Mi cimento in un compito ingrato, per dovere d’ufficio: in assenza del relatore designato devo difendere una causa contraria alle mie convinzioni. Farò per questo appello all’ars retorica. D’altronde i sofisti qualcosa ci hanno insegnato…
Dunque posso dirvi che sì, certo, la città-cartolina è una bella suggestione, piace a tutti. Ma una città è un organismo vivo, pulsante e il rischio che non dobbiamo correre è proprio quello di museificarla, di blindarci nella storia. La città è fatta di attività e di persone che la vivono. E la vita è anche bisogni concreti: scambi, servizi, funzioni, commercio. Possiamo ragionevolmente immaginare di disciplinare il traffico, ma senza eliminare le auto del centro. E attenzione, non stiamo facendo un favore ai commercianti, i bisogni sono anche quelli nostri di cittadini e consumatori. Pure chi vive in centro ha necessità dell’antennista o dell’idraulico, e l’artigiano non si può caricare tutto in spalle, ha necessità di muoversi.
Le esigenze sono varie e diverse, vanno contemperate con tolleranza.
Abbiamo sempre il rimpianto del bel tempo perduto. Nell’Ottocento non c’erano la auto, c’erano le carrozze. Ah che bello! Già ma le carrozze non viaggiavano in forza di vento, c’erano i cavalli a trainarle e il loro ‘carburante’ lo depositavano lungo via; e non è che profumasse di rose e di viole. Quindi, se mi passate la battuta, una forma di inquinamento c’era anche allora…
Diciamo più seriamente che ogni epoca ha i suoi disagi da sopportare.
E poi per concludere vogliamo considerare la pericolosità? Non ci risultano incidenti fra auto e pedoni in centro storico, e a ben vedere i maggiori rischi per i passanti vengono da quegli spericolati ciclisti estensi che si sentono signori e padroni del territorio.
Quindi io ribadisco: tolleranza e auto per quel che serve. Anche a vantaggio degli anziani e delle persone disabili, perché la città è di tutti e tutti devono poterne godere.
Il grattacielo è uno sfregio estetico alla città, è evidente che la classe politica sotto la quale è stato partorito e contestato fin dagli anni ’60 da un intellettuale come Giorgio Bassani, non aveva il senso della bellezza. Del resto le cose non sono cambiate molto, basta guardare Darsena City per sentirsi in una città dove il passato colto è stato dimenticato per cedere alle tentazioni della peggior modernità.
Chi ha progettato le due torri poteva anche copiare da esperienze illuminate, il mondo ne è pieno. E poi, costruire spingendosi verso l’alto non significa per forza infilarsi in un tunnel architettonico irrecuperabile anche per i più fantasiosi e dotati professionisti. C’è chi per provocazione vorrebbe cancellare il grattacielo con un’operazione di demolizione tout court, come il presidente dell’Ordine degli architetti Diego Farina, mentre lo pensa per davvero l’82 per cento degli oltre cinquecento ferraresi che hanno risposto al sondaggio promosso dalla Nuova Ferrara. I numeri però restituiscono un problema diverso, di ordine pubblico piuttosto che estetico, legato a spaccio, microcriminalità, degrado e alla presenza di extra comunitari che delinquono e di altri che vivono una dimensione estranea alla nostra, per lo più in contrasto con le regole da noi condivise. Inutile il buonismo. Abbattere il grattacielo, dove abitano 200 famiglie, molte delle quali coprono le spese inevase di altri, non risolve e non elimina la presenza degli “indesiderati”, può solo consolare gli offesi nel proprio gusto estetico.
E allora da dove comincia la riqualificazione del Gad, il quartieraccio della stazione? Credo sia bene abbattere, ovviamente nel portafoglio, chi affitta in nero, intasca i soldi e poi si lamenta del crollo dei prezzi delle case.
La città è importante a seconda di chi e di come la vive. Anche il grattacielo è un contenitore che va valutato come struttura e non per il suo contenuto. Pensiamo a come viene utilizzato prima di abbandonarlo. Valorizzare i contenitori con i contenuti è un bell’esercizio architettonico, ma anche un dovere sociale. Così hanno fatto da molte parti come ad esempio a Pechino in cui hanno trasformato una fabbrica di armi a guerra in un contesto di atelier di artisti contemporanei ed è diventato un centro di riferimento per l’arte contemporanea. Allora la domanda da porci è: se nel grattacielo ci vivessero architetti, ingegneri, professionisti, lo percepiremmo allo stesso modo? Il problema è il grattacielo o chi vive nel grattacielo? Dunque la questione non è abbattere il grattacielo, ma analizzarlo nella sua problematica di emarginazione. Il grattacielo deve essere valorizzato per integrarsi nel vivere meglio dentro la nostra bella città. I grandi architetti, e in sala alcuni sono presenti, sono innanzitutto dei sociologi che pensano prima alle persone e ai loro spazi e poi progettano i contenitori in cui esse abiteranno e vivranno. Allora io credo che si debbano rivalutare tanti spazi vuoti o mal gestiti (e a Ferrara ce ne sono tanti) riportandoli ad una dimensione più umana, più sensibile al vivere che non al sopravvivere. Pensiamo allora a come rivitalizzare questi patrimoni architettonici, non a distruggerli.
Al fine di ragionare su una possibile utilizzazione di questo spazio, indubbiamente carico di storia e di suggestioni, è importante avere bene il mente cosa fosse questo luogo. Come noto il cosiddetto “giardino delle duchesse” fu voluto da Ercole I d’Este e realizzato fra il 1473 ed il 1481, presumibilmente come piccola oasi di pace e di bellezza all’interno del palazzo ducale, di cui era parte integrante. Circondato da un loggiato che lo collegava alla corte, era strutturato come un classico giardino rinascimentale, con alberi da frutto, piante medicinali e siepi di bosso potate secondo forme geometriche, come comandava il gusto dell’epoca.
Quel che rimane di quel luogo è oggi un cortile sconnesso, parzialmente occupato da manufatti del tutto estranei realizzati nel corso dei secoli ed usato fino a pochi anni orsono come deposito a cielo aperto dalle varie attività commerciali che affacciano su piazza Municipale, che ha completamente perduto ogni sia pur vaga reminiscenza dell’originale. Soprattutto si è perso irrimediabilmente il contesto in cui il giardino era inserito, in quanto le profonde modifiche strutturali e di destinazione d’uso degli edifici circostanti, intervenute nel corso dei secoli, hanno cancellato completamente il loggiato originario, di cui rimangono solo vaghe tracce in alcuni muri perimetrali, che facevano parte integrante del palazzo ducale. Quello che ci rimane è quindi un luogo completamente snaturato di cui è impensabile ipotizzare un ripristino. Che farne dunque?
Si tratta in ogni caso di uno spazio privilegiato, centralissimo e, come detto, pur sempre carico di suggestioni. L’uso che se ne è fatto sinora, quale sede improvvisata di mercatini di ogni genere, piste per il ghiaccio e similari non gli rende giustizia e rischia di accentuare, soprattutto quando non viene utilizzato, l’idea di abbandono e di incuria.
E’ invece possibile pensare ad una sua sistemazione che, da un lato, ne migliori l’aspetto, facendone un luogo gradevole con una precisa destinazione d’uso, mentre, dall’altro, possa in qualche modo richiamarne la funzione originaria. Si potrebbe immaginare, ma è solo un esempio, un luogo di ristoro (tipo una caffetteria o qualcuna delle tante variazioni sul tema) che d’estate ospiti la sera spettacoli musicali in acustico, pubbliche letture, ecc. Nell’ambito dei lavori di miglioria, oltre alla collocazioni di adeguati elementi di arredo urbano, si potrebbe pensare di abbattere i corpi di fabbricato che ingombrano una parte consistente dell’area, recuperandone così il più possibile la forma rettangolare. Al fine di rievocarne l’antica destinazione su uno dei muri perimetrali potrebbe poi essere proiettata l’immagine ipotetica, resa al computer, del pergolato originario. Alcuni cartelli che, discretamente, ricordassero la storia del luogo assieme a quella dell’antico palazzo ducale sarebbero altrettanto apprezzabili.
“Marcel Proust voleva scrivere un romanzo sul nulla e non c’è riuscito. Dovrei riuscirci io?” – si chiede Jep Gambardella in una delle sue estemporanee riflessioni dolcevitiche con vista Colosseo, nonostante il passaggio forse più stupefacente dell’intero film sia la visione di un portone che si apre, quasi magicamente, sotto le mani pallide ma ferme di chi possiede le chiavi dei più bei palazzi di tutta Roma.
No, non paragonabili in alcun modo, gli splendidi giardini delle dimore principesche romane, classiche e perfette, e quelli decadenti, sfasciati, abbandonati delle Duchesse di Ferrara, originariamente Giardino del Duca.
E no, non minimamente pensabile l’angolo di Natura nella città congestionata, o il bosco sull’autostrada che Italo Calvino suggeriva al malinconico e ingenuo Marcovaldo.
‘Giardino’, una porzione di superficie limitata e racchiusa, ripescando la radice indogermanica (dalla parola gart, ‘circondare’). Due porte che lo aprono su via Garibaldi e su Piazzetta Castello, dense di passi che si susseguono veloci e indifferenti oggi come ieri. Fuori da quelle due porte il mondo di oggi; dentro, silenzioso, lugubre, immobile, fermo immagine di tronchi e foglie e palazzi dai muri scrostati, intatti in un passato rovinato, non certo rovinoso. Quello di una vita fa, impossibile a ripetersi ma ancora presente, quando il proprietario di quei passi butta l’occhio dentro e può colpirlo quell’istinto di un esasperato Romanticismo carico di languore e sonnolenza.
Istinto non giustificabile razionalmente, da chi come me completamente digiuno di architettura, numeri e ristrutturazioni; se non con la parte destra del cervello, quella dedita all’arte, all’immaginazione, alla poesia.
Se tuttavia di “schifo” si vuol parlare, allora parliamo del brutto e scusiamolo, nei suoi recessi più innominabili. Umberto Eco convince entusiasticamente e storicamente nella sua “Storia della bruttezza”, Iginio Ugo Tarchetti rende Giorgio innamorato folle della ripugnante Fosca, dalla quale l’aitante militare riesce a staccarsi solo con la morte di lei. Buttati a testa bassa nel subcosciente, nella contemplazione statica di quell’angolo voluto nell’ambito delle trasformazioni edilizie promosse da Ercole I d’Este che fecero assumere al Palazzo Ducale l’assetto planimetrico attuale.
E, se è vero che le cose devono cambiare per poter restare le stesse, come scriveva Tomasi di Lampedusa, allora che la parola ‘ripristino’ entri nel Giardino delle Duchesse; purché ci entri a piccoli passi, così come a piccoli passi la nobiltà lascia il passo alla borghesia del neonato Regno d’Italia. Come la bambina del “Giardino segreto” di Francis Burnett che, con infinita e amorevole cura, riporta fiori e natura in un desolato spazio scevro d’amore.
Nelle Sacre scritture si racconta che al centro del Paradiso terrestre ci fossero due alberi, quello della vita e quello della conoscenza. Sappiamo com’è andata a finire la storia, Eva non seppe resistere alle lusinghe del serpente e decise di addentare il frutto proibito, peccando così di presunzione e condannando l’umanità ad una vita libera, ma decisamente dolorosa. L’iconografia ci mostra questo frutto come una mela, un frutto ben noto nell’antichità e che troviamo protagonista di altri miti e leggende. Il furto delle mele d’oro del giardino delle Esperidi, era l’obiettivo di una delle imprese di Ercole che riuscì nell’intento con una serie di astuzie e, sempre con una mela, Paride, giovane e aitante, doveva fare un dono alla dea più bella. Gli dei dell’Olimpo sapevano benissimo che una scelta del genere avrebbe scatenato un disastro e convinsero Paride, umano e imprudente, a procedere al posto loro. Il giovane scelse Afrodite, le altre bellissime non la presero bene e Troia finì in cenere. Frutto protagonista di storie antichissime, anche in tempi più recenti non ci mancano le mele famose e da Biancaneve alla Apple, l’elenco è lungo.
Se diamo una sbirciata in un qualsiasi motore di ricerca e cominciamo a cercare immagini di opere d’arte che rappresentino questo albero, escludendo quelle con Eva e il serpente, ne troviamo moltissime, molto spesso opere di impressionisti o comunque di pittori di paesaggi ‘en plein air’ che nella armonia di questa pianta avevano un soggetto perfetto per rappresentare la bellezza piena di ogni stagione.
Proprio cercando immagini di alberi nelle arti figurative, ho trovato questa scena ambientata in un giardino. Non conoscevo questo pittore americano, Robert Julian Onderdonk, nato in Texas nel 1882. Onderdonk visse una breve vita e produsse una serie di paesaggi della sua terra, che lo resero famoso come il primo vero pittore texano, ma non è molto conosciuto dalle nostre parti.
