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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


L’OPINIONE
Il Pd, Renzi e la vittoria sulle macerie

I voti al Pd in Emilia Romagna sei mesi fa alle elezioni europee erano 1.200.000, oggi sono diventati 500.000. E rispetto alle regionali del 2010 ne mancano 300.000. Poi c’è il dato choc dell’astensione. Anche gli altri partiti e forze varie, tranne la Lega, sono andati male. Perché mi soffermo sul Pd? Perché sono rimasto impressionato dalle dichiarazioni di Renzi. “Abbiamo vinto”. “Non siamo mai stati così forti.” “Il dato dell’astensione è secondario.” Si rende conto di ciò che sta dicendo? Sta parlando non di una regione qualunque, ma del luogo simbolo della forza della sinistra e della partecipazione civica. Del resto, che conoscenza può avere della storia e della realtà dell’Emilia Romagna un segretario che conclude la campagna elettorale a Bologna vantandosi di aver strappato il maggior applauso attaccando il sindacato? Costringendo il candidato Bonaccini a dire il giorno dopo che in questa regione i rapporti con il movimento sindacale sono buoni. Non a caso chi è stato eletto nelle file del Pd è giustamente preoccupato per questo disastroso risultato elettorale, a cominciare dal suo neo-Presidente. Ad essere onesti intellettualmente, quella del Pd è una vittoria sulle macerie della propria forza, della rappresentanza e dell’autorevolezza della Regione come Istituzione. Insomma è tutto da ricostruire. Francamente, non mi ha mai impressionato il mito costruito da mass media, sponsor e tifosi vari attorno alle capacità comunicative del giovanotto di Rignano sull’Arno. Comunque ero disposto a fare qualche concessione al riguardo. Ultimamente, però, ne ha ‘bucate’ diverse. Inoltre, per uno che ha l’ambizione di durare vent’anni, è preoccupante la ripetizione monotona e noiosa degli stessi lazzi, offese e fervorini sul ‘fare’ e sul futuro radioso e felice che starebbe preparando… a nostra insaputa. Caro Matteo, forse sarebbe l’ora che tu ‘cambiassi-verso’ se vuoi durare un po’ più di Monti e Letta.

Fiorenzo Baratelli, è direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara

Il pessimismo della sinistra
Ma ci sono i bambini…

Quel giorno Ferrara era avvolta da un clima mite e piacevole di fine ottobre. La gente era ancora seduta fuori dai bar della città e faceva quello che è solita fare nelle tarde ore del mattino. Beveva un aperitivo, una coca-cola, un espresso. Anche un mio caro amico ferrarese era seduto in un bar, all’ombra dell’imponente Castello e protetto dalla statua del Savonarola. Gli occhiali oscurati dal sole e la barba grigia ed elegante gli conferivano un fascino senza tempo. Mi invitò a sedere e bere qualcosa con lui. Per decenni aveva lavorato in un liceo, inizialmente nella sua città d’origine Piacenza, poi a Bologna e infine a Ferrara. È un grande esperto di storia italiana e per questo ogni conversazione con lui si rivela sempre molto istruttiva. Si destreggia nella lingua italiana con invidiabile ironia e un’immensa ricchezza lessicale. Grazie alla sua esperienza decennale di lettore della stampa italiana e conoscitore di numerose biografie di protagonisti della politica attuale, sa usare perfettamente il linguaggio delle allusioni e delle bizzarre teorie del complotto per spiegare a uno straniero tutti i segreti della politica italiana, davanti e dietro le quinte. Per essere più precisi, dovrei meglio parlare al passato. Dalla sua ironia, una volta così colorita, è scomparsa oggi ogni traccia di amenità e fantasia. Guarda al mondo attorno a sé solo con pessimismo e quando parla della “Sinistra” lo fa solo con parole furibonde e piene di sarcasmo. Di Renzi non vorrebbe nemmeno parlare; al solo pensiero gli viene la nausea. Secondo lui non è altro che un giovane fiorentino fascista da salotto e discepolo modello di Berlusconi. Per consacrarsi al potere ha tradito tutti gli ideali e i valori della Sinistra, continua con un tono molto amareggiato. Cosa potevo replicare a questo così disilluso profluvio di parole sulla rovina in corso? Il mondo di Matteo Renzi e dei suoi seguaci non è mai stato il mio. La sgarbatezza, l’arroganza e la sfacciataggine con le quali mandano alla rottamazione la generazione precedente alla loro, della quale faccio parte anch’io, sono difficili da tollerare. Il “sogno ingenuo di un mondo del lavoro di soli vincenti, tutto energia, ottimismo e sorrisi, una specie di Truman Show che tiene fuori dalla porta, e lontano dalle telecamere, la durezza del conflitto e l’umiliazione di tante vite a perdere” (Michele Serra ) è per me un vero e proprio incubo. Dopo la ‘lectio magistralis’ di sinistra del mio amico ferrarese, seduto al tavolo di un bar ai piedi del Castello, riesco tuttavia a comprendere ancora meglio perché questa tradizionale Sinistra italiana arranca e brontola in un angolo morto della storia, come dice una tipica espressione bavarese. Durante questi incontri con i ‘compagni di strada’ della Sinistra, sempre più frequenti negli ultimi anni e segnati da note di sarcasmo e scoraggiamento, penso sempre a una conversazione tra Vittorio Foa e la sua amica Natalia Ginzburg (“È difficile parlare di sé”, Einaudi, 1999). Nel maggio 1990, per quattro domeniche consecutive, Natalia Ginzburg partecipò a un ciclo a lei dedicato della trasmissione radiofonica ‘Antologia’ in onda su Radio Tre. Uno dei partecipanti alla trasmissione era Vittorio Foa, suo caro amico dagli anni delle lotte antifasciste. Alla fine della trasmissione fra di loro si è sviluppata una breve, amichevole ma anche emblematica divergenza di opinioni sul futuro a venire. Marino Sinibaldi, il conduttore della trasmissione di allora, bene sintetizza il giudizio di Foa su di lei: “Probabilmente Vittorio Foa pensa ci sia in lei un pregiudizio, come dire, nel guardare il mondo, ci sia uno schermo di pessimismo e di tristezza. Di questo credo la accusi, affettuosamente e amichevolmente, immagino.” Poi la Ginzburg: “Sì, sì, sì… Può darsi che io abbia del nero, della malinconia… Però il mondo non è allegro, il mondo in cui viviamo non è allegro.”
“No, neanche per idea,” risponde Foa “ma Natalia, i bambini nascono. I bambini nascono”. La laconica risposta dell’eterno ottimista Vittorio Foa non mi incita ad applaudire Renzi e il suo “Truman Show”. Ma neanche una Sinistra politica che, come il mio amico, intelligente ma così pessimista, si rinchiude nelle segrete del Castello di Ferrara, riesce a dare speranza ai bambini di oggi. Se gli intellettuali un tempo membri fedeli della ‘Comunità della Sinistra’ non fanno altro che, in tempi di crisi economica e repentini cambiamenti a livello globale come quelli odierni, parlare del tradimento dei loro “sogni di sinistra” (ma ci ricordiamo quali erano questi sogni?), allora i bambini di oggi presto si scorderanno persino della loro esistenza.

Traduzione a cura di Paola Baglione

LE INTERVISTE
Come si convive con qualche chilo di troppo

Camminiamo per strada e scrutiamo la gente, lo facciamo tutti, lo facciamo spesso. Vediamo una donna vestita bene e ci chiediamo dove abbia comprato quelle splendide scarpe; incrociamo un padre che sgrida il proprio figlio e ci domandiamo cos’abbia combinato per averlo fatto arrabbiare così tanto; ci taglia la strada una ragazza grassa, magari con una ciambella zuccherata in mano, e subito pensiamo “quella dovrebbe mangiare di meno!”. Ma chi siamo noi per giudicare ciò che non conosciamo? Magari sta mangiando quella ciambella perché ha avuto una pessima giornata e trova nel cibo una valvola di sfogo; magari invece è l’unico vizio che si concede una volta ogni tanto; oppure se ne frega di quello che pensa la gente perché lei ama il suo corpo così com’è.

Ho cercato di conoscere un po’ meglio queste persone che io preferisco definire “con qualche chilo di troppo”, intervistandole, cercando di entrare nelle loro menti e immedesimandomi nelle loro situazioni. Ho ricevuto diverse risposte che non mi aspettavo, in particolar modo da quelle persone che credevo di conoscere bene, ma che in realtà indossano spesso una maschera per non far capire al mondo come si sentono effettivamente. Alcuni candidati mi hanno risposto in maniera sintetica, non so se per scarso interesse o perché parlare di tale argomento crea loro fastidio o imbarazzo. Altri, invece, si sono letteralmente aperti. Una ragazza in particolare, Carolina, a fine intervista mi ha confidato: “Per la prima volta ho potuto dire tutto quello che penso e che ho dentro. Tante volte quando i miei amici mi prendono in giro, pur sapendo che lo fanno in maniera scherzosa, vorrei dir loro tutto quello che ho detto qui”. Questa ragazza, che per giunta è anche una cara amica, è una delle persone che più mi hanno sorpreso. Quando le ho detto che non pensavo si sentisse così riguardo a se stessa, perché io la considero estremamente solare, allegra e serena, mi ha risposto: “Grazie al mio carattere riesco a camuffare bene i miei sentimenti, in realtà sono una persona molto insicura, proprio a causa del mio corpo”.

Prima di soffermarmi sull’aspetto psicologico però ho posto domande generali sullo stile di vita che conducono. La maggior parte dei candidati mi ha detto che consuma mediamente i tre pasti principali e qualche spuntino a metà mattina/pomeriggio. Inoltre è emerso che quasi nessuno è solito mangiare nei fast-food; al contrario, tutti mi hanno detto di consumare frutta e verdura in ampie quantità. La seguente è la risposta che è andata per la maggiore: “Ho una dieta equilibrata, ma ogni tanto mi concedo qualche sgarro”.
Ho successivamente chiesto loro quanto tempo dedicano allo sport e quante ore invece passano seduti e davanti ad uno schermo. Giulia mi ha detto: “Purtroppo, trascorrendo otto ore al giorno a lezione, non ho molto tempo da dedicare all’attività fisica, quindi cerco di camminare il più possibile. Non passo troppo tempo davanti al pc, ma potrei effettivamente passarne di meno”. Ilaria ha condiviso e aggiunto: “Molte ore le dedico allo studio e non pratico nessuno sport; mi limito ad andare a correre o a camminare piuttosto che spostarmi con i mezzi pubblici”. Francesco invece fa baseball qualche volta a settimana, ma anche lui sottolinea che: “Tra lavoro e studio passo tantissime ore seduto e molto spesso davanti ad un computer”. Gli altri candidati non hanno risposto molto diversamente, tranne qualche rarissima eccezione“. Ho quindi potuto dedurre che una delle principali cause dell’aumento di peso è la sedentarietà, la scarsa attività fisica condotta dal campione intervistato.

Sono poi passata al secondo fattore responsabile dell’obesità, la familiarità. A questa domanda la maggior parte dei candidati mi ha risposto che nella loro famiglia nessuno è obeso, ma in sovrappeso sì. “Tendiamo tutti ad allargarci molto facilmente e velocemente se non ci regoliamo”, ha affermato Carolina. Le risposte a questa domanda hanno in realtà toccato entrambi gli estremi: chi mi ha detto di non aver nessun membro della famiglia in sovrappeso e chi invece ha affermato che “tutti nella mia famiglia hanno problemi di peso” (Stefano).

Ho infine chiesto loro quale pensano sia la causa responsabile del loro peso in eccesso e mi hanno dato le risposte più disparate. Giulia ha detto “credo che il mio sovrappeso sia dovuto a un misto di golosità e di pigrizia: golosità perchè mi piace mangiare e pigrizia perchè quando inizio le diete poi tendo a non essere molto costante nel seguirle”. Anche Maria Elena ha attribuito al suo sovrappeso le stesse motivazioni. Altri sono stati molto sinceri e schietti nel dire “amo mangiare”. Sia Stefano che Riccardo amettono di continuare ad ingerire cibo anche quando sono già sazi o quando non hanno appetito perché “resistere alle tentazioni è davvero molto difficile” e “se entro in cucina e trovo qualcosa che mi piace, la mangio e basta”.
Tutti gli individui intervistati hanno provato a seguire delle diete, chi andando dagli specialisti, chi affidandosi alle diete proposte sulle riviste e in rete. “Non mi interessava il tipo di dieta, bastava dimagrire in un modo o nell’altro”, afferma Ilaria drasticamente. Per alcuni di loro queste hanno avuto successo, altre sono state abbandonate perché non efficaci o per la scarsa costanza dell’individuo stesso. Una risposta mi ha particolarmente colpito: “Ho provato a seguire moltissime diete, sia casalinghe che proposte da dietologi. L’ultimo nutrizionista però mi ha dato una dieta che era più un ciclostile, non era fatta su misura per me, infatti non dimagrivo molto, ma lui invece che cambiarmela continuava a fare insinuazioni, accusandomi di mangiare di nascosto e facendomi passare uno dei periodi più brutti della mia vita. Ero molto stressata psicologicamente per questo e, arrivata al limite, non sono più andata alle visite perché, prima di andare a farmi controllare da lui, mi costringevo a giorni di digiuno. Per colpa sua ho perso un po‘ la fiducia nei medici ed è per questo che ho iniziato a seguire diete da sola. Per un periodo ho fatto la Dukan (una dieta totalmente proteica molto restrittiva) che mi ha fatto perdere 7 chili subito; successivamente però ho passato mesi di stallo, non perdevo più niente e appena ho ricominciato ad introdurre alimenti “normali” ho subito ripreso tutti i chili che avevo perso”.

Dopo questa risposta ho deciso di approfondire l’aspetto psicologico di questa problematica che oggi in Italia colpisce sempre più giovani. Ho notato che, in linea di massima, possiamo distinguere tre categorie di persone in sovrappeso:

Le prime hanno un rapporto conflittuale con il proprio corpo, ne è un esempio Carolina: “Non mi piaccio per niente, ogni volta che mi guardo allo specchio non trovo una cosa di me che mi piaccia e questo mi condiziona costantemente. Mi domando spesso cosa la gente pensi di me. Cammino per strada e mi sento a disagio, entro in un negozio e mi sento bruttissima perché nessun vestito mi sta bene. Sono inoltre sempre prevenuta con i ragazzi perché parto dal presupposto che “sono grassa, quindi non potrò mai piacergli”. In sostanza, do la colpa al mio fisico per tutto e mi sento sempre a disagio in ogni occasione”.

Le seconde hanno invece imparato a convivere con il proprio corpo, seppure mantenendo con esso un rapporto altalenante. “Spesso non mi piaccio, ma cerco sempre di sdrammatizzare”, afferma Lorena. “Con il mio corpo ho un rapporto più o meno pacifico, almeno fino a quando non devo mettere un vestito. Lì litighiamo, ma poi facciamo pace”, ci racconta Giulia.

La terza categoria racchiude quelle persone che si apprezzano per quello che sono. Ciro dice apertamente “amo il mio corpo e non mi sono mai sentito a disagio con gli altri”. Anche Claudia afferma “sto molto bene con me stessa perché con il tempo ho imparato ad apprezzarmi e ad amarmi per quella che sono”. Elena spiega: “la consapevolezza è arrivata con il tempo; alla fine ti rendi conto che il tuo peso non ti identifica, non ti definisce di più di quanto lo facciano un colore di capelli o un vestito. Perché io non sono sovrappeso, ho del peso in più, e capire questa differenza è fondamentale”.

Un percorso ad ostacoli, che non tutti sono in grado di portare a termine. Arrivare a questa consapevolessa non è mai facile per nessuno, tutti noi abbiamo qualcosa del nostro corpo che cambieremmo, ma riuscire ad accettarsi richiede fatica e coraggio, e provo solo tanta stima per chi cammina a testa alta, sicuro di sé.

LA TESTIMONIANZA/2
Non voglio essere violento come mio padre

di Elena Buccoliero

LA TESTIMONIANZA DI ANDREA – SECONDA PARTE

SEGUE – Io figlio, io padre
Secondo me mio padre si è trovato tra capo e collo dei figli senza pensare bene cosa volesse dire. Per come l’ho conosciuto e per come ha trattato noi, non aveva in testa un progetto di famiglia. Aveva forse un progetto di coppia, all’inizio, nella sua ottica. Veniva da una famiglia a dir poco disastrosa, perciò… io posso, non giustificare ma capire. La cosa che non gli perdonerò mai è il fatto che non si è mai messo in discussione.
T’imbarbaglia. Se si convince di una cosa devi pensarla come lui per forza, se no te lo dimostra e se non ci riesce volano i bicchieri, i piatti. Ha un livello di perversione che rasenta la schizofrenia. È anche una persona in gamba e io sono convinto che ci seppellirà tutti, ma secondo me è proprio malato: un aspetto della malattia mentale molto difficile da scoprire specie per un bimbo, anzi per quattro bimbi, che ci sono nati, perché quello che fa tuo padre quando sei piccolo è quello che si fa, quello che va fatto. Non hai la capacità di dire: “non va bene”. Sono cresciuto in un ambiente che, per molto tempo non sapevo che cosa volevo e chi ero.
La mia paura è proprio quella di diventare… non dico come lui, perché qualche passo l’ho fatto, ma a livello viscerale so di essere molto lontano da tutto quello che leggo su Azione nonviolenta. Non mi piace la violenza, okay, ma mi scopro atteggiamenti verbali, con i miei figli e a volte con mia moglie, per cui capisco che ho un bel po’ di strada da fare.
In casa, a volte, do delle risposte violente, cioè non basate sul rispetto e ancora meno sull’ascolto, che a me è mancato tantissimo e che sto cercando di sviluppare il più possibile, però è faticoso. Ha a che fare con la tua pancia, la tua stanchezza, il fatto che devi rielaborare sul momento quello che sta succedendo perché i bimbi sono istintivi, devi essere pronto a capire la situazione.
Sono riuscito fino ad ora a non picchiarli mai e incrocio le dita di riuscirci sempre perché so cosa vogliono dire le botte di un padre, sono la cosa peggiore. Meglio forse la carica della polizia durante una manifestazione, meglio i lacrimogeni o il carcere. Le botte di un padre ti fanno male due volte, per il dolore fisico e perché quella sberla è dettata dall’ira. Almeno, nel mio caso non era la punizione che tanti genitori ritengono valida per educare i figli quando sbagliano. Era uno scoppio d’ira perché “hai osato contraddirmi, hai osato fare il furbo con me”. E la cosa più stronza è che quella cosa lì ti si mette nella pancia e non va mai via, è una collera inconsapevole. Nutri un senso di vendetta, nel tempo, che ti viene fuori quando hai dei figli. Prima puoi avere atteggiamenti scostanti, a volte arroganti, ma i figli sono lo specchio migliore: li guardi e sei davanti a te stesso.
Quello che mi fa paura, e vado da una psicologa per questo, è che non voglio ripetere gli errori di mio padre. Non voglio neanche mettermi la carta igienica in bocca piuttosto che urlare o picchiare, vorrei arrivare a dominare la rabbia. Non so se ci riuscirò ma so che un ceffone adesso vuol dire un disastro per i prossimi trent’anni, per i bimbi e per me, perché quello che fai ti torna indietro. Con mio padre ho trovato la strategia: ho chiuso del tutto, soprattutto per preservarmi.
Mi chiama al lavoro – non si è mai preoccupato di sapere che lavoro faccio e che orari ho, posso dirti che il capo per niente ti fa un cazziatone – quel giorno mi cerca sul cellulare sette volte ma in quel momento non posso parlare. Un’altra persona, se vede che non rispondi la prima volta aspetta che tu la richiami ma lui no, lui non accetta il rifiuto. Alla settima volta lascia un messaggio in segreteria e io chissà perché vado in bagno ad ascoltarlo.
Al di là delle parole, che non ricordo ma sono sempre le stesse, se avevo una pistola mi sparavo. Questa è l’unica cosa che sono riuscito a pensare per un quarto d’ora: la faccio finita. Quando sono tornato in me, nel me che conosco meglio, mi sono detto: “ma quanto potere ha ancora questo figlio di puttana su di me!?”. Perché vedi non ho pensato: gli sparo. Ho pensato: mi sparo. Da quel giorno non rispondo più, se lascia un messaggio in segreteria lo cancello senza ascoltarlo. O quasi. L’altro giorno ho fatto lo sbaglio di sentire le prime parole: “Bravo, sei proprio bravo… Tuo padre è anziano, non ti vergogni, non mi rispondi neanche…”.
Ho poca speranza che lui cambi, ma ammesso che succeda non penso che la sofferenza che ho dentro se ne possa andare. Lui è un vecchio, fisicamente non fa più paura anche se è ancora forte, però un messaggio in segreteria mi mette in queste condizioni.

