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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


LA STORIA
Andrea Poltronieri, note e risa in punta di sax

“Il giullare era quello che veniva pagato dal re perché lo facesse ridere e anche piangere. Non era facile trovare una persona di questo tipo, è una figura affascinante.” Andrea Poltronieri racconta “Note appuntate” (Edizioni La Carmelina), incalzato da Stefano Bottoni, direttore artistico del Ferrara Buskers Festival, e presentato da Federico Felloni e Vincenzo Iannuzzo, per il ciclo “Autori a corte” alla libreria Feltrinelli.

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La presentazione del libro

“Note appuntate” si presenta come un block notes libero che spazia tra pensieri personali tra vita e carriera, scritti di getto; la sezione “Dicono di me” che include ricordi e dediche di personaggi famosi con cui ha lavorato, da Paolo Cevoli a Cristina D’Avena fino a Duilio Pizzocchi.
E le sue parodie di canzoni, da “La bici della Gina” (“Amici come prima”) a “Bepi” (“Happy”), brano che il 26 febbraio sarà interpretata in versione lirica dalla soprano Benedetta Kim in Sala Estense, in occasione del primo Festival della Canzone Ferrarese con il gruppo Made in Fe e musiche dei 60 lire.

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Stefano Bottoni e Andrea Poltronieri
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Il duetto Bottoni-Poltronieri

Tra una battuta e un silenzio, Bottoni e Poltronieri ricordano la prima scintilla scoccata tra di loro: “Era il 1988, c’era di mezzo Haji Akbar e vedevo la faccia di Poltronieri sfrecciare sugli autobus. Perché allora non poterci sfrecciare insieme, su un autobus come ai Buskers?”. Tra musica e comicità, alla continua ricerca di un teschio che è memento mori ma anche il ricordo ormai emaciato ma ancora solido di una risata prepotente. Non è una persona seria, chi non sa ridere.
Il giullare è quello che ti diverte, ma anche quello che ti riporta a quei giorni di liceo fuori provincia in cui sentivi cantare strofe demenziali su musiche note in un dialetto che non era il tuo, senza sapere che si chiamassero “centoni”. Su un tale di nome Gino, bottegaio che lavorava al Famila, alle prese con asparagi e agguerrite vecchiette alla ricerca di ortaggi freschi, tra una nota e l’altra di “Rivers of Babylon”. O a quella volta che hai ascoltato il centone che parodiava “Back for Good” dei Take That di ritorno dall’impossibile esame di tedesco superato per una manciata di voti. Il giullare, lo spiritello ex machina che canti sovrapponendo la tua voce stentorea alla sua, che esce sicura dall’autoradio: è Poltrosax, e te ne accorgi quando lo vedi.

Andrea Poltronieri è singolare. É la Nives, arzilla ottuagenaria treccine rosse spritz nato su due piedi in una serata tra le nebbie della Bassa Padana per colmare il silenzio di un guasto tecnico. É il sassofonista emozionato che stringe la mano a Lucio Dalla il 4 marzo, prima di suonare in Piazza Maggiore, cercandone poi ossessivamente il profumo che conserva intonso e intoccabile nelle mani, e il bambino che riceve in regalo dal papà la sua prima tastiera, una Bontempi, la notte di Natale del 1973. É il bacio in fronte di Lucio Mongardi, il capitano della squadra più ambita, in una domenica da bambino sugli spalti. É New York con il produttore Davide Romani, il girovagare per Washington Square, suonare in metro occupando il posto di un altro musicista che ti rampogna per avergli occupato il suo, di posto, e scusarsi con un sorriso e uscire da lì sentendo di avere già fatto centro, abbozzare qualche nota in re minore, al sax, unico bianco tra musicisti neri nel “Village”.

É plurale, Andrea Poltronieri. Sono le corde della chitarra che gli regala una persona la cui presenza gli riempie la vita, e sono i 56 passi che lo separano da una camera d’ospedale che sta per salutare per sempre questa persona, ma piena ancora della sua presenza. Sono gli studi all’Accademia di Belle Arti con Concetto Pozzati e i concerti da musicomico, tra dissacrante e melomania.
I concerti con gli Stadio e quello per l’Emilia al Dall’Ara di Bologna. Gli impossibili da ritrovare qui sulla Terra, perché sono tutti raccolti al Genius Bar, locale stile Roxy bar in cui ogni grande è perso dietro ai fatti suoi e ancora reclama il legittimo posto che ha preso nel mondo.
Sono Emma e Alice e anche Satin – non la protagonista del Moulin Rouge di cui condivide l’origine parigina bensì l’adorato sax che gli procura il nome d’arte Sax Machine, donne nell’anima.
Sono le note appuntate, quelle scritte in punta di penna per non dare fastidio, scritte di getto per rovesciare l’anima su una pagina bianca, scritte per condividere un ricordo o una risata o una malinconia con chi ti legge, fino a fare uscire i suoi, di ricordi.
Tra un manifesto e lo specchio, tra un re che ha bisogno del suo giullare per trovarsi di fronte alla sua nudità, ed essere in grado di riderne e piangerne.

IL TEST
Walkman, hi-fi & co: il design giapponese anni ’70

3. SEGUE – Sanyo Electric Co. Ltd. era una società giapponese di elettronica, con sede a Moriguchi in Giappone, fondata il 1° aprile 1950 da Toshio Iue, cognato di Konosuke Matsushita proprietario della Matsushita (Panasonic), che rilevò e sviluppò una vecchia fabbrica in disuso per avviare una propria attività.

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Walkman della Sanyo

Negli anni ’70 il design giapponese s’indirizzò verso le esigenze degli utenti, studiandone i comportamenti sociali e cercando di incidere sul loro modo di vivere. Fu grazie a quest’attenzione che nel 1979 Sony, presto seguita su questa strada da Sanyo, produsse il walkman, che ben rappresenta il modo di vivere sempre in movimento dell’era moderna, oltre ad innescare la spirale di miniaturizzazione che influenzerà i decenni successivi.

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Registratore a cassetta RD-5300

Negli anni ’70 si stava compiendo un processo di omologazione estetica degli apparecchi Hi-Fi, salta quindi subito agli occhi il lavoro di stilizzazione e ingegnerizzazione che c’era dietro ai componenti Sanyo. Tra questi il deck a cassette RD-5300 del 1976, dal design basato sul contrasto tra alluminio e plastica nera, ora tanto di moda nei notebook di importanti marchi.

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Sintoamplificatore Sanyo fine anni ’70

Il sintoamplificatore Sanyo modello DCX 2000L del 1977, oltre ad avere un suono brillante, è l’esempio della qualità costruttiva degli anni settanta. Il frontale e le manopole sono interamente in metallo, la protezione della scala della sintonia è di vetro, lo chassis è di legno, tutti materiali da tempo sostituiti dalla plastica.

La radiosveglia a cartellini Sanyo 6ca-t45z, mostrata recentemente anche in uno spot televisivo di una nota banca italiana, rappresenta quel filone del design anni ’70 denominato “Space Age”. Questo stile, tra gusto pop e desiderio di avanguardia, prende piede tra gli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, sulla scia delle imprese spaziali che, nell’immaginario collettivo, dovevano rappresentare l’inizio di una modernità creativa e progressista. Esempi di quel modo di intendere il design (oggetti e abiti futuribili) li ritroviamo nel cinema e nella Tv di allora, basti pensare a “2001 Odissea nello spazio” di Stanley Kubrick e alla serie “UFO S.H.A.D.O.”.

Design 'Space Age' per la Phonosphere di Sanyo
Design ‘Space Age’ per la Phonosphere di Sanyo
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Sanyo Decorator Clock Radio

In quel periodo furono realizzate lampade che sembrano missili, televisori simili al casco degli astronauti, poltrone a forma di guscio, compatti Hi-Fi (Phonosphere), come se fossero progettati per l’interno di una navicella spaziale. In un certo senso si può affermare che la corrente di gusto denominata “Space Age” trasformava il salotto di casa in un’astronave. Osservando la radiosveglia di Sanyo, la Phonosphere e l’orologio Decorator ci si accorge come le forme tonde e morbide prendano il sopravvento, rispetto a quelle squadrate del decennio procedente, con un massiccio utilizzo della plastica, materiale ideale per generare superfici prive di asperità e lisce. I designer di riferimento di quell’epoca sono il milanese Joe Colombo, il danese Verner Panton e il finlandese Eero Aarnio (creatore della famosa sedia Palla o Globo per Asko, vista anche nella serie cult “Il prigioniero”).

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Storica pubblicità della Sanyo a Piccadilly Circus, Londra

L’archeologia tecnologica trova spazio tra retrò e vintage, riscoperta e nostalgia ma, soprattutto, rappresenta l’occasione per rivedere giudizi e teorie senza l’influenza di antichi condizionamenti.
La nostra inchiesta ha evidenziato la validità di numerosi componenti Hi-Fi del colosso giapponese, progetti interessanti come quelli della “Series plus” e del cosiddetto “CCI”, la collaborazione con Grundig, l’innovazione e la ricerca nell’ambito dei riproduttori di audiocassette, giradischi e amplificatori. All’epoca il marchio non fu apprezzato come avrebbe meritato, oggi, fuori da ogni logica commerciale e grazie alla disponibilità dell’usato, si ha la possibilità di esprimere un giudizio più obiettivo. Qualche mese dopo che Sanyo fu incorporata in Panasonic, lo storico pannello pubblicitario di Piccadilly Circus a Londra, è stato spento e ceduto alla società automobilistica coreana Hyundai. Era l’unico a non essere animato.
Goodbye Sanyo!

Per leggere la prima parte dell’inchiesta clicca qui.
Per leggere la seconda parte dell’inchiesta clicca qui.

Si ringraziano: Massimo Ambrosini [vedi], Lucio Cadeddu, Direttore della rivista “Tnt-Audio” [vedi], Innokentiy Fateev [vedi].

IL CASO
Il bad boy della danza russa è virale

In pochi giorni ha totalizzato oltre 5 milioni di visualizzazioni. Lo merita. Perché è meraviglioso, coinvolgente, travolgente, forte, immenso, doloroso, intenso e sexy.
Parliamo della stella del balletto russo Sergei Vladimirovich Polunin, che interpreta magistralmente “Take me to the Church”, del cantautore irlandese Hozier, successo musicale nominato ai Grammy Awards. La coreografia è di Jade Hale-Christofi, l’americano David La Chapelle lo dirige, in una serie di piroette acrobatiche uniche e sauté che aleggiano in uno spazio vuoto illuminato, una stanza bianca che contrasta con l’energia nera del blues. Polunin, chiamato il ‘bad boy’ del balletto russo, forse perché ha numerosi tatuaggi sul corpo perfetto, ma anche perché ha sempre fatto un po’ di ‘bizze’ nei teatri in cui si è esibito, indossa un collant color carne e un mosaico di tatuaggi che esibisce come in un quadro (nelle performances abituali sono solitamente coperti dal trucco). Solo con questi colori tenui e la forza e l’energia pura dei suoi muscoli, tiene lo spettatore incollato allo schermo, in una sorta di possessione spirituale. I movimenti forti e decisi, resi quasi eterei e leggeri dalla luce che filtra dalle finestre, esprimono perfettamente l’intensità emotiva del brano. Bianco e nero si rincorrono, l’energia vola sui passi leggeri, eterei.
Sergei Polunin, venticinquenne di origini ucraine, ha iniziato a danzare a 4 anni e all’età di 12 anni si era già diplomato al Kiev State Choreographic Institute. Dopo un passato al British Royal Ballet (ove era approdato all’età di 13 anni con una borsa di studio delle Fondazione Rudolf Nureyev, ma dal quale si era allontanato per l’eccessiva disciplina che non sopportava più), Sergei è oggi il primo ballerino allo Stanislavsky Music Theatre di Mosca e al Novosibirsk State Academic Opera and Ballet Theatre. Ha ricevuto numerosi premi, incluso lo Youth America Grand Prix nel 2006, è stato nominato Young British Dancer dell’anno 2007 e in lizza per il riconoscimento di miglior ballerino del mondo, nel 2014. La performance che sta facendo il giro del web lascia davvero senza fiato. Forse perché porta con sé, nella danza i demoni di una vita giovane ma non semplice.

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L’incubatrice, ovvero di una scuola che ha bisogno di nuovo ossigeno e nutrimento

