Dopo una giornata passata all’università, Ozgecan Aslan, studentessa turca, prese il minibus del college per tornare a casa. A ogni fermata il mezzo si svuotava dei suoi passeggeri, fino a quando la ragazza non fu l’unica rimasta con l’autista, un ragazzo ventiseienne che, dopo aver tentato di stuprarla, l’ha rapita, le ha amputato le mani, l’ha bruciata e ha buttato i resti del cadavere in un fiume. Il peperoncino che la ragazza gli ha spruzzato negli occhi, in un vano tentativo di difesa, bruciava meno dell’orgoglio ferito e, per riconquistare la virilità perduta, l’ha pugnalata. Poi ha chiamato un amico e il padre per nascondere il corpo. Quando il corpo è stato trovato e l’uomo identificato, si è difeso affermando di essere stato provocato dalla ragazza, perché indossava una gonna.
Gli abitanti di Mersin, luogo dell’accaduto, hanno reagito con rabbia, creando una campagna social per gridare al mondo ciò che accade, per far sì che la morte di Ozgecan Aslan non sia dimenticata, come tante altre donne uccise, un numero in crescente aumento.
Le donne hanno proibito agli uomini di toccare di nuovo il corpo della giovane vittima e di sedersi nelle prime file al funerale, hanno guidato il corteo funebre e urlato giustizia. Ma anche gli uomini vogliono giustizia, vogliono mostrare che non sono tutti brutali assassini e stupratori, e, per raccontare la triste storia di Aslan, hanno creato una campagna sociale online con l’ashtag #ozgecanicinminietekgiy, tradotto “Indossa una gonna per Ozgecan”, sono state pubblicate più di 15 mila fotografie in cui gli uomini, islamici e non, hanno indossato una minigonna, affermando che, se quel particolare indumento equivale ad un invito allo stupro, anche indossata da loro aveva lo stesso significato.
Il messaggio è chiaro ed è sempre lo stesso: le donne non devono avere paura di vestirsi e uscire, ma sono gli uomini che, fin da bambini, devono essere educati al rispetto. Per noi occidentali questo è un concetto già consolidato (almeno nella teoria), ma molte donne lottano ancora per ottenere dignità, per essere considerate al pari degli uomini. C’è chi contesta questa modalità d’espressione, affermando che una campagna online può sembrare utile in Occidente, ma in questi Paesi non ha forza.
Il problema non è legato alla marginalità di classi sociali disagiate, ma esteso a tutta la società. Basti pensare che il presidente Erdogan ritiene che le donne debbano affidarsi agli uomini per essere protette dagli stupri, e che la parità di genere è “contro natura”.
Una foto su un social network non sarà la strategia migliore, ma Ozgecan Aslan è diventata il simbolo di un mondo stanco di subire, di avere paura anche solo di uscire di casa. Migliaia di persone si riuniscono a Mersin come ad Istanbul, marciano insieme uomini e donne vestiti di nero, uniti contro la violenza sulle donne, perché lo stupro è un crimine contro l’umanità. Nella speranza che, domani, le ragazze possano tornare senza timore dall’università, dal lavoro o da una passeggiata, senza dover stringere tra le mani un (talora vano) spray al peperoncino.
A voi “Big Eyes” o “Big Lies”, ovvero la storia degli occhioni sgranati di Margaret Keane, una delle più clamorose frodi della storia dell’arte. Una differenza sottile fra realtà e finzione è il filo conduttore di questo bellissimo film di Tim Burton, uscito a gennaio nelle sale italiane e che ha come protagonista una donna derubata della sua identità di artistada un marito che le fa credere di amarla, quando vuole solo sfruttare il suo talento. E appropriarsene.
Una storia vera, raccontata dal giornalista scandalistico Dick Nolan. Quella di Margaret Ulbrich (poi Keane), che dipinge giorno e notte, e del marito Walter, pittore dilettante e incapace ma abile venditore che si spaccia per l’autore reale. E negli anni ‘50-‘60, quando non sempre le donne erano valorizzate, tutti osannano lui, tutti vogliono i suoi quadri, quelle tele favolose che ospitano bambine dagli occhi immensi e tristi, occhi che squadrano, osservano, esaminano, inquisiscono, inquietano, un po’ pure spaventano. Mentre la moglie è costretta al super lavoro e all’invisibilità più totale. I due si conobbero a San Francisco, nel 1955, durante una mostra. Lui era un agente immobiliare e come hobby dipingeva dei vicoli di Parigi, dove diceva di aver vissuto. Lei ne fu subito affascinata, colpita da intraprendenza e carisma.
I primi due anni della loro vita furono felici, ma tutto cambiò una notte in cui Margaret accompagnò il marito in un club di San Francisco dove si esibivano comici come Lenny Bruce e Bill Cosby e si accorse che lì, Walter Keane, vendeva i quadri con i bambini dai grandi occhi e se ne prendeva il merito. Margaret si rese conto improvvisamente che ai suoi committenti e ai vari clienti, Walter raccontava una grande bugia. Ma per bisogno di soldi e paura di essere accusati di truffa, la bugia sarebbe continuata per anni. E mentre (erano gli inizi del 1960) si vendevano milioni di poster e cartoline con i bambini dagli occhi grandi e persone famose come Natalie Wood, Joan Crawford, Dean Martin, Jerry Lewis, Adriano Olivetti e Kim Novak compravano gli originali, la vita della coppia cambiava tristemente e miseramente. Margaret continuava a dipingere nella sua gabbia d’oro (in una grande e lussuosa villa con piscina), triste, angosciata e mentendo alla figlia Jane avuta dal primo matrimonio, l’unica vera persona per lei importante.
Persa in una relazione morbosa, pericolosa e dannosa che si sarebbe degradata completamente fino a condurre a un burrascoso divorzio e al tribunale, negli anni ‘80. Alla fine, in sede giudiziaria, Margaret, ritiratasi nel frattempo in piena solitudine alle Hawaii, dove aveva continuato a dipingere, avrebbe avuto riconosciuti i suoi diritti, dopo il clamore e gli scandali iniziali. Grandiosa la scena in tribunale nella quale il giudice, per dirimere la questione, chiese ai coniugi di dipingere un bambino dagli occhi grandi proprio lì davanti a tutti, in aula. Margaret finì il quadro in 53 minuti. Walter disse che non poteva farlo perché aveva male a una spalla. Lei vinse la causa, fu autorizzata a firmare da quel momento i dipinti e venne stabilito un mega risarcimento di 4 milioni di dollari: ma lei non vide mai un centesimo, perché l’ex marito aveva speso tutto e non aveva ormai più nulla. Walter Keane morì nel 2000.
Ma che cosa guardavano quegli occhioni sgranati delle bambine dipinte in serie da Margaret Keane? Non si sa, e qui sta il bello. Ognuno poteva e può pensare ciò che vuole. Margaret, ancora vivente e un po’ dimenticata, oggi è rivalutata quasi come una sorta di paladina dei diritti delle donne, precorritrice dei tempi a loro dovuti, capace di ribellarsi al marito impostore, despota, mitomane e schizofrenico e di veder riconosciuti in pieno i suoi diritti. Un buon film sull’emancipazione femminile dell’epoca, sulla manipolazione dei media e del marketing rispetto all’arte e su pregi e virtù di un periodo mutante per l’America coincidente con la Beat Generation di San Francisco.
“Lo scenario che hai dipinto ti si ritorce contro”, Margaret Keane
Big Eyes, di Tim Burton, con Amy Adams, Christoph Waltz, Danny Huston, Jon Polito, Krysten Ritter, Jason Schwartzman, Terence Stamp, USA, 2014, 105 mn.
In un momento un cui la cultura fa paura e molti giornali parlano di strumenti musicali che bruciano e vignette satiriche o pseudo tali (anche se l’attenzione su di esse è leggermente calata), eccone una di qualche mese fa, simpatica ma che, tuttavia, tocca un aspetto preoccupante, quello della sparizione o, peggio, della distruzione di molte opere d’arte storiche in un paese ricco di cultura come la Libia (ma non solo).
La vignetta ironizza sulla sparizione della Fontana della Gazzelladal lungomare di Tripoli, con un disegno che ritrae un ufo che se la sta portando via. Era bella, soave, delicata e antica, probabilmente incompresa da molti. La fontana di bronzo era un simbolo storico della città, spesso immortalata su cartoline e fotografie. Realizzata nel 1932, durante il periodo coloniale italiano, dall’artista livornese Angiolo Vannetti (1881-1962), la statua era sopravvissuta a tutti i governi. Durante la presenza in Libia della comunità italiana (fino al 1970), la fontana era meta degli innamorati che si facevano fotografare ai bordi della vasca. Ma anche dopo la cacciata dei residenti italiani, per mano del regime militare di Gheddafi, la Gazzella era riconosciuta dai giovani libici come un luogo d’incontro e nella piazza erano stati aperti bar e ristoranti affollati che portavano il suo nome.
La chiamavano semplicemente la Gazzella, ma era qualcosa di più. In quella statua di gazzella abbracciata da una donna seminuda, circondata dai getti d’acqua di una fontana, gli abitanti di Tripoli leggevano un ultimo ricordo del passato e il rimpianto di anni non segnati dall’incertezza, dall’inquietudine degli attuali giorni bui. La “fontana italiana”, come la chiamavano molti, oggi è sparita, puff, scomparsa nel nulla, lo scorso novembre. Al suo posto, sul basamento della fontana, spenta, triste e semivuota, resta un deforme torsolo di cemento e metallo. Un indizio, secondo alcuni, di come la statua possa non essere stata semplicemente spostata, ma più probabilmente rubata o distrutta. Le autorità non chiariscono. Anzi, piuttosto, tacciono. Anche perché, qualcuno potrà pensare, i problemi ora sono ben altri.
Si è detto che era stata rimossa per restaurarla ma la versione più ricorrente e accreditata dai cittadini di Tripoli è che quella statua italiana, quella donna seminuda odiata dagli integralisti abbia fatto la fine dei Budda di Bamyan in Afghanistan, sia stata rimossa non per essere riparata, ma per essere definitivamente distrutta. Quello che è certo, è che, già nel 2011, dopo la caduta di Gheddafi, qualcuno aveva cercato di “rivestirla” avvolgendola in veli e stracci destinati a coprire le sue nudità. Alla fine, per evitare lo scontro, era stato deciso di incrementare lo zampillio della fontana in modo da nasconderne le forme dietro gli spruzzi e i giochi d’acqua. Ma quell’esile compromesso era ben lontano dal soddisfare le menti più fanatiche. Nel 2012, la statua era stata, infatti, minacciata dagli estremisti, tanto da far disporre una sorveglianza della polizia. Lo scorso agosto era stata gravemente danneggiata da un razzo che le aveva centrato il ventre lasciando un enorme squarcio.
Quelle stesse menti che hanno distrutto i ‘mimbar’ (storici pulpiti in legno con scalini in legno per la predica del venerdì, giudicati toppo alti), le moschee sufi e ottomane, vandalizzato l’arte preistorica del sud del paese, la necropoli greca di Cirene, la città romana di Leptis Magna (dove proiettili hanno bucherellato la scritta ‘Imp Caesare Divi’), costretto il Museo nazionale a rimanere sbarrato e a chiudere i pezzi di epoca adriana in un deposito, obbligato Leptis a farsi ricoprire dalla sabbia e a ospitare “accampamenti” improvvisati di qualche pecora. I turisti sono storia lontana, ormai. Con la sparizione (o peggio, forse, la distruzione) della Gazzella, Tripoli e tutta la Libia perdono un simbolo d’innocenza e di giovialità che caratterizza i gesti della gente semplice del paese nord-africano, per entrare in una possibile fase di oscurantismo. Speriamo bene.
Mario Capanna, storico leader del Sessantotto, sbeffeggia i giovani dicendo che se a 70 anni avranno una misera pensione se lo meritano perché non stanno facendo nulla per cambiare questa società. Massimo Gramellini sulla ‘Stampa’ lo pizzica sostenendo che, prima di fare la morale ai ragazzi, quelli come Capanna dovrebbero loro per primi muovere autocritica perché nonostante le battaglie di cui menano vanto hanno contribuito a far sì che il mondo oggi sia così com’è.
Io mi sfilo da questa diatriba e ai giovani vorrei idealmente indirizzare la stessa esortazione che ho rivolto ai miei studenti: siate sovversivi e rivoluzionari perché il progresso si genera dal cambiamento e dalla rottura con il passato.
Certo, è per tutti più comodo e rassicurante seguire pedissequamente il gregge, accomodarsi in poltrona e perpetuare gesti e azioni secondo il criterio di ovvietà: si fa così perché così si è sempre fatto, attuando automatismi legittimati semplicemente dalla tradizione, secondo modelli di azione reiterati senza essere posti al vaglio della ragion critica, come invece sarebbe doveroso sempre. Perché è proprio al libero intelletto che dobbiamo fare appello per orientare il cammino e determinare le scelte.
Se tutti quanti ci fossimo limitati a riprodurre i gesti dei padri, l’umanità sarebbe probabilmente ancora ferma all’epoca della pietra. Invece per innovare, migliorare, progredire occorre guardare il mondo da punti di vista e prospettive differenti, senza cristallizzarsi mai, cercando continuamente – e scevri da pregiudizi – le soluzioni più adeguate, senza il timore di percorrere vie inesplorate e di sperimentare originali approdi, senza zavorre.
Fate in modo che comprensione e rispetto del passato e considerazione della tradizione non divengano freni inibitori. Perché è solo così, attraverso conflitti e rotture, che si genera il benefico cambiamento che conduce al progresso.
In questo cammino si deve però avere la saggezza di non innamorarsi delle proprie cause e delle proprie idee, e la capacità di mantenere sempre lucida, onesta e vigile coscienza degli atti compiuti e dei loro effetti. Ogni convincimento e ogni azione vanno preventivamente posti al vaglio dell’intelletto per valutarne responsabilmente le conseguenze e i prevedibili esiti nella realtà.
Serve dunque un approccio non dogmatico, ma razionale e passionale: la passione delle idee, la ragion critica a orientarle, il rispetto e la considerazione degli altri intesi come interlocutori e non come nemici.
Forti di questi sentimenti potete lanciarvi con determinazione alla ricerca di nuove cure per guarire questo mondo malato e potrete affrontare senza remore le ineludibili pacifiche sfide necessarie a cambiarlo.
Parlare di ciò di cui non si parla mai, nominare l’innominabile, sfatare un tabù mescolando impegno e ironia, comicità e indagine intima, dramma e piacere, sessualità e identità di genere. Partono da questi elementi qui, i “Monologhi della vagina”, mini-brani scritti dall’americana Eve Ensler quasi vent’anni fa, messi in scena a Broadway e poi, via via, trasformati in una specie di format di impegno e popolarità crescente. I testi sono stati scritti facendo raccontare a duecento donne la loro idea del sesso, il loro rapporto con l’organo più intimo, le relazioni, le paure, i desideri. Da qui partono brevi interviste che danno voce a episodi emblematici legati alla sessualità, all’amore, ma anche alla nascita, ad episodi di violenza, vergogna, avvilimento. Un luogo oscuro da cui partire e che, alla fine, racchiude secondo l’autrice il nocciolo più intimo e profondo dell’identità di ogni donna, il modo in cui ne gioisce e ne soffre, come attorno a ciò spera e teme. Dietro al divertimento, poi, resta sempre vigile e presente la voglia di denunciare episodi di violenza e sopraffazione.
