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Stefano Tassinari: riflessi di utopie

Il compianto Stefano Tassinari è altro nome nel panorama letterario ferrarese a suo tempo, ma giustamente nella memoria ancora recentissima, sia rilevante che noto nel panorama italiano ed intellettuale, almeno di certa area politico/culturale. Tra le sue diverse opere: “Riflesso di ruggine” (Cooperativa Charlie Chaplin, 1980), “All’idea che sopraggiunge”, (Corpo 10, 1987), “Ai soli distanti” (Moby Dick, 1984), “Assalti al cielo. Romanzo per quadri” (Calderini, 1998), Perdisa (2000), per i caratteri di Marco Tropea Editore “L’ora del ritorno” (2001), “I segni sulla pelle (2003), “L’amore degli insorti” (2005), “Il vento contro” (2008), “D’altri tempi” (Alegre, 2011).
Come ad esempio G. Testa e M. Felloni, quello di Tassinari è sempre stato un fare parola e fare scrittura di cifra moderna e socialmente impegnata, secondo un certo ‘c’era una volta’ squisitamente utopico. Va da sé, come per D. Marani, un certo stile o anti-stile prossimo alla sperimentazione sul linguaggio in Tassinari del post Gruppo 63: nel primo come mutazione estetica, nel secondo come consapevole destrutturazione della parola coercitiva e autoritaria, secondo certa ideologia sempre sottostante la narrazione di Tassinari.
Operazione quest’ultima, certamente non facile, storicamente si sa poi quasi implosa, ma in Tassinari, pur senza mai velleità alla Carmelo Bene o lo stesso Giorgio Gaber, ma sia ben chiaro pertinenti in queste figure specchio, d’altro medium d’arte, ben digitata… in circuiti e logiche del senso utopiche e poco militanti, nonostante apparenze appunto apparenti. In tal senso, la penna di Tassinari, un poco, relativamente ovvio, come il Lenin di Majakovskij (destinato ad azzerare quasi il memo storico ed estrarre per l’avvenire soprattutto la dinamica poetico-rivoluzionaria) è destinata nell’avvenire presente alle sue impronte durature più affascinanti.
Più nello specifico, è stato anche giornalista (Il Manifesto, Liberazione ecc., anche per testate estere), animatore culturale (a suo tempo curò e diresse la rivista Luci della Città e in seguito Letteraria), art director di rassegne letterarie quali “La parola immaginata” e “Ritagli di tempo” (Itc Teatro di San Lazzaro), autore di documentari in Italia e all’estero (Nicaragua, Spagna, ex Jugoslavia, ecc.). Autore anche di programmi radiofonici per Rai radio 3 e testi teatrali, ha collaborato con numerosi scrittori, registi, attori, artisti italiani e stranieri: tra essi, Leo Gullotta, Ottavia Piccolo, Carlo Lucarelli, Massimo Carlotto, Silvano Piccardi, Antonio Catania Renato Carpentieri, Marcello Fois, Mauro Pagani, Patrizio Fariselli, Luca Gavagna e Dario Berveglieri

Per saperne di più visita le pagine dedicate a Stefano Tassinari su Wikipedia [leggi]

*da Roby Guerra, Dizionario della letteratura ferrarese contemporanea (Este Edition-La Carmelina, ebook, 2012)

Foto in evidenza di Paolo Righi / Meridiana Immagini (Archivio Coop Adriatica)

Finalmente alle radici dell’Albero le decorazioni nascondono le transenne

Sotto l’albero di Natale c’è una gradita sorpresa che molti ferraresi hanno già apprezzato. Il nostro verificatore lo scorso gennaio [leggi] aveva lamentato come ancora una volta l’emblema natalizio fosse cinto da orribili transenne zincate con tanto di segnaletica bianca e rossa ed emblemi dell’ufficio lavori pubblici del Comune. Finalmente quest’anno è successo il miracolo: le transenne (per ragioni di sicurezza) ci sono ancora, ma sono state celate con discrezione da simpatiche e colorate decorazioni di una stilizzata e pacifica colomba. Un omaggio al buongusto che dimostra come spesso volere sia davvero anche potere. Molte brutture si possono facilmente eliminare. Basta tenere vigile l’attenzione, usare un pizzico di fantasia e gettare la zavorra della pigrizia: quella mentale è addirittura peggio di quella fisica. Questa volta è successo. Evviva.

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IL FATTO
Singolar disfida pubblicitaria fra le pretendenti a Carife

Compare la pubblicità in pieno centro storico. Fatto nuovo, inusitato. E non si tratta di pubblicità qualsiasi. A fronteggiarsi fra duomo e palazzo municipale sono Banca Popolare di Vicenza e Cassa di Risparmio di Cento. Si tratta dei due istituti bancari che da mesi stanno conducendo manovre finalizzate all’acquisto della Cassa di Risparmio di Ferrara. Il logo dei vicentini compare nello striscione posto sulle transenne ai piedi dell’albero di Natale che sta fra la cattedrale e il Listone. Caricento ha invece posizionato un proprio pannello fra il Volto del Cavallo e l’edicola dei giornali, davanti alla farmacia Perelli. Nelle prossime settimane ci saranno le cariche decisive e gli stati maggiori si preparano.
I due “segnaposto” stanno lì “a marcare il territorio”. Sono praticamente l’uno dinanzi all’altro. E si scrutano. In cagnesco.

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Il desiderio di tutte le donne: una pancia piatta

Quando il grasso si concentra intorno ai fianchi non è poi semplice da eliminare. Ma i rimedi ci sono. Nessuna dieta drastica né soluzioni miracolose, per avere una pancia piatta e tonica bisogna seguire una serie di consigli che essenzialmente puntano a: ridurre l’apporto calorico (moderare il cibo, favorire i cibi ipocalorici e bere molta acqua), fare maggiore attività fisica di tipo aerobico (camminare); fare esercizi regolari che coinvolgano i muscoli della fascia addominale, in quanto gli addominali tonici svolgono la funzione di ‘panciera naturale’.

1) Prima di alzarsi, meditare qualche minuito e decidere quando ritagliarsi mezz’ora tutta per sé durante la giornata.
2) Curare la postura facendo qualche esercizio di stretching prima di iniziare la giornata. L’ideale? 10 minuti di allungamento.
3) Per colazione, niente abbuffate ma nemmeno un caffè e via: si consigliano frutta e cereali.
4) Mangiare frutta ma sempre lontanissimo dai pasti principali.
5) Se siete intolleranti al lattosio, evitate latte e latticini in genere.
6) Dite no alle bibite gassate.
7) Fondamentale rispettare la regola dei tre pasti (colazione, pranzo e cena) e due spuntini al giorno.
8) Mangiare frutta di stagione e verdura bio: sono ricche di fibre che aumentano il senso di sazietà e aiutano la regolarità intestinale.

Un ulteriore metodo efficace per eliminare i gas in eccesso e per contrastare la loro formazione è quello di assumere compresse di carbone vegetale che ha la capacità di assorbire velocemente i gas indesiderati. È possibile anche prendere l’abitudine di mangiare, meglio se a inizio pasto, una bella porzione di finocchi freschi, l’antigas per eccellenza, che oltre ad evitare la formazione dei gas intestinali, sono particolarmente sazianti e quindi aiutano anche a perdere i chili di troppo.

Di seguito un esercizio semplice da fare prima di coricarsi e appena svegli: prendere un bastone di scopa, appoggiarlo alle spalle e sedersi sul bordo del letto; tenendo lo sguardo ben fisso in avanti, iniziare a ruotare il torso a destra e a sinistra per almeno 5 minuti. È il miglior esercizio per tonificare i muscoli che servono a ‘contenere’ la pancia. Non è per nulla faticoso e i risultati si vedono entro un paio di giorni.

E’ consigliato anche ricordarsi di mantenere una posizione eretta anche quando si sta seduti alla scrivania per lavorare. Mantenere dritta la schiena aiuta notevolmente perché favorisce una corretta postura che giova al sistema muscolo-scheletrico, e poi perché accresce la consapevolezza o se vogliamo la percezione della propria altezza.

Per finire, è consigliato dedicare un po’ di tempo agli addominali; l’allenamento per gli addominali può essere fatto anche in casa, se non si è iscritti in palestra, ma va svolto almeno tre volte la settimana.

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Filastrocca del naTale e Quale

Filastrocca del naTale e Quale
tutto cambia ma rimane uguale.
Cambiano i visi e cambian le facce,
poi rimangon fermi come minacce.
Ripetono: state tranquilli e così sia,
ma si sente che manca la fantasia;
quella di guardare un po’ più lontano
cercando un futuro a portata di mano.
Bisogna guardar in una direzione:
dove vengono prima le persone.
Ci sarebbe bisogno di gente capace
di immaginare in maniera efficace,
di rovesciare con modo indignato,
‘sto misero presente addomesticato.
Non c’è bisogno di giocare a inventare
basta divertirsi a inventar per giocare.
Se Renzi fosse davvero Babbo Natale
non mi aspetterei un domani speciale,
perché se avesse robusta Costituzione
non avrebbe patteggiato col Berluscone.
Se ascoltasse facendo poco chiasso,
forse, apparirebbe meno smargiasso.
Se si preoccupasse della precarietà
avrebbe pensato a un’altra stabilità.
Poi son sicuro che con le larghe intese
tanti altri lo spediranno a quel paese.
Lo so che una filastrocca non è realtà
ma ditemi voi: altrimenti come si fa?
E poi, se foste al mio posto, cosa fareste?
Io augurerei a tutti voi: Buone Teste!!!

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L’OPINIONE
La musica è sacra

Domenica 21 dicembre, nei pressi del Museo Archeologico a Palazzo di Ludovico il Moro, un trambusto di macchine e biciclette rendeva la via animata, una via di solito tranquilla e regale come i palazzi e le chiese che l’attorniano. Era annunciato il Concerto di Natale voluto dalla Sovrintendenza per i beni archeologici dell’Emilia Romagna dalla Direzione regionale per i Beni culturali dell’Emilia Romagna, ma soprattutto dall’appassionato lavoro di Caterina Cornelio direttrice del Museo.

Come al solito, l’organizzazione era affidata a Bal’Danza la benemerita associazione che con il suo lavoro ci porta fuori dalle mura cittadine. Ma il concerto annunciato si preannuncia come uno “scandalo”. E’ la “Misa a Buenos Aires” (Misa Tango) di Martin Palmeri, anticipata da quattro Milonghe di Astor Piazzolla di carattere sacro.
Ma come? La musica e le voci più sensuali e laiche del nostro tempo vengono accoppiate alla perfezione della parola sacra? L’audacia della proposta si fonde e si confonde nell’aria, con l’’aura’ dell’immenso e perfetto salone del palazzo rinascimentale ornato da imponenti crateri spinetici che esaltano divinità altre. Non cristiane: ombre di un’esigenza che affonda le sue radici nella pretesa umana di andare oltre il contingente e di riaffermare con la bellezza l’origine divina della nostra umanità.
E questo concerto ben si conforma alla volontà di papa Francesco venuto dalla fine del mondo, quella “finis terrae” da cui emergono i fantasmi dell’Ulisse dantesco e dei tanti eroi che osarono mettersi in gioco per portare al mondo una prova del divino, di testimoniarne la bellezza come attributo di Dio. Ben lo comprese Montale in “Verso Finistere” rivolgendosi alla sua donna “Forse non ho altra prova/ che Dio mi vede e che le tue pupille/ d’acquamarina guardano per lui”. Così il premio Nobel argentino Jorge Luis Borges, l’Omero cieco della tradizione tanghera, colui che al tango affida il senso di un carattere nazionale che ha fatto degli argentini un popolo, scrive nel suo poema “El Tango”: “Il tango è un linguaggio in cui convivono tragedia, malinconia, ironia, amore, gelosia, ricordi, il barrio amato, la madre, pene e allegria, odore di bordelli e di attaccabrighe.”
E per i settant’anni del Papa migliaia di argentini l’hanno festeggiato tra via della Conciliazione e Piazza San Pietro ballando il tango. Il tango, scrive ancora Borges “trasgredisce e lì sta la sua attrattiva. In questa sensazione di libertà che accende tutti i tipi d’emozione”.

