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NOTA A MARGINE
La traversata di Moisé nel mare del dolore

La settimana scorsa ho avuto l’occasione di ascoltare la storia di un uomo che, durante la sua infanzia, ha dovuto confrontarsi con una realtá feroce e scioccante. Il suo nome è Cesare Moisè Finzi, oggi ha 85 anni, ma ricorda perfettamente la data del 3 settembre 1938, come se quel giorno fosse stato scolpito nella sua mente in maniera indelebile. Da un po’ di tempo ormai il signor Finzi ha deciso di diffondere la storia della sua vita; vuole che i giovani non dimentichino le persecuzioni razziali che negli anni ’40 hanno causato la morte di milioni di persone, la disintegrazione di interi nuclei familiari, la tortura di un numero indescrivibile d’innocenti. Oggi tiene incontri nelle scuole dove parla agli studenti, costringendosi ogni volta a confrontarsi con la sofferenza vissuta, ripercorrendo un viaggio a ritroso nel dolore, nell’incredulitá, nella vergogna.

Con “Il giorno che cambió la mia vita”, titolo del suo ultimo libro, Cesare Finzi si riferisce proprio a quella fatidica data, prima della quale conduceva una vita tranquilla e serena. Nacque nel 1930, anno in cui a Ferrara, sua cittá natale, vi era circa un ebreo ogni cento abitanti. A quel tempo Cesare si sentiva una bambino come tutti gli altri, andava alla scuola ebraica e al pomeriggio giocava al parco con i suoi amici. Per lui la differenza tra un bambino cattolico e uno ebreo stava solamente nel fatto che il primo andava in chiesa la domenica, il secondo in sinagoga il sabato; il primo recitava le preghiere in latino, il secondo in ebraico, entrambi senza comprendere una parola delle rispettive ‘lingue religiose’. Per il resto non vedeva molte differenze tra gli uni e gli altri, se non le diverse festivitá e l’obbligo d’indossare la divisa scolastica in giornate prestabilite. Finita la terza elementare Cesare chiese ai genitori di poter cambiare scuola; voleva lasciare quella ebraica e frequentare quella pubblica per il semplice motivo che, così, si sarebbe ritrovato in una classe più numerosa, con più amici con cui poter giocare. Ma il 3 settembre 1938, quando aveva solamente otto anni, andó ad acquistare il quotidiano per il padre e sulla prima pagina non poté fare a meno di leggere una frase: “Insegnanti e studenti ebrei esclusi dalle scuole governative e pareggiate”. Rimase colpito da quelle parole, ma il pieno significato lo comprese solamente qualche giorno dopo quando si recó, come d’abitudine, al parco Massari per incontrare gli amici. Ad una ad una le madri allontanarono i propri figli da Cesare e lui si ritrovò completamente solo. “Riuscite ad immaginare come può sentirsi un bimbo nel vedersi portar via tutti gli amici e sapere di essere la causa di quell’abbandono?” ha chiesto Cesare agli studenti dell’Einaudi durante il suo ultimo incontro. Dovette quindi proseguire i suoi studi alla scuola ebraica, ma da quel giorno smise di sentirsi come i suoi coetanei. Quel giorno la sua vita cambiò. Ogni ebreo fu in un certo senso costretto a “condannare” se stesso: era necessario compilare un documento in cui si dichiarava di essere ebrei. Provate ad immaginare il dolore di un genitore costretto a mettere nero su bianco che il proprio figlio appartiene ad una razza considerata inferiore. Quelle persone vennero bollate così che, quando la “caccia all’ebreo” divenne spietata, nessuno potesse sfuggire ai rastrellamenti. Paradossale è che il padre di Cesare fu uno dei primi fascisti italiani e combattè per l’Unità d’Italia. Già nel 1923 però cancellò il suo nome dal Partito perchè intuì che le cose sarebbero cambiate.

Tra le assurdità delle leggi italiane ve ne era una che stabiliva che gli studenti ebrei dovessero frequentare la scuola ebraica, ma sostenere l’esame di stato alla scuola pubblica, insieme agli altri studenti cattolici. Il 10 giugno 1940 l’Italia entrò in guerra e Cesare si recò, assieme al suo caro amico Nello Rietti, a dare l’esame di quinta elementare. Mussolini fece installare altoparlanti in ogni angolo della città, cosicché tutta la popolazione potesse ascoltare il suo discorso. Due frasi rimasero a Cesare molto impresse: “Vincere, e vinceremo” e “A me servono poche centinaia di morti per sedermi al tavolo dei vincitori”. Quest’ultima frase lo fece raggelare e lo pose davanti ad un grande dilemma: “Sono italiano e dovevo sperare che l’Italia vincesse, ma se così fosse stato le leggi razziali sarebbero rimaste. Dovevo quindi sperare che il mio stesso Paese venisse sconfitto?” ha domandato agli studenti, rapiti dal suo racconto.

Nonostante al tempo la scuola dell’obbligo terminasse con la quinta elementare, Cesare proseguì i suoi studi, sempre alla scuola ebraiaca di via Vignatagliata. Giorgio Bassani fu il suo professore di italiano e latino, che lui ricorda come un insegnante straordinario. Dopo i tre anni di scuola media si recò nuovamente alla scuola pubblica per sostenere l’esame finale. Quel giorno però, mentre il preside leggeva i nomi degli studenti in ordine alfabetico per accertarsi che fossero tutti presenti, il nome di Cesare e quello del caro amico Nello Rietti non si udirono. Dopo lunghi minuti di attesa i due nominativi vennero trovati nel retro dell’ultimo foglio, scritti in piccolo nell’angolo. “Nemmeno i nostri nomi potevano stare con quelli degli altri” racconta Cesare con afflizione e tristezza. Vennero così fatti sedere dal preside in fondo all’aula, ma la professoressa pensò fosse una scelta dei due studenti, così da potersi aiutare a svolgere l’esame. Quando domandò loro perchè si fossero isolati da tutti gli altri, Cesare rispose: “Siamo stati messi qui perché siamo ebrei”. Nell’aula scoppiò il caos: i due amici ricevettero fischi ed insulti dai loro stessi compagni. L’insegnante li spostò così in prima fila, affermando “Tanto non attaccherete la malattia”. Parole forti, accusatorie, dolorose, ma che nella sua tenera ingenuità, Cesare non comprese. Domandò allora a quale malattia ci si riferisse e la maestra, stupita, rispose: “Ma come, voi ebrei non avete la coda?” Una donna di cultura, laureata, un’insegnate di scuola media credeva ad uno dei tanti e stupidi pregiudizi del tempo, come quello che sosteneva gli ebrei fossero mezzi-animali. Nonostante tutto Cesare venne promosso a pieni voti e proseguì gli studi fino al conseguimento di una laurea in medicina, mentre per il caro amico Nello fu tutto inutile: morì a Buchenwald nell’aprile del 1945.

La disavventura dell’esame era stata per Finzi solamente l’inizio di una serie di tragedie.
Il 25 luglio del 1943 il Gran Consiglio dei Ministri, quello stesso organo che 5 anni prima aveva deciso che i ragazzini ebrei come Cesare non potevano frequentare la scuola pubblica, mise Mussolini in minoranza. L’8 settembre l’Italia firmò l’armistizio, ma la guerra continuò. Vennero imposte le leggi razziste tedesche, molto più rigide di quelle italiane perchè colpivano chiunque venisse classificato come “diverso”. Sulla testa di ogni ebreo pendeva una taglia, di conseguenza chiunque aveva interesse a denunciare uno di loro perchè in cambio avrebbe ottenuto un premio in denaro. Ciò che spinse la famiglia Finzi a fuggire fu la notizia della cattura dei loro parenti di Bolzano, tra cui la cuginetta Olimpia, di appena tre anni. Solo 30-40 anni dopo seppero che erano stati deportati in Austria in un campo di concentramento, poi ad Auschwitz, da cui non fecero ritorno.
Se Cesare è sopravvissuto è perchè ha avuto la fortuna di incontrare persone che hanno aiutato lui e la sua famiglia. Fuggiti da Ferrara hanno trascorso la prima notte a Ravenna dove, un conoscente dello zio di Cesare, li ospitò nella sua casa e per un anno li protesse (erano in 10, 4 adulti e 6 bambini). Se quell’uomo, il signor Muratori, li avesse denunciati, avrebbe guadagnato una somma di denaro enorme, per quell’epoca. Il giorno seguente proseguirono il viaggio e trovarono rigufio a Gabicce Mare. Quì un uomo, di cui Cesare non conobbe mai nè il volto nè il nome, li aiutò senza volere nulla in cambio. Procurò loro carte d’identità (con nomi falsi e senza il timbro di appartenenza alla razza ebraica) e la tessera annonaria, necessaria prima di tutto per ottenere generi alimentari. Purtroppo però a Gabicce i membri della famiglia Finzi erano conosciuti con i loro veri nomi; furono così costretti a fuggire nuovamente e arrivarono a Mondaino, un piccolo centro vicino a Rimini. Quì vissero mescolandosi con la popolazione locale, imparando a fare il segno della croce, andando in Chiesa e recitando l’Ave Maria. Presto però la popolazione civile fu allontanata da Mondaino e dovette attraversare la linea del fronte. Finirono nella cosidetta terra di nessuno: “le bombe che non cadevano sugli inglesi o sui tedesci, cadevano su di noi” racconta Cesare, con gli occhi lucidi per il dolore del ricordo. Una di quelle bombe colpì il piede del fratello e la situazione divenne drammatica. Dovevano a tutti i costi rischiare di attraversare la linea del confine per cercare aiuto. Cesare, quattordicenne, camminò così per 13 chilometri con il fratelllino di nove anni sulle spalle. Tornarono a Mondaino, liberata dalle truppe anglo-americane, e lì trovarono un ospedale da campo che poteva però curare solamente i feriti e i malati dell’esercito. Ancora una volta, nella tragedia che stavano vivendo, ebbero un colpo di fortuna. Un medico, capitano dell’esercito nemico, rischiò la sua vita e la sua carriera per salvare la vita di un bambino. Operò il fratello di Cesare da sveglio, senza alcun tipo di anestesia. “Ho fatto il medico, di operazioni ne ho viste tante, ma quell’intervento non lo scorderò mai”, così Cesare rammenta quel giorno infernale.

Finalmente la famiglia Finzi era libera, ciascun membro potè riprendere il proprio vero nome. Solamente dopo il 25 aprile 1945 fecero ritorno a Ferrara dove ritrovarono la loro casa e il negozio del padre. Cesare frequentò il liceo scientifico di Rimini, poi il Roiti di Ferrara, dove incontrò compagni meravigliosi che lo accolsero senza alcun pregiudizio. Cesare Moisè Finzi, 85enne dal volto rigato da delicate rughe, una voce dolce e piena di dolore, ha deciso di parlare ai giovani perchè in loro vede la speranza. Finito il racconto della sua vita, uno studente gli ha domandato quale fosse stato per lui il momento più difficile. Senza esitazione Cesare ha raccontato l’orrore del momento in cui durante il passaggio del fronte vedeva le bombe esplodere intorno a lui e ai suoi famigliari. Quel giorno però si aggrappò alla speranza di trovare un rifugio e mettersi in salvo. Ma niente è stato tragico e doloroso come il ritorno a casa, scoprire tutto ciò che era successo e perdere completamente la fiducia nell’Uomo. Se oggi Cesare è ancora vivo è grazie a tutte quelle persone che ha incontrato lungo il suo cammino e che hanno rischiato la vita per difendere chi al tempo era considerato il “nemico”. Ecco perchè serve la speranza; questa lui la ripone nei giovani d’oggi e li invita, con la voce rotta dal pianto, a combattere per la ragione, la giustizia e l’umanità.

L’intelligenza connettiva

L’intelligenza, intesa nelle sue varie declinazioni, si sviluppa in un contesto sociale, caratterizzato dal dialogo e dall’interazione. Il linguaggio è stato un fattore evolutivo importante proprio perché ha consentito alla specie di stabilire una coesione comunicativa, sia emozionale che cognitiva. Attraverso il linguaggio scambiamo informazioni, sentimenti, memorie, esperienze e pensieri che consentono di interagire con gli altri. L’insieme di questi scambi costituisce la cultura. Attraverso il linguaggio ci coordiniamo, anche se non sempre efficacemente, a dire il vero. Alcuni insetti, come le formiche, le api, gli stormi di uccelli, sono dotati di meccanismi biologici per il coordinamento, meccanismi che sono studiati da coloro che si occupano di intelligenza artificiale.
Le connessioni consentite da Internet fanno compiere un enorme passo avanti alla nostra capacità di coordinare informazioni. Chi ha visto il film “The imitation game”, sulla macchina di Alan Turing ha avuto, in una forma (un po’ troppo) romanzata, il senso di come un essere umano, per quanto intelligente, non sia in grado di processare il numero di informazioni di una macchina che calcola. Ora siamo molto oltre i risultati dei primi anni Quaranta, la scienza dei Big Data elabora le tracce che lasciamo in rete e consente di costruire modelli di previsione sofisticati in molti campi, dal traffico all’epidemiologia.
Le informazioni ricevute e scambiate permettono azioni che richiedono coordinamento e sincronismo e che nessun essere umano da solo è in grado di compiere. Una grande serie di attività in rete si basano sulla cooperazione creativa degli utenti che contribuiscono a produrre conoscenze, per effetto di apporti minimi, ma costanti e di una continua interazione. Le connessioni che si producono, al pari delle sinapsi cerebrali, si rafforzano grazie alla ripetizione di singole attività e dei legami che queste instaurano. Si può ipotizzare, allora, che Internet contribuisca a formare un’intelligenza connettiva che scaturisce proprio dalla densità degli scambi e delle comunicazioni? Si può immaginare che contribuisca a produrre capitale sociale, vale a dire risorse scaturite dalle relazioni e spendibili nella vita individuale e collettiva?
Affermare questo non significa ignorare le forme oscure che la densità comunicativa della rete propone: le nuove diseguaglianze digitali, le asimmetrie di potere, il peso di influenze, o la trappola della personalizzazione, per cui Google costruisce attorno a noi bolle personalizzate che ci offrono un mondo su misura, un universo che gira intorno alle nostre scelte per inviarci le informazioni su cui siamo d’accordo.
Ma, obiettivamente, avanza un meccanismo di interdipendenza nelle nostre scelte. Ciò che desideriamo e facciamo è sempre più correlato a ciò che desiderano e fanno gli altri. Soprattutto le nostre scelte vengono compiute in uno scenario costantemente mobile. È questo il senso della metafora delle formiche che abbiamo di recente proposto per ragionare sulle dinamiche della scelta nell’ambiente del web, con il libro che presenteremo al Senato il 12 marzo, ore 11-13 (M. Franchi, A. Schianchi, “L’intelligenza delle formiche. Scelte interconnesse”, Diabasis).

Maura Franchi – Laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi. Studia i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.

maura.franchi@gmail.com

L’IDEA
I fuochi della passione e della legalità

Un’industria chimica che ha avviato la produzione di detergenti in eco-dosi idrosolubili e completamente eco-compatibili e un consorzio di cooperative sociali che, attraverso la cultura dell’inclusione e della legalità, mira alla creazione di lavoro dignitoso per le persone in difficoltà.
Sono Cleprin e NCO-Nuova Cooperazione Organizzata e hanno più di una cosa in comune: entrambe hanno sede nella provincia di Caserta, entrambe sono emblemi della legalità in quel territorio, entrambe pensano che il modo migliore per combattere la camorra sia un percorso di riappropriazione e rigenerazione del territorio campano attraverso la creazione di un sistema economico legale ed etico come antidoto all’economia criminale.

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Prodotti etici contro le mafie

Ieri mattina nella sede dello show-room di AltraQualità in via Toscanini a Ferrara, Antonio Picascia, amministratore delegato Cleprin, e Simmaco Perillo di NCO hanno raccontato, oltre ai propri prodotti, la storia di un progetto di riscatto per un intero territorio che li porterà addirittura a Expo 2015, con il progetto “We are”.

