“Una recente analisi condotta nelle scuole italiane rivela che appena l’11 per cento degli studenti percepisce lo Stato più forte della mafia e solo il 23% si dice convinto che la mafia possa essere combattuta”. Dati sconcertanti, citati da don Luigi Ciotti durante il suo intervento a Ferrara. “Commuoverci davanti alle tante manifestazioni che servono a non dimenticare le vittime di questo sistema non basta, è necessario tradurre questo sentimento in impegno concreto e in azione”. Ospite del liceo Ariosto, ha esortato i ragazzi a non arrendersi. “Considerate i dubbi più sani delle certezze, prendete parte con interesse, scendete nella profondità delle vostre scoperte”.
“Sono qui per portare il mio piccolo contributo, con tutti i miei limiti, a voi che vi siete fatti onore essendo presenti a questo incontro”, ha affermato davanti a un atrio gremito: sobria premessa a due ore di parole potenti, anticipate da una decina di domande poste dagli studenti.
“L’istruzione e la scuola sono armi fondamentali per la diffusione della verità e la soluzione dei problemi che ci circondano, a cominciare dalla criminalità organizzata. Ma la politica non fa abbastanza per la scuola”. E proprio sul versante politico è proseguito l’intervento del sacerdote bellunese, fondatore del “Gruppo Abele” e di “Libera”. “Ci stanno rubando addirittura le parole che, al contrario, dovrebbero essere tutelate. Oggi la parola legalità è diventata sinonimo di convenienza”, mentre “l’illegalità cresce e non accenna ad arrestarsi, camminando di pari passo con leggi che tutto hanno fatto meno che favorire la soluzione dei problemi”.
Sono risuonate sincere le parole di quest’uomo, che spende la propria vita nella lotta alla mafia e nel sostegno alle condizioni sociali dei più deboli. E lui si è mostrato felice di incontrare tanti giovani. Ciotti ha riservato buona parte del suo intervento alla cultura, soffermandosi sull’importanza dello studio e delle conoscenza.
Non sono mancate ovviamente menzioni a personaggi celebri nella lotta anti-mafiosa e ricordi personali che Ciotti racconta come beni preziosi: dalla nascita di Abele e Libera alle stragi di via D’Amelio e Capaci, dalle parole di Nino Caponnetto alle toccanti storie di Rita Atria e Peppino Impastato, fino ad arrivare al recente rapporto tra lo stesso Ciotti e papa Francesco. Storie di cui è stato testimone o protagonista diretto e che orgogliosamente diffonde nelle scuole. Storie che si riflettono in tutta la loro atrocità nel suo sguardo e nelle sue parole, decise, dirette, taglienti. Racconti, questi, serviti da incipit per altre questioni, come l’importanza della coesione nella lotta alla mafia e alle ingiustizie.
Don Luigi ricorda come le sue associazioni e in generale tutto ciò che riguarda l’antimafia debba continuare ad essere libero, aperto a tutti, perché “la diversità non sia mai avversità. La diversità è il sale della vita”. E prosegue ancora sottolineando l’importanza del ruolo della Chiesa in questa battaglia, affermando che “due sono i libri per me fondamentali: il Vangelo e la Costituzione Italiana. Quest’ultima, se applicata correttamente, è il testo antimafia per eccellenza”.
Si è parlato poi di carceri e di come queste debbano assumere un ruolo sempre più educativo e non essere strumento di vendetta, di una valutazione più attenta ai possibili percorsi alternativi da applicare e del rischio, sempre più forte, che le carceri stesse diventino “il tappeto delle condizioni sociali più disperate”, visto l’enorme numero di piccoli spacciatori tra i reclusi. “La legalizzazione delle droghe leggere – afferma – è una questione da tenere in considerazione, ma comunque molto lontana dall’essere la risposta definitiva”.
In conclusione è stato affrontato il tema che oggi probabilmente ci tocca più da vicino, ovvero le infiltrazioni mafiose in Emilia. Ciotti non nasconde che “l’Emilia di oggi non è più quella di un tempo. Le connessioni con la mafia sono forti e naturalmente il terremoto non ha che contribuito ad ampliarle”. Doveroso quindi un ultimo avvertimento, sentito e diretto: “La mafia è forte quando la politica è debole. Non credete a chi dice di sapere tutto, diffidate da costoro e tenete sempre gli occhi aperti”.
Un plauso quindi all’Unione Studenti e al presidio di Libera “Giuseppe Francese”, organizzatori di questo incontro. Ascoltare le parole di don Luigi Ciotti è sempre una grande opportunità per farsi delle domande su un problema che, oggi più che mai, nonostante “a noi del nord” ci sembri ancora così lontano, in realtà è ben presente ed agisce intorno a noi. E questo è l’obiettivo primario di don Luigi: renderci più responsabili. Proprio “responsabilità” è la parola che Ciotti pronuncia in maniera più decisa, perché solo tramite una netta presa di coscienza da parte di tutti allora sì che la lotta contro la mafia assume un senso. Diventare tutti più responsabili e consapevoli significa – per dirla come lui – non trasformare questo incontro in un semplice evento, ma sfruttare i suoi saggi consigli e la sua esperienza di vita come modello da seguire. Ma soprattutto significa renderci protagonisti in prima persona di un sogno, lo stesso di Luigi Ciotti: contribuire tutti insieme, per davvero, a sconfiggere ogni tipo di mafia.
I ferraresi hanno un cattivo rapporto con l’acqua: poche fontane artistiche, persino poche fontanelle per abbeverarsi, un fiume che attraversa la città – il Volano – dimenticato, denigrato e sprezzantemente chiamato canale.
Sarà forse perché i ferraresi contro l’acqua hanno dovuto lottare per secoli, perché sono figli delle bonifiche e hanno sempre percepito l’acqua come nemica, che sottraeva terra all’agricoltura, che dalle sponde del Grande Fiume minacciava la città e la campagna. Fatto sta che i ferraresi odiano l’acqua… A riprova, la fontana di piazza Repubblica è inagibile da anni e ogni volta che qualcuno alza un dito per segnalarlo viene zittito con le più disparate giustificazioni. Quella di parco Massari vien fatta funzionare quando capita, il meno possibile; i gradevoli zampilli all’interno del fossato del castello (che hanno anche la benefica funzione di ossigenare l’acqua) furono accolti da infinite polemiche, benché effettivamente riducessero le alghe, e ora vengono fatti funzionare a singhiozzo. Quelli decorativi voluti dall’ex sindaco Sateriale nella rinnovata piazzetta Sant’Anna sono stati chiusi e annientati da tempo.
Il Volano invaso dalle alghe
E proprio all’ex sindaco, ferrarese atipico, si deve l’ultimo tentativo di valorizzare il corso d’acqua che attraversa il centro urbano, riqualificarne le sponde, bonificare e rilanciare il porticciolo turistico della darsena. Il progetto era ambizioso e accattivante, con l’idea di fare un piacevole lungofiume per passeggiate e percorsi ciclabili, come si usa in tutte le città civili. Ma a Ferrara la proposta è stata accolta con fastidio, dibattuta con superficialità, dimenticata immediatamente dopo la conclusione del mandato di Sateriale.
Così è rimasto aperto il problema di un’area centrale, quella che collega viale IV novembre all’antico borgo di San Giorgio che potrebbe fungere da parco fluviale all’ingresso sud della città e che invece viene lasciata nella condizione in cui è sempre stata: un inutile fetido retrobottega di cui vergognarsi, atto solo al passaggio delle bettoline (un tempo, ora non passano più nemmeno quelle) e al transito delle pantegane… Crediamo che il cittadino del ventunesimo secolo, superati i fantasmi del passato e cancellati gli atavici timori dell’acqua fonte di insicurezza, possa guardare con fiducia al proprio futuro cominciando a progettare un presente che contempli un diverso, più costruttivo e sereno rapporto con il fiume, a cominciare magari proprio dalla riprogettazione del percorso fluviale lungo il Volano.
“Ammore” di Paolo Sassanelli è liberamente ispirato al racconto “Non commettere atti impuri” di Andrej Longo, sceneggiato dallo stesso Sassanelli con Chiara Balestrazzi. Il film è entrato nella nomination delle opere candidate al premio David Donatello 2013, nella categoria cortometraggi.
La locandina
Il racconto si sviluppa nell’arco di un’unica giornata, quella vissuta da una bambina di dodici anni, interpretata dalla brava Eleonora Costanzo, che cerca nella più assoluta segretezza di consumare in solitudine un dramma segreto e inconfessabile, per una bambina della sua età. L’azione si svolge in un mondo, dove gli adulti, colpevoli di averle violato l’infanzia, sono presenti soltanto come voci e rumori, mai come volti, a eccezione della donna che le praticherà l’aborto clandestino. Rosy da poco tempo è entrata nell’adolescenza ma quando esce da casa, si veste e si trucca come una donna, per incontrare le sue amiche che si atteggiano anch’esse da adulte. Senza neppure confidarsi con l’amica del cuore, con la madre o con il padre (se ne capirà soltanto nel finale il motivo), la ragazzina si prepara e si allontana quasi scappando da casa.
La ragazzina si veste e si trucca da donna
Entra in una chiesa per confessarsi e non riuscendovi, a causa di un ragazzino che inopportunamente le fa osservazioni per il modo in cui è vestita, si reca presso il luogo dove chiuderà definitivamente i conti con la propria infanzia. Quando tutto è finito Rosy ritornerà a casa e, chiusa nella sua stanza, continuerà a subire le insistenze del padre che le chiederà ancora una volta di entrare, approfittando del fatto che la madre è uscita. Il film termina con questa scena, dal finale aperto e per nulla risolutivo e con un lento commento sonoro per nulla rassicurante. La colonna sonora è stata realizzata da Luca Giacomelli che merita un sentito apprezzamento, per la sensibilità artistica e musicale dimostrata in quest’occasione.
“Ammore” è il secondo cortometraggio del regista/attore pugliese Paolo Sassanelli che in precedenza ha realizzato “Uerra” (2009), scritto con Antonella Gaeta e vincitore di numerosi premi a livello internazionale, oltre ad essere stato presentato a Venezia nel 2011 nella sezione “corti, cortissimi”. “Uerra” è ambientato a Bari nel 1946, in una città che vuole uscire dall’incubo e dalle rovine della seconda guerra mondiale, raccontando l’amore tra un padre e i suoi figli nel contesto di un’Italia povera e segnata. Una storia tra padri e figli diametralmente opposta a quella descritta nel suo film successivo. Anche “Ammore” è stato girato nel capoluogo pugliese, nei quartieri di San Paolo, Carrassi e Madonnella.
“Ammore” di Paolo Sassanelli, con Eleonora Costanzo, Federica Sassanelli e Angela Peschetola, 2013, Italia, durata 15’
Perché quando andiamo all’estero non sporchiamo? Perché in casa nostra è tutto pulito e in piazza no? La città è prima sporcata dai cittadini e poi, forse, non pulita dai gestori del servizio. Parliamone.
Il servizio di spazzamento e più in generale di pulizia del suolo è parte integrante del ciclo dei rifiuti sia nell’affidamento (e dunque concessione) sia negli aspetti economici (tassa-tariffa). Il tema della pulizia del suolo è di grande rilevanza e talvolta di evidente criticità rispetto alla qualità dei servizi erogati ai cittadini. Spesso viene trascurato e il livello di attenzione è minore rispetto alla raccolta e dallo smaltimento, mentre invece è spesso al centro di criticità. Spesso si riscontra che il servizio di spazzamento non presenta confini ben definiti né criteri chiari, come avviene ad esempio per i servizi di raccolta, in quanto varia da servizi propri della pulizia del suolo ad altri non propri (come ad esempio la raccolta ingombranti o il diserbo stradale).
L’efficacia dell’azione del servizio di pulizia del suolo è rappresentata dalla qualità che esso raggiunge. Una peculiarità del servizio di spazzamento dunque è relativa alla difficoltà di utilizzo di parametri diretti e oggettivi per la misura dell’efficacia del servizio. E’ però anche vero che raramente riceviamo informazioni in merito alla organizzazione di questo servizio. L’obiettivo complessivo dei servizi di spazzamento e pulizia principalmente è quello di rendere sicuri e liberi da materiale estraneo i luoghi aperti ai cittadini; deve dunque essere raggiunto tramite chiare, trasparenti e condivise regole di effettuazione dei servizi da parte dei gestori e il loro monitoraggio e controllo ma anche tramite la responsabilizzazione sull’utilizzo del territorio da parte delle utenze. I principi di base del sistema devono basarsi su:
– chiara individuazione esigenze del territorio;
– scelte condivise al fine di assicurare che la comunità riceva il miglior servizio in accordo con le proprie esigenze (comprensione e disponibilità da parte della comunità a pagare per l’incremento dei servizi);
– garanzia dell’effettuazione del controllo tramite strumenti e parametri misurabili e confrontabili sia tecnicamente sia economicamente
– garanzia della divulgazione delle informazioni sui servizi erogati, sull’accesso agli stessi e sui risultati del monitoraggio e controllo;
-garanzia che sia perseguito il miglioramento continuo del servizio (innovazione tecnologica e efficientamento);
Le scelte specifiche territoriali devono allora partire da alcuni principi fondamentali tra cui gli standard di spazzamento e pulizia, la scelta del numero di cestini stradali devono essere basati sul tipo di utilizzo delle aree. Nella organizzazione del servizio si devono imporre livelli differenti di “pulizia” e il territorio deve essere suddiviso in zone connesse all’utilizzo e al volume di traffico, ma soprattutto la zonizzazione e i livelli devono essere condivisi e concertati. Se un livello di pulizia non è mantenuto in una certa zona, il programma operativo deve definire un tempo entro il quale il gestore dei servizi deve garantire l’intervento per riportarlo al suo livello. Questo chiedono i cittadini.
E’ importante che i piani industriali aziendali e soprattutto i criteri di regolazione di questo servizio si basino su questi semplici indicazioni. Un approccio strutturato sul coinvolgimento del sistema nella sua intera filiera deve essere allora attivato partendo da un lungo e complesso percorso di consultazione e coinvolgimento dei diversi soggetti coinvolti (dalla definizione dei livelli, alla suddivisione delle zone, al tipo di monitoraggio).
I comportamenti e i giudizi degli cittadini verso i servizi di spazzamento e pulizia variano da atteggiamenti proattivi e di priorità sul servizio ad atteggiamenti di disinteresse e poco attivi; questo spesso è un problema, ma da questa considerazione di fondo si deve partire: un territorio è sporco prima di tutto perché viene sporcato e poi (solo dopo) dal mancato servizio di pulizia. Un programma di informazione-consultazione continua deve permettere allora di definire il quadro delle criticità per poi dare risposta e informazione sulle reali esigenze.
Il servizio di spazzamento e pulizia individua le modalità di rimozione dei rifiuti per strada e quindi diventa fondamentale correlarlo al servizio di raccolta dei rifiuti (indifferenziato e differenziato). Elemento fondamentale per una corretta esecuzione è la programmazione degli interventi specifici (sia standardizzati sia a necessità) delle postazioni di conferimento dei rifiuti. Il livello (frequenze), il numero di risorse impiegate il tipo di mezzi legati al servizio sopraccitato è quindi connesso alle metodologie di raccolta dei rifiuti (stradali, isole ecologiche di base, sistemi di prossimità, sistemi a sacco, etc.) implicando una differente organizzazione e livello di risorse impiegate. Un obiettivo di standard qualitativo può essere raggiunto in maniera efficiente e economica utilizzando un corretto “mix organizzativo” differenziando le quantità di risorse impiegate per area omogenea ed individuando la corretta frequenza di erogazione. La qualità del servizio di pulizia del suolo si esprime mediante parametri di efficacia: la misura di tali parametri risulta oggettivamente di non facile applicabilità. Quindi è importante stabilire opportuni standard di servizio e la verifica del rispetto di tali standard. Una proposta metodologica innovativa, anche se di facile attuazione, potrebbe essere quella di avviare un vero e proprio “patto territoriale” che coinvolga tutti gli attori individuando diritti e doveri (regolatore, ente locale, gestore, utente/cittadino).