La “Misa a Buenos Aires” è recente. Composta tra il 1995 e il ’96 da Martin Palmeri, accosta in modo assai originale lo stile del tango al testo sacro latino.
Entrano prima i musicisti: Cristina Bilotti al pianoforte, Roberto Rubini al contrabasso, Massimiliano Pitocco al bandoneon, quella particolare forma di fisarmonica di legno tipica della tradizione argentina. Poi le voci del coro precedute dal direttore Stefano Sintoni. Si chiamano Ludus Vocalis e sono una recente formazione ravennate costituitasi in Associazione corale nel 2006. Tutte le donne portano una rosa rossa, chi al collo fermata da un nastro di velluto chi tra i capelli o sulla spalla. Tra gli uomini s’intravvedono ragazzi africani e asiatici.
Il contrabbassista si sistema su uno sgabello alto e il suo strumento esibisce una fiera testa di leone in legno; la pianista accarezza il pianoforte e il suonatore di bandoneon si accoccola su uno sgabellino ai piedi dei coristi e appoggia lo strumento alle gambe ordinatamente e disciplinatamente serrate. Poi ecco diffondersi le note inconfondibili del tango. Il suonatore di bandoneon – che si rivela poi essere professore di fisarmonica all’Accademia di Santa Cecilia a Roma, una delle rarissime cattedre di questo strumento – si concentra. Come un bambino, il labbro inferiore è stretto tra i denti nell’intensità di rendere il suono e all’unisono le gambe scattano a sottolineare e rendere più profondo il grido del bandoneon.

Così si diffondono nel silenzio stupefatto le parole del Kyrie, del Gloria, del Credo, del Sanctus-Benedictus fino all’Agnus dei e si raggiunge così quella “sensazione di libertà che accende tutti i tipi d’emozione” di cui poetava Borges.
Si dimenticano così rancori e barriere, invidie e umori neri. La “Melencolia” düreriana lascia il posto all’infinita libertà dello spirito, al coraggio di sentirsi finalmente uomini. Non importa se la musica non sia una vetta musicale; importa che una voce, la voce del popolo, di un popolo esprima questa ansia di assoluto, accompagnando come una carezza le parole divine che escono dalle voci maschie di chi sa quali gauchos mentre la voce del soprano, Elena Sereni, invoca fino a spengersi in un sussurro la pace invocata e continuamente negata.

Che straordinario spettacolo! Resta di fronte a questa libertà di pensiero un unico rammarico. Perché ancora oggi nelle chiese non si può eseguire musica profana e solo musica sacra.

Non è tutta la musica sacra?

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LA SEGNALAZIONE
Il Natale Fuoriporta è a Greccio

dalla redazione di Fuoriporta

Edificato su speroni di roccia, in una posizione che sembra impossibile, Greccio è uno dei borghi più suggestivi di tutto il Lazio. Un luogo intriso di storia e spiritualità, se si pensa che in questo paese della provincia di Rieti fu creato il primo Presepe al mondo che, unico e inimitabile, spegne quest’anno 791 candeline. Nel lontano 1223 San Francesco, dopo un viaggio in Palestina, decise di ricostruire con persone e animali del tempo le scene della Natività di Betlemme. E così il frate di Assisi e il nobile signore di Greccio Giovanni Velita realizzarono la rievocazione della nascita di Gesù, ovvero il primo presepe della storia, che nei secoli successivi è stato replicato in tutte le case del mondo.
Ogni anno, come per magia, questo borgo in provincia di Rieti rinnova la tradizione e fa rivivere più di ogni altro luogo l’atmosfera del Natale: ma il 791esimo anniversario andava celebrato a dovere, e così l’edizione 2014-2015 si annuncia ancora più straordinaria del solito. Il 24, 26, 27 e 28 dicembre, e ancora il 1, 3, 4 e 6 gennaio, i visitatori provenienti da ogni parte d’Italia potranno ammirare la sceneggiatura rivisitata, ascoltare le nuove musiche e lasciarsi incantare dal rinnovato e spettacolare impianto di luci; a fare il resto sarà la consueta bellezza del luogo, la sua natura incontaminata, la fedeltà delle scene e dei costumi, la bravura e la devozione degli interpreti. Ma il ricco programma prevede anche mostre fotografiche, convegni, esposizioni di presepi artistici, mostre di pittura e gli immancabili mercatini natalizi.
Il Presepe di Greccio costituisce un momento di profonda fede cristiana e allo stesso tempo uno spettacolo unico al mondo. C’è infatti un filo indelebile che lega questo luogo a Betlemme: in Palestina si operò il mistero della divina incarnazione di Gesù, mentre a Greccio ebbe inizio, in forma del tutto nuova, la sua mistica rievocazione.
Per la prima volta l’organizzazione del Presepe di Greccio andrà a Betlemme il 21 dicembre per portare in scena la rappresentazione.
Ancora oggi, la celebrazione si snoda attraverso sei quadri viventi, dalla vita dei francescani in queste zone all’accoglienza da parte di papa Onorio III della Regola scritta da Francesco, dall’autorizzazione concessa dal Santo Padre per la realizzazione del presepe fino al giorno in cui Greccio si trasformò in Betlemme.
Raggiungere questo borgo che sorge nella parte occidentale della provincia di Rieti, a 705 metri di altezza alla sinistra del fiume Velino, diventa anche occasione per scoprire un luogo magico, un paese circondato da stupendi boschi di querce ed elci, dove è possibile visitare la “Cappelletta” che sorge nel luogo in cui San Francesco si ritirava in preghiera in una capanna protetta da due piante di carpino. A circa 2 km dal borgo di Greccio, arroccato sulla roccia di un costone boscoso, come un nido di aquila, si erge maestoso il Santuario del Presepe, uno dei monumenti più importanti della storia del francescanesimo: è qui che Francesco, nella notte del Natale del 1223, rappresentò con personaggi viventi la natività. L’antico borgo medievale, invece, conserva parte della pavimentazione del vecchio castello e tre delle sei torri di cui la maggiore trasformata nel XVII° secolo in torre campanaria. Meritano una visita la chiesa parrocchiale dedicata a San Michele Arcangelo, la chiesa di S. Maria del Giglio e la sua diruta, oggi restaurata e destinata a Museo Internazionale del Presepio.

Per saperne di più visita il sito di Fuoriporta [vedi]

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Quando le feste sono un momento difficile

Il periodo che precede le feste, gioioso per molti, può rappresentare per alcuni un momento delicato in cui gli instabili equilibri possono cedere e lasciare il soggetto nel baratro della propria depressione. Per chi soffre di disturbi alimentari, ad esempio, il prospettarsi di cene e ritrovi famigliari viene vissuto come un vero e proprio incubo, un momento di confronto col cibo (amico/nemico) e con gli altri. È noto che durante le feste aumentano i suicidi. Il confronto con la felicità altrui mette a dura prova chi soffre già di sindromi depressive. Si potrebbero avere ricadute e attacchi ancora più importanti del solito. Se il malessere si trasforma in senso di svuotamento e peggiora ulteriormente quando le feste finiscono e tutte le luci natalizie si spengono, è segno che non si tratta di una depressione transitoria, ma di qualcosa di più serio che vale la pena indagare rivolgendosi a uno psicoterapeuta.
Alcune persone durante le Festività sono soggette a una sorta di tristezza, di cattivo umore, che assomiglia a una sorta di depressione che ha il nome di Christmas Blues, che significa proprio “depressione natalizia”. Il Christmas Blues è un problema transitorio dell’umore: si manifesta a partire da qualche giorno prima del Natale, quando ha inizio la frenesia delle cene e la corsa agli acquisti e dura fino a dopo l’Epifania, con le ultime occasioni di regali e di incontri con amici e parenti. Terminato questo periodo, la persona che soffre di tristezza natalizia si sente come “svuotata”, apatica, priva di interessi. Con il passare dei giorni e la ripresa delle consuete attività lavorative, la tristezza si allontana poco per volta.
Si tratta di un disturbo che riguarda soprattutto i giovani adulti sui trenta-quarant’anni, mentre bambini, ragazzi e persone più anziane sembrano esserne immuni. Alla base di questo disturbo si ritrova quasi sempre una personalità già predisposta alla depressione e l’associazione della quantità di luce solare in meno, tipica di questo periodo dell’anno, con la conseguente minore concentrazione della serotonina, il neurotrasmettitore che regola l’appetito, il sonno e il tono dell’umore. Chi è soggetto a questa sindrome prova una sorta di fastidio nel dovere sottostare alle tradizioni delle feste. Il ritrovarsi insieme, lo scambio dei regali, i festeggiamenti imposti dal periodo provocano una forma di ansia e un desiderio di fuggire, di nascondersi in casa propria e di godersi un bel film, crogiolandosi nella propria tristezza e aspettando che il periodo delle feste giunga al termine. Al contrario, i doveri e le tradizioni impongono di mostrarsi sorridenti con amici, figli e genitori. Tutto questo non fa che accrescere il disagio.
Cosa fare, per sentirsi meglio? Sicuramente è consigliabile una sana via di mezzo. Non è necessario partecipare controvoglia a tutte le occasioni di festeggiamento. Ci si può concedere, per esempio, di rifiutare con gentilezza l’ennesimo invito a un brindisi o a una cena. Tuttavia isolarsi troppo non è consigliabile: la solitudine durante le feste induce ad avere pensieri negativi su se stessi e sul futuro. È quindi opportuno sforzarsi e uscire, anche solo per una passeggiata nelle ore in cui la luce è più intensa, o concedersi un pomeriggio al cinema con le persone care.
Un rapporto positivo con le Feste è invece importante: insegna la pratica della convivialità, con il rito dei pranzi, insegna il valore del dono, con il rito dei regali, insegna la capacità di rallentare e di prendersi una sosta, insegna a stare in uno spazio vuoto di impegni, di compiti e di incombenze a favore delle relazioni.

Chiara Baratelli, psicoanalista e psicoterapeuta, specializzata nella cura dei disturbi alimentari e in sessuologia clinica. Si occupa di problematiche legate all’adolescenza, dei disturbi dell’identità di genere, del rapporto genitori-figli e di difficoltà relazionali.
baratellichiara@gmail.com

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Statura e centimetri

“Anna bello sguardo” di Vito Palmieri è un cortometraggio nato da un’idea elaborata insieme alla classe II C della scuola media Testoni-Fioravanti di Bologna. Il film racconta di Alessio, un ragazzino adolescente con la passione del basket, che non riesce a giocare con i suoi coetanei perché ritenuto basso di statura. Un giorno, mentre si trova nel ristorante della nonna, scorge appesa alla parete la fotografia di Lucio Dalla, morto da appena un mese, ritratto con Augusto Binelli il pivot della Virtus Bologna. Si tratta di una fotografia molto conosciuta sia dai fan di Dalla sia dagli sportivi, ma certamente non dagli adolescenti dei giorni nostri. Nonostante la differenza di statura dei due uomini, il ragazzino li crede entrambi giocatori di basket, sarà la nonna a rivelargli che Lucio non è un giocatore di basket, ma un cantante.

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La locandina del film

Alessio inizierà a comprendere che la statura non è così importante per realizzarsi nella vita, riuscendo anche a conquistare la simpatia di Anna, la compagna di scuola preferita. E proprio con Anna correrà per le strade di Bologna sino a giungere sotto le finestre del palazzo dove abitava Lucio Dalla, in tempo per ascoltare la bellissima canzone “Anna e Marco”, la stessa che alla ragazza ricordava la sua infanzia, le cui note sono il motivo conduttore del film e forse della loro adolescenza.
Il cortometraggio è stato girato nei luoghi cari al cantante bolognese, tra cui la Trattoria Annamaria (dove la proprietaria interpreta la nonna del ragazzo), Piazza Maggiore e Via D’Azeglio. Lucio Dalla naturalmente non recita nel film, ma è lui l’indubbio protagonista della storia, così come lo sono i suoi suoni e gli accordi che accompagnano le varie scene, i colori delle strade del centro di Bologna e gli sguardi della gente che ascolta la sua canzone in strada.

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Il giovane protagonista di ‘Anna bello sguardo’

Vito Palmieri è autore di film quali “Tana libera tutti” del 2006, candidato al David di Donatello, “Il Valzer dello Zecchino – Viaggio in Italia a tre tempi”, con cui ha vinto il primo premio come miglior documentario all’Annecy Cinéma Italien e il recente cortometraggio “Matilde”, selezionato alla Berlinale 2013 (sezione Generation) e premiato al Toronto International Film Festival (sezione Kids).
“Anna bello sguardo” ha partecipato a numerosi festival in Italia e all’estero, recentemente è stato selezionato in concorso al Festival du Court-Métrage Méditerranéen 2014 di Tangeri in Marocco e si è classificato terzo nella sezione Web del Premio David di Donatello. Il film e la scuola secondaria II C “Testoni – Fioravanti” di Bologna hanno vinto il “Premio Giovani” all’edizione 2014 del Festival “Versi di luce”, che si svolge a Modica (RG), con la seguente motivazione: “Per aver contribuito in larga parte, attraverso l’ideazione del soggetto e la costruzione della sceneggiatura, alla realizzazione di un cortometraggio testimone del rapporto tra il nuovo che avanza e il passato. Anche chi non ha avuto modo di apprezzare un grande poeta e cantante come Lucio Dalla, perché di altra generazione, può fare di questo personaggio il proprio esempio di vita e trarre da esso un grande insegnamento”.

