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LA RICORRENZA
Maslenitsa amica mia che l’inverno porti via

da MOSCA – In Russia si conclude a settimana della Maslenitsa (che equivale un po’ al nostro Carnevale), la festività popolare russa più allegra e colorata, in cui tutto profuma di zucchero a velo, di dolci marmellate e di blini. Ma c’è anche tanto caviale (ikra). Grandi e piccini sono contenti, ogni anno si ripete lo stesso rito, la festa è molto amata dalla gente che la chiamava affettuosamente “labbra di zucchero”, “dolce Maslenitsa”, “onorabile Maslenitsa”, “allegra” o “ghiottona”.

maslenitsaUna bella ricorrenza, nata come festa pagana per scacciare l’inverno e risvegliare dal sonno la Natura. La Chiesa l’avrebbe poi adottata e inclusa nella lista delle proprie festività per celebrarla ancora oggi, la settimana prima dell’inizio della Quaresima, denominandola “Settimana del burro” (Syrnaja nedelja) o “Settimana senza carne” (Mjasopustnoj nedelja), proprio perché, in questa settimana, ci si dovrebbe già astenere dal mangiare carne e solo i latticini sarebbero concessi (masla, infatti, è il burro). Parte integrante e importante di questa festa erano i giri su slitte trainate da cavalli e addobbate con tanti nastri e campanelli, commedie contadine cui partecipavano soggetti mascherati. Si correva, si giocava e si rideva ovunque. Come oggi.

maslenitsamaslenitsaI rotondi e soffici blini sono il piatto principale oltre che il simbolo della festa. Erano preparati ogni giorno, durante tutta la settimana, ma principalmente da giovedì a domenica. La tradizione dei blini, in Russia, risale ai tempi in cui i popoli antichi invocavano il dio del sole Jarilo affinché scacciasse l’inverno e queste frittelle rotonde ricordano il sole estivo. Ogni massaia aveva la sua ricetta speciale, tramandata di generazione in generazione. I blini erano preparati con farina di frumento, grano saraceno, avena o mais, con l’aggiunta di kasha di miglio o semola, patate, zucche, mele e panna. Anticamente vi era l’usanza secondo cui il primo era sempre per la pace dell’anima. Di solito era dato a un mendicante per ricordare le persone care e scomparse oppure veniva messo in bella vista sulla finestra, come benvenuto.

I sette giorni di Maslenitsa sono ben scanditi e ognuno di loro ha un’importanza e un significato diverso. Il lunedì “giornata dell’incontro” (vstrecha) dà inizio alla festa. In questo giorno la gente russa incontra Maslenitsa. Di mattina, i bambini escono dalle loro case e cominciano a costruire montagne, scivoli di ghiaccio e altalene. Più tardi, è allestito un fantoccio di paglia in abiti femminili, che simboleggia l’inverno e che va portato in processione per le strade. Intanto, s’inizia a preparare la tavola. Sono serviti dolci, ciambelle (bubliki), ma si preparano anche miele, caviale, salmone, funghi, panna acida e burro. Non manca il samovar per gustare tè caldo e profumato; in questo giorno si preparano i blini. Il martedì “giocoso” (zaigrysh) è giorno di giochi e divertimenti; in passato in quest’occasione i ragazzi cercavano una fidanzata e le ragazze un fidanzato. Di mattina, ci s’incontra per strada per conoscersi, mangiare insieme, ballare e cantare con altra gente. Atmosfera festosa. Il mercoledì è la “giornata del ghiottone” (lakomka), quella centrale, se non altro perché a metà settimana. Si mangiano blini con smetana (panna acida), uova, caviale e altri condimenti. La suocera prepara i blini e invita il genero a casa (unitamente alla sua famiglia), per gustarli tutti insieme.

maslenitsaIl giovedì “che manda via” (il giorno della “baldoria sfrenata”, razguljaj), inizia un’allegra baraonda per aiutare il Sole a scacciare l’inverno. In passato, si trottava a cavallo in senso orario attorno al villaggio, mentre gli uomini si sfidavano nel ruolo di difensori o assediatori durante il gioco “presa della cittadella di neve”. Oggi si allestiscono spettacoli in strada con clown e skomoroch (buffoni), si fanno giri in slitta, si canta, balla e gioca. Il venerdì detto “serata in compagnia della suocera” (teshchiny vechera) è tradizione che il genero inviti la suocera a casa propria (assieme a tutti gli altri parenti), per contraccambiare la serata del mercoledì precedente. E’ in genere prevista una cena, in occasione della quale vengono offerti i gustosissimi blini (ancora). Il sabato è la “serata organizzata dalla cognata” (zolovkiny posidelki) dove si fa il giro di tutti i parenti offrendo gli immancabili blini (a questo punto saremo un po’ stanchi di mangiarne…).

maslenitsaInfine la domenica si celebra la “giornata del perdono” (voskresen’e proscenija). Al centro di un grande falò si brucia lo spaventapasseri e si rimprovera l’inverno per il freddo, ma lo si ringrazia anche per le festività invernali. L’ultimo addio alla Maslenitsa viene dato nel primo giorno di Quaresima, il “lunedì pulito” (chistyj ponedelnik), il giorno della purificazione dal peccato e dal cibo grasso. In questa giornata è d’obbligo farsi un bagno. Le donne lavano i piatti e mettono in ammollo gli utensili venuti a contatto con cibi a base di latte, per pulirli dai residui di grasso. Settimana ricca, folcloristica e interessante, una bella tradizione che si mantiene. Divertente assistervi.

SETTIMO GIORNO
Il virus del potere e le belle bandiere

GENTILONI – Bisogna sapere che in medicina da molto tempo si studiano gli effetti non secondari del “virus del potere”, che, nei secoli, si è manifestato in molteplici soggetti: è una malattia professionale, in altre parole, è un’alterazione dello stato di salute originata da cause inerenti allo svolgimento della prestazione di lavoro, un’alterazione che ha colpito innumerevoli personaggi nella storia dell’uomo, tutti illustri, da generali a dittatori, a monarchi, o, più modestamente, a sindaci e, purtroppo, anche ad assessori e a banchieri. Recentemente ne è stato colpito anche il nostro ministro degli Esteri, il quale, un bel mattino, si è alzato in preda a uno strano formicolio, si è grattato e, allo specchio, mentre si faceva la barba, ha solennemente manifestato il suo pensiero: qui si deve fare la guerra, ha detto, e poi, pubblicamente, ha confermato che l’Italia è pronta a essere in prima linea in Libia. Mi sa che il signor ministro si è sbagliato di grosso: l’Italia non è pronta, non ha voglia di giocare alla guerra, non è più pronta nemmeno a giocare al calcio, figuriamoci a fare la guerra. Sì, abbiamo grossi interessi in Libia, innanzitutto il petrolio, ma, Ministro Gentiloni, cerchi di fare un ciclo di antibiotici, vedrà che il pizzicore le diminuirà.

ANPI – Ho letto che un tipo di Ostellato, consigliere comunale, tale Marco Centineo, ha presentato un’interpellanza chiedendo che venisse tolta dal Comune la bandiera dell’Anpi (Associazione nazionale partigiani d’Italia), associazione che mai ha dato adito a polemiche: i partigiani hanno offerto la propria vita per liberare il Paese dal fascismo e sappiamo quanto questo dono, che potremmo definire sublime, abbia creato gravi mal di pancia ai politici di destra. Da troppo tempo, però, l’Italia, in tutte le sue strutture, ha lasciato molti spazi al risorgente fascismo (e non parlo del saluto romano di Berlusconi!). Avremo di che pentirci.

CAPITALISMO – Ancora oggi leggo e sento dire alla televisione: “il capitalismo dal volto umano” e se ne parla come di una verità santificata dal dio del danaro. Non è una verità, un letterato definirebbe l’affermazione un ossimoro, una contraddizione in termini: non ci ricordiamo mai tutti i misfatti sociali di cui si è reso protagonista, o responsabile, il capitalismo (senza volto).

CASINI – Anche a Ferrara, copiando Roma, si discute sulla zona in cui rinchiudere le prostitute, i lager del sesso all’aperto. Si torna all’antico: siccome è troppo difficile il controllo, allora si ricostituiscono i campi di concentramento. Spero (è una proposta) che ci sia una recinzione attorno alla città del piacere pagato, e una cassa, per entrare si deve pur pagare. La proposta prevede un certo numero di assunzioni (per venire incontro alla ripresa economica) per novelle stewards, quelle che una volta si chiamavano ruffiane. Avanti c’è posto.

L’INTERVISTA
Scavalcata a destra da Forza Nuova, la Lega reagisce: qui a Bondeno mai un luogo di preghiera islamico

Fabio Bergamini è l’attuale presidente del consiglio comunale e a metà maggio, quando a Bondeno ci saranno nuove elezioni per via dell’uscita di Alan Fabbri (ora capogruppo della Lega in regione), sarà il nuovo candidato sindaco del centro destra. La sua reazione è di netta opposizione alla manifestazione di Forza Nuova che si è svolta ieri per le vie del centro di Bondeno. Lo abbiamo intervistato per capirne le ragioni.

Ma non avete gli stessi obiettivi, ovvero arginare l’immigrazione e impedire l’apertura di una moschea a Bondeno? Perché non vi siete coalizzati per questa manifestazione?
Al contrario, abbiamo obiettivi divergenti: loro fare della banda, del caos, del casino, per avere della visibilità visto che il loro rappresentante locale Marco Loberti vuole candidarsi alle prossime amministrative. Alle ultime elezioni era con Forza Italia ed ha preso 98 voti, ora si sente di fare queste cose per via dell’Isis, ma la gente di Bondeno non ha quella sensibilità, i musulmani possono pregare, ma nei posti giusti.

Quindi vi va bene che i musulmani che ora si riuniscono nel centro islamico possano avere un luogo per pregare, una moschea?
Quello che non ci va bene è che ci prendano per fessi e dicano che è un’associazione culturale, mentre invece là dentro si trovano a pregare, se succede qualcosa, anche un banale infortunio, è un problema. Così come non si vende cibo nei luoghi dove non si può, allora vale anche per la preghiera. Hanno avuto quella sede di via Goldoni da una fondazione legata al Pd, noi come amministrazione diciamo che non è un luogo di culto e monitoreremo che non si preghi perché non è un luogo adatto. Abbiamo già chiuso e abbattuto una moschea abusiva fatta di lamiera a Ponti Spagna, noi siamo attenti a queste cose.

Torniamo alla manifestazione, lei c’era?
Chiariamo che era una manifestazione autorizzata dalla Questura, quindi legale.Però io ne mastico di manifestazioni e quando ci sono settanta persone di cui solo sette o otto di Bondeno, non è una manifestazione, ma una passeggiata, con una valenza locale limitata. Una manifestazione nazionale con 70 persone è una carnevalata, all’ultima manifestazione che ho fatto io a Milano eravamo 70 mila.

Se erano pochi, peggio per loro, cosa le ha dato fastidio?
Non ho gradito che ci fossero settanta manifestanti con ottanta poliziotti, e per colpa loro, i negozi hanno chiuso, questa non è una cosa che ha fatto bene a Bondeno, noi come amministrazione abbiamo altri metodi. Forza Nuova vuole fare rumore, noi vogliamo continuare ad amministrare come da 15 anni a questa parte.

Cosa vi spaventa tanto dell’apertura di una moschea a Bondeno?
Stiamo monitorando e non siamo gli unici. Per carità l’associazionismo è uno dei cardini della Costituzione, a Bondeno poi una persona su dieci ha la tessera di un’associazione, però quello che diciamo è che i musulmani qui non possono pregare. Noi siamo contrari ad un centro di preghiera perché diventerebbe il riferimento di tutto l’alto ferrarese, significherebbe il trasferimento di intere famiglie, non vogliamo che succeda come a Portomaggiore. Finisce che lavorano da un’altra parte e poi ce li troviamo di sera a pregare, non li conosciamo, non hanno legami col territorio, sono impermeabili alla nostra cultura. I nostri bisogni sono altri, abbiamo bisogno della cispadana, degli imprenditori.

Ma avete anche paura del terrorismo islamico?
Non temo attentati, è proprio che non vogliamo centri di aggregazione sovra-comunali.
Se i bondenesi vogliono altro, voteranno altro, non so se l’ha capito, noi qui siamo tosti.

NOTA A MARGINE
Dalla Chiesa: in Emilia contro la mafia bisogna alzare la guardia

“Noi non siamo eroi perché ci hanno ucciso, noi siamo eroi perché abbiamo voluto accanitamente capire e conoscere, per questo siamo diventati pericolosi.”
Queste righe sono tratte da “Noi e loro”, dialogo immaginario fra Giovanni Falcone e Paolo Borsellino scritto dal magistrato Alessandra Camassa, collaboratrice di Borsellino a Marsala, messo in scena da diverse compagnie e divenuto popolare con il titolo “Giovanni e Paolo”. “Noi” e “loro” sono state anche le due espressioni più usate a Cento da Nando Dalla Chiesa, ospite del Coordinamento per la pace nel centopievese, per parlare di mafia e antimafia oggi. Un contributo prezioso perché il risultato di un lavoro teorico (come docente a Milano dell’unico corso di sociologia della criminalità organizzata in Italia), dell’esperienza sul campo (come ex componente della commissione parlamentare antimafia), giornalista e ora presidente del comitato antimafia voluto da Pisapia a Milano, e dell’impegno sul piano etico, come famigliare di una vittima di mafia e come presidente onorario di Libera – Associazioni, nomi e numeri contro le mafie, l’associazione fondata da don Luigi Ciotti.

