Sgradita sorpresa questa mattina per i villeggianti del Lido di Spina che si sono trovati i parcometri per la sosta dinanzi agli stabilimenti balneari. Lasciare l’auto nelle aree antistanti ai bagni da oggi costa: 80 centesimi all’ora oppure quattro euro al giorno. Malcontento da parte degli automobilisti. Il provvedimento, pur annunciato, ha colto la maggior parte di loro impreparati a questa novità, non adeguatamente segnalata. Molte le lamentele, ma nessuna tregua. Gli ausiliari del traffico sono già in azione per multare gli inadempienti.
In tanti hanno protestato per la scarsa informazione preventiva. Ma più in generale la maggioranza considera iniqua questa imposizione, in aree di sosta che sono sempre state libere.
Dal comando della polizia municipale del Comune di Comacchio rispondono con cortesia ma affermano di non avere ricevuto segnalazione di particolari disagi e di non essere in grado di precisare quante contravvenzioni siano state elevate. Per ogni informazione rimandano al sito istituzionale del Comune. In home page si trova uno stringato comunicato che, sotto il titolo “Nuova viabilità per avvio progetto Parcheggi a pagamento”, in tre righe[leggi] riferische che “il 4 aprile prossimo prenderà avvio il progetto dei parcheggi a pagamento sui lidi di Comacchio ed entreranno in vigore alcune modifiche alla viabilità, tra le quali l’istituzione di alcuni sensi unici di marcia nei lidi Scacchi e Pomposa, come meglio esplicitato qui di seguito”; segue l’elenco delle vie interessate al provvedimento.
In fondo c’è un link al sito di “Comacchio parcheggi” [vedi]. Qui si legge l’avviso che riproduciamo accanto al testo. Titolo “Avviso inquietante”, poi l’inquietante “attention” rosso stile “wanted” e sotto anche in questo caso la misera spiegazione che riportiamo integralmente: “SI AVVISA CHE SABATO 11 APRILE al Lido di Spina inizia il pagamento della sosta. Si ricorda che a Lido di Volano sarà attivato dal 2016. Per info e abbonamenti, lo IAT del Lido degli Estensi è chiuso per lavori, rivolgersi a quello del Lido di Spina o di Porto Garibaldi. Scusate per il disagio. PER INDIRIZZI E ORARI DI APERTURA DEGLI SPORTELLI VISITARE LA SEZIONE SPORTELLO O CONTATTI. PER L’UBICAZIONE DEI PARCHEGGI CONSULTARE LA SEZIONE MAPPE. LE MAPPE SONO PURAMENTE INDICATIVE”.
Le mappe sono puramente indicative. Invece le multe sono reali.
Dopo la violazione del sito di Ferrara Arte di cui abbiamo dato notizia nei giorni scorsi [vedi], abbiamo contattato un hacker per capire meglio di cosa si è trattato.
La persona interpellata, usa lo pseudonimo Luther Blisset.
“Con la firma Sami ChiChirovo, ne hanno hackerati centinaia in tutto il mondo, tutti nello stesso modo – afferma – come si può vedere da un sito di supporto agli utilizzatori di WordPress [vedi], per questo appare una cosa da ragazzini.
Ce n’è un altro dove la schermata che appare dopo l’hackeraggio è la stessa, cambia solo la firma [vedi].
Si tratta di un attacco massivo che sfrutta delle vulnerabilità assai note dei sistemi WordPress. In questi casi è sufficiente scegliere un buon webmaster che tenga aggiornata la piattaforma.
Loro colpiscono a caso, dove trovano il problema tecnico che evidentemente è diffuso, è una cosa da “lamer” non da “hacker” per capirci.
E’ una roba di ragazzini che colpiscono usando degli script che cercano falle in WordPress, è solo un caso che sia toccato a Ferarra Arte”.
Ci sono anche hacker che si sono mobilitati per oscurare siti e profili dell’Isis, allora viene da chiedersi, esistono hacker buoni e hacker cattivi?
“Gli hacker buoni sono quelli che sanno fare le cose. Gli hacker cattivi quelli che non le sanno fare. Hacker è una forma d’arte, un modo di pensare alla tecnologia come qualcosa di plastico su cui mettere le mani come uno scultore, ma con lo scopo di trovare funzionamenti non previsti: è una sfida di intelligenza. Ognuno poi sceglie le sfide che ritiene valga la pena affrontare”.
Anche gli hacker che inneggiano all’Isis, spesso usano come simbolo la maschera del personaggio di V for Vendetta, normalmente associata agli Anonymous, individui che compiono azioni spesso illegali, ma in difesa della libertà di pensiero e di espressione. Cosa pensi dell’utilizzo di questa simbologia?
“Il logo di V per Vendetta non è Anonymous. Anonymous è contro ogni forma di copyright per questo usa un logo non suo. Quindi chiunque può usare quella maschera. In questo caso ci troviamo di fronte a qualche lamer che usa script già pronti solo per divertirsi. Non mi stupisce utilizzi anche un immaginario già pronto. Certo mi pare che non capisca quale sia il senso di quello che fa in nessuno dei due casi. La sensazione è che si usi anche il marchio Isis allo stesso modo. Solo per fare un po’ di scalpore. Colpa della stampa se ricevono un attenzione che nella comunità hacker non avrebbero in alcun modo”.
Questo proliferare dell’hackeraggio a sfondo religioso come viene vissuto nel mondo hacker?
“Le fondamenta culturali dell’hacking sono occidentali e atee. Per questa ragione ogni sviluppo è aperto e condiviso. Se mettessimo barriere non saremmo più hacker. Direi che l’hacking di matrice religiosa nega le basi di questa apertura che vuole scavalcare ogni barriera, limite e confine. L’hacking di stato che sia americano, russo, nord coreano o di uno sedicente stato islamico è una contraddizione in termini”.
Cosa comporta ‘dire di no’ oggi, quale il significato, quali gli atteggiamenti odierni e quanto incidono su un mondo sempre più complesso e globalizzato. E che cosa è ‘oggi’, di cosa parliamo quando diciamo ‘presente’. Questi i temi centrali del seminario intitolato “I no del tempo presente” in programma sabato 11 aprile al Centro psicoanalitico di Bologna, in cui verrà presentata “Psiche”, rivista storica della Società psicoanalitica italiana, ora edita dal Mulino tra le nuove collane proposte (la casa editrice ha al suo attivo una settantina di riviste). Luisa Masina, psicoanalista, membro ordinario della Spi e relatrice del seminario ce ne parla così: “Psiche affonda le sue radici nella specificità del pensiero psicoanalitico, conserva il legame con la clinica e al contempo dialoga con le altre discipline, mostrando al lettore i molti volti possibili di uno stesso oggetto: quanti significati può avere la parola presente? A quante emozioni rimanda un no? Prendono vita, in tal modo, correlazioni inaspettate e nuovi pensieri.”
Copertina di Psiche 1/2014 gennaio-giugno
Da qualche anno la Spi e tutti i centri affiliati stanno facendo passi da gigante nell’aprirsi e contaminarsi con le altre discipline, per inserirsi nel dibattito culturale contemporaneo e raggiungere il maggior numero di persone, addetti ai lavori e non. Il vivacissimo sito SpiWeb, di cui abbiamo già scritto [vedi], la rivista “Psiche” e i seminari aperti a tutti ne sono la conferma. Ricca di contributi diversificati che vanno dallo psicoanalista allo storico, dal critico d’arte all’architetto, e ancora dal musicista al filosofo, dall’antropologo al letterato, “Psiche” si rivolge ad un’ampia platea di lettori per i quali desidera essere uno strumento prezioso per l’analisi del tempo presente e delle sue trasformazioni, caratterizzandosi per l’attenzione agli aspetti psicologici della vita sociale.
Copertina di Psiche 2/2014 luglio-dicembre
Infatti, oltre a proporre un approccio più prettamente psicoanalitico e filosofico, la rivista si pone anche sul piano dell’attualità riflettendo sulla portata dei nuovi movimenti globali di indignazione (Raffaele Laudani, storico), dialogando con Marco Scotini ideatore dell’Archivio della Disobbedienza, chiedendo ad un architetto se anche lui come professionista ‘dice no’ (Roberto Secchi, architetto), cosa significa per un artista dire no con la propria arte (Maria Chiara Ghia, architetto), passando poi ai ‘no che hanno fatto la storia’, come il rifiuto di Amartya Sen, Premio Nobel 1998 per l’Economia.
I seminari di Psiche, “I no del tempo presente” Sabato 11 aprile – dalle 10 alle 13
Centro psicoanalitico di Bologna
via C. Battisti 24 – Bologna
Per informazioni: psichered@mclink.it
Presentazione di MARCO MASTELLA
(psicoanalista con funzioni di training della Spi,
segretario scientifico del Centro psicoanalitico di Bologna)
Tavola rotonda
con la partecipazione di
LUISA MASINA
(psicoanalista, membro ordinario della Spi)
GIORGIO ZANETTI
(professore di Letteratura italiana contemporanea, Università di Modena e Reggio Emilia)
VALERIA BABINI
(professore di Storia della psicologia, Università di Bologna)
MAURIZIO BALSAMO
(psicoanalista con funzioni di training della Spi,
professore di Psicopatologia, Università Parigi 7, direttore di Psiche)
Per saperne di più sulla rivista Psiche [vedi].
Per saperne di più sulla Spi (Società psiconalitica italiana) [vedi].
Sabato e domenica la Fiera di Ferrara si trasformerà in una enorme cucina per ospitare il Salone nazionale delle sagre – Misen, che raccoglie le migliori sagre italiane.
In attesa di questo mega evento gastronomico, organizzato da Ferrara Fiere Congressi e dall’Associazione turistica sagre e dintorni, e che abbiamo già presentato sul nostro quotidiano [vedi], siamo andati a scovare la più antica sagra della nostra provincia e quella più recente, e abbiamo scoperto che sono nello stesso comune.
Di quali si tratta ve lo sveliamo tra un attimo, prima ci facciamo raccontare come si sono diffuse le sagre nel nostro territorio dalle parole di Loris Cattabriga, presidente dell’Associazione sagre e dintorni. “Le sagre si sviluppano soprattutto nelle piccole frazioni, per accogliere gli emigrati che ritornano a casa in occasione delle feste patronali, ma anche per tenere unita la comunità, e rafforzarla evitando proprio che si spopoli. Inoltre le sagre hanno preso vigore con la progressiva estinzione delle feste dell’Unità: venendo meno questo collante di tipo politico, sono rimasti gruppi di volontariato desiderosi di impegnarsi”.
La naturale confluenza di questi cittadini volonterosi di adoperarsi per il proprio paese è stata nella tante associazioni e proloco che animano la sessantina di sagre che si contano nella provincia di Ferrara. Quella che vanta le origini più antiche, come si diceva, è la Sagra dell’Anitra di Stellata. “Attraverso delle ricerche presso la canonica di Stellata – ci racconta Loris Calori dell’Arc Stellata ’97 che organizza la sagra – abbiamo visto che nel ‘500, quando è stata costruita la chiesa, si è iniziato a festeggiare la Madonna in piazza l’8 settembre. I signori locali assieme al clero, offrivano un pranzo ai poveri per sollevarli dalla miseria in quel giorno di festa. Questa tradizione è arrivata fino a noi trasformandosi in sagra, questa è la 556° edizione”.
Perché l’anatra?
“Stellata un tempo era una zona paludosa e c’era pieno di anatre, la cui carne era abbondantemente consumata assieme a quella di maiale. La Sagra dell’Anitra quest’anno si tiene dal 3 al 13 settembre con un’anteprima il 2 per il Gran Galà dell’Anitra dove studenti e cuochi dell’istituto alberghiero Vergani reinterpreteranno le nostre ricette”.
In che modo la sagra interagisce con la comunità?
“Tutti quelli che lavorano alla sagra sono volontari, e con il ricavato da sei anni stiamo riuscendo a tenere in piedi la scuola materna. Offriamo il servizio di trasporto da Bondeno e il pasto del mezzogiorno, così abbiamo invogliato i genitori a mandare i bimbi a Stellata, ora sono una sessantina. In questo modo la nostra frazione, che si era ridotta a 500 abitanti, sta riprendendo vita”.
Le sagre dunque non sono solo cibo e convivialità, ma anche un modo concreto per garantire la sopravvivenza delle comunità. Anche da un punto di vista economico, come dimostra l’ultima arrivata delle sagre ferraresi: la Sagra del tartufo di Bondeno, curiosamente confinante con quella dell’Anitra. “Rilanciando il tartufo delle nostre zone – ci spiega Mattia Bagnolati dell’Associazione Tartufai Bondeno Al Ramiol (che è il vanghetto usato per dissotterralo) – abbiamo rilanciato l’intero mercato che ci sta attorno”.
“Chi non conosce i tartufi delle anse del Panaro, detti tartufi della sabbiella, e chi non ne ha mai tartufato le taglietelle?” si chiedeva il Longhi nel secolo scorso.
“Negli anni – spiegano i volontari dell’associazione – il tartufo si è sempre più radicato nella tradizione culinaria bondesana trovando in Enzo Tassi, proprietario dell’omonimo ristorante, un profondo conoscitore del tartufo di Bondeno. Purtroppo dal dopoguerra ai giorni nostri, le nostre campagne e golene hanno visto via via perdere quegli ambienti favorevoli alla crescita del tartufo perché l’agricoltura intensiva ha comportato il progressivo sradicamento degli alberi. Quindi quei cercatori che prendevano il treno a Bondeno, insieme ai loro cani, facendosi portare a Sermide per poi tornare a piedi per le campagne a cercar tartufi, hanno abbandonato l’attività di ricerca. Si è perso così un patrimonio storico culturale e anche economico che ha caratterizzato la storia di Bondeno per tanto tempo. Negli ultimi anni però, i racconti degli anziani e il rinvenimento di tartufi nei giardini di Bondeno hanno incuriosito e appassionato un gruppo di persone di varie età, riportando l’entusiasmo e l’interesse verso il tartufo”.
foto di Lauro Casoni
foto di Lauro Casoni
foto di Lauro Casoni
foto di Lauro Casoni
La Sagra del Tartufo quest’anno si terrà il 9, 10, 11, 16, 17 e 18 ottobre. In quei giorni verranno serviti piatti a base delle tipologie di tartufo rinvenibili da noi, che sono il tartufo bianco pregiato (Tuber Magnatum), il tartufo nero liscio (Tuber Macrosporum), il tartufo nero detto “invernale” (Tuber Brumale), il tartufo bianchetto (Tuber Albidum) e il tartufo nero “scorzone” (Tuber Aestivum).
Grazie ai proventi del ristorante, i volontari hanno piantato cinque ettari di alberi in area golenale, dedicando il bosco al loro socio scomparso Melara, detto Mel. “Un parte sono essenze autoctone per la produzione spontanea, mentre altre sono piante micorizzate. E’ un regalo al territorio che servirà a tenere viva la produzione di tartufo”.
La Sagra dell’anitra di Stellata e la Sagra del tartufo di Bondeno saranno entrambe presenti al Salone nazionale delle sagre, sarà bello gustare i loro assaggi facendosi raccontare le loro storie.
Un messaggio delirante che inneggia all’Isis. Preso di mira è il sito di Ferrara Arte, la Fondazione costituita dal Comune e dalla Provincia di Ferrara con lo scopo di organizzare mostre in collaborazione con le Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara.
Questo è il messaggio comparso per poco più di un giorno sul sito (www.ferraraarte.it). Il testo originale è in lingua inglese.
Così si presentava la home page del sito www.ferraraarte.it
Hacked By SaMi ChiChirovo
The iSLamiC State is Coming inshallah!
I’m Muslim and I Love #ISIS
Fuck USA , Israel , Shiaa , and all who hate ISLAMIC STATE
Palestine will Be Free #inshallah
Greetz to : Poti_Sad_Dz / Le Prince Amir / Prodigy -Tn / MOodyPL / Moh Ooasiic / Zaki / My PC
Hackerato da SaMi ChiChirovo.
Lo Stato Islamico sta arrivando se dio vuole!
Sono musulmano e amo l’Isis.
Vaff****** Usa, Israele, gli Sciiti e tutti quelli che odiano lo Stato Islamico.
La Palestina sarà libera se dio vuole.
Grazie a: Poti_Sad_Dz / Le Prince Amir / Prodigy -Tn / MOodyPL / Moh Ooasiic / Zaki / My PC
Una scoperta inaspettata e inquietante fatta casualmente. Ma si tratta verosimilmente di una bravata. Si moltiplicano infatti in queste settimane i fenomeni di emulazione, sull’onda emotiva generata dall’allarme destato dalle azioni dell’Isis.
Durante una ricerca on line ci siamo trovati davanti a una pagina con sfondo nero, sulla quale campeggiava un fotomontaggio in bianco e nero. Si tratta della famosa immagine del fotografo di guerra ucraino Evgenij Chaldej, che immortala l’istante in cui un soldato dell’Armata Rossa issa la Bandiera dell’Unione Sovietica su una delle torri del Reichstag berlinese distrutto dai bombardamenti. In questo fotomontaggio i soldati hanno il capo fasciato e issano la bandiera dell’Isis, con la scritta “Non vi è altro Dio all’infuori di Allah e Muhammad è il Suo Messaggero”.
Il nome del presunto hacker, rimanda a tre pagine Facebook.
Un profilo aperto il primo aprile dove la foto di copertina reca la scritta: mangia, dormi, attacca, la vita di Sami ChiChirovo. Nella foto del profilo c’è un uomo con un passamontagna nero con lo stemma dell’Isis ed un fucile in spalla.
Un altro è quello di Sami Drif, che specifica di non essere un hacker, ma riporta la notizia degli ultimi attacchi hacker di questi giorni, tra cui uno simile a quello di Ferrara Arte.
Il terzo è quello di un gruppo chiuso che conta 1100 membri e porta il suo nome, e la cui foto di copertina reca la scritta: AnonGhost sotto ad un fotomontaggio di un volto metà teschio e metà maschera di Anonymous. L’amministratore del gruppo è proprio Sami Drif.
