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LA CURIOSITA’
Come ti accalappio l’oligarca

da MOSCA – Abbiamo notato, negli scorsi mesi, alcune stravaganze di questi russi, quando abbiamo parlato dei bagni invernali nell’acqua gelida [vedi] o quando abbiamo scoperto le limousine delle spose [vedi]. Ne scopriamo un’altra. Nulla di nuovo sotto il sole, direbbe qualcuno, Marylin Monroe era già stata la bella protagonista del film “Come sposare un miliardario”, nel 1953.

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Locandina di ‘Come sposare un milionario’

Ma oggi il fenomeno a Mosca cresce, dieci lezioni al costo di circa 2000 dollari per ‘accalappiare’ un uomo ricco, anzi stra-ricco, un vero paperone. Sarà che qui la concorrenza è tanta (oltre che bellissime, le donne sono 10 milioni in più degli uomini), sarà che il lusso (il ‘roskosh’) viene considerato importante, sarà pure che molte belle ragazze non hanno vere alternative lavorative (so che tale affermazione scatenerà una vera levata di scudi), resta il fatto che molte giovani studiano tecniche, più o meno raffinate, per conquistare miliardari, acchiappare un oligarca, far cadere nella rete i Forbesiani (per intenderci, i ricconi che sono sulla lista della rivista Forbes). S’inaugurano, allora, scuole, dove, come manuale di studio si usa il testo della discussa e, da alcuni, non amatissima Xenia Sobchak (la Paris Hilton russa), la quale ricorda alle ragazze che “in Russia ci sono abbastanza oligarchi per soddisfare tutti i propri sogni. Basterà imparare a utilizzare nel modo corretto sorriso, humour, ottimismo e fervore”.

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La copertina del libro

Leggevo tutto questo, oltre che sulla stampa, nell’ultimo libro di Peter Pomerantsev (“Nothing is True and Everything is Possible: Adventures in Modern Russia”, riedizione appena uscita), ne hanno parlato, anche, a una recente trasmissione radio della Bbc. Sono i progetti di vita che hanno fatto la fortuna di film come “Glyanets” (“Glamour”) o di programmi televisivi dal titolo self-explaining (non trovo la parola italiana…), “come sposare un milionario”. Ecco allora che le teorie del business sono spiegate e applicate in scuole che si chiamano in vari modi (dalla “Geisha School” alla “Come essere una vera donna”): bisogna andare incontro ai desideri del consumatore, applicare rigorosamente tale principio, dunque, quando si cerca un uomo ricco. Al primo appuntamento, va applicata una regola chiave: mai parlare di sé, ascoltare, trovare il proprio interlocutore affascinante, capire cosa vuole, le sue passioni e i suoi hobbies. Adattarsi di conseguenza. Pomeranysev, che in Gran Bretagna è anche un produttore televisivo, nel suo libro incontra Oliona e le belle ragazze bionde che, in quelle scuole dai finti marmi e i grandi specchi (chiamate “accademie”), prendono attentamente appunti. Nella porta a fianco vi sono una spa e un salone di bellezza. Si va a lezione e poi ci si rilassa, ci si fa belle e abbronzate. Molti insegnanti sono specialisti con tanto di Master (Mba) anche in psicologia, e ripetono pure altre regole: non indossare mai gioielli al primo incontro (deve pensare che siete povere), arrivare con una macchina malmessa (deve avere voglia di comprarvene un’altra), recarsi in una zona ricca della città con tanto di cartina alla mano e fingere di esservi perse (un uomo bello e benestante potrà avvicinarsi per aiutarvi).
Ci sono poi i locali “giusti” dove andare, come il Galeria creato da Arkady Novikov, ‘il’ posto. Qui uomini eleganti, vestiti di scuro, osservano da dietro le loro logge, non si sa chi sono, decideranno poi. Alcune ragazze pagano per essere sulla lista Vip del locale, è un ottimo investimento. Oliona, che arriva dal Donbas, con mamma parrucchiera e con padre di cui non si parla (come spesso avviene qui), ha iniziato come stripper al casino, ma ora vuole “un uomo che sia saldo sui propri piedi, che la faccia sentire sicura come dietro a un muro di pietra”. Oggi vive, con il cane, in un piccolo e moderno appartamento in una delle strade principali che portano alla Rublevka, zona degli oligarchi. I ricchi le vogliono sulla strada di casa. Ha un appartamento, 4000 dollari fissi al mese, una macchina, lunghi weekend pagati in Turchia o Egitto un paio di volte l’anno. E il suo “sugar daddy” che la va a trovare ogni volta che (lui) vuole. Oliona non tornerebbe mai indietro, comunque. E come lei tante altre ragazze, che non vogliono sentire usare la parola prostituzione, perché loro hanno letteralmente cacciato la loro preda, hanno “scelto” il proprio “sponsor” (come è definito qui), anche se le guardie del corpo controllano regolarmente i loro movimenti, anche se non possono incontrare troppi amici.
Ma la lezione all’accademia continua, con l’algoritmo dei regali: se vuoi riceverne, ti devi posizionare alla sinistra del riccone, il lato irrazionale, emotivo, dice l’istruttore. Se invece, stai alla sua destra, il lato razionale, è il momento giusto per parlare e decidere di affari.
Alcune ragazze non capiscono perché una donna deve lavorare tanto e “ammazzarsi” per e di lavoro. Questo è il ruolo dell’uomo… lui vuole solo il controllo, alle donne basta essere un bel fiore. Qualcuno ha pure detto che sposare un ricco è un lavoro, per qualcuna un piacevole lavoro ma pur sempre un lavoro… e il lavoro, non è un diritto di tutti? Questioni di punti di vista.

Da leggere Peter Pomerantsev, “Nothing is True and Everything is Possible: Adventures in Modern Russia”, 304 p., Faber, 2015

Birdman, l’uomo uccello nel ventre di Broadway

C’è un film in questi giorni di cui si parla molto: chi lo ha già visto lo ripercorre, chi non lo ha ancora visto cerca di capire cosa aspettarsi. Si tratta di “Birdman”, candidato a 9 tra i più importanti premi Oscar. Umilmente, proviamo a orientare, dicendo subito che non è un film sui supereroi, come magari la locandina con l’uomo uccello potrebbe suggerire; per cui, se cercate storie ed effetti facili, non fa per voi.

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La locandina

Protagonista è Sam Riggan, Michael Keaton, attore non a caso interprete dei due Batman di Tim Burton, divenuto nel film protagonista di una fortunata serie di supereroi, “Birdman” appunto. A una certa età, investe tutte le energie e le risorse economiche nella produzione di una pièce teatrale per Broadway, liberamente ispirata a un racconto di Raymond Carver, riconosciuto protagonista del minimalismo letterario e cantore di storie dei perdenti e degli umili della provincia americana.

Il film è talmente pieno di tematiche filosofiche, situazioni esistenziali, metafore e simbolismi, che si stenta a dare un ordine; da qui la prima sensazione, netta, di un evolversi magmatico, un fiume di emozioni e situazioni che scorrono, impetuose come sangue, nei corridoi negli interrati nelle quinte del teatro dove si produce lo spettacolo. La maggior parte del film è stata girata in un unico piano sequenza (apparente, perché in realtà ci sono inevitabili stacchi, sia pur nascosti), che nella unità spazio-temporale ricordano, almeno allo scrivente, il cinema di Robert Altman, da “Nashville” all’ultimo “Radio America”.

birdmanbirdmanUna umanità formicolante e vitalistica, carica di conflittualità parossistiche, a partire dall’eliminazione di un attore definito “cane” mediante un attentato con attrezzi del backstage, per proseguire con lo scontro generazionale, fino alla lotta fisica, tra lo stesso Keaton e un vibrante e nevrotico attor giovane Edward Norton, e i dilanianti rapporti con la ex moglie e la nuova compagna, peraltro entrambe attrici, dove la realtà e la finzione teatrale non hanno confini… magma appunto.

birdmanGli unici “esterni” dal teatro sono una lunga carrellata del protagonista in mutande (a causa di un buffo incidente) sui marciapiedi di Broadway affollati da una umanità a sua volta straniata e surreale, anche mediante l’uso di una particolare ottica; denudato dunque, e ridicolizzato, ma proprio per questo Twitter e Facebook ne faranno la fortuna; e i duetti di seduzione tra Norton e la figlia di Sam, Emma Stone, su un tetto con lo sfondo di uno struggente skyline newyorkese.

birdman birdMemorabile lo scontro tra il protagonista e una cinica e sprezzante critica del Times, che anticipa una stroncatura, mentre la figlia la ridicolizza “e chi lo legge più il Times”; l’insanabile conflitto tra una cultura ‘pop’ che premia la spettacolarità e gli effetti speciali dei Supereroi e dei Transformer, e la sacralità delle sale di teatro di Broadway e la borghese convenzionalità del suo pubblico; il disincanto e il dramma esistenziale della tossica e sbandata figlia di Sam, l’unica che sembra avere una visione ‘esterna’ del mondo reale.

Un film barocco, pieno di effetti e di suggestioni, di trompe l’oeil, dove il vitalismo e le asprezze del regista Alejandro Gonzalez Inarritu, già fortunato autore di “Amore Perros”, “21 grammi”, “Babel”, si sviluppano in una fitta e imprevedibile tessitura, come un ordito di filigrana moresca. Un cast stellare, dove oltre ai già citati, troviamo una Naomi Watts in splendida forma, e altri protagonisti molto efficaci e ben calibrati sul personaggio. Una vivida colonna sonora, incisiva e non accessoria, con una martellante sezione di percussioni, con imprevisti e vividi inserti di Tchaikovsky, Ravel, Mussorgsky.

birdmanSullo sfondo, un sentimento che attraversa tutta la storia, forse il solo che, nel pirotecnico, nevrotico e rutilante scorrere del film, tocca note di tenerezza e di autenticità, che commuovono: il bisogno di dare un senso alla propria vita, di essere accettati non come fenomeni dello show business, ma come portatori di valori autentici, in una parola di essere amati (la pièce teatrale si intitola “Di cosa intendiamo parlare quando parliamo d’amore”); significato rappresentato dalla epigrafe, che fu letta al funerale dello scrittore Raymond Carver:

“E hai ottenuto quello che
volevi da questa vita, nonostante tutto?
Sì.
E cos’è che volevi?
Sentirmi chiamare amato, sentirmi
amato sulla terra.”

Birdman (L’imprevedibile virtù dell’ignoranza), di Alejandro González Iñárritu, con Michael Keaton, Zach Galifianakis, Emma Stone, Edward Norton, Andrea Riseborough, Amy Ryan, Usa, 2014, 119 min. (consigliato sopra i 13 anni)

LO SPETTACOLO
Comunicazione a “Doppio taglio” per la violenza alle donne

Una donna in sottoveste, seduta per terra, le mani alzate per proteggersi, i lunghi capelli scarmigliati. E’ l’immagine classica che viene fuori – in redazione – quando c’è bisogno di illustrare un articolo che parla di un caso di violenza contro una donna. L’abbiano vista da sempre così; gli archivi di giornali, periodici e tv ne sono pieni. Anche sul motore di ricerca “Google immagini”, quando inserisci le parole “donna” e “violenza”, ne vengono fuori tante di questo genere. Per molto tempo abbiamo pensato, in buona fede, che andasse bene, che fosse il modo giusto: l’immagine è generica, l’identità della persona è protetta, il messaggio d’allarme c’è.

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Violenza sulle donne: classiche immagini di repertorio (foto Google)

Eppure qualcosa non va. C’è qualcosa di sottilmente perverso, c’è uno stereotipo che non va bene. C’è il buio totale sul carnefice e il soffermarsi eccessivo sulla vittima. Quando si parla di rapina, si mostrano uomini in passamontagna o banche e negozi, mica cassieri o banchieri affranti; quando si parla di frode o ricatti, si usano immagini di valigette con banconote, non è che metti la persona frodata che nasconde il viso distrutto dal dolore. Ecco, a queste cose qui (e altre) hanno pensato gli autori e i sostenitori di uno spettacolo che andrà in scena al Ferrara Off Teatro venerdì 13 e sabato 14 febbraio 2015. Il titolo è “Doppio taglio” e si riferisce al modo in cui funziona l’arma della comunicazione sulla violenza alle donne.

In scena, come attrice e autrice, Marina Senesi che mette insieme l’impegno e l’ironia con i contenuti raccolti da Cristina Gamberi, ricercatrice universitaria. La forza della proposta ha convinto e coinvolto altri artisti: Lucia Vasini alla regia, la cantautrice Tanita Tikaram – memorabile per il suo “Twist in my sobriety” – qui con il brano inedito “My enemy”, i conduttori di Caterpillar Filippo Solibello e Marco Ardemagni per le voci. Lo spettacolo è realizzato in collaborazione con Udi (Unione donne italiane) e Centro donna giustizia Ferrara, insieme all’assessorato Pari opportunità del Comune di Ferrara e il patrocinio di Rai Pari Opportunità, per una produzione Art Up Art di teatro civile.

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Monica Borghi, Livia Zagagnoni, Annalisa Felletti e Monica Pavani presentano lo spettacolo (foto Cronaca Comune)

Per chi la comunicazione la fa di mestiere è anche un’occasione per riflettere e approfondire il modo di raccontare queste cose. La rappresentazione di domani, venerdì 13 febbraio, infatti, grazie all’adesione dell’Ordine dei giornalisti Emilia-Romagna e in collaborazione con l’ufficio Stampa del Comune di Ferrara, è stata inserita nel programma nazionale di formazione professionale con il riconoscimento di crediti. Dopo lo spettacolo, dunque, ci sarà una tavola rotonda con Marina Senesi e Cristina Gamberi; interventi di Stefania Guglielmi (Udi Ferrara) e Paola Castagnotto (Centro donna giustizia); coordinamento di Alexandra Boeru, giornalista di Telestense.

“Doppio taglio” in scena venerdì 13 e sabato 14 febbraio 2015 alle 21, ingresso a pagamento, al Ferrara Off Teatro, viale Alfonso I d’Este 13 a Ferrara.

LA STORIA
“Gentiluomo offresi in aiuto alla Persona”

Un bigliettino bianco, piccolo piccolo, trovato in buchetta. E’ scritto a mano, due parole in tutto, oneste e dignitose: “Affittasi gentiluomo in aiuto quotidiano alla Persona”. Sì, si tratta di una semplice richiesta di lavoro, come ce ne sono in giro tante al giorno d’oggi, troppe. Ma questa ci incuriosisce perché non è stampata, non ci arriva tramite mail, non ce la troviamo infilata nello sportello dell’auto o attaccata alle vetrine dei bar. E perché chi scrive si definisce “gentiluomo” che si offre come aiuto alla “Persona” con la P maiuscola. In questo biglietto c’è un senso di rispetto non usuale.

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Il biglietto con l’offerta di lavoro

“Gentiluomo perché sono una persona seria, virtuosa, di fiducia”, dice Ernesto al telefono, “Purtroppo di questi tempi la piccola pensione che ricevo non basta e quindi mi offro in aiuto a persone che hanno bisogno di essere affiancate, anziani per esempio, o persone che hanno necessità di spostarsi e non hanno la patente, per mansioni occasionali di fiducia.” Ernesto è ferrarese, della provincia, ha sessantanni, dice che scrive i suoi biglietti a mano perché ha del tempo e sarebbe uno spreco stamparli; dice anche che scrive Persona con la P maiuscola “perché la persona è importante, e io garantisco l’ausilio e il supporto che necessita, mi metto a servizio della persona”.

