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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


Due bambini travolti dalla malvagità del mondo

In questa settimana dolorosa, durante la quale si sono ricordati persone e momenti legati all’Olocausto, che accompagnano altre tragedie e guerre nel mondo, non può non tornarmi alla mente questo splendido e toccante film di qualche anno fa, “Il bambino con il pigiama a righe”, tratto dall’omonimo romanzo di John Boyne. I bambini forse ci guardano con spavento, terrore, stupore e anche orrore, per quello che gli abbiamo fatto allora, per quello che continuiamo a far loro, ora. E da questo dovremo partire. Dal ‘Diario di Anne Frank’, fino a opere come ‘Jona che visse nella balena’, o al meraviglioso ‘La vita è bella’, solo il candore e l’innocenza dei bambini sono in grado di contrapporsi all’oscurità senza fine di un mondo adulto degenerato. Oggi più che mai.

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Il piccolo Bruno con la mamma

Questo film, allora, racconta la storia di Bruno (Asa Butterfield), un bambino di otto anni, vivace e curioso, amante degli aeroplani e dei romanzi di avventura, costretto ad abbandonare Berlino, la sua città natale, a causa di una promozione del padre, un soldato nazista (David Thewlis). La famiglia di Bruno si trasferisce in una nuova e grande casa in campagna, ma lui si annoia, gli mancano terribilmente i suoi vecchi amici, non ha i suoi giochi ma solo un’altalena fatta con un vecchio pneumatico.
Un giorno, dall’elegante e fiorito giardino scorge un’azienda agricola e ci vorrebbe andare, ma suo padre glielo proibisce poiché qui, in realtà c’è il campo di sterminio degli ebrei, uomini e donne innocenti, rei solo di appartenere a un’altra razza. Solo il padre è a conoscenza del campo di concentramento, che ha progettato insieme al comandante Kotler. Nemmeno la moglie Elsa (Vera Farmiga) lo immagina.

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Il bambino è curioso, vuole capire cosa c’è di là dal giardino

Bruno è vivace e curioso, come tutti i bambini, vuole scoprire perché nella fattoria, che si vede dalla sua stanza, la gente va vestita col pigiama. Già, una fattoria con contadini che indossano pigiami e dove i numeri di matricola con cui sono contrassegnati gli internati fanno solo parte di un gioco: è questa la spiegazione che si dà Bruno, guardando, da fuori, la realtà di un campo di concentramento. Mentre la madre scopre cosa succede dentro il campo, cosa brucia quando il cielo si copre di una nube di nero fumo e si rende conto dell’orrore che si perpetra quotidianamente a pochi passi da casa sua, Bruno stringe amicizia con Shmuel, un suo coetaneo, che vive nella “fattoria” e col quale inizia a giocare, nonostante il temibile filo spinato che li separa. Un filo che separa due mondi, dove la malvagità degli adulti freddi e razionali non si può nemmeno lontanamente immaginare, almeno non lì, giocando. Dove la spensieratezza dei bambini viene turbata sconvolta solo da urla senza senso, da sirene dal suono perforante e da richiami improvvisi concitati.

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La locandina del film

Eccoci allora, improvvisamente, di fronte a un vero e proprio mondo a parte, dove per Bruno il campo è un luogo interessante, da esplorare, soprattutto, dopo la visione di un filmato di propaganda, che lo presentava come un parco giochi. E sembrerà atroce, ma anche la curiosità più ingenua si può pagare a caro prezzo. E così avverrà. Dama e cartella giaceranno lì, sull’erba malconcia. La verità travolgerà la giovane e innocente vita dei protagonisti. Finale tremendo, le parole si perdono. Ancora una volta, per non dimenticare.

Il bambino con il pigiama a righe, di Mark Herman con Asa Butterfield, Zac Mattoon O’Brien, Domonkos Németh, Henry Kingsmill, Vera Farmiga, Cara Horgan, Zsuzsa Holl, Amber Beattie, László Áron, David Thewlis, Richard Johnson, e altri, USA 2008, 93 mn.

L’INTERVISTA
In castello i virtuosismi di Boldini e De Pisis. “Ma nel 2017 si torna a palazzo Massari”

Trasformare una criticità in un’opportunità, questo è l’obiettivo con cui si apre il ricco biennio espositivo 2015-2016 delle Gallerie d’arte moderna e contemporanea e di Ferrara arte, che il 31 gennaio inaugureranno “L’arte per l’arte”, il riallestimento delle collezioni di Giovanni Boldini e Filippo De Pisis nelle sale del Castello Estense, promosso da Comune e Provincia di Ferrara. La criticità è il sisma del 2012, che ha reso inagibile la sede delle Gallerie: Palazzo Massari, attualmente in fase di restauro. L’opportunità è riconsegnare al pubblico ferrarese, ma non solo, il meglio dei fondi ferraresi di Boldini e De Pisis, i più ricchi e completi in Italia, collocando le opere di questi due artisti di statura internazionale nel panorama dell’Ottocento e del Novecento negli ambienti del monumento simbolo della città. Il risultato sarà un dialogo tra le sale del piano nobile del Castello Estense e le opere di queste due personalità artistiche che rappresenterà un valore aggiunto per il patrimonio artistico di Ferrara.

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Il Castello Estense di Ferrara

Fino al 2017 con un unico biglietto – che passerà da 6 a 8 euro per l’intero e da 4 a 6 euro per il ridotto – si potranno visitare il percorso museale e i due percorsi monografici in esso inseriti. Nelle sale del Governo, della Devoluzione, dei Paesaggi e delle Geografie saranno collocate 58 opere di Boldini, di cui 27 oli e 31 opere su carta, dalla Firenze dei Macchiaioli all’approdo nella Parigi degli impressionisti, fino alle icone della ritrattistica come “La signora in rosa”. Per ospitare 37 dipinti di de Pisis verranno invece aperti i Camerini del Principe, solitamente non accessibili al pubblico: il percorso creativo del talento ferrarese sarà raccontato attraverso le opere entrate nelle collezione delle Gallerie grazie alla Fondazione Pianori e al lascito Malabotta.
Alla vigilia dell’inaugurazione, che si terrà venerdì 30 gennaio alle 18, abbiamo intervistato Maria Luisa Pacelli, direttrice delle Gallerie d’arte moderna e contemporanea e curatrice di questo nuovo allestimento insieme a Barbara Guidi e Chiara Vorrasi, entrambe conservatrici delle Gallerie.

Il Castello Estense ha una storia e quindi un’identità molto forte, così anche le collezioni di due personalità artistiche di caratura internazionale come Giovanni Boldini e Filippo De Pisis, quali sono state le scelte curatoriali per far entrare in dialogo queste opere d’arte?

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Maria Luisa Pacelli, direttrice delle Gallerie d’arte moderna e contemporanea

Prima di tutto abbiamo scelto di esporre le opere di Boldini nell’area monumentale del Castello, perché oltre a essere di grandi dimensioni, in un certo senso, sono più forti rispetto a quelle di De Pisis e quindi presuppongono una visione in sale spaziose che permettano una certa distanza, mentre i dipinti di De Pisis sono stati collocati negli ambienti più raccolti dei Camerini di Alfonso I, perché richiedono una dimensione più privata. Parallelamente, il nostro obiettivo è stato mantenere vivo il percorso museale del Castello: lo studio degli elementi di allestimento ha perciò dovuto dialogare con le strutture preesistenti studiate da Gae Aulenti. Si potranno così apprezzare nello stesso tempo le opere esposte e le sale stesse con le loro decorazioni e gli apparati didattici di entrambi i percorsi. In alcuni casi, dove per esempio gli ambienti non avevano sufficiente spazio libero da affreschi e decorazioni per poter esporre le opere, abbiamo costruito delle strutture per sorreggerle. La scelta del colore nero per queste ultime nasce sia dalla necessità di un colore che fosse il più neutro possibile rispetto a un contesto già molto connotato, sia da quella di segnare le soglie dell’esposizione, visto che il percorso sarà continuo e i visitatori non accederanno direttamente ai due percorsi monografici, ma li incontreranno all’interno del percorso museale.

Come avete scelto le opere?
Ci siamo date due obiettivi. Da una parte, quello di seguire il percorso artistico di questi due pittori dagli esordi agli ultimi anni della carriera, dato che l’ampiezza delle collezioni ce lo consentiva in entrambi i casi; per quanto riguarda Boldini poi, avendo a disposizione uno spazio più ampio abbiamo potuto inserire anche dei disegni: è quindi un’occasione per esporre anche questa collezione molto importante che Ferrara possiede. Dall’altra, quello di dialogare con gli ambienti in cui le opere sono state collocate: per esempio laddove avremmo voluto esporre un certo tipo di dipinto rappresentativo di un determinato momento della carriera dell’artista, che però non era adatto a quella specifica sala del Castello, perché né il quadro né l’ambiente risultavano valorizzati, abbiamo scelto un altro di quello stesso periodo.

Trattandosi di un’esposizione semi-permanente che durerà tre anni, avete previsto avvicendamenti delle opere esposte?
Sicuramente per ragioni di conservazione ci saranno degli avvicendamenti delle opere su carta, che non devono essere esposte in maniera continuativa per troppo tempo e necessitano di periodi di riposo al buio: ci saranno dunque rotazioni dei pastelli e dei disegni. Inoltre in questi tre anni studieremo delle piccole mostre dossier su un quadro o su una serie di disegni e quindi toglieremo alcune cose e ne mostreremo altre, magari anche ospitando opere da altri musei.

Questo riallestimento è un esempio importante di collaborazione non solo fra enti territoriali diversi, Comune e Provincia, ma anche fra pubblico e privato, mi riferisco alle Gallerie d’arte moderna e contemporanea e a Ferrara arte, ma anche ai Musei San Domenico di Forlì, che dal 1 febbraio ospiteranno la mostra “Boldini lo spettacolo della modernità”, sempre in sinergia con le istituzioni culturali ferraresi: un passo concreto in direzione di un discorso di rete in ambito culturale…
Io credo che il fare rete in ambito culturale sia uno dei punti di forza di questa città: è una cosa che si fa da anni, anche da prima che io fossi responsabile delle Gallerie. Le collaborazioni con la Fondazione Teatro Comunale Claudio Abbado ormai sono istituzionalizzate, ma ci sono anche altre collaborazioni con enti esterni all’amministrazione, per esempio l’Arci. Nel lavoro specifico che facciamo anche a Palazzo Diamanti, la creazione di una rete cittadina e con altri musei italiani o esteri è una modalità di lavoro che abbiamo sempre perseguito perché crediamo che sia vincente. La monografica di Boldini, in cui noi siamo prestatori molto importanti perché prestiamo 34 tra olii e opere su carta, è un’opportunità di crescita di visibilità a livello nazionale e internazionale che viene anche a nostro vantaggio come detentori di un patrimonio così importante. Per questo l’iniziativa di una scontistica reciproca, per cui chi si presenterà a Forlì con il biglietto del Castello e viceversa avrà una riduzione dell’ingresso.

Che tempi avete previsto per il restauro e la riapertura di Palazzo Massari?
A oggi è stata messa in sicurezza la facciata che aveva dei problemi di microcrolli. Speriamo di poter partire con il cantiere il prossimo anno e l’orizzonte che ci siamo dati è il 2017 per riaprire almeno una parte del museo, però in progetti e lavori così complessi le cose possono anche andare un po’ più per le lunghe. Personalmente mi sto battendo con ogni mezzo per riaprire entro il 2017 almeno una parte delle gallerie.

Un’ultima domanda: nell’intervista del 1925 di De Pisis a Boldini, quest’ultimo afferma che a dispetto delle tante lontananze ad accomunarli è “l’amore ardente per la forma e la bellezza”. Cosa hanno per lei in comune Giovanni Boldini e Filippo De Pisis?
Innanzitutto un virtuosismo e una facilità nel dipingere che a volte è stata rimproverata a entrambi. Tutti e due poi sono artisti che assorbono tutto quello che li circonda, soprattutto gli stimoli dei pittori a loro contemporanei: Boldini per esempio è stato molto ispirato dalla ricerca di Degas, che poi ha sviluppato in maniera personale e reso secondo la sua sensibilità, mentre De Pisis si trova a Parigi negli anni ’20 quando le varie avanguardie giungono a maturazione, quindi si possono rintracciare tantissime suggestioni da ciò che stava succedendo intorno a lui. Entrambi guardano però anche al museo: sappiamo dai diari e dalle lettere dei lunghi soggiorni di De Pisis al Louvre e del suo amore per Chardin, per la natura morta del ‘600 e per l’arte del ‘400 e ‘500, mentre Boldini era affascinato dalla pittura olandese o spagnola. Le loro sensibilità erano invece diverse: De Pisis era più fragile rispetto a Boldini, molto più istintivo e molto meno stratega, la sua era una personalità sì più vitale ma nello stesso tempo più ripiegata su stessa rispetto a quella di Boldini.

Paralisi degli amanti, dolore della suocera e tunnel carpale: quando le mani dolgono

La mano ha una mobilità in perenne e delicato equilibrio e ha un sistema complesso di legamenti e muscoli legati alle ossa, un uso intenso la affatica e crea le premesse perché smetta di funzionare correttamente.
La mano è un organo straordinario, tra i più complessi del corpo umano, composta da 27 ossa, 18 muscoli, 24 tendini, tre grossi vasi, tre tronchi nervosi oltre a un grande numero di piccoli vasi e terminazioni nervose.
Almeno qualche volta è successo di percepire una mano addormentata, è una sensazione molto sgradevole e si prova anche una difficoltà di movimento. Sono molteplici le cause di questo disturbo. Da una banale pressione dovuta ad una cattiva posizione durante il sonno a disfunzioni della cervicale. Generalmente sono cause periferiche legate alla compressione del nervo a livello del braccio o della mano in zone fortemente limitate da strutture ossee o legamentose. Sappiamo che la mano ci permette di attuare tutti i movimenti e di percepire il tatto e le altre sensazioni come il calore e il freddo attraverso tre nervi del plesso brachiale del tratto cervicale; inoltre ogni nervo si distribuisce in maniera diversa in ogni parte della mano e può essere oggetto a pressioni e compressioni.

Iniziamo dal nervo radiale, la manifestazione più frequente di una compressione di questo nervo è che a livello dell’avambraccio determina una insofferenza parziale o totale del sollevamento della mano, disturbo che viene definito “mano cadente”. I francesi l’hanno chiamato “paralisi degli amanti” come se fosse determinata dalla continua compressione dovuta alla permanenza della testa della donna sul braccio dell’uomo durante il sonno. Ma evidentemente capita anche a chi dorme solo, basta che abbia, per esempio, una cattiva abitudine di porre l’avambraccio sotto il cuscino e dormirci sopra. E’ sempre un disturbo temporaneo che si risolve scuotendo la mano.

Molto più frequentemente la causa è la compressione del nervo mediano al polso, la cosiddetta sindrome del tunnel carpale: si addormentano le prime tre dita della mano ed il fastidio con formicolio è veramente fastidioso, rende difficile anche il dormire. Dopo il fastidio giunge il dolore, veramente invalidante, con l’avvenuta impotenza funzionale, cioè la difficoltà ad eseguire piccoli movimenti anche di prensilità. Sono le donne ad essere maggiormente colpite di questo disturbo perché i fattori scatenanti sono legati al continuo lavoro della mano che favorisce aderenze e limitazioni con compressione del canale dove passa il nervo. Nella donna ci possono anche essere fattori come un assetto ormonale alterato o una tiroidite, comunque è importante non sottovalutare nulla.

Da ultimo il nervo ulnare, può essere compresso sia a livello del gomito che del polso. È una fastidiosa sensazione di scossa elettrica che dal gomito si propaga alla mano oltre a dare un deficit della forza e della sensibilità alle ultime due dita della mano. Ad una compressione, anche se di più lieve entità, dello stesso nervo è legata un fastidio che tutti conosciamo come “dolore della suocera”, esso si manifesta quando si sbatte il gomito ed è dovuto al fatto che il nervo scorre superficialmente a questo livello. Meno frequente, la compressione a livello del polso determina deficit neuro-motorio sempre alle ultime due dita nonché una mancata sensibilità a livello dello spazio tra dito e dito. Entrambi questi due ultimi casi sono dovuti alle cattive posizioni o a microtraumi continui, ad un uso smodato e del mouse e il relativo appoggio del gomito non corretto durante le ore prolungate al computer.

Consigli
Tra i semplici accorgimenti da poter subito mettere in pratica ci sono alcuni esercizi di stretching e, a livello generale, l’attenzione a migliorare la postura per diminuire lo stress muscolare e i conseguenti spasmi. Un esercizio di stretching molto efficace per prevenire e alleviare velocemente il dolore, in particolare del tunnel carpale è il seguente:
1. braccia in avanti, palmi rivolti come se si spingesse il muro (polso spinge all’indietro);
2. braccia in avanti rilassate;
3. pugno chiuso, forte
4. sempre con il pugno chiuso, ruotare il polso all’ingiù;
5. rilassare e scuotere le braccia per concludere l’esercizio.
Ogni posizione va mantenuta per 5 secondi circa.

L’osteopatia al servizio della vostra salute!