Può essere l’azione di un mitomane in cerca di visibilità, la bravata di un cervellone informatico, che per mostrare la sua abilità sceglie a caso siti che è facile sabotare al di là di quello che rappresentano, per poi vantarsene sui social network. E’ questa al momento l’ipotesi più accreditata.
—–
La scelta di pubblicare questa notizia non è stata compiuta con leggerezza. La decisione è stata attentamente soppesata, valutando quali sarebbero stati gli effetti, in un caso e nell’altro. C’è una responsabilità nel diffondere e una nell’omettere. E questo è il tipico caso in cui pro e contro si mescolano e si confondono.
Ma il fatto si è consumato in una pubblica piazza, sia pure virtuale: quella del web. Chiunque ha potuto o avrebbe potuto accorgersene. Tacere può essere inteso come segnale di paura. Riteniamo priva di qualsiasi implicazione e del tutto casuale la presenza di questo folle messaggio sul sito di Ferrara Arte, peraltro un sito frequentato più da addetti ai lavori che dal vasto pubblico. Ma se anche, per assurdo, fosse vero il contrario e il messaggio sottintendesse un’insidia o una minaccia, non è tacendo che la si sventa o la si depotenzia.
Le forze dell’ordine stanno indagando. Prevale l’idea che si tratti di una goliardata ad opera di personaggi in cerca di popolarità.
Ma i giornali hanno comunque il dovere di informare l’opinione pubblica nel rispetto del principio della libertà. Il clima che si sta creando a seguito delle efferatezze perpetrate da Isis e delle loro minacce va affrontato a testa alta. E senza paura. Come giustamente si sostiene quando ci si riferisce alla mafia, il silenzio è sempre un segnale di resa.
Il lettore ha il diritto di sapere e valutare in autonomia, senza censure preventive. E gli operatori dell’informazione hanno il dovere di salvaguardare questo diritto.
La trovi quando ti incammini un po’ fuori piazza Ariostea. I nomi delle strade, ghiaiose e sperdute dietro l’angolo del traffico ordinario, sembrano didascalie. Via delle Vigne, via delle Erbe. Quando cominci a entrarci, non puoi che andare avanti. Ed ecco che ci sei dentro: la campagna in città! Una specie di tunnel nel verde ti fa entrare per incanto in quei “post” favolosi che la gente pubblica su diari, blog e bacheche e che mostrano sentieri avvolti da alberi, fiori e fronde provenienti dai più disparati angoli del mondo. Questo tunnel di alberi, invece, è proprio qui, dietro una piana, tranquilla, asfaltata città padana.
Alberi in fiore nel sottomura vicino a Terraviva a Ferrara (foto di Aldo Gessi)
A fare un po’ di chiarezza nella strana faccenda, arriva un cartello di legno inciso con una calligrafia libresca. Ai visitatori che, si sa, arriveranno stupiti e magari anche dubbiosi di avere infranto chissà quale magico o privato confine, viene spiegato che “questo raro brano di campagna all’interno delle mura cittadine è l’unico caso in Italia di uno spazio così ampio (quattro ettari) dedicato all’agricoltura”. Una campagna interna alla città, che fa parte del disegno rinascimentale di Biagio Rossetti e della sua famosa “addizione” del 1487. L’urbanista che ha fatto di Ferrara una città che – per l’Unesco – è un patrimonio dell’umanità e che l’ha resa la prima città moderna d’Europa, prevede una crescente estensione del verde con punto di partenza ideale dal Castello estense, su su verso la cinta muraria. E, il cartello, spiega e quantifica che grazie a ciò, ora, il verde della campagna di questa zona, che è la più ampia del genere, è stato preservato per oltre 500 anni.
Cimitero ebraico di Ferrara con vista sulle Mura tra via delle Erbe e via delle Vigne (foto di Aldo Gessi)
La suggestione, dunque, non è frutto del caso, c’è un preciso disegno storico-architettonico dietro. Un progetto così antico e così moderno, se si pensa che poi nel secondo dopoguerra, nel pieno del boom delle costruzioni, il Comune di Ferrara si oppone all’edificazione di quest’area e la acquista per preservarla; l’amministrazione che compra della terra dentro la città per tenerla vuota, per mantenere un vuoto nel pieno.
Negli ultimi trent’anni questo pezzo di campagna cittadina ha sposato le tecniche dell’agricoltura biologica e biodinamica introdotte da Rudolf Steiner. La gestione con questo metodo di coltivazione comincia nel 1985 e a parlarne – quest’anno, che è anche occasione di celebrazione dei 30 anni – hanno contribuito una serie di incontri, organizzati nella biblioteca Ariostea. In collaborazione con l’associazione Nuova Terraviva i pomeriggi nella sala Agnelli della biblioteca cittadina dedicati a “Spiritualità pratica steineriana a Ferrara” che vanno ad arricchire il programma di incontri dello spazio culturale comunale. Terra e aria, parole e ossigeno, libri intorno a mani che lavorano sporche di erba, fango e pollini. Buona fuga.
A Losanna si è conclusa la prima fase di un compromesso che vuole chiudere un capitolo che ha condizionato pesantemente gli ultimi trent’anni di storia del Medioriente e le sue relazioni con i Paesi occidentali. Molti parlano di accordo storico, non solo per il forte impatto geopolitico, ma anche per le conseguenze economiche e sociali che si rifletterebbero sul contesto internazionale. Ci si riferisce all’accordo sulla negoziazione del programma nucleare della Repubblica iraniana, che passato un ulteriore step lo scorso 2 aprile, aspetta solo la chiusura, a giugno, con la preannunciata versione definitiva.
Losanna (Svizzera), l’accordo sul nucleare iraniano
I punti chiave dell’intesa si baserebbero sulla limitazione all’arricchimento di uranio del 3,7 (percentuale usata a scopo civile), al fine di impedire che si ricavi il plutonio necessario per la costruzione della bomba atomica, in cambio della revoca da parte dei Paesi occidentali (rappresentati durante il negoziato dai cinque membri del consiglio di sicurezza dell’Onu con diritto di veto più uno) delle sanzioni di carattere economico che furono imposte all’Iran, una sorta di embargo.
Dunque, se l’obiettivo è che l’Iran fermi la corsa al riarmo nucleare, c’è da dire che questa possibilità non è del tutto congelata; il rischio che si tenti di eludere l’accordo o di acquisire maggior liquidità per finanziarne la produzione è comunque sorvegliato dai controllori dell’Aiea (Sezione nucleare delle Nazioni unite) che provvederanno ad ispezioni regolari ed autorizzate nelle centrali iraniane.
Tra le variabili di maggiore interesse, poi, il tempo rappresenta l’incognita cruciale, poiché si devono considerare sia i tempi tecnici che il superamento delle personalità ostili all’accordo.
In questo senso l’accordo rappresenta effettivamente una svolta, anche solo in riferimento al cambiamento che la presidenza americana ha messo in atto nei confronti dell’Iran, preferendo una strategia di ‘engagement’ rispetto all’isolamento o alla risposta militare per anni adottata (atteggiamento già messo in atto più volte nelle scelte politiche del presidente Obama, in riferimento per esempio al contesto della Birmania e allo scioglimento dell’embargo di Cuba).
A partire da un potenziale scambio per centinaia di miliardi con l’Unione europea, le conseguenze economiche di questo accordo possono avere ampia rilevanza: grazie al ritorno del gigante dell’Opec nelle interazioni commerciali, si parla di un possibile risveglio della dinamicità della finanza islamica e si preannunciano massicci investimenti provenienti dai magnati asiatici, interessati a finanziare il debito estero, data la garanzia che rappresenterebbe il potenziale del settore energetico di questo Paese.
Non è quindi il caso di affrontare l’intera questione sperando che il battito d’ali di una farfalla in Brasile basti a scatenare un tornado in Texas (citando il matematico Edward Norton Lorenz), consapevoli che l’impatto di questo tipo di questioni su tutto il contesto sia, ormai, molto più ampio in un’economia pienamente globalizzata.
Riflettendo, infine, sulle conseguenze sociali derivanti da questa intesa, si deve valutare anche lo scenario di riferimento, dove ci si imbatte in un intreccio tra conflitti religiosi difficili da sanare, inimicizie storiche e nuove cellule terroristiche di matrice estremista, ed in questo quadro occorre ricordare come l’economistaHirschman ebbe a sostenere che i lenti processi di cura degli interessi privati rappresentino, grazie al commercio, un potenziale fattore di civilizzazione delle relazioni umane: il dolce commercio che potrebbe sanare una guerra ormai esasperata.
di Riccardo Viselli
A dimostrarlo ci sono 134 anni di sistematiche e puntuali rilevazioni della temperatura registrate in una novantina di stazioni dislocate in tutto il mondo: l’aumento della temperatura è una tendenza globale e costante, un problema che interpella i governi di tutto il mondo.
In questo articolo si riportano i risultati delle analisi dei dati di 88 stazioni di misura delle temperatura della bassa atmosfera ubicate in America settentrionale (24), Europa (42), Asia (18), Africa (2) ed Oceania (2). La fonte dei dati è il Goddard Institute for space studies della Nasa e le stazioni considerate sono solamente quelle che hanno iniziato a registrare i dati nel quinquennio 1880-85, sono tuttora in funzione e mostrano interruzioni continuative non superiori a 20 anni. Ai dati delle stazioni che hanno iniziato a registrare i dati in aree rurali, oggi inglobate in un grande centro urbano, è stato necessario apportare una correzione che depurasse la temperatura dagli effetti locali (emissioni industriali e domestiche, traffico veicolare, consumi energetici che all’inizio del periodo di misura erano inesistenti) e gli algoritmi utilizzati, frutto di studi approfonditi, tengono essenzialmente conto della densità di popolazione e della sua variazione nel tempo: ne consegue che, laddove questo parametro è risultato costante, non viene effettuata alcuna correzione.*
Il periodo nel quale si sono concentrate le temperature massime è inequivocabilmente il quinquennio 2010-14 con quasi il 45% dei record termici seguito dal decennio 2000-2009 che raccoglie oltre il 25% dei record di caldo: questo dato merita una certa considerazione in ragione del fatto che circa il 70% delle stazioni ha fatto registrare il record positivo della serie negli ultimi quindici anni.
Di contro, la concentrazione degli anni più freddi si è distribuita nettamente nei primi decenni di misurazione (1880-89 con quasi il 30% delle stazioni e 1890-99 con oltre il 20%), anche se non è trascurabile il 15% registrato dal periodo 1940-49. Si evince, da questo primo parametro considerato, che i record termici negativi sono stati registrati all’inizio del periodo di misura considerato, mentre i record positivi nella parte terminale della serie temporale considerata.
L’anno più caldo, in accordo con quanto sopra riportato, è risultato nettamente il 2014, con oltre il 25% delle stazioni che hanno fatto registrare il record positivo in questa annualità seguito dal 2007 con oltre il 15%. Gli anni con più record negativi, invece, sono risultati il 1885 ed il 1888 con quasi l’8% delle stazioni che hanno fatto registrare il minimo termico in ciascuna di queste annualità. In nessun caso, è stato registrato il record termico negativo nel periodo che va dal 1986 al 2014.
Utilizzando il metodo della variazione della retta di interpolazione lineare emerge che nel 94% delle stazioni è stato registrato un aumento nel periodo 1880-2014, una percentuale che oggettivamente lascia pochi dubbi circa una tendenza al riscaldamento globale, confermato dal fatto che in solo il 2% delle stazioni è stata registrata una diminuzione. L’incremento termico medio è stato notevole e pari a 1,26 °C. Anche il calcolo con il metodo della variazione della media mobile trentennale conferma quanto evidenziato nel precedente paragrafo: nell’82% delle stazioni è stato rilevato un aumento ed in nessun caso una diminuzione e l’incremento termico medio è stato pari a 1,10 °C. Infine, anche il calcolo con il metodo della stazione unica virtuale conferma quanto sopra evidenziato: la variazione della media mobile trentennale della stazione unica è stata pari a +1,06 °C e la variazione della retta di interpolazione lineare è stata pari a +1,22 °C. Questo metodo evidenzia inoltre che, dopo la diminuzione continua registrata nel quadriennio 2007-2010, nel 2011 si è avuta una nettissima ripresa delle temperature. Nei prossimi anni sarà interessante verificare se la tendenza mostrata dal 2007 ed interrotta dal 2011 verrà ripresa.
E’ stata infine condotta una ulteriore analisi sulle sole stazioni ubicate in aree con popolazione inferiore a 300mila abitanti per verificare se le conclusioni a cui si è giunti considerando l’intero campione sono confermati. In questo caso il numero delle stazioni è pari a 40 e nessuna è ubicata in Africa. I risultati sono sostanzialmente identici: nel periodo 1880-2014 la variazione termometrica è comunque superiore al grado centigrado, la maggior parte dei record caldi sono stati registrati negli ultimi quindici anni (68% delle stazioni) e nel 48% delle stazioni la temperatura del 2014 è ubicata al di sotto del 5° percentile. Si può quindi concludere che la tendenza all’incremento termometrico non è verosimilmente riconducibile ad effetti locali dovuti alle “isole di calore urbane”.
* Occorre precisare che, per convenzione, si sono considerate in aumento le temperature delle stazioni in cui le variazioni sono state superiori a 0,30 °C, in diminuzione le temperature delle stazioni in cui le variazioni sono state inferiori a -0,30 °C e invariate le temperature in tutti gli altri casi. Per quantificare le variazioni delle temperature sono stati utilizzati tre metodi: variazione della media mobile trentennale, variazione della retta di interpolazione lineare e variazione nella stazione unica virtuale risultante dei dati delle 88 stazioni.
Ricerca dei punti urbani critici da riqualificare, ascolto delle idee dei bambini come base per coinvolgere una platea più ampia, attività di mediazione tra cittadinanza e amministrazione. Sono questi gli ingredienti principali di Com.bus, un progetto di innovazione sociale attivo e diffuso su tutto il territorio del comune di Ferrara. L’idea nasce e si sviluppa attorno alla tesi di laurea di Giovanni Oliva, architetto ed esperto di marketing e comunicazione che, insieme alla collega esperta di progettazione partecipata Serena Maioli e all’educatrice Elena Maioli, compongono il nucleo operativo di Com.bus.
Abbiamo incontrato Serena a Pontelagoscuro, ai piedi della scalinata sull’argine che da via dell’Isola Bianca porta dritti al Po, per farci raccontare la realtà di Com.bus, le loro attività e la loro proposta di riqualificazione della stessa scalinata, storico luogo strategico per le vie commerciali del Grande Fiume.
“Il progetto è iniziato a fine 2013 – racconta Serena – ha durata biennale ed è stato ammesso ad un finanziamento del Miur, ancora oggi non pervenuto. Nonostante questo dettaglio da non trascurare, ma data la necessità di realizzare gli obiettivi entro maggio, abbiamo deciso di metterci all’opera il prima possibile, avvalendoci anche dell’accordo d’intenti con i dipartimenti di Architettura e Studi umanistici di Unife”.
Per capire nel dettaglio come lavora e su quali principi si basa Com.bus, è necessario introdurre le due parti fondamentali che strutturano il progetto: il Metodo dell’Orecchio Acerbo (Moa) e il Communication Office for Municipalities (Com). Per quanto riguarda il Metodo dell’Orecchio Acerbo, Serena spiega essere “l’ascolto attivo dei bambini, coloro che in fin dei conti più di tutti sono ai margini delle scelte della cittadinanza. Partiamo quindi dalle richieste e dal punto di vista dei più piccoli per arrivare soprattutto alle famiglie e alle scuole, in modo da avere la giusta base dalla quale creare i progetti”; parallelamente, il modello denominato Communication Office for Municipalities viene descritto come “lo strumento grazie al quale cittadinanza e pubblica amministrazione possono riuscire a comunicare nel miglior modo possibile, l’occasione di conciliare le richieste e necessità dei primi con la modalità d’azione della seconda mediante un processo di forte inclusione sociale”.
Il fulcro centrale dell’operato di Com.bus sono dunque i bambini, che Serena definisce ‘spugne sociali’ proprio perché “i bambini sono in grado di ascoltare in maniera molto più fresca rispetto agli adulti, oltre al fatto che coinvolgerli in queste tematiche è spesso anche l’unico modo a disposizione per coinvolgere direttamente anche i più grandi. Tramite questo procedimento siamo riusciti ad ottenere campioni eterogenei per la nostra attività di ricerca”.
In questi due anni di lavori sono stati coinvolti gli alunni di quarta e quinta elementare di sette scuole sparse su tutto il Comune di Ferrara, dando particolare importanza soprattutto a quelle del forese proprio per la difficoltà di queste località nell’essere facilmente raggiungibili dall’amministrazione. “Durante il primo anno di lavori, ossia l’anno scolastico 2013-2014 per le scuole, siamo riusciti ad organizzare ben dodici incontri in ognuna delle nove classi coinvolte nel progetto – continua Serena – Durante gli incontri i bambini vengono stimolati a domandarsi e ad esplicitare come trovano l’ambiente urbano nel quale vivono, ad intraprendere indagini su questi ambienti e ripercorrere un po’ quella che è la loro storia e di come questa abbia cambiato nel tempo il loro ruolo”. Ad affiancare Serena nelle scuole è Elena, educatrice di formazione artistica. Sul campo, Serena mi racconta quanto sia importante “coinvolgere nel modo più costruttivo e adeguato possibile i bimbi circa le problematiche che vengono affrontate. Per questo motivo, la domanda che noi poniamo a loro non è mai ‘cosa vuoi fare in questo luogo’ ma ‘come pensi che possano essere cambiate le cose in questo posto’, concetto molto importante per fargli capire che non stiamo andando alla ricerca di quello che fa comodo solo a loro ma a qualcosa che possa essere utile per tutti”.
Terminati gli incontri di condivisione collettiva, sono stati infine raccolti numerosi dati utili ai ragazzi di Com.bus per individuare i luoghi che più di altri hanno la necessità di essere rivalutati e presi in considerazione.
