Nel primo Novecento Marinetti e i futuristi inventarono la cosiddetta poesia sonora basata
sull’abbandono del supporto cartaceo e sull’utilizzo delle nuove tecnologie, all’epoca radio e
radiodrammi furono chiamati tali esperimenti futuristi.
In seguito, verso il 1940, Carlo Belloli ha elaborato il pionierismo futurista in tale nuova poetica,
infine negli e dagli anni Sessanta, sempre del secolo scorso, le neoavanguardie – da Umberto Eco a Sanguineti a Zanzotto a Adriano Spatola e Enzo Minarelli – hanno codificato le sperimentazioni parafuturiste adattate alle nuove tecnologie, dal magnetofono infine al computer e al digitale, ispirati non più dalla rivoluzione artistica ma da nuove scienze quali semiotica e linguistica.
Due sono attualmente le rotte principali della nuova poetica sonora anticartacea: la prima consiste nella poesia sonora neoprimitiva un poco come i graffiti di Basquiat neopop; la seconda nella poesia sonora cibernetica basata sulle nuove tecnologie del XX secolo, dal Futurismo all’arte programmata fino all’arte elettronica, video, computer art, compresa la tecnomusic da discoteca e generi affini. A partire dagli anni Ottanta a Ferrara, in particolare, spicca a livelli internazionali il centese Enzo Minarelli tra poesia sperimentale, sonora doc, live set: unico e inconfutabile il ruolo pionieristico e forse ineguagliato dello stesso Minarelli, le stesse riviste sonore Baobab e V3/Tre di Reggio Emilia e Cento, lavori sperimentali, presentati in Italia, Europa, Usa e anche conferenziere ufficiale per alcune università, Messico, Sud America, non ultimo il lavoro autobiografico “Polipoesia mon Amour” (Campanotto, 2005). In tale opera, quasi un libro messaggio alla McLuhan, la parola tra Neofuturismo e Neodadaismo appare definitivamente filtrata dalla ricerca scientifica, sorta di linguistica o semiotica immaginaria con esiti pure sorprendentemente ironici e freddamente micidiali per le poetiche cartacee.
Minarelli ha prodotto anche videopoesie sonore per il Centro Video Arte di Ferrara, il manifesto della Polipoesia (1987) e Renato Barilli, non caso, gli ha dedicato un saggio critico.
Tutt’oggi, ormai con un background vastissimo, è protagonista internazionale della nuova poetica totale/elettronica di cui il suo manifesto della cosiddetta Polipoesia (anni 80) resta anno zero di riferimento obbligato.
Per saperne di più visita la pagina dedicata a Enzo Minarelli nel sito Archivio di Polipoesia [vedi].
* da Roby Guerra, “Dizionario della letteratura ferrarese contemporanea”, Este Editon-La Carmelina ebook 2012 [vedi]
Mamma mi ha sempre insegnato che non si deve sprecare il cibo, soprattutto il pane. Mai gettarlo via, nemmeno se vecchio, nemmeno se avanzato, raffermo o terribilmente duro. Può sempre essere buono e poi, nel mondo, ci sono tante persone che non ne hanno. Un po’ come “chi ha pane non ha denti e chi ha denti non ha pane”. Se poi andate in alcuni paesi, come quelli nordafricani, il regalo più grande che vi può fare un amico o un conoscente è una bella e fresca pagnotta di pane. Spesso fatta nei forni a legna, a volte preparata in casa da madri, sorelle o mogli. Ricordo la meravigliosa, rotonda, sottile e gialla kesra di Algeri, che non arrivava mai intera a casa, la più buona era quella che mi veniva regalata dal mio amico Hassem, che la trovava in un forno meraviglioso, quando non era la madre a prepararmela. Era un onore riceverla, allora mi è stato insegnato che per un arabo regalare il pane è un grande gesto di amicizia, stima e generosità. Si regala la base della vita. Mai rifiutare il regalo che si riceve, quindi: sarebbe una vera e propria offesa. Se, poi, il pane ha un valore simbolico in tutto il mondo, esso rappresenta da sempre l’alimento base di tutti, ricchi e poveri. Non va sprecato, in un mondo dove a tanti manca.
Cartello del fornaio di Taranto che regala il pane la sera a chi ha bisogno
Per questo abbiamo deciso di lanciare un piccolo appello, partendo dalla scoperta di una lodevole iniziativa di un fornaio di Taranto, in una via che si chiama Emilia, guarda caso come la nostra bella regione. Questo fornaio regala il pane che rimane nel suo negozio a chi ne abbia bisogno, dopo le 19.30. Di sera, specifica lui. Se qualcuno, in rete, ha criticato la parola ‘avanzato’ che compare sul cartello della vetrina, noi non lo notiamo affatto, perché, termini a parte, l’idea ci pare ottima.
Da studenti, a Parigi, andavamo a recuperare gli ‘scarti’ di fine giornata dei mercati rionali di frutta e verdura, che venivano venduti a poco prezzo. Eravamo in quattro o cinque a dividerci chili di patate e pomodori che erano troppi per uno solo e che venivano solo smerciati a basso prezzo a condizione che si prendesse la grande quantità rimasta. Lì ho capito l’importanza del risparmio, di non sprecare. Non che mamma (anche qui lei) non me lo avesse insegnato, ma allora, con sempre meno soldi, da giovane borsista universitaria squattrinata quale ero, faceva davvero comodo. Ecco quindi che questo fornaio tarantino ci piace, e tanto. Magari lo si fa già anche nel nostra bella città. Se così fosse, chiedo venia per non averlo scoperto subito e comunicato a tutti. Se così non fosse, invece, invito a seguire l’esempio.
Acli Roma ha sviluppato il progetto ‘pane a chi serve’ [vedi], volto a recuperare dai panifici convenzionati pane e prodotti da forno ‘del giorno prima’ (meglio del termine’avanzato’?) per metterli a disposizione delle associazioni caritative e creare una rete di sostegno nel territorio (ad oggi il progetto recupera circa 1000 kg di pane a settimana dai 20 forni aderenti e distribuisce a 120 associazioni). Tante associazioni si stanno organizzando in tal senso. Ma il fornaio tarantino ci piace particolarmente, perché è uno, da solo, e nel suo piccolo rappresenta un segno di una grande solidarietà attiva che caratterizza molti italiani normali, ogni giorno, ogni ora, ogni minuto.
Cogliete l’attimo, allora, cari amici fornai ferraresi. Con quel bel ‘volentieri’.
Pane è la più gentile, la più accogliente delle parole. Scrivetela sempre con la maiuscola, come il vostro nome.
(Insegna di un caffè russo)
L’intellettuale insoddisfatto Martin Joubert (un sempre meraviglioso Fabrice Luchini che avevamo recensito in “Moliere in bicicletta”), lascia Parigi per trasferirsi in Normandia, dove decide di riaprire la panetteria paterna e vivere in solitudine, equilibrio, serenità e tranquillità, in mezzo alla natura (l’elemento del misantropo che caratterizza spesso i personaggi di Luchini torna ancora).
La locandina
Martin ha una grande passione per la lettura e la letteratura, Gustave Flaubert su tutti. Sereno quasi fino alla noia, Martin impasta, crea nuove forme e tipi di pane, ascolta France Culture che ‘legge’ “Madame Bovary”, il suo romanzo preferito. Tra il pane aromatico sfornato e una pagina sfogliata piano piano, il panettiere ancora non sa che la vita può davvero avere più fantasia della finzione. L’equilibrio raggiunto a fatica non tiene: viene sconvolto dall’arrivo improvviso e del tutto inaspettato della nuova coppia inglese di vicini di casa, Charles (Jason Flemyng) e Gemma Bovery (Gemma Arterton), ma, in particolare, da quello di Gemma, una vera e affascinante chimera. Il nome della coppia è, poi, una strana e sorprendente coincidenza. Flaubert, sempre Flaubert, anche qui. La coppia (lui restauratore, lei sensuale arredatrice d’interni), aprirà nella vita di Martin quell’inatteso e sconvolgente squilibrio che passa attraverso il parallelo della vita della giovane Gemma con il romanzo “Madame Bovary”, tanto adorato dall’uggioso, nevrotico e pieno di tic Martin.
L’affascinante Gemma
Sarà, infatti, proprio nella bellezza semplice e seducente della ragazza, nella sua capacità di attirare l’attenzione maschile e, soprattutto, nella sua manifesta inadattabilità alla noiosa vita di provincia a indurre nella mente di Martin un confronto tra la vita della sua conturbante vicina e le vicende narrate nel romanzo dello scrittore francese, che scrisse e ambientò “Madame Bovary” proprio in quella splendida Normandia.
Sedotto dalla vicina e follemente incuriosito dall’aderenza della vita della donna al suo amato testo letterario, l’uomo sarà, dunque, spinto a seguire con sempre maggiore interesse le vicende della ragazza, pur di constatare fino a che punto vita e romanzo tenderanno realmente a sovrapporsi. Romanzo e vita che si mescolano, si confondono.
L’intellettuale-panettiere Martin
Commistione, fusione, persino confusione. Una commedia leggera, ironica e divertente che gioca con la letteratura e la sua primaria fonte d’ispirazione, per riflettere sulla capacità delle passioni/ossessioni di travisare o addirittura di modificare la fisionomia della realtà. Una commedia pudica e semplice che fa riflettere sulle strane casualità della vita, ma ancor di più sul piacere, sulla bramosia dei desideri, sull’impossibilità del sogno e l’ineluttabilità di certe scelte. Film elegante, piccolo ma grande. In un ambiente delizioso, fatto di una profumata panetteria artigianale, un château e un vecchio casale. Gemma Bovery, di Anne Fontaine, con Fabrice Luchini, Gemma Arterton, Jason Flemyng, Isabelle Candelier, Niels Schneider, Francia, 2014, 99 mn.
Paolo Morelli, musicista, pittore, poeta e leader de Gli Alunni del Sole, il gruppo italiano le cui canzoni ci hanno accompagnati nella vita di tutti i giorni dalla fine degli anni Sessanta, si è spento ormai un anno e mezzo fa, il 9 ottobre 2013. Ma la sua scomparsa è passata quasi inosservata, annunciata soltanto da qualche lancio di agenzia e da flash dei telegiornali nostrani. Abbiamo perso un autore che ci ha descritto le sue passioni, per mezzo di canzoni dotate di una musicalità particolare, riconoscibili già dal primo accordo, ricche di parole che descrivevano amori, gesti, oggetti, ricordi e ossessioni.
Gli Alunni del sole
Paolo era semplice nelle sue espressioni, una semplicità che ne misurava proporzionalmente la grandezza. Le sue parole nascondevano processi di pensiero non convenzionali ma unici e allo stesso tempo recepiti dalla maggiore parte delle persone, come parte del proprio immaginario; da qui il successo, l’amore e la stima per questo artista.
Ci piace ricordare le parole che lui stesso ha scritto nel libretto del suo ultimo album di inediti: “Per molto tempo ho fatto un sogno fantasioso e ricorrente. Una bambina cammina lungo una spiaggia senza fine tra cielo e mare e, con una decisa interpellazione di tipo cinematografico, mi dice: Ciao… io sono la tua storia… tutte le canzoni di questa mia nuova raccolta sono legate a questo tema del sogno a me tanto caro. Ho sempre scritto canzoni d’amore e ho cantato sempre l’amore”. L’idea del sogno forse è la stessa della bambola di cartone di “Jenny” o di “Dov’era lei a quell’ora”, un originale concept album che racconta la storia di un uomo accusato di omicidio, parlando delle sue riflessioni di uomo, non importa se colpevole o innocente. Per chi non lo sapesse, il nome del gruppo è stato tratto dall’omonimo romanzo di Giuseppe Marotta.
L’ultimo album di inediti
Qualche mese fa è uscito in sordina l’ultimo doppio Cd degli Alunni del sole, intitolato “La storia… il sogno”. Nel primo disco sono rappresentati 45 anni di storia, con quindici tra i maggiori successi del gruppo napoletano. La track list inizia con “L’aquilone” (il primo 45 giri pubblicato nel 1968), per chiudersi con “Liù” (vinse il Festivalbar nel 1978), passando per “Cantilena”, “La stanza dei ricordi”, “’A Canzuncella”, “Concerto” e tanti altri successi. Tutti i brani sono in versione originale, molto gradita la presenza di “Carezze”, che rappresenta la produzione realizzata sotto il marchio Rca, dopo gli anni in Ricordi, raramente proposta in digitale. Un’altra caratteristica degli Alunni è di non avere mai inciso cover straniere, come facevano abitualmente i gruppi della loro epoca. Naturalmente non poteva mancare “Jenny”, brano principale di “Jenny e la bambola”, ermetico concept album del 1974, ristampato soltanto recentemente su Cd (direttamente dal vinile), che racconta l’uscita dall’adolescenza di una ragazza, passando per metafore e figure ricorrenti quali maschere, sguardi, bambole, specchi e fiori. La perla di questo cofanetto è senza dubbio l’album intitolato “Il sogno che svanisce” (quasi una premonizione), che contiene dieci tracce inedite. Si tratta di canzoni d’amore, come nella sua consuetudine, tra queste “‘Na canzone”, incisa anche da Patty Pravo, nel suo album intitolato “Meravigliosamente Patty”. Le canzoni sono in lingua italiana e napoletana, tutte scritte da Paolo Morelli, che il fratello Bruno definisce “un cantautore all’interno di un gruppo”. Il disco d’inediti è intrigante, malinconico, allegro, poetico, frutto d’ispirazione e coinvolgimento da parte del suo autore.
Forse la nostalgia può avere influito su questo giudizio, ma ascoltando ” ‘Na Canzone” o “Ci vorrebbe un altro caffè”, i dubbi spariscono: “… ci vorrebbe un altro caffè, sposo così anche te, volo con nostalgia, a un soffio di malinconia, ma son sicuro che tu, ti prendi gioco di me…”. E come non emozionarsi con “La storia infinita”, sound anni ‘70 e un testo quasi sussurrato, tra il gioco e il sogno: “Conoscerai una stella cadente e un amore blu, finché la stella sarà lucente, la seguirai di più… fino alla fine di un dolce sogno, forse t’illuderai”. Dalla fine degli anni ‘60 sino all’inizio del decennio successivo, le melodie e le parole de Gli Alunni del Sole hanno riempito l’etere radiofonico e televisivo, per poi uscire dalla scena dei grandi network, ma restando sempre a portata di fan e con qualche album uscito in punta di piedi.