Ha fatto tante cose nella vita, Ernesto. Fotografo dei bambini ai lidi, con il celebre Mondo Bragaglia, prima che questi diventasse l’uomo di Telemondo, pioniere della tv locale nella seconda metà degli anni Settanta (“mi ha lasciato la sua moto”). E, sempre ai lidi, fotografo di fiducia del pittore Remo Brindisi. “Vivevo in campeggio, gratis, in una struttura venduta ma mai affittata nella quale mi ero trasferito”, ricorda.Poi a Bologna, collaboratore di varie agenzie pubblicitarie e in contatto con i colosso milanese “Armando Testa”.
Negli anni Ottanta, con la moglie decide di aprire un proprio negozio: al centro Diamante inaugura Harmony color e, già che c’è, compra anche l’edicola di fronte. Ben presto però vende l’edicola e in seguito trasferisce Harmony a Ferrara in viale Po. Ma gli acidi per lo sviluppo delle pellicole fotografiche gli creano problemi alla salute. E qui comincia la sua seconda vita: benzinaio della Esso a Occhiobello e anni dopo della Shell in via Modena: “L’ho lasciata dopo avere subito una rapina, non è bello trovarsi un forchettone da grill puntato al fianco”, commenta, descrivendo un’immagine degna di una pellicola di Quentin Tarantino. Ma non è finita. Il nostro Ernesto nel tempo lavora per CoopSer, fa consegne latte a Rovigo e pesce a Bologna.

Moglie, due figli, tanto entusiasmo e voglia di fare. Una quindicina d’anni fa però la salute gli gioca un brutto scherzo: aneurisma all’aorta, un anno di ospedale. Ma Ernesto ha sette vite come i gatti, si rimette in piedi e apre un bar a Occhiobello e poi un altro a Salara (“mi hanno dato una mano i preti”), infine entra all’ospedale di Santa Maria Maddalena, ma stavolta non in veste di paziente. Fa le pulizie e poi dà assistenza ai malati.

Ed è allora che gli viene l’idea: “Ci sono tante persone sole… Io non faccio mica il badante. Ma mi presto per accompagnamento: a fare la spesa, alle visite mediche, anche semplicemente per compagnia o per passeggiate: ci sono tanti anziani che da soli non si sentono tranquilli, per via del traffico o per timore di fare brutti incontri”. E allora arriva Ernesto. E la moglie è contenta? “Mica tanto. Teme che mi affatichi. Mio fratello se n’è andato l’anno scorso all’improvviso per un guaio simile al mio, aveva 58 anni, due meno di me. E’ preoccupata”. Ma lui no, ha voglia di fare. Clienti per la nuova professione? “Non ancora, ho appena iniziato a farmi pubblicità. Mi hanno cercato, ma per tinteggiare la casa o sistemare il frigorifero… Io quelle cose lì non le faccio”. Per ora… Perché il poliedrico Ernesto è capace di tutto. Intanto, però, il nostro gentiluomo si offre “in aiuto alla Persona”.

Il filo della mediocrità

Intervenire su qualsiasi argomento in questi giorni convulsi sembrerebbe una perdita di tempo o un’assurdità. Cosa può legare ad esempio la crisi greca, quella ucraina, il cambio politico di casacca, la colossale evasione fiscale e il Festival di San Remo? Eppure un filo c’è: e si chiama mediocrità o meglio ancora, per citare la grande Arendt, la banalità del comportamento che percorre come un filo rosso questo tempo infelice.
Il “nazionale popolare” che si era trasferito dalle pagine gramsciane ai suoi nipotini che osservavano con un misto di compiacimento e di riprovazione il Festival di San Remo, tessuto aggregante delle aspirazioni medie dei cittadini medi; ma soprattutto degli intellettuali di sinistra che negavano di ascoltare il rito collettivo degli “itagliani”, poi facendosi la barba canticchiavano a voce sommessa “Vola colomba”: parola d’onore di chi si è comportato in questo modo. Da ragazzetto e da giovinetto impegnato. E gli smoking e gli abiti da sera che facevano sognare le ‘sciorette’ mentre, che so, il Vietnam, la Corea, il governo Tambroni creavano il sottofondo a “.. e la barca tornò sola”, terzo posto al festival nel 1954 cantata da Carosone. Tutti giuravamo di non ascoltarlo il Festival ma poi ci si trascinava stancamente dagli amici che, fortunati!, possedevano la televisione per parlare della traduzione dell’”Ulysses” di Joyce, mentre l’occhio avidamente fuggiva nella stanza accanto ad ascoltare gli idoli del nostro tempo.
Dal barbiere la mano distratta andava ai giornaletti dei fotoromanzi e alle avventure dei divi della canzone. Tanto poi a casa leggevi Proust e ti lavavi la coscienza. Il Barthes delle “Mythologies” insegnava. Magnifico questo paese di ipocriti! Sentire l’urlo della Santanchè da Giannini, travestita nell’acconciatura da Madia con tocco prerafaellita mentre la Madia ripudia la pettinatura che l’ha resa la più bella del reame per scegliere il “niente boccoli!” mi sembra straordinario.

Così apprendere che una biblioteca privata è stata scaricata nei cassonetti della spazzatura dagli eredi e che, corsa la voce, tanti hanno frugato nei contenitori per portarsi a casa un libro, ben ti dice della dissociazione di cui siamo complici e vittime. Ora tutte le biblioteche pubbliche rifiutano le donazioni dei libri, anche importanti. Il “non c’è posto!” scandisce inesorabilmente l’ultimativo rifiuto a prendersi cura dei libri. Un tempo Hitler andava per le spicce e ci faceva dei bei roghi. S’organizzano mostre e s’ignorano le realtà presenti in loco per stupire il malinformato fruitore nell’ansia di ricercare l’esotico, lo strano, il “mirabile visu”.

Per rendere più efficaci le banalità che escono dalla bocca dei parlamentari ecco la mimica della mano, l’occhio strabuzzato, la voce soffocata dall’indignazione mentre le signore parlamentari orgogliosamente portano quell’immenso strumento di fascinazione che è la borsa in posa manico d’ombrello con palmo rivoltato all’insù.
Quando si leggeva o s’ascoltava musica o s’andava a teatro tutte attività semi-obsolete questa attitudine italiana si chiamava melodramma o per i più fighi “melò”. E l’immortale Arbasino potrebbe commentare “signora mia!”.

Quale soluzione a tanta ipocrita italianità? Non lo saprei né dirlo né suggerirne il rimedio. Resta forse una via di salvezza che consiste (forse) nel riconoscere che la politica si evolve col tempo ma resta indietro rispetto alla rapidità dell’evoluzione della Storia. Se il principio della democrazia è accogliere i cambiamenti adeguandosi ad essi, là in fondo, in fondo nelle più inconfessabili profondità della mente, resta semisepolta una spaventata presenza che al di là di tutto resiste e ti fa vergognare (ma non troppo): l’aristocrazia del pensiero.
Brrrr…

Per ascoltare “Vola colomba vola” clicca qui

LA SEGNALAZIONE
‘Ghetto’ e ‘Stadio’ alle spalle, per Radius e Portera “Una sera con (i due) Lucio”

Alberto Radius e Ricky Portera si sono uniti per realizzare “…una sera con Lucio”, un album tributo ai due grandi Lucio della canzone italiana: Battisti e Dalla. Da oltre vent’anni i due musicisti si affiancano al gruppo “Custodie cautelari”, per partecipare all’evento “Notte delle chitarre”, ma ora la loro collaborazione ha compiuto un salto di qualità, rivisitando dieci famose canzoni, senza risparmio di assoli e virtuosismi.

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La copertina del cd di Alberto Radius e Ricky Portera

Radius rappresenta la storia musicale degli ultimi 50 anni, il suo modo di suonare la chitarra è immediatamente riconoscibile ed è un punto di riferimento per chi si cimenta con lo strumento. Portera ha alle spalle anni di carriera con il gruppo degli Stadio, Dalla e tanti altri big, è dotato di una tecnica sopraffina e di un’imponente presenza scenica, i suoi virtuosismi marchiano “a sangue” le canzoni.
Presentando il disco, Radius e Portera hanno dichiarato: “L’album nasce per il piacere, dopo una collaborazione durata una vita, di poter ricordare questi meravigliosi artisti con il nostro cuore, riproponendoli come se avessimo registrato oggi queste canzoni… quindi con qualche anno in più di esperienza e voglia di suonare in modo diverso da allora. Battisti e Dalla hanno lasciato un’eredità artistica, paragonabile alla grandezza di musicisti e poeti che nei secoli hanno fatto grande la cultura e difficilmente non saranno citati negli anni a venire. A noi rimane il grande orgoglio di averci messo una nostra nota, una nostra idea… forse per questo, anche se minimamente, saremo ricordati anche noi”.

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Ricky Portera dal video Ayrton

Il videoclip “Ayrton”, realizzato da Franco Bertan, è la sintesi di questo progetto: due leggende che cantano due miti. Nel brano scritto da Paolo Montevecchi e portato al successo da Dalla nel 1996, le voci di Radius e Portera s’incrociano sino a dissolversi tra assoli di chitarra e rombo di motori. Nella versione originale del 1993 il solo di chitarra fu suonato sempre da Ricky Portera, in un’unica memorabile registrazione.

Uno dei brani più belli e intensi è “Tu non mi basti mai”, dove Ricky riesce a combinare al meglio la lenta melodia con l’irruenza del ritmo scandito dalle chitarre elettriche.Radius interpreta splendidamente “Il tempo di morire”, esaltandone l’anima rock, la sensazione è quella di sentirsi trasportati negli anni ’70. Lo stesso dicasi con “10 ragazze” e “Non è Francesca”, quest’ultima “rinfrescata” con una nuova introduzione. “La sera dei miracoli” è eseguita da Portera insieme a… Lucio Dalla. Si tratta di un prezioso cameo con la voce originale registrata del cantante bolognese che entra nel brano in punta di piedi e lascia una traccia indelebile. E’ uno dei momenti magici del disco, una perla che impreziosisce questa originale e particolare canzone d’amore.

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Alberto Radius dal video Ayrton

“Insieme a te io sto bene”, con la voce e la chitarra di Alberto Radius, interrompe l’atmosfera del brano precedente, enfatizzando il testo scritto da Mogol: “Che cosa vuoi da me? Cosa pretendi da me? Se è giusto non lo so, elementari si e no, la donna è donna e tu una donna sei, che importa cosa fai, resta con me finché vuoi, che da mangiare c’è…”.
Portera e Roberta Coppone duettano in “Vita”, difficile il paragone con la coppia Dalla-Morandi, ma la cover è credibile e si ritaglia un suo spazio nel microcosmo del musicista bolognese.

Nell’album ci sono anche due brani che non appartengono al repertorio di Battisti e Dalla, si tratta de il “Tango di Dedalo”, scritta da Radius e inserita nell’album “Banca d’Italia” del 2013. La canzone ci riporta ai tempi di “Leggende”, grazie all’ottimo accompagnamento al pianoforte, a un tango incalzante e alle metafore di Andrea Secci: “… se avessi volato basso, se io fossi Torquato Tasso… non andare verso il sole, le tue ali non potranno sopportare, rischi di cadere in mare, ti dovrei vedere annegare… “.
Ricky Portera propone la sua struggente “I vicoli di Modena”, scritta nel 1992 per Vasco Rossi, e rimasta inedita sino alla pubblicazione dell’album “Fottili” del 2014. Il brano racconta di com’è Modena oggi, senza i punti di riferimento e di aggregazione del passato; il rimpianto e la delusione, da parte del suo autore, di non trovare più la città di allora.
In “Nessun dolore” Radius ci offre una raffinata versione del famoso lato B del 45 giri di “Una donna per amico”, già inciso anche da Mina e Giorgia. Cori, batteria, percussioni e la voce di Alberto creano un irresistibile crescendo musicale, degno del perfetto incastro ritmico basso-batteria della versione battistiana.
L’inquietante, ironica e surreale “L’ultima luna” offre a Portera l’occasione per trasportare il brano in una dimensione più cupa, vicina ai difficili tempi che stiamo vivendo, sintesi e dimostrazione di come, pur senza cambiare il testo, si possa stravolgere l’idea di una canzone.

Alla registrazione ha collaborato Clara Moroni (corista di Vasco Rossi), Salvatore Bazzarelli (tastiere), l’album, uscito per l’etichetta Videoradio di Beppe Aleo, è stato prodotto e registrato da Ugo Poddighe agli UP Studios di Milano.
Alberto e Ricky hanno voluto rendere omaggio a due amici e maestri, forti della storia comune con loro, riuscendo nel difficile compito di cucire nuovi vestiti a canzoni pressoché perfette. Il disco ha più chiavi di lettura, com’è giusto che sia, dividendosi tra le performance tipicamente rock e le melodie di matrice italiana. I due artisti si sono trovati a loro agio in questo non facile compito, riuscendo a creare ampie personalizzazioni e a proporre apprezzabili innovazioni.

Radius, Portera, Tu non mi basti mai (ascolta)

Video “Ayrton” realizzato da Brixia Channel per la regia di Franco Bertan [vedi]

LA RIFLESSIONE
Grandi imprese, recuperare il senso della responsabilità sociale

Nel contesto attuale lo statuto e il ruolo delle imprese all’interno della società diventa sempre più frequentemente oggetto di riflessione, discussione e polemica. L’importanza delle imprese ci viene ricordata ogni giorno da un discorso economico invasivo e dalla frequenza con cui nel linguaggio comune e massmediatico ricorrono termini come consumatore, imprenditore, manager, investitore, cliente.
Il capitalismo neoliberista che ha imperato negli ultimi decenni ha imposto una nuova antropologia nella quale proprio la funzione di ‘consumatore’ ha sostituito quella di ‘cittadino’.
Accanto a questa rivoluzione concettuale, la globalizzazione ha aumentato, in misura mai conosciuta prima, la distanza tra azione e conseguenze ultime dell’azione stessa: in tale contesto, l’impresa (in particolare la grande impresa multinazionale), rischia seriamente di diventare (e in molti casi è diventata) uno strumento per la cancellazione della responsabilità.
Questa insidiosa deriva si fonda su una certa filosofia che ha promosso come unico scopo dell’impresa la massimizzazione del valore per la proprietà nel breve periodo. L’idea che l’impresa sia una macchina per produrre utili per gli azionisti si regge, secondo i suoi sostenitori, su almeno tre considerazioni:
– esiste una netta distinzione tra mercato (luogo della produzione e dello scambio efficiente) e Stato, agente della redistribuzione della ricchezza generata;
– c’è una netta separazione temporale tra produzione e redistribuzione che rappresentano momenti diversi e indipendenti tra loro (prima si produce, poi si distribuisce);
– il mercato è una istituzione che, contrariamente allo Stato, si autolegittima: l’impresa che di questa istituzione è l’asse portante si autolegittima anche essa in quanto produttrice di quella ricchezza che sarà in parte incassata e ridistribuita dallo Stato.
Per i fautori di questa dottrina l’agire economico dell’impresa risulterebbe di per sé orientato al bene in quanto finalizzato a produrre direttamente e indirettamente valore: esso si collocherebbe cioè in una sfera di neutralità protetta rispetto alle istanze critiche emergenti dalla società.

Questa posizione viene messa in discussione da molti, in particolare da quanti sostengono l’importanza della responsabilità sociale (e non solo economica) dell’impresa. Ad oggi non esiste una definizione unica e condivisa di tale nozione: vi sono piuttosto diversi livelli concettuali che rimandando a qualche tipo differente di legittimazione etica:
– ad un primo livello l’impresa ha l’obbligo ovvio di agire nel rispetto di leggi, norme e regolamenti vigenti: un fatto tutt’altro che scontato come illustra ampiamente la cronaca;
– ad un secondo livello l’impresa ha la necessità di agire tenendo conto del contesto in cui opera, ovvero del settore e del mercato di riferimento; è innanzitutto in quest’ambito che essa gioca le proprie strategie per convincere i consumatori, persuadere i finanziatori e conquistare la propria fetta di mercato;
– la responsabilità sociale dell’impresa inizia però a manifestarsi pienamente solo quando esiste la disponibilità a tener conto e a rispondere degli esiti prevedibili delle scelte e delle azioni, degli effetti che l’agire economico produce per tutti coloro che hanno una posta in gioco, ovvero qualcosa da guadagnare o da perdere rispetto all’esistenza stessa dell’impresa. Vi è responsabilità sociale quando il management non chiude gli occhi davanti agli effetti perversi, alle esternalità negative, che troppo spesso sono socializzate e ricadono sui gruppi meno tutelati, sull’ambiente, sulle generazioni future,
– infine, un’impresa genuinamente responsabile dovrebbe garantire e promuovere lo sviluppo di quelle virtù civiche che sono indispensabili al buon funzionamento del mercato e, più in generale, della società entro cui opera; dovrebbe generare fiducia, promuovere la coesione delle comunità e contribuire alla tutela dell’ambiente, alimentare il sapere e la cultura, rafforzare il principio di reciprocità.