Con il secondo anno di attività, i lavori sono passati dalla teoria alla pratica: con le classi quarte divenute nel frattempo quinte, il lavoro di Com.bus nelle scuole è continuato con la scelta dei luoghi individuati a termine dell’anno precedente e con l’impegno di attivare, in ognuno di questi, delle piccole sperimentazioni. “Abbiamo chiesto ai ragazzi di decidere collettivamente come agire su questi luoghi – afferma Serena – in modo da attuare una vera e propria progettazione da portare avanti insieme alle famiglie, ai vicini, ad altri soggetti e a tutte le persone della comunità che vorranno essere coinvolte”.
I progetti pensati sono stati condivisi in un insolito consiglio comunale, avvenuto il mese scorso, con protagonisti gli stessi ragazzi coinvolti nel progetto. “È stato un modo particolare ma significativo per mettere in luce quanto fatto in questi mesi – continua Serena – Raccontare in pubblico il lavoro svolto, rendere partecipe la cittadinanza delle sperimentazioni e far passare il messaggio che è necessario individuare le priorità partendo dal basso sono messaggi sicuramente importanti anche per la stessa amministrazione, la quale potrebbe trovare spunto da questo per definire una linea guida d’azione”. Per rendere il tutto davvero attuabile, sono stati anche aperti tavoli di confronto con l’Urban Center di Ferrara e con i diversi uffici coinvolti nelle sperimentazioni urbane e sociali.
Ma quali sono queste sperimentazioni? Iniziamo proprio da quella di Pontelagoscuro, sede della già citata scalinata, dove Serena specifica che “l’obiettivo intrapreso con le classi delle scuole primarie di Ponte è tornare a far diventare questo luogo centrale come lo era un tempo, un desiderio nato dalla necessità di rivivere questo spazio oggi in disuso e spesso in preda alla sporcizia. Tutto si baserà – continua – sul colore e sulla pittura di murales che riporteranno lungo tutta la scalinata delle onde che, tramite una gradazione di blu, passano dai colori più attuali del Po a un utopico turchese, ovvero il colore del fiume di un tempo, mentre da un lato verranno disegnate le vecchie barche e dall’altro le più moderne biciclette a significare l’importante rapporto tra passato e presente”.
Nel raccontarmi il procedimento di ideazione di questo progetto, anticipato ovviamente da dibattiti ed indagini storiche condotte dai bambini, è emersa l’importanza del lavoro che Com.bus affida a questi ultimi poiché Serena mi confida che “in origine l’idea della centralità del colore e soprattutto delle onde ci convinceva poco, ma dopo aver valutato attentamente quello che davvero volevano esprimere i bambini, ovvero l’importanza primaria del Po in questo luogo, ci siamo subito ricreduti”.
Oltre alla scalinata, le altre sperimentazioni avviate da Com.bus le troviamo in viale Krasnodar dove è prevista la costruzione di una pavimentazione a scacchiera in una piazza nella quale riprodurre un grande gioco urbano gigante, mentre a Cocomaro di Focomorto verrà ridisegnato il parco sul canale che comprenderà l’attrezzatura di luoghi “morbidi” per i bambini con più difficoltà. E ancora, a Quartesana, verrà costruito un giardino sensoriale nell’area dietro la piazza, a Villanova avverrà la sistemazione di una vecchia biglietteria oggi destinata a diventare un luogo di scambio libri, mentre nel quartiere Giardino è stato ideato un piano sia educativo che pratico su come riqualificare il parco di piazzale Giordano Bruno.
Insomma tanti interessantissimi progetti in ballo, alcuni sviluppati da richieste pervenute, altri pianificati ex-novo tramite un preciso piano d’azione.
In conclusione, non ci resta che attendere un mesetto per vedere i primi segni concreti di quello che Com.bus ha avviato un paio d’anni fa. Un progetto di studio tanto complicato e ambizioso quanto affascinante, ma anche un nobilissimo intento, che comprende un numero di potenziali utenti vastissimo ma che al contempo si basa, prima di tutto, sulle esigenze dei bambini. Abbiamo davvero bisogno di “facilitatori che fanno di diffusione e ascolto le loro priorità” come si definiscono i ragazzi di Com.bus, per ricordarci che è ancora possibile e soprattutto necessario unire le forze e prenderci cura dei nostri luoghi e dei nostri spazi. Farlo significa prima di tutto portare rispetto alla nostra storia e alla nostra cultura, proprio come Serena, Elena e Giovanni insegnano ai più piccoli, ma significa anche partecipare attivamente, dimostrare che ci siamo, che siamo presenti e che non vogliamo escluderci dalla gestione di quelle che per noi sono cose fondamentali e spesso ce ne dimentichiamo: i nostri quartieri, il nostro territorio, la nostra terra.
Lo skyline newyorkese illuminato dai colori puri delle luci elettriche potrebbe far pensare all’apologia trionfalistica della contemporaneità dei futuristi o all’esaltazione positivista dei ruggenti anni Venti. Poi si legge il titolo: “Il demone della modernità. Pittori visionari all’alba del secolo breve”. Ed ecco farsi strada quella sensazione di straniamento e di inquietudine che forse vi accompagnerà per tutta la visita alla mostra di Palazzo Roverella di Rovigo, curata da Giandomenico Romanelli – a cui la Fondazione della Cassa di risparmio di Padova e Rovigo aveva già affidato lo scorso anno “L’ossessione nordica” – con Franca Lugato e Alessia Vedova.
Sascha Schneider, Grido di guerra, 1921
Ad essere esposto è un mondo fra due mondi, a cavallo fra Ottocento e Novecento, con artisti che presagiscono e poi raffigurano l’inutile strage che attende l’umanità appena oltrepassata la soglia del nuovo secolo. Ci si muove in un terreno accidentato, nel tentativo di capire cosa riserva l’insorgere di questa modernità che sembra incombere necessaria. Segni, presagi, indizi, nessuna strada sicura ancora tracciata, mentre dietro ci si lascia i simboli, cristiani e pagani, delle età passate che non sembrano più essere utili per orientarsi in questi nuovi territori.
Sei sezioni tematiche – Sotto il segno di Lucifero, Luoghi dell’illuminazione e Ziggurat dell’anima, Angeli demoni. Sogni incubi visioni, il Trionfo delle tenebre verso l’Olocausto mondiale, Altre metamorfosi e Luci(fero) tra i grattacieli – per esplorare questi nuovi territori della coscienza, tentando di non cadere negli oscuri baratri dell’inconscio. Fin dall’inizio non c’è nulla di definito: le creature fantastiche e oniriche di Odilon Redon e la “Salomè danzante” di Moreau accolgono i visitatori senza svelarsi fino in fondo, in loro c’è qualcosa di seducente quanto di sempre sfuggente.
Franz von Stuck, ‘Lucifero’, 1889-1890
Così anche le sei incisioni del ciclo “Opus III” di Klinger, che alternano visioni dei progenitori biblici a visioni del futuro la cui interpretazione è lasciata in toto a chi guarda. Sono gli ultimi decadenti e sensuali contorcimenti del vecchio mondo arrivato ormai alla sua fine, osservati e dominati dagli occhi di bragia del “Lucifero” di Franz von Stuck, seduto come il Pensatore di Rodin, quasi sgomento di fronte a ciò di cui l’umanità sembra essere capace.
Le seconda sezione è una galleria di scorci di questo universo conteso, fra la fine delle certezze arcaiche e il precipitoso avvicendarsi della modernità. Si parte dall’osservazione della natura, ma ciò che vediamo non ha nulla del lirismo dei Romantici: il buio dell’inconscio è squarciato da violenti effetti luministici che hanno tutta l’artificiosità della dimensione interiore e l’artificialità delle nuove luci elettriche.
Gabriel Jurkic, ‘La via verso l’eternità’, 1918
Sulla strada si incontrano angeli della tradizione occidentale e orientale, ma anch’essi sono spaesati e sembrano non essere più capaci di sostenere il ruolo di portatori di speranza: su una scalinata durante un rito di offerta, sulla cima di una montagna o su una spiaggia a scrutare l’orizzonte, oppure sulla soglia della via per l’eternità, ma a capo chino, come a non volersi più assumere questa responsabilità.
Mikalojus Konstantinas Čiurlionis, Fantasy (The demon), 1909
La denuncia delle storture e delle ipocrisie della società borghese del ciclo “Opus VIII-Una vita” di Klinger è il preludio alle opere della sezione dedicata al presentimento del Primo conflitto mondiale: i lugubri tarocchi diMartini, raffiguranti la macabra danza delle potenze europee, e poi visioni di Apocalissi e angeli giganteschi che suonano le trombe del Giudizio Universale, mentre un barbuto e muscoloso Lucifero dalle possenti e affascinanti ali nere sogghigna trionfante guardando un Cristo, la cui corona di spine sembra poter pungere anche chi la sta guardando.
Ed ecco la fine del cammino: gli anni Venti e Trenta. C’è ancora spazio per l’inquietudine, ma viene letta con ironia e leggerezza o a tratti con malinconia. Ormai la strada è stata tracciata, anche se sopra i cadaveri nelle trincee: è quella del progresso, dell’industria, del futuro luminoso e dinamico. Luminoso e dinamico come le strade e i grattacieli di New York, che ormai ha strappato a Parigi il primato di città della luce.
Una mostra suggestiva e potente questa di Palazzo Roverella, apertafino al 14 giugno, uno sguardo particolare e per nulla scontato, una rassegna sugli interrogativi sinistri che animavano gli uomini del secolo scorso, trasmessi come per osmosi ai visitatori di oggi. E viene da chiedersi se in realtà non siano gli stessi cupi demoni e inquietudini che animano anche i nostri quotidiani.
Per saperne di più visita il sito della mostra [vedi].
“La Terra è un paradiso. L’inferno è non accorgersene” (Jorge Luis Borges)
Questa terra misteriosa e magica, a volte così brulla, secca, arsa, assetata, calda, accaldata, sudata, accecata e assolata, incredibilmente e sorprendentemente verde in alcune parti nascoste che appaiono alla vista all’improvviso, è sicuramente la terra del colore marrone. Il colore della sabbia, di quella sabbia alzata dal vento caldo che ti attraversa i vestiti, i capelli e le mani, che ti spettina i pensieri, che ti va volare lontano, che ti fa spazzare via le indecisioni e le preoccupazioni, che ti leviga i dolori rattrappiti arrampicati sulle tue spalle nodose. Il colore del deserto, dei tronchi d’albero abbandonati, di quelli maestosi, vivi e immensi dei baobab, di quelli più striminziti e magri abbandonati sulle soglie delle botteghe altrettanto magre, il colore delle costruzioni, delle case, delle capanne e delle moschee, delle strade polverose. Siamo in Mali, un Paese ora poco avvicinabile ma bellissimo per natura, paesaggi, persone e vita.
Djenné, porta del deserto che conduce a Tombouctou
Il sole è accecante, già di prima mattina, il vento che ti si appiccica addosso insieme ai pantaloni larghi di lino leggeri ti accarezza e ti accompagna lungo la strada verso la misteriosa Tombouctou, la porta del deserto, la porta spalancata che ti attende a braccia aperte, per condurti cautamente nel nulla, nel silenzio di una distesa di sabbia che non è poi così silenziosa, per aprirti a un cielo dove le stelle luminose sono tantissime, stipate, strette l’un l’altra in un enorme e potente abbraccio cosmico, anime che si urtano perché troppo incollate ma che si sorridono e si scusano per questo. Anche con te.
Il marrone delle strada si confonde con le tue scarpe curiose che camminano e vanno quasi da sole, si perde nell’ambra dei tanti sogni che ti hanno portato lì. Il marrone è nelle scatoline che alcuni bambini cercano di venderti, nelle statuine intarsiate di legno, che per la loro sottigliezza ed eleganza, vengono chiamate ombre, nelle tua stessa ombra proiettata su quel cammino misterioso, nelle lunghe collane di perline e nelle ciotole di legno dove mangerai un improbabile couscous cittadino che non avrà mai lo stesso sapore e odore. Nei giocattoli ritagliati da lattine arrugginite di bevande zuccherine e piene di conservanti. Il marrone è negli occhi dei tuareg, in quelli delle donne con la pelle abbrustolita dal sole, nei loro ‘paignes’ colorati cuciti a mano, nelle incredibili capigliature di molte ragazze, quando riesci a intravederle dal velo che ricopre loro il capo.
Il marrone è negli argini e nelle sponde del fiume che ti riporta alla superficie delle giornate piene, nelle pelli e nelle schiene dei cammelli che ti salvano dal vento riparandoti e portandoti al sicuro. Il marrone è soprattutto negli alberi, nei tronchi centenari degli imponenti baobab, nei rami secchi dai quali penzolano stracci bisunti e borse di plastica trascinati dal vento, braccia speranzose rivolte al cielo.
E poi ci sono gli arnesi arrugginiti degli artigiani per le strade, gli oggetti dei ‘bricoleurs’ che recuperano di tutto, i portoni e le finestre di legno dall’odore intenso, i tetti delle capanne dei villaggi, e soprattutto loro, le case di sabbia, piccole e grandi, alte e basse, lunghe e larghe, case che sembrano fatte con uno stampino, con secchiello e paletta, tanto sono perfette, curate e precise, quelle che vedete quasi ovunque in Mali ma soprattutto nell’incredibile città di Djenné.
Se Tombouctou, a nord del fiume Niger, era l’Eldorado dei tempi di Leone l’Africano, è la custode di oltre 700.000 manoscritti arabo-islamici dei secoli XIII-XVI (tra cui le opere di Avicenna), e simboleggia, da sempre, l’estrema lontananza del mondo e dal mondo, la bella Djenné è la città di fango. Un fango che si crea e si manipola, quasi lavorassimo con il buon vecchio e caro Pongo, che si plasma con cura, con le mani, con la testa, con i sogni. Djenné è magica davvero, ho avuto la fortuna di percorrerla a piedi quando ancora le condizioni di sicurezza, pur con certe limitazioni, permettevano di visitare il Paese.
Moschea di Djenné, durante i lavori di manutenzione
Siamo nella regione di Mopti e in questa città d’altri tempi si trova la grande Moschea. Ovviamente non si può entrare, oltre a non essere musulmana sono donna. E qui queste due condizioni non aiutano, anzi impediscono l’accesso a questa meraviglia (come ad altre), con tanto di cartello bene in evidenza all’entrata (accesso espressamente vietato per la mancanza della prima condizione, la seconda va da sé). Mi limito, allora, a girarci attorno, a osservare quelle punte e quei merletti, quella costruzione che mi dice quanto l’uomo possa essere anche meraviglioso e grandioso per la sua meticolosità e ingegnosità. L’edificio in ‘adobe’ o terra cruda, è costruito con il sistema ‘djenné-ferey’, il metodo di costruzione tradizionale che consiste in una sovrapposizione di palle di terra cruda ancora bagnata, atta a ricoprire il ruolo sia di mattone che di legante. L’intera comunità partecipa alla manutenzione della moschea, nell’ambito delle festività annuali: i lavori sono condotti con metodi tradizionali e al suono della musica, che qui si sente spesso un po’ ovunque e che ritma i respiri di ogni giornata. Questa manutenzione regolare è resa necessaria dalle caratteristiche di fragilità del materiale usato per la costruzione, che subisce una forte erosione per la pioggia, l’irraggiamento solare e i cambiamenti di temperatura, che provocano grandi spaccature.
Nei giorni che precedono le feste (ho la fortuna di essere lì proprio in questo momento), viene preparata una grande quantità di rivestimento, con diverse e impegnative giornate di lavoro: questo intonaco pastoso deve essere periodicamente mescolato, compito svolto dai bambini che vi giocano dentro. Quindi i giovani si arrampicano sulle pareti della moschea, aiutati dai ponteggi permanenti costituiti dai fasci di rami di palma inseriti nel muro, e procedono a coprire completamente i muri con un nuovo strato di materiale di rivestimento, che viene loro portato da altri uomini. Gli scassati camioncini arancioni che girano intorno, fumacchiano e strombettano. Le donne portano l’acqua necessaria alla fabbricazione dell’intonaco o per gli uomini che lavorano. Tutto è diretto dai membri eminenti della corporazione dei muratori, mentre gli anziani, che hanno compiuto in passato la stessa opera, sono seduti al posto d’onore e assistono all’intera operazione.
Tutti insieme, in allegria. E’ fortissimo il senso della comunità, della solidarietà e del bene comune che si percepisce in mezzo a tante braccia all’opera. Unico questo senso di appartenenza, che noi abbiamo spesso ormai perso. Anche questo è il marrone Mali. Il paese delle formichine operose, del baobab, l’albero della vita che, per la sua maestosità e imponenza, sembra unire il cielo alla terra, simbolo di una vita che qui scorre difficile e dura un po’ per tutti ma che vince comunque, tutti i giorni, contro asperità ambientali ed economiche. Questi giganti possono raggiungere l’altezza di 25-30 metri, un diametro del tronco di 10 metri e immagazzinare fino a 120.000 litri d’acqua per resistere alla siccità. Con la loro acqua e la loro forza sono fonte di vita loro stessi, dunque, oltre che esserne il simbolo.
Un riparo nella tempesta. Le capanne che vediamo intorno a noi sono ordinate come casette dei presepi, ospitano bambini vocianti e comunità coese che si riuniscono intorno al pozzo d’acqua regalato da una lontana cooperazione, spesso da quella saudita. Una ragazza molto giovane, incinta, dagli occhi dolcissimi, mi apre la porta di una casa del villaggio che sto visitando per capire come fare pozzi d’acqua e mi parla attentamente.
Porterò sempre con me il ricordo di quelle giornate polverose, assolate e marroni. Paese e persone indimenticabili. Un sigillo impresso sulla mia anima pensosa che qui si è fermata a lungo a pensare e si è acquietata, almeno per un po’. Bevendo un tè. Profumato e intenso, come l’alito di vita che si respira qui.
