“Ciao quartiere”, scandisce ad alta voce la ragazza che apre il corteo di una ventina circa di persone.
“Comitato Zona Stadio: biciclettata per riqualificare il quartiere. Unitevi alle pedalate per un quartiere migliore. Nella biciclettata toccheremo i punti nevralgici del quartiere: piazza Castellina, la zona dell’acquedotto, via Oroboni e il grattacielo”. Annuncia al megafono Massimo Morini, presidente del comitato nato il 15 marzo 2013, che ieri ha festeggiato il secondo compleanno con tanto di pasticcini, brindisi e palloncini legati ai manubri.
“Due anni di biciclettate – racconta al megafono un altro signore mentre pedala sotto le finestre di via Oroboni – cento serate in strada, due fiaccolate, dieci presìdi contro il degrado e lo spaccio di droga”.
“Buonasera signora siamo tornati – dice un signore rivolgendosi ad una donna che si affaccia alla finestra – siamo qui per voi. Se saremo in tanti, verremo ascoltati. Non nascondetevi dietro alle finestre”.
“All’inizio ci davano per morti dopo due mesi – spiegano dal comitato – ci dicevano che eravamo dei patetici, che non avevamo di meglio da fare. Abbiamo ricevuto delle offese, ci hanno anche tirato dell’acqua in testa, e gettato i vetri per terra, ma noi andiamo avanti contro il degrado e lo spaccio di droga”.
Non tutti infatti apprezzano l’iniziativa di questi cittadini. C’è chi la considera eccessiva o non risolutiva rispetto al problema o anche molesta per i rumore degli slogan declamati al megafono e dei fischietti. Per il comitato questo è invece proprio lo strumento di disturbo a quelli che loro vedono come attori del degrado della zona, ovvero gli spacciatori.
“Salviamo il quartiere”, grida una signora. “E allora pulitelo”, gli urla laconico di rimando un signore da un cortile.
Ma c’è anche qualcuno che si affaccia dalle finestre ad applaudirli. Di certo, conseguenza o meno della loro presenza, per le strade, quando passa il corteo, non si vede nessuno di sospetto.
“Ci troviamo ogni venerdì sera alla 21 nel Piazzale Giordano Bruno di Via Cassoli – spiega Morini – lo scopo è monitorare il quartiere. Stiamo valutando con il Comune altre iniziative per riqualificare la zona, per farla rivivere, perché per migliorare la qualità di un quartiere la cosa più importante è viverlo. I residenti della zona non sono molto partecipi, un nostro grosso problema è quello di coinvolgere i cittadini. Il coinvolgimento è difficile, e stiamo cambiando tipo di iniziative per invogliare le persone ad uscire di casa e partecipare attivamente.”
“Purtroppo ogni volta che abbiamo messo i volantini ce li hanno tolti – spiega un signore – così abbiamo creato un blog: http://comitatozonastadio.wordpress.com”.
“E non si dica che non c’è neanche un cane” scherza Morini, riferendosi alla mascotte a quattro zampe del comitato.
Hanno rinunciato alle bombe carta e ai petardi davanti al carcere per una manifestazione dai toni più pacifici nel centro della città, i militanti di area antagonista che hanno ribadito ieri la loro solidarietà ai detenuti anarchici dell’Arginone.
Si sono dati appuntamento in piazza Castello a Ferrara in una cinquantina circa. Hanno abbandonato le proteste più agitate che li avevano contraddistinti finora, per un sit in di sostegno a nove anarchici attualmente rinchiusi nella casa circondariale. Si tratta di Lucio Alberti, Graziano Mazzarelli e Francesco Sala, accusati di reati contro i cantieri della Tav Torino – Lione, Michele Fabiani, Gianluca Iacovacci e Adriano Antonacci condannati per reati con finalità eversive, Francesco Porcu condannato per il sequestro Silocchi, e Alfredo Cospito e Nicola Gai, condannati per aver gambizzato nel 2012, a Genova, Roberto Adinolfi, amministratore delegato di Ansaldo Nucleare.
“Sono una giornalista, c’è qualcuno di voi con cui posso parlare?”. Non finisco la frase che il ragazzo che ho accanto mi volta le spalle e se ne va. Un altro, quasi parlando fra sé dice: “Noi non parliamo coi giornalisti”. “Perché?”, chiedo. “Perché è già tutto scritto qui” e mi passa il volantino che porta la firma di compagne e compagni contro il carcere e il suo mondo.
E’ un’occasione persa per approfondire alcuni temi, come le condizioni dei detenuti all’interno del carcere di Ferrara, la sproporzione delle pene per i militanti No Tav, la disumanità di misure come l’isolamento. Si poteva parlare per ore, invece il messaggio alla città è stato affidato alla lettura integrale del volantino tramite microfono.
“In particolare, nel carcere di Ferrara esiste una sezione speciale chiamata Alta Sorveglianza 2 (AS2), in cui vengono rinchiusi prigionieri anarchici, che vengono accusati dallo Stato di inseguire, nei modi più svariati (come, ad esempio, dei sabotaggio o delle azioni dirette contro il potere) quel crimine chiamato libertà. Negli ultimi giorni, nel carcere di Ferrara, è successo qualcosa a cui dare voce nelle strade. Successivamente all’isolamento imposto ad un prigioniero (Alfredo Cospito , ndr) avvenuto il 13 febbraio, dopo un alterco con una guardia, gli altri detenuti in AS2 hanno fatto una battitura (sbattere pentole e altre suppellettili su porte e finestre per protesta, ndr) della durata di tre giorni. In seguito, hanno ricevuto una notifica in cui vengono informati che avrebbe avuto luogo un consiglio disciplinare entro dieci giorni con le accuse di sommossa e disturbo.
Il 28 febbraio Alfredo è tornato dall’isolamento. Lo stesso giorno è stato portato via Graziano (Mazzarelli, ndr). Dopo il consueto processino i compagni sono stati tutti condannati a 15 giorni di esclusione dalle attività comuni, ovvero nei prossimi mesi ognuno dei prigionieri finirà in punizione per due settimane, Nel frattempo sono stati trasferiti dal carcere di Alessandria altri due prigionieri anarchici (Porcu e Iacovacci, ndr)”.
Ad ascoltare le loro parole sono per lo più vigili, polizia e carabinieri che fanno da cornice alla piazza. I passanti prendono il volantino più distratti che interessati.
Le domande ai manifestanti rimangono sospese in questo pomeriggio di struscio cittadino, dove si poteva parlare e non lo si è fatto.
Pietro Paladini, in un giorno qualunque, perde tutto: il lavoro, la patente, il telefono, la figlia che se ne va, la fiducia. Ma Pietro non ha voluto tutto questo, la sua colpa è essersi fidato delle persone sbagliate e di non avere capito che, con sua figlia Claudia, le cose erano finite già da un pezzo. E a pensarci bene, intuisce anche quando. E via con l’elenco delle cose che non ha più, i genitori, la moglie, il cane, il fratello, una litania infinita di autocommiserazione che importa solo a lui.
Una scossa tellurica spazza via tutto, anche la relazione con D., una donna con cui la somma di tenerezza, rispetto, attrazione non è mai diventata “un qualche luminoso tutt’uno”.
Pietro è costretto a mettersi in fuga, scappa da Roma, ritorna al nord, ritorna da lei, da Marta, da cui erano sempre fuggito. È nel momento di massimo spaesamento che Pietro vede la vita che non ha vissuto, o meglio, il “passo” di distanza che l’ha staccato da Marta. È da lei che è sempre scappato, in tutti questi anni, ma non lo sapeva. Anni di finzione a sè e agli altri, a sua moglie che tanto sapeva e che lui non ha mai amato. Ora può dirlo.
Marta, sorella della moglie, è l’unica che Pietro abbia sempre amato, quindi evitato. Non può più fare finta di niente, dopo che, per una vita, ha fatto finta di niente.
Vedere Marta lo inchioda alla sua “imperdonabile colpa”, quella di essere sempre stato, appunto, a un passo da lei, dal dirglielo, dal farlo, dopo averla abbandonata tanto tempo prima.
Mezzo svenuto tra gli scaffali di un supermercato, tra l’indifferenza di tutti, deve dire a Marta quanto è scappato e quanti ha trascinato con sè.
Ancora non capirebbe bene cos’ha combinato se non fosse sua figlia Claudia, adolescente, a spiegargli la teoria delle terre rare: “la loro estrazione comporta la distruzione dei minerali che le contengono (…). Si parte da un essere solitario, che di per sè è abbastanza comune, per ottenere qualcosa invece di raro e difficile da raggiungere. Perciò quando si arriva ad avere la cosa difficile da raggiungere, l’essere solitario non c’è più”.
Pietro per trovare e ammettere, ha dovuto distruggere, ha dovuto trovarsi abbandonato e tradito, ha dovuto trovarsi davanti a Marta, bella come una gemma su cui si posa un raggio di luce.
4. SEGUE – I vincitori hanno sempre scritto la loro storia da tramandare ai posteri, sì che l’ardua sentenza manzoniana sia la conclusione spontanea di quell’operazione di cui potere e giornalismo sono responsabili nel bene e soprattutto nel male, chi non crede a quest’affermazione vada a rileggersi, o a leggere se non l’ha fatto prima, il “De bello gallico”, in cui Cesare, impegnato nella conquista della Gallia, indica sempre nel povero Vercingetorige l’assalitore brutale e infido. La medesima storia del nostro glorioso Risorgimento dovrebbe essere riletta in questa chiave, ma il vincitore era Cavour, il quale aveva liquidato Garibaldi, socialista e massone, e aveva costruito l’Italia come voleva Casa Savoia.
Queste, però, sono considerazioni che fanno parte del bagaglio dell’esperienza da me maturata in anni di lavoro,considerazioni che non si accordavano certamente con la carica di entusiasmo e di speranza con cui ero entrato nel truffaldino mondo dell’informazione.
Ero arrivato alla Gazzetta Padana, il vecchio “Corriere Padano” di Italo Balbo, subito dopo la laurea e mi avevano messo in cronaca, andavo a fare il giro di nera in questura, dai carabinieri, in ospedale. In verità avevo già collaborato al giornale ma con articoli culturali, incoraggiato dallo scultore Annibale Zucchini e dalla pittrice Mimì Quilici Buzzacchi di cui avevo curato anche una mostra al chiostrino di San Romano. Così quell’immersione nella cronaca – manovalanza giornalistica – fu un salutare bagno di umiltà, ora non si fa più il “giro”, le notizie ti arrivano direttamente sul tuo computer, fanno bella mostra di sè e non devi far altro che metterle in pagina, per le notizie più importanti le autorità convocano una conferenza stampa e tu scrivi praticamente sotto dettatura. Recriminare non serve. Bisognava riempire le pagine e in una città di provincia non era facile, d’estate poi!, ricordo il silenzio e il caldo che entravano insieme dai finestroni aperti, il capocronista ti guardava e, senza sprecare parole, ti diceva di inventare qualcosa: di solito ci pensava un collega più anziano, scapigliato come doveva essere un giornalista, esteticamente truccato da giornalista, giacchetta un po’ bistrattata, camicia abbondantemente bagnata sotto le ascelle. Lui, il collega, si metteva in posa davanti alla Olivetti e cominciava a battere freneticamente il tasto delle maiuscole, sembrava che dovesse scrivere “I promessi sposi”, invece il foglio rimaneva impietosamente bianco, ma, dopo un po’ di falsa battitura, lo scrittore si fermava e diceva guardando in alto “faccio un capocronaca sulla necessità di dotare le nostre Mura di una grande Parco delle rimembranze con i busti degli uomini più famosi della città”. Detto questo, chinava il gran capo al direttore d’orchestra e dava inizio alla sinfonia e la macchina per scrivere riempiva di suoni la sala della cronaca: il capocronaca, cioè l’articolo che apre le pagine della città, è il pezzo più importante, quello sul quale dovrebbe reggersi il notiziario locale.
Ora in quel periodo, se volevi, c’era da scrivere: il clamoroso caso dell’omicidio compiuto sulle Mura (altrochè Parco delle Rimembranze!) da un giovane folle, subito chiamato “il vampiro”, il quale aveva violentato un bambino e poi lo aveva ucciso. La polizia aveva messo sotto inchiesta i ferraresi noti per le loto tendenze omosessuali, ma poi aveva trovato il vero responsabile. Ma, prima di ogni altro fatto, c’era il famoso “caso Giuffrè”, Giovan Battista Giuffrè, il cosiddetto “banchiere di Dio”, l’uomo della Curia che prendeva soldi a prestito e li restituiva con interessi incredibilmente alti, un giuoco che inevitabilmente sarebbe arrivato al capolinea, come avvenne regolarmente al primo intoppo del giro truffaldino e santificato; decine e decine di uomini d’affari, di professionisti e di agricoltori rimasero a secco nell’ultimo vortice d’interessi pompati.
Ma era pur sempre un argomento tabù per le persone importanti coinvolte, dal vescovo, al possidente, all’avvocato, all’ingegnere, al commerciante, al medico. I nomi non si potevano fare, si sussurravano alle orecchie degli amici più stretti, sicuri che comunque le sibilanti delazioni avrebbero avuto larga audiens, c’era soltanto da restituire la palla, la quale, così, rimbalzava da bocca a orecchio, ogni volta aggiungendo o togliendo qualche saliente particolare, insomma, le notizie circolavano molto in sordina e le bocche stavano ben attente a non aprirsi davanti alle orecchie degli indiscreti, in primo luogo i giornalisti. I quali, d’altra parte, erano conniventi, un giornale era di proprietà degli industriali, un altro degli agricoltori: chi mai avrebbe potuto rompere il muro di silenzio, sul quale, naturalmente in sedia gestatoria, la Chiesa innalzava solerti preghiere a Dio perché fosse cameratescamente protettore dei sacri segreti finanziari.
Ma non riuscì nemmeno al sommo creatore d’impedire che la faccenda giungesse fino alle pagine dei giornali nazionali, sui quali la Curia locale aveva meno potere, ma erano pur sempre notizie molto parziali, si parlava di tale Casarotti, braccio destro di Giuffrè, si parlava molto in generale di professionisti, di agricoltori (sempre gli stessi che negli Venti avevano sovvenzionato le bande armate di Italo Balbo), di imprenditori: “il tale professore, primario in ospedale, ha perso 14 milioni…, dicevano i sapienti, si aspettava di guadagnarne altri quattordici, ma la mano della giustizia…”, Il giuoco era questo, tu prestavi 2 e ti veniva rimborsato 4, allora tu reinvestivi 4, sicuro che avresti ricevuto 8 e, intanto, con quel vorticare di milioni si costruivano case e chiese, te Deum laudamus, chiosavano le suore. Insomma, con il vampiro e con il banchiere di Dio Ferrara riuscì a sgranchirsi le membra intorpidite da una pigrizia che aveva lasciato nelle teste dei borghesi una gromma difficile da scalfire.
STANDING OVATION: I PIU’ ACCLAMATI SPETTACOLI TEATRALI DEL XXI SECOLO
“Variazioni sul cielo”, ideato da Margherita Hack e Sandra Cavallini, Teatro Comunale di Ferrara, dal 18 al 19 marzo 2006
Va subito detto che si tratta di un allestimento che ha poco a che fare con il teatro di prosa vero e proprio, ma che si prevede fin dalle premesse d’un interesse tale da apparire francamente imperdibile. Si tratta di un adattamento non ricavato, come di consueto, da un’opera drammaturgica o letteraria di uno scrittore inteso nel senso canonico del termine, ma ispirato ad un trattato scientifico, di carattere divulgativo fin che si vuole ma pur sempre scritto da uno scienziato, per la precisione da un astrofisico.
Il celebre scienziato protagonista è uno dei nomi più eminenti dell’astrofisica internazionale: Margherita Hack, e il trattato in questione è “Sette variazioni sul cielo”, un suo libro pubblicato nel 1999. L’adattamento che va in scena questa sera, dal titolo “Variazioni sul cielo” e nato da uno studio di Sandra Cavallini e da un disegno creativo di Fabio Massimo Iaquone, «parte dagli occhi azzurri di Margherita Hack, dal suo sguardo sull’universo e dalla sua storia di scienziata per arrivare ad esplorare i confini del visibile. La saggezza e la passione di questa grande ricercatrice accompagnano quasi sottobraccio a fare della conoscenza un gioco attorno ai limiti dell’umano, con la delicatezza e la semplicità di chi accarezza il mistero senza violarlo o banalizzarlo, né rileggerlo con paura». Le sette parti, più un prologo e un epilogo, che compongono lo spettacolo sono: Prologo, Adamo ed Eva; 1) Ampliando la conoscenza dei cieli; 2) Formule, Il peccato di Aristarco, l’altra vergogna; 3) Bilance, il paradosso dell’esplorazione; 4) Ufo, La vita nel cosmo, qualsiasi qualcuno; 5) La controversa origine dell’universo, guardando in su e conversando; 6) Apocalisse, paure; 7) Eva, liberalità della natura, multiverso; Epilogo, Sulla luna rubata.