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Adriano Olivetti

A molti tutto questo apparirà come un’utopia: ma proprio in Italia abbiamo un precedente illustre che ha dimostrato in tempi più difficili dei nostri la praticabilità di questo percorso: si tratta dell’esperienza straordinaria dell’imprenditore Adriano Olivetti. Oggi, diversamente da allora, siamo noi, ovvero è proprio il consumatore, che attraverso le proprie scelte di acquisto può contribuire a premiare le imprese responsabili, orientando nel lungo periodo l’intero sistema produttivo verso la sostenibilità economica, sociale ed ambientale: ma per far questo servono cittadini preparati ed attivi, persone dotate di un robusto senso civico; servono esseri umani consapevoli e non consumatori passivi manipolati dal marketing.

Il mio ultimo giorno di guerra

Matteo Tondini è un regista ventiseienne, nativo di Faenza (RA), attivo da anni nella produzione di film, video aziendali e spot commerciali. Nonostante la giovane età ha già realizzato alcuni importanti cortometraggi selezionati in festival internazionali, apprezzati da pubblico e critica, autore de “La bella Giulia” in concorso ai David di Donatello 2008 e del recente “Seguimi”.

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La locandina

Il cortometraggio “Il mio ultimo giorno di guerra” (My last day of war), vincitore di numerosi premi, è stato distribuito in tredici nazioni ed è diventato tema d’esame presso la Stony Brook University di New York. Il film, interpretato da Ivano Marescotti e Andrea Vasumi, ha vinto  nel 2010 l’International family film festival di Los Angeles (Best foreign drama) ed è stato premiato quale Miglior cortometraggio sezione elemets +10 al Giffoni Film Festival del 2009 e all’Amarcort Film Festival 2009 di Rimini.

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Il film è stato girato nei pressi di Riolo Terme

“Il mio ultimo giorno di guerra”, ambientato ai tempi della seconda guerra mondiale, racconta di un singolare incontro tra un giovane contadino e due compagini rivali: una tedesca e una americana. Da questo scontro si snoda la trama, incentrata sul tentativo da parte del ragazzo di mettere pace tra i contendenti, con l’obiettivo di salvarsi la vita. Il coraggio e la genuinità del giovane porteranno a situazioni paradossali che mostrano il tragico mondo della guerra in una prospettiva originale e per nulla convenzionale. Si susseguono colpi di scena, tentativi di fuga, scambi di cibo e un fatale incontro risolutore con una giovane ragazza.

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Ivano Marescotti

Un anziano contadino sta raccontando tutto questo al piccolo nipote che, rapito dalle sue parole, ascolta il racconto del suo “primo e ultimo giorno di guerra”. Il film non finisce qui, il nonno ha nascosto al bambino una dolorosa verità, non perdete il finale struggente e drammatico.
La fotografia è firmata da Fabio Cianchetti, uno dei massimi autori del cinema italiano, vincitore di un nastro d’argento per “The dreamers” di Bernardo Bertolucci e un David di Donatello per “Canone Inverso” di Ricky Tognazzi. Le riprese sono state effettuate sulle colline romagnole nei pressi di Riolo Terme.

Figura 3: Ivano Marescotti interpreta il nonno che racconta la storia al nipote
Proponiamo questo film, del 2009, per l’impatto emozionale, la drammatica attualità e per la sua disponibilità su YouTube [vedi].

“Il mio ultimo giorno di guerra” di Matteo Tondini, con Ivano Marescotti, Andrea Vasumi, Luigi Bettoli, Michael Zengerling, Matteo Fiori, Enzo Cocomero, Nicola Alpi, Anna Baldini, 2009, Italia, durata 19’
Il mio ultimo giorno di guerra

Le indagini sulla soddisfazione dei cittadini, una chiave di lettura della qualità dei servizi

Da quanto tempo il gestore dei servizi pubblici non vi chiede cosa ne pensate? Avete delle cose da dire? Si tratta di un argomento importante che spesso viene sottovalutato. Si potrebbe anche pensare che non si fanno indagini per non raccogliere critiche, ma questa è una scelta molto sbagliata. Spesso si sottovaluta o comunque non si dà il giusto peso al grado di consenso (e dunque di dissenso) del cittadino e si trascura l’analisi dei disservizi/malcontenti; è dunque molto utile verificare periodicamente (attraverso indagini) quali siano le principali cause di reclamo o comunque di insoddisfazione. E’ evidente come la partecipazione, la disponibilità e il consenso siano elementi (fattori di positività) strettamente legati all’analisi di queste criticità.
Uno strumento fondamentale a questo proposito è rappresentato proprio dalla ‘customer satisfaction’ che è una scienza di analisi dei consumi e serve per misurare la qualità di un servizio. L’orientamento al cliente deve partire dal monitoraggio della mappa delle insoddisfazioni salienti, individuando soluzioni di miglioramento. L’obiettivo principale e il risultato atteso è di rilevare direttamente la qualità percepita (bisogni espliciti e bisogni impliciti). Il sistema per valutare la soddisfazione dei cittadini sui servizi è naturalmente simile a quello di gestione della clientela e costituisce un tassello fondamentale nel quadro generale dell’erogazione del servizio; l’approccio per l’individuazione degli indicatori è quindi del tipo ‘customer view’, per fornire una chiave di lettura dello stato del servizio focalizzata sul punto di vista del consumatore piuttosto che su quello del gestore. Per valutare la qualità del servizio, specie in relazione al raggiungimento degli standard previsti, è dunque bene svolgere apposite verifiche, acquisendo periodicamente la valutazione dei clienti.
In generale i principali risultati emersi dalle indagine di ‘customer satistaction’ effettuate negli anni in regione (nella mia funzione di autorità di vigilanza) hanno sottolineato una discreta e generalizzata soddisfazione da parte dell’utenza emiliano-romagnola per i servizi idrici e di igiene urbana. Una soddisfazione che taglia trasversalmente i due principali tipi di utenze: le famiglie e le utenze non domestiche, seppure sia possibile talvolta rilevare fra i secondi una sorta di ‘malessere’ più diffusa. La soddisfazione per la qualità del servizio di erogazione dell’acqua e quella per il servizio di igiene urbana, considerati nella loro complessità, è decisamente apprezzabile, seppure sia evidente la necessità di sfruttare a pieno i margini di miglioramento ancora esistenti ed evidenti.
Tra i fattori di insoddisfazione però vengono rilevati in particolare i costi richiesti per poter fruire dei servizi e la carenza di informazioni e dialogo tra utenza e gestore. Più nello specifico:
• del servizio idrico si ha in generale una valutazione positiva della qualità del servizio di distribuzione, anche se si esprime qualche perplessità sulla qualità dell’acqua; purtroppo il consumo come bevanda dell’acqua del rubinetto non è un’abitudine comportamentale;
• per il servizio rifiuti vi sono molte differenze tra le varie aree geografiche in cui alcune realtà locali presentano un più spiccato livello di gradimento ed altre invece no. In linea di massima, si può osservare che nei comuni capoluogo la quota di quanti danno un giudizio buono al servizio di raccolta rifiuti è quasi sempre inferiore a quella registrata nei comuni periferici delle corrispondenti province;
• si ritengono in generale elevati i costi del servizio e la maggior parte dei cittadini non si dichiara disposta a pagare qualcosa di più per avere un servizio migliore, anche se nelle loro aspettative auspicano un miglioramento del servizio.

L’orientamento al cliente deve partire dal monitoraggio della mappa delle insoddisfazioni salienti, individuando soluzioni di miglioramento. L’obiettivo principale e il risultato atteso è di rilevare direttamente la qualità percepita (bisogni espliciti e bisogni impliciti). In particolare è richiesta la verifica della situazione in relazione a soddisfazione globale (servizi, zone), fattori della qualità (valutazioni), aree d’intervento (proposte, consigli), informazioni utenza (ricordo spontaneo, giudizio) ed altro.
L’analisi sistematica sulla qualità percepita (sistema di ascolto) deve essere definita sulla base di precisi riferimenti relativi a universo di riferimento, campione, base territoriale, temi di intervista, strumenti utilizzati, durata, periodo di rilevazione, cadenza prevista. Esaminate le informazioni raccolte (con analisi regressiva multipla e analisi statistica), elaborati e valutati i dati relativi, intraprendendo le opportune scelte gestionali per il miglioramento della qualità dei servizi.

Un approccio meno presuntuoso e più collaborativo è sempre apprezzato.

RITRATTI
La vita è color pastello

Piccoli pigmenti macinati, mescolati e diluiti in acqua. Colori tenui e ricordi affettuosi e delicati che ben si coniugano con la delicatezza di quelle stesse tinte e di quei tratti leggeri. Un animo gentile e premuroso ha delicatamente disegnato e tratteggiato un passato non dimenticato. Sono i colori dell’anima, quelli che appaiono su questa tela, sono i sentimenti che si riescono a imprimere con i toni di un colore rosa. Affetto, protezione, gentilezza, sicurezza, amore, sicuramente quello di una madre. Di una madre che è e di una che è stata, di quella che era stata la sua, di quella di un’amica vicina, di quella di molti, l’unica vera luce di bei momenti lontani che non ci sono più. Il colore di un’infanzia, che per quanto difficile era pur sempre rosa, perché mamma c’era, mamma dipingeva, mamma comprava i fiori, mamma cuciva, ricamava, cucinava, preparava torte e biscotti. Mamma che si specchiava e si pettinava prima di uscire, che avvolgeva i capelli neri in un fazzoletto dai colori altrettanto delicati. Che leggeva i primi romanzi francesi e le riviste di moda d’oltreoceano. Lei credeva nei colori della vita, amava particolarmente la gentilezza del rosa, nei vestiti, nelle stoffe, nei fazzoletti, nelle calze, nei fiori, nei quadri, nei disegni, nei dipinti, nei cieli, nei baci.
Cesare Pavese scriveva che ogni mattino sarebbe uscito per le strade a cercarne i colori.
Noi siamo i pastelli che colorano la nostra strada, i disegnatori della nostra vita. Sta a noi soli dare tonalità tenui al tutto che ci circonda. Perché anche io, come Audrey e Anna, credo nel rosa. Fermamente.

“Io credo nel rosa. Io credo che ridere sia il modo migliore per bruciare calorie. Io credo nei baci, molti baci. Io credo nel diventare forte quando tutto sembra andare storto. Io credo che le ragazze felici siano le ragazze più belle. Io credo che domani sarà un altro giorno, e io credo nei miracoli.” (Audrey Hepburn)

Acquarello di Anna Pirazzi

LA RICORRENZA
Vite sradicate: la diaspora italiana dall’Istria

L’esodo istriano, conosciuto anche come esodo giuliano-dalmata, è un evento storico consistito nella diaspora forzata della maggioranza dei cittadini di etnia e di lingua italiana, che si verificò a partire dalla seconda guerra mondiale e negli anni successivi dai territori occupati dall’Armata popolare del maresciallo Josip Broz Tito e in seguito annessi dalla Jugoslavia. Il fenomeno, susseguente gli eccidi noti come massacri delle foibe, fu particolarmente rilevante in Istria, dove si svuotarono intere città, ma coinvolse anche i territori ceduti dall’Italia con il trattato di Parigi e, in misura minore, alcune aree litoranee della Dalmazia occupate dall’Italia nel corso della guerra.
L’Istria era divenuta parte del Regno d’Italia a seguito della vittoria nella prima guerra mondiale, con il trattato di Saint-Germain-en-Laye (1919) e il trattato di Rapallo (1920). In totale, dopo la firma del trattato di Parigi del 10 febbraio 1947 e del memorandum di Londra del 1954, furono circa 250.000 le persone che abbandonarono tutti i loro beni e preferirono andare in Italia.

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Piccola esule

Il Presidente della Repubblica Italiana Giorgio Napolitano, in occasione della Giornata del ricordo del 10 febbraio 2007 – citando autorevoli storici – ha così descritto le caratteristiche dell’esodo: “Nello scatenarsi della prima ondata di cieca violenza in quelle terre, nell’autunno del 1943, si intrecciarono giustizialismo sommario e tumultuoso, parossismo nazionalista, rivalse sociali e un disegno di sradicamento della presenza italiana da quella che era, e cessò di essere, la Venezia Giulia. Vi fu dunque un moto di odio e di furia sanguinaria, e un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel trattato di pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una “pulizia etnica”.

Per dovere di informazione segnaliamo che alcuni storici negano che l’esodo e le persecuzioni siano state la conseguenza di una sistematica pulizia etnica attuata dagli jugoslavi ai danni della comunità italiana, ma, l’intento era quello di catturare, perseguire e punire i responsabili e i complici dei crimini di guerra.

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Lapide posta a Pola in ricordo della strage di Vergarola (photo by WM)

Nel giugno 1945 Gorizia, Trieste e Pola furono tolte dal controllo delle forze di Tito e poste sotto il controllo delle truppe anglo-americane che avevano varcato l’Isonzo il 3 maggio. Si concluse così la cosiddetta crisi di Trieste; Fiume, invece, restò definitivamente sotto il controllo jugoslavo. Ciò spinse gran parte della popolazione di lingua italiana a lasciare la regione nell’immediato dopoguerra. In questa situazione si inserisce la strage della spiaggia di Vergarola (18 agosto 1946), di cui ancora, a distanza di tanti anni, non si conoscono mandanti e responsabili. L’esodo di massa iniziò quando apparve chiaro che le speranze del ritorno di queste città all’Italia erano nulle: in questa occasione l’abbandono si svolse in modo ordinato, sotto gli occhi delle autorità anglo-americane e di alcuni rappresentanti del governo italiano. L’esodo era stato organizzato già prima della strage di Vergarola, subito dopo che, nel maggio del 1946, trapelarono notizie in merito all’orientamento delle grandi potenze riunite a Parigi a favore della cosiddetta “linea francese”, che prevedeva l’assegnazione di Pola alla Jugoslavia. Il 3 luglio 1946 si costituì il “Comitato Esodo di Pola”, punto di riferimento per gli esuli, che rappresentavano tutte le classi sociali, dai professionisti agli impiegati pubblici ai molti artigiani e operai dell’industria.

Il 10 febbraio 1947 il trattato di Parigi assegnò l’Istria, Fiume e Zara alla Jugoslavia quindi s’intensificò, coinvolgendo anche le zone precedentemente salvaguardate dalla linea Morgan, l’esodo di massa già iniziato. Quello stesso giorno, per protesta, Maria Pasquinelli uccise R. W. de Winton, il comandante della guarnigione britannica di Pola. Numerosi profughi si stabilirono oltre il nuovo confine, nel territorio rimasto italiano, soprattutto a Trieste e nel nord-est. Altri decisero di seguire le tradizionali rotte dell’emigrazione transoceanica, scegliendo come meta finale il Canada (Vancouver) e gli Stati Uniti d’America, che, con l’emendamento al Displaced eersons act del 1948 riaprirono, a partire dal 1950, le porte all’emigrazione riservando 2.000 posti ai cittadini del Venezia-Giulia.

Dopo aver stazionato per tempi più o meno lunghi in uno dei 109 campi profughi allestiti dal governo italiano, la maggior parte delle persone che se ne andarono si sistemò nelle varie parti d’Italia, mentre circa 80.000 emigrarono in altre nazioni. Come sempre avviene in queste situazioni, l’economia dell’Istria e degli altri territori coinvolti risentì per numerosi anni del contraccolpo causato dall’esodo. Il trattato di Osimo, firmato il 10 novembre 1975, sancì lo stato di fatto di separazione territoriale venutosi a creare nel Territorio Libero di Trieste a seguito del Memorandum di Londra, rendendo definitive le frontiere fra l’Italia e la Jugoslavia.