LA SEGNALAZIONE
Cambio tutto.
A partire da me

E se pensassimo di essere liberi dal sistema e provassimo a cambiare il mondo partendo da noi stessi? Questo è ciò che ci propone Enrico Caldari nel suo libro di esordio letterario dal titolo “Liberi dal Sistema” (Q Institute, 2014) in cui ci offre strumenti pratici per comprendere e attuare il cambiamento, senza più aspettare che siano “altri” a farlo. Molti di noi pensano che questa società abbia serie difficoltà a funzionare come vorremmo e i suoi meccanismi (a partire dal denaro e dalla finanza) potrebbero essere le stesse leve per cambiarla. Si inizia da una riflessione semplice e nello stesso tempo profonda sul valore del denaro, soprattutto se lo si lega alla sostenibilità ambientale. Così l’autore procede analizzando i cinque ambiti su cui costruire la nostra indipendenza: il sapere (indipendenza culturale), la salute (“auto-star-bene”), l’alimentazione (indipendenza alimentare), l’energia (indipendenza energetica), e infine il denaro (indipendenza finanziaria). Una lettura gradevole e interessante, senza tecnicismi, ma anche senza banalità. In fondo pensare a cos’è il denaro e ad usarlo per cambiare il mondo è impegno di molti, anzi di troppi. Un punto di vista ecosostenibile è una interessante premessa.
Così Enrico Caldari scrive nella sua introduzione: “Nel mondo, purtroppo, ci sono persone che si stanno facendo la guerra, proprio ora, semplicemente perché si stanno ponendo le domande sbagliate. Perché tutti loro sono esseri umani, abitano il pianeta Terra, vorrebbero essere felici, vorrebbero che i propri cari fossero felici e vorrebbero lasciare un mondo migliore ai propri figli e nipoti. Ma, facendosi le domande sbagliate, sono stati indotti a farsi la guerra tra loro, pensando di avere interessi diversi. Questo libro nasce dalla necessità di farci le domande giuste. E di darci le risposte efficaci per cambiare il mondo in cui viviamo, partendo da noi stessi, per trasformare la Terra nel Paradiso che ogni bambino si merita.”

Il libro è disponibile su www.liberidalsistema.com in versione cartacea o eBook, e su ordinazione in libreria, anche online. Durante la lettura ognuno è invitato alla compilazione di un vero e proprio “test” in grado di misurare il proprio grado di dipendenza dal Sistema in ogni ambito, compilabile gratuitamente online [vedi].

Enrico Caldari, ideatore del percorso “Q Life – Liberi dal Sistema”, è ricercatore, formatore e imprenditore. Esperto di comunicazione e sostenibilità, laureato in Scienze statistiche e dottorato in Sociologia e ricerca sociale, è stato giornalista, manager e consulente. Come divulgatore ha tenuto numerose conferenze in Italia e all’estero sul rapporto tra sistemi monetari e sostenibilità ambientale. Come consulente e imprenditore ha ideato e lanciato attività innovative basate su modelli sostenibili, tra cui il primo franchising europeo per il noleggio di articoli per bimbi (Mammamamma).
Ha dedicato anni a ricercare e sperimentare strumenti pratici per il Cambiamento e nel 2013 ha co-fondato Q Institute, il primo istituto al mondo nato per diffondere conoscenze e tecniche per rendersi indipendenti e felici [vedi]

LA STORIA
Gibonni, il rocker venuto dai balcani

Gibonni è un cantautore nato a Spalato in Croazia, popolarissimo nel suo paese e nelle repubbliche della ex-Jugoslavia, autore di canzoni cult per sé e per artisti come Oliver Dragojević, per il quale ha scritto “Cesarica” (Imperatrice), un classico della musica croata. Le sue canzoni uniscono rock, pop moderno e tradizione dalmata, con attenzione ai testi, una formula che nei primi ’90, particolarmente turbolenti nei Balcani, gli permise di avere un seguito enorme, soprattutto tra i giovani.

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La copertina del primo album in inglese

Essere cantanti benvoluti, nelle repubbliche della ex-Jugoslavia, non è mai stata una cosa semplice, per il rischio di essere strumentalizzati. Gibonni si è fatto apprezzare per la sua autonomia, come nel caso del concerto celebrativo della ricostruzione del ponte di Mostar a cui non aderì. Fu lui stesso, successivamente, a organizzare una manifestazione dove poté eseguire in assoluta libertà “Oprosti” (Perdonami), il brano dedicato al ponte: “… diciamoci l’un l’altro, mi dispiace… potrebbe essere più facile morire che dire mi dispiace”.
Nel 1985 Gibonni fonda il gruppo Osmi Putnik, una band heavy metal, con cui pubblica tre album, “Ulicna Molitva” (Preghiera di strada) il disco che li ha lanciati sulla scena Jugoslava, “Glasno, glasnije” (Forte, forte) e “Nije isto bubanj i harmonika” (Non sono la stessa cosa la batteria e l’armonica). Il primo album da solita, intitolato “Sa mnom ili bez mene (Con me o senza me), risale al 1991.

Nel 2001, realizza uno dei suoi migliori lavori, si tratta di “Mirakul” (Miracolo) vincitore di numerosi premi e ben accolto da critica e pubblico. L’album introduce Gibonni nel mondo internazionale della musica pop, grazie alle collaborazioni con Manu Katche, Geoffrey Oryema, Maya Azucena, Tony Levin e Gaetano Curreri degli Stadio. Con quest’ultimo incide il brano “Ne odustajem” (Non rinuncio a lei), il cui testo, metà in croato e metà in italiano, è stato scritto dallo stesso Gibonni insieme al centese Saverio Grandi e a Vedran Križan.
Nel 2003, Zlatan Stipišic (vero nome di Gibonni), fu nominato ambasciatore dell’Unicef per la Croazia, a testimonianza del suo impegno a favore delle organizzazioni che lottano contro la fame e la povertà. Il nome Gibonni, ha spiegato lui stesso, lo ha scelto perché il gibbone è stata la prima scimmia a scendere dagli alberi e anche per la sua “orribile” faccia. Questo aneddoto ne rivela l’innata ironia.
Negli anni la popolarità di Gibonni è cresciuta in maniera esponenziale, come dimostra il tutto esaurito dei suoi concerti in stadi e arene (tra cui quella di Pola) e i primi posti nelle classifiche di vendita. Nella sua carriera ha pubblicato numerosi album di successo: “Judi, zviri i beštimje” (Persone, bestie e maledizioni), “Unca fibre” (Grammo di fibra) e “Toleranca” (Tolleranza), quest’ultimo è un chiaro messaggio per i popoli della ex-Jugoslavia, ancora coinvolti in forti tensioni.

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Il disco di “cioccolato” può essere ascoltato al massimo 5 volte, poi non resta che mangiarlo

Gibonni ha composto anche colonne sonore per teatro e cinema, come quella per Amleto, prodotto dal Croatian National Theatre, inoltre, ha collaborato con i film maker Zdenko Basić e Manuel Šumberac . Nel 2001 ha scritto il commento sonoro di “The last will”, con Goran Visnjic, attore croato noto per avere interpretato la parte del dottor Luka Kovač nella serie televisiva E.R. Nel 2010 è stato nominato artista dell’anno agli MTV awards 2010 (Best Adria Act).
Nel 2013, l’artista croato, approfittando dell’ingresso del suo paese nell’Unione europea, si lascia alle spalle ogni confine ideologico, culturale e musicale pubblicando “20th Century Man”, il suo primo album in inglese, realizzato con la collaborazione di Andy Wright, produttore dei Simple Red, Simple Minds e altri importanti artisti. Sfondare nel mercato europeo non è impresa facile, neppure per Gibonni, al cui produttore però non manca la fantasia, infatti, ha realizzato una versione a 33 giri della traccia che dà il titolo al disco stampata su cioccolato, realmente suonabile su un normale giradischi e del tutto commestibile.

Il Cd “Minoranza rumorosa” di Danilo Sacco contiene “She said”, cover di “Non credere”, cantata dall’ex-front man dei Nomadi insieme a Gibonni. Il brano, già presente nell’ultimo album di Gibo, è stato uno dei maggiori successi dell’estate scorsa in Slovenia e Croazia, prima di essere proposto in Italia.

Video “20th Century Man” [vedi]
Video “She said” [vedi]

IL FATTO
Premio del pubblico al ferrarese Diego Trentini per ‘Il mio esordio. Poesia 2015’

L’avevamo votato, avevamo fatto il tifo per lui e ce l’ha fatta [vedi]. Diego Trentini, aspirante scrittore
ferrarese, ha vinto con “0532 prefisso del blues” il premio del pubblico nel concorso del gruppo L’Espresso “Il mio esordio – Poesia 2015”, ottenendo 1.150 voti [vedi] . Superata la prima selezione che dai 700 partecipanti era arrivata ad individuare le migliori 50 opere, Trentini ha superato anche la scrematura della giuria ed è arrivato in finale. “Non me lo ricordavo neanche più”, racconta Trentini intervistato al telefono, “Mi ero iscritto in estate e mai avrei immaginato di essere selezionato tra i finalisti. La vigilia di Natale mi è arrivata una mail che diceva che non solo il mio libro aveva superato la scrematura ma che era anche tra i primi 10.”
Diego comincia a scribacchiare da adolescente, come fanno in tanti, riempiendo quadernini. Poi la produzione cresce e diventa un hobby, da hobby un impegno più serio, tanto che nel 2012 comincia ad auto-pubblicarsi su “ilmiolibro”, sito di self-publishing del gruppo L’Espresso. “Avevo iniziato ad auto-stamparmeli per me, per regalarli ai parenti e agli amici a Natale. Ne ho pubblicati sei in tutto e devo dire che hanno riscosso un discreto successo, non solo tra i parenti ma anche tra i colleghi di scuola, insegnanti di lingua e letteratura hanno dato pareri positivi. Visti i buoni riconoscimenti avevo già proposto i miei libri a qualche editore che però mi aveva chiesto un contributo – una pratica ormai affermata che ritengo scorretta e svilente. Quindi quando ho visto sul sito che c’era un concorso di poesia, non ci ho pensato due volte e mi sono iscritto.”
Ora Diego si gode la vittoria e il premio che consiste nella stampa di alcune copie del libro e soprattutto in due settimane di pubblicità sui siti del gruppo L’Espresso, sperando che una maggiore visibilità possa solleticare l’attenzione di qualche editore ‘serio’: “la pubblicazione sarebbe il coronamento di una passione e la possibilità di aprirsi strade complementari all’insegnamento” conclude lo scrittore.

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La copertina del libro

“Il mio esordio – Poesia 2015” è organizzato e promosso dal Festival Internazionale di Poesia di Genova, in collaborazione con Feltrinelli e Scuola Holden [vedi]

Diego Trentini, nato a Ferrara il 10 Maggio 1975, ha vissuto in città fino ai trentatré anni e ora abita a Bondeno. Insegna Storia, Filosofia e Sostegno, come precario. E’ laureato in Filosofia, specializzato in Storia della filosofia, abilitato SSIS. Si autopubblica sul sito “Il mio libro” [vedi], tra i suoi titoli: “Goal! (ovvero quando un numero uno faceva il giocatore)”, “L’inferno. È gli altri”, “Presente imperfetto”, “Achtung! Pericolo crolli“, “Lapsus digitali”.

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Pasolini e l’incompleta “riscrittura” della Divina commedia

BERLINO – Pochi mesi prima della sua tragica morte, probabilmente orchestrata con fine cinismo e accuratezza da coloro che non aveva mai esitato a denunciare come i veri corruttori dell’Italia, Pasolini si era dedicato non solo alla stesura di un imponente romanzo di politica (l’incompiuto ed eccessivo “Petrolio”) ma anche ad una non meno ambiziosa “riscrittura” della “Divina Commedia,” nientemeno: si tratta dall’incompiuta “La Divina Mimesis.” Non si trattava davvero di una “riscrittura” vera e propria bensì una via di mezzo tra una parafrasi e una traduzione, per con quest’ultima intendiamo propriamente l’aggiornamento di un testo allo stile, alle esigenze e ai costumi contemporanei.

L’opera cominciò già da metà degli anni Sessanta, in un’epoca di risveglio economico che oggi ci appare come un miraggio se non almeno come un periodo ormai molto antico (ma del resto cinquant’anni ci separano da quegli anni rampanti, gli stessi che separavano Pasolini dalla fine incipiente del periodo giolittiano e la tragica avventura del fascismo). Col tempo tuttavia Pasolini realizzò l’impossibilità dell’impresa. Si trattava di una difficoltà che non era semplicemente estetica, ovvero l’ovvia difficoltà di misurarsi con il Sommo Poeta, bensì eminentemente poetica: era possibile scrivere un poema sull’Italia dovendo servirsi di una lingua, quella italiana, che stava progressivamente perdendo i suoi toni e le sue sfumature, sotto la pressione livellante della televisione?

È a partire da questi interrogativi quanto mai attuali per la nostra Italia brutalizzata dalla corruzione non meno di quanto sia brutalizzata dalla televisione che si è tenuto un seminario ristretto presso il berlinese Institute for Cultural Inquiry Berlin assieme a diversi studiosi d’eccezione: Manuele Gragnolati, docente di Letteratura italiana ad Oxford, Christopher Holzhey, direttore dell’Ici Berlin, Irene Fantappiè, giovane ricercatrice di Italianistica alla università Humboldt di Berlino, lo studioso di religione Martin Treml, associato a Zentrum für Literaturforschung di Berlino nonché Arnd Wiedmayer, ricercatore presso l’Ici Berlin. Al seminario ristretto hanno partecipato anche altri collaboratori quali Claudia Pellel (Ici), Hans Peter Kammerer, Storch Ruschkowski, Barbara Stanek, Giorgio Passerone (Paris, Lile 3), Antonio Castore (Ici), Filippo Trentin (Ici) e il sottoscritto.

La possibilità di ritradurre in prosa la somma opera poetica di Dante riposa nella capacità di cogliere, da parte di Pasolini, in modo in effetti incoerente e contraddittorio, il cosiddetto “plurilinguismo” in Dante: questo consiste nel riconoscimento della necessità poetica di scrivere in volgare quello che sarà poi celebrato come il monumento poetico del Medioevo e già come la prefigurazione della modernità incipiente.

Da un lato, quindi, la rottura contro la rigidità teologica dell’uso del latino e il ricorso esclusivo al volgare come riproposizione dell’evangelico sermo humilis, scritto per gli umili con le parole degli umili, seppure venato e percorso però dalle sofisticate dispute teologiche della Scolastica così come dalla passione politica civile e dalla Realpolitik.
Dall’altro lato, seguendo le famosi tesi di Erich Auerbach, la conclusione e il superamento insieme del concetto medievale di “uomo,”proprio attraverso questo concetto di plurilinguismo: proprio quanto tante lingue abitano l’uomo (e il suo poema), così la sua identità è molteplice e nient’affatto riducibile a quella presunta monolitica unità teologica dell'”homo sacer,” l’uomo sacro e consacrato a Dio.

Rispetto a quest’ambivalenza del progetto poetico dantesco, ovvero la possibilità di interpretarlo esattamente a metà strada tra Medioevo e Età Moderna, Pasolini aveva scelto una non meno contraddittoria posizione: quella di rivendicare, come già accennato, il plurilinguismo di Dante e, contraddittoriamente, di rivendicarne il monolinguismo, tanto da appaiarlo a Petrarca. È questo ambiguo e contraddittorio riconoscimento della lingua poetica di Dante compiuto nel celebre e contorto saggio “La volontà di Dante a essere poeta,” che avrebbe portato alle medesime ambiguità formali del suo tentativo di riscrivere la “Divina Commedia,” mettendola in prosa e arrangiandola alle vicende dell’epoca contemporanea. Non si trattava cioè di narrare in versi la Penisola, come avrebbe tentato per trent’anni il bolognese Roberto Roversi nel suo enciclopedico e ipertrofico (446 pagine!) poema “L’Italia sepolta sotto la neve.” Al contrario, se seguiamo il suggerimento di Manuele Gragnolati di leggere “La Divina Mimesis” retrospettivamente come il “fallimento riuscito” di scrivere un romanzo sulla base del vero romanzo incompiuto “Petrolio,” ecco che la “parafrasi” dantesca in frammenti, appunti, foto avrebbe dovuto portare, alla fine, non ad un affresco sull’italianità contemporanea, bensì ad un pastiche cristallizzato in strati e strati di scrittura, in forma di diario, secondo appunti ordinati cronologicamente, con tutti gli errori e le correzioni inerenti alla scrittura d’autore. Si sarebbe trattato di “decostruire” l’idea stessa di romanzo, mantenendolo volutamente nella forma d’incompiutezza di un diario ordinato cronologicamente.

A margine di questo gioco letterario sofisticato non si può non notare, con un certo rammarico, come questo “progetto frammentario” di un romanzo (un ossimoro che avrebbe spinto il noto e teutonico filosofo Jürgen Habermas a ritenere che nulla sia più “progettuale” del “frammento,” quindi nulla “moderno” del “postmodeno”) si sia realizzato non tanto per la ferrea volontà poetica di Pasolini bensì per la sua tragica morte, ancora oscurata dal mistero. È con una certa ironia che si può concludere come questa sua morte ingloriosa e truce abbia fatto davvero della sua vita un’opera d’arte: frammentaria e fallimentare, certo troppo diversamente da come avrebbe desiderato Nietzsche, all’apogeo del Romanticismo tedesco.

LA STORIA
“Giriamo il mondo gratis. E ora vogliamo produrre i nostri video”

Girano il mondo gratis e realizzano video in ogni luogo che visitano. Non il vecchio e trito filmino delle vacanze, ma accattivanti e freschi reportage. Intervistano, mostrano, spiegano. Raccontano e si raccontano. Il loro sogno è fare di un hobby il loro lavoro. Film-maker di fatto lo sono già. Ma cercano un riconoscimento professionale. E un’opportunità.

Loro sono Anna Luciani e Simone Chiesa. “Esploriamo il mondo utilizzando il Couchsurfing, un social network – spiegano – che mette in relazione viaggiatori e persone che offrono gratuitamente ospitalità a casa propria con l’obiettivo condiviso di realizzare un vero e proprio scambio culturale”.
Avviato come progetto no-profit, CouchSurfing ha la sua base operativa a San Francisco. Il sito è gratuito per gli utenti che sono incoraggiati a fornire informazioni e foto dei luoghi visitati e trae guadagno dagli investitori.
“Couchsurfing.org è appunto un particolare social network nato nel 2004 per permettere ai viaggiatori di tutto il mondo di incontrare persone disposte ad ospitarli gratis. Questa pratica da luogo a un vero e proprio scambio culturale che arricchisce tutti: chi viaggia scopre il luogo visitato da un punto di vista meno turistico e più autentico, mentre chi ospita ha la possibilità di conoscere persone e culture diverse senza doversi muovere da casa propria”.
Ad oggi il Couchsurfing è praticato in più di 120mila città in tutto il mondo e conta circa 9 milioni di iscritti.
“Le affinità tra i “couch” – così ci si chiama abbreviandosi tra couchsurfers – vengono garantite attraverso gli strumenti del portale. Ogni utente ha un proprio profilo in cui compaiono informazioni generali e personali (interessi, sport e hobby, passioni, aspetti del carattere eccetera), foto e soprattutto recensioni ricevute dagli altri utenti (compagni di viaggio o ospiti). I feedback sul profilo costituiscono una ‘carta di identità’ fondamentale per selezionare a chi mandare le richieste di ospitalità o scegliere chi ospitare, creando una fiducia reciproca reale a partire dall’analisi delle esperienze già vissute con gli altri membri della comunità.

