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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


Vibra in scena ‘Il berretto a sonagli’ di Pirandello

STANDING OVATION: I PIU’ ACCLAMATI SPETTACOLI TEATRALI DEL XXI SECOLO
Il berretto a sonagli, regia di Giulio Bosetti, Teatro Comunale di Ferrara, dal 15 al 18 febbraio 2001

E finalmente ritorna uno dei capolavori di Luigi Pirandello: “Il berretto a sonagli”. Del resto questa straordinaria opera del grande drammaturgo agrigentino è quasi di casa a Ferrara, infatti è già stata rappresentata al Teatro Comunale nelle stagioni 1972/73 (con Turi Ferro e Ida Carrara), 1988/89 (con Tino Schirinzi e Maddalena Crippa) e 1993/94 (con Giustino Durano e Paola Borboni). Il nuovo allestimento è prodotto da Teatro Carcano di Milano – Teatro Biondo Stabile di Palermo, porta la regia di Giulio Bosetti e vede lo stesso Bosetti nel ruolo del protagonista.
La trama è notissima. Ciampa, scrivano “povero e vecchio”, sospetta il tradimento della propria giovane e bella consorte con il padrone, la gelosia della moglie di quest’ultimo fa scoppiare lo scandalo e Ciampa non esita a porre come risolutrice questa alternativa: o uccidere l’adultera e il suo amante oppure far credere pazza la padrona. Ed è proprio la (forse temporanea) pazzia, che insorge improvvisa nell’animo dell’accusatrice, a condurre verso il paradossale ma non per questo meno alienante epilogo della commedia. Solo se dichiarata pazza di fronte alla collettività, la donna potrà gridare a tutti, ovviamente non creduta, la presunta verità.
Composto da Pirandello (prima in siciliano e poi in lingua italiana) fra il 1916 e il 1918 e rappresentata per la prima volta al Teatro Nazionale di Roma, nel testo in dialetto siculo interpretato da Angelo Musco, “Il berretto a sonagli” è il logico porto d’approdo dell’odissea artistica di Giulio Bosetti, regista e attore, dopo anni di assidua frequentazione dell’universo pirandelliano. Poiché “Il berretto a sonagli” rappresenta in qualche modo l’equilibrio, per quanto precario e vacillante, tra la marmorea identità della persona e la labilità del ruolo attribuitole dal contesto, in ultima analisi fra la vita e la sua forma. La rilettura di Bosetti, fedelissima ai canoni e alla poetica dell’autore, stringe saldamente nelle mani le redini di quella sorta di cavallo ombroso che attraversa come impazzito tutte le “storie” pirandelliane sconvolgendone il conformistico e precario equilibrio e lasciando, quasi sempre, che questo si ripristini mentre finalmente cala ormai quieta la polvere della concitazione e il galoppo si allontana.

L’altra faccia di Mozart

Appassionato di musica classica e di classicità, Paolo Melandri, insegnante di materie umanistiche al liceo scientifico di Faenza, musicologo e poeta ha dedicato a Mozart un lavoro di ricerca e studio per capirne la persona e il personaggio. “La cetra scordata, due secoli di dissonanze”, e-book edito recentemente da La Carmelina (Ferrara) con prefazione di Roberto Guerra, è un viaggio dentro l’uomo anche oltre il musicista.
Professor Melandri, che immagine di Mozart ne esce?
Ero quasi infastidito dal mito creato attorno a Mozart, considerato un genio che miracolosamente partorisce, un mito a cui ha sicuramente contribuito, dopo la morte prematura, la moglie Costanza che era un personaggio d’affari e desiderava venderne gli autografi.
Un mito romantico del genio insondabile e misterioso che, però, avrebbe risposto ai gusti del pubblico di allora…
Senz’altro. Mozart è stato ritratto come un genio spontaneo che non fatica a comporre, in realtà, i manoscritti dimostrano che faceva e rifaceva, ci sono lavori che lo hanno impegnato anni.
Nella sua opera, lei propone un ritratto estetico, ma anche fisiognomico del musicista. Che uomo era?
Non dava nell’occhio, era basso di statura e aveva delle idiosincrasie come non riuscire a tagliare la carne, aveva anche delle tendenze regressive infantili, paura degli animali, cose così. Aveva, soprattutto, un lato umano che ho ritenuto interessante. Per umano intendo uno spiccato interesse per le vite degli altri, amava farsi raccontare dalle persone e questo lo ritroviamo in numerose lettere da cui, peraltro, emerge una certa stoffa da romanziere, scriveva molto bene e conosceva diverse lingue.
E, tra l’altro, non scrisse solo musica.
Nella sua produzione, ci sono scritti in cui riflette profondamente sull’uomo e sulla vita, per lui sono i casi a determinarla.
Come ha potuto ricostruire la persona più che il personaggio?
Da appassionato, conosco la bibliografia in cui si è parlato di lui, negli anni settanta e ottanta si tentò anche un’interpretazione psicanalitica, molto interessante, inoltre, un documentario della Bbc. A ogni modo, mi premeva approfondire la vicenda umana che reputo non meno importante, oltre quel mito romantico e la carriera che tutti conoscono.

SETTIMO GIORNO
Tasse e baci, ‘In qualche modo’, La ricerca e le biciclette

LE TASSE E I BACI – Sono andato dalla mia commercialista a pagare le tasse novembrine e ho avuto conferma di ciò che temevo, sono aumentate, le tasse, ormai si viaggia verso il cinquanta per cento del reddito, un balzello che per alcuni cittadini forse sarà sopportabile, ma per un pensionato proprietario di casa (unica eredità), come sono io, no, proprio no. L’arrivo del signor Renzi mi ha definitivamente messo in ginocchio. Ma finalmente, da quel pirla che sono, ho capito la tattica del toscano, ci ho messo del tempo, ma ora… ora so che quando il boy-scout dice faccio così, di lì a poco farà colà: ricordate quand’è arrivato? Abbassare le tasse per rimettere in moto il mercato fermo. Diceva. Sono di sinistra, diceva, sono con i lavoratori, diceva e via l’articolo 18; mai con Berlusconi, diceva, e vai con il patto del Nazareno (che se fossi il Nazareno m’incavolerei di brutto); giù le tasse, diceva, poi con le tre tavolette ecco le tasse aumentate. Ma c’è un boccone indigesto che proprio mi è rimasto sul gozzo, del quale è necessario incolpare tutta la, si fa per dire, sinistra di governo e d’opposizione. Ricordate quando si tuonava che era, è, necessario recuperare le tasse non pagate dagli evasori? Sono decine e decine di miliardi di euro. Bene: ora l’argomento è chiuso. Evadete, cittadini, evadete, il presidente che non avete eletto vi benedice, ma ieri, parlando alla Guardia di finanza ha detto che bisogna agire contro gli evasori, forse pensava ai piccoli, alla minutaglia, i grandi imprenditori, quelli che gli hanno spianato la strada davanti, non si toccano, quelli si baciano come il nostro Matteo fa con la Marcegaglia e con Squinzi, due baci all’una, e va bene, due baci all’altro (le immagini sono di tre giorni fa), questo va meno bene. Un po’ di contegno in pubblico per favore.

IN QUALCHE MODO – Le orecchie ronzano, la televisione le imbecerisce, un profluvio, una smitragliata di “in qualche modo” offende il mio vecchio udito, non c’è persona ignorante o colta che riesca a sfuggire all’intercalare, anche quando non c’entra con il discorso. Per favore, popolo mio, cambia “in qualche modo” espressione e non è sufficiente mutare in “qualche maniera”.

LA RICERCA – Il bombardamento mediatico non risparmia i grandi argomenti, anzi li esalta. Da tutte le parti – televisione-radio-al telefono-per strada – una voce ti esorta a donare soldi per la ricerca scientifica contro le malattie, tutte le malattie, perfino (direbbe Jerome K. Jerome) per la cura del ginocchio della lavandaia. Va bene, ma nessuno ricorda che le più grandi multinazionali mondiali sono quelle farmaceutiche, le quali hanno utili che la mia debolezza in aritmetica non saprebbe mai scrivere: e, allora, mi domando, perché dobbiamo regalargli, alle multinazionali dico, i nostri soldi per trovare nuove medicine che pagheremo noi e faranno ingrassare ancora più gli utili delle varie industrie farmaceutiche? Prego una risposta.

LE BICICLETTE – Amo la bicicletta, come oggetto e come mezzo di deambulazione urbana. Ne ho tre, compresa quella da corsa. Ma confesso che mi fa paura quando la biga viene inforcata da signore che non arrivano a terra coi piedi, da ragazzi i quali la usano per fare gimcane velocissime nelle vie pedonali, da vecchi, che forse i giovani familiari mandano in giro nella speranza di un incidente (che sia la volta buona?). Nessuno di questi personaggi, o quasi nessuno, conosce una sola regola del codice stradale: destra, sinistra, contromano, senso vietato, semaforo rosso. Qualsiasi birichinata è inclusa nella silente licenza consegnata al ciclista. A volte la licenza è fatale. E così sia.

LA RIFLESSIONE
La faciloneria linguistica degli italiani

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato/ l’animo nostro informe – Eugenio Montale
Sarà l’età che avanza, sarà l’eco ancora strepitosa della bellissima conferenza di ieri tenuta da Stefano Prandi su Ennio Flaiano per il ciclo “Italiani brava gente. Rileggere il carattere degli italiani”, organizzato dall’Istituto Gramsci e dall’Istituto di storia contemporanea, ma la condizione del nostro popolo e di una parte di quest’ultimo, vale a dire quella dei vecchi, mi spinge a riflettere su certe cadute linguistiche e quindi anche culturali che sembrano essere d’uso comune proprio nella comunicazione.

Prandi riferiva ieri di una parola assai comune letta in un giornale cittadino e scritta con un grosso errore ortografico. Oggi un conduttore di una rete televisiva cittadina nel commentare la prossima settimana alti studi dell’Istituto di studi rinascimentali, vedendo scritto Duerer al posto di Dürer, ha proprio letto Duerer! Non è che le notizie fornite in quel servizio fossero di per sé eclatanti ma, quando vengono fornite in quel modo, riconosci comunque che il carattere degli italiani non cambia: disprezzo o meglio ignoranza per le regole grammaticali, per la forma, per le lingue. Sommo rispetto invece per qualcosa che poi si trasforma in “politichese”: frasi fatte, metafore, simboli, oltre all’ignoranza patologica delle lingue straniere.

E, si badi, non è il dialetto la causa prima di questa faciloneria linguistica ma l’uso della sbrigatività come mezzo utile per arrivare allo scopo. Poi, ed è pensiero comune, tutti debbono capire l’italiano! Sono lontane le radici di questa incuria. Per secoli la nostra lingua ha rappresentato un modello, poi è stata soppiantata da altre: prima il francese e poi l’inglese che hanno strutture linguistiche diversissime che noi tentiamo di riflettere. “E il bicchier mezzo vuoto” e la “sintesi” e tutto l’armamentario di una lingua che fa finta di essere informata e che poi rigetta per indigestione le stesse pseudo regole che si è data. Non parliamo poi della lingua scritta nei media come twitter o facebook. Alla fine siamo più affascinati dalla selva di microfoni che “imboccano” il parlante (quasi sempre un politico che di quello che costui sta dicendo; oppure da figure ormai familiari come quella di un signore che si mette la penna in bocca e fa finta di registrare sempre, ossessivamente, presente ovunque si materializzi un politico oppure di un suo gregario, un paffuto giovinetto rossiccio che spalanca la bocca pur di essere ripreso dalle telecamere.

Che pena!

Eppure oggi, svogliatamente, facendo zapping (sì! anche i soloni della lingua fanno certe cose o parlano come i media!) e dovendo riposare gli occhi, mi capita di vedere su una rete dedicata alla musica uno spettacoloso documentario “Casa Verdi” che racconta la vita nella gloriosa casa milanese dove sono ospitati gli artisti che non possono più vivere da soli ma sono protetti dignitosamente.

Una signora, con ancora un filo di voce e con i gioielli rimasti di una forse fastosa carriera, canta “La vergine degli angeli”; altri la guardano e applaudono: volti anonimi comuni che non hanno più nulla dell’eleganza, dell’eroismo, della leggerezza a cui votarono la loro vita.

Eppure meravigliosi, quasi che il contatto diretto con la bellezza avesse lasciato per sempre un segno di nobiltà. Così vorresti abbracciare il cantante che è stato imitato, lui racconta, da Di Stefano, e che, quando lo pensa gli viene “il mal di gola”. Meravigliosa metafora e traduzione da cantante del termine “nodo alla gola”. E la danzatrice di tip tap che sa benissimo per avere sposato un americano che si chiama, in inglese, “step dance” e che quando vede ballare Fred Astaire e Cyd Charisse esclama: “Ora Cyd, poverina” dice Tata Vanoni così si chiama, “è morta”. Ma non lo dice del grande Fred Astaire.

Un’umanità nobile che si rivela fatta di fango ma destinata alle stelle della musica. Della danza, della prosa e di tutto ciò che rende meno triste la vita.

Un medico le accarezza chiede se vogliono risentire ancora Montserat Caballè nel “O mio babbino caro” e tutti dicono di sì chiudono gli occhi o come fa la bellissima arpista strofinano impacciate il sacchetto dei medicinali.

Non credo, e lo penso con tristezza, che quella bellissima Casa Verdi sia mai stata visitata da un comico che si è fatto politico e che mai nella sua espressione più proterva ha saputo esprimere con pari dignità il senso di un mestiere e di un’arte che lo hanno reso famoso.

Così al suo Forrest Gump, al suo declino triste, come quello di chi è solo, le parole hanno deciso per lui.

LA NOVITA’
Gianni Morandi, un ragazzo 7.0

L’11 dicembre Gianni Morandi compirà 70 anni, un traguardo importante, vissuto tra autoscatti, Facebook, televisione, canzoni, cinema, concerti, libri, radio, giornali, video e ogni tipo di mass media il terzo millennio ci abbia regalato.

“Autoscatto 7.0” è il titolo dell’antologia natalizia uscita il 25 novembre, che comprende anche il duetto “Credo nell’amore” con Alessandra Amoroso (versione breve) e i due brani inediti tratti dalla colonna sonora del film “Padroni di Casa” di Edoardo Gabriellini, interpretato dallo stesso Morandi: “Amor mio” e “Lascia il sole”.

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Autoscatto 7.0, la nuova compilation

Il doppio album contiene 33 brani, di cui 20 scelti dai suoi fan di Facebook (oltre un milione), tramite un vero e proprio referendum. Il 15 ottobre 2014 il cantante bolognese e sua moglie Anna sono stati una notte e un giorno davanti al computer a leggere i quindicimila commenti con i quali i fan suggerivano i titoli delle canzoni da inserire nella compilation. Il brano più gettonato è risultato “Uno su mille” seguito da “C’era un ragazzo”. Il terzo inedito, del ‘social album’, si intitola “Io ci sono”, scritto da Emiliano Cecere, Valerio Marconi, dallo stesso Morandi e dal centese Saverio Grandi, autore, quest’ultimo, di oltre 250 brani, per artisti come Eros Ramazzotti, Vasco Rossi, Patty Pravo, Laura Pausini, Fiorella Mannoia, Raf, Alessandra Amoroso, Emma, Valerio Scanu, Marco Mengoni.

Morandi lo si può facilmente incontrare in una delle tante spiagge della riviera romagnola, nell’atto di togliersi il cappellino, per una fotografia da postare nella sua pagina Facebook, dove giornalmente cura un diario fatto di notizie, considerazioni e momenti di vita famigliare, oltre a offrire spettacolo con i suoi “clippini”. Si tratta di un’estensione degli appunti che da oltre cinquant’anni scrive su carta, in parte pubblicati nel libro “Diario di un ragazzo italiano”.

Grazie al social network lo abbiamo visto partecipare alle maratone (Ravenna, Bologna, Boston), mangiare tagliatelle in qualche ristorante dell’Appennino emiliano e nelle trattorie vicine casa sua, in gita con moglie e amici, negli autogrill (durante i numerosi spostamenti per lavoro), nel centro di Bologna intento a fare spese, alle feste di paese e della parrocchia, in attività di solidarietà e allo stadio Dall’Ara a tifare per il Bologna.

