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Vitaliano Teti, la parola digitale

Tempi digitali, la video arte icona dell’arte dell’era informatica. Pure come dissero gli stessi Nam June Paik e Giorgio Cattani, all’alba, fine secondo Novecento, della nuova arte, la Video è Poetica. In tal senso, anche i pixels sono versi e una inedita letteratura nascente.
Più noto come art director di The Scientist international video festival, oggi tra le principali
rassegne italiane e non solo, Vitaliano Teti, docente Unife, è anche produttore creativo di art video: attraverso numerose collaborazioni, non ultimo, anzi, il ruolo fondamentale in molte produzioni con giovani videomaker universitari di spicco, come Giovanni Tutti, lanciati anche nel video festival.
Vitaliano Teti testimonia nell’arte contemporanea e già nella net art nascente la mutazione dall’analogico al digitale, con un quid peculiare di luminosa matrice archetipica ma dinamica squisitamente poetica. Sul piano concettuale – in tal modulazione specifica – è riuscito a trasformare certa accademia strutturale in arte sperimentale, operazione mediatica e culturale amabilmente evolutiva.
Più nello specifico, Vitaliano Teti è un artista contemporaneo nel settore della video arte e della videodanza, curatore di eventi di arte digitale, borsista di ricerca e docente. Dal 2007 ha fondato l’Associazione culturale Ferrara Video&Arte e cura come art director “The Scientist”, il video festival internazionale di Ferrara in collaborazione con Unife e il Comune di Ferrara, col patrocinio della Regione Emilia-Romagna, erede del Centro videoarte di Ferrara (a cura del Maestro Franco Farina e della prof.ssa Lola Bonora, a suo tempo di fama internazionale Video, Ferrara capitale con New York, Kassel, Tokio, ecc.). Nelle prime due edizioni del festival ha realizzato in co-curatela una retrospettiva sul Centro videoarte di Ferrara stesso con video di Fabrizio Plessi, Giorgio Cattani, Maurizio Camerani, Marina Abramovic, e con M. M. Gazzano video dei maestri della video arte come Bill Viola, Nam June Paik, i Wasulka. Ha selezionato opere in video di diverse accademie e istituzioni nazionali e internazionali come il Coreografo elettronico di Napoli, il Festival Loop di Barcellona, le Accademie di Belle arti di Ginevra, di Weimar, di Colonia, di Bologna, Roma e Brera di Milano.
Ha mostrato a Ferrara le video opere dei principali videoartisti italiani contemporanei tra essi Alessandro Amaducci, Masbedo, Laurina Paperina, Marinella Senatore, Alterazioni Video, Federica Falancia, Zimmer Frei e invitato critici d’arte elettronica di fama internazionale come Mariana Hormaechea, Wilfred Agricola de Cologne, Chiara Canali, Marco Maria Gazzano
Alcune sue curatele da “The Scientist” sono state presentate anche a livello nazionale e internazionale, ad esempio a Siviglia e Barcellona (Spagna), Los Angeles e New York.
Cura live media e eventi di arte contemporanea con la Rta – Porta degli Angeli e col Comune di Ferrara. Come videomaker ha prodotto diversi altri video artisti scelti tra i più talentuosi studenti dell’Università di Ferrara (Corso di laurea in Tecnologie della comunicazione video e multimediale), tra essi Giovanni Tutti, Bruno Leggieri, Matteo Bevilacqua. Ha inoltre partecipato, con una curatela di videodanza, a eventi internazionali futuribili sul quali Transvision 2010 a cura del futurologo informatico Giulio Prisco.
Nel 2011/12 ha prodotto e montato il documentario di Alessandro Raimondi “Un murales una storia”, vincitore della selezione per la produzione di documentario della Regione Emilia-Romagna; a Milano per la rassegna AAM Art (2012). Nel 2013 (con C. Breda) ha presentato alla Casa del cinema di Roma il cortometraggio “Elegia del Po di Michelangelo Antonioni”, omaggio per il centenario della nascita del regista; a Ferrara la rassegna “Corto Divino”, dedicata ai giovani videomaker made in Unife e per la mostra collettiva “Trames Tramites”, l’opera video a doppio canale di Giovanni Tutti “Quello che vorrei”.
Nel 2012 ha pubblicato “Alchimie Digitali” (con il fratello, semiotico, Marco Teti), “La Città del Sole” con prefazione della prof.ssa e ricercatrice Patrizia Fiorillo), saggio peculiare sull’Arte Video contemporanea e retrospettiva anche del Video festival The Scientist stesso,
Presente inoltre, tra le interviste, in “Futurismo Nuova Umanità” (Armando editore, Roma) di chi scrive.

Per saperne di più su Vitaliano Teti visita il sito dell’Università di Ferrara [vedi], leggi un articolo pubblicato su La Stampa [vedi] e sul suo libro “Alchimie digitali” leggi [vedi]
Per saperne di più sul The Scientist international video festival visita il sito [vedi]

* da Roby Guerra, “Dizionario della letteratura ferrarese contemporanea”, Este Ediiton-La Carmelina ebook [vedi]

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L’INTERVISTA
Leone Magiera: maestro di Pavarotti, collaborò con Abbado e von Karajan

Leone Magiera, nato a Modena, si è avvicinato giovanissimo al mondo della musica dopo avere ascoltato il pianista svizzero Alfred Cortot alla radio. Ha esordito all’età di 12 anni come pianista e si è diplomato con lode e menzione speciale al Conservatorio di Parma.
Oltre ad avere costruito una formidabile carriera come pianista solista, Magiera ha collaborato con maestri come Giulini, Abbado, Solti, Kleiber e von Karajan, con quest’ultimo instaurò un particolare rapporto artistico di fiducia e stima, il Maestro austriaco lo reputava il migliore conoscitore del repertorio operistico italiano, francese e mozartiano.
Magiera, direttore d’orchestra a sua volta, è stato chiamato a interpretare una cinquantina di opere eseguite nei teatri di ogni parte del mondo, inoltre, ha accompagnato i cantanti più importanti della scena internazionale, come il baritono Ruggero Raimondi, la giovane soprano Carmela Remigio, il soprano Mirella Freni e il tenore Luciano Pavarotti. A Luciano Pavarotti, di cui è stato maestro sin dai primi anni della carriera, lo ha legato un sodalizio umano e artistico durato più di quarant’anni che si è consolidato in oltre mille esecuzioni, sia in veste di direttore che di pianista. La sua preparazione e la brillante carriera l’hanno portato a essere dirigente di teatri come il Teatro alla Scala e Il Maggio musicale fiorentino, oltre che scrittore di libri musicali per la Ricordi. Negli ultimi anni si è dedicato con rinnovato successo al pianismo solistico; la vasta discografia, sia come direttore sia come solista, testimonia la versatilità e l’eccezionalità del suo talento.

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Il Maestro Leone Magiera

Per anni Herbert von Karajan ha preteso che artisti di fama internazionale studiassero le opere con lei, prima di salire sul palcoscenico del Festival di Salisburgo, com’è nata la vostra collaborazione?
Accompagnando al pianoforte Mirella Freni e Luciano Pavarotti, in audizione con il Maestro. Commentò che li avevo preparati molto bene (entrambi studiavano con me) e mi chiese di tenere un corso al festival di Salisburgo, che tenni per cinque anni. In quell’occasione collaborai con lui nelle opere italiane. Era una responsabilità perché von Karajan era molto esigente, ma anche molto simpatico con i suoi collaboratori, cantanti o musicisti. Sapeva cioè stemperare la tensione che inevitabilmente si provava lavorando al fianco di un simile gigante della musica.

Lei è stato segretario artistico del Teatro alla Scala di Milano e direttore della programmazione del Maggio musicale fiorentino, che ricordi ha di quel periodo?
Difficile elencare i ricordi di sette anni. Forse la débacle di Monserrat Caballe alla prima di Anna Bolena alla Scala, che mi costrinse a inventarmi una sostituta che trovai in cecilia Gasdia, che trionfò a soli 19 anni.

Da alcuni anni lei è tornato al pianismo solistico, con importanti recital in Italia e all’estero (Corea, Tokio). Com’è cambiato il pubblico rispetto ai suoi inizi?
Il pubblico, quasi sempre, reagisce allo stesso modo. Può passare dall’entusiasmo più sfrenato alla reazione più violenta, in rapporto al rendimento artistico degli interpreti.

Ritiene che il pianoforte sia lo strumento più completo?
Il pianoforte è certamente lo strumento più completo. Permette di leggere contemporaneamente molti righi musicali ed è indispensabile a ogni compositore. Non dico sia il più difficile, ma certamente il più completo.

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Magiera ha studiato per oltre 50 anni i 24 studi di Chopin

Nel corso della sua carriera lei ha scoperto molti giovani, cosa occorre per aiutare un talento in erba?
Per scoprire un giovane occorre avere un intuito particolare… il giovane artista deve avere un talento naturale, che si sviluppa non solo tecnicamente ma anche artisticamente. E, forse, la seconda è la caratteristica più importante nella nostra epoca.

Lei e Luciano Pavarotti avete collaborato per più di quarant’anni, iniziando da quella lontana Bohème…
Sì, ha studiato con me fin dall’inizio, da quando aveva 18 anni e abbiamo fatto insieme più di mille esibizioni.

Cos’ha reso Pavarotti così grande?
Molte cose. La natura gli aveva dato una voce eccezionalmente estesa da subito. E le sue naturali cavità di risonanza davano al suo timbro vocale una bellezza particolarissima fin dal suo debutto in Bohème. L’interesse per la pronuncia della parola era in lui molto sviluppato e ha curato quest’aspetto maniacalmente per tutta la carriera. Poi la forte personalità, il carisma sul palcoscenico, la solidità fisica e vocale… un complesso raro di doti.

Il sogno del “Fitzcarraldo” era quello di costruire un Teatro per l’opera nella foresta amazzonica, lei accompagnò al pianoforte Luciano Pavarotti nel Teatro di Manaus, in un’inusuale performance …
Sì, dopo un grande concerto a Buenos Aires noleggiò una nave, attraversammo la foresta amazzonica e giunti a Manaus vidi che Luciano era stranamente emozionato, certamente pensava al film e a Caruso, il tenore che ammirava particolarmente assieme a Giuseppe Di Stefano. E volle cantare sul palcoscenico del teatro accompagnato da me con un vecchio pianoforte.

Lei ha diretto Henghel Gualdi durante la tournée del 1989 di Luciano Pavarotti negli Stati Uniti, che ricordo ha del grande clarinettista?
Henghel Gualdi è stato uno dei più grandi clarinettisti del mondo come jazzista e formidabile improvvisatore. Ricordo che Armstrong lo volle con sé nella sua tournée italiana e che l’unica volta che si esibì in America, a Portland sotto la mia direzione, ebbe un successo clamoroso sottolineato dalla stampa americana. Il problema principale era la sua ritrosia e avversione ai viaggi al di fuori dei confini emiliano – romagnoli. E questo gli ha impedito di raggiungere la fama mondiale che avrebbe ampiamente meritato.

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Il più recente lavoro discografico di Magiera, I 24 Studi di Chopin

Il suo ultimo lavoro discografico ha riguardato i 24 studi di Chopin, senza dubbio si è trattato di un compito impegnativo …
I 24 studi di Chopin costituiscono un unicum particolarmente arduo per ogni pianista. Li ho studiati per più di 50 anni tutti i giorni e registrarli è stato un grande impegno ma anche una grande soddisfazione.

Si ringrazia il Maestro Leone Magiera per la squisita collaborazione e la concessione del materiale fotografico.

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L’EVENTO
Winter Wonderland, tante attrazioni per il nostro Natale

Caroselli e cabaret, attrazioni di oggi e di ieri, tra una partita di subbuteo e una pièce di burattini, tra un giro di giostra e uno sul trenino in partenza dal centro storico. Con un occhio di riguardo a un circo senza animali in vetrina – Winter Circus – e al volontariato attivo per l’oncologia pediatrica, Associazione Giulia Onlus.
É Winter Wonderland, organizzato da Catterplanet e F.lli Bisi, Regione Emilia Romagna, Comune e Camera di Commercio di Ferrara, Cassa di Risparmio di Cento e Ferrara Fiere Congressi, che si aprirà ufficialmente oggi alle 15.00 nel Quartiere fieristico di Ferrara.

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Il logo

“L’idea – racconta Daniela Modonesi, curatrice ufficio stampa dell’evento – arriva da una precisa richiesta dei genitori ai giostrai che animano ogni anno la festa patronale di San Giorgio: perché non organizzare qualcosa di simile all’attrazione fieristica anche in inverno, magari proprio nel periodo natalizio? Affrontati i problemi di natura logistica che inevitabilmente erano da porsi, è stato Luca (Catter, n.d.r.) ad avere l’intuizione che la zona fiera potesse corrispondere all’esigenza di ricreare un evento del genere.
Evento che ha visto lo scorso anno trionfare il numero zero, perché incontra le esigenze dei bambini e dei genitori nella possibilità di evasione e divertimento in sicurezza, all’interno dei padiglioni del quartiere fieristico. Proponendosi come interessante alternativa per i pomeriggi invernali festivi non solo per le famiglie, ma per un pubblico ben più eterogeneo, anche attraverso promozioni e attenzioni particolari. In molte scuole ferraresi, ad esempio, sono state distribuite tessere della Festa dello studente, che permetteraranno a bambini e ragazzini di entrare gratis e usufruire di attrazioni e omaggi.

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Edizione dello scorso anno

Un meccanismo dagli ingranaggi complessi e ben oliati: “C’è dietro un lavoro imponente da parte di ideatori e organizzatori, impegno che peraltro non si esaurisce nell’arco di qualche giorno ma che si protrae per ben 23 giorni senza interruzioni, facendone un evento unico nel suo genere, con più di 20.000 metri quadrati di attrazioni, parco divertimenti coperto più esteso d’Italia.”
La cura è estesa nei minimi dettagli: una area ristorazione sempre attiva, che comprende street food variegato – piatti tipici ferraresi e bavaresi –, laboratori di addobbi natalizi e di baby cooking, baby dance e face painting dedicati ai più piccoli, veglione di Capodanno con lo show “Made in Fe”.
E, imprescindibili in un parco divertimenti, i personaggi dei cartoni animati, Babbo Natale e la Befana, fascinatori di grandi e piccini; per far contento quel bambino che ancora alberga dentro di noi.

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Alberi e Stelle di Natale

Da settimane i banchi dei centri commerciali sono pieni di Stelle di Natale, le poinsettie (Euphorbia pulcherrima) che riempiranno di colore le nostre case durante le prossime feste. Ho sempre avuto la sensazione che queste piante contenessero un timer, programmato per il loro totale deperimento, a partire dal giorno della Befana. Così almeno è sempre successo, fino all’anno scorso, quando la mia piantina senza sponsor e pedigree, acquistata per pochi euro in un supermercato, non solo ha troneggiato sul pianerottolo della mia scala per tutte le feste, ma è sopravvissuta, con le sue foglie verdi e qualche goccio d’acqua, fino a quando, arrivata la primavera ho deciso di metterla in giardino. Nel suo vasetto di plastica, all’ombra della rete ricoperta d’edera, ma con le spalle riscaldate dal sole che batte fino a sera dall’altro lato della stessa rete, in mezzo alla informe confusione che ormai ha preso il possesso del mio giardino, ha trovato una casa di suo gusto. Non l’ho praticamente mai innaffiata, questa estate fresca e molto piovosa ha provveduto alle sue necessità, e da una settimana l’ho riportata sul pianerottolo delle scale, dopo averle fatto passare una decina di giorni nella terra di mezzo che è il garage non riscaldato. Pare stia bene, le ho messo vicino una stella nuova con le brattee belle rosse, per farle compagnia e per fare un po’ di massa alla base della pianta, che crescendo in altezza, ha perso le foglie lungo gli steli che si sono ingrossati e allungati. Non sono mai stata in Messico, la terra di origine della poinsettia, ma penso sia uno spettacolo fantastico vederne degli esemplari alti più di due metri. La facilità con cui la mia piantina si è mantenuta da sola, come una comune erbaccia, mi fa pensare che non sia stato un virtuosismo del mio pollice verde, ma un segno dei cambiamenti climatici che stiamo vivendo, o forse doveva andare così, intanto sono curiosa di vedere se riuscirà a sopravvivere anche dopo questo Natale, e nell’attesa, metto in sospeso l’argomento.
Albero vero o albero di plastica? Preferisco quello vero. In commercio si trovano alberi di vivaio di tutte le dimensioni e prezzi, quindi di solito acquisto un bell’albero e lo riempio di piccoli oggetti acquistati o che mi sono stati regalati in tanti anni di vita, piccole cose che rendono il mio albero una vera collezione di ricordi e pensieri gentili. Negli anni passati, finite le feste lasciavo la pianta nel vaso e qualche volta sono riuscita ad utilizzarlo per due anni di seguito, altrimenti è finito tagliato a pezzi e bruciato nella stufa. Mi rendo conto che questo processo faccia orrore a molte persone, ma per smaltire la plastica di un albero finto ci vogliono troppi anni per i miei gusti, quindi se la plastica è una scelta per comodità posso condividerla, ma non credo sia una scelta giusta dal punto di vista dell’ambiente, un ambiente che tranne in rarissimi casi, ha subito un danno enorme proprio grazie alla riforestazione indiscriminata con abetaie. Soprattutto in tutti i casi in cui, per una pessima moda di parecchi decenni fa, l’abete ha sostituito ettari di macchia mediterranea, eliminando un sistema complesso in grado di trattenere terreni franosi e resistere agli incendi con maggiore efficacia. Danni ambientali a parte, trovo fastidiosa la pratica comune di piantare l’abete in giardino o, peggio ancora, negli spazi condominiali, la considero una delle tante sciagure paesaggistiche che ci tocca subire, non per la pianta, ma per le assurde potature che le vengono inflitte per adattarlo alla mancanza di spazio. L’abete comune è una pianta robusta, sta bene anche in pianura e in vent’anni raggiunge comodamente 12 metri di altezza, più o meno come una casa di tre piani. Vent’anni fa anch’io ne ho piantato uno in giardino, perché quando si è presi dall’entusiasmo e dall’horror vacui si fanno un sacco di sciocchezze, si pianterebbe di tutto o peggio ancora, come nel mio caso, ci si rende disponibili a dare ospitalità a tutti gli esuberi degli amici. Il mio abete è stato piantato da piccolo, una cosina da niente che negli anni si è presa non solo il suo spazio, ma anche quello delle piante vicine, che sono state spostate o addirittura eliminate per lasciare all’albero tutti i suoi rami, anche quelli più bassi. Adesso il mio abete è bellissimo, non è mai stato potato, ma arriverà il momento in cui tenterà di espatriare nel cortile del mio vicino, e allora saranno dolori, perché dovrò scegliere tra una potatura infelice o la sua eliminazione e come sempre, sarà la pianta a pagare l’errore del suo giardiniere.