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Anna Luciani
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Simone Chiesa

“Viaggiando – dicono – abbiamo messo a frutto la nostra passione e le nostre competenze (l’esperto è Simone, ndr) nel campo della produzione video. Abbiamo realizzato un gran numero di episodi, raccolti in 15 puntate da 52 minuti ciascuna oppure in tante pillole più brevi. Quella che consideriamo ‘prima stagione’ è stata girata in Brasile, Uruguay e Argentina nel 2014. ‘Couchsurfers’ è il titolo che abbiamo scelto per il nostro programma, che propone uno stile di viaggio alternativo, giovane, divertente e dinamico che racconta luoghi, persone, curiosità e aspetti singolari delle più interessanti località nel mondo, servendosi della guida privilegiata e della visione interna dei locals”.

Vi siete ispirati ad altri programmi già in onda?
Girano molte cose. “Racconti dalle megalopoli” trasmesso da LaEffe e “Posso venire a dormire da voi” di Rai 5 sono i nostri riferimenti.

Cosa volete mostrare attraverso le vostre immagini?
L’obiettivo del programma è quello di raccontare i luoghi visitati, le persone e i vari aspetti delle diverse culture viaggiando in stile ‘Globetrotter’ a basso costo, zaino in spalla, in un’atmosfera autentica e genuina, valorizzando sia gli incontri e gli eventi casuali sia quelli programmati con persone o situazioni di particolare interesse, filmando spesso in soggettiva e in modo discreto, creando dinamiche informali e divertenti ma allo stesso tempo interessanti e informative.

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Simone Chiesa e Anna Luciani, ideatori di Couchsurfers programma tv di viaggio

Come siete organizzati nel vostro lavoro?
La troupe non è costituita dal classico binomio presentatore-operatore, bensì da due film-makers che sono al tempo stesso i protagonisti dell’avventura, permettendo in questo modo di creare dinamiche sociali intime e spontanee e facilitando l’immedesimazione dello spettatore che si sente coinvolto e partecipe.

Il prodotto finale che caratteristiche assume?
I video vengono presentati come diari di viaggio che i due protagonisti mostrano agli amici durante un aperitivo in casa commentando l’avventura, scherzando, ironizzando, riflettendo sulle esperienze vissute. Questa tecnica è simile a quella utilizzata in “Gazebo”, il celebre programma di Rai 3.
Lo stile è fresco, giovane, con una buona dose di umorismo ma usato in modo intelligente, non superficiale e non banale. Si cerca di fare vivere allo spettatore le stesse cose che accadono realmente facendo couchsurfing e viaggiando zaino in spalla per il mondo, senza filtri, senza censure e senza artifizi.

Avete già pronta una prima serie di puntate, giusto?
Sì, sono 15, ambientate in Sudamerica e sono state registrate tra febbraio e luglio 2014. E’ stato scelto il Brasile particolarmente vivace per la concomitanza dei mondiali di calcio 2014 e prossimo teatro di un altro evento di dimensione mondiale: le Olimpiadi 2016.

E come intendente in seguito sviluppare il format?
L’idea è quella di realizzare un progetto cross-media che si integri con il portale già esistente couchsurfing.org, invitando gli utenti di tutto il mondo a proporre e proporsi per partecipare al programma. Si possono anche creare tre o quattro troupe di viaggiatori diversi, in modo tale da coprire contemporaneamente luoghi anche molto distanti tra loro e creare un programma più lungo e più vario.

Insomma non resta che augurar loro di rivederli presto in tv…


Simone Chiesa
, originario del Lago di Garda, è un filmmaker di 33 anni che ha realizzato in 8 anni di attività circa 200 prodotti audiovisivi, tra cui 6 documentari d’autore andati in onda in prima serata su DeejayTV e numerosissimi episodi di “Icarus – La ricerca del limite” in onda tutti i giorni su Sky Sport. Ha viaggiato in più di 24 Paesi nel mondo e vissuto in alcuni di questi anche per periodi prolungati. Parla fluentemente 6 lingue.

Anna Luciani, sua compagna in viaggio e nella vita, nata a Comacchio, è un noto architetto urbanista con l’hobby della fotografia. La sua passione sono sempre stati i viaggi e parla fluentemente inglese, spagnolo, francese e portoghese.

L’INTERVISTA
Roberto Scozzi, l’Anonimo italiano: “Ogni disco è un nuovo mondo”

Roberto Scozzi, alias Anonimo Italiano, ha esordito sulla scena musicale nel 1995 con “E così addio”, un brano diventato subito un successo, così come l’album intitolato semplicemente con il suo nome d’arte. Il personaggio suscitò un grande interesse perché si esibiva in forma anonima, grazie a una mascherina sul viso, inoltre, la sua voce ricordava, seppure con sfumature diverse, quella di un noto cantante. Quel primo album vendette 120.000 copie, ottenendo il disco di platino, poi l’artista romano pubblicò “Buona fortuna”. In coincidenza con questo evento decise di uscire dall’anonimato e si propose come Anonimo italiano/Roberto Scozzi. Negli anni successivi ha realizzato altri tre album: “Dimmi che ami il mondo” (2002), “L’infinito dentro noi” (2006) e “Five” (2013) uscito dopo sette anni di silenzio discografico e impreziosito dal duetto con Amedeo Minghi nel brano “L’aquilone”.

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La copertina del nuovo album ‘Diario di un amore’

In questi giorni è uscito “Diario di un amore” un best album, prodotto da Maurizio Verbeni per l’etichetta Primamusica Italiana che contiene il meglio della produzione musicale dell’artista, con otto versioni originali rimasterizzate più due inediti: “Diario di un amore”, scritta con Andrea Amati e “E mi manchi sempre tu“ di Pietro Cremonesi e Federico Cavalli, gli storici autori di Laura Pausini. I nuovi brani si avvalgono della collaborazione di validi musicisti come Cristiano Micalizzi, Nicola di Già, Fabio “Biko” Vaccaro ed Enzo Rossi.

Come nasce “Diario di un amore”?
Volendo realizzare questa raccolta ho pensato che potesse essere come un diario, una serie di appunti e frammenti di storie d’amore. Un pomeriggio, mentre facevo tutt’altro, ho avuto l’idea del titolo del nuovo brano: “Diario di un amore”. Ho chiamato subito Andrea Amati e insieme abbiamo scritto la canzone. Il video clip è stato realizzato da Alfonso Alfieri per la “ViewPro”, in una location molto particolare: un vecchio albergo, ora abbandonato, costruito all’inizio del ‘900.

Un musicista (per fortuna) non vive di sola televisione, tu cosa hai fatto negli anni in cui sei stato un po’ lontano dai riflettori?
Sono stato lontano dai “riflettori” televisivi ma non sono mai stato dimenticato dal mio pubblico e dalle tante persone che mi amano. Continuo il lavoro dei live, dei concerti, degli showcase, cercando di fare sempre solo cose belle, di non svendermi. E’ questo il lato più difficile ma anche il più serio del mio lavoro. Cerco soprattutto di non andare in giro per due soldi; solitamente evito feste, party e quant’altro perché non canto gratis. Questo significa rispettare il proprio mestiere e ciò in cui si crede.

Come mai un silenzio così lungo tra “L’infinito dentro noi” del 2006 e “Five” del 2013?
Semplicemente perché ho sempre pensato che un’artista debba pubblicare un nuovo lavoro soltanto quando ha qualcosa da comunicare, un po’ come si faceva una volta. I dischi belli non si realizzano in sei mesi oppure per contratto, si scrivono e si pubblicano quando si è maturato in se stessi un “nuovo mondo” che si vuole raccontare. Ritengo che sia bella anche l’attesa, il lasciar passare del tempo fra un discorso musicale e un altro, senza l’urgenza di apparire. Questo ti fa apprezzare di più anche dal tuo pubblico, ti consente di assaporare meglio le cose che fai per loro e per il tuo lavoro.

Cosa rappresenta per te oggi la famosa maschera che indossavi agli inizi della tua carriera?
La maschera è un “ricordo romantico” di quel periodo. La indossai anche perché ero troppo timido, in fondo ero una specie di “fantasma del palcoscenico” del pop, un sogno, un’emozione senza corpo o identità. La mia bauta (maschera del carnevale di Venezia) d’argento ora è custodita nella bacheca, insieme ai miei dischi e ai ricordi più belli di quel periodo.

Nell’attuale situazione del mercato discografico pubblicare un nuovo album rappresenta una vera e propria sfida, ritieni che la qualità possa fare la differenza?

Da “Five”, album di inediti (Foto di FotoControluce)
Da “Five”, album di inediti (Foto di FotoControluce)

Ho sempre pensato che il mercato discografico attuale fosse ormai un po’ saturo di prodotti, diciamolo, anche ‘inutili’. Non voglio certo mettere il mio album al primo posto ma il proliferare di cover denota, secondo me, un momento di mancanza di fantasia. Bisognerebbe tornare a pensare alla canzone non come a un semplice prodotto usa e getta ma a una cosa preziosa che racconta l’artista in un momento particolare della sua vita. Per questo motivo si dovrebbe realizzare un nuovo disco, evitando, inoltre, di utilizzare la lingua italiana in modo banale, sciatto e senza poesia. Per far questo, una volta, esistevano autori quali Mogol, Giancarlo Bigazzi, Paolo Morelli e altri, che scrivevano stupendi testi e non parole brutte scopiazzate dai telegiornali o da slogan messi a caso.

Progetti per il 2015?
Quest’anno sarò di nuovo in giro per concerti con “Diario di un amore Tour”, faremo qualcosa anche all’estero, molto probabilmente negli Stati Uniti. In ballo c’è un duetto importante ma questa, per ora, è una sorpresa…

“Diario di un amore”, video ufficiale [vedi]

Gli imballaggi, 800 miliardi di fatturato e molti sprechi da eliminare

La crescita dei consumi, lo sviluppo economico e sociale, il modificarsi della composizione dei nuclei famigliari, sempre più frequentemente costituiti da uno o due componenti, il frazionamento dei pasti e la diffusione del commercio moderno sono tutti fattori che comportano una crescita degli imballaggi circolanti.
Si stima che l’industria dell’imballaggio a livello mondiale genera un fatturato di circa 800 miliardi di dollari e soprattutto che l’Italia si collochi tra i primi dieci produttori mondiali di packaging. Si tratta dunque di un settore produttivo certamente importante dal punto di vista economico, ma sotto il profilo ambientale desta molte preoccupazioni.

Queste generali premesse servono a sottolineare come prioritariamente siano fondamentali questi principi:
 incrementare i livelli di raccolta differenziata;
 analizzare i costi di gestione dei rifiuti di imballaggi;
 mappare i flussi di rifiuti di imballaggi e ottimizzare le modalità di raccolta al fine di promuovere la riduzione degli scarti;
 sostenere e promuovere iniziative al fine di favorire: la prevenzione nella produzione dei rifiuti e il mercato dei materiali e dei prodotti recuperati dai rifiuti;
 attivare campagne di comunicazione e sensibilizzazione dei cittadini sui risultati di raccolta e recupero/riciclaggio degli imballaggi e dei rifiuti di imballaggio.

Le normative indicano strategie finalizzate non solo al recupero e al riciclaggio, ma anche alla prevenzione intesa sia in termini di riduzione della quantità immessa al consumo, sia di miglioramento della compatibilità ambientale degli imballaggi e per questo gli enti delegati alla programmazione sono invitati ad inserire, nei loro piani per la gestione dei rifiuti, un apposito capitolo dedicato agli imballaggi e le pubbliche amministrazioni a promuovere una serie di strumenti quali analisi dei cicli di vita dei prodotti, ecobilanci, campagne informative ed ogni altra iniziativa utile alla promozione della prevenzione/riduzione della produzione di imballaggi.

Una domanda infatti sorge spontanea: siamo consapevoli di quanti imballaggi ci portiamo a casa quando facciamo la spesa? Cosa si può fare per ridurne il quantitativo?
Ogni singolo cittadino ha un ruolo chiave fondamentale perché senza la sua collaborazione non si spezza la perversa produzione dei consumi inutili. Certo però serve un impegno generale a partire da chi progetta gli imballaggi (spesso per vendere e non per rispettare l’ambiente), a chi produce, a chi distribuisce, a chi vende.

La prevenzione negli imballaggi è tema molto importante a cui non si può solo dare delega al Conai, referente per legge del tema. In proposto è stata presentata di recente la quarta edizione dell’Accordo di Programma Quadro Anci-Conai per il quinquennio 2014-2019. L’Accordo sancisce l’impegno congiunto di Anci e del Conai per dare certezze e continuità allo sviluppo della raccolta differenziata e del riciclo dei rifiuti di imballaggio in Italia. Il nuovo accordo conferma i principi base che caratterizzano gli accordi Anci-Conai, rispetto ai precedenti rimane inalterata anche l’impostazione strutturale. Tra le novità si citano l’aumento dei corrispettivi economici riconosciuti ai Comuni per il conferimento della raccolta differenziata dei rifiuti di imballaggio; nel nuovo accordo è stato, infatti, pattuito un incremento complessivo dei corrispettivi economici unitari pari al 17%, aumento che ha riguardato tutti i materiali, con particolare rilievo per la filiera vetro, dove i contributi sono aumentati del 20%.
Si ritiene di particolare importanza l’analisi della filiera di carta, legno e vetro, in quanto rappresentano un punto di forza e un’opportunità per raggiungere gli obiettivi di raccolta differenziata previsti dalla normativa vigente: tutto ciò è necessario per capire l’andamento del mercato nei prossimi anni in modo da rispondere prontamente alle possibili criticità che potranno emergere per effetto della crisi economica. Gli elementi importanti da tenere in alta considerazione sono la tracciabilità e i flussi dei materiali.

LA META
Indonesia, terra di contrasti e di sorrisi

Quando sono andata in Indonesia per la prima volta, non avevo idea che mi sarei innamorata così follemente di questa terra. Nonostante io avessi solo 7 anni avevo la fortuna di essere già entrata in contatto con tanti popoli, culture e tradizioni diverse. Ma qualcosa di questo Paese mi ha colpito fin dal primo istante, al punto che una parte di me non è mai più tornata in Italia. Nel nostro Paese se sorridi a qualcuno per strada, magari solamente perché per te è una bella giornata, la gente ti guarda in modo strano o si gira dall’altra parte. In Indonesia invece le persone ti sorridono e ti salutano senza un perché, i bambini ti rincorrono e la gente ti invita nei propri villaggi per offrirti latte di cocco e tapioca. E’ un popolo con tante lacune e tanti difetti, ma a cui non manca mai il sorriso sulle labbra. Anche chi vive di quel poco che coltiva, è sempre disposto ad offrire ciò che ha.
E’ il Paese-arcipelago più grande del mondo, in cui vivono oltre 300 etnie diverse, con culture, religioni e lingue differenti. E’ un luogo così variegato che andrebbe esplorato in ogni suo antro. Vi sono spiagge mozzafiato, colorate dalle tante tipiche barchette ancorate sulla spiaggia. Il mare è cristallino e ospita sempre pescatori che da esso traggono ciò di cui vivere. Vi sono tantissime e diverse escursioni da fare a disposizione del turista.
Una delle esperienze più belle, a livello umano, è trascorrere una giornata nei villaggi locali, ad esempio quelli “sasak”, abitanti dell’isola di Lombok. Si entra in contatto con le loro più antiche tradizioni, la loro cultura, i loro usi e costumi, costeggiando risaie piene di mondine, campi di tabacco e peperoncino. Da piccola andai nella “fabbrica” del sale: nella mia ingenuità mi aspettavo di vedere macchinari e attrezzature specifiche, ma rimasi colpita nel vedere questi giganteschi coni bianchi di sale che assomigliavano ad enormi gelati al fior di latte. Per ricavare il sale si limitavano a far evaporare l’acqua al sole, nella maniera più naturale possibile. Anche il mercato del pesce ha il suo fascino, anche se è triste vedere quanti squali vengono sacrificati a scopo di lucro.
Dal punto di vista religioso il Paese è estremamente vario. Il motto indonesiano recita “Bhinneka tunggal ika” che significa “Unità nella diversità”, ad indicare la grande tolleranza nei confronti delle differenti religioni che convivono pacificamente. Numerosissime moschee dalle cupole lucide e colorate risuonano in ogni dove, cinque volte nell’arco della giornata. I fedeli si riuniscono seguendo i dettami del loro credo e le preghiere che, per chi le sente la prima volta possono essere fastidiose, ma poi diventano a mano a mano una cantilena piacevole che riempie il silenzio della notte. A pochi metri dalle moschee sono visibili templi indù, con le statue tipicamente vestite con colorati abiti locali e le numerose offerte agli dei. Merita di essere visitato il Tanah Lot, un tempio a Bali, situato in un isolotto roccioso nel Pacifico, dedicato alle divinità marine. Anche il Buddhismo ha un’ampia diffusione, il tempio di Borobudur, situato nel centro dell’isola di Java, è il monumento più visitato di tutta l’Indonesia.
Per me che sono un’amante della natura, questo arcipelago è decisamente il luogo giusto. Vi sono spiagge di ogni colore, nere per la sabbia vulcanica, bianche e morbide come farina, rosa perchè costituite di corallo rosso sbriciolato dall’azione delle onde marine. Vi sono foreste tropicali che tolgono il fiato… ricordo la prima volta che visitai le cascate dell’isola di Lombok, dove ogni passaggio sembrava un ostacolo. Attraversare torrenti gelati, passare su ponti forati e senza alcuna ringhiera, camminare all’interno di tunnel bui dove occorre soppesare ogni passo, sono esperienze uniche che consiglierei a chiunque.