I dieci Cd del repertorio storico pubblicati da Sony nell’ottobre 2014
Lo scorso ottobre l’opera quasi integrale de Gli alunni del sole è stata racchiusa in un boxset di 10 Cd, venduti a un prezzo speciale. Tra gli inediti, in digitale, anche gli album “Jenny e la bambola”, “Dov’era lei a quell’ora” e quelli della Rca Italiana. Le canzoni di Paolo Morelli sono state interpretate, tra gli altri, da Ornella Vanoni, Enrico Ruggeri, Patty Pravo, Franco Simone, Placido Domingo e Joe Dassin, quest’ultimo ha inciso in lingua francese “‘A canzuncella”, con il titolo di “Quand on sera deux”, inserita nell’album “Les femmes de ma vie! del 1978: “Faut mettre des rideaux et des coussins fleuris des rayons pour les livres, un grand canapé-lit où il fera bon vivre, où l’on aura bien chaud, quand il y aura du givre ou de la pluie sur les carreaux… “.
…Ma qualcosa ancora qui non va. È una vita che con le tasse, che ogni mese lo Stato mi trattiene abbondantemente alla fonte, contribuisco a pagare quell’oscenità dell’insegnamento confessionale della religione cattolica nelle scuole di uno stato laico.
Ora apprendo che dovrò anche contribuire alle spese delle scuole private e di quanti intendono frequentarle. In questo paese laico, si fa per dire, le uniche scuole private che si conoscano sono quelle confessionali. Quelle così rassicuranti per l’odore di tradizione che emanano, quelle con il grembiulino e la preghiera del mattino, quelle dove i figli delle famiglie che contano imparano a familiarizzare tra loro, anche se figli di evasori fiscali e tangentisti, ma tutto fa molto fino.
Non sto a richiamare l’art. 33 della nostra Costituzione, quello che dice “senza oneri per lo Stato”, perché tanto lo so come viene schivato dagli ossimori del politichese quali il “privato pubblico”.
E non sto neppure a parlare del furto che in questo modo si perpetua ai danni della scuola pubblica da decenni in un vergognoso e criminoso abbandono materiale e culturale, a cui certo la tua strombazzata “buona scuola” non porrà rimedi, perché un‘idea di scuola proprio non ce l’ha, se non l’invito a darsi una mossa contenuto nella famigerata lettera della Bce del 5 agosto 2011.
E qui, caro Renzi Matteo, finisce il tempo di Hamelin e del pifferaio magico.
E secondo te i miei soldi dovrebbero contribuire a finanziare il sistema delle pareggiate e parificate, che l’unica cosa a cui sono parificate è la morale della Conferenza episcopale italiana?
Eh no. Prima voglio una legge per l’obiezione di coscienza dei laici, perché che valga solo per i cattolici è già di per sé una discriminazione.
Io dovrei finanziare chi nel documento “La Chiesa per la Scuola”, usa ancora “vocazione” a proposito della professione docente? Chi pensa che nella scuola pubblica “è in gioco la libertà dei genitori circa l’educazione dei propri figli”? Chi rivendica “un’educazione che non sia solo acquisizione di competenze” ma “percorso verso l’autenticamente umano”. Cos’è l’autenticamente umano? Quello che milioni di poveri nel nostro paese neppure si possono permette di pensare, ai quali ora intendi sottrarre altri soldi per passarli all’hortus conclusus delle scuole private?
Gli autori di “Liberi di educare-Detrazione fiscale scuole paritarie”, nella lettera che ti hanno inviato il 3 febbraio sostengono: “I genitori devono poter scegliere una scuola adeguata per i loro figli, senza che questo risulti troppo oneroso. Devono poter scegliere una scuola adatta come contenuti, come cultura e come trattamento umano.”
Ma questi, se vogliono la loro scuola, perché poi la pretendono pari pari alla statale che tanto li urta? Insomma più che di valori sono a caccia di soldi, non da pagare di tasca propria, ma da fare pagare all’intera comunità.
Strana morale quella di questi cattolici, soprattutto un’opinabile carità cristiana.
La società deve comunque pagare per loro, niente medici abortisti negli ospedali, niente divorzio, niente eutanasia, niente coppie di fatto, niente unioni omosessuali, niente educazione gender, insomma niente di niente. E quando c’è da pagare le loro scuole invece devono pagare tutti.
Vogliono il finanziamento alle scuole parificate? Bene, non prima che in Italia sia passata una legge sull’eutanasia e sul matrimonio omosessuale.
Caro Renzi, io non sto a discettare se il Pd è un partito di sinistra o di centro sinistra, non ho più tempo da perdere. Io so solo una cosa, che nella vita ci devono essere dei principi su cui non si transige se no, non hai identità, non sei né carne né pesce. La destra i suoi per i vent’anni di berlusconismo ce li ha, senza timidezze, anzi con molta arroganza, sbattuti quotidianamente in faccia.
Per me i valori non negoziabili per dirsi di sinistra sono il lavoro, la tutela dei diritti dei lavoratori, essere dalla parte dei più poveri e dei bisognosi, la laicità che è rispetto della libertà dell’altro, che sarebbero i valori anche della nostra Costituzione.
Se si decide che su questi si può negoziare, come hai già fatto tu con il jobs act e ora intendi fare con il finanziamento alle scuole cattoliche, tu non solo non hai neppure la più lontana parentela con la sinistra, ma l’unica parentela che puoi vantare è quella con il pifferaio di Hamelin, che però al tuo confronto altro non era che un dilettante.
Soffrire di mal di schiena è una condizione comune che tende ad acuirsi con l’avanzare dell’età ma è riscontrabile di frequente anche in persone giovani. Il “mal di schiena” è la causa più comune di assenza dal lavoro e di inabilità nella vita quotidiana. Molti mali di schiena sono il risultato di un uso improprio della colonna lombare nell’attività quotidiana (lavoro, lavori in casa, sport amatoriali etc.) che provoca stiramenti e la rende vulnerabile. L’aumento di peso aggrava questa situazione.
Inoltre, tra le cause della lombalgia si possono evidenziare: scorretta deambulazione per cattivo appoggio di un piede (esempio per una distorsione recente o anche passata), una vecchia pubalgia non trattata, problemi alle cervicali, dolori alle spalle, deglutizione atipica, un dente estratto o un dente incluso, malocclusione, un trauma ad un dito della mano, disbiosi (alterazione della flora batterica intestinale), diaframma molto teso per alterata respirazione durante lo sport o per eccessivo stress della vita quotidiana; attività lavorative disagevoli, sedute scorrette, posture viziate, sport violenti inadeguati all’età o alla persona, scarso movimento, cervicalgia, interventi chirurgici, cicatrici, alterazioni posturali, alterazioni della colonna vertebrale, alterazioni della funzione visiva (problemi dell’ occhio) etc.
Tutti questi elementi che generano i sintomi del mal di schiena hanno in comune l’aumento del tono muscolare come difesa e l’irritazione delle radici nervose. Ad ogni stress o problema, il tono muscolare aumenta inevitabilmente ed il perdurare di tale situazione fa sì che il tessuto connettivo fissi le posizioni dei muscoli in tensione, così che questi diventano permanentemente corti, cioè “retratti”. Proprio le retrazioni sono la spiegazione delle patologie articolari. Di fronte a tali fenomeni, l’azione più corretta, più profonda e radicale è rappresentata dal riequilibrio delle tensioni muscolari e dal riequilibrio della postura. Stare molte ore al lavoro seduti davanti al computer può provocare indolenzimento dei muscoli, formicolii alle mani, mal di schiena e, alla lunga, può causare depressione e disturbi dell’umore.
Alcuni consigli per migliorare la postura al lavoro
– Fare spesso esercizi per le spalle e per il collo, anche appoggiandosi al muro, tenendo allineate le orecchie con le spalle: quando si sta seduti, si tende a curvare la schiena in avanti o indietro, ma solo se le orecchie sono allineate con le spalle allora si è nella giusta posizione;
– evitare di tenere le gambe accavallate: per avere una postura corretta la pianta dei piedi deve essere ben piantata a terra;
– mettere le mani conserte dietro la schiena e provare ad alzarle verso le scapole;
– usare un cuscino lombare può essere utile per non incurvare la schiena in avanti;
– alzarsi spesso, fare delle piccole pause, muoversi ogni tanto;
– mentre si è seduti alla scrivania, fare esercizi per rilassarsi.
Alcuni consigli per fare correttamente i sollevamenti
– piegare le ginocchia, non la schiena;
– sollevare i pesi usando le gambe, afferrare gli oggetti e portali vicini al corpo;
– portare gli oggetti non più in alto del petto, usare gli sgabelli se necessario;
– quando il carico è molto pesante, cercare aiuto e non alzarsi di scatto.
Alcuni consigli per fare correttamente i lavori di casa Anche i lavori di casa possono scatenare dei disturbi alla schiena, infatti sono le casalinghe a soffrire spesso di lombalgia. Di seguito le abitudini da correggere in modo da avere una schiena sana.
Spolverare le mensole
NO Quando si devono spostare oggetti o togliere la polvere su armadi e mensole, non bisogna incurvare la schiena all’indietro, per non caricarla eccessivamente e irrigidire oltre misura i muscoli.
SI’ La soluzione migliore è quella di utilizzare una scala.
Lavare la vasca da bagno o utilizzarla per fare il bucato
NO Lavare la vasca da bagno o utilizzarla per fare il bucato a mano corrisponde spesso ad abbassare la schiena mentre si è in piedi, rischiando di sollecitarla troppo.
SI’ Per evitare qualsiasi tipo di problema, ci si deve inginocchiare davanti alla vasca, alzandosi ogni tanto per non sforzare eccessivamente i muscoli della schiena.
Cucinare
NO Capita, quando si cucina, di ruotare il tronco su un lato, senza muovere le gambe, per prendere un barattolo o un oggetto che si trova di fianco: in questo modo, però, si sforza la schiena.
SI’ E’ necessario girare tutto il corpo (gambe e piedi compresi) verso l’oggetto da prendere.
Stirare
NO L’asse da stiro non deve essere né troppo basso né troppo alto, per evitare di incurvare o di tendere eccessivamente la schiena.
SI’ L’altezza ideale è quella per cui l’asse si trova a livello dei fianchi. Non bisogna mantenere a lungo la stessa posizione, ma si deve cercare di spostarsi ogni tanto, per esempio appoggiando un piede su un rialzo.
Rivolgersi ad un osteopata
Ormai ne sentiamo parlare da qualche tempo. Magari abbiamo sentito qualche amico che ha risolto un brutto mal di schiena o un fastidioso torcicollo rivolgendosi a questa fantomatica figura: l’osteopata. Resta però poca conoscenza di un mondo che, così come in Italia non ha ancora preso piede, in altri Paesi europei ed americani è già una realtà affermata. A dimostrazione di questo, in Italia la professione dell’osteopata non è riconosciuta, ma è tollerata; al contrario è riconosciuta ufficialmente negli Stati Uniti, in Canada, in Australia, in Nuova Zelanda, in Israele, in Gran Bretagna, in Belgio, in Svizzera ed in Francia.
L’intervento dell’osteopata può rivelarsi molto utile contro il mal di schiena. L’osteopatia è una scienza che si avvale di trattamenti manuali, intervenendo proprio sui dolori muscoloscheletrici, che possono interessare varie zone della schiena (lombare, dorsale, cervicale) oppure spalle, braccia, gambe. Tratta in particolare il tessuto connettivo, quello che avvolge ogni organo, lo collega agli altri e alle varie parti del corpo. L’osteopata prende in esame il movimento: non soltanto quello che si esegue grazie ai muscoli e alle articolazioni, ma anche quello che avviene all’interno, la respirazione e la trasmissione dei messaggi nervosi. È questa visione d’insieme delle cause e degli effetti che permette all’osteopatia di essere preziosa ed efficace contro il mal di schiena.
Il trattamento osteopatico, che utilizza diverse tecniche (l’osteopata le sceglie a seconda della persona che ha di fronte e dei problemi da risolvere), comincia con l’esame di eventuali referti già in possesso della persona (radiografie, ecografie), con una serie di test muscolari posturali e con l’osservazione e valutazione della colonna vertebrale e dell’equilibrio complessivo del corpo. In molti casi, un intervento adeguato può risolvere il mal di schiena anche trattando zone del corpo lontane da quella dove si sente dolore.
Se l’osteopata lo ritiene opportuno, può indirizzare la persona da uno specialista per un consulto. Qualunque sia il problema da risolvere, l’osteopata non consiglia l’assunzione di farmaci né di sostanze di alcun tipo. L’obiettivo fondamentale del trattamento osteopatico è di restituire all’organismo il ritmo e la mobilità che garantiscono il buon funzionamento degli organi e degli apparati. In linea di massima, un disturbo acuto o cronico richiede da tre a cinque sedute.
* Nuccio Russo è osteopata, esercita a Trapani e a Ferrara
nucciorusso@hotmail.com
2. SEGUE – “Giornalisti si nasce e io lo nacqui”, diceva, parafrasando Totò, un altro collega e amico, anch’egli romagnolo della banda Fellini, con il quale aveva diviso nei tempi poveri romani l’appartamento. Enzo Lucchi collaborava allora con “Paese sera”, era uno dei più acuti, coraggiosi e curiosi cronisti con cui io abbia lavorato, ma la direzione del “Giorno” di Milano, dove alla fine aveva trovato stipendio sicuro, non lo amava, è matto, dicevano di lui al secondo piano, il centro del potere del quotidiano e così gli affidavano servizi di bassa cronaca, sicuri, comunque, del risultato del suo lavoro: vestiva di nero, pantaloni neri, giacca di pelle nera, e arrivava su una moto nera di grossa cilindrata, una Bmw, Tonino Guerra e Federico il Grande si erano ispirati a lui per l’impareggiabile personaggio di “Scureza”, quello che attraversa la scena in moto in mezzo alla neve nel film “Amarcord”. I romagnoli sono dei pataca intelligenti ma strambi, così non mi meravigliai quando Lucchi mi disse vado in pensione, ho comprato una roulotte e vado a fare l’archeologo, lasciò la famiglia e partì, mi scrisse pochi mesi prima di morire ancor giovane, era sempre in Puglia, al caldo scrisse, lui che, quando lo mandarono con me a Vienna, dove i terroristi avevano sequestrato venti ministri dell’Ocse, riuniti per spartirsi il mercato mondiale del petrolio e deciderne il prezzo per noi poveri consumatori, si era presentato con addosso un pelliccione bianco candido con cappuccio che gli eschimesi gli avevano regalato una volta che era andato al Nord su una nave rompighiacci: io risi, ma dove vai così conciato?, gli chiesi, e lui, serio serio: non si sa mai, rispose, sperando in una grande avventura. Era inverno, d’accordo, ma non andavamo al Polo: Lucchi , che aveva il viso esquimese, era fatto così, gli piaceva esagerare.
