Funziona così: buttano l’anello in terra con nonchalance, senza farsi notare. Poi, nell’atto di raccoglierlo, vi interpellano per chiedervi se per caso l’abbiate perso voi. La scenetta è più o meno sempre la medesima.
E’ l’ultima frontiera dell’accattonaggio, un escamotage che fa leva sulla brama dello stupefatto passante. L’oggetto mostrato è infatti un bell’anellone grosso, apparentemente d’oro. Ha l’aria di una fede nuziale, con una piccola cifratura all’interno che lo rende più credibile. Il questuante a questo punto ve lo offrirà, domandandovi in cambio qualche euro. “Qualcuno gliene dà 5, 10, mi è capitato anche di sapere che un signore ne ha dati 50 – riferisce una gentile gioielliera del centro -. Ne capitano tanti. Solo negli ultimi giorni una decina di passanti sono entrati in negozio mostrandomi questi anelli, quasi tutti uguali, qualcuno più credibile, altri più dozzinali. Vengono qui fiduciosi, convinti che sia oro, nella speranza di ottenere un po’ di soldi”. E se ne vanno con le pive nel sacco.
Uomini in frak e donne in abiti ottocenteschi, così Borgosesia accoglie il carnevale. Fino al 18 febbraio tutta la cittadina della Valsesia sarà in festa. Ogni angolo, negozio o viottolo della città sarà “mascherato”. La sobrietà è bandita! Abiti colorati, abiti che raccontano una tradizione, quella carnevalesca, a cui Borgosesia è legata da inizio ‘900, sfileranno da mattina a sera, vestendo i borgosesiani impegnati nelle faccende quotidiane che una volta l’anno svolgono la loro attività in abiti carnevaleschi.
Vi capiterà di prendere un caffè al bar e sarà l’Uomo Ragno a servirvelo, oppure andare in farmacia e trovarvi Cappuccetto Rosso che vi consiglia cosa prendere per il mal di gola. Una città intera sarà in festa. Due veglioni, uno si è tenuto uno il 7 febbraio dove è stata premiata la maschera più bella e un altro rigorosamente “in bianco e nero” sarà invece il 14 febbraio.
Gli “Antani Project” insieme a al DJ Lupo Alberto (quello vero) hanno animato la serata del 7 febbraio, per quello successivo del 14 febbraio ci saranno “Genio & i Pierrot” con la loro orchestra. I veglioni durano fino al mattino a suon di musica all’interno del teatro sede della proloco.
Dieci saranno le tappe per gustare l’ultimo giorno del carnevale di Borgosesia: il 18 febbraio. Fagiolate, polenta e saracca (grosse acciughe) caratterizzeranno la tavola.
Il 18 febbraio arriva il momento culminante del Carnevale, il Mercu Scurot. Mentre tutti gli altri carnevali di rito romano terminano, il Carnevale di Borgosesia vive il suo atto conclusivo nel primo giorno di Quaresima, per inscenare, con un lungo corteo, il funerale del Carnevale. Come vuole la tradizione, i partecipanti si ritrovano la mattina vestiti di tutto punto – con l’abito del Mercu Scurot: frac, gala (un grosso farfallino bianco di garza), cilindro e mantella. Accessorio indispensabile è il Cassù, mestolo di legno utilizzato per bere il vino, distribuito in apposite postazioni dislocate lungo il percorso del corteo. Dopo il Pranzo del Mercu Scurot alla Pro Loco i cilindrati (così si chiamano i partecipanti) iniziano un giro enologico della Città, che si concluderà la sera con la lettura del Testamento del Peru, il rogo del pupazzo che raffigura la maschera e i fuochi artificiali.
Borgosesia, paese situato in Valsesia, è ricordato per la Manifatture Lane che finanziò l’acquisto di due piroscafi su cu cui si imbarcarono i mille. Di particolare rilievo è il santuario di Sant’Anna che deve la sua fama alle sei cappelle dedicate agli episodi della Vita della Vergine, vanno segnalate inoltre le 150 statue in terracotta policroma realizzate dall’architetto Giovanni d’Enrico. Da non perdere c’è il Sacro Monte di Varallo che sorse per iniziativa del Beato Bernardino Caimi, che, di ritorno dalla Terra Santa volle ricreare in piccolo i luoghi della Palestina.
Il complesso degli edifici, una cinquantina è stato costruito nel corso di un paio di secoli. Ogni cappella rappresenta, con affreschi (circa 4.000 figure) e con gruppi di statue (circa 400), scene della vita di Gesù e di Maria.
Per saperne di più visita il sito Fuoriporta [vedi]
Dedicare ad Arnoldo Foà la sala della Musica, nel complesso monumentale del chiostro di san Paolo. “Potrebbe essere una buona idea”, riconosce il vicesindaco con delega alla Cultura, Massimo Maisto. Foà era attore, ma anche uomo di impegno civile. E la sala della Musica si è qualificata in questi anni come pubblico spazio di intervento e di confronto. Quindi un vero palcoscenico cittadino, al quale il nome dell’artista ferrarese si potrebbe opportunamente associare.
Foà, attore, regista, scrittore, doppiatore, avrebbe oggi 99 anni. Nato a Ferrara da una famiglia di origine ebraica è stato per questo vittima di discriminazioni razziali in epoca fascista.
Ha recitato a teatro sotto la regia di Visconti, Ronconi, Strehler; al cinema con Blasetti, Welles, Damiani, Scola; alla radio e in tv (celebre la sua interpretazione del Corsaro Nero). Inconfondibile il suo timbro di voce, impagabile l’espressività, il suo sarcasmo e il fine umorismo. Nel 1994, dopo la vittoria di Berlusconi alla elezioni, emigra: “Non sono mai stato comunista – dichiarò alla Stampa – ma mi esiliai alle Seychelles quando ho rivisto i fascisti al governo”. Quattro mogli, quattro figlie, ha vissuto un’esistenza piena.
Il mese scorso, con tutti gli onori, si è celebrato l’anniversario della scomparsa di Claudio Abbado, cui la città di Ferrara ha intestato il proprio teatro. Di Arnoldo Foà, le cui ricorrenze (99 dalla nascita, uno dalla scomparsa) sono entrambe in gennaio, ci si è dimenticati e quelle date sono scivolate nel sostanziale silenzio (Ferraraitalia ha dedicato a Foà il proprio immaginario del 22 gennaio, vedi qua).
“Ho di recente incontrato la vedova di Foà – riferisce Maisto – che mi ha comunicato l’intenzione della famiglia di ricordare l’attore con una mostra itinerante che nel 2016 dovrebbe essere allestita a Roma, Firenze e Ferrara. Hanno foto, locandine, video, reperti sonori, insomma tutto quel che serve per onorare degnamente una figura importante come la sua. Ma ho presente anche un altro grande ferrarese cui è doveroso che la città riservi il proprio tributo. Parlo di Florestano Vancini (il celebre regista scomparso nel 2008 a 82 anni, ndr). Strade significativa da dedicare ormai non ce ne sono più. Quindi bisognerà individuare un luogo o un degno contenitore culturale. Credo che nel 2016, in concomitanza con la mostra per Foà che si sta cercando di realizzare, dovremmo trovare il modo di rendere omaggio a entrambi”.
da MOSCA – Quando ho preparato il testo sulla mia Street Photography, pubblicato qualche giorno fa, immedesimandomi a fondo e con (ovvia) modestia, negli scatti dei grandi fotografi camminatori, come amo definirli, mi sono imbattuta, per caso, in Vivian Maier che avevo solo citato di sfuggita, gettando quasi un amo alla vostra curiosità. All’inizio non avevo troppo approfondito il misterioso personaggio che, tuttavia, mi aveva profondamente colpito e lasciato quasi un senso di vuoto che si sarebbe colmato solo con la decisione di rinviare la ricerca ad altro, più idoneo, tranquillo e calmo momento. Immaginatevi, dunque, la mia sorpresa e curiosa eccitazione quando aprendo il The Moscow Times del 29 agosto di quasi due anni fa, alla pagina 12 ‘What’s on’, ovvero il calendario settimanale della vita culturale moscovita (ancora lo conservo), leggevo che dal 4 settembre il Centro fotografico fratelli Lumière della capitale avrebbe ospitato fotografie della Maier, per la prima volta in Russia. Dovevo andare al più presto, anche se, a malincuore (la trepidazione era tanta, troppa), avrei dovuto aspettare una decina di giorni, dovendo prima partire per una pillola di ultima, tenera e romantica vacanza romana e concludere alcuni importanti impegni personali e lavorativi. Roma ne era valsa la pena, davvero, dunque avevo atteso alla fine senza troppa fatica, ma il ritorno in Russia sarebbe stato accolto da questa novità. Ecco allora che, un sabato mattina uggioso e piovoso, mi armavo di ombrello, impermeabile, scarpe da tennis, cartina e indirizzo manoscritto e cercavo il Centro Lumière.
Trepidante. Perché decido di parlarvene solo oggi a quasi un anno di distanza dalla mostra moscovita? Perché la città, all’avanguardia come sa spesso essere, aveva ben capito il fenomeno Vivian, oggi che il documentario sulla sua vita, ‘Finding Vivian Maier’, realizzato dal suo scopritore John Maloof, è candidato al Premio Oscar.
Quell’estate, dunque, sapevo solo che dovevo attraversare il ponte sulla Moscova vicino alla Cattedrale di Cristo il Redentore, non lontano dalla metropolitana Kropotkinskaya, e dirigermi in uno dei maggiori centri culturali della città, vivo, pullulante d’idee e colori. Camminavo curiosa verso un posto che avrei trovato davvero magico, la fabbrica di cioccolato Einem, aperta nel 1867 dai tedeschi Theodor Ferdinand von Einem e Julius Heuss, nazionalizzata nel 1918 e, nel 1992, ribattezzata Ottobre Rosso. Oggi l’area, che si trova di fronte all’imponente monumento di Pietro il Grande che svetta su un altrettanto imponente nave, ospita centri di fotografia dal forte e penetrante odore di pellicola, gallerie moderne e alternative, con esposizioni temporanee, il bar-biblioteca del Museo di fotografia Lumiere, il suo fornito bookshop. Questo centro è uno spazio per mostre, qui siamo andati a incontrare Vivian. Ho comprato il biglietto, 300 rubli, che conserverò con alcune foto acquistate nel bookshop sulla Mosca degli anni Quaranta – Settanta, e sono entrata, curiosa di ammirare le 50 fotografie esposte, rigorosamente in bianco e nero, quasi tutte risalenti agli anni Cinquanta. Deciderò, allora, anche di contattare John Maloof. Ci avrei provato, e con successo.
Torniamo a Vivian, le cui immagini spesso sono state comparate a quelle di Henri-Cartier-Bressone le composizioni avvicinate a quelle dell’ungherese André Kertész. Si dice che fosse amica dell’austriaca Lisette Model, ma, nella realtà, si sa poco della sua vita, avvolta quasi completamente dal mistero. Non si sa veramente se fosse nata a New York o in Francia il 1 febbraio 1926 (dunque compleanno pochi giorni fa?), arrivata negli Stati Uniti negli anni ’30, dove aveva vissuto, a New York, lavorando come commessa in un negozio di caramelle. Dagli anni ’40 si era trasferita a Chicago, dove era stata assunta come bambinaia in una famiglia del North Side.
Appassionata di cinema europeo, aveva imparato l’inglese andando a teatro, vestiva abiti e scarpe da uomo e indossava enormi cappelli. Una donna che non amava parlare, così la ricordano gli impiegati nello storico negozio di apparecchiature fotografiche di Chicago ‘Central Camera’, che ha trascorso i suoi ultimi giorni in una casa pagata dai tre ragazzi che aveva accudito fino agli anni ’60. Sono loro, raggiunti da John Maloof, fotografo per passione e agente immobiliare per professione in cerca di materiale fotografico per la scrittura di un libro sui quartieri di Chicago, a raccontare di una donna misteriosa, socialista, femminista e anti-cattolica, che scattava fotografie in continuazione. Caduta in disgrazia, i suoi mobili furono messi all’asta e 40.000 negativi, dei quali circa 15.000 ancora all’interno di rullini non sviluppati, furono acquistati per poche centinaia di dollari da Maloof. È lui a decidere di far conoscere al mondo intero l’opera di Vivian pubblicando gran parte delle immagini acquisite sul blog Vivian Maier– Her discovered work [vedi], sempre più frequentato. Sboccia così, a metà tra leggenda e virtualità, il mito di Vivian Maier, la fotografa del mistero della quale si conoscono rare notizie biografiche e il cui viso s’intravvede solo in alcuni autoscatti. Si tratta di 40 anni di immagini che sfilano, pensate quanto ancora ci sia da vedere.
A Mosca, avevo ammirato 50 splendide fotografie, peraltro acquistabili in originale, di anziane impellicciate ben pettinate che guardano stizzite l’obiettivo, di uomini con i cappelli che fumano sigari, di bambini che piangono accuditi da mamme attente, di donne eleganti che aspettano, in ordinata fila, l’autobus (forse), di mani di innamorati che si intrecciano, come le mie, le nostre, le vostre.
E’ davvero un’emozione passeggiare per quelle strade in bianco e nero e ritrovarsi ancora bambini fra le braccia accoglienti dei genitori, osservando, da lontano, due poliziotti che trascinano un vecchio signore che non ha poi così l’aria da criminale ma solo le sembianze di un’antica sbornia.
Il mistero di questa donna introversa rimane grande, a me piace l’idea di lasciarlo così, anche se tanto si scriverà ancora sulla sua vita, forse perché lei davvero voleva questo, forse perché restare anonimi talvolta aiuta le vite difficili e solitarie. Tuttavia, rivelare una tale anima nascosta è stato sicuramente un grande regalo per tutti, anche se in molte immagini pare celarsi una profonda sofferenza, attenuata dalla curiosità e dall’amore per la vita.
Così, dunque, voglio immaginarmi Vivian, chiusa e riservata ma allo stesso tempo tenera e sensibile alle sofferenze della strada, attenta all’essere umano e alla sua storia fatta anche di tanti gesti teneri e sorpresi. Perché la sorpresa e la tenerezza restano il cuore pulsante di ogni vita.
Il film-documentario “Finding Vivian Maier” è stato presentato a vari festival, fra i quali il Toronto International Film Festival del 2013, e oggi è candidato al Premio Oscar come miglior documentario [vedi].
Ringrazio John Maloof e Franny Vignola della Howard Greenberg Gallery di New York per la collaborazione e la gentilezza dimostrata nella concessione delle immagini.
Sottomissione è “atto formale con cui si riconosce la propria condizione di suddito”, così riporta il dizionario del Battaglia alla voce corrispondente.
Tutta la storia dell’umanità è espressione delle lotte condotte dall’uomo per liberarsi da ogni forma di oppressione, temporale o spirituale che fosse, fino alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
Una lotta che non cessa mai e che mai può essere accantonata o persa di vista in tutta la sua portata mondiale. La persona umana e l’universalità dei suoi diritti sono il centro di tutto. Lo scrivo perché a volte, sull’onda delle emozioni e delle manipolazioni che di queste sono compiute, potremmo perdere la bussola.
È proprio il caso di “Sottomissione” di Michel Houellebecq e di quanti, come Francesco Borgonovo dalle colonne di Libero, si sono precipitati a proporne l’adozione nelle nostre scuole, come antidoto da somministrare ai nostri giovani che sarebbero educati ad una cultura non più virile, incapace di produrre valori forti e di suscitare eroismi. La cultura occidentale, liberale e progressista, è una cultura vile per pappemolli, inadatta a suscitare nei giovani entusiasmi, idee per cui valga la pena combattere. Sono simili pensieri che rendono inquietante il libro di Houellebecq, l’uso che ne può essere fatto, il decadentismo di cui è espressione e di cui è pervaso. Sconcertante è il decadentismo del suo protagonista e, ancora di più, che in quarta di copertina lo si definisca provocatoriamente come “un uomo di una normalità assoluta”. La normalità assoluta sarebbe quella di Francois, il protagonista appunto, che a 44 anni trascina con noia la propria esistenza tra una docenza ‘sine cura’ all’Università Parigi III e l’appagamento delle proprie pulsioni erotiche. Sullo sfondo: il Fronte nazionale di Marine Le Pen, la Fratellanza mussulmana, gli integralisti cattolici.
Il tessuto sociale e umano non c’è. Se c’è, assomiglia tanto agli sconfitti che, il decadentista Joris Karl Huysmans, lo scrittore di cui il nostro protagonista è studioso, colloca sulla scena agli esordi del ventesimo secolo, di quel secolo che ha conosciuto le più grandi tragedie dell’umanità. È questo decadentismo senza memoria e senza persone, senza i diritti, senza ragione, che spaventa. Il messaggio strisciante è che, attraverso il tramonto delle persone e della cultura, dal decadentismo della nostra epoca, si esca solo con la conversione, con il cambiare ‘verso’, dalla ‘ragione’ alla ‘religione’.
Gli individui sono stati eclissati e su tutti trionfano i sistemi politici, economici e religiosi. C’è una grande sfida per l’istruzione e per le nostre scuole. Non essere complici di questo decadentismo, di questa deriva, di ogni visione che annulli l’uomo e la sua umanità. Neppure il ‘Non per profitto’ di Martha Nussbaum, il richiamo al ritorno alla cultura umanistica come sale delle democrazie, appare più sufficiente. Qui occorre vaccinare i nostri giovani contro chi vorrebbe far credere loro che l’Illuminismo è una brutta malattia. Sì, perché sempre più ragione e individui sono quelli ad essere maggiormente minacciati. La ragione a scuola rischia di divenire giorno dopo giorno un pensiero debole, e gli individui valgono solo per i risultati conseguiti ai test standardizzati.
Occorre vaccinare le nostre scuole dai virus desolatamente economici della Banca mondiale e dell’Ocse, interessati alla competitività e alla crescita economica anziché allo sviluppo delle persone, delle loro intelligenze e dei loro diritti.
Non è così per l’Unesco che sostiene una visione umanistica dell’apprendimento, che ha il suo focus nel pieno sviluppo individuale. “Learning to be”. Apprendere per essere! Altro che sottomissione!
