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Critica al capitalismo americano, Arthur Miller: ‘Non ci si può separare da certe azioni’

STANDING OVATION: I PIU’ ACCLAMATI SPETTACOLI TEATRALI DEL XXI SECOLO
“Erano tutti figli miei” di Arthur Miller, regia di Cesare Lievi, Teatro Comunale di Ferrara, dall’8 al 12 gennaio 2003

La stagione teatrale 2002/03 del Comunale tocca forse il suo apice, almeno per quanto attiene la prosa vera e propria, con un dramma “giovanile” del grande Arthur Miller: “Erano tutti miei figli” (1947), anteriore addirittura a “Morte di un commesso viaggiatore” (1949) e a “Uno sguardo dal ponte” (1955). Arthur Miller è autore di opere drammaturgiche animate da una viva coscienza etica e da finalità polemiche nei confronti della società americana, dei suoi falsi miti e delle sue tare ereditarie. Fra i suoi lavori si ricordino, fra i tanti, anche “Il crogiuolo” (1953, ridotto alcuni anni fa per il cinema da Nicholas Hytner), “Gli spostati” (1961), “Dopo la caduta” (1964).
“Erano tutti miei figli” racconta una storia di ordinaria corruzione: nell’ambito di un nucleo familiare si scopre, dopo diversi anni, che il padre si era arricchito vendendo ricambi d’aereo difettosi all’aviazione americana. Ma ben più profondo è il tema della incomunicabilità e dello scontro fra due generazioni. Lo stesso Miller ebbe a commentare al riguardo: «La fortezza cui “Erano tutti miei figli” cinge d’assedio è quella della mancanza di rapporto. È l’asserzione non tanto d’una morale in termini di bene e di male, ma di un mondo morale che è tale perché gli uomini non possono separarsi da certe loro azioni». Ambientato nel secondo dopoguerra, “Erano tutti miei figli” è un atto d’accusa nei confronti del capitalismo americano, della sua ipocrita e già corrotta utopia dell’“american dream” ma incarna pure, non va dimenticato, la sincera e patriottica ansia di redenzione di un popolo.
Come una tempesta. Preceduta da una calma innaturale e vagamente annunciata, in un inquietante sereno, da lontani bagliori e soffocati brusii, che prima addensa poche nubi ancora chiare e poi sconvolge l’atmosfera ovattata con qualche fulmine e raffiche di vento, quindi si scatena terribile e devastante tanto da non saper più dove ripararsi, da non poter fare altro che rassegnarsi alla furia degli elementi; il testo di Miller è di una potenza tale da far vibrare per l’emozione, laddove in una sorta di catarsi novecentesca la sofferenza dei personaggi e la volontaria espiazione del protagonista universalizzano e rendono atemporale. Infatti, questo capolavoro giovanile di Arthur Miller contiene già ‘in nuce’ i temi etici che il drammaturgo svilupperà in seguito: il diffuso lassismo, il demone del profitto, le tensioni familiari, la ribellione all’“american way of life”. L’allestimento vede protagonisti due ‘mostri sacri’ come Umberto Orsini e Giulia Lazzarini. La regia è di Cesare Lievi, la traduzione di Masolino D’Amico.

IL FATTO
Dopo i furti sequestrato un oleodotto: l’Italia come la Nigeria

Sequestrato l’oleodotto Civitavecchia-Fiumicino: una notizia per me sconvolgente, sembra che stia accadendo da noi quello che succedeva in Nigeria, ossia il furto di petrolio dagli oleodotti. Segno di un Paese oramai non recuperabile? Per molti si tratta di una delle tante notizie che passa spesso inosservata: su Repubblica di oggi si legge “ll gip del Tribunale di Civitavecchia, Massimo Marasca, ha disposto il sequestro dell’oleodotto Civitavecchia-Fiumicino, a novembre scorso oggetto di alcuni furti che ha procurato danni ambientali per lo sversamento di cherosene, “finché non saranno installati adeguati sistemi di controllo atti ad impedire ulteriori reati”. Il sequestro è stato effettuato dai carabinieri del Noe al termine dell’indagine avviata dal procuratore di Civitavecchia, Gianfranco Amendola. Il procedimento al momento è contro ignoti.”
Ho ripensato alle molte volte (dal 1997) in cui ho partecipato alla presentazione del Rapporto sulle ecomafie di Legambiente. Sul suo sito Legambiente scrive “ecomafia è un neologismo coniato da Legambiente che indica quei settori della criminalità organizzata che hanno scelto il traffico e lo smaltimento illecito dei rifiuti, l’abusivismo edilizio e le attività di escavazione come nuovo grande business in cui sta acquistando sempre maggiore peso anche i traffici clandestini di opere d’arte rubate e di animali esotici.” Insomma tutto.
Il Rapporto ecomafia 2014 dice che “29.274 infrazioni accertate nel 2013, più di 80 al giorno, più di 3 l’ora. In massima parte hanno riguardato il settore agroalimentare: ben il 25% del totale, con 9.540 reati, più del doppio del 2012 quando erano 4.173. Il 22% delle infrazioni ha interessato invece la fauna, il 15% i rifiuti e il 14% il ciclo del cemento. Il fatturato della criminalità ambientale, sempre altissimo nonostante la crisi, ha sfiorato i 15 miliardi.”
Pazzesco. Ma, soprattutto, gravissima è ancora la scarsa considerazione che attribuiamo ai danni ambientali perché i tempi sono spesso molto lunghi per verificare l’effetto del danno, spesso i danni non si verificano (le tre scimmiette: non vedo, non sento, non parlo) perché mancano gli strumenti di controllo, ma soprattutto dove il danno è troppo alto (e dunque non pagabile) spesso non si procede; infatti spesso si rileva il danno solo quando si riesce a trovare i colpevole (dove vi sono responsabilità diffuse spesso si tende a coprire).
Allora vediamo come siamo messi a livello normativo. Solo da febbraio 2014 si è fatto qualche passo, ma il Codice penale ambientale ancora non è operativo (siamo solo alla solita proposta di legge ferma). Prima comunque esisteva solo il Codice civile (art. 2043 e 2050) e si inizia a parlare di Danno ambientale solo dal 1986 art. 18 349/86 (che però non lo definisce); solo con il decreto Ronchi si introduce la responsabilità oggettiva e il Regolamento attuativo Dm 471, 25/10/98, ma solo in campo di applicazione e definizioni. Sui principi siamo bravi: il Danno è subito dalla Collettività e l’Ente territoriale è titolare del diritto al risarcimento. Chi viene colto in grave responsabilità però al massimo se la cava con qualche multa.
C’è molto, molto da fare.

L’OPINIONE
Fuochi e Sgarbi infiammano Ferrara

Mentre si spegne l’eco dei botti di Capodanno che producono fremiti e ohhhh di meraviglia di fronte all’incendio del Castello nella città estense, o i concerti nelle piazze fiorentine, seguiti dai fuochi d’artificio tra frotte inenarrabili di turisti che si fanno scudo della grande bellezza per proclamare il dogma immortale dell’ “anche io c’ero!” testimoniato dai milioni di selfie, rimane quel retrogusto amaro nel non volere arrendersi alla noia prodotta e provocata dal voler essere per forza in pista in quella notte. La mia irriducibile avversione ai botti risale forse alla paura del fuoco o forse più verosimilmente alla notte del bombardamento di Ferrara, quando bambinetto fuggivo verso il rifugio in braccio alla mamma, inseguito dai tonfi sordi e dalle lingue di fuoco che s’alzavano circondandoci. Ci sono, a mio avviso, momenti migliori per passare quella manciata di ore tra Natale e Capodanno. Penso ai bellissimi film che sono riuscito a vedere nel tempo propizio ai cinepanettoni: da “Jimmy’s Hall” a “Saint Vincent”, passando per “Il giovane favoloso” a “Torneranno i prati” e, alla televisione, l’immortale “A qualcuno piace caldo” e “Il giardino dei limoni”. Storie di emarginati e di poeti, o di irrisolvibili contrasti e conflitti: Irlanda, Palestina, Israele, la Prima guerra mondiale. Il mondo reale, la verità riscoperta attraverso l’arte.

Così, in questi momenti inopportuna e stridente si leva la polemica sulla mostra del Bastianino e sul destino di Casa Minerbi che il critico Vittorio Sgarbi irride, forse senza saperne il destino e la fruizione imminente. Sembra quasi che i ferraresi affascinati da parole forti e scaltramente pronunciate s’abbandonino, come nell’incendio del Castello, a perdersi tra botti e fuochi dell’intelligenza e del mestiere. La memoria corta così tipica di “Ferara” s’infiamma e si compiace nel denigrare ciò che è frutto di progetti, criticabili quanto si vuole, ma sempre sostenuti da una meditata consapevolezza. E’ stato così nella Ferrara “smangona” e, solo per fare esempi recenti, per il progetto Ermitage, per il ridimensionamento dell’Istituto di studi rinascimentali e per molto di quello che si è tentato di costruire per uscire dalle Mura, a volte paradiso, a volte carcere della depisissiana città pentagona.
Non è scetticismo né tantomeno pensiero negativo.
La constatazione di ciò che la nostra città invidia a se stessa deve essere impegno etico a resistere e a non abbandonarsi all’ovvietà. Perciò bisogna controbattere alle provocazioni: specie quelle intellettuali, sapendo però che quasi sempre si è destinati a perdere.
Si veda la magnifica proposta di Piero Stefani su come dare contenuti forti al Museo dell’Ebraismo, caduta nel vuoto. Si assista alle splendide conferenze organizzate dall’Istituto Gramsci sul “carattere degli italiani”, seguitissime, applauditissime. E poi? Si considerino le mani alzate dopo la reprimenda di Vittorio Sgarbi sulla mostra del Bastianino alla domanda su quanti avessero visitata l’esposizione: tre! nella sala stracolma che applaudiva toto corde.

Dovremmo dichiararci sconfitti? Eh no! Anzi, sono queste le prove che ci devono indurre a non lasciare la presa. Che all’incendio del Castello, nella mente, si può contrapporre la riposata e placida constatazione di quanto sia straordinario far fiorire gli alberi dei limoni e non abbatterli come nello splendido film di Eran Riklis.

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Gianni Toti, pioniere della video-art e della poetronica

Gianni Toti, originario di Roma e scomparso nel 2007 è tra i pionieri della video-art a Ferrara e a livello internazionale, protagonista nella grande stagione di fine secondo Novecento del Centro video arte a Ferrara curato dal Maestro Farina.
Gianni Toti fu un autentico genio d’anticipazione. La videopoesia, poi poetronica, ha in Toti uno dei suoi fondatori e ineguagliati interpreti: inventata, creata, distillata, innestata nel divenire della poesia contemporanea, al passo con i vertici della sua stessa mutazione, parallela alle trasformazioni sociali e tecnologiche.
Toti da decenni, con esiti stupefacenti di nuova bellezza techno, il fare arte con le macchine, persino letteratura, niente affatto un degrado del cuore e della creatività umana: proprio il contrario…
E anzi, capace Toti di dare un nome, un volto bello e riconoscibile alla nostra Era, non solo una
specie di top model nevrotica e complessa, ma anche una femme fatale intelligente oltre che
ammaliante. Per la realizzazione delle sue opere collaborava anche con il Centre de recherche Pierre Schaeffer di Montbéliard-Belfort.
Tra le sue opere video e poetroniche, “L’originedite” (1994), “Planetopolis” (1993), “Tupac Amauta”
(1997)… forse un vertice è semplicemente una suite “Trilogia majakovskiana” dedicata a
Majakovskij e a Lili Bric, anni ’80, poesia e rivoluzione al 100%, quasi un megafile già destinato
alla net-generation contemporanea. Capolavoro dell’Arte video e punto di riferimento assoluto per il futuro e per le nuove generazioni video e net generation.
Ha anche pubblicato “L’altra fame” (Rizzoli, 1970), “Il padrone assoluto” (Feltrinelli, 1977) “Planetario. Scritti giornalistici” (a cura M.Borelli e F.Muzzioli, Ediesse, 2008), “I meno lunghi o i più corti racconti del futuremoto” (a cura G.Perego, Fahrenheit, 2012), Raccolte poetiche “Che c’è di nuovo” (Premio Rapallo 1962), “La coscienza infelice” (1966), “Tre ucronie” (1970), “Chiamiamola poemetànoia” (1974).
Su Gianni Toti: “Gianni Toti in cine ma video” (Sandra Lischi, a cura di, Ed. Ets, 1996); “Gianni Toti o della poetronica” (Sandra Lischi, Silvia Moretti (a cura di), Ed. Ets, 2012), “Re-video ergo zoom (o zaúm?)”; “Totilogia Gianni Toti” (a cura di Daniele Poletti, Floema-esplorazioni della parola [dia•foria, 2013); “Totilogia”, ([dia•foria, Daniele Poletti (a cura di), in collaborazione con La Casa Totiana, Ed. Cinquemarzo, 2014).