Anch’io giornalista “lo nacqui”, ne ero convinto fin da ragazzino, quindi entrai sparato nella gloriosa carriera dello scribacchino, pensando che l’immortalità fosse lì ad attendermi, mi immaginavo la celebrità bellissima, eterea, pura, l’amante della mia vita futura: gloria, successo, fama, lasciando al mondo capolavori di scrittura originale, di inchieste inarrivabili, coraggiose, inoppugnabili, tutte rivolte contro l’ingiustizia e la falsità, credevo, allora, che esistesse una verità nelle cose e nei fatti, non avevo ancora imparato che la verità è sempre soggettiva, relativa, legata ai tempi e, anche, ai personaggi e agli interessi diversi che in essa si muovono. Mi accorsi più tardi che il mio era un madornale errore iniziale di valutazione della vischiosa, ingarbugliata trama umana, tu credi nella Madonna, mi diceva un mio caro amico, rimproverandomi di non essere realista. Credevo che bastasse essere onesti, meritevoli, che fosse sufficiente lavorare e saper scrivere per arrivare lassù, nell’Olimpo dei Grandi. Niente di più errato.
Grande errore cominciare questo strano mestiere di servitore galante, con la laurea di Sissignore, pensando a Emile Zola o a Hemingway, miti di un giornalismo che non ha patria in Italia, Paese in cui si pensa che la cultura e la ricerca della verità appartengano a emisferi non umani. Realismo ci vuole, non sogni. Come mi disse un giorno dell’inizio del 1970 Enzo Biagi, appena nominato direttore del “Resto del Carlino”: mi aveva chiesto di formare, assieme a Gian Franco Venè e a Maurizio Chierici , una specie di task-force milanese, ogni giorno un pezzo, un’inchiesta, un commento. Gli risposi che, dovendo fare il vice capocronista al “Giorno” e dovendo seguire le indagini sulla strage di piazza Fontana, non avevo la possibilità di rispondere alla sua chiamata. E Biagi, stizzito: “Ma ho chiesto il permesso di collaborare con me al suo direttore Pietra, il quale mi ha detto che va bene, lei può lavorare anche per me, ho già un accordo con lui”. “Sono abituato a fare le cose seriamente – replicai duro come spesso fanno i giovani e molto seccato per l’impertinenza (o mancanza di educazione) di aver parlato prima col mio direttore e poi con me, sicuro della mia risposta – non me la sento di fare due cose importanti nello stesso giorno, sarei disonesto con lei se dicessi di si.” “Lei sbaglia – sentenziò – io non ho mai detto di no a nessuno”. Una lezione.
Ecco, nel mestiere di giornalista, per fare carriera, non bisogna mai dire no. Sissignore è l’unica parola che il buon giornalista deve imparare e saper pronunciare: sissignore, agli ordini, si buana, signorsì al padrone di destra, signorsì al padrone di sinistra, la logica del potere non deve essere indagata, è un affare delle alte sfere, scrivi e basta. Una volta, al “Corriere Lombardo”, il primo quotidiano uscito a Milano subito dopo la Liberazione, arrivò la notizia, terribile, che un ponte nella Bergamasca era crollato mentre passava un pullman carico di scolaretti in gita, non ricordo quanti morti ci furono: mandammo come inviato un giovane e bravo cronista, Fernando Mezzetti, il quale scrisse che “il ponte di cemento armato aveva ceduto sotto il peso della corriera”. Il giornale era uno dei due (l’altro era “La Notte”) posseduti nel capoluogo lombardo da Pesenti, il re del cemento. Mentre passava il pezzo, il mio co-capocronista Bruno Castellino scosse il capo, “Mezzetti – chiamò – quanto giornalisti ci sono qua dentro?” e Mezzetti “Circa quaranta”, Castellino: “e quanti impiegati? e quanti correttori di bozze? e quanti tipografi? e quanti spedizionieri?”, Mezzetti guardava il suo capo con aria confusa, interdetta. Castellino riprese: e ti pare che se il cemento può sostenere il peso di tutta questa gente non possa sopportare una corrierina con dei bambini? Mezzetti: ma il ponte era di cemento! Castellino: e chi lo dice? Tu? E poi cancellò la parola cemento, quel ponte non aveva mai visto il cemento del padrone.
La censura comincia e spesso finisce così nel giornalismo, non c’è nemmeno bisogno dell’intervento diretto del potere, gli intermediari sono fidati Signorsì, per questo sono scelti scrupolosamente tra le tante teste che credono di essere segnate da un destino di gloria e, invece, sono semplicemente teste di cavolo, pronte a vendere la propria pelle (e, soprattutto, la propria testa) per dei soldi, avere un padrone è fastidioso ma anche rassicurante, basta fare lunghi esercizi di lingua. Se la sai usare bene la carriera è fatta. I meriti, nel giornalismo, sono mezzi spesso secondari, non dico inutili, ma non di primaria importanza per fare la sospirata carriera, come in tutti i settori del resto. Almeno un tempo era necessario saper scrivere correttamente, sapere di lettera come si diceva, oggi l’avvento del computer ha fatto giustizia di questo orribile orpello del saper scrivere. Sul desk arriva già tutto fatto, così viene tolta automaticamente anche la curiosità di approfondire, l’ultima speranza della tua intelligenza è stata cancellata, annullata dallo spietato strumento, che si è sostituito alla tua mente, tu devi usare le dita, spingere leggermente sui maledetti tasti e la realtà virtuale ti compare davanti in tutta la sua complessa parzialità, chini la testa e non fai nulla per cercare di sapere se quello che ti racconta il computer è vero o falso, la realtà vive dentro il computer ed è l’unica possibile umana verità.
Colgo l’occasione dell’intervento pubblicato sugli organi di informazione locale del professor Ranieri Varese per chiarire che, nel mio articolo di apertura della neo rivista Museoinvita pubblicata dai Musei di Arte Antica, richiamando la rivista fondata da Varese stesso nel lontano 1971, intendevo omaggiare l’opera meritoria di chi mi ha preceduto, non certo esprimere l’intento di riproporre lo stesso modello. Anche a volerlo sarebbe impossibile sia per contesto sia per forma.
Per quanto riguarda il contesto, e trovando ormai inutile chiamare in causa ancora una volta la crisi economica (e conseguente riduzione di personale), basterebbe elencare quanto da quei tempi è entrato in corpo ai Musei d’Arte Antica facendoli diventare anche Storico Scientifici. L’elenco sarebbe molto lungo e avrebbe un’aria pretenziosa, ma al di là di tutto, questi sono segni dei tempi che non possono non influire anche sul concetto di “museo”, abituando chi come me – formato all’interno dei musei d’arte – deve ora confrontarsi nel concreto con problematiche tipiche, per esempio, di un Museo del Risorgimento e della Resistenza, di un Museo di Storia Naturale, e anche di un Centro Studi Bassaniani, quest’ultimo peraltro all’interno di un edificio (Casa Minerbi) che sarà condiviso dall’Istituto di Studi Rinascimentali, e da affreschi di pertinenza del MIBACT. Aggiungo per completezza anche il mio incarico (gratuito e su mandato dell’Amministrazione) come Segretario dell’Associazione Beni Italiani Patrimonio Mondiale Siti UNESCO.
Angelo Andreotti è dirigente del servizio Musei d’arte antica e storico-scientifici
La domanda a questo punto è la seguente: visto il contesto, posso davvero pensare di riproporre un modello di rivista che sia quello pensato nel 1971? Certo che no. L’impressione che lo sia è dovuta, credo, al fatto che il primo numero parla di argomenti che riguardano i Musei d’Arte Antica, e che l’intera rivista è stata progettata esclusivamente dagli stessi Musei. Sorvolo sul fatto che ci sono pure altre riviste che trovano la loro collocazione in un ambito museale preciso, salvo poi collaborare alla pari con altre realtà territoriali, semplicemente “facendosi capofila” di un progetto, e sottolineo invece un’altra condizione del contesto odierno: il dissolversi lento e non del tutto chiaro e definito delle Amministrazioni Provinciali (che tanta ripercussione avrà sul territorio), e il mutamento sostanziale ma ancora in divenire delle Soprintendenze (che verranno separate dalla gestione museale). In queste circostanze cercare di iniziare un percorso comune sarebbe intempestivo, oltretutto non va dimenticato che molti spazi museali attendono ancora lavori di messa a norma antisismica, che coincideranno con una rivisitazione anche globale della loro identità.
Museoinvita è una rivista che abbiamo fatto nascere. Tutto qui per ora, ma è ovvio che andrà implementata attraverso il confronto diretto con le varie espressioni museali del territorio. Occorre tempo, e piuttosto che consumarne nell’attesa di renderla possibile, l’abbiamo resa reale in una modalità fluida, rimandando al dopo il confezionamento di un progetto comune. Come a dire che intanto abbiamo costruito il tavolo, e adesso che esiste possiamo tutti sederci attorno a esso. Faccio inoltre presente che altri tavoli di lavoro, che vanno nella nostra stessa direzione per quanto con altre finalità, sono in corso da tempo, come quello di coordinamento dei musei cittadini gestito in prima persona dal vice Sindaco Massimo Maisto, che peraltro ha già prodotto buoni risultati.
La forma stessa della rivista consente un’agilità che il modello cartaceo non potrebbe avere, e che può senza sforzo alcuno trasformare il tavolo di lavoro a seconda delle necessità. Essere stati noi a progettarla è di poca importanza, poiché la sua struttura ha caratteristiche fluide, non solide. Di più: la modalità online è una forma non soltanto che si adegua ai contenuti, ma anche li costringe a essere dinamici, a rimodularsi secondo realtà, a generare connessioni diversamente impraticabili o addirittura impensabili. Il bello di Museoinvita sarà proprio la sua capacità di trasformarsi nel tempo. Ma a tempo debito, soprattutto facendo sistema senza preordinare un sistema che, in tal modo, rischierebbe di interpretare pregiudizialmente la realtà, e dunque di paralizzare la comprensione del naturale corso degli eventi, in questo particolare periodo decisamente complesso e dai mutamenti spesso repentini.
* Angelo Andreotti è dirigente del Servizio Musei d’Arte Antica e Storico-Scientifici
La chiesa e il convento di Santa Maria in Vado è tra i complessi ecclesiastici più belli e meglio conservati di Ferrara, carico di valore storico testimoniale. Purtroppo però, a causa dei gravi danni riportati con il terremoto e dei ritardi negli interventi post-sisma, lo stato del bene sta peggiorando di giorno in giorno e i danni, con il parziale disuso, rischiano di aggravarsi in modo esponenziale.
Subito dopo le scosse del maggio 2012 l’architetto Paola Rossi e l’ingegner Giuliano Mezzadri vengono incaricati dalla diocesi di occuparsi del progetto di restauro: in pochi mesi sono resi agibili, con fondi per opere provvisionali urgenti, chiesa e chiostro adiacente e redatto un progetto preliminare molto dettagliato, quasi operativo, per cercare di abbreviare i tempi tecnici che precedono i lavori di recupero. Il progetto viene presentato in Regione a inizio ottobre 2014 ma solo in questi giorni, dopo quattro mesi dalla richiesta e due anni e mezzo dal sisma, è arrivato il primo parere “parzialmente favorevole”.
Della necessità di accelerare i finanziamenti da parte della Regione Emilia Romagna e di partire con una seria riflessione sul tema “terremoto e beni culturali” abbiamo parlato con l’architetto Andrea Malacarne, consulente al progetto. Per renderci conto delle reali condizioni di degrado di Santa Maria in Vado, abbiamo visitato il complesso con l’architetto Paola Rossi, titolare del progetto, che ci ha anche reso note una serie di importanti scoperte fatte durante i rilievi e le campagne di sondaggi.
Siete preoccupati, i tempi si stanno facendo molto lunghi, l’intervento di recupero non parte e il degrado aumenta. Cosa fare?
Il chiostro della parrocchia di Santa Maria in VadoLo scalone monumentale in stato di degrado
Malacarne: Sarebbe necessario fare una riflessione su “terremoto e beni culturali” perché questi ultimi rischiano di diventare la cenerentola di questo terremoto, nel senso che sono in coda a tutto il resto e la Regione cerca di limitare i finanziamenti alla semplice riparazione dei danni. Ma come si fa a metter mano su edifici di questa importanza senza considerare tutta una serie di aspetti storici e architettonici complessivi e senza una riflessione anche di prospettiva? E’ insensato tamponare soltanto, senza procedere con interventi più consistenti, non solo per un discorso di messa in sicurezza (perché il sisma purtroppo potrebbe verificarsi di nuovo, e anche più forte), ma anche perché si tratta di edifici delicati e complessi, che quasi sempre ospitano attività con grande affluenza di pubblico. E poi da sempre i terremoti, pur nella loro drammaticità, sono stati l’occasione per importanti operazioni di recupero e miglioramento del comportamento antisismico degli edifici monumentali presenti in tutto il territorio del nostro paese, che non ci possiamo permettere di perdere. Nell’incertezza dell’entità dei finanziamenti si rischia di far partire tanti cantieri che resteranno tali per chissà quanti anni. Questo Ferrara non se lo può permettere.
A quando risale il vostro progetto e a che punto siamo?
Il primo chiostro con l’accesso alla sagrestia e alle palestre
Rossi: Il progetto preliminare è stato presentato ai primi di ottobre 2014 alla Regione Emilia Romagna e solo la settimana scorsa, dopo quattro mesi, abbiamo ricevuto la conferma che il progetto è passato, seppure con molte osservazioni e limitazioni. Ora comincia la fase dell’elaborazione e della consegna dei progetti esecutivi e solo con la loro approvazione definitiva si capirà quanti fondi saranno effettivamente assegnati. Il problema è che nel frattempo il degrado procede e i danni rischiano di aumentare. E’ una questione grave che riguarda non solo Santa Maria in Vado, ma anche tanti altri edifici e chiese importanti della città che hanno subito danni con le scosse del maggio 2012.
Sono ormai 17 mesi che la parrocchia e la contrada di Santa Maria in Vado sono inagibili, con un grande disagio per la comunità e un preoccupante degrado della struttura. C’è qualche possibilità che i restauri procedano?
Veduta di chiesa e primo chiostro dal campanile
Noi stiamo lavorando per rimettere in moto la vita della comunità: assieme all’ingegnere strutturista ci siamo adoperati nel primo anno per riaprire, con poche opere di messa in sicurezza, prima buona parte della chiesa, poi il chiostro con alcuni locali, ossia gli ambienti essenziali per riprendere le attività parrocchiali. In seguito, per mesi, si è rimasti in attesa che la Direzione regionale del Ministero dei beni culturali fosse in grado di valutare con proprie schede i danni e lavori da eseguire nei singoli edifici, con i relativi costi; poi la Regione ha emesso le ordinanze con l’indicazione delle priorità degli interventi sui beni culturali danneggiati. Solo allora è stato possibile cominciare a lavorare ai progetti. Va tenuto presente che a Santa Maria in Vado ci sono tanti danni diffusi da terremoto ma anche situazioni di degrado pregresso delle quali non si può non tener conto.
Dopo i primi lavori per rendere agibili la chiesa e il chiostro, siete riusciti a fare qualche altro intervento?
Praticamente nulla. Solo sondaggi ed indagini preliminari. Finché non si è certi dell’approvazione dei progetti (il preliminare, il definitivo e l’esecutivo) e di quanto stanzierà la Regione non è possibile aprire il cantiere.
Cosa comporta il vostro progetto?