VOLEVA ESSERE L’ARTEFICE DEL MONDO
Qualcosa di sano da qualche parte c’era. Forse nell’alchimia tra noi fratelli. La maggiore ha subito più di tutti: ingiurie, violenze psicologiche. Quando si laureò, a gran fatica studiando e lavorando, e con un buon punteggio, all’inizio viveva in una casa senza finestre perché era l’unico affitto che riusciva a permettersi quando è scappata di casa. Nonostante tutto ce l’ha fatta e noi fratelli le abbiamo preparato una festicciola di nascosto, dato che mio padre aveva ostacolato i suoi studi in tutti i modi. Non penso per gelosia. Semplicemente non tollerava che qualcosa succedesse intorno a sé fuori dal suo controllo.
Un giorno – ero alle medie, avevo 12-13 anni – dimenticai di dirgli che andavo con la scuola a fare una visita guidata in una zona che lui conosce benissimo. Quando tornai e glielo dissi furono botte, ma botte, tanto che mia a madre lo pregò di smettere. Non ha mai tollerato che qualcosa esistesse senza che lui ne fosse l’artefice.
Per tanto tempo non sono riuscito a spiegarmi l’origine di tutta questa cattiveria. La cosa che mi ha ferito di più è stata la perversione che gli psicologi chiamano malattia. È veramente perversa la sua tortura psicologica, gode a sottometterti.

Anche tu ti arrabbi quando non sei l’artefice del mondo?
No. Mia figlia ha una grande capacità di provocare. Sai l’atteggiamento tipico dell’adolescente? Quando ti svegli alle sei e venti ogni mattina, corri tutto il giorno come un cretino e vedi che alle undici e mezzo di sera non sono ancora a letto, t’incazzi. Quando chiami la più grande a tavola per cinquanta volte e c’è la pasta che a lei piace, e alla fine si siede e dice “che schifo” e non la mangia, t’incazzi. Però il modo in cui mi arrabbio ha la matrice di quello che ho vissuto. Lancio gli oggetti con la stessa rabbia di mio padre.
Lui arrivava, magari dovevi riferirgli una telefonata e te lo ricordavi un’ora dopo. Tirava il bicchiere dove capitava e se ti scansavi in tempo bene, sennò fa lo stesso. Poi continuava: c’erano altri sette bicchieri in tavola. Questa è l’ira che non mi riconosco.
La psicologa mi spiega che io non sono mio padre. Per fortuna o sfortuna ho mio padre dentro, per cui sono anche mio padre ma non soltanto questo e, comunque, devo stare attento. Per adesso cerco di arginare l’ira per non fare danni. Vedo però che l’atteggiamento dei miei figli almeno apparentemente non è di paura anche quando ho un attacco di collera, io invece avevo proprio il terrore.
Era una battaglia continua. Abitavamo in una villetta con due porte, sul davanti e sul dietro. Quella sul retro portava in garage ed era chiusa dall’interno con un catenaccio. Mio padre arrivava, suonava il campanello sul davanti, e noi dovevamo aprire dietro per farlo entrare con la macchina. Dopo un po’ non suonava più il campanello, dava un colpo di clacson e dovevi scappare dietro ad aprire nel tempo che lui arrivava. Dopo ancora non c’era nessun clacson, lui passava, noi dovevamo riconoscere il motore della sua auto e aprire. Se non trovava aperto erano botte. Ci eravamo organizzati che, quando lo sentivamo, noi ragazzi uscivamo dal davanti e andavamo al campetto, così potevamo dire che non eravamo in casa. Così, tutti i giorni a combatterci.
Magari un figlio sta guardando la tv e non si accorge del motore…
Già, ma i bimbi sono al servizio dei genitori. E devono obbedire in qualsiasi circostanza. Lui sapeva che lo sentivamo arrivare, noi sapevamo che lui lo sapeva: quando ti dico che era perverso.

LA PSCICOTERAPIA, LA MEDITAZIONE, IL DESIDERIO DI CAPIRE
Dopo sette anni di analisi ho avuto due figli. Prima facevo le condoglianze a chi era incinta.

Avevi paura di avere bambini?
Non paura, cinismo. Come ti permetti di mettere al mondo un figlio con tutta la sofferenza che c’è al mondo? Era un periodo in cui leggevo Huxley, Blake e cose del genere… E comunque un figlio assolutamente no, troppe tribolazioni ho visto nella mia famiglia. Mia moglie era convinta di volere dei bambini, poi mi sono convinto anch’io e sono ben contento di averli fatti ma c’è stato un lavoro analitico, dietro, anche tosto.
All’inizio della terapia mi ero appena laureato e facevo fatica coi soldi, volevo dimezzare le sedute ma la psicologa mi disse: è troppo poco. Così ho raddoppiato, sono andato in analisi due volte alla settimana e poi tutte le domeniche a camminare, ore e ore sui colli a buttare fuori la rabbia. Se ci ripenso non so come ho fatto, ci vuole una notevole energia emotiva per andare in analisi specie se stai molto male.
Tante volte sono uscito di lì pensando: passo dritto al rosso. Sceglievo il crocevia più pericoloso… All’ultimo frenavo e dicevo: ne parlo con la psicologa la prossima volta. Non so davvero cosa mi ha trattenuto. Una piccolissima parte di me ha tenuto a freno questa tendenza di dargliela su. Toccare la propria merda è faticoso anche perché non puoi dare la colpa a nessuno, capisci che è la tua.
Secondo il buddismo io ho scelto di nascere in questa famiglia. Ho sempre detto che quel giorno dovevo essere ubriaco. Non ho capito, non so, perché sono nato in una famiglia così perversa e violenta.

Sei buddista?
Non so nemmeno che cosa voglia dire. I cristiani li riconosci perché vanno in chiesa, i musulmani in moschea. E i buddisti?
Sono appartenuto per un po’ di anni ad una organizzazione che si considera buddista ma che non ritengo tale, però un po’ ho approfondito, questo sì. Ho conseguito una pratica buddista. Comunque in tante culture e filosofie c’è questa convinzione, che tu sei nato per uno scopo, e lo ritengo abbastanza vero.
Ma non riuscirò mai a sedermi a un tavolino, come con te, con mio padre, a dirgli quello che penso.

Che cosa vorresti dirgli?
Anche solo ricordargli dei momenti. Belli… Belli per lui. Non per mia madre che doveva preparare tutto. In qualunque gita lui pretendeva di mangiare le tagliatelle al ragù tenute in caldo da mia madre.

Come sei riuscito a scrivergli una lettera di ringraziamento?
Non lo so. Cambia tutto quando aspetti un bimbo. Ma non rinnego quella lettera, è vero che non ci è mai mancato niente fisicamente e capisco la difficoltà di mantenere quattro figli. Non mi posso lamentare da quel punto di vista, è vero.
Le lettere ai miei le ho volute scrivere identiche: “Carissimi genitori”. Volevo sapessero che stavo scrivendo a entrambi anche se erano già separati e sono contento di averlo fatto, lo farei ancora. Se il cibo e i vestiti sono quello che ti consente di sopravvivere, tanto di cappello, grazie. È chiaro che tutto il resto è mancato.
Ci ho messo un bel po’ a rendermi conto che non ho avuto un padre. Pensavo di averne avuto uno stronzo e cattivo, in realtà no. Non è un padre quello che tradisce la moglie, la picchia…
No, non ho avuto un padre. Lui è il contrario di quello che nella mia testa è il concetto di padre e anche di marito. Si vantava di essere il pater familia, usava anche il latino, ma giustamente, era proprio il padrone. Coerente.
È ancora stronzo adesso. Non cambierà mai. Devo togliermi l’illusione di parlare con lui e concentrarmi sul parlare con la parte di mio padre che è dentro di me.

LEGGI LA PRIMA PARTE

Elena Buccoliero è Sociologa e counsellor, da molti anni collabora con Azione Nonviolenta, rivista del Movimento Nonviolento. Per il Comune di Ferrara lavora presso l’Ufficio Diritti dei Minori. È giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna e direttore della Fondazione emiliano romagnola per le vittime dei reati.

Questa testimonianza è stata pubblicata la prima volta su Azione Nonviolenta, il periodico del Movimento Nonviolento che ha dedicato un numero tematico alla violenza di genere. La ripubblichiamo qui per gentile concessione dell’autrice, in occasione della “Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”.

Per saperne di più sulla nonviolenza in Italia e nel mondo [vedi]

Altri articoli pubblicati da ferraraitalia sulla ricorrenza della “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”: alcuni dati [vedi] e la celebrazione del 22 novembre a Ferrara [vedi]

Ci vuole un fisico

Gli incontri al buio possono sempre avere degli sviluppi inaspettati, come nel caso dei due protagonisti di “Ci vuole un fisico” del regista faentino Alessandro Tamburini.
Nello stesso ristorante un ragazzo e una ragazza, dall’aspetto normale, ma entrambi convinti di essere poco avvenenti se non addirittura brutti, aspettano i rispettivi partner, che tardano ad arrivare e non rispondono alle pressanti telefonate. Dopo numerosi tentativi di contattarli, si convincono dell’inutilità dell’attesa e si consolano cenando ognuno per conto proprio.

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La locandina del film

I due si incontrano all’uscita del ristorante, dopo essersi prima scambiati qualche occhiata e avere compreso la situazione l’uno dell’altra. Lei gli propone di accompagnarlo a casa e questo è il pretesto narrativo per iniziare un viaggio nella Roma notturna, alla ricerca di qualcosa che dia loro tranquillità. Durante la corsa in scooter inizieranno a conoscersi parlando di loro e dei “perduti” partner, ma soprattutto quello che emergerà sarà il senso di insicurezza e inadeguatezza, al limite dell’ossessione, che li tormenta. Tutti questi problemi nascono da un’esagerata non accettazione del loro fisico e della voglia di trattarsi bene, soprattutto nei confronti del cibo.

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Alessandro Tamburini e Anna Ferraioli Ravel

Una frase pronunciata dalla ragazza è particolarmente efficace nel descrivere il suo modo di sentirsi: “… secondo me essere brutti è come fare una gara, metti che stai correndo una maratona, tu corri in mezzo alla gente e ogni tre chilometri arriva una mano gigante che ti riporta indietro di un chilometro… e pure se sei in vantaggio sugli altri, devi correre sempre più forte così, sempre per colpa di quella mano gigante, però pensa che soddisfazione se vinci la gara …”.

Il film si regge sulla buona interpretazione dei due attori, in particolare di Anna Ferraioli Ravel (diplomata al Centro sperimentale di cinematografia), la cui vivacità recitativa dona spessore e simpatia al personaggio della ragazza complessata.
La notte passata insieme li rende consapevoli delle loro potenzialità come esseri umani e sembra iniziare una storia d’amore. Le paranoie stanno per abbandonarli.
Alessandro Tamburini è nato a Faenza nel 1984, al suo attivo ha numerose produzioni tra cui “Il viaggio”, le cui riprese sono state effettuate in Romagna. Il regista si è diplomato al Centro sperimentale di cinematografia, dove fu ammesso grazie al medio metraggio intitolato “La trappola”, vincitore di vari concorsi nella capitale. Segnaliamo anche il documentario “Mai senza. La sessualità alla terza età”, realizzato assieme a Ciro Zecca, con Paolo Villaggio, Lino Banfi, Sandra Milo, Tinto Brass, Carlo Monni, Milly D’Abbraccio e Riccardo Schicchi.
“Ci vuole un fisico” ha vinto numerosi premi, molti dei quali assegnati alla protagonista femminile.
Alessandro Tamburini e Anna Ferraioli Ravel sono i protagonisti, con Sandra Milo, del divertente cortometraggio “L’arte del fai da te”, disponibile in rete per la visione, e attualmente hanno appena finito di girare il cortometraggio “Il cervo, l’alce, il capriolo”.

Il film è interamente visibile a questo indirizzo [vedi]

“Ci vuole un fisico”, di Alessandro Tamburini, con Alessandro Tamburini e Anna Ferraioli Ravel, cortometraggio, commedia, Italia, 2013, 15 min.

IL FATTO
Premio Sakharov al dottor Mukwege, ‘ripara’ i corpi mutilati delle donne

Il Premio Sakharov per la difesa dei diritti dell’uomo sarà conferito quest’anno al ginecologo congolese Denis Mukwege, 59 anni, che cura, nella sua clinica di Bukavu, le donne stuprate e vittime di violenze sessuali nei conflitti armati dell’est della Repubblica democratica del Congo (Rdc). A deciderlo, il 21 ottobre scorso, è stato il Parlamento europeo. Il premio (50.000 euro) sarà consegnato, con cerimonia solenne, domani a Strasburgo, dal presidente del Parlamento europeo in sessione plenaria.
Istituito nel 1988, il premio riconosce, ogni anno, l’impegno di personalità distintesi nella difesa dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Seguendo l’esempio del fisico russo Andreï Dmitrievitch Sakharov (1921-1989), i vincitori del premio, a lui intitolato, testimoniano il coraggio necessario per difendere i diritti dell’uomo e la libertà di espressione. Sakharov, preoccupato per le conseguenze del suo lavoro per l’umanità, tentò di far prendere coscienza del pericolo rappresentato dalla corsa agli armamenti nucleari e ottenne un parziale successo mediante la firma, nel 1963, del trattato contro i test nucleari. Considerato in Unione sovietica come un dissidente dalle idee sovversive, negli anni ’70 creò un comitato per la difesa dei diritti dell’uomo e delle vittime delle persecuzioni politiche. Vinse il Nobel per la pace nel 1975.

Oggi, i rappresentanti del Parlamento hanno sottolineato di voler assegnare tale riconoscimento al dottor Mukwege per il grande coraggio e determinazione con i quali si fa carico delle vittime di violenza sessuale nel suo paese. Si tratta di un segnale forte da parte delle istituzioni europee, per dire a tutte le donne vittime di violenze sessuali nei conflitti che non sono sole, che non sono abbandonate alla loro sorte e che il mondo è disponibile ad ascoltarle con grande attenzione. Il riconoscimento è importante anche per lo stesso Congo, che vive un momento difficile di “né di pace né di guerra”, con notizie quotidiane preoccupanti e allarmanti provenienti dai villaggi più remoti.
Denis, come vorremo chiamarlo, è soprannominato “l’uomo che ripara le donne”. Nella sua regione natale del Sud Kivu, all’est del paese, oltre 3.000 donne sono seguite, ogni anno, dal servizio di ginecologia da lui creato. Ha studiato in Francia, ma combatte per le donne del suo Paese, per quelle donne dai corpi mutilati dalla guerra (e non solo), il vero terribile e spietato nemico. Ogni giorno, Denis e la sua équipe brillante le accolgono, le ascoltano e le curano nell’ospedale di Panzi, a Bukavu, che dirige dal 1999. In 15 anni, oltre 45.000 donne stuprate e mutilate nella regione sono state accolte dalla sua struttura. Quest’uomo rappresenta una sorta di angelo custode. Un angelo che porta avanti, imperterrito e sicuro, una lotta contro la barbarie, ma anche contro il silenzio e la solitudine. Si è proposto il Premio Nobel per la Pace, per lui, ma sono arrivati vari riconoscimenti internazionali, per ora. Il dottor Mukwege vuole portare avanti la parola di queste donne, e per fare questo sfrutta tutte le platee possibili, tutti gli spazi offertigli per parlare dei loro drammi e denunciare ciò che lui, giustamente, qualifica come un crimine contro l’umanità. Si batte contro le atrocità di una guerra in cui lo stupro è utilizzato come un’arma da tutti gli schieramenti e il corpo della donna si è trasformato in un nuovo campo di battaglia. E allora, lunga vita al “Muganga”, come è noto Denis.

Si veda anche il libro di Colette Braeckman, “Muganga. La guerra del dottor Mukwege”, Fandango, 2014, 190 p., presentato anche a Ferrara, alla scorsa edizione di Internazionale.

