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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


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NOTA A MARGINE
Gramsci: pane e grammatica

Non è un caso che la conferenza tenuta ieri pomeriggio alla biblioteca Ariostea da Fiorenzo Baratelli sul principio educativo in Gramsci avesse come titolo “La formazione dell’uomo”: “una vera educazione è quella che prepara l’uomo alla sua epoca”, questa è la concezione gramsciana della formazione, che appunto deve formare menti consapevoli della propria funzione storica e sociale, non più passivamente soggette a condizionamenti. Una visione della scuola e del sistema educativo e culturale più in generale che si struttura nel tempo, partendo dagli articoli giovanili e arrivando agli scritti dal carcere: le Lettere e i Quaderni. Piccolo inciso: per entrambi Baratelli ha tessuto un prezioso legame con un altro ‘giovane favoloso’ della nostra cultura, Giacomo Leopardi, prendendo a prestito le sue parole per definire le Lettere la “storia di un’anima” e definendo i Quaderni un’enciclopedia aperta e non sistematica come lo Zibaldone di pensieri.
Gramsci non ha in mente un’educazione in senso astratto, bensì teoricamente fondata, ma pratica, operativa e sicuramente politica. Nei Quaderni, infatti, critica la concezione italiana di una cultura prettamente “prettamente libresca”, in cui “manca l’interesse per l’uomo vivente e per la vita vissuta”, mentre già nell’articolo “Socialismo e cultura” (1916) aveva scritto: “bisogna smettere di vedere la cultura come sapere enciclopedico […] questa non è cultura, è pedanteria […] la cultura è disciplina del proprio io interiore”.
Nell’umanesimo gramsciano il sistema formativo diventa uno strumento di emancipazione e di trasformazione della società perché contempera i valori classici e storici con le nuove avvisaglie dell’industrialismo moderno e perché forma le coscienze a una libertà responsabile e consapevole. Per questo fin dai suoi primi articoli si scaglia contro la scuola classista destinata a perpetuare la divisione fra chi deve guidare e chi si presuppone debba essere guidato, “polemizzando anche con il suo partito – come ha precisato Baratelli – che finisce per accettare questa organizzazione” in cui la formazione classica è privilegio di alcune classi, uniche in grado di aspirarvi, mentre per i figli delle classi lavoratrici ci sono solo le scuole professionali, dove si insegna a fare senza pensare. Da qui anche la forte critica non solo alla riforma di Gentile, ma anche alla concezione idealistica, che separano classicità e scienze esatte: per Gramsci “questa separazione rappresenta un impoverimento per entrambe ed è inattuale per i tempi”.
Anche in ambito pedagogico Gramsci rivela tutto il suo antidogmatismo e la sua lungimiranza, non solo attraverso alcune riflessioni critiche sull’educazione delle bambine, ma anche per l’importanza data al metodo, piuttosto che alle nozioni e alla memoria: “imparare a imparare, questa per lui è la funzione della scuola, prefigurando già quell’utopia della società dell’apprendimento in cui il rapporto pedagogico è una relazione che coinvolge in ogni momento tutta la comunità”, ha sottolineato Baratelli. Forse le sue più grandi intuizioni sono però il concepire la rivoluzione di una scuola di massa non calata dall’alto, ma richiesta da chi fino ad allora ne è stato escluso: l’analfabetismo non può essere debellato attraverso leggi e regolamenti, ma con la percezione, da parte del popolo, dell’istruzione come bisogno e necessità. E, parallelamente, la consapevolezza dei rischi di questa scuola di massa: primi fra tutti la semplificazione e la dequalificazione. “Forse per questo – ha scherzato Baratelli – Gramsci non è stato un autore del ‘68”. “Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso […] è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza. La partecipazione di più larghe masse alla scuola media porta con sé la tendenza a rallentare la disciplina dello studio, a domandarne facilitazioni. Occorrerà resistere alla tendenza di render facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato”, scrive nei Quaderni.
La scuola di Gramsci è insomma una scuola che forma nuovi cittadini consapevoli del proprio ruolo nella società con metodo severo e rigoroso, “un luogo dove combattere i caratteri negativi degli italiani: l’improvvisazione, il dilettantismo, l’irresponsabilità morale e intellettuale, la pigrizia fatalistica e il cinismo che portano all’inazione”.

LA SEGNALAZIONE
Tributo: Bollani “shakera” Frank Zappa

Stefano Bollani è un musicista, pianista e cantante jazz, che ha iniziato a studiare pianoforte all’età di sei anni. Dopo il diploma al conservatorio di Firenze ed essersi fatto le ossa come turnista nel mondo della musica pop, si è affermato nel jazz collaborando con i grandi protagonisti della scena, tra cui Richard Galliano, Phil Woods, Lee Konitz, Aldo Romano, Michel Portal, Gato Barbieri, Pat Metheny, Chick Corea, esibendosi a Umbria Jazz, Festival di Montreal, Town Hall di New York, Fenice di Venezia, Scala di Milano. Dal 1996 collabora con il suo mentore Enrico Rava, uno dei jazzisti italiani più noti a livello internazionale.

Nel 2003 Bollani riceve il Premio Carosone, l’anno successivo il magazine giapponese Swing journal gli conferisce il New star award riservato ai talenti emergenti stranieri, per la prima volta assegnato a un musicista non americano. Nel 2006 per la rivista Musica jazz è il musicista italiano dell’anno. Nel 2009, nell’ambito del North sea jazz festival in Olanda, gli viene attribuito il Paul Hacket award; due anni dopo è la volta del Los Angeles-Italy excellence award, per la cultura italiana nel mondo.
In televisione è stato simpaticissimo ospite fisso del programma di Raiuno “Meno siamo meglio stiamo”, di e con Renzo Arbore, in cui si è esibito anche nelle irresistibili imitazioni di Paolo Conte, Franco Battiato, Marco Masini, Enzo Jannacci. “Sostiene Bollani” è il titolo del suo primo programma televisivo, interamente dedicato alla musica, andato in onda su Raitre nel 2011.
Il nuovo album: Sheik yer Zappa

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Il nuovo album di Stefano Bollani, tributo a Frank Zappa

Nell’ottobre del 2014 Stefano Bollani ha pubblicato il suo tributo a Frank Zappa, un grande mito della musica, in grado di fondere tutti i generi ottenendo risultati sorprendenti.
L’album raccoglie nove registrazioni live del 2011, i brani sono di Zappa ad eccezione di “Male male”, scritto da Bollani, e “Bene bene”, composto dal pianista milanese insieme al vibrafonista Jason Adasiewicz.
Lo “shaker” che dà il titolo all’album, si riferisce all’improvvisazione con cui sono stati realizzati i brani, che prendono spunto dall’opera di Zappa, per evolversi un direzioni differenti. Un preciso riferimento, se non una vera e propria linea rossa, al modo di comporre dell’artista americano, che mescolava musiche e generi provenienti da tutte le parti del mondo, per realizzarne commistioni originali. Una traccia ideale che viene però capovolta nel modo di sviluppare il tributo, preferendo la massima libertà espressiva al rigido perfezionismo di Zappa.

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Il chitarrista americano Frank Zappa

L’album nasce dai concerti che Bollani tenne nel 2011, con una playlist selezionata dai numerosi dischi del chitarrista americano: da “Uncle meat” a “Peaches en regalia”, passando per “Blessed relief”, quest’ultimo inserito nell’album “The grand wazoo”. Per la realizzazione di “Sheik yer Zappa” è stato formato un gruppo nuovo, con un vibrafonista conosciuto tramite YouTube (Jason Adasiewicz), Larry Grenadier al (contra)basso, Josh Roseman al trombone e Jim Black alla batteria. Ovviamente manca il chitarrista; il ruolo sarebbe stato ingrato per chiunque.
Il risultato finale è positivo, giudizio che probabilmente troverà d’accordo alcuni e decisamente contrari altri, secondo i gusti personali e le aperture necessarie per accettare rielaborazioni o evoluzioni del lavoro di Zappa.
Bollani ha compiuto un’operazione difficile, sapendo di prestare il fianco a chi segue rigidamente certi schemi, ma come ci ha insegnato Frank Zappa, la qualità “dell’alchimista” la si vede nel modo con cui utilizza gli “alambicchi”, talento che non manca al musicista milanese e al suo gruppo.
La vedova e la fondazione che tutelano il nome e la qualità della musica del grande chitarrista americano, hanno approvato l’operazione di Bollani, affermando che era in linea con lo spirito di Frank.

Fili d’erba

È arrivato gennaio con la sua aria gelida di giornate luminose. Da brava bambina ho fatto i miei propositi per l’anno nuovo, sono sempre gli stessi e non li mantengo, ma trovo allegro e scaramantico pensare che dovrei dimagrire, fare sport, diventare puntuale e tutte quelle cose che so, già in partenza, non realizzerò. Anche la cura del giardino fa parte dell’elenco, ma quest’anno non posso scantonare, per quanto possa permettersi un buon livello di autonomia, rimane sempre uno spazio con dei limiti e le mie piante li stanno sforando in tutte le direzioni. Nel 2015 compirà vent’anni e dovrò capire che cosa fare per mantenerlo con un po’ di equilibrio. In questi giorni scrivere di giardini, future potature e piantagioni, ha un suono strano, quasi stonato. Non dovrebbero esserci atrocità di serie A, eppure tra le tante notizie tremende che ci passano sopra la testa senza scuotere i nostri pensieri, ci sono tragedie che colpiscono il segno. La strage nella redazione parigina del Charlie Hebdo è una mattanza fra le tante, ma questa è una vigliaccata che ha avuto successo, ha centrato il nostro orticello di convinzioni e sicurezze facendo saltare in aria vite e quotidianità, radici culturali e simboli. Sulle macerie allargate di questo fatto non riesco ad esprimere nulla di più sensato di un preoccupato silenzio. Ascolto, cerco di capire, ma ho bisogno di spostare l’attenzione su qualcosa di bello e pulito e il mio giardino, in questo momento, non ha queste caratteristiche anche se lavorare con la terra e le piante fino allo sfinimento, è sempre un’ottima cura per alleggerire la testa. Andando alla ricerca di un pensiero positivo mi è venuta in mente una bella storia legata ad una fotografia di fili d’erba. In questa storia non ci sono macchine rimpicciolenti e inventori da strapazzo, ma c’è un ragazzino, un papà contento e una maestra con il vizio di fotografare. La maestra si chiama Olga, è una collezionista di attimi: non c’è raggio di sole, sguardo di gatto, foglia, rametto, sorriso di cane, sonnellino di parenti, che sfugga al suo obbiettivo. Come ogni collezionista è golosa e insaziabile, ma per fortuna è molto generosa e i suoi scatti di serenità vengono lanciati nel mondo e messi a disposizione di chi li vuole usare, come sto facendo io. Non contenta di tutto questo, grazie alla sua passione, Olga è riuscita a coinvolgere i suoi alunni in un laboratorio fotografico all’aria aperta, mettendo a disposizione la sua compatta per portarli alla scoperta della bellezza nascosta nelle cose, apparentemente insignificanti, che ci circondano. Non ho idea della burocrazia che abbia dovuto superare per portare in giro i suoi ragazzini, non conosco quali strategie abbia messo in pratica per coinvolgerli in questa avventura e come sia riuscita a farli lavorare insieme, ma ho visto lo splendido risultato: una serie di immagini dolcissime e piene di poesia. Una fra le tante, tutte belle e sorprendenti, è questa, che mi ha colpito per la grazia danzante di questi fili di erba che Nicola ha visto e ha saputo raccontare. La sua foto e quelle degli altri bambini, sono state adoperate per fare una mostra e un calendario, coinvolgendo così anche le famiglie nella parte conclusiva del laboratorio. In questa storia c’è tutto quello che vorrei per il nuovo anno, ed è un elenco lunghissimo di sogni in cui volano persone, grandi e bambini, che si divertono a stanare la bellezza nella quotidianità della natura più semplice; persone capaci di giocare, ridere, imparare, crescere e coltivare in pace un immenso giardino dove i fili d’erba sono verdi, vivi e luccicanti… poi mi sveglio, e le cose non funzionano così, ma la foto di Nicola, mi ha fatto sognare a occhi aperti, e lo ringrazio di cuore per questo piccolo grande regalo.

Foto di Nicola Mariani

 

Romeo, er mejo der Colosseo

“Pe’ arivacce qui da Roma ho fatto l’autostop
e ‘n Francia è già m’ber pezzo che ce sto…
Ma pure da emigrato, mica so cambiato:
io so’ Romeo, er mejo der colosseo!
Io fermo nun ce sto, proprio nun me va!
Se domani qui sarò, oggi chi lo sa?
Forse un po’ m’acchitterò e me ne andrò in città, già…
E poi laggiù tanta scena farò, ogni gatta che me vedrà dirà:
“ma che ber micione, che simpaticone, quello è Romeo
er mejo der colosseo!.”

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La locandina

Sono appena finite le feste, durante le quali molti di noi hanno trascorso pomeriggi sereni davanti alla televisione o al cinema. I cartoni animati hanno sicuramente avuto la loro parte, in queste festività molto legate ai bambini. Ma non solo loro hanno riassaporato vecchi film d’animazione, quei capolavori disneyani che tutti noi abbiamo visto da piccoli ma anche rivisto da grandi.
Ecco allora che, un freddo pomeriggio, proiettano gli Aristogatti, film divertente e allegro che mi riguardo per l’ennesima volta, perché l’ho sempre adorato per due ragioni precise: Romeo e Parigi di inizi ‘900. Ho sempre amato la capitale francese, dove ho vissuto a lungo, e proprio oggi che soffre per i noti e tristi fatti di Charlie, amo ricordare le sue belle strade, quella Cattedrale di Notre Dame che nel film di Disney sfila pacifica nella notte mentre l’infido Edgar porta via i gattini. Le matite dell’epoca avevano disegnato, con loro consueti tratti leggeri ed eleganti, tetti e stradine, ponti sulla Senna e lampioni romantici. Niente 3D moderni o computer ma le origini dei cartoon, fatte di fine artigianato e sfondi dipinti a mano. Per questo le immagini sono delicate. Quasi acquarelli da belle époque, cornice ideale per una storia d’amore.

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Matisse, Minou e Bizet

Oggi più di allora riconosco le strade e quell’atmosfera unica e galeotta che si respira solo a Parigi. E poi vi sono il tenero Romeo, con quel simpatico accento romanesco nel doppiaggio di Renzo Montagnani, l’elegante e affascinante Duchessa, i gattini Minou, Bizet e Matisse, per non dimenticare la banda di Scat Cat o il topolino Groviera (doppiato da Oreste Lionello), che aiuterà i gattini a ritornare dalla loro amata padrona, Madame Adelaide Bonfamille. Riscoperti solo ora, sono, poi, splendidi lo Zio Reginaldo e le oche inglesi Adelina e Guendalina Bla Bla. Qui si ritrovano amore e strada di casa, in una Parigi del 1910, dove il maggiordomo Edgar, che non vuole aspettare che i gattini muoiano prima di ereditare la fortuna di Madame Adelaide (che nel testamento gli lasciava tutto ma solo dopo i suoi gattini), complotta per rimuovere i gatti dalla posizione ereditaria. Un cattivo che lo addormenta, quindi, e che si dirige in campagna per abbandonarli.

aristogattiaristogattiDuchessa, però, incontra il randagio e allegro Romeo che, con simpatia e charme, si offre di riportarla a Parigi insieme ai gattini. Si incrociano, quindi, paesaggi da vera favola oltre che Adelina e Guendalina, fino ad arrivare a danzare e cantare senza freni, sui tetti di Parigi, con Scat Cat e la sua banda sgangherata. Le avventure sono tante e il perfido Edgar finirà in un baule spedito a Timbuktu, con un testamento che verrà riscritto da Adelaide, per includervi anche Romeo. La storia romantica di Duchessa e Romeo è accompagnata dalla colonna sonora cantata da Maurice Chevalier.
Un classico imperdibile. Belli i disegni, i colori, le atmosfere, le musiche, le auree di romanticismo e bontà. Un film che si rivede sempre con immenso piacere e gioia, a qualsiasi età. Perché ridà la serenità che tanto serve e perché “tutti quanti voglion fare jazz”.