Veduta aerea dell’intero complesso
Si tratta di un progetto di recupero dell’intero complesso che ha comportato campagne di sondaggi diretti e approfondimenti storici e d’archivio. E’ stato inoltre eseguito un rilievo completo dell’edificio monastico che non era mai stato fatto prima (esisteva solo un buon rilievo della chiesa commissionato anni or sono dalla Soprintendenza). Un lavoro quindi lungo e approfondito, attraverso il quale è stato possibile conoscere l’edificio nella sua evoluzione storica, farne riemergere l’impianto originario, scoprire anche l’esistenza di decorazioni e affreschi prima sconosciuti.
Di che scoperte si tratta?
Una delle palestre: tracce di affreschi sulla parete e il soffitto abbassatoDettaglio degli affreschi rinvenuti durante i sondaggi
Nella parte dell’edificio che era stata adibita a palestre (anche per ricavare reddito per sostenere le attività della parrocchia) abbiamo fatto le scoperte più belle. Le due palestre erano in origine un unico grande ambiente: l’antico refettorio del monastero. Nel progetto vorremmo ripristinare lo spazio originario, ma conservandone l’uso per attività di vario tipo, quindi mantenendo negli ambienti limitrofi i servizi necessari. Dai sondaggi è poi emerso che tutti i soffitti cinquecenteschi di quel corpo di fabbrica erano decorati e che la parete di fondo del refettorio era affrescata (forse tra il Seicento e il Settecento). Si tratta quindi di un complesso di ambienti di grande qualità e bellezza.
Come avete capito che le palestre erano l’antico refettorio dei monaci?
Prospetto est (dal campetto), con segni di capichiaviLe travi originali che componevano il soffitto della mensa
Da una serie indizi: le quote dell’attuale soffitto non funzionano rispetto alla dimensione degli ambienti, sono troppo basse; nella facciata orientale, quella che prospetta sul campetto sportivo, compaiono segni di capichiave ai quali non corrisponde attualmente alcun solaio interno; nel sottotetto sono collocate magnifiche travi composte in posizione anomala, utilizzate oggi solo per sostenere controsoffitti in arellato; poi documenti e mappe antiche ci dicono che i muri che separano le palestre sono relativamente recenti, quindi posticci. Sulla base di tutte queste osservazioni abbiamo eseguito un sondaggio al primo piano, nel muro che attualmente divide gli ambienti, ritrovando all’interno, intatta, una trave rimasta nella posizione originaria. Tutte le altre travi del solaio principale sono quelle oggi impropriamente collocate nel sottotetto. I solai attuali, più bassi, sono sorretti da travi in ferro, ma tutta l’orditura secondaria e l’assito sono stati recuperati dai soffitti originari. Quindi il soffitto dell’antico refettorio, ligneo e completamente decorato, era collocato circa due metri sopra le quote attuali ed esistono in loco tutti gli elementi per rimontarlo completo nella posizione originaria. C’è però il rischio che questa operazione, volta a ricomporre l’antico assetto strutturale dell’edificio, non venga finanziata perché non direttamente collegata ai danni da sisma. E’ pensabile, in casi come questo, limitarsi a consolidare la situazione esistente anche se palesemente deturpante ed incongrua? Sarebbe uno spreco di denaro inutile e assurdo.
In che periodo sarebbe stato fatto lo smembramento e l’abbassamento del solaio?
Pensiamo nel primo dopoguerra, o forse tra le due guerre, ma è al momento difficile indicarne la data precisa.
Sono visibili le travi rinvenute nel sottotetto?
Trave originaria rinvenuta durante i sondaggiQuota originaria rinvenuta al primo piano
Certo, e anche la trave rimasta dentro al muro al primo piano. Poi nel sottotetto, che la contrada di Santa Maria in Vado ha utilizzato fino al terremoto del 2012 come deposito, ci sono altre scoperte interessanti. Il disegno del pavimento in cotto definisce l’antica scansione di ambienti che altro non erano che le celle dei monaci. Il volume di una cella rimane visibile, attraverso un pertugio, sul lato verso il chiostro. Alle pareti affiorano, anche a questo livello, tracce di decorazioni e di affreschi.
Avete fatto scoperte davvero sensazionali…
Sottotetto, arco decorato che dava accesso alle celleSegni che evidenziano la ripartizione delle celle
Non sensazionali, ma sicuramente di grande interesse, sia storico che artistico. Quando si mette mano seriamente ad edifici di questa importanza non è raro trovarsi di fronte a belle sorprese. Nel progetto di fatto riproponiamo la scansione degli ambienti principali e l’assetto strutturale dell’antico monastero ed il recupero dell’apparato decorativo. Tutto questo lasciando inalterato l’uso consolidato negli ultimi decenni, anzi potenziandolo perché di fatto renderemmo totalmente agibile il sottotetto che ad oggi e utilizzabile solo in parte. Recuperare in modo organico il convento è anche l’occasione per riorganizzare gli spazi e gestirli al meglio, sia quelli parrocchiali, che quelli della contrada e quelli destinati alle attività sportive-ricreative.
Sarebbe bellissimo…
Sì, ma se i finanziamenti non corrisponderanno a quanto previsto nelle schede della Direzione regionale, e tutto oggi lascia temere che sarà proprio così, non si potrà fare un intervento complessivo per riportare a vita piena questo gioiello. Una riflessione complessiva sul futuro dei nostri edifici monumentali dopo il terremoto è quindi più che mai necessaria.
Le foto sono di Paola Rossi (tranne la veduta aerea del quartiere che è scaricata da Google), cliccaci sopra per ingrandirle.
La planimetria del progetto preliminareVeduta aerea con delimitazione dei corpi di fabbrica interessati
Si ringraziano gli architetti Andrea Malacarne e Paola Rossi dello Studio Malacarne per averci accompagnato nella visita al complesso, per la concessione del materiale fotografico, per averci messo a disposizione la Relazione storico e archivistica e, infine, per l’accurata revisione dell’articolo per quanto riguarda gli aspetti tecnici e specialistici.
DOCUMENTAZIONE
La struttura, così come si presenta oggi nel complesso, risale alla metà del XV secolo (1494 la data probabile di inizio lavori) e venne commissionata dal duca Ercole I d’Este a Biagio Rossetti (ingegnere ducale), Bartolomeo Tristano e Ercole de’ Roberti. Ercole I volle contestualizzarla e inserirla nel piano di rinnovamento che investiva a quei tempi tutta la città [vedi estratto della Relazione storico e archivistica a cura dell’arch. Paola Rossi e del dott. Giuseppe Lipani].
Eccentrico già agli occhi dei contemporanei, Pico è sempre stato un pensatore difficile da collocare. Ricco, esibizionista, uomo di mondo e “dilettante di genio”, il conte della Mirandola è, a più di cinque secoli, una sorta di ospite illustre e scomodo della cultura italiana. Lorenzo de’ Medici, tra i pochissimi che riuscirono a confrontarsi con lui (quasi) alla pari, lo definì “istrumento di sapere fare il bene e il male” e Pico, di cui tanto si è parlato e scritto, ci appare ancora come un enigma.
Giovanni Pico della Mirandola soggiornò a Ferrara, in giovanissima età, e qui cominciò a muovere i primi passi nelle discipline filosofiche. Ebbe come maestro e amico Battista Guarini, figlio del famoso umanista Guarino, ed ebbe modo di conoscere Girolamo Savonarola, che ritroverà poi a Firenze.
Venerdì 20 Marzo alle ore 18, presso il Salone dei Mesi di Palazzo Schifanoia, Marco Bertozzi e Massimo Cacciari presentano il libro “Giovanni Pico Della Mirandola. Mito, magia, Qabbalah” (Einaudi, 2014), scritto da Giulio Busi e Raphael Egbi.
Il libro tratta i temi del mito e della magia nel pensiero di Giovanni Pico della Mirandola, illustrati magistralmente anche nelle pareti del Salone dei Mesi. Lo stesso fratello di Giovanni Pico, Galeotto della Mirandola, è raffigurato nell’affresco di Luglio.
Per ragioni di sicurezza connesse alla capienza della sala (max 70 persone), verrà consentito l’ingresso esclusivamente a chi sarà munito del biglietto gratuito distribuito il giorno stesso dal personale del Museo a partire dalle ore 17,30 secondo l’ordine di arrivo.
Gli autori:
Giulio Busi insegna Cultura ebraica alla Freie Universität di Berlino ed è fra i maggiori esperti mondiali di ebraismo medievale e rinascimentale. Per Einaudi ha pubblicato altri cinque Millenni: “Mistica ebraica” (con Elena Loewenthal), “Simboli del pensiero ebraico”, “Qabbalah visiva”, “Zohar e Giovanni Pico della Mirandola” (con Raphael Ebgi). Per Aragno ha pubblicato “La vera relazione sulla vita e i fatti di Giovanni Pico della Mirandola.” Collabora con il «Sole 24 Ore». È presidente della Fondazione Palazzo Bondoni Pastorio.
Raphael Ebgi è ricercatore presso la Freie Universität di Berlino. Esperto di filosofia dell’Umanesimo italiano, ha curato per Bompiani l’edizione critica del trattato “Dell’ente e dell’uno di Pico”. Tra le sue recenti pubblicazioni, l’edizione italiana di H. Corbin, “Le combat pour l’Ange (Torre d’Ercole)”, e “Giovanni Pico della Mirandola”, uscito nei Millenni Einaudi nel 2014 (con Giulio Busi).
da MOSCA – E’ sempre una grande emozione quando si entra nel tempio della musica di una città estera, che di solito si chiama Casa della musica, Parco della musica o Auditorium e si ritrova l’Italia, immancabilmente. Anche qui, al Dom Musyki di Mosca, è successo, lo scorso venerdì sera. Non credo sia retorica dire che la nostra opera e la nostra musica sono un successo mondiale da sempre, che le note dei nostri grandi musicisti, compositori, baritoni o tenori risuonano in quei corridoi eleganti e moderni. Se poi all’entrata ti accoglie una fotografia gigante di Luciano Pavarotti, sei ancora più felice, anche perché quel grande artista proveniva dalla tua stessa regione (un po’ di sano campanilismo).
Ci sediamo, quasi sprofondiamo, nelle comode poltrone della sala Svetlanov, io e la mia dolce metà (o, come si direbbe qui, la mia ‘vtoraya polovina’) e, poco dopo, le note dell’orchestra sinfonica Novaya Classica e del giovane pianista Nikita Galaktionov si librano leggere nell’aria. La musica di Arthur Rubinstein è una vera magia. La serata è dedicata a lui. Ma il bello deve ancora venire. Appare sul palco il baritono, un uomo abbastanza imponente, in elegante abito nero, dai capelli pettinati all’indietro, tenuti ben incollati da una tonnellata di gel che presto striderà con una voce angelica. Perché lui, Igor Manashirov, dopo un exploit iniziale da baritono, si trasforma in un mezzo-soprano, la sua voce sembra quella di una donna. Se si chiudono gli occhi è una donna che canta, ne siamo sicuri. La leggerezza è nell’aria. Sembra di stare altrove.
Quasi sicuramente poco noto in Italia, Manashirov è nato a Mosca, il primo gennaio 1964 (già nascere il primo gennaio può avere un certo significato…) e si è laureato alla facoltà di teatro musicale. Ha lavorato come insegnante di canto e chitarra, ha studiato in Italia con i migliori insegnanti di canto lirico, e preso lezioni da grandi maestri del bel canto, tra i quali anche da Luciano Pavarotti. Quando esegue le arie d’opera è unico, ha un repertorio classico ma anche jazz e moderno, è stato, ed è, ospite solista di importanti teatri d’opera in Russia e all’estero. Vincitore di tre concorsi internazionali di rilievo (Yugoslavia, nel 1993, ‘Mosca-transito’, nel 1995, e Concorso animatori, nel 2008), per la sua eccellenza e il suo servizio all’arte del canto ha ricevuto il titolo onorifico in Italia di Maestro.
Curiosando sul web, ho scoperto che è stato lanciato da un talent tipo The Voice (o, meglio, lo stesso talent, l’equivalente russo ‘Golos’) e che molti suoi virtuosismi si trovano in rete [ascolta] [ascolta ancora]. Io sono rimasta particolarmente colpita e commossa dal suo splendido e intenso “Parlami d’amore Mariù”, che il grande Vittorio de Sica aveva cantato nel film “Gli uomini, che mascalzoni”, su un testo scritto, nel 1932, da Cesare Andrea Bixio e Ennio Neri. Altri grandi l’avrebbero magistralmente interpretata, come Tino Rossi, Giuseppe Di Stefano, Mario Del Monaco, Mario Lanza, Fred Buscaglione, Luciano Pavarotti, Placido Domingo, José Carreras, Johnny Dorelli, Beniamino Gigli, Natalino Otto, Luciano Tajoli, Ferruccio Tagliavini, Mina, Luigi Tenco, Achille Togliani, Claudio Villa, Giorgio Gaber. Igor non è da meno. Se ero venuta per Rubinstein, ho scoperto altro. E se l’artista moscovita non è ancora troppo noto, vorremo che anche voi iniziaste a conoscerlo. Certi che noto lo diventerà presto.
Per saperne di più su Igor Manashirov visita il sito [vedi] e la pagina Facebook [vedi].
“Smile” ci mostra un mimo, vestito da pagliaccio, che ha sempre il sorriso sulle labbra, soprattutto durante il suo spettacolo in strada. Il mimo èsordomuto ma con la sua forza e la simpatia dimostra come ogni persona si può esprimere facendo leva sulle proprie qualità, al di là di ogni impedimento.
Il mimo porge un fiore di plastica alla commessa
Il film introduce, con delicatezza, lo spettatore nel mondo della sordità, facendo emergere le discriminazioni di cui sono vittime molte delle persone che hanno questo problema. “Smile” non ha toni vittimistici, anzi, offre allo spettatore spunti di riflessione consentendogli di rendersi conto del pregiudizio allo scopo di superarlo, anche con un semplice gesto d’amore come lo può essere un colloquio tra un padre e suo figlio. Una chiave di lettura poetica che incontra l’amore, un sentimento vissuto nel suo difficile quotidiano. Il mimo vive in una grande città dove ha amici e amiche, in particolare la commessa della pasticceria, che forse prova un sentimento per lui, a cui dona un fiore di plastica; ha anche un figlio, che vive qualche disagio a causa del suo stesso problema fisico.
Sara Sartini interpreta la parte della commessa
Giunto a casa trova ad attenderlo il figlio, seduto sul divano, con ancora sulle spalle lo zaino della scuola. Il bambino è triste, non vuole più andare a scuola perché i compagni lo prendono in giro a causa della sua “diversità”. Il padre, con estrema dolcezza e soprattutto con verità, gli spiega che lui è un bambino uguale a tutti gli altri, che è bellissimo, forte e coraggioso: “le persone dicono un sacco di stupidaggini, meno male che io e te non dobbiamo sentirle”. Le sue parole entrano nel cuore del piccolo, pronto ad affrontare le difficoltà della vita.