Per saperne di più su Gianni Toti visita la pagina relativa su Wikipedia [leggi], la puntata su Rai arte [vedi]

* da Roby Guerra, “Dizionario della letteratura ferrarese contemporanea”, Este Ediiton-La Carmelina ebook [vedi]

LA NOTA
Rosso di sera

Dopo il bianco della neve, la nostra Ferrara ci ha stupito con i colori. Un tramonto così bello non lo vedevo da tempo. Davvero. Rosso, rosa, violetto, azzurro, blu e celeste. Le tinte della serenità, quelle del riposo, della felicità, dell’ozio meritato, del non pensare a nulla, almeno per qualche istante. O dell’immaginare, se la mente non riesce proprio a starsene tranquilla, scenari di calma e di pace.

rosso-seraPerché, mentre concludo il libro di Mauro Corona “Una lacrima color turchese”, seduta comodamente sul mio divano lilla, penso che questo mondo ha perso l’orientamento, che molti valori se ne sono volati via, quasi volatilizzati, andati in fumo; che, spesso, non sappiamo più cogliere il senso delle piccole cose e l’importanza dei veri sentimenti, che perdiamo la sicurezza dell’amicizia e la pazienza con i nostri anziani, perché fermarsi a riposarsi e smettere di correre è considerato un privilegio di pochi, perché sognare e realizzare i propri sogni non è davvero per tutti. Perché il tempo passa ed è sempre più danaro, perché questo non è vero proprio per nulla e lo si dovrebbe comprendere una volta per tutte. Perché il tempo è la sola cosa davvero preziosa e regalarlo è il vero dono che si può fare, perché non ritorna, perché è unico e perché è qualcosa di veramente solo nostro che si offre a chi si ama. A Natale, questo si doveva donare, forse. Solo questo, null’altro. Nessun pacchetto vale lui, il tempo fugace e sfuggente.

rosso-serarosso-seraQuesto cielo ferrarese mi fa guardare lontano, un po’ di malinconia per il passato ma anche tanta fiducia per il futuro. Perché sono ottimista e davanti a questo spettacolo non si può che esserlo.
Questo cielo ferrarese, che scorgo dalle stesse finestre di amici vicini, si offre a me, senza parsimonia, in tutta la sua bellezza e splendore, libero, leggero, spazioso, etereo, aperto, sincero, unico. Sempre fedele, sempre presente, sempre generoso e coraggioso.
Questo cielo mi manca, quando sono lontana. Mi consola solo sapere che tutti i miei cari sono sotto le stesse stelle e che, da luoghi diversi e perduti nel mondo, guardiamo a esse, pensandoci l’un l’altro. Ferrara è generosa, in questo inizio d’anno freddo e rigido. Riscalda mani e cuori con questi colori tenui e caldi. Allora scosto la tenda e ammiro ancora quel lilla prezioso sui tetti.
Mi pare proprio di vedere Campanellino svolazzare qua e là, leggera e piccolina, tra un camino fumante e l’altro…

(Fotografie di Simonetta Sandri)

Breve guida all’auto-compostaggio

La natura riconsegna le sostanze organiche al ciclo della vita, riproducendole in forma accelerata e controllata; con il compostaggio domestico in fondo si copia dalla natura il processo per creare il compost. Si tratta infatti di processo naturale per riciclare e ricavare buon terriccio dagli scarti organici della cucina e del giardino. Tutti lo possono fare, basta un giardino, anche piccolo. Chi ci ha provato sa quanti “rifiuti” verdi esso produca, soprattutto se è affiancato da un piccolo orto. Il compostaggio permette di utilizzare quei rifiuti organici che si producono in grande quantità e che possono diventare materie prime.
I contadini e gli ortolani lo sanno bene come si fa per produrre una discreta quantità di ottimo terriccio. L’opportuno stoccaggio e trattamento di rami, foglie, erba, avanzi di cibo, bucce di frutta e verdura, permette a batteri, microrganismi e piccoli insetti di cibarsene, di svilupparsi e di decomporre le sostanze organiche presenti nei nostri rifiuti. Dopo alcuni mesi, il materiale organico così trattato diventerà una massa di microrganismi e di sostanze nutritive chiamato compost, simile all’humus che possiamo trovare nel sottobosco: un terreno soffice, ben aerato e ricco di minerali, ottimo per le nostre colture, ma anche per i nostri fiori in vaso.
Si possono compostare scarti di frutta e verdura e scarti vegetali di cucina, perché sono la base per un buon compost; inoltre pane raffermo, gusci d’uova e ossa, purché ridotti in piccoli pezzi; fondi di caffè e filtri del tè, foglie, segatura e paglia, perché per un buon compost è fondamentale la parte più secca dei rifiuti; sfalci d’erba possibilmente fatti seccare prima; bucce di agrumi, purché in quantità non eccessiva (perché hanno tempi di decomposizione più lunghi); avanzi di carne, pesce e salumi, ma senza esagerare. Insomma, quasi tutto quello che esce dalla nostra tavola e dalla nostra cucina.
In alcune zone, si sono anche create attività comuni, di condominio o di zona, con risultati eccellenti.
Diverse statistiche indicano che ognuno di noi produce circa 90/100 kg di rifiuto organico all’anno mentre un orto di 100 mq ne produce circa 350 kg.
Per fortuna anche i migliori gestori hanno iniziato a incentivare questa attività, fornendo anche il contenitore, e su internet si trovano tanti interessanti manuali di come produrlo. Provate!

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LA STORIA
Idir, la voce della Cabilia

Idir, nome d’arte di Hamid Cheriet, è nato in Algeria nel villaggio di Aït Lahcène, vicino a Tizi Ouzou, nella Grande (Alta) Cabilia, il 25 ottobre 1949. Idir, in lingua cabila, significa “vivrà”, così come le madri chiamavano tradizionalmente i figli più fragili.

Idir è il cantante e musicista cabilo più conosciuto all’estero, grazie al suo brano d’esordio intitolato “A vava inouva” (Il mio papà), una dolce ninna nanna, con il testo scritto da Ben Mohamed. Il musicista algerino esordì a Radio Algeri, inventandosi lo pseudonimo che lo avrebbe reso celebre, per non far capire ai propri genitori che stava intraprendendo la carriera artistica. “A vava inouva” ebbe un exploit immediato, da allora Idir ha prodotto un numero limitato di album, avvalendosi spesso dei testi di Ben Mohamed. Questo brano è considerato il primo grande successo venuto dall’Africa settentrionale e rappresenta l’affermazione del ritorno alle radici, un sentimento molto sentito dagli algerini.

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In concerto

La sua opera ha contribuito al rinnovo della canzone amazyghe e ha portato la cultura della Cabilia all’attenzione del pubblico internazionale, proseguendo la tradizione famigliare iniziata da sua nonna e sua madre, entrambe poetesse. Grazie alle donne della sua famiglia è cresciuto ascoltando storie ed enigmi, un valore immenso in una società basata sulla cultura orale, come ha detto lo stesso Idir: “La capacità di cesellare le parole e di inventare delle immagini, da noi, è ancora oggi molto apprezzata”.

Emigrato a Parigi nel 1975, Idir fa parte di quegli esuli senza “patria ufficiale” che si battono per il riconoscimento della propria cultura d’origine. In quel periodo la casa discografica Pathé Marconi gli produsse il suo primo album “A Vava inouva”, che diventò un successo planetario, distribuito in 77 paesi e tradotto in 15 lingue. Una versione francese è stata interpretata dal duo Davide Jisse e Dominique Marge. La musica della Cabila era la più diffusa nei quartieri a prevalenza araba di Parigi, perché gli immigrati provenivano da quella regione dell’Algeria. Dopo il successo del primo Lp, Idir pubblicò nel 1979 “Ay Arrac Neg” (Ai nostri bambini), iniziando una lunga serie di concerti ma, non riconoscendosi nel mondo dello show-business, scelse di eclissarsi per circa dieci anni, interrotti soltanto da alcuni recital.

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Alcuni cd e dvd di Idir

La sua carriera riprese nel 1991, in occasione della pubblicazione della compilation con i brani tratti dai suoi primi due album. Grazie al successo discografico ritornò sulla scena musicale, con una serie di concerti al New Morning di Parigi, dove raccolse numerosi elogi e il riconoscimento, da parte della critica, di precursore della World music.
L’anno successivo uscì l’attesissimo nuovo Lp “Les chasseurs de lumière” (I cacciatori di luce) dove cantò i suoi temi prediletti: l’amore, la libertà e la tristezza dell’esilio. Nell’album introdusse, a fianco dei darboukas, strumenti quali flauti, mandole e chitarre acustiche, dando un tocco di modernità al suo sound. Nel brano “Isaltiyen”, il cantante algerino duettò con Alan Stivell. Quello stesso anno si esibì all’Olympia di Parigi.

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Idir all’Olympia di Parigi

Idir, uomo di principi, partecipa spesso ai concerti per sostenere le cause in cui crede, nel 1995, insieme a Khaled, appoggiò un grande evento per la pace, la libertà e la tolleranza. In quella storica occasione il Raï oranais incontrò la poesia contestataria della Cabilia. Si trattò di un grande successo, per i due artisti, che riuscirono nella difficile impresa di riunire le comunità kabylophones e quella arabophones. Nel 2001, quando delle violente sommosse devastarono la Cabilia (la cosiddetta “Primavera nera”), il cantante organizzò un grande concerto allo Zenit di Parigi, dove numerosi artisti sostennero la rivolta del popolo di fronte al potere centrale algerino. Partecipò anche al concerto organizzato per ricordare Lounès Matoub, il cantautore algerino assassinato da un commando armato.

Con l’album “Identités” (1999) Idir si aprì alla Wolrd culture, collaborando con Manu Chao, Tulawin, Dan Ar Braz, Maxime Le Forestier (molto noto in Francia) e i gruppi Gnawa Diffusion e Zebda. L’esperienza prosegui con “La France des couleurs” del 2007, dove giovani autori composero con lui delle canzoni sul tema dell’identità. Collaborano artisti come Akhenaton, Leeroy, Sink, Kenza Farah, Wallen, Grand Corps Malade e Zaho.

Il più recente album di Idir, porta il suo stesso nome ed è del 2013, si tratta di un’opera intimista e personale, meno politica delle precedenti, con un brano dedicato alla memoria della madre, scomparsa qualche anno prima all’età di 96 anni. L’artista, liberatosi del suo status di chanteur militante, abbassa un po’ la guardia per lasciarsi andare alle emozioni. Il disco contiene la traduzione e l’adattamento di un’aria britannica del XVII secolo, “Scarborough Fair” e un pezzo di Beethoven “Tajmilt i Ludwig” (Clin d’œil à Ludwig).

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Una delle varie iniziative umanitarie a cui ha partecipato

La musica di Idir nasce dalla fusione di differenti sonorità ma, il punto di riferimento, resta il flauto del pastore cabiliano. Si tratta del primo strumento su cui ha imparato a suonare, costruito tramite il taglio di un giunco. La chitarra folk è venuta molto più tardi, al tempo del liceo, dove un francese gli insegnò i primi accordi che lui riprodusse con le cadenze e gli accompagnamenti tradizionali della sua regione natia.
Le sue canzoni, scritte in cabilo o in francese, hanno una portata universale e accompagnano sempre le cerimonie nuziali dei giovani della Cabilia. Il sociologo Pierre Bourdieu di lui ha detto: “Idir non è un cantante come gli altri, è un membro di ogni famiglia”.

Per ascoltare il concerto acustico di Idir (30’) trasmesso dall’emittente internazionale Tv5 Monde nel 2013 clicca qui.

Alla cieca

Buena vista central club: nel centro storico di Ferrara ormai abbondano i negozi di ottica: solo in corso Martiri, cuore della città, ce ne sono tre nello spazio di cinquanta metri. Negli ultimi mesi, infatti, due nuovi punti vendita (La lente e Dieci decimi) si sono aggiunti a Salmoiraghi. A conferma che, di questi tempi, in pochi ci vedono chiaro…

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Chiusura dei denti e postura

La chiusura dei denti fra loro (occlusione) e la postura del corpo sono strettamente legate. E’ infatti ormai noto come la disarmonia occlusale della bocca possa causare squilibri alla colonna vertebrale e quindi un’alterazione della postura. La deglutizione, l’occlusione e la postura sono legate l’una all’altra in quanto si realizzano tutte grazie all’azione della muscolatura.
Il corpo umano può essere paragonato ad un orologio. Perché funzioni è necessaria la sincronia perfetta di tutti i suoi componenti tra cui i muscoli, tutti collegati tra loro e indispensabili al corretto funzionamento. La mancanza di bilanciamento tra i vari gruppi muscolari è spesso la causa di alterazioni a livello della postura corporea.

Le componenti del sistema stomatognatico (lingua, labbra, mandibola, muscolatura orofacciale) e le quattro subunità funzionali muscolo-scheletriche del corpo umano (la cranio-cervico-mandibolare, il cingolo scapolare, il cingolo pelvico e l’area podalica) mostrano una stretta interdipendenza funzionale e posturale. Alcune abitudini come il bruxismo (serramento dentale notturno involontario) possono essere collegate a disturbi dolorosi del rachide (lombalgie, cervicalgie, dorsalgie). Nella moderna valutazione dei disordini cranio-mandibolari, un ruolo primario lo rivestono le abitudini posturali. Per occlusione si intende il contatto tra le arcate dentarie. Quando l’occlusione è corretta, i denti si toccano senza provocare scivolamenti della mandibola e si ha la sua massima stabilità durante la funzione. Quando è scorretta, i denti vanno ugualmente a cercare la massima intercuspidazione e la mandibola deve scivolare per trovare una posizione che consenta di avere il più alto numero possibile di contatti per ottenere la sua stabilizzazione durante la funzione.

L’ortodonzia e la gnatologia sono i rami dell’odontoiatria che studiano e curano i disturbi dell’occlusione; anche l’osteopatia è necessaria per la valutazione della postura cranio-cervico-dorsale in una visione globale. L’osteopata, attraverso dei test, esamina le disarmonie che possono alterare l’equilibrio fra bocca e colonna vertebrale o fra appoggio anomalo del piede e colonna vertebrale. Il sistema cranio-cervicale è considerato, da un punto di vista funzionale, come una unità; così, ad esempio, uno sbilanciamento posturale del mascellare superiore o della mandibola rispetto al cranio, provoca variazioni posturali generali con il coinvolgimento anche di organi.