Gli Aristogatti, di Wolfgang Reitherman, USA, 1970,78 mn.

Vittorio Sgarbi: la critica come volontà di bellezza

Secondo Oscar Wilde (“Il Critico come Artista”), il vero critico è un artista, un poeta. In Italia, e non solo, nessuno come Vittorio Sgarbi, forse ma strumentalmente più celebre come polemista e dandy moderno, incarna questa rara e nobile arte-vita.
Nei suoi libri d’arte, Sgarbi, con incredibile e rarissima quasi fotosintesi, mixa scienza della critica e poesia pura, archetipica ma dinamica: “una cosa bella è una gioia per sempre”, disse il grande poeta romantico John Keats; così la parola di Sgarbi come artista della critica.
Controcorrente, Sgarbi, come sempre: gioia e passione, scintillano nelle numerose esplorazioni estetiche; mai solo critica colta ed elevata al quadrato, quasi minuetti alla Mozart, per certa sublime leggerezza, e rara comunicazione, espressiva e profonda superficie psicologica e analitica sintetica.
Vera e propria arte-terapia contro certa estetica da addetti ai lavori, spesso autisticamente quasi criptici e morbosamente preda del dolore e della sofferenza incoronati essenza del fare bellezza, con focus a una dimensione, più pertinenti alla psicologia, semmai.
Malinconia e disperazione, il tragico della vita umana, naturalmente attraversa la dimensione umana, dell’artista forse in particolare: ma logica del senso dell’arte stessa è trasformare le lacrime in meraviglia, come fa Sgarbi.
“Piene di grazia. I volti della donna nell’arte” ( Bompiani, 2012), tra le numerosissime pubblicazioni, forse, è il vertice della penna desiderante e felice del celebre critico d’arte: un excursus stupefacente, attraverso capolavori dell’arte di ogni eone, dal Rinascimento al contemporaneo in particolare, del volto e l’anima e la bellezza e la sensualità della Donna.
Un inno alla Natura innamorante, incarnata dalla figura femminile: un inno in certa sinfonia quasi cosmica della Storia dell’arte, espressa, creata dal genio dei vari Cimabue, Masaccio, Van Eyck, Piero della Francesca, Antonello da Messina, Carpaccio, Leonardo, Raffaello, Gentileschi, Tiziano, Picasso, Klimt…
La donna, molto più dell’anima gemella Uomo, simultaneamente archetipo e corpo reale, Madonna e Madre e Amante, piena di vita, di futuro, di grazia e felice peccato di libertà…
“Piene di grazia” del libertino Vittorio Sgarbi è il manifesto del post femminismo del futuro prossimo, preludio geniale della Donna autenticamente libera, dal dolore e dalle paure non naturali, dal mito del femminismo stesso, libera da sé stessa, in quanto tale… la Donna, scienza della felicità e della creazione umana.

Sgarbi non ha bisogno, né sogno… di presentazioni: poeta come critico letterario, è forse il più creativo critico d’arte italiano contemporaneo… le parole sono fatti diceva Jonesco, basta scorrere ad esempio la sua bibliografia, di seguito solo alcuni testi, su Wikipedia l’elenco completo: “ll sogno della pittura” (1985, premio Estense 1985), “Davanti all’immagine” (1989, premio Bancarella 1990), “Il pensiero segreto” (1990), “Aroldo Bonzagni. Pittore e illustratore” (1887-1918), “Ironia, satira e dolore” (1998), “Giorgio De Chirico. Dalla Metafisica alla “Metafisica”. Opere 1909-1973″ (2002), “La stanza dipinta. Saggi sull’arte contemporanea” (2002), “Da Giotto a Picasso”, (2003), “Un paese sfigurato. Viaggio attraverso gli scempi d’Italia” (2003), Andrea Palladio. La luce della ragione. Esempi di vita in villa tra il XIV e XVIII secolo” (2004), “Dell’anima” (2004), “Guercino. Poesia e sentimento nella pittura del Seicento” (2004), “Le ceneri violette di Giorgione. Natura e Maniera tra Tiziano e Caravaggio” (2004), “Davanti all’immagine (2005), “Vedere le parole. La scrittura d’arte da Vasari a Longhi” (2005), “Le meraviglie della pittura tra Venezia e Ferrara dal Quattrocento al Settecento” (2006), “L’Italia delle meraviglie” (Bompiani, 2011), “Le meraviglie di Roma. Dal Rinascimento ai giorni nostri” (Bompiani, 2011) “Piene di grazia. I volti della donna nell’arte (Bompiani, 2011), “L’ombra del Divino nell’arte contemporanea” (Cantagalli, 2012), “L’arte è contemporanea. Ovvero l’arte di vedere l’arte” (Bompiani, 2012), “Nel nome del Figlio. Natività, fughe e passioni nell’arte” (Bompiani, 2012), “Il tesoro d’Italia. La lunga avventura dell’arte” (Bompiani, 2013), “Mattia Preti – Rubbettino” (2013), “Il punto di vista del cavallo. Caravaggio” (Bompiani, 2014), “Porto Franco. Gli artisti sdoganati da Sgarbi (EA Editore, 2014), L’Italia delle meraviglie. Una cartografia del cuore” (Bompiani, 2015).

Per saperne di più visita il sito di Vittorio Sgarbi [vedi] e la pagina di Wikipedia [vedi]

* da Roby Guerra, “Dizionario della letteratura ferrarese contemporanea”, Este Ediiton-La Carmelina ebook [vedi]

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Montecarlo ‘coast to coast’

Si tratta di un road-movie del 1970, con protagonista la rock-progressive band The Trip di Joe Vescovi (scomparso recentemente), che si muove tra situazioni e scenografie hippy, sospeso tra musica, ironia e comicità, trattate con un gusto tipicamente italiano. Il film si divide in due parti, quasi fosse stato scritto da autori diversi. Nella prima parte i tempi comici sono più lenti, mentre il montaggio segue un ritmo veloce ed essenziale, nella seconda emerge il lato commedia, con un improbabile legame narrativo affidato a Mal, punto di riferimento per lo sconclusionato viaggio del gruppo di musicisti alla ricerca di Montecarlo. Quando tutto sembra finito e anche le gag si sono esaurite, il film si trasforma in documento o, per meglio dire, in “testimonianza”. Montecarlo diventa Roma e più precisamente le Terme di Caracalla, dove si sta realmente svolgendo il 1° festival rock Italiano, con The Trip tra i protagonisti.

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La locandina

Il film, diretto da Giulio Paradisi (per molti anni aiuto di Federico Fellini), rivisto con gli occhi di oggi e slegato dal contesto sociale e politico degli anni ‘70, acquista uno spessore diverso, riuscendo a fare apprezzare situazioni grottesche al limite del paradosso, rappresentando il passaggio dal periodo beat a quello del rock progressive italiano. Qualche “visione” felliniana del regista (gli uomini che fanno le uova), la futuristica fotografia di Gianfranco Romagnoli e la colonna sonora dei New Trolls, fanno passare in secondo piano qualche ingenuità narrativa.

La pellicola fu voluta da Alberigo Crocetta (manager e proprietario del Piper di Roma), con l’obiettivo di fare conoscere gli artisti della sua “scuderia” che compaiono nel ruolo di se stessi. Ecco spiegato come possano coesistere nella stessa trama il gruppo di Joe Vescovi, Mal e i Ricchi e Poveri. Compaiono e cantano anche Jody Clark, The Primitives, Four Kents e Sheila. Nel 1970 la Rca pubblicò un album con dieci brani tratti dalla colonna sonora del film.

“Terzo canale. Avventura a Montecarlo” di Giulio Paradisi, con i musicisti della band The trip, Mal, i Ricchi e poveri, road-movie, 1970, Italia.

Il film è occasionalmente trasmesso dal canale Iris del digitale terrestre e interamente visibile su Youtube a questo indirizzo [vedi]

Ai caduti sul fronte della libertà di stampa

da Ferruccio Giromini *

Cari Amici, la notizia del massacro nella redazione parigina di Charlie Hebdo è per me terribile.

Io sono cresciuto leggendo e ammirando gli autori satirici francesi, dai tempi di “Hara-Kiri” fino a “Charlie Hebdo”, appunto, e anche a “Siné Hebdo” e “Siné Mensuel”. Ho sempre ammirato il loro sempre sorprendente umorismo e il loro sempre ammirevole coraggio.

In una volta sola, vengono a mancare – a me e a tutti i loro lettori nel mondo – Wolinski, Cabu, Tignous, Charb… Con alcuni ho avuto a che fare direttamente, tutti comunque li considero indistintamente miei cari compagni di viaggio, miei amici cari.

Ma ora essi sono, e spero che ne convengano tutti al di là della facile retorica, anche veri eroi e martiri della libertà di parola. E sono sicuro che così verranno ricordati in futuro.

Non sia mai che questa tragedia venga strumentalizzata da chi fa di ogni erba un fascio e magari si erge a giudice a sproposito di imputati a sproposito. Qui i tanti immigrati onesti non c’entrano, qui è solo il fondamentalismo ideologico e religioso ad avere gravi responsabilità.

Perciò sarebbe auspicabile che, in questa tragica situazione, anche la società civile italiana ed europea avesse uno scatto d’orgoglio e fosse capace di mostrare la sua solidarietà alle figure degli
scomparsi in un modo non superficiale.
Ne va della nostra libertà di pensiero, di parola e di azione.
Credo che stavolta reagire – in modo responsabile, s’intende – si renda indispensabile per chi ha a cuore il presente e il futuro di una convivenza internazionale democratica e umana.

In una telefonata di poco fa con l’amico e collega Alfredo Castelli, è venuto fuori spontaneo l’auspicio sommesso che tutte – magari! – le testate giornalistiche europee pubblichino qualcosa ripreso dalle pagine di “Charlie Hebdo” (una vignetta, una copertina, possibilmente tra quelle incriminate dagli imbecilli boia terroristi) affermando con forza di essere dalla parte della stampa libera e non, giammai, da quella degli imbecilli, dei boia, dei terroristi.

Sarebbe bello, sarebbe giusto, sarebbe il minimo. Chissà se qualcuno avrà l’onesto coraggio di farlo. Io (e con me Alfredo e so pure tanti altri) voglio augurarmelo.

Scusate lo sfogo, grazie per avermi letto. E, se vorrete, grazie per diffondere ulteriormente questa espressione di dolore profondo e di lutto
Non lasciamo che il mondo continui a peggiorare così.

* Ferruccio Giromini, giornalista, critico e storico dell’immagine, ha anche esercitato attività di fotografo, illustratore, sceneggiatore, regista televisivo.

L’EVENTO
La ‘Pestilonza’ dilaga nel Paese. Cronache del Decamerone

Uno spettacolo per portare in scena, in un’Italia che non legge più, la giocosità, la leggiadria, l’arguzia e l’ironia delle storie boccacesche, tanto presenti nell’immaginario comune quanto ignote ai più nella loro singolarità. È “Decamerone. Vizi, virtù, passioni”, adattamento teatrale dell’opera trecentesca di Marco Baliani, che cura anche la regia, con la drammaturgia di Maria Maglietta: un’operazione coraggiosa, che si avvale della collaborazione di un volto famoso come quello di Stefano Accorsi, dal vivo forse ancora più bravo che sul grande schermo.
Questo Decamerone ruota intorno al valore della narrazione come “rito che permette di allontanare la morte” – così lo descrive Accorsi nell’incontro della compagnia con il pubblico nel ridotto del Teatro Comunale Claudio Abbado – e della parola, definita “sacro nutrimento”, secondo per importanza solo all’amore, “vero balsamo dell’alma stanca” in grado di “fomentar speranza ne lo tempo futuro”.
Ma se nell’originale le storie servono per sospendere il tempo e dimenticare ciò che accade intorno ai protagonisti, qui rivelano la “pestilonza” che, non più fisica ma morale, continua ad appestare il nostro Paese: le parole non servono a ottundere e confondere, ma a disvelare vizi e sotterfugi, e il gioco non è fine a se stesso, anzi è arguzia e ironia che induce alla riflessione e all’azione.
Un’attenzione alla parola che è anche lavoro di riscrittura di Baliani e della Maglietta, che rivisitano il linguaggio boccaccesco trasformandolo in un “italico di antica foggia”, capace di tenere alti nello stesso tempo il ritmo della recitazione e l’attenzione del pubblico. Sette novelle scelte, afferma Accorsi, “tenendo conto del potenziale teatrale e cercando la varietà nei contenuti e nella forma”. Per questo, in realtà, è come recitare “sette spettacoli diversi”, rivela l’attrice Silvia Briozzo. A metterle in scena non un gruppo di giovani, ma una compagnia di giro i cui componenti interpretano non tanto personaggi quanto “caratteri”, spiega Naike Silipo, proprio come si addice alla tradizione della commedia dell’arte.
Secondo episodio del progetto “grandi italiani”, che porta in teatro le opere di tre giganti della nostra letteratura, come Ariosto, Boccaccio e Machiavelli, per ricordarci dei nostri tesori linguistici intimamente legati a quelli artistici e paesaggistici, questo Decamerone ha il merito di far emergere la visione moderna e laica di Boccaccio riguardo tematiche come i ruoli di genere e l’ipocrisia di tutte le gerarchie.

“Decamerone. Vizi, virtù, passioni” è in scena al Teatro Comunale Claudio Abbado fino a venerdì 9 gennaio.