“Variazioni sul cielo”, ideato da Margherita Hack e Sandra Cavallini, vede sulla scena l’interpretazione prevalentemente ‘fisica’ di Sandra Cavallini, sullo sfondo delle creazioni video di Fabio Massimo Iaquone e sulle musiche dal vivo C-Project e musiche originali di Valentina Corvino. Lo spazio scenico è di Cristian Taraborrelli, la regia di Fabio Massimo Iaquone, ed è prevista la partecipazione straordinaria della stessa Margherita Hack.
da MOSCA – Sul numero di Internazionale del 29 gennaio scorso, leggevo il “Malumore dalla Russia” di Tullio De Mauro e mi colpiva questa sua affermazione: “nei paesi postcomunisti l’istruzione continua a essere una cosa seria. Gli adulti hanno livelli di competenza più alti della media internazionale, la Russia lascia indietro di molti punti i paesi leader dell’occidente. E le università russe attraggono il 4% degli studenti migranti, quasi quanto le francesi, come le giapponesi, più delle canadesi. Tuttavia anche in Russia diminuiscono i fondi per le università pubbliche. Partendo dai dati del ministero dell’istruzione, pare che […] l’aumento del numero di studenti, la fuga di cervelli per basse retribuzioni e la contrazione di risorse pubbliche, richiederebbero ripensamenti e strategie innovative nella didattica e nell’organizzazione e amministrazione delle università. Ma i docenti […] sono arroccati su posizioni conservatrici. Rifiutano ogni cambiamento e intanto non si arresta il declino della qualità dei risultati”.
Non metto in discussione il punto sulla diminuzione di risorse pubbliche, non avendo dati a disposizione né avendo approfondito il tema, ma noto con piacere che alcune di quelle strategie innovative auspicate da De Mauro sono già state avviate dalle università russe. Prima di descriverne alcune, è di qualche giorno fa la notizia che l’università statale Lomonosov di Mosca, Mgu (in russo Московский государственный университет имени М.В.Ломоносова, fondata nel 1755, la più grande e la più antica università della Russia) è salita al 25esimo posto nel World Reputation Ranking, la classifica mondiale delle università, realizzata dal giornale britannico Times insieme all’agenzia Thomson Reuter. Per la realizzazione dell’indagine, che ha preso in considerazione i cento migliori atenei del mondo, sono state valutate oltre 10.000 università in 140 paesi. La classifica si basa su criteri di qualità, professionalità e servizi, ai quali si aggiungono il tipo di programmi, il numero di pubblicazioni e le citazioni all’interno di articoli scientifici. Si tratta della posizione più alta raggiunta da un ateneo russo. L’anno scorso la MGU si trovava tra le prime sessanta. Quest’anno, nella classifica è stata inserita, per la prima volta, anche l’Università statale di San Pietroburgo, che occupa la posizione 71-80. La sede attuale dell’università moscovita, fu realizzata da Stalin negli anni Cinquanta nell’ambito di un progetto per costruire sette enormi grattacieli, le cd. ‘Sette Sorelle’. La sede della MGU è ancora oggi il più alto dei sette palazzi staliniani, 240 metri per 36 piani, con oltre 5.000 stanze, affacciate su circa 33 km di corridoi, un teatro, una sala per concerti, un museo, una biblioteca, una piscina, una stazione di polizia, un ufficio postale, una lavanderia e una banca.
Ottimo risultato, dunque, per questo istituto, ben meritato aggiungerei (corsi di lingua, mi dicono, impeccabili). Ma, come dicevamo, alcune novità didattiche importanti segnano il passo di questi atenei russi che stanno dimostrando apertura e grande voglia di innovare. Così, ad esempio, l’Università Statale di Medicina Pirogov e l’Università Statale di Milano hanno recentemente avviato un corso di laurea internazionale in medicina che consente di ottenere il doppio titolo, valido sia in Russia sia in Italia. A breve toccherà anche alla facoltà di Biologia di Torino, ossia una specialità, due lauree. All’università Pirogov i futuri medici possono, infatti, seguire contemporaneamente il programma adottato dall’ateneo italiano e da quello russo. La selezione degli studenti avviene sulla base dell’Imat, il test internazionale di accesso alle facoltà di Medicina gestito dall’Università di Cambridge. Per iscriversi è necessario un certificato che attesta un buon livello di conoscenza dell’inglese ma le lezioni, pur in inglese, prevedono anche lo studio obbligatorio della lingua italiana. Gli studenti dovranno imparare l’italiano, perché nell’arco di tre anni dovranno recarsi in Italia, dove proseguiranno gli studi facendo pratica con i pazienti negli ospedali. Per la prima volta alla Pirogov è stato creato un dipartimento di scienze umane, che comprende l’insegnamento di una serie di discipline come la bioetica, la storia della medicina, il latino, la filosofia. A guidare il dipartimento sarà il professor Emiliano Mettini, toscano.
Anche l’Istituto di cultura e lingua russa di Roma (nato nel 1991) ha siglato nuovi accordi con quattro importanti università russe per favorire l’arrivo di studenti italiani negli atenei della Federazione e realizzare soggiorni studio per tutti. Gli accordi riguardano la stessa MGU, l’Università di Minsk, l’Università Statale di San Pietroburgo Spgu e quella di Novosibirsk. A ciò si aggiunge la possibilità di seguire corsi preparatori per immatricolarsi, successivamente, alla MGU. Importante è immergersi nel paese in cui si parla la lingua di studio, raggiungere una certa padronanza linguistica, viaggiare, conoscere la realtà locale ed essere circondati dalla lingua russa tutto il giorno per ottenere gli stimoli necessari al salto di qualità. Ciò che fa la reale differenza è quello che c’è fuori dall’aula. Non possiamo che essere d’accordo.
La Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, che si tiene ogni anno il 21 di marzo, compie venti anni e per questo ventennale Libera, l’associazione di associazioni presieduta da don Luigi Ciotti ha scelto Bologna. Una scelta dovuta non solo ai recenti fatti di cronaca, che spingono a mantenere sempre più alta l’attenzione su quello che è ormai il radicamento delle organizzazioni mafiose nei territori del Nord Italia, una scelta per dire che anche oltre la Linea Gotica l’antimafia c’è e ha le antenne tese, come dimostra anche la pubblicazione dell’ultimo dossier “Mosaico di mafie e antimafia” realizzato dalla Fondazione Libera Informazione e voluto dall’Assemblea legislativa dell’Emilia-Romagna. La decisione è caduta sul capoluogo emiliano anche perché, in accordo con le associazioni dei famigliari, insieme alle vittime delle mafie si celebreranno gli anniversari della strage del 2 agosto alla stazione di Bologna e della strage di Ustica del 27 giugno del 1980. Inoltre nei giorni immediatamente precedenti verrà ricordato anche l’eccidio di Srebrenica. Vittime innocenti delle mafie e vittime delle stragi, oltre che dal ricordo e dall’impegno di tutti, sono legate dalla domanda di verità e giustizia che si alza forte ogni anno da parte dei loro familiari. Ancora oggi, infatti, per il 70% delle vittime innocenti di mafie non è stata fatta verità e, quindi, giustizia. E lo stesso diritto alla verità è ancora oggi negato ai familiari di chi ha perso la vita nelle stragi. In tutta Italia sono già iniziate o inizieranno a giorni le iniziative di avvicinamento a “Venti Liberi”, questo il titolo scelto per la manifestazione bolognese del 21 marzo, e anche a Ferrara il Comune, insieme al Coordinamento Provinciale di Ferrara di Libera, ad Arci, alla Pro Loco Voghiera, al Movimento Nonviolento, al Laboratorio MaCrO del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Ferrara, a Slowfood e a Teatro Off, in collaborazione con Avviso Pubblico – Enti Locali e Regioni per la formazione civile contro le mafie, hanno organizzato un nutrito programma di eventi.
Come affermato da Donato La Muscatella, referente del Coordinamento Provinciale di Libera, nella conferenza stampa di presentazione di oggi nella sala dell’Arengo della Residenza comunale, “in questa giornata si capisce che questa battaglia può essere portata avanti solo se tutti quanti fanno la propria parte; molto spesso si attribuisce alle vittime innocenti delle mafie la connotazione di eroi, ma il loro eroismo civile non deve servire però come alibi per disfarci della responsabilità che ciascuno di noi ha”. La memoria e l’impegno sono i due cardini imprescindibili, l’uno senza l’altro è inefficace: la memoria non deve essere puramente celebrativa, ma deve spingere all’azione e all’impegno nel solco di una strada che già altri hanno tracciato. A Ferrara i “100 passi verso il 21 marzo” iniziano oggi sabato 14 marzo: dalle 10 alle 13 al Mercato della Terra presso il Baluardo del Montagnone in viale Alfonso I D’Este, i volontari del Coordinamento hanno organizzato un banchetto con i prodotti delle cooperative di Libera Terra, coltivati sui terreni confiscati alle mafie e, insieme a Slow Food, una presentazione dei prodotti, seguita da un aperitivo e da una degustazione di vini (offerta minima 3 euro). Domenica 15 marzo dalle 15, in Piazza Castello, la Pro Loco di Voghiera propone una nuova art session: la colorazione partecipata di un camioncino che la Pro Loco Voghiera e il Coordinamento di Ferrara di Libera doneranno alla cooperativa “Rita Atria” di Trapani nell’ambito del progetto “Libera Ferrara e Voghiera per ridare vita alla terra”. Un esempio di come la solidarietà alle cooperative che lavorano sui terreni confiscati possa diventare impegno concreto. Isabella Masina, presente all’incontro con i giornalisti nella doppia veste di volontaria della Pro Loco e di Vicesindaco di Voghiera, ha anche ricordato l’appuntamento del 18 marzo a Gualdo di Voghiera: l’intitolazione del parco pubblico di viale IV Novembre alle “Vittime delle Mafie”.
Il pomeriggio del 17 marzoNando Dalla Chiesa sarà ospite dei seminari MaCrO, organizzati dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Ferrara: docente a Milano dell’unico corso di sociologia della criminalità organizzata in Italia, ex componente della commissione parlamentare antimafia e ora presidente del comitato antimafia voluto da Pisapia a Milano, Dalla Chiesa è più che titolato per parlare di mafie al nord.
Alle 18.30 alcaffè-ristorante 381 storie da gustare di piazzetta Corelli ci sarà poi l’inaugurazione della mostra fotografica “Immagini dal Presidio studentesco Ferrarese Giuseppe Francese” con scatti sulle attività dei ragazzi e sul viaggio che alcuni di loro hanno intrapreso sulla Nave della Legalità. Silvia, la referente del Presidio Giuseppe Francese, in conferenza stampa ha spiegato cosa questi ragazzi intendano con la parola impegno: “molti di noi pensano di non avere responsabilità per le brutture, come le mafie, che ereditiamo dalla società esistente, il nostro impegno è far capire a chi ha la nostra età che non siamo solo la società del futuro, ma anche quella del presente e che già oggi possiamo lavorare per cambiare le cose”.
Alle 20.30 infine al Cinema Boldini Arci Ferrara ha organizzato la proiezione del film “Le Mani sulla Città” di Francesco Rosi, a soli due mesi dalla scomparsa del regista: il film vincitore del Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia sarà proiettato nella versione restaurata dalla Cineteca Nazionale di Bologna (ingresso libero). La giornata del 21 marzo, in concomitanza con le iniziative di Bologna, prevede a Ferrara un’installazione multimediale, proiettata per tutta la giornata nella Residenza Municipale e in Piazza Municipale, in cui i Consiglieri Comunali leggeranno gli oltre 900 nomi delle vittime della violenza mafiosa. Mentre alle 11, il Teatro Off proporrà una lettura dal titolo “Rifiutate i compromessi”, ispirata alle testimonianze delle vittime delle mafie. L’assessore alla Sanità, Servizi alla Persona, Politiche Familiari del Comune di Ferrara Chiara Sapigni ha comunque voluto sottolineare che quel giorno a Bologna “saremo in tanti, con rappresentanze anche dalle scuole, al corteo che attraverserà la città fino a piazza VIII agosto”.
Tutti gli aggiornamenti sul programma delle iniziative:
www.libera.it
www.memoriaeimpegno.it
provalegalita.wordpress.com
Per Ferrara questa è stata una settimana densa di eventi importanti sul tema mafia: dopo la conferenza di don Luigi Ciotti [leggi], tenutasi martedì al liceo Ariosto, giovedì sera è andato in scena al Teatro De Micheli di Copparo lo spettacolo “Novantadue, Falcone e Borsellino vent’anni dopo”, di Claudio Fava e con la regia di Marcello Cotugno.
Un evento organizzato in collaborazione con l’Università di Ferrara che, grazie alle tariffe agevolate e le navette gratis per gli studenti, ha visto partecipare molti giovani.
Novantadue è la storia di due uomini del nostro tempo: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Uomini e non eroi, come viene ben specificato durante la rappresentazione, perché per entrambi l’etichetta di “servitori dello Stato” era più consona al loro ruolo. Proprio loro che tutto volevano essere meno che eroi, servitori di quello stesso Stato che gli ha abbandonati, lasciati soli, rei di aver creduto fino alla fine di poter dare continuità concreta al maxi-processo da loro avviato e scontratisi, infine, contro una trattativa troppo forte e ben avviata, a loro sconosciuta.
Lo spettacolo inizia proprio dalle fasi di completamento dell’istruttoria del maxi-processo, nel 1985. I due magistrati, “nascosti” sull’isola dell’Asinara, firmano gli ultimi documenti ed incominciano ad interrogarsi. Probabilmente iniziano da qua a parlare per la prima volta di loro stessi, di quello che hanno costruito, delle loro paure e, inevitabilmente, della morte. E in rapido tempo si arriva così, attraverso fatti più o meno salienti della storia, al 1992 appunto, anno della sentenza e delle condanne che andarono chiudendo il più grande processo penale della storia, ma anche e soprattutto l’anno degli attentati di Capaci e via D’Amelio.
Falcone e Borsellino (ben interpretati rispettivamente da Filippo Dini e Giovanni Moschella) ci vengono raccontati in un susseguirsi, spesso frenetico e dal forte impatto emotivo, di monologhi introspettivi, dialoghi con il pubblico, dichiarazioni realmente rilasciate, racconti della loro vita quotidiana. I loro interlocutori, a volte giudici, altre mafiosi, altre ancora pentiti (ognuno di questi interpretati dal “tuttofare” Fabrizio Ferracane), non sono altro che un climax ascendente di scoperte atte a prendere consapevolezza di quello che stava accadendo a loro insaputa. Nell’euforia e nella quasi convinzione di avere davvero rifilato un durissimo danno alla mafia, giorno dopo giorno, emerge pesante come il piombo la sensazione, sempre più netta, che il disegno già costruito è quello noto come “trattativa Stato-Mafia”.
Ed è proprio attorno a questa assurda verità che lo spettacolo sembra costruire il suo vero obiettivo. A più di vent’anni di distanza, non possiamo che rimanere ancora increduli davanti alla solitudine e ai complotti ai quali vennero lasciati in balia i due magistrati palermitani. E in Novantadue Falcone e Borsellino sembrano guardarci per davvero dritti negli occhi, impotenti, passati nel giro di qualche settimana dalla vittoria ad un inesorabile sconfitta. Due morti praticamente annunciate, raccontate con immane brutalità dai loro assassini compiaciuti dal loro gesto. Borsellino, dopo la morte dell’amico, ha praticamente solo il tempo di rendersi conto che la fine è vicina anche per lui, niente più scudi e niente più difese. Tutto è già stato scritto, ma rimane una certezza: con la mafia non si tratta, fino alla fine. E la fine arriva, rapida e cupa come il fumo nero generato da quell’enorme esplosione provocata da chili di tritolo. Ma solo un attimo prima di questa tragedia, sempre Borsellino trova il tempo di guardare ancora una volta negli occhi noi del pubblico, come se fosse presente per davvero, e confidarci quello che apparentemente sembra essere un ultima dichiarazione: la sua certezza è di essere stato un buon padre, la speranza è che i suoi figli diventino più consapevoli di ciò che li circonda rispetto alla generazione dei loro padri.
Tuttavia questa speranza è forse, ancora oggi, un enorme interrogativo. Probabilmente molti altri giovani presenti in teatro avranno condiviso ciò e si saranno chiesti se abbiamo imparato qualcosa, noi tutti, da questi due grandi uomini. Perché la sensazione che la mafia oggi, dopo quei fatidici giorni di ventitré anni fa, sia diventata meno forte perché meno “attiva” sul campo e più silenziosa, è un pensiero molto diffuso. Don Luigi Ciotti questo lo ha spiegato bene e queste sue parole quindi (dette da uno che Falcone e Borsellino li conosceva eccome) siano insieme a questo spettacolo un monito per sensibilizzarci, interrogarci ed anche stupirci a nostra volta. Replicare settimane come questa è un dovere; ne gioviamo noi stessi, la nostra società, il nostro futuro e soprattutto la memoria di chi, per questa battaglia ancora aperta, ha sacrificato la propria vita.
Protagonista negli anni Ottanta con un noto atelier culturale in via Romei, Giuliana Berengan, con Massimo Roncarà, da decenni ormai inventa ‘avantgarde’ culturale, tra promozione, teatro,
letteratura, marketing culturale, in Italia, Svizzera, Giappone e altri Paesi.
Riguardo l’Atelier Il Passaggio, tra le numerose iniziative letterarie, ancora negli anni Ottanta ospitò il giovane Aldo Busi, presentando forse la sua opera più innovativa, “Seminario della gioventù”.
