catturata alla distanza. Il respiro della storia è lungo quattrocento pagine e mentre procedo ne riconosco l’istanza narrativa: ecco un altro bel romanzo del nostro realismo otto-novecentesco, che in questi anni mi risulta praticato da altri apprezzati autori, con un impianto narrativo solido e articolato su molti personaggi, e un ambiente ben definito che fa da spazio vitale alle vite che dentro vi disegnano il loro percorso.

Come mai gli altri non sono più riusciti a staccarsi dalla lettura? Perché la voce che narra ottiene la nostra fiducia, portandoci in un paese del Salento, Lizzanello, come fossimo al seguito di Anna Allavena, che dalla Liguria ci arriva con la corriera nel 1934.

Va a viverci col marito, che lì è nato e ora ha avuto casa e terre in eredità, e col figlio piccolissimo. Come lei ci guardiamo intorno straniati, e subito notiamo come è fatta la gente al sud e come ci si vive. Le risorse della terra e del clima e una mentalità chiusa.

Comincio a sentirmi proprio a casa quando si parla del cibo e si nomina Lecce. Sono conquistata dalla pagina in cui alcuni personaggi vanno alla pasticceria Alvino, in piazza Sant’Oronzo, e gustano i pasticciotti, che conosco anche come buccunotti, per come li chiamava mia suocera.

Mi si para davanti agli occhi la scena dal film Le mine vaganti di Özpetek, in cui Ennio Fantastichini compera una grossa guantiera di dolci per gli ospiti che ha a casa: amici del figlio venuti da Roma che egli si ostina a vedere come giovanotti dalla virilità prorompente e invece sono gay.

Cara Lecce, bellissima e deserta in altre scene, con il barocco delle chiese che parla la più bella lingua del mondo e ostenta il colore caldo del tufo anche sullo schermo.

Ma torniamo al romanzo. Alle spalle di Anna ci intrufoliamo nella raggera di parenti e amici che prendono posizione attorno a lei nel tempo. Entriamo nella piazza del paese e nelle botteghe, nella casa ereditata e in quella del fratello del marito.

Quando lei caparbiamente fa la domanda per occupare il posto di portalettere, frequentiamo l’ufficio postale e la mattina di ogni santo giorno suoniamo campanelli e bussiamo a porte e portoni.

Anna non se ne è andata dopo il primo impatto come fa la signorina elegante nella novella verghiana Fantasticheria: fino al 1961, anno della sua morte, si aggrappa allo stesso scoglio dei compaesani, entra un minuto nelle loro case per leggere le corrispondenza a chi è analfabeta e sa trovare le parole giuste di fronte a missive importanti.

Di una mia prozia, postina storica al mio paese, si diceva che volente o nolente sapeva tutto di tutti, e che negli anni dell’ultima guerra doveva bere un goccetto prima di portare a certe madri il telegramma con la notizia della morte del figlio caduto in combattimento.

Poi Anna fa di più: fonda la Casa per le Donne, occupando l’abitazione che è stata di un’amica a cui ha dato aiuto per anni e che da tempo vive con lei. Insieme accolgono ragazze abbandonate e prive di mezzi. A questo doveva prepararci il sommario in copertina: ” Italia, anni ’30. Un paesino del Sud. Una donna del Nord. Un incontro che cambierà entrambi”.

Questa donna del nord, scopriamo alla pagina dei ringraziamenti, è la bisnonna di Francesca Giannone, che ne ha ricostruito la storia a partire dal biglietto da visita con su scritto Anna Allavena – Portalettere”. Ha anche lavorato di fantasia, ha modificato e rimaneggiato le storie familiari “per restituire al meglio… il paesaggio e l’atmosfera del territorio”, in cui peraltro è tornata a vivere dopo avere vissuto e lavorato a Bologna.

 La forza di questo romanzo sta nella compattezza che sa assegnargli la voce narrante, capace di controllare ogni rivolo narrativo e di intrecciarlo con gli altri, mantenendo fluida la esposizione e fluido lo stile.