Articolo pubblicato su BioEcoGeo, Ottobre 2014. Fotografie della città e i dintorni di Djenné di Simonetta Sandri.
I viaggi in Mali non sono al momento raccomandati. Ma è bello poterne comunque ricordare le bellezze.
Non mi stanco mai di un cielo azzurro. (Vincent van Gogh)
Oggi è la Giornata mondiale della consapevolezza dell’autismo (istituita dalle Nazioni Unite, con la risoluzione 62/139 del 18 dicembre 2007), un disturbo dello sviluppo cerebrale che si manifesta dall’infanzia, tramite sintomi che impediscono o pongono difficoltà al bambino nel suo processo di entrata nel linguaggio, nella comunicazione e nel vincolo sociale; una forma particolare di vedersi nel mondo e di costruirsi una realtà che fa funzionare in “modo strano”. Diciamo che la definizione più corretta sarebbe quella di Disturbi dello Spettro Autistico, che si differenziano per quantità e incidenza, alla cui corrispondono diversi deficit organici che la moderna ricerca biochimica va progressivamente individuando. Una condizione permanente, dalla quale (ancora) non si esce perché non se ne conosce cura.
Ci sono autistici che parlano e altri che non parlano, totalmente chiusi in se stessi o altri che, invece, sono molto aperti. Molti di noi ricordano il protagonista di “Rain Man”, un bel film che, però, ha contribuito a diffondere una certa inconsapevolezza, dando l’idea che gli autistici siano degli strani geni capaci di elaborare calcoli complicatissimi, mentre è una minoranza che rientra in questa tipologia e tanti altri presentano varie forme, anche gravi e difficili, di ritardo mentale. L’elemento comune e più importante, tuttavia, resta quello dato dalla necessità di un’assistenza individualizzata costante, nella maggioranza dei casi.
Queste persone non possono essere lasciate sole e quindi, la società deve garantire organizzazione dell’assistenza e creazione di spazi adeguati. L’educazione deve iniziare precocemente e coinvolgere i famigliari, la scuola e la società adulta in modo coerente e programmato. Tema complesso ma davvero importante. Ecco allora che, oggi, in tutto il mondo, i principali monumenti s’illuminano di blu. Alcuni, come il Quirinale o il Palazzo della Camera, in Italia, si sono illuminati già da ieri sera. Anche Mosca e San Pietroburgo, per chi scrive dalla Russia, hanno aderito, come tante altri capitali mondiali. In tutte le parti del globo tante luci blu si sono accese o si accenderanno presto.
E’ da poco nato un nuovo maneggio a Cona, in piena campagna e a un passo dalla città, si chiama “Ali del Vento” ed è la realizzazione di un sogno lungo vent’anni. I titolari, Marco Bortolotti ed Eleonora Gamba, grandi appassionati di cavalli, si sono conosciuti facendo equitazione nel 1997 e da allora non si sono più lasciati, condividendo l’idea di passare la propria vita con i cavalli, e trascinando anche papà Giorgio nella loro impresa. Siamo andati a trovarli per conoscere la loro storia e la loro attività.
A quando risale il progetto di avviare un maneggio?
Marco e Eleonora
Marco – La nostra storia comincia tanto tempo fa, quando eravamo ancora fidanzati. La passione per i cavalli ci ha fatto conoscere, innamorare e sognare di avviare l’attività equestre insieme. Era il 1997 e avevo appena comprato il mio primo cavallo (ora soprannominato il Vecchione), che è ancora con noi, ed Eleonora mi faceva lezione. Ci abbiamo messo del tempo perché prima ci siamo laureati, abbiamo fatto le nostre esperienze professionali, poi sono nati i nostri figli, Nicola e Giovanni, che hanno 12 e 7 anni. Ora stiamo dando corpo alla nostra passione.
Marco Bortolotti, Eleonora e Giorgio Gamba
Eleonora – Io ho sempre desiderato aprire un maneggio e vivere con i cavalli. Mio padre capì fin da quando ero ragazzina che era una passione incontenibile (ho cominciato a montare e fare gare quando avevo 8 anni) e, forte dell’amore comune per la natura e la campagna, nel 1992 comprò questa proprietà con l’idea di sistemarla nel tempo e dare concretezza a questo sogno comune. Ora che mio padre ha ristrutturato la casa colonica si è creato lo spazio anche per la nostra famiglia, e adesso viviamo tutti qui, uomini, bambini e cavalli. Cona è il compimento di un progetto che era in stato embrionale da sempre, è la realizzazione del sogno della mia vita e per questo non smetterò mai di essere grata a mio padre che, tra l’altro, è insieme a noi uno dei titolari.
Quando avete aperto? Eleonora – Dopo anni passati semplicemente a lavorare come istruttrice e doma/addestramento cavalli presso altre strutture, nel 2012 insieme a mio marito e mio padre abbiamo costituito l’Associazione sportiva dilettantistica “Ali del Vento”. Abbiamo trascorso la scorsa stagione estiva presso il Camping Tahiti del Lido delle Nazioni [vedi il video ripreso col drone nel Pre – Parco del Delta], splendida esperienza che speriamo di ripetere in futuro, poi a stagione conclusa siamo rientrati presso la nostra nuova sede.
La futura club houseIl campo per le lezioni
Marco – Ora, finalmente complice la bella stagione, siamo nel pieno dei lavori, abbiamo grandi progetti, che comprendono nell’immediato il completamento della ristrutturazione del vecchio forno per fare la club house e curare il grande parco in cui siamo immersi, e a lungo termine poter contare su una struttura coperta, che è fondamentale soprattutto per dare continuità all’attività degli utenti con disabilità, grandi e piccini, progetto a cui Eleonora tiene molto. Lo scorso inverno siamo stati comunque sempre operativi e, un passo alla volta, completeremo il nostro progetto.
Perché avete scelto un nome così particolare per la vostra associazione?
Cavalli in libertàRelax al paddock
Eleonora – Volevamo un nome che si diversificasse un po’, che facesse capire fin da subito il taglio differente del nostro approccio, nel senso che noi non puntiamo sull’agonismo e sulle performance ma prima di tutto sul rispetto del cavallo. Il nostro è un approccio emozionale ed etologico più che competitivo, ma questo non vuol dire che chi viene da noi non può diventare bravo e non può fare delle gare; significa semplicemente che prima di introdurre elementi di tecnica si deve instaurare un certo rapporto col cavallo, basato sulla conoscenza reciproca e sul rispetto: se il cavallo il giorno della gara non sta bene, la gara non si fa.
Michela con Procne (saltino)Eleonora con Procne
Marco – Soprattutto siamo contrari alla cultura abbastanza diffusa dell’ ‘usa e getta’, del cavallo visto come una bicicletta o una moto, del tipo che “mi piace, lo prendo” poi ne vedo uno che mi piace di più, vendo il vecchio e compro il nuovo. I nostri cavalli vengono da storie particolari, spesso arrivano dopo aver subito maltrattamenti e privazioni, altre volte si tratta di cavalli da gara che quando non sono più al top rischiano di finire al macello. Noi prendiamo cavalli a vita che, negli anni, diventano amici e restano con noi fino alla fine dei loro giorni. Cerchiamo quindi di passare questo concetto alle persone che vengono nel nostro maneggio e vediamo che quest’idea piace ed è condivisa. Per fare un esempio, proprio qualche giorno fa è morta Fiona, la cavalla più anziana in assoluto che avevamo, una cavalla eccezionale, bravissima con i bambini, la montavano anche i piccoli di tre anni. Quando era giunta da noi tre anni fa era in stato di forte malnutrizione e nel tempo si era completamente rimessa ripagandoci in ogni modo con la sua immensa gratitudine.
FionaBouquet per Fiona
Eleonora – E’ stato un evento triste ma, al tempo stesso, un momento emozionalmente molto positivo: tutti i nostri tesserati sono arrivati al maneggio per condividere con noi il lutto e, insieme, abbiamo sopportato meglio questa grande perdita. La nostra piccola allieva Asia le ha portato un bellissimo bouquet di fiori, è stato un momento molto commovente.
Quando si prende un cavallo a vita, si sa già in partenza che ci si affezionerà moltissimo e che prima o poi succederà di perderlo, nonostante siano animali longevi, noi lo siamo più di loro, fa parte del gioco; ma sono rimasta piacevolmente colpita dall’affetto ricevuto dai ragazzi, dai bimbi e dagli adulti del gruppo. Questo è un messaggio importante, ci fa capire che ciò su cui puntavamo, ossia il rispetto dell’animale e il rapporto con il cavallo, è stato recepito e condiviso realmente.
Quanti ne avete e che età hanno i vostri cavalli?
Marco con Dino, il VecchioneMarco con Cous Cous, Procne e Silver
Marco – Abbiamo 8 cavalli, con Fiona erano 9. Ne abbiamo di tutte le età, dal più piccolo che ne ha 5 al mio Vecchione che ne fa 24 quest’anno. Il Vecchione è con me da 17 anni, da prima che conoscessi Eleonora, per me è un grande amico, un fratello. E’ bravissimo, la nostra allieva Aurora gli ha dato il soprannome di “Professore” perché dice che è ‘lui’ che le ha insegnato ad andare a cavallo. Sulla mia storia col Vecchione ho scritto anche un racconto che fa parte di una serie di racconti dal titolo “Equi ti amo” [vedi], che ha vinto la seconda edizione di un concorso letterario promosso dall’Associazione Horse Angel [link] e patrocinato da Cavallo Magazine e dalla Fise (Federazione italiana sport equestri).
I cavalli di Ali del Vento, carta di identità. Clicca le immagini per ingrandirle.
Curre Curre – Razza Anglo Arabo Sardo
Anno di nascita: 1998. Ex corridore del Palio di Siena. Affidato a Ali del Vento da Horse Angels. Segni particolari: adora i biscottini!
Dino – Razza: Italiano
Anno di nascita: 1991
Ex saltatore. Soprannominato il Vecchione, ora si gode la pensione. Segni particolari: simpatico!
Silver – Razza: Selle Francais. Anno di nascita: 1997. Ex gareggiatore di cross country. Segni particolari: Grande e forte!
Apache – Razza: Paint
Anno di nascita: 2009. Arrivato in condizioni di avanzata malnutrizione. Segni particolari: birichino e socievole
Jack – Razza: derivato Arabo. Anno di nascita: 1997. Arrivato senza microchip, era destinato a un macello clandestino.
Segni particolari: brioso e amico dei bambini!
Zara – Razza: derivato Holstein. Anno di nascita: 1995. Ex corridore del Palio del Niballo. Per il suo carattere determinato è guida nelle passeggiate.
Segni particolari: coraggiosa!
Moarivo – Razza: Trotter. Anno di nascita: 2007. Ex corridore di trotto. Scartato prima del tempo per infortuni. Segni particolari: trotto veloce!
Procne – Razza: Purosangue Inglese
Anno di nascita: 2006
Ex galoppatore, ha corso alle “Capannelle” (Roma). Salvata da Ali del Vento il giorno della macellazione.
Segni particolari: dolcissima!
Eleonora: Come dicevamo, tutti hanno una storia particolare: Procne splendida Purosangue Inglese di 8 anni ha rischiato il macello clandestino e ora è adorata da tutti, ma in particolare da Michela che per stare con lei ogni settimana, dopo il lavoro fa un lungo tragitto e alla domanda: ”Ma scusa non c’è un maneggio più vicino a casa tua?”, lei risponde con un sorriso a noi ben noto e con parole che ti gonfiano il cuore; anche Arianna, seppur la conosca da poco, è stata rapita da quel carattere particolare che solo i purosangue hanno. Moarivo, anche lui 8 anni ex trottatore poco “performante”, il preferito di Giada di Milano che appena può viene a trovarlo; Apache il piccolino di casa, che è il mio “preferito”, ha avuto una storia di malnutrizione da puledro, ed ora è il beniamino dei bambini.
E ancora: Curre Curre ex partente nel Palio di Siena che ci è stato affidato dall’associazione Horse Angels, Zara e Silver rispettivamente ex cavalli da palio e da salto ostacoli ritenuti “inutili”, infine Jack vispo arabino destinato al macello. Tanti cavalli con storie diverse e caratteri diversi ma che rappresentano un patrimonio immenso per chi abbia la voglia di “mettersi in ascolto”.
A che tipo di utenza vi rivolgete?
Essendo un’associazione sportiva dilettantistica portiamo avanti una politica di diffusione della pratica equestre, che non deve essere più considerata solo di élite; l’equitazione è uno sport meraviglioso che si basa sul connubio tra il cavaliere e il cavallo e, proprio per questa particolarità, porta grandi benefici sia a livello emozionale che psicologico, oltre che fisico, e quindi secondo noi deve essere alla portata di tutti. I nostri corsi sono rivolti a tutti, a partire dai 3 anni, sia normodotati che disabili.
Che tipo di attività proponete, oltre alle lezioni al maneggio?
Passeggiata al tramonto
Normalmente proponiamo passeggiate a cavallo nella campagna circostante della durata di una o due ore; in via speciale, per i più esperti, organizziamo dei trekking in luoghi particolari: sull’argine del Po, nelle Vallette di Ostellato, verso Ferrara arrivando al Parco urbano e sulle Mura, sul percorso dell’Ippovia [vedi] nella zona di Mesola. Con queste escursioni vogliamo sostenere lo sviluppo dell’equiturismo, crediamo che sia un buon modo di contribuire significativamente alla riscoperta del territorio mediante la sua salvaguardia e la riscoperta dei sapori delle produzioni locali.
Altri progetti?
Sì, ci piacerebbe proporre anche attività durante tutto l’arco dell’anno rivolte ai ragazzi e agli adulti con problemi di disabilità. In passato abbiamo già lavorato con la disabilità e con casi di disagio giovanile e abbiamo constatato che si possono avere risultati eccezionali, in alcuni casi sono stati ottenuti risultati tangibili in tempi brevissimi.
Di seguito foto di coppia, cavalli e cavalieri. Clicca le immagini per ingrandirle.
Marco e Cous Cous
Mauro con Silver
Aurora con Zara
Nicola e Apache
Arianna con Procne
Asia e Jack
Asia con Fiona
Giovanni e Apache
“Ali del Vento” – Associazione sportiva dilettantistica, Scuola di equitazione e passeggiate, Centro affiliato Engea [vedi il sito] [vedi la pagina Facebook].
Eleonora Gamba è la presidente dell’associazione, Istruttore pony per bambini dai 3 ai 16 anni, Istruttore di base, Accompagnatore equi turistico, specializzata per equitazione educativa per disabili. Diplomata in Lingue, è biologa specializzata in sicurezza alimentare, lavora come responsabile qualità nel settore agroalimentare per il Consorzio Agrario di Ferrara, è consulente nel settore ambientale e agroalimentare.
Marco Bortolotti è il segretario dell’associazione. Perito tecnico, è laureato in Fisica e specializzato in Campi elettromagnetici, lavora all’Enel come tecnico. Scrittore dilettante, si occupa di campi elettromagnetici anche in ambiente domestico, di ambiente e (naturalmente) di cavalli.
“Ci sono solo due posti al mondo dove possiamo vivere felicemente: a casa e a Parigi.” Ernest Hemingway
Parigi è verde, Parigi è viva, Parigi è amore, Parigi è arte. Parigi è luce, Parigi è voce, Parigi è aria, Parigi è respiro, Parigi è vita, Parigi è oggi-ieri-domani. Parigi è il tutto che ci avvolge, il verde che ci manca, il respiro che ci affanna, l’amore che ci insegue, gli inizi della primavera che sboccia.
Ho vissuto a Parigi alcuni anni, quanto basta per portarne nel cuore colori e sensazioni. Ma, soprattutto, per ricordarne i giardini, le passeggiate nei vialetti alberati e fioriti o la lettura, sulle panchine, delle intense e romantiche poesie di Jacques Prévert. Con lui ho viaggiato tanto. In quei parchi curati, ho visto bambini giocare, colleghi rilassarsi durante la pausa pranzo, innamorati sussurrarsi dolci parole, giardinieri accarezzare candide rose, turisti sorseggiare acqua fresca, venditori distribuire gelati, ambulanti vendere giornali. Ho osservato lettori assorti, per ritrovarmi fra le loro pagine, per perdermi nei loro sogni e pensieri, per aiutarli a scoprire finali di storie d’amore e di polizieschi intriganti. Li ho guardati da lontano, ad alcuni ho portato un fiore.
La natura è immersa nella città, spesso curata, domata dalle abili mani dell’uomo, ed elegante come nel Jardin du Luxembourg, ma talora anche indomita, come nel Jardin Sauvage di Montmartre.
Partendo, dunque, dal centro, iniziamo con il Jardin du Luxembourg, inaugurato nel 1612 da Maria de’ Medici, tra i più grandi della Ville Lumière. Esso presenta una ricca vegetazione ed è ricco di statue e monumenti, come la celebre Fontana dei Medici, composta da una lunga vasca con gli alberi ai lati che si conclude con un’edicola, la Statua della Libertà realizzata da Frédéric Bartholdi (riproduzione dell’originale donata agli Stati uniti), il busto di Charles Baudelaire, la statua di Beethoven, la Fontana dell’Osservatorio e tante altre riproduzioni di personaggi famosi.
Jardin du Luxembourg, clicca le immagini per ingrandirle.
Una fresca passeggiata mattutina nel giardino, con sosta di fronte alla romantica Fontana dei Medici, risveglia sensi e sogni di epopee passate ricche in sfarzo, amori e fantasia. Il leggero vento vi accarezzerà capelli e pensieri e vi condurrà per mano, camminando, alla ricerca di altri luoghi incantati simili. Proseguiamo leggeri e alleggeriti, allora, sorridendo a un lettore su una panchina che ha momentaneamente accantonato la sua fiammante e severa bicicletta.
La bellezza unica del giardino più antico della città arriverà con il meraviglioso Jardin des Tuileries, imperioso, severo, squadrato e geometrico, realizzato nel XVII secolo su un progetto dell’architetto André Le Notre. Il giardino è relativamente piccolo, ma riccamente decorato con meravigliosi gruppi di statue allegoriche di grande interesse per la loro importanza storica e artistica, tra le quali alcune realizzate da grandi artisti, come Auguste Rodin o Alberto Giacometti.
