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LA SEGNALAZIONE
Santi, scrittori e viaggiatori

Se c’era qualcosa di cui era sicuro Vitangelo Moscarda, protagonista del pirandelliano “Uno, nessuno e centomila”, questa era il proprio nome.
Non avrebbe potuto dire lo stesso il proprietario del corpo conservato da oltre ottocento anni nell’arca di san Luca, all’interno della basilica di Santa Giustina a Padova, arca aperta nel settembre 1998 alla presenza di esperti e studiosi.

Degno di una spy story, che mescola intrighi e divulgazione scientifica, è una storia reale
la vicenda che Guido Barbujani racconta in “Lascia stare i santi” edito da Einaudi e presentata nell’ultima rassegna di Autori a corte.
Un vero e proprio viaggio nello spazio – per l’autore – e nel tempo – alla ricerca della probabilità, della possibilità più reale, che possa aiutare a capire se l’identità del corpo che riposa da ottocento anni, forse addirittura da 1700, in una cassa di piombo sia quella di san Luca Evangelista. Partita come spedizione alla ricerca di un tassello mancante del puzzle delle possibilità, assume via leggendo i connotati di una storia del mistero, cui si legano millenni di vicende e di santi, di città che si contendono reliquie, del possibile viaggio affrontato dalla salma, dal Medio Oriente all’Italia. Così, per conto dell’arcivescovo di Padova Antonio Mattiazzo, parte la spedizione per la Siria allo scopo di recuperare il Dna mancante che potrebbe permettere di capire qualcosa dell’origine del corpo – greca, turca o siriana – Dna che viene portato illegalmente in Italia imprimendolo su strisce di carta assorbente.

“Il libro nasce dal desiderio di parlar bene, una volta tanto, della ricerca scientifica e della razionalità, di raccontare la curiosità che provavo per il risultato che sarebbe scaturito dal lavoro di menti così diverse per formazione: anatomopatologo, chimico, archeologo, storico dell’arte, a ognuno dei quali spettava una parte del progetto. Pollini, grano, insetti, resti di serpenti e altri animali, legno con cui è stata fabbricata l’arca: tutti gli elementi concorrevano alla restituzione di una identità a quel corpo.
A me spettava il compito di analizzare il Dna del corpo trovato nella tomba, recuperato estraendolo da un canino e da una radice dentale”, racconta Barbujani.
Capitoli interamente dedicati alla scienza, tecnicismi che sono veicolo delle vicende, il giusto corredo di informazioni necessarie per orientarsi nelle vicende – basi della genetica, Dna, agiografia molecolare, tassonomia numerica – sono il necessario nucleo attraverso cui il genetista ferrarese descrive questa avventura; ma anche aneddoti personali sugli anni di studi e convegni; litigiosi post-dottorandi e dispute tra discipline che si contendono la palma d’oro nell’universo scientifico.

Agli aspetti più prettamente scientifici e accademici, si affiancano quelli umani; entrambi descritti da Barbujani come fondamentali nella sua ricerca, allo stesso modo in cui si scontrano due etiche del lavoro così diverse e così necessarie come la statistica di Sokal e l’intuizione di Luca Cavalli Sforza, due pesi massimi del settore. A partire dalla bellissima Aleppo, città siriana oggi devastata dai bombardamenti, esplorata dallo scienziato, in cui si mescolano variopinti tipi umani, creando un gigantesco e colorato “appartamento spagnolo” – i tecnici addetti al cambio dello spettrofotometro, i ragazzini curiosi per le strade polverose della città, bonari farmacisti e studiosi riservati – in cui si muovono Barbujani e il collega Fabio, tra sentimenti altalenanti, rischio di essere scoperti e senso del tragicomico latente e manifesto.
“Lascia stare i santi” è di fatto il racconto di tanti viaggi; ora scientifici, ora spiritosi, ora malinconici. Comincia e si sviluppa con il viaggio dello studioso verso la Siria, e termina con una poetica riflessione finale sugli spostamenti umani attraverso le parole di Gad Lerner, che racconta lo spaesamento del viaggiatore occidentale percorrendo il viale dei Martiri di Beirut, a confronto con quelle dell’imperatore Giuliano alle prese con il culto cristiano dei morti; senso del viaggio, ancora una volta colla e forbici del mondo, che unisce e divide, svela il mistero per proporne di nuovi, a fronte di una nuova (probabile) identità svelata e di tutto ciò che sta tra un corpo e un nome.

“Ma signori miei, cosa è un nome?”
(La giara, Luigi Pirandello)

L’EVENTO
Un bosco per Abbado, storia di un’idea

Eccoci arrivati all’ultimo giorno di agosto.

Durante tutto il mese avete riletto storie, interviste e ritratti dal nostro archivio, ora è arrivato il momento di conoscere il vincitore, l’articolo che ha ricevuto più voti da voi lettori di Ferraraitalia. E’ “Un bosco per Abbado. Storia di un’idea” nel quale la nostra Stefania Andreotti racconta il progetto di un bosco in città per rendere omaggio a una delle più grandi passioni del maestro Claudio Abbado, il giardiniere della musica. Buona lettura!

Un anno fa ci lasciava Claudio Abbado, direttore d’orchestra di fama mondiale e creatore di Ferrara Musica, una delle più importanti stagioni concertistiche italiane che ha permesso di avere in residenza artistica in città prima la Chamber Orchestra of Europe, poi Mahler Chamber Orchestra.

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La locandina

Oggi il Teatro comunale ha scelto di ricordarlo in modo inusuale, non per il suo lavoro, ma per il suo impegno, in particolare quello per l’ambiente. Appassionato di giardinaggio tanto da ricreare sempre il verde attorno a sé in tutte le sue dimore, come il celebre parco della casa di Alghero, è arrivato lui stesso a definirsi, “un giardiniere che si diletta a fare un po’ di musica” (Claudio Abbado, “Il giardiniere della musica”, Riccardo Lenzi, L’Espresso). L’architetto Renzo Piano aveva provato a spiegare così questo suo amore: “nella bellezza effimera delle piante c’è qualcosa di leggero, di passeggero, di sublime, che poi è il senso stesso della musica” (“Intervista a Claudio Abbado e Renzo Piano”, Stefano Boeri, L’Huffington Post).
Così il titolo dell’incontro di oggi alle 17 presso il Ridotto del Teatro comunale è proprio: “Un giardiniere prestato alle note”. L’idea è venuta al Garden Club Ferrara che l’ha sviluppata con il Fai dell’Emilia-Romagna, in collaborazione con Comune di Ferrara, Fondazione Teatro Comunale e Ferrara Musica.

giardino-abbado“L’incontro – come spiegano gli organizzatori – sarà l’occasione per presentare il progetto “Un bosco in città”, nato dal desiderio di ricordare con un luogo alberato l’amore del maestro per la natura, che l’Associazione Garden Club ha proposto al Comune di Ferrara ottenendo un’immediata disponibilità. Dai primi contatti è stata individuata un’area verde pubblica compresa fra il quartiere Barco e via Padova, che si potrebbe trasformare nel tempo in un ‘bosco in città’ di grande fascino, grazie all’impegno congiunto fra le competenze dell’amministrazione comunale e dei paesaggisti ed esperti di arredo urbano attivi nell’ambito del volontariato civico e ambientalista di associazioni quali Fai e Garden Club”.

giardino-abbadoMa com’è nata l’idea? Tutto risale a un paio di anni fa, quando Manfredi Patitucci, garden designer ferrarese, ha adottato, come previsto da un regolamento comunale, un’area verde di 1600 mq, composta da un boschetto ed un prato dietro la chiesa di San Giuseppe Lavoratore, nelle adiacenze di via Padova. “Ho sfalciato l’erba, potato, ripulito e reso agibile la porzione che mi era stata affidata. Poi ci ho piantato venti alberi di antiche varietà di frutta come melo cotogno, gelso e melograno.
La mia idea era di tamponare fisicamente e psicologicamente la presenza dell’industria. Una volta terminato il lavoro, ho restituito l’area verde al Comune. Qualche tempo dopo sono tornato a vedere la situazione e mi sono accorto che qualcuno aveva piantato un fico. E’ stata un’emozione, perché era la prosecuzione ideale del mio contributo ed un segno tangibile della voglia dei cittadini di riappropriarsi del verde pubblico. Sarebbe bello infatti che ognuno contribuisse alla sua manutenzione”.

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Area verde pubblica compresa fra il quartiere Barco e via Padova

La storia di Manfredi, è piaciuta molto al Garden Club, che ha apprezzato l’associazione di margine boschivo e frutteto, ed ha sposato l’idea del bosco in città, con l’intenzione di espanderlo e magari dedicarlo al maestro Abbado che tanto si è speso in più occasioni per la piantumazione degli alberi. “Un’idea è proprio quella di lavorare sull’area contigua a quella che ho ripristinato, si creerebbe così un unico grande parco. Ma al momento – precisa Patitucci – non c’è nessuna ipotesi progettuale”.

L’incontro di oggi servirà appunto per illustrare l’idea alla città e trovare assieme ad esperti, istituzioni e cittadini il modo migliore per realizzarla. “Il pomeriggio si concluderà – ricordano sempre gli organizzatori – con la proiezione video dell’esecuzione della Terza Sinfonia di Beethoven con Claudio Abbado alla guida della Lucerne Festival Orchestra, tratta dal dvd del concerto che ha avuto luogo nell’estate del 2013 al Lucerne Festival, l’ultimo diretto dal grande Maestro.
Questo particolare appuntamento in ricordo della figura di Claudio Abbado, sarà seguito da due significativi episodi musicali programmati da Ferrara Musica e Teatro Comunale: nel pomeriggio di domenica 25 gennaio al Ridotto del Teatro saranno proiettati video tratti dalle sue più recenti presenze a Ferrara; lunedì 26 gennaio, nell’ambito della stagione 2014-2015 di Ferrara Musica, la Mahler Chamber Orchestra, formazione fondata da Abbado nel 1998 e sin da allora orchestra residente nella città estense, sarà protagonista di un concerto in suo onore diretto da Daniele Gatti”.

Le foto dell’area pubblica individuata, compresa fra il quartiere Barco e via Padova, sono di Manfredi Patitucci.

Per il dettaglio degli appuntamenti visita il sito del Teatro comunale [vedi].
Regolamento per l’adozione di aree verdi pubbliche della città di Ferrara [vedi]
Articolo “Claudio Abbado, il giardiniere della musica” di Riccardo Lenzi, L’Espresso [vedi]
Intervista a Claudio Abbado e Renzo Piano, Stefano Boeri, L’Huffington Post [vedi]

L’incanto del flusso

Noia, ripetitività, ansietà sono i nemici del nostro star bene, eppure sono così diffuse da costituire tante metastasi del nostro vivere quotidiano.
Non è un caso che da alcuni anni abbia preso piede la parola resilienza, come una competenza indispensabile a vivere i nostri tempi. ‘Resilire’ in latino significa ‘rimbalzare’, ‘saltare indietro’. Un bel modo figurato per rappresentare i nostri tentativi di sottrarci alle routine del lavoro, della scuola, della vita famigliare. Resilienti sono le persone capaci di affrontare efficacemente le contrarietà e di dare un nuovo slancio alla propria esistenza.
Che la parola ‘resilienza’ trovasse cittadinanza nel nostro lessico era inevitabile, considerato che sempre più siamo vittime di un sistema che ha sacrificato sull’altare della produttività e del profitto la noia, l’ansia, la ripetitività del lavoro, massimizzando il paradigma dell’industria dei consumi. La stessa tecnologia non ci ha soccorso in questo, perché anch’essa orientata ad elevare i profitti e a produrre nuovi beni di consumo.
A tutto ciò ormai siamo arresi, però ci invitano ad essere resilienti, un modo per lasciare le cose così come stanno e trovare un compromesso per convivere con questo sistema. Per fortuna siamo ancora animali intelligenti, anche se non sempre può sembrare, e siamo abituati a porci delle domande.
Credo che un po’ a tutti sia capitato di aver provato almeno una volta nella propria vita, il fascino dei momenti in cui con piena soddisfazione ci siamo lasciati prendere da quello che stavamo facendo, con passione, con trasporto, dimentichi di noi stessi e di quanto ci stava attorno, spazi di tempo irripetibili, quasi magici.
Niente di straordinario. C’è anche chi ha definito questo stato con il termine ‘autotelico’, cioè di attività che è fine a se stessa, che dà piacere in quanto tale, a prescindere dal compenso o dall’interesse che ne ricaviamo. Ne scrive Mihaly Csikszentmihalyi, psicologo sociale dell’Università di Chicago, autore della “Flow Theory”. La Teoria del flusso fornisce un altro modo di pensare le organizzazioni sociali, a partire dalle scuole, per creare le condizioni del migliore benessere per studenti e insegnanti e per tutti quelli che lavorano in generale. È possibile per i lavoratori, gli studenti e altri ancora raggiungere l’ottimizzazione delle loro esperienze?
Mihaly Csikszentmihalyi, pioniere della teoria del flusso, descrive quali sono le caratteristiche di un’esperienza ottimale. La concentrazione è così intensa da lasciare in disparte ogni altro pensiero e problema. La coscienza di sé scompare, come il senso del tempo. L’attività produce una tale gratificazione che si è disposti a tutto, a prescindere da quello che si ricava, dalle difficoltà e dal pericolo.
È quello che prova l’artista immerso nel suo lavoro creativo, la spinta, il flusso che lo guida è così intenso che dimentica la fatica, la fame, i disagi. Lo stesso accade nel gioco dei fanciulli e degli adulti, che completamente immersi nella loro attività finiscono per condividere un’esperienza simile a quella dell’artista.
Sostanzialmente un invito a riscoprire il piacere di fare le cose non per un guadagno, ma per il valore dell’esperienza in sé, solo questa è la strada verso l’ottimizzazione.
Cosa significa ciò in campo educativo? Csikszentmihalyi distingue tra attività orientata ad ottenere una ricompensa e attività fondate sul ‘flusso’, sul piacere dell’attività in quanto tale. Insegnare ai fanciulli a diventare buoni cittadini non è ‘autotelico’, mentre lo è apprendere il piacere di interagire con gli altri bambini.
Gli studi condotti dal team di ricercatori dell’Università di Chicago sul grado di soddisfazione dei lavoratori hanno fornito molti esempi di esperienze fondate sulla teoria del ‘flusso’, nate dal desiderio individuale di compiere quell’attività o dalle sfide del lavoro.
Nell’educazione l’esperienza del flusso è importante perché indipendente dalle proprie capacità, dalle sfide e dal compito in quanto tale. Ma i nemici di questo magico stato personale sono appunto la noia, ciò che è routinario, l’ansia.
Chiedere ad uno studente o ad un lavoratore di svolgere compiti che non lo coinvolgono induce noia, come porlo di fronte ad attività che eccedono le sue capacità produce ansia. In entrambi i casi tutto ciò non può contribuire al benessere individuale.
Il flusso dell’intelligenza, il piacere di essere preso, immerso nei pensieri sono l’aspetto più importante dell’istruzione. È quello che si prova quando si legge, la lettura è per Csikszentmihalyi la più completa esperienza di flusso che ci sia al mondo. Leggere coinvolge tutti gli aspetti del flusso, la concentrazione, l’oblio di se stessi e del tempo. Quando le persone leggono provano una esperienza intensa di piacere. La stessa che si prova nel comporre un puzzle, nel risolvere un problema, di fronte ad un’opera d’arte, nel condurre una ricerca scientifica, nel formulare idee in campo sociale, economico, politico, nell’esplorare temi di carattere filosofico. Tutte queste attività sono cruciali per l’istruzione, perché possono produrre la gioia profonda del pensare.
Ce n’è quanto basta per riflettere sul lavoro delle nostre scuole, sui loro curricoli e sulla organizzazione del lavoro scolastico. Si possono ottenere migliori risultati se ci si occupa di fare dell’istruzione e dell’apprendimento un’attività gratificante, attenta al benessere, non solo fisico, ma soprattutto psicologico di ogni allievo.
La ‘teoria del flusso’ di Mihaly Csikszentmihalyi offre numerosi spunti interessanti per chi li sappia cogliere, nella direzione di rendere ottimale la qualità del tempo educativo che i nostri giovani investono sui banchi delle nostre scuole.
Lo studio potrebbe divenire per le nostre ragazze e i nostri ragazzi un vero oggetto del desiderio, perché il luogo in cui si vivono i momenti magici dell’intelligenza, presi dal piacere del flusso di scoprire i saperi, anziché costretti dal compenso dei voti e delle promozioni alla routine dei compiti, all’ansia delle interrogazioni, alla noia delle lezioni.
Non è la ‘resilienza’ la nuova parola d’ordine dell’apprendimento, come pretenderebbe David Puttnam, il lord inglese impegnato sui temi dell’istruzione, autore di programmi culto sulla scuola in televisione e sul web.
La ‘teoria del flusso’ è l’opposto della pedagogia muscolare della ‘resilienza’, come capacità di sopravvivere in questo sistema, senza nulla cambiare. Csikszentmihalyi ci insegna, invece, che una vita migliore è possibile ed è nelle nostre mani. Ne possiamo sperimentare i momenti più affascinanti, che non sono prerogativa dei soli artisti, ma diritto di tutti a partire dai nostri giovani nelle scuole.