“Anna bello sguardo”, di Vito Palmieri, con Ettore Minucci e Rebecca Richetta, commedia, Italia, 2013, 15 min. Il film è visibile a questo indirizzo [vedi]

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CALENDARIO DELL’AVVENTO
Il mistero della sparizione del Bambin Gesù

Quando da casa manca un oggetto, di solito gli sguardi corrono severi ai bambini che quella casa la abitano. In “Una lacrima color turchese” di Mauro Corona, invece, a mancare è proprio un bambino. Non un bambino qualunque, ma il Bambino Gesù, che scompare da tutti i presepi di tutte le case. E i sapienti, i padroni della conoscenza, si lanciano in ipotesi per carpire una soluzione a questo mistero; ma per farlo si concentrano su un falso problema – la ricerca di un caprio espiatorio, escamotage che storicamente ha sempre funzionato allo scopo di bastonare chi non aveva colpe -, tralasciando la domanda più importante e incapaci di pensare, anche solo lontanamente, di esserne i diretti responsabili.

“Quando s’avvicina il Natale, precisamente verso il primo dicembre, ci disponiamo tutti alla bontà. O meglio, a essere più buoni, perché buoni siamo convinti di esserlo già.”

Di fronte allo sconvolgimento generale per l’assurda sparizione, nessuno pensa all’ipotesi che Gesù Bambino sia scomparso perché sono scomparsi i valori che avrebbe poi portato nel mondo.
Perché, se nessuno più si indigna per la mancanza di affetto, responsabilità o compassione, il Figlio di Dio può a ragion veduta indignarsi per tanta brava gente che fa la comunione ma che prova solo
“indifferenza verso chi non ha niente per campare”; per “giornalisti, televisioni locali e scribacchini” che invece di fare giornalismo fanno business o meglio malaffare, accanimento mediatico, molto somigliante a quello terapeutico nella indefessa ricerca di un motivo che non c’è; per “cardinali con attici nella capitale degni di nababbi”; per “pedofili, adescatori di giovinetti” che tuttavia “saltavano nelle sagrestie indignati dalla scomparsa del Bambin Gesù”, per “tutti quelli che la domenica vanno a messa, fanno segni di croce e onorano le feste comandate e non sanno cosa sono la tolleranza, la carità, la generosità, il perdono. Che sono razzisti, xenofobi e falsi.”

“Volevano il colpevole e siccome non sapevano chi fosse, gliene bastava uno qualsiasi. Da linciare.”

Una fiaba natalizia, nera, dello scalatore e scrittore trentino, che alla sua netta visione del mondo offre uno spaccato drammatico della condizione umana che si è riusciti a raggiungere, affrontando un inevitabile paragone tra un passato – vicino e lontano – che contiene in nuce un potenziale e un valore abilmente distrutti dal successivo futuro. É un Natale apparentemente normale; ma la normalità natalizia ormai non è più la pietas di Maria e Giuseppe che guardano adoranti Gesù, bensì l’albero agghindato, la finzione ben dipinta sulle facce alla ricerca del gradino più alto da cui guardare il mondo; la distanza difficilmente colmabile tra principi e prassi, tra parola promessa e fatto compiuto; è il superfluo tecnologico con cui genitori vuoti e assenti ingozzano figli che diverranno, un giorno non lontano, altrettanto vuoti e assenti.
E dove l’unica verità inviolata è la neve, ossia la natura, unica grande innocente.
Perché la necessità, quella vera, è di arrivare al cuore delle cose, ed è qui che è ancora racchiusa, nel più prezioso fiocco di neve, la speranza di ritrovare quella statuina del presepe misteriosamente sparita.

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LA RIFLESSIONE
Come a Natale sugli alberi le palle

Quinto o sesto Natale di crisi, si legge un po’ ovunque, come se invece di crisi fosse guerra. Certamente in quest’anno che sta per finire le difficoltà per molti italiani sono aumentate, ma bisogna dire che nel suo insieme e contrariamente alle profezie di tanti commentatori a fine 2013, il Paese continua a tenere. Certamente non potrà farlo in eterno, ma si tratta comunque di una notizia positiva, perché durante le crisi spesso ci si deve accontentare di gioire per ciò che non succede.
Tende invece purtroppo a crescere il pessimismo, quello di chi ha ormai perso fiducia nella propria capacità di risolvere i problemi. Al di là delle tante e ben precise responsabilità, che ciascuno dal proprio punto di vista crede di poter individuare e che comunque senz’altro esistono, mi pare che questo stato d’animo diffuso sia una conseguenza della fase che stiamo attraversando. Le società infatti tendono a reagire alle difficoltà in modi diversi a seconda di quanto gli effetti che queste provocano siano più o meno gravi e pervasivi. All’inizio e finché, appunto, il tessuto sociale rimane sostanzialmente integro tendono a prevalere reazioni di tipo individuale o al massimo circoscritte allo stretto ambito famigliare; sono comportamenti difensivi, che hanno come obiettivo quello di preservare il proprio stile di vita e lo status sociale, e che si caratterizzano per l’innalzamento delle barriere nei confronti del mondo esterno: aumentano perciò la diffidenza, la paura del diverso, l’ostilità nei confronti dell’immigrato che “ruba il lavoro”, la sfiducia generalizzata nelle istituzioni. Prevalgono il sentimento di “caccia ai colpevoli” e la convinzione che con poche e semplici mosse si possa superare l’impasse. E’ questo un perfetto brodo di coltura per movimenti politici che si ispirano alla xenofobia ed al razzismo e fanno del populismo giustizialista più sfrenato il loro principale strumento di propaganda. Anche il “ripiegamento animalista”, che individua nelle bestie gli esseri viventi in cui riporre la maggior fiducia, mi pare un sintomo caratteristico di questa fase.
Solo quando le crisi producono effetti così devastanti da annullare in gran parte le differenze sociali, fra le persone inizia a farsi strada la solidarietà ed a livello sociale e politico tendono ad affermarsi quelle forze che vi si ispirano maggiormente. Senza voler andare all’ultimo dopoguerra, credo sia emblematico quanto successo in Grecia nel breve volgere di pochi anni: dalla crescita apparentemente inarrestabile di Alba Dorata al favore sempre maggiore nei confronti di Syriza. Mentre nella fase precedente prevale un istinto di tipo conservatore, che respinge l’idea che la crisi possa avere una natura sistemica e anche quando intravede la necessità di cambiamenti li colloca sempre al di fuori del proprio ambito esistenziale, in questa l’attenzione è più rivolta alla necessità di ricostruire, possibilmente su basi diverse, e al futuro.
Riuscire a far nascere e ad alimentare questi sentimenti, senza dover per forza raggiungere lo sfacelo economico e la completa disgregazione sociale, è l’obiettivo che dovrebbe stare a cuore ad ogni persona di buona volontà, anche al di là delle specifiche ricette per uscire dalla crisi che ciascuno auspica.
Conclusione questa, mi si potrà dire, molto ecumenica e “natalizia”. Forse, tuttavia mi pare che quello che stiamo attraversando sia uno di quei momenti che chiede a tutte le persone responsabili uno sforzo che tenda ad unire più che a dividere ed a cogliere e valorizzare quanto, sia pur poco, di positivo viene avanti, senza per questo annacquare le reciproche differenze od abbassare la guardia di fronte ai pericoli che ancora incombono.
Insomma, brindare al nuovo anno con il bicchiere mezzo pieno.

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In costante ostaggio delle nostre paure

Dopo il più classico dei “C’era una volta”, o dentro a una storia di cronaca da quotidiano, immersi in atmosfere tetre e lugubri o colorate all’eccesso, si muovono personaggi fiabeschi e moderni della raccolta “Gli occhi della vendetta ed altri racconti” (Edizioni La Carmelina, 2014) della ferrarese Patrizia Benetti, già autrice di “Racconti neri” (Este Edition, 2012).
I suoi racconti brevi sono un invito a esplorare le paure che fanno capolino nelle situazioni più apparentemente normali, in persone apparentemente innocue, che si fanno strada in ognuna delle storie mescolandosi a ogni altro sentimento fino quasi a berselo d’un fiato, come succede per i racconti stessi.
“Accanto alla tavola apparecchiata ad arte, svettava un macabro abete. Negli esili rami erano infilzati candidi bulbi oculari.”
Che siano cupe foreste medievali o paesini bretoni, uffici o rumorosi luna park, l’attenzione è posta sull’imprevisto che irrompe nel quotidiano, nel diverso che catalizza curiosità e destabilizza equilibri stabili, seppure grotteschi e alienanti.
Colleghi traditori e ingenui re spodestati; invidiosi cavalieri e vecchi amori mai sopiti, tornati dall’altro mondo; malefiche fabbricanti di sapone e giostrai impazziti; fuggiaschi tormentati dai propri misfatti e grilli premonitori della loro cattura; paggi traditori e furbi assaggiatori di corte; ingenue streghe redivive, stordite dalle umane debolezze; e ancora, mani che vivono di vita propria compiendo vendette e terrorizzando colpevoli mai puniti; distorte famiglie in stile “Casa dei 1000 corpi”. In bilico tra fantasy e racconto gotico, senza disdegnare incursioni splatter o romantiche, ma sempre con il timore in sottofondo.
Perché è la paura – diceva Lovecraft, storico rivale di Poe – “la più antica e potente emozione umana”.

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L’OPINIONE
Coesione sociale e innovazione, antica ricetta di successo per il rilancio dell’Emilia

L’Emilia-Romagna è uscita dalla recessione? Qualcuno ha voluto usare questa chiave interpretativa, un po’ ottimistica, per commentare lo striminzito + 0,3% di crescita del Pil emiliano-romagnolo stimato dal Rapporto 2014 sull’economia, presentato da Unioncamere.
A parte che il dato non è ancora definitivo e potrebbe essere ritoccato al ribasso, è ancora troppo poco, dopo due anni nettamente recessivi come il 2012 (-2,5%) e il 2013 (-1,4%), per parlare, come ha fatto qualche organo di informazione, di “ripresa sulla Via Emilia”.
E’ vero che per il 2015 si prevede una crescita più sostenuta, dell’1%, ma non si può certo prestar troppa fede alle previsioni, che negli ultimi anni si sono rivelate troppe volte sbagliate, praticamente sempre. Basti dire che anche per il 2014 la previsione formulata a dicembre dell’anno scorso era di una crescita dell’1,1%, addirittura un po’ superiore a quella appena sfornata per il 2014! Ma poi le cose sono andate, appunto, in tutt’altro modo.
Aldilà dei tassi di crescita, l’impressione forte è che qualcosa di fondo si sia appannato nel sistema economico e sociale di una Regione che da sempre è caratterizzata da indicatori più vicini alla media europea che a quella italiana.
Si è discusso molto del significato da attribuire all’enorme tasso di astensione registrato alle ultime elezioni regionali. Certo, in quel risultato sono confluiti fattori diversi. Ma forse tra questi ce n’è anche uno che non è stato molto citato: una certa disillusione per quel che l’Emilia-Romagna è stata, nella sua diversità da tutte le altre Regioni d’Italia, e che forse non sarà mai più.
La fortuna di questa Regione negli ultimi decenni era dovuta ad un singolare impasto fatto, da un lato di grandi valori (coesione sociale, etica, solidarietà, accoglienza, apertura culturale) capaci di dar vita ad un efficiente sistema di welfare; dall’altro, di una straordinaria capacità di innovazione, di un’imprenditorialità diffusa e dinamica, di un lavoro particolarmente qualificato e tutelato, a garanzia di un’efficace redistribuzione del reddito.
Oggi, è lecito dubitare della sussistenza di molti di questi punti di forza. Né può consolare il fatto che altre realtà territoriali denuncino su questi terreni un arretramento anche maggiore.
Se del declino dei grandi valori ci parla ogni giorno la cronaca, di quello dell’economia ci parlano i numeri.
Gli investimenti fissi lordi, che ormai da molti anni si collocano ad un livello inferiore del 20% a quello degli anni precedenti la crisi; il tasso di occupazione, attestato 3 – 4 punti percentuali al di sotto di quello del 2008; una distanza crescente, anche nella capacità d’innovazione, tra un gruppo ristretto di imprese che esportano e tutto il resto del sistema imprenditoriale.
Per non parlare di un altro grande punto critico: quello di un territorio divenuto incredibilmente fragile, soggetto a frane e ad alluvioni; un territorio che si scopre esposto al rischio sismico; un territorio, soprattutto, che lo sviluppo degli ultimi decenni ha intensivamente sfruttato, espandendone continuamente l’area edificata e cementificata. Un territorio che da tempo avrebbe bisogno di un gigantesco investimento di risistemazione e di messa in sicurezza, per il quale però continuano a mancare le risorse.
Ci sarebbe davvero dunque bisogno di qualche idea nuova, di qualche nuovo impulso, anche in campo economico, capace di aiutare e indirizzare il cambiamento necessario, magari facendo salvi i valori costitutivi di cui sopra.
Un compito davvero difficile per il nuovo Presidente della Regione, Stefano Bonaccini, e per la Giunta che in questi giorni sta nascendo.

