Skip to main content

Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


LA SEGNALAZIONE
Lampi di modernità:
ansie e insicurezze
del Bastianino

“Più ancora sorprende chi visiti (…) anche le chiese di Ferrara, l’incontro con Bastianino, quasi un William Blake del michelangiolismo italiano. I suoi titani cinerei e nebulosi, dipinti in quel gusto velato (…) diventeranno una volta , e speriamo sia presto, i beniamini di qualche giovane critico “.
Così Roberto Longhi introduceva nell’Officina ferrarese ( 1934) la personalità di Sebastiano Filippi detto il Bastianino (Ferrara 1528 /32 – 1602), ritenuto il maggior poeta del Manierismo italiano.
E di giovani e non più giovani storici dell’arte si avvalse la fortuna critica di questo pittore ferrarese, che dalla metà del Cinquecento si impegnò a dissolvere la sintassi figurativa tardoclassicista guardando al vecchio Michelangelo e a Tiziano.
Il Bastianino, infatti, trionfa in tutta la sua eroica diversità nelle pagine di Francesco Arcangeli (1963) in una monografia indimenticabile che, non solo è articolata in confronti e nuove attribuzioni, ma è opera di comprensione profonda di un artista coinvolto nelle inquietudini della Controriforma, di una città misteriosa avvolta nella nebbia e di un ducato avviato al declino.
Negli anni 80 e 90 del secolo scorso gli importanti studi di Jadranka Bentini e i successivi di Vittoria Romani aprono la strada alla dimensione storico – documentaria delle imprese di Bastianino, della sua famiglia e della sua équipe giungendo ad indagare i grandi cicli ad affersco del Castello Estense e della Palazzina Marfisa.
Oggi, a vent’anni di distanza, Lampi sublimi a Ferrara, curata da Anna Stanzani e dalla Soprintendenza Bsae di Bologna, nata dall’esigenza di condividere con la città l’opera di tutela, valorizzazione e salvataggio di opere d’arte e di edifici religiosi danneggiati dal terremoto del 2012 prosegue in quelle fondamentali indagini, rivolgendosi non solo agli addetti ai lavori ma a un più vasto pubblico. Perché Bastianino, ancora oggi, è un illustre sconosciuto per le generazioni che si accostano all’arte del passato con interesse un po’ sospettoso.
Ancorare la conoscenza della cultura figurativa ferrarese del secondo Cinquecento al restauro della Chiesa di San Paolo danneggiata dal terremoto, significa andare con la memoria e senso visivo alle analoghe vicende della riedificazione della chiesa dopo il tristemente noto terremoto del 1570. In quell’occasione Alberto Schiatti fu l’autore del nuovo progetto e nella fase del completamento decorativo furono all’opera lo Scarsellino (catino absidale) e Bastianino (pale d’altare).
Preceduto da testi figurativi contestualizzanti e da modelli giovanili di Battista Dosso e Camillo Filippi, il salto di sensibilità si fa subito evidente nella grande Circoncisione (1560 circa) per la Cattedrale (Ferrara Pinacoteca Nazionale), dove le michelangiolesche figure occupano l’intero spazio di una cappella illuminata con scenografica teatralità. La luce soffusa penetra dal fondo, si sofferma sulle vesti della Madonna e di Simeone per attardarsi sul primo piano prospettico con l’effetto virtuosistico di valorizzare la muscolosità michelangiolesca del portatore d’acqua e l’identità dei due committenti. Non siamo ancora alla decomposizione della materia pittorica o a quella pennellata sciolta che smaterializza i corpi come ci indica Gesù e il buon ladrone di Tiziano (1559 – 1563), opportunamente messo qui a confronto con la Resurrezione dalla chiesa di san Paolo che integra negli effetti fluorescenti e nelle vivissime cromie filamentose l’antica adesione ai modi romani, già evidente nel Giudizio del catino absidale della Cattedrale.
In un fondamentale convegno internazionale e nella conseguente mostra a Palazzo dei Diamanti nel 1997, relativo all’incidenza della sintassi poetica di Torquato Tasso sulla cultura figurativa tardo cinquecentesca (indimenticabile l’intervento di Andrea Emiliani) , a fondo era stato indagato il paragone tra luce e colori, elementi dominanti in Tiziano e “accelerazione luministica che dissolve la forma esterna delle figurazioni” in artisti come Tintoretto e Bastianino. Operando una sorta di demolizione della sintassi figurativa manierista attraverso la disgiunzione (la mostra infatti aveva come titolo I pittori del parlar disgiunto) la sintassi pittorica si rivelava costruita solo dalla luce che, come sottolineava Raimondi (1985) “introduce un’idea di visionarietà, di sogno visto da sveglio. I corpi si incastrano fra di loro e pesano come lastroni di macigno, angolosi e spaccati come in un quadro del Greco”. L’intesa tra il poeta Raimondi e il pittore Bastianino si incarna così nella monumentale Resurrezione della Chiesa di San Paolo, dove la luce liquida del Cristo glorioso teatralizza l’evento che sfuma solo nella luce, anzi nella velocità della luce .
La bella mostra della Pinacoteca non si conclude qui ma presenta altre importanti opere e altri importanti artisti ferraresi: tuttavia la sua rilevanza sta nel sottolineare la modernità di un artista drammatico, ansioso e in crisi di identità come è oggi ognuno di noi..

Lampi sublimi a Ferrara. Tra Michelangelo e Tiziano. Bastianino e il cantiere di San Paolo
Ferrara, Pinacoteca Nazionale del Palazzo dei Diamanti (fino al 15 marzo 2015)

Il futuro dei rifiuti urbani

La frazione organica è la componente principale del rifiuto solido urbano prodotto nella fase del consumo finale. Da un confronto di diverse analisi sulla composizione in peso dei rifiuti, l’organico rappresenta infatti circa il 30%, plastica e gomma rappresentano circa il 13-15%, carta e cartoni il 25-27%, il vetro il 5-7% e i metalli rappresentano il 3-5% dei rifiuti urbani. Sulla base di analisi condotte direttamente nella fase della raccolta (al cassonetto), la parte organica, comprendente legno e verde, rappresenta dunque quasi un terzo del totale dei rifiuti urbani e varia in funzione della grandezza dei comuni: è minore nelle aree urbane e metropolitane, mentre è crescente al decrescere del numero di abitanti. Il Rapporto rifiuti organici 2014 del Cic (Consorzio italiano compostatori) sul recupero delle frazioni organiche, conferma la crescita del settore. Aumenta ancora la raccolta dell’organico. Con una crescita media nell’ultimo decennio di quasi il 10% l’anno, lo scarto organico si consolida come la componente principale dei rifiuti urbani raccolti in Italia, attestandosi al 42% nel 2013 (era il 37% nel 2012). Su un totale di 12,5 milioni di tonnellate di rifiuti urbani differenziati nel Paese, la raccolta della frazione organica (umido e scarto verde) è stata di 5,2 milioni, seguita dalla carta con 3 milioni di tonnellate e dal vetro con 1,6 milioni. In verità, la composizione merceologica dei rifiuti urbani (in peso e in volume) sta cambiando negli ultimi anni con la crescita delle frazioni secche (carta, plastica, vetro, metalli) rispetto alla frazione organica, ma per ora limitiamoci a parlare di umido, ovvero di frazione putrescibile, ovvero di organico, dunque di compost.
Il cambiamento del sistema dei consumi alimentari ha prodotto una standardizzazione di produzione dei rifiuti abbastanza netta tra distribuzione e consumo finale nelle famiglie: è aumentato il consumo esterno alla famiglia e sono cambiate le modalità di consumo nelle famiglie. Complessivamente le famiglie producono direttamente circa la metà dei rifiuti urbani, mentre l’altra metà viene prodotto dagli operatori dei servizi, del commercio, dei pubblici esercizi che gestiscono tutto il sistema del consumo. E’ importante perciò sottolineare che la famiglia, come consumatore finale, controlla solo una parte dei rifiuti urbani e pertanto le strategie della raccolta differenziata dovranno considerare il peso che questo canale ha nella produzione dei rifiuti. Nello specifico le famiglie consumano il 50% dell’organico presente nei rifiuti (si stima una produzione media giornaliera pro-capite di organico di circa 200-250 grammi), il 40% degli imballaggi (per la maggior parte primari) e insieme a terziario e servizi (uffici) circa il 90% della carta da giornali e della carta non da imballo (fogli, ecc.).
E’ dunque strutturalmente cambiato il sistema di distribuzione attraverso nuovi sistemi di imballaggio: secondario e terziario presso gli operatori commerciali, primario per il consumo finale delle famiglie. Gli imballaggi sono diventati la componente principale negli Rsu – Rifiuti solidi urbani (35% in peso e 50% in volume). Lo sviluppo dell’imballaggio a perdere è diventato decisivo nel sistema del consumo. Si stima che il “non-domestico” produca l’altro 50% di organico presente negli Rsu, ma che soprattutto il commercio tradizionale, la grande distribuzione e l’industria (escludendo i rifiuti industriali) producano come rifiuto, per la maggior parte, gli imballaggi (ossia cartoni, vetro, plastica, legno, ferro, alluminio) che rappresentano circa il 50% del totale degli imballaggi rifiuto. Bisogna tenerne presente quando si definiscono i sistemi di raccolta. A cosa servono queste informazioni? Il settore della raccolta differenziata e del trattamento mediante compostaggio dei rifiuti organici sta evolvendo verso la produzione di materia (il compost di qualità) e di energia (biogas convertito o meno in energia elettrica/termica) ma che, soprattutto, sta incrementando la costruzione di impianti di digestione anaerobica (come pretrattamento per la produzione di biogas) e compostaggio (come fase di finissaggio per la produzione di fertilizzante organico).
Il compostaggio è una tecnica attraverso la quale viene controllato, accelerato e migliorato il processo naturale a cui va incontro qualsiasi sostanza organica per effetto della flora microbica naturalmente presente nell’ambiente. Si tratta di un “processo aerobico di decomposizione biologica della sostanza organica che avviene in condizioni controllate e che permette di ottenere un prodotto biologicamente stabile in cui la componente organica presenta un elevato grado di evoluzione”. La ricchezza in humus, in flora microbica attiva e in microelementi fa del compost un ottimo prodotto, adatto ai più svariati impieghi agronomici, dal florovivaismo alle colture praticate in pieno campo.
Il processo di compostaggio si compone in due fasi: bio-ossidazione, nella quale si ha l’igienizzazione della massa, che è la fase attiva, caratterizzata da intensi processi di degradazione delle componenti organiche più facilmente degradabili; e maturazione, durante la quale il prodotto si stabilizza arricchendosi di molecole umiche (da humus), caratterizzata da processi di trasformazione della sostanza organica. La migliore utilizzazione del compost è quella di essere un ammendante utile al terreno e utilizzabile in tutti i comparti agricoli (pieno campo, orticoltura, frutticoltura, coltivazione in contenitore, ecc.) e, come tale, può venire commercializzato. La capacità ricettiva del comparto agricolo risulta essere notevolmente superiore alla capacità produttiva del settore; infatti la superficie agraria nazionale è pari a circa 16 milioni di ha della quale circa il 30% può essere prudenzialmente interessata all’applicazione di ammendanti compostati, in sostituzione dei tradizionali letami, difficilmente reperibili.

LA NOTA
Il piccione curioso

Questa mattina mi sono svegliata, quando, piano piano, sento un piccolo brusio e intravvedo un’ombra piccola, leggera e discreta. Quatta quatta, proprio come lei, mi avvicino alle tende bianco-verdine, un profilo regale si affaccia sul mio davanzale, visto da lontano potrebbe sembrare un volatile elegante. Filtrato dal velo delle tende, incuriosisce la mia immaginazione sempre viva e fertile.

piccione-curioso
Un piccione curiosa sul davanzale tra i tetti ferraresi

Capisco subito, chiaramente, che è un semplice e curioso piccione ferrarese, nulla di più, ma questa mattina, come spesso negli ultimi tempi, sono in vena poetica. Mi piace immaginare che sia arrivato da lontano, che in quel momento stia riposando da un lungo viaggio, guardando i tetti romantici e sereni, respirando aria fresca.
Adoro vederlo sorvolare laghi dorati, mare in burrasca, terre fertili e piccoli orti curati da instancabili pensionati, con negli occhi immagini uniche e irripetibili, quasi un Yann Arthus-Bertrand di provincia. Senza offesa per questo immenso e instancabile artista.
Mi piace pensare che sulle sue ali si sia appoggiata qualche goccia di brina pungente che, lasciata cadere per caso, ha accarezzato i capelli intrecciati di una giovane e bella ragazza innamorata.
Bello fantasticare, immaginare che quell’animale gentile abbia sfiorato, con ali docili e leggere, i pensieri e i desideri dei bambini a Natale, che abbia portato loro qualche idea per un regalo gradito agli anziani nonni o ai genitori un po’ stanchi.
Bello credere che abbia lasciato note di una musica dolce e soave su qualche tegola ancora un po’ traballante, lasciandole scivolare giù per un camino che aspetta solo la Befana, ora.
Quel piccione non immagina nemmeno lontanamente che lo sto guardando e che quei pochi minuti che resta appollaiato sulla mia finestra mi hanno fatto immaginare una sua vita tanto ricca e avventurosa. Magari è un semplice piccione ferrarese, che mai ha volato tanto lontano, magari è lì per lasciarmi una missiva. Un tempo i piccioni viaggiatori portavano lontani e romantici messaggi. Apro la finestra e, anche se piano, lui vola via spaventato e impaurito. Sul davanzale c’è un biglietto…

Autenticamente donne

“Quello di cui avremmo veramente bisogno, in realtà, è una moglie. Ma di quelle tradizionali, di una volta, mica una di quelle moderne con tutte quelle velleità e quei grilli per la testa. Mica come noi.”