L’INTERVISTA
Vincenzo Spampinato: ‘venditore di nuvole e sogni’ con Dalla, Battiato e i Rondò

Vincenzo Spampinato è presente sulla scena artistica sin dagli anni Settanta in qualità di autore, musicista, interprete, cultore di discipline quali danza (ha alle spalle anni di studio di mimo), teatro e ogni forma artistica che gli possa creare stimoli e interesse. Tra i suoi tanti successi ricordiamo “E’ sera”, “Battiuncolpo Maria”, “Voglio un angelo”, “L”, “Napoleone”, “I separati”, “L’amore nuovo”, “Milano dei miracoli”, “Bella don’t cry”, “Campanellina” e “La tarantella di Socrate”.

Contemporaneamente alla sua carriera di cantante, lavora come autore per Viola Valentino, Riccardo Fogli, Patrizia Bulgari, Fausto Leali, Irene Fargo e Milva. Tra i tanti successi: “Torna a sorridere”, “Sulla buona strada” (Sanremo 1985) e “Per Lucia” (Eurofestival 1983), portate al successo da Riccardo Fogli, “Sola e Arriva”, “Arriva” (Sanremo 1983), eseguite da Viola Valentino, inoltre, con Maurizio Fabrizio ha scritto la sigla degli spot televisivi del settimanale Sorrisi e canzoni.
A partire dalla fine degli anni ’80 ha pubblicato numerosi album raffinati e innovativi, coinvolgendo artisti quali Lucio Dalla, Franco Battiato e i Rondò Veneziano.

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Locandina dello spettacolo

Attualmente è in tour nei teatri con “Venditore di nuvole” e con lo spettacolo musicale “Il canto antico delle stelle”, accompagnato dalla Piccola Orchestra del Sole, che recentemente è stato rappresentato nello splendido scenario del Teatro Garibaldi di Modica (RG). Spampinato, in questo nuovo spettacolo, interpreta alcune tra le più belle melodie del Natale, dai classici italiani a quelli stranieri fino alle canzoni in lingua siciliana. L’obiettivo è quello di ritrovare la magia della festa, il senso religioso e spirituale del Natale di qualche tempo fa, tra giochi di luce, elementi scenici e suggestioni musicali.

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Locandina del tour

“Venditore di nuvole” è il titolo dello spettacolo che da quattro anni stai portando in giro per l’Italia, dove tra citazioni, filmati, aneddoti e racconti inediti, proponi il tuo vasto repertorio in una sorta di percorso artistico e umano.
Ognuno di noi è (se vuole) “il venditore di nuvole o sogni”. Una vendita metaforica, dove si chiede soltanto di sognare in compagnia, in un Paese dove ormai tutti si credono creatori o padroni dei sogni degli altri. L’idea nasce dall’esigenza di presentarsi in maniera semplice e sincera al pubblico, che a parer mio è stanco dell’arroganza che si vede in giro e nei media.

Un musicista che vende nuvole e sogni ha ancora la possibilità di farsi apprezzare in una società sempre più chiusa ed egoista?
Credo che ogni essere umano, dunque anche noi suonatori, viva sempre in bilico sulla bilancia della qualità o quantità. Io spero sempre, di divertire gli ascoltatori con intelligenza. Non per fare il saputello, ma semplicemente perché la gente non è così stupida come ci vogliono far credere i reality.

intervista-vincenzo-spampinatoHai scritto brani per cantanti importanti, tra cui “Per Lucia” interpretata da Riccardo Fogli (Eurofestival ’83), cosa provi ad ascoltare le tue canzoni interpretate da altri?
Una grandissima gioia! Oggi si potrebbe spiegare o paragonare a quando condividono su Facebook una foto o un tuo pensiero. Per Lucia è stato il primo colpo di “piccone” sul muro di Berlino. Nonostante fosse ancora lontana l’ipotesi del crollo di quella vergogna di cemento e mattoni, ho voluto credere che (senza retorica) l’amore non si ferma davanti a niente. Ho voluto cantarla perché appartiene profondamente al mio vissuto musicale.

Hai detto che le canzoni una volta create camminano con le loro gambe, ma cosa si prova quando le si incontra all’improvviso?
Forse un effetto Dorian Grey. Non so perché, ma credo che le canzoni non invecchiano… sono immortali.

Lucio Dalla, Franco Battiato, due incontri importanti culminati con la loro partecipazione a “L’amore nuovo”, l’album della rinascita…
Ci è dato sempre di rinascere… in musica naturalmente. Ricordi la celeberrima song dei Beatles “With a little help from my friends”? Due cari Amici, mi hanno dato un piccolo grande aiuto.

Nel 1987 il tuo brano “Il mio grande papà” si classificato secondo allo Zecchino d’oro, quale è stata la genesi di quella canzone?
Visto che ero ormai grande per parteciparvi come cantante, non avendo altra scelta… beh diciamo la verità: l’ho scritta per mio figlio e per dirla come Gianni Rodari, un po’ anche per i figli degli altri.

Sino a qualche anno fa era normale entrare in una rivendita di dischi e interagire con altre persone. Cosa abbiamo guadagnato e cosa si è perso in cambio di un download da iTunes?
Anche la musica risponde ai sensi, a tutti i sensi: manca il tatto… col disco avevi sempre qualcosa di tangibile. Sarò un nostalgico ma mi manca tantissimo il vinile.

Hai vinto l’11 edizione del Festival della nuova canzone siciliana, con “Muddichedda muddichedda”, qual è la motivazione che giustifica la scelta del dialetto?
Quando ho paura, nostalgia, insomma sentimenti decisamente più forti, ho bisogno di parlare e cantare nella mia lingua, il Siciliano.

Quali progetti per il 2015?
Ho ripreso finalmente la scrittura e le registrazioni del nuovo album, che riuscirò a fare uscire quest’anno, senza spiegarti i mille problemi che ormai la discografia crea. Farò presto dei tour all’estero e un cd per il mercato internazionale. Attualmente non ho altri progetti, bisogna accontentarsi…

Video di “Muddichedda, Muddichedda” [vedi]

Leggi l’approfondimento: Dei e dintorni: gli album di Vincenzo Spampinato

L’APPUNTAMENTO
Tutti i problemi della democrazia

“La democrazia è un’anarchia degli spiriti sotto la sovranità della legge”, è stata questa definizione di Luigi Einaudi a ispirare il nuovo ciclo di incontri “La democrazia come problema”, organizzato dall’Istituto Gramsci e dall’Istituto di storia contemporanea di Ferrara alla Sala Agnelli della Biblioteca Ariostea. “In questo aforisma – ci spiega Fiorenzo Baratelli, direttore dell’Istituto Gramsci – sono ben sintetizzate le difficoltà, ma anche i vantaggi della democrazia. Tutto dipende dalle varie strategie per conciliare o miscelare di volta in volta l’anarchia degli interessi egoistici di ciascuno con la sovranità della legge, che deve rappresentare i principi della giustizia sociale e sostenere l’efficienza del corpo sociale”. Per questo, continua Baratelli, “la democrazia come regime politico e sociale è per le sue ragioni fondanti (suffragio universale, pluralismo, laicità, libertà, giustizia sociale, divisione dei poteri, principio di inclusione) un problema sempre aperto per l’instabilità e la precarietà che contraddistingue la sua vita quotidiana all’insegna del conflitto e della mediazione”.
Ma oltre alle problematiche insite nel concetto politico e filosofico, parlare di democrazia significa anche affrontare il contesto contemporaneo nel quale i regimi democratici operano, perciò “i temi che verranno affrontati cercano di comprendere un largo spettro di questioni che dovrebbero aiutarci a mettere a fuoco i problemi che ha di fronte la democrazia nel presente: globalizzazione selvaggia, presenza di fondamentalismi e terrorismi, emergere di nuovi attori nella politica internazionale che hanno sancito il declino della secolare egemonia dell’Occidente”.
Dopo il primo incontro introduttivo di venerdì 23 gennaio, con un saluto del sindaco di Ferrara Tiziano Tagliani, la presentazione del programma e una pièce teatrale scritta da Piero Stefani, la prima conferenza sarà il 6 febbraio: “una lectio magistralis tenuta da uno dei nostri più grandi filosofi della politica, Salvatore Veca”, ci spiega ancora Baratelli. Poi, a partire dal 13 marzo fino al 27 novembre alle 17, “nessuna delle grandi questioni di questo tempo tumultuoso e, per molti versi, drammatico sarà esclusa: le ripercussioni della globalizzazione sulle istituzioni democratiche, la democrazia al tempo della rete, il rapporto tra democrazia, capitalismo e mafia, quello fra democrazia e crisi dello Stato sociale, le varie declinazioni istituzionali e concettuali della democrazia contemporanea, il rapporto difficile tra democrazia e religioni, l’idea di democrazia contenuta nella nostra Costituzione. Per affrontare tutti questi temi – sottolinea Baratelli – sono stati impegnati eccellenti personalità dell’ateneo ferrarese, come Giuliano Sansonetti, Paolo Veronesi, Giuditta Brunelli, Andrea Guazzarotti, ma anche esperti e studiosi noti a livello nazionale, come Carlo Galli, Tiziano Bonazzi , Federico Varese, Piero Stefani, Claudio Cazzola, Maura Franchi e Diego Carrara”.
Non rimane che un’ultima domanda: perché oggi c’è bisogno, ancora e sempre, di parlare di democrazia? Il direttore dell’Istituto Gramsci, citando Bobbio, parla di “promesse non mantenute della democrazia”: “è trascorso un quarto di secolo dalla caduta del Muro di Berlino. Nell’euforia di quell’evento, è stata messa in sordina la fragilità dei regimi democratici che si andavano affermando in varie zone del mondo. Oggi la democrazia ha vinto nello scontro con i regimi totalitari, ma non gode di buona salute, con questo ciclo ci interessa, più che escogitare soluzioni retoriche o demagogiche ai suoi difetti, sforzarci di capire le cause del suo malessere. Sarà così più facile individuare le vie e le proposte per contrastare la sua deriva.”

“La democrazia come problema”, in programma dal 23 gennaio al 27 novembre alle 17 presso la Sala Agnelli della Biblioteca Ariostea. Tutti gli incontri sono aperti al pubblico, mentre per gli insegnanti è previsto il riconoscimento di un credito formativo.

Il morbo del tempo

In “A casa”, il regista Antonio Costa affronta un tema difficile e delicato, quello della malattia senile e delle sue inevitabili conseguenze. Il film è raccontato con garbo, in una continua situazione di tensione, facendo temere che da un momento all’altro gli eventi possano avere un epilogo drammatico. Il rapporto di profondo affetto tra la madre e il figlio sacerdote è rivelato durante un viaggio in automobile, che si svolge attraverso spazi aperti senza alcun punto di riferimento o indicazione, come se si fosse in procinto di attraversare un confine, coinvolgendo lo spettatore.

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La locandina

Lo scopo del viaggio, apparentemente, sembra quello di portare l’anziana madre ad assistere alla messa ma, in realtà, il figlio sta per abbandonarla in un ospizio. Il racconto termina nella quotidianità della casa di riposo, tra la telefonata di un’infermiera distratta e il continuo tossire di un ospite. L’anziana donna segue il figlio all’interno del ricovero, anche se poco prima, in un momento di lucidità, gli aveva detto: “Portami a casa”.
La protagonista del film è la malattia, la si “sente” in ogni sequenza, in ogni inquadratura. La demenza senile, le sue conseguenze e la difficoltà ad accettarla, accentuano la disperazione del figlio, oramai conscio di avere perso la persona che conosceva e di trovarsi in bilico tra presente e passato, tra lucidità e oblio, tra il sottile confine che divide l’amore dalla disperazione.

Particolarmente indovinata la scelta dei brani musicali, non originali, che “accompagnano” il cortometraggio: “Stabat Mater” di Zoltan Kodialy e “Mata ai ni kurukarane” di Jonny Greenwood. La colonna sonora dona un senso di drammaticità continua, a volte stemperata dall’azione scenica, contribuendo a tenere viva la tensione narrativa.
Il film ha vinto il Premio speciale sezione corti al “Cervignano film festival 2013”, che si svolge nell’omonima cittadina friulana in provincia di Udine, il cui tema proposto era quello del “Cinema del confine e del limite”. La giuria ha premiato il lavoro di Costa con un’articolata motivazione: “A casa” affronta il tema proposto dal festival con grande originalità, interpretando in chiave inusuale il tema del confine. Da un lato, vediamo il confine tra lucidità e oblio, tra malattia e salute, tra presenza mentale e vacuità, testimoniato da una grande interpretazione di Milena Vukotic. Dall’altro, il limite della scelta dolorosa che si trova a varcare il figlio sacerdote nell’abbandonare la madre. Due intensi protagonisti, in bilico tra presente e passato, cristallizzati in un “non luogo” che rende oggettiva la loro condizione di figure di confine”.
Tra i protagonisti del film ritroviamo Milena Vukotic, la sensibile interprete dei film di Mauro Bolognini e Luis Buñuel, che dona alla storia l’espressione e la sofferenza del suo volto. L’attrice, disponibile a mettersi in gioco con i giovani registi, nello stesso periodo ha girato anche “Un amato funerale”, un cortometraggio scritto e diretto da Luca Murri, ambientato nello splendido scenario naturale di Nicosia in Sicilia.

“A casa” di Antonio Costa, con Milena Vukotic e Leonardo Castellani, dramma, Italia, 2012, 15 min.