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IL FATTO
L’informazione a salvaguardia dell’ambiente

La Federazione italiana media ambientali (Fima) ha presentato la Carta dell’informazione ambientale che si andrà a definire nei prossimi mesi. “La creazione della Carta nasce dalla consapevolezza, visti i cambiamenti climatici e le situazioni critiche che essi portano con se, del ruolo dell’informazione la cui responsabilità è totale. Portare a conoscenza dei cittadini i temi della crisi ecologica è una responsabilità particolarmente gravosa: sottacere un’informazione o dare voce ad una fonte sbagliata equivale a rendersi partecipi involontari di un disastro. La trattazione di questi temi cambia il ruolo del giornalista stesso che non è solo cronista, ma attore consapevole: riportare l’accaduto, sovente significa anticipare gli stessi eventi, raccontando le dinamiche che li potranno precedere. Fornire quindi ai cittadini e ai decisori politici strumenti utili su cui pianificare e costruire il futuro delle prossime generazioni. La Carta intende garantire un’informazione adeguata dei delicati temi ambientali attuali, che non dia spazio ad errori interpretativi, a false credenze o a dicotomie inesistenti”. Faccio un grande tifo per questa iniziativa.
Purtroppo però non sempre questi documenti portano hanno esito positivo. La carta dei servizi dell’acqua, per esempio, pare non serva. Lo dicono alcuni gestori e lo pensano alcuni cittadini che non l’hanno mai letta. Purtroppo è così. Lo dice anche Federconsumatori che di recente ha presentato la sua terza ricerca nazionale sulle carte del servizio idrico. Nonostante sia presente in quasi tutti i capoluoghi di Provincia, la sua efficacia è ancora un problema (si ricorda che Aeegsi esclude aumenti tariffari in assenza di Carta dei servizi) e che raramente è frutto di un confronto con le associazioni dei consumatori, quasi fosse solo uno strumento del gestore. E’ utile in particolare ricordare che il decreto ministeriale di riferimento indica importanti indicatori standard su molti temi critici: a partire dalla risposta alle richieste scritte degli utenti e ai reclami; sul tema complesso della morosità in cui è prevista la sospensione del servizio; il tempo di preavviso di interventi programmati (almeno 24 ore prima) e molto altro.
L’analisi della Federconsumatori ha evidenziato differenze spesso esagerate tra i vari gestori. Ad esempio, sul tempo di esecuzione dell’allacciamento, si va da un tempo massimo di 126 gg ad un tempo medio di 35 gg (si ricorda che su questo indice è prevista un’indennità nel caso non venga rispettato il tempo massimo di esecuzione dell’allacciamento). Il tempo di attivazione delle forniture in media è di 9 giorni, ma si sono riscontrai anche casi di 60 gg; così come per l’allaccio alla pubblica fognatura, il tempo medio sia di 46 gg, ma va da 7 a 180 gg! Per non parlare del tempo di rettifica delle fatture, da pochi giorni a quasi sei mesi; ai tempi di risposta scritta agli utenti che in media è di 26 giorni. Per quanto riguarda le modalità con le quali i gestori comunicano agli utenti i dati sulla qualità dell’acqua, dalle risposte ricevute risulta che la modalità più diffusa è il sito web (35% dei casi), solo l’11% dei gestori pubblica le informazioni sulla bolletta. Vi sono poi grandi differenze di applicazione, ad esempio tra indicatori in giorni di calendario e giorni lavorativi (le cose cambiano molto).
In conclusione solo la metà dei gestori è dotato di certificazione della qualità. Insomma uno scenario ampio e variegato che deve essere meglio regolamentato perché le motivazioni di reclamo dei cittadini sono sempre troppe e tra queste si citano: anomalie contrattuali (errori attivazione, cessazione, voltura; anomalie standard (mancato rispetto degli standard); anomalie addebiti/errori di fatturazione (applicazione categorie, tariffe, acconti, conguagli, modalità di recapito bollette, frequenze fatturazione, pagamenti, modalità di incasso); anomalie sul consumo (reclami su letture, perdite occulte, consumo anomalo); anomalie relative all’accessibilità del servizio (difficoltà di comunicazioni telefoniche, attesa agli sportelli, comportamento del personale); anomalie nell’erogazione del servizio (qualità/quantità acqua, pressione, interruzioni/ripristini, rotture, danneggiamenti durante lavori) e anomalie del contatore (contatore difettoso, verifica/sostituzione contatore).
Per il futuro, ci attendiamo quindi, da parte dei soggetti regolatori, l’Aeegsi a livello nazionale e gli Enti di gestione d’ambito (Ega) a livello locale un maggior impegno per quanto riguarda la disciplina delle carte dei servizi e in generale la tutela degli utenti; un maggior coinvolgimento delle associazioni degli utenti (partecipazione e controllo) come previsto negli atti sopra richiamati; iniziative dirette ad informare e formare, gli utenti e le loro associazioni, sulle numerose e complesse novità che nell’ultimo periodo ha rivoluzionato la regolazione nei servizi idrici.

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Le virtù della felicità

In questi giorni che precedono le feste natalizie e l’anno nuovo la parola ‘felice’ si spreca, esce dalle nostre labbra o resta impressa nei nostri biglietti d’auguri. Ma vi siete chiesti dove va a finire tutta la felicità che allo scadere di ogni anno auguriamo così generosamente ad amici e parenti?
Il dibattitto sulla felicità e su come la politica debba operare per accrescerla sta assumendo sempre più rilievo nel mondo, insieme all’obiettivo di uno sviluppo sostenibile da qui al 2030.
Nel luglio 2011 l’Assemblea generale delle Nazioni unite ha approvato una risoluzione storica. Ha invitato i paesi membri a misurare la felicità del loro popolo e a utilizzare questo indice come guida delle politiche sociali. Nell’aprile del 2012 si è tenuta la prima riunione dell’Onu ad alto livello sulla felicità e il benessere, presieduta dal primo ministro del Bhutan, il paese che ha adottato il Gnh (Gross national happiness) anziché il Pil (ne abbiamo parlato già nella nostra rubrica) [vedi].
Allo stesso tempo è stato pubblicato il primo ‘World happiness report’, seguito qualche mese dopo dalle ‘Linee guida’ dell’Ocse sugli standard internazionali per la misurazione del benessere.
Lo scorso settembre è stato reso noto anche nel nostro Paese il Rapporto mondiale sulla felicità 2013. Aggiorna la classifica di valutazione della vita nel mondo, facendo uso innanzitutto del Gallup world poll, dal momento che continua a raccogliere regolarmente e a fornire dati comparabili per il maggior numero di paesi.
Il Rapporto premia tre Paesi solitamente ben piazzati in molti studi internazionali: la Danimarca (già prima lo scorso anno), la Norvegia e la Svizzera, seguiti al quarto posto dall’Olanda e al quinto dalla Svezia. Ma entrano nei primi dieci anche un notorio primo della classe – la Finlandia -, nonché il Canada e l’Austria. Fra i parametri considerati dagli analisti, figurano il reddito pro capite, l’aspettativa di vita, la percezione di libertà nel compiere le proprie scelte, l’assenza di corruzione, i servizi sociali, la generosità, le emozioni positive e le emozioni negative.
In Europa occidentale, sei stati hanno migliorato le loro posizioni, mentre quattro Paesi, ai quali il Rapporto dedica un’apposita tabella – Portogallo, Italia, Spagna, Grecia – “sono stati duramente colpiti dai venti di crisi ” con effetti che vanno ben al di là delle mere perdite economiche.
Il Belpaese, l’Italia, è così scivolato al 45° posto della classifica, tra Slovenia e Slovacchia, a fronte di Stati Uniti al 17°, Gran Bretagna al 22°, Francia al 25°, Germania al 26°. Nel complesso il mondo è diventato in pochino più felice nell’ultimo quinquennio – sostengono gli estensori del Rapporto – in particolare nell’America Latina e nell’Africa Subsahariana.
Il Costa Rica è il paese più felice, mentre la Tanzania il più infelice, è bene saperlo, e comunque consultare la classifica, se qualcuno avesse in cuore di cambiare nazionalità.
Nel 2008 l’Italia occupava il ventottesimo posto nella graduatoria e il nostro crollo è dei più significativi, collocandoci da questo punto di vista in fondo alla classifica dei 156 paesi presi in esame, prima solo dell’Angola, dell’Arabia Saudita, della Spagna, della Grecia e dell’Egitto.
Il rapporto evidenzia un dato, a cui spesso dedichiamo poca attenzione. È il tema della salute mentale come causa prima di infelicità. Dimostra che la salute mentale, da sola, è il più importante e determinante fattore della felicità individuale.
Circa il 10% della popolazione mondiale soffre di depressione clinica o disturbi d’ansia paralizzante.
Sono la principale causa singola di disabilità e assenteismo, con costi enormi in termini di miseria e di spreco economico. In tutto il mondo depressione e disturbi dell’ansia rappresentano fino a un quinto di tutte le disabilità.
Esistono trattamenti per il recupero, ma anche nei paesi avanzati solo un terzo di coloro che ne hanno bisogno sono curati. Questi trattamenti producono tassi di recupero pari o superiori al 50%, il che significa che i trattamenti possono avere un costo netto basso o nullo per i risparmi che generano. Il problema è che in questo ambito vi è una intollerabile violazione dei diritti della persona, perché in nessun paese il trattamento della malattia mentale è disponibile alla pari di quello per le malattie fisiche. Ciò non solo costituisce una vergognosa discriminazione, ma dimostra il carattere malsano delle nostre economie.
Scuole e luoghi di lavoro devono essere molto più attenti alla salute mentale e operare per il miglioramento della felicità delle persone, se vogliamo promuovere la salute mentale.
In generale, si osserva una relazione dinamica tra felicità e altri aspetti importanti della nostra vita, come la salute, il reddito e i comportamenti sociali. Per cui una migliore comprensione dei benefici che derivano dalla crescita della felicità delle persone può aiutare a mettere al centro delle decisioni politiche la felicità, affinandone le scelte.
Esiste una letteratura crescente sui benefici della felicità che vanno dalla salute alla longevità, dal reddito alla produzione, dalle istituzioni ai comportamenti individuali e sociali. L’esperienza del benessere individuale e collettivo incoraggia le persone a perseguire obiettivi che sono il rafforzamento delle capacità di affrontare le sfide future. Le emozioni positive migliorano il nostro sistema immunitario e cardiovascolare, fanno funzionare le nostre ghiandole e cellule endocrine. Al contrario, le emozioni negative sono dannose per questi processi.
Conta anche “l’etica delle virtù”, è il caso di ricordarcelo, poiché dal rapporto sulla felicità mondiale sembra che non siamo un paese ancora sufficientemente consapevole della metastasi della corruzione.
Nelle grandi tradizioni premoderne per quanto riguarda la felicità, il buddhismo in Oriente, l’aristotelismo in Occidente, o le grandi tradizioni religiose, la felicità non è determinata dalle condizioni materiali di un individuo (ricchezza, povertà, salute, malattia), ma dal singolo carattere morale. Aristotele parlava della virtù come chiave della eudaimonia, della felicità, appunto.
Eppure questa tradizione si è quasi persa nel mondo moderno dopo il milleottocento, quando la felicità è stata collegata con le condizioni materiali, in particolare il reddito e i consumi.
Il ritorno alla “etica della virtù” è una parte fondamentale della strategia per aumentare la felicità di una società.
Non mi resta che augurare ai miei gentili e pazienti lettori che il Natale e l’Anno nuovo ci vedano protagonisti di un mondo impegnato a costruire la felicità delle persone, dai nostri piccoli, ai nostri anziani.