Lella Costa sta dalla parte delle donne perché ci sta in mezzo a quell’universo che, dal di dentro, è ancora più variopinto di quanto appaia da fuori. Che poi, da fuori, a guardarlo ci stanno gli uomini, o almeno alcuni.
Tra i tanti, ci sono anche gli uomini della violenza, della forza volgare contro cui l’attrice si è impegnata in molti modi, andando nelle scuole e partecipando alla tournée “Ferite a morte” con Serena Dandini. Le donne sono spesso accompagnate da una sensazione di non poter essere veramente al sicuro, facili bersagli di violenza anche solo verbale, quella di quando passi per strada e qualcuno ti approccia, ti rovescia addosso quelle schifezze che gli passano per la testa. Tu non l’hai provocato, non l’hai nemmeno guardato, ma quelle parole ti toccano lo stesso, anche se non te le meriti e non le volevi, ma passavi di lì.
“Che bello essere noi” racconta l’anima e l’animo delle donne, concentrate, tridimensionali e molto banalmente ridotte a quote rosa, una questione di percentuale, di posti a sedere. Ma le donne ci rinunciano anche ai posti di potere, alla politica attiva perché hanno altre priorità, “a noi non interessa la concezione maschile del potere, e dunque della politica. Non ci somiglia”. Le donne preferiscono sorellanza e mutuo soccorso, il bello dell’essere noi è questo, riconoscersi tra poche parole e confidenza, è continuare a scegliersi oppure prendere altre strade.
E poi c’è la questione del punto di vista, dello sguardo. Il mito di Orfeo ed Euridice, a cui Lella Costa ricorre, ne è un esempio: dopo tutta la fatica fatta, dopo averla recuperata dal mondo dei morti, dopo essere quasi arrivato, Orfeo si volta a guardarla e la perde per sempre. Le interpretazioni e i tentativi di risposta a questo gesto di Orfeo (non ce la faceva a resistere? voleva una rassicurazione che fosse proprio lei? che non fosse cambiata? gli erano venuti dubbi?) sono stati tanti. Ma di uomini come Orfeo, dice Lella Costa, il mondo è pieno. Sono quelli che nel momento in cui davvero ti guardano, nel momento in cui realizzano, ti abbandonano. Quando vedono veramente te e non il tuo simulacro, l’idea, anzi l’idealizzazione che si erano fatti, scappano. E allora “che benedetti siano gli uomini che ci guardano”, ma non distrattamente, così se capita, ma quelli ci colgono nei nostri dettagli, negli elementi meno evidenti e perciò singolari che ciascuna ha, “quelli che sanno diventare tornasole, reagente chimico, lente che ingrandisce. Che come Alice non temono gli specchi ma li attraversano. Che siano per sempre benedetti gli uomini che ci amano guardandoci”.
E la fiducia in se stesse e nel loro sguardo le donne ce l’hanno? Forse troppo, per tradizione, dipendenti dallo sguardo altrui, specie maschile, forse spesso in cerca di approvazione, di amore e in ansia, forse, dice Lella Costa, divise tra Ade e Orfeo, si sono perse Euridice. Per fortuna c’è sempre “quell’alfabeto comune” di scelte e pensieri che ci fa ri-conoscere quanto sia bello essere noi.

“Che bello essere noi”, Lella Costa, Piemme, 2014

endrigo

IL RICORDO
Sergio Endrigo: poeti, cantanti & friends

Nella sua carriera Sergio Endrigo ha collaborato con poeti, artisti e colleghi importanti, realizzando progetti indimenticabili. Si è trattato di un percorso di ‘crescita’, che vogliamo in piccola parte raccontare.

endrigo
Sergio Endrigo

Nel 2002, il Club Tenco produsse l’album-omaggio “Canzoni per te. Dedicato a Sergio Endrigo”, che raccoglieva canzoni interpretate, tra gli altri, da Bruno Lauzi, Marisa Sannia, Arsen Dedić, Gino Paoli (lui e Dedić hanno pubblicato album live in Croazia), Roberto Vecchioni, Nada ed Enzo Jannacci. In quell’occasione il paroliere Sergio Bardotti eseguì il brano “La casa”, inserito come bonus track nella ristampa in cd dello storico disco del 1969 “La vita, amico, è l’arte dell’incontro”, una straordinaria opera su disco, firmata Rca italiana, che vedeva insieme Sergio Endrigo, Vinicius de Moraes, Giuseppe Ungaretti, Toquinho, Sergio Bardotti, con gli arrangiamenti di Luis Enriquez Bacalov.

endrigo
Con Luigi Tenco

Molti degli artisti che incisero le canzoni di Endrigo nel 2002, parteciparono poi al progetto Ciao Poeta, uno spettacolo in omaggio di Endrigo (scomparso nel 2005), tenutosi l’11 gennaio 2006 all’Auditorium Parco della Musica di Roma. Sergio Bardotti fu il direttore artistico della manifestazione, con la collaborazione di Claudia Endrigo (la figlia), per la regia di Emanuele Scaringi.
Arsen Dedić e Sergio Endrigo erano amici e si sono esibiti insieme nelle numerose manifestazioni musicali, che si tenevano in Jugoslavia sin dai primi anni sessanta. Nel 1990, grazie ad Arsen, Endrigo ritornò per la prima volta nella natia Pola, tenendo due concerti, al Teatro popolare istriano e all’Acy marina.
“1947” è il brano che il cantautore istriano ha dedicato a Pola, una canzone contro la guerra, anche se non se ne fa esplicito riferimento. Si tratta di un brano struggente, dove tra nostalgia e rimpianto Endrigo parla dell’esodo dalla città istriana, compiuto insieme alla sua famiglia: “Da quella volta non l’ho rivista più, cosa sarà della mia città, ho visto il mondo e mi domando se, sarei lo stesso se fossi ancora la… come vorrei essere un albero che sa, dove nasce e dove morirà”.

Endrigo ha inciso due brani in lingua croata: “Kud Plove Ovaj Brod” (Dove va la nave) di Esad Arnautalic e Luca Juras (presentata al Festival di Spalato del 1970) e “Više Te Volim” (Ti amo di più), dello stesso musicista istriano e del croato Zdenko Runjic, noto per avere scritto la canzone “Skalinada”, portato al successo da Oliver Dragojević.
Negli ultimi anni, in suo ricordo, numerosi artisti croati hanno eseguito “Kud Plovi Ovaj” dal vivo, tra questi Rade Šerbedžija e Kemal Monteno, oltre allo stesso Arsen Dedić. Monteno e Šerbedžija, sono artisti molto seguiti in Croazia e nelle altre repubbliche della ex-Jugoslavia. Rade Šerbedžija è noto anche per l’importante carriera di attore in film quali Prima della pioggia – Leone d’Oro alla Mostra di Venezia 1994, Il Santo, Batman Begins e Henry Potter e i doni della morte 1.

“Si comincia a cantare” è il titolo dell’album postumo di Sergio Endrigo, pubblicato nel 2010 da onSale music, che contiene ventiquattro tracce registrate nel 1959 e firmate da famosi autori (Migliacci, Bindi, Calabrese e Modugno). In alcuni brani Endrigo appare con i suoi pseudonimi: Sergio Doria, Notarnicola e Riccardo Rauchi e il suo complesso.
Nel 2012, con l’aiuto dell’Unione italiana, del municipio di Pola e della Regione istriana è stato realizzato un cd tributo intitolato “1947 Hommage a Sergio Endrigo”, che contiene una trentina di brani scelti con cura tra i più conosciuti, eleganti e riflessivi, interpretati da artisti polesi.

endrigo
Pola, monumento dedicato a Sergio Endrigo

Il 30 maggio 2013, in occasione dell’anniversario dell’80° anno dalla nascita di Endrigo (15 giugno 1933), Radio Capodistria ha trasmesso il concerto registrato al Teatro di Capodistria in occasione del Forum Tomizza, dedicato alla sua musica.
Il 26 luglio 2013 il Folk Festival, che si svolge a Spilimbergo in provincia di Pordenone, ha dedicato una serata a Sergio Endrigo, invitando Simone Cristicchi con la Mitteleuropa Orchestra del Friuli Venezia Giulia diretta dal M° Valter Sivilotti. L’evento è stato trasmesso su Raiuno il 15 agosto ed è tuttora visibile, in versione integrale, su Youtube.
La città di Pola ha dedicato a Endrigo una splendida scultura ispirata alla famosa canzone “L’Arca di Noè”. L’opera, dell’artista Ciro Maddaluno, è stata realizzata dallo scultore Eros Cakic, con il contributo degli architetti Davor Matticchio e Zvonimir Vojnič.

Durante questo breve viaggio nei “mari di poesia di Endrigo”, abbiamo incontrato artisti, poeti, luoghi e suoni che la memoria aveva per un po’ dimenticato. Chiudiamo con due bellissime frasi, la prima tratta da “Canzone per te”, che nel 1968 vinse il Festival di Sanremo: “… la solitudine che tu mi hai regalato, io la coltivo come un fiore”. Il secondo testo è tratto da “Poema degli occhi”, con le parole di Vinicius de Moraes: “… amore mio che occhi i tuoi, quanto mistero negli occhi tuoi, quanti velieri e quante navi, quanti naufragi, negli occhi tuoi…”.

Folk Festival Spilimbergo, Concerto integrale di Simone Cristicchi [ascolta]

Si ringrazia Claudia Endrigo per il supporto dato per la realizzazione dell’articolo.

arthur-miller-certe-azioni

Critica al capitalismo americano, Arthur Miller: ‘Non ci si può separare da certe azioni’

STANDING OVATION: I PIU’ ACCLAMATI SPETTACOLI TEATRALI DEL XXI SECOLO
“Erano tutti figli miei” di Arthur Miller, regia di Cesare Lievi, Teatro Comunale di Ferrara, dall’8 al 12 gennaio 2003

La stagione teatrale 2002/03 del Comunale tocca forse il suo apice, almeno per quanto attiene la prosa vera e propria, con un dramma “giovanile” del grande Arthur Miller: “Erano tutti miei figli” (1947), anteriore addirittura a “Morte di un commesso viaggiatore” (1949) e a “Uno sguardo dal ponte” (1955). Arthur Miller è autore di opere drammaturgiche animate da una viva coscienza etica e da finalità polemiche nei confronti della società americana, dei suoi falsi miti e delle sue tare ereditarie. Fra i suoi lavori si ricordino, fra i tanti, anche “Il crogiuolo” (1953, ridotto alcuni anni fa per il cinema da Nicholas Hytner), “Gli spostati” (1961), “Dopo la caduta” (1964).
“Erano tutti miei figli” racconta una storia di ordinaria corruzione: nell’ambito di un nucleo familiare si scopre, dopo diversi anni, che il padre si era arricchito vendendo ricambi d’aereo difettosi all’aviazione americana. Ma ben più profondo è il tema della incomunicabilità e dello scontro fra due generazioni. Lo stesso Miller ebbe a commentare al riguardo: «La fortezza cui “Erano tutti miei figli” cinge d’assedio è quella della mancanza di rapporto. È l’asserzione non tanto d’una morale in termini di bene e di male, ma di un mondo morale che è tale perché gli uomini non possono separarsi da certe loro azioni». Ambientato nel secondo dopoguerra, “Erano tutti miei figli” è un atto d’accusa nei confronti del capitalismo americano, della sua ipocrita e già corrotta utopia dell’“american dream” ma incarna pure, non va dimenticato, la sincera e patriottica ansia di redenzione di un popolo.
Come una tempesta. Preceduta da una calma innaturale e vagamente annunciata, in un inquietante sereno, da lontani bagliori e soffocati brusii, che prima addensa poche nubi ancora chiare e poi sconvolge l’atmosfera ovattata con qualche fulmine e raffiche di vento, quindi si scatena terribile e devastante tanto da non saper più dove ripararsi, da non poter fare altro che rassegnarsi alla furia degli elementi; il testo di Miller è di una potenza tale da far vibrare per l’emozione, laddove in una sorta di catarsi novecentesca la sofferenza dei personaggi e la volontaria espiazione del protagonista universalizzano e rendono atemporale. Infatti, questo capolavoro giovanile di Arthur Miller contiene già ‘in nuce’ i temi etici che il drammaturgo svilupperà in seguito: il diffuso lassismo, il demone del profitto, le tensioni familiari, la ribellione all’“american way of life”. L’allestimento vede protagonisti due ‘mostri sacri’ come Umberto Orsini e Giulia Lazzarini. La regia è di Cesare Lievi, la traduzione di Masolino D’Amico.