Parigi, gocce di memoria

Da DUBLINO – Del periodo passato a Parigi ricordo bene il quartiere di St. Germain Des Pres; i vicoli del Marais; l’area attorno ai Jardins du Luxembourg; il Boulevard St Michel. Proprio su questa strada di tanto in tanto mi fermavo a “Le Boulinier”, la grande libreria dai colori rossi all’angolo di Rue Serpente specializzata in fumetti, o bandes desinees come dicono i cugini d’oltralpe. Nei banchi sulla strada, fuori dal negozio, centinaia di libri accatastati e fumetti ingialliti a 50 centesimi. Decine di curiosi che sfogliano quelle pagine o che solamente si riparano sotto i tendoni della libreria dalla piogge improvvise, che anche qui non scherzano. Charlie Hebdo me lo ricordo bene. Facile trovare vecchie copie su quegli scaffali. E mi ricordo bene i disegni di Wolinski, Cabu, Tignous, Honoré. L’ultimo fumetto acquistato, circa un anno fa proprio ‘Le Cirque des Femmes” (Paulette va al circo), classe ’77, che desideravo avere nella mia misera raccolta. Una creazione di Wolinski. Ucciso in data 07.01.2015, non disegnerà più. Mi ricordo bene le vignette di Charbonnier (Chard): i suoi personaggi dagli sguardi pazzoidi, sotto sotto riuscivano a strapparti un sorriso anche nelle vignette più volgari, anche quelle che avrebbero potuto offendere il senso pudico o la sensibilità religiosa. Ucciso in data 07.01.2015. Nemmeno lui disegnerà più. Come anche Bernard Verlhac (Tignous) e Philippe Honoré. 07.01.2015. E anche tutti gli altri caduti in questo vile attacco, che Parigi sta sinceramente piangendo nelle sue piazze, e nel privato delle sue case. E questa volta davvero.
Di Parigi ricordo bene anche il Canal Saint Martin, i bar ed bistrot attorno alla metro di Oberkampf. Il vociare dei ragazzi seduti ai tavolini. Una demi di Stella Artois prima di andare a mangiare un couscous a La Chapelle, servito gratis al venerdì, basta conoscere i posti giusti. Poco più a sud la fermata di Richrad Lenoir, ed i nuovi uffici di Charles Hebdo. Parigi a primavera e stupenda se riesci a prendere il tempo di viverla lentamente, senza sentirti obbligato di correre da un museo all’altro. Mi piace immaginare che sia ancora così. Meglio una camminata per Rue du Temple con un amico che innervosirsi nel claustrofobico fiume umano al Louvre. A breve tornerò a Parigi a fare il turista, nonostante il Plan Vigipirate sia a livello massimo, evitando accuratamente il turismo del macabro. Ma evitando anche gli stand dei fumetti della libreria Boulinier; i locali di Oberkampf; i bordi del canale St Martin, la lunga passeggiata verso Place de la Bastille. Preferisco tenere intatto il ricordo di una Parigi meno triste di questi giorni. E se mi verrà dato spazio su queste pagine, inviare la mia vicinanza agli amici di Parigi. Anche una parte della mia infanzia si è spenta il 07.01.2015 assieme a Wolinski, Cabu, Tignous, Honoré e tutti gli altri caduti in questo attentato senza senso.

IL BRANO INTONATO: Giorgia, Gocce di memoria [ascolta]

LA STORIA
E intanto a Parigi si canta la musica del mondo: l’algerina Souad Massi

Souad Massi è una sensibile e raffinata cantautrice nata e cresciuta ad Algeri nel quartiere popolare di Bab El-Oued, reso famoso dall’omonimo film di Merzak Allouache.
Incoraggiata dal fratello maggiore, inizia a studiare musica in giovane età, cantando e suonando la chitarra. Crescendo apprezza sempre di più il rock e il genere country americano, stili musicali che avrebbero influenzato il suo modo di comporre. Souad canta in arabo algerino, francese e, occasionalmente, in inglese e cabilo, alcune volte impiegando più lingue nella stessa canzone.

Come molti algerini, durante gli anni dei disordini, Souad si trasferì con la famiglia in Cabilia, dove ebbe l’opportunità di diventare la front-woman del gruppo rock “Atakor”, con cui suonò per sette anni. La band, causa i testi politici e la crescente popolarità, divenne bersaglio di minacce, tanto che la cantante dovette trasferirsi in Francia a Parigi.

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La copertina di ‘Raoui’

La sua carriera ebbe una svolta importante nel 1999, grazie all’esibizione al “Femmes d’Algerie Festival” a Parigi, che le fruttò un contratto discografico con la Island Records. Due anni dopo uscì “Raoui”, il suo primo album da solista, accolto molto bene da critica e pubblico sino al punto di ottenere la nomination come Best newcomer ai World music awards del network inglese “Bbc Radio 3”.
La definitiva consacrazione arrivò con l’album “Deb” (Cuore spezzato) scritto con testi più personali e meno politici. Il disco divenne un successo mondiale, cosa abbastanza rara per un autore nord-africano. Tre anni dopo, nel 2006, fu la volta di “Mesk Elil” (Caprifoglio) in cui l’artista algerina ampliò i temi dell’amore, già esplorati in “Deb”, e cantò con Daby Touré e Rabah Khalfa (leggendario percussionista algerino).
Il suo più recente album si intitola “Ô Houria” (Libertà), prodotto da Francis Cabrel (chansonnier francese di origine italiana) e Michel Françoise (autore e chitarrista nato in Algeria). L’opera, che contiene il brano “Let me be in peace” cantato con Paul Weller, si distingue per i ritmi più vicini al pop occidentale. Imperdibile il duetto con Francis Cabrel nel brano “Tout rest à faire”.

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Alcuni cd e dvd di Souad Massi

Le atmosfere musicali di Souad oscillano tra folk (arabo-andaluso), rock e tradizione algerina (chaâbi), miscelando chitarre elettriche e flamenco, oud e liuto arabo, batteria, sintir (basso acustico sahariano) e karkabous (nacchere metalliche sahariane), una fusion che esalta la sua sensuale e potente voce che ben si amalgama con i testi politici e personali.
La cantante si esprime al meglio dal vivo, come si può constatare nel live acustico del 2007 (registrato al Théâtre la Coupole di Parigi) da cui furono tratti un cd e un dvd.
Nella scaletta di quel concerto non poteva mancare il brano “Raoui”, precedentemente inserito nel suo primo album: “Oh cantastorie, raccontami una storia, fa che sia un racconto, raccontami delle genti antiche, raccontami delle mille e una notte, di Lunjia Bent el Ghoula e del figlio del Sultano…”.

Da qualche tempo Souad Massi canta nel duo “Chœurs de Cordoue”, che ha creato col chitarrista Eric Fernandez. Il nome è un omaggio alla città di Cordova, in cui nel X° secolo, nonostante le differenze, convivevano uomini di scienza e artisti cristiani, musulmani, ebrei e atei.

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Immagine recente di Souad Massi

Il suo nuovo album, intitolato “El moutakalimoun” (Quelli che parlano), uscirà il prossimo 30 marzo. Si preannuncia come un lavoro aperto alle sonorità della world music, sulla scia di “Mesk Elil”, infatti, il suo “folk-rock algerino” incrocia ritmi africani, bossa e tradizione, pur essendo ancorato al mondo contemporaneo. I testi sono tratti dalle opere di grandi poeti arabi come il libanese Elia Abou Madi, il tunisino Abou El Kacem Chebbi e l’iracheno Ahmad Ibn al-Husayn Al-Mutanabbi.

“Houria” clip ufficiale [vedi]

Si ringrazia Souad Massi per la concessione dell’ultima fotografia.

L’OPINIONE
La forza e il coraggio di dialogare

Scrivere ancora sulla spaventosa strage di Charlie Hebdo potrebbe essere presunzione: in questi momenti solo il silenzio sarebbe consentito se non fosse che in certe situazioni estreme il foglio bianco, la mancanza di parole potrebbe essere segno di resa. Resa all’odio implacabile che arma la mano dei terroristi. Un commento di Corrado Augias ha portato la discussione su un binario percorribile e condivisibile. Anche gli italiani hanno avuto una stagione del terrore e quel terrore era sprigionato da una (falsa) concezione della sinistra. Solo quando la sinistra si è opposta alla strage ecco che la ragione, l’illuminismo come ora si è soliti dire, ha saputo prendere il sopravvento sulla irrazionalità del fatto, dell’odio come momento di scelta. Ma ci siamo dimenticati che dal nostro Paese è stato esportato nel mondo il metodo e la violenza della mafia? Ci siamo scordati che la discriminazione è stata l’incidenza più violenta di gran parte delle tragedie del Novecento: in America con le stragi degli anni Trenta, con i soprusi contro i neri. E in Europa sorgeva la violenza fascista fino alla tragedia della Shoah o dei campi di concentramento siberiani al tempo di Stalin. E nonostante questo dato storico serpeggia nell’opinione pubblica la convinzione che tutti i mussulmani siano colpevoli, come se in Francia la condizione degli immigrati dell’ex impero francese che ha portato cinque milioni di loro in quel Paese sia spiegabile con un stile di vita e di convinzioni anti illuminista. Siamo allora noi italiani tutti mafiosi? Sono allora tutti i francesi anti-mussulmani? Sono dunque i tedeschi tutti nazisti?. Sono infine tutti i russi stalinisti? Ovviamente no! Ma è la mancanza di razionalità che insorge feroce a condannare sbarchi di clandestini, il concetto stesso di famiglia diverso dal nostro, ma soprattutto le convinzioni religiose. Ha ragione Umberto Eco ad affermare che non i mussulmani sono un pericolo ma l’Isis la forma più odiosa di una rivendicazione di un credo religioso a sostegno di una politica feroce. Non sono d’accordo con un mediocre scrittore e debole pensatore come Houellebecq che viene indicato come l’origine della vendetta terrorista assieme ai disegnatori di Charlie Hebdo per le sue idee ora espresse nel romanzo-saggio “Sottomissione” il quale secondo le recensioni (non ho ancora letto il libro) immagina una sottomissione dell’Occidente al pensiero mussulmano. Ogni giustificazione del fanatismo religioso è di per sé accusa d’intolleranza. Qualcuno mi scrive che il fanatismo cristiano ha prodotto il pensiero più forte dell’Occidente: dalla poesia all’arte, dalla musica alla filosofia, alla scienza. E questo non sarebbe successo nel mondo mussulmano. Ma cosa ne sappiamo noi? E comunque nessuna forma di terrorismo ideologico e pratico può essere giustificato da questa dubitabile consequenzialità. Ciò che si richiede e che dovrebbe guidare il nostro pensiero, specie per chi pratica la cultura come mestiere, non è tanto – o non solo- la com-partecipazione al destino dei caduti di Charlie Hebdo come singoli, come individui, ma il tentativo di evitare nella banalità del giudizio (si ricordi “La banalità del male” di Hannah Arendt) un coinvolgimento generale che ottunde il pensiero e pigramente lo lascia in mano ai luoghi comuni: è un negro, è un meridionale, ora, è un mussulmano. Ricordo lo stupore con cui – era il 1962 – recandomi in Austria per partecipare a un grande convegno su “Industria e letteratura” organizzato dallo scrittore Paolo Volponi e dal filosofo Rosario Assunto, vidi nella stazione di Monaco, alla porta della toilette della stazione, la scritta “Proibito l’accesso ai lavoratori turchi e italiani”. Nel paese austriaco sede estiva dell’Università austriaca, Alpbach, il gestore dell’unico caffè non voleva servire gli italiani per l’odio che ancora nutriva per il nostro popolo dopo le vicende non della seconda, ma della prima guerra mondiale!
Alla fine aiutati da un musicista ungherese che parlava tedesco, allievo di Bèla Bartok e che diverrà tra gli amici più cari della mia vita ci siamo seduti ad un tavolo e abbiamo parlato, oste ed avventori, fino a stringerci la mano e gustare il più buon strudel che abbia mai mangiato.
Non sono racconti moralistici o peggio pietistici ma è il vero, credo, segno dell’opposizione del pensiero illuminista, basato sulla tolleranza verso qualsiasi forma di pensiero diverso dal nostro, all’odio, alla barbarie, alla violenza, all’ottundimento della ragione, a quella fede feroce che Montale cantava nella “Primavera hitleriana”, “Oh la piagata/primavera è pur festa se raggela in morte questa morte”. Così, come penso, è necessario si debba ragionare rispetto a simili mostruosità, quale quella della strage di Charlie Hebdo, attaccandosi alla speranza che Clizia, la donna amata dal poeta Montale, colei che porta in sé il pegno di una sconfitta della fede feroce che “ Forse le sirene, i rintocchi/ che salutano i mostri nella sera/ della loro tregenda, si confondono già/ col suono che slegato dal cielo, scende, vince-/ col respiro di un’alba che domani per tutti/si riaffacci, bianca ma senz’ali/ di raccapriccio, ai greti arsi del sud…”.

Ma tutti insieme.

LA NOTA
Dietro la porta

Le porte delle città medievali sono sempre particolarmente attraenti. Ferrara non fa certo eccezione. Camminando per la città ne scorgo tante, alcune più belle di altre, alcune più misteriose e accattivanti di altre. Ma tutte stupende, una vera calamita per me. Una mi colpisce particolarmente, in via Ragno, una deliziosa piccola strada nel cuore della città. Abbracciata da campanelli dorati e finestre serie, rigorosamente simmetriche, questo varco attira la mia attenzione e stimola la mia fantasia. Sento una musica celestiale provenire da dietro di lei. Un tocco magico e leggero di un pianoforte, forse a coda. La musica non c’è, ma io la sento. Non sono impazzita, ma la sento. Odo note melodiose, come sempre quando passeggio nel mio bel centro storico. Talora reali, talora meno, ma c’è sempre musica nelle mie orecchie sensibili e attente.
Dietro quella porta, seduto al piano, vedo un ragazzo molto giovane, esile e magro ma dalle dita nodose forti ed energiche. Tutta l’energia che può comunicare si trova ora distesa sulla sua tastiera. Allungata come un gatto persiano dal bianco pelo morbido.
Energia, energia e ancora energia. È tutto quello che percepisco.
Ma insieme a lui, cosa c’è dietro quella porta? Dietro una porta si possono immaginare tante cose, io lì vedo angeli, due, per la precisione, il pianista e un cherubino che lo accompagna, che guida le sue dita sulle ali della dolce musica che gli aleggia intorno.
Dietro quella porta potrebbe esserci una signora anziana, dai capelli innevati, che ricama un centrino all’uncinetto, come quelli che non se ne vedono più in giro, come quelli che la nonna faceva d’inverno di fronte al camino, modellando tela e sagome di gigli. Quegli stessi ricami candidi che ancora si trovano, nelle iniziali delle lenzuola di lino ricamate a mano, parte di un corredo antico che ancora, instancabile, attende qualcuno e qualcosa. Un corredo che non ha perso la speranza ma che si sta un po’ ingrigendo e raggrinzendo, con il passare del tempo e con la sua ottimistica attesa.
Dietro quella porta, potrebbe esserci una mamma che cucina un brodino di pollo per due allegri bambini appena rientrati dal catechismo domenicale. Qualche cappelletto aspetta di tuffarsi nel piatto bollente e fumante, mentre un cucchiaio d’argento appoggiato alla tovaglia di fiandra tintinna vicino al suo bicchiere di cristallo preferito. Una coppia vincente, affiatata, da sempre su quella tavola imbandita per il pranzo della domenica e le feste di famiglia. Sempre insieme, sempre uniti, sempre sorridentemente complici. Perché mi piace pensare che anche gli oggetti della nostra tavola abbiano un cuore e un’anima, pensieri e sentimenti. Perché ci accompagnano e stanno vicini a noi da anni. Quindi, ci conoscono e capiscono, ormai.
Dietro quella porta potrebbero esserci un Labrador affettuoso che attende impazientemente il suo padrone, un gatto che miagola.
Dietro quella porta, potrebbe esserci un giardino fiorito, che ospita alberi secolari e piante ben curate da una padrona attenta, delicata, longilinea e profumata. Magari c’è pure una coppia di tartarughe.
Dietro quella porta potrebbe esserci una coppia di fidanzati, che si ritrovano dopo lunghi mesi di lontananza e mari che li separano. Baci infuocati e teneri abbracci potrebbero svelare i volti di quegli innamorati, mentre quella porta medievale scricchiola leggermente.
Eccola, si apre…

La scienza osteopatica al servizio dello sport

“C’è un evidente rapporto tra il movimento e la salute” (A.T.Still)

L’osteopatia è una scienza, una disciplina che si occupa globalmente della salute dell’individuo. Si basa sulla ricerca degli squilibri e delle riduzioni di mobilità delle diverse componenti del corpo umano. Questo approccio correttivo delle alterazioni del sistema muscolo-scheletrico avviene attraverso tecniche manuali specifiche di normalizzazione che vengono portate a compimento dopo un’attenta fase di analisi e studio del caso specifico. L’osteopatia permette di ottimizzare il rendimento della ‘macchina uomo’, liberando l’organismo da tensioni che in vario grado limitano la prestazione. Il miglioramento che si ottiene dal punto di vista posturale riduce il consumo energetico e gli attriti interni, rendendo più fluidi i gesti tecnici.
In questo caso il trattamento osteopatico può intervenire su più livelli; l’osteopata può essere di grande aiuto nei confronti dello sportivo durante i periodi di allenamento molto intensi, ma anche in prossimità di appuntamenti agonistici importanti, infatti tramite un particolare approccio al sistema cranio-sacrale riesce a modulare l’attività del sistema nervoso autonomo migliorando:
– qualità del sonno;
– concentrazione agonistica;
– gestione dello sforzo;
– prevenzione del sovrallenamento.