Uniti nel mondo per un’Istruzione di qualità

Mentre i politici nazionali formulano obiettivi ambiziosi per la scuola, gli insegnanti, ogni giorno sempre più, scoprono che le possibilità di concentrarsi sui bisogni degli alunni, sulla qualità del lavoro d’aula e sulle questioni pedagogiche fondamentali sono peggiorate.
Come non ricordare il novembre dell’Ottantanove? Venticinque anni fa. Mese e anno eccezionali. Il 16 novembre del 1989 cade il muro di Berlino, quattro giorni dopo, il 20, a New York, l’assemblea delle Nazioni unite fa propria la ‘Dichiarazione dei diritti del fanciullo’.
Il riferimento al muro di Berlino non è solo dettato da una coincidenza della storia, ma dal fatto che molti muri nei confronti dei fanciulli (si intende tutti coloro che non hanno raggiunto la maggiore età) devono ancora essere abbattuti.
I leader mondiali hanno promesso che il diritto di andare a scuola e imparare sarà realtà per tutti i bambini della Terra entro il 2015. Ma è già chiaro oggi che l’obiettivo non potrà essere centrato l’anno prossimo e forse neppure negli anni immediatamente in avvenire.
Intanto, nonostante i progressi nel corso degli ultimi 25 anni, ci sono 58 milioni di bambini che non vanno a scuola e la crisi economica, un po’ ovunque, ha finito per colpire soprattutto le scuole, gli insegnanti e la qualità della formazione.
L’istruzione di qualità per tutti, dunque, resta in cima all’agenda per un futuro sostenibile, pacifico e prospero.
Mentre i politici nazionali formulano obiettivi ambiziosi per la scuola, gli insegnanti, ogni giorno sempre più, scoprono che le possibilità di concentrarsi sui bisogni degli alunni, sulla qualità del lavoro d’aula e sulle questioni pedagogiche fondamentali sono peggiorate.
Classi numerose, personale ridotto, risorse economiche e strumentali che mancano, spazi e edilizia scolastica inadeguati, scarsa autonomia e flessibilità, un’opinione pubblica poco informata e consapevole di ciò che va accadendo nel nostro sistema scolastico nel suo insieme.
Non può certo consolarci il fatto che tutto ciò non investe soltanto il nostro paese, ma tutte le realtà nazionali dove la questione scuola in questi anni ha visto perdere di centralità a causa delle politiche di austerità.
Così ‘l’Istruzione’, piegata alla omogeneizzazione globale, dagli interessi e dai programmi proclamati dall’Ocse e dalla Banca mondiale, torna ad essere la rivendicazione internazionale di un diritto oggi fortemente minacciato, di un diritto proclamato da quella carta di venticinque anni fa, che si vorrebbe celebrare, tacendo delle tante violazioni che ancora si perpetuano nei confronti dei suoi principi.
Se ne sono resi conto tutti coloro che hanno intrapreso la campagna “Unite for quality education”.
È una campagna dell’associazione ‘Education international’, la voce di insegnanti e altri lavoratori della formazione in tutto il mondo. Conta 30 milioni di membri, rappresenta attraverso le sue 400 organizzazioni affiliate oltre 170 paesi.
Un buon segnale, perché dimostra che si può uscire dal campo circoscritto della difesa asfittica di un ruolo e di uno status, da tempo non più riconosciuti, per affermare invece il valore, la portata sociale e la forza di una professione, quella docente, insieme alla qualità della propria professionalità.
La lotta che unisce tanti insegnanti di tutto il mondo, va oltre la tutela corporativa della categoria, per abbracciare l’interesse dell’intera società civile, perché rivendica una visione ben articolata per una forte e competente professione docente, per una scuola di alta qualità continua.
In Europa e negli Stati Uniti gli insegnanti si trovano ad affrontare politiche educative che denunciano una sfiducia di fondo nei confronti della professione docente, attraverso la combinazione dei risultati di numerosi test standardizzati e di valutazioni che alla fine risultano per essere controproducenti non solo per chi insegna, ma per tutta la scuola.
In questa situazione, la risposta degli insegnanti che hanno dato vita alla campagna “Unite for quality education” è la migliore. Perché, rifiutando una chiusura corporativa, si è aperta a dimostrare all’opinione pubblica di quale professionalità siano portatori e come la qualità della scuola dipenda da politiche capaci di arricchire e valorizzare le loro competenze, con l’obiettivo di ottenere un’istruzione di qualità per tutti.
Inoltre, l’importante intuizione, che accomuna quanti sono impegnati in questa campagna, consiste nella consapevolezza che la dimensione mondiale oggi non consente di isolare i temi dell’istruzione e della docenza in una prospettiva locale, ma che è quanto mai necessaria una cooperazione che superi i confini nazionali.
Raccogliere conoscenze, condividere esperienze tra insegnanti professionalmente preparati è forse la migliore chiave per estirpare il germe che oggi minaccia nel mondo gli insegnanti e la qualità delle nostre scuole. Il ‘Global education reform movement’ è il ‘GERME’ di cui si parla, che è l’obiettivo internazionale, dell’Ocse e della World bank, di ridurre le scuole del globo e, con esse, il diritto all’istruzione, all’omologazione al ‘common core standard’, ai test nazionali e transnazionali, alla conquista delle vette delle classifiche del successo formativo, in funzione esclusiva dell’economia del rendimento del capitale umano sui mercati mondiali, alla faccia degli intenti proclamati dalla “Dichiarazione dei diritti del fanciullo”.

Seggi deserti: riflesso di una politica spoglia

Finalmente un Masaniello vs un Rivoluzionario, un duello che ci coinvolgerà per i prossimi anni e non è detto che non incontreranno rischi e sorprese se il quadro d’insieme del Paese resterà avvolto nella conservazione ed in mano ai mille cespugli del vecchio regime del ‘900.
La via Emilia elettorale non è più intasata, in moltissimi sono rimasti a casa, si sono viste solo le nomenclature, con parenti, affini, lobby e vicini.
Hanno vinto le regionali solo i piccolissimi numeri inseriti nelle urne semivuote; ormai il modello del passato, anche recente, si sta sciogliendo e rimane solo il nobile tentativo delle piazze.
Non si è capito, fino in fondo, la drammaticità della crisi, la svolta inevitabile per la discontinuità nel Pd, l’impoverimento ulteriore del Paese e che a pagare sono ancora i più deboli.
Dobbiamo leggere ed entrare nei numeri, quelli assoluti, abbandonando le percentuali: tendenzialmente 3 elettori su 4 restano a casa.
Ormai siamo immersi in un nanismo, che va anche oltre la linea che attraversa la regione, ossia di quei pezzi del ferrarese dove l’alto è ormai distaccato dalla bassa e anche dal medio-alto del territorio provinciale.
Non brindano più nemmeno i candidati vincitori, ormai dimezzati dal residuale consenso, le saracinesche del Pd sono ancora abbassate. Il dramma è vincere dentro una sconfitta e le rassegne stampa risultano zeppe di ricette astiose degli irriducibili giapponesi ed anche di analisti improvvisati e curvi; per la Lega nord il dato è storico.
Ormai i cespugli sono spogli, le foglie del comunismo sono rinsecchite, il cattolicesimo democratico cosa d’altri tempi, i liberali e le destre solo linguaggi, il centro moderato non si capisce cos’è, ed il cambiamento ormai pare l’unico fatto per guardare i primi tratti di futuro.
Si accantonano le ragioni di due legislature regionali interrotte perché travolte da scandali, da sperperi, da arricchimenti, da privilegi, da condanne, dal prolificare delle burocrazie dei mandarini, da costi impropri, da rivoli di concessioni poco trasparenti.
Siamo di fronte all’emergere di un nuovo status istituzionale pregno di troppi vizi (dalle mutande verdi ai sexy shop) che hanno preso, nel complesso, ormai tutto il sistema regionale e locale delle amministrazioni pubbliche.
In molti ci si è chiesti come vengono percepite le regioni dai cittadini italiani, e cosa si trova se si vanno a digitare su Google le parole “scandalo fondi regionali”, o anche semplicemente ascoltando la gente lungo le corsie dei Centri commerciali.
Attendiamo che l’Istituto Cattaneo di Bologna ci aiuti a capire di più, anche se ormai il tenzone ci coinvolgerà un po’ tutti: un rivoluzionario, un masaniello, un suo versus.

L’OPINIONE
Il gattopardo alla bolognese

I numeri sono come gli animali. Non parlano, ma si esprimono attraverso segnali che noi dobbiamo saper cogliere con animo puro e mente scevra da pregiudizi. In entrambi i casi, chi non vuole o non riesce a capire finisce col fargli dire quello che vuole.
I risultati elettorali in Emilia Romagna si caratterizzano per due fatti eclatanti: l’enorme livello di astensione, dal 68% delle regionali scorse al 37%, e la sostanziale invarianza rispetto al passato del risultato finale delle coalizioni principali, con il centrosinistra che prende il 49% dei voti (era al 52%) ed il centro destra che passa dal 36% al 30%. Il M5s, che pure cresce dal 6% al 13% rispetto alla tornata precedente, continua a perdere consensi, era il 24% alle politiche del 2013 ed il 19% alle europee. Le formazioni a sinistra del Pd, con Sel dentro alla coalizione di centrosinistra al 3% e L’Altra ER al 4% (5,5% assieme alle regionali del 2010), raggiungono un buon risultato, se confrontato con il 4% raccolto dalla Lista Tsipras alle europee. Costante attorno al 2,5% il risultato delle formazioni centriste (Ncd + Udc).
Il fatto che l’elevatissimo livello di astensione non abbia modificato in termini sostanziali i rapporti di forza fra i principali blocchi dimostra che il fenomeno ha interessato più o meno in ugual misura tutti gli schieramenti. Detto in altri termini, le ragioni che stanno dietro alla grande disaffezione dimostrata dagli elettori non si sono scaricate su una parte politica in particolare – semmai hanno colpito in modo del tutto contro intuitivo più la destra all’opposizione che la sinistra che governava, ma dimostrano un atteggiamento di condanna indiscriminato nei confronti della politica tout court, perché è del tutto ovvio che un calo di affluenza di oltre il 30% ha almeno in parte una valenza dichiaratamente punitiva. Questo aspetto peculiare, in una regione che solo alle scorse europee aveva in un contesto generalizzato da una scarsa affluenza al voto dimostrato una tenuta maggiore delle media nazionale (il 70% contro il 57%), deve a mio parere essere interpretato in modo diverso rispetto al fenomeno più generale della crescente disaffezione elettorale a cui evidentemente si somma. Si tratta infatti di un avvertimento preciso e ultimativo che un numero molto elevato e, ripeto, largamente trasversale di elettori ha voluto mandare ai vertici della politica regionale, accomunati nel medesimo giudizio di indegnità. Da questo punto di vista si potrebbe speculare che l’effetto dell’inchiesta sui rimborsi spesa anomali dei consiglieri regionali, che ha interessato tutti i gruppi consiliari, è stato molto maggiore del fatto all’origine della fine anticipata della legislatura, vale a dire la vicenda giudiziaria che ha coinvolto Vasco Errani. Con queste elezioni si è manifestata una scollatura profondissima fra i cittadini e l’istituzione regionale che i nuovi eletti, con un’ovvia sottolineatura per la maggioranza e per la nuova giunta, dovranno cercare di ricucire al più presto, sia applicando regole severe e trasparenti al proprio operato, sia dimostrando una maggiore e fattiva presenza dell’ente sul territorio. Se c’è un limite infatti che ha caratterizzato sinora negativamente l’attività degli organismi regionali, al di là delle specifiche scelte operate, è una sostanziale distanza dai cittadini, che in larga parte ancora non ne conoscono le (ampie) competenze e non ne comprendono gli effetti pratici sulla loro vita quotidiana.
Se questo, a mio modo di vedere, è lo schema interpretativo generale entro cui collocare “i numeri” usciti domenica 23 novembre, vale comunque la pena accennare ad altri fatti rilevanti che se ne possono trarre. Fa scalpore il crollo elettorale della rinnovata Forza Italia, che viene “doppiata” in termini di consensi dalla Lega. Va senza dubbio messo in conto l’effetto di traino esercitato dal candidato presidente, ma non vi è dubbio, anche guardando ai dati della Calabria, che la ripresa auspicata da Berlusconi non si è minimamente manifestata. Su questo punto specifico, chi nei mesi e settimane scorsi aveva paventato il ritorno dell’ex cavaliere, rilegittimato a suo dire dal patto del Nazareno, ha avuto un’altra occasione per ricredersi.
Il calo dei consensi al M5s, come detto, pare ormai inarrestabile e lo scettro del partito antisistema sembra ormai essere passato alla Lega, nonostante i patetici tentativi di Grillo negli ultimi mesi di rincorrere il partito di Salvini sui temi della xenofobia e dell’uscita dall’euro. Anche in questo caso viene dimostrata la vecchia regola per cui gli elettori, quando si trovano a dover scegliere fra l’originale ed un’imitazione, non hanno mai dubbi. In termini politici più generali, emerge tuttavia prepotente la necessità di sviluppare una proposta più coerente e precisa sulle tematiche dell’immigrazione, della sicurezza e della legalità. Se infatti le tentazioni isolazioniste ed autarchiche in economia si contrastano facendo riforme che invertano il segno della crisi, su queste questioni occorre essere in grado di dare ai cittadini delle risposte concrete che intervengano sul disagio crescente, soprattutto nelle periferie delle grandi città, ma non solo, e rafforzino la presenza dello Stato, non inteso solo come tutore dell’ordine pubblico, sul territorio. E’ una necessità ineludibile per un partito che si intesta la quasi totalità dell’azione di governo.
Da ultimo, e non poteva mancare, una riflessione sugli effetti sul voto delle roventi polemiche che scuotono il Pd sulle questioni del lavoro e della crisi economica. Senza entrare qui nel merito, si notano sul piano elettorale impatti tutto sommato limitati, anche attribuendo completamente a questo fattore l’aumento percentuale di consensi ai partiti che si collocano a sinistra del Pd, senza cioè tener conto dell’elemento identitario che porta i loro elettori tradizionali a subire meno degli altri il fascino dell’astensione. In termini di voti complessivi, sommando quelli di Sel e di l’Altra ER, non vengono raggiunti quelli totalizzati dalla lista Tsipras alle europee scorse.
A mo di post scriptum, un’ultimissima considerazione relativa ai commenti di molti sia in rete che sui giornali a proposito del presunto subitaneo disfacimento dello zoccolo duro di consenso al Pd. A mio parere si tratta di una non-notizia, in quanto il progressivo sgretolamento della massa di votanti “senza se e senza ma” a favore dei partiti eredi del Pci era in atto da molto tempo, come le analisi dei flussi elettorali hanno regolarmente indicato almeno a partire dalla seconda metà degli anni ’90. Il fatto di volerlo considerare ancora come qualcosa di politicamente rilevante è solo frutto di grave pigrizia intellettuale, comprensibile in molti compagni ammalati di nostalgia, ma inscusabile da parte di commentatori professionisti, incapaci di adattare i loro schemi mentali alla realtà.

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Elezioni, Errani: ‘Occorre riflettere sul crollo dell’affluenza. Bonaccini riuscirà a rilanciare l’azione della Regione’

da: ufficio stampa giunta regionale Emilia-Romagna

“Il crollo dell’affluenza è un fatto negativo su cui abbiamo tutti il dovere di riflettere con attenzione. Il risultato positivo di Bonaccini, a cui faccio auguri sinceri, è, comunque, molto importante. Sono convinto che saprà trovare le condizioni per aprire una fase nuova in grado di ridare vigore alle tante energie che ci hanno consentito di fronteggiare le grandi difficoltà di questi anni e saprà dare spazio e vigore ai cambiamenti che sono sempre necessari per sostenere la funzione fondamentale della Regione”.

Questo il commento del presidente della Regione Vasco Errani ai risultati per le elezioni regionali.

L’EVENTO
Al Comunale giornata del teatro socio-riabilitativo

Domani, mercoledì 26 novembre, avrà luogo la seconda edizione dell’iniziativa “La Società a Teatro”. Il Teatro comunale Claudio Abbado ospiterà per una giornata intera, dalla mattina al dopocena, i progetti e le esperienze teatrali di alcune realtà del ferrarese che interagiscono con il disagio e la disabilità [vedi il programma]. La giornata è concepita come una sorta di festa comune aperta a tutti, ideata per promuovere l’arte come forma di partecipazione alla vita sociale e condividere con i cittadini la realtà di persone che spesso non hanno voce. Partita come sperimentazione, quest’anno l’iniziativa si consolida e si arricchisce: la sessione serale si aprirà con un saluto delle autorità; in chiusura, come omaggio all’intitolazione del Teatro Comunale al maestro Claudio Abbado, un finale in musica con la partecipazione della Friends Chamber Orchestra diretta da Filippo Zattini e artisti e gruppi della rete della Società a Teatro.

Ne abbiamo parlato con il regista Massimiliano Piva e la pedagogista Alessia Veronese del Teatro Cosquillas, che partecipano alla giornata con due videoclip di loro laboratori teatrali, “Gli ingredienti dell’amore” [vedi] e “Un passo oltre” [vedi].

Massimiliano, voi siete tra i promotori dell’iniziativa, quanto sono importanti esperienze come questa per persone con disagio o disabilità?

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Il logo della rassegna “La società a Teatro”

L’anno scorso abbiamo partecipato con un gruppo di persone con trauma cranico del Centro Perez (Città del Ragazzo) che hanno avuto la grande opportunità di recitare sul meraviglioso palcoscenico del Teatro comunale. Un’esperienza che ha decisamente segnato le loro vite, perché queste persone hanno avuto una vita piena prima della disgrazia che li ha colpiti, c’è l’ingegnere, la manager, l’impiegato di banca, tutte persone che, nonostante tutto, cercano di fare la vita che avevano prima, seguendo le loro passioni, andando al cinema e a teatro. Il fatto di trovarsi dall’altra parte, sul palcoscenico, gli ha dato una grande soddisfazione e una spinta in più per continuare con forza il duro e lungo percorso riabilitativo. L’attività teatrale è un ottimo strumento di integrazione sociale e autodeterminazione della persona disabile; riuscire ad esibirsi in pubblico e in un contesto ufficiale come questo è un’occasione unica.

L’hanno scorso avete partecipato portando in scena uno spettacolo, come mai quest’anno avete scelto la proiezione di video?

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Massimiliano Piva e Alessia Veronese

I video non erano previsti, ci sono stati proposti e li abbiamo realizzati proprio perché ci sembrava importante documentare il lavoro complesso che sta dietro alla messa in scena, soprattutto nel caso di persone con disagio psichico e con difficoltà di relazione. Proiettarli durante la giornata al Comunale ci offre la possibilità di raggiungere molte più persone e di mostrare questi progetti laboratoriali agli operatori che lavorano nell’ambito del sociale, per condividere una metodologia di lavoro sperimentata per anni e che funziona, per aggiornarsi e conoscersi. In due parole, il video diventa uno strumento di sensibilizzazione, di promozione tecnica e un “certificato” che mostra la qualità dei servizi erogati nel territorio. Siamo molto soddisfatti di questi video, due perle che immortalano il lavoro di anni, lavoro che non avremmo potuto raccontare in modo così efficace solo attraverso la parola.

Effettivamente i video sono molto bene fatti. Le riprese dei laboratori e delle prove, le interviste agli attori su come hanno vissuto l’esperienza e agli operatori sulle tecniche teatrali utilizzate, mostrano tutta la ricchezza del percorso. Ci potete presentare brevemente i due lavori?
Entrambi sono stati realizzati da Alberto Gigante. “Gli ingredienti dell’amore” (24 min.) è un video-documentario sulla preparazione dell’omonimo spettacolo di teatro-psichiatria, che vede come protagonisti persone del Centro di salute mentale di Cento (Simap). “Un passo oltre” (5 min.), invece, è il risultato di un laboratorio con gli attori de “La Pieve” di Ostellato e Portomaggiore, che sono ragazzi con disabilità congenita. Con questo video abbiamo partecipato al Festival internazionale delle abilità differenti di Carpi e siamo arrivati terzi. La partecipazione attiva a manifestazioni come festival e simili ha proprio lo scopo di promuovere e testimoniare l’efficacia dell’arte terapia nello sviluppo dell’identità personale dell’individuo e del gruppo sociale.

