Il 17 gennaio ricorre la sua festa e nei sagrati di molte chiese è l’occasione per benedire gli animali domestici, di cui il santo è patrono. A Ferrara, fino a qualche anno fa, si faceva in quella di Sant’Antonio Abate di via Saraceno, oggi chiusa.
Secondo la sua biografia, Antonio, è vissuto nel III secolo dopo Cristo in Egitto. Nato da una famiglia benestante, dopo la morte dei genitori decise di vendere i suoi beni e di dedicarsi alla vita ascetica. Temprò la propria fede con una lunga permanenza nel deserto, dove riuscì pure a superare numerose prove alle quali lo sottoponeva il diavolo. Morì ultracentenario proprio il 17 gennaio del 356 e ben presto la sua popolarità si diffuse in tutto il mondo cristiano.
La sua consacrazione come protettore degli animali domestici nasce da una leggenda che narra la guarigione da parte del santo di un maialino malato, che lo seguirà fedelmente per tutta la vita.
Nel XI secolo le reliquie del santo arrivarono in Francia, dove fu fondato l’Ordine ospedaliero degli Antoniani, diventati famosi utilizzando il lardo di maiale per la cura dell’ergotismo, una intossicazione da alcaloidi della segala cornuta, fungo dei cereali, detta anche “fuoco di sant’Antonio” (anche se oggi con tale nome si intende l’Herpes zooster, malattia virale a carico delle terminazioni nervose). Per questo motivo all’ordine fu concessa la possibilità di allevare dei maiali per conto proprio. Queste bestie, riconoscibili perché munite di una campanella legata al collo, erano poi mantenute a spese della comunità. E’ così che, nell’iconografia popolare, oltre agli animali domestici, a sant’Antonio vengono associati, fra gli altri simboli, anche un fuoco e una campanella.
Il culto di sant’Antonio si è esteso in tutto il territorio nazionale, in particolare in ambito rurale.
Come ci ricordano Gian Paolo Borghi e Vanna Zoboli in ‘Segni di religiosità popolare a Bondeno e nell’Alto Ferrarese’ (catalogo della mostra documentaria del 2005), il 17 gennaio, oltre alla benedizione, agli animali era prestata una cura particolare: venivano abbondantemente rifocillati e sottoposti ad una non comune pulizia. Per non recare offesa al patrono, nel giorno di sant’Antonio gli animali della stalla non erano in alcun modo impiegati nei trasporti o nei lavori campestri, né venivano tanto meno macellati.
Molto nota è l’invocazione che gli era rivolta nelle nostre campagne.
Sant’Antòni dal busghìn (diminutivo di busgatt, maiale, ndr) s’an gh’è pan e s’an gh’è vin s’an gh’è légna in dal granàr Sant’Antòni cum’ égna da far?
Sant’Antonio del maialino (in alcune versioni del campanellino, ndr) / se non c’è pane e non c’è vino / se non c’è legna nel granaio / Sant’Antonio come dobbiamo fare?
A metà gennaio le riserve di cibo e di legna dell’anno precedente cominciavano a scarseggiare, per cui in una economia rurale basata quasi esclusivamente sulla sussistenza, questa fase dell’anno, in attesa dei primi raccolti primaverili, poteva essere vissuta con una certa ansia.
Il santo veniva pure invocato per ritrovare gli oggetti smarriti e, a Ferrara il 17 gennaio, ricorrenza nota anche come Vciòn, il vecchione, era il giorno in cui si facevano doni ai bambini, soprattutto ai maschi.
Maurizio Andreotti, agronomo ferrarese e studioso di agricoltura e tradizioni locali.
Sui giornali, e anche nella rete, nelle settimane scorse si è parlato con insistenza dei gettoni degli amministratori pubblici, da Roma fino alle più remote periferie dello stivale, a volte a ragione, altre un po’ meno, a volte, ancora, a torto. Se n’è parlato con insistenza, ma il dato preoccupante è che si rimane alla superficie del problema e così, dopo un po’, tutto va nel dimenticatoio e la pubblica opinione lasciata a periodiche e cicliche arrabbiature. E la questioni restano insolute.
In pochi continuano a sottolineare e a richiamare la ruggine del modello organizzativo della pubblica amministrazione, le molteplicità delle sovrastrutture nei livelli istituzionali e gli eccessi degli enti e delle società di gestione della cosa pubblica.
Infatti ci troviamo di fronte ad una mastodontica macchina pubblica quasi impossibile da gestire nei diecimila meandri in cui si sviluppa, e anche ad una periferia dei territori pieni di incongruenze, di farraginose relazioni, di spezzettamenti, di ruoli e funzioni allocati in siti impensabili e, quindi, siamo di fronte ad un marasma difficilmente dipanabile.
Anche l’informatica più avanzata, i software e gli hardware di nuova generazioni e le più avanzate strumentazioni del web non riescono quasi più ad affrontare un caos da big bang.
Non è più possibile avere più di ottomila municipi, più di ventimila municipalizzate e partecipate, decine di migliaia di consulenze, autonomie e statuti speciali disseminati ovunque, pezzi di pratiche e di procedure dormienti nei corridoi degli uffici pubblici e quegli intrecci che fanno impazzire il cittadino, ormai sfinito dal ‘pellegrinare’ da un ufficio all’altro per un certificato e un’autorizzazione.
Nel riportare questi fatti ci si ferma solo a quanti soldi prendono, se troppo o troppo poco, i tantissimi mandarini incuneatisi nelle burocrazie pubbliche, oltre alle ricollocazioni dei fine mandati di amministratori e dirigenti.
Certo non è un bel vedere, anche per le storture e i privilegi di alcune nicchie di cui si sente di questi tempi, ma quello che serve è altro. Serve alleggerire e snellire la macchina e l’organizzazione. Serve trovare la giusta dimensione per le governance, servono vere competenze, individuare gli obiettivi, un linguaggio comune, dare struttura ai costi, riallocare le risorse, avere le certezze e quanto serve per l’efficienza e per l’economicità, oltre all’efficacia.
Da non dimenticare l’auditing, e chi non ci sta può restare a casa. Parole sante, direbbero i più, ma quante volte le abbiamo sentite e dopo tutto come prima, o quasi? Ferrara, Cuneo e Verona comprese.
E’ vero che il dire spesso non sta nel fare, che resistere ormai è il tema dominante per non intaccare ataviche incrostazioni e fortezze cristallizzate, ma dobbiamo sapere tutti che se rimaniamo ancora così non ci resterà che allargare le braccia e rassegnarci al peggio.
La sfida sta nel cambiare, nel cambiare verso una strada possibile. Ma quanta fatica, anche nel nostro domestico.
Il Metodo Cosquillas, modello di apprendimento alternativo basato sul teatro, è diventato progetto europeo nel novembre 2013. Ora è al secondo anno di realizzazione e nel 2015 verrà sperimentato all’interno delle scuole e degli istituti ferraresi. Nella prima parte dell’intervista [vedi], abbiamo riportato il punto di vista degli ideatori, Massimiliano Piva e Alessia Veronese, e del direttore della Città del Ragazzo, Giuseppe Sarti, che del progetto europeo è titolare. Qui proponiamo un approfondimento ulteriore sul senso del progetto e sull’utilità pedagogica del metodo, guidati da Giovanni Fioravanti che lo sperimentò per la prima volta nel 2008, alla scuola media De Pisis.
Lei scelse di utilizzare il Metodo Cosquillas prima di ogni altro a Ferrara, cosa la spinse a cercare un nuovo modello di apprendimento da proporre ai suoi ragazzi? Occorre premettere che la scuola De Pisis di viale Krasnodar si trova in una zona molto particolare della città: zona di disagio sociale e di migranti da una parte ma, allo stesso tempo, zona molto attenta, ricca di iniziative contro il degrado gestite dalla parrocchia di Sant’Agostino e dalle associazioni lì residenti, Viale K di Don Bedin e il doposcuola l’Arcobaleno, che già allora testimoniavano un importante impegno civile e sociale rispetto ai problemi del territorio. Quando ho preso per la prima volta la dirigenza, nel 2007, mi sono ritrovato quindi in questo difficile contesto di degrado ma potendo contare su una spalla forte, un vero e proprio presidio del territorio. E, con molta pazienza, ho cercato di integrare la scuola nel territorio.
Qual era il problema più urgente da affrontare? Mi sono ritrovato con diversi ragazzini quindicenni, una dozzina, che frequentavano la terza media e che si trovavano in evidente disagio per tanti motivi: a disagio rispetto ai compagni più piccoli, per il duplice fallimento scolastico riportato, per le situazioni difficili che stavano vivendo, ma anche per la delusione nei confronti di una scuola che non aveva saputo rappresentare per loro l’occasione per crescere, per trovare risposte ai loro problemi. La scuola così come si presenta, con metodi d’apprendimento di tipo simbolico-rappresentativo, legati all’attenzione e all’ascolto della lezione frontale, non fa altro che portare questi ragazzini ad accumulare ritardi, fallimenti e sfiducia.
Come si è mosso quindi davanti a questa situazione? In buona sostanza, il nodo che abbiamo dovuto affrontare nel 2007 è stato questo: in una zona di frontiera con forti problemi di dispersione scolastica, di fronte a una scuola statale incapace di dare risposte, che cosa ci inventiamo per non perdere questi ragazzi, noi insegnanti e presidi che ci troviamo in prima linea? Allora ho convocato i consigli di classe e insieme a tutti gli insegnanti ci siamo messi a riflettere su come stabilire un dialogo, a quali proposte didattiche offrire in alternativa alle classiche cinque ore tutte le mattine, seduti al banco – che richiedono già di per sé una buona educazione disciplinare -, con professori che si alternano continuamente e che non si prendono carico del disagio, se non nella loro ora e nelle migliori delle ipotesi.
Come avete intercettato il Teatro Cosquillas, li avete cercati o si sono proposti loro?
Si sono proposti loro, al momento giusto. Quando Massimiliano Piva e Alessia Veronese ci hanno presentato il progetto, ci è sembrata subito l’occasione da cogliere, ossia di offrire una modalità di apprendimento diversa attraverso il teatro.
Perché il teatro può offrire un’alternativa didattica? Perché il teatro è completo, permette di esprimere la corporeità, la fantasia, i sentimenti, è libertà d’espressione, e permette di costruire un percorso assieme ad altre persone. Il percorso proposto dal Cosquillas nel 2008 è stato vincente per due motivi: perché abbiamo coinvolto tutti gli insegnanti nel progetto e perché il percorso si è svolto per gradi. Massimiliano e Alessia, infatti, all’inizio hanno raccolto i ragazzi, hanno cominciato a conoscerli e sono riusciti ad aprire un dialogo – cosa difficilissima perché avevano a che fare con ragazzi molto chiusi, alcuni tendenzialmente violenti. Dopodiché hanno proposto loro di vedere un film, “Central du Brasil”, che ha funzionato da collante, da centro di interesse per i ragazzi, come dovrebbe avvenire poi anche nella didattica. Piano piano, li hanno coinvolti nella realizzazione e nella partecipazione ad un progetto condiviso: dalla ricerca del materiale allo studio interdisciplinare, dall’elaborazione dei contenuti alla scrittura del copione. Si sono impegnati in ricerche geografiche affascinanti e stimolanti per la loro età, nella costruzione delle scenografie con l’aiuto dell’insegnante di Arte, nella scelta e nell’esecuzione delle musiche insieme alla prof. di Musica… e, infine, hanno avuto il coraggio di andare in scena di fronte agli ‘altri’.
Si ricorda il loro esame? Certo, indimenticabile. Il loro esame orale è stata la rappresentazione, un lavoro finale di altissima qualità che ha fatto un successo strepitoso. I compagni li hanno applauditi e si sono commossi; la messa in scena è stata talmente bella che ne è stata richiesta la replica per genitori e parenti. I ragazzini-attori erano contentissimi: avevano capito di aver fatto un lavoro di qualità che era stato apprezzato dagli ‘altri’ e di cui, quindi, potevano essere orgogliosi; avevano capito che il loro lavoro era prezioso.
Un’esperienza positiva dunque… Di più, per questi ragazzi il progetto del teatro ha rappresentato l’opportunità per arrivare all’esame di licenza media e superarlo; se avessero dovuto arrivarci come gli altri ragazzi, nelle loro condizioni di disagio, non ci sarebbero riusciti. L’esperienza fu talmente positiva che la ripetemmo l’anno successivo alla scuola media di Cona, che faceva parte della De Pisis, dove avevamo alcuni casi difficili e chiedemmo ad Alessia e Massimiliano di intervenire. Quella volta prepararono con i ragazzi una rappresentazione partendo dal tema del viaggio e dalla visione del film “I diari della motocicletta” ispirato ai diari di viaggio del giovane Ernesto Che Guevara, intitolati “Latinoamericana. Notas de viaje”. Il laboratorio ebbe lo stesso successo dell’esperienza condotta alla De Pisis e i ragazzi di Cona si esibirono anche davanti ai loro colleghi-alunni della scuola media Bonati.
Quale consiglio si sente di dare agli insegnanti e ai presidi che si trovano a che fare con situazioni difficili come quelle che ha incontrato lei? Quando si ha a che fare con ragazzini che soffrono, non si tratta solo di trovare una strategia per insegnare, si tratta invece di dare un’opportunità per esprimere sé stessi e, forse, scoprire anche qualcosa del proprio disagio. Ci sono tante altre strade per evitare la dispersione scolastica, per i quindicenni privi della licenza media: c’è l’educatore di corridoio, ci sono accordi tra il Ctp (Centro territoriale permamente) e la Città del Ragazzo per permettere al ragazzo di conseguire la licenzia media e allo stesso tempo di intraprendere una strada professionale… ma il teatro ha un qualcosa in più, è una forma potente di espressione che va ben oltre gli obiettivi dell’apprendimento tout-court.