Avete mai pensato alla nostra scuola come a una incubatrice? Entri a sei anni e ne esci a diciotto, se tutto va bene. Se l’incubatrice o l’incubato non hanno crisi di rigetto. Entri che non sai né leggere né scrivere, esci che sai di lettere, di matematica, di fisica, di lingue e di filosofia. Insomma esci che sei quasi una enciclopedia, una persona colta. Appunto coltivata, incubata.
Per che cosa? Per l’università o per il mercato. Che non ti prenderanno così come esci dalla scuola, perché a loro volta ti vorranno fare l’analisi del sangue. Occorre che nel frattempo non ti prenda il sospetto circa il senso di quello che vai facendo. Perché fa parte delle regole di partecipazione alla cultura della tua specie. Agli animali va meglio, il periodo dell’addestramento è molto più breve rispetto agli umani e poi sono liberi di scorrazzare nella natura.
Noi la natura dobbiamo invece dominarla, governarla. Noi dobbiamo costruire le cattedrali antiche e moderne. Noi dobbiamo servire la nostra generazione, quelle che ci hanno precedute e quelle che verranno. Noi viviamo e cresciamo per il grande contenitore che ci contiene che sono i nostri simili. È questo contenitore che ci dà senso, a partire dai nostri genitori che ci hanno desiderato. Sono loro che hanno iniziato a scrivere la nostra narrazione.
“Ciascuno cresce solo se sognato” recitava Danilo Dolci e il grande psicologo statunitense Jerome Bruner aggiunge che “Non si ha una vita se non la si racconta”. Avere una vita da raccontare, avere una vita perché qualcuno ti ha sognato. È possibile passare da una scuola che incuba cittadini, a una scuola che li sogna? Che racconta la storia di ragazze e di ragazzi per ciascuno dei quali coltiva un sogno? Se non sei una storia da raccontare, se non appartieni a un sogno, sei un indistinto, uno dei tanti da prendere quando è giunto il tuo tempo e da mettere insieme agli altri nel reggimento di una caserma o nella classe di una scuola. Dipende dalla tua età e dal tuo destino.
Comunque quando è ora inizia anche per te il tuo addestramento. In fila con gli altri, in banco con gli altri, con la divisa o senza la divisa, non ha importanza, perché per tutti sarai un alunno, un allievo, un discente, uno studente, uno scolaro, sarai per quello che farai, mai per quello che sei, un essere ordinato in un luogo, in un’ora, in un’attività, in un fluire del tempo tutto uguale a quelli dei tuoi simili per età e per destino.
La raccolta dei nostri affetti nell’anonimato di uno spazio, di un luogo, di un tempo. Classi, scuole che sono non luoghi, come sale d’attesa della vita. Ecco il trattamento quotidiano che riserviamo nelle scuole della repubblica ai nostri figli e alle nostre figlie. Loro portano il peso degli zaini, come ogni soldato alla battaglia, noi portiamo il peso delle nostre responsabilità. Dell’incapacità di offrirgli una scuola diversa, che non sia più quella dei nostri tempi, che non sia più il regime-scuola, che non sia più “la scuola”, che non sia più imparare dal banco, dalla lavagna, dal libro di testo, dalla voce dell’insegnante.
Noi portiamo il peso della nostra pigrizia intellettuale, della pigrizia di chi dovrebbe praticare la cultura e invece la consuma senza rigenerarla, perché non ha spirito, perché non ha invenzione, perché non ha intelligenza. Portiamo il peso di finanziare intellettuali senza intelletto, ripetitori, megafoni del passato, lacchè del politico di turno. Non siamo capaci di pensare e di disegnare un’altra scuola, un altro modo di imparare, una nuova umanità di apprendimento. Grigie cattedre di pedagogia senza fantasia, senza la sete del nuovo, nel totale squallore intellettuale, incapaci di immaginare una scuola diversa, una scuola nuova da offrire ai figli del nostro Paese.
Sono morti i tempi dei grandi pedagogisti, dei maestri quotidiani, coraggiosi pionieri di ogni innovazione, portatori di spiragli di luce nella monotonia delle nostre scuole. Pare che l’obbligo scolastico sia per le persone, non per lo Stato che non si occupa delle condizioni che impone. Come l’obbligo militare una volta. L’obbligo da noi fa dovere al cittadino ma non all’istituzione.
Se l’istruzione è un diritto è come il diritto alla vita, alla libertà di espressione, il diritto è una libertà non un’oppressione. La cultura non è schiavitù, non è umiliazione, non è mortificazione, è liberazione, non è sopraffazione dell’accademico sul discente, è affiancamento, incoraggiamento, accompagnamento, gratificazione. La cultura è apertura, è l’ossigeno che ovunque si respira, è la fame di sapere, si nutre dalla nascita e dalla nascita si familiarizza, dopo è troppo tardi. Ma anche questo è da sapere, anche questo è da capire.
Dopo c’è solo la liturgia, l’ingessamento della lezione, la nozione, l’esercizio, la ripetizione, i voti, l’interrogazione e gli esami.
La cultura invece è un abito da apprendere subito, è applicazione, è provare, è riuscire, è conquistare, è misurarsi nel saper fare, riprovare e riprovare se necessario, è come le cose e la vita di tutti i giorni. Non è un compartimento separato, una tradotta su cui salire senza destinazione, tutti indistintamente ammassati.
L’istruzione è un obbligo, come l’obbligo di nutrirsi per non lasciarsi morire. “Nutrire il Pianeta” è lo slogan di Expo 2015. Istruire il Pianeta, forse sarebbe stato preferibile, ma non abbiamo sull’istruzione un “eataly”, cibi di alta qualità da distribuire, nessuna riflessione sull’istruzione sostenibile oggi. La pancia è meglio della mente, del resto a pancia vuota non si ragiona. Evidentemente la pancia del nostro Paese da troppo tempo è vuota per essere in grado di ragionare sulla scuola dei suoi figli.
Che va bene così, perché così è sempre stato, perché la scuola deve formare dei buoni cittadini e poi ognuno se la vedrà, perché non abbiamo soldi e poi, tanto, è mica a scuola che si impara… A scuola si socializza, si apprende a superare le frustrazioni, ci si abitua all’impegno, ai compiti, ad essere valutati, la scuola irrobustisce. Insomma la scuola è una palestra!
Ah, dimenticavo, l’educazione fisica della vita … l’istruzione è tutta un’altra cosa.

NOTA A MARGINE
Il senso dei canadesi per lo spettacolo. Sul palco la bibbia laica dei Ballets Jazz de Montréal

E’ uno SPETTACOLO tutto maiuscolo quello che il direttore artistico Louis Robitaille ha portato in città. Tre momenti di danza interpretati da tre coreografi diversi per un unico spettacolo entusiasmante che ha fatto saltare i ferraresi sulle poltrone del Teatro Comunale domenica.
E’ una sorta di bibbia laica quella che vediamo sul palco. Nella prima coreografia, Zero in on, di Cayetano Soto, ci sono solo un uomo e una donna, che interagiscono e si respingono. Passi a due atletici, ma con una chiara matrice classica. Poi arriva tutta la compagnia nel folgorante Kosmos, qui in prima nazionale, di Andonis Foniadakis, dove la compagine dei danzatori di nero vestita travolge tutto come la frenesia urbana che vuole rappresentare. Gesti precisi, alienati in un crescendo di potenza che culmina con una specie di estasi mistica, di intimo raccoglimento come opposizione al caos cosmico.
C’è tutto, dalla danza tribale a quella classica, passando per la jazz fino alla contemporanea.
Le musiche di Julien Tarride sono un accompagnamento incalzante e coinvolgente, e le luci minimali, ma di grande efficacia di James Proudfoot, completano la scena senza bisogno di nessun altro elemento. Tutto è essenziale e necessario, ed è evidente come questo risultato derivi da un lavoro enorme.
Potranno fare meglio? Ci si chiede dopo Kosmos. Poi arriva Harry di Barak Marshall, uno degli allestimenti di maggior successo dei Bjm. Non è meglio forse, ma è complementare. Riporta la scena in una più colorata ambientazione anni ’40-’50 dove questi danzatori senza limiti vengono anche fatti recitare, attorno alla figura di Harry, grottesca caricatura dell’essere umano, continuamente coinvolto in conflitti intimi, come quelli tra uomo e donna, o sociali, come la guerra. E da questi costretto a morire e rinascere in continuazione, interrogandosi ogni volta sul senso di tutto ciò, con la leggerezza di ci sa che una risposta non c’è.

I danzatori sono da spellarsi le mani dagli applausi. Tengono dall’inizio alla fine un ritmo elevatissimo, sono simpatici e sanno trasformarsi in ogni coreografia.

Il bello di questo spettacolo tardo pomeridiano è anche che dopo arriva Robitaille stesso per un incontro col pubblico, e conferma una serie di pensieri fatti disordinatamente durante la visione.
I canadesi riescono a produrre spettacoli così, perché hanno un governo che investe. Ed è un investimento che dà i suoi frutti dal momento che la compagnia è in tournée dai quattro ai sei mesi all’anno in tutto il mondo. Una dimensione globale di cui i Bjm non hanno paura. Loro pensano in grande e guardano avanti chiamando non i grandi nomi, come ha spiegato Robitaille, ma i giovani più talentuosi di ogni paese, li fanno crescere, permettono loro di lavorare da professionisti e ovviamente alla fine, li rendono tali. Una lungimiranza che a noi italiani, benché non privi di talenti, di idee e di esperienza, purtroppo manca. E poi i canadesi, figli di secoli di migrazioni, non hanno paura delle mescolanze e delle contaminazioni: tra razze, generi, stili. Prendono il meglio di tutto e ce lo restituiscono col sorriso.
Grazie!

Les Ballets Jazz de Montréal (foto di Marco Caselli Nirmal)
Les Ballets Jazz de Montréal (foto di Marco Caselli Nirmal)
Les Ballets Jazz de Montréal (foto di Marco Caselli Nirmal)
Les Ballets Jazz de Montréal (foto di Marco Caselli Nirmal)
Les Ballets Jazz de Montréal (foto di Marco Caselli Nirmal)
Les Ballets Jazz de Montréal (foto di Marco Caselli Nirmal)
Les Ballets Jazz de Montréal (foto di Marco Caselli Nirmal)
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Les Ballets Jazz de Montréal (foto di Marco Caselli Nirmal)
Les Ballets Jazz de Montréal (foto di Marco Caselli Nirmal)

L’INTERVENTO
Il vescovo, i cattolici e il dibattito pubblico. Nannetti: “Negri smentisce papa Francesco”

di: Edoardo Nannetti

Raccolgo la sollecitazione di Fiorenzo Baratelli che, in relazione alla polemica sulle parole del vescovo circa l’influenza degli aborti sulla crisi economica, chiedeva conto ai cattolici del loro silenzio nel dibattito pubblico. Credo che Baratelli abbia ragione e colga un punto importante al di la del tema specifico: il silenzio del mondo cattolico rispetto alle ‘provocazioni’ del Vescovo e, ancora di più, rispetto a quanto si muove di fecondo nella chiesa di Papa Francesco.

In quanto cattolico voglio quindi tentare di rompere il silenzio.

Il nostro vescovo è intervenuto spesso nei mesi scorsi su vari temi e con posizioni assai discutibili , di solito opposte a quanto il papa va dicendo, oppure talora con argomenti condivisibili ma posti in un modo (che fa sostanza) che ritengo negativo.

Comincio con l’ultima affermazione di mons. Negri che tanto ha fatto discutere: la legge 194 avrebbe consentito tanti aborti che hanno inciso sulla natalità riducendo la popolazione e con ciò alimentando la crisi economica..

Non credo ci si possa aspettare che la chiesa rinunci alla condanna dell’aborto; d’altra parte sarebbe utile rammentare che neppure i sostenitori della L.194 si possono definire ‘abortisti’, infatti dicono da sempre che l’aborto è cosa dolorosa che la legge deve solo far emergere per fare prevenzione, evitare gli aborti clandestini con rischio per la salute delle donne; la differenza con la chiesa è che questa fino ad ora non condividere questa ‘strategia normativa’. Se i due ‘schieramenti’ prendessero atto della diversa posizione sulla normativa e si impegnassero semplicemente su ciò che condividono (la necessità di prevenire l’aborto) si eviterebbero i toni da crociata, si avvierebbe una proficua collaborazione per la prevenzione e ci si accorgerebbe che il tema della ‘apertura alla vita’ può essere condiviso e forse sviluppato in modo inaspettato ben oltre il tema dall’aborto, contro la vera cultura di morte dei poteri economici e finanziari che creano povertà e morte e distruggono il pianeta consegnatoci in custodia da Dio.

Detto questo, il punto posto dal vescovo è nuovo e singolare: gli aborti provocano la denatalità che alimenta la crisi economica. Nel merito si potrebbe obiettare che la legge ha portato alla luce aborti che ci sono sempre stati e che ci sarebbero stati comunque, perciò non ha inciso sulla natalità. Tuttavia il punto che mi preme è un altro.

Trovo singolare che si sposti sul piano economicistico una questione etica e profondamente umana che dovrebbe essere sottratta al ‘dio mercato’ ed alla sfera dell’economico. Sarebbe come dire che la denatalità dipende dal celibato dei preti, che se mettessero su famiglia la crisi si supererebbe. E’ evidente che nessuna delle due questioni si basa su un discorso economico. Il vescovo non si accorge del rischio che corre con il suo intervento: sostenere la posizione antiaborista con tali argomenti economici significa che, se qualcuno dimostrasse che l’aborto aiuta l’economia, allora sarebbe bene abortire. Non si accorge il vescovo che con le sue parole conferisce potere e si rende subalterno proprio a quel dio mercato che la chiesa dovrebbe contestare nel nome di altri valori.. Insomma un autogol. Da quanto si è letto circa la sua lectio di qualche giorno fa, deve essersene accorto ed ha tentato di correggere il tiro.

La tesi economica del vescovo, poi, cozza con quanto va dicendo in ogni occasione il papa sulle cause della crisi e della povertà: le strutture di mercato e del potere finanziario che alimentano la povertà per arricchire pochi. Il tema è ampiamente trattato nella ‘Evangelii gaudium’ e in numerosi altri discorsi del pontefice che raccoglie ma va oltre la tradizionale dottrina sociale della chiesa, superando una concezione banalizzante della solidarietà e chiedendo che questo valore si traduca in critica politico-economica per il superamento delle strutture del potere economico finanziario che generano sfruttamento dei popoli e cultura dello scarto. Il vescovo sembra non aver colto questo passaggio e anche in questi giorni ripropone la dottrina sociale della chiesa citando Benedetto XVI e ignorando il recente e innovativo contributo di Papa Francesco.

Questo mi consente di rilevare le numerose altre discrasie del nostro vescovo rispetto al vento di innovazione che il pontificato di Bergoglio fa soffiare.

Non che questo sia di per sè illegittimo: fa parte del dibattito nella chiesa. Tuttavia sarebbe bene esserne consapevoli anziché alimentare, come ha fatto anche il vescovo, una falsa idea di continuità tra questo pontificato e quelli precedenti o, peggio, una falsa adesione al nuovo Papa mentre se ne contraddicono le proposte. Non toccherò i singoli episodi, magari lo farò in altro intervent se mi sarà consentito. Dico solo che molti cattolici sentono una grande distanza tra la pastorale di mons. Negri e quella del Papa. Lo stesso dibattito sui temi del sinodo sulla famiglia, che il Papa ha voluto libero e aperto, qui è stato soffocato e ridotto alla riaffermazione delle posizioni più chiuse. Ma il problema qui non è il vescovo, bensì lo strano rapporto tra credenti e gerarchie che porta il popolo di Dio, la chiesa come popolo, ad essere quasi sempre subalterna alle gerarchie che non vanno contraddette. Il papa invece ci sta insegnando che una chiesa che discute liberamente ed apertamente, che ascolta il popolo, è una chiesa viva, altrimenti muore negli steccati normativi lontano dalla vita delle persone. Ecco il punto posto da Baratelli (che cattolico non è) ai cattolici: uscite allo scoperto e discutete. E’ un tema importantissimo per noi cattolici. Ciò vale anche per il bene del vescovo. Non basta che ci chieda di pregare per sostenerlo nelle sue battaglie (che possiamo considerare sbagliate); serve invece che il popolo della chiesa si faccia sentire per dare al suo vescovo, anche contraddicendolo, elementi di comprensione e punti di vista differenti che gli consentano di pensare il suo ruolo come in cammino ed in trasformazione insieme a noi, non sopra di noi. Lo Spirito Santo cammina nel cuore e con le gambe di tutti noi e non può arrestarsi di fronte alle gerarchie. Un merito delle provocazioni del vescovo è averci costretto a portare allo scoperto questo tema. Credo che il nostro vescovo troverà appoggio ed aiuto da una maggiore dialettica, ed anche certe sue posizioni potranno meglio precisarsi perdendo aspetti  talora truci e ‘vendicativi’ (come su halloween, dove ha detto cose interessanti in modo inutilmente repressivo di innocenti giochi di bimbi) per far emergere il loro fondo gioioso e di vita, superare una pastorale del ‘no’ per passare alla pastorale del ‘si’, della misericordia. Il Papa nella ‘Evaangelii gaudium’parla di questa pastorale, fatta meno di ‘ legge’ e più di ‘Grazia’, di una chiesa non ‘dogana di controllori’ ma che facilita ‘con misericordia e pazienza le possibili tappe di crescita delle persone’ nella loro ‘ vita faticosa’ , che non appesantisca con precetti che fanno apparire la religione come schiavitù ma faccia emergere il messaggio di libertà e di gioia. .