I due sono figure assolutamente uniche nel panorama culturale ferrarese, spesso attardato: e da più lustri Giuliana Berengan ed equipe – della quale ricordiamo, tra le numerose operazioni artistiche, bellissimi volumi dedicati alle dame storiche del Rinascimento estense, e uno degli scritti più belli sulle celebrazioni di Lucrezia Borgia – sorvolano, dribblano, provocano e prendono felicemente in giro, appunto, certo passatismo ferrarese.
Tra le prodezze neodadaiste e literary, ma scientifiche, alla Feyerabend o Noam Chomsky,
segnaliamo la campagnaSave the World (Salvare le Parole, 2004), sorta di Biblioteca d’Alessandria versione pocket del Duemila. Oppure, tempi recenti, sempre sul femminile più libero di certa retorica tardo femminista – altrove da evidenziare il paradossale gastronomico quasi diario, “La cucina delle Donne a Ferrara”, (Tosi edizioni, 2008), a firma Giuliana Berengan, poi riedito e amplificato, la rara performance poetica nelle stanze di Palazzo Schifanoia, “Verbodrammi Nomadi”, per Wislawa Szymborska (2012), Premio Nobel per la poesia. E costanti iniziative letteraria sul femminile e la letteratura contemporanea. Non ultimo, cronaca live, la Berengan a suggello della sua potenza conoscitiva e intellettuale (qua a Ferrara da un certo punto sublimata dall’interfaccia istituzionale politico-culturale in quanto politicamente scorretta, si segnalarono anche mini fatwa local stile relativamente e micro… Oriana Fallaci) ha celebrato l’ultimo 8 Marzo delle donne con un esordio giornalistico culturale strepitoso e significativo sul Wall Street International. “Parole per Nostalgia”, sempre nel proiect atemporale Save the Words [leggi]. I libri (alcuni) di Giuliana Berengan: “La cucina delle donne a Ferrara. Storie, ritratti, ricette di cuoche sconosciute” (2013, Este Edition); “Favolosi Cappelli” (2007, Tosi), “Favolose Parole” (Edizioni Associate, 2006); Giuliana Berengan (a cura di) “Le dame della corte estense” (Ferrara : F.D.A.P.A., 1998).
*da Roby Guerra, Dizionario della letteratura ferrarese contemporanea, eBook Este Edition-La
Ieri mattina c’è stata una visita inaspettata per i lavoratori della cooperativa Camelot. Guidati dal consigliere comunale Paolo Spath, alcuni militanti di Fratelli d’Italia An, tra cui i dirigenti provinciali Fabrizio Florestano, Alessandro Balboni e Stefano Barbieri, si sono presentati davanti al cancello di via Fortezza con bandiere e volantini per protestare contro le modalità di accoglienza ai rifugiati e ai profughi.
“La nostra iniziativa è nata – ha spiegato il consigliere Spath – perché c’è stata un delibera di giunta che ha approvato la richiesta di accogliere a Ferrara 64 rifugiati con un finanziamento di oltre 900 mila euro. Così abbiamo deciso di andare in modo provocatorio con dei cartelli e un salvadanaio per raccogliere offerte per la cooperativa. Il nostro non vuole esser un attacco alla sua attività sociale, ma alle problematiche della gestione dei rifugiati. Sono tre i punti che contestiamo. Innanzitutto non siamo d’accordo a monte con l’assegnazione di tutti questi aiuti dallo Stato. Poi Camelot lavora in maniera monopolistica e i soldi vanno rendicontati in modo più ampio. Infine 448 € è la pensione minima di un pensionato sociale, mentre un calcolo approssimativo ci dice che un profugo ci costa 1100 € mensili, quindi c’è una forte disparità. Tra l’altro a loro rimangono in tasca pochi soldi, quindi tutto viene speso nella filiera: noi non vogliamo che qualcuno speculi su queste persone. Non siamo contrari al sostegno ai rifugiati, ma prima vogliamo vederci chiaro, infatti l’hashtag dell’iniziativa è proprio #vediamocichiaro. Come Fratelli d’Italia e Alleanza Nazionale abbiamo chiesto lo stop agli sbarchi e chiediamo che tutti i richiedenti asilo siano maggiormente controllati perché l’Unione Europea ha detto che il 10% di chi chiede asilo, non ne ha diritto. Inoltre queste persone vengono da paesi dove c’è il terrorismo e rischiamo delle infiltrazioni. Presenteremo anche un’interpellanza comunale in merito alla gestione dei fondi sia a livello locale che nazionale: dopo lo scandalo romano deve essere resa più chiara possibile per tutti, a partire da chi lavora nelle cooperative.
Quella a Camelot è un’assegnazione diretta, non ci sono altre strutture che lo fanno, perciò pretendo la rendicontazione dei passaggi e una spesa esattamente commisurata a quello che serve.
Anche le nostre famiglie sono in difficoltà, noi vogliamo avere la contezza che chi ha lo status ne abbia realmente la necessità”.
Avete parlato con gli operatori della cooperativa mentre eravate lì?
No – ha spiegato Spath – è uscito solo un operatore che ci ha detto: fate quello che vi pare e se ne è andato. Poi noi eravamo lì con i giornalisti, stavamo rispondendo alle domande e non c’è stato il momento.
L’operatore a cui si riferisce il consigliere Spath è Carlo De Los Rios, direttore della cooperativa Camelot.
Non sapevamo nulla di questa iniziativa – ha detto De Los Rios – fino a quando li abbiamo visti qui sotto. Sono sceso per chiedere cosa stessero facendo, e l’unica cosa che hanno fatto, è stata rassicurarmi che poi avrebbero tolto tutti i volantini che avevano attaccato. Ma nessuno mi ha fatto domande, non hanno cercato di interagire con noi, non cercavano i contenuti per approfondire il tema, ma solo di fare il blitz. Questa è una roba che puzza di qualche decennio fa. Il punto è che i soldi ci sono stati assegnati grazie a un bando vinto arrivando terzi su circa 420 a livello nazionale. Una cosa di cui bisognerebbe andare fieri invece che accusarci.
Fratelli d’Italia chiede trasparenza nei conti, proviamo a fare un po’ di chiarezza sulla questione?
Il bando che abbiamo vinto è triennale, il finanziamento è partito nel 2014 e arriva fino al 2016. I rifugiati sono già qui dall’anno scorso, per cui questa in realtà è una non notizia. Noi riceviamo 723 mila euro dallo Stato ogni anno per l’accoglienza, la protezione e l’integrazione di 64 richiedenti asilo. A questa erogazione statale va aggiunto un cofinanziamento comunale di 181 mila euro che però non si traduce in soldi che entrano nelle nostre casse, ma è la stima complessiva di servizi che vengono forniti. La parte a carico del Comune è di 30-35 mila euro, che equivale al valore del lavoro dei dipendenti comunali che si occupano dei migranti, sommata alle spese di canone per la scuola di Vallelunga che accoglie 20 persone. I restanti 150 mila euro circa sono i progetti di supporto che vengono offerti dalle realtà del territorio: come Brutti ma buoni di Coop Estense o Last minute market per riutilizzare il cibo invenduto, l’accesso a strutture sportive con Uisp, o ad attività culturali e ricreative con Arci. Ma ancora una volta chiariamo che non sono soldi che ci vengono in tasca, sono servizi messi a disposizioni gratuitamente, la cui valorizzazione, tradotta in cifre, può essere inserita come cofinanziamento.
E i 723 mila euro annui come vengono utilizzati? Con una parte paghiamo l’affitto degli appartamenti dove vengono sistemati i richiedenti asilo. E’ una politica di accoglienza più dispendiosa rispetto a metterli tutti in un unico stabile, ma pensiamo sia anche un trattamento più umano per loro e una soluzione per creare meno impatto sul territorio.
Poi li usiamo per vitto e alloggio, mezzi di trasporto come bicicletta o biglietto dell’autobus, corsi di italiano, mediazione e interventi culturali, servizi sanitari, integrazione lavorativa e tutela legale, e una parte li diamo cash per le loro spese.
La cosa che mi preme sottolineare è che sarebbe auspicabile che non ci fossero i presupposti per questi interventi, ma la realtà indipendente da noi è che queste persone sono costrette a fuggire perché nei loro Paesi ci sono guerre e persecuzioni individuali o generalizzate. Detto questo, qui a Ferrara questi soldi vengono interamente spesi sul territorio e diventano decine di posti di lavoro, contratti di tipo subordinato dei nostri operatori tutti laureati, soldi che vengono spesi nei supermercati, nelle case che non erano occupate, ma sfitte da anni, negli esercizi commerciali, in tutte le attività che queste persone fanno. E i lavori che poi vanno a fare i rifugiati, colmano i vuoti lasciati dagli italiani. In sostanza quelli che passano da noi, sono soldi che rimangono qua. Tra l’altro ci sono accordi con gli amministratori locali perché le spese alimentari vengano fatte nei negozi del territorio. Non si tratta di speculare sulle disgrazie, ma di gestire in modo sostenibile un’emergenza. Ricordo comunque che il diritto alla protezione delle persone che fuggono dal loro paese, è sancito dall’articolo 1 della Convenzione di Ginevra. Su come usiamo i finanziamenti dei progetti ministeriali, ci sono ovviamente controlli severi da parte di figure preposte, noi siamo tenuti a tenere tutte le rendicontazioni.
Per quanto tempo viene seguito un rifugiato? Quando arrivano qui, i migranti sono richiedenti asilo, ai tribunali il dovere di decidere se hanno diritto allo status di rifugiato. L’iter per il riconoscimento può essere più o meno lungo a seconda delle pratiche. Una volta ottenuta la protezione, hanno diritto di essere seguiti altri sei mesi.
A margine di questa querelle locale, che rispecchia comunque malumori nazionali, quel che concerne trasparenza e assegnazioni, lo lasciamo agli organi competenti. Quello che ci riguarda invece, è questa guerra tra poveri, dove si contrappongono categorie deboli come i pensionati a quelle più che deboli, indifese, come i migranti che scappano dalle guerre o dal terrorismo. Mettendola su questo piano, non ci perdono i cittadini ferraresi, o i rifugiati, ci perdono il senso civico, la dignità, l’umanità, la solidarietà.
Sono bellissimi, sexy, affascinanti e seducenti, di una fisicità sorprendente, di quelle che avvolgono, attraggono, turbano, coinvolgono, un po’ sconvolgono. Lei, Elena (Kasia Smutniak), ragazza di buona famiglia, con ambizioni imprenditoriali, abbandonati gli studi, si mette a fare la cameriera in un caffè di Lecce, con il sogno di aprire un suo locale, insieme all’amico Fabio, gay e fantasioso. Lui, Antonio (Francesco Arca, l’ex tronista di “Uomini e Donne”, oggi interprete del “Commissario Rex”), meccanico, omofobo, forte, rude, ma con una solida cultura del corpo muscoloso pieno di tatuaggi (e per questo, estremamente virile), vagamente razzista, con un linguaggio spesso popolare e un po’ scurrile, insomma non proprio il classico buon partito per una ragazza borghese di provincia. Ma con l’amore non si dialoga. L’anno, il 2000.
I due s’incontrano e si scontrano in una giornata di pioggia, sotto la pensilina affollata di una fermata dell’autobus. Scatta la scintilla che lavora inesorabilmente sui contrari, che alla fine spesso si attraggono. Nasce un rapporto impetuoso, di passione, ma anche di grande e intenso amore. Elena e Antonio, contro il loro stesso ambiente, fatto di amici che li osteggiano e di un’amicizia da fronteggiare (la migliore amica di Elena, Silvia / Carolina Crescentini, esce inizialmente con Antonio ma s’innamorerà, a sua volta, dell’elegante e beneducato fidanzato di Elena, Fabio / Filippo Scicchitano), s’innamoreranno perdutamente e dovranno sostenere le prove della vita e, soprattutto, quelle della malattia che colpirà lei tredici anni dopo il loro primo incontro e il loro matrimonio. Ci sono anche una splendida Elena Sofia Ricci, esilarante zia eccentrica e ‘borderline’, una profonda Carla Signoris, madre della Smutniak nonché sorella della Ricci con cui darà vita a interminabili e spassosi battibecchi, Luisa Ranieri, per pochi minuti in scena ma impeccabile nell’interpretare l’amante napoletana kitsch di Arca e una toccante Paola Minaccioni, irriconoscibile nel ruolo di una malata terminale.
Siamo di fronte a una storia forte, intensa, drammatica, disegnata da donne e uomini comuni, fatta anche di ospedali, di sedute di chemioterapia, di capelli che cadono e parrucche, di magrezza, di occhi segnati, di tanta immensa sofferenza. La malattia di Elena è un vero sconvolgimento, un rendersi conto della propria inadeguatezza e piccolezza di fronte al mistero e alle tragedie della vita, ma, allo stesso tempo, rappresenta un’occasione inattesa per la coppia, quella per ritrovarsi, per ritornare al passato di giovani innamorati, ai luoghi dei loro incontri, ai colori intensi della passione che, alla fine, pare non essersi mai persa, l’entusiasmo delle promesse fatte nei momenti di speranza di un futuro felice, di un miracolo da compiersi. Ritrovato tutto ciò, a Elena e Antonio non resta che allacciare le cinture, stretti l’un l’altro, e ripartire. Con una speranza ritrovata e una forza nuova per combattere la terribile malattia. La loro piccola storia non è più una storia piccola.
Film intenso, pieno di passione, toccante e commovente.
“Allacciate le cinture”, di Ferzan Ozpetek, con Kasia Smutniak, Francesco Arca, Filippo Scicchitano, Francesco Scianna, Carolina Crescentini, Italia, 2013, 110 mn.
Nella Primavera, dipinta da Sandro Botticelli nel 1478, al centro c’è una figura femminile, che domina la composizione: è una dama elegantissima, vestita di bianco, con un velo trasparente in testa, ornata di gioielli e ricami in oro, un mantello drappeggiato e sandali d’oro.
Ora, che cosa accadrebbe se, toccando il famoso quadro del ’400, con l’aiuto di un facilitatore esperto e di una voce narrante, la Primavera per una volta potessimo essere noi? O perché no, Cupido che svolazza sopra di lei, o una delle Grazie danzanti o, ancora, Mercurio, il bel ragazzo con il mantello rosso, la spada, l’elmo e i calzari?
Per scoprirlo l’occasione c’è: è lo spettacolo di improvvisazione teatrale esoterica “Parola all’arte. La Primavera di Botticelli” condotto da William Giangiordano, straordinario formatore e comunicatore con una laurea in Storia dell’Arte, e Francesca Ragusa, archeologa e direttrice della Università della terza età di Asti (Utea), dove è la prima docente di esoterismo in Italia. Lo spettacolo va in scena mercoledì 18 marzo alle ore 20.30 presso l’Associazione La Rosa dei Venti (via delle Armi 5/A), Mulino Parisio a Bologna.
Noi abbiamo intervistato Francesca Ragusa, che ci guida alla scoperta dell’evento.
Come nasce l’idea dello spettacolo?
L’idea nasce dall’eclettismo, ovvero dal desiderio di unire più campi di studio, avendo come denominatore comune l’Arte. Il primo è quello della comunicazione umana verbale e non verbale, con un’attenzione particolare agli aspetti umani ed emozionali. Il secondo è lo studio del teatro greco nel suo aspetto e potere catartico: attraverso la messa in scena dei personaggi del quadro non solo si mettono a fuoco emozioni, drammi e aspetti interiori ma si tracciano anche possibili percorsi di vita legati a scelte e comportamenti attivati al momento. Per ultimo c’è il contributo della fisica quantistica, in base alla quale siamo tutti connessi e quindi, connettendoci a un’opera d’arte, possiamo sperimentare sempre nuove vie di comunicazione e condivisione di esperienze.
In pratica che cosa avviene sulla scena?
L’aspetto più sorprendente è proprio che è impossibile rispondere a questa domanda. La tecnica del Role Play artistico è un lievito magico che di volta in volta, spettacolo dopo spettacolo, crea rappresentazioni sempre nuove e diverse. Mi spiego meglio. Nella rappresentazione io tengo le fila della narrazione, leggendo e orchestrando il canovaccio, la cornice entro la quale si svolge l’azione scenica. In pratica sono la voce narrante che segue un copione di ispirazione. William, il nostro comunicatore e facilitatore, il nostro “big boy”, recluta i vari personaggi dal pubblico chiedendo chi voglia liberamente interpretare una parte piuttosto che un’altra. Gli attori scelti tra il pubblico attraverso il contatto con l’opera d’arte si immedesimano nei vari personaggi e li interpretano nel loro modo unico e irripetibile, esprimendo il loro vissuto, le loro emozioni, la loro sensibilità. E dall’interazione tra i vari personaggi nascono dinamiche, percorsi, una trama che sarà ogni volta diversa, originale, autenticamente umana. Un modo semplice ed efficace per evidenziare gli ambiti di miglioramento, propensioni e capacità delle persone. E scoprire sempre nuovi aspetti dell’essere uomini.
Perché avete scelto proprio la Primavera del Botticelli?
Come tutti sappiamo il 21 marzo è la data ufficiale dell’inizio della primavera. Noi abbiamo voluto celebrare questo evento essoterico, questa contingenza temporale “esterna”, comune e che tutti possono vedere, con un evento esoterico, che faciliti l’esplorazione dell’interiorità, dell’invisibile, di ciò che è dentro di noi e che rimane spesso latente e inespresso. Così come abbiamo fatto con tanti altri spettacoli che stiamo replicando in giro per l’Italia come associazione Immaginati. Il calendario delle attività sarà presto visibile sul sito www.immaginati.eu, ora in fase di restyling e implementazione.