IL FATTO
Dopo i furti sequestrato un oleodotto: l’Italia come la Nigeria

Sequestrato l’oleodotto Civitavecchia-Fiumicino: una notizia per me sconvolgente, sembra che stia accadendo da noi quello che succedeva in Nigeria, ossia il furto di petrolio dagli oleodotti. Segno di un Paese oramai non recuperabile? Per molti si tratta di una delle tante notizie che passa spesso inosservata: su Repubblica di oggi si legge “ll gip del Tribunale di Civitavecchia, Massimo Marasca, ha disposto il sequestro dell’oleodotto Civitavecchia-Fiumicino, a novembre scorso oggetto di alcuni furti che ha procurato danni ambientali per lo sversamento di cherosene, “finché non saranno installati adeguati sistemi di controllo atti ad impedire ulteriori reati”. Il sequestro è stato effettuato dai carabinieri del Noe al termine dell’indagine avviata dal procuratore di Civitavecchia, Gianfranco Amendola. Il procedimento al momento è contro ignoti.”
Ho ripensato alle molte volte (dal 1997) in cui ho partecipato alla presentazione del Rapporto sulle ecomafie di Legambiente. Sul suo sito Legambiente scrive “ecomafia è un neologismo coniato da Legambiente che indica quei settori della criminalità organizzata che hanno scelto il traffico e lo smaltimento illecito dei rifiuti, l’abusivismo edilizio e le attività di escavazione come nuovo grande business in cui sta acquistando sempre maggiore peso anche i traffici clandestini di opere d’arte rubate e di animali esotici.” Insomma tutto.
Il Rapporto ecomafia 2014 dice che “29.274 infrazioni accertate nel 2013, più di 80 al giorno, più di 3 l’ora. In massima parte hanno riguardato il settore agroalimentare: ben il 25% del totale, con 9.540 reati, più del doppio del 2012 quando erano 4.173. Il 22% delle infrazioni ha interessato invece la fauna, il 15% i rifiuti e il 14% il ciclo del cemento. Il fatturato della criminalità ambientale, sempre altissimo nonostante la crisi, ha sfiorato i 15 miliardi.”
Pazzesco. Ma, soprattutto, gravissima è ancora la scarsa considerazione che attribuiamo ai danni ambientali perché i tempi sono spesso molto lunghi per verificare l’effetto del danno, spesso i danni non si verificano (le tre scimmiette: non vedo, non sento, non parlo) perché mancano gli strumenti di controllo, ma soprattutto dove il danno è troppo alto (e dunque non pagabile) spesso non si procede; infatti spesso si rileva il danno solo quando si riesce a trovare i colpevole (dove vi sono responsabilità diffuse spesso si tende a coprire).
Allora vediamo come siamo messi a livello normativo. Solo da febbraio 2014 si è fatto qualche passo, ma il Codice penale ambientale ancora non è operativo (siamo solo alla solita proposta di legge ferma). Prima comunque esisteva solo il Codice civile (art. 2043 e 2050) e si inizia a parlare di Danno ambientale solo dal 1986 art. 18 349/86 (che però non lo definisce); solo con il decreto Ronchi si introduce la responsabilità oggettiva e il Regolamento attuativo Dm 471, 25/10/98, ma solo in campo di applicazione e definizioni. Sui principi siamo bravi: il Danno è subito dalla Collettività e l’Ente territoriale è titolare del diritto al risarcimento. Chi viene colto in grave responsabilità però al massimo se la cava con qualche multa.
C’è molto, molto da fare.

L’OPINIONE
Fuochi e Sgarbi infiammano Ferrara

Mentre si spegne l’eco dei botti di Capodanno che producono fremiti e ohhhh di meraviglia di fronte all’incendio del Castello nella città estense, o i concerti nelle piazze fiorentine, seguiti dai fuochi d’artificio tra frotte inenarrabili di turisti che si fanno scudo della grande bellezza per proclamare il dogma immortale dell’ “anche io c’ero!” testimoniato dai milioni di selfie, rimane quel retrogusto amaro nel non volere arrendersi alla noia prodotta e provocata dal voler essere per forza in pista in quella notte. La mia irriducibile avversione ai botti risale forse alla paura del fuoco o forse più verosimilmente alla notte del bombardamento di Ferrara, quando bambinetto fuggivo verso il rifugio in braccio alla mamma, inseguito dai tonfi sordi e dalle lingue di fuoco che s’alzavano circondandoci. Ci sono, a mio avviso, momenti migliori per passare quella manciata di ore tra Natale e Capodanno. Penso ai bellissimi film che sono riuscito a vedere nel tempo propizio ai cinepanettoni: da “Jimmy’s Hall” a “Saint Vincent”, passando per “Il giovane favoloso” a “Torneranno i prati” e, alla televisione, l’immortale “A qualcuno piace caldo” e “Il giardino dei limoni”. Storie di emarginati e di poeti, o di irrisolvibili contrasti e conflitti: Irlanda, Palestina, Israele, la Prima guerra mondiale. Il mondo reale, la verità riscoperta attraverso l’arte.

Così, in questi momenti inopportuna e stridente si leva la polemica sulla mostra del Bastianino e sul destino di Casa Minerbi che il critico Vittorio Sgarbi irride, forse senza saperne il destino e la fruizione imminente. Sembra quasi che i ferraresi affascinati da parole forti e scaltramente pronunciate s’abbandonino, come nell’incendio del Castello, a perdersi tra botti e fuochi dell’intelligenza e del mestiere. La memoria corta così tipica di “Ferara” s’infiamma e si compiace nel denigrare ciò che è frutto di progetti, criticabili quanto si vuole, ma sempre sostenuti da una meditata consapevolezza. E’ stato così nella Ferrara “smangona” e, solo per fare esempi recenti, per il progetto Ermitage, per il ridimensionamento dell’Istituto di studi rinascimentali e per molto di quello che si è tentato di costruire per uscire dalle Mura, a volte paradiso, a volte carcere della depisissiana città pentagona.
Non è scetticismo né tantomeno pensiero negativo.
La constatazione di ciò che la nostra città invidia a se stessa deve essere impegno etico a resistere e a non abbandonarsi all’ovvietà. Perciò bisogna controbattere alle provocazioni: specie quelle intellettuali, sapendo però che quasi sempre si è destinati a perdere.
Si veda la magnifica proposta di Piero Stefani su come dare contenuti forti al Museo dell’Ebraismo, caduta nel vuoto. Si assista alle splendide conferenze organizzate dall’Istituto Gramsci sul “carattere degli italiani”, seguitissime, applauditissime. E poi? Si considerino le mani alzate dopo la reprimenda di Vittorio Sgarbi sulla mostra del Bastianino alla domanda su quanti avessero visitata l’esposizione: tre! nella sala stracolma che applaudiva toto corde.

Dovremmo dichiararci sconfitti? Eh no! Anzi, sono queste le prove che ci devono indurre a non lasciare la presa. Che all’incendio del Castello, nella mente, si può contrapporre la riposata e placida constatazione di quanto sia straordinario far fiorire gli alberi dei limoni e non abbatterli come nello splendido film di Eran Riklis.

gianni-toti

Gianni Toti, pioniere della video-art e della poetronica

Gianni Toti, originario di Roma e scomparso nel 2007 è tra i pionieri della video-art a Ferrara e a livello internazionale, protagonista nella grande stagione di fine secondo Novecento del Centro video arte a Ferrara curato dal Maestro Farina.
Gianni Toti fu un autentico genio d’anticipazione. La videopoesia, poi poetronica, ha in Toti uno dei suoi fondatori e ineguagliati interpreti: inventata, creata, distillata, innestata nel divenire della poesia contemporanea, al passo con i vertici della sua stessa mutazione, parallela alle trasformazioni sociali e tecnologiche.
Toti da decenni, con esiti stupefacenti di nuova bellezza techno, il fare arte con le macchine, persino letteratura, niente affatto un degrado del cuore e della creatività umana: proprio il contrario…
E anzi, capace Toti di dare un nome, un volto bello e riconoscibile alla nostra Era, non solo una
specie di top model nevrotica e complessa, ma anche una femme fatale intelligente oltre che
ammaliante. Per la realizzazione delle sue opere collaborava anche con il Centre de recherche Pierre Schaeffer di Montbéliard-Belfort.
Tra le sue opere video e poetroniche, “L’originedite” (1994), “Planetopolis” (1993), “Tupac Amauta”
(1997)… forse un vertice è semplicemente una suite “Trilogia majakovskiana” dedicata a
Majakovskij e a Lili Bric, anni ’80, poesia e rivoluzione al 100%, quasi un megafile già destinato
alla net-generation contemporanea. Capolavoro dell’Arte video e punto di riferimento assoluto per il futuro e per le nuove generazioni video e net generation.
Ha anche pubblicato “L’altra fame” (Rizzoli, 1970), “Il padrone assoluto” (Feltrinelli, 1977) “Planetario. Scritti giornalistici” (a cura M.Borelli e F.Muzzioli, Ediesse, 2008), “I meno lunghi o i più corti racconti del futuremoto” (a cura G.Perego, Fahrenheit, 2012), Raccolte poetiche “Che c’è di nuovo” (Premio Rapallo 1962), “La coscienza infelice” (1966), “Tre ucronie” (1970), “Chiamiamola poemetànoia” (1974).
Su Gianni Toti: “Gianni Toti in cine ma video” (Sandra Lischi, a cura di, Ed. Ets, 1996); “Gianni Toti o della poetronica” (Sandra Lischi, Silvia Moretti (a cura di), Ed. Ets, 2012), “Re-video ergo zoom (o zaúm?)”; “Totilogia Gianni Toti” (a cura di Daniele Poletti, Floema-esplorazioni della parola [dia•foria, 2013); “Totilogia”, ([dia•foria, Daniele Poletti (a cura di), in collaborazione con La Casa Totiana, Ed. Cinquemarzo, 2014).

Per saperne di più su Gianni Toti visita la pagina relativa su Wikipedia [leggi], la puntata su Rai arte [vedi]

* da Roby Guerra, “Dizionario della letteratura ferrarese contemporanea”, Este Ediiton-La Carmelina ebook [vedi]

LA NOTA
Rosso di sera

Dopo il bianco della neve, la nostra Ferrara ci ha stupito con i colori. Un tramonto così bello non lo vedevo da tempo. Davvero. Rosso, rosa, violetto, azzurro, blu e celeste. Le tinte della serenità, quelle del riposo, della felicità, dell’ozio meritato, del non pensare a nulla, almeno per qualche istante. O dell’immaginare, se la mente non riesce proprio a starsene tranquilla, scenari di calma e di pace.

rosso-seraPerché, mentre concludo il libro di Mauro Corona “Una lacrima color turchese”, seduta comodamente sul mio divano lilla, penso che questo mondo ha perso l’orientamento, che molti valori se ne sono volati via, quasi volatilizzati, andati in fumo; che, spesso, non sappiamo più cogliere il senso delle piccole cose e l’importanza dei veri sentimenti, che perdiamo la sicurezza dell’amicizia e la pazienza con i nostri anziani, perché fermarsi a riposarsi e smettere di correre è considerato un privilegio di pochi, perché sognare e realizzare i propri sogni non è davvero per tutti. Perché il tempo passa ed è sempre più danaro, perché questo non è vero proprio per nulla e lo si dovrebbe comprendere una volta per tutte. Perché il tempo è la sola cosa davvero preziosa e regalarlo è il vero dono che si può fare, perché non ritorna, perché è unico e perché è qualcosa di veramente solo nostro che si offre a chi si ama. A Natale, questo si doveva donare, forse. Solo questo, null’altro. Nessun pacchetto vale lui, il tempo fugace e sfuggente.

rosso-serarosso-seraQuesto cielo ferrarese mi fa guardare lontano, un po’ di malinconia per il passato ma anche tanta fiducia per il futuro. Perché sono ottimista e davanti a questo spettacolo non si può che esserlo.
Questo cielo ferrarese, che scorgo dalle stesse finestre di amici vicini, si offre a me, senza parsimonia, in tutta la sua bellezza e splendore, libero, leggero, spazioso, etereo, aperto, sincero, unico. Sempre fedele, sempre presente, sempre generoso e coraggioso.
Questo cielo mi manca, quando sono lontana. Mi consola solo sapere che tutti i miei cari sono sotto le stesse stelle e che, da luoghi diversi e perduti nel mondo, guardiamo a esse, pensandoci l’un l’altro. Ferrara è generosa, in questo inizio d’anno freddo e rigido. Riscalda mani e cuori con questi colori tenui e caldi. Allora scosto la tenda e ammiro ancora quel lilla prezioso sui tetti.
Mi pare proprio di vedere Campanellino svolazzare qua e là, leggera e piccolina, tra un camino fumante e l’altro…

(Fotografie di Simonetta Sandri)

Breve guida all’auto-compostaggio

La natura riconsegna le sostanze organiche al ciclo della vita, riproducendole in forma accelerata e controllata; con il compostaggio domestico in fondo si copia dalla natura il processo per creare il compost. Si tratta infatti di processo naturale per riciclare e ricavare buon terriccio dagli scarti organici della cucina e del giardino. Tutti lo possono fare, basta un giardino, anche piccolo. Chi ci ha provato sa quanti “rifiuti” verdi esso produca, soprattutto se è affiancato da un piccolo orto. Il compostaggio permette di utilizzare quei rifiuti organici che si producono in grande quantità e che possono diventare materie prime.
I contadini e gli ortolani lo sanno bene come si fa per produrre una discreta quantità di ottimo terriccio. L’opportuno stoccaggio e trattamento di rami, foglie, erba, avanzi di cibo, bucce di frutta e verdura, permette a batteri, microrganismi e piccoli insetti di cibarsene, di svilupparsi e di decomporre le sostanze organiche presenti nei nostri rifiuti. Dopo alcuni mesi, il materiale organico così trattato diventerà una massa di microrganismi e di sostanze nutritive chiamato compost, simile all’humus che possiamo trovare nel sottobosco: un terreno soffice, ben aerato e ricco di minerali, ottimo per le nostre colture, ma anche per i nostri fiori in vaso.
Si possono compostare scarti di frutta e verdura e scarti vegetali di cucina, perché sono la base per un buon compost; inoltre pane raffermo, gusci d’uova e ossa, purché ridotti in piccoli pezzi; fondi di caffè e filtri del tè, foglie, segatura e paglia, perché per un buon compost è fondamentale la parte più secca dei rifiuti; sfalci d’erba possibilmente fatti seccare prima; bucce di agrumi, purché in quantità non eccessiva (perché hanno tempi di decomposizione più lunghi); avanzi di carne, pesce e salumi, ma senza esagerare. Insomma, quasi tutto quello che esce dalla nostra tavola e dalla nostra cucina.
In alcune zone, si sono anche create attività comuni, di condominio o di zona, con risultati eccellenti.
Diverse statistiche indicano che ognuno di noi produce circa 90/100 kg di rifiuto organico all’anno mentre un orto di 100 mq ne produce circa 350 kg.
Per fortuna anche i migliori gestori hanno iniziato a incentivare questa attività, fornendo anche il contenitore, e su internet si trovano tanti interessanti manuali di come produrlo. Provate!

idir-voce-cabilia

LA STORIA
Idir, la voce della Cabilia

Idir, nome d’arte di Hamid Cheriet, è nato in Algeria nel villaggio di Aït Lahcène, vicino a Tizi Ouzou, nella Grande (Alta) Cabilia, il 25 ottobre 1949. Idir, in lingua cabila, significa “vivrà”, così come le madri chiamavano tradizionalmente i figli più fragili.