Inoltre, la postura è il risultato di un adattamento fisiologico e psicologico alle varie funzioni dell’organismo come la masticazione, la respirazione, la visione, l’ascolto, il rapporto con il suolo, che garantisce al corpo un equilibrio. Le zone deputate all’equilibrio nel sistema nervoso centrale (Snc) ricevono impulsi dai muscoli del collo, del rachide cervicale e dalla pianta dei piedi. Poiché tutte queste informazioni hanno un loro ruolo nel mantenimento della postura, si rende importante valutare con attenzione se, ed eventualmente in che misura, ogni singola afferenza sia coinvolta nella determinazione dell’alterazione posturale. E’ quindi importante prestare attenzione alla sintomatologia per saper riconoscere e differenziare le patologie di tipo ascendente (ad esempio un appoggio podalico alterato che genera una disfunzione occlusale), da quelle di tipo discendente (ad esempio un’alterazione occlusale che genera un’alterazione nell’appoggio podalico).

Quindi alterazioni delle catene muscolari, con spasmi o contratture in alcuni gruppi muscolari, possono provocare tutta una serie di spostamenti rispetto alla normale postura che a loro volta richiedono compensi che causano la modificazione ulteriore dell’atteggiamento posturale del corpo.
È davvero importante far valutare la bocca e il cranio dei bambini all’osteopata che potrà riequilibrare le possibili deviazioni della bocca. Il corretto sviluppo della dentizione è fondamentale per la salute orale dei soggetti in età pediatrica, poiché contribuisce ad una occlusione stabile, funzionale ed esteticamente armonica. La cura e la prevenzione della salute del bambino comincia nei primi anni di vita, in cui il piccolo necessita di un controllo sullo stato della mascella e della mandibola per migliorare la condizione dei suoi dentini.

Di seguito una definizione delle più frequenti malocclusioni in età evolutiva:

• MORSO APERTO – OPEN BYTE: in occlusione, i denti posteriori sono a contatto, mentre gli anteriori rimangono distanziati.
• MORSO PROFONDO – DEEP BYTE: in occlusione, gli incisivi superiori coprono eccessivamente quelli inferiori.
• MORSO CROCIATO – CROSS BYTE: in occlusione, alcuni denti superiori chiudono all’interno dei rispettivi denti inferiori con possibile deviazione della mandibola ed asimmetria facciale. Può essere mono o bilaterale.
• AFFOLLAMENTO: i denti sono sovrapposti, in genere perché l’osso di supporto è piccolo o i denti sono larghi. In questi casi è frequente che alcuni denti non trovino lo spazio necessario per erompere in arcata (denti inclusi).

In età adulta ci sono dei sintomi che possono far pensare che la causa sia una disarmonia della bocca, un disturbo cranio-mandibolare.
Quali sono questi sintomi?

• Dolori all’articolazione temporo-mandibolare (Atm), localizzati e spesso confusi con dolori all’orecchio
• Bruxismo, digrignamento e/o serramento dei denti la notte
• Acufeni (fischi all’orecchio), vertigini, senso di ovattamento delle orecchie
• Nevralgia del trigemino
• Mal di testa di varie tipologie
• Dolori cervicali
• Tensioni muscolari alla mascella, al collo, alle spalle

Prevenzione, prevenzione e ancora prevenzione…

L’EDITORIALE
I ragazzi del ’99
(e un mondo da cambiare)

Da quali conflitti sono attesi i nostri “ragazzi del ’99” e quale mondo affronteranno? I loro coetanei, un secolo fa, sedicenni, furono mandati allo sbaraglio in guerra a morire al fronte per difendere la Patria. I nostri giovani, nati al serrar del sipario del ‘secolo breve’, nel 2015 si dovranno misurare con guerre non dichiarate, in uno scenario fatto pur sempre di macerie. Dovranno difendere se stessi dai detriti tossici di una società che, nell’età dell’opulenza, non ha saputo frenare i propri appetiti e a una pacifica e dignitosa convivenza ha preferito la logica della sopraffazione in funzione del profitto. La ricchezza individuale a discapito d’ogni equa e solidale coesistenza.
Così mentre nei convegni dibattiamo degli orrori del secolo scorso, di là dai vetri si consuma un presente non meno cruento.

Nel mondo di oggi, popolato da oltre 7 miliardi di uomini e donne, quasi un miliardo di persone vive in condizioni di povertà. Ogni cinque secondi un bambino muore di fame. Secondo il Wfp (World food programme) oltre 800 milioni di persone soffrono la fame e un individuo su nove non ha abbastanza cibo per condurre una vita sana e attiva. La malnutrizione favorisce le malattie e nei casi più drammatici porta alla morte. La Fao stima che ogni giorno 24mila persone muoiano per carenze alimentari: significano quasi nove milioni ogni anno. Eppure ci sarebbe cibo a sufficienza per sfamare l’intera popolazione mondiale.

Due miliardi vivono senza strutture igienico-sanitarie adeguate. Più di 4.000 bambini sotto i 5 anni muoiono ogni giorno di diarrea, una malattia facilmente curabile. Inoltre 72 milioni di bambini (in maggioranza femmine) non vanno a scuola.

Sull’umanità, paradossalmente, incombono rischi di siccità. Un miliardo di persone vive senza avere accesso all’acqua pulita. Un paio d’anni fa quaranta ex capi di Stato e di governo hanno messo a punto un rapporto sulla crisi idrica mondiale. Secondo il documento se non cambierà il modo in cui viene gestita l’acqua a livello globale, entro vent’anni molti Paesi – a cominciare da Cina e India – si troveranno di fronte a una domanda che non saranno in grado di soddisfare, con gravi ripercussioni per la pace, la stabilità politica e lo sviluppo economico. Il problema riguarda anche il nostro continente. Secondo le stime dell’Agenzia europea dell’ambiente l’11% della popolazione e il 17% del territorio europeo sono colpiti da carenza idrica.

E c’è dell’altro: nel 2015 potrebbero essere 375 milioni le persone colpite da calamità legate ai cambiamenti climatici, con un aumento del 50% rispetto agli attuali 250 milioni.
Si stima un aumento di 133 milioni di persone fra 6 anni, a causa di catastrofi naturali determinate dal riscaldamento globale.

Il 2013 secondo il Conflict Barometer dell’Heidelberger Institut für International Konfliktforschung è stato l’anno che ha fatto registrare il maggior numero di guerre dal 1945: 20 oltre a 414 conflitti armati. Il settore che trae profitto da questa drammatica situazione è ovviamente il mercato delle armi. Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute, nel 2012 sono stati investiti in spese militari 1.750 miliardi di dollari. La maggior parte degli Stati belligeranti è in Africa, il fronte più caldo assieme al Medio-oriente.
Ma ciò che emerge dalle stime dell’ Heidelberger Institut, secondo l’opinione di Caritas, Famiglia Cristiana e il Regno, artefici del rapporto “Mercati di guerra”, è solo la punta dell’iceberg.

Secondo il Gcap (Global call to action against poverty) ogni anno nel mondo si destinano oltre mille miliardi di dollari a spese militari, circa 325 miliardi all’agricoltura e solo 60 miliardi per aiuti allo sviluppo. Per ogni dollaro speso in cooperazione allo sviluppo, 20 dollari sono spesi per armamenti.

Sempre in tema di violenza nel 2012 sono stati censiti 437mila omicidi in tutto il mondo. L’area centro-settentrionale del Sud America risulta la più pericolosa.

Non meglio va sul fronte dei diritti umani. Tra il 2009 e il 2014, Amnesty International ha registrato torture e altri maltrattamenti in 141 Paesi. In 58 Stati resta in vigore la pena di morte, benché solo una minoranza la applichi con sistematicità. Fra i regimi democratici sono solo 7 a mantenerla nell’ordinamento, fra essi Stati Uniti, India e Giappone.

I regimi dispotici risultano essere 47. Secondo Freedom House le società meno libere del mondo, a pari demerito, sono Repubblica Centrafricana, Guinea equatoriale, Eritrea, Corea del Nord, Arabia saudita, Somalia, Sudan, Siria, Turkmenistan e Uzbekistan.

Infine i dati sulla corruzione: l’Italia qui mostra la propria eccellenza e guadagna la medaglia di fango. Il Corruption Perception Index 2014 di Transparency International, che riporta le valutazioni degli osservatori internazionali sul livello di corruzione di 175 Paesi del mondo, colloca il nostro al 69esimo posto della classifica generale, fanalino di coda del G7 e ultimo tra i membri dell’Unione Europea, scavalcato da Bulgaria e Grecia. Un bel primato.

Al tirar delle somme, non è un bel mondo. Ma lo sapevamo già. Così, mettendo in fila un po’ di numeri forse fa più impressione, però. Tanto c’è da fare. Non con le armi, ma con l’intelligenza e la forza della ragione. La temperie è quel che è. Ma lo abbiamo imparato da tempo e lo insegneremo ai nostri figli: scarpe rotte eppur bisogna andare.

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LA RIFLESSIONE
Appunti per un’economia a misura d’uomo

I mass media rappresentano ogni giorno l’economia secondo un rituale che ha sostituito agli occhi di molti quello che per secoli era stato proprio della religione. Giornali, radio e televisioni descrivono quotidianamente la centralità di un’economia invadente che, da un lato, ha perso il significato profondo e, dall’altro, si mostra come indubitabile fatto tecnico, disciplina scientifica, rappresentazione oggettiva della realtà, sistema procedurale regolato da leggi ferree ed obiettive, apparentemente non modificabili. Da un lato si celebra la crescita quantitativa e dall’altro si esibiscono come casi umani quanti sono stati travolti dal sistema economico impazzito.
Questo tipo di discorso sociale proposto dai mass media ci dice assai di più sulla natura e l’evoluzione della nostra società di quanto possano dire i numeri, gli indici, gli indicatori e i casi umani sui quali questa rappresentazione vorrebbe fondarsi.
Vi è infatti dietro ad essi, dietro al pensiero unico dominante, un modo di pensare, un sistema di credenze diventato nella percezione comune un sistema di fatti inoppugnabili.
A fondamento di questo credo può essere posta una celeberrima frase di Adam Smith, uno dei padri dell’economia moderna, eletto a patrono delle varie forme di liberismo:

“Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del panettiere che ci aspettiamo la nostra cena, ma dalla loro considerazione del loro stesso interesse”.

Per fortuna però la nostra economia di mercato può essere osservata anche da altre e differenti prospettive: dal punto di vista sociologico, ad esempio, essa può essere pensata semplicemente come un’istituzione, ovvero un complesso di valori, norme, consuetudini che definiscono e regolano durevolmente, i rapporti sociali ed i comportamenti reciproci di soggetti, la cui attività è volta a conseguire un fine socialmente rilevante. Il fine, in questo caso, è quello di organizzare risorse con lo scopo di soddisfare al meglio i bisogni individuali e collettivi. Un fine che è andato perso insieme alla consapevolezza che l’economia è un prodotto umano, un sistema che nasce nella società e si fonda su dei valori: economia è innanzitutto una scienza morale, peccato che il percorso della modernità abbia finito per separarla dal contesto, trasformandola in una sfera autoreferenziale che funziona in base ad implacabili regole interne che hanno finito con lo scollegarla da molti dei valori fondativi dello stesso vivere civile. Con le parole più precise dell’economista David Korten:

“Non esiste espressione più forte per i valori di una società delle sue istituzioni economiche. Nel nostro caso abbiamo creato un’economia che stima il denaro al di sopra di tutto il resto, accetta la disuguaglianza come se fosse una virtù ed è spietatamente distruttiva nei confronti della vita.”

Questo meccanismo, che secondo molti critici sta distruggendo l’ambiente e i beni comuni, che pregiudica il funzionamento della società e l’identità stessa delle persone che la compongono, sembra, oggi più che mai, sfuggito di mano, con conseguenze che rischiano di essere gravissime. Eppure lo stesso Adam Smith aveva acutamente descritto alcune delle condizioni indispensabili perché l’agire interessato delle persone potesse portare buoni frutti. Nel lontano 1774 egli infatti sosteneva:

“Tutti i membri della società umana hanno bisogno di reciproca assistenza, e allo stesso modo, sono esposti a reciproche offese. Quando la necessaria assistenza è reciprocamente offerta dall’amore, dalla gratitudine, dall’amicizia e dalla stima. la società fiorisce ed è felice. Tutti i suoi diversi membri sono legati tra loro dai gradevoli vincoli dell’amore e dell’affetto, ed è come se fossero attirati verso un centro comune di reciproci buoni uffici.
Ma anche se la necessaria assistenza non dovesse essere assicurata da tali generosi e disinteressati motivi, anche se tra i diversi membri della società non dovesse esserci alcun amore e affetto reciproco, la società, sebbene meno felice e gradevole, non ne sarebbe necessariamente dissolta.
La società può sussistere tra diversi uomini, così come tra diversi mercanti, per un senso della sua utilità, senza alcun amore o affetto reciproco; e anche se in essa nessuno dovesse avere alcun obbligo, o legami di gratitudine verso qualcun altro, essa potrebbe essere ancora mantenuta da uno scambio mercenario di buoni uffici secondo una valutazione concordata.
La società, tuttavia, non può sussistere tra coloro che sono pronti in qualunque momento a danneggiarsi o farsi torto l’un l’altro. Nel momento in cui quel torto ha inizio, nel momento in cui si manifestano risentimento ed animosità reciproci, tutti i suoi legami si spezzano e i diversi membri che la costituivano sono come dissolti e dispersi via dalla violenza e dal contrasto delle loro discordanti affezioni. Se c’è qualche società tra ladri ed assassini, essi devono perlomeno, secondo una trita osservazione, astenersi dal derubarsi e dall’uccidersi l’un l’altro.
La beneficienza, dunque è meno essenziale della giustizia all’esistenza della società. La società può sussistere, anche se non nel suo stato più confortevole, senza beneficienza; ma il prevalere dell’ingiustizia non può che distruggerla completamente”.

