Allegro non troppo, nei suoi cartoni malinconici dai tratti arrotondati e boteriani, quadrati nella loro mediocrità piena di spigolature, Antonio Albanese si presenta in scena al Teatro Comunale a lato di una valigia rossa che simboleggia il pane e le rose di tutte le sue creazioni, che propone nello spettacolo “Personaggi”.
Paura e amore, combinate in salsa mista.
Sempre alla ricerca di qualcosa che nessuno (nessuno?) dei suoi personaggi sembra trovare.
Non il normale impiegato che si occupa di “gestione dell’analisi integrata”, medio-man che si chiede in cosa consista il proprio mestiere, completamente avulso dalla nomenclatura degli odierni mestieri-domanda dove l’importante è ragionare politicamente e conformarsi, diventando – o aspirando a diventare – bravi cittadini, sino a giustificare qualunque bassezza o mediocrità, come strisciare verso una valigia cercando di capire cosa fare del pericolo e del fuori posto, costretto in un fuori gioco dalle inesistenti voci umane di call-centeriana memoria.
Non il Ministro della Paura, inquietante Frank N’ Furter calvo e ingessato in tight anni ’90 e occhiali scuri che ordisce i suoi piani a metà tra l’esaltato e l’impunito, nell’apologia totale di quel sentimento che offusca tutti gli altri e che regna sovrano, rielaborandola e vomitandola nella rigorosa distinzione tra “noi” e “altri” e che fa propria la frase “Date un bacio ai vostri bambini” diventa l’apocalittica “Raccontate ai vostri figli il ministro della paura”.
Non Ivo Perego, bauscia e imprenditore di se stesso (termine così à la page nel mondo lavorativo di oggi) che si scontra con la potenza cinese che gli compra i capannoni in puro eternit, da lui amati più del tossicomane figlio Manuel, e che si rimette altrettanto velocemente in piedi elaborando una nuova aristocrazia del male, fatto proprio il gattopardiano motto “cambiare per restare uguali”, e il cui unico pericolo personale è la noia – la stessa che divorava già, per altri motivi, i personaggi di Alberto Moravia. Non Alex Drastico e la sua disastrata famiglia dalle tonanti S finali, spontaneo e verace, uxoricida convinto e fiero dispensatore di imprenditoria mafiosa nel laborioso Nord, il mito finalmente raggiunto. Non Cetto La Qualunque con il suo arrogante politichese, re del neologismo de-mente, sostenitore della democrazia del pilu e dei favori pubblici e privati su cui si campa per ottenere il posto fisso, ma solo a tot euro al mese – “e non abbiamo dovuto inventare niente, di questo personaggio” sottolinea l’artista.
Quando arriva Epifanio con Valeriana, amore all’ingrosso, impetuoso e straordinario, cade un silenzio dolce; lui, un Fortunello di Petrolini timido e indifeso, cappotto e occhiali nerd, camminata veloce e ritmata, manda in sordina baci a un mondo che ha gli occhi puntati su una pianta di valeriana, inconsapevole del fatto che quel vegetale è l’unico a stimolare l’empatia di un uomo comune, disperatamente aggrappato al pensiero di lei (“anche se si ciula poco”), e all’unico momento in cui troviamo non l’amore per la paura, né per se stessi, ma il suo esatto contrario.
Francis Cabrel, nato nel 1953, è un autore e interprete francese, di origini italiane, famoso in tutte le nazioni francofone, dove ha venduto oltre 21 milioni di dischi (Francia, Quebec, Louisiana – Usa, Nord Africa, etc.).
Sin da ragazzo si appassiona alle canzoni di Bob Dylan, l’autore che più di tutti ha influenzato la sua vita artistica. Il suo recente album “Vise le ciel” è interamente composto di canzoni del folk singer americano, tradotte e adattate in francese.
Cabrel ha iniziato la sua carriera grazie a un concorso radiofonico nel 1974, ma il successo è arrivato cinque anni dopo con l’album “Les Chemins de traverse” e il singolo “Je l’aime à mourir” (ripreso anche da Shakira). Altre sue canzoni famose sono “L’encre de tes yeux”, “Le mond est sourd”, “Les murs de poussière” e “La corrida”, dove descrive questa sanguinaria usanza vista dalla parte del toro.
Molto legato alle sue origini del sud non ha mai abbandonato Astaffort (2.137 abitanti), dove vive con la moglie e le tre figlie e dove, dal 1988, organizza un festivalmusicale che attira migliaia di appassionati di musica.
Nel 1992 Francis Cabrel fonda, sempre ad Astaffort, un’associazione che organizza stage per autori, compositori e interpreti di canzoni. Questi incontri riuniscono una ventina di giovani artisti che in due settimane devono scrivere una quarantina di canzoni, poi ne saranno scelte quindici per essere eseguite live nei locali del piccolo villaggio francese. Ogni anno un importante artista è chiamato a patrocinare questi incontri (Zaho, Maxim Le Forestier, Thomas Dutronc, Emily Loizeau) per aiutare, sostenere e consigliare i partecipanti.
Francis Cabrel non si allontana mai, nelle sue canzoni, da due perni fondamentali: la chitarra (acustica o elettrica) e le riflessioni sulla vita. La chiarezza della voce, le sofisticate melodie e la chitarra rappresentano il nucleo su cui si tesse il suo folk contemporaneo. I suoi brani si allineano, per qualità e originalità, a quelli dei grandi autori cui s’ispira: Bob Dylan, Leonard Cohen e Neil Young.
Tra i suoi album più interessanti: “Fragile” (1980) dove per la prima volta la chitarra elettrica sostituisce quella acustica, “Hors-saison” (1999), “Les beaux dégâts” (2004) innovativo per la presenza della sezione fiati, “Des roses et des orties” (2008) registrato nel suo studio-fienile in Astaffort, propone un mix di chitarra elettrica e acustica, questioni sociali e politiche espresse con raffinatezza, “Samedi soir sur la terre” (1994) e la compilation “L’essentiel 1977-1997”, indispensabile per chi vuole avvicinarsi alla sua opera.
Nel 2006, il cantautore francese ha collaborato alla realizzazione della colonna sonora di “Le soldat rose”, un’opera musicale scritta da Louis Chedid e Pierre-Dominique Burgaud, in cui Joseph, un bambino stanco del mondo degli adulti, decide di rifugiarsi in un grande magazzino per vivere con i giocattoli.
Cabrel, causa il perfezionismo che lo contraddistingue, fa passare lunghi periodi tra un album e l’altro, intervallati da tournée (in Francia ricordano ancora i 10 recital consecutivi all’Olympia di Parigi nel 1999) e relativi dvd, una vita dedicata alla musica ma anche alla famiglia e alle opere umanitarie.
Testo tratto dal brano “Des roses et des orties”: “Vers quel monde, sous quel règne et à quels juges sommes-nous promis? A quel âge, à quelle page et dans quelle case sommes-nous inscrits ? Les mêmes questions qu’on se pose, on part vers où et vers qui? Et comme indice pas grand chose des roses et des orties…”.
“La ragione dei sensi” (RL Gruppo editoriale, collana Erosà pizzo nero, 2010) di Grazia Scanavini, è brillante e intrigante romanzo soft erotico, percorso semi-inedito nel panorama ferrarese.
Pagine quasi di apprezzabilissima Leggerezza del Piacere, echi dannunziani al femminile ben modulati e minimalizzati. Libro con cui l’autrice ha vinto il Premio Fiuggi 2011.
Una parola sensuale, mai trash o morbosa, al contrario la dimensione esistenziale nella sua fondamentale variabile e complementarietà della Pelle come Anima, fatale gemma della condizione umana; una particella femmina che canta il cosiddetto neurone G.
Non ultimi, chiaramente nel focus, input sia della miglior psicanalisi, alla Lou Salomè, il sesso come amore e conoscenza, sia, pur in ambito squisitamente narrativo, scorrevoli e fluidi: quasi certa primavera dei sensi in discretissimo abito della stagione dei cuori, l’erotismo sempre umanissimo e terrestre di una Barbarella science fiction cinematografica o la Valentina pop di Crepax ma più paradossalmente monogama. E nessun déja vu sociofemminista rivendicativo: piuttosto le parole come vertigine desiderante.
Grazia Scanavini successivamente è diventata fortemente operativa a Roma Capitale con l’Associazione culturale SensualMente dalla scrittrice curata. Da segnalare diversi eventi di chiara ampiezza e altitudine nazionale, dedicati all’erotismo letterario e culturale in genere. Ad esempio (dicembre 2013) nello spazio espositivo Visiva di via Assisi, con il noto regista Marco Spagnoli, regista e critico cinematografico, Rino Bianchi, fotogiornalista, il Professor Pietro Boccia, scrittore e docente di filosofia e sociologia, Francesca Bellino, giornalista, scrittrice, Stefano Laforgia trainer internazionale di Kinbaku. Ulteriormente spiccano eventi nel 2014 con la Poetessa Patrizia Portoghese, con il celebre e conturbante Franco Trentalange [vedi] e ‘EroticaMente’ [vedi], premio letterario nazionale della Narrativa Erotica, presieduto dall’editore Giancarlo Borelli.
Per saperne di più la recensione del libro “La Ragione dei sensi” [vedi] e l’intervista all’autrice [vedi].
* da Roby Guerra, “Dizionario della letteratura ferrarese contemporanea”, Este Edition-La Carmelina ebook [vedi]
Maglioni di lana grossa della nonna e lievi maglioncini di cachemire; capelli rasta e frangette fresche di parrucchiere. E’ curioso vederli tutti insieme. La sera di giovedì scorso su scalinate e banchi della sala del consiglio del Municipio di Ferrara si alternano rockettari e boy scout, signore dell’oratorio ed elettricisti con la passione per le farfalle, giovani coi capelli rasta e aristocratici giardinieri, studenti dell’istituto geometri e nonne tuttofare, i gruppi d’acquisto solidale e il gruppo dei “fruttiprendoli”, un ragazzo dal viso orientale e una coppia di giovani maghrebini.
A mettere uno accanto all’altro persone, idee e pensieri così diversi ci riesce il progetto Ferrara Mia. Un’iniziativa piena di buoni propositi che può essere bella già per il nome; riecheggia sì quello di un’azienda di servizi, ma per mettersi in contrapposizione con il concetto di società per azioni che – a pagamento – fa qualcosa per te. L’idea di base è che la persona stessa fa qualcosa, non qualcun altro delegato per lei. E quel qualcosa che fa, lo fa per sé e per gli altri, per una città che è la propria e non un affittacamere da cui si alloggia e a cui si chiede di ammobiliare la propria esistenza.
Riesce bene a spiegare che cosa si intende per “Ferrara Mia” il sindaco, Tiziano Tagliani. Che con piglio deciso, senza appunti né canovaccio, si accalora a dire: “La città è un bene comune non perché c’è un sindaco, un assessore o una società che ha vinto una gara d’appalto. La città è così perché è nostra; per il capitale sociale, culturale e di educazione civica che è capace di mettere insieme. Una città che ha subito degli scossoni, come quello del terremoto ma anche della morte di Federico Aldrovandi di cui ricorre quest’anno il decennale. Ora serve uno scossone in positivo, uno scossone che vada anche a infrangere un sistema di difesa, che a volte blocca le inziative buone, i tanti suggerimenti che arrivano dai cittadini per fare e migliorare, le tante iniziative piene di una creatività produttiva che meritano di essere promosse. Una città che può essere ancora più straordinaria se ce ne riappropriamo, se raccogliamo le lattine abbandonate anziché salire in casa a cercare il numero di telefono della società incaricata di spazzare, se facciamo conoscere e valorizziamo tante pratiche belle e spontanee come quelle della ‘social street’ di via Pitteri o dell’uomo che piantava gli alberi nel parco dell’Amicizia”.
E da qui, nella sala del consiglio comunale, inizia il bello, con le facce immortalate dall’obiettivo di Stefania Andreotti. Una sfilza di interventi e proposte, che sono il sale del territorio. Le sorelle Elena e Serena Maioli con Giovanni Oliva parlano del Progetto Combus che coinvolge maestre, bambini e famiglie per cercare di aiutarli ad abbellire le aree verdi vicine a otto scuole cittadine. Il gruppo scout di Ferrara 3 legato alla parrocchia di Santo Spirito, che vorrebbe prendersi cura di piazza Ariostea. Marcello Guidorzi, che descrive il progetto della cooperativa sociale di integrazione lavoro per impiantare un “bosco alimentare” con alberi da frutta e arbusti negli spazi del Fienile di via Raffanello a Baura (tra via Copparo e via Pontegradella). La signora Fergnani che sogna di fare migliorie al parchetto dove va coi nipoti, vicino a via Boschetto, mentre Fabrizia Bovi parla del garage dove raggruppare sporte di acquisti più equi e solidali per gruppi di famiglie felicemente accasate intorno a viale Krasnodar. Federico Di Marco, dell’associazione Ultimo Baluardo, che pensa a edifici vuoti da riqualificare per dare spazio a giovani musicisti o a persone di qualsiasi età in cerca di luoghi dove fare cultura. Carlos Dana del comitato disabili, che applaude all’idea di appianare regole e cartelli, che troppo spesso rendono ancora più difficoltoso il percorso a ostacoli di chi si trova impigliato in mille barriere.
I tempi per informare, promuovere e realizzare i tanti desideri e buone volontà che i cittadini hanno in testa, li ha indicati la portavoce del sindaco, Anna Rosa Fava: sei mesi da adesso a giugno 2015 con 20mila euro a disposizione. I fondi arrivano da uno stanziamento della Regione, che premia il progetto di Ferrara come il secondo più meritevole in Emilia-Romagna e unisce finanza pubblica (11mila euro) e sponsor privati (9mila euro).
A Ferrara Mia si può partecipare, condividere esperienze e magari inserirle nella mappatura o tra le attività di progetto. Info all’Urban Center (tel. 0532 419297), sul sito di Urban Center e su CronacaComune.