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Il Piroscafo “Toscana” nel porto di Pola

“1947” è il brano che Sergio Endrigo ha dedicato a Pola, sua città natale [ascolta]. Si tratta di un brano struggente, dove tra nostalgia e rimpianto il cantautore istriano parla dell’esodo da Pola, compiuto insieme alla sua famiglia: “Da quella volta non l’ho rivista più, cosa sarà della mia città, ho visto il mondo e mi domando se sarei lo stesso se fossi ancora là… come vorrei essere un albero che sa, dove nasce e dove morirà”.

Citiamo, inoltre, quanto dichiarato dal regista istriano Luka Krizanac, durante una nostra recente intervista: “Per quanto riguarda le ragioni storiche dell’Istria cito una cosa che mi diceva mia nonna – sono nata austriaca, mi sono sposata italiana, sono andata in pensione come jugoslava, e morirò croata…”. E stiamo parlando soltanto del ventesimo secolo.

Il brano intonato: Sergio Endrigo, 1947 [ascolta]

Autovalutazione o autoillusione? Meglio cambiare occhiali

Vizi e virtù della scuola italiana continuano a coesistere imperterriti. Il vizio è quello ormai atavico di ritenere che la scuola italiana si cambia dall’alto, calando di volta in volta nel suo contesto i provvedimenti di riforma di questo o quel governo. La virtù è che la scuola, nonostante tutto, nel suo tessuto e nel suo modo di essere resta inossidabile, pressoché identica a se stessa da decenni e decenni, nel bene e nel male. Il miracolo è che generazioni e generazioni di ragazze e di ragazzi siano riuscite ad uscirne indenni, e ancora riescano a sopravviverci.
Se a un essere comune, dotato di normale buon senso, a proposito della scuola di suo figlio gli capita tra le mani un documento sulla autovalutazione, sì, “autovalutazione”, già tutto un programma di ossimori e autoreferenzialità, in cui le espressioni forti, quelle calde, sono ‘start up’, ‘help desk’, ‘task force’ pensa a tutto, a guerre stellari, a un programma del Pentagono, meno che mai che si parli della scuola di suo figlio.
E qui si sbaglia. Perché si tratta del “Rav”. Un’astronave interplanetaria? No. È l’acronimo del Rapporto di autovalutazione che la scuola di suo figlio in nome della trasparenza e del bilancio sociale dovrà compilare online entro l’estate 2015. Il Miur l’ha presentato il 27 novembre 2014 come uno strumento di lavoro che tutte le scuole italiane potranno utilizzare per riflettere su se stesse e darsi degli obiettivi di miglioramento. Si tratta del primo Rapporto di autovalutazione articolato in 5 sezioni, con 49 indicatori attraverso i quali le scuole potranno scattare la loro fotografia, individuare i loro punti di forza e di debolezza, mettendoli a confronto con dati nazionali e internazionali, ed elaborare le strategie per rafforzare la propria azione educativa.
Ma la prima domanda che a qualunque sprovveduto viene da formulare è: ma se “la buona scuola” ancora non c’è, ancora deve partire, cosa c’è da autovalutare, se non una scuola che così s’è già detto che non va bene? Non è forse una perdita di tempo che potrebbe essere risparmiata, rimboccandosi le mani semmai fin da subito a raddrizzare quello che c’è da raddrizzare?
Le scuole sono chiamate ad analizzarsi attraverso la lente di cinque sezioni, che già da sole costituiscono un progetto e un programma di scuola. Inquieta, pertanto, l’idea che qualcuno possa solo pensare che si tratti di adempimenti amministrativi da evadere entro l’anno scolastico.
Le indicazioni ministeriali per la ‘compilazione’ del Rapporto di autovalutazione, con il concetto così scolastico di ‘compilazione’ ci hanno proprio poco a che fare.
La struttura del rapporto disegna un profilo di scuola che non è per nulla scontato e che per di più non appartiene al normale modo di essere, alle ordinarie prassi delle nostre istituzioni scolastiche.
Studiare il contesto e le risorse, analizzare gli esiti degli studenti e i successivi percorsi scolastici, monitorare i processi messi in atto dalla scuola a partire dalla qualità e dall’organizzazione dell’offerta formativa e degli ambienti di apprendimento, integrare i processi di autovalutazione in corso nelle scuole, ammesso che ci siano, con il nuovo sistema, individuare le priorità su cui si intende agire al fine di migliorare gli esiti, in vista della predisposizione di un piano di miglioramento. Tutte procedure che propongono un’idea di scuola come ‘sistema’, dove però la cultura di sistema non è mai stata praticata, dove ancora ogni elemento non si sente assolutamente parte del tutto, tanto da pensare che gli effetti di ogni sua azione ricadono di riflesso sulla qualità, sui processi e gli output dell’intero sistema. Una scuola, che ancora poggia sulle monadi degli insegnanti e delle classi, improvvisamente dovrebbe sentirsi un’organizzazione di cui ciascuno porta la propria parte di responsabilità.
Insomma si introduce, senza esplicitarlo, e ritenendo che questo sia sufficiente, l’idea di una scuola non più come solo luogo in cui vengono forniti gli apprendimenti, ma come organizzazione che apprende, come organizzazione con una propria cultura riflessiva. Un sistema scolastico finalmente non solo di nome ma anche di fatto.
Questo è un avvenimento estremamente importante e serio. Troppo serio per essere affidato all’improvvisazione e alla faciloneria del Rav ministeriale.
C’è un’idea del tutto nuova di scuola e di sistema formativo per il Paese. Di un sistema formativo che a regime dialoga al suo interno e al suo esterno con il territorio e le università. Quando mai? Non è qualcosa che si può improvvisare, non è qualcosa per dilettanti, né può essere la scimmiottatura di modelli e di pratiche importate da altri paesi. Una analisi, una documentazione e una conoscenza di come funzionano le nostre istituzioni scolastiche, non per un’autovalutazione, che già di per sé è una stupida contraddizione in termini, ma per accompagnarne i continui miglioramenti in funzione della formazione e del successo delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi richiedono una organizzazione del sistema formativo e una distribuzione delle sue risorse che siano le stesse su tutto il territorio nazionale.
È necessario iniziare innanzitutto con la formazione di figure di sistema professionalmente preparate, capaci di raccogliere dati, d’assemblarli e confrontarli, capaci di supportare i gangli vitali dei processi formativi e di apprendimento che si realizzano nelle scuole. Una scuola dove i docenti siano preparati ad una didattica che non può più essere quella della classe, delle lezioni frontali, dell’uso delle nuove tecnologie in un sistema che resta vecchio, ma capace di traguardare le nuove sfide formative, capace di dialogo, di ricerca e di continua riflessione.
Insomma non si può pretendere di autovalutare senza avere chiara l’dea della scuola che si vuole. Certo questa non è la scuola che serve al paese e ai nostri giovani. Prima del Rav è meglio “rav-vedersi” e ragionare a fondo sulla scuola di cui hanno bisogno le nostre bambine e i nostri bambini, le nostre ragazze e i nostri ragazzi.Soprattutto abbiamo bisogno di cambiare i nostri occhiali, perché diversamente continueremo a non vedere, ed ogni autovalutazione sarà un’autoillusione contro il perdurare della nostra cecità. Investire risorse per la riqualificazione del personale docente e non docente. Solo allora sarà possibile avviare le indispensabili pratiche di valutazione e di bilancio sociale del nostro sistema scolastico, con degli occhi capaci di guardare al nuovo, anziché ripiegati sul vecchio a cui sono assuefatti, per cui difficilmente in grado di osservare da una prospettiva altra ciò che tutti i giorni sembra normale.

L’ANALISI
Un po’ di chiarezza su Isis, Islam e talebani

di Zineb Zaini

Dopo Bin Laden, l’autoproclamatosi Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (l’acronimo anglofono è Isil, mentre nel mondo arabo il gruppo è conosciuto come “Daesh”) è la più grande spina nel fianco del mondo musulmano.
Per chi si intende di scienza politica i due non sono affatto indipendenti l’uno dall’altro. Anche se l’Isis non ha niente a che vedere con i Taliban di Bin Laden, in una catena di eventi uno ha provocato l’esistenza dell’altro. Per l’occhio comune, invece, questi non sono altro che aspetti terrorizzanti della stessa medaglia: l’islam (secondo la stessa logica a questi si aggiungono anche i fatti di Parigi).

Le differenze tra Bin Laden e l’Isis sono, però, molto importanti per capire una situazione che non si presta ad una facile comprensione. Per prima cosa Bin Laden e i Taliban ce l’avevano esclusivamente con l’occidente. Il nemico era (è) chiaro: la politica occidentale percepita come invasiva e corruttiva del proprio potere territoriale, mista alla frustrazione di un mondo arabo di cui l’arretratezza economica è percepita come risultato di secoli di colonizzazione occidentale.
Questa rabbia è dunque quasi sempre stata indirizzata verso questo nemico, e proprio per questo è riuscito a raccogliere simpatizzanti – anche se non tutti attivi in questa guerra – da una gran fetta del mondo arabo musulmano.

Lo stato islamico, invece, è la diretta conseguenza della divisione della regione araba che il terrorismo talebano, e le risposte contro di esso, hanno creato, non dimenticando anche il ruolo svolto dalle primavere arabe e dalla guerra siriana.
Per l’Isis il nemico non è quindi l’occidente, per lo meno non è quello principale, perché prima deve fare i conti con il mondo stesso da cui proviene, cioè il mondo arabo musulmano. La sua è una guerra ideologica più che politica, e proprio per questo non ha limiti. Il suo interesse politico si ferma dove crede che inizi il suo interesse ideologico, quindi, invece che cedere a ricatti o a scambi, preferisce riservare ai suoi prigionieri musulmani le morti più atroci.
Lo stato islamico, infatti, per sopravvivere necessita di incutere terrore e senso di impotenza nei suoi avversari musulmani, cosi che abbiano ben chiara la sorte di chi si oppone alla sua ideologia.

L’ultima esecuzione dell’Isis prova che la teoria della banalità del male, introdotta da Hannah Arendt come spiegazione alla routinizzazione dell’eliminazione della popolazione ebraica europea da parte dei burocrati nazisti, non si attaglia al caso in questione.
La violenza dell’Isis non è banale, bruciare vivo un prigioniero e rendere tutto ciò spettacolare come un film hollywoodiano mira a shockare e non a rendere il male sistematico, quasi normale, come nel caso dei nazisti. E proprio perché questo male non è banale, probabilmente nel prossimo futuro verremo shockati ulteriormente.

I musulmani non sono simpatizzanti dell’Isis, se lo fossero andrebbero contro la propria coscienza di fede e contro la propria stessa sicurezza futura. I musulmani, soprattutto quelli europei, sono consapevoli dell’opportunità che la vita in Europa offre, non la scambierebbero per il rischio che l’Isis incarna. Se qualcuno lo ha fatto o lo farebbe, studiarne i motivi e gli scopi sarebbe utile per cercar di prevenire tragedie come quelle di Parigi; ma la maggior parte non è interessata, anche perché assecondando il fondamentalismo rinnegherebbe i principi della propria religione, testimoniati dal credo di due miliardi e mezzo di persone.

* Zineb Naini, laureata in Scienze Politiche all’Università di Bologna, è ricercatrice in politiche anti-terrorismo e violazione dei diritti umani. Collabora con il magazine on-line Mier Magazine

L’INTERVENTO – Fiorentini: spostiamo il mercato del venerdì fra Palestro e Santo Stefano

di Leonardo Fiorentini*

Care amiche e cari amici di Ferraraitalia,

purtroppo la concomitanza con il Consiglio Comunale mi ha impedito di essere alla vostra interessante iniziativa di gennaio in biblioteca. Interessante perché permette finalmente di guardare alla nostra città con gli occhi rivolti verso il futuro, e perché mette al centro alcune questioni che mi stanno particolarmente a cuore. Mi scuso, ma il poco tempo a disposizione nel scrivervi queste righe prima di andare in consiglio mi costringono ad andare per punti (a me più cari) e a tagliare con l’accetta i ragionamenti, ma spero ci sarà modo di ragionarci insieme anche in altre occasioni.

Pensare in grande: riscopriamo il canale Panfilio per cambiare faccia al centro storico
E’ una suggestione affascinante ed interessante, sia per l’aspetto paesaggistico e storico, che per i risvolti indiretti su uno degli assi di attraversamento della città. Vedo solo una grande criticità, anche una volta riusciti a reperire i fondi per un’opera che non mi appare comunque di semplice realizzazione: le nostre acque non sono più quelle del ‘400 o del ‘700. Già il fossato del Castello è stato oggetto di interventi per garantire una qualità delle acque decente d’estate, mi preoccupa molto un canale con acqua di fatto ferma che attraversa la città che preleva l’acqua da un canale, il Volano, piuttosto fermo di suo.

Sculture, arredi floreali e caffetteria per il Giardino delle duchesse
Essendo stato di fatto il primo custode del Giardino riaperto, quando come circoscrizione cocciutamente realizzammo la prima apertura estiva, il tema mi sta ovviamente a cuore. Continuo a vedere quell’angolo di città come una riserva verde dentro la città costruita. Una riserva che fa da polmone e ristoro di giorno, e vive di cultura la sera. Per questo non vedo male, una volta finiti i cantieri di risistemazione del Palazzo municipale, un ragionamento che introduca la possibilità di apertura di attività all’interno del giardino (o anche solo la collocazione di tavolini delle attività che già esistono nel perimetro), mantenendone la caratteristica di luogo privilegiato delle attività culturali cittadine dalla primavera all’autunno.

Un disegno unitario per rivitalizzare piazza Castello e piazza Repubblica, Un nuovo volto per piazza Cortevecchia e nuove ‘vasche’ in città, Strapaesana, Da mercatone a mercatini, ieri e oggi tutto un altro volto.
Le metto tutte insieme perché devono far parte di un ragionamento unitario. Credo sia venuto il tempo di porre fine alla cesura fra la città medioevale e quella rinascimentale. La zona pedonale deve poter varcare largo Castello/Giovecca e riunire le grandi ztl interrompendo, oggi che la tangenziale ovest è realizzata, un asse di attraversamento (Cavour-Giovecca) che deve rimanere permeabile ai soli mezzi pubblici. Il resto deve essere ricompreso in una zona pedonale progressivamente allargata. Come si è già sperimentato le scorse festività, la chiusura dell’asse principale è realizzabile (da S. Stefano a Palestro). Si può continuare nella sperimentazione, magari spostando il mercato del venerdì fra Cavour, largo Castello e Giovecca, per verificarne l’impatto nei giorni feriali, ma è imprescindibile un ragionamento complessivo che coinvolge la mobilità pubblica (con linee bus che si attestano ai bordi della zona pedonale) e quella privata (spostando i parcheggi persi in Cortevecchia sull’ultimo tratto di un viale Cavour “chiuso”), un ragionamento sugli altri due assi (Porta Po/Portamare e di riflesso Arianuova), e finalmente un ragionamento complessivo sull’utilizzo razionale e condiviso delle piazze sia per le attività “mercatali” che per gli eventi.

Leonardo Fiorentini, consigliere comunale di SEL

LA STORIA
Ilya, l’idillio italiano dell’artista più strepitoso di Russia

da MOSCA – In questa città ci sono talmente tanti musei da visitare che, a un certo punto, ci si perde. Se, però, si seguono solo le indicazioni delle guide turistiche, a scappare sono sicuramente i più interessanti. Bisogna allora parlare con gli amici, i colleghi, gli abitanti della città che avranno tutti centinaia di diverse versioni ma che, almeno, ti apriranno la mente. A te poi scegliere.
Su consiglio di Olga, dunque, la mia insegnante di russo, mi reco alla Galleria di Ilya Glazunov, sulla ulitsa Volkhonka numero 13, esattamente di fronte al Museo Puskin. Avevo già visto, passandoci spesso davanti, il bellissimo ed elegante palazzo azzurro con scritta dorata, ma non mi ci ero mai soffermata troppo. Qui, questo tipo di edificio è comune, nel senso che ve ne sono di bellissimi simili ad ogni angolo di strada. Come ogni cosa in questa affascinante città, anche questo palazzo è maestoso e imponente. Gli interni, poi, ci portano nel passato.