Il successo dell’opera teatrale e del libro negli Stati Uniti è stato fondamentale per esportare un’iniziativa che, altrimenti, sarebbe rimasta forse più piccola, sconosciuta e di nicchia. Invece, così, con testimonial come Tina Turner e Whoopi Goldberg, i “Monologhi della vagina” si sono espansi, sono arrivati in Italia e si sono trasformati in un movimento, che è quello del V-Day. Si tiene ogni anno tra febbraio e marzo. La città di Ferrara questa iniziativa spettacolare e questo movimento li ha fatti suoi dal 2012 e, a partire da domani, li riporta in scena.
A raccontare il coinvolgimento tra la città e questo modo innovativo di unire spettacolo e voglia di fare campagna di sensibilizzazione è Laura Benini, che ha fondato il gruppo insieme a un uomo e quattro donne. “Nel 2012 – ricorda Laura – c’erano già state altre esperienze sporadiche in Italia e, in particolare a Trieste, dove l’opera era andata in scena per tre anni di seguito. Poi l’organizzatore si è trasferito a Ferrara e ci ha coinvolte aiutandoci a organizzare lo spettacolo e ad aderire al movimento internazionale del V-Day”. Da allora, ogni anno le ragazze – che ora sono una ventina – ricevono dall’America il copione con una selezione di monologhi, insieme li leggono, ciascuna sceglie quello che sente più vicino a sé e alla propria sensibilità, li studiano, fanno le prove e poi li portano sul palco sentendosi a quel punto sempre più unite, complici e consapevoli. Oltre alla parte della messa in scena c’è un lavoro di squadra per coinvolgere le istituzione, produrre materiale di comunicazione, ma anche per allestire la scenografia, inventare uno stile di presentazione, fare i costumi.
Lo spettacolo si basa sul contributo volontario di tutti: le attrici, i luoghi, la tipografia che stampa il materiale, così come chi mette a disposizione arredi scenici. Perché alla fine – racconta Laura – l’obiettivo, è quello di parlare di questi temi, ma anche di raccogliere il contributo che ogni spettatore lascia con un’offerta libera. Il ricavato va tutto a sostenere associazioni che operano sul territorio in modo da aiutare donne in difficoltà o vittime di violenze.
Lo spettacolo quest’anno prevede tre appuntamenti, tutti alle 21: domani, venerdì 27 febbraio, nella sala del Centro documentazione donna di via Terranuova 12/b, dove verrà allestita anche una mostra di fotografie di Antonella Monzoni dedicate a questi temi e visitabile fino all’8 marzo; domenica 8 marzo di nuovo a teatro nella Sala estense, in piazza Municipale di Ferrara, e domenica 15 marzo nell’auditorium di Santa Maria Maddalena, in provincia di Rovigo, via Amendola 29.
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Lettura dei Monologhi della vagina (foto Stefano Pavani)
Un’altra lettrice dei Monologhi della vagina (foto Stefano Pavani)
Lettura dei Monologhi della vagina (foto Stefano Pavani)
Monologhi della vagina: il gruppo delle attrici l’anno scorso in Sala estense (foto Stefano Pavani)
Nel 2013 Bianca Atzei apre i concerti del tour autunnale dei Modà, duetta con Gianni Morandi in “Ti porto al mare” nell’ album “Bisogna vivere” e si esibisce all’Arena di Verona, cantando “In amore”, in uno dei due concerti del “Gianni Morandi Live in Arena”. Nel 2014 incide con Alex Britti il brano “Non è vero mai”, inspiegabilmente scartato dal Festival di Sanremo dello stesso anno ma diffuso su Internet insieme all’interessante video che mostra un parallelo tra le emozioni di due ex-innamorati.
L’occasione giusta per il lancio di Bianca Atzei è stato il Festival di Sanremo 2015, che ha avuto il merito di proporre giovani artisti di talento. Grazie a questa opportunità la cantante è riuscita a pubblicare “Bianco e nero”, il suo primo album.
Riferendosi al suo album, Bianca ha detto: “Questo disco rappresenta ogni cosa di me, dal titolo ai brani. Io sono bianco o nero, non ho vie di mezzo”. L’album contiene 20 tracce, tra cui i sei singoli realizzati tra il 2012 e il 2014, due cover importanti e impegnative quali “No potho reposare” con I Tazenda (tra gli strumenti anche le launeddas e il bouzuki suonato da Massimo Satta) e “Ciao amore, ciao” di Luigi Tenco, eseguita con Alex Britti, proposta sul palco dell’Ariston durante la terza serata del Festival. Nel 2013 lo stesso brano fu portato a Sanremo da Marco Mengoni, in una versione completamente differente da quella di Bianca & Britti, quest’ultimo arrangiamento ha un’anima rock blues che ben si addice alla voce “graffiata” della cantante di origini sarde.
Tra i brani citiamo “La gelosia” (in duetto con Kekko dei Modà), un lento d’altri tempi in contrasto con la grinta dei due interpreti, “L’amore vero”, un tuffo “ballabile” negli anni ’60, “La paura che ho di perderti”, realizzata con Maurizio Solieri, chitarrista storico di Vasco Rossi, “Non è vero mai” (duetto con Alex Britti) e “One day I’ll fly away”, dalla fiction Rai “Anna Karenina”. “Si dice, lontano dagli occhi dal cuore…” questo è il primo verso di “Bianco e nero”, il brano che dà il titolo all’album, un riferimento non casuale a Sergio Endrigo, vista la stima di Bianca per il grande artista istriano. “Polline” e “Convincimi” entrano nel cuore, si tratta di melodie italiane, particolarmente adatte alla vocalità di Bianca, che le canta con forte spessore interpretativo.
“Riderai fissando un punto nel vuoto, dove vai proiettato ricordo, su di noi sarai sconvolto abbastanza, da credere che sia reale non sia un’immagine, le nostre menti a volte inventano…”, questa è la strofa che introduce “Riderai”, uno dei brani più intensi, così come la struggente “La strada per la felicità”, “Non puoi chiamarlo amore”, “L’amore vero”, “Da me non te ne vai” sono da ascoltare facendosi cullare dalle parole e dalle melodie, per poi riprendere quota con il brano sanremese “Il solo al mondo” scritto da Francesco “Kekko” Silvestre.
Tre anni di lavoro e una buona occasione (Sanremo) hanno permesso di realizzare un album di debutto importante, interessante, pieno di spunti e con una tracklist essenziale, utile per conoscere quest’artista e apprezzarne la voce, la grinta e il talento.
Foto in evidenza di Francesca Saragaglia.
Video di “Non è vero mai”, Bianca Atzei & Alex Britti [vedi]
Video di “Il solo al mondo”, Bianca Atzei [vedi]
da MOSCA – Il particolare fa la differenza, il particolare che è tale per non distogliere mai l’occhio da esso. Vedere l’insieme distrarrebbe l’attenzione dello spettatore dal punto che si vuole evidenziare. Bisogna vedere solo quel particolare, concentrarsi su un momento, su una parte che parla da sé.
Questa l’intenzione di Mikhail Rozavov, fotografo russo, classe 1973. Questa la lettura dell’esposizione al Museo di Mosca di un artista formatosi alla Facoltà di storia dell’Università statale di Mosca e alla Nuova accademia delle arti fondata, nel 1989, dal celebre filosofo-designer-pittore Timur Novikov. Fotografo dall’età di 21 anni, Rozavov è autore di molte opere conservate presso i principali musei moscoviti, come il Puskhin, il Museo statale russo, la Casa della fotografia di Mosca o il Museo Shchusev dell’architettura. La mostras’intitola “Chiarezza dell’obiettivo”, traduzione imperfetta, forse, del suo originale ‘Yasnost tseli’. Precisione del particolare, messaggi chiari, netti, inequivocabili e diretti dell’architettura sovietica. Questo il senso. La scelta dei soggetti che l’obiettivo immortala rappresenta un elemento tipico di molta fotografia russa moderna e sovietica: onestà visiva e approccio coerente, centrato e sicuro.
Nelle sale ben illuminate e ordinate, sulle quali vigila la consueta severa babuschka, si ammirano immagini in bianco e nero di parti dell’architettura e della scultura monumentale sovietica degli anni ‘30-‘60 che si può ammirare passeggiando per Mosca. Arte che non era solo un monumento ad un’epoca ma che voleva illustrare gli ideali sociali dei leader politici di allora.
In questa bella mostra, ci si concentra su singole componenti di un tutto sconosciuto, su dettagli che offrono la libertà di trovarsi in uno spazio che lascia la fantasia immaginare e fantasticare sul tutto. Se questo pare in antitesi con l’intento dei creatori originali, che con opere monumentali di tal genere volevano sicuramente colpire lo spettatore con la grandezza stessa (fatta anche d’ispirazione all’antica Roma o allo stile di Napoleone Bonaparte), l’occhio al particolare ci fa riflettere al vero significato dei simboli evidenziati. Basta soffermarsi su di essi e non vedere altro intorno.
Spesso, infatti, quando si vede un grande edificio o ponte sui quali campeggiano le immancabili falce martello, non si fa caso al fatto che accanto a esse vi sono motorini, arnesi di vario tipo che simboleggiano il lavoro e l’industria o ghirlande di erbe, fiori o grano, che rappresentano la terra e l’agricoltura. Il concetto della ‘fertilità’ russa qui è rappresentato non solo dai frutti della terra ma anche dal lavoro meccanico e elettrico. Il progresso. O meglio, ordine, terra e progresso.
Le immagini sono astratte dal loro ambiente, l’arte umana è tale anche se ‘liberata e depurata’ da ogni forma di propaganda politica. Così le statue di donne eleganti, che ricordano le antiche forme romane o greche, esaltano la bellezza, la determinazione e la forza della stessa figura femminile, qualità universali della donna, indipendenti dal sistema politico nel quale sono inserite.
C’è dell’utopia, però, in quelle opere monumentali dell’era sovietica, in quelle simmetrie imponenti e devote, in quella perfezione effimera, come dice lo stesso artista: “L’architettura sovietica è bella e impressionante, ma oggi comprendiamo che tutta quella gloria era giusto una favola, e che tutti quei capolavori non erano altro che una decorazione di una felicità che non sarebbe mai divenuta realtà. E’ una storia sull’irrealizzabilità della felicità”. Rozanov, comunque, mette sempre al centro dei suoi lavori il cosmo, la ricerca dell’uomo del suo spazio in esso, la relazione con esso. Intendendo con cosmo il sistema ordinato e complesso dell’universo, in netto contrasto con il caos. Anche in questa mostra l’uomo cerca il suo posto, il suo ruolo, i suoi simboli, il suo spazio nel mondo.
Lo stile minimalista di Rozanov ci piace, così come ci piace il fatto che non ci siano titoli alle fotografie. Inizialmente li si vorrebbe e li si cerca disperatamente, poi si comprende che non servono, perché immagini e simboli parlano da sé. Intento chiaro, dunque, e obiettivo raggiunto, soddisfazione estetica, intellettuale e filosofica garantite.
Fotografie per gentile concessione dell’autore, tramite l’ufficio stampa del Museo di Mosca che ringrazio. In particolare Anastasia Fedorova.
La mostra è visibile al Museo di Mosca, dal 23 gennaio al 1 marzo 2015, mosmuseum.ru
Tra gli otto film candidati agli Oscar, con il successo di “Birdman”, ve ne è uno meno noto al grande pubblico, attualmente nelle sale, si tratta di “Whiplash” (frustata) che ha ricevuto Oscar importanti per il miglior montaggio, per il miglior sonoro e per il miglior attore non protagonista al mitico J. K. Simmons, caratterista noto, tra l’altro, per “Medici in prima linea” e “Law & Order”. Diciamolo subito, un film da non perdere.
J. K. Simmons, nella parte di un inquietante insegnante di jazz, Terence Fletcher, è il mattatore del film, ne detta i temi e i tempi; riempie la scena e l’inquadratura con la sua figura magnetica, nella impietosa e ossessiva ricerca di indurre il suo allievo alla perfezione, o meglio alla genialità e al talento; apostrofa i perdenti “palla di lardo” (citazione di “Full Metal Jacket” di Kubric), induce ad una competizione per essere il primo batterista, che diviene una sfida fisica, dove il sangue, il sudore e lo sfinimento sono il condimento indispensabile per il raggiungimento dell’obiettivo.
Un film sulla passione, sulla molto americana idea dell’uomo che insegue la realizzazione della sua felicità e del suo successo, al quale sacrificare tutto, anche la propria vita, come dalla sterminata casistica di premature morti dei jazzisti più importanti, specie del free e be-bop, decimati da alcool, droghe ed eccessi. Invece Andrew, il giovane studente interpretato da un sempre più emergente Miles Teller, è in tutto e per tutto un bravo ragazzo, mantiene rapporti, non facili, con la famiglia, corteggia una giovane cameriera di fast food, pensa solo a studiare la batteria, e concentra tutta la sua energia per realizzare questo sogno.
«Non esistono, in qualsiasi lingua del mondo, due parole più pericolose di bel lavoro», dice Fletcher, intendendo che l’artista deve necessariamente superare la normalità, e avanzare in un ambito indefinito e non prevedibile; qui l’essere un artista non è determinato dalla mera trasgressione, sessuale, di costume o di droghe, ma da un massacrante lavoro sui ‘drums’ e sui piatti, fino allo sfinimento e all’esplosione della rabbia e dell’angoscia.
Flecher racconta che Charlie Parker divenne il mitico “The Bird” dopo un esibizione non eccezionale, quando fu oggetto del lancio di un piatto dal suo capo band, che quasi lo decapitò; si rinchiuse allora per giorni a provare, e poi fece il miglior assolo di sax della storia del Jazz. Se non fosse stato impietosamente criticato, non lo avrebbe fatto.
Un film anche sul rapporto tra maestro e allievo: quanto è lecito spingere lo studente al limite delle sue risorse e resistenze, quanto e cosa si deve sacrificare al raggiungimento dell’obiettivo? Il limite stesso, sembra dire il film, da superare ad ogni costo, come un Rocky che invece dei pugni usa le bacchette e i pedali dei ‘drums’; solo nell’aspro ed estremo addestramento si forgia il carattere e si estrae il meglio.
Un montaggio strepitoso e incalzante, una colonna sonora emozionante, un finale in crescendo, che vede prorompere il vero, unico e imprevedibile talento. E forse il film propone anche un altro contenuto, divenuto incalzante in questi anni di crisi di sistema: la necessità di essere motivati, allenati, competitivi, performanti. E la mente corre al film di Muccino “Le leggi del desiderio”, incentrato proprio sulla figura di un lifecoaching/counselor, in sostanza di un allenatore che ci renda più forti e vincenti; ma questo è un altro film, magari la prossima volta.