Il film è visibile su Youtube [vedi]

LA RIFLESSIONE
Un po’ di silenzio, per favore

“È facile amare le persone lontane, molto facile pensare alla gente che muore di fame in India. Ma prima dovete vedere se regna l’amore in casa vostra e in quella del vostro vicino e nella strada in cui abitate, nella città in cui vivete, e solo dopo guardate fuori.” Madre Teresa di Calcutta

Madre Teresa era un esempio, di quelli che non esistono più, Madre Teresa era saggia. Madre Teresa era una piccola grande guida, Madre Teresa era una luce, di quelle che non brillano più. In questi giorni di guerra, minacce, assalti, attentati kamikaze e bombe, le scuole dei bambini non osano più insegnare la bellezza, la bontà e la pazienza.
La stampa parla di giovani vite in fumo, perse, fagocitate dalla violenza, dal nonsenso e dal colore nero, ovunque campeggia questa funebre tonalità. Il “Je suis Charlie” si mescola con il “Je suis palestinien” o il “Je suis Syrien”. Quando finirà questa improvvisazione? Ormai guardiamo con paura oltre le porte dei nostri vicini, aldilà dei confini e delle frontiere, l’altro e il diverso diventano sospetti. Tutti. Non cogliamo più l’amore nelle strade delle città in cui viviamo, la gioia di un amico che arriva con una torta di mele, di un fidanzato innamorato che ci porta dei fiori, di un mondo fatto anche di solidarietà, quella dei nostri quartieri, delle nostre periferie umide e abbandonate. Guardiamo fuori, solo, oltre i nostri orizzonti, ci fanno guardare fuori, ci spaventano con la paura, perché un popolo spaventato, terrorizzato e allertato se ne sta più tranquillo, lo si controlla meglio. Chiudiamoci allora un po’ di più, in certi momenti, non parlo certo di frontiere o d’isolamento ma penso al guardarci dentro, allo starci vicino, in sacrosanto silenzio. Amiamoci di più, stringiamoci in un grande girotondo, anche per guardarci in faccia. Lasciamo stare i bambini, lasciamoli giocare e correre spensierati e liberi per i prati. Basta ipocrisia. Un po’ di silenzio, allora, per favore. Solo un po’ di silenzio. Al verde di un giardino fiorito, all’ombra di cieli senza nuvole.

Fotografia di Simonetta Sandri, Giardino dell’Hermitage, Mosca

Passeggiata e sale in zucca

Pronto Ada, come stai? Aspetta che ti racconto. Devi sapere che il sant’uomo sta scrivendo il terzo volume della sua trilogia, così almeno dice lui. Lo vedo transitare tra cucina e tinello con aria peregrina e se gli rivolgo la parola non mi sente, oppure proclama: “Penso”, come a dire non rompermi le palle. L’altro pomeriggio, che era più in vena, ha preso a raccontarmi la trama del nuovo lavoro e io non capivo niente e assentivo, e più assentivo e meno capivo, finché lui dev’essersi stancato del mio silenzio attento, che lo usa anche Renzi quando non ha la maggioranza, mi ha piantato in asso dicendo: “Vado a fare una passeggiata, così penso meglio”. Dopo trent’anni di matrimonio felice non l’ho ancora capita la questione e cado in un madornale errore, gli chiedo, già che è fuori, di comperare un pacchetto di sale. Colto di sorpresa lo vedo turbato: “Come dev’essere il sale, grosso o fino?” “Grosso, amore mio, grosso, sempre grosso!” “Va bene, alla Conad hanno anche il sale iodato e quello di Cervia e quello rosa confetto, quale mi consigli di prendere?”. Cominciavo a pentirmi di avergli dato un incarico, ma non depongo il sorriso: “quello che vuoi, amore”. Secondo gravissimo errore, lasciagli libertà di scelta, però sopravviviamo. Ha indossato il cappotto, si accinge a varcare la soglia e… va. Non sono passati cinque minuti che suona il cellulare: “Mia adorata, senti che cosa ho pensato: già che vado al supermercato non è il caso che di sale ne compri due pacchetti, uno grosso e uno fino?” “Certo, amatissimo, certo lo sai che i tuoi pensieri sono santi!” Finita la passeggiata il sant’uomo ritorna. “Ho messo tutto sul tavolo in cucina!”. In cucina, deposto sulla tovaglia a fiori di campo, troneggia un imponente filone di pane toscano perfettamente insipido. Lo giuro, non turberò mai più la passeggiata del genio.

Il caledoscopico Amleto di Peter Brook

STANDING OVATION: I PIU’ ACCLAMATI SPETTACOLI TEATRALI DEL XXI SECOLO
“La tragédie d’Hamlet” di William Shakespeare, nell’adattamento e regia di Peter Brook,
Teatro Comunale di Ferrara, dal 28 al 30 maggio 2003

Chiusura memorabile della stagione di prosa, questa sera al Teatro Comunale in esclusiva 2003 per l’Italia, con “La tragédie d’Hamlet” di William Shakespeare, nell’adattamento e regia del grande Peter Brook. Inutile soffermarsi sull’arcinota vicenda della tragedia composta dal Bardo verso la fine del Cinquecento, più interessante è forse ricordare che l’oggi ormai ultrasettantenne Peter Brook è da molti considerato il maggior regista teatrale vivente, e che alcuni suoi allestimenti, in parte ispirati alle teorie di Artaud, sono ormai ritenuti “modelli” storici del Novecento oltre che indiscussi capolavori: “Marat-Sade” (1964), “Orghast” (1971), “Mahabharata” (1987).
Brook ha peraltro affrontato allestimenti shakespeariani un po’ nel corso di tutta la sua vita, dal “Romeo and Juliet” pennelato da tagli di luce bianca e arancione al “Measure for measure” con la processione di storpi e pezzenti, dal “Titus Andronicus” con la magistrale interpretazione di Lawrence Olivier al “Sogno di una notte di mezza estate”. In merito a questo suo recente spettacolo ha commentato lo stesso regista: «Che cosa si può dire a un giovane attore che si cimenta in uno di questi grandi ruoli? Dimentica Shakespeare. Immagina unicamente che il personaggio sul quale stai lavorando è esistito davvero, immagina che qualcuno lo abbia seguito ovunque con un registratore nascosto, in modo che le parole che ha detto siano proprio queste».
“La tragédie d’Hamlet” va in scena in lingua francese con sopratitoli in italiano e prevede una diversa disposizione dei posti a sedere: infatti il pubblico si disporrà su gradinate collocate attorno ad una scenografia quanto mai essenziale, caratterizzata semplicemente da un grande tappeto rettangolare con alcuni cuscini.
Ora l’amletico dilemma è: come si fa a recensire un capolavoro? Nel 1955, dopo aver assistito ad “Aspettando Godot” di Beckett, il critico del Sunday Times scrisse: «Cercare di racchiudere il significato della commedia in una frase è come cercare di catturare il Leviatano con una retina da farfalle». Qui siamo più o meno nelle stesse condizioni. “La tragédie d’Hamlet” esula da qualsiasi classificazione, i piani critico ed estetico coincidono, la strepitosa recitazione rende irrilevante l’assenza di una scenografia “storica”, gli atemporali costumi sono fantastici. La soluzione scenica, solo apparentemente semplice, è in realtà un ricchissimo caleidoscopio di velluti, drappi e colori; le musiche, suonate dal vivo con strumenti orientali da Antonin Stahly (Orazio in scena), evocano un “altrove” sonoro di suggestiva efficacia.

L’OPINIONE
Utopia e generosità. Pensieri e virtù poco italiani

Il lato peggiore degli “itagliani”, tra tante debolezze che non sono sufficientemente equilibrate da attitudini virtuose, consiste in un cicaleccio espresso da labbra strette che esprimono riprovazione se non sdegno oppure da uno scuotimento della testa da parte di signore con permanentina fresca. E’ ciò che sta accadendo nella vicenda delle due ragazze liberate e/o riscattate da bande terroristiche. L’esempio di alcune dichiarazioni tra Lega e Movimento 5Stelle era assai prevedibile ma su questo basterebbe controbattere con la lapidaria dichiarazione de “La Jena” sulla Stampa torinese: “Io il riscatto lo pagherei per tutti: perfino per Salvini” che mi sembra una risposta elegante e precisa.

Quello che mi preoccupa e mi rattrista, al di là dello scatenamento mediatico, è l’indifferenza o l’imbarazzo o la mancanza (apparente) d’interesse dell’altra metà del cielo. Sembra quasi che le donne, quelle le cui parole contano, si trovino in una specie di imbarazzato bivio tra solidarietà alle ragazze o condanna di una avventura considerata perlomeno azzardata. Tra le parole che colgono questa disparità di vedute, forte e chiara si alza la voce di Natalia Aspesi che con la leggerezza calviniana di cui è maestra affonda il coltello nella, talvolta, ipocrisia che avvolge il silenzio di tante donne, ponendo una serie di interrogativi: “sempre secondo quelle persone pericolosamente avare con gli altri, le rapite dovranno ripagare la loro salvezza per tutta una vita. Vuol dire che fossero loro al governo, le avrebbero lasciate soffrire e morire? Fossero anche state le loro sorelle, le loro figlie? Che il volontariato è un lusso per sciocchine? Che voler aiutare gli altri è un inutile hobby? Che se gli assassini di Parigi avessero chiesto per non uccidere, un riscatto, il governo francese avrebbe dovuto lasciar morire i giornalisti di Charlie Hebdo, la poliziotta, gli ebrei del negozio kosher?”

A che servono le migliaia di scarpette rosse che nell’entusiasmo per la difesa e la dignità delle donne si sono esposte in tutte le piazze d’Italia?. Il peggiore degli insulti: “se la sono cercata”! A cui Roberto Saviano può legittimamente rispondere: “Eppure Greta e Vanessa non erano alla loro prima missione umanitaria, non erano ragazzine sprovvedute, ma giovani donne con degli interessi e degli ideali. Qualche decennio fa alla loro età si era già madri.” Ecco allora che l’accusa più grave, quella della irresponsabilità viene minata al fondo. Prosegue Saviano spiegando che Greta e Vanessa partono per portare aiuto a popolazioni che non hanno nulla, in cui bambini muoiono per mancanza di tutto: “Ma al commentatore medio che ci siano centinaia di migliaia di persone a cui manca tutto non interessa”.
Non voglio commentare, ma ce ne sarebbe bisogno, l’avvertimento che Saviano inquietamente si pone. Se prima c’era reticenza a scrivere con parole ciò che ora si scrive impunemente sul web, questo limite ora è stato superato: che a Emma Bonino è giusto sia venuto il cancro, che queste ragazze sicuramente sono state abusate “ben gli sta!” vuol dire solo che il livello etico degli “itagliani” si è ulteriormente abbassato e che non hanno alcun rispetto per le parole. Si è perfino scritto che le ragazze non avevano nemmeno avvertito i genitori. Come se fosse necessario a vent’anni affrontare il giudizio di chi forse le avrebbe dissuase di seguire il loro sogno di rendersi utili. Un’utopia, certo, ma un’utopia generosa che le donne avrebbero dovuto compartecipare in pieno se è vero come è vero che anche gli stati che non pagano riscatto poi traversalmente lo fanno pagare alle agenzie di assicurazioni.

E le parole forti di Saviano sono del tutto condivisibili: “Mi vergogno delle reazioni di molti miei connazionali, delle loro parole, del loro livore, del loro odio. Se un Paese non è capace di stare accanto a due giovani donne volontarie, che hanno passato in condizioni di sequestro quasi sei mesi della loro vita, allora merita il buio in cui sta vivendo”.
Non voglio, inoltre, addentrarmi nelle discussioni politiche che siglano una mancanza interiore di generosità e di comprensione etica: dalle grasse parole di Salvini a quelle del governatore Luca Zaia, dagli imbarazzi di Gentiloni a quelle del sindaco di Padova Tosi, ai deliri grilleschi in odio al politico di turno.
Vorrei per una volta sola, (una!) riaprire la speranza all’utopia, dimostrare una comprensione verso una generosa illusione che è tra le corde meno usate non solo degli “itagliani” ma di tutto il popolo italiano.

SETTIMO GIORNO
Cercasi opposizione disperatamente

NAPOLITANO – Il Capo dello Stato va veramente in pensione, non è un nuovo espediente per prolungare ancora il mandato e, pertanto, è arrivata l’ora di tirare le somme del suo impegno novennale. Un voto? Non me la sento, posso dire soltanto che negli ultimi anni non sono stato politicamente d’accordo con lui. Con Napolitano abbiamo spesso confrontato le idee trovandoci sulla stessa lunghezza d’onda, eravamo nello stesso partito, il Pci, lui era uno dei grandi della segreteria, io ero un buon scrittorello, quello che sono rimasto. Ricordo una volta che, a Bologna, seguimmo insieme un importante convegno alla John Hopkins University, Napolitano era uno dei due ospiti d’onore, l’altro era l’allora ambasciatore Usa in Italia, John Volpe, detto anche John Golpe, il quale lanciò un’idea assolutamente liberticida: era necessario, disse, nominare quattro uomini ai quattro lati del mondo che sarebbero dovuti diventare gli “architetti della libertà”. I popoli? La gente comune, imprenditori, impiegati, operai, intellettuali avrebbero dovuto affidare le loro idee e la loro sicurezza ai quattro g mondiali. Ci avrebbero pensato loro. Uscendo per una pausa nel giardinetto dell’università americana, con Napolitano ci sedemmo su una panchina a ragionare e fummo pienamente d’accordo sul fatto che l’idea di Volpe (di Golpe) rappresentava la strada maestra per sopprimere libertà e democrazia. Poi Giorgio Napolitano divenne il leader dei miglioristi e addio al Pci. Negli ultimi anni il vecchio uomo politico ha affidato il governo (senza indire elezioni, forse un bene) a personaggi del tutto insignificanti, se non addirittura nefasti per la nostra società, ma assomigliavano tanto, ognuno a modo suo, a uno dei quattro “architetti della libertà” dell’ambasciatore Volpe, messi lì, così è sembrato, a far da pali, come avrebbe scritto Giuseppe Giusti, finché non è arrivato il signorino di Firenze (quello che assomiglia tanto al cugino saputello e antipatico di Tom Sawyer) questo non è mica di passaggio, fa tutto lui. Come Berlusca.

OPPOSIZIONE – Da tutto questo si deduce che, nonostante la vecchia conoscenza con Napolitano, sono stato e sono imparzialmente critico sul suo operato, ma un poco mi ha disgustato quella che in Italia passa per essere l’opposizione, la quale, incapace di svolgere adeguatamente il ruolo importante di critica che le spetta di diritto in un sistema democratico (?), non riesce a far altro che urlare, oh come urlano gli oppositori e, quando non hanno più parole, insultano. Succede così che l’opposizione politica in Italia è inesistente: non un argomento che sia uno oltre il grido e l’improperio. Nel linguaggio politichese in uso qui da noi non si dice “amico caro, hai sbagliato”, ma “sei un cretino”.

DIOGENE – Aveva ragione il filosofo greco Diogene, il quale abitava in una botte (per non pagare l’Imu?) e andava in giro con la lanterna “per cercare l’uomo”, diceva a chi gli chiedeva ragione del suo strano comportamento. Ho provato anch’io a cercare l’uomo con la lanterna, ma subito il telefono ha trillato (erano le 14 e stavo riposando): era la signorina di un call center che mi proponeva un contratto favorevole per l’uso della lampada. Ho risposto che in casa non c’è alcuno, “il signore è morto poco fa”, ho aggiunto. E’ seguito un silenzio interdetto, poi la voce: “mi sa dire quando resuscita?”