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Antonio Picascia

Antonio ha cominciato raccontando i tentativi prima di infiltrazione nella Cleprin e poi di estorsione da parte del clan di Sessa Aurunca, affiliato ai Casalesi. Aver scelto la propria dignità e la propria libertà di imprenditori denunciando l’accaduto alle forze dell’ordine ha significato un cambiamento radicale: “15 Km separano la Cleprin dalla stazione dei Carabinieri di Mondragone, ma mentre percorrevo quella breve distanza mi rendevo conto che non stavo attraversando solo uno spazio fisico, stavo lasciando la vita come l’avevo condotta fino ad allora, senza conoscere la camorra”. Antonio sottolinea che quello è stato un cambiamento in meglio perché ha incontrato “persone capaci, professionisti, uomini sensibili”, a cominciare dai Carabinieri fino ad arrivare a Raffaele Cantone, allora procuratore della Dda di Napoli. Antonio racconta che, contrariamente a quello che spesso si sente dire, “io ho verificato che lo Stato era presente e efficace, era la società civile a essere assente: io e il mio socio ci siamo trovati nella più profonda solitudine”. Ma è stato un’altro cambiamento in meglio, anche perché da allora, era il 2007, è cominciata la sua storia di “impegno sociale e civile che mi fa stare in pace con la mia etica e con la mia coscienza e questo mi fa lavorare meglio”, senza contare che ha incontrato Simmaco e tante altre persone impegnate sul fronte della legalità. Certo, esiste anche il rovescio della medaglia: denunce anonime per presunte problematiche inerenti l’attività aziendale e nell’agosto del 2010, per un mese intero, lo sversamento di percolato davanti all’azienda.
Il problema però, sottolinea Antonio, non sono loro, ma le persone comuni che dicono “era proprio necessario tutto questo?”. Anche da qui nasce il percorso con Simmaco e NCO per scalfire questo modo di pensare e di agire e creare quelle condizioni che permettono alle persone “di affrancarsi e non essere soggette al clientelarismo”.

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Antonio Picascia e Simmaco Perillo

E sul tema della possibilità di un riscatto torna anche Simmaco: un riscatto che parte dal far conoscere il “movimento di resistenza che esiste in provincia di Caserta da più di 30 anni”, “gli sforzi che si fanno e da dove nascono”, poco raccontati perché fanno molta più audience la “bruttura”, la “monnezza” e “il morto ammazzato”. Quello di Simmaco è l’orgoglio di chi tiene alla propria terra e quindi denuncia il sistema della criminalità organizzata, ma il giorno dopo, partendo da quella stessa terra e dalle sue contraddizioni, propone delle soluzioni per andare oltre, per dare a chi ci abita una possibilità di scegliere una strada diversa dall’illegalità. Anche lui afferma che il problema non è più, o non è tanto, l’organizzazione militare, ma il sistema culturale e le forti connessioni con il sistema economico legale, il che significa che “ognuno di noi la mattina si alza e ha a che fare con questa gente” andando al lavoro. Per questo l’antidoto è “un’economia sociale, una proposta economica solida, concreta, efficace” e nello stesso tempo basata sulla qualità e su valori etici e sociali.
Accanto a questo c’è il cambiamento da provocare a livello culturale. L’idea di entrare e riutilizzare i beni confiscati nasce dall’idea di farli diventare simboli di qualcosa di diverso dal potere mafioso: “ce l’abbiamo fatta”, oggi sono diventati centri di incontro e di elaborazione di una nuova cultura. E una cultura ha bisogno di parole, per questo Simmaco afferma con forza “riprendiamoci i termini”, togliendoli alla camorra per “rigenerarli”: da qui l’idea di chiamare il consorzio delle cooperative NCO, lo stesso acronimo di quella Nuova Camorra Organizzata che negli anni ’70 e ’80 ha segnato una svolta nella storia criminale del casertano.

 

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Pacco di prodotti anti-mafia

Dal 2012 Nco significa Nuova Cucina Organizzata, Nuovo Commercio Organizzato e Nuova Cooperazione Organizzata, perché “ la parola è oggetto di cambiamento e se ognuno di noi utilizza le parole giuste veicola il cambiamento”. “Proviamo insieme ad alimentare il cambiamento”, è l’appello finale di Simmaco. Ha ragione Simmaco: bisogna riappropriarsi delle parole e trovare il modo di usarle a vantaggio del territorio. E allora riutilizziamo l’ormai stereotipata definizione di “terra dei fuochi”, perché nel casertano a bruciare non sono solo i cumuli di rifiuti tossici illegalmente sversati nelle campagne del casertano, ma anche la passione che anima persone come Antonio e Simmaco e chi lavora con loro, tante scintille che giorno per giorno cercano di innescare nel proprio territorio e nella società civile il fuoco della legalità.

Alcune foto dell’incontro, clicca sull’immagine per ingrandirla.

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L’EVENTO
Al Festival Lgbt stereotipi, pregiudizi e voglia di normalità: l’orizzonte pubblicitario dell’omosessualità

Incalzano gli incontri di Tag, il festival di cultura Lgbt che si sta svolgendo in questo fine settimana alla Sala Estense. Incontri e spettacoli su temi fondamentali non solo dell’identità sessuale Lgbt, ma dell’intera società.

Venerdì con intelligente ironia, Rita de Santis, una mamma dell’associazione delle famiglie con figli omosessuali, ha raccontato come la maggior parte dei coming out avvengano a tavola, e le reazioni siano le più disparate, dall’abbuffata all’abbandono del desco. E Chiara Reali del progetto Le cose cambiano, ha chiarito una volta per tutte la differenza tra outing, ovvero quando gli altri rivelano che una persona è omosessuale, e coming out ovvero quando è la persona stessa ad annunciarlo.

Sabato invece, dopo un incontro che ha contribuito a fare chiarezza sull’iter legislativo in materia di diritti delle persone omosessuali in Italia, e di cui abbiamo parlato qui (http://www.ferraraitalia.it/levento-festival-lgbt-i-miei-figli-hanno-gli-stessi-doveri-ma-uno-non-ha-gli-stessi-diritti-36719.html) c’è stato un incontro, dal titolo “Le nuove famiglie italiane della pubblicità”

“La presenza di omosessuali nelle pubblicità è spesso strumentalizzata, per cui quello che da pubblicitaria posso dire è di evitare manipolazioni. C’è un eccesso di estetica nelle pubblicità che ritraggono coppie dello stesso sesso. Il rischio dell’utilizzo di queste storie negli spot rischia di avere un carattere ideologico ed estetico e non di normalità”.

“Il punto centrale è proprio quello della normalità. Noi abbiamo 42 milioni di visitatori nei punti vendita che abbiamo in Italia, la coppia gay o lesbica è la normalità, per cui altrettanto normale per noi è rivolgerci a loro nei nostri spot”, ha confermato Valerio di Bussolo di Ikea, riferendosi alla campagna pubblicitaria gay friendly dell’azienda svedese per la casa, che ha suscitato le ire di Giovanardi.

“In verità non è la normalità che dobbiamo inseguire, ma la naturalità. Inoltre bisogna fare una differenza tra utilizzo e sfruttamento”, ha poi corretto il tiro Fulvio Zendrini, esperto di comunicazione per Gf Group, “a me non interessa lottare per la normalità, ma per le differenze, che sono più importanti”.

“Ci sono pubblicità irrilevanti, altre dannose, alcune però, possono cambiare un po’ le cose, penso ad esempio alla bellissima campagna di Dove, Real beauty, che rivede il classico concetto di bellezza femminile e mostra donne di ogni età e fattezza. Non si può però chiedere alla pubblicità ciò che non può fare, ovvero delle sofisticate analisi della realtà sociale, ma le si può chiedere di essere un fattore di sviluppo e non di arretratezza. La pubblicità lavora sugli stereotipi, perché è la nostra mente per prima che lo fa. Noi mettiamo insieme delle idee del mondo che ci aiutano a prendere decisioni rapide nella vita quotidiana. Il problema non è lo stereotipo, ma il pregiudizio, cioè lo stereotipo che si fossilizza in una visione del mondo che non si confronta con la realtà dei fatti. Purtroppo la pubblicità tende a consolidare pregiudizi brutti e stupidi sulle persone. Invece lavora bene quando usa gli stereotipi come strumenti narrativi e non come vincoli. La creatività nasce dalla diversità, per questo va difesa”.

“In effetti noi possiamo aiutare un cambiamento, ma non determinarlo. All’Ikea io posso dare le ore di congedo ad un dipendente per andare a trovare il suo compagno in ospedale, però poi all’ospedale non lo fanno entrare perché i due non sono riconosciuti come parenti. Qui è dove noi ci fermiamo e deve intervenire lo Stato”.

“Ma io penso che questo cambiamento sia in atto, sta cambiando il mito degli anni ’80, dove gli esempi erano personaggi alla Fabrizio Corna o Silvio Berlusconi, per intenderci. Oggi il mito è: la mia vita è bella, ovvero la bellezza della raggiungibilità delle cose”.

Dopo questa bella lezione di comunicazione e marketing che è andata molto al di là dello spunto iniziale legato all’omosessualità, dal pubblico una domanda riporta però al tema del festival: la parità. E allora perché negli spot ci sono sempre coppie gay e quasi mai lesbiche?
La risposta degli esperti è che la pubblicità cerca il paradosso per cui effusioni tra uomini fanno più impressione di quelle tra donne, che invece sono più frequenti, anche tra amiche. Ma rimane anche strisciante il sospetto che forse una donna che rinuncia completamente agli uomini sia più difficile da accettare di un uomo che tutto sommato sceglie un altro uomo. Chissà, il quesito rimane aperto.

Ma non c’è tempo per farsi troppe domande che sul palco della sala Estense, già arriva Mario Venuti, a presentare il suo ultimo album “Il tramonto dell’Occidente” scritto a sei mani con Bianconi dei Baustelle e Kaballà.

“Questa volta non parlo d’amore, ma mi metto alla finestra e guardo fuori”, il cantante siciliano racconta così questo nuovo lavoro, con molte implicazioni sociali, ed è questo il motivo per cui gli organizzatori del festival hanno voluto la sua presenza.
Sono storie di periferia, come quella di Scampia che si vede nel video del singolo Ventre della città.
“E’ il tentativo di capire cosa siamo, dove stiamo andando, in mezzo a certezze che si stanno sgretolando”.
Come reagire a questo declino?
“Reimpostando un sistema di valori”, dice Venuti, “questo momenti difficile deve diventare un’opportunità, anche se ho la sensazione che noi siamo assolutamente controcorrente e la tendenza sia ad un non pensiero, se fai pensare sei messo da parte. L’insostenibile leggerezza dei testi di Sanremo mi ha colpito molto, sentimentalismo bieco e campato in aria ha pervaso tutte le canzoni”.

“Se ti senti contro tendenza, sei nel posto giusto” ha scherzato Salvo di Arcigay che lo stava intervistando.

E questo ha dato il là a Venuti per un racconto personale.
“Un mio amico insegnante aveva fatto richiesta per insegnare all’estero e ha ricevuto una proposta da Asmara in Eritrea. Lui si è sposato con un ragazzo cileno a Madrid, e una volta là, stava facendo in modo che il suo compagno avesse i documenti per raggiungerlo. Un giorno è stato chiamato dal preside e si è trovato due militari armati che gli hanno intimato di lasciare la nazione entro 36 ore. Il motivo, anche se non dichiarato era la sua unione gay. Lui si è rivolto all’ambasciatore, e il Ministero della pubblica istruzione, cioè lo Stato italiano, non ha fatto nulla, non lo ha difeso, ha perso il lavoro ed è dovuto tornare in Italia”.

Poi ci è voluta un po’ di musica per riportare il sorriso tra i presenti, con la consapevolezza che molto c’è ancora da fare per ottenere la parità di diritti in questo paese.

Il festival prosegue fino a questa sera.
Qui il programma

Fotoservizio di Stefania Andreotti

Tag, festival di cultura Lgbt (foto di Stefania Andreotti)
Tag, festival di cultura Lgbt (foto di Stefania Andreotti)
Tag, festival di cultura Lgbt (foto di Stefania Andreotti)
Tag, festival di cultura Lgbt (foto di Stefania Andreotti)
Tag, festival di cultura Lgbt (foto di Stefania Andreotti)

IL FATTO
Michele Cortese vince il Festival di Viña del Mar e conquista il Sudamerica

Lo avevamo intervistato due mesi fa [vedi], di ieri la notizia che Michele Cortese ha vinto due importanti premi al Festival di Viña del Mar in Cile, il più importante del Sudamerica, una porta d’oro aperta sul mercato dell’intero continente, che ogni anno può contare su circa 500 milioni di telespettatori. Cortese è stato selezionato, per la competizione internazionale, tra ben 1.200 candidati, unico rappresentante europeo su un totale di sei finalisti, e ha vinto come migliore canzone (nella gara internazionale) e migliore interpretazione, con il brano “Per fortuna” di Franco Simone, arrangiata da Alex Zuccaro, un brano con tinte rock che ha subito attirato l’attenzione della giuria del Festival, di cui faceva parte anche Pedro Aznar, uno dei musicisti più stimati al mondo, noto per la sua carriera solista e per l’attività svolta nel Pat Metheny Group.
Tra lo stupore generale, Cortese ha cantato parte della canzone in perfetto spagnolo, utilizzando il testo che gli aveva scritto Franco Simone pochi giorni prima della sua partenza per il Cile.
La stampa cilena ha evidenziato il buon livello delle canzoni e degli interpreti della gara internazionale e di quella etnica, sottolineando favorevolmente la scelta della canzone italiana “Per fortuna”, come vincitrice e rendendo il giusto merito anche a Franco Simone, un autore e un interprete molto popolare da quelle parti. Secondo la rivista cilena “La Segunda”, la canzone vincitrice del Festival è una delle migliori degli ultimi 15 anni perché possiede lo spessore, l’inciso, la melodia e il romanticismo: “… dije desde un comienzo que era de las mejores canciones que habían sonado en la competencia en la última década, porque en al menos 15 años no hemos tenido una para recordar. Y esta tiene el tamaño, el coro, la melodía, el romanticismo”.
Michele Cortese ha pubblicato pochi mesi fa l’album “Vico Sferracavalli 16”, seconda opera solista dopo “Il teatro dei burattini” (2011). Il singolo “La questione”, di cui è autore insieme a Francesco Gazzè, è accompagnato da un video recentemente premiato al Premio Roma Videoclip 2014. In precedenza, insieme al gruppo Aram Quartet, aveva vinto la prima edizione di X-Factor (2008).
Nei prossimi giorni, Michele Cortese sarà protagonista, insieme a Franco Simone e al tenore Gianluca Paganelli, di “Stabat Mater”, l’opera rock sinfonica composta da Simone sul testo originale attribuito a Jacopone da Todi. Il 6 marzo l’opera sarà rappresentata nella Basilica di San Lorenzo a Firenze, mentre il 2 aprile è in programma al Teatro Romolo Valli di Reggio Emilia.