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Soffritti: contro di me livore e critiche superficiali

da: Roberto Soffritti

Quando all’analisi e all’approfondimento si preferisce il livore e l’approssimazione, non si offre un buon servizio ai lettori, che poi sono prima di tutto cittadini, protagonisti di una comunità di donne e di uomini. Così, l’articolo di Sergio Gessi  [leggi], dedicato all’iniziativa organizzata dall’associazione “Pluralismo e dissenso” con il sottoscritto, più che una riflessione, ha assunto il tono della chiacchiera, insomma: più che una voce autorevole si è levato un indistinto brusìo.
Se una delle ambizioni più grandi del sito di Gessi è quella di offrire “una chiave di interpretazione dei fatti”, come si declama con enfasi nella home page, bisognerebbe avere l’obbligo di raccontare prima di tutto i “fatti”, eventualmente prima di emettere verdetti e imbastirli con qualche nota di colore. Gli incontri organizzati da “Pluralismo e dissenso” con gli ultimi tre sindaci di Ferrara, intervistati pubblicamente da cinque giornalisti, dovrebbero avere l’utilità di fissare un pezzo di storia della città e fornire possibilmente indicazioni sulla strada da percorrere per uscire dal pantano della crisi che, anche nella nostra città si palesa, purtroppo, in alta disoccupazione e scarsi investimenti.
L’autore dell’articolo, in un’improbabile ricostruzione storica del mio lungo mandato, definisce innaturale il dialogo tra le forze di sinistra e quelle del centro democratico. E’ così insolita la collaborazione tra i principali estensori della Costituzione della Repubblica italiana? Inoltre, in un commento ai limiti del qualunquismo, Gessi accosta il “fare” al “malaffare”, affianca questioni politiche a questioni giudiziarie e affronta aspetti che non riguardano assolutamente la mia attività di sindaco di Ferrara.
Non un fatto documentato: l’articolo sembra avere il solo intento di “processare” una politica che ha avuto il merito di cambiare in meglio la città, di mettere in connessione la politica con il mondo produttivo, come è giusto che sia in un’amministrazione della cosa pubblica che si vuole – giustamente – efficiente e trasparente.
In maniera superficiale, si addita la politica del “fare sul serio” finendo per condannare un territorio all’immobilismo deleterio, perché a questo porterebbe il metodo sbandierato dall’autore. Non un fatto, dicevo, perché non esistono condanne, anzi: chi, come la parlamentare europea Laura Comi, ha tentato di gettare fango sulla mia attività di amministratore, ha incassato una sonora condanna in Tribunale.
Piaccia o no all’autore, questione morale e questione giudiziaria sono distinte e tra il fare e il malaffare c’è di mezzo una “zona nera” in cui si decide la morte dell’intero territorio e l’arricchimento di pochi.
Ecco, guardando indietro ai miei sedici anni alla guida della città potranno anche emergere degli errori, ma rivendico una politica fatta di obiettivi definiti e raggiunti. Primo fra tutti: dare un futuro a Ferrara. Da qui, la necessità di far incontrare la politica con il mondo produttivo; la creazione di un rapporto più intenso e costruttivo con le imprese al fine di facilitare gli insediamenti di nuove attività; la creazione di un modello culturale che deve continuare a consolidarsi e dare un impulso alla ripresa economica.
I recenti dati sull’economia reale fotografano anche a Ferrara una situazione grave, con la disoccupazione che ha raggiunto vette preoccupanti. Ci si vuole permettere il lusso di non fare investimenti e condannare l’intera area alla recessione? Lenin diceva che per un vero rivoluzionario il pericolo più grave è l’esagerazione rivoluzionaria. Dunque, chi ambisce giustamente ad estirpare la cattiva politica e la degenerazione individualistica deve coltivare legami forti con il territorio. Solo così la città diventa “maestra dell’uomo”, ovvero dà una direzione, un senso, sviluppando un solido e benefico senso di appartenenza.
Questo ritengo sia il talento del buon politico. Poi c’è il talento di chi mente, il talento di chi non ne ha altri.
Roberto Soffritti

Risponde Sergio Gessi
Caro Soffritti, i “fatti” ai quali si appella sono noti e ampiamente dibattuti. Per questo nel commento proposto ai lettori [leggi] m’è parso sufficiente richiamarli alla memoria senza doverli puntualmente rendicontare. E’ legittimo avere opinioni differenti: la mia, per esempio, è che ciò che lei considera un “dialogo tra le forze di sinistra e quelle del centro democratico” fosse in realtà una sistematica prassi di concertazione politica, strategica e gestionale fra forze di maggioranza e di opposizione, condotta al di fuori degli ambiti istituzionali e dunque sostanzialmente e formalmente inaccettabile. Ma non voglio ripetermi. Solo un’altra annotazione in risposta alle sue considerazioni: i “legami forti con il territorio” e il “senso di appartenenza” non bastano per “estirpare la cattiva politica”; anche la mafia ha forti legami territoriali e solido senso di appartenenza. Piuttosto, a guidare l’azione del buon politico è indispensabile una salda bussola valoriale.
Infine, per quanto mi riguarda, prima di giudicare cerco sempre di ascoltare e di comprendere: a volte ci prendo a volte sbaglio. In ogni caso, stia certo, la menzogna è pratica a me totalmente estranea.

Guarda il video dell’incontro [vedi]

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LA SEGNALAZIONE
Galleria Marcolini, un nuovo spazio di incontro e scambio culturale

Concepito non come semplice e comune Galleria, ma come sede polifunzionale la scorsa settimana si è inaugurato, nel centro storico di Forlì, Galleria Marcolini, uno spazio interamente dedicato all’arte contemporanea italiana e internazionale.
Questo contenitore fungerà soprattutto da luogo d’incontro e di scambio culturale. Sarà ospite di progetti espositivi che avranno lo scopo di raccontare l’arte anche attraverso la contaminazione di linguaggi differenti, come la filosofia, la letteratura, il teatro o il cinema. Alla programmazione espositiva, saranno infatti affiancati eventi collaterali che, partendo dal tema della mostra, lo svilupperanno però da angolazioni differenti.
Strategicamente aperto nel polo artistico forlivese, a due passi dal complesso di San Domenico e dalle collezioni di Palazzo Romagnoli, Galleria Marcolini è una realtà culturale dinamica, un osservatorio della creatività emergente messa a confronto con il territorio che la ospita.

Come evento inaugurale della Galleria Marcolini, è stata scelta la mostra personale della giovane artista emiliana Nazzarena Poli Maramotti (classe ’87), una delle più interessanti voci dell’arte italiana emergente.
Segnalata nel 2011 per il Rolling Stone Award, in occasione della ‘The Others Fair’ di Torino, e vincitrice nel 2014 del Premio Euromobil under 30 ad Art First di Bologna, Nazzarena Poli Maramotti si è da subito contraddistinta per una cifra stilistica di grande intensità e sperimentazione. La sua personale impronta artistica, sospesa fra astrazione e figurazione, evidenzia non solo una certa confidenza tecnica, ma anche un’indagine estetica estremamente ricercata, dove vince la drammaturgia di una costante e consapevole trasformazione, tanto precaria quanto intimista.
Il titolo deciso per la mostra, Argonauta, viene ripreso nella sua accezione di “navigante”, esploratore avventuroso, colui che intraprende un viaggio con coraggiosa audacia. Allo stesso modo, con la sua arte Nazzarena Poli Maramotti accompagna l’osservatore verso una “realtà diversa”, in un viaggio, per l’appunto, verso luoghi dell’immaginario che svelano universi transitori in continuo divenire.

Curata da Silvia Cirelli, l’esposizione raccoglie alcune tra le opere pittoriche più significative di questa giovane interprete, dai lavori dei primi anni, in cui traspare il superamento del concetto di figura e la sua personale reinterpretazione, fino alle recenti tele, dove l’artista conquista invece una dialettica maggiormente percettiva, capace di svelare la fugacità e la prepotenza di una tensione in espansione.

Note biografiche
Nazzarena Poli Maramotti nasce a Montecchio Emilia nel 1987. Attualmente vive a Norimberga (Germania), dove si trasferisce per frequentare il corso di pittura presso l’Akademie der Bildenden Künste, dopo essersi diplomata all’Accademia di Belle Arti di Urbino. Nel 2014 riceve il Premio Gruppo Euromobil under 30 ad Art First, Bologna e nel 2011 è stata segnalata per il Premio Rolling Stone, in occasione di The Others Fair di Torino. Al suo attivo ha diverse esposizioni personali, alla Galleria A+B di Brescia (Portraits del 2012 e Between signs and measure nel 2013, con l’artista Marco La Rosa) e la mostra Muta, allo Zumikon di Norimberga, nel 2014. Fra le varie collettive è doveroso citare La Creazione nel 2014, al Centro Culturale San Fedele di Milano, Collector’s View, alla Oechsner Galerie di Norimberga (2013), Prospekt/Vorhang auf… al Neues Museum, sempre a Norimberga (2012) e L’Eredità di Circe, presso la Galleria ZAK di Monteriggioni, Siena (nel 2011).

Galleria Marcolini
13 dicembre 2014 – 22 febbraio 2015
Nazzarena Poli Maramotti | ARGONAUTA
a cura di Silvia Cirelli

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LA RIFLESSIONE
Giovani, lo scudo dell’apparenza e il coraggio di mostrarsi

Questa mattina sono stata ad un funerale, a condividere il dolore di un’amica per la perdita della sua mamma. La chiesa era piena di amici, parenti, insegnanti e il dolore era ovunque, su ogni volto, in ogni sguardo. Conosco questa ragazza dalla scuola media, eravamo compagne di classe, vicine di banco, amiche. Con gli anni ci siamo perse di vista, ma abbiamo ripreso i contatti pochi mesi fa. In questa circostanza al suo fianco, a partecipare alla sofferenza sua e dei suoi fratelli, vi erano tantissimi giovani. Mi capita spesso, in circostanze differenti, di soffermarmi ad osservare la gente. Cerco di capire i loro stati d’animo, di interpretare le loro reazioni, di scovare i loro sentimenti… e spesso non è facile. In un contesto triste come un funerale, ad esempio, dove tutti sono riuniti per condividere lo stesso dolore, ognuno reagisce a suo modo. C’è chi piange senza ritegno consumando interi pachetti di fazzoletti, chi soffre in maniera intima e sommessa, chi cerca di essere forte e ricacciare continuamente indietro le lacrime, c’è addirittura chi ride, forse per esorcizzare il dolore. E poi ci sono quelli che invece sembrano non soffrire affatto; mi sono resa conto che questi ultimi sono soprattutto i giovani; quei giovani che spesso non apprezzo, quelli privi di molti valori, che vivono alla costante ricerca dello sballo, con il solo obiettivo del divertimento estremo; quei giovani che si chiudono in sè stessi, lontano da qualsiasi cosa possa renderli deboli e vulnerabili.

Oggi invece ho dovuto ricredermi. Questa mattina non ho visto i soliti ragazzini che ogni giorno vedo passare davanti a casa mia, quando escono da scuola: questi parlano a voce alta uilizzando parolacce e spesso bestemmie in ogni frase. No. Oggi, finita la messa, sono uscita dalla chiesa e mi sono soffermata sul viso di tutti i giovani e gli adolescenti che, ad uno ad uno, hanno voltato le spalle all’altare. Non ho visto sguardi sostenuti, teste alte o espressioni indifferenti; ho visto occhi lucidi, guance rigate dalle lacrime e abbracci per farsi forza l’un l’altro.
Solitamente le donne vengono considerate più emotive ed inclini al pianto, ma non erano solamente loro quelle con le teste chine e il fazzoletto in mano. Molti ragazzini vestiti alla moda, caviglie scoperte e cavallo dei pantaloni basso, mostravano sul viso un sincero dolore. E per quanto il contesto fosse tremendamente triste, mi sono ritrovata con un lieve sorriso sulle labbra. Ogni volta che mi chiedono cosa penso di questa nuova generazione, rispondo in maniera negativa. Ovunque vedo ragazzi omologati, dediti primariamente all’alcool e al fumo perchè ormai incapaci di divertirsi senza questi vizi. Vedo adolescenti maleducati, sempre pronti a rispondere con un insulto, una parolaccia, noncuranti della gente che li circonda. Ragazzi che parlano sempre e solo di superficialità, come se non volessero mostrarsi intelligenti o interessati ai fatti e ai problemi della società e della realtà in cui vivono e che li riguardano in prima persona.
Questa mattina per la prima volta dopo tanto tempo, ho intravisto uno spiraglio di speranza. Più guardavo le espressioni di quei ragazzini e più mi dicevo che forse sono io ad essere sempre pessimista e che forse non tutti i più nobili valori sono perduti. Li ho osservati prima di entrare in chiesa e sinceramente, agli occhi di chi passava di lì per caso, potevano anche sembrare una scolaresca in gita scolastica; li ho osservati quando sono usciti dalla chiesa e sembravano persone differenti. Quando cerchi di apparire diverso da come sei, ti crei delle barriere e indossi delle maschere che non sempre ti appartengono. Così quando ti immergi in un contesto che ti rende vulnerabile le barriere iniziano a cedere e il tuo vero io viene messo a nudo. E’ questo ciò di cui la nostra società ha bisogno. Basta con le falsità, l’apparenza, la superficialità; non servono persone stereotipate e conformate, ma giovani che non abbiano paura di mostrarsi per quello che sono, che sappiano ancora sognare e credere e lottare per tutto ciò che ritengono giusto, nonostante la realtà che ci circonda ci induca costantemente ad essere pessimisti.