Era il 1972, però! Era il Rapporto di Edgar Faure sulla società dell’apprendimento e l’educazione permanente. Più di quarant’anni fa! Chi risponde dei vuoti di memoria, dei ritardi accumulati, dei balbettamenti sull’istruzione? Le classifiche dei test Ocse PISA, forse? Ci stupiamo che i nostri giovani se ne vanno via? E non ci stupiamo del nostro sistema scolastico che ancora continua a prenderli in giro?
La Commissione internazionale per lo sviluppo e l’Istruzione dell’Unesco con il Rapporto Faure del 1972 sosteneva che il mondo era avviato progressivamente a divenire una comunità culturale e politica basata sulla centralità dei diritti umani e dell’istruzione per l’intero arco della vita.
“L’obiettivo è la piena realizzazione dell’uomo, in tutta la ricchezza della sua personalità, della complessità delle sue forme di espressione, dei suoi vari impegni, sia come singolo, sia come membro di una famiglia o di una comunità, come cittadino e come produttore, come inventore di tecniche e come creatore di sogni.”
Un modo d’intendere ben altro dagli interessi della Banca mondiale e dell’Ocse. L’idea di un uomo completo, educato per essere politicamente attivo, per una nuova epoca dell’istruzione e della formazione.
Un uomo nuovo in grado di comprendere le conseguenze globali dei suoi comportamenti individuali, di farsi responsabilmente carico del destino della razza umana a cui tutti apparteniamo.
Quale istruzione può produrre questo tipo di uomo nuovo? La Commissione dell’Unesco allora era molto chiara, proponeva un’istruzione fondata su un ‘umanesimo scientifico’ capace di far uso delle conquiste della tecnica e della scienza per accrescere il benessere dell’umanità e sviluppare la democrazia.
‘Umanesimo’ e ‘Scientifico’, è sempre la solita storia, da Cartesio all’Illuminismo. È sempre il solito terrore di chi dalla sottomissione delle persone pensa d’averci a guadagnare, in tanto vendendogli un libro sulla “Sottomissione”.
I congiurati che alle fatidiche idi di marzo assassinarono Giulio Cesare erano convinti di essere dei tirannicidi e di agire nell’interesse supremo dei cittadini di Roma e delle sue antiche e gloriose istituzioni repubblicane. Il loro gesto, visto col senno di poi, in realtà accelerò la fine di quell’epoca e consentì ad Augusto di fare facilmente tabula rasa del passato.
Per fortuna, mutatis mutandis, con l’elezione a larghissima maggioranza di Sergio Mattarella alla presidenza della repubblica si è evitato che si compisse una delle tante congiure che erano state immaginate e forse persino predisposte nelle scorse settimane. Questo grazie ad una tattica efficace e ad un sussulto non affatto scontato di intelligenza politica da parte di molti dei potenziali congiurati, cui va reso indubbiamente merito. Non era un esito scontato: per le qualità del vincitore, per l’ampiezza dei consensi ricevuti, per l’impossibilità da parte di chiunque di sollevare obiezioni fondate (tolti i soliti pochi abituali mestatori di liquami).
Se questo sarà sufficiente perché si apra una fase diversa nel percorso assai accidentato in cui il Paese è impegnato per riformare le proprie istituzioni è ancora presto a dirsi. Certamente l’arbitro designato dà tutte le garanzie di rigore ed imparzialità necessarie per quel ruolo: il resto dipende invece dagli schieramenti che si contrappongono e dallo loro capacità di interpretare il cambiamento che l’Italia subisce, anche suo (e loro) malgrado. Le democrazie funzionano finché regge il patto di reciproca legittimazione fra le diverse componenti sociali e politiche che le costituiscono: nella prima repubblica esisteva il concetto di “arco costituzionale”, che comprendeva le forze che avevano contribuito, prima con la Resistenza, poi con l’attività costituente, a fondare la repubblica. Esse, nonostante lotte molto aspre, trame oscure, esclusioni preconcette dal governo e terrorismo, hanno continuato per quarant’anni a mantenerla in vita.
In questi ultimi anni convulsi e confusi quel patto, già molto indebolito dai mille trasformismi e revisionismi che hanno caratterizzato l’ultimo ventennio, nonché dalla convinzione dei molti che anche in buona fede non lo ritenevano ormai più necessario, rischia di dissolversi definitivamente. Oggi, partiti, movimenti, forze sociali, all’interno dei quali si ricombinano i frammenti dispersi delle organizzazioni politiche della prima repubblica, non si riconoscono reciprocamente il diritto di poter contribuire al cambiamento istituzionale di cui il Paese ha urgente necessità. Tale mancato riconoscimento è alla radice dell’impossibilità di trovare una sintesi condivisa.
In una fase di prevalenza della parola sullo scritto e di diffuso ricorso alla protesta verbale, vorrei ridiscutere il ruolo fondamentale del reclamo scritto. Riprendo considerazione già espresse tempo fa come Autorità regionale di vigilanza dei servizi ambientali, ma che considero ancora molto attuali. Per comprendere la valenza del reclamo scritto e le conseguenze che da esso ne derivano, utilizzo il supporto professionale che ho avuto dall’avvocato Gianni Ricciuti, supporto legale della ex Autorità di vigilanza dei servizi ambientali in Emilia Romagna (che ringrazio per l’impegno). Occorre definire innanzitutto il concetto di “servizio pubblico”, che può essere inteso come la prestazione di un’attività rilevante dal lato economico e sociale, a favore dei cittadini, considerati singolarmente, per gruppi o nella loro totalità. Senza servizi pubblici infatti la vita sociale e quotidiana sarebbe sostanzialmente impossibile, essendo la qualità e la quantità dei servizi di cui dispone una società a determinarne il livello di progresso e, per certi versi, anche di benessere. Trascurando in questa sede una pedissequa elencazione delle normative di riferimento, basti ricordare che, anche secondo il Codice del consumo, lo stato e le regioni devono garantire i diritti degli utenti dei servizi pubblici, secondo i criteri ed i principi stabiliti di volta in volta proprio dalle leggi vigenti. In ogni caso, devono essere rispettati standard di qualità predeterminati e resi pubblici in modo adeguato, anche tramite rappresentanze e forme di partecipazione degli stessi utenti alle fasi di definizione e di valutazione di tali parametri. In generale è la stessa legge n. 241 del 1990 (relativa al procedimento amministrativo e all’accesso agli atti amministrativi), a regolare le attività delle amministrazione e dei servizi, improntandole a criteri di economicità, efficacia, trasparenza e pubblicità. Da ciò, ne deriva che le amministrazioni dovrebbero sempre agire secondo le regole del diritto privato e quindi in una posizione di parità con il cittadino (salvo che la legge non disponga diversamente). Questo non è tuttavia sempre vero e quando l’utente ritiene di avere o stare subendo un disservizio, ha diritto a “reclamare”. I reclami rappresentano infatti uno degli aspetti fondamentali nella vita organizzativa delle aziende fornitrici di servizi; messaggi attraverso i quali i cittadini comunicano che quanto loro erogato non è coerente con le loro aspettative. Un importante indicatore dunque del livello di soddisfazione e della differenza tra la qualità attesa e quella percepita, fondamentale per il miglioramento stesso della qualità dei servizi forniti. Il concetto di reclamo trova, nel diritto italiano, varie applicazioni e formalizzazioni, alla base delle quali vi è comunque la comune radice letterale del termine, che implica una protesta in cui si rivendica un diritto o si lamenta un’ingiustizia, un torto o un’irregolarità subita.
L’ambito giuridico nel quale il reclamo sembra aver raggiunto una migliore definizione ed identità è il diritto processuale civile. Il Codice di procedura civile in realtà non contempla una disciplina generale del reclamo, individuando invece specifiche ipotesi di “reclamabilità”. La dottrina prevalente ritiene infatti che il reclamo sia un vero e proprio mezzo di impugnazione e, in particolare, un mezzo di gravame, in parziale disaccordo con parte della giurisprudenza, per la quale l’impugnazione costituirebbe una categoria riferibile solo agli atti capaci di giudicato. Scegliendo un compromesso tecnico, si può affermare che il reclamo ha comunque una funzione quasi-giurisdizionale e può inserirsi tra le procedure alternative di risoluzione tra le controversie tra utenti e amministrazioni. Anche la Carta dei servizi del servizio idrico integrato e del servizio di gestione dei rifiuti urbani della Regione Emilia Romagna prevede (come tante altre) che l’utente possa presentare reclamo, in qualsiasi forma, “per via orale, per iscritto, via fax, telefono o posta elettronica, avvalendosi anche dell’assistenza del Comitato consultivo degli utenti, delle associazioni di tutela dei consumatori o delle associazioni imprenditoriali”. Indipendentemente da tali modalità, il Gestore si impegna a rispondere tempestivamente o comunque entro un massimo di 20 giorni lavorativi. Ma quanto conta la forma del reclamo? Per ogni disciplina vige in effetti un termine entro cui fare valere i propri diritti; nei contratti può addirittura costituire, per le parti, un elemento essenziale, la cui mancanza determina la nullità integrale del negozio giuridico. In generale, la forma scritta garantisce da sempre il diritto del reclamante, proprio per la maggiore facilità nel fornire la prova di “aver reclamato” nei tempi e nei modi corretti. Sono sempre più frequenti infatti, anche nelle commissioni di conciliazione, le “difese” delle aziende che, in assenza di prova scritta del reclamo, non entrano nemmeno nel merito della controversia, limitandosi a negare di aver ricevuto qualsiasi tipo di lamentela, o chiedendo all’utente di fornire la prova della denuncia, indipendentemente dalla sua tempestività. E ciò a prescindere dal fatto che comunque tutte le telefonate dovrebbero sempre essere tracciate dall’operatore competente. Va da sé che tale comportamento, oltre a cozzare fortemente con quei protocolli che annoverano tra le tipologie e forme del reclamo anche quella orale, spinga il cittadino a reclamare esclusivamente e sempre più di frequente in forma scritta, così che la prova non possa essere confutata (mail certificate, fax e raccomandate con ricevute di ritorno).
Nel dettaglio, non si può prescindere dall’art. 1334 del codice civile, per il quale: “Gli atti unilaterali producono effetto dal momento in cui pervengono a conoscenza della persona alla quale sono destinati”. La natura ricettizia o meno di un negozio o un atto unilaterale dunque, non sembra dipendere tanto dalla forma, quanto dalla effettiva conoscenza da parte del destinatario. E per determinare nel destinatario la conoscenza di un atto unilaterale ricettizio, negoziale o non, la legge non impone né una raccomandata con ricevuta di ritorno, né altri particolari mezzi, proprio perché considera idoneo, anche per stessa volontà delle parti (si veda infatti il precedente richiamo alla Carta dei servizi) qualsiasi strumento di comunicazione, purché sia congruo in concreto a farne compiutamente comprendere nel suo giusto significato, il contenuto. Secondo infatti un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, “per l’atto di messa in mora, che è un atto stragiudiziale, non è richiesto all’infuori della scrittura alcun rigore di forme… essendo solo sufficiente che l’atto pervenga nella sfera di conoscenza del debitore” (Cass. civ. 03/12078); o invece “quando le parti convengono che una comunicazione debba avvenire mediante raccomandata, perché la comunicazione… produca effetti, non è sufficiente che la raccomandata sia spedita, occorrendo invece che essa pervenga a conoscenza del destinatario, oppure che possa presumersi da questo conosciuta” (Cass. civ. 93/9943).
Proprio questa presunzione di conoscenza, peraltro fondamento dell’articolo 1335 del codice civile, obbliga il destinatario che asserisce di non aver mai ricevuto alcuna comunicazione, a dimostrare di essere stato, senza sua colpa, impossibilitato ad averne notizia. Si pensi ad esempio ad un utente che con una singola raccomandata, invii plurimi reclami al gestore e il destinatario, in realtà, ne riconosca uno solo. In questo caso, sarà necessario, poiché operi la presunzione di conoscenza ex art. 1335 c.c., che l’autore della comunicazione (che ha scelto detta modalità, per inviare due comunicazioni), fornisca la prova che l’involucro le conteneva, atteso che, anche secondo l’id quod plerumque accidit, ad ogni atto da comunicare, corrisponde una singola spedizione, “oppure che possa presumersi da questo conosciuta”, la Suprema Corte ribadisce che, “la lettera raccomandata, o il telegramma, anche in mancanza dell’avviso di ricevimento, costituiscono prova certa della spedizione attestata dall’ufficio postale attraverso la ricevuta di spedizione, da cui consegue la presunzione, fondata sulle univoche e concludenti circostanze della spedizione e dell’ordinaria regolarità del servizio postale e telegrafico, di arrivo dell’atto al destinatario e di conoscenza ex art. 1335 c.c.” (Cass. civ. 00/15066 e 01/10284).
Pum! La Leica ha compiuto cent’anni, il pugile Alessandro Duran ne sta per festeggiare la metà.
Cosa c’entra una macchina fotografica con un pugile? Volendo c’entra perché è proprio quella macchina lì che ha immortalato uno dei campioni-simbolo di questo sport, che è Cassius Clay, diventato famoso con il nome di Muhammad Alì. E il pugile in questione è Duran, nato a Ferrara il 5 febbraio 1965, che proprio un’immagine di Muhammad Alì tiene appesa nella palestra della società dove porta avanti questa disciplina insieme al fratello Massimiliano e, prima, già con il padre Juan Carlos. Perché Alessandro, nel pugilato, c’è dentro da quando è poco più che un bambino: prima come atleta, ora come allenatore e commentatore, ogni sabato su ItaliaUno.
In comune, poi, la mitica macchina fotografica e il pugile hanno il piglio dimensionale. Compatta e micidiale, la Leica è la macchina fotografica che rivoluziona dimensioni e dinamicità della ripresa. E’ il suo inventore – Oscar Barnack – che supera la tecnica degli ingombranti apparecchi a lastre. Costruisce una camera con dentro solo un piccolo pezzo di materiale fotosensibile, che è il negativo, da ingrandire poi in camera oscura. Il primo prototipo, leggero e maneggevole, è messo a punto un secolo fa, poi prodotto dal 1925. Così l’obiettivo per la prima volta esce dagli studi, inizia lo scatto a mano libera: in strada, in guerra, sul ring. La caratteristica delle fotografie fatte con la Leica è che sono sempre lì, pronte a raccontare la vita in pieno svolgimento. Non a caso il nome della macchina fotografica è legato al famoso scatto di Robert Capa, del 1936, con il miliziano colpito a morte; alla guerra in Vietnam (Nick Ut, 1972); al bacio del marinaio per i festeggiamenti in piazza del V-day (Alfred Eisenstaedt, del 1945); ma anche al ritratto del pugno di Muhammad Alì fatto da Thomas Hoepker, del 1966.
Come quella macchina che ha fissato tanti momenti storici, pure Alessandro Duran fonda la sua forza su una dinamicità leggera e veloce. Campione di pugilato, vince il titolo italiano e poi il mondiale nella categoria di peso welter, che è quello che non può superare i 67 chili, rispetto ai 90 e passa dei pesi massimi. E ora, come allenatore, Alessandro porta sul ring Simona Galassi, campionessa donna della categoria dei pesi mosca, che vuol dire sotto i 51 chili. Ragazze, ragazzini, uomini corrono svelti e leggeri al Palapalestre di Ferrara durante gli allenamenti settimanali della Pugilistica padana-Vigor. Per alcuni è palestra, per altri è mestiere.
Tra pochi giorni Alessandro Duran – che ogni sabato commenta gli incontri di pugilato in tv – farà le sue riflessioni sportive in diretta dal palasport di Ferrara: sabato 7 febbraio a partire dalle 20. In palio il titolo intercontinentale maschile superwelter e il titolo europeo femminile pesi mosca con protagonisti rispettivamente i ferraresi Matano e la Galassi. Marcello Matano combatterà contro il finlandese Jussi Koivula per il titolo Intercontinentale pesi superwelter; Simona Galassi affronterà Loredana Piazza per il titolo europeo pesi mosca. Sul ring anche Mattia Musacchi (pesi piuma) e Marco Iuculano (pesi leggeri), al loro esordio da professionisti, e poi Maurizio Lovaglio e Rosario Guglielmo a disputarsi il titolo italiano pesi massimi leggeri.
Eccoli allora, pronti a scattare: leggerezza e mira, dinamicità e colpi micidiali. Auguri.
[clic su una foto per ingrandirla e vedere tutta la galleria]
Alessandro Duran nella palestra dove allena (foto Giorgia Mazzotti)
Alessandro Duran (foto Giorgia Mazzotti)
Punchingball (foto Giorgia Mazzotti)
Simona Galassi e Alessandro Duran (foto Giorgia Mazzotti)
La campionessa pugile Simona Galassi (foto Giorgia Mazzotti)
Simona Galassi si prepara (foto Giorgia Mazzotti)
Allenamento della Pugilistica padana-Vigor (foto Giorgia Mazzotti)
Atleti in riscaldamento (foto Giorgia Mazzotti)
Ragazzi, uomini e donne si allenano (foto Giorgia Mazzotti)
Un altro scatto durante gli allenamenti (foto Giorgia Mazzotti)
Allenamento a Ferrara (foto Giorgia Mazzotti)
Guantoni e accessori di protezione (foto Giorgia Mazzotti)
Luca Dal Canto dopo “Il cappotto di lana” [vedi], il fortunatissimo film con cui ha vinto 15 premi ed è stato selezionato in 40 Festival, si ripropone con un nuovo cortometraggio intitolato “Due giorni d’estate”. La commedia, scritta dallo stesso Dal Canto con Anita Galvano, ambientata nella campagna livornese, trae spunto da un’opera di Amedeo Modigliani (del quale lo scorso 12 luglio si sono celebrati i 130 anni dalla nascita) e racconta la maturazione di un sedicenne che vivrà un’emozionante avventura nell’assolata campagna toscana.
I genitori del giovane Andrea sono in procinto di vendere la casa di campagna al cugino Genio, sognando di acquistare una villetta in Sardegna. Il cugino arriva al casolare con la giovane fidanzata (Lunia), una bella e ormai disillusa ragazza, che scatena le fantasie adolescenziali di Andrea, il quale crede di riconoscere in lei la modella del ritratto di Lunia di Amedeo Modigliani. Il ragazzo, deluso e avvilito a causa della bocciatura a scuola, ritrova slancio e fiducia in se stesso dopo il ritrovamento del diario della nonna e di un preziosissimo schizzo di un paesaggio di campagna. Grazie a questa scoperta inizia la ricerca del luogo dove fu dipinto “Stradina toscana del 1898”, uno dei rari paesaggi attribuito a Modigliani. I tre mesi estivi passati nel casolare dei suoi genitori sono stati fino a quel momento noiosi e privi di interesse ma quegli ultimi due giorni, vissuti con la ragazza alla ricerca del panorama dipinto dal grande pittore, danno una svolta positiva alla vacanza.