La premiazione su YouTube [vedi]
Viedo clip ufficiale [vedi]
L’articolo su Stabat Mater pubblicato su ferraraitalia [vedi]

SETTIMO GIORNO
Renzi e Berlusconi, gioco di coppia

Il PATTO CHE NON C’E’ – Poveri illusi. Parlo di tutti coloro che si aspettavano e si aspettano ancora che Renzi litighi, o faccia finta di litigare com’è successo finora con il suo maestro Berlusconi, lo sketch fra i due ha e avrà tempi lunghi, una sola cosa non ho capito, chi dei due sia la spalla dell’altro. Chi è Totò e chi è Pappagone, cioè Peppino De Filippo? Il fatto è che, come nella migliore tradizione della commedia dell’arte, i due si scambiano abilmente le parti quando sono sul palcoscenico, un giorno Totò, un giorno Pappagone. Dice: ma il “patto del Nazareno”? Tranquilli, non è mai esistito, non esiste una carta, una sorta di contratto, che so, un pizzino, un promemoria, non c’è, esiste soltanto nella mente dei due attori, i quali pare abbiano raggiunto un solo accordo: terminare l’operazione dettata da Licio Gelli (P2) con il “Piano di rinascita nazionale” del 1978, dopo l’uccisione di Aldo Moro. Finora è andato tutto liscio per gli attori della commedia, che non finisce qui. Un esempio? Battuta di Renzi quindici giorni fa: devo sistemare la Rai. La spalla risponde: compro la Rai. Replica di Renzi: Ma non più del 51 per cento. E così si privatizza uno dei settori chiave della democrazia moderna. Non è tutto: Berlusconi ha già dato inizio al piano per diventare il monopolizzatore dell’informazione, avviando l’acquisto della Rizzoli e accorpandola alla sua Mondadori, che significa mangiare i quotidiani e i settimanali più importanti dell’Italia. Il signore di Segrate vuole tornare da padrone in Parlamento, gli manca il lasciapassare della magistratura. Come fare? Intanto, si ricorre alla filosofia di Licio Gelli, si responsabilizza il giudice. Chi mai potrà più incriminare, o soltanto non assolvere un uomo il quale può inchiodare un magistrato a pagare milioni di euro dichiarandolo civilmente responsabile? No, c’è del marcio in Danimarca, diceva Shakespeare, tutto è stabilito, preconfezionato. A noi cittadini non rimane che conoscere, giorno per giorno, i paragrafi di un patto che ci è stato tenuto gelosamente nascosto. Anche perché non è mai stato scritto: il patto c’è, ma è un patto orale i cui capitoli sono conosciuti da due sole persone. A qualcuno non piace? “Io vado avanti”, dice l’attore. Vai, risponde la sua spalla. Questa è democrazia

BUROCRATI – Rapidissima comunicazione ai signori burocrati dipendenti da Stato, Regioni, Comuni, Banche etc.: per favore non diteci più che la burocrazia di cui siete padroni è stata resa agile, anzi, dal momento in cui, solennemente, è stato detto ai cittadini che era cominciato lo snellimento della burocrazia, la medesima (burocrazia) è diventata ancor più impraticabile, vergognosamente antiquata, inadeguata, irresponsabile. Chi crede il contrario vada pure, a suo rischio e pericolo, in un ufficio pubblico: verrà burocraticamente respinto, ma dovrà riempire un modulo…

I sei personaggi da Nobel

STANDING OVATION: I PIU’ ACCLAMATI SPETTACOLI TEATRALI DEL XXI SECOLO
“Sei personaggi in cerca d’autore” di Luigi Pirandello, regia di Carlo Cecchi, Teatro Comunale di Ferrara, dal 15 al 19 dicembre 2004

E siamo all’ultimo spettacolo del 2004 per la stagione di prosa, che riprenderà nella seconda metà di gennaio del 2005. È il celeberrimo “Sei personaggi in cerca d’autore” di Pirandello a chiudere l’anno teatrale del Teatro Comunale. Luigi Pirandello (1867-1936), premio Nobel nel 1934, drammaturgo e narratore, dopo l’esordio con romanzi di ambito ‘veristico’, approfondì nel corso della sua opera narrativa e soprattutto drammaturgica il tema dell’uomo isolato in una realtà a cui egli è fondamentalmente estraneo. “Sei personaggi in cerca d’autore”, composto dal maestro nel 1922, appartiene al suo filone detto del ‘teatro nel teatro’ e, al debutto in scena, venne sonoramente fischiato dal pubblico e maltrattato dalla critica, prima che ne fosse compresa la tematica della dicotomia persona/personaggio e considerato quel capolavoro che in effetti è.
La vicenda dei “Sei personaggi…” è abbastanza complessa. In teatro una compagnia di attori sta provando svogliatamente “Il gioco delle parti”, altra commedia di Pirandello; d’un tratto si presentano sul palcoscenico sei ‘personaggi’ (si badi bene, e non attori-persone che interpretano personaggi), rifiutati e lasciati incompiuti dal loro autore. I personaggi chiedono al regista di rappresentare almeno una volta la loro storia, affinché si realizzi compiutamente la loro esistenza; ma il problema nasce quando il regista pretende di inscenare la loro vicenda facendone interpretare le parti agli attori della sua compagnia, incapaci di diventare, di ‘essere’ davvero i protagonisti di quei ruoli. Fra i due gruppi: gli attori e i personaggi, si evidenzia una distanza incolmabile, nei primi infatti scorre la mutevole vita, mentre i secondi sono sorta maschere immutabilmente fissate nella parte per cui l’autore li ha creati.
L’allestimento è diretto da Carlo Cecchi, affermatissimo attore e regista; fra i suoi spettacoli si ricordino almeno “L’uomo, la bestia e la virtù” di Pirandello, “Il misantropo” di Molière, “Il compleanno” di Pinter, “Finale di partita” di Beckett, oltre a numerose commedie di Shakespeare e molto altro. Cecchi è anche interprete, insieme a Paolo Graziosi e ad una schiera di affiatati attori. Le scene e i costumi sono di Titina Maselli, le luci di Paolo Manti.

L’EVENTO
Festival Lgbt, “I miei figli hanno gli stessi doveri, ma uno non ha gli stessi diritti”

“E’ più facile disintegrare un atomo che un pregiudizio”, diceva Einstein. Lo ha ricordato Paolo Veronesi, professore associato di diritto costituzionale dell’Università di Ferrara, introducendo l’incontro “Sposi in Europa, coinquilini in Italia”, che si è svolto alla sala Estense, nell’ambito di Tag, festival di cultura Lgbt.
“Ora che siamo nel pieno del dibattito sulle unioni tra persone dello stesso sesso, emergono pervicaci resistenze basate sul rispetto della tradizione, e che si rifanno al concetto di diritto naturale. Ma questo, come diceva Bobbio, è tra i concetti più ambigui, non c’è niente di più artificiale. Le Corti statunitensi, per esempio, lo usavano per impedire i matrimoni interrazziali”.
Poi però gli americani hanno saputo andare oltre, e adeguare il diritto ai cambiamenti sociali, tanto da eleggere per due volte un presidente afroamericano. E noi?
“In Italia stiamo scontando carenze legislative, ma anche qui, molto lentamente, le cose stanno cambiando. E’ una rivoluzione molecolare, per dirla con Gramsci, fatta di piccoli passi”.

“Nel nostro paese abbiamo due strumenti per riformare il diritto di famiglia – ha detto Marco Gattuso, giudice presso il tribunale civile di Bologna e direttore del portale giuridico Articolo29 – la via giurisprudenziale, dove si procede a colpi di sentenze, e quella legislativa, alla quale si arriva quando le Corti rimandano la decisione al Parlamento. In alcuni casi, il Parlamento si è espresso, hanno fatto le riforme, e si è tornati davanti alle Corti.
Fondamentalmente è una questione di coraggio. Occorre dire che quello della Corte Costituzionale italiana è un atteggiamento eccentrico, unico rispetto agli altri paesi a noi vicini. Fin dagli anni ’60 in materia di famiglia si è contraddistinta per timidezza. Alcune sentenze fanno addirittura inorridire, come quelle che sancivano che l’infedeltà della donna era da punire, e quella dell’uomo no. Ora sarebbe inaccettabile, forse lo stesso si potrà dire un giorno per il divieto di matrimonio fra persone dello stesso sesso. Se oggi la Corte continua ad esprimersi in modo ambiguo su questa materia, è perché ha un’idea di matrimonio che non risponde più al contesto sociale, che è già cambiato”.

Di fatto, se si prende l’articolo 29 della Costituzione, quello che si occupa di matrimonio, non c’è scritto nulla a proposito del genere dei coniugi. Se ne deduce che ognuno ha il diritto di sposarsi con chi ama e non con chi decide il Parlamento.
Sono stati proprio i cattolici a volere questa norma garantista in sede di Assemblea Costituente, per difendere il nucleo familiare da interventi statali ed ideologici, come era successo col fascismo. Ed ora è paradossale che usino la stessa norma in modo opposto. Per la precisione fu Togliatti a volere la dizione dell’articolo 29, prevedendo che le forme familiari si sarebbero evolute e avrebbero poi dovuto essere riconosciute dal legislatore. Ma furono i cattolici a fargli da sponda, in particolare Dossetti ed Aldo Moro, che intervenne con veemenza contro gli estremisti contrari.

A riportare l’incontro alla strettissima attualità, ci ha pensato Monica Cirinnà, la senatrice del Pd, relatrice del testo base sulle unioni civili che tra il 16 ed il 21 marzo dovrà essere votato alla commissione giustizia del Senato per la delibera definitiva.
“Ieri alla riunione di segreteria del Pd a Roma, Renzi mi ha chiesto a che punto eravamo, dimostrando il suo interesse”.

Chiuse la settimana scorsa le audizioni, con l’abbandono dell’aula da parte di Cirinnà e Lo Giudice, a seguito degli interventi delle associazioni in difesa della famiglia tradizionale che paventavano con il Ddl “unioni multiple o fra specie diverse” e lo paragonavano agli istinti di morte dell’Isis, ora è il momento del toto voti.
“A favore ci sono i nove senatori del Pd, quelli del M5s, e il gruppo misto Sel. Se non ci sono defaillances, dovremmo avere la maggioranza. Visto però che tra i senatori Pd c’è chi, come Lepri che rappresenta i clericali del partito, è contrario, faremo una riunione con i senatori del Pd, durante la quale esporrò nuovamente il testo e si dovrà votare. La regola è che se la maggioranza decide una cosa, tutti si devono attenere, e quelli che non sono d’accordo, si faranno sostituire in commissione, perché io voglio l’appoggio di tutti i miei senatori”.

E dopo la votazione che succederà?
“In caso di esito positivo come tutti ci auguriamo, si apre il termine emendamenti entro una ventina di giorni. Poi ci sarà un mese dove potrà succedere di tutto. Se ci arrivano 50 emendamenti, riusciamo ad andare avanti, se ce ne arrivano 50 mila da chi vuole fare ostruzionismo, ovviamente i tempi si allungheranno. Poi io come relatrice dovrò dare i pareri sugli emendamenti e disporre le votazioni, in quella sede i presentatori hanno diritto all’esposizione. Qui l’unica soluzione per non andare avanti all’infinito, è la calendarizzazione in aula. Quando saremo in commissione e in aula ci saranno anche le associazioni di difesa dei diritti omosessuali, voglio vedere se i colleghi avranno il coraggio di continuare a sostenere le cose schifose che hanno detto finora!”.

Una volta uscito dalla commissione giustizia del Senato, il testo passerà alla commissione giustizia della Camera, dove non ci saranno emendamenti, ma solo dichiarazioni di voto e questo dovrebbe accorciare i tempi.
“Cercheremo di non andare oltre l’estate con tutto l’iter”si augura la Cirinnà.

“Io ho cinque figli, tutti hanno gli stessi doveri, ma uno non ha gli stessi diritti, è il mio figlio gay”, è intervenuta al termine dell’intervento della Cirinnà, Rita de Santis di Agedo.

“Io non voglio le unioni civili, è una cosa ormai superata, io voglio il matrimonio legale per mio figlio gay, voglio poter pianificare con lui le sue nozze, perché comincio ad essere in là con l’età, non voglio dover pagare una trasferta familiare ad Oslo per vederlo felice”.
Lo stesso chiedono Antonella e Sarah alle quali Pisapia aveva trascritto il matrimonio, poi cancellato per ordine del prefetto. “Ce lo hanno notificato la scorsa settimana con due raccomandate diverse, come a voler ribadire che non siamo una coppia”.
“Avete ragione, ma bisogna procedere per piccoli passi perché in questo paese c’è una grande avversione al tema, anche a causa del Vaticano. Intanto voi fate bene a continuare a volere di più”, è la risposta della stessa Cirinnà.

“L’Italia è al 32° posto per il riconoscimento dei diritti Lgbt” ha tristemente ricordato Luca Morassutto, avvocato della Rete Lenford. “Chi si sta opponendo alle trascrizioni dei matrimoni omosessuali all’estero lo fa per tre motivi: è un atto contro natura, ma non si può ricorrere a teorie medievali come ha stabilito pochi giorni fa il Tribunale di Grosseto; crea un problema di ordine pubblico, ma non si può paragonare un matrimonio gay al vandalismo della Barcaccia; è un problema unire due persone dello stesso sesso, ma questo si configura come discriminazione per orientamento sessuale”.

Il dibattito è aperto, la battaglia civile anche. Quella che sta venendo avanti è una delle più grandi rivoluzioni sociali e culturali degli ultimi tempi.

Le foto sono di Stefania Andreotti

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Tag, festival di cultura Lgbt (foto di Stefania Andreotti)
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Tag, festival di cultura Lgbt (foto di Stefania Andreotti)
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Tag, festival di cultura Lgbt (foto di Stefania Andreotti)
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Tag, festival di cultura Lgbt (foto di Stefania Andreotti)

LA STORIA
L’arte del silicio

Nel 1985, quando Windows non esisteva ancora e Macintosh disponeva soltanto di un’interfaccia grafica monocromatica, i computer Amiga si avvalevano del multitasking (la capacità di eseguire più programmi simultaneamente), avevano 4096 colori sullo schermo invece dei consueti 2, 8 o 16 e flussi audio fino a 14 bit invece degli 8 bit della concorrenza. Queste caratteristiche, che in seguito permisero di definire il termine multimedialità, furono introdotte nel mondo dell’informatica home nel 1985 con il computer delle meraviglie, acronimo di Advance Multitasking Integrated Graphics Architecture.
Amiga è giunta sino ai giorni nostri grazie a uno zoccolo duro di appassionati, fedeli allo spirito pionieristico che l’ha sempre caratterizzata: “Only Amiga make it possibile”.
Andy Warhol ha realizzato alcune interessanti elaborazioni grafiche con Amiga, come nel caso del ritratto di Debbie Harry [vedi], cantante del gruppo pop Blondie, durante il lancio ufficiale, organizzato dalla Commodore, al Lincoln Center di New York il 23 luglio 1985 [vedi].
Nel 2001, accuratamente memorizzata su floppy disk, è stata scoperta una brevissima sequenza digitale animata “You are the one” creata da Andy Warhol con Amiga 1000. Oggi quest’animazione è visionabile solo durante mostre o eventi particolari. Del lavorare con Amiga l’artista americano disse: “La cosa che mi piace di più del fare arte sul computer è che sembra il mio lavoro” (The thing that I like most about doing art on the computer is that it looks like my work).
A volte un computer può fare nascere forti passioni e trasformare i suoi circuiti in percorsi e linee artistiche. Questo è il caso di Amiga, una piattaforma che per un decennio ha rappresentato un punto di partenza per molti artisti digitali grazie a mezzi quali le BBs (il mondo telematico prima di Internet), riviste specializzate e concorsi come “Bit Movie” di Riccione, “Immaginando” di Grosseto, “Pixel art expò” di Roma.
Nella galleria fotografica che segue abbiamo cercato di creare un percorso di storia e di arte, seguendo le strade tracciate dalle piste elettroniche e popolate da chip, integrati, condensatori, diodi, gusto del retrò e anche poesia.