In entrambi i video gli attori mostrano scioltezza e grande espressività. Addirittura in “Un passo oltre” mettono in scena addirittura una coreografia, in cui si muovono e si relazionano all’unisono. Il risultato è stupefacente. Alessia, il tuo punto di vista da pedagogista…
Il teatro è uno strumento molto efficace, soprattutto in certe situazioni di disagio. Ma ci sono alcuni ingredienti che fanno la differenza: il gruppo, il divertimento, la relazione, lo stare bene, costruire qualcosa. L’obiettivo non si raggiunge se si mette in scena un copione dall’inizio alla fine o se si raggiungono obiettivi prestabiliti. La ‘terapia’ è condividere con i propri amici un momento, un sorriso, le proprie emozioni e stare bene con loro. Terapeutico è costruire qualcosa divertendosi.
Per quanto riguarda l’altro video, “Gli ingredienti dell’amore”, occorre dire che “La compagnia del valori” di Cento è un gruppo eccezionale, i ragazzi sono molto motivati e le educatrici stanno facendo un ottimo lavoro. Prova ne è il fatto che le educatrici, l’infermiera e le volontarie del centro hanno partecipato personalmente al laboratorio, mettendosi in discussione, senza la paura di perdere il proprio ruolo. Nel video le vedete, sono entrate perfettamente in relazione con le persone in cura, raggiungendo una reale reciprocità di emozioni.
Aggiungo che sarebbe benefico per tutti, ma proprio tutti, perseguire questo tipo di valori, ricercando la condivisione, lo star bene insieme e rispettandosi reciprocamente.

Massimiliano Piva, regista, esperto in tecniche teatrali del Metodo Cosquillas
Alessia Veronese, pedagogista, esperta in protocolli educativi del Metodo Cosquillas

Partner che hanno contribuito alla realizzazione del progetto “Gli ingredienti dell’amore”: Az. Usl di Ferrara Distretto Ovest, Dipartimento assistenziale integrato, salute mentale e dipendenze patologiche, Università di Ferrara, Città del Ragazzo, Centro attività riabilitative Corte dei Liutai, Servizio civile regionale, Regione Emilia-Romagna, Teatro parrocchiale di Renazzo.

Partner che hanno contribuito alla realizzazione del progetto “Spiriti liberi” e al video che ne è stato tratto “Un passo oltre”: Az. Usl di Ferrara Distretto sociale Sud-Est, le Amministrazioni comunali di Ostellato, Portomaggiore, Argenta, Regione Emilia-Romagna Il Faro Asp. del Delta ferrarese e Csr Quisisana di Ostellato, Associazione Arti e mestieri di Ostellato e Ass. La Speranza di Portomaggiore, Coop. La pieve di Maiero, Agriturismo “Ai due laghi” di Gambulaga.

Il progetto “La Società a Teatro” è coordinato da Agnese Di Martino per l’Associazione Agire Sociale, Centro Servizi per il Volontariato.

Per il programma dell’evento [vedi]: 0532-205688, segreteria@csvferrara.it
Biglietteria Teatro Comunale: costo del biglietto 5 euro

LA TESTIMONIANZA/1
Non voglio essere violento come mio padre

di Elena Buccoliero

Certe conversazioni sono immersioni. Non è così un momento prima né un attimo dopo. Passeggi con quella persona, scambi qualcosa di tuo con cenni divertenti o profondi apparentemente qualsiasi: il testo di una canzone, un ricordo di scuola. È un percorso di avvicinamento, entrambi sappiamo che ci stiamo cercando come cerchi una stazione radio quando sei in viaggio. Poi ti fermi e stabilizzi il contatto e così con Andrea. Entri in quel territorio aspro dove insieme si è deciso di andare, che anzi ci si è incontrati apposta. Se ne uscirà poi, un poco straniti. Vicini e distanti, per quanto è stato forte tutto ciò che hai mostrato, tutto ciò che hai guardato in quel tempo insieme.
Così è stato incontrare Andrea, la sua ricerca interiore e la generosità con cui ha accettato di condividerla.

LA TESTIMONIANZA DI ANDREA – PRIMA PARTE

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Foto del concorso europeo indetto dalle Nazioni Unite per la lotta alla violenza sulle donne

Si dice nell’ambiente psicanalitico, e non ci volevo credere, che chi subisce violenza agisce violenza. Lo capisci nel tempo: chi ha preso le botte le ridarà. Nella vita familiare mi vengono degli attacchi d’ira improvvisi, furenti, che non mi riconosco.
Prima di avere una famiglia mia non ce li avevo. Da piccolo sì, ricordo un episodio in cui mio padre ha sforato e io ho spaccato un orologio, un’altra volta una porta – e guarda caso mio padre non mi disse niente. Ero impaurito da matti della sua reazione, ero un bambino, invece è stato zitto e ha cambiato la porta. Lì per lì non capivo ma adesso mi rendo conto che solo così ti ascolta. Sul piano della violenza, del sopruso, lui ti rispetta – perché ti riconosce. Se no ha la tendenza a sopprimerti con la sua violenza. Fisica, verbale di tutti i tipi. Anche al telefono, se lo mandi affanculo dopo ti richiama più tranquillo, se gli parli cercando di affrontare il discorso in termini pacati lo confondi. Non ha mai sviluppato la capacità di autoascolto, autoriflessione, è sempre scappato da se stesso e non è a suo agio con un “parliamone”.

IN FAMIGLIA
Sono il più giovane di quattro fratelli. È stata un po’ la mia fortuna. Tra me e la maggiore corrono nove anni di differenza e lei ci ha spianato la strada in molte cose. Le mie sorelle, che sono le due più grandi, hanno vissuto quelle briciole di ‘68 che in Italia è stato il ’77 perché erano già adulte, io avevo 13 anni e ho vissuto di riflesso una certa contestazione verso il sistema, il padre, il modello che i genitori stavano trasmettendo – e nel mio caso un non modello, basato sulla violenza. Mi hanno aiutato molto, da solo non sarei dove sono adesso.
Era un attimo. Anni che girava la droga e noi non siamo, nonostante tutto, dei disgraziati. Ognuno di noi ha le proprie paturnie, che cura o nasconde a suo modo, ma non siamo dei disgraziati e questo vuol dire che qualcosa di sano da qualche parte c’era. Forse proprio il rapporto tra di noi.
Una delle mie sorelle già a 16-17 anni contestava un po’ l’atteggiamento di mia madre. Studiando il comportamento animale si dice che a volte è la gazzella che “provoca” il leone, la vittima che cerca il carnefice. Con questo non ti sto dicendo che era colpa di mia madre, probabilmente era nel suo inconscio comportarsi da vittima ma in molti casi lei ha proprio provocato. Con il linguaggio, con un certo dargliela su ha avvalorato, per paura o per inconscio o per retaggi culturali, una famiglia come la mia. Poteva andarsene o reagire in vari modi molto tempo prima. L’ha fatto subito dopo che mi sono laureato io. Finché l’ultimo figlio era ancora da sistemare, nella sua logica di 17enne sposata incinta, è rimasta con suo marito.

Si erano sposati per amore?
C’è un’altra domanda? Io l’unica volta che li ho visti abbracciarsi e baciarsi ho provato ribrezzo, ce l’ho ancora fisso in testa.

Perché?
Non tolleravo che mio padre avesse quella faccia lì. Perché mio padre – a parte essere dall’esterno una persona splendida, la più simpatica del mondo – è davvero una persona violenta.

Era conosciuto così, come persona disponibile?
Gli altri non capivano assolutamente niente di quello che succedeva in famiglia. Lo vedevano sempre presente, il braccio destro del prete, iscritto – lui dice “convinto” – all’allora Dc, come ora è iscritto al Pd perché fondamentalmente sta dalla parte di chi governa. “È convinto di avere delle idee”, canta De Gregori.

Che lavoro faceva?
Lavorava in un ente regionale. In realtà si presentava in ufficio, staccava il telefono e andava in giro a fare altre cose, principalmente impianti elettrici e idraulici. Diceva sempre che guadagnava poco e in casa non dava niente, non ho mai capito come abbia fatto mia madre a mettere a tavola quattro bimbi – anzi cinque, lui compreso – tutti i giorni mattina e sera.

Era tirchio?
Non vedevamo quasi mai un soldo. Da grande mi hanno detto che con quegli impianti era molto bravo, e anche molto caro: non l’avevamo mai saputo. Ricordo che dopo la scuola a volte rimanevo in strada con i miei fratelli – facevo le elementari -, stavamo fuori delle ore saltando il pranzo perché mia madre diceva: “restate fuori che oggi dobbiamo discutere”, cose come “dammi un po’ di soldi che non so più come fare la spesa”, e noi terrorizzati su cosa avremmo trovato rientrando in casa.

UNA LETTERA DI RINGRAZIAMENTO
Quando rimasi incinto della mia prima figlia ho scritto una lettera, identica per mio padre e per mia madre, anche se erano già divorziati e io ero scazzato con lui, ringraziandoli perché non mi hanno mai fatto mancare niente dal punto di vista materiale. E non è mica scontato! Non ricordo un giorno che non ho avuto un posto che potessi chiamare mio, e il necessario per mangiare, vestirmi, e le tante cure mediche di cui ho avuto bisogno.
La casa era dei miei nonni materni. L’avevano proprio costruita loro. Alcuni dicono sia stato uno dei motivi, o l’unico, per cui mio padre ha sposato mia madre. Nel dopoguerra essere dei diciassettenni pimpanti voleva dire sposarsi, il principale obiettivo di quella generazione era mettere su famiglia, la mamma in casa coi bambini e il papà a lavorare, quando ancora bastava un reddito, adesso a volte non ne bastano due.
Io non sono sicuro di esser stato desiderato e tanto meno cercato. Era una cultura in cui un figlio, se capita, si accetta, e mia madre l’ha fatto. Non posso rimproverarle niente. Anche mio padre nel suo modo, ma fosse stato solo per mio padre la famiglia non andava avanti.
In compenso ha cercato di fare la persona acculturata. Partecipava a un gruppo di studio cristiano un po’ in contrasto con la chiesa ufficiale. Ma mio padre non ha niente di cattolico, se parliamo di compassione, di pietas.

Avete mai provato a parlarne fuori di casa?
Lo dicevamo ma non ci credevano. Io più volte da piccolo, con miei coetanei, ho detto “se potessi gli spaccherei la faccia”. Magari ci aveva rullato di botte, mia madre era al pronto soccorso, ma la risposta non cambiava mai: “è sempre tuo padre”. Però lui, non posso dire che sia stato un padre. Tutt’al più un genitore. Se il padre è chi sostiene la famiglia, la incoraggia, dà il buon esempio, educa (con l’accezione – secondo me discutibile – di dire ai figli cosa è giusto e cosa è sbagliato), non posso dire di avere avuto un padre. Prendeva a ceffoni mio fratello perché fumava, ma ha fumato anche lui e appena finite le botte gli metteva le sigarette in tasca. Era una contraddizione continua.
Penso che uno dei mali più grandi, oltre a picchiare un bimbo, siano le botte che un bimbo vede. Mi ha fatto male vedere mia madre presa a botte, e poi in un paese connivente. Quante volte abbiamo cercato di scappare di casa e i vicini non aprivano la porta! Tutti sapevano, sentivano. Nessuno ci ha mai aiutato. Io ho pensato tante volte di affrontarlo ma non l’ho fatto perché il suo tipo di violenza lo avevo talmente impresso che bastava alzasse la voce perché cominciassi a tremare.
Una volta in un litigio furente mia sorella ha chiamato i carabinieri, lo portarono in caserma e penso gli diedero un sedativo, per come tornò. Noi in fretta e furia abbiamo preparato due valigie, mia nonna materna compresa che era già anziana, e siamo scappati. Sulla scala di casa lo abbiamo incrociato. Noi terrorizzati, “ora ci riempie di botte”, sai cosa doveva essere per lui l’affronto, la denuncia, il disonore, invece è stato come se non ci avesse visti. Siamo scappati dalla mia sorella maggiore, ci potevamo sistemare tutti, invece mia madre decise di tornare da lui. Io mi sono trovato un appartamento un po’ fuori città e andavo da lei tutte le domeniche, sapendola a casa da sola con mio padre non eravamo tranquilli.
Sai quante volte l’ho accompagnata al pronto soccorso e lei ha dichiarato che era caduta? Lui la picchiava poi andava via. La accompagnavamo noi, diceva che era caduta. Il medico cercava di parlarci, “Se lei dichiara che l’ha picchiata noi facciamo la denuncia”.

Chissà quante volte avrai avuto voglia di dirlo tu, al medico, come stavano le cose.
Sì, ma devi pensare che ero un ragazzino. Abbiamo provato anche a farlo fuori, in maniera fanciullesca, senza riuscirci. Cose tipo svitargli le ruote della macchina… Non si è mai fatto male.
La tentazione di farla finita in maniera cruenta c’è stata. Una volta mia sorella gli è saltata addosso e io ho avuto proprio paura: questi si ammazzano. Non ho mai visto in mia sorella quella violenza lì. Gli è saltata agli occhi e lì lui ha smesso di picchiarci. Il nostro atteggiamento solito invece lo debilitava. Lo mandava in un mondo che non sapeva gestire, e reagiva con la collera. Quando qualcuno lo affrontava – anche con mio fratello qualche volta si sono picchiati forte – allora si fermava.

UNA SEPARAZIONE TARDIVA

Poi tua madre ha deciso la separazione.
Le poche volte che ho parlato a mio padre dopo la fuga di mia madre, non si dava pace che una donna potesse vivere da sola. Mio padre ha sempre avuto un certo concetto delle donne: sono tutte troie e devono servire l’uomo. Parlando a quattrocchi davanti a un bicchiere di vino te lo dice esplicitamente, ma traspira da ogni poro. Se sua moglie è scappata di casa dev’esserci un altro, non può dire a se stesso “è scappata da me”.

Quanti anni aveva tua madre quando è andata via?
Sessanta esatti. Ha aspettato la mia laurea, però lei già prima, piano piano aveva portato una camicetta dalla cugina, un maglioncino dalla zia… ha preparato tutto e un bel giorno non è più tornata. Ha cambiato città. È stata per un periodo in albergo, diversi alberghi per paura che lui la trovasse. Da noi figli lei non poteva venire perché lui l’avrebbe ripresa subito.

Anche prima della tua laurea eravate già tutti e quattro indipendenti.
Sì, ma restava in mia madre la dipendenza psicologica da un voto forse inconscio e poi divenuto consapevole, come se solo allora potesse dire: “il mio compito l’ho fatto, posso pensare a me stessa”. In maniera maldestra, perché poco dopo le è partita la testa. E per quanto si dica che il cosiddetto Alzheimer viene a chiunque, se per 43 anni non puoi chiederti cosa stai pensando e prendi le botte, la mente non è cosi contenta. Mia sorella dice che non è vero, per me un nesso con la malattia c’è ma se anche non ci fosse, mia madre meritava di vivere una vita pensando a se stessa per qualche anno. All’inizio aveva provato: qualche sera a teatro, le amiche, si era iscritta al circolo degli anziani… poi le è partita la testa e ormai non sempre mi riconosce. Fisicamente è in forma ma la testa non c’è’ più da tempo.
Meritava almeno altri trent’anni per recuperare la sua vita. Qualunque fosse, perché per me non lo sapeva neppure. Quando per quarant’anni non ricevi mai ascolto, sei sempre in conflitto e non in quello sano, costruttivo, ma nella violenza, non cresci la tua vita, cresci la vita di un altro. Nel suo caso quella dei figli. Lei ha dato la vita per i figli, veramente. Mi sono messo vagamente poche volte nei panni di mia madre e mi sono trovato anch’io a chiedermi chi cazzo sono e cosa penso.
Mio padre… Mangiavi all’ora che voleva lui, a cena c’era il tg e bisognava stare tutti zitti ad ascoltare perché dopo t’interrogava. Io passavo il tempo a dirmi: “se ora mi chiede cosa sto pensando posso dire questo. No, se dico questo s’incazza e mi mena mezz’ora. Allora quest’altro… No, non va bene”. Così, tutto il tempo a cercare qualcosa da dire. Perché di punto in bianco lui ti poteva chiedere: “Cosa stai pensando?” e se rispondevi magari la verità, ma non lo convincevi, attaccava: “Non fare il furbo con me!”. Volavano i bicchieri e le sedie, mai le parolacce. E penso, quelle poche volte nei panni di mia madre, come dev’essere vivere 43 anni così, senza poter pensare.
Tutti i giorni dopo pranzo andava al bar a fare la partita a carte, era il rito del padre di famiglia, mentre lei sgobbava. Poche volte l’ho vista sdraiarsi un attimo sul divano o leggere un libro, ma se in lontananza sentiva la macchina di mio padre che rientrava si alzava di scatto perché la donna deve sgobbare, non poteva farsi beccare in un momento di relax. Quarantatre anni cosi. Tradimenti, continuamente, dicono anche durante il viaggio di nozze a Venezia. Una ignominia indescrivibile.

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Elena Buccoliero è sociologa e counsellor, da molti anni collabora con Azione Nonviolenta, rivista del Movimento Nonviolento. Per il Comune di Ferrara lavora presso l’Ufficio diritti dei minori. È giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Bologna e direttore della Fondazione emiliano romagnola per le vittime dei reati.

Questa testimonianza è stata pubblicata la prima volta su Azione Nonviolenta, il periodico del Movimento Nonviolento che ha dedicato un numero tematico alla violenza di genere. La ripubblichiamo qui per gentile concessione dell’autrice, in occasione della “Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”.

Per saperne di più sulla nonviolenza in Italia e nel mondo [vedi]

Altri articoli pubblicati da ferraraitalia sulla ricorrenza della “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”: alcuni dati [vedi] e la celebrazione del 22 novembre a Ferrara [vedi]

LA RICORRENZA
Henri de Toulouse-Lautrec, la vivacità della Belle Epoque

Un pittore che dipinge ballerine in stile Moulin Rouge, questo il doodle con cui Google ricorda oggi uno dei più grandi artisti della storia, Henri de Toulouse-Lautrec, nato 150 anni fa ad Albi, regione dei Pirenei francesi, da un’antica famiglia nobile.
Grande ammiratore di Cézanne, Renoir, Manet e, soprattutto, di Degas, Lautrec s’interessò alla xilografia giapponese, che conobbe grazie a Van Gogh. Nel 1891, quando il Moulin Rouge gli commissionò la realizzazione di un manifesto pubblicitario, che sarebbe stato affisso in tutta Parigi, per l’artista iniziò un periodo di notorietà e di commissioni importanti: produsse 31 manifesti, tra cui famosi sono quelli per Jane Avril, Aristide Bruant, la ballerina May Milton, il Divan Japonais e il Jardin de Paris.