So di andare a saccheggiare la nostra storia letteraria, come deve avere fatto anche Giannone, e di rispolverare due categorie narrative della tradizione più illustre: la prima è l’entrelacement, ovvero la matassa di fili narrativi magistralmente orchestrata da Ariosto nel Furioso; l’altra corrisponde al verosimile manzoniano, in cui si fondono gli elementi del vero storico e della invenzione romanzesca e ne esce quel “bravo figliuolo” di Renzo, che se fosse vero non potrebbe essere diverso da come lo ha immortalato la pagina.

Ne La portalettere sono molti i personaggi ben riusciti, tipi umani credibili e dalla psicologia anch’essa verosimile, e non mi riferisco tanto ad Anna – come dicevo – quanto a una folla di personaggi minori. Alcuni abitanti di Lizzanello, per esempio, sbalzati con pochi sicuri tratti di penna sullo sfondo del paese con la sua ritualità all’apparenza immobile.

Come il fruttivendolo, che somiglia tanto a Gilda, la venditrice di erbe al mercato rionale di Taranto da cui ricevevo ogni volta un ciuffetto di menta in più o il dono di una pesca.

Nota bibliografica:

  • Francesca Giannone, La portalettere, EditriceNord, 2023

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Le voci da dentro /
La “battitura” in Val Susa: il messaggio dai domiciliari di Nicoletta Dosio

La “battitura” in Val Susa: il messaggio dai domiciliari di Nicoletta Dosio

Giovedì 8 agosto. I rintocchi del mezzogiorno giungono di lontano sulle ali del vento che in Valle non manca mai, neppure nell’afa pesante della canicola.

Nonostante il brevissimo preavviso, le donne e gli uomini del movimento NO TAV sono venuti a condividere con me questa mezz’ora di solidarietà verso i detenuti nelle carceri e nei CPS di tutt’Italia.

L’iniziativa, partita dalle prigioni, prevede la “battitura”: chi è rinchiuso, batte su inferriate e blindi con i poveri mezzi che la detenzione permette. Condividere la protesta ci sembra giusto, bello e doveroso; per questo motivo, qui davanti a casa mia si è data appuntamento almeno una cinquantina di persone con oggetti da cucina, tamburelli, sonagli e c’è perfino un rudimentale olifante… e a chi non ha portato strumenti basta una pietra da battere sulla cancellata. Tra tutti c’è una dolcissima ragazzina, occhi azzurri e capelli biondi, l’immagine di un futuro che chiede di sapere. La sua presenza ha la grazia e la meraviglia delle prime, importanti esperienze.

Loro sulla strada, io al di là del cancello, reclusa ai domiciliari.

Parte la battitura, rumorosa, un po’ surreale tra tutto questo verde di siepi, alberi e giardini.

Io, nella mia condizione di detenuta sì, ma in una casa ampia e quieta, protetta dai cedri centenari, non posso non ricordare chi soffre il caldo torrido dell’estate in una cella due metri per tre, in edifici fatiscenti e sovraffollati, lontano dagli affetti e sottoposto ad ogni arbitrio fisico e psicologico da parte di guardiani incattiviti per professione e alienazione.

Il non-tempo di quel non-luogo l’ho provato anch’io, quattro anni fa, per tre mesi: pochi, ma sufficienti ad alimentare in me una rabbia che non passa e a rafforzare la tenerezza per le donne recluse nel blocco femminile delle Vallette, mie sorelle per sempre.

Per fedeltà e per affetto batto col mio bastone alle sbarre del cancello e racconto: il sovraffollamento sempre crescente, la desolazione dei rapporti impediti con le famiglie, la nausea della sbobba carceraria, i muri scrostati e i materassi pieni di macchie, le tre docce a funzionamento intermittente per cinquantanove persone, la mancanza di aria e di luce, la rozza prepotenza di certe secondine, il vuoto alienante dei giorni festivi, privi anche dei contatti minimi con l’esterno e le storie personali di miseria, violenze subite, malattia, le rotte insidiose dell’emigrazione e la nostalgia per i propri cari lontani, la preoccupazione per i figli piccoli.

Per molte di loro il carcere è tortura presente e, insieme, unico punto fermo rispetto alla mancanza totale di prospettive rispetto al dopo-carcere.