Obiettivo di sintesi è che tutti i servizi debbano essere di qualità e a costi standard, rispondere alle reali esigenze della comunità, essere accessibili agli utenti per cui è previsto e responsabilizzare gli utenti nel mantenimento degli standard qualitativi. I responsabili delle regolazione del servizio devono prevedere continui miglioramenti quantitativi e qualitativi, prevedere consultazioni della comunità in relazione ai servizi forniti, produrre regolarmente report e informazioni per la comunità sulle azioni fatte in relazione ai principi annunciati e programmati. I cittadini che amano la loro città lo richiedono.
2. SEGUE – L’Ipsia, “Ercole I d’Este”, Istituto professionale per l’industria e l’artigianato di Ferrara, è nel pieno di un processo di grande rinnovamento che coinvolge tutta la scuola. Dopo aver attraversato qualche periodo di difficoltà, che abbiamo raccontato nella prima parte dell’intervista [vedi], un gruppo molto motivato di docenti, il preside Roberto Giovannetti e il vicepreside Gianluca Rossi, stanno trasformando l’istituto attraverso una progettazione innovativa. In particolare, quest’anno hanno avviato un Progetto Sperimentale triennale che mira a coinvolgere i ragazzi con strategie e con attività motivanti come la realizzazione di laboratori espressivo-creativi rivolti alle classi prime (teatro, musica rap e videomaker), attività di tutoraggio degli studenti del triennio, l’attivazione di un gruppo studentesco che si occupa della cura degli ambienti e delle relazioni. Il progetto rientra nell’ambito del Protocollo d’intesa per la prevenzione del bullismo e delle devianze giovanili che vede coinvolti, tra gli altri Promeco, Provincia, Prefettura, ufficio minori della Questura e l’Università di Bologna.
Abbiamo incontrato il dirigente scolastico Roberto Giovannetti e il vicepreside Gianluca Rossi, coinvolto nel gruppo tecnico del progetto sperimentale insieme alle professoresse Guglielmetti e Santoro, tra gli artefici del rinnovamento dell’Istituto, per farci illustrare il progetto e capirne la portata.
Come nasce il progetto sperimentale che avete avviato con la Prefettura e in cosa consiste?
Il preside Roberto Giovannetti e il vicepreside Gianluca Rossi
Abbiamo attivato tre laboratori: uno di teatro, uno di musica, uno di video-interviste. Questo progetto nasce da una rinnovata sensibilità alle esigenze degli studenti che ho trovato in un gruppo di insegnanti particolarmente attenti e motivati, quando sono arrivato all’Ipsia tre anni fa. Pieni di idee, avevano messo in campo energie incredibili che faticavano però a concretizzarsi, ciò che mancava loro era soltanto quel supporto che solo un dirigente può garantire. A volte hai la fortuna di incrociare lo sguardo di chi la pensa come te. Questo incontro ha generato un effetto volano che ha poi messo in moto tutte le risorse umane e professionali presenti nella scuola. Non abbiamo inventato nulla di nuovo, abbiamo solo messo a sistema e coordinato tutta una serie di attività, processi e iniziative che esistevano già (l’attenzione alle regole civili, i progetti con Promeco, con operatori esperti, etc.), ma con uno spirito di fiducia reciproca. Questo saldatura interna delle componenti della scuola ha trovato all’esterno, presso Prefettura, Questura e Promeco, una grande attenzione e capacità di ascolto rispetto alle nostre problematiche. Dopodiché, questo insieme di adulti motivati hanno formulato un progetto nato per avere i caratteri della sistematicità e un respiro a lungo termine, il progetto infatti è triennale.
Qual è l’obiettivo del progetto?
I ragazzi della 1a MC e due dei ragazzi tutor
L’obiettivo principale è cercare di rivalutare le risorse umane presenti all’Ipsia, in particolare far sentire ai ragazzi di non essere arrivati nella scuola peggiore della provincia, ma in un luogo dove si fanno esattamente le stesse attività che si fanno nelle altre scuole, dove gli adulti credono in loro e che in ognuno c’è qualcosa di estremamente positivo da far emergere. Vogliamo che sia chiaro che iscriversi a questo istituto non rappresenta l’ultima chance per ottenere il diploma, ma che la scelta scolastica dei nostri ragazzi nasce da una vocazione al lavoro e ha la sua dignità. In sostanza, l’obiettivo è far sentire agli studenti un senso di appartenenza a questa gloriosa istituzione scolastica, una delle scuole più antiche di Ferrara, che ha formato persone che ricoprono nelle varie attività produttive ferraresi ruoli di prestigio, che ha pari dignità delle altre. Quando il ragazzo capisce che si trova in una scuola che non è diversa dalle altre, se non nell’offerta formativa, e che questa non è un luogo dequalificante dal punto di vista umano, ecco che avviene un riallineamento quasi naturale a tutti i livelli.
Ci illustra il progetto?
Laboratorio teatrale, attività dello specchio
Noi cerchiamo di coinvolgere i ragazzi con strategie diverse e con attività motivanti, in modo che riescano ad esprimersi, a comunicare il proprio disagio, a manifestare le proprie emozioni ed interagire tra loro, non per niente per questo progetto abbiamo scelto di puntare a linguaggi come il teatro, la musica rap e i video. Naturalmente si spera che questo si traduca anche in atteggiamenti più corretti in classe e in una maggiore dedizione allo studio.
Il progetto sperimentale coinvolge tre prime complete (80 ragazzi circa) che a gennaio hanno iniziato tre differenti percorsi espressivo/creativi: una prima segue il laboratorio di teatro guidato da Massimiliano Piva con il Metodo Cosquillas; una il laboratorio di musica rap/hip hop guidato dal rapper Simone Salvi e dai docenti Toscano e Santoro, gli studenti scriveranno il testo di una canzone in stile rap, in italiano e in inglese; l’ultima classe prima sta seguendo un laboratorio per realizzare interviste video con la guida di operatori dell’Area giovani del Comune: i ragazzi impareranno l’utilizzo di semplici applicazioni per smartphone per girare video; poi prepareranno delle video-interviste a studenti e personale dell’Ipsia per un sondaggio su come stanno a scuola; parte dei video saranno inoltre dedicati al backstage dei laboratori delle altre classi. A fine anno scolastico, il tutto si dovrebbe tradurre in uno spettacolo rivolto agli altri studenti dell’istituto e alle famiglie, ma stiamo pensando anche a qualche cosa di più… ma non anticipiamo troppo.
I laboratori creativi sono destinati solo alle classi prime, perché?
Energia, divertimento e senso del gruppoDopo la corsa, ci si riunisce in piccoli gruppi
Abbiamo puntato sulle prime per motivare i ragazzi più giovani, per farli sentire bene e per portarli avanti con un’altra idea di scuola, in modo che si facciano in prima persona testimoni del rinnovamento dell’istituto e che possano trasmettere agli amici un’opinione positiva della propria scuola, con un semplice “passaparola”. Ed è anche un modo per far capire loro, fin dall’inizio, che noi insegnanti desideriamo che stiano bene a scuola. Puntare sulle prime ci può garantire di continuare il lavoro con una certa continuità, contribuendo con noi a cambiare il clima della scuola nei prossimi tre anni; i ragazzi di prima sono il capitale umano su cui stiamo investendo. Ma nei laboratori sono coinvolti anche alcuni ragazzi più grandi, gli studenti tutor del progetto accoglienza, che fanno da supporto ai più piccoli e gli operatori.
I ragazzi lo sanno di essere così importanti per il futuro della scuola?
I ragazzi la vivono con spontaneità com’è giusto che sia, sono del tutto inconsapevoli di essere le ‘cavie’ del progetto e non ne conoscono le finalità nel lungo periodo. Loro si sono iscritti senza sapere che avrebbero partecipato al progetto, non sanno di essere i primi a testarlo e la vivono come una normale attività scolastica perché è cominciata a inizio anno come tutte le altre.
Come stanno andando i laboratori? I ragazzi sono molto coinvolti nei vari laboratori e rispondono bene, cominciano a pensare di valere qualcosa. Si tratta di ragazzi che in diversi casi hanno situazioni difficili alle spalle, problemi familiari, personali e fallimenti scolastici e che finalmente si ritrovano coinvolti in attività stimolanti ritagliate su di loro.
Il caso del coltello trovato nello zaino di uno dei vostri ragazzi a gennaio vi ha proiettato al centro delle cronache…
Quando un ragazzo porta a scuola un coltello non è un fatto da nascondere, non si può tacere, non si può far finta di niente, occorre prendere atto del problema e riflettere insieme agli studenti, spiegando che è un problema di incolumità, di sicurezza, di legalità, di fiducia, e creare occasioni di confronto con le forze dell’ordine per far capire ai ragazzi che scuola e forze dell’ordine sono due realtà che si integrano. Davanti a problematiche come la tossicodipendenza, la violenza, il bullismo, il mio approccio in generale è molto chiaro: occorre coinvolgere tutti gli attori che si occupano di educazione e formazione dei ragazzi, perché questi aspetti vanno letti considerandoli all’interno di un territorio, di una società nel suo complesso. Direi molto serenamente che dobbiamo parlarne, confrontarci, non nasconderlo, non vergognarci e cominciare a pensare che se alcuni diaframmi formali vengono abbattuti qui, probabilmente verranno abbattuti poi in altre scuole e di nuovo bisognerà cominciare a ragionare a sistema.
Molti progetti simili al nostro si attivano nel momento parossistico, ossia quando si verifica un evento clamoroso e si interviene sull’urgenza. Noi invece lo abbiamo messo a sistema senza attendere fatti di cronaca, e il caso del gennaio scorso non ci ha trovato impreparati: con il nostro progetto abbiamo avviato una collaborazione con le forze dell’ordine fin da settembre, molto prima del caso del coltello.
A quando un primo bilancio dei risultati?
Da qui a un anno, capiremo l’effetto di quest’attività quando confronteremo il loro comportamento con quello di chi li ha preceduti e ne vedremo la differenza, in termini di motivazione, rendimento, comportamento, profitto e abbandono scolastico. Insegnanti e operatori dicono che il bilancio dei primi mesi è molto positivo e che il miglioramento sta già emergendo. E’ chiaro che il percorso è lungo, per riposizionarci a livello territoriale ci vorrà un po’, ma grandi passi si stanno già facendo. Gli elementi ci sono tutti, è solo questione di tempo.
Il premio della critica “Mia Martini” del Festival di Sanremo è una consacrazione per qualsiasi artista, nel caso di Malika Ayane e la sua “Adesso e qui (nostalgico presente)” è il giusto riconoscimento al lavoro degli ultimi anni, da quel lontano 2010 in cui la cover di “La prima cosa bella” fu inserita nella colonna sonora dell’omonimo film di Paolo Virzì e in “Grovigli”, il suo secondo album.
La copertina del cd di inediti
Il successo di Sanremo, classificatosi al 3° posto, è il pezzo forte di “Naif”, il nuovo disco di inediti, registrato tra Parigi e Berlino, in cui Malika ha scritto tutti i testi in collaborazione con Pacifico, mentre le musiche sono di Giovanni Caccamo (1° tra le nuove proposte del Festival di Sanremo 2015), Alessandro Flora, Shridhar Solanki, Simon Wilcox e Francoise Villevieille.
Oltre ad “Adesso e qui”, canzone degli amanti intenti a vivere il presente, nata sulle parole “Se lo vuoi rimani”, la tracklist propone “Senza fare sul serio”, dal ritmo leggero e orecchiabile, in sintonia con il testo dove l’apparente distacco dalle cose lascia spazio alla praticità delle soluzioni più semplici “… tu non lo sai come vorrei ridurre tutto a un giorno di sole, tu non lo sai come vorrei saper guardare indietro, senza fare sul serio… come vorrei distrarmi e ridere”. “Blu” è come quel pirata che si è messo una stella in volto, come recita il testo di quest’allegra canzone, mentre in “Vivere”, cover del celebre brano di Vasco Rossi del 1993 (bonus della sola versione digitale su iTunes), la cantante italo-marocchina mette mano a una canzone perfetta, riuscendo a farla sua.
Scarpe strette, drink, film e scherzi danno vita a “Chiedimi se”, il brano che si muove sull’orlo del vestito asciugato con il phon, in una leggerezza festaiola e coinvolgente. “Libertà è un concetto semplice se non ne sai il significato”, canta Malika in “Tempesta”, mentre, accompagnata dalla batteria e dalla chitarra di “Che cosa ho capito di me (?)”, si rifiuta di prestare a chiunque l’ultimo sbaglio disponibile. “Lentissimo” è il brano di apertura del Cd, ci piace citarlo alla fine perché romantico e poetico, come si intuisce dalle belle parole scritte da Malika: “… promettimi l’immenso, giura che sarà perfetto che non importerà se poco a poco si consuma, l’attimo che conta è quello che promette di sognare ora”.
‘Adesso e qui’ si è classificata al 3° posto al Festival di Sanremo
Rispetto ai tre precedenti album, “Naif” ha una marcia in più, ingranata dai testi che evocano immagini cinematografiche e spinto dal ritmo con sonorità Funk, NuJazz e Pop. La produzione è stata affidata ad Axel Reinemer e Stefan Leisering dei Jazznova, già collaboratori di Lenny Kravitz e Jamie Cullum. Sia la canzone sia il video di “Adesso e qui” si ispirano al film “La ragazza sul ponte” di Patrice Leconte, in cui la protagonista, salvata dal suicidio da un lanciatore di coltelli, accetta di fargli da bersaglio nei suoi spettacoli. La canzone di Sanremo non sarà l’unico singolo del disco, altri brani ne hanno la potenzialità, sintomo di un lavoro di qualità, come giustamente ci si aspetta da un progetto firmato Caterina Caselli Sugar.
3. SEGUE – Quando cominciai questo mestiere di manovale del pensiero il mondo era fermo a secoli fa, forse millenni, a parte alcuni particolari, importanti sì – elettricità, radio, automobile, telefono, aeroplani a elica e poi la biro, la televisione era un ridicolo mobile – in pochi anni è avvenuto ciò che era successo prima in secoli e secoli di vita, in cui le piccole scoperte di sconosciuti inventori non avevano mutato più di tanto la società umana: quando un ingegno ignoto aveva introdotto nei cessi lo sciacquone nessuno gridò oooohhhh il miracolo, no, tutti si limitarono a tirare la catena e l’oscuro scienziato finì anch’egli travolto dalla burrasca che si era sprigionata nella tazza e lì dimenticato. Lo sviluppo della tecnica prima e della tecnologia informatica poi ha sospinto l’uomo verso un futuro sconosciuto, pieno di incognite e, perché no?, di rischi, ai miei tempi di ragazzo (che tristezza parlare come hanno sempre fatto i vecchi!) s’imparava un qualsiasi rudimento, che era immutabile nel suo settore e che nella nostra mente sarebbe rimasto inalterato per tutta la vita: adesso?, per carità, due giorni e via!, la verità è cambiata e bisogna leggere le cose a rovescio per riuscire a capirle. Per spiegarle ci vuole il giornalista, cioè quella persona che illustra agli altri ciò che lui non sa o non ha capito.