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Do-re-mi, mezzo secolo di musical fra cinema e teatro

Proprio in questi giorni va in scena al Teatro Sistina di Roma il musical “Tutti insieme appassionatamente” [vedi], con la coppia, molto amata dal pubblico, formata da Luca Ward e Vittoria Belvedere.
Si celebra, infatti, un importante anniversario di uno dei film musicali più amati di tutti i tempi, nel 50° dalla sua uscita nei cinema. Quasi un invito che giunge, benvenuto, in un periodo che dovrebbe essere pieno di serenità: riunirsi, tutti insieme, intorno al Teatro per ridare passione, ottimismo, allegria e serenità al pubblico. L’occasione per rispolverare un bellissimo film che abbiamo visto quasi tutti, da bambini.

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La locandina

La pellicola, interpretata dalla splendida Julie Andrews, uscì nelle sale all’inizio del 1965 e da allora resta uno dei classici più belli. Molte generazioni hanno cantato “Do-re-mi” con i propri bambini e ancora oggi questo musical può riuscire nella missione di riunire a teatro o davanti alla televisione intere famiglie. Alla vigilia o il giorno di Natale. Spesso all’Epifania, davanti a una tiepida e morbida fetta di pandoro. Ricordiamo tutti il severo e rigido militare Von Trapp che, come molte belle favole a lieto fine, verrà ammorbidito e domato dalla dolcezza e dal candore femminili. Ricordiamo le musiche, i balli, le canzoni spensierate, le bellezze dei panorami.

Il film è ambientato nella romantica Salisburgo, in Austria, nel 1938, con Maria, orfana allevata in un convento che studia per diventare suora e con le consorelle che hanno seri dubbi sulla sua reale vocazione: ama troppo cantare e ballare ed è spesso indisciplinata.
Per metterla alla prova, la madre superiora la invia come governante dei sette figli (cinque ragazze e due ragazzi) di un vedovo, già comandante della Marina Imperiale Austriaca, Georg Ritter von Trapp. I sette bambini (Liesl, Friedrich, Louisa, Kurt, Brigitta, Marta e Gretl) dimostrano ostilità nei confronti della nuova ed ennesima istitutrice ma dopo una serata in cui si rifugiano nella camera di Maria perché impauriti da un temporale, i loro sentimenti per la novizia cambiano radicalmente.

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Il Comandante Von Trapp

Quella sera stessa, il Comandante riceve un telegramma che lo invita a trascorrere del tempo a Vienna, ospite della sua amica (e pretendente), la Baronessa Schraeder, e decide di partire il giorno dopo. Maria cerca di convincerlo a farle avere della stoffa per farne dei vestiti da gioco per i ragazzi, ricevendo un rifiuto. Avendo saputo che le tende della sua camera sarebbero state sostituite, Maria decide di usare quella stoffa per ricavare i vestiti dei ragazzi, contravvenendo agli ordini espliciti del Comandante.

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La celebre scena del pic nic

Durante la sua assenza, Maria porta i ragazzi a fare una passeggiata per Salisburgo, che culmina con un simpatico e allegro picnic sui pendii che circondano la città. I ragazzi sono felici e si lasciano andare a confidenze, grazie alle quali Maria capisce che i tiri che avevano allontanato tutte le altre istitutrici avevano il solo scopo di attirare l’attenzione del padre e decide di trovare un altro modo per ottenere quell’attenzione.
Passano settimane durante le quali Maria porta spesso i ragazzi a spasso per città e monti, ma di fronte all’ennesima “marachella” e disubbidienza della ragazza (i vestiti fatti con le tende nonostante il divieto e una gita in barca non annunciata), il Comandante ordina a Maria di andarsene; ma saranno proprio i figli a fargli cambiare idea («Lei ha riportato la musica in questa casa»).
La Baronessa, intanto, ha intuito l’interesse del Comandante per Maria e riesce a manipolarla per farla fuggire in convento; Maria abbandona, quindi, i Von Trapp, mentre in casa vigono noia e tristezza. I bambini non accettano l‘annuncio del matrimonio del Comandante con la Baronessa e raggiungono di nascosto il convento per convincere Maria a tornare. Ma lei è in clausura e non può e non vuole ricevere visite. Saputo della visita dei ragazzi, la madre badessa manda a chiamare Maria e, rendendosi conto che quest’ultima è innamorata del Comandante, la convince a tornare: «Nasconderti nel convento non può risolvere i tuoi problemi. Li devi affrontare!».
E poi, il lieto fine, dopo una rocambolesca fuga a causa dell’invasione nazista…
Un film indimenticabile. Un autentico “evergreen”.

Tutti insieme appassionatamente, di Robert Wise, con Julie Andrews, Christopher Plummer, Eleanor Parker, Richard Haydn, Peggy Wood, Anna Lee, Portia Nelson, Ben Wright, Daniel Truhitte, Norma Varden, Marni Nixon, Gil Stuart, Evadne Baker, Charmian Carr, Nicholas Hammond, Heather Menzies, Duane Chase, Angela Cartwright, Debbie Turner, Kym Karath, Usa, 1965, 173 mn.

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CALENDARIO DELL’AVVENTO
Tutta la famiglia riunita intorno al fuoco

Siamo ormai giunti al 22 di dicembre e in ogni casa, attraverso i vetri appannati delle finestre, si possono intravedere le luci del presepe in attesa del bambinello e dell’albero di Natale, o perlomeno uno dei due, diventati nell’immaginario comune gli emblemi della festa del 25 dicembre insieme a dolci come il pandoro e il panettone. Ma vi siete mai chiesti da dove derivi un altro dolce natalizio molto diffuso: il tronchetto di Natale?
Il suo nome originale è Bûche de Noël e proviene dunque dalla tradizione natalizia francese. Riprende nella forma il ‘grande ceppo di legno’, trasportato solennemente in casa e acceso poi nel caminetto la sera della vigilia: un’usanza meno conosciuta, ma diffusa fino almeno alla prima metà del Novecento nelle campagne dell’Inghilterra, della Francia e dei paesi slavi, ma che abbiamo incontrato anche scrivendo delle usanze natalizie in Romagna.
Le cerimonie più elaborate erano quelle dei popoli dell’Est Europa. Per esempio in Serbia e in Croazia si abbattevano due o tre giovani querce per ogni casa, a volte una per ciascun componente maschio della famiglia, e al tramonto della vigilia di Natale si trasportavano i ceppi in casa e si collocavano nel caminetto: mentre il capofamiglia oltrepassava la soglia con il primo ceppo tutti si disponevano ai lati con in mano candele accese e venivano lanciati granoturco e vino. A Ragusa di Dalmazia, l’attuale Dubrovnik, era invece proprio il capofamiglia a compiere questa sorta di benedizione ripetendo “Benedetta sia la tua nascita!” e in alcune zone della Bassa Dalmazia donne e ragazze avvolgevano i tronchi delle querce con drappi di seta rossa e filo dorato e li adornavano con foglie e fiori. Mentre nel Montenegro l’uomo di casa solitamente spezzava un pezzo di pane non lievitato lo poneva sopra il ceppo e vi versava del vino. Tornando alla Francia, quella del ceppo di Natale era una tradizione seguita soprattutto nel sud: in Provenza la vigilia l’intera famiglia usciva per cercarlo intonando un canto e pregando per ottenere benedizioni ed era il componente più giovane a versare il vino sul ceppo che poi veniva gettato nel fuoco.
In diverse zone alle ceneri o al tizzone venivano anche attribuiti poteri magici: proprio in Francia si pensava che la sua cenere proteggesse la casa dai fulmini, mentre in alcune regioni la parte che non era bruciata veniva usata per l’aratro credendo che potesse rendere i semi più prosperi, altrove erano invece le ceneri ad essere sparse sui campi o intorno agli alberi da frutto per aumentarne la produttività. Queste capacità di protezione e di fertilità erano un elemento ricorrente del folklore popolare, si ritrovavano infatti anche in regioni tedesche, come la Westfalia e l’Assia, e in Inghilterra, dove era usanza accendere il ceppo con il tizzone dell’anno precedente.
Vi abbiamo già raccontato dell’usanza romagnola di vegliare alla luce del fuoco acceso dal capofamiglia fino all’ora della messa di mezzanotte, ma in realtà la tradizione del ceppo di Natale un tempo era molto diffusa in diverse zone d’Italia: se in Toscana era conosciuto come ‘ciocco’, in Lombardia diventava il ‘zocco’. Un libro stampato probabilmente a Milano alla fine del XV secolo fornisce diversi particolari riguardo il rituale di accensione: la vigilia di Natale l’intera famiglia si riuniva solennemente intorno al camino dove il capofamiglia accendeva il ceppo nel camino, ai piedi era stato posto del ginepro e sopra del denaro che veniva poi distribuito ai servi; infine, dopo aver offerto da bere a tutti i presenti era di nuovo l’uomo di casa a versare per tre volte il vino sulle braci.
Non è un caso che in tutti i paesi europei si ripetano queste usanze che hanno come fulcro il focolare casalingo: alcuni studiosi leggono questi gesti rituali di accensione come la trasformazione e il perpetuarsi sotto altre spoglie del rito di accensione del fuoco sacro, centro della vita famigliare e dimora degli spiriti degli antenati, che proteggevano la propria discendenza attraverso le fiamme che continuavano a crepitare nel camino.

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JAZZ CLUB
Insolite visioni.
Oggi ultimo concerto

Suonatore con vista di pianoforte dall’alto, piatti di batteria in primo piano, zoom sulle mani dell’organista sopra a tasti in bianco e nero. Sono visioni particolari della musica e dei suoi protagonisti che chiudono la prima serie di reportage fotografici scattati al Torrione di San Giovanni di Ferrara. Questi ultimi bei ritratti, firmati come consueto da Sefano Pavani, raccontano per immagini The Unusual Suspects, il trio composto da Pat Bianchi all’organo, Massimo Faraò al pianoforte e Byrn Landham alla batteria.

Stasera, lunedì 22 dicembre alle 21.30, l’ultimo appuntamento 2014, che è quello della serie “Happy go lucky local”, dedicata agli artisti emergenti. Nella sede del Jazz club Ferrara a chiudere la prima parte di questa stagione di qualità oggi c’è Astral Travel, il progetto ideato dal batterista Tommaso Cappellato che parte dalle radici dello spiritual jazz per indagare nuovi percorsi sonori valorizzati dalla voce di Camilla Battaglia. Completano la formazione Piero Bittolo Bon al flauto e clarinetto basso, Paolo Corsini al pianoforte e tastiere e Marco Privato al contrabbasso.

La seconda parte di “Ferrara in Jazz” ripartirà nel nuovo anno con un cartellone di appuntamenti in programma dal 31 gennaio al 30 aprile 2015.

Intanto buona visione con gli scatti di STEFANO PAVANI.