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Espansione di memoria Commodore, file verticali di chip in varie sfumature e colori
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Scheda acceleratrice GVP GForce 030. La visione: “le città del futuro composte da ordinati integrati e veloci vie di comunicazione”
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Motherboard Pegasos2: “Pegasos carino , come un bambino conoscevo la gioia di salire su un cavallo rosso, in una notte di festa… “ Poesia di Antonio Machado
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Scheda grafica Picasso II: nel mondo Amiga i chip hanno spesso nomi propri di persona
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Digitalizzatore Vlab e scheda espansione memoria di Amiga 4000, come palazzi che si ergono dalle fondamenta della città
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Emulatore FPGA Minimig by Acube Systems: illusione artificiale, non è un’immagine sfuocata ma un computer ricreato all’interno di un chip
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Motherboard Sam440ep by Acube System, il calore viene trattenuto dai dissipatori, circondati da un rosso colore
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Amiga 2000, un quarto di secolo di storia, l’origine della tecnologia di oggi

Fotografie di William Molducci

Il mondo orizzontale

Il modo in cui guardiamo il mondo non è indifferente rispetto all’idea che del mondo ci facciamo. Da un po’ di tempo molti siti web sviluppati con il software più diffuso in questo momento, WordPress, ci propongono immagini a sviluppo orizzontale, perché questo è il format privilegiato da quel programma applicativo. Così capita di vedere anche primissimi piani in cui la figura ritratta appare come elemento al centro di una scena che, a differenza del solito, ha un corollario: a destra e a sinistra del soggetto si scorgono elementi ambientali. Questo ampliamento fornisce informazioni ulteriori rispetto a quelle focalizzate dal protagonista ritratto nella foto. La nostra percezione di quell’immagine, di quel soggetto e di quel volto sarà dunque condizionata anche dall’acquisizione degli elementi che lo contestualizzano. Aldilà di questo, che appare l’elemento più eclatante, osservare il mondo secondo una prospettiva orizzontale o verticale (o quadrata o circolare) influenza, condiziona e suggestiona le nostre modalità di apprendimento e di relazione con la realtà esterna. Vi pare una elucubrazioni filosofica e astratta? Fateci caso…

A man talks on his cell phone after taking part in the 10th Annual No Pants Subway Ride in New York City

 

 

 

 

 

Non è proprio la stessa cosa, che ne dite?

 

IL RITRATTO
Il palazzo dei sognatori

Un palazzo colorato mi viene incontro, ha da dirmi qualche cosa, mi vuole spiegare. Gli sorrido, sono disponibile ad ascoltare, come ogni volta che mi ritrovo di fronte a una porta o a una finestra aperte. Mia madre dice sempre che sono curiosa come una scimmia, accetto il complimento, non solo perché arriva da lei ma, soprattutto, perché adoro le persone curiose. Questo edificio è interessante, intrigante, sono sicura che nasconde storie, segreti, avventure uniche, entusiasmanti, coinvolgenti e avvincenti.
Una coppia di fidanzati si scambia promesse davanti a un antico portone semiaperto, un signore curioso li osserva dal balcone, una coppia di amiche gioca a mondo nel cortile. Le due ragazze si interrompono solo per scherzare sui loro innamorati o per organizzare la lezione di ballo del giorno dopo. Un simpatico signore zoppicante esce piano piano da una porta quasi ovale, appoggiandosi solo al suo bastone. Non sa ancora dove andare, ma l’importante è uscire a prendere una boccata d’aria fresca. Camminare, sempre camminare, mai fermarsi, perché camminare è la virtù dei forti, a camminare s’impara. File indiane di vestiti colorati abbelliscono finestre e balconi, appesi come i sogni, e, sventolando al ritmo delle leggera brezza pomeridiana, salutano i passanti, quasi in un fragoroso battito di mani. Clap clap, perché dietro a essi, al secondo piano, si sta suonando e ballando jazz, come a voler imitare la rumorosa, allegra e simpatica banda degli amici degli Aristogatti. Clap clap, perché in un altro appartamento si fanno prove di passi di danza, alla sbarra, passi rigorosi, decisi, precisi, leggiadri, come quelli di una libellula che sogna di volare lontano. Clap clap, perché un giovane musicista si allena accarezzando il suo violino. Mentre il gatto bianco arruffato e indisciplinato si raggomitola un attimo per ascoltarlo, quasi rapito. Clap, clap, perché in un ambiente poco illuminato un giovane fotografo prepara la sua prima esposizione pubblica, quella che potrà cambiare il suo destino per sempre. Clap clap, perché un bacio delicato suggella un amore dietro tendine per il corredo ricamate da un’anziana nonna che non c’è più. Clap clap, perché nel seminterrato Giovanni ripara la sua bicicletta per poter partecipare a una gara importante. Clap clap, perché, in una mansarda, alla luce di candele fioche e profumate, una scrittrice chiosa il suo romanzo. Mancano solo i ringraziamenti. Clap clap, perché dietro quelle porte e finestre, in quel palazzo colorato, si partoriscono sogni. Che un giorno diventeranno meravigliosa realtà. Basta saperlo.

La poetica tecnoanarchica di Filippo Landini

Autore del saggio ancora inedito “Futurismo/Vorticismo” (tesi di laurea in Lettere moderne con Ezio Raimondi), Filippo Landini è talento sempre giovane, nuovissimo, vertice nell’avanguardia neoestense del futuro presente. Non a caso, a suo tempo, ha presentato uno degli eventi più originali alla gloriosa Feltrinelli, a Ferrara, nell’ambito di una rassegna dedicata alla nuova scrittura. Ovvero, la deliziosa suite provocatoria post letteraria “Dorian Spray”, demo poema di lavori futuri, accompagnato dalle sonorità contemporanee del musicista Alfonso Santimone, dal visual Filippo
Parma e dal cyber Sebastiano Zuccatelli.
Inoltre, ricordiamo la video partecipazione a “Map 2”,video del 1997 in collaborazione con Max
Czertok, tra le migliori proposte, e soprattutto nella scrittura “Ferrara Game Over” (Nomade
Psichico, Mantova, 2000) epitaffio-gioiello del superconformismo periferico, ordigno ecotecno di
rara provocazione; nel 2003, poi bersaglio editoriale con la raccolta poetica “Nodo Sottile 3” (Crocetti editore).
Il percorso globale di Landini – attivo tra Ferrara, Milano, Firenze ecc. – si muove tra la matrice eretica dell’avanguardia storica, la stagione stessa patafisica di “Alfred Jarry”, American cyber e new electrodandy, sorta di Dorian Gray tecnoanarchico, nel cuore postcyberpunk dell’arte elettronica… dove la Parola non è feticcio ma si azzera nella video rivoluzione.
In tale ambito digital è poi decollato, con numerosi video clip single e collaborazioni, in
particolare con Andrea Forlani, Alessandra Fabbri, Andrea Gigante e Massimo Durante, lo stesso alieno… Andrea Amaducci e quasi tutta l’avanguardia ferrarese e non solo. Video Art peraltro sempre intrisa di literary, per quanto sperimentale, culminata con The Scientist il video festival internazionale di Ferrara, dal 2007 curato con Vitaliano Teti art director, parallelamente alla poetica più evoluta e complessa ad esempio di “Red Rec Play Black” (con Linea B/N), presentato anche a High Foundations, (a c. di DJ Afghan) oltre ai poemi tecnoanarchici puri “Tecno teppa”, (nell’antologico “Schegge di Utopia”, la Carmelina ediz., volume segnalato anche da Il Sole 24 Ore), “Fuoco et Flow” (presentato in azione performativa con lo stesso Amaducci e altri al Centro Sociale La Resistenza di Ferrara), “La Parata”, gli stessi antologici (con lo stesso L. Mazzoni, 13 autori) “Cose Bulgare” e “Eri tutto lungo: Cavallo Pazzo e altri cani sciolti” (Collettivo Alba Cienfuegos, Linea B/N). È stato poi intervistato da chi scrive per il libro programmatico del postfuturismo, “Futurismo per la Nuova Umanità: dopo Marinetti” (Armando editore, 2012).
Infine, cronaca live, da segnalare l’attuale “Gruppo d’Azione, la Spal, la Curva, la Città”, nella prefazione del giornalista spallino e Rai Enrico Testa: “… progetto editoriale avviato da Filippo Landini, Alessandro Casolari. I due – che all’epoca avevano rispettivamente sedici e diciannove anni – vissero quella controversa stagione da protagonisti e oggi, a quasi trent’anni di distanza, hanno deciso di scrivere un libro per raccontare cosa significò per loro e tanti altri ragazzi come loro essere parte dell’ala militante della Spal.” (estratto da Listone Magazine [leggi]).

Per saperne di più visita la pagina di Filippo Landini sul sito di Lite Editions [vedi] e la presentazione di “Red Rec Play Black” su Estense.com [vedi]

* da Roby Guerra, “Dizionario della letteratura ferrarese contemporanea”, Este Editon-La Carmelina ebook 2012 [vedi]

NOTA A MARGINE
La guerra per la neutralità

Il 26 febbraio 2015 è stato un giorno importante per la vita e lo sviluppo della rete internet a livello mondiale, la FCC (Federal Communication Commission) americana ha infatti deciso che da ora in avanti nessun fornitore di servizi di rete potrà in alcun caso rallentare artificialmente l’accesso alla rete dei propri clienti, né potrà inibire l’accesso ad alcun sito. Si afferma cioè definitivamente il principio della cosiddetta “neutralità della rete” (Net Neutrality – NN). Ovviamente le decisioni di FCC riguardano esclusivamente gli Usa; tuttavia, stante il ruolo trainante di quel Paese nello sviluppo delle nuove tecnologie e servizi di rete, è del tutto prevedibile che influenzeranno anche altre parti del mondo, Europa compresa. Occorre ricordare che un dibattito analogo è in corso da tempo anche nel vecchio continente, nel quale il principio della NN era stato stabilito, almeno per le reti fisse, sin dall’inizio, ma che stava rischiando di venire pesantemente attenuato, sotto la spinta della lobby degli operatori di telecomunicazioni. Da tempo è infatti in atto una contrapposizione molto forte fra, appunto, chi fornisce l’accesso alla rete (gli Internet Service Provider – ISP) e le grandi aziende fornitrici di servizi, quali ad esempio Google, Amazon, YouTube, Apple, ecc., definite queste ultime collettivamente come OTT, acronimo che deriva dalla locuzione “Over the top”, inventata dagli operatori per rappresentare la collocazione, a loro dire strumentale e predatoria, di tali soggetti rispetto ai loro investimenti nella realizzazione delle infrastrutture. Poiché gli OTT sono sostanzialmente aziende americane, gli ISP europei si sono presto scoperti molto attenti e disinteressati difensori degli interessi del nostro continente ed anche su questo hanno fatto leva per convincere Parlamento e Commissione europea delle loro ragioni.
Alla radice della controversia c’è in realtà la definizione della catena del valore relativa ai servizi forniti sulla rete, soldi che provengono per ora in massima parte dalla pubblicità, ma in cui sta crescendo in modo vigoroso (almeno nei Paesi dotati di un’infrastruttura sufficientemente veloce) la quota derivante dai servizi in streaming a pagamento (ad esempio Netflix) e di cui sia gli ISP che gli OTT cercano di assicurarsi la parte maggiore. In particolare gli ISP vorrebbero poter proporre ad OTT ed ai propri clienti finali “canali trasmissivi” di qualità garantita e prioritari rispetto al resto del traffico internet, ovviamente chiedendo in cambio agli uni e agli altri un sovrapprezzo rispetto al semplice accesso alla rete, riuscendo in questo modo, a parità di investimenti nell’infrastruttura, a massimizzare i ritorni economici. Naturalmente a rimetterci sarebbero sia gli utenti finali non disposti a pagare il sovrapprezzo, che si ritroverebbero a disporre di un servizio pesantemente limitato, sia i fornitori di servizi di minori dimensioni, anche se capaci di offrire prodotti potenzialmente più innovativi ed interessanti rispetto ai big del settore, che non sarebbero in grado di accollarsi i maggiori costi. Gli OTT di dimensioni maggiori, anche in ragione del loro potere contrattuale nei confronti degli ISP e grazie alle loro economie di scala, vedrebbero invece rafforzata la loro posizione dominante. Il tutto a scapito dell’innovazione e della concorrenza e, non ultimo, dato il ruolo pervasivo della rete, della libera espressione delle idee e delle forme artistiche. Si tratta cioè di un problema che ha a che fare molto strettamente con il futuro della democrazia nei prossimi decenni. Il tutto è descritto molto bene in questo simpatico cartone animato in inglese [vedi], che invito tutti a guardare, scegliendo i sottotitoli nella lingua che meglio conoscono fra quelle disponibili, dato che purtroppo non c’è l’italiano.
Come accennato, la decisione americana, osteggiata ferocemente dai repubblicani, così come fortemente voluta da Obama, può spostare i rapporti di forza anche in Europa, per fare sì che anche le istituzioni dell’Unione definiscano una chiara posizione in favore della NN resistendo alle sirene della lobby degli ISP, che utilizzano la carota degli investimenti per influenzarne le decisioni e minacciano, nel caso che la NN venisse confermata, di non procedere alla realizzazione di nuove reti. L’argomento è in realtà privo di un reale fondamento, dato che lo sviluppo e la diffusione ulteriori della rete ad altissima velocità si tradurrebbe comunque in maggiori entrate per gli ISP, grazie alle quali sarebbe possibile finanziare gli investimenti necessari.
La decisione americana, oltre a quelli appena ricordati, è però importante anche per altri ordini di motivi, fra i quali:
1) L’accesso alla rete viene classificato alla stregua di quello telefonico tradizionale e la sua disponibilità ubiquitaria costituirà un diritto per i cittadini, mentre finora era esclusivamente legata alle valutazioni di convenienza economica degli ISP a volerlo fornire. Diventa cioè un servizio con caratteristiche universali, come lo sono ad esempio, oltre alla telefonia fissa, l’acqua, la corrente elettrica, la posta, ecc. Anche in Europa sarebbe necessario arrivare alla medesima determinazione.
2) Cade la distinzione fra reti fisse e reti mobili. Si tratta di una modifica epocale, perché sinora le reti mobili hanno goduto, sia negli Usa che in Europa, di un trattamento regolamentare diverso da quelle fisse, nei fatti sbilanciato a favore degli operatori ISP mobili. Ora invece la Net Neutrality dovrà essere garantita anche ai servizi mobili.

Tutto bene, quindi? La situazione è in realtà suscettibile di ulteriori evoluzioni, perché se anche la decisione di FCC è inappellabile (lì le autorità indipendenti lo sono sul serio) potrebbe comunque essere impugnata davanti alla Corte suprema. Soprattutto, con il congresso ed il senato in mano ai repubblicani, potrebbe essere approvata una legge ad hoc che, modificando i poteri di FCC, potrebbe vanificare la decisione appena assunta. Il rischio è che una parte dei democratici, sensibilizzati dalle lobby degli ISP, si uniscano alla maggioranza in modo tale da bypassare il prevedibile veto del Presidente. C’è da dire che la lobby contrapposta degli OTT, cioè quella dei vari Google, Amazon, Facebook, Apple, ecc. non è certamente meno agguerrita. In Europa, comunque vadano le cose oltreoceano, è importante che nell’opinione pubblica si intensifichi la richiesta della Net Neutrality, assieme a quella, soprattutto in un Paese arretrato come l’Italia, di adeguate infrastrutture di rete. Più in generale è indispensabile che cresca la consapevolezza che il superamento del divario digitale che ci vede agli ultimi posti in Europa rappresenta un elemento indispensabile non solo per uscire dalla crisi economica e per rendere il Paese più efficiente, ma anche per guidare lo sviluppo della nostra democrazia nel prossimo futuro.

Le ossa si lamentano, è l’artrosi

L’artrosi è un’alterazione degenerativa di un’articolazione nel suo complesso, causata dal deterioramento della cartilagine articolare e dell’osso sottostante, che provoca un grado variabile di limitazione funzionale e ha un impatto negativo sulla qualità di vita. La cartilagine, infatti, è un tessuto che riduce l’attrito fra le ossa e che quando si danneggia per usura perde la sua elasticità, diviene più rigida e più facilmente danneggiabile. Inoltre i tendini e i legamenti dell’articolazione si infiammano causando dolore. Se la condizione peggiora le ossa possono arrivare a sfregarsi l’un l’altra provocando dolore, gonfiore e rigidità. Anno dopo anno, i legamenti perdono la loro elasticità, le cartilagini si usurano e si assottigliano. Questa evoluzione naturale può talvolta causare delle difficoltà motorie, per esempio mentre si cammina le ginocchia si piegano con movimenti più o meno dolorosi. Dopo 50 anni, l’artrosi del ginocchio, la più ricorrente, colpisce 3 milioni di Italiani. In Italia, il 40% delle donne in menopausa sono vittime di una frattura legata alla fragilità delle ossa.