Il giornalismo non è un lavoro senza regole, anzi le norme ci sono, eccome. C’è, per esempio, la regola inglese delle cinque “W”, who-what-when-where-why, affinché la notizia sia completa, regola soppiantata negli ultimi anni dalla norma ferrea delle cinque “S”, soldi-sesso-sangue-salute-successo, che rappresenta la miscela informativa capace di penetrare profondamente nella testa e nelle tasche del pubblico, oggi non interessa più che la notizia sia completa, l’importante è che faccia orrore, o, peggio, com’è venuto in uso di recente, crei polemica, se, per caso, l’avvenimento non comporta discussioni, allora bisogna creare scontro o controversia: come si fa? Semplice: si chiama una persona che abbia un qualsiasi interesse nell’avvenimento, o, più semplicemente, sia un esperto del settore e, tra rigorose virgolette, gli si fanno dire cose che possano urtare un eventuale nemico, il quale risponderà e così nasce la polemica, di una semplicità esemplare. Importante è non dimenticare le virgolette, hai messo le virgolette?, chiede il capo, tutto virgolettato, risponde il cronista, entrambi pensando erroneamente che le virgolette rappresentino uno scudo sicuro contro le querele. Ma ignoranza e stupidità sono gli strumenti di maggiore importanza per fare di un giornalista un grande, per aiutarlo a diventare un capo o un famoso inviato speciale. C’era un mio collega che proprio non sapeva (o non voleva) essere usato come uomo-macchina, cioè uno di quelli che costruiscono il giornale, i famosi culi di pietra, ma non sapeva nemmeno scrivere, quando arrivava alla frase relativa perdeva il controllo e i verbi si accatastavano a casaccio, gli dissi di lasciar perdere con le relative, che abbisognano della consecutio temporum e di impegnarsi in una scrittura neorealista, all’americana degli anni Quaranta, soggetto, verbo e complemento oggetto. Stop. Era un ragazzo intelligente, comprese e divenne un maestro di quella narrativa mozza, sincopata che il giovane Steinbeck ed Erskine Caldwell insegnarono a tanti aspiranti scrittori. Fu così che il collega, gettandosi dietro le spalle le frasi subordinate e i “che”, divenne un notissimo inviato speciale. Naturalmente molto attento, ma dignitosamente, al pensiero padronale, altrimenti non avrebbe fatto carriera: e questa, ripeto, è la prima regola del giornalismo. E’ un principio che la Chiesa inaugurò solennemente con l’introduzione dell’indice, l’elenco dei libri proibiti (Index librorum proibitorum), nel 1557 per ordine del papa Paolo IV, idea geniale che piacque moltissimo ai potenti di allora, piacque tanto che al cardinale di Francia Richelieu venne un’idea straordinaria: il furbissimo e spietato ecclesiastico aveva compreso che quel foglio, la “gazzetta”, a cui l’invenzione della stampa da parte di Gutenberg aveva regalato velocità, sarebbe diventato uno strumento insostituibile del potere per conformare e controllare l’opinione pubblica. La famosa canaglia ecclesiastica, Richelieu, conferì l’incarico di giornalista del re a Théophraste Renaudot, il quale aveva una strana idea della cronaca e della storia. Scrisse: “La storia è la relazione delle cose avvenute, la gazzetta soltanto dei rumori che corrono. La prima è tenuta a dire sempre la verità, la seconda fa già molto se impedisce di mentire. E non mente nemmeno quando riferisce notizie false che le sono comunicate come vere”. Poi aggiunse, forse per una tarda presa di coscienza, o per salvare la faccia: “Solo la menzogna diffusa coscientemente come tale può renderla degna di biasimo”. Era la benedizione definitiva alla pubblicazione di notizie taroccate, prassi diffusissima (sempre più praticata) da allora fino ai tempi nostri. Nessuno ha poi mai tentato di spiegare come da notizie false sia possibile costruire una storia veridica, sempre che sia possibile scrivere la storia senza l’intrusione definitiva dei vincitori.
Auguri, cara, i tuoi primi 40 anni. Li porti davvero bene. Sei sempre la dolce ragazza, dagli occhi grandi spalancati sul mondo, tutta lentiggini e simpatia che eri. Sei stata allegra, con amori difficili e tante delusioni ma sempre sorridente. Allora come ora. Non sei cambiata affatto e, per festeggiare il tuo compleanno, ti hannodedicato un libro, è stata lei, Lidia Bechis, con il suo “Candy Candy – Amori e battaglie della prima grande eroina dell’animazione”.
La copertina del libro
I tuoi allegri codini, ribelli e dispettosi, con i grandi fiocchi rossi sono stati imitati da tante bambine. Sei stata e sei un modello, tante ragazzine si sono identificate con il tuo personaggio e le tue traversie, soprattutto amorose. Candy Candy, sei stata la prima eroina giapponese d’animazione, un manga del genere ‘shojo’ (i fumetti dedicati al genere femminile), nata dai disegni di Yumiko Igarashi nel 1975, tratti dal romanzo di Kyoko Mizuki. Sei passata dai cartoon televisivi, prodotti da Toci Animation e trasmessi dal 1980 in Italia, al cinema, con ben due film. Cristina d’Avena cantava la sigla delle tue avventure, l’italiana Fabbri Editori, negli anni ’80 aveva pubblicato su di te cinque libri, dal titolo “Il romanzo di Candy Candy” (i primi due – ‘Il mistero del principe’ e ‘Arrivederci Terence’ – riprendevano la trama della serie tv, mentre gli ultimi tre – ‘Gli anni di Parigi’, ‘Bentornata a Chicago’ e ‘Un’avventura ad Hollywood’ – narravano avventure inedite, scritte dagli autori italiani). Ora un nuovo libro su di te, quello di Lidia, pittrice appassionata delle tue storie, che ti ritiene tappa fondamentale della sua formazione e di quella di molte generazioni di donne.
Il volume è illustrato con 100 immagini a colori, la tua storia inizia nei primi anni del Novecento, con l’abbandono di due orfanelle, tu e Annie, in un orfanotrofio religioso, Casa di Pony, retto da Miss Pony e da Suor Maria. A farti compagnia, un improbabile e simpatico animale domestico, il procione Klin. Quando Annie verrà adottata dalla ricca famiglia Brighton, resterai all’orfanotrofio sentendoti sola, abbandonata e ferita, fino al giorno in cui, sulla collina dove ti ritiravi momenti di tristezza, incontrerai un giovane dai capelli biondi, vestito con un kilt scozzese, che ti consolerà, suonando la cornamusa. Una spilla a forma di aquila con sopra una lettera “A”, che il giovane, da te soprannominato il Principe della Collina, perderà danzando, resterà sempre con te. Presto sarai adottata dalla potente famiglia aristocratica dei Legan. Qui, ti scontrerai con i loro viziati figli, Iriza e Neal, e sarai costretta a fare la cameriera e a dormire nelle stalle. Conoscerai, però, la famiglia Andrew, dove ritroverai lo stesso stemma della spilla caduta al tuo bel Principe della Collina. Qui a comandare sarà l’arcigna e anziana zia Elroy e tu farai amicizia con i suoi nipoti Archie e Stear e il loro cugino Anthony, somigliante al Principe della Collina. Tra te e Anthony nascerà un sentimento tanto forte che quando i Legan decideranno di mandarti in Messico il ragazzo e i suoi cugini faranno di tutto per impedirlo, fino a convincere la famiglia ad adottarti e farti diventare una Andrew. Anthony ti regalerà la rosa ‘dolce Candy’ ma morirà cadendo da cavallo durante una caccia alla volpe e per te sarà un’enorme tristezza. Tra un amore e l’altro, partirai per andare a studiare in Inghilterra alla Saint Paul School, dove m’incontrerai, scoprendo che suono l’armonica e sono il figlio di una nota attrice teatrale, e diventerai infermiera in un ospedale di Chicago durante la Grande Guerra. Vivrai tante altre avventure e delusioni e, infine, tornerai nel tuo paese, dove conoscerai Albert, un giovane vagabondo che vive in un rifugio nella foresta circondato dagli animali. In realtà scoprirai che Albert, William Albert Andrew, altri non è che il buon amico che ti ha sempre aiutata, il tuo benefattore, lo zio William Albert. Sarai felice, infine, anche senza di me. Gli intrecci saranno tanti, ci siamo cercati e persi, ma in tutto questo, io non mi sono mai arreso. Anche se le cose sono andate diversamente. Auguri comunque, piccola, travagliata, curiosa, splendida, coraggiosa e ottimista Candy. Il tuo Terence.
Significativo riconoscimento per Giuliana Berengan, che ha debuttato ieri come collaboratrice del prestigioso Wall street International con una riflessione, ospitata nelle sezione cultura dell’edizione online, su parole, memoria e linguaggio, che qui riportiamo integralmente.
Ferrarese, classicista e cultrice di storia antica, Berengan è autrice di numerosi volumi fra i quali Cronache inedite di fine secolo (1993), Le Dame della Corte Estense (1997), I Book-Notes (2000), Le parole di Penelope (2004), Favolose parole (1993 e 2005), Favolosi Anni ’80. Ferrara fabbrica di idee (2010)”.
di: Giuliana Berengan
Quello che porta alla creazione della parola è un processo lungo, accidentato, denso di fratture, di lacerazioni e di ricuciture, spesso lento, impercettibile e proprio per questo
difficile, talora incomprensibile, fatto di entusiasmi e di malinconia, di attimi drammatici e di gioie improvvise e dirompenti, di silenzi e di ascolto, di attese e di slanci, di visioni e di fantasmi, di immaginazione e di rimandi apparentemente senza legame alcuno, di associazioni di pensieri, di giustapposizioni di suoni, di segni, di percezioni, di viaggi con o senza ritorno, di prigionie e di evasioni, di lacrime e di sorrisi guardati soltanto allo specchio, di animalità e di raffinatezza, di falsità e di verità, di concessioni e di rigorosi dinieghi, di ammissioni e di rifiuti, di percosse e di carezze, di tenerezza e di violenza, di follia e di lucida coerenza, di piccole sfumature e di forti colori, di morte e di rinascita, un processo che non ha fine come non ha fine il respiro, il soffio che dà nutrimento e crea la trama sonora sulla quale la voce tesse le forme della parola, un processo che contiene il
mistero della vita.
Per questo il tessuto della scrittura ha a che fare con la fatica della nascita, con la pazienza che ne accompagna l’attesa, con la capacità di percepire i segni che ne sono preludio: parole
come semi che devono essere accolti, deposti, ascoltati crescere fino a transumanarsi in emozioni che alimentano e sono alimentate dalle vibrazioni dell’anima. Nella tradizione
indù la Parola assume le sembianze di Vac, la sposa di Brahma ed è Lei che si fa portatrice del doppio nutrimento, quello corporeo e quello che passa attraverso le sillabe prime e dà
vita al linguaggio, a mostrare così l’intreccio originario della materia sottile con la fisicità ed a testimoniare la sacralità della parola e il suo legame ancestrale con la potenza generante. La parola fatta nascere con amore invade i sentimenti, induce la commozione poiché al di là dei segni che vediamo distendersi a disegnare il testo c’è l’infinito, invisibile universo di sentire e di sapere che sottende all’esperienza creatrice, un mondo di sensazioni che rimanda a memorie lontane, che passa attraverso il gesto della mano che scrive srotolando e
facendo scorrere tra le dita il filo dei ricordi come su un antico telaio. La capacità di ricordare ovvero, secondo la bellissima etimologia di questa parola, di ‘riconsegnare al cuore’ le caleidoscopiche immagini che la memoria ci rimanda, è un dono prezioso, capace di contrastare la tirannia del tempo e dello spazio. I ricordi, come energie sottili partite
chissà da dove, alimentate da fonti misteriose, ci attraversano come linfa vitale, toccano i nostri sensi assuefatti ad odori globalizzati e sapori seriali per ricondurli in giardini segreti, profumati di malinconia dove si può assaporare la dolcezza di frutti proibiti.
Attraverso questa rete del cuore il tempo dell’intensità che non ha durata prende la sua rivincita, i confini angusti della vita reale si dilatano, possiamo accogliere cose, figure, voci,
sentimenti che si presentano a noi per annodare i fili che ci tengono fortemente attaccati alla nostra matrice. Mi piace usare questa parola di un lessico fortemente connotato al
femminile poiché la memoria ha origine in un corpo di donna. Mnemosine, la dea che nell’Olimpo greco la personifica, è la figlia del Cielo e della Terra ed è a lei che Zeus si unisce
per generare le Muse, e dunque voglio pensare che non ci sia arte senza ricordi e che non ci siano ricordi senza il prezioso “lavoro di cura” che sempre le donne hanno fatto per
custodire la lingua del cuore. I ricordi sono i fili dell’ordito sui quali va ad intrecciarsi la trama di altri ricordi a formare il tessuto ossia il testo sul quale sono tracciati i segni che testimoniano il nostro essere nel tempo, ma anche la nostra capacità di condividere eraccontare mondi che, attraverso la memoria dei sensi, si sono depositati nel nostro corpo e
lo percorrono come il reticolo del sangue.
Memoria antenata che si batte per sopravvivere all’ideologia del presente che cerca le proprie ragioni in sé; memoria emozionale che è anche bisogno di immergersi nelle sorgenti
del nostro essere e del nostro sapere: un incontro empatico che si accompagna ineluttabilmente alla nostalgia, una parola che vorrei riammantare di tutta la sua intensità.
Nostalgia è il desiderio doloroso del ritorno, è un sentimento forte e tenero, un impasto di dolcezza e di malinconia, di tristezza e di gioie fuggite lontano, una teoria di ombre che
sfilano davanti agli occhi della memoria come le piccole sagome delle miniature di Norimberga. Attraverso la nostalgia luoghi e persone ritrovano l’innocenza nel senso
originario della parola: non possono più nuocere ma soltanto suscitare rimpianto per ciò che si è perduto e di cui ancora si sente il desiderio. E se il rimpianto è un ‘rammentare
piangendo’ allora la nostalgia ha anche il compito di saziare la sete di lacrime che Platone riconosceva come parte della nostra anima: un piacere liberatorio che è compito del poeta
provocare.
E come negare che ciascuno di noi soffre ed è al tempo stesso sedotto dal desiderio di un nostos, di un ‘ritorno’: ad un amore, all’infanzia, ad un antico ideale. Poco importa quale sia
la meta poiché sempre la nostalgia è ritorno alle terre incantate di un sogno. Non lasciamo morire la nostalgia. E’ preziosa. Senza di lei nessun Ulisse potrà ritrovare la propria Itaca e
nessuna Penelope potrà riabbracciare l’amore perduto, senza di lei non c’è desiderio di ricordare e di raccontare, non c’è musica che rapisce i sensi, non c’è parola spesa con
generosità, donata con passione e con le parole bisogna essere generosi, bisogna lasciarsi innamorare.
Questo mio scritto vuol rendere omaggio ad alcune parole a me molto care: pazienza, attesa, commozione, ricordo, malinconia, memoria, nostalgia, innocenza, rimpianto, e
chiede a chi leggerà di dedicare qualche attenzione e amorevole cura alle antiche Signore che hanno accettato di apparire in questo verbodramma.
Le imprese hanno un posto molto importante nella nostra società. Se il ruolo economico di queste organizzazioni è scontato, quello sociale diventa sempre più frequentemente oggetto di analisi, riflessione, discussione e polemica. L’importanza delle imprese ci viene ricordata ogni giorno dai nostri comportamenti d’acquisto di beni e servizi, è ribadita da un discorso economico invasivo veicolato dai media ed è confermata dalla frequenza con cui nel linguaggio comune ricorrono termini di derivazione aziendalista come “business”, “consumatore”, “imprenditore”, “manager”, “investitore”, “cliente”. Il ricorrente uso di termini inglesi entrati nell’uso comune certifica appunto la provenienza aziendalistica di un sapere volgarizzato quanto diffuso incapace di rendere ragione della reale complessità delle cose.
Il mondo delle imprese è infatti una galassia enorme, diversificata, i cui corpi sono interconnessi in modi a volte sorprendenti: corporation multinazionali, grandi imprese, piccole e medie imprese, micro imprese, mostrano una varietà dimensionale che oscilla tra aziende da milioni di persone occupate ed aziende composte da poche persone, a volte una sola. Imprese artigiane, fordiste, familiari, agiscono nei settori più disparati, offrendo servizi e beni tangibili; società di persone e di capitali, imprese private e pubbliche, offrono solo un idea succinta e sommaria delle diversità normative che regolano la struttura e i sistemi di governo di queste organizzazioni. Al di là delle definizioni giuridiche, la galassia degli oggetti organizzativi che vanno sotto il nome di impresa è davvero complessa: non è possibile argomentare bene intorno a questo oggetto senza tener conto di questa straordinaria complessità, senza qualche informazione che consenta di ridurre il campo del possibile a qualcosa di manipolabile, senza un riferimento indicativo a qualche specifico tipo di impresa.