“Whiplash” di Damien Chazelle, con Miles Teller, J. K. Simmons, Melissa Benoist, Paul Reiser, Austin Stowell, drammatico, sconsigliato sotto i 16 anni, durata 107 min., Usa, 2014
Angelo Andreotti, direttore dei Musei Civici di Arte Antica, nella presentazione della rivista online Museoinvita, ha avuto la non obbligata cortesia di citarmi e di collegare la nuova rivista all’ormai antiquariale “Musei Civici. Ferrara Bollettino Annuale”, fondato nel 1971 e chiuso nel 2000.
Credo che tutti i ferraresi debbano essere grati alla Amministrazione Civica e alla Direzione dei Musei per la creazione di una opportunità di documentazione e di ricerca legata alla attività, intensa e intelligente, che si svolge presso i musei civici: testimoniano le iniziative, l’aumento dei visitatori, i progetti.
Spero mi sia consentita qualche lieve osservazione, legata alle mutate situazioni.
Sono passati quarantaquattro anni, forse non ci si può limitare a delle riproposizioni. Un importante convegno (novembre 2011) ha sottolineato con forza la necessità della costituzione di un sistema museale cittadino, come già è avvenuto in altre località della regione. In varie dichiarazioni rappresentanti della amministrazione hanno manifestato la loro intenzione di avviarne la formazione. E’ auspicabile che avvenga attraverso un pubblico confronto.
Una rivista dedicata a un solo settore, e solo da questo organizzata, rischia di essere angusta e autoreferenziale; l’essere aperta a tutti è diverso dall’essere pensata da tutti.
Un primo passo anticipatore sarebbe stato, e ancora può essere, pubblicare online un periodico che sia espressione di tutti i musei presenti in Ferrara. Insieme pensato, con un comitato scientifico composto da rappresentanti di tutti i musei: da quelli statali ai civici, agli universitari ai religiosi. Senza gerarchie di temi e di settori: dalle cere anatomiche alla pinacoteca, dalla archeologia alla contemporaneità, dal collezionismo alle arti applicate.
I musei, oltre che luoghi di conservazione e di esposizione, sono e debbono essere centri di studio e di ricerca. La rivista deve essere sede ove testimoniare le attività e i problemi, ove raccogliere i risultati: temi che devono poter essere espressi da tutte le istituzioni. Il filo rosso che può e deve legare ogni cosa è il legame con il patrimonio storico monumentale e le sue implicazioni urbanistiche, con le opere e le raccolte conservate sia in città che nella provincia.
La Amministrazione Comunale può farsi capofila: sarebbe un segnale significativo anche nei confronti dei molti altri problemi che esistono.
Il tutto è possibile senza alcun aumento dei costi previsti.
Sabato 28 febbraio dalle 11 presso lo showroom di altraQualità Soc. Coop., in via Toscanini 11/A
Due realtà contro il racket e a favore di una economia solidale e trasparente: dalla collaborazione tra l’azienda chimica Cleprin e il consorzio di cooperative NCO nasce “Con te”, una linea completa per la detersione e la pulizia della casa con detergenti in ecodosi idrosolubili, superconcentrate, ecocompatibili e socialmente utili!
Noi incontreremo queste due realtà sabato 28 febbraio dalle 11 presso il nostro showroom. L’incontro è gratuito e aperto a tutti! Qui le info sulla giornata
Intanto conosciamo meglio queste due coraggiose aziende.
Chi sono NCO e Cleprin
Negli anni settanta e ottanta il territorio campano ha conosciuto la brutalità della Nuova Camorra Organizzata (NCO). La risposta civile a ciò deve essere altrettanto Organizzata, per questo è nata Nuova Cooperazione Organizzata (NCO) una rete di cooperative che condividono principi e valori. Il consorzio di cooperative sociali “ Nuova Cooperazione Organizzata” si pone come modello di sviluppo di un nuovo welfare innovativo locale attraverso l’esplorazione di nuove forme di integrazione tra profit e non profit, tra pubblico e privato, coinvolgendo i cittadini in un percorso di riappropriazione del territorio volto alla creazione di economia sociale partendo dai beni confiscati e beni comuni, attraverso percorsi di cura, di felicità, dove inserire le persone svantaggiate che camminano con loro.
La Cleprin, l’azienda chimica che collabora con NCO per la produzione di detergenti per la casa, è estremamente attenta alla qualità dei suoi prodotti, ma anche dei processi interni all’azienda e degli atteggiamenti esterni. Dopo alcuni anni difficili a causa di ripetute richieste da parte dei clan camorristi locali, Cleprin ha denunciato e con forza ed impegno è riuscita ad ottenere giustizia.
Oggi è un’azienda in crescita che interpreta l’economia sociale in modo ampio, sia dal punto di vista ambientale che da quello sociale, le ecodosi infatti “Con Te”, infatti, sono completamente biodegradabili, sono prodotte con una impronta ecologica vicino allo 0 e sono confezionate dai soci di Nuova Cooperazione Organizzata, i quali si occupano degli inserimenti lavorativi di persone con problemi (disabili, ex tossicodipententi, ex carcerati).
Per questo ha sviluppato dei percorsi di qualità che l’hanno portata a ricevere tutta una serie di certificazioni da organizzazioni terze specializzate sia a livello nazionale che internazionale: sistema di gestione per la qualità, sistema di gestione ambientale, sistema di misurazione della qualità delle prestazioni di pulizia. Ultimo, ma non per importanza, ha ottenuto il rating di legalità: uno strumento volto alla valutazione di principi di comportamento etico in ambito aziendale e del grado di attenzione riposto nella corretta gestione del proprio business.
Il rating di legalità viene attribuito dall’ Autorità garante della concorrenza e del mercato(AGCM) in raccordo con i Ministeri della Giustizia e dell’Interno e ha tre possibili gradi di valutazione: una, due o tre stellette. La Cleprin ha ottenuto la valutazione più alta, che significa il pieno adempimento di tutti i requisiti richiesti in termini di trasparenza, corretta gestione, assenza di provvedimenti per il mancato rispetto delle leggi sulla tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro e violazioni in materia retributiva, contributiva, assicurativi e fiscali
da: ufficio stampa giunta regionale Emilia-Romagna
Segnalati dall’Agenzia regionale di Protezione civile numerosi episodi di dissesto sul territorio regionale. Evacuati alcuni nuclei familiari a Castellarano (Reggio Emilia) e Modigliana (Forlì-Cesena). Piogge in esaurimento nelle prossime ore
Sono numerosi gli episodi di dissesto sul territorio regionale causati dalle intense precipitazioni che da ieri hanno colpito l’Emilia-Romagna. Li segnala l’Agenzia regionale di Protezione civile.
Franato, a Casola Valsenio, in provincia di Ravenna, un campo da calcio terrazzato adiacente al fiume Senio; risolta invece, a seguito dell’intervento del Servizio tecnico di Bacino, la parziale ostruzione del fiume che aveva causato la formazione di un piccolo laghetto nell’area circostante. Il normale deflusso dell’acqua è stato ristabilito e non vi è pericolo per l’incolumità dei cittadini.
Evacuate due persone a Tossino, nel comune di Modigliana (FC), dove una frana minaccia un’abitazione privata. Sempre a seguito di una frana risulta temporaneamente isolata a Roncofreddo (FC) la località di Monte Codruzzo. Evacuati anche tre nuclei familiari, minacciati dalla frana di Cà Telani, a Castellarano (RE), mentre si registrano diversi smottamenti nei comuni di Vezzano sul Crostolo e Baiso nell’Appennino reggiano.
Localizzati alcuni allagamenti nel comune di Forlì.
A seguito delle manovre di invaso delle casse di espansione del cavo Parmigiana Moglia a Novellara (RE) l’Agenzia regionale di Protezione civile ha attivato, con l’allerta n. 20, lo stato di preallarme per alcuni comuni del Modenese e del Reggiano, su indicazione del Consorzio di bonifica Emilia centrale, come definito dal Piano interregionale di emergenza per il rischio idraulico del territorio colpito dal terremoto del maggio 2012.
I comuni interessati sono: Boretto, Brescello, Campagnola, Carpi, Concordia sul Secchia, Fabbrico, Gualtieri, Guastalla, Novellara, Novi di Modena, Reggiolo, Rio Saliceto, Rolo e Soliera.
Secondo i dati forniti da Arpa, le piogge sono previste in esaurimento nelle prossime ore. L’Agenzia regionale di Protezione civile ha comunque deciso di prolungare l’allerta emessa il 23 febbraio per criticità idraulica ed idrogeologica a causa dell’attuale situazione del reticolo idraulico, del difficile smaltimento delle acque e dei numerosi episodi di dissesto di versante.
Gli aggiornamenti sulle allerte sono disponibili sul sito dell’Agenzia regionale di Protezione civile.
Il tempo di oggi è quello delle parole, più che dei gesti. le parole sostituiscono e risparmiano le azioni. Hanno ragione della giustizia e della verità. La democrazia è il tempio delle parole. Infatti di un politico si dice: come parla bene, pochi si ricordano ciò che ha fatto. Le parole servono a conquistare, ad apparire, ghermiscono il potere. Andando indietro potremmo dare la colpa ai retori, ai sofisti. Col passare del tempo la gente si è come assuefatta all’uso falso, mistificatorio delle parole, in pubblico come in privato. Siamo passati dall’inadeguatezza comunicativa di Bersani, di cui qualche reminiscenza si intravvede nel ministro degli esteri Gentiloni, al parolaio magico e veloce Renzi. A Ballarò Crocetta ruggisce, Salvini sbraita, mentre un impacciato Giannini chiede la tregua. Cambio rete ma la formula è la stessa. Strada che vince non si cambia, direi parafrasando il vecchio Boskov. Per cui il ministro recita la propria parte come pure il vicino di casa, o il collega di lavoro e così via. Senza rendercene conto abbiamo edificato una vita dove le convenzioni e ipocrisie, pur necessarie, sono decisamente preponderanti. Allora certe volte mi viene da pensare che una vita sia troppo breve per farcirla di continue menzogne. Ora siamo alla riforma del lavoro. Prima però si è detto che la flessibilità era un bene. Tuttavia buttiamo via l’articolo 18 per risolvere il problema della flessibilità. Che, per le stesse persone, è diventato un male. Intanto dal 1992 ad oggi l’Italia è stata occupata da una classe politica che detiene la responsabilità della deriva morale e economica del Paese, ma non si schioda.
Rimane il problema dell’abitudine. Ci si abitua alle menzogne e ci si accontenta di meschine falsità verosimili. Si mente a se stessi. Così piano piano la vita si svuota prima, molto prima di finire. E la politica non è che il suo simulacro.
Daniele Lugli, presidente emerito del Movimento Nonviolento, lo aveva promesso nell’intervista di gennaio [leggi] e ieri mattina nella sala dell’Arengo della residenza municipale è stato presentato il Comitato provinciale di Ferrara della campagna “Un’altra difesa è possibile”. Fra gli aderenti Agesci, Acli, Anpi, Arci, Associazione Papa Giovanni XXIII, Associazione Viale K, Caritas, Cgil, Copresc, Emergency, Emmaus, Fiom, Legacoop, Libera.
Forse mai come in questo momento la guerra potrebbe sembrare una difesa giusta e necessaria e sappiamo quanto in questi ultimi anni sia stata presentata come umanitaria, ma la verità è che “la carta istitutiva delle Nazioni unite, la nostra Costituzione, parlano piuttosto di un flagello che abbiamo scelto di ripudiare”, ha sottolineato Daniele. “L’intervento armato ha dimostrato tutta la propria insufficienza come forma di risoluzione dei conflitti: dovunque è stato impiegato, dalla Bosnia all’Afghanistan all’Iraq, la situazione semmai si è aggravata. Con questa proposta di legge vogliamo dare una possibilità a forme di difesa differenti, quali i corpi civili di pace disegnati da Alex Langer fin dal 1995, o gli interventi di base sperimentati in luoghi di conflitto dai giovani di Operazione colomba, con costi irrisori e con grande impegno personale”, ha spiegato Daniele.
Una legge di iniziativa popolare formata da quattro articoli per l’istituzione del Dipartimento per la difesa civile, cui afferiranno i Corpi civili di pace, e l’Istituto di ricerca sulla pace e il disarmo, da finanziare spostando parte dei fondi per i sistemi d’arma del Ministero della difesa e attraverso le quote di quei contribuenti che vorranno versare il proprio 6 per mille a beneficio della difesa civile. L’obiettivo è raggiungere 50.000 firme che permettano di presentare la proposta in Parlamento, per questo sono già in programma iniziative che si susseguiranno nei prossimi mesi. Paolo Marcolini, presidente Arci anche lui presente alla conferenza stampa, si è impegnato ad ospitare banchetti di raccolta firme nelle proprie strutture, a contatto con i giovani, ed in particolare in occasione della Vulandra, al Parco urbano dal 23 al 25 aprile. Anche Emergency, che “è presente nei luoghi di guerra dal ’94 e ha lavorato in 16 paesi, curando più di sei milioni di persone”, come ha ricordato la referente Sandra Broccati, “sostiene la campagna, anche a livello nazionale, e organizzerà un banchetto di raccolta firme alla Sala Estense nella serata del 4 marzo, durante il Viaggio italiano”. Mentre la Cgil di Ferrara, che insieme alla Fiom sta curando il coordinamento organizzativo del comitato provinciale, con il suo segretario provinciale Raffaele Atti ha preannunciato una iniziativa in collaborazione con Fiom sulla riconversione dell’industria bellica.
Nel frattempo si può già firmare a Ferrara all’Ufficio protocollo presso la sede municipale, oppure presso le segreterie di tutti i Comuni ferraresi nei quali si è elettrici o elettori.
Per informazioni e aggiornamenti sulla campagna vedi www.difesacivilenonviolenta.org
Contatti Comitato Provinciale di Ferrara
Davide Fiorini
davide.fiorini@mail.cgil.fe.it
3487510060
Carla Vistarini ha scritto i testi di canzoni di successo per cantanti come Ornella Vanoni (“La voglia di sognare”), Mina (“Buonanotte buonanotte”), Mia Martini (“La nevicata del ’56”), Riccardo Fogli, Patty Pravo, Renato Zero, Amedeo Minghi, Alice e i migliori interpreti della musica italiana; storiche le sue collaborazioni con i musicisti Luigi Lopez e Tony Cicco. Come autrice di programmi televisivi ha collaborato, fra gli altri, con Piero Chiambretti, Gigi Proietti, Fabio Fazio, Maurizio Costanzo, Loretta Goggi, Sergio Bardotti (Sanremo 1998); nel 1995 ha vinto il premio David di Donatello per la sceneggiatura del film “Nemici d’infanzia” di Luigi Magni. E’ autrice di numerose commedie teatrali (nel 1987 ha vinto il premio I.D.I., assegnato dall’Istituto del Dramma Italiano), ora, in libreria è disponibile “Se ho paura prendimi per mano”, il suo secondo romanzo che sta presentando in giro per l’Italia.
Com’è iniziata la tua avventura nel mondo della musica?