Dal Canto, proseguendo il tema delle incomprensioni generazionali, sviluppate in un contesto diverso rispetto al precedente film, propone nuovamente Livorno quale riferimento artistico e culturale. Tuttavia, mentre nel primo film l’atmosfera era più rarefatta e magica, qui, tutto rimane ben ancorato alla realtà, almeno sino a quando non entra in scena Lunia, grazie alla quale Andrea compirà il proprio percorso di maturazione. Il film è stato presentato in anteprima a Livorno il 16 febbraio 2014 poi, nel mese di giugno, è stato selezionato all’interno della sezione “Short Film Corner” del 67° festival di Cannes e quindi distribuito dalla 2way TV di Los Angeles, tramite la free Apps “Play Festival Films”.
“Due giorni d’estate” è stato prodotto a budget zero, grazie alla preziosa e amichevole partecipazione del cast (Marco Conte, Simone Fulciniti, Roberta Stagno, Giulia Rupi e Lorenzo Aloi) e alla piccolissima ma valida troupe.
Marco Conte si conferma un ottimo caratterista, una di quelle professionalità che hanno fatto grande il cinema italiano, mentre il giovane Aloi si muove a suo agio, nei panni del ragazzino introverso, in questa avventura dal sapore “modiglianese” che parla di amicizia, arte e adolescenza.
La locandina di “Due giorni d’estate” è stata realizzata da Enrica Mannari, una grafica e illustratrice livornese con molte esperienze internazionali, impegnata nel ridare slancio alla cultura della sua città. Il manifesto ricostruisce, con toni sognanti e fiabeschi, il tipico paesaggio toscano attorno a cui ruota tutto il cortometraggio.
“Due giorni d’estate” sarà presente al 30° Marché international du court métrage de Clermont Ferrand, la più importante kermesse a livello mondiale dedicata ai cortometraggi, che si svolgerà nella cittadina francese dal 30 gennaio al 7 febbraio 2015.
“Due giorni d’estate” di Luca Dal Canto, con Lorenzo Aloi, Marco Conte, Simone Fulciniti, Roberta Stagno e Giulia Rupi 2014, Italia Trailer del film [vedi]
da MOSCA – Un terribile incendio, divampato nella notte del 31 gennaio, ha colpito la Biblioteca dell’Istituto accademico dell’informazione scientifica sulle scienze sociali (Inion), fondata nel 1918 e con più di 14 milioni di libri, moltissimi testi rari. Partito dal terzo piano, pare per un corto circuito, il fuoco, estinto in più di 4 ore, con oltre sessanta squadre di pompieri, ha letteralmente divorato libri e carte, invadendo 2000 metri quadrati (e facendo crollare il tetto dell’edificio).
I russi hanno seguito con interesse e preoccupazione l’evento, sia sulla stampa che sui social network. Su Instagramsono comparse molte immagini drammatiche. Commenti altrettanto preoccupati hanno accompagnato gli eventi che travolgevano questo “custode” della storia russa. Un immenso patrimonio rischiava una vera catastrofe.
I media russi (in particolare Russia Today) hanno subito parlato di “Chernobyl dei libri”, paragone d’obbligo per un disastro di tali dimensioni. Al momento, si pensa che il 15% della collezione (quindi quasi 2 milioni di volumi) sia andato in fumo. Insieme alla storia, insieme alle radici culturali della Russia ma anche del mondo. Il responsabile dell’Accademia russa delle scienze, Vladimir Fortov, accorso sul luogo del disastro con il direttore dell’Istituto, Yuri Pivovarov, ha ricordato la grande perdita per tutto il mondo scientifico, un luogo dove veniva e viene conservato materiale unico al mondo e di cui si ha copia digitale solo in parte.
Un disastro. Anche se, fortunatamente, la maggior parte dei volumi sono tenuti nei sotterranei e il terzo piano è quello colpito. Magra consolazione ma almeno la tragedia non è stata completa, il disastro non definitivo. Almeno così si spera (molti volumi soni stati danneggiati dall’acqua e dalla schiuma degli estintori). Resta orribile vedere la carta bruciata, parole volate via, traduzioni sparite, storie scomparse, pensieri volatilizzati, civiltà andate. Volumi che hanno resistito a una storia difficile soccombono al “semplice” e stupido fuoco di un gesto d’incuria umana. Inaccettabile.
Dopo il risultato delle investigazioni che prenderanno sicuramente un po’ di tempo (si parla di un corto circuito al sistema elettrico, ma non va dimenticato che l’ultima ispezione alla biblioteca, di marzo 2014, aveva evidenziato sette violazioni, comportato una multa di circa 2000 dollari e dato alla direzione il termine del 30 gennaio scorso per sanarle… ironia della sorte…), si dovrà valutare se procedere a un restauro completo o parziale dell’edificio. Certo è che la biblioteca dell’Inion conta quasi 50.000 lettori, 330 impiegati, oltre 30.000 metri quadrati e rappresenta il più importante centro di ricerca in Russia dedicato alle scienze sociali e umanistiche. La seconda collezione di Mosca dopo la biblioteca Lenin.
Ma cosa era ed è questa biblioteca? Vediamolo brevemente, da fonti russe. Nata nel 1918 come Biblioteca dell’accademia socialista, qui venivano conservati e collezionati tutti gli esemplari di ogni rivista, giornale o volantino che venivano stampati. Nel 1936, la biblioteca era diventata parte della Accademia delle scienze dell’Urss come la Biblioteca principale delle scienze sociali. All’inizio degli anni Quaranta, rappresentava già la più grande biblioteca specializzata nel campo delle scienze sociali, con molti fondi e una fitta rete di biblioteche organizzate presso gli istituti dell’Accademia delle Scienze. Cambiamenti significativi sarebbero avvenuti nella biblioteca all’inizio della Grande guerra patriottica (alla fine del 1941, molti volumi erano stati portati a Tashkent ma sarebbero ritornati a Mosca già dal 1943). A partire dal 1946, la biblioteca aveva iniziato il suo ampliamento in maniera alquanto significativa. Durante questo periodo, videro la luce nuovi settori, divisioni e suddivisioni (come quella slava e sulle democrazie popolari europee nel 1949, quella letteraria, nel 1953 e la linguistica, nel 1956). Nel 1969, veniva creato l’Istituto di informazione scientifica sulle scienze sociali, nel 1970-1971 nacquero vari dipartimenti sul comunismo scientifico, la storia e la filosofia. Nel 1970, l’Inion ha iniziato a ricevere documentazione da 115 paesi, tra cui più di 4 mila riviste straniere. L’Istituto ha, allora, iniziato a organizzarsi per fornire informazioni e servizi di biblioteca ai singoli lettori e alle varie organizzazioni. Dal 1972, infatti, lancia il cd. “sistema operativo di diffusione selettiva di informazioni (Sdi)”, con cui, dopo aver letto il contenuto delle riviste straniere, si potevano (e possono) ordinare copie di articoli selezionati. Nel 1992-1993, la difficile situazione economica del paese complica notevolmente il lavoro dell’Istituto. Finanziamenti insufficienti e irregolari, poca valuta estera per l’acquisto di letteratura straniera. Nel 1997, l’Istituto subisce una profonda riforma organizzativa. Il risultato è stato la creazione di servizi sulla base di entità più grandi, i Centri (Sociale e Scienze Umane, Centro per la scienza e dell’informazione, Studi di problemi globali e regionali, il Centro per l’informazione scientifica, Studi di scienza, dell’educazione e della tecnologia).
La biblioteca ha lo status di importanza federale dal 1920, e, per questo, riceve una copia gratuita dei documenti cd. “obbligatori”. Fra i suoi 14 milioni di volumi di testi antichi e moderni europei e asiatici vi sono rare edizioni di oltre 400 anni fa. Raccoglie anche una delle più grandi collezioni di libri in lingue slave del paese oltre che una collezione di documenti della Lega delle nazioni, delle Nazioni unite, dell’Unesco e rapporti parlamentari statunitensi (dal 1789), inglesi (dal 1803) e italiani (dal 1897).
Vedremo il bilancio finale (per ora restano impresse le immagini della devastazione) ma molti, qui, parlano di “dramma e tragedia per la scienza russa”. Io aggiungerei, “per tutta l’umanità”.
NAZISTA A MILANO – Simon Wiesenthal, il celebre giustiziere ebreo che assicurò alla giustizia umana, e (se c’è Dio) a quella divina, Karl Adolf Eichmann, l’organizzatore dello sterminio degli ebrei, venne a Milano subito dopo l’esecuzione del secondo Adolf germanico dopo Hitler: si era all’inizio del 1963. Era un uomo voluminoso, Wiesenthal, gentile come sono i tedeschi quando sono gentili, un uomo intelligente, ma, si vedeva da come si muoveva, molto pratico, “lo sono diventato – mi disse – dal momento in cui sono uscito dal lager nel 1945 e mi ripromisi di dare la caccia ai massacratori”. Il “grande cacciatore”, come veniva chiamato, era venuto a Milano per presentare il suo libro (allora celebre, ora dimenticato) “Gli assassini sono tra noi” e fu proprio in quella occasione che ebbi la possibilità di conoscerlo di persona e, nei giorni successivi, di frequentarlo, perché a Milano aveva da compiere una sua missione: la cattura di tale Rajakovic, ex braccio destro del dottor Mengele, quello che faceva esperimenti, tra l’altro, sui bambini ebrei. Con un mio collega – allora lavoravo all’agenzia giornalistica Italia di Enrico Mattei – decidemmo di dargli una mano e fu così che si scoprì che il signor Rajakovic a Milano si faceva chiamare Raja e aveva aperto un ufficio di import-export in viale Maino, quasi in piazza Tricolore. Ma Rajakovic, o Raja, l’uomo che aveva fatto torturare e uccidere centinaia, forse migliaia, di piccoli innocenti, era stato avvertito che Wiesenthal era calato nel capoluogo lombardo, aveva fatto le valige ed era scomparso con il figlio. I locali del suo ufficio erano ormai deserti, due scrivanie, un armadio e qualche sedia. Wiesenthal non trovò mai più la belva Raja, fuggita, si disse, in Sud America, soprattutto Brasile e Argentina, i cui governi forse avevano deciso di traformarsi in parrucchieri genetici facendo diventare bionde le nere teste degli abitanti. Partendo da Milano Wiesenthal mi diede il suo libro fresco di stampa. Con una dedica. Grazie.
BELLA CIAO – Mi unisco a coloro che hanno sottolineato come l’inno della Resistenza “Bella ciao” sia diventato il canto di coloro che nel mondo credono nella libertà, non una libertà qualsiasi, troppo spesso trasformata dai potenti in libertà di soffrire e morire, ma la libertà vera, quella che, quando respiri, senti che allarga i polmoni, quella che, quando guardi il mondo, lo vedi colorato. “Bella ciao”, un bel fiore nasce sempre sulla tomba delle persone giuste e libere.
BLOGGER – Ho sentito con le mie orecchie un bel bambino di sei-sette anni dire alla mamma: “Mamma, da grande voglio fare il blogger”. Bravo bambino, io volevo fare Gesù Cristo.
LA POLIS – La città, in greco polis, è diventata una desinenza. Fu chiamata “Tangentopoli” la Milano da mangiare, non da bere, la città, la polis della corruzione. Da allora si usa poli come desinenza, l’ultima parola così coniata è “aumentopoli”: il comico potere dell’ignoranza.
Pronto Ada, come stai? Non mi faccio viva da un po’ di tempo perché in questi giorni sono stata molto occupata, e tu dici che non ho niente da fare! L’ha proclamato anche quel galantuomo di Landini nell’ultimo comizio davanti al Lingotto: sono da considerarsi senza lavoro uomini e donne che non hanno parenti, la Fiom lavora perché a chi per esempio dei cognati venga riconosciuto un Tfr doppio. E a me chi lo dà il fine rapporto doppio? Ignora forse Landini che colui il quale, come me, è in pensione da ven t’anni non ha più diritti tanto vale taccia? O che muoia? Andavo rimuginando questi insani pensieri mentre i miei amati parenti mi raccontavano la visita medica appena fatta dal dottor Negro. Devi sapere che gli amatissimi, uniti in matrimonio da sessant’anni e pertanto un po’ consunti, sono non proprio sordi, ma diciamo duri d’orecchio e qualche volta, non sempre per carità soltanto qualche volta, cadono in imperdonabili equivoci come l’altro giorno. “Sì, dice lei, il dottore me l’ha ripetuto che ho la leucemia, hai visto, caro, con quanta cura mi ha visitato, mi ha pesato e mi ha anche misurato, caso mai fossi cresciuta in altezza”. La parente, piccina, ha la fissa dell’altezza, non supera il metro e mezzo ma vedo il mondo popolato di donne “più piccole di me”. “La leucemia non perdona!, conclude terrorizzata ma forte, dobbiamo prepararci al peggio”. Il marito fa il marito, ossia, come sempre, tace. La sera, la piccina si presenta a cena indossando una impeccabile princesse fumo di Londra per allenarsi ai colori scuri del lutto e io, che, per dar conforto alla famiglia, mi ero messa tutta in una tiepida nuance fragola, mi sento una cacca. A notte il sant’uomo non riesce a dormire, lo sento che si agita tra piumone e lenzuola ”nessuno sa fare i letti in questa casa… se non ci fossi io a mettere a posto le coperte…”. Si, dolcezza, gli rispondo senza pronunciar verbo, ma perché, anziché rifare I letti, domattina non vai dal dottor Negro? Detto fatto: di buon’ora il sant’uomo va a fare la fila dal medico della mutua. “Mi dica, dottore, mi dica, che cosa posso fare per la leucemia di mia sorella?”. Una sonora risata è la risposta del medico. “No, no, non si tratta di leucemia, ma della meno epica anemia, un mesetto di “Calciofit B12” e va tutto a posto. Le dirò, avevo avuto il vago sospetto che fossero un po’ duri d’orecchi, che ci sentissero poco, insomma che, con quelle facce stralunate, non avessero capito un accidente. Che cosa direbbe di curare la leucemia di sua sorella con una bella lavanda alle orecchie?”
STANDING OVATION: I PIU’ ACCLAMATI SPETTACOLI TEATRALI DEL XXI SECOLO
“Il cerchio di gesso del Caucaso” di Bertolt Brecht, regia di Benno Besson, Teatro Comunale di Ferrara, dal 7 all’11 gennaio 2004
Dopo l’allestimento di “Madre Courage” dell’anno scorso, con la Melato diretta da Sciaccaluga, torna Brecht al Teatro Comunale per la stagione di prosa 2003-04. Va in scena questa sera una delle opere più tormentate sotto il profilo creativo del drammaturgo e commediografo tedesco, e cioè quella sorta di tragicomica “parabola popolare” che è “Il cerchio di gesso del Caucaso”. Bertolt Brecht (1898-1956), ideatore del cosiddetto “teatro epico” e autore di altri capolavori quali “L’opera da tre soldi” e “L’anima buona del Sezuan”, abbozzò il canovaccio de “Il cerchio di gesso del Caucaso” nel 1938-39, per poi completare la pièce nel 1944 durante l’esilio statunitense e in seguito rimaneggiarla più volte sino al debutto ufficiale sul palcoscenico avvenuto a Berlino due anni prima della sua morte.
La vicenda, che ostenta meno di altre opere brechtiane il substrato politico-ideologico, è suddivisa in due parti parallele che al termine si congiungono cronologicamente. Nella prima parte, la giovane serva della casa del governatore di una città della Georgia, ucciso durante una sommossa, raccoglie il figlio abbandonato dalla madre fuggitiva e lo accudisce con inenarrabili sacrifici, salvo poi, al ritorno della vera madre, vederselo rivendicare da costei per motivi di eredità. La seconda parte riprende dall’inizio, dunque dal giorno della sommossa, e narra di uno scrivano corrotto e ubriacone eletto estemporaneamente, alla fine, a giudice per l’affidamento del bambino, che verrà attribuito a una delle due donne mediante la prova del “cerchio di gesso”. Il finale è potente: in una società iniqua un uomo iniquo decreta, ignorando le norme, una giustizia a misura d’uomo, un’autentica giustizia finalmente a favore dei poveri e degli oppressi.
L’allestimento, basato sul testo tradotto da Edoardo Sanguineti, porta la regia di Benno Besson, a suo tempo amico e collaboratore dello stesso Brecht, e si avvale delle musiche originali di Paul Dessau, anch’egli collaboratore del drammaturgo tedesco (sue sono le musiche del “Madre Courage” e del “Sezuan”). La scenografia, i costumi e le maschere sono di Ezio Toffolutti. In scena si avvicendano una ventina di attori, fra cui spiccano nomi come Lello Arena e Daniela Giordano, che rivestono man mano vari ruoli sino ad interpretare un totale di oltre settanta personaggi.
Come preannunciato, da oggi cominciamo a pubblicare i vincitori di “Ferraraitalia sono anch’io”, il concorso che si è tenuto durante tutto il mese di luglio sulla nostra pagina Facebook e che vi ha permesso di votare gli articoli che vi sono piaciuti di più. Cominceremo scorrendo la classifica a ritroso e, a fine mese, scopriremo l’articolo vincitore del concorso. Buona lettura!
31 gennaio 2015
Seconda strada a destra verso Montesanto di Voghiera (Fe), e poi dritto fino “Al Fienile”.
É qui che, nel 2008, Alessandro Rocchetti e Claudio Massarenti hanno concretizzato Pettyrosso, società vinicola che punta alla promozione del prodotto vino e di altre realtà alimentari, con un occhio di riguardo particolare e originale nei confronti dell’arte e alla circolazione di idee.
Insieme alla produzione agroalimentare, Pettyrosso si propone infatti come centro artistico-culturale, un aggregatore di nicchie artistiche nel territorio ferrarese che unisca impulso alle attività economiche della zona e progettualità culturale ad ampio spettro, racchiudendo mostre e incontri nell’ottica di conservare e promuovere le eccellenze ed esportarle in casse di risonanza nazionali.