Resta il fatto che quando si parla di impresa il pensiero corre assai più facilmente alla Fiat, alla Shell, a McDonald o alla Barilla, a Google Foxxcom o Apple, piuttosto che ai distretti ed alle botteghe artigiane (su cui è stato costruito il successo del prodotto italiano), al caso Olivetti o al bar sotto casa. Proprio a quel tipo di impresa, la grande corporation, è stata rivolta più spesso l’attenzione dei ricercatori e degli analisti: qui è stato messo a punto un corpus di conoscenze che sono diventate il mainstream del management, una forma di sapere condiviso da ogni esperto e consulente che è stata applicata ad ogni tipo di realtà organizzata prescindendo spesso, in nome di una presunta efficienza, dalle differenze e dalle specificità proprie dei diversi contesti. In questo tipo di grande azienda, a partire dagli anni ’90, si è venuto affermando un modello di governo d’impresa che ha rilanciato la forza della proprietà finanziaria a danno degli altri soggetti coinvolti nel fare impresa: lavoratori e quadri, clienti, fornitori. Lo scopo dichiarato di esso è quello di massimizzare ad ogni costo e nel breve periodo il valore in borsa, senza incidere spesso sul fatturato, sul profitto, sugli impianti produttivi. Come un virus questo approccio si è diffuso dalle aziende quotate in borsa alle altre, spingendo una corsa a fusioni, aggregazioni, delocalizzazione, operazioni finanziarie spericolate, che hanno spostato molte imprese verso la zona grigia della irresponsabilità sociale.
Come è noto, un’impresa è irresponsabile se non risponde al di là degli elementari obblighi di legge ad alcuna autorità pubblica o privata né all’opinione pubblica, circa le conseguenze economiche, sociali ed ambientali del suo operato. Prescindendo da comportamenti illegali, un’impresa fortemente irresponsabile si connota per comportamenti quali:
– trasferimento della produzione e delocalizzazione in stati meno controllati;
– chiusura totale o parziale, minacce di licenziamento per ottenere la flessibilità;
– salari e condizioni di lavoro indecenti in patria e all’estero;
– azioni di comunicazione (greenwhashing) ben architettate per mostrare un’immagine falsa di sostenibilità e impegno sociale,
– fortissime azioni di lobbing per ottenere leggi, norme e condizioni favorevoli ai propri interessi.
L’impresa irresponsabile prospera laddove manca il senso del bene pubblico e la buona cittadinanza è assente: il capitalismo neoliberista che ha imperato negli ultimi decenni ha imposto una nuova antropologia nella quale proprio la funzione di “consumatore” ha sostituito quella di “cittadino”. La globalizzazione d’altro canto ha indebolito la possibilità di controllo mentre il dominio della finanza ha spostato verso questo versante l’interesse di molte aziende. In tale contesto, l’impresa, rischia seriamente di diventare (e in molti casi è diventata) uno strumento per la cancellazione di ogni responsabilità che non sia quella del profitto degli azionisti.
Contro l’idea che scopo unico dell’impresa sia quello di produrre profitti si colloca l’articolo 41 della nostra costituzione: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.”
Ma in Italia esisto davvero politiche e programmi finalizzati ad indirizzare in modo sistematico l’agire economico a fini sociali? Esiste una strategia ed una visione di ampio respiro orientata a sanzionare le imprese irresponsabili e a promuovere quelle responsabili? Osservando i vari disastri di una certa politica industriale, la distruzione del territorio e dell’ambiente che ha visto e vede protagoniste molte aziende, le cause intentate a grandi imprese per disastro ed attentato alla salute pubblica, la scoperta di sempre nuove terre dei fuochi, sentiti i discorsi di quanti vorrebbero cambiare la costituzione per inserirvi a forza le imprese, sembrerebbe proprio di no.
Ancora una volta dovrebbe essere il cittadino armato di senso civico il miglior deterrente contro la deriva irresponsabile delle imprese. Ma quando il cittadino è ridotto a consumatore, quando perde il lavoro e vengono a mancare le garanzie del welfare, quando la politica rinuncia al suo ruolo chiaramente sancito dalla Costituzione, quando viene meno anche la capacità di inventare soluzioni alternative, ogni buona intenzione sembra destinata al fallimento.
Resta però la certezza che l’Italia ha saputo esprimere imprenditori ed imprese straordinarie, che esistono casi molto più numerosi di quel che si possa immaginare di imprese socialmente impeccabili; resta la determinazione a sostenere quella classe di imprenditori responsabili e di cittadini virtuosi che resistono e non si rassegnano allo sfascio morale che sta dietro alla crisi economica.
Suggerirei di rileggere o leggere, per chi non l’ha ancora fatto, il libro di Amin Maalouf, giornalista e scrittore libanese naturalizzato francese, pubblicato in Italia nel 1993, “Le crociate viste dagli arabi”.
È una lettura utile per chi voglia comprendere le ragioni del millenario conflitto tra Islam e Occidente. Il racconto delle crociate viste con gli occhi degli arabi è un’altra storia rispetto a quella che abbiamo appreso sui banchi delle nostre scuole. Ed è scontato che questo accada, a seconda che si stia dalla parte degli aggressori o delle vittime. Ma ciò che conta è la sensazione che resta al termine della lettura. E cioè l’impressione che prima o poi i nodi dovevano venire al pettine della storia. Solo una ottusa narcisistica arroganza dell’Occidente può ancora pensare di evitare questo appuntamento.
Il punto di partenza delle attuali tensioni può essere datato al 1095, quando i crociati europei lanciarono la guerra santa per conquistare la città di Gerusalemme. La loro invasione ha dato avvio alla guerra santa islamica, la jihad che continua tuttora.
Di fronte alla folle ferocia del Califfato che oggi sgozza i suoi prigionieri o li arde vivi in gabbie di ferro si ha l’impressione di una tragica legge del taglione, di una vendetta della storia nelle mani di un irriducibile fanatismo religioso.
Attraverso il mondo, dall’America all’Europa, dall’Africa al Medio Oriente, dal Pakistan all’Indonesia i fanciulli che frequentano le madrasa, le scuole islamiche, mandano a memoria gli stessi libri: il Corano in arabo antico e l’Hadith, il testo che contiene detti e aneddoti sulla vita del profeta Maometto. Analogamente ai testi Cristiani e di Confucio, queste letture hanno influenzato le menti di innumerevoli generazioni.
In Pakistan ci sono oltre 10.000 madrasa che preparano i futuri leader politici e religiosi. La scuola più importante è Haqqania che ha laureato i leader dei Talebani, e il gruppo dirigente dell’Afghanistan. Nell’ Haqqania gli studenti, dagli otto ai trent’anni, passano da sei mesi a tre anni a memorizzare il Corano in arabo coranico, unico veicolo ammesso per comprendere la parola di Dio, rivelata da Maometto. In questo modo gli studenti di Haqqania e gli studenti delle scuole islamiche nel mondo apprendono un linguaggio condiviso da oltre un miliardo di mussulmani. Non solo ciò consolida i legami tra le nazioni e le comunità islamiche, ma rende saliente il diritto all’apprendimento della propria lingua nei Paesi dove i mussulmani sono una minoranza.
La storia islamica e il diritto islamico completano gli studi degli studenti nella Haqqania. Il corso di storia islamica fornisce loro potenti promemoria dell’imperialismo occidentale. I Paesi islamici ancora sentono l’umiliazione dell’imperialismo occidentale, di conseguenza stupiscono circa la nostra pretesa di essere i progenitori e i difensori dei diritti umani nel mondo.
La giurista Ann Mayer cita il leader religioso Ayatollah Khomeini: “Quelli che sono chiamati diritti umani altro non sono che una collezione di regole corrotte tratte dal Sionismo per distruggere tutte le vere religioni”. All Khamene’i, attuale Guida Suprema dell’Iran, ha commentato, “Per noi la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani non è che una collezione di ‘Mumbo-Jumbo’ dei discepoli di Satana.”
La Dichiarazione del Cairo dei diritti umani, del 1990, si è resa, dunque, necessaria perché la nostra visione dei diritti dell’uomo non è compatibile con la concezione della persona e della comunità che ha l’Islam. Per l’Islam, il diritto all’istruzione è giustificato dall’esigenza religiosa di conoscere il Corano e non dalla dottrina occidentale del diritto naturale. Come risultato, la libertà di pensiero e di espressione nelle nazioni islamiche è ammessa solo in conformità ai dettami della legge di Dio o della Sharia.
Disgraziatamente, il Corano disegna un mondo diviso tra credenti e infedeli. In aggiunta c’è la lunga storia di persecuzioni dei mussulmani da parte dell’Occidente. Ma nello stesso tempo il Corano proibisce la compulsione religiosa, l’imposizione del credo religioso sugli altri.
D’altra parte non c’è nulla nel Corano che proibisca la pace tra i Paesi islamici e le altre nazioni, se nei fatti il Corano stabilisce, “Combatti nel nome di Dio coloro che combatti, ma non essere aggressivo: Dio non ama gli aggressori.” (2:190)
Il tempo e lo sforzo consapevole dell’Occidente come delle nazioni mussulmane potranno cancellare questo antagonismo storico e ridimensionare la dottrina del nazionalismo.
In questa direzione l’Occidente, a partire dal nostro Paese, può compiere da subito un passo in avanti relativamente ai diritti dei mussulmani nei Paesi dove sono minoranza. Non solo consentire la costruzione delle moschee, ma riconoscere il diritto ad apprendere l’arabo coranico come seconda lingua nelle scuole pubbliche. Si tratta di un’importante lingua internazionale che unisce una delle più grandi comunità culturali del mondo. L’arabo coranico potrebbe essere insegnato nelle scuole pubbliche laiche senza l’uso di testi religiosi, così come noi apprendiamo il latino a prescindere dalla chiesa cattolica. Se lo spagnolo, il latino, il tedesco, il francese, l’italiano, l’ebraico, il russo ecc. sono insegnati come seconda lingua nelle scuole pubbliche dell’Occidente, perché no l’arabo coranico?
Aiuterebbe veramente l’incontro tra le culture, quella occidentale e quella mussulmana, al di là di ogni sterile predica di integrazione e di pluralismo culturale.
Nel nostro paese, che consente l’insegnamento confessionale della religione cattolica a spese dello stato, questo diritto ha maggiore motivo d’essere garantito.
Non è accettabile che il diritto all’istruzione, sancito solennemente dalla nostra Costituzione, incontri delle limitazioni nei confronti dei tanti mussulmani che fuggono dalle discriminazioni e dalle imposizioni teocratiche dei governi e dei nazionalismi dell’Islam.
E’ veramente singolare constatare come a pochi stia a cuore il definitivo restauro di Palazzo Schifanoia, mentre invece la paventata chiusura della caffetteria che si trova nel cortile del palazzo ha suscitato l’interesse dei mezzi di informazione, oltre a miriadi di interventi e commenti sul web. Da ultimo, anche alcuni esponenti di un paio di forze politiche di opposizione hanno pensato bene di salire sul carro della polemica, ergendosi a paladini di un imprenditore angariato, in difesa della continuazione della gestione della caffetteria da parte di quest’ultimo.
Prima di tutto, mi sia consentito dare una piccola notizia, che temo interesserà a pochissimi ma che è tuttavia necessaria per comprendere il contesto generale: il progetto per l’adeguamento sismico e il conseguente restauro di Palazzo Schifanoia sta terminando l’iter delle necessarie autorizzazioni. Vincoli delle finanze locali permettendo, speriamo di avviare il cantiere a cavallo della fine d’anno. A lavori conclusi, avremo un palazzo sicuro in tutte le sue parti (dopo i danni provocati dal sisma del 2012, che ne hanno ridotto gli spazi agibili), con un allestimento museale completamente nuovo e pensato per dare visibilità anche a tanta parte del nostro patrimonio artistico (ad oggi conservato nei depositi), e un ascensore, che finalmente consentirà a chiunque di accedere al piano superiore. Ma ora smetto di dilungarmi su queste “inezie”, e passo all’argomento che sta veramente a cuore al popolo del web, ad alcune forze politiche e – di conseguenza – ai mezzi d’informazione.
L’attuale concessione per il servizio di gestione della caffetteria scade ai primi d’aprile. Data la natura commerciale dell’attività (la caffetteria sarà pure un luogo dell’anima, ma rimane sostanzialmente una caffetteria), non si può provvedere ad affidare nuovamente il servizio se non attraverso un bando di gara. L’attuale gestore sostiene di aver maturato il diritto a vedersi riconosciuto un affidamento diretto. Nonostante sia stato invitato più volte, anche nel corso di numerosi incontri, a sostenere questa sua pretesa con valide argomentazioni giuridiche, l’invito è caduto nel vuoto. Forse se le motivazioni non arrivano è perché di valide – sul piano della legittimità – ve ne sono poche o nessuna.
La decisione presa dall’Amministrazione comunale è di non procedere con il bando per il nuovo affidamento del servizio fino al termine dei lavori. Il motivo è semplice: i lavori comporteranno la chiusura del Palazzo e anche il cortile sarà area di cantiere. Sarebbe sbagliato suscitare legittime aspettative in coloro che sono disposti a candidarsi per la gestione (di manifestazioni di interesse ne abbiamo avute parecchie, e chi le ha avanzate non ha – fino a prova contraria – minori diritti rispetto all’attuale gestore), per poi deluderle con un forzato periodo di chiusura, che purtroppo – considerata la complessità e delicatezza del restauro – non sarà breve.
Ma perché allora non prorogare l’attuale gestione fino all’inizio dei lavori? Il motivo, anche in questo caso, è semplice: l’attuale gestore è moroso, non paga il canone di concessione. Una morosità iniziata prima del sisma, quando cioè la gestione non poteva ancora aver risentito degli effetti negativi derivanti dal terremoto, che si è tradotta in un debito significativo nei confronti del Comune, cioè di tutti i cittadini ferraresi; e che apparirà, credo, scandalosa a tutti coloro che invece un canone lo pagano.
Il debito, dicevo, è rilevante, e permane tale nonostante: a) si sia concesso al gestore di riprendere l’attività – a furor di popolo, di associazione di categoria e di articoli di stampa – già a settembre 2012, sebbene il Museo fosse chiuso perché inagibile, dotandolo (ad onere del Comune) di bagni chimici perché i bagni del Museo erano irraggiungibili. Questo, dopo aver inutilmente tentato di prospettare al gestore e alla sua associazione di categoria che con il Museo chiuso la caffetteria ben difficilmente avrebbe avuto introiti adeguati; b) il gestore si sia tardivamente reso conto che con il Museo chiuso gli affari non andavano bene (sorprendente, vista la mole di testimonianze sul web attestanti il fatto che a Schifanoia ci si va per la caffetteria, e non per vedere gli affreschi del Salone dei Mesi); c) di conseguenza, il gestore si è nuovamente rivolto all’Amministrazione, e nel corso di incontri tra lui, un dirigente della sua associazione di categoria, il legale dell’associazione medesima e tecnici del Comune si è concordemente convenuto che la dirigente del Servizio Patrimonio del Comune e il legale di parte avrebbero condiviso una soluzione che contemperasse il sollievo alle difficoltà del gestore con l’esigenza imprescindibile di legittimità degli atti del Comune (non si ha qui la pretesa che questa esigenza sia compresa da tutti, ci basterebbe che la sentisse come propria chi siede in consiglio comunale come Paolo Spath di F.d.I./Alleanza Nazionale o in consiglio regionale, come Alan Fabbri della Lega Nord); d) la soluzione, condivisa dalla dirigente comunale e dal legale di parte, prevede, a decorrere dall’autunno 2012 e fino alla scadenza della concessione, uno sconto significativo sul canone, giustificato dal fatto che il Museo era stato solo parzialmente riaperto nella primavera 2013, e che quindi erano oggettivamente ridotte le potenzialità attrattive anche per la caffetteria (da notare: è vero che il Museo è riaperto solo parzialmente, ma il Salone dei Mesi è visitabile e nel corso del 2014 si sono avuti circa 52.000 visitatori, il picco da molti anni a questa parte); e) al gestore è stato proposto un piano rateizzato di rientro dal debito pregresso, a cui a tutt’oggi non è stata data risposta. Anzi, si è data risposta con un’abile campagna pubblicitaria, alla quale anche alcuni esponenti politici si sono accodati.
Questi i fatti, che lascio giudicare a voi. Per parte mia, posso solo dire che prorogare la concessione del servizio a un gestore pervicacemente moroso costituirebbe, oltre che un danno erariale, un’offesa al buon senso e a tutti coloro che faticosamente fanno fronte ai propri impegni. Aggiungo che il Comune agirà in tutte le sedi per recuperare un credito che appartiene ai cittadini, e che diffido il gestore dall’utilizzare la caffetteria e il nome di Schifanoia per campagne di informazione e di sottoscrizione che sono tutte squisitamente pro domo sua. Lancio, invece, una proposta agli esponenti di opposizione che hanno ritenuto di strumentalizzare questa vicenda: siccome dovrebbero conoscere molto bene quali sono i limiti posti all’agire di una Amministrazione pubblica, dico che sono disposto a considerare l’ipotesi di una proroga fino all’inizio dei lavori se garantiranno di tasca propria il puntuale pagamento del debito e dei canoni successivi, depositando anticipatamente l’intero importo quale cauzione,. Sarebbe anche un bel modo per dimostrare concretamente quella fiducia nelle capacità del gestore che sino ad oggi hanno sbandierato gratis.