Questo paesaggio così domestico e famigliare mi ha colpito, non tanto per la fattura dell’opera, quanto per i ricordi che mi ha riportato alla mente. In queste ragazzine intente a giocare sotto un albero, ho visto mia mamma e mia zia da bambine. Ovviamente non posso averle viste, ma da sempre mi hanno raccontato degli alberi che mio nonno piantava in campagna, non solo quelli del frutteto, ma quelli che lasciava crescere in tutta la loro bellezza negli spazi vicino al fienile. Quando ero piccola, la casa e il giardino erano stati modificati, ma il frutteto lo coltivava ancora mio nonno con i suoi sistemi, e ricordo benissimo la sensazione di imponenza che mi trasmettevano. Ancora non si usava piantarli in file serrate, potati all’estremo per avere la maggior produzione possibile, quindi su questi alberi c’erano spazio per arrampicarsi, appigli e gradini naturali per salire, anche per una fifona come me. Non c’erano serpenti tentatori o personaggi mitologici ad affrontare imprese, ma c’erano le storie che inventavo io e che disegnavo con i pitturini quando tornavo a casa, in città. Insomma mio nonno non aveva fatto studi di pedagogia, ma ha fornito alla sua famiglia dei fantastici giocattoli, dimostrando in anticipo quanto fosse vera quella frase, di cui non ricordo la paternità, che ogni bambino dovrebbe avere un albero per giocare.
Un albero è per tutti, regala la sua bellezza senza limitazioni o impedimenti, basta guardarlo, annusarlo, toccarlo, per provare sensazioni antiche di armonia con il mondo, e quando un albero è accogliente come un melo, non è nemmeno necessario avere l’agilità di una scimmia per tentare la scalata. Un bell’albero è il migliore ‘arredo verde’; ne basta uno, in mezzo ad un prato per avere già fatto un giardino. Ed è così primitivo ed essenziale, da non avere bisogno di altro arredo per diventare semplicemente, paradisiaco.
Robert Julian Onderdonk (1882-1922), ‘Il vecchio albero di mele’ (Old Apple Tree)
da MOSCA – Una grande palla illuminata, luci sfavillanti nel rigido cielo invernale di Mosca. Sullo sfondo l’imponente Cremlino avvolge la scena in un’aura di mistero e di magia. Qui tutto luccica, oggi che gli odori, i sapori e i colori del Natale sono ormai lontani per tutti, in Europa, qui ancora ne rimangono molte tracce. Sarà perché fa ancora freddo, sarà perché c’è neve ovunque, ma pare proprio che qui non lo si voglia far andare via.
Misha pensa proprio questo, con i suoi sei anni appena compiuti, con la voglia di andare sullo slittino in ogni momento della giornata, con i pattini in spalla sempre pronti per i laghetti ghiacciati che si trovano in città. E’ sabato, tardo pomeriggio, domani andrà, con papà, alla pista del Gorky Park, ma ora vuole solo entrare in quella palla luccicante, ne vorrebbe una simile per il suo albero di Natale dell’anno prossimo. Fa freddo, ma lui non lo sente, come molti russi, abituati, non percepisce quel gelo che invece irrigidisce le mie gambe e i miei pensieri. Soffro. Ho freddo, tremendamente freddo. Spero di resistere. Fra parentesi. Misha sgambetta, sorride con le guance rosse rubiconde, entra nella palla e guarda tutti i suoi ricami. Sembra un merletto, le luci gli illuminano il viso straripante di felicità. Una gioia che solo un bimbo amato, assecondato e coccolato può avere. Sul suo cappellino bianco si proiettano le orme di quei pizzi allegramente intermittenti, i suoi guantini colorati cadono a terra, vuole accarezzare quelle lucine. Ludmilla, la sua bella, giovane ed elegante mamma, gli parla sottovoce, gli sussurra qualcosa alle orecchie. Dolcemente, piano piano, delicatamente. Naso all’insù, occhi grandi, spalancati per la sorpresa, Misha sorride, trasognato, è meraviglioso, anche se gli mancano i dentini davanti. Prende la mamma per mano, le accarezza i biondi capelli e le da un grosso bacio sulla guancia. Perché loro due, soli, stanno lì, a guardare le stelle. Perché il nonno Igor se ne è andato lontano qualche settimana fa e mamma gli ha appena detto che in quella palla ci sono tutte le luci delle stelle che stanno ora vicino a lui. Misha ora è davvero contento, sapendo che il nonno è in ottima compagnia.
“I video artisti sono Poeti” di Giorgio Cattani, a suo tempo dichiarato sulla rivista La Piazza, svela una significante password poco chiara, forse, nella spesso non facile percezione delle nuove arti
elettroniche, video visual in particolare. In Cattani infatti la matrice creativa poetronica è
positivamente ridondante, cuore di scienza doc.
Anni Duemila allo stato nascente: qual è stato a Ferrara il segno di mutamento culturale più
significativo a partire dagli anni ’70 e ’80 del secolo scorso? Non è difficile rispondere: a livello di sperimentazione artistica, con risultati e risonanza planetaria, la video generazione dei vari Giorgio Cattani, Maurizio Camerani, Fabrizio Plessi, Gianni Toti, ecc. tra video art pura e poetronica o poestica tecnologica (con la E da Tekne, Arte…). Questa avanguardia, attraverso l’équipe di Lola Bonora e del maestro Farina, e altri (e dello stesso giovane critico d’arte – all’epoca – Gilberto Pellizzola), tra l’oggi leggendaria Sala polivalente, il Centro video arte e il Palazzo dei Diamanti – memorabile la pionieristica mostra su Andy Warhol – la stessa rassegna video specifica U -Tape (da C. Stringari a Nam June Paik, ecc.), ha innestato il futuro a Ferrara, villaggio elettronico. Come diceva il solito McLuhan… gli artisti anticipano il futuro, non soltanto nuovi scenari estetici, ma nuove realtà sociali. E l’attuale era della telematica o della realtà virtuale o dell’automazione è chiaramente interdipendente con la sperimentazione d’avanguardia e video – e affini – che proprio a Ferrara, grazie all’équipe succitata, ha avuto una delle sue capitali internazionali. Giorgio Cattani, ferrarese, in particolare è decollato a livello internazionale, sull’onda in tal caso
positiva di certa transavanguardia, tra sperimentazione visuale, installazioni – stupenda quella del
Pac a Ferrara ancora negli anni ’90 – e art video, intrise di singolare poetica contemporanea: eventi prestigiosi tra le principali gallerie nazionali e internazionali. (Bio). E anche nelle produzioni più strettamente visual-pittoriche, sempre certo Stile post video… Protagonista, inoltre, nuovamente a Ferrara, come special guest, nella rassegna video The Scientist, a cura di Vitaliano Teti e Ferrara Video&Arte negli anni più recenti.
Per info esaurienti si rimanda al sito del TecnoArtista [vedi], di seguito solo alcune news:
A. Caleidoscopio del contemporaneo Lugano – novembre 2014 gennaio 2015
B. Omaggio a Giuseppe Verdi , Ferrara – novembre -dicembre 2013
C. Giorgio Cattani – Spazi di mondo, Creazzo – Vicenza – settembre 2013
D. Angeli Contemporanei. Come mai sei caduto dal cielo, astro mattutino, figlio dell’aurora?…(Isaia 14:12-14), Ferrara – gennaio 2013
E. Giorgio Cattani – Di là da dove, Padova – novembre 2012
F. Attraverso (2013, Spazio Frau e Hotel Annunziata, Ferrara, novembre 2013)
G. Gea Art (settembre 2012)
H. Arte contemporanea disegno per ultima copertina ” Mi trovo qui “, presentazione a settembre 2012
I Tacquino di viaggio Lombadia-Emilia-Marche-Puglia di Giorgio Cattani
L. Di là da dove, “Pitture sul jazz” composte da Giorgio Cattani (anno 2012)
Curata da Eleonora Sole Travagli.
M. Altra arte (anno 2012), Venezia – Associazione Culturale CieloVentoMare
Mostra a cura di Giorgio Cattani: gli artisti Martina Celi, Eleonora Corti, Luca Zarattini
“Un viaggio nel profondo del mare con il profumo del vento e il colore del cielo”.
N. MAESTRI DI BRERA per l’Unità d’Italia, Milano, marzo 2012
* da Roby Guerra, “Dizionario della letteratura ferrarese contemporanea”, Este Editon-La Carmelina ebook 2012 [vedi]
I temi di dibattito sulla nostra città si possono dividere in due gruppi: problemi che attendono una soluzione urgente, perchè evidenti nella loro oggettività e gravità, ed altri che possono essere valutati e sviluppati partendo da “provocazioni” frutto di elaborazioni intellettuali del lavoro culturale. Parto da questi ultimi perchè di recente dibattuti.
Salvatore Settis sostiene che le città si distruggono quando perdono la memoria di sé. Io concordo, ma mi permetto di aggiungere che per memoria intendo “tutta la memoria”. Non solo quella riconducibile ad una particolare epoca storica. Le città, e così Ferrara, sono l’insieme della stratificazione della vita degli uomini che si manifesta con oggetti che diventano “segni urbani”: segni materiali e segni immateriali presenti nella immaginazione di ciascuno di noi. Dobbiamo sforzarci di pensare che tutti i segni urbani esigono un’estensione del concetto di conservazione, passando dalla semplice congelazione di un pezzo di città alla proposizione del passato urbano come necessario di “protezione allargata”. In questi termini si pongono le recenti raccomandazioni Unesco per le città; e noi facciamo parte del patrimonio Unesco. Forse dobbiamo tentare di “trasmettere” la nostra città ad un futuro nel quale la sua immagine è il derivato delle trasformazioni operate dalla vita dei suoi abitanti, anche con le loro possibili contraddizioni. Mi riferisco ad una iniziativa di Ferraraitalia che ha posto al dibattito quattro temi ritenuti di attualità per la città: la demolizione dei grattacieli, la riapertura del canale Panfilio, la sistemazione del giardino delle duchesse, l’ampliamento della Ztl su Corso Martiri. I primi due temi, al di là della simpatica provocazione, difficilmente possono essere affrontati in una fase economica caratterizzata da poche risorse: in una fase cioè di “vacche magre” nella quale è necessario individuare ed operare sulle priorità.
Mi soffermo quindi soprattutto sul tema dei grattacieli che dal punto di vista intellettuale è certamente il più vivace. A parere mio però questo non si configura come un’emergenza urbanistica per la città. Perchè voler distruggere un segno urbano consolidato, marginale al centro storico, che da materiale è diventato immateriale nella memoria e nella riconoscibilità per i viaggiatori che transitano o che arrivano a Ferrara? E’ viceversa certamente un’emergenza sociale che va affrontata come dovrebbero esserlo tutte le criticità delle periferie urbane. Le demoliamo tutte o piuttosto operiamo con soluzioni sociali ed interventi di “rammendo urbano” come propone di fare Renzo Piano? Io sono convinto della giustezza di questa proposta che è certamente meno eclatante ma anche più praticabile seppur sempre delicata.
La riapertura del canale Panfilio invece presenta oneri e problemi che la nostra comunità oggi non sarebbe in grado di affrontare e pertanto non mi ci soffermo.
L’ampliamento della Ztl, battaglia di cui mi sento partecipe, andrebbe visto in un quadro coerente con i piani della mobilità e della viabilità per evitare di aggravare le cose con un intervento che se isolato diventa eccessivamente radicale.
La riapertura del giardino delle duchesse è certamente un tema rilevante che mira a riaprire e a rendere fruibili i “segreti nascosti” di Ferrara. Ma Ferrara ha anche la memoria corta: anni fa fu bandito un concorso sulle “piazze” tra queste vi era anche il giardino delle duchesse. Che fine hanno fatto i progetti? Forse sono scomparsi perché è stata premiata l’accademia e non la realizzabilità.
Ora in poche righe vi accenno, auspicando di poterne riparlare, a casi che necessitano di soluzioni urgenti a seguito dei danni del terremoto di due anni fa, salvo perdere pezzi enormi di patrimonio culturale della nostra città. Si tratta in genere di chiese e tra queste, perchè ho avuto occasione di occuparmene di recente come Ferrariae Decus, vorrei porre il caso della Chiesa di San Domenico. Questa imponente chiesa, un austero edificio barocco degli inizi del ‘700 (costruita su un preesistente edificio del XIII secolo), ha visto peggiorare il suo disfacimento, iniziato fin dalla metà del 2000, con il terremoto del 2012. All’interno vi sono opere fondamentali per il patrimonio culturale della città in totale abbandono e degrado: il grande coro ligneo dell’abside a 38 stalli datato 1384, la Cappella Canani, attuale sacrestia (una delle absidi della chiesa trecentesca preesistente), che contiene il monumento funebre di Giovan Battista Canani ed è completamente rivestita da armadi e decorazioni lignee settecentesche. Cerchiamo di non perdere questo patrimonio.
Su questi temi si deve mobilitare la città perchè sono delle vere priorità oggettive.
* L’architetto Michele Pastore è presidente di Ferrariae Decus
Musica e visioni al Jazz Club Ferrara, che è ripartito per altri tre mesi di concerti nel Torrione di San Giovanni. L’obiettivo del fotografo Stefano Pavani racconta, scatto dopo scatto, uno dei migliori piano trio in circolazione: quello capitanato dal pianista e compositore Kenny Werner – leader del modern jazz sin dagli anni ’70 – coadiuvato da due virtuosi del proprio strumento come Johannes Weidenmueller al contrabbasso e Ari Hoenig alla batteria.
Oggi e domani nuovi appuntamenti al Jazz club, in Rampari di Belfiore 167, ingresso a pagamento.