Per saperne di più visita il sito del progetto Leonardo Theatre [vedi]
Alcune esperienze di percorsi didattici realizzati attraverso il metodo Cosquillas, nell’ambito del progetto europeo Leonardo Theatre, sono state documentate e sono visibili su Youtube:
primo video [vedi]
secondo video [vedi].
Le foto dei ragazzi documentano il laboratorio teatrale e lo spettacolo di fine anno, realizzato con Metodo Cosquillas alla Città del Ragazzo (a.s. 2013-2014); alcuni studenti dello IAL (Corso per estetisti) sono stati coinvolti nel progetto e hanno curato la fase del make-up dei giovani alunni-attori.
Dopo i fatti di Parigi, si prova una stanchezza insidiosa per tutto ciò che riguarda l’universo delle parole. Una sfiducia nel loro potere di fronte ai fatti che brutalmente le annullano o le convalidano, a seconda di ciò che credi o che pensi di credere. Neppure un rifugio sono più le parole.
Non tanto e non solo quelle che ripetono con sfumature e intenti diversi il “Je suis Charlie” ma quelle che non puoi pronunciare di fronte alle bambine imbottite di tritolo fatte saltare in aria o del ragazzino che uccide impassibile gli ostaggi e trionfalmente si allontana scavalcando i loro corpi. La misura dell’orrore di fronte al quale solo il silenzio sembrava l’unica risposta, nel momento della scoperta dell’inferno dei lager nazisti, sembra qui – se fosse possibile – superata nel momento in cui la sacralità della fanciullezza diventa pretesto infame per esprimere un credo e una convinzione: carne tenera, di vitellini uccisi, per rendere ancora più oscena l’avidità del potere, qualunque esso sia e dovunque esso si trovi.
Amos Oz, nel suo capolavoro “Giuda”, fa pronunciare una terribile verità al vecchio Gershom Wald: “anche se in fondo la diffidenza, la mania di persecuzione e financo l’odio per tutto il genere umano sono delitti molto meno gravi dell’amore per tutto il genere umano: l’amore per il genere umano ha un sapore antico di fiumi di sangue […] chi ama tutta l’umanità, i paladini della redenzione del mondo, che in ogni generazione ci sono piombati addosso per salvarci senza che ci fosse modo di salvarci […].” (p.33)
Ecco, quell’amore per il genere umano che in ogni fede acritica è solo rivolto a quello che si considera il proprio e, dunque, quello che si considera superiore agli altri, produce la sostanziale indifferenza per il singolo, per la persona a cui al massimo, nei casi recenti sopra esemplati, è permesso il martirio: un inconsapevole martirio. I fiumi di sangue che hanno arrossato il mondo appartengono al concetto dell’amore universale verso la nostra specie, sbandierato da chi considera o ha considerato i seguaci di altre religioni una sottospecie, il male, il nemico assoluto.
Saper coniugare la persona a una società, qualunque sia il proprio credo, è dunque la civiltà o perlomeno uno stadio evolutivo nel passaggio dalla preistoria alla storia.
Ma a questo punto bastano le parole? Quelle pronunciate da Voltaire o da Beccaria o da Spinoza? Non più purtroppo.
Le parole sembrano inquinate da una specie di mancanza di credibilità e ancora, se l’ottimismo della volontà mi/ci spinge a credere nelle possibilità del dialogo è ancora possibile dialogare? O prevale il pessimismo della ragione?
Il grande Leopardi c’insegnava che nella social catena è possibile trovare la ginestra nel deserto, Gramsci dal carcere predicava l’assoluta necessità del dialogo. Che fare?
Rinasce potente quel pensiero che Elsa Morante volle ad exergo de “La storia”: “il sonno della ragione genera mostri”.
Ma come potremo combattere i mostri? Con la guerra? Sarebbe un epilogo atroce. Benché ammorbato e contaminato dalla crudeltà, credo che la guerra sia ancora il più definitivo dei mali.
da MOSCA – Come da tradizione degli ultimi anni, si è appena tenuta a Roma, nelle sale dello sfavillante e lussuoso Hotel St. Regis, la terza edizione del Gran Ballo Russo, promosso dalla Compagnia nazionale di danza storica diretta da Nino Graziano Luca. E’ stata la letteratura russa dell’800 a fare da sfondo all’evento, quella di uno degli autori più celebri e amati di Russia, Alexander Pushkin. A lui e al suo capolavoro Eugenio Onegin, l’Italia rende omaggio in uno degli eventi più attesi a Roma, in occasione dell’Anno della letteratura in Russia.
Il ruolo di Alexander Pushkin è stato interpretato dal celebre ballerino di Ballando con le Stelle Samuel Peron, quello della moglie dello scrittore, Natalja Gončarova, dall’attrice Tania Bambaci, mentre nella parte di Eugenio Onegin ha recitato Vincenzo Bocciarelli, insieme alla giovanissima attrice russa Alena Gromova che ha interpretato Tatiana.
Lo scorso dicembre, avevo visto il balletto Onegin al Teatro Bolshoi di Mosca e devo ammettere che la trasposizione in danza di quest’opera di Pushkin è forse una delle più belle mai viste. Per chi non lo ricordi, Eugenio è un giovane dandy ozioso che si ritira in campagna e diventa amico di un poeta, Vladimir Lenskij, innamorato di Olga con la quale si è appena fidanzato. La sorella di Olga, Tatiana, s’innamora a prima vista dell’affascinante Onegin e gli scrive una lettera infiammata ma Onegin la respinge. Qualche tempo dopo, Lenskij invita l’amico al ballo in occasione dell’onomastico di Tatiana. Onegin prova a sedurre Olga che sta al gioco, con dispiacere di Lenskij che, sentendosi tradito, chiede riparazione con un duello a pistole, che si svolge il giorno dopo all’alba. Il destino vuole che Onegin uccida il suo amico trovandosi costretto a lasciare la città. Alcuni anni dopo Onegin incontra per caso un suo cugino principe e generale e lo invita a un ricevimento. Vi ritrova Tatiana, cambiata e matura, che ha sposato il principe. La sua bellezza e delicatezza provocano rimpianti a Onegin che si rende conto dell’errore commesso tempo prima rifiutandola. Le confessa il suo amore, ma è troppo tardi.
Su questo sfondo, i numerosi ospiti presenti alla serata romana (rappresentanti istituzionali italiani, diplomatici, giornalisti, intellettuali, artisti, esponenti della comunità russa, di aziende italiane e russe) hanno ascoltato la grande musica russa (Pyotr Ilyich Tchaikovsky, Nikolai Andreyevich Rimskij-Korsakov, Alexander Konstantinovich Glazunov, Alexander Porfiryevich Borodin) e danzato mazurka, valzer, contraddanza e quadriglia. Tutto rigorosamente in costume. Durante la manifestazione, infatti, è stato assegnato il premio del concorso dal titolo “Il più bel costume storico ottocentesco”, per abiti originali modellati secondo i dipinti dell’epoca e le illustrazioni delle fonti librarie. Spettacolo unico.
Sono stati letti alcuni brani dell’opera di Pushkin e, quest’anno, vi è stata anche una finalità benefica. Sono stati raccolti proventi a favore della onlus “Aiutateci a salvare i bambini” che sostiene i bambini di Donbass, grazie ad un’asta di due opere: lo schizzo “Angelo”, dal ritratto “La Madonna della Speranza”, realizzato e offerto da Natalia Tsarkova (pittrice ufficiale dei Papi e autrice del quadro emblema del Gran Ballo Russo), e la scultura “Venturo” della scultrice Paola Grizi. Avremo voluto esserci, avvolti dalla magia, dalla danza degna di Cenerentola e del suo Principe, dal profumo dei fiori, dalle parole e dalle note d’altri tempi. Sarà per l’anno prossimo?
L’evento ha il patrocinio dell’Ambasciata della Federazione Russa, del Foro di Dialogo Italo-Russo delle società civili, del Centro Russo della Scienza e della Cultura, della Fondazione “Centro per lo sviluppo dei rapporti Italia Russia”, del Comune di Roma e della “Chaîne des Rôtisseurs”.
Le fotografie, di Simonetta Sandri, sono state scattate alla rappresentazione dell'”Eugenio Onegin”, svoltasi al Teatro Bolshoi di Mosca, il 13 Dicembre 2014.
Da BERLINO – Qualche sera fa, al berlinese Institute for Cultural Inquiry, Sianne Ngai professoressa di inglese all’università di Stanford ha parlato dell’esperienza di trovare “stratagemmi letterari” (literary gimmicks) a partire dall’esperienza estetica di avere una “brutta esperienza:” ovvero, un’esperienza estetica fallimentare che non ha successo e quindi che è priva della possibilità di ottenere quel soddisfacimento finale che comunemente chiamiamo “catarsi.”
Gimmick è un termine tecnico inglese che indica una serie di cose: un indovinello, una trovata, un marchingegno, un trucco, un effetto speciale, un mossa speciale (nel wrestling) e infine un trucco magico.
Non si prenda la questione di avere una “trovata” che però è connotata negativamente come fallimentare o comunque poco consona all’oggetto estetico a cui si applica appunto solo come una “trovata” filosofica per dire qualcosa di nuovo sull’arte o letteratura. Dietro questa decisione filosofica di analizzare una “trovata” si nasconde la decisione di resistere alla tipica estetica filosofica di origine platonica di passare dal prodotto artistico alla figura dell’artista, quest’ultimo magari celebrato come l’alfiere di una particolare condizione mentale o spirituale.
Se invece si passa a parlare (o si torna a parlare) del prodotto ecco che emergono (o riemergono) nuove qualità estetiche che implicano anche una seria di particolari visioni del “lavoro artistico”.
Questo è particolarmente vero nel caso di una “trovata” in campo artistica che è caratterizzata da una serie di connotazioni negative: potenzialmente fallimentare, troppo elaborata, quindi laboriosa da decifrare, “architettata” (in ogni senso del termine), quindi fin troppo intenzionale, tradendo quasi l’impressione che l’artista ne sappia fin troppo del (futuro) spettatore della sua opera, dando quindi in fondo l’impressione di volerlo far cadere in un “tranello” (altro significato del termine gimmick). Un “trucchetto”, insomma. come se il termine gimmick fosse un’ingegnosa riscrittura del termine “magic,” magia. È infatti l’uso della magia che caratterizza degli artifici meta-narrativi particolarmente presenti nella letteratura contemporanea, persino quando non sarebbe necessario.
Se quindi passiamo alla letteratura ci sono alcuni casi dell’uso di simili “tranelli” nella scrittura, come ad esempio l’uso di una serie di “invenzioni” letterarie che sembrano superare il numero che ci si aspetterebbe in un tipo di letteratura “realista,” ad esempio. Come il caso della cosiddetta “montagna incantata” di Mann, recentemente rinominata opportunamente come la “montagna magica.”
È un tipo di magia che non vuole essere né sovrannaturale né è enigmatico bensì una sorta di artificio letterario per manipolare la forza emotiva evocata in letteratura e quindi inculcata sullo spettatore.
Esempi abbondano, secondo Ngai soprattutto quando la letteratura contemporanea usa ed abusa del termine “magia” per provocare una larga serie di effetti estetici: imbarazzo, sorpresa, illusione ecc ecc quindi in sostanza per proporre un determinato oggetto o personaggio o ambiente come qualcosa di misterioso, alieno o dotato di particolari qualità.
Violentate, picchiate, costrette a prostituirsi, strappate alla propria terra e oggi protagoniste di un nuovo inizio. Ex schiave del Terzo Millennio in cerca di lavoro, dignità e vita con un passato da marciapiede o da badanti per forza. Da riscattare. Anche attraverso la creatività: sono loro ad aver scattato le tante immagini di Patchworks. The face of freedom is female, la mostra che ancora non c’è, nata dai laboratori fotografici organizzati gratuitamente dalle fotografe Ippolita Franciosi e Letizia Rossi in diverse città italiane tra cui Ferrara. “Il progetto di lavorare con le donne vittime di violenza e tratta è partito alla fine dell’anno e ora stiamo cercando attraverso una campagna di crowdfunding e con l’aiuto delle istituzioni di realizzare una mostra per la festa della donna l’8 marzo”, racconta Ippolita Franciosi.
Tre giorni di fotografia in studio e all’aria aperta, in tutto sei, sette ore, per lasciare emergere visioni, emozioni, sensazioni . “All’inizio è stato difficile comunicare e fare entrare nel progetto le donne che vi hanno preso parte, c’era diffidenza, non capivano l’utilità di un corso del genere – continua – Tanto per fare degli esempi, sono abituate a frequentare laboratori pratici di cucito, cucina, la creatività è ben lontana dai loro pensieri”. Come dire: vietato sognare, guardare, toccare. Vietato sentire e pensare. “Molte di loro, a Ferrara soprattutto nigeriane, hanno fotografato il cancello d’accesso a un parco pubblico. E’ successo lo stesso a Torino, a Reggio Emilia, a Pisa e Pinerolo dove abbiamo tenuto il laboratori – spiega – E’ come se avessero sentito il dovere di restare in disparte, se avvertissero l’impossibilità di accedere a luoghi per loro proibiti. Sono immagini interessanti anche dal punto di vista sociologico e, suppongo, da quello psicologico”. Nel gioco di ombra e luce, del vedo e non vedo, impostato per scelta nella sezione ritratti, le fotografe dilettanti hanno catturato immagini bellissime. “A Ferrara abbiamo allestito lo studio nel Centro Donna e Giustizia, nell’occasione sono stati scattati ritratti nei quali non si vedono mai i volti, parlando di fotografia sembrerebbe una contraddizione, ma è stata una scelta a tutela della privacy, ciò non ha modificato il risultato del lavoro – spiega – Basta guardare le foto per capire quanto talento hanno alcune delle partecipanti la cui età media si aggira sui 25 anni”. Un’esperienza da moltiplicare, diffondere e soprattutto da mostrare. Ma non solo sui social network, dove su face book esiste già una pagina dedicata intitolata alla mostra, ma anche in luoghi concreti, gallerie reali dove incontrarsi, guardare e magari scambiare quattro chiacchiere tra persone con esperienze, culture e sensibilità diverse. “Abbiamo bisogno di sponsor e dell’aiuto di chi è interessato a questi delicati temi per stampare le foto – spiega – L’ambizione del nostro programma sta nell’idea di veicolare la mostra nelle città dove si sono tenuti i laboratori abbinandola alle giornate contro la violenza sulle donne e la loro tratta”. Sarebbe una soddisfazione per le ideatrici del progetto e per le partecipanti. E tutto sommato una piacevole rivelazione per il pubblico, molto spesso all’oscuro dei meccanismi del commercio di esseri umani. “Pochi sanno dell’esistenza di un traffico di badanti”, dice la Franciosi a sua volta ritratta dalle “allieve”. “Mi hanno fatto delle foto meravigliose costringendomi a posare come io ho fatto con loro, per farmi provare le loro stesse sensazioni nel momento in cui suggerivo delle pose – conclude – E’ stato un confronto dal quale ho tratto una grande forza e durante il quale non sono mancati attimi di scoraggiamento per la difficoltà di trovare una sintonia immediata”.