Studente dell’Istituto geometri Aleotti (foto di Stefania Andreotti)
Carlos Dana del comitato disabili (foto di Stefania Andreotti)
La signora Fergnani (foto di Stefania Andreotti)
Studentessa dell’Istituto geometri Aleotti (foto di Stefania Andreotti)
Alessandro Fortini, presidente dell’Ente Palio di Ferrara (foto di Stefania Andreotti)
Maestra della scuola Aquilone (foto di Stefania Andreotti)
Fabrizia Bovi per il Gas di viale K (foto di Stefania Andreotti)
Federico Di Marco dell’associazione Ultimo Baluardo (foto di Stefania Andreotti)
Marcello Guidorzi parla del progetto di piantare un “bosco alimentare” (foto Stefania Andreotti)
Manfredi Patitucci, paesaggista, che ha piantato gli alberi del piccolo bosco cittadino a Barco (foto Stefania Andreotti)
Gaia Lembo accanto a Marcello Guidorzi (foto di Stefania Andreotti)
Maria Lodi del centro sociale La Resistenza (foto Stefania Andreotti)
Maria Giovanna Govoni dell’associazione Basso Profilo (foto Stefania Andreotti)
Ragazzi di Sonika (foto di Stefania Andreotti)
Una ragazza del gruppo scout di Santo Spirito (foto di Stefania Andreotti)
Ercole Folegatti e Elena Maioli del Progetto Combus (foto di Stefania Andreotti)
Le ideatrici del Progetto Combus (foto di Stefania Andreotti)
Gruppi coinvolti nel progetto (foto di Stefania Andreotti)
Sala del consiglio del Comune di Ferrara affollata per la presentazione di Ferrara Mia (foto di Stefania Andreotti)
Tavolo con logo di Ferrara Mia (foto di Stefania Andreotti)
Tre cose ci sono rimaste del Paradiso: le stelle, i fiori e i bambini.
I fiori non guardano ai confini, ai luoghi in cui crescere, ai cieli sotto i quali stare, ai volti che li ammirano, alle mani che li coglieranno. Se il muro intorno a loro è bucherellato dalle pallottole, istintivamente e quasi maternamente, cercheranno di coprire quei fori, di nasconderli agli occhi dei bambini. Se il muro è bianco, sfodereranno i loro colori potenti e intensi per esaltarne la chiarezza. Se il muro è scuro, sbocceranno bianchi e immensi, per farsi notare, svettando, sicuri e forti, verso il nitido cielo azzurro. Se è antico, ne esalteranno la storia, se è moderno e vuoto lo riempiranno festosamente, adornandolo di tenui boccioli delicati.
I fiori profumano le strade, qualunque esse siano, ovunque si trovino. Spargono petali nell’aria leggera, avvolgono gli asfalti duri, provati e calpestati da orme che, diligenti, sfilano verso l’ignoto.
Non fanno caso al profumo del pane appena sfornato o all’odore acre di una serpentina di fumo che, improvvisa e inquietante, sbuca da un edificio. Non distinguono la mano che li coglie da quella che li strappa. Purtroppo. Non comprendono cattiveria e odio, anche se le sentono, le percepiscono, tremando nelle loro foglie di un verde intenso quanto gli occhi di una dolce e bella sirenetta delle favole.
I fiori vivono, il loro profumo intenso arriva, come una tempesta di mare, nella vita di coloro che gli passano accanto, che li guardano, estasiati, anche per un solo e fugace momento. Quelle creature divine sono lì per riscaldare gli animi tristi, per cullare i pensieri che vogliono prendere il volo e, spesso, scappare lontano. Per non farci dimenticare che la vita è bella, che può essere meravigliosa, che il destino può essere inclemente ma che possiamo almeno provare ad accompagnarlo e a guidarlo verso il bello. I fiori sono fatti per essere accarezzati, come la testa delle persone amate che dormono.
Belli questi fiori, allora, fiori di una città calda sulle sponde del Mediterraneo che ho amato e amo ancora molto. Una speranza in più?
Il dibattito sugli interventi da realizzare per migliorare la vivibilità di alcune aeree urbane cittadine prosegue, anche su impulso delle recenti iniziative. Pubblichiamo qui l’audio integrale e una galleria di immagine relative all’incontro “Ferrara vs Ferrara, le controverse proposte per la rinascita della città estense”, organizzato da Ferraraitalia, che si è tenuto lunedì in biblioteca Ariostea.
Il resoconto del dibattito è disponibile sulle nostre pagine web. Per leggerlo cliccare [qua]
Ferrara vs Ferrara (prima parte: introduzione, grattacieli, canale Panfilio)
Ferrara vs Ferrara (seconda parte: Giardino duchesse, corso Martiri, conclusioni)
Il pubblico di Ferrara vs Ferrara
Sergio Gessi
Il pubblico e Stefania Andreotti impegnata nelle riprese video
Andrea Cirelli
Il pubblico durante il dibattito
Sergio Fortini
Giovanni Fioravanti (a destra, con Andrea Vincenzi e Sergio Gessi
Giorgia Pizzirani, Sara Cambioli e Sergio Gessi
Il pubblico durante una votazione
Raffaele Mosca
Gianni Venturi
Elettra Testi
Andrea Poli con Andrea Vincenzi
Il pubblico presente in biblioteca con Andrea Cirelli e Alessandra Chiappini in primo piano
Pronto, Ada, oggi debbo proprio sgridarti perché non vieni mai alle assemblee e alle manifestazioni che si organizzano per rendere Ferrara ancora più bella. Io è un pezzo che partecipo e ne ho tratto grande giovamento. Prima di tutto ho imparato che manifestare in visone è un tantino disdicevole e, allora, mi sono fatta una serie di cappottini in velluto a costa larga finto povero che sono un amore. Oddìo, mi sono costati una fortuna ma non importa: il velluto a costa larga è di sinistra. La prima zona da risanare presa in esame è stata quella del grattacielo, pensa che se n’è occupato il sindaco in persona, ha chiamato Modonesi… (non sai chi è Modonesi?, l’assessore ai Lavori pubblici, un bel giovanotto, ma anche il sindaco non è mica male, con quelle chiome bionde alla Melozzo da Forlì). Dunque, non farmi perdere il filo, il baldo giovanotto e Melozzo da Forlì discutono un po’ tra loro e poi decidono di convocare d’urgenza una Giunta. I pareri sono tanti e talora discordi, ma da ultimo la Giunta delibera: per risanare la zona è necessario dipingere il grattacielo, già ma di che colore? Questa volta viene convocato in seduta straordinaria il Consiglio comunale e si decide che il grattacielo sarà bluette. Ma si – dicono entusiasti i consiglieri – quel bel blue pentola, meglio se lucido, diamogli una mano di smalto, urla a gola spiegata l’assessora architetta, vado io stessa a comperarlo al brico che costa meno. Così il grattacielo sembrerà davvero una pentola ed evocherà l’idea di passati di verdura profumati e di golose zuppe di fagioli, altroché eroina!
Cara Ada, come dicono fanno: il grattacielo è ormai una incontrovertibile pentola, ma le cose non migliorano. Altro iter deliberativo, prevale una decisione ardita: per risanare la zona il grattacielo-pentola non è sufficiente, bisogna pitturare gli abitanti e che spariscano per sempre le diversità etniche e sociali, fatte salve le sacrosante differenze di sesso. Detto fatto: si inviano tecnici al reparto grandi ustionati di Padova, dove la pelle non soltanto la colorano ma la creano di sana pianta. Si procede alla bisogna. La notizia che in una zona di Ferrara si dipingono tutte le persone dello stesso colore fa il giro del mondo. Arriva un messaggio di Salvini: “A morte i clandestini”, arriva un messaggio di Renzi: “Purchè sia salvo il patto del Nazzareno!”Ma c’è un negretto, un senegalese bello come il sole, che il suo colore proprio non lo perde. Per quanto l’assessore all’ambiente ripassi il pennello intinto nella biacca, le carni del senegalese rimangono d’ambra scura. Allora, sindaco, assessori e consiglieri si arrendono: “Non siamo mica noi i razzisti, è lui che è nero”.
C’è anche il ferrarese Andrea Fantini nell’equipaggio della Maserati di Giovanni Soldini in partenza in questi giorni per un intenso anno di prestigiose regate e sfide ai record sulle rotte oceaniche. Il primo appuntamento è la RORC Caribbean 600 Miles Race, che inizia il 23 febbraio da Antigua, nei Caraibi e l’ultimo sarà la celebre Rolex Sidney-Hobart Yacht Race, 628 miglia nautiche in condizione estreme.
Ma come c’è finito questo intrepido trentaduenne a bordo della barca più importante d’Italia? Glielo abbiamo chiesto mentre stava ultimando i lavori di cantiere prima di prendere il mare.
“Ho iniziato ad andare in barca da piccolo. Quando sono nato, i miei genitori avevano già una barca quindi io e mia sorella abbiamo iniziato prestissimo. Crociere in Adriatico, niente di che, ma credo che già all’epoca la passione per il mare abbia iniziato a farsi sentire. Poi mi sono laureato in farmacia, ma da quando ho iniziato l’università ho cominciato a navigare più seriamente e a viaggiare in continuazione”.
“Appena mi sono laureato, da “uomo libero”, sono partito per mare, ho navigato tanto, dappertutto, passando da una barca all’altra, sempre prediligendo le regate e le barche da corsa, in particolare le barche da regata oceanica in solitario, perché quello è sempre stato il mio sogno. In particolare il Vendee Globe, il giro del mondo in solitario senza scalo e assistenza, ma questa è un’altra storia, per ora ancora molto lontana.
Dopo un po’ di tempo che continuavo a navigare sulle barche di altri ho iniziato a cercare uno sponsor che mi permettesse di affittare un class40 (barca da regata oceanica) e di partecipare alle regate della stagione 2011, in particolare alla Transat Jacques Vabre. Dopo alcuni mesi di ricerca, il sogno si è realizzato. Una piccola azienda ferrarese, Studio Energia, specializzata nel settore delle rinnovabili, ha deciso di supportare il mio progetto, così il 2011 è stata la svolta della mia vita velistica diciamo. Sono stato sponsorizzato per più di un anno, potendo così partecipare ad importanti regate, tra cui appunto la Jacques Vabre, regata con due persone di equipaggio che va dalla Francia al Costa Rica. Quindi il 2011 lo considero il mio primo anno da professionista”.
“E’ una passione, e in quanto tale è difficile spiegarne le cause, comunque ci sono alcuni fattori che mi hanno spinto a farne un lavoro, come la libertà che si prova ad attraversare l’Oceano, ad essere migliaia di miglia lontani da terra, ad avere bisogno solo di mangiare, dormire e coprirsi. Il fatto che la vela ti porta a viaggiare per il mondo, in modo pulito, a conoscere popoli e culture diverse, conoscere gente nuova, instaurare forti amicizie. Poi ci sono le regate, e quindi la competizione, che per me è alla base di ogni sport, io non potrei farne a meno”.
“Nel 2013 ho incontrato Soldini per caso a Genova, gli ho chiesto se aveva bisogno di gente, mi ha fatto fare qualche giorno su Maserati in Cina, e da lì non sono più sceso. Sono con loro da un annetto più o meno. Lavorare con Giovanni è fantastico, ogni giorno impari qualcosa, d’altra parte ha vinto due giri del mondo in solitario, un motivo ci sarà…non puoi far altro che rubargli più cose possibile! Poi anche gli altri ragazzi del team sono grandi professionisti, da ognuno impari qualcosa”.
“La mia vita non è cambiata, giravo tanto prima e giro tantissimo adesso. E’ un impegno notevole, non vivo mai per più di un mese nello stesso posto, si passa da un Oceano all’altro, da un continente all’altro, è difficile quindi avere dei legami stabili. Ma è bello così, arriverà un giorno il momento di rallentare, ma è ancora lontano.
A terra ci sono periodi di cantiere, in cui si lavora per preparare la barca alle future regate e navigazioni, a bordo faccio un po’ di tutto. Quando fai lunghe navigazioni devi essere in grado di riparare tutto quello che si rompe, non si può sapere tutto, ma in qualche modo devi risolvere i problemi che regolarmente arrivano. Poi ogni secondo libero lo passo a cercare gli sponsor per il mio progetto”.
Nonostante i risultati raggiunti, Andrea si ritiene “anni luce” lontano dall’apice della sua carriera.
“Devo imparare ancora tantissimo. Ho un mio personale progetto, che prevede la mia partecipazione alle più importanti e mitiche regate oceaniche al mondo, come la Transat Jacque Vabre, la Route du Rhum, la Ostar, e un giorno, forse, il Vendee Globe!”.
Con dei sogni così e il mare davanti, non si può che stringersi attorno ad Andrea e tifare Maserati e un po’ anche Ferrara.
Bisogna educare alla responsabilità i giovani, prima che diventino grandi e sordi. Partirei da questa affermazione per esprimere qualche concetto in libertà.
Introdurre il termine etica implica molti altri concetti che regolano i criteri d’azione, i principi, i comportamenti di ognuno di noi, quindi costituiscono lo sfondo dei nostri comportamenti quotidiani. Che cosa sto facendo? Come lo sto facendo? Spinto da quale istanza? E per quale scopo? Che cosa debbo fare? Perché lo faccio o lo debbo fare? Che senso ha il mio agire? E’ evidente che l’etica contemporanea deve fare i conti con il problema del senso, del perché, della motivazione. Ciascuno trova in se stesso la motivazione del proprio agire. Il termine responsabilità è legato al verbo rispondere, in particolare rispondere a qualcosa o qualcuno e rispondere di qualcosa o qualcuno. Max Weber ha sviluppato molte riflessioni sull’etica della responsabilità (verantwortungsethik) affermando che sulle spalle dell’uomo viene addossato il peso della decisione e dell’azione. Per Weber l’uomo appare stretto tra il dominio dell’economico e del tecnologico, da un lato, e dall’altro un mondo etico che nel suo complesso potrebbe apparire un mondo irrazionale.
In fondo, molto spesso ci sentiamo deresponsabilizzati di fronte a ciò che riteniamo non dipenda da noi, ma molte altre volte rivendichiamo la nostra responsabilità per tutto ciò che crediamo di poter fare. Così, da una parte ci sentiamo responsabili di ciò che è in nostro potere, ma dall’altra spesso attribuiamo ad altri le nostre colpe. Ci si esime così dalle proprie responsabilità. Anzi, si potrebbe anche aggiungere che, poiché la risoluzione di alcuni problemi può risultare conflittuale rispetto all’ordine della legalità, ci avvaliamo di principi in cui come sovraordinata vi è il livello morale.
Fra etica e morale ci deve essere un sano rapporto di confronto perché non sono sinonimi. Generalmente l’etica sta sopra la morale, perché ne indaga le mutazioni nel tempo e nei differenti ambiti socio-culturali; ma sta anche sotto la morale, quando i precetti devono essere tradotti e codificati in una disciplina azione, quella che chiamiamo deontologia. Anzi talvolta sono in conflitto poiché l’etica ha assunto una connotazione laica e immanente, mentre la morale continua a concepire se stessa come assoluta e immutabile. E questo lascia libero spazio alla dialettica.
Sono questioni in cui, talvolta inconsapevolmente, ogni persona civile s’imbatte, e che oggi mi è venuto voglia di proporre rileggendo i miei appunti raccolti dalle preziose lezioni del professor Sergio Gessi di Etica della comunicazione, facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Ferrara (il corso riprenderà il 25 febbraio 2015).