[clic su un’immagine per ingrandirla e vederle tutte]
Kenny Werner trio (foto di Stefano Pavani)
Kenny Werner (foto di Stefano Pavani)
Kenny Werner trio a Ferrara (foto di Stefano Pavani)
Kenny Werner trio a Ferrara (foto di Stefano Pavani)
Kenny Werner trio a Ferrara (foto di Stefano Pavani)
Johannes Weidenmueller al contrabbasso per il Kenny Werner trio (foto Stefano Pavani)
Ari Hoenig alla batteria per il Kenny Werner trio (foto di Stefano Pavani)
Ari Hoenig alla batteria per il Kenny Werner trio (foto di Stefano Pavani)
Ari Hoenig alla batteria per il Kenny Werner trio (foto di Stefano Pavani)
Ari Hoenig alla batteria per il Kenny Werner trio (foto di Stefano Pavani)
Johannes Weidenmueller al contrabbasso per il Kenny Werner trio (foto Stefano Pavani)
Kenny Werner (foto di Stefano Pavani)
Ari Hoenig alla batteria per il Kenny Werner trio (foto di Stefano Pavani)
Ari Hoenig alla batteria per il Kenny Werner trio (foto di Stefano Pavani)
La musica di Goran Bregović è un mix di rock, folk balcanico ed elettronica, una fusion che unisce musica popolare ungherese e jazz, tanghi e ritmi folk slavi, polifonie tradizionali bulgare, pop e arie sacre ortodosse. Si dice che l’anima riconosca istintivamente la sua musica, liberando un’irresistibile voglia di ballare, forse perché proviene da quella tragica terra di confine dove per secoli ortodossi, cristiani, ebrei e musulmani hanno vissuto insieme, così come si sono fatti la guerra. Grazie a lui le sonorità balcaniche varcano i confini nazionali, per diffondersi nel resto del mondo.
Nato a Sarajevo, da madre serba e padre croato, dopo alcuni anni di studio del violino presso il conservatorio della capitale bosniaca, Goran forma il gruppo “The White Button”. Compositore e chitarrista ai tempi della Jugoslavia, non nascose mai il suo amore per il rock n’roll, che gli consentiva di potere esprimere in pubblico il proprio malcontento, senza (quasi) rischiare la galera. Con i “The White Button “, per quindici anni ha suonato in interminabili tour, diventando un idolo nei paesi balcanici.
Quei tempi sono lontani, così come l’underground rock della Sarajevo pre-bellica, ora nei suoi spettacoli si esibisce in abiti bianchi e con la chitarra elettrica, insieme all’Orchestra di Belgrado e a vocalist con costumi folkloristici. Lo accompagna la “Wedding & Funerals Band” che rappresenta la tradizione ortodossa dove, dopo il rito funebre, si mangia, si beve e per un po’ il dolore lascia spazio alla musica. Questa combinazione è una miscela esplosiva che trascina giovani, anziani e bambini in danze sfrenate seguendo il ritmo di “Kalasnjikov” e “Mesecina”, i brani tratti dalla colonna sonora di “Undergroud”, il film di Emir Kustarica Palma d’Oro a Cannes 1995.
Prima di avere successo in Francia e in Grecia, Bregović, all’età di 18 anni, soggiornò in Italia per un anno, suonando nelle pizzerie e nei club di Napoli, Capri e Ischia, soltanto qualche anno dopo la sua musica si affermò anche nel nostro paese. Memorabile fu il duetto con Adriano Celentano in “Ventiquattromila baci”, una delle canzoni italiane più popolari nell’ex-Jugoslavia. Nel film “Ti ricordi di Dolly Bell” di Emir Kusturica, questo brano è un vero e proprio tormentone, esasperato dal protagonista, adolescente della Sarajevo degli anni ’60, che scimmiotta Celentano e s’innamora follemente della bellissima Dolly Bell.
Bregović è salito due volte sul palcoscenico del Festival di Sanremo, durante le edizioni del 2000 e del 2012, prendendo parte anche alla giuria di qualità.
Nel 1998, il musicista bosniaco ha suonato a “Ferrara sotto le stelle”, la più importante manifestazione musicale della città, che quell’anno ospitò anche Lucio Dalla con l’Orchestra Toscanini di Parma e Paolo Conte. Il legame con l’Italia si è rinforzato con la colonna sonora del film “I giorni dell’abbandono” di Roberto Faenza, in concorso al Festival di Venezia del 2005; Bregović firmò le musiche insieme a Carmen Consoli e ne fu interprete con Margherita Buy e Luca Zingaretti.
Il musicista balcanico ha portato nei teatri italiani l’opera “Karmen”, la cui prima assoluta si svolse a Udine nel 2005, per poi essere replicata in numerose città tra cui Modena, Bologna, Perugia e Ferrara (al Teatro Comunale). L’opera, diversamente da quella tragica di Bizet, termina con un matrimonio, sinonimo di festa.
“Champagne for Gypsies”, del 2012, è il suo più recente album, si tratta di una raccolta di dodici canzoni con cui ballare e divertirsi, con un occhio alla festa e un altro all’ironia. Non è il suo disco migliore ma rimane uno di quegli “affreschi” musicali che soltanto lui è in grado di creare. L’8 febbraio inizierà il tour 2015 di Bregović con l’immancabile Wedding & Funeral Band, la prima tappa è prevista a Brno in Slovacchia, seguiranno Bratislava, Mosca e Pietroburgo.
Goran Bregović a Sanremo 2012 canta Romagna mia con Samuele Bersani [vedi] Goran Bregović a Sanremo 2000 [vedi]
La bella parrucchiera Emilie (una sempre splendida, sorridente ed elegante Audrey Tautou dal taglio di capelli sbarazzino), un po’ complessata ma non timida, è ogni giorno alle prese con Jean, il suo impiegato super diplomato e plurilingue (Sami Bouajila). A lui spesso ripete, fragile e inquieta, “dall’inizio della nostra conversazione mi domando, ogni quindici secondi, se non ho fatto errori di francese”, aggiungendo dopo un breve momento di silenzio “ne ho fatti… ne ho fatti?”.
Di dialoghi divertenti come questi la brillante commedia francese ne è piena. Per dare spesso la parola a complessi d’inferiorità, come la vergogna, il senso di colpevolezza, ma anche l’incredibile (e un po’ agghiacciante) bontà o l’attenzione spesso soffocante, come quella di Emilie per la madre (Nathalie Baye).
Ecco allora che una bella, fresca e soleggiata mattina di primavera parigina, questa giovane parrucchiera riceve un’ispirata e delicata lettera d’amore, romantica e meravigliosa ma rigorosamente e segretamente anonima. Una di quelle missive che tutti vorremo ricevere, anche se, dopo il primo momento di sorpresa e curiosità, a una riflessione più attenta, spesso, la preferiremo firmata. Emilie ha la tentazione di gettarla via, di farla capitolare, miseramente appallottolata, nel cestino adagiato sul caldo pavimento di legno.
Ma ci ripensa e la fa arrivare alla madre, sola, triste e amareggiata per la separazione in corso dal marito. Vuole solo risollevarle umore e morale, che sono proprio ai minimi storici, come si direbbe. Ovviamente, la giovane nulla sospetta sull’autore, tanto meno immagina che questi sia proprio il timido Jean.
La missiva, che voleva essere una tenera e vera bugia, scatenerà malintesi, problemi e incomprensioni. Equivoci e quiproquo dall’esito inimmaginabile. I personaggi sono, allora, a volte dolci e tutto miele, a volte crudeli, dispettosi e indispettiti, talora nervosi e irritati. Se hanno difficoltà a comunicare, alla fine si comprenderanno. Tutto bene quel che finisce bene.
Una commedia simpatica, briosa, leggera e divertente che ci aiuterà a rilassarci e sorridere.
De vrais mensonges, di Pierre Salvadori, con Audrey Tautou, Nathalie Baye, Sami Bouajila, Francia, 2010, 105 mn.
A Trieste c’è un deposito che può essere considerato un luogo simbolo dell’esodo giuliano-dalmata che iniziò all’indomani della firma del Trattato di Parigi del 1947: è il Magazzino 18 del Porto Vecchio di Trieste, dove furono stoccate le masserizie dagli esuli che abbandonarono le terre cedute a seguito del Trattato. “Magazzino 18” è anche il titolo dello spettacolo che Simone Cristicchi sta portando nei teatri italiani da due stagioni, e che domani sarà in scena al Centro Pandurera di Cento.
Parigi, febbraio 1947: l’Italia uscita sconfitta dalla Seconda guerra mondiale firma i trattati di pace con gli Alleati vincitori, fra i quali anche la Jugoslavia. Proprio alla Repubblica socialista federale di Jugoslavia di Tito l’Italia è tenuta a cedere Fiume, il territorio di Zara, gran parte dell’Istria, del Carso triestino e goriziano, e l’alta valle dell’Isonzo, le isole di Lagosta e Pelagosa, in altre parole parte di quelle famose terre irredente ottenute nel 1920 in base ai trattati di Rapallo e di Roma seguiti alla Prima guerra mondiale. Trieste e le aree circostanti rimarranno ‘territorio libero’ sotto il controllo anglo-americano fino al 1954.
È quello che succede spesso nei consessi internazionali che seguono i conflitti: si srotolano le carte geografiche e si tracciano nuovi confini, tralasciando il fatto che nella realtà su quei luoghi si svolgono e si intrecciano esistenze intere i cui destini, già duramente provati dai conflitti, cambiano completamente a causa di quel tratto di inchiostro. È stato così anche per le terre e le genti del confine orientale italiano, che nell’arco di 50 anni sono passate dall’essere una propaggine del multietnico impero asburgico, all’annessione ad un’Italia che si stava votando al fascio littorio, alla Jugoslavia comunista di Tito. Una complessità etnico-linguistica che, (di nuovo) come spesso accade, non viene più considerata una ricchezza, ma un problema e una minaccia. Non più italiani, sloveni e croati, insieme a comunità di lingua tedesca e a una miriade di piccole minoranze: ebrei, serbi, cechi, greci, armeni, svizzeri. Ecco allora un avvicendarsi di esodi, fino a quello giuliano-dalmata che inizia appunto all’indomani della firma del Trattato di Parigi del 1947.
“Magazzino 18” di Simone Cristicchi vuole rappresentare “il magazzino della memoria”, in cui sono custoditi circa duemila metri cubidi mobili, stoviglie, abiti, lettere, fotografie, giocattoli. Tutto ciò che le famiglie in fuga dalle terre cedute alla Jugoslavia lasciarono in deposito, con l’idea di venire a riprenderle, una volta ricostruita la propria esistenza. Molte persone poi sono tornate, molte altre invece non si sono fatte più vive.
Cristicchi, sul palco nei panni dell’archivista romano Persichetti inviato a fare un inventario di quei brandelli di una quotidianità interrotta dalla Storia, si è assunto un compito delicato insieme al giornalista Jan Bernas e al regista Antonio Calenda: narrare una parte del nostro recente passato non abbastanza conosciuta, ma che ancora tocca nervi scoperti e viene spesso strumentalizzata a destra e minimizzata a sinistra. Lo spettacolo, le cui musiche hanno vinto il premio “Le Maschere del Teatro Italiano 2014”, ha superato le 100 repliche e annovera ormai quasi 70000 spettatori: “un piccolo grande successo” afferma orgoglioso Cristicchi. Venerdì 6 febbraio “Magazzino 18” farà tappa al Centro Pandurera di Cento e così abbiamo pensato di fare qualche domanda al cantautore romano per saperne un po’ di più.
Perché hai scelto di affrontare le vicende del confine orientale tra la fine del secondo conflitto mondiale e i primi anni ’50 e il tema dell’esodo giuliano-dalmata, eventi della nostra storia recente da un lato poco conosciuti, dall’altro molto complessi e controversi da trattare?
Mi sono imbattuto in queste vicende mentre stavo lavorando a una ricerca sulla memoria della Seconda guerra mondiale, girando l’Italia per intervistare gli anziani che hanno vissuto quel periodo. A Trieste qualcuno mi ha indicato l’esistenza di questo Magazzino 18 nel Porto Vecchio della città. Ho voluto andare a visitarlo e di fronte a questo luogo che si potrebbe chiamare museo, anche se non lo è ufficialmente, è nata la voglia di raccontare.
Diciamo che non mi sono posto nessuno dei due problemi, ero molto incuriosito da questa storia e ho voluto approfondirla; andando a fondo ho scoperto che meritava di essere raccontata perché l’esodo è stata una vera e propria epopea. È come avere per le mani una matrioska perché dentro a ogni storia ne trovi sempre un’altra e sembra che non finiscano più. Ho deciso di raccontarle prima di tutto perché come cittadino italiano mi sentivo in dovere di conoscerla e farla conoscere e poi come artista ho voluto mettere a disposizione i mezzi e il linguaggio del teatro per proporre una riflessione collettiva su questa pagina di storia poco frequentata. Questo spettacolo, che era nato come un monologo, durante la lavorazione ha preso la forma di un musical civile, come l’abbiamo battezzato: unione del teatro civile, così come lo conosciamo grazie a maestri come Marco Paolini, con il linguaggio e gli strumenti del musical, che mi appartengono di più provenendo dal mondo della canzone d’autore.
È uno spettacolo che ha anche una funzione didattica?
Ho capito che tanti altri come me sapevano poco di questa storia e il teatro civile ha anche questa funzione: riempire silenzi e vuoti. In Friuli questa è una vicenda che si conosce fin troppo bene, mentre portando in giro per l’Italia lo spettacolo mi sono reso conto che a malapena si sa cosa è successo dal 1947. Soprattutto questo spettacolo vuole essere utile ai giovani.
Hai già accennato alla forma del musical civile: come hai scritto le canzoni per questo spettacolo? Il tuo modo di scrivere e di comporre è stato differente rispetto al solito?