“Ne sono esempio la personale di Alice Negrelli, ospitata al Fienile tra settembre e dicembre dello scorso anno, e la personale estemporanea di Jacques Brianti, ospitata giugno 2014 ma anche l’evento enogastronomico “8buffata”, che nel maggio 2013 è stato tenuto presso la Sede della Provincia di Treviso, degustazione di particolarità enologiche e gastronomiche a km 0, nell’ ambito della più ampia manifestazione e mostra evento Stella Farfalla nell’ Arcobalenombra”, racconta Alessandro.
LA MOSTRA – Il fiore all’occhiello del progetto è la Mostra Internazionale d’Arte Contemporanea “Arteggvolution. Porta l’arte nel quotidiano”, rassegna itinerante interamente dedicata alle uova indetta insieme all’Associazione Culturale Art Revolution di Castello di Godego (Tv) nel 2003 e riproposta al Fienile (6 dicembre 2014 – 22 febbraio 2015), ideata dagli artisti Ugo Gazzola, fondatore del Laboratorio scuola di restauro Barco Mocenigo, Alcide Sartori, Sandra Sgambaro e Gigi Simonetto.
Quadri, cartellonistica e sculture che hanno come comune soggetto l’uovo in ogni possibile declinazione, giudicati e premiati da una giuria di critici. A uova surreali, ovetti sciatori e pasquali, pennellate bianche e gialle dei partecipanti al concorso si uniscono poster del Louisville Ballet e della rivista italiana “Italia Imballaggio” con copertina di Kostabi, e foto di installazioni di Mirella Bentivoglio. La suggestione arriva da Hartmann, nome di spicco a livello mondiale nella produzione dei contenitori per uova con una particolare attenzione al design, la cui Egg Art Gallery rappresenta una collezione assortita unica al mondo. Fatta propria l’idea legata all’uovo in quanto prodotto alimentare ma anche visionario, Hartmann veicola i principi di sostenibilità e attenzione all’ambiente, grazie agli imballaggi per uova in carta riciclata e non in plastica: materia di base utilizzata per gli imballi è la carta da macero, prodotto naturale di recupero facilmente riciclabile che unisce alle necessità pratiche e produttive il rispetto dell’ambiente. Proprio l’uovo, che costituisce il simbolo della sfida creativa, è il protagonista reale e semiotico di questo progetto.
Progetto che richiama l’idea apollinea e dionisiaca, nell’arte e nel mondo iperuranico, fascinazione che arriva da lontano: da Hieronymus Bosch a Salvador Dalì, da Piero Della Francesca a Lucio Fontana, si magnifica questo simbolo della perfezione che si usa donare in vari culti precristiani per festeggiare l’inizio della primavera, diventando poi simbolo al cioccolato della Pasqua per eccellenza, e sentore della resurrezione di Cristo, come annunciato dall’uovo che si tinge di porpora quando lo Maria Maddalena mostra all’incredulo imperatore Tiberio. All’uovo si attribuisce la nascita di Venere, che in alcune tradizioni fuoriesce da un uovo e non dalla spuma del mare; della dea Atagartis, nata da un uovo caduto dal cielo; e ancora di Pulcinella, una delle più amate maschere napoletane. E ancora la nascita del mondo stesso dall’uovo cosmico, mito di Cananei e Tibetani, di Vietnamiti e Celti. Forma perfetta, senza principio e senza fine espressa, pagana e arcaica, dal XXIesimo arcano maggiore dei Tarocchi, in cui ogni componente dell’uovo rappresenta un elemento, richiamando alla mente l’uovo filosofico degli alchimisti; sino all’arte di riunire gli opposti per ritrovare l’originaria essenza attraverso magie geometriche e algoritmiche.
IL LUOGO – Nel 2008, Alessandro e Claudio rilevano il fienile cominciando a operare nel settore vinicolo, tessendo la trama di territorialità ed ecosostenibilità sulla scia di una vocazione vinicola già esistente. “Nel 2000 – continua Alessandro – la zona cominciava a risentire della depressione, e lì è scattata la molla che ci ha permesso poi di mettere in piedi una leva produttiva così variegata e legata al territorio, coinvolgendo realtà di tutti i tipi: durante l’inaugurazione della mostra, ci siamo avvalsi dell’aiuto degli studenti dell’Istituto alberghiero Vergani Navarra di Ferrara.”
Il fienile, ricavato dalla ex stalla della proprietà dei conti Gulinelli, conserva le mattonelle bianche e lucide che ora fanno da sfondo a fantasie multicolori o ospita una grande sala disponibile anche per eventi privati, luminosa e traboccante di silenzio, in cui rastrelliere di vini si contendono l’attenzione con tavoli di legno, rustici e levigati, e con grandi finestre sul cortile. Una porta quasi persa nel muro conduce a una cantina in cui dormono, seminascoste nel buio fresco, altro vino che decanta sotto gli occhi di bottiglie di birra slava, russa e danese, in fila su una mensola come attenti soldatini di vetro.
Fuori, al sole, si scaldano i vigneti di Tocai, un ettaro che assicura la produzione dello spumante Gattabianca – metodo Martinotti – , cavallo di battaglia della produzione vinicola; contro il cielo si stagliano canne frondose che si agitano in silenzio, salutando le rare automobili che disturbano la quiete deliziosa, una vera e propria installazione sinergica.
LA STORIA – Così si tramanda la passione per l’agricoltura e il vino che risalgono a Gianoberto Gulinelli, già creatore ex novo del terroir negli anni Sessanta e Settanta che alle spalle porta la storia degna di un romanzo. Finanziatori del progetto di Ettore Bugatti, fondatore dell’omonima casa automobilistica, i Gulinelli ereditano la Delizia di Montesanto dai Marchesi Bevilacqua, a loro volta ereditata, nel tempo, nientemeno che da Borso I d’Este, che dispose per la costruzione della villa affidandone l’incarico all’architetto ducale Pietro Benvenuto Degli Ordini.
Passione che dal vino a una tela di artista si infonde in chiunque abbia la fortuna di capitare al Fienile, a chiedersi “… che coss’è l’amour”.
Nessuno vuole cambiare il mondo. Non lo vuole Obama, non Renzi e nemmeno l’Europa unita o la Cina. E’ per questo che il mondo non cambia. Il mondo rimane una storia di classi egemoni e il maggior successo del neoliberismo è stato quello di farci credere, grazie al credito, che le classi non esistessero più. Poi è arrivata la crisi e qualcuno ha dovuto pagarla. La classe media è scivolata verso la povertà, mentre i poveri diventavano ancora più poveri.
Nessuno vuole cambiare il mondo. Noi vogliamo aderire al mondo. La nostra è una cerniera che promette la rivoluzione e subito richiude i due lembi di paese nella solita conservazione. Lo stesso Renzi è stato scelto per ordinare il nostro mondo, disciplinarlo, ma non di certo per rivoluzionarlo. Il nuovo presidente della Repubblica Mattarella, uscito di scena Napolitano, è la cerniera che mancava all’assetto politico italiano. Mattarella sembra garantire a tutti, per quanto sarà in suo potere, la disciplina e l’abnegazione necessaria a conservare questo stato di cose. Non si spiega diversamente l’adesione trasversale e la fiducia ecumenica. Sarà il garante di una costituzione nobile, ma continuamente tradita e disattesa.
Siamo ostaggio della peggiore classe politica dell’Occidente. Abbiamo un sistema scolastico dove ragazzini di tredici anni, alla fine delle medie, sono chiamati prematuramente a scegliere il proprio indirizzo di studi, spesso con conseguenze disastrose per il loro futuro. Un sistema giudiziario costruito per i potenti che possono permettersi di rallentare la macchina burocratica fino alla prescrizione, diffamare a mezzo stampa ed eventualmente pagarne le conseguenze, mentre i poveri devono solo temerlo. Abbiamo carceri affollate di delinquenti comuni che pagano per i loro misfatti, mentre il reato di concussione e quelli finanziari, che coinvolgono politici e colletti bianchi, godono di leggi a dir poco bonarie. L’elenco sarebbe troppo lungo, per questo Stato ingiusto.
Allora ribadisco che nessuno vuole cambiare il mondo. La lingua falsa, menzognera della politica ne è la continua conferma. Fingono perizia, appaiono preparati, puliti, eleganti. Ma non sono sinceri. Non sono veri. Il loro è un gergo importato, indecifrabile, contraffatto. L’obiettivo è la conquista del potere, non la risoluzione dei problemi italiani. Tuttavia i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Renzi, figlioccio di Berlusconi per scaltrezza e comunicazione, guida un partito democratico da anni privo di idee, incapace di essere alternativo alla destra liberista. Non importano le menzogne a reti unificate, l’ipocrisia dell’informazione telecomandata.
Noi non vogliamo cambiare il mondo. Altrimenti tutto questo sarebbe insopportabile.
Il mondo, a dispetto delle menzogne, rimane una questione di ricchi e poveri, non altro. L’Italia non è un paese per giovani, e direi che non è un paese per poveri.
“Un italiano su cento è celiaco, e considerando che per ogni soggetto certificato, ce ne sono sette che sfuggono alla diagnosi, il rapporto potrebbe essere ancora più alto”. Con queste parole, la nutrizionista Mirella Giuberti, docente dell’I.I.S. Vergani Navarra, ha spiegato le ragioni del convegno “Le farine, il gusto e la salute: glutenfree tra moda e necessità” che si è tenuto presso la Fondazione per l’Agricoltura F.lli Navarra. A fare gli onori di casa la preside del polo scolastico, Roberta Monti e il presidente della Fondazione Navarra, Luigi Fenati.
“Nel frumento ci sono quattro famiglie di proteine, due di esse non si sciolgono in acqua, le gliadine e le gluteine. Quando si accorpano con l’acqua, nasce il glutine, che poi conferisce agli impasti viscosità, elasticità e coesione.
A seconda di quanto glutine contiene una farina, l’impasto sarà più o meno resistente e varierà il tempo per la lievitazione. Tecnicamente la forza di una farina si indica con il fattore di panificabilità W. Con il passaggio dalla panificazione artigianale a quella industriale, il valore W è sensibilmente aumentato. Da 169 W nel 1974 a 209 W nel 2012”.
Partendo da questa spiegazione scientifica, la nutrizionista ha voluto dimostrare come sia verosimile che i cambiamenti varietali volti ad aumentare la presenza di glutine nel frumento possano essere correlati alla proporzionale crescita delle intolleranze.
Sono cambiate le proprietà dei grani e sono cambiate anche le modalità della loro trasformazione.
“Il grano era alla base dell’alimentazione di Greci e Romani eppure non abbiamo notizia di gravi problematiche alimentari. A quell’epoca però la lievitazione era molto più lenta, e così pure la cottura, questo sicuramente rendeva più digeribili i derivati del grano”.
Tornando all’oggi, Giuberti ha suddiviso le varie problematiche.
La celiachia, che è l’intolleranza al gliadina, che preclude l’assunzione di frumento, orzo, segale, avena, farro e kamut per evitare il rischio di gravi lesioni alle mucose dell’intestino tenue.
L’intolleranza al grano, che è una condizione di alterata immunità ad albumine e globuline, che, quando vengono ingerite, provoca sintomi come crampi, diarrea, nausea, mal di pancia associato a gonfiore addominale, aria nello stomaco ma anche nell’intestino, difficoltà e lentezza digestive e vomito.
La sensibilità al glutine, spesso associata alla sindrome del colon irritabile, che è data dall’assunzione di grano, farro, kamut, grano monococco e segale e produce mal di pancia, crampi e costipazione. Le alternative in questo caso sono il grano saraceno, la quinoa, la manioca, l’amaranto, il taro, l’igname e l’albero del pane.
“In molti casi però – ha proseguito la nutrizionista – la dieta senza glutine non risolve il problema, perché potrebbero esserci altre proteine, zuccheri o grassi alla base del disturbo. Accade per esempio che queste allergie ai cereali siano associate all’intolleranza al lattosio.
Una parte dei sintomi potrebbe essere attribuibile ai Fodmap (acronimo di Fermentable Oligossaccharides, fruttani e galattani, Disaccharides, lattosio, Monoaccharides, fruttosio, And Polyols, alcol e zuccheri, ndr), cibi contenenti carboidrati a catena corta che possono peggiorare i sintomi di alcuni disturbi digestivi”.
“Le intolleranze possono essere transitorie”, ha voluto rincuorare la Giuberti, ammonendo però che “in Italia sono troppi i soggetti che escludono spontaneamente intere categorie di nutrienti fondamentali e troppi i test non scientifici, quindi occorre fare attenzione”.
Dopo questa introduzione scientifica, c’è stato il cooking show di Giovanni Padricelli, chef e docente dell’I.I.S. Vergani Navarra che assieme asi suoi studenti ha dato una dimostrazione dal vivo della preparazione dell’impasto per il pane.
“I cereali hanno tempi di cottura di versi – ha spiegato – più lenti riso e orzo, più brevi gli altri. La farina di grano è la più indicata nella lievitazione, ma spesso subisce dei processi di sbiancatura e viene privata del germe di grano e delle fibre contenute nel guscio che è la parte più nutriente. E poi vengono usati lieviti chimici come cloruro d’ammonio, solfati e fosfati di calcio.
Sarebbe importante tornare a fare il pane in casa. Inoltre non possiamo pensare di usare solo prodotti a base di farina bianca. Per esempio un tempo si usava molto di più il grano saraceno.
Bisognerebbe anche tornare ad usare il lievito madre, che esiste anche liofilizzato, e proviene da una pasta lasciata acidificare e tenuta da parte. Si può usare anche il lievito di birra, ma visto che è fatto di un ceppo unico di batteri, per avere una fragranza più ampia dobbiamo utilizzare la pasta madre”.
E lo chef ha concluso consigliando di “utilizzare 50% di farine forti, come farro, segale, kamut, avena grano e manitoba, e 50% di farine deboli come grano saraceno, orzo, ceci, riso e mais. Questo impasto lievita meno, ma ne ricavo un maggiore contenuto nutrizionale”.
E’ chiaro che questi sono suggerimenti utili per tutti, al fine di integrare una dieta che rischia di fossilizzarsi troppo su prodotti derivati dalla farina bianca di grano, ma per chi ha specifiche intolleranze o allergie il discorso dovrà tenere presenti altre limitazioni.
Al convegno è seguito un ricco e gustoso buffet realizzato da Padricelli assieme agli studenti del Vergani che è stato molto apprezzato dai tanti intervenuti, tante persone comuni affette da problemi alimentari o interessate a migliorare la dieta, accanto a personalità locali del mondo agricolo come Pier Carlo Scaramagli, presidente di Confagricoltura Ferrara, e Stefano Calderoni, neoeletto presidente di Cia Ferrara.
Favole che raccontano, favole che insegnano. Daniele Lodi, insegnante ferrarese di scienze motorie, da una vita in mezzo ai ragazzi, ha inventato cinque storie con l’obiettivo di attenuare i deficit specifici di apprendimento. Il libro “Natalino e il mago” (edizioni Sette Città, 2014) nasce dopo un’intensa attività a fianco di bambini che, grazie a una motricità finalizzata, hanno potuto migliorarsi a scuola e crescere la fiducia in loro stessi.
“Natalino e il mago” è la favola di un bambino che riesce dove non avrebbe creduto di riuscire. Le frontiere di Natalino possono essere i traguardi di molti altri bambini?
“Certamente. Ho seguito novanta casi di alunni con deficit specifici di apprendimento, alcuni di loro hanno potuto affrontare serenamente la scuola superiore, altri hanno registrato progressi nei test linguistici, motori e matematici e tutti hanno aumentato autostima e coordinazione, non dimentichiamo che il miglioramento della coordinazione sblocca i prerequisiti”.
Il libro dà consigli pratici, cioè consiglia i giochi utili per superare certe difficoltà. Sembrerebbe strano, ma sono i giochi di una volta, quelli semplici in cui il corpo è protagonista e il gioco di gruppo è fondamentale…
“Il corpo e la fantasia devono essere protagoniste, nel libro parlo di cerbottane, fionde, del gioco ‘bach e pandòn’ e di tutto ciò che ha a che fare col saltare, lanciare e con la manualità. Il consolidamento della lateralizzazione e degli orientamenti spazio-temporali, oltre all’opportunità di vivere sfide, sono importantissimi perché riattivano le connessioni neuro-motorie. Viene data, in buona sostanza, agli alunni una più fluida capacità prassica”.
Natalino e il mago intreccia l’elemento narrativo, godibilissimo, all’elemento didattico, tanto da essere un libro per bambini, genitori e per insegnanti.
“La condivisione è molto importante e i risultati, in questo senso, li abbiamo ottenuti. Il gioco e la corporeità devono essere al centro dell’interesse, la didattica va ripensata in base a tali elementi perché il corpo, per i bambini, è uno strumento di apprendimento. Senza un sé corporeo perfettamente lateralizzato e una fluida coordinazione non è possibile superare gli ostacoli al processo di apprendimento”.
Il testo entrerà nel mondo della scuola?
“Nelle prossime settimane parlerò a genitori e insegnanti, sarò, ad esempio, al Centro studi di Ferrara, a Vigarano Mainarda, Bondeno, Santa Maria Maddalena e altri istituti comprensivi che si sono mostrati interessati”.
Non solo tablet allora?
“Nei giochi digitali, purtroppo, si perdono il movimento del corpo e lo stare insieme che, invece, aiutano a superare conflitti e pregiudizi. Direi che si perde un po’ di ricchezza”.
Daniele Lodi è docente di scienze motorie nella scuola secondaria di primo grado dal 1979. Specializzato sugli handicap psico-fisici, esperto del Centro italiano dislessia, dottore educatore Uniped, pubblicista di Scuola e didattica, supervisore di corsi di motricità finalizzata, consulente familiare, curatore delle sezioni educativa e relazionale del sito del comitato Vivere insieme e coautore di Corporeità e deficit di apprendimento, edito da La scuola.