Ma come ogni luogo, anche l’Indonesia ha i suoi punti deboli: l’elevato tasso di corruzione, una sanità estremamente arretrata, l’inquinamento ambientale e urbano causato dalla deforestazione, dagli incendi e da una pessima gestione dei rifiuti. Sono tutti problemi seri, a cui però il governo fatica a porre rimedio.
Per sfatare un luogo comune, occorre inoltre sapere che l’Indonesia, come invece molti credono, non è da classificare a tutti gli effetti come un Paese del cosidetto Terzo Mondo. Un aspetto particolare del luogo è infatti l’evidente accostamento di modernità e povertà. Vi sono città come Jakarta, Medan e Surabaya dove lo sviluppo è stato imponente ed è quindi normale vedere, per le strade, maxi schermi e tecnologie all’avanguardia. In alcune zone invece, come nei piccoli centri abitati o nelle isolette, è paradossale vedere villaggi con ingenti parabole a fianco di casupole dal tetto ricoperto di alang-alang (una lunga erba verde). Qui molte persone vivono ancora senza elettricità, né acqua calda.
L’Indonesia è un Paese che sta crescendo sotto tutti i punti di vista, specialmente per quel che riguarda la tecnologia. Negli annunci pubblicitari che costeggiano numerosissimi le strade, rendendole vive e colorate, è pazzesco notare quanti di questi reclamizzino le compagnie telefoniche. Molti indonesiani, per quanto assurdo possa sembrare, vivono in villaggi su strade sterrate, mangiando ciò che pescano e producono, ma possiedono uno smartphone e ricevono il segnale radiotelevisivo. E’ come se la crescita tecnologica non andasse di pari passo con lo “sviluppo antropologico”. E mi riferisco anche a questo quando parlo di lacune. Il tasso di alfabetizzazione e scolarizzazione è aumentato notevolmente, ma una parte della popolazione resta analfabeta e ignorante, quindi non in grado di capire quali sono le vere priorità. Nonostante tutto, anche chi potrebbe essere classificato come ‘povero’, ha una ricchezza interiore che a molti ‘ricchi’ manca. Basta guardare gli occhi dei bambini, che nudi corrono sulla spiaggia, per innamorarsi di questo popolo e di questo paese che offre ai visitatori infinite meraviglie.
Diversità linguistiche, diversità etniche, diversità religiose, diversità culturali e diversità sociali che però hanno saputo, nel corso degli anni, trovare un loro equilibrio, vivendo ora in uno stato di armonia.

Sfumature di erotismo

La trasposizione cinematografica del best seller “50 sfumature di grigio” di Sam Taylor-Johnson, approda sul grande schermo il 12 febbraio, interpretato da due attori giovani e di bell’aspetto come Jamie Dornan e Dakota Johnson che nel film interpretano rispettivamente il miliardario Christian e la studentessa Anastasia.

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La locandina di ’50 sfumature di grigio’

La storia è nota allo sterminato pubblico di lettori/lettrici che hanno divorato il libro, decretando un successo planetario, soprattutto per l’entusiastica adesione da parte del pubblico femminile, che si è innamorato di una storia di intenso erotismo, con molte connotazioni sado-maso, ma con il lieto fine del soft-torturatore che si innamora perdutamente della sua volenterosa vittima.
Forse anche per la straripante offerta di porno sul web, il cinema erotico stenta oggi a trovare un suo spazio; eppure, sin dai suoi esordilo schermo è stato molto utilizzato proprio per la rappresentazione pornografica, a partire dai filmati ormai storici del cinema muto che, visti oggi, non hanno niente da invidiare ai più recenti prodotti.
Negli anni d’oro del Vhs e poi del Dvd, prima del web, il fatturato del porno made in Usa superava addirittura quello delle Major.

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Sharon Stone in ‘Basic instinct’
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Kim Basinger in ‘9 settimane e mezzo’

La produzione cinematografica Usa non ha per molto tempo percorso le strade dell’erotismo esplicito: solo nel 1985 irrompe “9 settimane e mezzo”, con il celebre spogliarello della conturbante Kim Basinger al ritmo del nostro Joe Cocker, cui va un saluto lassù. Nel 1992 grande successo per “Basic Instinct”, noir intessuto con l’erotismo della Sharon Stone del famoso accavallare le gambe dinanzi a un imbufalito Micheal Douglas; a seguire la ballerina di lap dance in “Showgirl” del 1995, che rincitrullisce il suo ganzo con posizioni mozzafiato.

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Una scena dell'”Ultimo tango a Parigi”, film diretto da Bernardo Bertolucci, con Marlon Brando e Maria Schneider (1972)

L’Europa in questo si è dimostrata più audace: nel 1972 Bernardo Bertolucci aveva ampiamente superato i confini del pudore cinematografico con “Ultimo tango a Parigi”; l’autore per questo fu processato e condannato, mentre il film venne censurato, e poi fisicamente bruciato. Ancora italiano l’erotismo celebrale a malvagio de “Il portiere di notte” di Liliana Cavani del 1974, con una trionfante Charlotte Rampling sado-nazista. E ancora “L’histoire d’O” del 1975, campione d’incassi in Francia, nel quale l’emancipazione dell’erotismo femminile divenne una specie di manifesto dell’imperante femminismo, in un contesto sado-maso morboso e anche violento, anticipato però nel 1968 dall’italiano “Justine ovvero le disavventure della virtù”, con una giovanissima e intrigante Romina Powell in versione Lolita avviata al sesso estremo nel castello del Marchese De Sade.
Senza dimenticare la pletorica produzione dei film italiani soft-erotici anni 70/80, con le varie Edwige Fenech, Gloria Guida, Giovanna Ralli, Lory Del Santo, Karin Schbert etc., che per gli adolescenti del tempo sono stati il viatico per la scoperta del corpo femminile, nascosto e negato dall’oscurantismo degli anni ’50 e ’60.
La scommessa di 50 Sfumature sarà proprio quella di rinverdire i fasti del cinema a contenuto erotico; per verificare se esiste ancora uno spazio per un cinema che visiti gli aspetti più nascosti e intriganti dell’amore e del sesso, con particolare attenzione al pubblico femminile.
Sarà interessante vederne il risultato.

IL FATTO
Ma il padiglione italiano nel museo della memoria di Auschwitz resta chiuso

“L’Italia da cinque anni non paga il contributo alla fondazione del museo di Auschwitz e il suo padiglione al memoriale è chiuso. E’ una cosa per me molto triste e incomprensibile”. Si avverte un rammarico profondo e una sofferenza autentica nel tono di voce dell’anziana guida polacca che accompagna i turisti italiani nella visita ai campi di concentramento di Auschwitz e Birkenau. E’ autodidatta, ma si esprime con grande proprietà linguistica. “Non sono mai stata nel vostro Paese, ma mi sono innamorata del suono della lingua e della sua cultura. L’ho imparata studiando ma soprattutto leggendo romanzi”. La signora vive a una quindicina di chilometri di distanza dai campi di concentramenti, nel cuore e nelle mente porta l’orrore dello sterminio. Da anni si dedica a mantenere viva la memoria, “perché i giovani sappiano, perché non accada mai più, mai più”, scandisce.

L’Italia risulta essere l’unico Paese assente dall’esposizione museale. Ai visitatori la cosa non passa inosservata e desta sconcerto. Dal 2011 un semplice avviso “In allestimento” blocca l’accesso. La vicenda ha elementi surreali.

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L’installazione ospitata sino al 2011 nel padiglione italiano

Inaugurato nell’aprile del 1980 il padiglione italiano ospitava un’opera collettiva concepita dal gruppo BBPR (Belgioioso, Banfi, Peressutti e Rogers) con Mario “Pupino” Samonà: una spirale ad elica nella quale il visitatore poteva entrare come in un tunnel. L’interno era rivestito da una tela composta da 23 strisce dipinte da Samonà, seguendo la traccia di un testo originale di Primo Levi, scritto appositamente. In sottofondo risuonavano le note di una composizione di Luigi Nono. L’allestimento aveva la regia di Nelo Risi, fratello del più celebre Dino.

L’esposizione è rimasta attiva sino al 2011, quando il padiglione è stato chiuso dalla direzione del museo. Nel 2007 erano infatti entrate in vigore le nuove linee guide approvate dal museo che richiedevano allestimenti di taglio pedagogico-illustrativo. Si è aperto un contenzioso con i vari governi italiani che si sono succeduti alla guida del Paese, senza però che si trovasse un’intesa. Così, nel 2011, il padiglione al Blocco 21 è stato chiuso d’autorità dalla direzione museale “perché non corrispondeva più agli standard”.

Nel frattempo la Regione Toscana si è offerta di dare ospitalità all’opera sfrattata e proprio la scorsa settimana è stata annunciata la sua imminente collocazione in uno spazio espositivo dell’Ex3, centro d’arte contemporanea. Ma ad Auschwitz resta invece un vuoto insostenibile e uno sfregio alla memoria dei 7.500 ebrei italiani deportati.

NOTA A MARGINE
A Ferrara, tre linguaggi per proiettare la memoria nel futuro

Da alcuni anni si è avviata, fra gli storiografi e non solo, una riflessione sulle problematiche poste oggi dalla memoria della Shoah e sulla Giornata della memoria, sulle sue finalità originali e sulle forme che poi ha assunto. Si possono citare “L’eredità di Auschwitz. Come ricordare?” di Georges Bensoussan, oppure “Dopo l’ultimo testimone” di David Bidussa e “Memoria della Shoah: dopo i testimoni”‬ curato da Saul Meghnagi, fino ad arrivare al pamphlet “Contro il giorno della memoria” di Elena Loewenthal.

linguaggi-memorialinguaggi-memoriaA essere criticato è il quadro retorico e celebrativo nel quale vengono spesso relegate le attività istituzionali presenti nel calendario della Giornata della memoria, poco avvertite nella coscienza della popolazione: già quattro anni fa Bidussa, in un intervento su Repubblica, parlava di “sovraesposizione”, di “un sovraccarico di celebrazioni, con gli storici mangiati dalla tv, che banalizza e mitizza nello stesso tempo”. Per sottrarre la memoria della Shoah a questa retorica che la paralizza all’interno del cosiddetto ‘dovere di memoria’ è al contrario necessario fare ricerca, informazione e cultura, e aumentare gli sforzi sull’educazione, in modo da instillare i semi di riflessioni che si svilupperanno nel tempo e in modo duraturo, piuttosto che suscitare emozioni superficiali e momentanee.

Ho ritrovato queste caratteristiche in tre iniziative ferraresi svoltesi domenica scorsa proprio in occasione della Giornata della memoria 2015: la mostra “Le radici del futuro. Tracce, parole, segni”, l’intervento di Luciana Roccas Sacerdoti sui “Giusti fra le nazioni” e lo spettacolo teatrale “Micol e le altre” al Teatro Off.

linguaggi-memorialinguaggi-memoria“Le radici del futuro”, organizzata dal Liceo Artistico Dosso Dossi in collaborazione con il Meis e l’Istituto di storia contemporanea di Ferrara e allestita nella sala dell’Imbarcadero 1 del Castello, è il punto di approdo di un progetto educativo sulla memoria che ha voluto uscire dalla dimensione statica del ricordo fine a se stesso, tentando di trasformarlo in un punto di partenza per interrogarsi sul domani che si desidera creare: “Custodire la memoria per costruire il futuro”, come recita il sottotitolo.

linguaggi-memorialinguaggi-memoriaUn interrogativo ancora più importante se a porlo, agli altri ma soprattutto a se stessi, sono i ragazzi, cioè gli adulti di domani. “Ricorda ed avanza nella vita”, ammonisce il verso finale dell’elaborato vincitore del primo premio, svettante sopra l’opera vincitrice “Il cammino della storia”.
Un altro motivo dell’importanza di questo progetto è la partecipazione attiva dei ragazzi al processo educativo attraverso l’ideazione di un laboratorio didattico per i colleghi più giovani delle scuole medie. Il risultato di questo laboratorio è un’installazione di lanterne: una per ciascun deportato ferrarese ad Auschwitz, perché i nomi diventino infine presenze.

linguaggi-memorialinguaggi-memoriaDi responsabilità personale e di individualità fuori dai grandi numeri si è parlato nell’incontro del pomeriggio al Centro sociale ricreativo del Doro, dove Luciana Roccas Sacerdoti ha raccontato alcune storie di “Giusti fra le nazioni”: non necessariamente eroi, né persone moralmente integerrime – basta pensare a Oscar Schindler – ma “persone capaci di fare del bene in uno dei momenti più bui dell’umanità”. Il Tribunale del Bene – così viene chiamata la commissione di 35 fra storici, sopravvissuti e magistrati, che opera all’interno dell’istituzione memoriale dello Yad Vashem – ha iniziato a operare nel 1963 e da allora ha valutato e valuta istanze sempre portate da sopravvissuti o da loro discendenti: nessuno di coloro che sono stati dichiarati Giusti “si è mai fatto avanti di sua iniziativa”. I motivi di tale ritrosia sono diversi, ma molti di fronte alla domanda “Perché avete aiutato gli ebrei?”, hanno risposto con quella che Grossman ha chiamato “bontà insensata”: “ho fatto il mio dovere, ho fatto ciò che andava fatto”.

linguaggi-memorialinguaggi-memoriaHanno cioè chiamato in causa la propria coscienza. Se la memoria del male si è finora dimostrata inutile, può la memoria del bene sortire maggiori risultati? È l’interrogativo con cui Luciana Roccas Sacerdoti ha lasciato il pubblico: può la memoria delle vicende di questi uomini e donne, a volte interi villaggi o popolazioni, come in Danimarca o Bulgaria, diventare l’esempio concreto per le generazioni di oggi e di domani che è fondamentale esercitare sempre la propria coscienza critica e la propria responsabilità personale? Questo è il motivo per cui anche in questo intervento non c’è retorica, anche se molti potranno pensare l’esatto contrario.

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Roberta Pazi interpreta Gemma Brondi, Clelia Trotti e Lida Mantovani
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Diana Höbel interpreta Micol

Infine lo spettacolo “Micol e le altre” a FerraraOff. Grazie a Roberta Pazi, Diana Höbel, Marco Sgarbi, Giulio Costa, sono le individualità dei personaggi femminili dell’universo bassaniano a essere portati alla presenza del pubblico: Gemma Brondi, Clelia Trotti e Lida Mantovani. Su tutte l’unica protagonista di origine ebraica: Micol Finzi Contini, che funge da collegamento fra i diversi quadri narrativi. Anzi, le sue forse sono le incursioni di una presenza che continua a farsi sentire nonostante la volontà dell’autore: spostandosi dentro e fuori il campo da tennis che mano a mano viene costruito sul palco sembra interagire con Giulio Costa-Giorgio, ma nello stesso tempo non gli dà nessun peso, è l’unica sulla quale egli non ha il controllo. Nello spettacolo, come nelle opere di Bassani, non c’è retorica c’è solo la vita narrata da un poeta.

Le immagini della mostra e dello spettacolo sono di Federica Pezzoli.

Vittime del leaderismo e dello strapotere dei mercati

Complimenti agli istituti Gramsci e di Storia contemporanea di Ferrara, ad Anna Quarzi e Fiorenzo Baratelli, per il ciclo di conferenze sul tema “La democrazia come problema”, presentato in biblioteca Ariostea lo scorso 23 gennaio. Un calendario di appuntamenti che promette di tenere ben desto un uditorio che si auspica numeroso. Sull’argomento ho trovato interessante un saggio di Francesco Tuccari pubblicato da “Il Mulino” (6/2014), che provo a seguire e sintetizzare.

Il problema oggi della democrazia è che quote crescenti del “potere decisionale” sono sottratte ai parlamenti, governi, leader democraticamente eletti e si trovano nelle mani di forze impersonali, anonime, che agiscono su scala globale, oltre e fuori da ogni meccanismo di consenso e di legittimazione.
Da un lato, la forza dei mercati e della finanza internazionale, dall’altro sfere, agenzie e tecnostrutture di natura sovrastatale (spesso si punta il dito sulla burocrazia Ue).
In sostanza, stiamo da tempo assistendo ad una radicale ristrutturazione degli “spazi politici” e questo pone interrogativi sulla democrazia e sul suo futuro come sistema delle decisioni, del governo e della stessa vita sociale. Interrogativi inquietanti perché sono gli effetti di questi processi a preoccupare per le sorti della democrazia.
Effetti che sono di due tipi. Il primo è un processo di progressiva leaderizzazione della politica – e dei partiti – basato sul ruolo di singole personalità con forti pulsioni direttistiche. Il secondo, è uno svuotamento del gioco democratico a causa dell’intromissione sempre più invadente della “Mano invisibile” degli spread, dei rating, degli indici di Borsa (quante volte si sente dire che i mercati non hanno gradito certe decisioni dei governi).

Da una parte, quindi, l’iperdemocrazia del capo e dall’altro l’ipodemocrazia dei mercati.
Oppure, per un verso le pulsioni populiste, demagogiche e plebiscitarie della democrazia del capo e per l’altro il pericolo di una democrazia acefala. Sullo sfondo rimane il “demos”, rispetto al quale ambedue queste spinte hanno sempre meno a che fare. Tanto che il pericolo avvertito è di uno scollinamento, più o meno prossimo, verso un contesto post-democratico.
Paiono lontani i tempi nei quali, a seguito della caduta del muro di Berlino, si parlò di “Fine della storia” (Francis Fukuyama), come campo libero verso un processo di definitiva e compiuta democratizzazione. In realtà il mondo globale uscito dal disegno di Yalta sta presentato il conto di nuovi sviluppi su vasta scala.