Inizialmente ho presentato lo spettacolo al teatro stabile del Friuli Venezia Giulia come un monologo, poi il regista Antonio Calenda, che è un uomo di grande intuito e conoscenza, mi ha suggerito, anzi mi ha imposto di scrivere le canzoni. Io da principio ero molto restio, poi invece ho capito che la sua visione del risultato finale delle spettacolo nell’insieme era molto precisa, così ho trasformato intere pagine di monologhi in canzoni.
Quali sono state le tue fonti per la scrittura del testo?
Innanzi tutto, il libro di testimonianze di Jan Bernas “Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani”, che è stato per me un punto di riferimento tanto importante da coinvolgere nella scrittura dello spettacolo lo stesso Jan. Poi ci sono stati libri di storici che si sono occupati di questa materia per anni come Gianni Oliva e Raoul Pupo. Ho usato soprattutto tantissime testimonianze orali dirette di persone che hanno vissuto quegli eventi: nello spettacolo ci sono perciò tanti aneddoti che mi sono stati raccontati dagli stessi esuli che si sono trasformati nella drammaturgia.
Per questo spettacolo hai ricevuto critiche sia dalla destra sia dalla sinistra, è un segno che “Magazzino 18” è veramente scevro da ideologie?
Il mio obiettivo è sempre stato schierarmi dalla parte di chi è stato schiacciato dalle ideologie e dai grandi terremoti della storia, le persone senza voce, coloro che hanno subito le ingiustizie: in questo caso gli esuli, ma anche coloro che hanno fatto la scelta opposta e sono rimasti. Ben vengano le critiche, quando però non fomentano l’odio e la violenza. Molte delle persone che hanno criticato lo spettacolo non sono storici e non si occupano di storia, ma ragazzi imbevuti di ideologie ormai morte e sepolte e che vedono in alcune parti di questo spettacolo un attacco nei confronti della Resistenza, cosa che non è vera perché in “Magazzino 18” non condanno assolutamente la guerra di Liberazione. Io vengo considerato un artista di sinistra e probabilmente hanno visto in questo mio spettacolo una sorta di tradimento, ma tutto questo diventa minoritario in confronto al successo che ha avuto e che sta avendo nei teatri.
Lo spettacolo consegna agli spettatori “l’undicesimo comandamento”: non dimenticare. Possiamo dire che da qui bisogna partire per approfondire le vicende che narri e riflettere sulla complessità di alcuni processi storici per costruire più consapevolezza per il futuro?
Sì, c’è chi ha voluto attribuire a “Magazzino 18” delle connotazioni ideologiche, ma in realtà lo spettacolo vola molto più alto: vola sulle ali dell’emozione del teatro e della musica. La cosa che mi sta più a cuore è far riflettere il pubblico su cosa voglia dire essere sradicati dalla propria terra e perdere ogni contatto con il proprio tessuto sociale, con la famiglia, con i propri amici e i propri affetti. Anche, se vuoi, per guardare agli esodi che stanno avvenendo nel nostro tempo dal Sud del mondo e vedere queste persone come esseri umani che fuggono da situazioni drammatiche cercando una speranza per sopravvivere e non come invasori. In questo senso “Magazzino 18” vuole parlare dell’umanità che c’è dentro queste vicende passate per ritrovarla nel presente dei barconi che approdano a Lampedusa.
Le foto sono di Promomusic
Ferraraitalia si occupata anche in precedenza di questo spettacolo [vedi].
Vivisezione di un film cult – che è “Shining” di Stanley Kubrick – attraverso l’obiettivo di un gruppo di fotografi. E’ un po’ questo il senso della mostra in corso alla Casa dell’Ariosto di Ferrara intitolata “Giallo, noir e perturbante”. A distanza di 35 anni una delle opere più amate, guardate e riproposte di Kubrick offre l’occasione di indagare su quando la cinefilia rasenta l’ossessione amplificata da un’altra ossessione, come può essere la fotografia per i soci del FotoClub: quattordici appassionati di scatti della sezione ferrarese della Fiaf, la Federazione italiana associazioni fotografiche. E’ una specie di gioco di scatole cinesi che attraversa il cinema, ma anche l’arte e la letteratura, quello messo in scena dalla mostra che si può vedere ancora fino a domenica 15 febbraio 2015 e che giovedì 12 aprirà in notturna.
Il titolo “Giallo, noir e perturbante” tira in ballo i generi letterari del brivido e thriller. Ma c’è anche quell’aggettivo “perturbante” che dà un tocco aulico alla suspense, un tocco letterario. A riportare alle origini il significato che c’è dietro a questo termine ci ha pensato Enrico Spinelli, dirigente del servizio Biblioteche e archivi del Comune di Ferrara. In occasione dell’inaugurazione della mostra Spinelli ha fatto riferimento ai racconti di Hoffmann e soprattutto al saggio di Sigmund Freud intitolato appunto “Il perturbante”, scritto nel 1919. “Perché è in quel saggio – fa notare Roberto Roda, responsabile dell’Osservatorio sulla fotografia del Comune, nonché curatore della mostra insieme a Emiliano Rinaldi – che si possono trovare tutti gli elementi perturbanti del film di Kubrick”.
Anzi – spiega Roda – è proprio da quel saggio lì che il regista statunitense parte per costruire il film in maniera tanto meticolosa, approfondita ed efficace da renderlo ancora e sempre oggetto inesauribile di indagini, così come di piacere cinefilo che va oltre il gusto per un lavoro horror e basta. E’ il padre della psicanalisi a spiegare che “il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare” ma che certe circostanze trasformano da consueto a spaventoso. Come l’ordinaria vasca da bagno, quando arriva a evocare una trappola acquatica mortale.
Ancora “una condizione particolarmente favorevole al sorgere di sentimenti perturbanti si verifica quando predomina l’incertezza intellettuale se qualcosa sia o no vivente, o quando ciò che è inanimato spinge troppo oltre l’analogia con ciò che è vivo”. Perfetto, per questo, il tema della bambola, della maschera o in generale degli oggetti dove si fa incerto il confine tra animato e inanimato. In testa ai motivi che esercitano un’azione più che mai perturbante c’è poi quello del “sosia” in tutte le sue gradazioni: “la comparsa di personaggi che, avendo uguale aspetto, debbono venire considerati identici”, come il sosia e l’immagine riprodotta dallo specchio, lo sdoppiamento e l’ombra, i fratelli e le sorelle gemelli. Con la comparsa delle gemelle in “Shining” si manifesta l’elemento del doppio, che oltretutto rimanda a un’immagine celebre di Diane Arbus, fotografa-cult per Kubrick. Una carrellata di immagini scattate dai soci del Fotoclub ferrarese si ispira alla fotografia delle “Identical Twins” fatta dalla Arbus nel 1967, con le gemelle che lei ritrae una di fianco all’altra. E su questo tema, in mostra, si ritrovano tanti scatti e interpretazioni.
Un altro fattore di turbamento con origini simili al doppio è quello della “ripetizione di avvenimenti consimili”, la “ripetizione involontaria che rende perturbante ciò che di per sé è innocuo” e insinua “l’idea di fatalità, di inevitabilità, là dove normalmente avremmo parlato soltanto di caso”. “La ripetizione – fa notare Freud in quel saggio – può fornire il carattere demoniaco a determinati lati della vita psichica”. E Roda sottolinea come la ripetizione e la specularità siano elementi ricorrenti in tutto il film “Shining”: la vallata del paesaggio in cui la scena è ambientata, che si inerpica e diventa speculare alla montagna; la scritta ‘murder’ che si riflette allo specchio; il modellino di labirinto che Jack sta guardando e che poi diventa reale ambientazione per il figlio e la moglie; i due poster con la stessa modella di colore appesi nella camera del guardiano.
Un elenco di questi elementi presenti nel film di Kubrick serve da base per l’analisi del film e per il laboratorio che ha portato alla realizzazione delle foto in mostra e del libro-catalogo che le raccoglie. Per chi ama Kubrick, il cinema, la fotografia e questo tipo di indagini una serata speciale pensata come un seminario quella di giovedì 12 febbraio alle 21 alla Casa dell’Ariosto. A Roberto Roda il compito di commentare la mostra fornendo una lettura delle sezioni che la compongono.
“Giallo, noir e perturbante”, fino a domenica 15 febbraio è visitabile alla Casa dell’Ariosto, via Ariosto 67, ore 10-12.30 e 16-18, giovedì anche 21-23, chiuso il lunedì. Ingresso libero.
Svegliarsi a proprio piacimento, dormire quando si vuole è quasi impossibile: il lavoro, le faccende domestiche, la cura per i propri cari e il ritmo complessivo imposto dal vivere sociale, tutte queste motivazioni molto spesso non ci permettono di dormire bene. La carenza di sonno comporta tutta una serie di conseguenze negative sulla salute, tra cui il calo di attenzione e altre funzioni cognitive, umore irritabile, mancanza di energia, etc. Affinché una notte di sonno sia ristoratrice, bisogna che si verifichino certe condizioni, alcune più facili, altre non sempre realizzabili. La più importante, a volte, è anche la più difficile da attuare: andare a letto tranquilli.
Alcune strategie per migliorare il sonno
Creare un ambiente per dormire che sia il più buio possibile;
spegnere tutti i dispositivi elettronici e luci led di computer e tv;
evitare di usare lampadine dalla luce fredda prima di andare a dormire;
mantenere la temperatura in camera attorno ai 20 gradi;
assicurarsi di avere un materasso ottimale e confortevole, adatto al proprio corpo: non è necessario che sia ortopedico (serve solo a riposare mezzora) ma deve offrire una adeguata capacità di assorbimento, un appoggio gradito e, contemporaneamente, deve sostenere bene la colonna vertebrale, il materasso deve avere una densità pari al peso (in media un 20/22 di densità);
evitare di assumere tè, caffè, cioccolata e altre sostanze contenenti caffeina nelle sei ore antecedenti il sonno;
evitare anche la nicotina, che è uno stimolante come la caffeina;
l’alcool rende più semplice addormentarsi, ma aumenta il numero dei risvegli notturni;
non bere troppa acqua prima di andare a dormire, questo causa lo stimolo di urinare;
evitare troppe distrazioni, in particolare evitare di leggere e guardare la tv a letto, che dovrebbe essere solo il luogo per dormire e godere dell’intimità fisica;
fare esercizio fisico soft durante il giorno crea un picco più alto di temperatura durante il giorno che aumenterà i livelli di energia, così a fine giornata la temperatura corporea calerà più velocemente mantenendosi bassa per un lungo periodo di tempo favorendo un sonno più profondo e senza interruzioni;
gli esercizi fisici sono positivi per il sonno, purché non vengano eseguiti troppo vicini all’ora di dormire;
concedersi un rilassante bagno caldo circa 2 ore prima di andare a dormire: immergersi nella vasca, respirare profondamente e concentrarsi sugli effetti distensivi del calore su ogni singolo muscolo.
Durante il sonno il cervello attraversa 5 fasi caratterizzate da pattern di onde cerebrali diverse e lo stadio che maggiormente influisce sul nostro stato di riposo è quello del sonno profondo (caratterizzato dalla produzione onde Delta) e della famosa fase Rem (onde Theta). Molti casi di insonnia, ansia e depressione hanno infatti una relazione con bassi livelli di serotonina, la serotonina è un importante regolatore del sonno. Quando i livelli di questa sostanza sono alti viene favorito un sonno profondo. La produzione di serotonina può essere stimolata da alcuni cibi, come quelli con alti contenuti di carboidrati, mentre altri, come la carne rossa, ne inibiscono la produzione. È importante, inoltre, avere orari regolari per andare a dormire e per svegliarsi. Andare a dormire e svegliarsi alla stessa ora tutti i giorni è una delle strategie più importanti per avere un buon sonno. Sebbene sia difficile, fare un riposino tutti i pomeriggi dà una sferzata di energia per la restante parte del giorno: basta coricarsi 10 minuti, respirare bene controllando il ritmo dell’inspirazione e dell’espirazione, fondamentale anche per imparare a rilassarsi e a riposare meglio.
Sarà presente Rita Vita Finzi che ha realizzato la foto in copertina
“Continuiamo a pensare alla tecnologia come a uno strumento, ma essa è assai di più, è un ambiente che trasforma il nostro modo di pensare e di decidere, non solo il modo in cui ci informiamo e comunichiamo”
Viviamo immersi nel Web e nei Social Network, scambiamo esperienze e informazioni e contribuiamo a creare enormi archivi digitali. Se non possiamo contare sulla nostra capacità di calcolo e di previsione, necessariamente limitata, ci affidiamo agli altri o alle APP che indirizzano le nostre scelte più personali: consumi, salute, benessere, tempo libero.
Eppure resta vero ciò che segnalava Spinoza e che le neuroscienze confermano: siamo sempre mossi da un desiderio. E oggi il desiderio più grande è quello di disporre di un palcoscenico in cui raccontare di noi.
Una formica, presa singolarmente, è infinitamente meno intelligente di un essere umano. Eppure una colonia di formiche forma un’entità intelligente. Accade qualcosa di analogo agli individui, nel tempo della perpetua connessione? Internet è in grado di renderci più intelligenti e capaci di collaborare? Interconnessi, siamo più capaci di scegliere? Le ragioni delle nostre decisioni restano in gran parte oscure alla nostra consapevolezza. Scegliamo spinti dalla ricerca di gratificazioni e da sentimenti di empatia, ci sentiamo meglio se le nostre scelte assecondano sentimenti etici. Internet genera scenari radicalmente nuovi e in rapido mutamento. Il libro si propone di fare emergere le molteplici influenze sulle nostre scelte, indagando con uno sguardo aperto alle più recenti ricerche in diversi ambiti disciplinari il peso di desideri, emozioni, sentimenti, relazioni, immagini, identità, condizionamenti. La complessità della scelta è rivisitata alla luce di uno scenario in radicale mutamento in cui Internet e le reti sociali hanno già assunto un ruolo determinante.