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La pagina Facebook di Gianni Morandi

Da qualche tempo gli ex-dipendenti della Rca, organizzano un raduno periodico, con relativa visita alla vecchia sede dello stabilimento di Roma, auspicando l’apertura di un museo, che ricordi l’importanza avuta da questa casa discografica, nella storia musicale italiana. Morandi, venuto certamente a conoscenza della cosa, con discrezione e senza preavviso, ha pubblicato su Facebook la foto che lo ritrae davanti all’entrata della ex-Rca, con questo commento: “5 settembre, Roma ore 17, arrivare in questo luogo è un vero tuffo al cuore. In questo edificio, al km 12 della via Tiburtina, c’era la gloriosa Rca Italiana, con gli studi più belli d’Europa, dove Morricone ha diretto e registrato molti dei suoi capolavori, dove sono passati artisti di caratura mondiale come Frank Sinatra e Artur Rubinstein, dove sono nati musicalmente grandi cantautori come De Gregori, Cocciante, Zero, Dalla, Venditti e tanti altri, dove a sedici anni io ho fatto il mio primo provino e inciso le mie canzoni più significative. Negli anni ’60, la Rca è stata la casa discografica più importante d’Italia, costruendo in gran parte la storia musicale di quegli anni irripetibili”.
5.0 anni di spettacolo l’hanno reso ancora più attento alle novità, pronto a cavalcare i nuovi media, con l’originalità che soltanto la semplicità e la sincerità sanno creare, senza riempire le sue pagine di pettegolezzi, stupidaggini o catastrofismi, preferendo diffondere fiducia e ottimismo.
Quest’anno Morandi è ritornato a esibirsi dal vivo, dopo tanto tempo, spinto dal successo dello show dell’anno scorso all’Arena di Verona, trasmesso da Canale 5. Tra pochi giorni si esibirà sul palcoscenico di Radioitalialive, che trasmetterà la performance in radio e in televisione (canale 70 digitale terrestre, 725 di Sky e 35 di Tivusat).

La Tv l’ha recentemente visto protagonista in una puntata di Zelig, condotta insieme a Geppi Cucciari, mentre il giornalista Mario Pezzolla, su Radio Margherita, gli ha dedicato la trasmissione “Andavo a 100 all’ora”. Per numerose settimane, Pezzolla ha accompagnato i radioascoltatori nel mondo di Gianni Morandi, proponendo una scaletta di oltre 400 brani, con notizie musicali, di costume, di intrattenimento e la partecipazione di artisti, giornalisti e personaggi dello spettacolo.

Michele Perfetti e la psicopoesia senziente

Scrittura verbo-visiva, così l’ha definita il critico ed artista Lamberto Pignotti, oppure “Poesia Totale” (Adriano Spatola), più specificatamente, a seconda dei ‘file’, si narra di poesia sonora, poesia tecnologica e poesia visiva (Perfetti, il Gruppo 70 ed altri).
Per la poesia visiva, nello specifico, dagli anni ’60 e dal Gruppo 70 di Firenze, avanguardia supportata e promossa da critici e artisti quali, infatti, Pignotti, Spatola e altri, protagonista indiscusso, di fama planetaria, nel settore, fu Michele Perfetti, mostre in Italia, Europa, Sud America… e a Ferrara.

Dalle primissime esplorazioni ormai storiche, poesia tecnologica e frammenti quotidiani, “000 più 1″, a poesie tecnologiche visive, “Black Notes”, alle mostre più recenti, “Un excursus a zig zag”, la parola che diventa mutante, post-tipografica, fino all’auto azzeramento nel puro segno, sogno, immagine… e alle personali più relativamente recenti: ad esempio il quasi florilegio storico Virtuale con lo stesso Pignotti (“Belle Lettere”).
Oppure, Perfetti, tra i principali psicopoeti, capace di captare il cosiddetto inconscio tecnologico di Franco Vaccari memoria, altro protagonista di quelle avanguardie, e cristallizzarlo dinamicamente
in opere d’arti inedite al gusto estetico comune.
La poesia come video game senziente, in una nano danza, orizzontale, verticale, obliqua,
dribblando anche, mossa non sempre prevedibile in tale post letteratura sperimentale, certo
ridondante concettualismo.
Michele Perfetti è scomparso nel 2013: così lo ricorda, significativamente l’Archivio Adriano Spatola: “Poco più di un anno fa scompariva a Ferrara Michele Perfetti, poeta visivo della prima ora e fedele sostenitore di questo genere di “controinformazione” letteraria e artistica, sino a farne una missione, per tutta la vita. Nato a Bitonto nel 1931, aveva manifestato già negli anni 50 la sua propensione a nuovi modelli di scrittura poetica, ma fu dopo il 1963, grazie alla scoperta del neonato Gruppo 70 fiorentino, che la Poesia Visiva gli aprì nuovi orizzonti artistici, poetici e politico-filosofici.
All’epoca il Circolo culturale Italsider di Taranto (quando l’acciaieria, ancora statale non si limitava ad avvelenare il territorio) metteva a disposizione uno spazio per i nuovi fermenti che germogliavano a profusione fra i giovani artisti e poeti, consentendo inediti rapporti a livello nazionale e internazionale. Michele Perfetti, con la collaborazione di un altro entusiasta sostenitore di queste novità, Vittorio Del Piano, vi organizzò numerose mostre, collettive e personali. Fra queste una di sue poesie visive intitolata …000+1, in occasione della quale pubblicò il libro qui riprodotto, con le brevi prefazioni di Eugenio Miccini e Lamberto Pignotti: fondatori questi ultimi del Gruppo 70 (movimento a cui Michele Perfetti aveva aderito) insieme con Luciano Ori, Lucia Marcucci, Ketty La Rocca e il musicista Giuseppe Chiari, uno dei pochi artisti italiani presenti nel movimento Fluxus, nato in America e rapidamente divenuto globale.”

da Archivio Adriano Spatola, “Michele Perfetti (1931-2013), la Poesia Visiva come missione”
Per leggere il testo completo scarica il pdf [vedi]

Per saperne di più sull’artista visita il sito di Edizioni Riccardi [vedi]

da “Dizionario della letteratura ferrarese contemporanea”, eBook a cura di Roby Guerra (Este Edition-La Carmelina, 2012)

LA STORIA
Quando una vecchia fabbrica fa design…

da MOSCA – Un muro che acquista improvvisamente un nuovo look, una parete che rinasce e si risveglia, lasciando da parte le ombre che l’hanno occupata, uno spazio che rivive. Arrampicato su una scala lunga e un pochino instabile, scalpello in mano, berrettino triangolare rigorosamente fatto a mano, un muratore gratta i vecchi mattoni uno a uno, riporta alla luce gli antichi colori, ridà luce a immagini spente e ormai sbiadite. La storia fa capolino, chiede di presentarsi e di non scomparire, di rimanere, magari con un altro vestito, ma di non essere dimenticata, di poter servire ancora a qualcosa e a qualcuno. Non vuole l’oblio, vuole esserci, ancora oggi. Presente e viva.

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Mosca, Museo dell’ ebrasimo
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Mosca, Museo dell’ ebrasimo

Piano piano quel muro acquista l’aspetto lindo e inconfondibile delle aree industriali rimesse a nuovo, vecchie ciminiere imperiose, un tempo fumanti, e design ultramoderno, formula vincente dei distretti creativi di New York, Helsinki, Londra o Berlino ma anche di Mosca. Qui le zone industriali occupano un quinto della città, un immenso patrimonio che si presenta agli occhi del turista e dell’abitante curioso man mano che il comune trasferisce la produzione fuori dal centro. Ma l’era post industriale qui è giovane, le aree dismesse di cui il mondo della cultura si impadronisce per dare sfogo alla creatività sono realtà recenti. «Nascono in luoghi che ormai erano non-luoghi, spazi fuori dal tempo – dice Serghey Nikitin, professore universitario di Architettura e storia di Mosca – fabbriche sprofondate in una città per cui non avevano più alcuna importanza, relitti di un’altra epoca». E, allora, in questi luoghi, rinati, fioriscono centri culturali, bar, pub, scuole di fotografia e di design, scuole di danza, musei, ritrovi vari.

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Mosca, Winzavod

Vecchi garage e vecchie fabbriche vengono occupate dall’estro e dalla fantasia. Brulicano di artisti, giovani fotografi e designer. Tutto bolle, tutto ferve. Le menti sfavillano. I luoghi rivivono, di una nuova e splendida vita, ripensata, ricolorata, rifatta, rinnovata.
Così, ad esempio, al Centro d’arte contemporanea Winzavod, s’incontrano e concentrano molte menti creative moscovite. Dopo un lungo isolamento, gli artisti russi si sono messi di nuovo a confronto con i colleghi europei, mostrando, ancora una volta, di non essere da meno. Winzavod è un’ex-fabbrica prima di birra (la Moskovskaya Bavaria) e poi di vino, trasformata, dal 2007, in uno spazio espositivo di più di 20.000 metri quadri, con varie gallerie permanenti e temporanee, librerie, scuole e caffetterie. Un vero e proprio quartiere, dove chi vuole isolarsi dalla confusione della città, si può rifugiare, uno spazio che ha conservato le vecchie strutture in mattone arancione e le tubature a vista, come a voler ricordare che quella è ancora una fabbrica, non più di bevande ma di arte. Io mi ci ritrovo.

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Ottobre Rosso, Mosca

Oppure basta andare nella zona della ex fabbrica di cioccolato Einem, aperta nel 1867 dai tedeschi Theodor Ferdinand von Einem e Julius Heuss, nazionalizzata nel 1918 e, nel 1992, ribattezzata Ottobre Rosso, dove si trova molta della vita culturale moscovita attuale. Nel 2007, lo stabilimento fu spostato a nord della città e la centralissima area fu riconvertita, secondo le esigenze più moderne di una capitale in rapida e vorticosa trasformazione. Dal 2010, Ottobre Rosso – il cui nome ben si addice se si osservano i bellissimi bricchi color rosso acceso – non ha più niente a che fare con il cioccolato, se non per il nome che è rimasto sulle classiche tavolette che si acquistano come souvenir. Mi viene in mente il bambino Charlie Bucket dell’omonimo film con Johnny Deep, pur non avendo nulla a che fare, lo so, ma questo posto fa pensare a una favola buona, dal finale dolce e zuccherino, ignoro il perché. Pura e semplice fantasia libera e liberata … Oggi l’area, che si trova di fronte all’imponente monumento di Pietro il Grande che svetta su una altrettanto imponente nave, ospita centri di fotografia dal forte e penetrante odore di pellicola, gallerie moderne e alternative, con esposizioni temporanee, il Museo di fotografia Lumiere, il suo fornito bookshop.

Si parla, a proposito, di archeologia industriale, anche in Italia molte vecchie fabbriche riprendono vita. Nuova vita ai vecchi edifici, allora. Importante per storia e memoria. E se, come diceva Jean Rostand, “un uomo non è vecchio finché è alla ricerca di qualcosa”, cerchiamo il nuovo in quel vecchio, sempre, un vero riciclaggio del passato. Per restare sempre ed eternamente giovani, noi e le vicende di quei luoghi lontani.

Fotografie di Simonetta Sandri

L’EVENTO
Pink Floyd in latino stasera a Ferrara

di Stefano Gueresi

Pink Floyd in versione latina in scena a Ferrara: stasera (ore 21) il concerto in Sala Estense, piazza Municipale di Ferrara. Il progetto si chiama “Occulta lunae pars”, ovvero “The dark side of the moon”. I testi sono tradotti in latino da una prof del liceo, Valeria Casadio, adattati in metrica e approvati dagli stessi Floyd. Li porteranno in scena i Mojo Brothers (Silvia Zaniboni – chitarra solista, Nicola Scaglianti – voce, Thomas Cheval – tastiere, Michele e Filippo Dallamagnana – basso e batteria).

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Studenti del liceo Roiti di Ferrara cantano brani dei Pink Floyd in latino in Biblioteca Ariostea, giugno 2014 (progetto dell’editore Nicola di Cristofaro di Agendae Res)

“The dark side of the moon” è un album entrato nella storia della musica. Ne racconta alchimie e segreti Stefano Gueresi, musicista e compositore, che le caratteristiche di questi brani le ha approfondite anche grazie a una lunga chiacchierata con Alan Parsons in occasione di una delle sue ultime tournée italiane.

Parlare di un disco come “The dark side of the moon” dei Pink Floyd potrebbe sembrare un’operazione superflua. Quante recensioni ha ricevuto questo disco, la cui copertina indimenticabile fece capolino nelle vetrine dei negozi specializzati a cavallo tra il 1972 e il 1973? Probabilmente è l’opera più famosa della storia della musica rock, e uno dei più venduti in assoluto negli ultimi decenni. Spesso si è parlato della “longevità” di questo gioiello, che a distanza di decenni lascia ancora stupefatti per la qualità del suono e per la genialità delle idee. In effetti si tratta di un lavoro assolutamente unico nel suo genere, unico anche nella storia del complesso inglese, per una serie di motivi contingenti e in virtù di quella alchimia magica che rende possibile la nascita di un capolavoro in determinate situazioni, con un gruppo di lavoro affiatato, uno studio di registrazione speciale , una supervisione attenta e ispirata.

Sicuramente i Pink Floyd erano arrivati a un bivio della carriera. Potevano farsi risucchiare nella schiera dei tanti gruppi pop-rock di un certo rilievo che si sciolsero anzitempo per mancanza di coesione, di vedute, o semplicemente di idee. Potevano finire smembrati e riciclati in tante formazioni diverse come accadde a tanti gruppi storici dell’epoca.”The dark side of the moon” segnò la grande svolta per la band, consacrandola sul gradino più alto della popolarità mondiale, secondi soltanto agli inarrivabili Beatles. La creatività e la magia di queste pagine musicali non furono più replicate dal complesso inglese.

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Alan Parsons

Tanti i motivi. Sicuramente un valore aggiunto fu rappresentato dalla presenza di Alan Parsons in veste di “ingegnere del suono”. Parsons aveva già colaborato con i Beatles durante la lavorazione del celeberrimo “Abbey road”, e dopo l’esperienza con i Floyd e altri gruppi intraprese una fortunatissima carriera solista. “The dark side of the moon” nasce da una stratificazione di ispirazioni, da spunti nati in lunghe sedute di registrazione, in intervalli di sessions, nelle lunghe ore di attesa tra un “take”  e l’altro. Di questo lento processo v’è traccia nel video “Pink Floyd at Pompei”, dove, tra una ripresa e l’altra nel magico sito archeologico, tra la posa dei cavi e degli strumenti e l’allestimento del set, scorgiamo il tastierista Richard Wright accennare agli accordi pianistici di “Us and them”, una delle canzoni più suggestive ed eteree dei Floyd.

Alan Parsons valorizzò la vena creativa della band, inserendo molte delle trovate più indovinate. E’ il caso della inquietante e magnetica sovrapposizione dei suoni di sveglie e orologi in una camera di riverberazione in “On the run”. Idea sua  l’inserimento dei suoni di un registratore di cassa e di macchine calcolatrici in “Money”, il battito del cuore che scandisce alcuni passaggi delle due suite da venti minuti che compongono il disco. Viene inserito grazie al suo contributo il sax di Dick Parry, malinconico e struggente, ma anche i cori di Lesley Duncan, Lisa Strike e Doris Troy, e la sensazionale voce di Clare Torry per “The great  gig in the sky” che conclude la prima parte.

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Syd Barrett in primo piano davanti agli altri membri dei Pink Floyd sulla copertina di un album (Photo by Keystone Features/Getty Images)

A livello musicale e strumentale i Pink Floyd offrono in questo lavoro il meglio della loro lunga carriera. Il preciso lavoro fatto di ritmi suadenti e di atmosfere oniriche della sezione ritmica di Waters e Mason, i sognanti tappeti sonori delle tastiere di Wright, e il lirismo elegante e profondo della chitarra di David Gilmour, regalano momenti davvero indimenticabili. Così come le voci, molto “british”, quasi indolenti nel raccontare storie di vita quotidiana, dove si parla di stress, di consumismo, della voracità del tempo odierno e anche della mente, delle sue pieghe angosciose e delle sue tare. Evidente il riferimento alla vicenda umana di Syd Barrett, il fondatore del gruppo, che si bruciò letteralmente per l’uso smodato di Lsd abbinato ad altre sostanze  allucinogene e a farmaci come il Mandrax. A Syd Barrett verrà dedicato l’intero disco successivo dei Pink Floyd, “Wish you were here”, uscito nel 1975.