Nel bene e nel male ci sono forze molto potenti che spingono verso la creazione di un ambiente di vita sempre più artificiale all’interno del quale già dobbiamo, e sempre più in futuro dovremo, ripensare il nostro comportamento, le nostre modalità di interazione e l’etica in base alla quale queste potrebbero essere regolate. Una di queste forze, importante quanto sottaciuta, è l’umanissima paura: un’emozione che è diventata una merce tra le più importanti nell’arena politica e massmediatica.
Sul fomentare e cavalcare la paura si reggono certi populismi e prosperano industrie fiorenti che fanno della prevenzione e gestione del rischio la loro missione, alimentando un circuito in crescita costante che viene giustificato dalle richieste esplicite di buona parte dei cittadini. Non servono dati per rompere questo schema: per rendersene conto è sufficiente osservare e saper ascoltare le conversazioni della gente, seguire le diatribe sui social network.
La paura è una componente chiave del grande gioco dei bisogni su cui si regge la società del consumo coatto: la paura più diffusa si regge sull’ignoranza costantemente alimentata e genera odio e rancore, promuove l’isolamento sociale e la chiusura in clan, ha costante bisogno del diverso irriducibile, del nemico, del male contro cui scatenare la rabbia repressa con tutta la potenza di un apparato tecnologico percepito come neutrale. La paura più profittevole trova un mercato in crescita straordinaria i cui prodotti e servizi sembrano promettere agli occhi del cittadino medio la riconquista a buon mercato del senso di sicurezza perduto.
Che fare dunque di fronte al piccolo furto, all’effrazione, al danno gratuito, all’inciviltà che si manifesta proprio sotto casa? Come reagire all’astio e al timore generati dal bombardamento di violenze, delitti, stupri, assassinii, furti e crudeltà varie che costituiscono la dieta quotidiana proposta da giornali e telegiornali? Molti cittadini non hanno dubbi: dotarsi dei sistemi di sicurezza personale e domestica, chiedere con forza l’installazione di videocamere per il controllo sempre più stretto del territorio, auspicare infine leggi sempre più dure e mirate fatte valere da forze di polizia più veloci ed efficienti. Qualcuno, a onor del vero, chiede anche il diritto di armarsi liberamente ma, almeno per ora, si tratta di minoranza trascurabile.
Quando domina la paura si cercano soluzioni aggressive, si ignorano quelle basate sulla collaborazione, sulla socialità che contraddistingue da sempre gli esseri umani; non si crede più che un senso civico diffuso e profondo possa essere un ottimo deterrente, non si pensa che il modo migliore per tutelare gli spazi, i beni comuni, i luoghi pubblici rendendoli vivibili, sia semplicemente quello di viverli senza trasformarli in non luoghi da controllare tramite le forze di polizia e le tecnologie del controllo.
Ma l’industria della paura alimenta affari, genera profitto e lavoro, risponde perfettamente all’imperativo della crescita, è più vicina all’attuale sentire della gente: sostiene la domanda di servizi privati per quanti se li possono permettere, produce case blindate, quartieri asettici impenetrabili per i più abbienti, antifurto per i meno abbienti; mette a disposizione tecnologie interconnesse per il controllo, ‘device’ mobili che consento il tracciamento sistematico di ogni spostamento di veicoli, animali e persone, videocamere e microfoni per vedere e sentire ogni cosa. Tuttavia, questi sistemi impersonali rischiano anche di alimentare una costante deresponsabilizzazione, una perdita ulteriore della già scarsa educazione civica, un isolamento ancora maggiore delle persone, una perdita di fiducia nell’altro e nelle sue potenzialità genuinamente umane, alimentando la spirale perversa, della sfiducia, dell’insicurezza percepita e della paura.
Sono effetti per certi versi imprevisti e perversi dei nuovi e affascinanti ambienti di vita che si stanno affermando, nei quali infrastrutture digitali sempre più connesse daranno intelligenza crescente anche al sistema degli oggetti: l’internet delle cose, le smart city, la domotica, rappresentano un futuro già presente che ci spinge con forza a ripensare il nostro posto nel mondo, le nostre relazioni, il rapporto con la tecnologia e la natura, le nostre priorità. Che ci spinge forse, a fare i conti fin da ora con le nostre paure evitando che proprio su di esse venga edificata una società ‘tecnogena’ che non potrebbe garantire nulla di buono per l’uomo futuro.
“Quando liberiamo il nostro respiro, liberiamo le nostre tensioni.” Gay Hendricks
Il respiro è allo stesso tempo il gesto più naturale e più potente che compiamo ogni giorno. Come un filo invisibile, il respiro lega indissolubilmente la nostra mente e il nostro corpo ed è in grado di influenzare profondamente l’una e l’altro. Lo stile di vita moderno, sottoposto a innaturali stress psichici e fisici (incluse problematiche stomatognatiche), conduce a una respirazione errata. In modo particolare, la maggioranza della popolazione cosiddetta civilizzata, oggi esegue una respirazione costale con carenza di espirazione, accelerata, superficiale e spesso orale. In pratica si è in inspirazione quasi permanente, col diaframma circa fisso in posizione abbassata, con conseguente sua retrazione (per scarso e inadeguato utilizzo) e alterazione dei muscoli respiratori accessori (per eccessivo e inadeguato utilizzo). In particolare, in caso di blocco diaframmatico inspiratorio, date le sue inserzioni a livello vertebrale, si avrà una tendenza alla iperlordosi lombare. Una disfunzione diaframmatica è in grado innescare un circolo vizioso che conduce a ulteriore stress psico-fisico, in grado di facilitare alterazioni di tipo ansiogeno e alterazioni posturali con conseguenti problematiche muscolo scheletriche e, dato lo stretto rapporto con importanti organi, organiche: problemi respiratori (asme, falsi enfisemi ecc.), problemi all’apparato digerente (ernia iatale, difficoltà digestive, stitichezza), disfunzioni relative alla fonazione (essendo il diaframma il principale muscolo di spinta della colonna d’aria verso la laringe), problematiche ginecologiche (per la correlazione diaframmatica-perineale) e di parto (il diaframma è il ‘motore’ del parto), difficoltà circolatorie (il diaframma riveste un fondamentale ruolo come pompa per la circolazione di ritorno tramite l’azione di pressione-depressione sugli organi toracici e addominali).
E’ scientificamente riconosciuto che la respirazione addominale rappresenta un’ottima prevenzione nei riguardi delle affezioni croniche respiratorie e delle polmoniti. Tecniche di rieducazione respiratoria vengono utilizzate nella ginnastica correttiva, col fine di eliminare atteggiamenti viziati e paramorfismi, e in terapie psichiche, allo scopo di suscitare sblocchi emotivi liberatori e combattere l’ansia. In sintesi una respirazione adeguata consente di: mantenere in salute l’apparato respiratorio, migliorare i processi metabolici e circolatori dell’intero organismo, ottenere una postura migliore, prevenire l’insorgenza degli stati di ansia tramite un maggior controllo dell’emotività e dello stress, una maggiore capacità di concentrazione e rilassamento.
Si tratta in sostanza di re-imparare a respirare come da bambini (è per questo motivo che i bimbi, come ‘piccoli tenori’, sono in grado di urlare per ore senza stancarsi). Il ripristino della corretta funzionalità diaframmatica, tramite apposita rieducazione respiratoria ed eventualmente specifici trattamenti manuali osteopatici, è pertanto di grande importanza per la salute psico-fisica.
La respirazione diaframmatica
Appoggiate il palmo della vostra mano sull’addome, inspirate normalmente, la vostra mano si sposta in avanti? Espirate, la vostra mano, insieme all’addome, rientrano? Ora fate un respirone e verificate lo stesso meccanismo. Se avete risposto no a tutte le domande è molto probabile che abbiate una respirazione non corretta. Durante la respirazione fisiologica, in stato di riposo (circa 15 atti respiratori al minuto), è solo nella fase inspiratoria che si utilizza la muscolatura, mentre l’espirazione avviene passivamente (per tale ragione i muscoli inspiratori sono più sviluppati degli espiratori); il diaframma, quale principale muscolo inspiratorio, dovrebbe svolgere almeno i 2/3 del lavoro respiratorio (respirazione addominale o diaframmatica): in pausa respiratoria le fibre muscolari diaframmatiche decorrono quasi perpendicolarmente verso la sua zona centrale (centro frenico o tendineo), durante l’inspirazione le fibre muscolari si contraggono abbassando la lamina tendinea, appiattendolo e quindi aumentando il volume polmonare (elevazione delle coste in particolare inferiori).
Come applicare la tecnica della respirazione diaframmatica
– siediti in una zona tranquilla (la posizione del loto non è necessaria);
– appoggia la mano destra sul tuo addome e la sinistra sul petto;
– inizia a respirare lentamente e con respiri profondi;
– controlla che la mano destra segua il movimento del tuo addome durante l’inspirazione e l’espirazione, mentre la mano sinistra rimane immobile così come il tuo petto.
Basteranno 5-10 minuti di respirazione diaframmatica per eliminare le tensioni e godere di una piacevole sensazione di benessere. A differenza di quello che potrebbe sembrare, la respirazione diaframmatica non è una stramba tecnica di rilassamento orientale, ma al contrario è utile per rieducare il nostro corpo a respirare nel modo corretto, con il diaframma.
Un suggerimento, la tecnica del breath-walking
Il breath-walking, letteralmente ‘camminare respirando’, insegna a sincronizzare opportunamente la nostra camminata e la nostra respirazione, e genera numerosi benefici, tra cui:
– un maggior livello di energia;
– un miglior controllo del nostro stato d’animo;
– un notevole incremento della chiarezza mentale.
Ecco un semplice esercizio di breath-walking
– iniziare a camminare finché non si trova un ritmo confortevole;
– fare quattro brevi inspirazioni consecutive, sincronizzandole con la propria camminata;
– ripetere per non più di 5 minuti.
Questo è un ottimo allenamento mattutino che si può utilizzare anche in preparazione alla corsa.
Siamo alla terza e ultima parte di una storia molto importante per la nostra città e per il mondo della scuola in particolare: l’Ipsia è coinvolto da qualche tempo in un grande processo di trasformazione che ne sta cambiando la percezione sia all’interno, tra gli studenti, sia all’esterno, a livello di cittadinanza. Quest’anno è stato avviato un progetto sperimentale triennale ad hoc che mira a coinvolgere i ragazzi con strategie e con attività motivanti come la realizzazione di laboratori espressivo-creativi di teatro, musica rap e videomaker, mirato a migliorare il clima scolastico, aumentare l’autostima dei ragazzi e migliorare le relazioni all’interno dell’istituto. Nelle interviste precedenti abbiamo raccolto la testimonianza dei docenti [leggi] e del preside [leggi], ora la voce va agli studenti della classe I MC che frequentano il laboratorio di teatro, ai ragazzi tutor che fanno da supporto e al regista Massimiliano Piva del Teatro Cosquillas [vedi]. In fondo alle testimonianze una galleria fotografica del laboratorio.
I TUTOR PARLANO DELLA LORO ATTIVITA’
Federico Paone (Teatro) – Io sono tutor da tre anni, la mia prof. aveva visto che sono un tipo capace di aggregare e socializzare e mi ha fatto entrare nel ‘mondo dei tutor’. Fare accoglienza significa parlare, fare gruppo, si cerca di integrare tutti, l’importante è che non si creino i gruppetti dei bulli, di quelli che si sentono più forti e che si isolano dagli altri. Micaela Canella (Rap) – Fare il tutor è una cosa molto bella perché aiuta davvero i ragazzi ad aprirsi, io ho visto la differenza di alcuni ragazzini che lo scorso anno erano in prima e avevano problemi a relazionarsi e ora sono diventati persone diverse, sono dolcissimi, fantastici. Ci troviamo molto bene insieme, sia loro che noi. Cristina D’Agostino (Teatro) – I ragazzi migliorano tantissimo da un anno all’altro e noi siamo contenti di questo.
MASSIMILIANO PIVA PARLA DELL’IMPORTANZA DEI TUROR
Loro sono un ponte tra il mondo dei ragazzi, il mondo scolastico e me operatore esterno. Devo dire che sono veramente fantastici perché si mettono in gioco tantissimo; mi aspettavo di trovare in loro un supporto ma non credevo, devo essere sincero, di trovare così tanta serietà.
I RAGAZZI PARLANO DEL LABORATORIO TEATRALE (QUINTO INCONTRO CON METODO COSQUILLAS) Marius Birsan – A me piace questo laboratorio perché ci siamo aperti l’uno verso l’altro e abbiamo condiviso delle cose che prima non potevamo condividere. Io adesso sto meglio in classe con i compagni. Poi Maci è molto simpatico, piace a tutti. Youssef Nourredine – A me il laboratorio piace, come a tutti. Andrea Rigobello – Mi piace molto il progetto, soprattutto perché Maci cerca di levare l’imbarazzo tra di noi. Melissa Zovota – Attraverso questo progetto ci siamo conosciuti meglio. Andrei Birsan – Mi piace perché ci siamo avvicinati di più, adesso ci rispettiamo. Mario Di Vaio – Questo laboratorio mi piace molto perché nonostante siamo tutti diversi, cerchiamo di creare un unico corpo. Ringrazio il grandissimo Maci, i miei tutor, i miei amici. [Scroscio di applausi] Sono fantastici, c’è un’energia enorme, ogni mattina mi sveglio perché voglio andare a scuola per incontrarli [Scroscio di applausi]. Sasha MirontseV – Questo lavoro mi piace molto, vorrei continuare anche nei prossimi anni e mi viene anche più voglia di studiare… il laboratorio è un motivo per impegnarmi di più a scuola. [Scroscio di applausi]. Giuseppe Siciliano – Mi piace perché riunisce tutti noi ragazzi, anche se non abbiamo rapporti di amicizia. E poi è un’esperienza nuova che non avevamo mai fatto prima. Francesca Matteucci – Ci siamo uniti molto di più rispetto all’inizio dell’anno. Karolina Cokaj – E’ vero, noi all’inizio nemmeno ci parlavamo e invece adesso siamo una classe molto unita e bella. Masarati Miriam – E’ un progetto interessante, che diverte. E poi sì, adesso ci parliamo e ci guardiamo anche negli occhi. Alessia Capoluongo – E’ divertente e abbiamo scoperto delle cose che prima non sapevamo di noi. Massimiliano mi è subito piaciuto perché fin dal primo giorno ci ha accolti come se già ci conoscesse, come se facessimo già parte di lui. [Scroscio di applausi]. E anche i tutor sono bravi. [Scroscio di applausi]. Giulia Calza – E’ un buon modo per conoscerci un po’ tutti. Sasha Mirontsev – All’inizio tutti noi pensavamo che questo progetto fosse come tutti gli altri, noioso, invece poi abbiamo capito che è una cosa molto bella. E Maci è fantastico. [Scroscio di applausi].
Galleria fotografica – Clicca le immagini per ingrandirle.
Massimiliano Piva chiude la carrellata degli interventi
Sono ragazzi davvero molto bravi. La cosa che io mi sento di promettere loro, se le cose vanno avanti così, è di mostrare alla loro scuola che cosa sono in grado di fare. Loro lo sanno, io me ne sono accorto, ma il mondo scolastico non dà loro l’opportunità di questo riscatto. Il laboratorio teatrale è l’opportunità di dimostrare quanto valgono e di capire che ci si può affezionare ad un altro compagno che prima non veniva nemmeno considerato, nonostante si viva in classe insieme ore e ore al giorno, e che si può conoscere meglio anche se stessi. Loro sanno anche, però, che potranno continuare il laboratorio teatrale con me nei prossimi anni solo se saranno promossi, quindi, se ci tengono, devono studiare.
Le prof. sse Guglielmetti e Santoro raccontano di aver partecipato anche loro al laboratorio Cosquillas destinato ai docenti
Noi abbiamo partecipato al laboratorio per docenti del Teatro Cosquillas alla Città del Ragazzo (da ottobre 2014 a gennaio 2015) nell’ambito del progetto europeo Leonardo Theatre [vedi], ed è stato utilissimo perché con il metodo Cosquillas abbiamo sperimentato un linguaggio al quale noi adulti non siamo più abituati, ossia fatto di spontaneità e di fiducia, abbiamo discusso insieme e ci siamo confrontati sulle varie metodologie e tecniche che sperimentiamo quotidianamente con i nostri ragazzi. Insomma abbiamo fatto anche noi il percorso che i nostri ragazzi stanno facendo ora: ci siamo messe a nudo, prima dubbiose e incerte, e poi ci siamo sentite unite nel gruppo perché abbiamo capito che non eravamo sole, che la nostra è una delle tante realtà e che insieme si possono cambiare le cose. E’ stato così che ci siamo persuase a realizzarlo anche con i nostri ragazzi e vediamo che sta andando benissimo. Il Cosquillas è un metodo molto coinvolgente che funziona con tutti, sia con gli insegnanti che con gli studenti.
“Una recente analisi condotta nelle scuole italiane rivela che appena l’11 per cento degli studenti percepisce lo Stato più forte della mafia e solo il 23% si dice convinto che la mafia possa essere combattuta”. Dati sconcertanti, citati da don Luigi Ciotti durante il suo intervento a Ferrara. “Commuoverci davanti alle tante manifestazioni che servono a non dimenticare le vittime di questo sistema non basta, è necessario tradurre questo sentimento in impegno concreto e in azione”. Ospite del liceo Ariosto, ha esortato i ragazzi a non arrendersi. “Considerate i dubbi più sani delle certezze, prendete parte con interesse, scendete nella profondità delle vostre scoperte”.