Andrea Bergamini, cresciuto a Ferrara e naturalizzato romano, fonda Playground nel 2004, oggi è considerato uno dei migliori editori nell’ambito delle piccole-medie case editrici italiane. In catalogo solo ed esclusivamente titoli e autori notevoli nell’ambito della narrativa di qualità. Solo per citarne alcuni del 2014: “L’ultimo dio” di Emidio Clementi, “Non abbiate paura” di Allan Gurganus e “L’uomo seme”, manoscritto della seconda metà dell’800 di Violette Ailhaud. Tutti libri che hanno avuto ottime recensioni sulla stampa nazionale e che sono stati presentati in tutta Italia e oltre. Di grande successo anche la collana Syncro High School, testi di genere “young adult” dedicati agli adolescenti. Dal 2011 Playground entra a far parte del gruppo Fandango di Domenico Procacci, scelta che ne consolida il successo.
Abbiamo incontrato Andrea Bergamini a Roma, negli uffici della Fandango Libri dove Playground ha sede, per farci raccontare da lui questa avventura che, da ferraresi, ci onora e ci fa ben sperare.
Da ferrarese e da ex-studente del liceo Ariosto come te, non posso fare a meno di partire da lì, perché mi ricordo di te e perché gli anni del liceo solitamente sono irreversibili. Quanto ha inciso la tua formazione nel percorso editoriale intrapreso? E quanto il contesto ferrarese?
Per me il liceo Ariosto è stato centrale, una stagione meravigliosa. L’Ariosto negli anni Ottanta era in pieno fermento, era una scuola prestigiosa ma allo stesso tempo molto libera, non c’era la rigidità formale tipica dei licei della provincia. Ho avuto ottimi insegnanti e ho conosciuto la persona che nella mia adolescenza e giovinezza è stata il mio riferimento più significativo: la professoressa di greco Giuliana Berengan. Lei era, ed è, l’intellettuale che ti apre alla cultura, a una dimensione culturale ampia, europea ed extra-europea. Per fare un esempio, mi ricordo che ci portò a vedere Pina Bausch quando ancora non era così nota in Italia. Con lei ho cominciato a immaginare che la cultura fosse una casa in cui si può abitare in modo confortevole. Lei si rapportava a noi come fossimo degli adulti e ci induceva a immaginare cose che avessero un senso, per abituarci a creare, sperimentare, fare delle scelte, a pensare che ‘è possibile’. Ed è stato al liceo che ho capito che la narrativa era la mia strada.
Parliamo allora di Playground, che tipo di editore sei?
Se parliamo di Playground (il discorso per la collana High School è diverso) io mi considero tutto sommato un editore del Novecento, ossia abbastanza tradizionale perché organizzo e imposto il mio lavoro secondo il criterio della ‘politica degli autori’, che mi piace spiegare con una definizione di Truffaut: un autore quando fa un film, anche se non è tra i suoi più riusciti, è comunque più interessante di un film medio riuscito. Edmund White, per esempio, non scrive mai romanzi perfetti ma le sue pagine sono sempre più interessanti di un romanzo perfetto medio, perché hanno una ricchezza, uno stile, una capacità di raccontare la vita e un rapporto con la realtà che è di molto superiore rispetto alla media. Playground pubblica quindi solo libri di autori molto selezionati, di altissimo livello internazionale, tant’è che poi non li abbandona dopo un libro ma tende a pubblicarne l’intera opera, perché è l’intera opera di un autore a essere significativa.
‘L’uomo seme’, un piccolo caso letterario Playground del 2014, oggi alla terza ristampa, è di una scrittrice sconosciuta. Come mai questa scelta?
‘L’uomo seme’ [leggi] in effetti rappresenta un unicum, una novità rispetto al catalogo Playground. Ma pur non essendo l’opera di un’autrice, ci abbiamo creduto molto e abbiamo fatto una scommessa, essenzialmente per tre ragioni: perché il libro incarna e racconta una storia vera e incredibile, successa a metà dell’Ottocento e vissuta in prima persona; perché Violette Ailhaud ha dimostrato una capacità di racconto davvero fuori dal comune; e, infine, perché è un testo potente, intenso che ha dell’ancestrale e del fantascientifico allo stesso tempo, sembra uno di quei romanzi che parlano di “un mondo senza uomini”, in realtà questa ipotesi fantascientifica si è verificata realmente a metà dell’800 in una società arcaica. La scommessa è stata vinta perché il libro ha avuto davvero un successo strepitoso, è in ristampa e la terza edizione dovrebbe uscire a inizio febbraio. Questo libro ha avuto ottime recensioni, è stato letto a Radio 3 da Sonia Bergamasco e Piera degli Esposti con una presentazione di Concita de Gregorio, Valeria Parrella è rimasta molto colpita dalla storia tanto da voler scrivere la postfazione a quest’ultima edizione, ma la cosa che ci gratifica di più è che ha colpito soprattutto i lettori.
Come l’hai trovato questo testo dell’800?
Me l’ha proposto la traduttrice, Monica Capuani, che se ne era innamorata, l’aveva tradotto e stava tentando di proporlo alle case editrici italiane. Questo testo non aveva avuto i giusti riconoscimenti in Francia perché era stato pubblicato da una piccolissima casa editrice della Provenza, e si sa che in Francia un libro ha fortuna solo se pubblicato a Parigi. Però, non si sa come e per quali vie traverse e oblique, è comunque finito in molte mani nel mondo e ha avuto un tale riscontro che addirittura ne è nato un festival in Provenza. Il libro ha ispirato nel tempo una coreografia, due graphic novel, sono già state fatte diverse trasposizioni teatrali in Francia, in Italia andrà in scena a breve la trasposizione a cura di Sonia Bergamasco. Inoltre, la produttrice Sylvie Pialat, una delle produttrici francesi indipendenti più interessanti, ha acquisito i diritti del libro e presto ci sarà la trasposizione cinematografica. Tutto questo ci fa dire che, pur non essendo l’opera di un’autrice, questo testo sta penetrando nel solco della letteratura d’autore in maniera carsica.
E’ diventato un caso letterario quindi, un fenomeno…
Sì, rischia di diventare un piccolo fenomeno.
Quali sono quindi le qualità che un editore deve avere?
Coerenza e flessibilità. Io appunto pubblico solo libri di autori, ma rimango dell’idea che un editore deve essere sempre molto flessibile, nel momento cioè in cui individua un libro che ha qualità, anche se non corrisponde esattamente alla linea editoriale, deve avere la flessibilità per riconoscerne le qualità e pubblicarlo. E poi deve anche capire quando un testo può arrivare al lettore, perché un libro si pubblica perché venga letto.
Ecco, appunto, che tipo è il lettore di Playground?
Ho sempre pensato che il lettore di Playground mi assomigliasse, che quindi fosse un cosiddetto ‘lettore forte’, che ha una passione per le storie e per lo stile, perché una storia per essere efficace deve essere raccontata bene, con uno sguardo diverso. Io credo ci debba essere un equilibrio molto forte tra stile e racconto, per questo personalmente non amo la letteratura sperimentale e nel mio catalogo non c’è la letteratura cosiddetta d’avanguardia. Nel mio catalogo la narratività e le storie sono sempre centrali.
Età, sesso e preferenze dei vostri lettori…
In media l’età va dai 30 ai 50 anni ed è un lettore tipo femminile. Ma poi dipende anche dagli autori: la Humphreys ha un lettore donna, White un lettore prevalentemente gay, O’Neill un lettore maschile. Ma tutti i lettori di Playground apprezzano qualità della scrittura e passione per le storie.
Quale tra i vostri autori rappresenta di più la narratività di cui parli?
Gurganus. E’ un esempio molto tipico del narratore, per la sua straordinaria capacità di raccontare le storie e di delineare i personaggi.
Gurganus come l’hai individuato? E, in generale, come li trovi gli autori?
Gurganus mi è stato segnalato, come anche altri, da un agente letterario, ma per l’80% gli autori che scelgo sono frutto di mie ricerche o di mie letture precedenti. Io opero soprattutto in termini di ‘ripescaggi’ ossia di riscoperte a livello internazionale, di autori che per vicissitudini editoriali sono finiti sotto un cono d’ombra. Gurganus è un caso tipico anche in questo: autore internazionalmente riconosciuto, negli Usa era stato un best seller, finì in un cono d’ombra perché la casa editrice italiana che lo pubblicò negli anni ’90 (Leonardo) fallì poco dopo e anche perché la sua notorietà in quegli stessi anni andò scemando tanto da non renderlo più abbastanza interessante per le maggiori case editrici italiane. E questa è stata la nostra fortuna: abbiamo capito la qualità dell’autore, la possibilità di pubblicarlo e a quel punto abbiamo preso accordi con l’agente. Con Edmund White, uno dei più grandi scrittori statunitensi del dopoguerra, tradotto in tutte le lingue, una storia simile: Einaudi lo pubblica negli anni ’90 ma forse con aspettative commerciali troppo ambiziose e quindi lo abbandona; viene ripreso da Baldini e Castoldi che però fallisce, e a quel punto mi inserisco io che pubblico “My lives” nel 2007; con gli anni White diventa un autore consolidato di Playground, che pubblichiamo regolarmente e di cui ora stiamo anche ritraducendo la tetralogia. Questo è il tipo di operazioni che fa Playground.
Quanto lavoro di ricerca e selezione c’è dietro alla pubblicazione dei vostri libri?
Un enorme lavoro di ricerca su internet, di esame dei cataloghi on line, dei premi, dei blog e, infine, di lettura delle opere in lingua originale, che è la parte più impegnativa.
Chi seleziona i testi e li legge in lingua?
Lo faccio io. E ci tengo a dire che leggere le opere in lingua è una regola imprescindibile della casa editrice, i libri che pubblichiamo sono sempre stati letti in lingua facendo particolare attenzione alla cura editoriale: i nostri traduttori sono tutti eccezionali, ma la traduzione è un lavoro difficilissimo che va sempre rivisto, sulla traduzione deve essere fatto un lavoro redazionale che supporti il traduttore nel verificare laddove ha perso un po’ la mano, ha tirato un po’ via, perché può sempre capitare un momento di stanchezza, e una traduzione fatta male può veramente rovinare un ottimo libro, come una bella traduzione non può riscattarne uno brutto. I nostri traduttori sono consapevoli che la qualità la si raggiunge col dialogo tra la redazione, che conosce testi e autori, e il traduttore stesso.
Quante riscoperte pubblicate all’anno?
Playground fin dalla sua nascita ha sempre pubblicato tra i sette e i nove libri all’anno. Scelta importantissima, propria della linea editoriale, scelta che premia.
Perché non di più?
Perché io ritengo che per mantenere alta qualitativamente l’offerta è impossibile, per noi che siamo una piccola casa editrice con risorse economiche ridotte, pubblicare più di 7/8 libri l’anno. Noi riusciamo a farlo solo ed esclusivamente facendo una selezione altissima, puntando su pochissimi titoli, sull’eccellenza.
Vuoi dire che di più non ne trovate?
Esatto, di eccellenze se ne trovano al massimo 7/8 l’anno, è impossibile pubblicare 20 libri di livello in un anno.
Quali i temi privilegiati?
Io tendo a scegliere i temi legati alla famiglia. I nostri libri generalmente hanno a che fare con i rapporti familiari perché la narrativa ha a che fare con le nostre storie, e siccome i rapporti familiari restano centrali nelle nostre vite, i nostri drammi e le nostre gioie sono tutti lì. Io non faccio narrativa di tipo sociale tradizionale, che a mio avviso rientra più nell’ambito della saggistica, e rimango dell’idea che la narrativa ha quella capacità straordinaria di raccontare i misteri dei rapporti e delle relazioni familiari.
Passiamo all’originalissima High School, perché dicevi che si differenzia da Playground?
Mentre con Playground mi ritengo, come dicevo, un editore del Novecento perché mi occupo di ‘literary fiction’ ossia di ‘narrativa autoriale’, con High School divento un editore del XXI secolo perché mi occupo di un sottogenere della narrativa che in America si chiama ‘young adult’, una narrativa senza pretese letterarie, per ragazzi dai 14 ai 19 anni, rivolta ai liceali e dedicata all’adolescenza. Questa narrativa in America esiste dagli anni ’60, è diffusissima e ha un grande riscontro commerciale; in Italia non esisteva finché non sono arrivate le serie di “Twilight”, “Colpa delle stelle”, “Noi siamo l’infinito”. Ma il punto è che negli Usa lo stesso genere esiste anche per adolescenti gay fin dagli anni ’80, ed è una realtà ormai consolidata che vende centinaia di titoli l’anno. Quando nel 2004 do vita alla Playground, mi accorgo che quella narrativa non esiste in Europa e decido di importarla. Pubblico “Rainbow boys” di Alex Sánchez, che in America era già considerato un classico, e subito diventa un caso editoriale anche in Italia. Da noi c’era una narrativa gay ma intellettuale e per soli adulti; non si era capito che esisteva una narrativa facile destinata agli adolescenti gay.
Fiore all’occhiello delle vostre pubblicazioni, oggi la collana High School si allarga e diventa un marchio autonomo, Syncro High School. E’ il naturale sviluppo di un percorso o c’è dell’altro?
La collana si è trasformata perché ho deciso di raccogliere la sfida fino in fondo: fare una produzione europea ‘young adult gay’ che non esisteva in Europa, ossia commissionando romanzi di quel genere ad autori del luogo (Francia, Grecia, Romania), chiedendo loro di adattarli al contesto europeo, sfatando in buona sostanza alcuni tabù del politically correct americano. I nostri libri quindi sono più audaci, più europei (anche se ora il politically correct si sta ridimensionando anche negli Usa) e vanno anche a comprendere quella fascia di lettori dai 19 ai 28 anni e anche molto oltre, che negli Usa viene chiamata ‘new adult’ (universitari e giovani adulti). Quindi, in sostanza, nel 2011 quindi Syncro High School è diventato un marchio separato da Playground perché completamente differente come operazione editoriale.
Nel 2011 Playground entra nel gruppo Fandango. In un’intervista di qualche anno fa spiegavi le ragioni di tale scelta: la crisi generale del mercato del libro spingeva nella direzione di entrare in un gruppo che offrisse maggiori garanzie di crescita, evitando naturalmente rischi di snaturamento, cosa che Fandango e la persona di Domenico Procacci rappresentavano per te. Puoi fare un bilancio di questa scelta ora, a quattro anni di distanza?
Assolutamente sì, entrare in Fandango è stata una scelta molto azzeccata: il mercato da tre anni è in difficoltà gigantesche e noi invece siamo in buona salute perché ci troviamo in un contesto più grande.
Come sei entrato in contatto con Fandango e come è avvenuta la fusione?
Nel 2010 Playground tocca il picco, sia sul piano commerciale che in termini di risalto, in particolare in seguito al successo di “A cosa servono gli amori infelici” di Gilberto Severini che si qualifica tra i finalisti del Premio Strega. Ma in un contesto di crisi dell’editoria, di librerie che funzionano soprattutto con la rotazione delle novità e non sul catalogo, ho capito che dovevo difendere il successo raggiunto. I casi erano due: o cambiava Playground cominciando a pubblicare più novità, in modo da essere sempre visibile nei punti vendita, rischiando però di snaturare la linea editoriale; oppure dovevo trovare un contesto più grande in cui la nostra pratica di editoria venisse difesa, il che equivaleva a dire vendere Playground.
Decido per la seconda ipotesi, comincio a stabilire relazioni e conosco Domenico Procacci che dimostra interesse perché era nel momento in cui stava costituendo il gruppo editoriale. Procacci però ci teneva che Playground conservasse il marchio e quindi non ha acquistato la casa editrice ma è diventato socio di maggioranza.
Una scelta lungimirante la vostra…
Non vorrei peccare di presunzione, ma… sì.
Si ringrazia Guendalina Banci per averci fornito il materiale, aver organizzato l’incontro e l’intervista e, soprattutto, averci concesso il pdf della terza edizione de “L’Uomo seme” di Violette Ailhaud e di “Non abbiate paura” di Allan Gurganus prima ancora che venisse ristampato e distribuito nelle librerie.
Per saperne di più sulla casa editrice Playground visita il sito [vedi] e la pagina Facebook in cui si trovano recensioni e link a letture e video [vedi]
Per saperne di più sulla collana High School visita il sito [vedi]
Per saperne di più sul marchio Syncro High School visita la pagina Facebook [vedi]
Dopo diversi anni dall’esordio fine anni Ottanta, Marco Tani ha dato alle stampe una nuova raccolta letteraria “Diario a Rovescio” (La Carmelina edizioni, 2014) opera scansione poetica ulteriormente raffinata. La parola come Nuova Forma, con la brillante prefazione di Mirella Scorsonelli (alias Esse).
Certa cifra poundiana, originaria nell’autore, esita accentuata e minimalizzata: frammenti di frammenti che fioriscono in micro-combinatorie mai ridondanti: come un funambolo del verso, il verso stesso quasi olografico, in-visibile. Sorprende la tecnica, appunto sonora e musicale tradotta in parola, la parola però verso il suono. Non facile fare sperimentazione e produrre pennellate verbo-visive per il sublime.
Certa rinnovata visibilità, strettamente letteraria, trova riscontro recente nelle collane “Urfuturismo” e “La Grande Guerra Futurista” (eBook, La Carmelina, 2014), attraverso brevi saggi/interviste a/del Poeta, che confermano certa levatura extra local, una particolare auto-ritrattistica consapevole e lucida, certa potenza discorsiva anche sociologica, sempre intrisa di alti input estetici su temi anche culturalmente scorretti (ad esempio su Italo Balbo trasvolatore).
In ogni caso, altre composizioni e contrappunti di Tani, come rare pennellate alla Berlioz, figurano pure nelle collection di “Sinopia” di Roberto Pazzi, “Luci della città” di Stefano Tassinari, “L’Ozio”, “Contrappunto”, e poi nell’antologia govoniana, “Elettriche poesie” (Poeticamente, 1996).
Inoltre, Marco Tani nel 2005 ha sperimentato a Parma, presso la Galleria d’arte contemporanea, “Imagina” di Giuliano Viveri mostre poetico-visive, “Indizi di reincarnazione”, singolare traduzione dei suoi pentaversi nella cifra sperimentale cara a Lamberto Pignotti, Adriano Spatola e Michele Perfetti (Gruppo 70 e affini) e inoltre altre modulazioni poetico visual di perturbante intensità sensuale, la femme fatale dopo l’amore moderno.