“The dark side of the moon” ha venduto decine di milioni di copie in tutto il mondo e ha conquistato più di una generazione, ponendosi senza alcun dubbio tra le opere più importanti della storia della musica moderna. Interessante sentirne, stasera a Ferrara, la versione latina interpretata da una giovane band.

Dopo la piena

“L’ultima finitura poi, nella quale si scorgeva la sottigliezza di un’arte e esperienza di secoli, stava dandola il reggitore della famiglia, l’anziano, che ripassava attento e leggero, in punta di vanga, le scoline. Striavano queste, rete varia e capricciosa, dietro infinite vene d’acqua da seguire o attrarre o respingere, da arginare e da raccogliere; striavano le fette di quel grigio, forte e fertile limo di Po, che ormai era pronto, assestato, sminuzzato delicatamente; e odorava di un sottile sentore di terra asciutta. Il contadino aveva l’arte avita di riconoscere a palmo a palmo, da un colore della zolla, da un filo di erba vegetata, quasi al fiuto, i più lievi indizi dei minimi tratti dove affiorava acqua interna, o dove ristagnava la piovana a far pozza, con danno futuro del frumento e della canapa. Sulla traccia di tali indizi, apriva con la vanga piccoli solchi, rigagnoli, e meno che rigagnoli, lievi ed accorti inviti all’acqua delle piogge autunnali e delle nevi invernali e degli acquazzoni primaverili, che fluisse alle scoline, ai fossatelli ed ai fossi. Egli era di quelli che sapevano, per antica scienza istintiva, aprire e mantenere senza aiuto di strumenti un declivio di pochi pollici in un solco lungo centinaia di passi. Era l’ultima rifinitura delle terre, dunque, innanzi d’aprir la bocca al sacco delle sementi scelte; innanzi di tornarvi sopra per l’ultima volta a spargere con il gesto largo e regolato del seminatore in testa alla fila dei lavoranti, uomini, donne, ragazzi, che, rastrellando e zappettando con mano leggera, ricoprivano il seme, sotterravano, a che germogliasse, la speranza dell’annata. Finalmente, su ogni fetta seminata veniva piantata una croce di legno o di stelo di canapa, benedetta dal prete.” (Riccardo Bacchelli, “Il mulino del Po” volume secondo, capitolo VII).

La piena del Po è passata, ormai non fa più notizia. Passiamo oltre e dimentichiamo il problema, lo nascondiamo come polvere sotto il tappeto, in attesa di un’altra emergenza che ci metta di fronte alla nostra stupidità. Un problema, sempre lo stesso da anni, qui, lungo gli argini maestri del nostro grande fiume, come in tutte le altre zone sinistrate d’Italia, che si chiama: acqua. Noi siamo acqua, viviamo grazie all’acqua e l’acqua è sacra come sacra è la terra. Gli antichi imparavano a loro spese che a queste divinità bisognava chiedere il permesso per abitare. Il permesso era concesso quando gli uomini imparavano il rispetto della terra e dell’acqua attraverso un’esperienza diretta, brutale, che non lasciava alternative. Questa esperienza diventava cultura.
Una cultura vera, specializzata e molto raffinata, fatta di mille mestieri, come quello descritto da Bacchelli in questa pagina straordinaria, di colui che conosceva “l’arte” di tirare i tracciati delle scoline più fini, il primo elemento di una gerarchia di canali che disegnava la terra della pianura, e sapeva ottimizzare il drenaggio, aiutando l’acqua, nei momenti di abbondanza, a scendere verso i fiumi senza fare danni. Ogni volta che leggo questa pagina mi colpiscono le parole e gli aggettivi che sottolineano la gentilezza verso la terra, la mano di chi la lavorava doveva essere leggera, sottile, attenta, come la mano di un amante che accarezza la sua donna. Siamo diventati dei bruti violenti e la terra ci ripaga con la stessa moneta, nessuna meraviglia, solo la consapevolezza delle migliaia di occasioni sprecate, dello sperpero incalcolabile di denaro pubblico, della colpevole ignoranza e della ipocrisia schifosa e feroce che ci tocca ascoltare nei piagnistei di chi ha sprecato l’occasione di valorizzare questa conoscenza antica, con le tecnologie e i mezzi che abbiamo oggi a disposizione.

Foto di Francesca Vincenzi

LA SEGNALAZIONE
Ciak, adolescenti in scena: corso di recitazione
fra cinema e teatro
sotto la stella del Giffoni

“Corso di preformazione attoriale”. Il nome, promettente e ambizioso, prelude a un a un sogno: quello che alcuni adolescenti ferraresi potranno coltivare, impegnandosi nelle molteplici attività proposte dalla scuola di recitazione, con la speranza un giorno di essere parte del panorama artistico nazionale. Il percorso che li attende si svilupperà nell’arco di un biennio e culminerà con la realizzazione di un’opera audiovisiva, ammessa fuori concorso al prestigioso Giffoni Film Festival.
La presentazione del progetto ha coinciso con l’inaugurazione della sede di Fonè Teatro. E c’è un misto di orgoglio, felicità e soddisfazione nelle dichiarazioni rilasciate dal suo presidente, Massimo Malucelli, quando proclama ufficialmente l’apertura della scuola e della sede dell’associazione in via Arianuova 128. Partecipe di tutto anche il direttore artistico del Giffoni, Claudio Gubitosi, a testimoniare la solidità del sodalizio. L’evento è stato scandito dall’avanscoperta del nuovo “quartier generale”, dove tre piani spaziosi e accoglienti ospiteranno tutti coloro che, appassionati di recitazione, decideranno di sfidare sé stessi nell’attesissimo corso.
“E’ un progetto che ha superato il mio sogno di sempre” ha affermato il direttore artistico del corso ed ex allievo di Fonè Stefano Muroni, il quale, insieme a Malucelli, ha descritto il programma dell’attività ripercorrendo la sua ricca esperienza professionale. Dal triennio trascorso presso il Centro Sperimentale di Cinematografia alla stimolante carriera di conduttore intrapresa al Giffoni Film Festival, il giovane attore di Tresigallo ha ricordato ai presenti che, con l’impegno e la determinazione, ogni desiderio può essere realizzato. E, con un pizzico di fortuna, addirittura superato: “Ho già lavorato con importanti figure del mondo del cinema, come Monica Guerritore e Giorgio Colangeli. Sono state occasioni che hanno oltrpassato le mie aspettative”, ha aggiunto Muroni, ricordando quando, da bambino, gli amici appassionati di calcio non capivano il suo sogno di diventare attore. “Per questo, oggi, ho voluto impegnarmi in questo corso di preformazione, offrendo ai ragazzi un’opportunità per vivere fino in fondo la loro passione” ha concluso rivolgendosi soprattutto ai giovani talenti ferraresi che, presenti all’inaugurazione, si metteranno in gioco nel corso promosso da Fonè.
Un’opportunità accolta con entusiasmo anche dal vicesindaco nonché assessore alla Cultura Massimo Maisto, il quale ha chiarito le ragioni per cui il Comune di Ferrara ha patrocinato questa iniziativa. “C’era l’esigenza di promuovere una cultura diffusa – ha spiegato – scommettendo su un lavoro capillare e quotidiano al fine di stimolare i giovani in età scolastica. La nostra città ha bisogno di attività creative e fantasiose, senza perdere il senso della professionalità”, ha aggiunto il vicesindaco, che non ha negato di aver appoggiato il progetto anche per motivi personali: “Mi ha colpito la sfida lanciata da Stefano, il suo coraggio di rischiare proponendo idee nuove” è stato il commento dell’assessore, seguito dalle dichiarazioni rilasciate da Paolo Govoni. Ribadendo la necessità di finanziare le attività culturali e artistiche per contrastare l’attuale crisi economica, il direttore della Camera di Commercio di Ferrara ha elogiato il progetto teatrale realizzato da Fonè. Un progetto che, riscoprendo le qualità del territorio, “valorizza i giovani e stimola il cambiamento sociale grazie alle eccellenze”.

“Possiamo rilanciare una società pronta a cambiare e a riproporsi” ha aggiunto Malucelli nel corso dell’inaugurazione, caratterizzata anche dall’intervento di Paolo Marcolini. Il presidente Arci ha dichiarato di apprezzare un’idea che “cerca di unire il mondo della recitazione e della cultura all’attività imprenditoriale”. Due realtà diverse e contrastanti, due “iceber alla deriva” che, come affermato da Malucelli, “hanno deciso di intraprendere un percorso nuovo coordinando gli sforzi e l’impegno per realizzare un obiettivo condiviso”. Grazie a un programma che vede Ferrara scintillare tra le stelle della cultura e dell’arte, l’inaugurazione della sede di via Arianuova si è trasformata in un’occasione per riscoprire la ricchezza di un Paese alla deriva. Una ricchezza che è stata elogiata anche da Gubitosi, figura di spicco dell’inaugurazione svoltasi martedì. Spronando i presenti a impegnarsi nella ricostruzione di uno Stato che deve tornare al primo posto nella classifica dei Paesi più visitati al mondo, il direttore artistico di Giffoni si è soffermato sulle potenzialità del cinema e del teatro italiani. “Non dobbiamo delocalizzarci, ma, coscienti della nostra cultura, dobbiamo impegnarci a esportarla. Il festival che ho realizzato a partire dal 1973 punta proprio a questo e abbiamo contatti con molti Paesi esteri, come il Qatar” ha spiegato Gubitosi, complimentandosi con Muroni. “E’ un buon elemento. Mi piacciono la sua arroganza, la sua presunzione e la sua ambizione”, ha scherzato il direttore artistico, il quale, senza nascondere quella verve napoletana che mette in luce le potenzialità di una regione dalle mille sfaccettature, si è rivolto ai ragazzi del corso incentivando il loro lavoro.
Certo, non mancheranno i sacrifici, “fondamentali per ricostruire le briciole”. Ma Gubitosi non ha dubbi e, concludendo l’intervento prima dell’atteso banchetto offerto dal ristorante pizzera catering L’Archibugio, ha ricordato a tutti i presenti la necessità di amare sé stessi: “Solo se vi amate, riuscirete in questo mestiere. Se non lo fate, cambiate lavoro”. Parole incoraggianti. Ma, soprattutto, parole di sfida e di sprone, che condurranno i talenti di domani alla scoperta di un‘esperienza unica, in cui la passione, coniugandosi con l’arte, darà origine a qualcosa per cui varrà la pena essere spettatori.

Un gioco da ragazzi, tanto serio quanto la vita

Il palcoscenico del Teatro comunale Claudio Abbado come “spazio ludico, allo stesso tempo indeterminato e regolamentato”, nove “adolescenti kamikaze” che rispondono in diretta a un corpus di quesiti, condividendo un inventario di comportamenti, ma senza sapere in base a quali parametri di selezione verranno chiamati in gioco: “ciascuno risponde in diretta autodefinendosi”. Questo è la performance ideata da Francesca Pennini e Angelo Pedroni di CollettivO CineticO insieme ai nove ragazzi che sono andati in scena ieri sera: Tilahun Andreoli, Samuele Bindini, Thomas Clavez, Marco Calzolari, Camilla Caselli, Jaques Lazzari, Matteo Misurati, Emma Saba, Martina Simonato.
Ma in realtà c’è di più perché, partendo dal concetto di indeterminazione e di sperimentazione caratteristico del grande compositore, diventa un percorso, un processo alla ricerca della definizione e dell’autodefinizione del sé, anche in relazione agli stimoli che provengono dal contesto esterno.

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Quadro, La competizione

I nove adolescenti che abitano il palco hanno memorizzato una serie di gesti associati a stati d’animo, conformazioni emotive e comportamenti e viene loro chiesto di “rappresentarli” a comando. In un angolo giace, infatti, quello che diventa una sorta di principio generatore: un computer portatile, che Angelo usa per proiettare le istruzioni ai performers. L’habitat viene costruito gradualmente, Angelo si procura gli oggetti necessari e li dispone sul palcoscenico dopo averli mostrati per qualche secondo al pubblico, rendendo evidente il meccanismo teatrale, ‘mettendolo in scena’ tramite la sua composizione in tempo reale davanti agli occhi degli spettatori. I ragazzi poi siedono muti sulle panche, si alzano a turno o in gruppo per andare a occupare il palco eseguendo i gesti imparati dai propri corpi, rispondendo in maniera diretta alle istruzioni proiettate sul fondale, fino a che Angelo non suona un gong che determina il passaggio al quadro successivo.

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Quadro, La costruzione

Come nelle pagine di un bestiario medievale, con l’aria sulla quarta corda di Bach in sottofondo, gli spettatori vedono aprirsi davanti ai loro occhi una sorta di inventario umano diviso in tre capitoli. Il primo capitolo è quello delle descrizioni degli “esemplari”: esemplari pessimisti, logorroici, che parlano da soli o che sanno mentire. Gli adolescenti che si riconoscono nella descrizione si alzano in piedi e stanno fermi per qualche secondo davanti al pubblico, fino al suono del gong che li manda a sedere. Il secondo capitolo si intitola “comportamento”: gli esemplari egocentrici sono chiamati al comportamento di salto, quelli disorganizzati al comportamento in codice e quelli stitici al comportamento di canto, oppure ancora gli esemplari arrapati – naturalmente tutti maschi – al comportamento lisergico. Infine nel terzo capitolo tutti e nove compongono azioni coreografiche: dall’addestramento all’equilibrio, dall’allarme alla transumanza alla competizione, dalla costruzione alla decostruzione, quando ciascuno prende un oggetto dell’habitat portandolo fuori dalla scena.

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Quadro, La competizione

“Age”, spiega Francesca Pennini seduta fra i ragazzi di entrambi i cast – quelli del 2014 e quelli del 2012, che non hanno voluto perdere la tappa ferrarese del loro spettacolo – nell’incontro con il pubblico al termine dello spettacolo, non è uno spettacolo sull’adolescenza ma gioca con la capacità degli adolescenti “di reagire a una situazione mutevole, non predeterminata, come in fondo è la vita che si sta costruendo”. Porta quindi in scena contemporaneamente il coraggio e la sfrontatezza, ma anche tutta la fragilità di quella delicatissima fase della vita che è l’adolescenza, in cui attraverso la continua sperimentazione della propria identità in divenire il gioco si trasferisce dalla fantasia alla realtà: questi nove ragazzi, come tutti i propri coetanei, non sanno cosa li aspetterà nello spettacolo proprio come non sanno cosa li aspetta nella vita. Allo stesso tempo, questi giovani sulla scena sono estremamente sicuri: nascondono l’emozione, sanno come affrontare la sfida, anche grazie al lungo percorso di ‘addestramento’ attraverso cui Francesca e Angelo li hanno guidati. Sembra che voglia dirci anche questo: l’incertezza può essere affrontata dotandosi degli strumenti della conoscenza e dell’allenamento.

Per leggere l’intervista a Francesca Pennini pubblicata su ferraraitalia [vedi]

La foto in evidenza e la prima nel testo sono di ©Marco Caselli Nirmal

LA RIFLESSIONE
Carta o digitale,
il dilemma per il libro
di Natale

“Dobbiamo fornire agli editori ulteriori ricerche e risultati riguardanti i rapporti fra tipo di supporto (iPad, Kindle, carta) e contenuto del testo; dovremmo comprendere quali tipi di testo sono meno influenzati dalla lettura digitale e quali invece dovrebbero essere letti sul cartaceo. Sto pensando che ci sia una notevole differenza fra la lettura di una breve storia su uno schermo, quando non necessariamente devi prestare attenzione a tutte le parole, ed una storia letteraria più complessa, qualcosa come l’Ulisse, che richiede una sostanziale concentrazione per essere letta”.

Queste sono le conclusioni alle quali è giunta la ricercatrice norvegese Anne Mangen della Stavanger University dopo aver studiato 100 lettori ai quali era stato dato da leggere lo stesso libro. Metà dei lettori lo hanno letto nella versione cartacea e metà nella versione digitale (ebook). La ricerca ha mostrato come i lettori su Kindle fossero peggiori dei lettori sul cartaceo nel ricordare la successione degli eventi raccontati nel libro (The Guardian, Giovedì 19 Augusto 2014 [leggi]).

Insomma, per Natale dovremmo regalare libri o iPad/Kindle/computer?
Sembra che i libri cartacei siano in via di estinzione. Di loro esistono poche specie che ancora popolano la Terra e che fra qualche anno scompariranno definitivamente per lasciare la loro nicchia ecologica alla prole filogenetica: il libro digitale. Dobbiamo trasferire tutto su piccoli supporti con grandi memorie, oppure leggere su ebook fa perdere capacità mnemoniche e cognitive?