Il termine osteopatia (dal greco osteon osso e pathos sofferenza), fu introdotto in origine dal dr. Andrew Taylor Still per definire quelle alterazioni organiche, funzionali o strutturali che coinvolgono l’apparato viscero-fascio-muscolo-scheletrico sotto forma di una eccessiva densità tissutale, provocando un alterato squilibrio e disallineamento posturale.

Principali indicazioni dell’osteopatia
L’osteopatia è indicata nella cura dei dolori e delle disfunzioni della colonna vertebrale: sciatiche, sciatalgie, dolori intercostali, mal di schiena nelle svariate forme, dolori cervicali del collo. Ma è possibile risolvere anche problemi agli arti (distorsioni, tendiniti, reumatismi), ai visceri (reni, fegato, intestino, colite), allo stomaco (gastrite). Poi problemi al cranio che generano il mal di testa, problemi alla mascella, nevralgie facciali, sinusiti, ma anche stress e ansia.

L’osteopatia nello sport
Il sostegno dell’osteopatia nella cura e nella prevenzione in ambito sportivo è di fondamentale importanza. Questa figura sta diventando sempre più importante e indispensabile per assicurare che la struttura organica dell’atleta sia tale da ottimizzarne l’attività sportiva e una preparazione fisica completa. Ad oggi, in Italia, circa il 20% delle società sportive vedono la presenza dell’osteopata nel loro staff. Il pensiero che si sta sviluppando è quello di seguire l’atleta, non solo quando gravita ai massimi livelli del professionismo, ma anche prima, durante la sua crescita.
Questo permette di condurlo lungo il percorso sportivo sfruttando pienamente le sue potenzialità e prevenendo alcuni inutili infortuni.
Da studi effettuati su atleti professionisti, si è constatato che un trattamento osteopatico mirato può prevenire traumi (dovuti a disequilibri impercettibili del comportamento strutturale) e, soprattutto, può migliorare la performance dell’atleta in maniera oggettiva ed evidente. Questo avviene attraverso alla possibilità che viene data all’atleta di avere a disposizione una struttura corporea in completo equilibrio, dove l’avvenuta correzione di ogni alterazione muscolo-scheletrica e posturale ne migliora la capacità di muoversi nello spazio e di rendere secondo una perfetta efficienza biomeccanica.

IL FATTO
L’attentato contro “Charlie Hebdo”, i giornali d’Europa fanno fronte comune

da Journalists helping Journalist (Ong JhJ, Giornalisti aiutano giornalisti)

Con Le Monde, La Stampa, El País, Süddeutsche Zeitung, The Guardian, Gazeta Wyborcza e
con gli altri quotidiani del progetto «Europa» abbiamo deciso di pubblicare un editoriale comune.

L’attentato contro «Charlie Hebdo» ieri a Parigi, e l’odioso assassinio dei nostri colleghi, inflessibili difensori della libertà di pensiero, non è solo un attacco contro la libertà di stampa e di opinione. È un attacco contro i valori fondamentali delle società democratiche europee.
La libertà di pensare e di informare era già stata messa nel mirino, in questi ultimi mesi, attraverso la decapitazione di altri giornalisti, americani, europei o dei Paesi arabi rapiti e uccisi dall’organizzazione dello Stato islamico.
Il terrorismo, qualunque sia la sua ideologia, rifiuta la ricerca della verità e ricusa l’indipendenza di spirito. Il terrorismo islamico ancora di più.
Rifiutando di cedere alle minacce dopo la pubblicazione, dieci anni fa circa, delle caricature di Maometto, il magazine «Charlie Hebdo» non aveva per niente cambiato la sua cultura irriverente. Allo stesso modo noi, giornali europei che regolarmente lavoriamo insieme nel gruppo «Europa», continueremo a far vivere i valori di libertà e di indipendenza che sono il fondamento della nostra identità e che condividiamo. Continueremo a informare, a fare inchieste, a intervistare, a commentare, a pubblicare e a disegnare su tutti i soggetti che ci sembreranno legittimi, in uno spirito di apertura, di arricchimento intellettuale e di dibattito democratico.
Lo dobbiamo ai nostri lettori. Lo dobbiamo alla memoria di tutti i nostri colleghi assassinati. Lo dobbiamo all’Europa. Lo dobbiamo alla democrazia. «Noi non siamo come loro», diceva lo scrittore cecoslovacco Vaclav Havel, oppositore vittorioso del totalitarismo diventato Presidente. E’ la nostra forza.

L’INTERVISTA
Sassi e parole: l’arte povera di Aurelio Fort “presentimento di un’altra logica”

Aurelio Fort, friulano di nascita, vive nelle montagne bellunesi. Fin da ragazzo ha intrapreso un percorso di sperimentazione artistica che ha riguardato fotografia, pittura, scenografia, musica e grafica; da circa trent’anni si è dedicato esclusivamente all’arte visiva. La sua ricerca espressiva coniuga materia, pensiero e tempo con chiare adesioni all’arte povera e all’arte concettuale, ma si estende liberamente anche in altri ambiti formali e nello spirito di diverse esperienze stilistiche. Dal 1980 a oggi ha realizzato un album di canzoni e più di ottanta tra mostre, installazioni, azioni, progetti e performance in Italia, Europa e Stati Uniti.

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Aurelio Fort

“Esistere per Ri/Esistere” è un progetto artistico Internazionale, culminato il 25 aprile 2013 con un’installazione urbana nel centro di Belluno…
Inizialmente, Alfonso Lentini ed io avevamo pensato a un’azione clandestina: spargere e disseminare a sorpresa la città di sassi e parole (le povere armi dei poveri), un “blitz” in un certo senso; poi, via via, si è fatta strada l’idea di estendere questo gesto fino a includere concretamente una moltitudine di persone. Così, grazie al blog che abbiamo aperto su Facebook e a un efficace passaparola, sono arrivate adesioni di artisti, scrittori, poeti, bambini, donne e uomini che si sono riconosciuti in questo progetto e che volevano “farne parte”, un po’ da tutta Italia e da oltre 40 nazioni nel mondo. Ogni sasso aveva dunque un’identità, un nome e un cognome e un’impronta digitale che suggellava la frase “Resistere per Ri/Esistere”. Rinunciando al “colpo d’effetto” era diventata un’installazione civile.

Quel giorno molte persone hanno portato con sé qualche sasso per continuare idealmente l’azione, una sorta d’installazione che prende corpo e vive di vita propria…
… un prolungamento spontaneo dell’opera e una simbolica moltiplicazione di gesti e significati. Era esattamente quello che stava accadendo, e che in parte è avvenuto, ma nella notte tra il 25 e il 26 aprile si è sovrapposto un fatto un po’ sgradevole e non preventivato: gran parte dei sassi vennero trafugati, prelevati, insomma fatti sparire. Questo gesto incivile interruppe brutalmente il “susseguirsi” dell’azione. In seguito i responsabili furono identificati e i sassi recuperati, ma questa è un’altra storia e mi fermerei qui.

L’arte povera porta inevitabilmente all’esplorazione di nuovi percorsi artistici?

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‘Decostruzione dell’attualità’ (2008), Stadt Museum, Bruneck

Ogni corrente artistica nasce dalla volontà di reagire contro un’estetica dominante e apparentemente imperturbabile. L’arte povera ha contribuito non poco a sconvolgere la sensibilità della cultura borghese che era appena riuscita ad accettare i processi elaborati dalle avanguardie dei primi decenni del Novecento. E’ un’arte dell’essenza delle cose. Più che ‘rappresentare’ la materia la ‘presenta’. L’arte povera produce ‘senso’ in un mare d’assurdo e lo fa attraverso la metamorfosi delle cose e dei materiali più insignificanti per poi riconsegnarli in sublimazioni splendenti. Devo ricordare che nel 1978 ho abitato un periodo a Umbertide, in Umbria, e che lì vicino, a Città di Castello, ho realizzato la mia prima “vera” mostra. Da quelle parti aleggiava prepotentemente il nome di Alberto Burri e quello fu il mio incontro formativo con l’arte povera, anche se poi ci furono altri incontri e altri cammini. Per quanto mi riguarda, ho sempre accettato tutte le influenze e tutte le infatuazioni.

Come si colloca, nella tua storia d’artista, il disco “Volano le canzoni”, pubblicato nel 1982?
La musica, il rock, il blues e la canzone d’autore hanno avuto grande importanza nella mia adolescenza e nella mia prima giovinezza, ero fortemente attratto da quel potenziale espressivo in tutte le sue sfumature artistiche, politiche e sociali. Così com’ero attratto dai fumetti, dalla fotografia, dal teatro, dalla letteratura. Scrivevo delle canzoni come tanti (con la chitarra e con la voce), poi venne il desiderio e anche l’intenzione di dare a queste canzoni una forma più completa e una struttura musicale più “corposa” quindi le feci ascoltare a un po’ di persone, piacquero a Mogol e al direttore della Rca. Il disco fu realizzato negli studi di registrazione “Il Mulino” di Lucio Battisti, fu un momento bello e gratificante, poi dovetti sopportare (mio malgrado) tutti i disdicevoli aspetti promozionali e così via. Mi resi conto che scrivere delle buone canzoni e confezionare un buon prodotto discografico costituiva forse un terzo del lavoro, il resto era ‘mestiere’ e altre cose. Il disco non andò neanche male e scrissi nuove canzoni per un secondo album ma ormai senza “godimento” e senza troppa convinzione… in realtà non avevo talento (non quel talento che forse con un po’ di velleità avevo segretamente pensato di avere) e di fare il cantautore per mestiere questo proprio non era nelle mie corde, mi sarei annoiato mortalmente, l’avventura non aveva più alcun fascino ed è finita lì.

“C’era una volta il mare” fa parte del “Trittico di pittura dolomitica”, una forma imponente che non ha bisogno di spiritualità?

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‘C’era una volta il mare’ (2011), Trittico di Pittura Dolomitica, Santo Stefano di Cadore

Abito qui, (non vivo qui… qui è solo lo ‘spazio’ in cui si svolge al momento la mia esistenza), in queste valli silenziose e gelide dove il corpo va in rovina e lo spirito “impietrisce” ai piedi di queste montagne spettacolari, celebri e ottuse che io detesto. Mi è stato chiesto di realizzare un’opera pittorica di grande formato che sarebbe dovuta restare esposta all’aria aperta un anno intero, abbandonata alle intemperie e maltrattata da grandi escursioni termiche. Questa richiesta ha provocato in me una certa eccitazione e ho subito pensato a un’opera come se fosse un deposito di “tempi”, un’opera costruita attraverso una stratificazione di materiali instabili che si sarebbero deteriorati e meravigliosamente compromessi entrando in una specie di simbiosi geologica con il paesaggio. Un paesaggio non ha niente di romantico, un paesaggio colpisce per il suo aspetto preistorico, per quello che suscita nel nostro profondo… da qui il riferimento al mare per dire di un tempo lontanissimo, inumano, al di fuori da ogni memoria, un tempo per noi inimmaginabile che annienta e che annichilisce, più spirituale di così…

I titoli delle tue mostre sono spesso dei giochi di parole non fini a se stessi ma tracce di un percorso teorico da cui ci si può discostare, come per esempio in “Recto/ Verso”…
I titoli delle mie mostre, così come quelli delle mie opere, sono solo il presentimento di un’altra logica, sono un “come se” non sono quasi mai analogici, quasi mai didascalici, non vogliono cioè illustrare né dire che cosa rappresentano, sono un omaggio al ‘senso’ perché vanno incontro al legittimo bisogno di senso (che è un problema dell’uomo). Si cerca di dare una forma a qualcosa che non ha una spiegazione, il mondo non ha alcun senso ma facciamo “come se” ne avesse uno. Per quanto riguarda i giochi di parole, beh, non escludo il piacere di un certo vezzo letterario.

Se è vero che ogni artista viene al mondo per dire una cosa sola, hai individuato quella piccola cosa su cui costruire il tuo mondo?

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‘Il silenzio del secolo nuovo’, (2008), mostra “Sichereit”, Concentart, Berlino

Un artista è quasi sempre uno speleologo. Deve addentrarsi, inoltrarsi in sé e nell’oscurità delle proprie visioni, questo a volte non è comodo. Sono convinto che ogni vera ricerca artistica ruoti in sostanza attorno ad un asse centrale profondo. Fare arte non è solo un atto fisico ma è soprattutto un atto psichico. Il sesso e la morte sono gli unici due accadimenti indiscutibili della vita di chiunque e dei quali sappiamo poco o nulla, ecco, credo che gran parte del mio agire artistico sia ‘generato’ da questo nucleo ossessivo: il sesso, la morte e il loro intimo rapporto all’interno della forma del tempo. In verità invecchio senza imparare nulla (non so capitalizzare), non ricorro mai al così detto “mestiere” e alle sue astuzie: percepisco ogni nuova opera come un esordio, come un azzardo, con lo stesso nervosismo e la medesima ansia. C’è in me un’inclinazione fondamentale all’eccitazione della scoperta, cioè al fascino e di intravedere qualcosa di inedito, una nuova forma, un nuovo sviluppo. Quella “piccola cosa” che in fondo sostiene la mia ricerca è l’inquietudine, la condizione del vivere, nasce dall’esperienza di essere nato, è senza scampo. E’ il niente, ma è il mio niente, un niente non trascurabile.

E’ importante una società in cui abbia senso l’arte? Cosa la distingue da una società in cui l’arte e l’artista sono emarginati?
Nell’arte conta la verità, bisogna trovare l’essenza della vita umana… il sogno. C’è una grande forza che nasce dai sogni. E’ la passione che muove il mondo. Una società che marginalizza l’arte è votata al cinismo, all’ipocrisia, all’indifferenza e non può che dare vita a un mondo vuoto e informe. E’ quello che abbiamo tutti i giorni sotto i nostri occhi.

Si ringrazia Aurelio Fort per la squisita collaborazione e la concessione del materiale fotografico.