Infine l’opera d’esordio, “Altana d’Oriente”, edita dalle Edizioni del Leone, a cura di Paolo Ruffilli, come tutta la poesia autentica e pura, magari d’argento se non d’oro… a tutt’oggi – anni Duemila – resta tra le raccolte poetiche più belle e raramente eguagliate del panorama neo-estense: tra Ermetismo e soprattutto Modernismo alla Ezra Pound, Marco Tani, oggi come allora, in pieno feticcio della parola, con operazione nietzschiana recupera il ditirambo in chiave elettronico musicale, la Musica al di là appunto delle parole giustamente (relativamente) azzerate dalla Poesia.
“Quello che io cercavo di mostrare era un mondo dove mi sarei sentito bene, dove le persone sarebbero state gentili, dove avrei trovato la tenerezza che speravo di ricevere. Le mie foto erano come una prova che questo mondo può esistere”. Robert Doisneau
Andando a zonzo per le strade del mondo, sola con i miei pensieri, prendendo centinaia di aerei che hanno attraversato mille misteriosi e diversi cieli, solcando mari e sedendomi rannicchiata su treni ad alta velocità o su lenti ma pittoreschi regionali, spesso mi sono ritrovata a osservare le persone, immaginando le loro storie, le loro emozioni, le loro vite. Spesso mi domandavo se partivano, se arrivavano, se qualcuno li aspettava, se dietro una finestra illuminata che scorgevo dai finestrini di vagoni vocianti vi era una tavola apparecchiata o una candela solitaria dove nessuno aspettava nessuno.
Mi chiedevo se quelle vite pensavano, godevano, piangevano, ridevano, amavano, trepidavano, sognavano, soffrivano o se, in fondo, erano felici. Osservare la gente per strada, di spalle, spesso da lontano, aiuta a immaginare i loro sogni, i nostri sogni. A volte vorremmo condividere con forza pensieri che corrono liberi verso l’orizzonte. In certi momenti basta osservare con amore le persone e sfiorare i loro pensieri per condividerli: sogni di libertà di uomini e di donne di ogni etnia e religione, voglia di scappare via lontano, di vivere un amore difficile e impossibile, non vincolato da culture, tradizioni e limiti. Ecco allora che, passeggiando per le affollate strade di Mosca, aspettando la settimana in cui ad attendermi a casa ci sarebbe stato qualcuno, non un qualcuno qualunque ma Lui, mi viene un’idea. Quella di ripensare alla strada percorsa e di rivedere cosa ho percepito anche attraverso le mie fotografie e le immagini di coloro che, ben più illuminati e noti di me, della strada avevano saputo cogliere la vera essenza e il reale profumo. Un paio di mesi fa, quindi, quando ancora l’aria era tiepida, vicino alla fermata della rossa metropolitana Lubyanka, entravo alla libreria Globus, luogo di ritrovo di ogni curioso lettore che cerchi ispirazione o che semplicemente voglia tuffarsi nel profumo unico della carta stampata e delle incisioni antiche appese alle pareti. Al piano terra si trova lo spazio magico della fotografia – libri per lo più in russo ma c’è anche qualcosa in inglese -, luogo per me davvero ristoratore e mistico, oltre che fonte di genuina e quasi inaspettata felicità, tanti piccoli tunnel illuminati dove cercare come arrivare a toccare e sfiorare il sole che brilla al di fuori della caverna di Platone. Conoscevo la Street Photography e uno dei sui fondatori, Robert Doisneau, per averne visto un’esposizione a Parigi e a Milano, ma volevo saperne di più. Chi di voi non ricorda la foto in bianco e nero del “Bacio” davanti all’Hôtel de Ville, famosa se pur scattata nel 1950, di questo genio dell’anima che aveva trascorso la sua vita nella periferia parigina di Montrouge, fotografando strade e volti sempre diversi? Sono famose le sue foto di bambini vocianti, i cui giochi scherzosi rimangono alla fine sempre seri e degni di grande rispetto. Anche se il padre della Street Photography è considerato Eugene Atget, che lavorò a Parigi dal 1890 fino agli anni venti, e sulla cui vita resta un’aura di mistero, mi ricordavo bene di Doisneau e di alcune foto che io avevo fatto a Parigi nel 2000, oltre ad altre successive dell’Algeria e ad alcune scattate recentemente nella stessa Mosca.
Forse, senza saperlo e con modestia, avevo seguito anche io quella corrente, appassionandomi alla strada. Decidevo, quindi, di approfondire, per parlarvene e condividere con voi questo modo di fotografare che sicuramente molti di voi praticano, più o meno inconsciamente. L’idea magari mi era in realtà venuta osservando un signore dalla candida barba che leggeva nel verde Giardino Botanico di Mosca e che avevo immortalato da lontano. Ma mi piaceva. Basta seguire la strada e prima o poi si fa il giro del mondo. Non può finire in nessun altro posto, no? Si può sempre andare oltre, oltre – non si finisce mai. La strada è vita. Stiamo (ri)leggendo alcuni passi di “Sulla Strada”, di Kerouac. Vero. La strada è imprevedibile e vitale. Passatemi il termine un po’ forte e forse non del tutto appropriato, essa può essere straordinariamente ed eccezionalmente ‘eccitante’. Di fronte a quello che mi piace definire il carnevale della strada, si può rimanere senza parole.
S’incrociano venditori di ogni cosa e di ogni sorta, pattinatori, donne vestite come diavoli o angeli leggiadri, muratori arrampicati come ragni, pompieri, carpentieri, spazzini, suonatori, cantautori, giardinieri, portieri, gente comune seduta a parlare, tutti con una forte voglia di libertà di essere di esistere, di vivere, respirare, pensare e non pensare, parlare, discutere, litigare, fare pace e poi ancora di correre, mangiare, bere, sognare, volare. Si vede una signora di spalle con il suo zaino colorato pieno di libri e merendine per il nipotino. Si sorride anche a una statua che guarda verso il cielo, come vorresti fare tu, con il naso curiosamente all’insù. Originale, simpatica e accattivante.
Ma cos’è allora la Street Photography? Credo che non sia facile ricondurre tale arte a una definizione ma, per semplificare, si potrebbe dire che si tratta di un genere fotografico che riprende situazioni reali e spontanee in luoghi pubblici al fine di evidenziare in maniera artistica alcuni aspetti della società, dove il termine strada si riferisce ad un luogo generico in cui sia visibile l’attività dell’uomo e le sue interazioni sociali. Può trattarsi quindi di un ambiente, un luogo alieno dalle persone, una situazione particolare. Personalmente, preferisco la riflessione del fotografo dell’agenzia Magnum, Bruce Gilden, quando dice che, “If you can smell the street by looking at the photo, it’s a street photograph”. Il potere quindi di riuscire a far “odorare la strada”, il buttarla pesantemente nel vostro quotidiano con un’immagine, rimane, a mio avviso, il valore aggiunto di un’azione che altrimenti chiunque, oggi, con i mezzi digitali disponibili, potrebbe facilmente realizzare. Ci vuole anima, sentimento, pathos nello scattare una bella immagine. Non è facile riuscire a trovare un momento di sincronizzazione fra elementi non correlati fra loro, catturare momenti significativi di espressioni o gesti, di attitudini e pensieri, in una sorta di risposta al mondo quasi viscerale di chi sta cogliendo l’attimo nell’immagine.
Diventa difficile capire se il tuo scatto ha queste caratteristiche. Ma si prova a condividerlo per vedere se odora, come per me riesce a fare questo riposo parigino di un guerriero che fantastica su un passato glorioso. Un giocoliere. O come forse riesce a fare anche questo cappelluto signore moscovita di spalle che sembra riflettere…. pensando al mio amore magari, quasi quasi, lo dipingo sui muri…
Ci era sicuramente riuscita Vivian Maier, incredibile bambinaia-fotografa nata a New York nel 1926 e morta a Chicago nel 2009, una donna che silenziosamente aveva creato stupendi ritratti che documentavano la vita di uomini, donne, bambini e anziani, di tutte le classi sociali, raccolti lungo le strade di Chicago. Sempre sola e taciturna. Sola con la sua macchina fotografica e i suoi pensieri.
Volevo farvi partecipi di questa meravigliosa storia di strada, scoperta per caso, volevo dirvelo. Con questa chiudo. Dalle sponde del nord Africa ai parchi fioriti della Russia, passando per le panchine di Parigi, ho voluto condividere con voi momenti e colori, prendendo per mano tante storie umane che ci chiedevano di unirci a momenti di felicità e di voglia di volare insieme. Non ho la pretesa di voler essere un grande fotografo di strada ma volevo percorrere con voi un piccolo tratto di questo cammino. Perché anche tenendosi per mano, dipingendo alle spalle di un parco e di una chiesa ortodossa dalle cupole scintillanti si resta giovani e leggeri e si può disegnare il proprio destino, con forte tratto e decisione.
E’ un approfondito servizio televisivo di cinque minuti quello che Rai News, il canale all news della Rai visibile sul canale 48, ha dedicato al concerto in ricordo del maestro Abbado che si è tenuto lo scorso lunedì nel Teatro Comunale di Ferrara a lui dedicato. Nel filmato ci sono l’intervista al direttore d’orchestra Daniele Gatti, quella a George Edelman, direttore artistico di Ferrara Musica, e le testimonianze degli orchestrali della Mahler Chamber. Tra un contributo e l’altro, le suggestive immagini della città, una bella promozione per Ferrara. Il racconto è di Paolo Pacitti.
Hanno scoperto, sviluppato e brevettato una classe di molecole potenzialmente in grado di combattere le cellule cancerogene. Tutta la serie è stata ottenuta modificando sinteticamente una molecola naturale, il maltolo (presente in vari alimenti), ottenendo così un nuovo composto. Secondo gli studi condotti da Mirco Fanelli, biologo, e Vieri Fusi, chimico, entrambi docenti all’università di Urbino, il maltonis (la molecola al momento in stato più avanzato di studio) avrebbe la capacità di contrastare le cellule responsabili dei tumori.
Le indagini di laboratorio e le successive prime sperimentazioni “in vivo” (topolini da laboratorio) hanno corroborato l’ipotesi scientifica, che ora però va posta al vaglio di nuovi e più probanti test. Sulla base delle prime risultanze la molecola messa a punto in laboratorio da Fusi e Fanelli ha ottenuto il brevetto italiano, il successivo accreditamento europeo ed è ora al vaglio delle apposite commissioni scientifiche per avere anche il riconoscimento degli Stati Uniti.
Si tratta con ogni evidenza di una ricerca importante che deve essere ora adeguatamente finanziata per poter verificare l’affidabilità e l’efficacia del rimedio. Un eventuale successo potrebbe imprimere una svolta decisiva alla lotta contro il cancro e aggiungere una nuova freccia all’arco delle strategie terapeutiche già disponibili. Le risorse che sarebbero necessarie al momento non sono nella disponibilità dei gruppi di ricerca interessati e, visto l’andazzo degli ultimi anni nei finanziamenti alla ricerca in Italia, non sarà certo semplice trovarle. E’ il solito paradosso ed è l’eterno dramma della ricerca scientifica.
“I finanziamenti, fra il 2001 e il 2012 – spiega con amarezza Mirco Fanelli – sono calati drasticamente. Si può ragionevolmente stimare in una riduzione di circa il 70% (da circa 125 milioni di euro siamo passati a 38 milioni). A conti fatti, quindi, quando si partecipa a un bando si ha meno dell’uno per cento di probabilità di essere finanziati. Aggiungiamo poi che i Prin (Progetti di rilevante interesse nazionale, ndr) non vengono banditi da due anni. E’ ovvio che, in un sistema sempre più povero, dove gli investimenti nella ricerca (personale, attrezzature, etc) non si fanno da troppo tempo, solo quei pochi centri particolarmente qualificati hanno la maggiore probabilità di essere sovvenzionati, gli altri si devono arrangiare con gli spiccioli che raccattano in giro… Può essere anche una scelta strategica, ma se è così va dichiarata”.
Frattanto continua a circolare, in rete e attraverso il circuito degli smartphone, un video prodotto da un sedicente giornalista che, celando la propria identità, denuncia il silenzio omertoso della stampa e la presunta congiura della lobby farmaceutica.
Ormai è una persecuzione – commentano in coro Fusi e Fanelli – è un anno che questa cosa gira, non sappiamo nemmeno chi sia questo signore che l’ha realizzata, non ci ha mai contattato. Il fatto che i nostri studi possano ledere gli interessi economici di qualcuno è una cosa che non si può né affermare né escludere. Non ci sono prove. Ma il punto non è questo. Il problema sono i finanziamenti, se non arrivano soldi per sviluppare la ricerca c’è poco da fare. Il rischio è che questo video alimenti speranze e illusioni. E questo non si può fare quando in gioco c’è la vita o la salute. Ci vuole tatto e prudenza. Ci hanno telefonato centinaia di persone malate e loro familiari. Questo perché si spaccia la nostra scoperta come se fosse già un farmaco pronto all’uso. Invece non è così. Dobbiamo ancora completare i test per verificarne la reale efficacia.
Però forse un po’ di visibilità mediatica non guasterebbe e vi aiuterebbe nella ricerca dei fondi necessari…
Non ho timore ad affermare che lo stesso progetto, presentato da un istituto più importante (e magari, con autocritica, da uno scienziato più titolato dei sottoscritti), probabilmente riceverebbe i finanziamenti necessari – afferma Fanelli -. Sono convinto che uno scienziato stimato in campo oncologico come il professor Umberto Veronesi sarebbe in grado di trovarle queste risorse… noi invece facciamo molta più fatica. Non è tutto nero però. La Fondazione Umberto Veronesi, appunto, quest’anno ha finanziato un anno di borsa di studio per un ricercatore del mio laboratorio (il dottor Stefano Amatori, 37 anni… classico esempio di precario della ricerca) proprio su questa progettualità. E’ la dimostrazione che lavorando bene si riesce a spendere la propria credibilità scientifica.
Ci può stare – commenta Fusi – che chi ha una credibilità consolidata sia trattato con riguardo, ma anche i giovani ricercatori andrebbero incoraggiati. Nella fase della ricerca pre-clinica, quella in cui ci troviamo noi, i canali di sostegno sono essenzialmente istituzionali. L’industria farmaceutica si muove solo dopo, a seguito degli eventuali risultati ottenuti nella fase pre-clinica, gli studi ad un livello precedente per loro non sono appetibili. Su questo fronte in Italia nessuno fa ricerca. Ci sono solo cinque o sei multinazionali farmaceutiche in grado di intervenire perché le somme da investire sono ben diverse. Per la sperimentazione clinica serve qualche milione di euro e a volte può non bastare. Ma l’industria farmaceutica può permetterselo per alimentare il proprio business.
Noi siamo ancora un passo indietro: dobbiamo allargare e approfondire la sperimentazione su modelli animali – precisa Fanelli -. So che il discorso è delicato ma, oggi, non si può prescindere dalla sperimentazione in vivo. Qualcosa infatti abbiamo già fatto e i risultati sono stati incoraggianti. Ora servono altre verifiche e i finanziamenti per svolgerle.
Ma di quanto avete bisogno?
In questa fase basterebbero alcune centinaia di migliaia euro – afferma Fanelli.
E non intravvedete alcuna concreta prospettiva?
Da un anno attendiamo una risposta dalla Regione Marche – dice Fanelli -. Siamo stati convocati in commissione Sanità, ci hanno espresso apprezzamento e gratitudine, c’è stata una promessa di impegno, la cosa è andata sui giornali… Poi è cambiato il presidente di commissione, con il quale ci siamo incontrati, ma al momento tutto tace. Ma la ricerca non aspetta, ci sono mille cose da fare… ed il rischio, senza risorse, è chiudere il progetto (sostenere i brevetti ha un costo e le Università italiane sono agli sgoccioli)…
Molti anni fa, quando il progetto era ancora allo stadio embrionale, ci siamo rivolti all’Associazione italiana per la ricerca sul cancro che non ci ha dato credito e lo ha respinto. Però è successo che quelle molecole che allora solo ipotizzavamo ora esistono e hanno mostrato anche una certa efficacia. Ma all’epoca non ci hanno creduto… Eravamo all’anno zero ed era lecita la loro scelta. Ma questo fa capire quanto è difficile ottenere finanziamenti.
E adesso?
Stiamo partecipando a un bando del ministero della Salute in staff con la clinica Ematologica di Ancona e con il San Raffaele di Milano che offre i modelli animali – conclude Fusi -. Siamo in attesa che il ministero pubblichi i risultati… per noi ha un’importanza quasi vitale, speriamo di conoscere presto il destino del nostro progetto.
Era già stato un caso editoriale nel 2012, con “La luna blu”, un’immagine che ritorna, oggi, sull’accattivante e delicata copertina del suo ultimo libro “Il quadro mai dipinto”. Così il romano Massimo Bisotti, autore appassionato di musica e psicologia, ci riporta nel mondo dei sogni, dell’amore incondizionato e della perfezione, o meglio, della ricerca disperata di essa. Ed ecco, allora, la coinvolgente storia di Patrick, insegnante e pittore, ossessionato dall’idea della perfezione, con la sindrome del quadro mai dipinto, che lo perseguita a tal punto da non riuscire mai a terminare un’opera.
In quest’atmosfera, Patrick dipinge la donna che ama da sempre, ma, un giorno, volendo rivedere la tela nella quale l’aveva ritratta, lasciata in soffitta, scopre che la figura della donna è sparita. Con lui, rimaniamo a bocca aperta, ritornandoci alla mente il bello ed elegante giovane Dorian Gray, lontano e sbiadito tenero ricordo.
«Continuate a commettere errori di felicità. Fatemi e fatevi questa promessa. È una promessa che potete, anzi, dovete rinnovare, ogni trecentosessantacinque giorni, per tutta la vita». Queste sono le parole con cui Patrick lascia i suoi allievi dell’Accademia di Belle Arti di Roma. È l’ultimo giorno di lezione, non ci sarà più l’anno prossimo perché ha chiesto il trasferimento a Venezia per ricominciare una nuova vita. Quell’ultimo giorno l’insegnante chiede ai suoi ragazzi di disegnare l’amore, cosi come se lo immaginano, poco importa la tecnica. E anche se lui non potrà vedere le loro opere, li esorta a realizzarle ugualmente. Perché l’artista ogni giorno deve iniziare di nuovo a lavorare dal punto nel quale è rimasto. Sempre. La perfezione…
Durante il volo che lo porta alla città lagunare, però, Patrick sbatte la testa e qui iniziano i suoi vuoti di memoria. Gli resta solo un punto di riferimento, un biglietto in tasca con un indirizzo e un nome di Venezia, Residenza Punto Feliz, dove ovviamente si reca.