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Nando Dalla Chiesa

Le premesse non sono certo incoraggianti: “le organizzazioni mafiose sono arrivate molto vicino a mangiarsi l’Italia”, afferma lapidario Dalla Chiesa, “i successi giudiziari di oggi ci raccontano quanto in realtà è stata facile in questi anni la vita della criminalità organizzata, nonostante l’antimafia”, e il pensiero corre a Mafia capitale e all’operazione Aemilia. La responsabilità è anche di chi per 30 anni ha affermato che “la mafia da noi non c’è” rappresentando “una realtà infedele”, ma soprattutto “smobilitando l’attenzione dei cittadini”. Al contrario bisogna prendere atto che “il nemico c’è” e che “questa è una battaglia contro dei professionisti che pensano a fare bene i mafiosi tutti i giorni, 24 ore su 24”.
E se di una battaglia si tratta la prima regola è “studiare l’avversario”: uscire dai pregiudizi interessati sulla geografia e sull’identità del fenomeno mafioso, riconoscere le banalità sulle sue trasformazioni culturali o sui modi di penetrazione nella vita economica e sociale”. E aggiunge Dalla Chiesa, “Non è vero che la mafia al Nord fa soltanto riciclaggio: più che riciclare, conquistano territorio e controllo sociale e si impadroniscono di pezzi di economia”; senza contare che mettendo l’accento solo sui fattori economici dell’infiltrazione si rischia di insinuare l’idea perversa che sotto sotto in realtà portino ricchezza: la verità è che “prima arrivano i soldi, ma poi arrivano i loro metodi”.
Per questo noi “dobbiamo combattere la mafia sotto casa e ribellarci alle forme di presenza mafiosa che ci troviamo di fronte”, e per farlo dobbiamo capire “il loro modus operandi”, “dobbiamo entrare nella loro testa, pensare a cosa farebbero loro, studiare la loro mentalità”. Una cosa tutt’altro che facile da fare nella pratica soprattutto pensando al forte tasso di compenetrazione fra realtà legale e illegale nel nostro paese: quella famosa zona grigia in cui si creano le relazioni sociali che sono il loro vero capitale. “I nostri territori sono stati conquistati da persone con una sapienza infinita nella costruzione delle relazioni: sanno qual è l’assessore o il magistrato avvicinabile, quale il redattore coniglio e quale quello coraggioso”. Per questo Dalla Chiesa sottolinea con forza che noi dobbiamo renderci conto che “la vera forza della mafia sta fuori dalla mafia, in tutto ciò che loro riescono a ottenere dalla società non mafiosa”. Ecco perché i fronti dell’antimafia in realtà sono la connivenza e la corruzione, ed ecco perché l’antimafia è “un affare anche di chi non ha toghe e divise addosso”, una responsabilità di tutti e di ciascuno di “sentirci difensori della democrazia di questo paese e della sua Costituzione”.

In conclusione noi cosa possiamo fare? Informarci, conoscere, non accontentarci delle spiegazioni superficiali, ma prima di tutto “scegliere da che parte stare” fra “noi” e “loro”, è il monito di Nando Dalla Chiesa.

Smanioso Goldoni

STANDING OVATION: I PIU’ ACCLAMATI SPETTACOLI TEATRALI DEL XXI SECOLO
“Le smanie per la villeggiatura” diretto e interpretato da Elena Bucci, Stefano Randisi, Marco Sgrosso ed Enzo Vetrano, Teatro Comunale di Ferrara, dal 9 all’11 aprile 2005

E siamo giunti all’ultimo spettacolo in programmazione. Si conclude stasera, con il goldoniano “Le smanie per la villeggiatura”, la stagione di prosa 2004-05 del Teatro Comunale. L’autore, Carlo Goldoni (1707-1793), si dedicò dopo una giovinezza abbastanza turbolenta e scapestrata all’attività di commediografo a partire dal 1747. Ma già in precedenza aveva composto alcuni dei suoi capolavori, quali: “Momolo cortesan” (1738), “La donna di garbo” (1743), “Arlecchino servo di due padroni” (1745). In seguito maturò la cosiddetta ‘riforma goldoniana’, sostituendo con commedie provviste di un vero e proprio copione quelle ‘a soggetto’ (munite semplicemente di un canovaccio), e scrisse fra le tante opere le celeberrime: “La locandiera” (1752), “Il campiello” (1756), “Le baruffe chiozzotte” (1761), la “Trilogia della villeggiatura” (1761); per poi trasferirsi alla corte di Versailles a Parigi, città in cui compose negli ultimi anni di vita i poco conosciuti “Mémoires” (1784-87).
“Le smanie per la villeggiatura”, commedia originariamente in tre atti, venne rappresentata la prima volta nell’ottobre 1761 al Teatro San Luca di Venezia. La vicenda è sinteticamente la seguente. Come ogni anno, la buona società livornese è indaffarata nei consueti preparativi per le vacanze a Montenero: una sorta di obbligo sociale a cui nessuno può sottrarsi, nemmeno quando non può permetterselo, com’è il caso del protagonista Leonardo; il quale, innamorato di Giacinta e a lei promesso, conduce un’esistenza molto al di sopra dei propri mezzi. E infatti Leonardo, constatata la ferma decisione presa da Giacinta di partire per Montenero, per di più in compagnia di Guglielmo, di cui egli è gelosissimo, afferma per ripicca di rimanere a casa guadagnandosi così i rimproveri di Giacinta, offesa dall’ingiustificata gelosia: chiaro indizio della mancanza di stima di lui nei suoi confronti. Da qui si innescano intricati espedienti e ambigui raggiri allo scopo di tutelare la propria reputazione e immagine pubblica, fino all’epilogo acquietato dalla saggezza di Giacinta.
L’allestimento di stasera, frutto della collaborazione tra Compagnia le belle bandiere – Diablogues – Teatro degli incamminati, è diretto e interpretato da Elena Bucci, Stefano Randisi, Marco Sgrosso ed Enzo Vetrano; le luci sono di Maurizio Viani, i costumi di Andrea Svanisci.

Foto di Tommaso Le Pera

L’OPINIONE
Un’ondata di devastante infamia

Laidume, [lai-dù-me], s.m.(pl.-mi), lett. Sozzura, sudiciume, fig. Infamità, ignominia. Laidume dunque è la parola colta e rara per esprimere sdegno per l’infamia dell’attacco alla Bellezza compiuto da individui non umani (se l’umanità si misura sull’intelletto e sullo spirito, una delle prerogative in via d’estinzione della specie cosiddetta “umana”). Eppure leggendo su Facebook i commenti mi sentivo inquieto e poco propenso a una condivisione generale visto che, pur nella quasi totalità della deprecazione e della condanna, un sottile distinguo sembrava predominare e verteva soprattutto sulla debolezza delle nostre forze di polizia, la condizione delle carceri italiane, il sistema punitivo ecc.

Ma come? Qui si offende in modo gravissimo il patrimonio comune della storia di una nazione, colpendo un’opera di bellezza unica eseguita quando ancora Bernini era indicato come l’espressione più alta del genio italiano ed europeo e si discetta sul modo di punibilità di questi individui che, evidentemente, sono prodotto non certo raro della condizione sociale ed economica dell’Occidente, invece di riflettere se sono le condizioni culturali che inducono ad ignorare l’intangibilità della nostra Storia e a non interrogarci sul perché si è arrivati a questa prospettiva di un mondo indifferente agli effetti della bellezza.

In un’epoca feroce quale fu quella dominata dal tiranno Napoleone, la bellezza poteva essere cantata da un poeta che era pure soldato e non alieno dalla gioia dei piaceri mondani in questi termini: “E in te beltà rivive,/l’aurea beltate ond’ebbero/ ristoro unico a’ mali/ le nate a vaneggiar menti mortali.” La bellezza, ristoro UNICO ai mali come capiva anche il compatriota di questi poveracci mentali, Rembrandt, che così trionfalmente esprimono il nostro tempo.

LAIDUME, il commercio mercenario delle passeggiatrici indagate nei loro luoghi di riunione a Ferrara: giovani, belle, e anche vecchie, sfatte con il segno del tempo che impietosamente rende incredibile come i “maschi” trovino piacere nella frequentazione se non per mescolare disperazioni, bruttezze, squallore.

LAIDUME, l’idea di riunire gli incontri tra queste disperazioni in quartieri appositamente consegnati. Come le bestie allo zoo.

LAIDUME, condividere l’idea esibita da felpe e barbette che “negri” (secondo le definizioni di certi benpensanti) e disperati che si affidano alle carrette del mare possano essere accolti nelle terre che furono di Mussolini e di Hitler.

LAIDUME, infine, che coinvolge sempre di più questo disperato tempo che stiamo vivendo e soffrendo.

IL RITRATTO
A passeggio per Olevano, come a Parigi o a Berlino

di Esther Kinsky*

La bella notizia della vittoria del premio “Franz Hessel Preis” mi ha raggiunta a Olevano Romano, un piccolo paesino di montagna vicino a Roma, dove mi trovo grazie a una borsa di studio-lavoro. Olevano è un luogo caratterizzato da vicoli scoscesi, scalinate tortuose, molte case vuote, tanto vento e le nuvole che rimbalzano tra gli Appennini e l’Abruzzo. A valle scorre il fiume Sacco, come Sacco e Vanzetti, che tuttavia è talmente piccolo da scomparire quasi tra i cespugli. Franz Hessel e Berlino, metropoli per eccellenza, sono lontani anni luce, ma anche qui è possibile andare a passeggio, guardare, esprimere a parole ciò che si vede, che era uno dei grandi talenti e dei maggiori insegnamenti di Franz Hessel. Anche in questo paesino, dove molte strade portano ancora il nome di artisti romantici tedeschi che amavano dipingerne i paesaggi e dove, a causa delle vie strette e scoscese e dell’età avanzata della maggior parte degli abitanti, la vita scorre molto lenta, molte cose sono lo specchio della situazione attuale del mondo europeo.
È lunedì e sto girovagando per il paese, cercando le parole giuste per il discorso di ringraziamento; è il primo giorno caldo dopo settimane di freddo. La porta del calzolaio è spalancata e lui, orgoglioso giovane proprietario della bottega addobbata con numerosi oggetti che rimandano al culto fascista, saluta con fare gentile circondato dai suoi amici disoccupati. Qui si parla sempre tanto. Più in giù, in Piazza Aldo Moro, una ressa di anziani che vogliono mettersi con la faccia al sole, come fossero lucertole. Chiacchierano con il sorriso sul volto e i colletti delle giacche consumati. Quando ero bambina e l’Italia era il primo Paese straniero che imparai a conoscere, queste persone oggi anziane e assetate di sole erano allora giovani adulti di cui ammiravo il fare sbarazzino per le strade di Roma. Questi uomini, che oggi portano ai piedi scarpe da tennis usurate, probabilmente di fabbricazione cinese, e siedono rilassati con le gambe incrociate, allora indossavano sicuramente pantaloni bianchi con la piega del ferro da stiro e scarpe a punta tirate a lucido, probabilmente gialle.
Il lunedì è il giorno del mercato a Olevano. Alcuni giovani di colore vendono calze made in China sul ciglio della strada. In un angolo c’è un sacco di plastica pieno di queste stesse identiche calze in confezioni da cinque, che oramai si possono comprare ovunque, dal Kazakistan fino al mercato di Maybachufer a Berlino. Nessuno si ferma a comprare qualcosa, mentre una donna con un tailleur succinto leva il braccio davanti a uno di loro, quasi volesse picchiarlo. Quasi di riflesso ci si chiede – qui come a Roma, Parigi o Berlino – quale odissea questi venditori ambulanti abbiano alle spalle, quale prezzo abbiano dovuto pagare per essere qui a vendere calze e dove faranno ritorno la sera, una volta finito di lavorare. Cosa si sono lasciati alle spalle. Mi chiedo cosa avrebbe letto Franz Hessel, che morì da rifugiato, sui loro volti, su quello del calzolaio, su quello della donna con il braccio levato e quello degli anziani seduti al sole. Mi chiedo quali parole avrebbe trovato per descrivere la situazione in questo paesino europeo.
Ringrazio la giuria per l’onore che provo nel vedere il mio libro insignito del premio che porta il nome del poeta, traduttore e rifugiato Franz Hessel.

Traduzione di Paola Baglione

* Esther Kinsky è traduttrice letteraria, autrice di prosa e lirica, i suoi temi principali sono la rilevabilità della percezione attraverso la lingua e i processi del ricordo nel contesto dell’estero. Vive tra Berlino e Battonya (Ungheria).

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Franz Hessel

Franz Hessel (Stettino, 21 novembre 1880 – Sanary-sur-Mer, 6 gennaio 1941). Scrittore e saggista tra i più rilevanti nella vita parigina d’inizio Novecento e fautore con Henri-Pierre Roché ed Helend Grund del ménage à trois per eccellenza, immortalato al cinema da François Truffaut con “Jules e Jim”. Franz Hessel ritorna disponibile per i lettori italiani dopo vent’anni di assenza in una nuova antologia, “L’arte di andare a passeggio” (Elliot, Roma 2011) che raccoglie una scelta dei suoi testi per la cura attenta e rigorosa di Eva Banchelli.

IL REPORTAGE
Quando il tango contamina il jazz

Originale commistione tra tango e jazz sabato scorso al Torrione di San Giovanni con il sassofonista e compositore argentino Javier Girotto con i suoi Aires Tango. La formazione ideata dall’erede ideale di Astor Piazzolla era completata da Alessandro Gwis al pianoforte, Marco Siniscalco al basso e Michele Rabbia alle percussioni. Un concerto che festeggia vent’anni insieme dei musicisti. A raccontare per immagini la serata, ecco il bel reportage di Stefano Pavani.

E stasera la stagione concertistica continua al Jazz club Ferrara, in Rampari di Belfiore 167, dalle 21.30 con ingresso a pagamento.