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Padri da poco

Si parla spesso delle madri, soprattutto in queste ultime settimane in cui la cronaca è stata segnata da tragici infanticidi. Vorrei questa volta parlare dei padri, di come il loro ruolo si sia modificato in questi ultimi anni e di quanto sia fondamentale, soprattutto perché si possano evitare simili tragedie.
Il mio titolo ha un duplice significato. Da un lato, indica che è da poco che la figura del padre è cambiata. Si è passati da una figura di padre che non si occupava per nulla della prole e affidava il compito educativo e di crescita esclusivamente alla figura materna, a padri talmente coinvolti nella cura da non lasciare più spazio alle madri. Gli eccessi sono strutturali a questo periodo storico e si manifestano in ogni ambito.
Possiamo vedere oggi una nuova figura di padre. Padri preparati e attenti nell’accudimento del bambino, che sanno preparare pappe e provvedere alla pulizia e cura dello stesso. Padri che si dedicano ai figli, sanno che medicinali somministrare loro in caso di bisogno, si interessano delle tappe evolutive, giocano con loro, li seguono nei compiti. A volte troppo e in modo morboso. Talvolta, questa cura arriva all’eccesso tanto da passare al rischio opposto, cioè all’esclusione della figura materna e a fare coppia esclusivamente col bambino. In questo caso la relazione di coppia cessa di esistere e il padre vive esclusivamente per il bambino, soffocandolo esattamente come accade quando a fare coppia col bambino è la madre stessa. La madre esclusa totalmente dalla dinamica relazionale famigliare è costretta a spostare altrove il proprio desiderio e interesse.
Nelle relazioni famigliari è sano che si assista ad una triangolazione, quando ovviamente è possibile, cioè quando sono presenti entrambi i genitori. In ogni caso dinamiche relazionali fisse ed esclusive non sono mai indice di salute.
Il titolo “Padri da poco” può riferirsi anche alla situazione opposta: cosa accade quando la figura paterna è carente o manca del tutto? La funzione paterna è fondamentale affinché la madre non fagociti ciò che ha generato. Mi spiego meglio. Il desiderio materno ha di per sé la naturale predisposizione ad inghiottire ciò che essa stessa ha generato, cioè a riprendersi il proprio frutto.
La funzione paterna è quella funzione, incarnata dal padre reale o da un’altra figura, che si frappone tra il desiderio materno e il bambino, impedendone così la fagocitazione. Quando la funzione paterna è carente o manca del tutto, allora il soggetto porterà i segni di tale mancanza manifestando diversi disagi fino a vere e proprie patologie.

Chiara Baratelli, psicoanalista e psicoterapeuta, specializzata nella cura dei disturbi alimentari e in sessuologia clinica. Si occupa di problematiche legate all’adolescenza, dei disturbi dell’identità di genere, del rapporto genitori-figli e di difficoltà relazionali.
baratellichiara@gmail.com

L’OPINIONE
Cronache dalla palude

L’articolo 19 bis del per ora abortito decreto legislativo sul fisco ha rappresentato per il governo una brutta figura, senza scusanti possibili. Per la gioia di numerologi e cabalisti, appena sopite le polemiche su un celeberrimo art. 18, è ora quello che lo segue nella sequenza dei numeri naturali a tenere banco nella pubblica opinione: c’è già chi azzarda che il prossimo potrebbe essere il numero 20 di un qualche prossimo provvedimento o semmai una combinazione arcana dei fattori che compongono i precedenti; cosa questa che pare più difficile dato che 19 è un numero primo. Vedremo.
La brutta figura comunque rimane e mette in campo una importante questione di metodo. Perché, se è pur vero che nelle decisioni del governo si deve esplicare un ovvio primato della politica, è discutibile l’idea di poter ritoccare in una riunione di qualche decina di minuti un testo che incide in una materia complessa come la legislazione fiscale e che aveva richiesto ai tecnici parecchie settimane di lavoro. Da questo punto di vista, bene ha fatto Renzi ad assumersene in toto la responsabilità, né d’altronde poteva essere diversamente.
Come è naturale in occasioni come questa, tutti gli oppositori del governo cercano di trarre il massimo profitto dall’incidente, mentre gli organi di informazione hanno sfornato miriadi di ipotesi sul suo reale significato, concentrandosi prima sui possibili fini diretti per poi elaborarne sofisticate letture subliminali, che lo legherebbero indissolubilmente, come in un romanzo di Don Brown, a tutte le altre grandi questioni politiche ancora aperte, dall’elezione del Capo dello Stato alle riforme costituzionali ed alla legge elettorale: segnali, ammiccamenti, ritorsioni, allusioni, minacce velate, depistaggi e quant’altro. D’altra parte i giornalisti italiani possono essere accusati di tante cose, ma certamente non di mancanza di fantasia.
Sul fatto che si sia trattato di un tentativo messo volutamente in atto per togliere le castagne dal fuoco a Berlusconi, a titolo di ricompensa per qualche patto scellerato presente o futuro, e di cui l’attuale capo del governo era del tutto consapevole è questione sulla quale ciascuno ha una propria ben ferma opinione, legata inevitabilmente al giudizio a priori che dà di questa fase politica. Se di questo si è trattato non si può tuttavia non notare la totale ingenuità del tentativo, con quello che di solito dovrebbe essere un codicillo oscuro infilato in un testo fumoso, messo invece in piena evidenza in un articolo tutto suo. In un testo che, oltretutto, avrebbe dovuto passare due, seppur consultive, discussioni parlamentari.
O si tratta quindi di un ‘segnale’ (di cui natura, obiettivo e significato personalmente fatico a cogliere un razionale condivisibile) oppure di un altro episodio di pressapochismo all’italiana, che non può essere scusato nemmeno dalla necessità di fare in fretta. Pur non essendo convinto che le spiegazioni più semplici siano sempre le più corrette, in questo caso personalmente propendo per la seconda ipotesi. Consapevole di attirarmi in questo modo, da parte di chi è convinto che la realtà consista prevalentemente nella rappresentazione artefatta di trame occulte tessute da abilissimi quanto abbietti manovratori, prevedibili accuse di “ingenuità”, difetto tutto sommato lieve per un giovane, ma che acquista inevitabilmente un significato assai meno benevolo se attribuito a persone di età inesorabilmente matura. Ce ne faremo una ragione.

LA SEGNALAZIONE
I libri più belli del 2014: vota online il ferrarese Diego Trentini

Diego Trentini, aspirante scrittore ferrarese, è tra i dieci finalisti selezionati dalla redazione del Festival internazionale di Poesia di Genova e in questi giorni sta partecipando al concorso di Repubblica “I libri più belli del 2014. Premio community”  assegnato dai lettori. Il libro finalista s’intitola “0532 prefisso del blues” e si può votare on-line ancora per qualche giorno, fino al 12 gennaio, in modo molto semplice, accedendo alla pagina e selezionando il libro scelto [vedi].
Di seguito ne pubblichiamo il primo capitolo e facciamo il tifo per questo scrittore emergente brillante, ironico e capace. Il 12 gennaio stesso verranno decretati i vincitori con premiazione a Genova.

Il libro, in rima sciolta e verso libero, racconta l’atmosfera, il mood generale del periodo 1980-1995, momento storico che ha segnato interiormente ed esteriormente la generazione – X. Convinto che una sorta di ironico determinismo storico-mediatico abbia plasmato le menti e il modo di essere dei quarantenni di oggi, l’autore utilizza il pretesto dell’autobiografia e della descrizione di un contesto geografico e sociale marginale (Ferrara), con richiami alla storia contemporanea, alla musica e ai robot giapponesi.

di Diego Trentini

0532 prefisso del blues
che ho visto fiorire
in un asilo blu
di via Krasnodar,
che fa molto krautrock, cioè
quel genere di musica
che ascoltava mio zio
(mioddio!),
e io non capivo
però m’alienavo precoce
chiuso in una stanza
in segreto divagare
ondeggiare affondare.
Eran gli infausti anni ’80 bellezza:
gli anni dell’individualismo,
del Buondì e della Girella,
del Drive in, della Thatcher
e du Roi Michel,
che non era Míchel del Real
– gran portento della Quinta –
ma Platini da Saint-Étienne.
Non i platonici anni ’80
che eternamente ritornano di moda
– con Nietzsche che nella tomba si rivolta –,
ma gli Ottanta
che han posto le fondamenta
dell’italico fallimento,
del debito pubblico sopra cento.
I veri Ottanta,
quando Craxi,
il Mozart delle tangenti,
incurante si beccava
da Silvio et al. le palanche
e diceva così fan tutti
– sottinteso: i farabutti.
Non il decennio idealizzato
della Milano da bere,
ma quello della guerra fredda
in cui ci si cacava sotto
per l’apocalisse nucleare
che era lì lì per arrivare
– nonostante la sigla di Gundam
non aver paura mai
perché qui c’è
chi pensa a te
e quella di Goldrake
sto tranquillo
se ci sei tu.
E ancora
e non tanto
gli Ottanta del mondiale vinto,
ma quelli degli alberi
in cui fiorivan le siringhe,
in cui l’unica eroina
non era Wonder Woman
ma quella che a fiumi
scorreva in vena.
Di più,
gli anni in cui
persino i videogame
non erano innocui,
giochi per bambini innocenti,
ma risultavano alquanto ansiogeni
e per questo molto attraenti:
Ghosts ‘n Goblins, Pacman,
Space Invaders, Double Dragon, Tetris e così via.
Infine,
il decennio del caso Tortora,
in cui vedemmo il bianco
diventare torbido
e scoprimmo di non essere candidi,
perché alla persona onesta
sovente non basta
trovarsi nel migliore
dei mondi possibili.
Quegli Ottanta
in cui ci si domandava anzitempo
cosa ne sarebbe rimasto,
a parte un retrogusto di squallore
sottinteso.
0532 prefisso del blues
che già aleggiava in un asilo
da periferia sovietica mentre
si stava come
d’estate
le lucertole
sui muretti.

Diego Trentini, nato a Ferrara il 10 Maggio 1975, ha vissuto in città fino ai trentatré anni e ora abita a Bondeno. Insegna Storia, Filosofia e Sostegno, come precario. E’ laureato in Filosofia, specializzato in Storia della filosofia, abilitato Ssis. Si autopubblica sul sito “Il mio libro” [vedi], tra i suoi titoli: “Goal! (ovvero quando un numero uno faceva il giocatore)”, “L’inferno. E’ gli altri”, “Presente imperfetto”, “Achtung! Pericolo crolli“, “Lapsus digitali”.

LA STORIA
Quando le parole non bastano

Ecco il segreto: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi.

Spesso è solo una foto capovolta o uno scarabocchio che svela forme sorprendenti a insegnarci la giusta prospettiva.
Queste sono le forme che ama Daniela Pareschi, autrice della collana Disegniamo insieme, edita per Lantana Editrice al figlio Elia, di cui è stato presentato il secondo volume – “Il mare, le onde” – per il ciclo Autori a corte.
Ferrarese di nascita, genovese e romana di adozione, il disegno è passione e studio, la visita a Cinecittà è il momento che ne modifica la percezione effettiva, con la sua possibilità di sviluppare concretamente mondi interiori, di creare suggestioni srotolate dall’immaginazione con supporti tecnici (il corso di architettura) e artistici (bozzettistica), rendendo vivo a ogni effetto qualcosa che prima aveva solo due dimensioni.
La magia si riduce, dopo l’arrivo del 3D. Cambiano le categorie nel tempo, cambia il cinema con l’avvento del digitale, i mezzi e gli strumenti; ma non la possibilità di tradurre in immagini un mondo interiore che si riversa nel disegno e nella sua tecnica.
Come in ogni cosa, è la capacità di guardare il motore da accendere; è la capacità di vedere la macchina con cui intraprendere il viaggio. Di “mettere gli occhi”, direbbe Wilhelm Reich.
Per riempire uno spazio interrotto, nelle teorie del disegno dedicate ai bambini tra l’essenziale e il minimale di Bruno Munari e il fiabesco aggraziato di Walter Disney, l’intento è quello di fornire la chiave per quella porta che rende in grado di esprimersi attraverso una matita e un foglio di carta.

Gli adulti non capiscono mai niente da soli ed è una noia che i bambini siano sempre eternamente costretti a spiegar loro le cose.

La capacità di guardare, essenziale in un bambino tanto quanto in un adulto, conduce a due differenti porte. Ci sono la visione e la scoperta, l’esplosione interiore di un mondo di immagini fatto di sensazioni, ma che esige proprie regole come ogni linguaggio. E ci sono milioni di sguardi che possono vedere, e restituire, milioni di immagini differenti. In una condizione in cui non c’è l’insegnante e l’allievo, l’adulto e il principiante, la piena coscienza e la chiusura a doppia mandata di un baule abbandonato.
Perché non si può discutere di fronte a un bambino che disegna un boa nell’atto di digerire un elefante, neppure quando tutti si ostinano a vederci solo un cappello dalla falda larga; perché quel bambino ha osservato e immaginato, perché sapeva esattamente cose guardare e perché riprodurre; perché era la forma di espressione naturale, quello che è il disegno; e perché a volte è semplicemente più semplice disegnare che non spiegare. “Non riesco a dirtelo, mamma; e allora te lo disegno.” Questa è l’etica dei libri della collana, costruita su una parte teorica ed esplicativa, razionale, da un lato; e di una sciolta e visionaria, semplice e impastata di collegamenti che tiene per mano fantasia e realtà, immaginazione e concreto, in un ambizioso progetto dalla semplice comprensione. Dove lettere e parole, sintassi e grammatica sono tratti, colori, proporzioni e sezioni.

Sarebbe meglio ritornare alla stessa ora… Ci vogliono i riti.

Regole, stili, codici e tecniche, sono i rituali da rispettare, che consentono proporzione della realtà, permettendole di spiegare la fantasia; di fluire una immagine interiore a un pennello.
Facce e corpi, colori ed emozioni, forme e cose si intersecano fino a creare un punto di incontro diverso per ognuno di noi, incrociati a un semaforo che ne detti le regole e li smisti nelle giuste direzioni. Incoraggiando l’emisfero sinistro, severa maestrina deputata alla logica, all’analitica e alla razionalità; e lasciando assopito l’emisfero destro, sognatrice ed emotiva zia prodiga di regali, fino al momento in cui la torta visuale è pronta da proporre. Depistandola momentaneamente, permettendole poi di collegare rotondi riccioli blu alle onde del mare, ordinate sull’attenti delle tre parche benigne che ne regolano la correttezza formale – profondità, direzione e superficie; fatiscenti omini scheletrici danzanti, con ovali sulla punta delle dita a spogli alberi d’autunno; mostri e paure che diventano occhi e fauci spalancate, nascosti in forme geometriche e nuvole; tre facce apparentemente uguali da guardare, che divengono tre persone distinte nella loro unicità, alterate non da un morphing dispettoso ma dalla semplice attaccatura dei capelli. E ancora collage, decorazioni, pagine al contrario e dialoghi che si completano a vicenda, complementari.
Come la teoria dei colori.

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Educazione ed emancipazione in Gramsci. All’Ariostea una rilettura di Fiorenzo Baratelli

Da: Istituto Gramsci

Venerdì 9 gennaio
Ciclo: “Viaggio nella comunità dei saperi. Istruzione e democrazia
“La formazione dell’uomo e il principio educativo in Gramsci”.

Saluto dell’Ass. alla Cultura e Vicesindaco Massimo Maisto
Conferenza di Fiorenzo Baratelli
Presenta e coordina Anna Quarzi
“Ogni maestro è sempre scolaro e ogni scolaro maestro”

Antonio Gramsci (Ales 1981-Roma 1937) fu politico, filosofo, giornalista, linguista e critico letterario. Nel 1921 fu tra i fondatori del Partito Comunista d’Italia e nel 1926 fu incarcerato dal regime fascista. Nel 1934 in seguito al grave deterioramento delle sue condizioni di salute, ottenne la libertà condizionata e fu ricoverato in una clinica, dove passò gli ultimi anni di vita.