Idir è il cantante e musicista cabilo più conosciuto all’estero, grazie al suo brano d’esordio intitolato “A vava inouva” (Il mio papà), una dolce ninna nanna, con il testo scritto da Ben Mohamed. Il musicista algerino esordì a Radio Algeri, inventandosi lo pseudonimo che lo avrebbe reso celebre, per non far capire ai propri genitori che stava intraprendendo la carriera artistica. “A vava inouva” ebbe un exploit immediato, da allora Idir ha prodotto un numero limitato di album, avvalendosi spesso dei testi di Ben Mohamed. Questo brano è considerato il primo grande successo venuto dall’Africa settentrionale e rappresenta l’affermazione del ritorno alle radici, un sentimento molto sentito dagli algerini.

idir-voce-cabilia
In concerto

La sua opera ha contribuito al rinnovo della canzone amazyghe e ha portato la cultura della Cabilia all’attenzione del pubblico internazionale, proseguendo la tradizione famigliare iniziata da sua nonna e sua madre, entrambe poetesse. Grazie alle donne della sua famiglia è cresciuto ascoltando storie ed enigmi, un valore immenso in una società basata sulla cultura orale, come ha detto lo stesso Idir: “La capacità di cesellare le parole e di inventare delle immagini, da noi, è ancora oggi molto apprezzata”.

Emigrato a Parigi nel 1975, Idir fa parte di quegli esuli senza “patria ufficiale” che si battono per il riconoscimento della propria cultura d’origine. In quel periodo la casa discografica Pathé Marconi gli produsse il suo primo album “A Vava inouva”, che diventò un successo planetario, distribuito in 77 paesi e tradotto in 15 lingue. Una versione francese è stata interpretata dal duo Davide Jisse e Dominique Marge. La musica della Cabila era la più diffusa nei quartieri a prevalenza araba di Parigi, perché gli immigrati provenivano da quella regione dell’Algeria. Dopo il successo del primo Lp, Idir pubblicò nel 1979 “Ay Arrac Neg” (Ai nostri bambini), iniziando una lunga serie di concerti ma, non riconoscendosi nel mondo dello show-business, scelse di eclissarsi per circa dieci anni, interrotti soltanto da alcuni recital.

idir-voce-cabilia
Alcuni cd e dvd di Idir

La sua carriera riprese nel 1991, in occasione della pubblicazione della compilation con i brani tratti dai suoi primi due album. Grazie al successo discografico ritornò sulla scena musicale, con una serie di concerti al New Morning di Parigi, dove raccolse numerosi elogi e il riconoscimento, da parte della critica, di precursore della World music.
L’anno successivo uscì l’attesissimo nuovo Lp “Les chasseurs de lumière” (I cacciatori di luce) dove cantò i suoi temi prediletti: l’amore, la libertà e la tristezza dell’esilio. Nell’album introdusse, a fianco dei darboukas, strumenti quali flauti, mandole e chitarre acustiche, dando un tocco di modernità al suo sound. Nel brano “Isaltiyen”, il cantante algerino duettò con Alan Stivell. Quello stesso anno si esibì all’Olympia di Parigi.

idir-voce-cabilia
Idir all’Olympia di Parigi

Idir, uomo di principi, partecipa spesso ai concerti per sostenere le cause in cui crede, nel 1995, insieme a Khaled, appoggiò un grande evento per la pace, la libertà e la tolleranza. In quella storica occasione il Raï oranais incontrò la poesia contestataria della Cabilia. Si trattò di un grande successo, per i due artisti, che riuscirono nella difficile impresa di riunire le comunità kabylophones e quella arabophones. Nel 2001, quando delle violente sommosse devastarono la Cabilia (la cosiddetta “Primavera nera”), il cantante organizzò un grande concerto allo Zenit di Parigi, dove numerosi artisti sostennero la rivolta del popolo di fronte al potere centrale algerino. Partecipò anche al concerto organizzato per ricordare Lounès Matoub, il cantautore algerino assassinato da un commando armato.

Con l’album “Identités” (1999) Idir si aprì alla Wolrd culture, collaborando con Manu Chao, Tulawin, Dan Ar Braz, Maxime Le Forestier (molto noto in Francia) e i gruppi Gnawa Diffusion e Zebda. L’esperienza prosegui con “La France des couleurs” del 2007, dove giovani autori composero con lui delle canzoni sul tema dell’identità. Collaborano artisti come Akhenaton, Leeroy, Sink, Kenza Farah, Wallen, Grand Corps Malade e Zaho.

Il più recente album di Idir, porta il suo stesso nome ed è del 2013, si tratta di un’opera intimista e personale, meno politica delle precedenti, con un brano dedicato alla memoria della madre, scomparsa qualche anno prima all’età di 96 anni. L’artista, liberatosi del suo status di chanteur militante, abbassa un po’ la guardia per lasciarsi andare alle emozioni. Il disco contiene la traduzione e l’adattamento di un’aria britannica del XVII secolo, “Scarborough Fair” e un pezzo di Beethoven “Tajmilt i Ludwig” (Clin d’œil à Ludwig).

idir-voce-cabilia
Una delle varie iniziative umanitarie a cui ha partecipato

La musica di Idir nasce dalla fusione di differenti sonorità ma, il punto di riferimento, resta il flauto del pastore cabiliano. Si tratta del primo strumento su cui ha imparato a suonare, costruito tramite il taglio di un giunco. La chitarra folk è venuta molto più tardi, al tempo del liceo, dove un francese gli insegnò i primi accordi che lui riprodusse con le cadenze e gli accompagnamenti tradizionali della sua regione natia.
Le sue canzoni, scritte in cabilo o in francese, hanno una portata universale e accompagnano sempre le cerimonie nuziali dei giovani della Cabilia. Il sociologo Pierre Bourdieu di lui ha detto: “Idir non è un cantante come gli altri, è un membro di ogni famiglia”.

Per ascoltare il concerto acustico di Idir (30’) trasmesso dall’emittente internazionale Tv5 Monde nel 2013 clicca qui.

Alla cieca

Buena vista central club: nel centro storico di Ferrara ormai abbondano i negozi di ottica: solo in corso Martiri, cuore della città, ce ne sono tre nello spazio di cinquanta metri. Negli ultimi mesi, infatti, due nuovi punti vendita (La lente e Dieci decimi) si sono aggiunti a Salmoiraghi. A conferma che, di questi tempi, in pochi ci vedono chiaro…

chiusura-denti-postura

Chiusura dei denti e postura

La chiusura dei denti fra loro (occlusione) e la postura del corpo sono strettamente legate. E’ infatti ormai noto come la disarmonia occlusale della bocca possa causare squilibri alla colonna vertebrale e quindi un’alterazione della postura. La deglutizione, l’occlusione e la postura sono legate l’una all’altra in quanto si realizzano tutte grazie all’azione della muscolatura.
Il corpo umano può essere paragonato ad un orologio. Perché funzioni è necessaria la sincronia perfetta di tutti i suoi componenti tra cui i muscoli, tutti collegati tra loro e indispensabili al corretto funzionamento. La mancanza di bilanciamento tra i vari gruppi muscolari è spesso la causa di alterazioni a livello della postura corporea.

Le componenti del sistema stomatognatico (lingua, labbra, mandibola, muscolatura orofacciale) e le quattro subunità funzionali muscolo-scheletriche del corpo umano (la cranio-cervico-mandibolare, il cingolo scapolare, il cingolo pelvico e l’area podalica) mostrano una stretta interdipendenza funzionale e posturale. Alcune abitudini come il bruxismo (serramento dentale notturno involontario) possono essere collegate a disturbi dolorosi del rachide (lombalgie, cervicalgie, dorsalgie). Nella moderna valutazione dei disordini cranio-mandibolari, un ruolo primario lo rivestono le abitudini posturali. Per occlusione si intende il contatto tra le arcate dentarie. Quando l’occlusione è corretta, i denti si toccano senza provocare scivolamenti della mandibola e si ha la sua massima stabilità durante la funzione. Quando è scorretta, i denti vanno ugualmente a cercare la massima intercuspidazione e la mandibola deve scivolare per trovare una posizione che consenta di avere il più alto numero possibile di contatti per ottenere la sua stabilizzazione durante la funzione.

L’ortodonzia e la gnatologia sono i rami dell’odontoiatria che studiano e curano i disturbi dell’occlusione; anche l’osteopatia è necessaria per la valutazione della postura cranio-cervico-dorsale in una visione globale. L’osteopata, attraverso dei test, esamina le disarmonie che possono alterare l’equilibrio fra bocca e colonna vertebrale o fra appoggio anomalo del piede e colonna vertebrale. Il sistema cranio-cervicale è considerato, da un punto di vista funzionale, come una unità; così, ad esempio, uno sbilanciamento posturale del mascellare superiore o della mandibola rispetto al cranio, provoca variazioni posturali generali con il coinvolgimento anche di organi.

Inoltre, la postura è il risultato di un adattamento fisiologico e psicologico alle varie funzioni dell’organismo come la masticazione, la respirazione, la visione, l’ascolto, il rapporto con il suolo, che garantisce al corpo un equilibrio. Le zone deputate all’equilibrio nel sistema nervoso centrale (Snc) ricevono impulsi dai muscoli del collo, del rachide cervicale e dalla pianta dei piedi. Poiché tutte queste informazioni hanno un loro ruolo nel mantenimento della postura, si rende importante valutare con attenzione se, ed eventualmente in che misura, ogni singola afferenza sia coinvolta nella determinazione dell’alterazione posturale. E’ quindi importante prestare attenzione alla sintomatologia per saper riconoscere e differenziare le patologie di tipo ascendente (ad esempio un appoggio podalico alterato che genera una disfunzione occlusale), da quelle di tipo discendente (ad esempio un’alterazione occlusale che genera un’alterazione nell’appoggio podalico).

Quindi alterazioni delle catene muscolari, con spasmi o contratture in alcuni gruppi muscolari, possono provocare tutta una serie di spostamenti rispetto alla normale postura che a loro volta richiedono compensi che causano la modificazione ulteriore dell’atteggiamento posturale del corpo.
È davvero importante far valutare la bocca e il cranio dei bambini all’osteopata che potrà riequilibrare le possibili deviazioni della bocca. Il corretto sviluppo della dentizione è fondamentale per la salute orale dei soggetti in età pediatrica, poiché contribuisce ad una occlusione stabile, funzionale ed esteticamente armonica. La cura e la prevenzione della salute del bambino comincia nei primi anni di vita, in cui il piccolo necessita di un controllo sullo stato della mascella e della mandibola per migliorare la condizione dei suoi dentini.

Di seguito una definizione delle più frequenti malocclusioni in età evolutiva:

• MORSO APERTO – OPEN BYTE: in occlusione, i denti posteriori sono a contatto, mentre gli anteriori rimangono distanziati.
• MORSO PROFONDO – DEEP BYTE: in occlusione, gli incisivi superiori coprono eccessivamente quelli inferiori.
• MORSO CROCIATO – CROSS BYTE: in occlusione, alcuni denti superiori chiudono all’interno dei rispettivi denti inferiori con possibile deviazione della mandibola ed asimmetria facciale. Può essere mono o bilaterale.
• AFFOLLAMENTO: i denti sono sovrapposti, in genere perché l’osso di supporto è piccolo o i denti sono larghi. In questi casi è frequente che alcuni denti non trovino lo spazio necessario per erompere in arcata (denti inclusi).

In età adulta ci sono dei sintomi che possono far pensare che la causa sia una disarmonia della bocca, un disturbo cranio-mandibolare.
Quali sono questi sintomi?

• Dolori all’articolazione temporo-mandibolare (Atm), localizzati e spesso confusi con dolori all’orecchio
• Bruxismo, digrignamento e/o serramento dei denti la notte
• Acufeni (fischi all’orecchio), vertigini, senso di ovattamento delle orecchie
• Nevralgia del trigemino
• Mal di testa di varie tipologie
• Dolori cervicali
• Tensioni muscolari alla mascella, al collo, alle spalle

Prevenzione, prevenzione e ancora prevenzione…

L’EDITORIALE
I ragazzi del ’99
(e un mondo da cambiare)

Da quali conflitti sono attesi i nostri “ragazzi del ’99” e quale mondo affronteranno? I loro coetanei, un secolo fa, sedicenni, furono mandati allo sbaraglio in guerra a morire al fronte per difendere la Patria. I nostri giovani, nati al serrar del sipario del ‘secolo breve’, nel 2015 si dovranno misurare con guerre non dichiarate, in uno scenario fatto pur sempre di macerie. Dovranno difendere se stessi dai detriti tossici di una società che, nell’età dell’opulenza, non ha saputo frenare i propri appetiti e a una pacifica e dignitosa convivenza ha preferito la logica della sopraffazione in funzione del profitto. La ricchezza individuale a discapito d’ogni equa e solidale coesistenza.
Così mentre nei convegni dibattiamo degli orrori del secolo scorso, di là dai vetri si consuma un presente non meno cruento.

Nel mondo di oggi, popolato da oltre 7 miliardi di uomini e donne, quasi un miliardo di persone vive in condizioni di povertà. Ogni cinque secondi un bambino muore di fame. Secondo il Wfp (World food programme) oltre 800 milioni di persone soffrono la fame e un individuo su nove non ha abbastanza cibo per condurre una vita sana e attiva. La malnutrizione favorisce le malattie e nei casi più drammatici porta alla morte. La Fao stima che ogni giorno 24mila persone muoiano per carenze alimentari: significano quasi nove milioni ogni anno. Eppure ci sarebbe cibo a sufficienza per sfamare l’intera popolazione mondiale.

Due miliardi vivono senza strutture igienico-sanitarie adeguate. Più di 4.000 bambini sotto i 5 anni muoiono ogni giorno di diarrea, una malattia facilmente curabile. Inoltre 72 milioni di bambini (in maggioranza femmine) non vanno a scuola.