Resilienza ambientale, termine ancora poco usato ma molto utile, soprattutto in questi ultimi tempi. Potrei definirla come l’arte della natura di difendersi dagli attacchi che riceve dall’uomo. Una specie di capacità di adattamento. Per gli studiosi di ecosistemi è l’attitudine a ritrovare un nuovo equilibrio, insomma resistere attraverso la magica capacità di auto-adattarsi e modificarsi. Ma fino a quando? Ricordo solo che l’economia dell’ambiente è materia recente perché le risorse ambientali fino a poco tempo fa erano considerate disponibili in quantità illimitate e quindi senza valore, o meglio la natura era considerata la fonte dei valori d’uso (ricchezza reale). Ricordo anche che le normative ambientali ancora ora si basano sulla diluizione e sull’inquinamento controllato. Ci dimentichiamo del quarto principio della termodinamica: ogni processo di produzione e di consumo delle merci lascia la natura impoverita di alcuni suoi componenti, non rigenerabili e non rinnovabili.
La resilienza ambientale rappresenta dunque, per ora, un’ àncora di salvezza, in quanto unica via di uscita per cercare di sopravvivere e magari riprendersi. Con più ottimismo potrebbe essere un progetto di trasformazione di un nuovo modo di pensare.
Per gli ingegneri la resilienza è la capacità di un materiale di resistere agli urti senza spezzarsi, ma anche la proprietà che alcuni materiali hanno di conservare la propria struttura o di riacquistare la forma originaria dopo essere stati sottoposti a schiacciamento o deformazione.
Per gli urbanisti si discute della rigenerazione urbana come resilienza (e il terremoto è stata una importante lezione di vita). Oggi la cultura della ricostruzione si cerca di farla coincidere con la restituzione di spazi pubblici salvaguardando i centri storici. La messa in sicurezza orientata verso la messa a sistema.
Per gli economisti si potrebbe definire come la flessibilità alla recente crisi economica (che richiama la dimensione liquida dell’economia) e forse il tentativo di recuperare la recessione. In fondo, le imprese resilienti sono quelle che continuano ad evolversi e anche a crescere. Fortunatamente ci sono buoni esempi di aziende che hanno favorito grandi processi di cambiamento, modificando con la ricerca e l’innovazione i valori strategici di riferimento. La resilienza porta però con sé comunque un grande senso di incertezza. Non a caso la Bocconi ha di recente organizzato una indagine sulla resilienza e un corso di sopravvivenza per aziende sviluppato in quattro mosse (identificare il proprio livello di resilienza, sviluppare scenari di discontinuità, condurre un check-up di resilienza, modificare gli elementi critici).
Il paradigma culturale e sociale è pesantemente mutato nel modo in cui si deve affrontare il futuro. In psicologia, infatti, si usa il termine resilienza per indicare la capacità dell’uomo nel fronteggiare le difficoltà e le avversità, sviluppando le proprie risorse interiori e ripristinando il proprio equilibrio psico-fisico. Le persone con alta resilienza riescono a fronteggiare efficacemente le contrarietà. Fondamentale deve diventare, dunque, la resilienza collettiva, intesa come capacità di reagire alle difficoltà orientandosi al bene comune verso principi di solidarietà e collaborazione rivolta alla promozione della responsabilità sociale. Questo, in un certo senso, si collega ai concetti di benessere e di qualità della vita. Per questo si deve dare grande attenzione alla nascente normativa ISO 55000/1/2 e ai suoi standard internazionali. Nello specifico la norma ISO 55000 intende fornire una panoramica generale sulla gestione patrimoniale e stabilisce principi e terminologia (uniformi agli altri sistemi di gestione), la ISO 55001 definisce i requisiti di un sistema di gestione del patrimonio, la ISO 55002 fornisce una utile guida all’applicazione della ISO 55001 (fonte UNI).
La porta del suo studio e la scrivania in questi giorni si sono affollati di bigliettini e post-it. Tanti messaggi che esprimono l’affetto e il rimpianto per un insegnante che in tanti definiscono “straordinario” per capacità didattiche e doti umane. Per Inocencio Giraldo Silverio, deceduto a causa di un infarto mentre era in viaggio fra la sua Spagna e l’Inghilterra, i colleghi dell’università hanno organizzato una messa in suffragio programmata giovedì 22 alle 14.30 nella chiesa di San Girolamo in via Savonarola.
L’annuncio della scomparsa del docente era stato dato in ateneo da Mirta Tartarini, manager didattica del corso di laurea in Scienze e tecnologie della comunicazione. “Inocencio Giraldo Silverio per tutti noi era semplicemente ed unicamente INO – è scritto nel suo toccante messaggio – ha avuto un malore, a quanto pare un infarto, mentre era in volo tra Madrid e Londra, ed è deceduto. Bravissimo Docente, ma soprattutto un Uomo e Amico, vero, unico, speciale, che sapeva trascinarti con il suo entusiasmo e positività, solare, generoso, UMANO. Ieri ho perso un amico speciale che è entrato nella mia vita come un ciclone, ma con grande signorilità, è sempre stato presente, non mi ha mai fatto mancare il suo sostegno, mi ha donato incondizionatamente la sua stima, il suo rispetto, ma soprattutto il suo grande affetto e la sua amicizia, preziosa ed inestimabile. So che quanti hanno avuto l’onore di conoscerlo, di averlo avuto come maestro, non possono non averlo stimato ed essersi affezionati a lui, ma soprattutto non possono non aver imparato ad amare la sua adorata Spagna e la sua cultura”.
Il progetto europeo di apprendimento alternativo Leonardo Theatre è al secondo anno di realizzazione e nel 2015 verrà sperimentato all’interno delle scuole e degli istituti ferraresi, promuovendo il teatro come strumento formativo, utile in particolare a debellare l’abbandono scolastico in età adolescenziale. Si tratta di un modello innovativo a livello europeo di matrice tutta ferrarese: ideato una decina di anni fa dal Teatro Cosquillas e sperimentato per la prima volta alla scuola media De Pisis nel lontano 2008, viene approvato dalla Commissione europea, grazie alla collaborazione della Città del Ragazzo come partner titolare del progetto, nel novembre 2013. Ora il metodo Cosquillas viene insegnato ed esportato anche all’estero, ai partner del progetto che sono Irlanda del Nord (The Cedar Foundation), Turchia (Bogazici University), Germania (Evangelische Akademie Bad Boll) e Polonia (Grodzki Theatre Association).
Partecipare al progetto si presenta come una grande opportunità per tutte le scuole e gli istituti della città, in particolare per proporre un’alternativa didattica a quei ragazzini con storie difficili, di disagio e di fallimenti scolastici alla spalle. Per l’importanza e la delicatezza del tema, abbiamo voluto ripercorrere il lungo percorso che ha portato all’affermazione del modello a livello internazionale, intervistando gli ideatori, il regista Massimiliano Piva e la pedagogista Alessia Veronese del Teatro Cosquillas, e coloro che per primi hanno creduto e sperimentato il loro metodo: l’ex-preside della scuola media De Pisis Giovanni Fioravanti e il direttore dell’istituto professionale Città del Ragazzo Giuseppe Sarti.
Partiamo dal principio. Alessia e Massimiliano, come è nato il metodo Cosquillas e come si sono svolte le prime sperimentazioni in ambito scolastico?
Il Progetto di apprendimento alternativo attraverso il teatro è stato elaborato nel tempo e sperimentato per la prima volta nel 2008 alla scuola media De Pisis, grazie alla disponibilità del preside di allora, Giovanni Fioravanti e la collaborazione della professoressa Simonetta Sandra Maestri. Quell’anno abbiamo lavorato con un gruppo di una dozzina di ragazzini di terza media con disagio sociale: facevano fatica a stare in classe, a stare seduti, non avevano mai scritto nulla e avevano dietro di sé storie drammatiche.
Come funziona il vostro metodo di apprendimento alternativo?
Occorre trovare un filo che leghi l’attività teatrale alla programmazione scolastica. Quella volta siamo partiti facendogli vedere il film “Central du Brasil” sui ragazzini di strada, uno spunto per cominciare ad enucleare alcuni temi. Poi il metodo prevede sempre un momento in cui ci si concentra su attività teatrali mirate alla costituzione del gruppo e alla consapevolezza di sé, per poi tornare allo spunto iniziale e contestualizzare alcune tematiche come, in quel caso, la povertà, l’analfabetismo, i vantaggi dell’apprendimento, le droghe. Alla fine ogni ragazzo ha scelto un argomento da portare all’esame: il Brasile in Storia e in Geografia, le droghe in Scienze, brani attinenti per Musica, realizzazione delle scene per Arte, ecc. E poi, importantissima, la scrittura del copione, ma non da soli, con modalità condivise.
Ha funzionato?
Benissimo. I ragazzi sono arrivati molto preparati ed è emerso che, grazie al lavoro teatrale di gruppo, avevano appreso tutte le tematiche e non solo il singolo argomento scelto. Ascoltando i propri compagni, avevano imparato moltissime cose, senza far fatica. Ma la cosa più bella è che hanno aumentato molto la stima di sé: si sono esibiti davanti ai loro compagni di classe e di fronte alla commissione d’esame, sono stati applauditi e apprezzati e, dopo la rappresentazione, sono venuti da noi e ci hanno detto: “Hai visto, anche io sono come gli altri”, “Adesso hanno capito che anch’io so fare delle cose”. Addirittura gli è stato chiesto di replicare davanti ai genitori, momento molto commovente. Proporre a questi ragazzi una metodologia di apprendimento basato sul teatro funziona perché permette loro di imparare divertendosi, di muoversi incanalando le energie fisiche, di ‘sfamare’ il loro bisogno di sentirsi uguali agli altri e capaci. Solo se si intercetta quel bisogno e ci si lavora, si può poi puntare a raggiungere obiettivi più prettamente scolastici.
Quanto durano questi laboratori?
Dipende. Il primo anno è stata un’esperienza molto intensiva: il laboratorio si è tenuto da gennaio a giugno, quattro volte la settimana, per quattro ore, tutte le mattine. Una vera e propria alternativa all’apprendimento in classe. Il secondo e terzo anno, invece, abbiamo lavorato con un’intera classe terza: gli incontri erano di due ore, si svolgevano una volta la settimana, il lavoro è stato molto meno approfondito, siamo riusciti solo a toccare alcuni temi.
Com’è nata la collaborazione con la Città del Ragazzo e come si è sviluppato il progetto Leonardo Theatre? Qui alla Città del Ragazzo noi abbiamo sempre proposto laboratori pomeridiani per ragazzini che presentano qualche difficoltà o che hanno alle spalle diversi fallimenti scolastici, proponendo le nostre tecniche per un lavoro sul gruppo e sulla consapevolezza di sé. Ma l’idea era quella di attivare il nostro progetto sull’apprendimento alternativo. Grazie alla fiducia e all’apprezzamento del direttore dell’istituto, nell’ottobre del 2013 siamo riusciti finalmente ad ottenere i finanziamenti europei del progetto Leonardo da Vinci (ora Erasmus Plus), nell’ambito del Lifelong learning programme.
Approvato dalla Commissione europea, il metodo Cosquillas diventa un modello innovativo per l’apprendimento alternativo e viene esportato all’estero. Una grande soddisfazione…
Assolutamente sì, anche perché i nostri partner sono Paesi come la Turchia, la Germania, la Polonia, e l’Irlanda che fanno esperienze importanti di teatro a diversi livelli, ma nessun progetto aveva mai incluso l’aspetto dell’apprendimento scolastico, quindi noi siamo stati di fatto i primi.
Cosa comporta il progetto per voi del Teatro Cosquillas?
Comporta stare in contatto con i partner per trasmettere il nostro metodo e formare gli insegnanti dei diversi gradi delle scuole. Siamo andati in Turchia e in Germania, la prossima formazione sarà in Polonia in aprile.
Come viene recepito il metodo da parte degli insegnanti?
Facendo la formazione agli insegnanti ci siamo resi conto di quanto abbiano bisogno anche loro di condividere un momento, di relazionarsi come persone, spogliati del solito ruolo. Solo provandolo su di sé potranno poi a trasmetterlo anche ai ragazzini più difficili e demotivati. E questo Beppe sarti lo sa perché è stato coinvolto personalmente nel laboratorio per la formazione degli insegnanti…
Davvero direttore?