Leggo pubblicamente la bella lettera che due mie compagne tuttora rinchiuse nel carcere di Torino hanno inviato al mondo fuori, a nome di tutti i detenuti, per denunciare la situazione sempre più insostenibile, così crudelmente insopportabile e alienante da far preferire il suicidio.

L’appello accorato che da quelle pagine è rivolto a chi, eletto nelle istituzioni, dovrebbe far rispettare la Costituzione nata dall’antifascismo e dalla Resistenza stride più che mai rispetto alle leggi manettare varate in questi giorni dal Parlamento italiano: essere poveri, rivendicare uguaglianza e dignità, lottare per la giustizia sociale e ambientale, opporsi concretamente alla follia di un sistema che sta distruggendo ogni prospettiva di futuro, ecco i “reati” contro cui agirà con pugno di ferro il braccio giustiziere della legge.

Contro tanta ingiustizia urge rompere l’indifferenza del “mondo di fuori” straniato dai mass media di regime e congelato nell’“interiorizzazione della sconfitta” che uccide forza e iniziativa.

Le “voci dentro” parlano di noi tutti e ci avvertono che il tempo della delega è scaduto: che non cadano nel silenzio!

Nessuno sarà veramente libero finché ci saranno incatenati.

L’alternativa al carcere esiste ed è la giustizia sociale.

La mezz’ora di “battitura” passa veloce. Ognuno se ne va, ma senza fretta, quasi a malincuore.

Ci rivedremo a mezzogiorno del quindici agosto, quando l’iniziativa si ripeterà in tutte le carceri italiane.
La data non è casuale: il Ferragosto in galera è un supplizio che non finisce mai.

Ed ecco il messaggio delle “voci dentro” che Nicoletta ha condiviso ieri dai suoi domiciliari:

In un clima “rovente, non solo per le temperature, scriviamo questa lettera dalla sezione femminile del carcere di Torino. Siamo due “ragazze” qui recluse e ci facciamo portavoce del pensiero e della necessità di molti altri reclusi. Il detto “stare al fresco” non si addice più a nessuna galera, perché ormai scontiamo le nostre pene stipati, nascosti e dimenticati in questi “magazzini di corpi” che sono polveriere in cui non c’è rispetto, né dignità, né futuro. La misura è colma, anzi stracolma… Quando la bomba esploderà di chi sarà la colpa?

Si soffoca, c’è una pressione insostenibile in tutta la comunità penitenziaria che è costituita da detenuti e detenenti! Ci rivogliamo a tutto il Parlamento: “Disinnescate la bomba”. Non c’è più tempo e c’è una responsabilità politica diffusa in tutto ciò. Non abbiamo più neppure il diritto ad iniziative pacifiche come lo sciopero della fame. Tutto ormai ci mette a rischio di ritorsioni o denunce. Non sappiamo come fare per essere ascoltati. Scriviamo per far arrivare “oltre il muro” la richiesta di misure straordinarie che diano equità e giustizia al sistema penitenziario come liberazione anticipata speciale, amnistia, indulto; non come forma di impunità generalizzata, ma che siano una risposta all’emergenza umanitaria che viviamo. Qui dentro non ci sono i “banditi”, i “mostri”, qui dentro sono ingabbiati per lo più i corpi di coloro che incarnano disagi di ogni tipo.

La realtà è che la dignità umana è un concetto estraneo, così come la risocializzazione. Il sistema giustizia-carcere è fuorilegge. Sostanzialmente incostituzionale, produce altro carcere, rabbia, non imprime legalità, non dà futuro, porta all’alienazione e alla morte. Il potere centrale si nasconde dietro a misure slogan, mentendo apertamente e lasciando tutto nelle mani dei direttori.

Chiediamo ai garanti, specie a quello nazionale, di battersi per i nostri diritti. All’opposizione dichiamo fate opposizione. Tutti gli eletti, anche i più “manettari”, devono garantire il loro servizio rispettando la Costituzione. Ci sentiamo di rivolgerci al Presidente Mattarella affinchè scuota l’indifferenza dei decisori, del ministro, della politica! In lui riponiamo le nostre ultime speranze. Grazie!

