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Ferrara film corto festival

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L’INTERVISTA
Pool Jr, il giovane rapper di Gaiba vincitore di Area Sanremo

Tommaso Puleo, 21 anni e in arte “Pool Jr.”, nasce e vive a Gaiba, un piccolo comune in provincia di Rovigo. La sua passione è la musica rap e nell’ultimo mese ha vissuto un vero e proprio sogno, inaspettato fino a poco tempo fa: partecipare e vincere “Area Sanremo”, il concorso musicale conclusosi dieci giorni fa che ha premiato otto talenti musicali emergenti, i quali sono stati sottoposti ad un ulteriore audizione per decretare due dei partecipanti alle fasi finali di Sanremo Giovani. Purtroppo quest’ultimo obiettivo è sfumato per poco, ma enorme è comunque la soddisfazione di Tommaso che, inevitabilmente, è finito subito per ritrovarsi i riflettori puntati e con le porte spalancate per farsi conoscere al grande pubblico. Ferraraitalia ha avuto la possibilità di parlare con il giovane artista e farsi raccontare la sua avvincente storia, fatta di talento, passione, sacrifici e soprattutto tanta voglia di mettersi in gioco.

Ma prima di parlare di questa avventura è necessario fare un passo indietro, agli albori della breve carriera di Pool Jr, per meglio inquadrare il personaggio. Una carriera cominciata qualche tempo fa, durante gli anni del liceo Roiti di Ferrara, con le prime rime ed i primi testi e l’inizio della collaborazione con l’amico Elia Arbustini, polistrumentista e compositore proveniente dal Conservatorio di chitarra classica. I testi di Tommaso sono buoni e tutt’altro che banali, a testa bassa comincia a farsi conoscere e presto arrivano i primi riconoscimenti ed i primi concorsi vinti. Alla luce IMG_8525di questo buon inizio, l’idea di creare e sviluppare nel tempo, con qualche sacrificio, un vero e proprio studio di registrazione casalingo nel quale continuare a formarsi e gettare le basi per le prime produzioni, obiettivo raggiunto nel giro di poco con il primo Ep (extended play) “Dimostrazioni”, raccolta di tutti i primi pezzi del suo operato. Da questo momento la storia è recente: pochi mesi fa la partecipazione al Music Village di Rimini, rassegna musicale nazionale per giovani musicisti che consente a Pool Jr di farsi notare da chi con la musica ci lavora per davvero, tra i quali il suo attuale manager, Luca Red, che fin da subito percepisce le grandi potenzialità di Tommaso e scommette su di lui. Iniziano le collaborazioni con artisti già conosciuti sulla scena nazionale (tra i quali uno dei violinisti di Ludovico Einaudi) che lo catapultano in una realtà tutta nuova, talmente stimolante a livello artistico e professionale da permettergli di fare squadra e puntare veramente in alto. A Sanremo per l’appunto, al quale la squadra arriva con un pezzo, “Se potessi”, veramente fortissimo e destinato a fare molto successo. Questa volta il testo scritto da Tommaso tratta un tema delicato come quello dell’autismo, reso ancora più emozionante dalle musiche e dagli arrangiamenti di Elia.
Tutto quindi era pronto per poter partecipare. Tommaso ci descrive la sua esperienza sanremese come “l’esperienza musicale per eccellenza, che ti forma da tutti i punti di vista e ti permette di rimanere a contatto per diversi giorni con tantissime tipologie di artisti diversi”. Tre in totale le tappe affrontate da pendolare verso la Liguria, la prima delle quali composta da una serie di lezioni e corsi obbligatori per tutti gli oltre 400 iscritti ad Area Sanremo. “Sono stati quattro giorni intensissimi e utili per prendere dimestichezza con una realtà per me completamente nuova – racconta – durante i quali abbiamo avuto la possibilità di confrontarci con ospiti del calibro di Emanuele Filiberto, Gianni Coron dei Nomadi e Gianni Morandi. Un ottimo modo per conoscere a trecentosessanta gradi quello che si muove intorno al Teatro Ariston e tutta la macchina organizzativa del Festival, cose che dalla tv non si potrebbero minimamente percepire”. Ma terminate queste prime giornate formative è stato ora di fare sul serio con le audizioni: “Il weekend della prima audizione è incominciato subito con una prima difficoltà dovuta all’alluvione di Genova, evento che mi mise in grande difficoltà per lo spostamento in treno a Sanremo. In fretta e furia è riuscito a portarmi mio padre, facendomi capire che la mia famiglia teneva tanto quanto me a questa grandissima opportunità”. La prima selezione di Area Sanremo aveva il compito di scremare per una prima volta i partecipanti, selezionandone dai 400 iniziali solamente 40, otto dei quali sarebbero stati scelti successivamente attraverso un ulteriore audizione. “La prima audizione presentava una giuria composta da Roby Facchinetti, Giusy Ferreri e dal rapper Dargen d’Amico, uno dei miei idoli. La tensione tra i partecipanti nella sala d’attesa era altissima, tutti cercavano di scaldare la voce al meglio o provavano scale. Io, da rapper, non avevo bisogno in realtà di questi riti ma cercavo di limitarmi a trovare la giusta concentrazione che stentava a mantenersi. Una volta esibito mi sono reso conto subito che il pezzo era piaciuto, ma ho cercato comunque di rimanere il più possibile con i piedi per terra perché la possibilità di rientrare nello stretto numero dei quaranta era ancora lontanissima”. Ma la tanto inaspettata decisione è arrivata con una mail pochi giorni dopo, ufficializzando la sua partecipazione agli ultimi giorni di selezioni. Un’altra avventura quindi per Tommaso, convinto che “l’obiettivo prefissato l’avevamo raggiunto. Ma ero pronto ad esibirmi nuovamente, questa volta consapevole di potermi ritrovare veramente tra i vincitori”. Una terza selezione che inevitabilmente presentava un livello di altissima qualità, “ero ancora più agitato delle esibizioni precedenti, dovevo portare un brano edito e nuovamente il mio Schermata 2014-12-07 alle 20.01.46inedito e questa volta ad aggiungersi agli stessi tre giudici c’era Mogol, oltre alla possibilità di farsi notare dai tanti discografici presenti in sala”. Il brano di Pool Jr è stato un ennesimo successo, apprezzato da tutti in sala e destinato ad essere uno dei papabili alla vittoria finale. Vittoria che con grande stupore è arrivata per davvero, nonostante “non ci fosse per niente la consapevolezza di avercela fatta. Quando è stato fatto il mio nome l’emozione era moltissima come il senso di appagamento per i tanti sforzi e sacrifici fatti in questi mesi di lavoro. Siamo partiti solo pochi mesi fa con praticamente niente in mano, ma nonostante tutto abbiamo ottenuto molti riconoscimenti importanti per il nostro progetto che si poteva dire realizzato. Essere stato apprezzato da un mostro sacro della musica come Mogol è impossibile da descrivere, esattamente come ricevere il premio dalle mani di Roby Facchinetti che tanto mi è stato vicino e tanto mi ha consigliato in queste giornate”. Pool Jr quindi il più giovane vincitore di Area Sanremo, una storia non ancora terminata perché all’indomani sarebbe stata la volta dell’ultimissima (questa volta per davvero) selezione, quella per l’accesso alle fasi finali del Festival, davanti ad una giuria completamente diversa e capitanata dal presentatore della prossima edizione Carlo Conti, affiancato dalla commissione artistica di Rai Uno e Giovanni Allevi. Una fase finale, come già anticipato, nella quale sono state preferite due bravissime cantanti pop a Tommaso, che nonostante tutto ci tiene a precisare che “se già mi sembrava di avere vinto una volta entrato nei primi quaranta, vi lascio immaginare questa volta. Ovvio che un poco ci speravo arrivato a questo punto, ma la vittoria di due bravissime cantanti non ha compromesso per niente la mia gioia, anzi, ha contribuito ad alimentarla ancora di più, musicalmente parlando”.
Una bellissima storia quella vissuta dal giovane artista rodigino, un’esperienza di vita e professionale che senza dubbio lo avrà stimolato ulteriormente per i suoi prossimi lavori. È in progetto infatti la prossima uscita di un suo nuovo album che, se mantenuto sugli stessi livelli della canzone che lo ha portato così lontano, non potrà che essere destinato a consolidarlo sulla scena nazionale. Un rapperIMG_7884 a tutti gli effetti Pool Jr, che non si discosta per niente dai canoni tradizionali del suo genere ma non rinuncia ad innovarlo, inserendo novità che contribuiscono a formare un connubio perfetto tra classicità e modernità, il tutto impreziosito da un assetto cantautorale di altissimo livello. I testi di Tommaso e le musiche di Elia stupiscono ed emozionano, dimostrandoci che nel complicato mondo odierno c’è ancora speranza per chi ha voglia di credere nella propria passione e dare tutto per ottenere risultati. Senza trascurare niente: Tommaso fa l’istruttore di nuoto e frequenta il terzo anno di Scienze e Tecnologie della Comunicazione a Ferrara. Un percorso, quello scolastico, che ritiene essere stato “senza dubbio indispensabile per la mia formazione culturale e musicale. Soprattutto i corsi di musica e cinema che seguo all’Università mi aiutano a trovare sempre nuova ispirazione e crescere artisticamente”. Umiltà, passione e sacrifici. Tratti importanti che hanno portato solo soddisfazioni a Pool Jr, pronto a mettersi ancora una volta in gioco per le prossime tappe della sua carriera. E Area Sanremo non è stato che l’inizio…

Pool JR su YouTube e Facebook

Il video della premiazione

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La Casa della Libertà

Presumo di sapere a cosa state pensando, ma vi sbagliate. Berlusconi e la sua Casa delle Libertà, non c’entrano nulla. Ma quando si dice che il mondo è piccolo! Guarda questi dove sono andati a pescare l’idea.
‘Freedom House’ è una organizzazione non governativa internazionale, fondata a Washington nel 1941, con lo scopo di condurre attività di ricerca e di sensibilizzazione su democrazia, libertà politiche, e diritti umani. Ogni anno pubblica un rapporto relativo al grado di libertà democratiche percepito dai cittadini di ogni Paese. Per il 2014 l’Italia occupa il 64° posto nella classifica internazionale della libertà di informazione, perché Freedom House giudica l’Italia un Paese semi-libero.
Allora cerchiamo di capire questa “Casa della Libertà” d’oltreoceano cosa intenda per ‘libertà’ e ‘democrazia’. A leggere i testi, consultabili nel sito [vedi], non c’è ombra di dubbio. La definizione di democrazia si focalizza sulle forme di governo rappresentativo, come opposto ad altre forme che enfatizzano la demagogia e la partecipazione diretta delle masse, definita con il termine inglese ‘mobocracy’, che non ha il suo corrispettivo in italiano, se non in ‘oclocrazia’, dal greco, appunto, governo delle masse.
La democrazia come mobocracy fu un’idea largamente diffusa negli Stati Uniti d’America con l’edizione del 1798 dello “Spelling Book” di Noah Webster, che conteneva il “Catechismo Federale” e, in particolare, le possibili deformazioni della democrazia, che i lettori erano invitati a memorizzare.
Per farla breve, tutti i movimenti e le organizzazioni politiche che in qualche modo cavalcano l’idea della demagogia e del governo diretto delle masse, non rientrerebbero nella definizione né di libertà né di democrazia per i fondatori della Freedom House.
Si fa presto a dire democrazia e libertà, più difficile è comprendere l’implicazione che la democrazia rappresentativa ha per la vita, non di un paese in generale, ma per le singole persone.
Da questo punto di vista è interessante dare un’occhiata agli studi condotti da Ronald Inglehart dell’Istituto di ricerche Sociali dell’Università del Michigan e da Hans Dieter Klingemann del Centro di Ricerche Sociali di Berlino.
I due ricercatori hanno usato la definizione di democrazia, fornita dalla Casa delle Libertà, per determinare la relazione tra democrazia e benessere come percepito individualmente. E i risultati sono davvero sorprendenti. Dai loro studi transnazionali emerge la mancanza di relazione tra democrazia e felicità personale, tanto che ad esprimere il maggior grado di soddisfazione personale sono oggi i cittadini di paesi con governi autoritari come la Cina e Singapore. Per cui, relativamente al benessere individuale, il livello di democrazia di una società sarebbe marginale, se non insignificante. Il problema non è che democrazia e benessere non siano strettamente collegati, ma che piuttosto non sta in piedi l’interpretazione secondo la quale la democrazia determina il benessere e la felicità dei cittadini. Altri fattori giocano un ruolo ben più rilevante, a partire dal livello di sviluppo economico di un paese.
Ce n’è quanto basta per riflettere sulle vicende di casa nostra, in particolare su come l’acuirsi della crisi economica metta sempre più a repentaglio la pratica della democrazia così come definita dalla Casa della Libertà, per dar sfogo a spinte verso quella mobocracy che sarebbe il suicidio della democrazia stessa.
Poiché la democrazia è collegata allo sviluppo economico, il quale contribuisce alla felicità, può accadere che ad essere più felici siano proprio i cittadini di stati a regimi autoritari, ma con un sostenuto sviluppo economico, come è dimostrato dal caso della Cina e di Singapore.
Le istituzioni democratiche, dunque, non necessariamente rendono le persone più felici, da questo punto di vista non mancano esempi convincenti da parte della storia. È sufficiente pensare alla Germania di Weimar, o alla Russia all’indomani delle libere elezioni del 1991, dove il benessere delle singole persone non è cresciuto rispetto a prima.
Anche Ruut Veenhoven, sociologo, docente alla Università Erasmus di Rotterdam, fondatore del ‘World database of happiness’, usando la definizione di libertà politiche offerta dalla Casa della Libertà, è giunto alle stesse conclusioni dei ricercatori precedentemente citati. Tuttavia, se la libertà non sempre contribuisce alla felicità, da questa non si può prescindere.
La definizione di libertà di Veenhoven include l’economia, la politica e le libertà personali, la libertà di impresa, tasse basse, e la circolazione dei capitali. La lista delle libertà personali enumera le pratiche religiose, la libertà di viaggiare, di matrimonio e sessuale.
C’è un interrogativo inquietante che emerge da tutto questo. Ed è il peso che il benessere economico, la civiltà dei beni di consumo hanno assunto nella vita delle persone, tanto che saremmo disposti a rinunciare a parte delle nostre libertà politiche pur di possedere.
La mente mi corre a quella economia, materia di studio che il governo Renzi, con il progetto della Buona scuola, intende implementare nel curricoli di studio del nostro sistema scolastico.
Di fronte alle politiche di austerità che oggi ci vengono imposte, il tema vero, se non vogliamo mettere a repentaglio le fondamenta della Casa della Libertà che abitiamo, è indagare la relazione tra organizzazione economica, libertà e istituzioni democratiche. Ci sono altri modi possibili di pensare l’economica per accrescere la felicità umana, che non mettano a repentaglio le libertà personali, il diritto di voto e i principi della democrazia rappresentativa?
Le scuole dovrebbero affrontare, a partire dalla loro organizzazione, la più democratica possibile, l’insegnamento di come le istituzioni politiche possono contribuire alla crescita della felicità umana.
Sono tempi questi nei quali, se non si riflette attentamente su tutto ciò e non si attrezzano i giovani ad affrontare il futuro, ne può andare a rischio il loro domani, oltre al nostro.

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CALENDARIO DELL’AVVENTO
La metamorfosi di San Nicola

Oggi abbiamo deciso di raccontarvi la storia di una delle più grandi operazioni pubblicitarie di tutti i tempi: la trasformazione di san Nicola vescovo di Mira nel corpulento Santa Claus dalla candida barba e dall’espressione bonaria, vestito di rosso e bianco.
Partiamo dal principio. San Nicola, nato probabilmente nel 270 a Patara in Licia – l’attuale Turchia – ha vissuto fra il III e il IV secolo nell’Anatolia occidentale e come vescovo di Mira ha partecipato al Concilio di Nicea del 325. A partire dal IX secolo è diventato sempre più oggetto di devozione, in particolare delle fasce meno abbienti, e le sue gesta sono state tramandate arricchendole di nuovi particolari via via che la sua popolarità è cresciuta. Una delle vicende più diffuse è quella delle tre fanciulle, citata anche da Dante nel XX canto del Purgatorio e dalla quale deriva la sua raffigurazione tradizionale con i paramenti vescovili e tre sfere dorate. Sembra che ancora prima di diventare vescovo, sia venuto a conoscenza della triste sorte di un uomo di Patara che era caduto in disgrazia e non poteva procurare una dote alle sue tre figlie: non potendole sposare sarebbe stato costretto a farle prostituire. Nicola decise di intervenire e, riempito un sacchetto di monete d’oro, una notte si recò a casa dell’uomo e lo lanciò attraverso una finestra senza farsi vedere. E così fece per ognuna delle tre ragazze: la terza notte però la finestra era chiusa e non gli restò che arrampicarsi sui tetti e lasciar cadere l’ultimo sacco dal comignolo. Un altro episodio vuole che mentre Nicola si recava al concilio di Nicea, in un’osteria gli fu presentata una pietanza a base di pesce, ma Nicola si accorse che si trattava invece di carne umana: chiese perciò all’oste di vedere come era conservato quel pesce ed egli lo accompagnò presso due botticelle piene della carne salata di tre bambini da lui uccisi. Nicola si fermò in preghiera ed ecco che le carni si ricomposero e i bambini saltarono allegramente fuori dalle botti. Sono queste due leggende a far sì che la figura di Nicola venga associata ai bambini e all’elargizione di doni.
Nel nord e nell’est dell’Europa la figura del vescovo cristiano incontra personaggi derivanti da altre tradizioni popolari, come Nonno Gelo in Russia che indossa un cappotto azzurro e ogni 31 dicembre porta i regali ai bambini sulla slitta trainata da tre cavalli, accompagnato dalla sua nipotina Snegoručka. Oppure la divinità nordica Odino con una lunga barba bianca, che vagava come un viandante cavalcando un cavallo volante chiamato Sleipnir: una tradizione che ancora esiste in Belgio e nei Paesi Bassi vuole che i bambini la sera di Natale lascino le loro scarpe vicino al camino, piene di paglia per sfamare il cavallo e trovino la mattina doni e dolciumi. Proprio attraverso gli olandesi questo personaggio dai contorni indefiniti a metà fra San Nicola e Papà Natale sbarcò nel XVII secolo a Nuova Amsterdam, meglio nota come New York. Fu qui negli Stati Uniti che Babbo Natale divenne la star mondiale che è oggi, grazie a una vincente mossa pubblicitaria di una multinazionale dal marchio rosso e bianco che fabbrica la più famosa bibita gassata al mondo: la Coca-Cola.
Nel 1911 uno dei detrattori più accaniti della ditta di Atlanta, Harvey W. Wiley, organizzò una vera e propria campagna di boicottaggio e riuscì a trascinare la Coca-Cola in tribunale con l’accusa di essere dannosa per la salute, nonostante John S. Pemberton nel 1886 l’avesse concepita come un rimedio per la salute. La compagnia venne assolta, ma le fu proibito di utilizzare nelle pubblicità immagini di bambini sotto i 12 anni, a causa del contenuto di caffeina. Per aggirare questo ostacolo, che rischiava di farle perdere una fetta consistente di consumatori, la Coca-Cola iniziò a usare Babbo Natale come testimonial soprattutto per il suo rapporto privilegiato con il mondo dell’infanzia. Fu così il disegnatore Thomas Nast a creare per la prima volta l’immagine pubblicitaria paffuta e bonaria di Santa Claus, perfezionata nel 1931 da Haddon Sundblom che ha fissato l’immagine entrata ormai nell’immaginario collettivo, prendendo a modello il proprio vicino di casa che di professione faceva il commesso viaggiatore.