Sì, passavo per verificare come si stava svolgendo la formazione e mi hanno coinvolto: è stata un’esperienza forte, ho provato sulla mia pelle quanto sia difficile mettersi a nudo davanti ai colleghi e a stabilire una relazione autentica, a fidarsi dell’altro.
Al direttore della Città del Ragazzo Giuseppe Sarti chiediamo quali sono, secondo lui, gli elementi vincenti del metodo Cosquillas.
Abbiamo sempre investito in questo modello perché di volta in volta ne abbiamo constatato l’efficacia, sia per la disabilità che per gli aspetti legati all’apprendimento. Per spiegare quanto funziona, più che grandi discorsi io faccio sempre un esempio: avevamo un ragazzo, purtroppo non è più con noi, che in seguito ad un grave incidente stradale aveva compromesso l’area cerebrale della memoria e non si ricordava nulla di ciò che aveva appena detto e rifaceva le stesse domande reiteratamente; ma quando faceva teatro con Massimiliano e Alessia, non sbagliava una battuta. Questo mi fa dire con assoluta certezza che non si apprende solo con il cervello ma anche con il cuore, e che la motivazione, il desiderio, è una leva straordinaria per l’apprendimento. Stessa cosa per quei ragazzini che soffrono un forte disagio a seguito di una serie di sconfitte scolastiche e che sembrano destinati al fallimento: abbiamo riscontrato che lavorare con il teatro li porta a riscoprire sé stessi, a governare le proprie emozioni, a saper stare in mezzo agli altri e sviluppare un progetto di vita nuovo. Il teatro è uno strumento potente che aiuta a tirar fuori tutte quelle capacità e abilità che sembravano sopite. Far star bene i ragazzi e farli lavorare in gruppo è una precondizione affinché si crei un ambiente di apprendimento. Il beneficio è evidente soprattutto per i ragazzi che hanno fallito nel modello di scuola tradizionale; ma anche per i liceali e per chi ha capacità eccezionali a livello cognitivo, questa comunque è un’esperienza formativa fondamentale perché aiuta a conoscersi e a superare quei piccoli blocchi che bene o male ognuno di noi ha. Infine, tema purtroppo molto attuale, lavorare insieme e condividere esperienze ed emozioni, aiuta al riconoscimento ed al rispetto reciproco, indispensabili per la convivenza pacifica di persone di diversa etnia, credo religioso e cultura.
Qualche parola sulla realizzazione del progetto europeo…
Considerando il metodo Cosquillas una buona prassi, abbiamo ritenuto utile diffonderlo partecipando ad una linea di finanziamenti europei per la formazione professionale e il trasferimento di buone prassi. Abbiamo preventivamente lanciato la proposta ad eventuali partner a livello europeo ma, per evitare di cadere nella trappola del fare le cose sempre con gli stessi soggetti, a volte in modo un po’ forzato, ci siamo rivolti a realtà totalmente nuove che ci sembrava avessero il profilo adatto per la nostra proposta. Abbiamo avuto una buona adesione, più che sufficiente per poter partecipare al bando e siamo stati finanziati per un progetto biennale, con una quota complessiva di € 300.000. Il progetto è partito a novembre 2013, quindi ora abbiamo terminato la prima annualità e siamo in attesa dello sblocco della seconda parte dei finanziamenti.
Come vi siete trovati con i vostri partner?
Si tratta di target completamente diversi dal nostro e questo è la prova che il metodo è trasferibile geograficamente e anche adattabile ai contesti: lavoriamo con l’Università di Istanbul, con un’Accademia universitaria tedesca, una scuola polacca di formazione superiore, una fondazione irlandese che si occupa solo di disabili, anche molto gravi.
Quale lavoro è stato fatto il primo anno e quale in previsione per la seconda e ultima annualità?
Il nostro compito è diffondere la metodologia agli altri partner che dovranno poi implementarla nei loro percorsi specifici. Nel 2014 tutti i partner, noi compresi, abbiamo fatto la formazione ai formatori. Nel 2015 dovremo fare tutti un salto di qualità e sperimentare il metodo nelle scuole e negli istituti, in modo che questo metodo si integri nei programmi e diventi uno strumento didattico come gli altri, coinvolgendo i consigli di classe e in particolare gli insegnanti delle discipline più culturali, di ambito civico e sociale.
Come era partito con l’esperienza alla scuola De Pisis…
Esatto, come era partito in via sperimentale.
A proposito di De Pisis, abbiamo incontrato l’allora preside Giovanni Fioravanti, l’apripista della sperimentazione, per ascoltare anche il suo punto di vista da esperto dell’apprendimento, di istruzione e formazione.
Innanzitutto, ci tengo a congratularmi con gli ideatori e con la Città del Ragazzo per aver raggiunto un risultato così importante, ampliando la progettualità a livello europeo. Per quanto riguarda l’esperienza del 2008, occorre partire dal contesto territoriale in cui la scuola De Pisis si trovava.
[1. CONTINUA]
Per saperne di più visita il sito del progetto Leonardo Theatre [vedi]
Alcune esperienze di percorsi didattici realizzati attraverso il metodo Cosquillas, nell’ambito del progetto europeo Leonardo Theatre, sono state documentate e sono visibili su Youtube:
primo video [vedi]
secondo video [vedi].
Le foto dei ragazzi documentano il laboratorio teatrale e lo spettacolo di fine anno, realizzato con Metodo Cosquillas alla Città del Ragazzo (a.s. 2013-2014).
In occasione dei settant’anni dalla morte di F.T. Marinetti, è uscito in questi giorni per i tipi di Armando editore “Marinetti 70. Sintesi della critica futurista”, raccolta di saggi, articoli e interviste curata da Antonio Saccoccio e Roberto Guerra.
Il fondatore del Futurismo continua a essere una delle figure più discusse e controverse della cultura italiana. In questa pubblicazione alcuni tra i maggiori studiosi viventi dell’artista esplorano aspetti fondamentali della sua opera: il culto della modernità, le ricerche poetiche e parolibere, i rapporti con la politica (nazionalismo, socialismo, anarchismo, fascismo), l’influenza sulle avanguardie europee, l’attualità delle sue intuizioni nel XXI secolo.
All’interno del volume contributi critici di: Gino Agnese, Giovanni Antonucci, Francesca Barbi Marinetti, Günter Berghaus, Pierfranco Bruni, Riccardo Campa, Giancarlo Carpi, Patrizio Ceccagnoli, Simona Cigliana, Vitaldo Conte, Enrico Crispolti, Giorgio Di Genova, Massimo Duranti, Roberto Guerra, Giordano Bruno Guerri, Miroslava Hajek, Massimo Prampolini, Antonio Saccoccio, Luigi Tallarico, Paolo Valesio.
Il volume è inserito nella collana “Avanguardia 21”.
Per saperne di più visita la pagina di Avanguardia 21 [vedi] e della casa editrice Armando [vedi].
Antonio Saccoccio. Teorico e attivista nel campo delle avanguardie, si occupa da un decennio di Futurismo e culture digitali. Collabora con l’Università “Tor Vergata” di Roma.
Roberto Guerra. Poeta e attivista futurista, negli anni Ottanta ha collaborato con la rivista «Futurismo Oggi». Ha già pubblicato con Armando “Futurismo per la nuova umanità” (2012).
“Storia di un’idea” è il libro autobiografico dei Camaleonti, scritto da Paolo Denti che ha raccolto con passione i ricordi, gli aneddoti e i racconti di Tonino Cripezzi e Livio Macchia, i due fondatori del gruppo.
I Camaleonti sono forse il più longevo gruppo beat italiano: 30 milioni di dischi venduti, 17 album, 39 singoli, diverse compilation e antologie pubblicate anche negli Stati Uniti, Germania e Argentina. Agli inizi degli anni sessanta suonavano per ogni tipo di pubblico, con un repertorio che comprendeva polke, mazurke, tanghi, classici americani, shake, twist e rock per i giovanissimi. Ecco spiegata l’origine del nome di questo storico gruppo.
Negli anni Sessanta e Settanta le canzoni e i cantanti erano importanti nella vita delle persone, basta guardare i filmati dell’epoca che mostrano l’affetto dei fan durante il Cantagiro. Oggi la realtà è molto diversa, si vive la musica in solitudine, tra cuffiette e smartphone, compressa in file sempre più “essenziali”. Il “racconto” inizia tra i banchi di scuola, quando il padre regala a Tonino un violino e Livio inizia a studiare il pianoforte, sino a giungere ai primi anni Sessanta e alle collaborazioni con i gruppi beat e rock milanesi dell’epoca: Beatnicks, I Demoniaci, I Marines, I Trappers, Le Ombre. Nel percorso s’incrociano personaggi quali Ricky Gianco, Mario Perego, Adriano Celentano, Teo Teocoli, Gil Ventura, Miki Del Prete, Lucio Battisti, Mogol, Paolo de Ceglie, Gerry Manzoli, Riki Maiocchi, Mario Lavezzi, Gabriele Lorenzi, gli ultimi cinque faranno parte, in periodi diversi, dei Camaleonti.
Milano, 24 giugno 1965 Vigorelli, il concerto dei Beatles in Italia, punto di riferimento e genesi dei gruppi emergenti italiani compresi i Camaleonti che un anno dopo avrebbero partecipato al Cantagiro di Enzo Radaelli. Si trattò di un’esperienza importante, la prima occasione di confronto con gli altri e l’ingresso nella scena musicale italiana.
Nel capitolo “Il grande salto” si parla del primo grande successo: “L’ora dell’amore” cover di “Homburg” dei Procol Harum, incisa in gran fretta per anticipare l’eventuale versione dei Dik Dik, che l’anno precedente avevano sbancato con “Senza luce” (A whiter shade of pale). I Camaleonti, famosi per gli scherzi, quella volta ne fecero uno di quasi due milioni di copie vendute.
Ogni parte del libro è accompagnata da una documentazione fotografica di ottima qualità, che mostra il gruppo milanese insieme ai loro colleghi, circondati dai fan, sul palco durante i concerti e in pose pubblicitarie.
Non mancano curiosità, aneddoti e riferimenti storici, come quelli legati alla fortunata incisione di “Mamma mia” scritta da Battisti-Mogol, in cui suonarono anche Dave Summer (ex-Primitives e futuro Camaleonte), Franz di Ciocco e Franco Mussida (Premiata Forneria Marconi).
L’entrata negli anni Settanta passa attraverso “la perdita dell’innocenza dell’Italia”, con la strage della Banca dell’Agricoltura di Milano, ricordata da Livio che, in quel momento, si trovava nelle vicinanze di Piazza Fontana.
All’inizio degli anni Settanta, dopo la fortunata partecipazione al Festival di Sanremo con “Eternità”, in coppia con Ornella Vanoni, il gruppo conosce un calo di popolarità, causato anche dal fenomeno del rock progressive italiano (Area, Pfm, Orme, The Trip, Banco). Il periodo di annebbiamento durerà poco, grazie al successo di brani quali “Come sei bella”, “Perché ti amo”, “Il campo delle fragole”, “Amicizia e amore”.
In quegli anni, il periodo della sperimentazione coincide con l’album “Che aereo stupendo la speranza” al cui interno furono “convinti” a inserire “Cuore di Vetro”, un brano estraneo a quel progetto innovativo.
Nella parte finale del “racconto” le fotografie sono a colori, si entra negli anni Ottanta e i cambiamenti sono all’ordine del giorno. Nel gruppo escono Gerry Manzoli e Dave Summer (scelte di vita) ed entra il chitarrista Vincenzo Mancuso, con Livio che “passa” al basso. Qualche anno dopo la band rinnoverà il proprio sound con l’ingresso di Massimo Brunetti alle tastiere e Valerio Veronese alla chitarra.
Nel 1993 tornarono a Sanremo insieme a Maurizio Vandelli e i Dik Dik con il brano “Come passa il tempo”, la canzone fu eliminata, ma ottenne un buon successo di pubblico e di vendite.
Nel 1969, sull’onda del grande successo di “L’ora dell’amore”, i Camaleonti sbarcarono negli Usa, ospiti d’onore allo Statler Hilton Hotel di New York, per una serata di “Buon Natale all’italiana”. Il gruppo milanese ritornò in America nel 1978, in una lunga tournée con tappe a Boston, Filadelfia, New York, Toronto, nel 2009 (Canada) e 2010.
Nel 2004, in occasione del quarantennale di attività del gruppo, fu registrato un live poi pubblicato su Dvd, purtroppo non poterono festeggiare la ricorrenza Paolo de Ceglie (il batterista) e Riki Maiocchi, scomparsi a distanza di un mese l’uno dall’altro. Massimo Di Rocco, insegnante di percussioni, fu scelto come nuovo batterista.
Da allora sono passati altri 10 anni e l’attività del gruppo è un po’ “diminuita”, non prima di avere pubblicato un doppio Cd live, avere scritto questo libro e continuato a suonare con successo in giro per l’Italia.
Tonino e Livio ci guidano nel tempo, dal 1964 sino ai giorni nostri, senza mai perdere il contatto con la realtà, grazie all’appassionante racconto della loro vita on the road: “E’ la nostra storia normale, la nostra storia di sempre … la storia di un’idea”.
Il libro contiene un’interessante appendice con “pensieri e parole” di amici e colleghi, la discografia completa e un Cd con due brani inediti: “Storia di un’idea” (musica di Alberto Ferraris e testo di Eliana Vinciguerra) e “Due ali verso un’isola” (musica di Alberto Ferraris e testo di Paolo Denti). Se avete vissuto quell’epoca o se volete conoscerla non perdetevi questo libro, forse il futuro è proprio qui.
Il Natale è passato, le feste hanno calato il loro sipario discretamente e silenziosamente. Le luci si spengono, ma non ovunque, nella città. In un bellissimo giardino di via Cassoli, piccoli gnomi dispettosi ancora si aggirano fra pini e caprifogli rosso acceso.