Nicoletta Dosio

Cover: Nicoletta Dosio, detenuta agli arresti domiciliari, davanti al cancello del carcere

Olimpiadi 1, quello che non ci manca:
il (positivo) modello italiano

Olimpiadi 1, quello che non ci manca: il (positivo) modello italiano 

Chi ha vinto le Olimpiadi di Parigi? I media dicono gli americani e i cinesi a pari merito per medaglie d’oro (40), nonché 126 in totale per gli Usa e 91 per la Cina; ma se consideriamo la popolazione, in realtà a vincere anche quest’anno è stata la Nuova Zelanda che ha vinto 47 medaglie (di cui 10 d’oro) con una popolazione inferiore ai 5 milioni di abitanti. In questa mia speciale classifica fatta in base agli abitanti seguono Australia, Ungheria, Giamaica. In questa classifica ho considerato 3 punti per l’oro, 2 per l’argento e 1 per il bronzo e rapportando la somma che risulta agli abitanti, l’Italia è al 18° posto (era al 17° a Tokyo). Tra i grandi paesi meglio dell’Italia fanno Francia, Regno Unito e Sud Corea, ma veniamo prima di Stati Uniti, Cina, Giappone, Germania, Spagna e Brasile.

Classifica in base al totale delle medaglie (oro=3 punti, argento= 2, bronzo =1) e totale in rapporto agli abitanti (clicca sulla tabella per il dettaglio)

Avanzano i paesi poveri e africani anche se, per ora, alimentano i paesi ricchi di molti dei propri atleti (vale anche per la Russia, vedi la pallavolista Ekaterina Antropova, italiana da un anno o Andy Diaz Hernandez, cubano 3° nel salto triplo) i quali da giovani vengono individuati dai “cacciatori di talenti”, e migrano volentieri verso i paesi ricchi che offrono loro volentieri cittadinanza, soldi e supporto sportivo, e li inseriscono nelle nostre scuole superiori, che sono di fatto “obbligate” a promuoverli. Circa metà delle medaglie italiane sono di immigrati o figli di immigrati. E’ (in apparenza) paradossale che la vincitrice dell’ultimo podio – la maratona femminile, gara simbolo delle Olimpiadi – sia l’ olandese Sifan Hassan, una musulmana che porta il velo sul podio olimpico. Da un lato ciò dà la misura della crescente presenza di immigrati e figli di immigrati nei paesi ricchi e del crescere del multiculturalismo nelle società occidentali, dall’altro provoca la reazione sempre più forte di una parte dei cittadini (vedi le recenti manifestazioni nella, un tempo tollerante, Gran Bretagna) rispetto ad una immigrazione che viene ritenuta troppo rapida e portatrice più di svantaggi che di vantaggi.

Una delle caratteristiche delle “vecchie” Olimpiadi è che potevano partecipare solo i dilettanti e non i professionisti. Col tempo ci si è resi conto che la manifestazione avrebbe assunto maggior valore se avessero potuto partecipare tutti i migliori atleti. Oggi partecipano di fatto anche i professionisti (per citare solo i più ricchi, dai tennisti a Lebron James, il giocatore Usa di basket pagato 40 milioni di dollari all’anno). Le Olimpiadi hanno così mostrato quanto siano in parte gonfiati certi miti, sport e tornei, come quello dei professionisti basket NBA Usa, la cui squadra ha battuto di pochissimo la piccola Serbia nelle semifinali, dopo essere rimasta sotto di 10 punti (ed aver toccato anche il meno 17) per 3/4 della partita e aver vinto solo nell’ultima fase, anche a causa del ridotto numero di giocatori della Serbia che hanno pagato la penuria di cambi rispetto allo squadrone americano, oltre che un paio di scelte arbitrali molto discusse (95 a 91 il risultato finale).