È uno dei più importanti pensatori del XX secolo. Nei suoi scritti di tradizione marxista, Gramsci analizza la struttura culturale e politica della società. Il problema educativo fu per lui di basilare importanza in quanto espressione, bisogno storico di crescita, sociale e culturale delle classi lavoratrici e delle nuove generazioni. I programmi indirizzati agli adulti figuravano con preminenza in questa strategia educativa ad ampio spettro Ha generosamente lasciato alla cultura italiana un prezioso patrimonio di idee sull’educazione, ancora oggi di grande attualità

Sala Agnelli,Biblioteca Ariostea, FERRARA dalle ore 17 alle ore 19

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L’ANALISI
Tecnologia e lavoro: il fantasma del luddismo

Un fantasma si aggira nelle nostre società opulente flagellate dalla crisi; aveva accompagnato lo sviluppo industriale e si ripresenta oggi in forme nuove, spesso non immediatamente accessibili al senso comune: è il timore che la tecnologia, le macchine, possano distruggere il lavoro e l’occupazione, lasciando fasce di popolazione sempre più ampie in balia della miseria. Fino a qualche anno fa si guardava con sufficienza e qualche facile sarcasmo alle rivolte dei luddisti nell’Inghilterra del XIX secolo, ritenute col senno di poi, ovvero dopo che furono migliorate le condizioni economiche e sociali, infondate e basate su paure irrazionali.

Oggi, il dubbio che le nuove tecnologie digitali, pur garantendo sviluppi tutti da esplorare ed ancora oscuri ai non iniziati, possano anche distruggere occupazione in modo irreversibile, sta prendendo nuovamente piede; questa preoccupazione professata da autorevoli esperti, che la danno come prospettiva assolutamente probabile, per non dire quasi certa, si contrappone a quella galassia tecno-visionaria ed utopica che preconizza per l’effetto delle tecnologie le più fantastiche evoluzioni della razza umana. Effettivamente, negli ultimi due secoli, lo sviluppo tecnologico ha contribuito ad alimentare le condizioni che hanno migliorato la qualità della vita di molte nazioni e la tecnologia ha grandemente contribuito a spostare milioni di persone dal settore agricolo a quello industriale, poi da questo a quello dei servizi. Ora, le nuove tecnologie digitali, in rapida diffusione, hanno alcune caratteristiche distintive rispetto alle tecnologie che hanno animato le precedenti rivoluzioni industriali che, in estrema e forzata sintesi, hanno sostituito il lavoro manuale con quello meccanico: da un lato, esse si reggono su una gigantesca struttura fisica tangibile, dall’altro, possono essere utilizzate per razionalizzare e gestire in modo intelligente qualsiasi tipo di processo in ogni settore: dalle catene di fornitura globale ai processi di apprendimento, dalla medicina alla ricerca aerospaziale, dallo sport al turismo, dall’autodiagnosi alla riparazione delle sue stesse componenti. Infine, sono sempre più spesso in grado di simulare e riprodurre operazioni che, fino a poco tempo fa, si pensava fossero attributi del cervello e patrimonio esclusivo della cognizione umana. Superata questa soglia, messo sotto esame il comportamento del cervello, avviata una ricerca massiva sull’intelligenza artificiale, agganciato stabilmente il comportamento umano alle applicazioni tecnologiche, si aprono scenari che, ad un tempo, esaltano e preoccupano. La domanda diventa dunque quanto mai attuale: la tecnologia digitale crea o distrugge lavoro? Oppure, semplicemente, trasloca l’occupazione spiazzando quote crescenti di lavoratori che rischiano così di essere espulsi dai processi di consumo e di creazione di valore?

Lasciamo un attimo in sospeso questa domanda per analizzare brevemente il nostro rapporto con queste tecnologie ed alcune conseguenze che ne derivano. Noi tutti infatti siamo abituati a cogliere solo un lato del problema: quello che ci vede come fruitori, come utilizzatori di dispositivi e consumatori di informazioni che ci vengono presentate ora gratuitamente ora a pagamento, a volte richieste a volte subite nostro malgrado. In questo preciso momento ognuno di noi è connesso ad un dispositivo digitale collegato in rete (altrimenti caro lettore non potresti leggere questo articolo). Per il semplice fatto di essere connessi stiamo fornendo informazioni al sistema: lo facciamo quando telefoniamo da qualsiasi dispositivo, quando usiamo il navigatore dell’auto, quando facciamo zapping in tv o quando ci sintonizziamo su una stazione radio. Lo facciamo quando usiamo il bancomat o la carta di credito e quando scarichiamo ed usiamo una qualsiasi app. Forniamo informazioni quando entriamo ed usciamo dall’autostrada usando il telepass, quando facciamo acquisti online o quando usiamo una tessera fedeltà o quando usiamo i social network. Certo, in alcuni casi paghiamo e, in cambio, riceviamo servizi che a volte ci semplificano la vita; in altri casi, non paghiamo nulla ignorando però che la nostra partecipazione gratuita è l’elemento chiave per generare enormi profitti. Non solo ne siamo consapevoli, ma forniamo informazioni ogni volta che passiamo sotto l’occhio di una telecamera di videosorveglianza ed ogni volta che usiamo la nostra tessera sanitaria; quando attraversiamo il tornello della metropolitana o prendiamo posto su un treno o un aereo. Finora tutte queste informazioni erano archiviate su supporti poco interattivi, sostanzialmente isolate tra di loro: la tecnologia digitale consente ora, con sempre maggiore facilità, di collegarli e renderli facilmente accessibili. Ma non solo. L’internet delle cose sta collegando sempre più strutture ed oggetti in gigantesche reti che producono quantità immense di dati digitali, rendendo possibile una realtà aumentata che arricchisce l’esperienza dei sensi incorporando informazione aggiuntiva in forma digitale. Su piccola scala lo vediamo nei Google glass, nelle applicazioni domotiche e, crescendo di livello, nelle applicazioni industriali di workflow management, nelle tecnologie di traffico intelligente, nelle nascenti smart city, negli ecosistemi militari, nella rete di calcolatori che gestiscono la finanza globale.

Da un lato, dunque si sta costruendo un nuovo ambiente di vita, digitale e digitalizzato, intelligente, caratterizzato da una sensoristica estremamente diffusa che raccoglie informazioni in modo sempre più automatico, depositandola in database sempre più capienti, numerosi ed interconnessi; dall’altro le macchine d’uso comune diventano sempre più intelligenti ed interagiscono sempre meglio con questo ambiente anche a prescindere dalle nostre decisioni. Infine noi stessi offriamo continuamente informazioni a questo ambiente attraverso i nostri comportamenti quotidiani e non solo per il fatto di essere connessi consapevolmente alla rete internet che conosciamo. Le tecnologie digitali consentono di valorizzare tutto questo moltiplicando esponenzialmente la produzione di informazione, rendendo informazioni inutilizzabili immediatamente disponibili, annullando i costi della raccolta di informazione e, in ultima istanza, conferendo valore d’uso enorme a qualcosa che prima, pur potenzialmente presente, non poteva essere utilizzato facilmente. Ovviamente questo è possibile se esistono le infrastrutture per farlo e se i cittadini continuano a funzionare come comoda fonte di informazione. Si tratta, a ben vedere, di una situazione senza precedenti che, per certi versi, ribalta la consolidata logica di un mercato dove ogni cosa ha un prezzo riconoscibile; dietro l’uso gratuito di molta tecnologia di comunicazione vediamo infatti la realtà, piuttosto inquietante per alcuni versi, di un sistema dove noi stessi (o meglio tutte le nostre scelte e comportamenti) siamo la merce che viene venduta. Big data è il nome attraverso cui si riconosce il nuovo campo disciplinare destinato a governare questa immensa mole di informazioni digitali attraverso la potenza computazionale dei calcolatori (computer).

Tutto questo pone ovviamente davanti a sfide gigantesche non ultima quella del lavoro che qui ci interessa. E’ assai probabile infatti che l’applicazione massiccia delle tecnologie digitali porterà all’abbattimento di moltissimi posti di lavoro anche nel settore dei servizi (inteso in senso allargato), seguendo il medesimo trend di quanto successo nell’agricoltura prima e nell’industria poi. Porterà anche ad aprire nuovi settori occupazionali tutti da esplorare e ad alto contenuto di innovazione e creatività, che con ogni probabilità potranno premiare solo le persone più competenti e preparate. Forse, spingerà anche molte persone a guardare con rinnovato interesse ad attività più semplici e naturali, magari facendo impresa innovativa in campo culturale o nel settore agroalimentare che rappresentano pur sempre delle autentica eccellenze italiane. Che ne sarà tuttavia della centralità del lavoro come strumento principe per la costruzione dell’identità e giusto mezzo per guadagnare da vivere? E come conciliare questa situazione con i valori fondativi della nostra Carta Costituzionale? Il documento fondativo del patto sociale su cui si regge la nostra democrazia all’articolo 1 dichiara infatti che:

“L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della costituzione”.

Con tali domande lasciamo anche questo scenario possibile, per prendere in esame un’altra vecchia idea, forse poco conosciuta, che sembra conservare una forte carica utopica: quella del reddito di cittadinanza, nozione che a volte e frettolosamente vene considerata equivalente a reddito di base o reddito minimo universale. In verità, esiste più di una differenza tra reddito di cittadinanza e reddito minimo anche se entrambe condividono la prospettiva comune di non abbandonare nessuno al proprio destino: il primo, infatti, richiama il valore etico dell’accesso universale ai frutti delle risorse comuni; il secondo, invece, è selettivo e rimanda al valore del contrasto alla povertà essendo direttamente connesso alla disponibilità di lavoro e di reddito. Come noto, si tratta di un’erogazione monetaria garantita ad intervalli di tempo regolari e per tutta la vita di una persona. Viene riconosciuta a tutti coloro che hanno cittadinanza e residenza, per consentire una vita minima dignitosa; l’erogazione è cumulabile con altri redditi derivanti da lavoro, da impresa e da rendita ed è indipendente dal tipo di attività lavorativa, dalla nazionalità, dall’orientamento sessuale, dal credo religioso e dalla posizione sociale.

In un mondo caratterizzato da un surplus di produzione che impone una sfrenata corsa al consumo, in un contesto che pone forti interrogativi circa la proprietà e l’uso degli enormi archivi di informazioni digitali, dove l’informazione è importante, largamente disponibile poiché largamente prodotta dai comportamenti dei cittadini digitalizzati e fortemente manipolabile, dove aumentano di pari passo la concentrazione della ricchezza e la povertà, dove la piena occupazione è ormai un miraggio, l’idea di un reddito di cittadinanza universale sembra essere pertinente al di là di ogni doverosa considerazione di tipo morale. In assenza di alternative sostenibili, non si può escludere neppure che tale soluzione diventi, in prospettiva, socialmente necessaria se solo pensiamo al potenziale esplosivo connesso ad una forte disoccupazione a fronte della crescente forbice tra ricchi e poveri, effetto non secondario dall’ultima ed attuale fase del capitalismo sostenuto dalle nuove tecnologie.

In aggiunta alle motivazioni di ordine etico e sociale, possiamo dunque pensare che i cittadini ricevano un trasferimento monetario (anche) per il semplice fatto di fornire comunque informazioni indispensabili al sistema anziché pagare per ottenerne i servizi? In uno scenario caratterizzato, se non dalla fine del lavoro, quantomeno da una sua fortissima crisi, può essere il reddito di cittadinanza la soluzione capace di semplificare e rilanciare il sistema di welfare, garantire la copertura dei bisogni essenziali, salvaguardare gli spazi di intrapresa e produrre quel minimo di giustizia sociale che il vecchio modello non sembra più in grado di garantire?

L’APPUNTAMENTO
La rivoluzione di papa Francesco, incontro a Ferrara con Massimo Faggioli

“Papa Francesco, todo cambia?” è l’accattivante titolo scelto da Massimo Faggioli per un incontro-intervista in pubblico in programma a Ferrara sabato 10 alle 17 al Mum, il Museo Ugo Marano di via Benvenuto Tisi da Garofalo 1, ospitato nella chiesa sconsacrata dei santi Pietro e Paolo accanto alla scuola media Boiardo.

Faggioli insegna Storia del cristianesimo alla University of St. Thomas a Minneapolis/St. Paul e collabora con vari giornali, fra i quali l’Huffington Post. Si autodefinisce “italiano, ferrarese e americano, con pesanti e decisivi trascorsi in Francia e Germania”. Inoltre, “cattolico di scuola Vaticano II e democratico”. Considera ormai irreversibile il processo di riforma avviato dall’attuale pontefice, Jorge Bergoglio. A intervistarlo sarà Sergio Gessi, direttore di Ferraraitalia che organizza l’incontro in collaborazione con l’Azienda per i servizi alla persona e la Città del ragazzo.

Autore prolifico, Massimo Faggioli ha pubblicato, fra gli altri, “Vatican II: The Battle for Meaning” (2012; trad. italiana e portoghese 2013); “True Reform: Liturgy and Ecclesiology in Sacrosanctum Concilium” (2012; trad. italiana 2013); “Nello spirito del concilio. Movimenti ecclesiali e recezione del Vaticano II” (2013), “Papa Francesco e la chiesa-mondo” (2014). E’ in preparazione un nuovo volume sulle mancate riforme del governo della chiesa cattolica negli ultimi cinquanta anni.

LA NOTA
Il biglietto misterioso

La Befana vien di notte con le scarpe tutte rotte con le toppe alla sottana
Viva, Viva La Befana!