“Ritorna ogni anno, arriva puntuale
con il suo sacco Babbo Natale:
nel vecchio sacco ogni anno trovi
tesori vecchi e tesori nuovi.
C’è l’orsacchiotto giallo di stoffa,
che ballonzola con aria goffa;
c’è il cavalluccio di cartapesta
che galoppa e scrolla la testa;
e in fondo al sacco, tra noci e confetti,
la bambolina che strizza gli occhietti.
Ma Babbo Natale sa che adesso
anche ai giocattoli piace il progresso:
al giorno d’oggi le bambole han fretta,
vanno in auto o in bicicletta.
Nel vecchio sacco pieno di doni
ci sono ogni anno nuove invenzioni.
Io del progresso non mi lamento
anzi, vi dico, ne son contento.”
Gianni Rodari

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L’INCHIESTA
In carcere. A Ferrara recupero di apparecchi elettrici e lavori agricoli

Nonostante la situazione delle carceri in Italia rimanga drammatica, sia per il sovraffollamento che per le scarsissime possibilità di ricostruzione della persona e di reinserimento nel tessuto sociale e produttivo dei detenuti, la Regione Emilia-Romagna si distingue per esperienze importanti che tendono a salvaguardare e potenziare il diritto al lavoro delle persone detenute. Si tratta ancora di piccoli numeri che rappresentano però casi eccellenti, da prendere a modello per rivedere l’intero sistema penitenziario a livello nazionale
.
2. SEGUE – Dopo averne parlato a fondo con la Garante per delle persone private della libertà personale della Regione Emilia-Romagna, l’avvocato Desi Bruno [vedi], abbiamo intervistato il Garante per il Comune di Ferrara Marcello Marighelli per conoscere la situazione a livello locale.

Ci sono progetti in atto per assicurare ai detenuti del carcere dell’Arginone il diritto al lavoro?
Sì ci sono diversi progetti. E’ di qualche giorno fa la decisione della Giunta comunale di stipulare una convenzione tra il Comune, l’Asp-Centro servizi alla persona e la Casa circondariale di Ferrara, per favorire l’inserimento lavorativo di persone detenute attraverso lavoro gratuito e volontario in progetti di pubblica utilità.

Si è già previsto quale tipo di attività il Comune chiederà di svolgere ai detenuti?
No, per ora si è definita solo la volontà comune di tenere conto delle attitudini, delle aspirazioni e delle capacità professionali dei detenuti. Le attività verranno individuate in un secondo momento sulla base di una co-progettazione mirata a definire gli obiettivi e i reali bisogni, sia dell’amministrazione sia dei detenuti.

I detenuti individuati svolgeranno quindi lavori socialmente utili per il Comune di Ferrara?
Non è detto. A questo proposito occorre chiarire un concetto, “lavoro gratuito e volontario in progetti di pubblica utilità” e “lavori socialmente utili” non sempre coincidono: il lavoro di pubblica utilità è una pena alternativa alla misura detentiva, disposta dal giudice di pace e dal tribunale, su richiesta dell’imputato e ha durata determinata; il lavoro volontario e gratuito è un’opportunità offerta ad una persona sottoposta a misura restrittiva. Di certo entrambi gli istituti giuridici richiedono i medesimi requisiti: volontà dell’interessato, assenza di retribuzione, attività da prestarsi a favore della comunità e da svolgersi presso lo Stato, gli enti territoriali, organizzazioni di assistenza sociale o volontariato. Ci troviamo quindi, a seguito di recenti disposizioni normative, di fronte a due tipologie di lavoro socialmente utile: il primo, sanzione comminata dal Giudice per certi reati; il secondo misura alternativa alla detenzione per persone con condanna definitiva e nell’ambito del lavoro all’esterno del carcere, già previsto dall’art.21 dell’ordinamento penitenziario con finalità riparatrici e risocializzanti.

Intervistata da noi, l’avvocato Desi Bruno ha sottolineato che il diritto al lavoro è il fulcro del trattamento penitenziario e che deve essere retribuito. Ha anche aggiunto che il volontariato e i lavori socialmente utili vanno benissimo, una cosa non esclude l’altra, ma il lavoro retribuito è un diritto imprescindibile e l’istituzione penitenziaria avrebbe l’obbligo per legge di garantirlo. Come si pone lei a riguardo?
La Garante della Regione ha detto benissimo, infatti la convenzione appena promossa dal Comune specifica che il lavoro dei detenuti potrà essere svolto solo presso enti pubblici e su progetti di breve durata, con un inizio e una fine. Il progetto sarà condotto con tutti i limiti e le attenzioni del caso, mantenendo prioritario l’impegno per la ricerca di occasioni di lavoro retribuito con possibilità di continuità anche dopo il fine pena.

Passiamo ai casi di lavoro dentro il carcere, la Casa circondariale di Ferrara è ha messo ha avviato delle esperienze?
Sì, da vari anni stiamo sviluppando progetti e ad oggi ci sono due tipi di lavoro retribuito che vengono svolti regolarmente: il lavoro domestico e il recupero di apparecchiature elettriche ed elettroniche in collaborazione con Hera e con la coop Il Germoglio, sulla base del progetto regionale “Raee in carcere”. Il lavoro domestico viene svolto a rotazione e quasi tutti i detenuti sono toccati da quest’attività. Il recupero di materiale elettronico si svolge in un laboratorio dedicato e occupa una decina di persone.
C’è poi la ritinteggiatura dell’edificio, iniziativa promossa dall’ufficio del Garante dei diritti dei detenuti del Comune e di cui vado molto fiero: il progetto si è consolidato e siamo già al terzo anno di attività; con un piccolo investimento annuale, che consiste semplicemente nell’acquisto della tintura, si produce un grande valore aggiunto perché si migliorano le condizioni interne del carcere e allo stesso tempo si dà un’opportunità di socializzazione e di occupazione alle persone detenute. Si tratta sempre di piccoli numeri, inoltre ci sono attività che si radicano e altre che invece finiscono ma l’intenzione e la volontà di progredire su questa strada ci sono.

Sappiamo che a Ferrara è stata avviato un progetto regionale molto interessante che vede l’impiego di ragazzi ai domiciliari per la coltivazione di verdure per la grande distribuzione, grazie alla collaborazione tra Casa circondariale, la Coop estense e l’associazione Viale K.

Sì, oltre al lavoro all’interno del carcere, ci sono persone che svolgono la loro pena all’esterno e vengono seguiti dall’Ufficio esecuzione penale esterna. Il progetto di coltivazione della terra presso il terreno della Comunità la Ginestra di Cocomaro di Focomorto (associazione Viale K) sta avendo esiti ottimi ed è stato appena confermato anche per il prossimo anno. Sempre con la Ginestra, molto probabilmente partiremo dalla prossima primavera con la realizzazione del progetto degli orti all’interno del carcere: il responsabile della Ginestra Eduart Kulli è disponibile per la formazione dei detenuti; il terreno a disposizione c’è già; occorre solo un piccolo investimento per realizzare l’impianto di irrigazione.
La creazione degli orti all’interno del carcere è un progetto che sta a cuore a molti perché è un’ottima possibilità per i carcerati sotto diversi aspetti, per il lavoro, per l’autoconsumo e la socializzazione. Diverse a Ferrara le realtà che si stanno spendendo per la realizzazione del progetto: oltre a noi, diversi operatori dei servizi sociali del Comune, del volontariato, oltre al personale del carcere stesso.

Ci sono altre associazioni o cooperative ferraresi che danno lavoro ai detenuti, dentro o fuori dal carcere?
I soggetti coinvolti sono vari: oltre a Viale K, la cooperativa il Germoglio, l’associazione Noi per loro, la Biblioteca Ariostea e il Teatro Nucleo. Di passi se ne stanno facendo a vari livelli e il bilancio è decisamente positivo.

CONTINUA

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LA RIFLESSIONE
Ultimi bagliori del Duca Rosso

A giudicare dal pubblico, il ritorno sulla scena ferrarese di Roberto Soffritti è questione che interessa solo i reduci della politica. Alla sala dell’Arengo, che nei giorni scorsi ha ospitato un suo confronto con la stampa in stile “tribuna politica” (organizzato dal Think tank “Pluralismo e dissenso” e moderato da Mario Zamorani), c’erano molti capelli bianchi e pochi o nessun under 50. Il chiaro segnale che l’epopea del Duca Rosso è davvero conclusa in tutti i sensi, non appassiona i giovani ma desta giusto curiosità fra chi ha vissuto quegli anni da protagonista: in platea, infatti, la prevalenza era di ex amministratori e “addetti ai lavori”…

Le luci fioche della sala e il tono da confessionale dell’oratore hanno contribuito a rendere un po’ surreale il clima l’incontro, animato dalle domande di Stefano Lolli (Resto del Carlino), Stefano Scansani (la Nuova Ferrara), Stefano Ravaioli (Telestense), Marco Zavagli (Estense.com) e, per Ferraraitalia, dall’estensore di questa nota. Anche i riflessi sui giornali, che abbiamo atteso per valutare l’accoglienza in città, sono stati misurati e non hanno finora sollecitato alcun commento da parte dei lettori.

Eppure, nel bene e nel male, Soffritti a Ferrara ha segnato un’epoca. I suoi sedici anni da sindaco, interpretati da primattore quale egli era, in tempi caratterizzati da frenesia e rapidità, equivalgono quasi a un regno. Di alcune attuali derive politiche è stato per molti versi uno spregiudicato anticipatore: delle larghe intese, per esempio, che gli oppositori di allora (a rischio di querela) definivano “consociativismo”; ma anche di una “politica del fare” che dribbla la questione morale e si misura solo con i vincoli di legge: un approccio in base al quale le cose sono “lecite o vietate”, mentre “l’inopportuno” – nel Soffritti-pensiero – risulta una categoria con cui si baloccano le inconcludenti anime belle. “Quando c’è qualcosa che non va, si muove la magistratura: il resto sono chiacchiere”, ha affermato tranchant.

Con un artifizio retorico, un’apparente deminutio auctoris impiegata per strappare il consenso, l’ex sindaco considera plausibile (per inesausta volontà di fare) d’aver commesso anche “diecimila errori”, ma a nessuno dà un nome. Mentre con sdegno respinge puntualmente tutte le principali accuse che da anni gravano sul suo capo: la scelta di Cona come ubicazione del nuovo ospedale (“di fatto dettata dalla Regione”); la controversa gestione della vicenda relativa al Palazzo degli Specchi (“frutto di intrecci romani”); le salde relazioni con la Coop Costruttori di Giovanni Donigaglia.
Al riguardo evoca spesso, ma non nomina mai, i suoi strenui oppositori interni di allora, che rispondono principalmente ai nomi di Fiorenzo Baratelli e Paolo Mandini. Nomi che sulle sue labbra non affiorano, se non implicitamente nelle smorfie di fastidio che si tracciano quando tratta quei temi e spiega che tutto è frutto di “malintesi, cose che non si sanno o si finge di ignorare, montate ad arte da chi non capiva o non voleva capire”.
“Io non sono stato il sindaco più bravo di questa città – replica a chi glielo chiede – ma quello che ha fatto più cose”, il che però nella sua testa è una tautologia, alla luce della quale inciampa la falsa modestia.

Rivendica persino, con discreta faccia tosta, le ragioni della sua conversione da moderato del Pci (“mi dicevano che ero un socialdemocratico”) ad alfiere del Pdci, in veste di tesoriere nazionale e deputato: una scelta compiuta non perché repentinamente fulminato dal verbo marxista-leninista sulla via di Roma, ma a causa del fatto (ammette quasi con candore) che tutti gli incarichi politici prefigurati dopo il ’99 sfumavano inevitabilmente (“benché per me si fossero spesi Montanari per la Regione e addirittura Veltroni per le Europee”), complice la malevolenza dei soliti noti che gli strionfavano contro. Così, nel 2006, alle profferte “dell’amico Diliberto”, non ha potuto resistere, non per conversione ideologica ma per evidente brama dello scranno di Montecitorio, una ghiotta opportunità per proseguire la sua pragmatica parabola. E a chi gli chiede conto di quella giravolta verso la sinistra radicale ricorda come “allora appoggiavamo Prodi, dando quindi un sostegno fondamentale al governo del Paese”. Mentre oggi che il piccolo PdCi è fuori dall’orbita governativa e da ogni cabina di regia, il saggio Soffritti è alla ricerca di un nuovo approdo, che non sarà “con quelli dell’Altra Emilia Romagna”.

Guardando indietro il Duca Rosso rivendica con orgoglio la sua innaturale alleanza con la Dc di Nino Cristofori (braccio destro di Giulio ‘Belzebù’ Andreotti), in un certo senso prodromo delle larghe intese attuali. “Accordi indispensabili in una città di agrari – sostiene, riferendosi al suo antico patto – per ottenere il consenso vasto e diffuso necessario per fare ciò che serviva a Ferrara”.
Insomma, il ‘fare per il fare’, senza badare troppo al ‘come’. D’altronde è proprio quello che da anni ci “insegnano” tutti coloro (da Berlusconi a Renzi) che avendo responsabilità di governo spiegano che non si può andare troppo per il sottile, che le cose “vanno fatte e basta”.

Così è per Soffritti e per tanti altri che sono stati o sono al vertice delle istituzioni e dei partiti. Tanti governanti di piccole e grandi città, di Regioni bianche o rosse, di governi nazionali. Loro “fanno” per cambiare il Paese. Invece resta tutto uguale, le stesse inerzie, la stessa mentalità, gli stessi scandali. E non a dispetto dei loro sforzi, ma a causa dei loro metodi: perché proprio l’esasperata “politica del fare” è terreno di pastura per quelli che, non a caso, si chiamano affaristi o faccendieri, abili a infiltrasi nei suoi anfratti e a corromperne la natura. Sono loro, ancora loro, i tragici protagonisti delle cronache politiche e di quelle giudiziarie di Nostra Italia del Miracolo anno domini 2014.

Guarda il video dell’incontro [vedi]

nidi-infanzia-storia

LA RIFLESSIONE
I ‘Nidi’ e i servizi per l’infanzia a Ferrara: una storia di lotte ed emancipazione nel cuore pulsante della città

di Loredana Bondi

Oggi appaiono come qualcosa di scontato, ma i Nidi per l’infanzia sono stati il frutto di dure battaglie. E’ stata Ansalda Siroli a ricordare le grandi lotte delle donne che anticiparono, fin dagli anni ’60 – con un referendum e con manifestazioni di piazza – l’approvazione della legge italiana sull’istituzione dei Nidi (la 1044/71) e l’abolizione degli Istituti di rieducazione e assistenza per l’infanzia Onmi (istituiti nel periodo fascista). Il valore educativo del Nido che non serviva solo alla donna che lavorava, ma ad un cambiamento culturale e organizzativo della società, per un’idea diversa della donna, del bambino e in particolare della responsabilità che la società si doveva assumere: insomma un cambiamento di rotta nella lettura dei ruoli sociali e di come tradurre i diritti in azioni concrete.

L’occasione per parlarne è stata la presentazione del volume “Sui nostri passi –Tracce di storia dei servizi educativi nei comuni capoluogo dell’Emilia Romagna”, a cura di Lorenzo Campioni (presidente del Gruppo nazionale infanzia ) e Franca Marchesi (pedagogista). Per Ferrara ho tracciato la storia dei servizi educativi per l’infanzia dal dopoguerra ad oggi; una storia che s’intreccia con la storia della città. L’incontro è stato organizzato nei giorni scorsi dall’Istituzione Servizi educativi, scolastici e per le famiglie del Comune di Ferrara.