Non vogliono smettere di saltellare qua e là, non si rassegnano ancora alla fine di quel periodo che li aveva visti grandi protagonisti, perché, allegri e spensierati, avevano distribuito regali, pacchetti e anche qualche piccolo, ma benevolo, dispetto. Avevano fatto anche qualche scherzetto a Babbo Natale, che era cascato ingenuamente nel tranello da loro preparato all’entrata del camino scoppiettante. La Befana, invece, non ci era cascata (forse perché donna?), proprio no, dopo l’esperienza dell’anno scorso…
L’elegante e austera ghirlanda sulla porta rimane lì con loro, allora, ancora un po’, ad accogliere passanti e sognatori, a dare il benvenuto a chiunque, fermandosi anche per un attimo, abbia voglia di immaginare cosa fanno quegli gnomi del giardino. Alcune candele intarsiate e multiformi costeggiano una fontana ghiacciata, un lampione fioco ma volitivo lascia ombre quasi magiche sull’uscio accogliente. Quegli gnomi sono piccole anime che vogliono trattenere ancora un po’ di gioia e serenità, per distribuirla a chiunque ne voglia e soprattutto a chi, passando, la sappia vedere e cogliere. Per questo stanno lì ancora, per questo aspettano a ritirarsi per preparare il prossimo Natale. Corrono, si rincorrono, scherzano, giocano, ridono, mangiano, fischiettano e canticchiano. C’è tempo per andarsene, perché non aspettare un po’.
Il padrone di casa è sicuramente un uomo generoso perché lascia fare quegli esseri fiabeschi e li rende liberi, perché tiene acceso il suo giardino, perché lascia che luci d’angelo illuminino, per qualche tempo, il cammino di chi abbia ancora bisogno di una scia.
Intanto che ogni religione esca dalle nostre scuole. Sia le religioni degli dei, sia le religioni secolari del capitale. È inutile piangere, è inutile spaventarsi, è inutile recriminare. Il fanatismo si combatte con la ragione. Ma se si inculca fin dalla più tenera età che ci sono ragioni superiori alla ragione umana, allora non stupiamoci se in nome di un dio qualunque si può uccidere e dichiarare guerra, sia quello un dio divino o un dio materiale come il denaro.
La religione è da sempre nemica della scuola, perché riconosce una sola scuola, la sua: il catechismo. Ogni religione è contro l’individuo, poiché l’individuo non ha senso se la religione non glielo attribuisce. E poi ci stupiamo?
La nostra scuola è aconfessionale ma non laica, insegnamento della religione e educazione laica non possono coesistere se non in contraddizione.
Se la vita non è conoscibile attraverso la scienza ciò che si studia a scuola a cosa serve se non al secolarismo di un mondo che non conosceremo mai, che non ci appartiene, perché il mondo è un altro, è quello dello spirito, della fede, della teologia, degli dei? È questa l’impossibile coabitazione tra scuola e religione, se non a costo di compromessi che tolgono o valore alla religione o valore alla scienza.
L’aveva scritto, inascoltato, nel 1996, circa vent’anni fa, il filosofo statunitense Samuel P. Huntington nel suo libro “Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale”, tradotto in 39 lingue. I futuri conflitti nel mondo non saranno né economici né ideologici ma culturali, mentre gli stati-nazione resteranno gli attori principali, lo scontro sarà tra civiltà. La civiltà attraversa gli stati-nazione e rappresenta i gruppi di persone che condividono gli stessi valori culturali.
Ma Huntington fu contestato di aver sottovalutato la forza della modernità e della secolarizzazione. Altri affermarono la capacità di far trionfare i valori dell’Occidente nell’arena del mondo. L’ambasciatore statunitense alle Nazioni Unite, Jean Kirkpatrick osservò che i valori dell’Occidente sarebbero stati innestati in tutte le culture altre: “Huntington non considera quale monumento potente siano la modernità, la scienza, la democrazia, la tecnologia dell’Occidente e il libero mercato. Egli sa che la grande questione per le civiltà non occidentali è poter essere moderne senza essere l’Occidente.”
Ma la risposta più inquietante sul trionfo dell’Occidente venne da Gerard Piel, ex presidente del Scientific American, una delle più antiche e prestigiose riviste di divulgazione scientifica, nel suo articolo dal titolo “L’Occidente è meglio” scrive:” Tutti i popoli del mondo aspirano al modello Occidentale […] Più essi procedono alla loro industrializzazione, più essi abbracceranno il progresso e le idee occidentali di individualismo, liberalismo, costituzionalismo, diritti umani, uguaglianza, libertà, leggi, democrazia e libero mercato. L’educazione di massa, che consegue alla industrializzazione occidentale, produrrà il contributo decisivo”.
Ecco una versione dell’istruzione non laica, altrettanto confessionale quanto una religione. La religione della propria cultura e della propria civiltà. Che impedisce di guardare in faccia con gli strumenti della ragione e dell’intelligenza a quanto ci sta accadendo intorno. Un altro fondamentalismo non differente da quanti uccidono in nome del loro dio.
Da tutto ciò dobbiamo difendere le nostre scuole e i nostri giovani, far sì che mai l’intelligenza e lo sforzo alla comprensione si arenino nelle fallaci illusioni dei miti della superiorità di una religione o di una cultura, mai che tutto ciò possa schiacciare il dubbio, il bisogno di sapere e di ricercare.
È questa la laicità di una scuola, coerente in tutta la sua organizzazione e nei suoi insegnamenti con il compito di crescere generazioni autonome nel pensiero da ogni condizionamento ideologico, morale o religioso, cacciando ogni virus in grado di minacciare la libertà, soprattutto delle menti più giovani, da ogni sorte di incubo irrazionale.
Terrificante è il solo pensare di affrontare la deriva del fanatismo religioso con il fanatismo dell’Occidente, di un Occidente che si proponga di dominare sulle culture e le civiltà del mondo, di un Occidente contro tutti.
Molte delle religioni del mondo, nessuna esclusa, contengono germi di fanatismo che possono portare allo scontro di civiltà paventato da Huntington. Tutti i fondamentalismi ritengono che la modernità e la secolarizzazione degli stati siano la causa della defezione dalle dottrine religiose. Uno dei loro obiettivi è ristabilire lo stato teocratico, governato dalle leggi della religione e della teologia.
Ma occorre anche liberarci dal fanatismo della religione del capitale umano, per cui lo scopo delle nostre esistenze dovrebbe risiedere nei mercati, nell’accumulare ricchezze e nella crescita economica.
Se riflettiamo bene non è molto differente da quello delle religioni che considerano la vita come mezzo per realizzare la volontà di un dio o degli dei. Solo che il nostro dio è molto materiale e risiede nei beni di consumo.
Se questi fossero i valori, il modello di educazione che l’Occidente intende globalizzare nel mondo, dovremmo veramente preparare noi e i nostri figli ad affrontare uno scontro di civiltà.
Ma la ragione nel mare dell’irrazionalità può ancora trionfare. Dipende da noi, dalle nostre scuole.
C’è solo una religione a cui dobbiamo educare i nostri giovani, pienamente laica, una religione nel significato etimologico della parola, di unire insieme, di legame che unisce gli uomini in una comunità civile.
La religione della giustizia sociale, la religione dell’uguaglianza di tutti di fronte alla ricchezza, allo star bene, alla libertà dal bisogno e dallo sfruttamento. L’idea che il mondo e i suoi beni non sono solo di qualcuno, ma appartengono allo stesso modo a tutti. Che non abbiamo bisogno di difendere questa cultura o quella religione, ma il valore inestimabile di ogni vita che si muove su questa Terra, che lo scopo della vita non è accumulare ma condividere, distribuire tra i miliardi che siamo, perché nessuna condizione sociale di uno solo tra noi possa essere diversa da quella degli altri, far parti diseguali per essere uguali, per dirla parafrasando don Milani.
Solo questa sarà la lotta che ci potrà vedere vincenti contro ogni fanatismo, contro ogni integralismo religioso o meno.
Intanto perché non incominciamo a lasciar fuori dalle scuole dei nostri figli qualunque religione, quella degli dei e quella del capitale, insegniamogli ad essere laici, ad avere il pensiero libero da ogni ombra irrazionale.
Un pubblico attento e partecipe, composto da un centinaio di persone, ha assistito sabato all’intervista in pubblico di Massimo Faggioli (docente di Storia del cristianesimo all’Università di St. Thomas di Minneapolis) realizzata dal direttore di Ferraraitalia Sergio Gessi. L’incontro si è svolto al museo Ugo Marano e ha visto la presenza, fra gli altri, del sindaco Tiziano Tagliani e dell’assessore alle Politiche familiari Chiara Sapigni.
Pubblichiamo qui l’audio integrale dell’incontro: (per ascoltare, clic sul titolo o play sul triangolo della barra di riproduzione)
Oltre vent’anni fa l’architetto Mario Botta aveva immaginato di aprire il retro del porticato di piazza Municipale per consentire il passaggio pedonale diretto a una riqualificata piazza Cortevecchia. Qualche anno fa la proposta è stata rispolverata dal sindaco Sateriale, ma non se n’è fatto nulla.
Qualcosa però andrebbe realizzato per rendere più gradevole la piazzetta. Magari non sarà proprio quella di Botta la soluzione de adottare, ma il ragionamento va sviluppato.
In questo caso i termini della questione sono sostanzialmente diversi rispetto a quelli da noi considerati in precedenza per altri ambiti del centro come piazza Savonarola, via della Volte o il Giardino delle duchesse.
Piazza Cortevecchia è oggettivamente bruttina e non c’è un patrimonio storico-monumentale da salvaguardare. Però è uno spazio a ridosso dei principali monumenti cittadini e deve essere rivivificato. Il parcheggio è utile, su questo si può essere d’accordo. Se non c’è modo o volontà (come da anni ipotizzato) di trasferirlo, per esempio, nell’area del mercato coperto (altro contenitore da ripensare), ecco che per piazza Cortevecchia si può ipotizzare un utilizzo promiscuo che riservi alle auto uno spazio di sosta parziale o sotterraneo o limitato ai giorni feriali. Quantomeno nei week end e in occasioni particolari la piazza potrebbe magari essere adibita a spazio mercatale: per uno stabile mercatino delle erbe e della frutta che a Ferrara mancava (e si è in parte recuperato in piazza Municipale di cui Cortevecchia nel caso risulterebbe un’estensione) o per altre attività commerciali. Oppure la piazza potrebbe diventare luogo di incontro e di conferenze al’aperto durante i tanti eventi che interessano la città… Prospettive di questo tipo e le tante alternative che si possono immaginare, impongono ovviamente un maquillage preventivo in termini di arredo urbano della zona: luci, piante, installazioni, pavimentazioni…
Il senso dell’operazione sta nel ricucire una cesura. Via Cortevecchia e via Garibaldi sono due fra le principali arterie pedonali di accesso al centro storico. Andrebbe chiuso il cerchio, motivando ferraresi e turisti a completare il giro, percorrendo cioè anche il secondo tratto – ora snobbato – di via Cortevecchia fino a via Santo Stefano per poi immettersi in Garibaldi.
L’idea della ‘vasca’ andrebbe prima di tutto a vantaggio dei commercianti della zona e consentirebbe al contempo un piccolo ampliamento del centro.
Operazioni analoghe, sviluppate in scala, risulterebbero significative. La vasca per eccellenza attualmente è una: corso Martiri, Listone, Bersaglieri per poi richiudere il giro in corso Giovecca perché proprio si deve (ma quel tratto del corso pedonalizzato sarebbe mille volte più attraente!).
Ma non basta: è necessario diversificare e moltiplicare i percorsi, rendendoli appetibili. Tanto per esemplificare, via Mazzini è affollatissima, ma arrivati in Terranuova si torna indietro: bisognerebbe invece indurre il passaggio verso via Scienze e via Carlo Mayr con rientro in San Romano. E sull’altro versante favorire il ritorno dalla gradevole via Contrari o da via Romei in contiguità con Voltapaletto. Analoga logica vale per Porta Reno, via Volte, via Santo Stefano…
L’idea di centro, in sostanza, va dilatata coinvolgendo nella pianificazione e nell’indispensabile adeguamento degli arredi urbani le tante suggestive vie che fanno da cornice al nucleo monumentale. Gioverebbe, questo, per ridefinire l’ormai stantia configurazione dello spazio centrale e fornire nuove suggestioni di fruizione e di visita. A vantaggio della città e dei vari suoi operatori economici: negozianti, esercenti, ristoratori, artigiani…
Nell’immagine in primo piano, un’ipotesi di riassetto di piazza Cortevecchia nel ‘rendering’ dello studio di architettura Antonio Ravalli
Quella porta misteriosa si era, infine, aperta e ci eravamo ritrovati in un antico androne dal sapore di lontano e curioso mistero.
Le scale alte e ripide ci avevano introdotto in un ambiente degno di una scena dove solo Lucrezia Borgia poteva venirci incontro.
Una ragazza di altrettanta grazia e bellezza ci accoglieva, avvolta da una mantella leggera bianca di soffice lana ricamata. I lunghi capelli ricci le avvolgevano le esili spalle, un fiore fra le mani, proprio come la giovane figlia di papa Alessandro VI. Sorriso sereno.
L’androne era avvolto da un profumo particolare, una via di mezzo fra un delicato incenso orientale e un bouquet primaverile fiorito.
La giovane, che ci aveva visto fotografare il suo portone d’ingresso, ci aveva aperto incuriosita e aggraziata, pronta a svelarci cosa ci celava dietro di esso. Le spiegavamo la nostra curiosità, lei era ben felice di soddisfarla. Libri antichi riscaldavano le pareti di antica pietra, vasi di fiori e di piante accarezzavano e avvolgevano i lunghi corridoi. Alle pareti, quadri di antenati e di paesaggi lontani. Alcuni rappresentavano scene nordafricane, altri scene indiane. Nonni e bisnonni erano stati grandi viaggiatori, oltre che scrittori e poeti. Tutto sapeva di passato, di un passato magnificente. L’atmosfera era d’incanto, ci tenevamo a farvi penetrare con noi in quelle sale d’altri tempi ma così vive.