Alcuni dei fattori che possono favorire l’insorgenza di questa patologia sono: familiarità, sovrappeso e obesità, fratture e lesioni articolari, lavori che richiedono posizioni forzate (per es. stare inginocchiati a lungo) oppure il continuo utilizzo di alcune articolazioni (per es. le articolazioni delle dita delle mani), sport come il calcio, in cui si ha un’usura precoce delle cartilagini di piedi e ginocchia, malattie circolatorie che causano sanguinamento e danno nelle articolazioni (per es. l’emofilia, l’osteonecrosi avascolare), alcune forme di artrite (per es. gotta, pseudo gotta o artrite reumatoide) che danneggiano l’articolazione e la rendono più suscettibile ai danni della cartilagine.

I sintomi
I sintomi che caratterizzano l’artrosi sono il dolore articolare, la rigidità (soprattutto al mattino o dopo un periodo di inattività), la limitazione funzionale, gli scrosci articolari, la tumefazione delle articolazioni, in assenza di sintomi sistemici come la febbre. Il dolore, principalmente nelle fasi iniziali, è reso più acuto dal movimento e alleviato dal riposo, mentre nelle fasi più avanzate può essere presente anche a riposo e ostacolare il riposo notturno. In particolare si presentano: dolori vertebrali, cervicali, dorsali, lombari o coccigei; la perdita della sensibilità degli arti; sciatica e nevralgie; mal di testa e vertigini; difficoltà locomotorie, dolori articolari (ginocchio, anca, collo, polso…); dolori plantari, osteoporosi, disturbi del sonno; debolezza vescicale, del transito intestinale, della prostata; disturbi digestivi.

La diagnosi
La diagnosi di artrosi è effettuata mediante visita medica e viene confermata dalle radiografie e da esami medici tradizionali, quali diagnostica per immagini, visite specialistiche, ortopediche, geriatriche e fisioterapiche.

Cura e prevenzione
La terapia è orientata da un lato verso il trattamento degli episodi acuti e dall’altro alla loro prevenzione e al rallentamento del processo degenerativo articolare. In base alla gravità, l’artrosi viene distinta in 3 stadi. Specialmente nei primi due stadi, i pazienti possono trarre giovamento dai trattamenti osteopatici. Le infiltrazioni di cortisone e l’uso di lubrificanti articolari deve essere molto cauto perché nel tempo può aggravare il problema; nei casi più gravi, quando la malattia si trova in uno stadio molto avanzato, può essere necessario ricorrere all’intervento chirurgico, sostituendo una protesi all’articolazione danneggiata. I risultati delle protesi sono positivi sia per la durata (oltre il 90% di successo a 12 anni dall’intervento) sia per il recupero. Oggi sta acquistando una sempre maggiore importanza la prevenzione con l’uso di antiossidanti e di sostanze come la glucosamina e l’acido ialuronico.
Ma aggiungo che la prevenzione si basa sul concetto che l’articolazione deve sempre lavorare correttamente, in modo che le superfici articolari delle ossa possono scorrere l’una rispetto all’altra e garantire la lubrificazione della cartilagine ed una usura fisiologica e progressiva. Tutto questo si ottiene con un buon atteggiamento posturale, sia sul posto di lavoro che in macchina, e con una attività fisica moderata, ma regolare. L’esercizio mantiene sana la cartilagine, le escursioni del movimento e rafforza la capacità dei muscoli e tendini di assorbire le sollecitazioni. Lo stretching quotidiano è estremamente importante. Se la vita sedentaria è un male per le articolazioni che progressivamente si “disabituano” a lavorare, altrettanto o più dannosa è una attività sportiva troppo intensa o agonistica.

Esempi di artrosi
Può essere di tre tipi:
Primaria, se è causata da fattori genetici ovvero idiopatica. Si manifesta con i noduli di Heberden.
Secondaria, se è causata da fattori scatenanti quali traumi, interventi chirurgici o malattie reumatiche.
Professionale, particolare tipo di artrosi secondaria, causata da un uso estensivo (tipico dell’ambiente professionale) di alcune articolazioni.

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Artrosi del ginocchio

Da un punto di vista medico le artrosi più frequenti sono:
• Gonartrosi, ovvero artrosi del ginocchio.
• Rizartrosi ovvero artrosi dell’articolazione alla base del pollice.
• Coxartrosi ovvero artrosi dell’anca.
• Spondilartrosi ovvero artrosi delle articolazioni vertebrali.

Percorso osteopatico
Dopo aver costatato che i disturbi rientrano nella sua sfera di competenza, l’osteopata procede ad un esame palpatorio minuzioso del corpo nella sua globalità (scheletro, viscere e muscoli). Egli rintraccia, diagnostica e tratta le vostre disfunzioni, senza mai forzare il movimento naturale delle articolazioni. La sua tecnica esperta percepisce le reazioni articolari, scopre le eventuali tensioni e ripristina la mobilità perduta. Prima di considerare un intervento chirurgico e per limitare il consumo di antinfiammatori o antalgici, il trattamento osteopatico può aiutare a ritrovare un certo conforto.
Nessuna pratica, se non l’intervento chirurgico, riesce ad eliminare l’artrosi. Il trattamento osteopatico ha come obiettivo:
• la riduzione del dolore;
• la ripresa funzionale dell’articolazione interessata;
• la ripresa dello stile di vita precedente al momento in cui si è manifestata la sintomatologia
Con il trattamento osteopatico, il paziente ottiene ottimi risultati, e la sua attenzione nella gestione della vita quotidiana, gli permetterà di convivere con l’artrosi in modo decisamente soddisfacente.
Nell’immagine alcuni esercizi da effettuare tre volte al giorno.

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Quando consultare l’osteopata
Per fare un bilancio osteopatico dell’artrosi; prima di cominciare o riprendere un’attività fisica in presenza di artrosi; come integrazione ad una cura per l’artrosi. A titolo preventivo: dopo una storta, un movimento sbagliato, lunghe immobilizzazioni con gessi, interventi chirurgici, cadute senza lesioni visibili su radiografia;
dopo ogni traumatismo.

L’osteopata è un grande specialista della mobilità. La sua perfetta conoscenza della fisiologia, dell’anatomia e della patologia umana gli permette di rintracciare l’origine del vostro dolore, utilizzando la tecnica osteopatica appropriata.

* Nuccio Russo è osteopata, esercita a Trapani e a Ferrara
nucciorusso@hotmail.com

 

IL FATTO
In Turchia uomini in minigonna contro lo stupro

Dopo una giornata passata all’università, Ozgecan Aslan, studentessa turca, prese il minibus del college per tornare a casa. A ogni fermata il mezzo si svuotava dei suoi passeggeri, fino a quando la ragazza non fu l’unica rimasta con l’autista, un ragazzo ventiseienne che, dopo aver tentato di stuprarla, l’ha rapita, le ha amputato le mani, l’ha bruciata e ha buttato i resti del cadavere in un fiume. Il peperoncino che la ragazza gli ha spruzzato negli occhi, in un vano tentativo di difesa, bruciava meno dell’orgoglio ferito e, per riconquistare la virilità perduta, l’ha pugnalata. Poi ha chiamato un amico e il padre per nascondere il corpo. Quando il corpo è stato trovato e l’uomo identificato, si è difeso affermando di essere stato provocato dalla ragazza, perché indossava una gonna.

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Un uomo che indossa la gonna, simbolo della campagna ‘Indossa una gonna per Ozgecan’

Gli abitanti di Mersin, luogo dell’accaduto, hanno reagito con rabbia, creando una campagna social per gridare al mondo ciò che accade, per far sì che la morte di Ozgecan Aslan non sia dimenticata, come tante altre donne uccise, un numero in crescente aumento.
Le donne hanno proibito agli uomini di toccare di nuovo il corpo della giovane vittima e di sedersi nelle prime file al funerale, hanno guidato il corteo funebre e urlato giustizia. Ma anche gli uomini vogliono giustizia, vogliono mostrare che non sono tutti brutali assassini e stupratori, e, per raccontare la triste storia di Aslan, hanno creato una campagna sociale online con l’ashtag #ozgecanicinminietekgiy, tradotto “Indossa una gonna per Ozgecan”, sono state pubblicate più di 15 mila fotografie in cui gli uomini, islamici e non, hanno indossato una minigonna, affermando che, se quel particolare indumento equivale ad un invito allo stupro, anche indossata da loro aveva lo stesso significato.
Il messaggio è chiaro ed è sempre lo stesso: le donne non devono avere paura di vestirsi e uscire, ma sono gli uomini che, fin da bambini, devono essere educati al rispetto. Per noi occidentali questo è un concetto già consolidato (almeno nella teoria), ma molte donne lottano ancora per ottenere dignità, per essere considerate al pari degli uomini. C’è chi contesta questa modalità d’espressione, affermando che una campagna online può sembrare utile in Occidente, ma in questi Paesi non ha forza.
Il problema non è legato alla marginalità di classi sociali disagiate, ma esteso a tutta la società. Basti pensare che il presidente Erdogan ritiene che le donne debbano affidarsi agli uomini per essere protette dagli stupri, e che la parità di genere è “contro natura”.

Una foto su un social network non sarà la strategia migliore, ma Ozgecan Aslan è diventata il simbolo di un mondo stanco di subire, di avere paura anche solo di uscire di casa. Migliaia di persone si riuniscono a Mersin come ad Istanbul, marciano insieme uomini e donne vestiti di nero, uniti contro la violenza sulle donne, perché lo stupro è un crimine contro l’umanità. Nella speranza che, domani, le ragazze possano tornare senza timore dall’università, dal lavoro o da una passeggiata, senza dover stringere tra le mani un (talora vano) spray al peperoncino.

Gli occhi grandi di Tim Burton

A voi “Big Eyes” o “Big Lies”, ovvero la storia degli occhioni sgranati di Margaret Keane, una delle più clamorose frodi della storia dell’arte. Una differenza sottile fra realtà e finzione è il filo conduttore di questo bellissimo film di Tim Burton, uscito a gennaio nelle sale italiane e che ha come protagonista una donna derubata della sua identità di artista da un marito che le fa credere di amarla, quando vuole solo sfruttare il suo talento. E appropriarsene.

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La locandina

Una storia vera, raccontata dal giornalista scandalistico Dick Nolan. Quella di Margaret Ulbrich (poi Keane), che dipinge giorno e notte, e del marito Walter, pittore dilettante e incapace ma abile venditore che si spaccia per l’autore reale. E negli anni ‘50-‘60, quando non sempre le donne erano valorizzate, tutti osannano lui, tutti vogliono i suoi quadri, quelle tele favolose che ospitano bambine dagli occhi immensi e tristi, occhi che squadrano, osservano, esaminano, inquisiscono, inquietano, un po’ pure spaventano. Mentre la moglie è costretta al super lavoro e all’invisibilità più totale. I due si conobbero a San Francisco, nel 1955, durante una mostra. Lui era un agente immobiliare e come hobby dipingeva dei vicoli di Parigi, dove diceva di aver vissuto. Lei ne fu subito affascinata, colpita da intraprendenza e carisma.

I primi due anni della loro vita furono felici, ma tutto cambiò una notte in cui Margaret accompagnò il marito in un club di San Francisco dove si esibivano comici come Lenny Bruce e Bill Cosby e si accorse che lì, Walter Keane, vendeva i quadri con i bambini dai grandi occhi e se ne prendeva il merito. Margaret si rese conto improvvisamente che ai suoi committenti e ai vari clienti, Walter raccontava una grande bugia. Ma per bisogno di soldi e paura di essere accusati di truffa, la bugia sarebbe continuata per anni. E mentre (erano gli inizi del 1960) si vendevano milioni di poster e cartoline con i bambini dagli occhi grandi e persone famose come Natalie Wood, Joan Crawford, Dean Martin, Jerry Lewis, Adriano Olivetti e Kim Novak compravano gli originali, la vita della coppia cambiava tristemente e miseramente. Margaret continuava a dipingere nella sua gabbia d’oro (in una grande e lussuosa villa con piscina), triste, angosciata e mentendo alla figlia Jane avuta dal primo matrimonio, l’unica vera persona per lei importante.

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Margaret Keane oggi, tra due dei suoi quadri

Persa in una relazione morbosa, pericolosa e dannosa che si sarebbe degradata completamente fino a condurre a un burrascoso divorzio e al tribunale, negli anni ‘80. Alla fine, in sede giudiziaria, Margaret, ritiratasi nel frattempo in piena solitudine alle Hawaii, dove aveva continuato a dipingere, avrebbe avuto riconosciuti i suoi diritti, dopo il clamore e gli scandali iniziali. Grandiosa la scena in tribunale nella quale il giudice, per dirimere la questione, chiese ai coniugi di dipingere un bambino dagli occhi grandi proprio lì davanti a tutti, in aula. Margaret finì il quadro in 53 minuti. Walter disse che non poteva farlo perché aveva male a una spalla. Lei vinse la causa, fu autorizzata a firmare da quel momento i dipinti e venne stabilito un mega risarcimento di 4 milioni di dollari: ma lei non vide mai un centesimo, perché l’ex marito aveva speso tutto e non aveva ormai più nulla. Walter Keane morì nel 2000.

grandi-occhiMa che cosa guardavano quegli occhioni sgranati delle bambine dipinte in serie da Margaret Keane? Non si sa, e qui sta il bello. Ognuno poteva e può pensare ciò che vuole. Margaret, ancora vivente e un po’ dimenticata, oggi è rivalutata quasi come una sorta di paladina dei diritti delle donne, precorritrice dei tempi a loro dovuti, capace di ribellarsi al marito impostore, despota, mitomane e schizofrenico e di veder riconosciuti in pieno i suoi diritti. Un buon film sull’emancipazione femminile dell’epoca, sulla manipolazione dei media e del marketing rispetto all’arte e su pregi e virtù di un periodo mutante per l’America coincidente con la Beat Generation di San Francisco.

“Lo scenario che hai dipinto ti si ritorce contro”, Margaret Keane

Big Eyes, di Tim Burton, con Amy Adams, Christoph Waltz, Danny Huston, Jon Polito, Krysten Ritter, Jason Schwartzman, Terence Stamp, USA, 2014, 105 mn.

IL CASO
La donna discinta, la gazzella scomparsa e il buio su Tripoli

di Karla Garbo

In un momento un cui la cultura fa paura e molti giornali parlano di strumenti musicali che bruciano e vignette satiriche o pseudo tali (anche se l’attenzione su di esse è leggermente calata), eccone una di qualche mese fa, simpatica ma che, tuttavia, tocca un aspetto preoccupante, quello della sparizione o, peggio, della distruzione di molte opere d’arte storiche in un paese ricco di cultura come la Libia (ma non solo).

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Vignetta che ironizza sulla sparizione della statua

La vignetta ironizza sulla sparizione della Fontana della Gazzella dal lungomare di Tripoli, con un disegno che ritrae un ufo che se la sta portando via. Era bella, soave, delicata e antica, probabilmente incompresa da molti. La fontana di bronzo era un simbolo storico della città, spesso immortalata su cartoline e fotografie. Realizzata nel 1932, durante il periodo coloniale italiano, dall’artista livornese Angiolo Vannetti (1881-1962), la statua era sopravvissuta a tutti i governi. Durante la presenza in Libia della comunità italiana (fino al 1970), la fontana era meta degli innamorati che si facevano fotografare ai bordi della vasca. Ma anche dopo la cacciata dei residenti italiani, per mano del regime militare di Gheddafi, la Gazzella era riconosciuta dai giovani libici come un luogo d’incontro e nella piazza erano stati aperti bar e ristoranti affollati che portavano il suo nome.

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La fontana oggi

La chiamavano semplicemente la Gazzella, ma era qualcosa di più. In quella statua di gazzella abbracciata da una donna seminuda, circondata dai getti d’acqua di una fontana, gli abitanti di Tripoli leggevano un ultimo ricordo del passato e il rimpianto di anni non segnati dall’incertezza, dall’inquietudine degli attuali giorni bui. La “fontana italiana”, come la chiamavano molti, oggi è sparita, puff, scomparsa nel nulla, lo scorso novembre. Al suo posto, sul basamento della fontana, spenta, triste e semivuota, resta un deforme torsolo di cemento e metallo. Un indizio, secondo alcuni, di come la statua possa non essere stata semplicemente spostata, ma più probabilmente rubata o distrutta. Le autorità non chiariscono. Anzi, piuttosto, tacciono. Anche perché, qualcuno potrà pensare, i problemi ora sono ben altri.