LO SCENARIO
Il blogger Rudy Bandiera: “Le tecnologie stanno rivoluzionando il nostro mondo, ma al centro resta sempre l’uomo”

Nuove tecnologie e nuovi usi del web che, racchiusi in uno stesso nucleo, andranno a comporre quello che sarà conosciuto come web 3.0: una definizione che ancora non esiste e una concezione ancora lontana dall’affermarsi ma che, a parere di Rudy Bandiera, una fra i più noti blogger italiani, andrà sviluppandosi molto presto.
“Andiamo verso un web potenziato – spiega –  una novità che per la prima volta nella storia racchiuderà tutto attorno ad un unico media che sarà, appunto, lo stesso web”. E al centro di questa rivoluzione ci saremo ancora una volta noi stessi, ancora più di prima. Uno scenario dalle dimensioni enormi che introdurrà un’ennesima novità, l’”economia della reputazione”. Chiaro è infatti che aumentando l’importanza della rete aumenterà di pari passo anche il nostro bisogno di essere influenti all’interno della rete stessa. Saremo giudicati allora principalmente per la nostra capacità di muoverci nel web e di imporci come “influencer”, come soggetti cioè in grado di saper creare un’ampia rete attorno alla quale costruirsi la più alta reputazione e credibilità possibile.
Questo è già presente oggi, tutto quello che facciamo in rete può essere infatti mappato e controllato (piattaforme come Klout misurano proprio la nostra influenza nel web), ed anche le aziende incominciano a tenere in considerazione queste statistiche per scegliere chi assumere.

L’occasione per riflettere su questi temi cruciali è stato il seminario di Unife organizzato dal ricercatore del Dipartimento di Economia e management Fulvio Fortezza che si è tenuto ieri, al Polo degli Adelardi. Protagonista Rudy Bandiera, notissimo blogger ferrarese, ai vertici delle classifiche di vendita con il suo volume “Rischi e opportunità del Web 3.0″ e socio fondatore di NetPropaganda con l’amico Riccardo Scandellari. L’incontro, aperto a studenti e alla comunità, aveva l’obiettivo di stimolare il ragionamento su alcune cosiddette “tematiche di frontiera” inerenti al mondo della comunicazione nell’era digitale, analizzando chi già padroneggia questo settore e come questo si svilupperà e andrà a consolidarsi nel (ormai vicinissimo) futuro.

Obbligata una prima introduzione sull’avvento di tale sistema, una rivoluzione tecnologica che ha visto i suoi albori negli anni ’70 con le prime diffusioni dei computer e che si è affermata solamente nella metà degli anni ’90, nel bel mezzo della bolla speculativa che ha comportato la crisi del settore tecnologico. Un aspetto, quest’ultimo, che Bandiera contestualizza nei nostri giorni, definendo l’attuale problematica situazione non come mera crisi, ma un “cambiamento necessario che sarà destinato a terminare e consolidarsi, come la storia ci insegna”.

Facendo poi una carrellata quindi dei principali colossi, rinominati in questo caso veri e propri “ecosistemi”, che rispondono al nome Apple, Microsoft, Facebook, Amazon e Google, è emerso come tali aziende che oggi sono incontrastate dominatrici dello scenario globale, in principio non furono altro che semplici visioni nate perlopiù in garage, frutti di idee sulla carta semplici e scontate ma che, messe in pratica, hanno contribuito a cambiare il nostro stile di vita, il nostro modo di concepire il mondo, il nostro essere.
Tutto questo per introdurre il fine ultimo del seminario, la consapevolezza cioè che la tecnologia si sta evolvendo sotto i nostri occhi in tempi e modi che ci paiono essere degni della più utopica fantascienza; che in realtà siamo proprio noi stessi a comportare tali cambiamenti, agendo in prima persona nelle dinamiche del web.

“Non esiste più la comunità della rete” afferma Bandiera, intendendo che oggi volenti o nolenti siamo tutti dentro a quello che ruota intorno al web, e che la stessa rete si sta andando a trasformare proprio come noi vorremmo si trasformasse.
È stata così introdotta la questione del “web semantico”, un nuovo scenario che ci presenterà le macchine non solo in grado di leggere quello che noi vogliamo ma anche di interpretarlo, software che comunicheranno tra di loro decodificando ogni nostro pensiero introdotto nella rete. Una tecnologia pervasiva (o trasparente), che noi non vediamo ma esiste e lavora con e per noi. Il tutto ingigantito dalla diffusione sempre maggiore di realtà aumentata e nuove tecnologie 3D: i Google Glass per esempio, gli occhiali “smart”, dei quali proprio Rudy Bandiera è stato uno dei pochi in Italia a testare e recensire. Apparecchi che ci sembrano ancora così lontani dall’esistere ma in realtà esistono già e aspettano solo di essere commercializzati.

Alla luce di quest’ultima tematica ed in conclusione, Bandiera ha cercato di spiegare come muoversi per farsi conoscere nella rete narrando anche la sua esperienza personale, caratterizzata da un blog divenuto uno dei più visitati in Italia, oltre che dalla chiamata da parte di Google a presentare l’unico suo evento italiano nel 2014. Il blog, appunto, viene visto come uno strumento unico ed il solo in grado di poter esprimere tutte le nostre capacità e le nostre passioni in assoluta libertà, un investimento in termini di tempo e risorse che non comporta necessariamente un guadagno diretto ma indiretto, un modo per cominciare e farsi conoscere. Ma attenzione al fattore “straordinarietà”: siamo straordinari una volta sola, copiare ed emulare qualcosa che va già bene potrebbe non essere la soluzione.
Ci viene ricordato che “le cose più difficili da mettere in atto sono anche quelle che ci frutteranno di più”, dobbiamo cioè essere bravi a dimostrarci innovatori e creativi per creare qualcosa di unico.

Infine si è parlato di opportunità. Questa è la parola chiave secondo Bandiera, capire quello che sta accadendo e saper cavalcare le infinite possibilità che questo cambiamento ci metterà davanti. Questo è il monito di un personaggio che questa opportunità l’ha colta ed ha saputo sfruttarla con grandi risultati, un’esperienza che vuole diffondere a tutti noi e soprattutto alle nuove generazioni (i cosiddetti “nativi digitali”) affinché capiscano e comprendano gli infiniti scenari che verranno loro offerti. Senza però spaventarsi: il blogger non nasconde che questo rapidissimo cambiamento senza precedenti può spiazzare e farci perdere il contatto con la realtà, ma è un processo necessario ed inarrestabile, non potremo più pensare di agire senza capirlo o muoverci dentro. Ecco perché seminari come questi andrebbero moltiplicati e diffusi, soprattutto in un Paese come il nostro, ancora così ostile al cambiamento e rimasto indietro anni luce per quanto riguarda le tematiche appena affrontate.

Leggi sullo stesso argomento la riflessione di Andrea Cirelli

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CALENDARIO DELL’AVVENTO
Racconto di Natale

Dio non è morto. Lo spiega bene Dino Buzzati quando, nel 1958, pubblica “Racconto di Natale”.
Lo scrittore mescola, con temi propri della sua poetica letteraria, fiaba e surreale, ironia e neogotico, lasciando scoperto il nervo dell’essenza natalizia – la condivisione dell’amore divino mettendo in rilievo l’uomo moderno e cogliendone, in modo apparentemente candido e senza mai rinunciare alla vena sarcastica che spesso caratterizza la propria opera, l’essenza più autentica, inserendo nello stesso racconto la morale.

“Che farà la sera di Natale – ci si domanda – lo scarno arcivescovo tutto solo, mentre la città è in festa? Come potrà vincere la malinconia? Tutti hanno una consolazione: il bimbo ha il treno e Pinocchio, la sorellina ha la bambola, la mamma ha i figli intorno a sé, […] il vecchio scapolo il compagno di dissipazioni […]. Come farà l’arcivescovo? Sorrideva lo zelante don Valentino, segretario di Sua Eccellenza […].”

Dio è ovunque, ci dice Buzzati; e, lezione ancor più preziosa, lo dice da laico; ben lontano dall’ortodossia, dai privilegi di casta, da una discrepanza tra ciò che realmente sono e ciò che dovrebbe essere, e rappresentare, la Chiesa e l’insegnamento religioso.
Lo dice attraverso don Valentino, solerte parroco che rinnega asilo e cibo a un mendicante e si trova, convinto di averlo fatto scappare, a rincorrere un Dio che tuttavia si allontana ogni volta in cui crede di averlo “trovato”, senza mai averlo realmente conosciuto. Prima nella magnifica chiesa che resta però fredda e buia, dopo lo sgarbo fatto all’uomo bisognoso; poi nella famiglia riunita intorno alla tavola imbandita che si rifiuta di condividere la propria abbondanza; e ancora nei campi rigogliosi, la cui ricchezza di frutti è rifiutata dall’avaro contadino.

“Andò ancora più lontano, cercando. Dio pareva farsi sempre più raro e chi ne possedeva un poco non voleva cederlo.”

E così via, in una spirale che lo riconduce al punto di partenza, la chiesa, che però gli riappare, seppure nel delirio del freddo, nuovamente calda e splendente; colma, finalmente, di quel Dio – sinonimo di altruismo, bontà d’animo e compassione – che l’ingenuo don Valentino, curioso incrocio tra il pavido don Abbondio e il sornione don Raffaè, non riesce prima di quel momento a cogliere.
E che capisce invece l’arcivescovo del paese, mettendo a nudo tutti quei re dagli abiti inesistenti, che cercano Dio nei posti sbagliati.

“Lentamente si voltò colui che stava pregando. E don Valentino, riconoscendolo, si fece, se possibile, ancora più pallido. «Buon Natale a te, don Valentino» esclamò l’arcivescovo facendosi incontro, tutto recinto di Dio”.

E (solo per stavolta): Buzzati-Nietzsche 1-1.

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IL FATTO
Il crollo del rublo non turba il Natale russo

da MOSCA – Gli analisti parlano di crisi, il rublo crolla, oggi l’euro viene cambiato a 75. Il Brent è a 62 dollari. Brutte notizie per economie come quella russa. Annus horribilis, il 2015, per questo grande e sterminato Paese che si trova in un isolamento quasi forzato? Il grande orso ha freddo? Teme qualcosa e qualcuno? Non pare proprio. Anche se molte persone si preoccupano per il futuro, la crisi per il momento non si vede. Mosca scintilla, sfavilla. Come sempre, ora più che mai. Le luci invadono la città, già da qualche mese, gli alberi sono avvolti, abbracciati, da fili lampeggianti blu, rossi, bianchi, argentati e dorati.

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Zubovsky Boulevard

I bambini corrono felici nelle piazze e nei parchi innevati, pattinano sulle grandi piste ghiacciate come quelle della Piazza Rossa. Le palline di Natale riflettono tanti visi sorridenti. Profumo di zucchero a velo, caramelle e dolcetti di ogni tipo. E poi tanti colori, colori che si confondono con il bianco della neve che è recentemente caduta sulla città, avvolgendola in un candido e tenero mantello. Immagini d’altri tempi. Una fiaba.
Ai grandi magazzini Gum (Glavnyi universalnyi magazin) si respira aria di festa. Chiacchiericci, giocattoli, luci, profumi, stelle di Natale, regali, fiocchi. Così diversi dalle origini, dalla loro epoca sovietica, ma ora come allora al centro della vita della città.

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Il Gum nel 1893
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Il Gum oggi

Qui si sorride oggi, ci si racconta cosa si farà a Natale e a Capodanno, si sorseggia un thè o si mangia un gelato (eh sì, perché anche se fa freddo, questa tradizione è molto forte). Si compra, si sceglie, si vedono costumi d’altri tempi, collane colorate, luci che sembrano caleidoscopi, si passeggia mano nella mano, scappa anche un bacio. Tanti gli abbracci, cappellini che volano, sciarpe che volteggiano, specchi che riflettono. Si passa un fine settimana spensierato, in attesa di un po’ di meritato riposo. Mentre fuori nevica, candidamente, teneramente, lentamente. Non si vuole pensare alla crisi, per quella c’è sempre tempo. Oggi è tempo di leggerezza.

Immagini dal Gum Oggi, foto di Simonetta Sandri
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Provincialismo riformista

Mentre prendiamo atto che Giorgia Meloni dice di sentirsi pronta per fare il sindaco di Roma, tocca parlar ancora di Province.
C’è ormai largo consenso nel far risalire l’attacco mortale agli enti che stanno fra i Comuni e le Regioni a una sorta di diktat partito dall’Europa e indirizzato ai cosiddetti Pigs (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna).
Cari Maiali – pare essere stato il ragionamento – il vostro quadro di finanza pubblica non è più compatibile né sostenibile, perciò dovete stringere la cinghia cominciando a rivedere al risparmio il vostro assetto istituzionale. Altrimenti niente risorse.
Così l’attacco in Italia è stato messo a punto, già dal governo Monti, contro le Province che rappresentano notoriamente l’1,2 per cento dell’intera spesa pubblica nazionale.
Solo che il professore è stato bacchettato dalla Corte costituzionale, perché una riforma istituzionale non può essere fatta con logica emergenziale, cioè con decreto legge, ma dentro un disegno, un’architettura.
Tanto per rimanere in terreno edile, lo direbbe anche Calzinazza, il manovale nel film Amarcord di Fellini, che una casa si inizia dalle fondamenta e non dal tetto.
E invece, fa notare chi se ne intende, è dai tempi di Berlusconi che il Legislatore pretende di partire dal livello ordinario per cambiare equilibri definiti dalla Costituzione, infischiandosi del principi delle fonti del Diritto, che sorregge l’intero nostro ordinamento giuridico.
E’ pur vero che in Italia se si vuole cambiare la Costituzione si sa quando si comincia e non quando e se si finisce, ma così facendo si entra in un campo minato.
Tecnicismi? Mica tanto.
La legge Delrio (n. 56 del 7 aprile 2014), chiamata anche Svuota Province perché ne riduce funzioni e compiti, introduce un regime normativo provvisorio, in attesa che si compia l’iter della riforma che porta la firma della ministra Boschi per cancellare la parola dalla Costituzione.
Proprio chi mangia pane e Costituzione è del parere che in questo modo si aprono numerose questioni di incostituzionalità che se fossero sollevate sarebbe un bel casino.
Fosse solo questo il problema.
Prima la Svuota Province dice che le funzioni si devono ridurre essenzialmente a quattro (strade, edilizia scolastica, ambiente e territorio). Poi la Conferenza Stato-Regioni aggiunge che altri compiti possono essere delegati dalle Regioni alle Province, al termine di un lavoro di mappatura da compiersi all’interno di Osservatori regionali (molti dei quali non sono nemmeno partiti).
Nel frattempo il governo fa arrivare in Parlamento il disegno di legge di stabilità, nel quale sono previsti tagli alle Province di un miliardo ogni anno fino a raggiungere la somma di tre miliardi nel 2017.
Giusto il tempo di fare una botta di conti per accorgersi che su circa nove miliardi che costano le Province, 3,5 servono per tenere decenti strade e scuole. Si dice: se vengono a mancare tre miliardi di cosa stiamo discutendo?
Ma non basta.
Un emendamento alla legge di stabilità impone anche una riduzione di personale del 50 per cento entro pochi giorni dalla sua entrata in vigore.
I giornali di mezza Italia scrivono che la traduzione di questa misura sono 50mila fra dipendenti provinciali e delle Città metropolitane che dalla sera alla mattina dovranno trovare un altro posto di lavoro: nei Comuni, nelle Regioni, nello Stato?
In pratica, da un lato la Delrio dice alle Province di tuffarsi da un trampolino, indicando quanti carpiati e avvitamenti si devono compiere, dall’altro si leva l’acqua dalla piscina.
Così il Legislatore sta, di fatto, alzando la tensione tra livelli istituzionali del Paese, in un clima sociale ed economico già duramente surriscaldato dagli effetti di una crisi mai vista prima.
Ad essere comprensivi si può capire che qualcuno possa aver pensato: Provincia più leggera uguale a meno risorse e meno personale. Però in questo modo non ci sono i soldi non solo per le eventuali funzioni che continueranno a delegare le Regioni, ma nemmeno per le quattro superstiti della Delrio.
Gli esperti parlano di momento di grande ipocrisia legislativa ed istituzionale, dal momento che si sta di fatto spingendo dei profili istituzionali, per quanto provvisori, verso uno scenario di possibile interruzione di pubblico servizio che, fanno notare, è un reato penale.
Qualcuno sta provando a non farsi prendere dal panico, rilanciando una Provincia come agenzia tecnica al servizio del territorio (sul modello spagnolo). Una specie di centrale qualificata per acquisti, appalti, forniture e servizi, a disposizione dei Comuni. Un esempio di ottimizzazione di risorse e competenze.
Il problema è che se questi sono i termini, è lecito pensare che la preoccupazione numero uno dei presidenti di Provincia in questo momento sia far quadrare bilanci e pagare gli stipendi, assecondando un fuggi fuggi del personale comprensibilmente preoccupato per i propri destini lavorativi. Ed è altrettanto immaginabile che i primi a trovare nuovi approdi occupazionali siano le professionalità che hanno più mercato.
Il risultato potrebbe essere che le Province sopravvissute a questa emorragia di competenze si riducano di fatto a poco più che delle Caritas, oggettivamente impossibilitate ad essere il supporto tecnico immaginato.
In questo clima è poi sorprendente la preoccupazione, adesso, dei sindacati per le sorti dei dipendenti pubblici in questione, quando i loro stessi leader nazionali, a suo tempo, non hanno esitato ad accodarsi a gran voce al coro di quanti – politici, giornalisti, studiosi, esperti – hanno predicato l’inutilità delle Province.
Ma il bello della questione è l’approdo finale. Già, perché terminato il regime provvisorio della Delrio (non si sa come), chi sopravviverà assisterà a quanto previsto dalla riforma costituzionale Boschi, la quale cancella le Province dalla Costituzione ma consentirà alle Regioni di avvalersi di enti di area vasta.
A quel punto sarà curioso vedere la faccia di chi si prenderà la briga di spiegare, ad esempio, ai cittadini emiliano-romagnoli che sono state cancellate nove Province per sostituirle con decine di Unioni di Comuni. Per risparmiare, è chiaro.
Come se non bastasse, proprio sui giornaloni che più hanno tuonato conto lo spreco delle Province si inizia a leggere che questa riforma non solo le ha svuotate, ma fatte diventare poco democratiche.
Ma va?
E non per colpa dell’astensionismo, ma perché la Delrio le ha trasformate in enti di secondo livello, cioè sono i sindaci che si eleggono tra loro mentre i cittadini non possono più dire come la pensano su come sono tenute le strade, o le scuole dove vanno i loro figli.
Decisamente paiono destinate ad ingrossarsi le file del già affollatissimo club tricolore delle facce da paracarro.