“Siamo in questo mondo per portare pace e felicità a tutti gli esseri viventi. Per raggiungere questo obiettivo dobbiamo adottare stili di vita pacifici e non dannosi e una non interferenza nella felicità degli altri”. Swami Nirmalananda
Quando ci si avvicina alla pratica dello yoga, inevitabilmente emerge il tema del vegetarianismo. Prima o poi la questione viene a galla, perché yoga e rispetto di ogni tipo di essere vivente sono strettamente legati e interconnessi. Pare difficile, infatti, prescindere dalla riflessione sul controllo del proprio corpo, della propria respirazione e del proprio battito se non ci si vede e ci si immagina immersi e facenti parte di un mondo naturale più esteso.
Parte di un ciclo, che si apre e si chiude, liberi ma rispettosi. Forse la riflessione non è immediata e arriva dopo qualche tempo e in seguito a una vera, intensa e cosciente dedizione alla pratica dello yoga, ma arriva. La simbiosi fra yoga e vegetarianismo è chiara laddove si pensi al fatto che la base dello yoga è la gentilezza, il rispetto della vita di ogni essere vivente, che deve essere libera e felice, e la considerazione che le azioni della propria devono contribuire in qualche modo alla felicità e alla libertà di tutti. Perché ciascuno di noi ha un ruolo da spendere e una responsabilità, ciascuno può fare qualcosa. Mai pensare che da soli non possiamo cambiare nulla. Mangiare carne o pesce significa privare della vita un altro essere vivente che spesso viene cresciuto e allevato proprio per soddisfare l’appetito umano, che si trova in batteria proprio per questo, alimentato con cibi di origine animale, quando per natura spesso è erbivoro. A nulla varrebbe la considerazione che gli animali si cacciano loro stessi per natura, perché non mangiamo tigri o leoni. Il latte, poi, anche quello viene sottratto al piccolo cui sarebbe dedicato, al quale la natura ha pensato, perché disponibile alle e dalle madri che hanno appena partorito, per i loro cuccioli, non certo per noi. Non è semplice sposare queste teorie né vogliamo farcene paladini (anche se, ammettiamo, ci ispirano una certa simpatia, o non ve ne parleremo), anche perché ognuno è abbastanza grande da comprendere ragioni e magari limiti di pensieri come questi. Certo è che le riflessioni di molti libri, fra i quali uno particolarmente interessante di Sharon Gannon, fondatrice del metodo Jivamukti Yoga (“Yoga and Vegetarianism”, Mandala Publishing, 2008, 144 p.), non vanno sottovalutate, soprattutto quando, dati alla mano, evidenziano anche il legame fra consumo di carne e riscaldamento globale (secondo le Nazioni unite l’allevamento di carne a uso alimentare comporta un aumento delle emissioni di gas a effetto serra maggiore di quello provocato dai trasporti), inquinamento idrico (la maggior parte dei rifiuti degli allevamenti, che contengono pesticidi, erbicidi, antibiotici e ormoni, finiscono in fiumi e oceani), uso dell’acqua (oltre la metà dell’acqua consumata negli Stati Uniti, ad esempio, è usata per l’allevamento di animali), terra e suolo (sempre negli Stati uniti, oltre l’80% dei terreni è utilizzato per allevare animali e grano/alimenti ad essi dedicati), deforestazione (aumenta per fare spazio ai terreni necessari per il punto precedente), grano (sempre sul suo, americano, l’80% del grano coltivato e il 95% di altri cereali, sono destinati ad alimentazione animale), petrolio (anche qui la percentuale di combustibile fossile destinato all’allevamento è altra, oltre un terzo di tutti i combustibili fossili usati in America), mari e oceani (si stanno svuotando di vita, spesso anche a causa di una pesca selvaggia, indiscriminata e non controllata). Senza dimenticare i benefici per la salute, in un’alimentazione povera di colesterolo, ormoni e grassi.
A mio avviso, tali riflessioni sono importanti, non vanno sottovalutate e, indipendentemente da un’applicazione più o meno rigorosa, credo che vadano conosciute. Sharon, nel libro citato, ricorda, poi, che gli uomini non sono biologicamente ‘disegnati’ come mangiatori di carne: anatomia e fisiologia suggeriscono il contrario, basti pensare che abbiamo bocche e denti piccoli. La vita, poi, è sacra, insegna lo yoga, siamo esseri spirituali grazie al nostro respiro. Ecco perché nello yoga la respirazione è tanto importante e va conosciuta, seguita e curata. Il respiro è connesso all’aria che tutti respiriamo. Se respirare significa vivere, allora non bisogna interrompere ‘l’alito di nessuno’, nemmeno quello degli animali. Respirare, quindi, ma connessi al tutto. Sempre.
Se lo yoga non pare, quindi, rappresentare solo un modo di essere, esso si riferisce piuttosto a un modo di vivere in armonia con il tutto dell’esistenza. Senza carne o pesce o solo con i frutti della terra, vale la pena mettersi in comunicazione con la vera essenza del mondo. Il suo respiro. Perché come trattiamo gli altri determina la nostra stessa realtà.
L’Ipsia “Ercole I d’Este”, Istituto professionale per l’Industria e l’artigianato di via Canapa, negli ultimi 12 anni ha attraversato una serie di avversità che ne hanno un po’ offuscato l’immagine. Ma le cose stanno notevolmente cambiando, da un paio d’anni c’è una vera e propria ‘rivoluzione’ in atto: un gruppo molto motivato di docenti, sostenuti e coordinati dal nuovo preside Roberto Giovannetti, sta risollevando le sorti dell’istituto attraverso una progettazione innovativa. Con l’avvio del nuovo anno scolastico hanno avviato un progetto sperimentale triennale molto articolato, rivolto a tutta la scuola, e in particolare alle classi prime, nell’ambito del protocollo d’intesa per la prevenzione del bullismo e delle devianze giovanili che vede coinvolti, tra gli altri Promeco, Provincia, Prefettura, ufficio minori della Questura e l’Università di Bologna.
Docenti e preside hanno contattato la redazione di ferraraitalia, perché sentivano la necessità di raccontare il grande rinnovamento che vede protagonisti docenti e studenti e che merita di essere reso pubblico. La sfida è quella di cambiare la percezione che gli studenti stessi hanno della loro scuola, e ciò sta avvenendo grazie al fatto che si lavora per aumentare la loro autostima e per migliorare le relazioni all’interno dell’istituto, e di svelare ai concittadini e agli operatori del territorio quel gioiello che l’istituto sta diventando. Il cambiamento di impernia su laboratori creativi che coinvolgono le classi prime, un laboratorio teatrale con metodo Cosquillas; quello di musica rap/hip hop e il laboratorio di video.
Abbiamo intervistato le docenti Anna Guglielmetti e Monica Santoro, referente del progetto, che insegnano all’Ipsia da sette anni e che fanno parte del Gruppo tecnico del Progetto Sperimentale, il dirigente Roberto Giovannetti, Massimiliano Pivaoperatore del Metodo Cosquillas di cui abbiamo recentemente parlato [vedi], e gli stessi alunni, per capire meglio cosa abbia portato, nel passato, al degrado e oggi al rifiorire della scuola.
L’intervista si divide in tre parti, di seguito la voce delle insegnanti.
Ipsia, Istituto professionale per l’Industria e l’artigianato: i ragazzi tutor, da sinistra in piedi il vicepreside Gianluca Rossi, il regista Massimiliano Piva, in basso da sinistra il preside Roberto Giovannetti, le prof. Anna Guglielmetti e Monica Santoro
Gli ultimi dieci anni hanno fortemente modificato l’immagine dell’istituto, quali sono state le cause più rilevanti?
In primo luogo, con le diverse riforme della scuola, tra cui quella Gelmini, tutti gli istituti professionali hanno subito notevoli modifiche nel quadro orario e la diminuzione di ore di attività pratica di laboratorio, perdendo così, in parte, la loro connotazione originaria e snaturandosi. Inevitabilmente i nostri ragazzi stanno subendo questo forte cambiamento, infatti quando si iscrivono al professionale si aspettano una scuola che dia loro la possibilità di acquisire sin dal primo anno competenze che orientino al mondo del lavoro, e invece si rendono conto ben presto che molte ore del biennio sono svolte in modo frontale e che i contenuti sono prettamente teorici. Solo nel triennio, infatti, il professionale assume la sua specifica connotazione. Inizialmente questo li disorienta e li delude perché vorrebbero che ci fossero più ore di laboratorio, più tempo da dedicare “al fare”, al “toccare con mano”, a sperimentare saperi da acquisire lavorando con motori, circuiti elettrici, macchine. Per noi è molto difficile sopperire alla mancanza di ore da dedicare all’attività manuale e pratica, tuttavia cerchiamo di venire incontro alle legittime richieste degli studenti attivando il maggior numero possibile di laboratori e attività extra. A causa della discrepanza tra aspettative e realtà, talvolta si avverte un clima di disagio non solo tra i ragazzi, ma anche tra gli insegnanti che non sempre possiedono strumenti adeguati per affrontare la situazione.
Quante ore di laboratorio c’erano nel biennio prima della riforma e quante ora?
Parliamo di un calo sensibilissimo: prima delle riforme c’erano circa 18 ore settimanali di attività pratica (su 42 totali), poi sono passate a 10 (su 36 ore settimanali), e adesso, nel biennio, ne sono rimaste 3 su un totale di 33 ore; inoltre le discipline sono aumentate.
I ragazzi come reagiscono?
Loro esprimono il disagio con comportamenti poco funzionali, talvolta scorretti, di protesta, perché faticano a rimanere 5/6 ore al giorno seduti in aula ad ascoltare lezioni teoriche, quando pensavano di poter trascorrere le mattine in un’alternanza tra aula e laboratori, in questo si sentono “traditi”. Ovviamente, essendo ragazzi non esplicitano il disagio, oppure lo fanno ma con atteggiamenti sbagliati che provocano conseguenze sul profitto; nelle situazioni più gravi si può presentare il rischio di abbandono scolastico. Anche prima della riforma abbiamo dovuto gestire classi vivaci e in qualche caso problematiche, ma dopo la riforma la situazione si è aggravata.
Ricorda un po’ la situazione in cui versava la Città del Ragazzo anni fa…
Esatto, siamo in una situazione simile ed è proprio al loro percorso di riqualificazione e valorizzazione che ci siamo ispirati.
Quali altri problemi hanno creato difficoltà alla scuola?
Ai disagi legati ad un’utenza a volte problematica con difficoltà di relazione e attenzione, alla drastica riduzione delle ore di laboratorio con la conseguente perdita di identità dell’istituto, al fenomeno delle ‘classi pollaio’ con 31 studenti, si sono aggiunti cambiamenti di dirigenza molto frequenti negli ultimi dieci anni, un turn-over altissimo degli insegnanti e del personale in generale, e lo spostamento della sede da via Roversella a via Canapa del 2003 che ha dato un duro colpo alle iscrizioni. Per anni, nel passato, abbiamo sofferto anche la mancanza di un fronte compatto che lavorasse sulla riorganizzazione della scuola, e ciò ha favorito il sorgere di preconcetti riguardo all’istituto che, in qualche caso, viene letteralmente stigmatizzato, al punto che alcune scuole medie, che non hanno compreso l’importanza del cambiamento in atto all’Ipsia, non ci aprono nemmeno più le porte per presentare la nostra offerta formativa agli alunni delle classi III nelle giornate dedicate all’orientamento.
Nell’immaginario collettivo il professionale corrisponde ad un luogo dove si fa poco o nulla e dove i ragazzi non hanno regole. In realtà non è affatto così: gli episodi gravi come l’ultimo fatto di cronaca del 29 gennaio (studente dell’Ipsia denunciato perché portava a scuola nello zaino un coltello di 33 centimetri) sono rarissimi, ma purtroppo solo quelli vengono amplificati, mentre emergono solo raramente i numerosi aspetti positivi dell’Istituto, ossia il fatto che ci sono insegnanti qualificati e motivati, con una grande capacità di ascoltare ed aiutare tutti i ragazzi, anche e soprattutto quelli in difficoltà, che i voti non sono regalati, che note e provvedimenti disciplinari vengono dati, se necessario, ma che si è sempre pronti a riconoscere e premiare gli studenti che si danno da fare, e che sono la maggioranza. Noi stiamo lavorando per mostrare questa, che è la vera immagine dell’istituto.
Quanti presidi avete cambiato negli ultimi anni?
Negli ultimi dieci anni si sono alternati sei presidi. Cambiamenti di dirigenza così frequenti ovviamente hanno destabilizzato la scuola e ostacolato interventi e attività anti-bullismo e antidispersione che ogni anno cercavamo di realizzare. Fortunatamente, da quando dirige l’Istituto il professor Giovannetti si è potuta realizzare una maggiore continuità di gestione e di conseguenza si riescono a mettere in atto le numerose strategie che ne stanno cambiando il volto.
Guglielmetti e Santoro chiamano una delle collaboratrici scolastiche storiche dell’istituto, Sandra Benassi, alla quale chiediamo di raccontarci com’era l’istituto negli anni d’oro.
Io lavoro all’Ipsia da 30 anni. Allora l’istituto era in centro, in via Roversella, una locazione molto più prestigiosa. C’era il bar all’interno e, all’esterno, un chiosco di cartoleria con prodotti dedicati alla nostra scuola. Avevamo circa 1500 studenti (a fronte degli attuali 300), molti dei quali sono diventati personalità importanti nell’ambito aziendale del territorio, e non solo. La scuola di via Roversella era un ex-convento, grandissimo, con cortili stupendi che si riempivano di ragazzi durante l’intervallo.
In cosa consiste il progetto con il quale avete cercato di invertire la rotta e come stanno andando le cose?
I ragazzi durante il laboratorio teatraleRagazzi di una classe prima e tre tutor del triennio
Il fulcro sono tre laboratori creativi che coinvolgono le classi prime, il laboratorio teatrale con metodo Cosquillas; il laboratorio di musica rap/hip hop; il laboratorio di video tenuto dagli operatori dell’Area giovani del Comune di Ferrara che realizza video-interviste e backstage delle attività delle altre classi. Stanno avendo tutti un grande successo. A questi laboratori partecipano anche gli studenti tutor del triennio che fungono da supporto e che si sono distinti per le loro notevoli qualità relazionali.
La docente Anna Guglielmetti
Le attività che stiamo realizzando stanno andando benissimo. I ragazzi si stanno integrando, stanno meglio a scuola e i miglioramenti si stanno vedendo anche sul piano del comportamento. Gli studenti hanno accolto molto favorevolmente il progetto, al quale partecipano attivamente facendosi promotori di idee e proposte e rendendosi protagonisti di attività che si sono rivelate essenziali per l’obiettivo dello “star bene a scuola”. Ciò avviene anche grazie all’impegno di un gruppo studentesco che si occupa della cura degli ambienti e delle relazioni.
Oltre al progetto sperimentale, su cosa state lavorando per risollevare il nome e le sorti della scuola?
La referente del progetto Monica Santoro e tre tutor, Federico Paone, Michela Canella e Cristina D’Agostino
Per aumentare il coinvolgimento e l’autostima dei ragazzi, per farli sentire importanti e incoraggiarli anche dal punto di vista dell’apprendimento, agiamo su più fronti: stimoliamo i ragazzi a sviluppare il senso di appartenenza alla propria scuola e puntiamo sul progetto accoglienza che si basa sul concetto di “educazione alla pari” e che consiste in attività di tutoraggio per le classi prime da parte di alcuni ragazzi del triennio. I ragazzi tutor vengono preparati dagli insegnanti in modo che siano autonomi nel gestire gli interventi i primi giorni di scuola nelle classi. Questi ragazzi sono davvero bravissimi, abbiamo verificato che quando viene data loro una responsabilità, la assumono e la sanno gestire molto bene. I tutor sono una risorsa importante per la scuola, perché rappresentano un canale di comunicazione diretto e uno strumento di mediazione con gli insegnanti.