[clic su una foto per ingrandirla e vedere tutta la sequenza di immagini]

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The unusual suspects: Massimo Faraò al pianoforte
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The unusual suspects: Byron Landham batteria
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The unusual suspects: Byron Landham batteria
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The unusual suspects al Jazz club Ferrara
The unusual suspects al Jazz club Ferrara
The unusual suspects: Pat Bianchi all’organo
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The unusual suspects: Pat Bianchi all’organo
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The unusual suspects al Torrione di Ferrara
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The unusual suspects al Jazz club Ferrara
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The unusual suspects: Massimo Faraò al pianoforte
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The unusual suspects: Pat Bianchi all’organo
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The unusual suspects al Torrione di Ferrara
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The unusual suspects: Massimo Faraò al pianoforte
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The unusual suspects: Massimo Faraò al pianoforte
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The unusual suspects: Pat Bianchi all’organo
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The unusual suspects: Byron Landham batteria

I consumi oltre lo spreco

Cosa compreranno gli italiani con la tredicesima? Una domanda ricorrente per chi si occupa di tendenze di consumo. Quest’anno la risposta è: pagheranno i mutui, le bollette e le tasse che, contrariamente alle promesse, sono aumentate invece che diminuite. Compreranno qualche regalo di Natale, perché a questi non si può rinunciare, scegliendo preferibilmente beni utili. Poi metteranno da parte ciò che avanzerà, per poter fronteggiare spese impreviste o anche perché, quando i tempi sono smorti, anche i desideri calano. Insomma, è chiaro che la fiducia, la disposizione verso il futuro sono parte non marginale dei nostri comportamenti quotidiani, anche quando facciamo la spesa.
Una crisi così prolungata, però, ha reso strutturale il calo dei consumi, una tendenza che è in atto da almeno cinque anni. Nel corso dell’ultimo anno la maggioranza delle famiglie ha ridotto pranzi e cene fuori casa, ha risparmiato su spese per cinema e svago, ha ridotto gli spostamenti con i mezzi propri e quasi la metà ha modificato i comportamenti alimentari riducendo gli sprechi.
Gran parte delle famiglie ha rimodellato su basi nuove i propri consumi, eliminando il superfluo. Tutto ciò non riguarda soltanto chi è a rischio di povertà; come ha indicato il Censis, la maggioranza delle famiglie, se disponesse di risorse più elevate, le metterebbe da parte. Difficile, quindi, continuare a pensare ai consumi come volano dell’economia. I comportamenti di acquisto di beni e servizi stanno cambiando in modo strutturale. In questo non incide solo la capacità di spesa e l’incertezza sul futuro, ma anche un mutamento negli stili di vita e nella sensibilità diffusa. Possiamo riassumere i cambiamenti in tre concetti: maggiore attenzione allo spreco, maggiore attenzione ai beni immateriali, maggiore propensione all’uso rispetto alla proprietà.
L’attenzione allo spreco è mossa anche da una più diffusa sensibilità etica correlata alla consapevolezza dell’impatto ambientale che si traduce nel contenimento dei consumi superflui. Si cambia l’auto con minore frequenza, nell’acquisto degli elettrodomestici si guarda con più attenzione alla solidità e alla durata, nel vestiario si segue meno la moda o se lo si fa è prevalentemente attraverso acquisti a basso costo. Crescono gli acquisti sul web che consentono di risparmiare, si pratica un confronto più attento dei prezzi, si scelgono i punti vendita che hanno saputo proporre un’offerta low cost attenta alla qualità estetica e all’innovazione.
La spesa si sposta sui beni immateriali e su quelli che riguardano relazioni e convivialità. Non a caso le tecnologie della comunicazione continuano a vedere una crescita. La stessa diffusione di cellulari e computer sostituisce passatempi più costosi e le comunicazioni hanno costi in calo.
L’economia della condivisione sostiene una cultura orientata all’affitto e al riuso piuttosto che all’acquisto di beni. Usare senza possedere è la nuova parola d’ordine ormai in molti settori. Si afferma il riciclo e la pratica dell’usato, ad esempio, nei beni che riguardano i bambini che hanno un tempo d’uso limitato e che vengono passati con piacere o rivenduti.
Non torneremo al passato, ma certamente cambierà il nostro modo di usare le risorse, a favore di un benessere che non si identifica completamente con il possesso, né tanto meno con l’ostentazione.

Maura Franchi – Laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing, Marketing del prodotto tipico. I principali temi di ricerca riguardano i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@gmail.com

Seconda serata di “Autori a Corte” speciale Natale

da: Autori a Corte

Secondo ed ultimo appuntamento martedì 23 dicembre 2014 presso la Sala Estense di Ferrara di AUTORI A CORTE 2014 speciale Natale rassegna letteraria che gode del Patrocinio del Comune di Ferrara ed in parternship con IPSSAR Ferrara che collabora con un progetto innovativo che coinvolge ogni era una dozzina di studenti coordinati dell’insegnante Maria Cristina Borgatti per una esperienza sul campo nell’ambito di un evento culturale.
Dopo la fortunata prima serata che ha visto un afflusso di quasi 150 persone per le tre complessive presentazioni in calendario, il gruppo editoriale Este Edition-Edizioni La Carmelina, nelle persone di Vincenzo Iannuzzo e Federico Felloni che hanno creato la manifestazione e la ripropongono nellla versione natalizia grazie all’apoggio di Banca Mediolanum ed Estense.com, propone due presentazioni che sono assolute novità.
Alle ore 20,00 il volume di Gian Pietro Testa Interviste infedeli (Este Edition) presentato da Sergio gessi (direttore del quotidiano ferraraitalia.it, Riccardo Dalbuoni (addetto stampa Comune di Occhiobello). Testa giornalista professionista in varie testate nazionali, è stato, fra l’altro, inviato speciale de “Il Giorno”, de “l’Unità”, di “Paese Sera”. Ha diretto il quotidiano napoletano “Senzaprezzo” e la televisione regionale “NTV”. È considerato uno dei massimi esperti italiani di terrorismo. Il libro è l’esulcerato sfogo contro coloro che usano, fra l’altro (ma non soltanto), la religione come invincibile arma di potere.
A seguire dalle ore 21,00 si cambia decisamente registro con Note appuntate, l’attesissimo volume di Andrea Poltronieri (Edizioni La Carmelina) che in occasione dei suoi 20 anni di cariera ha deciso di pubblicare i suoi peniseri, i suoi ricordi, la sua musica, la sua passione per il sax, foto storiche e i testi delle canzoni che hanno allietato le serate di due generazioni. Il tutto in un volume che da il via alla collana Autori a Corte presentato da Nicola Franceschini (giornalista Telestense e Rete Alfa)con interventi di Roberta Marrelli. Entrambe le presentazioni saranno precedute da degustazioni gratuite, come l’ingresso alla serata, delle ditte Panificio Dellepiane, Azienda Vinicola Zanatta, Caffetteria 2000. L’edizione natalizie prevede anche un prologo alle ore 18,00 dedicato ai bambini e denominato Merenda con l’autore, in questo caso sarà protagonista Daniela Pareschi, scenografa tetarale e cinematografica che ha collaborato come art director a moleplici film italiani ed internazonali, con Il mare,le onde (Lantana Editore) libro introdotto da Ruggero Veronese (redattore di estense.com), che è il secondo di una serie di libri dedicati alla pratica del disegno attraverso l’osservazione. Uno stimolante metodo per imparare a disegnare lasciando libera la propria creatività. Un pomeriggio dedicato ai più piccoli a cui oltre ad una degustazione ad hoc saranno offerti degli omaggi offerti dalla Cartoleria Paper Moon.
Ricordiamo che l’ingresso è libero e che la durata di ogni presentazione è di circa 40 minuti.
Info http://www.autoriacorte.oneweb.it

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LA SEGNALAZIONE
A parlar con Dio e con Satana

Si rivolge a Dio e poi a Satana che riesce pure a incontrare. Nelle “Interviste infedeli” (Este edition, 2014), Gian Pietro Testa prova a interpellare Dio inviandogli una lettera, mentre con Satana ci ragiona. Scrittura ironica e autoironica, “Interviste infedeli” è un’opera letteraria lucida e piena di punti interrogativi che, in parte, troveranno risposta. Con questo pamphlet, Testa guarda la società odierna, ammettendo di non sapere molte cose, di non capire più quest’uomo di oggi e riferendo, quindi, i propri dubbi ai ‘rappresentanti’ all’Adilà. Magari, loro, una risposta l’avranno.

Ha risposto Dio alla missiva?
“No, non ha potuto, ammesso che ci sia”.
Che Dio è quello a cui viene inviata la lettera?
“E’ un Dio creato dalla religione, creato dall’uomo e non mi piace, è il Dio del potere, della paura, dell’imposizione e del peccato, è il Dio degli eserciti. È un Dio che arriva a chiedere ad Abramo il sacrificio del proprio figlio. Ma vi pare possibile?”.
Ad Agamennone fu chiesto di sacrificare la figlia Ifigenia per propiziare una spedizione militare…
“Appunto, parliamo di una religione che ha attinto al politeismo, al paganesimo, ai riti e alle manifestazioni di antiche religioni. Si pensi solo a mangiare il pane e bere il vino, non è forse l’antropofagia che praticavano antiche tribù?”
Quale Dio le piacerebbe?
“Quello che ci ha fatto intravedere Gesù Cristo, quello della prima religione cristiana, un Dio buono. Io non lo conosco, ma non credo che Dio ammetterebbe la società odierna, l’animo malvagio dell’uomo, tutte queste vittime, questa mancanza di pietà”.
L’intervista con Satana è andata meglio?
“Satana è qui, è avvicinabile, plebeo, lo incontro tutti i giorni, l’inferno e il male sono qua. E poi Satana è un esodato, un licenziato senza nemmeno cassa integrazione”.
Se Dio non risponde, Satana apre un dialogo con lei, è quasi didascalico nel spiegarle certi meccanismi, ad esempio che nell’Aldilà, che per Satana è Aldiqua, è successa una gran confusione.
“Sì, l’uomo è riuscito a creare il caos non solo qui sulla Terra, ma anche nell’Adilà, dove il Limbo è stato tolto e un sacco di anime non sapevano più dove andare. E poi gli angeli custodi a zonzo, via anche quelli, dimenticati e disoccupati”.
Satana sa descrivere molto bene l’animo umano…
“Di noi dice che sappiamo solo fornicare, fare la guerra e riempirci di soldi e potere e che non c’è animale più crudele dell’uomo”.
Forse anche per questo Satana sceglierà dove stare?
“Sceglierà di stare in mezzo al vero inferno, dove ha potere senza limite, cioè nel mondo”.

“Interviste infedeli” sarà presentato martedì 23 dicembre alle 20 in Sala estense nell’ambito della rassegna Autori a corte.

Gian Pietro Testa, giornalista ferrarese, inviato speciale de Il Giorno, de L’Unità e di Paese Sera, fondatore della scuola di giornalismo di Bologna, ha pubblicato opere di poesia e romanzi e il libro inchiesta giornalistica La strage di Peteano che, nel 1976, anticipò le soluzioni delle indagini della magistratura sul caso.

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SETTIMO GIORNO
L’eclissi della solidarietà nel Paese dei Proci

MEDEA e PENELOPE – La tragedia greca continua a vivere qui, in questo paese arlecchinesco, dove non si sa che cosa sia la solidarietà umana e non si ha idea di che cosa debba essere la politica, proprio qui dove la politica ha avuto sistemazione giuridica moderna: non c’è da meravigliarsi, il nuovo millennio ci ha fatto capire che viviamo in una regione del mondo in cui si è data grande importanza all’ignoranza, la prima causa dei nostri drammi. Siamo un paese d’incompetenti, non sappiamo più nulla, chi sa viene bastonato, umiliato, la carriera è riservata agli analfabeti, spesso, sempre più spesso laureati, naturalmente in tre anni. Ed è questa magmatica somaraggine generalizzata il terreno ove si coltiva il delitto. In questi giorni che precedono il Natale, festività imbarbarita dallo shopping che nemmeno la crisi è riuscita a spegnere, penso che tre figure del Mito siano emerse: Medea, Penelope, Erode. Mi sembra che definire la nostra l’éra di Erode sia naturale, i bambini massacrati nella scuola pakistana, gli altri “giustiziati” nello Yemen non sono forse stati condannati da Erode, re di Giudea? Le due figure femminili. La prima, Medea, è il simbolo delle madri che uccidono i propri figli, la seconda, Penelope, poverina, attrende ancora il suo Ulisse e, intanto, continua a fare la sua copertina. Ma Ulisse non torna e, per il momento, non tornerà, la sua casa (la nostra casa) è stata invasa dai Proci, loro comandano, loro decidono, loro distruggono il diritto, comprese le leggi a difesa di chi onestamente lavora. Si, credo che questo sia il Paese dei Proci.

STATO SOCIALE ADDIO – Il duro governo Renzi ha deciso, tutto va privatizzato, i servizi pubblici tornano a essere privati come un tempo che avevamo faticosamente superato, Ferrovie, Poste, eccetera, in mano alla speculazione privata: ma che si credevano questi italiani socialistoidi che pensavano a uno stato solidale?

LA MAGLIANA – Oh guarda! A Roma ci si è accorti che esiste la banda della Magliana, il grande quartiere popolare a ovest della città, verso Ostia. Sono tanti anni che alla banda viene dato il compito di gestire gli affari politici più sporchi, perfino il rapimento e l’omicidio Moro è stato un affare interno tra servizi cosiddetti devisti e la banda della Magliana, il cui uomo di riferimento in quegli anni si chiamava Tony Chicchiarelli, colui il quale scrisse sulla sua macchina per scrivere IBM i comunicati delle Br, Lago della Duchessa conpreso. Poi il Chicchiarelli è stato fatto fuori, un colpo di pistola alla testa, a poca distanza di tempo dalla esecuzione del giornalista Mino Pecorelli, pagato dai soliti servizi e poi mandato al cimitero. Con un colpo alla nuca. Proprio un bel paesino, il nostro.

scrooge

CALENDARIO DELL’AVVENTO
Canto di Natale di uno spilorcio pentito

Ebenezer Scrooge non ama le persone.
Avaro, non parsimonioso; gretto, non riservato; gelido, non controllato. Semplicemente scrooge. Talmente caratterizzato da avere ispirato il celeberrimo personaggio di Zio Paperone – Uncle Scrooge il suo nome originale – e la parodia Disney che prende il titolo del romanzo, oltre a un vasto numero di trasposizioni cinematografiche; divenuto antonomasia che indica una persona tirchia, taccagna, arida di animo e comportamento (dal dizionario Merriam-Webster: “Scrooge or scrooge: a selfish and unfriendly person who is not willing to spend or give away money”).