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Cari genitori, date una carezza al vostro bambino

Oltre a garantire ai propri piccoli un buon sviluppo cognitivo e a riempirli di attenzioni e coccole, ci sono anche altri aspetti che rientrano nel ‘prendersi cura’ del proprio bambino accompagnandolo in un sano percorso di crescita. Un corretto svezzamento e una buona alimentazione nei primi anni di vita sono fondamentali per evitare disturbi da grandi. Assicurarsi che i piccoli riposino adeguatamente riduce la possibilità che soffrano di disturbi del sonno.

CONSIGLI PER LO SVEZZAMENTO E L’ALIMENTAZIONE DEI PICCOLI
Un altro aspetto importante è quello dello svezzamento. Nutrintake, un recente studio italiano che rivela i comportamenti alimentari dei bambini dai 6 ai 36 mesi, ha messo in luce le principali ragioni degli squilibri nutrizionali nella dieta dei più piccoli.
In sostanza, si parla di errori nello svezzamento che portano con sé il rischio di carenze nutrizionali, come anemie, sovrappeso, obesità ed ipertensione nelle età successive. La basi di questi disturbi vengono posti soprattutto a partire dai primi tre anni di dieta che vanno curati molto attentamente. Lo svezzamento e l’educazione al cibo ‘da grandi’ deve essere graduale, fatto senza ansia e senza fretta. Un’alimentazione troppo ricca di sale, proteine, zuccheri semplici e calorie può portare ad una carenza di ferro e fibre.

Cosa evitare:
– non introdurre il latte vaccino prima del dodicesimo mese;
– non introdurre cibi confezionati per adulti, non adatti ai bambini, come cracker, biscotti, merendine e pizze, prima dell’anno di vita;
– evitare porzioni troppo grandi, il piccolo non va riempito bensì alimentato;
– non stimolare fin da subito il bambino con sapori forti, ma puntare ad introdurre frutta e verdura nel primo semestre;
– bandire il sale, almeno fino all’anno e mezzo;
– evitare i cibi troppo conditi;
– ricordare che solo dopo i 2 anni il bambino può mangiare tutto.

Dopo i 9 mesi, e soprattutto dopo i 12, infatti, si cade nell’errore di considerare il bambino ‘un piccolo adulto’, abbandonando l’alimentazione specifica per l’infanzia e uniformandola a quella della famiglia. E così si sostituiscono i prodotti per l’infanzia con quelli per gli adulti, dalle merendine in giù.
Uno dei principali squilibri emersi è l’eccesso di proteine. Fino a 12 mesi, il 50% dei bambini ne assume il doppio rispetto al fabbisogno raccomandato e, superato l’anno di vita, il livello balza a quasi 3 volte rispetto al reale fabbisogno. Poca, invece, l’assunzione di ferra che cala dallo svezzamento in avanti. La maggior parte dei bambini nei primi 3 anni di vita non raggiunge il fabbisogno raccomandato. Oltre alle proteine, le mamme eccedono anche con la quantità di sodio, visto che l’abitudine di salare le pappe inizia già prima dell’anno, quando si tenta di rendere più gustosi i cibi pensando di facilitare lo svezzamento. A partire dai 18 mesi poi, 1 bambino su 2 consuma una quantità di sale che va oltre il limite raccomandato. Ricordiamoci che la corretta alimentazione nei primi tre anni di vita getta le basi della salute o di futuri disturbi che diventano poi difficili da correggere come il sovrappeso e l’obesità.

CONSIGLI PER ASSICURARE UN ADEGUATO RIPOSO AL BAMBINO
Come mettere a dormire i bambini e come fare in modo che rimangano addormentati è uno dei compiti più difficili dei genitori, soprattutto con i neonati. Un terzo dei bambini soffre di un qualche tipo di problema di sonno.

Mettere a letto presto i piccoli
I piccoli, in media, dormono un’ora in meno a notte rispetto ad un secolo fa e ciò influenza la loro crescita, la difficoltà ad addormentarsi e i continui risvegli di notte anche da grandi. Non lasciare che i bambini vadano a dormire troppo tardi, ciò crea un sovraffaticamento e la sovraeccitazione del cervello. Questo vale sia per i neonati che per i bambini piccoli.
La famiglia ormai è sommersa da impegni e il sonno può diventare una priorità dimenticata. Ma è buona abitudine impostare orari regolari in cui andare a letto e non aspettare fino a quando il bambino inizia a stropicciarsi gli occhi dalla stanchezza, sbadigli o pianga, il che probabilmente è troppo tardi. Mettetelo a letto prima. Anche 15 o 20 minuti di sonno in più possono fare la differenza.
La National Sleep Foundation afferma che i neonati e i bambini piccoli in genere hanno bisogno di 12 ore di sonno durante la notte, i bambini in età prescolare hanno bisogno fino a 13 ore ed i ragazzi più grandi dovrebbero dormire almeno 10 o 11 ore.

Evitare di farli dormire sempre in movimento
C’è un sospiro di sollievo quando si osserva che il piccolo si addormenta sul sedile posteriore della macchina, vero? Stupendo! Ma attenti a non cadere nella trappola di usare il movimento per fare in modo che il bambino si addormenti per la notte. Se il bambino si addormenta solo e sempre in movimento – nel passeggino o in auto – probabilmente non riesce a raggiungere una fase di sonno profondo e ristoratore a causa della stimolazione del movimento. Gli esperti paragonano il sonno in movimento di un bimbo al sonno indotto ad un adulto durante un viaggio in aereo. Il movimento va utilizzato per calmare i bambini, non per indurli a dormire.

Evitare di sovrastimolare il mondo dei sogni
Va bene offrire della musica rilassante al piccolo per addormentarsi, ma attenti a non fare in modo che l’insieme di giocattoli rotanti, suoni e luci, vadano a distrarre troppo il vostro piccolo. Abbassare le luci ed evitare di affiancare l’azione e il movimento al sonno notturno.

Favorire attività piacevoli
Quando nasce un bambino si tende ad introdurre una routine che consiste nel bagnetto, nella lettura di un libro e nella ninna nanna. Insomma, una serie di calmanti e piacevoli attività che portino alla distensione e al sonno. Quest’insieme di momenti servono al bambino affinché si riesca a conciliare con il sonno. Tuttavia, alcuni genitori di bambini più grandi tendono ad eliminare la stessa routine perché erroneamente ritengono che il loro bambino sia troppo grande o perché si sentono troppo stanchi per continuarla. Al pari degli adulti, anche i bambini più grandi hanno bisogno di un rituale per andare a dormire confortati e rilassati.

Cercare di essere coerenti
Può capitare che quando il bimbo si lamenta e piagnucola, ci si corichi con lui nel suo letto finché non si addormenta. Oppure che lo si accolga nella propria camera da letto, se si sveglia nel cuore della notte. Il problema non è il metodo, ma la pratica incoerente. Se il bambino si ammala o ha paura di una forte tempesta, sentitevi liberi di confortarlo. A molti genitori non dispiacerebbe avere il proprio bambino nel proprio letto, ma se succede troppo spesso si finisce per avere un “letto di famiglia”. Occorre invece stabilire delle regole e rispettarle: ognuno ha il suo letto e, una volta consolati i bambini e passati i momenti particolari, occorre tornare alla routine.

LA RIFLESSIONE
Il futuro? Il web semantico interpreta i sentimenti. E la credibilità è ciò che dice la rete

Mi sono divertito ad ascoltare Rudy Bandiera. Una lezione in università con tanti giovani e il sottoscritto. Si è parlato del nuovo approccio della comunicazione verso i network e la socializzazione. Non più processo verticale ma dialogo con il mercato. Una volta si diceva comunicare con e non per. Dal cogito ergo sum al digito ergo sum. Rifletto e mi agito.
Prima avevamo http e pensavamo di avere in mano il mondo. Da web 2.0 i nativi digitali di oggi al web 3.0 , quelli di domani. Nascono gli hacker e i cracker, i buoni e i cattivi di oggi. Prima questo mondo non c’era. C’erano le bolle speculative a spaventarci assieme allo sviluppo di internet. Questa generazione non esisteva prima. Ci si vedeva al bar. E’ cambiato il mondo delle interazioni. Grande cambiamento sociale.
La nuova comunicazione convenzionale e la rete sono gli argomenti da approfondire. Ci sono adesso aziende tecnologiche che stanno cambiando il nostro mondo anche se non lo sappiamo. Non è la Fiat, non sono le acciaierie. Sono aziende che costruiscono ecosistemi in cui ci coinvolgono e sono i primi a farlo. Esempi.
Apple. 170 miliardi di dollari , quasi come il Qatar, ma con identità superiore. Nel 1970 in un garage fecero in legno uno strano oggetto e partirono dall’estetica. La tecnologia deve essere bella. Banale, ma vincente. Il computer doveva piacere sul tuo tavolo e nasce così il mouse che permette di navigare sulle icone. Tutto intuitivo che assieme all’estetica produce il successo. Quindi la tecnologia arriva dopo, alla fine degli anni Novanta. Si parte dalla musica e si chiude l’era delle cassette e si passa ad IPod belli. Si scarica la musica. Geniale. A metà degli anni 2000 la Nokia e’ leader nei telefoni. Nel 2007 nasce IPhone. Nasce l’uso del dito come strumento di dialogo con il mondo. Nel 2010 ci sono gli smartphone ovunque, ma soprattutto nasce il tablet, l’assassino del computer. Si inventa un mercato con l’ iPad. Io avevo sessanta anni e quando me l’hanno regalato sono entrato in panico. Oggi non posso farne a meno.
Parliamo delle grande aziende inventate da geni (ora molto ricchi).
Microsoft ha il brand opposto di Apple e deve difendersi. A metà degli anni 70 Bill Gates, guardando le olimpiadi a Monaco, sognava un mondo diverso e l’ha fatto. Macchine e software non vivono più insieme, ma vanno su tutto. Msdos, per chi ricorda. Tutti i Pc hanno Windows che non serve più solo sui computer, ma che diventa fondamentale per i giochi. Si reinventa un business.
Facebook, un miliardo e quattrocento milioni di utenti. Poco meno della Cina. Nasce nel 2004, ieri. La gente vede la gente. Ogni giorno si caricano 200 milioni di foto. Fantastico. Algoritmi relazionali sono il potere e i big-data il prodotto come merce di scambio per fare branding. O paghi o sei invisibile. Geniale e perverso. Whatsapp è di Facebook. Attenti!
Amazon.com e l’ecommerce, il più grande negozio della storia che vende settanta miliardi di dollari. Vendita di nicchia o di massa? Dilemma, risposta: entrambi. Perché si parte dalla nicchia e si arriva alla massa. Grande intuizione portata su cloud. Nasce la potenzialità degli eBook e il Kindle.
Google. Da motore di ricerca a galassia di servizi. Gli algoritmi pagerank sono indicatori organici in ordine è proprio l’ordine fa il mercato. Tu non trovi ciò che cerchi, ma ciò che qualcuno decide tu debba trovare prima di altri. AdWords, modello di business. Poi ha comprato Android perché la forza sta nel software. Google maps. Local history, Google lo sa! Gmail ci conosce, il prodotto siamo noi! Potenza delle informazioni.
Può bastare, ho tanti termini da capire cosa significano. Devo adeguarmi. Intanto i droni iniziano a passarci sulla testa e a portare i pacchi dono, anche Babbo Natale li usa. Mi rimane un pensiero. Questa è la fantascienza di ieri. Quale sarà la fantascienza di domani? La risposta mi spaventa. Si parla di web semantico. Interpreta i miei (i nostri) sentimenti e applica una tecnologia pervasiva permanente. Il futuro è la economia della reputazione; non chi sono, ma cosa dicono di me. La mia credibilità e anche la vostra. Intanto vado a comprare “Rischi e opportunità del Web 3.0” il libro di Rudy Bandiera.

Leggi sullo stesso tema il resoconto di Andrea Vincenzi sull’incontro con il blogger Rudy Bandiera

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L’INTERVISTA
Caterina Tavolini: “La mia danza, una denuncia della cieca logica del profitto”

Michele Abbondanza e Antonella Bertoni rappresentano ancora oggi il “duo della danza italiana” e “Terramara” il loro primo, originale e irripetibile “pas de deux”. La loro esperienza nasce nei fecondi anni Ottanta, avviati dalla presenza di Carolyn Carlson a Venezia, che segnano la nascita del teatrodanza italiano e della variante mediterranea della danza contemporanea, con la costituzione della Compagnia Sosta Palmizi. Negli stessi anni la coreografa e danzatrice ferrarese Caterina Tavolini è alla ricerca di una danza che le corrisponda. Vede “Underwood” di Carolyn Carlson nel 1982 e “Il cortile” della Compagnia Sosta Palmizi nel 1985 ed è la folgorazione: da allora segue i seminari della compagnia in giro per l’Italia e studia con Michele Abbondanza a Bologna per due anni, inserendosi a pieno titolo nel panorama delle avanguardie del periodo.

Abbiamo intervistato Caterina Tavolini in occasione del riallestimento del duo “Terramara”, andato in scena ieri sera al Teatro Comunale Abbado di Ferrara, che nello stesso luogo vide anche la coreografia originale danzata da Michele Abbondanza e Antonella Bertoni nel lontano 1991 [vedi].

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Michele e Antonella, 1991

Quali i ricordi, le emozioni e le sensazioni di rivedere lo spettacolo qui, al Teatro comunale, ventidue anni dopo, danzato da una nuova coppia di ballerini?
Innanzitutto il grande piacere di poterlo rivedere in scena. E’ una coreografia geniale, di grande intensità, semplice e raffinata al tempo stesso. Riproporla è stata un’operazione sicuramente positiva. Certo, mettere in scena l’inizio della storia d’amore vera vissuta dalla coppia Abb/Bert credo sia stato molto difficile e coraggioso da parte dei nuovi protagonisti, che sono riusciti a dare molto dal punto di vista virtuosistico ed ironico, ma l’emozione che ho provato e la poetica che ne è emersa quando ho visto l’originale, non ha e non può avere confronti. Michele e Antonella si muovevano come pantere sul palcoscenico, istintivi, con un ardore e una sensualità da far venire i brividi.

La mediterraneità, la solarità, il lavoro della terra sono gli elementi principali che connotano questo spettacolo e che, all’epoca, furono di grande innovazione e originalità. Hai ritrovato la stessa tonalità anche nella nuovo riallestimento?
Non sono riuscita a cogliere le differenze fra la prima volta che ho visto Terramara e quella attuale, coreograficamente e scenograficamente mi sono sembrate altrettanto convincenti: l’alternarsi delle giornate, luce e penombra, che scandiscono il lavoro e la vita di un uomo e di una donna che sia amano, che si toccano, si cercano, si prendono e si lasciano per prendersi ancora, e poi danzano e giocano come fossero su un’aia, utilizzando poeticamente ogni spunto simbolico, come l’arancia, il dolce, succoso e profumato frutto della terra, che in scena rappresenta anche il sole e la luna, un cuscino su cui riposare, semi e bambini che vengono mondo.

Ma passiamo a te, quando hai conosciuto Michele Abbondanza e quanto ha influito nel tuo percorso di danzatrice?
Erano i primi anni Ottanta e io ero alla ricerca di una danza che mi coinvolgesse integralmente. Premetto che ho iniziato a danzare da grande, a ventitre anni. Provenivo dalla ginnastica ritmica a livello agonistico ed ho studiato Scienze motorie all’Isef di Urbino. Ho sempre amato la danza ed ho sempre ballato di tutto, fin da piccola, ma fino ad allora non avevo ancora trovato ciò che rispecchiasse la mia idea della danza. Quando ho iniziato ad insegnare educazione fisica nella scuola pubblica, metà del mio stipendio andava per pagarmi i corsi e gli stage in giro per l’Italia e all’estero. Ho vinto anche qualche borsa di studio che mi ha permesso di approfondire la ricerca coreografica. Inizialmente ho provato ad affrontare varie tecniche, dalla modern jazz dance alla moderna alla classica all’hip hop, ma ogni tecnica lasciava una parte di me inespressa.