Senza la prospettiva della giustizia, priva di uno stock consistente di beni comuni, l’economia di mercato diventa un meccanismo cieco e perde dunque ogni orientamento e ogni umana direzione: senza l’idea di reciprocità – che non è riducibile al mero utilitarismo – ogni persona perde la speranza; senza una base profonda di cooperazione e fiducia la competizione economica diventa semplicemente distruttiva. Giustizia e salvaguardia dei beni comuni e collettivi non sono perciò delle limitazioni che si mettono al libero mercato impedendone il buon funzionamento e minandone l’efficienza: al contrario, esse sono il fondamento in assenza del quale l’intero sistema sociale è destinato a corrompersi e ad implodere. Regole giuste e virtù civili diffuse sono indispensabili al buon funzionamento dell’economia di mercato tanto quanto lo sono l’efficienza delle imprese e la fiducia dei consumatori. Il sistema economico è lo specchio dei valori della società: oggi più che mai è quindi importante ritrovare i fondamentali dell’agire economico ed immettere in questo sistema nuovi valori generativi che non siano riducibili semplicemente al dogma della crescita e all’imperativo del consumo.

IMMAGINARIO
A spasso nel presepe.
La foto di oggi…

Camminare in mezzo al presepe: a Ferrara è possibile con le capanne e i sentieri allestiti nel giardino del Seminario. Un imponente Castello estense accoglie i visitatori, che possono ammirare la natività immersa in un paesaggio ferrarese che rappresenta, da una parte, il panorama dei ricchi e, dall’altra, quello dei poveri. Sullo sfondo il grande plastico dei Tre ponti di Comacchio. Un’opera realizzata con dovizia di particolari dai seminaristi con monsignor Mario Dalla Costa e lo scenografo Stefano Reolon. Ingresso libero, via Fabbri 401, tutti i giorni dalle 9 alle 19. (Giorgia Mazzotti)

OGGI – IMMAGINARIO EVENTI

Ogni giorno immagini rappresentative di Ferrara in tutti i suoi molteplici aspetti, in tutte le sue varie sfaccettature. Foto o video di vita quotidiana, di ordinaria e straordinaria umanità, che raccontano la città, i suoi abitanti, le sue vicende, il paesaggio, la natura…

[clic su una foto per ingrandirla e vedere tutta la galleria]

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Presepe nel seminario di Ferrara (foto di Aldo Gessi)
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Cammino coi pastori verso la natività (foto di Aldo Gessi)
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La capanna (foto di Aldo Gessi)
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La natività (foto di Aldo Gessi)
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Bambina tra i pastori (foto di Aldo Gessi)
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Presepe a misura di visitatori grandi e piccoli (foto di Aldo Gessi)
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Scenografia coi Tre ponti di Comacchio (foto di Aldo Gessi)
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Un altro particolare del pesepe (foto di Aldo Gessi)
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Il Castello estense ricostruito nel giardino del seminario (foto di Aldo Gessi)
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Quando fare un discorso non è impresa semplice, anche per un Re

Un affascinante Duca di York che balbetta, un difficile anno 1925 per Albert (Colin Firth), secondo figlio di re Giorgio V, che deve tenere l’importante discorso di chiusura dell’Empire Exhibition, al prestigioso stadio londinese di Wembley, al posto del padre.
Il problema di balbuzie che lo affligge è fonte per lui di grande disagio, oltre che di grave imbarazzo per coloro che lo circondano. Se si parla a un microfono di fronte a migliaia di persone, poi, potete ben immaginare la situazione. Un incubo dei peggiori.

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La locandina

Terapie, sforzi, gargarismi, logopedisti, consulti con medici, più o meno seri e impegnati, tutto è stato inutile, al punto che il Duca decide di rinunciare al supplizio di dover tenere discorsi in pubblico. Tanto più che il suo ruolo secondario, rispetto al fratello, Edoardo, il Principe di Galles, che sarà il futuro re, gli permette una posizione più ritirata e discreta. Albert si dedica molto alla famiglia, i suoi problemi di parola sembrano scomparire solo di fronte all’amore immenso della fedele e devota moglie Elizabeth (Helena Bonham Carter) e delle figlie Margaret e Elizabeth (la futura Elisabetta II).

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Una scena del film, Bertie impegnato negli esercizi contro la balbuzie

Sarà proprio la consorte a recarsi dal terapeuta di origine australiana Lionel Logue (uno splendido Geoffrey Rush), esperto nei problemi del linguaggio, per chiedere aiuto. Inizialmente reticente, il Duca di York (Albert Frederick Arthur George Windsor, per la precisione) verrà convinto dai metodi di Lionel e inizierà, insieme a lui, un percorso difficile che li porterà al successo.
Lionel vuole essere chiamato solo Lionel, senza formalismi e con le sue stette e precise regole, il principe sarà invece unicamente Bertie, come lo chiamano in famiglia. Un sodalizio fondamentale che diventerà anche confidenza oltre che una grande e intensa amicizia. Storia a tratti anche molto ironica e divertente.

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Bertie in un discorso in pubblico

Il fratello, che sale al trono come Edoardo VIII, deciderà di abdicare, per poter restare con la sua Wallis Simpson, e Bertie sarà proiettato sotto le luci della ribalta, obbligato, per ruolo e circostanze storiche a dover parlare in pubblico. La storia, infatti, chiama.
Mentre la cerimonia d’incoronazione si svolge senza problemi, al fatidico momento della dichiarazione di guerra alla Germania del 1939, Bertie ormai divenuto Giorgio VI, convoca Logue a Buckingham Palace per preparare il discorso alla nazione da trasmettere via radio. Nonostante la difficoltà del momento e la grande emozione, Logue riesce a calmare il Re e gli rimane a fianco durante la lettura del discorso, accompagnandolo con gesti ritmici e aiutandolo con lo sguardo a mettere in pratica le tecniche imparate. Il discorso è un successo e suscita un forte impatto emotivo nella nazione. Il re, con moglie e figlie si affaccia al balcone di Buckingham Palace e saluta le migliaia di persone accorse per applaudirlo.
Un bel film, tipico della tradizione del cinema britannico degli anni 2000, quando si dedicava alle biografie reali, con radici nelle opere di William Shakeaspeare, che appare anche nella recitazione di Amleto di Bertie, o in quelle di James Ivory.

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Il Re con moglie e figlie

I personaggi qui si muovono in pochi ambienti, per lo più interni, dove l’impressione di trovarsi in un teatro in scatola è smussata da una regia e da una sceneggiatura che non calca mai la mano, privilegiando il tocco leggero ai toni accesi. “Il discorso del re” resta soprattutto un inno alla voce e all’importanza delle parole. Situato nel XX secolo, quando i mezzi di comunicazione di massa assumevano un’importanza fondamentale per il vivere quotidiano del cittadino (poche parole del Re via radio potevano donare un briciolo di rassicurazione alla gente, specie durante i conflitti bellici, che rimaneva incollata a quella voce), il film è costruito da un’incessante partitura dialettica che ricorda sia la necessità di adoperare le giuste parole da parte del potere, sia che una storia acquista maggior valore se tramandata ai posteri attraverso un persuasivo impianto oratorio. Atmosfera storica bellissima e interessante, poi, elogiata anche dalle regina Elisabetta, veritiera e d’incanto. Da vedere.

Il discorso del re, di Tom Hopper, con Colin Firth, Geoffrey Rush, Helena Bonham Carter, Guy Pearce, Timothy Spall, Derek Jacobi, UK, Australia, USA, 2010,114 mn.

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GLI AUGURI
Artifices di un sublime 2015

Gli auguri non bastano mai e noi di ferraraitalia ve ne facciamo di buoni… e tanti. Ma anche se sono tanti, cari e sinceri, non bastano ancora. Ci vuole da parte di ognuno la forza di raccoglierli tutti questi auguri e ‘trasfigurarli’. Occorre mettersi a pensare e a dargli una forma, a seconda delle proprie inclinazioni, e tradurli in azioni e gesti, in ‘lampi sublimi’, affinché accada realmente qualcosa di buono nella propria vita e nel mondo.
Sebastiano Filippi detto il Bastianino, di auguri probabilmente ne ricevette tanti, e seppe farne genialità. Alle indubbie potenzialità, all’esperienza e alla dedizione, si univa in lui l’intelligenza di collaborare con il padre Camillo e il fratello Cesare nell’officina di famiglia e, allo stesso tempo, di lasciarsi portare ‘altrove’ stabilendo un confronto con maestri quali Michelangelo e Tiziano. Solo così seppe fare cose meravigliose che, ancora oggi, ci inondano di luce, di magia… e felicità.

“[…] un artista appartato, che rifletteva lungo piste misteriose.”

E allora tanti auguri per un sublime 2015!

La mostra “Lampi sublimi. Tra Michelangelo e Tiziano, Bastianino e il cantiere di San Paolo”, è in corso alla Pinacoteca nazionale di Ferrara, Corso Ercole I d’Este 21, fino al 15 marzo.

Orari di apertura
– martedì e mercoledì 9.00-14.00
– da giovedì a domenica: ore 9.00-19.00
La biglietteria chiude mezz’ora prima dell’orario di chiusura del Museo.
Chiuso 25 dicembre, 1 gennaio (salvo apertura straordinaria, consultare la pagina news del sito della Pinacoteca vedi)

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LA NOTA
Antiche dolcezze di Ferrara fra Boni, Europa e Leon d’Oro

Incollati alla vetrine, non ne abbiamo mai abbastanza. Proprio mai. Dolcetti, torte, tortine, panettoni, pastine, pastarelle, gelati, semifreddi, caramelle, muffin, macarons, praline, cioccolatini.

dolci-auguriDolcezza, morbidezza, tenerezza. Ne abbiamo avuta tanta, in queste feste, viziati e coccolati come quando, da bambini, appiccicavamo mani e naso ai vetri dei panettieri e dei bar come Boni. C’erano i supporter di quest’ultimo e quelli del bar Europa, quasi due fazioni agguerrite e convinte della bontà superiore del cannoncino alla crema dell’uno o dell’altro. C’era poi chi tifava per i dolci del Leon d’Oro o per quelli del Centro Storico. Chi più chi meno, ciascuno era un ‘afecionado’ di un suo posto che lo accoglieva nelle domeniche pomeriggio o nelle sere d’estate. Se poi si cercava il buon gelato, il K2 dagli antichi banconi era pronto a servire i più golosi.

Oggi le pasticcerie del centro sono ancora quelle storiche, dalle quali emana sempre il delicato profumo del croccante pasticcio alla ferrarese o del panpepato, ma ve ne sono anche di nuove. In questo periodo soffici panettoni addobbati con presepi e babbi natale sorridono ai passanti golosi e un po’ appesantiti dai bagordi culinari natalizi, tutto ancora sfavilla. Mi perdo nella ricciolina salata o nelle paste alla squisita crema pasticciera, Ferrara sa di casa anche per questi eterni profumi, oltre che per la ciambella che mi corre incontro. Mi attende a braccia aperte, lei e il suo zucchero a velo leggero. Quasi con un immenso abbraccio morbidamente cosmico.
Restiamo incollati alle vetrine allora, ancora un po’, perché no, nell’attesa che il nuovo anno arrivi con tante belle novità e che il vecchio se ne vada, portandosi via solo noie e dispiaceri e lasciandoci i ricordi di quanto di bello ci ha, invece, portato.
dolci-auguriAmmiriamo queste vetrine dolci e colorate, perché dolcezza e colore arrivino a tutti voi. Godetevi questo capodanno dal sapore di miele, ammirate il nostro Castello che darà ancora spettacolo infuocato. Bevete alla nostra e alla vostra salute, brindate all’amicizia, all’amore, a questo giornale che ha dato tanto a tanti.
Le pasticcerie di tutti il mondo vi sorridono e vi mandano tanti baci dolci. Un clap clap per tutti voi. Tanti auguri caramellati.
Buon anno, allora, cari lettori, fedeli amici di ogni giorno.
Buon anno a tutti voi, e tanta dolce felicità.
Salute a tutti, poi. Tanta.
Serenità.