Si è detto che era stata rimossa per restaurarla ma la versione più ricorrente e accreditata dai cittadini di Tripoli è che quella statua italiana, quella donna seminuda odiata dagli integralisti abbia fatto la fine dei Budda di Bamyan in Afghanistan, sia stata rimossa non per essere riparata, ma per essere definitivamente distrutta. Quello che è certo, è che, già nel 2011, dopo la caduta di Gheddafi, qualcuno aveva cercato di “rivestirla” avvolgendola in veli e stracci destinati a coprire le sue nudità. Alla fine, per evitare lo scontro, era stato deciso di incrementare lo zampillio della fontana in modo da nasconderne le forme dietro gli spruzzi e i giochi d’acqua. Ma quell’esile compromesso era ben lontano dal soddisfare le menti più fanatiche. Nel 2012, la statua era stata, infatti, minacciata dagli estremisti, tanto da far disporre una sorveglianza della polizia. Lo scorso agosto era stata gravemente danneggiata da un razzo che le aveva centrato il ventre lasciando un enorme squarcio.

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Cartolina d’epoca della fontana della Gazzella

Quelle stesse menti che hanno distrutto i ‘mimbar’ (storici pulpiti in legno con scalini in legno per la predica del venerdì, giudicati toppo alti), le moschee sufi e ottomane, vandalizzato l’arte preistorica del sud del paese, la necropoli greca di Cirene, la città romana di Leptis Magna (dove proiettili hanno bucherellato la scritta ‘Imp Caesare Divi’), costretto il Museo nazionale a rimanere sbarrato e a chiudere i pezzi di epoca adriana in un deposito, obbligato Leptis a farsi ricoprire dalla sabbia e a ospitare “accampamenti” improvvisati di qualche pecora. I turisti sono storia lontana, ormai. Con la sparizione (o peggio, forse, la distruzione) della Gazzella, Tripoli e tutta la Libia perdono un simbolo d’innocenza e di giovialità che caratterizza i gesti della gente semplice del paese nord-africano, per entrare in una possibile fase di oscurantismo. Speriamo bene.

L’OPINIONE
Ragazzi, siate sovversivi e rivoluzionari

Mario Capanna, storico leader del Sessantotto, sbeffeggia i giovani dicendo che se a 70 anni avranno una misera pensione se lo meritano perché non stanno facendo nulla per cambiare questa società. Massimo Gramellini sulla ‘Stampa’ lo pizzica sostenendo che, prima di fare la morale ai ragazzi, quelli come Capanna dovrebbero loro per primi muovere autocritica perché nonostante le battaglie di cui menano vanto hanno contribuito a far sì che il mondo oggi sia così com’è.

Io mi sfilo da questa diatriba e ai giovani vorrei idealmente indirizzare la stessa esortazione che ho rivolto ai miei studenti: siate sovversivi e rivoluzionari perché il progresso si genera dal cambiamento e dalla rottura con il passato.
Certo, è per tutti più comodo e rassicurante seguire pedissequamente il gregge, accomodarsi in poltrona e perpetuare gesti e azioni secondo il criterio di ovvietà: si fa così perché così si è sempre fatto, attuando automatismi legittimati semplicemente dalla tradizione, secondo modelli di azione reiterati senza essere posti al vaglio della ragion critica, come invece sarebbe doveroso sempre. Perché è proprio al libero intelletto che dobbiamo fare appello per orientare il cammino e determinare le scelte.

Se tutti quanti ci fossimo limitati a riprodurre i gesti dei padri, l’umanità sarebbe probabilmente ancora ferma all’epoca della pietra. Invece per innovare, migliorare, progredire occorre guardare il mondo da punti di vista e prospettive differenti, senza cristallizzarsi mai, cercando continuamente – e scevri da pregiudizi – le soluzioni più adeguate, senza il timore di percorrere vie inesplorate e di sperimentare originali approdi, senza zavorre.
Fate in modo che comprensione e rispetto del passato e considerazione della tradizione non divengano freni inibitori. Perché è solo così, attraverso conflitti e rotture, che si genera il benefico cambiamento che conduce al progresso.

In questo cammino si deve però avere la saggezza di non innamorarsi delle proprie cause e delle proprie idee, e la capacità di mantenere sempre lucida, onesta e vigile coscienza degli atti compiuti e dei loro effetti. Ogni convincimento e ogni azione vanno preventivamente posti al vaglio dell’intelletto per valutarne responsabilmente le conseguenze e i prevedibili esiti nella realtà.
Serve dunque un approccio non dogmatico, ma razionale e passionale: la passione delle idee, la ragion critica a orientarle, il rispetto e la considerazione degli altri intesi come interlocutori e non come nemici.

Forti di questi sentimenti potete lanciarvi con determinazione alla ricerca di nuove cure per guarire questo mondo malato e potrete affrontare senza remore le ineludibili pacifiche sfide necessarie a cambiarlo.

A TEATRO
Ecco i Monologhi della vagina. E l’intimità esce allo scoperto

Parlare di ciò di cui non si parla mai, nominare l’innominabile, sfatare un tabù mescolando impegno e ironia, comicità e indagine intima, dramma e piacere, sessualità e identità di genere. Partono da questi elementi qui, i “Monologhi della vagina”, mini-brani scritti dall’americana Eve Ensler quasi vent’anni fa, messi in scena a Broadway e poi, via via, trasformati in una specie di format di impegno e popolarità crescente. I testi sono stati scritti facendo raccontare a duecento donne la loro idea del sesso, il loro rapporto con l’organo più intimo, le relazioni, le paure, i desideri. Da qui partono brevi interviste che danno voce a episodi emblematici legati alla sessualità, all’amore, ma anche alla nascita, ad episodi di violenza, vergogna, avvilimento. Un luogo oscuro da cui partire e che, alla fine, racchiude secondo l’autrice il nocciolo più intimo e profondo dell’identità di ogni donna, il modo in cui ne gioisce e ne soffre, come attorno a ciò spera e teme. Dietro al divertimento, poi, resta sempre vigile e presente la voglia di denunciare episodi di violenza e sopraffazione.

Il successo dell’opera teatrale e del libro negli Stati Uniti è stato fondamentale per esportare un’iniziativa che, altrimenti, sarebbe rimasta forse più piccola, sconosciuta e di nicchia. Invece, così, con testimonial come Tina Turner e Whoopi Goldberg, i “Monologhi della vagina” si sono espansi, sono arrivati in Italia e si sono trasformati in un movimento, che è quello del V-Day. Si tiene ogni anno tra febbraio e marzo. La città di Ferrara questa iniziativa spettacolare e questo movimento li ha fatti suoi dal 2012 e, a partire da domani, li riporta in scena.

A raccontare il coinvolgimento tra la città e questo modo innovativo di unire spettacolo e voglia di fare campagna di sensibilizzazione è Laura Benini, che ha fondato il gruppo insieme a un uomo e quattro donne. “Nel 2012 – ricorda Laura – c’erano già state altre esperienze sporadiche in Italia e, in particolare a Trieste, dove l’opera era andata in scena per tre anni di seguito. Poi l’organizzatore si è trasferito a Ferrara e ci ha coinvolte aiutandoci a organizzare lo spettacolo e ad aderire al movimento internazionale del V-Day”. Da allora, ogni anno le ragazze – che ora sono una ventina – ricevono dall’America il copione con una selezione di monologhi, insieme li leggono, ciascuna sceglie quello che sente più vicino a sé e alla propria sensibilità, li studiano, fanno le prove e poi li portano sul palco sentendosi a quel punto sempre più unite, complici e consapevoli. Oltre alla parte della messa in scena c’è un lavoro di squadra per coinvolgere le istituzione, produrre materiale di comunicazione, ma anche per allestire la scenografia, inventare uno stile di presentazione, fare i costumi.

Lo spettacolo si basa sul contributo volontario di tutti: le attrici, i luoghi, la tipografia che stampa il materiale, così come chi mette a disposizione arredi scenici. Perché alla fine – racconta Laura – l’obiettivo, è quello di parlare di questi temi, ma anche di raccogliere il contributo che ogni spettatore lascia con un’offerta libera. Il ricavato va tutto a sostenere associazioni che operano sul territorio in modo da aiutare donne in difficoltà o vittime di violenze.

Lo spettacolo quest’anno prevede tre appuntamenti, tutti alle 21: domani, venerdì 27 febbraio, nella sala del Centro documentazione donna di via Terranuova 12/b, dove verrà allestita anche una mostra di fotografie di Antonella Monzoni dedicate a questi temi e visitabile fino all’8 marzo; domenica 8 marzo di nuovo a teatro nella Sala estense, in piazza Municipale di Ferrara, e domenica 15 marzo nell’auditorium di Santa Maria Maddalena, in provincia di Rovigo, via Amendola 29.

[clic su un’immagine per ingrandirla e vederle tutte]

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Lettura dei Monologhi della vagina (foto Stefano Pavani)
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Un’altra lettrice dei Monologhi della vagina (foto Stefano Pavani)
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Lettura dei Monologhi della vagina (foto Stefano Pavani)
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Monologhi della vagina: il gruppo delle attrici l’anno scorso in Sala estense (foto Stefano Pavani)

LA NOVITA’
La rivelazione di Sanremo, Bianca Atzei: “Io sono bianco o nero, senza vie di mezzo”

Nel 2013 Bianca Atzei apre i concerti del tour autunnale dei Modà, duetta con Gianni Morandi in “Ti porto al mare” nell’ album “Bisogna vivere” e si esibisce all’Arena di Verona, cantando “In amore”, in uno dei due concerti del “Gianni Morandi Live in Arena”. Nel 2014 incide con Alex Britti il brano “Non è vero mai”, inspiegabilmente scartato dal Festival di Sanremo dello stesso anno ma diffuso su Internet insieme all’interessante video che mostra un parallelo tra le emozioni di due ex-innamorati.

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‘Bianco e nero’ è il primo album di Bianca Atzei

L’occasione giusta per il lancio di Bianca Atzei è stato il Festival di Sanremo 2015, che ha avuto il merito di proporre giovani artisti di talento. Grazie a questa opportunità la cantante è riuscita a pubblicare “Bianco e nero”, il suo primo album.
Riferendosi al suo album, Bianca ha detto: “Questo disco rappresenta ogni cosa di me, dal titolo ai brani. Io sono bianco o nero, non ho vie di mezzo”. L’album contiene 20 tracce, tra cui i sei singoli realizzati tra il 2012 e il 2014, due cover importanti e impegnative quali “No potho reposare” con I Tazenda (tra gli strumenti anche le launeddas e il bouzuki suonato da Massimo Satta) e “Ciao amore, ciao” di Luigi Tenco, eseguita con Alex Britti, proposta sul palco dell’Ariston durante la terza serata del Festival. Nel 2013 lo stesso brano fu portato a Sanremo da Marco Mengoni, in una versione completamente differente da quella di Bianca & Britti, quest’ultimo arrangiamento ha un’anima rock blues che ben si addice alla voce “graffiata” della cantante di origini sarde.

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Frame tratto dal video “Non è vero mai” con Alex Britti

Tra i brani citiamo “La gelosia” (in duetto con Kekko dei Modà), un lento d’altri tempi in contrasto con la grinta dei due interpreti, “L’amore vero”, un tuffo “ballabile” negli anni ’60, “La paura che ho di perderti”, realizzata con Maurizio Solieri, chitarrista storico di Vasco Rossi, “Non è vero mai” (duetto con Alex Britti) e “One day I’ll fly away”, dalla fiction Rai “Anna Karenina”. “Si dice, lontano dagli occhi dal cuore…” questo è il primo verso di “Bianco e nero”, il brano che dà il titolo all’album, un riferimento non casuale a Sergio Endrigo, vista la stima di Bianca per il grande artista istriano. “Polline” e “Convincimi” entrano nel cuore, si tratta di melodie italiane, particolarmente adatte alla vocalità di Bianca, che le canta con forte spessore interpretativo.
“Riderai fissando un punto nel vuoto, dove vai proiettato ricordo, su di noi sarai sconvolto abbastanza, da credere che sia reale non sia un’immagine, le nostre menti a volte inventano…”, questa è la strofa che introduce “Riderai”, uno dei brani più intensi, così come la struggente “La strada per la felicità”, “Non puoi chiamarlo amore”, “L’amore vero”, “Da me non te ne vai” sono da ascoltare facendosi cullare dalle parole e dalle melodie, per poi riprendere quota con il brano sanremese “Il solo al mondo” scritto da Francesco “Kekko” Silvestre.
Tre anni di lavoro e una buona occasione (Sanremo) hanno permesso di realizzare un album di debutto importante, interessante, pieno di spunti e con una tracklist essenziale, utile per conoscere quest’artista e apprezzarne la voce, la grinta e il talento.

Foto in evidenza di Francesca Saragaglia.

Video di “Non è vero mai”, Bianca Atzei & Alex Britti  [vedi]
Video di “Il solo al mondo”, Bianca Atzei [vedi]

LA SEGNALAZIONE
Questione di particolari

da MOSCA – Il particolare fa la differenza, il particolare che è tale per non distogliere mai l’occhio da esso. Vedere l’insieme distrarrebbe l’attenzione dello spettatore dal punto che si vuole evidenziare. Bisogna vedere solo quel particolare, concentrarsi su un momento, su una parte che parla da sé.
Questa l’intenzione di Mikhail Rozavov, fotografo russo, classe 1973. Questa la lettura dell’esposizione al Museo di Mosca di un artista formatosi alla Facoltà di storia dell’Università statale di Mosca e alla Nuova accademia delle arti fondata, nel 1989, dal celebre filosofo-designer-pittore Timur Novikov. Fotografo dall’età di 21 anni, Rozavov è autore di molte opere conservate presso i principali musei moscoviti, come il Puskhin, il Museo statale russo, la Casa della fotografia di Mosca o il Museo Shchusev dell’architettura. La mostra s’intitola “Chiarezza dell’obiettivo”, traduzione imperfetta, forse, del suo originale ‘Yasnost tseli’. Precisione del particolare, messaggi chiari, netti, inequivocabili e diretti dell’architettura sovietica. Questo il senso. La scelta dei soggetti che l’obiettivo immortala rappresenta un elemento tipico di molta fotografia russa moderna e sovietica: onestà visiva e approccio coerente, centrato e sicuro.
Nelle sale ben illuminate e ordinate, sulle quali vigila la consueta severa babuschka, si ammirano immagini in bianco e nero di parti dell’architettura e della scultura monumentale sovietica degli anni ‘30-‘60 che si può ammirare passeggiando per Mosca. Arte che non era solo un monumento ad un’epoca ma che voleva illustrare gli ideali sociali dei leader politici di allora.

chiarezza-intentiIn questa bella mostra, ci si concentra su singole componenti di un tutto sconosciuto, su dettagli che offrono la libertà di trovarsi in uno spazio che lascia la fantasia immaginare e fantasticare sul tutto. Se questo pare in antitesi con l’intento dei creatori originali, che con opere monumentali di tal genere volevano sicuramente colpire lo spettatore con la grandezza stessa (fatta anche d’ispirazione all’antica Roma o allo stile di Napoleone Bonaparte), l’occhio al particolare ci fa riflettere al vero significato dei simboli evidenziati. Basta soffermarsi su di essi e non vedere altro intorno.

chiarezza-intentiSpesso, infatti, quando si vede un grande edificio o ponte sui quali campeggiano le immancabili falce martello, non si fa caso al fatto che accanto a esse vi sono motorini, arnesi di vario tipo che simboleggiano il lavoro e l’industria o ghirlande di erbe, fiori o grano, che rappresentano la terra e l’agricoltura. Il concetto della ‘fertilità’ russa qui è rappresentato non solo dai frutti della terra ma anche dal lavoro meccanico e elettrico. Il progresso. O meglio, ordine, terra e progresso.