Leggiamo per vari motivi: per imparare, per divertimento, per passare il tempo, per acquisire informazioni prima di un incontro di lavoro. Qualcuno ha affermato che la tecnologia digitale aiuta la lettura. C’è sicuramente differenza fra lettura ricreativa e lettura di un testo sul quale si dovrà sostenere un esame. L’ebook permette collegamenti ipertestuali, che sono uno stimolo ed allo stesso tempo un altissimo rischio di dispersione. Il modo di leggere sta cambiando. Molti di noi hanno problemi crescenti di attenzione e concentrazione: leggere per intero un lungo articolo in internet è molto complicato, l’attenzione si perde facilmente. Ci si perde in un continuo inseguimento delle parole. Quale problema risolve l’ebook? Sicuramente quello del volume e dello spazio dei libri cartacei. Tuttavia il libro cartaceo ha un peso, ha un’impaginazione personale, occupa spazio, ci da informazioni visive e tattili che rafforzano le nozioni. Sappiamo quanto manca alla fine. Le librerie offrono un potente aiuto alla memoria: spesso basta guardare gli scaffali per riattivare il ricordo delle informazioni. Scorrere una lista su un monitor non ha lo stesso effetto. Io ricordo perfettamente il colore della copertina dei libri che ho letto, conosco sicuramente la posizione dei libri nel mio studio, anche per quel libro che ho sfogliato l’ultima volta dieci anni fa.

Gli ebook vengono proposti come la sicura chiave dell’evoluzione del libro, l’obbligato passaggio al digitale. Vi sono numerosi esempi di tentativi digitali introdotti sul mercato e considerati sicuri mezzi del nostro futuro e poi inesorabilmente falliti e/o caduti nell’obsolescenza (cambiamento di sistemi operativi, formati di file ora illeggibili, memorie di massa non più leggibili, vari tipi di cd/dvd non più leggibili dai lettori digitali). Erano tentativi per un successo economico: una scommessa sul mercato dell’elettronica, sopravvissuti qualche anno, ci hanno illuso di essere eterni. Gli abbiamo dato fiducia concedendogli le foto più care dei nostri viaggi, gli scritti più complicati e personali dei nostri ricordi. L’ebook si può rompere, la batteria diminuirà la sua capacità d’immagazzinare energia, lo schermo si graffierà. Quando il nostro ebook sarà obsoleto dovremmo gettarlo e comprarne un altro, trasferendo tutto il suo contenuto nella nuova memoria. Produrremo un altro rifiuto elettronico. Il lettore digitale è più ecologico di un libro cartaceo? I risultati di vari studi non hanno ancora chiarito quale delle due soluzioni sia più ecologica [leggi in pdf]. L’iPad è responsabile di circa 130 kg di emissioni di gas-serra equivalenti di CO2 durante la sua vita media. Il libro stampato in media è responsabile per circa 4 kg [leggi]. Senza una totale trasparenza nelle informazioni fornite dai produttori di supporti digitali, non è chiaro tuttavia quanto i rifiuti siano ecologicamente riciclabili e quanto si stia effettivamente cercando di migliorare la loro efficienza energetica.

Ho la sensazione che la proposta dell’ebook sia davvero spinta da interessi economici dei grandi produttori, piuttosto che da effettivi vantaggi per il lettore. Un iPad costa mediamente circa 250 euro (un Kindle costa circa 60 euro) ai quali vanno sommati gli acquisti di ebook (circa 7 euro a libro). Se in due anni leggessi circa 20 ebook, avrei una spesa di 140 euro ai quali sommare l’acquisto dell’iPad (per un totale di 390 euro). Se avessi acquistato gli stessi libri, ma in forma cartacea avrei speso circa 300 euro (per un ipotetico costo di 15 euro a libro). Naturalmente, durante i due anni ho avuto da amici ebook gratuiti e ne ho scaricati di piratati. Alla stessa maniera, ho ricevuto in prestito qualche libro cartaceo. Ovviamente mi auguro che in questi due anni il mio iPad non si guasti. Il vantaggio mi sembra davvero puramente volumetrico, e comunque usando l’iPad non saprò come riempire la mia nuova libreria ikea.

Per Umberto Eco ci sono due tipi di libro, quelli da consultare e quelli da leggere.
La lettura del cartaceo riguarda le sensazioni, l’animo, l’arte visiva, letteraria e musicale. Se ha ragione la ricercatrice norvegese, siamo più propensi a ricordare in dettaglio ciò che leggiamo sul cartaceo. Se vogliamo allora provare le sensazioni dell’anima dobbiamo leggere un libro di carta. L’anima ricorda meglio. Il libro per la memoria, l’ebook per gli affari ed il divertimento.

La lettura non è divertimento leggero. L’energia spesa nella lettura dell’imparare è preziosa e desidererei che ciò che imparo rimanesse con me il più a lungo possibile. Alla fine di un bel libro siamo rimasti delusi non potendo più partecipare alle storie e frequentare i personaggi del romanzo. Gli ultimi capitoli li abbiamo millesimati, sperando che la posizione del segnalibro arretrasse ogni volta che riprendevamo in mano il libro. Le ultime pagine le abbiamo centellinate, come l’ultimo sorso di quell’ottimo vino che abbiamo gustato quella volta. Poi abbiamo voltato l’ultima pagina, chiuso il libro ed ammirato la copertina. “La forma libro è determinata dalla nostra anatomia” (Umberto Eco, La bustina di Minerva, 17/03/1995).
Abbiamo bisogno di sapere quanto manca alla fine: è quello che stiamo cercando da sempre.

REPORTAGE
Tutte le tinte del jazz
Oggi e domani

Appuntamento per gli amanti del miglior jazz-samba quello di domani, sabato 29 novembre (ore 21.30), al Jazz club Ferrara con due maestri del proprio strumento come Toninho Horta e Ronnie Cuber. Un originale dialogo in musica che unisce Brasile e Stati Uniti e valica i confini geografici e distanze culturali.

Stasera, venerdì 28 novembre, a partire dalle 20 lo spazio del Torrione è invece dedicato a “Somethin’else”, la mini rassegna musical-gastronomica all’interno del cartellone jazz. L’abbinamento di oggi è tra cucina indiana e sonorità tradizionali con le note di raga selezionate ed eseguite, per tablas e sitar, da Stefano Grazia e Mauro Fava (in sostituizione di Paolo Avanzo), maestri nazionali della tradizione musicale d’Oriente.

Nel Torrione di San Giovanni, in via Rampari di Belfiore a Ferrara.

In attesa uno sguardo alle immagini del fotografo Stefano Pavani, che documenta la serata di venerdì scorso con il “modern mainstream” che ha sancito l’ultimo appuntamento in collaborazione con il Bologna jazz festival. Gli scatti in rigoroso bianco e nero documentano l’esibizione del quartetto di una stella del jazz: il pianista George Cables coadiuvato dal drumming di Victor Lewis e dai virtuosi Piero Odorici, ai sassofoni, e Darryl Hall al contrabbasso.

[cliccare un’immagine per vedere la galleria]

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George Cables al pianoforte al Jazz club Ferrara (foto Stefano Pavani)
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George Cables Quartet: Victor Lewis alla batteria (foto Stefano Pavani)
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George Cables Quartet: Piero Odorici al sassofono (foto Stefano Pavani)
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George Cables Quartet: Darryl Hall al contrabbasso (foto Stefano Pavani)
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George Cables Quartet al Jazz club Ferrara (foto Stefano Pavani)
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George Cables Quartet: Victor Lewis alla batteria (foto Stefano Pavani)
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George Cables Quartet: Victor Lewis alla batteria (foto Stefano Pavani)
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George Cables Quartet: Victor Lewis alla batteria (foto Stefano Pavani)
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George Cables Quartet al Jazz club Ferrara (foto Stefano Pavani)
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George Cables al pianoforte con il suo quartetto al Jazz club Ferrara (foto Stefano Pavani)
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George Cables al pianoforte con il suo quartetto al Jazz club Ferrara (foto Stefano Pavani)
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George Cables al pianoforte con il suo quartetto al Jazz club Ferrara (foto Stefano Pavani)
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George Cables Quartet al Jazz club Ferrara (foto Stefano Pavani)
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George Cables Quartet: Odorici al sassofono e Hall al contrabbasso (foto Stefano Pavani)
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George Cables Quartet: Odorici al sassofono e Hall al contrabbasso (foto Stefano Pavani)
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George Cables Quartet al Jazz club Ferrara (foto Stefano Pavani)

IL FATTO
Oltre 600 sieropositivi nel ferrarese, riparte la campagna di prevenzione contro l’Aids

Circa tremila nuovi casi in più ogni anno Italia, quattrocento in Emilia Romagna e, l’anno passato, ventotto nel Ferrrarese, dove i sieropositivi sono più di 600, cinquecentotrentasei dei quali trattati con tre differenti farmaci indispensabili a cronicizzare l’infezione, che contagia principalmente persone sessualmente attive tra i 25 e i 40 anni. Sono i numeri della sieropositività, che solo a Ferrara comporta una spesa farmaceutica di 4milioni di euro a carico della sanità pubblica.
Non è emergenza, ma è necessario mantenere i riflettori accesi su un’infezione “dimenticata” ma sempre in agguato, sicché la campagna d’informazione deve ripartire con rinnovata forza concentrandosi sull’”amore sicuro e consapevole”. Si ricomincia da un corso di formazione riservato ai giornalisti, che il 29 novembre vedrà lo psicologo e psichiatra Stefano Caracciolo concentrarsi sulla comunicazione dei dati collegati alla malattia e lo farà affrontando un percorso per immagini tratte da film sull’Aids. Il programma prosegue con un’anteprima domenica pomeriggio, alle 17.30, in piazza Municipale, dove va in scena  Write Aids flash mob, seicento palloncini rossi formeranno la scritta Hiv, un’installazione accompagnata dalla presenza di uno stand informativo.

Da oggi e fino al 5 dicembre la Sala Arengo del Comune (chiuso il sabato) ospita la mostra Write Aids story: l’Aids attraverso occhi e pensieri dei giovani; lunedì alla Sala Estense, dalle ore 8.30, si alternano differenti incontri con le scuole, che nei giorni successivi toccheranno gli istituti superiori “Monaco”, “T.L. Civita” di Codigoro e il “Remo Brindisi” del Lido degli Estensi. Il progetto, alla cui realizzazione hanno collaborato la Commissione interaziendale per la lotta all’Aids, gli operatori di Free Entry, il Comune, l’Avis ferrarese e provinciale, l’Afm (farmacie comunali) e l’Associazione Ferrara by Night, ha un obiettivo preciso: sensibilizzare il pubblico e di conseguenza prevenire il contagio da Hiv. E’ questo lo scopo di “World Aids day”, la giornata mondiale contro l’Aids celebrata l’1 dicembre.

L’Aids non passa di moda, non è stato sconfitto – ricorda l’assessore alla Sanità Chiara Sapigni – E’ necessario rafforzare la prevenzione”. E’ l’unica via per contenere i casi di contagio che avvengono attraverso il sangue e i rapporti sessuali con persone infette e spesso ignare di esserlo. “E’ una realtà di cui si tende a parlare poco, ma ogni anno si rileva lo stesso numero di nuovi casi che si aggiungono ai vecchi”, spiega l’infettivologa Laura Sighinolfi dell’azienda ospedaliera.

“Stiamo lavorando attraverso nuovi mezzi di comunicazione tra cui i social network per raggiungere un maggior numero di persone estranee ai percorsi di prevenzione tradizionali avviati nelle scuole e al Sert, dove alcuni utenti hanno suggerito diversi metodi informativi soprattutto all’interno delle famiglie chiamate a confrontarsi con questa realtà”, racconta Luisa Garafoni, direttore del Sert. Rispetto e consapevolezza sono le due parole d’ordine su cui si basa la guerra alla sieropositività perché “tutto dipende dalla scelta personale dei propri comportamenti sessuali”, dice Garafoni ricordando quanto adolescenti e giovanissimi siano i più colpiti dalle malattie sessuali, mentre i tossicodipendenti, pur rimanendo una categoria a rischio, sono la più sotto controllo rispetto a fasce di popolazione meno informate sull’infezione.

LA SEGNALAZIONE
Quel genio di Henri Cartier-Bresson

Le fotografie possono raggiungere l’eternità attraverso il momento. Henri Cartier-Bresson
E’ esposta a Roma, dal 26 settembre 2014 fino al 25 gennaio 2015, presso il Museo dell’Ara Pacis, la mostra retrospettiva Henri Cartier-Bresson.
L’abbiamo visitata a pochi giorni dalla sua inaugurazione, in un settembre romano ancora tiepido, di quelli che invitano a stare fuori, all’aria aperta, e a guardare tutto con altri occhi. Se poi si ama (si adora) la fotografia e si sa che, nella Capitale, espone il suo Maestro, i giochi sono fatti. Pronti, via, allora. Ed eccoci in fila.

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La locandina della mostra

Il genio per la composizione, la straordinaria intuizione visiva e la capacità di cogliere al volo i momenti più fugaci come i più insignificanti fanno di Henri Cartier-Bresson (1908-2004) uno dei più grandi fotografi del ventesimo secolo. Nel corso della sua lunga carriera, percorrendo il mondo e posando lo sguardo sui grandi momenti della storia, Cartier-Bresson è riuscito a unire alla potenza della testimonianza la poesia.
Tre periodi scandiscono la sua opera: il primo, dal 1926 al 1935, durante il quale Cartier-Bresson frequenta i surrealisti, compie i primi passi in fotografia e affronta i suoi primi grandi viaggi; il secondo, dal 1936 al 1946, corrisponde al periodo del suo impegno politico, del lavoro per la stampa comunista e all’esperienza del cinema; il terzo periodo, dal 1947 al 1970, va dalla creazione della cooperativa Magnum Photos fino alla fine della sua attività di fotografo. Riduttivo sarebbe dunque individuare nella sola nozione di “istante decisivo”, che per lungo tempo è stata la chiave principale di lettura delle sue immagini, la sintesi del suo lavoro.
Questa retrospettiva ripercorre cronologicamente il suo percorso, per mostrare che non c’è stato un solo Cartier-Bresson ma diversi. E tutti meravigliosi.