Potrà il nostro vescovo convertirsi a questo metodo? Io penso di si: con l’aiuto dello Spirito Santo  e con l’aiuto ed anche l’affetto di tutti i credenti che si fanno portatori dello Spirito. E’ una conversione che non riguarda solo lui ma tutti noi, tutta la chiesa.

 

LA RIFLESSIONE
Un ‘Doppio taglio’ che si rimargina cambiando il punto di vista

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La locandina dello spettacolo

Cambiare il punto di vista. E’ questo il monito più forte sortito dal potente spettacolo “Doppio taglio” messo in scena venerdì sera al teatro Off (leggi la nostra recensione). Degli stravolgenti effetti sulla comprensione determinati dalla mutazione dell’angolo visuale in letteratura è maestro Pirandello, in sociologia Goffman. Il professor Keating (quello dell’Attimo fuggente, magistralmente interpretato dal compianto Robin Williams) lo insegnava ai suoi ragazzi: guardando il mondo da un’altra prospettiva cambia la percezione, cambia il senso delle cose, cambia la realtà, cioè quell’idea che ci facciamo del mondo e che impropriamente chiamiamo verità.

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Marina Senesi, un’interpretazione intensa

Così è anche per la violenza che tragicamente si consuma ogni giorno sulle donne, vista, analizzata, fotografata, scandagliata dalla stampa sempre nella considerazione della donna-vittima guardata dal punto di osservazione del carnefice. E’ questo che testimonia la ricchissima documentazione antologica di testi giornalistici serviti da base per lo spettacolo teatrale allestito e interpretato da una convincente Marina Senesi e nato sulla scorta del certosino lavoro svolto dalla ricercatrice Cristina Gamberi. Un progetto realizzato con il patrocinio di ‘Pari opportunità Rai’, a cui hanno dato il proprio contributo anche Filippo Solibello e Marco Ardemagni per le voci fuori campo, Lucia Vasini per la regia e la musicista inglese Tanita Tikaram che ha regalato allo spettacolo l’inedito “My Enemy”.

il dibattito dopo lo spettacolo Doppio Taglio (foto di Giorgia Mazzotti)
il dibattito dopo lo spettacolo Doppio Taglio (foto di Giorgia Mazzotti)

‘Cambiare la prospettiva’ in questo caso vale in prima istanza come esortazione agli operatori dell’informazione, ma anche come linea di condotta da seguire per le prossime attività formative rivolte ai giornalisti stessi. Erano loro i destinatari privilegiati dello spettacolo di venerdì, non solo perché è il loro lavoro che ha originato la stesura del testo, ma perché la rappresentazione rientrava nel novero delle attività di aggiornamento professionale da un paio d’anni rese obbligatorie per la categoria. Il ricorso a una modalità di comunicazione non tradizionale ha costituito una riuscita innovazione rispetto ai canoni usuali. Raramente, nei precedenti incontri, si era registrata tanta partecipe attenzione: il messaggio teatrale ha una forza di coinvolgimento superiore a una comunicazione ordinaria. Così il pubblico dei giornalisti ha riguardato il proprio lavoro allo specchio, scoprendo ciò che nel trantran quotidiano normalmente non si coglie come peccato di superficialità: l’essere schiavo di stereotipi.

Marina Senesi
Marina Senesi

È stato utile a tutti questo spettacolo. E potrà contribuire a migliore la qualità dei nostri giornali se aumenterà la sensibilità di chi li scrive. L’auspicio è che possa entrare anche nelle scuole, per fungere da antidoto con cui vaccinare le nuove generazioni. E al contempo la speranza è che questo riuscito esperimento induca l’Ordine dei giornalisti a contemplare fra le sue attività formative – in via continuativa e non estemporanea – anche iniziative con modalità di comunicazione originali ed eterodosse come questa.

Un monaco e una macchina fotografica per unire Oriente e Occidente

Guido Santi e Tina Mascara sono due registi di origini italiane, residenti a Los Angeles, autori del documentario “Monk with a Camera: the life and journey of Nicholas Vreeland”, presentato in anteprima all’International documentary film festival di Amsterdam (Idfa 2013), ha già fatto il giro del mondo, America, Taiwan, Australia, India, Israele.

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La locandina

Il film racconta la storia vera di un uomo che non ha avuto paura di impegnarsi in un percorso diverso – hanno dichiarato Guido Santi e Tina Mascara – in cui trova una ragione in più per portare avanti il suo lavoro di artista. E’ un racconto sul legame profondo tra Oriente e Occidente, su come trovare un punto di equilibrio in un mondo sempre più instabile, per aiutarci a capire meglio noi stessi e il tempo in cui viviamo. La storia è quella di Nicholas “Nicky” Vreeland, figlio di un ambasciatore e nipote della mitica direttrice di Vogue Diane Vreeland. Nicky è stato per molti anni un importante fotografo del jet-set e del mondo della moda (allievo e assistente di Irving Penn e Richard Avedon), diventato il primo abate occidentale a condurre un monastero buddista in Tibet. Questo cambiamento di vita è avvenuto dopo che ha incontrato il venerabile maestro buddhista Khyongla Rato Rinpoche, fondatore del Tibet Center in New York e avere studiato con lui per numerosi anni.

L’importante fotografo ha abbandonato i privilegi della mondanità e del successo per seguire l’ideale buddista e trasferirsi in India. Quando il Dalai Lama l’ha nominato abate del monastero di Rato Dratsang, gli disse: “Il tuo compito è di colmare la tradizione tibetana e il mondo occidentale”. La mostra itinerante, con le fotografie in bianco e nero realizzata dallo stesso Vreeland, ha fatto proprio questo, riuscendo a raccogliere 500.000 dollari, utilizzati per la ristrutturazione della sede indiana di Rato Dratsang. Il monastero è stato ricostruito grazie all’abilità di Nicholas, ritornato a impugnare la macchina fotografica dopo 28 anni, soltanto con l’obiettivo di contribuire a questa nobile causa. Il documentario consente di conoscere Nicky e il suo straordinario viaggio spirituale, restando dietro la tenda del buddismo tibetano ed entrando nel cuore e nella mente di un uomo. Osservandolo si arriva a capire il lento percorso che l’ha portato lontano da una vita di successo, apparentemente già impostata, per abbracciarne un’altra completamente diversa, attraversando quindi il paradosso tra fama e umiltà.

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Nicky e il Dalai Lama

Nel documentario, diretto da Guido Santi e da Tina Mascara, questa grande storia è raccontata con il contributo di personaggi come il Dalai Lama e l’attore Richard Gere. La colonna sonora è stata composta da Pivio e Aldo De Scalzi, che si sono ispirati al minimalismo americano degli anni ‘70 e in particolare a maestri come Steve Reich e Philip Glass. Nella realizzazione delle musiche i due musicisti hanno aderito pienamente ai contenuti spirituali del film, basandosi su strumenti quali marimba, piano, xilophono, chitarre e un quartetto d’archi eseguito dallo Gnu Quartet, un gruppo musicale composto da Raffaele Rebaudengo (viola), Francesca Rapetti (flauto), Roberto Izzo (violino) e Stefano Cabrera (violoncello). Non mancano, naturalmente, i riferimenti alle musiche devozionali dei luoghi in cui il buddhismo è più praticato.

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Tina Mascara e Guido Santi

Guido Santi è un regista e produttore nato in Italia, vive e lavora Los Angeles, dove è anche insegnate di “Estetica e storia del cinema” presso il College of the Canyons a Santa Clarita. Santi ha realizzato il film “Mandala: The journey of a dancer” (2002) e, con la moglie Tina Mascara, il documentario “Chris & Don. A love story” del 2007, sulla vita dello scrittore Christopher Isherwood e del pittore californiano Don Bachardy. Santi ha lavorato in Italia scrivendo e dirigendo cortometraggi, inoltre, ha collaborato per quattro anni con il progetto/scuola “Ipotesi Cinema”, il laboratorio fondato da Ermanno Olmi e Paolo Valmarana nel 1982 a Bassano del Grappa. In seguito ha conseguito un Master in produzione cinematografica all’University of Southern California e ha prodotto special televisivi e documentari.

Tina Mascara è una regista e produttrice americana, nata nel West Virginia, che ha studiato giornalismo e fotografia all’Istituto d’Arte di Pittsburg e si è laureata in Film Program al Los Angeles City College. Tina ha prodotto e diretto due film: “Jacklight” nel 2000 e “Asphalt stars” nel 2002. Il documentario “Chris & Don”, realizzato insieme al marito, è considerato un cult.

Official Trailer su Youtube [vedi]

Fotografie dal sito “Monk with a camera” [vedi]

IL TEST
Deck Tape e amplificatori, quando il suono scorreva su nastro

2. SEGUE – Il nome Sanyo significa “tre oceani” ed è riferito all’ambizione del fondatore di vendere i propri prodotti, a livello mondiale, attraverso l’oceano Atlantico, Pacifico e Indiano. Le prime produzioni riguardarono fari per biciclette, radio di plastica (1952) e lavatrici a pulsanti, una novità per il Giappone del 1954. La società nipponica ha collaborato con Sony per la creazione dei formati video Betamax e Video8, poi le strade si sono divise per questioni legate alle nuove tecnologie: Sanyo ha supportato il formato Hd Dvd per i film ad alta definizione, mentre Sony ha puntato sul Blu-Ray, divenuto in seguito lo standard di riferimento per i nuovi dischi a lettura ottica. Sanyo ricevette, per tre anni consecutivi, il premio J.D. Power and Associated per la maggiore soddisfazione dei clienti degli 8 più famosi produttori di telefoni cellulari, nell’ultimo decennio questo premio è stato assegnato ad Apple per l’iPhone.
Il 7 novembre 2008 il consiglio di amministrazione annunciò che la società sarebbe stata incorporata da Panasonic, creando così il più grande polo mondiale nel settore Hi-Tech.
Il 1º marzo 2011 Sanyo ha cessato di esistere.

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Deck Tape Sanyo RD-5500

Abbiamo testato alcuni componenti Hi-Fi Sanyo riscontrando spesso un “valore aggiunto” rispetto ai prodotti concorrenti, per esempio nei Deck Tape è quasi sempre presente la regolazione del suono in uscita, negli amplificatori si può selezionare il reverse tra il canale destro e sinistro, per non parlare della presenza del circuito di equalizzazione (JA 7110, JA 300). Tra i registratori di audiocassette ci ha incuriosito l’RD-5500, costruito con una sofisticata ingegnerizzazione meccanica ed elettronica, in grado di alloggiare al suo interno la cassetta e di gestirla tramite spie e sensori.

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Particolare della componentistica di un Tape Deck Sanyo
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Il particolare vano cassetta della piastra RD-5500

Ricerca, design e genialità sono alla base di questo progetto, il cui risultato ha prodotto un apparecchio stilisticamente originale e dal suono “imbarazzatamente” brillante. Lo stesso deck fu commercializzato con il brand “Otto” mentre, con il marchio Grundig, fu prodotto il “gemello” RD-5600, del tutto simile al precedente ma privo dell’originale sistema di alloggiamento del nastro.

 

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L’RD-5500 accoglie al suo interno la cassetta, appositi led esterni hanno il compito di segnalare eventuali anomalie

I nostri test sono proseguiti con l’amplificatore DCA 611 e il tuner FMT 611UL, riportati “in vita” da Innokentiy Fateev, un noto pittore russo con la passione dell’Hi-Fi: “Non sono un tecnico ma mi piace studiare l’elettronica. Mi ha stupito la semplicità con cui è stato disegnato il circuito. Certo, già da qualche tempo i giapponesi avevano cominciato a semplificare i circuiti per tagliare i costi della mano d’opera, quindi l’introduzione dei moduli STK all’interno dell’ampli finale sostituivano i componenti discreti. Sui blog si trovano varie opinioni riguardo a come la qualità del suono sia migliorata o meno con queste modifiche, il fatto che l’ampli in questione sia arrivato fino ad oggi con i suoi STK originali funzionanti mi fa pensare che siano stati costruiti molto bene. Un’altra cosa che mi ha stupito è che, nonostante le condizioni nelle quali l’ho trovato (era messo male, l’ho comprato forse per pietà), dopo la pulizia dalla ruggine e dalla sporcizia, tutti le luci funzionavano! Su un blog americano ho letto un paio di storie di gente che ha trovato lo stesso apparecchio abbandonato per strada, in condizioni pietose e, con un po’ di lavoro, è riuscita a rimetterlo “in moto”; come dicono gli amici su audio karma: “… costruito come un carro armato”. Ho fatto alcune prove paragonando il suono con il mio Marantz 2270 (restaurato di recente con i condensatori nuovi) e con il Pioneer SX 780 e direi che il suono assomiglia più al Pioneer, che tende verso un suono frizzante, meno colorato del “caldo” Marantz, suono dinamico e pronto.”

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Sanyo DCA 611
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Sintonizzatore Sanyo FMT 611UL

E continua, “La canzone “Owner of a lonely heart” degli Yes, suonata con un DCA 611, è veramente un perfect match… Questa, comunque, è una questione di gusti, piccole sfumature. Rimane un amplificatore ampiamente sottovalutato, sconosciuto, che sicuramente meriterebbe un posto d’onore a fianco dei suoi competitori giapponesi”.

 

Continua… Il prossimo articolo prenderà in esame il design giapponese degli anni ’70 e ’80, la cui evoluzione si ispirò al movimento postmoderno italiano di Memphis e Studio Alchimia.

Per leggere la prima parte dell’inchiesta clicca qui.

Si ringraziano: Massimo Ambrosini [vedi], Lucio Cadeddu, Direttore della rivista “Tnt-Audio” [vedi]
Innokentiy Fateev [vedi].