Giardini de Les Tuileries
Ci sono poi i fiori colorati e solari della passeggiata sull’avenue degli Champs-Elysées: i petali delle rose e i toni sgargianti e sguaiatamente allegri della primavera si perdono leggermente fra i fumi della automobili e i sapori intensi delle brasserie, ma il loro profumo audace e tenace rimane aleggiante nell’aria fresca. L’area occupata da questi giardini fu progettata dall’architetto Le Nôtre, alla fine del XVII secolo, per dare al re, che si affacciava dal palazzo delle Tuileries, una vista gradevole. La stessa piacevolezza che cogliamo noi, oggi. Colori e aromi invadono l’aria.
Giardini degli Champs-Elysées
I vicini giardini del Louvre abbracciano i passanti, ammiccando e inchinandosi, rispettosamente, alla carezza di una bella e sinuosa ragazza mora. Passarvi accanto è sempre eccitante, soprattutto se si è diretti alla pasticceria Angelina sul Quai du Louvre o se s’intende visitare un antiquario che ci porterà indietro nel tempo e nei sogni.
Giardini del Louvre
Noi, imperterriti, continuiamo nella ricerca degli spazi verdi più affascinanti e intriganti. Un po’ fuori Parigi, nel cuore del Bois de Boulogne, eccovi arrivare, allora, al più bel posto fiorito della città, al Parc de Bagatelle. Il mio preferito. Qui mi sento in un altro mondo, in un altro tempo, con altri abiti e copricapi. Qui siamo sicuramente tornati indietro negli anni. Siamo soli, pur circondati dalla gente. Un vialetto, un po’ tortuoso e intarsiato, degno di una favola, ci conduce, quasi per mano, a parco e castello, costruiti in soli 64 giorni, in seguito a una scommessa tra Maria Antonietta e il Conte D’Artois. Per realizzare quest’opera eccezionale, in così breve tempo, furono necessari circa 900 manovali e il suo progetto fu redatto in una sola notte dall’architetto Belanger. Il Parc de Bagatelle è uno dei più grandi parchi pubblici di Parigi, si estende su oltre ottocento ettari. Fu progettato unendo gli stili inglese e cinese, quasi in un magnifico e possente abbraccio.
Parco della Bagatelle, clicca le immagini per ingrandirle.
Nella tenuta è curato un giardino di rose di fama mondiale, con più di 9000 piante divise per 1200 specie diverse. Ma non sono solo le rose lo splendore dei giardini: si possono ammirare iris, peonie e ninfee cresciute in un apposito e curato laghetto, oltre che una grande varietà di piante perenni. Il parco, dopo la Rivoluzione francese, fu utilizzato come riserva di caccia da Napoleone e, solo successivamente, fu restituito alla famiglia d’Artois. Dopo vari passaggi di proprietà, nei secoli, fu riqualificato sotto l’amministrazione di Jean-Claude Nicolas Forestier – Commissario ai Giardini di Parigi – nel 1905, che si occupò attentamente di dei giardini mantenendone lo stile originario e aggiungendo zone dedicate ai fiori. ‘Amazing’, direbbe un curioso turista inglese.
I chioschi di tempi passati ci portano lontano con pensieri e immaginazione. Dietro a essi si sussurravano parole dolci, tenerezze infinite fra amanti nascosti dall’ombra dei loro stessi cuori. I cancelli intarsiati come merletti, dalle alte, possenti e nobili punte dorate, svettano verso un cielo azzurro quasi a ricordarci che, anche noi, in fondo, siamo infiniti. Le cascate zampillano, sfiorano le mani socchiuse e zampettano come uccelli innamorati. Le nuvole scompaiono, tutto porta serenità, qui, in questo luogo magico. Solo verde e pace. Qui ci perdiamo fra laghi, cespugli e farfalle racchiuse in cornici di vetro, quasi a voler osservare, immobili, lo scorrere del tempo e l’immutabilità dei luoghi. Un tempo fermato lì, per noi. Qui ci perdiamo fra le ali di una farfalla forse scappata da un libro, da una pagina di pergamena.
Testo pubblicato anche su BioEcoGeo giugno-luglio 2014, oggi modificato per FerraraItalia. Foto di Simonetta Sandri.
Cancellare il debito pubblico? Per McKinsey non è un problema, ma ai mercati finanziari non conviene.
di Claudio Pisapia e Claudio Bertoni
McKinsey, società di consulenza finanziaria considerata come la più influente al mondo, con all’attivo clienti di alto profilo quali società internazionali e persino governi, il 15 febbraio scorso ha pubblicato un dossier sull’indebitamento di Stati, aziende e famiglie dall’inizio della crisi ad oggi. Ebbene, il debito mondiale è aumentato di 57.000 miliardi di dollari determinando un rapporto debito/pil del 289%. Sono cifre da paura: il mondo è super indebitato e verrebbe da chiedere “con chi? Con gli abitanti di Venere?”. Ma tant’è… e sulla Terra, senza tanto discutere su chi sono debitori e creditori (sempre lo Stato), si cercano affannosamente le soluzioni. Tutti i giornali hanno ovviamente concluso che un debito del genere bisogna ridurlo. “L’esplosione del debito globale” titola Repubblica, “Non nascondiamo il debito sotto il tappeto” continua, seguita da gran parte delle testate giornalistiche nazionali. E Renzi, Padoan, Yutgeld, insieme alla schiera dei loro consiglieri economici, a ribadire il mantra del “riduciamo il debito” e “il debito va pagato”. Ma non è questo che dice la rinomata società McKinsey.
Se il debito pubblico vada ripagato o meno e se sia un problema è solo ed esclusivamente una scelta, politica prima di tutto. Ma in questi tempi bui, soprattutto dal punto di vista informativo, invece il fatto che il debito pubblico sia un problema e che vada ripagato è diventato un dogma. Invece, è una scelta che presuppone la volontà difendere o la maggioranza della popolazione oppure i grossi centri di potere politico e finanziario. E’ una scelta perché dipende da che parte si decide di stare.
Attenzione: il punto non è se prendere le difese del debitore o del creditore, ma se prendere le parti di cittadini, famiglie e imprese che lavorano e che producono beni e servizi reali oppure chi controlla i grossi gruppi di potere politico e finanziario e non produce nulla di utile.
La parte più interessante del report di Mc Kinsey è alle pagine 33 e 34. Ne riportiamo e commentiamo i passaggi principali. Innanzi tutto l’autorevole istituto (che non risulta gestito da soggetti ‘anarco insurrezionalisti’) pone una distinzione tra debito pubblico lordo e netto. Il primo, quello a tutti noto, rappresenta i Titoli di Stato detenuti sia dalle rispettive Banche centrali sia da altri istituti o da privati; il secondo, di cui non si parla mai, rappresenta solo quello detenuto da altri istituti o privati. E qui le cose diventano interessanti. McKinsey dichiara che se proprio vogliamo considerare il debito pubblico un problema dovremmo prendere in considerazione almeno solo il debito pubblico netto. Perché, dice, ”il debito di Stato detenuto dalle banche centrali (o qualunque altro ente governativo) in un certo senso è solo un’entrata contabile che rappresenta la rivendicazione di una parte del governo verso un’altra. Inoltre, tutti i pagamenti dell’interesse su questo debito sono tipicamente inviati alla tesoreria nazionale, quindi il governo sta effettivamente pagando se stesso”. Si sta dicendo che il debito pubblico detenuto dalle banche centrali non è un problema perché sono soldi che un membro della famiglia deve ad un altro membro della stessa famiglia. Sono semplici saldi contabili! Ma allora perché Padoan, Renzi, Yutgeld (e consiglieri economici) dicono il contrario? La risposta viene sempre da McKinsey chiara e netta “Non e’ chiaro se le banche centrali possano cancellare il debito governativo che detengono. Qualsiasi svalutazione di questo valore cancellerebbe il capitale della banca centrale. Mentre ciò non avrebbe nessuna conseguenza economica reale, è presumibile che possa creare turbolenze nei mercati finanziari.
Ora scusateci il passaggio poco convenzionale: ma chissenefrega! Cioè abbiamo la presunzione di pensare che Loyd Blankfein, Larry Fink & Co possano riuscire a vivere anche con 500 mila dollari l’anno invece che con 5 miliardi, e a noi, abitanti del mondo reale, ne basterebbero 50 mila. Potremmo stare davvero tutti meglio, equamente meglio. Magari produrremmo anche un po’ meno cose, quelle necessarie, ma potremmo magari avere più servizi.
Ecco un altro passaggio che crediamo valga la pena rileggere ”Cancellare il debito governativo dalla banca centrale non avrebbe alcuna ripercussione per l’economia reale ma sarebbe un problema per i mercati finanziari”. E qualche riga più sotto scrive ancora ”Un’altra opzione che è stata suggerita è quella di rimpiazzare il debito governativo sul bilancio della banca centrale con una obbligazione perpetua a tasso zero… tuttavia, una mossa di questo tipo potrebbe creare una reazione negativa nei mercati e, in alcuni paesi, da parte di politici e regolatori”. Quindi il debito più che essere ripagato potrebbe essere cancellato perché su di noi (abitanti e lavoratori del mondo dell’economia reale) non avrebbe effetti, oppure lo si potrebbe sostituire con un’obbligazione a tasso zero, quindi un debito che non crea altro debito, ma che semplicemente è garantito dallo Stato. Soluzioni a costo zero per il mondo reale ma che qualche problema darebbe a mercati e finanza, ovvero in percentuale, come diceva il grande prof. Ioppolo, “problemi” solo per quell’uno per cento della popolazione che oggi condiziona la vita dell’altro 99%. Il report McKinsey a pagina 34 finisce dicendo:”Quindi, una misura più semplice ma equivalente sarebbe quella in cui le banche centrali semplicemente detengano il debito in perpetuo e l’opinione pubblica si concentrasse sul debito netto al posto del debito lordo.” Nessun giornale e nessun politico ci racconta queste cose. Forse perché non gli conviene? Sicuramente perché se venisse attuato quanto scritto sopra o magari se ne rendesse partecipe la cittadinanza, verrebbero spazzati via da spread o scandali ad hoc. Il problema è che la responsabilità è anche nostra che continuiamo a dargli fiducia, ma è sensato cominciare a pensare che il vento stia cambiando.
Il documento integrale del McKinsey Institute è consultabile online [clicca qua]
L’immagine di copertina è tratta da Serenitalia.it [clicca qua per andare al sito]
‘The great exhibition of the works of industry of all nation’ (La grande esibizione dei lavori dell’industria di tutte le nazioni) fu il nome che venne stabilito per la prima esposizione universale tenutasi a Londra nel 1851, dove in seno alla fioritura della prima rivoluzione industriale, si scelse di mostrare al mondo i nuovi simboli dell’innovazione.
Da allora la portata culturale di quest’evento si è sensibilmente modificata. A 30 giorni dall’inaugurazione di Expo a Milano è iniziato “lo sprint finale” con conseguente intensificazione dei lavori: nonostante le critiche alla scelta, in parte politica, di tenere questo evento, i ritardi e le inchieste, il primo maggio il capoluogo lombardo acquisirà una veste internazionale per affrontare il tema dell’agro-alimentare.
Tra gli obiettivi della manifestazione si enunciano il rafforzamento del circuito turistico, il potenziamento dell’internazionalizzazione delle imprese agro-alimentari, la tutela dei marchi e della qualità connessa all’idea di uno stile di vita salutare e l’incentivazione di connessioni con i poli di ricerca e tecnologia; in questo senso la contraddizione più forte risiede nella scelta di main sponsor come Coca-Cola e McDonald, che però, da un certo punto di vista, rappresenterebbero anch’essi lo slogan “nutrire il pianeta, energia per la vita”.
Per cogliere pienamente il significato economico dell’esposizione ci si avvale di alcune stime, in certi casi ottimistiche, che riferiscono un flusso turistico di circa 20 milioni di visitatori che apporterebbe un’entrata di quasi 10 miliardi di euro alle casse dello Stato.
In riferimento alle imprese che parteciperanno invece, è da considerare l’influenza che possono avere l’aumento delle esportazioni, i potenziali nuovi investimenti, anche esteri, e l’accesso ad un pubblico più ampio e internazionale che, tramite l’interazione, contribuirà indirettamente all’aggregazione o alla creazione di start-up (che a sua volta generano nuovi posti di lavoro).
Insomma, una vera e propria spirale virtuosa che aumenta il raggio dei benefici a tutte le imprese che partecipano all’evento tramite delle esternalità o influenze involontarie come, ad esempio, il valore intangibile legato all’immagine dell’evento che si riflette su tutti gli attori coinvolti.
L’effetto maggiore però, si avrebbe dalla visione di Milano come hub o centro che, come nella ruota di una bicicletta, si collega all’esterno mediante i suoi raggi.
Ferrara, allora, potrebbe costituire un suo raggio e partecipando direttamente all’esposizione con piccole aziende produttrici di vino, birra e ortaggi, potrebbe trarne vantaggio tramite l’aumento della domanda, di conseguenza della produzione ed in questo modo favorire imprese vicine che le forniscono materie prime e che, a loro volta, ne risentiranno con un aumento della propria produzione.
Inoltre, tramite la creazione di iniziative quali Visit Ferrara, di impatto culturale, o contribuendo finanziariamente alla nascita di aggregazioni per favorire la creazione di nuovi prodotti a vantaggio dello sviluppo sostenibile, si è cercato di coinvolgere maggiormente il territorio ed implementare la risposta dei turisti.
In conclusione, che le stime rappresentino o meno l’espressione di voli pindarici si avrà modo di comprenderlo solo a conclusione dell’esposizione mondiale, se non addirittura dopo diversi anni, in relazione ai suoi effetti sullo sviluppo economico; in questo senso viene da ricordare come nel 1878, anno in cui si tenne l’exposition internationale d’eletricitè a Parigi, Edison presentò i brevetti della macchina dinamo elettrica, furono subito acquistati e, a distanza di anni, fu costruita a New York la prima centrale elettrica al mondo, grazie all’evoluzione della sua idea nel tempo.
Luoghi enigmatici animati da personaggi coraggiosi e intraprendenti ritratti dalle migliaia di parole che eccellenti scrittori hanno consegnato alla nostra voracità di lettori curiosi e affascinati. Soggetti che hanno acceso nella mia immaginazione lo stimolo a una bramata esperienza da vivere, nel punto geografico del mondo ancora chiamato “la fin del mundo”. Charles Darwin, Francisco Coloane, Bruce Chatwin in ordine cronologico di nascita, per diverse motivazioni hanno rappresentato al meglio ciò avrei voluto mi rimanesse scolpito nella mente di questo viaggio. Ma vi è anche un quarto narratore, meno famoso, che a mio parere ha lasciato una traccia profondamente poetica del lembo estremo sudamericano: padre Alberto Maria De Agostini.
Padre Alberto Maria De AgostiniGrande esploratore e fotografo della Patagonia
Nato nel 1883, religioso salesiano, grande esploratore, fotografo e presbitero italiano, padre de Agostini era celebre nell’area perché operava in aiuto agli ultimi indios fueguini, e per le sue grandi esplorazioni della Patagonia e della Terra del fuoco nei primi decenni del ‘900. Da ricordare, oltre alla sua attività di fotografo e documentarista, anche il suo contributo alle scienze naturali e all’antropologia: raccolse minerali e fossili, contribuì attivamente alla classificazione di numerose specie vegetali, approfondì le conoscenze sulla morfologia glaciale delle zone esplorate e descrisse la vita e le tradizioni degli ultimi indigeni.
Patagonia, Terra del fuoco, Canal Beagle
Un viaggio viene intrapreso frequentemente per percorrere le orme di un esploratore, un mito della propria infanzia o una leggendaria figura della storia; nel mio (nostro) caso (ho condiviso questa esperienza con mia moglie Anna, inizialmente in po’ frenata) molto avviene per un innato e insopprimibile desiderio di scoperta.
Il periodo migliore suggerito per visitare questo triangolo estremo del nostro globo terracqueo è l’inverno del nostro emisfero nord, corrispondente all’estate australe. Previsioni di temperature a Capodanno che si aggirano fra lo 0 °C e qualche grado sotto. Siamo volati da Bologna il 27 dicembre 2010 e, via Roma, siamo atterrati a Buenos Aires con Aerolineas Argentinas 14 ore dopo, dall’altro lato del mondo, dell’Equatore e dell’Oceano Atlantico, alla latitudine della città Sudafricana di Cape Town, a circa 35°C di temperatura (a Bologna avevamo lasciato -5°) e con diverse ore di sonno da recuperare per il fuso orario.
Buenos Aires, vista aereaBuenos Aires, favelas
Il trasferimento verso l’albergo ci ricorda che Buenos Aires dopo la crisi del 2000 ha sì un trend di crescita elevato visibile nelle costruzioni che si innalzano al cielo, ma dove le ‘villas miserias’, più note in Brasile come favelas, incombono drammaticamente. Buenos Aires, che visiteremo in parte anche al ritorno dal sud del Paese, è una città di dimensioni enormi con 12 milioni di abitanti (su 40 milioni totali in Argentina ). La nostra guida ci dice che oltre il 50% degli abitanti ha un cognome italiano, frutto di un esodo dall’Italia che, a cavallo fra ‘800 e ‘900, portò milioni di italiani a solcare l’oceano verso il sogno in Sudamerica ma dove le terze e quarte generazioni dalla grande migrazione hanno perduto oggi il legame con la terra dei padri.
Buenos Aires è la citta della Plaza de Maio e delle migliaia di desaparecidos, è la città del quartiere Caminito dove, fra le case in legno colorate, nei primi anni del ‘900 nasce il Tango (ancora ballato nelle strade), dove si mangia la miglior carne di mucca del mondo cotta all’’asado‘, è la citta del Gran Café Tortoni dal 1958 e del Liberty, ancora esibito e palpitante in tantissimi angoli della città.