Le immagini sono astratte dal loro ambiente, l’arte umana è tale anche se ‘liberata e depurata’ da ogni forma di propaganda politica. Così le statue di donne eleganti, che ricordano le antiche forme romane o greche, esaltano la bellezza, la determinazione e la forza della stessa figura femminile, qualità universali della donna, indipendenti dal sistema politico nel quale sono inserite.

chiarezza-intentichiarezza-intentiC’è dell’utopia, però, in quelle opere monumentali dell’era sovietica, in quelle simmetrie imponenti e devote, in quella perfezione effimera, come dice lo stesso artista: “L’architettura sovietica è bella e impressionante, ma oggi comprendiamo che tutta quella gloria era giusto una favola, e che tutti quei capolavori non erano altro che una decorazione di una felicità che non sarebbe mai divenuta realtà. E’ una storia sull’irrealizzabilità della felicità”. Rozanov, comunque, mette sempre al centro dei suoi lavori il cosmo, la ricerca dell’uomo del suo spazio in esso, la relazione con esso. Intendendo con cosmo il sistema ordinato e complesso dell’universo, in netto contrasto con il caos. Anche in questa mostra l’uomo cerca il suo posto, il suo ruolo, i suoi simboli, il suo spazio nel mondo.
Lo stile minimalista di Rozanov ci piace, così come ci piace il fatto che non ci siano titoli alle fotografie. Inizialmente li si vorrebbe e li si cerca disperatamente, poi si comprende che non servono, perché immagini e simboli parlano da sé. Intento chiaro, dunque, e obiettivo raggiunto, soddisfazione estetica, intellettuale e filosofica garantite.

Fotografie per gentile concessione dell’autore, tramite l’ufficio stampa del Museo di Mosca che ringrazio. In particolare Anastasia Fedorova.

La mostra è visibile al Museo di Mosca, dal 23 gennaio al 1 marzo 2015, mosmuseum.ru

Whiplash, una frustata per il successo

Tra gli otto film candidati agli Oscar, con il successo di “Birdman”, ve ne è uno meno noto al grande pubblico, attualmente nelle sale, si tratta di “Whiplash” (frustata) che ha ricevuto Oscar importanti per il miglior montaggio, per il miglior sonoro e per il miglior attore non protagonista al mitico J. K. Simmons, caratterista noto, tra l’altro, per “Medici in prima linea” e “Law & Order”. Diciamolo subito, un film da non perdere.

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La locandina

J. K. Simmons, nella parte di un inquietante insegnante di jazz, Terence Fletcher, è il mattatore del film, ne detta i temi e i tempi; riempie la scena e l’inquadratura con la sua figura magnetica, nella impietosa e ossessiva ricerca di indurre il suo allievo alla perfezione, o meglio alla genialità e al talento; apostrofa i perdenti “palla di lardo” (citazione di “Full Metal Jacket” di Kubric), induce ad una competizione per essere il primo batterista, che diviene una sfida fisica, dove il sangue, il sudore e lo sfinimento sono il condimento indispensabile per il raggiungimento dell’obiettivo.

sangue-drumsUn film sulla passione, sulla molto americana idea dell’uomo che insegue la realizzazione della sua felicità e del suo successo, al quale sacrificare tutto, anche la propria vita, come dalla sterminata casistica di premature morti dei jazzisti più importanti, specie del free e be-bop, decimati da alcool, droghe ed eccessi. Invece Andrew, il giovane studente interpretato da un sempre più emergente Miles Teller, è in tutto e per tutto un bravo ragazzo, mantiene rapporti, non facili, con la famiglia, corteggia una giovane cameriera di fast food, pensa solo a studiare la batteria, e concentra tutta la sua energia per realizzare questo sogno.

feature2«Non esistono, in qualsiasi lingua del mondo, due parole più pericolose di bel lavoro», dice Fletcher, intendendo che l’artista deve necessariamente superare la normalità, e avanzare in un ambito indefinito e non prevedibile; qui l’essere un artista non è determinato dalla mera trasgressione, sessuale, di costume o di droghe, ma da un massacrante lavoro sui ‘drums’ e sui piatti, fino allo sfinimento e all’esplosione della rabbia e dell’angoscia.
Flecher racconta che Charlie Parker divenne il mitico “The Bird” dopo un esibizione non eccezionale, quando fu oggetto del lancio di un piatto dal suo capo band, che quasi lo decapitò; si rinchiuse allora per giorni a provare, e poi fece il miglior assolo di sax della storia del Jazz. Se non fosse stato impietosamente criticato, non lo avrebbe fatto.

sangue-drumsUn film anche sul rapporto tra maestro e allievo: quanto è lecito spingere lo studente al limite delle sue risorse e resistenze, quanto e cosa si deve sacrificare al raggiungimento dell’obiettivo? Il limite stesso, sembra dire il film, da superare ad ogni costo, come un Rocky che invece dei pugni usa le bacchette e i pedali dei ‘drums’; solo nell’aspro ed estremo addestramento si forgia il carattere e si estrae il meglio.

Un montaggio strepitoso e incalzante, una colonna sonora emozionante, un finale in crescendo, che vede prorompere il vero, unico e imprevedibile talento. E forse il film propone anche un altro contenuto, divenuto incalzante in questi anni di crisi di sistema: la necessità di essere motivati, allenati, competitivi, performanti. E la mente corre al film di Muccino “Le leggi del desiderio”, incentrato proprio sulla figura di un lifecoaching/counselor, in sostanza di un allenatore che ci renda più forti e vincenti; ma questo è un altro film, magari la prossima volta.

“Whiplash” di Damien Chazelle, con Miles Teller, J. K. Simmons, Melissa Benoist, Paul Reiser, Austin Stowell, drammatico, sconsigliato sotto i 16 anni, durata 107 min., Usa, 2014

Varese: “Una rivista online aperta a tutti, primo passo verso il sistema museale cittadino”

da: Ranieri Varese

Angelo Andreotti, direttore dei Musei Civici di Arte Antica, nella presentazione della rivista online Museoinvita, ha avuto la non obbligata cortesia di citarmi e di collegare la nuova rivista all’ormai antiquariale “Musei Civici. Ferrara Bollettino Annuale”, fondato nel 1971 e chiuso nel 2000.
Credo che tutti i ferraresi debbano essere grati alla Amministrazione Civica e alla Direzione dei Musei per la creazione di una opportunità di documentazione e di ricerca legata alla attività, intensa e intelligente, che si svolge presso i musei civici: testimoniano le iniziative, l’aumento dei visitatori, i progetti.
Spero mi sia consentita qualche lieve osservazione, legata alle mutate situazioni.
Sono passati quarantaquattro anni, forse non ci si può limitare a delle riproposizioni. Un importante convegno (novembre 2011) ha sottolineato con forza la necessità della costituzione di un sistema museale cittadino, come già è avvenuto in altre località della regione. In varie dichiarazioni rappresentanti della amministrazione hanno manifestato la loro intenzione di avviarne la formazione. E’ auspicabile che avvenga attraverso un pubblico confronto.
Una rivista dedicata a un solo settore, e solo da questo organizzata, rischia di essere angusta e autoreferenziale; l’essere aperta a tutti è diverso dall’essere pensata da tutti.
Un primo passo anticipatore sarebbe stato, e ancora può essere, pubblicare online un periodico che sia espressione di tutti i musei presenti in Ferrara. Insieme pensato, con un comitato scientifico composto da rappresentanti di tutti i musei: da quelli statali ai civici, agli universitari ai religiosi. Senza gerarchie di temi e di settori: dalle cere anatomiche alla pinacoteca, dalla archeologia alla contemporaneità, dal collezionismo alle arti applicate.
I musei, oltre che luoghi di conservazione e di esposizione, sono e debbono essere centri di studio e di ricerca. La rivista deve essere sede ove testimoniare le attività e i problemi, ove raccogliere i risultati: temi che devono poter essere espressi da tutte le istituzioni. Il filo rosso che può e deve legare ogni cosa è il legame con il patrimonio storico monumentale e le sue implicazioni urbanistiche, con le opere e le raccolte conservate sia in città che nella provincia.
La Amministrazione Comunale può farsi capofila: sarebbe un segnale significativo anche nei confronti dei molti altri problemi che esistono.
Il tutto è possibile senza alcun aumento dei costi previsti.

Equo contro le mafie: incontro con chi ha detto no al racket e si a una economia solidale

da: AltraQualità

Sabato 28 febbraio dalle 11 presso lo showroom di altraQualità Soc. Coop., in via Toscanini 11/A

Due realtà contro il racket e a favore di una economia solidale e trasparente: dalla collaborazione tra l’azienda chimica Cleprin e il consorzio di cooperative NCO nasce “Con te”, una linea completa per la detersione e la pulizia della casa con detergenti in ecodosi idrosolubili, superconcentrate, ecocompatibili e socialmente utili!
Noi incontreremo queste due realtà sabato 28 febbraio dalle 11 presso il nostro showroom. L’incontro è gratuito e aperto a tutti! Qui le info sulla giornata
Intanto conosciamo meglio queste due coraggiose aziende.
Chi sono NCO e Cleprin
Negli anni settanta e ottanta il territorio campano ha conosciuto la brutalità della Nuova Camorra Organizzata (NCO). La risposta civile a ciò deve essere altrettanto Organizzata, per questo è nata Nuova Cooperazione Organizzata (NCO) una rete di cooperative che condividono principi e valori. Il consorzio di cooperative sociali “ Nuova Cooperazione Organizzata” si pone come modello di sviluppo di un nuovo welfare innovativo locale attraverso l’esplorazione di nuove forme di integrazione tra profit e non profit, tra pubblico e privato, coinvolgendo i cittadini in un percorso di riappropriazione del territorio volto alla creazione di economia sociale partendo dai beni confiscati e beni comuni, attraverso percorsi di cura, di felicità, dove inserire le persone svantaggiate che camminano con loro.
La Cleprin, l’azienda chimica che collabora con NCO per la produzione di detergenti per la casa, è estremamente attenta alla qualità dei suoi prodotti, ma anche dei processi interni all’azienda e degli atteggiamenti esterni. Dopo alcuni anni difficili a causa di ripetute richieste da parte dei clan camorristi locali, Cleprin ha denunciato e con forza ed impegno è riuscita ad ottenere giustizia.
Oggi è un’azienda in crescita che interpreta l’economia sociale in modo ampio, sia dal punto di vista ambientale che da quello sociale, le ecodosi infatti “Con Te”, infatti, sono completamente biodegradabili, sono prodotte con una impronta ecologica vicino allo 0 e sono confezionate dai soci di Nuova Cooperazione Organizzata, i quali si occupano degli inserimenti lavorativi di persone con problemi (disabili, ex tossicodipententi, ex carcerati).
Per questo ha sviluppato dei percorsi di qualità che l’hanno portata a ricevere tutta una serie di certificazioni da organizzazioni terze specializzate sia a livello nazionale che internazionale: sistema di gestione per la qualità, sistema di gestione ambientale, sistema di misurazione della qualità delle prestazioni di pulizia. Ultimo, ma non per importanza, ha ottenuto il rating di legalità: uno strumento volto alla valutazione di principi di comportamento etico in ambito aziendale e del grado di attenzione riposto nella corretta gestione del proprio business.
Il rating di legalità viene attribuito dall’ Autorità garante della concorrenza e del mercato(AGCM) in raccordo con i Ministeri della Giustizia e dell’Interno e ha tre possibili gradi di valutazione: una, due o tre stellette. La Cleprin ha ottenuto la valutazione più alta, che significa il pieno adempimento di tutti i requisiti richiesti in termini di trasparenza, corretta gestione, assenza di provvedimenti per il mancato rispetto delle leggi sulla tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro e violazioni in materia retributiva, contributiva, assicurativi e fiscali

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La Protezione civile segnala numerosi episodi di dissesto sul territorio regionale

da: ufficio stampa giunta regionale Emilia-Romagna

Segnalati dall’Agenzia regionale di Protezione civile numerosi episodi di dissesto sul territorio regionale. Evacuati alcuni nuclei familiari a Castellarano (Reggio Emilia) e Modigliana (Forlì-Cesena). Piogge in esaurimento nelle prossime ore

Sono numerosi gli episodi di dissesto sul territorio regionale causati dalle intense precipitazioni che da ieri hanno colpito l’Emilia-Romagna. Li segnala l’Agenzia regionale di Protezione civile.
Franato, a Casola Valsenio, in provincia di Ravenna, un campo da calcio terrazzato adiacente al fiume Senio; risolta invece, a seguito dell’intervento del Servizio tecnico di Bacino, la parziale ostruzione del fiume che aveva causato la formazione di un piccolo laghetto nell’area circostante. Il normale deflusso dell’acqua è stato ristabilito e non vi è pericolo per l’incolumità dei cittadini.
Evacuate due persone a Tossino, nel comune di Modigliana (FC), dove una frana minaccia un’abitazione privata. Sempre a seguito di una frana risulta temporaneamente isolata a Roncofreddo (FC) la località di Monte Codruzzo. Evacuati anche tre nuclei familiari, minacciati dalla frana di Cà Telani, a Castellarano (RE), mentre si registrano diversi smottamenti nei comuni di Vezzano sul Crostolo e Baiso nell’Appennino reggiano.
Localizzati alcuni allagamenti nel comune di Forlì.
A seguito delle manovre di invaso delle casse di espansione del cavo Parmigiana Moglia a Novellara (RE) l’Agenzia regionale di Protezione civile ha attivato, con l’allerta n. 20, lo stato di preallarme per alcuni comuni del Modenese e del Reggiano, su indicazione del Consorzio di bonifica Emilia centrale, come definito dal Piano interregionale di emergenza per il rischio idraulico del territorio colpito dal terremoto del maggio 2012.
I comuni interessati sono: Boretto, Brescello, Campagnola, Carpi, Concordia sul Secchia, Fabbrico, Gualtieri, Guastalla, Novellara, Novi di Modena, Reggiolo, Rio Saliceto, Rolo e Soliera.
Secondo i dati forniti da Arpa, le piogge sono previste in esaurimento nelle prossime ore. L’Agenzia regionale di Protezione civile ha comunque deciso di prolungare l’allerta emessa il 23 febbraio per criticità idraulica ed idrogeologica a causa dell’attuale situazione del reticolo idraulico, del difficile smaltimento delle acque e dei numerosi episodi di dissesto di versante.
Gli aggiornamenti sulle allerte sono disponibili sul sito dell’Agenzia regionale di Protezione civile.

LA RIFLESSIONE
Il tempo delle parole e il tempio delle menzogne

Il tempo di oggi è quello delle parole, più che dei gesti. le parole sostituiscono e risparmiano le azioni. Hanno ragione della giustizia e della verità. La democrazia è il tempio delle parole. Infatti di un politico si dice: come parla bene, pochi si ricordano ciò che ha fatto. Le parole servono a conquistare, ad apparire, ghermiscono il potere. Andando indietro potremmo dare la colpa ai retori, ai sofisti. Col passare del tempo la gente si è come assuefatta all’uso falso, mistificatorio delle parole, in pubblico come in privato. Siamo passati dall’inadeguatezza comunicativa di Bersani, di cui qualche reminiscenza si intravvede nel ministro degli esteri Gentiloni, al parolaio magico e veloce Renzi. A Ballarò Crocetta ruggisce, Salvini sbraita, mentre un impacciato Giannini chiede la tregua. Cambio rete ma la formula è la stessa. Strada che vince non si cambia, direi parafrasando il vecchio Boskov. Per cui il ministro recita la propria parte come pure il vicino di casa, o il collega di lavoro e così via. Senza rendercene conto abbiamo edificato una vita dove le convenzioni e ipocrisie, pur necessarie, sono decisamente preponderanti. Allora certe volte mi viene da pensare che una vita sia troppo breve per farcirla di continue menzogne. Ora siamo alla riforma del lavoro. Prima però si è detto che la flessibilità era un bene. Tuttavia buttiamo via l’articolo 18 per risolvere il problema della flessibilità. Che, per le stesse persone, è diventato un male. Intanto dal 1992 ad oggi l’Italia è stata occupata da una classe politica che detiene la responsabilità della deriva morale e economica del Paese, ma non si schioda.
Rimane il problema dell’abitudine. Ci si abitua alle menzogne e ci si accontenta di meschine falsità verosimili. Si mente a se stessi. Così piano piano la vita si svuota prima, molto prima di finire. E la politica non è che il suo simulacro.