LItalia ha conquistato 12 medaglie d’oro (2 in più di Tokyo) ed è interessante vedere come l’ottimo risultato sia il prodotto di un modello pubblico di supporto agli sport “minori”. Pur non avendo sponsor o società sportive che possono mantenere gli atleti nelle categorie con minori spettatori (che minori non sono), ha adottato una strategia che potremmo definire “pubblica”: gli atleti migliori vengono assunti tramite concorso pubblico – riservato a chi ha raggiunto determinati risultati a livello nazionale o internazionale – da alcune organizzazioni militari o civili in qualità di volontari in ferma prefissata di 4 anni (polizia, esercito, marina, aviazione, guardia di finanza, vigili del fuoco). Ciò garantisce a questi atleti la libertà di allenarsi a tempo pieno nei centri sportivi senza dover lavorare, con uno stipendio analogo a quello dei colleghi. Al termine della carriera agonistica gli atleti possono rimanere in servizio e qualificarsi come istruttori, allenatori, preparatori atletici, massaggiatori presso i centri sportivi nazionali, oppure partecipare ai concorsi interni e progredire nella carriera. Il maggior numero viene assorbito dalla Polizia di Stato (Fiamme Oro) con 101 atleti, seguito dalla Guardia di Finanza (Fiamme gialle) con 54. Seguono: Esercito 39, Carabinieri 33, Aeronautica 25, Polizia penitenziaria (Fiamme azzurre) 23, Marina 18, e Vigili del fuoco (3 atleti delle Fiamme rosse). Ciò ha consentito a ben 296 atleti sui 403 italiani (73%; erano il 70% alle precedenti Olimpiadi di Tokyo) di partecipare alle Olimpiadi di Parigi assieme ad altre 207 compagini nazionali, di vincere 40 medaglie (12 ori, 15 argenti e 12 bronzi) e di portare più atleti (403 contro 384). Il modello organizzativo dell’Italia, sempre più imitato anche dai paesi poveri, dimostra che senza una organizzazione pubblica avremmo alle Olimpiadi solo gli atleti sponsorizzati dalle grandi società private e dagli sponsor, limitando non solo le vittorie ma la partecipazione allo sport di migliaia di giovani (basta fare un confronto coi pessimi risultati nel calcio).

Le Olimpiadi sono un evento di valore mondiale e mostrano come lo sport possa essere trattato ancora come un bene comune, oltreché essere una straordinaria forma di sviluppo umano e di apprendimento, capace di superare ogni divisione. Peccato che si siano voluti penalizzare gli atleti della Russia, Bielorussia, Iran, etc. cioè l’”asse del Male” (anche se poi molti hanno gareggiato sotto la bandiera di altri Stati come Germania, etc…). Mentre noi occidentali saremmo l’”asse del Bene”: la cosa avrebbe certamente indispettito Pierre De Coubertin, che riprese a far disputare i Giochi nel 1896, dopo che l’imperatore romano cristianizzato Teodosio li aveva fatti cessare nel 393 d.C. perché ritenuti uno spettacolo pagano. Erano nati ufficialmente nel 776 a.C., anche se la loro origine è probabilmente più antica, quando veniva premiato non chi arrivava primo ma chi svolgeva l’esercizio (corsa, lancio del disco, lotta, etc.) con più armonia. Alle gare non erano ammessi stranieri, schiavi, persone disonorate e le donne, alle quali era vietato persino assistere alle gare.

Visto da vicino nessuno è normale
La follia nel DDL 1179, Disposizioni in materia di tutela della salute mentale

Visto da vicino nessuno è normale. La follia nel DDL 1179, “Disposizioni in materia di tutela della salute mentale”

Se per Basaglia “visto da vicino nessuno è normale”, se ormai è consolidato il concetto che non esiste un confine fra follia e normalità, se sappiamo che solo Lombroso poteva pensare di distinguere fra sani e folli, come è possibile che sia stato presentato un disegno di legge con la proposta di “interventi che riducano il divario esistente tra le persone affette da disturbo mentale e le persone sane”?

Questo ha scritto Francesco Zaffini di Fratelli d’Italia nel DDL 1179, Disposizioni in materia di tutela della salute mentale presentato al senato il 27 giugno scorso (qui il testo e qui un articolo su Repubblica, unico quotidiano che finora ne ha parlato).

A me queste parole suonano come “ridurre il divario fra chi deve usare una sedia a rotelle per muoversi e chi no”, “farò uscire il caffè dai rubinetti”. Quale sarebbe lo scopo? Far camminare tutti con le gambe per non dovere abbattere le barriere architettoniche? Che nessuno si senta diverso? Che sia obbligatorio essere o sembrare sani?