Sono consapevole che questo può innescare divergenza di opinioni (anzi mi auguro di promuovere un dibattito) perché, a differenza della scienza, che ha a che fare coi fatti, si introducono opinioni che non sono assolute e immutabili. Per fortuna la filosofia si occupa di valori. Con il concetto di etica della responsabilità, comunque, si entra nel sistema dei mezzi e dei fini, con le relative conseguenze. Inevitabilmente, viene facile il richiamo all’azione politica di cui l’etica dovrebbe essere il primo luogo della responsabilità, in quanto riguarda la qualità dei fini che si perseguono.
In fondo, come dice Erving Goffman nel suo libro “La vita quotidiana come rappresentazione”, la vita quotidiana è una rappresentazione, in cui l’individuo interpreta una parte in buona fede (onestamente) senza speculare sugli effetti o strategicamente, cioè in maniera consapevolmente pianificata al fine di ottenere dei vantaggi. La facciata è l’equipaggiamento espressivo che si impiega intenzionalmente o involontariamente durante la propria rappresentazione. Possono venire in mente molti politici con grandi qualità teatrali nella rappresentazione e nel controllo dell’espressione, ma lo stesso accade comunemente nelle vicende di tutti i giorni. D’altronde, ogni individuo accentua certi aspetti e ne nasconde altri per cercare di avere il controllo della scena. Serve, invece, riappropriarci del senso autentico della partecipazione come valore sociale. Oltretutto, il coinvolgimento procura legittimazione (e viceversa) e di conseguenza non è nemmeno necessario imbrogliare!
Per Kevin Costner, protagonista ed esordiente alla regia con ‘Balla coi lupi’, premiato nel 1991 con sette Premi Oscar, arrivano i 60 anni. Faccia da bravo ragazzo, idolo di molte donne (ora come allora) e fautore del ritorno del genere western a Hollywood, scopriamo che il nome originario della sua famiglia è Koster, lo stesso del generale Custer, ma anche che il bisnonno tedesco lo trasforma in Costner dopo aver sposato un’indiana Cherokee. Un’origine che ritorna, radici che riemergono, che si fanno sentire con forza e intensità. Sangue indiano nelle vene, dunque, per l’attore che nasceva a Lynwood, in California, il 18 gennaio 1955, figlio di un’assistente sociale e di un operaio e che, nel 1990 presentava al pubblico un film nella e sulla natura, avvolto dalla bellezza della storia e delle tradizioni di tribù indiane americane.
Nel 1864, infatti, durante la guerra di secessione americana, in seguito a un atto eroico compiuto in guerra, il tenente John Dunbar (Kevin Costner) viene mandato in un forte sperduto nella prateria. Immerso e affascinato dalla natura che lo circonda, incontrerà una tribù Sioux e diventerà uno di loro, scoprendosi un uomo nuovo (e l’amore).
Il film è una splendida celebrazione di un incontro fra un uomo straordinario e gli Indiani d’America, gente eccezionale e saggia, con John che è un soldato, ma mai spregiudicato, violento o conquistatore. E’ un uomo alla scoperta di sé stesso, affascinato dalla natura e predisposto al dialogo, gentile e volenteroso.
L’amicizia con il cavallo Sisko e con il lupetto ‘Due Calzini’ commuovono sempre. Il suo lato nobile e sensibile non sfugge ai Sioux, e specialmente a ‘Uccello Scalciante’, saggio della tribù, che vede in lui un uomo atipico, con cui vale la pena parlare. Il giovane e irrequieto ‘Vento Nei Capelli’, invece, diffida del bianco e lo deride, ma anche lui capirà e diventerà grande amico di John. In un conoscersi poco a poco, fra gli indiani e John nascerà un rapporto unico, intenso, che porterà il protagonista ad abbandonare la sua vecchia vita per aggregarsi a loro, dai quali imparerà perfettamente la lingua e le tradizioni. Siamo nell’altrove, lontani, immersi sono dalla bellezza dei suoni lontani e vicini della natura e delle relazioni umane sincere e profonde. Un’estrema avventura tra estreme frontiere. Un mondo che non si vede ma che si sente. L’altro che diventa noi.
Bella e coinvolgente la sequenza della caccia ai bisonti, stupende la fotografia, la musica e la voce narrante per tutto il film, quella di John che racconta e scrive su un diario la storia della sua straordinaria esperienza. Incanto. Nostalgia senza fissa dimora.
“… come accade all’uccello migratore che nel suo volo non si accorge delle frontiere che attraversa”. Herman Melville, Billy Budd
Balla coi Lupi, di e con Kevin Costner, Graham Greene, Mary McDonnell, Usa 1990, 220 mn.
Con l’inasprirsi della contesa politica, l’immaginario verbale degli addetti ai lavori si restringe e metafore, simboli, allusioni si concentrano ancora e soprattutto sulle poche parole che sembrano reggere alla velocissima usura a cui sono sottoposte.
In prima linea rimane e impera la parola principe “culo” nelle sue varie e molteplici varianti: dall’elegante ma un po’ vecchia definizione di papa Bergoglio “là dove non batte il sole” all’intramontabile “vaffan…” usato indifferentemente da tutti gli schieramenti politici, nonostante la indubitabile premazia grillina, naturalmente raccolto e adattato alle esigenze italiote dall’intramontabile espressione anglo-americana, “fuck”, accompagnata dal dito medio alzato. Anzi, direi che è frequentata con entusiasmo proprio da coloro che per le loro scelte sessuali dovrebbero sentirsi offesi da un simile invito.
In mezzo corrono, anche se un po’ smorzate se non icasticamente rilevate, locuzioni come “cul de sac” o la meno frequente “parlare con la bocca a culo di gallina”, corretta traduzione dell’immortale e tipicamente francese “cul de poule”.
Ma sono le funzioni scatologiche (eh sì! correte a controllare sul vocabolario che è sempre un utile esercizio) che trionfano. Il primato spetta allo straordinario “Merdinellum”, neologismo strepitoso e di finezza ineguagliabile proposto dal senatore della Lega Stefano Candiani per definire l’emendamento Esposito, a cui l’informatissimo Filippo Ceccarelli su La Repubblica accoppia il termine “tafazzismo” che mi ha obbligato a ricerche sulla rete e che qui riporto integralmente: “Tafazzismo” è un neologismo che nasce negli anni Novanta ed è sinonimo di “masochismo”. Tafazzi è un personaggio comico interpretato da Giacomo Poretti: è vestito con una calzamaglia nera e un sospensorio bianco. Si colpisce le parti intime con una bottiglia, ricavandone piacere e intonando una melodia tratta dalla canzone klezmer “Gam Gam”, del film “Jona che visse nella balena”. Da allora capita sovente che si parli di “tafazzismo” quando si vuole indicare una pratica dolorosa autoinflitta.
Come si può capire non è proprio un “bel dire”, anche se la storia della Repubblica italiana in certe svolte storiche ha reagito con violenza ancor maggiore a passaggi epocali, ma quel che in questo momento sconcerta è la piatta adesione naturalistica all’escremento e ai canali del corpo umano interessati. Ben commenta Ceccarelli: come a scuola, come allo stadio.
Che la cultura dello stadio diventi dunque fondamentale per la lotta politica molto dice sull’elevato senso di responsabilità e di dignità proprio ai rappresentanti del popolo, in tutte le varianti dell’arco costituzionale o anche al di fuori di esso. Il grandissimo Crozza potrà nutrire la sua insostituibile satira per mesi o forse per sempre.
Altro segno di un mediocre ripiegamento dei segni corporali della politica le ‘mises’ dei parlamentari e senatori. Tramontati alla buon’ora gli sciarponi alla Renato Brunetta, ora si usano sciarpette anguilliformi attorcigliate ai colli non avvenenti di maturi politici (Orfini?). Sempre indice di un’interpretazione stile ‘mauvais gôut’, i grandiosi stilemi del senatore Calderoli: barbetta incolta (che si potrebbe declinare nelle due versioni – vocabolario!!! – incòlta o incólta); occhiali bicolori, pochette verde-lega, formale giacchetta – a volte doppio petto – su blue jeans molto usurati. Incommentabili le tute e i maglioni di Salvini. Resiste ancora il vestito ‘intero’ impiegatizio di Bersani o l’imponente doppio petto berlusconiano che viene allacciato con aria sopraffina tutte le volte che l’ex cav. scende dalla macchina. In mezzo a questi segni d’eleganza maschile, dove si distingue lo stile sobriamente adatto alla bisogna di Dario Franceschini, impazzano le giustamente notabili scelte delle signore della politica. Ridimensionata la borsa gigantesca tenuta al braccio col segno dell’ombrello, resistono i tacchi 12, gli abbinamenti giacchetta-pantaloni, i vestiti da sera indossati alle sedute delle sette di mattino o scollature generose, come quella esibita dalla ministra Pinotti a confronto con madame Le Pen nella trasmissione “Di martedì”, dove la suprema eleganza della francese risaltava in uno straordinario cappotto che imitava con tutta l’esperienza della couture francese una divisa militare ricca di pellami e di tasche.
La più elegante per me? Naturalmente la Rosy Bindi con i suoi vestiti da casalinga toscana; a seguire l’acconciatura della ministra Marianna Maida evocante prati fioriti e situazioni pre-raffaelite.
Dell’esasperazione modaiola del premier troppo ho già detto. Insomma! Se volessimo concludere questo scherzo fatto in modo di “ragionar per isfogar la mente” (sì! il solito Dante…) allora quale conclusione dovremmo trarre?
Fertilità è in generale la capacità di riproduzione degli organismi viventi. L’osteopatia può rappresentare un valido aiuto nel caso di difficoltà di concepimento, intervenendo specificamente su condizioni meccaniche che possono impedire l’innesto dell’ovulo o il trasporto dell’ovulo nella camera gestazionale (cause frequenti di infertilità). Alterazioni vertebrali e tensioni possono compromettere la fluidità del sistema vascolare e nervoso del bacino e, di conseguenza, la funzionalità degli organi genitali. Traumi diretti sulle strutture connesse come sacro, coccige, colpi di frusta possono compromette la meccanica che va trattata e ripristinata. Ciò può essere frequentemente determinato dalla presenza di cicatrici locali uterine o degli organi circostanti, aderenze chirurgiche, esiti di infiammazioni locali, tensioni del pavimento pelvico (fasciali) e tensioni strutturali del bacino (ossa iliache, sacro e coccige). Un trauma al coccige, osso fondamentale per l’equilibrio strutturale e funzionale del bacino, per esempio, viene poco preso in considerazione nell’anamnesi del paziente. Oppure le conseguenze di interventi all’addome, di infiammazioni dell’endometrio, di infezioni da germi come la Clamydia, che possono creare aderenze e ispessimenti dei tessuti. Se le irregolarità si trovano vicino alle tube, il passaggio dell’ovulo può risultare più faticoso. Dal punto di vista anatomico anche disfunzioni degli organi viscerali adiacenti possono influire negativamente come il colon irritabile, cistiti, infezioni alle vie urinarie. Gli organi viscerali, quindi anche utero, tube e ovaie, hanno una motilità (intrinseca propria dell’organo) e una mobilità (dell’organo rispetto alla mobilità del diaframma). Dal punto di vista osteopatico c’è poi un’influenza del movimento cranio sacrale e del movimento della fascia.
Un caso frequente è quello dello spostamento del coccige, cioè l’ultima parte della colonna vertebrale, articolata con l’osso sacro. Il coccige è un osso fondamentale per l’equilibrio del bacino, e spesso traumi, cadute o posture errate possono essere sufficienti per portarlo fuori asse. Questo può influire sull’assetto della colonna, importante per la fertilità. Con l’osteopatia la posizione si può facilmente correggere, migliorando così la fisiologia del bacino. L’osteopatia in questo caso può aiutare con manovre viscerali delicatissime, che “massaggiano” i tessuti, sciolgono le aderenze e migliorano il flusso sanguigno e linfatico spesso congestionato dalla presenza dei “nodi” fibrosi. I risultati sono buoni: nel giro di qualche seduta può succedere che le tube si aprano e che l’ovulazione riprenda con regolarità.
L’osteopatia arriva ad agire anche sull’utero stesso: se è retroverso ne può favorire la rotazione e il ritorno nella corretta posizione, rendendo così più probabile la gravidanza. Questo è possibile perché i nostri organi non sono fissi, ma hanno una propria mobilità sui propri assi, che può essere migliorata con le dolci manipolazioni dell’osteopatia. Così si forma un “terreno” più vitale e accogliente che facilita la gravidanza.
L’osteopata opera per il recupero della mobilità della struttura, per diminuire le tensioni fasciali, cicatriziali e viscerali, e per ridare armonia all’intero sistema; le mani e la percezione palpatoria lo guida nella ricerca verso la disfunzione e la sua liberazione da blocchi e rigidità che compromettono l’efficacia del sistema vascolare e nervoso del bacino, che di conseguenza compromettono il corretto funzionamento degli organi genitali, non irrorati e innervati efficacemente. Gli organi interni possiedono una loro mobilità attorno a propri assi, spesso questa viene compromessa in seguito ad interventi chirurgici, adattamenti posturali, esiti cicatriziali, traumi. Insieme alla mobilità viene persa anche la loro funzionalità e la nuova situazione disfunzionale viene registrata dal sistema nervoso autonomo che ne regola la funzionalità. Nel trattamento della persona in gravidanza, l’osteopata si concentra in particolar modo sulla buona meccanica del bacino e di tutti gli organi e articolazioni, un equilibrio tra tessuti e fluidi corporei per sostenere i processi di autoregolazione e salute della persona in esame.
Silenzio. Una chiesa affollata, piena di studenti, amici, eppure l’unico suono è il ticchettio della pioggia. Ci si abbraccia con gli occhi lucidi, davanti all’immagine sorridente di Ino, che stona in questo contesto. Ci ricordiamo di te sorridente, anche se trenitalia fa sempre ritardi e il caffè delle macchinette è imbevibile. Con l’energia che emanavi, hai donato a chi ti circondava l’amore per lo spagnolo, per la tua terra, per la vita. Insegnamenti che restano per sempre, come il ricordo di te.
Hasta luego y buen viaje Ino.