“Sono qui per portare il mio piccolo contributo, con tutti i miei limiti, a voi che vi siete fatti onore essendo presenti a questo incontro”, ha affermato davanti a un atrio gremito: sobria premessa a due ore di parole potenti, anticipate da una decina di domande poste dagli studenti.
“L’istruzione e la scuola sono armi fondamentali per la diffusione della verità e la soluzione dei problemi che ci circondano, a cominciare dalla criminalità organizzata. Ma la politica non fa abbastanza per la scuola”. E proprio sul versante politico è proseguito l’intervento del sacerdote bellunese, fondatore del “Gruppo Abele” e di “Libera”. “Ci stanno rubando addirittura le parole che, al contrario, dovrebbero essere tutelate. Oggi la parola legalità è diventata sinonimo di convenienza”, mentre “l’illegalità cresce e non accenna ad arrestarsi, camminando di pari passo con leggi che tutto hanno fatto meno che favorire la soluzione dei problemi”.
Sono risuonate sincere le parole di quest’uomo, che spende la propria vita nella lotta alla mafia e nel sostegno alle condizioni sociali dei più deboli. E lui si è mostrato felice di incontrare tanti giovani. Ciotti ha riservato buona parte del suo intervento alla cultura, soffermandosi sull’importanza dello studio e delle conoscenza.
Non sono mancate ovviamente menzioni a personaggi celebri nella lotta anti-mafiosa e ricordi personali che Ciotti racconta come beni preziosi: dalla nascita di Abele e Libera alle stragi di via D’Amelio e Capaci, dalle parole di Nino Caponnetto alle toccanti storie di Rita Atria e Peppino Impastato, fino ad arrivare al recente rapporto tra lo stesso Ciotti e papa Francesco. Storie di cui è stato testimone o protagonista diretto e che orgogliosamente diffonde nelle scuole. Storie che si riflettono in tutta la loro atrocità nel suo sguardo e nelle sue parole, decise, dirette, taglienti. Racconti, questi, serviti da incipit per altre questioni, come l’importanza della coesione nella lotta alla mafia e alle ingiustizie.
Don Luigi ricorda come le sue associazioni e in generale tutto ciò che riguarda l’antimafia debba continuare ad essere libero, aperto a tutti, perché “la diversità non sia mai avversità. La diversità è il sale della vita”. E prosegue ancora sottolineando l’importanza del ruolo della Chiesa in questa battaglia, affermando che “due sono i libri per me fondamentali: il Vangelo e la Costituzione Italiana. Quest’ultima, se applicata correttamente, è il testo antimafia per eccellenza”.
Si è parlato poi di carceri e di come queste debbano assumere un ruolo sempre più educativo e non essere strumento di vendetta, di una valutazione più attenta ai possibili percorsi alternativi da applicare e del rischio, sempre più forte, che le carceri stesse diventino “il tappeto delle condizioni sociali più disperate”, visto l’enorme numero di piccoli spacciatori tra i reclusi. “La legalizzazione delle droghe leggere – afferma – è una questione da tenere in considerazione, ma comunque molto lontana dall’essere la risposta definitiva”.
In conclusione è stato affrontato il tema che oggi probabilmente ci tocca più da vicino, ovvero le infiltrazioni mafiose in Emilia. Ciotti non nasconde che “l’Emilia di oggi non è più quella di un tempo. Le connessioni con la mafia sono forti e naturalmente il terremoto non ha che contribuito ad ampliarle”. Doveroso quindi un ultimo avvertimento, sentito e diretto: “La mafia è forte quando la politica è debole. Non credete a chi dice di sapere tutto, diffidate da costoro e tenete sempre gli occhi aperti”.
Un plauso quindi all’Unione Studenti e al presidio di Libera “Giuseppe Francese”, organizzatori di questo incontro. Ascoltare le parole di don Luigi Ciotti è sempre una grande opportunità per farsi delle domande su un problema che, oggi più che mai, nonostante “a noi del nord” ci sembri ancora così lontano, in realtà è ben presente ed agisce intorno a noi. E questo è l’obiettivo primario di don Luigi: renderci più responsabili. Proprio “responsabilità” è la parola che Ciotti pronuncia in maniera più decisa, perché solo tramite una netta presa di coscienza da parte di tutti allora sì che la lotta contro la mafia assume un senso. Diventare tutti più responsabili e consapevoli significa – per dirla come lui – non trasformare questo incontro in un semplice evento, ma sfruttare i suoi saggi consigli e la sua esperienza di vita come modello da seguire. Ma soprattutto significa renderci protagonisti in prima persona di un sogno, lo stesso di Luigi Ciotti: contribuire tutti insieme, per davvero, a sconfiggere ogni tipo di mafia.
I ferraresi hanno un cattivo rapporto con l’acqua: poche fontane artistiche, persino poche fontanelle per abbeverarsi, un fiume che attraversa la città – il Volano – dimenticato, denigrato e sprezzantemente chiamato canale.
Sarà forse perché i ferraresi contro l’acqua hanno dovuto lottare per secoli, perché sono figli delle bonifiche e hanno sempre percepito l’acqua come nemica, che sottraeva terra all’agricoltura, che dalle sponde del Grande Fiume minacciava la città e la campagna. Fatto sta che i ferraresi odiano l’acqua… A riprova, la fontana di piazza Repubblica è inagibile da anni e ogni volta che qualcuno alza un dito per segnalarlo viene zittito con le più disparate giustificazioni. Quella di parco Massari vien fatta funzionare quando capita, il meno possibile; i gradevoli zampilli all’interno del fossato del castello (che hanno anche la benefica funzione di ossigenare l’acqua) furono accolti da infinite polemiche, benché effettivamente riducessero le alghe, e ora vengono fatti funzionare a singhiozzo. Quelli decorativi voluti dall’ex sindaco Sateriale nella rinnovata piazzetta Sant’Anna sono stati chiusi e annientati da tempo.
E proprio all’ex sindaco, ferrarese atipico, si deve l’ultimo tentativo di valorizzare il corso d’acqua che attraversa il centro urbano, riqualificarne le sponde, bonificare e rilanciare il porticciolo turistico della darsena. Il progetto era ambizioso e accattivante, con l’idea di fare un piacevole lungofiume per passeggiate e percorsi ciclabili, come si usa in tutte le città civili. Ma a Ferrara la proposta è stata accolta con fastidio, dibattuta con superficialità, dimenticata immediatamente dopo la conclusione del mandato di Sateriale.
Così è rimasto aperto il problema di un’area centrale, quella che collega viale IV novembre all’antico borgo di San Giorgio che potrebbe fungere da parco fluviale all’ingresso sud della città e che invece viene lasciata nella condizione in cui è sempre stata: un inutile fetido retrobottega di cui vergognarsi, atto solo al passaggio delle bettoline (un tempo, ora non passano più nemmeno quelle) e al transito delle pantegane… Crediamo che il cittadino del ventunesimo secolo, superati i fantasmi del passato e cancellati gli atavici timori dell’acqua fonte di insicurezza, possa guardare con fiducia al proprio futuro cominciando a progettare un presente che contempli un diverso, più costruttivo e sereno rapporto con il fiume, a cominciare magari proprio dalla riprogettazione del percorso fluviale lungo il Volano.
“Ammore” di Paolo Sassanelli è liberamente ispirato al racconto “Non commettere atti impuri” di Andrej Longo, sceneggiato dallo stesso Sassanelli con Chiara Balestrazzi. Il film è entrato nella nomination delle opere candidate al premio David Donatello 2013, nella categoria cortometraggi.
Il racconto si sviluppa nell’arco di un’unica giornata, quella vissuta da una bambina di dodici anni, interpretata dalla brava Eleonora Costanzo, che cerca nella più assoluta segretezza di consumare in solitudine un dramma segreto e inconfessabile, per una bambina della sua età. L’azione si svolge in un mondo, dove gli adulti, colpevoli di averle violato l’infanzia, sono presenti soltanto come voci e rumori, mai come volti, a eccezione della donna che le praticherà l’aborto clandestino. Rosy da poco tempo è entrata nell’adolescenza ma quando esce da casa, si veste e si trucca come una donna, per incontrare le sue amiche che si atteggiano anch’esse da adulte. Senza neppure confidarsi con l’amica del cuore, con la madre o con il padre (se ne capirà soltanto nel finale il motivo), la ragazzina si prepara e si allontana quasi scappando da casa.
Entra in una chiesa per confessarsi e non riuscendovi, a causa di un ragazzino che inopportunamente le fa osservazioni per il modo in cui è vestita, si reca presso il luogo dove chiuderà definitivamente i conti con la propria infanzia. Quando tutto è finito Rosy ritornerà a casa e, chiusa nella sua stanza, continuerà a subire le insistenze del padre che le chiederà ancora una volta di entrare, approfittando del fatto che la madre è uscita. Il film termina con questa scena, dal finale aperto e per nulla risolutivo e con un lento commento sonoro per nulla rassicurante. La colonna sonora è stata realizzata da Luca Giacomelli che merita un sentito apprezzamento, per la sensibilità artistica e musicale dimostrata in quest’occasione.
“Ammore” è il secondo cortometraggio del regista/attore pugliese Paolo Sassanelli che in precedenza ha realizzato “Uerra” (2009), scritto con Antonella Gaeta e vincitore di numerosi premi a livello internazionale, oltre ad essere stato presentato a Venezia nel 2011 nella sezione “corti, cortissimi”. “Uerra” è ambientato a Bari nel 1946, in una città che vuole uscire dall’incubo e dalle rovine della seconda guerra mondiale, raccontando l’amore tra un padre e i suoi figli nel contesto di un’Italia povera e segnata. Una storia tra padri e figli diametralmente opposta a quella descritta nel suo film successivo. Anche “Ammore” è stato girato nel capoluogo pugliese, nei quartieri di San Paolo, Carrassi e Madonnella.
“Ammore” di Paolo Sassanelli, con Eleonora Costanzo, Federica Sassanelli e Angela Peschetola, 2013, Italia, durata 15’
Perché quando andiamo all’estero non sporchiamo? Perché in casa nostra è tutto pulito e in piazza no? La città è prima sporcata dai cittadini e poi, forse, non pulita dai gestori del servizio. Parliamone.
Il servizio di spazzamento e più in generale di pulizia del suolo è parte integrante del ciclo dei rifiuti sia nell’affidamento (e dunque concessione) sia negli aspetti economici (tassa-tariffa). Il tema della pulizia del suolo è di grande rilevanza e talvolta di evidente criticità rispetto alla qualità dei servizi erogati ai cittadini. Spesso viene trascurato e il livello di attenzione è minore rispetto alla raccolta e dallo smaltimento, mentre invece è spesso al centro di criticità. Spesso si riscontra che il servizio di spazzamento non presenta confini ben definiti né criteri chiari, come avviene ad esempio per i servizi di raccolta, in quanto varia da servizi propri della pulizia del suolo ad altri non propri (come ad esempio la raccolta ingombranti o il diserbo stradale).
L’efficacia dell’azione del servizio di pulizia del suolo è rappresentata dalla qualità che esso raggiunge. Una peculiarità del servizio di spazzamento dunque è relativa alla difficoltà di utilizzo di parametri diretti e oggettivi per la misura dell’efficacia del servizio. E’ però anche vero che raramente riceviamo informazioni in merito alla organizzazione di questo servizio. L’obiettivo complessivo dei servizi di spazzamento e pulizia principalmente è quello di rendere sicuri e liberi da materiale estraneo i luoghi aperti ai cittadini; deve dunque essere raggiunto tramite chiare, trasparenti e condivise regole di effettuazione dei servizi da parte dei gestori e il loro monitoraggio e controllo ma anche tramite la responsabilizzazione sull’utilizzo del territorio da parte delle utenze. I principi di base del sistema devono basarsi su:
– chiara individuazione esigenze del territorio;
– scelte condivise al fine di assicurare che la comunità riceva il miglior servizio in accordo con le proprie esigenze (comprensione e disponibilità da parte della comunità a pagare per l’incremento dei servizi);
– garanzia dell’effettuazione del controllo tramite strumenti e parametri misurabili e confrontabili sia tecnicamente sia economicamente
– garanzia della divulgazione delle informazioni sui servizi erogati, sull’accesso agli stessi e sui risultati del monitoraggio e controllo;
-garanzia che sia perseguito il miglioramento continuo del servizio (innovazione tecnologica e efficientamento);
Le scelte specifiche territoriali devono allora partire da alcuni principi fondamentali tra cui gli standard di spazzamento e pulizia, la scelta del numero di cestini stradali devono essere basati sul tipo di utilizzo delle aree. Nella organizzazione del servizio si devono imporre livelli differenti di “pulizia” e il territorio deve essere suddiviso in zone connesse all’utilizzo e al volume di traffico, ma soprattutto la zonizzazione e i livelli devono essere condivisi e concertati. Se un livello di pulizia non è mantenuto in una certa zona, il programma operativo deve definire un tempo entro il quale il gestore dei servizi deve garantire l’intervento per riportarlo al suo livello. Questo chiedono i cittadini.
E’ importante che i piani industriali aziendali e soprattutto i criteri di regolazione di questo servizio si basino su questi semplici indicazioni. Un approccio strutturato sul coinvolgimento del sistema nella sua intera filiera deve essere allora attivato partendo da un lungo e complesso percorso di consultazione e coinvolgimento dei diversi soggetti coinvolti (dalla definizione dei livelli, alla suddivisione delle zone, al tipo di monitoraggio).
I comportamenti e i giudizi degli cittadini verso i servizi di spazzamento e pulizia variano da atteggiamenti proattivi e di priorità sul servizio ad atteggiamenti di disinteresse e poco attivi; questo spesso è un problema, ma da questa considerazione di fondo si deve partire: un territorio è sporco prima di tutto perché viene sporcato e poi (solo dopo) dal mancato servizio di pulizia. Un programma di informazione-consultazione continua deve permettere allora di definire il quadro delle criticità per poi dare risposta e informazione sulle reali esigenze.
Il servizio di spazzamento e pulizia individua le modalità di rimozione dei rifiuti per strada e quindi diventa fondamentale correlarlo al servizio di raccolta dei rifiuti (indifferenziato e differenziato). Elemento fondamentale per una corretta esecuzione è la programmazione degli interventi specifici (sia standardizzati sia a necessità) delle postazioni di conferimento dei rifiuti. Il livello (frequenze), il numero di risorse impiegate il tipo di mezzi legati al servizio sopraccitato è quindi connesso alle metodologie di raccolta dei rifiuti (stradali, isole ecologiche di base, sistemi di prossimità, sistemi a sacco, etc.) implicando una differente organizzazione e livello di risorse impiegate. Un obiettivo di standard qualitativo può essere raggiunto in maniera efficiente e economica utilizzando un corretto “mix organizzativo” differenziando le quantità di risorse impiegate per area omogenea ed individuando la corretta frequenza di erogazione. La qualità del servizio di pulizia del suolo si esprime mediante parametri di efficacia: la misura di tali parametri risulta oggettivamente di non facile applicabilità. Quindi è importante stabilire opportuni standard di servizio e la verifica del rispetto di tali standard. Una proposta metodologica innovativa, anche se di facile attuazione, potrebbe essere quella di avviare un vero e proprio “patto territoriale” che coinvolga tutti gli attori individuando diritti e doveri (regolatore, ente locale, gestore, utente/cittadino).
Obiettivo di sintesi è che tutti i servizi debbano essere di qualità e a costi standard, rispondere alle reali esigenze della comunità, essere accessibili agli utenti per cui è previsto e responsabilizzare gli utenti nel mantenimento degli standard qualitativi. I responsabili delle regolazione del servizio devono prevedere continui miglioramenti quantitativi e qualitativi, prevedere consultazioni della comunità in relazione ai servizi forniti, produrre regolarmente report e informazioni per la comunità sulle azioni fatte in relazione ai principi annunciati e programmati. I cittadini che amano la loro città lo richiedono.
2. SEGUE – L’Ipsia, “Ercole I d’Este”, Istituto professionale per l’industria e l’artigianato di Ferrara, è nel pieno di un processo di grande rinnovamento che coinvolge tutta la scuola. Dopo aver attraversato qualche periodo di difficoltà, che abbiamo raccontato nella prima parte dell’intervista [vedi], un gruppo molto motivato di docenti, il preside Roberto Giovannetti e il vicepreside Gianluca Rossi, stanno trasformando l’istituto attraverso una progettazione innovativa. In particolare, quest’anno hanno avviato un Progetto Sperimentale triennale che mira a coinvolgere i ragazzi con strategie e con attività motivanti come la realizzazione di laboratori espressivo-creativi rivolti alle classi prime (teatro, musica rap e videomaker), attività di tutoraggio degli studenti del triennio, l’attivazione di un gruppo studentesco che si occupa della cura degli ambienti e delle relazioni. Il progetto rientra nell’ambito del Protocollo d’intesa per la prevenzione del bullismo e delle devianze giovanili che vede coinvolti, tra gli altri Promeco, Provincia, Prefettura, ufficio minori della Questura e l’Università di Bologna.