La giusta distanza in amore al tempo degli ex

Qual è la giusta distanza fra due persone perché il legame non scivoli pericolosamente nella simbiosi o non diventi estraneità per eccesso di lontananza?
Gloria Husmann (psicologa) e Graciela Chiale (sociologa), nel saggio “L’amore al tempo degli ex. Ti amo… ogni giorno di meno” (edizioni Biglia Blu, 2014), raccolgono e analizzano le storie di uomini e donne che hanno vissuto l’esperienza della coppia e del suo fallimento, ma anche della sua riuscita.
Le due studiose osservano come le relazioni siano figlie dell’ambiente di provenienza delle persone e della società contemporanea: dalle relazioni si può entrare e uscire con poco impegno e senza particolare progettualità. Si tratta di legami “fragili”, la loro ragione, sostengono Husmann e Chiale, è riconducibile al modello in cui le persone hanno vissuto, fatto di poco tempo e poco spazio, genitori indaffarati in altro, la solitudine come compagnia. I legami fragili, perciò, non conoscono la condivisione e mettono al riparo dalla sofferenza per un eventuale abbandono. Si cerca, insomma, di giocare d’anticipo sul dolore.
Ma come lo si sceglie l’altro? E perché, dopo i primi entusiasmi spesso confusi con amore, salta fuori l’incongruenza? La scelta del partner fatta per ansia o per colmare un vuoto, è quasi sempre dannosa perché sopraffatta da un’urgenza fuorviante che fagocita il tempo naturale e impreciso che serve per un consolidamento fra due persone. Ci si fulmina e poi fa più male di prima.
“La distorsione della percezione” dell’altro, che in genere avviene nella prima fase di un rapporto, induce ad attribuire all’altro, arricchendolo, capacità che, dopo un po’ di tempo, sembreranno davvero ridimensionate o, nel peggiore dei casi, deludenti. Uno degli errori è considerare l’altro come completamento, se non addirittura riparatore. Ma l’altro è l’altro.
Ciascuna coppia procederà, poi, in base alla sua “architettura artigianale”, un work in progress che può resistere anche per anni, se fatto di riscoperta, negoziazione, comunicazione profonda e rispetto per l’autonomia delle parti.
P.S.: che l’amore sia una mèta e non un inizio, anche Husmann e Chiale ci ricordano che lo avevamo già imparato con Erick Fromm…

L’EVENTO
Favino sublime giullare esalta la tradizione della commedia all’italiana

Quasi tre ore di puro divertimento, in cui si fatica a star fermi sulle sedie, tanta è l’esilarante energia sprigionata sul palco dagli interpreti di “Servo per due”, il riallestimento italiano ad opera di Marit Nissen, Simonetta Solder, Pierfrancesco Favino e Paolo Sassanelli di “One man, two guvnors”, a sua volta versione british del classico goldoniano “Arlecchino servitore di due padroni”.

commedia-italiaCi si potrebbe chiedere perché Pierfrancesco Favino e Paolo Sassanelli, entrambi nella doppia veste di registi e attori in scena, abbiano scelto di passare per la versione inglese ambientata negli anni Sessanta e trasportarla a loro volta nella Rimini degli anni Trenta, invece che riprendere direttamente l’originale settecentesco. La risposta che può azzardare chi ha visto lo spettacolo è che, forse, serviva un distanziamento nel tempo e nello spazio per poter recuperare nell’opera di riscrittura tutta la tradizione della comicità italiana, che partendo dalla commedia dell’arte nel frattempo è diventata la commedia all’italiana di Risi e Monicelli, o la giullarata popolare del premio Nobel Dario Fo e ancora il varietà teatrale e televisivo e la comicità stralunata di Benigni e Troisi.

commedia-italiaInsomma, come afferma Favino nell’incontro della compagnia con il pubblico al Ridotto del teatro, il genere che più appartiene alla nostra natura e alla nostra storia di italiani sembra essere la commedia: “è il linguaggio che ci accomuna e che ritroviamo dovunque facciamo lo spettacolo”. Per questo lo spettacolo coinvolge così tanto: perché è “popolare nel senso più nobile e intelligente del termine”, come sottolinea Stefano Pesce, che interpreta Spiridione.
Un altro motivo diventa evidente quando Favino racconta la sua visione del mestiere dell’attore: “gli attori iniziano a fare questo mestiere per essere amati, ma diventano tali quando riescono ad amare, quando nasce quel bisogno dell’altro che sta davanti a te, perché recitare significa non tenere nulla per sé e non giudicare mai il pubblico che si ha di fronte”. E, infatti, ognuno degli attori non risparmia una goccia del proprio sudore in un fiume in piena di situazioni, ricche di incroci tra personaggi ed equivoci a profusione, tra travestimenti, scherzi, gag e ruzzoloni. “Lo spettacolo è più forte della presunzione dei singoli attori: non importa quanto si voglia emergere, non ci si riesce perché si viene trascinati nel vortice del suo ritmo”, spiega Sassanelli. Lo spettacolo poi non sarebbe la stessa cosa senza i siparietti musicali tra una scena e l’altra, durante il cambio di scenografie, arrangiati e suonati dall’orchestra Musica da Ripostiglio, che quando arriva “crea scompiglio”, fra riarrangiamenti di classici della musica italiana, come “Mille lire al mese”, “Il pinguino innamorato” e “Mamma mi ci vuol il fidanzato”, e nuovi brani scritti appositamente per questo spettacolo.

commedia-italiaÈ evidente che tutti loro si divertono nel farci divertire, come è evidente la rete di fiducia che conferisce allo spettacolo un respiro comune. Una coesione che deriva dal reciproco rispetto, nato durante gli otto lunghi mesi di duro lavoro che sono serviti per preparare “Servo per due”: seminari di danza, canto, clownerie e tanta improvvisazione per allenare la memoria fisica e per “rendere sempre necessario in scena l’ascolto dell’altro”, chiarisce Favino. Una complicità che emerge dagli sguardi e dalle piccole impercettibili smorfie di intesa che i compagni si sono lanciati nel finale durante l’ultima canzone mentre iniziavano i lunghi applausi del pubblico in sala, ma che trova forse la sua più chiara espressione nell’immagine di Pierfrancesco Favino che, a chiusura dell’incontro con il pubblico, prende in braccio il bimbo addormentato del chitarrista dell’orchestra e gli sorride come uno zio affettuoso.
Se l’intento è recuperare il rapporto di fiducia fra chi sta sul palcoscenico e chi sta davanti a esso e, nelle parole di Favino, “proporre uno spettacolo che le persone siano felici di aver visto, facendole andare via con la sensazione di essere state a casa propria”, possiamo dire: obiettivo pienamente raggiunto.

“Servo per due”, di e con Pierfrancesco Favino, adattamento di “One man, two guvnors” di Richard Bean, tratto da “Il servitore di due padroni” di Carlo Goldoni, al Teatro Comunale fino a domani, domenica 18 dicembre.

Foto di Marco Caselli Nirmal

LA MOSTRA
C’era un ragazzo nel ’43, ora si racconta

Era un ragazzo ferrarese, William Ferrari. Alle spalle un’infanzia e una giovinezza tranquille tra via Calcagnini e Scandiana. Poi scoppia la seconda guerra mondiale e lui entra in Marina. L’8 settembre 1943 ha 20 anni e – come tutto il Paese – non sa più bene da che parte sta o dovrebbe essere. I tedeschi, non più alleati, gli chiedono se passa dalla loro parte. Non accetta e lo fanno prigioniero. Rinchiuso in un carro bestiame, inizia un viaggio allucinante verso la Germania. “Ci sarebbe stato posto per venti al massimo – racconta – e invece eravamo più di cinquanta”. Da quel carro, diretto in un campo di lavori forzati, riesce a gettare fuori un biglietto, poi un altro e un altro ancora. Cerca soprattutto di rassicurare i suoi genitori: “Non allarmatevi che io godo di ottima salute”. Tre persone diverse, in tre città diverse attraverso le quali passa quel carro, raccolgono per terra le lettere spiegazzate e le fanno avere ai genitori.

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Al Museo della Resistenza uno dei biglietti scritti nel ’43 da William Ferrari sul carro che lo sta deportando

Da oggi sono in mostra al Museo del Risorgimento e della Resistenza di Ferrara documenti, immagini e testimonianze legati a William (che – da noi – si legge Villiam). Raccontano la vicenda di un ragazzo come tanti, precipitato nella storia soffrendola sulla sua pelle. La mostra a cura di Antonella Guarnieri è realizzata anche grazie al contributo di Paolo Ferrari, il figlio di William. Biglietti scritti a mano, fotografie e riproduzioni ruotano attorno a questo ventenne, che d’un tratto si trova a lottare contro una prigionia inaspettata, in preda a fame, prevaricazione, fatica e paura quotidiana.
“La storia di William – spiega la studiosa Antonella Guarnieri – in realtà è la storia di tanti”. Si è calcolato che sono stati tra i 600 e i 650mila i militari italiani che, dopo il proclama dell’armistizio di Badoglio con gli Alleati, si trovano faccia a faccia coi tedeschi e, anziché accettare di passare dalla loro parte, cedono le armi e vengono fatti prigionieri.

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La lettera alla famiglia della persona che ha ritrovato uno dei biglietto lanciati da William Ferrari ragazzo

La cosa straordinaria è che William questa storia l’ha vissuta, ha conservato memoria di quel momento e questa mattina era lì con i suoi 92 anni, testimone lucido e pacato nella saletta del museo che ora ospita la mostra storico-documentaria “William Ferrari, un marinaio tra guerra e deportazione e altri volti di ex Internati militari italiani”.
Il carro su cui viene fatto salire il giovane Ferrari viaggia per tre giorni e tre notti, senza che venga dato niente da mangiare e senza mai che si possa uscire o andare in un bagno. Non ha nemmeno matita o biro per scrivere, William. Ma vuole fare sapere qualcosa a mamma e papà. Così gratta della ruggine da una parete del carro e la inumidisce per mettere sulla carta quei messaggi. Non sa bene dove si trova, mentre li butta fuori. Li raccoglie una signora a Treviso, una persona a Mestre e un’altra a Marghera. E tutti questi italiani prendono i foglietti e si prodigano per fare arrivare quei messaggi a Ferrara.

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Il “passaporto” con cui viene schedato William Ferrari dai tedeschi e ora al Museo diiRisorgimento e Resistenza di Ferrara

Il terzo giorno è il 22 settembre 1943 e il carro arriva in Germania. I prigionieri vengono smistati in campi di lavoro. Sulla loro casacca viene dipinta la sigla Imi, che vuol dire “Internati militari italiani”. Significa che non sono considerati prigionieri, e che quindi non godono nemmeno di quel minimo di tutele previste dal trattato di Ginevra. Diventano forza lavoro e basta. Schiavi da far sgobbare nelle miniere, nelle industrie o nei cantieri tedeschi . Dieci ore al giorno di fatica e una specie di pasto a fine giornata, una “sbobba indistinta e acquosa dove, se eri fortunato, potevi trovare un pezzo di patata”.

Nelle baracche – racconta Ferrari – non ci sono nemmeno le brande. Solo mucchi di paglia su cui i lavoratori forzati si gettano ogni sera, esausti. Appena qualcuno viene visto lavorare un po’ meno o se ci persone che arrivano in ritardo alla chiamata mattutina, la regola è quella di contare i prigionieri a gruppi di cinque; il quinto finisce impiccato davanti a tutti, come monito. William finisce in un’industria di motori. La soda con cui deve pulire i meccanismi di acciaio distrugge i suoi abiti e lui cerca di tenersi lontano dal liquido corrosivo, mentre lo getta. Uno dei controllori lo punisce per questo e lo trasferisce nella Compagnia di disciplina, il reparto di lavoro più duro. Anziché il misero pasto al giorno, solo una brodaglia ogni due giorni. Lo mandano in miniera un po’, poi nei boschi. “Quei boschi – sorride – sono stati forse la mia salvezza”. Mentre scava le trincee in mezzo agli alberi, trova vermi e lumache che può inghiottire.

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William Ferrari tra il figlio Paolo e il nipote Matteo

Nella baracca gelata dove torna alla sera i suoi compagni sono russi, francesi, anche tedeschi che si sono opposti al regime. Due gli anni passati lì, con inverni di 13 gradi sottozero e oltre, neve, sfinimento, fame e bastonate che ogni tanto il prigioniero incaricato di controllarli tira contro di loro. “Lo faceva – spiega – per cercare di accattivarsi le simpatie dei tedeschi”. Nell’agosto del 1945 esce dalla baracca e vede il campo coperto di teli bianchi. E’ la resa tedesca. Sono arrivati i russi e gli americani. William segue un gruppo dove capisce che ci sono altri italiani come lui. E’ un carro americano. Lo visitano, curano ferite, danno cibo poco a poco per non traumatizzare i fisici debilitati. Un mese dopo William riparte per l’Italia. Arriva finalmente a Ferrara. Ritrova la famiglia, si sposa e ora ha il figlio Paolo, 51 anni, e il nipote Matteo, 24 anni. Il passato entra nel presente. Il Museo della Resistenza lo racconta.

La mostra è “William Ferrari, un marinaio tra guerra e deportazione”, in corso Ercole I d’Este 19, fino all’8 febbraio, ore 9-13 e 15-18, chiuso il lunedì.

Giorgio Stefani: alchimia cibernetica

Per le edizioni La Voce della Dardagna, poi riediti in trilogia per Schifanoia editore (Ferrara) con i titoli “Il re della terra”, “Il golem”, “Viaggio astrale”, Giorgio Stefani, originario di Milano, poi stabilitosi a Ferrara, presentò a suo tempo (fine anni ’90) “Hope e la pietra di luce” (I racconti del manoscritto) ovvero narrativa neo-fantastica e neo-esoterica: un tourbillon scorrevolissimo ed avvincente tra i fantasmi cibernetici di Calvino, l’archetipo di “Praga città magica”, alla luce e soprattutto di certa alchimia più scientifica, l’affascinante archetipo del Golem, “Adamo” dei robot contemporanei di Asimov o dei replicanti di “Blade Runner”.
La scrittura, tuttavia, trasparentemente ottocentesca alla Hoffmann, sempre in bilico tra sogno letterario, profezia visionaria e realtà storica. E curiosamente, l’edizione originale del Golem di Stefani, apparve in forma grafica stile manoscritto elettromeccanico… con tutto il mistero antico dell’alchimia e dell’odierna computer science
Una fase letteraria probabile vertice di Giorgio Stefani, focalizzata su certo fantastico quasi ante litteram, il futuro anteriore come Comunicazione attraverso l’esca narrativa, con esiti eccelsi. Autore inoltre di “Black and Blues” (poemetto neo-beat, Schifanoia, 2002) e con L. Govoni di “San Giorgio e il drago: teletrasporto magico (con antifona e cinque sequenze)” (Schifanoia, 2001) ecc.
Giorgio Stefani sperimentò anche l’editoria proprio con Schifanoia per qualche tempo, di particolare levatura e professionalità “classica” con esiti notevoli: tra poesia, narrativa e saggistica stessa, tra – ancora – fantastico, post-realismo e futuribile.
Come editore promosse, ad esempio, alcuni autori poi di buona fama local e global, da Luigi Bosi a chi scrive, lo stesso Maurizio Oliviero (un avvincente libro sulla Spal), Riccardo Roversi, ecc. E pure il fantascientifico Ray Groundhog segnalato anche da Fantascienza.com/Il Corriere della Fantascienza [vedi].
Più in generale, in particolare la trilogia quasi tecno-magica di Stefani, oggi, a distanza di anni, suona come una affascinante semi-anticipazione o parallelismo laterale di certo ritorno a certo sublime nuovo medioevo pur aggiornato, in certo senso tra gli stessi Evangelisti e Simoni, lo stesso Dan Brown, relativamente parlando (all’epoca dello Stefani scrittore, oggi ritiratosi sull’Appennino, il grande Eco post “Nome della Rosa” in grande spolvero e anno zero in Italia di certo trend): un autore, riassumendo, in tal senso da riscoprire, a Ferrara penalizzato da certi confini poco estensivi.