Oggi studenti, docenti e amici di Inocencio Giraldo Silverio, hanno ricordato il docente di spagnolo dell’Università di Ferrara prematuramente scomparso lo scorso 7 gennaio
La Storia è la più grande Maestra. Ciò che l’uomo concettualizza con l’idea di giustizia e di diritto è il risultato logico di un processo storico estremamente complesso e travagliato. Ma il travaglio permane. Ed è proprio la forza del negativo e del conflittuale ad essere propulsiva del lento mutamento dell’uomo e della sua ragione, in una società costantemente in antitesi con se stessa. Sembrerà banale il concetto che “per capire il presente è necessario conoscere il passato”, ma è un principio più volte sottovalutato all’interno del dibattito intellettuale e politico, di tutte le epoche e di tutti i luoghi. È innanzitutto fondamentale capire cosa è stato, cosa è attualmente e cosa sarà l’uomo, l’individuo come unità del complesso sociale. Già Aristotele nella sua “Politica” sosteneva che “è proprio dell’uomo rispetto agli altri animali avere la percezione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto e degli altri valori”. Si tratta di una concezione incompleta della vera natura dell’uomo perché non tiene adeguatamente conto della sfera soggettiva e relativa della percezione di ogni singolo individuo. Il rapporto fra ogni uomo, ogni autocoscienza e ogni “famiglia” è inevitabilmente conflittuale. La società appare permeata dagli incontri e scontri degli interessi particolari. L’uomo diviene lupo per gli altri uomini (homo homini lupus, secondo l’espressione latina ripresa dal britannico Hobbes). Appare quindi evidente la necessità di un sistema “sovraindividuale” che sia mediatore degli interessi particolari. Nasce l’idea di Stato, ma anche questa è stata interpretata attraverso una moltitudine di chiavi di lettura: l’illuminista J.J. Rousseau fa nascere lo Stato su base contrattualistica, sottolineando l’importanza dell’azione della sovranità popolare; i giusnaturalisti sostengono l’esistenza di leggi naturali universali, preesistenti all’uomo; Hegel si oppone a entrambe le visioni, mostrando convinta diffidenza verso la sovranità popolare e descrivendo un vero e proprio stato etico ove il potere sovrano assume una fondamentale importanza. Ma è di generale condivisione l’idea costante della funzione dello Stato, sintetizzata nello scritto degli intellettuali italiani Bobbio e Viroli: “In uno Stato di diritto una delle grandi funzioni delle leggi è quella di stabilire come deve essere usato il monopolio della forza legittima che lo Stato detiene”.
La forza che prima era propria del singolo individuo viene trasferita allo Stato. Per descrivere il meccanismo secondo l’interpretazione rousseauiana (e propria anche dell’italiano Cesare Beccaria), l’uomo aliena consapevolmente da se stesso una parte della propria libertà al fine di sottostare alle tutele di una convivenza civile e sociale. A questo proposito Beccaria aggiunge: “Per giustizia non intendo altro che il vincolo necessario per tenere uniti gli interessi particolari”. Beccaria evidenzia, inoltre, che le pene contro i reati che oltrepassino questo vincolo sono ingiuste per natura, perché vanno a rompere il contratto che l’uomo e lo Stato hanno sottoscritto. Idealmente la giustizia si erge suprema sopra il tumulto delle passioni e degli interessi particolari e l’uomo, anche secondo la filosofia di scuola genuinamente hegeliana, dovrebbe fare propri il diritto e la giustizia. “Questo ci impone una partecipazione attiva e indefessa all’eterno dramma, che ha per teatro la storia”, scrive Del Vecchio nel 1959. La storia, come prima sostenuto, si presenta quindi come dramma, in cui sono protagonisti i conflitti e gli interessi particolari. Gli uomini che costituiscono la società civile e che legittimano lo Stato non condividono principi comuni e universali da cui dedurre in modo sistematico i diritti naturali idealmente condivisi dal “senso comune” della società.
La Storia ci insegna che questo “senso comune” non esiste è non è mai esistito, facendo cadere le vicende e i progressi dell’uomo nel vortice eterno del relativismo. Con estrema lucidità Hoffe sostiene in “Giustizia politica” che “le opinioni su ciò che è giusto o ingiusto divergono ampiamente”. Questo diviene esplicito se si considera il panorama esemplare delle correnti politiche economiche che il Teatro della Storia ha visto nascere e contrapporsi; il liberalismo economico afferma: “a ognuno secondo le sue prestazioni”; lo stato di diritto sostiene: “a ognuno secondo i suoi diritti legali”; le aristocrazie chiariscono: “a ognuno secondo i suoi meriti”; e il socialismo sancisce: “a ognuno secondo i suoi bisogni”. Ognuno ha la sua giustizia e ognuno ha la sua verità. È ingenuo e inutilmente idealistico sostenere che “leggi e istituzione devono essere riformate o abolite se sono ingiuste”. Chi può giudicare il giusto fondamento e la ragionevolezza di una legge o di un sistema di governo? Può esistere un giudice sommo e superiore?
E’ esemplare la vicenda e la conseguente riflessione riportata nel celebre testo “La Banalità del Male” dell’intellettuale tedesca di origine ebraica Hannah Arendt: seguendo le tappe del processo in Israele di Adolf Eichmann, funzionario del regime hitleriano, risulta evidente e palese come ‘l’Architetto dell’Olocausto’ abbia in realtà applicato coerentemente la legge dello Stato della Germania nazista. Eichmann sostiene di aver obbedito agli ordini ricevuti al fine di preservare la propria incolumità e quella dei suoi cari, facendo conseguentemente riconoscere alla Arendt la natura banale, esterna e sociale del “male”. E’ futile e ingenuo parlare a posteriori di “male assoluto” poiché il male assume una veste di banalità disarmante e che si cristallizza in figure non “mostruose” bensì normali, come quella di Adolf Eichmann. Questo principio non deve altresì essere frainteso: viene rifiutato il giudizio aprioristico e relativo e la figura dell’uomo come giudice sommo (e vano) della Storia in favore di un’analisi razionale e causale del processo storico, giustificando gnoseologicamente e non eticamente il fatto. Il concetto di giustizia appare altresì relativo, inevitabilmente basato sulla percezione soggettiva e sul retroterra culturale del singolo individuo e del contesto sociale. Da questa riflessione scaturisce la decisa convinzione dell’impossibilità dell’espressione di un giudizio aprioristico su ogni singola epoca storica, la quale è sempre da contestualizzare all’interno delle sue coordinate spazio-temporali, da cui derivano di conseguenza lo Stato, il diritto e le leggi.
Così come l’universo si espande per l’impulso originario conferitogli dal Big Bang, la Storia procede nel suo divenire eterno, processuale e ciclico allo stesso tempo, dettato dai singoli avvenimenti, facendo sì che quello che succede è ciò che inevitabilmente doveva succedere, ciò che logicamente e secondo rapporti di causa-effetto doveva accadere, e ciò che è, quello che inevitabilmente doveva essere.
Fonti
Aristotele, Politica, cap. I.
Bobbio e Viroli, Dialogo intorno alla Repubblica, Roma-Bari, 2001.
C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, cap, II, 1764.
G. Del Vecchio, La Giustizia, Roma, 1959.
O. Hoffe, Giustizia politica, Bologna, 1995.
J. Rawls, Una teoria della giustizia, Milano, 1982
Si terrà domani sera, venerdì 23 gennaio, alle 20.30 alla Scuola Bonati a Ferrara una conferenza che affronterà il tema dell’invidia. Ecco alcuni punti salienti su cui discuteremo.
L’invidia si riferisce a uno stato d’animo per cui, in relazione a un bene o una qualità posseduta da un altro, si prova astio e risentimento verso chi possiede quel bene o quella qualità.
L’invidia genera non solo dolore, ma anche tristezza: l’invidioso vorrebbe per sé i beni altrui, giudica che l’altro li possegga immeritatamente e che debba essere punito per questo con l’espropriazione.
L’invidia, inoltre, si esprime nel rammarico e risentimento che si prova per la felicità, la prosperità e il benessere altrui, sia che l’interessato si consideri ingiustamente escluso da tali beni, sia che già possedendoli, ne pretenda l’esclusivo godimento. E’ il desiderio frustrato di ciò che non si è potuto raggiungere per difficoltà o ostacoli non facilmente superabili, ma che altri, nello stesso ambiente o in condizioni apparentemente analoghe, hanno ottenuto.
L’invidia è quel sentimento di rabbia dettato dal fatto che un’altra persona possiede e trae beneficio da ciò che noi desideriamo. L’impulso invidioso, in tal senso è allora volto a portare via o a danneggiare tale oggetto.
Questione interessante, spesso sottovalutata da chi prova invidia, è che ad essere in gioco è una felicità attribuita. È una questione di prospettiva, come vedere in autostrada l’altra fila che scorre sempre più velocemente. È l’attribuzione ad altri di una condizione di felicità superiore alla nostra.
L’invidia (quando è patologica) non aiuta il soggetto perché lo isola e lo congela, lo svaluta agli occhi degli altri: perché diminuisce, propone agli altri le proprie “mancanze” rispetto alle qualità attribuite agli altri. Lo isola perché un invidioso non collabora volentieri e non è capace di empatia.
Lo congela nella propria presunta inferiorità, non lo porta ad emulare, a lavorare per avere un po’ della fortuna attribuita agli altri.
Questo atteggiamento può diventare una visione distorta della realtà che conduce a reazioni aggressive, non necessariamente sul piano fisico, ma sul piano psicologico.
È patologica quando occupa gran parte dei pensieri di una persona. Come possiamo tenerla sotto controllo?
Esiste però una forma positiva di invidia che, non solo non ha effetti collaterali, ma anzi può rappresentare un vero e proprio catalizzatore per il nostro successo. È l’ammirazione. L’ammirazione può tradursi in una spinta all’azione, alla competizione per raggiungere obiettivi analoghi a quelli raggiunti dall’altro: ammirare qualcuno che ha ciò che io vorrei avere mi permette di impiegare le energie necessarie per raggiungere un analogo successo o risultato.
Il segreto dunque non è non provare invidia per il successo altrui, ma piuttosto far leva su questo sentimento per realizzare i nostri sogni.
Chiara Baratelli, psicoanalista e psicoterapeuta, specializzata nella cura dei disturbi alimentari e in sessuologia clinica. Si occupa di problematiche legate all’adolescenza, dei disturbi dell’identità di genere, del rapporto genitori-figli e di difficoltà relazionali.
baratellichiara@gmail.com
“La teoria non impedisce ai fatti di verificarsi” (Sigmund Freud)
Il portato innovativo delle teorie che sono alla base della comprensione del funzionamento dei processi biologici, caratterizzati dalle spiccate ed originali doti di auto-organizzazione della materia vivente, stanno faticosamente incontrando un sempre maggior riconoscimento scientifico a livello internazionale. Numerosi sono, oggi, i team di ricerca che si cimentano con il tema della complessità, che operano nel contesto teorico proprio della dinamica dei sistemi aperti, non lineari, in situazioni di non-equilibrio, tempo irreversibili: è questo, infatti, il contesto teorico che definisce sia i processi vitali, ma anche ovviamente, lo stato di disequilibrio che noi chiamiamo comunemente ‘malattia’. I primi modelli descritti dal Nobel Ilya Prigogine, nello specifico contesto dei sistemi di natura chimico-biologica, hanno evidenziato il nuovo ruolo che assume la variabile tempo (biforcazioni che si risolvono in maniera probabilistica determinando irreversibilità temporale), la comparsa di attrattori e di strutture dissipative, che, lette alla luce dell’approfondimento sul comportamento dei domini di coerenza dell’acqua, nello specifico contesto delle Quantum Electro Dynamical (Qed) interactions (professori G. Preparata ed E. Del Giudice) hanno tracciato la strada che porta verso una maggiore comprensione della realtà vista nel rispetto della dovuta complessità scientifica. E’ interessante sottolineare come, questo tipo di ricercatori, non è stato spronato dal fuoco sacro della scoperta di fenomeni o di proprietà sconosciute, bensì hanno dedicato le proprie energie intellettuali, con rigorosa caparbietà, al tentativo di spiegare fenomenologie, protocolli e metodiche che, palesemente funzionanti e sistematicamente osservabili, sfuggono alla comprensione scientifica classica (questo definisce bene il dominio della complessità). A tal proposito viene proprio bene citare la frase di Sigmund Freud: “La teoria non impedisce ai fatti di verificarsi”.
Riassumiamo alcune delle domande che questa scuola di pensiero si è posta:
•Si sono domandati il perché una data molecola, quando posta in un contesto di chimica industriale, si accoppia ‘posizionalmente’ con tutte le particelle con le quali si trova ad essere in ‘contatto’ dando luogo ai diversi possibili composti chimici mentre, nei sistemi auto-organizzati, ciascuna molecola si accoppia solo con chi è ‘stabilito’ che si debba accoppiare non dando luogo a tutta una serie di composti, peraltro indesiderati, che dovrebbero invece aver luogo ragionando sulla sola base della ‘posizione’ e/o della vicinanza reciproca
•Come mai, anche se il 99% delle molecole del nostro corpo è assimilabile ad acqua, la maggior parte dell’attenzione scientifica viene dedicata all’1% di soluto in essa presente? (questa considerazione ha portato ad importanti approfondimenti, nel campo della meccanica quantistica, sul tema delle proprietà dei domini di coerenza dell’acqua)
•Come si spiegano i riflessi delle diluizioni omeopatiche o le specificità dell’acqua informata che hanno dimostrato chiari e ripetibili comportamenti in termini di variazione di parametri quali la conducibilità elettrica o il calore di diluizione (professor V.Elia)
• Come si spiegano le inconfutabili positive influenze dei campi elettromagnetici deboli ( es. esperimenti di ionorisonanza ciclotronica di Liboff, LLLT – Low Level Laser Technology…)
•Il ruolo del fenomeno della risonanza elettro-magnetica in relazione alle frequenze (segnali bioelettronici)
•La crescente importanza che sta assumendo il concetto di ‘informazione’ nei sistemi vitali (esperimenti del Nobel Luc Montagnier)
Per chi proviene dal mondo dei dispositivi elettronici appare irragionevole la vera e propria ‘guerra’ di posizione che si registra ogni qual volta si tratti di omeopatia che appare a dir poco preconcetta. Bastano poche nozioni di Elettronica per non stupirsi della facilità di ottenere grandi amplificazioni a fronte di insignificanti modificazioni a livello atomico: il dispositivo denominato transistor è un esempio illuminante. Il gioco di modificazione atomica, detto ‘drogaggio’ del semiconduttore, viene effettuato attraverso l’inserimento di poche parti*milione e consente l’ottenimento di amplificazioni di segnale di diversi ordini di grandezza (la dimostrazione pratica è sotto gli occhi di tutti, basta confrontare il debole segnale (ronzio) che proviene dalla testina di un giradischi vintage (riproduttore di vinili) rispetto all’uscita del suono proveniente dalle casse del sistema HiFi). Lo stesso manifestarsi del fenomeno denominato effetto ‘tunnel’, dovuto allo studio di ‘scarti di produzione’ di semiconduttori che presentavano un comportamento anomalo, non causò, nel mondo dell’elettronica, particolare sconcerto ( fu invece l’occasione per studiare, e comprendere il ‘come’ potevano manifestarsi passaggi di cariche elettriche ad energie per le quali non si sarebbero dovuti osservare). Venne accettata l’evidenza scientifica che fu debitamente studiata. Il tutto dette luogo alla produzione di specifici dispositivi che sfruttano utilmente l’ormai compreso effetto tunnel. Il concetto di analogia tanto caro alla teoria dei Sistemi (qui non posso esimermi dal ricordare il Prof. A.Ruberti), è un paradigma fondante della Teoria dei Sistemi, ed un analogo effetto tunnel è presente in alcuni comportamenti di elezione propri dei processi vitali ( è la chiave di comprensione del perché alcune sostanze attraversano la membrana cellulare in senso opposto ai gradienti di concentrazione). Ora, chi osserva l’approccio bioelettronico alla malattia, conosce bene la qualità della diagnosi (peraltro rigorosamente non invasiva), la velocità della risposta del paziente alla cura, ed il come queste metodiche inducano una sostanziale velocizzazione dei naturali processi omeopatici. Il fatto di ricadere in un contesto scientifico estremamente complesso, non dovrebbe autorizzare comportamenti denigratori volti alla minimizzazione dei risultati ottenuti, bensì dovrebbe spronare la Ricerca sulla strada della comprensione della realtà, ancorché complessa (rifuggendo da facili e nocive derive new age). Va sottolineato come la dimostrazione scientifica sia particolarmente difficile perché si opera in contesti fortemente ‘personalizzati’. Uno dei maggiori punti di forza quale la qualità’ dell’approccio personalizzato, diventa paradossalmente un punto di debolezza per la ripetibilità scientifica dei risultati in contesti generalizzati. Dal punto di vista scientifico il problema è riassumibile nel fatto di operare su scale di ‘granularità’ diverse della realtà. La bioelettronica appare come un approccio molto più sottile rispetto alla grana grossa della farmacopea tradizionale. Chi opera con i campi elettromagnetici deboli e con le frequenze di risonanza ‘confeziona’ una sollecitazione da trasmettere al sistema ‘persona+malattia+ambiente’ che vale solo per quello specifico paziente che presenta quel determinato stato di malattia (sistema dinamico in disequilibrio), in quel momento (irreversibile), rispetto all’ambiente in cui vive (sistema aperto con scambio di materia).