Dando un colpo al cerchio e uno alla botte, nel disegno di legge si parla della “incolumità e dell’aggiornamento dei professionisti” e della “massima attenzione alla sua [del “malato”] incolumità fisica, a quella dei suoi familiari e degli operatori”. Non si parla quindi del benessere di chi ha un disagio, ma della sua supposta aggressività.

Il testo è intriso della ambigua malizia di anteporre una finta offerta di protezione a chi soffre, sottintendendone nello stesso tempo la pericolosità certa, e la necessità di curare tale predisposizione mediante la segregazione e il contenimento, anche tramite la forza pubblica.

Come se tutto fosse perfettamente predeterminato e immutabile fin dall’inizio, la legge attiverà una “individuazione precoce del disagio giovanile, la prevenzione dei disturbi e l’intervento precoce psicosociale” e “l’individuazione tempestiva dei disturbi mentali sin dalle fasi dell’infanzia,” “al fine di assicurare il godimento del diritto alla salute mentale, intesa come uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale”.

Obbligheranno le persone al diritto di stare bene? Si capovolge anche il senso della dichiarazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, la cui definizione completa recita:  ”una condizione di completo benessere fisico, mentale e sociale e non esclusivamente l’assenza di malattia o infermità.”  Questo contraddice la distinzione fra sani e malati, perché la salute è come si gestisce l’insieme, comprese le patologie. Se una persona ha il diabete, il suo diritto alla salute si realizza nella possibilità di vivere pienamente, al di là del disagio.

Il politico si rivolge a una bella fetta di elettorato: intanto tutti quelli in cui è stata instillata la paura di tutto da una informazione malata, che ha caricato falsità sugli episodi di aggressione negli ospedali; poi gli operatori sanitari stessi, che si occupino di salute mentale o no, le famiglie, che in grande numero convivono con la sofferenza psichica in condizioni di carenza di supporto medico e di politiche sociali, la scuola, caricata sempre più di compiti che non sono i suoi.

Ancora una volta, i più fragili tra i fragili vengono individuati come capro espiatorio, facile operazione in un contesto dove ci si sente autorizzati a definire “oggettivamente” con un semplice conteggio chi è normale e chi no, senza neanche prendersi la responsabilità di dire che lo si sta stigmatizzando, crudeltà gratuita e vigliacca. L’atteggiamento è sempre quello di far credere che esistano persone sbagliate, che vanno aggiustate per il loro bene.

Un’idea completamente campata in aria, quella della pericolosità di chi ha un disagio mentale. È stato dimostrato infatti che le persone con patologie psichiche gravi commettono gesti delinquenziali con tassi analoghi a quelli di chi non ne è affetto.

Il DDL Zaffini è la concretizzazione di questo: deriva da una cultura della sopraffazione.  Le statistiche, al contrario di quello che si pensa, riportano che è più probabile che una persona con disturbo mentale subisca piuttosto che operi violenza e che di solito essa tenda a fare male a se stessa, piuttosto che agli altri.

Oggi sappiamo che il nostro comportamento è dovuto a una triade di fattori: quello biologico, quello psicologico, cioè come le esperienze ci hanno influenzato, quello sociale. È la società intorno a chi ha il disagio ad essere malata e la cura avviene in un’interazione fra i tre livelli, che si modificano a vicenda. Il modo in cui una persona può relazionarsi nel sociale è quello che la cura o la ammala: meglio faremo stare una persona nel sociale, meglio starà e meno aggressività potrà incamerare.

Lascio riflettere il lettore se sia possibile pensare che una patologia possa guarire senza la collaborazione del paziente. Durante la pandemia abbiamo assistito al rifiuto dei vaccini da parte di un grande numero di persone; la costituzione garantisce la libertà di cura.

Ma al di là di questo, si dovrebbe sapere, affrontando il tema della salute mentale, che la non consapevolezza della malattia è un sintomo esso stesso che si chiama “anosognosia”. Lo psicologo Xavier Amador raccontava di una signora che doveva prendere i farmaci e che, quando li trovava nella spazzatura, chiedeva ai familiari di chi fossero, perché non si rendeva conto di averli buttati lei. Amador ha studiato un approccio alle persone con disturbo che ottiene la loro fiducia e la loro aderenza alla cura, ma tale approccio esclude categoricamente la coercizione e se seguite uno dei suoi video, molto piacevoli, potete anche capire perché l’obbligo non può funzionare.