Per saperne di più visita il catalogo della Schifanoia editore [vedi].

* da Roby Guerra, “Dizionario della letteratura ferrarese contemporanea”, Este Ediiton-La Carmelina ebook [vedi]

L’OPINIONE
“Je suis…”, un facile slogan

Questi sono i giorni in cui tutti noi siamo molto impegnati a trasformare il nostro “io egocentrico ed individualista” in un “io altruista e collettivo”.
In conseguenza dei drammatici episodi accaduti in Francia, siamo diventati tutti Charlie ma anche Ahmed e addirittura ebrei.
Siamo stati bravi in questa difficile metamorfosi e quel che mi sorprende di più è che ci siamo riusciti con grande facilità, dimostrando un’empatia insolita di questi tempi.
Siamo stati così bravi che trovo strano come molti invece non riescano ancora, con la stessa facilità, ad affermare: siamo palestinesi, siamo curdi, siamo nigeriani o addirittura musulmani.
Siamo stati talmente bravi che mi sembra singolare il fatto che tanta gente non sia riuscita a indignarsi a dovere di fronte all’ipocrisia mostrata in mondovisione da certi governanti, calpestatori di libertà individuali e “masters of war” che domenica scorsa hanno sfilato fianco a fianco a Place de la République, come paladini della libertà d’espressione.
È stato facile per tutti noi perché si è trattato solo di scrivere, di cinguettare, di indossare una frase semplice: “#JeSuisCharlie”.
Una frase che, come un abito blu, può essere vestita con facilità da chiunque, anche dalle personalità meno coerenti; una frase di moda che non sfigura e che fa sembrare eleganti nei salotti buoni.
Una frase facile che poi però viene digerita in fretta perché, oggi, anche i peggiori paradossi sono solubili nel fango putrido di questo misero presente.
Pur avendo tentato anche io, nel mio piccolo, di essere Charlie sono stato e sono insofferente ai facili slogan e alle conseguenti adesioni di massa, soprattutto se non ci si fanno troppe domande su ciò che è davvero avvenuto (spero concorderete che di aspetti poco chiari ce ne sono un bel po’ in questa tragica vicenda).
Confesso poi che, pur non avendo mai avuto occasione di leggere con continuità la rivista Charlie Hebdo, dico che alcune vignette mi piacciono molto, altre invece neanche un po’, anzi ultimamente mi sembrano addirittura intolleranti e/o islamofobe.
Non ho comprato l’ultimo numero di Charlie Hebdo in allegato con Il Fatto Quotidiano e non mi sento in colpa.
Ciò non toglie però che quei giornalisti avessero e abbiano il sacrosanto diritto di esprimere le loro opinioni, nella maniera che ritengono più opportuna.
Credo, in maniera convinta, nella libertà di espressione.
Ci credo anche se non sempre mi piace ciò che certi artisti o giornalisti esprimono con le proprie idee ed i loro messaggi.
Ma ci credo non solo quando gli eventi drammatici portano i mass media a propinarci conclusioni che fanno comodo e che ci coinvolgono a tal punto da farci sentire combattenti coraggiosi in difesa delle libertà, sotto la bandiera transitoria di Je Suis Charlie.
Credo e provo a difendere la libertà di espressione anche quando si tratta di un’immagine che raffigura il nostro vescovo con una barbie in mano in un manifesto che pubblicizza un concerto di vari gruppi punk a Ferrara; ci credo anche quando, in televisione, alcuni artisti vengono epurati da certi programmi televisivi; ci credo anche quando le copertine dei dischi non sono sempre “affascinanti e zuccherose”; ci credo anche quando le parole delle canzoni o delle poesie danno fastidio o urtano certe sensibilità; ci credo quando i film o i documentari graffiano la superficie per cercare la verità.
Ci credo e mi riconosco nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e nell’articolo 21 della nostra Costituzione che recita: “Tutti hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili. Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni.”
Essere Charlie, per me, vuol dire anche preoccuparsi di come questa solidarietà possa essere usata da chi ha interessi ben lontani dalla difesa dei diritti delle persone e delle libertà individuali.
Occorre insomma far attenzione al pericolo delle strumentalizzazioni che oggi ti fanno essere Charlie e domani non si sa chi.
Ho letto una lettera, sui recenti fatti di Parigi, scritta da alcuni professori e pubblicata l’altro ieri da Le Monde.
La incollo di seguito perché mi sembra essere un ragionamento ‘forte’ che invita ad uscire dalla logica di chi, colpevolizzando gli altri, si sente il più giusto e quello con la verità “take away” regalata dai media, già pronta ed offerta su un bel piatto d’argento.
Comunque la pensiate, buona partecipazione.

da Le Monde del 13 gennaio 2015
“Siamo professori di Seine-Saint-Denis. Intellettuali, scienziati, adulti, libertari, abbiamo imparato a fare a meno di Dio e a detestare il potere e il suo godimento perverso.
Non abbiamo altro maestro all’infuori del sapere. Questo discorso ci rassicura, a causa della sua ipotetica coerenza razionale e il nostro status sociale lo legittima.
Quelli di Charlie Hebdo ci facevano ridere; condividevamo i loro valori.
In questo, l’attentato ci colpisce.
Anche se alcuni di noi non hanno mai avuto il coraggio di tanta insolenza, noi siamo feriti.
Noi siamo Charlie per questo.
Ma facciamo lo sforzo di un cambio di punto di vista e proviamo a guardarci come ci guardano i nostri studenti.
Siamo ben vestiti, ben curati, indossiamo scarpe comode, siamo al di là di quelle contingenze materiali che fanno sì che noi non sbaviamo sugli oggetti di consumo che fanno sognare i nostri studenti: se non li possediamo è forse anche perché potremmo avere i mezzi per possederli.
Andiamo in vacanza, viviamo in mezzo ai libri, frequentiamo persone cortesi e raffinate, eleganti e colte.
Consideriamo un dato acquisito che la libertà che guida il popolo e Candido fanno parte del patrimonio dell’umanità. Ci direte che l’universale è di diritto e non di fatto e che molti abitanti del pianeta non conoscono Voltaire? Che banda di ignoranti…
È tempo che entrino nella Storia: il discorso di Dakar lo ha già spiegato loro.
Per quanto riguarda coloro che vengono da altrove e vivono tra noi, che tacciano e obbediscano.
Se i crimini perpetrati da questi assassini sono odiosi, ciò che è terribile è che essi parlano francese, con l’accento dei giovani di periferia.
Questi due assassini sono come i nostri studenti.
Il trauma, per noi, sta anche nel sentire quella voce, quell’accento, quelle parole.
Ecco cosa ci ha fatti sentire responsabili.
Ovviamente, non noi personalmente: ecco cosa diranno i nostri amici che ammirano il nostro impegno quotidiano.
Ma che nessuno venga a dirci che con tutto quello che facciamo siamo sdoganati da questa responsabilità.
Noi, cioè i funzionari di uno Stato inadempiente, noi, i professori di una scuola che ha lasciato quei due e molti altri ai lati della strada dei valori repubblicani,
noi, cittadini francesi che passiamo il tempo a lamentarci dell’aumento delle tasse,
noi contribuenti che approfittiamo di ogni scudo fiscale quando possiamo,
noi che abbiamo lasciato l’individuo vincere sul collettivo,
noi che non facciamo politica o prendiamo in giro coloro che la fanno, ecc.:
noi siamo responsabili di questa situazione.
Quelli di Charlie Hebdo erano i nostri fratelli: li piangiamo come tali.
I loro assassini erano orfani, in affidamento: pupilli della nazione, figli di Francia.
I nostri figli hanno quindi ucciso i nostri fratelli.
Tragedia. In qualsiasi cultura questo provoca quel sentimento che non è mai evocato da qualche giorno: la vergogna.
Allora, noi diciamo la nostra vergogna.
Vergogna e collera: ecco una situazione psicologica ben più scomoda che il dolore e la rabbia.
Se proviamo dolore e rabbia possiamo accusare gli altri.
Ma come fare quando si prova vergogna e si è in collera verso gli assassini, ma anche verso se stessi?
Nessuno, nei media, parla di questa vergogna. Nessuno sembra volersene assumere la responsabilità.
Quella di uno Stato che lascia degli imbecilli e degli psicotici marcire in prigione e diventare il giocattolo di manipolatori perversi, quella di una scuola che viene privata di mezzi e di sostegno, quella di una politica urbanistica che rinchiude gli schiavi (senza documenti, senza tessera elettorale, senza nome, senza denti) in cloache di periferia.
Quella di una classe politica che non ha capito che la virtù si insegna solo attraverso l’esempio.
Intellettuali, pensatori, universitari, artisti, giornalisti: abbiamo visto morire uomini che erano dei nostri.
Quelli che li hanno uccisi sono figli della Francia.
Allora, apriamo gli occhi sulla situazione, per capire come siamo arrivati qua, per agire e costruire una società laica e colta, più giusta, più libera, più uguale, più fraterna.
«Nous sommes Charlie», possiamo appuntarci sul risvolto della giacca.
Ma affermare solidarietà alle vittime non ci esenterà della responsabilità collettiva di questo delitto.
Noi siamo anche i genitori dei tre assassini.”

I firmatari di questo testo sono: Damien Boussard, Valérie Louys, Isabelle Richer e Catherine Robert, professori al Liceo Le Corbusier a Aubervilliers

Fonte [vedi]

Traduzione di Claudia Vago

LA RIFLESSIONE
La semplificazione

Ricordo un ministro per la Semplificazione normativa, un certo Calderoli, chirurgo maxillo-facciale prestato alla politica, che aveva promesso la semplificazione della burocrazia e che si era elettoralmente riscaldato al rogo di non so quante migliaia di leggi e norme dichiarate obsolete.
Senza giungere però a cassare l’avviso dell’avviso. Ti avviso che ti ho avvisato.
Si tratta di uno zelo o scrupolo sancito da una sentenza del 1998 della Corte costituzionale, nel caso in cui la notifica di un atto giudiziario non venga recapitata direttamente nelle mani del suo destinatario o di qualcuno che si impegni a fargliela pervenire.
Sarà capitato a tanti, immagino, al rientro a casa di trovare nella cassetta della posta una striscia di carta bianca con la quale le Poste italiane avvisano dell’esistenza di una Raccomandata A.R. di cui non è stato possibile effettuare il recapito per assenza del titolare o di persone abilitate a ricevere l’atto. E vi si avvisa che ‘l’avviso di giacenza’ è stato immesso in cassetta. E dove se no, visto che proprio lì l’avete trovato?
Ora siete informato che avete sei mesi di tempo per recarvi all’ufficio postale indicato per ritirare l’atto che vi riguarda, cosa che tutti facciamo con una certa celerità, ansiosi di sapere se si tratta di una contravvenzione o di qualcosa d’altro del tutto inaspettato. Comunque che vi diate da fare o meno, che abbiate scoperto o meno il foglietto bianco nella buca della posta, trascorsi dieci giorni, la ‘notificazione’ è data per eseguita, c’è scritto sempre sul foglietto bianco che avete appena prelevato dalla vostra cassetta.
E allora perché il giorno dopo vi arriva dalle Poste italiane un’altra Raccomandata A.R. che all’interno custodisce una striscia bianca perfettamente identica a quella che il giorno avanti avete rinvenuto nella vostra cassetta postale?
Vi hanno preso per insipiente? Se poi le Poste danno comunque per notificato l’avviso di deposito dopo dieci giorni, a cosa serve questa ulteriore raccomandata, che per un attimo vi fa pensare d’essere improvvisamente perseguitato da una catena di atti giudiziari?
Il tutto perché la materia del recapito degli atti giudiziari è disciplinata dall’art. 8, secondo comma, della legge n. 890 del 1982, comma ritenuto incostituzionale dalla Corte Costituzionale, che nel caso di mancata consegna ha imposto l’invio della ‘Comunicazione di Avvenuto Deposito’ per raccomandata con avviso di ricevimento.
Si tratta di quelle disposizioni che hanno tanto il sapore della capziosità dell’avvocato Azzeccagarbugli di manzoniana memoria. Perché, se trascorsi dieci giorni devo comunque considerarmi notificato, l’ulteriore raccomandata non è altro che un leguleio spreco di tempo e di denaro.
Mi rifiuto di immaginare l’accumulo di strisce bianche e di buste dalle gamme di verdi impossibili, quasi da autostoppista galattico, nella cassetta delle lettere di un destinatario assente contumace ai reiterati avvisi dell’avviso.
C’è addirittura una letteratura nelle AVVERTENZE che stazionano entro finestre, due per dieci, sulle buste rettangolari del ‘Servizio notificazione atti giudiziari/amministrativi’ e sulla conseguente ‘Comunicazione di avvenuto deposito’, vere e proprie trame da scriverci un romanzo, se si pensa ai personaggi e ai luoghi che evocano.
Intanto il protagonista che deve giungere nelle mani del suo destinatario assume l’identità fascinosa di ‘plico’, deve essere assolutamente consegnato all’intimità di una persona di famiglia, e qui la storia si dipana tra i conviventi, anche quelli dai legami deboli come possono essere conviventi solo temporanei, fino alla servitù della casa o persone al servizio del destinatario, e allora si possono immaginare gli intrighi di dimore patriarcali. C’è pure il dramma della malattia mentale, il plico rifiuta il soccorso di mani psicolabili o irresponsabili come quelle dei giovinetti al di sotto dei quattordici anni. Ma non disdegna il portiere dello stabile, altro personaggio di rilievo, quasi medium magico, che mai deve mancare in tutte le favole che si rispettino.
Alla fine, se tutti gli sforzi risultassero vani, nel tentativo di giungere tra le mani dell’eletto, al povero plico non resta che l’ingrato destino d’essere rinchiuso nella gabbia della cassetta postale, in febbrile attesa d’essere liberato.
Ma le avvertenze prevedono anche un altro finale per il plico, quello di essere affisso alla porta d’ingresso del suo anelato destinatario, come una sorta di editto esposto allo sguardo di tutti alla faccia dell’odiosa privacy.
Forse ‘semplificazione’, al contrario di quanto la parola, quasi fosse un falso amico, suggerisce, è davvero troppo complicata da realizzare. Così perdura la sovranità della carta ai tempi della rivoluzione tecnologica, che poi tanto rivoluzione evidentemente ancora non è.