Abbiamo incontrato il dirigente scolastico Roberto Giovannetti e il vicepreside Gianluca Rossi, coinvolto nel gruppo tecnico del progetto sperimentale insieme alle professoresse Guglielmetti e Santoro, tra gli artefici del rinnovamento dell’Istituto, per farci illustrare il progetto e capirne la portata.
Come nasce il progetto sperimentale che avete avviato con la Prefettura e in cosa consiste?
Abbiamo attivato tre laboratori: uno di teatro, uno di musica, uno di video-interviste. Questo progetto nasce da una rinnovata sensibilità alle esigenze degli studenti che ho trovato in un gruppo di insegnanti particolarmente attenti e motivati, quando sono arrivato all’Ipsia tre anni fa. Pieni di idee, avevano messo in campo energie incredibili che faticavano però a concretizzarsi, ciò che mancava loro era soltanto quel supporto che solo un dirigente può garantire. A volte hai la fortuna di incrociare lo sguardo di chi la pensa come te. Questo incontro ha generato un effetto volano che ha poi messo in moto tutte le risorse umane e professionali presenti nella scuola. Non abbiamo inventato nulla di nuovo, abbiamo solo messo a sistema e coordinato tutta una serie di attività, processi e iniziative che esistevano già (l’attenzione alle regole civili, i progetti con Promeco, con operatori esperti, etc.), ma con uno spirito di fiducia reciproca. Questo saldatura interna delle componenti della scuola ha trovato all’esterno, presso Prefettura, Questura e Promeco, una grande attenzione e capacità di ascolto rispetto alle nostre problematiche. Dopodiché, questo insieme di adulti motivati hanno formulato un progetto nato per avere i caratteri della sistematicità e un respiro a lungo termine, il progetto infatti è triennale.
Qual è l’obiettivo del progetto?
L’obiettivo principale è cercare di rivalutare le risorse umane presenti all’Ipsia, in particolare far sentire ai ragazzi di non essere arrivati nella scuola peggiore della provincia, ma in un luogo dove si fanno esattamente le stesse attività che si fanno nelle altre scuole, dove gli adulti credono in loro e che in ognuno c’è qualcosa di estremamente positivo da far emergere. Vogliamo che sia chiaro che iscriversi a questo istituto non rappresenta l’ultima chance per ottenere il diploma, ma che la scelta scolastica dei nostri ragazzi nasce da una vocazione al lavoro e ha la sua dignità. In sostanza, l’obiettivo è far sentire agli studenti un senso di appartenenza a questa gloriosa istituzione scolastica, una delle scuole più antiche di Ferrara, che ha formato persone che ricoprono nelle varie attività produttive ferraresi ruoli di prestigio, che ha pari dignità delle altre. Quando il ragazzo capisce che si trova in una scuola che non è diversa dalle altre, se non nell’offerta formativa, e che questa non è un luogo dequalificante dal punto di vista umano, ecco che avviene un riallineamento quasi naturale a tutti i livelli.
Ci illustra il progetto?
Noi cerchiamo di coinvolgere i ragazzi con strategie diverse e con attività motivanti, in modo che riescano ad esprimersi, a comunicare il proprio disagio, a manifestare le proprie emozioni ed interagire tra loro, non per niente per questo progetto abbiamo scelto di puntare a linguaggi come il teatro, la musica rap e i video. Naturalmente si spera che questo si traduca anche in atteggiamenti più corretti in classe e in una maggiore dedizione allo studio.
Il progetto sperimentale coinvolge tre prime complete (80 ragazzi circa) che a gennaio hanno iniziato tre differenti percorsi espressivo/creativi: una prima segue il laboratorio di teatro guidato da Massimiliano Piva con il Metodo Cosquillas; una il laboratorio di musica rap/hip hop guidato dal rapper Simone Salvi e dai docenti Toscano e Santoro, gli studenti scriveranno il testo di una canzone in stile rap, in italiano e in inglese; l’ultima classe prima sta seguendo un laboratorio per realizzare interviste video con la guida di operatori dell’Area giovani del Comune: i ragazzi impareranno l’utilizzo di semplici applicazioni per smartphone per girare video; poi prepareranno delle video-interviste a studenti e personale dell’Ipsia per un sondaggio su come stanno a scuola; parte dei video saranno inoltre dedicati al backstage dei laboratori delle altre classi. A fine anno scolastico, il tutto si dovrebbe tradurre in uno spettacolo rivolto agli altri studenti dell’istituto e alle famiglie, ma stiamo pensando anche a qualche cosa di più… ma non anticipiamo troppo.
I laboratori creativi sono destinati solo alle classi prime, perché?
Abbiamo puntato sulle prime per motivare i ragazzi più giovani, per farli sentire bene e per portarli avanti con un’altra idea di scuola, in modo che si facciano in prima persona testimoni del rinnovamento dell’istituto e che possano trasmettere agli amici un’opinione positiva della propria scuola, con un semplice “passaparola”. Ed è anche un modo per far capire loro, fin dall’inizio, che noi insegnanti desideriamo che stiano bene a scuola. Puntare sulle prime ci può garantire di continuare il lavoro con una certa continuità, contribuendo con noi a cambiare il clima della scuola nei prossimi tre anni; i ragazzi di prima sono il capitale umano su cui stiamo investendo. Ma nei laboratori sono coinvolti anche alcuni ragazzi più grandi, gli studenti tutor del progetto accoglienza, che fanno da supporto ai più piccoli e gli operatori.
I ragazzi lo sanno di essere così importanti per il futuro della scuola?
I ragazzi la vivono con spontaneità com’è giusto che sia, sono del tutto inconsapevoli di essere le ‘cavie’ del progetto e non ne conoscono le finalità nel lungo periodo. Loro si sono iscritti senza sapere che avrebbero partecipato al progetto, non sanno di essere i primi a testarlo e la vivono come una normale attività scolastica perché è cominciata a inizio anno come tutte le altre.
Come stanno andando i laboratori? I ragazzi sono molto coinvolti nei vari laboratori e rispondono bene, cominciano a pensare di valere qualcosa. Si tratta di ragazzi che in diversi casi hanno situazioni difficili alle spalle, problemi familiari, personali e fallimenti scolastici e che finalmente si ritrovano coinvolti in attività stimolanti ritagliate su di loro.
Il caso del coltello trovato nello zaino di uno dei vostri ragazzi a gennaio vi ha proiettato al centro delle cronache…
Quando un ragazzo porta a scuola un coltello non è un fatto da nascondere, non si può tacere, non si può far finta di niente, occorre prendere atto del problema e riflettere insieme agli studenti, spiegando che è un problema di incolumità, di sicurezza, di legalità, di fiducia, e creare occasioni di confronto con le forze dell’ordine per far capire ai ragazzi che scuola e forze dell’ordine sono due realtà che si integrano. Davanti a problematiche come la tossicodipendenza, la violenza, il bullismo, il mio approccio in generale è molto chiaro: occorre coinvolgere tutti gli attori che si occupano di educazione e formazione dei ragazzi, perché questi aspetti vanno letti considerandoli all’interno di un territorio, di una società nel suo complesso. Direi molto serenamente che dobbiamo parlarne, confrontarci, non nasconderlo, non vergognarci e cominciare a pensare che se alcuni diaframmi formali vengono abbattuti qui, probabilmente verranno abbattuti poi in altre scuole e di nuovo bisognerà cominciare a ragionare a sistema.
Molti progetti simili al nostro si attivano nel momento parossistico, ossia quando si verifica un evento clamoroso e si interviene sull’urgenza. Noi invece lo abbiamo messo a sistema senza attendere fatti di cronaca, e il caso del gennaio scorso non ci ha trovato impreparati: con il nostro progetto abbiamo avviato una collaborazione con le forze dell’ordine fin da settembre, molto prima del caso del coltello.
A quando un primo bilancio dei risultati?
Da qui a un anno, capiremo l’effetto di quest’attività quando confronteremo il loro comportamento con quello di chi li ha preceduti e ne vedremo la differenza, in termini di motivazione, rendimento, comportamento, profitto e abbandono scolastico. Insegnanti e operatori dicono che il bilancio dei primi mesi è molto positivo e che il miglioramento sta già emergendo. E’ chiaro che il percorso è lungo, per riposizionarci a livello territoriale ci vorrà un po’, ma grandi passi si stanno già facendo. Gli elementi ci sono tutti, è solo questione di tempo.
Il premio della critica “Mia Martini” del Festival di Sanremo è una consacrazione per qualsiasi artista, nel caso di Malika Ayane e la sua “Adesso e qui (nostalgico presente)” è il giusto riconoscimento al lavoro degli ultimi anni, da quel lontano 2010 in cui la cover di “La prima cosa bella” fu inserita nella colonna sonora dell’omonimo film di Paolo Virzì e in “Grovigli”, il suo secondo album.
Il successo di Sanremo, classificatosi al 3° posto, è il pezzo forte di “Naif”, il nuovo disco di inediti, registrato tra Parigi e Berlino, in cui Malika ha scritto tutti i testi in collaborazione con Pacifico, mentre le musiche sono di Giovanni Caccamo (1° tra le nuove proposte del Festival di Sanremo 2015), Alessandro Flora, Shridhar Solanki, Simon Wilcox e Francoise Villevieille.
Oltre ad “Adesso e qui”, canzone degli amanti intenti a vivere il presente, nata sulle parole “Se lo vuoi rimani”, la tracklist propone “Senza fare sul serio”, dal ritmo leggero e orecchiabile, in sintonia con il testo dove l’apparente distacco dalle cose lascia spazio alla praticità delle soluzioni più semplici “… tu non lo sai come vorrei ridurre tutto a un giorno di sole, tu non lo sai come vorrei saper guardare indietro, senza fare sul serio… come vorrei distrarmi e ridere”. “Blu” è come quel pirata che si è messo una stella in volto, come recita il testo di quest’allegra canzone, mentre in “Vivere”, cover del celebre brano di Vasco Rossi del 1993 (bonus della sola versione digitale su iTunes), la cantante italo-marocchina mette mano a una canzone perfetta, riuscendo a farla sua.
Scarpe strette, drink, film e scherzi danno vita a “Chiedimi se”, il brano che si muove sull’orlo del vestito asciugato con il phon, in una leggerezza festaiola e coinvolgente. “Libertà è un concetto semplice se non ne sai il significato”, canta Malika in “Tempesta”, mentre, accompagnata dalla batteria e dalla chitarra di “Che cosa ho capito di me (?)”, si rifiuta di prestare a chiunque l’ultimo sbaglio disponibile. “Lentissimo” è il brano di apertura del Cd, ci piace citarlo alla fine perché romantico e poetico, come si intuisce dalle belle parole scritte da Malika: “… promettimi l’immenso, giura che sarà perfetto che non importerà se poco a poco si consuma, l’attimo che conta è quello che promette di sognare ora”.
Rispetto ai tre precedenti album, “Naif” ha una marcia in più, ingranata dai testi che evocano immagini cinematografiche e spinto dal ritmo con sonorità Funk, NuJazz e Pop. La produzione è stata affidata ad Axel Reinemer e Stefan Leisering dei Jazznova, già collaboratori di Lenny Kravitz e Jamie Cullum. Sia la canzone sia il video di “Adesso e qui” si ispirano al film “La ragazza sul ponte” di Patrice Leconte, in cui la protagonista, salvata dal suicidio da un lanciatore di coltelli, accetta di fargli da bersaglio nei suoi spettacoli. La canzone di Sanremo non sarà l’unico singolo del disco, altri brani ne hanno la potenzialità, sintomo di un lavoro di qualità, come giustamente ci si aspetta da un progetto firmato Caterina Caselli Sugar.
3. SEGUE – Quando cominciai questo mestiere di manovale del pensiero il mondo era fermo a secoli fa, forse millenni, a parte alcuni particolari, importanti sì – elettricità, radio, automobile, telefono, aeroplani a elica e poi la biro, la televisione era un ridicolo mobile – in pochi anni è avvenuto ciò che era successo prima in secoli e secoli di vita, in cui le piccole scoperte di sconosciuti inventori non avevano mutato più di tanto la società umana: quando un ingegno ignoto aveva introdotto nei cessi lo sciacquone nessuno gridò oooohhhh il miracolo, no, tutti si limitarono a tirare la catena e l’oscuro scienziato finì anch’egli travolto dalla burrasca che si era sprigionata nella tazza e lì dimenticato. Lo sviluppo della tecnica prima e della tecnologia informatica poi ha sospinto l’uomo verso un futuro sconosciuto, pieno di incognite e, perché no?, di rischi, ai miei tempi di ragazzo (che tristezza parlare come hanno sempre fatto i vecchi!) s’imparava un qualsiasi rudimento, che era immutabile nel suo settore e che nella nostra mente sarebbe rimasto inalterato per tutta la vita: adesso?, per carità, due giorni e via!, la verità è cambiata e bisogna leggere le cose a rovescio per riuscire a capirle. Per spiegarle ci vuole il giornalista, cioè quella persona che illustra agli altri ciò che lui non sa o non ha capito.
Il giornalismo non è un lavoro senza regole, anzi le norme ci sono, eccome. C’è, per esempio, la regola inglese delle cinque “W”, who-what-when-where-why, affinché la notizia sia completa, regola soppiantata negli ultimi anni dalla norma ferrea delle cinque “S”, soldi-sesso-sangue-salute-successo, che rappresenta la miscela informativa capace di penetrare profondamente nella testa e nelle tasche del pubblico, oggi non interessa più che la notizia sia completa, l’importante è che faccia orrore, o, peggio, com’è venuto in uso di recente, crei polemica, se, per caso, l’avvenimento non comporta discussioni, allora bisogna creare scontro o controversia: come si fa? Semplice: si chiama una persona che abbia un qualsiasi interesse nell’avvenimento, o, più semplicemente, sia un esperto del settore e, tra rigorose virgolette, gli si fanno dire cose che possano urtare un eventuale nemico, il quale risponderà e così nasce la polemica, di una semplicità esemplare. Importante è non dimenticare le virgolette, hai messo le virgolette?, chiede il capo, tutto virgolettato, risponde il cronista, entrambi pensando erroneamente che le virgolette rappresentino uno scudo sicuro contro le querele. Ma ignoranza e stupidità sono gli strumenti di maggiore importanza per fare di un giornalista un grande, per aiutarlo a diventare un capo o un famoso inviato speciale. C’era un mio collega che proprio non sapeva (o non voleva) essere usato come uomo-macchina, cioè uno di quelli che costruiscono il giornale, i famosi culi di pietra, ma non sapeva nemmeno scrivere, quando arrivava alla frase relativa perdeva il controllo e i verbi si accatastavano a casaccio, gli dissi di lasciar perdere con le relative, che abbisognano della consecutio temporum e di impegnarsi in una scrittura neorealista, all’americana degli anni Quaranta, soggetto, verbo e complemento oggetto. Stop. Era un ragazzo intelligente, comprese e divenne un maestro di quella narrativa mozza, sincopata che il giovane Steinbeck ed Erskine Caldwell insegnarono a tanti aspiranti scrittori. Fu così che il collega, gettandosi dietro le spalle le frasi subordinate e i “che”, divenne un notissimo inviato speciale. Naturalmente molto attento, ma dignitosamente, al pensiero padronale, altrimenti non avrebbe fatto carriera: e questa, ripeto, è la prima regola del giornalismo. E’ un principio che la Chiesa inaugurò solennemente con l’introduzione dell’indice, l’elenco dei libri proibiti (Index librorum proibitorum), nel 1557 per ordine del papa Paolo IV, idea geniale che piacque moltissimo ai potenti di allora, piacque tanto che al cardinale di Francia Richelieu venne un’idea straordinaria: il furbissimo e spietato ecclesiastico aveva compreso che quel foglio, la “gazzetta”, a cui l’invenzione della stampa da parte di Gutenberg aveva regalato velocità, sarebbe diventato uno strumento insostituibile del potere per conformare e controllare l’opinione pubblica. La famosa canaglia ecclesiastica, Richelieu, conferì l’incarico di giornalista del re a Théophraste Renaudot, il quale aveva una strana idea della cronaca e della storia. Scrisse: “La storia è la relazione delle cose avvenute, la gazzetta soltanto dei rumori che corrono. La prima è tenuta a dire sempre la verità, la seconda fa già molto se impedisce di mentire. E non mente nemmeno quando riferisce notizie false che le sono comunicate come vere”. Poi aggiunse, forse per una tarda presa di coscienza, o per salvare la faccia: “Solo la menzogna diffusa coscientemente come tale può renderla degna di biasimo”. Era la benedizione definitiva alla pubblicazione di notizie taroccate, prassi diffusissima (sempre più praticata) da allora fino ai tempi nostri. Nessuno ha poi mai tentato di spiegare come da notizie false sia possibile costruire una storia veridica, sempre che sia possibile scrivere la storia senza l’intrusione definitiva dei vincitori.
Auguri, cara, i tuoi primi 40 anni. Li porti davvero bene. Sei sempre la dolce ragazza, dagli occhi grandi spalancati sul mondo, tutta lentiggini e simpatia che eri. Sei stata allegra, con amori difficili e tante delusioni ma sempre sorridente. Allora come ora. Non sei cambiata affatto e, per festeggiare il tuo compleanno, ti hannodedicato un libro, è stata lei, Lidia Bechis, con il suo “Candy Candy – Amori e battaglie della prima grande eroina dell’animazione”.