Non mancavano candelabri e candele, lampade e lampadari degni della sala da ballo di Cenerentola. E, in effetti, nell’immenso e caldo salone ci accoglieva il principe, un ragazzo elegante e raffinato, innamorato della giovane padrona di casa. Entrambi l’incarnazione della felicità, della serenità e dell’amore puro. Del bello.
Dietro quella porta c’era un altro mondo, allora, molto diverso da quello fuori, quasi un tempo fermatosi per stare solamente con se stessi. Un’isola felice. Le scale ci conducevano a una sala da pranzo finemente apparecchiata, fino a una camera da letto che si svelava unicamente ai tetti. Da lì una tenda ricamata ci apriva la mente al cielo. Potevamo sognare e immaginare quello che volevamo, da quel luogo da favola. Quello che c’era, in realtà, dietro quella porta, era una finestra sul mondo. Una finestra che si apriva solo alle sue bellezze e che si chiudeva quando il buio tentava di entrare e portare pensieri cattivi. Una finestra sempre aperta per la bellezza e la serenità e che faceva filtrare solo la luce a chi voleva vederla e trattenerla. Una finestra che accoglieva unicamente le stelle. Una finestra che lasciava fuori i malvagi, che era aperta per tutti coloro che volevano respirare e volare. Una finestra magica.
Sui saldi faremo bilanci più avanti. Dagli Usa, dove la prova dei saldi è anticipata al Black Friday, il giorno seguente al Ringraziamento, arrivano notizie simili, anzi sembra che i centri commerciali siano in crisi. Come sempre, guardare fuori casa ci fa capire che quello che accade a Ferrara, in via San Romano, in via Bersaglieri del Po, al Castello, non è un fenomeno locale. I primi dati nazionali segnalano performance diversificate: migliori nei centri urbani rispetto alle periferie e migliori nelle città turistiche. Si conferma il rapporto tra consumo e consumo del tempo, anzi per lo più solo di questo ci accontentiamo quando le risorse scarseggiano. Si conferma la straordinaria fonte di ricchezza che può derivare per il nostro Paese dal turismo.
Le gallerie dei centri commerciali restano affollate: le persone le attraversano con i carrelli della spesa e danno occhiate annoiate ai negozi. Le giovani coppie investono nell’acquisto di gettoni per le giostre dei bambini. Ma altro che cattedrali del Consumo, come Ritzer aveva definito, agli esordi gli Shopping Mall, luoghi in cui l’incanto delle merci ci lasciava in religiosa ammirazione, come di fronte ad uno spettacolo di grandezza sovraumana. Le merci, e soprattutto i centri commerciali non sono più una novità, il format standardizzato che da Rovigo a Ferrara, a Parma, sembrava la geniale scoperta di economie di scala a partire dalla progettazione, propone merci seriali, tutte uguali, dello stesso colore e dello stesso informe tessuto, una patetica parodia della moda.
La questione del consumo non può essere ricondotta alla dimensione economica. La crisi ha inciso non solo sulle tasche, ma inducendo un cambiamento di valori. Il lusso ha perso smalto, anche per coloro che possono permetterselo, e si è affermata una certa sobrietà. In tempi di preoccupazione e di incertezza. il lusso diventa sinonimo di futilità.
Ma non tutti i consumi sono compressi: aumentano i “beni relazionali”, in primo luogo le tecnologie della comunicazione, e tutte le spese che hanno a che fare con la convivialità. La convivialità sostiene il successo di una nuova tipologia di negozi: quelli che propongono articoli per l’arredo della tavola e per il cucinare. Questo Natale ha visto l’esplosione di pirottine, stampi per impiattare, formine per i finger food, posate e stoviglie per le più svariate destinazioni, segna posto e altri ammenicoli. Si sa che i periodi di difficoltà economica sono segnati dalla ricerca di piccole gratificazioni: è il ‘lipstick effect’ segnalato dagli economisti fin dalla crisi americana del 1929.
Così oggi cerchiamo di rendere confortevole il luogo in cui ci rifugiamo, più o meno smarriti. La casa è il bene rifugio, non certo in termini di investimento economico, ma come luogo caldo, dove condividere cene con amici, dove esibire le proprie prodezze in cucina. E chi non ne ha da vendere, con tutte le trasmissioni di cucina!
Bisognerà capire che i consumi riflettono i baricentri della vita e che, quindi, hanno a che fare con le persone prima che con il mercato. D’altra parte i sentimenti dei consumatori dovrebbero interessare le istituzioni pubbliche e le associazioni di categoria (ma qualche corso per dire che la merce deve avere un’anima, proprio no?). Tutta la distribuzione è in una crisi profonda, di cui vi è ancora un troppo vago sentore, se pensiamo che basti un po’ più di liquidità! Gli sconti ci sono tutto l’anno, negli outlet e non solo, il commercio online si diffonde con straordinaria rapidità e perché non dovrebbe essere così se cresce la capacità di accesso delle persone e l’uso dei mobile; e cresce l’efficienza delle catene online che consegnano prodotti personalizzati in pochissimi giorni. Affidare le speranze alla ripresina, è davvero miope.
Maura Franchi – Laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi e Social Media Marketing. Studia i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand. maura.franchi@gmail.com
Non si sa se sia più misterioso il futuro che le attende o il passato da cui provengono. Le storie del primo romanzo della trilogia “Muchachas” di Katherine Pancol (Bompiani, 2014) sono vite di donne in fuga o tremendamente paralizzate dalla paura.
Hortense, Joséphine, Zoé, Léonie e Stella amano, stanno in bilico tra rinuncia e azzardo, ma riescono anche a compiere l’inaspettato. Stella e Léonie, soprattutto. Le loro vite ne hanno dietro e dentro altre, legami di sangue riscoperti o spezzati solo grazie al tempo. Stella e Léonie sono madre e figlia, unite nella violenza subita da un uomo bruto, Ray, che ha fatto della mortificazione agli altri il gusto della propria esistenza. Lui crede di averle distrutte dentro per possederle per sempre, ma entrambe riescono a fuggire, con l’anima anche se non il corpo.
Stella è giovane e bella, non capisce perché tutta quella violenza domestica, non capisce cosa possa impedire questa assuefazione al male. Qualcuno, un giorno, le dirà che sta solo in lei decidere se essere felice e che, se ci riuscirà, sarà la più forte.
Stella fa domande fino a risalire alla verità su Ray, nulla potrà mai più legarla a lui, la verità sarà la sua forza, finalmente sente parole che chiariscono e non che offuscano. Stella può ricominciare e scrollarsi di dosso tutto quel dolore, il maleficio è finito e può darsi nuovi obiettivi, “abbiamo tutti, a un certo punto della vita, il privilegio di afferrare un inizio di felicità. Vogliamo tutti prenderlo delicatamente e farlo durare il più a lungo possibile. È questo il difficile, farlo durare”.
Léonie ha un segreto che l’ha resa libera pur nella schiavitù di Ray, ha passato tutta la vita cullando ciò che nessuno sapeva e che lei aveva vissuto: una manciata di giorni d’amore, di emozioni e di rispetto, a questo ricordo si aggrapperà ogni istante, anche quando sarebbe stato meglio morire sotto le percosse e le umiliazioni di Ray. Fu per Léonie una parentesi brevissima, l’unico momento di vita vera, l’unica intimità che Ray non avrebbe mai potuto violare, Ray non l’avrebbe mai saputo. Non ce ne sarebbero stati altri di giorni così, ma quel ricordo le valse per sempre. La verità rivelata, dopo tanti anni, a Stella diventerà liberatoria anche per Léonie, verrà finalmente spezzato tutto il male subito.
LA CASSIERA DELLA CONAD
Delle vicende di questi giorni ho inteso che, al tempo dei social network, occorrerebbe imparare l’arte del tacere. Non si può esprimere un’opinione su tutto. La cassiera della conad, invece, mentre lavora, sostiene che gli arabi “non si sa cosa abbiano nella testa”. Da del “tu” alla zingara, e non lo fa per confidenza. Lei ha fretta di andare, la zingara. Vorrebbe superare una cliente indecisa perché rischia di perdere il treno, e la cassiera è lì, a dirle che no, che una zingara non ha impegni, ha tutto il tempo che vuole, perché non lavora. Non ho la forza di difenderla. La collera sale in ritardo in mezzo a queste piccole rivincite di provincia.
PINO DANIELE
Pino Daniele è stato un vero artista. Negli ultimi vent’anni, abbandonando la sperimentazione, ha prodotto buoni dischi pop. Con la sua dipartita abbiamo perso l’interprete, l’icona. Quello ancora dava i brividi, non mi pare poco. Ma abbiamo tutta la sua produzione musicale, il meglio che potesse produrre. La prematura scomparsa di Troisi, a cui pure è stato associato, fece molto più male. Massimo, a circa quarant’anni, aveva tanto ancora da fare e dire. La sua è stata una carriera spezzata, fortunatamente quella di Pino no. Il clamore della morte di Daniele ha a che fare con un pezzo della nostra vita. La musica di Pino ci ha accompagnati. Nel funerale celebriamo e seppelliamo parte della nostra vita. Qualcosa ci dice che il tempo, inesorabile, passa.
L’ISLAM
Di sicuro questo periodo storico ciarliero, in cui anche la comunicazione non è altro che un modo come un altro per apparire, e spesso apparire meglio di ciò che siamo, ha come smarrito l’abitudine alla filosofia intesa come ricerca delle cause prime. Quindi il terrorismo non viene contestualizzato e bene ha fatto Massimo Fini a ricordare come mai e perché esista. Bene ha fatto Emanuele Severino sulle pagine del Corriere a ricordare come il modello capitalista, dominato dalla tecnica, abbia stroncato il sacro nell’Occidente cristiano, e altrettanto farebbe con l’islam, qualora questa parte di mondo raggiungesse l’evoluzione del nostro mondo. Questo rimastico nella mente da giorni, mentre mi dico “non aprire Facebook, non farlo”. Non staranno zitti nemmeno per la morte di Pino. Non si fermeranno di fronte all’idiozia spietata. Marceranno sull’odio, sulla paura, sul terrorismo, sulla religione. E’ la pioggia della comunicazione, così ha scritto il mio amico Domenico Carrara nel suo ultimo libro. Apro, e Salvini denigra Pino Daniele. Sì! Denigra un morto, che non potrà rispondergli.
LO SAPEVO
Piove, guarda, come piove, piovono ricordi e pareri, illazioni e distinguo. Si cerca il bandolo, il rivolo, l’equilibrio sul cordolo dell’originalità. Tutto scorre. L’importante è il commercio della parola, la raccolta dei dati, dei gusti. Si comunica più di ciò che si vive. Svuotando di significato l’una e l’altra.
Ecco! Ci sono cascato pure io. Avrei fatto meglio a tacere. Ho detto la mia su Pino Daniele, Islam, social network, la cassiera conad, ai tempi della collera.
Chiedo venia.
dal blog di Sandro Abruzzese “Racconti viandanti” [vedi]
Considera l’aragosta, scriveva David Foster Wallace. Considera il suo punto di vista. Considera come si sente quando viene additata da un americano medio alla sagra dell’aragosta del Maine, e scopre che quel dito è la miccia che innesca sua morte. Che avverrà con patimento e lentezza, tra il cambio di colore causato dal calore estremo, e la codardia di un cuoco che esce dalla cucina isolando le sue urla con un coperchio.
Considera che può avercela non solo con il genere umano, ma con categorie ben precise: con il cuoco, con l’americano del Maine, con Obama, con i clienti del ristorante che serve menù a base di pesce e crostacei. Puoi capirla, quella specie di ragno marino. Puoi provare compassione, puoi diventare vegetariano o animalista convinto, puoi unirti a Greenpeace.
Considera persone di dubbio, se non imbarazzante, se non moralmente sbagliato, credo personale. Considera che possano pensarla in modo differente da te e che possano avere prodotto qualcosa di intelligente, provocatorio, profetico. Qualcosa di bello e di giusto, nonostante la tragedia che questo termine, insieme al suo fratello giuda, si porta dietro – “Ben oltre le idee di giusto e di sbagliato c’è un campo: ti aspetterò laggiù”, scrive Jalaluddin Rumi, nel tredicesimo secolo.
Considera che Walter Disney è stato membro della massoneria, che Martin Heidegger fu antisemita, che Salvador Dalì è stato simpatizzante franchista, che Luis Férdinand Céline ne ha pensate un po’ di tutti i colori. E nega – se puoi – che Disney è stato genialmente visionario nel mettere in piedi una industria del sogno tirando un paese fuori dalla guerra; che Heidegger ha ispirato la filosofia del Novecento; che Dalì è stato un gigante dell’arte, simbolo di unicità; che Céline ha scritto assoluti capolavori letterari.
Considera che hanno prodotto, materialmente e intellettualmente, cose fuori dall’ordinario, che facevano il loro mestiere degnamente, che facevano cultura. Che resterà.
Considera persone armate che uccidono giornalisti, fumettisti, satiristi, durante una riunione di redazione. Persone che ignorano le più elementari basi dell’essere libero di esprimersi. Dove esprimersi significa parlare, scrivere, disegnare. Indurre le persone a pensare. Dare strumenti. Prendere il mondo tra le mani e saperne ridere. Non il riso della scuola elementare, ma quello della satura ianx. Non il riso di scherno, ma la sorpresa del bambino che ti mostra il re nudo, finalmente.
Anche quella è un’arma, come si può pensare il contrario? Ma è l’arma del poeta e della ragione, della fantasia e del coraggio. E una guerra, o una battaglia, o una discordia, dacchè mondo è mondo si combatte ad armi pari. Fucili contro matite, urla contro risa, questo non è giocare ad armi pari.