“Una festa al sapore di Expo”, così è stato ribattezzato quest’anno il Carnevale di Venezia che, come l’Esposizione universale (in programma a Milano dal mese di maggio), presterà particolare attenzione all’alimentazione. Sino al 17 febbraio la città di Venezia si trasformerà in un gigantesco spettacolo fatto di rappresentazioni teatrali, concerti, degustazioni, sfilate in costume, gare, feste e straordinarie esperienze sensoriali per ogni età. Sono allo stesso tempo spaventata ed emozionata, perché quest’anno, per la prima volta, anch’io trascorrerò alcuni giorni al carnevale più originale del mondo. Alcuni (e di questi molti non vi hanno mai preso parte) lo sconsigliano per l’elevatissimo numero di persone che affolleranno le strade; ma chi ha l’abitudine di recarsi a Venezia ogni anno, in occasione di questo grande evento, lo descrive come un’esperienza unica nel suo genere, che merita di essere vista e soprattutto vissuta. Così ho deciso di immergermi per qualche giorno in quello che sicuramente sarà un tripudio di colori straordinario.
Il Carnevale ha avuto inizio sabato con una festa sull’acqua, riproposta il giorno successivo, arricchita di degustazioni, musica e animazioni. Un mondo in parte galleggiante, in parte sospeso in volo, ha raccontato con successo i sapori, i colori e i profumi del tipico menù “made in Italy”. Il programma di quest’anno prevede, in primis, una ricorrenza che di certo non può mancare: il concorso della maschera più bella. Sarà proprio il pubblico a decretare i vincitori tra i numerosi partecipanti che si sfideranno a colpi di maschere mozzafiato e costumi sfarzosi. Altro evento tradizionale è la “Festa delle Marie”, un corteo di 12 fanciulle veneziane che si snoderà su più giorni e, solo alla fine, si proclamerà la Maria del Carnevale. Questa festa viene riproposta ogni anno per celebrare l’omaggio che il Doge, nel giorno della Purificazione di Maria, faceva a 12 ragazze di umili origini, benedendo le loro nozze, vestendole e ingioiellandole sontuosamente.
Il Carnevale profuma già di successo, grazie alle tante attività proposte e all’abilità degli organizzatori che hanno tenuto conto di tutte le esigenze. Quello di Venezia, un po’ come quello di Rio, è un carnevale destinato principalmente agli adulti. Negli elegantissimi palazzi della città si terranno alcune feste a tema riservate a pochi fortunati; ma non mancheranno laboratori ed eventi per i più piccini. Ne è un esempio “Presi per il naso”, uno dei quattro spettacoli che si terranno al Teatro Fondamenta Nuove, ispirato ad una fiaba dei fratelli Grimm, che parla di una cuoca golosa e pasticciona. La rappresentazione, fatta di drammaturgia gestuale e illustrazioni proiettate in scena, mira a far capire ai bambini l’importanza degli alimenti genuini. Sul palcoscenico infatti la cuoca-protagonista si metterà veramente ai fornelli creando un’esperienza sensoriale tutta da gustare. Anche quest’anno non mancherà inoltre l’antico “Volo dell’Angelo”, un evento straordinario in cui un’artista (quest’anno si esibirà la Maria del carnevale scorso), assicurata ad un cavo metallico, scenderà dalla cella campanaria, volteggiando nel vuoto sopra alla moltitudine di persone che da terra la osserveranno con stupore.
Uno spettacolo multidisciplinare che mi attira particolarmente è intitolato “Notti all’Arsenale”, e si terrà in più serate, presso i suggestivi cantieri navali. Si può considerare questo l’eventoper eccellenza che racchiude tutta l’anima del Carnevale. Ci saranno rappresentazioni teatrali, esibizioni delle maschere più belle, spettacoli di danza aerea, concerti dal vivo e, per finire, il cosiddetto “Arsenale Carnival Experience” con dj, musica e grande intrattenimento. Chi ha più di 18 anni può godere di tutte queste esibizioni mentre gusta le prelibatezze delle “Tentazioni dinner show”, cene a pagamento dove ciascuno riceverà una maschera all’ingresso e vedrà gli artisti esibirsi tra i tavoli. Gusto, olfatto, vista, udito, tatto… tutti i sensi potranno attivarsi contemporaneamente e trasformare una semplice serata in un’esperienza indimenticabile.
Ma il vero cuore di questo evento unico è il Gran Teatro di piazza San Marco dove ogni giorno, tra coreografie, sfilate e spettacoli di circo-teatro, viene messa in mostra tutta la fantasia e l’estro degli artisti. Ancora una volta, essendo il tema di questo Carnevale il cibo e la golosità, si potrà accompagnare l’esperienza ludica a quella eno-gastronomica presso i ristoranti allestiti nei palchi laterali del Gran Teatro.
Che dire ancora del Carnevale veneziano? Comunque vada è un modo alternativo e genuino per sfuggire temporaneamente alla realtà che oggi ci circonda. Per qualche giorno potremo immergerci in una realtà fantastica, appagare i sensi e dimenticare i problemi. Almeno per qualche istante potremo farci frastornare dai suoni, inebriare dai profumi e immergerci nei colori e nel trionfo della bellezza.
È sempre azzardato cercare di ricostruire il carattere di un popolo dalle parole che può o decide di parlare, ma si può fare un’eccezione per una parola d’eccezione: ‘serendipity’ spesso resa goffamente come “serendipità” una parola così poco comune da venire marcata come errore dal correttore ortografico del mio programma di scrittura proprio in questo momento.
Eppure ‘serendipity’ è una parola deliziosa della lingua inglese, coniata a Venezia nel 1754 dallo scrittore inglese Horace Walpole sulla base di una fiaba italiana intitolata “I tre principi di Serendip.” In questa fiaba c’erano tre eroi che facevano continue nuove belle scoperte, grazie al caso e alla sagacia, di cose di cui non andavano in cerca. Questa strana parola entrò e si diffuse in inglese come parola d’autore per designare la casualità di fare casualmente scoperte felici e inattese, insomma di trovare qualcosa di bello quando meno te lo saresti aspettato.
Gli esempi abbondano nella storia: la scoperta della penicillina, la scoperta dell’Lsd così come la scoperta dell’America (anche se quest’ultima fu purtroppo assai poca propizia per i “nativi” ma assai redditizia per i “conquistadores”).
Da questo punto di vista, il concetto di “serendipity” è utilizzato attualmente dai circoli d’avanguardia (come è stato discusso questa sera ad una tavola rotonda al berlinese Ici Berlin con Antke Engel, Jule Jakob Govrin e Christoph Holzhey) per indicare un’effettiva ma non programmata reazione ad una forma di neoliberalismo che dice di sé di essere l’unica alternativa possibile: ovvero l’unica via. Per cui il concetto di ‘serendipity’ individuerebbe delle risorse politiche (o se vogliamo, alla Foucault, risorse “biopolitiche”) al neoliberalismo, di fatto ricalcando le forme dello spontaneismo operaista alla Toni Negri, controverso autore che attualmente va di nuovo per la maggiore tra gli studiosi dalla memoria corta o dal folto pelo sullo stomaco.
Tra l’altro, qualcuno, trascinato da una biechissima misoginia, si spinse a descrivere la serendipity in termini quasi boccacceschi: “la serendipità è cercare un ago in un pagliaio e trovarci la figlia del contadino.” In effetti si tratta di una definizione di serendipity che, probabilmente non casualmente, ha spinto anche verso un rilancio del sessantottino concetto di “poliamore”: ovvero la rinuncia ad una monolitica e patriarcale monogamia e l’accettazione del fatto che ogni rapporto d’amore non può che essere aperto all’eventualità non solo della catastrofe ma anche della serendipity per cui anche senza cercare nulla si potrebbe finire per trovare un altro partner che non è necessariamente migliore bensì almeno buono quanto l’altro.
Non si può notare senza una certa malinconia che la parola “serendipity”, curiosamente nata dal desiderio di uno scrittore nel Settecento, si sia diffusa a macchia d’olio nel vocabolario anglosassone, mentre il suo omologo italiano ‘serendipità’ è rimasto poco più che una rarità. Da una breve consultazione di Google risulta che il termine inglese “serendipity” è enormemente più diffuso del suo spiantato cugino italiano “serendipità”, infatti “serendipity” giganteggia con 1.700.000 occorrenze mentre il mestissimo “serendipità” deve accontentarsi di misere 8.000 occorrenze.
C’è da chiedersi se questa disparità lessicale non sia, come probabilmente è, il riflesso della natura anglocentrica della rete bensì l’indice del carattere di un popolo, quello italiano, probabilmente già da tempo troppo avvilito per sperare in una scoperta felice e inaspettata.
“L’economia non è una scienza esatta”. Il Medioevo, il mercantilismo, il liberismo, il socialismo, il comunismo, la scuola austriaca, le teoria neoclassica, l’economia Keynesiana, hanno storicamente dimostrato che in economia a diversi fini e diversi scopi, corrispondono differenti leggi e dinamiche. L’Unione Europea e l’Eurozona sono frutto dell’incomprensione di questo “relativismo economico” e proprio l’incapacità di comprendere il carattere mutevole dell’economia ha portato al più grande disastro dal dopoguerra. Un’incomprensione che ha radici profonde storiche da analizzare. E’ necessario accantonare la tanto acclamata quanto ingenua idea secondo cui l’Unione Europea è derivata dal volere popolare e dal “senso comune europeo”, in realtà il progetto dell’Unione Europea è proprietà dell’elité finanziaria e industriale statunitense e nordeuropea che a metà degli anni quaranta pianificò il rafforzamento del capitalismo globale.
Anche di questo si è parlato lunedì alla sala Estense a “L’altra faccia della moneta”, incontro organizzato dal ‘Gruppo di cittadini per l’economia’, un’aggregazione informale e spontanea che da tre anni cerca di colmare quella pericolosa ‘asimmetria informativa’ tra chi sa tutto e chi invece poco o nulla conosce delle dinamiche macro economiche. Una parte fondamentale della conversazione civile è stata dedicata proprio all’analisi della natura e della funzione dell’economia.
Il punto cruciale focalizzato è che non esiste in economia qualcosa che corrisponda alla legge di gravitazione universale e ancor meno un concetto che abbia valenza universale nei diversi contesti storici e culturali. Per questo la riflessione dell’economista e le coerenti risoluzioni economiche diventano estremamente complesse: non esistendo principi economici universali l’economia, strettamente collegata all’azione della politica, si è sviluppata nel corso della storia attraverso azioni estremamente diverse tra loro. Con questa eloquente premessa ha avuto inizio la lunga serata – iniziata alle 20.30 e conclusa pochi minuti dopo la mezzanotte.
L’economia è dunque riconducibile al novero delle cosiddette “scienze sociali” e come tale è condizionata da variabili culturali, contestuali e orientata coerentemente al fine di volta in volta perseguito. Se ad esempio il liberismo ha teorizzato e applicato i principi di libero mercato, di massimo profitto e di possibilità di azione marginale da parte dello Stato, il comunismo ha concepito un’economia che prevede il soddisfacimento di tutti i bisogni fondamentali dell’uomo, ma che implica la cessione allo Stato di una parte della libertà dell’individuo; da questa convinzione viene l’abolizione della proprietà privata e l’eliminazione del principio di libero mercato.
Ma l’Unione Europea, e ancor di più l’Eurozona che ne è l’espressione puramente finanziaria, è – a prescindere – un progetto antistorico: come mettere insieme la Grecia e la Finlandia, l’Italia e la Germania? Paesi estremamente diversi e con specificità inconciliabili, quali la lingua, la cultura e, nel caso particolare che stiamo trattando, la politica economica. Basti pensare alla situazione esemplare dell’Italia fino al 1980 (l’anno del divorzio fra ministero del Tesoro e Banca d’Italia) in cui veniva applicata una politica monetaria espansiva e quando lo Stato aveva un diretto controllo sul proprio credito, e quindi sulla propria banca centrale. Pensate all’assurdità dell’idea di vincolare l’Italia alle regole della politica economica propria della Germania. E’ emblematico il fatto che in lingua tedesca la parola “debito” sia Schuld, termine che sta ad indicare anche la “colpa”; ciò mette in luce la radicata eredità luterana e protestante nella società tedesca. Capire questi presupposti ci fa comprendere che nulla in economia avviene per “disgrazia divina”, al pari delle piaghe d’Egitto.
La situazione in cui i Paesi europei, chi prima e chi dopo, stanno progressivamente sprofondando, è logica conseguenza dell’applicazione di politiche economiche di austerità, l’inserimento del pareggio di bilancio in costituzione, la cessione della sovranità monetaria. La scelta, non certo determinata da consultazioni popolari attraverso i mezzi democratici, ha arricchito i maggiori speculatori internazionali, i cosiddetti “squali” della finanza. La politica economica attuale, che continua ad essere proposta dalle forze di governo di quasi tutti gli stati aderenti all’Eurozona, ha privilegiato chi fondamentalmente non produce alcun bene e scommette su numeri in un computer (speculatori e colossi finanziari), danneggiando fatalmente il lavoratore. Solamente smascherando chi sostiene una politica di austerità e di privatizzazione e continua a sostenere che il fine ultimo delle sue politiche è il “bene comune”, solamente smascherando questi uomini e donne – fantocci nelle mani di potenti lobby – si diventa lucidi e capaci di impostare una politica economica e monetaria diversa.