Sarebbe auspicabile abbandonare visioni preconcette accettando questa ‘incompatibilità’ tra approcci che contemplano una risoluzione (grana) diversa della realtà concentrando gli sforzi nella Ricerca applicata rivolta al dominio della Complessità ed alla specifica comprensione dei sistemi vitali. Su questa strada ci si può orientare partendo dai risultati conseguiti nella pratica di protocolli che stanno dimostrando di risolvere diverse classi di disequilibrio indotte dalla ormai degenerata qualità dell’ambiente (intolleranze alimentari, inquinamento da metalli pesanti, inquinamento elettromagnetico…).
Come riuscire a dare attuazione a quattro articoli della Costituzione in un colpo solo? Con la campagna Un’altra difesa è possibile per la raccolta di 50.000 firme che permettano di presentare in Parlamento la legge di iniziativa popolare “Istituzione e finanziamento del Dipartimento della Difesa civile, non armata e nonviolenta”.
Prima di tutto l’articolo 1, “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, e l’articolo 71, secondo il quale “Il popolo esercita l’iniziativa delle leggi, mediante la proposta, da parte di almeno cinquantamila elettori, di un progetto redatto in articoli”. La svolta però è la conciliazione del dovere della difesa della patria sancito nell’art. 52 con il ripudio della guerra proclamato all’art. 11.
Il merito di questa – è proprio il caso di scriverlo – rivoluzione pacifica va alle sei reti promotrici, che raggruppano al proprio interno la gran parte del mondo associativo: Rete italiana disarmo, Rete della pace, Tavolo interventi civili di pace, Sbilanciamoci!, Conferenza nazionale enti di servizio civile e Forum servizio civile. La loro riflessione parte da due considerazioni molto semplici: la prima è che nella nostra Costituzione non si parla di difesa armata, anche se fino a oggi è sempre stata finanziata solo questa, senza mai dare una possibilità alla difesa nonviolenta; la seconda è che le minacce per l’Italia oggi sono la povertà, la disoccupazione, l’emarginazione, la mancanza dei servizi sociali, il rischio idrogeologico, la cementificazione, la corruzione e la criminalità organizzata.
Dunque laproposta di legge, comporta di quattro articoli, prevede l’istituzione e il finanziamento del Dipartimento per la difesa civile, cui afferiranno i Corpi civili di pace, e l’Istituto di ricerca sulla pace e il disarmo. Fra i loro compiti la predisposizione, sperimentazione e attuazione di piani per la difesa civile, lo svolgimento di attività di ricerca e formazione per la pace e il disarmo. La domanda sorge spontanea: con quali fondi? Anche qui la scelta dei promotori è molto concreta: la crisi economica non ha sostanzialmente sfiorato la spesa militare, non si tratta quindi di spendere di più, ma di spendere meglio spostando parte dei fondi per i sistemi d’arma del Ministero della Difesa. A questi si aggiungeranno le quote di quei contribuenti che vorranno versare il proprio 6 per mille a beneficio della difesa civile.
Ne abbiamo parlato con Daniele Lugli, presidente emerito del Movimento Nonviolento – in cui milita fin dalla sua fondazione – ed ex Difensore Civico della Regione Emilia Romagna.
Cosa si intende per “difesa civile non armata e nonviolenta” e “istituzionalizzazione degli interventi civili di pace”?
È un concetto che deriva da riflessioni compiute già durante l’ultimo conflitto mondiale, quando per esempio, secondo la stessa Wermacht, le azioni di sabotaggio della Resistenza sulle vie di comunicazione sono state di gran lunga più pesanti per l’occupante rispetto alle azioni di aggressione vera e propria. In altre parole significa competenza delle persone per potersi difendere sul proprio territorio anche in caso di invasione, ma non c’è solo questo: nella nostra Costituzione si afferma il ripudio della guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali, mentre è sancito il dovere della difesa della patria, c’è quindi un accento sull’aspetto difensivo. Nonostante ciò abbiamo partecipato a diversi interventi travestiti da operazioni di polizia internazionale, raccontando che questo fa parte del concetto di difesa con una forzatura infondata su un piano giuridico. Si finisce perciò con l’essere implicati nei teatri di guerra e sembra che l’unica modalità sia l’intervento armato, mentre noi vogliamo che si rifletta sull’importanza e sull’efficacia del cosiddetto ‘interventismo umanitario’, da civile a civile: la presenza cioè di persone formate appositamente che da civili difendono i civili. Abbiamo già avuto operazioni di questo tipo sebbene limitate, per esempio in Kosovo, che hanno mostrato di essere efficaci e di poter fare ciò che un intervento armato non può fare: perché dopo aver bombardato e sparato è difficile avere la legittimità per mediare. Infine, c’è il collegamento con le originali finalità del servizio civile nazionale volontario, alternativo al servizio militare obbligatorio. Non c’è solo l’obiezione di coscienza invocata da Pinna nel 1948, quando si è offerto di essere impiegato nei servizi di sminamento piuttosto che imparare come si uccide qualcuno, ma anche il tema di un esercito del lavoro, proposto da Ernesto Rossi durante l’esilio di Ventotene insieme a Spinelli: della durata di due anni, obbligatorio per ragazze e ragazzi, sostitutivo della leva, il cui compito doveva essere produrre beni e servizi di base.
Perché è necessario uno specifico Dipartimento e un Istituto di Ricerca sulla Pace e sul Disarmo? E perché collocare il Dipartimento alle dirette dipendenze della Presidenza del Consiglio dei Ministri?
Trattandosi di vino nuovo, servono botti nuove. Si è ragionato sulla necessità di forme di intervento che mettano a valore le esperienze disseminate che esistono già in Italia e in Europa e sul tema della preparazione professionale perché nel momento in cui si fanno interventi in situazioni molto difficili servono professionisti qualificati in materia di diplomazia dal basso, analisi dei conflitti, mediazione. Da qui l’esigenza di istituire un dipartimento apposito, dal quale dipenderebbero i corpi civili di pace, e un istituto di ricerca perché si ritiene che la formazione sia così importante che le esperienze già esistenti anche a questo riguardo debbano essere coordinate e valorizzate. In una prospettiva complessiva di difesa fondamentale sarebbe poi il collegamento con i dipartimenti della Protezione civile, del Servizio civile e dei Vigili del fuoco. La diretta dipendenza dalla presidenza del consiglio vuole invece sottolineare l’alterità di questa forma di difesa e la sua non subordinazione alla forma tradizionale del Ministero della difesa, si vuole cioè evidenziare che il dipartimento non deve essere un articolazione del dicastero, almeno per questo momento.
Perché avete scelto una legge di iniziativa popolare?
Pur essendoci già un gruppo di deputati che ha dimostrato attenzione per il progetto, ci è sembrato che fosse un’occasione perché queste tematiche cominciassero a essere discusse non solo dagli addetti ai lavori, pacifisti o militari pronti a esplorare vie alternative. Se, come ha affermato Clemenceau, «la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla ai militari» a maggior ragione la pace e la difesa non possono essere affidate unicamente ai militari. Attraverso il dibattito su questa proposta di legge di iniziativa popolare i cittadini possono cominciare a ragionare su cosa significa difesa e da cosa ci si debba difendere, oppure quali valori si debbano difendere, e con quali strumenti questa difesa debba essere attuata. Insomma non si tratta solo di una raccolta di firme, ma di una riflessione culturale con la volontà di un coinvolgimento il più ampio possibile. Soprattutto in momenti come questo è importante cominciare a parlare in maniera concreta di questi temi, in modo che non ci si possa più nascondere dietro la scusa dell’emergenza, che impedisce di discutere in maniera approfondita e ponderata, considerando anche le basi di una violenza che è strutturale e culturale.
C’è già un paese dove la difesa civile viene messa in pratica che potrebbe fare da modello e paragone?
No, però una situazione molto simile è quella della Svizzera, che ha una lunga tradizione di neutralità e dove c’è un’attenzione molto forte alla difesa ‘difensiva’: anche se nemmeno Hitler l’ha invasa perché è da sempre considerata il ‘forziere d’Europa’, gli svizzeri avevano dei piani molto precisi nel caso ciò fosse avvenuto. E non è un caso che il fondatore del servizio civile internazionale fosse uno svizzero, Pierre Ceresole, figlio di un alto ufficiale dell’esercito ma obiettore di coscienza, fermato nel 1942 e nel 1944 mentre tentava di recarsi in Germania per cercare di convincere i tedeschi a cessare il conflitto.
Avete scelto il 10 dicembre, la giornata internazionale dei diritti umani, come giornata nazionale della raccolta firme, quali altre tappe avete davanti a voi fino al 2 giugno quando la campagna finirà nel giorno della festa della Repubblica disarmata?
A febbraio ci sarà la presentazione ufficiale della campagna anche a Ferrara e poi ci saranno momenti pubblici di incontro e discussione perché, come dicevo prima, questa campagna vuole essere provocare anche un cambiamento di prospettiva dal punto di vista culturale sul concetto di difesa. Nel frattempo si sta costituendo il comitato territoriale provinciale, che ha già la sua sede presso la Cgil di Ferrara.
Chi volesse firmare dove può farlo?
In tutte le segreterie dei comuni della provincia dovrebbero essere già stati distribuiti ed essere a disposizione i moduli per la firma. Inoltre, da qui a maggio organizzeremo banchetti appositamente per raccogliere le adesioni.
“A 100 anni dalla “grande guerra”, che ha segnato il passaggio moderno e definitivo alla guerra tecnologica, è giunto ormai il tempo di passare dalla retorica della pace, che prepara sempre nuove guerre, alla politica per la pace che ne prepara e costruisce la difesa. Che essendo “civile, non armata e nonviolenta” ha bisogno della partecipazione di tutti” (Pasquale Pugliese, Segretario del Movimento Nonviolento)
Per informazioni e aggiornamenti sulla campagna visita il sito [vedi]
Contatti Comitato provinciale di Ferrara: Davide Fiorini
davide.fiorini@mail.cgil.fe.it
cell. 348 7510060
Una delle poche certezze della vita è l’amore di Tim Burton verso qualsiasi cosa sia kitsch e rappresenti una storia di sofferenza. Tutto ciò si racchiude in due grandi occhi di bambino che osserva oltre la tela, catturando lo sguardo dello spettatore che non può far altro se non domandarsi cosa stia guardando e quale sia la sua triste storia.
I dipinti di Margaret Keane, interpretata nel film “Big Eyes” da Amy Adams, sembrano chiedere solo di essere guardati, desiderano che gli si presti attenzione. La stessa richiesta è quella dell’artista, che, schiacciata dalla forte personalità del marito, Walter Keane alias Christoph Waltz, non riesce ad emergere. Vincitrice di un Golden Globe per la migliore protagonista femminile, la storia dei Keane è molto diversa da quelle che normalmente siamo abituati ad associare al regista. Niente spose cadaveri o mostri dal cuore tenero, stavolta sono i personaggi della realtà ad essere protagonisti, bizzarri come se fossero stati partoriti dalla contorta mente di Burton, ricordando l’eccentrico Edward Wood, definito il peggior regista di sempre. L’abile regia di Burton mostra le sfaccettature di un personaggio che si autodefinisce “un artista senza talento”, che si dimostra essere un ottimo imprenditore, capendo la richiesta del pubblico di portare a casa un pezzo dell’opera, non importa se l’originale o una copia.
Ma cosa avrà convinto una donna piena di talento ad affidarsi ad un uomo per gestire la sua carriera? Un semplice concetto, attuale all’epoca come ai giorni nostri: un’opera firmata da un uomo vende molto di più e acquista un valore maggiore. Non la pensavano così solo le pittrici dei primi anni del Novecento, ma anche le artiste moderne, basti pensare alla scrittrice Joanne Kathleen Rowling, la madre della saga di Harry Potter che ammise di essersi firmata solo con le iniziali proprio per lo stesso motivo.