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La sua fama è legata al suo ruolo nel post-impressionismo francese e alle scene che ritraggono i molti e variegati aspetti della vita parigina: la politica, i movimenti culturali, i divertimenti dei ceti popolari e la nascita di forme d’intrattenimento come i café-concert e i cabaret. Il quartiere di Montmartre, le ballerine, il cancan del Moulin Rouge, le scene di vita quotidiana nei locali e fra le mura domestiche, i poster e i manifesti colorati, fra i quali quello del “gatto nero”, hanno contribuito a rendere celebre questo grande artista. Indimenticabile per tutti. Buon compleanno, allora, Henri.
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La gioventù che ‘gioca’ con la bellezza

La nebbia stancamente accompagna il calare del sole mentre varco il portone del Museo Archeologico di Spina; salgo lo scalone col ritmo agiato offerto dai gradini di marmo istoriato; infilo il breve corridoio ed ecco spalancarsi il grande salone.
Palazzo Costabili, Palazzo di Ludovico il Moro, Museo Archeologico, tappe e momenti di un falso d’autore affascinante dove le carte geografiche che adornano le pareti hanno come fregio i versi gonfi di classicità dell’ode carducciana “Alla città di Ferrara”. Il podio è posto accanto al muro più lungo della sala, custodito da un enorme cratere rosso a figure nere. Le seggiole bianche abbracciano la pedana coperta da una moquette azzurro scura; sopra, una seggiola dallo schienale diritto e un pianoforte gran coda quasi addossato alla parete. Brusio di voci e lento riempirsi della sala. Mi accompagnano alla prima fila: mai in lunghi anni di frequentazione musicale mi son trovato così vicino agli esecutori.

Ed eccole le artiste: Caterina Demetz, la violinista, alta slanciata in pantaloni neri, maglietta nera sbracciata con un piccolo tatuaggio al braccio sinistro; Federica Bortoluzzi meno alta, completamente vestita di nero e i capelli tirati a coda di cavallo: sono due belle ragazze che potresti incontrare a percorrere la “vasca”, il sabato sera, tra i portici del Duomo e via Bersaglieri del Po. Il concerto è organizzato dalla benemerita associazione Bal’danza, in collaborazione con la rivista “Amadeus” per rendere omaggio al venticinquennio della nascita della rivista musicale che, proprio l’anno prossimo, offrirà ai lettori il cd di questo concerto composto da quattro sonate per violino e pianoforte di Mozart: quelle comprese tra il 1778 e il 1781, anno in cui Mozart si trasferirà definitivamente a Vienna.

Caterina Demetz al violino, Federica Bortoluzzi al pianoforte
Caterina Demetz al violino, Federica Bortoluzzi al pianoforte

Caterina abbraccia il piccolo violino, Federica si stringe nelle spalle e sparisce quasi; la testa a un centimetro dallo spartito. Nell’aria cominciano a diffondersi le note della bellezza pura. E le giovani, ormai bellissime, “giocano” con la bellezza, nel senso etimologico di jouer: suonare. Nel viso infantile di Federica aleggia quel sorriso misterioso, come un segreto, che talvolta si vede aleggiare tra gli esecutori e i direttori d’orchestra. Un’intesa unica tra loro e l’autore. Il labbro inferiore della pianista viene leggermente morsicato, la testa s’infossa ancor più tra le spalle.
Frattanto, regalmente, Caterina alza imperiosa il braccio che impugna l’archetto e il riflesso si staglia per un gioco di luci sulla superficie lucida del pianoforte. La testa si alza fieramente e sgorga limpida e grave, a volte pizzicata, la voce della bellezza.

Alla fine della prima sonata il mio vicino di posto, un importante ginecologo che è anche poeta e romanziere, mi sussurra: “Pensa la felicità di quel bambino che nasce tra suoni divini e giunge alla luce alimentato di bellezza!” Sbalordito guardo meglio e capisco la battuta. Una rotondità inequivocabile rende ancor più bella la figura di Caterina. E penso alla fortuna di quel bambino che ascolta nel caldo materno quei suoni divini in un luogo che custodisce una sapienza antica fatta figura, colore, materia.

Quel che maggiormente mi colpisce è la suprema naturalezza di quel suono, la sua compenetrazione con la vita, il senso di un’agiatezza delle forme che diventano vita e verità.

Perché la bellezza è verità. E’ la realtà suprema.

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Le concertiste ricevono i meritati applausi

Ascolto Daniel Barenboim la stessa sera che parla in televisione e che spiega la semplicità della musica che diventa o dovrebbe diventare necessaria come il latte materno. E la sciagurata e miope decisione della politica italiana – ma non solo – di escludere quasi del tutto dalle scuole, se non quelle specializzate, la musica che è il ritmo della bellezza.
Mentre il concerto s’avvia alla fine le guance di Caterina s’arrossano nel tentativo di svelare tutta la fragorosa bellezza dell’ultimo movimento della Sonata 26 e sembra di ritrovarsi in paradiso. Quel paradiso che è il giardino da cui siamo stati cacciati e che incessantemente lo spirito umano, come ci spiega Rudolf Borckardt nel suo “Il giardiniere appassionato” tenta di riconquistare.

Così Amadeus tramite le due ragazze che “giocano” con la sua musica ci indica la via per riconquistarlo e per renderci – almeno per un’ora – felici.

L’INTERVISTA
Maurizio Mariano: il pianista storico di Franco Simone

Maurizio Mariano, nato a Lecce, inizia da giovanissimo gli studi classici presso il Conservatorio della sua città, contemporaneamente si dedica allo studio della musica moderna suonando con diversi gruppi. Trasferitosi a Napoli, conosce Aurelio Fierro, che accompagnerà in numerosi concerti nazionali e internazionali.

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Maurizio Mariano e Franco Simone

Nel 1972 incontra il cantautore Franco Simone, con cui inizia un rapporto di collaborazione che dura ancora oggi. Nel 1990, insieme, realizzano “VocEpiano (dizionario dei sentimenti)” cui segue un fortunato tour in Canada e Sud America; la stessa innovativa formula (solo voce e pianoforte) sarà ripetuta nel 2003, con l’album “Dizionario (rosso) dei sentimenti”.
Nel 2004 partecipa a “Emilia-Romagna En Vivo”, un tour live in Sudamerica, sponsorizzato dalla Regione, dove con l’orchestra di Paolo Belli, accompagna, tra gli altri, Silvia Mezzanotte, Riccardo Fogli, Beppe Carletti e Umberto Tozzi. Nello stesso anno compone la colonna sonora del film “Dimenticare mio padre” e nel 2005 realizza il cd “Nel cuore del pianoforte” realizzato con un’intera orchestra e comprendente brani di stile romantico, bossa, jazz e fusion.
Nel 2010 partecipa, in qualità di pianista e supervisore artistico, alla realizzazione del nuovo lavoro discografico di Franco Simone: “Nato tra due mari”.
Da oltre vent’anni Maurizio Mariano è docente nelle Scuole di Musica Roland ed ha creato, nel Salento, “spazi musicali” dove poter apprendere e perfezionare l’arte del “fare musica”.

Tanti anni di carriera, una vita dedicata alla musica, come hai iniziato?
Ho mosso i primi passi nella musica sin da bambino! A 10 anni ho iniziato il conservatorio e contemporaneamente suonavo con un gruppo di cui ero la mascotte. Ricordo che suonavo solo alcuni brani perché non conoscevo tutti gli accordi … e da allora non ho più smesso.

Lavorare con Aurelio Fierro è stata un’esperienza importante per la tua crescita artistica e professionale?
L’esperienza con Aurelio Fierro, durata 2 anni, è stata sicuramente fondamentale per la mia crescita artistica. Suonare i grandi classici napoletani è di per sé una scuola, averlo fatto a soli 22 anni – al fianco di un artista di tale spessore – mi ha consentito di mettere in pratica la conoscenza classica arricchendola, però, di intensità emotiva. Contemporaneamente collaboravo con il Maestro Beppe Vessicchio per la King, storica casa discografica di Aurelio Fierro.

Lavori da molti anni con Franco Simone e spesso lo accompagni da solo con il pianoforte, quali doti professionali e di intesa bisogna possedere per riuscire in questo?
Il VocEpiano è “un’arte a parte”. Posso dire, con una nota di orgoglio, che siamo stati i primi a realizzare questo progetto, nato come strenna natalizia per gli amici più cari di Franco. L’unica grande dote professionale che sicuramente agevola l’interazione tra cantante e pianista è una profonda conoscenza dell’armonia. Se poi a questo si aggiungono più di 40 anni di collaborazione, l’intensa è perfettamente naturale.

Come sono stati registrati i due album VocEpiano del 1990 e del 2003?
Ciascun album è stato registrato in un solo pomeriggio in presa diretta. Non posso parlare di difficoltà e di soluzioni adottate perché, per noi, è stato come eseguire un concerto dal vivo. E ora, quando ci esibiamo nel “VocEpiano” è come se registrassimo!

“Nel cuore del pianoforte” è il titolo di un tuo album, come nasce questo progetto?
Non è un progetto. Ho solo dato voce ai miei “appunti musicali”… A conferma di ciò la mancanza di criterio commerciale. Nell’album sono presenti brani di varia natura, dall’orchestrale all’elettronico, dalla ballade di un minuto alla bossa di quattro.

Nel film “Dimenticare mio padre” di Antonio Miglietta, hai sottolineato i momenti più intensi del film, con melodie che ne addolcivano le asprezze …

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Maurizio Mariano

Ho composto i vari frammenti musicali del film conoscendo solo la storia che si voleva narrare. Ciò che più emerge, forse, è la drammaticità di note che, “violentandomi” per diverse notti, hanno dato vita al leitmotiv che accompagna le immagini del film.

“Il tema di Giulia”, tratto dalla colonna sonora di “Dimenticare mio padre” è eseguita da molti pianisti classici in alcuni paesi europei. Una grande soddisfazione?
Naturalmente sì. Ho messo a disposizione online musica e spartito, non credendo che potessero arrivare così lontano. La tecnologia, se ben usata, unisce.

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Franco Simone e Maurizio Mariano in VocEpiano a Viña del Mar in Cile

Sono anni che accompagni Franco Simone in giro per il mondo. Nel febbraio 2014 avete portato in Cile e in Uruguay lo spettacolo “VocEpiano”. Una responsabilità diversa, rispetto a quando suonavi con il gruppo?
I concerti in Sud America hanno sempre previsto la formazione al completo, supportata da grandi strutture tecniche. Ci presentavamo “in abito da sera”. Proporsi in duo è stato come esibirsi “in lingerie”, voce e piano messi a nudo. Più che una responsabilità sento, tuttora, un coinvolgimento maggiore che, grazie alla vocalità di Franco, raggiunge la massima espressione.

Un ricordo di Enzo De Carlo, che per tanti anni ha suonato insieme con te nel gruppo di Franco?
Di ricordi ne ho infinti… Con Enzo ho condiviso le grandi platee e le gite in famiglia. Oltre che il validissimo collega, ricordo le risate di un fratello.

Progetti futuri?
Da oltre 25 anni insegno pianoforte nelle scuole che dirigo nel Salento. Il progetto è sempre lo stesso: dare la possibilità a grandi e piccoli di avvicinarsi alla musica. Con Franco, invece, stiamo allestendo il suo ultimo lavoro “Stabat Mater”, opera rock sinfonica che vede protagonisti, oltre allo stesso Franco, Michele Cortese e Gianluca Paganelli.
Sullo sfondo di questo panorama musicale non poteva mancare un viaggio in Cile la prossima primavera e, perché no, nei ritagli di vita tanti altri “appunti musicali” cui dare voce.

Spartiti e contributi musicali di Maurizio Mariano, sono liberamente prelevabili nel suo sito [vedi]

L’impronta delle mani nella nostra vita

“Hands: l’impronta delle mani nella nostra vita” è il titolo del primo social movie realizzato in Italia e prodotto dallo studio Kairòs di Parma [vedi]. L’idea è quella di proporre un nuovo strumento di comunicazione fondato sul crowdsourcing, in grado quindi di utilizzare la partecipazione per la produzione di messaggi: una comunità di persone partecipa, con piccoli spezzoni di video alla produzione di una storia; l’esito è un film costruito attraverso tante microimmagini che compongono un racconto. Il social movie, quindi, è una forma di creatività condivisa che valorizza le capacità espressive di molti e che lascia emergere le tracce di emozioni, impressioni, desideri, esperienze di tutti coloro che partecipano alla produzione.
Il modello ha un precedente nel celebre film di Ridley Scott del 2010 “Life in a day”, il primo social movie: un esperimento globale per la creazione del più grande lungometraggio generato dagli utenti. Il 24 luglio 2010, gli utenti della community di YouTube, hanno avuto 24 ore di tempo per immortalare uno spaccato della propria vita con una videocamera ed inviare i file al relativo canale YouTube del progetto. Successivamente Gabriele Salvatores ha raccolto e montato per l’edizione italiana i 44.197 “messaggi nella bottiglia”, i video che gli italiani hanno girato con i telecamere, cellulari e fotocamere il 26 ottobre 2013 per partecipare a “Italy in a day”.
Hands, il primo esperimento nato in Italia, riprende questa filosofia per farne uno strumento di comunicazione: numerosi appassionati hanno inviato brevi filmati, fatti con smartphone e videocamere, interpretando il tema secondo il loro punto di vista. Poi uno staff di professionisti, con la regia di Daniele Di Domenico, ha lavorato alla realizzazione dell’opera definitiva. Il progetto è stato sostenuto dal Fondo sociale europeo e ha raccolto anche l’attenzione del Tg2 [vedi].
Al di là dell’interesse per la pratica del crowdsourcing, mi piace che proprio la prima esperienza di social movie italiana abbia come soggetto le mani: un progetto che si fonda sulle nuove tecnologie declinate in chiave social assume come punto di partenza l’elogio della capacità espressiva delle mani. Con le mani scriviamo, dipingiamo, facciamo musica, coltiviamo i fiori, accarezziamo, mangiamo, entriamo in contatto con gli oggetti e con lo spazio circostante, con le mani pensiamo. La storia del pensiero umano inizia per la capacità dell’uomo di utilizzare la capacità di presa, sempre più raffinata, delle mani. La mano non è solo una protesi della mente, è ben di più. Chiunque abbia pratica di scrittura, conosce bene il meccanismo generativo del gesto sul pensiero, per cui il foglio si riempie con il contatto delle mani sulla tastiera.
Per la comunicazione d’impresa il social movie potrebbe restituire immagini più autentiche e significative di quelle diffuse dai media, intercettare sentimenti, generare empatia e consapevolezza su un uso generativo e non passivo della rete. Anche per la didattica queste esperienze sarebbero stimolanti per raffinare la capacità di osservazione e di interpretazione, per insegnare a raccontare la vita quotidiana delle persone che lavorano e vivono accanto a noi, andando oltre i significati veicolati dal senso comune e le immagini stereotipate dei video diffusi in rete.

Maura Franchi – Laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi e Social Media Marketing. Studia i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@gmail.com

Quando la storia non è ancora Storia ma ‘vita che accade’

La storia con la ‘S’ maiuscola è quella scritta nei libri di scuola, nei saggi e nelle interpretazioni dei grandi storici, quella dei cosiddetti ‘fatti oggettivi’ e delle cosiddette ‘cesure storiche’: 476, caduta dell’Impero Romano e fine della storia antica; 1492, scoperta dell’America, fine del Medioevo e inizio dell’epoca moderna. Ma un impero può cadere in un anno? Può da un anno all’altro cambiare il modo di pensare se stessi e il mondo? Chi quegli anni li ha vissuti si è reso conto di vivere la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra? È qui che entra in gioco la storia con la ‘s’ minuscola, cioè le esperienze e i pensieri dei singoli che hanno vissuto in quei concitati e confusi periodi storici. Spesso queste tante ‘s’torie si ritrovano nei diari che per un motivo o per un altro sopravvivono ai loro autori e vengono conservati in archivi e musei, oppure vengono pubblicati.

Nei giorni scorsi al Museo del Risorgimento e della Resistenza di Ferrara è stata presentata proprio una di queste testimonianze, il libro dal titolo “Giulio Supino. Diario di una guerra che non ho combattuto. Un italiano ebreo tra persecuzioni e Resistenza”, curato da Michele Sarfatti (Firenze, Aska, 2014).
Figlio di Igino Benvenuto Supino, famoso pittore e studioso fiorentino di Storia dell’arte, Giulio sceglie le materie scientifiche e si laurea a Bologna prima in Ingegneria civile (1921) e poi in Matematica (1923). Sempre a Bologna, dopo aver servito come ufficiale di artiglieria nella I Guerra mondiale, inizia la sua carriera universitaria che deve però lasciare a causa delle sue origini ebraiche. Proprio dal 1938, anno delle leggi razziali, inizia a tenere questo diario che, in origine, non è destinato alla pubblicazione, ma “non è nemmeno un diario intimo”, dice Sarfatti: “è il diario della vita che accade, mentre lui stesso la vive”. Per questo nel diario leggiamo la storia nel suo farsi, prima dell’interpretazione storica, gli eventi e gli effetti sul vivere quotidiano, l’incertezza e le ipotesi per quello che potrà succedere. Ma a colpire è soprattutto il modo in cui tutto ciò viene narrato. Ad esempio, riportando ciò che viene a sapere degli arresti di ottobre a Ferrara e dell’eccidio del Castello di novembre 1943, scrive: “fucilati per modo di dire, perché sono stati assassinati per la strada”. Un altro passo sorprendente è quello riguardante il periodo successivo il 25 luglio quando, sottolinea Sarfatti, “si tenta di capire la natura del nuovo governo, che non è più fascista, ma non per questo si può dire che si antifascista”. Nel diario sono contenute alcune riflessioni sull’abolizione delle leggi razziali: per Supino è necessario che il governo italiano le abroghi autonomamente e non come condizione dell’armistizio perché “gli ebrei italiani non devono apparire protetti inglesi o americani, ma liberi italiani”, in altre parole è la comunità di appartenenza che deve garantire i diritti, se questi diventano una concessione fatta per intercessione di altri, in futuro sarà facile revocare di nuovo tale concessione. L’unico accenno alle difficili condizioni e ai pericoli costanti di una “clandestinità doppia”, come antifascista e come ebreo, è quello dell’11 agosto 1944: “Manuela (così chiamavano in famiglia la figlia Valentina, ndr) è salva!”.
Ascoltando la presentazione di Michele Sarfatti, mi sono tornate le parole di James Edward Young in “Writing and rewriting the Holocaust. Narrative and the consequences of interpretation”: analizzando i diari e delle memorie della Shoah l’autore sottolinea che chi scrive queste testimonianze, nella maggior parte dei casi, desidera preservare nella narrazione quella discontinuità che conferisce agli eventi narrati il loro carattere violento, quel senso di disorientamento che sta provando o ha provato ed il suo legame personale con gli eventi. Questa discontinuità è la stessa che esiste fra il titolo di questo scritto, “Diario di una guerra che non ho combattuto”, pensato da lui stesso in un momento successivo alla redazione, e le parole di introduzione: “voglio raccontare come ho visto una guerra che non si doveva fare”.