[clic su un’immagine per ingrandirla e vederle tutte]

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Javier Girotto e Aires Tango al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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Javier Girotto e Aires Tango al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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Javier Girotto e Aires Tango al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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Javier Girotto e Aires Tango al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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Javier Girotto e Aires Tango al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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Javier Girotto e Aires Tango al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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Alessandro Gwis al pianoforte con Girotto per l’Aires Tango al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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Marco Siniscalco al basso con Javier Girotto e Aires Tango al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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Alessandro Gwis al pianoforte con Girotto per l’Aires Tango al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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Michele Rabbia alle percussioni con Girotto e AiresTango al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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Michele Rabbia alle percussioni con Girotto e AiresTango al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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Michele Rabbia alle percussioni con Girotto e AiresTango al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)

Claudio Strano, borborigmi da 0 a 120 anni

Protagonista – giovanissimo – negli anni Ottanta e Novanta con la rivista “Poeticamente”, diretta da Lamberto Donegà ed Emanuela Calura. Claudio Strano, originario di Roma, poi a Ferrara, giornalista professionista (L’Unità, Resto del Carlino, successivamente e attualmente per la rivista mensile dei soci Coop, Consumatori), dopo un certo silenzio, è ritornato sulla scena letteraria con il raffinato e futuribile “Racconti di leggero astigmatismo” (Tosi editore, 2001).
Dopo la rivista e la silloge “Borborigmi” (1986), in pura cifra sperimentale e pulsionale, e anche nell’ultimo numero antologico “Elettriche Poesie” dedicato al 40° anniversario di Corrado Govoni (Librit edizioni, 1995), l’autore presentò diversi racconti con la consueta penna d’insolita fattura: come narratore e in prosa, Strano espande i propri input modernisti e neoavanguardisti con una sorta di recupero del Calvino appunto più futuribile, all’europea: futurale nello specifico con esiti di parola leggerissima nella sua dinamica non statica, come molta scrittura neoaccademica, ma quasi immateriale, oleografica. E con sguardi neoeuropei, sullo sfondo, infatti, ricorrenti della Mitteleuropa classica dopo la caduta del Muro di Berlino.
Questo lo Strano narratore che in tale veste ha esordito in lingua francese sempre nei primi anni Novanta sulla rivista parigina “La Révolte des Chutes”, diretta dal poeta neosurrealista Marc Kober. Focus narrativo poi amplificato, certa parola europea squisitamente letteraria – nel successivo “La giacca di Gundel” (Lulu edizioni, 2012) romanzo, sempre ben modulato nel linguaggio lievemente e deliziosamente ricercato, con tracce s-oggettive persuasive e mai forzate (per l’occasione intervistato sul Resto del Carlino da Stefano Lolli).
Infine, recentemente, Strano ha sperimentato, con nuovi borborigmi singolari, la letteratura per l’infanzia con un originale, a metà quasi tra echi alla Rodari e certo cuore bambino spaziale alla Bradbury, per fanciulli da zero a 120 anni, “Il Papadoro” (sempre Lulu, 2014), illustrazioni di Chiara Barbaro, già brillantemente presentato a Ferrara: “Il Papadoro non è un encomio o un manifesto programmatico, non è nemmeno un uccello esotico o di allevamento per quanto gli rassomigli nella fertile immaginazione di Chiara Barbaro. Il Papadoro (come nell’omonimo racconto) è ciò che ogni padre vorrebbe essere in cuor suo prima di ritrovarsi, sotto Natale, confuso – nello stupendo linguaggio infantile – con un dolce tradizionale e banalissimo: il pandoro. O, se gli va peggio, di sentirsi cotto e cucinato come un tacchino dalla irresistibile voglia di giocare di un bambino piccolo, rimasto a casa da scuola, in attesa che arrivi “finalmente” Babbo Natale. Con la televisione rotta e la mamma fuori casa da molto tempo ormai. In una serie di instant stories create per “bimbi” da 0 a 120 anni, tutto il piacere di ricamare trame partendo dalla realtà, sfuggendo così alla tirannia di streghe, orchi e supereroi, per riscoprire il gusto della fantasia.”

La recensione de “Il papadoro” di Riccarda Dalbuoni su Ferraraitalia [vedi]

* da Roby Guerra, “Dizionario della letteratura ferrarese contemporanea”, Este Editon-La Carmelina ebook 2012 [vedi]

LA RICORRENZA
Quando la festa per Ariosto era futurista

Ricorre oggi il 106° del primo manifesto del Futurismo, scritto da Filippo Tommaso Marinetti e pubblicato il 20 febbraio 1909. Per il settantesimo anniversario della morte di Marinetti (1944-2014) è stato anche edito da poco il volume “Marinetti 70. Sintesi della critica futurista”, a cura di Antonio Saccoccio e del futurista ferrarese Roberto Guerra, pubblicato da Armando editore. Nel libro, inserito nella collana Avanguardia 21, figurano alcuni dei principali storici e critici del Futurismo (E. Crispolti, G. Berghaus, G.B. Guerri, G. Di Genova, P. Valesio ecc.). Lo stesso Marinetti – episodio poco noto, segnalato da Giovanni Antonucci nel suo contributo al volume – fu protagonista a Ferrara, nel 1929, per le celebrazioni ariostesche con una conferenza in stile futurista sull’Ariosto.

Ad Antonio Saccoccio  di Roma (Università Tor Vergata di Roma) abbiamo chiesto un approfondimento.

Cosa successe a Ferrara alle Mura degli Angeli? Perché venne scelto proprio quel luogo?

Il 7 luglio 1929, in occasione delle celebrazioni per il quarto centenario della morte di Ludovico Ariosto, F.T. Marinetti tenne un discorso pubblico sulle Mura degli Angeli di Ferrara. Precisò tre anni dopo lo stesso Marinetti: “improvvisai all’enorme pubblico seduto o sdraiato sull’alto bastione fiorito e ombroso di Ferrara una lezione di Futurismo estratta precisamente dall’Orlando Furioso”. Nella prima parte del suo discorso Marinetti si scagliò contro il “feticismo passatista” nemico dell’ottimismo futurista. Successivamente elencò gli “insegnamenti ultrafuturisti” contenuti nell’opera dell’Ariosto, di cui ricordo qui i più significativi: compenetrazione tra arte e vita, velocità, aggressività eroica, passione sportiva, gioia distruttiva e creazione dell’effimero, “senso trasformista della vita”, ottimismo assoluto, sintesi, simultaneità, instancabilità, “giocondità goliardica beffatrice” e “senso aviatorio”. La conferenza si concluse sorprendentemente con il ricordo di un momento di vita familiare, in cui la “pupa Vittoria”, figlia primogenita di Marinetti, diventava il simbolo della spontaneità iconoclasta che anima bambini e poeti.

Quali influenze futuriste/marinettiane ci furono a Ferrara? Attualmente, resiste qualche eco in città?

Quando si parla di Futurismo a Ferrara non si può non ricordare Corrado Govoni, uno dei poeti più originali del gruppo futurista. Voglio ricordarvi il testo di una lettera che Govoni scrisse a Marinetti nel 1910, una lettera da cui emerge in poche righe il suo complesso rapporto con il futurismo e al tempo stesso con la città estense: “Oh il divino sopore, la deliziosa pigrizia che hanno invaso tutto il mio essere al mio giungere a Ferrara! Vi assicuro che a Ferrara solo si può realizzare il sogno di Buddha, il nirvana profondo con annientamento di pensiero e cure moleste e inerzia sensitiva. So bene che il nirvana non fa per voi; ma perché non dovrebbe essere l’ideale di un futurista distruttore come siete voi? Io credo che ogni opera di distruzione dovrebbe avere lo scopo di non più ricostruire. Allora tanto vale lasciare intatte le costruzioni esistenti, non vi pare? Dunque, distruggendo senza l’intenzione di rifabbricare, dove si arriva? Al nirvana sublime suddetto. Tutto questo per farvi conoscere che anche a Ferrara si può vivere una vita importante e amabile”. Come si può intendere, Ferrara è descritta come una città sonnolenta e passatista, ma per Govoni anche una città siffatta può avere qualcosa di amabile.

E Ferrara è anche la città di un futurista contemporaneo…

Sì, attualmente vive a Ferrara uno dei futuristi contemporanei più noti, il poeta Roberto Guerra, che conduce un’instancabile attività editoriale e promozionale. Non a caso l’instancabilità è tra le qualità futuriste da me ricordate a proposito del discorso marinettiano sull’Ariosto. E non a caso Guerra è co-curatore con me proprio dell’ultimo libro su Marinetti.

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Antonio Saccoccio, autore con Roberto Guerra del volume dedicato a Marinetti
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La copertina del volume sul Futurismo a cura di Saccoccio e Guerra

La vita come scuola: all’Ariostea Fioravanti ragiona del modello educativo di Freinet

Fautore di una “pedagogia popolare” e della necessità di laicizzare la scuola”, Célestin Freinet – pedagogista ed educatore francese – ha sviluppato un sistema didattico noto come “metodo naturale”, la cui peculiarità è quella di fare sistematicamente riferimento alla vita reale sia per quanto riguarda gli strumenti, che per quanto concerne le prassi di lavoro.
Coerentemente con questo approccio, la struttura cooperativa, necessaria per gestire l’École Freinet, viene impiegata allo scopo di rendere i ragazzi compartecipi dei problemi, anche finanziari, legati alla gestione della loro attività, permettendo così a ciascuno di acquisire il senso della responsabilità d’azione e di strutturare un sistema di valori che comprende il rispetto del bene comune e della qualità funzionale del gruppo. Attraverso l’impiego delle più moderne tecnologie, l’operosità si traduce nel conferimento di una dignità di “prodotto culturale autonomo” al lavoro degli alunni.
Oggi alle 17 alla sala Agnelli della biblioteca Ariostea, per il ciclo ‘Viaggio nella Comunità dei Saperi’, Giovanni Fioravanti terrà una conferenza dal tema “Quando la tipografia era una tecnologia avanzata – Freinet e le scuole in rete”. Introdurrà l’iniziativa, a cura di istituto Gramsci di Ferrara e istituto di Storia Contemporanea di Ferrara, Sandra Carli Ballola.

Amore in tempo di crisi

Nato sul web, con budget limitato, siamo di fronte a una pellicola simpatica e ironica, ma con temi importanti sullo sfondo, un film carino che celebra l’amore in tutte le sue sfaccettature. Il film mette in scena quattro storie che raccontano l’amore oggi, al tempo della crisi, del dominio incontrollato e prevaricante dei media, del narcisismo maschile e dell’ipocrisia; ci conduce attraverso diversi modi di vivere la relazione affettiva con il proprio partner.

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La locandina

Nel primo episodio, “Precari”, Andrea (Andrea Boschi) e Luisa (Sara Zanier) sono una giovane coppia serena, nonostante le difficoltà quotidiane e lavorative. Desiderosi di mettere su famiglia, decidono di rivolgersi a un medico esperto in fertilità (Rocco Siffredi). Dopo aver perso tutti i loro risparmi nel crack finanziario del loro istituto di credito, la Credici Bank (nome improbabile ma davvero simpatico), la coppia decide di inventarsi un lavoro fuori dagli schemi. E li vedremo benestanti. Perché e come dopo tanti licenziamenti e traversie? Perché lavoreranno sì in banca, ma come rapinatori, mentre il figlioletto farà da palo inconsapevole. Preoccupante ma ironico.

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Andrea e Luisa
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Mimmo e Valerie

Nel secondo episodio, “Ragazza dei miei sogni”, Mimmo (Giancarlo Fontana) è un giovane operatore video che, durante una processione religiosa a Matera, inquadra una bellissima e affascinante ragazza. Innamoratosi di lei perdutamente, Mimmo cerca di rintracciarla in tutti i modi, utilizzando volantini, tv e social network. Facebook, in particolare, gli rovinerà la vita, perché, postando in rete il suo numero di cellulare, diventerà bersaglio di telefonate anonime e di una folla impazzita di ragazzine innamorate dell’idea stessa dell’amore. Una simpatica Caterina Guzzanti, con una prima intervista televisiva, apre a Mimmo il mondo del reality show. Un astuto produttore televisivo, infatti, lo convincerà a incontrare la sua amata, a Parigi, sotto l’occhio indiscreto e continuo delle telecamere. Lei, Valerie (Mily Cultrera Di Montesano), è una brillante studentessa italo-francese, i due si piacciono davvero e scappano al tormento televisivo per rifugiarsi, soli con il loro amore, in campagna. Mimmo scoprirà, però, che la sua amata non è poi così disinteressata alla fama e allora… ci si chiede che fine farà Valerie… Finale brillante ma tragi-comico.

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Paride prima
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Paride dopo

Nell’episodio 3, intitolato “Narciso”, Paride (Edoardo Purgatori) è un giovane poco affascinante, piatto, prevedibile, grassoccio e abitudinario, dedito alla vita sedentaria, ai videogiochi, ai panini da fast food e alla birra. Quando viene lasciato dalla fidanzata (Giulia Lapertosa), dopo lo sconforto e la paura iniziali, decide di riconquistarla mettendosi a dieta e affidandosi alla cure di un personal trainer duro e inflessibile. Dopo essere diventato un bel ragazzo sexy, vincente e corteggiato dal fisico scolpito, fra anabolizzanti, flessioni e beveroni di vario genere, capisce di amare più se’ stesso che l’ex-fidanzata. Simpatico, spensierato e originale.

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Mario Marinelli

Nel quarto e ultimo episodio, “Il campione” (con Alessandro Tiberi, Neri Marcorè, Enrico Bertolino, Gianluca Vialli, Fabio Caressa, Jacopo Maria Bicocchi, Ugo Piva ed Emilio Fallarino) il protagonista è Mario Marinelli, un calciatore di serie A, costretto in panchina dopo un grave infortunio. Le cronache parlano più dei suoi veri o presunti flirt con belle modelle piuttosto che delle sue imprese calcistiche. In realtà, Mario è omosessuale e deve nascondersi dallo spietato mondo del calcio fatto di omofobia e dirigenti senza scrupoli. Gli vengono offerte varie possibilità prestigiose e di carriera, inclusa la partecipazione ai Mondiali di calcio brasiliani, per non parlare, per non gridare al mondo quel segreto che potrebbe minare la reputazione di un’intera squadra di calcio, fatta di uomini “veri”. Dovrà decidere se continuare a mentire o assecondare i suoi sentimenti. Sceglierà bene, pensiamo. Romantico, sognatore e coraggioso.

Un film in crescendo, riuscito soprattutto negli ultimi due episodi, che affronta con garbo, freschezza e simpatia due temi non facili come il culto dell’immagine maschile estetizzata e l’omosessualità in campi considerati ancora regno del maschio duro e puro. Moderno e attuale.

“Amore oggi”, di Giuseppe G. Stasi, Giancarlo Fontana, con Alessandro Tiberi, Jacopo Maria Bicocchi, Andrea Bosca, Sara Zanier, Giancarlo Fontana, Mily Cultrera di Montesano, Caterina Guzzanti, Edoardo Purgatori, Giulia Lapertosa, Simone Sabani, Neri Marcorè, Rocco Siffredi, Italia, 2014, 91 mn.