Nel cammino di questa ricerca storica, sia pure relativamente vicina a noi (dal dopoguerra ad oggi), ho consultato documenti di ogni tipo e ho avuto l’onore di avere testimonianze dirette da chi questa storia l’ha vissuta e l’ha voluta interpretare. Si è trattato di un lavoro interessante che ripercorre motivazioni, scelte culturali e politiche che hanno consentito il profilarsi di una vera identità dei servizi rivolti all’infanzia e non solo. Come non ricordare l’opera di Maria Luisa Passerini, prima direttrice delle scuole d’infanzia e, negli anni ’70, anche dei Nidi, della quale abbiamo testimonianza , grazie ad una sua raccolta di scritti, pubblicata recentemente dall’Udi e dal Comune di Ferrara. Così come non si possono dimenticare, in ambito pedagogico, le tante educatrici e coordinatrici che, con grande professionalità, hanno saputo offrire servizi di qualità, puntando al coinvolgimento delle famiglie e del territorio, come esercizio continuo di democrazia: lavoro prezioso per la crescita culturale della comunità.

Alla presentazione del libro, non potevano mancare i “testimoni “ del tempo: appunto Ansalda Siroli dell’Udi, Radames Costa ex sindaco della città di Ferrara dagli anni ’70 agli anni ’80 e Daniele Lugli , già assessore alla Pubblica istruzione negli stessi anni.
Devo dire che nonostante l’incontro seminariale si sia protratto per diverse ore, le testimonianze sono state appassionanti e talora commoventi. Insomma questa nostra “storia” vissuta direttamente, ha suscitato ricordi, pensieri, emozioni.

E con tono decisamente coinvolgente, carico di quella “passione vera e credibile” di chi porta il peso di tante lotte a livello politico, Radames Costa ha voluto dare alla “sua storia” una lettura aperta dell’impegno che lo vedeva come primo cittadino, in un tempo reso difficile dal clima sociale duro e aspro degli attentati terroristici e dello scontro sociale tra “vecchia guardia” e nuovo modello di società. La spinta propulsiva per il vero avvio di un modello di servizi educativi per la prima infanzia gestito dal Comune, trovò numerosi ostacoli a livello locale: economici, ma non solo. La “diversa visione” dei ruoli della famiglia e della donna all’interno del contesto sociale, attraversa anche i partiti e da non sottovalutare è la posizione critica delle strutture ecclesiastiche che vedevano nell’avanzare di queste scelte e di questi cambiamenti, pericoli per la propria dottrina. Costa guidò la città in un momento davvero tragico, segnato a livello nazionale dalla strage di Milano (1969) e l’attentato alla stazione di Bologna (1980) e il coraggio di fare scelte difficili sul piano sociale era costoso da tutti i punti di vista. Per la sua amministrazione le scelte furono davvero straordinarie.
Daniele Lugli, già assessore alla Pubblica istruzione (ed ex Garante per l’infanzia della nostra Regione), proprio in quegli anni era, di fatto, il pieno sostenitore dell’avvio dei Nidi e di un sistema di servizi 0-6 anni che si qualifica come momento nuovo del bambino-società. Nel suo discorso al Consiglio comunale del 28 marzo 1972 appare chiaro che la proposta di abolire l’Onmi e creare strutture educative per la prima infanzia in cui le caratteristiche stesse dei processi educativi richiamano e impegnano una gestione ti tipo sociale. Questo elemento va oltre ciò che è indicato dalla stessa legge: la gestione sociale, viene collegata ai contenuti stessi delle attività del Nido, dandogli una caratterizzazione che supera decisamente l’impronta custodiale. In questo percorso fu certamente sostenuto dalla Giunta e dal Sindaco. Importante il grosso lavoro di studio e ricerca che Lugli ricorda di aver effettuato con la locale Facoltà di Magistero, collaborando con figure di grande rilevanza pedagogica come Egle Becchi, sul valore profondo della formazione continua degli insegnanti.

Che dire? E’ stata una “storia straordinaria” fatta da visioni valoriali alte, di passione civica di lotte per il riscatto delle classi popolari, per la difesa della maternità e la conciliazione fra impegni di cura e di lavoro, di assunzione di grandi e non facili responsabilità, pur di realizzare servizi per la prima infanzia e difenderli dagli attacchi che nei decenni si sono susseguiti in forme diverse.
Il perché di questa storia? Perché la crisi attuale di valori di diritti negati in tutti i campi della vita personale e sociale possa stimolarci a ripensare ai presupposti culturali ed istituzionali delle politiche sociali ed educative, ma soprattutto perché occorre una nuova legge sui servizi 0-6 anni che è tuttora in discussione al Senato: il ddl 1260.
Come Gruppo nazionale nidi e infanzia stiamo raccogliendo a livello nazionale le firme per il sostegno di questa nuova legge da tutti i cittadini per rendere ancora una volta, dopo più di 40 anni, credibile il diritto i tutti i bambini ad avere accesso ai servizi educativi fin dai primi anni di vita.

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L’INCHIESTA
In carcere. Lavori utili
per dare un senso alla detenzione e un risarcimento alla collettività

Scade a giugno 2015 la proroga per la nuova verifica sulle carceri. Entro quel termine lo Stato italiano dovrà adottare le soluzioni necessarie a ridurre il sovraffollamento. Risale ormai a due anni fa (8 gennaio 2013), la sentenza di condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, per i trattamenti inumani verificatesi negli istituti penitenziari del nostro Paese (violazione dell’art. 3 della Cedu, Convenzione europea dei diritti dell’uomo). Ma il sovraffollamento non è l’unico problema delle nostre carceri. La situazione è drammatica anche perché è esiguo il numero delle persone che hanno l’opportunità di lavorare, sia all’interno del carcere per lavori di manutenzione o in officine e laboratori specializzati, sia per lavori socialmente utili come spalare il fango dopo le alluvioni, coprire le scritte che deturpano i muri dei centri storici o ripulire strade e parchi. I detenuti che hanno la possibilità di lavorare piuttosto che non fare assolutamente niente per giorni, mesi, anni, in Italia sono pochissimi, l’abbiamo sentito a Report nella puntata trasmessa il 30 novembre scorso [vedi] e i dati ufficiali* confermano il quadro.

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Desi Bruno

Dell’importanza del diritto al lavoro per le persone detenute, abbiamo parlato con l’avvocato Desi Bruno, Garante delle persone private della libertà personale per la Regione Emilia-Romagna, organismo di vigilanza e monitoraggio presente ormai da vari anni in via sperimentale a livello comunale, provinciale e regionale e, dal febbraio 2014, operativo anche a livello nazionale.

Avvocato, oltre alla sua principale attività di vigilanza e monitoraggio, lei da anni si sta spendendo nel territorio su vari fronti, per diffondere e promuovere una nuova cultura della pena che fatica ad affermarsi, nonostante sia già tutto predisposto e livello di ordinamento legislativo.

Sì, gli strumenti legislativi ci sono, c’è un raccordo e una collaborazione fattiva con gli altri Garanti territoriali presenti in regione, in particolare con quelli dei comuni di Piacenza, Parma e Ferrara (nella nostra città il garante è Marcello Marighelli, ndr). Quello che manca è la conoscenza degli strumenti e la volontà di attivarli, e per questo è necessaria un’opera di diffusione e comunicazione capillare a livello territoriale, perché come spesso succede in questo Paese gli strumenti ci sono ma non vengono compiutamente utilizzati. Spesso gli enti locali o le stesse direzioni delle carceri non sfruttano le possibilità e le potenzialità create dalle leggi, tutti si lamentano ma permane un forte immobilismo.
E’ importante ricordare che i detenuti sono privati della libertà personale, ma non degli altri diritti, in primo luogo del diritto al lavoro che è il fulcro del trattamento penitenziario e che deve essere retribuito. Il nostro è un ordinamento avanzato e non prevede il lavoro obbligatorio; il detenuto deve poter lavorare, per contribuire a mantenere la famiglia, per le piccole necessità e per mettere da parte qualcosa per quando uscirà dal carcere. Poi va benissimo anche il discorso del volontariato e dei lavori socialmente utili, una cosa non esclude l’altra, ma il lavoro retribuito è un diritto imprescindibile e l’istituzione penitenziaria avrebbe l’obbligo per legge di garantirlo.

Con Ferrara si è instaurato un certo legame e l’avvocato Bruno ha partecipato a diverse iniziative, tra cui la rassegna “Libri galeotti”, curata da Andrea Pugiotto, ordinario di Diritto costituzionale dell’Università di Ferrara, e recentemente la due giorni di confronto sul tema dei “Diritti alla Terra. Coltiviamo nuovi modelli d’azione” organizzato da Alce Nero e Amnesty International, che si è svolto alla Wunderkammer di via Darsena, durante l’ultima edizione del festival di Internazionale [vedi].

Come si inseriva il suo intervento nel contesto dell’incontro sui “Diritti alla terra” alla Wunderkammer?
Da vari anni collaboro con Lucio Cavazzoni di Alce Nero per creare opportunità di lavoro per i detenuti legate al settore alimentare. Con lui abbiamo cercato di avviare alcuni progetti all’interno del carcere di Bologna, allora ero ancora Garante per il Comune di Bologna, come la creazione di laboratori di panificazione nel reparto femminile, di serre e orti, un allevamento di api.

Perché è così importante il tema dell’alimentazione e della terra per l’occupazione e la riabilitazione dei detenuti?
La coltivazione della terra per le persone detenute è un fatto cruciale che tocca vari aspetti: i detenuti che lavorano e coltivano prodotti freschi trovano soddisfazione e realizzazione durante la pena, imparano un mestiere che potrà essere utile una volta usciti dal carcere e, aspetto non meno importante, possono stare nel verde, nella natura, toccare e respirare qualcosa che non sia cemento. Le carceri italiane sono luoghi molti alienanti perché costruite quasi tutte negli anni ’70, con colate di cemento e con criteri di massima sicurezza, per via del terrorismo. Ecco quindi da dove nasce il recente tentativo di recuperare degli spazi verdi per la coltivazione o anche solo per l’incontro con le famiglie.

Le esperienze di orti e serre realizzate in regione e in Italia in generale hanno dato esito positivo? E quanto sono diffuse?
Le esperienze di coltivazione della terra sono state tutte molto positive, ma sono ancora molto poche. In regione ci sono realtà poco competitive ma che funzionano perfettamente: nel carcere di Modena si produce un ottimo miele, a Reggio Emilia e a Bologna ci sono le serre e gli orti, a Ferrara la coltivazione di verdure per la grande distribuzione, progetto molto interessante che vede la collaborazione della Coop e dell’associazione Viale K.

Abbiamo seguito la puntata di Report di domenica 30 novembre in cui emerge il drammatico quadro delle carceri italiane: sovraffollamento, rarissimi i casi di opportunità lavorative per i detenuti (fuori e dentro il carcere), a fronte di altissime spese di mantenimento da parte dello Stato, si parla di 4.000 euro al mese a persona. Perché è così difficile far lavorare i detenuti?
Sì, la puntata di Report è stata molto eloquente, anche se un po’ parziale perché è mancata la presentazione delle diverse esperienze che funzionano e che potrebbero servire da modello. Effettivamente il lavoro manca, e questo è un dato inconfutabile. Ed è vero che i detenuti vorrebbero lavorare perché l’inattività distrugge il corpo e la mente.
Occorre però distinguere tra lavoro retribuito e lavori di pubblica utilità. I lavori di pubblica utilità sono stati inseriti nel nostro ordinamento già da tempo, e consentono agli enti locali di poter utilizzare i detenuti per fare una serie di lavori. Nella nostra regione ci sono già state diverse esperienze positive: a seguito del terremoto del 2012, una decina di detenuti del carcere di Bologna e Modena sono usciti per svolgere attività di volontariato; a Bologna altrettanti detenuti sono stati formati per la pulitura dei muri dai graffiti del centro storico; nel ravennate già da tempo si occupano della pulizia delle spiagge e dei fiumi. Quindi diciamo che, laddove c’è una maggiore sensibilità, le iniziative vengono assunte e sono esperienze estremamente positive perché aiutano la collettività, hanno una funzione riparatoria e fanno risparmiare le amministrazioni che, soprattutto negli ultimi anni, non hanno più risorse da investire per questo tipo di attività. Vanno di conseguenza incentivate.

Quindi il problema si riscontra soprattutto per il lavoro retribuito, è così?
Sì, per il lavoro retribuito il discorso si fa più complicato: ci sono regole e controlli molto stringenti e occorre garantire un certo livello di produttività all’impresa che decide di investire all’interno degli istituti penitenziari. Alle imprese che assumono detenuti o ex detenuti vengono riconosciuti sgravi fiscali (legge “Smuraglia”) al fine di incentivare appunto l’assunzione. Quanto al lavoro interno all’amministrazione penitenziaria invece, vorrei però sfatare la questione del “non ci sono risorse”, perché le carceri spendono moltissimo appaltando lavori di manutenzione del carcere a ditte esterne, mentre potrebbero assumere gli stessi detenuti risparmiando. Come spesso accade non è un problema di soldi ma di mentalità. La stessa cosa potrebbe essere fatta dalle amministrazioni, favorendo l’assunzione di un certo numero di detenuti nelle cooperative di tipo B che si occupano della manutenzione del verde pubblico o dei lavori stradali. A Rimini, per esempio, c’è un’esperienza molto interessante ed esportabile in qualsiasi altra città: si tratta dell’Associazione Papillon che si occupa di impiegare nella coltivazione degli orti comunali i detenuti in misura alternativa.

Bene, passiamo al lato pratico e diamo indicazioni concrete: se un Comune senza più risorse avesse bisogno di fare la pulizia degli argini o la manutenzione delle aeree verdi, e volesse utilizzare dei detenuti, come dovrebbe fare?
L’ente pubblico deve fare richiesta alla direzione del carcere dichiarando uno specifico fabbisogno. Per ottenere il permesso di utilizzare un certo numero di detenuti, l’ente deve stipulare una convenzione con la direzione del carcere coinvolgendo la magistratura di sorveglianza. Quest’ultima fa una selezione delle persone idonee, ce ne sono molte, e la cosa è fatta. E’ fattibile e utile. Si tratta solo di agire, altrimenti siamo sempre punto e a capo. Tra l’altro l’Anci ha da poco firmato un protocollo d’intesa [vedi] con il dipartimento per l’amministrazione penitenziaria per promuovere l’attività lavorativa in favore della popolazione detenuta, in collaborazione con strutture pubbliche e private, al fine di dare concreta attuazione all’articolo 27 della Costituzione recuperando all’attività sociale il detenuto, evitando che possa delinquere ancora e riducendo i rischi di recidiva. Addirittura, in questo protocollo si parla anche di istituire vere e proprie agenzie che segnalino l’ammanco di personale per lavori socialmente utili che non vuole fare nessuno, in modo da incanalare l’utilizzo di detenuti per situazioni di reale bisogno.

E per quanto riguarda il lavoro retribuito, come fare per incentivarne e promuoverne l’utilizzo?
Le direzioni degli istituti penitenziari dovrebbero poter utilizzare le risorse di cui dispongono in modo diverso e con autonomia gestionale, considerando il lavoro dei detenuti come una risorsa, almeno per la manutenzione ordinaria e i lavori di pulizia che spesso non vengono svolti come si dovrebbe per mancanza di personale. Le amministrazioni penitenziarie dovrebbero anche poter utilizzare le competenze specifiche di certi detenuti: ci sono tecnici elettricisti, imbianchini, idraulici che potrebbero venire molto utili per la manutenzione dell’edificio. Per andare incontro alle difficili condizioni economiche in cui versano gli istituti, si potrebbero rivedere i compensi e le tariffe sindacali per il lavoro dei detenuti, e anche trattenere una parte dello stipendio come risarcimento delle spese sostenute per il singolo detenuto o come risarcimento alle vittime. Ma per fare questo è necessario che i fondi destinati al lavoro per i detenuti non subiscano continue e preoccupanti riduzioni, che vanificano ogni migliore intenzione.
Poi occorre anche saper interagire con il privato, con le aziende che potrebbero utilizzare il lavoro dei detenuti.

Qualche esempio positivo, nell’ambito della nostra regione, di aziende che acquistano i manufatti prodotti dai detenuti?
Da segnalare i casi di eccellenza del carcere di Bologna: da qualche anno nel carcere della Dozza è attiva a pieno regime un’officina meccanica, fortemente voluta da un cartello di imprese che operano nel territorio (Ima-Marchesini e Gd), che sta dando lavoro a 10 detenuti, assunti con regolare contratto da dipendenti; sempre alla Dozza, c’è poi l’esperienza di 4 donne che lavorano nella sartoria della sezione femminile, dove realizzano borse e capi bellissimi che commercializzano in varie situazioni pubbliche, ultimamente si è raggiunto anche il canale Ikea.

(*) a fronte di 58.092 detenuti presenti negli istituti italiani, sono 11.735 lavoranti alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria e 2.364 non dipendenti ovverossia lavoratori in proprio o alle dipendenze di imprese o cooperative. Alla stessa data, nella Regione Emilia Romagna, a fronte di 3127 presenze complessive nelle carceri, risultavano 833 i detenuti lavoranti, di cui 627 alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria (Fonte Dap, dati aggiornati al 30 giugno 2014).