Sull’umanità, paradossalmente, incombono rischi di siccità. Un miliardo di persone vive senza avere accesso all’acqua pulita. Un paio d’anni fa quaranta ex capi di Stato e di governo hanno messo a punto un rapporto sulla crisi idrica mondiale. Secondo il documento se non cambierà il modo in cui viene gestita l’acqua a livello globale, entro vent’anni molti Paesi – a cominciare da Cina e India – si troveranno di fronte a una domanda che non saranno in grado di soddisfare, con gravi ripercussioni per la pace, la stabilità politica e lo sviluppo economico. Il problema riguarda anche il nostro continente. Secondo le stime dell’Agenzia europea dell’ambiente l’11% della popolazione e il 17% del territorio europeo sono colpiti da carenza idrica.

E c’è dell’altro: nel 2015 potrebbero essere 375 milioni le persone colpite da calamità legate ai cambiamenti climatici, con un aumento del 50% rispetto agli attuali 250 milioni.
Si stima un aumento di 133 milioni di persone fra 6 anni, a causa di catastrofi naturali determinate dal riscaldamento globale.

Il 2013 secondo il Conflict Barometer dell’Heidelberger Institut für International Konfliktforschung è stato l’anno che ha fatto registrare il maggior numero di guerre dal 1945: 20 oltre a 414 conflitti armati. Il settore che trae profitto da questa drammatica situazione è ovviamente il mercato delle armi. Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute, nel 2012 sono stati investiti in spese militari 1.750 miliardi di dollari. La maggior parte degli Stati belligeranti è in Africa, il fronte più caldo assieme al Medio-oriente.
Ma ciò che emerge dalle stime dell’ Heidelberger Institut, secondo l’opinione di Caritas, Famiglia Cristiana e il Regno, artefici del rapporto “Mercati di guerra”, è solo la punta dell’iceberg.

Secondo il Gcap (Global call to action against poverty) ogni anno nel mondo si destinano oltre mille miliardi di dollari a spese militari, circa 325 miliardi all’agricoltura e solo 60 miliardi per aiuti allo sviluppo. Per ogni dollaro speso in cooperazione allo sviluppo, 20 dollari sono spesi per armamenti.

Sempre in tema di violenza nel 2012 sono stati censiti 437mila omicidi in tutto il mondo. L’area centro-settentrionale del Sud America risulta la più pericolosa.

Non meglio va sul fronte dei diritti umani. Tra il 2009 e il 2014, Amnesty International ha registrato torture e altri maltrattamenti in 141 Paesi. In 58 Stati resta in vigore la pena di morte, benché solo una minoranza la applichi con sistematicità. Fra i regimi democratici sono solo 7 a mantenerla nell’ordinamento, fra essi Stati Uniti, India e Giappone.

I regimi dispotici risultano essere 47. Secondo Freedom House le società meno libere del mondo, a pari demerito, sono Repubblica Centrafricana, Guinea equatoriale, Eritrea, Corea del Nord, Arabia saudita, Somalia, Sudan, Siria, Turkmenistan e Uzbekistan.

Infine i dati sulla corruzione: l’Italia qui mostra la propria eccellenza e guadagna la medaglia di fango. Il Corruption Perception Index 2014 di Transparency International, che riporta le valutazioni degli osservatori internazionali sul livello di corruzione di 175 Paesi del mondo, colloca il nostro al 69esimo posto della classifica generale, fanalino di coda del G7 e ultimo tra i membri dell’Unione Europea, scavalcato da Bulgaria e Grecia. Un bel primato.

Al tirar delle somme, non è un bel mondo. Ma lo sapevamo già. Così, mettendo in fila un po’ di numeri forse fa più impressione, però. Tanto c’è da fare. Non con le armi, ma con l’intelligenza e la forza della ragione. La temperie è quel che è. Ma lo abbiamo imparato da tempo e lo insegneremo ai nostri figli: scarpe rotte eppur bisogna andare.

appunti-economia-misura-uomo

LA RIFLESSIONE
Appunti per un’economia a misura d’uomo

I mass media rappresentano ogni giorno l’economia secondo un rituale che ha sostituito agli occhi di molti quello che per secoli era stato proprio della religione. Giornali, radio e televisioni descrivono quotidianamente la centralità di un’economia invadente che, da un lato, ha perso il significato profondo e, dall’altro, si mostra come indubitabile fatto tecnico, disciplina scientifica, rappresentazione oggettiva della realtà, sistema procedurale regolato da leggi ferree ed obiettive, apparentemente non modificabili. Da un lato si celebra la crescita quantitativa e dall’altro si esibiscono come casi umani quanti sono stati travolti dal sistema economico impazzito.
Questo tipo di discorso sociale proposto dai mass media ci dice assai di più sulla natura e l’evoluzione della nostra società di quanto possano dire i numeri, gli indici, gli indicatori e i casi umani sui quali questa rappresentazione vorrebbe fondarsi.
Vi è infatti dietro ad essi, dietro al pensiero unico dominante, un modo di pensare, un sistema di credenze diventato nella percezione comune un sistema di fatti inoppugnabili.
A fondamento di questo credo può essere posta una celeberrima frase di Adam Smith, uno dei padri dell’economia moderna, eletto a patrono delle varie forme di liberismo:

“Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del panettiere che ci aspettiamo la nostra cena, ma dalla loro considerazione del loro stesso interesse”.

Per fortuna però la nostra economia di mercato può essere osservata anche da altre e differenti prospettive: dal punto di vista sociologico, ad esempio, essa può essere pensata semplicemente come un’istituzione, ovvero un complesso di valori, norme, consuetudini che definiscono e regolano durevolmente, i rapporti sociali ed i comportamenti reciproci di soggetti, la cui attività è volta a conseguire un fine socialmente rilevante. Il fine, in questo caso, è quello di organizzare risorse con lo scopo di soddisfare al meglio i bisogni individuali e collettivi. Un fine che è andato perso insieme alla consapevolezza che l’economia è un prodotto umano, un sistema che nasce nella società e si fonda su dei valori: economia è innanzitutto una scienza morale, peccato che il percorso della modernità abbia finito per separarla dal contesto, trasformandola in una sfera autoreferenziale che funziona in base ad implacabili regole interne che hanno finito con lo scollegarla da molti dei valori fondativi dello stesso vivere civile. Con le parole più precise dell’economista David Korten:

“Non esiste espressione più forte per i valori di una società delle sue istituzioni economiche. Nel nostro caso abbiamo creato un’economia che stima il denaro al di sopra di tutto il resto, accetta la disuguaglianza come se fosse una virtù ed è spietatamente distruttiva nei confronti della vita.”

Questo meccanismo, che secondo molti critici sta distruggendo l’ambiente e i beni comuni, che pregiudica il funzionamento della società e l’identità stessa delle persone che la compongono, sembra, oggi più che mai, sfuggito di mano, con conseguenze che rischiano di essere gravissime. Eppure lo stesso Adam Smith aveva acutamente descritto alcune delle condizioni indispensabili perché l’agire interessato delle persone potesse portare buoni frutti. Nel lontano 1774 egli infatti sosteneva:

“Tutti i membri della società umana hanno bisogno di reciproca assistenza, e allo stesso modo, sono esposti a reciproche offese. Quando la necessaria assistenza è reciprocamente offerta dall’amore, dalla gratitudine, dall’amicizia e dalla stima. la società fiorisce ed è felice. Tutti i suoi diversi membri sono legati tra loro dai gradevoli vincoli dell’amore e dell’affetto, ed è come se fossero attirati verso un centro comune di reciproci buoni uffici.
Ma anche se la necessaria assistenza non dovesse essere assicurata da tali generosi e disinteressati motivi, anche se tra i diversi membri della società non dovesse esserci alcun amore e affetto reciproco, la società, sebbene meno felice e gradevole, non ne sarebbe necessariamente dissolta.
La società può sussistere tra diversi uomini, così come tra diversi mercanti, per un senso della sua utilità, senza alcun amore o affetto reciproco; e anche se in essa nessuno dovesse avere alcun obbligo, o legami di gratitudine verso qualcun altro, essa potrebbe essere ancora mantenuta da uno scambio mercenario di buoni uffici secondo una valutazione concordata.
La società, tuttavia, non può sussistere tra coloro che sono pronti in qualunque momento a danneggiarsi o farsi torto l’un l’altro. Nel momento in cui quel torto ha inizio, nel momento in cui si manifestano risentimento ed animosità reciproci, tutti i suoi legami si spezzano e i diversi membri che la costituivano sono come dissolti e dispersi via dalla violenza e dal contrasto delle loro discordanti affezioni. Se c’è qualche società tra ladri ed assassini, essi devono perlomeno, secondo una trita osservazione, astenersi dal derubarsi e dall’uccidersi l’un l’altro.
La beneficienza, dunque è meno essenziale della giustizia all’esistenza della società. La società può sussistere, anche se non nel suo stato più confortevole, senza beneficienza; ma il prevalere dell’ingiustizia non può che distruggerla completamente”.

Senza la prospettiva della giustizia, priva di uno stock consistente di beni comuni, l’economia di mercato diventa un meccanismo cieco e perde dunque ogni orientamento e ogni umana direzione: senza l’idea di reciprocità – che non è riducibile al mero utilitarismo – ogni persona perde la speranza; senza una base profonda di cooperazione e fiducia la competizione economica diventa semplicemente distruttiva. Giustizia e salvaguardia dei beni comuni e collettivi non sono perciò delle limitazioni che si mettono al libero mercato impedendone il buon funzionamento e minandone l’efficienza: al contrario, esse sono il fondamento in assenza del quale l’intero sistema sociale è destinato a corrompersi e ad implodere. Regole giuste e virtù civili diffuse sono indispensabili al buon funzionamento dell’economia di mercato tanto quanto lo sono l’efficienza delle imprese e la fiducia dei consumatori. Il sistema economico è lo specchio dei valori della società: oggi più che mai è quindi importante ritrovare i fondamentali dell’agire economico ed immettere in questo sistema nuovi valori generativi che non siano riducibili semplicemente al dogma della crescita e all’imperativo del consumo.

IMMAGINARIO
A spasso nel presepe.
La foto di oggi…

Camminare in mezzo al presepe: a Ferrara è possibile con le capanne e i sentieri allestiti nel giardino del Seminario. Un imponente Castello estense accoglie i visitatori, che possono ammirare la natività immersa in un paesaggio ferrarese che rappresenta, da una parte, il panorama dei ricchi e, dall’altra, quello dei poveri. Sullo sfondo il grande plastico dei Tre ponti di Comacchio. Un’opera realizzata con dovizia di particolari dai seminaristi con monsignor Mario Dalla Costa e lo scenografo Stefano Reolon. Ingresso libero, via Fabbri 401, tutti i giorni dalle 9 alle 19. (Giorgia Mazzotti)

OGGI – IMMAGINARIO EVENTI

Ogni giorno immagini rappresentative di Ferrara in tutti i suoi molteplici aspetti, in tutte le sue varie sfaccettature. Foto o video di vita quotidiana, di ordinaria e straordinaria umanità, che raccontano la città, i suoi abitanti, le sue vicende, il paesaggio, la natura…

[clic su una foto per ingrandirla e vedere tutta la galleria]

presepe-seminario-ferrara-aldo-gessi
Presepe nel seminario di Ferrara (foto di Aldo Gessi)
presepe-seminario-ferrara-aldo-gessi
Cammino coi pastori verso la natività (foto di Aldo Gessi)
presepe-seminario-ferrara-aldo-gessi
La capanna (foto di Aldo Gessi)
presepe-seminario-ferrara-aldo-gessi
La natività (foto di Aldo Gessi)
presepe-seminario-ferrara-aldo-gessi
Bambina tra i pastori (foto di Aldo Gessi)
presepe-seminario-ferrara-aldo-gessi
Presepe a misura di visitatori grandi e piccoli (foto di Aldo Gessi)
presepe-seminario-ferrara-aldo-gessi
Scenografia coi Tre ponti di Comacchio (foto di Aldo Gessi)
presepe-seminario-ferrara-aldo-gessi
Un altro particolare del pesepe (foto di Aldo Gessi)
presepe-seminario-ferrara-aldo-gessi
Il Castello estense ricostruito nel giardino del seminario (foto di Aldo Gessi)
quando-discorso-non-impresa-semplice-re

Quando fare un discorso non è impresa semplice, anche per un Re

Un affascinante Duca di York che balbetta, un difficile anno 1925 per Albert (Colin Firth), secondo figlio di re Giorgio V, che deve tenere l’importante discorso di chiusura dell’Empire Exhibition, al prestigioso stadio londinese di Wembley, al posto del padre.
Il problema di balbuzie che lo affligge è fonte per lui di grande disagio, oltre che di grave imbarazzo per coloro che lo circondano. Se si parla a un microfono di fronte a migliaia di persone, poi, potete ben immaginare la situazione. Un incubo dei peggiori.

quando-discorso-non-impresa-semplice-re
La locandina

Terapie, sforzi, gargarismi, logopedisti, consulti con medici, più o meno seri e impegnati, tutto è stato inutile, al punto che il Duca decide di rinunciare al supplizio di dover tenere discorsi in pubblico. Tanto più che il suo ruolo secondario, rispetto al fratello, Edoardo, il Principe di Galles, che sarà il futuro re, gli permette una posizione più ritirata e discreta. Albert si dedica molto alla famiglia, i suoi problemi di parola sembrano scomparire solo di fronte all’amore immenso della fedele e devota moglie Elizabeth (Helena Bonham Carter) e delle figlie Margaret e Elizabeth (la futura Elisabetta II).

quando-discorso-non-impresa-semplice-re
Una scena del film, Bertie impegnato negli esercizi contro la balbuzie

Sarà proprio la consorte a recarsi dal terapeuta di origine australiana Lionel Logue (uno splendido Geoffrey Rush), esperto nei problemi del linguaggio, per chiedere aiuto. Inizialmente reticente, il Duca di York (Albert Frederick Arthur George Windsor, per la precisione) verrà convinto dai metodi di Lionel e inizierà, insieme a lui, un percorso difficile che li porterà al successo.
Lionel vuole essere chiamato solo Lionel, senza formalismi e con le sue stette e precise regole, il principe sarà invece unicamente Bertie, come lo chiamano in famiglia. Un sodalizio fondamentale che diventerà anche confidenza oltre che una grande e intensa amicizia. Storia a tratti anche molto ironica e divertente.