La dolcezza non ha confini: Pasticceria Eliseevskij, Prospettiva Nevskij 56, San Pietroburgo (foto di Simonetta Sandri)

 

 

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Cine-proposte per le feste: qualità filmica e divertimento

Gli incassi cinematografici dei cinepanettoni, realizzati appositamente per intercettare quella fetta di pubblico che va al cinema solo poche volte l’anno, costituiscono una importante percentuale del budget annuale.
Il genere nasce negli anni del craxismo e si propaga per tutto il periodo del ventennio berlusconiano. I Vanzina rivisitarono “Vacanze d’inverno” di Camillo Mastrocinque del 1959, interpretato da Alberto Sordi e Vittorio De Sica, e nacque così l’antesignano del ciclo “Vacanze di Natale ’90” che si è concluso, speriamo, con “Vacanze di Natale a Cortina” del 2011.
Nel corso degli anni, il trend del format si è via via ridotto: il Natale 2013 ha visto infatti l’en plein di “Principe abusivo” di Alessandro Siani, con oltre 16 milioni di euro, seguito da “Un bosso in salotto “ uscito il 1° gennaio, con oltre 12 milioni; un cinema, dunque, che punta ancora sull’evasione e il divertimento, ma con commedie più orientate su temi sociali e di costume, per ridere senza smettere di pensare.
Alcune proposte per questo Natale 2014: “Un Natale stupefacente”, con la collaudata coppia Greg & Lillo; “Ma tu di che segno 6” con Boldi e Salemme; il trio Aldo Giovanni e Giacomo in “Il ricco il povero e il maggiordomo”; “Ogni maledetto Natale” una commedia agrodolce, forse la migliore proposta nel genere, con Corrado e Caterina Guzzanti, Valerio Mastandrea, Laura Morante. L’11 gennaio uscirà “Si accettano miracoli” con il quale Alessandro Siani si propone di bissare il successo dello scorso anno. Dai primi giorni di programmazione sembra affermarsi il film di Gabriele Salvatores “Il ragazzo invisibile”, che coniuga qualità filmica e intrattenimento.
Sul versante fantasy e animazione Usa: “La battaglia delle 5 armate”, con gli elfi, i nani e le creature mostruose della saga tolkeniana; per i più piccini “Big hero 6”, protagonisti simpatici e accattivanti pinguini; “Paddington”, in cui l’orsetto è perseguitato dalla perfida Nicole Kidman; ancora “I pinguini del Madagascar” della 20th Century Fox.
Per il cinema più autoriale, da segnalare dal Regno Unito “Pride”, storia vera ed emozionante dell’incontro tra i minatori in lotta e i gay e le lesbiche nel tacherismo anni ’80; “Big eyes” del sempre stupefacente Tim Burton; “The imitation game”, ennesima ma curatissima ricostruzione della vicenda Enigma; l’inquietante “L’amore bugiardo”, del regista di “Seven” David Fincher, con Ben Affleck; infine l’inevitabile Woody Allen di “Magic in the moonlight”.
Infine, per quelli più esigenti, segnaliamo e consigliamo alcune pellicole, se riuscirete a trovarne la programmazione: “Due giorni, una notte” di Jean e Pierre Dardenne; “St. Vincente” con Bill Murray; il visionario e struggente “Il sale della terra” di Wim Wenders; infine l’ultima opera di Ken Loach “Jimmy’s hall”.

Dunque, attenzione alla programmazione, e approfittiamo di questi giorni per una scorpacciata di cinema, meglio se scelto a ragion veduta.

TEST DI CULTURA CINEMATOGRAFICA
Considerati i torpori natalizi, poche domande con qualche piccolo aiuto… per le risposte clicca qui

1) “Francamente me ne infischio.” (l’attore dal baffo arrogante…) Risposta: Via col vento

2) “Mi piace l’odore del napalm al mattino” (uno dei libri del Vecchio Testamento) Risposta: Apocalypse Now

3) “Suonala, Sam. Suona ‘As Time Goes By’ (senza aiuto… evidente) Risposta: Casablanca

4) “Vedo la gente morta” (nel titolo, ne abbiamo 5) Risposta: Il sesto senso

5) “Signora Robinson, sta cercando di sedurmi, vero?” (musica di Simon e Garfunkel) Risposta: Il laureato

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La latitanza di Dio, i travagli di Satana

In quanti modi puoi chiamare Dio? In mille modi, direbbe Corrado Guzzanti: “… tanto non ti risponde”.
In effetti, le domande che Gian Pietro Testa rivolge a Dio nelle sue “Interviste infedeli” (Este Edition, 2014) non trovano risposta, fatto evidente anche dalla forma narrativa – una lettera, sorta di carta di richiesta burocratica rifiutata. Cosa che non succede alla controparte diabolica, che di diabolico sembra avere solo il nome, che si presta invece al dialogo. Presentato il 23 dicembre alla Sala Estense nell’ambito della rassegna Autori a Corte, il libro è stato raccontato al pubblico attraverso alcuni brani letti da Elena Felloni, e una chiacchierata tra Testa, Sergio Gessi (ferraraitalia) e Riccarda Dalbuoni.

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La presentazione, da sinistra, Gessi, Dalbuoni, Testa, Felloni

Dio è muto, assente e un po’ distratto. Una fidanzata in coma, per dirla con Bill Emmott. Un bambino abituato a essere riverito dai genitori adoranti, la ballerina che dà buca al fidanzato rimasto ad aspettarla sotto la pioggia nella canzone di De Gregori. Completamente sordo, o peggio ancora indifferente, alle domande che in fondo ogni cristiano (nel senso popolare del termine) si pone, affrontate impugnando l’arma e lo scudo dell’ironia. Affondando le mani in qualche pezzo di storia particolarmente ricco di Dio – come lo intenderebbe Buzzati – scoprendo che il susseguirsi di questi momenti è un flusso ininterrotto: crociate, guerre, assurdo ordini biblici e una verità assoluta che si scontra con tanti nomi, tutti credibili, di come definirla questa verità, senza peraltro averne certezza; e ancora la tristezza e la cattiveria di un genere umano che ruba, uccide, falsifica e rifiuta, usando anche la religione come strumento di potere, fino a quando la domanda arriva: l’uomo è davvero plasmato a somiglianza di Dio, o Dio è stato immaginato a sua immagine?

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Presentazione nell’ambito della rassegna ‘Autori a corte’

Nelle due chiacchierate non c’è un punto di arrivo, non c’è la possibilità di un accordo. Né con Dio, né con la sua controparte. Ma “Con Satana è stato più facile, perché ogni giorno uscendo di casa ne incontro centinaia”, precisa Testa. É più conoscibile, lo si ritrova in un volto, un gesto, una voce; si materializza, prende forma, è reale più del barbuto vecchio che dirige impassibile il bene e il male, seduto oltre le nuvole. Perché alla fine attira più simpatia di Dio, mettendosi in gioco e rivelandosi umano troppo umano negli aspetti migliori, dissacrante nella sua evidenza. Allo stesso modo, sembra più facile identificarsi con Paperino, sfigato paperastro rassegnato al suo destino sempre uguale, che con Topolino, pelouche al posto d’onore con le pile scariche al momento di pronunciare la frase registrata.

Satana è conciliante, serioso, stufo marcio di stupidità e cattiveria del capro espiatorio toccato a lui che, del glorioso e temibile Mefistofele descritto da Marlowe, conserva solo l’indole seria e cerebrale non restandogli che quello di Goethe, condannato non a essere l’angelo caduto, con la sua aura di bellezza e dannazione, ma a fare il becchino dei divini avanzi. Una creazione e uno scarto di Dio, un esodato senza cassa integrazione costretto a districarsi tra arrivi di massa e santi farlocchi, strenuo difensore della libertà di pensiero, anarchico interlocutore e forse specchio del curioso, machiavellico osservatore dell’Aldiqua e Aldilà, saggio dispensatore di consigli e crudo osservatore di professioni e saperi umani che gli uomini hanno reso vizi (filosofia, poesia, teologia, politica), bisognoso di essere ascoltato e capito, tornato in terra solo per deridere l’idiota genere umano.

Un povero diavolo come qualche miliardo di persone sulla faccia della Terra.

compensazioni

L’IDEA
Compensazioni alternative
per stoppare chi inquina

Il tema è delicato e in genere viene affrontato in sede privata, mentre ci sarebbe tanto bisogno di trasparenza. In premessa si potrebbe riprendere il principio sancito dalla Unione Europea: “chi inquina paga”. Però sappiamo bene invece (Coase ne ha fatto un teorema) che chi inquina accetta di smettere se ha dei vantaggi e che chi è inquinato è disposto a pagare per stare meglio. Insomma non c’è giustizia in temi ambientali. Invece si potrebbe fare di più valutando delle compensazioni per chi subisce.
Si ritiene possa essere utile allora esprimere qualche considerazione sul complesso tema delle compensazioni, spesso presenti nei bilanci alla voce “esternalità”, su cui si ritiene e si rileva sia crescente l’attenzione e la necessità di un maggiore approfondimento.
Naturalmente si è consapevoli della complessità del tema, della aleatorietà di elementi oggettivi, della articolazione ampia di posizioni e di impostazioni, così come della problematicità e delicatezza dell’argomento. Lo scopo dunque è solo quello di porre il tema a chi potrà, con migliori elementi, portare contributi e valutazioni.
Va ricordato che il sistema tariffario non prevede l’introduzione di costi finalizzati ad attività di compensazione per impatti ambientali, né forme di incentivi per adeguamenti territoriali; esso è semplicemente orientato alla determinazione delle componenti dei costi del servizio di gestione del ciclo dei rifiuti urbani che costituiranno la tariffa da applicare in un determinato territorio.
Si evidenzia tuttavia che, in fase di costruzione di un impianto di smaltimento dei rifiuti, la necessità di realizzare opere aggiuntive finalizzate a mitigare le pressioni ambientali che l’impianto produce, fanno normalmente parte dei costi di realizzazione dello stesso impianto e che le misure di mitigazione ambientale in genere vanno a beneficio dell’area di influenza.
Le compensazioni ambientali non sono e non devono però essere il frutto di una semplicistica contrattazione economica tra l’amministrazione che potrebbe ospitare un impianto di smaltimento e il gestore dell’impianto stesso. Servono dunque criteri comuni di valutazione e di equità sociale e territoriale per corrispondere ai disagi e ai costi esterni generati dalla realizzazione dell’impianto, in quanto la stima dei costi esterni dovrebbe tenere conto dei reali impatti prodotti. Ma serve soprattutto considerare tra i destinatari i cittadini stessi.
Si potrà affrontare allora il tema degli “oneri accessori per interventi di mitigazione permanenti” che interessano il territorio in cui l’impianto si colloca (come la riorganizzazione del sistema viario, la creazione di aree a verde, altri interventi di mitigazione dell’impatto ambientale sul territorio).
In prospettiva è auspicabile che si vada verso una metodologia di calcolo semplificata e verso la definizione di uno standard, regionale o ancor meglio nazionale, di regolazione delle compensazione, fissando valori differenziati rispetto a diverse soluzioni impiantistiche e/o delle tipologie di rifiuti smaltiti e/o della provenienza dei rifiuti.
Il tema potrebbe essere allargato a molti altri settori di cui non ho esperienza, ma che facilmente si possono intuire.

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IL VETRIOLO
Guida semiseria al Jobs act

Ecco, ci siamo! Dopo mille annunci e montagne insormontabili di chiacchiere, ora il famoso jobs act è legge e dal 1° gennaio entrerà ufficialmente in vigore.
Con esso scomparirà definitivamente, per i nuovi assunti, il contratto a tempo indeterminato, sostituito da un sedicente “contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti” nel quale l’indeterminatezza resta solo formale, mentre le tutele crescenti sono rappresentate unicamente da un indennizzo che può arrivare fino a 24 mensilità. Al datore di lavoro infatti basterà inventarsi un motivo economico anche totalmente inesistente e potrà licenziare, previo pagamento dell’indennità, chi e quando vuole.
E però… c’è un però. Il lavoratore infatti può impugnare il licenziamento stesso in quanto discriminatorio e, se il giudice gli dà ragione, ottenere la cancellazione del licenziamento e il reintegro nel posto di lavoro, proprio come se ci fosse ancora l’art.18 dello Statuto dei Lavoratori. Del resto, non si poteva cancellare anche questa possibilità: sarebbe stato contrario non solo alla ormai plurioltraggiata Costituzione italiana, ma addirittura alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo! Certo anche questo un testo appartenente ad un epoca remota e quindi probabilmente da rottamare, ma insomma… è evidente che ci sarebbe stato qualche problema di troppo.
Però, a pensarci bene, si tratta di un appiglio mica da poco!
Basti leggere quello che ha scritto qualche giurista certamente troppo “ideologico” e “di sinistra” sul sito wikilabour: «se le ragioni economiche poste a fondamento di un licenziamento risultano insussistenti, il licenziamento stesso si configura come licenziamento discriminatorio, in quanto, eliminata la causale economica, resta solo il fatto che l’impresa ha scelto di eliminare quel certo dipendente per sue caratteristiche personali non gradite: tal genere di licenziamento può sicuramente essere definito come discriminatorio».
Caspita! Il ragionamento, bisogna ammetterlo, non fa una grinza! E se davvero così fosse, quel ch’è uscito dalla porta potrebbe rientrare dalla finestra!
Ci pensate a come sarebbe incazzato il senatore Sacconi? O imbarazzato il Ministro Poletti?
Per essere proprio sicuri che funzioni, sarebbe però opportuno “rafforzare” le possibilità di veder riconosciuta una discriminazione. Ecco allora qualche consiglio per i neoassunti che vogliono aumentare la sicurezza del proprio posto di lavoro, creando le premesse per un possibile ricorso antidiscriminatorio:
1 – iscriversi alla Cgil (discriminazione per motivi sindacali);
2 – partecipare a tutti gli scioperi proclamati (idem);
3 – aderire a qualche setta religiosa sconosciuta (discriminazione per motivi religiosi);
4 – aderire ad un partito ultraminoritario (discriminazione per motivi politici);
5 – meglio ancora fondare un partito proprio e presentarsi alle prossime elezioni, ma in questo caso fare molta attenzione perché di questi tempi si rischia anche di vincerle!;
6 – dichiarare pubblicamente la propria omosessualità (discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale);
7 – prendere la cittadinanza marocchina o pakistana o di altro Paese straniero, preferibilmente africano o asiatico (discriminazione in base alla nazionalità di provenienza);
L’elenco potrebbe, ovviamente, allungarsi quasi all’infinito.
E’ solo uno scherzo? Certo, ma non lontano dalla realtà.
E’ tutta una follia? Appunto.