LA RIFLESSIONE
Un uomo che avrei voluto conoscere

È difficile ricordare qualcuno che non abbiamo conosciuto e che è divenuto un mito proprio per il silenzio di cui ha saputo circondarsi. Rigoroso nel non rilasciare interviste e disponibile a parlare con le persone che lo incontravano per strada, Michele Ferrero era un uomo di un altro tempo. L’applauso che lo ha salutato ad Alba esprime l’autenticità di sentimenti che vengono da lontano e si sono tramandati in forma di storie.
Ciò che le persone pensavano di lui lo capivi parlando con gli autisti, lungo il tragitto che da Asti conduce ad Alba, tra colline morbide, dopo che ogni traccia delle strade trafficate era stata abbandonata e sembrava lontana. Raccontavano piccoli aneddoti per dire del signor Michele: contadini entrati negli anni cinquanta nella fabbrica della Nutella, che non volevano separarsi dalla loro terra e ricevevano un permesso speciale nella stagione del raccolto delle nocciole; persone che gli erano grate per l’aiuto ricevuto anche direttamente e non solo attraverso le opere di beneficienza, raccontavano che ogni domenica andava in una chiesa diversa per poter distribuire equamente il suo obolo. E poi ricordavano quella volta dell’alluvione, quando gli operai erano andati tutti di mattina prestissimo con stivali e pale per ripulire la fabbrica dal fango. Esempio di come non vi sia bisogno di coordinamento se le scelte sono condivise. E in azienda io, affascinata e curiosa chiedevo ancora: mi raccontavano che il Signor Michele assaggiava di persona la mitica Nutella per verificare che fosse tutto “giusto”, che progettava e pensava a nuovi prodotti che replicassero il successo dei tanti che avevano fatto la storia del cibo che si mangia “per piacere”.
Io raccontavo che con gli Ovetti avevo allevato mia figlia: gli Ovetti erano il gesto dell’incontro, lo spazio di un sorriso per recuperare il contatto dopo l’assenza. Gli Ovetti hanno accompagnato il ritorno a casa di molte generazioni di genitori: per questo hanno mantenuto il carattere di archetipo della sorpresa, persino ora che di giochi ce ne sono tanti.
Mi affascinava, tra l’altro, il fatto che lui, un uomo anziano, mantenesse l’ostinata religione del lavoro e forse era lo stesso sentimento di ammirazione che legava le persone nel racconto di lui. Mi dispiace non averlo conosciuto di persona Michele Ferrero, non leggerò la biografia che molti avrebbero voluto scrivere e a cui lui, schivo, si è sempre sottratto; ma proprio per questo non posso sottrarmi al desiderio di scrivere questo breve pensiero. E se l’autorevolezza e la visibilità possano essere espressione di un lavoro tenace e silenzioso? Mi sembra questa la domanda che ci lascia.

Maura Franchi è laureata in Sociologia e in Scienze dell’educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei consumi. Studia le scelte di consumo e i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network.
maura.franchi@gmail.com

L’EVENTO
Nascita, rinascita e sfascio di una casa del popolo

Costruzione e decostruzione della casa del popolo “Rinascita” di San Vito di Spilamberto (Modena), attraverso corpo e voce di Elsa Bossi e Giulio Costa, ovvero: il riciclaggio umano e morale delle casa del popolo, dalle origini ai giorni nostri. Lo spettacolo “Immobili”, scritto da Giulio Costa, ultima replica sabato 21 febbraio (ore 21) al Teatro Off di Ferrara, racconta in due punti di vista a volte dissonanti, a volte in perfetta sintonia, ma esposti attraverso il contrasto di genere, un pezzo di Novecento italiano attraverso una istituzione fondamentale per chi l’Italia l’ha fatta. Gli attori raccontano, a fine spettacolo, la passione che ha portato alla nascita della pièce minimale e incisiva, già portata in tournée tre anni fa e riproposta per raccontare ancora una volta la storia di una casa che rischia di essere spazzata via da una nuova distorsione storica e speculativa. In un dibattito ancora aperto e urgente: Rinascita è a oggi di nuovo indifesa, a rischio chiusura, grazie all’ennesimo intervento residenziale.

casa-del-popolo-immobiliSul palco, all’inizio dello spettacolo, c’è una timida e innocua scatola di cartone. Il prete a mo’ di don Camillo preoccupato della nascita di una casa del popolo sfoga in un concitato e caldo dialetto modenese le sue preoccupazioni con la perpetua sul confessionale, timoroso che il bracciante voglia mangiarsi non solo gatti ma anche il parroco. Si trasforma poi nel sindacalista visto come un demonio dal prete di pochi minuti prima, mentre lei a estrarre numeri, e lui sul pulpito a parlare della nascita della cooperativa di lavoro consumo, il cui compito sia quello di regolare i prezzi, dare solidarietà al lavoratore e resistere al padrone. Quel padrone osteggiato da una donna fiera e progressista, erede di suffragette e sostenitrice del diritto di sciopero, che avrebbe voluto studiare e che invece è piegata sotto al bastone del padrone. Lei, la sorella, reclama il diritto alla cooperativa per essere tutelata e il dovere del lavoratore di fare sacrifici per ottenere diritti e una paga adeguata; lui, il fratello, difende il padrone nel quale vede il diritto alla propria continuità di esistenza, di fronte al quale obbedire e piegare la testa.

casa-del-popolo-immobiliCi prova un altro lui, a farle piegare la testa: arriva il 19 luglio 1921, i diritti operai sono aboliti. I fascisti bruciano le case di associazione, tra queste anche Rinascita. Lui srotola le calze lungo il polpaccio, camicia nera e piglio arrogante e ‘super partes’ interroga lei, una insegnante che tenta di difendersi verbalmente dalle sue violenze fisiche e verbali, che la accusa di non essere all’altezza della patria. Poi lei è una staffetta impegnata in gruppi di difesa della donna, che tiene testa a un lui partigiano e risolutorio. Passano i mesi, ad alta voce: novembre, poi febbraio, poi marzo. Giornali, vestiti, lettere, e arriva il settembre 1943. Rinascita viene faticosamente ricostruita dopo la Liberazione, sull’altalena del contrasto tra comunisti e democrazia cristiana. Con fatica, con amore, meticolosamente, prima; poi non più.

casa-del-popolo-immobiliAlla fine dello spettacolo la scatola di cartone si è moltiplicata, ingrossata come un tumore, è diventata un casino di cemento spartito tra gli ex compagni, sbrigativi e annoiati, ben ripuliti, che pensano di essere andati oltre i giochi dei comuni mortali. La casa del popolo è sfasciata senza dibattito, una ragazzina molestata dal gruppetto di amici del cuore che è diventata tutto a un tratto il “branco”. Di rosso è rimasto il colore della polo, indumento di scena, su cui ammicca un coccodrilletto: ha vinto lui. Le sane gazzarre tra Don Camillo e l’onorevole Peppone sono spente per sempre nei vecchi televisori stipati nelle soffitte. Roba da rigattieri, ormai.

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Foto di Daniele Mantovani

L’osteoporosi si previene anche a tavola e non solo con il latte

L’osteoporosi si evidenzia molto nell’immobilizzazione. Se si conduce una vita sedentaria o non si fa esercizio fisico, si può determinare una riduzione delle forze meccaniche sulle trabecole dell’osso, aumentando la progressione della patologia. Anche una dieta eccessivamente acida (troppo ricca di proteine) conduce a una demineralizzazione dell’osso nel tentativo di tamponare tale carico acido.

Che cos’è l’osteoporosi
Di preciso non si sa con esattezza perché ci si ammala di osteoporosi, ma è assodato che si tratta di un disturbo che incide sul normale processo di rimodellamento osseo. Le ossa sono costituite da tessuti viventi, per lo più da collagene, una proteina che forma una struttura morbida, e da fosfato di calcio, un minerale che indurisce l’osso. Nel corso della vita, le ossa si rinnovano continuamente, l’organismo deposita nuovo tessuto osseo e rimuove quello vecchio: durante l’infanzia la quantità di osso nuovo che si forma è maggiore rispetto a quella di osso vecchio che viene distrutto; il tessuto osseo ha un picco di densità e forza intorno ai trent’anni. In seguito, l’organismo inizia a rimuovere più tessuto vecchio di quanto ne produca di nuovo. Questo processo è detto turnover o rimodellamento osseo.

Le cause dell’osteoporosi

1- Nelle trasmissioni televisive, nelle riviste o anche dai medici si consiglia spesso un consumo massiccio di latte e derivati come rimedio principale all’osteoporosi. Questo tipo di messaggio non è corretto, perché se si eccede nell’alimentazione iperproteica, l’organismo deve provvedere a compensare il disequilibrio neutralizzando gli acidi in eccesso e utilizzando una grossa fonte di ioni positivi, cioè il calcio nelle ossa. Da qui la demineralizzazione ossea, quindi l’osteoporosi. L’apporto di verdura cruda, invece, tende a basificare l’organismo. Non a caso, storicamente, nei ristoranti di una volta, la bistecca (acida) veniva servita con insalata e limone (che è incredibilmente basica). Anzi sappiamo che un eccesso di latte e derivati, insieme ad un’alimentazione iperproteica (in particolare di origine animale), causa l’acidificazione del sangue. In sostanza, affinché il corpo sia in equilibrio acido/basico, deve mantenere un ph pari a 7,4.

2- Per tutte le problematiche che ci affliggono non c’è mai una causa sola ma una serie di con-cause che tuttavia hanno un peso diverso. Nel caso dell’osteoporosi, un’altra concausa molto importante è la mancanza di carico fisico prolungato. La maggior parte delle casalinghe, pur muovendosi in casa sono lontane dal produrre un carico sulle ossa e un movimento tale da giustificare da parte dell’organismo un investimento in termini di apporto di calcio alle ossa. Valga per tutti l’esempio della demineralizzazione ossea che subiscono gli astronauti nella loro permanenza nello spazio. Non essendoci carico, il corpo non ritiene opportuno “investire” il calcio nelle ossa.

3- Non ultimo è l’apporto carente di vitamina D che, come sappiamo, è stimolata dall’esposizione alla luce solare, anche in questo caso le nostre casalinghe hanno difficoltà a recuperare la dose giornaliera consigliata: la luce cura!

I sintomi dell’osteoporosi
Nelle prime fasi dell’osteoporosi, di solito non si avverte né dolore né alcun altro sintomo, però, una volta che la patologia ha indebolito le ossa, si iniziano ad avvertire segni e sintomi tipici della malattia, tra cui:
– mal di schiena, anche intenso, provocato dalla frattura o dal collasso di una vertebra;
– diminuzione della statura;
– postura curva;
– frattura delle vertebre, del polso, del femore o di altre ossa.

Consigli e rimedi naturali per prevenire l’osteoporosi
– Fare tutti i giorni una passeggiata all’aria aperta di almeno 30 minuti senza interruzioni;
– fare una seduta osteopatica per accertarsi che l’intestino funzioni al meglio, perché quello che conta non è solo ciò che mangiamo ma ciò che digeriamo;
– seguire un’alimentazione a base di frutta, verdura, cereali vari e un apporto di diversi tipi di proteine soprattutto di origine vegetale, ma in quantità contenuta;
– per integrare, mangiare degli alimenti con un buon contenuto di magnesio;
– assicurarsi un adeguato apporto di vitamina D;
– assicurarsi un adeguato apporto di calcio: mandorle, broccoli, spinaci, cavoli cotti, salmone in scatola (con lisca), sardine e prodotti derivati dalla soia, come il tofu, sono tutti ricchi di calcio. Come abbiamo già detto, la quantità di calcio necessaria per stare in buona salute cambia nel corso dell’esistenza, l’Oms consiglia i seguenti apporti giornalieri di calcio, da ricavare dagli alimenti e solo eventualmente dagli integratori:
– fino a 1 anno: da 210 a 270 mg
– da 1 a 3 anni: 500 mg
– da 4 a 8 anni: 800 mg
– da 9 a 18 anni: 1.300 mg
– da 19 a 50 anni: 1000 mg
– oltre i 51 anni: 1200 mg

Lo stile di vita è importante per alleviare i sintomi dell’osteoporosi e prevenire la rottura delle ossa, cosa fare e cosa no:
– mantenere una buona postura (testa in alto, mento verso l’interno, spalle in fuori, schiena diritta e parte inferiore della spina dorsale inarcata) aiuta a non accumulare tensione sulla colonna vertebrale;
– mentre si è seduti o si sta guidando, mettere un asciugamano arrotolato contro la parte bassa della schiena;
– evitare di leggere o lavorare da sdraiati;
– per sollevare un peso, piegare le ginocchia e non la schiena, e scaricare il peso sulle gambe, tenendo dritte le spalle;
– prevenire le cadute;
– indossare scarpe con tacchi bassi e suole antiscivolo, e controllare che in casa non ci siano cavi volanti, tappetini scivolosi o superfici che potrebbero farvi inciampare o cadere;
– illuminare bene le stanze, posizionare opportune maniglie dentro e fuori dalla doccia e controllare di poter salire e scendere dal letto con facilità;
– non sottovalutare il dolore cronico, se non lo curate può limitare la mobilità e diventare ancora più difficile da sopportare: chiedere consiglio al medico per quanto riguarda le terapie contro il dolore.
– è infine consigliabile affiancare gli esercizi per la forza a quelli per la resistenza. Gli esercizi per la forza vi aiutano a rafforzare i muscoli e le ossa delle braccia e della parte alta della schiena, mentre quelli per la resistenza (camminare, fare jogging, correre, fare le scale, saltare la corda, sciare o praticare sport a impatto globale) coinvolgono soprattutto le ossa delle gambe, il femore e la parte bassa della schiena; nuotare, andare in bicicletta e allenarsi sulle macchine, ad esempio, possono rappresentare un buon allenamento cardiovascolare, ma questi esercizi sono a basso impatto, e quindi non sono efficaci per migliorare la salute delle ossa come quelli di resistenza.

Chiedere il parere del proprio medico prima di mettere in pratica qualsiasi consiglio o indicazione riportata, ed evitare di assumere troppi farmaci.

IL PUNGOLO
Festival Lgbt, il vescovo Negri sarà “prudente” come promesso a papa Francesco? [ascolta l’audio della telefonata]

Si prospetta una settima difficile per il nostro vescovo Luigi Negri. Dal 27 febbraio al 1 marzo Ferrara ospiterà “Tag”, festival di cultura Lgbt. Di recente il massimo rappresentate della diocesi ferrarese ha dichiarato che “la legge contro l’omofobia è un delitto contro Dio e contro l’umanità”. Nel medesimo messaggio il vescovo ha affermato anche che “la legge sull’aborto invece non ha consentito di venire al mondo ad oltre sei milioni di italiani e la scarsità di figli ci ha fatto sprofondare in questa crisi economica”. Come al solito, parole trancianti e poco allineate con quelle di papa Francesco. E infatti la redazione della Zanzara, popolare programma satirico di Radio 24, non si è fatta sfuggire l’occasione per giocare al monsignore uno scherzo pienamente riuscito. Grazie a una perfetta imitazione, ha inscenato una telefonata del papa al vescovo di Ferrara il quale, richiamato per ben due volte a “maggiore prudenza nelle dichiarazioni”, accoglie l’invito con un “va bene va bene” che tradisce tutto il suo imbarazzo. “Noi abbiamo il dovere di stare vicini con chi soffre” ricorda a “don Luigi” il falso (ma molto credibile) papa. Credibile evidentemente anche per il vescovo, non solo per l’abilità palesata da Andro Merkù (l’imitatore), ma proprio perché il senso delle parole appare autentico anche a lui.
Ma ora che l’intervista è andata in onda, l’impegno “alla prudenza” del vescovo Negri paradossalmente resta valido. Per forza: se lui lo ha pronunciato credendo di proferirlo al papa non è che adesso che ha scoperto che l’interlocutore non era il pontefice possa rinnegarlo. E infatti, pochi giorni dopo ha dichiarato al Carlino: “Mi sono ripromesso di essere prudente, e non solo perché ogni volta che parlo rischio di ritrovarmi in una gogna mediatica. Ma non posso che ripetere quello che ho detto anche nella telefonata al Santo Padre, quando pensavo che fosse quello vero”.
Il problema per lui, che sul tema dei diritti degli omosessuali a luglio si era schierato idealmente accanto alle Sentinelle in piedi con una plateale presa di distanza da Comune, Provincia e Università, è farlo davvero. Ci riuscirà o tornerà a proferire i soliti anatemi?