Margaret Keane non è un caso isolato, prima di lei moltissime artiste sono state dimenticate, o hanno perso la paternità (o forse dovremmo dire maternità) delle loro opere. Si potrebbe tentare con un gioco, cercare di ricordarsi il nome di 10 artisti e di 10 artiste del passato in meno di cinque minuti. Da Artemisia Gentileschi a Judy Chicago, le donne hanno sempre dovuto lottare per far si che venisse riconosciuta la loro identità di artiste come professione e non solo come hobby, un passatempo tra un figlio e un altro. La paura di perdere tutto quello che avevano conquistato, unita alla continua pressione psicologica di Walter Keane, che costantemente le inculcava l’idea che la firma di una donna non valesse nulla, aveva paralizzato a lungo l’artista. Margaret Keane, nata Peggy Doris Hawkins, ha subito l’autorità di un marito/carceriere per quasi dieci anni ma la sua ribellione la portò al successo con la vittoria del processo con cui si riappropriò di tutte le sue opere.
Stanche di vedere le donne nei musei solo perché raffigurate nelle opere, un gruppo di femministe, nel 1985, decise di divenire paladino delle artiste, proteggendone i diritti e il valore delle loro opere. Autodefinite Guerrilla Girls, ovvero “ragazze gorilla”, per via della maschera che utilizzano per non farsi riconoscere, combattono perché si aumenti nei musei la presenza di opere firmate da donne. Margaret Keane disegnava occhi enormi perché pensava che fossero la finestra attraverso cui spiare l’anima ed è questa che Tim Burton ci permette di scorgere, attraverso i dipinti e i loro sguardi, che osservano imperturbabili la propria madre alla riconquista della sua identità. “Big Eyes”, regia di Tim Burton, con Amy Adams, Christoph Waltz, Danny Huston, Krysten Ritter, Jason Schwartzman, biografico, 106 min., Usa 2014
da PIETROBURGO – Irina e Anna passano le loro lunghe giornate nella stessa piazza pietroburghese, una di fronte all’altra, una simile all’altra. Sono lì da vent’anni ormai, tutti i giorni, ogni giorno, sempre uguali, sempre gli stessi vestiti, stessi guanti, calze, scarpe, berretti e pensieri. Un grande ombrello a righe le ripara da sole, pioggia neve, sempre lui, sempre lo stesso, imperterrito, forte e sicuro. Quando una tossisce, l’altra la segue, quando una mangia, l’altra fa lo stesso, quando una parla, l’altra replica. Vendono escursioni, il sogno romantico di molti turisti che cercano nella Neva un momento di libertà, un’evasione a lungo attesa dalle preoccupazioni quotidiane. Il corpo si alleggerisce, e di riflesso la mente, un’atmosfera ideale per riconquistare armonia e pace. Irina e Anna ormai riconoscono da un primo sguardo le coppie di innamorati pronte a imbarcarsi per le loro escursioni. Un cenno fra di loro e via, si spartiscono i clienti, in una complicità indescrivibile capace di orientare giovani e anziani verso l’una o verso l’altra. I maestosi palazzi sfileranno sotto gli occhi attenti dei turisti disponibili solo a immagazzinare luci e sogni. Il brillio di vetri e palazzi, sulle sponde del fiume, accarezzerà la sera di quelle coppie, lo sfavillio delle pareti degli edifici e dei negozi riccamente addobbati risveglierà le loro mattinate ancora addormentate. Promesse di buonumore, di magie inattese, di favole da raccontare e da immaginare, di note dolci da ascoltare, di momenti da ricordare, questo sono le parole di Irina e Anna, le due anziane signore che ci accolgono a braccia aperte. Il vento del battello sarà quasi un piccolo lifting al nostro viso stanco e disilluso, un alito di natura che spettinerà i nostri pensieri un po’ provati. Siamo tutti più belli se respiriamo l’aria del fiume e del suo ondeggiamento leggero, quasi a disintossicarci da tanto fumo e veleno che ci avvolgono negli ultimi tempi. Le strade inquinate ci soffocano, la fretta spesso inutile ci affanna, abbiamo bisogno dell’abbraccio avvolgente del fiume per rilassarci un po’ e ricominciare. Apriamo le nostre menti, allora, accogliamo la brezza che ci suggerisce e sussurra qualcosa, espandiamo i nostri orizzonti scoprendo anche le virtù del saper ricevere e donare e la dignità della natura. Non corriamo, fermiamoci un momento, come se fossimo un profumato ed elegante fiore di loto. Quel fiume sarà una sorgente di luce e d’energia, almeno per un po’, per noi uomini e donne maturi ma spesso un po’ persi e confusi. E Irina e Anna questo lo sanno bene. Ecco perché sono lì, da sempre, a vendere sogni. Un biglietto, e via, missione possibile.
Sì alla pedonalizzazione di corso Martiri e piazza Savonarola e sì anche alla trasformazione del Giardino delle duchesse. No alla riapertura del canale Panfilio e all’abbattimento dei grattacieli. I ferraresi che lunedì in biblioteca Ariostea hanno partecipato all’iniziativa organizzata dal nostro giornale, dopo avere ascoltato le tesi formulate a sostegno e in dissenso alle quattro proposte in discussione, alla fine hanno emesso il loro verdetto. Si tratta ovviamente solo di un indicatore di umori, senza alcuna ulteriore pretesa. Erano una settantina i presenti e non tutti hanno votato. Ma ciò che conta è che si sia discusso e ci sia confrontati con rispetto di tutte le opinioni.
L’incontro è risultato vivace e divertente. Il susseguirsi degli interventi è stato seguito con interesse.Per primo ha preso la parola Fausto Natali, responsabile delle attività culturali della biblioteca, che ha propiziato questa serie di incontri con Ferraraitalia che vanno sotto il titolo di “Chiavi di lettura”, poi Elettra Testi nei panni della ‘Signora snob’ ha tratteggiato i vezzi dei concittadini con la sua consueta ed esilarante verve in un affresco ricco di colore. E’ toccato al direttore Sergio Gessi spiegare le regole del gioco e cucire fra loro i vari interventi, animati dai filmati di Stefania Andreotti, dalle immagine contemporanee e storiche raccolte da Andrea Vincenzi, dalle letture selezionate da Giorgia Pizzirani e declamate da Sara Cambioli.
Fra i presenti anche alcuni ‘addetti ai lavori’: il presidente di Italia nostra Andrea Malacarne, gli architetti Michele Pastore, Lidia Spano e Sergio Fortini (cui sono state affidate le conclusioni), la professoressa Anna Maria Visser consulente del Mibact. Un’ideale partecipazione ha manifestato l’assessore all’Urbanistica Roberta Fusari, trattenuta in Consiglio comunale.
I casi posti all’attenzione della ‘giuria popolare’ erano quattro. “Ferrara vs Ferrara: le controverse proposte per il rilancio della città estense” è il titolo scelto, che con leggerezza alludeva a un dibattito cittadino sempre aperto e irrisolto. Da questo carattere tipico ha preso lo spunto il corsivo dell’arguto Andrea Poli, significativamente intitolato “Ferrara e la poetica del non finito” [leggi].
Della questione grattacielo (sì o no all’abbattimento) si sono occupati Monica Forti, favorevole alla demolizione e Andrea Cirelli, contrario. Sul Panfilio si sono contrapposte le opinioni di Stefania Andreotti (per la riapertura) e Marco Contini (contrario). Del Giardino delle duchesse hanno dibattuto Raffaele Mosca (fautore di una significativa riprogettazione anche in termini di ‘arredo’) e Giorgia Pizzirani (sostenitrice del profilo ‘minimal’ attuale). Infine il caso forse più caldo del momento, recentemente riportato all’attenzione della pubblica opinione dallo stesso sindaco Tiziano Tagliani: quello di corso Martiri e piazza Savonarola per il quale Sara Cambioli ha proposto la pedonalizzazione nel rispetto del patrimonio monumentale della città, mentre Sergio Gessi, in contrasto con i propri convincimenti, dovendo sostituire un testimone assente ha sostenuto per ‘dovere d’ufficio’ le ragioni della civile coabitazione fra auto, pedoni e ciclisti.
Come per ogni italica votazione c’è stato un po’ di caos alle urne, qualche fraintendimento, richieste di riconteggio e un significativo numero di astenuti. Tutto secondo copione, fra il divertimento generale.
La chiusura è stata affidata alle riflessioni di Gianni Venturi e dell’architetto Sergio Fortini che ha ragionato degli spazi attorno ai quali si costruisce l’urbana quotidianità.
I materiali saranno presto resi disponibili sul nostro quotidiano web. Gli spunti emersi dall’incontro saranno oggetto di più articolati approfondimenti. Il dibattito, ovviamente, continua.
Fausto Natali
Giorgia Pizzirani, Sara Cambioli e Sergio Gessi
Elettra Testi
Il pubblico durante una votazione
Andrea Poli con Andrea Vincenzi
Il pubblico presente in biblioteca con Andrea Cirelli e Alessandra Chiappini in primo piano
Il rischio bavaglio incombe sull’informazione. E’ in discussione al Parlamento una proposta di legge che condiziona pesantemente la libertà di stampa. Il testo all’attenzione della commissione Giustizia della Camera prevede fra l’altro l’obbligo di rimozione dal web di qualsiasi testo ritenuto diffamatorio o comunque lesivo di interessi personali sulla base della semplice richiesta dell’interessato con rischi di sanzioni pesanti per chi si opponesse a una pretesa considerata infondata. E’ contemplata inoltre una facoltà di rettifica integrale senza possibilità di commento da parte del giornalista o del direttore responsabile. Il rischio concreto è che questa legge scoraggi il lavoro di ricerca, analisi e inchiesta di coloro che tentano con abnegazione di fornire un’informazione libera, senza appiattirsi sulle ‘verità ufficiali’.
Ecco il testo integrale dell’appello pubblicato da nodiffamazione.it
La nuova legge sulla diffamazione è sbagliata.
Doveva essere una riforma della legge sulla stampa che eliminando la pena del carcere per i giornalisti, liberava l’informazione dal rischio di sanzioni sproporzionate, a tutela dei diritti fondamentali di cronaca e di critica: il testo licenziato al Senato rischia di ottenere l’effetto opposto, rivelandosi come un maldestro tentativo di limitare la libertà di espressione anche sul web.
La legge sulla diffamazione che potrebbe presto essere approvata, prevede in particolare:
1) sanzioni pecuniarie fino a 50 mila euro che appaiono da un lato inefficaci per i grandi gruppi editoriali e dall’altro potenzialmente devastanti per l’informazione indipendente, in particolare per le piccole testate online. Inoltre viene pericolosamente ampliata la responsabilità del direttore per omesso controllo, ormai improponibile in via di principio e sicuramente devastante per le testate digitali caratterizzate da un continuo aggiornamento;
2) un diritto di rettifica immediata e integrale al testo ritenuto lesivo della dignità dall’interessato, senza possibilità di replica o commento né del giornalista né del direttore responsabile, e che invece di una “rettifica”, si configura come un diritto assoluto di replica, assistito da sanzioni pecuniarie in caso di inottemperanza, che prescinde, nei presupposti della richiesta, dalla falsità della notizia o dal carattere diffamatorio dell’informazione;
3) l’introduzione di una sorta di generico diritto all’oblio che consentirebbe indiscriminate richieste di rimozione di informazioni e notizie dal web se ritenute diffamatorie o contenenti dati personali ipoteticamente trattati in violazione di disposizioni di legge. Previsione questa che non appare limitata alle sole testate giornalistiche registrate ma applicabile a qualsiasi fonte informativa, sia essa un sito generico, un blog, un aggregatore di notizie o un motore di ricerca, e che fa riferimento al trattamento illecito dei dati che è concetto dai confini incerti in particolare nell’ambito del diritto di cronaca e critica e che non ha alcuna attinenza col tema della diffamazione.
Più specificamente, la previsione di un assoluto diritto all’oblio, esercitato senza contraddittorio, è destinato a produrre un infinito contenzioso tutte le volte che, di fronte a richieste ingiustificate, il direttore legittimamente decida di non accoglierle. Ma la nuova norma può anche indurre ad accettare la richiesta solo per sottrarsi proprio ad un contenzioso costoso o ingestibile e, soprattutto, può portare alla decisione di non rendere pubbliche notizie per le quali è probabile la richiesta di cancellazione, con un gravissimo effetto di “spontanea” censura preventiva. I rischi non solo per la libertà d’informazione, ma per la stessa democrazia, sono evidenti
Una legge che modifica la normativa sulla stampa al tempo del web deve avere come primo obiettivo la tutela della libertà di espressione e di informazione su ogni medium: e questo non si ottiene prevedendo nuove responsabilità e strumenti di controllo e rimozione, ma estendendo ai nuovi media le garanzie fondamentali previste dalla Costituzione per la stampa tipografica.
La legge sulla diffamazione proposta ha invece il sapore di un inaccettabile “mettetevi in riga”, sotto la minaccia di facili sanzioni, rettifiche e rimozioni, per quei giornalisti coraggiosi, blogger e freelance che difendono il diritto dei cittadini ad essere informati per fare scelte libere e consapevoli.
La mancanza di norme che sanzionino richieste e azioni giudiziarie temerarie o infondate non fa che aggravare un quadro di potenziale pressione sull’informazione che la sola eliminazione del carcere come sanzione non è sufficiente a scongiurare e che anzi con la nuova legge si aggrava.
La nuova legge sulla diffamazione è pericolosa per le molte violazioni in essa previste del diritto costituzionale d’informare e di essere informati.
Per questo invitiamo tutti i cittadini ad aderire a questo appello, e chiediamo ai parlamentari di non approvare la legge.
Nel 1989, dopo alcuni anni di silenzio, Spampinato pubblica il disco “Dolce amnesia dell’elefante”, un album intimo e introspettivo, completato da due brani in dialetto siciliano che le case discografiche precedenti gli avevano impedito di incidere. L’autore gioca con l’antinomia del titolo (la contrapposizione della parola dolce con amnesia, soprattutto perché riferita all’elefante, simbolo di buona memoria), proponendo testi che si possono leggere come capitoli di un romanzo, musicati con melodie mediterranee. Nella track list è inserito anche il brano “Per Lucia”, portato al successo da Riccardo Fogli.
Nel 1990 esce “Antico suono degli dei” (altro titolo atipico), realizzato con la collaborazione di Tony Carbone dei Denovo e Alfio Antico, cantante e musicista, tra i maggiori interpreti della tammorra (strumento musicale a percussione). Gli arrangiamenti danno spazio a strumenti quali zampogne, mandolino, cornamusa, arpa celtica, oltre agli archi scritti e diretti da Massimo di Vecchio e la presenza dell’Orchestra sinfonica Nova Amadeus di Roma. Questo è il disco della nostalgia e dell’amore perduto, che risente ancora nei testi dell’introspezione intimista dell’album precedente ma che, in una sorta di contrapposizione musicale, propone ritmi e arrangiamenti brillanti e allegri.