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Galleria di Ilya Glazunov
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L’entrata alla galleria

Alla cassa, chiedo a una gentile signora se posso fotografare. Il mio livello di russo mi permette di capire (finalmente) che posso farlo, pagando trenta rubli in più (nemmeno o quanto un centesimo di euro), ma solo all’entrata e nella stanza numero quattro. Chiederò conferma a una delle ‘babuscke’ delle sale, le signore che vegliano attentamente ai comportamenti dei visitatori, e così è, infatti, ho capito bene. All’entrata si viene subito accolti da un’atmosfera di fasto e di grandeur, che non sarà smentita nelle sale successive. Due busti di marmo ci accolgono e ci introducono nella galleria.

ilya-artista-russoilya-artista-russoLe scale sono di marmo, i quattro piani che ospitano opere tutte molto diverse l’una dall’altra. Ilya Glazunov, in effetti, è un artista poliedrico e incredibile, dico è perché ancora vive e lavora a Mosca. A molti forse questo artista è noto per alcune opere monumentali relative alla storia della Russia, di cui vi parlerò, ad altri per gli intensi ritratti anche di attori italiani degli anni Cinquanta-Sessanta (artista davvero molto legato all’Italia), ad altri ancora per essere colui che, nel 1997, si è preso cura di alcuni interni del Cremlino (della zona di residenza presidenziale, per la precisione). Certo è che la vita di Ilya Sergeyevich Glazunov, classe 1930, è stupefacente, costellata di successi, impegni e grandi onori. Difficilissimo sintetizzarne la biografia. Ma ci proveremo.

Nato a Leningrado, Ilya inizia a disegnare già alla tenera età di cinque anni (con le “aquile in montagna”) e i genitori lo iscrivono subito alla scuola d’arte per bambini del giardino di Lopukhin. Entrambi i genitori muoiono durante l’assedio di Leningrado e, a soli undici anni, Ilya si trasferisce al nord, nella regione di Novgorod. Tornerà a Leningrado (San Pietroburgo) dal 1991, alla fine della guerra, iscrivendosi alla scuola Repin di pittura, scultura e architettura. Fra il 1950 e 1959, l’artista inizia a produrre i famosi dipinti su Dostoevsky, che si trovano al secondo piano della galleria moscovita (“Dostoevsky a San Pietroburgo”, le illustrazioni de “l’Idiota”, dei “Demoni” o del “Principe Myshkin”). I ritratti del poeta sono bellissimi, magiche e delicate le atmosfere pietroburghesi sullo sfondo. Il 1957 è un anno importante, perché Glazunov espone per la prima volta a Mosca, alla Casa Centrale degli Artisti, dove riceve, per ben due volte, la visita dell’allora Ministro della Cultura Mikhailov, e alcune prime critiche dal New York Herald Tribune. Incontra il noto critico italiano Paolo Ricci, esegue i ritratti di poeti come Nazym Hikhmet e si trasferisce nella capitale russa.

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Ilya Glazunov con il tenore italiano Mario del Monaco
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Glazunov ritrae la cantante lirica Renata Tebaldi

Nel 1959 – e qui inizia, direi, l’idillio “italiano”, peraltro già in nuce quando l’artista aveva copiato, nel 1952, alcuni capolavori di Raffaello-, un giornale polacco gli commissiona il ritratto del grande tenore Mario del Monaco, che incontrerà di persona.Intanto, a Napoli, il critico d’arte Paolo Ricci pubblica la monografia “Ilya Glazunov”. Nel luglio 1961, durante il secondo Festival internazionale del cinema di Mosca, vanno da lui le star del cinema italiano dell’epoca, l’attrice Gina Lollobrigida, i registi Luchino Visconti e Giuseppe De Santis, lo sceneggiatore Ennio de Concini. I loro ritratti, completati nel giro di poche ore, hanno un immenso successo, e Ilya viene invitato a visitare Roma.

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Eduardo De Filippo in visita a una mostra di Glazunov
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Giulietta Masina in visita a una mostra di Glazunov

Ciò avverrà due anni dopo, nel 1963, quando l’artista sarà invitato da Luchino Visconti, Federico Fellini, Gina Lollobrigida, Alberto Moravia e altre figure di rilievo. Durante il soggiorno italiano dipingerà ritratti di Giulietta Masina, Federico Fellini, Michelangelo Antonioni, Claudia Cardinale, Salvatore Adamo, Domenico Modugno, Eduardo de Filippo, Renata Tebaldi, esibendo anche i suoi lavori nella galleria “la Nuova Pesa” di via del Vantaggio.

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Il ritratto di Pertini (1984), Palazzo del Quirinale

Nel 1967, si reca in Vietnam, nel 1968 è a Parigi, su invito di Yves Montand e Simone Signoret, e qui dipinge il ritratto del presidente francese Charles de Gaulle. Nel 1971, è il turno del ritratto di Indira Gandhi. Ormai è un grande fra i grandi. Nel 1978, crea l’enorme pannello “contributo delle popolazioni dell’Urssalla cultura e alla civilizzazione del mondo” per il quartier generale dell’Unesco a Parigi. Diventa talmente importante che, il 6 giugno 1980, gli viene riconosciuto il titolo di “Artista dei Popoli dell’Urss”. Seguono mostre a Milano, nel 1982, e, sempre per restare ai forti legami con il nostro paese, il ritratto del presidente Alessandro Pertini, nel settembre 1984, ancor oggi esposto al Palazzo del Quirinale.

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‘Il convento di Novodevichy’

Arriviamo al 1987, quando Glazunov è nominato rettore l’Accademia russa di pittura, scultura e architettura, da lui stesso fondata, situata al numero 21 della ulitsa Myasnitskaya, istituzione a carattere federale. Il 1990 rimane nella storia per il ritratto di Papa Giovanni Paolo II, realizzato durante la visita a Roma insieme agli studenti della sua accademia. Nel 1991, Glazunov, instancabile, riceve la medaglia d’argento della città de l’Aquila, per i suoi importanti risultati nel mondo della scienza e dell’arte. Arrivano il 1995, anno in cui gli viene conferito il riconoscimento al “merito per la madre patria” e il 1996, quando l’incarico del rinnovo degli interni dell’edificio di residenza presidenziale del Cremlino lo impegnerà fino al 1997.

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‘L’eterna Russia’ (1988)

Nel 1999, riceve la “Medaglia d’Oro di Picasso” dal direttore generale dell’Unesco e il sindaco di Mosca firma il decreto che autorizza la creazione della galleria statale a lui dedicata, quella che vediamo oggi, ufficialmente inaugurata nel 2000. Il 1999 è anche l’anno dei grandi pannelli che vediamo esposti nella sala 4 della galleria, come “Il convento di Novodevichy”, la “Rotta della Chiesa la notte di Pasqua”, “Il mercato della nostra democrazia” o i “Misteri del ventesimo secolo”. Da allora successi e magia continuano. D’altronde, non sembrano essersi mai interrotti, in un crescendo formidabile.

Per saperne di più visita il sito web, anche in inglese, [vedi] da cui sono tratte le fotografie in bianco e nero dell’artista e il ritratto di Pertini. Le altre fotografie di alcuni interni e dei grandi pannelli della sala 4 della galleria moscovita sono di Simonetta Sandri.

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LA RIFLESSIONE
Denatalità e crisi economica

Non ha torto l’arcivescovo di Ferrara-Comacchio, monsignor Luigi Negri, quando dice che denatalità e crisi economica sono due fattori legati tra loro.
Non è una novità, infatti, che l’Italia abbia un tasso di natalità fra i più bassi al mondo e che sono gli stessi economisti a dire che se oggi sette lavoratori, in media, sostengono i costi di tre pensionati, fra non molto, se non cambiano le cose, il rapporto potrebbe rovesciarsi mettendo in serio rischio la sostenibilità dello stato sociale e con esso una conquista fondamentale e consustanziale dello stesso patto fondativo della Repubblica.

Il problema non sta, quindi, nel contestare una verità nota da tempo e che trova conferme in una letteratura ormai fondata in campo economico, ma quando le verità si dicono a metà per riaffermare la netta ed esplicita condanna dell’aborto.
Solo per citare un esempio, l’arcivescovo di Chieti-Vasto, Bruno Forte, il 28 gennaio scorso lancia un’iniziativa in collaborazione con l’università di Chieti sul tema della famiglia e presenta al governo una serie di domande. Il pastore, e noto teologo, racconta l’esperienza in un proprio intervento su Il Sole 24 Ore (8 febbraio 2015).

Il contesto è il medesimo sul quale la Chiesa cattolica è chiamata da papa Francesco a riflettere con i due sinodi: quello straordinario del 2014 e quello ordinario in agenda nell’ottobre 2015.
Dopo una prima istanza sul concetto di famiglia come valore pubblico nel bene di tutti, ne segue una seconda che chiede garanzie e condizioni necessarie, a cominciare dalle urgenze abitative a dal lavoro, “la cui mancanza – scrive il pastore – ferisce la dignità della persona umana e colpisce al cuore (al cuore!) le possibilità di sussistenza e di crescita della famiglia”.
Al terzo posto (l’ordine dell’elenco non pare casuale) il tema della denatalità che “deve essere superata – prosegue Forte – a livello culturale e con opportuni interventi di politica sociale che favoriscano il coraggio degli sposi nell’aprirsi al dono di nuove vite”.

Solo all’interno di questo contesto incontriamo l’appello ad una cultura della vita e contro l’aborto, giudicato “una sconfitta per tutti”. Istanza subito corredata con l’invito ad accompagnare le famiglie “con interventi legislativi a loro favore, proporzionati al numero dei figli e alle necessità connesse alle condizioni lavorative dei genitori”.
Un impegno rafforzato, inoltre, dalla necessità di una “sfida educativa” nei confronti delle nuove generazioni, a partire dalla “specifica cura da destinare alle possibilità lavorative da offrire ai giovani”, il cui tasso di disoccupazione “è ancora talmente elevato – notare le parole usate – da costituire una gravissima urgenza per il Paese intero”.
Su quest’ultima istanza l’arcivescovo di Chieti-Vasto cita una frase di papa Francesco: “Non si permetta che ai giovani sia rubata la speranza!”, per invitare tutti – governo, società civile e comunità ecclesiale – a prestarvi orecchio, “pena il declino – attenzione – etico e sociale della vita di tutti”.

L’impressione è che con l’insistenza sui temi sociali (lavoro, casa, legislazione) entro i quali comprendere la cultura della vita, si voglia delineare un quadro etico più complessivo e inclusivo della questione, ben più vicino, e dentro, alla condizione umana, di quanto non riesca a fare la riproposizione di un principio (no all’aborto) che, per quanto legittimo, risulta incurante del contesto fatto di povertà, limiti e ingiustizie, che costituisce il concreto e ordinario campo di vita delle persone.
Da un lato, quindi, si avverte la volontà, pensata e ricercata, di porsi su un terreno di dialogo, condivisione e collaborazione con la condizione umana, per cercare insieme vie d’uscita da crisi e difficoltà, dall’altro c’è il piano, alla fine, del giudizio, destinato a misurare distanze, diversità, differenze, lontananze da principi e valori.

Per un verso, il voler fare i conti con la realtà umana, più o meno piacevole che sia, per l’altro la riproposizione di come essa dovrebbe essere, indicando dalla cattedra la direzione di marcia.
Il gesto storico delle dimissioni di Benedetto XVI e lo stile della misericordia di papa Bergoglio hanno detto e dicono cose chiare sulle sfide che attendono la Chiesa cattolica nel mondo contemporaneo, su come affrontarle e sul fatto che, come intuito da papa Roncalli, se la Chiesa vuole essere Magistra non deve dimenticare mai di essere prima Mater.
L’autorevolezza di grandi personaggi come Teresa di Calcutta è il frutto di decenni di testimonianza e fu lo stesso papa Paolo VI a dire che questo tempo ha più bisogno di testimoni che di maestri.

Del resto, se la legislazione nazionale sulla famiglia in generale è giudicata così insoddisfacente e ancora lontana dagli stessi standard europei, deve pur essere un problema anche per la stessa Chiesa cattolica che proprio in Italia ha la propria sede storica.
E continuare a riproporre con ostinazione la retta via sul piano astratto del richiamo ai principi non negoziabili, per quanto sacrosanti e appartenenti al deposito dello stesso Magistero, ha di fatto mostrato il fiato corto di alleanze con chi, strumentalmente e per rendita politica, si è fatto difensore per via istituzionale e formale di questi valori, ma prestando il fianco all’incoerenza di essere talmente favorevole alla famiglia da averne spesso, molti di essi, più di una.

L’ultima sortita di monsignor Luigi Negri, con le code polemiche scatenate in questi giorni, ha avuto sì la ribalta internazionale addirittura del Washington Post, come hanno segnalato i direttori di Estense.com e della Nuova Ferrara, Marco Zavagli e Stefano Scansani, (Abortions caused Italy’s economic crisis, archibishop claims), ma forse la chiesa ferrarese preferirebbe ben altra visibilità.

Diet-etica, ovvero dell’ossessione del giusto cibo

Nel nuovo paniere Istat del 2015 entrano i biscotti e la pasta senza glutine. Il bollino gluten free, importante per i celiaci, si è diffuso come valore aggiunto (nel prezzo prima di tutto) per una quantità di popolazione impegnata nella crociata contro la farina raffinata. Perché l’attenzione al cibo si sta trasformando in ossessione che, peraltro, è utile solo ai brand alimentari per cercare spazi di innovazione sempre più difficili?
La motivazione dichiarata è quella di preservare la salute. L’obiettivo sembra indiscutibile, molto meno assodato è che il legame tra cibo e salute passi attraverso una dieta e che, attraverso la dieta sia possibile acquisire la garanzia dell’eterna salute e (perché no?) anche della eterna vita. L’educazione alimentare sembra assumere il valore di una missione ed è proposta in età sempre più precoce, con il rischio di togliere spontaneità al rapporto con il cibo, di creare nei più piccoli l’idea di un legame tra cibo e divieti. Bisognerebbe parlare di educazione alimentare mettendo l’accento sul piacere del pasto condiviso, senza mitizzare il potere di controllo sul corpo (non siamo macchine), riconoscendo i nostri personali bisogni, anche alimentari, imparando il buon senso.
Si diffondono mode alimentari che tramontano altrettanto rapidamente di quanto si sono affermate: proliferano regimi dietetici miracolistici dai titoli evocativi ancorché stravaganti. Basta digitare “diete alimentari” per rendersene conto.
Come spiegare l’ossessione del cibo dal punto di vista sociologico? Le diete assumono un valore religioso, vengono sostenute con il fervore di pratiche etiche, sono assunte come fattori di identità, segnano appartenenze. Abbiamo bisogno di certezze e le cerchiamo nella dieta che ci offre una certezza laica di vita eterna! Inoltre, attraverso il cibo cerchiamo una sorta di ricomposizione degli opposti “è buono e fa bene”, “fa bene a me e fa bene al pianeta”: vogliamo sentirci buoni e giusti, ci occupiamo della fame nel mondo e portiamo a casa la sporta delle spesa (rigorosamente in carta o in materiale biodegradabile) con l’orgoglio di chi ha salvato la famiglia dal peggiore dei rischi.
Ci piace pensare che sappiamo fare la scelta giusta e ci conforta pensare che esista una scelta giusta. L’idea che in ogni ambito l’equilibrio vada cercato ogni giorno, anche attraverso consapevoli oscillazioni in una o nell’altra direzione, ci carica di eccessiva responsabilità. Così cerchiamo riparo mixando etica e dietetica, cerchiamo l’alimento salvavita, siamo pronti a credere a qualunque toccasana. L’estrema funzionalizzazione del cibo risponde (in modo sbagliato) ad alcune questioni del nostro tempo. La prima riguarda il mito della responsabilità sul nostro corpo: l’illusione che sia possibile controllarlo e mantenerlo in salute attenendosi scrupolosamente alle regole (ma quali?!).
L’ossessione del cibo giusto può farci ammalare, può portare a derive ortoressiche (alla paura del cibo) e a regimi restrittivi. La gratificazione è una componente primaria dell’atto alimentare: privarsi di ciò che il cibo offre, a partire dal piacere, nuoce gravemente alla salute del corpo e della mente.