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Il catalogo

La mostra propone, infatti, una nuova lettura dell’immenso corpus d’immagini di Cartier-Bresson, coprendo l’intera vita professionale del fotografo. Sono esposte oltre 500 opere tra fotografie, disegni, dipinti, film e documenti, riunendo le più importanti icone ma anche le immagini meno conosciute del grande maestro: 350 stampe vintage d’epoca, 100 documenti tra cui quotidiani, ritagli di giornali, riviste, libri manoscritti, film, dipinti e disegni.
Il percorso espositivo, ben fatto e davvero molto ricco, è diviso in nove parti.
Dopo un’Introduzione che sintetizza gli ingredienti della storia, ossia l’inclinazione artistica (“Ho sempre avuto la passione per la pittura” scrive Cartier-Bresson. “Da bambino, la facevo il giovedì e la domenica, ma la sognavo tutti gli altri giorni”), un assiduo apprendistato, un po’ di atmosfera del periodo, aspirazioni personali e molti incontri, le altre sezioni corrispondono alle diverse fasi della vita e del lavoro dell’artista.
La sezione I comprende le prime fotografie, con gli anni di apprendistato, i rapporti con gli americani a Parigi, le influenze fotografiche, il viaggio in Africa. Siamo negli anni Venti, sotto il doppio segno della pittura e della fotografia, praticate prima in modo amatoriale e poi sviluppatesi attraverso tappe fondamentali come il viaggio in Africa, tra il 1930 e il 1931. La sezione II, Viaggi fotografici, è dedicata al Surrealismo, alle peregrinazioni fotografiche in Spagna, Italia, Germania, Polonia e Messico. Grazie a René Crevel, conosciuto a casa di Jacques Émile Blanche, Cartier-Bresson comincia a frequentare i surrealisti nel 1926. E’ soprattutto l’atteggiamento surrealista a segnarlo: lo spirito sovversivo, il gusto del gioco, lo spazio lasciato all’inconscio, il piacere degli andirivieni urbani, la predisposizione ad accogliere il caso.
La terza sezione riguarda l’impegno politico. Come la maggior parte dei suoi amici surrealisti, Cartier-Bresson condivide molte posizioni politiche dei comunisti: un feroce anticolonialismo, un incrollabile impegno nei confronti dei repubblicani spagnoli e una fede profonda nella necessità di “cambiare la vita”. Dopo le violente rivolte organizzate nel febbraio del 1934 a Parigi dall’estrema destra, percepite come un rischio che l’ondata del fascismo europeo dilaghi anche in Francia, il suo impegno si fa più tangibile. Firma numerosi manifesti di “richiami alla lotta” e di “unità d’azione” delle forze di sinistra. Nel corso dei suoi viaggi in Messico e negli Stati Uniti, tra il 1934 e il 1935, le persone che frequenta sono molto impegnate nella lotta rivoluzionaria. Di ritorno a Parigi, nel 1936, la posizione di Cartier-Bresson si radicalizza e partecipa con regolarità alle attività dell’Associazione degli scrittori e artisti rivoluzionari, cominciando anche a lavorare per la stampa comunista. Nella sezione IV, dedicata alle guerre, scorrono le immagini del suo film sulla Guerra civile spagnola e si può vedere la sua attività durante la Seconda guerra mondiale (fotografo dell’esercito, prigioniero, fuggiasco, combattente della Resistenza) per documentare il ritorno dei prigionieri.
Nel febbraio del 1947, Cartier-Bresson inaugura la sua prima grande retrospettiva istituzionale al Museum of Modern Art di New York. Poco dopo, con Robert Capa, David Seymour, George Rodger e William Vandivert, fonda l’agenzia Magnum, che in poco tempo diverrà uno dei riferimenti mondiali per il fotoreportage di qualità. Cartier-Bresson decide di diventare un reporter a pieno titolo, impegnandosi nell’avventura della Magnum. Dal 1947 agli inizi del 1970, si susseguono viaggi e reportage in tutto il mondo, lavorando per quasi tutti i grandi giornali illustrati internazionali. Siamo così arrivati alla sezione V, quella del reporter. Senza accorgercene.
Segue la sezione VI, quella dedicata a Henri reporter professionista: è lui il primo fotogiornalista a entrare in URSS dopo la morte di Stalin. E poi Cuba, “L’Uomo e la Macchina” e la serie Vive la France. La fotografia dopo la fotografia (sezione VII) segna l’epoca della fine dei reportage e quella di una fotografia più contemplativa. Ricompare il disegno. Conclude la mostra, l sezione VIII, ricognizione, ovvero quella del tempo della riconsiderazione degli archivi (dai documenti al lavoro), delle mostre retrospettive e dei libri. Siamo arrivati all’iconizzazione di Henri Cartier-Bresson.
La mostra è accompagnata da un ampio ed esaustivo catalogo (pubblicato da Contrasto, foto) con saggi di studiosi, esperti e testi inediti di Cartier-Bresson.

Si muore tutte le sere, si rinasce tutte le mattine: è così. E tra le due cose c’è il mondo dei sogni.

Museo dell’Ara Pacis, Lungotevere in Augusta, Roma, dal 26 settembre 2014 al 25 gennaio 2015. Mostra realizzata dal Centre Pompidou di Parigi, a cura di Clément Chéroux, in collaborazione con la Fondazione Henri Cartier-Bresson, promossa da Roma Capitale, Assessorato alle Politiche Culturali e Centro Storico – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e prodotta da Contrasto e Zètema Progetto Cultura.

Ringraziamenti vanno all’Ufficio stampa di Contrasto per il materiale fornito.
La foto di copertina è presa da Internet.

L’INCHIESTA
Salute a rischio. Allergie e intolleranze alimentari: l’approccio osteopatico

3.SEGUE – Riprende l’indagine di Ferraraitalia sulle nuove patologie e “l’altra medicina”, con una riflessione del nostro esperto, il dottor Nuccio Russo.

L’organismo possiede al suo interno le forze biodinamiche e biocinetiche che gli permettono di mantenere l’equilibrio o di restaurare il benessere. Queste forze si esercitano attraverso i due sistemi neurovegetativo ed endocrino che lavorano in sinergia tra loro.
Attualmente non si parla più semplicemente di sistema immunitario ma di sistema neuro-psico endocrino-immunitario, quindi è inevitabile la relazione tra psiche, sistema immunitario e funzionalità organica.
Come il corpo sa riconoscere le aggressioni esterne, così la mente sa riconoscere quello che ci è proprio da quello che ci è estraneo. I fattori psicologici sono una causa molto frequente delle allergie, sembra infatti che lo stress abbia un ruolo importante perché aumenta la sensibilità individuale. E’ come se si innescasse una sorta di rapporto alterato tra l’individuo e il mondo circostante.

D’altra parte, sappiamo tutti che se si è allergici al polline, agli acari, alla polvere, ecc. ma anche a persone e situazioni sgradite. La reazione che si manifesta sul piano immunitario è paragonabile ad analoghe insofferenze su altri piani.
La nuova scienza della neuro-psico-endocrino-immunologia insegna che il nostro sistema immunitario è paragonato a un organo supplementare di percezione-relazione con il mondo circostante, una sorta di “sesto senso”. L’individuo può rispondere all’ambiente che lo circonda con moti di aggressività che lo coinvolgono simultaneamente sul piano immunitario, nervoso ed endocrino. Sotto questa luce, l’allergico ricerca qualcosa contro cui volgere la propria aggressività repressa o dissimulata e, a questo punto, si perde la corretta percezione dei ruoli, non essendo più chiaro chi sia l’aggredito e chi l’aggressore.

Dunque le malattie allergiche richiamano la nostra attenzione su più fattori:
– predisposizione costituzionale;
– abitudini alimentari;
– capacità di disintossicarsi (a livello fisico e psichico);
– aspetto legato alla psicosomatica;
– ambiente più o meno sano in cui si vive.
Pertanto l’approccio alle allergie deve essere necessariamente olistico, altrimenti occorrerà accontentarsi di soffocare l’ennesima reazione infiammatoria auto-provocata, senza comprendere e quindi guarire alla radice la problematica.
La reazione allergica può essere intesa, come d’altronde tutte le sintomatologie che richiamano ad una lettura corpo-mente, come il campanello d’allarme di un sistema che ha perso i suoi equilibri naturali e che attraverso i sintomi esprime il suo bisogno d’attenzione.

Il primo a ipotizzare una correlazione tra alimenti e malattie fu Ippocrate (460-370 a.C.), il quale comprese che il cibo poteva essere causa di manifestazioni patologiche come l’orticaria e la cefalea. Successivamente se ne occupò Galeno (131-210 d.C.) che pare curasse malati di allergia alimentare.
Il corpo e la mente nella loro unità funzionale, possono ricompattare alleanze chimiche e psichiche in tutte quelle disfunzioni quali stress, frustrazioni, attacchi di panico o di abbandono, che sono l’evidente comunicazione di uno stato di disagio generale che produce poi la reazione allergica.
Per ogni individuo esistono determinate sostanze, talvolta assolutamente insospettabili, che lo intossicano e che quindi sono incompatibili con il proprio sistema immunitario.
Ingerendo tali alimenti si verifica un fenomeno di reazione citotossica che distrugge parte dei globuli bianchi; gli enzimi liberati entrano in circolo, attaccano i tessuti e provocano irritazione in intere aree del corpo con conseguenti reazioni di tipo allergico a catena. Tali reazioni sono dette intolleranze alimentari ritardate o incompatibilità alimentari tipiche del metabolismo ritardato.

Con sintomi diversi da soggetto a soggetto, le incompatibilità alimentari producono disturbi che si manifestano anche a distanza di tempo dall’ingestione dell’alimento responsabile; diverse sono le allergie classiche che, invece, si manifestano immediatamente con l’assunzione del cibo reattivo (reazione mediata). Talvolta allergie ed incompatibilità possono coincidere. A seconda dell’alimento e del relativo grado di sensibilità si possono avere svariati sintomi, spesso talmente abituali che il soggetto, seppur malamente, convive con loro quasi in una sorte di assuefazione, considerandoli normali. I sintomi sono strettamente individuali poiché le tossine, che si formano durante i processi di incompatibilità alimentare, hanno un organo-bersaglio specifico per ognuno.

Di seguito alcuni sintomi legati alle intolleranze alimentari:
Sintomi generali: stanchezza, ritenzione idrica, borse oculari, sonnolenza postprandiale, alitosi, aumento sudorazione.
Sistema nervoso: cefalea, ansia, depressione, irritabilità, scarsa memoria, difficoltà di concentrazione, vertigini, vampate di calore.
Apparato respiratorio: difficoltà di respirazione, asma, tosse, rinite allergica, sinusite.
Apparato cardiocircolatorio: alterazione della pressione arteriosa, palpitazioni, extrasistole, aumento della coagulabilità del sangue.
Apparato gastroenterico: gonfiore, senso di nausea, dolori e crampi addominali, gastrite, colite, disturbi dell’alveo, diarrea, stitichezza, eruttazione, aerofagia, prurito anale, emorroidi.
Apparato urogenitale: cistiti, infiammazioni urogenitali, sindrome premestruale.
Apparato muscolo-scheletrico: crampi, spasmi, tremori muscolari, debolezza muscolare, dolori articolari,
Epidermide: prurito locale e generalizzato, acne, eczema, dermatite, vari
Inestetismi: cellulite, soprappeso, obesità.

Il ruolo dell’osteopata
L’osteopata utilizza la via d’accesso al corpo attraverso la lettura della mappa corporea tracciata dalla psiche sul corpo e dalla ricerca dei traumi fisici e psichici che condizionano il corpo nello svolgimento delle sue funzioni naturali.
Attraverso l’osservazione visiva e manuale interpreta la mappa e individua i punti di restrizione mantenuti nell’organismo che contribuiscono ad alimentare il disagio o il sintomo, come appunto nel caso delle allergie.
Noi sappiamo che le allergie vengono dall’aggressione degli antigeni alle nostre superfici di contatto. Queste non sono solo la pelle, ma anche tutte le parti interne collegate all’esterno attraverso gli orifizi, come l’intestino, gli alveoli polmonari, tutte quelle zone, cioè, rivestite da mucose: dove c’è una mucosa, c’è un tessuto linfoide con dei globuli bianchi e delle immunoglobuline, quindi una prima difesa contro i microbi esterni.
L’intervento dell’osteopata aiuta l’individuo a ritrovare l’equilibrio funzionale, uno dei punti di partenza per la risoluzione del conflitto anche sul piano mentale. L’osteopatia rientra in un percorso di medicina integrata che prevede il contributo di varie specialistiche mediche, psicologiche, di medicina naturale e terapie del benessere che, sia sul piano della diagnosi che della cura, in sinergia tra loro aiutano l’individuo a capire l’origine del sintomo ‘allergia’ e a trovare la propria strada nella ricerca dell’equilibrio naturale perduto.

LEGGI LA PRIMA PARTE DELL’INCHIESTA
Salute a rischio: “Ripristinare l’equilibrio bioenergetico e disintossicarsi”

LEGGI LA SECONDA PARTE DELL’INCHIESTA
(Salute a rischio. Morelli: il benessere è nell’equilibrio delle energie vitali)

 

Viaggio nei kommunalki, una realtà controversa

San Pietroburgo è una delle città più visitate al mondo. Io stesso l’ho visitata qualche mese fa e sono rimasta affascinata dalla sua storia, dalla sua arte, dalla sua cultura e dalla sua bellezza. Ma, grazie a questo film del 2013, “The age of Kommunalki”, trovato mentre cercavo informazioni sulla città, ho scoperto, con immenso stupore, che, dietro le splendide facciate da cartolina del centro, realizzate da alcuni dei migliori architetti dell’epoca, si nasconde un mondo particolare, sconosciuto alla maggior parte dei visitatori: il mondo dei “kommunalki”, le case comuni. La parola mi era nota da alcuni romanzi (li avevo trovati in “A Mosca, A Mosca!” di Serena Vitale o nel più recente “Tra le mura del Cremlino”, di Paul Dowswell), ma non mi ero mai veramente avvicinata a questa realtà.

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La locandina del film

Si tratta di un altro mondo, particolare, diverso, terribile, ostico e duro, per certi aspetti, curioso, interessante, sorprendente, umano, caloroso, protettivo e familiare, per altri. Ancora oggi, a quasi 100 anni dalla rivoluzione di ottobre, molte persone di diversa estrazione sociale e provenienza, vivono insieme, occupando stanze all’interno di grandi appartamenti e condividendo spazi comuni come una cucina, servizi igienici, un bagno e un corridoio. Gli abitanti di questi ambienti hanno provato sulla loro pelle le conseguenze del tentativo di calare nella quotidianità un concetto utopico, quello della “vita in comune”, che nel periodo sovietico richiamava il pensiero di Tommaso Moro o di Tommaso Campanella. Proprio questa constatazione sarà il punto di partenza, oltre che il filo conduttore, per una riflessione sul significato moderno di comunità, di relazioni umane, e sulla trasformazione sociale ed economica che sta investendo le città stesse.

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Una seconda locandina

Il film-documentario che vi consigliamo questa settimana dunque, è girato interamente a San Pietroburgo, nel 2012, città che, a quella data, ospitava ancora 101.303 kommunalki, nei quali in cui vivevano e vivono 660.000 persone. Un abitante su nove, quelli che vengono chiamati i “podselentsy”, gli inquilini. E parla di questa difficile vita in comune.

Il film, ricco tanto dal punto di vista storico che umano, inizia con l’intervista a uno dei protagonisti principali della storia, che è del tutto reale, Aleksey Khashkovsky, che ci presenta l’edificio nel quale si trova l’appartamento che percorreremo, un bellissimo palazzo aristocratico, costruito nel 1906, dove, prima della rivoluzione, avevano vissuto anche il famoso poeta Michael Kuzmin, il cantante lirico Fëdor Ivanovič Šaljapin o artisti del Mariinsky e il cui proprietario era stato anche il famoso matematico Andrey Alekseevich Kiselev. Durante la rivoluzione bolscevica l’edificio era stato requisito e trasformato in “kommunalka”, uno spazio di vita in comune, partendo dall’idea che la convivenza faceva parte dell’ideologia politica dell’epoca, una maniera, per lo Stato, di retribuire i suoi operai con un alloggio, sempre vicino al luogo di lavoro, la fabbrica. La mancanza degli alloggi a Leningrado aveva aiutato il diffondersi del fenomeno.

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Una scena del film
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La cucina

Il palazzo, in cui ci troviamo per tutto il film, ha 9 stanze, in una superficie di 346 m2, e ospita 20 persone. C’è chi viene e c’è chi va. Vi sono due servizi igienici, un bagno e una cucina grande. Qui ognuno ha il suo tavolo per evitare discussioni, vi sono due cucine a gas con due fornelli per famiglia, per aver la possibilità di cucinare tutti allo stesso tempo. In questo luogo comune si parla, si discute, si controlla il piatto del vicino che cuoce e lo si avverte se sta bruciando o se è troppo cotto, qui si beve il tè tutti insieme. Si festeggiano insieme anche le ricorrenze, come i compleanni o gli anniversari, si cucina solo dopo che si è tutti usciti per andare al lavoro. Nel bagno, si hanno a disposizione 15-20 minuti a testa per lavarsi, non ci si trucca mai in questo locale, o si perde tempo prezioso per gli altri.

 

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Larisa Gromova

La toilette è separata, comune anche quella, si fa la fila per usarla. Tutti in rigorosa e rispettosa attesa. La casa, però, era pensata, originariamente, per gli aristocratici, con una sala da pranzo e una per la servitù che la usava come luogo per la preparazione e la distribuzione del cibo: non è, quindi, adatta all’utilizzo passato e attuale dei “kommunalki”. Nel 1957, vi abitavano 33 persone, in una sola stanza stavano anche 8 persone. Nello stesso vano, si possono ritrovare una macchina per cucire, la zona notte, una cyclette, un frigorifero e un tavolo. Una mini-casa in un mini-spazio. Tatyana Sigolina ha un piccolo e curato camino e dei bei fiori bianchi profumati, nel suo angolo di vita.

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Lilija-Elizaveta Alexandrova,

All’inizio, sono tutti estranei ma, poi, si deve diventare più attenti al prossimo, alle diversità culturali e bisogna trovare un linguaggio comune. Ci vogliono pazienza, resistenza, forza di superare le difficoltà, ma alla fine si diventa amici intimi, ci si rispetta e… non è così male… ammettono i giovani amanti del rock Evgeny e Pavlov.
Ci si aiuta nelle emergenze, non si è mai soli, nel bene e nel male. Gli anziani raccontano storie ai più piccini, le babushke (le nonne), come Larisa, sono sagge, affettuose, hanno pazienza e rispetto verso gli altri. Tutti aiutano tutti.