“Smile” più che un cortometraggio è un atto di amore, che in fondo è la chiave di lettura di questa storia, come ha affermato anche lo stesso Pianezzi: “L’amore avvolge lo spettatore come una coperta, coccolandolo, facendolo sentire a suo agio, libero di emozionarsi”. Il soggetto e la sceneggiatura sono dello stesso Pianezzi, mentre le belle illustrazioni che impreziosiscono il film sono di Francesco Venturi. Un plauso va riservato al protagonista Martino Apollonio (ha recitato nell’episodio “Cuori randagi” del film “Eden” del regista Johnny Triviani), a tratti davvero commovente e all’ottima fotografia di Dario Di Mella. Il cortometraggio ha vinto la prima edizione del Festival Cinethica e il premio come miglior corto al Festival Internazionale di Mompeo 2012 oltre al premio come miglior attore assegnato a Martino Apollonio, per la sua straordinaria e “silenziosa” interpretazione.
“Smile” di Matteo Pianezzi, con Martino Apollonio, Fabio Raimondi, Sara Sartini, Fotografi di scena: Marco Mastrojanni e Claudio Cesarano, Direttore della fotografia Dario di Mella, 2011, Italia, durata 8’
Il film è visibile in edizione integrale su YouTube [vedi]
Un vero e proprio tazebao in grande stile, un “vaffanculo” a tutto e tutti. È stato questo, stamattina, il risveglio del dipartimento di Studi umanistici di via del Paradiso che, sulla strada davanti ai cancelli dell’ingresso principale, si è ritrovato questa enorme scritta ad accogliere studenti, docenti e personale tecnico-amministrativo.
Un’opera curiosa che stuzzica qualsivoglia passante a fermarsi e leggerla integralmente, una dichiarazione di sicuro tutt’altro che banale. Un semplice messaggio? Una bravata giovanile? Uno sfogo originale? Gli spunti di riflessione che vengono proposti sono molteplici e diversi: si condannano allo stesso modo l’amore e gli iPhone, l’identità di genere e i dopo-sbornia, il senso di responsabilità e il wi-fi lento. Una generazione e una gioventù arrabbiata o annoiata? Un modo insolito per manifestare il disagio diffuso dei giorni nostri o il solito atto di vandalismo frutto del gusto a trasgredire?
Il dibattito è aperto..
VAFFANCULO A:
Fra, l’amore, me, la vita, la morte, l’aspettativa, l’attesa, al dovere, ai piatti da lavare, te, al wi-fi lento, ai ritardi, al pressing, alla fottuta percezione, al futuro, ai SOLDI, alla birra che cade, alle cagaminchia, agli stronzi, ieri, alla testa, l’università, ad Alex l’Ariete, alle fighe di legno, all’identità di genere, alle galere(?), alla “c” che non si legge, al jazz dei fighetti, al senso del dovere, all’iPhone, al dopo sbornia, a chi ci vuole male, le responsabilità, allo sport!
Sabato 7 marzo ore 16, Monastero del Corpus Domini,via Campofranco 1
Intervengono: Ignazio De Francesco (monaco e esperto di islam) e Piero Stefani
Violenza in nome di Dio? Sembra un’assurdità, mentre in varie parti del mondo è un dato di tremenda attualità. Un tempo fu così anche nel nostro Occidente. “Le guerre di religione” sono storia non leggenda. Riflettere in prospettiva storica più ampia significa aiutare a comprendere anche il nostro difficile presente. Particolarmente rilevante il contributo di De Francesco, nella sua relazione egli infatti affronterà i seguenti temi: 1. Uno sguardo panoramico sul dibattito sul jihad nell’islam nell’ultimo secolo 2. Il caso specifico dell’Isis 3. La morte del jihadista come prova principe di una battaglia condotta nel nome di Dio
2.SEGUE – Superato in Comune l’esame della richiesta di rimborso per i danni del terremoto, balena all’ingenuo cittadino l’illusione di poter avere finalmente i soldi. Errore. C’è ancora da aspettare. La via crucis delle nostre pratiche, infatti, oltrepassata la prima stazione del calvario, approda allo scoglio delle banche. E anche gli istituti di credito ci mettono la loro arte. Dal momento in cui ricevono dal Comune le somme, al momento in cui ne prendono atto possono passare vari giorni, subito – poverine – subissate come sono di incombenze non ce la fanno a prenderne atto. Poi pigramente informano il creditore che i soldi sono arrivati: in tesoreria (o all’ufficio mutui e finanziamenti secondo i casi). A quel punto, dalla sede centrale devono passare alla filiale. Hai voglia… Sembra uno scherzo invece trascorrono normalmente otto-dieci-quindici giorni. D’altronde i soldi non hanno le gambe e da soli non camminano. Peraltro le banche (tutte) si giovano di uno splendido (per loro) machiavello inventato dalla Regione: i creditori si pagano solo al 10 oppure al 25 del mese. La giustificazione ufficiale è che si procede per pacchetti di pratiche, il che non impedirebbe però la possibilità di liquidare le spettanze negli altri giorni, ma questo è stato deciso e così va la storia.
Così, se “disgraziatamente” i soldi arrivano in filiale l’11, sino al 26 “purtroppo” non possono essere erogati. E questo ‘casuale’ inciampo forse ci fa capire la ratio del grimaldello… I malpensanti immaginano che le banche lucrino sulla liquidità e sui relativi interessi. “Ma non è così – obietta Alvaro Barbieri, responsabile mutui e finanziamenti di Carife – perché anche se la pratica è conclusa noi non abbiamo mai soldi in giacenza: la Cassa depositi e prestiti ce li rende disponibili solo in prossimità delle scadenze di pagamento. In banca restano tutt’al più due o tre giorni e noi non tocchiamo nulla. Certo lucrare sui capitali per le banche sarebbe vantaggioso, ma questo non accade”. Così assicura il responsabile Carife.
Anche le banche però entrano nel merito e vanno a ricontrollare i conti del Comune. “Se anche ci fosse la differenza di un centesimo io non posso pagare”, sostiene l’inflessibile Barbieri. Evidentemente la storia del centesimo non dev’essere un modo di dire, perché proprio di pagamenti bloccati perché nei conti “non tornava un centesimo” si aveva parlato con sconcerto l’architetto Marco Vanini, responsabile dell’ufficio sisma del Comune.
E infine, ultima chicca, per ricevere i soldi non è sufficiente avere un normale conto corrente nella filiale di destinazione. Ci vuole un “conto dedicato”. “Al cliente non costa nulla – spiega Barbieri -. In tutta questa faccenda le banche non ci guadagnano proprio niente”. Molti funzionari (e direttori) consigliano ai creditori di aspettare ad aprire questo “conto tecnico” fino a che non ci sono i soldi (“tanto che fretta c’è”), così capita magari che al termine dell’odissea descritta, quando il malloppo giunge a Itaca manca il salvadanaio. Ma ormai, fatto trenta… E passa qualche altro giorno, ma che vuoi che sia.
La morale di questa edificante italica vicenda può trarla ciascuno di noi.
“Una bella esperienza che sarei felice di ripetere”, sono queste le parole di Roberto Antonelli, attore e docente del Centro sperimentale cinematografico di Roma, a Ferrara sabato per una full immersion di tre ore al Centro preformazione attoriale, il primo in Italia indirizzato agli adolescenti. Antonelli, che ha recitato sotto la direzione di registi come Monicelli, Zeffirelli, Festa Campanile, vede nella scuola un progetto di grande interesse: “Oltre all’entusiasmo dei ragazzi, che conferma quanto il teatro possa dare forza e divertire, lo spazio ha una buona acustica e si presta a molteplici attività artistiche”. In uno scatolone aperto ai lati, illuminato dalla luce dei telefonini, dentro il quale i visi degli allievi si sono arricciati nelle più differenti espressioni di micro e macro mimica, il docente ha trovato il piacere di un scambio di emozioni e conoscenze: “Ho visto delle faccette interessanti”, dice Antonelli.
Un corso al Centro preformazione attoriale di Ferrara
Certo per fare il mestiere dell’attore, sostiene, oltre alla passione e al sacrificio ci vuole il guizzo del talento, l’occasione giusta, la capacità di calarsi nel personaggio al punto di suggerirne alcuni vezzi sempre che si abbia la fortuna di lavorare con un regista disposto ad accettarli in virtù di un feeling speciale con l’interprete. “Bisogna essere dentro il viaggio del cinema, del teatro, avere una pazienza infinita – spiega – Può capitare di restare sul set dall’alba al tramonto senza neppure recitare e magari farvi ritorno il giorno successivo. Ci possono essere progetti che partono e poi si arenano, è il gioco del cinema”. L’esempio arriva puntale e ha contorni ferraresi: “Mi è successo con Antonioni, mi vide recitare e, senza alcun provino, mi scelse per un suo film – racconta – parlammo per un paio d’ore, era un uomo con un grande senso dell’ironia nonostante fosse il regista dell’incomunicabilità. Fu un bellissimo incontro, ma poi del progetto non se ne fece nulla”. Come dire: nel cinema, in teatro e nel mondo dello spettacolo più in generale, nulla è scontato. E’ la sfida dell’attore, dell’artista. Ne era consapevole fin da quando frequentava l’Accademia nazionale di arte drammatica, dove fu allievo di Giorgio Bassani: “Mi interrogò su “I persiani di Eschilo”, non avevo studiato ma lo avevo ascoltato e andai benissimo. Per tre anni non mi chiamò più – prosegue – Gli stavo simpatico, era una fortuna, e quando i registi venivano a cercare gli attori faceva sempre il mio nome. All’esame finale sbagliai qualcosa e lui me ne chiese il motivo tanto era convinto della mia attenzione, non sapeva che quando lo fissavo dal primo banco, spesso il mio pensiero era altrove”.
Attore però lo è diventato, e persino insegnante, forse per questo oggi ha parole di elogio per il suo ex allievo Stefano Muroni e per la “gioiosa serietà”, testuale, con cui si spende per costruire una scuola a misura di adolescenti. Per parte sua Stefano Muroni, 25 anni, un portfolio professionale di spessore, non nasconde la soddisfazione di quanto messo in campo finora: “In quattro mesi abbiamo fatto il percorso di cinque o sei anni – spiega – oltre alla collaborazione col Giffoni film festival abbiamo concretizzato il gemellaggio con “l’Escuela de artes escénicas Pàbulo di Santiago de Compostela. Ogni anno i ragazzi avranno uno stage con un docente del Centro di cinematografia sperimentale di Roma, ciò significa offrire ai nostri allievi, adolescenti tra i 14 e i 20 anni, opportunità di qualità senza costi aggiuntivi”. L’intreccio di rapporti con realtà nazionali, internazionali e locali offre a quattro ragazzi del secondo anno di partecipare al Giffoni festival con altrettanti lavori senza dover passare la preselezione; due del primo, spesati di viaggio e alloggio, andranno in Spagna per una full immersion di recitazione in lingua spagnola e nove video degli allievi saranno trasmessi da Telestense.
In poche parole, insiste Muroni, la scuola ferrarese, già divenuta centro di produzione, è un’azienda culturale in attivo: “Un valore aggiunto per Ferrara – conclude – Proprio per questo speriamo di diventare parte di un investimento culturale delle istituzioni e di avere, attraverso il nuovo sportello dedicato della Camera di commercio, delle sponsorizzazioni per crescere sempre di più”.
Il tema è ampiamente affrontato da molti e da molto tempo, ma credo possa ancora richiamare l’attenzione di un lettore sensibile all’ambiente e per questo lo riprendo volentieri.
La credibilità del sistema di raccolta differenziata e delle aziende operanti nel settore è fondamentalmente basata sulla necessità di offrire garanzie circa il rispetto degli obiettivi, non solo in termini di percentuali di rifiuti raccolti in modo differenziato, ma anche in termini di qualità del differenziato stesso. Per coniugare questi vari fattori è necessaria l’adozione di strumenti collaudati e credibili, finalizzati ad aiutare le aziende ad organizzare le attività, razionalizzando i processi e riducendo le diseconomie ma, che al tempo stesso, offrano gli opportuni canali per valorizzare gli sforzi profusi e i traguardi raggiunti. Maggiore trasparenza deve essere posta ad esempio sui criteri con cui raggiungere dette percentuali, smascherando in alcuni casi risultati apparentemente positivi, ma ambientalmente discutibili. Confondere ancora tra raccolto e riciclato non conviene a nessuno, né utilizzare differenti criteri per definire le percentuali dei quantitativi raccolti.
A livello normativo vi sono direttive e norme specifiche da oltre un decennio; si ricorda solo che la normativa italiana ha indicato obiettivi graduali (ovunque disattesi) richiamando oltre ad elementi quantitativi anche la opportuna necessità di attenzione agli impatti del riciclaggio.
Da parte di molti esperti e dall’analisi economica di molti studi emerge ormai in modo chiaro come elemento centrale del sistema integrato dei rifiuti sia la complementarietà e non certo la contrapposizione fra diverse tecniche e soluzioni; la complessità del settore richiede dunque che siano messe in campo tutte le soluzioni possibili in modo sinergico ed integrato. La questione critica e fondamentale è allora con quali proporzioni e con quali obiettivi e questo lo si deve ritrovare attraverso una approfondita analisi delle peculiarità di quel determinato territorio (quali risorse, quali strumenti, quali criticità, quali possibilità, etc).
E’ complesso stabilire quale sia la soglia oltre la quale i benefici del recupero di materia sia vantaggiosa rispetto ai costi da sostenere e dunque cercare di far emergere la convenienza delle forme di recupero; ciò dipende anche in buona misura dall’effettiva risposta dei cittadini alle raccolte differenziate, dalla praticabilità di soluzioni come la raccolta porta a porta o il compostaggio domestico, ma anche da altre circostanze; l’opportunità di valorizzare il calore generato dagli impianti di incenerimento oltre che l’energia elettrica; la disponibilità di flussi di altri materiali che, miscelati ai rifiuti urbani, possono renderli più facilmente collocabili; le condizioni locali dei mercati dei materiali più difficoltosi da trasportare come gli inerti. Rimane allora da valutare quali sia la migliore soluzione possibile e per fare questo serve un’analisi di dettaglio sia del materiale immesso sia della capacità di raccolta differenziate e della possibilità di reale riciclo. A questo proposito, vale la pena ricordare che per “raccolta differenziata” si intende quanto separato alla raccolta in base al tipo e alla natura dei rifiuti (anche alla fine di facilitarne il trattamento), mentre per “recupero” si intende ogni operazione utile all’utilizzo di materiale in sostituzione di altri.