È l’evoluzione di una società di massa individualizzata, egoista, atomizzata e spoliticizzata (il dato dell’astensionismo), nella quale si affievoliscono le solidarietà lunghe e in cui è sotto gli occhi di tutti la crisi delle rappresentanze come finora le abbiamo conosciute.
Ai tradizionali mondi di appartenenza si sostituiscono comunità piccole, chiuse, gelose, basate su dinamiche identitarie di tipo esclusivo, come contrario di inclusivo, e con perimetri etnici (e anche religiosi) anacronisticamente definiti. Venendo meno, quindi, le storiche articolazioni delle società, esse diventano più vulnerabili ai richiami carismatico-plebiscitari di chi fa appello direttamente al popolo.
Gli stessi mutamenti nei processi di formazione della cosiddetta “opinione pubblica” stanno lasciando il segno. La televisione, prima, e internet, ora, sono due esempi di come avesse ragione Marshall McLuhan a dire che il messaggio è in realtà il medium.
Euforicamente (forse troppo) nati con l’intenzione di emancipare e ridurre le distanze, in realtà stanno finendo per isolare, con la prerogativa che società d’individui molecolari sono più plasmabili.
E così si definisce lo stesso concetto di “Democrazia del pubblico”.
Il discorso della politica si contrae, si spettacolarizza sintonizzandosi sui desideri di un pubblico spettatore. Alla riflessione e all’analisi di un tempo subentrano le tecniche di marketing, di sondaggi e di comunicazione; il respiro della politica si fa poco più che un cinguettio. Tanto è vero che, si dice spesso, per vincere le elezioni la politica deve parlare alla pancia, più che alla testa degli elettori.
Ne conseguono un demos indebolito, più tentato da reazioni emotive più che dalla fatica del conoscere e pensare, e una politica istantanea: vedi la frenesia del “mi piace” della twitter-facebook democracy, o il sistema informatico-grillino di consultazione perennemente simultaneo.
Ma, forse, la più travolgente trasformazione è quella che sta disarticolando le democrazie in senso acefalo.
È l’incontrollata e incontrollabile forza immateriale dei mercati e della finanza che sta creando nuove colossali diseguaglianze che, usando un antico vocabolario, potremmo definire di “classe” tra capitale e lavoro, tra occupati e disoccupati e, ancora, tra globali e locali, cittadini e stranieri, giovani e vecchi …
La progressiva perdita di sovranità degli Stati per effetto della globalizzazione, li rende di fatto disarmati a controllare, a contenere, a governare, le turbolenze prodotte dallo strapotere dell’economia e della finanza.
Viene meno, cioè, quell’ultimo argine che fino a ieri era in grado, usando il linguaggio della cultura socialdemocratica e liberal, di tosare la lana della pecora capitalista.
Così non sono più soltanto i cittadini elettori-spettatori-consumatori ad essere espropriati, ma pure la politica, i partiti e i loro leader, i governi, gli stati e la stessa democrazia, ad essere ridotti a “province amministrative” di un impero che pare non avere più limiti di conquista.
In sintesi, le democrazie del XXI secolo sembrano maledettamente esposte alle tempeste plebiscitarie e acefale, proprio perché i luoghi e gli spazi della politica non coincidono più con i flussi e le spinte che oggi governano i poteri reali del mondo globale.

L’impressione è che se si vuole dare nuovi contenuti e orizzonti alla democrazia, occorra risolvere alla radice questo problema, al centro del quale c’è il compito della politica di ritrovare la capacità di essere quell’argine di contenimento delle inequità (come ha scritto papa Francesco nella Evangelii Gaudium), nel frattempo venuto meno.
Un argine da ricostruire in una geografia profondamente cambiata e che non può più essere quella del vecchio Stato nazionale, travolto dalla piena dalla storia.

LA TESTIMONIANZA
Helga Schneider, oltre l’umano

I lunghi tempi della influenza combattuta tra letto e poltrona, rimpiangendo le due presentazioni saltate, si combattono con letture rimandate, temute, inevitabili. Scelgo allora un libro che mi respinge e nello stesso tempo mi attrae: Helga Schneider, “Il rogo di Berlino”, pubblicato da Adelphi nel 1998 e ora appena ristampato. Helga Schneider vive in Italia dagli anni Sessanta del secolo scorso ed è l’autrice di una autobiografia, di cui anche Il rogo è parte, che fece uno scalpore immenso, “Lasciami andare, madre”. Helga di origine polacca, ha una madre tedesca che abbandonò lei e il suo fratellino Peter nel 1941, quando la bambina ha quattro anni e Peter diciotto mesi, per arruolarsi nelle SS e diventare una delle aguzzine più feroci dei campi di Ravensbrück e poi di Birkenau e partecipare agli immondi esperimenti che qui si compivano da parte di famosi medici e non solo nazisti.

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La copertina del libro

Abbandonati al loro destino durante la guerra e la capitolazione di Berlino, Helga e Peter vengono allevati dalla seconda moglie del padre Stefan, Ursula, che odia Helga e la sottopone a feroci umiliazioni mentre adora il piccolo Peter. Con gli occhi dell’infanzia Helga racconta la fine di Berlino, del Terzo Reich e della susseguente liberazione da parte dei Russi che violentano e stuprano due giovani ragazze nei sotterranei del palazzo in cui si erano rifugiati gli inquilini. Raccontare quei momenti e quelle esperienze fa toccare con mano alla piccola Helga l’orrore. Ma ecco che con l’avanzare del riscatto morale e la consapevolezza della spaventosità di una guerra senza precedenti, la Schneider si lascia andare a un commento che è tra le prove più alte e mature non della banalità del male ma della feroce difficoltà di poterlo contrastare: “Sfiorai con lo sguardo lo spazio vuoto dove avevano vissuto gli uni sugli altri ammassati come bestie, imponendo agli altri il nostro odore, il nostro malumore, il nostro egoismo. Eravamo andati oltre il sopportabile, oltre il vivibile, oltre l’immaginabile, oltre le nostre forze, oltre l’umano. Eppure in seguito dovetti imparare che la nostra sofferenza non era stata nulla in paragone a quella che era toccata agli ebrei massacrati nei campi di concentramento.” (“Il rogo di Berlino”, pp. 186-87).

Una ammissione che ci induce a riflettere sul concetto di ‘umano’ e sulla possibilità di riscattarlo dopo la Shoah. Di fronte allo strazio di Helga sembra impossibile che le soglie dell’umano possano essere superate. Ma non c’è fine alla consapevolezza e all’orgoglio del male. Dopo trent’anni Helga incontra nel 1971 la madre perduta. E lei la invita a indossare l’uniforme di SS amorosamente custodita nell’armadio ma soprattutto le vuol regalare un pugno di oggetti d’oro chiaramente appartenuti agli ebrei gassati nei campi di concentramento. Helga fugge all’orrore sperando che quella madre esca definitivamente dalla sua vita, ma la rincontra ancora nel 1998, svampita e delirante, in una casa per anziani. E quel mostro la trattiene con i fili del ricatto che inevitabilmente le impediscono, nonostante lo schifo, di liberarsi di lei. Una condizione terrificante così espressa: “E mi rendo conto che se fino a ieri avvertivo la sua assenza come un’ossessionante presenza, ora la sua presenza è un’irrevocabile assenza. Provo angoscia e un’irrazionale tenerezza. E’ mia madre, nonostante tutto è mia madre. Devo vergognarmi se qualche volta l’istinto, il mio istinto di figlia, prevale sulle ragioni della morale, della storia, della giustizia e dell’umanità?” (“Lasciami andare, madre”, p.126).

Se dunque l’istinto e non la razionalità e il sentimento combattono una battaglia straziante nell’accettazione di Helga del sentimento filiale, c’è la consapevolezza che i lager, ciò che è accaduto è non solo al di là dell’umano ma al di là della conservazione del senso della vita. Come poter ricordare? Come poter o meglio dover accettare con l’istinto ciò che la Shoah ha negato? Cosa c’è al di là dell’umano? Quale incondizionata resa al male ha reso così crudele non solo il destino di un popolo ma anche a volte degli stessi aguzzini? La Schneider non si nasconde dietro inutili proteste o ancor peggio inutili diversivi. Il suo ‘j’accuse’ è fragorosamente impietoso perché nella pietà ci sarebbe il principio della comprensione. Ma per lei, come per molti altri, la comprensione potrebbe essere la radice del male. La tragedia della Shoah è totalmente inscusabile. Resta l’istinto. Anche questo negato dai nazisti. E quella colpa, quella resa a un atto non d’amore, ma istintuale, porta Helga a consumare la sua tragedia personale che si esprime nel grido “Lasciami andare, madre”.

Quale ricordo più severo potrebbe esprimersi?. E lei, “l’italiana” come ormai la chiamano i suoi parenti, sigla rifiutando la pietà verso la madre come “un’irrevocabile assenza”. E mentre leggo con commozione le ultime lucidissime testimonianze di Primo Levi che tenta di dare un nome (e quindi esercitare la pietas) ai suoi compagni del treno della morte, ricordo con un sussulto di timore che nessuno è incolpevole, come appare dalla lucida disamina di Liucci che sbarazza il campo dalla presunta non interferenza dei fascisti italiani sulla ideologia nazista della eliminazione di un popolo.

E ricordare diventa sempre più complesso ma sempre più forte.

L’INTERVISTA
Drain brain, la targa di Ferrara va in orbita per la cura delle malattie vascolari

Gli piace definirlo un miracolo italiano, ma è molto di più. E’ una missione compiuta. E’ soddisfatto il fisico ricercatore dell’Università di Ferrara Angelo Taibi, project manager dell’esperimento “Drain Brain” di cui è responsabile il professor Paolo Zamboni del Centro malattie vascolari di Ferrara. “Una volta raggiunta la stazione spaziale internazionale, quando il pletismografo si è acceso è stato un gran bel momento per tutti noi”, ricorda Taibi nel ribadire l’obiettivo dell’esperimento: indagare il ritorno venoso celebrale in assenza di forza di gravità. “Oggi l’astronauta Samantha Cristoforetti ha cominciato la sperimentazione attraverso l’applicazione di tre differenti cinturini ‘sensibili’ posizionati intorno al collo, al braccio e alla gamba”, racconta. Tutto è predisposto per raccogliere i risultati dell’indagine, che sono stati caricati su una scheda molto simile a quella delle fotocamere digitali e spediti sulla terra, alla Nasa da dove saranno trasmessi alla Kayser di Livorno per essere girati a Zamboni e Taibi.

Angelo Taibi project manager del progetto 'Drain Brain'
Angelo Taibi project manager del progetto ‘Drain Brain’

I dati fotograferanno le condizioni fisiologiche di Samantha in diversi momenti, prima e dopo il volo, all’inizio, a metà e alla fine della missione per registrare le variazioni del flusso sanguigno in diverse condizioni respiratorie e posizioni fisiche. Il pletismografo, gemello dell’apparecchio andato in fumo con l’esplosione del missile Antares che lo trasportava alla stazione spaziale e precisamente al modulo Columbus dedicato agli esperimenti di fisiologia, è stato realizzato “in casa” con un esborso di circa 150mila euro, molta passione, un’infinità di spostamenti e una marea di adempimenti burocratici districati da chi ha lavorato al progetto: il Dipartimento di fisica e scienze della terra del nostro Ateneo e la sezione ferrarese dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn). E’ una buona notizia, soprattutto a fronte delle angherie economiche a cui è sottoposta la ricerca made in Italy la cui vivacità trova modo di emergere comunque.

Il progetto, partito nel 2013, è stato redatto da un team di fisici e medici dell’Ateneo ferrarese e presentato all’Agenzia spaziale italiana. Arrivare alla stazione spaziale internazionale è stata una scommessa vinta e, a raccogliere il testimone di un’impresa tutta italiana, è stata il capitano Samantha Cristoforetti, astronauta dell’Esa (European space agency), vera e propria madrina di Drain Brain. “Lì per lì avevamo le idee chiare sul da farsi – racconta Taibi – ma non sapevamo come concretizzarle. Una cosa era certa, non volevamo perdere un’occasione tanto importante”. Piano piano le tessere del mosaico sono andate componendosi insieme alle partenership. “Ci siamo trovati al fianco di Altec di Torino e Telespazio di Napoli, che ci hanno indirizzato nella prima fase. L’esperimento è stato poi approvato dalla Nasa con la collaborazione di Asi e Kayser”, prosegue. Drain Brain, concretizzatosi nello sviluppo di un dispositivo da portare in orbita, potrebbe in futuro rivelarsi un utilissimo mezzo diagnostico per prevenire i disturbi del deflusso sanguigno dal cervello. “Il nostro obiettivo – conclude – è quello di creare uno strumento di screening a basso costo per dare risposte sia in orbita sia sulla terra”.

LA RIFLESSIONE
Un mondo di lettere

Lettere ritrovate, scritte, ricevute, inviate, timbrate, spiegazzate, scovate nei mercatini della Rive Gauche lungo la Senna, nei solai della nonna e nelle cantine delle nostre case.
Lettere stropicciate che mantengono tracce indelebili di lacrime e sorrisi.
Lettere dimenticate e abbandonate che una mano curiosa riscopre e fa rivivere.
Quante storie in quelle righe, quante vite, quanti drammi e quanti sogni, quante belle e brutte notizie, quanti pensieri, quante confessioni, quante storie d’amore perse e ritrovate. Quante strade che si sono incrociate o separate. Quanta forza, allegria e malinconia.
Molti di noi hanno conservato plichi infiniti di lettere, avvolti da nastrini colorati, rosa o azzurri, stipati in scatole dalle forme più svariate, spesso ovale, con fiorellini dipinti sopra.

lettereMolti di noi le hanno trattenute per momenti migliori o peggiori, sicuri che vi avrebbero un giorno trovato risposte a tante domande, scartabellando e perdendosi ancora e sempre in quei preziosi e colorati contenitori di vita. Forma, dimensioni e capienza di quegli spazi sarebbero stati per sempre legati alla nostra storia, alla nostra continua evoluzione quotidiana. Lì dentro avremo conservato storie di gioia e di disperazione. Ricordi, immagini, fotogrammi, istanti, momenti, luci, ombre e passi-passaggi.
Spesso siamo andati ad aprire quelle scatole, in silenzio, timorosi di ritrovarci un passato andato e vissuto intensamente, un passato bello che non c’e’ più, preoccupati dal poter rileggere le parole di un innamorato che è svanito nel nulla, le promesse di un eterno futuro che non si è avverato, che allora era un per sempre finito solo poco dopo. Una promessa di futuro scritta con un’elegante penna stilografica, il cui inchiostro sbiadisce facilmente. Forse solo questo particolare avrebbe dovuto illuminarci, allora…
Spesso ci siamo avventurati nello scartare quelle buste ingiallite come si fa con una caramella mai gustata prima, quando la carta sfavillante e luccicante invoglia a provarla ma non si sa proprio che gusto ci attenderà. A volte amaro, a volte dolce, a volte salaticcio e appiccicaticcio, spesso insignificante. La curiosità, però, è troppo forte…
Ricordo quando, a Parigi, mi avventuravo nei mercatini alla ricerca di antiche missive che potessero ispirare le mie pagine di romanzo. Una riga sbiadita spesso mi faceva immaginare vite avventurose e storie d’amore rocambolesche. Sono meravigliose le lettere, contengono una vita, lasciano traccia dei pensieri di anime curiose e spesso smarrite. Riceverle è altrettanto sorprendente, magico e avvolgente che scriverle e inviarle. Forse di più. Ricevere una lettera significa ricevere parte di un’anima che si dedica solo a te per qualche momento. Qualche attimo che magari è costato giorni e notti insonni, pomeriggi che sembravano infiniti ed eterni.
Chi non ha scritto lettere d’amore? Chi non non ne ha ricevuta almeno una nella vita?
Rileggendole ci sembriamo ridicoli, almeno un po’, o forse, alla fine, sono ridicoli i ricordi che hanno ispirato quelle lettere, come eravamo, quello che è stato. Che, però, è stato e che ha fatto parte di noi. O forse, alla fine, è veramente ridicolo chi non è mai stato capace di scriverne. Chissà… Era bello scriverle, però, e io non smetterò certo di farlo…

Era bello davvero, come ci ricorda Fernando Pessoa

Tutte le lettere d’amore sono
ridicole.
Non sarebbero lettere d’amore se non fossero
ridicole.
Anch’io ho scritto ai miei tempi lettere d’amore,
come le altre,
ridicole.
Le lettere d’amore, se c’è l’amore,
devono essere
ridicole.
Ma dopotutto
solo coloro che non hanno mai scritto
lettere d’amore
sono
ridicoli.
Magari fosse ancora il tempo in cui scrivevo
senza accorgermene
lettere d’amore
ridicole.
La verità è che oggi
sono i miei ricordi
di quelle lettere
a essere ridicoli.