NOTA A MARGINE
E-Book, strategica alleanza tra carta e byte

Alla biblioteca Ariostea (1391) nella sala di incontri con il soffitto ligneo affrescato nel 1600 si è parlato di eBook o meglio del libro digitale, per non dimenticare l’italiano. Lo hanno fatto Cristina Fiorentini, responsabile della rete civica del Comune, e Fausto Natali, referente del servizio biblioteche, raccontandoci cosa è, come funziona e a cosa serve. Tra informazioni e curiosità si è affrontato un tema per molti ancora non ben conosciuto, ma che nel servizio biblioteche presto avrà un ruolo e crescerà di importanza. Una promessa o una minaccia? Le tecnologie minacciano il libro? In fondo, tendiamo a dividerci su tutto tra favorevoli e contrari, senza considerare la migliore soluzione “dell’anche”. Iniziamo il confronto.
I critici dicono che i libri sono belli e soddisfa annusarli, toccarli, sentirli, guardarli sugli scaffali. I libri sono la storia, specie quelli antichi. Però occupano spazio, si impolverano, costano, ma questi non sono difetti, sono caratteristiche.
I favorevoli, invece, lo promuovono affermando che sono leggeri, sono tantissimi, anche gratis, retroilluminati. Si può ormai entrare nelle migliori biblioteche del mondo. Nel lettore se ne tengono alcune migliaia e si portano con sé senza fatica. Poi chi legge libri digitali legge di più e utilizza un altro linguaggio: store, e-reader, Kindle, IPad, eBook, cloud, opensource, Html, digital publishing, calibre.
Ma ha senso trovare un vincitore? In fondo tra carta e byte ci potrebbe essere una strategica alleanza, già ora molti libri si possono trovare nelle due soluzioni.
Il mercato del libro digitale ormai rappresenta un quota significativa (5-8%), anche se ha iniziato a svilupparsi solo da una decina di anni. Al contrario i libri di carta purtroppo calano le vendite da qualche anno in tutto il mondo e solo il 43% dei cittadini italiani legge con frequenza. Per fortuna i giovani leggono sempre di più; questo favorisce i nativi digitali e quindi l’approccio informatico. Si prevede che tra alcuni anni tra i due mercati ci sarà equilibrio (magari in Italia qualche anno dopo).
Il prezzo varia molto (in genere il digitale è inferiore alla carta, ma non come molti si aspettavano) e spesso sono i ricavi e non i costi ad avere il ruolo principale. Ormai quasi tutte le case editrici ne sono fornite.
Il mondo della scuola si sta attrezzando e la digitalizzazione ormai è alla portata di tutti.
Io (purtroppo) ho la lettura veloce e mi piace leggere di tutto e dunque anche gli eBook (ingrandendo i caratteri per non mettermi gli occhiali), ma spero che il libro classico non mi abbandoni; in fondo gli voglio bene, mi ha seguito per tanti anni e vorrei continuasse ancora. Un apprezzamento finale va dato ad iniziative come ComuneEbook, un bel progetto di editoria digitale del Comune di Ferrara, in corso di avvio.

Riempiamo di vita le ‘Duchesse’, ma scordiamoci il giardino

Ogni tanto, qualcuno mi chiede cosa penso del Giardino delle Duchesse. Di solito rispondo: “Non penso”, cosa assolutamente non vera, ma che mi permette di evitare discussioni. In realtà quello che penso io è irrilevante, l’uso e la gestione di questo spazio non hanno mai scatenato i miei entusiasmi ma il fatto che ci sia di mezzo la parola ‘giardino’, mi irrita. Quando veniva usato come cortile di sgombero dei Grigioni aveva un suo scopo definito e onesto, una funzione condivisa da tutti quelli che, in barba alla storica origine del luogo, lo utilizzavano come retrobottega e ne avevano farcito le pareti con ogni sorta di tubo, grondaia, cassonetto, antenna o impianto, lasciando che muri e intonaci si scrostassero allegramente. Poi, un giorno, qualcuno si è svegliato e ha pensato, giustamente, di far resuscitare questo spazio. L’errore è stato definirlo da subito come recupero di un giardino. Il Verde a Ferrara c’è, e non mancano esempi di pregio o comunque di spazi trasformati dalla Storia, che hanno mantenuto una dignità e una riconoscibilità come tale, vedi il giardino della Palazzina di Marfisa o il giardino delle Sculture di Palazzo Massari. Quello che è rimasto del giardino usato dalle duchesse di casa d’Este, ha un valore storico indiscutibile, ma può essere conservato come documento, come atto, non può vincolare in eterno uno spazio con delle potenzialità urbanistiche del genere.
So che gli storici mi odieranno, ma le indagini storiche, filologiche, archeologiche, botaniche sui reperti dei pollini, erano analisi sensate per fornire materiale per una bella pubblicazione sui giardini di un palazzo a scala urbana come quello ferrarese, non per giustificare un investimento di ripristino. Ammettiamo che una ripulita generale e una griglia per rampicanti senza rampicante, non sono abbastanza per farlo risorgere né come giardino né come spazio pubblico, ma ci sono infiniti esempi, sparsi per l’Europa, di corti interne di palazzi antichi, dove i segni del passato convivono con nuove pavimentazioni, ingressi ben definiti, dove gli alberi sono curati e dove le pareti degli edifici svolgono il loro servizio, accogliendo senza paura, tubi e impianti, ma con quella attenzione che li rende dignitosi e sinceri, lasciando libero lo spazio per renderlo flessibile e accogliente.
Trovo sbagliato e fuorviante definire “le Duchesse” come un giardino, come viene sbandierato oggi nei messaggi di richiamo turistico. Giardino è una parola pesante, è la classica parola evocativa, cioè una parola che rimanda ad altro, una parola che solo a pensarla fa venire in mente il piacere e la bellezza. I giardini sono la forma concreta di un pensiero estetico, sono “cose” in cui si può toccare e vedere l’idea di una Natura bella corrispondente ad una cultura di un popolo o di una persona, in una data epoca. Nel Rinascimento questa idea estetica si esprimeva attraverso la geometria con cui si modellavano spazi e vegetali. Per mantenere tutto questo non mancava né il denaro né la manodopera, e comunque l’uso di questi giardini era destinato al godimento di poche persone. Il giardino è figlio di un progetto che ha bisogno di soldi per essere realizzato e poi mantenuto nel lungo termine, tutto il resto, è propaganda.
Mi costa dirlo e questo discorso non piace a nessuno, perché si vendono meglio i sogni e le promesse, ma anche il progetto più bello se viene fermato a metà strada per mancanza di soldi rimane cosa morta, e se nessuno lo cura dopo la foto di gruppo con le autorità, diventa una schifezza. Riempiamolo di vita, invece che di piante, trasformandolo veramente in un contenitore aperto, pulito, sobrio e funzionale per una sosta libera dall’obbligo di consumazione, spettacoli estemporanei, musica, mercatini, installazioni virtuali, sorprese, ecc. iniziative che vanno benissimo per valorizzare questo luogo, che per rivivere non ha bisogno delle onnipresenti opere d’arte messe a casaccio, di aiuolette sfiziose o dei tavolini di un ennesimo bar, ha bisogno di coraggio.
Si possono fare miliardi di proposte sulla carta, tutte potenzialmente realizzabili, ma progettare correttamente significa avere l’onestà di chiamare le cose con il loro nome e capire che quando non ci sono le risorse economiche è il momento di inventarsi delle alternative alle passeggiate di annoiate donzelle. Di giardini fatti male, musei all’aperto raffazzonati, bar e gazebi simil-tirolesi ne abbiamo anche troppi, quindi ben vengano progetti e idee, ma non chiamiamolo “giardino”, sarà il godere di un luogo piacevole, a far ritornare il ‘giardino’ alle Duchesse.

Foto di Andrea Musacci

L’assurdità della guerra: quando la civiltà è al capolinea

Ho pensato molto prima di recensire il film. Solitamente commento solo pellicole che mi sono piaciute, ma poi mi sono detta che anche quelle ‘meno apprezzate’ vanno considerate. Se non altro per spirito di uguaglianza e diritto di critica. Mi sono poi anche detta che l’impressione iniziale negativa era stata, forse, leggermente attenuata da alcune riflessioni personali successive, che però, come tali, restavano soggettive e, quindi, una mia personale interpretazione, magari nemmeno del tutto corretta.

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La locandina

“American Sniper”, uscito da poco al cinema, è la storia vera del texano Chris Kyle, un U.S. Navy Seal (le Forze per operazioni speciali della marina degli Stati uniti) inviato in Iraq, nel 2003, con una missione precisa: proteggere i suoi commilitoni, i marines, che a terra “vanno a caccia di terroristi”. La sua massima precisione e il suo non mancare mai un bersaglio anche da enorme distanza (un colpo, un uomo) salvano innumerevoli vite sul campo di battaglia e mentre si diffondono i racconti del suo coraggio, Chris è soprannominato “Leggenda”. Nel frattempo la sua reputazione si diffonde anche dietro le file nemiche, al punto che una grossa taglia viene messa sulla sua testa, rendendolo il primario bersaglio per gli insorti. “Leggenda”, allo stesso tempo, combatte un’altra battaglia in casa propria, nel tentativo di essere un buon marito e padre nonostante si trovi dall’altra parte del mondo. Il famoso cecchino, come gli diceva il padre da bambino, è nato “pastore di gregge”, votato alla tutela dei più deboli contro i lupi famelici. La prima impressione che si ha, e che molti commentatori hanno avuto, è che “American Sniper” sia un film di propaganda, la biografia di un soldato americano, ossia del cecchino con più uccisioni confermate della storia d’America, un uomo che nella visione di Clint Eastwood è un vero eroe, un pastore che protegge gli altri esseri umani per vocazione, dentro e fuori dalla guerra. È anche un film con pochi dialoghi, con qualche stereotipo sul cecchino nemico (il bruno Mustafa), dove si spara sempre e, in certi punti, un po’ grossolano e kitsch.

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Bradley Cooper interpreta il soldato texano Chris Kyle

Fieramente repubblicano, fieramente dalla parte dei “nostri ragazzi” e fieramente statunitense, non è facile apprezzarlo, ma, per fortuna, alla fine si rivela dalla parte dell’essere umano, dell’orrore, della bruttezza, della tragedia e dell’idiozia della guerra, nella convinzione che “fermare un cuore che batte è una cosa grossa”. In fondo, ci troviamo di fronte a una civiltà folle e persa che spesso non si comprende più e che pare davvero al capolinea, dove la guerra è guerra, per tutti, dove il cecchino di una parte è uguale a quello dell’altra, dove il mondo deve ammettere che non c’è chi ha ragione e chi torto e che il dialogo deve subentrare alle armi.

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Sienna Miller interpreta la sposa del soldato

Il dramma del reduce disadattato poteva forse essere maggiormente evidenziato, tanto più che, nella realtà, è uno stesso reduce di guerra impazzito a uccidere Chris, che a questi disadattati aveva deciso di dedicarsi al rientro dai quasi tre anni di Iraq. Proprio quel tragico epilogo fa emergere tutto il nonsenso, fa affrancare dal particolare della storia e convince il regista a farne una storia universale. In fondo, Chris rimane un ragazzone semplice d’animo, violento nel cuore, ma umano. Vogliamo vederla anche così.

American Sniper, di Clint Eastwood, con Bradley Cooper, Sienna Miller, Cory Hardrict, Jake McDorman, Luke Grimes, Kyle Gallner, Owain Yeoman, Brian Hallisay, Sam Jaeger, Eric Close, Bill Miller, Max Charles, Tom Stern, USA, 2014, 134 mn.

L’APPUNTAMENTO
Ferrara contro Ferrara, ‘giuria popolare’ per le proposte di rilancio della città estense

Una scheda di presentazione per ciascun caso ‘in dibattimento’, poi brevi requisitorie con testimoni d’accusa e di difesa e infine il ‘voto popolare’. Lunedì 19 alle 17 in biblioteca Ariostea, Ferraraitalia inaugura il proprio ciclo di incontri dal titolo “Chiavi di lettura”, il cui obiettivo è porre a confronto opinioni diverse per favorire la conoscenza dei fatti e la formazione di autonomi punti di vista.
Nel primo appuntamento, in sala Agnelli si discuterà delle “controverse proposte per il rilancio della città estense”. Con tono lieve e sul filo del divertimento si cercheranno di dire cose serie sula nostra città. Il ragionamento non potrà ovviamente spaziare a tutto tondo su linee di sviluppo economiche e culturali, ma sarà circoscritto ad alcuni ambiti urbani e alla possibilità di una loro trasformazione.
I nuclei tematici in discussione riguardano l’area pedonale del centro, il Giardino delle duchesse, il canale Panfilio, il grattacielo e l’area della stazione. Al riguardo la discussione in città è sempre aperta e animata. Non a caso è stato scelto come titolo dell’iniziativa “Ferrara vs Ferrara”. Il confronto sarà accompagnato da brevi letture e proiezioni di video e immagini storiche e attuali.
Si tratta di una prima occasione di ampliamento di un dibattito che è già iniziato nei mesi scorsi sulle pagine web del nostro giornale. Sarà seguito da specifici approfondimenti con esperti e portatori di interesse.

Intanto ecco il primo round: ‘avvocati’ e ‘giudici’ sono attesi lunedì in biblioteca…

Queste le riflessioni e le proposte già avanzate da Ferraraitalia

  1. Pensare in grande: riscopriamo il canale Panfilio per cambiare faccia al centro storico
  2. Rilanciamo la città: via delle Volte, strada delle botteghe e delle tipicità locali
  3. Sculture, arredi floreali e caffetteria per il Giardino delle duchesse
  4. Un disegno unitario per rivitalizzare piazza Castello e piazza Repubblica
  5. Il giardino dei Finzi Contini: Italia Nostra vivifica il sogno di Paolo Ravenna e Dani Karavan
  6. Un nuovo volto per piazza Cortevecchia e nuove ‘vasche’ in città
  7. Strapaesana
  8. Da mercatone a mercatini, ieri e oggi tutto un altro volto

L’OPINIONE
Ma lascia stare i Santi

Le recenti affermazioni del papa sulla libertà di espressione sono state accolte nel nostro Paese con entusiasmo bipartisan. Sulla prima parte, cioè che non si può uccidere in nome di Dio o, aggiungo, di qualsivoglia ideologia, visione del mondo, filosofia, eccetera credo siamo tutti d’accordo. La seconda, in cui il pontefice afferma che non è lecito irridere la religione altrui, è invece secondo me più discutibile.
Premesso che non mi piace la volgarità fine a se stessa di certe vignette o di certi articoli, quella del papa è in fondo la parafrasi del vecchio proverbio “Scherza coi fanti, ma lascia stare i santi”, che da noi è stato legge dello Stato per molto tempo.
A mio parere, invece, chi non va mai insultato sono le persone e la loro dignità: questo è un diritto che ogni stato democratico deve tutelare a tutti i suoi cittadini. Le idee, le visioni del mondo, religioni incluse, sono un’altra cosa e nei loro confronti anche la critica più feroce deve poter essere lecita. Altrimenti, paradossalmente, si arriva al relativismo etico ed a società costruite a compartimenti stagni.
Nei paesi anglosassoni l’applicazione indiscriminata del “politicamente corretto” ha ormai fatto sì che delle questioni attinenti la sfera religiosa sia diventato molto difficile parlare e che l’omissione sia diventata la regola. Ad esempio, nessun sito o giornale americano ha pubblicato le vignette di Charlie Hebdo che hanno scatenato la furia dei terroristi. A me quello pare un modo sostanzialmente sbagliato ed ipocrita di affrontare le diversità culturali, a maggior ragione in un mondo sempre più globalizzato in cui tutto è destinato a mescolarsi ed a venire reciprocamente in contatto. E poiché il mondo è pieno di religioni e di ideologie forti, ognuna delle quali ha i suoi, grandi o piccoli, tabù, che facciamo? Si potrebbe ad esempio stilare un elenco che contiene tutti gli argomenti, le immagini, le allusioni potenzialmente problematiche e quindi da proibire per evitare che qualcuno se ne abbia a male. Naturalmente, per non discriminare nessuno, l’elenco dovrebbe essere continuamente aggiornato, tenendo conto delle nuove dottrine che nascono di continuo e delle modificazioni che subiscono quelle esistenti. Oppure, pragmaticamente, stabilire che non si può disegnare il Profeta, perché i musulmani sono tanti e menano pure, pronti ad estendere il divieto a fronte delle proteste particolarmente bellicose che venissero da altre parti.
Non c’è in ballo solo la libertà di satira, che è indubbiamente una forma estrema di espressione per sua natura, ma la possibilità stessa di poter anche solo dissentire su questioni che attengono la vita delle persone, che in una visione integralista sono di fatto indistricabili dai precetti religiosi propriamente detti.
Nella realtà le religioni, come ogni altra ideologia, si modificano nel tempo, anche se a molti dei loro seguaci non fa piacere riconoscerlo, e devono anche loro adattarsi ad un mondo plurale, che garantisce a tutti sia la libertà di culto che quella di espressione. Il cristianesimo, nelle sue diverse varianti, era un tempo intollerante quanto lo è oggi l’Islam: il dover vivere in società sempre più secolarizzate ha fatto sì che molte pretese venissero via via abbandonate. Alcune anche in tempi abbastanza recenti. Ricordo da bambino di avere assistito ad una discussione, mi pare in tv, in cui qualcuno sosteneva che il divertimento e l’allegria durante i giorni della Passione prima di Pasqua erano offensivi per i credenti e che quindi era giusto, come capitava allora, che cinema e teatri restassero chiusi e che radio e televisione trasmettessero solo musica da camera.