Il curioso piccione ferrarese mi aveva lasciato la sorpresa. E non parlo della sorpresina cui tutti pensiamo quando vediamo un piccione, quella che dicasi portare fortuna, per intenderci. Si tratta di ben altro, cari amici. Sul mio davanzale accarezzato dalla brina c’era, infatti, un bel biglietto arrotolato. Quasi una piccola pergamena. La mia curiosità era alle stelle ma, prima di scartarlo, così come si fa con un gustoso ovetto di cioccolata del quale si vuole immaginare, indovinare e pregustare la sorpresa, volevo sognare un po’, ancora per qualche minuto. La fantasia voleva volare, libera.
Cosa ci poteva essere scritto su quel piccolo pezzo di carta? Quale messaggio poteva contenere? Parole misteriose? Parole d’amore? Una favola d’altri tempi? Un segreto mai svelato? Una storia miracolosa? Uno scoop che avrebbe cambiato la mia vita? Una confessione unica? Cosa avrei voluto veramente trovarci? Cosa mi aspettavo? Romantica come sono, avrei voluto leggerci parole d’amore, arrivate da lontano. Un compagno ingegnoso, sagace, ardito e astutamente fantasioso come il mio sarebbe capace anche di questo, facendo sorvolare il ventoso Mediterraneo a quel piccolo pennuto spaventato. I miei pensieri erano, però, ancora stanchini, erano le sette meno un quarto del mattino e il caffè ancora non mi aveva svegliato del tutto. Dovevo aprire quel biglietto, quindi, e presto, per destarmi completamente e, soprattutto, per placare quella curiosità da scimmietta che non mi faceva ragionare e fantasticare troppo (scimmia o non scimmia sfido chiunque a non sentire il bisogno di precipitarsi ad aprire un bigliettino lasciato da un piccione sulla propria finestra…).
E voila’, allora, eccomi a leggere. Incredibile. Mi scrive la Befana. “Fa freddo, cara amica, e io arrivo, come sempre, con vento di tramontana e calze rotte. Quest’anno, nella tua grande calza appesa al camino, ti porto buone notizie, nessun pezzo di carbone, non te lo meriti proprio. Semplicemente perché dici sempre quello che pensi e aiuti bambini, anziani e cani, i miei veri amici. Mi piace poi come scrivi, sempre avvolta nella fantasia e nel rosa, nel voler trovare il bello a tutti i costi, nel saper dire e credere che la bellezza salverà il mondo. Devi però stilare un tuo elenco di buoni propositi, se vuoi qualche dolcetto in più. Affare non semplice.
Porterò, tuttavia, molto carbone a questo mondo, per le sue malefatte, ci tengo a dirtelo, un carbone nero come l’inferno, ma anche simbolo dell’energia della terra. Questa terra grande meravigliosa. Sai che, in fondo, sono quasi una fata-maga generosa ma anche severa, simile a Madre Natura pronta a essere bruciata come un ramo secco per poter rinascere dalle ceneri come giovinetta Natura, per ridar luce a una luna nuova. Prima di perire, però, passo a distribuire doni e dolci a tutti, in modo da piantare i semi che nasceranno l’anno prossimo. Sono un anno vecchio, pronto a sacrificarsi per far rinascere un nuovo periodo di prosperità. Mi sacrifico ancora, mia cara amica, ora come ogni anno, come sempre, da secoli. Questa volta però ti chiedo uno sforzo particolare. Sono stanca di sacrificarmi ogni benedetto anno che passa su questa terra, senza vedere nuovi frutti, senza scorgere veri cambiamenti positivi in questo mondo difficile, senza cogliere un segno di pentimento in ogni uomo che combini seri guai, per usare un gentile eufemismo. Gli esseri pensanti mi sembrano sempre meno tali, gli animali sanno essere più umani. Dovresti solo provare ad aiutarmi a far comprendere ai tuoi simili alcuni concetti fondamentali e esortarli con questi pensierini: regalate amore e tempo, fate pupazzi di neve, leggete di più (seriamente e intensamente), raccontate favole a lieto fine, fate castelli di sabbia, andate in bicicletta, ascoltate la vostra canzone preferita tante volte, improvvisate, fate attenzione al lupo, sfidate le comete, provate sempre e ora a fare ciò che vi piace, mangiate gelati e noccioline, conoscete i vicini di casa, spegnete la luce e non fate scorrere l’acqua inutilmente, salite sul primo treno che passa, rispettate la natura, mangiate una mela al giorno, fate un budino o impastate una torta, preparate una zuppa calda per un povero, fate un pic nic in campagna, parlate con gli angeli (soprattutto con il vostro paziente angelo custode), passeggiate un pomeriggio di sole senza smartphone, accarezzate le onde del mare con i piedi nudi, sognate, organizzate un viaggio impossibile, improvvisate cortesie, distribuite atti di gentilezza a casaccio, sfogliate margherite sapendo già che uscirà m’ama. Sorridete di più e sempre e, come diceva Augusto, anche tu, cara amica, festina lente, affrettati lentamente.
A questa lista, che ti chiedo di provare a seguire, ti prego di aggiungere anche solo due nuovi propositi. Il compito e’ un po’ arduo ma so che per te sarà un’avventura. Vai, dunque, per il mondo e aiutami a diffondere queste parole. Ognuno saprà cosa farne e se anche solo una di queste cose verrà realizzata da qualcuno dei tuoi amici, potremo sperare che qualcosina cambi. Piano piano.
Auguri dalla tua cara Befana, allora, piccola amica mia. Take care”.

Che bigliettino curioso…

IL FATTO
Lettera aperta da una scrittrice tedesca derubata a Ferrara

Cari lettori di Ferraraitalia,
sono una scrittrice tedesca e sono arrivata a Ferrara sabato scorso, con l’idea di fermarmi qualche giorno nella vostra splendida città, prima di riprendere il mio viaggio per Roma. Questo viaggio a Ferrara era un progetto accarezzato da molto tempo, in onore di Giorgio Bassani, uno scrittore che mio marito ed io ammiravamo molto. Purtroppo la prima notte a Ferrara, una città che (meraviglia delle meraviglie!) non ha bisogno di un solo parcheggio controllato, la mia macchina è stata svaligiata in via Baluardi, molto vicino a Piazza Travaglio. L’avevo parcheggiata là, con due valigie e delle scatole all’interno, perché sembrava al sicuro e il padrone dell’albergo mi aveva garantito che non c’era pericolo. I ladri hanno preso le mie valigie che contenevano dei vestiti e delle scarpe, anche vecchi, e del materiale elettronico. Molte di queste cose non hanno un grande valore materiale e in più sono assicurata, ma ciò che mi rende inconsolabile è che hanno per me un grande valore sentimentale e per molti versi sono insostituibili. Mio marito, con cui volevo fare questo viaggio, è morto in ottobre. Quasi tutto quello che c’era nelle valigie ha un significato emotivo, è pieno di ricordi ed è quindi molto prezioso.
Ferrara sembra così cordiale e tranquilla. La gente è rilassata, il posto molto bello e tutti ne sembrano orgogliosi. Non c’è nulla che dovrebbe rendere la gente più orgogliosa della propria città, se non che altri si possano sentire sicuri e benvenuti. So che la povertà può indurre a rubare le cose degli altri, e che lasciarle incustodite può rappresentare una tentazione. Io non sono ricca, ma sono pronta ad offrire 400 euro per la restituzione del contenuto delle valigie, che è molto di più di ciò che varrebbero se andassero vendute in un negozio dell’usato, ma che ha per me un significato incalcolabile. Non ho bisogno delle valigie, né degli strumenti di valore che sono stati rubati. Non mi interessa chi ha preso le mie cose. Non ho bisogno della polizia. Vi chiedo solo, per piacere, di ridarmele indietro o di aiutarmi a recuperarle.
Potete rivolgervi al giornale in modo anonimo (interventi@ferraraitalia.it) o chiamarmi allo 06 9563532, per accordi sullo scambio di soldi e cose.
Grazie infinite,
Esther Kinsky

LA FAVOLA
Due fratelli

“L’Epifania tutte le feste si porta via”, recitava un vecchio detto popolare. È tempo di tornare al lavoro e a scuola, ma abbiamo ancora il tempo per un ultimo regalo e questa volta abbiamo pensato ai più piccoli. Abbiamo colto l’occasione della nostra chiacchierata con Luigi Dal Cin [vedi] per chiedergli di regalarci una storia da donare a tutti i giovani lettori e lui ha scelto un racconto tratto da un’antica fiaba eritrea che affronta il tema della paura di ciò che non si conosce… per affrontare il nuovo anno con un pizzico di fiducia in più nell’Altro.

di Luigi Dal Cin

C’erano un tempo due fratelli che si chiamavano uno Giuseppe e l’altro Giacobbe.
Giuseppe viveva nelle terre d’occidente, Giacobbe nelle terre d’oriente.
Questi due fratelli avevano abitato insieme per lungo tempo, ma poi si erano dovuti separare per cercare fortuna e non si erano più incontrati.
Più passava il tempo, più il desiderio di rivedersi diventava forte, finché una medesima mattina ciascuno di loro lasciò il proprio paese per andare a far visita al fratello.
Giuseppe così partì dalle terre dell’ovest e Giacobbe partì dalle terre dell’est, senza sapere nulla l’uno dell’altro.
E mentre camminavano, si avvicinavano sempre di più, finché a metà strada si incontrarono.
Ma era già notte, e ciascuno scambiò l’altro per un nemico.
“Fermati dove sei!” gridarono insieme.
Subito entrambi estrassero la spada, e ciascuno sferrò un colpo.
Tra di loro c’era una roccia, e così tutti i loro colpi si infransero lì, e continuarono a colpire la roccia per tutta la notte finché alle prime luci dell’alba si riconobbero.
“Fratello mio!” esclamarono insieme.
Allora lasciarono cadere le spade, e si buttarono entrambi in ginocchio.
E si abbracciarono sani e salvi, e si baciavano, e piangevano per la felicità.
Poi insieme meditarono su quello che era successo: su come fosse stupido e insensato che due fratelli, a causa del buio e della paura, si fossero scambiati per nemici!
Rimasero insieme per un giorno e per una notte, finché dovettero nuovamente separarsi per ritornare ai loro paesi. Così si salutarono e Giuseppe si incamminò verso le terre d’occidente, Giacobbe verso le terre d’oriente.
La roccia colpita dalle loro spade esiste ancora oggi.
La potrete riconoscere perché si notano numerosi colpi di spada sul lato est, e altrettanti sul lato ovest, lasciati da due fratelli che si scambiarono per nemici.

LA SEGNALAZIONE
In scena lo Stabat Mater rock-sinfonico di Franco Simone

Lo “Stabat Mater“ (dal latino “stava la madre”) è una celebre preghiera del XIII secolo attribuita a Jacopone da Todi, che racconta il dolore straziante della Madonna dinanzi a Gesù Cristo sulla Croce. Numerosi sono stati i compositori ispirati da questo testo, la versione di Giovanni Battista Pergolesi, terminata poco prima della sua morte, rimane una delle più intense ed eseguite, ma occorre ricordare anche quelle di Gioacchino Rossini, Franz Schubert, Franz Liszt e Giuseppe Verdi.

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La locandina

Questa premessa è necessaria per introdurre la nuova versione realizzata da Franco Simone, che andrà in scena il 16 gennaio, presso il Teatro Super di Valdagno (VI), in prima nazionale. Il noto cantautore italiano, conosciuto e apprezzato anche fuori dai confini nazionali, grazie ai tanti successi delle sue canzoni in lingua spagnola, ottenuti in Cile, Argentina, Uruguay e in altre nazioni. Simone è uno dei pochi artisti italiani che ha avuto il privilegio di entrare nella classifica Billboard dei dischi più venduti negli Stati Uniti, con la canzone “Magica” (versione in spagnolo del celebre brano “Malafemmena” di Antonio De Curtis, in arte Totò), nella chart “Hot Latin Song”.

Erano trent’anni che l’artista salentino desiderava scrivere un’opera rock basata sullo “Stabat Mater” e, finalmente, ci è riuscito, grazie all’ispirazione compositiva e alla collaborazione del cantante Michele Cortese e del tenore Gianluca Paganelli, voci che interagiscono perfettamente con quella di Simone. Un valido contributo è venuto anche dal chitarrista Adriano Martino, che vanta un’esperienza trentennale. Gli arrangiamenti sono stati curati da Alex Zuccaro.

Lo “Stabat Mater” è l’ouverture dell’intera opera rock sinfonica, che si compone di dieci brani. I tre cantanti si esibiscono in alcuni momenti solistici ma, soprattutto, dialogano tra di loro. Alcune parti, esclusivamente strumentali, riprendono e arricchiscono le melodie fondamentali. Nelle performance solistiche Gianluca Paganelli evidenzia i momenti vicini al mondo lirico-sinfonico, Michele Cortese dona la sua innata vocalità rock, Franco Simone, da autore e interprete, rende chiara l’affinità tra quest’opera e quanto di meglio espresso dal cantautorato italiano. I titoli degli altri brani sono: Benedicta, Quis est homo, Pro peccatis, Fons amoris, Sancta Mater, Tecum, Vigo virginum, In die e Quando corpus.

Le melodie si basano rigorosamente sul testo originale, spaziando dalla musica classica fino alle soluzioni rock che caratterizzano il sound attuale.
Per chi non conosce Simone potrà sembrare un azzardo l’essersi inoltrato in un campo tanto difficile e con precedenti così illustri, con cui inevitabilmente confrontarsi. In realtà, la profonda conoscenza della musica classica e del latino, oltre all’indubbio talento compositivo, gli hanno consentito di sorprendere ancora una volta chi lo ascolta.
Stupisce che, per la prima volta nei tempi moderni, una lingua considerata “morta” sia così attuale e cantabile. Non bisogna dimenticare però che la struttura ritmica del testo è la stessa del latino medievale e anche della lingua italiana: non si hanno sillabe lunghe e brevi ma toniche e atone, in una serie di ottonari e senari sdruccioli, che rimano secondo lo schema AAbCCb. L’uso del latino, in un’opera rock, è inconsueto ma la musica composta da Simone l’abbina alla perfezione con il rock moderno, senza dimenticarne la matrice classica.

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Il video è stato girato alle “Tajate” di Acquarica del Caplo (LE)

“Stabat Mater” è anche un’opera visiva: per raccontare il dolore di Maria ai piedi della Croce è stata scelta una scenografia particolarmente suggestiva ovvero le “Tajate”, cave di tufo di Acquarica del Capo (LE), straordinariamente adatte a rappresentare questo evento religioso. L’intento è di avvicinare, con musica e immagini, il dolore della Santa Madre a quello di un’intera umanità dolente e smarrita, in un mondo che fatica a trovare punti di riferimento morali ed esistenziali, con la speranza di una possibile redenzione.

Il grande fascino che questo testo continua a trasmettere è la conseguenza di un paradosso artistico, ma soprattutto umano; rappresenta la sintesi ideale tra asprezza e dolcezza, sollievo e carità, paura e coraggio, in cui l’accettazione del sacrificio e delle contraddizioni, che spesso complicano la vita, aprono infinite prospettive di fede e di speranza.
L’opera rock sinfonica di Simone si sviluppa in una crescente tensione che culmina nello struggente Amen finale del brano “Quando corpus”, cui spetta il compito di aprire uno spiraglio di fiducia nel presentimento della vita eterna: “Quando corpus moriétur, fac, ut ánimae donétur paradísi glória. Amen”. E quando il mio corpo morirà, fa’ che all’anima sia data la gloria del Paradiso. Amen.

“Stabat Mater” di Franco Simone, Prima nazionale dell’Opera il 16 gennaio 2015, presso il Teatro Super di Valdagno (VI).

Il video ufficiale del brano “Stabat Mater” [vedi]

Foto di Roberto Micoccio

L’INTERVISTA
Con Luigi Dal Cin sulle ali dell’immaginazione

Ci sono presentazioni di libri durante le quali non si riesce proprio a stare fermi e zitti, ma si fanno i versi, si ride a crepapelle e si ascoltano domande molto interessanti, che tutti vorrebbero fare anche se nessuno ne ha mai il coraggio, come per esempio “Come hai fatto ad incollare le pagine del libro?” oppure “Come mai sei ancora vivo anche se sei uno scrittore?”. Sono gli incontri con l’autore di Luigi Dal Cin, scrittore ferrarese per giovani lettori, con all’attivo più di 90 titoli tradotti in 10 lingue e una decina di premi nazionali di letteratura per ragazzi, tra i quali il prestigioso Premio Andersen 2013 come autore del miglior libro 6/9 anni. Quando apre la sua valigia, che fa il paio con la borsa di Mary Poppins per le stranezze che contiene, la fantasia prende il sopravvento e anche i grandi tornano bambini. “Perché scrivi libri?”, “Per chi li scrivi?”: ecco, in genere, le difficilissime domande dei piccoli fans delle sue storie.

Abbiamo voluto provare anche noi a chiedergli qualcosa sul suo lavoro, cercando però di rendergli le cose un po’ più semplici.

Come hai deciso che da grande saresti… ‘rimasto bambino’, scrivere racconti per giovani lettori forse significa fare come Peter Pan e non crescere mai, tu cosa ne pensi?

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Copertina del libro ‘Il puzzle di Matteo’

Quando si scrive un libro, si dice di solito, lo si fa per esprimersi e per comunicare. Io preferisco dire che scrivo per dire la verità attraverso l’invenzione: le mie scoperte, i miei sogni, bisogni, desideri, paure, ma soprattutto le mie speranze. Sembra un paradosso pensare di dire la verità attraverso un’invenzione, eppure è proprio il modo dei bambini quando per spiegare la realtà inventano delle storie: facevamo che io ero…
Si può anche scrivere per sé stessi, come si può canticchiare sotto la doccia. Ma se desidero che un bambino legga quello che scrivo, devo chiedermi se lo può davvero interessare anzi, di più, se lo sa affascinare. Canticchiare sotto la doccia trovo equivalga a dire: “Scrivo solo per esprimermi”. Credo che scrivere con un lettore di fronte sia l’attività esattamente opposta: è non accontentarsi di stare da solo, ma andare verso l’altro.