Senza ipocrisie e senza mistificazioni è necessario ammettere che l’unica dottrina economica che garantisce il “bene comune” è quella che nel lavoro non riconosce una merce, bensì la vera ricchezza e il mezzo fondamentale attraverso cui distribuire la ricchezza. Per permettere che questo sia, dobbiamo considerare la moneta un semplice mezzo (fiat money) in grado di permettere lo scambio di lavoro. La moneta non è quindi la vera ricchezza, paragonabile ad una vera e propria merce (come i mercati, la Borsa come i ‘liberali’ vogliono far credere), tant’è che durante il cosiddetto “comunismo di guerra” nel periodo post-rivoluzionario russo la moneta era stata abolita.
La moneta finalmente sovrana deve essere emessa per monetizzare l’operosità di una comunità. Con l’euro l’Italia è stata punita perché troppo operosa: nel sistema dell’Eurozona ad ogni prestito che la Bce (istituto creditizio privato) concede ad una nazione corrisponde un tasso d’interesse arbitrario, che varia cioè a seconda del Paese richiedente. Se analizziamo il bilancio dello Stato italiano dal 1990 al 2011 (anno di insediamento del governo tecnico Monti) risulta evidente come il bilancio dello Stato sia in attivo (surplus primario, cioè senza considerare interessi attivi e passivi); comparando a questo dato l’ammontare del valore effettivo degli interessi sul debito si noterà come questo superi di misura il surplus primario del bilancio statale. Il “nostro” debito è quindi pressoché totalmente composto da interessi sul debito (attualmente in media circa 70-80 miliardi all’anno).
Siamo ora in grado di carpire il significato genuino e rivoluzionario della frase che il pensatore statunitense Ezra Pound pronunciò durante un ciclo di conferenza all’Università Bocconi di Milano nel 1933: “Dire che un governo non ha soldi per fare opere pubbliche è come dire che un ingegnere non ha abbastanza chilometri per progettare autostrade”: capendo questo principio capiamo la grande bugia della classe dirigente e la condanna a cui ci siamo sottoposti cedendo di fatto la sovranità monetaria ad un ente ‘estero e privato’ come la Banca centrale europea.
Una vecchia macchina da cucire se ne sta lì immobile, seria, quasi attenta e pensierosa, commossa dal solo ricordo di quella anziana nonna che, fino all’ultimo, le aveva accarezzato le membra stanche. Sembra pensare proprio a quella nonna che un tempo, da giovane, con lei aveva cucito anime spiegazzate e ricamato sogni che volevano rimanere impressi su bianchi vestiti da sposa. Merletti che avevano accompagnato all’altare tante belle ragazze, orli di pantaloni che avevano aiutato i loro sposi a sembrare più ordinati ed eleganti.
Dopo la seconda guerra mondiale si cuciva a mano, e lo si è fatto per molto tempo, si preparavano le giornate più importanti con fili, perline e ricami, si sopravviveva alle difficoltà economiche anche andando dalle sartine di fiducia. Che con abilità, pazienza, creatività e fantasia ti rendevano belle e molto più che presentabili, copiavano i modelli dei primi numeri di Vogue (fondato nel ben lontano 1892…) o delle pagine fresche e patinate che arrivavano dalla vicina Francia. Anche mia madre mi ha sempre raccontato di come si cercava la bellezza lontano, di come si pagavano a rate quei vestiti luccicanti per i balli della città, dove la gioventù ferrarese s’incontrava vociante e guardava speranzosa al futuro che si profilava. Mi piace ascoltarla.
Quelle macchine da cucire allora lavoravano a pieno ritmo, un ritmo che ticchettava e batteva veloce sulle note di giorni speranzosi e giovani volonterosi di risollevarsi. Le cuciture scorrevano e scivolavano su velluti, crine e cotoni colorati, i filati intessevano storie nuove. Se anche ci si pungeva un attimo, poco importava, si stava costruendo un pezzo d’Italia, si preparava una bella gioventù a presentarsi al mondo splendente e coraggiosa, con la voglia di sposarsi, di fare figli, di lavorare, di migliorare, di crescere, di vedere il mondo. Con quei bei vestiti cuciti a mano, con quegli allegri manichini che sorridevano dalle vetrine colorate ma semplici si guardava lontano. C’era la speranza. E mentre tutto questo avveniva per le strade e nelle menti di ogni italiano, le sartine cucivano, cucivano, inventavano, disegnavano, tagliavano. Solo con le loro mani screpolate, le loro forbici taglienti, le loro idee lungimiranti. E tutto nasceva, una nuova alba vedeva il giorno.
Oggi rimane solo qualche vecchia macchina da cucire, messa lì come un cimelio, ma per qualcuno è ancora un ricordo non troppo lontano.
Perché anche gli oggetti hanno una storia e un’anima. Perché questi oggetti stanno lì per ricordarci quel che eravamo, quello che siamo stati, un paese che si è risollevato ma che fatica ad andare avanti, ora. Perché ci vorrebbero ancora, forse, tante macchine da cucire e tante sartine, a ricucire un bel pezzo di passato che non c’è più.
Fotografia della macchina da cucire di Anna Pirazzi
Dopo “La solitudine dei numeri primi”, Saverio Costanzo propone un nuovo film incentrato sulla famiglia, e sulle difficoltà e i drammi che possono nascere al suo interno: “Hungry Hearts”, tratto dall’ottimo romanzo di Marco Franzoso. Una storia sull’amore tra due giovani, lei italiana e lui americano, ambientata in un abbastanza inedito Upper west side di New York, e in un minuscolo appartamento metropolitano sul cui tetto la protagonista coltiva biologico in una piccola serra.
L’incontro-prologo dei due, in un ristorante cinese dove rimangono chiusi in un bagno appena usato dal giovane per evacuare con grande effluvio odoroso cibo tossico, rimanda a una accentuata e forse parossistica fisicità, al cibo come ancestrale simbologia e sintesi della vita stessa. Da questo incontro un grande amore, seguito da una gravidanza e da una nascita; un ciclo naturale, su cui si innesca la particolare sensibilità di una straniata Alba Rhorwacher, che rinchiude il figlio all’interno della casa, sottraendolo al contatto col fuori; indottrinata da tante letture new age, vegane ed esoteriche, alimenta il figlio coi pochi cibi, solo vegetali, che ritiene non ledano la purezza sua e del figlio.
Uno scontro anche tra la socialità, rappresentata dai medici, dalla strada, dalla suocera, e la privatezza del nucleo familiare. Da qui un crescendo di scontri, che per ovvi motivi non anticipiamo.
Anticipiamo però che si tratta di un gran bel film, molto ben interpretato da una inquietante Alba Rhorwacher, che inevitabilmente ci rimanda alla Mia Farrow di Rosemary’s Baby, e del nuovo attore emergente Adam Drivers, entrambi premiati al Festival di Venezia.
Il film provoca forti reazioni: la ostinazione della madre nel difendere il suo personalissimo e disperatamente difeso diritto a seguire le sue convinzioni, “una madre sa cosa serve a suo figlio”, ci rimanda certamente a una visione di un irrazionale femminile che spaventa e inquieta. Alcune riprese con l’ottica fisheys deformano la figura già esile e androgena della protagonista fino a farne una icona quasi mostruosa; la macchina da presa insegue i dialoghi e i visi, in momenti in cui la violenza sembra esplodere.
Il crescendo di manipolazioni reciproche tra i due genitori inquieta; ci sentiamo sospinti verso l’orrore dell’inaccettabile e del mostruoso; la mamma possessiva che decide da sola, contro ogni evidenza medica e scientifica, come alimentare e depurare il figlio, o la suocera manipolatoria e rinchiusa in una specie di padiglione da caccia con corna di cervo e trofei, danno della figura femminile una immagine inquietante e angosciosa. Eppure la regia non condanna, non prende posizione, ma indugia anzi, a nostro parere, verso una umana simpatia e comprensione per il particolare percorso della madre; come afferma lo stesso Costanzo “è la storia estrema di una ossessione d’amore che una madre non riesce a gestire l’amore per il figlio, che non riesce a contenere il miracolo della sua maternità”.
Cerchiamolo nelle sale, premiamo un film italiano coraggioso e di stampo internazionale.
Hungry Hearts, di Saverio Costanzo, con Con Adam Driver, Alba Rohrwacher, Roberta Maxwell, Al Roffe, Geisha Otero, drammatico, vietato ai mionori di 16 anni, durata 109 min., Italia, 2014
Topolino e Paperino assieme a topi, paperi e cani sorridenti, emblemi di diverse etnie, con una matita bene in vista. L’annunciata copertina di solidarietà con la rivista Charlie Hebdo ieri non è arrivata in edicola. Topolino ha scelto diversamente per la sua prima pagina: un classico Pippo in versione reporter. Quella apparsa in anteprima sulle pagine Facebook del celebre settimanale di fumetti “era solo un’ipotesi”, spiega l’editore Panini. Al prode topo detective questa volta ha fatto difetto il proverbiale coraggio… [leggi la notizia su Repubblica]
Il mercoledì era il giorno degli eroi. Quello in cui non vedevi l’ora che il babbo tornasse dall’edicola, con il tuo fumetto preferito. E nel fumetto tutto aveva una sua logica, una sua placida e serena rassicurazione nel sapere che ogni avventura finiva bene. Che Qui, Quo e Qua sarebbero sempre stati i nipoti di Zio Paperino, fermi all’età in cui tutto va bene, in cui credi ancora che i problemi possano risolversi in qualche modo.
Che Superpippo sarebbe accorso in aiuto del malcapitato di turno, volando attraverso il mondo grazie alle supernoccioline. Che Topolino avrebbe acciuffato il solito Gambadilegno, maldestro e simpatico farabutto, mentre i poliziotti brancolavano nel buio. Lì gli eroi erano un po’ tutti i personaggi, e di questo avevi bisogno. Che ci fossero, e che ti dimostrassero che avevano un senso nelle loro due dimensioni di carta; animali antropomorfi che si esprimono nella tua lingua, intercalando con buffe onomatopee; con occhi che grondano lacrime grosse come laghi e occhi a cuore, epocali arrabbiature e dispetti familiari.
E l’eroe in copertina era la panacea di quello che si voleva fare da grande: il simbolo della disavventura che capitava a chiunque, che ti consolava dopo il disastro che avevi combinato. Era qualcosa in cui poter sperare, una volta alzate le coperte del letto e ripensando a quella giornata così così che era appena trascorsa, densa e impregnata di aspettative dolci come la tua immaginazione e delusa da piccole inceppature che sembrano pesanti come sassi. Se hai la fortuna di diventare grande, capisci che gli eroi sono un’altra cosa. Non hanno i superpoteri, ma utilizzano al contrario quello che Hannah Arendt raccontava nella “Banalità del male”: non c’è sempre bisogno di essere criminali di natura per fare del male, basta la banalità; allo stesso modo non c’è sempre bisogno di essere eroi per fare del bene, a volte bastano la volontà e la passione; basta mostrare, pungolare la curiosità; basta lanciare un dado sulla plancia della giornata di un ragazzino, basta mostrare una matita e un sorriso.
Quel mercoledì si assopisce dolcemente, quando diventi grande. Lo metti nell’album dei ricordi. E quando quel mercoledì di Topolino inevitabilmente ha lasciato il posto ad altri giorni e ad altre pagine – perché scopri altro, leggi altro, te ne allontani serenamente. Con la rassicurante certezza che, mentre il tuo mondo cambia, quello resterà sempre lo stesso. E che ogni volta che passerai davanti a una edicola e la vedrai ancora una volta, quella copertina così ambita ogni mercoledì, vedrai un eroe di tutti i giorni in copertina, qualcosa in cui riconoscerti ancora una volta, ancora adesso che di anni ne hai venti, quaranta, sessanta.
Pippo reporter con la macchina fotografica, in copertina di uno dei giornalini più letti, è qualcosa in cui identificarsi, ancora di più se quello è un mestiere che ami, o stimi. Ma Pippo reporter al posto di una folla con una matita alzata – chiamiamola ancora matita, non già simbolo – , giustificata come scelta editoriale, come “ipotesi scartata”, è il voto bello da esibire nel compito interamente copiato dal compagno di banco, il secchione antipatico.
E ti chiedi quante altre cose ti sei perso negli anni in cui lo hai letto, quel fumetto; e quanti altri rassicuranti Pluto e Commissario Basettoni hai visto, che allora ti sembravano (e forse erano) tutto quello di cui avevi bisogno, nell’età dell’innocenza che nessuno merita, nella sua abbagliante cecità. Quel Pluto e quel Commissario Basettoni, un po’ troppo simili a quando in classe conosci la risposta alla domanda della maestra e te ne stai zitto, seduto al banco, con le braccia conserte. Per timore di fare la degradante figura del secchione.
Il mercoledì di “Topolino” probabilmente non esiste più, o forse è solo finita l’infanzia. Felice il Paese che non ha bisogno di eroi.