Moltissimi anni fa, quando, con un gruppo di altri adolescenti come me, ci riunivamo in alcuni “luoghi sacri” della musica rock e pop di Roma come il Piper e gli studi della Rai di via Asiago da dove si trasmetteva “Bandiera Gialla”, lo storico programma di Arbore e Boncompagni che mandava in onda solo musica per “giovanissimi”. Tra noi ragazzini adolescenti di quel periodo c’erano alcuni personaggi che poi avrebbero fatto la storia della musica, dello spettacolo e del giornalismo. Ne cito alcuni: Renato Zero, Mita Medici, Roberto D’Agostino, Dario Salvatori, Loredana Bertè, Luigi Lopez, ecc. E c’ero anche io. Da lì alla Rca, la casa discografica che è stata una delle più grosse fucine di talenti e di musica in Italia, il passo fu breve. Molti di noi si presentarono lì e cominciammo a far sentire le nostre idee. E furono ascoltate. Diventarono dischi, successi, e poi anche storia.
A quali canzoni ti senti più legata?
Se parli delle mie, credo di amare alcuni pezzi che hanno forse avuto una diffusione minore, perché magari non erano dei singoli ma erano solo negli album, ma che sono splendidi. Cito fra tutti “S.O.S. verso il blu” di Mia Martini, “Un piccolo ricordo” di Peppino di Capri, “Re del Blu Re del Mai”, “Questo amore sbagliato” di Patty Pravo e tutte le canzoni di “Nightmare before Christmas” adattate da me in italiano per Renato Zero. Se parli della musica degli altri, allora i miei gusti volano verso il jazz.
Un brano come “La voglia di sognare” non nasce per caso, si tratta di emozioni emerse in un momento particolare della tua vita?
Ti dico una cosa che molti autori pensano ma che pochi confessano: non si scrive per emozione, ma per competenza, per professionalità. Voglio dire, il valore di uno scritto, sia esso una canzone, una poesia, o un romanzo, esiste nelle emozioni che suscita in chi legge o ascolta, non in quelle di chi scrive. Chi scrive, l’autore, è sì una sorta di accumulo di emozioni, cognizioni, cultura, masse di informazioni, che ha la grande facoltà di filtrare, scremare, selezionare, fino a lasciare in vita l’essenza, il cuore, e quello solo, di una storia, o di una canzone. Scrivere solo sull’onda di emozioni è un buon mezzo terapeutico per chi scrive, una catarsi psicologica, ma raramente tali scritti si sollevano dall’esperienza diaristica o dalla “poesia nel cassetto” che ognuno di noi ha buttato giù in un momento della sua vita. Scrivere davvero è un piccolo inferno, dove si sta a testa bassa sul foglio o sulla tastiera per ore e ore a scartare e gettare via le tante parole inutili che circondano le pochissime indispensabili.
“La nevicata del ’56” è l’esempio di come un ricordo dell’infanzia diventi un grande successo professionale?
La prima volta che vidi la neve, fu dalla terrazza della casa di famiglia, a Roma. Mio padre mi prese in braccio, avevo cinque o sei anni, e mi sollevò oltre la balaustra. I giardini della piazza sotto casa erano tutti bianchi. Poi scendemmo giù e cominciammo a giocare a palle di neve. E’ un ricordo bello, ma non fu questo a ispirarmi la canzone. Fu piuttosto, molti anni dopo, il contrasto con quello che il mondo intorno a noi, e cioè la città sua metafora, stava diventando. Il candore della neve inteso come innocenza, spazzato via, o peggio, sporcato, da un declino difficile e forse inarrestabile.
Stryx di Enzo Trapani è stato un punto di svolta per il linguaggio televisivo in Italia?
Sì. Trapani era un grande innovatore, coltissimo, ironico, sperimentatore di nuove tecnologie e nuovi linguaggi. Ho avuto la fortuna di apprendere i ferri del mestiere di autore televisivo scrivendo proprio Stryx, con Alberto Testa e Trapani stesso. Fu un programma che suscitò interesse e polemiche, e che vinse innumerevoli premi, soprattutto all’estero, come la Rosa d’Argento al Festival internazionale della televisione di Montreux, il massimo festival del settore dell’epoca.
Pavarotti & Friends da concerto a programma d’autore…
La Rai mi chiamò a dare spessore a questo grande evento della musica, il “Pavarotti & Friends”, dopo che il debutto televisivo, senza un autore a guidare la kermesse dell’anno prima, aveva dato esiti deludenti di pubblico. E così iniziai l’avventura con Luciano Pavarotti, durata per cinque o sei (perdonate la memoria) eventi indimenticabili e grandiosi, con cui sbancammo l’auditel. L’amicizia con Luciano fu spontanea e ricca di fiducia vicendevole. Tenere le fila di ciascuno di quegli eventi megagalattici era ogni volta una sfida e una soddisfazione enorme. Ogni concerto veniva registrato in piazza, al Campo Boario di Modena, in un Tir ultratecnologico della Decca Records che arrivava appositamente da Londra per la circostanza. Ricordo che per una edizione fu chiamato come regista Spike Lee, che però non aveva alcuna esperienza di regia televisiva. Il panico serpeggiò quando Spike entrò in sala regia e si mise a guardare stupefatto i macchinari, ma alla fine tutto andò bene, la serata fu ripresa grazie alla bravura della squadra della Rai.
Con Luigi Magni hai scritto la sceneggiatura di “Nemici d’infanzia”, vincendo nel 1995 il David di Donatello. In quel momento ti sei resa conto che la tua carriera era salita a un livello superiore?
Ho avuto la fortuna di lavorare sempre con grandissimi artisti, credo i massimi del mio tempo. Uno di questi è stato Gigi Magni, con cui ho vinto il David di Donatello. Che dire? Per la carriera, per il curriculum, per le Hall of fame e/o Wikipedia, ogni premio, ogni successo, ogni incontro sono senz’altro scalini di un’ascesa a un livello superiore. Per me sono soprattutto incontri con esseri umani stupendi, persone che ti donano parte di sé e accettano con gratitudine quello che tu puoi dare a loro.
Sei molto attiva sulla rete, che mondo vedi scorrere tra le “parole” di Facebook e Twitter?
Credo che la rete e i social network sarebbero dei mezzi di arricchimento culturale e di miglioramento sociale enorme se non fossero usati così sciattamente come avviene oggi in molti casi. Poi c’è il fatto che molti dimenticano che ciò che viene postato in rete, in rete resta in eterno, e quindi ci si imbatte troppo spesso in assurdità cosmiche.
“Città sporca” è il tuo primo romanzo, Cosa ti ha spinto verso il genere giallo/thriller?
Amo il thriller innanzi tutto da lettrice. Va detto che sono una lettrice accanita, con la media di almeno un paio di libri a settimana. Amo molto scrittori come Chandler, Crais, Winslow, Lansdale, King, veri maestri. Insieme a molti scandinavi e ad alcuni grandi classici che hanno usato il thriller, o almeno la suspense per rendere più avvincenti i loro scritti, come Jorge Luis Borges e George Orwell. E’ per questo, credo, di preferire la narrazione a suspense, perché so quanto può essere appassionante e avvincente, consentendo a un autore che ha anche qualcosa in più da dire, di veicolarlo con leggerezza all’interno del racconto.
Quanta cura metti nel caratterizzare luoghi e soprattutto gli “improbabili” compagni di disavventura dei tuoi protagonisti?
I luoghi che descrivo non sono mai inventati, esistono tutti nella realtà. Un giorno scriverò una “Guida di Roma” in cui metterò le tappe di questa città vista attraverso i quartieri meno conosciuti, o le zone più misteriose. La città ha molte anime, e attraverso certi luoghi si possono raccontare bene. I personaggi sono il frutto di sintesi di personalità diverse, anche queste incontrate davvero nella mia vita. E per “davvero” intendo indifferentemente nella vita reale, o in quella letteraria.
“Se ho paura prendimi per mano” è il tuo nuovo romanzo, il mestiere di scrittrice è un’evoluzione naturale della tua storia di autrice… forse un punto di arrivo?
Non c’è mai un punto di arrivo. Siamo sempre in cammino verso altro. Non sappiamo cosa riusciremo a fare o cosa troveremo lungo la strada, ma è innegabile che dobbiamo andare avanti. “Se ho paura prendimi per mano” è il racconto di un divenire. Un uomo, Smilzo, uno che ha avuto tutto e di più dalla vita, si ritrova letteralmente sotto i ponti a causa della crisi. E’ un homeless, dimenticato da tutti. La sua vita è finita? neanche per sogno. La sua vita comincia adesso, quando si ritrova a farsi carico di una piccola bambina di tre anni , piovuta dal cielo, e inseguita da una banda di criminali per le più oscure trame. Smilzo la proteggerà trovando così il riscatto della propria esistenza. “Se ho paura prendimi per mano” è un giallo con tinte di commedia e lo consiglio a tutti gli amanti del genere.
Negli ultimi tempi stai presentando il tuo romanzo nelle librerie, che Italia stai incontrando?
Un’Italia meravigliosa, che ha voglia di leggere, di migliorare, di parlare, di scambiare opinioni, di crescere. Persone che nella vita di tutti i giorni forse non vediamo, per la loro discrezione e riservatezza, ma che ci sono e fanno forte il nostro Paese.
Tuo padre, Franco Silva, è stato attore di cinema e televisione (“Le avventure del commissario Maigret”, “Il delitto Matteotti”), mentre tua sorella Mita Medici è conosciuta per la sua attività di attrice e show-girl. Quali opportunità si hanno provenendo da una famiglia di artisti? E quali ostacoli?
Si hanno opportunità di formazione personale, innanzitutto. Una casa di artisti è un luogo dove si legge molto, si va al cinema, a teatro, ai concerti, si scambiano opinioni, circolano persone di vivace intelletto. Tutto questo forma, struttura, la personalità. Poi cero si ha l’opportunità di venire a contatto con l’ambiente professionale più direttamente. Ma poi, al ‘redde rationem’ del valore, della qualità di ciò che si fa, si torna a essere soli, individui che devono dimostrare di saper fare meglio di altri ciò che fanno. E la risposta la dà solo il pubblico, che non fa sconti a nessuno. Il pubblico dice sì solo a ciò che ama.
La foto in evidenza è di Simone Casetta. La foto della presentazione alla Feltrinelli è di Yuri Meschini.
Presentazione del libro “Se ho paura prendimi per mano” di Carla Vistarini nella trasmissione “Mille e un libro” di Rai Uno [vedi] Presentazione del libro all’auditorium Parco della musica di Roma, durante “Cartoon Heroes”, insieme a Luigi Lopez, suo co-autore musicale storico [vedi]
da MOSCA – Ne avevamo parlato qualche mese, a pochi giorni di distanza dalla notizia della sua morte in Ucraina, passando di fronte all’agenzia stampa russa presso la quale lavorava [vedi]. Era stato annunciato, e ora eccolo, il premio fotografico a lui intitolato, l’Andrei Stenin International Press Photo Contest, organizzato con il patronato della Commissione della federazione russa presso l’Unesco. Oggi le tante fotografie già inviate provengono principalmente da San Pietroburgo, Novosibursk, Vladivostok, Veliky Novgorod, Yekaterinburg ma anche da giovani europei della Moldavia, dell’Armenia, del Portogallo o di Cipro. Qualcuna arriva anche dall’Iran. Il Contest è in memoria del giovane Andrei Stenin, il fotoreporter ucciso a 33 anni in Ucraina e si rivolge ai giovani come lui, a coloro che, fra i 18 e i 34 anni, necessitino di un supporto alla loro eccellenza professionale. Nella giuria ci sono grandi nomi e rappresentanti di importanti istituzioni culturali russe attive nel campo della fotografia, come il direttore del famoso Multimedia Art Museum in Moscow (Mamm), Olga Sviblova, il plurivincitore e membro del World Press Photo Contest, Yury Kozyrev, e i responsabili dei dipartimenti fotografia di Reuters e Associated Press, Grigory Dukor e Denis Paquin. La cerimonia di consegna dei premi avverrà a Mosca il 3 giugno 2015. Si potrà partecipare,dal 2 febbraio al 15 aprile 2015, in quattro categorie: top news, attualità, sport e vita di ogni giorno. Ai primi tre classificati per ogni categoria andrà una somma fra i 25000 e i 50000 rubli, ma a colui che si aggiudicherà il “gran premio” andranno 500000 rubli (circa 7000 euro con un cambio attuale sfavorevole…). Ma l’importanza di questo premio non è certo il riconoscimento economico quanto la possibilità di essere selezionati da grandi professionisti fra i nuovi talenti per entrare a far parte, a pieno titolo, di nuovi progetti. Lavori italiani ancora non ne vediamo. Segnaliamo questa iniziativa anche per questo, perché i nostri giovani talenti del fotogiornalismo si facciano avanti.
Propongo l’approfondimento di un tema importante e poco dibattuto: la forza della regolazione. Sto parlando di un sistema di regolazione forte (ai vari livelli, Stato e Regioni), coerente in tutti i suoi diversi aspetti, che sia in grado di valorizzare senza equivoci sia le prerogative imprenditoriali del gestore sia i diritti degli utenti. Sembra un principio condiviso, ma allo stesso tempo un tema poco valorizzato; invece forse, al crescere della forza dei gestori, dobbiamo in contrapposizione migliorare le debolezze istituzionali. In alcuni anni infatti è radicalmente modificato il mercato dei servizi pubblici e lo scenario di riferimento: siamo di fronte ad un contesto altamente dinamico in cui molte variabili e soprattutto forti interlocutori diventano protagonisti del sistema e tra questi una componente fondamentale del sistema è dato dalla intensa attività delle imprese di servizi pubblici ambientali che hanno negli anni sviluppato le loro strategie in una forte e innovativa politica industriale; in cui le trasformazioni societarie, le alleanze, le nuove acquisizioni e soprattutto i processi di unificazione hanno radicalmente modificato il quadro della offerta realizzando un nuovo mercato competitivo nei servizi pubblici locali.
Il settore dei servizi ambientali sta crescendo nei valori della dimensione di scala e degli ambiti territoriali ottimali come esigenza di integrazione, e le imprese con interessi collettivi devono garantire in modo costante la congruenza delle prestazioni, le condizioni di sviluppo tecnologico, la verifica continua della qualità attesa ed erogata. Questi importanti elementi sono ancora più importanti in vista della riforma dei servizi pubblici locali a rilevanza economica compresi il ciclo dei rifiuti e la gestione delle risorse idriche. Un fattore critico determinante sarà come le gare dovranno essere indette nel rispetto degli standard qualitativi, quantitativi, ambientali, di equa distribuzione sul territorio e di sicurezza, quindi in modo che i requisiti tecnici ed economici siano proporzionati alle caratteristiche e al valore del servizio.
Ma a livello nazionale il sistema non è stato ancora ben affrontato. Anche perché questo bisogno di ‘governance’ nei servizi pubblici ambientali, porta con sé anche elementi di conflitto o di interessi contrapposti in cui a finalità sociali e di miglioramento della qualità della vita si intersecano esigenze economiche di tipo societario. Infatti servirebbe in particlare una autorità ‘terza’ per la regolazione delle tariffe. Il passaggio nei servizi pubblici dalla situazione, talvolta monopolistica, alla liberalizzazione e alla competizione implica dunque che fra il produttore di servizi e l’utente si inserisca la figura (nuova per la nostra cultura economica) del Regolatore che svolga un ruolo di analisi (evidenziare l’esistente), di controllo (vigilanza e segnalazione), ma anche attivo (proposizione).