Al fine di offrire un contributo al complesso tema delle raccolte differenziate, di seguito si esprimono alcuni pareri e si pongono all’attenzione alcune osservazioni che si ritiene possano essere elementi di utilità nella predisposizione dei piani e nella impostazione dei sistemi di gestione. Naturalmente non si ha la presunzione di aver esaurito le questioni aperte né di avere soluzioni pronte, anzi si auspica che, anche con questo documento, sia possibile sviluppare un più ampio ed approfondito confronto su questi temi complessi, non più rinviabili. L’impostazione proposta, molto sintetica e puntuale, si auspica possa permettere l’arricchimento di ulteriori contributi.
Lo spirito guida della programmazione deve tendere alla ricerca del massimo riciclo (non della massima raccolta differenziata), indipendentemente o comunque senza limitarlo dal raggiungimento di uno specifico obiettivo generale che potrebbe essere non il massimo raggiungibile. E’ importante allineare tutti gli ambiti su livelli omogenei di raccolta differenziate, sempre però senza limitare le iniziative laddove tale obiettivo è stato raggiunto ed in cui è possibile ottenere risultati ancora migliori. Opportuno dunque definire con criteri innovativi le raccolte differenziate (possibilmente con obiettivi di riciclo per materiale, calcolato sulla base dell’immesso in sintonia con le direttive europee).
Le diverse tipologie di raccolta (differenziata e indifferenziata) vincolano infatti e spesso e dipendono dal tipo di trattamento che si intende avviare nella seconda fase e dal livello di rifiuto indifferenziato che viene avviato direttamente all’impianto. I livelli di recupero sono a loro volta funzione della capacità di riciclaggio dei materiali (carta, vetro, plastica, legno) che dipendono dal mercato del riciclaggio.
Dalla scelta di queste opzioni deriva la fase finale di uso ed impatto sul territorio. La scelta tra le diverse opzioni viene a dipendere dall’effettiva capacità del sistema di riciclare materia e recuperare energia usando il rifiuto come combustibile o ammendante, oltre che dalla specifica struttura territoriale. L’area provinciale nella definizione di questi criteri potrebbe ridurre l’opportunità di trovare soluzioni di area più vasta e dunque la possibilità di una generale pianificazione di un sistema integrato regionale.
Per quanto attiene più in generale le raccolte differenziate si ritiene che possa essere utile richiedere l’obbligo di certificazione di avvenuto riciclaggio. L’analisi della destinazione dei materiali derivanti dalle operazioni di raccolta differenziata è diventato un elemento fondamentale per la trasparenza del servizio prestato e per la garanzia di rispettarne le regole. I cittadini talvolta infatti sono scarsamente motivati alla collaborazione perché temono che poi il risultato finale non corrisponda a quello dichiarato; per troppi permane infatti ancora il dubbio che “tutto poi finisca in discarica”. Abbiamo dunque il dovere di certificare l’avvenuto riciclaggio con procedure e regole chiare, meglio se controllate e appunto certificate da terzi autorizzati per tale attività (vedi tracciabilità).
Anche la qualità del materiale raccolto legato ai concetti di impurità e scarto è un tema che richiederebbe maggiore attenzione. Deve crescere la consapevolezza che il materiale pulito da impurità (altri materiali) ha una migliore possibilità di riciclo e dunque un valore maggiore. Tale impostazione è già da anni presente negli accordi Conai che appunto remunerano la qualità del materiale, ma non pare sia stata sufficientemente sollecitata ai cittadini, spesso poco attenti su questo tema che deve essere meglio promosso. Un approfondimento si ritiene utile fare sul problema delle quantità totali degli imballaggi immesse sul mercato: poiché gli imballaggi rappresentano circa un terzo in peso e la metà in volume, si ritiene possano essere favoriti accordi con associazioni di categoria ed eventuali incentivi alla selezione ed alla riduzione dei volumi, valutando anche la eventuale possibilità di ampliare gli accordi con le associazioni dei gestori.
Argomento conseguente e di grande importanza è la realizzazione di concrete forme di incentivazione o di premio ai cittadini particolarmente virtuosi, solo per chi supera con il proprio contributo la media ottenuta sul territorio.
La prima volta si sperimenta, la seconda si corregge il tiro, la terza si va a bersaglio. E’ quel che conta di fare il festival di Altroconsumo che, forte del significativo consenso tributato dai 25mila presenti all’edizione 2014, mira a consolidare il proprio successo. “Stiamo organizzando tantissime iniziative”, annuncia Rosanna Massarenti, storica direttrice della rivista che promuove prassi di consumo consapevole, sostenibile e intelligente secondo il modello del cosiddetto consumerismo. L’associazione Altroconsumo, attiva fin dal 1973 sull’onda delle istanze partecipative di quella vivace fase politica – è un’autorità in materia. E soprattutto ha affermato la propria credibile indipendenza. “Lobby e poteri forti non ci provano nemmeno più a condizionarci, sanno che non ci sono possibilità”.
Rosanna Massarenti direttrice di Altroconsumo
A Ferrara, nel week end compreso fra il 23 e il 25 maggio, si terrà la terza edizione del festival del consumo critico. “La nostra forza sta anche nella rete: facciamo parte di un network internazionale con il quale condividiamo protocolli di lavoro e test sui prodotti”. Già, i test e ora i gruppi di acquisto sono due degli elementi di traino: “Con i gruppi d’acquisto contrastiamo il potere delle multinazionali opponendo loro la massa di aggregazione dei consumatori: tanti e uniti hanno la capacità di negoziare tariffe e condizioni sulle quali i singoli non possono ovviamente incidere”. I test, pezzo forte della rivista, si sono rivelati attrattivi oltre ogni previsione anche nelle due precedenti edizioni ferraresi del festival. “Le persone vengono, verificano, domandano. Abbiamo notato che persino dimostrazione estremamente pratiche, come l’uso di strumenti e prodotti, muovono l’interesse del nostro pubblico. Per questo intensificheremo i laboratori, come pure arricchiremo le consulenze su strumenti e servizi”. Arricchiremo le degustazioni di vino, caffè e altri alimenti, proposte stavolta a ciclo continuo. E si pensa a una nuova versione della mostra dell’inganno e delle illusioni, che tanta curiosità e tanto successo ha destato lo scorso anno”.
Al contempo saranno sviluppati anche dibattiti a livelli di eccellenza. Al riguardo, fra le novità del 2015, l’intensificazione dei rapporti con l’Università: “A Giurisprudenza e a Economia si parlerà di banche, di diritti dei consumatori, di soldi e finanziamenti”, conferma Rosanna Massarenti, ribadendo il ‘must’ dell’associazione: “Il cittadino deve sapere”. L’informazione, dunque, come base imprescindibile per una scelta consapevole. Un focus sarà sui diritti in rete, “una giungla nella quale tutti entrano, senza conoscere rischi e trappole”.
E un’altra chicca sarà l’approfondimento sulla ‘sharing economy’, che ormai va ben oltre l’utilizzo promiscuo delle auto. “A Milano è un successo, il boom è iniziato da un paio d’anni: prendi la vettura individuando la più vicina al luogo in cui ti trovi grazie ad un’apposita app, la lasci in qualunque parcheggio (anche riservato ai residenti) nelle zona di arrivo, non paghi la sosta, né la benzina, né il costo di iscrizione al servizio; è richiesta solo una quota fissa a chilometro percorso, con una spesa inferiore di circa otto volte a quella di un taxi…”.
Ma in tanti settori ormai ci si sta indirizzando verso il modello “sharing”, cioè di condivisione d’uso anziché di possesso. “Noi stessi, sul sito, suggeriamo ai lettori che ci seguiranno a Ferrara lo scambio di casa per ottenere ospitalità, e indichiamo le disponibilità qui in loco”.
E infine, ma non certo per importanza, al festival di Altroconsumo si parlerà anche di edilizia sostenibile. E dei patti segreti Usa-Europa, i cosiddetti accordi Tisa (o T-tip) “dei quali pochi scrivono”, stipulati a vantaggio delle multinazionali [leggi al riguardo l’articolo di Ferraraitalia].Prevedono, fra l’altro, intese per la deregolamentazione del mercato dei dati che mettono a rischio la privacy di ciascuno di noi.
Chi di noi, da bambino, non l’ha pronunciata almeno una volta, alla mamma che rimproverava per la marachella compiuta o a un amichetto che chiedeva indietro qualcosa che non si voleva restituire. “Resta di stucco, è un barbatrucco”. La frase cult dei bellissimi fumetti dei Barbapapà (dal francese ‘Barbe à papà’, zucchero filato) ci salvava dalle situazioni più difficili. Oggi quella frase la ricordiamo e la pronunciamo con un velo di tristezza, perché il creatore della colorata, gommosa e morbida famiglia di Barbapapà, Barbamamma e i sette Barbottini (o barbabebè), è scomparso a Parigi all’età di 82 anni. Talus Taylor, artista statunitense (nato a San Francisco) di origine irlandese, da sempre residente a Parigi, è stato uno dei fumettisti più noti degli ultimi tempi. Con un passato giovanile hippy, Taylor aveva creato, con la futura moglie Annette, i personaggi dei Barbapapà nel pieno del Maggio francese, ma di politico quella storia ha ben poco. Era un giovane insegnante di matematica e biologia e la sua Annette era una studentessa di architettura alla Sorbona. In un’intervista Taylor aveva detto che in quel bistrot francese, mentre gli studenti parlavano di filosofia e rivoluzione, lui cercava di conquistare Annette, iniziando a fare disegni semplici sulla tovaglia. Era nato così il personaggio e anche il loro matrimonio. Una storia carina e romantica.
Il fumetto di Barbapapà, è stato anche considerato come una delle prime opere portatrici di un messaggio ecologista, nato per caso in quel bistrot parigino dalla fantasia di quei due autori, l’architetto e designer francese Annette Tison e il professore di matematica e biologia americano. Dopo oltre 45 anni, il mondo di Barbapapà continua ad affascinare: semplice e coccoloso, con una vocazione ambientalista d’attualità. La serie a fumetti, firmata da Annette e Talus, fu pubblicata in Francia a partire dal ’70, edita in tutto il mondo in 30 lingue (in Italia da Mondadori) e ha dato vita a un film e a varie serie televisive ancora oggi molto amate, trasmesse anche dalla Rai: la famiglia dei Barbapapà sembra non conoscere crisi. Il cuore di tutti ne è stato toccato, non solo di noi bambini negli anni ’70 e ’80 ma anche di quegli stessi bimbi oggi genitori. Un messaggio che si trasmette a figli e che si trasmetterà ai figli dei figli, perché abbraccia un forte senso di appartenenza a una famiglia calda e accogliente, oltre che e a un ambiente da rispettare.
Barbapapà
Ricordiamo tutti quel Barbapapà, una sorta di grosso e amichevole “blob” a forma di pera dal curioso colore rosa, che nasce spuntando dal sottosuolo del giardino di una normale casa di provincia. L’arrivo di questo essere alto quanto la loro casa spaventa gli adulti che vi risiedono ma non i due bambini che vi abitano, Francesco e Carlotta (in originale François e Claudine), che diventeranno i primi amici di Barbapapà. Questo nuovo amico diventerà uno speciale compagno di giochi, capace di modellare a suo piacimento il proprio corpo, assumendo la forma della cosa o dell’animale più indicato per risolvere una situazione. Guadagnatasi la fiducia del mondo in cui vive, il secondo problema è quello della solitudine: egli infatti è l’unico essere della sua specie che si conosca. Con l’aiuto di Francesco e Carlotta, Barbapapà parte per uno stralunato e poetico viaggio alla ricerca di una “Barbamamma”. La ricerca si conclude felicemente proprio nella casa dei due bambini: dallo stesso giardino da cui un giorno è misteriosamente spuntato lui, nasce infatti anche la Barbamamma, dalle forme più aggraziate, più “femminili”, di colore nero, alla quale Barbapapà dona subito un mazzetto di fiori rossi che andranno a comporre la vezzosa coroncina che Barbamamma porta sul capo. Barbapapà e Barbamamma decidono, dunque, di crearsi una famiglia: dall’unione dei due nascono quindi sette barbabebé, ognuno con una caratteristica ben definita: Barbabella, viola, la bella della famiglia che ama gioielli e profumi e odia gli insetti; Barbaforte, rosso, lo sportivo della famiglia; Barbalalla, verde, la musicista di casa che sa suonare praticamente ogni strumento; Barbabarba, nero, l’artista di casa, con una pelliccia nera imbrattata dei colori che usa per dipingere; Barbottina, arancione, stereotipo dell’intellettuale, che porta gli occhiali e ama leggere; Barbazoo, giallo, amante della natura, un ecologista convinto, anche dottore e veterinario; Barbabravo, blu, scienziato e inventore della famiglia.
Erano davvero carini, teneri, simpatici, allegri, curiosi, divertenti, originali. Abbiamo tutti giocato con quelle figurine, le abbiamo plasmate con Pongo e Das, le abbiamo colorate, disegnate, guardate alla TV o sfogliate nei giornalini di fumetti. Ci mancheranno, ci mancherai Talus. Sparito come in un barbatrucco. Buon viaggio.
Ho letto la cronaca della manifestazione della Lega a Roma. Un corteo composto di presenze inquietanti: croci celtiche, striscioni con il volto di Mussolini, Casa Pound. Le frasi pronunciate da Salvini: violente, intolleranti, volgari. L’isteria dell’on. Melloni in rappresentanza dei “Fratelli d’Italia”, altra sigla di nostalgici di una destra aggressiva e anti-europea. Sì, perché non bisogna dimenticare che la peggiore destra italiana ha le sue radici nella coppia Mussolini-Hitler che scatenò una guerra mondiale contro le democrazie e contro l’Europa. Se possedessero un minimo di pudore e di senso della storia tragica del novecento, i leghisti e i “Fratelli d’Italia” modererebbero il linguaggio da crociata contro l’euro e contro l’Unione Europea.
Ma vorrei tornare al tema del linguaggio. Chiedo soccorso ad una delle nostre più capaci filosofe: Donatella Di Cesare. Cito da un suo libro importante: “Bisogna pensare il linguaggio a partire da Auschwitz, dopo Auschwitz. Si potrebbe chiedere: che cosa c’entra Auschwitz? E’ a partire da ‘quello che è accaduto’, e dopo ‘quello che è accaduto’; è da quella situazione-limite, dove il limite della ‘conditio humana’ è divenuto centro della ‘conditio inhumana’, e l’eccezione si è fatta regola, che è indispensabile ripensare il linguaggio, riflettere responsabilmente sul parlare e sul comprendere. Ogni questione di linguaggio e di uso delle parole è sempre questione eminentemente morale e politica.” ( “Utopia del comprendere” Il Melangolo). Dedico questa riflessione ai disinvolti dirigenti della Lega che, per una miserabile manciata di voti, intossicano le menti dei loro seguaci con veleni razzisti e slogan violenti che possono creare solo guai. Fiorenzo Baratelli è direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara
Di fronte ai terribili recenti saccheggi e distruzioni delle antichità conservate nel Museo di Mosul (statue, fregi e altri oggetti d’arte pre-islamici qui esposti, ma in parte, per fortuna, copie in gesso), una buona notizia: il 28 Febbraio il Museo nazionale di Baghdad ha riaperto i battenti. A fondare quello che è considerato uno dei più importanti musei del mondo fu, nel 1923, re Feisal I, in una sede provvisoria nell’antico serraglio. Tre anni dopo Gertrude Bell, direttore onorario delle antichità, ottenne il trasferimento del primo nucleo della collezione in una sede più ampia, in Ma’mun Street, ma col tempo l’edificio si rivelò angusto e, nel1957, iniziò la costruzione dell’Iraq Museum, inaugurato dieci anni dopo, nel 1967.