Un’altra strategia che abbiamo messo in campo è il servizio di supporto a studenti, docenti e famiglie con la consulenza dell’educatore di Promeco, Alberto Urro. Inoltre, meritano certamente menzione alcune tra le iniziative più apprezzate, dai corsi di social network alle sfilate di moda, dal progetto promosso dalla Coop Ri-investimento-riuso creativo con scarti tessili, realizzato dal settore Moda, alle giornate di formazione e orientamento in collaborazione con la Cna, e poi attività di stage e cooperazioni con aziende dei settori meccanico, impiantistico elettrico, tessile-sartoriale.
Tutti insieme (insegnanti, studenti, tecnici, personale) siamo coinvolti ogni giorno per creare un clima positivo e propositivo, per riconfermare il ruolo della nostra scuola come luogo che prepara i ragazzi a diventare cittadini consapevoli, preparati e pronti ad entrate nel mondo del lavoro.
La sezione di filosofia dell’Università di Ferrara ha organizzato per giovedì 19 marzo, presso la Sala Agnelli della Biblioteca Ariostea, una giornata in ricordo di Mario Miegge.
Mario Miegge è stato docente di filosofia teoretica, preside della Facoltà di Magistero (1972-78) e direttore del Dipartimento di Scienze Umane (1997-1999).
Nel corso del convegno, grazie al contributo di amici e colleghi, sarà ripercorsa la sua attività di ricerca nei molti anni di insegnamento presso l’Ateneo.
“Lo strumento fondamentale per la manipolazione della realtà è la manipolazione delle parole. Se puoi controllare il significato delle parole, puoi controllare le persone che devono usare le parole.”
Mi piace questa frase dello scrittore americano Philip Kindred Dick* perché prova a spiegare come alcuni politici usino appositamente certi termini in modo tale da condizionare il comportamento di chi li ascolta.
Ad esempio, nelle 136 pagine della proposta cosiddetta “buona scuola”, lo sfoggio di termini della lingua inglese è ridondante, come avevo già sottolineato in un recente articolo [leggi], perché intende suggerire un’idea di modernità, di progresso, di innovazione mistificando la reale natura competitiva, classista e anticostituzionale della proposta renzusconiana.
Nello stesso stile, il sottosegretario all’Istruzione Davide Faraone, sul suo blog intitolato Cambiamenti, scrive: “La buona scuola è diventata un brand in grado di attrarre su di sé l’attenzione dei privati. Sono state tantissime le imprese – da Samsung a Microsoft – che spontaneamente hanno contattato il Miur per “sponsorizzare” la scuola e le sue buone pratiche. E di questo sono molto contento: vuol dire che è chiaro a tutti che è sul futuro del nostro Paese che dobbiamo investire e che siamo chiamati tutti quanti a farlo perché la scuola è società e ne siamo tutti responsabili.”
Onde evitare equivoci, il brand è un nome, un simbolo, un disegno o una combinazione di tali elementi, con cui si identifica un prodotto al fine di differenziarlo da altri offerti dalla concorrenza; è anche la relazione emotiva e psicologica che suscita un certo prodotto sul cliente.
In parole povere il brand è la marca di un prodotto; ma se si dice brand si è più alla moda e si fa pesare agli altri il fatto di essere degli ignoranti 2.0. Una cosa è certa, alla pari di un prodotto commerciale, la cosiddetta “buona scuola” è una marca che è stata venduta bene.
Coltivo però un’ipotesi: penso che sarà molto diverso quando gli acquirenti più fiduciosi consumeranno il prodotto perché solo allora si accorgeranno che la cosiddetta “buona scuola” contiene tracce superiori alla norma di conservanti antidemocratici, di additivi aziendalistici, di elementi emarginanti, di esaltatori di competizione e di dolcificanti per contribuenti.
Se è normale, per chi governa questo Paese, che lo scuola possa diventare un brand e possa essere sponsorizzata, allora è enorme la distanza fra questa idea di società e quella di chi continua a ritenere la scuola un organo costituzionale, così come delineato da Piero Calamandrei e ripreso dalla “Legge di iniziativa popolare per una buona scuola per la Repubblica”.
È aberrante che la scuola di tutti e di ciascuno possa venir trasformata in un volgare bene di consumo; purtroppo però è quello che sta già succedendo. Ad esempio, qualche giorno fa, a scuola abbiamo ricevuto una bella lettera colorata in cui, fra le altre cose, c’era scritto: “Diventa anche tu un sostenitore della Scuola italiana! Acquista attraverso la piattaforma dai brand aderenti all’iniziativa e potrai dare un contributo concreto alla nostra scuola.
La piattaforma “Io Sostengo La Scuola” funge da punto di incontro tra aziende private e scuole italiane, pubbliche e private. All’interno della piattaforma “Io sostengo la Scuola” compaiono in vetrina i brand che aderiscono all’iniziativa, ciascuno con la propria proposta commerciale accompagnata da dichiarazione d’intenti. Tutti gli utenti: studenti, docenti, famiglie, simpatizzanti, ecc., una volta registrati, possono effettuare acquisti dalla piattaforma “Io Sostengo La Scuola” ricevendo in cambio i punti corrispondenti al valore dell’acquisto. L’utente potrà in qualsiasi momento verificare l’accumulo punti nella sua area riservata e scegliere la scuola o le scuole a cui destinarli.
Le scuole hanno a disposizione un catalogo premi dedicato composto da materiale didattico e multimediale: lavagne multimediali, libri, notebook, tablet, tastiere, chiavi Usb, licenze software, proiettori, ecc. Per redimerli sarà sufficiente raggiungere il numero di punti indicato. I punti che riceveranno le scuole saranno tutti volontariamente donati dagli utenti della piattaforma “Io Sostengo La Scuola”. Per le scuole e per gli utenti la piattaforma “Io Sostengo La Scuola” è totalmente gratuita e non comporta alcun contributo sotto alcuna forma. Il progetto vige nel rispetto dei principi di correttezza e di trasparenza ed è patrocinato dal Ministero della pubblica istruzione, dell’università e della ricerca.
È questa quindi la “buona scuola” in cui crede Matteo Renzi?
Quella in cui gli insegnanti dovrebbero distribuire ai genitori i consigli per gli acquisti suggeriti dal Ministero?
Quella che invita a consumare merci per sostenere il Piano dell’offerta formativa?
Quella che dovrebbe far felici i genitori di raccogliere punti e gli insegnanti di ricevere premi?
Quella che considera buone pratiche solo quelle sponsorizzate?
Quella che propone lo sviluppo dell’informatica e delle classi 2.0 ma solo se targate Microsoft o Samsung?
È questa dunque la cosiddetta “buona scuola” del brand?
Se è questa allora io, a modo mio, vi dico…
Tenetevi il brand e tutte le sue brandine perché, adombrandomi nel vedere la scuola ridotta a un brandello, sembrando Brando ne “Il selvaggio”, brandirei davanti a tutti l’articolo due della Lip, celebrando in tal modo la nostra Costituzione.
Comunque stiate librandovi, buona lettura del primo comma dell’articolo 2 della Lip sulle finalità generali del sistema educativo di istruzione statale: 1. Il sistema educativo di istruzione promuove l’acquisizione consapevole di saperi, conoscenze, linguaggi, abilità, atteggiamenti e pratiche di relazione, visti come aspetti del processo di crescita e di apprendimento permanente, con un’attenzione costante all’interazione ed all’educazione interculturale, che si caratterizza come riconoscimento e valorizzazione delle diversità di qualsiasi tipo ed è intesa come metodo trasversale a tutte le discipline.
* Philip Kindred Dick è l’autore, fra gli altri, del libro che ispirò il film Blade Runner, “Il cacciatore di androidi” (titolo originale “Do Androids Dream of Electric Sheep?”)
Si costruiscono macchine indistruttibili che resistono nello spazio fino al raggiungimento della luna e di altri pianeti e non si riesce a trovare la cura per combattere il cancro? Incredibile e impossibile Ogni tanto ci “sfornano” un successo nella ricerca: Bene, anzi, benissimo. E poi? Silenzio… E noi tutti stiamo in attesa… Perché si sa la speranza è l’ultima a morire… Si potrebbero anche costruire automobili indistruttibili, che salverebbero da morte certa le persone, ma il problema non si pone… Perché? Perché tutto questo potrebbe (uso il condizionale) far parte di un’aggregazione di poteri molto forti, anzi fortissimi, insuperabili. Per esempio: che fine farebbe il mercato delle automobili che hanno bisogno di “sfornare” modelli di continuo? Ma chi se ne frega se la mortalità in incidenti sale di continuo. Anzi, meglio… Per non parlare delle assicurazioni… Quanto ci perderebbero? Rischierebbero la chiusura dell’attività.
Ricapitoliamo: spesso si leggono titoli come “Trovata la molecola anti-tumore” ecc.., ma poi, per svariati motivi, tutto si placa. Sorge il dubbio che potrebbe essere presa in considerazione solo se portasse maggiori utili alle case farmaceutiche. Poverine, se dovesse ridursi il loro fatturato, come potrebbero reagire? Una domanda sorge spontanea: quanto costa, alle strutture sanitarie, ogni malato di cancro? Migliaia di euro, anzi, centinaia di migliaia di euro all’anno. Al fatturato oncologico non si può togliere la principale ragione del fatturato poiché si rischierebbe di mettere in crisi tutto il sistema. Ci troviamo di fronte ad un’aggregazione di poteri.
Chissà perché mi viene in mente il Metodo Di Bella e la “sospetta” sperimentazione “fallita”. Non intendo ripercorrere tutta la “storia”, poiché ognuno di noi la ricorda benissimo. Si è parlato di “bluff” o davvero esisteva un complotto che intendeva non rivelarci la rivoluzione nel campo della cura del cancro?
Un malato di cancro costa moltissimo perché ai chemioterapici vengono associati altri farmaci per combattere gli effetti “sgradevoli” di tali terapie. E’ una catena e una giostra che va e viene e fa vomitare, in tutti i sensi. Però potrebbe far comodo così.
Veramente vi è qualcuno che pensa che siamo tutti stupidi? I soldi della ricerca non sono mai sufficienti? I nostri ricercatori non sono all’altezza? Tutte balle, balle, semplicemente balle.
All’ingresso ci sono due pappagalli, Giorgio e Sandra, un’inusuale presenza per una scuola, ma non per lo Smiling, da quest’anno anche liceo internazionale, dove gli animali, a cominciare dai gatti, sono una presenza familiare. Lo sportello della gabbia è aperto, Giorgio, otto mesi, s’arrampica sulla grata aiutandosi con il becco e le zampe, poi vola sul trespolo e punta gli occhi sull’ospite di passaggio. Sulla porta un cartello bilingue recita “Attenzione, pappagalli in fuga”. La comunicazione è informale, proprio come quella tra le persone abituate a condividere la vita di tutti i giorni. E’ un dettaglio, ma restituisce un’atmosfera e chi ha buona memoria della propria infanzia, sa quanto sia importante sentirsi di casa in un luogo che casa non è. “Lo Smiling è una scuola privata paritaria, che insegna in inglese il programma italiano ed è a misura di bambini e ragazzi. Sono loro il centro di questo piccolo grande mondo”, spiega Caterina Azzini, fondatrice e ‘principal’ di una realtà educativa ‘in progress’, giocata sull’apprendimento delle lingue, inglese in pole position, frequentata da quasi 300 alunni di età compresa tra i 2 e i 17 anni. Dall’asilo al liceo il mondo è Smiling.
Presentazione del Liceo internazionale dello Smiling
Nato nel 1997 e distribuito in due differenti edifici, uno in Porta Mare e l’altro in via Roversella in un’ala dell’ex Canonici Mattei, lo Smiling è oggi un’impresa sociale di successo per il respiro internazionale di cui la lingua inglese, la più parlata e utilizzata nel business, è un punto di forza. Una bella soddisfazione per la fondatrice, invitata qualche tempo fa dall’Università di Bologna per illustrare lo story case dell’azienda. “Quando ho cominciato non mi aspettavo certo uno sviluppo del genere – racconta sorridendo – Inizialmente era una realtà dedicata ai bimbi più piccoli, oggi abbiamo completato l’offerta formativa nel segno della continuità. Una decisione presa per raggiungere l’unico vero obiettivo che mi sta a cuore: dare agli allievi gli strumenti e le competenze richieste dall’attualità, dalla globalizzazione per crearsi un futuro”. I timori di fare il passo più lungo della gamba con un ampliamento dell’istituto si sono dissolti in meno di un anno. “I ragazzi si divertono, imparano e sono contenti – continua – Il liceo non era nei miei progetti, neppure lo immaginavo, ma oggi ne vado fiera”.
Nel ’97 fatta la prima elementare, su richiesta delle mamme, formò la seconda. “C’erano solo cinque piccoli allievi”, ricorda. Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti. “Ogni singolo momento è stato di crescita, ma anche di grande impegno, il mio è il lavoro più bello del mondo – dice – ma impone una presenza costante e investimenti continui. Tutto ciò che entra, finanziariamente parlando, viene riutilizzato per migliorare la scuola e a volte serve anche qualcosa di più”. Il segreto della buona riuscita del progetto, insiste, sta proprio nel trovare il giusto equilibrio tra istruzione di tradizione e innovazione di cui la tecnologia è un tassello fondamentale insieme al know how che ne valorizza le potenzialità. “Inutile dotarsi di una modernissima smart board se poi la si usa come una comune lavagna – sottolinea – proprio per questo ci vogliono persone competenti, capaci di sfruttarne le caratteristiche per preparare le lezioni e stimolare la creatività dei ragazzi”. Giusto un esempio per ricordare quanto sia importante lavorare con un team preparato e attento alle esigenze degli alunni. “Il fatto di essere una scuola privata, piccola se vogliamo, permette un rapporto più stretto tra insegnanti e allievi – prosegue – C’è poi da sottolineare il grande apporto dei miei collaboratori, bravi e determinati a raggiungere i risultati che ci prefiggiamo”.
Nella “staff room”, nella “library”, nelle aule colorate dai lavori di bimbi e “teachers”, in giardino, nel laboratorio di informatica, lungo le scale la lingua più parlata è l’inglese. Gli insegnanti di madre lingua dalla Gran Bretagna, dal Canada, dagli States sono il cuore della scuola, il tocco internazionale, lo staff “in motion”: vengono, vanno, cambiano con il passare degli anni. Il turnover è parte dell’”identità Smiling”: “Lo considero un po’ la nostra ricchezza. Chi va lascia comunque un segno, un’eredità raccolta da chi resta”, dice. Lo Smiling è dunque la scuola che fa la differenza? Più che altro è differente, il perché è subito detto: “Noi siamo piccoli e autonomi, è più facile prendere delle decisioni, in questo siamo privilegiati – conclude – La pubblica dipende da un apparato mastodontico, per questo fatica a muoversi. Personalmento credo sia da difendere, ha avuto aspetti positivi, ma ora come il resto del Paese, fa i conti con molteplici problemi, non ultimo quello economico. Poi, non lo si può negare, è stata trattata con trascuratezza, ciò non toglie che vi siano ottimi insegnanti chiamati a confrontasi con la pochezza di mezzi e risposte”.
da MOSCA – L’Enciclopedia Treccani fornisce la seguente definizione di ‘samovàr: s. m. [dal russo samovar, comp. di samo- «sé stesso, da sé», e tema di varit′ «bollire», attrav. il francese]: ‘Apparecchio costituito da un recipiente a forma di vaso con manico e coperchio, di rame o d’altro materiale, incorporato a un fornello a spirito; è usato in Russia e in altri paesi dell’Europa orientale per tenere sempre pronta l’acqua bollente, spec. per la preparazione del tè’. Qualcosa che bolle da solo, dunque, autonomo e deciso. Molti di noi hanno visto questo interessante oggetto in Russia, nei paesi slavi, in Turchia o in Iran. Chiunque abbia viaggiato in uno di questi Paesi, ne sarà rimasto sicuramente affascinato e incuriosito. La sua origine è piuttosto controversa: chi sostiene che il samovar provenga dall’Asia centrale, chi ritiene che sia stato inventato in Russia visto che in Iran non apparve prima del XVIII secolo e la stessa parola samovar, universalmente utilizzata, è di origine russa. Tante le ipotesi per un oggetto curioso.