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Sateriale risponde dei suoi dieci anni da sindaco

E’ Gaetano Sateriale il secondo ospite del ‘Think tank’ Pluralismo e dissenso, impegnato a proporre una rilettura degli ultimi 30 anni della vita pubblica ferrarese. Oggi alle 17 alla Sala della Musica (all’interno del complesso di San Paolo con accesso da via Boccaleone), dopo l’intervista a Roberto Soffritti, realizzata nel mese di dicembre, e prima di quella con il sindaco in carica Tiziano Tagliani, Sateriale, sarà intervistato da giornalisti delle cinque principali testate ferraresi. Il dibattito, moderato e introdotto da Mario Zamorani, vedrà la partecipazione di Marco Zavagli (Estense.com), Stefano Lolli (Il Resto del Carlino), Sergio Gessi (Ferraraitalia.it), Marcello Pradarelli (La Nuova Ferrara) e Stefano Ravaioli (Telestense).
L’auspicio degli organizzatori è “che evidenziando gli aspetti centrali, positivi e negativi, che hanno caratterizzato il loro mandato si riescano a indagare le dinamiche sociali, politiche, economiche, relazionali, di qualità di vita e che al termine di questa triplice occasione di dialogo e di approfondimento si possano meglio comprendere le mutazioni avvenute nella nostra città nel corso degli ultimi sei lustri”. Gli incontri sono ovviamente aperti al pubblico. I video sono visibile sul sito www.pluralismoedissenso.altervista.org. All’organizzazione ha collaborato il gruppo consiliare Sel del Comune di Ferrara.

LA CURIOSITA’
E tu, di che pane sei?

da MOSCA – Come in molti paesi del mondo (e sicuramente l’Italia non fa eccezione), il pane è un alimento fondamentale e molto vario, da sempre. Base di ogni pasto quotidiano, ricco o povero, spesso bistrattato per calorie e lieviti, in Russia non è da meno. Qui, tuttavia, piace molto quello a base di farina di segale che, fino al XX secolo, non era solo l’alimento principale dei contadini, ma imbandiva anche le tavole dei ricchi proprietari terrieri. Questo tipo di pane è stato, per secoli, uno degli ingredienti principali della dieta russa, in particolare nei villaggi, dove si era soliti accompagnare la ‘šči’, una zuppa calda e densa a base di cavolo, con quasi un chilo di pane nero. L’impasto era preparato usando una miscela di fermenti alcolici, che attivavano naturalmente i processi di fermentazione e lievitazione, dando al pane il suo sapore leggermente acido. Si passò poi al lievito termofilo, negli anni ’40 e ’50, abbandonando il pane acido.
Oggi, invece, la Russia sta riscopre la produzione domestica del pane, senza l’aggiunta di lievito, che si dice essere poco salutare e indigesto. Uno dei più famosi tipi di pane russo (buonissimo, anche se dal sapore dolciastro), a base di segale, è il ‘borodinsky’, cotto al vapore, che oltre alla farina e al lievito contiene malto di segale (ottenuto con chicchi di orzo germinati in acqua e poi essiccati e macinati), zucchero, melassa e coriandolo. Salutare e ricco di vitamine B1 e B2.

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Pane borodinsky

La sua nascita è misteriosa. Secondo la leggenda, fu sfornato per la prima volta da un gruppo di suore in un convento vicino al campo di battaglia di Borodino, dove, nel 1812, la Russia si scontrò contro l’esercito di Napoleone. I suoi semini tondi dovrebbero ricordare i bossoli dei proiettili che lacerarono il corpo del generale Tuchkov, che nella battaglia condusse il suo reggimento di moschettieri all’assalto. Non riuscendo a trovare il cadavere del marito sul campo di battaglia, la vedova del generale fece costruire sul presunto luogo della sua morte un monastero, del quale in seguito divenne badessa. Si dice che questo pane sia nato proprio nel forno del monastero di Mozhaisk, da dove la sua fama raggiunse Mosca, conquistandola. Stando a un’altra versione, il pane Borodinsky sarebbe stato inventato, invece, dal famoso professore Borodinsky, studioso di chimica e compositore di fama, che, durante un soggiorno in Italia, entrò in possesso della sua ricetta segreta. Secondo altri, infine, sarebbe stato inventato dai compagni Spredze e Zakis, due panettieri residenti a Mosca e impiegati presso il panificio N.159. Qualunque sia la sua origine, la ricetta del moderno borodinsky è stata approvata, nel 1933, dalla Panetteria centrale di Mosca. Oggi, come allora, si accompagna al ‘borsch’, fa da spuntino insieme alla vodka, combinato a filetti di aringa marinata, o può essere servito a colazione con una tazza di tè nero.
Il pane bianco a base di frumento divenne popolare in Russia solo alla fine del XX secolo, come dicevamo, e per la gente comune rimase a lungo un simbolo di ricchezza e prosperità, da consumarsi solo in occasioni speciali. Uno dei pani bianchi più famosi del Paese è il ‘kalach’, fatto con farina di frumento e modellato a forma di maniglia. Intorno al XIV secolo, i russi presero in prestito dai tartari la ricetta del pane bianco azzimo e le abili mani dei panettieri locali lo trasformarono in qualcosa di unico.

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Kalach

Il kalach era preparato con farina bianca di qualità, ma la sua caratteristica era l’impasto speciale, che veniva lavorato a lungo e in un luogo fresco. I tipi più famosi di kalach erano il ‘moskovsky’ (da Mosca) e il ‘muromsky’ (da Murom, nella regione di Vladimir). Il kalach era il pane preferito dall’imperatrice Caterina la Grande, e da allora, le pagnotte decorano lo stemma araldico della città di Murom. Si ricevevano gli ospiti sull’uscio con un kalach appoggiato su un panno ricamato e una coppetta di sale, augurando loro “Хлеб да соль”, pane e sale.

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Panno ricamato con l’augurio ‘pane e sale’

L’ospite doveva prenderne un pezzetto, intingerlo nel sale e mangiarlo. Con queste parole si auguravano fortuna e prosperità nella speranza che, nelle case dei nostri ospiti, non mancassero mai i prodotti considerati essenziali per la vita: il sale, indispensabile per conservare il cibo per i momenti difficili e per renderlo più gustoso e il pane, per saziare la fame. La tradizione della segale tuttavia oggi ritorna in forza. Altri pani che oggi si trovano sulle tavole russe sono, infatti, il ‘Nareznoj’, un pane a base di frumento e segale cotto nel forno a legna (Stolichnyj, Izmajlovskij, Sokolnicheskij), di forma ovale o rotonda, preparato con una miscela a base di farina di frumento e segale, e lievito naturale;

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Darnickij
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Gorchichny
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Baton nareznoj

il ‘Gorchichnyj’, pane a base di farina di frumento con l’aggiunta di semi di senape o olio di senape, grazie ai quali la soffice mollica assume un colore giallastro; la classica pagnotta con la crusca; il ‘baton nareznoj’ (pane rigato), pane bianco a base di farina di frumento, di forma ovale allungata, con una mollica compatta, così chiamato per via dei caratteristici tagli che vengono realizzati sulla pagnotta prima della cottura; il ‘Darnickij’, pane a base di segale e frumento, chiamato “mattone” per la sua forma, dal caratteristico sapore acido per via dell’elevato grado di acidità dei suoi ingredienti; l’’Aromatnyj’ (Aromatico), a base di farina di frumento con l’aggiunta di malto di segale scura, burro e coriandolo, dal sapore leggermente piccante e dall’aroma speziato. L’elenco potrebbe essere ancora lungo, in un ritorno al passato e alla tradizione che caratterizza ormai molti paesi. Viva la tradizione, allora.

Stress cronico, come avvelenarsi lentamente

Lo stress è il ‘cestino’ della vita moderna. Tutti noi generiamo scorie, ma se non le smaltiamo correttamente, si accumulano e ci consumano la vita. Spesso le nostre nonne lo chiamavano “esaurimento nervoso”.
Lo stress è una risposta dell’organismo, è una risposta fisiologica ai tanti stimoli che lo colpiscono; stimoli di natura fisica, chimica e biochimica, meccanica, emozionale o proveniente dalle interazioni sociali. Il problema è che spesso condizioni di risposta allo stress a carico dell’apparato muscolo-scheletrico sono così ben mascherate da venire interpretate come difficoltà strutturali, anziché come automatismi adattivi. Di conseguenza si tende, soprattutto in ambito sportivo, a forzare la struttura, innescando dei circoli viziosi di adattamento.

LE COMPONENTI DELLO STRESS
Iperattivazione somatica: squilibri fisiologici e funzionali del corpo con reazione ipotalamica dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene-timo-tiroide.
Iperattivazione emotiva: alterazioni dell’umore, degli stati d’animo, delle sensazioni e delle percezioni, con conseguenti possibili effetti d’ansia, paura, angoscia, insicurezza.
Iperattivazione mentale: alterazioni nella sfera immaginativa e del dialogo interiore che investe l’ambito dell’autoaffermazione, del pensiero automatico, il sistema di credenze e la semantica.
Risposta comportamentale: scompensi nella performance, negli atteggiamenti, nella comunicazione e nelle relazioni.

Lo stress assume sì una funzione di difesa, di adattamento, di sopravvivenza, ma diventa causa di alterazioni somatiche particolari quando attivato troppo a lungo e troppo intensamente, senza possibilità di recupero: la cosiddetta Sindrome d’adattamento.

LA SINDROME D’ADATTAMENTO
Reazione di allarme
Si tratta di una risposta difensiva di emergenza, di allerta, a breve termine perché prepara il corpo a rispondere istintivamente con la lotta e la fuga allo stimolo stressante. Ora, nella specie umana questo tipo di reazione è mutato poiché la lotta corrisponde genericamente alla risposta aggressiva, mentre la fuga corrisponde all’emozione ‘paura’ (dal greco ‘phobos’, ‘fuga’).
Vediamo ora cosa succede nel corpo a livello puramente fisiologico. Questo tipo di risposta è stimolata dal funzionamento di un canale di reazioni ormonali fra cervello e surrene. Sotto la regolazione dell’ipotalamo, l’ipofisi rilascia corticotropina che, a sua volta va a stimolare le ghiandole surrenali. In particolare, dalla parte interna di queste ghiandole (parte midollare), viene prodotta l’adrenalina, l’ormone dello stress per eccellenza. Riversandosi nel flusso sanguigno, l’adrenalina produce all’interno del corpo alcuni cambiamenti funzionali: il cuore batte più velocemente e la pressione arteriosa aumenta.
Lo stomaco e l’intestino arrestano ogni movimento e secrezione: è per questo motivo che mangiare quando si è sotto stress significa introdurre cibo in uno stomaco inattivo: ciò può essere la causa di gonfiori gastro-duodenali, di nausea, crampi allo stomaco, digestione pesante, alle volte diarrea. Il retto e la vescica tendono a svuotarsi perché, prima della ‘lotta’ o ‘fuga’, l’organismo deve liberarsi da pesi inutili.
La bocca diventa secca, sempre per evitare di inviare fluidi allo stomaco. Nel sangue si verifica un aumento della glicemia per poter disporre di un rifornimento energetico rapido.
Quando siamo sotto stress tendiamo ad aumentare l’utilizzo del caffè (stimolo alle surrenali), di cibi dolci (stimolo del pancreas), dei cibi grassi (aumento del colesterolo): questo avviene perché la nostra tendenza è quella di amplificare la reazione di stress con l’intossicazione. Spesso, anziché lavorare sulla causa dello stress, puntiamo ad aumentare la nostra resistenza ad esso, innescando queste risposte di compensazione.

Fase di adattamento o resistenza
Quando lo stimolo stressante dura a lungo, il corpo tende ad abituarsi e subentra la seconda fase. E’ una risposta a lungo termine allo stress perché prepara il corpo alla resistenza e alla sopravvivenza nel tempo. Questa reazione è stimolata dal cortisolo, un ormone prodotto dalla corteccia delle ghiandole surrenali che apporta anch’esso cambiamenti nell’organismo al fine di un buon adattamento allo stress.
La pressione arteriosa cresce lentamente con i conseguenti scompensi che ne derivano. Il sistema immunitario si indebolisce sempre più a causa del cortisolo che inibisce il funzionamento delle ghiandole linfatiche e produce un’atrofizzazione della ghiandola del timo, direttamente proporzionale all’ipertrofia del corticosurrene generata dalla continua sollecitazione. L’eccesso di cortisolo riduce la resistenza dello stomaco al suo stesso acido, con il rischio di conseguenti gastriti o ulcere gastroduodenali.

Fase di esaurimento
Se lo stress persiste, vi è un limite anche al periodo di adattamento, oltre il quale si entra nella fase di esaurimento. A questo punto l’organismo si ammala seriamente, in quanto l’accumulo di ormoni dello stress produce uno stato di elevata tossicità. Vi sono differenti livelli di sopraffazione, che vanno dal modesto senso di affaticamento, fino all’esaurimento fisico e psichico.
Già al secondo stadio, dove si attua il conflitto lotta/fuga, la sublimazione degli istinti nella società non facilita la reazione di scarica necessaria per bruciare gli ormoni dello stress accumulati. È proprio l’apparato muscolare deputato a questa funzione: per l’attività di lotta, l’organismo predispone infatti una particolare distribuzione sanguigna che nutre specialmente il volto (i muscoli espressivi) il collo e il torace. Nella soluzione di fuga, il sangue, invece, defluisce da queste zone verso gli arti per consentire appunto alla preda di scappare dal pericolo. Se il corpo subisce un trauma, la memoria di questo evento s’inscrive contemporaneamente nel corpo e nella mente.
Ogni stress lascia una cicatrice indelebile, e l’organismo paga per la sua sopravvivenza dopo una situazione stressante, diventando un po’ più vecchio (Hans Selye).