Per saperne di più:

Relazione annuale 210- Garante delle persone private della libertà personale della Regione Emilia-Romagna [vedi]

Garante dei Diritti delle Persone Private della Libertà Personale della Regione Emilia-Romagna
BRUNO Desi
Ufficio: Viale Aldo Moro, 50
40127 BOLOGNA
Telefono : 051 5275999
Fax: 051 5275461
e-mail: garantedetenuti@regione.emilia-romagna.it
sito [vedi]

Garante dei Diritti delle Persone Private della Libertà Personale del Comune di Ferrara
MARIGHELLI Marcello
Ufficio: Via Fausto Beretta, 19
44121 Ferrara
Telefono e fax: 0532 419709
email: garantedetenuti@comune.fe.it

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Video on demand e proiettore, il cinema in casa

“Le persone credono solo a quello che gli racconti” (Steven Spielberg, “Catch me if you can”)

L’idea medesima di sala cinematografica sta rapidamente evolvendosi. Forse colpa delle nuove tecnologie, come l’utilizzo invadente dallo smartphone, per cui per molti andare al cinema corrisponde a chiudersi in una sala dove non “c’è campo”; oppure del luogo comune per cui si va al cinema quando non si ha niente da fare (il De Andrè di “buttarsi in un cinema con una pietra al collo” da “Verranno a chiederti del nostro amore”, da riascoltare…); o della dilagante pirateria, prontissima a proporre film in streaming sul web.
E ora si propone in modo sempre più aggressivo il Vod ossia Video on demand. Anche in Italia oramai le nostre distribuzioni, considerato l’ingorgo dei titoli in uscita, anche con dieci/dodici debutti nella stessa giornata, cominciano a utilizzare questo strumento. Pratica già molto diffusa negli Usa, dove i film a budget medio-basso trovano spesso nell’on demand uno sbocco di mercato che non troverebbero nel normale circuito delle sale.
E così una stanza di casa, attrezzata con un videoproiettore, oramai con costi molto contenuti, diviene una sala cinematografica, sottraendo al cinefilo l’onere dell’uscire di casa, parcheggiare, fare file etc.
Il difficile momento economico e sociale, il diffuso pessimismo, la difficoltà di individuare i titoli giusti in un mercato troppo ricco di titoli, con programmazioni oramai anche di una settimana, il timore di sbagliare nella scelta, i costi non proprio bassi di quello che per decenni era un rito, il film per la famiglia, portano ad un uso sempre maggiore di alternative alla classica sala.
Con buona pace nostra che, cresciuti nelle salette di periferia, continuiamo a pensare che la sala sia il luogo dove vedere cinema, condividere emozioni, discutere, insomma essere pubblico attivo e partecipe (evitando magari il morettiano dibattito con la casalinga di Treviso o con il pastore lucano).
Certamente è sempre più necessaria una promozione della cultura cinematografica, ad esempio nelle scuole, come da un precedente articolo uscito su questa rubrica [vedi], anche tenendo presente che, inevitabilmente, è sempre più accentuata la divaricazione tra il cinema che possiamo definire di “intrattenimento”, con i suoi effetti speciali e computer grafica, e il cinema inteso come prodotto culturale.
E comunque il vero cinema non morirà, ma continuerà attraverso imprevedibili e certamente affascinanti mutazioni a raccontarci le sue storie. E noi saremo lì, seduti nella sala buia…

TEST DI CULTURA CINEMATOGRAFICA
Stavolta il gioco è indovinare il titolo del film da una frase, con qualche piccolo aiuto…
Per le risposte clicca qui

1) “Io sono ancora grande, è il cinema che è diventato piccolo.” (film emblematico della diva decaduta)

2) “Chi salva una vita salva il mondo intero.” (su un eroe sepolto nel cimitero dei Giusti, il cui nome è scritto sulle scale mobili…)

3) “Prima di cambiare il mondo, devi capire che ne fai parte anche tu: non puoi restare ai margini e guardare dentro.” (film con una corsa a perdifiato dentro il Louvre, che cita Godard)

4) “E’ soltanto nelle misteriose equazioni dell’amore che si può trovare un’equazione logica.” (film sulla vita di un matematico e premio Nobel)

5) “Mi piacerebbe conoscere quello che ha inventato il Tavor: lui sì che fa stare bene la gente, lui sì.”( film italiano vincitore della Palma d’oro)
Risposta – La stanza del figlio

6) “Non ballare, un uomo non balla. Pensa a Schwarzenegger: cammina a stento” (uno dei primi outing gay del cinema con Kevin Kline)

7) “Non posso avere la nausea quando ascolto Ludovico Von… vi prego… Lasciate stare Beethoven, lui non ha fatto niente, ha scritto solo Musica!” (questo è facile…)

8) “Nun è che ce sei stata a letto…? No!!!…l’avemo fatto pe tera” (duetto Manfredi-Vitti nella Roma papalina)

9) “Io, guarda, non è che son contrario al matrimonio, che non son venuto… Solo, non lo so… Io credo che, in particolare, un uomo e una donna siano le persone meno adatte a sposarsi tra di loro. Troppo diversi, capisci?” (riflessioni sull’amore di un comico napoletano, scomparso troppo giovane)

10) “Qualsiasi donna, al momento giusto, al posto giusto, con le circostanze giuste, farebbe qualunque cosa.” (amara riflessione di un pugile italoamericano)

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CALENDARIO DELL’AVVENTO
I figli di Babbo Natale

“In magazzino, il bene – materiale e spirituale – passava per le mani di Marcovaldo in quanto merce da caricare e scaricare. E non solo caricando e scaricando egli prendeva parte alla festa generale, ma anche pensando che in fondo a quel labirinto di centinaia di migliaia di pacchi lo attendeva un pacco solo suo, preparatogli dall’Ufficio Relazioni Umane; e ancor di più facendo il conto di quanto gli spettava a fine mese tra «tredicesima mensilità» e «ore straordinarie». Con quei soldi, avrebbe potuto correre anche lui per i negozi, a comprare comprare comprare per regalare regalare regalare, come imponevano i più sinceri sentimenti suoi e gli interessi generali dell’industria e del commercio.”

Siamo nel 1963, ma potremmo benissimo essere nel 1983 come nel 2013. “I figli di Babbo Natale” è l’ultimo racconto contenuto nella raccolta “Marcovaldo, ovvero Le stagioni in città” di Italo Calvino. Marcovaldo, kafkiano manovale-antieroe in una ditta di fantozziana memoria (dall’onomatopeico nome “Sbav”), è l’agnello sacrificale di un sistema più grande di lui, eternamente in competizione con altri sistemi affini, con la stessa mancanza di valori e la stessa insana passione per il capitale. Alla comicità delle scene cui fa da sfondo la città, si uniscono la malinconia e lo stupore, molto poco natalizi, che crescono via via che la sua avventura cittadina e familiare si evolve.
Marcovaldo non è dentro – è semplicemente l’ultimo anello di una malsana catena che dispensa consumismo – e non è fuori – viene alla fine scelto come Babbo Natale aziendale, subendone parrucca e costume. Lui, eterno ingenuo, Candido voltairiano, è il Natale. Ma quale?
È il Natale consumistico, pieno di luci e attenzioni false, volte a creare legami esclusivamente di profitto. È il Natale alla rovescia, in cui chi ha troppo non apprezza (il bambino triste e annoiato) e chi ha molto poco (il figlio Michelino) si preoccupa di dare a chi è povero, trovando nel bambino ricco e annoiato un ideale destinatario. È anche il Natale profetico del commercio e dei rapporti umani, che esalta oggetti e modi di comportamento distruttivi – purché si venda – e che riduce ogni piccola meraviglia e orgoglio a una alzata di spalle, quasi indifferente.
E Marcovaldo per un attimo si spera unico e irripetibile, scoprendosi poi microscopico ingranaggio del magico periodo natalizio, come un chapliniano movimento alla catena di montaggio delle festività.

“Per le vie della città Marcovaldo non faceva altro che incontrare altri Babbi Natale rossi e bianchi, uguali identici a lui, che pilotavano camioncini o motofurgoncini o che aprivano le portiere dei negozi ai clienti carichi di pacchi o li aiutavano a portare le compere fino all’automobile. E tutti questi Babbi Natale avevano un’aria concentrata e indaffarata, come fossero addetti al servizio di manutenzione dell’enorme macchinario delle Feste.”

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Se tutto è narrazione

In questo tempo assistiamo ad una particolare enfasi sulla narrazione. Ogni narrazione ci trasporta verso un mondo possibile, vale a dire verso una condizione, almeno in parte diversa da quella quotidiana. Il marketing lo sa e, attraverso la dimensione narrativa, ci porta in mondi ideali, divertenti e buoni. Del resto, “quando due uova sono uguali il consumatore preferisce l’uovo con una storia” per citare il brillante motto contenuto nel libro di A. Granelli e F. Trupia, “Retorica e business. Intuire, ragionare, sedurre nell’era digitale” (Egea, 2014).
Il rapporto tra realtà, desideri e progetti è una questione sempre aperta. Ognuno di noi cerca di continuo un equilibrio tra esigenze di adattamento alla realtà e spinte al cambiamento, in sostanza pratica un proprio equilibrio tra sogno e realtà: senza stabilità e radicamento non è possibile nessuna proiezione verso il nuovo, ma senza una tensione verso un nuovo traguardo, prevale la noia.
A livello sociale il tema dei mondi possibili ha la stessa funzione: può servire a prefigurare un cambiamento o, al contrario, può spostare l’attenzione da un presente preoccupante. La rete espone di continuo la tensione tra realtà e sogno, non a caso nella fase storica in cui è più forte il richiamo alla ineluttabilità delle linee delle macro decisioni che governano il mondo appare più cogente. Si parla di vincoli di bilancio, di risorse limitate, di equilibri instabili che vanno salvaguardati. Insomma intorno a noi il richiamo all’adattamento sembra di gran lunga prevalere. Al tempo stesso, la rete ci propone l’apertura a un mondo possibile, un mondo che si compone dei materiali più vari, a cominciare da quelli del cinema, delle pubblicità, fino a quelli evocati dalle più diverse citazioni di autori più o meno celebri. Siamo portati a mettere in scena vite diverse, magari facendo alle nostre stesse vite un po’ di maquillage, mostrandone gli aspetti più gradevoli, il volto della festa, del viaggio. In rete cerchiamo una discontinuità almeno parziale con il nostro quotidiano. Più in generale, mettiamo in scena un passaggio dalla realtà all’immaginazione.
Anche nei media assistiamo alla stessa dinamica. La forma narrativa ha plasmato ogni notizia trasferendola, almeno parzialmente in un contesto narrativo con l’obiettivo di accrescere l’impatto emozionale. Se il registro è sempre quello dei sentimenti, è molto alta la probabilità che si producano credenze piuttosto che conoscenza, adesioni acritiche piuttosto che riflessione.
La nostra identità si costruisce sempre di più attraverso vite immaginate e rappresentate piuttosto che reali. Abbiamo bisogno di sogni, del resto. L’immaginazione è importante come spinta al cambiamento, ma talvolta è solo un modo per accettare una realtà verso la quale ci si sente impotenti. Forse i sogni trovano uno spazio smisurato quando la realtà consente spazi di azione limitati. Il ruolo dei sogni, delle grandi visioni ha sempre tracciato inattese linee di futuro, ma se i sogni restano inagiti, se non lasciano tracce all’alba, alimentano la frustrazione.

Maura Franchi – Laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing, Marketing del prodotto tipico. I principali temi di ricerca riguardano i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@gmail.com

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REPORTAGE
Mob Peppers da vedere.
Jazz club

Serata groovy con una musica in grado di creare una potente empatia con il pubblico quella di domenica scorsa al Jazz club Ferrara con i Mob Peppers. Al Torrione di San Giovanni il quartetto si è esibito con Pee Wee Ellis, leggendario sassofonista della band di James Brown. All’insegna di soul e funk il gruppo formato da Daniele Santimone alla chitarra, Luigi Sidero alle tastiere, Giorgio Santisi al basso elettrico e Christian Capiozzo alla batteria.

Un concerto bello anche da vedere con le immagini rigorosamente in bianco e nero di STEFANO PAVANI.

[clic su una foto per ingrandirla e vedere tutta la galleria]

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Pee Wee Ellis coi Mob Peppers (foto di Stefano Pavani)
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Pee Wee Ellis coi Mob Peppers (foto di Stefano Pavani)
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Mob Peppers al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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Mob Peppers: Luigi Sidero alle tastiere (foto di Stefano Pavani)
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Mob Peppers: Luigi Sidero alle tastiere (foto di Stefano Pavani)
Mob Peppers: Christian Capiozzo alla batteria (foto di Stefano Pavani)
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Mob Peppers: Daniele Santimone alla chitarra (foto di Stefano Pavani)
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Mob Peppers al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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Mob Peppers al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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Mob Peppers al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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Mob Peppers al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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Mob Peppers al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)

Bellezza dell’amore imperfetto

Filèmone ha il compito di restituirle il “senso del meraviglioso”. Gioconda lo ha perso da quando Leonardo e il loro matrimonio non ci sono più e, le sembra, non esista nient’altro attorno. Filèmone è un angelo che parla d’amore, prima di tutto l’amore che Gioconda non sa nutrire verso se stessa, quell’amore fatto di cura ed entusiasmo puro perchè non vive di riconoscimento nell’altro. Una cura radicale nel senso che va alla radice di ciò che può farci stare bene, magari anche un po’ paura, ma poi qualcosa cambierà.
Gioconda ha la testa intasata di domande, ha bisogno di definirsi, ricrearsi nuovi contorni, troppo vuoto senza Leonardo. Filèmone non è lì a compiangerla, bensì a metterla di fronte al suo narcisimo, tipico di chi crede di essere assoluto nella sofferenza, alla sua autocommiserazione, così comoda per delegare colpe e responsabilità.
Gioconda ha il dono, o la maledizione, di ‘sentire’ molto, forse troppo, intuire negli altri proprio quello che con arte gli altri vogliono silenziare. Sentire troppo la fa smarrire, ma è anche il suo ponte proteso verso il dolore e l’amore che stanno fuori, nel mondo. Filèmone la avverte, Gioconda può scegliere se tenere accesa o spenta questa “antenna”, se chiudersi o aprirsi alla sofferenza come alla gioia, una scelta. Anche l’amore è una scelta, ci vuole coraggio a lasciarlo entrare con tutti i rischi che si porta dietro. Ma Filèmone, che nel suo nome ha l’etimologia dell’amare e nella mitologia greca è amore che sceglie di fondersi per sempre, vuole aiutare Gioconda a non confondere l’emozione, intensa quanto veloce, col sentimento che durata non ha perchè la valica.
Perchè il matrimonio con Leonardo è entrato in crisi? Gioconda comincia a capirlo, inizia a vedere che lei e Leonardo avevano smesso di prendersi cura di quella cosa che si costruisce insieme e non ha l’autosufficienza di una cosa finta perchè è una cosa viva che si spegne se i due non la vivono, se smettono di mancarsi, se non capiscono che dare tutto non serve, l’equilibrio (difficilissimo) sta in altro.
Gioconda deve ancora imparare a bastarsi, a farsi compagnia superando quel disperato bisogno di riempirsi di altro con gli altri. Filèmone le consiglia di provare a vivere dentro ascoltandosi, a ricaricarsi di se stessa, a smettere di volere comunicare per esistere. Gioconda intrapende un viaggio, fisico e dell’anima, un’avventura che la porterà lontano e molto vicina a sè, fino ad aderirvi.
Solo allora Gioconda potrà riconsiderare l’amore senza la presunzione di perfezione e infallibilità, senza il bisogno di continue conferme, ma con la cura e la passione che non rinuncia a cercare l’altro.

Massimo Gramellini, Chiara Gamberale, Avrò cura di te, Longanesi 2014

Volevo essere un libro

“La vraie vie, la vie enfin découverte et éclaircie, la seule vie par conséquent pleinement vécue, c’est la littérature” (Marcel Proust)
“La vera vita. La vita, quindi, scoperta e chiarita, e per conseguenza la sola vita pienamente vissuta, è la letteratura” (mia traduzione)

L’altra sera dopo lo splendido inizio della quarta serie di Downton Abbey (di cui è inutile ricordare che sono un appassionato seguace), riprendo in mano uno dei libri più amati, “Una storia di amore e di tenebra” di Amos Oz. Un passaggio mi produce un brivido nel cuore e nella mente:

“Solo di libri, da noi c’era abbondanza, da una parete all’altra, in corridoio, e in cucina e in ingresso e sui davanzali delle finestre e dappertutto. Migliaia di volumi, in ogni angolo della casa. C’era come la sensazione che mentre gli uomini vanno e vengono, nascono e muoiono, invece i libri godono di eternità. Quand’ero piccolo da grande volevo diventare un libro” (p.31).
Oz è del 1939. Io son più vecchio di un anno. Oz ricorda (ha cinque o sei anni) gli avvenimenti tra il 1944 e il 45 a Gerusalemme.
Anch’io ricordo.

E quello più vivido risale a ciò che accadde dopo il grande bombardamento di Ferrara che ridusse il nonno sul lastrico e il trasferimento nel 1945 in una casa del centro storico infinitamente meno agiata di quella in cui son nato, divisa in due dalla scala che serviva i tre piani. Essendo il più piccolo dormivo nella grande camera dei nonni e non avevo uno spazio mio. Ma il corridoio che portava alle camere, buio e senza finestre, era letteralmente invaso dai libri. Appoggiati sul pavimento, trasbordanti da assi infisse sulle pareti, dilaganti in ogni dove. fino sulla porta del bagno, libri, di ogni dimensione, forma, colore. Da una lussuosa edizione de “I promessi sposi” con le illustrazioni di Gonin a cui mancava il primo capitolo diligentemente ricopiato a penna da qualche ignoto lettore, alle opere complete della Carolina Invernizio, a Salvator Gotta, a tutto De Amicis. E via elencando. Ma chi leggeva in casa? Non certo la mamma costretta al lavoro d’impiegata dopo la giovinezza agiata, non il nonno che s’industriava a far la spesa sul Listone sempre più tardi quando le bancarelle stavano per chiudere e i prezzi di frutta e verdura scendevano, ma la nonna. Implacabile nella lettura dopo che prese il lutto nel 1924 quando per motivi politici perdette un giovane figlio. Da allora la sua vera missione fu leggere. I nonni non so nemmeno se avessero fatto le elementari. Certo è che nel periodo di splendore allevarono i loro figli nel segno della cultura. E le femmine divennero maestre e laureate, fuorché la mamma che lasciò l’ultimo anno delle superiori per sposarsi. Tutte suonavano uno strumento.