Certo anche il nostro Zaffini dice che bisogna cercare di ottenere il consenso, ma senza contarci troppo. Nel disegno di legge infatti “sono disposte le misure di sicurezza pubblica necessarie al contenimento degli episodi di violenza contro il personale”, “Gli operatori della salute mentale attuano misure e trattamenti coattivi fisici, farmacologici e ambientali”. Il trattamento sanitario obbligatorio viene esteso da un massimo di 7 giorni a 15 giorni: non so se questo sia un modo per rendere la vita degli operatori e delle operatrici più semplice.

Una persona con un disturbo non è necessariamente violenta, quindi, e anche se ha una psicosi può scegliere di non commettere le azioni comandate dalle voci che sente, tanto che tra gli psichiatri è aperta la discussione se sia opportuno perseguire chi commette un reato avendo un disturbo psichico. D’altronde si rileva continuamente che gli autori di delitti efferati non soffrono di patologie psichiche.

Purtroppo la professionalità anche degli psichiatri non è sempre al massimo livello, e pare che non tutti siano padroni delle tecniche di de-escalation che servono per placare lo stato d’animo di un paziente agitato. Queste tecniche sono usate in vari campi, tanto che lo psichiatra Valerio Rosso, che pubblica un brillante e utile blog, consiglia il testo usato dalla polizia negli Stati Uniti Conflict Management For Law Enforcement: Non-escalation, De-escalation, and Crisis Intervention For Police Officers. Ognuno, ognuna di noi ha bisogno di apprendere queste tecniche che ci possono proteggere in situazioni di violenza in cui possiamo incorrere.

Allora difendiamoci davvero e contrastiamo il disegno di legge Zaffini, su cui è già stata avviata, da associazioni e personalità autorevolissime, una raccolta firme. [ Qui] l’appello: Fermare una tragica nostalgia di manicomio, e reagire.

Cover: Marc Chagall, Muveszete lart 

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La libertà del dolce far niente: quanta vita lontano dai pacchetti-vacanza

La libertà del dolce far niente: quanta vita lontano dai pacchetti-vacanza

di Gerardo Iandoli
articolo originale su Strisciarossa del 7 agosto 2024

Basti pensare alla merce più venduta in questo periodo estivo: la vacanza. Sono innumerevoli le agenzie che vendono vere e proprie tabelle di marcia di momenti di libertà, per poter sfruttare al meglio il tempo delle ferie, senza perdere il ben che minimo granello di secondo. E il momento di pausa dal lavoro viene trasformato nell’ennesimo spazio-tempo da dover gestire, organizzare, progettare. Il demone dell’efficienza si insinua ovunque e la nostra libertà più grande, cioè la possibilità di scialacquare il proprio tempo, diventa l’ennesima fonte di sensi di colpa, cioè ansie da inettitudine.

Ebbene sì, è il perdere tempo la nostra libertà più grande: il non dover fare nulla, né dimostrare nulla, né doversi preoccupare della reazione altrui. Un mero godere del piacere di esistere, in vista della prossima scelta in cui attivarsi, non per seguire uno schema, ma per assecondare ancora di più questo godere di sé. Di fatto, a essere venduto in questi pacchetti vacanza è un senso di sicurezza: la possibilità di non scegliere, e quindi di non pensare, per poter comodamente seguire un percorso già tracciato, dove basta seguire i binari e lasciarsi andare al flusso.

C’è una poesia di Cinzia Coppola, tratta dal suo Rêveries, pubblicato nel 2023 da Delta 3, che nel suo linguaggio asciutto ed estremamente chiaro mostra la ferocia che soggiace al modo di pensare fin qui trattato:

Mattino

Cielo del mattino,
il cristallino che hai oggi
mi contagia
la voglia di ridere
fino a sentire gli occhi e il cuore funzionare.
Sono brevi attimi,
forse è la luce del sole
o un progetto a cui pensare.
Forse solo l’auto da mettere in moto
per andare a lavorare.