Consigli per diminuire lo stato di stress

– Saper affrontare ogni situazione difficile
– Eliminare il 50% delle preoccupazioni dovute al lavoro
– Riflettere sulle parole che possono trasformare la vostra vita
– Smettere di angosciarsi per i problemi economici
– Trovare sé stesso e essere sé stesso: nessun altro al mondo è come te
– Ignorare le critiche altrui
– Allungare di un’ora la giornata per sé stessi
– Sviluppare l’ironia
– Non tormentarsi per l’ingratitudine altrui

LA TESTIMONIANZA
Parigi, scatti di libertà

di Cristina Venitucci*

da PARIGI – Mercoledì 7, il primo dei pazzi giorni parigini della settimana scorsa, ero al lavoro e poco prima di mezzogiorno stavo sbirciando ripetutamente il telefono in attesa di un messaggio. Nel pomeriggio infatti, mi sarei dovuta recare nell’11° arrondissement, non distante dalla redazione di Charlie Hebdo, per incontrare la Fede (Federica Veratelli di cui abbiamo scritto qui), altra ferrarese a Parigi, e non avevamo ancora stabilito l’orario del nostro appuntamento. Quando ho
ricevuto il suo Whatsapp quindi, mi è sembrato tutto normale. Il messaggio però, non riportava un orario, come mi aspettavo. « 10 morti, guarda le notizie », diceva invece.
Così sono stata io a dare la notizia ai colleghi francesi. Sgomento.
Ho finito di lavorare e verso le 16 e mi sono incamminata in strada. Anche se ero nel 9° arrondissement, ho avuto la netta impressione che l’atmosfera fosse completamente cambiata rispetto a sole poche ore prima.
Avevo una lista di commissioni personali da svolgere, ma vi ho rinunciato. Occuparmi di qualsiasi altra cosa mi sembrava stupido e irrispettoso. Così come anche rincasare. C’era troppa tensione nell’aria, e l’11° arrondissement era così vicino, così familiare. «Vengo comunque da te Fede», ho comunicato via Whatsapp.
Sono salita sul bus, dove regnava il silenzio. Dopo poco ho prenotato la fermata e il conducente non se ne era accorto. Ha tirato dritto. «Ha saltato la fermata.», gli ho detto, indicando il segnale rosso acceso.
«Scusi » mi ha risposto, centrando in pieno la mia comprensione.
Anche la metro 9, su cui sono salita per scendere a Voltaire, nell’11° arrondissement, è arrivata che pareva neanche toccare le rotaie. Silenzio, anche qui. Risalendo le scale dell’uscita eravamo veramente tutti zitti. Tutti attenti. Gentili. Silenti ma presenti. Ce lo riconoscevamo con lo sguardo.

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Ressemblement à République del 7 gennaio, ore 18.30
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Ressemblement à République del 7 gennaio, ore 18.45

L’idea di partecipare alla manifestazione spontanea era nata già qualche ora dopo l’accaduto. E’ stato in un tempo molto breve che le bacheche Facebook di numerose persone tra i miei contatti avevano cominciato a riportare l’adesione a questo evento, fissato per le ore 19 della stessa sera. Ressemblement de solidarité à Charlie Hebdo si chiama, ovvero Adunata di solidarietà per Charlie Hebdo. Nonostante il largo anticipo del mio arrivo sull’orario indicato, la piazza era già gremita, e molte persone continuavano ad arrivare da tutte le direzioni. E’ stata una marcia spontanea, e anche i cori erano, almeno in un primo momento, sparuti e poco organizzati. Qualcuno gridava “liberté d’expression”, altri “Charlie Charlie”. Ma più imponente di tutte le voci, era un forte e rispettoso silenzio.

Siete tutti CharlieIl pellegrinaggio verso la Place de la République non ha avuto sosta in questi giorni, così come l’espressione di solidarietà nei confronti della redazione e in ricordo di tutte le vittime degli attacchi. Candele, fiori, slogan, messaggi, disegni, vignette, simboli, matite, lettere luminose che sorrette una ad una compongono la scritta ‘not afraid’ o ‘solidarité’. Persino sms che invitavano a diffondere tra i propri contatti la lista dei nomi delle vittime e a manifestare con una candela accesa da posare ognuno sulla finestra di casa propria.

Charlie velo. Velo libreIl giorno dell’asserragliamento nella stamperia di Dammartin-en-Goele e della sparatoria nell’alimentari cacher di Porte de Vincennes, è stato scandito dai mille messaggi arrivatimi da amici e parenti in cerca di informazioni e di accertamenti: «Ma cosa succede realmente a Parigi?», mi chiedono, «Tu non uscire, resta in casa!». La maggior parte della città in realtà andava avanti come di consueto, anche se non era facile
capire cosa pensare, o se e come muoversi. Mentre chi vive qui cercava di mantenere la calma, più allarmanti erano invece le ricorrenti e accorate raccomandazioni di chi era lontano.

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Sedili della metropolitana con la scritta ‘Rip Charlie’

Una volta tutto finito, con gli amici abbiamo discusso se fosse il caso o meno di annullare la cena che avevamo in programma, concludendo che fosse simbolicamente importante non desistere. Così ci siamo ripresi la nostra normalità, siamo usciti, siamo andati al supermercato, abbiamo preso la metropolitana.
Spostandomi mi sono accorta che il sostegno e la solidarietà della cittadinanza non si limitavano ai luoghi dell’attentato o alla Place de la République, ma che erano diffusi lungo molti luoghi della città, e in varie forme. Il nome di Charlie si era fatto strada e moltiplicato sulle insegne dei negozi, nelle vetrine, nei mezzi pubblici, alle finestre, nelle targhe con i nomi delle vie.

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Avenue de la République, corte dell’11 gennaio, inizio corteo
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Avenue de la République, le matite guidano il popolo

La partecipazione alla manifestazione indetta per domenica pomeriggio, la Marche Républicaine, è stata notevole, senza precedenti. Il corteo ufficiale è partito da Place de la République per muoversi lentamente lungo due percorsi di circa 4 km, in direzione Sud/Sud-Est, ma anche tutti i boulevard che giungono alla piazza dalle altre direzioni e le vie adiacenti erano affollati, quasi da non distinguere che non si trattasse ancora del corteo. La marcia si è svolta senza nessuna traccia di agitazione. C’era molto silenzio, molti cartelli, bandiere, grandissime matite, vignette, e tanto tanto senso dell’umorismo.

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Matite

Certo non mancano le posizioni critiche nei confronti di questa manifestazione, soprattutto in merito alla strumentalizzazione politica e all’adesione ufficiale di alcuni capi di stato che di fatto sono portatori di valori ben lontani da quelli repubblicani, ma la partecipazione immensa di circa un milione e mezzo di persone, ha
dimostrato come fosse in ogni caso un evento necessario, fondamentale per ristabilire una non ancora sufficiente quotidianità emotiva tra la gente.
I fatti dei giorni precedenti avevano seriamente aggravato lo stato di tensione generale, e ancora oggi la città, in alcuni quartieri più che in altri, vede il dispiego massiccio di polizia ed esercito, con lo stato di allerta attentati del piano Vigipirate tuttora in vigore.
La marcia si è poi conclusa in Place de la Nation, dove intorno alle ore 18 sono state liberate venti lanterne volanti, una per ogni vittima dei tragici fatti che per quattro giorni hanno fermato e messo in subbuglio Parigi
e la Francia.

* Cristina Venitucci è nata a Ferrara e da due anni vive a Parigi, dove lavora nel settore della ristorazione e dell’organizzazione eventi.
Le foto sono quelle che lei stessa ha scattato nei giorni scorsi.

Un Santissimo tango

di Michele Balboni

Il tango più povero è stato il tango più bello. “Che un vento pampero soffi sulla piazza” aveva detto poco prima, e il Suo auspicio si è realizzato subito al termine dell’udienza: la nostra musica già nell’aria ci ha guidati verso la piazza. La voglia di ballare e stare insieme è straripata su viale della Conciliazione interrompendo il traffico, e le auto di Roma – solitamente numerose ed invasive come le cavallette – hanno deviato i loro percorsi, rispettose dei divieti e delle transenne e forse anche della nostra passione. L’emozione, la gioia, la magia non si vedono né si toccano ma esistono eccome e sono state presenze forti, anche se impalpabili, in questa piazza Pio XII. Il tango si è liberato di ogni orpello, gradevole ma comunque superfluo. L’essenziale era ballare e abbracciarsi. Era difficile mantenere l’eleganza e impossibile eseguire le figure che ci sforziamo di imparare nei corsi perché il pavimento di sampietrini non le tollerava, le bellissime scarpine femminili con i tacchi alti non potevano nemmeno essere proposte. Si ballava con i cappotti addosso e gli zainetti o le borsette sulle spalle. Poi la voglia di stare più in contatto ha avuto la meglio e in tanti abbiamo abbandonato i vestiti pesanti a terra, formando così cumuli che delimitavano una sorta di pista, dando indicazione sulla circonferenza da seguire nella ronda. Né esisteva differenza tra professionisti, maestri, ballerini bravi, principianti, finanche neofiti perché così agghindati e con quel pavimento l’unica cosa davvero praticabile era l’abbraccio a tempo di musica. E si poteva immaginare che quando è nato e cresciuto, laggiù dove le stagioni sono invertite rispetto a noi, in quegli anni d’oro, il tango fosse proprio così: tutti ballavano, uguali di fronte al tango, spontanei e liberi, e magari lo facevano per strada. La passione di tanti, l’amore per questo ballo, la voglia di vivere insieme una emozione, tutto ciò ha animato il gruppo. O forse è stato il pensiero che probabilmente Lui era là, dietro le tende del Suo studio lassù in alto a guardarci e – chissà ? – ad invidiarci, così liberi e festanti, E forse non solo Lui ci ha guardato. Venivamo da tutta Italia e anche da altre parti del mondo, eterogenei nelle abilità e negli accenti, ma uniti nella voglia di ballare un abbraccio collettivo e nell’intenzione di mandare un messaggio di pace. Le parole della nostra lettera “…dove ci sono gli abbracci, non ci sono le guerre, e l’essenza del tango è l’abbraccio: che sia un abbraccio di Pace.” sono state vere più che mai e rappresentano un messaggio che abbiamo mandato a Colui che ci ospitava. E se, come scrive Elias Canetti, la rivoluzione è la mobilitazione di energie collettive, la nostra in quel giorno, in quel luogo, al suono di quella musica, è stata una breve rivoluzione di pace, portata da quel vento della pampa. E’ stata un’ora incredibile, la mia milonga più bella da quando il tango mi ha toccato. Porterò sempre con me questo ricordo. Un ringraziamento a chi lo ha permesso e a chi era con me.
Il 17 dicembre scorso in piazza San Pietro si è ballato il tango per festeggiare il compleanno di papa Francesco

LA SEGNALAZIONE
Il nuovo album di Danilo Sacco: licenziamenti e altri incidenti, cronistoria dei nostri giorni

Danilo Sacco è entrato a far parte dei Nomadi nel 1993, pochi mesi dopo la scomparsa del cantante storico Augusto Daolio, raccogliendo un’eredità pesante e accettando una sfida importante. L’anno successivo il gruppo emiliano pubblica “La settima onda”, il primo album con Danilo e Francesco Gualerzi alla voce, ottenendo il disco di platino. Lo stesso risultato fu confermato dal successivo “Lungo le vie del vento”.
Nel 2002 “Amore che prendi amore che dai”, spinto dal singolo “Sangue al cuore”, vola in cima alla classifica italiana. Nel 2009, dopo l’uscita di “Allo specchio”, il nuovo album del gruppo, il cantante è colto da un malore, le cui conseguenze lo porteranno a chiudere l’esperienza con i Nomadi e a intraprendere la carriera solista, non prima di avere inciso con loro “Cuore vivo”.
Due anni fa Danilo Sacco ha pubblicato “Un altro me”, il primo album da solista, poi, con la benedizione di Francesco Guccini, ha portato in giro per l’Italia il repertorio storico del cantautore di Pavana, accompagnato dai “Musici”.

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La copertina del nuovo album

Il 2014 è l’anno di “Minoranza rumorosa”, il secondo lavoro da solista che raccoglie undici brani inediti. Le canzoni sono nate da situazioni vissute realmente, altre “forse sono vere”, una presa di distanza dal precedente album, necessariamente più intimista e personale.
Questo lavoro rappresenta una sorta di cronistoria, un titolo che denuncia i tempi difficili che sta vivendo il nostro Paese; l’impegno del musicista è di raccontarli, contrapponendosi alla maggioranza silenziosa che accetta in silenzio l’omologazione e l’appiattimento generale.
Le canzoni raccontano storie e personaggi veri, eroi umili e sconosciuti, come nel caso di “Da qui all’eternità” dedicata a Walter Bevilacqua, pastore della Val d’Ossola, il quale rinunciò a un trapianto che gli avrebbe salvato la vita, per lasciare la possibilità di vivere a una persona che aveva figli, mentre lui, solo al mondo, riteneva che forse il suo tempo fosse finito: “… da qui all’eternità, sono un uomo semplice, lo sai, lascio il mio posto in questo gioco a chi deve vivere, a chi merita più di me, a chi ha figli e poi, fotografie, di amori che non ho potuto mai capire o conoscere…”.
 “Erin” narra la storia (forse vera) di un gruppo di soldati che, fuggiti dalla Spagna conquistata dai Mori, con una nave giunsero casualmente in Irlanda, un luogo e un clima che hanno sempre affascinato Sacco: “… mille luci che si accendono, e noi, solo per noi, Erin, l’isola di verde e fuoco, l’acqua, come un verde gioco, la mia nave che, io lasciai, solo per te…”.

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Danilo Sacco live

“Emilie”, racconta la storia di Charles Moulin, il pittore francese che rinunciò all’amore in nome dell’arte, ritirandosi in un eremo in Molise, alla ricerca della perfetta ispirazione: “Mi vedi, mi vedi con te, ti penso, fra pietre di aria pura e lillà, il quadro che non dipingerò più, un volto e poi, puro assenzio, oltre le nuvole e le barriere, ben oltre le comete e le bandiere, il vento che vorrei tu conoscessi, qui con me fra i miei rosai…”.
La fragilità del vivere umano è insita in “Novembre, novembre”, dove in un attimo una vita e tutte le sue certezze possono essere stravolte: “C’è sempre un motivo per ricominciare, novembre mattina, un attimo prima, ci credevi e dicevi che il mondo rideva …”.
L’anima rock di “Nati per vivere” corre tra semafori e languori, auto e ragazze di città; il tempo della notte fugge sul filo del rasoio e non c’è un attimo da perdere, in questo inno alla voglia di vivere con intensità e consapevolezza.
“Ti aspetterò per sempre” è la canzone dell’amore a senso unico, lei lo aspetta da nove anni allo stesso tavolo del medesimo ristorante ed è disposta ad attenderlo per l’eternità. “Se vorrai se vuoi”, è una storia personale, uno spiraglio di luce che si apre nei momenti più difficili. La canzone è dedicata alla sua compagna. “Niente è per sempre”, titolo eloquente sulla mutevolezza delle cose, sentimenti e sogni compresi: “Niente è per sempre, nemmeno se lo vuoi …”.
“Io non voglio più” incoraggia le persone a essere consapevoli dei loro diritti e a non abbassare la testa: “Dice che non si può più, costa troppo liberare il mare e l’idea poi di volare sarà fuorilegge, come pensare. Dice che non si può più, che sarà vietato anche camminare…”.
“La mia lettera” racconta cosa può accadere nella mente di una persona quando riceve una lettera di licenziamento: “…solo polvere i miei anni in fabbrica, due figli che sono la mia realtà, la mia lettera, da domani sarà tutto da rifare, gli anni sprecati poi a sanguinare, fra la pietra e il carbone, fonderia o scrivania…”.

La versione in cd contiene “She said”, cover di “Non credere”, cantata insieme al rocker croato Gibonni. La musica di Gibo, così è affettuosamente chiamato in patria, unisce rock, pop moderno e tradizione dalmata, con particolare attenzione ai testi, un mix originale che nei primi anni ’90 lo resero un punto di riferimento per i giovani del suo paese.

Il nuovo album di Danilo Sacco centra l’obiettivo, musicalmente valido, trae dai testi la sua forza. L’autore è sincero e diretto, un cronista dei giorni nostri, attento a raccontare gli eroi sconosciuti, le debolezze umane, senza tralasciare la voglia di vivere e le opportunità che si possono incontrare e raccogliere.

Per saperne di più visita il sito di Danilo Sacco [vedi]