Considera che, nonostante i roghi nazisti dei libri, il libro esiste ancora. Di carta, digitale. In tutte le lingue del mondo.
Considera che i pompieri di Fahrenheit 451, alla fine, non l’hanno avuta vinta. Che qualcuno gli è sfuggito, e gli sfuggirà sempre.
…E di affidarli al boia fu un piacere del tutto mio,
non conoscendo affatto la statura di Dio.
(Un giudice, F. De André)
STANDING OVATION: I PIU’ ACCLAMATI SPETTACOLI TEATRALI DEL XXI SECOLO
“La coscienza di Zeno” di Italo Svevo, regia di Tullio Kezich, Teatro Comunale di Ferrara, dal 22 al 26 gennaio 2003
Giro di boa per la stagione di prosa 2002/03, stasera al Teatro Comunale, con un capolavoro: “La coscienza di Zeno”, di Tullio Kezich dal celeberrimo romanzo di Svevo. Ettore Schmitz, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Italo Svevo (1861-1928), è ricordato soprattutto per i suoi tre romanzi: “Una vita” (1892), “Senilità” (1898) e appunto “La coscienza di Zeno” (1923). La sua opera è forse, con il teatro di Pirandello, l’espressione più incisiva della crisi del realismo ottocentesco in Italia, disgregatosi nell’introspezione psicologica dell’individuo. E “La coscienza di Zeno” è l’amara, umoristica e paradossale storia di una “malattia”, una sorta di confessione psicanalitica a scopo terapeutico raccontata, nel romanzo, con l’afflato joyciano del cosiddetto “monologo interiore”. Dove l’antieroico protagonista, Zeno Cosini, alla fine conclude che la realtà della vita non è che un gioco assurdo, una brutta commedia in cui ciascuno è chiamato a recitare una parte.
La versione teatralizzata che andrà in scena questa sera risale al 1965 ed è di Tullio Kezich: autore certamente non nuovo a riduzioni drammaturgiche di tal genere, in specie per ciò che riguarda Svevo, ma senza dimenticare anche altri suoi adattamenti, uno fra tutti: “Il fu Mattia Pascal”, di Pirandello. Dopo la prima messa in scena, giudicata subito un evento, con la regia di Luigi Squarzina e l’interpretazione del compianto Alberto Lionello, “La coscienza di Zeno” si è guadagnato nel tempo l’attribuzione di “classico”: impegnativo banco di prova per i grandi attori. Il più recente passaggio al Comunale di quest’opera risale alla stagione di prosa 1987/88, con un allestimento a cura della Compagnia Giulio Bosetti. Lo spettacolo vede Massimo Dapporto nel ruolo del protagonista e porta la regia di Piero Maccarinelli.
Se è vero che il più celebre dei tre romanzi di Italo Svevo, “La coscienza di Zeno”, compie giusto ottant’anni, è altrettanto vero che l’omonimo adattamento teatrale di Tullio Kezich ne ha ormai quasi quaranta. In entrambi i casi, portati piuttosto bene. Sarà perché l’opera, con una buona dose di preveggenza, ha messo in ridicolo il più colossale bluff del secolo scorso: la psicanalisi, oppure perché il tema dell’“inetto” è oggigiorno più che mai attuale, o ancora perché la “consapevole inettitudine” di primo Novecento appare quasi “eroica” alle nostra inconsapevole e mediocre epoca. Fatto sta che “La coscienza di Zeno” sembra davvero inossidabile al tempo.
Pronto, Ada, come stai? Come hai passato le feste? Noi bene, benissimo, anche perché sono cominciate con la Presentazione. Ma come, cos’è la presentazione? La presentazione è quando quel sant’uomo di mio marito pubblica un nuovo libro e qualcuno organizza di presentarlo, cosa vuoi, in tanti anni di matrimonio felice me ne sono fatta forse un centinaio di presentazioni e talvolta le confondo (quella del saggio sulla strage di Bologna con quella delle liriche alla luna, per esempio) e il sant’uomo si arrabbia: “Curati, mia adorata, curati, ti stai rincoglionendo!”. Ma la presentazione dell’altra sera non potrò mai confonderla. Intanto era in teatro, dove siamo stati convocati per le ore 20; puntualissimi, veniamo dirottati verso il réservés, che è già una bella soddisfazione, però mi guardo intorno: poca gente, sipario chiuso e il mio animo romagnol sfrontatore esplode: “Come si fa invitare la gente per le otto, non verrà nessuno!”. Mentre blatero a vanvera (il sant’uomo non batte ciglio) la sala si riempie: ciao, ciao, buonasera a questo e a quello. Poi, chissà da dove, nel brusìo che si spegne, la voce di uno speaker invita a salire sul palco, perché? Perché nel frattempo il sipario del palcoscenico si è aperto e al pubblico stupito si presenta un tavolo e lungo quanto il proscenio, imbandito di ogni leccornia, salata e dolce, e vino e fanta e gassosa a volontà. Il pubblico è invitato a salire per un buffet. Mi sembra un’idea grandiosa. Figurati se mi perdo un buffet, ma devi sapere che la scala per salire sul palcoscenico è piuttosto malferma e senza appoggi, come fare con la mia gamba sinistra che non mi corrisponde? Ricorro, allora, all’arte millenaria delle donne, adesco un giovanotto e lo invito a salire con me. Finita la festa viene il bello. Il sipario di nuovo si chiude, il tavolone sparisce, qualche colpo di tosse, poi silenzio in sala: dalla cortina caravaggesca color ocra sbuca il sant’uomo, che a me in quel momento sembra Gesù Bambino. Mancava soltanto la stella cometa. Lo intervistava il Direttore, bravo, con la sua aria un po’ fanée, gli occhi di cielo, la barba incolta, il capello scapigliato che piace tanto alle contemporanee. Diceva bene il Direttore, così bene che non te lo so ripetere. E ogni tanto cedeva la parola alla Profe, chissà se più bella o più brava la fanciulla, pensa che legge Aristotele in greco e pare anche che lo capisca. Gli intermezzi erano eseguiti con arte dalle letture dell’Attrice venuta da Roma: a me i brani scritti dal sant’uomo giungevano come musica. E poi dicono che a Ferrara non si fa cultura.
“Interviste infedeli” di Gian Pietro Testa è stato presentato martedì 23 dicembre alle 20 in Sala estense nell’ambito della rassegna Autori a corte, dal direttore di ferraraitalia Sergio Gessi, con l’intervento di Riccarda Dalbuoni ed Elena Felloni.
IL GRATTACIELO – Era un mattino di molti anni fa, Roberto Soffritti pensava di dover edificare la nuova Ferrara, una Ferrara orgogliosa con le sue mura restaurate, nuova viabilità, comode strade d’accesso al centro cittadino e poi con la cultura, proseguendo la politica delle grandi mostre inaugurata da Franco Farina e, infine, con l’apporto di un personaggio qual era il maestro Abbado; e poi, ancora, un nuovo ospedale e via sognando. Sappiamo com’è finita: palazzo degli specchi, una speculazione come l’ospedale di Cona, dove il cittadino non riesce ad arrivare se è vecchio, ammalato (come dev’essere chi va all’ospedale) e ha bisogno di un intervento urgente. Sarebbe bastato mantenere un buon pronto soccorso, ma la grandeur da cui i ferraresi a volte vengono presi ha chiuso la porta al buonsenso. Non erano sprechi sufficienti, la licenza per innalzare l’inutile cittadella dei dieci cinema è la dimostrazione di politiche diciamo dissennate e la nuova Ferrara rimase al palo. Nemmeno il grande porto che doveva prendere il posto della Darsena ebbe la possibilità di essere varato. Ma torniamo a quel mattino primaverile: ero nell’ufficiio del sindaco con il famoso architetto Bruno Zevi e, da una delle finestre della sala, guardavamo lo stupendo scenario su cui eravamo affacciati: architetto – gli chiesi – ricorda quel suo articolo pubblicato sull’ Espresso, con il quale denunciava l’irresponsabile scempio di una delle più belle piazze d’Italia, sconciato dal palazzo di Piacentini appena inaugurato? Ricordo, rispose Zevi, ma di scempi ormai… E che dice del grattacielo? Ma, sentenziò, ora che l’hanno ridipinto, insomma… e tacque rassegnato, come a dire c’è di peggio, anche se allora la scritta pubblicitaria al neon di un apertivo che ricopriva quasi tutta l’altezza di una delle due torri, aveva sostituito e avvilito il placido calar del sole su Porta Po, come avevano voluto Pellegrino Prisciani e Biagio Rossetti. Con il grattacielo, la sera su Ferrara ora arriva più presto. Insomma, c’è più buio.
LA POESIA E’ MORTA – Hanno un bel da dire e abbiamo un bel coraggio a bandire premi letterari e a festeggiare vincitori di nulla: la poesia è morta, i mille e mille poeti sono stati sepolti sotto una valanga di insulsaggini, l’unica voce che si ode è quella del kalashnikov e le urla disperate delle vittime e dei loro familiari: il grido che giunge da Parigi è lacerante, è colpita la nostra società, la nostra amata cultura, ma nessuno si dispera per i migranti che annegano ai nostri piedi o per i duemila morti ammazzati dagli integralisti in Nigeria, quelli non contano, sono neri, con la loro pelle si possono far scarpe griffate, no, nessuno più canta il dolore, dicono che non è poesia, lo diceva anche un amico, molto noto, durante la discussione finale di un premio per giovanisimi poeti, “no questa lirica no, sentenziò, non ha un messaggio”. Non ho mai capito perchè la poesia dovrebbe lanciare messaggi: cantami o diva l’ira funesta del Pelide Achille che infiniti addusse lutti agli Achei, è l’unico messaggio possibile per uscire dall’orrore, essere consapevoli di che cosa siamo, di che cosa abbiamo fatto nel nostro sovente lurido passato e, forse, per liberarci dal furioso, disumano liberismo spesso assassino da cui il nostro animo poetico è stato sconciato. Non c’entra con il terrore di Parigi? C’entra, eccome se c’entra. Basta pensare un poco, abbiamo cancellato ogni valore, abbiamo deciso che il più forte vince sempre, non sappiamo inventare altro che storie popolate da mostri umani coperti d’oro e abbiamo esportato questo trionfante pensiero nazifascista in tutto il mondo: ci aspettiamo forse che dal raccapriccio nasca la solidarietà?
IL FUNERALE – Quando ancora giravo il mondo a raccattar notizie, mi venne in mente di andare a intervistare un poeta scrittore, tra i maggiori della prima metà del Novecento, Marino Moretti: tranquili, è già stato dimenticato. Moretti, ormai un vegliardo senza speranze, abitava a Cesenatico, sulla strada che dal porto-canale conduce al cimitero. Dal giardinetto, dove Marino mi aspettava, si vedevano le vele gialle e rosse delle barche, tenute lì a galleggiare in quell’impareggiabile museo marinaro. Parlavamo del più e del meno, io gli chiedevo notizie di quel mondo che aveva cantato e che mi aveva incantato, parlavamo delle donne romagnole pie e coraggiose, quelle che pregavano “buzarè, buzarè l’anma de pchè” quando sentivano i loro uomini sanguigni e brilli passare davanti a casa bestemmiando, parlavamo di letteratura, poi ci fermammo improvvisamente: fuori, per strada stava passando un funerale accompagnato dalla banda: “vede – mi disse Moretti – la gente è completamente pazza, suona e canta quando uno muore, un funerale…” e tacque. Ora di funerali ne fanno due, così il morto diventa più importante agli occhi della società e si canta, si applaude, un carnevale: chissà che cosa direbbe oggi Moretti?
Non è un caso che la conferenza tenuta ieri pomeriggio alla biblioteca Ariostea da Fiorenzo Baratelli sul principio educativo in Gramsci avesse come titolo “La formazione dell’uomo”: “una vera educazione è quella che prepara l’uomo alla sua epoca”, questa è la concezione gramsciana della formazione, che appunto deve formare menti consapevoli della propria funzione storica e sociale, non più passivamente soggette a condizionamenti. Una visione della scuola e del sistema educativo e culturale più in generale che si struttura nel tempo, partendo dagli articoli giovanili e arrivando agli scritti dal carcere: le Lettere e i Quaderni. Piccolo inciso: per entrambi Baratelli ha tessuto un prezioso legame con un altro ‘giovane favoloso’ della nostra cultura, Giacomo Leopardi, prendendo a prestito le sue parole per definire le Lettere la “storia di un’anima” e definendo i Quaderni un’enciclopedia aperta e non sistematica come lo Zibaldone di pensieri.
Gramsci non ha in mente un’educazione in senso astratto, bensì teoricamente fondata, ma pratica, operativa e sicuramente politica. Nei Quaderni, infatti, critica la concezione italiana di una cultura prettamente “prettamente libresca”, in cui “manca l’interesse per l’uomo vivente e per la vita vissuta”, mentre già nell’articolo “Socialismo e cultura” (1916) aveva scritto: “bisogna smettere di vedere la cultura come sapere enciclopedico […] questa non è cultura, è pedanteria […] la cultura è disciplina del proprio io interiore”.
Nell’umanesimo gramsciano il sistema formativo diventa uno strumento di emancipazione e di trasformazione della società perché contempera i valori classici e storici con le nuove avvisaglie dell’industrialismo moderno e perché forma le coscienze a una libertà responsabile e consapevole. Per questo fin dai suoi primi articoli si scaglia contro la scuola classista destinata a perpetuare la divisione fra chi deve guidare e chi si presuppone debba essere guidato, “polemizzando anche con il suo partito – come ha precisato Baratelli – che finisce per accettare questa organizzazione” in cui la formazione classica è privilegio di alcune classi, uniche in grado di aspirarvi, mentre per i figli delle classi lavoratrici ci sono solo le scuole professionali, dove si insegna a fare senza pensare. Da qui anche la forte critica non solo alla riforma di Gentile, ma anche alla concezione idealistica, che separano classicità e scienze esatte: per Gramsci “questa separazione rappresenta un impoverimento per entrambe ed è inattuale per i tempi”.