L’amore che cambia (e l’amore che resta)

“Ritornerò da te con questo cielo in mano…” canta al Festival di Sanremo Giovanni Caccamo; poco dopo nello spazio televisivo dedicato alla pubblicità, lo spot dei Baci Perugina recita gli eterni versi di Prevert “i ragazzi che si amano”, eterna suggestione dello stato nascente. Romina Power e Albano cantano insieme perché la gente, che ne ha fatto il prototipo della coppia felice, non ne vuole sapere delle storie che li hanno portati in altre vite. Sul Corriere della Sera del 13 febbraio Silvia Avallone ripropone l’elogio della lunga durata dell’amore che accompagna la vita di chi invecchia insieme. Troppo facile parlare dell’amore appassionato, della sicurezza arrogante di un corpo capace di suscitare desiderio e, al contrario, della bellezza perduta.
L’eterna suggestione dell’amore, ben oltre la festa di San Valentino, alimenta il bisogno di continuità e di emozione, di riconoscimento e di rinnovamento: emozioni che parrebbero inconciliabili e che pure, ognuno, si illude di conciliare.
E ora c’è la rete: l’amore al tempo di Internet propone contatti (non solo virtuali, ovviamente) in pochi minuti utilizzando i vantaggi del mobile e della geolocalizzazione è possibile combinare incontri; moltissimi siti ormai propongono l’incontro dell’anima gemella, attraverso gli algoritmi che elaborano gusti, passioni, “qualità” dichiarate per offrire profili compatibili. La rete cambia tutto e nulla allo stesso tempo. Cambia le forme del contatto e del corteggiamento, la fonte delle gelosie, i modi di essere presenti anche a distanza, attraverso video e chat, non cambia le emozioni, la tensione verso la sicurezza, il bisogno di continuità, come le tentazioni di fuga.
Bisogna riconoscere che la parola amore riconduce ad unità (inevitabilmente banalizzando il tema) una larga varietà di sentimenti ugualmente importanti per la vita e che non possono essere interpretati con l’antinomia passione/solidarietà. Non vi è dubbio che l’amore è anche amicizia, che comporta la capacità di coltivare le relazioni, di prendersi cura, avere la pazienza dell’ascolto, guardare (ed essere guardati) con occhi benevoli e non giudicanti. Come dice Francesco Piccolo (Corriere della sera, 9 febbraio) amarsi vuol dire anche farsi compagnia in alcuni pomeriggi piovosi della domenica e desiderare di eliminare gli stessi concorrenti di Masterchef. Ma oggi, dopo la stigmatizzazione dell’amore liquido, dell’amore “usa e getta” (banale descrizione dell’aspirazione all’autenticità con cui gli individui hanno cercato di misurarsi), l’accento torna sull’amore “sentimentale”.
Il discorso sull’amore riflette lo spirito del tempo. Il discorso odierno sull’amore esalta la continuità, quella tenacemente costruita. Non a caso: questo tempo sollecita il bisogno di legami, già il lavoro è sufficientemente precario, che almeno l’immaginario emotivo sia alimentato da sentimenti di lunga durata! Anche il discorso sull’amore, così eterno e universale, è influenzato dal clima sociale e dal tempo della storia.

Maura Franchi è laureata in Sociologia e in Scienze dell’educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei consumi. Studia le scelte di consumo e i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network.
maura.franchi@gmail.com

IL FATTO
Il viaggio della nave italiana in fuga dalla Libia

Cielo nero sulla Libia. Mentre la nostra ambasciata a Tripoli sospende le attività e l’esodo italiano comincia (o meglio continua, perché era già iniziato e intensificato dopo gli eventi dell’hotel Corinthia dello scorso 27 gennaio), non possiamo che dare uno sguardo al mare. Quel mar Mediterraneo che è sempre stato la culla di tante civiltà, un mare magnum oggi diventato cimitero di barconi, con le sue rigogliose sponde terribilmente trasformate, infuocate e piene di disperati che cercano solo una via d’uscita. Questa partenza non è sicuramente paragonabile a quella storica degli anni Settanta, quando gli italiani furono cacciati da Gheddafi, o a quella del 2011, quando era scoppiata la guerra per rovesciarlo. Ma ogni volta che si lascia un Paese dove si è vissuto, incontrato tante persone uniche e conosciutone la storia, si va indietro con la memoria e un po’ ci si immedesima con quelle stesse sensazioni che tanti italiani avevano provato. Immaginiamo, quindi, che oggi sia un po’ come allora. Mentre la nave rientra, e, scortata, viaggia verso la Sicilia con tappa a Malta, si lasciano indietro i ricordi, le paure e il terrore provati sentendo spari di proiettili e urla concitate, intravedendo bandiere nere all’orizzonte. Quando si sentono i vetri tremare e si vedono fumo e camionette cariche di militari non si sa mai cosa attendersi, dove andare, dove scappare. Si pensa alla propria vita ma anche a quella di chi a fianco a te non avrà la possibilità di andarsene. Mentre tu sì, avrai qualcuno che penserà a te, che potrà portarti via da lì. Credo che quando si parte in questo modo, lasciando una vita alle spalle costruita con fatica e sacrificio (perché nell’esodo ci sono tante famiglie miste), si perde parte di sé, della propria storia, la propria speranza. In una Libia che brucia, con il califfato che avanza, non si può non pensare agli amici che si lasciano lì, ai giorni trascorsi a bere il tè, ai tramonti tripolini sul mare dorato, alle passeggiate nella Medina, alle case coloniali, alle belle moschee ricamate, al richiamo del muezzin che svegliava la mattina presto, a quel dolce rumore delle onde che lambivano spiagge oggi terrificate. Tanti italiani hanno vissuto queste sensazioni. Tanti le lasciano qui, ai loro amici, nella speranza di tornare a riprendersele, ma le porteranno anche con sé, per sempre.
La Libia è vicina, è nei nostri occhi, nei nostri ricordi, nei nostri cuori, nelle colonne di Leptis Magna che fanno ombra a pensieri di gioia, a ricordi di momenti spensierati trascorsi a passeggiare fra quelle rovine. In quelle stesse colonne che fanno ombra all’amore per quella terra, per quella storia che è anche la nostra, che richiamano gli imperatori che guardavano quegli stessi alberi che oggi, sotto il sole cocente, sono bruciati e arsi dal fuoco delle armi inclementi. La Libia è quei minareti che fanno ombra al colore della terra che tende le braccia al cielo, aspettando le stelle. Un giorno.
Nel 2012, la bandiera libica sventolava leggera, il popolo voleva solo libertà e democrazia. Si parlava di futuro, di progetti di ricostruzione, di cultura che avanzava. C’era speranza. Oggi si ha di nuovo paura, aldilà e al di qua di quelle coste del Mediterraneo che si colorano di nero. Il nero delle bandiere e della terribile morte che porta quel mare dove ci si butta per cercare di scappare lontano. Una preghiera intensa, allora, si levi al cielo, perché quel nero non prenda mai il sopravvento, perché l’uomo diventi Uomo, una buona volta, fermando una catastrofe che sembra imminente e inarrestabile. Perché torni a pensare e a sentire il profumo della terra e dei limoni del Mediterraneo.

LA RIFLESSIONE
Il viaggio della vita di Severgnini sbarca a teatro e porta speranza

Un lieve velo di ironia che fa riflettere e per una volta apre la mente alla speranza. Si è svolto venerdì 13 febbraio, nella splendida cornice di un affollatissimo Teatro Comunale “De Micheli” di Copparo, lo spettacolo La vita è un viaggio, con protagonisti Beppe Severgnini e Maria Isabella Rizi, le musiche originali dal vivo di Elisabetta Spada e la regia di Francesco Brandi.

Liberamente ispirato agli ultimi due libri di Severgnini (“Italiani di domani” e l’omonimo “La vita è un viaggio”), lo spettacolo è il racconto di una notte passata all’aeroporto di Lisbona da un uomo di mezz’età (Beppe Severgnini) e da Marta (Maria Isabella Rizi), una ragazza ventottenne, ambedue in attesa della fine dello sciopero che impedisce ad entrambi di partire per le rispettive destinazioni: lui in viaggio verso Boston a tenere conferenze; lei verso il Brasile dove, dopo aver abbandonato la carriera di attrice poiché poco riconosciuta, si è decisa ad aprire un chiringuito insieme al fidanzato surfista. Sarà proprio una litigiosa chiamata in lingua inglese tra quest’ultimo e Marta ad attirare l’attenzione dell’uomo, il quale non solo non si fa alcun problema a bombardare la scontrosa ragazza di domande, ma si dimostra inoltre incurante del suo disinteresse e della sua chiusura nell’instaurare un qualsiasi dialogo. Ecco però che questo insolito incontro, nel bel mezzo della notte, in un aeroporto apparentemente vuoto, diviene un pretesto per i due di conoscersi meglio e di interrogarsi sulle rispettive vite. Le prime interminabili e a volte anche presuntuose domande dell’uomo serviranno alla ragazza per ripensare bene al suo passato, alle sue scelte, al suo futuro. Ma serviranno nel medesimo modo all’uomo, perché non è poi così scontato che un divulgatore di innumerevoli consigli di vita sia poi così sicuro di ciò che vorrà fare da “ancora più grande”. Alla fine quindi i viaggi dei due, probabilmente, non saranno più gli stessi.

Beppe Severgnini sceglie il teatro per dare continuità al successo dei suoi ultimi libri. Uno spettacolo leggero ma estremamente profondo, interpretato dai due attori con quel godibilissimo filo d’ironia che rende il tutto veramente piacevole da guardare e, allo stesso tempo, un pretesto per pensare e riflettere. Ed è così che dubbi, perplessità, debolezze, arrabbiature sono i tristi sentimenti che emergono dalle risposte alle tartassanti domande dell’uomo da parte della ragazza, la quale si trova ad incarnare gli stessi sentimenti di un’intera generazione italiana, rimasta senza fiducia nel proprio paese e pronta, se necessario, appunto, a partire. Il tutto impreziosito dalle musiche di Elisabetta Spada (nei panni di una “terza incomoda” passeggera, anch’essa in attesa) che intervallano lo spettacolo scandendone i vari capitoli.

Seguo spesso Severgnini, leggo i suoi articoli ed il blog che tiene da tempo per il Corriere della Sera, i suoi libri, e ho partecipato a vari eventi che lo hanno portato in giro nei vari festival di tutta Italia. E come spesso avviene, anche questa volta ma nell’insolita veste di attore teatrale, è riuscito ad entusiasmarmi ma soprattutto a suscitare in me qualcosa di speciale: speranza. E chi conosce Severgnini sa bene che in Italia sono pochi i personaggi noti così attenti alla questione giovanile del nostro Paese e, ancora più importante, pochi sono quelli che riescono a fare dell’ottimismo un vero e proprio marchio di fabbrica. Esattamente come nei suoi libri, Severgnini anche in questo spettacolo mette i giovani al centro, senza preoccuparsi di apparire presuntuoso ed essere etichettato come il solito borioso adulto saccente. Al contrario, dall’alto della sua esperienza, l’unico suo intento è trasferire i suoi consigli (frutto di una vita spesa tra molti viaggi in giro per il mondo e la scrittura) ai giovani d’oggi, sempre più demoralizzati e senza alcuno stimolo, senza prospettive, al punto di intraprendere un viaggio per non si sa bene dove e nemmeno veramente il perché; l’unico pensiero è andarsene. Ecco invece che il noto giornalista ci ferma, ci parla e si preoccupa di farci pensare più intensamente a noi stessi e alle nostre capacità, sottolineando il fatto che soprattutto noi giovani italiani abbiamo potenzialità da non sprecare per nessuna ragione; potenzialità ben più forti delle difficili barriere che la triste situazione del giorno d’oggi ci mette davanti. Le regole per riuscirci in fondo sono poche ma fondamentali: tenacia nell’inseguire i nostri obiettivi, tempismo perché di treni ne passano molti e la difficoltà sta nel prenderli, ma soprattutto la ricerca profonda del nostro vero talento, quell’elemento che ci contraddistingue e incanala in quello che siamo veramente portati a fare. Il tutto senza screditare l’importanza del viaggiare e del conoscere il mondo, perché a detta sua solo chi viaggia è in grado di superare quel sentimento di intolleranza che dilaga in quantità sempre maggiori, oltre al non scordarsi mai che la conoscenza del mondo che ci circonda è la prerogativa fondamentale per viverci bene. Quello che importa è non dimenticarsi della propria terra e, se possibile, tornarci. Tornare in questa Italia per ricostruirla e riportarla in alto tramite le sue eccellenze e le sue bellezze delle quali proprio noi giovani dobbiamo essere portabandiera.

Ecco quindi quel bellissimo concetto, oggi quasi scomparso, di nome speranza. Ascolto Severgnini e mi accorgo sempre di più come a noi servano più personalità come la sua, in grado cioè di parlare apertamente di un futuro migliore ma per davvero, senza slogan o manifesti ma solamente ritornando a farci credere in noi stessi. E ancora, qualcuno in grado di sapersi aprire ad una pura autocritica, capace cioè di ammonire la generazione degli “anta” circa il fatto che “arrivati ad una certa età, non saper diffondere consigli ai più giovani è da cretini più che da irresponsabili”.
Impariamo tutti quindi, grandi e meno grandi, da questi preziosissimi consigli; impariamo a valorizzare nel modo giusto noi stessi; impariamo a (ri)valorizzare la nostra bellissima Italia.