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Master class con Carolyn Carlson a Reggio Emilia, 1991

Dopo aver visto Underwood di Carolyn Carlson a Venezia nel 1982 [vedi], ho capito che avrei voluto danzare così, con quello spirito. La danza di Carolyn era la semplicità, la forma poetica del movimento, l’ironia, la leggerezza, con un profondo legame con la natura che apprezzavo e che apparteneva alla mia sensibilità artistica.
Successivamente ho cominciato a seguire i suoi danzatori che avevano formato la Compagnia Sosta Palmizi, tra i quali c’era anche un giovane Michele Abbondanza.

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Agrio, coreografia di Caterina Tavolini

Per due anni ho studiato con lui a Bologna e quelli sono stati gli anni fondamentali della mia formazione. Lui è stato il mio primo vero maestro, nonostante fossimo coetanei. In seguito ho frequentato i seminari estivi dei Sosta Palmizi con Raffaella Giordano, Giorgio Rossi e Roberto Castello. Le loro lezioni erano continue fonti di stimoli, la loro creazione più importante “Il Cortile” del 1985 mi ha incantata, lo considero un vero quadro poetico sulla civiltà contadina del teatro danza italiano [vedi]

In quegli anni i Sosta Palmizi rappresentavano l’avanguardia: la danza contemporanea in Germania si chiamava Pina Bausch, negli Stati Uniti Carolyn Carlson, in Italia Sosta Palmizi e poi Abbondanza Bertoni. Era la danza contemporanea in chiave mediterranea. In quale delle tre modalità espressive ti sei più ritrovata?

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Il respiro della terra, coreografia di caterina Tavolini

Per quanto ci siano grandi affinità, ho sempre prediletto la leggerezza, l’ironia e la poesia della Carlson e di Abbondanza. La ricchezza che deriva dal contatto con la natura, presente in tutti e tre i coreografi, è stata un filo conduttore nei miei lavori, fino a creare nel 2009 il duo “Il respiro della terra” dedicato interamente a questo tema. Coreografia che vorrei riproporre e magari approfondire a breve, perché sento l’esigenza di denunciare, anche attraverso il linguaggio della danza, la distruzione dell’ambiente perpetrata da un essere umano sostanzialmente cieco e irresponsabile, legato solo alla logica del profitto.

Che tipo di legame si era instaurato tra te e Abbondanza?
Negli anni si era costruito un bel rapporto di stima e di amicizia, eravamo coetanei e dunque non si trattava del tipico rapporto maestro-allieva. Nei primi anni in cui ho iniziato ad insegnare danza contemporanea, l’ho invitato diverse volte a Ferrara per tenere delle lezioni ai miei allievi.

Abbondanza è stato definito dalla critica “una delle tre presenze più importanti del teatrodanza italiano per qualità espressiva, intelligenza estetica, energia spettacolare, originalità creativa” (Valeria Ottolenghi, La Gazzetta di Parma, agosto 1995)*.
Che lavoro proponeva Abbondanza ai ballerini?

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Spirito libero, coreografia di Tavolini

Lui lavorava molto sull’improvvisazione, sull’essere scenico, sull’aspetto teatrale e laboratoriale della danza, con un attenzione al dettaglio, al movimento di qualità che nasce da un’intenzione, da un’immagine, da un contenuto o da un’intuizione. Credo di aver ereditato da lui la capacità di cogliere intuitivamente l’efficacia di un gesto spontaneo per renderlo unico e insostituibile, al servizio della creazione coreografica. E di questo gliene sono grata.

* in Valeria Morselli, “L’essere scenico. Lo zen nella poetica e nella pedagogia della Compagnia Abbondanza/ Bertoni”, Ephemeria ed., 2007

 

 

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I disegni della coreografia “Terramara”, tratti dall’archivio personale di Michele Abbondanza e Antonella Bertoni e pubblicati per gentile concessione in Valeria Morselli, “L’essere scenico. Lo zen nella poetica e nella pedagogia della Compagnia Abbondanza/Bertoni”, Ephemeria ed., 2007.

Per saperne di più sul riallestimento di Terramara, visita il sito [vedi] e leggi l’articolo di lancio dell’evento con intervista ai due nuovi ballerini pubblicato su questa testata [vedi]

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CALENDARIO DELL’AVVENTO
Paese che vai,
Natale che trovi

Non poteva mancare nel nostro calendario dell’avvento una finestra sui diversi usi tradizionali di festeggiare il Natale in Italia e in Europa.
Abbiamo già parlato della tradizione del presepe, che a Napoli è diventato una vera e propria arte. Non si può non citare il pandoro di Verona, in realtà evoluzione ottocentesca del dolce tradizionale veronese chiamato ‘Nadalin’, o il panettone milanese: nel passato veniva sfornato la sera della Vigilia di ritorno dalla messa di mezzanotte e ne esistevano numerose varianti, che potevano contenere miele, uvetta, castagne, fichi, noci, nocciole e mele. Per molto tempo in Lombardia, soprattutto nelle zone montane di antica influenza tedesca, è stata portata avanti l’usanza di organizzare fiaccolate per festeggiare il ritorno della Luce: in alcune zone erano i bambini mascherati da Re Magi a portare per le strade del paese una stella colorata fatta di cartone e di legno e illuminata dall’interno, al loro passaggio i cantori intonavano canti tradizionali del Seicento accompagnati da violini e strumenti a corda.
Anche l’Emilia Romagna è ricca di tradizioni popolari natalizie: la sera della Vigilia il capofamiglia poneva nel camino un ceppo, possibilmente di quercia, e accendeva il camino recitando un Pater noster, poi l’intera famiglia vegliava fino alla messa. Per ingannare l’attesa si giocava a carte, si ascoltavano i racconti dei più anziani e si faceva l’’arimblén’, una specie di pesca per indovinare cosa avrebbe riservato il nuovo anno in arrivo. A mezzanotte, uscendo di casa, si lasciavano la porta socchiusa e tre sedie vicino al focolare per permettere alla Sacra famiglia di trovare ospitalità e scaldarsi davanti al fuoco. Curiosa anche la tradizione di indossare una camicia nuova il giorno di Natale, cucita appositamente dalle donne di casa, ma non durante le festività perché si credeva portasse sfortuna: una leggenda narrava che la Vergine non avesse di che coprire Gesù e volesse tessere una camicia con i propri capelli, chiese quindi a una filatrice che passava nei pressi della capanna, ma la donna rifiutò di tagliare i suoi capelli donandole invece i lini più pregiati, per questo non si poteva filare compiendo il gesto che quella donna generosa rifiutò.
Spostandoci al di là delle Alpi, un’usanza rivelatrice di una devozione vicina alla vita quotidiana è il ‘Kindelwiegen’, la ‘ninna nanna del Bambino’, sviluppatasi attorno al quattordicesimo secolo e diffuso in tutte le chiese tedesche già nel quindicesimo. Cullando il bambinello i fedeli potevano esprimere la propria devozione anche in maniera fisica: mentre muovevano la culla intonavano canti e, come era usanza presso i popoli germanici nei giorni di festa, danzavano intorno a essa. In molti paesi le credenze più originali riguardavano la notte della Vigilia. Era per esempio un’idea diffusa che a mezzanotte agli animali fosse concesso il dono della parola, a cambiare era il destino di chi li ascoltava: in Svizzera formulavano auspici o predizioni a chi li ascoltava, mentre in Gran Bretagna e fra le Alpi tedesche sentirli parlare era un cattivo presagio.
Caratteristico dell’Inghilterra è lo scambio di biglietti di auguri, un’abitudine che si dice sia iniziata nel dicembre del 1843, quando sir Henry Cole chiese a un amico pittore di dipingere piccole cartoline da portare ad amici e parenti: da allora è diventata una tradizione irrinunciabile per tutti i sudditi di Sua maestà. Inglese è anche l’usanza dei cantori di Natale narrati anche da Charles Dickens, che la sera della Vigilia percorrevano le nebbiose strade londinesi e non solo cantando sull’uscio delle case e facendo gli auguri, ricevendo in dono qualche sterlina.
In Grecia la mattina di Natale i bambini trovavano accanto al letto dolci, un bastone e una bisaccia, con questi oggetti andranno di casa in casa a portare i propri auguri in cambio di piccole somme o leccornie. A pranzo si usa mangiare il Kristofsomo, il ‘pane di Cristo’: un pane speziato e farcito di uvetta, noci e pinoli dalla preparazione lunga e complicata, è considerato sacro dalla chiesa greca ortodossa e si dice che assicuri benessere per un anno intero alla famiglia che lo consuma. Le celebrazioni si chiudevano nel pomeriggio con grandi falò accesi nelle piazze attorno ai quali la popolazione intonava canti tradizionali.
Come dimostrato da questi pochi accenni, ovunque il festeggiamento del Natale era il punto culminante dell’inverno, un’occasione per riunire la famiglia e perpetuare tradizioni famigliari o popolari dal sapore antico. Una dimensione intima e raccolta che negli ultimi anni si sta perdendo nella moderna frenesia della corsa ai regali.

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IL FATTO
Il farmacista saharawi e le erbe del deserto

Trovare nei nostri prati, campi o addirittura balconi, la camomilla selvatica, non è nulla di strano.
Nel deserto roccioso algerino, dove sorge il campo profughi dei saharawi fuggiti dal Sahara Occidentale dopo l’occupazione del Marocco, il ritrovamento della ‘matricaria pubescens’ è invece eccezionale e importante perché sta alla base della medicina tradizionale.
Grazie ad un progetto di solidarietà in collaborazione con il Centro di ateneo per la cooperazione allo sviluppo internazionale dell’Università di Ferrara diretto dal professor Alessandro Medici, è stato possibile assegnare ad un farmacista saharawi, Mohamed Lamin Abdi Mahbes, un dottorato di ricerca per studiare le proprietà delle erbe che crescono nel deserto, ed il loro utilizzo in medicina e cosmesi. Lo scopo ultimo è quello di rendere sempre più autonoma la popolazione saharawi dagli aiuti umanitari, e favorire la produzione di medicine, possibilmente a base naturale, partendo da ciò che si trova attorno alle tendopoli dei rifugiati o nei limitrofi mercati locali.

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Mohamed Lamin Abdi Mahbes

Il progetto ha visto in una prima fase la visita ai campi di una ricercatrice dell’Università di Ferrara, Alessandra Guerrini, che è rimasta una settimana per capire come sono organizzati i laboratori nei campi e qual è il contesto di vita. In una seconda fase, che si è appena conclusa, il dottorando saharawi è stato nei laboratori della facoltà di Chimica e tecnologia farmaceutica di Ferrara, per analizzare, assieme ai ricercatori e ad una studentessa che scriverà su questo la tesi, le proprietà della camomilla che viene dal deserto, e valutarne possibili impieghi.
“Ogni tre mesi vorremmo cambiare pianta tra tutte quelle che Lamin ci ha portato – ha spiegato la dottoressa Guerrini – e dedicare alla sua analisi ogni volta una tesi sperimentale”.
“Al momento stiamo facendo ricerche di base sulla caratterizzazione chimica – ha proseguito la ricercatrice – per capire quali sono i principi attivi delle piante: sappiamo che alcune dovrebbero avere proprietà antiossidanti e antibatteriche, ma prima di destinarle alla produzione di prodotti farmaceutici o di bellezza dobbiamo eseguire i necessari test biologici”.
“Le malattie più diffuse ai campi – ha raccontato il dottor Mahbes, che si è laureato in farmacia nell’ex Urss– sono quelle respiratorie, gastrointestinali, la celiachia e il diabete. Nelle tendopoli le cure sono gratuite, e i medici ricevono solo un incentivo simbolico. Noi lavoriamo per il bene della comunità, non avendo al momento un paese, questo è il nostro modo di lottare”.
“Nei campi profughi esistono due grandi ospedali – ha proseguito Lamin – poi c’è un centro sanitario in ogni provincia, e un dispensario in ogni comune. Se potessimo utilizzare le erbe come integratori per i medicinali, potremmo produrli da soli, riducendo la dipendenza dagli aiuti alle sole materie prime e non ai prodotti finiti”. Un grande passo avanti anche per dare un futuro ai tanti giovani nati nei campi profughi, “un deserto, nel deserto”, che non hanno mai vissuto nella terra d’origine, che al contrario è rigogliosa e affacciata sul mare.

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L’INCHIESTA
In carcere. Viale K: “Il reinserimento umanizza la pena e fa risparmiare lo Stato”

4.SEGUE – La nostra inchiesta sta mettendo in luce le opportunità di lavoro per i detenuti, un’occasione di impegno concreto per chi è recluso e una risorsa per l’intera comunità. In questa quarta parte, parliamo di questi temi con don Domenico Bedin e Raffaele Rinaldi, rispettivamente presidente e direttore dell’associazione Viale K, realtà nata nel 1991 per contrastare le forme di povertà estrema e di emarginazione sociale. La loro attenzione si rivolge a tutte le persone emarginate, agli immigrati appena arrivati, ai detenuti in misura alternativa al carcere e a tutte quelle persone che versano in situazioni di povertà estrema. Sul loro sito si legge: “Intendiamo adoperarci affinché ciascun uomo veda rispettato il ‘diritto al futuro’ e cioè alla sussistenza, alla salute, al lavoro, all’istruzione, all’informazione”.

Don Domenico, nella scorsa puntata dell’inchiesta [vedi] abbiamo fatto un focus sul progetto regionale che state realizzando ultimamente in collaborazione con la Coop estense e che prevede il reinserimento sociale di persone in esecuzione di pena attraverso l’attività orticola. Altre novità?
A dire il vero sì. Il progetto avviato con la Coop estense non è l’ultimo tra quelli che abbiamo intrapreso. Come Viale K da qualche mese abbiamo avviato, unici a Ferrara, un’esperienza in linea con l’art. 21 per l’inserimento di un detenuto con misura alternativa per l’attività della nostra mensa per i poveri (via Pesci, zona Rivana). Si tratta di un accordo tra l’associazione e la casa circondariale di Ferrara: il detenuto viene accompagnato alla mensa, lavora dalle 8 alle 15, poi viene riportato in carcere.

Ci sono altri enti o cooperative coinvolti in quest’esperienza?
No, non sono coinvolti altri soggetti, questo è un semplice accordo tra la direzione del carcere e l’associazione. Anzi, a questo proposito ci tengo a dire che le misure alternative come da art. 21 andrebbero incentivate perché sono di semplice attivazione, è solo una questione di volontà: concedere i permessi è a discrezione della direzione e la selezione viene effettuata in accordo con gli operatori del carcere stesso, una volta definita l’attività con l’associazione di riferimento il gioco è fatto. Si potrebbe fare molto di più, anche a partire da oggi, ma purtroppo si fatica ad ottenere i permessi dalle direzioni perché ancora non c’è la mentalità giusta, si ha paura del nuovo, si ha paura di osare.

Altre esperienze realizzate per garantire un lavoro utile ai detenuti?
Da molti anni, quasi da sempre, abbiamo in carico diversi “affidamenti in prova ai servizi sociali” come misura alternativa al carcere, ossia persone affidate ai Servizi sociali di grazia e giustizia che risiedono presso le associazioni o presso la propria abitazione, e che possono svolgere attività di volontariato. Nel nostro caso questi affidamenti risiedono presso le nostre comunità e svolgono anche attività di inserimento lavorativo sia all’interno che all’esterno della comunità; prevedono una fase di accoglienza, un periodo di formazione poi l’inserimento lavorativo. Nel periodo 2012-2014, queste esperienze sono rientrate nel progetto “Acero – Accoglienza e lavoro” per percorsi di inclusione lavorativa [vedi]. Il progetto si è appena concluso ma abbiamo buone speranze che venga riattivato. In realtà, per noi non è cambiato nulla, ma rientrare nel progetto regionale significa inserirsi in un contesto più strutturato e condiviso e, cosa non secondaria, ottenere qualche finanziamento.
Per le persone agli arresti domiciliari, invece, le misure sono più restrittive e quindi generalmente sono limitati a svolgere il loro lavoro all’interno delle strutture. In qualche caso possono lavorare all’esterno ma con orari ben prestabiliti.

Stiamo sempre parlando di lavoro volontario vero?
Per i casi appena descritti sì. Noi purtroppo siamo un’associazione e non riusciamo a pagare degli stipendi ma conferiamo piccole borse lavoro o piccoli contributi. Per quanto riguarda invece il lavoro retribuito la Coop. Meeting Point di via smeraldina, che gestisce il ristorante La Casona, ha un inserimento lavorativo. Il prossimo anno se ne prevede di inserire un secondo.

Tra tutte queste attività, a quante persone siete riusciti ad offrire la possibilità di rendersi utili risarcendo in questo modo la comunità? Per ricavare qualche dato ci siamo rivolti a Raffaele Rinaldi, direttore di Viale K.
Tirare fuori dei numeri non è facile perché il turn over è più veloce per i “fine pena”, mentre i tempi sia allungano per gli altri casi. Però stiamo proprio stilando in questi ultimi giorni il report annuale, quindi possiamo dire che ad oggi abbiamo una decina di casi attivi, mentre nell’arco del 2014 siamo arrivati a coinvolgere quasi 30 detenuti.