quando-discorso-non-impresa-semplice-re
Bertie in un discorso in pubblico

Il fratello, che sale al trono come Edoardo VIII, deciderà di abdicare, per poter restare con la sua Wallis Simpson, e Bertie sarà proiettato sotto le luci della ribalta, obbligato, per ruolo e circostanze storiche a dover parlare in pubblico. La storia, infatti, chiama.
Mentre la cerimonia d’incoronazione si svolge senza problemi, al fatidico momento della dichiarazione di guerra alla Germania del 1939, Bertie ormai divenuto Giorgio VI, convoca Logue a Buckingham Palace per preparare il discorso alla nazione da trasmettere via radio. Nonostante la difficoltà del momento e la grande emozione, Logue riesce a calmare il Re e gli rimane a fianco durante la lettura del discorso, accompagnandolo con gesti ritmici e aiutandolo con lo sguardo a mettere in pratica le tecniche imparate. Il discorso è un successo e suscita un forte impatto emotivo nella nazione. Il re, con moglie e figlie si affaccia al balcone di Buckingham Palace e saluta le migliaia di persone accorse per applaudirlo.
Un bel film, tipico della tradizione del cinema britannico degli anni 2000, quando si dedicava alle biografie reali, con radici nelle opere di William Shakeaspeare, che appare anche nella recitazione di Amleto di Bertie, o in quelle di James Ivory.

quando-discorso-non-impresa-semplice-re
Il Re con moglie e figlie

I personaggi qui si muovono in pochi ambienti, per lo più interni, dove l’impressione di trovarsi in un teatro in scatola è smussata da una regia e da una sceneggiatura che non calca mai la mano, privilegiando il tocco leggero ai toni accesi. “Il discorso del re” resta soprattutto un inno alla voce e all’importanza delle parole. Situato nel XX secolo, quando i mezzi di comunicazione di massa assumevano un’importanza fondamentale per il vivere quotidiano del cittadino (poche parole del Re via radio potevano donare un briciolo di rassicurazione alla gente, specie durante i conflitti bellici, che rimaneva incollata a quella voce), il film è costruito da un’incessante partitura dialettica che ricorda sia la necessità di adoperare le giuste parole da parte del potere, sia che una storia acquista maggior valore se tramandata ai posteri attraverso un persuasivo impianto oratorio. Atmosfera storica bellissima e interessante, poi, elogiata anche dalle regina Elisabetta, veritiera e d’incanto. Da vedere.

Il discorso del re, di Tom Hopper, con Colin Firth, Geoffrey Rush, Helena Bonham Carter, Guy Pearce, Timothy Spall, Derek Jacobi, UK, Australia, USA, 2010,114 mn.

artifices-sublime-2015

GLI AUGURI
Artifices di un sublime 2015

Gli auguri non bastano mai e noi di ferraraitalia ve ne facciamo di buoni… e tanti. Ma anche se sono tanti, cari e sinceri, non bastano ancora. Ci vuole da parte di ognuno la forza di raccoglierli tutti questi auguri e ‘trasfigurarli’. Occorre mettersi a pensare e a dargli una forma, a seconda delle proprie inclinazioni, e tradurli in azioni e gesti, in ‘lampi sublimi’, affinché accada realmente qualcosa di buono nella propria vita e nel mondo.
Sebastiano Filippi detto il Bastianino, di auguri probabilmente ne ricevette tanti, e seppe farne genialità. Alle indubbie potenzialità, all’esperienza e alla dedizione, si univa in lui l’intelligenza di collaborare con il padre Camillo e il fratello Cesare nell’officina di famiglia e, allo stesso tempo, di lasciarsi portare ‘altrove’ stabilendo un confronto con maestri quali Michelangelo e Tiziano. Solo così seppe fare cose meravigliose che, ancora oggi, ci inondano di luce, di magia… e felicità.

“[…] un artista appartato, che rifletteva lungo piste misteriose.”

E allora tanti auguri per un sublime 2015!

La mostra “Lampi sublimi. Tra Michelangelo e Tiziano, Bastianino e il cantiere di San Paolo”, è in corso alla Pinacoteca nazionale di Ferrara, Corso Ercole I d’Este 21, fino al 15 marzo.

Orari di apertura
– martedì e mercoledì 9.00-14.00
– da giovedì a domenica: ore 9.00-19.00
La biglietteria chiude mezz’ora prima dell’orario di chiusura del Museo.
Chiuso 25 dicembre, 1 gennaio (salvo apertura straordinaria, consultare la pagina news del sito della Pinacoteca vedi)

caffe-europa

LA NOTA
Antiche dolcezze di Ferrara fra Boni, Europa e Leon d’Oro

Incollati alla vetrine, non ne abbiamo mai abbastanza. Proprio mai. Dolcetti, torte, tortine, panettoni, pastine, pastarelle, gelati, semifreddi, caramelle, muffin, macarons, praline, cioccolatini.

dolci-auguriDolcezza, morbidezza, tenerezza. Ne abbiamo avuta tanta, in queste feste, viziati e coccolati come quando, da bambini, appiccicavamo mani e naso ai vetri dei panettieri e dei bar come Boni. C’erano i supporter di quest’ultimo e quelli del bar Europa, quasi due fazioni agguerrite e convinte della bontà superiore del cannoncino alla crema dell’uno o dell’altro. C’era poi chi tifava per i dolci del Leon d’Oro o per quelli del Centro Storico. Chi più chi meno, ciascuno era un ‘afecionado’ di un suo posto che lo accoglieva nelle domeniche pomeriggio o nelle sere d’estate. Se poi si cercava il buon gelato, il K2 dagli antichi banconi era pronto a servire i più golosi.

Oggi le pasticcerie del centro sono ancora quelle storiche, dalle quali emana sempre il delicato profumo del croccante pasticcio alla ferrarese o del panpepato, ma ve ne sono anche di nuove. In questo periodo soffici panettoni addobbati con presepi e babbi natale sorridono ai passanti golosi e un po’ appesantiti dai bagordi culinari natalizi, tutto ancora sfavilla. Mi perdo nella ricciolina salata o nelle paste alla squisita crema pasticciera, Ferrara sa di casa anche per questi eterni profumi, oltre che per la ciambella che mi corre incontro. Mi attende a braccia aperte, lei e il suo zucchero a velo leggero. Quasi con un immenso abbraccio morbidamente cosmico.
Restiamo incollati alle vetrine allora, ancora un po’, perché no, nell’attesa che il nuovo anno arrivi con tante belle novità e che il vecchio se ne vada, portandosi via solo noie e dispiaceri e lasciandoci i ricordi di quanto di bello ci ha, invece, portato.
dolci-auguriAmmiriamo queste vetrine dolci e colorate, perché dolcezza e colore arrivino a tutti voi. Godetevi questo capodanno dal sapore di miele, ammirate il nostro Castello che darà ancora spettacolo infuocato. Bevete alla nostra e alla vostra salute, brindate all’amicizia, all’amore, a questo giornale che ha dato tanto a tanti.
Le pasticcerie di tutti il mondo vi sorridono e vi mandano tanti baci dolci. Un clap clap per tutti voi. Tanti auguri caramellati.
Buon anno, allora, cari lettori, fedeli amici di ogni giorno.
Buon anno a tutti voi, e tanta dolce felicità.
Salute a tutti, poi. Tanta.
Serenità.

La dolcezza non ha confini: Pasticceria Eliseevskij, Prospettiva Nevskij 56, San Pietroburgo (foto di Simonetta Sandri)

 

 

cine-proposte-feste

Cine-proposte per le feste: qualità filmica e divertimento

Gli incassi cinematografici dei cinepanettoni, realizzati appositamente per intercettare quella fetta di pubblico che va al cinema solo poche volte l’anno, costituiscono una importante percentuale del budget annuale.
Il genere nasce negli anni del craxismo e si propaga per tutto il periodo del ventennio berlusconiano. I Vanzina rivisitarono “Vacanze d’inverno” di Camillo Mastrocinque del 1959, interpretato da Alberto Sordi e Vittorio De Sica, e nacque così l’antesignano del ciclo “Vacanze di Natale ’90” che si è concluso, speriamo, con “Vacanze di Natale a Cortina” del 2011.
Nel corso degli anni, il trend del format si è via via ridotto: il Natale 2013 ha visto infatti l’en plein di “Principe abusivo” di Alessandro Siani, con oltre 16 milioni di euro, seguito da “Un bosso in salotto “ uscito il 1° gennaio, con oltre 12 milioni; un cinema, dunque, che punta ancora sull’evasione e il divertimento, ma con commedie più orientate su temi sociali e di costume, per ridere senza smettere di pensare.
Alcune proposte per questo Natale 2014: “Un Natale stupefacente”, con la collaudata coppia Greg & Lillo; “Ma tu di che segno 6” con Boldi e Salemme; il trio Aldo Giovanni e Giacomo in “Il ricco il povero e il maggiordomo”; “Ogni maledetto Natale” una commedia agrodolce, forse la migliore proposta nel genere, con Corrado e Caterina Guzzanti, Valerio Mastandrea, Laura Morante. L’11 gennaio uscirà “Si accettano miracoli” con il quale Alessandro Siani si propone di bissare il successo dello scorso anno. Dai primi giorni di programmazione sembra affermarsi il film di Gabriele Salvatores “Il ragazzo invisibile”, che coniuga qualità filmica e intrattenimento.
Sul versante fantasy e animazione Usa: “La battaglia delle 5 armate”, con gli elfi, i nani e le creature mostruose della saga tolkeniana; per i più piccini “Big hero 6”, protagonisti simpatici e accattivanti pinguini; “Paddington”, in cui l’orsetto è perseguitato dalla perfida Nicole Kidman; ancora “I pinguini del Madagascar” della 20th Century Fox.
Per il cinema più autoriale, da segnalare dal Regno Unito “Pride”, storia vera ed emozionante dell’incontro tra i minatori in lotta e i gay e le lesbiche nel tacherismo anni ’80; “Big eyes” del sempre stupefacente Tim Burton; “The imitation game”, ennesima ma curatissima ricostruzione della vicenda Enigma; l’inquietante “L’amore bugiardo”, del regista di “Seven” David Fincher, con Ben Affleck; infine l’inevitabile Woody Allen di “Magic in the moonlight”.
Infine, per quelli più esigenti, segnaliamo e consigliamo alcune pellicole, se riuscirete a trovarne la programmazione: “Due giorni, una notte” di Jean e Pierre Dardenne; “St. Vincente” con Bill Murray; il visionario e struggente “Il sale della terra” di Wim Wenders; infine l’ultima opera di Ken Loach “Jimmy’s hall”.

Dunque, attenzione alla programmazione, e approfittiamo di questi giorni per una scorpacciata di cinema, meglio se scelto a ragion veduta.

TEST DI CULTURA CINEMATOGRAFICA
Considerati i torpori natalizi, poche domande con qualche piccolo aiuto… per le risposte clicca qui

1) “Francamente me ne infischio.” (l’attore dal baffo arrogante…) Risposta: Via col vento

2) “Mi piace l’odore del napalm al mattino” (uno dei libri del Vecchio Testamento) Risposta: Apocalypse Now

3) “Suonala, Sam. Suona ‘As Time Goes By’ (senza aiuto… evidente) Risposta: Casablanca

4) “Vedo la gente morta” (nel titolo, ne abbiamo 5) Risposta: Il sesto senso

5) “Signora Robinson, sta cercando di sedurmi, vero?” (musica di Simon e Garfunkel) Risposta: Il laureato

interviste-infedeli

La latitanza di Dio, i travagli di Satana

In quanti modi puoi chiamare Dio? In mille modi, direbbe Corrado Guzzanti: “… tanto non ti risponde”.
In effetti, le domande che Gian Pietro Testa rivolge a Dio nelle sue “Interviste infedeli” (Este Edition, 2014) non trovano risposta, fatto evidente anche dalla forma narrativa – una lettera, sorta di carta di richiesta burocratica rifiutata. Cosa che non succede alla controparte diabolica, che di diabolico sembra avere solo il nome, che si presta invece al dialogo. Presentato il 23 dicembre alla Sala Estense nell’ambito della rassegna Autori a Corte, il libro è stato raccontato al pubblico attraverso alcuni brani letti da Elena Felloni, e una chiacchierata tra Testa, Sergio Gessi (ferraraitalia) e Riccarda Dalbuoni.

latitanza-dio-travagli-satana
La presentazione, da sinistra, Gessi, Dalbuoni, Testa, Felloni

Dio è muto, assente e un po’ distratto. Una fidanzata in coma, per dirla con Bill Emmott. Un bambino abituato a essere riverito dai genitori adoranti, la ballerina che dà buca al fidanzato rimasto ad aspettarla sotto la pioggia nella canzone di De Gregori. Completamente sordo, o peggio ancora indifferente, alle domande che in fondo ogni cristiano (nel senso popolare del termine) si pone, affrontate impugnando l’arma e lo scudo dell’ironia. Affondando le mani in qualche pezzo di storia particolarmente ricco di Dio – come lo intenderebbe Buzzati – scoprendo che il susseguirsi di questi momenti è un flusso ininterrotto: crociate, guerre, assurdo ordini biblici e una verità assoluta che si scontra con tanti nomi, tutti credibili, di come definirla questa verità, senza peraltro averne certezza; e ancora la tristezza e la cattiveria di un genere umano che ruba, uccide, falsifica e rifiuta, usando anche la religione come strumento di potere, fino a quando la domanda arriva: l’uomo è davvero plasmato a somiglianza di Dio, o Dio è stato immaginato a sua immagine?

latitanza-dio-travagli-satana
Presentazione nell’ambito della rassegna ‘Autori a corte’

Nelle due chiacchierate non c’è un punto di arrivo, non c’è la possibilità di un accordo. Né con Dio, né con la sua controparte. Ma “Con Satana è stato più facile, perché ogni giorno uscendo di casa ne incontro centinaia”, precisa Testa. É più conoscibile, lo si ritrova in un volto, un gesto, una voce; si materializza, prende forma, è reale più del barbuto vecchio che dirige impassibile il bene e il male, seduto oltre le nuvole. Perché alla fine attira più simpatia di Dio, mettendosi in gioco e rivelandosi umano troppo umano negli aspetti migliori, dissacrante nella sua evidenza. Allo stesso modo, sembra più facile identificarsi con Paperino, sfigato paperastro rassegnato al suo destino sempre uguale, che con Topolino, pelouche al posto d’onore con le pile scariche al momento di pronunciare la frase registrata.