La metà dell’amore

Da una separazione imposta, da uno strappo nasce la ricerca di unità e ricomposizione del tutto. Lo sosteneva anche Platone, nel Simposio, che le due metà cercheranno sempre quell’interezza che chiamiamo amore. Questo spasmo verso una cosa che è stata negata, lo vive la donna protagonista del racconto “L’uomo seme” di Violette Ahilaud, edito da Playground e che ha ricevuto numerose segnalazioni anche sulla stampa nazionale.
Lei, privata del suo uomo, rimane monca, le si azzera la proiezione di futuro che con lui poteva avere. Chiamati alle armi, gli uomini del villaggio se ne vanno, l’amore delle loro donne diventa dolore e poi odio, l’odio dell’impotenza. Senza uomini, la vita non può generare altra vita, che destino potrà mai esserci davanti?
Le donne del villaggio sono compatte, devono essere pronte se mai dovesse, un giorno, arrivare un uomo che sarà l’uomo seme, con nessun’altra funzione che inseminarle, loro così “gravide di dolore”. Come delle Ecclesiazuse, ma senza il comico, le donne governano il villaggio, stabiliscono regole, pianificano l’arrivo dell’uomo seme: se lo divideranno, niente amore né sentimenti, solo un atto meccanico, uno scambio per non scomparire.
Lei è la prima donna che lo incontra e, quindi, avrà il diritto di essere la prima anche di fronte alle altre, sarà come Eva, con un diritto di precedenza, tutte le altre dopo.
L’uomo seme si chiama Jean, assolve il suo compito, ma con lei, solo con lei, quell’atavica ricerca di completezza non può rimanere fine a se stessa, l’amore è più forte e s’annida, assieme al seme. La felicità si mette dentro alla disgrazia, una felicità spuria perché genera in lei turbamento e senso di colpa: l’amore non può essere cristallizzato verso Martin che non c’è più e chissà se tornerà dal fronte, l’amore chiama ed è chiamato, va verso l’uomo seme.
Jean ha la capacità di amare, i suoi gesti lo confermano, Jean legge e con lei parla, tra loro nasce una condivisione complice che non si spezza.
Ma la vita gira, i cammini proseguono e la felicità vissuta non si dimentica.

“L’uomo seme”, Violette Ahilaud, Playground, Roma, 2014, pp. 64

Ferraraitalia ha di recente pubblicato un’intervista al fondatore e direttore editoriale della casa editrice Playground [vedi] che racconta anche la scoperta del manoscritto francese: Violette Ailhaud (1835-1925) racconta una storia vera vissuta in prima persona nella seconda metà dell’800; scrive il romanzo all’età di 84 anni, nel 1919, che viene pubblicato in Francia postumo nel 1950.

SETTIMO GIORNO
Follia e crudeltà
(aspettando un altro Eliogabalo)

ELIOGABALO – Eliogabalo (o Elagabalo, o Marco Aurelio Antonino, o Vario Avito Bassiano), di nobile famiglia siriana, cugino di Caracalla, divenne imperatore di Roma nel 218. Aveva 14 anni, mi pare sia da ricordare come il più giovane imperatore dell’Urbe. Troppo giovane. Sua madre lo guidava bene e, tutto sommato, oggi possiamo dire in modo non del tutto convenzionale, visto che il ragazzino è stato, nella storia del nostro Paese, il governante più democratico tra quanti lo avevano preceduto e quanti lo avrebbero seguito. Quando, poverino, lo innalzarono alla massima carica dell’impero più potente del mondo erano in piena effervescenza le lotte per il potere tra Occidente e Oriente, ma lui pensò che fosse suo dovere togliere un po’ di boria lussureggiante ai romani potenti, boria e danaro, per riequilibrare la società e donare alle masse popolari qualcosa del maltolto ai signori. Ma non si limitò soltanto a questo: il ragazzino imperatore pensava in grande, pensava addirittura a uno stato precomunista, limando la proprietà privata e rafforzando quella statale, insomma cercando di realizzare, sia pure con forme paternalistiche, un proto socialismo di stato, provvidenze sempre crescenti (humiliores) per le classi meno abbienti, mentre l’imprenditoriato e la grande proprietà privata venivano sottoposti a una pesante pressione fiscale. Una cosa del genere in Italia? Figuriamoci! Il ragazzino, dopo quattro anni di follie sociali venne ucciso con sua madre, sì che non fosse più possibile per lei mettere al mondo un altro sciamannato. E così è stato fino a oggi, se un dittatore populista c’è stato a Roma in poco tempo si è trasformato in monarchico baciapile. Crediamo nella democrazia? Allora informiamoci sull’etimologia della parola: demos, popolo, e kratia, potere, potere al popolo. Ma quando mai?

FOIBE – Giustamente è stata celebrata giorni fa una giornata della memoria dedicata alla tragedia delle foibe, quei pozzi carsici entro i quali venivano gettati, vivi o morti, i nemici, ma non soltanto gli italiani, come una storia distorta malandrina ci insegna: gli assassini non sono stati soltanto gli slavi finito il secondo conflitto mondiale, le foibe, intese come sepolcri, le abbiamo inventate noi italiani alla fine della prima guerra mondiale, quando la follia fascista ci portò a compiere dei massacri mai visti. Bisognava “italianizzare” le popolazioni slave, costringerle a parlare italiano, a cambiare il proprio nome, a pensare italiano, altrimenti… giù nelle foibe. Un poetastro triestino di sana fede fascista coniò anche il verbo da usare in questi casi: “infoibare”, verbo che è rimasto nel linguaggio locale. Non meravigliamoci, gli italiani ne hanno combinate di tutti i colori là dove pensavamo che Dio ci avesse fatto padroni, chi non crede vada a leggersi la storia delle nostre colonie, a cui molto modestamente ho contribuito avendo raccolto in Somalia, in Etiopia, in Eritrea le testimonianze dei vecchi, gli ultimi ad aver subìto la nostra indecorosa ferocia (non la racconto qui), ferocia che abbiamo sperimentato dovunque siamo arrivati. L’abbiamo esportata in America, abbiamo insegnato come si fa a “incaprettare”, verbo che i dizionari della nostra bellissima lingua colpevolmente si dimenticano di inserire tra le loro voci, incaprettare significa prendere un uomo nostro nemico, legarlo mani e piedi dietro la schiena, tagliargli i testicoli, ficcarglieli in bocca e farlo morire così; oppure fare al nostro nemico il piedistallo, cioè mettere il prigioniero ritto con i piedi dentro un secchio di calce, lasciare che la calce si solidifichi e poi gettare questa statua umana in mare; oppure immergere, sempre il nostro prigioniero, dentro una vasca di acido solforico, lentamente, molto, molto lentamente… la fantasia italiana non conosce limiti. Gli jiadisti? Dilettanti, la mafia non li prenderebbe mai in considerazione. Noi siamo i veri maestri della crudeltà più spietata. Viva l’Italia!

Leggendario Arnoldo Foà nel ‘Novecento’ di Baricco

STANDING OVATION: I PIU’ ACCLAMATI SPETTACOLI TEATRALI DEL XXI SECOLO
“Novecento” di Alessandro Baricco, con Arnoldo Foà, Teatro Comunale di Ferrara, dal 12 al 14 novembre 2004

Monologo di enorme successo, “Novecento” di Alessandro Baricco, interpretato dal nostro celebre e illustre concittadino Arnoldo Foà. Com’è noto, grazie anche all’adattamento per il grande schermo, dal titolo “La leggenda del pianista sull’oceano” ricavatone da Giuseppe Tornatore nel 1998, la vicenda narra di un suggestivo personaggio, che ha nome appunto Novecento, vissuto senza mai scendere a terra sul piroscafo Virginian, suonando il pianoforte e guadagnandosi la leggendaria fama di più grande pianista del mondo. Il protagonista ripercorre la sua straordinaria vita e ne affronta l’epilogo con stoica determinazione e soprattutto con incrollabile fedeltà e coerenza.
L’autore, il quarantacinquenne torinese Alessandro Baricco, scrittore affermatissimo ed esperto musicologo, ha scritto vari romanzi di largo successo, fra cui “Castelli di rabbia”, “Oceano mare” e “Seta”. Ma è con “Novecento” che ha colto il successo internazionale: tradotto in tutta Europa nonché in Giappone, Brasile, Israele, il testo ha fatto breccia nella sensibilità di innumerevoli registi e attori di teatro e di cinema, i quali lo hanno via via adattato per la radio, per il cinema e messo in scena, oltre che in Italia, in Francia, Spagna, Belgio, Svezia, Russia, Canada, Brasile, Giappone, Argentina, Inghilterra e negli Stati Uniti.
L’interprete, Arnoldo Foà, nato a Ferrara da famiglia di origine ebraica, è una delle voci più importanti del teatro italiano. Ha lavorato con “mostri sacri” come Cervi, Pagnani, Stoppa, Ninchi, Orson Welles, è stato diretto fra gli altri da Majano, Visconti, Strelher, Montaldo, si è cimentato anche nella regia di opere teatrali e liriche. Il suo nome è legato a famosi sceneggiati televisivi: “La freccia nera”, “Giamburrasca”, “David Copperfield”, ecc. Foà è inoltre scrittore, pittore, scultore, giornalista.

NOTA A MARGINE Informazione e violenza alle donne, un rapporto a ‘Doppio taglio’

E’ con alcune riflessioni su pagine e titoli di giornali usciti all’indomani dell’omicidio dell’attrice Marie Trintignant, colpita con 27 pugni letali dal compagno Bertrand Cantat, leader della rock band Noire Désir, che si apre lo spettacolo “Doppio Taglio” di Marina Senesi, attrice e autrice dell’affresco sul rapporto tra informazione e violenza sulle donne. Mai titolo di un monologo fu più azzeccato: alle ferite spesso letali, si aggiungono quelle provocate da notizie il cui linguaggio è irrispettoso delle vittime. Esiste un cliché, un pensiero comune, un modus operandi talmente radicato da non risparmiare nessuno e niente, neppure l’obiettività dei giornalisti. La faccenda, purtroppo, è culturale.

Solo analizzando nel dettaglio gli articoli, smontandoli un pezzo alla volta come ha fatto la ricercatrice Cristina Gamberi il cui lavoro ha ispirato la Senesi, emerge con chiarezza la “violenza” delle parole. Ci sono pezzi di cronaca più taglienti di un coltello, sprofondarli insieme con tutto il giornale in una bacinella d’acqua come ha fatto in scena la Senesi per trasformarli in cartapesta buona per le maschere, risulta persino un gesto generoso. Certi virgolettati, alcuni sommari sono come rifiuti tossici, avvelenano l’anima di chi resta, infangano la memoria e non aiutano un cambiamento culturale doveroso. L’omicidio Trintignant è un caso emblematico. Marie, è stato scritto, aveva una vita sentimentale intensa e tre figli con compagni diversi. E allora? Il giudizio è implicito: se l’è cercata. Sui piatti della bilancia mediatica ci sono una donna assassinata e un cantante rock di successo, politicamente impegnato, la cui carriera, dice la stampa, viene travolta da un imperdonabile errore. Un errore replicato 27 volte: una contraddizione in termini.

Doppio Taglio prosegue analizzando tra gli omicidi quello di Barbara Cicioni per il quale è stato condannato il marito Roberto Spaccino. Quest’ultimo durante il processo fu descritto come una persona stimata, un grande lavoratore al quale qualche volta scappava la mano, ma sua moglie in ospedale, dichiarò, non c’era mai finita. Come dire, botte ma non troppo, cose sopportabili per amor di famiglia.
Al momento della morte Barbara era incinta di otto mesi e il giudice, racconta la Senesi, dispose l’esame del Dna del feto perché il marito sospettava fosse frutto di un tradimento. Se così fosse stato, ma non era, si potevano creare le basi per una possibile attenuante all’assassinio. Attenuante? Il peggio poi sta in due passaggi scoraggianti: la notizia della morte di Barbara Cicioni tiene le prime pagine solo fino a quando il delitto sembra essere stato opera di una banda di stranieri. Fugati i dubbi di un’emergenza sociale, scivola nelle retrovie; infine il nome della vittima scompare per lasciar posto alle istanze dei genitori e a quelle dell’assassino a cui si impediva di incontrare i figli in carcere.

Esempi di scena, ma purtroppo realtà incarnate da parole e foto d’accompagnamento agli articoli, immagini dalle quali non compare mai un “lui” fatta eccezione per qualche particolare, un pugno, un braccio alzato, ma si vede sempre una “lei” massacrata, impaurita, arresa. Forse è arrivato il momento di cambiare registro, di capovolgere la situazione, di studiare il fenomeno della violenza sulle donne, di usare con consapevolezza i termini femminicidio (sociologico) e femmicidio (criminale). E’ il minimo. Ed è un po’ questo il messaggio di Doppio Taglio, andato in scena grazie a teatro Ferrara Off, UDI, Centro Donna Giustizia insieme all’Assessorato alle Pari Opportunità. Lo spettacolo, accreditato dall’Ordine del Giornalisti dell’Emilia-Romagna nell’ambito della formazione professionale obbligatoria, è stato seguito da un dibattito moderato dalla giornalista di Telestense Alexandra Boeru nel quale sono intervenute la ricercatrice Cristina Gamberi, Paola Castagnotto, presidentessa del Centro Donna Giustizia e Stefania Guglielmi di Udi Ferrara. L’incontro ha avuto il merito di aprire una riflessione sul ruolo e linguaggio dell’informazione rispetto a un fenomeno ben lontano dall’essere sconfitto anche nella nostra regione.

il dibattito dopo lo spettacolo Doppio Taglio (foto di Giorgia Mazzotti)
il dibattito dopo lo spettacolo Doppio Taglio (foto di Giorgia Mazzotti)
il dibattito dopo lo spettacolo Doppio Taglio (foto di Giorgia Mazzotti)
il dibattito dopo lo spettacolo Doppio Taglio (foto di Giorgia Mazzotti)
il dibattito dopo lo spettacolo Doppio Taglio (foto di Giorgia Mazzotti)
il dibattito dopo lo spettacolo Doppio Taglio (foto di Giorgia Mazzotti)

IL FATTO
L’inchiesta sul sisma: il ciclo delle macerie, dove è facile nascondere i ‘cadaveri’

“Fra i vari personaggi, mi è capitato di incrociare anche Bianchini e la notizia del suo arresto a dir la verità non mi ha particolarmente sorpreso”. Augusto Bianchini è l’imprenditore centese di recente finito in manette a seguito dell’inchiesta sul terremoto in Emilia del 2012. Nel tessuto regionale la sua azienda, che ha sede a San Felice sul Panaro, è davvero un pezzo forte del settore, con 15 milioni di fatturato. Un paio di settimane fa, il 28 gennaio, a seguito degli sviluppi dell’inchiesta ‘Aemilia’ che ha portato al fermo di 117 persone, è finito in carcere il patron, con l’accusa di smaltimento illecito di amianto nelle zone terremotate.
“Era un tipo chiacchierato, con frequentazioni politiche eccellenti nell’area centrista e solidi appoggi. Gli appalti li vinceva spesso. La sua azienda si occupa di strade e possiede cave”. A ricordarlo è Tito Cuoghi, un ex sindacalista che dall’inizio degli anni Novanta opera nel settore ambiente e si occupa attivamente del riciclo di macerie.