Maura Franchi è laureata in Sociologia e in Scienze dell’educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei consumi. Studia le scelte di consumo e i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network.
maura.franchi@gmail.com

Italia: il Paese del non vedo, non sento, non parlo… però nego

Premesso che i regimi totalitari hanno causato sofferenze umane e perdite incommensurabili, che degradano non solo il diritto umano ma lo stesso spirito umano, dato che la scelleratezza di queste dittature colpivano le persone a causa della loro religione, etnia, appartenenza sociale, oppure per la loro opposizione a detti regimi; prima dai nazisti e collaborazionisti e poi dai successivi regimi comunisti. L’Italia non potrà mai chiamarsi fuori dalle responsabilità sia nei confronti delle leggi razziali e della Shoah che dell’ etnocidio dalle terre dell’ Istria, di Fiume e della Dalmazia. L’esodo istriano, fiumano e dalmata non avvenne solo per la rivalsa dei vincitori sui vinti o per l’urto di due mondi culturalmente differenti; le tecniche di quell’esodo erano state minuziosamente pianificate sul pregiudizio razziale, già nel 1937. Se le leggi razziali in Italia contro il popolo ebraico sono state di stampo fascista, nell’ Italia orientale sono state di stampo comunista, nella persona del Maresciallo Tito, con il “silenzio” del partito comunista italiano capeggiato da Togliatti, grande amico di Tito, il quale, mentre infoibava le povere vittime innocenti, veniva accolto al Grand Hotel della capitale. Vuoi tu che lo stesso Togliatti non fosse a conoscenza di questi crimini? Sapeva o non voleva sapere? Stessa “morale” politica italiana fu utilizzata per la deportazione degli ebrei. Vuoi tu che non sapessero? Si è cercato di negare sempre, come per la Shoah, anche per quest’ altra pagina insanguinata della nostra storia moderna, al cui orrore si è aggiunto circa mezzo secolo di silenzio. Si è cercato di cancellare questi orrori dalla memoria collettiva della Nazione. Le menzogne sono finite anche se ci ritroviamo i soliti “microcefali” negazionisti. A proposito di questi quando deciderà questo governo ad inserirlo fra i reati? Non solo “negazionisti”, ma ora vi sono anche i “riduzionisti” che osano contestare non solo le tragedie immani ma anche il numero dei morti! Certo che delle migliaia di infoibati, probabilmente il dato numerico complessivo non si saprà mai; comunque esso non cambierebbe la sostanza del problema né attenuerebbe la responsabilità degli aguzzini. I negazionisti dicono che “la memoria delle Foibe fu creata ad arte nel dopoguerra per screditare il movimento partigiano”. Le stesse identiche elucubrazioni quando affermano che “la Shoah è un’invenzione degli ebrei”. La verità sta nel fatto che fra l’8 e il 13 settembre 1943 iniziano gli arresti e gli infoibamenti da parte dei partigiani di Tito. Nel mirino entra particolarmente la popolazione italiana, compresi gli stessi membri del CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) che non condividono l’idea annessionistica di Tito e che pertanto sono considerati nemici da abbattere. Non possiamo non ricordare che il 26 settembre 1943 trova la morte Norma Cossetto, una studentessa universitaria di soli 24 anni. Il medico legale certificherà che, prima dell’infoibamento, nella prigione, la ragazza subì due giorni di sevizie, di stupri collettivi, per poi venire impalata con una scopa e gettata nella foiba. Sempre nel settembre ’43, Giuseppe Cernacca, impiegato di 44 anni, viene bastonato e costretto a portare fino sull’orlo della foiba un sacco di pietre. Alcuni partigiani titini gli staccano la testa per recuperare due denti d’oro, poi la usano come pallone per una partita di calcio nella piazza del paese. Fortunatamente qualcuno è riuscito a salvarsi “contro l’impossibile” e a raccontare… Terribile continuare…mi fermo qui.

‘Questa sera si recita a soggetto’, il meta-teatro di Pirandello

STANDING OVATION: I PIU’ ACCLAMATI SPETTACOLI TEATRALI DEL XXI SECOLO
“Questa sera si recita a soggetto” di Luigi Pirandello, regia di Massino Castri, Teatro Comunale di Ferrara, dal 21 al 25 gennaio 2004

Luigi Pirandello compose la sua celebre “trilogia del teatro nel teatro” nel corso degli anni Venti, adottando quelle audacissime (per l’epoca) soluzioni artistiche che gli consentirono di frantumare il dramma borghese per poi reinventarlo sul palcoscenico, e che gli valsero il premio Nobel nel 1934. Se dapprima con i “Sei personaggi in cerca d’autore” il drammaturgo siciliano mise in scena la diatriba fra il personaggio e l’attore, e in seguito con “Ciascuno a suo modo” tracciò il rapporto fra l’attore e lo spettatore, con “Questa sera si recita a soggetto”, in scena da stasera al Teatro Comunale per la stagione di prosa 2003-04, rappresentò il contrasto fra gli attori e il regista contemplando inoltre il coinvolgimento del pubblico.
L’opera si fonda sulla contesa fra attori e regista in merito alla rappresentazione di una novella, dello stesso Pirandello, dal titolo “Leonora addio”, poiché il regista, deciso ad imporre la propria creatività sul testo dell’autore, esige dagli interpreti una recitazione “a soggetto”, cioè improvvisata e semplicemente ispirata al copione. Ma gli attori si ribellano, e addirittura cacciano via il regista. Non mancheranno fin dall’inizio gli interventi di alcuni spettatori, dalla platea e dai palchi, che protesteranno per lo stallo scenico della “commedia da fare” che non incomincia mai, e si aprirà un dialogo-dibattito con il regista e gli artisti. Ovviamente tali (finti) spettatori fanno parte anch’essi della compagnia, di quegli stessi attori che persino durante l’intervallo, confusi con il vero pubblico, continueranno ad interpretare il loro ruolo nel ridotto o comunque fuori scena.
Saranno due ore e mezza di forti emozioni, anzi due ore e quaranta minuti se si considera che durante il finto-intervallo lo spettacolo continua sia in scena che nel foyer. Già “Questa sera si recita a soggetto” è una (fantastica) macchina infernale così come l’ha concepita il genio di Pirandello, ma nelle magistrali mani registiche di Massimo Castri il meta-teatro diviene neo teatro classico e l’avanguardia luminosa neo tradizione, se ci è consentito l’ossimoro. Com’è evidente, si tratta di un’occasione ghiottissima e assolutamente da non perdere. Soprattutto se si considera che “Questa sera si recita a soggetto” ha rappresentato per decenni, e rappresenta tuttora, una sfida e una severa prova anche per le compagnie più esperte e affiatate. Fra i protagonisti spiccano Valeria Moriconi e Manuela Mandracchia.

Rilancio di turismo e cultura nei territori e nelle aree vaste: occorre una legge

“Ti emozioni tra spazi lunghi e tempi lenti, odori e sapori, terre, acque e nebbie dorate, estensi, legati, ville e parchi, eventi e accoglienza”.
Questa la scritta impressa in ben sette manifesti di immagini e nella home page di un corposo dvd che quando lo vedi ti pare di stare immerso, come in un 3d, dentro una cornice di un mosaico variopinto, in uno dei tantissimi localismi che i segni di tanti tempi hanno lasciato alle generazioni.
Patrimonio dell’umanità, una geografia con pezzi a milieux, volti di comunità, borghi, piazze, angoli, che puoi ritrovare con percorsi incoming, messi però a rischio da politiche che debbono ancora sciegliere come procedere nel binomio inscindibile di cultura e turismo.
Che il nostro Paese sia, tra i pochi al mondo, ricco di mille culture e la culla della storia dei popoli, è un riconoscimento diffusissimo, ma, da almeno un decennio, ha comportamenti pigri e organizzazioni fragili per l’accoglienza e la diffusione di tante bellezze invidiabili da più parti.
Manca, quindi, qualcosa per un rilancio dell’Italia: dalle sue coste, dai suoi beni artistici alle biodiversità, dalle sue montagne ai suoi laghi; di quanto lo stivale rappresenta nei suoi molteplici saperi e conoscenze: dall’Impero romano, al Medioevo, al Rinascimento, fino all’ultimo secolo breve, il ‘900.
E su questi tantissimi lembi dei territori, la presenza costante di volti che ti accolgono e di accompagnano per stare, per un po’, nella storia delle comunità, una modalità includente a quei contesti d’ambiente.
Basterebbe citare alcuni luoghi conosciutissimi come: il Garda, le Dolomiti, Venezia e la sua laguna, la Maremma aretina, le Cinque terre, il Salento, la Costa amalfitana, il Gargano, il Cagliaritano, la Sicilia orientale, itinerari di bellezze dove ritrovi te stesso e ti danno senso.
Poi vai a ricercare i piccoli turismi, siti sconosciuti ma incantevoli, piccole storie piene di sentimenti e passioni, un muretto, una chiesetta, un piccolo castello, una portualità minuta, un prodotto tipico, un particolare presepe vivente, alcuni sbandieratori e figuranti del tardo Medioevo, una vallata, una piccola laguna ed alcune valli, tantissima flora e fauna.
Certamente questa è l’Italia tutta, con i suoi diecimila specchi, con non pochi mozzafiato ma, spesso, abbandonata e lasciata nell’incuria, fuori dai grandi circuiti internazionali ed anche dei fuori porta di fine settimana.
Cosa serve allora? Serve, subito, una legislazione nazionale quadro sul turismo e sulla cultura con un articolato che precisi, ruoli, funzioni, decentramento, soggetti attuatori e gestori: dal pubblico al privato al terzo settore ma con criteri a reti e a sistemi territoriali, là dove le bellezze di un paese affiorano con forza e possono, nell’organizzazione, accogliere.

Una necessità legislativa sentita ovunque e che viene richiamata con forza anche nel ferrarese, a fronte di un contesto di modifiche costituzionali ed istituzionali ormai vicino ma che lascia però spazio ad una imprecisa transizione nelle funzioni, soprattutto sul turismo e la cultura nei territori e nelle aree vaste.
E sul futuro a breve c’è già chi si sta muovendo: dagli operatori del turismo all’associazionismo organizzato, dalle proloco ad alcuni sindaci, da Campagna amica al circuito delle sagre, dalle associazioni dei musei, al turismo religioso, alle feste rosa ai percorsi d’arte, a quelli rurali e delle vie d’acqua.
Quindi una nuova legislazione, che punti al fare reti, filiera e sistema nei territori, unico progetto vincente per le cento città, i tantissimi comuni, le moltissime comunità locali.
Una risorsa da rimuovere dalla sua lunga stagnazione e far correre verso una nuova economia dei distretti, dei territori, delle tante terre a milieux che aspettano un segnale politico forte.
Aspettiamo ed attendiamo che scendano i palazzi della politica da Roma fino alle più lontane periferie del nostro ben stivale, isole comprese.

L’IDEA
Ziferblat, il caffè a tempo

da MOSCA – Ulitsa Pokrovka, Mosca, le diciannove di una fredda domenica sera. Arrivo in taxi, come spesso ultimamente, fa troppo freddo e le fermate della metro sono il più delle volte lontane dai posti ai quali si è diretti. Se d’estate si può fare, ora quei metri sembrano chilometri. Scendo al numero 12, mi hanno detto che però devo girare l’angolo, entrare in una corte e cercare un piccolo cartello. Non è difficile, lo trovo quasi subito, salgo le scale.

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La sveglia, il simbolo e il logo del caffè a tempo

Sembra un palazzo come tanti, e in effetti lo è, salvo che al secondo piano vi è una porta che introduce in un mondo magico, brulicante di giovani, d’idee, di chiacchiere, di progetti, di libri, di oggetti vintage, di tè e biscotti. Sì, perché qui non si beve nulla di alcolico. E’ uno spazio per i desideri, un luogo dove poterli veder avverare. Appena entrata mi fanno scegliere una sveglia (lo definiscono “il rituale”), sognatrice retro come sono scelgo subito quella più adatta a me, un modello d’altri tempi, un quadrante che si chiama Maya.
Accanto alle sveglie, tazze e bigliettini lasciati dagli ospiti. Oggetti di ogni tipo alle pareti, sempre curiosi e originali. Quadri e disegni ammiccano agli ospiti. Maya viene con me.

ziferblat-caffè-tempoUn po’ in russo è un po’ in inglese mi spiegano che posso (e devo solo) sedermi, dove voglio, portando con me quell’oggetto curioso, che, però, non funziona veramente, nessun ticchettio inquietante (meno male, o il passar del tempo diventerebbe ansiogeno). Le ragazze che mi accolgono segnano loro il mio momento d’arrivo, su un taccuino. Pagherò due rubli al minuto per la prima ora, un rublo a partire dalla seconda, solo per stare lì, ma non mi devo preoccupare, superate le cinque ore, il tempo si ferma e pagherò sempre la stessa cifra, fissa. Con quella sorta di simpatico, e vicendevolmente utile, scambio potrò prendere il caffè o il te, che mi serviranno giovani ragazzi e ragazze sorridenti o che potrò pure farmi da me, ci saranno biscottini al cioccolato, pasticcini e dolcetti sfiziosi tipo lingue di gatto.

ziferblat-caffè-tempoziferblat-caffè-tempoSono lì per partecipare a una serata letteraria italiana, di cui vi parlerò in futuro (perché ora voglio parlarvi solo di questo luogo) ma incrocio tante cose interessanti. Tutto è libero e compreso in quel tempo che si paga: bevande, snack, wifi, computer, stampanti, libri, atmosfera. Siamo molto lontani dagli anonimi caffè-catena della capitale, tipo Starbucks, Kofe Khaus e Schokoladnitsia. Tutta un’altra storia. A Ziferblat si parla anche italiano, si suona il pianoforte, si leggono libri. Le pareti sono costellate da volumi di ogni tipo. Le antiche macchine da scrivere, che peraltro mi appassionano da sempre, fanno subito comprendere lo spirito con il quale è nato questo posto unico, lasciatemelo già dire fin da ora.

ziferblat-caffè-tempoziferblat-caffè-tempoParlo con Dmitry, un gentile ragazzo russo che mastica un po’ di italiano, scambio email con varie persone che hanno creato quell’idea, risalgo al giovane fondatore, Ivan Mitin, quasi (e solo) trentenne. Ma come è nato Ziferblat e perché? Cosa significa la parola? Ziferblat significa quadrante dell’orologio, appunto, che caratterizza l’idea del tempo e che oggi rappresenta il “logo” dei caffè. E’ nato nel settembre 2011: Ivan voleva creare un “social network nella vita reale”, dove giovani creativi potessero incontrarsi liberamente portando di tutto, anche il proprio cibo oltre alle proprie idee, tutto tranne alcol, droga e fumo (qui è severamente vietato fumare). Un luogo dove si poteva diventare amici di tutti, perché bastava volerlo, guardarsi negli occhi e parlare. Dialogare davvero.