LA CURIOSITA’
E’ arrivata l’anti-Barbie: in carne, make up minimo e anche un po’ di cellulite

Lammily non è così perfetta, un sollievo per molte ragazze normali, come noi. Ha un’altezza media (l’equivalente, in proiezione, di non più di 160 cm e lontana dai 175 cm che le riviste indicano per le donne ‘perfette’) ed è leggermente sovrappeso (anche qui, oltre i 50 kg della ‘perfezione’ patinata), come molte ragazze americane e non solo.

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Il viso di Lammily

Ha, poi, i capelli lunghi, neri e setosi, la pelle bianca con qualche traccia di acne, accenni disegnati di cellulite, piccole smagliature. E’ insomma più vera e umana. Nulla di più lontano dalla solita e stereotipata Barbie, perfetta, bionda, sorridente, alta, proporzionata, magra e longilinea, alla quale eravamo abituate. Ma di che si tratta?

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Lammily ha le misure di una donna media

Parliamo di lei, la bambola in vendita online in America, creata dall’artista e designer di Pittsburgh, il venticinquenne Nickolay Lamm (dal quale deriva, evidentemente, il nome della bambola), che aveva annunciato di voler creare e produrre una bambola dalle proporzioni più ‘umane’ rispetto alla classica Barbie, che rispecchiasse, davvero, la donna statunitense media. Il progetto era partito con un crowdfunding di $95,000 sul website Kickstarter, per finanziare la creazione di 5000 bambole. Andato a buon fine, ben oltre le aspettative. Lamm, che ha confessato come molti genitori gli avessero chiesto di realizzare una ‘creatura’ simile, più vicina alla realtà, è stata appena stata lanciata sul mercato, e con lei una serie di accessori che rappresentano alcune imperfezioni della bellezza femminile: acne, cicatrici, smagliature, cellulite e tatuaggi.

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In costume

La missione è, pare, quella di restituire un’immagine positiva di sé stesse alle ‘imperfette’ teenager Usa e del resto del mondo e avere un giocattolo che assomigli un po’ di più alla ‘ragazza della porta accanto’. Oggi ne sono stati venduti 20000 esemplari. Lammily rappresenta, per il suo faber, l’idea che le proporzioni medie tipiche e reali sono belle. D’accordo, sul principio. Sulle modalità, de gustibus, si direbbe da noi.
Modo originale per alcuni e opinabile per altri (oltre che abilmente commerciale), di dimostrare questo concetto basilare, ma noi non possiamo che prenderne nota. Ai posteri l’ardua sentenza.

La bambola ha capelli lunghi bruni e make up minimo, le proporzioni di una diciannovenne, acne e tatuaggi. Promuove uno stile di vita salutare, con gambe e braccia movibili, ma può indossare tacchi e gonna.

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Tatuata
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Conduce una vita sana
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Con tacchi e tubino

LA RICORRENZA
Uscire dal silenzio per rompere la catena della violenza

Non ricordo che mese fosse, forse novembre, proprio come oggi. Comunque faceva freddo. Avevo vent’anni ed era finito il mio primo grande amore. In un momento di romantico struggimento ero andata a fare una passeggiata fuori stagione al Lido di Spina, là dove tante volte ero andata con lui.
Dopo un po’ che camminavo da sola sulla spiaggia, ho notato che poco più in là c’era un uomo che mi seguiva. Mi sono fermata per guardarlo perché mi stava dicendo qualcosa. Quando sono riuscita a capire che quel che mi stava urlando erano minacce e oscenità, si è abbassato i pantaloni. Non c’era nessuno attorno e io ho iniziato a correre per tornare all’auto. Quando l’ho raggiunta, ho fatto una brutta scoperta. Mi avevano tagliato due gomme. Nel frattempo l’uomo era arrivato, e assieme a lui ce n’erano altri due. Ho ricominciato a correre e ho raggiunto il primo stabilimento balneare, dove c’era il proprietario che stava facendo dei lavori. Gli ho chiesto aiuto. Mi ha fatta entrare, ed è uscito facendo scappare i tre. Poi mi ha aiutato a cambiare le ruote.
Ho percorso la superstrada fino a Ferrara piangendo, di rabbia e di paura per quel che mi era successo e per quel che sarebbe potuto succedermi.
Sono andata subito a esporre denuncia alle forze dell’ordine. Mi sono state chieste alcune cose e poi alla fine una domanda: ma lei cosa ci faceva in spiaggia da sola?
Ci sono storie ben più tragiche della mia, purtroppo. Se racconto pubblicamente questo aneddoto del mio passato, è per i seguenti motivi.

Le violenze subite, di qualunque genere, vanno condivise, sempre. E denunciate. Potrebbero salvare noi, ma anche altre donne. Parlarne fa bene, libera da un peso, fa sentire meno sole. E permette di trovare persone in grado di aiutarci. Va scardinato il retaggio del “te la sei cercata”.
Ogni donna dovrebbe poter camminare sola su una spiaggia fuori stagione, o dovunque abbia voglia o bisogno di andare, senza essere importunata e senza che nessuno le chieda perché lo fa. Deve essere libera di farlo e basta.
Sono passati tanti anni da quell’episodio e oggi la sensibilità e la preparazione al tema all’interno delle forze dell’ordine sono aumentate. Sono stati creati reparti speciali, e azioni mirate per tutelare le donne. Ma i casi di violenza sono tanti, e a volte si rischia di non dare loro la necessaria attenzione, come è accaduto lo scorso anno, in provincia di Siracusa, ad Antonella Russo, che aveva denunciato il marito per stalking, ed una settimana dopo lui le ha sparato, uccidendola. Poi si è suicidato. Una delle figlie, Desirée, vorrebbe entrare in polizia per difendere tutte le donne che non sono state credute. L’altra figlia, Nancy, ora studia Giurisprudenza a Ferrara perché vuole fare il magistrato. E ha deciso di fare causa allo Stato perché dice che tutto questo si poteva evitare.

Il 25 novembre è la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Ferrara ha deciso celebrarla in anticipo, ieri. Un percorso fatto di scarpette rosse, simbolo della violenza, ha segnalato il cammino che, dallo scalone del municipio, bisognava percorrere per arrivare al mercato coperto, sede dell’incontro pubblico. Un ideale collegamento tra istituzioni e cittadinanza. Perché solo una rete di solidarietà può risolvere il problema. Di seguito il percorso per immagini.
Durante l’incontro è stato mostrato un video realizzato da Area Giovani, dove i capigruppo del Consiglio comunale, gli assessori e il sindaco ci mettono la faccia per dire no alla violenza di genere [vedi].

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Indicazioni del percorso
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Scalone municipale
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Via Garibaldi
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Portici del mercato coperto
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Mercato coperto
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L’incontro
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Le istituzioni
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Le associazioni

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Le scarpe rosse

 

 

 

 

 

“In Italia secondo l’Eures, tra le donne c’è una vittima di femminicidio su tre, per questo siamo qui oggi, e nelle scuole, nelle associazioni, nei luoghi dello sport”, ha affermato l’assessore per le pari opportunità Annalisa Felletti.

“Non è sufficiente una trasformazione individuale, ma è necessaria una trasformazione collettiva”, ha detto il sindaco Tiziano Tagliani.

“Quelli che arrivano da noi non sono mostri, sono uomini normali, come quelli che incontri al bar o con cui esci a cena. Noi li aiutiamo a imparare a rispettare sé stessi e di conseguenza le donne che hanno accanto”, ha spiegato Michele Poli del Centro di ascolto uomini maltrattanti.

“L’unica cosa per rompere la catena, è rendere pubblico il fenomeno della violenza, noi siamo un centro pronto ad accogliere ogni richiesta di aiuto che arrivi da una donna”, ha esortato Paola Castagnotto del Centro Donna Giustizia.

In caso di violenza, subita o vista, si può chiedere aiuto e denunciare. Per sé, per le persone che ci stanno attorno, ed anche per quelle che non conosciamo.

Centro Donna Giustizia, via Terranuova n°12/b, Ferrara centro@donnagiustizia.it 0532 247 440 Numero telefonico unico “antiviolenza donna”: 1522. Numero verde contro la tratta: 800 290 290. Il servizio offre informazioni e consulenza a persone che si prostituiscono e alle vittime della tratta , agli operatori pubblici e privati e alla popolazione in generale.

Centro di ascolto uomini maltrattanti, viale Cavour 195 339 892 6550 ferraracam@gmail.com martedì 17 – 19,30 venerdì 10,30 – 13

Polizia di Stato: numero d’emergenza 113, Corso Ercole I d’Este 26, Ferrara 0532 294 311 urp.quest.fe@pecps.poliziadistato.it

Carabinieri: numero d’emergenza 112, via Del Campo 40, Ferrara 0532 6891 stfe522180@carabinieri.it

 

 

 

L’INTERVISTA
Il rapimento Moro: Gotor ‘E’ il momento di cedere il passo alla ricerca storica’

Dal rapimento e dalla morte di Aldo Moro sono trascorsi ormai 36 anni. In questo arco di tempo si sono svolte ben otto inchieste giudiziarie, con un non processo ancora in corso, e hanno lavorato due Commissioni di inchiesta parlamentare, dotate di poteri inquirenti, che hanno raccolto una gran mole di testimonianze e di documenti. Miguel Gotor, docente di Storia moderna all’Università degli studi di Torino, è il curatore di “Lettere dalla prigionia”, l’edizione critica delle missive scritte dal segretario della Dc durante il suo rapimento, e autore di “Memoriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l’anatomia del potere italiano”, entrambi editi Einaudi. Nella veste di senatore Pd è stato poi il relatore della legge che a maggio ha istituito una nuova commissione d’inchiesta sul caso Moro.

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Miguel Gotor

Nonostante ciò nel suo intervento al terzo appuntamento del ciclo “Passato Prossimo” [vedi] ha affermato che ormai è finito il tempo della giustizia e della politica, è arrivato il momento di cedere il passo alla ricerca storica. Abbiamo colto l’occasione per fargli alcune domande proprio sui temi della storia e della memoria sul caso Moro: “storia e memoria non devono essere identificati, sono due concetti diversi.
Se abbiamo coniato due termini così impegnativi, significa che come comunità umana siamo consapevoli che sono come i binari di un treno: corrono insieme, ma sono destinati a non incrociarsi mai, perché quando si incrociano il treno deraglia”.

Senatore, riguardo le prime ricostruzioni di quei 55 giorni cruciali per la storia italiana, lei ha parlato di una “dittatura della testimonianza” e di un Moro “prigioniero della memorialistica dei suoi carcerieri”…

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Lettera a Zaccagnini scritta da Aldo Moro durante la prigionia

È un doppio paradosso che mi ha spinto alla ricerca. Come cittadino ho notato che Moro continuava a essere prigioniero di due attitudini. La prima era quella della dietrologia, cioè un racconto sempre più fantastico, irrazionale, dove si mescolavano spesso anche in modo sapiente, cioè con finalità di depistaggio, il vero, il falso e il verosimile. Questo impediva e continua a impedire una ‘comprensione pacata’ di quella tragica vicenda e la ricostruzione di una verità storica credibile. La seconda era relativa appunto alla memorialistica: negli anni ’90 una serie di brigatisti protagonisti diretti del sequestro Moro iniziano a scrivere libri-interviste o libri di memorie, a me è sembrato che fosse come se giocassero al gatto con il topo. Essendo morto il testimone integrale di questa tragedia, cioè Moro, toccava in sorte ai suoi carnefici continuare a tenerlo prigioniero attraverso l’elaborazione di una memoria scivolosa, ambigua, reticente, in alcune parti anche falsa. Perciò mi sono detto che valeva la pena che la storia provasse a dire la sua.
C’è poi un altro tipo di prigionia: come spesso accade in Italia, si schiaccia la complessità del personaggio storico e politico sul racconto della “eccezionalità della sua morte”, come dimostra il fatto che gli studi sulla vita di Moro prima di quei terribili 55 giorni sono ancora in una fase embrionale.

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Aldo Moro

Sì, la conseguenza è stata una straordinaria rimozione del Moro che vive 62 anni da uomo libero e gli ultimi 55 giorni da prigioniero, perché non bisogna mai dimenticare la differenza di queste condizioni. Quei 55 giorni è come se continuassero a schiacciare la storia di uno dei più grandi protagonisti dell’Italia repubblicana, non solo sul piano politico, ma anche su quello della riflessione intellettuale e su quello della capacità di tenere insieme riflessione intellettuale e culturale e impegno politico, con una straordinaria attenzione a tutto ciò che di nuovo fermenta in una società tumultuosa come quella dell’Italia di quegli anni.

Giovanni De Luna nel suo volume “La Repubblica del dolore” ha parlato di ‘paradigma vittimario’, Lei condivide questa interpretazione della costruzione della narrazione memoriale in Italia, soprattutto per gli eventi del Secondo Dopoguerra?
Sì, è una riflessione molto interessante sul tema delle vittime che producono dei nuclei di pensiero che rischiano rendere più difficoltosa la conoscenza storica, ad esempio sui processi che le hanno rese tali. Il paradigma vittimario è come un gigantesco scoglio che si frappone fra la vita e la conoscenza, ma il navigatore lo deve saper affrontare perché è inevitabile: lo deve osservare con straordinaria attenzione per poi riuscire a circumnavigarlo. Nessuna vittima vive la sua vita pensando di essere tale, bisogna impegnarsi a ricostruire e comprendere il processo che le rende tali. C’è poi anche la questione che riguarda l’uso pubblico della storia: il paradigma vittimario in questo senso serve per forgiare una memoria condivisa e questa interessa moltissimo alla politica, ma riguarda la politica non la storia. Anzi il fascino della ricerca storica è proprio il riconoscimento dell’esistenza e della legittimità di memorie diverse e divise, per poi riuscire a formulare un giudizio storico unitario. È questo che fa crescere sul piano civile una comunità, non la melassa di una memoria condivisa pedagogicamente imposta.

Pochi eventi hanno potuto godere di una mobilitazione giudiziaria e politica come la vicenda Moro, lei oggi ha parlato della ricerca storica come unica strada ormai percorribile. Esiste un problema di fonti?
In questi 36 anni c’è stata una grande attenzione sia da parte della magistratura, si sta ancora svolgendo il nono processo, sia da parte della politica con diverse commissioni d’inchiesta. Secondo me la quantità della documentazione raccolta anche grazie a questo impegno è rilevante, se consideriamo che ci troviamo di fronte a un sequestro e un omicidio politico che è avvenuto mi verrebbe da dire ‘appena’ 36 anni fa, diverso è il discorso sul tema della qualità. Le carte, sul piano quantitativo, secondo me sono sufficienti per dare dignità storiografica a questa vicenda.

Con l’ultima domanda torniamo finalmente al presente. Lei ha descritto il progetto di cambiamento e di riformismo di Aldo Moro come il rafforzamento della democrazia “allargandola”. Il suo partito e il suo segretario secondo lei sono su questa linea?
Il cambiamento per il cambiamento in Italia rischia di essere una forma di gattopardismo. A me piacerebbe che quando parliamo di riforme e di cambiamento qualificassimo la direzione, la qualità, l’orientamento di quest’azione: ad esempio i diritti possono essere ristretti o allargati, è comunque un cambiamento, il punto è cosa dovrebbe fare una forza democratica, progressista, di centro-sinistra come il Partito Democratico. Mi piacerebbe che si uscisse da un’idea di Pd come grande contenitore indifferenziato, crocevia di tutte le correnti, perché il rischio è diventare due cose: luogo del consociativismo o luogo del trasformismo. Se il Pd si trasforma in un ricettore di queste due consolidate attitudini italiane, da fattore di cambiamento rischia di trasformarsi in un fattore di conservazione.

SETTIMO GIORNO
Viva il Po, il Colesterolo buono e il saluto a Max-media

IL COLESTEROLO BUONO – A volte mi capita di pensare anche guardando la televisione e questo non è bene, non pensare è la condizione ideale per accogliere le miriadi di immagini e di notizie che appaiono sul piccolo schermo, ma io sono un pessimo teledipendente e così, sfidando le orribili pene che vengono comminate a chi tenta di stravolgere le regole ferree della televisione-madre, penso. E stavo pensando due giorni fa quando improvvisamente in uno dei tanti sbrodolamenti politici mi appare, chi mi appare?, la Santanchè. Nooo, la Santanchè?, si la Santanchè, con la sua bocca larga da cui escono parole incontrollate ma, evidentemente, molto gradite ai capi, suoi e nostri, e dalla bocca larga sono uscite dichiarazioni degne non so di che cosa, ma, visto come l’ascoltavano i presenti alla trasmissione, dovevano essere degne di grande considerazione. Sintetizzando, ha detto che praticamente tutto quello che accade di male nel nostro Paese è causato dalle ideologie. Naturalmente dalle ideologie degli altri, dei suoi nemici. E allora no alla giustizia sociale, no a considerare tutti gli uomini uguali, no a trovare inammissibile che tutto l’oro del mondo sia nelle mani di uno sparuto gruppetto di ricchi assatanati. Queste sono le ideologie da eliminare, ma sono da corroborare quelle secondo le quali i ricchi devono essere ricchi, i poveri poveri, giusto che diventi ricco e potente chi è più forte, i deboli al massimo possono chiedere l’elemosina, queste sono le ideologie da santificare, sono, come direbbe un medico, il colesterolo buono della società. E vai, Santanchè!
VIVA IL PO – Viva il Po che non ha fatto come I suoi piccoli colleghi parmensi, genovasi, toscani, i quali presi da incontenibile boria e mania di grandezza sono usciti dagli argini, inondando case, fabbriche, distruggendo culture agricole. No, il Po si è comportato da grande fiume, è rimasto a braccia conserte nei suoi baluardi, smontando le ansiose attese dei colleghi tele-giornalisti, i quali erano lì, microfono in mano, a contare i centimetri che mancavano all’esondazione. Che scoop poter urlare in diretta che il grande fiume sta uscendo dagli argini, mancava soltanto che gli inviati litigassero apertamente tra loro e urlassero “il mio rischio è più grande del tuo!”, “la mia è vera esondazione” (inondazione è parola ormai arcaica) e, poi, con voce strozzata, riciclata dai telecronisti sportivo, “è gol, è gol, stupendo gol del Po!”. Niente, il fiume li ha fregati tutti, ha fatto passare, buono buono, le ondate di piena, incurante delle grida giornalistiche “ma ce n’è un’altra in arrivo, il rischio cresce!”.
MAX-MEDIA – E’ morto un mio vecchio compagno (mi si lasci usare ancora una volta questa parola prima che mi si secchi la gola). E’ morto in silenzio, era vissuto in silenzio, facendo traboccare soltanto la sua grande bontà. Il compagno Lino, Lino Malagutti, era stato un grande socialista, quand’era nella Cgil era stato mandato anche in Sicilia per tentare di aiutare le lotte degli operai, erano i tempi in cui i nobili e i signori di varia specie sovvenzionavano il banditismo (vedi Portella delle Ginestre) contro i lavoratori, con la benedizione di una Dc a cui Dio aveva già tolto il saluto. Con Lino, quando la sinistra italiana aveva cominciato a dar segni di scompenso intellettuale, avevamo gettato le fondamenta ferraresi di Rifondazione comunista. La follia ci colse una sera di freddo autunno in un locale del borgo San Luca, eravamo in quattro, Cavazza, Lino, io e un altro che non vorrei citare, eravamo colmi di vane speranze: una notte vera, mi dicevo. Ancora una volta sbagliavo. Ma con Lino continuammo nelle nostre sventurate lotte, poi, lentamente, ognuno ha preso la propria strada, forse non era la migliore. Ridevo con Lino quando diceva “tu che fai parte dei max-media…” e io “mass-media” e lui “no, Max era un nostro bravissimo compagno e quelli lì io li chiamo Max-media”. Grande Lino, hai finito di fare politica, ma, davvero, devi convincerti che non c’è più bisogno di bravi compagni. Ti saluto col pugno chiuso.