Satana è conciliante, serioso, stufo marcio di stupidità e cattiveria del capro espiatorio toccato a lui che, del glorioso e temibile Mefistofele descritto da Marlowe, conserva solo l’indole seria e cerebrale non restandogli che quello di Goethe, condannato non a essere l’angelo caduto, con la sua aura di bellezza e dannazione, ma a fare il becchino dei divini avanzi. Una creazione e uno scarto di Dio, un esodato senza cassa integrazione costretto a districarsi tra arrivi di massa e santi farlocchi, strenuo difensore della libertà di pensiero, anarchico interlocutore e forse specchio del curioso, machiavellico osservatore dell’Aldiqua e Aldilà, saggio dispensatore di consigli e crudo osservatore di professioni e saperi umani che gli uomini hanno reso vizi (filosofia, poesia, teologia, politica), bisognoso di essere ascoltato e capito, tornato in terra solo per deridere l’idiota genere umano.

Un povero diavolo come qualche miliardo di persone sulla faccia della Terra.

compensazioni

L’IDEA
Compensazioni alternative
per stoppare chi inquina

Il tema è delicato e in genere viene affrontato in sede privata, mentre ci sarebbe tanto bisogno di trasparenza. In premessa si potrebbe riprendere il principio sancito dalla Unione Europea: “chi inquina paga”. Però sappiamo bene invece (Coase ne ha fatto un teorema) che chi inquina accetta di smettere se ha dei vantaggi e che chi è inquinato è disposto a pagare per stare meglio. Insomma non c’è giustizia in temi ambientali. Invece si potrebbe fare di più valutando delle compensazioni per chi subisce.
Si ritiene possa essere utile allora esprimere qualche considerazione sul complesso tema delle compensazioni, spesso presenti nei bilanci alla voce “esternalità”, su cui si ritiene e si rileva sia crescente l’attenzione e la necessità di un maggiore approfondimento.
Naturalmente si è consapevoli della complessità del tema, della aleatorietà di elementi oggettivi, della articolazione ampia di posizioni e di impostazioni, così come della problematicità e delicatezza dell’argomento. Lo scopo dunque è solo quello di porre il tema a chi potrà, con migliori elementi, portare contributi e valutazioni.
Va ricordato che il sistema tariffario non prevede l’introduzione di costi finalizzati ad attività di compensazione per impatti ambientali, né forme di incentivi per adeguamenti territoriali; esso è semplicemente orientato alla determinazione delle componenti dei costi del servizio di gestione del ciclo dei rifiuti urbani che costituiranno la tariffa da applicare in un determinato territorio.
Si evidenzia tuttavia che, in fase di costruzione di un impianto di smaltimento dei rifiuti, la necessità di realizzare opere aggiuntive finalizzate a mitigare le pressioni ambientali che l’impianto produce, fanno normalmente parte dei costi di realizzazione dello stesso impianto e che le misure di mitigazione ambientale in genere vanno a beneficio dell’area di influenza.
Le compensazioni ambientali non sono e non devono però essere il frutto di una semplicistica contrattazione economica tra l’amministrazione che potrebbe ospitare un impianto di smaltimento e il gestore dell’impianto stesso. Servono dunque criteri comuni di valutazione e di equità sociale e territoriale per corrispondere ai disagi e ai costi esterni generati dalla realizzazione dell’impianto, in quanto la stima dei costi esterni dovrebbe tenere conto dei reali impatti prodotti. Ma serve soprattutto considerare tra i destinatari i cittadini stessi.
Si potrà affrontare allora il tema degli “oneri accessori per interventi di mitigazione permanenti” che interessano il territorio in cui l’impianto si colloca (come la riorganizzazione del sistema viario, la creazione di aree a verde, altri interventi di mitigazione dell’impatto ambientale sul territorio).
In prospettiva è auspicabile che si vada verso una metodologia di calcolo semplificata e verso la definizione di uno standard, regionale o ancor meglio nazionale, di regolazione delle compensazione, fissando valori differenziati rispetto a diverse soluzioni impiantistiche e/o delle tipologie di rifiuti smaltiti e/o della provenienza dei rifiuti.
Il tema potrebbe essere allargato a molti altri settori di cui non ho esperienza, ma che facilmente si possono intuire.

renzi-jobs-act

IL VETRIOLO
Guida semiseria al Jobs act

Ecco, ci siamo! Dopo mille annunci e montagne insormontabili di chiacchiere, ora il famoso jobs act è legge e dal 1° gennaio entrerà ufficialmente in vigore.
Con esso scomparirà definitivamente, per i nuovi assunti, il contratto a tempo indeterminato, sostituito da un sedicente “contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti” nel quale l’indeterminatezza resta solo formale, mentre le tutele crescenti sono rappresentate unicamente da un indennizzo che può arrivare fino a 24 mensilità. Al datore di lavoro infatti basterà inventarsi un motivo economico anche totalmente inesistente e potrà licenziare, previo pagamento dell’indennità, chi e quando vuole.
E però… c’è un però. Il lavoratore infatti può impugnare il licenziamento stesso in quanto discriminatorio e, se il giudice gli dà ragione, ottenere la cancellazione del licenziamento e il reintegro nel posto di lavoro, proprio come se ci fosse ancora l’art.18 dello Statuto dei Lavoratori. Del resto, non si poteva cancellare anche questa possibilità: sarebbe stato contrario non solo alla ormai plurioltraggiata Costituzione italiana, ma addirittura alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo! Certo anche questo un testo appartenente ad un epoca remota e quindi probabilmente da rottamare, ma insomma… è evidente che ci sarebbe stato qualche problema di troppo.
Però, a pensarci bene, si tratta di un appiglio mica da poco!
Basti leggere quello che ha scritto qualche giurista certamente troppo “ideologico” e “di sinistra” sul sito wikilabour: «se le ragioni economiche poste a fondamento di un licenziamento risultano insussistenti, il licenziamento stesso si configura come licenziamento discriminatorio, in quanto, eliminata la causale economica, resta solo il fatto che l’impresa ha scelto di eliminare quel certo dipendente per sue caratteristiche personali non gradite: tal genere di licenziamento può sicuramente essere definito come discriminatorio».
Caspita! Il ragionamento, bisogna ammetterlo, non fa una grinza! E se davvero così fosse, quel ch’è uscito dalla porta potrebbe rientrare dalla finestra!
Ci pensate a come sarebbe incazzato il senatore Sacconi? O imbarazzato il Ministro Poletti?
Per essere proprio sicuri che funzioni, sarebbe però opportuno “rafforzare” le possibilità di veder riconosciuta una discriminazione. Ecco allora qualche consiglio per i neoassunti che vogliono aumentare la sicurezza del proprio posto di lavoro, creando le premesse per un possibile ricorso antidiscriminatorio:
1 – iscriversi alla Cgil (discriminazione per motivi sindacali);
2 – partecipare a tutti gli scioperi proclamati (idem);
3 – aderire a qualche setta religiosa sconosciuta (discriminazione per motivi religiosi);
4 – aderire ad un partito ultraminoritario (discriminazione per motivi politici);
5 – meglio ancora fondare un partito proprio e presentarsi alle prossime elezioni, ma in questo caso fare molta attenzione perché di questi tempi si rischia anche di vincerle!;
6 – dichiarare pubblicamente la propria omosessualità (discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale);
7 – prendere la cittadinanza marocchina o pakistana o di altro Paese straniero, preferibilmente africano o asiatico (discriminazione in base alla nazionalità di provenienza);
L’elenco potrebbe, ovviamente, allungarsi quasi all’infinito.
E’ solo uno scherzo? Certo, ma non lontano dalla realtà.
E’ tutta una follia? Appunto.

porta-dorata

LA STORIA
Al di là della porta dorata

da MOSCA – Quella porta bianca dalle ali dorate nasconde qualcosa di magico. Quella porta candida, l’entrata alla platea del magico ed eterno Bolshoi, schiude sogni e apre magie. Come sempre, insieme ai nostri amici incrociati lungo la strada, siamo lì anche a noi a sognare.
La campanella suona leggera, trilla piano piano, tintinna come se fosse sfiorata dalle ali di un cherubino. Delicata, dolce e amabile.

porta-dorata
Gli spettatori al foyer del Bolshoi

Così ci sarà aldilà delle lucenti vetrate? Cosa aspetta noi, il pubblico esitante e i ballerini eccitati ed emozionati? Quella porta rappresenta tutto, qualcosa di diverso per ciascuno di noi. Soprattutto per Daria e Ilya che hanno calcato i palcoscenici più famosi di tutta la Russia e che, oggi, esitano di fronte a quel mostro sacro. Il loro esordio in Romeo e Giulietta, dietro quelle tende imponenti sulle quali è ricamata la parola “Russia”, li fa tremare un po’. Timorosi ma felici.

Non è facile realizzare il sogno di una vita, quando si comprende che ci si è finalmente, e quasi incredibilmente, di fronte.
Hanno faticato, danzato, sudato, esitato, passato pomeriggi a provare e riprovare, a saltare, correre, piroettare, sfidare la pioggia battente e la neve incessante per arrivare in tempo alle prove, con il vento siberiano che faceva sobbalzare colbacchi e borse piene di fasce, corpetti, calzamaglie e scarpe da danza dalla dura punta di gesso. Gli scaldamuscoli non erano quasi mai sufficienti a riscaldare gambe fredde sui primi palcoscenici lontani di periferia. Ma poi erano arrivati luoghi più curati e riscaldati, la fatica e l’impegno li avevano sempre guidati, insieme all’amore per la danza, per la musica, per le note di quei compositori che avevano reso grande la Russia. Immensa, sterminata, smisurata, possente, materna e anche molto possessiva. Un Paese che, alla fine, li aveva accolti e compresi, fino a portarli di fronte ai più grandi ed esigenti pubblici. Fino al Bolshoi. Fino a quella porta dalle ali dorate. Ora erano lì, giovani, felici, innamorati di loro stessi e della loro arte, della loro passione travolgente, della loro vita.

porta-dorata
La porta dorata che conduce in platea

Dietro quella porta si stava per schiudere il sogno più sognato. Quella porta era pronta ad aprir loro un mondo magico e di fiaba. Dietro quella porta non vi era solo un traguardo tanto atteso ma anche il coronamento della loro storia d’amore. Perché Daria e Ilya si erano conosciuti nei camerini dell’antico Kirov e nella danza avevano alimentato anche il loro amore. Che, nel tempo, passo dopo passo, era cresciuto con loro e insieme a loro. Forte e vigoroso come i loro pas de deux, intenso come i volteggi e i salti verso il cielo. Dietro quella porta lui le avrebbe sussurrato, ancora e per sempre, le parole di William Shakespeare: “io desidero quello che possiedo; il mio cuore, come il mare, non ha limiti e il mio amore è profondo quanto il mare: più a te ne concedo più ne possiedo, perché l’uno e l’altro sono infiniti”. Un giuramento eterno.
Perché il loro sogno ora era realtà, mentre la porta si apriva.