I tuoi allegri codini, ribelli e dispettosi, con i grandi fiocchi rossi sono stati imitati da tante bambine. Sei stata e sei un modello, tante ragazzine si sono identificate con il tuo personaggio e le tue traversie, soprattutto amorose. Candy Candy, sei stata la prima eroina giapponese d’animazione, un manga del genere ‘shojo’ (i fumetti dedicati al genere femminile), nata dai disegni di Yumiko Igarashi nel 1975, tratti dal romanzo di Kyoko Mizuki. Sei passata dai cartoon televisivi, prodotti da Toci Animation e trasmessi dal 1980 in Italia, al cinema, con ben due film. Cristina d’Avena cantava la sigla delle tue avventure, l’italiana Fabbri Editori, negli anni ’80 aveva pubblicato su di te cinque libri, dal titolo “Il romanzo di Candy Candy” (i primi due – ‘Il mistero del principe’ e ‘Arrivederci Terence’ – riprendevano la trama della serie tv, mentre gli ultimi tre – ‘Gli anni di Parigi’, ‘Bentornata a Chicago’ e ‘Un’avventura ad Hollywood’ – narravano avventure inedite, scritte dagli autori italiani). Ora un nuovo libro su di te, quello di Lidia, pittrice appassionata delle tue storie, che ti ritiene tappa fondamentale della sua formazione e di quella di molte generazioni di donne.
Il volume è illustrato con 100 immagini a colori, la tua storia inizia nei primi anni del Novecento, con l’abbandono di due orfanelle, tu e Annie, in un orfanotrofio religioso, Casa di Pony, retto da Miss Pony e da Suor Maria. A farti compagnia, un improbabile e simpatico animale domestico, il procione Klin. Quando Annie verrà adottata dalla ricca famiglia Brighton, resterai all’orfanotrofio sentendoti sola, abbandonata e ferita, fino al giorno in cui, sulla collina dove ti ritiravi momenti di tristezza, incontrerai un giovane dai capelli biondi, vestito con un kilt scozzese, che ti consolerà, suonando la cornamusa. Una spilla a forma di aquila con sopra una lettera “A”, che il giovane, da te soprannominato il Principe della Collina, perderà danzando, resterà sempre con te. Presto sarai adottata dalla potente famiglia aristocratica dei Legan. Qui, ti scontrerai con i loro viziati figli, Iriza e Neal, e sarai costretta a fare la cameriera e a dormire nelle stalle. Conoscerai, però, la famiglia Andrew, dove ritroverai lo stesso stemma della spilla caduta al tuo bel Principe della Collina. Qui a comandare sarà l’arcigna e anziana zia Elroy e tu farai amicizia con i suoi nipoti Archie e Stear e il loro cugino Anthony, somigliante al Principe della Collina. Tra te e Anthony nascerà un sentimento tanto forte che quando i Legan decideranno di mandarti in Messico il ragazzo e i suoi cugini faranno di tutto per impedirlo, fino a convincere la famiglia ad adottarti e farti diventare una Andrew. Anthony ti regalerà la rosa ‘dolce Candy’ ma morirà cadendo da cavallo durante una caccia alla volpe e per te sarà un’enorme tristezza. Tra un amore e l’altro, partirai per andare a studiare in Inghilterra alla Saint Paul School, dove m’incontrerai, scoprendo che suono l’armonica e sono il figlio di una nota attrice teatrale, e diventerai infermiera in un ospedale di Chicago durante la Grande Guerra. Vivrai tante altre avventure e delusioni e, infine, tornerai nel tuo paese, dove conoscerai Albert, un giovane vagabondo che vive in un rifugio nella foresta circondato dagli animali. In realtà scoprirai che Albert, William Albert Andrew, altri non è che il buon amico che ti ha sempre aiutata, il tuo benefattore, lo zio William Albert. Sarai felice, infine, anche senza di me. Gli intrecci saranno tanti, ci siamo cercati e persi, ma in tutto questo, io non mi sono mai arreso. Anche se le cose sono andate diversamente. Auguri comunque, piccola, travagliata, curiosa, splendida, coraggiosa e ottimista Candy. Il tuo Terence.
Significativo riconoscimento per Giuliana Berengan, che ha debuttato ieri come collaboratrice del prestigioso Wall street International con una riflessione, ospitata nelle sezione cultura dell’edizione online, su parole, memoria e linguaggio, che qui riportiamo integralmente.
Ferrarese, classicista e cultrice di storia antica, Berengan è autrice di numerosi volumi fra i quali Cronache inedite di fine secolo (1993), Le Dame della Corte Estense (1997), I Book-Notes (2000), Le parole di Penelope (2004), Favolose parole (1993 e 2005), Favolosi Anni ’80. Ferrara fabbrica di idee (2010)”.
di: Giuliana Berengan
Quello che porta alla creazione della parola è un processo lungo, accidentato, denso di fratture, di lacerazioni e di ricuciture, spesso lento, impercettibile e proprio per questo
difficile, talora incomprensibile, fatto di entusiasmi e di malinconia, di attimi drammatici e di gioie improvvise e dirompenti, di silenzi e di ascolto, di attese e di slanci, di visioni e di fantasmi, di immaginazione e di rimandi apparentemente senza legame alcuno, di associazioni di pensieri, di giustapposizioni di suoni, di segni, di percezioni, di viaggi con o senza ritorno, di prigionie e di evasioni, di lacrime e di sorrisi guardati soltanto allo specchio, di animalità e di raffinatezza, di falsità e di verità, di concessioni e di rigorosi dinieghi, di ammissioni e di rifiuti, di percosse e di carezze, di tenerezza e di violenza, di follia e di lucida coerenza, di piccole sfumature e di forti colori, di morte e di rinascita, un processo che non ha fine come non ha fine il respiro, il soffio che dà nutrimento e crea la trama sonora sulla quale la voce tesse le forme della parola, un processo che contiene il
mistero della vita.
Per questo il tessuto della scrittura ha a che fare con la fatica della nascita, con la pazienza che ne accompagna l’attesa, con la capacità di percepire i segni che ne sono preludio: parole
come semi che devono essere accolti, deposti, ascoltati crescere fino a transumanarsi in emozioni che alimentano e sono alimentate dalle vibrazioni dell’anima. Nella tradizione
indù la Parola assume le sembianze di Vac, la sposa di Brahma ed è Lei che si fa portatrice del doppio nutrimento, quello corporeo e quello che passa attraverso le sillabe prime e dà
vita al linguaggio, a mostrare così l’intreccio originario della materia sottile con la fisicità ed a testimoniare la sacralità della parola e il suo legame ancestrale con la potenza generante. La parola fatta nascere con amore invade i sentimenti, induce la commozione poiché al di là dei segni che vediamo distendersi a disegnare il testo c’è l’infinito, invisibile universo di sentire e di sapere che sottende all’esperienza creatrice, un mondo di sensazioni che rimanda a memorie lontane, che passa attraverso il gesto della mano che scrive srotolando e
facendo scorrere tra le dita il filo dei ricordi come su un antico telaio. La capacità di ricordare ovvero, secondo la bellissima etimologia di questa parola, di ‘riconsegnare al cuore’ le caleidoscopiche immagini che la memoria ci rimanda, è un dono prezioso, capace di contrastare la tirannia del tempo e dello spazio. I ricordi, come energie sottili partite
chissà da dove, alimentate da fonti misteriose, ci attraversano come linfa vitale, toccano i nostri sensi assuefatti ad odori globalizzati e sapori seriali per ricondurli in giardini segreti, profumati di malinconia dove si può assaporare la dolcezza di frutti proibiti.
Attraverso questa rete del cuore il tempo dell’intensità che non ha durata prende la sua rivincita, i confini angusti della vita reale si dilatano, possiamo accogliere cose, figure, voci,
sentimenti che si presentano a noi per annodare i fili che ci tengono fortemente attaccati alla nostra matrice. Mi piace usare questa parola di un lessico fortemente connotato al
femminile poiché la memoria ha origine in un corpo di donna. Mnemosine, la dea che nell’Olimpo greco la personifica, è la figlia del Cielo e della Terra ed è a lei che Zeus si unisce
per generare le Muse, e dunque voglio pensare che non ci sia arte senza ricordi e che non ci siano ricordi senza il prezioso “lavoro di cura” che sempre le donne hanno fatto per
custodire la lingua del cuore. I ricordi sono i fili dell’ordito sui quali va ad intrecciarsi la trama di altri ricordi a formare il tessuto ossia il testo sul quale sono tracciati i segni che testimoniano il nostro essere nel tempo, ma anche la nostra capacità di condividere eraccontare mondi che, attraverso la memoria dei sensi, si sono depositati nel nostro corpo e
lo percorrono come il reticolo del sangue.
Memoria antenata che si batte per sopravvivere all’ideologia del presente che cerca le proprie ragioni in sé; memoria emozionale che è anche bisogno di immergersi nelle sorgenti
del nostro essere e del nostro sapere: un incontro empatico che si accompagna ineluttabilmente alla nostalgia, una parola che vorrei riammantare di tutta la sua intensità.
Nostalgia è il desiderio doloroso del ritorno, è un sentimento forte e tenero, un impasto di dolcezza e di malinconia, di tristezza e di gioie fuggite lontano, una teoria di ombre che
sfilano davanti agli occhi della memoria come le piccole sagome delle miniature di Norimberga. Attraverso la nostalgia luoghi e persone ritrovano l’innocenza nel senso
originario della parola: non possono più nuocere ma soltanto suscitare rimpianto per ciò che si è perduto e di cui ancora si sente il desiderio. E se il rimpianto è un ‘rammentare
piangendo’ allora la nostalgia ha anche il compito di saziare la sete di lacrime che Platone riconosceva come parte della nostra anima: un piacere liberatorio che è compito del poeta
provocare.
E come negare che ciascuno di noi soffre ed è al tempo stesso sedotto dal desiderio di un nostos, di un ‘ritorno’: ad un amore, all’infanzia, ad un antico ideale. Poco importa quale sia
la meta poiché sempre la nostalgia è ritorno alle terre incantate di un sogno. Non lasciamo morire la nostalgia. E’ preziosa. Senza di lei nessun Ulisse potrà ritrovare la propria Itaca e
nessuna Penelope potrà riabbracciare l’amore perduto, senza di lei non c’è desiderio di ricordare e di raccontare, non c’è musica che rapisce i sensi, non c’è parola spesa con
generosità, donata con passione e con le parole bisogna essere generosi, bisogna lasciarsi innamorare.
Questo mio scritto vuol rendere omaggio ad alcune parole a me molto care: pazienza, attesa, commozione, ricordo, malinconia, memoria, nostalgia, innocenza, rimpianto, e
chiede a chi leggerà di dedicare qualche attenzione e amorevole cura alle antiche Signore che hanno accettato di apparire in questo verbodramma.
Le imprese hanno un posto molto importante nella nostra società. Se il ruolo economico di queste organizzazioni è scontato, quello sociale diventa sempre più frequentemente oggetto di analisi, riflessione, discussione e polemica. L’importanza delle imprese ci viene ricordata ogni giorno dai nostri comportamenti d’acquisto di beni e servizi, è ribadita da un discorso economico invasivo veicolato dai media ed è confermata dalla frequenza con cui nel linguaggio comune ricorrono termini di derivazione aziendalista come “business”, “consumatore”, “imprenditore”, “manager”, “investitore”, “cliente”. Il ricorrente uso di termini inglesi entrati nell’uso comune certifica appunto la provenienza aziendalistica di un sapere volgarizzato quanto diffuso incapace di rendere ragione della reale complessità delle cose.
Il mondo delle imprese è infatti una galassia enorme, diversificata, i cui corpi sono interconnessi in modi a volte sorprendenti: corporation multinazionali, grandi imprese, piccole e medie imprese, micro imprese, mostrano una varietà dimensionale che oscilla tra aziende da milioni di persone occupate ed aziende composte da poche persone, a volte una sola. Imprese artigiane, fordiste, familiari, agiscono nei settori più disparati, offrendo servizi e beni tangibili; società di persone e di capitali, imprese private e pubbliche, offrono solo un idea succinta e sommaria delle diversità normative che regolano la struttura e i sistemi di governo di queste organizzazioni. Al di là delle definizioni giuridiche, la galassia degli oggetti organizzativi che vanno sotto il nome di impresa è davvero complessa: non è possibile argomentare bene intorno a questo oggetto senza tener conto di questa straordinaria complessità, senza qualche informazione che consenta di ridurre il campo del possibile a qualcosa di manipolabile, senza un riferimento indicativo a qualche specifico tipo di impresa.
Resta il fatto che quando si parla di impresa il pensiero corre assai più facilmente alla Fiat, alla Shell, a McDonald o alla Barilla, a Google Foxxcom o Apple, piuttosto che ai distretti ed alle botteghe artigiane (su cui è stato costruito il successo del prodotto italiano), al caso Olivetti o al bar sotto casa. Proprio a quel tipo di impresa, la grande corporation, è stata rivolta più spesso l’attenzione dei ricercatori e degli analisti: qui è stato messo a punto un corpus di conoscenze che sono diventate il mainstream del management, una forma di sapere condiviso da ogni esperto e consulente che è stata applicata ad ogni tipo di realtà organizzata prescindendo spesso, in nome di una presunta efficienza, dalle differenze e dalle specificità proprie dei diversi contesti. In questo tipo di grande azienda, a partire dagli anni ’90, si è venuto affermando un modello di governo d’impresa che ha rilanciato la forza della proprietà finanziaria a danno degli altri soggetti coinvolti nel fare impresa: lavoratori e quadri, clienti, fornitori. Lo scopo dichiarato di esso è quello di massimizzare ad ogni costo e nel breve periodo il valore in borsa, senza incidere spesso sul fatturato, sul profitto, sugli impianti produttivi. Come un virus questo approccio si è diffuso dalle aziende quotate in borsa alle altre, spingendo una corsa a fusioni, aggregazioni, delocalizzazione, operazioni finanziarie spericolate, che hanno spostato molte imprese verso la zona grigia della irresponsabilità sociale.
Come è noto, un’impresa è irresponsabile se non risponde al di là degli elementari obblighi di legge ad alcuna autorità pubblica o privata né all’opinione pubblica, circa le conseguenze economiche, sociali ed ambientali del suo operato. Prescindendo da comportamenti illegali, un’impresa fortemente irresponsabile si connota per comportamenti quali:
– trasferimento della produzione e delocalizzazione in stati meno controllati;
– chiusura totale o parziale, minacce di licenziamento per ottenere la flessibilità;
– salari e condizioni di lavoro indecenti in patria e all’estero;
– azioni di comunicazione (greenwhashing) ben architettate per mostrare un’immagine falsa di sostenibilità e impegno sociale,
– fortissime azioni di lobbing per ottenere leggi, norme e condizioni favorevoli ai propri interessi.
L’impresa irresponsabile prospera laddove manca il senso del bene pubblico e la buona cittadinanza è assente: il capitalismo neoliberista che ha imperato negli ultimi decenni ha imposto una nuova antropologia nella quale proprio la funzione di “consumatore” ha sostituito quella di “cittadino”. La globalizzazione d’altro canto ha indebolito la possibilità di controllo mentre il dominio della finanza ha spostato verso questo versante l’interesse di molte aziende. In tale contesto, l’impresa, rischia seriamente di diventare (e in molti casi è diventata) uno strumento per la cancellazione di ogni responsabilità che non sia quella del profitto degli azionisti.
Contro l’idea che scopo unico dell’impresa sia quello di produrre profitti si colloca l’articolo 41 della nostra costituzione: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.”
Ma in Italia esisto davvero politiche e programmi finalizzati ad indirizzare in modo sistematico l’agire economico a fini sociali? Esiste una strategia ed una visione di ampio respiro orientata a sanzionare le imprese irresponsabili e a promuovere quelle responsabili? Osservando i vari disastri di una certa politica industriale, la distruzione del territorio e dell’ambiente che ha visto e vede protagoniste molte aziende, le cause intentate a grandi imprese per disastro ed attentato alla salute pubblica, la scoperta di sempre nuove terre dei fuochi, sentiti i discorsi di quanti vorrebbero cambiare la costituzione per inserirvi a forza le imprese, sembrerebbe proprio di no.
Ancora una volta dovrebbe essere il cittadino armato di senso civico il miglior deterrente contro la deriva irresponsabile delle imprese. Ma quando il cittadino è ridotto a consumatore, quando perde il lavoro e vengono a mancare le garanzie del welfare, quando la politica rinuncia al suo ruolo chiaramente sancito dalla Costituzione, quando viene meno anche la capacità di inventare soluzioni alternative, ogni buona intenzione sembra destinata al fallimento.
Resta però la certezza che l’Italia ha saputo esprimere imprenditori ed imprese straordinarie, che esistono casi molto più numerosi di quel che si possa immaginare di imprese socialmente impeccabili; resta la determinazione a sostenere quella classe di imprenditori responsabili e di cittadini virtuosi che resistono e non si rassegnano allo sfascio morale che sta dietro alla crisi economica.
Suggerirei di rileggere o leggere, per chi non l’ha ancora fatto, il libro di Amin Maalouf, giornalista e scrittore libanese naturalizzato francese, pubblicato in Italia nel 1993, “Le crociate viste dagli arabi”.