Le problematiche della regolazione e il percorso riformatore nei settori di pubblica utilità hanno sviluppato processi innovativi attraverso l’introduzione delle ‘Authorities’ come organismi regolatori che agiscono in posizione di indipendenza ed hanno poteri più persuasivi che decisori. Per la migliore efficacia del ruolo e delle funzioni, occorre assicurare una crescente capacità di vigilanza su questioni che incidono direttamente sui cittadini.
Serve dunque una figura (nuova per la nostra cultura economica) rappresentata dal Garante (o Autorità) che svolga un ruolo di analisi (evidenziare l’esistente), di controllo (vigilanza e segnalazione), ma che abbia anche un ruolo attivo (proposizione). Le problematiche della regolazione e il percorso riformatore nei settori di pubblica utilità hanno cercato di assolvere a questo compito con la introduzione dei Authorities come organismi regolatori. Le Authorities agiscono in posizione di indipendenza ed hanno però poteri più persuasivi che decisori. Ad oggi poche leggi regionali prevedono di individuare organismi di garanzia e quelle che l’hanno costituita poi non l’hanno avviata nelle forme previste; per rifiuti e sistema idrico insieme è stata solo la Regione Emilia Romagna ad avere costituito specifica Autorità di vigilanza, ma poi ci ha ripensato e ha tolto la funzione (che per dieci anni ha svolto il sottoscritto). Sul ruolo e sulla attività svolta si lascia il giudizio alle istituzioni. Non tocca certo a chi scrive valutare se le scelte sono state corrette, né se si è svolto in modo sufficiente il compito assegnato; posso solo garantire che si ho cercato di operare con impegno e dedizione, ricercando un ruolo di “facilitatore” dello sviluppo del sistema ed avendo l’autorevolezza (non certo l’autorità) come obiettivo, anche se si è avvertito qualche debolezza e limite di ruolo rispetto alle scelte da attuare.
Ciò che occorre riportare è che si avverte in modo crescente a livello nazionale, ma anche regionale, la necessità di una nuova governance basata sul dialogo ambientale ma che sviluppi nuovi regolamenti, nuove organizzazioni orientati verso una democrazia ecologica che possa favorire in materia ambientale la concertazione, il confronto dinamico tra interessi talvolta contraddittori, la negoziazione, in una prospettiva di sviluppo sostenibile. L’approccio globale di riferimento deve essere quello di conciliare la protezione e valorizzazione dell’ambiente con lo sviluppo economico ed il progresso sociale. In questa logica bisogna rafforzare le professionalità e le competenze delle strutture pubbliche perché è l’ente pubblico che regola i servizi pubblici e deve farlo con capacità e responsabilità.
“De même, la compétence humaine doit être mise au service des collectivités territoriales, au risque à défaut d’assister à une privatisation des politiques publiques par suite de la dépendance excessive des collectivités envers des cabinets privés dont l’indépendance et la compétence doivent être vérifiées. “Le Grenelle Environnement”, pag. 30
«Ermes, il messaggero divino, si reca presso la dimora della ninfa Calipso consegnando l’ordine di Zeus di lasciar partire il naufrago verso casa…», così comincerà il racconto di Claudio Cazzola, il terzo ospite atteso da “I giovedì diCibo”, a cura di Matteo Bianchi e Matteo Musacci, la rassegna di buona letteratura nella cucina dell’omonimo ristorantino in via Carlo Mayr, 4. E già le prenotazioni a sedersi “A tavola con Omero” e il menù degli eroi che il professore dell’Università di Ferrara illustrerà, non si contano più.
«Congedatosi il dio – ha anticipato il docente – la proprietaria del luogo va a chiamare l’ospite che siede tutti i giorni sugli scogli sospirando il ritorno, lo fa accomodare sul sedile davanti a lei, e la coppia si appresta a condividere il cibo. A questo punto, il cantore avverte il suo uditorio che a Ulisse viene presentato un menu appropriato agli uomini, mentre alla dea nettare e ambrosia. Ognuno vede che si attua una vera e propria separazione alimentare, a marcare regolarmente la frattura, avvenuta in epoca mitica, fra gli immortali e i mortali». E di che cosa si cibano, appunto, i mortali? Il mondo omerico è popolato di eroi, la cui dieta è essenzialmente a base di carne di animali quadrupedi, come dimostrano gli esempi che fornirà l’ospite erudito: la prova più eloquente di questa predilezione sta nel libro dodicesimo dell’Odissea. «Sbarcati nell’isola che ospita questi animali intoccabili, per tutto un mese Ulisse e i suoi compagni si nutrono delle scorte di pane e vino rosso che la nave contiene; esaurite le quali, impera la fame, e a nulla possono servire i palliativi offerti da sporadici volatili o pesci effimeri, perché la dieta genuina prevede ben altro. Ecco quindi l’atto sacrilego, che i compagni compiono, di infrangere il tabù alimentare – ha servito l’assaggio – per cui a tutti loro la divinità nega il ritorno a casa tanto sospirato». Per l’occasione, sarà disponibile anche L’enigma di Omero, il saggio più volte ristampato che Claudio Cazzola ha pubblicato nel 2013 con Este Edition. Per prendere parte alla serata è consigliata la prenotazione allo 0532/765997, www.dicibo.it
Era piaciuto a Milano, lo scorso dicembre, prima ancora a Venezia e Roma Tiburtina, è piaciuto ora a Torino (che lo vuole lì, a Porta Nuova, sempre) e si appresta a calcare altri palcoscenici affollati delle grandi stazioni ferroviarie italiane. E’ lui, il pianoforte solitario, libero, messo a disposizione dei passanti, di chiunque voglia imprimere qualche nota che possa rallegrare e addolcire la giornata di tutti, accarezzare la mente dell’altro che incrociamo casualmente, che spesso sfugge alla nostra vista e attenzione, che ignoriamo, che non conosciamo o riconosciamo. Poter dialogare in musica, in un mondo che stenta a parlare e incontrarsi, è sempre una bella idea anche se, lasciatemi fare il guastafeste, l’idea non è del tutto nuova.
Permettetemi, infatti, di dire, che arriviamo sempre un po’ tardi, ma, come direbbero i saggi, meglio tardi che mai. L’inglese Luke Jerram aveva lanciato l’iniziativa già nel 2008, e, da allora, aveva contagiato tutto il mondo. Da New York a Parigi, dal Perù all’Australia, gli “street piano” con il cartello “Play me, I’m Yours!” erano stati avvistati in oltre 45 città, e ad oggi se ne contano 1300, alcuni dei quali decorati da artisti locali. Sono stati installati in parchi, giardini, mercati, strade, piazze, traghetti. Io ne ho visti di bellissimi, nel maggio 2013, al Gorky Park di Mosca. Qui l’originalità era caratterizzata non solo dallo strumento libero per tutti, ma dal fatto che lo stesso era riempito di fiori. Pieno di pura energia colorata.
Lì si trovava all’entrata del parco, fra lo stupore dei passanti, ma anche fra le sue stradine affollate di bambini, turisti o moscoviti che la domenica qui si rilassano. Se poi si passeggiava nel bosco vicino al Gorky, il parco Naskuchniy che ne costituisce la naturale continuazione ma che assomiglia a una vera e propria foresta nella città (con tanto di sentieri segnalati), si trovavano pianoforti persi in esso, nascosti dietro un albero, dietro piante e cespugli, che apparivano dal nulla e quasi miracolosamente, solo per diffondere musica. Facevano capolino dai rami e chiamavano tutti, senza distinzione. Bastava accomodarsi, strimpellare, se non si era suonatori provetti, o percorrere seriamente le tastiere delicate, se si era bravi pianisti.
L’importante era diffondere musica e dolcezza, trasmettere solo note ai passanti ignari che, in un attimo, si trovavano immersi in melodie degne di film romantici d’altri tempi. Vi era musica classica, nell’aria, moderna, jazz o rock, ognuno trovava il suo spazio e il suo momento. Mi era piaciuta quell’idea di donare musica, di condividere con la natura e gli uomini che ne fanno parte un’armonia spesso perduta e che lì si ritrovava, tutti insieme, all’unisono. Un coro unico, finalmente. I fiori, poi, che uscivano dai pianoforti come dolci sorprese inattese, accompagnavano i suoni con il loro profumo intenso e i loro colori. Perché c’era armonia, anche solo per un attimo, e una comunità unita parlava la stessa lingua, quella della musica. Mi piacerebbe vedere tutto questo, sempre di più, è perché no anche nel nostro bel Parco Massari…
Fotografie del Gorky Park di Simonetta Sandri, maggio 2013; la prima fotografia di copertina è presa dal web, Stazione di Torino Porta Nuova, Febbraio 2015.
da CORK – E già da diverso tempo che vedo il banchetto all’uscita dell’English Market. Un gruppo di ragazzi distribuiscono volantini dal titolo “Discover Islam”. Nessuno li disturba, chi non è interessato passa e tira dritto. Sull’altro lato della strada, il gruppo di cattolici che si ritrova nei fine settimana per la preghiera in strada. Poco distante, sempre nella stessa strada, altri attivisti distribuiscono bibbie. Forse Luterani. Il tutto si svolge nell’ indifferenza più totale, tra famiglie a spasso per lo shopping, ragazzini che fanno banda fuori dal Mc Donald, casalinghe indaffarate con le borse della spesa. Un normale sabato pomeriggio a Cork.
Mi avvicino ai ragazzi del Centro di cultura islamico; con mia sorpresa Ali – uno dei responsabili – mi invita a visitare il centro di informazione (Cork islamic information centre) poco lontano. Accetto e ci incamminiamo assieme verso Shandon street, in una delle zone piu popolari e cattoliche di Cork, proprio a due passi dall’imponente North Cathedral. Ali mi parla di lui: poco più di 40 anni, ha lasciato l’Algeria e lavorato in diversi paesi europei, tra i quali l’Italia, prima di arrivare in Irlanda. La prima domanda sorge spontanea: “ Com’è la vita per un musulmano in Irlanda, di fatto il Paese più cattolico d’Europa?”. La risposta diretta, senza esitazioni: “Let me tell you: life here is just amazing”. Stupenda. Qui c’è la possibilità di svilupparsi come persona, crescere, studiare, lavorare, migliorarsi. E se si perde il lavoro lo stato aiuta anche economicamente, ti dà la possibilità di risollevarti. Una situazione abbastanza diversa da quella di molti dei nostri Paesi d’origine…”. Ali ora lavora, ma mi racconta di quando, a seguito della recessione del 2008, perse l’impiego, e di come nel periodo di disoccupazione i sussidi statali gli permisero di completare il secondo diploma di laurea. E non dimentica nemmeno il suo primo impiego in Algeria quando, a fine mese, gli venne elargito uno stipendio dell’equivalente odierno di 18 euro. Arriviamo al Centro, inaugurato nel 2013 non senza una certa diffidenza da parte di alcuni residenti del quartiere. Un’ultima sigaretta prima di entrare ed Ali viene raggiunto da un amico in strada. Mi presenta e spiega che sono un reporter Italiano, interessato a saperne di più del Centro islamico. La risposta non è delle migliori “non avete abbastanza musulmani da intervistare in Italia?”. Un’ironia riuscita male, non faccio una piega. Ma se nelle sue parole sento tensione e diffidenza. Forse voglia di confronto. Percepisco che tutto non è cosi armonioso come vuole apparire, e che c’è ancora molto lavoro da fare. All’interno del Centro mi tolgo le scarpe ed Ali mi guida attraverso gli spazi di questo piccolo edificio di due piani. Work in progress, calcinacci ovunque: stanno costruendo una piccola palestra, una caffetteria, riammodernando gli spazi. Al secondo piano una piccola cucina, una grande sala coperta di tappeti, scaffali con libri in arabico. Un gruppo di ragazzi somali sta discutendo in un angolo, bambini giocano a rincorrersi, un fedele dal west Africa (forse nigeriano o senegalese) sembra immerso in una preghiera solitaria.
Ci accomodiamo in un piccolo ufficio. Ali mi spiega che la comunità musulmana di Cork è abbastanza numerosa, circa 5000 persone, composta da individui (lui preferisce usare la parola “fratelli” e “sorelle”) di diverse nazionalità: il Centro è frequentato da cittadini cinesi, pakistani, arabi, mediorientali, etc. Sono presenti fedeli provenienti da più di 40 Paesi. All’inaugurazione del Centro erano presenti tra gli altri il vescovo ed in sindaco di Cork. il quale ha salutato l’apertura con queste parole “E’ importante per tutti noi, quando lasciamo il nostro paese, avere un luogo nel quale possiamo sentirci sicuri lontani da casa, dove possiamo incontrare facce familiari, in maniera da non isolarci. E mantenere le porte aperte”. Ali e un fiume di parole ed il messaggio giunge con una certa Potenza: “Islam significa pace, l’Islam è una religione di pace”. Ci tiene che questo sia il punto chiave della nostra conversazione. Insiste sul fatto che solo la comunicazione tra religioni e popoli può aiutare a distruggere barriere, stereotipi e diffidenze. Ed è anche per questo che il centro a aperto a tutti. Anche se non parliamo di politica, non posso evitare di chiedergli cosa pensi dell’Isis. Gli faccio presente che in Italia l’argomento è quanto mai attuale, ed un intervento militare in Libia non è del tutto escluso nonostante le parole di prudenza del Governo. Ali non usa mezzi termini e silenziosamente lo ringrazio per non illustrami nessuna delle “teorie del complotto” alquanto di moda in questi giorni: “Isis? Sono nostri nemici prima ancora di essere vostri nemici. Quello che fanno e sbagliato. Devono essere fermati. Siamo contro quello che questi criminali stanno facendo”. Parole che non danno spazio a fraintendimenti. Tenta di spiegarmi che danno un’immagine falsificata dell’Islam, e che è da considerarsi inaccettabile uccidere in nome dell’Islam. “L’Islam e una religione di pace e non si può uccidere nel suo nome”. Ancora una volta l’accento è posto su pace, rispetto, fratellanza. Non c’è spazio per la violenza nelle parole di Ali, che continua “l crimini dell’Isis sono più pericolosi per l’Islam di qualsiasi altra cosa. Ne danno un’immagine errata, distorta. Vi sono più di 1 miliardo di fedeli islamici al mondo che non possono essere associati ad un gruppo di criminali”. Forse la realtà è più complessa. E forse vorrebbe dirmi di più ma si trattiene. Non parliamo mai di politica.
Ali mi riaccompagna in centro. Un ultima sigaretta ed una stretta di mano. Lo ringrazio per la sua ospitalità ed ognuno va per la sua strada. E’ scesa la sera e l’umidità inizia ad entrarti nelle ossa. Ora il freddo si fa sentire veramente. Mentre cammino penso ad Ali, al suo sforzo per avvicinare culture differenti e rompere barriere, al suo messaggio forte di pace e fratellanza. A chi, nel suo piccolo ed in un paese al confine dell’Europa, lavora per riappacificare la sua comunità ed aprirla alla cittadinanza locale. Penso ad un granello di sabbia nel deserto.