Tutti coloro che sono stati intervistati nell’ambito dell’inchiesta hanno detto che si potrebbe fare molto di più, che gli enti locali o le stesse direzioni delle carceri non sfruttano le possibilità e le potenzialità create dalle leggi. Tu cosa ne pensi?
Concordo pienamente e aggiungo anche un paio di considerazioni. In primo luogo occorre ricordare che utilizzare le misure alternative costano alla Stato meno della metà rispetto alla detenzione: a fronte di un costo medio di € 116 al giorno per persona, si scende a circa € 40 con progetti di reinserimento. Per dare un dato che descriva le proporzioni nel 2013, il sistema carcerario è costato 2,8 miliardi di euro, all’esecuzione penale esterna sono andati 471,213 euro mentre solo per le attività trattamentali sono stati spesi oltre cinque milioni di euro. Per questo investire diversamente, e di più, sulle misure alternative vuol dire investire sulla persona e dare valore alla Costituzione. Tutto ciò si tradurrebbe in un risparmio “economico” ma soprattutto “sociale” per la collettività, in termini di certezza del “recupero” e di politiche della sicurezza, perché significa abbassare la recidiva, passare dalla giustizia vendicativa alla giustizia riparativa, in due parole umanizzare la pena.
In secondo luogo, e qui apro un tema più ampio ma di fondamentale importanza, il reinserimento di queste persone – anche da un punto di vista culturale e sociale – non deve essere un tema completamente delegato all’Istituzione carceraria, ma deve essere condiviso e agito anche dalla società civile. Non bastano le leggi, i decreti, le circolari ma è necessaria la disponibilità ad accogliere per dare la possibilità di compiere un percorso graduale e responsabile verso il reinserimento nel tessuto sociale. Paradossalmente, pur esistendo strumenti legislativi per l’accesso alle misure alternative, la società civile non risulta pronta. A Ferrara ci sono tantissime associazioni di volontariato (per fortuna) impegnate nei settori più disparati del vivere civile, ma pochissime si interessano e si dedicano a questa fetta di umanità rinchiusa e contenuta ai bordi della nostra città, come un’isola ecologica dove quotidianamente si sversano i “rifiuti umani”. Perché culturalmente siamo portati a identificare la persona con il reato piuttosto che al percorso di recupero in cui è impegnato. E’ soprattutto la politica che deve misurarsi con questa parte di cittadinanza e del suo recupero, ed è proprio una notizia di qualche giorno fa che vede il Comune approvare una Convenzione l’Asp. Centro servizi alla persona e la Casa Circondariale di Ferrara, per favorire l’inserimento di persone detenute, attraverso lavoro gratuito e volontario in progetti di pubblica utilità (art. 21 e sostitutivi pena). Credo che sia la direzione giusta.

CONTINUA

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IL CASO
Cona, reparti al freddo e lunghe attese: il ‘Tribunale’ vigila

Sono almeno tre i reparti dove il freddo fa sentire i suoi morsi nonostante l’sos manutenzione lanciato in più occasioni da geriatria, pediatria e radiologia dell’ospedale di Cona. Il tempo è passato e ancora non è stato posto rimedio a un guaio segnalato più volte al Tribunale per i Diritti del Malato, che grazie all’associazione Cittadinanzattiva è operativo da un paio d’anni all’interno del polo ospedaliero ferrarese. “A quanto ci risulta il freddo persiste”, spiegano gli avvocati del Tdm Lucia Gabrielli e Daniela Bizzotto. Dopo aver raccolto le lamentele, averle girate all’Azienda e verificato di persona la scomoda realtà sono state invitate a restare lontane dai reparti. “Ci è stato detto che avrebbero verificato la situazione, ma tutto deve passare attraverso l’Urp, l’ufficio relazioni con il pubblico – spiegano – Sappiamo che è stato aperto un contenzioso per il malfunzionamento dell’impianto, ma le cose sono rimaste immutate. Ci sono stati momenti in cui la manutenzione veniva richiesta un paio di volte la settimana, medici e infermieri spesso si ritrovavano ammalati a causa degli sbalzi di temperatura”.
Niente di nuovo sotto il sole, ma non per questo i mali cronici di Cona, la cittadella della salute sotto inchiesta costante, devono essere accettati come una realtà cui si è abituati. Non c’è abitudine giustificabile quando si parla di salute pubblica, soprattutto a fronte dei costi sostenuti per servizi inadeguati ai bisogni di chi li paga profumatamente per ritrovarsi in ospedale fuori città – quando invece l’aeroporto è a due passi dal centro chissà per quale perversa logica – scomodo da raggiungere e sempre al centro di giustificati mugugni. Non ultimi quelli relativi alle lunghe attese per visite specialistiche di fronte alle quali i pazienti si rivolgono ad altre strutture anche fuori regione, senza parlare del Pronto Soccorso, ingolfato al punto da sembrare quello di una grande città. Un fatto inevitabile dal momento che sul polo ospedaliero vengono dirottate le emergenze della provincia, dove i tagli alla sanità hanno ridotto a un lumicino la maggior parte delle strutture territoriali. Cona “pigliatutto”, compresi gli improperi di chi si ritrova lanciato lungo l’oscura viabilità ospedaliera alla ricerca del Pronto Soccorso, collocato al lato opposto del punto d’arrivo nella cittadella della salute. Il che, diciamolo con chiarezza, offende la logica più comune. E’ un fatto.
“Insieme ai problemi legati alle visite di ogni specialità lamentate dagli utenti, ci sono le lagnanze sui parcheggi, sembra incredibile data la locazione in campagna, ma non ci sono posti a sufficienza – spiegano i due legali – Eppure, nonostante la carenza sia evidente, le multe non vengono risparmiate”. Come dire il danno e la beffa, tanto più che i collegamenti tra la città e l’ospedale non sono certo il garofano all’occhiello del trasporto pubblico. Ma quel che più infastidisce, sostengono Gabrielli e Bizzotto è la mancanza di informazione sulle procedure ospedaliere. “Abbiamo avuto un caso in cui ai figli di una signora impossibilitata ad alimentarsi è stata negata l’opportunità di assisterla richiamando le regole di reparto – raccontano – Li hanno mandati via con la rassicurazione che avrebbero provveduto ad alimentare la madre, ma al loro ritorno hanno trovato il vassoio con il cibo freddo ancora sul comodino. E’ stata aperta un’inchiesta interna all’ospedale, tuttavia non abbiamo saputo nulla in merito al risultato. Non viene mai comunicato né un reclamo né un provvedimento disciplinare”. Silenzio. Eppure un paio di segnalazioni la settimana arrivano nella sede del Tdm. “Ci occupiamo principalmente di transazioni per piccole lesioni, invalidità temporanee – concludono – di casi di malasanità vera e propria ne stiamo seguendo un paio. Ciò non toglie che le denunce siano numericamente cresciute. Con tutta probabilità il fenomeno è dovuto a una maggior consapevolezza dei propri diritti, è un passaggio fondamentale che si sposa con il nostro impegno di volontari, prima di intervenire infatti cerchiamo di verificare nel dettaglio se quanto ci viene riferito sia fondato o risponda piuttosto ad aspettative troppo alte di chi si rivolge al nostro ufficio”.

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Call center: realtà e luoghi comuni

“Buongiorno, sono Paola, come posso aiutarla?”. Quante volte abbiamo avuto bisogno di telefonare a una azienda di servizi pubblici e non abbiamo avuto risposte soddisfacenti? Pensiamoci sinceramente. Il problema è noto per ogni numero verde di ogni tipo di azienda o servizio nazionale (telefonia, etc.) e nei molti casi in cui ci rispondono voci gentili provenienti talvolta da posti lontani, il fatto è spesso piuttosto fastidioso. Ma nel caso di servizi pubblici ambientali è così? Parliamone.
E’ importante facilitare i cittadini che vogliono ottenere informazioni e che hanno quesiti da porre sui servizi e spesso lamentano proprio mancanza di integrazione e difficoltà di accesso alle informazioni e ai servizi. In verità, non sempre siamo pronti a parlare al telefono e non sempre vogliamo informazioni, spesso vogliamo solo discutere. Il call center si presenta ufficialmente come quella struttura dedicata all’ascolto dell’esigenze del cittadino e alla conseguente raccolta delle informazioni.
E’ importante valutare da un lato la qualità del servizio reso al cittadino/utente, l’efficacia/efficienza del metodo usato, la disponibilità e la preparazione del personale, dall’altro la verifica che la soluzione, con lo strumento del call center, sia efficace e organizzata dal gestore per semplificare l’interazione con i cittadini per i problemi dell’utenza, per chiarimenti e informazioni in merito ai servizi resi.
Provare a telefonare ai call center delle aziende di servizi pubblici tramite numero verde (disponibile ormai presso tutti i gestori, tranne qualche caso) è una interessante esperienza. Bisogna verificare prima di tutto la chiarezza e la facilità d’approccio e d’interpretazione al sistema (ci si riferisce al metodo con risponditore a disco automatico) e in quanto tempo, rimanendo in attesa, l’utente raggiunge l’operatore/trice (qualora non sia in grado di interagire con le varie opzioni ) e una volta raggiunto se siete rimasti soddisfatto o meno del servizio reso.
Io ho avuto modo di verificarlo e spesso, a mio avviso, il servizio è stato sufficiente, anzi utile.
Nei termini di pronta capacità di risposta e tempestività ho rilevato un’accessibilità al servizio molto agevole e veloce e dunque un netto miglioramento rispetto ad anni fa. La capacità di risposta è quasi immediata e i tempi medi di attesa per parlare con un operatore o per formulare la domanda sono accettabili. Ho rilevato inoltre come la professionalità degli operatori sia cresciuta molto (tranne qualche caso sporadico) e come l’approccio sia stato spesso di disponibilità ad interagire (assente in alcuni centralini di strutture nazionali). Ho in genere ricevuto risposte complete che spesso andavano oltre la semplice richiesta nello spiegare dettagliatamente i servizi.
Dalle risposte ricevute, ho notato inoltre che il personale che opera presso i call center dei vari gestori distribuiti su tutto il territorio regionale ha raggiunto un buon livello di omogeneità, quasi standard, nella risposta, nonostante operino per aziende diverse, e questo è un bene per il cittadino che in tutta la regione ottiene la stessa risposta per la soluzione dello stesso problema.
Capisco che le frequenti criticità ci portino a dubitare, ma siamo qui per ragionare.
Certo, c’è da dire che rimane però sempre farraginoso il sistema con risponditore a disco automatico, con le infinite opzioni e dunque la difficoltà ad accedere a questo tipo di servizio per quei cittadini/utenti anziani o che non sono quotidianamente in contatto con sistemi moderni di comunicazione. E’ anche vero che in alcuni casi gli operatori si rilevano impreparati a rispondere direttamente e rimandano ad un loro collega (referente del servizio). In qualche caso si è anche rilevato poi un lungo tempo di attesa, per cui quella che dovrebbe essere una soluzione qualificata, diventa a volte un disservizio. Ma, in generale, io mi sento di poter affermare che si tratti di un buon servizio.

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Quando Nanin scoprì che il guanciale si può anche mangiare

Reduce dall’ascolto del “Pellegrino Artusi” letto dall’inimitabile Paolo Poli immediatamente ritorna alla mente il libro che la nonna , quella che mi ha adottato, trattava come un incunabolo. Era infatti la prima edizione, commentata da innumerevoli note a penna e a matita e interfogliata con ricette simili, consegnate con molte raccomandazioni di non rivelarne il contenuto ad altre dame, da parte delle amiche della nonna, messe con fare furtivo in quel volume del sommo giudice che troneggiava, slabbrato e consunto, nel ripiano alto della cucina.

La fame di libri era tale – nell’età dell’onnivora voracità del ragazzetto Gianni, anzi “Nanin” secondo la dizione familiare – che mi spinse alla lettura anche di questo semi-incomprensibile testo. E che sbalordimento al leggere che “guanciale” non era il mio cuscino preferito, senza il quale non dormivo e che il nonno adottivo, pisano d’origine m’imponeva “porta il tu’ guanciale e va a fa’ il ripossino nella mi’ stanza!”, ma una parte prelibata del maiale “disfatto”!

Tuttavia il momento clou si svolgeva alla vigilia di Carnevale, prima della Quaresima, quando nonna Ghita con gli occhi alzati al cielo si dedicava tra tramestii e sospiri all’ardua impresa di confezionare il pasticcio di maccheroni, secondo la ricetta dell’Artusi. L’agitazione si trasferiva alla buona Ernesta che aiutava la nonna d’inverno (d’estate faceva la mondina nel Vercellese e m’incantava con le canzoni che lassù imparava e che erano oggetto della mia stupefatta ammirazione). I problemi diventavano quasi irrisolvibili per la difficoltà di reperimento della materia prima – erano gli albori degli anni Cinquanta del Novecento. Per non perderne la fascinazione m’affido al ricordo e non vado a controllare filologicamente le dosi e il procedimento. Carne e carne bianca doveva produrre un sugo denso in cui avrebbero finito di cuocere i maccheroni. Del destino della enorme quantità di carne impiegata non se ne sapeva più nulla salvo per una piccola parte che sarebbe servita a condire “l’interno” custodito come un gioiello dallo scrigno della pastafrolla che quasi sempre veniva eseguita secondo l’artusiana ricetta uno.

Odori e afrori emanati dall’Ernesta e dalla cagnetta Pupa talmente grassa da non reggersi sulle gambette corteggiavano il processo mentre, sempre più sacerdotessa del gusto, nonna Ghita rivolgeva lo sguardo, come solo Atena avrebbe potuto rivolgere all’implorante vestale, al nonno Berto che da meandri nascosti della livrea-camice che indossava estraeva lui il principe nascosto, la maestà della tavola, il tartufo che solo dopo infiniti scambi di cortesie era riuscito ad ottenere.

Con fare disinvolto ma che nascondeva la massima preoccupazione nonna domandava chi avrebbe pulito il gioiello. Incautamente m’offrivo, ma venivo rigettato con smorfia di disgusto mentre si commentava come, come!, il giudice Artusi poteva con la massima “sprezzatura” nel senso più vicino al “Cortegiano” castiglionesco scrivere di mettere una manciata del gioiello tartufo – quanti? Forse un chilo?- sotto la cenere nell’angolo tiepido del focolare. Da usare m’immaginavo come le castagne che si sbucciavano e si mangiavano con la stessa “divina Indifferenza” (Montale!!!) nelle sere fredde “a veglia”.

E dopo “du’ jorni” tanto nonno Berto imponeva, eccolo il Pasticcio. Appare come un miraggio di lusso e perdizione, di sciupìo e di vertiginosa gioia del palato, trasformando la sala da pranzo in un angolo paradisiaco. Mi veniva concesso anche un goccetto di vino che reputavo pessimo rispetto all’adorata Idrolitina.

La cucina economica ronfava, la Bechi emanava calore diffuso, la gatta mi stava sulla panza e come direbbe il grandissimo Robertaccio Benigni animali e persone magnificavano la natura e le sue meraviglie come un dono inatteso e forse nemmeno preteso.

Gli anni passano e dopo decenni non più “Nanin” ma professor Venturi, “lento pede” traverso le sale vuote di Palazzo Pitti a visitare la bellissima mostra del Furini, quando s’avvicina frettolosa e elegante una silhouette che riconosco immediatamente per il Maestro: Paolo Poli. E così lo saluto ricevendone in cambio un grato sorriso e una excusatio non richiesta “ma che Maestro e Maestro! Dimmi piuttosto che sei!” Declino le mie generalità e immediatamente s’avvia la rincorsa a ricordare amici comuni e soprattutto the comuni, ricevendone compiaciuti segni allorché citavo gli anglobeceri fiorentini che più contavano e i “nobiloni”. Ma nelle sue irriverenti esclamazioni brillava la luce di un’intelligenza inesausta e provocatoria. Da manuale i commenti che ci scambiavamo davanti ai quadri. Poi la citazione della mia città natale: “Ferara”. E la risposta commossa: “L’adôro”. Lì c’è il pubblico che amo di più (evviva!! n.d.r) tutti mi fa fan festa. E come si mangia!”.

Per questo non posso che dedicare a lui il mio libresco assaggio del pasticcio di maccheroni alla ferrarese.

Prima serata Autori a Corte: speciale Natale 2014

da: Autori a Corte

Bel riscontro di pubblico con quasi 150 persone che si alternate durante la giornata per il primo appuntamento di Autori a Corte spaciale Natale 2014.