È una lettura utile per chi voglia comprendere le ragioni del millenario conflitto tra Islam e Occidente. Il racconto delle crociate viste con gli occhi degli arabi è un’altra storia rispetto a quella che abbiamo appreso sui banchi delle nostre scuole. Ed è scontato che questo accada, a seconda che si stia dalla parte degli aggressori o delle vittime. Ma ciò che conta è la sensazione che resta al termine della lettura. E cioè l’impressione che prima o poi i nodi dovevano venire al pettine della storia. Solo una ottusa narcisistica arroganza dell’Occidente può ancora pensare di evitare questo appuntamento.
Il punto di partenza delle attuali tensioni può essere datato al 1095, quando i crociati europei lanciarono la guerra santa per conquistare la città di Gerusalemme. La loro invasione ha dato avvio alla guerra santa islamica, la jihad che continua tuttora.
Di fronte alla folle ferocia del Califfato che oggi sgozza i suoi prigionieri o li arde vivi in gabbie di ferro si ha l’impressione di una tragica legge del taglione, di una vendetta della storia nelle mani di un irriducibile fanatismo religioso.
Attraverso il mondo, dall’America all’Europa, dall’Africa al Medio Oriente, dal Pakistan all’Indonesia i fanciulli che frequentano le madrasa, le scuole islamiche, mandano a memoria gli stessi libri: il Corano in arabo antico e l’Hadith, il testo che contiene detti e aneddoti sulla vita del profeta Maometto. Analogamente ai testi Cristiani e di Confucio, queste letture hanno influenzato le menti di innumerevoli generazioni.
In Pakistan ci sono oltre 10.000 madrasa che preparano i futuri leader politici e religiosi. La scuola più importante è Haqqania che ha laureato i leader dei Talebani, e il gruppo dirigente dell’Afghanistan. Nell’ Haqqania gli studenti, dagli otto ai trent’anni, passano da sei mesi a tre anni a memorizzare il Corano in arabo coranico, unico veicolo ammesso per comprendere la parola di Dio, rivelata da Maometto. In questo modo gli studenti di Haqqania e gli studenti delle scuole islamiche nel mondo apprendono un linguaggio condiviso da oltre un miliardo di mussulmani. Non solo ciò consolida i legami tra le nazioni e le comunità islamiche, ma rende saliente il diritto all’apprendimento della propria lingua nei Paesi dove i mussulmani sono una minoranza.
La storia islamica e il diritto islamico completano gli studi degli studenti nella Haqqania. Il corso di storia islamica fornisce loro potenti promemoria dell’imperialismo occidentale. I Paesi islamici ancora sentono l’umiliazione dell’imperialismo occidentale, di conseguenza stupiscono circa la nostra pretesa di essere i progenitori e i difensori dei diritti umani nel mondo.
La giurista Ann Mayer cita il leader religioso Ayatollah Khomeini: “Quelli che sono chiamati diritti umani altro non sono che una collezione di regole corrotte tratte dal Sionismo per distruggere tutte le vere religioni”. All Khamene’i, attuale Guida Suprema dell’Iran, ha commentato, “Per noi la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani non è che una collezione di ‘Mumbo-Jumbo’ dei discepoli di Satana.”
La Dichiarazione del Cairo dei diritti umani, del 1990, si è resa, dunque, necessaria perché la nostra visione dei diritti dell’uomo non è compatibile con la concezione della persona e della comunità che ha l’Islam. Per l’Islam, il diritto all’istruzione è giustificato dall’esigenza religiosa di conoscere il Corano e non dalla dottrina occidentale del diritto naturale. Come risultato, la libertà di pensiero e di espressione nelle nazioni islamiche è ammessa solo in conformità ai dettami della legge di Dio o della Sharia.
Disgraziatamente, il Corano disegna un mondo diviso tra credenti e infedeli. In aggiunta c’è la lunga storia di persecuzioni dei mussulmani da parte dell’Occidente. Ma nello stesso tempo il Corano proibisce la compulsione religiosa, l’imposizione del credo religioso sugli altri.
D’altra parte non c’è nulla nel Corano che proibisca la pace tra i Paesi islamici e le altre nazioni, se nei fatti il Corano stabilisce, “Combatti nel nome di Dio coloro che combatti, ma non essere aggressivo: Dio non ama gli aggressori.” (2:190)
Il tempo e lo sforzo consapevole dell’Occidente come delle nazioni mussulmane potranno cancellare questo antagonismo storico e ridimensionare la dottrina del nazionalismo.
In questa direzione l’Occidente, a partire dal nostro Paese, può compiere da subito un passo in avanti relativamente ai diritti dei mussulmani nei Paesi dove sono minoranza. Non solo consentire la costruzione delle moschee, ma riconoscere il diritto ad apprendere l’arabo coranico come seconda lingua nelle scuole pubbliche. Si tratta di un’importante lingua internazionale che unisce una delle più grandi comunità culturali del mondo. L’arabo coranico potrebbe essere insegnato nelle scuole pubbliche laiche senza l’uso di testi religiosi, così come noi apprendiamo il latino a prescindere dalla chiesa cattolica. Se lo spagnolo, il latino, il tedesco, il francese, l’italiano, l’ebraico, il russo ecc. sono insegnati come seconda lingua nelle scuole pubbliche dell’Occidente, perché no l’arabo coranico?
Aiuterebbe veramente l’incontro tra le culture, quella occidentale e quella mussulmana, al di là di ogni sterile predica di integrazione e di pluralismo culturale.
Nel nostro paese, che consente l’insegnamento confessionale della religione cattolica a spese dello stato, questo diritto ha maggiore motivo d’essere garantito.
Non è accettabile che il diritto all’istruzione, sancito solennemente dalla nostra Costituzione, incontri delle limitazioni nei confronti dei tanti mussulmani che fuggono dalle discriminazioni e dalle imposizioni teocratiche dei governi e dei nazionalismi dell’Islam.
E’ veramente singolare constatare come a pochi stia a cuore il definitivo restauro di Palazzo Schifanoia, mentre invece la paventata chiusura della caffetteria che si trova nel cortile del palazzo ha suscitato l’interesse dei mezzi di informazione, oltre a miriadi di interventi e commenti sul web. Da ultimo, anche alcuni esponenti di un paio di forze politiche di opposizione hanno pensato bene di salire sul carro della polemica, ergendosi a paladini di un imprenditore angariato, in difesa della continuazione della gestione della caffetteria da parte di quest’ultimo.
Prima di tutto, mi sia consentito dare una piccola notizia, che temo interesserà a pochissimi ma che è tuttavia necessaria per comprendere il contesto generale: il progetto per l’adeguamento sismico e il conseguente restauro di Palazzo Schifanoia sta terminando l’iter delle necessarie autorizzazioni. Vincoli delle finanze locali permettendo, speriamo di avviare il cantiere a cavallo della fine d’anno. A lavori conclusi, avremo un palazzo sicuro in tutte le sue parti (dopo i danni provocati dal sisma del 2012, che ne hanno ridotto gli spazi agibili), con un allestimento museale completamente nuovo e pensato per dare visibilità anche a tanta parte del nostro patrimonio artistico (ad oggi conservato nei depositi), e un ascensore, che finalmente consentirà a chiunque di accedere al piano superiore. Ma ora smetto di dilungarmi su queste “inezie”, e passo all’argomento che sta veramente a cuore al popolo del web, ad alcune forze politiche e – di conseguenza – ai mezzi d’informazione.
L’attuale concessione per il servizio di gestione della caffetteria scade ai primi d’aprile. Data la natura commerciale dell’attività (la caffetteria sarà pure un luogo dell’anima, ma rimane sostanzialmente una caffetteria), non si può provvedere ad affidare nuovamente il servizio se non attraverso un bando di gara. L’attuale gestore sostiene di aver maturato il diritto a vedersi riconosciuto un affidamento diretto. Nonostante sia stato invitato più volte, anche nel corso di numerosi incontri, a sostenere questa sua pretesa con valide argomentazioni giuridiche, l’invito è caduto nel vuoto. Forse se le motivazioni non arrivano è perché di valide – sul piano della legittimità – ve ne sono poche o nessuna.
La decisione presa dall’Amministrazione comunale è di non procedere con il bando per il nuovo affidamento del servizio fino al termine dei lavori. Il motivo è semplice: i lavori comporteranno la chiusura del Palazzo e anche il cortile sarà area di cantiere. Sarebbe sbagliato suscitare legittime aspettative in coloro che sono disposti a candidarsi per la gestione (di manifestazioni di interesse ne abbiamo avute parecchie, e chi le ha avanzate non ha – fino a prova contraria – minori diritti rispetto all’attuale gestore), per poi deluderle con un forzato periodo di chiusura, che purtroppo – considerata la complessità e delicatezza del restauro – non sarà breve.
Ma perché allora non prorogare l’attuale gestione fino all’inizio dei lavori? Il motivo, anche in questo caso, è semplice: l’attuale gestore è moroso, non paga il canone di concessione. Una morosità iniziata prima del sisma, quando cioè la gestione non poteva ancora aver risentito degli effetti negativi derivanti dal terremoto, che si è tradotta in un debito significativo nei confronti del Comune, cioè di tutti i cittadini ferraresi; e che apparirà, credo, scandalosa a tutti coloro che invece un canone lo pagano.
Il debito, dicevo, è rilevante, e permane tale nonostante: a) si sia concesso al gestore di riprendere l’attività – a furor di popolo, di associazione di categoria e di articoli di stampa – già a settembre 2012, sebbene il Museo fosse chiuso perché inagibile, dotandolo (ad onere del Comune) di bagni chimici perché i bagni del Museo erano irraggiungibili. Questo, dopo aver inutilmente tentato di prospettare al gestore e alla sua associazione di categoria che con il Museo chiuso la caffetteria ben difficilmente avrebbe avuto introiti adeguati; b) il gestore si sia tardivamente reso conto che con il Museo chiuso gli affari non andavano bene (sorprendente, vista la mole di testimonianze sul web attestanti il fatto che a Schifanoia ci si va per la caffetteria, e non per vedere gli affreschi del Salone dei Mesi); c) di conseguenza, il gestore si è nuovamente rivolto all’Amministrazione, e nel corso di incontri tra lui, un dirigente della sua associazione di categoria, il legale dell’associazione medesima e tecnici del Comune si è concordemente convenuto che la dirigente del Servizio Patrimonio del Comune e il legale di parte avrebbero condiviso una soluzione che contemperasse il sollievo alle difficoltà del gestore con l’esigenza imprescindibile di legittimità degli atti del Comune (non si ha qui la pretesa che questa esigenza sia compresa da tutti, ci basterebbe che la sentisse come propria chi siede in consiglio comunale come Paolo Spath di F.d.I./Alleanza Nazionale o in consiglio regionale, come Alan Fabbri della Lega Nord); d) la soluzione, condivisa dalla dirigente comunale e dal legale di parte, prevede, a decorrere dall’autunno 2012 e fino alla scadenza della concessione, uno sconto significativo sul canone, giustificato dal fatto che il Museo era stato solo parzialmente riaperto nella primavera 2013, e che quindi erano oggettivamente ridotte le potenzialità attrattive anche per la caffetteria (da notare: è vero che il Museo è riaperto solo parzialmente, ma il Salone dei Mesi è visitabile e nel corso del 2014 si sono avuti circa 52.000 visitatori, il picco da molti anni a questa parte); e) al gestore è stato proposto un piano rateizzato di rientro dal debito pregresso, a cui a tutt’oggi non è stata data risposta. Anzi, si è data risposta con un’abile campagna pubblicitaria, alla quale anche alcuni esponenti politici si sono accodati.
Questi i fatti, che lascio giudicare a voi. Per parte mia, posso solo dire che prorogare la concessione del servizio a un gestore pervicacemente moroso costituirebbe, oltre che un danno erariale, un’offesa al buon senso e a tutti coloro che faticosamente fanno fronte ai propri impegni. Aggiungo che il Comune agirà in tutte le sedi per recuperare un credito che appartiene ai cittadini, e che diffido il gestore dall’utilizzare la caffetteria e il nome di Schifanoia per campagne di informazione e di sottoscrizione che sono tutte squisitamente pro domo sua. Lancio, invece, una proposta agli esponenti di opposizione che hanno ritenuto di strumentalizzare questa vicenda: siccome dovrebbero conoscere molto bene quali sono i limiti posti all’agire di una Amministrazione pubblica, dico che sono disposto a considerare l’ipotesi di una proroga fino all’inizio dei lavori se garantiranno di tasca propria il puntuale pagamento del debito e dei canoni successivi, depositando anticipatamente l’intero importo quale cauzione,. Sarebbe anche un bel modo per dimostrare concretamente quella fiducia nelle capacità del gestore che sino ad oggi hanno sbandierato gratis.
“Siamo in questo mondo per portare pace e felicità a tutti gli esseri viventi. Per raggiungere questo obiettivo dobbiamo adottare stili di vita pacifici e non dannosi e una non interferenza nella felicità degli altri”. Swami Nirmalananda
Quando ci si avvicina alla pratica dello yoga, inevitabilmente emerge il tema del vegetarianismo. Prima o poi la questione viene a galla, perché yoga e rispetto di ogni tipo di essere vivente sono strettamente legati e interconnessi. Pare difficile, infatti, prescindere dalla riflessione sul controllo del proprio corpo, della propria respirazione e del proprio battito se non ci si vede e ci si immagina immersi e facenti parte di un mondo naturale più esteso.
Parte di un ciclo, che si apre e si chiude, liberi ma rispettosi. Forse la riflessione non è immediata e arriva dopo qualche tempo e in seguito a una vera, intensa e cosciente dedizione alla pratica dello yoga, ma arriva. La simbiosi fra yoga e vegetarianismo è chiara laddove si pensi al fatto che la base dello yoga è la gentilezza, il rispetto della vita di ogni essere vivente, che deve essere libera e felice, e la considerazione che le azioni della propria devono contribuire in qualche modo alla felicità e alla libertà di tutti. Perché ciascuno di noi ha un ruolo da spendere e una responsabilità, ciascuno può fare qualcosa. Mai pensare che da soli non possiamo cambiare nulla. Mangiare carne o pesce significa privare della vita un altro essere vivente che spesso viene cresciuto e allevato proprio per soddisfare l’appetito umano, che si trova in batteria proprio per questo, alimentato con cibi di origine animale, quando per natura spesso è erbivoro. A nulla varrebbe la considerazione che gli animali si cacciano loro stessi per natura, perché non mangiamo tigri o leoni. Il latte, poi, anche quello viene sottratto al piccolo cui sarebbe dedicato, al quale la natura ha pensato, perché disponibile alle e dalle madri che hanno appena partorito, per i loro cuccioli, non certo per noi. Non è semplice sposare queste teorie né vogliamo farcene paladini (anche se, ammettiamo, ci ispirano una certa simpatia, o non ve ne parleremo), anche perché ognuno è abbastanza grande da comprendere ragioni e magari limiti di pensieri come questi. Certo è che le riflessioni di molti libri, fra i quali uno particolarmente interessante di Sharon Gannon, fondatrice del metodo Jivamukti Yoga (“Yoga and Vegetarianism”, Mandala Publishing, 2008, 144 p.), non vanno sottovalutate, soprattutto quando, dati alla mano, evidenziano anche il legame fra consumo di carne e riscaldamento globale (secondo le Nazioni unite l’allevamento di carne a uso alimentare comporta un aumento delle emissioni di gas a effetto serra maggiore di quello provocato dai trasporti), inquinamento idrico (la maggior parte dei rifiuti degli allevamenti, che contengono pesticidi, erbicidi, antibiotici e ormoni, finiscono in fiumi e oceani), uso dell’acqua (oltre la metà dell’acqua consumata negli Stati Uniti, ad esempio, è usata per l’allevamento di animali), terra e suolo (sempre negli Stati uniti, oltre l’80% dei terreni è utilizzato per allevare animali e grano/alimenti ad essi dedicati), deforestazione (aumenta per fare spazio ai terreni necessari per il punto precedente), grano (sempre sul suo, americano, l’80% del grano coltivato e il 95% di altri cereali, sono destinati ad alimentazione animale), petrolio (anche qui la percentuale di combustibile fossile destinato all’allevamento è altra, oltre un terzo di tutti i combustibili fossili usati in America), mari e oceani (si stanno svuotando di vita, spesso anche a causa di una pesca selvaggia, indiscriminata e non controllata). Senza dimenticare i benefici per la salute, in un’alimentazione povera di colesterolo, ormoni e grassi.
A mio avviso, tali riflessioni sono importanti, non vanno sottovalutate e, indipendentemente da un’applicazione più o meno rigorosa, credo che vadano conosciute. Sharon, nel libro citato, ricorda, poi, che gli uomini non sono biologicamente ‘disegnati’ come mangiatori di carne: anatomia e fisiologia suggeriscono il contrario, basti pensare che abbiamo bocche e denti piccoli. La vita, poi, è sacra, insegna lo yoga, siamo esseri spirituali grazie al nostro respiro. Ecco perché nello yoga la respirazione è tanto importante e va conosciuta, seguita e curata. Il respiro è connesso all’aria che tutti respiriamo. Se respirare significa vivere, allora non bisogna interrompere ‘l’alito di nessuno’, nemmeno quello degli animali. Respirare, quindi, ma connessi al tutto. Sempre.
Se lo yoga non pare, quindi, rappresentare solo un modo di essere, esso si riferisce piuttosto a un modo di vivere in armonia con il tutto dell’esistenza. Senza carne o pesce o solo con i frutti della terra, vale la pena mettersi in comunicazione con la vera essenza del mondo. Il suo respiro. Perché come trattiamo gli altri determina la nostra stessa realtà.
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