Foto dal sito della testata Irish Examiner
Estratto della cerimonia di inaugurazione del Centro islamico [vedi].
Sito del Centro di cultura islamico di Cork [vedi].
“Je suis Charlie” è la frase scritta e ripetuta ovunque nei giorni seguenti all’attentato terroristico alla redazione parigina del giornale satirico Charlie Hebdo lo scorso 7 gennaio, che ha causato la morte di dodici persone e il ferimento di altre undici. Due giorni dopo, il 9 gennaio, un complice degli attentatori ha seminato ancora morte in un supermercato kosher della capitale francese, portando il bilancio della strage al totale di venti morti. Rivendicato dalla mano omicida di Al-Qaeda, è stato scritto che si è trattato dell’attentato con il più alto numero di vittime nella storia recente francese. Fra condanne e manifestazioni, da quei giorni l’Europa intera (e l’Occidente) si sta ponendo innumerevoli interrogativi, molti dei quali chissà quando avranno risposta. Fra questi, al netto della comprensibilissima ondata emotiva, c’è la questione fino a che punto sia giusto spingere la satira e quando si varca il confine della blasfemia.
Roberto Casati sul domenicale del Sole 24 Ore (15 febbraio) offre un piccolo vademecum sulla questione. “Chi difende – scrive – la libertà di espressione difende un veicolo, indipendentemente dal suo contenuto”. Si può legittimamente non essere d’accordo con i modi, i toni, i temi e anche la linea editoriale di un giornale, senza per questo rinunciare alla libertà d’espressione. Perciò si potrebbe dire, e senza contraddizione, “Je ne suis pas Charlie” e quindi “Je suis Charlie”. In altre parole: non sono d’accordo con quello che dici, né nel modo in cui lo dici, ma proprio per questo accetto e difendo il principio superiore della libertà della loro espressione.
Parere molto simile esprime Piero Stefani (Il Regno 1/2015). Lo spunto è la polemica espressa dal settimanale parigino contro l’arcivescovo di Parigi, con la scelta di mettere in copertina la scena di una Trinità in cui Padre, Figlio e Spirito Santo sono stati raffigurati mentre compiono atti omosessuali. “Quanto occorreva fare – osserva Stefani – era difendere senza remore la libertà d’espressione anche esercitando una libera critica al modo in cui quella libertà è stata usata”. Una linea che “addirittura rafforza – continua – la condanna della violenza omicida”.
Seguendo questo ragionamento scopriamo che c’è dell’altro. Le manifestazioni seguite all’orribile strage avrebbero prodotto una creazione di simboli assolutamente laici, che hanno eroso ancor di più lo spazio del sacro. “La morte, per tanto tempo vista come l’ultima roccaforte delle religioni – argomenta ancora Stefani – sta sempre più sfuggendo loro di mano. La matita ha sostituito la croce”. La risposta per le Chiese, quindi, non starebbe – da notare la chiusa – “nel tentativo, destinato a un inequivocabile scacco, di risacralizzare le società; il loro compito è di riscoprire la mite ed esigente autenticità del messaggio evangelico”. Riprendendo il filo del vademecum di Casati sarebbe dunque sul piano laico che va posto il dilemma fra blasfemia e incitazione all’odio. Irridere una figura ritenuta sacra da taluni è cosa diversa da irridere quelle stesse persone che credono in quella figura. Qui Casati chiama in causa un’idea di John Stuart Mill per distinguere offesa e danno.
Dissacrare la figura ritenuta sacra può ritenersi giustamente offensivo, ma sarebbe un danno se a quelle persone credenti fosse impedito o ostacolato il culto alla figura per loro sacra. La differenza è che il danno è sempre misurabile, quantificabile, mentre l’offesa è più imponderabile e riguarda la sfera delle sensibilità, nel frattempo diverse nella società contemporanea, complessa e di identità declinate sempre più al plurale.
E’ pur vero che le sensibilità vanno rispettate, ma è altrettanto vero che esse vanno rispettate tutte. Se il criterio su cui fondare il concetto di rispetto è di tipo dogmatico-veritativo di alcuni che credono in modo incontrovertibile in una verità, è facile prevedere che si vada, prima o poi, ad uno scontro con chi in quella verità non crede. E in mezzo c’è la libertà d’espressione, che deve valere – sempre – per gli uni e per gli altri.
L’ultimo problema, infatti, che affronta Casati nel suo vademecum è: desacralizzazione offensiva o sacralizzazione offensiva? Troppo spesso si dà per scontato che in gioco ci sia solo un tipo di offesa, quella di chi si ritiene offeso dalla dissacrazione del proprio spazio sacro. Ma dovrebbe essere tenuto in ugual conto che anche chi non crede può ritenersi offeso dalla pretesa di sacralizzare spazi della società e della convivenza che sono di tutti, sia pure nel nome di una verità suprema e superiore. La libertà d’espressione è uno di questi spazi che sono “sacri” proprio perché sono stati desacralizzati dopo una lunga storia, in Europa e nel pensiero occidentale, fatta di tanti errori, ferite e altrettanti dolorosi ritorni al passato.
Dopo Parigi tanti sono gli esiti e le ipotesi possibili, ma su una questione non è possibile cedere alla paura e arretrare nemmeno di un passo, perché in gioco è una conquista raggiunta, senza sconti, ad un prezzo salatissimo e, allo stesso tempo, lo strumento più efficace finora conosciuto per tenere insieme società sempre più al plurale: libertà e democrazia. Ecco perché, in fondo, siamo tutti Charlie e perché ha ragione Piero Stefani a dire che ogni tentativo di risacralizzare le società (sulla base di verità ultime sia religiose che laiche), è sempre un vicolo cieco. Per tutti.
Eccolo! L’ho ritrovato il programma di sala dell’ “Orfeo ed Euridice” diretto da Riccardo Muti, in apertura del XXXIX Maggio musicale fiorentino. Cinque spettacoli, la prima Venerdì 18 giugno 1976, regia di Luca Ronconi, scene e costumi di Pier Luigi Pizzi. Che vidi tutti e anche le sessioni delle prove!
Alla notizia della morte del grande regista, Riccardo Muti da Chicago dove dirige il Requiem di Mozart annuncia: “”Questa sera a Chicago dirigerò il Requiem di Mozart e voglio dedicarlo a Luca Ronconi, grande amico e grande uomo di teatro”. E prosegue dichiarando all’Ansa: “E’ il regista con cui ho lavorato di più”, spiega. La prima volta, dice, “fu a Firenze con l’ “Orfeo e Euridice” di Gluck. Erano gli anni Settanta, fu un successo strepitoso, una regia che rivoluzionava il modo di intendere il teatro d’opera. Dopo, tanti registi europei hanno seguito questa sua indicazione”.
In quegli anni, che significarono per me la flaubertiana “éducation sentimentale”, poter essere ammesso nell’officina ronconiana fu una straordinaria occasione di accostarmi alla sperimentazione più raffinata del teatro. Ronconi veniva dall’esperienza dell’Orlando Furioso adattato da Edoardo Sanguineti, realizzato per il Festival dei due Mondi di Spoleto nel 1969 e immediatamente portato a Ferrara in Piazza Municipale.
In quegli anni la nostra città era la capitale della sperimentazione teatrale. Qui approdarono negli anni Sessanta Judith Malina e Julian Beck, fondatori del Living Theatre con “The Bridge”. Qui approdò Carmelo Bene, e Ronconi fino a tempi recentissimi sperimentò spettacoli che hanno fatto la storia del teatro. Tra i più famosi “Il viaggio a Reims” di Rossini e lo stupefacente “Amor nello specchio”, irripetibile in altri luoghi che non fossero stati Corso Ercole d’Este e il Palazzo dei Diamanti, come lui stesso ha dichiarato.
Tornando all’opera di Gluck, attesissima dal raffinatissimo mondo musicale fiorentino, i ricordi si concretizzano nelle lunghe discussioni durante le prove. Ronconi e Pizzi erano ospiti di Paola Ojetti nella sua affascinante casa di via de’ Bardi a un passo dal Ponte Vecchio. Figlia del grande giornalista Ugo, svolse un’intensa attività come sceneggiatrice di film; le sue conoscenze erano legate a quel mondo culturale che vedeva ancora in Croce l’espressione più alta della cultura. Ricordo che Paola trascrisse una copia meravigliosa dell’epistolario di D’Annnunzio e Barbara Leoni, Barbarella, affidatale da Croce che potei consultare a lungo.
Riccardo Muti ormai era l’enfant prodige della musica, adottato da Firenze dove approdò nel 1969, spessissimo ospite nella villa di Bellosguardo dove ho passato venticinque anni della mia vita e dove s’incontravano i più grandi artisti del tempo: da Slava Richter con cui giovanissimo eseguì un concerto memorabile a David Oistrack, a Eugene Ormandy a cui Riccardo successe nella direzione della Philadelphia Orchestra.
Ci eravamo sposati nello stesso anno e per molto tempo, a settembre, nel giardino dove Foscolo passeggiò e scrisse “Le Grazie”, la nostra ospite festeggiava i nostri matrimoni. In quel momento studiavo il Settecento letterario tra Metastasio e Ranieri de’ Calzabigi e spesso nelle fervide discussioni venivo interpellato.
Al gruppo si associava poi Tirelli “la sarta nera” come veniva chiamato, autore dei meravigliosi costumi dell’opera. E la sera dell’inaugurazione, all’apparire della scena stupenda inventata da Pizzi, con i coristi che commentavano la tragedia come nell’antichità, sistemati in palchetti sul palcoscenico, vestiti con costumi neoclassici o ottocenteschi, venne giù il teatro. Una magia si era compiuta. E poi per le strade di Firenze nel dopo spettacolo, a sperimentare dal vivo quella Bellezza che le pietre di Firenze evocavano in armonia col mondo.
Ho incontrato Ronconi altre volte. Per la presentazione del volume da cui Sanguineti estrasse il racconto dell’ “Orlando furioso”, assieme ad Ezio Raimondi al ridotto del Teatro comunale di Ferrara o all’Auditorium del Louvre per il convegno “L’Arioste et les arts” a cui venne dedicata una sezione speciale. Non arrivò ma la sua opera era lì a testimoniare per lui. In una serata organizzata, mi pare, da Ferrara sotto le stelle, una serata di letture dell’Orlando furioso letto da Ottavia Piccolo e Ivano Marescotti e da me condotta, la Piccolo ricordò come anche nella seconda riproposta dell’Orlando avrebbe voluto impersonare Olimpia, cavallo di battaglia della divina Melato. Ma non le fu concesso, così per una sera la giovane Angelica poté leggere le ottave dedicate ad Olimpia.
Ed infine “Amor nello specchio” il risultato sicuramente più magico della lunga carriera ronconiana. Arrampicato lassù nella vertiginosa scala da cui in basso nuvole e palazzi si riflettevano negli specchi che coprivano corso Ercole d’Este e i primi piani dei palazzi fino a raggiungere e congiungersi con il più ariostesco dei palazzi: quello dei Diamanti. E poi a discutere con la Melato mentre la si accompagnava nel residence dove stava a due passi dal Castello. Posso ben dire allora che una volta tanto il ricordo non tradisce e Ferrara come direbbe de Pisis si trasformò nella città delle cento meraviglie.
Pare che il Negri-pensiero abbia fatto il giro del mondo fino a sbarcare sul Washington Post. Ma sua eminenza non è sola. Non facciamo i provinciali. Sua eminenza non è altro che una delle tante voci che nel mondo cattolico fanno da megafono alla stessa omelia. Non mi preoccupa monsignor Negri, mi preoccupano i laici e questo Paese che laico non è.
Chi è religioso guarda alla vita con gli occhi della religione e pretende che il mondo sia a immagine e somiglianza della sua fede, perché diversamente vorrebbe dire che lui e il suo credo vengono discriminati.
È il caso di “Citizengo”, l’organizzazione cattolica nata in Spagna e diffusa in tutta Europa a cui recentemente Avvenire, il giornale dei cattolici italiani, ha dato grande risonanza. A partire da una visione cristiana olistica della vita e della società, Citizengo invita a firmare online petizioni su petizioni per un ordine sociale rispettoso dell’uomo creato a immagine di Dio.
Allora la petizione per la difesa della famiglia tradizionale, contro l’utero in affitto, quella contro il registro delle famiglie arcobaleno, contro la creazione degli embrioni e l’educazione gender nelle scuole, fino alla campagna contro l’Unicef accusata di propaganda gay.
Insomma ci sarà sempre qualcosa per cui la società dovrà essere cristianamente raddrizzata o islamizzata, per non perdere l’anima dei cattolici o dell’Islam e quella dei laici che non sono né l’uno né l’altro, ma a cui i nostri fratelli credenti, bontà loro, tengono molto.
È questa spinta messianica, missionaria, salvifica delle religioni, qualunque esse siano, cattoliche o islamiche, o altro ancora, che pretende di scrivere la vita degli uomini e disegnare il volto della Terra, che non va bene, neppure nella sua lezione più mitigata e tollerante. Non va bene perché è irrazionale e l’uomo non può vivere contro la ragione. Noi non ci ritroviamo nel pensiero di sant’Agostino che scervella da secoli filosofi e teologi, lo troviamo un simpatico, ma inconsistente gioco di parole, “Capisco perché ho fede. Ho fede perché capisco”. È come dire è nato prima l’uovo o la gallina?
Intanto nel nostro sedicente Stato laico il presidente della repubblica e il primo ministro, con seguito di ministro alla cultura, partecipano all’anniversario dei Patti lateranensi, roba del fascismo e poi del governo Craxi, quello di tangentopoli.
In un recente articolo su Micromega, Antonia Sani riporta la notizia di un istituto scolastico di Bergamo, in verità per la sua natura giuridica non obbligato all’osservanza del Concordato, che ha deliberato, considerato il numero crescente di appartenenti ad altre confessioni religiose, di agnostici, atei, non credenti, ma anche di cattolici laici non favorevoli a un insegnamento religioso nella scuola, di cancellare l’ora di religione cattolica dall’orario scolastico, sostituendola con un’ora di “Etica” destinata all’intera popolazione scolastica.
Lo Stato italiano ormai, osserva Antonia Sani, non si pone neppure più il problema, appagato come pare dall’introduzione della facoltatività dell’insegnamento della religione cattolica, dietro alla vecchia facciata dell’obbligo/esonero.
Ma la scelta della scuola privata di Bergamo non è altro da quello che la Francia, laica da sempre anche nelle sue scuole, in questi giorni va facendo. Lo scorso 22 gennaio il ministro per la Pubblica Istruzione, Najat Vallaud-Belkacem, ha proclamato il 2015 «anno dell’insegnamento morale e laico», in tutte le 64.800 scuole pubbliche e private, di ogni ordine e grado della Francia. L’obiettivo della «morale laica» è quello di «consentire a ciascun alunno di emanciparsi, sradicando tutti i determinismi». Il governo è impegnato a formare 300 mila insegnanti, che sul territorio nazionale istruiscano 12 milioni di studenti, i francesi di domani. Il Presidente francese Hollande ha definito la laicità come un principio “non negoziabile”, al quale dedicare addirittura una festa, la “Giornata della laicità”, il 9 dicembre di ogni anno.