Ascolta l’audio della telefonata del “papa” al vescovo Negri

L’EVENTO
Presentato TAG, il festival di cultura LGBT dal 27 febbraio a Ferrara. Ospite Mario Venuti

E’ stata presentata oggi alla stampa la seconda edizione di TAG – Festival di cultura LGBT ideato da Arcigay Ferrara.
Dal 27 febbraio al primo marzo, tre giorni di incontri, spettacoli e dibattiti per conoscere e capire il mondo gay, lesbico, bisessuale e transessuale.
“La sede principale degli eventi – ha spiegato Massimiliano De Giovanni, presidente di Arcigay Ferrara – sarà la Sala Estense, una location importante perché proprio nel cuore della città, ma abbiamo organizzato anche eventi in altri luoghi per coinvolgere varie realtà”.

E’ un momento cruciale questo, per il riconoscimento dei diritti delle persone omosessuali, che sono al centro di un acceso dibattito politico, sociale e religioso. La comunità locale LGBT risponde proponendo appuntamenti culturali che possano coinvolgere tutti i cittadini nel confronto e nel dialogo.

“Tutto è partito alla fine del 2013, quando abbiamo proposto la prima edizione di TAG all’interno del Festival di Internazionale, poi il Comune ci ha esortati a continuare con le nostre gambe e a organizzare un evento che fosse solo nostro. Abbiamo voluto mantenere il taglio culturale e di approfondimento perché riteniamo che l’omofobia si combatta solo con l’educazione”.

Saranno cinque i macrotemi attorno ai quali ruoterà il festival: il coming out, le trascrizioni dei matrimoni omosessuali celebrati all’estero, la pubblicità, i migranti e lo sport.
Accanto ai momenti di approfondimento ci saranno anche quelli di intrattenimento con nomi di spicco, uno fra tutti: Mario Venuti.

mario venuti
Mario Venuti (foto di Luigi Marino)
Roosters Rugby Seven
i Roosters Rugby Seven
Carlo Gabardini
Carlo Gabardini

Di rivelazione del proprio orientamento sessuale si parla venerdì 27 febbraio alle 16 nell’incontro Le ricette del coming out perfetto, con Rita de Santis di Agedo (associazione dei genitori di figli omosessuali) e Chiara Reali che si occupa di un progetto di sostegno agli adolescenti LGBT (www.lecosecambiano.org).

Di matrimoni tra persone omosessuali si parla sabato 28 febbraio alle 11 nel dibattito Sposi in Europa, coinquilini in Italia con Monica Cirinnà, la senatrice PD relatrice del testo base sulle unioni civili che dovrebbe essere votato in Senato a marzo, il giudice Marco Gattuso, l’avvocato Luca Morassutto, Anotnella Risi e Sarah Bonte, una coppia il cui matrimonio è stato trascritto a Milano da Pisapia. Nel frattempo prosegue la raccolta di firme per la trascrizione anche a Ferrara, alla quale dopo il primo banchetto di sabato scorso hanno aderito oltre duecento persone.
Ne avevamo parlato qui.

Di pubblicità a favore o contro gli omosessuali si parlerà sempre sabato 28, ma alle 16 nell’incontro Le nuove famiglie italiane della pubblicità, con la pubblicitaria Annamaria Testa, la corporate PR di Ikea Valeria di Bussolo, e Fulvio Zendrini esperto di marketing e comunicazione di GF Group.

Particolarmente delicato, come ha spiegato Manuela Macario di Arcigay, il tema dei migranti in fuga dai loro paesi per discriminazioni sessuali che verrà affrontato domenica 1 marzo alle 11 nel dibattito L’amore rubato con il giornalista Michele Sasso de L’Espresso, Massimo Cipolla di Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione), Paola Pirani di Amnetsy International e Johnatan Mastellari di MigraBo LGBT, un gruppo di assistenza alle persone immigrate di Bologna.

Infine l’incontro che ha anche dato il titolo e l’immagine al festival: Diritti alla meta, sul rapporto tra sport, omosessualità e omofobia che si tiene sempre domenica alle 16. Francesco Altavilla, giornalista e rugbista incontra i Roosters Rugby Seven, l’ormai celebre squadra di rugby a sette nata dal Cus Ferrara con l’esplicito intento di lottare, oltre che per la vittoria, anche contro l’omofobia. Ci sarà anche l’attore Carlo Gabardini, famoso per il ruolo di Olmo in Camera Café, ma anche per il suo coming out e la sua partecipazione al bel video dei Lions Bergamo. Per l’occasione ci sarà anche un collegamento dallo stadio San Siro con i giornalista di La7 Paolo Colombo che lancerà la nuova campagna Allacciamoli di Paddy Power.

Accanto a questi, ci saranno vari altri momenti di spettacolo cui l’incontro con il cantante Mario Venuti, che sabato alle 18 parlerà del suo nuovo album Il tramonto dell’Occidente, ideato, scritto e musicato con Francesco Bianconi dei Baustelle e Kaballà.
“E’ un disco che prospetta una rinascita socio culturale, e il cui messaggio fa da collante di tutto il festival”, ha concluso Salvo Finistrella, uno degli organizzatori.

Di seguito il programma completo.

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IL FATTO
David Carr: il giornalismo resta vivo se c’è onestà e ferocia intellettuale

Morire in scena, dicono che sia privilegio dei grandi. Anche se la scena è la redazione di un giornale, il loro trono una scrivania da ufficio. David Carr, morto il 12 febbraio in una ordinaria giornata di redazione dopo avere moderato un dibattito per il documentario “Citizenfour”, si occupava di cinema sul suo blog Carpetbegger e di media, economia e cultura per il New York Times, a cui era approdato dopo aver scritto sull’Atlantic, sul New York Magazine e sul Twin Cities Reader. Ospite del festival di giornalismo Internazionale a Ferrara nel 2012, in cui aveva dialogato con il direttore del “Guardian” Alan Rusbridger, Carr era un personaggio anomalo e affascinante; ed è stata la sua vita particolare, prima ancora che la sua penna, a fare capire che non serve un foglio di carta per esserlo, un giornalista. In due sensi ben diversi. Il primo: la rivoluzione mediatica che ha investito il mondo del giornalismo, raccontata nel documentario del 2011 “Page One: Inside the New York Times”. Voce narrante e protagonista, Carr racconta qui il lavoro all’interno della redazione del Times, compreso il difficile passaggio affrontato dal cartaceo nell’era del digitale e i passi del giornale in una terra che vede coesistere scettici, entusiasti e disillusi di un mestiere che sta cambiando inesorabilmente faccia. Carr tentava di cambiarne anche la mentalità: nella sua rubrica “The Media Equation”, che teneva ogni lunedì, analizzava i cambiamenti nel mondo di editoria, televisione e social media, e le interconnessioni tra questi ultimi e il giornalismo, le sue trasformazioni e le implicazioni etiche che ne derivavano.
Il secondo: che bastano onestà personale e ferocia intellettuale, nei confronti di se stessi e degli altri, per fare buona informazione. Che ogni passaggio obbligato e devastante della vita può insegnare qualcosa: a essere migliore o peggiore, ma sicuramente diverso da quello che si è stato. Dalla persona che guarda allo specchio anche solo fino al giorno prima. Carr lo dimostra con il libro “The Night of the Gun”, autobiografia-inchiesta pubblicata nel 2008 in cui racconta il suo passato di tossicodipendente. Di redattore in una paesino del Minnesota alla deriva personale, fatta di botte, di cocaina e di abbandoni, alla fine degli anni Ottanta.
Non nasconde niente di tutto questo, anzi va a cercarlo di nuovo, ancora una volta. Cerca i poliziotti che lo hanno arrestato, le donne che ha picchiato, gli spacciatori da cui si è fornito e gli altri episodi pieni di vergogna di cui è stato protagonista. Chiedendo, da giornalista, di raccontare il punto più basso che ha raggiunto come uomo, con tanto di prove e testimonianze. Da cui non prende le distanze neppure quando ormai è il conclamato uomo di punta: “Sono David Carr e sono un alcolista”, è stato il preambolo con cui si è presentato gli studenti della scuola di giornalismo dell’Università di Berkeley.

Poco importa che lo abbia fatto per esorcizzare il passato o per mettersi in mutande di fronte al mondo: lo ha fatto e basta, e tanto basta. Lavando in pubblico panni sporchi non per inquinare, ma per essere il primo racconto da cui trarre una lezione. Per essere letame, e non diamanti. Senza mai trasformare questa vita vissuta al massimo e al limite nella bella copia di uno spin off, o nella rivincita di un perdente mancato. Mantenendo freddezza, linearità e sincerità brutale che caratterizzavano il suo stile, tanto amato quanto criticato, e guadagnandosi sul campo il diritto di farsi odiare – un privilegio per pochi eletti abbandonati, Indro Montanelli, Oriana Fallaci. Costruendo di fatto un esempio rigoroso di ‘fact checking’, il controllo chirurgico di ogni fatto, ogni dettaglio di un articolo giornalistico necessario alla sua dignità di pubblicazione, che riversa nella vita personale prima ancora che in quella professionale. Profetico nell’anticipare colossali vicende politiche, italiane e non, in cui privato e professionale si annodano malamente in un miscuglio in cui un inutile idiota cerca di nascondere le malefatte successe dietro le quinte senza riuscirci, alla disperata ricerca di qualcuno su cui scaricare il barile di colpa e accusa. Nel ribaltare la prospettiva prima ancora che l’idea diventasse istituzione; nella sua ultima vita piena strabordante di fama e successi e risposte secche come la sua voce roca, vita che forse, a suo stesso dire, non meritava di vivere; nelle storie che raccontava e nella crudezza con cui le raccontava, meritava di essere impiccato con una corda d’oro.

Il nuovo cd di Marco Ferradini, un tributo a Herbert Pagani

“Prendi una donna, dille che l’ami, scrivile canzoni d’amore… prendi una donna trattala male lascia che ti aspetti per ore…”. Questi sono i versi di “Teorema”, la canzone di Marco Ferradini inserita con altre venti nel doppio cd “La mia generazione”, tributo a Herbert Pagani, autore del testo di quel brano e protagonista della scena musicale degli anni ’70 e ’80. Herbert Pagani era anche pittore, poeta, disc-jockey (Fumorama a Radio Montecarlo), scultore, scrittore e attore, nonché pacifista ed ecologista.

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La copertina del cd

Ferradini ha affrontato il difficile compito di mettere mano al vasto repertorio di Pagani scegliendo e arrangiando le canzoni con José Orlando Luciano, un lavoro durato ben due anni per la necessità di cambiare gli arrangiamenti originali, decifrare tonalità e accordi allo scopo di renderli eseguibili alla chitarra e adattarli alle diverse tonalità di voci. Il progetto si è completato con un libro di testimonianze e uno spettacolo teatrale. Marco Ferradini ha duettato con numerosi artisti legati a Pagani da amicizia, affinità musicali e passione per l’arte, affidando a ognuno di loro la canzone più adatta: Alberto Fortis, Andrea Mirò, Anna Jencek, Caroline Pagani, Eugenio Finardi, Fabio Concato, Fabio Treves, Federico L’Olandese Volante, Flavio Oreglio, Giovanni Nuti, Legramandi, Lucio Fabbri, Mauro Ermanno Giovanardi, Moni Ovadia, Ron, Shel Shapiro, Simon Luca, Syria.

ferradini-paganiNell’estate del 1980 Ferradini e Pagani trascorsero un fine settimana in montagna, in cui scrissero canzoni che sarebbero entrare nella storia della musica italiana: “Week-end”, “Schiavo senza catene”, “Teorema”, “Bicicletta” e “Fratello mio”. Furono quattro giorni intensi e creativi, come dimostra il brano “Un letto in riva al mare”, rimasto inedito per tanti anni prima di questa occasione. La canzone è legata alla mania di Pagani di raccogliere tutto quello che trovava in spiaggia per trasformarlo in sculture.
Il disco si apre con “Stelle negli oroscopi”, brano che racconta le gioie e le difficoltà dell’inventare canzoni, scritto da Ferradini e interpretato con Ron e Fabio Concato. Si tratta di un commovente ricordo che descrive l’atmosfera carica di speranze e attese di quando Marco e Herbert si trovavano a lavorare insieme, protagonisti e spettatori della nascita di una canzone.
“Albergo a Ore” di Marguerite Monnot, con il testo di Pagani, è forse il simbolo di questo progetto, dove le voci di Ferradini, Giovanni Nuti e Syria si fondono con i suoni dell’adattamento yiddish, in un’atmosfera musicale acustica che accompagna tutto l’album. “Cento scalini” era il lato B del 45 giri di “Albergo a ore”, sono passati tanti anni ma il tema della necessità di emigrare, purtroppo, è sempre attuale; una storia di amore giovanile si contrappone a un destino di separazione. Indovinato e piacevolmente sorprendente il duetto con Fabio Concato.

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Herbert Pagani

E’ sempre un piacere riascoltare “Cin cin con gli occhiali”, brano apparentemente leggero che la musica di Edoardo Bennato ha reso semplice e orecchiabile. “Un capretto” estremizza con un parallelo terribile il macello di un cucciolo di animale e quello di un cucciolo d’uomo, un riferimento ai bambini vittime dei conflitti bellici, uno stimolo per gridare: “No alla guerra!”. Il testo è la traduzione di una famosa composizione di Sholom Secunda che la scrisse nel 1935 basandosi su una canzone popolare polacca. Il testo originale in yiddish è di Aaron Zeitlin, la strofa del bambino e del soldato, nella traduzione di Pagani, pur riprendendo la struttura della canzone originale, sembra essere una sua innovazione, forse con lo scopo di chiarire ulteriormente il vero senso della canzone.
“Jean e Paul” è una canzone di Ferradini del 1995, scritta dopo avere letto un bel libro di Joseph Joffo, sicuro che Pagani l’avrebbe voluta cantare con lui.Tutti i brani sono costruiti con pazienza, passione e maestria artigianale, ognuno di essi è un piccolo gioiello, da “L’erba selvaggia” con Eugenio Finardi e Moni Ovadia, sino alla politica “Signori presidenti” (sembra scritta oggi), senza tralasciare “La mia generazione”, in cui descrive la sua famiglia con lucida e impietosa ironia.
Chiude l’album “Ti ringrazio vita”, cover di “Gracias a la vida” di Violeta Parra, con il testo di Pagani, cantata in italiano, spagnolo e francese che termina con la frase: “Ti ringrazio vita… che mi hai dato Herbert”.
Il tributo a Herbert Pagani rende omaggio e giustizia a un grande artista, proponendolo all’attenzione del pubblico in un “festival” di suoni, colori, coinvolgimento e forti emozioni. Marco Ferradini interpreta i brani come se fossero tutti suoi, immedesimandosi con l’amico chansonnier, sino quasi a ricordarlo in alcune espressioni vocali.