Da qui inizia un viaggio verso sud nelle distese apparentemente senza confini della Patagonia, fra migliaia di pinguini di Magellano a Punta Tombo, di guanacos, di albatross, di leoni marini, di foche, di megattere gigantesche che risalgono dal profondo marino per respirare in superficie e farsi ammirare da noi turisti avidi di ogni immagine rubata ad una natura che appare qui resistere.
Ma lo spettacolo da prima fila è certamente il ghiacciaio Perito Moreno raggiungibile da El Calafate, centro abitato sul lago Argentino trafficato da inquietanti iceberg galleggianti. Il ghiacciaio, alto 60 metri per 250 km quadrati, è immenso e schiaccia la dimensione umana, oltre a prestarsi per un whisky on the rock servito con il ghiaccio centenario recuperato a colpi di accetta, riserva colori e sfumature bianche, blu, turchese indimenticabili, che lascio descrivere alle parole di Padre De Agostini “Lo sguardo si spinge avido attraverso quell’immensa estensione di nevi, di ghiacciai e di giogaie che la cristallina trasparenza dell’atmosfera e la sfolgorante luce del giorno rendono ancora più evidente, e cerco di scrutarne i segreti.” (Alberto M. De Agostini, “Ande Patagoniche”, Vivalda Editori, Torino 1999).
Terra del fuoco, ghiacciaio Perito Moreno
Una escursione al Parque nacional Torres del Paine in territorio cileno, nell’area andina, ci consente di ammirare senza fiato una natura a colori mai vista prima. Scendiamo a Sud, un percorso di centinaia di chilometri in aereo e in autobus nella piatta patagonica fra distese di pecore e di stupende e isolate ‘estancias’ (fattorie); un’emozione unica attraversare lo stretto di Magellano che separa a nord la Terra dei Patagoni e a sud la Terra del fuoco, e poi ancora verso sud ai confini del mondo dove Charles Darwin imbastiva la sua teoria evoluzionista.
Ecco la Terra del fuoco o Tierra del fuego, così chiamata da esploratori spagnoli cinquecenteschi che videro fra le brume tanti fuochi degli indigeni residenti, esplorata a fine ‘700 dallo scienziato antropologo e naturalista a bordo del brigantino inglese Beagle, comandato dal mitico capitano Fitz Roy, oggi scolpito nella toponomastica cilena con una cima altrettanto mitica per gli scalatori, la cima Fitz Roy inglobata nel gruppo Cerro Torre nella catena andina.
Puntiamo ancora a sud sul Canal Beagle, così chiamato oggi, sul quale si rispecchia la città di Ushuaia posta fra il 54° e il 55° parallelo, città considerata la più a sud del mondo abitato, circondata da alte montagne e raggiungibile attraverso un aeroporto che, visto dall’alto, sembra un minuscolo cordone sabbioso circondato dalle acque del canale. Da non dimenticare l’esperienza gastronomica dell”asado’ (arrosto), il ‘cordero’ o agnello cotto alla brace in vertical, e del Tren del fin del mundo, il vecchio e ottocentesco treno del presidio carcerario per detenuti ai lavori forzati, che oggi consente la visita al Parco nazionale della Tierra del fuego. Il cielo terso e le sue stelle, milioni di stelle (a queste latitudini estreme sono uno scenario notturno indimenticabile e impareggiabile) che padre De Agostini descrive così: “Quando… I nostri occhi contemplano di botto la volta azzurra del cielo dove scintillano migliaia di stelle, l’anima si sente come sorpresa e annichilita, e innalza spontaneamente la sua umile preghiera di adorazione a Dio, sommo Fattore di sì grandi meraviglie.”
Poche miglia più a sud ci sono Capo Horn, con i suoi velieri affondati nelle tempeste e, ancora più a sud, l’Antartide. Ma questa è un`altra storia da raccontare.
Le foto della Terra del fuoco sono di Marco Bonora.
Il Cinema Boldini è l’unica sala d’essai di Ferrara, ci sono passate intere generazioni di cinefili, attori e registi. Chi non ci ha visto un film che gli è rimasto dentro per sempre? Chi non ha formato attraverso le sue proiezioni la propria cultura (e qualcuno magari anche un lavoro nel cinema)? Chi non si è innamorato su quelle poltroncine?
Il Boldini, per gli amici Boldo, è di proprietà del Comune e la programmazione serale viene gestita dal circolo Louise Brooks dell’Arci. Per lungo tempo il responsabile è stato Roberto Roversi, ora presidente nazionale di Ucca, Unione dei circoli cinematografici Arci. Adesso la referente è Alice Bolognesi, laureata al Dams, ex servizio-civilista poi entrata in forze all’associazione ferrarese. E’ lei che si occupa della programmazione del cinema, e noi l’abbiamo intervistata per capire come funziona.
Chi sceglie i film che vengono proiettati al Boldini?
“I film hanno una distribuzione nazionale che viene filtrata e di conseguenza gestita dalle agenzie regionali che hanno in esclusiva una serie di titoli da programmare nelle sale cinematografiche”.
Quali sono i criteri?
“Sicuramente incide il profilo della sala cinematografica. In una sala d’essai come il Boldini passano in prevalenza titoli premiati a festival internazionali e film d’essai”.
Cosa viene deciso dalle agenzie di distribuzione e cosa rimane all’autonomia del cinema?
“Il cinema ha pochissima autonomia, la vita di un film in sala dipende molto dalle presenze della prima settimana di uscita, però l’ultima parola è delle agenzie di distribuzione regionale. Abbiamo invece piena autonomia sulle rassegne anche se dobbiamo ovviamente fare i conti con le uscite e le richieste delle distribuzioni”.
Oltre alla programmazione, Arci ha anche lavorato per adeguare la sala all’evoluzione tecnologica. Un passaggio necessario, ma non indolore che ha comportato la sostituzione di schermo e proiettore.
“Lo schermo andava cambiato, quello vecchio credo avesse qualcosa come vent’anni.
Il nuovo proiettore digitale ha un fascio di luce molto più potente rispetto al 35 millimetri. Se avessimo mantenuto il vecchio schermo la qualità delle proiezioni sarebbe stata pessima.
Il digitale ha pro e contro. Sicuramente è semplice gestire più titoli anche per una sala sola come la nostra, possiamo proiettare più contenuti e in diversi formati.
Con il digitale abbiamo la possibilità di proiettare film in lingua originale. Con le pellicole era praticamente impossibile, venivano infatti stampate pochissime copie con dei costi di noleggio altissimi.
Altro aspetto interessante è la trasmissione satellitare: questa tecnologia ci consente di trasmettere contenuti in live streaming.
Lo svantaggio maggiore del digitale riguarda invece la parte tecnica: se il proiettore digitale ha dei problemi il rischio di annullare la proiezione è dietro l’angolo, con il 35 millimetri questo era praticamente impossibile. Se si rompeva la pellicola o si bruciava una lampada si riusciva comunque a proiettare, a risolvere dalla cabina.
Con il proiettore digitale invece si rischia proprio di mandare a casa gli spettatori.
Ulteriore nota negativa è l’usura e l’avanzamento di nuove tecnologie (che non è una cosa negativa in generale, anzi!): i primi proiettori digitali sono già considerati obsoleti e poco performanti rispetto a quelli nuovi. Con il digitale si vive un po’ nel “terrore” di dover cambiare dei componenti della macchina. Con dei costi non indifferenti”.
Il Boldini ha sempre cercato di associare le proiezioni alla presenza degli autori, l’ultima in ordine di tempo è stata “Qui” di Daniele Gaglianone, dove il regista era in sala per parlare del movimento No Tav. Ultimamente si sta anche sperimentando la formula dell’evento associato al film, come per esempio lo spettacolo di danza di Elisa Mucchi che qualche sera fa ha anticipato il documentario “Dancing with Maria” di Ivan Gergolet. [clicca qui per leggere il nostro articolo]
Quali saranno i prossimi eventi?
“Per il mese di aprile abbiamo in programma la rassegna del Festival dei Diritti, due serate di Doc in Tour e due sorprese italiane: il documentario ‘Smokings’ il 14 aprile e il film ‘The repairman’ il 21 aprile.
Per il mese di maggio stiamo organizzando una rassegna in collaborazione con Arcigay dove non mancheranno prime visioni e incontri con autori.
Finita la programmazione primaverile, durante l’estate, il Boldini sospende la programmazione e si trasferisce all’aperto proponendo il meglio della stagione precedente. La location non è fissa. All’inizio è stata il parcheggio dell’Ipercoop le Mura, poi il Parco Pareschi, infine il giardino di Palazzo dei Diamanti”.
Qual è al momento la situazione dell’arena estiva?
“Ci stiamo lavorando, sicuramente cambieremo location.
Dal 2012 infatti eravamo ospiti di Palazzo dei Diamanti ma quest’anno con il prolungamento della mostra fino al mese di luglio non sarà possibile utilizzare il cortile adiacente per l’allestimento del cinema all’aperto.
Stiamo valutando diverse situazioni per offrire uno spazio alternativo e una proposta culturale valida per il pubblico che resterà in città nel periodo estivo”.
Alcuni giorni fa è nato un portale di notizie, inchieste, approfondimenti e reportage a fumetti, una bella idea, fresca e innovativa, capace di attirare anche i più giovani (ma non solo). Si tratta di una bella scelta, quella di un giornalismo innovativo, che accosta alla notizia un disegno accattivante e invitante. Il primo sito italiano di “graphic journalism”, intitolato semplicemente “Graphic News” (www.graphic-news.com), sviluppato dall’intuizione di Gianluca Costantini ed Elettra Stamboulis, in una redazione tutta bolognese. Il progetto è partito dalla cooperativa Pequod [vedi], fondata nel 2014 da Michele Barbolini, Pietro Scarnera, David Biagioni, Federico Mazzoleni, ideato con l’associazione Mirada di Ravenna [vedi], nata nel 1997, e realizzato col sostegno del bando 2014 Culturability della Fondazione Unipolis e del bando 2014 Incredibol del Comune di Bologna. Quale nome più adatto per una partenza… Pequod, d’altronde, era la baleniera di Moby Dick, comandata dal capitano Achab, a caccia di balene e capodogli, e in particolare dell’enorme balena bianca, sfida dell’uomo alle grandi forza della Natura, e Mirada, in spagnolo, significa sguardo. Risuona in essa anche la radice latina di miror, che significa stupirsi. Mirada vuole, dunque, proporre sguardi, stupore e sensibilità visiva. E ci è riuscita.
La redazione si presenta
Il sito, per ora, parte con nove storie, divise in cinque sezioni, tutte rese possibili dall’esperienza sul campo degli autori: news, economia, cultura, scienze, sport. Tra quelli coinvolti, per il momento, ci sono sia nomi già noti che meno, esordienti: Gianluca Costantini, Marco Garofalo, Mattia Moro, Cristina Portolano, Emanuele Racca, Giulia Sagramola, Pietro Scarnera, Francesca Zoni, Brochendors Brothers. Presto, però, arriveranno anche colleghi internazionali. Un bel gioco di squadra, giovane e vispa.
Fumetto di Giulia Sagramola‘Giovani, carini e tartassati’
Così, tra le news, possiamo leggere “Povere veneri”, di Francesca Zoni, che si sofferma sulla vita delle prostitute bolognesi con curiosità e delicatezza (insieme alle volontarie dell’associazione Libera che portano alle ragazze generi di conforto), “Giovani, carini e tartassati”, di Giulia Sagramola, che racconta di tutte le tasse cui sono esposti i poveri, tartassati e indifesi freelance o “Gli ultimi manicomi”, di Emanuele Racca, che indaga sugli ospedali psichiatrici giudiziari e sostiene la campagna Stop Opg [vedi], che ne sollecita la chiusura.
Anche se la fruibilità va ancora migliorata (leggendo su Ipad, ad esempio, si deve girare il dispositivo e la lettura non è sempre agevole per alcuni titoli che, a volte, si accavallano alla notizia), il primo impatto è, generalmente, positivo e piacevole. Una grafica facile da comprendere, semplice, chiara e accattivante, storie da leggere ma soprattutto da vedere. E ci si può anche immaginare dentro di esse, ci si può vedere scorrazzarvi qua e là, attraversarne le righe. Il tema sociale, per ora, pare prevalere. Ma vi è anche una sezione culturale, che ospita un’intervista immaginaria, di Marco Garofalo, “Il bar non mente mai”, con citazioni di Charles Bukowski che raccontano lo scrittore americano sotto una luce particolare, non solo un grande bevitore. C’è spazio per i commenti dei lettori e i link ai social network e a quelli delle varie iniziative di cui si parla. E’ previsto un aggiornamento settimanale, con nuove storie e una versione inglese. Una sperimentazione costante, con al centro le storie, un laboratorio di idee che parte dall’Italia e guarda il mondo, nuove chiavi di lettura. Da seguire.
“La libertà è quando si è liberi di poter andare dove si vuole”. Leggendo questa frase che lancia la campagna di crowdfunding dell’iniziativa che mira ad eliminare le barriere a Venezia permettendo ai disabili in carrozzina l’accesso alle gondole, ho ricordato la disagevole sensazione di frustrazione che si prova quando non ci si può muovere come si vuole.
Un bambino in carrozzina a Venezia di fronte al canaleUna bambina in carrozzina trasportata a braccia sulla gondola
La mia esperienza era ed è legata all’impossibilità o alla difficoltà di spostarsi liberamente in Paesi dove manca la sicurezza, quando devi sempre essere accompagnato, quando devi guardarti intorno con circospezione, quando non puoi camminare per le strade, salire su un taxi o un autobus qualsiasi, parlare con chi vuoi. Lì capisci quanto sia davvero importante la libertà di potersi muovere, quanto sia bello poter prendere un bus o un treno. L’esperienza di un familiare è invece, e purtroppo, legata all’impedimento fisico, quello motorio, che ti lega agli altri e alla speranza che barriere architettoniche impietose non t’impediscano di accedere a servizi fondamentali o a bellezze architettoniche o paesaggistiche uniche. Ricordo bene, in proposito, il maestro Bernardo Bertolucci quando si era corrucciato per l’impossibilità di accedere al Campidoglio con una sedia a rotelle. Il problema non era solo il suo ma quello, ovviamente, di tante persone nelle sue condizioni.
Disegno del pontile che si vuole realizzare
Ecco alcuni dei motivi per i quali ci sembra importante segnalarvi un’importante iniziativa che vuole assicurare ai turisti in carrozzina la possibilità di ammirare, da una gondola, la bellissima, magica e romantica Venezia. Si cerca aiuto dalla rete, con il crowdfunding lanciato dalla Onlus Gondola4All che vuole permettere ai disabili l’accesso alle gondole. Si tratta di raccogliere 56.000 dollari per costruire un pontile galleggiante che ospiti una pedana automatica in grado di garantire un inserimento sicuro e controllato della persona con la sua carrozzina. Contribuire è davvero molto facile, basta donare un importo qualsiasi o scegliere un contributo fisso proposto dalla campagna che poi darà diritto anche alla scelta di uno dei premi (dalle t-shirt al giro in gondola in anteprima, fino alla sponsorizzazione con il proprio nome di uno dei quattro pali del pontile).
Tutti devono poter provare l’emozione di percorrere i canali e le calli di Venezia affacciandosi ad essi direttamente dalla laguna, di percepire la magia che proviene dai riflessi delle piccole onde che accarezzano, leggere e spensierate, la gondola che sfreccia leggera. Nessuno deve esserne escluso, la bellezza non va preclusa ad alcun essere umano che voglia sentirla scivolare sulla sua pelle. Tanto più se a impedire sono parti del nostro stesso corpo, di una vita che vuole vivere, comunque. La bellezza è di tutti e deve essere per tutti. Il vostro aiuto è molto importante, dunque, la campagna si conclude il 7 maggio. Pensateci!
“Una forza internazionale per difendere monumenti e siti archeologici nelle zone di conflitto”. E’ la proposta avanzata dal ministro Franceschini in risposta alla barbarie. Che la distruzione dei beni culturali sia un crimine contro l’umanità era stato sostenuto già a fine febbraio dal Wall Street Journal, a commento del video di 5 minuti postato dall’Isis sulla distruzione delle sculture dell’antica Mesopotamia al Museo di Mosul, in Iraq, “colpevoli” di promuovere l’idolatria. Le denunce pubbliche erano subito arrivate da personalità del calibro di Thomas Campbell, direttore del “Metropolitan Museum of Art” di New York e di Irina Bokova, direttore generale dell’Unesco. Se alcuni esperti avevano indicato che si trattava di copie, era evidente che, comunque, alcuni originali erano coinvolti.
2009, distruzione delle statue di Buddha (Afghanistan)
L’evento aveva scatenato riflessioni, discussioni, richieste di modifiche di normative ormai obsolete e non adatte a un mondo così diverso e cambiato nel rispetto dei suoi beni culturali (e non solo). Alcuni anni fa, migliaia di libri rari e di manoscritti avevano fatto la stessa fine in Mali (in particolare a Timbuktu), nel 2001, in Afghanistan, un amaro e triste destino era toccato a due imponenti statue di Buddha, tombe e chiese erano state saccheggiate o distrutte in altri luoghi affascinanti del mondo, molti oggetti di valore erano finiti sul mercato nero. Un vero disastro.