Come passi da un foglio bianco a una mirabolante avventura?

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Copertina del libro ‘La casa del vento’

“C’è bisogno di un aiutante magico”: così rispondo ai miei giovani lettori quando mi fanno questa domanda. Io lo chiamo la ‘Penna bambina’. La Penna bambina è uno strumento che sta dalla parte dei bimbi e che consente allo scrittore adulto di esprimere il pensiero e il linguaggio adulto in una lingua non più parlata con gli altri adulti, ma mai dimenticata: la lingua dei bambini. La ‘lingua madre’ di cui parla Bianca Pitzorno. Non si tratta solo di saper utilizzare vocaboli comprensibili ai più piccoli, ma soprattutto di toni, di capacità nel creare corrispondenze tra il testo e ciò che il piccolo lettore vive. Con il tempo mi sono convinto che la magica Penna bambina si riveli solo a chi sta davvero dalla parte dei bimbi: a chi li considera davvero delle persone. D’altronde, il vero scrittore per ragazzi, per vocazione, sta sempre dalla loro parte, altrimenti non è uno scrittore per ragazzi: magari scrive di ragazzi, ma non per loro. Se siamo convinti che il bambino ha la dignità di una persona, con i suoi desideri profondi, le sue individuali caratteristiche e le sue specifiche aspirazioni, e il nostro compito non è altro che quello di aiutarlo a far emergere tutto ciò, se partiamo da questo, penso che la maggior parte degli errori che possiamo fare nei suoi confronti – come scrittori, insegnanti, educatori, genitori – vengano già evitati alla sorgente.

Come inventi le tue storie?

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Il piccolo Barbanera tradotto in Tedesco

Di solito all’inizio c’è appena una scintilla nella nostra mente: brilla, ma non è ancora una storia. Spesso ci si butta a scrivere quando in testa c’è solo l’ispirazione iniziale, il seme della storia. Ma il seme va coltivato, fatto germogliare, bisogna attendere di far maturare nella propria mente la storia in modo quanto più completo possibile, annotando le soluzioni narrative che via via emergono, prima di cominciare a scrivere davvero. Nel momento in cui tracciamo le frasi su un foglio, quei segni segnati, tracciati, scritti, si difenderanno dall’essere eliminati. Così la storia già scritta si può anche migliorare e correggere ma la sua essenza resterà, non si potrà più re–immaginare. E se l’invenzione non era ancora matura, il testo resterà comunque nella sua essenza incompleto, perché frutto di un’invenzione incompleta, senza fascino. Quando arriva una buona idea trovo invece sia bello indugiare il più possibile per farla maturare e raccoglierne i frutti.

Gli illustratori dei tuoi libri come vengono scelti?

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Copertina del libro ‘Wiligelma Cook’

Vengono concordati con l’editore. Se c’è una medesima sensibilità e professionalità nell’autore e nell’illustratore, il libro diventerà molto più di un semplice accostamento tra testo e illustrazioni: il suo valore sarà dato dalla loro sinergia. Credo, inoltre, che il percorso iconico debba avere la stessa autonomia e la stessa dignità del percorso letterario, in quanto espressioni di due modalità artistiche differenti con la medesima dignità. Il testo deve essere scritto prevedendo fin dal principio che sarà illustrato, lasciando spazi immaginativi autonomi per l’illustratore e pieghe narrative non del tutto svelate da cui l’illustratore può partire per il suo percorso. Un testo troppo ricco di descrizioni particolareggiate non è un buon testo perché ‘obbliga’ l’illustratore a illustrare solo ciò che il testo impone.

Nei tuoi libri ti piace viaggiare alla scoperta dell’immaginario di altri popoli e altre culture…

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Fiabe delle regioni artiche
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Fiabe del Brasile

Da oltre 10 anni collaboro con la Mostra internazionale di illustrazione per l’infanzia “Le immagini della fantasia” e con Franco Cosimo Panini per una collana dedicata ogni anno alle fiabe tradizionali di paesi e culture. Ho pubblicato libri di fiabe da Medio Oriente, Africa, Estremo Oriente, regioni artiche, Oceania, Brasile, India, Russia, Messico, Scozia.
Le fiabe per me sono capolavori preziosi. Sono nate nella notte dei tempi più antichi: accanto al fuoco, in riva al mare, sotto le stelle, quando gli antenati di ogni popolo del mondo esprimevano, con un racconto di fantasia, le questioni più importanti per la vita delle loro comunità, quelle che dovevano essere trasmesse alle generazioni future e dare speranza ai piccoli e ai deboli. Le fiabe sono capolavori preziosi anche per un altro motivo: sanno viaggiare nel mondo.

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Fiabe e leggende della Scozia

È una grande fortuna per noi adulti e per i bambini, perché ci fanno scoprire ambienti, avventure e personaggi che non avremmo mai nemmeno immaginato, ci fanno intravedere nuovi punti di vista e nuove sensibilità. È così che le fiabe degli altri popoli ci arricchiscono e ci aprono all’incontro con culture differenti rispetto alla nostra. Ciò che le accomuna, qualsiasi sia il luogo del mondo in cui sono nate, è la capacità di esprimere gli stessi desideri, le stesse aspirazioni, le stesse paure e le stesse sofferenze che appartengono al cuore dell’umanità intera.

Hai pubblicato anche tante guide turistiche per ragazzi e sei impegnato in progetti per la valorizzazione e la narrazione del patrimonio artistico e culturale italiano ai tuoi piccoli interlocutori…
intervista-luigi-dal-cinintervista-luigi-dal-cinCredo che il patrimonio artistico, storico e culturale debba essere raccontato a bambini e ragazzi in modo efficace e adeguato alla loro età, utilizzando uno strumento a volte nuovo per l’arte, la cultura e i musei, eppure potentissimo: la narrazione. Sono convinto che solo l’utilizzo di una sapiente narrazione consenta di trasmettere – con un coinvolgimento non solo intellettivo, ma anche emotivo – informazioni storiche, artistiche e culturali. Nei testi cosiddetti di “divulgazione per ragazzi” spesso le informazioni sono invece presentate senza alcun fascino narrativo, senza una vera storia, e dopo un po’ si scopre che il personaggio non è un vero personaggio, ma una semplice “funzione”: la guida.

intervista-luigi-dal-cinLa sfida per avvicinare i ragazzi a un qualsiasi contenuto credo stia invece proprio nel saper costruire una vera avventura capace di creare fascino e di divertire. I racconti che ho scritto sono un invito per tutti, adulti e bambini, a vivere bellezza e cultura intensamente, penso infatti che esista un diritto alla bellezza, da esercitarsi con forza sempre maggiore di fronte alle fantasie preconfezionate e stereotipate in cui siamo immersi.

Spesso poi usi lo strumento narrativo per affrontare tematiche difficili: è successo con “Un drago sottosopra” in cui bimbi ferraresi hanno raccontato il terremoto, mentre in “La fiaba del Vajont” narri insieme ai bambini di Longarone la tragedia della diga del Vajont, e ancora con “Il puzzle di Matteo” affronti i problemi neurologici di una sindrome genetica…

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Copertina de ‘La Fiaba Del Vajont’

Dopo il terremoto mi sono subito chiesto che cosa potessi fare e ho iniziato a tenere incontri con i bambini nelle tendopoli. A volte qualcuno di loro mi chiedeva: “Ma le storie a cosa servono, quando il terremoto è sempre lì in agguato?” Allora io raccontavo la storia di un personaggio delle ‘Mille e una notte’ che rappresenta benissimo la potenza della narrazione: è Shahrazàd. Il re Shahriyàr, straziato dal tradimento della moglie, per vendicarsi ordina che ogni sera gli venga portata una fanciulla che sposa e poi la notte immancabilmente uccide. Shahrazàd, la figlia del visir, si offre di sposare il re per salvare la vita delle altre ragazze: ogni notte racconterà una nuova storia, ma prima che sia terminata ogni volta sopraggiungerà il mattino e dovrà interromperla per consentire al re di occuparsi del regno, così il re giurerà di farle salva la vita finché non avrà ascoltato il resto del racconto la notte successiva. Così le storie narrate da Shahrazàd tengono lontana la morte, sospendono il tempo: le storie di Shahrazàd salvano il futuro dell’intero regno e alla fine lo stesso re, che si pentirà della propria vendetta e saprà di nuovo gioire della vita. “Alla fine allora vincono i racconti?” mi chiedevano i bambini e io rispondevo: “Alla fine credo che vincano i bambini e gli adulti che provano a esprimere e comunicare i propri sentimenti, le proprie paure e sofferenze, le proprie speranze, i propri desideri più profondi, attraverso la parola, la narrazione, il racconto. Così, se anche la terra dovesse crollare sotto i nostri piedi, noi possiamo imparare a volare”.

Per saperne di più sul lavoro di Luigi Dal Cin [vedi]
Per leggere la storia che Luigi Dal Cin ha regalato ai lettori per la Befana leggi qui.

Dedicato a Célia

Célia è una ragazza francese di vent’anni, con la sindrome di Asperger. Si tratta di un disturbo pervasivo dello sviluppo, comunemente connesso allo spettro autistico. Ancora non se ne conosce l’eziologia. Compromette le interazioni sociali, produce comportamenti ripetitivi e stereotipati, attività e interessi sono molto ristretti. Ma la sindrome di Asperger non è una malattia, è invece un modo di essere, un modo di pensare ‘diverso’.
Ricordate Cristopher, genio della matematica, protagonista di “Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte”? Leggendo le pagine scritte da Mark Haddon, ci si può facilmente rendere conto del dramma personale e famigliare di quanti soffrono di questa sindrome.
Apprendo la notizia dall’articolo che, su Le Monde, Pascal Krémer ha dedicato a Célia il 23 dicembre scorso, “La meilleure de la classe est autiste”. Perché Célia è risultata la migliore tra gli studenti dell’ultimo anno del liceo Lakanal di Sceaux, nell’Alta Senna.
Una rinascita per questa ragazza che per lungo tempo ha patito senza che la medicina desse un nome alla sua sofferenza: la sindrome di Asperger.
Per anni, a partire dalla scuola elementare, è stata isolata dai compagni, considerata folle e bizzarra, curata con ansiolitici, sonniferi, antidepressivi e antipsicotici, fino a quando incontra il dottor David Gourion, uno psichiatra che a lungo ha esercitato nell’America del Nord.
Un incontro che apre le porte del mondo a Célia, che le permette di scoprire la sua umanità, che il suo essere è la normalità per tante altre persone come lei, nella sola Francia almeno 650.000, di cui 150.000 bambini. I dati mondiali della sanità ci dicono che l’autismo è in aumento e che entro il 2020 un bambino su dieci soffrirà di questa patologia.
Célia è dotata di un quoziente intellettuale insolito, come spesso accade per i portatori della sindrome di Asperger. Ed è questo quoziente intellettuale del tutto eccezionale che le consente di compensare il deficit di interazione sociale per tentare di assecondare “i nostri comportamenti irrazionali”, osserva il dottor David Gurion, con un costo psichico enorme.
Ora che la sofferenza di Célia ha finalmente un nome, non più schizofrenia o altro, è curata con un solo farmaco regolatore dell’umore, frequenta un gruppo di abilità sociale che l’aiuta ad adattare i suoi comportamenti ai nostri e soprattutto le permette l’incontro con la sua famiglia.
Célia non vive più sola, non è più condannata all’isolamento nella sua alterità. Incontra altri giovani Asperger come lei, con i quali intrattiene conversazioni profonde, senza doversi preoccupare di riflettere correttamente i sentimenti o dell’intonazione giusta per ogni frase che pronuncia.
Ha preparato la maturità in due anni, appassionandosi alla filosofia delle religioni e alla teologia. Gli insegnanti sono entusiasti di questa studentessa rara, che beve le loro parole, che ha una memoria prodigiosa. Ha imparato a memoria cinquantaquattro poesie di Eluard, possiede una finezza di ragionamento unica, una straordinaria capacità di costruire relazioni tra i diversi autori.
C’è davvero dell’eccezionale nei progressi compiuti dalla scienza nella diagnosi dell’autismo e della sindrome di Asperger. L’eccezionalità è però data dal contributo che diverse personalità affette da autismo hanno fornito alla ricerca e alla conoscenza di questa patologia.
È il caso di Josef Schovanec, trentatré anni, laureato in scienze politiche e filosofia, autistico con la sindrome di Asperger. Per anni ha trascorso le sue giornate chiuso in una stanza, senza uscirne per mesi. Per cinque anni, etichettato come schizofrenico, sedato con una camicia di forza chimica, una batteria di psicofarmaci di quelli più pesanti per l’organismo e, nello stesso tempo, più discussi nella pratica psichiatrica.
Da allora Josef Schovanec ha imparato a comunicare con i neurotipici, a introiettare tutti i codici della ‘commedia sociale’, a viaggiare e a parlare di autismo in giro per il mondo. È diventato lui stesso ambasciatore di chi soffre come ha sofferto lui, dell’incapacità di accettare la propria differenza. Come ha osservato il genetista Thomas Bourgeron dell’Istituto Pasteur, è importante che le persone con autismo possano comunicare la loro visione di questa sindrome complessa e spiegare tutte le difficoltà che incontrano nella nostra società.
Com’è il cervello autistico e soprattutto come funziona? Molti libri scritti da medici e ricercatori cercano di fornire una risposta a questa domanda.
Temple Grandin, una professoressa associata della Colorado State University, una delle più famose personalità affette da autismo, nel suo ultimo libro, “Il cervello autistico”, propone una visione che intreccia i risultati della ricerca scientifica con la propria esperienza personale. Già con “Pensare in immagini ed altre testimonianze della mia vita d’autistica”, pubblicato dall’Erickson, ci ha offerto uno spaccato unico e affascinante del vissuto interiore, della cognizione e delle emozioni delle persone con questa sindrome. Una lettura preziosissima e ricca di spunti per genitori, insegnanti, psicologi, educatori e per tutti coloro che, in un modo o nell’altro, sono a contatto con l’autismo e con le sue zone d’ombra.
La sua nuova testimonianza è ancora più emozionante. Non senza una buona dose di umorismo, Temple Grandin ripercorre le principali tappe dell’evoluzione della concezione dell’autismo nel succedersi delle varie edizioni del Dsm, il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, la classificazione americana tanto criticata della malattia mentale. “Una collezione di diagnosi burocratiche” per la studiosa statunitense che si ribella alla pratica di etichettare i pazienti.
Secondo lei è necessario lavorare sui sintomi, non sulle diagnosi, non disprezzare le testimonianze, ma incominciare a studiarle con molta attenzione. Troppo poco è il lavoro condotto per conoscere l’ipersensibilità sensoriale, onnipresente in ogni forma di autismo e molto invalidante.
Temple Grandin richiama gli specialisti, i genitori e quanti sono interessati a conoscere l’autismo, non solo a vederne le difficoltà, ma a comprendere i punti di forza che scaturiscono dal modo singolare di funzionare del cervello autistico, utili a tutti noi. Ma soprattutto ad essere particolarmente prezioso è l’apporto dei singoli pazienti, perché possono diventare loro stessi esperti nella conoscenza di sé e insostituibili partner dei ricercatori.

Ferraraitalia ha pubblicato un articolo interamente dedicato a Temple Grandin, in occasione della Giornata mondiale dell’autismo [vedi].