Ali Al-Saadi/AFP/Getty Images
Nella collezione vengono documentate, in ordine cronologico, tutte le epoche della Mesopotamia, dalla preistoria alla dominazione islamica. Ben 12 anni di lavori, restauri, difficoltà e traversie burocratiche e economiche (fra le quali anche una riapertura parziale e provvisoria grazie a contributi dello Stato italiano, nel 2009), le preziose testimonianze della storia mesopotamica, a cominciare dai monumentali tori alati, sono oggi ancora visibili. All’epoca di Saddam Hussein, qualcuno l’aveva battezzato come il “negozio” del dittatore, perché inaccessibile ai cittadini comuni, elitario. Chiuso allo scoppio della seconda guerra del Golfo (2003), con l’arrivo delle truppe americane, nel pieno caos furono i saccheggiatori e i ricettatori di tutto il mondo ad avere la meglio. Si stimavano in circa 15.000 i reperti trafugati, un terzo dei quali è, però, stato recuperato durante questi anni di chiusura, grazie anche a collaborazioni internazionali. Il premier iracheno in persona, Haider al-Abadi, è intervenuto all’inaugurazione del 28 febbraio, quella di una collezione che copre almeno 7.000 anni di storia, nei quali la Mesopotamia viene considerata “la culla” della civiltà.
Dopo il tradizionale taglio del nastro rosso, il premier iracheno ha dichiarato: “Oggi il messaggio che arriva da Baghdad, dalla terra di Mesopotamia, è chiaro: tuteleremo la civiltà e daremo la caccia a quanti vogliono distruggerla’. Il museo ha riaperto al pubblico il 1° marzo, il biglietto costerà 1.500 dinari iracheni (poco più di un dollaro), 10 dollari per i visitatori arabi e 20 dollari per gli altri stranieri. Al momento della riapertura, ha scritto la Reuters, il museo era “pieno di visitatori che volevano vedere un passato che appartiene a momenti migliori”. Ma cosa si può vedere nel museo? Reperti di una fase del periodo ellenistico (dal 312 al 139 a.C.), tra cui una statua di Eracle con in mano una clava e una pelle di leone, ritrovata a Hatra, un sito Unesco oggi nelle mani dell’Isis. Un altro manufatto di un certo interesse è una statua di Re Sanatruq I, che regnò sempre a Hatra dal 140 al 180 d.C. La simbologia è quella regale, con un’aquila sul capo ad ali aperte. Si può vedere ancora poco, si dice, e i timori per la riapertura restano. Ma la miglior risposta agli attacchi alla cultura resta la cultura stessa.
Sono stati molti i progetti di cooperazione italiana mirati al recupero e al restauro dei numerosissimi reperti archeologici dispersi dopo le guerre. Il Ministero italiano degli affari esteri ha in larga misura contribuito alla riapertura del Museo nazionale di Baghdad, ma ha anche dato vita al museo virtuale, nelle cui numerose sale sono stati anche ricostruiti “pezzi” imperdibili della ricca civiltà mesopotamica [vedi].
Nella preziosa cornice di Casa Romei un evento davvero eccezionale è stato proposto da Bal’danza con la regia e la conduzione di due eminenti studiosi di musica rinascimentale: Elio Durante ed Anna Martellotti. E’ il concerto drammatico per Anna Guarini, cantatrice estense, che è stato messo in scena per ricordare la figura straordinaria e tragica della grande virtuosa.
La vicenda, che sembra inserirsi perfettamente nella leggenda nera della corte estense, si svolge negli ultimi anni del dominio degli Estensi a Ferrara quando implacabilmente ci si avvia alla devoluzione allo stato della Chiesa di questa città che per due secoli è stata tra gli esempi più singolari della cultura rinascimentale che sembra estinguersi in quei “lampi sublimi” caratterizzati, secondo la formula longhiana, da quei pittori, come il Bastianino, che operarono a Corte negli ultimi decenni del Cinquecento.
Alfonso II è l’ultimo duca legittimo di Ferrara: non ha eredi e ancora una volta, secondo la politica matrimoniale del tempo sposa, in terze nozze, la quindicenne Margherita Gonzaga che diventa duchessa di Ferrara dopo Lucrezia de’ Medici e Barbara d’Austria. Nell’entourage del duca si sa che Alfonso non ha possibilità di generare ma si insiste affinché venga preservata la dinastia con questi matrimoni politici.
Nel 1563 nasce a Ferrara Anna Guarini, figlia del celebre poeta Battista. Viene educata al canto e alla poesia, passioni esplicite del duca che già a corte si avvale dell’opera del grande Luzzasco Luzzaschi e di altri musici eccellenti. Dolo le nozze con Margherita nel 1579, fa il suo ingresso a corte un’altra dama cantatrice la cui fama già correva per le corti italiane: Laura Peperara. Le due giovani sono al servizio della duchessa. Comincia così la stagione della “ musica secreta”, concerti riservati agli intimi della corte a cui daranno il loro contributo poeti e musicisti estensi. Dopo poco tempo nel 1583 una terza cantatrice si unisce a loro, la grande Livia d’Arco della celebre famiglia mantovana. Così tre donne che cantano e suonano, Anna il liuto, Laura l’arpa, Livia la viola da gamba, costituiscono l’ensemble perfetto del concerto delle dame. Tarquinia Molza (e chi non si ricorda il grande dialogo tassiano?) sarà assunta come consigliera delle musiche. Val la pena di evocare questa “aura” culturale che spira dalle severe mura del Castello ormai divenuto Palazzo estense. E Battista Guarini, Torquato Tasso, Angelo Grillo, tra gli altri, scrivono madrigali e poesie per le musiche di Luzzaschi e dal 1594 per quella sublime di Gesualdo da Venosa. Frattanto si prepara e scoppia la tragedia feroce dell’uccisione di Anna Guarina. Si mormora a corte che la Guarina abbia una relazione segreta con il conte Ercole Bevilacqua, lo spericolato e fascinoso comandante dei cavalieri ducali. Furioso, il marito, nonostante la diffida del Duca, cova la sua vendetta. Dopo la morte di Alfonso II e l’elezione di Cesare d’Este non riconosciuta dal Papa con la conseguente devoluzione alla Chiesa di Ferrara, Ercole Trotti, marito di Anna l’uccide nella sua villa di Zenzalino il 3 maggio 1598. “Il Sig. Ercole Trotti […] trovando a dormire Anna Guarini sua Moglie […] con un rasoio li tagliò la gola e con lui avendo un montanaro con un manarino la fece finire di vivere.” Al barbaro omicidio segue anche la ‘damnatio memoriae’. Il padre fa seppellire Anna nella chiesa di santa Margherita Martire con una lapide che il legato papale fa rimuovere in quanto potrebbe essere foriera di altri “scandali”.
Ma la stagione dei concerti segreti è alla fine. Luzzasco nel 1601 dedica a Pietro Aldobrandini, nipote del Papa, i Madrigali per cantare e sonare dove per sempre sono raccolte le musiche di quelle “Dame principalissime”.
Su questa traccia da cui ricavo queste note, in attesa di leggere e presentare il libro che i due studiosi dedicheranno a Anna e alla musica segreta delle Dame, si è svolto il concerto raccontato dagli autori e interpretato da tre sensibilissime “cantatrici” che potrete riconoscere nella foto: a sinistra Santina Tomasello, al centro Miho Kamiya, a destra Gloria Banditelli accompagnate ai clavicembali da Valeria Montanari e Chiara Cattani. Di estrema efficacia Anna Guarini (Santina Tomasello) che avvolta in un velo nero canta di Luzzasco “Ad Dominum cum tribularer clamavi” che difende la sua dignità o il sublime madrigale di Gesualdo, “Dolcissima mia vita”. Una grande performance di queste preziose occasioni che Bal’Danza ci offre e che illuminano di una nuova vita i luoghi, le opere, l’arte di una non dimenticata stagione della nostra storia. La nota più delicata. La bambina di Miho Kamiya silenziosissima che ascolta la mamma cantare poi, quando ritorna a ringraziare il pubblico, fieramente le regge lo strascico. Potenza della bellezza e della vita che comincia.
Mi viene da giocare tra Expo e Espoo. Grafie e assonanze sono così intriganti che è difficile vincere la tentazione. Ma cos’hanno a che fare Expo e Espoo tra loro così distanti? Da un lato l’esposizione universale sulla alimentazione e la nutrizione, dall’altro Espoo, una grande, importante città della Finlandia. Pare che ‘espoo’ in finnico significhi ‘pioppo’. Proprio come quelli delle nostre campagne e delle nostre golene, così la quadratura è glocale. Espoo si occupa di nutrire l’intelligenza delle persone, è conosciuta come una delle più importanti città d’apprendimento del mondo.
È successo quando l’Unione europea ha dichiarato il 1996 anno della formazione permanente. Sul tema a Espoo si è tenuta la conferenza internazionale “The Joy of Learning” e questo evento ha indotto gli amministratori della città di Espoo a riconsiderare le attività di apprendimento e a guardare alla formazione continua come strumento di sviluppo della comunità. L’amministrazione della città ha nominato un comitato per promuovere l’apprendimento permanente e per migliorare la consapevolezza della sua importanza per lo sviluppo della città.
Nel 1997 Espoo è entrata a far parte dell’Associazione internazionale delle città educative, del progetto europeo ELLI, relativo all’apprendimento permanente, collegandosi a partner provenienti da sedici paesi differenti e aventi come focus la formazione degli adulti.
Prende così avvio un processo che ha come punto d’arrivo quello di creare il più ampio contesto di conoscenze e di apprendimenti possibili. Le strategie di apprendimento permanente si integrano con i valori e la visione della città. Se ne analizzano i vantaggi e gli svantaggi. Si individuano i bisogni formativi di tutti i soggetti attivi, dai giovani, agli adulti, alle imprese. Gli impegni dell’Amministrazione e i possibili partner per fare della città una comunità che apprende.
Le attività del progetto Learning city sono uno strumento per lo sviluppo della città, e, come tali, vengono incluse nei normali procedimenti amministrativi, nelle strategie e nel bilancio della città. C’è un gruppo esecutivo e c’è un gruppo dirigente, un’ampia partecipazione di differenti settori della città. Il gruppo dirigente è guidato da un delegato del sindaco o da un delegato dell’assessore all’istruzione e alla cultura. Inoltre ci sono gruppi di consulenza e gruppi di lavoro formati da esperti soprattutto nel campo dell’istruzione e dell’amministrazione comunale. Questi gruppi variano a seconda delle problematiche da sviluppare o dei progetti nazionali o internazionali da realizzare. C’è anche un comitato di rappresentanti di aziende e di fornitori di apprendimento. Di grande importanza è la cooperazione con partnership della vita economica della città e della regione, il vantaggio reciproco di questa sorta di cooperazione nel condurre in porto comuni progetti concreti. Il “Learning city project” è diretto da un manager il quale è responsabile dell’intera realizzazione del progetto, oltre che della cooperazione internazionale e dell’implementazione dell’agenda della learning city.
L’obiettivo è quello di fare della cultura operativa parte integrante della vita quotidiana dei cittadini di Espoo. Istituzioni educative e ambienti di apprendimento puntano a fornire saperi di alta qualità, dalle conoscenze, alle capacità, alla preparazione, alla condivisione di valori, agli atteggiamenti necessari per realizzare uno stile di vita a dimensione delle persone e della tutela dell’ambiente. L’idea è promuovere a partire dall’infanzia e per tutta la vita l’aumento della consapevolezza degli abitanti di Espoo rispetto ai temi dell’ambiente, del benessere, dell’economia, della cultura e delle loro relazioni per uno sviluppo sostenibile.
La formazione permanente è incorporata nei piani per la cura e l’educazione della prima infanzia, nei curricula delle scuole, dall’istruzione primaria a quella superiore. È parte integrante dell’attività quotidiana di tutte le organizzazioni educative in Espoo.
L’obiettivo è fornire un apprendimento di alta qualità, di implementare valori e atteggiamenti indispensabili alla comprensione e alla realizzazione di un diffuso stile di vita sostenibile. Il progetto di Espoo è sostenuto da una rete a cui collaborano le istituzioni scolastiche, i servizi culturali, i servizi sociali e sanitari, i tecnici dell’ambiente, i servizi del Comune, l’Università di Scienze Applicate, la Metropolia university, l’Università di Helsinki, così come ricercatori, diverse aziende private e associazioni impegnate per la promozione del benessere.
L’impegno riguarda allo stesso modo l’apprendimento non formale e informale, come quello formale. Lo scopo della rete creata a Espoo è quello di sviluppare una strategia per aiutare tutte le persone nella formazione permanente, a vivere in modo sostenibile nel presente e in futuro.
Il progetto è, dunque, pensato e realizzato come strumento di crescita per l’intera città e comunità, non solo per le istituzioni scolastiche e culturali, andando oltre gli ambienti tradizionali dell’apprendimento e i modi di pensare il ruolo e i compiti dell’apprendimento stesso.
L’apprendimento è creativo in una città creativa. Tutta la città è ambiente di apprendimento, perché esso si realizza attraverso le opportunità offerte nei campi più disparati, perché il successo della coesione sociale ha il suo fondamento principale nei processi di apprendimento, perché la preoccupazione è quella di essere una città al servizio dell’apprendimento per l’intero arco di vita dei suoi abitanti.
L’apprendimento avviene ovunque e in tutti i luoghi della vita quotidiana, a scuola, al lavoro, in famiglia, nel tempo libero e nella vita comunitaria.
Tempi lunghi per i rimborsi dei danni del sisma. Lunghissimi. Il Comune di Ferrara svolge un’istruttoria accurata, al punto da ripetere per almeno due volte tutte le verifiche: la pratica presentata viene esaminata da un primo nucleo di valutazione che la istruisce e poi la trasmette al gruppo incaricato di predisporre l’ordinanza del sindaco che ripete di nuovo tutti controlli, magari eccependo sul lavoro fatto nel grado precedente. E alla fine se l’importo erogato è relativo a lavori in corso, a conclusione si deve verificare di nuovo che tutto quadri. E’ un po’ come in tribunale, con vari gradi di giudizio. E gli effetti non sono tanto differenti: si sa quando un ‘processo’ incomincia, non quando finisce. L’unica certezza è che il creditore dovrà avere pazienza, molta pazienza.