La Bianchini costruzioni era stata ampiamente citata in un articolo sull’Espresso di Giovanni Tizian già nel luglio 2013 [leggi] in cui si faceva riferimento all’iniziativa della Procura di Modena che aveva escluso l’impresa dagli appalti con un’interdittiva antimafia. Scrive il giornalista, che da anni vive sotto scorta per il suo impegno professionale contro la malavita organizzata: “Ha trasportato più di mille tonnellate di detriti nel dopo terremoto dell’Emilia. E’ protagonista del maxi appalto Expo 2015. Ora però nero su bianco ci sono rapporti sospetti, i nomi dei dipendenti vicini alla ‘ndrangheta, le accuse di smaltimenti illegali di amianto nell’area del cratere sismico”. Elementi che già un anno e mezzo fa avevano determinato il primo intervento restrittivo dei magistrati.

“Fra le macerie è facile nascondere i cadaveri – afferma con efficace metafora Cuoghi –. E i cadaveri – chiarisce -sono i rifiuti tossici e inquinanti”. E allora seguiamolo nel suo ragionamento, per scoprire questo ‘mondo delle macerie’ sconosciuto ai più ma ben noto alle cosche malavitose.

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Tito Cuoghi

“La prassi di riutilizzare gli scarti dell’edilizia e i detriti delle demolizioni, in Germania, Olanda e Francia è consolidata da tempo. In Italia è stata avviata all’inizio degli anni Novanta per impulso di un lungimirante imprenditore emiliano del settore calcestruzzi, Angelo Toschi, che si pose un problema elementare, ma sino ad allora irrisolto: perché con una mano continuare a scavare il letto dei fiumi per recuperare ghiaia (con i costi e i rischi ambientali tragicamente evidenziati dalle cronache recenti poiché – precisa Cuoghi – l’alterazione dell’alveo fluviale è motivo di squilibrio del territorio) e con l’altra creare discariche da riempire con i detriti?”. Verificata la possibilità di riutilizzare le macerie e farne una componente dell’impasto usato in edilizia, a Sassuolo brevettò un impianto di trasformazione, il primo in Italia, dando avvio al ‘progetto Rose’ (acronimo di Recupero omegeneizzato scarti edilizia), che aveva per simbolo un cumulo di detriti dai quali spuntavano i fiori. “La mia collaborazione con Toschi e il mio impegno nel settore inizia allora. Dopo tanti anni nel sindacato avevo voglia di nuova esperienze, del comparto edile in Fillea mi ero appassionato proprio di cave e così accettai la proposta e iniziai a girare l’Italia per trovare appoggi al progetto che prevedeva il reimpiego degli scarti da demolizioni edili. Nel ’97 abbiamo creato Anpar, l’Associazione dei produttori di aggregati riciclati che portò avanti l’impegno di cui ero il responsabile delle relazioni esterne. E successivamente il Quasco, centro scientifico regionale. La Toscana è stata fra le prime regioni a sviluppare un serio impegno..

Il problema iniziale era la normativa. Per legno, plastica, rifiuti urbani esistevano già i protocolli, per le macerie no. “L’impasto prodotto viene proposto in tutte le pezzature. C’è un accurato trattamento tecnologico che rende il composto simili ai residui fluviali. A un occhio profano il composto prodotto da un impianto serio si confonde con sabbia e ghiaia naturali”.
“Fin da subito trovammo una valida sponda nel ministro all’Ambiente Edo Ronchi. La legge approvata allora è ancora sostanzialmente invariata e prevede l’impiego nei sottofondi stradali e l’obbligo di utilizzo di un 30% di materiali riciclati nelle opere di costruzione. “Si potrebbe arrivare al 40%, non di più però perché esigenze di stabilità impongono una predominante componente di calcestruzzo. Ma il problema vero è il fatto che la norma è spesso disattesa…”.
Al solito, si fanno le leggi e le si aggirano. “E’ molto semplice eludere la norma, spesso ‘banalmente’ non viene richiamata nei capitolati di gara. Alcuni enti pubblici si giustificano spiegando che nei rispettivi territori non ci sono impianti di riciclaggio che forniscano adeguate garanzie di qualità. Ma in molti casi si tratta di alibi”. Dietro ci sono gli interessi dei cavatori, un mercato che reclama e funzionari compiacenti. “E’ successo di recente anche a Ferrara, ne ho discusso con l’assessore Modonesi che alla fine ha dovuto prendere atto che alcuni suoi tecnici non indicavano come condizione l’impiego della quota di materiali di riciclo”.

Il settore fa evidentemente gola a chi ha materiali inquinanti da smaltire. I rifiuti tossici vanno trattati con speciali precauzioni e il loro smaltimento ha costi significativi. E’ facile mescolare ai detriti anche pannelli di amianto (come è successo in Emilia) o altri inquinanti. Tanto poi si macina e tutto si confonde. “Facile – commenta Cuoghi – se non ci sono adeguati controlli. Il paradosso è che gli enti preposti sono tanti: Arpa, Nos, Province e Guardia di finanza. Forse troppi”. Tutti responsabili, nessun responsabile si potrebbe parafrasare. “Competenze ripartite, ciascuno un ambito e talvolta viene a mancare l’indispensabile visione d’insieme. Alla fin fine quando un compito è condiviso non è sempre chiaro chi lo debba svolgere ed è agevole a posteriori sottrarsi agli addebiti”.

Ma veniamo specificamente a quel che è capitato in regione dopo il terremoto.

“In Emilia la vicenda era nata male con l’assurda decisione di Errani che, in veste di commissario straordinario per il sisma, destinò lo stoccaggio temporaneo dei rifiuti a depositi di aziende compartecipate come Hera, che non avevano alcuna specifica preparazione nel trattamento delle macerie e che si sono quindi affidate a terzi attraverso meccanismi di subappalto, che il decreto consentiva senza neppure prevedere le garanzie minime, come l’iscrizione al registro delle imprese qualificate al trattamento”. Questo passaggio di mani ha generato una catena non virtuosa in cui i ‘furbi’ si sono facilmente insinuati e le cosche hanno potuto mettere a realizzo le loro strategie. “Si sarebbero dovuti fare piani concertati per individuare aziende competenti. Così invece un buon progetto, che prevedeva il riutilizzo totale delle macerie del terremoto, si è trasformato in una mina. Anzi, in un boomerang. Perché ora, di fronte al rischio che altri inquinanti abbiano corrotto le macerie non ancora smaltite e all’impossibilità di analizzare tutto, sarà impossibile percorrere il sentiero virtuoso del riutilizzo che era stato definito: non sappiamo cosa ci sia finito in mezzo”. Quel che invece si sa per certo è che i cortili scolastici di due istituti di Mirandola e Concordia sul Secchia sono stati realizzati con materiali di recupero inquinati da amianto.

Il problema non è nuovo per questo delicato comparto. “In giro c’è molta schifezza, scarsa qualità, residui nocivi. Così è fra le macerie, come fra i terreni di riporto, per questo la movimentazione terre fa gola alla mafia. Non servono grossi investimenti e sono un facile ‘nascondiglio’. Gli emissari delle cosche avvicina i piccoli operatori del settore, li tentano, li lusingano e così ottengono la complicità di tanti”.

“Certo è anche che se si rispettano le leggi i vantaggi del recupero macerie sono molteplici. Si evita di scavare il letto dei fiumi e si riducono i danni ambientali e il consumo di territorio, si utilizzano materiali che diversamente andrebbero smaltiti, creando appositamente discariche per lo stoccaggio, si determinano risparmi economici per le aziende. Con i riciclati da macerie si integra il calcestruzzo, si realizzano sottofondi stradali, ripristini ambientali, si riempiono le cave esauste…”.

Anche quest’anno Tito Cuoghi, che fra le varie e ricche esperienze maturate ha avuto la possibilità di conoscere e collaborare anche con Don Ciotti per i progetti di Libera in Sicilia, avrà la responsabilità organizzativa di ‘Inertia’ la fiera nazionale del settore rifiuti inerti e aggregati che si tiene a Ferrara all’interno di RemTech Expo. “Sarà come sempre un’ottima occasione di confronto e verifica fra operatori, legislatori, mondo accademico e scientifico”.

L’APPUNTAMENTO
Ferrara “vulnerabile”: lunedì in biblioteca si parla del rischio-mafia

La notizia è sconcertante e merita di essere indagata. Recenti dati raccolti dall’Osservatorio sulla legalità di Unioncamere Emilia-Romagna e Universitas Mercatorum relativi allo sviluppo del fenomeno mafioso segnalano a Ferrara un allarmante potenziale incremento delle infiltrazioni e un indice di vulnerabilità che colloca la nostra città al secondo posto in regione e al quinto a livello nazionale. Ferrara, dunque, sorprendentemente permeabile. E’ mai possibile? E se è così perché non ce ne siamo accorti?
Nella ricerca si parla di “vulnerabilità” e di “rischio infiltrazione”. Ferrara risulterebbe ai vertici della poco desiderabile classifica nazionale secondo questi parametri, che indicano però una potenzialità, dunque un rischio, più che una realtà. Un rischio però da considerare con la massima attenzione. Ieri al riguardo abbiamo pubblicato un’intervista al professor Mazzitelli della Sapienza di Roma che ha curato la ricerca in questione [leggi l’intervista, leggi la ricerca].

I dati presentati e la realtà tratteggiata sollevano altri interrogativi. Cosa significa mafia oggi? Quali sono le modalità operative di un’organizzazione criminosa di stampo mafioso, in quale maniera penetra e si muove nel territorio, quali legami stipula e su quali connivenze fa leva?

A tali domande cercheremo risposta lunedì alle 17, alla sala Agnelli della biblioteca Ariostea, nell’ambito del proprio ciclo di incontri dal titolo “Chiavi di lettura – opinioni a confronto sull’attualità”. Ferraraitalia propone infatti un riflessione su questi temi, stimolata da autorevoli esperti, nella quale si alterneranno suggestioni narrative e testimonianze dirette.
Interverranno il sociologo ferrarese Federico Varese (docente alla Oxford University, fra i più autorevoli studiosi di criminalità di stampo mafioso a livello internazionale), Andrea Mazzitelli (docente all’Universitas Mercatorum e autore della citata ricerca di Unioncamere), il comandante della Guardia di Finanza di Pordenone Fulvio Bernabei (per otto anni al vertice della GdF di Ferrara), Tito Cuoghi esperto di eco-mafie e l’avvocato Donato La Muscatella referente di Libera Ferrara.

LA CURIOSITA’
Dolci regali del cuore per tutte le bambine del mondo

E’ San Valentino e noi, amanti del rosa, abbiamo trovato una chicca. Ne ha parlato anche Marie Claire, in rete girano immagini delicate che invogliano a saperne di più. Edizione limitata, dunque, per alcune belle e leziose scatole di latta piene di biscotti, qualcosa di veramente dolce in una sorta di valigetta che potrebbe contenere sogni o cartoline. A mettersi alla prova è, ancora una volta, la famosa stilista parigina Chantal Thomass, nota per le sue linee d’intimo che si trovano nelle eleganti boutique di Rue de Faubourg de Saint Honoré o di altre splendide città come Roma. Chantal, regina del fashion, ha un tocco leggero e magico, perché trasforma in delizia ogni cosa che passa nella sua mente e fra le sue mani. I biscotti, poi, sono dolci per loro stessa natura, pronti a scandire i momenti della giornata. Possono accoglierci a colazione ma anche a merenda, di fronte a un tè con le amiche, in una pasticceria profumata o in un caffè d’altri tempi. Adatti a un Caffè Greco, di via Condotti, uno dei miei preferiti, ma non solo, ovviamente.
Chantal, donna-mamma-nonna, per il terzo anno consecutivo, ha collaborato alla realizzazione delle scatole di latta dei biscotti Delacre, come direttore artistico, e tutto per sostenere l’associazione Toutes à l’ècole, impegnata nell’istruzione delle bambine nel mondo (e, in particolare, in Cambogia), alla quale verrà donato il ricavato della vendita delle 150.000 scatole a disposizione, un totale di circa 75.000 euro. La stilista ha immaginato una collezione “viaggi”, quasi a voler trasportare il gusto dei golosi in giro per il mondo. Tre diverse edizioni da collezione: una con Parigi sulla scena (e un’architettura stile Versailles), una dedicata al Taj Majal, e, l’ultima, pensata per Shangai. Vi è poi una seconda collezione, dedicata al tema del segreto. Il tutto in bel una rosa “ultra girly”.
Quando la dolcezza è sinonimo di bellezza e solidarietà. Perché dunque non regalarne…

Sito dell’associazione “Toutes à l’ècole”, fondata da, Tina Kieffer [vedi]

Il violinista sublime
e l’impareggiabile bellezza
dell’arte ‘live’