ziferblat-caffè-tempoA Ziferblat c’è lo spazio per organizzare eventi, serate letterarie, classi di disegno, concerti (chi arriva può suonare liberamente il pianoforte e, se non ne ha uno a casa, può tranquillamente venire qui). Incontriamo, allora, un ragazzo turco che prepara il caffè e insegna a farlo, un antropologo che racconta un suo documentario, una violoncellista che suona, uno scrittore che legge le sue pagine, un gruppo di amici che cena a lume di candela. Intellettuali e creativi che non sanno dove andare possono rifugiarsi fra queste mura accoglienti. Tutto è palcoscenico, qui, silenziosamente e puntualmente curioso. Ogni giorno. Se si è scrittori, poi, questo posto è un crogiuolo di idee e di pensieri. La penna vola, da sola.

ziferblat-caffè-tempoA questo spazio Ivan è arrivato dopo due prime fasi: quella della “poesia in tasca” e quella della “casa sull’albero”. Tutto era iniziato, infatti, con e dalla poesia. Grazie ad essa. Lui e i suoi amici lasciavano per strada, nascosti in vari luoghi, foglietti di carta con sopra scritte tante poesie. Ogni passante poteva raccoglierne una, farla sua e mettersela tranquillamente in tasca. Immaginate che bello vedere la città disseminata di poesia… Ma per fare questo e confezionare magia, i poeti avevano bisogno di un posto dove riunirsi regolarmente, per parlare, confrontarsi, sognare insieme. Ecco allora una piccola mansarda nel centro di Mosca, la “casa sull’albero” (‘dom na dereve’), sicuramente chiamata così per la sua posizione in alto, sui tetti. Chissà perché ma i tetti sono sempre legati a scrittori e poeti… (e comunque una bella, accogliente e calda casetta sull’albero resta il sogno di ogni bambino…). Per avere questo posto bisognava trovare qualche soldino in più rispetto a quelli che i poeti già avevano raccolto nelle loro “valigie”. Da qui era nato il progetto Ziferblat, che oggi è un’idea diventata realtà. Ivan e i suoi collaboratori insistono sull’originalità, la peculiarità e la differenza fra Ziferblat e i tanti “anti-caffè” che si trovano sparsi per il pianeta. Qui si fa cultura. Ivan ne è davvero convinto e ha convinto tutti.

ziferblat-caffè-tempoDal 2011 i Ziferblat aperti nel mondo sono già 11 e non solo in Russia. Hanno aperto anche a Londra, Manchester, Lubiana e prossimamente appariranno a Cracovia, Praga e New York. Qualche indiscrezione raccolta sul posto dice pure a Roma… Vedremo… Si sta cercando a San Lorenzo e in altri quartieri del centro della capitale. Per ora pare si facciano i conti con la burocrazia Italia, speriamo non sia un ostacolo insormontabile. Resta il fatto che se porti amici, porti eventi, idee, diverse culture, novità e “sostentamento” economico alla struttura (gli amici sono legati alla tua sveglia e anche loro, come te, pagano solo il tempo). Entrambi i carburanti sono necessari alla sopravvivenza di un’idea. A voi scoprirla, se lo volete. Magari tramandarla. Nel frattempo, vi auguriamo tanto buon tempo libero e spensierato, con gli amici di Ziferblat. Per me una vera serendipity (per essere alla moda).

Per saperne di più visita il sito di Ziferblat [vedi]

Fotografie di Simonetta Sandri

Il sentiero del dolore e della colpa

Vuole scoprire e ricostruire un pezzo mancante della storia della sua famiglia, l’origine del dolore senza fine di sua madre. Troppe morti e poche spiegazioni per Antonia, scrittrice di polizieschi che si trova di fronte a un mistero tragico che non è finzione. Da Bologna va a Ferrara, una città a lei sconosciuta, capace di stupirla e affascinarla per il suo ritmo lento, le bicilette, la parlata, il sapore del pasticcio di maccheroni, un certo atteggiamento degli abitanti, la luce chiara e opaca dell’atmosfera.
Antonia vuole cercare le tracce dello zio Maio, fratello scomparso di Alma, sua madre, che si porta addosso, da trent’anni, una storia mai rivelata fino in fondo e intrisa di senso di colpa. Alma ha lasciato Ferrara dopo avere perso tutti, dopo che, come in un domino, le tessere della sua famiglia sono cadute, non sopravvissute a un dolore improponibile, incapaci di salvarsi. Alma pensa di non esserselo meritato, vive nella paura costante, è la paura di soffrire che non ti abbandona, che mette una patina su tutto ciò che vivi, è qualcosa di peggio della sofferenza contingente che puoi affrontare perché la vedi in faccia, la paura di soffrire è subdola, tentacolare, può solo allentarsi in qualche tregua, ma non ti lascia.
Alma e Maio erano fratelli, erano amici, giovani in anni di ideologie convinte e di coraggio, anche di affrontare il proibito. Alma è più forte di Maio, almeno così sembra, almeno così tutti credono. Antonia conduce una sua personale indagine andando nei luoghi dove la sua famiglia aveva abitato e parlando con chi c’era, con chi ricorda, ma soprattutto sa. Arrivata a Ferrara per comprendere qualcosa di più sulla scomparsa di Maio, Antonia recupera un passato, che fino a quel momento era stato muto, e che è anche il suo. La ricerca della verità si allarga alla storia dei nonni, si intreccia ad altre vite, agli abbandoni in una conseguenza dopo l’altra fino a fare di sua madre Alma la persona che è: “Intensa. Concentrata. Profonda. Sempre, senza tregua”.
A fianco di Antonia ci sono Leo, il suo compagno, un poliziotto che saprà esserci, e Luigi, un collega di Leo con cui Antonia, a un certo punto, può anche fare a meno delle parole, entrambi pensano che l’amore bisogna meritarlo.
Ciò che, poi, Antonia scopre su Maio andrà anche oltre ciò che la stessa Alma ha sempre saputo, o creduto. Antonia, che sta per diventare mamma e ha già iniziato a pensare doppio, supera il segreto di Alma, che le era parso così insondabile, colmandolo di verità e certezza.

L’amore che ti meriti, Daria Bignardi, Mondadori 2014

SETTIMO GIORNO
Una politica senza poeti e una curia senza misericordia

Il VESCOVO – Sono felice, sono felice perché il vescovo consegnatoci dal Medioevo ha riportato alla ribalta categorie del pensiero che sembravano morte: erano, e sono, invece, vive e vegete. Chi può negare, infatti, la verità dell’affermazione del presule secondo il quale la legge sull’aborto “non ha consentito di venire al mondo a oltre sei milioni di italiani e la scarsità di figli ha fatto sprofondare il Paese in questa crisi economica”? Finalmente conosciamo le cause della crisi che ha colpito anche i popoli che fanno tanti figli, non ci avevamo pensato, ma l’alto prelato ha un filo diretto con Dio e noi siamo purtroppo degli idioti, i quali nulla conoscono perché Dio parla soltanto con i vescovi, con i cardinali, come no, e con i papi, un tempo parlava anche con la gente comune, a volte mandava la Vergine Maria a colloquiare con i fanciulli, ma, insomma, si faceva vivo con noi miserabili, adesso non più, ora mantiene un inquietante silenzio se non hai gradi ecclesiastici, con tutti coloro, insomma, che sono contro lo Stato se lo Stato mostra un’anima liberale, quella che ha suggerito di approvare una legge contro l’omofobia, una legge che, per il vescovo venuto dai secoli bui, “è un delitto contro Dio e contro l’umanità”. Sono felice che il presule abbia espresso così crudamente il suo penoso pensiero, non ci possono più essere equivoci. Se pensi che gli esseri umani siano tutti uguali e abbiano stessi diritti a prescindere dal loro sesso e dal grado di importanza raggiunto nella società, in tal caso puoi dire addio al regno dei cieli.
PS – Caro papa Francesco, non La invidio quanto lavoro l’attende se religione significa soltanto odio, peccato, condanna, intolleranza!

IL POLITICHESE – La politica? Ho sentito in questi giorni predicare ancora una volta contro l’antipolitica, ma non ho compreso se si sappia con una certa precisione che cosa sia la politica. E’ forse questa, questa in cui gli ideali sono stati sostituiti dai patteggiamenti, dagli accordi sottobanco, questo straccio di pessimismo materialista che ha chiuso le porte al pensiero, alla cultura e ai valori dello spirito e si esprime con linguaggi ridicoli, burocratici, conditi con strani intercalari, come “in qualche modo”, che molti giovinastri e vecchiacci prestati alla vita pubblica pensano siano il sale dei loro astrusi discorsi. Non molto tempo fa un noto politicante, già segretario di un partito della falsa sinistra, ha urlato durante un discorso: qui non si deve fare della poesia. Magari si facesse della poesia, caro ex compagno, magari, personalmente sono del parere di Victor Hugo, il quale nei “Miserabili” scrisse che soltanto quando al governo ci saranno i poeti l’uomo conoscerà la democrazia.

‘Diversamente abili’ alla Mostra

Pronto Ada? Hai un po’ di tempo? Ti debbo raccontare una bella storia. Devi sapere che sabato scorso il sant’uomo, in seguito alle mie fervide preghiere, mi ha accompagnato a vedere la mostra su Boldini e De Pisis in Castello. L’inaugurazione cominciava alle 18 e quando giungiamo il cortile del Castello era gremito da un corteo di persone che quasi arrivava sulla strada. Ci mettiamo diligentemente in coda, ma niente si muove, non c’è segno di apertura. Mentre il noto dolore alla schiena si fa preoccupante mi cade l’occhio su un gruppetto di persone che conversano tranquille davanti a un portone: guardo, capisco, decido. Sono gli handicappati che, per un sacrosanto diritto di precedenza, vengono esentati dal fare la coda. Mi rivolgo allora al sant’uomo: “Mio adorato, non è forse vero che la sciatica ti tiene sveglio la notte, oppure quando affranto cedi al sonno hai l’incubo che ti stanno segando la gamba?” Il sant’uomo, innocente, mi guarda incuriosito: “Non è forse vero che la mia schiena presenta una deformazione a rocchetto dei corpi vertebrali da 09 a L2, come recita l’ultima risonanza magnetica?” A questo punto il sant’uomo, che non è del tutto stupido, comincia a capire e a preoccuparsi. “Tranquillo, amore mio, tranquillo” e corriamo felici – corriamo si fa per dire, siamo pure zoppetti – insomma zompettiamo contenti di arruolarci nelle truppe handicappate in assetto di guerra davanti al portone che conduce all’ascensore. Poco dopo compare una bella ragazza in divisa (non dirò mai più male dei dipendenti di Comune e Provincia, lo giuro), la quale, impietosita dalle nostre infermità al freddo, ci invita a entrare: “La mostra non può aprire finché non arrivano le autorità”, insomma, cara Ada, per fartela breve, la ragazza in divisa ci porta all’ascensore e ci fa salire al piano della mostra, ma “per l’amor di Dio – dice – da questo corridoio passeranno le autorità, è meglio che non vi vedano. C’è un pianerottolo semibuio qui accanto, adesso vi porto altre seggiole”. E così, amica mia, quando Dio vuole, ossia quando le autorità arrivano e tutto comincia, assisto alla sfilata delle donne e degli uomini che contano a Ferrara. Ma erano tanti, ma erano tanti che non finivano mai e il sant’uomo, che li conosce, ogni tanto ordinava alla truppa “sono finiti, all’attacco!”. Macché, la ragazza in divisa ci stoppava allarmatissima, “ce ne sono ancora altri”, così mi sono messa tranquilla sulla mia seggiolina al calduccio e li ho guardati uno a uno. Ti dirò, lusso avveduto, eleganza da tinello, moderate flanelle, saggi tailleur, gioielli discreti, pellicce ragionevoli, le quali mescolavano ai profumi non preziosissimi un rassicurante effluvio di canfora. “Qui c’è puzza di vecchio!”, sbraita il sant’uomo e io giù calci. Oddìo, un po’ di vintage c’era, specie tra le signore belle tacchinone impastate nel fondo tinta, a qualcuna pareva dolessero i piedi perché guardava noi handicappati seduti con sottile invidia. Aveva aperto il corteo l’ex sindaco emerito, alto profilo di cavallo sindacalista, la criniera perde qualche setola ma non importa, la Camusso pare che lo ami. E, poi, c’era quel torello del sindaco in carica, tutto muscoli anche di sabato e la domenica in provincia. Saltava da un capo all’altro del corteo il puledro vice sindaco-assessore, pura razza sarda. Quando finalmente la fattoria degli animali è arrivata tutta intera nelle sale, anche noi handicappati possiamo entrare e vedere lo spettacolo di quei capolavori impreziositi dall’ambiente solenne.

arte - castello - ferrara - de pisis - boldini - mostra
Quadri di Boldini nella Sala del Governo (foto di Dino Buffagni)

Lì, davanti al “Notturno” di Boldini, davanti alle “Cipolle di Socrate” di De Pisis, la Direttrice – gallinella di prima penna – illustrava con la consueta maestria, ma così bene che il pubblico la contemplava estasiato e dimenticava di guardare i quadri, ma non importa. Però, ti dirò cara Ada, tu sai che io sono, come si dice a Ferrara una ‘scunzamnestra’, ti dirò che quel titolo della mostra “L’arte per l’arte” mi aveva fatto pensare a una dichiarazione di estetica crociana. Te lo ricordi il nostro professore di Filosofia teoretica come si accalorava: quella di Croce è una dialettica dei distinti, non degli opposti come quella di Hegel che unifica tutto nella sintesi. Vada a leggere, signorina, le mille pagine dell’Estetica di Croce e troverà la formulazione chiara del momento estetico come momento di pura bellezza, l’arte per l’arte appunto. “Non l’arte per la vita”, concludeva il sant’uomo le mie ingarbugliate riflessioni, mentre uscivamo dal Castello con la felicità di essere “diversamente abili”.

La foto della mostra “L’arte per l’arte” è di © Dino Buffagni

L’OPINIONE
Je ne suis pas Calderoli: la satira e l’invettiva

In molti si chiederanno perché, mentre si rivendica il diritto di satira senza restrizioni di linguaggio e di argomento, si dovrebbe invece condannare il sen. Roberto Calderoli, reo di aver pronunciato ingiurie razziste nei confronti dell’ex ministro Cecil Kienge. In fondo, diranno in molti, le vignette di Charlie Hebdo e degli altri giornali satirici sono spesso molto più pesanti e sgradevoli di quanto non lo sia stato l’esponente leghista. Esiste una differenza fra le due situazioni o si tratta invece del solito astio politico che porta a voler usare due pesi e due misure?
Detto in altri termini, occorre stabilire come si distingue la satira dall’insulto, tema del quale nei giorni del lutto dopo l’attentato di Parigi si è discusso abbastanza poco e, comunque, quasi esclusivamente con riferimento alle tematiche religiose.
La satira è sempre disinteressata, un po’ come lo è l’arte, nel senso che l’autore satirico non persegue alcun fine di carattere personale o quello di un qualche specifico gruppo organizzato: la sua è una visione, certamente schierata ed estrema della realtà, che ha però il solo obiettivo di metterne in risalto le contraddizioni. Il suo obiettivo non è mai ideologico, ma “leggero” e teso a seppellire di risate tutto quanto, a giudizio dell’autore, c’è di grottesco, ingiusto ed ipocrita nel mondo. In quest’ottica, la dissacrazione a 360 gradi è lo strumento per mantenere vivo il germe del dubbio contro ogni forma di rigidità ideologica e di conformismo sociale: non può quindi esistere per definizione alcuna “satira di partito”.
Un insulto, al contrario, ha sempre una finalità specifica: il suo obiettivo è quello di ferire le persone contro cui è rivolto, al fine di ribadire la presunta superiorità (fisica, morale, razziale, ecc.) nei loro confronti di chi lo pronuncia. Questo sia quando si rivolge ad una persona in particolare, sia quando viene lanciato contro interi gruppi sociali, etnici, razziali, religiosi, politici. Questo vale sia per le liti di strada che per i comizi elettorali o i talk show televisivi.
Può quindi succedere, paradossalmente, che una determinata frase sia classificabile come ‘satira’ o come ‘insulto’ a seconda del contesto in cui viene pronunciata ed i fini che intende perseguire. Allo stesso modo in cui una specifica scena cinematografica di nudo integrale possa essere considerata pornografia o libera espressione artistica.
Nel caso in questione, quello di Calderoli si configura al di là di ogni ragionevole dubbio come un insulto, con l’aggravante del contenuto razzista, utilizzato per umiliare un avversario politico ed al fine di rafforzare l’ostilità dei militanti del proprio partito nei suoi confronti. In termini legali si chiama “incitamento all’odio razziale”.
Non vale a mio parere in questo caso la tutela dell’art. 68 della costituzione che prevede l’insindacabilità delle opinioni espresse da un membro del parlamento nell’esercizio delle sue funzioni, in quanto non siamo di fronte ad un giudizio politico e nemmeno ad un’espressione, come si dice, ‘colorita’, ma ad affermazioni intenzionalmente ingiuriose che nulla hanno a che fare con la dialettica parlamentare, per quanto aspra possa essere. Le scuse, peraltro assai tardive, non attenuano la gravità del fatto.
I parlamentari che in Commissione per le autorizzazioni a procedere del Senato hanno ritenuto che le affermazioni del loro collega non fossero censurabili, in quanto coperte dalla tutela costituzionale citata o in ragione di altri espedienti giuridici, sono a mio parere l’ennesima dimostrazione della distanza che ancora separa il Paese dalle sue classi dirigenti, che al solo fine di proteggersi non esitano ad utilizzare tutti gli espedienti disponibili.