In quelle occasioni come in Iraq, tutti gli sforzi fatti nel tentativo di proteggere importanti opere d’arte erano falliti, la comunità internazionale aveva assistito, inerme, a un terribile spettacolo di distruzione. Così, il Wall Street Journal aveva invocato la necessità di alzare la voce, tutti insieme. L’applicazione della Convenzione delle nazioni unite dell’Aia (1954), che proibisce l’utilizzo dei monumenti e dei siti a fini militari, non è sufficiente. Una convenzione di tale tipo è sicuramente irrilevante (e impotente) di fronte ad atti come quelli avvenuti in Iraq ed ha un’applicazione ristretta. Bisogna, dunque, essere pronti a dichiarare che la distruzione del patrimonio culturale sia da considerarsi un crimine contro l’umanità, con punizioni adeguate a livello della Corte penale internazionale dell’Aia. Sono necessarie, però, alcune modifiche. Il problema è, infatti, che la distruzione intenzionale di edifici religiosi, di strutture aventi fini educativi o di sviluppo delle arti, o di monumenti storici e ospedali è prevista come crimine dallo Statuto della Corte penale internazionale (art.8.2 IX) solo se commessa, intenzionalmente, nell’ambito di una guerra vera e propria e sempre che non si tratti di obiettivi militari. Purtroppo, oggi, siamo di fronte a conflitti che non rientrano più nella nozione di guerra elaborata dal diritto internazionale. Quasi mai il conflitto investe Stati “ufficialmente” nemici con eserciti tradizionali; quasi sempre la guerra si rivolge contro le popolazioni civili, terrorizzandole, costringendole ad abbandonare le proprie case, le proprie tradizioni, la stessa cultura su cui si fonda la loro esistenza. Il patrimonio culturale non è costituito solo da begli oggetti, pronti per turisti e musei, ma è l’insieme del passato di un popolo, la sua memoria, il suo futuro, un modo per comprenderci l’un l’altro. Distruggerlo significa attaccare la storia, l’identità e la civilizzazione.
Manoscritti di Timbuktu (Mali)
La distruzione del patrimonio culturale è da considerarsi un crimine di guerra e contro l’umanità. E in tale direzione si è mosso, il Parlamento europeo, lo scorso 12 marzo, con l’approvazione relazione annuale sui diritti umani che include un emendamentodell’eurodeputata del Pd Silvia Costa, per perseguire le forme di distruzione del patrimonio culturale e artistico iracheno e siriano come crimini di guerra e contro l’umanità. L’emendamento pone l’accento sul fatto che “anche sulla base delle Convenzioni Unesco, la diversità culturale e il patrimonio culturale costituiscono un patrimonio universale alla cui protezione e valorizzazione l’intera comunità internazionale ha il dovere di cooperare”, e “ritiene quindi che siano da perseguire fermamente come crimini di guerra e crimini contro l’umanità le forme di distruzione del patrimonio culturale e artistico perpetrate intenzionalmente, come sta avvenendo in Iraq e in Siria”. Non si deve togliere a nessuno il diritto di avere una memoria, che passa anche attraverso reperti e monumenti. L’onorevole Costa, in un’intervista, ha dichiarato di aver voluto richiedere “che nell’ambito dell’universalità dei diritti umani e anche sulla base delle due convenzioni dell’Unesco, la comunità internazionale debba cooperare e verificare quali azioni mettere in campo per proteggere il patrimonio artistico e culturale e chiedere attraverso un voto unanime che queste distruzioni siano perseguite come crimini di guerra e crimini contro l’umanità”. “Nell’ambito dello Statuto della Corte penale internazionale dell’Aia”, continua l’eurodeputata, “sicuramente per crimine di guerra s’intende “dirigere intenzionalmente attacchi contro edifici dedicati al culto, all’educazione, all’arte alla scienza a scopi umanitari, monumenti storici”. Noi già oggi possiamo dichiarare che questo è un crimine di guerra (ma con il limite cui si è accennato, aggiungerei). Secondo la nuova concezione aggiornata dei diritti umani, la cultura fa parte dei diritti umani fondamentali, sia l’accesso alla cultura, sia la libertà di espressione attraverso la cultura. Ci sono due convenzioni dell’Unesco: quella del 1972 sull’identificazione, la protezione e la conservazione del patrimonio mondiale culturale, rafforzata nel 2003 dalla convenzione Unesco sul patrimonio europeo, e quella del 2005, sulla protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali e linguistiche.
Non a caso pochi giorni fa, la direttrice generale dell’Unesco ha ribadito che ormai si può considerare la distruzione del patrimonio culturale protetto dall’Unesco (patrimonio comune) come un crimine commesso ai danni dell’umanità intera. In questo senso si giustifica la dicitura di crimine contro l’umanità, perché il patrimonio fa parte di un popolo, della sua storia, del suo futuro. Concretamente, distruggendo reperti del VII secolo al museo di Mosul, si è tolto all’umanità il diritto di avere una memoria”. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu, lo scorso febbraio, ha approvato una risoluzione per bloccare la distruzione dei beni archeologici in Siria e in Iraq, ma non ha inserito nel mandato dei caschi blu la protezione dei Beni culturali dalla guerra.
Caschi blu, forze di protezione dell’Onu
E il 20 marzo, il Ministro Franceschiniha proposto, in un’intervista a “The Guardian”, l’istituzione di caschi blu per salvare il patrimonio culturale. Si tratterebbe di una sorta di “caschi blu della cultura”, una forza internazionale di risposta rapida per difendere monumenti e siti archeologici nelle zone di conflitto. Perché se in passato i grandi monumenti erano colpiti accidentalmente nelle guerre, durante i bombardamenti, oggi sono colpiti perché simboli di cultura e di una religione. Lodevole proposta ma che ha provocato anche molte reazioni contrarie o, per lo meno, alcune forti critiche.
In un contesto geopolitico di conflittualità come quello attuale, in cui la stessa comunità internazionale non si è dimostrata in grado di intervenire con risolutezza contro gli eccidi di esseri umani, proporre la creazione di missioni di peacekeeping dedicate alla tutela del patrimonio culturale ad alcuni può risuonare strano. Le missioni di peacekeeping, poi, hanno dei costi e la cultura non è certo in cima alle preoccupazioni della classe politica italiana e mondiale. Il direttore generale dell’Unesco ha, comunque, ringraziato Franceschini, per “l’importante e coraggiosa proposta di istituire una forza delle Nazioni unite dedicata alla tutela dei siti del patrimonio culturale dell’umanità per rispondere ai gravi attacchi del terrorismo”. Entrambi hanno concordato l’urgenza di avviare ulteriori passi in direzione della proposta, coinvolgendo l’Unione europea. E anche la Germania la sostiene “con convinzione”, l’ha riferito il Ministro della cultura tedesca, Monika Gruetters, durante l’incontro con Franceschini, a Berlino, il 24 marzo. L’Italia presenterà, in sede Unesco, una risoluzione per la salvaguardia del patrimonio culturale nelle aree di conflitto. Vedremo se si tratta solo di parole o se da esse si passerà ai fatti.
Mettere le persone sedute attorno ad un tavolo è il modo migliore per condividere non solo sapori ma anche saperi. L’ha pensata bene il consorzio Visit Ferrara, nato in seno alla Camera di Commercio e composto da 86 soci, che ha lanciato “I giovedì dei sapori ferraresi” un tour enogastronomico in sei tappe, ognuna in un diverso ristorante della città fino a fine aprile. Menù a prezzo fisso che vanno dai dieci ai trenta euro, per conoscere la tradizione come le perle ferraresi, i vini delle sabbie o il pesce di valle, ma anche le contaminazioni come il cous cous, il carciofo in veste locale, o la cucina vegana fatta con prodotti del territorio, che è stata la scelta di Gaia Ludergnani dello Scaccianuvole, ristorante di via Cassoli che ha ospitato la seconda tappa del tour.
foto di @Igersferrara
“Per noi – ha spiegato Ludergnani – è importante dare spazio a menù senza prodotti di origine animale, ma con ingredienti nostrani, così questa sera lo chef Marcello Minguzzi, ha preparato un’entrée con schiacciatina alla canapa cotta nel forno a legna, un antipasto con terrina di tofu aromatico e zucca su letto di radicchio, un primo di pasta di canapa con crema di broccoli e mandorle tostate, un secondo di brasato di seitan al Fortana con chips di zucca, e per finire dessert di tartelletta alla canapa con crema di riso e pere al vino rosso. Il tutto degustando i vini delle sabbie. Per noi oltre alla cucina vegana, è anche importante rifornirci da aziende d’eccellenza del territorio, infatti proponiamo i vini dell’azienda Mariotti e la pasta della Romagnola Bio”.
“Abbiamo due poderi a San Giuseppe di Comacchio e uno a Vigarano Mainarda – ha raccontato Mirco Mariotti, dell’azienda vitivinicola – noi produciamo soprattutto Fortana, Trebbiano e Malvasia, ma anche grappa e mosto cotto. Da due generazioni ci siamo specializzati in vitigni autoctoni, in particolari di quelli “franco di piede” dei terreni sabbiosi”.
“Io produco pasta biologica dal 1987 – dice Paola Fabbri, della Romagnola Bio di San Biagio di Argenta – in un’azienda immersa in dieci ettari di verde, accanto ad un lago, dove lavoriamo farine che acquistiamo e poi trasformiamo noi. Le paste sono come i miei bambini, perché io non ho figli. Mi invento forme e combinazioni usando cereali alternativi al grano come Kamut, farro, mais, riso, grano saraceno, orzo, segale, e anche canapa. Negli anni ’90 siamo stati la prima azienda al mondo a fare la pasta del Kamut, che ora è molto diffusa. Abbiamo anche provato a produrre una pasta di grano Hathor, che il Conase sta sperimentando in alternativa al Kamut che qui da noi alletta e siamo costretti ad importarlo da Usa e Canada. La mia ultima invenzione è una pasta di equiseto che contiene silicio e fa bene a ossa, tendini e capelli. Un’altra cosa che ho ideato è la pasta di riso e lupino, molto proteica, che va bene anche per intolleranti alla soia. Poi ho fatto anche una pasta a basso contenuto di carboidrati con il baobab. Io mi reputo una sovversiva del gusto, guardo quello che fanno gli altri ma non per copiarlo: per farlo in modo diverso!”.
“Questa è la prima iniziativa che organizziamo – ha affermato Chiara Vassalli di Visit Ferrara – di solito promuoviamo quelle degli altri, ma in questo caso ci tenevamo a far conoscere queste realtà e a metterle in rete”.
“Il settore della ristorazione era il meno rappresentato nel consorzio – ha spiegato Matteo Buffoli di Visit Ferrara – che è composto prevalentemente da albergatori e agriturismi, per cui abbiamo voluto incentivare la loro presenza al nostro interno. Chi viene a fare turismo qui, deve anche mangiare, per cui è imprescindibile questa connessione tra ricettività e gastronomia. Nuove connessioni significano nuove possibilità di business”.
Il prossimo appuntamento sarà giovedì al ristornate Orsatti 1860 con una cena a base di pesce.
Importanti reperti in ambra, tra i quali un anello con una scena complessa di eroti (o amorini), esemplare unico al mondo, un balsamario in onice, unico esemplare integro al mondo e degli interessanti pettini d’osso e di avorio, provenienti da una necropoli bizantina. Sono alcuni dei cimeli del Museo civico di Belriguardo. Dopo l’inaugurazione della rinnovata sezione archeologica, alla presenza del ministro dei Beni e delle attività culturali e del turismo Dario Franceschini (lo scorso 14 marzo), ora un’altra novità per questa bella realtà di Voghiera. Parliamo della partecipazione, con il proprio account Twitter @M_Belriguardo, a #MuseumWeek, un’occasione, per una settimana, dal 23 al 29 Marzo, di far conoscere al vasto pubblico di Twitter la realtà di Belriguardo, sia quella ufficiale sia quella meno conosciuta, da “dietro le quinte”. Il museo si trova a Voghiera, all’interno della Delizia di Belriguardo, la residenza estiva degli Este. Al piano terra si trovano esposti i reperti delle 67 tombe scavate nella necropoli di Voghenza, mentre, al primo piano, sono esposti i reperti provenienti dal territorio di Voghiera. Il museo nasce dal vecchio ‘antiquarium’ che si trovava a Voghenza, vicino alla zona archeologica e fu poi trasferito, nel 1994, nell’attuale sede che, nel 2001, è diventato Museo civico. Nel torrione sono presenti alcune opere dell’artista locale Giuseppe Virgili (1884-1968), nella sezione arte moderna. Nella Sala della Vigna, l’unico salone affrescato rimasto degli oltre cento che c’erano nel Rinascimento, oltre agli affreschi di Gerolamo da Carpi, Benvenuto Tisi da Garofalo e dei fratelli Dossi, Battista e Dosso, sono esposti i reperti trovati in una fossa di scarico nel primo cortile di Belriguardo [vedi].
Ma cosa significa per Belriguardo partecipare al #MuseumWeek 2015 dal 23 al 29 marzo 2015? Molto, come si vede anche dalla pagina facebook del museo[vedi]. Durante questo periodo, infatti, le istituzioni culturali e i musei di tutto il mondo sono invitati a celebrare la cultura su Twitter. Promossa da una dozzina di community manager di musei e istituzioni culturali francesi in collaborazione con i team di Twitter, la #MuseumWeek 2014 ha conquistato 630 musei di tutta Europa [vedi]. Per il 2015 ci si è dati un duplice obiettivo: dare un’eco mondiale a questo evento dedicato alla celebrazione dei musei e attirare un numero di visitatori ancora più ampio, in modo ludico e partecipativo. Ecco i principi di questa seconda edizione:
● 7 giorni, 7 temi da condividere con tutti i partecipanti di ogni parte del mondo;
● ogni tema può essere esteso ai campi in cui sono specializzate le istituzioni (arte, scienza, storia);
● nei giorni feriali i vari temi incoraggeranno la comunicazione online, mentre nel week-end si darà maggiore risalto alla partecipazione attiva dei visitatori in loco;
● saranno promosse interazioni fra istituzioni, incluse quelle estere, e con il pubblico in visita.
Nei giorni scorsi si è fattoscoprire al pubblico la vita quotidiana delle istituzioni, il “dietro le quinte” ( #secretsMW); lo si è invitato a condividere i ricordi che hanno della loro visita al museo, ad esempio attraverso un oggetto (foto, magnete, libro, cartolina) o un incontro / momento che hanno lasciato il segno (#souvenirsMW); si è raccontata la storia dell’edificio, dei suoi giardini e dei suoi luoghi emblematici (#architectureMW); si è invitato il pubblico a catturare, intorno a sé, contenuti correlati alle specializzazioni delle istituzioni (#inspirationMW)
Domani, venerdì (#familyMW) si presenta ciò che offre l’istituzione per rendere una visita un’esperienza indimenticabile.
Sabato (#favMW)
S’incoraggiamo i visitatori a condividere, con foto o video, ciò che hanno amato di più del museo.
Domenica (#poseMW)
S’invitano i visitatori a considerare il museo come un set e a mettersi al centro della scena. Pose, selfie, … il pubblico occuperà lo spazio a modo suo.
Per le istituzioni che vogliono iscriversi (Belriguardo lo ha già fatto): andare sul sito del MuseumWeek2015 [vedi] e invitare, perché no, altre istituzioni a seguire il proprio esempio, ritwittando @MuseumWeek. Noi lettori, invece, seguiamo e (ri)twittiamo tutti Belriguardo! Forza!
«Per essere poeti, e sentirsi tali, non è necessario portare il ‘peso’ degli anni e della memoria, struggersi nella nostalgia o addirittura nel pessimismo. Basta amare la vita, sentirla, in tutte le micro e macro emozioni che ci riserva, anche e soprattutto nella quotidianità. E’ l’energia che si respira in “La metà del letto” (Barbera Editore), di Matteo Bianchi, collaboratore di varie testate giornalistiche e tra i fautori, nell’estate 2014, della prima edizione di Festival#Giallo Ferrara, una tre giorni di incontri tra scrittori, fumettisti, disegnatori. A conferma che la cultura è eclettica e multidisciplinare e priva di prerogative anagrafiche. Poco più di cento poesie il cui filo rosso, come suggerisce il titolo, è la ricerca dell’altra metà, intesa come femminilità che c’è in ciascuno. A partire dalla tenerezza, dalla dolcezza, dalla generosità, dalla gioia, che non sono requisiti di ‘genere’, anche se il pudore, soprattutto maschile, li imbriglia spesso sul nascere. Bianchi osserva, indaga e scrive di amicizia, amore, di come nascono e si interrompono rapporti e sentimenti universali su cui tutti noi continueremo in eterno ad interrogarci senza giungere mai a una risposta definitiva. Ma racconta anche il terremoto che nel 2012 ha piegato l’Emilia Romagna e Ferrara. Per lui, classe 1987, alla sua quarta pubblicazione, selezionato tra le voci dell’Atlante on line di poesia contemporanea dell’Università di Bologna, Ossigeno Nascente, «la poesia, oggi, deve incidere nel nostro intelletto e nel nostro cuore grazie a una forma efficace, deve trasmettere un ideale, deve condurre alla velocità del suo stesso ritmo non solo a una riflessione, ma a un’azione. Che sia una carezza, una stretta di mano, una presa di posizione. Basta che sia autentica».
C’è un grande parcheggio in pieno centro storico. Anzi, ce ne sono due. Ma pochi lo sanno. Fanno capo entrambi alla Curia arcivescovile.
Il primo sta proprio all’interno del palazzo del vescovo. Si entra da corso Martiri, si transita sotto lo storico portone e si raggiunge il cortile sterrato dove c’è spazio per una trentina di vetture. Il costo dell’abbonamento è di 120 euro mensili, ai quali vanno aggiunti 250 euro di tassa annuale da corrispondere al Comune per ottenere il permesso che consente l’accesso alla Ztl monumentale.
L’altro è invece posizionato sul retro della dimora del vescovo; l’ingresso è da via Cairoli. Qui si trovano due ampi cortili divisi fra loro dalla storica sala del Borgonuovo, da tempo inagibile. La capienza è ampia: oltre una cinquantina di auto negli stalli a cielo aperto e un buon numero di posti addizionali nel seminterrato. La gestione in questo caso è del seminario arcivescovile, la spesa è un po’ più alta, di 150 euro mensili, oltre ovviamente alla spesa per il permesso annuale di accesso alla Ztl.
Il costo complessivo per gli utenti varia dunque grossomodo fra i 1.700 e i duemila euro all’anno. La rendita per le casse arcivescovile verosimilmente attorno a 150 mila euro annui, mentre il Comune si deve accontentare di una somma di poco superiore a 20mila euro, come proventi per le licenze di accesso alla Ztl.