Zoldo, dolomiti bellunesi, interno bar. Un uomo già un po’ avanti con gli anni, vicino al camino acceso e con in mano un calice di buon rosso, dice che hanno eletto il nuovo presidente e che si chiama Mozzarella. Per la precisione, il suo dire è intercalato da evocazioni di nostrosignore ritmicamente accostato ad un quadrupede noto, peraltro, per l’incrollabile e scodinzolante fedeltà all’uomo.
Può darsi che il frutto della vite abbia avuto la sua influenza sull’eloquio dell’anziano signore, in ogni caso non di molle latticino si è trattato ma di Mattarella, Sergio Mattarella. La sua elezione al Colle è stata preceduta da settimane di convulse previsioni sui numerosi e possibili papabili.
Nell’inflazione delle analisi, quella del vecchio socialista Rino Formica è sembrato un ruvido presagio. Evocando il Patto del Nazareno, il capo dello Stato avrebbe dovuto avere le sembianze di chi si sarebbe messo in posizione accomodante rispetto alle convenienze dei due contraenti: da un lato interessi aziendali e agibilità politica, dall’altro non intralciare il manovratore di Palazzo Chigi nel suo processo riformatore a passo di bersagliere.
Se questo era l’identikit, bisogna riconoscere che il volto, e la storia, di Sergio Mattarella uscito dal cilindro della politica italiana non corrisponde.
C’è da credere, quindi, che ci sia del malumore tra le file di Forza Italia rispetto a un uomo dalla schiena dritta che, caso unico nella storia della Dc, si dimise da ministro nel luglio 1990 quando il suo presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, pose la fiducia sulla legge Mammì per la regolamentazione del mercato televisivo, sancendo di fatto la posizione di Berlusconi e delle sue tv.
Il motivo di quel rifiuto è stato riportato da tutti i commentatori con tanto di virgolette: “La fiducia per violare una direttiva comunitaria è inaccettabile”.
Pare che Ciriaco De Mita abbia detto di lui, riferito alla flemma, che in confronto Arnaldo Forlani era un movimentista, però uno che dà l’idea che la sera prima di addormentarsi invece di contare le pecore scorra minuziosamente gli articoli della Costituzione, qualche preoccupazione può darla.
Quanto poi di quei mugugni azzurri siano teatro o vera ruggine, da lontano si fa fatica a capire. Come sia possibile che il mago di Arcore, per un ventennio vincitore incontrastato in ogni mano di poker, sia uscito malconcio da questa partita con il giovane premier, per quanto astuto e talentuoso, lascia qualche dubbio.
Come non convince la lettura di un nome che ha avuto lo scopo, innanzitutto, di ricompattare un Pd ultimamente percorso da troppi mal di pancia. Usare persino la prima carica dello Stato per un fine così di parte, sembrerebbe un orizzonte troppo affetto da presbiopia.
A prima vista dà invece meno problemi di lettura la posizione delle truppe grilline, ancora una volta come la temperatura di Stoccolma ai tempi del colonnello Bernacca: non pervenuta.
Il problema, qui, non è tanto l’ennesimo autobus perso, ma per quanto tempo ancora quel venti per cento di elettorato di riferimento continuerà a cercarne un altro o se deciderà, prima o poi, un diverso mezzo di trasporto, magari cingolato. Molto dipende da chi si deciderà a prosciugare, almeno in parte, l’acqua del malcontento e del rancore rovesciata sul pavimento, scivoloso, del Paese.
Altra storia ancora è il testacoda dell’Ncd, forza di governo che però gioca la partita Quirinale con Forza Italia per poi convergere all’ultimo su Mattarella.
Può darsi che qualcuno abbia perso qualche passaggio di questo travaglio, ma forse non vale nemmeno la pena scervellarsi per le strategie di un partito che dà l’idea di andare dritto verso l’implosione.
Comunque sia, Sergio Mattarella è il dodicesimo presidente della Repubblica (eletto con una maggioranza che ha sfiorato i due terzi degli elettori, nonostante la quarta votazione nella quale bastava quella semplice) e i primi gesti hanno già lasciato il segno.
Una prima, breve, dichiarazione ai microfoni per ricordare le sofferenze e le speranze degli italiani. E’ parsa una citazione della Gaudium et Spes, il documento del Concilio Vaticano II sul mondo contemporaneo. Ma soprattutto pochissime parole, in una politica italiana insopportabilmente ciarliera.
Poi ha preso la sua Fiat Panda per andare a rendere omaggio alle vittime delle Fosse Ardeatine. Come dire: qui sono le radici della Costituzione.
In quell’utilitaria, così senza corteo e pompa istituzionale, c’è già chi ha visto una probabile dieta Bergoglio, per un Quirinale che nel libro “La Casta” del duo Rizzo-Stella quanto a costi starebbe sopra a Bukingham Palace. Infine il suo discorso d’insediamento a Montecitorio, prima del giuramento, nel quale se il nuovo capo dello Stato si riconosce nella figura di arbitro imparziale, aggiunge subito dopo che “i giocatori lo aiutino con la loro correttezza”.
Nuova sortita del vescovo di Ferrara, monsignor Luigi Negri, contro la legge sull’aborto e contro la legge che vuole contrastare l’omofobia. I toni sono quelli che lo contraddistinguono: integralismo, intolleranza, mancanza di rispetto per la verità dei fatti. Ma non è su questo che vorrei insistere. Mi soffermo rapidamente sulle reazioni pubbliche. Colgo l’occasione per ricordare un ottimo documento dell’Udi (4 agosto 2014) che in modo pacato e argomentato rispondeva al Vescovo presentando i buoni risultati ottenuti con la legge 194. E denunciava un primato negativo: l’Italia è tra i Paesi più arretrati in tema di educazione sessuale. Nei giorni scorsi, un’altra risposta ferma e laica è venuta dai Giovani democratici ferraresi e dal consigliere comunale di Sel, Leonardo Fiorentini. E i cattolici? Silenzio o parlano d’altro. Per esempio, l’amico economista Andrea Gandini che, nelle parole del vescovo (“…la legge sull’aborto non ha consentito di venire al mondo ad oltre sei milioni di italiani e la scarsità di figli ha fatto sprofondare in questa crisi economica…”) “…individua uno spunto per portare il dibattito fuori del terreno della pura polemica e dello scontro ideologico…”. Scontro ideologico? Ma stiamo scherzando? E’ un confronto fra un visione oscurantista e una concezione coerente con lo spirito di una società moderna e laica. E aggiunge Gandini: “Non entro nel merito della discussione di tipo etico e religioso”. E perché no? Oppure, colpisce un’altra dichiarazione irenica, quella del segretario della Cisl, Paolo Baiamonte: “Il Vescovo usa toni forti e accesi…. Ma è indubbio che scuotono una piazza come quella di Ferrara che è un po’ sonnolenta…”. Bene. Ma nel merito delle continue sortite del vescovo cosa ne pensa il signor Baiamonte? Concludo. Discorrendo in privato con cattolici e sacerdoti raccolgo molte critiche nei confronti della linea retriva e intollerante inaugurata da monsignor Negri, ma pubblicamente registro reticenze e silenzi… Non funziona così lo spazio pubblico di una democrazia adulta.
Fiorenzo Baratelli è Direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara
Anche se non può essere paragonata al richiamo dell’EXPO di Milano di prossima inaugurazione, proprio cinquant’anni fa pure Ferrara balzò alla notorietà internazionale con EUROFRUT ’65, seconda edizione della biennale frutticola (anche se la prima nel ’63 fu in tono minore), e rese la città, per tutte le volte che la manifestazione fu replicata, capitale europea delle mele e delle pere.
Queste colture erano riuscite ad avere un ruolo centrale nell’agricoltura e nell’economia locale, con un forte incremento proprio nei decenni del secondo dopoguerra.
Dai dati statistici del 1970, nella provincia di Ferrara, le dimensioni di questo comparto frutticolo erano veramente notevoli: quasi 14.000 erano le aziende che coltivavano mele e pere su una superficie di 40.000 ettari (nell’ultimo censimento del 2010 erano circa 3.000 per 12.000 ettari).
Pero e melo avevano bisogno mediamente di 500 ore di manodopera per ettaro, di cui circa la metà solo per la raccolta, impiegando stabilmente quella aziendale ma pure tanta avventizia (a quell’epoca rigorosamente locale, con una grande componente studentesca).
Anche l’indotto aveva grandi dimensioni, basti pensare che il locale Consorzio Agrario Provinciale (CAP), fornitore di servizi e mezzi tecnici, aveva 80 filiali, più numerose rispetto al numero dei campanili presenti sul territorio. Il CAP inoltre gestiva una propria banca, la Banca Credito Agrario che, quando venne assorbita dalla Cassa di Risparmio di Ferrara nel 1994, contava 33 sportelli.
La collocazione della frutta sui mercati era assicurata da strutture commerciali in parte cooperative (molte promosse dall’Ente Delta Padano) ma soprattutto private, che potevano contare pure sull’attività di numerosi mediatori, personaggi che avevano il compito di interfacciare la domanda e l’offerta, molto frammentate in particolare la seconda.
Questi operatori erano soliti aspettare i frutticoltori in piazza a Ferrara al lunedì mattina e le contrattazioni avvenivano all’aperto o seduti ai tavolini dei caffè del centro. In tempi più recenti tale attività era passata nei saloni d’ingresso, e attorno al bar, del Centro Operativo Ortofrutticolo di via Bologna. Anche se l’affluenza degli agricoltori era molto alta, era sempre un’occasione per conoscere le dinamiche delle produzioni e dei prezzi, non sembra che beneficiarne fossero i gestori dei bar o delle trattorie del centro, in quanto le consumazioni erano molto ridotte, se non proprio evitate.
Forse a beneficiare maggiormente di questo afflusso del lunedì dalla provincia al centro cittadino potevano essere le attività che si svolgevano attorno a via delle Volte, oppure attorno a via Concia (non era stata sufficiente nel lontano 1908 il cambio del nome da via Sconcia, su richiesta dei residenti per scongiurarne la cattiva fama) e via della Quaglia, vie che non erano proprio assimilabili alla zona del De Walletjes ad Amsterdam in Olanda ma in qualche modo la evocavano.
In quegli anni era da poco in atto la Legge Merlin del 1958, che stabiliva la chiusura delle case di tolleranza, ma in queste zone della città, qualche indirizzo più o meno clandestino era rimasto.
Per la maggioranza dei nostri frequentatori l’intento non era quello di “concludere”, ma di percorrere avanti e indietro queste vie e respirare quel clima così “trasgressivo”, difficilmente ripetibile nei paesi di provenienza, tanto che per molti, che facevano il giro in via delle Volte, il pomeriggio si concludeva poi nel vicino cinema Diana di San Romano dove rigorosamente c’era una doppia programmazione. Ancora oggi nei modi di dire ferraresi è rimasto un “ma và a la quaja!” per mandare al diavolo qualcuno.
Era in autunno, alla vigilia delle raccolte, che l’attività dei mediatori diventava più frenetica, oltre che aspettare gli agricoltori in piazza, si aggiravano pure nelle campagne in cerca di frutta e di clienti a bordo di macchine di grossa cilindrata, di regola di fabbricazione tedesca.
Conoscevano le evoluzioni del mercato della frutta, e se si chiedeva loro come stessero andando gli affari, facevano una smorfia, agitavano la mano per indicare all’incirca e rispondevano con un laconico “set darset”, range molto ampio, che diceva tutto e niente.
Le varietà più coltivate per le mele erano: “Delicious rosse”, “Imperatore”, “Abbondanza” e “Golden Delicious”.
Mentre per le pere le varietà più importanti erano la “William” (di cui si sfruttava pure l’attitudine ad essere trasformata industrialmente) e la “Passa Crassana” seguite poi dalla “Kaiser”, dall'”Abate Fetel” e dal “dr Guyot”.
Ma proprio negli anni ’70 iniziò un lento e costante declino, in quanto aumentarono le zone di produzione frutticola sia in Italia che all’estero.
Le mele coltivate a Ferrara, generose dal punto di vista produttivo, mostravano grossi problemi di qualità e di conservazione rispetto a quelle prodotte nelle nuove realtà.
A livello nazionale, le mele coltivate in collina e in montagna sono riuscite a realizzare standard qualitativi superiori rispetto a quelle presenti in pianura: la cura dell’immagine e della promozione ha garantito loro una superiorità commerciale che è continuata fino ai giorni nostri.
Diverso il discorso per le pere, dove nel tempo è sparita la “Passa Crassana” ma si è consolidata l’”Abate Fetel”, che ha dimostrato caratteristiche di qualità migliori in pianura.
Questa varietà è in pratica coltivata solo fra Ferrara (con la superficie maggiore), Modena, Bologna e Ravenna, dal 1998 può fregiarsi del riconoscimento europeo di IGP (identificazione geografica protetta) ed è diventata un pregiato biglietto da visita dell’agricoltura regionale nel mondo. Chissà che non possa riportarci agli antichi fasti di Eurofrut. Anche per questo si guarda con interesse a Futurpera, la fiera della pericoltura che si terrà nella Fiera di Ferrara dal 19 al 21 novembre 2015.