La prima immagine è stereotipata: quel senso di benessere che si prova quando si viene colti dal bel tempo appena dopo essersi svegliati. Tuttavia, sono presenti delle parole che incrinano l’idillio e virano l’atmosfera verso sentori più inquietanti: prima di tutto, l’energia viene trasmessa per “contagio”, quasi come se non fosse un flusso vitale che va dal cielo alla terra, ma un miasma pestifero che si appropria della voce dell’io poetico. E quest’ultimo si presenta come una macchina, che inizia a “funzionare”. E, di fatto, questo fanno le immagini stereotipate: attivano la nostra mente in maniera meccanica, perché sono così codificate da eliminare ogni mistero e quindi disattivare ogni possibilità interpretativa.

Nella seconda parte, in un crescendo ironicamente tragico, l’io poetico viene sottratto al proprio momento vitalistico e richiamato all’ordine, gettato nella propria dimensione del dovere.
Si parte dal sole, figura divina e simbolo del calore che dà la vita, per arrivare subito alla “progettazione”, che rinvia a una divinità più moderna: il management. E ritorna nel finale l’elemento meccanico, in cui si vede l’io poetico specchiarsi in questa auto messa in moto: il cielo terso non è lo scenario dell’inizio di un’avventura, ma l’immagine dell’ennesimo spreco di vitalità in favore del lavoro, dell’energia finalizzata alla produzione.

L’elemento interessante di questa poesia è che il lavoro non viene descritto come momento che distrugge l’idillio, ma anzi come qualcosa che può essere coerente con l’idillio stesso: il contagio è avvenuto, e quindi anche il lavoro può entrare a far parte della galassia di senso che ruota intorno al simbolo del sole mattutino. Il lavoro come bel tempo, come ben-essere, come estate e come vacanza. Un paradosso?

Cinzia CoppolaRêveriesGrottaminarda, Delta 3, 2023.

Diario in pubblico /
Dal tronetto giallo di re Crimildo

Diario in pubblico. Dal tronetto giallo di re Crimildo

Il re Crimildo della stirpe dei Giannantoni se ne sta sul suo tronetto giallo posto sul balcone che dà sulla via principale della sua amata città, Laida, ad osservare le mosse dei suoi vicini di casa increduli, se non stupefatti, del progressivo innalzarsi della nuova torre di Babele minacciosa e incombente che ormai ha raggiunto il cielo.

Il rumore della ferraglia si stava esaurendo tra i singhiozzi dell’immenso camion che porta carichi di cemento e che non riesce a passare per la via, a causa di vetture pettegole che non gli lasciano il passo. Invano l’autista cerca una via d’uscita ma loro, indiscrete, non cedono il passo.

Sempre più frettolosi i passanti, che non mollano per un istante il loro Graal-cellulare, a testa china transitano affannati, non concedendo nemmeno un secondo ai pelosi in cerca di un luogo atto alla pisciatina ristoratrice.

Così decidiamo di prendere Benny e trasferirci al caffè, come i miei antenati chiamavano un luogo di delizie pieno. Qui si sorseggia la nera bevanda e nello stesso tempo si commentano vesti e paludamenti atti ad affrontare il percorzo lungo ed estenuante verso quell’acqua che si chiama mare e che io, Crimildo, non ho ancora visto da vicino.

Al silenzio stupefatto della torre abituata all’urlo bestemmiante dei lavoratori costretti a cedere le armi in attesa del cemento fatale si aggiunge il fruscio degli eleganti abiti da spiaggia e l’occhiata severa di chi ti giudica per quello che indossi!

Indosso la maglietta con le gardenie dipinte, dono affettuoso della mia stirpe, e ancora una volta mi domando come sia possibile che quel mastodonte blocchi la via e si rifletta da ogni punto di vista. Non si sa né, immagino, nessuno lo vuole sapere. I racconti degli “infedeli” narrano di lunghe trattative, di pazienti attese, di desiderio di stupire.

Beh, su questo non ci sono dubbi. Stupiamoci e godiamoci questa nuova idea di paesaggio, perché siamo Emilia-Romagna, l’eccellenza dei luoghi marini.

Allora io, Crimildo, cedo il bastone e mi ritiro a leggere testi sublimi nascosto nel mio studio, dove ho trasportato il mio tronetto giallo.

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