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LA STORIA
Al di là della porta dorata

da MOSCA – Quella porta bianca dalle ali dorate nasconde qualcosa di magico. Quella porta candida, l’entrata alla platea del magico ed eterno Bolshoi, schiude sogni e apre magie. Come sempre, insieme ai nostri amici incrociati lungo la strada, siamo lì anche a noi a sognare.
La campanella suona leggera, trilla piano piano, tintinna come se fosse sfiorata dalle ali di un cherubino. Delicata, dolce e amabile.

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Gli spettatori al foyer del Bolshoi

Così ci sarà aldilà delle lucenti vetrate? Cosa aspetta noi, il pubblico esitante e i ballerini eccitati ed emozionati? Quella porta rappresenta tutto, qualcosa di diverso per ciascuno di noi. Soprattutto per Daria e Ilya che hanno calcato i palcoscenici più famosi di tutta la Russia e che, oggi, esitano di fronte a quel mostro sacro. Il loro esordio in Romeo e Giulietta, dietro quelle tende imponenti sulle quali è ricamata la parola “Russia”, li fa tremare un po’. Timorosi ma felici.

Non è facile realizzare il sogno di una vita, quando si comprende che ci si è finalmente, e quasi incredibilmente, di fronte.
Hanno faticato, danzato, sudato, esitato, passato pomeriggi a provare e riprovare, a saltare, correre, piroettare, sfidare la pioggia battente e la neve incessante per arrivare in tempo alle prove, con il vento siberiano che faceva sobbalzare colbacchi e borse piene di fasce, corpetti, calzamaglie e scarpe da danza dalla dura punta di gesso. Gli scaldamuscoli non erano quasi mai sufficienti a riscaldare gambe fredde sui primi palcoscenici lontani di periferia. Ma poi erano arrivati luoghi più curati e riscaldati, la fatica e l’impegno li avevano sempre guidati, insieme all’amore per la danza, per la musica, per le note di quei compositori che avevano reso grande la Russia. Immensa, sterminata, smisurata, possente, materna e anche molto possessiva. Un Paese che, alla fine, li aveva accolti e compresi, fino a portarli di fronte ai più grandi ed esigenti pubblici. Fino al Bolshoi. Fino a quella porta dalle ali dorate. Ora erano lì, giovani, felici, innamorati di loro stessi e della loro arte, della loro passione travolgente, della loro vita.

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La porta dorata che conduce in platea

Dietro quella porta si stava per schiudere il sogno più sognato. Quella porta era pronta ad aprir loro un mondo magico e di fiaba. Dietro quella porta non vi era solo un traguardo tanto atteso ma anche il coronamento della loro storia d’amore. Perché Daria e Ilya si erano conosciuti nei camerini dell’antico Kirov e nella danza avevano alimentato anche il loro amore. Che, nel tempo, passo dopo passo, era cresciuto con loro e insieme a loro. Forte e vigoroso come i loro pas de deux, intenso come i volteggi e i salti verso il cielo. Dietro quella porta lui le avrebbe sussurrato, ancora e per sempre, le parole di William Shakespeare: “io desidero quello che possiedo; il mio cuore, come il mare, non ha limiti e il mio amore è profondo quanto il mare: più a te ne concedo più ne possiedo, perché l’uno e l’altro sono infiniti”. Un giuramento eterno.
Perché il loro sogno ora era realtà, mentre la porta si apriva.

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Il Paese che siamo

Allora diciamolo: siamo ancora un Paese con poca istruzione e con poca cultura. Per di più la tendenza è al peggioramento. La scarsa dose di questi ingredienti cucina sempre una cattiva democrazia e una cattiva libertà. I dati sono forniti dall’ Istat, nell’Annuario statistico italiano per il 2014.
Ci si iscrive di meno alle università, si legge poco e il 70% dei nostri connazionali non ha mai assistito a un concerto di musica classica.
Eppure la scolarizzazione nel corso degli anni è andata sempre crescendo, fino a raggiungere ormai il cento per cento dalla scuola dell’infanzia alla scuola media e il 99,3% dei giovani tra i quattordici e i diciotto anni. Ma, se solo tre cittadini su dieci sono in possesso di una qualifica o di un diploma d’istruzione secondaria superiore e solo uno su dieci possiede un titolo universitario, è indubbio che qualcosa non funziona per il verso giusto.
Un vero fallimento per il nostro sistema scolastico e universitario, che allontana sempre più non solo le prospettive di cambiamento, ma anche quelle della ripresa.
Prendersi cura dell’istruzione e della cultura è un atto d’amore. Ricordate Mor? Mor, ovvero Amore, nella Città del sole presiede all’educazione dei suoi abitanti, oltre che alla procreazione e al lavoro. Noi siamo in deficit su tutta la linea.
Voi direte che di utopia si tratta, ma vivaddio, tra utopia e distopia, tra il desiderabile e l’indesiderabile ci sta in mezzo un bello spazio da riempire.
Nell’ultimo anno, sei italiani su dieci non hanno letto neanche un libro, per non parlare dei quotidiani, in tanto la spesa delle famiglie italiane per il tempo libero e la cultura continua a calare, già è scesa del 6,9% rispetto al 2011. Le imprese culturali e creative si sono ridotte sempre più, con performance che sono le peggiori in assoluto del sistema produttivo preso nel suo insieme.
A leggere il rapporto dell’Istat si scoprono alcune cose curiose. Ad esempio che i ragazzi tra gli 11 e i 14 anni sono i più assidui frequentatori di musei, luoghi archeologici e mostre, ma poi, appena arrivano ai 15 anni per l’80% non li frequentano più. Come è curioso che la quasi totalità dei bambini tra i 6 e i 10 anni nell’ultimo anno non abbia fatto l’esperienza di assistere a un concerto di musica classica.
Qui la scuola e i genitori c’entrano, eccome. Perché se alcune abitudini non si apprendono subito da piccoli, poi è assai difficile recuperare. È come imparare a camminare e a parlare, se fin da piccoli si familiarizza con l’arte e le sue espressioni poi non si dimentica più.
Questo Paese, che per lungo tempo ha considerato i musicisti baciati da Dio, ha evidentemente pensato bene di delegare tutto il lavoro a lui e di continuare a trascurare in modo indegno l’istruzione musicale dei suoi giovani. Nell’epoca degli alfabeti vecchi e nuovi, continuiamo ad essere e a crescere analfabeti musicali.
Che dire dei musei, dei monumenti e del patrimonio culturale? I dati ci suggeriscono che le scuole con le uscite e i viaggi di istruzione mettono in contatto i loro allievi con queste realtà. Ma poi non sono in grado di trasformare queste esperienze in interesse, in abiti persistenti nel corso della vita.
C’è un tema su cui sarebbe davvero opportuno soffermarsi a riflettere. Mi limito a citarlo. È quello delle reti. Riuscire a far rete tra sistema formativo e sistema culturale, attraverso finalità e progetti condivisi. L’obbligo per le scuole di avere personale sempre più qualificato nei settori della musica e delle arti e per le istituzioni culturali di attrezzare qualificate sezioni didattiche che interagiscano con le scuole.
Manca proprio l’idea di sistema e, di conseguenza, anche l’informazione, una informazione coordinata e ragionata, che consenta alle persone di conoscere e di poter scegliere.
A livello nazionale e locale perdurano la trascuratezza e l’incapacità di legare lungo il filo comune dell’educazione permanente tutte le attività organizzate dal sistema pubblico e privato finalizzate all’istruzione e alla crescita culturale dei cittadini.
La formazione permanente registra un dato poco confortante. A livello nazionale solo il 6,6% è impegnato in attività formative tra i 25 e i 64 anni, una cifra assai modesta, inferiore a quella dei paesi più avanzati d’Europa, tutti oltre il 10%, e assai lontana dagli obiettivi europei da qui al 2020.
Esistono i CTP, ora CPIA, Centri per l’istruzione degli adulti, forse pochi ne conoscono l’esistenza. Centri per l’alfabetizzazione degli adulti, in particolare migranti, e per il recupero dei titoli di studio, licenza media e diploma tecnico o professionale. Nonostante i meriti acquisiti sul campo, nell’epoca della società della conoscenza, proclamata solo a parole, sono ormai attrezzi superati.
Perché è del tutto insufficiente un approccio basato sull’ottica scolastica del recupero dei titoli di studio, su un elenco di qualifiche professionali e su un catalogo di occasioni culturali del tutto inadeguato. Un’offerta incapace di motivare l’interesse a ritornare ad apprendere.
Non può essere la scuola, per di più trascurata e con personale vergognosamente mal pagato, l’unica istituzione a cui affidare l’istruzione.
Per costruire la società della conoscenza è quanto mai urgente fare rete sul territorio, organizzare e coordinare gli interventi di tutti gli attori, quelli pubblici, Stato, Regioni ed enti locali, e quelli privati, imprese, terzo settore e individui.
Operativamente si dovrebbero organizzare campagne pubbliche di informazione e di sensibilizzazione che motivino i cittadini a partecipare, anche prevedendo piani straordinari per i gruppi più deboli, con incentivi e facilitazioni in tempo e in denaro.
Disporre di strutture specificatamente dedicate a svolgere percorsi di istruzione permanente dei cittadini, individuando tempi, luoghi e modi originali di apprendimento. Senza dubbio il festival dell’apprendimento, che ogni anno si celebra in tante parti del mondo, ma non nel nostro Paese e nelle nostre città, costituisce una chiave di successo su questa strada.
Si tratta di un complesso mix di analisi sociale, di orientamenti culturali condivisi, di organizzazione di reti che va affrontato con una costante e lungimirante regia politica, riorganizzando nel modo migliore le risorse disponibili, avendo soprattutto molta più cura e amore per i nostri figli e per noi stessi.

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IL FATTO
Base scientifica e cultura manageriale, il vento del settore culturale sta cambiando

Lo si sente dire in ogni occasione: viviamo ormai nella società della conoscenza. Spesso ci si riferisce alle innovazioni dell’Ict, senza fermarsi a riflettere sulle implicazioni per quanto riguarda il patrimonio artistico e culturale e per la sua gestione, in particolare in un paese come il nostro. L’aumento dei livelli di formazione e del tempo libero hanno contribuito alla crescita dei consumi culturali di massa e alla creazione di un’economia della cultura. È sempre più necessario avere, o essere in grado di reperire, le competenze per rispondere a bisogni nuovi da parte di pubblici diversificati, senza per questo derogare alle finalità di ricerca, tutela, educazione, che rappresentano la cifra specifica del settore culturale; anzi dimostrando che solo per queste vie si può veramente far emergere a pieno tutto il potenziale del patrimonio culturale italiano. Non uno sfruttamento ma una sua reale valorizzazione, imprescindibile dalle esigenze di tutela, e la consapevolezza dell’importanza del settore delle industrie creative sono due strumenti fondamentali per far uscire l’Italia dalla crisi. In altre parole, c’è bisogno di un nuovo modello per il settore culturale italiano, con istituzioni più inclusive, in grado di dialogare con realtà private e di relazionarsi con le innovazioni che provengono dall’industria creativa, tutto ciò a livello non solo nazionale ma anche europeo. L’obiettivo deve essere quindi uno sviluppo armonico fra componenti di carattere culturale, sociale, civile ed economico.

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Anna Maria Visser e Fabio Donato alla cerimonia di ottobre per i 10 anni del master

Lo sanno bene Anna Maria Visser e Fabio Donato, che hanno adottato questo approccio per il Musec. Nato nell’anno accademico 2003-2004 come corso di perfezionamento dell’ateneo ferrarese in Economia e management dei musei e servizi culturali, dal 2011 il Musec è diventato un vero e proprio master internazionale che si propone di fornire competenze nel campo della pianificazione e della programmazione culturale in senso lato, dal turismo culturale alle istituzioni museali, dall’arte contemporanea alle performing arts. Il master è giunto ormai alla sua undicesima edizione, ma “quando abbiamo iniziato era il deserto, poi la struttura del corso è diventato un modello per altri atenei che hanno dato vita a proposte formative similari”, ci spiega Anna Maria Visser. “Quello che ci differenzia dopo tanti anni credo sia l’interdisciplinarietà vera e vissuta in cui crediamo molto – continua la professoressa – anche nelle attività e nel dibattito all’interno della classe c’è complementarietà fra i vari ambiti e questo determina una grande apertura mentale nei corsisti”. Sfera economica e sfera umanistica si compenetrano, infatti, grazie all’interazione fra i due direttori, nominati dal Ministro Dario Franceschini componenti del comitato tecnico-scientifico per l’economia della cultura e del comitato tecnico-scientifico per il patrimonio storico, artistico ed etnoantropologico del Mibact. La professoressa Visser, archeologa e museologa, è stata direttrice dei Musei di Arte antica di Ferrara, presidente Anmli (Associazione nazionale musei locali e istituzionali) e membro del Consiglio direttivo di Icom Italia (International council of museums); mentre il professor Donato è docente di Economia e management delle organizzazioni culturali, membro del Consiglio direttivo di Encatc (European network for cultural administration training centres) e dal 2013 è rappresentante italiano nel comitato di programma di Horizon 2020 (Programma Quadro della ricerca europea per il periodo 2014-2020). Proprio “la visione europea e la forte compenetrazione fra teoria e prassi” per Fabio Donato sono le ulteriori specificità del master, “insieme al sempre maggiore focus in questi anni sulla logica dell’imprenditorialità nel settore culturale e creativo”.