Questo testo è stato magistralmente interpretato da Roberto Vecchioni che vi invitiamo ad ascoltare [ascolta]

Fotografie di Anna Pirazzi

Dal villaggio globale al mondo in rete

Che viviamo in una società dell’informazione è cosa scontata quanto banale. Scontato però non è come transitare dall’informazione alla formazione, come difendersi dal pericolo che l’informazione si traduca in “in-formazione”, in strumento cioè non riconoscibile e, quindi, non governabile di condizionamento dei modi di pensare e di agire delle persone, di manipolazione di cittadinanze passive.
Quando si parla di città o regioni che apprendono, che imparano, s’intendono comunità di cittadini che non subiscono le conoscenze, ma che con esse interagiscono, soggetti attivi e consapevoli, non sudditi di apprendimenti subiti, come più spesso accade nel villaggio globale che abitiamo.
Come fornirsi allora degli strumenti opportuni per non essere vittime delle overdose quotidiane di messaggi che pretendono di convincerci all’acquisto di un prodotto piuttosto che un altro, che l’interpretazione dei fatti è quella con maggior risonanza, che occorre ascoltare la voce degli opinion maker e via dicendo?
È possibile che sia funzionale ad una volontà di manipolazione delle condotte umane trascurare sistematicamente ogni occasione di fare del nostro villaggio globale, anziché una società dell’informazione, una società della formazione.
Viviamo in una società che potremmo definire ‘didattica’, che pretende di ‘educarti’ circa cosa è bene fare e non fare, dagli sport alla salute, dall’abito al cibo, dall’economia alla politica, senza mai preoccuparsi di fornirti gli strumenti per formarti in maniera da accrescere la tua consapevolezza, la tua autonomia, fino a divenire un cittadino attivo e responsabile.
Per questo la realizzazione della società della conoscenza è la sfida che va lanciata alla società dell’informazione. Accedere sempre più ad ogni occasione di sapere e di formazione per coesistere intelligentemente e criticamente in un mondo di news incessanti, che, se ci offrono la piacevole sensazione di essere in ogni istante al centro del flusso della contemporaneità, finiscono per stordirci, fino all’intorpidimento e alla sopraffazione.
La società dell’informazione deve, quindi, essere completata e accompagnata da una società dell’apprendimento, se non vogliamo cadere in un mondo inconsapevole e in una cultura senza valore basata sui ‘clic’, sullo ‘zapping’ e sulla superficialità del ‘patchwork’.
C’è una sfida urgente che ci sta di fronte e che tutti dobbiamo imparare ad affrontare, che certo l’informazione da sola non ci aiuterà mai a risolvere, quella, ad esempio, di accrescere sempre più la comprensione tra fedi, culture, razze e nazioni, diventare una comunità mondiale di apprendimento, dove ci si possa aiutare a vicenda per arricchire il potenziale umano di ciascuno.
Immaginate, se volete, un sistema di città di apprendimento collegato a regioni di tutto il mondo, ciascuno utilizzando la potenza delle moderne tecnologie della comunicazione per entrare in contatto significativo con l’altro.
Ne nascerebbe una rete globale di reciprocità, di dialoghi e di conoscenze da ecclissare ogni altro canale informativo.
Pensate a un peer to peer. Le scuole con le scuole per aprire le menti e la comprensione dei nostri ragazzi. Università con università, impegnate sui temi dell’insegnamento e della ricerca per promuovere congiuntamente la crescita e lo sviluppo delle loro comunità.
Centri di apprendimento per gli adulti collegati mondialmente per consentire agli adulti stessi di entrare in contatto tra loro.
Il mondo degli affari, business to business, per sviluppare imprese e commercio. Ospedale con ospedale per lo scambio di conoscenze, tecniche e persone.
Persone con persone per abbattere gli stereotipi e costruire una consapevolezza delle altre culture, credenze e costumi.
E così via, museo per museo, biblioteca per biblioteca, amministrazione per amministrazione. Immaginate che questi collegamenti includano sia i paesi sviluppati che quelli in via di sviluppo nel mondo. Formare un anello internazionali di apprendimento tra centinaia di reti simili.
Immaginate che un decimo del denaro utilizzato per sviluppare soluzioni militari ai problemi umani e sociali vengano spesi per le persone e gli strumenti affinché tutti questi anelli possano lavorare efficacemente.
Immaginate che tali collegamenti li avessimo iniziati dieci anni fa. Che differenza potrebbero fare rispetto al mondo di oggi?
Non è questa una delle sfide chiave per una città della conoscenza, per una città che voglia essere per i suoi cittadini anche città di apprendimenti continui? Non è questo, forse, un obiettivo degno dei suoi abitanti?
Provate a immaginare i vantaggi.
Migliaia di persone e organizzazioni che contribuiscono alla soluzione di problemi sociali, culturali, ambientali, politici ed economici. Un passo da giganti nella comprensione reciproca e nella trasformazione delle mentalità, attraverso una maggiore comunicazione tra persone e organizzazioni. Uno sviluppo economico, commerciale e tecnico redditizio attraverso il contatto tra le imprese e le industrie. Interazione attiva e coinvolgimento, un enorme aumento di risorse disponibili attraverso la mobilitazione del volontariato, di talenti, di abilità, esperienze e creatività tra città e regioni.
Meno migranti e rifugiati, perché i problemi di sviluppo possono essere previsti e affrontati attraverso la cooperazione tra le città.
Un sogno? No. Fatevi una ricerca sul web e avrete delle sorprese. Questo che può sembrare un progetto pionieristico è già in atto tra numerose città, dall’Australia al Canada, dalla Cina all’Europa, un vero proprio movimento per stabilire legami multilaterali tra città, fedi, culture e Paesi per facilitare la costruzione di un nuovo apprendimento e di una nuova comprensione del mondo.

LA NOVITA’
Very bello, chi ha detto che con la cultura non si mangia?

Una rosa di eventi culturali, un viaggio nella bellezza, in quella bellezza che ci caratterizza da secoli, spesso dimenticata, o meglio, sottovalutata. Il momento di ricordarcene, di valorizzarla, di parlarne a tutto il mondo, di gridarla ai quattro venti, di farne una forza. Di questo messaggio vuole farsi promotore il Ministero dei beni culturali e del turismo con la piattaforma digitale interattiva ‘very bello’ (www.verybello.it), presentata ieri da Dario Franceschini a Roma.
Ne hanno parlato anche tutti i telegiornali, citando la Biennale di Venezia, Umbria Jazz e, esplicitamente, anche il nostro Ferrara Buskers Festival. Oltre 1300 eventi, per promuovere il calendario di manifestazioni culturali parallele a Expo 2015, per valorizzare le iniziative sul territorio, da nord a sud, dalle grandi città ai piccoli borghi, ma anche perché i turisti, che arrivano per l’Expo, allunghino la loro permanenza nel nostro Paese. Occasione da non perdere per diffondere l’offerta turistica del Bel Paese. In poche ore, l’hashtag #verybello, lanciato dallo stesso ministro, è entrato nella top ten delle parole chiave più “cinguettate’, gli accessi al sito hanno registrato un vero boom (in 6 ore oltre 5000 accessi). Per la campagna promozionale sul web e negli aeroporti internazionali d’arrivo il ministero ha già messo a disposizione 5 milioni di euro. L’investimento del Ministero per raccontare “il museo diffuso che è l’Italia” comprende uno spot in italiano sulle nostre bellezze con la voce narrante del grande Toni Servillo.
Il portale è strutturato per diversi contenitori culturali: ‘Festival’, ‘Cinema’, ‘Musica’, ‘Concerti’, ‘Teatro’, ‘Mostre’, ‘Danza’, ‘Feste Tradizionali’, ‘Itinerari Turistici’, ‘Libri’ ‘Bambini’, ‘Opera’. Ciascun contenitore, in continuo aggiornamento, fornisce nel dettaglio le informazioni principali dell’evento e la sua localizzazione, permettendo di condividere l’evento stesso sui social network.
Se si effettua la ricerca sul sito per la nostra Ferrara, si troveranno tutti gli eventi principali dell’anno. Fra essi le grandi mostre ‘L’arte per l’arte. Il Castello Estense ospita Giovanni Boldini e Filippo de Pisis’ (31 Gennaio 2015 – 31 Gennaio 2017, Castello Estense), ‘La rosa di fuoco – La Barcellona di Picasso e Gaudì’ (19 Aprile -19 Luglio 2015, Palazzo dei Diamanti); le feste Tradizionali (1 Maggio – 31 Maggio 2015, Palio di Ferrara); musica e concerti (4 Maggio 2015, Grigori Sokolov, pianoforte, al Teatro Comunale); i festival (6 Maggio – 9 Maggio 2015, Salone dell’arte del restauro e della conservazione dei beni culturali e ambientali, 22 Maggio – 24 Maggio 2015, Altroconsumo Festival, 1 Giugno – 31 Luglio 2015, Ferrara sotto le stelle, 20 Agosto – 30 Agosto 2015, Ferrara Buskers Festival, 4 Settembre -13 Settembre 2015, Ferrara Balloons Festival, 2 Ottobre – 4 Ottobre 2015 Internazionale a Ferrara).

Bello, very grazie.

L’OPINIONE
Sateriale, il “sindaco snob” che sconfisse le lobby in nome della democrazia

Appena arrivato a Ferrara, il giornalista di un quotidiano locale lo ribattezzò “Satellitare” volendo evidentemente alludere a una presumibile sudditanza del nuovo sindaco verso i poteri forti. Ma non lo conosceva. Il suo (pre)giudizio si basava sull’aspettativa che il neo eletto – sconosciuto ai più e catapultato in città per invertire la rotta dopo il dominio esercitato dal Duca Rosso Roberto Soffritti nei suoi sedici anni di regno – non sarebbe stato in grado di svincolarsi dalle vecchie logiche. Oltretutto proveniva dai quadri della Cgil e appariva quindi teoricamente espressione di un apparato organico al sistema di potere dominante a Ferrara. Facile immaginare che inevitabilmente sarebbe caduto vittima delle pressioni e che il peso dei condizionamenti avrebbe zavorrato il suo operato.
Dopo qualche tempo, però, inquadrato il soggetto, l’amico (credo a malincuore) un po’ alla volta ha abbandonato quello pseudonimo al quale era affezionato. E questo perché a Gaetano Sateriale un appunto che non si può proprio muovere è quello di mancare di autonomia critica e di indipendenza di giudizio. Lui è della razza di quelli che fanno (ed eventualmente sbagliano) senza assecondare il volere altrui.
Non a caso nell’incontro-intervista recentemente organizzato dall’associazione ‘Pluralismo e dissenso’ e animato dai giornalisti di Carlino, Nuova Ferrara, Telestense, Estense.com e Ferraraitalia, ha rivendicato come tratto caratterizzante del suo mandato da sindaco “la rottura con gli schemi del passato”, laddove per schemi si devono intendere pratiche ma anche uomini. Così, implicitamente, ha dato risposta a chi tuttora si domanda se i suoi dieci anni alla guida della città siano stati di trasformazione o di transizione.

Dal punto di vista delle realizzazioni pratiche ci sono state certamente lacune. La più evidente, riconosciuta da lui per primo, è stato l’epico ritardo nella conclusione dei lavori dell’ospedale di Cona. “L’ho ereditato in costruzione e dopo dieci anni non sono riuscito a inaugurarlo: frustrante”, ha confessato, lamentando le responsabilità delle imprese e il polso malfermo della Regione.
Ma per quanto riguarda la visione di città, Sateriale è stato in grado di elaborare una precisa concezione che trova corrispondenza in un ben delineato profilo amministrativo. Fulcro della sua visione sono stati i temi della partecipazione e dell’inclusione. Nella sua idea, il sindaco non è più deus ex machina, signore e padrone, artefice incontrastato, ma semplicemente il cardine di un meccanismo in cui ogni ingranaggio ha un suo ruolo e nel limite del possibile, in rapporto a opportunità e funzionalità, anche una sua propria autonomia. E i ruoli non sono inamovibili o designati dai classici meccanismi di cooptazione, ma definiti sulla base delle competenze e delle logiche organizzative.
Ne sono esempio gli staff allargati di coordinamento nei quali vengono coinvolti tutti i principali dirigenti dell’amministrazione comunale con lo scopo di coordinare e condividere le strategie di azione. Oppure i forum, come quelli sull’urbanistica partecipata, rivolti a cittadini ai quali si chiede di intervenire ed esprimersi sulla base di opzioni alternative. E così i programmi partecipati di quartiere con i quali si invitano i residenti a stabilire assieme agli amministratori le priorità di intervento e di spesa sul territorio. Ma anche le relazioni annuali di attività esposte pubblicamente nel salone d’onore non sono parate formali e autocelebrative, ma al contrario espressione della volontà di rendere trasparente il disegno ed evidenti a tutti  i cittadini le linee strategiche di azione intraprese, con il preciso intento di far comprendere tali linee, per poterle dibattere ed eventualmente ricalibrare.

Questo operare è coerente con una sua convinzione: che in epoca di declino dei partiti sia saltato il principale elemento di mediazione fra società e istituzioni e la rappresentanza politica da sola non è più in grado di intercettare gli umori e la volontà dei cittadini. Servono dunque nuove forme di coinvolgimento per rendere l’azione amministrativa aderente ai bisogni della comunità. Quindi, in controtendenza, persegue il decentramento delle sedi decisionali e in anticipo sui tempi favorisce l’utilizzo della tecnologia anche con l’ausilio dei social network, promuovendo per esempio un quotidiano telematico come strumento informativo che entra in ogni casa. Propizia inoltre l’utilizzo della rete anche con valenza consultiva, oltre che per l’informatizzazione dei servizi. Si potenziano Urp e Informagiovani, nasce Citybook un facebook di taglio meno intimistico e più rivolto alla socialità.

Certo, Sateriale non è uno sprovveduto e neppure un ingenuo e il non tessere alleanze strategiche non significa dunque che non sappia politicamente muoversi con avvedutezza. Ma l’asse d’intesa a suo tempo stabilito con il segretario ds Roberto Montanari esprimeva essenzialmente l’esigenza di mettere in sicurezza il processo di rinnovamento – del quale i due furono artefici – dagli attacchi concentrici, iniziati già nel giorno dell’insediamento del Consiglio comunale, nel 1999, con il tentativo (naufragato) di Nando Rossi, membro della maggioranza, di far eleggere se stesso alla presidenza con i voti di una parte delle opposizioni e con il sostegno dei dissidenti dei Ds rimasti fedeli all’ex sindaco Soffritti.
Con tali premesse era inevitabile prendere contromisure, ma Sateriale non creò lobby, cercò semplicemente sostegni al suo progetto di cambiamento. Significativo in questo senso è che nel sottotitolo scelto per “Mente locale”, il volume in cui ha trasposto il suo diario politico di quegli anni, sia specificato “la battaglia di un sindaco per i suoi cittadini contro lobby e partiti”. Così lui percepiva e viveva il proprio impegno.

Alcune scelte infelici ci furono, quantomeno per gli esiti sortiti: la nomina di Valentino Tavolazzi come direttore generale, per esempio, o l’indicazione di Ezio Gentilcore alla presidenza di Sipro. Errori di valutazione pagati a caro prezzo con i fondi comunali, quindi con i soldi della comunità
Al di là degli errori, per lui la strada non è mai in discesa e le rose sono state tutte ricche di acuminate spine. Così ogni traguardo si porta appresso, quasi sistematicamente, polemiche o intoppi. Rifà piazza Municipale e la pavimentazione si sbriciola (per responsabilità mai completamente chiarite, con tante ombre e tanti sospetti rimasti tali). Stabilisce un saldo sodalizio con il regista teatrale Luca Ronconi, ma infuriano le polemiche sui costi e il presunto carattere elitario delle opere proposte; accompagna la realizzazione del nuovo bellissimo asilo di via del Salice ma tutto si blocca alla vigilia dell’inaugurazione per indagini ambientali a seguito di sospette esalazioni di cvm, poi escluse anni più tardi. Progetta la nuova viabilità con una tangenziale che libera il comparto sud dalla morsa del traffico ma falliscono le imprese costruttrici… Insomma, una serie di incidenti di percorso da far sorgere il dubbio che i suoi nemici abbiano dimestichezza con le pratiche voodoo. O peggio…

Di suo, a complicarsi la vita, ci mette un’istintiva avversione al populismo che lo fa apparire snob agli occhi di tanti e alimenta la leggenda (in questo caso letteralmente ‘metropolitana’) che lo dipinge come ancora residente a Roma dove, secondo i sempre desti ‘ben informati’, farebbe ritorno ogni week end. Il suo fastidio per ogni strumentale cedimento ai voleri della folla è tale da impedirgli persino gesti semplici (e particolarmente redditizi in una città come Ferrara) tipo recarsi in ufficio in bicicletta.
Preceduto oltretutto da un sindaco che al contrario volentieri si concedeva al capannello, sfugge la chiacchiera da marciapiede e accresce così il senso di distacco personale fra sé e gli amministrati, generando un paradosso: perché il suo ‘atteggiarsi’ genera un moto ostinato e contrario a quello perseguito attraverso l’azione amministrativa che, all’opposto, è di avvicinamento fra la macchina comunale e i cittadini, quindi di coinvolgimento e (appunto) di stimolo alla partecipazione: il sindaco fortemente lo vorrebbe, ma il signor Gaetano Sateriale fatica ad assumere plasticamente la posa e a conformarsi a quell’immagine dell’uno-di-noi che ‘la gente’ tanto ama e che renderebbe più semplice la sua azione e – forse forse – anche più credibile quel suo messaggio di inclusione. In tempi di leaderismo spinto, con politici piacioni che ostentano il loro filantropismo di facciata, pronti ad ogni sorta di performance pur di fare colpo, la sua ritrosia e il suo non concedere nulla alla folla rappresentano un handicap di cui, sul piano personale, certamente paga un prezzo salato.

Di cose, però, ne fa parecchie e importanti: l’ampliamento della zona a traffico limitato, il recupero di significative piazze storiche (in piazza Municipale al suo arrivo c’era ancora l’asfalto e le vetture autorizzate parcheggiavano). Interviene nel mercato degli appalti e riporta nei corretti termini il rapporto con le imprese, arginando le posizioni di rendita dei grandi (paradigmatica la vicenda Coop costruttori, ma anche le successive frizioni con la Sinteco di Roberto Mascellani). Avvia la bonifica del petrolchimico, promuove il festival di Internazionale, guardato con sospetto e provinciale snobismo (quello sì) da parte di tutti sino alla trionfale inaugurazione, cui farà seguito un successo che si ripete e si consolida negli anni.
Inverte la rotta centralistica e guarda al decentramento come a un valore di democrazia, praticandolo anche attraverso piccoli ma significativi atti concreti, come i già citati programmi partecipati o l’istituzione del vigile di quartiere. Riqualifica le periferie: il Barco e via Bologna alle quali si conferisce dignità e identità cittadina in termini di arredo urbano e di servizi. Dà impulso alla città d’arte e di cultura, ottiene la prestigiosa presidenza dell’Associazione italiana città Unesco, avvia con Giorgio Dall’Acqua l’operazione Ermitage, una promettente rendita dissipata dagli eredi. E nel 2005 salva la Spal dal capolinea sportivo.
In termini di partecipazione sostiene con convinzione i processi di Agenda 21 in campo ambientale e per dare concretezza all’obiettivo dell’inclusione sociale promuove la consulta dei cittadini stranieri.