Proprio la questione Ztl rappresenta il punto delicato. E’ sensato autorizzare un traffico parassitario di un’ottantina di vetture e oltre che per accedere al parcheggio ogni giorno transitano in una zona, quella monumentale, che andrebbe rigorosamente preservata dal traffico? Il cui prodest appare fin troppo chiaro.
Erano le nostre aziende municipalizzate. Le chiamavamo Amiu e Amga, erano pubbliche. Ora al loro posto c’è Hera, è quotata in borsa, il sindaco (come altri) ne vende le quote, e non capiamo più bene se sia ancora pubblica o privata.
In questi anni c’è stata una grande evoluzione del sistema dei servizi pubblici, avvenuta grazie all’intensa attività delle imprese ex-municipalizzate e alleanza da loro contratte, che hanno saputo sviluppare forti strategie aziendali e innovative politiche industriali. Le trasformazioni societarie, le alleanze, le nuove acquisizioni e soprattutto i processi di unificazione hanno infatti radicalmente modificato il quadro dell’offerta di un nuovo mercato competitivo nei servizi pubblici locali. Tutto questo non è certo una novità, ma rileggere questa evoluzione può essere utile.
E’ ormai avviata da tempo una nuova politica industriale nel settore: è in atto, assieme ad una rinnovata legislazione (che in verità propone cambiamenti da molti anni, con modesti risultati) e ad una crescente sensibilità collettiva sulle problematiche ambientali, una forte consapevolezza “industriale” di interesse economico-imprenditoriale. Il processo di trasformazione è avvenuto sicuramente da una spinta fortemente innovativa sia istituzionale che imprenditoriale orientata a favorire la realizzazione di sistemi integrati, la realizzazione di ambiti territoriali omogenei, lo sviluppo tecnologico ed impiantistico, il coinvolgimento industriale. Forse un poco meno il coinvolgimento dei cittadini.
Nel quadro di economie aperte abbiamo imparato con il tempo che bisogna avere una forte capacità di innovazione degli strumenti di governo del territorio e dunque delle istituzioni. E’ stata infatti necessaria una definizione dei progetti di sviluppo, una nuova ricerca di soluzioni ai problemi di coordinamento (di politiche, di strumenti e di risorse) e di compartecipazione (di soggetti pubblici e privati) a livello territoriale. Il ruolo dell’impresa di servizi pubblici è sicuramente stato una delle questioni di fondo della politica territoriale delle istituzioni. Bisogna allora saper distinguere tra imprese pubbliche (dunque con capitale pubblico) e aziende di servizi pubblici (di cui non interessa a chi appartiene il capitale, ma come e dove operano). L’impresa di servizi pubblici, infatti, è un’impresa che deve operare economicamente perseguendo fini collettivi e risultati sociali e quindi non è valutabile solo per fattori quali efficienza e profitto, ma in particolare modo per il contributo che può dare al benessere della società.
Il settore dei servizi ambientali sta dunque evolvendo verso una struttura reticolare in cui crescono i valori della dimensione di scala e degli ambiti territoriali ottimali come esigenza di integrazione. Attualmente le concentrazioni d’imprese, la politica industriale di miglioramento e la crescita dell’imprenditoria pubblica hanno prodotto crescita del valore, economie di scala ed efficienza economica che però non hanno avuto effetti positivi e benefici sulle tariffe applicate che aumentano sempre.
L’obiettivo generale è stato ed è quello di costruire grandi imprese o comunque alleanze tra imprese per favorire occupazione e investimenti in un settore ambientale sempre più qualificato e rispondente alle esigenze del territorio (tutela dell’interesse pubblico nel rispetto degli indirizzi comunitari), come ad esempio le principali aziende nel settore idrico: Acea con oltre 8 milioni di utenti serviti, seguito dall’Acquedotto Pugliese con 4 milioni, come anche dal gruppo Hera (che ormai rappresenta tutta l’Italia orientale mediterranea dal Friuli alle Marche), poi Iren con 2,4 milioni di utenti e Metropolitana Milanese e Smat rispettivamente con 2 milioni, poi A2A con 800.000.
Nel settore dei servizi pubblici ambientali si pone dunque in misura pressante la questione di quali siano gli strumenti che meglio possono offrire garanzie di qualità complessiva al consumatore. Impiegando diversi approcci, la letteratura economica ha tentato di verificare l’ipotesi che una gestione aziendale attenta alle tematiche inerenti gli effetti sulla qualità complessiva produca più valore di quel che costa e che se quindi aggiunge valore, allora va tutto bene.
Nel contempo però il quadro di riferimento nazionale sui servizi pubblici locali ha proposto una visione articolata e complessa con molti elementi di criticità e qualche prova di debolezza, soprattutto in relazione alla capacità di governo e di programmazione di questi servizi. Vi è dunque ancora un forte squilibrio territoriale, con enormi differenze Nord-Sud, e si è ancora in presenza di un mercato confuso, ma soprattutto vi è una pesante criticità nel sistema di regolazione economica dei servizi (scarsa cultura dei costi e delle tariffe del settore). Tariffe crescenti, aumenti di disagi, preoccupazioni di inquinamenti, ritardi nelle soluzioni e soprattutto scarsa fiducia. I cittadini hanno una percezione scarsa dei servizi, non si fidano delle capacità di risposta ai loro bisogni. Non è un giudizio, ma una constatazione.
La stessa evoluzione normativa e la definizione delle regole sono in palese ritardo, nonostante stia enormemente crescendo il livello di percezione dei cittadini della importanza dell’ambiente. Nonostante questo si può comunque rilevare che è in atto un processo di miglioramento o comunque di trasformazione. Si evidenzia nello specifico un sistema sufficientemente attivato per il ciclo idrico integrato (almeno sulla carta) e ancora un sistema frammentato, ma in evoluzione, per la gestione dei rifiuti.
In Emilia Romagna, forse meglio che da altre parti, il primo importante risultato raggiunto è stato la completa attivazione delle gestioni integrate, sia per il ciclo dell’acqua sia per la gestione dei rifiuti che, com’è noto, risultano essere una peculiarità della nostra regione. Sul piano delle gestioni, in particolare, si è andati ad una graduale eliminazione di quelle in economia e si è attivato con successo un profondo processo di graduale aggregazione che ha portato alla strutturazione di due grandi aziende di riferimento e a una crescente standardizzazione dei servizi per tutto il territorio regionale (un poco meno in questa provincia).
Partiamo dunque da un importante dato di fatto: in questa regione si sta meglio che altrove (qualità paragonata). Con orgoglio si può dire: merito di capaci amministratori, di qualificati gestori e di cittadini seri, ma questa piacevole consapevolezza non deve essere una giustificazione né un eccesso di autostima. Il dibattito rimane aperto.
Il 24 marzo 1976 il governicchio della “presidenta” Isabelita Peron (all’anagrafe Maria Estela Martinez) veniva cestinato dalla triade Videla, Massera, Agosti rappresentanti delle forze armate “di terra, di mare, di cielo” (per rifare un verso che risuonava su analoghi balconi di casa nostra anni prima). Era il golpe che stravolse la storia contemporanea dell’Argentina.
Formica della storia del tango, microbo della vicenda argentina, mi accingo a proporre al paziente lettore alcune mie considerazioni: se siete ballerini di tango, quindi fortunati seguaci e praticanti del “ballo più bello di sempre”, l’obiettivo sarà suscitare il vostro interesse per la conterraneità degli avvenimenti, se siete amici l’obiettivo sarà condividere impressioni: verso entrambi la mia attenzione sarà di non suscitare noia e magari fornire alcune informazioni.
Il tango alla metà degli anni ’70, anche nella propria terra di nascita, era confinato ai vivi ricordi dei non lontani anni d’oro. Già da un ventennio la produzione musicale pensata per il ballo dell’abbraccio era rinsecchita. Le pregevoli e raffinate creazioni di Astor Piazzola e di pochi altri, alleviavano l’ascolto ma non ravvivavano l’atmosfera delle milonghe. Permanevano lontani lo splendore e la ricchezza del tango diffuso e praticato dall’altra parte del mondo negli stessi anni in cui da noi si preparava la guerra, la si combatteva, se ne curavano le ferite. Forse per reazione alla mondiale tragedia o per omaggio ai “liberatori” i ritmi americani erano proposti ed apprezzati dai giovani. Il tango dormiva il sonno dei giusti, consapevole che il peggio doveva ancora arrivare.
E venne infatti il giorno in cui le trasmissioni tv furono interrotte (non così la partita di calcio Polonia – Argentina), al pari delle libertà più elementari. I nuovi malvagi al potere, con gradi e stellette, si ripromettevano di salvare il proprio Paese, affrancarlo da problemi economici, battere il terrorismo, e quant’altro di utile… La dittatura civico-militare avrebbe prodotto trentamila desaparecidos, un milione e mezzo di esuli, oltre cinquecento bambini “rubati” (la maggior parte dei quali tuttora non identificati), una economia più disastrata di prima, finanche una vera guerra persa (del tipo a noi noto “armiamoci e partite”) con quasi mille morti: alla faccia del “piano di riorganizzazione nazionale”! I Generali (più o meno, uno era un brigadiere, ma tant’è…) all’inizio, presi dalla loro santa missione, non avevano tempo per la cultura, la musica, il tango anche se trovarono attenzione e denaro per proporre l’edizione più costosa e corrotta dei campionati mondiali di calcio.
Nel prosieguo, preso atto che non portavano consenso i carri armati per strada, i centri di detenzione clandestina, le torture a terroristi (pochi) o presunti tali (tanti), si pensò anche al nostro ballo. Venne inventato il giorno internazionale del tango (l’11 dicembre, data di nascita di Carlos Gardel e di Julio de Caro), si fondò l’Orquesta de tango de la Ciudad de Buenos Aires, si finanziò il tuor europeo del sopracitato innovatore del tango. Parallelamente si procedeva però con il progetto Operativo Claridad per disboscare arte, cultura, cinema, giornalismo, letteratura, da ogni voce o comportamento dissenziente dai canoni consigliati. Trovo così al numero 257 della lista di proscrizione per l’anno 1980 il nome Pugliese Osvaldo Pedro musico-director de orquesta (segue numero di carta di identità), autore che sono invece solito abbinare alla melodia di Recuerdo e alla forza di Negracha. Trovo anche al numero 8 (in virtù dell’ordine alfabetico) il cognome di un amico pianista residente nella mia città da anni. E per fortuna che in quella lista si indicavano i nominativi di individui giudicati scomodi, soggetti da ostacolare sul proprio lavoro o perseguire in vari modi, ma non da sequestrare o far scomparire…
Ma il tango stesso come si rapportava agli aguzzini e ai loro mandanti? Immaginiamolo personificato con i modi aristocratici del compositore e pianista Juan Carlos Cobian e la voce e la presenza scenica del grande Carlos Gardel, probabilmente ci direbbe: “E’ vero c’è stato un periodo in cui malvagi mi hanno utilizzato a mia insaputa e, di questo, pur non avendone io alcuna colpa, resto tuttora affranto e contrito. Chiedo perdono a quelli che, catturati da un regime che ha infestato, per oltre sei anni, il Paese in cui sono nato, vennero sottoposti a vessazioni e torture. I dischi che mi ospitavano erano suonati per coprire le loro urla di dolore, affinché dall’esterno dei campi di prigionia clandestini non si udissero gli scempi che dentro stavano avvenendo. E gli stolti torturatori non si accorgevano nemmeno, presi dalla loro malvagità, che i miei cantores alzavano la voce nell’esecuzione ed altrettanto facevano i musicisti usando i toni più alti degli strumenti, gli uni e gli altri protetti dentro i dischi, perché loro stessi non volevano udire quelle urla di dolore. Tornavano poi i brani nella loro normale tonalità quando di nuovo venivano eseguiti in contesti ordinari. Capisco comunque che chi è scappato dal buio di quei seminterrati e chi piange il dolore dei propri cari scomparsi e mai più ritrovati possa ora odiarmi, confondendomi con i carnefici, ma sappia che io stesso sono stato vittima”.
Se lo dicono i fantasmi di due interpreti di tal portata sarà ben vero…
Declinavano i tempi della picana, proseguivano le marce delle madri in Plaza de Mayo, era ampiamente scemato il consenso popolare nonostante il velleitario tentativo di riconquista militare delle gelide isole Falkland-Malvinas, quando il tango veniva impacchettato e portato al Teatro Chatelet di Parigi. Il successo di pubblico e di critica della prima, il 13 novembre 1983, fu enorme. Il tango risorge e rifiorisce, e non a caso ciò avviene proprio a Parigi, laddove all’inizio del secolo si era raffinato e aveva trovato la spinta per tornare nei suoi luoghi di nascita ed essere finalmente apprezzato. Che spettacolo deve essere stato per i fortunati spettatori: coreografia di Juan Carlos Copes, musica del sexteto Mayor (al piano Horacio Salgan), ballano (tra gli altri) Juan Carlos Copes e Maria Nieves, Virulazo e Elvira, Maria e Carlos Rivarola, canta “el polaco” Roberto Goieneche!
Quindi cade la dittatura civico-militare (siamo nell’autunno 1983) e il tango rinasce: una coincidenza? “Il caso non esiste!” dice l’autorevole tartaruga-maestro Oogway nel film “Kung fu Panda”…
In verità il processo di vera rinascita democratica del grande Paese sudamericano, cui dobbiamo il tango, ed anche – non dimentichiamolo – il più grande campione della storia del calcio, non è subitaneo. Così il nostro ballo trova affermazione planetaria un paio di anni dopo quando, lo stesso spettacolo titolato “Tango Argentin” è riproposto a Broadway: sei mesi di repliche. Da allora una crescita e una diffusione continua, perlomeno nella sua componente più spettacolare e praticabile: il ballo. Fino ai giorni nostri.
Tango e dittatura: la rivincita del tango?
Eccoci all’epilogo, abbiamo trascorso alcuni minuti insieme come ballerini e come amici: seguendo il titolo di un recente dvd realizzato dal regista Marco Bechis sulla vita di Vera Vigevani Jarach, una delle fondatrici del movimento Madres de Plaza de Mayo, abbiamo ascoltato insieme, almeno per un po’, “il rumore della memoria”.
Walter Calamita, presidente dell’Associazione 24 marzo – loro sì che hanno titolo per parlare di queste cose – scrive nella sua prefazione al mio romanzo “La Diva del tango – alla ricerca del nino rubato” di un processo dove accanto a Verità e Giustizia si affianca la Memoria, al proposito io nel mio piccolo mi limito a ringraziarvi per avere condiviso con me questa ricorrenza.
Emozione e sogno sono il primo vero passo verso la guarigione. Per questo Giuseppe Tornatore ha scelto le note oniriche di “Acqua dalla luna” di Claudio Baglioni per il video-spot da lui diretto a sostegno dell’attività di MediCinema. La presentazione ufficiale alla stampa c’è stata alcuni giorni fa, nella sede romana di Rai Cinema.
La locandina dello spot di Giuseppe Tornatore
Pochi hanno sentito parlare di MediCinema, un’associazione nata nel 2013 che, ispirandosi a MediCinema UK (organizzazione no-profit attiva in Gran Bretagna dal 1996) si pone l’obiettivo di utilizzare il cinema e la cultura cinematografica a scopo terapeutico negli ospedali italiani.
Il breve spot di Tornatore, tutto realizzato al Policlinico Gemelli di Roma con l’intervento dei soli malati (fra stampelle, barelle e deambulatori), vuole sostenere la campagna di fundraising di MediCinema, volta a costruire la prima sala cinematografica italiana integrata in una struttura ospedaliera pubblica, uno spazio destinato alla ‘cinematerapia’ e alla terapia di sollievo per i degenti del Policlinico Gemelli e i loro familiari. L’idea è di occupare e distrarre, per alcune ore, la mente dei pazienti, allontanarli dalla malattia per un po’, almeno per la durata di una bella pellicola cinematografica. I benefici del cinema (e della cultura in generale) sulla persona, ricorda il regista, sono innegabili, quando si regalano storie, magia e incanto, si creano attimi importanti di emozione, di armonia e di serenità. Bisognerà, quindi, scegliere film che portino all’emozione pura, al sorriso, ma anche alla commozione e all’empatia. Una commissione di medici e psicologi deciderà i titoli più appropriati anche chiedendo a ogni paziente la sua opinione per migliorare quel rapporto difficile, tra chi deve curare e chi deve essere curato.
Vi sono già il sostegno di Rai Cinema (che metterà anche a disposizione il proprio listino) e di Disney Italia. Il regista e sceneggiatore Francesco Bruni assicura l’impegno del Centro autori e dell’Anec (i giovani produttori cinematografici indipendenti). Rai Cinema ha anche annunciato l’avvio della sua più ampia collaborazione con MediCinema Italia, per la quale ha in preparazione varie iniziative di raccolta fondi per completare il progetto di costruzione della sala cinematografica, uno spazio tecnologicamente all’avanguardia, che abbia 120 posti e spazi per i letti dei malati, le loro sedie a rotelle, per i familiari e il personale di assistenza. Il progetto costerà circa 300.000 euro, ci vuole l’impegno di tutti. L’idea è lodevole e pregevole, la si vorrebbe realizzare entro l’estate. Qualcuno l’ha già definita “Nuovo Cinema Gemelli”. Bello. Il video di Tornatore sarà programmato già in questi giorni nello spazio solidale offerto dal circuito Thespacecinema su tutti i suoi schermi, nelle sue 362 sale per circa 79 mila posti. La cordata di solidarietà continuerà con gli altri circuiti cinematografici che sostengono MediCinema e negli spazi dedicati al sociale delle principali reti televisive.
Per alcune ore di magia in corsia, allora, in un’emergenza col sorriso. Perché, come dice Tornatore, c’è un film di Frank Capra che dà il senso di questa nobile iniziativa, dove la luce della consolazione entra in un’anima ferita. Progetto da sostenere, bello potervi contribuire.