“Caldo e freddo contavano poco per Scrooge. Non vi era caldo che lo scaldasse, né tempo d’inverno che lo facesse intirizzire. Non vi era raffica di vento più pungente di lui, né bufera di neve più determinata nel suo intento, né scroscio di pioggia più sordo alle suppliche. Con lui il maltempo non sapeva come fare a spuntarla. Per quanto violenti, pioggia, neve, grandine, nevischio potevano vantare la propria superiorità rispetto a un unico punto. Spesso manifestavano la loro generosità mentre Scrooge non lo faceva mai.”

Scrooge, ricchissimo finanziere nella Londra ottocentesca non ha tempo da perdere con i rapporti umani, né con il Natale. Dopo lo sgarbato, ennesimo rifiuto di fronte a una gentilezza e una richiesta di aiuto, Scrooge riceve una Epifania anticipata, sotto forma di tre spiriti che gli fanno visita.
Prima lo spirito del Natale passato, sotto forma di fantasma, che ricorda al vecchio episodi felici di gioventù da lui disprezzati – il vecchio e bonario capo Fezziwig; il leale socio Marley, ora morente; la sfortunata fidanzata Bella che lui abbandona. E il rimorso che lo pervade, una volta messo di fronte alla propria vita egoista, sprecata senza mai un’azione di bontà, pietà o altruismo.
Gli fa visita poi lo spirito del Natale presente, che gli mostra una umanità dolente, alle prese con difficoltà economiche e privazioni e che tuttavia trova l’occasione e il coraggio di sorridere e celebrare la festa religiosa – il nipote Fred e la sua famiglia, l’umile impiegato Bob Scratchit, minatori, marinai. Il colpo di grazia gli viene inferto dallo spirito del Natale futuro, che mostra a Scrooge nient’altro che il suo imminente futuro: morto, deriso da tutti per la sua tirchieria e la sua bassezza, preda degli sciacalli che si avventano sul suo patrimonio e felici di essersene liberati. La mattina dopo è Natale, ma per Scrooge è arrivata l’Epifania: getta la maschera del capitalista ed entra, a pieno titolo, nel mondo dei buoni, un cattivo che diventa buono, un self-made man finalmente disposto a condividere la propria fortuna, riparando ai torti fatti e offrendo aiuto concreto a chi ne ha bisogno.

«Spirito!», gridò, aggrappandosi alla sua veste, «ascoltatemi! Non sono più l’uomo che ero. Non sarà l’uomo che immancabilmente sarei stato senza il nostro incontro. Perché mostrarmi questo, se sono al di là della speranza?»

Nel suo “Canto di Natale” (“A Christmas Carol: a Goblin Story of Some Bells that Rang an Old Year Out and a New Year In”), pubblicato per la prima volta nel 1843, Charles Dickens getta il lettore in una storia edificante, un racconto fantastico dal sapore gotico, dalle atmosfere cupe e fuligginose, che pesca a piene mani dal realismo di cui lo scrittore è voce forte nella metà Ottocento di quella Inghilterra lacerata da disparità sociali, povertà, analfabetismo, sfruttamento minorile, Poverty Law. Raccontandole attraverso ritratti picareschi, quasi caricaturali nella loro forza espressiva magnificamente incanalata tra poesia mascherata da prosa e ‘morality’ vittoriano, strutturato in cinque atti, con tanto di sipario tra una apparizione di spirito e l’altra.
E magnificamente restituite attraverso i luoghi e i personaggi che la animano, tra protagonisti della classe operaia e del popolo che anima la Londra di Coketown, bambini laceri ai piedi dello spirito del Natale presente, Miseria e Ignoranza – le due condizioni a cui Scrooge e tutti quelli come lui condannano, oggi come allora, chi non fa parte della classe dominante.

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‘Variazioni enigmatiche’, una pièce spensieratamente autarchica

STANDING OVATION: I PIU’ ACCLAMATI SPETTACOLI TEATRALI DEL XXI SECOLO
“Variazioni enigmatiche” di Éric-Emmanuel Schmitt, regia di Glauco Mauri, Teatro Comunale di Ferrara, dal 31 gennaio 2001 al 3 febbraio 2002

La stagione di prosa 2001/2002 del Teatro Comunale si avvicina al suo giro di boa con “Variazioni enigmatiche”, del drammaturgo francese Éric-Emmanuel Schmitt (Lione, 1960), una commedia nella quale un celebre scrittore e uno sconosciuto giornalista sono alle prese con un’intervista che ben presto degenera in un duello senza esclusione di colpi. È un gradito ritorno a Ferrara quello di Glauco Mauri (Pesaro, 1930): ottimo regista e grande attore, teatrale e cinematografico, interprete di Sofocle, Shakespeare, Cechov, Brecht, per non parlare di sue magistrali performances beckettiane come ad esempio ne “L’ultimo nastro di Krapp” (1961).
Un abbozzo di trama di “Variazioni enigmatiche” è il seguente: il personaggio protagonista, Abel Znorko, premio Nobel per la letteratura, incontra nella sua casa, dalla cui terrazza si scorge la luce di un tramonto che annuncia di lì a pochi giorni la lunga notte boreale, un giornalista venuto per intervistarlo, Erik Larsen. Lo scrittore, che si è rifugiato su una piccola isola della Norvegia settentrionale e non ha quasi più rapporti con il resto del mondo, discute con l’ospite del suo nuovo recente romanzo. Circa l’ambiguo e inquietante finale, che non sveleremo, ha commentato lo stesso autore: «Ho ricevuto centinaia di lettere che ponevano tutte l’identica domanda: cosa succede dopo l’ultima battuta? La mia risposta è stata sempre la stessa: 1) non lo so, altrimenti avrei continuato la storia; 2) ho scritto questa storia proprio perché mi venga posta questa domanda, e io possa non rispondere».
È dai tempi di “Crepino gli artisti” di Kantor, o di “Glenngarry Glenn Ross” di Mamet, che non si assiste al Comunale ad una commedia di tale caratura. Il copione di Schmitt: arguto e colto, divertente e disperato, intelligente e spietato, non solo fa tesoro della lezione dei maggiori drammaturghi contemporanei, da Ibsen a Miller, da O’Neill a Beckett, ma addirittura richiama, ad esempio in passaggi come: «La carezza è un malinteso fra due solitudini», il magistero di
Shakespeare. Il tutto assemblato con un’originalità ed un’urgenza espressiva completamente autonome, spensieratamente autarchiche. “Variazioni enigmatiche”, tradotto e diretto da Glauco Mauri, per l’interpretazione dello stesso Mauri e Roberto Sturno e con le scene e i costumi di Alessandro Camera, è stata interpretata in Europa da attori del calibro di Alain Delon (in Francia), Donald Sutherland (in Inghilterra), Klaus Maria Brandauer (in Germania).

IL FATTO
Ttip, all’altare del libero scambio Europa e Usa pronti a sacrificare diritti e tutele

“Siamo in un periodo di forte disaffezione alla rappresentanza politica ma evidentemente non di scarsa partecipazione”, ha commentato Raffaele Atti, segretario generale della Cgil di Ferrara, di fronte alla platea gremita che ha partecipato all’incontro “T-Tip: vuoi sapere come ci stanno fregando?”. “E’ l’ultimo venerdì sera prima di Natale e vedere che siete così tanti ci fa capire l’interesse per il tema”, ha detto Marzia Marchi, tra i promotori della serata, assieme a Altraqualità, Biopertutti, Comitato acqua pubblica Ferrara, Comunità Emmaus Ferrara, Gentedisinistra, FerrarAlternativa, Fiom CGIL, Rete Lilliput. Con il patrocinio del Comune di Ferrara.

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I relatori

Il tema è quello del Transatlantic trade and investment partnership, ovvero il partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti, un trattato di libero scambio e investimento che Unione Europea e Stati Uniti stanno negoziando e che avrà fondamentali ricadute sull’economia mondiale, ma anche locale. Gli Stati Uniti vogliono in buona sostanza aprire un corridoio di scambi economici con l’Europa, chiedendole di rivedere le norme che attualmente li regolano. “Questa trattativa sta avvenendo in segreto, manca completamente di trasparenza” ha accusato Monica Di Sisto, del comitato Stop Ttip, tra i relatori dell’incontro.

La principale preoccupazione degli oppositori al Ttip è che il prezzo del libero scambio sia il sacrificio delle norme per la sicurezza alimentare (in particolare gli Ogm), dei diritti dei lavoratori, e della tutela ambientale, ovvero i capisaldi del nostro Paese, già messi a repentaglio dalla crisi e dalle mafie. Inoltre, paventano i critici, il trattato provocherà la revisione dei regolamenti sull’uso di sostanze chimiche tossiche, delle leggi sulla privacy digitale e anche delle nuove norme a tutela delle operazioni bancarie, introdotte per prevenire una crisi finanziaria come quella del 2008.
“Il tentativo in atto – ha spiegato Vittorio Ferraresi, deputato Cinque Stelle – è quello di bucare il muro che c’è in Europa per accedere al suo mercato, appiattendo le regolamentazioni che rendono difficili le importazioni dagli Usa, che hanno diversi standard di qualità”.

ttip-trattatottip-trattatoIl punto, è stato spiegato, non è solo che dopo tutta la fatica fatta per ottenere, tra gli altri, l’Igp della Salama da Sugo, si apra il mercato italiano al ‘parmesan’, il finto parmigiano prodotto fuori dall’Italia. A preoccupare è anche la volontà dei negoziatori del Ttip di aprire i servizi pubblici e i contratti per appalti governativi alla concorrenza di imprese transnazionali, rendendo possibile un’ulteriore ondata di privatizzazioni in settori chiave come la sanità e l’istruzione.
“Per chi è fatto il trattato?”, ha invitato a chiedersi Ferraresi. “Dietro ai negoziatori statunitensi, ci sono le lobby delle più potenti multinazionali del mondo, che così saranno ancora più potenti”. “L’ipotesi più ottimista – ha affermato Atti – è che il Pil dell’Unione Europea aumenti dello 0,5% entro il 2027”. Il guadagno effettivo che ci si può aspettare dal trattato non appare dunque così rilevante.

“Le aziende – afferma John Hilary, direttore esecutivo di War on want, e autore del libretto di approfondimento distribuito durante la serata – verranno incoraggiate a procurarsi merci e servizi dagli Stati Uniti, dove gli standard di lavoro sono più bassi e i diritti sindacali inesistenti. In un’epoca in cui i tassi di disoccupazione in Europa hanno raggiunto livelli record, con una disoccupazione giovanile in alcuni stati membri del 50%, la Commissione europea ammette ‘timori fondati che quei lavoratori rimasti senza posto a seguito del trattato Ttip non saranno più in grado di trovare un’altra occupazione”.

Ma non è tutto. Ad allarmare tutti gli oppositori europei, costituiti da un asse trasversale da destra a sinistra, è che il trattato includerebbe l’Isds, l’Investor-state dispute settlement, una disposizione per la risoluzione delle controversie tra gli investitori e gli Stati, che permetterebbe alle imprese di “citare in giudizio i governi sovrani – spiega ancora Hilary – davanti a tribunali arbitrali e creati ad hoc, per rifarsi della perdita di profitti eventualmente causata da decisioni di politica pubblica. Questo eleva di fatto il capitale transnazionale ad uno stato equivalente allo stato nazionale stesso, e minaccia di far crollare i principi più elementari della democrazia, sia europea che statunitense”.

“I cittadini cosa possono fare?” ha chiesto il moderatore della serata Michele Fabbri, giornalista scientifico. “Possono informarsi – ha risposto la Di Sisto – la mobilitazione europea nata quando si è diffusa la consapevolezza di quel che stava accadendo, ha comunque costretto l’Ue a desecretare alcuni documenti, anche se altri rimangono inaccessibili. Ora sanno che li stiamo guardando, e stanno cambiando delle cose. In primavera il Parlamento europeo esprimerà un parere sul negoziato, il che non lo modificherà, ma è comunque un passaggio politico importante perché, se evidenzierà delle criticità, noi avremo più forza per opporci. Intanto abbiamo in previsione un grande evento il 18 aprile, in occasione della giornata della terra. Deve nascere una rivolta democratica, se riusciamo a fermare il trattato, avremo uno spazio per discutere non solo di Sanremo, della Roma e della Lazio, ma anche di cosa mangeremo e di come vivremo domani”.

Per saperne di più, visita il sito dell’Ue sul Ttip [vedi] e il sito del comitato Stop Ttip [vedi]