Nel 1992 Spampinato realizza l’album che forse lo rappresenta al meglio: “L’amore nuovo”, il cosiddetto “disco della rinascita”, dove il filo conduttore è rappresentato dalla speranza (individuale e sociale). L’album ospita Franco Battiato in “L’amore nuovo” e Lucio Dalla nel brano “Bella e il mare”, di cui il musicista siciliano dice: “… stavo cercando un tenore che interpretasse il mare e Lucio si propose…”. La playlist comprende anche “C’è di mezzo il mare”, un brano pieno di riferimenti alla cronaca, dove è descritta la Sicilia dei misteri, con riferimenti anche alla strage di Ustica.
“Judas”, del 1995, è l’album della protesta, della rivolta e della rivendicazione. In questo disco l’impronta musicale etnica è meno marcata, la struttura delle canzoni è più essenziale, in linea con i temi trattati. La lista dei brani propone dieci perle, tra queste: “Napoleone”, “Campanellina”, “La tarantella di Socrate”, “ll portiere, il suggeritore… gli altri” e “Il passo dell’elefante”.
Nel 2000 è la volta di “Kòkalos.3”, un album di canzoni vecchie e nuove interamente in lingua siciliana, definito dall’autore come il suo “disco del cuore”. Il titolo misterioso omaggia Kòkalos l’antico re dei Sicani, mentre il tre è utilizzato perché numero ciclico e misterioso.
Nel 2006 è stata pubblicata la raccolta “Ri-Vintage”, che contiene numerose canzoni inedite e vecchi successi in versioni alternative. Il suo autore la definisce “Analogicantologia”, consigliata per chi vuole iniziare a conoscere questo grande artista. Nel 2012 Vincenzo pubblica il suo più recente cd intitolato “Muddichedda Muddichedda”, che prende il titolo dal brano vincitore dell’undicesima edizione del Festival della nuova canzone siciliana.
Ci sono luoghi dove ti senti subito a casa. Ci sono luoghi magici dove la patina del tempo ti fa tornare bambino e ti ridà la forza e la voglia di sognare. Ci sono luoghi dove gli angeli si sono fermati, luoghi dove vorresti stare tutto il giorno a crogiolarti nei ricordi e nei racconti della tua città di un tempo, che anche i nonni ti descrivevano.
Ci sono luoghi dove vorresti addormentarti, dove appena entrato vieni avvolto da un’aura positiva che ti ritempra. Ci sono luoghi magici. Ci sono luoghi unici. Passeggiando per Ferrara se ne ritrovano alcuni. Se si ha la mente libera e leggera, poi, è ancora più facile. Uno di questi è sicuramente Langelo Atelier, che mi ha subito conquistato, avvolto, rapito, portato lontano. Un mondo di fiaba, dove si trovano angoli di passato che pensavi di non poter conoscere, frammenti di vite misteriose e curiose che ti vengono incontro, felici di condividere con te la loro storia. Qui incontro Rosy, la proprietaria che mi viene incontro con il suo dolce e amichevole sorriso, i suoi capelli ricci (estrosi e ribelli come i miei), i suoi boeri. Perché qui la dolcezza è fatta di sorrisi ma anche di cioccolatini dal liquore intenso che, adagiati comodamente e amichevolmente su una ciotola d’argento, nella loro carta colorata, accolgono gli ospiti, e li invitano a starsene lì a guardare e chiacchierare come in un’elegante sala da tè.
Qui ci si sente in famiglia, gli amici arrivano, chi compra e curiosa, chi cerca qualcosa, chi parla di un quadro o di un corso di pittura, chi ricorda i fasti passati della città estense. Parlando con Rosy m’incuriosisco, voglio sapere di più su quel posto che Alice potrebbe facilmente considerare il suo paese delle meraviglie. Rosy mi trasmette i suoi appunti di viaggio, in poche parole, con entusiasmo e rapidità. Una domenica mattina, la voglia di fare qualcosa di diverso dal solito per passare la giornata e una poliedrica ed entusiasta Rosy che ha un’idea: andare, con il marito (Fabrizio), al Mercatino di Emmaus, vicino alla casa dove allora abitavano. Tutto partì da quel momento unico nemmeno troppo lontano, la passione prese la mano, perché la possibilità di cercare qualcosa e il gusto di trovarla era ed è ancor oggi impagabile. Poi un’opportunità reale: onlus assistenziali chiedono a Rosy di organizzare e gestire dei mercatini natalizi. E qui l’idea di aprire un proprio mercatino dell’usato. L’anno scorso è arrivato in società Corrado e a quel punto Rosy avvia il negozio Langelo Atelier di via Centoversuri. Corrado mi racconta di quando Ferrara era un faro per la cultura italiana, di quando si pubblicavano giornali che ispiravano tutta la nazione, di come oggi la nostra bella città dormiente necessiti di un’aria e di un respiro nuovi. Per questa sua conoscenza e impegno, Corrado gestisce tutto quanto riguarda l’ambito artistico, mentre Rosy si dedica agli oggetti del quotidiano. L’atelier prende vita, oggi dà anche vita, e rimette in circolo oggetti usati e di buona qualità, contribuendo, nel suo ambito, a ridurre gli sprechi e ad allungare la vita delle cose stesse. Nulla va abbandonato, tutto serve, tutto si riusa, nulla sfugge al suo passato e al suo destino. Qui arriva di tutto: dagli oggetti personali, come le pellicce, la bigiotteria, le borse, gli accessori di moda, ai mobili, soprammobili, lampade, lampadari, libri, quadri e anche belle e tornite sculture. Sono tutti oggetti che non muoiono in fondo a un cassetto, nel buio di una cantina o di un solaio, cose che non si perdono, e molte di queste hanno anche una storia che le accompagna. Come la macchina da scrivere Underwood del 1925, appartenuta a un dirigente sindacale della Lega dei lavoratori, e in quei tempi, in pieno fascismo, erano momenti duri per gli attivisti di sinistra. Oppure la raccolta di vecchie cartoline che un soldato ferrarese inviava regolarmente a casa a ogni spostamento del suo reparto durante la Grande guerra e che s’interrompe alla sua morte in combattimento. Ma, soprattutto, la bella effige di un angelo con colubrina, originalmente parte di una banderuola a vento di un’antica casa padronale, e che oggi presidia la vetrina del negozio e ne ha ispirato il nome. Siamo in un altro mondo, credetemi. I pensieri volano lontano, alcuni via, insieme alle preoccupazioni e ai disagi, almeno per un po’.
Rimettere in giro oggetti che hanno finito una fase della loro funzione è, da un lato, un’emozione culturale per Rosy, perché testimonia il passato degli individui, e, dall’altro, un atto di civica utilità, in quanto diminuisce gli sprechi allungandone la vita d’uso. Emozione a parte, poi, è la costante e continua scoperta di opere d’arte di artisti locali: una fusione di emozioni che coniugano l’atmosfera dei luoghi e delle storie che si percepiscono nei nostri territori. La nostra missione, mi ricorda sempre l’entusiasta Rosy, è rimettere in circolo il Passato per dare consistenza al Futuro. Bellissimo.
Questo posto ti fa sentire davvero a casa. Qui ho comprato un antico comò dai grandi e profondi cassetti. Da risistemare, ma non troppo, come i miei desideri. Lì metterò tutti i miei sogni più grandi, pronta a tirarli fuori al momento opportuno.
Langelo Atelier si trova a Ferrara, in via Centoversuri 6/A
Agli albori degli anni Sessanta, nel suo ineguagliabile saggio sulla Ferrara rinascimentale, Bruno Zevi decantava quella che lui stesso argutamente definiva “la poesia del non-finito” di Biagio Rossetti, lungimirante edificatore del primo piano urbanistico della storia, che in anni recenti ha valso al sito estense l’ambito titolo di Città patrimonio dell’umanità da parte dell’Unesco.
A distanza di cinquecento anni, sarà una questione genetica, lo spirito del non-finito continua ad aleggiare sul tessuto urbano ferrarese. A cominciare dal centro storico, dove il pregevole palazzone dell’architetto Piacentini – che ai tempi ospitava l’Upim e oggi una multinazionale della ristorazione – pugnalocchia col contesto circostante, lasciando per l’appunto nell’osservatore la sensazione ineluttabile del non-finito, ovverossia del fatto che non è finita lì e prima o poi l’insulso volume verrà giustiziato a colpi di tritolo per lasciare finalmente il posto ad un’architettura come dio comanda nel cuore della città Patrimonio di cui sopra.
Per continuare col reticolo di circonvallazioni che dovrebbero evitare l’attraversamento della città da parte del traffico di passaggio, dove la trama del non-finito si dispiega compiutamente nei cavalcavia che puntano spavaldi verso il cielo e lì si fermano in attesa che qualcuno si decida a tirar su l’altra metà, nelle ruspe che tracciano alacri le nuove bretelle che avrebbero dovuto essere completate già da decenni, nella ferrovia che continua a segare in due via Bologna nonostante i progetti del suo interramento risalgano all’epoca dei moti carbonari. E con gli edifici dell’immediata periferia, nei quali lo struggimento del non-finito erompe dai vetri rotti, il calcestruzzo sbrecciato, le finestre dagli infissi divelti che occhieggiano come orbite vuote di teschi e fanno tanto arredo urbano. Per non dire delle piste ciclabili, che avviluppano la città in un affascinante nastro rosso costellato – per restituire compiutamente il senso di suggestiva imperfezione che promana dall’antica città di cotto – di buche, rigonfiamenti, crepe sapientemente intervallate da palozzi in ferro che spuntano come funghi dall’asfalto nel mezzo esatto del passaggio, sostituendo efficacemente la banale segnaletica orizzontale a base di strisce bianche riservata alle auto.
Per finire con la delicata poetica del non-finito culturale che permea praticamente tutti i ferraresi (lettori di questo corsivo esclusi, ça va sans dire). I quali sono a conoscenza che la dinastia estense si è bruscamente interrotta col ritorno del ducato tra le grinfie del Papa, ma situano l’evento in un tempo indeterminato: dopo la morte dell’ultimo duca. I più addentro alle vicende di storia patria azzardano che la cosa è avvenuta nel Seicento, inteso non come anno, il Milleseicento, che sarebbe anche sostanzialmente esatto, ma come secolo, il Seicento appunto, il che equivale a dire a un amico “Ci vediamo in piazza nel duemilaquindici. Però, mi raccomando, vedi di essere puntuale: lo sai che non mi piacciono i tiratardi”.
Termino qui questa digressione; avrei anche potuto chiudere meno bruscamente, lo so, ma che ci volete fare: sono un estimatore del non-finito letterario.
In mezzo alle tante polemiche che ruotano attorno al grattacielo, abbiamo pensato di andare a cercare chi lo aveva progettato proprio sessant’anni fa, per capire quali erano le intenzioni iniziali.
Tutto pare essere nato, così riporta Lucio Scardino nel suo “Itinerari di Ferrara Moderna”, dalla tesi di laurea Una casa a torre nella città di Ferrara discussa a Zurigo dall’architetto ferrarese Gian Carlo Capra. I lavori vennero affidati all’impresa Armando Anzempamber, che incaricò due architetti romani, Luigi Pellegrin e Sergio Delle Fratte, della rielaborazione progettuale dell’idea iniziale.
Di quel gruppo oggi sembra essere sopravvissuto solo Sergio Delle Fratte, che ha 92 anni e vive a Roma con la moglie Vittoria di 91. Ancora lucido, ma con qualche comprensibile problema comunicativo legato all’età, ha affidato il suo racconto al figlio Fabrizio, anche lui architetto.
“Non sapevamo dell’opinione diffusa di voler abbattere l’edificio, né della sua situazione di degrado”, ha detto con stupore e rammarico Fabrizio Delle Fratte, “alla notizia mio padre si è fatto una grassa risata perché ritiene l’abbattimento una scorciatoia per risolvere un problema complicato”.
Così Fabrizio ha pensato di mettere suo padre di fronte al computer e con l’opzione Street view di Google maps, per la prima volta dopo tanti anni, lo ha riportato virtualmente alla base delle torri.
“Mio padre – ha raccontato – è rimasto molto colpito dallo stato di decadenza del fabbricato. Ha notato un cambiamento nella parte basamentale dell’edificio, che in origine era diversa perché doveva contenere un cinema e un grande magazzino. Le residenze del primo piano non c’erano, perché quegli spazi avrebbero dovuto ospitare dei servizi. Ora al piano terra ci sono solo pochi negozi, gli altri sono abbandonati, forse, se fosse stata mantenuta l’idea originaria, non avrebbero fatto quella fine. Inoltre mio padre ha notato subito l’assenza di manutenzione, le dozzine di antenne, il cambiamento di colore e il fatto che i piazzali circostanti ora sono adibiti a parcheggio. Non è stato il modo migliore per conservare quel posto”.
Ma quali erano le intenzioni iniziali dei progettisti? “Mio padre – ha proseguito Fabrizio – ha spiegato che per capirlo bisogna necessariamente storicizzare il contesto. Era il 1954, il dopoguerra, e c’era una forte richiesta abitativa. La priorità dell’amministrazione era realizzare una struttura ad alta densità e a basso costo per andare incontro alle esigenze di alloggio dei cittadini. Il grattacielo di Ferrara doveva avere residenze nella parte media e alta e servizi in quella bassa. Avrebbe quindi dovuto essere un edificio con una vita sua e portare una serie di servizi all’interno. Dal punto di vista di inserimento nel contesto e di sviluppo avrebbe potuto avere un esito diverso se accanto agli appartamenti, fossero rimasti i servizi”.
L’architetto che ha progettato il grattacielo ricorda come venne accolto dalla città? “Da parte dell’amministrazione comunale ci fu massima disponibilità, tanto che il progetto gli fu approvato in due mesi, un tempo impensabile per il periodo odierno. Ribadiamo che la priorità allora era dare le case alla gente, questo spiega un altro fatto eccezionale: l’area sulla quale fu eretto l’edificio, fu data in dono dal comune all’impresa costruttrice, a seguito del suo impegno a tenere bassi i costi. Poi però ci furono anche molte polemiche soprattutto sull’altezza dell’edificio, tanto che Pellegrin, l’altro architetto, decise di abbandonare il progetto. Poi sorsero problemi anche con l’ingegnere che seguiva i lavori. Mio padre sostiene che gli ha modificato il progetto e gli ha rovinato lo skyline, ma ormai sono cose difficili da ricostruire con precisione. Di certo la localizzazione del grattacielo colpisce ancora oggi. Fu probabilmente l’amministrazione a sceglierla. Le torri sono l’elemento terminale del più importante asse della città, quello di viale Cavour. Dal punto di vista formale sono state pensate come un elemento di chiusura”.