Martedì 16 dicembre presso la sempre affascinante della Sala Estense per un evento che gode del Patrocinio dell’Assessorato alla Cultura e con la partreneship dell’Istituto IPSARR di Ferrara preceduti da una presentazione dedicata interamente ai bambini alle ore 18,00 del volume Le fiabe colorate di Miriana di Miriana Trevisan (Caracò Editore) con l’abile conduzione di Ruggero Veronese e la drammatizzazione di Denise Anna De Prisco, si sono susseguiti Giancarlo Dall’Olio con la sua ultima novità La generazione imperfetta (Este Edition) e Franco Mari con Il dito di Dio (Este Edition) e Guido Barbujani con Lascia stare i santi (Einaudi).
La serata ha visto come moderatori Anna Quarzi presidentessa dell’Istituto di Storia Contemporanea
che ha Patrocinato l’incontro per il duo Mari-Dall’Olio, autentica chicca per la tematica dissimile ma comune nell’inqaudramento storico che ha catalizzato l’attenzione del pubblico e Sergio Gnudi scrittore e direttore artistico della fortunata rassegna Parole d’autore per Guido Barbujani, maestro della scrittura ma anche della parola che ha, se possibile, stupito la parte di platea di suoi concittadini che ancora non lo conosceva sotto questa veste.
Pubblico attento e partecipe che ha apprezzato sia i volumi che le degustazioni offerte da Cafferia 2000, Panificio dellepiane e l’azienda vinicola Zanatta.
Il prossimo appuntamento d martedì 23 dicembre a concludere questo appuntamento natalizio che è stato realizzato grazie al contributo di banca Mediolanum ed Estense.com vedrà alternarsi sul palco Gian Pietro Testa con la sua novità Interviste infedeli (Este Edition)e a chiudera l’attessissima anteprima del libro del comico Andrea Poltronieri Note appuntate (Edizioni La Carmelina collana Autori a Corte) il tutto precedeuto alle ore 18,00 dal volume Il mare e le onde (Lantana editore) di Daniela Pareschi per il prologo che si svolge con il supporto di Paper Moon cartoleria dedicato ai più piccoli dai 5 anni in su.
Info sul sito http://www.autoriacorte.onweb.it

CALENDARIO DELL’AVVENTO
L’abete parlante

“In mezzo al bosco si trovava un grazioso alberello di abete; aveva per sé parecchio spazio, prendeva il sole, aveva aria a sufficienza, e tutt’intorno crescevano molti suoi compagni più grandi, sia abeti che pini, ma quel piccolo abete aveva una gran fretta di crescere.”
“Oh” Se solo fossi grosso come gli altri alberi!” sospirava l’alberello…”

Hans Christian Andersen è il narratore delle piccole cose e dai profondi significati, in grado di dare una voce a chiunque e qualunque cosa, siano esse vanitosi bucaneve, povere fiammiferaie o soldatini di stagno con una sola gamba. “L’abete” (“The fir tree”), favola pubblicata per la prima volta nel 1844, è una delle sue inestimabili perle che racchiude insegnamenti e l’insostenibile leggerezza dell’essere, e del diventare. Contemporanea e attuale; non solo, come spesso si pensa di fiabe e favole, per i bambini, ma anche per gli adulti, i cosiddetti ‘grandi’.
Il desiderio di grandezza dell’orgoglioso abete, che non si accontenta della sua radura di bosco, viene bruciato – e con esso lui stesso – proprio con l’arrivo di ciò che lui aspettava di più, del suo sogno di grandezza, rivelando quanto effimera sia la felicità e l’eterna attesa del futuro, senza mai capire quanto importante sia il presente.
abete-parlanteUna volta raggiunto l’apice, e gustato il momento di gloria, comincia la sua fase di declino: dapprima celebrato nel suo momento di massimo splendore – il carro del vincitore tanto caro all’opportunista -, addobbato e arricchito di oggetti inutili e della vanità tipicamente umana, una volta oltrepassata la curva del successo totale – è la storia a insegnarci che, una volta raggiunto l’apice, non può che cominciare una lenta discesa – è scartato dalla governante di casa, poi dal cameriere e da ultimo persino dai bambini, che ne salvano solo la stella di cartapesta, l’abete capisce solo in questo momento, ormai troppo tardi, il valore di ciò che ha sempre avuto, e ormai perso per sempre. Solo gli animaletti del bosco, simbolo della vera amicizia, gli restano fedeli fino alla fine.
Il Natale diventa l’occasione di una resa dei conti con se stesso; con il suo inappagato desiderio di essere sempre di più, sempre qualcosa di nuovo e diverso senza apprezzare quello che già ha. Che non significa necessariamente accontentarsi.

“L’albero pensò alla sua gioventù passata nel bosco, alla divertente notte di Natale, e ai topolini che erano così felici di aver sentito la storia di Klumpe-Dumpe. «Finito! Finito!» esclamò il povero albero. «Se almeno mi fossi rallegrato quando potevo!»

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L’EVENTO
Un altro mattone a fondamento del Meis

In pochi giorni la proposta culturale e turistica di Ferrara si arricchisce di due esposizioni che puntano entrambe sulla valorizzazione del patrimonio permanente della città e sulla collaborazione fra istituzioni pubbliche e private, locali e nazionali. Dopo quella alla Pinacoteca Nazionale sulle opere di Bastianino provenienti dalla chiesa di San Domenico [vedi], giovedì 18 dicembre alle 18 al Meis-Museo Nazionale dell’Ebraismo e della Shoah aprirà “Torah fonte di vita. La collezione del Museo Ebraico della Comunità di Ferrara”.
Anche “Torah fonte di vita” è un buon esempio di collaborazione fra enti diversi, in questo caso fra il Comune di Ferrara e Ferrara Arte, il Meis, il Mibact e la Comunità ebraica ferrarese. Qui fortunatamente non si tratta di un salvataggio, ma si può parlare di una rinnovata possibilità di fruizione: saranno infatti messi nuovamente a disposizione dei cittadini ferraresi e dei turisti una settantina fra oggetti e arredi della collezione del Museo Ebraico di Ferrara di via Mazzini, fortemente danneggiato dal terremoto del 2012 e da allora rimasto chiuso al pubblico. Tuttavia, ha voluto sottolineare Massimo Maisto nella duplice veste di assessore alla Cultura del Comune di Ferrara e consigliere del Meis, “non si tratta di un semplice trasloco”, ma di un “passo in più in termini di credibilità” per il progetto del museo nazionale che dovrà sorgere a Ferrara. Gli oggetti esposti saranno sottoposti a operazioni di pulizia e restauro a cura della Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici dell’Emilia Romagna e diverranno oggetto di ricerca, confermando così l’intenzione di fare del Meis non solo uno spazio espositivo, ma un centro di studio sulla storia e la memoria dell’ebraismo nazionale italiano.
Non ha caso ho scritto fruizione ‘rinnovata’, perché l’allestimento sarà diverso da quello visibile in via Mazzini per due motivi. Il primo è che questa collezione ha la particolarità di non essere composta da oggetti di provenienza ferrarese, a causa delle razzie e delle distruzioni avvenute durante la Seconda guerra mondiale: in mostra vedremo quindi arredi della comunità di Cento e manufatti donati alla comunità nel dopoguerra da privati. Il secondo è frutto della consapevolezza della specificità del Meis nel panorama museale italiano e della volontà di comunicarla ai visitatori: come ha giustamente evidenziato la curatrice Sharon Reichel, da circa un anno componente dello staff del museo, questo sarà il primo museo statale italiano a narrare la storia della minoranza ebraica, che nonostante il ruolo avuto nella storia del nostro paese è rimasta a lungo – e forse per certi versi rimane ancora oggi – una città nella città.
Il percorso si snoda su tre sale espositive, in cui si avvicendano i diversi momenti in cui il singolo viene a contatto con la Torah: dalla fruizione collettiva in sinagoga e nella comunità al rito pubblico e privato illustrato dagli oggetti cerimoniali realizzati a partire dal XVII secolo il cui uso è collegato al Pentateuco, al ciclo della vita e alle feste. Nell’ultima sala, che comprende una prima edizione autografata del libro “Una città di pianura” di Giacomo Marchi, pseudonimo di Giorgio Bassani, è allestito uno spazio in cui il pubblico stesso è invitato a interagire ponendo domande.
Dopo le mostre temporanee in occasione della Festa del Libro Ebraico e quella “Ebrei a Ferrara Ebrei di Ferrara” (3 ottobre 2013-6 gennaio 2014), “Torah fonte di vita” è la prima esposizione ad avere una durata annuale (fino a dicembre 2015) e con ingresso a pagamento (intero: 4 euro; gratuito fino a 18 anni): una scommessa fatta “senza l’ansia di dover fare numeri esorbitanti – ha affermato Maisto – ma per testare la risposta del pubblico” ferrarese e non solo.

Per ulteriori informazioni vedi il sito del Meis-Museo Nazionale dell’ebraismo e della Shoah

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L’INCHIESTA
In carcere. La Ginestra, i campi della libertà

3. SEGUE – Siamo alla terza parte dell’inchiesta sul diritto al lavoro delle persone private della libertà personale. Facendo una sorta di retrospettiva, siamo passati dal problema generale delle esigue opportunità di lavoro offerte ai detenuti nel nostro Paese [vedi] alla dimensione locale, facendo il quadro delle esperienze in atto a Ferrara [vedi]. Ora lo zoom si restringe, entrando nello specifico di un progetto molto interessante realizzato negli orti della Comunità la Ginestra di Cocomaro di Cona (associazione Viale K), in collaborazione con la Casa circondariale di Ferrara e la Coop estense. Abbiamo visto che i casi di eccellenza come quello della Ginestra sono ancora pochi, i numeri piccoli ma Ferrara, e in generale l’intera Emilia Romagna, rappresentano la punta di diamante di un nuovo sistema carcerario, già definito a livello normativo ma ancora tutto da costruire.

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La Ginestra

L’associazione Viale K ha coltivato orti fin dagli inizi, ossia dai primi anni ’90, per l’autofinanziamento delle strutture per l’accoglienza attivate nel tempo [vedi]. La Comunità la Ginestra, in particolare, ha fatto della coltivazione degli orti la principale attività intesa anche come percorso di riabilitazione di persone che vengono dal carcere o dalla strada. Abbiamo intervistato a questo proposito il responsabile della Ginestra Eduardt Kulli, per farci raccontare del loro nuovo progetto.

Sappiamo che dalla scorsa primavera siete partiti con un progetto che vede il coinvolgimento di persone agli arresti domiciliari per la coltivazione del vostro terreno e la commercializzazione di prodotti freschi attraverso il canale della grande distribuzione. Com’è nato il rapporto con la Coop e come nasce questo progetto?

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Il terreno coltivato a zucchine

Dal maggio scorso noi di Viale K produciamo zucchine per la Coop estense. La Coop da alcuni anni ha sviluppato con la Regione un progetto con le carceri intitolato “Percorsi di accompagnamento al reinserimento sociale di persone in esecuzione di pena attraverso l’attività orticola” che prevede il ritiro di prodotti coltivati negli orti delle carceri, la commercializzazione e ridistribuzione del guadagno tra gli istituti. Lo scorso autunno erano già venuti a trovarci il direttore del carcere, il comandante e i dirigenti della Coop per verificare il posto e il terreno, con la prospettiva di collaborare. Poi, in primavera, il progetto con il carcere di Ferrara non è partito perché non avevano i permessi per fare l’orto e noi, siccome alcuni dei nostri ragazzi sono ai domiciliari, abbiamo proposto di farlo qua, in modo di usufruire del loro lavoro mettendo a disposizione il nostro ettaro di terra.

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Ospiti della comunità al lavoro nell’orto

Come mai proprio voi?
Perché ci conoscono, in quanto già da un paio di anni svolgiamo questa attività di reinserimento di persone ai domiciliari attraverso l’attività orticola nell’ambito del progetto regionale “Acero – Accoglienza e lavoro” per percorsi di inclusione lavorativa [vedi]. Il progetto con la Casa circondariale di Ferrara si aggiunge e va a sviluppare un’esperienza già avviata dalla nostra associazione.

Quanti persone ai domiciliari lavorano a questo progetto?
Per il momento due ma con il prossimo anno dovremmo riuscire ad ottenerne altrettanti che vengano presso di noi a lavorare in giornata. Poi, molto probabilmente, a primavera dovrebbe partire anche l’attività dell’orto all’interno del carcere, alla quale siamo stati chiamati per collaborare come formatori.

Com’è andata finora la coltivazione e la vendita dei vostri prodotti alla Coop?

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Le zucchine appena raccolte e pronte per la consegna
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Le zucchine sui banchi della Coop Il Castello

Il progetto sta funzionando molto bene, nei mesi di giugno e luglio abbiamo prodotto un centinaio di quintali ognuno. La produzione è andata avanti fino a ottobre. La raccolta viene effettuata tutti i giorni, quindi questo è un progetto che porta sui banchi delle Coop cittadine (Le Mura, Il Castello, Il Doro) prodotti freschissimi che vengono coltivati a Ferrara e non passano dalle celle frigorifere e dai camion. Un prodotto fresco, veramente a chilometri zero. Le zucchine sono andate benissimo, la Coop è molto soddisfatta del nostro prodotto, tanto che abbiamo appena avuto la conferma anche per il prossimo anno e, oltre alle zucchine, aggiungeremo anche altri prodotti come pomodori, melanzane, peperoni, broccoli e cavoli per l’inverno.

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Eduart Kulli controlla gli ortaggi nella serra

Questo è un progetto molto importante per il territorio e per la comunità: perché tiene impegnati i ragazzi, offre lavoro e, cosa molto importante per noi che siamo una comunità e non un’azienda, e che quindi non ci poniamo in competizione con nessuno, il fatto che quello degli ortaggi è un mercato libero; nel ferrarese ci sono veramente pochi produttori di ortaggi destinati al mercato locale, essenzialmente perché attività che richiede molta manodopera e un costante lavoro quotidiano.

Esperienze come queste dimostrano che, a fronte di un bilancio disastroso a livello nazionale, quando si avvia sul territorio una fattiva collaborazione tra istituti penitenziari, Regioni, amministrazioni pubbliche, cooperative e associazioni di volontariato, assicurare e garantire qualche possibilità di lavoro per i detenuti si può e la loro attività diventa una risorsa per l’intera società.

3. SEGUE
leggi la prima parte dell’inchiesta
leggi la seconda parte dell’inchiesta

Per saperne di più sugli orti della Ginestra visita il sito agrizero.it [vedi]

(Foto di Sara Cambioli)

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Luce intensa sul finale

Tutto è come sempre, / il sole e di tanto in tanto la pioggia. / Per le strade una folla silente / da un luogo all’altro, giorno per giorno. / Così era l’anno scorso / il tempo scorre lento, secondo dopo secondo. / Le foglie volteggiano di albero in albero. / Dalle finestre aperte / si insinuano messaggi da mondi lontani.

Un accostamento irritante: nella foto un’immagine pressoché sdolcinata e romantica del delta del Po; accanto, un testo scritto da me, un tentativo di esprimere per iscritto sensazioni suscitate dall’estate passata. E il tutto dovrebbe essere un augurio di Natale. Cosa c’entra una cosa con l’altra?

Ho scattato questa foto una celestiale domenica mattina dell’estate scorsa, nella laguna di Comacchio, non lontano da Ferrara. Raramente mi è capitato di assistere a una luce così intensa e a una tranquillità così inebriante come in quei momenti di una mattina di settembre sulle rive del mar Adriatico. Momenti in cui si può persino dimenticare il mondo “là fuori”. Tutto è come d’abitudine nei mesi estivi: ci si gode il sole, la luce, la tranquillità, la natura e di tanto in tanto anche la pioggia. Un libro da leggere, una passeggiata, nuotare in mare, cibo di ottima qualità e vino ancora migliore. Nell’aria si insinua tuttavia una sorta di cambiamento imminente, a volte sottilissimo, come una foglia che cade da un albero e si posa su un altro albero o sulla terra.

Il giornalista svizzero Stephan Wehowsky ha espresso con parole perfette questa sensazione di un lento cambiamento: “Come e con quali strumenti possiamo aiutare i rifugiati che arrivano a milioni e la cui miseria supera ogni facoltà di immaginazione? La nostra vita quotidiana non è cambiata in alcun modo. I resoconti della stampa fanno parte del nostro consumo quotidiano come se non fossero altro che puro intrattenimento. Tuttavia qualcosa succede. Qualcosa che riguarda noi. Un velo ricopre tutto ciò che facciamo. L’orrore che ci circonda non fa eco nel vuoto. Ci rendiamo conto che quelle che credevamo essere le nostre normali abitudini quotidiane non sono più tanto normali. Questa quotidianità diventa sempre più una parodia del grigiore che ci circonda. E sentiamo che qualcosa di profondo è cambiato. Le nostre abitudini quotidiane erano solo una sorta di vacanza. Ci rendiamo conto che questa vacanza sta giungendo al termine”.

È forse possibile sollevare questo “velo che si posa su di noi” con l’arte, sia essa passiva o attiva, attraverso tentativi personali, di trovare altre e nuove forme di rappresentazione della realtà?
Ma “tutti sentono il bisogno dell’arte e della bellezza” (Joseph Roth). Il bisogno di una poesia, di una foto che ci riporta ai momenti di felicità di un giorno d’estate.

Traduzione dal tedesco all’italiano di Paola Baglione

terramara

L’EVENTO
Terramara: l’arcaico irrompe nella contemporaneità

Dopo “La boule de neige” di Fabrizio Monteverde, sul palcoscenico del Teatro Comunale Claudio Abbado di Ferrara torna il progetto Ric.Ci/Reconstruction Italian contemporary choreography anni 80/90, questa volta con la quarta e più recente delle coreografie prescelte “Terramara”, creata nel 1991 dalla coppia Michele Abbondanza e Antonella Bertoni, uno dei lavori cardine del fermento innovativo italiano di quegli anni.

Quando Marinella Guatterini ha proposto di riallestire questa loro opera prima come compagnia Abbondanza Bertoni, “la reazione immediata è stata: impossibile – scherza Michele al telefono – anche solo per la difficoltà di andare a cercare le scenografie e i materiali di scena, i loro progetti, i disegni, le luci, i collaboratori. Invece poi la cosa si è rivelata così stimolante, così toccante, così forte, persino psicoanalitica per noi, che pian piano abbiamo iniziato a rimuovere tutti gli ostacoli”.

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I ballerini Eleonora Chiocchini e Francesco Pacelli

E passo dopo passo questa nuova versione di “Terramara” si è rivelata non una semplice ricostruzione, una ri-messa in scena, ma una ‘nuova vita’, come la definisce Antonella e la considera anche Michele: “l’ultima cosa da fare era cercare di fare una cosa uguale a 20 anni fa, bisognava cogliere quella che era l’amina del lavoro e cercare non la fisicità imitativa, uguale a me o ad Antonella, ma qualcuno che potesse raccontare quelle cose con il suo fisico, con la sua tecnica”. Eleonora e Francesco non sono “un Michelino e un’Antonellina”, ma “due meravigliosi esseri umani, maschio e femmina, che avevano l’adrenalina giusta, la sensualità e anche la grande tecnica che la coreografia richiede”. Anche le scene sono state riallestite con la collaborazione del mitico coreografo della versione originale Lucio Diana: “abbiamo deciso di tagliare molto per rendere lo spettacolo più neutro, più semplice, più essenziale, sono rimaste solo le travi, le gerle, il tavolo”.

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Francesco

Francesco conferma che, dopo il panico iniziale al pensiero di dover sostituire Michele e Antonella, chiarito che il lavoro non sarebbe stato questo, lui ed Eleonora hanno lavorato con “grande serenità, riprendendo a scaglioni i pezzi coreografici, tentando di mettere le nostre fisicità e le nostre personalità pur mantenendo lo spirito iniziale di “Terramara”. È stato un piacere lavorare con Antonella, Michele ed Eleonora, con la quale ci siamo dati una grande mano – continua Francesco – e poi io adoro questo spettacolo, penso che a chiunque lo veda arrivi una grande potenza, tutto è studiato al dettaglio, come sanno fare solo i grandi”.