Entra con l’aspetto di un ragazzetto svagato: camicia blu, gilet grigio, calzoni neri come usano ora, larghi fino al ginocchio, poi fasciati. Una cintura di stoffa amaranto e grigio li tiene su. Il lato B è un po’ callipigio e la folta capigliatura nasconde, quasi, due occhi che al momento in cui l’orchestra attacca si chiudono come in stato di ipnosi, poi si spalancano: stralunati. Tiene il suo Stradivari Huberman del 1713 come fosse un’arma che punta ora sull’orchestra ora verso il pubblico. Si chiama Joshua Bell ed è tra i violinisti più celebri del mondo. A 17 anni suona con Muti. Ora ne ha 47 ed è direttore musicale dell’Academy of St Martin in the Fields.
Suona come un ragazzo: un po’ “strapazzone” un po’ trasognato. Nel viso dotato di una mobilità estrema passano nuovole e sole, calma e irrequietezza, guerra e pace.
Ero andato per sentire Bichkov, il direttore inafferrabile ma, come spesso succede, rinuncia e lo sostituisce Krivine francese di padre russo e madre polacca, molto ricamatore che usa le mani come manipolasse la pasta mentre la Chamber Orchestra attacca il concerto per violino di Brahms. Ma dopo Bell capisco che quello che sto sentendo è unico e irripetibile.
Questo per rimarcare che nella età della riproduzione nulla può sostituire un concerto dal vivo. La gestualità, l’attenzione, gli umori corporei tra il sudore e gli sputacchi necessari dei suonatori degli strumenti a fiato, l’espressione, le ‘mises’ delle concertiste creano l’esecuzione che non potrà mai esser uguale, sera dopo sera, ripetuta innumerevoli volte e sempre diversa. La sto ascoltando in disco mentre scrivo con lo stesso violonista. È un’altra cosa.
Una bellissima violoncellista, esile e pallida siede sull’orlo estremo della seggiola. M’immagino che possa cadere da un momento all’altro nel finale clamoroso. Ma non ha più corpo sembra puro spirito. Un contrabassista muove la testa come una preghiera recitata in Sinagoga, un pacioso con aria severa suona la viola. Dai frac che rivelano l’usura escono calzini corti. Chi ha scarpe di vernice, chi sportive. Un ombra di barba copre alcune guance; altre sono perfettamente rasate. Sembrano un poco spaesati poi il frullo delle mani del direttore propone più che impone un’altra dimensione. E la bellezza non ha più ostacoli. Dimentichi tutto. Anche di trattenere un colpetto di tosse. Sei nello spazio e nel tempo della musica. E sei felice.
La mattina seguente prendo la freccia per Firenze. Apro il giornale e distrattamente l’occhio è condotto a guardare l’abbigliamento maschile della prossima stagione. Alcuni modelli sono vestiti come il geniale “strapazzone”; altri con il viso enfaticamente atteggiato a disprezzo, secondo la cultura modaiola, evocano la sublime battuta di Fantozzi all’ennesima replica della Corazzata Potëmkin: «è una boiata pazzesca». Poi leggo l’umiliazione a cui la cultura sembra doversi piegare a confronto con i diritti e le prepotenze del fattore economico. “L’annunciazione” di Leonardo custodita agli Uffizi, pur dichiarata dal direttore Natali “inamovibile” deve andare all’Expo. Rimango basito e m’immagino come il grande violinista si comporterebbe dove non ha voglia né requisiti d’andare. O ancor peggio se la stessa richiesta fosse stata fatta alla National Gallery di Washington e non soddisfacesse per ragioni serie il giudizio del direttore. La provincialità di una simile forzatura ben dimostra il carattere degli “itagliani” sempre pronti ad invocare un diritto di cassa che non risulterà tale se non per le schiere dei processionari dell’Expo a cui un Leonardo, forse, non farà né caldo e né freddo.
Non s’invochi poi il trito concetto che le opere debbono viaggiare per farsi conoscere. Pur ammettendolo, ma non del tutto convinto, penso che un conto è esporre un’opera a una mostra, un conto nel bailamme della mangereccia Expo dove un quadro simile non ha né senso né utilità.
Ma perché non far viaggiare grandi opere contemporanee? Così amate, così frequentate anche dai non addetti? Si promuova l’arte contemporanea così in linea con un’esposizione che ha per tema il cibo.
Certo! Il cibo della mente è sempre nutriente ma la fame della mente, oggi, dovrebbe consentire più di rivolgersi all’opera della contemporaneità che ai nomi attrattivi del passato: una patente consunta per l’acclarata consistenza del “nome”.

LA RIFLESSIONE
Le Mura, fantastica cornice alla rinnovata centralità culturale del Castello estense

di Michele Pastore*

Perché riparlare oggi delle mura di Ferrara a quasi 30 anni (era il 1986) dal progetto che ne determinò restauro e recupero? Perché è un progetto incompiuto: dal punto di vista architettonico, perché diverse parti progettate non sono state realizzate in quanto i fondi preventivati hanno subito dei tagli alla fonte (Ministero della programmazione economica) e dal punto di vista economico perché ne è mancata la “valorizzazione” che doveva essere promotrice di uno sviluppo del turismo culturale a Ferrara, tema insito nei progetti Fio (Fondo investimenti occupazione) finalizzati ad un rapporto “costi-benefici” ad elevato tasso di rendimento. Ed ancora perché oggi si pone impellente il tema della gestione e della manutenzione di quanto restaurato che, nonostante l’impegno dell’Amministrazione comunale, richiede sempre maggiori fondi. E perché, infine, nel 2016 ricorrono i 600 anni dalla morte di Biagio Rossetti.
Ferrara da sempre si fregia di essere “la prima città moderna d’Europa” grazie al disegno del piano di ampliamento, l’Addizione Erculea, realizzato da Biagio Rossetti che è stato contemporaneamente il progettista di tutto il fronte nord delle mura, importante esempio di cortina muraria difensiva incentrata sui percorsi difensivi e sui torrioni rotondi.
Per tutto ciò, oggi a mio parere è necessario riprendere il tema delle Mura Estensi collocandolo nel quadro di una nuova opportunità per un rinnovato e più completo sviluppo turistico-culturale di Ferrara. Nel quadro quindi delle proposte che il sindaco-presidente della Provincia Tiziano Tagliani e l’assessore Massimo Maisto hanno formulato sul tema “Quale futuro per il Castello Estense”.
Il restauro delle mura di Ferrara è stato realizzato con i fondi dei progetti Fio, fondi per finanziare a livello economico nazionale iniziative di recupero e di investimento di beni culturali. Agli inizi degli anni ’80, Ferrara puntò sul “Progetto Mura” per definire un suo ruolo nel sistema del turismo culturale (le città d’arte) riorganizzando a tal fine il suo intero sistema urbano incardinandolo sulle Mura Estensi. Le Mura, che si possono definire come il più rilevante monumento della città, oltre che per le proprie dimensioni (9 km di sviluppo) anche e soprattutto perché sono legate con vincoli di vera e propria “connessione” ad intere parti del centro storico di Ferrara. In tal senso, si vedano gli atti dell’Istituto di studi rinascimentali del convegno del 1986, la cinta muraria avrebbe dovuto diventare, secondo il progetto Fio, il filo conduttore di un percorso turistico-culturale non solo per il cittadino ferrarese, che ormai ha riconquistato le proprie mura per il tempo libero, ma anche per i turisti in visita alla città.
Se questi erano i presupposti, in parte incompiuti, oggi si presenta, come detto, una nuova opportunità. E’ necessario coniugare la funzione urbanistica delle mura con il nuovo ruolo culturale del Castello Estense. Certamente il percorso delle mura non basta da solo a giustificare una visita a Ferrara ma le Mura ne costituiscono una cornice fantastica dentro la quale si pongono i suoi tanti edifici monumentali, sedi museali e culturali.
Se il Castello diventa il perno del sistema culturale territoriale della nostra città, tra musei d’arte antica e musei d’arte moderna, secondo un percorso continuamente suggestivo ed attrattivo, le Mura ne costituiscono la cornice imprescindibile. Questi sono gli elementi presenti in città che potrebbero consentirci di entrare definitivamente nel circuito turistico delle città d’arte.
Quale occasione pensare per rilanciare in questi termini il tema delle Mura Estensi? Penso ad una nuova mostra fotografica (così come Italia Nostra fece agli inizi degli anni ’80) che confronti immagini delle mura estensi come erano prima dell’intervento, durante i lavori e come sono oggi, restaurate e vissute dai ferraresi. Mostra inserita nel progetto Camaa (Centro per le Architetture militari dell’Alto Adriatico che nel 2014 si è già interessato alle mura estensi in collaborazione con il Dipartimento di economia e management dell’Università e con il Comune di Ferrara) che punta a valorizzare questa particolare tipologia del patrimonio culturale ed alla quale Ferrariae Decus sarebbe interessata a collaborare.

* presidente Ferrariae Decus

IL TEST
Vintage Sanyo e Grundig,
la faccia triste del hi-fi

Nell’arco di alcuni mesi abbiamo compiuto un’indagine nel mondo dell’Hi-Fi e del vintage elettronico, un settore che vede tanti appassionati frequentare i siti di compra-vendita e aste su Internet. L’osservazione di questo fenomeno ci ha portato a porre l’attenzione su Sanyo, la multinazionale giapponese che ha prodotto anche componenti per l’alta fedeltà. In Italia questo brand non ha mai avuto un’alta considerazione da parte degli audiofili, per questo abbiamo voluto “sporcarci le mani” cercando alcuni di questi prodotti; riparandoli, raccontandone la storia e confrontandoli con quelli di altre marche. L’inchiesta si divide in tre parti: Hi-Fi vintage, La prova sul campo e Il design giapponese anni ’70 e ’80.

Sanyo, nel campo dell’alta fedeltà, produceva giradischi, amplificatori, sintonizzatori, diffusori compatti e riproduttori/registratori di audiocassette. In Giappone era considerato un marchio di alta qualità, mentre in Italia non ha mai avuto la stessa considerazione, qualcuno, maliziosamente, arrivò ad affermare che i componenti Sanyo venivano venduti soltanto nei negozi di campagna o nelle periferie.

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Sanyo D 62, deck a cassette della Plus Series

I guru nostrani non si sono mai entusiasmati per questo marchio, con la sola eccezione (forse) per i prodotti della linea “Plus Series”, realizzata negli anni Settanta. Questa serie fu l’apice dello sforzo progettuale della società giapponese ma, in Italia, non ebbe un buon riscontro commerciale per i motivi sopra descritti, all’estero l’accoglienza fu nettamente migliore. A questo riguardo occorre ricordare che anche per i prodotti Grundig non c’è mai stata considerazione da parte degli audiofili sino a scoprire, 40 anni dopo, l’esistenza di un particolare circuito denominato Cci che fu adottato in alcune produzioni di Sanyo.

La riscoperta del marchio Grundig è limitata a particolari linee produttive realizzate dal 1974-75 sino al 1986. Massimo Ambrosini, appassionato e progettista di apparecchiature Hi-Fi, è lo “scopritore” ufficiale del cosiddetto CCI (Circuit chassis interface) caratteristica circuitale che identifica la produzione “buona” di Grundig. Nel 2004 Ambrosini coniò l’acronimo CCI per sottolineare l’importanza di un’opportuna e sistematica implementazione telaistica (oltre che circuitale) in funzione di disturbi RF, sia esterni sia generati all’interno degli apparecchi stessi, i quali causano problemi di natura vibrazionale che intermodulano col segnale in transito.

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Depliant pubblicitario “Plus Series”

Il resto dei prodotti della casa tedesca, ben costruiti e durevoli, sembrano privi di particolare pregio audiofilo. In quest’ambito si collocano due amplificatori Sanyo (JA 220 e JA 224), considerati cloni del Grundig V1700 che rispecchiava le caratteristiche CCI. Detto circuito, per sviluppare il suo potenziale, aveva bisogno di una linea d’ascolto completa, composta da sorgente, amplificatore e casse. Su eBay questi apparecchi hanno quotazioni particolarmente elevate. Sanyo progettava e costruiva apparecchi anche per i marchi Saba, Siemens (Plus Series), Kenwood, la stessa Grundig e l’italiana Emerson. I prodotti della Serie Plus, per quanto siano stati ottimamente progettati e costruiti, non beneficiano di interventi CCI, infatti, erano cronologicamente antecedenti alla serie di amplificatori realizzati “con” Grundig.

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Il giradischi Sanyo TP1000

Per approfondire meglio la questione del rapporto tra le due case, abbiamo interpellato Massimo Ambrosini, che ci ha gentilmente risposto: “ La collaborazione di Grundig con Sanyo risale a fine anni ‘70 quando iniziarono a comparire i ps1010 e 1020 (giradischi) costruiti da Sanyo per Grundig. Il rapporto venne poi a continuare qualche anno più tardi con la versione costruita con marchio Grundig di alcuni integrati (e relativi registratori a cassette e tuner) dell’industria giapponese. Ciò che è curioso rilevare è che questi apparecchi, circuitamente “Made in Japan”, presentano scelte perfettamente in linea con una corretta implementazione CCI, difficile dire quando queste scelte siano state assorbite in Sanyo da Grundig. Qualche tempo fa un amico ingegnere trovò in rete un documento risalente agli anni ’70, dove si evidenziava una ricerca telaistica svolta in Sanyo, probabilmente a seguito della collaborazione con Grundig. Difficile quindi dire se i vari Grundig ‘made in Sanyo’ fossero frutto di una mutua ricerca o semplicemente un lavoro su commissione messo in produzione anche col marchio del costruttore, temo che rimarremo con questo dubbio”.
Lucio Cadeddu, docente di Analisi matematica all’Università di Cagliari e Direttore della rivista on-line “Tnt-Audio”, dedicata all’hi-fi, ha gentilmente risposto alle nostre domande sui prodotti Sanyo e sul fatto che in Italia siano stati sottovalutati: “Caro William, in 20 anni di presenza online con TNT-Audio, credo sia la prima volta che mi venga chiesto un parere su Sanyo, segno che le tue sensazioni sono sostanzialmente corrette. Il marchio giapponese, anche negli anni ’70, quando forse ha realizzato le sue cose migliori, non ha mai goduto, specie qui in Italia, di grande considerazione.
Io ricordo alcuni apparecchi interessanti, in particolare quelli della pretenziosa serie Plus, diversi giradischi e qualche coppia pre/finale, pure molto belli a vedersi. In particolare, mi restò impresso il giradischi TP1000, un grosso e pesante “trazione diretta” con un motore in DC privo di spazzole, una novità per l’epoca (1974/75). Montava persino un bel braccio Acos Lustre GST-1. Le vicissitudini del marchio, l’acquisizione del brand americano Fisher nel 1975 e una certa confusione d’immagine che si era creata tra i consumatori ne decretarono la fine intorno ai primi anni ’80. Il periodo d’oro resta quello degli anni ’70, ma gli apparecchi sono praticamente introvabili”.

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L’amplificatore Sanyo DCA 611 dopo le riparazioni

E aggiunge, “Non so dirti se Sanyo sia stata sottovalutata a torto o a ragione, certo è che, tra i grandi colossi giapponesi, è uno di quelli che ha avuto meno successo e vita più breve. Non si ricordano prodotti memorabili a parte quelli citati, o comunque componenti che, in qualche modo, possano aver lasciato un segno indelebile nella storia dell’HiFi. Se ti fai un giretto presso i forum di appassionati vintage il nome Sanyo è citato molto, molto raramente. Forse è un peccato, o forse no, ma Sanyo aveva nell’elettronica di consumo il suo core-business e certamente l’HiFi era solo una piccola nicchia del grande costruttore nipponico. Non so a cosa porteranno i risultati della tua inchiesta, sarei curioso di restare aggiornato sugli eventuali sviluppi. Spero di esserti stato utile”.

1. Continua…
Nel secondo articolo ci “sporcheremo le mani” analizzando, riparando e descrivendo alcuni componenti Hi-Fi rintracciati a Vienna.