Tutta la luce che si può

Il suo nemico è Ulisse Ruiz, astuto, imbroglione seriale pronto a tutto. Lui di cognome fa Quondam che, in latino, significa un tempo indefinito. Stefano Quondam si trova a fare i conti con il suo tempo a disposizione destinato a finire troppo in fretta perché suo figlio Marco, adolescente, è affetto da progeria, una malattia che il tempo lo divora. Marco invecchia fisicamente di otto anni ogni anno. Una velocità contro natura e fin troppo misurabile, un tempo che ti si schiaccia addosso con tutta la sua pesantezza e non vola più leggero come dovrebbe essere a quell’età.
Che senso hanno avuto le corse e i traguardi di Quondam di fronte a un destino che mostra la fine poco più in là?
Il tempo per Marco si sta riducendo al lumicino, Quondam deve provare a espandere questa luce e farla diventare fiamma, bellezza e risposta alla paura di tutti e due. Quondam è un docente di letteratura greca e cerca questa risposta, assieme a Marco, in quel mondo, nei poeti lirici, in Omero e negli autori tragici che hanno saputo mettere l’uomo al centro di tutto: sentimenti umani, dolori, fughe, morte, paura, compassione. L’uomo di allora trovava se stesso in quelle liriche e vedeva se stesso rappresentato su quelle scene. Quondam sa che è ancora così, la natura umana è sempre la stessa, si vive ancora di umanità e ipocrisia, vendetta e disperazione, dolcezza e passione. Vuole lasciare un dono a Marco, “l’orgoglio di essere uomini e di vivere in questa rivelazione; perché non importa quanto si vive, ma con quanta luce dentro, senza rimpiangere e senza piangere”. Quondam legge al figlio Saffo, Alceo, Archiloco, Euripide e Omero e gli parla di Aiace, l’eroe che con coraggio percorse la sua strada di valore e con libertà si uccise.
Ma Marco chiede vita, non letteratura, chiede di non finire così presto. Quondam risponde che non può dargli cose, può solo insegnargli “la bellezza di vedere e di amare”, l’attenzione alla luce percependo il tempo attraverso le emozioni che lo possono dilatare e non nell’angoscia di uno scorrere troppo lento o troppo veloce che sia.
Dopo la morte di Marco, Quondam Aiace perderà la sua battaglia professionale con il collega Ulisse a cui è affidato un ruolo prestigioso, e come Aiace compirà la sua follia, il suo atto di coraggio e di rabbia contro tutti, preda di fantasmi, scambiando sogno e realtà.
E come è stato per Marco che, prima di morire, non ha avuto più paura, per Quondam arriva il momento di non avere più paura di vivere.

“Il mercante di luce”, Roberto Vecchioni, Einaudi, 2014

La sconcertante attualità di ‘Filumena Marturano’

STANDING OVATION: I PIU’ ACCLAMATI SPETTACOLI TEATRALI DEL XXI SECOLO
Filumena Marturano, regia di Cristina Pezzoli, Teatro Comunale di Ferrara, dal 6 al 10 dicembre 2000

Filumena Marturano è uno dei personaggi più straordinari di tutto il teatro italiano. Nata dalla penna del grande Eduardo De Filippo nell’aprile del 1945, Filumena rappresenta in qualche modo la donna-prototipo dell’emancipazione: quella autentica. E al femminile è la regia di questa nuova messa in scena allestita in occasione del centenario eduardiano: Cristina Pezzoli. La quale così commenta la propria rilettura: “Penso in primo luogo alla recitazione, ma anche allo spazio scenico e alla possibilità di sottrarlo ad un certo realismo, di provare a simbolizzare nella scenografia, con ‘leggerezza’, certi nuclei tematici profondi di scrittura: il ‘ring’ su cui si battono Filumena e Domenico assistiti dai loro ‘secondi’ Rosalia e Alfredo, nel primo atto; il ‘trasloco’ in cui incessantemente vagano tutti i personaggi del secondo atto, come se la casa perdesse la sua rassicurante identità per trasformarsi in un labirinto in cui nessun posto appartiene più per davvero a nessuno e dove non è possibile per nessuno fermarsi; l’happy end del terzo atto in cui si ricompongono, con pudore, i conflitti senza enfasi ma con struggente tenerezza e Filumena che corona con il matrimonio il suo sogno di “dignità”, come una buffa Cenerentola che arriva al ballo del principe con le scarpe nuove troppo strette”.
A distanza di molti decenni dal debutto, con l’indimenticabile Titina De Filippo nel ruolo della protagonista, la compagnia “Gli Ipocriti” ripropone il celebre dramma con l’interpretazione di Isa Danieli e Antonio Casagrande, attorniati da uno stuolo di comprimari di riguardo e assistiti per le scene e i costumi da Bruno Buonincontri, dalle luci di Cesare Accetta e con le musiche di Pasquale Scialò. Cristina Pezzoli ha il coraggio di allestirne una versione in qualche modo ‘tradizionale’, sebbene priva di vacue imitazioni e curandone quasi maniacalmente i particolari. “C’è ancora tanto da raccontare di questo testo, se si supera la “sindrome da confronto” che può originare solo il fantasma sterile e deleterio del tentativo di variazione virtuosistica”: afferma la regista di questa edizione del Centenario (della nascita di Eduardo De Filippo) di “Filumena Marturano”. Infatti, è impensabile porre termini di paragone.
Macchinose ma al contempo ingegnose ed efficaci le scene di Bruno Buonincontri, originali nel loro arrangiamento ‘contemporaneo’ le musiche di Pasquale Scialò, adeguate le luci di Cesare Accetta. Ma alla fine a spuntarla su tutto è lo strepitoso copione del grande Eduardo, un testo ancora di un’attualità sconcertante, denso di valori umani che oggigiorno, purtroppo, si ritrovano quasi solo a teatro.

L’EVENTO
Frost/Nixon: lo storico duello in scena al Teatro Comunale

di Michele Montanari

Da ieri sera a Ferrara Frost/Nixon, della compagnia Teatro dell’Elfo che celebra quest’anno i quarant’anni di attività. Nelle serate di oggi e domani è in replica al Teatro Comunale la trasposizione teatrale di uno dei più grandi eventi televisivi della storia contemporanea, segnato al suo acme, dall’ammissione di colpevolezza del dimissionario presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon.

Abbiamo intervistato Ferdinando Bruni, uno dei due registi, all’indomani del debutto ferrarese.

Quali sono state le spinte verso la produzione di un lavoro tanto rischioso in termini di grande pubblico?
Siamo stati colpiti e convinti dalla forza di questo testo teatrale di Peter Morgan. Un testo formidabile scritto da un uomo di cinema e televisione alla prima prova teatrale. Come è risaputo, da quel testo è scaturito il film di Ron Howard “Il duello” del 2008, con la sceneggiatura dello stesso Morgan. Abbiamo fatto diverse riflessioni sull’attualità e le analogie del lavoro dello sceneggiatore, rispetto al presente italiano, ferme restando, ovviamente, anche le inevitabili divergenze. Il testo originale comunque non è stato modificato in alcun modo, a parte sfumature di traduzione.

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Una scena

Siamo a metà degli anni ’70, quando il giornalista britannico James Frost decide di riscattare il proprio successo negli Stati Uniti, dopo essersi fatto conoscere nella sua Gran Bretagna e in Australia come brillante e spregiudicato anchor-man. Questo l’incipit della sua caccia a Nixon.
Frost, più incline alla satira che all’approfondimento, distante quindi dal mondo della politica, cerca indefessamente il grande scoop sulla testa di Richard Nixon, fiuta il colpo di scena, e alla fine riesce nell’intento, portando oltre 45milioni di persone davanti alle sue telecamere (ancora niente a confronto dei 400milioni di spettatori americani incollati allo schermo nel 1974 davanti alle dimissioni dello stesso Nixon). Frost aveva intuito bene che la televisione e il giornalismo d’inchiesta teletrasmesso in quegli anni di scandali e rivelazioni di intrighi presidenziali avrebbero assieme creato una miscela potentissima, capace di far sobbalzare l’intera opinione pubblica degli Stati Uniti.

A questo proposito, domandiamo a Bruni se si possa parlare di un lavoro che punta a sottolineare il potere della televisione sulla politica e se questo non abbia spaventato i due registi rispetto al senso di estraneità popolare nei confronti della politica.

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Ferdinando Bruni e Elio De Capitani

Sapevamo bene di indagare sul potere mediatico della televisione in un tempo come il nostro in cui si parla di colonizzazione dell’immaginario da parte della tv stessa, e allo stesso tempo di crescente disaffezione politica di tanti ormai pronti solo a seguire gli show personalistici di politici in passerella eccetera… Ma allo stesso tempo volevamo portare una tv lontana dentro un teatro contemporaneo, volevamo seguire un testo brillante e avvincente scritto da un uomo capace di mettere il cinema dentro al teatro, e soprattutto volevamo (e ci siamo riusciti) bucare la quarta parete convertendo il palco in uno studio televisivo allegorico, rivolto con le sue voci e i suoi sguardi alla “grande telecamera” rappresentata dal pubblico di fronte. Questa è stata la nostra sfida.
Il lavoro dell’Elfo aderisce fedelmente al fortunato testo di Morgan, ed è stato altrettanto efficace nel trasporre le famose interviste tra i due mattatori. Attraverso un forsennato montaggio di dialoghi e quadri teatrali, si ricompongono viaggi, traffici di denaro, telefonate, interviste, riuscendo a rendere in poco meno di due ore la densa serie di accadimenti che anticipano il momento clou della confessione.

Se Frost aveva scommesso tutto sul volano moltiplicatore del mezzo televisivo, non avete temuto che lo sguardo del pubblico a teatro non riuscisse a restituirgli la forza di quei lunghi round televisivi?
No, eravamo convinti ripeto della forza e dell’efficacia del testo su cui si lavorava. Con otto attori in scena, otto poltrone da ufficio semoventi, diversi monitor sparsi sul palco, siamo riusciti a restituire al pubblico un concentrato vivace e a tratti furioso di una vicenda umana e mediatica durata circa due anni di ricerche, spostamenti, studi televisivi e salotti privati.

Il risultato per lo spettacolo di Morgan fu un successo acclamato da Londra fino a Broadway con ben 137 rappresentazioni: anche l’Elfo ha raggiunto un simile traguardo?
Beh, quasi. Nelle due programmazioni siamo finora riusciti a superare le 100 repliche di Frost/Nixon e ne siamo molto contenti. Ieri sera, la prima qui a Ferrara è stata una riconferma della buona risposta del pubblico ad un lavoro comunque di matrice storico-sociale, per quanto il mestiere di chi fa teatro sia di umanizzare tutto, renderlo il più possibile immaginabile e fantastico assieme.

L’Elfo mette in scena un dramma incalzante e strepitoso, un congegno perfetto alla stregua di un thriller, disseminato da una serie di dettagli, di riferimenti storici spesso simboli e allegorie, per raccontare il potere e la sua farsesca manipolazione, la politica e la sua simbiosi con i mass-media. Non crede che oggi, la sovraesposizione mediatica dei politici sia l’ultimo baluardo della loro stessa credibilità, che la cura maniacale della loro immagine e della loro retorica (pensiamo al ruolo attuale degli spin doctor) sostituiscano ormai la loro credibilità morale o quantomeno politica in senso stretto?
Sì, credo sia così e lo vediamo ogni giorno proprio attraverso la tv e i suoi derivati. Ma questo era già vero negli anni ’60 e ’70, quando un Nixon meno esteticamente credibile di Kennedy, si trovò ad ammettere che la sua sconfitta alle presidenziali fosse stata in buona parte una questione di immagine, facendo anche riferimento (nello spettacolo, ndr) alle sue sopracciglia sudate.

Qualche passo indietro. L’evento mediatico messo in scena è datato 1977; una decina di anni prima il cineasta filosofo Guy Debord aveva coniato l’espressione “società dello spettacolo”, preannunciando la mistificazione di cui la televisione è stata padrona nei confronti dei rapporti sociali ed economici almeno sui nostri paralleli. Oggi si parla di società della comunicazione digitale, di sovraesposizione mediatica da parte dei politici in brillante agonia davanti alla fine della sovranità statale, ridotti a personaggi, continuamente parlanti, onnipresenti sui social, artefici di sempre nuovi e tecnologici storytelling (compresi i tweet, le perfomance ai talk show), insomma il potere politico pare declinarsi sempre più a potere della comunicazione, della narrazione.

Crede che questo passaggio sia stato preso in considerazione nella vostra messa in scena, forse attraverso l’allegorica schiera di monitor o l’implacabile e precisa retorica dei due protagonisti?
Certamente. Abbiamo cercato di attualizzare il più possibile l’incontro tra Nixon e Frost, comprimendo i tempi delle conversazioni, mantenendo un ritmo alto e quindi volutamente televisivo (per come lo intendiamo oggi… pensi che quelle interviste duravano in realtà oltre un’ora ciascuna).

Durante lo spettacolo convergono sul palcoscenico la forza ipnotica di quelle famose interviste e la cura del dettaglio espressivo-drammaturgico, dimostrando forse che i due luoghi dell’espressione e della narrazione (tv e teatro) non sono sempre così antitetici, ma anzi, il secondo può decontestualizzare il primo, riesumarne un episodio memorabile, drammatico e spettacolare ad un tempo. E’ così?
Sì, in questo lavoro si può dire che la televisione sia in scena con gli attori o meglio, la loro telegenia sia il più possibile e al meglio drammatizzata, quindi recepita per il suo effetto scenico più che per il suo originario (e sempre discutibile) compito informativo.

Si nota un grande lavoro di finitura su due protagonisti: Elio De Capitani nel ruolo di un Nixon, tratteggiato come caimano americano, divo di gomma tronfio ed egolalico, e Ferdinando Bruni, nei panni dell’ambiguo performer da talk-show, patinato, ex comico mondano e vanitoso, interessato forse più all’audience e al jet set che all’inchiesta vera e propria. Si ha quasi l’impressione che dei due a confronto, il teatro metta in maggior risalto il lato più mostruoso, l’abbietto.

E’ vero allora che a teatro i cattivi vincono sempre?
Forse è così fino a un certo punto. Il nostro Nixon è volutamente attualizzato e quindi enfatizzato, vince per un lungo lasso di tempo, conquista pubblico e stampa, ma alla fine perde e perde tutto.

Avete arricchito e deformato i due personaggi per attualizzarli ai nostri protagonisti della politica?
Abbiamo cercato di delineare il loro carattere sulla falsariga dei biechi potenti di casa nostra, forse più seducenti e smargiassi, ma anche più pacchiani rispetto al mondo anglosassone.

Durante la pièce sono molte le risate che risuonano in platea. Come ve lo spiegate rispetto a un’ipotesi di sconcerto o disgusto davanti allo spettacolo di una disfatta morale di un presidente?
Si sa, si ride sempre del dolore altrui e comunque, ripeto, questo è un testo che sa essere esilarante ed allo stesso tempo grottesco… sono spesso risate amare generate dai lunghi giri di parole di Nixon, le funamboliche digressioni, la sua infaticabile ars retorica (le viene in mente qualcuno?) che in ultimo lo rivela appunto ridicolo.

Si è parlato di effetto farsa dello spettacolo. E’ un effetto voluto?
La trama di questa storia si basa su situazioni e personaggi stravaganti, si mostrano eventi, storie e atmosfere di quei lontani anni ’70 declinate in modo certamente grottesco e irrazionale. Anche se la farsa è prevalentemente comica e il nostro lavoro non ha l’obiettivo della comicità, si può parlare di un dramma che si conclude in farsa.

Un’ultima domanda, in questa lunga tournée italiana avete notato differenti pubblici nelle diverse città italiane?
Solo a Roma, al teatro Argentina, ci siamo trovati davanti a un pubblico con molti rappresentanti politici… lì forse, qualche silenzio in più, lo abbiamo avvertito.

“Frost/Nixon”, prodotto da Teatro dell’Elfo e Teatro Stabile dell’Umbira, con Elio De Capitani/Ferdinando Bruni, regia di Elio De Capitani/Ferdinando Bruni.

Il caso Moro secondo Gotor

Miguel Gotor, protagonista del terzo appuntamento del ciclo “Passato Prossimo”, dedicato ai 55 giorni del rapimento di Aldo Moro, nella doppia veste di storico che ha dedicato alla vicenda due volumi, “Lettere dalla prigionia” e “Il memoriale della Repubblica” (entrambi editi Einaudi), e relatore al Senato della legge che ha istituito la terza Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro.

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La copertina de ‘Il memoria della Repubblica”

E’ in qualità di storico che risponde alla domanda del costituzionalista ferrarese Andrea Pugiotto sulle motivazioni che lo hanno spinto, lui storico moderno avvezzo alle storie di Papi, Santi ed eretici, a questa incursione nella storia contemporanea. Gotor si è definito “esperto degli anni ’70 del ‘500 e degli anni ’70 del ‘900”, spiegando poi che secondo lui esistono due tipi di storici “gli storici che credono al tempo e gli storici che credono ai problemi”: “Io appartengo a questa seconda genia” affezionata a “una problematicità che prescinde dal tempo cronologico”. Ad accomunare martiri ed eretici del ‘500 e la vicenda di Moro è, per Gotor, l’essere “morti carismatici, che con la propria morte violenta hanno testimoniato la moralità della propria vita”: “a me interessa studiare non tanto come gli uomini vivono ma come muoiono e come le comunità riflettono su queste morti, indagare la morte di un uomo e le sue ragioni per comprendere l’essenza della sua vita”. L’altro tema è quello del “come un potere controlla i testi”: il potere di censura dell’Inquisizione era un condizionamento paragonabile a quello che le Br esercitavano su Moro prigioniero. “Mi sono posto il problema della libertà di un autore” che è sempre condizionata “dai contesti, dalle situazioni, dai ruoli”.