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Eleonora

“Terramara” è l’eco di una memoria lontana ma non perduta, una storia senza inizio e senza fine: il rapporto fra uomo e donna, quello fra uomo e natura. In scena simboli, segni, frammenti da un tempo arcaico e allo stesso tempo indefinito, sospeso. “Terramara”, per Michele, è “una narrazione astratta” perché “siamo corpi narranti, abituati a stare fra la narrazione e l’astrazione, solo apparentemente questo è un ossimoro”: in questa coreografia perciò “c’è un racconto, ma si dà per frammenti, per immagini, senza un filo logico, realistico, come nei sogni la realtà viene presentata a sprazzi, a immagini”.
“Sono molto legato alla mia terra d’origine, il Trentino, e alla sua popolazione rurale –spiega Michele – ricordo le vacanze nella Val di Cembra le viti, i boschi, i castagneti. A livello inconscio ho espresso questo legame con la terra, ma c’è anche l’amaro della difficoltà di rompere la zolla, dell’inumidirla, del renderla fertile. E poi c’è l’incontro con la vita e con l’amore”. Questo ritorno alla tradizione popolare e nello stesso tempo all’umanità e alla natura al di là delle culture, si esprime anche nelle scelte musicali: “sono andato a pescare musiche da tutto il modo, dall’Est, dal sud America, dal sud Italia”.
“Mi si è sparsa la fantasia, mi sono sentito libero in una prateria con una danzatrice meravigliosa come Antonella, che allora era la mia compagna, mi sono sfogato in Terramara”, così Michele descrive l’esplosione dell’immaginazione vissuta con la creazione di questo lavoro che ha consacrato il suo connubio artistico e personale con Antonella Bertoni che ha la stessa età della compagnia fondata insieme a lei. “Abbiamo appena finito le prove e rivedendolo mi sono detto che sono stato proprio un matto: avevamo poco più di vent’anni e la gioventù ha quella freschezza e quella magia che permettono ancora di saltare e di saltare nel vuoto”. “Con gli anni arriva la saggezza, ma si perde la capacità di volare”, l’importante è non vedere questo solo come un limite, anche per questo lui e Antonella hanno deciso di tramandare questa coreografia: “si può far volare gli altri”.

Foto di Ilaria Costanzo per gentile concessione della Compagnia Abbondanza Bertoni

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L’INTERVISTA
Pool Jr, il giovane rapper di Gaiba vincitore di Area Sanremo

Tommaso Puleo, 21 anni e in arte “Pool Jr.”, nasce e vive a Gaiba, un piccolo comune in provincia di Rovigo. La sua passione è la musica rap e nell’ultimo mese ha vissuto un vero e proprio sogno, inaspettato fino a poco tempo fa: partecipare e vincere “Area Sanremo”, il concorso musicale conclusosi dieci giorni fa che ha premiato otto talenti musicali emergenti, i quali sono stati sottoposti ad un ulteriore audizione per decretare due dei partecipanti alle fasi finali di Sanremo Giovani. Purtroppo quest’ultimo obiettivo è sfumato per poco, ma enorme è comunque la soddisfazione di Tommaso che, inevitabilmente, è finito subito per ritrovarsi i riflettori puntati e con le porte spalancate per farsi conoscere al grande pubblico. Ferraraitalia ha avuto la possibilità di parlare con il giovane artista e farsi raccontare la sua avvincente storia, fatta di talento, passione, sacrifici e soprattutto tanta voglia di mettersi in gioco.

Ma prima di parlare di questa avventura è necessario fare un passo indietro, agli albori della breve carriera di Pool Jr, per meglio inquadrare il personaggio. Una carriera cominciata qualche tempo fa, durante gli anni del liceo Roiti di Ferrara, con le prime rime ed i primi testi e l’inizio della collaborazione con l’amico Elia Arbustini, polistrumentista e compositore proveniente dal Conservatorio di chitarra classica. I testi di Tommaso sono buoni e tutt’altro che banali, a testa bassa comincia a farsi conoscere e presto arrivano i primi riconoscimenti ed i primi concorsi vinti. Alla luce IMG_8525di questo buon inizio, l’idea di creare e sviluppare nel tempo, con qualche sacrificio, un vero e proprio studio di registrazione casalingo nel quale continuare a formarsi e gettare le basi per le prime produzioni, obiettivo raggiunto nel giro di poco con il primo Ep (extended play) “Dimostrazioni”, raccolta di tutti i primi pezzi del suo operato. Da questo momento la storia è recente: pochi mesi fa la partecipazione al Music Village di Rimini, rassegna musicale nazionale per giovani musicisti che consente a Pool Jr di farsi notare da chi con la musica ci lavora per davvero, tra i quali il suo attuale manager, Luca Red, che fin da subito percepisce le grandi potenzialità di Tommaso e scommette su di lui. Iniziano le collaborazioni con artisti già conosciuti sulla scena nazionale (tra i quali uno dei violinisti di Ludovico Einaudi) che lo catapultano in una realtà tutta nuova, talmente stimolante a livello artistico e professionale da permettergli di fare squadra e puntare veramente in alto. A Sanremo per l’appunto, al quale la squadra arriva con un pezzo, “Se potessi”, veramente fortissimo e destinato a fare molto successo. Questa volta il testo scritto da Tommaso tratta un tema delicato come quello dell’autismo, reso ancora più emozionante dalle musiche e dagli arrangiamenti di Elia.
Tutto quindi era pronto per poter partecipare. Tommaso ci descrive la sua esperienza sanremese come “l’esperienza musicale per eccellenza, che ti forma da tutti i punti di vista e ti permette di rimanere a contatto per diversi giorni con tantissime tipologie di artisti diversi”. Tre in totale le tappe affrontate da pendolare verso la Liguria, la prima delle quali composta da una serie di lezioni e corsi obbligatori per tutti gli oltre 400 iscritti ad Area Sanremo. “Sono stati quattro giorni intensissimi e utili per prendere dimestichezza con una realtà per me completamente nuova – racconta – durante i quali abbiamo avuto la possibilità di confrontarci con ospiti del calibro di Emanuele Filiberto, Gianni Coron dei Nomadi e Gianni Morandi. Un ottimo modo per conoscere a trecentosessanta gradi quello che si muove intorno al Teatro Ariston e tutta la macchina organizzativa del Festival, cose che dalla tv non si potrebbero minimamente percepire”. Ma terminate queste prime giornate formative è stato ora di fare sul serio con le audizioni: “Il weekend della prima audizione è incominciato subito con una prima difficoltà dovuta all’alluvione di Genova, evento che mi mise in grande difficoltà per lo spostamento in treno a Sanremo. In fretta e furia è riuscito a portarmi mio padre, facendomi capire che la mia famiglia teneva tanto quanto me a questa grandissima opportunità”. La prima selezione di Area Sanremo aveva il compito di scremare per una prima volta i partecipanti, selezionandone dai 400 iniziali solamente 40, otto dei quali sarebbero stati scelti successivamente attraverso un ulteriore audizione. “La prima audizione presentava una giuria composta da Roby Facchinetti, Giusy Ferreri e dal rapper Dargen d’Amico, uno dei miei idoli. La tensione tra i partecipanti nella sala d’attesa era altissima, tutti cercavano di scaldare la voce al meglio o provavano scale. Io, da rapper, non avevo bisogno in realtà di questi riti ma cercavo di limitarmi a trovare la giusta concentrazione che stentava a mantenersi. Una volta esibito mi sono reso conto subito che il pezzo era piaciuto, ma ho cercato comunque di rimanere il più possibile con i piedi per terra perché la possibilità di rientrare nello stretto numero dei quaranta era ancora lontanissima”. Ma la tanto inaspettata decisione è arrivata con una mail pochi giorni dopo, ufficializzando la sua partecipazione agli ultimi giorni di selezioni. Un’altra avventura quindi per Tommaso, convinto che “l’obiettivo prefissato l’avevamo raggiunto. Ma ero pronto ad esibirmi nuovamente, questa volta consapevole di potermi ritrovare veramente tra i vincitori”. Una terza selezione che inevitabilmente presentava un livello di altissima qualità, “ero ancora più agitato delle esibizioni precedenti, dovevo portare un brano edito e nuovamente il mio Schermata 2014-12-07 alle 20.01.46inedito e questa volta ad aggiungersi agli stessi tre giudici c’era Mogol, oltre alla possibilità di farsi notare dai tanti discografici presenti in sala”. Il brano di Pool Jr è stato un ennesimo successo, apprezzato da tutti in sala e destinato ad essere uno dei papabili alla vittoria finale. Vittoria che con grande stupore è arrivata per davvero, nonostante “non ci fosse per niente la consapevolezza di avercela fatta. Quando è stato fatto il mio nome l’emozione era moltissima come il senso di appagamento per i tanti sforzi e sacrifici fatti in questi mesi di lavoro. Siamo partiti solo pochi mesi fa con praticamente niente in mano, ma nonostante tutto abbiamo ottenuto molti riconoscimenti importanti per il nostro progetto che si poteva dire realizzato. Essere stato apprezzato da un mostro sacro della musica come Mogol è impossibile da descrivere, esattamente come ricevere il premio dalle mani di Roby Facchinetti che tanto mi è stato vicino e tanto mi ha consigliato in queste giornate”. Pool Jr quindi il più giovane vincitore di Area Sanremo, una storia non ancora terminata perché all’indomani sarebbe stata la volta dell’ultimissima (questa volta per davvero) selezione, quella per l’accesso alle fasi finali del Festival, davanti ad una giuria completamente diversa e capitanata dal presentatore della prossima edizione Carlo Conti, affiancato dalla commissione artistica di Rai Uno e Giovanni Allevi. Una fase finale, come già anticipato, nella quale sono state preferite due bravissime cantanti pop a Tommaso, che nonostante tutto ci tiene a precisare che “se già mi sembrava di avere vinto una volta entrato nei primi quaranta, vi lascio immaginare questa volta. Ovvio che un poco ci speravo arrivato a questo punto, ma la vittoria di due bravissime cantanti non ha compromesso per niente la mia gioia, anzi, ha contribuito ad alimentarla ancora di più, musicalmente parlando”.
Una bellissima storia quella vissuta dal giovane artista rodigino, un’esperienza di vita e professionale che senza dubbio lo avrà stimolato ulteriormente per i suoi prossimi lavori. È in progetto infatti la prossima uscita di un suo nuovo album che, se mantenuto sugli stessi livelli della canzone che lo ha portato così lontano, non potrà che essere destinato a consolidarlo sulla scena nazionale. Un rapperIMG_7884 a tutti gli effetti Pool Jr, che non si discosta per niente dai canoni tradizionali del suo genere ma non rinuncia ad innovarlo, inserendo novità che contribuiscono a formare un connubio perfetto tra classicità e modernità, il tutto impreziosito da un assetto cantautorale di altissimo livello. I testi di Tommaso e le musiche di Elia stupiscono ed emozionano, dimostrandoci che nel complicato mondo odierno c’è ancora speranza per chi ha voglia di credere nella propria passione e dare tutto per ottenere risultati. Senza trascurare niente: Tommaso fa l’istruttore di nuoto e frequenta il terzo anno di Scienze e Tecnologie della Comunicazione a Ferrara. Un percorso, quello scolastico, che ritiene essere stato “senza dubbio indispensabile per la mia formazione culturale e musicale. Soprattutto i corsi di musica e cinema che seguo all’Università mi aiutano a trovare sempre nuova ispirazione e crescere artisticamente”. Umiltà, passione e sacrifici. Tratti importanti che hanno portato solo soddisfazioni a Pool Jr, pronto a mettersi ancora una volta in gioco per le prossime tappe della sua carriera. E Area Sanremo non è stato che l’inizio…

Pool JR su YouTube e Facebook

Il video della premiazione

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La Casa della Libertà

Presumo di sapere a cosa state pensando, ma vi sbagliate. Berlusconi e la sua Casa delle Libertà, non c’entrano nulla. Ma quando si dice che il mondo è piccolo! Guarda questi dove sono andati a pescare l’idea.
‘Freedom House’ è una organizzazione non governativa internazionale, fondata a Washington nel 1941, con lo scopo di condurre attività di ricerca e di sensibilizzazione su democrazia, libertà politiche, e diritti umani. Ogni anno pubblica un rapporto relativo al grado di libertà democratiche percepito dai cittadini di ogni Paese. Per il 2014 l’Italia occupa il 64° posto nella classifica internazionale della libertà di informazione, perché Freedom House giudica l’Italia un Paese semi-libero.
Allora cerchiamo di capire questa “Casa della Libertà” d’oltreoceano cosa intenda per ‘libertà’ e ‘democrazia’. A leggere i testi, consultabili nel sito [vedi], non c’è ombra di dubbio. La definizione di democrazia si focalizza sulle forme di governo rappresentativo, come opposto ad altre forme che enfatizzano la demagogia e la partecipazione diretta delle masse, definita con il termine inglese ‘mobocracy’, che non ha il suo corrispettivo in italiano, se non in ‘oclocrazia’, dal greco, appunto, governo delle masse.
La democrazia come mobocracy fu un’idea largamente diffusa negli Stati Uniti d’America con l’edizione del 1798 dello “Spelling Book” di Noah Webster, che conteneva il “Catechismo Federale” e, in particolare, le possibili deformazioni della democrazia, che i lettori erano invitati a memorizzare.
Per farla breve, tutti i movimenti e le organizzazioni politiche che in qualche modo cavalcano l’idea della demagogia e del governo diretto delle masse, non rientrerebbero nella definizione né di libertà né di democrazia per i fondatori della Freedom House.
Si fa presto a dire democrazia e libertà, più difficile è comprendere l’implicazione che la democrazia rappresentativa ha per la vita, non di un paese in generale, ma per le singole persone.
Da questo punto di vista è interessante dare un’occhiata agli studi condotti da Ronald Inglehart dell’Istituto di ricerche Sociali dell’Università del Michigan e da Hans Dieter Klingemann del Centro di Ricerche Sociali di Berlino.
I due ricercatori hanno usato la definizione di democrazia, fornita dalla Casa delle Libertà, per determinare la relazione tra democrazia e benessere come percepito individualmente. E i risultati sono davvero sorprendenti. Dai loro studi transnazionali emerge la mancanza di relazione tra democrazia e felicità personale, tanto che ad esprimere il maggior grado di soddisfazione personale sono oggi i cittadini di paesi con governi autoritari come la Cina e Singapore. Per cui, relativamente al benessere individuale, il livello di democrazia di una società sarebbe marginale, se non insignificante. Il problema non è che democrazia e benessere non siano strettamente collegati, ma che piuttosto non sta in piedi l’interpretazione secondo la quale la democrazia determina il benessere e la felicità dei cittadini. Altri fattori giocano un ruolo ben più rilevante, a partire dal livello di sviluppo economico di un paese.
Ce n’è quanto basta per riflettere sulle vicende di casa nostra, in particolare su come l’acuirsi della crisi economica metta sempre più a repentaglio la pratica della democrazia così come definita dalla Casa della Libertà, per dar sfogo a spinte verso quella mobocracy che sarebbe il suicidio della democrazia stessa.
Poiché la democrazia è collegata allo sviluppo economico, il quale contribuisce alla felicità, può accadere che ad essere più felici siano proprio i cittadini di stati a regimi autoritari, ma con un sostenuto sviluppo economico, come è dimostrato dal caso della Cina e di Singapore.
Le istituzioni democratiche, dunque, non necessariamente rendono le persone più felici, da questo punto di vista non mancano esempi convincenti da parte della storia. È sufficiente pensare alla Germania di Weimar, o alla Russia all’indomani delle libere elezioni del 1991, dove il benessere delle singole persone non è cresciuto rispetto a prima.
Anche Ruut Veenhoven, sociologo, docente alla Università Erasmus di Rotterdam, fondatore del ‘World database of happiness’, usando la definizione di libertà politiche offerta dalla Casa della Libertà, è giunto alle stesse conclusioni dei ricercatori precedentemente citati. Tuttavia, se la libertà non sempre contribuisce alla felicità, da questa non si può prescindere.
La definizione di libertà di Veenhoven include l’economia, la politica e le libertà personali, la libertà di impresa, tasse basse, e la circolazione dei capitali. La lista delle libertà personali enumera le pratiche religiose, la libertà di viaggiare, di matrimonio e sessuale.
C’è un interrogativo inquietante che emerge da tutto questo. Ed è il peso che il benessere economico, la civiltà dei beni di consumo hanno assunto nella vita delle persone, tanto che saremmo disposti a rinunciare a parte delle nostre libertà politiche pur di possedere.
La mente mi corre a quella economia, materia di studio che il governo Renzi, con il progetto della Buona scuola, intende implementare nel curricoli di studio del nostro sistema scolastico.
Di fronte alle politiche di austerità che oggi ci vengono imposte, il tema vero, se non vogliamo mettere a repentaglio le fondamenta della Casa della Libertà che abitiamo, è indagare la relazione tra organizzazione economica, libertà e istituzioni democratiche. Ci sono altri modi possibili di pensare l’economica per accrescere la felicità umana, che non mettano a repentaglio le libertà personali, il diritto di voto e i principi della democrazia rappresentativa?
Le scuole dovrebbero affrontare, a partire dalla loro organizzazione, la più democratica possibile, l’insegnamento di come le istituzioni politiche possono contribuire alla crescita della felicità umana.
Sono tempi questi nei quali, se non si riflette attentamente su tutto ciò e non si attrezzano i giovani ad affrontare il futuro, ne può andare a rischio il loro domani, oltre al nostro.