Il mondo cattolico è insorto contro “il laicismo dilagante”, “il degrado morale e culturale dei media”, contro “la mortificazione della missione educativa della famiglia e l’espansione del totalitarismo nella didattica”. Si direbbe che per i crociati questa sia una stagione davvero di revival, di qua come al di là del Mare nostrum.
Da sempre la nostra vita è fatta di sogni, pare che questa facoltà di sognare sia tipicamente umana.
E allora l’educazione alla morale laica dei nostri cugini francesi, che tanto ci ricorda il kantiano “sopra di me il cielo stellato, dentro di me la legge morale”, altro non è che la “religione civile” da tempo vagheggiata, la ricerca di nuove forme di fraternità sulla scia della Rivoluzione francese.
Dall’epoca di Rousseau e di Herder il progetto di “una religione civile” sta alla base di un’idea di convivenza e di cittadinanza capace di abbattere gli egoismi, le disuguaglianze sociali, di integrare nella tolleranza i pensieri e le culture, di istillare i valori civili a partire dalle istituzioni scolastiche nazionali.
Ecco la religione laica di cui abbiamo bisogno soprattutto oggi, di cui hanno bisogno i nostri giovani, una laicità a baluardo della dignità e dell’intelligenza umana che non possono giungere ad alcun compromesso con le dottrine religiose, con l’illusione di dio, che è un rispettosissimo fatto, ma particolare, singolo e privato.
L’educazione morale, l’educazione etica è forse l’unica arma di cui oggi dispone la nostra ragione contro ogni fondamentalismo, contro il pericolo che possa venire meno la credibilità di un mondo costruito in base alle idee di cittadinanza, responsabilità, eguaglianza, bisogni-rivendicazioni-diritti, la credibilità di questi ideali per i quali vale la pena consacrare la propria vita.
da MOSCA – Il 23 febbraio, la Russia festeggia il Giorno dei difensori della Patria, si festeggia l’uomo. Nulla a che vedere con la tradizionale festa del papà, ma solo (dite poco?) il ricordo a ogni russo che è un potenziale difensore della patria e che un uomo deve proteggere, sempre.
Oggi, in realtà, la celebrazione si è allontanata dal suo significato originario, anche se le parate del 23sono ancora in rigoroso stile militare. Secondo la versione ufficiale elaborata nell’Unione Sovietica degli anni ’20, in questo giorno, nel 1918, le truppe dell’Armata Rossa sconfissero le truppe tedesche vicino alle città di Pskov e di Narva. Successivamente, però, dopo un attento esame dei documenti dell’epoca, gli storici smentirono tali fatti. Eppure, in poco meno di vent’anni questo mito riuscì a radicarsi profondamente, e, negli anni della Seconda guerra mondiale, il 23 febbraio venne ampiamente celebrato come il giorno delle prime vittorie dell’Armata Rossa sui soldati tedeschi. Da allora, la data di questa festa è rimasta invariata anche se ha cambiato nome più volte: fino al 1949, in Unione sovietica, si celebrava il Giorno dell’armata rossa, mentre, dal 1949 al 1993, la festa si chiamò ufficialmente Giorno dell’esercito sovietico e della Flotta della marina militare; poi fu ribattezzata, prima Giorno dell’esercito russo e, infine, Giorno dei Difensori della Patria. Alla caduta dell’Urss, alcune repubbliche ex sovietiche smisero di celebrare il 23 febbraio. Oggi, questo giorno si festeggia solo in Russia, Bielorussia, Ucraina e Kirghizistan. Nonostante questa festa non avesse alcun legame con quella della Donna, con l’andare del tempo il 23 febbraio, nella coscienza dei cittadini russi, è diventato la ‘festa di tutti gli uomini’, il vero e proprio corrispettivo dell’8 marzo, che in Russia per tradizione viene ampiamente festeggiato. Come per l’8 marzo, anche il 23 febbraio in Russia si usa fare dei regali ai ‘festeggiati’. Ogni donna augura ‘un buon 23 febbraio’ a ogni uomo, senza eccezione, mentre in cielo scoppiano fuochi d’artificio allegri e multicolori e nelle vie svolazzano bandiere e coccarde. In ufficio, con discorsi, presentazioni carine e originali e regali simpatici, abbiamo ringraziato ‘i nostri uomini’, per averci facilitato la vita con le loro invenzioni, per averla resa bella e felice, per averci protetto nelle difficoltà, per esserci accanto. Carino, divertente e originale. Così, simpaticamente e allegramente, abbiamo ricordato Antonio Meucci, che ci ha inventato il telefono (quale donna non lo ringrazierebbe) e Martin Cooper che ci ha inventato il cellulare. Come non essere grati, poi, a William Blackstone, l’ingegnere inglese che ha inventato la lavatrice solo per fare un regalo alla moglie e alleggerirne le fatiche domestiche, ad Albert Von Goertz, che ha prodotto il primo robot da cucina, lo Starmix Mx3 o a Victor Millis, inventore dei pannolini usa e getta per bambini, fondatore della Pampers (chi non ricorda le nostre mamma lavare i “triangoli” di stoffa che ci avvolgevano da neonati). Alcune ragazze insorgeranno al legame con le faccende domestiche… ma noi abbiamo voluto ironizzare sugli stereotipi e, poi, c’è anche la bellezza, che tanto incanta l’uomo, da sempre. Abbiamo allora ricordato e ringraziato Tom Lyle Williams, inventore del mascara (su insistente e pressanye richiesta dell’amata sorellina Maybel, che voleva attirare il ragazzo dei suoi sogni), e Karl Nessler, l’inventore dei bigodini e della permanente. E come dimenticare e non ringraziare i fratelli Sturtevant di Boston, che ci hanno inventato il cambio automatico (perché guidiamo bene… e ci piace scherzare su questo luogo comune). Tutti uomini. E con l’autoironia che caratterizza le ragazze vispe e intelligenti.
Nel frattempo Mosca si illuminerà con i fuochi d’artificio previsti della serata del 23, allestiti in dodici diverse postazioni dislocate da Est a Ovest della città. Le colline Vorobevy, uno dei punti più alti e belli di Mosca, saranno il palco d’onore, da dove sarà possibile godere di una visuale privilegiata. Pezzi d’artiglieria accompagneranno la danza di luce sopra i tetti del Cremlino e della case del centro e della periferia della capitale, i botti scuoteranno il cuore di un Paese che con questo spettacolo commemora le sue vittime e ringrazia, con forza, i propri uomini. Perché gli uomini, che purtroppo sono spesso alla ribalta delle nostre cronache per episodi di violenza e malversazioni, possono anche essere buoni padri e mariti, amici e fratelli attenti, capaci di proteggerci. Allora, auguri ragazzi.
Fotografa le ombre, Giulio di Meo, i riflessi, i margini del mondo che si nasconde dietro l’angolo. Suoi soggetti sono la gente che non fa notizia, quelli che sono piccoli, i cani senza pedigree, i contadini senza terra, le mani della gente che lavora, il sonno di chi si abbandona e spera, il silenzio, la compostezza degli affetti, la golosità istintiva di una bambina che si affaccia al banco di un negozio di tortellini. Ovunque si trovi, Di Meo riesce a cogliere particolari marginali e inediti, un pezzetto di vita e un paesaggio non scontati, mai ovvi. La sua è una visione che va sotto la superficie, in fondo agli sguardi, dietro a un abbraccio. E non importa che si trovi in un villaggio di operai del ferro nel nordest del Brasile, in un accampamento saharawi del deserto africano, tra le vetrine di lusso nel centro di Bologna o nella periferia industriale di Ferrara. L’obiettivo della sua macchina si insinua tra le pieghe di una tenda, dietro la rete metallica di un campetto sterrato, tra le schegge di cemento di un cantiere. Sta lì tranquillo, magari a chinino, sdraiato per terra o anche in cima a un muretto; e scatta, racconta, fa vedere quegli attimi che tante volte ci passano dietro, di fianco, e che subito non saremmo riusciti a vedere né, probabilmente, avremmo colto.
Nato – come racconta lui – in un “paese piccolissimo, rurale, in provincia di Caserta”, Giulio Di Meo è affascinato da chi vive in contatto con la terra, dagli ultimi, dai particolari minimi. Un professionista del reportage che cattura i riflessi dentro a quei piccoli specchi che si tengono in borsetta o sui banchi dei mercati, che guarda il mondo molto spesso dal basso, ad altezza dei bambini, del cane di casa, delle erbacce. Oppure punta l’obiettivo dietro il vetro di una finestra o da quello di una vetrina, nello spazio incastrato tra il banco e il negozio. Le sue immagini riescono a mettere insieme le persone nell’inquadratura di un braccio infantile avvinghiato alla gamba di un adulto con le infradito in una favela brasiliana; un ragazzino che fa la conta, in strada, di fianco al muro con tutte le ombre dei coetanei nascosti; lo sguardo dell’uomo che tiene in grembo lo specchio mentre il barbiere gli rade i capelli.
A fare da introduzione alle sue foto – per l’appuntamento organizzato dal FotoClub giovedì scorso nella Sala della musica del Comune di Ferrara – ci sono frasi emblematiche, che danno il senso di quello che vedi, ma anche un po’ l’indicazione di un percorso. “Nella vita – riporta la citazione di Sandro Pertini – a volte è necessario saper lottare non solo senza paura, ma anche senza speranza”. Poi c’è Tom Benetollo, presidente per tanti anni dell’Arci e attivista del pacifismo, al fianco delle minoranze e dei diritti sul lavoro, che esorta a non “lasciarci intimidire dall’ordine di grandezza della sfida che abbiamo di fronte”. Oppure Antonio Gramsci, con la sua dichiarazione di “Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. (…) Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”.
E indifferente non si può certo più essere, dopo questo incontro. Con la sua pila di libri e quella carrellata di volti biondi, scuri, grinzosi, freschi, lentigginosi di tutte le diverse popolazioni del Brasile, pubblicata e venduta per sostenere la scuola del movimento dei “Sem terra” che vuole ridare dignità e lavoro a chi resta fuori dalle grandi organizzazioni multinazionali. Oppure il volume sulla quotidianità degli operai dell’industria mineraria, raccontati con il progetto Pig Iron. Ma anche qui vicino, a Ferrara, con la gente di Pontelagoscuro per il workshop di fotografia sociale fatto nel 2010 e quello intorno a viale Krasnodar fatto alla fine del 2011. Bello e, magari, a presto: a un altro appuntamento, ad altri riflessi, altre emozioni.
Giurisprudenza bella e impossibile ha perso in questi ultimi anni quella sua patina di inaccessibilità che induceva molti studenti a iscriversi o a emigrare a Bologna. Merito anche di un appassionato nucleo di docenti che hanno reso meno austera e severa la facoltà e più permeabile al rapporto con la città. “E’ vero – riconosce Paolo Veronesi, professore associato di Diritto costituzionale – C’è una maggiore apertura nei confronti della comunità e sono stati introdotti percorsi di alta specializzazione che offrono nuove prospettive professionali, al di là degli sbocchi classici nell’avvocatura, nella magistratura e nel notariato. Vi sono corsi svolti in lingua inglese, rapporti di partenariato con Università straniere come Strasburgo e Granada (con percorsi che consentono il conseguimento del “doppio titolo”) e una particolare attenzione alle opportunità offerte dalle borse Erasmus. Inoltre è stata attivato il dottorato di ricerca in “Diritto dell’Unione europea e ordinamenti nazionali” che, tra l’altro, è frequentato anche da laureati stranieri”.
Di questo nuovo impulso sono in qualche modo artefici in prima linea i costituzionalisti della facoltà (oltre allo stesso Veronesi, Andrea Pugiotto, Giuditta Brunelli e Roberto Bin). Significativi sono anche i ruoli apicali ricoperti da alcuni ordinari della facoltà nell’ambito del governo di ateneo che proprio al vertice ha un giurista, il rettore Pasquale Nappi, e fra i prorettori il dinamico Alessandro Somma. Gli studenti apprezzano e la piccola emorragia di qualche anno fa è oggi completamente riassorbita.
Particolare visibilità esterna e notevoli consensi, anche in termini di pubblico, hanno ricevuto i cinque incontri del ciclo “Passato prossimo” che si sono svolti fra novembre e dicembre alla libreria Ibs. “E’ stato un bel momento di confronto fra esperti di varia provenienza, storici, intellettuali e città – commenta Veronesi –. Stiamo lavorando per cercare di riproporre questo format anche per il prossimo autunno. Non c’è ancora nulla di certo se non la volontà di proseguire su questa strada, mantenendo una formula che è risultata vincente. Ma già in precedenza c’erano state altre iniziative di successo, in quel caso su temi attinenti alla realtà carceraria: i materiali sono stati raccolti in due volumi pubblicati dalla casa editrice Ediesse. Però ritengo sia stato importante il cambio di paradigma: avere affrontato snodi e momenti fondamentali della vita costituzionale italiana e i conseguenti risvolti sulla realtà politica e sociale del Paese ha generato attenzione. Per il futuro stiamo vagliando diverse possibilità: io comunque credo si debba mantenere questo sguardo trasversale e diacronico”. E possibilmente riproporre anche l’associazione con forme di espressione artistica che attraverso differenti canali di comunicazione rafforzano il messaggio, come è avvenuto per il ciclo “Passato prossimo” accompagnato dalle piece teatrali di Mauro Monni che hanno saputo coinvolgere ed emozionare il pubblico attorno alle vicende di Gian Giacomo Feltrinelli e Aldo Moro.
In tema di snodi costituzionali, la domanda ad uno studioso attento come Veronesi sull’attuale riforma in discussione al Parlamento è d’obbligo. Qual è la sua valutazione?
Si tratta di riforme attese da tempo: il dibattito è iniziato già negli anni ottanta. Negli anni novanta il Parlamento, nel modificare il titolo V, non ha dato buona prova di sé e, successivamente, la pessima legge di modifica costituzionale messa a punto dal governo Berlusconi è stata fortunatamente affossata dal referendum del 2006. Devo riconoscere che, nonostante le strumentalizzazioni politiche, l’attuale progetto ha ben poco a che fare con quello bocciato nove anni fa. Anche se, com’è naturale, al suo interno si trovano scelte decisamente apprezzabili ed altre che appaiono invece più problematiche in vista della loro applicazione. Ci fa qualche esempio?
Complessivamente la proposta ha una sua dignità, una sua ‘ratio’. Positivo è il fatto che si affrontino congiuntamente i nodi della riforma elettorale e di quella costituzionale. Apprezzabile è che la soglia per conseguire il premio di maggioranza sia stata fissata al 40 per cento (prima nel Porcellum non c’era alcuna soglia). Importante è che si superi il bicameralismo perfetto, un meccanismo molto diffuso nel secondo dopoguerra come risposta alle derive parlamentari che determinarono gli orrori del fascismo e del nazismo. Ma oggi quell’esigenza va tutelata in maniera diversa, tant’è che prima o poi tutti gli altri Stati se ne sono allontanati: tale modello dilata infatti enormemente i tempi di approvazione delle leggi e tende a non funzionare affatto come una garanzia. Noi siamo rimasti gli unici a mantenere in vigore questo meccanismo. E qual è oggi la forma corretta di tutela?