Ad accoglierlo vi saranno il generoso, saggio e gentile Miguel, il proprietario della pensione, Vince, un gondoliere con una storia d’amore fallita alle spalle e il piccolo Enrique, un bambino vivace e curioso. Patrick si rifà così una nuova esistenza, consapevole, tuttavia, di essere sempre alla continua ricerca di qualcosa. Durante una festa incontra Raquel e comprende quasi subito che è lei la donna fuggita dal suo quadro, desiderata e mai dimenticata. Tanti ricordi e colpi di scena s’intrecciano. L’atmosfera creata è magica, unica, avvolgente, travolgente, coinvolgente. Una poesia dalla quale si comprende chel’ossessione che abbiamo spesso della perfezione ci allontana dall’autenticità e che il mostrarci autentici, sinceri e genuini agli occhi degli altri ci permette di essere amati per quello che realmente siamo. E soprattutto ci porta ad accettare noi stessi (l’impresa spesso più ardua), primo passo per farci ben volere e amare dagli altri. Ben scritti anche i dialoghi, le frasi d’amore, i sentimenti e le espressioni che ognuno di noi vorrebbe sapere comunicare o ricevere.
Incantevoli il passeggiare per Venezia e la descrizione dei suoi luoghi più belli. Facile, poi, immedesimarsi nei personaggi e nei loro pensieri. Dedicato “a chi va controcorrente ma mai controcuore”.
Da leggere.
Il quadro mai dipinto, di Massimo Bisotti, Mondadori, 2014, 221 p.
Il CdS (Centro ricerche documentazione e studi) ha presentato ieri il suo Annuario 2015. Si tratta di un lavoro prezioso, utile per interpretare la realtà socio economica del territorio e comprenderne le linee di sviluppo. Riportiamo integralmente la relazione di sintesi elaborata dai ricercatori del Centro.
Le tre province – Il territorio ferrarese si è connotato, nel tempo, come fatto di tre “sotto province”: il Basso Ferrarese, il Medio Ferrarese e l’Alto Ferrarese, ognuna di esse con caratteristiche proprie e moltiplicando i centri decisionali ed i servizi: due agenzie di sviluppo, Sipro e Delta 2000; 4 aziende rifiuti ed energia con Area, Soelia, CMV e la presenza di HERA; 4 Aziende Servizi alla Persona (Ferrara, Copparo, Argenta-Portomaggiore, Codigoro) e i Servizi Associati dell’Alto Ferrarese. Tale modello sembra non essere più sostenibile perché si riducono le risorse e perché c’è la necessità di liberarne altre a favore dello sviluppo, dell’occupazione e delle infrastrutture.
Con la riforma delle province, il sindaco del Comune capoluogo, è chiamato a rappresentare un’area vasta e avrà un compito arduo nel far sintesi di micro-istanze campanilistiche per dare invece risposte progettuali a favore della coesione sociale, dell’inclusività e della solidarietà.
Il lavoro – Il Pil provinciale è sceso ancora, per cui si stima che nel 2013 la variazione del valore aggiunto sia stata del -9,1% rispetto al 2007 (la provincia di Bologna e di Ravenna hanno invece già recuperato i livelli pre-crisi).
I lavoratori di oggi… – L’effetto più vistoso della crisi in provincia di Ferrara è comunque sull’occupazione, se si considera che il tasso di occupazione 15-64 anni è caduto in modo rovinoso di 8 punti (da 69% del 2007 al 61,5% del 2013), creando una vera e propria voragine rispetto le altre province limitrofe.
Il tasso di disoccupazione provinciale che aveva raggiunto il suo punto minimo nel 2007 con appena 2,7% si è così “alzato al 14,2% nel 2013 superando anche la media nazionale (12,2%).
La crisi occupazionale ha colpito in modo diverso le aree della provincia di Ferrara. Il comune di Ferrara mostra una buona tenuta dell’occupazione in quanto gli occupati sono scesi dal punto massimo del 2007 (58.500) di “sole” 1.200 unità nel 2013. Il tasso di disoccupazione del comune, che pure è cresciuto in modo vistoso (dal 6,1% al 10,8%), rimane così al di sotto della media nazionale. I valori più bassi di disoccupazione si registrano nell’Alto ferrarese che si è difeso con la buona qualità della propria manifattura (con valori vicini al 9%).L’area più colpita è il Basso ferrarese con una perdita di occupati eccezionale (Comacchio 20,7%; Lagosanto 17,3%; Migliaro15%).
Le classi di età più colpite. Anche in provincia di Ferrara la crisi ha colpito soprattutto i giovani, sia con la drastica riduzione degli ingressi, sia con il licenziamento di chi era appena entrato: hanno perso il lavoro il 13% di coloro che avevano fino a 29 anni e il 5% di quelli da 30 a 44 anni. Le mancate assunzioni dei giovani sono stimate in 2-3mila unità per anno. Ciò spiega perché sia “esploso” al 39% il tasso di disoccupazione in provincia di Ferrara nella fascia di età 15–29. La caduta di occupazione è stata, peraltro, attenuata da lavoratori a tempo pieno passati a part-time, da chi è emigrato e da chi è in Cig.
Cassaintegrazione. Con la crisi, si è avuto un enorme incremento delle ore di Cassa Integrazione: dal mezzo milione del 2007 fino a 5,9 milioni nel 2013. Quella di Ferrara è la provincia che ha fatto il ricorso maggiore alla Cig tra le province dell’Emilia-Romagna in termini di ore pro-capite.
Pesca – In provincia di Ferrara l’economia del mare, ha creato, una sua filiera e un bacino economico fortemente connotato che ha tutte le caratteristiche per diventare un Distretto Blue, avendo creato l’intera filiera con attività riconducibili in senso stretto alla pesca e acquacoltura (filiera ittica), alla cantieristica navale e industriale (filiera della cantieristica), alla movimentazione di merci e passeggeri in acque marittime e lagunari, alla ristorazione turistica e alberghiera (filiera turistica), alle attività di ricerca e regolamentazione e tutela ambientale, alle attività sportive e ricreative.
Nel Delta del Po il primato ferrarese è nella filiera ittica con 1.880 imprese, con un’incidenza dell’intera economia del mare, sul totale dell’economia provinciale, del 6% seconda solo alla provincia di Rimini con il 12,7%, dove invece è preponderante l’economia turistica e della ristorazione. Altrettanto significativo è l’impatto occupazionale, sia a livello provinciale, che nell’ambito più circoscritto del Basso Ferrarese e del Delta, con 4.500 occupati nelle filiere delle diverse attività.
Il settore manifatturiero – In provincia di Ferrara nel decennio 2001-2011 (Dati Istat) il settore manifatturiero ha subito un ridimensionamento del -27% (in Emilia Romagna è stato del -21%) , con la perdita di circa 900 imprese industriali e oltre 8 mila addetti (-26%). Nel periodo più intenso della crisi (2008-2012) sono stati persi altri 4.800 posti di lavoro.
Le rilevazioni di diversi istituti mostrano come anche nel 2014, rispetto al 2013, tutti gli indicatori produttivi e commerciali delle aziende industriali abbiano subito una contrazione: solo l’export è stato un driver di crescita.
L’andamento delle imprese artigiane, che rappresentano in regione quasi il 29% delle aziende attive e in provincia di Ferrara il 28%, è similare a quello dell’industria in senso stretto: è stato registrato (nel 2014 rispetto al 2013) una contrazione di tutti gli indicatori produttivi e commerciali, nonché dell’occupazione.
Gli aspetti positivi – Pur in un quadro complessivo dell’industria complessivamente deteriorato, vi sono nicchie e settori che registrano andamenti positivi e imprese che, specie grazie alla domanda estera, continuano ad avere tassi di crescita significativi.
Nella crisi e nello scenario di recessione delineato non mancano settori e filiere anche nella nostra provincia in fase espansiva e dalle potenzialità future interessanti.
Nel segmento manifatturiero territoriale è presente un cluster di 728 aziende classificate a medio-alto livello tecnologico, che occupano oltre 10 mila addetti, che anche nella crisi hanno registrato ottime performances produttive ed occupazionali.
Nel tessuto manifatturiero territoriale, Cds ha analizzato un gruppo di 35 aziende di differenziate classi dimensionali e operative in diversi settori di attività (che occupano 8 mila addetti e rappresentano il 33% dell’occupazione industriale locale), che si qualifica come un core di eccellenza con posizioni di leadership sia nei settori di riferimento che a livello internazionale:
le aziende di grandi dimensioni (con un numero di dipendenti superiore a 200), dopo alcuni periodi di crisi si sono ristrutturate ed hanno ripreso a produrre su buoni livelli; in alcuni casi sono stati modificati gli assetti societari e sono subentrati nella gestione operativa nuovi manager;
la fascia di società di piccole e medie dimensioni (classe di addetti 30-150) hanno continuato ad investire,svilupparsi, generare ricavi, valore aggiunto e consolidare l’occupazione.
I fattori strategici delle imprese eccellenti:
internazionalizzazione (si tratta di società che sviluppano, anche a fronte della stagnazione della domanda interna, oltre il 60% dei ricavi all’estero e sono ben posizionate nei mercati emergenti ad elevato tasso di crescita);
ricerca (trasferimento tecnologico) e innovazione di processo e di prodotto;
investimenti focalizzati sul rafforzamento del core produttivo (automatizzazione dei processi);
qualificazione e formazione costante del personale.
Welfare
Welfare sanitario – Prosegue l’azione di integrazione tra Ospedale e Territorio potenziando percorsi che garantiscano la continuità assistenziale e promuovendo processi di ottimizzazione nell’uso delle risorse. Tra Ospedale e Territorio non più competizione, ma integrazione per servizi sociosanitari dinamici e flessibili, basati sulla collaborazione operativa anche tra professionisti e operatori sociosanitari. Obiettivi: rispondere in modo appropriato all’invecchiamento; all’aumento di malattie croniche; pensare ad una riorganizzazione delle cure data la disponibilità di tecnologie avanzate e strumenti terapeutici di dimostrata efficacia. Ragionare come Area Vasta. Lefunzioni amministrative completamente unificate in una unica sede fisica e progressivamente in servizi interaziendali o di Area Vasta, superando i residui di frammentazione territoriale. I principali processi in atto. Tre Ospedali di prossimità/Ospedali Distrettuali, Cento, Argenta e Delta, ciascuno caratterizzato da una organizzazione per livelli diversificati di intensità di cura; un servizio cittadino connotato dal ridimensionamento dell’Anello San Anna e dalla costruzione di una Casa della Salute, altre Case della Salute/Ospedali di Comunità; un territorio in rete, nel quale l’integrazione con le strutture ospedaliere consenta di creare percorsi completi, affidabili per il paziente, sostenibili per il sistema e di alta qualità.
Welfare sociale – In questi lunghi anni di crisi le Aziende Servizi alla Persona sono state stressate da una forte domanda di intervento a favore della povertà, dei minori, degli adulti e famiglie in difficoltà. A fronte di un taglio di risorse superiore al 90% nel quinquennio 2008-2012, non è più possibile pensare all’esistenza sul territorio provinciale di 4 Asp e di Gestione Associata di Comuni, ma si tratta invece di unificare per ridurre i costi e per liberare risorse da destinare a chi ne ha bisogno.
Lavorare nel sociale.La cooperazione sociale
Dal 2000 al 2013 si è assistito in provincia di Ferrara ad un aumento delle cooperative che si occupano di assistenza sociale e sanitaria (nel 2010-2013 +6 unità). Tale aumento, accompagna la crescita dell’invecchiamento della popolazione, in risposta alla domanda di cura e di assistenza.
Il dato delle cooperative sociali appare, per la nostra realtà provinciale, estremamente positivo in ragione del numero degli addetti (2.500 nel 2014) e per alcune caratteristiche:
la maggior parte delle persone impiegate sono donne;
sono in aumento le persone laureate;
il personale partecipa periodicamente a corsi di formazione e di aggiornamento.
Le caratteristiche della popolazione scolastica (di secondo grado e universitaria) ferrarese… i lavoratori di domani
Nella provincia di Ferrara nell’anno scolastico 2014/2015, gli alunni frequentanti le scuole superiori risultano essere 14.554, di cui 3.545 iscritti alle prime classi. Si registra una crescita del 2% sull’anno precedente. Sono confermate le tendenze degli ultimi quattro anni scolastici, con licei ed istituti tecnici in crescita, e istituti professionali in calo. Dei 3.545 nuovi iscritti il 42% ha scelto un indirizzo liceale, il 35% ha scelto un indirizzo tecnico e il 23% un indirizzo professionale.
Si riduce di un punto percentuale il divario (la forbice) tra istruzione tecnica e licei, a discapito del già osservato aumento del divario tra istruzione professionale e istruzione tecnica. Positivo, a nostro parere, il coinvolgimento di alcuni istituti tecnici e professionali della nostra provincia (Aleotti, Vergani, Copernico) al Programma FIXO S&U (Scuola e Università) per la realizzazione di un servizio di placement scolastico, rivolto a diplomandi/neodiplomati e finalizzato a migliorare la loro occupabilità ovvero il loro percorso personale e professionale.
Per quanto riguarda l’Ateneo estense si osserva un aumento degli iscritti del 4% rispetto all’anno precedente, registrando così un’inversione di tendenza del calo di iscrizioni, iniziato nell’a.a. 2010/11 ed accentuatosi con l’effetto sisma del 2012. Gli immatricolati “puri” (coloro che si iscrivono per la prima volta all’Università) passano da 2.553 nell’a.a 2012/13 a 2.643 di quest’anno.
Le femmine sono ancora in prevalenza, confermando il trend degli ultimi anni. Le scelte attuate da chi si è immatricolato per la prima volta, nell’anno accademico 2013/14 evidenziano una preferenza per le materie umanistiche. Al primo posto troviamo il Dipartimento di Studi Umanistici con il 18% di immatricolati, seguito da quello di Economia con il 17% e da Giurisprudenza e Ingegneria con il 10%.
Anche i laureati sono in crescita (+12%): nell’anno 2013 sono stati 3.085 (di cui 1.834 femmine) contro i 2.755 laureati nel 2012.
Il lavoro dei Diplomati e dei Laureati? È “poco, scarsamente retribuito e spesso precario”.
Decisive, da questo punto di vista, risultano essere:
la promozione di politiche attive del lavoro in grado di far dialogare il sistema dell’istruzione con il mondo del lavoro
la diffusione delle buone pratiche che operano a favore dell’incontro tra domanda delle aziende e “offerta” dei diplomati e laureati.
L’Università di Ferrara è promotrice di un modello virtuoso, attraverso il progetto PIL (Percorsi di Inserimento Lavorativo). In quattordici anni di realizzazione di questo progetto di transizione studio-lavoro sono state coinvolte 278 aziende (alcune di queste più volte) e sono stati inseriti in azienda per un periodo formativo di lavoro (della durata di 12 mesi) circa 470 giovani laureandi / laureati. La Metodologia PIL, inoltre, è stata applicata anche ad altri percorsi formativi corsuali come ad esempio i “Master in Alto Apprendistato”. Unife è il primo Ateneo della regione ER che ha attivato più contratti in alto apprendistato (legati al conseguimento di un titolo di Master o di Laurea) nel biennio 2011-2013. Sono in tutto 21 contratti in AA, contro i 17 dell’Università di Modena e Reggio, i 16 di Parma e i 12 di Bologna;
Anche la Monografia dell’Annuario 2015 è dedicata al tema dell’integrazione tra l’Istruzione scolastica/universitaria ed il Lavoro stesso. Il tema viene affrontato sia dal punto di vista dell’ “alternanza studio–lavoro”, che di quello della “transizione” dei giovani dallo studio verso il mondo del lavoro. Istruzione e lavoro, da integrarsi grazie alla realizzazione pratica di percorsi formativi inclusivi di fasi di “lavoro vero” nelle aziende, finalizzati non solo a favorire i giovani nel loro inserimento attivo nel “mercato del lavoro” ma anche a dotare i giovani stessi, mentre ancora studiano, di saperi, conoscenze e competenze (insomma, di elementi-base per una vera professionalità) che li possano mettere in grado non solo di “trovare lavoro”(occupabilità), ma di “creare” essi stessi nuovo lavoro (imprenditorialità).
Proposta CDS: il territorio ferrarese è pronto per applicare e/o replicare la metodologia PIL anche in altri contesti, ad esempio:
gli ultimi anni degli istituti tecnici/professionali (attraverso l’istituto dell’alto apprendistato)
l’ITS di Ferrara per il “Risparmio energetico nell’edilizia sostenibile e per la qualificazione e riqualificazione del patrimonio edilizio”.
I percorsi formativi per gli operatori del mare
lavoratori e lavoratrici usciti dal mercato del lavoro che necessitano di una nuova occupazione
In questa settimana dolorosa, durante la quale si sono ricordati persone e momenti legati all’Olocausto, che accompagnano altre tragedie e guerre nel mondo, non può non tornarmi alla mente questo splendido e toccante film di qualche anno fa, “Il bambino con il pigiama a righe”, tratto dall’omonimo romanzo di John Boyne. I bambini forse ci guardano con spavento, terrore, stupore e anche orrore, per quello che gli abbiamo fatto allora, per quello che continuiamo a far loro, ora. E da questo dovremo partire. Dal ‘Diario di Anne Frank’, fino a opere come ‘Jona che visse nella balena’, o al meraviglioso ‘La vita è bella’, solo il candore e l’innocenza dei bambini sono in grado di contrapporsi all’oscurità senza fine di un mondo adulto degenerato. Oggi più che mai.
Questo film, allora, racconta la storia di Bruno (Asa Butterfield), un bambino di otto anni, vivace e curioso, amante degli aeroplani e dei romanzi di avventura, costretto ad abbandonare Berlino, la sua città natale, a causa di una promozione del padre, un soldato nazista (David Thewlis). La famiglia di Bruno si trasferisce in una nuova e grande casa in campagna, ma lui si annoia, gli mancano terribilmente i suoi vecchi amici, non ha i suoi giochi ma solo un’altalena fatta con un vecchio pneumatico. Un giorno, dall’elegante e fiorito giardino scorge un’azienda agricola e ci vorrebbe andare, ma suo padre glielo proibisce poiché qui, in realtà c’è il campo di sterminio degli ebrei, uomini e donne innocenti, rei solo di appartenere a un’altra razza. Solo il padre è a conoscenza del campo di concentramento, che ha progettato insieme al comandante Kotler. Nemmeno la moglie Elsa (Vera Farmiga) lo immagina.