Anche in ambito pedagogico Gramsci rivela tutto il suo antidogmatismo e la sua lungimiranza, non solo attraverso alcune riflessioni critiche sull’educazione delle bambine, ma anche per l’importanza data al metodo, piuttosto che alle nozioni e alla memoria: “imparare a imparare, questa per lui è la funzione della scuola, prefigurando già quell’utopia della società dell’apprendimento in cui il rapporto pedagogico è una relazione che coinvolge in ogni momento tutta la comunità”, ha sottolineato Baratelli. Forse le sue più grandi intuizioni sono però il concepire la rivoluzione di una scuola di massa non calata dall’alto, ma richiesta da chi fino ad allora ne è stato escluso: l’analfabetismo non può essere debellato attraverso leggi e regolamenti, ma con la percezione, da parte del popolo, dell’istruzione come bisogno e necessità. E, parallelamente, la consapevolezza dei rischi di questa scuola di massa: primi fra tutti la semplificazione e la dequalificazione. “Forse per questo – ha scherzato Baratelli – Gramsci non è stato un autore del ‘68”. “Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso […] è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza. La partecipazione di più larghe masse alla scuola media porta con sé la tendenza a rallentare la disciplina dello studio, a domandarne facilitazioni. Occorrerà resistere alla tendenza di render facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato”, scrive nei Quaderni.
La scuola di Gramsci è insomma una scuola che forma nuovi cittadini consapevoli del proprio ruolo nella società con metodo severo e rigoroso, “un luogo dove combattere i caratteri negativi degli italiani: l’improvvisazione, il dilettantismo, l’irresponsabilità morale e intellettuale, la pigrizia fatalistica e il cinismo che portano all’inazione”.
Stefano Bollani è un musicista, pianista e cantante jazz, che ha iniziato a studiare pianoforte all’età di sei anni. Dopo il diploma al conservatorio di Firenze ed essersi fatto le ossa come turnista nel mondo della musica pop, si è affermato nel jazz collaborando con i grandi protagonisti della scena, tra cui Richard Galliano, Phil Woods, Lee Konitz, Aldo Romano, Michel Portal, Gato Barbieri, Pat Metheny, Chick Corea, esibendosi a Umbria Jazz, Festival di Montreal, Town Hall di New York, Fenice di Venezia, Scala di Milano. Dal 1996 collabora con il suo mentore Enrico Rava, uno dei jazzisti italiani più noti a livello internazionale.
Nel 2003 Bollani riceve il Premio Carosone, l’anno successivo il magazine giapponese Swing journal gli conferisce il New star award riservato ai talenti emergenti stranieri, per la prima volta assegnato a un musicista non americano. Nel 2006 per la rivista Musica jazz è il musicista italiano dell’anno. Nel 2009, nell’ambito del North sea jazz festival in Olanda, gli viene attribuito il Paul Hacket award; due anni dopo è la volta del Los Angeles-Italy excellence award, per la cultura italiana nel mondo.
In televisione è stato simpaticissimo ospite fisso del programma di Raiuno “Meno siamo meglio stiamo”, di e con Renzo Arbore, in cui si è esibito anche nelle irresistibili imitazioni di Paolo Conte, Franco Battiato, Marco Masini, Enzo Jannacci. “Sostiene Bollani” è il titolo del suo primo programma televisivo, interamente dedicato alla musica, andato in onda su Raitre nel 2011.
Il nuovo album: Sheik yer Zappa
Nell’ottobre del 2014 Stefano Bollani ha pubblicato il suo tributo a Frank Zappa, un grande mito della musica, in grado di fondere tutti i generi ottenendo risultati sorprendenti. L’album raccoglienove registrazioni live del 2011, i brani sono di Zappa ad eccezione di “Male male”, scritto da Bollani, e “Bene bene”, composto dal pianista milanese insieme al vibrafonista Jason Adasiewicz.
Lo “shaker” che dà il titolo all’album, si riferisce all’improvvisazione con cui sono stati realizzati i brani, che prendono spunto dall’opera di Zappa, per evolversi un direzioni differenti. Un preciso riferimento, se non una vera e propria linea rossa, al modo di comporre dell’artista americano, che mescolava musiche e generi provenienti da tutte le parti del mondo, per realizzarne commistioni originali. Una traccia ideale che viene però capovolta nel modo di sviluppare il tributo, preferendo la massima libertà espressiva al rigido perfezionismo di Zappa.
L’album nasce dai concerti che Bollani tenne nel 2011, con una playlist selezionata dai numerosi dischi del chitarrista americano: da “Uncle meat” a “Peaches en regalia”, passando per “Blessed relief”, quest’ultimo inserito nell’album “The grand wazoo”. Per la realizzazione di “Sheik yer Zappa” è stato formato un gruppo nuovo, con un vibrafonista conosciuto tramite YouTube (Jason Adasiewicz), Larry Grenadier al (contra)basso, Josh Roseman al trombone e Jim Black alla batteria. Ovviamente manca il chitarrista; il ruolo sarebbe stato ingrato per chiunque.
Il risultato finale è positivo, giudizio che probabilmente troverà d’accordo alcuni e decisamente contrari altri, secondo i gusti personali e le aperture necessarie per accettare rielaborazioni o evoluzioni del lavoro di Zappa. Bollani ha compiuto un’operazione difficile, sapendo di prestare il fianco a chi segue rigidamente certi schemi, ma come ci ha insegnato Frank Zappa, la qualità “dell’alchimista” la si vede nel modo con cui utilizza gli “alambicchi”, talento che non manca al musicista milanese e al suo gruppo.
La vedova e la fondazione che tutelano il nome e la qualità della musica del grande chitarrista americano, hanno approvato l’operazione di Bollani, affermando che era in linea con lo spirito di Frank.
È arrivato gennaio con la sua aria gelida di giornate luminose. Da brava bambina ho fatto i miei propositi per l’anno nuovo, sono sempre gli stessi e non li mantengo, ma trovo allegro e scaramantico pensare che dovrei dimagrire, fare sport, diventare puntuale e tutte quelle cose che so, già in partenza, non realizzerò. Anche la cura del giardino fa parte dell’elenco, ma quest’anno non posso scantonare, per quanto possa permettersi un buon livello di autonomia, rimane sempre uno spazio con dei limiti e le mie piante li stanno sforando in tutte le direzioni. Nel 2015 compirà vent’anni e dovrò capire che cosa fare per mantenerlo con un po’ di equilibrio. In questi giorni scrivere di giardini, future potature e piantagioni, ha un suono strano, quasi stonato. Non dovrebbero esserci atrocità di serie A, eppure tra le tante notizie tremende che ci passano sopra la testa senza scuotere i nostri pensieri, ci sono tragedie che colpiscono il segno. La strage nella redazione parigina del Charlie Hebdo è una mattanza fra le tante, ma questa è una vigliaccata che ha avuto successo, ha centrato il nostro orticello di convinzioni e sicurezze facendo saltare in aria vite e quotidianità, radici culturali e simboli. Sulle macerie allargate di questo fatto non riesco ad esprimere nulla di più sensato di un preoccupato silenzio. Ascolto, cerco di capire, ma ho bisogno di spostare l’attenzione su qualcosa di bello e pulito e il mio giardino, in questo momento, non ha queste caratteristiche anche se lavorare con la terra e le piante fino allo sfinimento, è sempre un’ottima cura per alleggerire la testa. Andando alla ricerca di un pensiero positivo mi è venuta in mente una bella storia legata ad una fotografia di fili d’erba. In questa storia non ci sono macchine rimpicciolenti e inventori da strapazzo, ma c’è un ragazzino, un papà contento e una maestra con il vizio di fotografare. La maestra si chiama Olga, è una collezionista di attimi: non c’è raggio di sole, sguardo di gatto, foglia, rametto, sorriso di cane, sonnellino di parenti, che sfugga al suo obbiettivo. Come ogni collezionista è golosa e insaziabile, ma per fortuna è molto generosa e i suoi scatti di serenità vengono lanciati nel mondo e messi a disposizione di chi li vuole usare, come sto facendo io. Non contenta di tutto questo, grazie alla sua passione, Olga è riuscita a coinvolgere i suoi alunni in un laboratorio fotografico all’aria aperta, mettendo a disposizione la sua compatta per portarli alla scoperta della bellezza nascosta nelle cose, apparentemente insignificanti, che ci circondano. Non ho idea della burocrazia che abbia dovuto superare per portare in giro i suoi ragazzini, non conosco quali strategie abbia messo in pratica per coinvolgerli in questa avventura e come sia riuscita a farli lavorare insieme, ma ho visto lo splendido risultato: una serie di immagini dolcissime e piene di poesia. Una fra le tante, tutte belle e sorprendenti, è questa, che mi ha colpito per la grazia danzante di questi fili di erba che Nicola ha visto e ha saputo raccontare. La sua foto e quelle degli altri bambini, sono state adoperate per fare una mostra e un calendario, coinvolgendo così anche le famiglie nella parte conclusiva del laboratorio. In questa storia c’è tutto quello che vorrei per il nuovo anno, ed è un elenco lunghissimo di sogni in cui volano persone, grandi e bambini, che si divertono a stanare la bellezza nella quotidianità della natura più semplice; persone capaci di giocare, ridere, imparare, crescere e coltivare in pace un immenso giardino dove i fili d’erba sono verdi, vivi e luccicanti… poi mi sveglio, e le cose non funzionano così, ma la foto di Nicola, mi ha fatto sognare a occhi aperti, e lo ringrazio di cuore per questo piccolo grande regalo.
“Pe’ arivacce qui da Roma ho fatto l’autostop
e ‘n Francia è già m’ber pezzo che ce sto…
Ma pure da emigrato, mica so cambiato:
io so’ Romeo, er mejo der colosseo!
Io fermo nun ce sto, proprio nun me va!
Se domani qui sarò, oggi chi lo sa?
Forse un po’ m’acchitterò e me ne andrò in città, già…
E poi laggiù tanta scena farò, ogni gatta che me vedrà dirà:
“ma che ber micione, che simpaticone, quello è Romeo
er mejo der colosseo!.”
Sono appena finite le feste, durante le quali molti di noi hanno trascorso pomeriggi sereni davanti alla televisione o al cinema. I cartoni animati hanno sicuramente avuto la loro parte, in queste festività molto legate ai bambini. Ma non solo loro hanno riassaporato vecchi film d’animazione, quei capolavori disneyani che tutti noi abbiamo visto da piccoli ma anche rivisto da grandi.
Ecco allora che, un freddo pomeriggio, proiettano gli Aristogatti, film divertente e allegro che mi riguardo per l’ennesima volta, perché l’ho sempre adorato per due ragioni precise: Romeo e Parigi di inizi ‘900. Ho sempre amato la capitale francese, dove ho vissuto a lungo, e proprio oggi che soffre per i noti e tristi fatti di Charlie, amo ricordare le sue belle strade, quella Cattedrale di Notre Dame che nel film di Disney sfila pacifica nella notte mentre l’infido Edgar porta via i gattini. Le matite dell’epoca avevano disegnato, con loro consueti tratti leggeri ed eleganti, tetti e stradine, ponti sulla Senna e lampioni romantici. Niente 3D moderni o computer ma le origini dei cartoon, fatte di fine artigianato e sfondi dipinti a mano. Per questo le immagini sono delicate. Quasi acquarelli da belle époque, cornice ideale per una storia d’amore.
Oggi più di allora riconosco le strade e quell’atmosfera unica e galeotta che si respira solo a Parigi. E poi vi sono il tenero Romeo, con quel simpatico accento romanesco nel doppiaggio di Renzo Montagnani, l’elegante e affascinante Duchessa, i gattini Minou, Bizet e Matisse, per non dimenticare la banda di Scat Cat o il topolino Groviera (doppiato da Oreste Lionello), che aiuterà i gattini a ritornare dalla loro amata padrona, Madame Adelaide Bonfamille. Riscoperti solo ora, sono, poi, splendidi lo Zio Reginaldo e le oche inglesi Adelina e Guendalina Bla Bla. Qui si ritrovano amore e strada di casa, in una Parigi del 1910, dove il maggiordomo Edgar, che non vuole aspettare che i gattini muoiano prima di ereditare la fortuna di Madame Adelaide (che nel testamento gli lasciava tutto ma solo dopo i suoi gattini), complotta per rimuovere i gatti dalla posizione ereditaria. Un cattivo che lo addormenta, quindi, e che si dirige in campagna per abbandonarli.
Duchessa, però, incontra il randagio e allegro Romeo che, con simpatia e charme, si offre di riportarla a Parigi insieme ai gattini. Si incrociano, quindi, paesaggi da vera favola oltre che Adelina e Guendalina, fino ad arrivare a danzare e cantare senza freni, sui tetti di Parigi, con Scat Cat e la sua banda sgangherata. Le avventure sono tante e il perfido Edgar finirà in un baule spedito a Timbuktu, con un testamento che verrà riscritto da Adelaide, per includervi anche Romeo. La storia romantica di Duchessa e Romeo è accompagnata dalla colonna sonora cantata da Maurice Chevalier.
Un classico imperdibile. Belli i disegni, i colori, le atmosfere, le musiche, le auree di romanticismo e bontà. Un film che si rivede sempre con immenso piacere e gioia, a qualsiasi età. Perché ridà la serenità che tanto serve e perché “tutti quanti voglion fare jazz”.
Gli Aristogatti, di Wolfgang Reitherman, USA, 1970,78 mn.
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