Special “La mia generazione – Herbert Pagani” raccontato da Marco Ferradini [vedi]

LA RIFLESSIONE
Avanzi di colonialismo: forme sottili e potenti di predominio

da BERLINO – Avanzi. Non quelli dal piatto e tantomeno (ahimè) quelli dei tempi gloriosi di Corrado Guzzanti. Bensì ciò che ‘avanza’, ovvero, ciò che (ci) resta dalla storia e dal passato. In altri termini: rovine, reliquie, fossili e resti dal passato. Di questo ha parlato sostanzialmente Ann Stoler ospite al berlinese Institute for Cultural Inquiry, solitamente docente di Antropologia e Storia alla nuovissima New School for Social Research di New York.

La sua conferenza è partita da una differenza sottile tra il fatto di concepire un avanzo come ciò che “è avanzato” nel corso del processo storico e il fatto di concepirlo come ciò che effettivamente “ci continua a restare” ovvero ciò che è coinvolto in un processo continuo di deperimento e decadimento. Il primo è poco importante per il presente: è una sorta di resto antiquato del passato che probabilmente non ha più alcuna importanza, a parte appunto il fatto di essere ciò che è: un avanzo. Per definizione qualcosa che è in più, poco importante, secondario, superfluo, nel senso preciso che si tratta di qualcosa che rimane rispetto all’intero che è andato in frantumi. Per cui insomma si può passare ad altro, andare avanti.
Ma se concepiamo l’avanzo come qualcosa che resta ma che continua a decadere, ecco che le cose si fanno più difficili. Non è possibile sbarazzarsene semplicemente sostenendo che si tratti di qualcosa di antiquato, sopravvissuto dal passato. Infatti, si tratta di un atto che continua ad accadere anche ora e che coinvolge la realtà stessa che va essenzialmente in rovina.

Se applichiamo queste osservazioni forse un po’ astruse alla realtà sociale contemporanea, come suggerisce Ann Stoler, possiamo trarre da questa idea un particolare insegnamento sul rapporto tra gli imperi coloniali passati (residui, in ogni senso del termine) e le loro colonie passate (residue, in ogni senso del termine). Si tratta di un rapporto che, ben investigato, potrebbe gettare miglior luce sui recenti eventi medio-orientali, prossimi a coinvolgere anche il nostro mediterraneo. Qual è, infatti, il rapporto che si è stabilito e continua sempre a stabilirsi tra le ex colonie mediorientali e i loro ex padroni europei? Non si tratta semplicemente di una guerra, che alcuni vagheggiano come una incipiente “guerra civile europea” (secondo il senso dato dal controverso giurista Carl Schmitt) bensì di qualcosa più sottile, ovvero di un confronto agonistico che si manifesta come un continuo rapporto di attrazione e repulsione tra le ex colonie e la vecchia Europa: combattere la vecchia Europa che è avanzata dalla sua (in)gloriosa epoca coloniale, e in un qualche modo farsi riconoscere dall’antica padrona, cioè farsi conoscere come pericolo, minaccia, o vendetta. Ma certo non restarle indifferenti.
Cos’è quindi questa strana forma di colonialismo che continua a legarli insieme? Non è una forma di colonialismo morbido perché non esistono di fatto più colonie né di diritto né di fatto, ammesso che non si voglia confondere gli effetti (evidenti, eclatanti) di una guerra di predominio economico del Primo mondo verso il Terzo mondo. In verità, così sembra dire Ann Stoler, il colonialismo è stato e continua ad essere qualcosa di molto più sottile e potente del semplice predominio economico.

Un esempio molto eloquente portato da Stoler è quello denunciato recentemente da una organizzazione non profit: il progetto di archiviazione di 10.000 documenti dell’amministrazione palestinese senza che sia ancora stato effettivamente istituito uno Stato palestinese. Qual è dunque il senso di istituire un archivio (una memoria) per ciò che non è ancora stato fondato? Personalmente azzarderei una risposta: quello di costruire una memoria ufficiale, una tradizione da cui costruire prossimamente uno Stato. Insomma una versione moderna del mito antico. Così come, avrebbe potuto aggiungere Ann Stoler, tanti altri Stati (non solo europei) abbisognano dei loro miti fondatori. Non sempre particolarmente edificanti o positivi.

LA CURIOSITA’
Infanzia sovietica

Da MOSCA – Sono curiosa, i bambini e i loro giochi mi sono sempre piaciuti. Se poi si tratta di vedere come si è giocato nell’infanzia, considerata uno dei periodi più belli e spensierati della vita, sono davvero pronta. I giocattoli mi hanno sempre incuriosito, sono l’espressione della fantasia, dei sogni, dell’immaginare quello che si vorrebbe fare veramente da grandi.

infanzia-sovieticainfanzia-sovieticaEccomi, allora, alle porte del Museo della città di Mosca che, dal 28 Novembre scorso al 15 marzo 2015, ospita una mostra dedicata all’’infanzia sovietica’. Qui potrò vedere giochi, libri, vestiti, mobili, che circondavano i bambini dell’Urss degli anni ‘60-‘80. Dal momento in cui si entra in casa, appendendo abiti e guantini, fino a quando si gioca con pentolini, bambole e macchinine, si ascolta la radio e si guardano i cartoni animati alla televisione.
Quando siamo bambini, non si hanno preoccupazioni e problemi, non ci affannano un lavoro da trovare o da coltivare, una famiglia da sfamare e ci si può dedicare a giocare con gli amici, a mangiare, a dormire, insomma a godersi la gioventù, se si ha la fortuna di nascere nel posto giusto (con questo pensando almeno a un Paese dove non ci siano guerra ed estrema povertà…). Cosa non daremmo per tornare a quegli anni spensierati!

infanzia-sovieticainfanzia-sovieticaLa mostra che mi trovo davanti ci presenta quanto hanno in comune generazioni di moscoviti, nonostante le loro differenze di stili di vita e di interessi, pur nei cambiamenti del paese e delle città avvenuti nel tempo. Molti sono cresciuti tutti sugli stessi libri, imitato gli stessi eroi del cinema, comprato per decenni gli stessi giocattoli. Oggi la vita è diversa, si comprano nuovi giochi, ma per molti moscoviti l’esperienza infantile li unisce e li accomuna. La mostra vuole ricordare un mondo infantile ricco e variegato, un’ideologia sovietica che si prendeva molta cura dei bambini, per vederne gli aspetti positivi.

infanzia-sovieticaMolti di noi, per restare alla mia generazione, coglieranno elementi comuni della nostra infanzia (e suona strano ritrovarne alcuni elementi in una mostra… siamo già, ahimè, da esposizione ???), se non altro perché, con gli stessi giochi, non avevamo preoccupazioni, inquietudini o paure, provenienti dal mondo esterno, stavamo all’aria aperta, trascorrevamo l’intera giornata fuori casa a giocare, andando in bicicletta, pattinando, rincorrendoci, giocando a palla, a tennis e a nascondino o semplicemente passeggiando.

infanzia-sovieticainfanzia-sovieticaNon esistevano telefonini né custodi e ci era permesso andare ovunque desiderassimo senza doverlo dire ai nostri genitori, bastava rimanere nel quartiere, finché mamma ci chiamava dalla finestra. Anche noi facevamo parte degli scout, o della banda delle giovani marmotte, se pur con una filosofia ideologica diversa da quella del partito comunista sovietico, che addestrava i propri membri sin da giovanissimi (dalla prima elementare, ai bambini veniva conferito il titolo di “oktyabrenok”, “figlio dell’Ottobre Rosso”, e consegnata una piccola spilla a forma di stella sulla quale c’erano Lenin da bambino e la scritta ‘sempre pronto’). Si diventava poi ‘pionieri’, con al collo una sorta di bandana rossa).

infanzia-sovieticaAnche a noi, però, come a quei giovani ‘pionieri’, s’insegnava a prenderci cura e a proteggere la natura, a sopravvivere nei boschi e ai ruscelli. Una delle attività preferite dei ‘pionieri’ sovietici era quella di fingersi infermieri e curare gli alberi. Armati di valigette della Croce Rossa fornite di bende, forbici, cotone e disinfettante, i bambini partivano in missione per ‘curare gli alberi’. E quando trovavano dei rami rotti, dei tronchi piegati o dei cespugli spezzati applicano disinfettante e fasciature. Era un gioco che faceva sentire bene e sviluppava un senso di attenzione e amorevolezza. Se ci si faceva male, i rimedi della nonna erano pronti a soccorrerci. Noi in Italia come loro in Urss. Noi andavamo in villaggi a piedi di Alpi o Dolomiti, loro nelle foreste siberiane. L’importante era, per tutti, il contatto con la natura, conoscerla, toccarla e conviverci, respirare aria fresca e pura e starsene lontano dalla città.

infanzia-sovieticaLa disciplina c’era, orari, ginnastica e regole. Ma un po’ ci vuole e l’ideologia sovietica dava molto peso ad essa. Il tempo ai campeggi era organizzato in base a un programma quasi di tipo militare: sveglia alle sette, ginnastica e poi colazione tutti insieme, prima di dedicarsi ad attività manuali, alla musica o alla danza. Le giornate trascorrevano così, semplici. Il momento più bello era la sera, quando con la chitarra ci si sedeva accanto al falò per cantare o fare giochi di gruppo. Lo ricordiamo anche noi. Molti giocattoli, poi, che vediamo qui sono davvero simili a quelli dei nostri anni ‘70. Non si è tanto diversi, quando si è bambini.

infanzia-sovieticaNella mostra di Mosca, si espongono pure tanti libri: il retaggio più prezioso dell’epoca sovietica è rappresentato dalla diffusione dell’istruzione gratuita. Per i cittadini sovietici il socialismo si tradusse nell’opportunità di studiare, imparare e conoscere. Belli poi i manifesti che ricordano ai bambini l’importanza dell’igiene quotidiana (lavarsi regolarmente i denti, fare esami della vista, avvertendo la maestra se non si vede bene…).

infanzia-sovieticaDopo un periodo in cui si è demolito tutto quello che aveva a che fare con quell’epoca, oggi la maturità di una riflessione culturale più attenta e oggettiva ne fa risaltare i valori positivi. Perché non è tutto da dimenticare e da gettare alle ortiche. Il bello di questa mostra è proprio questo, l’aver saputo cogliere la bellezza di quell’infanzia, da ricordare, nei suoi valori e nella sua allegra e leggera spensieratezza. Vale per loro, come per noi.
Se poi l’anziana signora all’uscita ti chiede se la mostra ti è piaciuta, e, in tal caso, di tornare con i tuoi amici, significa che un po’ di nostalgia c’è e che può fare anche bene…

“Infanzia sovietica”, al Museo della città di Mosca, Bd. Zubovsky 2, fino al 15 marzo 2015, visita il sito della mostra [vedi].

Ringrazio la responsabile dell’ufficio stampa del Museo di Mosca, Anastasia Fedorova, e la guida del Museo, Anna Ludina, per avermi condotto in questo viaggio nel passato e per averci fornito alcune delle foto (le altre sono di Simonetta Sandri).

Istruzioni per il disegnatore: l’amore ai tempi dell’incomunicabilità

Roberta Bergamaschi qualche tempo fa ha esordito nella narrativa con un romanzo intelligente e raffinato. Edito per la collana I libri dello Zelig (Mobydick editore), questo libro colpisce per il senso di misura delle sue parole, per l’incedere chiaro, rigoroso e un intreccio davvero interessante.
La storia dei protagonisti Marguerite e Moustache, per contrappasso, è quella della mancanza di parole, dell’incomunicabilità. Lavorano entrambi, con ruoli diversi, a un manuale di lingua francese per ragazzi, e i personaggi “messi in scena da una misteriosa Autrice”, corretti dalle istruzioni di Marguerite per il Disegnatore, prendono vita portando alla mente i Sei personaggi in cerca di autore di Pirandello. In fondo si tratta di un meta-libro. Un po’ come se qualcuno strappasse quel cielo di carta proprio mentre Oreste stesse per vendicare la morte del padre, sempre per dirla con l’agrigentino autore de “Il fu Mattia Pascal”.
“Istruzioni per il disegnatore” è un libro dotato di grazia e leggerezza, pervaso da una amara ironia. E questo ricorda Calvino. E’ un libro che parla di chi non sempre riesce a prendere la vita per il verso giusto. Parla del tempo e dei fallimenti, dell’egoismo e di una certa grammatica dei corpi e dei pensieri, che è grammatica dell’amore. Lo fa con consapevolezza. Suona note stonate, vibra colpi, avendo cura di risparmiare il dramma e il lieto fine. E’ come se chi scrive avesse ben chiaro che sarebbe inutile condividerlo fino in fondo, il dramma. E’ come se Roberta Bergamaschi dicesse che tanto, alla fine, ognuno rimane solo con la sua vita infilata al contrario, con gli errori, le incomprensioni, col suo dolore. E questo è il Buzzati de “Il deserto dei Tartari”.
Nella selva del mondo editoriale italiano il lettore è chiamato a un ruolo di ricerca sempre più attivo. Chiunque voglia scovare lavori di qualità rischia di rimanere preda di un’editoria attenta alle vendite, come è giusto che sia, a scapito del coraggio. E allora mi piace scrivere di questo piccolo libro elegante e sornione, della sua qualità.