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Visita degli studenti allo spazio espositivo di Punta della Dogana, Fondazione François Pinault

“Trattandosi di un master che deve sviluppare o migliorare le competenze pratiche” oltre alle lezioni frontali, grande attenzione viene data “alla partecipazione attiva dei corsisti attraverso attività laboratoriali e alla presentazione di casi studio” perché l’obiettivo, afferma la professoressa Visser, “non è solo la trasmissione di conoscenze, ma anche il confronto e la sperimentazione diretta di realtà culturali di importanti città d’arte italiane ed europee”: “ci sono docenti e casi di eccellenza che cerchiamo di riproporre perché sono fondamentali, poi di anno in anno l’offerta formativa si struttura in ragione delle tematiche più d’attualità”. Un’importante esperienza formativa è rappresentata anche dal tirocinio presso istituzioni e aziende che fanno parte di una rete ampia e prestigiosa consolidata negli anni.
Fra le novità del bando 2014-2015 (deadline: 19 gennaio 2015) ci sono le agevolazioni a copertura parziale o totale del contributo di iscrizione, grazie alle borse di studio messe a disposizione dai partners privati: Samsung, Berluti, CoopCulture e la famiglia Ludergnani insieme al Rotary Club di Cento. “Purtroppo quest’anno è venuto a mancare il sostegno dei voucher regionali per la formazione e quindi abbiamo messo in pratica quello che insegniamo in aula: interpellare i privati perché investano in cultura. È stato stimolante, sia perché abbiamo ricevuto buoni riscontri, sia perché si attiva un cambiamento radicale di mentalità presso i privati e nella struttura dell’ateneo”, confessa la professoressa Visser.
Quando, infine, le abbiamo domandato perché nell’Italia del 2015 si dovrebbe scegliere di specializzarsi nella gestione del patrimonio artistico e culturale e del settore creativo, ha citato le parole dl Ministro dei Beni Culturali e del Turismo Franceschini: “Si cerca una nuova forma, dando maggiore autonomia, premiando i musei virtuosi, mettendo a dirigere i musei persone che hanno una formazione specifica […] Non penso a manager che si sono occupati di tondini di ferro o di edilizia, ma a storici dell’arte, archeologi, architetti che hanno fatto master di formazione per la gestione dei musei, che hanno diretto altri musei nel mondo e che, avendo una base scientifica, possono portare una cultura manageriale capace di far funzionare i nostri musei.” Finalmente il vento sta cambiando, sembra volerci dire la professoressa Visser.

Per maggiori informazioni sul Master Musec vedi [vedi]

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Il desiderio di previsioni sul futuro

All’inizio di un nuovo anno il discorso sul futuro prende la forma di bilanci e di previsioni. I bilanci si basano sui fatti e le previsioni sulle speranze. Soprattutto a queste cerchiamo sostegno negli oroscopi. Il futuro ci attrae e ci inquieta al tempo stesso. Ci riferiamo al futuro per parlare di dimensioni diverse: l’avvenire nostro, del Paese o del mondo, per parlare di una crescita che non appare all’orizzonte. Cerchiamo di colorare la parola futuro di significati buoni, riferendoci ad esempio, allo sviluppo sostenibile o alle conquiste scientifiche e alle meraviglie dell’innovazione tecnologica.
Le emozioni esistenziali legate al pensiero del futuro non cambiano. Anche se la scienza dei ‘big data’ si propone di leggere le tendenze leggendo il presente, il futuro resta incontrollabile, né potrebbe essere altrimenti. Pur disponendo di una mole di dati più alta, non abbiamo l’impressione di una maggiore prevedibilità delle vicende umane. Il futuro, tanto quello storico quanto quello personale, si sottrae a qualunque previsione. Nella nostra vita fronteggiamo spesso eventi che non abbiamo voluto: facciamo i conti con la scarsa capacità di pianificare le nostre azioni e, ancor più, di controllare quelle degli altri.
Oggi viviamo il futuro con maggiore ansia e sconcerto rispetto al passato. La ragione sta forse in una velocità del cambiamento superiore a quella che siamo in grado di metabolizzare. Inoltre, il cambiamento prende spesso la forma di una sfida, perché ci chiede competenze nuove per abitare il presente e ci trasmette la percezione di un inseguimento continuo delle novità, inseguimento in cui ci sentiamo perdenti. Mentre si esalta un’idea di individuo artefice del futuro, padrone delle scelte, libero di decidere, si diffonde la percezione di essere in balia di eventi grandi e incontrollabili.
Le nostre pratiche quotidiane incidono nella costruzione del futuro. Mentre pensiamo il mondo, lo costruiamo con il nostro linguaggio e le categorie con cui lo interpretiamo. Persiste nella mente di ognuno di noi, ancorché frustrata dalle evidenze, un’idea di futuro come progetto razionale e controllabile, come passaggio lineare dal bene al meglio, come possibilità di un punto di approdo a cui arrivare, una condizione in cui finalmente sarà possibile riposarci, trovare la riva. E’ così, se scriviamo un pezzo o eseguiamo un compito, diciamo con soddisfazione “fatto” per trovarci di nuovo di fronte all’ansiogena lista delle cose che restano da fare. Siamo condannati ad un domani che riproduce le questioni di oggi e che genera di continuo compiti, domande, sfide la cui responsabilità è solo nelle nostre mani.
Parlare di futuro in termini sociali significa evocare un mondo migliore o peggiore, ma diverso. Il discorso sociale sul futuro non può che avere al centro l’apprendimento: inteso come istruzione e riflessività, come capacità di riconoscere e integrare le differenze. Pensiamo il futuro come un magazzino di possibilità, una serie di orizzonti che si spostano con noi man mano che avanziamo lungo l’asse dei presenti successivi. Non possiamo andare oltre nelle capacità di previsione. Il modo migliore per immaginare altre vite è comprendere il presente, senza demonizzarlo, rafforzando la pratica di “congetture razionali”.

Maura Franchi – Laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi e Social Media Marketing. Studia i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@gmail.com

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Nazzarena Poli Maramotti, un’artista distante dai nidi sicuri

di Silvia Cirelli

Nel vasto panorama artistico attuale s’incontrano spesso forme espressive che sentono il bisogno di identificarsi in un determinato percorso culturale, quasi a voler legittimare la propria identità nella facile rintracciabilità di un luogo e di un tempo ben definiti. Distanti da questo “nido sicuro”, ci sono invece ricerche che abbandonano completamente questa necessità di appartenenza, distinguendosi per l’audacia con la quale superano i comuni approcci stilistici. Sono sintesi poetiche che fuggono da una qualunque limitazione di confine e che soprattutto spingono la narrazione verso l’esplorazione di una vera e propria esperienza estetica. E’ in questo terreno sperimentale che s’incrocia il percorso di Nazzarena Poli Maramotti, protagonista di questa mostra.

Senza farsi spaventare dalla complessità dei processi sociali che ci segnano, o dal bisogno di tradurre la storia culturale attuale, Nazzarena Poli Maramotti esplora i limiti dei vincoli espressivi, orientandosi verso una rappresentazione che non vuole e non deve trovare una sua precisa definizione.
Sospesa fra astrazione e figurazione, la simmetria creativa di questa interprete non può essere circoscritta a un unico linguaggio, è proprio nell’intervallo assenza-presenza, che l’artista riesce a creare la giusta aderenza lessicale, è solo nella precarietà di una deformazione – intesa come alterazione del soggetto – che trova lecito catturarne la vera essenza.
Con Nazzarena Poli Maramotti facciamo esperienza di una “terra di mezzo”, un luogo apparente, dove le consuete barriere strutturali sono ribaltate, per lasciare il posto a una dimensione intimista, che cresce quasi inconsciamente, assieme alla realizzazione dell’opera. Non vi è alcun ostinato controllo sul percorso produttivo, ma la consapevolezza di una naturale casualità espressiva: si parte da un’iniziale idea di fisionomia, che inevitabilmente si disperde poi nel processo pittorico. La figura cede la sua forma e la sua identità all’evoluzione creativa, con una metamorfosi spontanea che sconfina nel virtuosismo allegorico.
La rappresentazione raggiunge così un livello sensoriale supplementare, che fa proprio della dissolvenza del soggetto il suo punto di forza.
Esempi di questa particolare sintesi poetica sono opere come Anatomia (2014) o Venere (2013), entrambe raffiguranti soggetti che però non vengono effettivamente ritratti, nel senso comune del termine. Nella tela Anatomia, il busto disteso di un uomo gradualmente “si consuma”, confondendosi nel buio di uno scuro e anonimo scenario; nell’opera Venere, di nuovo, le forme della nota dea romana, da sempre simbolo ideale di bellezza, si dissolvono fino a diventare del tutto irriconoscibili.
Nazzarena Poli Maramotti oltrepassa completamente l’universale definizione di ritratto, “quando ritraggo”, come lei stessa afferma, “prendo elementi del soggetto che meglio m’indicano la strada verso il mio luogo, fondendo la sua identità alla mia”. Non è dunque la fisionomia a dare una solida consistenza espressiva, quanto invece la sua primordiale essenza.

Ed è proprio l’Essenziale al centro di una ricerca intimista che l’artista ha percorso nelle sue prime opere, una ricerca che trova eredità all’interno del recupero di alcuni autori del passato. In lavori come Senza Titolo (serie del Tiepolo), Scena Sacra, Epopea, o la stessa Venere, Nazzarena Poli Maramotti riprende vari strumenti tecnici – la prospettiva, il colore, la luce – di grandi maestri, quali ad esempio il Tiepolo, personalizzandone però la consistenza percettiva. Non vi è dunque alcun tentativo d’imitazione, quanto invece la volontà di assimilare ed estrapolare l’essenza del soggetto pittorico, per poi creare una “realtà diversa”, nuova ed esclusiva. All’artista non interessa trovare un’autodefinizione, tanto meno storicizzare il contenuto del messaggio metaforico, il rimando a pittori del passato è un punto di partenza dal quale costruire un universo immaginario, un viaggio, un “luogo di respiro” – come lei stessa lo definisce – che riadatta completamente il soggetto pittorico.

L’equilibrio fra astrazione e figurazione, fra rivelazione e occultamento sono risonanze ricorrenti nella dialettica di questa giovane interprete ed evidenziano la propensione verso la conquista di una trasformazione. Nell’arte di Nazzarena Poli Maramotti nulla rimane inalterato, siamo sempre partecipi di un processo mutevole, di una metamorfosi in evidente e costante movimento. Con ritmo eufonico, le opere esaltano la vorticosa transitorietà di un atto, che restituisce al soggetto la sua insita natura “in divenire”.
Un lavoro che racchiude perfettamente questa mutevole trasfigurazione è l’emblematica tela Angsthase (2014) – in tedesco letteralmente “coniglio codardo” – che ritrae la figura di un coniglio appeso. Le sembianze sono ancora una volta stravolte, ma quello che innanzitutto colpisce è la ridefinizione dei codici spazio-temporali che l’artista attribuisce alla scena. Ciò che in principio doveva raffigurare una natura morta, un coniglio inanimato e inerme, presto lascia il posto a un dinamismo strutturale che scredita completamente l’intenzione pittorica iniziale. La fisionomia del coniglio si esaurisce a poco a poco sotto il vigore di pennellate incisive, segni di fuga che fanno intendere in realtà quanto l’animale sia in movimento, in fuga per l’appunto.

Questo processo di trasformazione, maggiormente maturo nelle ultime opere, non solo segna una consapevole evoluzione stilistica, ma conferma la scoperta di una nuova intensità poetica, capace di tradurre l’autenticità di una tensione. In opere recenti come Tornado o I Cani, infatti, Nazzarena Poli Maramotti spinge l’espressione estetica verso l’interpretazione di un’azione, tanto volubile quanto densa. La narrazione si carica di un’inspiegabile energia che quasi intimorisce per la propria prepotenza. Non è più importante intuire le fisionomie dei soggetti, tanto meno soffermarsi sulle presenze-assenze, è la tensione esasperata, l’unica vera protagonista della scena. Una tensione che, incontrollabile e corporea, attraversa l’intera opera, senza però mai occuparla, senza esserne prigioniera.