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Antonina Kharlamova,

Galina Ilmer confessa che non si può mai stare soli, in un “kommunalka”, ma che, come in famiglia, se si è tristi o qualcosa non va, ci si può sempre chiudere nella propria stanza. Come facevamo da ragazzini quando eravamo arrabbiati. C’è poi anche l’aneddoto carino dell’italiano Roberto, che, all’epoca fidanzato con Julia, poi diventata sua moglie, non comprendeva come si potesse vivere in quel luogo e in quella maniera. Per rassicurarlo, l’anziana amica di Julia aveva iniziato a farsi chiamare da lei zia. Così si sarebbe pensato che si era in famiglia. Ma quando Roberto aveva chiesto dove si gridava il bidè, che ridere…

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Varvara e Ilya Alexandrov

Siamo di fronte a una reliquia di cui liberarsi? Qualcuno pensa proprio di sì. Perché l’idea della comune non ha resistito, l’individualismo dell’essere umano emerge e non perdona. Oggi, in questi luoghi d’altri tempi, rimangono soprattutto gli anziani, con le loro basse pensioni, chi guadagna troppo poco per potersi permettere un appartamento al centro di San Pietroburgo, chi è appena arrivato da fuori, chi subaffitta da titolari del diritto a vivere fra quelle mura. Il titolo acquisito non si perde, mai. Intere famiglie hanno vissuto lì dentro, bambini oggi cresciuti. E se lo Stato ti manda via, ti deve ricollocare.
Sarà pure un’utopia ma è meraviglioso stare nel centro della città, ammette Aleksey, dove con un solo sguardo si vede tutto, dalla cattedrale di San Isacco alla prospettiva Nevski.
Queste case, però, oggi cadono a pezzi, case che sono come organismi viventi, dove tutto è in relazione, dove curarsi seriamente non significa solo badare all’estetica (quindi alle facciate degli edifici) ma anche prestare attenzione al proprio interno (quindi alle strutture delle abitazioni). Lo Stato, tuttavia, a San Pietroburgo come in altre città russe, si preoccupa di preservare il patrimonio storico-artistico nella parte che vede il turista, quella esterna. Questo è, dunque, anche un film- denuncia di tale situazione, del degrado, dei crolli, dei soffitti che stanno marcendo, dei muri che crollano, dei calcinacci che cadono. Come si può vivere in un monumento? Dove sono i restauri, gli interventi necessari e l’Unesco? Si domanda qualcuno.

La proprietà comune è, in realtà, una terra di nessuno. Spesso si occupano spazi con cose inutili per delimitare il proprio territorio, per marcare i propri confini, così come fanno i paesi, così come si fa in guerra. Si tratta di una questione psicologica. Occupando e delineando spazi si esiste. Ma la realtà vera è un’altra, o almeno così dovrebbe essere.
“Il mondo intero è diventato un grande kommunalka. Ci siamo tutti dentro, ogni nazione fa parte di un kommunalka. Anche se in Europa tutti hanno deciso di isolarsi, in realtà convivono in un unico spazio comune. Devi solo imparare a comunicare e a negoziare con gli altri, per vivere e sopravvivere in questo mondo globalizzato”. Ci dice Evgeny Yalovegin, in chiusura. Nulla di più vero e saggio, in questo momento storico così complesso, dove l’orientamento e la via paiono persi.

The Age of Kommunalki, di Francesco Crivaro e Elena Alexandrova, con Aleksey Khashkovsky, Lilija-Elizaveta Alexandrova, Varvara Alexandrova, Ilya Alexandrov, Larisa Gromova, Evgeny Ilmer, Antonina Kharlamova, Evgeny Yalovegin, Tatyana Sigolina, Italia, 2013, 65 mn.

Per informazioni sul film (in russo ma con sottotitoli in italiano) visita il sito [vedi] e quello di Undergofilm [vedi].

Il nuovo pletismografo sviluppato da Unife pronto ad andare in orbita per raggiungere l’astronauta Samantha Cristoforetti

da: ufficio Comunicazione ed Eventi Unife

Intanto domani al via la prima parte del protocollo del progetto Drain Brain

Il nuovo pletismografo sviluppato dall’Università di Ferrara che servirà all’astronauta Samantha Cristoforetti per eseguire il protocollo sperimentale del progetto Drain Brain, è pronto per essere spedito sulla Stazione Spaziale Internazionale (ISS).

Dopo l’inevitabile delusione a causa dell’esplosione del razzo Antares avvenuta lo scorso 28 ottobre, un secondo pletismografo è stato realizzato ed è pronto per essere inviato sulla ISS.

Come ci spiega Angelo Taibi, project manager del progetto e ricercatore del Dipartimento di Fisica e Scienze della Terra di Unife…“La qualifica del secondo pletismografo secondo le specifiche NASA, ha rappresentato una vera e propria corsa contro il tempo. Per non pregiudicare l’esecuzione dell’esperimento in orbita da parte del capitano Cristoforetti, l’ASI e la NASA ci hanno dato l’opportunità di spedire il nuovo dispositivo elettronico con il prossimo razzo della società americana SpaceX, il Falcon 9, che verrà lanciato dal Kennedy Space Center in Florida il prossimo 16 Dicembre”. (http://www.nasaspaceflight.com/2014/11/crs-5-dragon-mission-iss-evaluating-december-target/).

“Inoltre – prosegue Taibi – ci tengo a ricordare che il pletismografo è stato interamente sviluppato all’interno del Dipartimento di Fisica e Scienze della Terra in collaborazione con la sezione di Ferrara dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, INFN. Sia la progettazione che la realizzazione di tale strumento diagnostico hanno rappresentato un’eccellenza in termini di affidabilità e sicurezza e voglio ringraziare tutte le persone che con grande passione e competenza hanno collaborato a questo progetto così ambizioso.”

Il pletismografo è un sofisticato strumento portatile e non invasivo che misura variazioni di capacità elettrica associata a variazioni di volume del sangue, tramite sensori che possono essere applicati a qualunque segmento cilindrico del corpo.

Roberto Calabrese, Direttore del Dipartimento di Fisica e Scienze della Terra, aggiunge…“Il nostro Dipartimento ha una lunga tradizione ed è conosciuto internazionalmente non solo per le ricerche di base, ma anche per la fisica applicata. Questa ricerca, in particolare, avrà un impatto sociale molto forte per gli studi del Prof. Paolo Zamboni, Direttore del Centro di Malattie Vascolari di Unife, sul ritorno venoso e la fisiologia della circolazione cerebrale.”

In attesa della consegna del nuovo pletismografo e del primo test per misurare il ritorno venoso cerebrale in condizioni di microgravità, domani, venerdì 28 novembre, ci sarà il primo contatto con la nostra astronauta. Infatti, presso la sede della Kayser Italia, azienda partner di Unife nella realizzazione del progetto Drain Brain, il responsabile del progetto, Paolo Zamboni, guiderà da remoto Samantha Cristoforetti che dovrà effettuare da sola un esame ecografico del collo, utilizzando uno scanner ad ultrasuoni già in dotazione sulla ISS.

L’INTERVISTA
Age: la sfrontata fragilità dell’adolescenza

Ferraresi i nove performers adolescenti, ferrarese la regista Francesca Pennini e l’assistente drammaturgo Angelo Pedroni, entrambi componenti della compagnia ferrarese CollettivO CineticO che recentemente vinto il premio “Rete critica” come migliore compagnia italiana 2014. Eppure il nuovo allestimento 2014 della performance <age> non era ancora stato rappresentato a Ferrara nella sua forma integrale. Ha debuttato a Ravenna in settembre, poi ci sono state date al Teatro Vascello a Roma, a Milano, a Potenza e ha vinto il premio “Jurislav Korenić” come miglior regia al Festival Mess a Sarajevo, nei prossimi mesi sarà a Parma, Modena, Firenze e Fermo. Abbiamo intervistato la regista Francesca Pennini alla vigilia della prima messa in scena di al Teatro Comunale Claudio Abbado di Ferrara, stasera 27 novembre.

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Un momento della rappresentazione

Il progetto originale del 2012 è stato il vincitore del “Bando Progetto Speciale Performance 2012. Ripensando Cage” ed è partito da una “affinità di principi” di cui il titolo è quasi un emblema: i segni < > simboleggiano la C di Cage, ma racchiudono anche graficamente l’età di performers, tutti fra i 16 e i 18 anni. Come ci spiega Francesca, l’idea è che “gli adolescenti sono i performers migliori per uno spettacolo su John Cage, per il loro spirito di sperimentazione e la propensione al rischio e al mettersi in gioco, legati alla loro fascia di età che è una fase di indeterminazione della vita. Incarnano quindi lo spirito sperimentatore di John Cage, il suo spirito un po’ bambino”.

age-sfrontata-fragilità-adolescenzaLo spettacolo è strutturato come una sorta di “atlante di tipologie umane che cambia ogni sera”, i performers non sanno quello che li aspetta, hanno imparato una serie di regole e un inventario di comportamenti associati a stati d’animo, conformazioni emotive, alcuni dei quali “universali”, altri nati “dall’osservazione dei ragazzi e dal contesto in cui noi e loro operavamo”; i ragazzi vengono poi chiamati ad agire o meno in base “a come si definiscono” in quel dato momento. “Dichiarano quindi la verità sulla loro identità, sulla loro condizione reale e sulla loro filosofia di vita”, da qui la forza e la delicatezza insieme di questo lavoro: “la forza di portare in scena non dei personaggi, ma se stessi nella totale verità del momento perché tutto avviene sul palcoscenico; al tempo stesso portano in scena la loro intimità, il che rende delicatissima la loro posizione, come le nostre scelte nello strutturare di volta in volta descrizioni e comportamenti dello spettacolo, ma anche la relazione che si crea con lo spettatore”. È quindi un vero e proprio mettersi in gioco in maniera totale quello che Angelo e Francesca chiedono a questi nove adolescenti: “la forza e il coraggio di esporre qualcosa di delicato” perché sul palco emerge “una dimensione altrimenti inavvicinabile, totalmente privata”.

age-sfrontata-fragilità-adolescenzaDescrizioni, azioni performative e coreografiche non sono casuali, Francesca e Angelo sono gli artefici di questa sorta di improvvisazione regolamentata: “non giochiamo sull’aleatorietà, ma su un senso di indeterminazione legato soprattutto alla condizione dei performers che entrano in un certo stato di presenza che non sarebbe uguale se sapessero prima cosa deve accadere, però a livello registico noi bilanciamo ogni singola replica cercando di dare una coerenza alla personalizzazione di ciascuno”. perciò possiede sia “una dimensione strutturata, matematica” che svela il processo di costruzione dell’artificio scenico e coreografico, sia “un elemento incontrollabile che viene semplicemente innescato senza che si sappia come accadrà quella determinata sera”, ovvero la reazione in scena dei ragazzi.

A questo punto non potevamo non chiedere come sono stati scelti questi nove ‘esemplari umani’. “Questa volta alle audizioni sono venuti tantissimi ragazzi, ma i principi di selezione sono rimasti gli stessi di due anni fa: l’eterogeneità, la differenziazione, per creare un assortimento umano il più articolato possibile, però con il denominatore comune della propensione del mettersi in gioco e della voglia di sfidare la propria condizione”. “Abbiamo dovuto aggiornare i metodi di lavoro – ci ha detto Francesca – perché questi ragazzi non sono i sostituti, per così dire, del cast precedente, sono persone nuove. Quindi abbiamo lavorato sugli stessi principi, ma ritarandoci sulle esigenze di questo gruppo”.
Una volta scelti, infatti, questi “adolescenti kamikaze” sono stati sottoposti ad un vero e proprio “percorso di addestramento” scherza Francesca. Sono partiti dall’essere spettatori per poter acquisire una maggiore consapevolezza “della relazione fra il performer e lo spettatore e del fatto che stare in scena non significa solo imparare ed eseguire meccanicamente una serie di gesti, ma è legato al comprendere cosa significa esporsi sul palcoscenico”, poi “abbiamo lavorato sul loro coraggio, la loro capacità di essere pronti a reagire e a esporsi nel quotidiano con una sorta di performance mimetiche che nessuno doveva rilevare per sottolineare che il loro terreno di addestramento non erano le prove all’interno del teatro ma la loro vita quotidiana, come in fondo è lo spettacolo: uno scambio tra il teatro e la vita”. Francesca ci confessa che “è un metodo peculiare ed è stato molto divertente: si sono scambiati bagagli, letti, hanno fatto le performance a scuola mentre i professori li interrogavano senza che lo scoprissero”. Tutto ciò è servito non tanto per quello che poi dovranno eseguire in scena, ma per addestrarli “al modo in cui lo fanno, che deve essere radicale”.

Non poteva mancare l’ultima fatidica domanda sui progetti futuri. Dopo i 5 debutti di quest’autunno, l’ultimo dei quali sarà Amleto al Teatro Vascello a Roma il 6 e 7 dicembre, la prossima sfida per Francesca e il CollettivO CineticO sarà “il nostro primo lavoro per l’infanzia”, legato a un progetto del Teatro delle briciole che fa parte dei teatri stabili d’innovazione: “abbasseremo ulteriormente la soglia d’età con cui ci relazioniamo”.

LA STORIA
Alice nel paese delle meraviglie

Alice Mizrachi è una giovane artista di New York. Attraverso la pittura, i vivaci murales colorati e le stampe, Alice raffigura personaggi le cui relazioni ed emozioni riflettono il suo punto di vista personale del contesto sociale. Cerca, infatti, di diffondere una forte empatia attraverso progetti sito-specifici che costituiscano risposte visive positive alle questioni sociali che riguardano gli abitanti di una determinata zona o quartiere.

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La street artist Alice Mizrachi

Nel suo ruolo di artista (e anche d’insegnante), Alice lavora per potenziare e ispirare le donne e le ragazze, elevandole a veri archetipi sacri ed esplora l’arte come una sorta di percorso di guarigione, per le comunità e gli individui, tramite la stessa espressione creativa. Il tutto con progetti che aiutino a esprimere le proprie idee su temi come l’ambientalismo, l’identità e la comunità, in generale. Con un focus sulla figura astratta, attraverso il colore, le linee e i modelli, il lavoro di Mizrachi attinge a una riserva interna di spontanea e pura emozione. Con forti legami con il mondo dei graffiti dell’arte urbana, l’artista si concentra sulla vibrante tranquillità della vita cittadina.

 

alice-paese-meravigliealice-paese-meraviglieHa co-fondato, nel 2006, Younity, un collettivo artistico femminile che ha fornito una vera piattaforma professionale a centinaia di donne, dando loro la possibilità di partecipare a mostre, tavole rotonde, produzioni di murale, e laboratori giovanili.
Insegna, occasionalmente, all’università e partecipa attivamente alle discussioni su arte e attivismo; conduce anche laboratori di sviluppo personale.
Le sue opere sono state esposte al Museo di Washington Dc d’Arte contemporanea. E’ rappresentata dalla Mighty Tanaka Gallery di New York e dalla Bazel Gallery di Tel Aviv, e il suo lavoro è stato esposto in gallerie di tutto il mondo. Hanno scritto di lei The New York Times, The New York Daily News, Time Out NY, New York Magazine, Huffington Post, Marie Claire, Juxtapoz e Street Art di New York.

alice-paese-meravigliealice-paese-meraviglieIn un’intervista ha detto: “Faccio arte per diffondere sentimenti di amore, comunità, empowerment e guarigione. Per me la pittura è sempre stata un atto di autoguarigione. Quando inizio a lavorare, ricreo la superficie incontaminata di una tela bianca o di una parete vuota, con il colore e il modello. Attraverso l’esperienza fisica della pittura, trasformo le mie paure e ansie per il mondo in caratteri semplici che sono raffigurati nelle relazioni con gli altri e il loro ambiente. Questi personaggi trasmettono messaggi positivi, spesso di speranza e di ottimismo ed esprimono emozioni che sono volutamente accessibili a tutti i telespettatori, soprattutto ai bambini. Mi sforzo di fare dell’arte un’esperienza inclusiva che permetta agli spettatori di qualsiasi età o esperienza di avere una positiva interazione con l’arte”.