In questa situazione anch’io volevo “diventare un libro” e, nonostante un vago tentativo di disciplinare le letture, mi lasciarono stare. Tra i sei e gli otto anni lessi indiscriminatamente, spesso cullandomi al flusso della riga o del capitolo, per puro capriccio visivo. Poi aprirono la libreria delle Paoline in via Cairoli presso il Seminario vecchio. La mamma poteva pagare a rate così arrivarono i meravigliosi volumi che mi confermarono ancor più nel voler essere un libro. Primo fra tutti “Il principe felice” di Oscar Wilde, poi “Incompreso” e tanti altri. Avevano una copertina cartonata verde pallido e un disegno a volte in rilievo nel mezzo. Io ci volevo saltare dentro a quel disegno e nella notte provavo incubi a pensare alla povera statua del principe o all’angoscia del bimbo incompreso e mi piaceva tanto calarmi nei panni di Fauntleroy de “Il piccolo Lord”. Le enciclopedie non mi piacevano perché riducevano a elenco la mia convinzione di voler diventare un libro.

Il sabato lo trascorrevo dai nonni adottivi al piano superiore della mia casa natale. Qui stava anche la Carla, una bellissima ragazza, che nella sua stanza aveva un cassetto pieno di volumi straordinari: la “Vita di Maria Antonietta” di Stefan Zweig (come mi sentivo un nobile pronto a essere sacrificato sulla ghigliottina!) e il bellissimo e crudelissimo “Fouché”. Le mie idee o quelle che respiravo in casa erano conservatrici: uno zio militare futura medaglia d’oro che ogni sabato convocava i nipoti: mio fratello adorante per la vita militare e il riluttante Gianni a pranzo per imparare a maneggiare posate, posture, cibo. Mi sentivo salito ai piani superiori di Downton Abbey. Sui dodici anni provavo disprezzo per gli sport e l’attività fisica. A Roma per l’anno Santo ho visto il Papa sulla sedia gestatoria e tra il caldo, l’emozione e la visione letteraria letteralmente svenni nell’immensità di San Pietro gremita. Ancor più di prima decisi di diventare un libro. Poi i “romanzoni” prestati da una parente: “Via col vento” – naturalmente stavo dalla parte dei sudisti- nonostante avessi versato lacrime a non finire leggendo “La capanna dello zio Tom”. Insomma non ciò che dicevano i libri ma ciò che il libro è.

Bisognerà aspettare l’incontro con il Maestro, Claudio Varese, a quattordici anni affinché imparassi a distinguere cosa “dicono” i libri differenziandoli da cosa sono.
E con i russi cominciò la dismissione di voler essere un libro: non volevo essere Raskolnikov o il principe Myskin. Volevo essere chi l’aveva scritto.
E non riuscendoci ho optato per il mestiere di critico.
Non si sa mai!

SETTIMO GIORNO
L’infame provocazione e le leggende metropolitane

PIAZZA FONTANA – Era un pomeriggio alla milanese, quel 12 dicembre 1969, grigio, freddo, le lucine di Natale tentavano, poverine, di sbriluccicare, ma erano opache in quell’umido tra pioggerellina e nebbia. Sono scoppiate le caldaie, disse un poliziotto all’entrata della banca dell’Agricoltura in piazza Fontana, un pompiere controbattè l’affermazione apodittica: macchè, è una bomba. Entrai, ero il primo giornalista a introdurmi nel bunker del massacro, sotto il tavolone in mezzo alla sala circolare c’era il buco, il cratere dov’era scoppiata la bomba. I brandelli delle vittime penzolavano appiccicate ai muri, mai avevo visto un orrore del genere. Non ci volle molto per capire che i terroristi fascisti avevano dichiarato guerra all’Italia democratica che tentava di uscire da una società per certi versi medievale, una guerra di cui avevano discusso e che avevano preparato alcuni anni prima, coperti dalle sante autorità.
Poche ore dopo la strage, uscì, ufficiale, la prima deviazione politica, il primo atto di un conflitto ideologico, che, forse, non è ancora terminato. Fu il prefetto di Milano Mazza a gettare la grande bugia in mezzo allo sconcerto della popolazione: sono gli opposti estremismi, disse, un’invenzione che avrebbe imputridito anche le relazioni personali (persino familiari) dei cittadini.
Non mi ci volle molto per capire, tornato al giornale scrissi “Un’infame provocazione”, titolo di prima pagina che ebbe, per fortuna, grande seguito. Era tutto chiaro, ma le autorità, secondo il piano ben concertato continuarono ad affermare che era una strage anarchica e, per dimostrare che era vero, ecco l’arresto proditorio di Pietro Valpreda e subito dopo il volo di Pino Pinelli dal quarto piano della questura milanese, uffficio di Calabresi. Eravamo ancora lì in questura in quella notte tragica, Pinelli era caduto (?) senza un grido, ma il questore diceva “si è buttato gridando che era la morte dell’anarchia quando lo informammo che avevamo preso Valpreda e che aveva confessato”. Era tutta una balla, una vergognosa bugia. C’era anche Calabresi lì nell’ufficio del questore, ma non disse parola, pareva nascondersi dietro il suo maglioncino beige. Era tutta una montatura ben architettata, confezionata da tempo e non importa sapere chi erano gli esecutori, colpevole era quella parte dello Stato che non ammetteva altra società se non quella che afferiva agli interessi dei padroni e uso la parola “padroni” con cosciente consapevolezza. Era una strage di Stato. Sono passati 45 anni da quel giorno e mi domando con grande tristezza se è cambiato qualcosa nella nostra società: il potere è sempre nelle stesse mani e le centinaia di vittime delle stragi nere sono state ammazzate due volte con una insopportabile spietatezza.

IL COMUNE PAGATORE – Entro nel negozio davanti al quale un questuante se ne sta sdraiato, mano tesa al passante. Quello sì che sta bene, mi dice una signorina dietro il banco. Beh, insomma… azzardo. Come no, continua la commerciante che sa tutto: il Comune gli dà la casa, gli dà trenta euro al giorno e gli paga perfino il telefonino. Rimango allibito: scusi, chiedo, ma chi le ha raccontato questa fola metropolitana? E lei, sicura: me lo hanno detto!
Ecco come si forma l’opinione della cittadinanza: “me l’hanno detto”. L’importante è che le informazioni siano di destra, siano razziste, siano contro la povera gente, così si forma la coscienza “buona” del paese.

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CALENDARIO DELL’AVVENTO
Luci e ombre del presepe fra Cristianesimo e credenze popolari

«Tommasi’, te piace’ ‘o Presebbio?»
«Sì»
«Ma che bellu Presebbio! Quanto è bello!»
(Eduardo De Filippo, “Natale in casa Cupiello”)

“Ecco il momento di accennare ad un altro svago che è caratteristico dei napoletani, il Presepe […] Si costruisce un leggero palchetto a forma di capanna, tutto adorno di alberi e di alberelli sempre verdi; e lì ci si mette la Madonna, il Bambino Gesù e tutti i personaggi, compresi quelli che si librano in aria, sontuosamente vestiti per la festa […]. Ma ciò che conferisce a tutto lo spettacolo una nota di grazia incomparabile è lo sfondo, in cui s’incornicia il Vesuvio coi suoi dintorni.”
(Johann Wolfang Goethe, Viaggio in Italia, 1787)

Dopo la prima rievocazione di Francesco a Greccio, il presepio è entrato di diritto nella tradizione natalizia popolare italiana e a Napoli è diventato una vera e propria arte, di cui si hanno tracce già dal 1340, ma che ha raggiunto il periodo di massimo splendore e sfarzo nel Settecento.
La sua forte valenza simbolica sta nel miscuglio fra la rappresentazione della spiritualità della natività ed elementi delle credenze popolari più antiche, paralleli e sottesi alla devozione cristiana.
La premessa a questo simbolismo era che nella mentalità del popolo, in maniera più o meno conscia, nel periodo del solstizio d’inverno si veniva creare una sorta di appiattimento temporale, un fermarsi del tempo presente, come se la natura trattenesse il fiato in attesa della nuova venuta della luce. Questa inquietudine nel delicato passaggio dal buio alla luce si ritrova per esempio nella struttura scenografica del presepe napoletano tradizionale, con i viottoli e le stradine che scendono fino al punto più basso, al centro della scena, dove si trova la grotta: la costruzione dall’alto al basso simboleggiava una sorta di viaggio misterico dal mondo sotterraneo alla rinascita della Luce del mondo. Richiami al mondo ultraterreno possono essere considerati anche il fiume, il laghetto o il pozzo, mentre luoghi come l’osteria o la taverna, oltre a rievocare scene di vita quotidiana, avevano la funzione di esorcizzare i rischi dei viaggi. Il castello è naturalmente un riferimento alla strage degli innocenti di Erode: non è quindi un caso che spesso venisse collocato nel punto più alto della composizione perché, come emblema della crudeltà dell’infanticidio, rappresentava il momento più buio e l’inizio del viaggio verso la redenzione cui si è accennato sopra. Figure centrali sono i Re Magi provenienti da Oriente, tradizionalmente raffigurati su un cavallo bianco, uno rossiccio o baio (crini ed estremità nere e corpo marrone) e uno nero: queste tre cavalcature rappresentavano l’iter quotidiano del sole dall’alba all’oscurità notturna. Ancora più interessante il fatto che nel loro seguito ci fosse una donna di colore portata su una lettiga: era la cosiddetta ‘Re Magia’ simboleggiante la luna. Questa figura era ancore presente nel presepe napoletano settecentesco, poi ha perso importanza fino quasi a scomparire. I personaggi popolari come il ‘verdummaro’, il vinaio, il macellaio, il fruttivendolo, il venditore di castagne, quello di formaggi, l’arrotino e il pescivendolo, rappresentavano la personificazione di un mese dell’anno e dunque anche lo scorrere del tempo. La coppia antitetica dei pastori, quello dormiente e quello ‘della meraviglia’, ci riportano invece alla devozione cristiana: il primo simboleggia il comportamento di coloro che sono rimasti indifferenti alla buona novella, mentre il secondo giunto nei pressi della mangiatoia ammira lo straordinario evento di cui è testimone. Anche i tre angeli sopra la grotta o la stalla sono simboli cristiani: uno al centro, con una veste gialla o dorata e il cartiglio “Gloria in excelsis deo”, uno a destra vestito di rosso con l’incensiere e uno a sinistra in bianco che suona la tromba, a simboleggiare rispettivamente il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.

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‘Tradimenti’ e inganni, minuscolo prezioso gioiello di Harold Pinter

STANDING OVATION: I PIU’ ACCLAMATI SPETTACOLI TEATRALI DEL XXI SECOLO
“Tradimenti” di Harold Pinter, regia di Valerio Binasco, Teatro Comunale di Ferrara, 11 e 12 dicembre 2001

Impennata della stagione di prosa 2001/2002 del Teatro Comunale con “Tradimenti”, del drammaturgo inglese Harold Pinter. Maggior esponente britannico del “teatro dell’assurdo” (Beckett, il maggiore in assoluto, era irlandese di nascita e francese d’adozione), Pinter è il geniale autore di capolavori come “Il guardiano” (1961), “Il compleanno” (1958), “Il calapranzi” (1960), “Terra di nessuno” (1975). Le sue opere sono sature di inquietante simbolismo e pervase dal senso misterioso di minaccia incombente, del grottesco, dell’antipsicologismo. Pinter è anche autore di numerose sceneggiature per il cinema, fra le quali ad esempio “La donna del tenente francese” (1981).
Se nell’ambito del teatro dell’assurdo Beckett può essere considerato come il genio naturale, Ionesco come il maestro consapevole e Genet come il poeta maledetto, Pinter ne rappresenta di certo il teorico più lucido, il drammaturgo che ne ha amplificato le potenzialità connettendolo agli altri generi teatrali. E con “Tradimenti” egli riesce ad ingannare gli spettatori e i lettori (e talvolta i critici) due volte: la prima proponendo una commedia all’incontrario, capovolta, e la seconda destabilizzando la tradizionale convenzione dell’intreccio nascondendo la trama. Ma il fatto è che la trama consiste proprio in tale occultamento, altrimenti come potrebbe l’autore camuffare un discorso sulla memoria con un adulterio? Poiché “Tradimenti” (1978) racconta all’apparenza la storia di un adulterio, rappresentata a ritroso, dal suo epilogo al momento in cui è iniziata. Ma in realtà si tratta di una sorta di “dramma della memoria”, riguardo al quale ebbe a dire lo stesso autore in una rara intervista rilasciata diversi anni fa a New York: «È solo il trucco della memoria. La memoria è così. Comincia tutto dall’ultimo istante, si riavvolge all’indietro. Mettendo tutto alla rovescia, in “Tradimenti”, io ho preso la memoria alla lettera, la memoria senza la logica, che è una macchina stupida, come tutte le macchine».
È come assistere all’esposizione delle molteplici sfaccettature di un minuscolo ma prezioso gioiello, allo scaricarsi di un perfetto meccanismo a orologeria che, come appunto nel dramma-commedia di Pinter, si riavvolge dalla tensione finale allo stato di quiete iniziale. E dove il percorso si rivela sovente sarcastico e talvolta cinico, dove la “tragedia” è sempre latente, sfogandosi appena nei silenzi, nelle sfumature, negli atteggiamenti ambigui, nei dialoghi asciutti e telegrafici che nulla concedono al rischio del patetismo. La regia è di Valerio Binasco, per l’interpretazione dello stesso Binasco con Iaia Forte e Tommaso Ragno.

Foto di Gianluca Ghinolfi

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L’EVENTO
Michelangelo, Tiziano, Bastianino e la buona politica culturale

Sono diverse le ragioni per le quali “Lampi sublimi. Tra Michelangelo e Tiziano – Bastianino e il Cantiere di San Paolo”, la mostra alla Pinacoteca nazionale di Ferrara inaugurata questa mattina dal Ministro Franceschini, rappresenta un esempio di buona politica culturale.
Una di queste è che “Lampi sublimi” si può considerare idealmente il proseguimento di un percorso già iniziato con “Immagine e persuasione. Capolavori del Seicento dalle chiese di Ferrara”, organizzata a Palazzo Trotti-Costabili fra settembre 2013 e febbraio 2014 da Fondazione Ferrara Arte e Seminario Arcivescovile di Ferrara in collaborazione con l’Arcidiocesi di Ferrara-Comacchio e i Musei Civici di Arte Antica di Ferrara: per puntare l’attenzione dell’opinione pubblica sui danni causati al patrimonio ferrarese dal sisma 2012, la mostra proponeva una selezione di capolavori provenienti da alcune delle chiese inagibili.

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La locandina

Anche con “Lampi sublimi” ci si propone di sensibilizzare il pubblico riguardo la situazione della Chiesa carmelitana della Conversione di San Paolo, la cui vicenda sembra essere legata a doppio filo con gli eventi sismici: già il terremoto del 1570 l’aveva gravemente danneggiata e la sua ricostruzione era iniziata nel 1573 su progetto di Alberto Schiatti, all’apparato decorativo lavorarono Domenico Monio, Scarsellino e il Bastianino. Chiusa al pubblico ormai da molti anni, il sisma del 2012 non ha fatto che peggiorare la situazione dell’edificio, mettendo ancora più a rischio la conservazione dei dipinti al suo interno. Qui sta un altro elemento di valore di questa operazione: “Lampi sublimi” non è solo una mostra è “un salvataggio”, come l’ha definito oggi il Soprintendente per i beni storici, artistici ed etnoatropologici Luigi Ficacci: grazie a un finanziamento del Mibact si è potuto avviare il cantiere per il consolidamento delle parti pericolanti, la pulizia, la disinfestazione, la protezione delle parti inamovibili e la rimozione della maggior parte dei dipinti, depositati al Centro di raccolta e di primo intervento al Palazzo Ducale di Sassuolo e alla Pinacoteca Nazionale di Ferrara. È stata Anna Stanzani, da poco direttrice della Pinacoteca ferrarese, ad avere l’idea di non fare tutto questo lavoro in silenzio, ma di trasformarlo in una mostra per comunicare il patrimonio ferrarese e la sua attuale situazione ai cittadini estensi: un esempio concreto di quanto recupero e valorizzazione siano strettamente correlati.
Da ultimo, ma non meno importante, “Lampi sublimi” riporta l’attenzione sulla specificità dell’opera di Bastianino. Come ha spiegato Ficacci, “è difficile oggi avere la consapevolezza dell’importanza che poteva avere nel Cinquecento in una città come Ferrara il riferimento alla pittura romana di Michelangelo”: un atteggiamento “rivoluzionario, perché per ragioni culturali e politiche Ferrara aveva sempre guardato a Venezia”. Inoltre, quello di Bastianino è un michelangiolismo peculiare, diverso da quello nitido e scultoreo dei bolognesi, libero dalla forma chiusa, con il pennello che sente l’influenza di Tiziano e corre veloce per esprimere i sentimenti della coscienza.
“Lampi sublimi” è perciò un’esposizione interessante non solo per le opere in mostra e la chiave interpretativa che le lega, ma anche per tutto il lavoro che ha condotto alla sua realizzazione, un esempio di fattiva collaborazione fra istituzioni pubbliche e private – in mostra anche alcune opere della collezione Fondazione Cassa di Risparmio di Ferrara – e a diversi livelli, territoriale e nazionale – come dimostrano per esempio i prestiti da parte della Galleria Estense di Modena e della Pinacoteca di Bologna, fra i quali un Tiziano. Ora però queste istituzioni hanno la responsabilità di portare avanti il percorso con una progettualità di lungo periodo che permetta ai cittadini ferraresi di comprendere il proprio patrimonio riappropriandosene. Non per niente il ministro Franceschini ha citato uno dei “paradossi” del nostro Paese in cui “abbiamo un know-how molto forte per la costruzione di mostre, parallelo a un indebolimento sul piano del patrimonio permanente”. Il messaggio è: riabituiamo i ferraresi e gli italiani a vedere la bellezza intorno a loro che non vedono più.