Nella vicenda tragica di Federico Aldrovandi con coraggio compie uno strappo istituzionale e di fatto assurge a paladino dei diritti violati in un titanico e inedito scontro fra istituzioni, dove il Comune per una volta si qualifica davvero come la casa di tutti.

Il tempo finirà per rendere il giusto merito a questo sindaco schivo ma caparbio, il quale un’idea di Ferrara che andasse oltre l’ombra del proprio naso ce l’aveva. E che, a modo suo e per quanto ha potuto, si è prodigato per propiziarne la trasformazione.

L’EVENTO
I volti di Arte Fiera

Il ministro Dario Franceschini sul prato nello stand della home gallery di Maria Livia Brunelli e le immagini di Mustafa Sabbagh alle pareti di Arte Fiera 2015. I riflettori si sono accesi in questi giorni sull’attività artistica portata avanti dalla galleria ferrarese, con la visita istituzionale all’installazione di Stefano Scheda, che copre il pavimento dello stand Mlb con erba vera e pelli di mucca. Un pascolo – spiega la curatrice – che vuole essere metafora dello stato di schiavitù a cui vengono ridotti tanti animali. Lo stand espositivo della galleria di corso Ercole d’Este, poi, all’ora di pranzo diventa teatro di una performance estemporanea, con un veloce pic-nic dello staff su quel prato-opera d’arte. E’ uno dei tanti luoghi da vedere, in mostra per l’ultimo giorno all’interno della manifestazione fieristica di Bologna, aperta ancora per oggi dalle 11 alle 17.

L’evento mette insieme due padiglioni pieni di opere, tele, installazione, con un’area dedicata alle fotografie e un’altra alle pubblicazioni d’arte. Un’occasione per rivedere sia i capolavori che hanno fatto la storia dell’arte contemporanea sia le sue evoluzioni più recenti. E’ il caso dei rappresentanti di un movimento artistico importante come l’arte povera, che alla fine degli anni Sessanta si contrappone a quella tradizionale: le serigrafie su specchio di Michelangelo Pistoletto, che fa diventare i visitatori parte integrante dell’opera stessa e che qui, più che mai, si offrono a riflettere i selfie dei visitatori in molte delle gallerie presenti. Poi ci sono i tagli e i buchi su tele monocolore di Lucio Fontana, le donne rotonde di Fernando Botero, le sfere luccicanti di Arnaldo Pomodoro, i teatrini di Giosetta Fioroni.

L’evento mette in mostra anche produzioni meno note, come le nature morte all’uncinetto, immortalate con una luminosità caravaggesca da Daniela Edburg; il pianoforte sotto l’acqua scrosciante; gli alambicchi di liquidi colorati. Senza dimenticare gli estrosi cromatismi dei visitatori, che dialogano con sculture e quadri davanti ai quali si soffermano. Buona visione.

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Spettatore dell’opera con autoritratto di Pistoletto
Pic-nic sul prato-opera d’arte dello staff della galleria di Maria Livia Brunelli
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Colori, scambi e confronti ad ArteFiera 2015
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Galleria con tendina oro e argento
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“Breakfast with pliers” di Daniela Edburg
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Pianoforte sotto l’acqua scrosciante
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Visitatori in uno dei padiglioni di ArteFiera 2015
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Visitatrici in uno dei padiglioni di ArteFiera 2015
Il ministro Dario Franceschini nella Mlb home gallery
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Alambicchi colorati
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Un visitatore fotografa un’opera in mostra
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Giochi cromatici in una galleria di ArteFiera 2015

 

 

 

NOTA A MARGINE
A spasso per le vie dell’arte tra curiosità, voyeurismo e pura passione

Da venerdì scorso fino ad oggi, i padiglioni di Bologna Fiere ospitano l’annuale esposizione d’arte, la più importante in Italia, oggi alla 39esima edizione, in cui le gallerie, che quest’anno sono ben 188, mostrano opere di fama mondiale e propongono novità ed artisti emergenti. Tra più di duemila opere, disposte in due padiglioni, si resta ammaliati davanti ai quadri di Giorgio De Chirico, si osservano i ready-made di Mimmo Rotella e si fotografa la Marilyn di Andy Warhol.

arte-fiera-bolognaMa l’acquisto delle opere sembra essere l’ultimo dei motivi per cui passare qualche ora circondati dall’arte. Più che per guardare, sembra si vada per essere guardati. Nella giornata di sabato, avvicinarsi ai quadri era un’impresa impossibile, i padiglioni e gli stand delle gallerie erano affollati già dal primo pomeriggio, con numeri che tendevano ad aumentare con il passare del tempo. Potreste pensare che questa sia un’ottima notizia, che, nonostante i tagli alla cultura, l’arte interessi ancora a tanti. Lo credevo anche io, prima di sentire pezzi di conversazione come “amore, un bolero”, con tanto di foto ad una delle celebri donne formose di Botero, che una signora in pelliccia aveva confuso con le sinuose ballerine, avvolte in abiti aderenti, che si muovono seguendo ritmi spagnoli. Arte Fiera, proprio grazie alla fama conquistata nel tempo, si è trasformata da vetrina a passerella: le opere d’arte disposte nei padiglioni sono solo la scenografia ideale in cui mostrarsi, magari nella speranza di incontrare le cosiddette celebrità o un famoso critico d’arte.

arte-fiera-bolognaTolta una piccolissima parte di visitatori che è lì veramente per l’arte, i curiosi si guardano intorno, fotografano pezzi contemporanei di dubbio gusto e girovagano tra gli stand nel tentativo di capirci qualcosa. I più audaci osano chiedere i prezzi, spesso da capogiro, illudendo per qualche minuto i galleristi. Tra i tanti che desideravano mostrare l’opera d’arte che è la propria persona e i pochi che speravano di trovare tra gli artisti emergenti il nuovo Picasso, molti erano anche gli interessati all’evento vero e proprio. Perché l’arte moderna e contemporanea è spesso concettuale, impossibile da comprendere per chi possiede solo le conoscenze di base insegnate nelle scuole italiane. Partecipare a quest’evento mi è servito a comprendere la vastità del concetto di arte e la mia ignoranza in merito. Dopo aver compreso questo, ho iniziato ad osservare le reazioni degli altri visitatori che, in buona parte, sembravano divertiti o perplessi, ma mai totalmente consci di ciò che stavano guardando. Di questo se ne sono resi conto anche i galleristi, alcuni dei quali, visibilmente annoiati, hanno paragonato i corridoi dei due padiglioni alle vie di passeggio.

arte-fiera-bolognaEppure la presenza di tante persone, di tutte le età, vorrà pur significare qualcosa. Perché all’evento forse mancava la conoscenza di artisti o di opere, ma di certo non mancava la curiosità. Tanta era la voglia di comprendere e di fronte diverse opere avrei voluto la presenza di qualcuno in grado di istruirmi su ciò che stavo osservando senza capire. Il rischio del non insegnare l’arte è quello di farla diventare di nicchia, spegnendo voglia di conoscenza che ancora spinge verso questo mondo.

 

arte-fiera-bolognaarte-fiera-bolognaCamminando tra i padiglioni, dedicati all’arte moderna e contemporanea, ma anche alla fotografia e alle mostre monografiche degli spazi del Solo Show, ci si immerge in mondi ignoti. Si dice che non importa sapere cosa significa un’opera, il suo compito è quello di emozionare, ed è quello che succede anche passeggiando tra gli espositori: si resta incantati dai tratti realistici di quadri che sembrano fotografie, si ride, osservando opere bizzarre come lo struzzo fatto di carte da gioco di Nicola Bolla e si riflette dubbiosi, mentre tutti fotografano i tagli di Fontana, “forse questo potevo farlo anch’io!”.

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LA RIFLESSIONE
Se fossi una finestra…

Ho sempre amato le finestre, le guardo con ammirazione e curiosità, ovunque mi trovi nel mondo. Le fotografo e le sogno. Immagino. Attraverso di loro viaggio e invento. Ecco allora perché, a volte, vorrei essere una di loro… Quante cose potrei fare…

Se fossi una finestra me ne starei sempre aperta, pronta a lasciare entrare solo i raggi del sole e i pensieri buoni.
Se fossi una finestra chiuderei fuori tutti i dolori e i dispiaceri, sbatterei loro in faccia, con forza, le mie potenti persiane.
Se fossi una finestra guarderei sempre il mondo, lascerei i bambini affacciarsi a me per sorridere, giocare e osservare il sole.

se-fossi-finestrase-fossi-finestraSe fossi una finestra chiuderei i battenti solo a notte fonda, e leggermente, lasciando passare i raggi della luna, perché i suoi luccichii cristallini possano illuminare i volti degli innamorati.
Se fossi una finestra vorrei avere appesi alle mie guance solamente fiocchi e cristalli di neve e magari nastrini colorati che, a Natale, abbelliscono e decorano pensieri, parole e sorrisi.
Se fossi una finestra vorrei lasciare passare solo Gesù Bambino. Magari farei entrare anche Babbo Natale e la Befana, ma solo a condizione che portino doni, bellezza e buone notizie.

se-fossi-finestraSe fossi una finestra lascerei fuori le guerre, chiuderei gli occhi di coloro che sparano, colpiscono e feriscono, per fare vedere loro, anche solo per un momento, cosa c’è aldilà dei sogni.
Se fossi una finestra, soffierei il mio caldo e accogliente alito di vento su un camino, perché anche la brina possa riscaldarsi al tepore dell’immenso amore che abita nella mia casa.

Se fossi una finestra, toglierei tutte le barriere e le spranghe di ferro che separano gli uomini dalla libertà e dal mondo. E questo perché le nuvole possano volteggiare, passeggiare e veleggiare leggere verso chi sta rinchiuso per scelta o per imposizione.
Se fossi una finestra prenderei i vecchi sotto braccio, perché attraverso di me possano ritrovare il pensiero leggero della giovinezza e perché i loro ricordi lontani non siano fonte di rimpianto e di tristezza ma di allegra e gioiosa spensieratezza.

se-fossi-finestraSe fossi una finestra vorrei solo fiori sul mio davanzale.
Se fossi una finestra non accetterei mai di vedermi avvinghiata dall’edera soffocante. Non sopporterei la sua afa.
Se fossi una finestra vorrei profumare l’aria di gelsomino, attraverso di me passerebbero solo tenui profumi di primavera.
Se fossi una finestra, farei magari passare qualche fiocco di neve, ma solo a patto che sia leggero e candido come i miei gelsomini.
Se fossi una finestra mi farei attraversare solo note di Chopin o al massimo di Tchaikovsky, sempre che provengano da un lungo ed elegante pianoforte a coda.
Se fossi una finestra non sbatterei mai le mie persiane, a meno che si tratti di batter le mani di fronte a un bacio degno di un film.
Se fossi una finestra, sarei spalancata come un’intelligenza vivace che propone idee e belle parole.
Se fossi una finestra non coprirei mai il mondo, nemmeno con una pagina di giornale. Sarei quiete sempre viva e accesa.
Ah, se solo fossi una finestra…

Non basta aprire la finestra per vedere la campagna e il fiume.
Non basta non essere ciechi per vedere gli alberi e i fiori.
C’è solo una finestra chiusa e tutto il mondo fuori; e un sogno di ciò che potrebbe essere visto se la finestra si aprisse.

Fernando Pessoa

(Fotografie di Simonetta Sandri)

Testo pubblicato in versione ridotta in Omero Magazine [vedi]

Il cambiamento ‘fai da te’

“Scout in Piazza Ariostea per salvarla dalla movida”, così La Nuova Ferrara di sabato titola un articolo che presenta l’iniziativa di un gruppo di giovani Scout dell’Agesci per tenere pulita la piazza. L’idea è in linea con il progetto del Comune “Ferrara Mia” che mira a favorire iniziative promosse dai cittadini. Il progetto ha una valenza pratica – migliorare la sicurezza di un luogo molto frequentato da bambini – e una educativa che è la più importante.
Il contagio positivo è alla base di una infinita quantità di azioni che trovano nel web un indispensabile supporto. Se la democrazia è un ambiente e non solo un sistema di governo e un insieme di regole, allora “le strade per la democrazia sono infinite” e passano per una miriade di contesti locali, come assume il ciclo dal suggestivo titolo “La democrazia come problema”, organizzato dall’Istituto Gramsci e dall’Istituto di storia contemporanea di Ferrara.
A partire dall’idea che la partecipazione assume nuove forme, il cambiamento può non essere solo atteso e auspicato, ma in un certo senso prodotto, attraverso la condivisione. La rete offre uno straordinario supporto. Un solo esempio: Change.org è la più grande piattaforma al mondo che incoraggia le persone a sostenere petizioni sui temi di proprio interesse. Change.org è una piattaforma on-line gratuita per promuovere campagne sociali, fondata nel 2007 negli Stati Uniti, da Ben Rattray, considerato da Tima Magazine tra le 100 persone più influenti al mondo. Nel luglio 2012 l’organizzazione lancia il sito in italiano. La missione di Change.org è permettere a tutte le persone in tutto il mondo di “creare i cambiamenti” che desiderano, unendo i valori di un’organizzazione non-profit con la flessibilità e l’innovazione di una startup tecnologica. Oltre 70 milioni di utenti in 196 Paesi (2.3 milioni in Italia) ogni giorno usano Change.org, con il supporto di un team di professionisti. Chiunque può lanciare petizioni rivolte a realtà locali, istituzioni, grandi aziende o realtà internazionali. Che si tratti di una madre che combatte contro il bullismo nella scuola di sua figlia, di clienti che fanno pressione sulle banche per eliminare una tassa ingiusta o di cittadini che denunciano funzionari corrotti, migliaia di campagne lanciate da persone normali possono avere successo. Se in passato coagulare le persone intorno ad una causa richiedeva fatica, soldi e infrastrutture complesse, oggi la tecnologia ci ha reso più connessi. Tutti possono lanciare una campagna e mobilitare in poco tempo centinaia di persone localmente e migliaia in tutto il mondo, rendendo governi e associazioni più reattivi e attenti.
Change.org viene presentata come una piattaforma gratuita concentrata sulla missione di rendere le persone attori di cambiamento e investe tutte le entrate nei servizi rivolti agli utenti. I fondi di Change.org provengono da petizioni sponsorizzate da organizzazioni come Amnesty international, Medici senza frontiere. Così si legge nella pagina italiana di Change.org. “Stiamo lavorando ad un mondo in cui nessuno rimanga inascoltato e in cui creare il cambiamento sia parte della vita di tutti i giorni” [vedi].
Si può concordare sul fatto che simili forme dal basso rischiano di essere ingenue; certo non sostituiscono forme di democrazia rappresentativa adeguate, però possono contribuire a spostare, almeno in parte, le discussioni dal Palazzo alla vita reale.

Maura Franchi – Laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi e Social Media Marketing. Studia i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@gmail.com

LA RICORRENZA
La riscoperta di Vladimir Visotsky, poeta e cantore del dissenso

Oggi sarebbe stato il compleanno di Vladimir Semënovič Vysockij (Visotsky nella traslitterazione italiana), ufficialmente un grande attore, in verità uno straordinario poeta, ma i cui versi non furono inizialmente stampati perché sempre censurati dalle autorità sovietiche. E quindi Vysockij, boicottato e oscurato, aveva preso la chitarra e cantato per far passare le sue parole per tutta l’Urss. Oggi lo riscopriamo, grazie al nostro Finardi, in ‘Sentieri Selvaggi’. In Russia, oggi, ha finalmente il giusto tributo, tanto più che a Mosca vi è un museo in suo onore.

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Vladimir Vysotsky di fronte al poster del Teatro Taganka (RIA Novosti / Plotnikov)

Attraverso cassette registrate fortunosamente, la voce profonda, infiammata e dolente di ‘Volodja’, Vysockij era diventato la voce di coloro che si opponevano e dissentivano dal conformismo di regime. Inizialmente, lo abbiamo notato in una scena potentissima del ballo al teatro Mariinskij di San Pietroburgo, di un magistrale Baryšnikov-Nicolai ‘Kolya’ Rodchenko, che esplode sulle note di ‘Fastidious Horses’ del cantatutore russo. Poi lo abbiamo cercato e studiato un po’. Quelle note e parole ispiravano tanto.
Vysockij era nato il 25 gennaio 1938, a Mosca, da un sottotenente di carriera e un’interprete di tedesco. Era il periodo delle grandi e terribili ‘purghe’ staliniane. Nel 1961, aveva scritto la sua prima canzone, ‘Il Tatuaggio’. Già in queste prime fasi, quasi per gioco, un amico aveva iniziato a registrare le sue canzoni e a organizzare una sorta di distribuzione ‘porta a porta’ che avrebbe contraddistinto tutta la sua vita. Le sue canzoni cominciavano a circolare, anche se il suo nome era ancora sconosciuto. Nel 1964, effettuava un provino per Ljubimov, direttore del prestigioso teatro Taganka. Curiosamente, Ljubimov non era convinto delle sue doti di attore, ma lo prese con sé perché affascinato dalle sue canzoni che cominciavano a essere diffuse e note. Ma, già nel 1965, Vysockij, diventava uno degli attori principali del Taganka, dove avrebbe ricoperto ruoli importanti, quali quelli di ‘Galileo’ di Bertold Brecht.

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Vladimir Vysotsky (RIA Novosti / Kmit)

Ecco allora arrivare il suo primo disco, colonna sonora del film ‘Verticale’ e, nel 1967, il ruolo di Majakovskij in ‘Ascoltate Majakovskij’. Diventa un idolo, un attore leggendario.
L’anno seguente, l’incontro con Marina Vlady si trasformerà in grande e travolgente amore che durerà fino alla sua morte, nel 1980. Per Vysockij è un periodo di instancabile frenesia. Recita, scrive, compone, giorno e notte, ma in Russia si vuole dare una stretta contro gli intellettuali indisciplinati, e, pertanto, viene regolarmente boicottato, gli è negato ogni riconoscimento, diviene una specie di ‘uomo invisibile’. Solo nel 1987, con la Perestrojka gorbacioviana, sono arrivati i primi riconoscimenti ufficiali e le sue canzoni sono state pubblicate su disco. Fino ad oggi.
Questo incredibile poeta cantò i perdenti che non si arrendono, gli sconfitti, gli idealisti disillusi, coloro che si sono persi nella vita, coloro che sono stati abbandonati da essa.