paese-che-siamo

Il Paese che siamo

Allora diciamolo: siamo ancora un Paese con poca istruzione e con poca cultura. Per di più la tendenza è al peggioramento. La scarsa dose di questi ingredienti cucina sempre una cattiva democrazia e una cattiva libertà. I dati sono forniti dall’ Istat, nell’Annuario statistico italiano per il 2014.
Ci si iscrive di meno alle università, si legge poco e il 70% dei nostri connazionali non ha mai assistito a un concerto di musica classica.
Eppure la scolarizzazione nel corso degli anni è andata sempre crescendo, fino a raggiungere ormai il cento per cento dalla scuola dell’infanzia alla scuola media e il 99,3% dei giovani tra i quattordici e i diciotto anni. Ma, se solo tre cittadini su dieci sono in possesso di una qualifica o di un diploma d’istruzione secondaria superiore e solo uno su dieci possiede un titolo universitario, è indubbio che qualcosa non funziona per il verso giusto.
Un vero fallimento per il nostro sistema scolastico e universitario, che allontana sempre più non solo le prospettive di cambiamento, ma anche quelle della ripresa.
Prendersi cura dell’istruzione e della cultura è un atto d’amore. Ricordate Mor? Mor, ovvero Amore, nella Città del sole presiede all’educazione dei suoi abitanti, oltre che alla procreazione e al lavoro. Noi siamo in deficit su tutta la linea.
Voi direte che di utopia si tratta, ma vivaddio, tra utopia e distopia, tra il desiderabile e l’indesiderabile ci sta in mezzo un bello spazio da riempire.
Nell’ultimo anno, sei italiani su dieci non hanno letto neanche un libro, per non parlare dei quotidiani, in tanto la spesa delle famiglie italiane per il tempo libero e la cultura continua a calare, già è scesa del 6,9% rispetto al 2011. Le imprese culturali e creative si sono ridotte sempre più, con performance che sono le peggiori in assoluto del sistema produttivo preso nel suo insieme.
A leggere il rapporto dell’Istat si scoprono alcune cose curiose. Ad esempio che i ragazzi tra gli 11 e i 14 anni sono i più assidui frequentatori di musei, luoghi archeologici e mostre, ma poi, appena arrivano ai 15 anni per l’80% non li frequentano più. Come è curioso che la quasi totalità dei bambini tra i 6 e i 10 anni nell’ultimo anno non abbia fatto l’esperienza di assistere a un concerto di musica classica.
Qui la scuola e i genitori c’entrano, eccome. Perché se alcune abitudini non si apprendono subito da piccoli, poi è assai difficile recuperare. È come imparare a camminare e a parlare, se fin da piccoli si familiarizza con l’arte e le sue espressioni poi non si dimentica più.
Questo Paese, che per lungo tempo ha considerato i musicisti baciati da Dio, ha evidentemente pensato bene di delegare tutto il lavoro a lui e di continuare a trascurare in modo indegno l’istruzione musicale dei suoi giovani. Nell’epoca degli alfabeti vecchi e nuovi, continuiamo ad essere e a crescere analfabeti musicali.
Che dire dei musei, dei monumenti e del patrimonio culturale? I dati ci suggeriscono che le scuole con le uscite e i viaggi di istruzione mettono in contatto i loro allievi con queste realtà. Ma poi non sono in grado di trasformare queste esperienze in interesse, in abiti persistenti nel corso della vita.
C’è un tema su cui sarebbe davvero opportuno soffermarsi a riflettere. Mi limito a citarlo. È quello delle reti. Riuscire a far rete tra sistema formativo e sistema culturale, attraverso finalità e progetti condivisi. L’obbligo per le scuole di avere personale sempre più qualificato nei settori della musica e delle arti e per le istituzioni culturali di attrezzare qualificate sezioni didattiche che interagiscano con le scuole.
Manca proprio l’idea di sistema e, di conseguenza, anche l’informazione, una informazione coordinata e ragionata, che consenta alle persone di conoscere e di poter scegliere.
A livello nazionale e locale perdurano la trascuratezza e l’incapacità di legare lungo il filo comune dell’educazione permanente tutte le attività organizzate dal sistema pubblico e privato finalizzate all’istruzione e alla crescita culturale dei cittadini.
La formazione permanente registra un dato poco confortante. A livello nazionale solo il 6,6% è impegnato in attività formative tra i 25 e i 64 anni, una cifra assai modesta, inferiore a quella dei paesi più avanzati d’Europa, tutti oltre il 10%, e assai lontana dagli obiettivi europei da qui al 2020.
Esistono i CTP, ora CPIA, Centri per l’istruzione degli adulti, forse pochi ne conoscono l’esistenza. Centri per l’alfabetizzazione degli adulti, in particolare migranti, e per il recupero dei titoli di studio, licenza media e diploma tecnico o professionale. Nonostante i meriti acquisiti sul campo, nell’epoca della società della conoscenza, proclamata solo a parole, sono ormai attrezzi superati.
Perché è del tutto insufficiente un approccio basato sull’ottica scolastica del recupero dei titoli di studio, su un elenco di qualifiche professionali e su un catalogo di occasioni culturali del tutto inadeguato. Un’offerta incapace di motivare l’interesse a ritornare ad apprendere.
Non può essere la scuola, per di più trascurata e con personale vergognosamente mal pagato, l’unica istituzione a cui affidare l’istruzione.
Per costruire la società della conoscenza è quanto mai urgente fare rete sul territorio, organizzare e coordinare gli interventi di tutti gli attori, quelli pubblici, Stato, Regioni ed enti locali, e quelli privati, imprese, terzo settore e individui.
Operativamente si dovrebbero organizzare campagne pubbliche di informazione e di sensibilizzazione che motivino i cittadini a partecipare, anche prevedendo piani straordinari per i gruppi più deboli, con incentivi e facilitazioni in tempo e in denaro.
Disporre di strutture specificatamente dedicate a svolgere percorsi di istruzione permanente dei cittadini, individuando tempi, luoghi e modi originali di apprendimento. Senza dubbio il festival dell’apprendimento, che ogni anno si celebra in tante parti del mondo, ma non nel nostro Paese e nelle nostre città, costituisce una chiave di successo su questa strada.
Si tratta di un complesso mix di analisi sociale, di orientamenti culturali condivisi, di organizzazione di reti che va affrontato con una costante e lungimirante regia politica, riorganizzando nel modo migliore le risorse disponibili, avendo soprattutto molta più cura e amore per i nostri figli e per noi stessi.

base-scientifica-cultura-manageriale

IL FATTO
Base scientifica e cultura manageriale, il vento del settore culturale sta cambiando

Lo si sente dire in ogni occasione: viviamo ormai nella società della conoscenza. Spesso ci si riferisce alle innovazioni dell’Ict, senza fermarsi a riflettere sulle implicazioni per quanto riguarda il patrimonio artistico e culturale e per la sua gestione, in particolare in un paese come il nostro. L’aumento dei livelli di formazione e del tempo libero hanno contribuito alla crescita dei consumi culturali di massa e alla creazione di un’economia della cultura. È sempre più necessario avere, o essere in grado di reperire, le competenze per rispondere a bisogni nuovi da parte di pubblici diversificati, senza per questo derogare alle finalità di ricerca, tutela, educazione, che rappresentano la cifra specifica del settore culturale; anzi dimostrando che solo per queste vie si può veramente far emergere a pieno tutto il potenziale del patrimonio culturale italiano. Non uno sfruttamento ma una sua reale valorizzazione, imprescindibile dalle esigenze di tutela, e la consapevolezza dell’importanza del settore delle industrie creative sono due strumenti fondamentali per far uscire l’Italia dalla crisi. In altre parole, c’è bisogno di un nuovo modello per il settore culturale italiano, con istituzioni più inclusive, in grado di dialogare con realtà private e di relazionarsi con le innovazioni che provengono dall’industria creativa, tutto ciò a livello non solo nazionale ma anche europeo. L’obiettivo deve essere quindi uno sviluppo armonico fra componenti di carattere culturale, sociale, civile ed economico.

base-scientifica-cultura-manageriale
Anna Maria Visser e Fabio Donato alla cerimonia di ottobre per i 10 anni del master

Lo sanno bene Anna Maria Visser e Fabio Donato, che hanno adottato questo approccio per il Musec. Nato nell’anno accademico 2003-2004 come corso di perfezionamento dell’ateneo ferrarese in Economia e management dei musei e servizi culturali, dal 2011 il Musec è diventato un vero e proprio master internazionale che si propone di fornire competenze nel campo della pianificazione e della programmazione culturale in senso lato, dal turismo culturale alle istituzioni museali, dall’arte contemporanea alle performing arts. Il master è giunto ormai alla sua undicesima edizione, ma “quando abbiamo iniziato era il deserto, poi la struttura del corso è diventato un modello per altri atenei che hanno dato vita a proposte formative similari”, ci spiega Anna Maria Visser. “Quello che ci differenzia dopo tanti anni credo sia l’interdisciplinarietà vera e vissuta in cui crediamo molto – continua la professoressa – anche nelle attività e nel dibattito all’interno della classe c’è complementarietà fra i vari ambiti e questo determina una grande apertura mentale nei corsisti”. Sfera economica e sfera umanistica si compenetrano, infatti, grazie all’interazione fra i due direttori, nominati dal Ministro Dario Franceschini componenti del comitato tecnico-scientifico per l’economia della cultura e del comitato tecnico-scientifico per il patrimonio storico, artistico ed etnoantropologico del Mibact. La professoressa Visser, archeologa e museologa, è stata direttrice dei Musei di Arte antica di Ferrara, presidente Anmli (Associazione nazionale musei locali e istituzionali) e membro del Consiglio direttivo di Icom Italia (International council of museums); mentre il professor Donato è docente di Economia e management delle organizzazioni culturali, membro del Consiglio direttivo di Encatc (European network for cultural administration training centres) e dal 2013 è rappresentante italiano nel comitato di programma di Horizon 2020 (Programma Quadro della ricerca europea per il periodo 2014-2020). Proprio “la visione europea e la forte compenetrazione fra teoria e prassi” per Fabio Donato sono le ulteriori specificità del master, “insieme al sempre maggiore focus in questi anni sulla logica dell’imprenditorialità nel settore culturale e creativo”.

base-scientifica-cultura-manageriale
Visita degli studenti allo spazio espositivo di Punta della Dogana, Fondazione François Pinault

“Trattandosi di un master che deve sviluppare o migliorare le competenze pratiche” oltre alle lezioni frontali, grande attenzione viene data “alla partecipazione attiva dei corsisti attraverso attività laboratoriali e alla presentazione di casi studio” perché l’obiettivo, afferma la professoressa Visser, “non è solo la trasmissione di conoscenze, ma anche il confronto e la sperimentazione diretta di realtà culturali di importanti città d’arte italiane ed europee”: “ci sono docenti e casi di eccellenza che cerchiamo di riproporre perché sono fondamentali, poi di anno in anno l’offerta formativa si struttura in ragione delle tematiche più d’attualità”. Un’importante esperienza formativa è rappresentata anche dal tirocinio presso istituzioni e aziende che fanno parte di una rete ampia e prestigiosa consolidata negli anni.
Fra le novità del bando 2014-2015 (deadline: 19 gennaio 2015) ci sono le agevolazioni a copertura parziale o totale del contributo di iscrizione, grazie alle borse di studio messe a disposizione dai partners privati: Samsung, Berluti, CoopCulture e la famiglia Ludergnani insieme al Rotary Club di Cento. “Purtroppo quest’anno è venuto a mancare il sostegno dei voucher regionali per la formazione e quindi abbiamo messo in pratica quello che insegniamo in aula: interpellare i privati perché investano in cultura. È stato stimolante, sia perché abbiamo ricevuto buoni riscontri, sia perché si attiva un cambiamento radicale di mentalità presso i privati e nella struttura dell’ateneo”, confessa la professoressa Visser.
Quando, infine, le abbiamo domandato perché nell’Italia del 2015 si dovrebbe scegliere di specializzarsi nella gestione del patrimonio artistico e culturale e del settore creativo, ha citato le parole dl Ministro dei Beni Culturali e del Turismo Franceschini: “Si cerca una nuova forma, dando maggiore autonomia, premiando i musei virtuosi, mettendo a dirigere i musei persone che hanno una formazione specifica […] Non penso a manager che si sono occupati di tondini di ferro o di edilizia, ma a storici dell’arte, archeologi, architetti che hanno fatto master di formazione per la gestione dei musei, che hanno diretto altri musei nel mondo e che, avendo una base scientifica, possono portare una cultura manageriale capace di far funzionare i nostri musei.” Finalmente il vento sta cambiando, sembra volerci dire la professoressa Visser.

Per maggiori informazioni sul Master Musec vedi [vedi]

desiderio-previsioni-futuro

Il desiderio di previsioni sul futuro

All’inizio di un nuovo anno il discorso sul futuro prende la forma di bilanci e di previsioni. I bilanci si basano sui fatti e le previsioni sulle speranze. Soprattutto a queste cerchiamo sostegno negli oroscopi. Il futuro ci attrae e ci inquieta al tempo stesso. Ci riferiamo al futuro per parlare di dimensioni diverse: l’avvenire nostro, del Paese o del mondo, per parlare di una crescita che non appare all’orizzonte. Cerchiamo di colorare la parola futuro di significati buoni, riferendoci ad esempio, allo sviluppo sostenibile o alle conquiste scientifiche e alle meraviglie dell’innovazione tecnologica.
Le emozioni esistenziali legate al pensiero del futuro non cambiano. Anche se la scienza dei ‘big data’ si propone di leggere le tendenze leggendo il presente, il futuro resta incontrollabile, né potrebbe essere altrimenti. Pur disponendo di una mole di dati più alta, non abbiamo l’impressione di una maggiore prevedibilità delle vicende umane. Il futuro, tanto quello storico quanto quello personale, si sottrae a qualunque previsione. Nella nostra vita fronteggiamo spesso eventi che non abbiamo voluto: facciamo i conti con la scarsa capacità di pianificare le nostre azioni e, ancor più, di controllare quelle degli altri.
Oggi viviamo il futuro con maggiore ansia e sconcerto rispetto al passato. La ragione sta forse in una velocità del cambiamento superiore a quella che siamo in grado di metabolizzare. Inoltre, il cambiamento prende spesso la forma di una sfida, perché ci chiede competenze nuove per abitare il presente e ci trasmette la percezione di un inseguimento continuo delle novità, inseguimento in cui ci sentiamo perdenti. Mentre si esalta un’idea di individuo artefice del futuro, padrone delle scelte, libero di decidere, si diffonde la percezione di essere in balia di eventi grandi e incontrollabili.
Le nostre pratiche quotidiane incidono nella costruzione del futuro. Mentre pensiamo il mondo, lo costruiamo con il nostro linguaggio e le categorie con cui lo interpretiamo. Persiste nella mente di ognuno di noi, ancorché frustrata dalle evidenze, un’idea di futuro come progetto razionale e controllabile, come passaggio lineare dal bene al meglio, come possibilità di un punto di approdo a cui arrivare, una condizione in cui finalmente sarà possibile riposarci, trovare la riva. E’ così, se scriviamo un pezzo o eseguiamo un compito, diciamo con soddisfazione “fatto” per trovarci di nuovo di fronte all’ansiogena lista delle cose che restano da fare. Siamo condannati ad un domani che riproduce le questioni di oggi e che genera di continuo compiti, domande, sfide la cui responsabilità è solo nelle nostre mani.
Parlare di futuro in termini sociali significa evocare un mondo migliore o peggiore, ma diverso. Il discorso sociale sul futuro non può che avere al centro l’apprendimento: inteso come istruzione e riflessività, come capacità di riconoscere e integrare le differenze. Pensiamo il futuro come un magazzino di possibilità, una serie di orizzonti che si spostano con noi man mano che avanziamo lungo l’asse dei presenti successivi. Non possiamo andare oltre nelle capacità di previsione. Il modo migliore per immaginare altre vite è comprendere il presente, senza demonizzarlo, rafforzando la pratica di “congetture razionali”.

Maura Franchi – Laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi e Social Media Marketing. Studia i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@gmail.com