E qui Fabrizio Delle Fratte, ha voluto abbandonare il ruolo di portavoce del padre che fino a quel momento aveva ricoperto, e dare un suo parere personale. “Siccome dal punto di vista urbanistico il grattacielo è ubicato in modo corretto, cioè va bene un edificio alto in quella posizione, abbatterlo sarebbe un errore perché è un segnale che evidenzia l’inizio o la fine del grande asse sul quale si sviluppa Ferrara. Il grattacielo c’è e va trattato bene, va fatto rivivere. C’è un parco attorno per iniziative di risanamento. E’ stato trattato male, ora è un’area non vitale. Se l’edificio è abitato da persone con disagio sociale, si risolve il disagio, non si abbatte l’edificio”.
Le foto del grattacielo sono state concesse in esclusiva dall’archivio dello studio di Sergio Delle Fratte e sono probabilmente del fotografo Peguiron.
Con la partecipazione del coro da camera Euphonè
del basso Daniele Tonini e della pianista Emanuela Marcante
musiche di
E. Grieg, L. Perosi, Z. Kodaly, M. Dias de Oliveira, R. Real, J. Brahms
presentazione di Piero Stefani
Ferrara, Teatro di Santa Francesca Romana, via XX settembre 47
sabato 24 gennaio 2015, ore 21,00
Ti salutiamo stella del mare, eccelsa Madre di Dio», «Ora rimangono fede, speranza, amore, queste tre cose, ma l’amore è la cosa più grande tra tutte». Quelle qui trascritte sono la prima e l’ultima frase del «concerto ecumenico». La prima parte, dedicata a Maria, è espressione della Chiesa cattolica; la seconda, su testi della Bibbia tedesca tradotta da Martin Lutero, racchiude simbolicamente in sé l’insieme delle Chiese nate dalla Riforma. Si inizia indicando un orientamento; si termina guardando alla meta che tutti ci accomuna al di là delle vie percorse per giungervi. I «canti a Maria» mettono in musica testi liturgici e popolari. Essi esprimono un sentimento corale che si snoda lungo i secoli. I «canti di Johannes» testimoniano la sensibilità individuale di un grande compositore, Brahms. Egli, alla fine della sua vita, ripensa, nella cattolica Vienna, alla Bibbia di Lutero a lui familiare fin dall’infanzia amburghese. Il senso della comunità e quello dell’individualità sono due apporti della tradizione cristiana. Entrambi sono fondamentali. È “ecumenico” dare spazio all’uno e all’altro. Simbolicamente la prima parte sarà affidata a un piccolo coro, la seconda a un solista. Il numero contenuto dei coristi simboleggia il “popolo ecumenico”, ancora una minoranza in seno alle Chiese che però ha in sé la speranza – che rimane – di essere un germe. Il solista è accompagnato, segno che l’individualità non comporta solitudine e isolamento.
Quando vedevo i miei nipotini giocare con i Playmobil, mai mi sarei immaginata che qualcuno li avrebbe avvicinati a quadri famosi. Con piacevole stupore, ho scoperto allora Pierre-Adrien Sollier, un interessante e originale artista francese che vive a Parigi, e che, dal 2011, realizza dei dipinti che riprendono quadri famosi, sostituendo gli oggetti e le figure umane con deiPlaymobil, i celebri giocattoli prodotti dall’azienda tedesca Brandstätter. Sollier ha raccontato, in alcune interviste, che ha sempre trovato molto espressivi gli omini dei Playmobil, e che, con i suoi quadri, per i quali usa soprattutto colori acrilici su tela, vuole raccontare l’uomo moderno in maniera divertente e non convenzionale. Eccoci, allora, di fronte ad alcuni dei più grandi capolavori della storia dell’arte riprodotti con questi simpatici e colorati omini. E’ un’iniziativa interessante che potrebbe avvicinare molti bambini all’arte, perché no. Eccone alcuni esempi.
“La Grande Jatte” è un’opera realizzata tra il 1884 e il 1886 dal pittore francese Georges-Pierre Seurat, tra le più note del movimento pittorico del puntinismo francese. La sua realizzazione fu preceduta, come di consueto nella tradizione puntinista, da una numerosa produzione di studi disegnati o dipinti. Fu acquistato nel 1924 da Frederic Clay Bartlett che lo prestò al The Art Institute di Chicago dove è tuttora esposto. Colorato e allegro.
“La Lattaia” è un dipinto a olio su tela di Jan Vermeer, databile al 1658-1660 circa e conservato nel Rijksmuseum di Amsterdam. Il dipinto passò per varie collezioni private olandesi, tutte documentate, finché dalla raccolta Six di Amsterdam non fu acquistato dallo Stato nel 1907, arrivando nel museo nel 1908. Delicato.
“La Libertà che guida il popolo” è un dipinto di Eugène Delacroix ad olio su tela, realizzato nel 1830 per ricordare la lotta dei parigini contro la politica reazionaria di Carlo X di Francia. Dal dicembre 2012 l’opera era conservata al Museo del Louvre nella sede staccata di Lens; ora si trova nella sede principale, a Parigi. Il personaggio della libertà costituisce il primo tentativo di riprodurre un nudo femminile in abiti contemporanei; fino a allora i nudi erano accettati dal pubblico filtrati attraverso rappresentazioni di carattere mitologico o di storia antica. Delacroix riuscì a superare il problema attribuendo alla fanciulla la funzione della Libertà. Importante.
“La Gioconda”, nota anche come Monna Lisa, sfuggente, ironica e sensuale, è un dipinto a olio su tavola di pioppo di Leonardo da Vinci, databile al 1503-1514 circa, e conservata nel Museo del Louvre di Parigi. Opera emblematica ed enigmatica, si tratta sicuramente del ritratto più celebre del mondo, nonché di una delle opere d’arte più note in assoluto, oggetto di infiniti omaggi, ma anche di parodie e sberleffi. Il sorriso impercettibile della Gioconda, col suo alone di mistero, ha ispirato pagine di critica, di letteratura, di studi anche psicanalitici. Misterioso.
Jean-Michel Basquiat è stato un writer e pittore statunitense nato e morto a New York rispettivamente nel 1960 e nel 1988. È stato uno dei più importanti esponenti del graffitismo americano, che è riuscito a portare, insieme a Keith Haring, questo movimento dalle strade metropolitane alle gallerie d’arte. Innovativo.
“La colazione dei canottieri” è un dipinto a olio su tela realizzato tra il 1880 e il 1882 dal pittore francese Pierre-Auguste Renoir. Fa parte della Phillips Collection di Washington. Il dipinto rappresenta un pranzo al ristorante La Fournaise a Chatou, un tranquillo e verde villaggio sulla Senna, frequentato abitualmente dai canottieri. La scena è ambientata nella veranda del locale, dove quattordici personaggi, tutti amici del pittore (tra cui la futura moglie, Aline Charigot, la donna con il cane), discutono dopo aver mangiato assieme. L’attenzione dell’artista si concentra sui colori, che formano i volumi e la prospettiva. Quadro colorato e allegro. Delizioso.
“Le damigelle d’onore” è un dipinto a olio su tela realizzato, nel 1656, dallo spagnolo Diego Velázquez e conservato al Museo del Prado di Madrid. In quest’opera è dipinta l’Infanta Margarita, la figlia maggiore della nuova regina, circondata dalle sue dame di corte. Alla sua sinistra compare Doña Maria Augustina de Sarmiento, e alla destra Doña Isabel de Velasco, la sua nana ed il suo mastino, oltre che alcuni altri membri della corte spagnola. Velázquez si trova di fronte al suo cavalletto, attento, vigile, esperto. Storico.
“La persistenza della memoria” (noto anche come ‘Orologi Molli’) è un dipinto a olio su tela realizzato nel 1931 dallo spagnolo Salvador Dalí. È conservato nel Museum of Modern Art di New York. La cosa che più colpisce l’osservatore guardando quest’opera è l’impianto composito fortemente asimmetrico. Gli elementi del quadro, infatti, sono distribuiti in maniera disorganica nello spazio aperto e si trovano adagiati su di un paesaggio che l’artista decide di ritrarre dall’alto. La luce è frontale e genera ombre profonde sulla superficie degli oggetti. Originale.
“La zattera della Medusa” è un dipinto a olio su tela di Théodore Géricault, realizzato nel 1818-19 e conservato al Louvre di Parigi. Il dipinto rappresenta un momento degli avvenimenti successivi al naufragio della fregata francese Méduse, avvenuto il 5 luglio 1816 davanti alle coste dell’attuale Mauritania, a causa di negligenze del comandante Hugues Duroy de Chaumareys. Oltre 250 persone si salvarono nelle scialuppe, le rimanenti dovettero essere imbarcate su una zattera di fortuna e di queste solo 13 fecero ritorno a casa. L’evento generò uno scandalo internazionale, provocando la caduta del governo. L’opinione pubblica si schierò anche contro la monarchia francese, in particolare contro il re Luigi XVIII, reo di aver nominato a quell’incarico il capitano. Géricault approfittò della risonanza dell’evento per farsi conoscere. Imponente.
“L’ultima cena” è un dipinto parietale a tempera grassa su intonaco, di Leonardo da Vinci, databile al 1494-1498 e conservato nell’ex-refettorio rinascimentale del convento adiacente al santuario di Santa Maria delle Grazie a Milano. Si tratta della più famosa rappresentazione dell’Ultima Cena, capolavoro di Leonardo e del Rinascimento italiano in generale. Commovente.
Dipinto nel 1942, nel quadro vi è un bar che si trova a un angolo di una grande città, all’esterno del locale però la città sembra un fantasma, completamente deserta, senza anima viva; tutto si concentra all’interno del bar. Dietro al bancone è presente il barista, unica figura presentata con i colori chiari, che rispecchia la luce elettrica del bar, intento nel suo lavoro. Dall’altra parte del bancone, invece, vi sono un personaggio di spalle e una coppia che guarda il barista. Nessuno parla, ognuno perso all’interno della propria realtà, come se tutto quello che li circondasse non avesse alcuna importanza. Qui emerge il tema vero del quadro: la sensazione di solitudine in una grande città; il sentirsi “vuoto” davanti alla grandezza di una città in continuo fermento, l’essere distaccato da un panorama molto più vasto di quello di una semplice persona. Unico.
Si sa, viviamo nella società dei servizi. Se per “servizi” si intendono quelli che per Giorgio Gaber sono sempre in fondo a destra, allora ci siamo intesi.
Succede che la stazione di casa per il collegamento wi-fi funzioni male. Non c’è problema, la sostituiscono. Il nuovo apparecchio ti arriverà a casa con uno spedizioniere. Lasci un numero di telefono per essere contattato e perciò presente al momento della consegna.
Un bel giorno arrivi a casa e trovi un tagliando per avvisarti che il furgone è passato alle undici del mattino.
Chiami la ditta per rendere noto che non avendo fatto sei al superenalotto, di solito a quell’ora sei al lavoro. Fai il numero telefonico scritto sul biglietto trovato in buchetta e inizi ad ascoltare tutte e quattro le stagioni di Vivaldi. La seconda volta della “Primavera”, qualcuno dall’altra parte si degna di rispondere.
Quasi ti dispiace, perché arrivato al bis del capolavoro del Prete Rosso ti sembra addirittura di avere capito se l’esecuzione sia dei Solisti veneti o sotto la bacchetta di Trevor Pinnock. Pazienza.
Parli con un operatore che ha la stessa spinta di chi gli hanno appena rigato la macchina. Dopo un primo labirinto senza uscita di domande e risposte, ti rendi conto che non ne puoi uscire vivo e allora chiedi se puoi avere un recapito della sede ferrarese della ditta di spedizioni.
Indovinate? “Spiacente, ma non c’è”. Vai su internet e, invece, c’è. Chiami, ma non risponde nessuno.
Richiami allora il numero sul tagliando e questa volta ti capita uno che parla tamil. Ti fai coraggio e moduli le vocali in modo che, dio solo sa come, alla fine ti accordi per una seconda consegna il pomeriggio seguente. Rimani in casa ad aspettare e il risultato è il deserto dei tartari.
Il mattino dopo un altro passaggio sempre alle undici, con tanto di tagliando.
E’ l’unica precisione svizzera di tutta la faccenda.
A questo punto alzi bandiera bianca e vai personalmente alla sede locale all’indirizzo che trovi in rete. Una prima volta ci va, mettiamo, tua moglie, che però torna a casa a mani vuote. “Non possiamo consegnarle il pacco se non ha la delega; non sappiamo se il coniuge è consenziente e poi c’è la privacy …”.
Per una frazione di secondo la mente corre al sinodo dei vescovi voluto da papa Bergoglio sulla famiglia e pensi che la comunione ai divorziati non è l’unico problema da risolvere.
Torni, questa volta con il nucleo familiare al completo, e finalmente vieni a casa con la nuova station.
Il passo successivo è aprire il libretto con le indicazioni per l’istallazione guidata. Talmente facile che “basta seguire – c’è scritto – le istruzioni a video”.
Niente affatto, perché all’ultimo passaggio sei mandato ad una pagina web della compagnia telefonica che, sempre a video, viene data come inesistente.
Chiami l’operatore, stavolta, telefonico e ti inoltri in una selva di numeri da crisi d’identità. Puoi fare sapere di avere bisogno di assistenza anche inviando un sms, ma evidentemente l’help si perde in un infinito leopardiano.
Stremato, provi a chattare. Ti chiedono password e username, che non ricordi perché la prima volta ti registrasti in una precedente era geologica. Per recuperarle devi indicare il nome del tuo migliore amico d’infanzia …
Viene da chiedersi come mai questo paese sia ridotto in queste condizioni, oppure sorge il dubbio se queste non siano che terribili e funeste anticipazioni di un mondo nel quale l’uomo sta abdicando alla tecnica, illudendosi di fare un passo avanti nella storia dell’evoluzione.
Una risposta, molto parziale e per nulla consolante, la scrive Umberto Eco su L’Espresso (15 gennaio 2015): “Brecht ci ricordava (nel suo Galileo) che sfortunato è quel paese che ha bisogno di eroi, perché difetta di persone normali che fanno quanto si erano impegnati a fare, in modo onesto. In cui, nessuno sapendo più quale sia il suo dovere, cerca disperatamente un capopopolo, a cui conferire carisma, e che gli ordini ciò che deve fare. Il che, se ben ricordo, era un’idea espressa da Hitler in Mein Kampf”.
Persone normali che facciano quotidianamente del proprio meglio per risolvere i problemi anziché complicarli. Se questo non accade, a nulla vale rivolgersi all’uomo dei miracoli e, prima o poi, si è condannati a piangere di nuovo per gli errori già commessi in passato.
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