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Francobollo russo del 1999 dedicato a Vladimir Vysockij

Una vita disperata, la sua: pur ignorato e boicottato era diventato il poeta più popolare del suo paese, senza che di lui fosse stato mai stampato un singolo verso. L’Italia lo avrebbe capito e presentato al grande pubblico un po’ dopo, ma lo avrebbe compreso. Nel 1993, gli era stato assegnato, infatti, il premio Luigi Tenco e, per l’occasione, era stato registrato un album (‘Il Volo di Volodia’), ad opera di vari cantautori fra i quali anche Roberto Vecchioni ed Eugenio Finardi. Nell’album di Paolo Rossi (In Italia Si Sta Male Si Sta bene Anziché No e Altre Storie) del 2007, vi era una versione italiana della canzone ‘utrennjaja gimnastika’.

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Monumento a Vladimir Vysockij (Mosca) e la copertina della raccolta ‘Sentieri selvaggi’ interpretata da Eugenio Finardi

E poi è arrivato Finardi. ‘Sentieri selvaggi’, uno dei più importanti ensemble italiani di musica classica contemporanea diretto da Carlo Boccadoro, ha invitato Finardi a unirsi a loro per un progetto sull’opera del cantautore russo, le cui canzoni sono state ripensate e trascritte da Filippo Del Corno, compositore tra i più affermati delle ultime generazioni. Nasce così il progetto ‘Il cantante al microfono’, un cd che getta un ponte tra la canzone d’autore e la musica classica contemporanea partendo dal grande attore, poeta e cantautore russo. Dal corpus delle sue oltre 500 canzoni, Eugenio Finardi e Filippo Del Corno hanno scelto una decina di titoli fortemente rappresentativi della tensione etica, spirituale, politica e dell’ironia corrosiva che anima il lavoro di Vysockij. Le canzoni, già tradotte in italiano da Sergio Secondiano Sacchi, sono state orchestrate dallo stesso Del Corno, in una versione che mette in luce la qualità poetica e musicale dei versi di Vysockij e permette il pieno dispiegamento della straordinaria potenza interpretativa di Eugenio Finardi, che, da tempo, affianca alla sua attività di protagonista del rock d’autore italiano un approfondito e rigoroso lavoro di ricerca vocale. Le canzoni vanno ascoltate con calma e concentrazione, una per una. Sono immense.

Ascolta le canzoni di Vladimir Visotsky [clicca qua]

Eugenio Finardi canta Visotsky [ascolta qua]

Il tributo di Ferarraitalia a Vladimir Visotsky negli ‘Accordi’ del 1 gennaio 2014 [leggi qua]

CANZONE DELLA TERRA (1969)
Chi ha detto: “Tutto è completamente secco,
Non tornerà più il tempo della semina?”
Chi ha detto che la Terra è morta?
No, s’è nascosta per un po’…

Non possiamo impadronirci della fertilità,
Non possiamo, come non si può svuotare il mare.
Chi ha creduto che la Terra bruciasse?
No, s’è annerita dal dolore…

Come crepe giacevano le trincee
E le buche s’aprivano come ferite.
I nervi della Terra messi a nudo
Conoscono la pena più profonda.

Sopporterà tutto, attenderà.
Tra gli sciancati non mettere la Terra!
Chi ha detto che la Terra non canta?
Che ha perduto per sempre la parola?

No! Echeggia di gemiti soffocati,
Da tutte le sue ferite, da ogni fessura,
La Terra è dunque l’anima?
Non calpestarla con gli stivali!

Chi ha creduto che la Terra bruciasse?
No, s’è nascosta per un po’….

L’OPINIONE
Contro ogni forma di discriminazione. Pensieri in libertà sulla giornata della memoria

di Michael Sfaradi

Sono passate decine di anni dalla fine della seconda guerra mondiale e dalla scoperta dell’enorme tragedia umana dell’Olocausto ma ancora ci è difficile capire come degli uomini in preda a deliri di onnipotenza siano riusciti da una parte a auto-convincersi di essere razza superiore e dall’altra, proprio in nome di questa superiorità, a programmare a tavolino l’annientamento totale di popolazioni intere. Grazie a Dio non ho conosciuto direttamente gli orrori delle leggi razziali e delle persecuzioni, ma come tutti i figli e i nipoti della Shoah ho preso coscienza del dramma vissuto dal mio popolo solo attraverso i racconti delle persone che sono riuscite a salvarsi dalla deportazione o che sono tornate dai campi di sterminio. I loro racconti, la loro memoria storica è un bene che la mia generazione e le generazioni a seguire hanno il dovere di conservare e mantenere vivo per far sì che ci sia sempre un campanello di allarme, una spia che si accenda ogni volta che ci si avvicina, pericolosamente, a situazioni che possono permettere il ripetersi di fatti storici come questo o simili a questo. Ogni volta che mi sono trovato davanti a discussioni dove c’erano delle persone che facevano parte di gruppi etnici o religiosi diversi da quelli che allora furono colpiti, ho notato che ognuno di loro cercava di dare a se stesso una risposta per rendere accettabile l’inaccettabile… tutto andava bene, anche, per assurdo, accusare le vittime. Questo perché nelle menti degli esseri veramente umani non è accettabile l’idea che sia stata creata una macchina distruttrice, una fabbrica di morte nei confronti di qualcuno e che questo qualcuno sia totalmente innocente.

Se a distanza di tanto tempo ancora ci si chiede attoniti perché e come può essere accaduto, e si rimane increduli e senza risposte soddisfacenti davanti alle prove inconfutabili che l’essere umano può arrivare a livelli di malvagità senza limiti nei confronti dei suoi simili, l’unica cosa veramente chiara, per chi la vuole vedere, è che quello che accadde nel buio di quegli anni degradò l’umanità al di sotto di ogni livello accettabile. Quando poi se ne prende coscienza quello che rimane è solo un senso di impotenza profonda davanti alla storia e alla follia. È impossibile per noi capire cosa abbia abitato in quegli anni nella mente e nel cuore della maggioranza delle persone, e questo non solo in Germania, ma in tutta Europa. Quello che accadde non fu un caso isolato, non fu un’eccezione, non fu un cortocircuito, quello che accadde fu la conseguenza di un’azione studiata a tavolino, finanziata e programmata fin nei più piccoli particolari. Un’azione che prese il via in Germania ma che trovò adepti in ogni angolo d’Europa, un’azione che riuscì a portare allo scoperto l’odio profondo e radicato nei confronti di una minoranza, un odio che per secoli era stato, a più ondate, alimentato da chi nell’ebraismo e nella sua cultura, che è sempre stata la radice su cui poggiava e poggia il mondo moderno, vedeva un affronto se non un pericolo. In quegli anni si aprirono le dighe e l’odio che da sempre bolliva in larghi strati della popolazione europea straripò in tutta la sua lucida violenza.

In quegli anni lo sterminio era la normalità, perpetrare lo sterminio era la normalità, rimanere silenti davanti allo sterminio era la normalità. Gli ebrei, ad esempio, venivano accusati, come al solito, come oggi, di avere in mano l’economia mondiale, anche se le statistiche sia di allora che di oggi smentiscono questa diceria. Ma non era e non è sufficiente, perché chi vuole odiare ha bisogno di un motivo o una scusa per farlo, e non ha importanza se sia vera o falsa. Serve la fiamma per accendere la miccia, serve la scossa per far detonare la bomba carica di odio e cattiveria. Gli zingari, i rom, accusati di essere ladri, gente marcia, come gente marcia erano gli omosessuali e tutti coloro che non volevano o non potevano allinearsi all’interno di quel trita cervelli che è sempre stata la propaganda delle dittature, di tutte le dittature a prescindere dal colore dietro il quale si nascondono o si sono nascoste. I regimi, come è stato per il nazismo e per il fascismo, e a seguire dalla fine della seconda guerra mondiale fino ai nostri giorni, con una lunga scia di dittatori e sangue, hanno continuato ad arrogarsi il diritto di decidere la vita o la morte di popolazioni intere, che per volere del tiranno di turno diventavano bande composte da esseri subumani, cancro della società.

Ecco allora calare il buio della ragione e le schiere degli sterminatori stringono i ranghi davanti al silenzio dei pavidi che ne diventano complici silenti. Il messaggio viene recepito come vero e con il tempo l’odio diventa normalità e da lì ai campi di prigionia, o di rieducazione il passo è breve, breve come è facile ritrovarsi dietro al filo spinato, con un proiettile in testa o dietro la schiena. Se vogliamo fare un piccolo esempio che possa aiutarci in un cammino di riflessione, in una chiave di lettura diversa che ci possa permettere di capire quali sono stati i meccanismi che hanno portato a una follia collettiva come quella che si è registrata in occasione della Shoah dobbiamo accettare che la “follia collettiva” non era in realtà una follia vera, ma freddo ragionamento di burocrati convinti che i vagoni blindati in viaggio verso i campi di sterminio fossero pieni di animali da eliminare quanto più velocemente possibile, in modo da rendere il mondo più pulito e vivibile. Proprio considerando che la Germania di quegli anni era il centro del sapere europeo, il centro della cultura europea, rimane ancora più difficile credere che tutto ciò sia partito proprio da lì, ma così è stato.

Rievocare in questa giornata 6 milioni di persone uccise con il gas e cremate nei famigerati forni dei campi di sterminio, rievocare le centinaia di migliaia di persone che sono state barbaramente torturate o inumanamente sottoposte ad ogni tipo di esperimento pseudoscientifico e, cosa ancora più dolorosa, rievocare 1 milione e mezzo di bambini ai quali fu tolto ogni diritto e ogni gioia della vita è un compito decisamente arduo che non si esaurisce in cerimonie rievocative una volta all’anno ma che deve essere spiegato nei minimi particolari affinché la memoria non vada persa… affinché il passato non ritorni ad essere un presente. È un compito che ci riguarda tutti da vicino e che abbiamo il dovere di insegnare ogni volta che capita l’occasione. Gli storici hanno provato, con il loro lavoro, a dare un senso alla tragedia, esistono decine di libri e di saggi dove vengono presi in considerazione aspetti del dramma e si prova a darne una spiegazione, ma io credo che a tutt’oggi non esista un’opera che possa racchiudere in sé il “fatto storico” nella sua interezza, che possa far capire la drammaticità di ciò che accadde.

Questo mi ha fatto giungere alla conclusione che uno dei pochi dati di fatto acquisiti è quanto sia stata grande, immensa, la tragedia, tragedia che l’uomo è riuscito a creare in un dramma che esso stesso non riesce a capire e al quale ancora oggi non riesce a dare una spiegazione valida. Gli storici da una parte hanno il compito di raccolta dei documenti, non passa giorno che non si scopra in qualche angolo d’Europa un nuovo archivio o un nuovo carteggio che mette i riflettori su altri massacri, e aggiungono così altri capitoli di questo libro ancora lontano dall’essere definito, ammesso che mai possa essere definito, dall’altra il nostro dovere, soprattutto ora che gli ultimi testimoni viventi ci stanno purtroppo lasciando e i negazionisti si fanno avanti con sempre più forza e tracotanza, è quello di non dimenticare. Lo stesso Yad Vashem il museo dell’Olocausto di Gerusalemme, è stato di recente profondamente ampliato proprio per far posto a tutte quelle testimonianze che continuano ad arrivare con un flusso continuo.

Giorno dopo giorno, ancora oggi, escono dal buio dell’oblio nomi, cognomi, indirizzi, nazionalità, e si restituisce un minimo di dignità a persone che da innocenti hanno pagato ciò che erano e per quello che erano. Ma tutto questo non basta, il nostro compito non si esaurisce qui, noi che siamo uomini liberi, donne libere, dobbiamo fare in modo che il buio della coscienza non sia appropri più della nostra anima e dell’anima delle popolazioni cui apparteniamo. È troppo facile dire, o peggio ancora credere, che quello che è accaduto non accadrà di nuovo… non fatevi ingannare, succede ancora, ogni giorno, davanti ai nostri occhi troppo occupati per vedere le tristi realtà che si avvicendano in posti lontani che poi lontani non sono. Non avremo mai il numero dei morti, e sto parlando degli anni Settanta, che ci furono nei campi di sterminio cambogiani dove il regime dei Khmer Rossi ha prodotto risultati che variano da un minimo di 800.000 a un massimo di 3.300.000 morti. Questo conteggio riguarda le vittime delle esecuzioni, delle carestie e dei disagi. Il governo vietnamita parlò di 3.300.000 morti mentre Lon Nol si vantò di averne eliminati 2.500.000. L’Università di Yale giudica la cifra intorno al 1.700.000 unità mentre Amnesty International ne da qualcuna in meno 1.400.000, ultimo e non meno importante il dipartimento di Stato degli USA che ne considera solo 1.200.000.

Tutto questo può essere da noi considerato normale? 3 milioni, 2 milioni, 1 milione mezzo, ma qui non stiamo parlando di pecore alla vigilia della Pasqua, questi numeri, nella loro freddezza spersonificata, come i sei milioni di Auschwitz, nascondono volti di uomini, donne, vecchi e bambini. Persone che avevano nome, un cognome, una vita da vivere e tanti sogni irrealizzati. Qualcuno potrebbe pensare che tutto ciò è lontano, è successo dall’altra parte del mondo, era fuori dal nostro pianeta? Ma le fucilazioni di massa nella ex Jugoslavia sono state perpetrate proprio dietro la porta di casa nostra, nel cuore dell’Europa continentale, e nessuno ha mosso un dito se non quando era già troppo tardi. Anche in quel caso, mi duole dirlo, la comunità internazionale legata da mille laccetti più o meno seri, più o meno politici ha lasciato che città intere, e Sarajevo ne è il simbolo, fossero praticamente rase al suolo.

Sempre alle porte dell’Italia e nel cuore dell’Europa continentale abbiamo assistito a scontri armati che si consumavano all’interno delle stesse famiglie perché essere serbo o essere croato era un motivo sufficiente e necessario per essere eliminato. E ancora più vicino a noi nel tempo siamo testimoni di massacri dimenticati dove uomini uccidono altri uomini, donne vengono stuprate e vendute come schiave e teste vengono staccate dai corpi e rotolano in terra così come venivano staccate e rotolavano nel più terrificante Medio Evo, e tutto ciò in nome di un Dio diverso. Questo è il buio della ragione, questo è quello che noi più che combattere dobbiamo prevenire senza delegare questo lavoro a nessuno, perché nessuno può garantirci nulla. Solo noi stessi possiamo essere garanti, solo noi stessi possiamo insegnare alle future generazioni la luce della vita gettando il seme della convivenza pacifica e civile fra le genti.

Concludendo voglio ribadire il concetto a me caro, che il modo migliore per onorare chi sull’altare dei forni crematori ha sacrificato la vita, è una medaglia con due lati: da una parte il massimo impegno affinché il ricordo rimanga indelebile e, dall’altra, la nostra attenzione su tutte le manifestazioni di antisemitismo, di omofobia e di ogni razzismo possibile, palesi e no, senza sottovalutarle e impedendo che motivazioni politiche di ogni colore strumentalizzino il dolore per farne battaglie ad esso estranee.

SETTIMO GIORNO
La guerra

Ho aperto gli occhi e la mente al mondo che c’era la guerra, ero piccolo, ma la mia memoria non mi abbandona mai, purtroppo, meglio dimenticare a volte, si vive meglio. Ricordo mio padre vestito in grigioverde, presto sarebbe partito per la Russia, ricordo il grande coglione Benito che, tutto felice, informava con voce tonante gli italiani che aveva dichiarato guerra: “Un’era segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria – urlava il “pataca” romagnolo – l’ora delle decisioni irrevocabili”; rimbalzava la parola del duce da altoparlante ad altoparlante, le vie di paesi e città erano invase. “Il destino che batte nel cielo” altro non era che la condanna a morte per migliaia di innocenti, mandati al massacro in gelide terre o in torride plaghe, o, peggio ancora, nelle nostre città bombardate dal nemico. Il nemico? Quale nemico?, chiesi a Joannes Zelemarian, commissario politico della rivoluzione eritrea contro il regime etiopico di Mengistu, per me erano tutti amici, eritrei ed etiopi, ma lì, appiattito nella trincea scavata nella roccia carsica attorno ad Agordat, la città sotto assedio da parte delle truppe eritree, l’amico era Zelemarian con i suoi compatrioti e il nemico era il cecchino che mirava alla mia testa a non più di settanta-ottanta metri di distanza. Giù, mi diceva Joannes, stai giù Gian Pietro, anche se ha il sole negli occhi il cecchino non sbaglia. Era la prima volta che vedevo il “nemico” così da vicino. Non fu piacevole scoprire che c’era un essere umano come me che, senza altra ragione che non fosse il nostro essere nemici, mi voleva uccidere, io lui non lo avrei ammazzato. Ma era la guerra, la peggiore, l’invincibile, l’inesorabile invenzione umana. Speravo di non dover aver mai più a che fare con i conflitti, di non dover più dire questo è mio amico e questo mio nemico. Ma non si può, l’uomo vuole nemici e amici per combattere i nemici e ora i nemici ci sono, sono qui, sono là, sono sotto casa, sono dovunque li portino interessi quasi sempre sconosciuti, immaginati ma non chiari e noi, noi, siamo gli odiati nemici da sconfiggere, da massacrare se possibile, e loro, loro, sono i terribili avversari da annientare: non ci sarà bisogno di dichiarare guerra pomposamente come fece Mussolini, la guerra è già stata dichiarata, guerra globale, all’ultimo sangue, per una volta ancora noi cittadini siamo le vittime destinate a essere usate come carne da macello. Attenti a chi sta dietro l’angolo di casa.