Trecentonovantatré sono le richieste di contributo accettate dal Comune di Ferrara su 2.102 presentate al 30 gennaio scorso. Venti milioni e trecentomila gli euro assegnati, dei quali dieci milioni 663mila già erogati ai primi 280 beneficiari. Gli altri sono in attesa. “Ora ci stiamo occupando degli interventi più onerosi, quelli relativi alle ricostruzioni vere e proprie: parliamo di importi sino a due, tre milioni ciascuno”. Marco Vanini è il responsabile dell’ufficio sisma e assieme ad altri undici colleghi, ingegneri o come lui architetti (e un amministrativo), già dal giugno 2012 si occupa delle pratiche relative ai rimborsi per i danni causati dal terremoto. “All’inizio eravamo solo in cinque, poi quando dopo circa un anno sono cominciate ad arrivare numerose istanze il numero è aumentato”.
Da più parti arrivano lamentele per la lentezza con cui procedono le istruttorie e si assegnano i soldi a chi ne ha diritto. Cosa dice la la normativa regionale a riguardo? “Dalla presentazione dell’istanza dovrebbero trascorrere massimo 60 giorni, ora portati a 90”. E invece? “Invece poi quasi sempre le domande sono incomplete e richiedono dunque integrazioni che allungano l’attesa”. In media quanto si aspetta? “Difficile fare una media”. In realtà un media matematica non è così difficile da calcolare, ma il prudente architetto Vanini non si sbilancia. Di certo c’è chi ha atteso anche un anno e mezzo prima di avere i soldi sul conto corrente.
Ma perché tanto tempo? Il Comune prevede due livelli di controllo. Il primo di merito. “Valutiamo le spese, la correttezza dei computi metrici, il rispetto delle normative sulla sicurezza, gli aspetti strutturali”. Se tutto è in ordine scatta il benestare e si predispone l’ordinanza del sindaco che sancisce il diritto al rimborso. A quel punto l’atto viene notificato alla banca che prenota alla Cassa depositi e prestiti la somma stanziata. “Quando però si procede a Sal (cioè a rimborsi in stato progressivo di avanzamento dei lavori, ndr) come avviene di norma, si rende ovviamente indispensabile un’ulteriore verifica, che comprovi il rispetto delle previsioni”. Comprensibile. Meno comprensibile invece è che lo stesso criterio si applichi anche a chi richiede il rimborso di lavori già effettuati e magari pure pagati. Anche in questo caso il fascicolo passa da un primo nucleo di istruttori a un secondo, con le medesime competenze (trattandosi sempre di architetti ed ingegneri) che prima di emettere l’ordinanza ripassa al setaccio per la seconda volta la documentazione già analizzata dai colleghi del medesimo ufficio, con un significativo e poco giustificato incremento dei tempi di attesi”. Anche perché un’ordinanza può richiedere tre mesi per essere prodotta. “Troppi?” ci domanda il responsabile, e di rimando ci mostra un faldone così pesante da sembrare un arma impropria… “D’altronde i controlli sono necessari, stiamo assegnando soldi della comunità, denaro di tutti, ci vuole senso di responsabilità”.
“E poi ci sono le telefonate – aggiunge – Ne arrivano tantissime. Rispondere a tutti e con cortesia è un dovere, ma richiede anche parecchio tempo”. Finirete entro l’anno l’esame delle pratiche pendenti? Vanini spalanca le braccia. “Forse sì, forse no. Io di certo terminerò il mio lavoro, perché a dicembre vado in pensione”.
Etaoin etaoin etaoin: sono nato professionalmente, giornalisticamente, quando questa frase iterativa aveva un significato, oggi è soltanto un oscuro messaggio, cento milioni a chi sa dire che cosa significhi, per facilitare posso aggiungere la parola asfongobeis. Ora tutto chiaro, no? Sovente, negli articoli dei giornali di una volta (poche pagine, quasi niente pubblicità se non quelle di un callifugo che si trovava su tutti i fogli oppure della miracolosa pomata per rassodare i seni stanchi e afflosciati delle donne e farli ergere come a sedici anni), dicevo che spesso gli articoli dei quotidiani finivano misteriosamente con la frase incriminata. Per esempio: “…e con tre coltellate il marito malfidente ha ucciso, accusandola d’infedeltà, la moglie. Etaoin etaoin etaoin asfongobeis”. Pareva un saluto in greco antico. Invece, era semplicemente una riga di piombo, anzi due, che il linotipista faceva scendere sulla colonna ancora bollente, ma non più allo stato fuso, per pareggiarla e con la mano sinistra faceva una strisciata in verticale sui primi tasti delle sei file della consolle e usciva la riga con tre etaoin, poi, con la mano destra, compiva lo stesso gesto ma in orizzontale e sulla colonna rovente cadeva la riga di piombo con asfongobeis, ora sarebbe necessario spiegare che cos’era la linotype, com’era fatta, che funzioni aveva nella stampa a caldo, ma andremmo fuori tema, c’era la linotype e basta, e c’erano i linotipisti, coloro che trasferivano sul piombo i manoscritti (si scriveva molto a mano, soprattutto i collaboratori intellettuali) e i dattiloscritti: erano bravissimi i linotipisti, veloci, precisi. Etaoin etaoin etaoin asfongobeis. Pensieri vaganti in un momento in cui i ricordi vanno a quando molto lavoro umano era ancora manuale, il cellulare non era il telefonino ma semplicemente il furgone per il trasporto dei detenuti, i telefonini non esistevano e per chiamare il giornale da fuori città si chiedeva alla centralinista una “R”, una “rovesciata”, voleva dire avere la precedenza sulle interurbane normali e far pagare la chiamata al giornale. Era tutto più faticoso e più semplice. Adesso che tutto è semplice le cose sono maledettamente complicate.
Forse la vita comincia quando e dove finisce la ragione, era una massima di mia nonna Adele, nata Sgallari, ma potrebbe anche essere di Kierkegaard o, ancora più indietro, di Giordano Bruno in attesa del rogo purificatore che la Chiesa riserva a chi parla o pensa troppo. L’apostema (termine scelto con cura maniacale per la sua bruttezza) personalmente l’avrei affisso all’entrata delle grandi città dei morti, e pure dei piccoli cimiteri, creati, in nome di Dio, per la gloria dei vivi, meglio di quell’orribile motto che i nazisti mettevano sui cancelli dei loro lager, “Arbeit macht frei”, stupido, arrogante, feroce: il lavoro stanca l’uomo, mica lo rende libero, i padroni hanno sempre fatto lavorare i loro servi, ritagliando per se stessi ampi spazi di libera inettitudine, mascherata sotto l’ipocrita formula “il signore sta studiando”, mai visto un signore (o una signora) zappare la terra, al massimo sono stati notati, i signori, mentre curano le camelie, operazione che, come si sa, comporta molta fatica. Camelie oppure orchidee. Se i padroni avessero amato lavorare, certamente a curare le camelie avrebbero mandato i loro operai, ai quali viene raccomandato di non pensare, pensare, infatti, è pericoloso e il padrone ha il dovere di salvaguardare la salute psicofisica dei dipendenti. E avrebbero riservato a se stessi, i padroni, l‘ambita fatica negli altiforni. E’ una delle ragioni principali dell’atteggiamento paternalistico e protettivo degli editori nei confronti dei loro giornalisti, che sono gli zappatori del pensiero, i manovali dell’intellettualità, guai se un giornalista comincia a pensare, il suo capo servizio subito lo guarda con sospetto, il sospetto poi viene comunicato al direttore, da questi all’editore e, alla prima occasione propizia, il cogitante viene allontanato con le buone o con le cattive maniere, messo da parte, confinato nel limbo degli impuri rivoltosi nemici della società: c’era un mio collega per il quale era stato ritagliato un solo compito, trascrivere, mandandoli poi in tipografia, gli annunci del mercatino dell’usato dei lettori, centinaia ogni giorno e lui scriveva, scriveva, di tanto in tanto qualcuno gli passava dietro, gli batteva con la mano su una spalla e gli diceva “beato te, Paolo, che fai il giornalista e viaggi”.
Parlare dei giornalisti e del giornalismo oggi significa tentare di spiegare le ragioni di una società stupida, violenta, ignorante, in cui i giornalisti sono gli strumenti del potere per imporre alla gente il proprio interesse. Il potere è un’enorme, furba, indifferente bestia pelosa. E il popolo moderno non viene educato secondo regole del buon comportamento, siccome voleva un antico codice borghese, anche questo ormai dimenticato – la formula era: come un buon padre di famiglia – ma dai programmi televisivi pensati per le casalinghe meno attrezzate culturalmente e dalle centinaia di settimanali-bagascia nei quali gli argomenti più impegnati riguardano le tette siliconate di ragazze decerebralizzate e i muscoli taroccati di qualche maschio enfiato con gli anabolizzanti, come le galline e i vitelli da macello, la cui carne si sgonfia e si affloscia appena sente il brucior del fuoco. Il buon giornalista è quasi sempre colui il quale vende meglio la propria carne e il proprio cervello e il grande giornalista è un intellettuale che conosce meglio degli altri l’inesauribile gioco del mercato delle idee, non si deve prestar fede a chi presenta figure romantiche di scrittori che hanno saputo opporsi con il proprio petto agli insulti della violenza del potere, gettare la stampella contro il nemico, chi veramente lo ha fatto è stato impallinato, umiliato, avvilito, confinato e insultato: un grande giornalista, Guido Nozzoli, forse il migliore tra gli italiani inviati durante la guerra in Vietnam, venne richiamato in patria, scriveva cose sconce, cioè la verità su quella nefanda avventura del capitalismo non soltanto americano, ecco, Nozzoli diceva di avere un unico censore, il suo barbiere di Rimini, nella cui bottega tornavano di tanto in tanto anche Federico Fellini e Sergio Zavoli, amici antichi, sì che il negozio era diventato luogo di ritrovo, di discussione, di dibattito ed era sempre il parrucchiere a dirigere, a giudicare, a condurre come un Santoro da bottega e, a volte, a ironizzare sui tre suoi amici famosi: quando ero in Vietnam – raccontava Guido – e descrivevo un’operazione bellica e mi accorgevo di aver usato una parola desueta, immaginavo di vedere il mio barbiere uscire dalla sua boutique e urlare il mio nome facendo seguire il grido da una sonora pernacchia. A quel punto Nozzoli cancellava il termine sostituendolo con uno più popolare, “che Dio benedica il mio barbiere”, concludeva. L’eretico anticapitalista Nozzoli fu punito, il suo raggio d’azione non poteva andare oltre le mura della pur grande Milano, “sono un inviato in tram”, diceva sorridendo amaro. Un giorno venne a salutarmi, eravamo in redazione al giornale, torno a Rimini, disse, vado in pensione a fare l’ebanista, mi piace fare l’ebanista, un giorno vieni a vedere come ho sistemato un cassettone antico a casa mia. Il giornalismo del potere lo aveva mandato in pensione anzitempo, ma non credo che abbia poi fatto l’ebanista. Di lui rimane nella mia biblioteca il bellissimo libro “I ras del fascismo”. Rividi qualche anno dopo, seduto a un bar davanti all’Embassy, glorioso baladùr riminese, stravaccato su una poltroncina di vimini, sembrava uscito dal film “I vitelloni” del suo amico Fellini, pantaloncini bianchi corti, maglietta, ciabatte da spiaggia: “cosa fai qui?”, mi chiese, mi hanno tolto i servizi politici, mi hanno tolto le inchieste sul terrorismo, risposi, ora seguo le vacanze degli italiani, i nostri sguardi s’incontrarono. Comprese. Non c’era bisogno di altri commenti.
Minacce, ritorsioni, attentati, barbari omicidi… La strategia dell’Isis e la sua avanzata sino alle porte di casa nostra genera sgomento e paura. La tentazione di reagire opponendo le armi alla violenza è diffusa. Il messaggio dei terroristi alimenta una pericolosa ambiguità circa le radici della cultura islamica e rende più complesso il dialogo. E già i nuovi crociati d’occidente sono pronti a brandire la spada opponendo i propri idoli. E’ invece indispensabile, ora più che mai, distinguere il fanatismo che anima i terroristi dalle legittime e rispettabili tradizioni di una ultra millenaria civiltà che merita la massima considerazione. Il confronto deve restare aperto nel rispetto reciproco delle tradizioni e dei valori fondanti di ogni popolo. L’Isis non rappresenta l’Islam ma una sua degenerazione.
“IsIslam? Fanatismi, fondamentalismi, integralismi: terroristi e nuovi crociati”, è il titolo dell’incontro programmato lunedì 23 marzo alle 17 nella sala Agnelli della biblioteca comunale Ariostea, promosso da Ferarraitalia nell’ambito del ciclo “chiavi di lettura, opinioni a confronto sull’attualità”. Si svilupperà un percorso di ascolto e di attento confronto: raccoglieremo voci differenti della comunità islamica in Italia che saranno stimolo per un franco dibattito, al riparo dalle derive dei fondamentalismi dell’uno e dell’altro fronte.
Un nome che è magico per tutti gli amanti del jazz, e non c’entra nulla con il maghetto creato dalla fantasia della Rowling. E’ Chris Pottter, il sassofonista e compositore statunitense, definito da Down Beat “uno degli artisti più studiati (e copiati) del pianeta”. Venerdì scorso il tour europeo del Chris Potter underground quartet ha fatto tappa a Ferrara. Nel Torrione affollatissimo che ospita il Jazz club Ferrara Potter ha presentato “Imaginary Cities”, secondo album realizzato per l’etichetta Ecm. A completare la formazione Adam Rogers alla chitarra, Fima Ephron al basso elettrico e Nate Smith alla batteria. E Stefano Pavani dietro all’obiettivo per immortalare l’evento con la magia dei suoi scatti.
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Chris Potter Underground a Ferrara (foto Stefano Pavani)
Chris Potter Underground a Ferrara (foto Stefano Pavani)
Chris Potter Underground a Ferrara (foto Stefano Pavani)
Chris Potter Underground a Ferrara (foto Stefano Pavani)
Adam Rogers alla chitarra per i Chris Potter Underground (foto Stefano Pavani)
Fima Ephron al basso elettrico accompagna Chris Potter (foto Stefano Pavani)
Nate Smith alla batteria per i Chris Potter Underground (foto Stefano Pavani)
Chris Potter al Jazz club Ferrara (foto Stefano Pavani)
Chris Potter Underground a Ferrara (foto Stefano Pavani)
Chris Potter Underground a Ferrara (foto Stefano Pavani)
Chris Potter Underground a Ferrara (foto Stefano Pavani)
Chris Potter al Jazz club Ferrara (foto Stefano Pavani)
Chris Potter al Jazz club Ferrara (foto Stefano Pavani)
Fima Ephron al basso elettrico accompagna Chris Potter (foto Stefano Pavani)
Adam Rogers alla chitarra per i Chris Potter Underground (foto Stefano Pavani)
Nate Smith alla batteria per i Chris Potter Underground (foto Stefano Pavani)