* agronomo ferrarese e studioso di agricoltura e tradizioni locali
PARIGI – Sfidando bronchiti, altolà minacciosi dei medici, m’ingozzo di antibiotici e parto. Nuvole e sole, pioggia e neve s’alternano repentini e mentre ti ripari sotto un ombrello al Pont Neuf, nei giardini del Vert-Gallant, vedi in lontananza la Tour Eiffel illuminata dal sole. Il cuore si conforta riscaldato dalla bellezza ma trema e s’intristisce allorché ti rechi al quartiere ebraico a vedere la nuova, favolosa, sistemazione del Musée Picasso e sei accolto da ragazzi col mitra che gentilmente ti spiegano che devi lasciare il taxi e percorrere la strada a piedi. Così dopo le rituali quasi due ore di coda sei accolto da altri gentili soldati che ti fanno aprire borse e zaini circondati da bimbetti curiosissimi che con la loro matite s’apprestano a rifare Picasso. Anche tra le folle disumane al Musée du Luxembourg discrete presenze osservano caute perché hai la bocca aperta e non ti stacchi dal quadro di Monet titolato “La Poste des douaniers” (La casa dei doganieri).
Per forza! Se nel frattempo mentalmente ti ripeti: “Tu non ricordi la casa dei doganieri,/ sul rialzo a strapiombo sulla scogliera / desolata t’attende dalla sera/in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri/ e vi sostò irrequieto.” I meravigliosi versi del Montale fanno riflettere sulla convergenza tra pittura e poesia e sulla presenza contemporanea di bellezza e verità offerti dai disguidi del possibile. E sulla verità che l’arte, comunque essa si esprima: poesia, musica, pittura scultura, fa risplendere e pulire la mente e il cuore dalle scorie del quotidiano e delle sue inevitabili piccolezze. Anzi, li eleva a modelli.
Eccomi pronto a parlare di Bassani: a raccontare e ascoltare Ferrara presentata ai giovani che affollano la grande aula della Maison de Recherche de Paris Sorbonne, in occasione della giornata di studi intitolata “Giorgio Bassani. Testi e intertesti per il romanzo di Ferrara”. L’impeccabile organizzazione curata da Davide Luglio e dalla mia cara amica, studiosa first class di Bassani, Anna Dolfi, permette d’instaurare un clima di attenta compartecipazione e di entrare senza apparente sforzo – che è la vera arma segreta degli studi quando si compiono avendo chiarito prima a se stessi poi agli altri il senso della ricerca – nel mondo di Bassani, in quella Ferrara che ritorna sempre e senza altri rivali come mito e come presente, come la città che ti ha formato e come modello per il futuro giocato su un presente che accetta e rifiuta, secondo un’imprescindibile imperativo etico, ciò che solo la scrittura e quella scrittura può esprimere. Bassani e una città ovvero LA CITTA’.
Cadono i pregiudizi e le allusioni ironiche su “Ferara” e questa città s’accampa nell’immaginario letterario con la stessa necessità che ha avuto Parigi per Zola o Balzac. La cronaca che affiora nelle relazioni, tutte di altissimo livello, lentamente con tenacia e pazienza, diventa storia e sbozzola la F. puntata degli scritti giovanili fino ad accamparsi, nel titolo, come “il” romanzo di Ferrara”.
Ad ascoltare questo percorso, a testimoniarlo con la loro presenza, la figlia di Bassani, Paola, accompagnata a sua volta dalla figlia Camille; David Liscia, figlio di Jenny Bassani sorella dello scrittore, con la moglie Igina e con la figlia Jael e marito e col figlio Gadiel, giovane medico, ora a Parigi. E, naturalmente, Portia Prebys che ci ha commossi per il dono generoso alla città di Ferrara confluito nel Centro studi bassaniani di cui ci ha illustrato le finalità e lo scopo sorretto da un atto d’amore non solo per il compagno ma per la città stessa.
Uscire in questo modo da “dentro le mura”, confrontarsi e partecipare ai giovani italianisti di Parigi la parola bassaniana è stato un conforto per l’intelligenza e per il cuore. Un momento di speranza. E mentre sullo schermo mostravo l’ultima diapositiva con la tomba di Giorgio Bassani nell’ “orto degli ebrei” ferraresi qualcuno mi allunga un biglietto: avevamo il nuovo Presidente della Repubblica Italiana. Così gli applausi per la Ferrara bassaniana aumentano e si mescolano con quelli che annunciano la ritrovata fiducia in un paese che forse sta imboccando la strada giusta. Come si è conclusa la festa per e di Bassani? Con una cena nell’ospitale casa di Anna Dolfi fra amici che si erano raccolti con lo stesso spirito con cui ci si può incontrare per gustare vini finissimi che accompagnano e rendono più vivace il lusso della mente.
Nel nome di Ferrara e del suo scrittore.
Dal 29 gennaio Ferrara non è più solo la città degli eventi, ma la città degli eventi sostenibili: nella sala del consiglio comunale il sindaco Tiziano Tagliani e il vicesindaco e assessore alla cultura e al turismo Massimo Maisto hanno ricevuto ufficialmente la certificazione Iso 20121 per la gestione sostenibile degli eventi.
Questa certificazione rappresenta una tappa importante all’interno di un percorso che da anni vede l’amministrazione impegnata per consolidare e promuovere l’identità di Ferrara come città degli eventi e dei festival, con la cifra distintiva di una relazione con il patrimonio culturale e paesaggistico che ha come scopo una valorizzazione reciproca. Anche per questo non è trascurabile che Ferrara sia “il primo comune in Italia a ricevere questa certificazione”, come ha sottolineato Giovanni Marmini di Tuv Touring Italia, l’ente di certificazione indipendente che ha rilasciato la qualifica. D’altra parte questo percorso non avrebbe potuto essere intrapreso senza la partecipazione e l’impegno degli organizzatori delle manifestazioni stesse: Ferrara sotto le Stelle nel 2010 è stato il primo evento a mappare e realizzare dei percorsi di accessibilità, pubblicati sul sito della manifestazione e di riduzione delle barriere architettoniche, nello stesso anno Internazionale a Ferrara ha iniziato la collaborazione con Last minute market, mentre dal 2014 è certificato Iso 20121, e ancora il Ferrara Buskers Festival nel 2012 è stato il primo evento a fregiarsi del titolo di Eco Festival e nel 2013 è stato il primo evento certificato Iso 20121. Da giovedì non sarà più una questione di volontà e lungimiranza: ogni organizzatore di manifestazioni patrocinate dall’Assessorato alla cultura e coordinate dall’unità organizzativa Manifestazioni culturali e turismo dovrà sottoscrivere la politica di gestione sostenibile degli eventi dell’amministrazione e rispettare quindi un set di requisiti che garantiscono un livello minimo di sostenibilità ambientale, sociale ed economica. Il valore aggiunto di queste certificazioni, se correttamente interpretate e adottate, sta nell’implementazione di un vero e proprio sistema di organizzazione degli eventi standardizzato, che comprende tutte le fasi dalla pianificazione al monitoraggio degli obiettivi prefissati e dei risultati raggiunti. La Iso 20121, infatti, è una norma internazionale che definisce i requisiti di un sistema di gestione degli eventi focalizzato sulla loro sostenibilità e dunque mirante a ridurre al minimo il loro impatto sull’ambiente e la comunità nei quali si inseriscono. La sua realizzazione prevede tre fasi: progettazione, attraverso la definizione di una politica e un impegno per lo sviluppo sostenibile, l’individuazione degli stakeholder e la definizione di indicatori chiave di performance; implementazione delle procedure operative chiave con la definizione delle risorse e la formazione del personale attraverso un piano di comunicazione ben definito; riesame della performance in linea con i requisiti degli standard e gli obiettivi pianificati e monitoraggio e correzione di procedure da riorganizzare.
Detto tutto ciò, viene da chiedersi quale sia la consapevolezza riguardo questi temi dei cosiddetti stakeholder, i cosiddetti “portatori di interessi”, che parlando di un’amministrazione comunale sono sì le realtà culturali ed economiche, ma sono soprattutto i cittadini. Qui sta l’unica pecca che, a mio parere, si può rintracciare in tutta l’operazione. Non si è puntato abbastanza sulla comunicazione dei vantaggi che questo percorso può portare per i cittadini: taglio dei costi grazie a una migliore gestione dell’energia e dei rifiuti, oppure maggiore efficienza e maggiore autonomia economica, solo per citare due delle critiche che puntualmente emergono all’indomani di manifestazioni di questo tipo. Oltre a essere un punto fondamentale dell’analisi del contesto da cui partire per costruire manifestazioni culturali e turistiche veramente sostenibili, questo tipo di coinvolgimento è imprescindibile per andare oltre la procedura burocratica e raggiungere l’obiettivo dell’amministrazione comunale di “promuovere la cultura della sostenibilità tra i portatori di interesse coinvolti ed i cittadini”, ma soprattutto sarebbe un modo per tutelare e valorizzare progetti e iniziative validi da critiche spesso non ben argomentate. Ma, come ha affermato l’assessore Maisto, “questo certificato non è una medaglia, è un impegno per continuare a migliorarci”; la strada fatta fin qui dimostra che la volontà c’è tutta. Dunque: buon lavoro.
Ferraraitalia ha pubblicato di recente un altro articolo sul tema degli eco-eventi [vedi]
È stato dedicato alla “fantastica-mente” di Gianni Rodari il terzo incontro del ciclo “Viaggio nella comunità dei saperi. Istruzione e Democrazia”, tenuto da Daniela Cappagli e Roberto Cassoli. “Un poeta per bambini e per adulti”, lo ha definito Cassoli, nato il 23 ottobre 1920 a Omegna sul Lago d’Orta e morto il 14 aprile del 1980 senza aver compiuto 60 anni: “Rodari è morto e il mondo si è impoverito” commenterà Calvino. Il collega giornalista Tullio De Mauro lo ha descritto come uno “scompaginatore sapiente e irriverente del monolinguismo letterario” dell’Italia.
Figlio di un fornaio anticlericale, che “chiuse gli occhi per non vedermi vestito da balilla”, ricorda Rodari aggiungendo “L’ultima immagine che conservo di mio padre è quella di un uomo che tenta invano di scaldarsi la schiena contro il suo forno. E’ fradicio e trema. È uscito sotto il temporale per aiutare un gattino rimasto isolato tra le pozzanghere. Morirà dopo sette giorni, di bronco-polmonite”. Si diploma maestro nel 1937 e nel 1944 si iscrive al Pci, diventa giornalista di Ordine Nuovo e poi de L’Unità: i colleghi di Milano lo vedono mentre scrive filastrocche e poesie sui muri della redazione. È a questo periodo che risale il personaggio di Cipollino, balenato nella sua fantasia mentre gira fra i banchi per controllare i prezzi di frutta e verdura per il giornale. Nel 1970 riceve il Premio Andersen, il massimo riconoscimento per la letteratura per l’infanzia.
Durante tutta la sua carriera di scrittore per l’infanzia costante è stata la sua attenzione per il mondo della scuola, come dimostra anche la sua collaborazione con il Movimento di cooperazione educativa per una ricerca pedagogica che si concentrasse non sul programma didattico ma sulla persona che deve crescere e formarsi. Secondo Daniela Cappagli la visione di Rodari del “rapporto fra istruzione e democrazia” può essere rintracciata, oltre che nel celeberrimo “Grammatica della fantasia” (Einaudi 1973), negli scritti teorici inediti raccolti in “Scuola di fantasia” (Einaudi 2014). Rodari pensa a una scuola che incoraggia la “curiosità della scoperta” come unico modo per apprendere, in cui l’insegnamento non è fatto di trasmissione di nozioni ma di sperimentazione attiva. Una scuola non autoritaria dove i ragazzi sono autorizzati “a guardar fuori dalla finestra per scoprire il mondo e incantarsi davanti allo spettacolo della vita”. Una scuola senza voti perché non ci può essere un sistema standardizzato se ciascuno ha tempi e modi di apprendimento diversi e perché i cosiddetti obiettivi non devono essere “l’elenco di quello che vogliamo dai bambini, ma di quello che dobbiamo fare noi per essere utili a loro”. In un mondo come il nostro “dove si respira aria che addormenta”, continua Cappagli citando Rodari, “la scuola non deve insegnare la lingua del sì per dire sì, ma la lingua della ricerca, della comunicazione sociale”, in altre parole “la lingua della creatività e della fantasia”. Curiosità, creatività, fantasia e soprattutto passione sono le parole d’ordine: “dovete vedere i vostri figli appassionati a ciò che fanno”, afferma Rodari rivolgendosi ai genitori. Sì perché la sua utopia era una società educante, dove tutti, insegnanti, genitori, famigliari, biblioteche e addirittura la tv, assolvessero il proprio compito di tirar su la generazione che sarebbe venuta dopo di loro.
“Bisogna rovesciare la scuola come una calza vecchia”: queste parole suonano rivoluzionarie ancora oggi, in un’Italia in cui il mondo della scuola è fatto di precariato, di edifici poco sicuri e di fondi spesso non sufficienti nemmeno per comprare il materiale didattico. Eccola qui l’utopia rivoluzionaria concepita dalla fantastica mente di Gianni Rodari: “Una scuola grande come il mondo”.
C’è una scuola grande come il mondo.
Ci insegnano maestri e professori,
avvocati, muratori,
televisori, giornali,
cartelli stradali,
il sole, i temporali, le stelle.
Ci sono lezioni facili
e lezioni difficili,
brutte, belle e così così…
Si impara a parlare, a giocare,
a dormire, a svegliarsi,
a voler bene e perfino
ad arrabbiarsi.
Ci sono esami tutti i momenti,
ma non ci sono ripetenti:
nessuno può fermarsi a dieci anni,
a quindici, a venti,
e riposare un pochino.
Di imparare non si finisce mai,
e quel che non si sa
è sempre più importante
di quel che si sa già.
Questa scuola è il mondo intero
quanto è grosso:
apri gli occhi e anche tu sarai promosso!
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