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Copertina del libro “Lettere dalla prigionia”

Ed è ancora lo storico a illustrare le due principali chiavi interpretative della vicenda Moro: una è la “connotazione spionistico-informativa” del rapimento che porta a pensare che durante quei 55 giorni possano essere stati a rischio non solo la sicurezza nazionale, ma gli equilibri internazionali; l’altra è la sua peculiare natura non di “regicidio classico”, ma di vera e propria operazione di delegittimazione “della moralità del progetto di Moro”. Secondo Gotor il segretario della Dc aveva compreso sia che il sistema di governo era ormai in crisi, sia che il paese non era ancora pronto per l’alternanza, perciò “voleva provare a consolidare la democrazia italiana allargandola e facendo con i comunisti ciò che aveva già fatto con i socialisti negli anni ‘60”. Tale delegittimazione avviene, per Gotor, attraverso una “oculatissima operazione di comunicazione” volta a creare “un vero e proprio trauma: ‘non ci provate più!’ è il messaggio”.

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Miguel Gotor

È, invece, il senatore del Pd che risponde “imbarazzato” alla domanda sul perché dare vita a una nuova commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro. L’imbarazzo deriva sia dalla “evidente distonia di carattere politico fra mezzi e fini”, dato che la commissione dovrebbe lavorare con un budget di circa 14.000 euro l’anno per tre anni, ma anche dall’idea di fondo con cui ha scritto i due volumi: “dopo più di 30 anni è finito il tempo della magistratura e della politica, deve iniziare il tempo della storia”. È diventato “parte attiva di questa surrealtà” solo per modificare la proposta legislativa di alcuni deputati che avrebbero voluto “una commissione monocamerale” senza i senatori, “non perché credo che 36 anni dopo la qualità della nostra conoscenza possa aumentare grazie alla commissione”.
Non saprei dire se sia lo storico o il senatore o entrambi a lanciare l’ultimo lapidario giudizio sulla “patologia tutta italiana” che affligge i “rapporti fra cittadini, istituzioni, memoria e politica” e che sembra “far sparire dalla riflessione sul caso Moro le Br e il ‘partito armato’ per concentrarci su Dc e istituzioni. È come nella vicenda della trattativa, dove a scomparire totalmente dal radar pubblico civile sono i mafiosi”. A questo punto Gotor domanda: “a che interesse risponde ciò?”

LA RIFLESSIONE
L’aiuto: cercare il giusto incastro fra bisogni e disponibilità

Proseguirei l’analisi dei bisogni salienti della nostra comunità proponendo qualche altra occasione di volontariato nel vasto tema dei servizi alla Comunità a livello sociale, informativo, culturale, oltre a altri progetti. Bisogna allora aumentare l’area della responsabilità e sviluppare progettualità.
Mi sembra possa aiutare nella comprensione questo schema pensato dal grande storico ed economista professor Carlo Maria Cipolla di cui è famosa la frase “lo stupido è più pericoloso del bandito” e da me implementato posizionando una area della responsabilità in cui mi pare si possa individuare quella grande quantità di persone che sentono il bisogno di aiutare il prossimo anche quando questo significa sacrificio per sé stessi; non tutti per fortuna infatti agiscono solo quando ne possono avere dei vantaggi personali.
Ecco allora qualche altra possibilità di contributi volontari. In particolare nei servizi culturali e in quelli ambientali, aree che in questi ultimi anni hanno prodotto un ampio processo di trasformazione e che richiedono crescente attenzione e sensibilità collettiva.

Qualche esempio:
Educazione ambientale
Percorsi didattici e di approfondimento di tematiche ambientali da proporre a supporto della programmazione scolastica (I e II livello) ma anche presso strutture varie di cultura e di apprendimento. Possibilità di riunioni ed incontri di coinvolgimento presso circoscrizioni e altre istituzioni territoriali (aree protette, parchi, etc) per sensibilizzazione nei diversi temi della sostenibilità (ambiente, salute, mobilità, partecipazione e alimentazione).

Raccolte differenziate
Informazione e coinvolgimento dei consumatori per adeguarne il comportamento e gli atteggiamenti alle esigenze di prevenzione della produzione di rifiuti da imballaggio e partecipazione alle iniziative di recupero e riciclaggio. Lo sviluppo delle raccolte differenziate è uno dei principali temi per dare una reale svolta al difficile tema dei rifiuti, ma è anche uno degli elementi di maggiore criticità. E’ sicuramente cresciuto il livello di sensibilizzazione e di informazione, ma non basta. Bisogna migliorare i criteri di trasparenza e di corretta informazione ai cittadini nello sviluppo del riciclo, rafforzando utili sistemi di raccolta porta a porta, magari sostenendo il controllo della qualità del materiale raccolto, legandolo a verifiche di impurità e scarto, effettuando analisi di andamento nel tempo e miglioramento in continuo, analisi variabilità dei risultati tra territori, etc. Si tratta di attività a supporto del sistema di gestione, ma anche di una collaborazione più stretta tra gestore e cittadini.

Mercato last minute
Promozione di servizi sociali (soprattutto per derrate alimentari) ed iniziative di Last minute market per solidarietà e “spreco utile”. Un tema molto importante è quello relativo agli alimenti non più commercializzabili ma ancora commestibili che possono essere recuperati. Es. i pasti non consumati nelle mense (scolastiche e aziendali), le derrate alimentari non più vendibili negli ipermercati, gli scarti derivanti dalla ristorazione, gli scarti di produzione dell’industria agroalimentare. Si tratta di valorizzare il “banco alimentare” che recupera da supermercati cibi prossimi alla scadenza o non commercializzabili per altre ragioni, ma ancora perfettamente utilizzabili perchè perfettamente commestibili e dunque utili ad una distribuzione per meno abbienti.

Vigilanza sui servizi ambientali
Organizzare una rete di rilevatori per controllo territoriale. Funzioni di prevenzione e di accertamento delle violazioni, ruolo ispettivo a supporto. Si tratta di dare risposte qualificate a richieste specifiche delle Istituzioni. Deve essere garantito un codice etico che risponda a criteri, vincoli e principi predefiniti e concordati.

Affido di territori e quartieri
Crescono le esigenze dei territori nelle città (quartieri, contrade, strade commerciali, centri, etc) e aumentano le giuste esigenze dei cittadini nei confronti delle aree e dei territori che frequentano. Serve dunque garantire un livello di qualità sistematica e di un costante e continuativo strumento di vigilanza per rilevare le carenze e supportare i programmi di salvaguardia delle aree. Si pensa in generale alla pulizia del suolo, alla igienicità dei cassonetti, ai cestini, alla fruibilità di parchi e giardini, alla illuminazione pubblica, alle perdite d’acqua, alle infrastrutture presenti, alla segnaletica, ai cartelloni pubblicitari. Tale servizio di vigilanza può essere attuato per mezzo di un “affido” convenzionato con uno specifico gruppo di persone selezionate che svolgono il presidio costante e comunicano, autorizzati, tutte le segnalazioni. Nella recente riforma dei decreti del governo sono anche previsti possibili sgravi sulla tassa dei servizi a corrispettivo di servizi ambientali erogati.

Manutenzioni di “cose”
La cura di un anziano, la sua esperienza nel riparare, il rispetto delle cose, etc sono valori che nella società dell’usa e getta si stanno purtroppo perdendo. Ritrovare il valore delle cose e dunque la filosofia del recuperare può trovare valide soluzioni in questo contesto. Quanti oggetti rotti vorremmo recuperare per ricordo, per utilità, per valore e non sappiamo a chi rivolgerci. Pensiamo ad un orologio, magari a pendolo, ad un vaso di ceramica rotto, ad un utensile, ad un attrezzo domestico, etc. L’idea è di creare una officina di aggiustaggio dove recuperare le “cose”.

Infine vorrei ricordare un servizio che viene con grande impegno svolto dalla Auser di Ferrara e che mi chiedo senza il suo contributo cosa ne sarebbe delle nostre tante e belle strutture culturali:

Custodia mostre e musei
Assistenza nella fruizione dei patrimoni museali, garantendo la vigilanza e la custodia delle opere all’interno degli spazi espositivi, gestendo i flussi di accesso, fornire informazioni e assistenza alla visita. Inoltre si potrebbe offrire un sistema integrato di servizi: dalla gestione della biglietteria e bookshop alla guardiania e custodia diurna, dalle visite guidate alla realizzazione di laboratori didattici, al supporto logistico per trasporti e allestimenti.

Gestione biblioteche
Supporto al Sistema Bibliotecario delle Istituzioni per favorire il coordinamento delle attività di gestione e di archiviazione in un sistema a rete d’offerta culturale. Tale servizio potrebbe anche essere ampliato per operare meglio nella organizzazione con competenze relative alla biblioteconomia, bibliografia, archivistica, documentazione e materie correlate. Chi lavora a supporto volontario in biblioteca, a mio avviso, potrebbe essere un prezioso supporto se ha competenze in materia di organizzazione e gestione dei servizi, catalogazione, utilizzo degli applicativi specifici, gestione dell’informazione cartacea ed elettronica. Sarebbe utile collaborare nel pianificare le diverse attività, conoscere le sezioni della biblioteca, conoscere i documenti ed i sistemi di catalogazione, saper inserire i dati e gestire i servizi attraverso il software, essere in grado di promuovere i servizi.

Sono certo che molte persone possono, meglio di me, offrire contributi e soluzioni di merito. Nel vastissimo tema della cultura in generale io penso si possa arricchire la voglia di apprendere, conoscere. Si tratta di una esigenza crescente di molte persone che non ne hanno avuto il tempo e che desiderano ora imparare. Si possono sviluppare infatti interessi al di fuori della scuola, per scelta personale e senza arrivare agli impegni della università della terza età. Tenere attiva la voglia di sapere è un importante stimolo intellettuale. Alcune aree di interesse possono essere le seguenti:
a. Lezioni Arte, letteratura, storia, filosofia, etc
b. Corsi Culinari, giardinaggio, faidate, fotografia, pittura, etc
c. Ai mestieri artigiani (salvaguardia dei vecchi mestirei)
d. Laboratori lingua italiana (agli stranieri, ai turisti)
e. Supporti informatici di base (per anziani)

E molto altro ancora.

Bella e misteriosa Betty, fotografie di un’anima persa

Abbiamo recentemente recensito la Betty di Simenon [vedi], prima dell’omonimo romanzo di Roberto Cotroneo. Avevo acquistato il libricino dell’autore francese all’aeroporto romano Leonardo da Vinci. Conoscendo già l’origine credevo, dunque,di essere pronta al nuovo libro di un autore che ho sempre seguito e ammirato. Mi piace come scrive Roberto (anche se lui non vuole mai che si dica che un libro “è bello”…), la forza e l’energia che getta fulmineo alle pagine accarezzate dal vento e dalla voglia di svelare un mondo interiore complesso ma ricco ed estremamente sensibile. Una vera e propria calamita per me, per il mio modo di essere, di leggere, di scrivere e di vivere in completa empatia con i personaggi di un romanzo che, di solito, fatico a salutare alla fine di ogni storia. Se mi sono piaciuti, mi congedo da loro con estrema difficoltà, li tengo per mano fino all’ultima riga, magari rileggo le ultime pagine per salutarli ancora. E quando chiudo il libro sono sempre un po’ triste. Prima che uscisse in libreria, avevo aspettato trepidante il libro di Cotroneo.
Sinceramente, la Betty di Simenon mi aveva lasciato un po’ di amaro in bocca, questa volta mi ero congedata quasi volentieri da un personaggio difficile, criptico, scomodo e per certi versi tetro e un po’ angosciante. Volevo, allora, vedere cosa sarebbe rimasto di lei nel nuovo romanzo di questo noto scrittore piemontese. Direi, oltre al nome, molte caratteristiche principali della protagonista simenoniana, nella sua personale e infinita tragedia di vita, nelle sue profonde cicatrici e nel suo destino ciecamente ferito. Ma qui c’è molto di più. Quella giovane e bella donna misteriosa che scompare improvvisamente a Porquerolles, l’isola dove il vecchio e malato Simenon passa qualche settimana di vacanza, ci fa entrare, ancora una volta, nel mondo dei perdenti, delle esistenze segnate, sofferenti e buie, nell’abisso dell’animo umano, nella disperazione e quasi nella follia, ma lo fa come se fossimo in un quadro monocromatico o in una fotografia. Mi colpiscono, infatti, i frequenti richiami alla fotografia, che ci proiettano nel suo mondo. Immagini in bianco e nero di Betty scattate dal fotografo del paese, Marc, perché Simenon vuole il racconto di un’anima, e le anime non sono a colori, ma sono fatte di sfumature su una sola tonalità, bianca, nera o grigia. Perché Simenon ricorda che la gente pensa che le fotografie aggiungano qualcosa a ciò che vediamo, perché le prime foto scattate sono quelle prese sulla piazza dell’isola, dove le rughe in bianco e nero di uomini anziani, uomini seduti, sembrano le linee di carte geografiche, ove le tonalità di grigio sono sfumature di vita. Qui scrittore e scrittura sono soci, uno di minoranza e uno di maggioranza, uno scrittore anziano che ritrova l’intensità. L’escamotage iniziale del manoscritto ritrovato fa immedesimare ancora di più lettore, scrittore, protagonisti, tutto si mescola, tutti sono tutti, nessuno salva nessuno, tutto si confonde. Perché lo scrittore-personaggio-protagonista, alla fine, non ha “più la forza di aggiungere una sola parola a questo scritto”… come se si portasse “addosso le ferite di tutte le donne non comprese”. Perché, alla fine, “quella che chiamiamo vita non è altro che un collage di ricordi di qualcun altro. Con la morte, quel collage si disfa e ci ritroviamo con frammenti slegati, casuali, cocci o, se si vuole, istantanee”. Quelle fotografie di Marc che l’improvvisato Maigret, trovatosi suo malgrado coinvolto nella scomparsa della bella Betty, non vuole più vedere, perché “tutto è là, nel dolore degli occhi grigi di quella donna. E, conclude… nelle ferite di tutte le donne che non sono stato capace di capire e di sentire. Tutto è in quegli occhi grigi di un mondo indifeso che non sono riuscito a salvare”. La fotografia, il bianco e nero, il grigio, ossia la tonalità delle anime perse.

Roberto Cotroneo, “Betty”, Bompiani, 2013, pp. 188

IL FATTO
Notizie recenti dell’occupazione tedesca nel ferrarese

La conferenza tenuta ieri mattina nell’aula didattica Alfonso I del Castello Estense dagli storici Davide Guarnieri e Andrea Rossi per gli studenti delle classi quarte e quinte del Liceo Sociale Carducci è la dimostrazione di quanto ci sia ancora da scoprire e da studiare negli archivi italiani e non solo. Guarnieri, che da molto tempo ormai si occupa delle vicende del ferrarese durante la Seconda guerra mondiale, e Rossi, che è uno storico militare, hanno illustrato ai ragazzi e a tutti i presenti il periodo dell’occupazione tedesca nel territorio ferrarese e le sue caratteristiche, sottolineando come per molti versi si tratti di acquisizioni e di notizie abbastanza recenti: fino a pochi anni fa “non avremmo potuto dirvi molte delle cose che state sentendo”, ha specificato Rossi.
Per esempio è stata a lungo un’opinione diffusa che fra ’43 e ’45 nelle zone occupate le violenze sommarie e gli arresti venissero compiuti dalle truppe occupanti tedeschi e in molti casi è stato così: come dimenticare i tanti episodi sull’Appenino tosco-emiliano, da Sant’Anna a Montesole, o ancora la strage di Meina sul versante piemontese del Lago Maggiore. Non è stato così nel ferrarese, qui si contano solo due episodi in cui a operare furono direttamente le truppe occupanti: l’eccidio del Caffè del Doro, il 17 novembre 1944, e la precedente ritorsione di Filo di Argenta, l’8 di settembre, per vendicare la morte di un soldato tedesco. Tutte le altre azioni nel nostro territorio furono condotte da italiani contro italiani, spesso ferraresi da entrambe le parti, e anche tutti i cittadini ferraresi di origine ebraica furono arrestati da italiani. Tanto che “una percentuale così alta di azioni italiane rispetto a quelle tedesche credo non ci sia in nessuna altra provincia”, ha ipotizzato Davide Guarnieri. Per citare un episodio concreto: nel dicembre 1944, come ritorsione per un’azione di un gruppo di partigiani, a Codigoro e nelle zone circostanti furono arrestate fra le 250 e le 280, tutti i fermi furono fatti da fascisti appartenenti alle brigate nere o alla milizia repubblichina.
È curioso anche come molti ignorino che il Castello di Mesola fu “il perno per controllare l’area dall’Adige fino alla Linea Gotica”: attraversato dal Po e con accesso diretto al mare, il ferrarese era una posizione strategica fondamentale e doveva essere difesa da possibili sbarchi alleati. Il Castello di Mesola, sede del 676° battaglione al comando del Maggiore Saggau, fu anche il luogo dove i militi repubblichini veneti e ferraresi si scambiarono i prigionieri e spesso li torturarono, come avvenne a Walter Teggi. Anche la Caserma di via Bevilacqua o il Carcere di Piangipane, i principali luoghi di tortura e di violenza nella città di Ferrara, erano strutture italiane. Dunque se, come ha affermato Andrea Rossi, “quello che i tedeschi volevano per questa zona era la tranquillità” per poter svolgere “in maniera organizzata lo sfruttamento economico” del territorio, è anche vero che non importava come questa tranquillità venisse raggiunta.
La cosa forse più sorprendente, però, riguarda l’ultima fase dell’occupazione tedesca, quando alla fine del 1944 la linea del fronte passava sul Sennio, e quindi Ferrara e il suo territorio si trovavano nell’immediata retrovia. Oltre ad essere il momento di maggiore presenza dei tedeschi nel ferrarese, Rossi e Guarnieri, analizzando le carte del Bundesarchiv-Militärarchiv di Friburgo, hanno scoperto una cartina militare che mostra come, dall’autunno 1944 alla primavera 1945, il comando di tutte le truppe della decima armata e del territorio compreso fra Comacchio e Bologna si trovava a Sabbioncello San Vittore. “È incredibile come di questo non sia rimasta praticamente traccia nella memoria della popolazione”, hanno sottolineato i due storici.