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Per saperne di più dell’artista visita il sito [vedi] e le pagine Facebook [vedi] e Pinterest [vedi]

Eco-eventi cercasi

Le intense attività di informazione e le varie iniziative di relazioni esterne (incontri, riunioni, convegni, seminari, etc.) che fortunatamente vengono svolte anche sul nostro territorio propongono un interrogativo: sono fatte nel rispetto dell’ambiente?
Si può infatti pensare anche di proporre un impegno generale di fare “evento” pensando alla salvaguardia dell’ambiente nel quale viviamo perchè per partecipare non occorre inquinare. Si svolgono, infatti, centinaia di iniziative utilizzando materiali usa e getta e lasciandosi dietro migliaia di euro sprecati in cose futili, montagne di rifiuti, tonnellate in più di CO2.
Proponendo le eco-iniziative si intende quindi promuovere e incentivare le esperienze migliori nel campo della riduzione dei consumi, degli sprechi e del riciclaggio promuovendo nel contempo una maggiore attenzione sui problemi generali dell’ambiente. L’organizzazione di iniziative che garantiscono azioni per una corretta riduzione degli sprechi, conferenze dove il materiale cartaceo è ridotto al minimo, sostituito da supporto usb, dove i fogli stampati siano certificati Fsc (Forest stewardship council) a garanzia del rispetto dell’ecosistema. Facendo attenzione alla realizzazione di manifesti, depliant e altro materiale pubblicitario, di un corretto utilizzo dei mezzi di informazione, ai consumi energetici della struttura che ospiterà il convegno e dei mezzi con cui i relatori e ospiti, in base alla distanza, raggiungeranno il luogo del convegno e così via. Così come rispettando la raccolta differenziata di plastica, vetro, carta e lattine; adottando accorgimenti per ridurre i rifiuti (ad esempio le bottiglie d’acqua con vuoto a rendere, oppure somministrare al tavolo dei conferenzieri l’acqua in brocca e bicchieri in vetro).
Pensare a delle eco-conferenze in cui l’usa e getta è completamente sostituito da materiali riutilizzabili, come ad esempio in occasione di pranzi o buffet, fare attenzione affinché ci siano piatti in ceramica e bicchieri in vetro con posate riutilizzabili o in materiale biodegradabile, per poterli separare assieme ai resti della ristorazione. Ma anche l’uso moderato di condizionatori nei periodi estivi, l’uso di impianti di illuminazione con lampade a basso consumo energetico, l’impiego di personale volontario nell’assistenza ai relatori e ai partecipanti, nella distribuzione dei vari materiali; l’utilizzo di gadget-borse magliette, cappellini-prodotti secondo i criteri del commercio equo e solidale, con tinte e materiali naturali. Inoltre indicazioni per muoversi a piedi, in bicicletta (magari mettendone a disposizione) o con mezzi pubblici. In due parole, un modo globale di essere ad impatto zero con il controllo della produzione di CO2 nella preparazione e realizzazione di eventi, accompagnandoli con iniziative promozionali esterne di forestazione e di tutela ambientale.
Un sogno? Non del tutto qualche buon esempio c’è già stato. Ve ne siete accorti con i Buskers? Io si.

Il Progetto eco festival è nato nel 2011 all’interno del Ferrara Buskers festival, manifestazione di arte di strada che ha mosso diverse centinaia di migliaia di spettatori da tutta Italia e in misura significativa anche dall’estero, coinvolgendo l’intera città di Ferrara.
Gli obiettivi specifici sono stati:
– ridurre lo spreco nell’organizzazione e nella fruizione del Festival;
– fissare standard sempre più elevati di rispetto ambientale nell’organizzazione di un grande evento;
– creare una speciale attenzione verso tematiche quali innovazione, responsabilità sociale e partecipazione;
– creare una vetrina delle aziende più attente all’ambiente e della creatività eco-sostenibile.

Le azioni che hanno sostanziato il Progetto Ecofestival sono state dichiarate, misurate e alla fine certificate da ente terzo (Bureau Veritas). Bravi.

L’EVENTO
Verità e multiculturalità nella personale di Servet Kocyigit

L’artista è figlio del suo tempo; ma guai a lui se è anche il suo discepolo o peggio ancora il suo favorito. Friedrich Schiller

L’arte può essere estro bizzoso e riflessione etica. Questo è Servet Kocyigit (Kaman, 1971), artista turco nella sua prima personale italiana curata da Silvia Cirelli alle Officine di Milano da oggi 27 novembre al 7 febbraio, intitolata “Il siero della verità”. Incongruenza e paradosso trovano terreno fertile nell’artista turco che, al pari di un Kafka artistico, sperimenta nel proprio lavoro l’eterno equilibrio tra culture: mitteleuropea e plurilinguistica la prima; eternamente scissa e riunita dalle due fedi religiose che la identificano, la seconda.

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Servet Kocyigit

Al pari dello scrittore, che descrive l’alienazione personale e umana nella grottesca metamorfosi da uomo a insetto, Kocyigit mette in scena la ricerca dell’identità culturale e le tensioni da lui vissute in quanto protagonista di una storia culturale e geografica ricca di contrasti, ambivalenze e contraddizioni da lui stesso vissute, bambino durante gli anni Ottanta che per l’Occidente erano l’apice di un benessere economico ma che per la Turchia rappresentano la summa destabilizzante del terzo golpe militare, dopo i precedenti degli anni 1960 e 1961.

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Sometimes, 2005

Sono le stesse parole della curatrice a raccontarlo: “L’arte diventa dunque per Kocyigit la ‘parola’ con la quale esprimersi liberamente, lo strumento col quale raccontare le fratture della propria generazione, il senso di sradicamento e la sempre più evidente consapevolezza di una realtà vulnerabile e precaria.” E lo diviene attraverso codici comuni, realtà conosciute e quotidiane.
Il linguaggio verbale accompagna le installazioni, descrivendole; e creando scollamento tra ricercatezza stilistica e banalità, tra nobiltà dell’opera e pressappochismo delle parole che lo descrivono, scarne e limitanti nella loro impossibilità di catturare l’effettiva materia. Ne sono esempi “Sometimes”, in cui una scritta con lettere di stoffa sembra minimizzare la preziosità del materiale, inscenando una mania ossessiva.
Il contra necessità di richiamare alla memoria oggetti e storie passate, senza snaturarle né attualizzarle, ma semplici attimi condensati nel tempo portati nel presente, nella vita di tutti i giorni, mostrando l’impossibilità a una loro attualizzazione contingente e di una armonia eterna, a patto di non snaturarli: sono personaggi felliniani come l’uomo dei palloncini in “Night Shift” e il mulo da soma dei villaggi in “Mountain Zebra”.

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99 Years, 2014
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99 Years, 2014 bis

Sono secchi per l’edilizia contenenti rappresentazioni in lana del mondo in “Orbit” e video ritraenti globi di lana concepiti e realizzati da mani maschili e femminili, che si completano dando luogo a una morbida verità in “99 Years”. E un’attesa, surreale e sofferente attesa di una celebrità che tuttavia non arriva. In una spasmodica attesa del nulla. Aspettando Godot.
Rappresentazione del grottesco in situazioni quotidiane; ritrae con sarcasmo Don Chisciotte che contempla l’assurdo nella sua battaglia esasperante, storica e umana, nel suo dialogo surreale tra realtà e una immaginazione in cui i mulini a vento non sono forse una realtà assurda. E dove si cerca, ironicamente, il Siero della Verità (“Truth Serum”).

Le immagini per gentile concessione del Courtesy of Servet Kogyigit e di Officina dell’Immagine, Milano

Il linguaggio può ammalare il corpo

La psicosomatica da sempre individua la corrispondenza tra la mente e il corpo, sottolineando come certe questioni irrisolte possano manifestarsi ed esprimersi nel corpo lasciando segni reali e tangibili. Del resto, la psicoanalisi insegna che l’inconscio è strutturato come il linguaggio: quando parliamo, esprimiamo spesso più di quanto vorremmo dire e ciò è l’espressione del nostro inconscio.
Vediamo alcuni esempi di espressioni non solo ‘parlanti’, ma che possono incarnarsi nel corpo come sintomi. Modi di dire come “ho un buco allo stomaco”, a volte si incarnano nel corpo ammalandolo davvero. Le emozioni e i conflitti attuali o remoti sono più determinanti di quello che pensiamo. Ciò non significa perdere di vista la componente fisica: i sintomi o i fenomeni patologici devono essere indagati in modo complementare, da un punto di vista psicologico e fisiologico. I sintomi psicosomatici, spesso, pur non organizzandosi in vere e proprie malattie, si esprimono attraverso il corpo, coinvolgono il sistema nervoso autonomo e autoimmune che risponde a una situazione di disagio psichico o di stress.
Sono invece considerate clinicamente malattie psicosomatiche quelle malattie alle quali normalmente si riconosce una genesi psichica, nelle quali si verifica un vero e proprio stato di malattia con segni indiscutibili di lesione in un organo bersaglio. Le malattie somatiche sono l’espressione di uno dei meccanismi difensivi più arcaici, con cui l’organismo attua una manifestazione diretta del disagio psichico attraverso il corpo.
In queste malattie, l’ansia, la sofferenza e le emozioni in genere sono troppo dolorose per poter essere vissute e sentite e trovano una via di sfogo nel corpo attraverso il disturbo fisico. Tutte le loro capacità difensive tendono a tener lontani contenuti psichici inaccettabili, a costo di distruggere il corpo. In questo senso una persona, incapace di accedere al proprio mondo emotivo, potrebbe non percepire rabbia, frustrazione o stress, per una difficile condizione lavorativa e neppure immaginare una possibile connessione tra la sua ulcera e le emozioni o i vissuti relativi al loro lavoro.
Quando il corpo si difende da emozioni dolorose e intollerabili manifesta il proprio disagio su alcuni organi, detti bersaglio. È il meccanismo di azione dei disturbi psicosomatici. Ad esempio quando si soffre spesso di gastriti, bruciori di stomaco o altri disturbi digestivi, spesso l’atteggiamento tipico è “mandare giù” con troppa frequenza le offese della vita. Queste persone, con il motto “porgere l’altra guancia”, covano spesso rabbie e risentimenti profondi. In questo modo costringono lo stomaco ad una lenta e complessa “digestione” della rabbia”. In pratica, sono vittime di troppa ‘diplomazia’. Vista nell’ottica psicosomatica, la cefalea può indicare il bisogno di allentare l’eccessivo controllo razionale e quindi, il desiderio di lasciare più spazio all’intuizione. Di solito, infatti, chi soffre di mal di testa ha una mente lucida e razionale (fin troppo), che deve tenere sempre tutto controllo senza cedere e lasciarsi andare mai. E ancora, dal punto di vista psicosomatico, la pelle rappresenta simbolicamente il confine tra sé e gli altri. Quando c’è un disagio, possono manifestarsi delle eruzioni cutanee: anche eczemi e altre affezioni delle quali non ci sappiamo spiegare l’origine. Queste possono rivelare che non si hanno ben chiari i propri confini e che per difendersi si cerca, metaforicamente, di tenere lontani gli altri. A livello intestinale poi la stitichezza può essere indice di un attaccamento eccessivo ai beni materiali, ma può anche rappresentare la paura di portare alla luce contenuti inconsci ed emozioni dalle quali non si riesce a prendere le distanze. La colite, invece, può affiggere chi è solito fare scenate, non reprime rabbia e aggressività, tranne poi provare disprezzo verso se stesso per quello che ha fatto: l’intestino si fa carico simbolicamente di questi sensi di colpa e tenta di spazzarli via simbolicamente con gli attacchi di colite. Le vaginiti e le cistiti, invece, affliggono prevalentemente due tipi di donne: le ansiose-irritabili (spesso ipocondriache, si stressano con facilità, tendono a scaricare a livello genitale, ansie, paure e rabbie) e le remissive ad oltranza (con senso del dovere molto spiccato, tendono a sacrificarsi ma anche, proprio per questo, ad accumulare tensioni nel corpo e soprattutto nell’area genitale). Quindi, alla luce di quanto ho sintetizzato, imparare a verbalizzare le proprie emozioni è la condizione migliore per non incappare in spiacevoli sintomi che ammalano il corpo.

Chiara Baratelli, psicoanalista e psicoterapeuta, specializzata nella cura dei disturbi alimentari e in sessuologia clinica. Si occupa di problematiche legate all’adolescenza, dei disturbi dell’identità di genere, del rapporto genitori-figli e di difficoltà relazionali.
baratellichiara@gmail.com

IL REPORTAGE
Artisti ferraresi dicono no alla violenza sulle donne

Abbiamo appena mandato la prima donna italiana nello spazio, ma l’Italia sembra ancora ben ancorata a un’immagine stereotipata della figura femminile e dei rapporti di genere. Oltre alle leggi, quello che serve è un cambiamento culturale che si ottiene smuovendo le coscienze con tutti i linguaggi che abbiamo a disposizione per suscitare una riflessione più duratura e toccare corde più profonde rispetto all’indignazione momentanea in occasione del 25 novembre.

artisti-ferraresi-no-violenza-donnePer questo fino al 6 dicembre nel Salone d’onore del Palazzo municipale sarà visitabile la mostra “Mozzafiato. Storie di ordinaria violenza”, curata dalla Galleria del Carbone nell’ambito del progetto “Violenza di genere e rete locale” promosso dal Comune di Ferrara in collaborazione con Centro donna giustizia, Movimento nonviolento e Centro di ascolto per uomini maltrattanti. “Mozzafiato” è una collettiva formata da una ventina di opere fra fotografie, acquerelli e olii su tela, attraverso le quali alcuni artisti ferraresi, tra cui Sima Shafti, Luca Zarattini, Alessandro Passerini e Laura Shlumper, hanno voluto esprimere il proprio impegno in questa battaglia culturale.
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artisti-ferraresi-no-violenza-donneC’è poi chi per dare una testimonianza usa il proprio corpo e il linguaggio universale della danza: ecco allora l’idea di un flash mob, organizzato dalla coreografa e danzatrice Caterina Tavolini, ieri a partire dalle 18 in diversi punti del centro storico di Ferrara, dalla galleria Matteotti al sagrato del duomo a piazza Savonarola. Nella caotica frenesia quotidiana, sei movimenti lenti e silenziosi eseguiti da un gruppo di donne vestite di nero, ciascuna con qualcosa di rosso, per affermare la propria presenza, rifiutare questo presente e sperare in un futuro in cui finalmente non ci sia più bisogno del 25 novembre.

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Infine la parola torna protagonista attraverso il teatro: l’appuntamento è per febbraio-marzo 2015 quando si terrà la nuova edizione de “I monologhi della Vagina”, spettacolo teatrale di beneficenza contro la violenza sulle donne, versione italiana del testo di Eve Ensler. Per gentile concessione degli organizzatori, pubblichiamo le riprese integrali della terza edizione, tenutasi alla Sala Estense di Ferrara lo scorso 8 Marzo. [vedi] Per rimanere aggiornati visitare il sito [vedi].

E per riflettere ancora, il 18 novembre alla Camera, alla presenza della presidente Laura Boldrini, è stato presentato “Rosa Shocking. Violenza, stereotipi…e altre questioni del genere”, un report realizzato da Intervita in collaborazione con Ipsos in cui si ricorda che, nonostante la nuova legge contro i femminicidi, ogni tre giorni in Italia una donna viene uccisa dal partner, dall’ex compagno o da un familiare. Ma in questa ricerca ci sono dati forse ancora più scioccanti: il 79% delle intervistate nel sondaggio Ipsos ritiene che se un uomo viene tradito è normale che possa diventare violento, il 77% che se ogni tanto gli uomini diventano violenti è per il troppo amore e il 78% che per evitare di subire violenza le donne non dovrebbero indossare abiti provocanti. Se, in aggiunta, ben il 61% delle donne ritiene che i panni sporchi si lavano in famiglia, come stupirsi che solo il 7,2% di chi subisce violenza denuncia l’accaduto?
È ben poco consolante che l’85% del campione ritenga che anche gli uomini debbano occuparsi delle faccende domestiche, quando per circa 1 uomo su 2 il matrimonio è “il sogno di tutte le donne”, per quasi 7 intervistati su 10 è più facile per una donna fare dei sacrifici e 1 intervistato su 3 ritiene che la maternità sia l’unica esperienza che consente ad una donna di realizzarsi completamente, senza contare che per quasi 6 italiani su 10 è pressoché normale utilizzare un bel corpo di donna a fini commerciali.
C’è ancora molto da fare.