Ieri mi trovavo in un confortevole e tranquillo ristorante georgiano, al centro di Mosca, quando, d’un tratto, sono incuriosita da un tè ambrato che, in realtà, è una bevanda speziata e profumata a base di miele e di un frutto che si trova solo qui (‘ablipicha’). La gentile signorina che serve ai tavoli mi confessa che è salutare e benefico. Vero. Sapore delicato, intenso e paradisiaco. Il tutto è comodamente adagiato sua una teiera di vetro scaldata da una piccola candela. Ecco allora che mi viene in mente il precursore del samovar, di cui avevo letto, lo ‘sbitennik’, un oggetto che serviva per preparare lo ‘sbiten’, una bevanda calda a base di miele e spezie. Assomigliava a un bollitore con le gambe e riscaldato da un tubo e ricordava un samovar. Eccomi immersa, allora, nella ricerca di qualche particolare in più. Scoprirò, quindi, che, alla fine del XVIII secolo, un armaiolo russo, Fedor Lisitsyn, aveva aperto una piccola officina a Tula, a sud di Mosca, dove s’iniziarono a produrre industrialmente i samovar che conobbero quasi subito un grande successo. Su tale onda nacquero numerose altre fabbriche che portarono Tula, nel 1830, a diventare la capitale della fabbricazione dei samovar. Nel XIX secolo, l’uso del samovar divenne popolare tanto a San Pietroburgo che a Mosca, e iniziò a rappresentare un forte legame e simbolo della cultura russa (Pushkin, Tolstoj, Gogol, Dostoevskij e Checkhov lo citarono regolarmente nelle loro opere). Se Tula rimaneva il luogo di produzione principale, si aprivano fabbriche anche in Siberia e negli Urali. Le ferrovie russe ne riconobbero la praticità e, dopo aver prima sperimentato il samovar sulle carrozze lusso della Transiberiana, lo resero ancor più popolare installandolo su tutti i vagoni dei treni a lunga percorrenza. In seguito furono sostituiti gradatamente con bollitori conosciuti in Unione Sovietica come ‘Titani’. Installati all’estremità del corridoio, erano a disposizione dei viaggiatori che desiderassero dell’acqua calda durante il lungo viaggio. I tradizionali samovar sopravvivevano solo nelle carrozze lusso, sotto l’attenta sorveglianza del personale. Durante la prima guerra mondiale, design e tecnologia furono semplificati e adattati all’uso militare. Tipici di questo periodo furono i samovar cilindrici saldati e privi di decorazioni, mentre gli anni venti e trenta vennero caratterizzati dalla collettivizzazione e dall’industrializzazione stalinista. Le piccole officine che fabbricavano samovar furono integrate in grandi industrie oppure dismesse.
Antico modello di samovar
Gli anni Cinquanta e Sessanta introdussero l’invenzione del samovar elettrico in metallo nichelato. Finiva così il regno incontrastato del samovar a combustibile solido. Il sottile aroma del fumo lasciava il posto ai benefici derivanti dalla facilità d’uso e dall’economicità: si riduce il tempo per la pulizia e la preparazione del tè, inoltre la nichelatura protegge l’ottone dalla corrosione molto più a lungo. Le famiglie e la ristorazione collettiva adottarono rapidamente la nuova tecnologia, solo le ferrovie rimasero, e rimangono, fedeli al tradizionale, fumoso samovar a combustibile. Durante l’epoca Brezhneviana i samovar non subiscono alcuna modifica, solo in occasione dei giochi olimpici del 1980 ne furono venduti ai visitatori stranieri moltissimi e l’oggetto divenne simbolo della Russia. Un samovar tradizionale può essere a urna o a cratere, cilindrico, sferico, liscio, dorato o cesellato, ma essenzialmente si tratta di un contenitore metallico munito di un rubinetto sulla parte inferiore con all’interno un tubo, sempre metallico, che lo attraversa verticalmente. Il tubo è riempito con del combustibile solido che bruciando scalda l’acqua circostante. In alto, un camino di 15-20 centimetri ne assicura il tiraggio. La capacità di un samovar varia da uno a 400 litri.
Le regole d’oro di una cerimonia tradizionale russa prevedono, ancor oggi, il samovar al centro della tavola, ma, oltre ad esso, anche un’altra teiera per l’infuso. Di solito si prepara un tè molto forte e ogni ospite può versare nella propria tazza la quantità necessaria e poi allungarla con l’acqua bollente del samovar. Il tè va servito d’obbligo con lo zucchero: oggi si aggiunge nella tazza, ma originariamente si mettevano dei pezzettini di zollette in bocca, centellinando la bevanda bollente, addolcita dai frammenti di zucchero, usanza che arrivava dalla Siberia. È un’abitudine tipicamente russa. In Russia esiste, oltre alla tradizione di bere il tè dolce, quella di accompagnarlo con una sottile fettina di limone, del miele, alcuni ‘baranka’ (un tipo di panino dolce a forma d’anello) e anacardi. Negli ultimi anni è comparsa una grande varietà di dolci da servire con il tè: biscottini, cioccolatini, panpepato, marmellata, caramelle. I russi spesso s’incontrano ‘per una tazza di tè’ in piccole o grandi e allegre compagnie di parenti, amici o buoni conoscenti, perché ciascuno si possa riposare, rilassare, fare due chiacchiere in tranquillità. Di norma in Russia il tè si beve dopo pranzo, insieme a dolce o frutta. Se, invece, s’invitano ospiti apposta per il tè, questo viene accompagnato da una gran varietà di stuzzichini: salatini multiformi, panini con formaggio, salame, salmone, olive e torte dolci. Se siete invitati in Russia a prendere un tè, vi attende un’accoglienza gentile e squisita, lunghi racconti e rivelazioni confidenziali, forse persino canzoni oltre che allegri e piacevoli ricordi. Provare per credere.
Serie di francobolli del periodo dell’Urss a tema Samovar (1989)
I discorsi sull’8 marzo mi sono sembrati quest’anno un po’ meno retorici. Il filo comune mi pare il riconoscimento che le disuguaglianze non risiedono sul piano dei diritti formali, bensì su quello, opaco e apparentemente inossidabile, della vita quotidiana. Un richiamo al fatto che il superamento di discriminazioni non si limita ad una formale questione giuridica, ma richiede un lento processo di cambiamento sociale. Il dato che mi ha colpito di più riguarda le persistenti differenze nelle performance scolastiche, i migliori risultati delle ragazze in termini di titoli e di rendimenti scolastici (le ragazze sono più puntuali e dedicano tre ore in più alla settimana ai compiti) e la minore attitudine delle ragazze verso la matematica e le materie scientifiche (il divario è calcolato in circa tre mesi). Le ragazze leggono di più narrativa, i ragazzi preferiscono i quotidiani, i ragazzi giocano molto di più ai videogiochi. Sembrano delinearsi spazi di vita differenti, scenari di lavoro e interessi orientati verso luoghi separati: da una parte la scienza, la tecnologia e l’attualità e, dall’altra, le materie umanistiche e la letteratura.
Le attese e i modelli sociali condizionano gli orientamenti, visto che i dati sono diversi nei Paesi europei. Il tema della differenza parte ancora dalla scuola, quindi, quanto meno rispetto al mondo del lavoro. Alcune differenze vengono socialmente trasmesse e contribuiscono a perpetuare disuguaglianze.
L’approccio inclusivo è profondamente cambiato, l’attenzione si sposta sui processi reali, sulla vita quotidiana e i comportamenti. Su questo piano le riflessioni non sono confortanti. Resta una persistente disparità nel peso delle responsabilità domestiche tra uomini e donne, nel senso che sono queste ultime, anche nelle giovani coppie, a sopportare il maggiore onere di responsabilità. Questa differente fatica si riflette inevitabilmente dello spazio mentale e pratico dedicato all’investimento professionale. Storia nota si dirà, inoltre i cambiamenti sono sempre graduali e lenti.
Ma talvolta mi sorge il dubbio che le giovani donne oggi considerino le differenze in un certo senso naturali. Un dato contenuto nell’ultimo rapporto presentato dal Censis indica che il genere non è più un riferimento identitario. In una tabella che riporta le “opinioni sui fattori su cui si fonda l’identità, il 53% risponde l’educazione ricevuta, il 45% risponde la cultura e la stessa percentuale ottiene il carattere personale, mentre il 35% indica gli interessi e le passioni come fattore distintivo: questo ultimo dato vede una differenza rilevante per età, infatti supera il 50% tra i più giovani. La lista dei fattori è lunga e comprende, con valori decrescenti, il territorio in cui si è nati, la famiglia di origine, il lavoro, la nazionalità, il territorio in cui si vive. All’ultimo posto vediamo il reddito, considerato un fattore su cui si fonda l’identità solo dal 3,4% degli italiani. Al penultimo posto il genere, vale a dire l’essere maschio o femmina, con pesi diversi tra maschi (il cui 3% considera il genere rilevante) e le femmine (tra le quali l’8% lo considera tra i fattori di identità). Si tratta di percentuali molto basse, bassissime tra i millenials (3% medio).
Potremmo immaginare che i più giovani considerano il problema delle differenze di genere inesistente? Oppure cambia la prospettiva da cui lo si guarda e, semplicemente, l’essere maschio o femmina non viene più vissuto come elemento distintivo del sé?
Maura Franchi – Laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi. Studia i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand. maura.franchi@gmail.com
“Picnic ad Hanging Rock” di Peter Weir stasera sul grande schermo ad Argenta. La proiezione fa parte della rassegna cinematografica legata alla mostra fotografica “Occhi di vetro nel labirinto dei giganti”, in parete al Centro culturale mercato di Argenta.
I giganti sono Michelangelo Antonioni e Stanley Kubrick, registi che, per ragioni differenti, sono intimamente legati all’universo della fotografia. Il labirinto è quello dei tanti riferimenti sottesi ai loro film e in particolare a “Blow up” e “Shining”. Gli occhi di vetro, invece, sono gli obiettivi dei 17 fotografi che hanno partecipato a due insoliti workshop fotografici, promossi da Fotoclub Ferrara e Osservatorio nazionale sulla fotografia del Comune di Ferrara, dai quali sono poi venute fuori le due mostre ora riunite negli spazi dell’ex mercato di Argenta: “Ai margini della realtà”, di inspirazione antonioniana, e “Giallo Noir e perturbante”, dedicata idealmente al film kubrickiano. Oltre 160 i pezzi in mostra a cura di Emiliano Rinaldi e Roberto Roda che, oltre alle foto, includono oggetti di scena, abiti, dipinti, sculture. Cataloghi di Sometti editore di Mantova.
Il tema dell’inquietudine, del perturbante freudiano, è quello che lega qui idealmente “Blow up” a “Shining”, nonché a altre pellicole citate nella mostra fotografica. Per questo, durante l’esposizione, il Centro culturale mercato organizza proiezioni di film, come quello di stasera, legati alla narrazione espositiva e pure alcune serate speciali dedicate a fotografi e sodalizi fotografici.
Artisti in mostra: Alfredo Castelli, Claudio Chiaverotti, Guido Crepax, Elisabetta Dell’Olio, Gianni De Val, Ferruccio Gard, Titti Garelli, Lanfranco, Arnika Laura Gerhard, Anna Silvia Randi, Plinio Martelli, Alessia Pozzi, Antonello Silverini, Silvia Vendramel, Gianfranco Vanni “Collirio”, Ivano Vitali, Matteo Zeni e altri.
Interpreti: Luna Malaguti, Laura D’Angelo, Damiano Varzella, Sarah Gabrielle Scheider, Sonia Santini, Gio Scalet, Luna Vago, Leonardo Ferrioli e altri.
Fotografi: Ilaria Borraccetti, Carlo Boschini, Deborah Boschini, Paolo Cambi, Lucia Castelli, Franca Catellani, Sara Cestari, Roberto Del Vecchio, Greta Gadda, Pieranna Gibertini, Anna Maria Mantovani, Stefano Pavani, Stefania Ricci Frabattista, Emiliano Rinaldi, Maurizio Tieghi, Luca Zampini, Nedo Zanolini.
Ingresso gratuito oggi alle 21, sala Piccolo teatro del Centro culturale Mercato, piazza Marconi 1, ad Argenta.
OGGI – IMMAGINARIO CINEMA
Occhi negli occhi in una scena di “Pic nic ad Hanging Rock” di Peter Weir
Ogni giorno immagini rappresentative di Ferrara in tutti i suoi molteplici aspetti, in tutte le sue varie sfaccettature. Foto o video di vita quotidiana, di ordinaria e straordinaria umanità, che raccontano la città, i suoi abitanti, le sue vicende, il paesaggio, la natura…
Un giro d’Italia per venti regioni e per tipi umani. Il medico scrittore Marco Bottoni ha pubblicato, in questi giorni, “Venti buone regioni… per sorridere ancora”, edito da Festina Lente Edizioni, una raccolta di racconti umoristici ispirati alle regionalità che compongono il Paese. Storie di personaggi e di luoghi, carrellate di pensieri in un crescendo di sorrisi che portano a spasso il lettore da nord a sud.
Bottoni, come nasce l’idea di parlare dell’Italia in modo, per così dire, etnografico più che geografico?
Sono un grafomane, mi diverto da anni a scrivere di varie cose, da opere teatrali a componimenti di natura più intimistica. Mi sono reso conto che la geografia è materia, oggi, studiata poco e allora ho pensato di proporre le nostre regioni attraverso la realtà umana più che quella dei fiumi o dei monti.
Si dice che il paesaggio e le bellezze attorno influiscano inevitabilmente sul carattere e sulla mentalità degli uomini. Nel suo libro troviamo, in effetti, una certa ‘tipizzazione’ su base regionale…
Ho provato a inventare venti storie autonome caratterizzando, per citarne alcuni, il veneto bevitore, il lombardo secessionista, il ligure un po’ tirchio, il napoletano ottimista e tutti gli altri pennellati come io li vedevo. La loro mentalità permea, davvero, il racconto e lo fa sviluppare.
Abbiamo parlato di diversità, o meglio, di specificità, ma c’è qualcosa che accomuna tutti i personaggi dei racconti?
C’è un elemento che attraversa il libro e che credo sia una caratteristica comune a tutti gli italiani: il sorriso. Il punto di vista ironico è la chiave di lettura principale con cui ho concepito “Venti buone regioni… per sorridere ancora”.
Dall’ironia all’inaspettato, l’opera è anche piena di sorprese…
Non è forse così la vita? Chi più della vita ha il gusto di sorprendere? L’inaspettato c’è sempre, qualcosa che si rovescia non manca mai e il bello, credo, sia proprio questo.
Marco Bottoni, “Venti buone regioni… per sorridere ancora”, collana Piccola biblioteca del sorriso, Festina Lente Edizioni
GEORGE TAYLOR – Ritengo George Taylor, in arte Soffritti (o viceversa), l’ultimo dei grandi spiritacci di una Ferrara da sempre annichilita nella sua malinconia dalla quale Antonioni trasse l’ispirazione per film-capolavoro da vedere dopo aver ingoiato un po’ di bicarbonato. Ferrara è una città presuntuosamente triste, grigia, spesso falsa e dedita alla piaggeria, una città tutto sommato un po’ erudita ma non molto colta, che crede di saper tutto: i bolognesi hanno definito noi ferraresi “a fagh tut mi e i fa nient”. Si, è vero che in questa bellissima palude (più bella di quanto i suoi cittadini credono) nascono sovente soggetti intelligenti, sapidi d’animo artista, ma devono poi emigrare perché qui c’è sempre qualcuno pronto a tagliargli la testa se dimostra le sue capacità, “sa vol quel lì” e via col taglio jihadista. Un tempo i signori amanti dell’automobile compravano le Ferrari, prima ancora le Maserati o le Isotta Fraschini, le tenevano ben nascoste in un garage, da dove le estraevano per andare, faccio un esempio, a Bologna pavoneggiandosi per via Rizzoli, oppure andavano direttamente a Cortina e sfoggiavano la fuoriserie davanti al Posta: a Ferrara quell’auto non doveva essere vista. Benvenuto Cellini scrisse “ferraresi gente buonissima et avarissima”, aggiungerei sarcastica ma tristissima, a Ferrara è bello soltanto ciò che non è ferrarese. Una volta ero in autobus e passando con il “2” in piazza, l’amico che era con me guardò fuori e poi disse “non c’è nemmeno da mettere con Firenze”. Avevamo appena oltrepassato il Castello e stavamo giungendo davanti al Duomo, considerato il più importante esempio di romanico-gotico. Che cosa c’entrava con Firenze? Nulla, ma il masochismo ferrarese doveva essere soddisfatto. I ferraresi sono persone depresse, ma non George Taylor. Ecco perché lo amo. E’ grande e grosso, veste in modo vistoso, cappelli stravaganti, stivali o scarpe bicolori, porta con sé da anni ormai il cagnolino felice. George Soffritti ha fatto l’attore, spesso nei film di Fellini, e attore è rimasto: attore comunista aggiungo, e spesso si esibisce per strada, urla al vecchio e simpatico ragazzo, odia il Milan e tutto ciò che ha a che fare con Berlusconi, che deride comicamente, di recente ha aggiunto alla sua galleria di personaggi comici Brunetta (ma con una sola “t”). Giorni fa dentro un supermercato: “L’è inutil, urlava, Bruneta non è all’altezza”, poi rideva e il suo ridere sbertucciante risuonava da un capo all’altro dell’edificio trascinando le sghignazzate dei presenti. Non ce n’è più di attori come George Taylor, siamo sempre più depressi, sempre più vili nei nostri pensieri. Viva Soffritti. L’attore.