Galleria Marcolini
13 dicembre 2014 – 22 febbraio 2015
Nazzarena Poli Maramotti | ARGONAUTA
a cura di Silvia Cirelli

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Selfie, cinema e narcisismo

La tecnologia informatica, con la rete che connette ogni soggetto con il tutto indistinto del web, con i suoi vari strumenti, Facebook, Tweeter etc., propone in qualche modo un individuo al centro del mondo, o almeno questa è la illusione che ogni navigatore, in qualche modo, culla e insegue.
E’ stato calcolato che tra il 30% e il 50% delle foto scattate dai giovani adolescenti siano selfie: una autorappresentazione di una massa sconfinata di utenti che propongono la propria immagine, pensando in qualche modo a una promozione narcisista di sé.
Non solo la propria immagine, ma anche dove sei, con chi sei, cosa fai, cosa cucini o cosa mangi; un gigantesco ininterrotto rimbalzo di centinaia di milioni di utenti dei social media, continuamente connessi ognuno individualmente con tutti.
L’iconografia proposta è quasi sempre ricca e appagante, spensierata e felice h.24; nessuno spazio per dubbi, ombre, riflessioni, amarezze; una umanità apparentemente felice e spensierata, esasperatamente socializzata, in realtà frantumata e disancorata; una monade che non desidera interagire in profondità nella sfera della emotività, del confronto, della riflessione, inevitabilmente incerti e faticosi.
Recentemente, in un festival del documentario scientifico, di cui ero in giuria, un esperto in comunicazione rilevava la grande difficoltà da parte di studenti tra i 16/22 anni, chiamati a votare, di sostenere la visione di filmati, sia pure interessanti e godibili, ma che avevano il “torto” di durare più di qualche minuto.
Così come la scrittura digitale sta portando ad una eccessiva semplificazione del linguaggio e ad una drammatica desertificazione nei vocaboli usati e nella struttura del discorso.
Un comportamento culturale in cui il soggetto soffre le riflessioni e i tempi di una proposta esterna a sé, e che si contrappone all’essenza del cinema, che è rappresentazione del mondo, in una visione che dal soggetto/autore si amplia e si estende, approfondendola, nel bisogno di uscire dal “sé”, con modi e tempi imposti, insopportabili per i nostri solitari narcisi.
La ricchezza, se si vuole la magia, del cinema, sta proprio nella sua capacità di farci conoscere luoghi, storie, comportamenti, sentimenti, emozioni.
Se facciamo caso, in un giorno qualsiasi, al pubblico in una sala cinematografica, constateremo che in gran parte è composto da grigi: scarsa la presenza di pubblico giovanile, che quando va in sala la maggior parte delle volte si orienta verso il cinema di fantasy o di computer grafica, che ripercorre, in qualche modo, modi e contenuti del web e della rete.
Per il cinema la sfida sarà, nei prossimi anni, quella di riuscire ad intercettare tanti piccoli individualistici selfie-man, senza perdere quelle caratteristiche che ne hanno fatto la settima arte.
Considerato che, ad ogni cambio di tecnologie, si è gridato “il cinema è morto”, salvo accorgersi che poi risorge dalle ceneri, restiamo dunque ottimisti e sogniamo di essere immersi, con tanta gente, nella sala buia…

TEST DI CULTURA CINEMATOGRAFICA
E come sempre, un piccolo test, stavolta tutto Woody: non sarà facile, ma un’occasione comunque per sorridere con un amico che da tanto tempo ci accompagna, con rassicurante ironia, e con la sua personale ossessione, il Sesso… per le risposte clicca qui

1) “Ma tu mi ami?”, “Amore è un termine troppo debole per… ecco, io ti straamo, ti adamo, ti abramo.”

2) “Non sono i sei milioni di ebrei che mi preoccupano, è che i record sono fatti per essere battuti.”

3) “Considerato che sei morto, stai da Dio.”

4) “Credo di essere mezza santa e mezza vacca.”, “Scelgo la metà che dà il latte.”

5) “Ho scritto molti saggi sulla psicanalisi, ho lavorato con Freud a Vienna. Ci dividemmo sull’invidia del pene: Freud pensava di doverla limitare alle donne.”

6) “Dopo aver perso le gambe, ha trovato Dio.”, “Scusa ma… non mi sembra un granché come scambio.”

7) “Sei il più grande amatore che ho avuto!”, “Beh… Io mi alleno tanto da solo.”

8) “L’amore penetra nel profondo, il sesso è solo questione di pochi centimetri.”

9) “Presto avremo un bambino”, “Scherzi?”, “No, avrò proprio un bambino: me l’ha detto il dottore… sarà il mio regalo per Natale!”, “Ma a me bastava una cravatta!”

10) “La sola volta che Rifkin e sua moglie arrivarono ad un orgasmo simultaneo fu quando il giudice porse loro la sentenza di divorzio.”

11) “Io sono un uomo all’antica. Non credo nelle relazioni extraconiugali. Ritengo, invece, che la gente dovrebbe restare sposata per tutta la vita, come i colombi e i cattolici.”

12) “Ti masturbi? Io preferisco a fare sesso. Ieri sera mi sono messo su una cosetta a tre: io, Marilyn Monroe e Sophia Loren. Credo, tra l’altro, che fosse la prima volta che le due grandi attrici apparissero insieme.”

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LA NOVITA’
Dalla-Roversi: Nuvolari, l’Avvocato & altre storie

“Nuvolari è basso di statura, Nuvolari è al di sotto del normale, Nuvolari ha cinquanta chili d’ossa… Nuvolari ha un talismano contro i mali…”. Questa frase è del poeta bolognese Roberto Roversi, che Lucio Dalla musicò nel disco “Automobili”, terzo lavoro di una collaborazione tanto preziosa quanto anomala, certamente indimenticabile.
Dal 1973, con l’album “Il giorno aveva cinque teste” e sino al 1976, con “Automobili”, passando per “Anidride solforosa” del 1974, si realizza una delle più importanti simbiosi artistiche della storia della musica italiana, nata grazie all’intuizione del produttore Renzo Cremonini, che li fece incontrare.
Roberto Roversi è stato uno dei maggiori poeti italiani del Novecento, oltre che scrittore, giornalista e libraio. Ha fondato la rivista “Officina” assieme a Pier Paolo Pasolini; dopo la pubblicazione per Einaudi di “Dopo Campoformio”, si è costantemente rifiutato di affidare le sue opere ai grandi editori, limitando la sua produzione a tirature limitate di cui si è occupato personalmente. Con lo pseudonimo di Norisso ha scritto canzoni anche per gli Stadio, tra queste la nota “Chiedi chi erano i Beatles”.

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Il volume con l’opera di Roberto Roversi e Lucio Dalla

Canzoni quali “Anidride solforosa”, “Il coyote”, “Il motore del 2000” e “Nuvolari”, sono ancora amate e attuali. Sony Music ha pubblicato un cofanetto che contiene i tre album pubblicati negli anni settanta e un quarto CD con 10 brani inediti, un parlato tratto da un concerto del 1973 e 3 demo, oltre a un libro di 200 pagine. Antonio Bagnoli, nipote di Roversi, ha raccolto fotografie, manoscritti, dattiloscritti di lavorazione, inediti e lettere tra i due artisti bolognesi, vere e proprie testimonianze del loro sodalizio artistico.
Il cd di inediti contiene anche i “famosi” brani esclusi da “Automobili”, insieme ai provini (accompagnati dal solo pianoforte) di “Carmen Colon”, “Parole incrociate” e “Nuvolari”, quest’ultima versione è più lenta e melodica rispetto a quella del disco. Tra i live ci sono i brani dello spettacolo teatrale “Enzo Re” e la versione integrale di “Intervista con l’avvocato”.
Dagli scritti si evince un burrascoso rapporto tra i due, ma di stima assoluta, tanto che negli ultimi anni arrivarono ad ammettere l’importanza di quel loro rapporto tanto combattuto, fonte d’ispirazione e di cambiamento del loro modo di essere artisti. Il rapporto s’interruppe dopo l’uscita dell’album “Automobili”. Roversi non si riconobbe nella versione discografica, priva delle cinque canzoni più politiche e di due strofe del brano “Intervista con l’avvocato”. Il poeta accusò Dalla di non avere difeso adeguatamente il progetto e decise di firmare i brani con lo pseudonimo di Norisso.
Successivamente, sollecitato e fortemente incoraggiato da Ennio Melis, l’allora direttore generale della Rca, Dalla iniziò a scrivere anche i testi delle sue canzoni che furono raccolte nell’album “Com’è profondo il mare”. Da quel momento ebbe inizio una terza vita artistica per il cantautore bolognese che lo portò a essere uno dei maggiori protagonisti della scena musicale italiana e poi, grazie a “Caruso”, anche di quella internazionale.
La riappacificazione tra i due grandi artisti avvenne negli anni novanta, quando Dalla incise, nel suo album “Cambio”, il brano “Comunista” e musicò i testi del poeta bolognese per la messa in scena dello spettacolo teatrale “Enzo Re”, avvenuta per la prima volta a Bologna, nel giugno del 1998.
I tre album, frutto del loro sodalizio artistico, rappresentarono una novità nell’ambito della musica d’autore italiana e ora, dopo quarant’anni, mantengono inalterato il loro fascino di mistero poetico e monumento alla creatività. Per comprenderli pienamente non basta ascoltarli distrattamente o inserirli in uno smartphone qualsiasi ma, vanno “letti” e soprattutto ci si deve abbandonare all’ascolto, cercando di assimilare ogni strofa, frutto di ore di pensiero e discussione.

A Lucio Dalla è attribuita questa frase: “Se non avessi incontrato Roberto Roversi, adesso farei l’idraulico”. Il cantante bolognese decise di iniziare seriamente la collaborazione con il poeta nel momento in cui lesse “… nevica sulla mia mano e il mio cavallo è oramai lontano”, un verso del brano “La canzone di Orlando” scelto oggi come titolo del cofanetto riepilogativo della loro storia artistica e prima scintilla di creatività dell’album “Il giorno aveva cinque teste” che decretò la metamorfosi artistica di Dalla, dopo la fine dei fasti sanremesi dei primi anni settanta.

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LA NOTA
Ferrara innevata, dolce vedere

Eccola, è arrivata la neve. Piano piano. I tetti sono bianchi, l’atmosfera magica, quella di una favola natalizia che finalmente arriva e spazza via residui d’influenza e di raffreddori stagionali.
Ferrara bianca è ancora più bella, i tetti del centro storico sembrano quelli delle storie abitate da folletti che saltellano qua e là alla ricerca di camini caldi e panettoni appena sfornati.
ferrara-neve1 ferrara-neveSe socchiudiamo gli occhi vediamo una slitta, una renna che porta doni e dolcetti profumati. Ci viene quasi la tentazione di lasciare una carota sull’antico e severo balcone, perché quel tenero animale la possa cogliere al volo. La tavola della colazione è ancora apparecchiata, questa mattina. Il caffellatte fumante, lo stesso che avevamo preparato per Babbo Natale, è finito, ma mentre la neve scende ci viene voglia di prepararne subito un altro. Un biscottino croccante preparato in casa fa ancora capolino dal piattino abbandonato sulla tovaglietta di pizzo. Visto che fuori nevica, meglio accomodarsi di nuovo, comodamente, e gustarselo fino in fondo. Non capita tutti i giorni di starsene chiusi al caldo, dietro le tende ricamate, a godersi la pace della propria città natale. Una città che accoglie, come una madre che aspetta da lungo tempo, pronta ad abbracciare i suoi figli infreddoliti e stanchi rientrati da molto lontano. Con calore, sempre, con braccia enormi e avvolgenti. Quasi una candida coperta morbida con piccoli gufi colorati disegnati sopra. Quasi un cuscino di piume d’oca pronto ad accogliere pensieri stanchi. È meravigliosa Ferrara, quando nevica, calda e accogliente come mia madre. Lei, sempre e solo lei, lì ad aspettarmi. Comunque.

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Dario Fo e Franca Rame: giullari al servizio della gente

STANDING OVATION: I PIU’ ACCLAMATI SPETTACOLI TEATRALI DEL XXI SECOLO
Dario Fo e Franca rame, Teatro Comunale di Ferrara, dal 5 al 10 marzo 2002

Vanno in scena al Teatro Comunale due appuntamenti con il teatro di Dario Fo: “Lu Santo jullare Francesco”, cui faranno prossimamente seguito gli atti unici “Una giornata qualunque”, “Grasso è bello”, “Sesso? Grazie, tanto per gradire” e il lancinante “Lo stupro”, con l’interpretazione di Franca Rame. Dario Fo (Varese, 1926): autore, attore e regista, nonché Nobel per la Letteratura, è balzato alla ribalta nel 1953 con la rivista satirica “Il dito nell’occhio”. Successivamente, fondata la compagnia teatrale con la moglie Franca Rame, ha creato e allestito fino ad oggi numerosissime opere con taglio prevalentemente socio-politico: da “Settimo: ruba un po’ meno” (1964) a “La signora è da buttare” (1967), da “Mistero buffo” (1969) a “Morte accidentale di un anarchico” (1971), sino ai più recenti “Fabulazzo osceno” (1982) e “Il papa e la strega” (1989).
Riguardo allo spettacolo di stasera, va ricordato che fu proprio il futuro Santo ad autodefinirsi giullare: infatti, ripudiando il canonico sermone, egli amava predicare ai fedeli con lo strumento della giullarata, di cui conosceva e applicava la tecnica e le regole. «Al tempo di Francesco – spiega lo stesso Dario Fo – definirsi giullare, seppure “al servizio di Dio”, era una vera e propria provocazione al limite della blasfemia. Francesco era dotato di una mimica e di una comunicativa davvero eccezionali! E riusciva a farsi capire, davanti alle folle straripanti di tutti i borghi e di tutte le città d’Italia, grazie appunto al particolare linguaggio dei giullari, un linguaggio fatto di termini pescati qua e là in tutti i dialetti, con iterazioni continue, termini latini, spagnoli, provenzali e perfino napoletani e siciliani». La rappresentazione prende le mosse dall’orazione che Francesco, trovandosi a Bologna il 15 agosto del 1222, era stato invitato a tenere sul tema in quel periodo più caro ai felsinei: la guerra riesplosa contro gli ‘storici’ nemici imolesi. Occasione in cui egli preferì sostituire alla canonica omelia in latino l’amata “concione giullaresca” in lingua volgare.
Franca Rame, dal canto suo, indaga l’universo femminile affrontando due tematiche privilegiate: il rapporto di coppia e il rapporto con i figli, interpretando sulla scena due personaggi-prototipo: Giulia e Mattea. «“Una giornata qualunque” e “Grasso è bello” sono due testi cattivi come pochi altri. La comicità qui è data dai paradossi, ma la cattiveria è quella che l’interprete esercita sul suo pubblico per informarlo, per educarlo, per metterlo violentemente di fronte ai propri difetti, ai propri limiti. E, in ultima analisi, per aiutarlo a cambiare se stesso e il mondo».