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CALENDARIO DELL’AVVENTO
La metamorfosi di San Nicola

Oggi abbiamo deciso di raccontarvi la storia di una delle più grandi operazioni pubblicitarie di tutti i tempi: la trasformazione di san Nicola vescovo di Mira nel corpulento Santa Claus dalla candida barba e dall’espressione bonaria, vestito di rosso e bianco.
Partiamo dal principio. San Nicola, nato probabilmente nel 270 a Patara in Licia – l’attuale Turchia – ha vissuto fra il III e il IV secolo nell’Anatolia occidentale e come vescovo di Mira ha partecipato al Concilio di Nicea del 325. A partire dal IX secolo è diventato sempre più oggetto di devozione, in particolare delle fasce meno abbienti, e le sue gesta sono state tramandate arricchendole di nuovi particolari via via che la sua popolarità è cresciuta. Una delle vicende più diffuse è quella delle tre fanciulle, citata anche da Dante nel XX canto del Purgatorio e dalla quale deriva la sua raffigurazione tradizionale con i paramenti vescovili e tre sfere dorate. Sembra che ancora prima di diventare vescovo, sia venuto a conoscenza della triste sorte di un uomo di Patara che era caduto in disgrazia e non poteva procurare una dote alle sue tre figlie: non potendole sposare sarebbe stato costretto a farle prostituire. Nicola decise di intervenire e, riempito un sacchetto di monete d’oro, una notte si recò a casa dell’uomo e lo lanciò attraverso una finestra senza farsi vedere. E così fece per ognuna delle tre ragazze: la terza notte però la finestra era chiusa e non gli restò che arrampicarsi sui tetti e lasciar cadere l’ultimo sacco dal comignolo. Un altro episodio vuole che mentre Nicola si recava al concilio di Nicea, in un’osteria gli fu presentata una pietanza a base di pesce, ma Nicola si accorse che si trattava invece di carne umana: chiese perciò all’oste di vedere come era conservato quel pesce ed egli lo accompagnò presso due botticelle piene della carne salata di tre bambini da lui uccisi. Nicola si fermò in preghiera ed ecco che le carni si ricomposero e i bambini saltarono allegramente fuori dalle botti. Sono queste due leggende a far sì che la figura di Nicola venga associata ai bambini e all’elargizione di doni.
Nel nord e nell’est dell’Europa la figura del vescovo cristiano incontra personaggi derivanti da altre tradizioni popolari, come Nonno Gelo in Russia che indossa un cappotto azzurro e ogni 31 dicembre porta i regali ai bambini sulla slitta trainata da tre cavalli, accompagnato dalla sua nipotina Snegoručka. Oppure la divinità nordica Odino con una lunga barba bianca, che vagava come un viandante cavalcando un cavallo volante chiamato Sleipnir: una tradizione che ancora esiste in Belgio e nei Paesi Bassi vuole che i bambini la sera di Natale lascino le loro scarpe vicino al camino, piene di paglia per sfamare il cavallo e trovino la mattina doni e dolciumi. Proprio attraverso gli olandesi questo personaggio dai contorni indefiniti a metà fra San Nicola e Papà Natale sbarcò nel XVII secolo a Nuova Amsterdam, meglio nota come New York. Fu qui negli Stati Uniti che Babbo Natale divenne la star mondiale che è oggi, grazie a una vincente mossa pubblicitaria di una multinazionale dal marchio rosso e bianco che fabbrica la più famosa bibita gassata al mondo: la Coca-Cola.
Nel 1911 uno dei detrattori più accaniti della ditta di Atlanta, Harvey W. Wiley, organizzò una vera e propria campagna di boicottaggio e riuscì a trascinare la Coca-Cola in tribunale con l’accusa di essere dannosa per la salute, nonostante John S. Pemberton nel 1886 l’avesse concepita come un rimedio per la salute. La compagnia venne assolta, ma le fu proibito di utilizzare nelle pubblicità immagini di bambini sotto i 12 anni, a causa del contenuto di caffeina. Per aggirare questo ostacolo, che rischiava di farle perdere una fetta consistente di consumatori, la Coca-Cola iniziò a usare Babbo Natale come testimonial soprattutto per il suo rapporto privilegiato con il mondo dell’infanzia. Fu così il disegnatore Thomas Nast a creare per la prima volta l’immagine pubblicitaria paffuta e bonaria di Santa Claus, perfezionata nel 1931 da Haddon Sundblom che ha fissato l’immagine entrata ormai nell’immaginario collettivo, prendendo a modello il proprio vicino di casa che di professione faceva il commesso viaggiatore.

“Ritorna ogni anno, arriva puntuale
con il suo sacco Babbo Natale:
nel vecchio sacco ogni anno trovi
tesori vecchi e tesori nuovi.
C’è l’orsacchiotto giallo di stoffa,
che ballonzola con aria goffa;
c’è il cavalluccio di cartapesta
che galoppa e scrolla la testa;
e in fondo al sacco, tra noci e confetti,
la bambolina che strizza gli occhietti.
Ma Babbo Natale sa che adesso
anche ai giocattoli piace il progresso:
al giorno d’oggi le bambole han fretta,
vanno in auto o in bicicletta.
Nel vecchio sacco pieno di doni
ci sono ogni anno nuove invenzioni.
Io del progresso non mi lamento
anzi, vi dico, ne son contento.”
Gianni Rodari

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L’INCHIESTA
In carcere. A Ferrara recupero di apparecchi elettrici e lavori agricoli

Nonostante la situazione delle carceri in Italia rimanga drammatica, sia per il sovraffollamento che per le scarsissime possibilità di ricostruzione della persona e di reinserimento nel tessuto sociale e produttivo dei detenuti, la Regione Emilia-Romagna si distingue per esperienze importanti che tendono a salvaguardare e potenziare il diritto al lavoro delle persone detenute. Si tratta ancora di piccoli numeri che rappresentano però casi eccellenti, da prendere a modello per rivedere l’intero sistema penitenziario a livello nazionale
.
2. SEGUE – Dopo averne parlato a fondo con la Garante per delle persone private della libertà personale della Regione Emilia-Romagna, l’avvocato Desi Bruno [vedi], abbiamo intervistato il Garante per il Comune di Ferrara Marcello Marighelli per conoscere la situazione a livello locale.

Ci sono progetti in atto per assicurare ai detenuti del carcere dell’Arginone il diritto al lavoro?
Sì ci sono diversi progetti. E’ di qualche giorno fa la decisione della Giunta comunale di stipulare una convenzione tra il Comune, l’Asp-Centro servizi alla persona e la Casa circondariale di Ferrara, per favorire l’inserimento lavorativo di persone detenute attraverso lavoro gratuito e volontario in progetti di pubblica utilità.

Si è già previsto quale tipo di attività il Comune chiederà di svolgere ai detenuti?
No, per ora si è definita solo la volontà comune di tenere conto delle attitudini, delle aspirazioni e delle capacità professionali dei detenuti. Le attività verranno individuate in un secondo momento sulla base di una co-progettazione mirata a definire gli obiettivi e i reali bisogni, sia dell’amministrazione sia dei detenuti.

I detenuti individuati svolgeranno quindi lavori socialmente utili per il Comune di Ferrara?
Non è detto. A questo proposito occorre chiarire un concetto, “lavoro gratuito e volontario in progetti di pubblica utilità” e “lavori socialmente utili” non sempre coincidono: il lavoro di pubblica utilità è una pena alternativa alla misura detentiva, disposta dal giudice di pace e dal tribunale, su richiesta dell’imputato e ha durata determinata; il lavoro volontario e gratuito è un’opportunità offerta ad una persona sottoposta a misura restrittiva. Di certo entrambi gli istituti giuridici richiedono i medesimi requisiti: volontà dell’interessato, assenza di retribuzione, attività da prestarsi a favore della comunità e da svolgersi presso lo Stato, gli enti territoriali, organizzazioni di assistenza sociale o volontariato. Ci troviamo quindi, a seguito di recenti disposizioni normative, di fronte a due tipologie di lavoro socialmente utile: il primo, sanzione comminata dal Giudice per certi reati; il secondo misura alternativa alla detenzione per persone con condanna definitiva e nell’ambito del lavoro all’esterno del carcere, già previsto dall’art.21 dell’ordinamento penitenziario con finalità riparatrici e risocializzanti.

Intervistata da noi, l’avvocato Desi Bruno ha sottolineato che il diritto al lavoro è il fulcro del trattamento penitenziario e che deve essere retribuito. Ha anche aggiunto che il volontariato e i lavori socialmente utili vanno benissimo, una cosa non esclude l’altra, ma il lavoro retribuito è un diritto imprescindibile e l’istituzione penitenziaria avrebbe l’obbligo per legge di garantirlo. Come si pone lei a riguardo?
La Garante della Regione ha detto benissimo, infatti la convenzione appena promossa dal Comune specifica che il lavoro dei detenuti potrà essere svolto solo presso enti pubblici e su progetti di breve durata, con un inizio e una fine. Il progetto sarà condotto con tutti i limiti e le attenzioni del caso, mantenendo prioritario l’impegno per la ricerca di occasioni di lavoro retribuito con possibilità di continuità anche dopo il fine pena.

Passiamo ai casi di lavoro dentro il carcere, la Casa circondariale di Ferrara è ha messo ha avviato delle esperienze?
Sì, da vari anni stiamo sviluppando progetti e ad oggi ci sono due tipi di lavoro retribuito che vengono svolti regolarmente: il lavoro domestico e il recupero di apparecchiature elettriche ed elettroniche in collaborazione con Hera e con la coop Il Germoglio, sulla base del progetto regionale “Raee in carcere”. Il lavoro domestico viene svolto a rotazione e quasi tutti i detenuti sono toccati da quest’attività. Il recupero di materiale elettronico si svolge in un laboratorio dedicato e occupa una decina di persone.
C’è poi la ritinteggiatura dell’edificio, iniziativa promossa dall’ufficio del Garante dei diritti dei detenuti del Comune e di cui vado molto fiero: il progetto si è consolidato e siamo già al terzo anno di attività; con un piccolo investimento annuale, che consiste semplicemente nell’acquisto della tintura, si produce un grande valore aggiunto perché si migliorano le condizioni interne del carcere e allo stesso tempo si dà un’opportunità di socializzazione e di occupazione alle persone detenute. Si tratta sempre di piccoli numeri, inoltre ci sono attività che si radicano e altre che invece finiscono ma l’intenzione e la volontà di progredire su questa strada ci sono.

Sappiamo che a Ferrara è stata avviato un progetto regionale molto interessante che vede l’impiego di ragazzi ai domiciliari per la coltivazione di verdure per la grande distribuzione, grazie alla collaborazione tra Casa circondariale, la Coop estense e l’associazione Viale K.

Sì, oltre al lavoro all’interno del carcere, ci sono persone che svolgono la loro pena all’esterno e vengono seguiti dall’Ufficio esecuzione penale esterna. Il progetto di coltivazione della terra presso il terreno della Comunità la Ginestra di Cocomaro di Focomorto (associazione Viale K) sta avendo esiti ottimi ed è stato appena confermato anche per il prossimo anno. Sempre con la Ginestra, molto probabilmente partiremo dalla prossima primavera con la realizzazione del progetto degli orti all’interno del carcere: il responsabile della Ginestra Eduart Kulli è disponibile per la formazione dei detenuti; il terreno a disposizione c’è già; occorre solo un piccolo investimento per realizzare l’impianto di irrigazione.
La creazione degli orti all’interno del carcere è un progetto che sta a cuore a molti perché è un’ottima possibilità per i carcerati sotto diversi aspetti, per il lavoro, per l’autoconsumo e la socializzazione. Diverse a Ferrara le realtà che si stanno spendendo per la realizzazione del progetto: oltre a noi, diversi operatori dei servizi sociali del Comune, del volontariato, oltre al personale del carcere stesso.

Ci sono altre associazioni o cooperative ferraresi che danno lavoro ai detenuti, dentro o fuori dal carcere?
I soggetti coinvolti sono vari: oltre a Viale K, la cooperativa il Germoglio, l’associazione Noi per loro, la Biblioteca Ariostea e il Teatro Nucleo. Di passi se ne stanno facendo a vari livelli e il bilancio è decisamente positivo.

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LA RIFLESSIONE
Ultimi bagliori del Duca Rosso

A giudicare dal pubblico, il ritorno sulla scena ferrarese di Roberto Soffritti è questione che interessa solo i reduci della politica. Alla sala dell’Arengo, che nei giorni scorsi ha ospitato un suo confronto con la stampa in stile “tribuna politica” (organizzato dal Think tank “Pluralismo e dissenso” e moderato da Mario Zamorani), c’erano molti capelli bianchi e pochi o nessun under 50. Il chiaro segnale che l’epopea del Duca Rosso è davvero conclusa in tutti i sensi, non appassiona i giovani ma desta giusto curiosità fra chi ha vissuto quegli anni da protagonista: in platea, infatti, la prevalenza era di ex amministratori e “addetti ai lavori”…

Le luci fioche della sala e il tono da confessionale dell’oratore hanno contribuito a rendere un po’ surreale il clima l’incontro, animato dalle domande di Stefano Lolli (Resto del Carlino), Stefano Scansani (la Nuova Ferrara), Stefano Ravaioli (Telestense), Marco Zavagli (Estense.com) e, per Ferraraitalia, dall’estensore di questa nota. Anche i riflessi sui giornali, che abbiamo atteso per valutare l’accoglienza in città, sono stati misurati e non hanno finora sollecitato alcun commento da parte dei lettori.

Eppure, nel bene e nel male, Soffritti a Ferrara ha segnato un’epoca. I suoi sedici anni da sindaco, interpretati da primattore quale egli era, in tempi caratterizzati da frenesia e rapidità, equivalgono quasi a un regno. Di alcune attuali derive politiche è stato per molti versi uno spregiudicato anticipatore: delle larghe intese, per esempio, che gli oppositori di allora (a rischio di querela) definivano “consociativismo”; ma anche di una “politica del fare” che dribbla la questione morale e si misura solo con i vincoli di legge: un approccio in base al quale le cose sono “lecite o vietate”, mentre “l’inopportuno” – nel Soffritti-pensiero – risulta una categoria con cui si baloccano le inconcludenti anime belle. “Quando c’è qualcosa che non va, si muove la magistratura: il resto sono chiacchiere”, ha affermato tranchant.

Con un artifizio retorico, un’apparente deminutio auctoris impiegata per strappare il consenso, l’ex sindaco considera plausibile (per inesausta volontà di fare) d’aver commesso anche “diecimila errori”, ma a nessuno dà un nome. Mentre con sdegno respinge puntualmente tutte le principali accuse che da anni gravano sul suo capo: la scelta di Cona come ubicazione del nuovo ospedale (“di fatto dettata dalla Regione”); la controversa gestione della vicenda relativa al Palazzo degli Specchi (“frutto di intrecci romani”); le salde relazioni con la Coop Costruttori di Giovanni Donigaglia.
Al riguardo evoca spesso, ma non nomina mai, i suoi strenui oppositori interni di allora, che rispondono principalmente ai nomi di Fiorenzo Baratelli e Paolo Mandini. Nomi che sulle sue labbra non affiorano, se non implicitamente nelle smorfie di fastidio che si tracciano quando tratta quei temi e spiega che tutto è frutto di “malintesi, cose che non si sanno o si finge di ignorare, montate ad arte da chi non capiva o non voleva capire”.
“Io non sono stato il sindaco più bravo di questa città – replica a chi glielo chiede – ma quello che ha fatto più cose”, il che però nella sua testa è una tautologia, alla luce della quale inciampa la falsa modestia.

Rivendica persino, con discreta faccia tosta, le ragioni della sua conversione da moderato del Pci (“mi dicevano che ero un socialdemocratico”) ad alfiere del Pdci, in veste di tesoriere nazionale e deputato: una scelta compiuta non perché repentinamente fulminato dal verbo marxista-leninista sulla via di Roma, ma a causa del fatto (ammette quasi con candore) che tutti gli incarichi politici prefigurati dopo il ’99 sfumavano inevitabilmente (“benché per me si fossero spesi Montanari per la Regione e addirittura Veltroni per le Europee”), complice la malevolenza dei soliti noti che gli strionfavano contro. Così, nel 2006, alle profferte “dell’amico Diliberto”, non ha potuto resistere, non per conversione ideologica ma per evidente brama dello scranno di Montecitorio, una ghiotta opportunità per proseguire la sua pragmatica parabola. E a chi gli chiede conto di quella giravolta verso la sinistra radicale ricorda come “allora appoggiavamo Prodi, dando quindi un sostegno fondamentale al governo del Paese”. Mentre oggi che il piccolo PdCi è fuori dall’orbita governativa e da ogni cabina di regia, il saggio Soffritti è alla ricerca di un nuovo approdo, che non sarà “con quelli dell’Altra Emilia Romagna”.

Guardando indietro il Duca Rosso rivendica con orgoglio la sua innaturale alleanza con la Dc di Nino Cristofori (braccio destro di Giulio ‘Belzebù’ Andreotti), in un certo senso prodromo delle larghe intese attuali. “Accordi indispensabili in una città di agrari – sostiene, riferendosi al suo antico patto – per ottenere il consenso vasto e diffuso necessario per fare ciò che serviva a Ferrara”.
Insomma, il ‘fare per il fare’, senza badare troppo al ‘come’. D’altronde è proprio quello che da anni ci “insegnano” tutti coloro (da Berlusconi a Renzi) che avendo responsabilità di governo spiegano che non si può andare troppo per il sottile, che le cose “vanno fatte e basta”.

Così è per Soffritti e per tanti altri che sono stati o sono al vertice delle istituzioni e dei partiti. Tanti governanti di piccole e grandi città, di Regioni bianche o rosse, di governi nazionali. Loro “fanno” per cambiare il Paese. Invece resta tutto uguale, le stesse inerzie, la stessa mentalità, gli stessi scandali. E non a dispetto dei loro sforzi, ma a causa dei loro metodi: perché proprio l’esasperata “politica del fare” è terreno di pastura per quelli che, non a caso, si chiamano affaristi o faccendieri, abili a infiltrasi nei suoi anfratti e a corromperne la natura. Sono loro, ancora loro, i tragici protagonisti delle cronache politiche e di quelle giudiziarie di Nostra Italia del Miracolo anno domini 2014.

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