“Lampi sublimi. Tra Michelangelo e Tiziano – Bastianino e il Cantiere di San Paolo”,
13 dicembre 2015 – 15 marzo 2015, Pinacoteca Nazionale di Ferrara, Palazzo dei Diamanti
per info su orari e biglietti vedi il sito della Pinacoteca Nazionale di Ferrara [vedi]

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CALENDARIO DELL’AVVENTO
Lo Schiaccianoci

È la vigilia di Natale nel salone di casa Stahlbaum. Marie aspetta, insieme al fratellino Fritz, il permesso per unirsi alla festa degli adulti. Il giocattolaio Drosselmaier, suo padrino di battesimo, rompe l’attesa e porta in dono ai bambini un sacco colmo di giocattoli, tra cui spunta un originale schiaccianoci a forma di soldatino. Marie è entusiasta del suo nuovo amico, tanto da portarlo a dormire con sé. Nella notte, però, tutto si trasforma: il mondo di Marie non è più casa ma il regno dello Schiaccianoci, principe usurpato dai topi e dal loro malvagio re a sette teste, che governa su un regno di paura, ormai tetro e appassito; ed è al suo fianco insieme alla Fata dei Confetti nella battaglia che restituirà il trono al Principe Schiaccianoci.

“Marie non aveva neppure finito di parlare che, all’udire il nome di Drosselmaier, lo schiaccianoci storse la bocca in modo tremendo e fece guizzare dagli occhi bagliori di un verde sfolgorante.”

Scritta nel 1816 da Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, “Schiaccianoci e il Re dei Topi” (“Nusscracker und Mausekönig”) è una delle più classiche storie natalizie, suggestione per un vasto numero di interpretazioni: dalla rilettura in chiave meno inquietante di Alexandre Dumas padre al relativo balletto musicato da Tchaikovski su libretto di Marius Petipa – tradizione vuole in molte grandi città, tra cui Londra e New York, “Lo Schiaccianoci” in cartellone ogni vigilia di Natale, segno evidente di un addomesticamento dell’opera originale – passando per Walt Disney e Rudolph Nureyev, sino alla versione cinematografica 3D di Andrej Konchalowskij,
Ci sono le funzioni di Propp (eroe, aiutante, antagonista, soluzione finale) e c’è la trama fantastica; ma la storia è tutt’altro che fiabesca – specularità forse del fatto che, fino alla seconda metà dell’Ottocento, le fiabe erano viste con sospetto dal mondo adulto, poiché rutenute cattive consigliere per i bravi bambini della ricca borghesia dell’epoca, e Hoffmann non si risparmia nel proprio spirito di aussenseiter quale era. Non mancano però riferimenti al Natale cristiano, anch’esso intriso della poetica hoffmaniana:

“I bambini in realtà sapevano che i genitori avevano comprato ogni sorta di bei regali, e in questo momento li stavano sistemando, ma sapevano anche che il buon Gesù aveva illuminato i doni con i suoi benevoli e pii occhi di bambino: era per questo che ogni regalo natalizio, come se fosse stato toccato da una mano benefica, brillava di una magnifica luce come nessun altro.

Cupa e densa di tensione, sempre in bilico tra reale e onirico, nel più puro stile hoffmaniano, romantico e perturbante, mescola attimi infiniti di attesa e momenti di pura azione, alternando nella trama ironia – il Re dei topi ucciso da un colpo di pantofola – a dolcezza, racchiudendo un manicheismo difficile da trovare in altre composizioni, sempre in bilico tra realtà e immaginazione, giocato sul tema del “doppio” (doppelgänger) di cui Hoffmann è maestro. Così succede che Marie diventi la bellissima Fata Confetto, e che lo schiaccianoci non sia altro che un Principe trasformato in giocattolo da un incantesimo, ma addirittura lo stesso giocattolaio Drosselmaier che “ripete” se stesso, guidando le sue fedeli creature di pezza e metallo, di marzapane e cioccolato, in un mondo fantastico e parallelo, parimenti reale. Non è un tema “bambino”, così come non è, al pari di Alice che sogna il mondo alla rovescia, qualcosa che si chiude a sogno finito, una volta aperti gli occhi; ma lascia un senso di indefinita necessità di uscire dall’ordinario – di una cena natalizia, di uno scambio di auguri piuttosto che un unico punto di vista – quello del buono.

“«Noi topi eravamo costretti a vivere nelle fognature e negli spazi angusti e lerci. Ma poi gli uomini che tanto elogi si sono distrutti con le loro stesse mani. […] Se oggi […] il mondo è coperto di spazzatura, se sono i topi a regnare, la colpa è solo loro. […] E ora… Ah, ora! È un paradiso qui. Non ci sono esseri umani […] e io regno dall’alto del mio trono d’immondizia. Ammira, Schiaccianoci! Ammira il mio dominio!» Il Re dei topi rise fragorosamente.”

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Esistenze difficili che camminano su ruvidi fiori

Da MOSCA – Siamo di fronte a tanti micro-mondi unici, toccanti e originali, quelli della settantenne scrittrice sovietica Ljudmila Ulickaja, nata a Davlekanovo, Bashkiria, nella regione degli Urali, in una famiglia di intellettuali. Cresciuta a Mosca, dove ancora vive, qui ha studiato e si è laureata in Genetica presso la famosa e prestigiosa Moscow State University. Donna coraggiosa e tenace, inizialmente ha lavorato in un Istituto di ricerca genetica ma, nel 1970, è stata licenziata e arrestata perché accusata di diffondere libri di autori russi e stranieri non condivisi dalla censura che allora vigeva in Russia. Dopo una vita di stenti, causata anche dalla separazione dal marito, nel 1980, viene assunta come direttrice artistica del Teatro Ebraico di Mosca e, negli anni ’90, inizia la sua brillante attività letteraria.

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Ljudmila Ulickaja

Oggi è considerata una delle maggiori scrittrici contemporanee, un’artista che aspira al raggiungimento della libertà dell’individuo, alla realizzazione delle sue capacità, all’annullamento di ogni differenza, odio, violenza e delusione, alla formazione di un’umanità nuova, perché libera e unita. E, come la donna, anche la scrittrice è mossa da questi nobili intenti. Ovunque, nelle sue opere, si ritrovano situazioni difficili, di emarginazione, incomprensione, esclusione, isolamento, povertà e, sempre, si spera di cambiare, di liberarsi dei problemi, di progredire. La speranza di una vita migliore è sempre lì, imperterrita, sicura di poter vincere e trionfare. Ljudmila sempre scrive della Russia del passato prossimo, delle grandi rivoluzioni, delle guerre, del secondo dopoguerra, delle gravi e penose condizioni sofferte da masse di popolazioni dimenticate tra le infinite distese delle steppe o tra l’orrore dei ghiacciai, della Mosca delle periferie invasa, dopo il secondo conflitto mondiale, da proletari di ogni provenienza e avvolta dalla miseria. Di queste zone ultime e dimenticate, lei narra di chi vi abita dividendo lo spazio di una stanza, il cibo, la legna, le coperte, le borsette d’antiquariato, i beni essenziali e le fatiche, senza, però, rinunciare alla propria dignità, a pensare e agire comunque in modo esemplare. Figure eccezionali sono quelle della Ulickaja e generalmente sono figure di donne poiché le donne, nella Russia compresa tra la fine del XIX e la prima metà del XX secolo, furono le vere protagoniste della vita familiare e sociale essendo gli uomini stati chiamati a partecipare alle rivoluzioni e alle guerre di quel periodo. Le donne, queste donne coraggiose e simbolo di vita eterna.

Anche in questo bel libro che vi presentiamo, “In quel cortile di Mosca”, scoperto per caso, ci sono storie di donne, protagoniste di racconti con una personalità forte e dominante, immerse nella loro realtà storica, nella concretezza di biografie una diversa dall’altra, donne vere, donne vive: Buchara, Ljalja, Bron’ka, Gulja, Genele, Zinaida. Loro con i fazzoletti sulle spalle, con le sciarpe e le vestaglie ricucite, con gli scialli ricamati.
Anche se oggi il loro mondo è scomparso o in via di sparizione – la vecchia Mosca con i suoi vicoli, i suoi cortili, gli appartamenti ricchi di storia e di storie -, queste figure femminili restano impresse nel ricordo e nella mente del lettore, come persone che hanno vissuto una vita che è valsa comunque la pena vivere. Esistenze difficili, segnate da stenti, da difficoltà (spesso da immensa povertà) e da ferite provocate dalla Storia, eppure appassionate, condotte con stile, avvolte da un fascino contagioso, da tormentose incertezze, da occhi imploranti, da mani tese, da visi scarni ma aperti.
Questa meravigliosa scrittrice parla di donne bambine, giovani, vecchie, nate o arrivate a vivere in uno dei quartieri più malfamati della capitale russa. Ci sono ambienti poveri, case buie, cortili maleodoranti e avvinazzati, vicoli ciechi, dove scorrono vite private e pubbliche, vi sono difficili rapporti tra vicini, problemi di sussistenza e sopravvivenza. Donne sole, offese, derubate, tormentate, abbandonate, dal destino incerto, ma sempre donne. Sempre forti. Nulla è visto solo in superficie, si va in profondità di vite, anime, segreti, pensieri, spirito, amori, corpi, valori, sogni, paure. Tutto è analizzato con impietosa precisione e dettaglio. Quasi vi fossero potenti raggi X che percorrono ogni corpo e anima. Per lei la persona è anche, e soprattutto, corpo, qualità e capacità, la loro forza e bellezza. Una scrittrice che vuole risalire allo spirito da ogni materia, con energia positiva e situazioni coinvolgenti, considerata da tanti l’erede dei grandi raccontatori russi come Tolstoi e Dostoevskij. Vincitrice del Prix Medicis (1996), del Premio letterario Giuseppe Acerbi in Italia (1998), del Premio Ivanushka per il miglior romanzo dell’anno Russia (2004), del Premio città di Penne (Italia) (2006), del Big Book Russia (2007), del Premio Grinzane Cavour (2008) o del Prix Simone de Beauvoir pour la liberté des femmes (2011), questa autrice, i cui testi hanno ispirato anche film e serie televisive, merita davvero attenzione. Una luce nell’ombra, un’aureola dorata ondeggiante. Un vago arabesco d’arcobaleno in una pozzanghera.

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L’INTERVISTA
Michele Cortese, X-Factor trampolino per una carriera tutta in ascesa

Michele Cortese vinse la prima edizione di X-Factor (2008), con gli Aram Quartet, tre anni dopo esordì con il suo album da solista “Il teatro dei burattini”, prodotto da Lucio Fabbri. Recentemente ha inciso, con Franco Simone, il singolo “Riflesso”, proposto in Sudamerica con il titolo di “Reflejo” e ha partecipato all’opera rock sinfonica “Stabat Mater”, insieme al tenore Gianluca Paganelli e allo stesso Simone, che ne è anche l’autore. Ha appena pubblicato il suo secondo album “Vico Sferracavalli 16”, inoltre, sarà l’unico europeo in gara al 56° Festival Internazionale della canzone di Viña del Mar in Cile, rivale di artisti come Bobby Kimball ex-front-man dei Toto.

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Ritratto di Michele Cortese

Nel 2008, insieme agli Aram Quartet, hai vinto la prima edizione di X-Factor, sono passati sei anni e di strada ne hai fatta tanta…
Quella con gli Aram Quartet è stata un’avventura durata poco più di due anni ma molto intensa, artisticamente e professionalmente formativa. E’ iniziato come un progetto comune tra quattro amici, parallelo alle rispettive ambizioni solistiche, con l’obiettivo di suonare un po’ in giro divertendoci ad arrangiare delle cover che amavamo e scrivere qualcosa d’inedito per 4 voci, ed è diventato la prima vera grande occasione della nostra vita per affacciarci alla ribalta nazionale con la vittoria di un talent-show. Quell’esperienza mi ha dato ovviamente grande visibilità e mi ha consentito di conoscere e confrontarmi con figure professionali e dinamiche discografiche, dalle quali non si può prescindere nel mestiere della musica, quindi ho imparato tante cose e sono arrivato sicuramente più consapevole e preparato alla carriera da solista.

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Con Franco Simone

Con “Riflesso” (Reflejo) è iniziata la collaborazione artistica con Franco Simone, una svolta nella tua carriera?
La collaborazione con Franco mi ha arricchito moltissimo artisticamente e umanamente e ha segnato senza dubbio una svolta nella mia carriera. Lui è un senatore della buona musica d’autore italiana nel mondo, uno di quegli artisti dalla cui storia sono sempre stato affascinato: vero e coerente, canta d’amore con poesia, splendide melodie, grande vocalità, inoltre, non conosce compromessi e si ribella a un sistema discografico dai meccanismi discutibili (per questo motivo ha avuto l’enorme successo che meritava soprattutto all’estero). In questo suo atteggiamento e temperamento artistico è molto più rock di me, che pure amo il rock’n’roll mood e l’ho anche tatuato sulla pelle, per questo sono felice di collaborarci. Ci siamo conosciuti nella sua trasmissione “Il dizionario dei sentimenti” dove sono stato ospite prima con gli Aram e poi per presentare “Il teatro dei burattini”, il mio primo album da solista, abbiamo improvvisato un duetto sul suo brano “In un minuto” e si è creato subito un forte feeling artistico. E poi abbiamo una comune matrice salentina!

Dal 2010 Cortese ha intrapreso la carriera da solista
Dal 2010 Cortese ha intrapreso la carriera da solista

“La hit del momento” ci ha fatto conoscere un Michele Cortese ironico e pungente, sono le tue caratteristiche d’autore?
L’ironia è senz’altro una delle mie caratteristiche perché come autore mi sono sempre ispirato a ciò che ho maggiormente ascoltato, ossia i capostipiti della canzone d’autore come Dalla e Battisti che sapevano amalgamare nella loro musica, sempre con grande credibilità, una linea più ironica con un’altissima vena poetica e romantica, senza creare mai confusione. “La hit del momento” è una canzone che ho scritto in un periodo particolare in cui vari ‘addetti ai lavori’ mi suggerivano tutto e il contrario di tutto per individuare una sorta di ricetta magica per comporre un brano di successo. Quella canzone è un po’ un gioco che mi rappresenta abbastanza ma non del tutto, perché per il resto nelle canzoni e nella vita ritengo di essere fondamentalmente un romantico sognatore viziato d’amore e di grandi emozioni.

Hai partecipato alla realizzazione dell’opera rock sinfonica “Stabat Mater” di Franco Simone, insieme al suo autore e al tenore Gianluca Paganelli, credo che professionalmente sia una delle tue esperienze più importanti…

Lo “Stabat Mater” mi ricorda il mio primo amore per la musica e il canto, nato quando ho visto “Jesus Christ Superstar” di Andrew Lloyd Webber. Ritengo che l’opera di Simone abbia davvero delle reminiscenze così importanti. E’ stato un lavoro molto stimolante per me, anche dal punto di vista creativo, perché ne ho curato gli arrangiamenti vocali, per le nostre tre voci. Non vedo l’ora di poterla eseguire dal vivo, con i miei due eccellenti colleghi, dal prossimo anno nei teatri d’Italia e del Sud America.

“La questione” è il titolo del tuo recente singolo e del relativo video, premiato al “Premio Roma Videoclip 2014” per la qualità e l’impegno sociale. Com’è nato questo progetto?
“La questione” è un brano che ho scritto con l’amico pianista e compagno di avventure musicali Daniele Vitali e il grande Francesco Gazzè, per raccontare una “questione” di poco amore e di poco tempo. Per la realizzazione del videoclip, insieme alla SprinGo Film, che ne ha curato la realizzazione, abbiamo coinvolto i ragazzi dell’A.I.P.D. (Associazione italiana persone Down) perché li ritenevamo i soggetti più giusti ed espressivi per il soggetto della nostra storia.
Lavorandoci sul set abbiamo vissuto una delle esperienze umane più belle della nostra vita, apprendendo da loro vere lezioni di vitalità, sensibilità e positività. La sindrome di Down è una condizione genetica che si conosce abbastanza, ma credo che le occasioni per informare e sensibilizzare non siano mai troppe. Abbiamo dato il nostro contributo a sostegno di queste splendide persone, che ora sono parte della mia vita.

“Vico Sferracavalli 16” è l’inusuale titolo del tuo nuovo album …
“Vico Sferracavalli 16” non è altro che l’indirizzo di una casa in cui ho realmente vissuto a Lecce per due anni e dove ho scritto la maggior parte delle canzoni contenute nell’album. E’ un lavoro intriso di emozioni intime, familiari, autentiche, cantate senza troppi filtri, arrangiate magistralmente da Alex Zuccaro e prodotte meticolosamente da Adriano Martino per Sunshade Records.

Dal 22 al 27 febbraio sarai in gara al Festival di Viña del Mar in Cile. Il 2015 si apre con ottime prospettive, questa manifestazione è la porta d’ingresso dell’intero Sudamerica …
Questa notizia è stata un fulmine a ciel sereno, una grande chance che aspettavo da anni, mi ha entusiasmato e stordito. “Per fortuna”, il brano che presenterò in gara scritto per me da Franco Simone, è davvero una gran bella canzone ed io farò del mio meglio per rappresentare al meglio l’Italia, paese la cui bellezza è invidiata veramente dal mondo intero.