Bruno è vivace e curioso, come tutti i bambini, vuole scoprire perché nella fattoria, che si vede dalla sua stanza, la gente va vestita col pigiama. Già, una fattoria con contadini che indossano pigiami e dove i numeri di matricola con cui sono contrassegnati gli internati fanno solo parte di un gioco: è questa la spiegazione che si dà Bruno, guardando, da fuori, la realtà di un campo di concentramento. Mentre la madre scopre cosa succede dentro il campo, cosa brucia quando il cielo si copre di una nube di nero fumo e si rende conto dell’orrore che si perpetra quotidianamente a pochi passi da casa sua, Bruno stringe amicizia con Shmuel, un suo coetaneo, che vive nella “fattoria” e col quale inizia a giocare, nonostante il temibile filo spinato che li separa. Un filo che separa due mondi, dove la malvagità degli adulti freddi e razionali non si può nemmeno lontanamente immaginare, almeno non lì, giocando. Dove la spensieratezza dei bambini viene turbata sconvolta solo da urla senza senso, da sirene dal suono perforante e da richiami improvvisi concitati.
Eccoci allora, improvvisamente, di fronte a un vero e proprio mondo a parte, dove per Bruno il campo è un luogo interessante, da esplorare, soprattutto, dopo la visione di un filmato di propaganda, che lo presentava come un parco giochi. E sembrerà atroce, ma anche la curiosità più ingenua si può pagare a caro prezzo. E così avverrà. Dama e cartella giaceranno lì, sull’erba malconcia. La verità travolgerà la giovane e innocente vita dei protagonisti. Finale tremendo, le parole si perdono. Ancora una volta, per non dimenticare.
Il bambino con il pigiama a righe, di Mark Herman con Asa Butterfield, Zac Mattoon O’Brien, Domonkos Németh, Henry Kingsmill, Vera Farmiga, Cara Horgan, Zsuzsa Holl, Amber Beattie, László Áron, David Thewlis, Richard Johnson, e altri, USA 2008, 93 mn.
Trasformare una criticità in un’opportunità, questo è l’obiettivo con cui si apre il ricco biennio espositivo 2015-2016 delle Gallerie d’arte moderna e contemporanea e di Ferrara arte, che il 31 gennaio inaugureranno “L’arte per l’arte”, il riallestimento delle collezioni di Giovanni Boldini e Filippo De Pisis nelle sale del Castello Estense, promosso da Comune e Provincia di Ferrara. La criticità è il sisma del 2012, che ha reso inagibile la sede delle Gallerie: Palazzo Massari, attualmente in fase di restauro. L’opportunità è riconsegnare al pubblico ferrarese, ma non solo, il meglio dei fondi ferraresi di Boldini e De Pisis, i più ricchi e completi in Italia, collocando le opere di questi due artisti di statura internazionale nel panorama dell’Ottocento e del Novecento negli ambienti del monumento simbolo della città. Il risultato sarà un dialogo tra le sale del piano nobile del Castello Estense e le opere di queste due personalità artistiche che rappresenterà un valore aggiunto per il patrimonio artistico di Ferrara.
Fino al 2017 con un unico biglietto – che passerà da 6 a 8 euro per l’intero e da 4 a 6 euro per il ridotto – si potranno visitare il percorso museale e i due percorsi monografici in esso inseriti. Nelle sale del Governo, della Devoluzione, dei Paesaggi e delle Geografie saranno collocate 58 opere di Boldini, di cui 27 oli e 31 opere su carta, dalla Firenze dei Macchiaioli all’approdo nella Parigi degli impressionisti, fino alle icone della ritrattistica come “La signora in rosa”. Per ospitare 37 dipinti di de Pisis verranno invece aperti i Camerini del Principe, solitamente non accessibili al pubblico: il percorso creativo del talento ferrarese sarà raccontato attraverso le opere entrate nelle collezione delle Gallerie grazie alla Fondazione Pianori e al lascito Malabotta.
Alla vigilia dell’inaugurazione, che si terrà venerdì 30 gennaio alle 18, abbiamo intervistato Maria Luisa Pacelli, direttrice delle Gallerie d’arte moderna e contemporanea e curatrice di questo nuovo allestimento insieme a Barbara Guidi e Chiara Vorrasi, entrambe conservatrici delle Gallerie.
Il Castello Estense ha una storia e quindi un’identità molto forte, così anche le collezioni di due personalità artistiche di caratura internazionale come Giovanni Boldini e Filippo De Pisis, quali sono state le scelte curatoriali per far entrare in dialogo queste opere d’arte?
Prima di tutto abbiamo scelto di esporre le opere di Boldini nell’area monumentale del Castello, perché oltre a essere di grandi dimensioni, in un certo senso, sono più forti rispetto a quelle di De Pisis e quindi presuppongono una visione in sale spaziose che permettano una certa distanza, mentre i dipinti di De Pisis sono stati collocati negli ambienti più raccolti dei Camerini di Alfonso I, perché richiedono una dimensione più privata. Parallelamente, il nostro obiettivo è stato mantenere vivo il percorso museale del Castello: lo studio degli elementi di allestimento ha perciò dovuto dialogare con le strutture preesistenti studiate da Gae Aulenti. Si potranno così apprezzare nello stesso tempo le opere esposte e le sale stesse con le loro decorazioni e gli apparati didattici di entrambi i percorsi. In alcuni casi, dove per esempio gli ambienti non avevano sufficiente spazio libero da affreschi e decorazioni per poter esporre le opere, abbiamo costruito delle strutture per sorreggerle. La scelta del colore nero per queste ultime nasce sia dalla necessità di un colore che fosse il più neutro possibile rispetto a un contesto già molto connotato, sia da quella di segnare le soglie dell’esposizione, visto che il percorso sarà continuo e i visitatori non accederanno direttamente ai due percorsi monografici, ma li incontreranno all’interno del percorso museale.
Come avete scelto le opere?
Ci siamo date due obiettivi. Da una parte, quello di seguire il percorso artistico di questi due pittori dagli esordi agli ultimi anni della carriera, dato che l’ampiezza delle collezioni ce lo consentiva in entrambi i casi; per quanto riguarda Boldini poi, avendo a disposizione uno spazio più ampio abbiamo potuto inserire anche dei disegni: è quindi un’occasione per esporre anche questa collezione molto importante che Ferrara possiede. Dall’altra, quello di dialogare con gli ambienti in cui le opere sono state collocate: per esempio laddove avremmo voluto esporre un certo tipo di dipinto rappresentativo di un determinato momento della carriera dell’artista, che però non era adatto a quella specifica sala del Castello, perché né il quadro né l’ambiente risultavano valorizzati, abbiamo scelto un altro di quello stesso periodo.
Trattandosi di un’esposizione semi-permanente che durerà tre anni, avete previsto avvicendamenti delle opere esposte?
Sicuramente per ragioni di conservazione ci saranno degli avvicendamenti delle opere su carta, che non devono essere esposte in maniera continuativa per troppo tempo e necessitano di periodi di riposo al buio: ci saranno dunque rotazioni dei pastelli e dei disegni. Inoltre in questi tre anni studieremo delle piccole mostre dossier su un quadro o su una serie di disegni e quindi toglieremo alcune cose e ne mostreremo altre, magari anche ospitando opere da altri musei.
Questo riallestimento è un esempio importante di collaborazione non solo fra enti territoriali diversi, Comune e Provincia, ma anche fra pubblico e privato, mi riferisco alle Gallerie d’arte moderna e contemporanea e a Ferrara arte, ma anche ai Musei San Domenico di Forlì, che dal 1 febbraio ospiteranno la mostra “Boldini lo spettacolo della modernità”, sempre in sinergia con le istituzioni culturali ferraresi: un passo concreto in direzione di un discorso di rete in ambito culturale…
Io credo che il fare rete in ambito culturale sia uno dei punti di forza di questa città: è una cosa che si fa da anni, anche da prima che io fossi responsabile delle Gallerie. Le collaborazioni con la Fondazione Teatro Comunale Claudio Abbado ormai sono istituzionalizzate, ma ci sono anche altre collaborazioni con enti esterni all’amministrazione, per esempio l’Arci. Nel lavoro specifico che facciamo anche a Palazzo Diamanti, la creazione di una rete cittadina e con altri musei italiani o esteri è una modalità di lavoro che abbiamo sempre perseguito perché crediamo che sia vincente. La monografica di Boldini, in cui noi siamo prestatori molto importanti perché prestiamo 34 tra olii e opere su carta, è un’opportunità di crescita di visibilità a livello nazionale e internazionale che viene anche a nostro vantaggio come detentori di un patrimonio così importante. Per questo l’iniziativa di una scontistica reciproca, per cui chi si presenterà a Forlì con il biglietto del Castello e viceversa avrà una riduzione dell’ingresso.
Che tempi avete previsto per il restauro e la riapertura di Palazzo Massari?
A oggi è stata messa in sicurezza la facciata che aveva dei problemi di microcrolli. Speriamo di poter partire con il cantiere il prossimo anno e l’orizzonte che ci siamo dati è il 2017 per riaprire almeno una parte del museo, però in progetti e lavori così complessi le cose possono anche andare un po’ più per le lunghe. Personalmente mi sto battendo con ogni mezzo per riaprire entro il 2017 almeno una parte delle gallerie.
Un’ultima domanda: nell’intervista del 1925 di De Pisis a Boldini, quest’ultimo afferma che a dispetto delle tante lontananze ad accomunarli è “l’amore ardente per la forma e la bellezza”. Cosa hanno per lei in comune Giovanni Boldini e Filippo De Pisis?
Innanzitutto un virtuosismo e una facilità nel dipingere che a volte è stata rimproverata a entrambi. Tutti e due poi sono artisti che assorbono tutto quello che li circonda, soprattutto gli stimoli dei pittori a loro contemporanei: Boldini per esempio è stato molto ispirato dalla ricerca di Degas, che poi ha sviluppato in maniera personale e reso secondo la sua sensibilità, mentre De Pisis si trova a Parigi negli anni ’20 quando le varie avanguardie giungono a maturazione, quindi si possono rintracciare tantissime suggestioni da ciò che stava succedendo intorno a lui. Entrambi guardano però anche al museo: sappiamo dai diari e dalle lettere dei lunghi soggiorni di De Pisis al Louvre e del suo amore per Chardin, per la natura morta del ‘600 e per l’arte del ‘400 e ‘500, mentre Boldini era affascinato dalla pittura olandese o spagnola. Le loro sensibilità erano invece diverse: De Pisis era più fragile rispetto a Boldini, molto più istintivo e molto meno stratega, la sua era una personalità sì più vitale ma nello stesso tempo più ripiegata su stessa rispetto a quella di Boldini.
La mano ha una mobilità in perenne e delicato equilibrio e ha un sistema complesso di legamenti e muscoli legati alle ossa, un uso intenso la affatica e crea le premesse perché smetta di funzionare correttamente. La mano è un organo straordinario, tra i più complessi del corpo umano, composta da 27 ossa, 18 muscoli, 24 tendini, tre grossi vasi, tre tronchi nervosi oltre a un grande numero di piccoli vasi e terminazioni nervose.
Almeno qualche volta è successo di percepire una mano addormentata, è una sensazione molto sgradevole e si prova anche una difficoltà di movimento. Sono molteplici le cause di questo disturbo. Da una banale pressione dovuta ad una cattiva posizione durante il sonno a disfunzioni della cervicale. Generalmente sono cause periferiche legate alla compressione del nervo a livello del braccio o della mano in zone fortemente limitate da strutture ossee o legamentose. Sappiamo che la mano ci permette di attuare tutti i movimenti e di percepire il tatto e le altre sensazioni come il calore e il freddo attraverso tre nervi del plesso brachiale del tratto cervicale; inoltre ogni nervo si distribuisce in maniera diversa in ogni parte della mano e può essere oggetto a pressioni e compressioni.
Iniziamo dal nervo radiale, la manifestazione più frequente di una compressione di questo nervo è che a livello dell’avambraccio determina una insofferenza parziale o totale del sollevamento della mano, disturbo che viene definito “mano cadente”. I francesi l’hanno chiamato “paralisi degli amanti” come se fosse determinata dalla continua compressione dovuta alla permanenza della testa della donna sul braccio dell’uomo durante il sonno. Ma evidentemente capita anche a chi dorme solo, basta che abbia, per esempio, una cattiva abitudine di porre l’avambraccio sotto il cuscino e dormirci sopra. E’ sempre un disturbo temporaneo che si risolve scuotendo la mano.
Molto più frequentemente la causa è la compressione del nervo mediano al polso, la cosiddetta sindrome del tunnel carpale: si addormentano le prime tre dita della mano ed il fastidio con formicolio è veramente fastidioso, rende difficile anche il dormire. Dopo il fastidio giunge il dolore, veramente invalidante, con l’avvenuta impotenza funzionale, cioè la difficoltà ad eseguire piccoli movimenti anche di prensilità. Sono le donne ad essere maggiormente colpite di questo disturbo perché i fattori scatenanti sono legati al continuo lavoro della mano che favorisce aderenze e limitazioni con compressione del canale dove passa il nervo. Nella donna ci possono anche essere fattori come un assetto ormonale alterato o una tiroidite, comunque è importante non sottovalutare nulla.
Da ultimo il nervo ulnare, può essere compresso sia a livello del gomito che del polso. È una fastidiosa sensazione di scossa elettrica che dal gomito si propaga alla mano oltre a dare un deficit della forza e della sensibilità alle ultime due dita della mano. Ad una compressione, anche se di più lieve entità, dello stesso nervo è legata un fastidio che tutti conosciamo come “dolore della suocera”, esso si manifesta quando si sbatte il gomito ed è dovuto al fatto che il nervo scorre superficialmente a questo livello. Meno frequente, la compressione a livello del polso determina deficit neuro-motorio sempre alle ultime due dita nonché una mancata sensibilità a livello dello spazio tra dito e dito. Entrambi questi due ultimi casi sono dovuti alle cattive posizioni o a microtraumi continui, ad un uso smodato e del mouse e il relativo appoggio del gomito non corretto durante le ore prolungate al computer.
Consigli
Tra i semplici accorgimenti da poter subito mettere in pratica ci sono alcuni esercizi di stretching e, a livello generale, l’attenzione a migliorare la postura per diminuire lo stress muscolare e i conseguenti spasmi. Un esercizio di stretching molto efficace per prevenire e alleviare velocemente il dolore, in particolare del tunnel carpale è il seguente:
1. braccia in avanti, palmi rivolti come se si spingesse il muro (polso spinge all’indietro);
2. braccia in avanti rilassate;
3. pugno chiuso, forte
4. sempre con il pugno chiuso, ruotare il polso all’ingiù;
5. rilassare e scuotere le braccia per concludere l’esercizio.
Ogni posizione va mantenuta per 5 secondi circa.
E se pensassimo di essere liberi dal sistema e provassimo a cambiare il mondo partendo da noi stessi? Questo è ciò che ci propone Enrico Caldari nel suo libro di esordio letterario dal titolo “Liberi dal Sistema” (Q Institute, 2014) in cui ci offre strumenti pratici per comprendere e attuare il cambiamento, senza più aspettare che siano “altri” a farlo. Molti di noi pensano che questa società abbia serie difficoltà a funzionare come vorremmo e i suoi meccanismi (a partire dal denaro e dalla finanza) potrebbero essere le stesse leve per cambiarla. Si inizia da una riflessione semplice e nello stesso tempo profonda sul valore del denaro, soprattutto se lo si lega alla sostenibilità ambientale. Così l’autore procede analizzando i cinque ambiti su cui costruire la nostra indipendenza: il sapere (indipendenza culturale), la salute (“auto-star-bene”), l’alimentazione (indipendenza alimentare), l’energia (indipendenza energetica), e infine il denaro (indipendenza finanziaria). Una lettura gradevole e interessante, senza tecnicismi, ma anche senza banalità. In fondo pensare a cos’è il denaro e ad usarlo per cambiare il mondo è impegno di molti, anzi di troppi. Un punto di vista ecosostenibile è una interessante premessa.
Così Enrico Caldari scrive nella sua introduzione: “Nel mondo, purtroppo, ci sono persone che si stanno facendo la guerra, proprio ora, semplicemente perché si stanno ponendo le domande sbagliate. Perché tutti loro sono esseri umani, abitano il pianeta Terra, vorrebbero essere felici, vorrebbero che i propri cari fossero felici e vorrebbero lasciare un mondo migliore ai propri figli e nipoti. Ma, facendosi le domande sbagliate, sono stati indotti a farsi la guerra tra loro, pensando di avere interessi diversi. Questo libro nasce dalla necessità di farci le domande giuste. E di darci le risposte efficaci per cambiare il mondo in cui viviamo, partendo da noi stessi, per trasformare la Terra nel Paradiso che ogni bambino si merita.”
Il libro è disponibile su www.liberidalsistema.com in versione cartacea o eBook, e su ordinazione in libreria, anche online. Durante la lettura ognuno è invitato alla compilazione di un vero e proprio “test” in grado di misurare il proprio grado di dipendenza dal Sistema in ogni ambito, compilabile gratuitamente online [vedi].
Enrico Caldari, ideatore del percorso “Q Life – Liberi dal Sistema”, è ricercatore, formatore e imprenditore. Esperto di comunicazione e sostenibilità, laureato in Scienze statistiche e dottorato in Sociologia e ricerca sociale, è stato giornalista, manager e consulente. Come divulgatore ha tenuto numerose conferenze in Italia e all’estero sul rapporto tra sistemi monetari e sostenibilità ambientale. Come consulente e imprenditore ha ideato e lanciato attività innovative basate su modelli sostenibili, tra cui il primo franchising europeo per il noleggio di articoli per bimbi (Mammamamma).
Ha dedicato anni a ricercare e sperimentare strumenti pratici per il Cambiamento e nel 2013 ha co-fondato Q Institute, il primo istituto al mondo nato per diffondere conoscenze e tecniche per rendersi indipendenti e felici [vedi]
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