COMUNISTI – Ci si è messo anche Sepulveda, lo scrittore, a cantare il de profundis del comunismo. Lo fanno tutti ormai, è di moda parlar male del comunismo, anche da parte di coloro che dicono di essere stati comunisti. Sono un ex comunista, dicono: forse erano “ex” anche quando sventolavano bandiera rossa. Com’era di moda.
SCUOLE – Renzi sta lentamente privatizzando la scuola, un passo alla volta si tornerà alla formazione clericale, gli ordini religiosi avranno prebende, sovvenzioni, regalie pubbliche, le tasse scolastiche proibiranno l’accesso alle classi meno abbienti e la lunga, sacrosanta lotta per un’istruzione aperta, democratica, verrà archiviata definitivamente. E’ una delle grandi riforme del governo rottamatore.
STANDING OVATION: I PIU’ ACCLAMATI SPETTACOLI TEATRALI DEL XXI SECOLO
“Chi ha paura di Virginia Woolf?” di Edward Albee, regia di Gabriele Lavia, Teatro Comunale di Ferrara, dal 7 al 12 febbraio 2006
Dopo la rodatissima coppia attoriale Albertazzi-Proclemer della scorsa settimana, la stagione di prosa del Teatro Comunale ospita ora – e stavolta per la prima volta insieme – altri due grandi protagonisti della drammaturgia italiana: Gabriele Lavia e Mariangela Melato, questa sera interpreti di uno dei capolavori del teatro americano del Novecento, il celeberrimo “Chi ha paura di Virginia Woolf?”, opera in passato interpretata da altre famose ‘coppie’ del teatro italiano quali: Pani-Malfatti, Ferzetti-Proclemer, Salerno-Ferrati. Entrambi, sia Gabriele Lavia che Mariangela Melato, sono per nostra fortuna assidui del palcoscenico ferrarese; solo per ricordare alcuni più o meno recenti titoli, Lavia ha qui rappresentato “Il padre”, “Una donna mite”, “La storia immortale”, e la Melato “Fedra”, “Un tram che si chiama desiderio”, “Madre Courage e i suoi figli”.
Edward Albee (nato nel 1928 a Washington) scrisse “Chi ha paura di Virginia Woolf?” nel 1962, poco dopo l’altro suo famoso precedente dramma “Il sogno americano”; l’opera divenne poi universalmente nota grazie all’omonimo e splendido film diretto da Mike Nichols e con l’indimenticabile interpretazione di Richard Burton ed Elizabeth Taylor. Testimone della solitudine dell’uomo nell’opulenta e lassista società contemporanea, Albee è da molti ritenuto ‘trait d’union’ fra i drammaturghi americani della generazione a lui precedente (Eugene O’Neill, Arthur Miller) e quelli della generazione successiva (David Mamet, Sam Shepard). La vicenda, ambientata nel New England, racconta dello spietato ‘gioco al massacro’ fra due coniugi insegnanti universitari, sottolineando il disfacimento dell’‘american dream’ nell’angoscia di una malata quotidianità. Il geniale titolo si basa sull’assonanza fra il nome della scrittrice Virginia Woolf e Big Bad Wolf (il lupo cattivo) nella nota canzonetta ‘Chi ha paura del lupo cattivo?’ sarcasticamente modificata.
Cataste di monitor, pile di libri, una Cadillac, un pianoforte verticale, dei divani, un jouke-box, un bar-specchiera, un letto sfatto, rampe di scale di servizio metalliche, una serie di carillon e altre suppellettili eterogenee: il tutto semisprofondato nella sabbia o accumulato e straripante dal proscenio fin quasi sulla prima fila della platea. Sono questi gli elementi che compongono (e in parte incombono) la scena di “Chi ha paura di Virginia Woolf?”, per la regia dello stesso Lavia.
da: Liceo Classico Statale Ludovico Ariosto Ferrara
Martedì 10 marzo dalle ore 15:00 alle ore 17:00 presso l’atrio Bassani del Liceo Ariosto si terrà una conferenza organizzata dagli studenti del Presidio di Libera “Giuseppe Francese” in collaborazione con l’Unione degli Studenti di Ferrara.
Relatore d’eccezione sarà Don Luigi Ciotti, fondatore dapprima del gruppo “Abele”, impegnato nel recupero dei tossicodipendenti e delle persone affette da altre dipendenze, e successivamente dell’Associazione “Libera” contro i soprusi delle mafie in tutta Italia.
L’incontro è aperto a tutti, con particolare attenzione agli studenti, e tratterà dell’importanza dell’informazione sulle mafie e della lotta all’indifferenza nei confronti dell’illegalità.
Perché le mafie ci sono e noi vogliamo combatterle!
E’ una serata fredda, da passare sul divano, avvolti in un plaid, nel calore di casa. Eppure sono circondata dai contradaioli di San Luca, riuniti per le prove settimanali. Dopo una giornata di studio o lavoro, musici, sbandieratori e sarte si incontrano, per i preparativi del Palio e non solo. Andrea e Giulia hanno 23 anni, sono studenti universitari e dopo le lezioni si ritrovano in contrada per fare le prove.
“Ci sono molte gare che rientrano nell’organizzazione del Palio – dice Andrea -. Per questo ci alleniamo sempre, per incontri locali e nazionali. A settembre, infatti, partecipiamo alle gare nazionali e, al termine, ricominciamo subito a prepararci. Si studia un nuovo progetto, lavoriamo in gruppi separati: musici e sbandieratori, e prima del Palio uniamo il tutto. Siamo qui tutte le volte che possiamo, ma non ci pesa, anzi, siamo qui anche quando non dobbiamo provare, questa per noi è una seconda casa”.
Fare parte di una contrada significa impegno costante, divertimento ma anche esercizio e tanta pratica. Non sono tutte rose e fiori perché, proprio come nelle famiglie, si litiga e, a volte, ci si allontana per sempre. A differenza di Siena, in cui i contradaioli ricevono il battesimo, che li lega alla contrada per tutta la vita, a Ferrara si ha la possibilità di cambiare gruppo o far parte di quello che non è per nascita il proprio rione.
“Io facevo parte di un’altra contrada – racconta Giulia – ma non ero certa di volerci restare. Alla fine un mio amico mi ha portato qui a San Luca e mi sono resa conto di volerne fare parte. Quando ti leghi ad un gruppo di persone con cui condividi passioni ed emozioni e da cui ti senti amata, capisci di aver trovato il luogo che sarà la tua seconda casa”.
Certo, passare da una contrada all’altra non è sempre così facile. Le rivalità esistono, anche se non portano a sanzioni. Vivere la contrada non significa solo sfidarsi con gli avversari, ma principalmente creare un legame solido con i compagni, lavorando insieme per ottenere il massimo risultato ad ogni incontro. Non bisogna neanche trascurare, come ci ricorda Andrea, il significato che tutto questo ha per la città: “Il Palio di Ferrara è tra i più antichi, nasce nella seconda metà del 1200, ma non è amato da tutti i cittadini. O meglio, durante le giornate del Palio, piazza Ariostea è sempre pienissima e i ferraresi amano partecipare ad ogni evento in città, sia quelli di piazza Municipio che quelli in piazza Castello.
I problemi nascono durante il resto dell’anno, quando non ci sono spettacoli da vedere ma solamente le prove. A quel punto siamo visti come i disturbatori, quelli che fanno rumore da mattina a sera. Fortunatamente non la pensano tutti così, abbiamo anche gruppi di tifosi che ci seguono durante le gare in trasferta, legati al Palio ma sopratutto alla nostra contrada che, tra quelle cittadine, è una delle più grandi”. Il legame alla storia cittadina è ovunque, dai costumi, curati nei minimi dettagli, agli stemmi. Il simbolo della contrada San Luca è una zucca legata ad uno steccato, antico idrometro utilizzato per capire quando il fiume era in piena. Questo stemma, che spicca sul fondo verde e rosso, era lo stemma del marchese Lionello d’Este e rappresenta l’impresa del paraduro, legata alla bonifica del Polesine. Lo stendardo è ripreso nei colori dei contradaioli, posizionato sugli strumenti e raffigurato sulle bandiere.
La leggenda vuole che, molti anni fa, la contrada fosse la casa di un giovane ferrarese di nome Leopoldo,che, dopo la morte, non ha lasciato la struttura. Lo spirito aleggia tra le sale e, a volte, se ne può percepire la presenza, sentendosi osservati in stanze deserte.
I ragazzi però non si lasciano intimorire da queste storie, si allenano nelle coreografie attenti a non perdere mai di vista l’asta della bandiera, sollevata con agilità, come se fosse leggerissima. Giulia mi porta lascia godere lo spettacolo e mi spiega che per le donne non vogliono essere sbandieratrici, perché è molto faticoso compiere quei movimenti a lungo.
“Le coreografie possono durare diversi minuti e anche se una bandiera di per sé non è troppo pesante, eseguire i movimenti ripetutamente è molto faticoso, sopratutto perché ci si deve coordinare con gli altri. Per questo si deve provare costantemente, per restare allenati”.
Girovago per le stanze, osservo le sarte chiacchierare in sala costumi, gli sbandieratori che scherzano tra di loro e i musici provare tra una risata ed un’altra e capisco che questa è più che una seconda casa, è una vera e propria famiglia.
1. CONTINUA Il nostro viaggio proseguirà alla scoperta di tutte le contrade ferraresi
Di seguito una carrellata di foto delle prove settimanali, clicca l’immagine per ingrandirla.
Nello splendido scenario barocco di Modica, in provincia di Ragusa, dal 20 al 22 marzo si svolgerà la 7ª edizione del Festival internazionale di cinema e poesia “Versi di luce”, organizzato dalla Coop. Elpis in collaborazione con il Club Amici di Salvatore Quasimodo, il CineClub 262, Officina Kreativa e Cineteca SOMS.
I videoclip musicali in gara al Festival di Modica
La manifestazione è inserita tra le iniziative culturali promosse e patrocinate dalla Commissione nazionale italiana per l’Unesco, in occasione della giornata mondiale della poesia. Il festival è nato nel 2009 per approfondire il rapporto tra cinema e poesia e per celebrare la figura dell’illustre premio Nobel Salvatore Quasimodo, nativo di Modica. Al centro dell’evento c’è il concorso dei cortometraggi, suddivisi nelle sezioni video poesia, fiction e videoclip musicali.
Nelle parole di Luis Buñuel, poste nel sito ufficiale della rassegna, troviamo il manifesto culturale dell’evento: “Il cinema è strumento di poesia con tutto ciò che questa parola può contenere di significato liberatorio, di sovvertimento della realtà, di soglia attraverso cui si accede al mondo meraviglioso del subconscio”. Il Festival nel corso degli anni è diventato meta di cinefili, poeti e studenti, che partecipano attivamente agli incontri e alle proiezioni del concorso. Il 21 marzo si terrà la seconda edizione del “Poetry slam”, concorso di poesia riconosciuto dall’omonima Lega Italiana e valido per le finali regionali. I poeti declameranno testi scritti di proprio pugno, composti in qualsiasi stile, in lingua italiana o in dialetto italiano o in idiomi parlati in Italia.
La locandina di ‘Face to face’
Di qualche giorno fa è la notizia che tra i selezionati del concorso Internazionale, riservato ai videoclip, c’è anche il nostro collaboratore William Molducci* (che su ferraraitalia scrive di cinema e musica), con un video musicale basato sulla canzone “Face to face”, interamente realizzata al computer dallo stesso regista. La protagonista del video fugge dalla metropoli per rifugiarsi in un luogo dove musica, sole e allegria hanno la meglio sui mostri (rappresentati da giganteschi murales) e sulla solitudine. “Face to face” è stato girato in varie località dell’Emilia-Romagna: Bologna, Ravenna, Premilcuore, Porto Corsini, Medicina, Cervia e Marina di Ravenna. Le altre nazioni rappresentate, nella sezione videoclip, sono Francia, Spagna, Germania, Svezia e Gran Bretagna.
William Molducciha frequentato il Laboratorio di sceneggiatura di Tonino Guerra a San Marino. Nel 1986 ha vinto il Bellaria Film Festival con “Change”, presentato anche a Taormina Arte, PS 122 Festival Work di New York e U-Tape ’87, organizzato a Ferrara da Lola Bonora (selezione Tape-Connection). Tra le altre sue produzioni segnaliamo “Black out” e “Blu Cocktail”, entrambi in concorso al Torino Film Festival (1987 e 1988).
Cinemaitaliano [vedi]
Torino Film Festival [vedi]
Centro Nazionale del Cortometraggio [vedi]
* William Molducci è nato a Forlì, da oltre 25 anni si occupa di giornalismo, musica e cinema. Scrive sul Blog “Contatto Diretto” e sulla rivista americana “L’italo-Americano”.
Musica anche per gli occhi quella di sabato scorso al Jazz club Ferrara con il quartetto di Wayne Escoffery. La presenza scultorea del sassofonista che guida il gruppo si alterna alle esibizioni quasi acrobatiche di Ralph Peterson alla batteria, a quelle di David Kikosky al pianoforte e di Ugonna Okegwo al contrabbasso. A raccontarlo ci sono le immagini scattate da Stefano Pavani nel Torrione di San Giovanni. La stagione concertistica prosegue con “main concerts” e serate a tema fino al 27 aprile.
[clic su un’immagine per ingrandirla e vedere poi tutta la galleria]
Wayne Escoffery (foto Stefano Pavani)
Wayne Escoffery Quartet (foto Stefano Pavani)
Wayne Escoffery Quartet (foto Stefano Pavani)
Wayne Escoffery Quartet (foto Stefano Pavani)
Wayne Escoffery Quartet (foto Stefano Pavani)
Ralph Peterson alla batteria nel Wayne Escoffery Quartet (foto Stefano Pavani)
Wayne Escoffery Quartet (foto Stefano Pavani)
Ralph Peterson alla batteria nel Wayne Escoffery Quartet (foto Stefano Pavani)
Ugonna Okegwo col Wayne Escoffery Quartet (foto Stefano Pavani)
Ugonna Okegwo col Wayne Escoffery Quartet (foto Stefano Pavani)
David Kikosky al pianoforte col Wayne Escoffery Quartet (foto Stefano Pavani)
David Kikosky al pianoforte col Wayne Escoffery Quartet (foto Stefano Pavani)
Ralph Peterson alla batteria nel Wayne Escoffery Quartet (foto Stefano Pavani)
Ralph Peterson alla batteria Wayne Escoffery Quartet (foto Stefano Pavani)
Wayne Escoffery Quartet (foto Stefano Pavani)
Wayne Escoffery al Jazz club Ferrara (foto Stefano Pavani)
Ralph Peterson alla batteria Wayne Escoffery Quartet (foto Stefano Pavani)
Ralph Peterson alla batteria Wayne Escoffery Quartet (foto Stefano Pavani)
Ugonna Okegwo col Wayne Escoffery Quartet (foto Stefano Pavani)
Ugonna Okegwo col Wayne Escoffery Quartet (foto Stefano Pavani)