La foto in evidenza è di Federica Maria Aurora Signorile
I ritratti di Michele Cortese sono di Fabio Perrone
La foto di Michele Cortese con Franco Simone è di Rodolfo Prati

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Emilio Diedo e la Cosmo poetica

Anche critico letterario, scrive sulla nota rivista padovana Literary, Emilio Diedo è forse l’erede più talentuoso di Guido Tagliati: il visionario splendido poeta cosmico di Ferrara, vicino alle formule mistico-siderali di un Teilhard de Chardin, di un Guitton, di un Paul Davies…
Emilio Diedo, da anni è anche promotore attivo, con lo stesso Gianni Stefanutti proprio della poesia cosmica, attraverso un’eccelsa e costante produzione editoriale e come conferenziere (ad esempio a Ferrara presso la Sala dell’Arengo di Palazzo Estense Ducale).
Diedo appare più terrestre, ma non meno suggestivo per atmosfere, orbite e ed esplorazioni poetico-spaziali paradossalmente ciberclassiche, per la computazione della parola raffinata ed armonica, aliena… da sperimentalismi talora fuori moda.
Diedo esplora, infatti, una sorta di classico moderno, vicino magari al secondo Futurismo, all’aeropittura ancor più che l’aeropoesia, proprio per la sintesi Cielo, Spazio, Terra… Colori realizzata con ottimi risultati dinamici ed estetismo formale ad esempio da Enzo Benedetto, Benedetta Cappa Marinetti (futuristi storici) e – tempi attuali – lo stesso cosmofuturista Antonio Fiore Ufagrà (anche alla Biennale d’Arte di Sgarbi nel 2012).
Tale scenario cosmopoetico in Diedo è particolarmente evidenziato in “Sbarchi d’Arche” (Este
Edition, 2001) mentre nella particolare silloge (dedicata agli eroi italiani di Nassiriya), “La Fiamma
della Croce” (sempre Este Edition, 2002) l’elemento cosmico risulta rarefatto e assimilato tra gli interstizi della Parola.
Effetti peraltro di forte suggestione trascendente: quasi destinato o dedicato ad angeli moderni, alieni sovrabbondanti di empatia sempre pronti a proteggere la sublime fragilità degli umani sulla Terra, e tra le stelle.
Tale cosmopoetica, di frontiera nel ciberspazio mentale, si dilata ulteriormente e complica deliziosamente verso la Forme, in opere con estensioni anche teatrali quali “Madame Etrom”, o altamente electro-lirico-siderali, come “Stelle di Terra”.
Inoltre, piu recentemente, ancora piu complessità concettuale e programmatica con ad esempio “Urfuturismo” (La Carmelina ediz. Ebook) e in particolare in “Reale Apparente” (Este Edition) anche dichiarazioni e puntualizzazioni poetiche-poietiche sulla Poesia Cosmica contemporanea, non a caso rilanciate in riviste di spicco nazionali quali PoliticaMente (Scuola Romana di filosofia politica, lanciata a suo tempo da Gian Franco Lami come dipartimento de La Sapienza Univ.).
Lancio, riassumendo, da parte di Diedo anticipatorio della nuova poetica cosmica, ancora sottovalutata come fenomeno ad hoc e al passo con certo inconscio connettivo attuale, disvelato da certo ritorno infine dell’era spaziale (“Turismo Spaziale”, “Curiosity su Marte”, “Robot che accometano”), la stessa diffusione pop della musica cosmica in forme ambient e trance (dai Tangerine Dream e gli stessi Pink Floyd), nell’avanguardia letteraria dalla stessa giovane science fiction cosiddetta connettivista italiana (F. Verso, premio Urania, S. Battisti ed altri.)

Per saperne di più: Literary magazine [vedi], Rivista PoliticaMente [vedi formato pdf], intervista a Emilio Diedo [vedi]

* da Roby Guerra, “Dizionario della letteratura ferrarese contemporanea”, Este Ediiton-La Carmelina ebook [vedi] su Luuk Magazine [vedi]

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REPORTAGE
Note e nostalgia jazz.
Oggi, domani e lunedì

La Buenos Aires di Astor Piazzolla protagonista oggi al Jazz club Ferrara. Titolo della serata: “Vuelvo al sur, Piazzolla secondo Aisemberg” con le note della reinterpretazione elaborata al pianoforte da Hugo Aisemberg. Appuntamento alle 21.30.

Domani, sabato 13 dicembre sempre alle 21.30, il Jazz club omaggia gli storici organ trio al pianoforte con The Unusual Suspects, trio capitanato dall’organista newyorchese Pat Bianchi – colonna portante del trio di Pat Martino – affiancato da Massimo Faraò al pianoforte e Byron Landham alla batteria.

Lunedì, 15 dicembre, l’ormai consueto appuntamento con artististi emergenti regionali ma non solo. In scena al Torrione di San Giovanni ci saranno Francesco Cusa & the Assassins: Flavio Zanuttini alla tromba, Cristiano Arcelli al sax alto, Giulio Stermieri all’organo e Francesco Cusa alla batteria.

Ingresso a pagamento, riservato ai soci Endas, al Torrione di San Giovanni, via Rampari di Belfiore 167.

Ma intanto ecco le belle immagini dell’ultimo “main concert”: quello di sabato scorso con il Fabrizio Bosso spiritual trio. Ritratti fotografici di STEFANO PAVANI.

[clic su una foto per ingrandirla e vedere tutta la galleria]

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Fabrizio Bosso in trio al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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Fabrizio Bosso in trio al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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Fabrizio Bosso spiritual trio al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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Alessandro Minetto alla batteriacon il Fabrizio Bosso trio (foto di Stefano Pavani)
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Alessandro Minetto alla batteria con il Fabrizio Bosso trio (foto di Stefano Pavani)
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Alberto Marsico all’organo con il Fabrizio Bosso trio (foto di Stefano Pavani)
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Fabrizio Bosso in trio al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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Fabrizio Bosso in trio al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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Fabrizio Bosso in trio al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)

L’ANNIVERSARIO
L’Italia del 12 dicembre, la strage che ci cambiò la vita

“La cosa più terribile e straziante che percepii appena entrato fu l’odore di carne bruciata”. A ricordarlo 45 anni dopo è il nostro Gian Pietro Testa, allora cronista del Giorno, primo ad arrivare sul luogo dell’orrore. Ricorre oggi, 12 dicembre, l’anniversario dell’esplosione della bomba di piazza Fontana, collocata all’interno della Banca dell’agricoltura di Milano, che provocò 17 morti e 88 feriti. “Fu quella la madre di tutte le stragi”, sostiene Giorgio Boatti, anch’egli giornalista e scrittore, di recente a Ferrara ospite della libreria Ibs per il ciclo di incontri ‘Passato prossimo’. “Strage – sostiene – è una parola feroce, sottende la volontà di una mattanza pianificata”. Fu il primo atto della tragica stagione del terrorismo in Italia. Per molti anni si sono alternate e contrapposte alle ‘verità’ ufficiali (quelle degli atti giudiziari) le ‘verità’ basate sulle inchieste giornalistiche. La tesi anarchica privilegiata nella prima fase delle indagini lasciò via via il campo all’ipotesi di trame nere imbastite da ambienti neofascisti e apparati deviati dello Stato. Quasi mezzo secolo dopo si può con certezza affermare la responsabilità diretta di Franco Freda e Giovanni Ventura, che nei vari processi furono sempre assolti. Il loro ruolo fu riconosciuto dalla Corte di Cassazione nel 2005, quando però il reato era passato in prescrizione. Ventura nel frattempo è morto, nel 2010 a Buenos Aires. Freda prosegue la sua attività di editore in contiguità con ambienti di estrema destra.

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Scrittore e giornalista,. Giorgio Boatti

Boatti ha raccolto il suo certosino lavoro di ricerca in un volume “12 dicembre 1969: il giorno dell’innocenza perduta”, la cui vicenda è emblematica. “E’ stato un corpo a corpo con le 60mila pagine degli atti giudiziari – afferma – condotto pensando che altre dovessero essere le mani a cogliere quella verità”. La prima edizione del libro, prevista nel 1989, non fu mai stampata dall’editore Rizzoli al quale era destinata. “Alla consegna del dattiloscritto Andreotti comunicò la sua contrarietà alla pubblicazione e così interruppe il mio rapporto con la casa editrice”. Il libro fu edito qualche mese dopo da Feltrinelli, ma autore ed editore furono subito querelati e per i sette anni di durata del processo il volume sparì dalle librerie. Solo nel 1999 l’opera viene ripubblicata da Einaudi e nel 2009 esce una nuova edizione aggiornata. Le difficoltà del libro sembrano il riflesso dell’accidentato cammino di una giustizia che nelle aule di tribunale non s’è compiuta.

Il lavoro di Boatti ha avuto, fra gli altri, il pregio di ridurre all’essenziale decenni di ipotesi, di sentenze, di contrapposizioni ideologiche proprie di un’epoca in cui nel nostro Paese si combatté una guerra non dichiarata. “Con il mio libro, oltre a ridare ordine ai fatti, ho anche voluto ricordare a tutti le vite che si sono perse. Allora eravamo tutti troppo presi dalle logiche di schieramento e di appartenenza per poterci soffermare sulle esistenze dei singoli. La strage è proprio espressione di questa logica: la vittima è un incidente di una strategia più grande”.

All’interrogativo perché proprio lì, perché proprio loro, Boatti offre una convincente spiegazione. “Quella era la banca di gente semplice, un mondo agricolo appartato, estraneo alle logiche di contrapposizione dell’epoca. Era proprio quel mondo che si voleva colpire, per provocare indignazione e terrore e indurre gli strati di popolazione non coinvolti nella disputa ideologica a prendere posizione. L’atto terroristico ti rende impotente e in pochi momenti ha il potere di riplasmare la visione di una moltitudine di persone che da quel momento non vedono più con gli stessi occhi le medesime cose”.

Generare terrore era l’obiettivo della destra neofascista per far lievitare fra la popolazione la richiesta di uno Stato autoritario, che sbarrasse la strada all’ascesa dei movimenti e delle istanze libertarie che si andavano affermando alla fine degli anni Sessanta: la violenza è l’arma per generare una paura diffusa e ottenere lo scopo. “Nell’estate che precedette la bomba di piazza Fontana si respirava aria di golpe. Un tentativo sventato proprio all’ultimo c’era già stato nel ’64. I dirigenti del Pci per prudenza dormivano fuori di casa. Molti vecchi partigiani, fiutando il pericolo, avviarono il passaggio delle consegne, istruendo i giovani alle azioni di resistenza civile e passando loro depositi e arsenali”.

La bomba, lo sdegno, gli scontri (non solo) verbali, i falsi indizi e i colpevoli di comodo, l’ombra degli apparati, i magistrati onesti e quelli corrotti, i politici perbene e quelli collusi… La strage della Banca dell’agricoltura di Milano è solo il primo capitolo della storia: quelli di Pinelli, Valpreda, Freda, Ventura, Giannettini, Gelli, Andreotti e degli altri attori del dramma sono incidentali maschere di un tragico copione destinato a ripetersi per più di vent’anni. I protagonisti talora mutano, talora riappaiono. Il senso della macabra recita resta il medesimo. E’ l’inizio dell’autunno del nostro sogno, che ha lasciato il posto solo a questo gelido inverno.

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LA SEGNALAZIONE
Fascino ed emozioni in punta di dito

di Mario Sunseri

Terzo (ed ultimo, a detta dell’autore) volume che completa la trilogia sul Subbuteo. Nicola Deleonardis, classe 1965, consulente finanziario cresciuto all’ombra della curva Ovest della Spal (come si dice a Ferrara, dove la squadra è anche lo stadio stesso), riporta nuovamente alla ribalta il gioco-cult del periodo anni ’60-anni ’80, il Subbuteo, quando il calcio vestiva ancora le maglie dei club e i giocatori erano bandiere da sventolare, non espressioni di tatuaggi e tagli di capelli contro ogni legge fisica.
Dopo i precedenti “Subbuteo o son desto” con 17 interviste a personaggi famosi di ogni estrazione e “Il Manuale del Subbuteo”, il nuovissimo “Se questo è un gioco”, il titolo del volume, edito da Youcanprint ed acquistabile online su tutte le principali librerie, raccoglie in 342 pagine a colori tutta la storia del gioco, miniatura dopo miniatura. Oltre a queste immagini dei mitici omini basculanti compare, per ogni pagina, una foto a colori del periodo suddetto della medesima squadra, in modo da poter confermare che i colori dipinti dalle mitiche massaie del Kent , che passavano intere giornate con pennelli e colori a dipingere sacchi di omini di plastica, fossero realmente quelli che scendevano in campo ogni domenica nei vari stadi del mondo (quando ancora il calcio si giocava di domenica…). “Il Subbuteo è un gioco, un gioco sul calcio. Quindi è un’attività che deve interessare i bambini, di ogni età. È per quello che mi è sembrato logico associare la mia produzione letteraria, se mi passate il termine, con l’attività dell’associazione di volontariato Giulia Onlus che è attiva sul territorio a favore di problematiche che coinvolgono i bambini.” Con questa affermazione l’autore del libro presenta la sua terza opera sul tema Subbuteo. Milioni di giocatori dalla metà degli anni Sessanta alla metà degli anni Ottanta hanno incrociato gli indici riproponendo sul panno verde campionati e tornei di ogni fatta e specie. È sull’onda di quei ricordi che il libro “Se questo è un gioco”, ben 342 pagine a colori edito da Youcanprint ed acquistabile online o su prenotazione in libreria, risulta essere un compendio di tutte le miniature cosiddette heawyweight (quelle con la barretta, per intenderci) prodotte dagli anni ’60, dipinte dalle mitiche massaie del Kent che settimanalmente sfornavano chili di omini di plastica. Per ogni pagina, oltre all’immagine della miniatura di una determinata squadra, viene proposta un piccola scheda tecnica (colori, accostamenti di basi) e qualche notizia “sfiziosa” relativa alla squadra stessa. Per concludere, una bella foto (dove si è potuto, a colori) doverosamente d’antan della vera formazione rappresentata poi su plastica. In questo lavoro di ricerca si può intravedere una grande passione e amore per il calcio ed ovviamente per il Subbuteo, con un filo (e qualcosa di più) di nostalgia verso tempi quando i calciatori più “sopra le righe” portavano al massimo i capelli lunghi e le basette folte, alla faccia delle creste e dei tatuaggi che ricoprono oggi i giovani lavoratori dell’arte pedatoria.

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La copertina del volume ‘Se questo è un gioco’ di Nicola ‘Delez’ Deleonardis

In certi casi non è stato possibile trovare foto o notizie, troppo tempo è passato o troppo poco importanti, per la stampa del tempo, risultava immortalare squadre come Dumbarton o Frigg… Ma è grazie a questo volume ed al Subbuteo che questi “fantasmi” del calcio tornano in campo, magari anche solo “in punta di dito”.
Questo lavoro ha un fine benefico. L’intero ricavato di “Se questo è un gioco” sarà versato a favore dell’Associazione Giulia Onlus di Ferrara. Per non dimenticare che il Subbuteo rimane un fantastico gioco, utile per far aggregare e divertire i bambini, di ogni età.

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LA STORIA
Resistenti per natura, altroché Doc e radical chic

Non c’è niente di più bello di una vigna ben zappata, ben legata, con le foglie giuste e quell’odore della terra cotta dal sole d’agosto. Una vigna ben lavorata è come un fisico sano, un corpo che vive, che ha il suo respiro e il suo sudore.” (La luna e i falò, Cesare Pavese)

“Io non faccio vino naturale, io faccio vino e basta”: questa frase di Stefano, che aiuta la compagna Giovanna a portare avanti l’azienda vinicola “La Pacina” fra le colline del Chianti senese – sua da cinque generazioni – potrebbe riassumere da sola il documentario “Resistenza naturale” di Jonathan Nossiter, vincitore dell’Orso d’Oro a Berlino nel 2014. Come le parole di Giovanna ci dicono cosa sia per loro l’agricoltura: “Voglio che sia la terra a parlare, questo non è il mio vino è il vino di Pacina”. Quel saper fare, quell’aver cura e pazienza, quella vita ciclica che segue le stagioni, per loro non è un modo di produrre, ma il modo di produrre vino.

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La locandina

Stefano e Giovanna nel 2009 hanno deciso di uscire dalle denominazioni di origine Doc e Docg perché secondo loro non costituiscono più il simbolo di un marchio di qualità, ma sono ormai associate al concetto di produzione industriale e standardizzata, completamente slegata dal patrimonio artigianale. Come loro hanno fatto Corrado e Valeria, bocconiani viticoltori marchigiani, e un altro Stefano, questa volta piemontese che giustamente si chiede come possano le caratteristiche di un vino Doc essere le stesse per quello prodotto nella sua azienda biodinamica al confine con la Liguria, dove l’aria sa di mar Tirreno, e per quello prodotto da Corrado a 700 km di distanza, nelle Marche che si affacciamo sull’Adriatico. L’agricoltura non può garantire degli standard come una produzione industriale perché il prodotto varia di anno in anno: in un’estate secca in cui i grappoli sono arsi dal sole, come si potrà avere un bianco dal colore “giallo paglierino tendente al verde?”, si chiede Corrado gustandosi un buon calice dalle sfumature dorate all’ombra di un enorme fico insieme agli altri produttori riuniti da Nossiter. Si può spiegare ai consumatori di oggi che se un frutto o un ortaggio sono lucidi e perfetti come quelli finti che si usano come soprammobili, probabilmente hanno i loro stessi principi nutritivi e le loro medesime proprietà organolettiche? “Bisogna cambiare il concetto di alimento”, dichiara Stefano, “se è ciò che ci dà la convivialità e la gioia di vivere, non può essere uguale ovunque”.
Qui non si parla, o non si parla solo, di biologico che oggi rimanda subito al mondo radical chic e per il quale bisogna richiedere (e pagare) una certificazione, a quell’idea fintamente bucolica della campagna alla ‘Mulino bianco’, che non fa altro che trasportare in un casolare ritinteggiato le abitudini, i ritmi e i consumi della città. Si tratta di “rivendicare una tradizione per innovare” per tentare di far coincidere o quanto meno di conciliare tempi biologici e tempi storici. Elena, che ha ereditato la sua azienda nei colli piacentini, si sente la mera custode delle sue vigne di più di 90 anni: “il mio ruolo è preservare il vigneto per i miei nipoti”. Questa è la responsabilità che sente e questo è il motivo per cui fin dall’inizio ha rifiutato l’agricoltura tradizionale per quella biologica. Lo Stefano piemontese spiega così la filosofia di questi rivoluzionari tradizionalisti: “la vera agricoltura è ricostruire ogni giorno l’equilibrio rotto facendo agricoltura”. “Resitenza naturale” parla di una cultura e di una storia sociale che stiamo perdendo, sempre che non sia troppo tardi: le lucciole sono già scomparse da tempo in molti luoghi e per molte persone.