Foto di Aldo Gessi

Altri articoli pubblicati da ferraraitalia sulla ricorrenza della “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne” 2014: alcuni dati [vedi], la celebrazione del 22 novembre a Ferrara [vedi], la testimonianza [vedi]

L’ANALISI
I numeri e le motivazioni del ‘partito degli astenuti’

I risultati delle ultime elezioni regionali, dati che gli istituti di ricerca, studiando l’andamento della partecipazione elettorale in Emilia Romagna, una delle storiche regioni rosse, quella più strutturata e di modello, non esitano a definire clamorosi.
L’astensione esplode nel confronto: astenuti 2.150.000 con voti validi 1.200.000, quasi a dare eccezionale significato alle parole seggi vuoti e politiche spoglie.
Sui flussi: sul totale degli elettori cedono i due partiti andati bene nelle europee e cioè il Pd e M5s con il 15,5 e l’8% rispettivamente; la Lega nord prende da FI (2,3), Pd (1,2), Fdi (0,7), M5s (0,5).
Per una rapida consultazione, ecco un quadro generale del voto del 23 novembre 2014, quello europeo sempre del 2014, e quello regionale del 2010 e relativi confronti in variazioni assolute e relative.

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Risultati delle elezioni regionali 2014 – Regione Emilia-Romagna e confronto

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lo schema evidenzia quanto segue:
– il Pd ha perso oltre più della metà e un terzo rispetto europee 2014 e regionali 2010
e per Ferrara una maggiore differenza pari al 58,7%; rimane comunque di gran lunga il primo partito in tutte le nove provincie;
– la Lega nord può rivendicare il successo elettorale e nella Romagna sfiora il massimo storico; il candidato Alan Fabbri ottiene un risultato brillante nel ferrarese, la Lega ha superato FI in tutte le nove province;
– Forza Italia, in soli sei mesi i suoi consensi si sono ridotti del 63% ed otto elettori su dieci abbandonano il partito votato nel 2010; forte è la crisi del partito di Berlusconi e non è più perno all’interno della coalizione di centro-destra;
– il Movimento 5 stelle subisce un cospicuo arretramento e perde, in sei mesi, due elettori su tre, soprattutto a Piacenza, Ferrara e Parma;
– le forze della Sinistra radicale hanno perso tra 11/13%, un dato pesante stante i piccoli numeri dei tre partiti di riferimento.

Per quanto riguarda il ‘partito degli astenuti’, proviamo ad entrare nelle motivazioni che hanno spinto gli elettori-astenuti a rimanere a casa, seguendo, prima, un ordine di importanza, per poi darne una scala di valore da 1 a 10.

Ordine di importanza:
a) pensare “tanto vince il Pd” perché ancora una regione rossa;
b) gli scandali dei consiglieri regionali ed episodi di sperperi e privilegi;
c) le polemiche tra il Premier Renzi e la Cgil sulle politiche del lavoro;
d) l’esaurirsi del modello emiliano e l’idea di una forte discontinuità nel cambiamento;
e) un Grillo ormai antisistema ed un movimento non più capace ad intercettare la protesta;
f) la caduta del berlusconismo e una FI non più perno del centro-destra.

La scala dei valori per il Pd, FI e M5s trova alcune motivazioni comuni ed altre sono solo peculiari e così riassunte:

Partito Democratico:
punti 2 – tanto vince il Pd
punti 5 – gli scandali
punti 3 – polemiche Renzi / Cgil + l’esaurirsi del modello emiliano

Movimento 5 Stelle:
punti 3 – tanto vince il Pd
punti 6 – Grillo antisistema e non intercetta la protesta
punti 1 – gli scandali

Forza Italia:
punti 4 – tanto vince il Pd
punti 3 – gli scandali
punti 3 – la caduta del berlusconismo e non più perno del centro-destra

Va, infine, precisato che alcuni segnali anticipavano già un certo malessere nell’elettorato, anche tra quello di appartenenza ed in particolare:
– per la lunghezza della crisi economica e le risposte non adeguate per uscirne;
– la mancanza del lavoro per i giovani e i tantissimi ammortizzatori sociali che producevano mancato reddito, le povertà crescenti anche nel ceto medio;
– il dualismo nel Pd tra Bersani e Renzi sul cambiare verso e la discontinuità dal passato;
– i guai di Berlusconi e lo spezzatino del Pdl;
– la corruzione e gli scandali nella Pubblica amministrazione;
– nel Pd la forte caduta degli iscritti da alcuni anni e un nuovo ruolo delle primarie.

Per concludere possiamo dire che la quota di voti perduti attraversa, soprattutto, le tre maggiori forze politiche e cioè Pd, M5s e Fi mentre il guadagno passa nelle mani della Lega nord che meglio ha interpretato il disagio sociale e la protesta, intercettando la gran parte degli elettori moderati ma anche, se pur in minima parte, dal centro-sinistra e da Grillo, mentre la Sinistra radicale, che somma ben tre partiti e forse altri spezzoni dei verdi, è ormai spinta al nanismo dei piccolissimi numeri.
Certamente la disaffezione è anche sintomo della caduta della rappresentanza democratica che, però, non è solo nella presenza delle forze politiche nelle istituzioni ma attraversa anche le forze sociali tutte e questo resta il principale scoglio per poter guardare oltre e ripartire dall’inizio per il futuro del Paese.

Fonti: Istituto Cattaneo – Centro italiano studi elettorali dell’Università Luiss – altre società di sondaggio e marketing politico – Rassegne stampa – Fondazioni

LA SEGNALAZIONE
Metti una sera al Bol’soj

da MOSCA – Il tempio del balletto, della musica, dell’amore, della bellezza. Questo rappresenta, per tutti noi, il celebre Teatro Bol’šoj, ovvero Il Grande Teatro (il nome ufficiale è, tuttavia, Gosudarstvennyj akademičeskij Bol’šoj teatr Rossii, ossia “Gran Teatro nazionale accademico di Russia”). La meta di tanti appassionati di danza che giungono a Mosca. E per gli appassionati che ancora non lo sapessero, in Italia molti spettacoli del Bol’šoj si possono vedere al cinema [vedi].
E allora addentriamoci nella storia di questo teatro e negli spazi meravigliosi da poco ristrutturati.

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Locandina degli spettacoli del Bolshoi in programma al cinema

Questo luogo da sogno sorge nello stesso luogo dove sorgeva il teatro Petrovskij che era stato inaugurato nel 1780 e incendiato nel 1805. Nel 1819 fu bandito un concorso per il progetto del nuovo teatro, competizione vinta da Andrej Michajlov. Tuttavia, il suo progetto fu ritenuto troppo costoso e il governatore di Mosca, Dmitrij Vladimirovič Golicyn, incaricò l’architetto Giuseppe Giovanni Bove di modificarlo. Bove, in russo Osip Ivanovič Bove, era nato a San Pietroburgo nel 1784, figlio del pittore Vincenzo Giovanni che da Napoli si era trasferito, nel 1782, a Pietroburgo al seguito dell’ambasciatore napoletano Antonino Maresca, duca di Serracapriola.
I lavori del nuovo progetto cominciarono nel 1820 ed il nuovo Gran (Bol’šoj) Teatro Petrovskij fu inaugurato il 18 gennaio 1825, con il balletto Cendrillon di Fernando Sor. Nel 1853, un incendio causò seri danni alla struttura, che fu riaperta nel 1856. L’interno fu realizzato su disegno dell’architetto italo-russo Alberto Cavos (1853-1856). Oltre a questo, Cavos, figlio del compositore Catterino Cavos, disegnò anche gli interni del teatro Mariinskij di San Pietroburgo (1859-1860). Ancora italiani che mettevano il loro buon (e rinomato) gusto.

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Mosca, il Teatro Bol’šoj

Dopo tanti anni di gloria, l’edificio storico del teatro, che oggi è anche raffigurato sulla banconota da 100 rubli, sarebbe stato chiuso per restauri dal 2005 con l’obiettivo di riportare la struttura agli antichi splendori pre-comunisti. Durante l’epoca di Stalin, infatti, erano stati eliminati gli imponenti lampadari, gli stucchi e tutto quanto potesse evocare il lusso del periodo zarista. Il teatro fu trasformato anche in sede di riunioni e congressi di partito con strutture che ne avevano compromesso l’acustica. Quel luogo andava riportato ai suoi splendori, lo si doveva rivedere com’era nato, come luogo di arte, libera da ideologie. La cerimonia di inaugurazione del nuovo Bol’šoj è avvenuta il 28 ottobre 2011.

Oggi noi lo abbiamo visto in tutto il suo rinnovato splendore. Abbiamo varcato quelle porte e quegli archi imperiali, sentendoci, anche noi, un po’ zar e zarine, ascoltando le note di Giselle, ammirando la sua leggerezza, il suo volare sulle punte, come una magica farfalla, percependo tutta la forza del cosmo intorno a noi, attraversando quei corridoi magici, con un’emozione indescrivibile. Proprio perché quest’emozione è difficile da descrivere e perché va davvero provata, almeno una volta nella vita, non vogliamo spendere troppe parole che, comunque, non sarebbero adeguate.
Vi lasciamo allora solo alle immagini, ad alcune fotografie scattate per portarvi con noi.
Buon sogno.

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Fotografie di Simonetta Sandri

L’INTERVISTA
Il Vintage a Ferrara: tutta un’altra storia

La storia è ciclica, si ripete; e con essa corsi e ricorsi di vario tipo. Sono le “fluttuazioni cicliche” di cui parlava Hobsbawm, e che possono calzare a pennello a più di una idea, di una categoria.
É il caso dell’ottica adottata da Officina del Vintage, mercato ed esposizione del vintage alla sua seconda edizione, ambientato nei suggestivi Imbarcaderi del Castello Estense. Svoltasi nel fine settimana e organizzata da Giorgio Paparo, ha visto confermati gli ottimi numeri dell’anno scorso, circa 4000 presenze.

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Alcuni accessori vintage presentati alla mostra

Vintage – spiega Paparo – è per definizione un prodotto creato e utilizzato almeno venti anni prima del momento contingente. Il passato è una perenne fonte di ispirazione. Ora sono gli anni Ottanta a essere tornati di moda. Prima di loro, del revival sono stati protagonisti gli anni Settanta e prima ancora i Sessanta. Questa è la magia del vintage, la sua storia: creare novità con materiali e oggetti del passato; reinventare ciò che già è stato, dargli nuova vita e talvolta nuova forma. Che è cosa differente dall”usato’, da cui si distingue non perché, e non solo, perché è già stato utilizzato; e che non è puramente rétro, ovvero un oggetto creato a modello di un pezzo d’epoca, ma perché è unico e irripetibile nel suo genere, perché divenuto simbolo e icona di un periodo, caratterizzandolo e connotando momenti e situazioni cristallizzate in un eterno attimo di tempo.”
officina-vintageNel percorso sotterraneo allestito per l’occasione si incontrano tessuti pregiati, capi che hanno fatto la storia della moda; originali oggetti di design, pezzi di arredamento, cartoline, poster; libri di musica e litografie; romantiche cloches che si contendono la scena con scanzonati floppy anni Settanta, mentre da una mensola occhieggiano fedore composte e sorprendenti tube dal sapore steampunk. Ma anche pantaloni a zampa d’elefante, giacche con frange stile texano e giacche tempestate di paillettes posati accanto a mobili di legno antico decorati – “Sono vissuti d’epoca, ritrovamento prezioso nella casa di mia madre”, spiega Monica, una delle espositrici.

Vintage a Napoli
Vintage a Napoli

Officina del Vintage è il frutto di una ricerca, di un viaggio che ha preso inizio molto tempo fa dalla personale collezione di bottoni dell’artista di origine romana: vere opere d’arte, metallo e stoffa, cesellature e incisioni, forme geometriche e fiori, alcuni dei quali montati su anelli, che porta a scoprire nelle fiere di settore in tutta Italia. Paparo, che nasce grafico, comincia ad affiancare alla propria attività lavorativa l’esposizione pubblica dopo averla scoperta e apprezzata in altre città del Paese: “In molti luoghi il vintage era una realtà da molto tempo consolidata. Proprio girando l’Italia ho capito che nel vintage c’erano possibilità di scoperta e ricerca. E soprattutto che era arrivato il momento giusto per fare tesoro delle esperienze vissute, da me e da chi condividesse in parte questa mia storia personale, per creare qualcosa che coinvolgesse l’esperienza che avevo accumulato per portarlo a Ferrara, creando una esperienza che la raccontasse in una mostra-mercato in cui il pezzo importante viene scoperto ed esposto, ma anche che fosse occasione di confronto e scambio. Non mi definisco purista del vintage, ma cultore e appassionato del vintage di ricerca.”

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Copertine di dischi, cartoline, pagine di riviste…

La sua fonte di ispirazione è da sempre la strada, lo street style che si rivela fecondo di idee e ispirazioni, in cui si riversa il mondo, in cui è possibile osservare tutto e tutti. La strada come sinonimo di vita vissuta. Non alla ricerca di un bello assoluto e quasi statico, canonico; ma piuttosto di un dettaglio, di una particolarità, di un colore che colpisca la curiosità e la fantasia e rende un oggetto unico, della storia di un capo, di ciò che c’era prima che nascesse in quanto oggetto, ma che già esisteva nella sensibilità e nella mente di chi l’ha concepito.
Questo è anche il caso del vintage dei remakers, che utilizzano tessuti e materiali di una volta per ricollocarli in creazioni contemporanee. Rivisitandoli, stravolgendoli, cambiando prospettiva: a una giacca, le cui maniche complete di bottoni divengono tasche per una borsa originale; piuttosto che a lampade i cui steli sono costituiti da vasi di vetro; o ancora abiti in cui protagonista di ago e filo non è stoffa, ma carta da parati. Come se gli oggetti potessero avere una seconda possibilità; non solo di mostrarsi, ma anche di vivere una diversa funzione in cui l’ecosostenibilità è la punta di diamante di un processo in cui il materiale non viene scartato, ma riciclato. E come se l’artista, sorta di prestigiatore, estraesse da uno di quei magnifici cappelli a falde larghe un coniglio dietro l’altro.

L’importante – aggiunge Paparo – è che sia vero vintage, ed è proprio per questo che anche lo scorso anno abbiamo proposto prima l’informazione su questo tema a ogni singolo espositore, tenendo alla specifica di questo concetto, per una consapevolezza condivisa tanto dall’espositore, quanto dal pubblico che prende coscienza di ciò che vede. E del fatto che l’arte non è puro e semplice frutto di una mente edonista o vanitosa, né faziosa; ma, al contrario, di un ricercatore che mette a disposizione una collezione e una ricerca personale. É il caso di Betty Concept, che utilizza tessuti storici per creare revival.”
Informazione che ha dato i suoi frutti: “Abbiamo notato che nel pubblico di questo anno c’era maggiore consapevolezza; se l’anno scorso il sentimento predominante nei visitatori era la curiosità, quest’anno possiamo dire sia stata la ricerca, già sapientemente dosata e seminata. Le borse sono indubbiamente l’articolo che ha riscosso grande successo, seguite a ruota dagli occhiali da sole. La grande novità è stato l’avvicinamento all’artigianato, all’hand-made: questo è il caso di Ricicli.”

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L’invito della seconda edizione della mostra-mercato l’Officina del Vintage’ a Ferrara

Unitamente alla fiera mercato, il corredo necessario di appuntamenti e incontri aggiuntivi per immergere il visitatore in una vera e propria cornice culturale che fosse non semplice sfondo ma complemento, accessorio, intrattenimento: film e musica Northern Soul, dedicato alla musica popolare nera degli anni Sessanta, lo spettacolo teatrale Sono Fred dal whisky facile dedicato alle canzone di Fred Buscaglione, sino alle sigle dei cartoni animati cult anni Ottanta interpretati dai Raggi Fotonici; incontri con artigiani, designer e artisti che raccontano il processo realizzativo degli oggetti e come utilizzare materiale di recupero per le proprie creazioni; passeggiate alla ri-scoperta di itinerari tra architettura e urbanistica razionalista del primo Novecento. E ancora fotografia, stile e moda delle acconciature femminili, dalle seducenti flappers degli anni Trenta ai caschetti e alle cotonature degli anni Sessanta. Per terminare con un candido set fotografico i cui protagonisti sono due sedie dal sapore medievale, un austero telefono in bachelite e due drappi rossi che corona la fine del percorso in cui il tempo, fermato ad almeno vent’anni prima, mostra che il passato, prima o poi, ritorna sempre.

Le foto della seconda edizione dell’Officina del Vintage a Ferrara sono di Giorgia Pizzirani