Oggi c’è la necessità di accelerare i tempi di decisione, quindi i parlamenti debbono poter deliberare in fretta. Al contempo va preservata (se non rafforzata) la solidità degli organi di controllo: Presidente della Repubblica, Corte costituzionale e Magistratura. Proprio quelli che Berlusconi con la sua riforma (e con leggi collegate) voleva indebolire. Cosa invece non va?
Negativo è che, nella legge elettorale, resti ancora quell’assurdità che è la pluri-candidatura, una presa in giro per gli elettori: non è serio consentire di presentarsi in differenti collegi; i cittadini hanno diritto di sapere chi stanno eleggendo. Perlomeno, rispetto alla sconcezza della legge approvata nel 2005, è stato limitato il numero dei collegi nei quali ci si può candidare. Poi, io personalmente avrei preferito altri sistemi elettorali, ma – da giurista – valuto quel che si sta approvando e mi pare complessivamente accettabile, anche se potrebbe qua e là insorgere qualche problema di applicazione in relazione al procedimento legislativo così come si delinea dalla riforma. Che giudizio dà del controverso nodo Province?
La riforma costituzionale prevede l’abolizione delle Province dopo che la legge Del Rio ha messo un tampone al pasticcio combinato dal governo Monti, il quale pensava di eliminarle senza prima modificare le norme costituzionali che le contemplano. Personalmente la loro cancellazione mi lascia perplesso, anche se occorreva senz’altro rimeditarle a fondo. E’ un ente che ha una sua storia e i cui si incardina un sentimento comunitario. Sono in fondo il gradino appena più alto a quello dei Comuni, un’invenzione tipicamente italiana, piena espressione della nostra storia. Sotto il profilo del riconoscimento identitario le province mi sembrano più significative e riconosciute delle Regioni, frutto di una concezione federalista che non ci è mai appartenuta. La scelta al vertice dello Stato di un presidente come Mattarella che viene dal mondo giuridico ed è stato sino a ieri membro della corte Costituzionale la rassicura?
E’ significativa. Il Presidente della Repubblica è un organo di garanzia i cui poteri aumentano considerevolmente nelle fasi di crisi. Lo abbiamo visto bene con Napolitano. Si potrà discutere il merito di talune sue scelte, non certo la loro legittimità. Ciò che ha fatto rientra pienamente nel dettato costituzionale. Qualcuno polemizza perché i recenti governi “non sono stati eletti dal popolo”. E’ quando mai in Italia lo sono stati? Da noi il corpo elettorale elegge il Parlamento che assegna la fiducia al governo, ed è ciò che è sempre avvenuto in questi anni. Napolitano non ha tracimato dalle sue competenze, gli attacchi che gli sono stati rivolti erano finalizzati a raccogliere facili consensi, così come accadde con Ciampi e Scalfaro prima di lui. Guardando a figure di Presidenti del passato, molti più dubbi, al contrario, sollevano i comportamenti di Cossiga, l’interventismo di Gronchi, le ambiguità di Segni e di Saragat. Tutti temi che potranno essere oggetto di futuri incontri pubblici…
Ci stiamo ragionando per l’autunno. A proposito del vostro lavoro, quali iniziative avete in programma a breve termine?
Il 10 marzo, in aula magna a Giurisprudenza, abbiamo organizzato un convegno dal titolo “Stati e crimini contro l’umanità” in cui discuteremo della recente sentenza costituzionale che ha affermato la risarcibilità dei danni provocati dai crimini di guerra e contro l’umanità di cui s’è macchiata la Germania del Terzo Reich: un tentativo di modificare quella consuetudine internazionale che ha sino ad ora impedito il risarcimento delle vittime e dei loro eredi. In aprile affronteremo invece il tema della “galera amministrativa” degli stranieri in Italia, in cui approfondiremo la realtà dei Centri di identificazione ed espulsione.
“Un medico tra gli orsi”, traduzione impropria di “Northern Exposure” (Esposizione al nord), è una serie televisiva statunitense creata da Joshua Brand e John Falsey, composta da 6 stagioni per un totale di 110 puntate, trasmessa per la prima volta dalla Cbs tra il 1990 e il 1995. In Italia è andata in onda su Rai 2, grazie a Eliana Tisi, e poi su Canale 5 e Rete 4. “Northern Exposure” ha avuto numerosi riconoscimenti tra cui sette Emmy Award e due Golden Globe.
La serie è incentrata sulle vicende del Dr. Joel Fleischman, giovane medico ebreo di New York“costretto” a esercitare la professione per quattro anni nella piccola cittadina di Cicely, in Alaska, per ripagare la borsa di studio che gli ha permesso di laurearsi. Deve quindi vivere in un ambiente diametralmente opposto da quello della metropoli cui è abituato. Il suo desiderio era di passare i quattro anni, dovuti allo stato dell’Alaska, in un ospedale di Anchorage e non certamente di ritrovarsi tra qualche centinaio di abitanti (839), trasferitesi a Cicely per i più disparati motivi.
La particolarità di “Northern exposure” è il risultato della combinazione di diverse influenze: i creatori Joshua Brand e John Falsey sono stati membri dell’Esalen Institute in California (noto per l’educazione umanistica alternativa), dove hanno coltivato un’eclettica “spiritualità”. Il sapiente dosaggio di intelligenza e ironia genera storie dai toni surreali, che rendono concreta la realtà dei fatti narrati, tesi a rivelare l’inconscio dei personaggi. Nel campo della letteratura troviamo similitudini, con questa tecnica narrativa, nei racconti di Carlos Castañeda (magia e realtà), che usò il termine “naqual” per descrivere quella parte della percezione che appartiene alla sfera del “non conosciuto” e ancora non conoscibile dall’uomo. Altri riferimenti ci portano inevitabilmente al “realismo fantastico” di Gabriel García Márquez.
Brand e Falsey sono entrambi appassionati di letteratura russa, come si evince dagli elementi satirico-grotteschi, presenti nei vari episodi, alcuni dei quali ricordano Nikolaj Vasil’evič Gogol’. Il racconto “Il naso”, del grande autore russo, ne è un ottimo esempio: un naso si rifiuta di tornare da colui che prima lo aveva sulla faccia e scappa per Pietroburgo, anche se alla fine si consegnerà al suo proprietario. Nell’episodio “Noi animali”, Maggie crede che un cane randagio sia la reincarnazione di Rick, il suo ultimo compagno defunto. Gli abitanti di Cicely accettano la situazione, tranne Joel, che ne trae motivo di ilarità. Dopo un breve “idillio”, la ragazza dovrà restituirlo alla legittima proprietaria. L’Alaska è vissuta come l’ultima frontiera del territorio americano, dove qualsiasi spazio creativo può essere raccontato. A volte si ha la sensazione che Cicely sia il centro del mondo, come negli episodi che raccontano l’occasionale passaggio di Kafka (lì nasce l’idea per “La metamorfosi”) e Lenin (per un improbabile accordo con l’ultima Romanov), l’arrivo della compagnia di teatro-danza Mummenschanz, del Cirque du Soleil, della Ceedo Senegalese Dance Company.
Cicely è un microcosmo, dove la cultura dei nativi indiani si è integrata con il modo di vivere americano e viceversa. I protagonisti della serie interagiscono tra di loro, tramite il Dr. Flaishman, vero filo conduttore delle storie sospese tra fantasia e realtà, come lo può essere il lancio di una mucca con una catapulta, sostituita, all’ultimo minuto da un pianoforte, per non dire dell’acqua dei dinosauri, un’antica fonte le cui acque generano incubi di ogni genere o la scoperta della “Keewa Aani” (la città della gioia), che porta a materializzare i desideri, nel caso di Joel di “avere” la grande mela in Alaska.
Non mancano le citazioni cinematografiche, da Woody Allen a Federico Fellini sino a Bergman, senza dimenticare Akira Kurosawa e Spike Lee. Un altro elemento importante è la colonna sonora, che tocca tutti i generi: dalla classica al jazz, dal country al rock. Tra gli esecutori: Miriam Makeba, Etta James, Bud and Travis, Aretha Franklin, Chic Street Man e Willie Nelson. Le canzoni sono state commercializzate in due apprezzate compilation. Gli abitanti di Cicely convivono con la comunità indigena che trasmette a tutti un senso mistico della vita e un’interazione quasi sacra con la natura, cui spetta un ruolo “narrativo” importante per la sua influenza e relazione con l’uomo, estremizzata da giornate senza tramonto o completamente buie, aurore boreali e scioglimento dei ghiacci in primavera.
A Cicely una vecchia tradizione vuole che, quando viene il freddo, i maschi corrano nudi per il paese applauditi dalle femmine. Nel giorno del ringraziamento gli indiani tirano pomodori maturi ai bianchi, che accettano di buon grado (tranne Joel), per ricordare il sangue versato. Un’altra buona norma è di augurarsi: “Buon inverno”. Cicely nella realtà non esiste, la sua collocazione geografica la si può individuare con Talkeetna, città dell’Alaska meridionale, base di partenza per le ascensioni al Monte McKinley. Le riprese del serial furono fatte nella cittadina di Roslyn, nello stato di Washington, citata continuamente grazie a un simpatico murales, che ne è diventato il simbolo. La piccola località americana è ancora oggi meta dei fan, che possono muoversi nella Main street, come se fossero sul set del serial, perché tutto è rimasto come all’epoca delle riprese, compresi bar, ristoranti, la sede della radio. Lo studio del Dr. Fleischman è adibito alla vendita di gift e souvenir.
Northern Exposure, come ci piace chiamare questa serie, è una favola calata in un contesto a volte fantastico, che fornisce spunti di vita reale su cui riflettere.
Le fotografie inserite nell’articolo sono di Giancarlo Salario, scattate nella cittadina di Roslyn, nello stato di Washington, Usa.
Se ne è (ri)parlato molto, ultimamente, sui giornali nostrani alle colonne del ‘Guardian’ o di altri noti tabloid. Grazie, infatti, all’ultima recente apparizione sulla copertina di New You, Carmen dell’Orefice, quasi 84 anni, capelli soffici e bianchissimi, pelle candida, occhi grigi profondi e bistrati, sguardo algido e sicuro, zigomi alti, labbra rosse, tacchi ancora alti a sostenere membra lunghe, leggere e affusolate, è la modella più anziana al mondo.
Certo è che è davvero ancora bellissima, una promessa di vecchiaia non rassegnata per le prime generazioni che si avviano a diventare centenarie. Ricercatissima per campagne pubblicitarie e sfilate, corteggiata da fotografi e stilisti. Tutti la vogliono. Sempre e ancora. Con quasi 69 anni di carriera, iniziata alla tenera età di 15 anni con Vogue, Carmen è la top model più longeva al mondo, una leggenda moderna.
Nata a New York da padre italiano musicista e madre ungherese ballerina, coppia incostante e problematica, la modella ha avuto un’infanzia dolorosa tra affidamenti e grande povertà. Per risparmiare il biglietto dell’autobus, ha raccontato, andava al lavoro con i pattini, la mamma cuciva abiti per poter guadagnare qualcosa in più. Una condizione dalla quale è riuscita a uscire con la caparbietà, la forza d’animo, il coraggio, la voglia di rivincita e, sicuramente, e anche un po’ di fortuna (perché, in fondo, la fortuna aiuta gli audaci).
Dal giorno in cui la moglie di un fotografo di Harper’s Bazaar, Herman Landschoff, la scoprì, per caso, scendendo da un autobus a New York, non si è più fermata. Dalla prima copertina di Vogue del 1946, sarebbe diventata la modella favorita del grande fotografo Erwin Blumenfield, che l’aveva ritratta in quella prima occasione. Ha posato, poi, per Salvador Dalì, prima di lavorare con i più grandi fotografi del XX secolo, da Cecil Beaton, a Norman Parkinson, a Richard Avedon. Nel 2011, ha ricevuto la laurea ad honorem dall’University of Arts di Londra, per il suo contributo al mondo della moda.
Sposata tre volte, con altrettanti divorzi alle spalle, la top model, che ha avuto anche vari aborti, problemi emotivi con la figlia e grandi difficoltà finanziarie (per ben due volte ha perso l’intero capitale personale in azzardate operazioni di borsa), anche per queste sue disavventure incarna il mito di una moderna cenerentola. Comunque ancora bellissima, anche perché riflessiva, intelligente, forte, emotiva, caparbia, elegante e senza tempo. Una musa gentile che ‘vuole morire con i suoi tacchi alti’.
Gaetano Sateriale sulla sua pagina Facebook ricorda Luca Ronconi, il grande regista teatrale scomparso sabato, con il quale l’ex sindaco aveva un rapporto speciale. Fu proprio lui infatti a coinvolgerlo nelle celebrazioni dell’anno Lucreziano per una straordinaria produzione teatrale (“Amor nello specchio”) allestita dinanzi al palazzo dei Diamanti con Mariangela Melato come protagonista. E fu ancora Sateriale a riportarlo a Ferrara nel 2008 per la messa in scena di “Odissea doppio ritorno” da Botho Strauss.
“Sono consapevole di avere una dipendenza cronica da Omero: l’Odissea in particolare – confida al suo diario in pubblico l’attuale coordinatore della segreteria generale della Cgil -. Qualche anno dopo ‘Amor nello specchio’, mi venne in mente di proporre a Luca Ronconi di fare un’Odissea, appunto, nel corso dell’anno dedicato al rinascimento ferrarese. A Ronconi venne in mente di fare una ‘Doppia Odissea’ in teatro, su due testi diversi ma in contemporanea: metà in platea metà sul palco, con due pubblici diversi e il sipario tagliafuoco abbassato, tranne per qualche minuto in cui si potevano sbirciare entrambi gli spettacoli. Da un lato c’era l’azione, con eroi e dei impegnati a contrastare e favorire il ritorno di Ulisse, dall’altra si parlava di filosofia dell’Odissea. Ricordo che con Mariangela Melato avevamo cercato di convincere Ronconi a fare interpretare a lei quella parte, ma non ci siamo riusciti”.
“Entrambi gli spettacoli furono interpretati dagli attori studenti della scuola estiva di Ronconi (con costi molto contenuti). La polemica ci fu comunque, a prescindere, come accade spesso nella nostra allegra cittadina. Ricordo che un giornale scrisse: ‘Cosa c’entra l’Odissea con il Rinascimento?’ svelando come l’autore non avesse frequentato molto il tema (anzi, il doppio tema). Alla prima rappresentazione della Doppia Odissea, era presente Gian Aurelio Privitera, un grande traduttore italiano dell’Odissea (per me il più grande in assoluto) del quale considero imperdibile il suo ‘Il ritorno del guerriero'”.
Così Sateriale s’abbandona al filo dei ricordi che ora uniscono nel rimpianto Luca Ronconi e Mariangela Melato, prematuramente scomparsa un paio d’anni fa. Insieme furono artefici di una vivace stagione culturale della nostra città.
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