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Io cammino per Mosca

Mosca 1963, una bella fiaba di primavera in una città leggera e spensierata, un film cult in Russia, ma non solo, visto che la pellicola è stata presentata, in versione originale con sottotitoli, all’ultimo Festival del Cinema di Venezia, nella sezione classici, portando un pezzettino di Russia in Italia.
Ci sono giovani attori come Nikita Mikhalkov, Evghenij Steblov, Aleksej Loktev e Galina Polskikh e una Mosca mai vista, come non vedremo mai più.

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La locandina

L’ancora studente Nikita Michalkov, in particolare, compare come protagonista in questo film di Georgij Danelija, quello stesso Nikita figlio di Sergej Vladimirovič Michalkov, scrittore e poeta, celebre in Russia per aver scritto il testo dell’inno nazionale del suo Paese in due diverse occasioni, e della poetessa Natal’ja Petrovna Končalovskaja, figlia del pittore Petr Petrovič Končalovskij e sorella del regista Andrej Končalovskij.
“A zonzo per Mosca” non ha una trama particolarmente forte ma sorprende e commuove per la nettezza giovanile della libertà e della fede nell’avvenire felice. In quell’avvenire che, all’epoca, si pensava davvero roseo. Il film stesso, definito come una “commedia lirica”, sembra che si (e ci) illumini da dentro. E’ leggero, positivo e fresco come l’aria, aperto, semitrasparente, colmo d’allegria e spensieratezza…
Oggi che il Paese è cambiato, restano inalterate emozioni e sofferenze del cuore e dell’anima dei personaggi del film, perché rappresentano gli incrollabili valori umani come la bontà, la comprensione, l’amicizia, l’amore, la voglia e la gioia di vivere.

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Una scena del film

Stupende le fotografie di Vadim Jusov (storico collaboratore di Andrej Tarkovskij), bellissima la musica di Andrej Petròv. La canzone del titolo (e che chiude anche il film), scritta dallo stesso Petrov con Ghennadij Shpàlikov cantata da Mikhalkov, è diventata la canzone più popolare della prima metà degli anni ’60. Ma ancora oggi è difficile trovare un russo che non conosca questa canzone. Io stessa la canticchio spesso (l’avevo già sentita prima di vedere il film). Siamo di fronte, quindi, a una delle prime pellicole da vedere quando ci si avvicina alla grande Russia, che tutti, prima o poi (soprattutto chi studia russo, ma non solo), si ritrovano a guardare, con curiosità, fascino e persino un po’ di devozione, perché quella è la città in cui si vorrebbe andare. Quella è la lingua che si vorrebbe imparare. Quelle sono le strade che si vorrebbero attraversare. Quello il cielo che si vorrebbe sfiorare. Quelli i fiori che si vorrebbero accarezzare.

Ma la storia, mi chiederete? E’ quella di Volodja (Aleksej Lòktev), che lavora come montatore in Siberia, di passaggio a Mosca con, al suo attivo la pubblicazione di un piccolo racconto (“la taiga, il picchio”) sul mensile letterario “Junost’”, che ha suscitato interesse nello scrittore Voronin, il quale l’ha invitato a Mosca per conoscerlo. Nella metropolitana, Volodja conosce il giovane moscovita Kolja (Nikita Mikhalkov), che lo accompagna nel vicolo dove vivono i conoscenti che dovrebbero ospitarlo. Per strada, un cane morde il giovane scrittore e Kolja lo invita a casa sua a cucire i pantaloni stracciati. Qui Kolja fa conoscere Volodja alla sua famiglia e la sorella di Kolja gli rattoppa i pantaloni. Quando Volodja scopre che i suoi conoscenti sono partiti in vacanza, torna da Kolja per lasciare la valigia e se ne va. Kolja è solo in casa quando il suo amico Sàsha (Evghenij Steblòv), chiamato alle armi, lo va a trovare. Dopo una visita al commissariato di leva per chiedere la proroga causa matrimonio di Sasha con Sveta, gli amici vanno ai Grandi Magazzini (GUM) a comprare il vestito per le nozze. Come sono diversi, oggi, quei magazzini, che bello rivederli in bianco e nero e immaginare di essere lì allora… Lì incontrano Volodja e, tutti insieme, vanno al reparto dischi dove lavora Aliona (Galina Pòlskikh) e Volodja appena la vede se ne innamora… Il resto è da vedere, fino al finale che ci porta a sorridere e a sognare insieme a Kolya, con un’allegria contagiosa, sui gradini di quella lunga scala mobile della metropolitana di Mosca che porta sempre più in alto, fin sotto alla scritta Vykhod, uscita. Alla scoperta della città.

“Io cammino per Mosca” (Я ШАГАЮ ПО МОСКВE)
Musica di Andrej Petròv, testo di Ghennadij Shpàlikov

Бывает все на свете хорошо, = Tutto nel mondo accade bene
В чем дело, сразу не поймешь, = Di che si tratta, non si può capire subito
А просто летний дождь прошел, = E’ solamente piovuto
Нормальный летний дождь. = La semplice pioggia d’estate
Мелькнет в толпе знакомое лицо, = Balena nella folla un viso conosciuto
Веселые глаза, = Gli occhi allegri
А в них бежит Садовое кольцо, = Nei quali corre “L’Anello dei Giardini”
А в них блестит Садовое кольцо, = Nei quali brilla “L’Anello dei Giardini”
И летняя гроза. = E il temporale d’estate.
А я иду, шагаю по Москве, = Ed io vado, cammino per Mosca
И я пройти еще смогу = E ancora passar potrei
Соленый Тихий океан, = Il salato oceano Pacifico
И тундру, и тайгу. = ed anche la tundra e la tajga.
Над лодкой белый парус распущу, = Sopra la barca le vele alzerò
Пока не знаю, с кем, = Con chi ancor non so
Но если я по дому загрущу, = Ma se la casa mi mancherà
Под снегом я фиалку отыщу = la viola sotto la neve cercherò
И вспомню о Москве. = E mi ricorderò di Mosca

A zonzo per Mosca, (Ja sagaju po Moskve), di Georgij Daneljia, con Nikita Mikhalkov, Aleksei Loktev, Galina Polskikh, 1963, URSS, 1963, 78 mn.

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CALENDARIO DELL’AVVENTO
E Francesco inventa il presepe

Insieme all’albero di Natale, è il simbolo per eccellenza delle festività natalizie, in particolare nei paesi cattolici. I più antichi sono quello conservato nella Basilica di Santo Stefano a Bologna e il gruppo scultoreo di Arnolfo di Cambio nella Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma. In latino praesepe significa ‘greppia, mangiatoia, stalla’, ecco perché il presepe incarna l’anima più popolare della devozione, un omaggio a un bimbo nato in una stalla o in una grotta e deposto in una mangiatoia perché per la sua famiglia non c’era posto in nessuna locanda di Betlemme.
Era il 1223 quando San Francesco d’Assisi decise di rievocare per la prima volta la Natività per i più umili a Greccio, vicino a Rieti.
«C’era in quella contrada un uomo di nome Giovanni, di buona fama e di vita anche migliore, ed era molto caro al beato Francesco perché, pur essendo nobile e molto onorato nella sua regione, stimava più la nobiltà dello spirito che quella della carne. Circa due settimane prima della festa della Natività, il beato Francesco, come spesso faceva, lo chiamò a sé e gli disse: “Se vuoi che celebriamo a Greccio il Natale di Gesù, precedimi e prepara quanto ti dico: vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello”. Appena l’ebbe ascoltato, il fedele e pio amico se ne andò sollecito ad approntare nel luogo designato tutto l’occorrente, secondo il disegno esposto dal Santo.
E giunge il giorno della letizia, il tempo dell’esultanza! Per l’occasione sono qui convocati molti frati da varie parti; uomini e donne arrivano festanti dai casolari della regione, portando ciascuno secondo le sue possibilità, ceri e fiaccole per illuminare quella notte, nella quale s’accese splendida nel cielo la Stella che illuminò tutti i giorni e i tempi. Arriva alla fine Francesco: vede che tutto è predisposto secondo il suo desiderio, ed è raggiante di letizia. Ora si accomoda la greppia, vi si pone il fieno e si introducono il bue e l’asinello. In quella scena commovente risplende la semplicità evangelica, si loda la povertà, si raccomanda l’umiltà. Greccio è divenuto come una nuova Betlemme.
Questa notte è chiara come pieno giorno e dolce agli uomini e agli animali! La gente accorre e si allieta di un gaudio mai assaporato prima, davanti al nuovo mistero. La selva risuona di voci e le rupi imponenti echeggiano i cori festosi. I frati cantano scelte lodi al Signore, e la notte sembra tutta un sussulto di gioia. […]
Francesco si è rivestito dei paramenti diaconali perché era diacono, e canta con voce sonora il santo Vangelo: quella voce forte e dolce, limpida e sonora rapisce tutti in desideri di cielo. Poi parla al popolo e con parole dolcissime rievoca il neonato Re povero e la piccola città di Betlemme. Spesso, quando voleva nominare Cristo Gesù infervorato di amore celeste lo chiamava “il Bambino di Betlemme”, e quel nome “Betlemme” lo pronunciava riempiendosi la bocca di voce e ancor più di tenero affetto, producendo un suono come belato di pecora. E ogni volta che diceva “Bambino di Betlemme” o “Gesù”, passava la lingua sulle labbra, quasi a gustare e trattenere tutta la dolcezza di quelle parole.»

Tommaso da Celano, “Vita prima di San Francesco d’Assisi (1228-1229)”

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L’intestino, trattiamolo bene

Le abitudini alimentari della popolazione si sono radicalmente modificate negli ultimi decenni: dal 1960 in poi, il consumo generale di grassi e di zucchero è aumentato e di conseguenza anche le malattie e i disturbi ad esso riconducibili, come ad esempio metabolismo dei grassi, carie, sovrappeso e diabete mellito. L’alimentazione basata sulle moderne abitudini del take away e del fast food è poi molto carente di vitamine e fibre. Tutte queste cattive abitudini alimentari non solo sono dannose per la salute ma hanno anche un costo elevato: le malattie causate da errori alimentari costano ogni anno milioni di euro in farmaci che hanno altri effetti deleteri per l’organismo.
Una recente ricerca ha messo in evidenza che i casi di ipertensione, iperlipemia e diabete mellito, dal 1988 al 2014, sono aumentati dal 40 al 130%. Anche l’alimentazione con scarso contenuto di fibre presenta i suoi inconvenienti: fino al 60% degli italiani soffre di stipsi, i soggetti di sesso femminile in numero doppio rispetto a quelli di sesso maschile. Anche le malattie tumorali sono associate fino al 40% ad una errata alimentazione, ciò vale in particolar modo per i carcinomi intestinali per i quali un aumentato apporto di fibre viene considerato come particolarmente “protettivo”. La flora intestinale svolge importanti funzioni metaboliche e numerose attività enzimatiche. Le disbiosi intestinali, indotte da antibiotici, stress e tossine ambientali, possono compromettere il sistema immunitario associato all’intestino (Galt) e provocare franche patologie. I disturbi dell’apparato digerente (in particolare stipsi cronica) sono manifestazioni diffuse nella civiltà moderna e vengono curati generalmente attraverso autoprescrizione su base sintomatica. In tal modo i soggetti colpiti non solo si sottraggono ad uno studio clinico, ma sovraccaricano il proprio organismo con effetti collaterali prodotti dai lassativi disponibili sul mercato. Il consumo di lassativi in caso di uso prolungato, aggravano la stipsi, provocano carenza di minerali (in particolare potassio) e di oligoelementi, con conseguenze sulla salute alterando le funzioni della mucosa intestinale. L’importanza delle fibre per la buona funzionalità intestinale è attualmente indiscussa. Nel quadro della prevenzione vengono prescritte anche vitamine, in particolar modo quelle antiossidanti in grado di disattivare i radicali liberi: agiscono a livello intestinale per la protezione cellulare (mediante detossicazione diretta dalle tossine esogene) e riattivano il sistema immunitario compromesso dalle tossine ambientali e da agenti esogeni (per esempio funghi).

Carenza di vitamina B12 e acido folico
L’intestino, con la sua enorme superficie (200 m2 circa), necessita di tutti gli alimenti necessari per la crescita cellulare. Tra questi ricordiamo la vitamina B12 e l’acido folico, essenziali per la divisione cellulare e quindi importanti per la rigenerazione ed il rinnovamento della mucosa intestinale. In caso di carenza di queste due vitamine, viene compromessa la sintesi del Dna, necessaria per la neoformazione e crescita cellulare.

Radicali liberi
I radicali liberi sono atomi, vengono prodotti per via endogena da una serie di processi metabolici, per esempio la respirazione cellulare. Più di 50 malattie diverse vengono fatte ricondurre ai radicali liberi. Gli antiossidanti, come ad esempio la vitamina C, E ed il beta-carotene, sono in grado di “catturare” i radicali liberi, di minimizzare lo stress ossidativo e conseguentemente svolgere una azione in senso preventivo. E’ quindi consigliabile un’alimentazione ricca di antiossidanti, come ad esempio 5 porzioni di frutta e/o verdura biologica al giorno: molte volte, tuttavia, queste dosi non sono sufficienti al fabbisogno a causa dell’inquinamento ambientale e dei rischi di malattia.

Principali farmaci inducenti la formazione di radicali liberi:
– analgesici (es. paracetamolo)
– antibiotici (es. cloramfenicolo)
– lassativi contenenti antrachinoni
– catecolamine (es. levodopa)
– estrogeni
– citostatici (es. bleomicina, daunorubicina, mitomicina)

Tossine ambientali
Durante il processo di accumulo nell’intestino di sostanze esogene, esercitano un ruolo importante i “cacciatori di radicali”. Le sostanze ambientali tossiche giungono nell’organismo principalmente per inalazione o per ingestione. Attraverso l’alimentazione vengono ingeriti infatti pesticidi, concimi, metalli pesanti, coloranti ed additivi alimentari. Ogni individuo assimila in media 3-4 kg di sostanze chimiche diverse all’anno che possono danneggiare l’epitelio intestinale, direttamente o indirettamente, tramite la produzione di radicali. Nell’intestino sano, ogni giorno vengono liberati tanti radicali liberi quanti se ne producono in culture cellulari dopo irradiazione con 40.000 rad. Se la peristalsi intestinale è deficitaria e l’intestino è saturo, quest’organo viene sempre più compromesso nelle proprie funzioni dallo stress ossidativo. La temperatura della parete interna dell’intestino (fino a 60°C) stimola una iperproduzione di acidi biliari e la fissazione di ferro assunto con l’alimentazione, inducendo un notevole aumento dei radicali liberi.

Additivi alimentari e farmaci
Le endoparticelle cellulari possono venir colpite anche da prodotti del metabolismo dei farmaci: sulla via enzimatica, attraverso autossidazione o fotoattivazione, sotto l’influsso dei metalli di trasporto quali rame o ferro, si formano radicali di superossido ed ossigeno singoletto. Un sovraccarico di radicali liberi nell’intestino si accompagna ad aumento di rischio danno cellulare. Le membrane cellulari ossidate, e quindi le lesioni delle cellule della mucosa intestinale, creano le situazioni favorenti per cui le tossine batteriche possono giungere nel fegato passando dall’intestino, dove diventano cofattori critici per le malattie epatiche infiammatorie di tipo cronico.
Un altro effetto patogeno per l’intestino causato dall’aggressione degli ossidanti, si presenta sul piano immunologico: lo stress ossidativo danneggia il sistema immunitario associato all’intestino (Galt); la maturazione degli anticorpi da parte dei linfociti B viene fortemente compromessa e quindi facilitato l’attecchimento di germi patogeni: viene così favorita l’insorgenza delle disbiosi intestinali e delle micosi.

Lo svuotamento regolare dell’intestino (preferibilmente quotidiano) è molto importante per la salute. L’alimentazione con scarse quantità di fibre, tipica dei Paesi industrializzati occidentali, favorisce molte malattie del tratto gastrointestinale quali stipsi cronica, diverticolosi, colon irritabile e carcinoma del colon. Mentre nei Paesi ad alto reddito vengono consumate in media meno di 30 gr. di fibre pro capite al giorno, nei Paesi in via di sviluppo, dove queste malattie sono pressoché sconosciute, vengono consumati da 50 a 150 gr. di fibre/die.

Consigli
Le infiammazioni non devono essere considerate come meri processi patologici, bensì come reazioni di difesa organica. Per evitare infiammazioni a livello intestinale, occorre “sfruttare” il riflesso gastro-colico del mattino per vincere la stipsi, in quanto il meteorismo intestinale ossia l’eccessiva produzione di gas intestinale si sviluppa per il ristagno dei residui alimentari negli ultimi 50 cm dell’intestino. Si consiglia quindi, appena svegli, di bere acqua o bevanda calda (tè o orzo non zuccherato); dopo 30 minuti, fare una buona colazione con latte di mandorla, kamut o soia, cereali bio integrali (avena o mais) e qualche mandorla tostata, molto indicati anche i kiwi; dedicare all’intestino un po’ di tempo prima di uscire di casa.