IL FATTO
Una firma in più, un’arma in meno

Daniele Lugli, presidente emerito del Movimento Nonviolento, lo aveva promesso nell’intervista di gennaio [leggi] e ieri mattina nella sala dell’Arengo della residenza municipale è stato presentato il Comitato provinciale di Ferrara della campagna “Un’altra difesa è possibile”. Fra gli aderenti Agesci, Acli, Anpi, Arci, Associazione Papa Giovanni XXIII, Associazione Viale K, Caritas, Cgil, Copresc, Emergency, Emmaus, Fiom, Legacoop, Libera.
Forse mai come in questo momento la guerra potrebbe sembrare una difesa giusta e necessaria e sappiamo quanto in questi ultimi anni sia stata presentata come umanitaria, ma la verità è che “la carta istitutiva delle Nazioni unite, la nostra Costituzione, parlano piuttosto di un flagello che abbiamo scelto di ripudiare”, ha sottolineato Daniele. “L’intervento armato ha dimostrato tutta la propria insufficienza come forma di risoluzione dei conflitti: dovunque è stato impiegato, dalla Bosnia all’Afghanistan all’Iraq, la situazione semmai si è aggravata. Con questa proposta di legge vogliamo dare una possibilità a forme di difesa differenti, quali i corpi civili di pace disegnati da Alex Langer fin dal 1995, o gli interventi di base sperimentati in luoghi di conflitto dai giovani di Operazione colomba, con costi irrisori e con grande impegno personale”, ha spiegato Daniele.
Una legge di iniziativa popolare formata da quattro articoli per l’istituzione del Dipartimento per la difesa civile, cui afferiranno i Corpi civili di pace, e l’Istituto di ricerca sulla pace e il disarmo, da finanziare spostando parte dei fondi per i sistemi d’arma del Ministero della difesa e attraverso le quote di quei contribuenti che vorranno versare il proprio 6 per mille a beneficio della difesa civile.
L’obiettivo è raggiungere 50.000 firme che permettano di presentare la proposta in Parlamento, per questo sono già in programma iniziative che si susseguiranno nei prossimi mesi. Paolo Marcolini, presidente Arci anche lui presente alla conferenza stampa, si è impegnato ad ospitare banchetti di raccolta firme nelle proprie strutture, a contatto con i giovani, ed in particolare in occasione della Vulandra, al Parco urbano dal 23 al 25 aprile. Anche Emergency, che “è presente nei luoghi di guerra dal ’94 e ha lavorato in 16 paesi, curando più di sei milioni di persone”, come ha ricordato la referente Sandra Broccati, “sostiene la campagna, anche a livello nazionale, e organizzerà un banchetto di raccolta firme alla Sala Estense nella serata del 4 marzo, durante il Viaggio italiano”. Mentre la Cgil di Ferrara, che insieme alla Fiom sta curando il coordinamento organizzativo del comitato provinciale, con il suo segretario provinciale Raffaele Atti ha preannunciato una iniziativa in collaborazione con Fiom sulla riconversione dell’industria bellica.
Nel frattempo si può già firmare a Ferrara all’Ufficio protocollo presso la sede municipale, oppure presso le segreterie di tutti i Comuni ferraresi nei quali si è elettrici o elettori.

Per informazioni e aggiornamenti sulla campagna vedi www.difesacivilenonviolenta.org
Contatti Comitato Provinciale di Ferrara
Davide Fiorini
davide.fiorini@mail.cgil.fe.it
3487510060

L’INTERVISTA
Carla Vistarini, autrice tout court: “Scrivere davvero è un piccolo inferno”

Carla Vistarini ha scritto i testi di canzoni di successo per cantanti come Ornella Vanoni (“La voglia di sognare”), Mina (“Buonanotte buonanotte”), Mia Martini (“La nevicata del ’56”), Riccardo Fogli, Patty Pravo, Renato Zero, Amedeo Minghi, Alice e i migliori interpreti della musica italiana; storiche le sue collaborazioni con i musicisti Luigi Lopez e Tony Cicco. Come autrice di programmi televisivi ha collaborato, fra gli altri, con Piero Chiambretti, Gigi Proietti, Fabio Fazio, Maurizio Costanzo, Loretta Goggi, Sergio Bardotti (Sanremo 1998); nel 1995 ha vinto il premio David di Donatello per la sceneggiatura del film “Nemici d’infanzia” di Luigi Magni. E’ autrice di numerose commedie teatrali (nel 1987 ha vinto il premio I.D.I., assegnato dall’Istituto del Dramma Italiano), ora, in libreria è disponibile “Se ho paura prendimi per mano”, il suo secondo romanzo che sta presentando in giro per l’Italia.

Com’è iniziata la tua avventura nel mondo della musica?

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Copertina della versione giapponese di “Ritratto Di Donna” (Vistarini-Lopez-Cantini) cantata da Mia Martini

Moltissimi anni fa, quando, con un gruppo di altri adolescenti come me, ci riunivamo in alcuni “luoghi sacri” della musica rock e pop di Roma come il Piper e gli studi della Rai di via Asiago da dove si trasmetteva “Bandiera Gialla”, lo storico programma di Arbore e Boncompagni che mandava in onda solo musica per “giovanissimi”. Tra noi ragazzini adolescenti di quel periodo c’erano alcuni personaggi che poi avrebbero fatto la storia della musica, dello spettacolo e del giornalismo. Ne cito alcuni: Renato Zero, Mita Medici, Roberto D’Agostino, Dario Salvatori, Loredana Bertè, Luigi Lopez, ecc. E c’ero anche io. Da lì alla Rca, la casa discografica che è stata una delle più grosse fucine di talenti e di musica in Italia, il passo fu breve. Molti di noi si presentarono lì e cominciammo a far sentire le nostre idee. E furono ascoltate. Diventarono dischi, successi, e poi anche storia.

A quali canzoni ti senti più legata?
Se parli delle mie, credo di amare alcuni pezzi che hanno forse avuto una diffusione minore, perché magari non erano dei singoli ma erano solo negli album, ma che sono splendidi. Cito fra tutti “S.O.S. verso il blu” di Mia Martini, “Un piccolo ricordo” di Peppino di Capri, “Re del Blu Re del Mai”, “Questo amore sbagliato” di Patty Pravo e tutte le canzoni di “Nightmare before Christmas” adattate da me in italiano per Renato Zero. Se parli della musica degli altri, allora i miei gusti volano verso il jazz.

Un brano come “La voglia di sognare” non nasce per caso, si tratta di emozioni emerse in un momento particolare della tua vita?
Ti dico una cosa che molti autori pensano ma che pochi confessano: non si scrive per emozione, ma per competenza, per professionalità. Voglio dire, il valore di uno scritto, sia esso una canzone, una poesia, o un romanzo, esiste nelle emozioni che suscita in chi legge o ascolta, non in quelle di chi scrive. Chi scrive, l’autore, è sì una sorta di accumulo di emozioni, cognizioni, cultura, masse di informazioni, che ha la grande facoltà di filtrare, scremare, selezionare, fino a lasciare in vita l’essenza, il cuore, e quello solo, di una storia, o di una canzone. Scrivere solo sull’onda di emozioni è un buon mezzo terapeutico per chi scrive, una catarsi psicologica, ma raramente tali scritti si sollevano dall’esperienza diaristica o dalla “poesia nel cassetto” che ognuno di noi ha buttato giù in un momento della sua vita. Scrivere davvero è un piccolo inferno, dove si sta a testa bassa sul foglio o sulla tastiera per ore e ore a scartare e gettare via le tante parole inutili che circondano le pochissime indispensabili.

“La nevicata del ’56” è l’esempio di come un ricordo dell’infanzia diventi un grande successo professionale?
La prima volta che vidi la neve, fu dalla terrazza della casa di famiglia, a Roma. Mio padre mi prese in braccio, avevo cinque o sei anni, e mi sollevò oltre la balaustra. I giardini della piazza sotto casa erano tutti bianchi. Poi scendemmo giù e cominciammo a giocare a palle di neve. E’ un ricordo bello, ma non fu questo a ispirarmi la canzone. Fu piuttosto, molti anni dopo, il contrasto con quello che il mondo intorno a noi, e cioè la città sua metafora, stava diventando. Il candore della neve inteso come innocenza, spazzato via, o peggio, sporcato, da un declino difficile e forse inarrestabile.

Stryx di Enzo Trapani è stato un punto di svolta per il linguaggio televisivo in Italia?
Sì. Trapani era un grande innovatore, coltissimo, ironico, sperimentatore di nuove tecnologie e nuovi linguaggi. Ho avuto la fortuna di apprendere i ferri del mestiere di autore televisivo scrivendo proprio Stryx, con Alberto Testa e Trapani stesso. Fu un programma che suscitò interesse e polemiche, e che vinse innumerevoli premi, soprattutto all’estero, come la Rosa d’Argento al Festival internazionale della televisione di Montreux, il massimo festival del settore dell’epoca.

Pavarotti & Friends da concerto a programma d’autore…
La Rai mi chiamò a dare spessore a questo grande evento della musica, il “Pavarotti & Friends”, dopo che il debutto televisivo, senza un autore a guidare la kermesse dell’anno prima, aveva dato esiti deludenti di pubblico. E così iniziai l’avventura con Luciano Pavarotti, durata per cinque o sei (perdonate la memoria) eventi indimenticabili e grandiosi, con cui sbancammo l’auditel. L’amicizia con Luciano fu spontanea e ricca di fiducia vicendevole. Tenere le fila di ciascuno di quegli eventi megagalattici era ogni volta una sfida e una soddisfazione enorme. Ogni concerto veniva registrato in piazza, al Campo Boario di Modena, in un Tir ultratecnologico della Decca Records che arrivava appositamente da Londra per la circostanza. Ricordo che per una edizione fu chiamato come regista Spike Lee, che però non aveva alcuna esperienza di regia televisiva. Il panico serpeggiò quando Spike entrò in sala regia e si mise a guardare stupefatto i macchinari, ma alla fine tutto andò bene, la serata fu ripresa grazie alla bravura della squadra della Rai.

Con Luigi Magni hai scritto la sceneggiatura di “Nemici d’infanzia”, vincendo nel 1995 il David di Donatello. In quel momento ti sei resa conto che la tua carriera era salita a un livello superiore?
Ho avuto la fortuna di lavorare sempre con grandissimi artisti, credo i massimi del mio tempo. Uno di questi è stato Gigi Magni, con cui ho vinto il David di Donatello. Che dire? Per la carriera, per il curriculum, per le Hall of fame e/o Wikipedia, ogni premio, ogni successo, ogni incontro sono senz’altro scalini di un’ascesa a un livello superiore. Per me sono soprattutto incontri con esseri umani stupendi, persone che ti donano parte di sé e accettano con gratitudine quello che tu puoi dare a loro.

Sei molto attiva sulla rete, che mondo vedi scorrere tra le “parole” di Facebook e Twitter?

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Fotoframe tratto dalla rivista Il Libraio

Credo che la rete e i social network sarebbero dei mezzi di arricchimento culturale e di miglioramento sociale enorme se non fossero usati così sciattamente come avviene oggi in molti casi. Poi c’è il fatto che molti dimenticano che ciò che viene postato in rete, in rete resta in eterno, e quindi ci si imbatte troppo spesso in assurdità cosmiche.

“Città sporca” è il tuo primo romanzo, Cosa ti ha spinto verso il genere giallo/thriller?
Amo il thriller innanzi tutto da lettrice. Va detto che sono una lettrice accanita, con la media di almeno un paio di libri a settimana. Amo molto scrittori come Chandler, Crais, Winslow, Lansdale, King, veri maestri. Insieme a molti scandinavi e ad alcuni grandi classici che hanno usato il thriller, o almeno la suspense per rendere più avvincenti i loro scritti, come Jorge Luis Borges e George Orwell. E’ per questo, credo, di preferire la narrazione a suspense, perché so quanto può essere appassionante e avvincente, consentendo a un autore che ha anche qualcosa in più da dire, di veicolarlo con leggerezza all’interno del racconto.

Quanta cura metti nel caratterizzare luoghi e soprattutto gli “improbabili” compagni di disavventura dei tuoi protagonisti?
I luoghi che descrivo non sono mai inventati, esistono tutti nella realtà. Un giorno scriverò una “Guida di Roma” in cui metterò le tappe di questa città vista attraverso i quartieri meno conosciuti, o le zone più misteriose. La città ha molte anime, e attraverso certi luoghi si possono raccontare bene. I personaggi sono il frutto di sintesi di personalità diverse, anche queste incontrate davvero nella mia vita. E per “davvero” intendo indifferentemente nella vita reale, o in quella letteraria.

“Se ho paura prendimi per mano” è il tuo nuovo romanzo, il mestiere di scrittrice è un’evoluzione naturale della tua storia di autrice… forse un punto di arrivo?

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La copertina del libro

Non c’è mai un punto di arrivo. Siamo sempre in cammino verso altro. Non sappiamo cosa riusciremo a fare o cosa troveremo lungo la strada, ma è innegabile che dobbiamo andare avanti. “Se ho paura prendimi per mano” è il racconto di un divenire. Un uomo, Smilzo, uno che ha avuto tutto e di più dalla vita, si ritrova letteralmente sotto i ponti a causa della crisi. E’ un homeless, dimenticato da tutti. La sua vita è finita? neanche per sogno. La sua vita comincia adesso, quando si ritrova a farsi carico di una piccola bambina di tre anni , piovuta dal cielo, e inseguita da una banda di criminali per le più oscure trame. Smilzo la proteggerà trovando così il riscatto della propria esistenza. “Se ho paura prendimi per mano” è un giallo con tinte di commedia e lo consiglio a tutti gli amanti del genere.

Negli ultimi tempi stai presentando il tuo romanzo nelle librerie, che Italia stai incontrando?

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Presentazione del libro con Rita Dalla Chiesa ed Enrico Vaime (Feltrinelli, Roma)

Un’Italia meravigliosa, che ha voglia di leggere, di migliorare, di parlare, di scambiare opinioni, di crescere. Persone che nella vita di tutti i giorni forse non vediamo, per la loro discrezione e riservatezza, ma che ci sono e fanno forte il nostro Paese.

Tuo padre, Franco Silva, è stato attore di cinema e televisione (“Le avventure del commissario Maigret”, “Il delitto Matteotti”), mentre tua sorella Mita Medici è conosciuta per la sua attività di attrice e show-girl. Quali opportunità si hanno provenendo da una famiglia di artisti? E quali ostacoli?
Si hanno opportunità di formazione personale, innanzitutto. Una casa di artisti è un luogo dove si legge molto, si va al cinema, a teatro, ai concerti, si scambiano opinioni, circolano persone di vivace intelletto. Tutto questo forma, struttura, la personalità. Poi cero si ha l’opportunità di venire a contatto con l’ambiente professionale più direttamente. Ma poi, al ‘redde rationem’ del valore, della qualità di ciò che si fa, si torna a essere soli, individui che devono dimostrare di saper fare meglio di altri ciò che fanno. E la risposta la dà solo il pubblico, che non fa sconti a nessuno. Il pubblico dice sì solo a ciò che ama.

La foto in evidenza è di Simone Casetta. La foto della presentazione alla Feltrinelli è di Yuri Meschini.

Presentazione del libro “Se ho paura prendimi per mano” di Carla Vistarini nella trasmissione “Mille e un libro” di Rai Uno [vedi]
Presentazione del libro all’auditorium Parco della musica di Roma, durante “Cartoon Heroes”, insieme a Luigi Lopez, suo co-autore musicale storico [vedi]