“Istruzioni per il disegnatore”, collana I libri dello Zelig, Mobydick editore, romanzo d’esordio di Roberta Bergamaschi

L’EVENTO
Carnevale Venezia, una vera meraviglia che colpisce tutti i sensi

2. SEGUE – “Ogni uomo mente, ma dategli una maschera e sarà sincero”. Forse è racchiuso in queste poche parole di Oscar Wilde il motivo per cui, ogni anno, centinaia di persone si travestono, si aggirano per le vie di Venezia e, senza dire una parola, si mettono in posa e si lasciano ammirare da chi si ferma a guardarle affascinato. L’aspetto che più colpisce di questo carnevale unico al mondo sono i suoi protagonisti: non bambini o ragazzi, bensì adulti vestiti con abiti mozzafiato.
La famosissima festa mascherata veneziana è stata per me una gran bella esperienza durante la quale la città si è tinta di mille colori e ha accolto persone provenienti da ogni parte del mondo: gruppi di amici, famiglie e coppie di innamorati si sono recati a Venezia sia per assistere, sia per partecipare a questo ricco evento. Dal 31 gennaio al 17 febbraio la città ha preso vita tanto di giorno quanto di notte. In ciascuna giornata dedicata al carnevale, ad ogni ora e in tantissimi luoghi diversi (cinema, piazze, musei, teatri) si sono tenuti spettacoli, eventi e feste per intrattenere persone di ogni età.
Una delle esperienze più originali che ho vissuto è stata “Women in Love – Ovvero le donne di Shakespeare”, uno spettacolo itinerante, prodotto dal Teatro Stabile del Veneto, che si è tenuto in parte a Ca’ Rezzonico, in parte al Palazzo Mocenigo. Il titolo si riferisce alle varie donne protagoniste delle opere del grande poeta; le attrici recitano testi scritti dal regista e autore di teatro Giuseppe Emiliani e, solo in parte, tratti dai capolavori originali. Ho assistito alle performance di Marta Paola Richeldi nei panni di Lady Macbeth e di Margherita Mannino, calata nella parte di Jessica, la figlia di Shylock de “Il mercante di Venezia”. La recitazione, alternata alla musica di un giovane con la fisarmonica e unita alla visita al Palazzo del ‘700 veneziano, ha dato vita ad un’esperienza visionaria, sospesa tra realtà ed immaginazione. Le giovani attrici, vestite e truccate da scena, hanno recitato nelle lussuosissime sale del Palazzo, ad un metro dagli spettatori. Un’esperienza estremamente suggestiva che, grazie alla totale assenza della quarta parete, ha coinvolto ed emozionato i presenti.


Il cuore del carnevale è stato sicuramente il Gran Teatro di Piazza San Marco dove è avvenuta la qualificazione per la finale del Concorso per la maschera più bella. Il carnevale di quest’anno è stato definito “la festa più golosa del mondo” proprio perchè dedicato al cibo made in Italy. Tutti i presentatori erano infatti vestiti da cuochi e, sullo sfondo, dei maxi schermi mostravano il logo dell’Expo, per segnalare il collegamento tra questi due eventi unici. Sul palco le maschere hanno sfilato mostrando i costumi più stravaganti: da quelli dedicati alle diverse epoche storiche, a quelli legati alla mitologia; alcuni relativi al mondo delle fiabe ed altri personificazione di concetti astratti come “l’oscurità” o la “golosità”, fino a quelli più creativi ed originali come “le arti in maschera” e “la regina del mare”. Ma i più originali sono stati quelli che hanno aderito al tema di quest’anno, l’alimentazione appunto. Hanno sfilato singole persone, coppie e gruppi di gente provenienti da ogni regione d’Italia e da diverse nazioni d’Europa, portando sulla scena costumi dai titoli bizzarri, come “Il re e la regina della cucina”, “Gateau papillon” e i “Baci di Dama”. Sia il primo che il secondo lotto di maschere, ciascuno composto da 12 concorrenti, sono stati seguiti dalle votazioni del pubblico seduto nel parterre del teatro che ha selezionato i finalisti. Dopo la prima sfilata si è tenuta l’esibizione di un’acrobata irlandese, mentre dopo la seconda gli spettatori hanno potuto assistere alle coreografie del “Nagasaki swing team”. La mattinata di sabato 14 si è conclusa con un flash mob dedicato alla festa di San Valentino: dopo il countdown dei presentatori la piazza si è colorata di centinaia di palloncini rossi che hanno preso il volo.
La finale del concorso si è tenuta domenica 15 febbraio con la premiazione per categorie: la maschera più originale è stata vinta da “Monsieur Sofà e Coco Chanel”; la maschera più a tema da “La cucina veneziana di Vicenza in costumi del Settecento”, ma il vincitore assoluto della maschera più bella del carnevale 2015 se lo è aggiudicato un trio tedesco travestito da “Marte, Venere e Cupido” a cui è stato consegnato il premio offerto dalla Promovetro, un consorzio nato per la promozione del vetro artistico di Murano.
Anche le notti a Venezia sono state magiche. Lo spettacolo all’Arsenale è stato riproposto ogni sera, a partire dalle ore 19 con l’animazione della compagnia Nu’Art, lungo la “riva delle meraviglie”. In seguito è stato riprodotto un video che ha racontato la storia del “baccalà” e di come questo pesce è arrivato a Venezia (le immagini sono state proiettate sulla torretta che in passato serviva per l’avvistamento delle navi). Sucessivamente, sull’acqua e in cielo, sono esplosi fuochi d’artificio sensazionali, uniti a lingue di fuoco e raggi di luce di tutti i colori. Uno spettacolo suggestivo ed ancora più emozionante perchè l’esperienza visiva andava a ritmo di musica, seguendo i crescendo e i diminuendo delle note di Ludovico Einaudi e Klaus Badelt.
Ai fuochi d’artificio è seguito uno spettacolo aereo e verticale all’interno dei magazzini. Si sono esibiti tre ragazzi e tre giovani donne in acrobazie circensi, volteggiando in aria con il solo supporto di corde elastiche. Ogni serata si è conclusa con l’Arsenale Carnival Experience, un’occasione per i ragazzi di ballare sulla musica di famosi dj, fino a notte fonda.
Domenica un altro evento ha riunito migliaia di persone a Piazza San Marco: il “Volo dell’Aquila”, interpretato da Giusy Versace. Tra la folla si sussurava quanto fosse ardita e coraggiosa l’atleta paralimpica italiana che ha emozionato il pubblico volando dal campanile al palco del Gran Teatro sulle note di “Because you loved me” di Celine Dion.
Il carnevale è terminato martedì con la proclamazione della Maria 2015, Irene Rizzi, e il “Volo del Leon” accompagnato dall’inno di San Marco, a simboleggiare la chiusura del carnevale.
Oltre a questi grossi eventi a cui ha partcipato un elevatissimo numero di persone, il carnevale di Venezia ha offerto concerti, esibizioni teatrali per adulti e bambini, seminari, spettacoli di marionette e burattini, cene sofisticate e feste a tema nei sontuosi e regali palazzi della città.
Ma il carnevale non è solo questo, è anche un’occasione per immergersi nell’arte e nella cultura di una città che ha tantissimo da offrire. La galleria “Contini”, ad esempio, merita di essere visitata per la singolarità delle opere esposte, realizzate con i materiali del bosco, e le installazioni tecnologiche che creano simpatici effetti d’acqua. Al Palazzo Barbarigo Nani Mocenigo è invece possibile osservare i gioielli della mostra “Precious – Da Picasso a Jeff Koons”, oltre ai meravigliosi affreschi ottocenteschi e tardo-barocchi. Il Palazzo Fortuny ha invece allestito una mostra, in occasione della grande festa mascherata, interamente dedicata alla Divina Marchesa Luisa Casati, musa di Boldini, che spesso la ritrasse nelle sue tele.
In numerosissimi negozi di Venezia, specialmente in occasione del carnevale, è possibile acquistare maschere e costumi, ma un posto in particolare mi ha colpita. Si chiama “Ca’ Macana Venezia” ed è una piccola bottega dove trovare le maschere del film “Eyes wide shut” del grande Kubrick, non realizzate appositamente per la pellicola, ma scelte dal regista tra quelle già esposte nel negozio.
Il carnevale di Venezia è stata per me un’esperienza unica, vetrina d’arte, fantasia e creatività a cui personalmente credo valga la pena assistere e partecipare almeno una volta nella vita. La ricchezza che Venezia offre in poco più di due settimane è in grado di coinvolgere tutti i sensi, senza mai smettere di stupire ed emozionare.

Per leggere la prima parte clicca qui.

NOTA A MARGINE
“Il rischio mafia esiste, compito di tutti è mantenere sana la città”

“Nelle zone di origine e presenza endemica, oltre a un vero e proprio controllo del territorio le organizzazioni mafiose hanno una funzione di mediazione sociale che permette loro di acquisire consenso; i risultati sono perdita di competitività del tessuto produttivo e deficit di cittadinanza. Ma il nord è diverso, è zona di colonizzazione: qui si fanno investimenti per riciclare i proventi delle attività illecite e sempre di più il metodo di infiltrazione non si basa sulle intimidazioni, ma su corruzione e strumenti del credito, con la costruzione di un sistema di connessioni in loco attraverso la connivenza di quell’area grigia formata da burocrati, politici, professionisti e imprenditori. Ecco perché Giovanni Tizian scrive di ‘holding finanziaria’ e il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti parla di ‘una visione politica del radicamento’”.

Fulvio Bernabei (foto di Aldo Gessi)
Fulvio Bernabei (foto di Aldo Gessi)

A sottolinearlo è stato Fulvio Bernabei, intervenendo al secondo incontro del ciclo “Chiavi di Lettura, opinioni a confronto sull’attualità” organizzato da Ferraraitalia con lo scopo di chiarificare nodi controversi del nostro vivere quotidiano. Ieri, in biblioteca Ariostea, si è dibattuto di mafia a Ferrara fra allarmismo e rischi reali, per cercare di capire quanto la nostra provincia è davvero permeabile e quali siano i segnali a cui dobbiamo porre attenzione.

Bernabei (Guardia di finanza) e Federico Varese (Oxford university) hanno fornito un inquadramento generale di cosa significhi mafia oggi: un fenomeno complesso e diversificato a seconda delle differenti aree della nostra penisola.
Il problema della diffusione al nord è noto. Il più recente documento che si occupa di illegalità diffusa nel nostro territorio è il rapporto “L’economia illegale in Emilia Romagna”, realizzato per Osservatorio della legalità e Unioncamere regionali dal professor Andrea Mazzitelli di Universitas Mercatorum. E proprio questo documento è stato il detonatore dell’appassionato confronto che ha attratto in biblioteca un folto e attento pubblico. “La nostra ricerca – ha spiegato Mazzitelli in collegamento Skype da Roma – indaga in particolare la presenza del fenomeno illegale nel tessuto produttivo legale, reso più fragile dalla crisi economica di questi anni: attraverso l’individuazione di indicatori e di campioni statistici ripetibili, si sono resi evidenti ‘i fattori di rischio’ e ‘la vulnerabilità economica e sociale’, considerandoli segnali anticipatori dell’infiltrazione”. Ed è “l’ormai palpabile sfilacciamento del tessuto sociale e produttivo”, fotografato anche dal rapporto di Mazzitelli, che ci deve preoccupare, non solo come ferraresi ed emiliani, ma a livello generale, perché è fra queste crepe di illegalità diffusa che le mafie si infiltrano con agilità.

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Varese e Mazzitelli in colelgamento Skype (foto di Aldo Gessi)

Varese – criminologo noto a livello internazionale in collegamento Skype da Oxford – ha però preso le distanze dalle conclusioni dello studio di Unioncamere, sostenendo che il giudizio è “falsato dalla considerazione di troppe fattispecie di reato non propriamente ascrivibili alle modalità d’azione delle organizzazioni mafiose e che, al contrario, nei settori tipicamente infiltrati dalla mafia (edilizia, movimentazione terra, stoccaggio rifiuti) a Ferrara si è registrata negli ultimi anni una contrazione del volume di attività”. Acqua sul fuoco dunque, accompagnata però dalla raccomandazione di non abbassare la guardia perché le insidie sono reali, come dimostrano le vicende delle vicine province di Reggio e Modena.

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Tito Cuoghi (foto di Aldo Gessi)

Sintetico ma significativo ed eloquente è stato il contributo di Tito Cuoghi (Anpar) sui rischi di presenza e le modalità d’azione delle ecomafie negli appalti, con specifici riferimenti alla ricostruzione dopo il sisma dell’Emilia.

Donato La Muscatella (foto di Aldo Gessi)
Donato La Muscatella (foto di Aldo Gessi)

Infine, il referente del coordinamento provinciale di Libera, Donato La Muscatella, ha concluso che il problema del radicamento in Emilia Romagna ormai è innegabile e anche a Ferrara “il rischio esiste: è necessario quantificarlo”. Per quanto riguarda il contrasto e la prevenzione, La Muscatella ha sottolineato che “il fenomeno criminale è competenza di magistrati e forze dell’ordine, ma il fenomeno sociale riguarda tutti; perciò benché non ci sia un vero e proprio allarme, la guardia va tenuta alta ed è compito di tutti i cittadini farlo per ridurre le occasioni di infiltrazione”.