SPECIALE FE vs FE
Panfilio, riaprire l’ultimo tratto per rendere più suggestivo l’arrivo al castello

Proviamo ad immaginare questa scena che viene riportata in “Genealogia del canale Panfilio di Ferrara” scritto storico del 1845 ad opera del colonnello Francesco Avventi.
“Per continuare cronologicamente la storia del Canale, che ci serve di argomento, conviene rammemorare le nozze seguite in Ferrara nel 1598, di Filippo III re di Spagna con Margherita d’Austria rappresentato il primo da Alberto Arciduca d’Austria, e la seconda dal Duca di Sessa. Tra i molti spettacoli, feste, ed allegrezze che si praticarono in quella circostanza, nella quale vi assisteva di presenza il Pontefice Clemente VIII, dobbiamo citare che ni 15 di novembrenfu eseguita una Regata, o Corsa di Barche nel Canale dei Giardini, che si tenevano allora ad un livello d’acqua eguale a quello del Castello. La corsa fu eseguita da trenta donne Comacchiesi, che furono chiamate a Ferrara per questo oggetto. Stavano tali donne in quattro per barchetta: tre remigando, e la quarta seduta in poppa coronata di fiori suonando il Crotalo: le Barchette erano sei distinte dai varoi colori de’ vestiti delle remiganti, e corsero a tre per volta: era la Meta al punto ove le fosse mettono capo in faccia alla Giovecca: il Pontefice ed i Principi ne furono spettatori dalla loggia annessa alla Torre dei Leoni verso tramontana. Le vincitrici furono premiate con tele di raso, e le altre con altri doni, e la festa riuscì a tutti molto gradita, tanto più che nel corso alcuna di quelle donne fingeva cadere nell’acqua e poi nuotando rimettevasi nei piccoli legni”.

Il canale Panfilio che collegava il Po da Pontelagoscuro fino al castello di Ferrara, non serviva dunque solo come via d’acqua per il trasporto delle merci, ma veniva anche valorizzato come elemento ludico del paesaggio. Un’accezione importante che ci fa subito pensare a Venezia, e ci racconta di tempi in cui la città era vivace e intraprendente.
A pensare a quel che c’è ora in quell’ultimo tratto dell’antico canale, quel che va dalle poste centrali al castello, quel ben triste giardinetto, con quei ben tristi palazzi e quel tetro porticato, viene davvero la voglia di prendere la pala e scavare per riportare alla luce l’antico fossato.
Al castello, per chi viene dalla stazione, manca la prospettiva che merita, manca quell’avvicinamento progressivo e maestoso, quell’ingresso trionfale, quel tappeto rosso urbanistico che invece un corso d’acqua potrebbe dare.
Non si propone di riaprire l’intero tratto del canale Panfilio, sarebbe bellissimo ma inverosimile, si dice: perché non ripristinare quel breve tratto di canale dove ora ci sono i giardinetti cosiddetti della Standa?

I detrattori subito dicono: diventerebbe una pattumiera liquida a cielo aperto, un enorme brodo di coltura per le zanzare. Ma no, perché allora lo stesso dovrebbe valere anche per l’acqua del Castello, vogliamo togliere anche quella? Non è prosciugando ogni goccia d’acqua che la nostra città diventa più salubre. L’acqua è anzi elemento vitale dell’ecosistema, ma anche dello spirito. Soprattutto per Ferrara, dove terra e acqua coesistono da sempre e ogni cosa ne evoca la presenza. E quando non c’è l’acqua attorno a noi, manca, crea un senso di vuoto.

I detrattori dicono anche che ora in quei giardini si ritrovano le badanti, i migranti dell’est, che hanno ridato vita ad un luogo che i ferraresi snobbavano. E’ vero, ma mica se ne dovrebbero andare… avrebbero anzi le suggestive rive del canale, con panchine e chioschi dove continuare a incontrarsi. E forse a loro si unirebbero tanti curiosi attratti da questa antica novità riportata alla luce. Si potrebbero liberare, come in Castello, specie di pesci che possono controllare il proliferare delle zanzare. E quello specchio d’acqua potrebbe anche servire all’università per svolgere delle ricerche, al vicino Museo di storia naturale per delle attività e delle visite. E ci si potrebbero riportare le barchette per crogiolarsi d’estate.

I detrattori dicono infine che è una spesa inutile, che è una cosa che non serve a niente in questo momento di crisi. Innanzitutto non sarebbe una spesa così ingente, perché non si tratta di edificare, ma di scavare e recuperare qualcosa che sotto c’è già, anzi potrebbero anche emergere le antiche rive.
Inoltre se debitamente sfruttato e promosso, il recupero di questo breve tratto di Canale, potrebbe generare piccole attività economiche tutto attorno, e riportare vita in una zona che ora è di puro transito, nonostante sia a ridosso del più importante edificio storico della città.
Infine farebbe bene agli occhi e allo spirito, come scrive ancora il colonnello Avventi, raccontando che nonostante negli ultimi tempi fosse stato sempre più abbandonato, il Canale regalava scorci suggestivi.

“Quantunque però degradato, ci conserva tutt’ora un vago e prospettico punto di vista all’occhio guardandovi dalla Giovecca alla Spianata, od all’inversa dai Ponti che lo attraversano alla gigantesca mole dell’Estense edifizio; ed è principalmente osservandolo dal Ponte della Rosa e dalla sponda del Canale, che fa di sé miglior mostra il sontuoso monumento; infatti tra l’infinito numero di stampe, dipinti, quadri, nei quali lo vediamo rappresentato, egli è dall’indicato punto del Canale Panfilio, che ne trassero ad ammirarlo i più abili disegnatori. Che se poi ti piaccia recarti in quella stanza del Castello stesso ove è posta la loggia, o su quell’angolo della loggia che volge a quella parte, spingendo di colà lo sguardo lungo i ponti che il canale attraversano e sull’ora in ispecie del tramonto; ne avrai una prospettiva di sorprendente aspetto”.

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SPECIALE FE vs FE
Panfilio, rischio veleni e zanzare

di Marco Contini*

Sabato sera ero a casa, in cucina, quando mia moglie – indicando una macchia sulla credenza che lì per lì ho scambiato per un baffo di Nutella – mi fa: “Guarda un po’ chi c’è”. Inforco gli occhiali e guardo meglio. E’ una zanzara. Viva e vegeta. Il 17 gennaio!
Avendo tolto la zanzariera dal letto a metà ottobre, ho fatto fatica ad apprezzare la profonda ironia di quella visita. Nemmeno tre mesi di requie, e quelle bestiacce sono di nuovo tra noi.
Bella forza, direte. C’è il riscaldamento globale, l’inverno ancora non si è visto, nel pomeriggio il termometro segna stabilmente i 15 gradi, e tu ti stupisci delle zanzare.
Niente di più falso. Non mi stupisco affatto.
Semmai, mi preoccupo. So che il mio punto di vista è particolare, e non pretenderò dunque di incarnare l’interesse generale. Ma da abitante di via Alberto Lollio, vale a dire di quello che in caso di ripristino del Canale Panfilio sarebbe il retrobottega del lungofiume, non posso negare che l’idea di essere letteralmente assediato da quei piccoli, fastidiosissimi vampiri mi garba poco.

Mi spiego. Guardando verso Nord, tra l’alveo principale del fiume Po e il centro città non c’è ostacolo alcuno. Da Pontelagoscuro e Francolino, passando per gli stagni del Parco Urbano, già ora orde di zanzare compiono indisturbate le loro sanguinose scorribande.
Provate quindi a immaginare cosa succederebbe con la riapertura del Panfilio, e con la sua automatica colonizzazione zanzarista. L’intera Addizione Erculea verrebbe completamente accerchiata, come nemmeno i Greci alle Termopili.
Quanto a Corso Ercole d’Este, che Lord Byron elesse a strada più bella d’Europa, diventerebbe l’equivalente dell’Autosole degli insetti. E Palazzo dei Diamanti, con le sue code di turisti sudati, l’equivalente dell’autogrill di Campogalliano.

Ma la verità, ahimé, è che le zanzare sono l’ultimo dei problemi. Perché con un buon arsenale di Autan e zampironi, e con una disinfestazione settimanale – se solo il Comune avesse i soldi per farla – potremmo comunque sopravvivere. Ho qualche dubbio, invece, che riusciremo a reggere all’impatto ambientale.
Spero mi perdonerete il repentino cambio di registro, dall’ironico al serioso.
Il fatto è che Ferrara è circondata dall’acqua. Sporca.
Il Grande Fiume, ai margini settentrionali della città, è una meraviglia. Ma all’altezza di Ferrara ha già raccolto gli scarichi di una delle più straordinarie concentrazioni mondiali di fabbriche tessili, metalmeccaniche e chimiche, senza contare le acque reflue dell’industria alimentare e degli allevamenti dei maiali. Madre Natura è potentissima, lo sappiamo, e assorbe tutto. Ma certo non si può dire che il Po veicoli le “chiare fresche e dolci acque” cantate dal Petrarca.
A sud, il Po di Volano è una cosa immonda. Un acquitrino putrescente dove i pesci morti sono più sani di quelli vivi e in cui il fango è cresciuto a tal punto da far incagliare una pizzeria.
A est ‘ghe gnent, per fortuna.
Mentre a Ovest, dove il Panfilio nasce, abbiamo il Petrolchimico.
Eh già.

Perché dietro all’idea di recuperare l’anima veneziana di Ferrara, non c’è un torrente di montagna, ma l’incrocio tra il Canale di Burana e il Canale Boicelli. Vale a dire, tra le due principali fogne industriali della nostra città.
Essendo tutti noi nati dopo il 1880, finora non ce n’eravamo accorti. Ma l’acqua che ristagna attorno al nostro meraviglioso Castello, da lì viene. Ora capite perché puzza così tanto?
Provate allora a immaginare quella stessa acqua, con dentro pescigatto malati di cancro che danno i loro ultimi colpi di pinna, che sprigiona i suoi miasmi per altri 300 metri in uno dei posti più belli di Ferrara.
Oggi quei giardinetti – bruttini, bisogna ammetterlo – li abbiamo dedicati al 20 e 29 maggio 2012, i giorni del terremoto.
Domani – per coerenza, oltre che in omaggio al nostro meraviglioso dialetto – il nuovo lungofiume dovremmo battezzarlo “Passeggiata dell’Aldamar”.
Ai ragazzi dell’Ariosto e del Roiti, e agli studenti universitari, quel nome piacerebbe un sacco. Sicuramente, con quel nome, ne farebbero un nuovo punto di ritrovo. Sarebbe contento anche il monsignor vescovo, che finalmente vedrebbe sorgere un postribolo alternativo al sagrato della sua santa cattedrale.
Ma forse Ferrara non ci guadagnerebbe. Anzi.

A meno che l’amministrazione non s’impegni a costruire un depuratore, da qualche parte tra la stazione ferroviaria e il palazzo delle Poste.
Sarebbe contenta Hera, che verrebbe chiamata a gestirlo. Brinderebbe il Consorzio Cooperative Costruttori, che vincerebbe l’appalto dei lavori di scavo. E respireremmo noi, i ferraresi.
Come dice il proverbio, “prima pagare moneta, poi vedere cammello”.
Ecco. “Prima costruire depuratore, poi scavare canale”.

* giornalista, vive a Ferrara. Attualmente è responsabile dell’edizione web di Repubblica Bologna, già al Manifesto, a Cnn Italia sede di Atlanta, Repubblica redazione centrale di Roma

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SPECIALE FE vs FE
Centro storico, via mercato, auto e taxi dal cuore monumentale della città

La diatriba in città è ormai ultradecennale. I taxi infatti hanno il permesso di sostare in piazza Savonarola da sempre, gli ambulanti del mercato del venerdì di invadere regolarmente il centro storico da più di dieci anni, centinaia tra auto e autobus scorrazzano liberamente ogni giorno in Corso Martiri.
Negli anni, a più riprese, cittadini, politici e organi di stampa [vedi] sono ritornati sul fatto che tutto ciò rappresenti uno scempio, che deturpi i monumenti e nasconda la bellezza della città estense, e che male si addica ad una città che fa dell’essere pedonale e ciclabile il suo fiore all’occhiello: Piazza Savonarola non è più dato vederla sgombera godendo della perfezione delle sue geometrie, perché i taxi insistono sull’area quotidianamente; il venerdì mattina camioncini e bancarelle invadono il Listone, Piazza Duomo e Corso Martiri occludendo la vista della cattedrale, del Castello e anche della rinnovata Piazza Trento Trieste. Tutto viene coperto, offeso e oltraggiato.
Oggi però con la legge Art Bonus abbiamo una speranza in più. Anzi, un dovere. La legge, approvata a luglio, contiene anche una norma molto importante per garantire il decoro attorno ai monumenti [vedi].
Ancor prima che il decreto Art Bonus diventasse legge, sulle pagine di ferraraitalia era stato risollevato il problema [vedi].
Armati di una legge firmata Franceschini, riproponiamo quindi con forza la liberazione del centro storico per renderlo più vivibile e attrattivo. Auspichiamo nello specifico che:

pedonalizzazione-centro-storico
Cartello in Piazza Castello: tutti i permessi concessi nell’area pedonale del centro storico

1) vengano revocati i permessi di circolazione alle auto (tutte le auto, anche quelle delle forze dell’ordine, dei politici, ecc.);
2) venga revocato il permesso di circolazione degli autobus, se non ecologici;
3) vengano revocate le concessioni agli ambulanti e scelto un altro luogo per riallocare il mercato, sempre in centro e senza danneggiare ambulanti e commercianti (Porta Reno, Piazza Travaglio, Montagnone);
4) vengano revocati i permessi per parcheggiare i taxi e scelto un altro luogo di sosta (Porta Reno o il tratto che fiancheggia il Castello tra Cavour e Piazza Repubblica o ancora il lato di Piazza Repubblica prospiciente la chiesa di San Giuliano).

In occasione dell’incontro, abbiamo consultato e interpellato il Presidente di Italia Nostra (sezione di Ferrara) Andrea Malacarne che si è espresso sostanzialmente in linea con queste posizioni: “Da sempre Italia Nostra auspica che vengano evitati caos, brutture e l’invasione periodica del centro storico, proponendo di trovare spazi deputati che siano meno invasivi rispetto alla vita della città. Occorre una riflessione su questi temi.”

DOCUMENTAZIONE
Regolamento comunale “Disciplina in materia di commercio su aree pubbliche” [vedi]
Categorie permessi ZTL [vedi]

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