 

Emilia Romagna all’avanguardia nello smaltimento dei rifiuti

E’ da tempo evidente quanto il sistema Italia risulti essere inadeguato e arretrato rispetto agli indirizzi contenuti nelle direttive comunitarie in materia di recupero e valorizzazione delle frazioni presenti nei rifiuti ed è del tutto assente su scala nazionale un modello di gestione rifiuti basato sul “sistema di gestione integrata”. I sistemi di gestione dei rifiuti sono diversi e diversificati tra i paesi industriali a livello europeo; negli ultimi anni pur essendo aumentati i sistemi di recupero, riciclaggio e di termotrattamento, in molti paesi rimane però l’uso della discarica l’elemento principale caratterizzante lo smaltimento (per l’analisi degli inceneritori si rimanda allo specifico articolo del 19 ottobre 2014, leggi qua).
La tecnologia dell’interramento controllato oltre ad essere la tecnologia di smaltimento più diffusa è infatti anche la più semplice poiché presenta una grande flessibilità di gestioni e di criteri organizzativi tali da rendere difficile una corretta analisi ed articolazione degli stessi (con conseguente forte criticità); a livello generale ci si riferisce a criteri in relazione alla protezione dell’ambiente circostante (comprese le acque superficiali e sotterranee) dei sistemi di difesa ambientale (e dunque l’impermeabilizzazione, il trattamento del percolato, etc), dei processi di stabilizzazione dei rifiuti e più in generale alla protezione dai rischi per la salute umana. I danni provocati da una discarica (e dunque il tempo necessario di controllo e di post-gestione) sono quantificabili in “almeno” trent’anni (per alcuni anche cinquanta); comunque è bene verificare sempre nel tempo ( per periodi ancora maggiori) gli effetti ambientali e fare controlli.
In Regione Emilia-Romagna la situazione impiantistica è sicuramente tra quelle con minor criticità. In questi anni, con la riorganizzazione del sistema impiantistico, si è determinata infatti una progressiva diminuzione di utilizzo della discarica come principale forma di smaltimento e un progressivo aumento di nuovi impianti per la produzione di compost e per il recupero di energia dai rifiuti. Tale sistema colloca la Regione ad un grado di efficienza ed efficacia paragonabile ai più avanzati sistemi impiantistici delle regioni europee. Il sistema impiantistico è in grado di soddisfare completamente il fabbisogno di smaltimento, rendendo autosufficiente il territorio regionale (pur con qualche disomogeneità a livello dei territori provinciali) e conseguentemente di attuare limitate azioni di soccorso nei confronti di territori extraregionali in emergenza.
Cresce l’attenzione sulla gestione degli impianti, sulla sicurezza, sull’applicazione delle migliori tecnologie e con essi cresce la necessità di una maggiore conoscenza dello smaltimento. Una questione delicata e importante è relativa alla tipologia dei rifiuti ai fini dello smaltimento. Non si può più infatti, quando si parla di impianti, tenere separati i flussi tra rifiuti urbani, assimilati e rifiuti speciali. Se si escludono gli inerti da demolizione, comunque a livello nazionale si presume un monte complessivo vicino ai cento milioni di tonnellate di cui un terzo urbani ed il resto derivati da attività produttive e d artigianali, oltre a quelli di residui di lavorazioni e di trattamento. La stessa proporzione si valuta esserci in Emilia Romagna con un monte totale di oltre 10 milioni di tonnellate (esclusi gli inerti) di cui oltre una metà probabilmente va a recupero e circa 4 milioni di tonnellate a smaltimento (le stime risentono comunque di limiti di conoscenza). Una quantità rilevante che comunque rappresenta nel suo complesso un problema e su cui dunque è importante saper programmare le migliori soluzioni di smaltimento. La capacità impiantistica di un territorio deve infatti saper trovare le corrette soluzioni di trattamento anche per queste tipologie di rifiuti e la pianificazione impiantistica di una regione è opportuno che da ciò sia condizionata.
Ma il tema principale è e deve essere la qualità di questi impianti. Deve crescere l’attenzione e conoscenza sulla miglior tecnologia, sulla complessità impiantistica, sui principi della buona gestione, sulla efficacia di controlli e analisi, sulla certificazione e sulla sicurezza. Vogliamo saperne di più.

LA STORIA
Andrea Poltronieri, note e risa in punta di sax

“Il giullare era quello che veniva pagato dal re perché lo facesse ridere e anche piangere. Non era facile trovare una persona di questo tipo, è una figura affascinante.” Andrea Poltronieri racconta “Note appuntate” (Edizioni La Carmelina), incalzato da Stefano Bottoni, direttore artistico del Ferrara Buskers Festival, e presentato da Federico Felloni e Vincenzo Iannuzzo, per il ciclo “Autori a corte” alla libreria Feltrinelli.

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La presentazione del libro

“Note appuntate” si presenta come un block notes libero che spazia tra pensieri personali tra vita e carriera, scritti di getto; la sezione “Dicono di me” che include ricordi e dediche di personaggi famosi con cui ha lavorato, da Paolo Cevoli a Cristina D’Avena fino a Duilio Pizzocchi.
E le sue parodie di canzoni, da “La bici della Gina” (“Amici come prima”) a “Bepi” (“Happy”), brano che il 26 febbraio sarà interpretata in versione lirica dalla soprano Benedetta Kim in Sala Estense, in occasione del primo Festival della Canzone Ferrarese con il gruppo Made in Fe e musiche dei 60 lire.

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Stefano Bottoni e Andrea Poltronieri
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Il duetto Bottoni-Poltronieri

Tra una battuta e un silenzio, Bottoni e Poltronieri ricordano la prima scintilla scoccata tra di loro: “Era il 1988, c’era di mezzo Haji Akbar e vedevo la faccia di Poltronieri sfrecciare sugli autobus. Perché allora non poterci sfrecciare insieme, su un autobus come ai Buskers?”. Tra musica e comicità, alla continua ricerca di un teschio che è memento mori ma anche il ricordo ormai emaciato ma ancora solido di una risata prepotente. Non è una persona seria, chi non sa ridere.
Il giullare è quello che ti diverte, ma anche quello che ti riporta a quei giorni di liceo fuori provincia in cui sentivi cantare strofe demenziali su musiche note in un dialetto che non era il tuo, senza sapere che si chiamassero “centoni”. Su un tale di nome Gino, bottegaio che lavorava al Famila, alle prese con asparagi e agguerrite vecchiette alla ricerca di ortaggi freschi, tra una nota e l’altra di “Rivers of Babylon”. O a quella volta che hai ascoltato il centone che parodiava “Back for Good” dei Take That di ritorno dall’impossibile esame di tedesco superato per una manciata di voti. Il giullare, lo spiritello ex machina che canti sovrapponendo la tua voce stentorea alla sua, che esce sicura dall’autoradio: è Poltrosax, e te ne accorgi quando lo vedi.

Andrea Poltronieri è singolare. É la Nives, arzilla ottuagenaria treccine rosse spritz nato su due piedi in una serata tra le nebbie della Bassa Padana per colmare il silenzio di un guasto tecnico. É il sassofonista emozionato che stringe la mano a Lucio Dalla il 4 marzo, prima di suonare in Piazza Maggiore, cercandone poi ossessivamente il profumo che conserva intonso e intoccabile nelle mani, e il bambino che riceve in regalo dal papà la sua prima tastiera, una Bontempi, la notte di Natale del 1973. É il bacio in fronte di Lucio Mongardi, il capitano della squadra più ambita, in una domenica da bambino sugli spalti. É New York con il produttore Davide Romani, il girovagare per Washington Square, suonare in metro occupando il posto di un altro musicista che ti rampogna per avergli occupato il suo, di posto, e scusarsi con un sorriso e uscire da lì sentendo di avere già fatto centro, abbozzare qualche nota in re minore, al sax, unico bianco tra musicisti neri nel “Village”.

É plurale, Andrea Poltronieri. Sono le corde della chitarra che gli regala una persona la cui presenza gli riempie la vita, e sono i 56 passi che lo separano da una camera d’ospedale che sta per salutare per sempre questa persona, ma piena ancora della sua presenza. Sono gli studi all’Accademia di Belle Arti con Concetto Pozzati e i concerti da musicomico, tra dissacrante e melomania.
I concerti con gli Stadio e quello per l’Emilia al Dall’Ara di Bologna. Gli impossibili da ritrovare qui sulla Terra, perché sono tutti raccolti al Genius Bar, locale stile Roxy bar in cui ogni grande è perso dietro ai fatti suoi e ancora reclama il legittimo posto che ha preso nel mondo.
Sono Emma e Alice e anche Satin – non la protagonista del Moulin Rouge di cui condivide l’origine parigina bensì l’adorato sax che gli procura il nome d’arte Sax Machine, donne nell’anima.
Sono le note appuntate, quelle scritte in punta di penna per non dare fastidio, scritte di getto per rovesciare l’anima su una pagina bianca, scritte per condividere un ricordo o una risata o una malinconia con chi ti legge, fino a fare uscire i suoi, di ricordi.
Tra un manifesto e lo specchio, tra un re che ha bisogno del suo giullare per trovarsi di fronte alla sua nudità, ed essere in grado di riderne e piangerne.

IL TEST
Walkman, hi-fi & co: il design giapponese anni ’70

3. SEGUE – Sanyo Electric Co. Ltd. era una società giapponese di elettronica, con sede a Moriguchi in Giappone, fondata il 1° aprile 1950 da Toshio Iue, cognato di Konosuke Matsushita proprietario della Matsushita (Panasonic), che rilevò e sviluppò una vecchia fabbrica in disuso per avviare una propria attività.

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Walkman della Sanyo

Negli anni ’70 il design giapponese s’indirizzò verso le esigenze degli utenti, studiandone i comportamenti sociali e cercando di incidere sul loro modo di vivere. Fu grazie a quest’attenzione che nel 1979 Sony, presto seguita su questa strada da Sanyo, produsse il walkman, che ben rappresenta il modo di vivere sempre in movimento dell’era moderna, oltre ad innescare la spirale di miniaturizzazione che influenzerà i decenni successivi.

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Registratore a cassetta RD-5300

Negli anni ’70 si stava compiendo un processo di omologazione estetica degli apparecchi Hi-Fi, salta quindi subito agli occhi il lavoro di stilizzazione e ingegnerizzazione che c’era dietro ai componenti Sanyo. Tra questi il deck a cassette RD-5300 del 1976, dal design basato sul contrasto tra alluminio e plastica nera, ora tanto di moda nei notebook di importanti marchi.

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Sintoamplificatore Sanyo fine anni ’70

Il sintoamplificatore Sanyo modello DCX 2000L del 1977, oltre ad avere un suono brillante, è l’esempio della qualità costruttiva degli anni settanta. Il frontale e le manopole sono interamente in metallo, la protezione della scala della sintonia è di vetro, lo chassis è di legno, tutti materiali da tempo sostituiti dalla plastica.

La radiosveglia a cartellini Sanyo 6ca-t45z, mostrata recentemente anche in uno spot televisivo di una nota banca italiana, rappresenta quel filone del design anni ’70 denominato “Space Age”. Questo stile, tra gusto pop e desiderio di avanguardia, prende piede tra gli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, sulla scia delle imprese spaziali che, nell’immaginario collettivo, dovevano rappresentare l’inizio di una modernità creativa e progressista. Esempi di quel modo di intendere il design (oggetti e abiti futuribili) li ritroviamo nel cinema e nella Tv di allora, basti pensare a “2001 Odissea nello spazio” di Stanley Kubrick e alla serie “UFO S.H.A.D.O.”.

Design 'Space Age' per la Phonosphere di Sanyo
Design ‘Space Age’ per la Phonosphere di Sanyo
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Sanyo Decorator Clock Radio

In quel periodo furono realizzate lampade che sembrano missili, televisori simili al casco degli astronauti, poltrone a forma di guscio, compatti Hi-Fi (Phonosphere), come se fossero progettati per l’interno di una navicella spaziale. In un certo senso si può affermare che la corrente di gusto denominata “Space Age” trasformava il salotto di casa in un’astronave. Osservando la radiosveglia di Sanyo, la Phonosphere e l’orologio Decorator ci si accorge come le forme tonde e morbide prendano il sopravvento, rispetto a quelle squadrate del decennio procedente, con un massiccio utilizzo della plastica, materiale ideale per generare superfici prive di asperità e lisce. I designer di riferimento di quell’epoca sono il milanese Joe Colombo, il danese Verner Panton e il finlandese Eero Aarnio (creatore della famosa sedia Palla o Globo per Asko, vista anche nella serie cult “Il prigioniero”).

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Storica pubblicità della Sanyo a Piccadilly Circus, Londra

L’archeologia tecnologica trova spazio tra retrò e vintage, riscoperta e nostalgia ma, soprattutto, rappresenta l’occasione per rivedere giudizi e teorie senza l’influenza di antichi condizionamenti.
La nostra inchiesta ha evidenziato la validità di numerosi componenti Hi-Fi del colosso giapponese, progetti interessanti come quelli della “Series plus” e del cosiddetto “CCI”, la collaborazione con Grundig, l’innovazione e la ricerca nell’ambito dei riproduttori di audiocassette, giradischi e amplificatori. All’epoca il marchio non fu apprezzato come avrebbe meritato, oggi, fuori da ogni logica commerciale e grazie alla disponibilità dell’usato, si ha la possibilità di esprimere un giudizio più obiettivo. Qualche mese dopo che Sanyo fu incorporata in Panasonic, lo storico pannello pubblicitario di Piccadilly Circus a Londra, è stato spento e ceduto alla società automobilistica coreana Hyundai. Era l’unico a non essere animato.
Goodbye Sanyo!

Per leggere la prima parte dell’inchiesta clicca qui.
Per leggere la seconda parte dell’inchiesta clicca qui.

Si ringraziano: Massimo Ambrosini [vedi], Lucio Cadeddu, Direttore della rivista “Tnt-Audio” [vedi], Innokentiy Fateev [vedi].

IL CASO
Il bad boy della danza russa è virale

In pochi giorni ha totalizzato oltre 5 milioni di visualizzazioni. Lo merita. Perché è meraviglioso, coinvolgente, travolgente, forte, immenso, doloroso, intenso e sexy.
Parliamo della stella del balletto russo Sergei Vladimirovich Polunin, che interpreta magistralmente “Take me to the Church”, del cantautore irlandese Hozier, successo musicale nominato ai Grammy Awards. La coreografia è di Jade Hale-Christofi, l’americano David La Chapelle lo dirige, in una serie di piroette acrobatiche uniche e sauté che aleggiano in uno spazio vuoto illuminato, una stanza bianca che contrasta con l’energia nera del blues. Polunin, chiamato il ‘bad boy’ del balletto russo, forse perché ha numerosi tatuaggi sul corpo perfetto, ma anche perché ha sempre fatto un po’ di ‘bizze’ nei teatri in cui si è esibito, indossa un collant color carne e un mosaico di tatuaggi che esibisce come in un quadro (nelle performances abituali sono solitamente coperti dal trucco). Solo con questi colori tenui e la forza e l’energia pura dei suoi muscoli, tiene lo spettatore incollato allo schermo, in una sorta di possessione spirituale. I movimenti forti e decisi, resi quasi eterei e leggeri dalla luce che filtra dalle finestre, esprimono perfettamente l’intensità emotiva del brano. Bianco e nero si rincorrono, l’energia vola sui passi leggeri, eterei.
Sergei Polunin, venticinquenne di origini ucraine, ha iniziato a danzare a 4 anni e all’età di 12 anni si era già diplomato al Kiev State Choreographic Institute. Dopo un passato al British Royal Ballet (ove era approdato all’età di 13 anni con una borsa di studio delle Fondazione Rudolf Nureyev, ma dal quale si era allontanato per l’eccessiva disciplina che non sopportava più), Sergei è oggi il primo ballerino allo Stanislavsky Music Theatre di Mosca e al Novosibirsk State Academic Opera and Ballet Theatre. Ha ricevuto numerosi premi, incluso lo Youth America Grand Prix nel 2006, è stato nominato Young British Dancer dell’anno 2007 e in lizza per il riconoscimento di miglior ballerino del mondo, nel 2014. La performance che sta facendo il giro del web lascia davvero senza fiato. Forse perché porta con sé, nella danza i demoni di una vita giovane ma non semplice.

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