Si ringraziano: Massimo Ambrosini [vedi], Lucio Cadeddu, Direttore della rivista “Tnt-Audio” [vedi]

Zairo Ferrante, la poesia dinanimista

Il giovane talento, scrittore Zairo Ferrante, autore di “D’amore di sogni e d’altre follie” (Este Edition, 2009) dell’e-book “Dinanimismo” (Futurist Editions on line, 2009) promuove il cosiddetto… Dinanimismo, l’Anima nell’era del web e delle nuove tecnologie, rilette con sguardi neoromantici e letterari. La parola dopo la scrittura terminale, Barilli, al di là del grado zero, Barthes e Lacan stessi, riconnessi, oltre certo – altrove – cerebralismo o psicologismo, alla dimensione archetipale cara magari a Jung, Hillman e seguaci. Un’avanguardia leggera e nuovamente tecnica e umanistica, la poetica nascente dinanimista e di Ferrante, attraversante… anche la cifra del Futurismo, echi specifici dello stesso classico Flora, la scienza romantica di Bergson. Fare Macchina, fare parola anima cuore, la matrice del Duemila possibile e fondamentale, oltre il tempo e lo spazio.
Tale new romantic uplodato esita ancor più programmatico nel volume megamix tra poesia,
manifesti dinanimisti e saggistica, “I bisbigli di un’anima muta”, edito da CSA editrice nel 2011 (poi anche in eBook, nel 2014).
In tale esplorazione letteraria, Ferrante traccia una navigazione potente, solida e in progress,
confermata anche criticamente da prestigiosi rilanci in certa stessa variabile dinanimista sociale
neoumanistica, nella rivista letteraria “Isola Nera”, a cura della nota poetessa Giovanna Mulas.
Zairo Ferrante e il Dinanimismo, inoltre sono stati evidenziati da media rilevanti, quali Il Giornale,
nell’inserto periodico Style – Voglia d’Italia, a cura di Girolamo Melis, dal network storico
SuperEva -Controcultura (Firenze). Segnalato anche oltrecontinente (Australia) dall’Associazione Italo-Australiana, Alias.
Ferrante, di origini salernitane, è tra i novanta autori del libro manifesto “Per una Nuova Oggettività” (Heliopolis -Pesaro -Roma, 2011), di cifra estetico-filosofica post romantica, a cura di Sandro Giovannini e altri – diversi docenti universitari tra gli aderenti ed autori – e suo
uno dei book trailer Evoluzione, del movimento; nonché poi nelle raccolte ebook de La Carmelina “Urfuturismo, La Grande Guerra futurista” (2014).
Non ultimo da segnalare diverse presentazioni radiofoniche (Milano- Pulsante Radio Web), segnalazioni su “Patria Letteratura “e altre riviste di rilievo nazionale e in particolare nel Blog Poesia di RaiNewsa c ura di Luigia Sorrentino [vedi].

Per saperne di più visita il sito ufficiale [vedi]

* da Roby Guerra, “Dizionario della letteratura ferrarese contemporanea”, Este Editon-La Carmelina ebook 2012 [vedi]

Ancora vallette

E’ in onda in queste serate il festival più blasonato, pagato e chiacchierato della canzone italiana. Quest’anno condotto da un patinatissimo e ingessato Carlo Conti, fuori da una contemporaneità che non gli appartiene e nell’anacronistica rincorsa ad un’Italia che non conosce, il Festival di Sanremo continua a proporre canzoni che non sono dell’oggi, quello vissuto e sentito. Canzoni che difficilmente riascolteremo alla radio. Ma non è questa critica, peraltro forse scontata, a muovere la tastiera su cui decido di scrivere questa mattina. Ad animarla è invece l’incredulità nell’osservare il ruolo delle tre figure femminili che accompagnano il conduttore di questa edizione: le cantanti Arisa ed Emma Marrone, l’attrice spagnola Rocío Muñoz Morales. Illusa di vivere un tempo in cui la donna ha conquistato un suo posto e professionalità, vedo invece tre vallette a comparsa, lettrici di gobbi annoiati e annoianti, che vestono alta moda, faticano a scendere le scale e attendono fiori dall’uomo cortese che poi le accomiata frettolosamente. L’istrione può continuare il suo spettacolo, loro fuggono dietro le quinte, pronte per una nuova mise indossata goffamente, un nuovo sorriso stiracchiato e la lettura di un copione scopiazzato.

DIARIO DI BORDO
Dal team Maserati, nel mezzo dell’oceano: “Inizio con piogge e temporali, è finita la cioccolata, per il resto tutto ok”

Andrea Fantini è un navigatore ferrarese che sta facendo il giro del mondo in barca a vela sulla Maserati di Giovanni Soldini. Ferrara Italia pubblica in esclusiva il suo diario di bordo. 

Sto scrivendo dal bel mezzo dell’oceano, in particolare siamo a 28 33 N / 42 30 W, a 1200 miglia da Antigua, nostra destinazione finale, da cui il 24 febbraio partirà la Rorc 600, una regata di 600 miglia intorno ai Caraibi, noi parteciperemo con Maserati.

Siamo partiti da Barcellona 12 giorni fa, l’uscita dal Mediterraneo è stata piuttosto dura, tanto vento, tanto mare grosso, tanto freddo. Poi una volta usciti da Gibilterra, abbiamo iniziato a scendere di latitudine, verso le Canarie, ma una situazione meteorologica anomala per questo periodo dell’anno, non ha migliorato la condizione della nostra navigazione. Cioè parole povere invece di attraversare l’oceano spinti dagli Alisei, quei venti che un tempo portarono Colombo dall’Europa all’America, e che soffiano da Nord Est, abbiamo stiamo attraversato l’oceano incontrando una depressione dopo l’altra, il che si traduce in vento spesso non portante (non in poppa), piogge e temporali, temperature non caraibiche…situazione che permane ancora.

L’Anticiclone delle Azzorre non è dove dovrebbe essere, ecco il motivo di questa storia, il clima sta cambiando ragazzi, e non in meglio.

Comunque sia a bordo tutto ok, c’è sicuramente voglia di caldo, di asciugarsi un po’, di poter stare sul ponte in maglietta, senza cerata, e iniziano anche le prime “voglie”, tipo tutti i cibi che a bordo non si possono avere, in realtà poi questa volta abbiamo fatto male i conti e abbiamo già finito per esempio tutto il dolce, tipo cioccolata e biscotti, e le cose per la colazione, tipo cereali, e questo non è bene, ma di fame non moriremo sicuro… Speriamo poi in un aumento della temperatura nei prossimi due o tre giorni in cui scenderemo ancora più a sud, così che al primo temporale tropicale potremo fare una bella doccia!

Per il resto tutto bene, ora è il mio turno di sonno, salvo tutto e se mi viene in mente altro, quando mi sveglio, in un momento di calma aggiungo qualcosa, a dopo.

Eccomi sono tornato, appena vista la situazione meteo delle prossime 48 ore, e già abbiamo idea di cosa ci aspetterà fino all’arrivo, che sarà probabilmente domenica prossima. Oggi sarà forse la prima vera giornata di sole e caldo, insomma una giornata tranquilla, ne approfitteremo per rassettare un po’ la barca, asciugarla, visto che entra sempre un sacco di acqua, forse ci butteremo addosso una secchiate d’acqua anche noi e ripareremo i piccoli danni fatti.
Da domattina poi avremo un paio di giorni belli ventosi, poi gli ultimi due giorni troveremo forse il tanto desiderato Aliseo…

 

‘Miramòr’ la musica poetica pop dei Pablo e il mare

“Pablo e il mare” sono un gruppo acustico torinese che si avvale delle canzoni e della voce di Paolo Antonelli, completano la formazione Marco Ostellino con le percussioni (tra cui cajòn e bongos), Andrea Ferraris al pianoforte, Francesco Coppotelli al violino (bouzouki e liuto arabo) e Fabrizio Cerutti al contrabbasso e basso elettrico. Gli ingredienti del loro suono sono i colori del pop, l’uso di timbri acustici, un particolare gusto per le contaminazioni mediterranee e l’attenzione a evitarne cliché e stereotipi.
Dal 2002 si esibiscono sui palcoscenici della canzone d’autore “tradizionale” e quelli della nuova scena indipendente italiana, distinguendosi per il sound e per la scrittura emozionale, intensa e mai banale, che racconta storie e sentimenti.
Miramòr è l’album più recente di Pablo e il mare

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Miramòr è l’album più recente di Pablo e il mare

Nel 2004 il gruppo vince il festival Rock Targato Italia, il prestigioso concorso indetto da Divinazione, che nelle precedenti edizioni aveva fatto conoscere Timoria, Scisma e Marlene Kuntz. Due anni dopo è la volta del loro primo album intitolato “Onde”, il cui videoclip è diretto dal regista italo-giapponese Tak Kuroha. Sul fronte live si contano più di 200 concerti nei locali e sui palchi italiani. Nel giugno 2011 vede la luce “Miramòr”, il loro più recente album, prodotto da Blumusica e registrato sotto le cure di Pippo Monaro. Il disco contiene canzoni d’amore, mare, ricordi e passioni, ‘narrate’ tra metafore e realtà. Il titolo è la sintesi di tre parole: Amòr, Màr e Miràr, che si trasformano in “Miramòr”.
A questo lavoro hanno partecipato Paolo Antonelli (testi e musiche, voce e chitarre), André Ferraris (pianoforte elettrico), Marco Ostellino (percussioni). Ospiti in studio, Enrico Fornatto (Jambalaya), Andrea Sicurella (Banda Elastica Pellizza), Pippo Monaro, Emanuela Struffolino e Francesco Coppotelli (che poi entrerà nel gruppo, trasformandolo da trio in quartetto).
Nel disco emerge una forte influenza mediterranea, basata su sonorità acustiche, che spaziano dal folk al pop. Il brano “Gatto sul tetto”, si presta a essere ascoltato per primo, infatti, salti melodici, giri di basso, ritmo e cadenza rock, riassumono il gusto di Antonelli e del suo gruppo, quasi un manifesto di intenti musicali: “Il gatto sul tetto che fuma, guardando la luna cercando bellezza e fortuna, vi guarda perdervi in pensieri piccoli, si liscia il baffo sistema il ciuffo, sembrate stanchi volgari imbarazzati, anche quando pregate i santi …”.

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Frame tratto dal video ‘Farfalle’

Con “Immaginario” si ritorna indietro nel tempo, grazie agli archi e al riferimento alle lire, necessarie per andare al mare: “Sabato partiamo, ventimila lire andiamo al mare, ventimila lire ci dovrebbero bastare, se abbiamo fortuna rincontriamo quella tipa con la stella sul costume, ti ricordi il nome?”. Il pianoforte e la ritmica di “Farfalle” fanno emergere l’anima latina di Pablo e il mare, una delle tante contaminazioni che contraddistingue la musica della band, questa volta al servizio di sonorità coinvolgenti che contrastano il testo un po’ malinconico. Franz Gallero ha firmato il videoclip di questo brano. Ritmo folk di stampo andaluso in “Ora lo sai”, scolpito dal violino di Francesco Coppotelli e dalle percussioni di Marco Ostellino.

“Pesci Tropicali” è una ballata raffinata e intelligente, che incita alla difesa dei propri sogni e desideri, reali sino a quando sono vivi. Gli uomini non sono numeri ma esseri speciali: “Noi siamo pesci tropicali, siamo esseri speciali, siamo unici e capaci di imprese eccezionali, quanti pesci tropicali che finiscono incoscienti, dietro a vetri verticali e trasparenti… ”.
Come già accennato, questo è un disco di storie, raccontate con apparente leggerezza, da sfogliare come se si trattasse di un album di fotografie, “Franco, Ciccio e la Sirena” ne è un valido esempio.
“Migrante” si apre con il rumore delle onde del mare che s’infrangono sugli scogli e i versi dei gabbiani, per poi prendere corpo e ritmo, in una coinvolgente storia di mare e di vita. Il pianoforte accompagna con vigore le parole del brano, che fu scritto in soli dieci minuti, sui tovagliolini di un bar vicino a Siracusa.
Il disco si apre con “Avvampa” brano allegro dagli arrangiamenti curati e finisce con “Viva”, pezzo orecchiabile con rimandi alla tradizione pop italiana. “Niente come prima” e “Fidelina” completano la track list di questo bel lavoro di Pablo e il mare, costruito sulle musiche e sulle parole scritte da Paolo Antonelli.
Si tratta di un album pubblicato qualche anno fa che consigliamo a chi ha un cuore “mediterraneo e marinaio”, in attesa del nuovo disco previsto per la primavera.

Il video ufficiale di “Farfalle” [vedi]

L’INTERVISTA
Emilia Romagna Mafia spa. Mazzitelli: “Ferrara tra le province più vulnerabili”

Centosessanta arresti, oltre 200 indagati – dei quali 83 nella sola Emilia Romagna – e il sequestro di beni per un valore di oltre 100 milioni di euro: 205 immobili, 70 società, 15 auto di lusso, 137 mezzi, 65 terreni. I reati contestati vanno dall’associazione di tipo mafioso e dal concorso esterno in associazione mafiosa all’estorsione e usura, al caporalato, e poi trasferimento fraudolento di valori, reimpiego di capitali di illecita provenienza, emissione di fatture per operazioni inesistenti, ricettazione. Sono i dati dell’operazione Aemilia, portata a termine a fine gennaio e coordinata dalla Dda di Bologna. Dati che spingono a parlare non più di allarme infiltrazioni, ma di allarme radicamento nella nostra regione.
“Un risultato storico, senza precedenti. Io non ricordo a memoria un intervento di questo tipo contro un’organizzazione criminale forte, monolitica, profondamente radicata nel territorio emiliano”, queste le parole del procuratore nazionale antimafia Franco Roberti durante la conferenza stampa su Aemilia. Roberti ha poi sottolineato che “l’elemento nuovo è l’imprenditorialità nel rapporto con il territorio, con il tessuto sociale e con l’informazione”, in altre parole: “una visione politica del radicamento”. Se quella con cui abbiamo a che fare è sempre più “una vera holding finanziaria” o la “’Ndrangheta Emilia Romagna servizi spa”, come scrive Tizian, è necessario chiedersi chi e perché nella nostra regione usufruisce dei servizi finanziari e delle competenze criminali delle organizzazioni mafiose. In altre parole è sempre più urgente indagare come avviene la costruzione di network territoriali in loco da parte delle organizzazioni criminali.
Un possibile contributo è arrivato dal Rapporto “L’economia illegale in Emilia Romagna”, realizzato per l’Osservatorio della Legalità in Emilia-Romagna e Unioncamere regionale dal professor Andrea Mazzitelli di Universitas Mercatorum. Presentato a Bologna a metà del dicembre scorso, ha avuto grande risonanza nelle nostre zone perché dall’analisi dinamica condotta emergerebbe che Rimini e Ferrara sono le due provincie in cui si osserva, tra il 2010 e il 2012, un’improvvisa accelerazione della penetrazione criminale, tanto da occupare a livello nazionale rispettivamente il secondo e il quinto posto. Abbiamo cercato di approfondire il tema con il professor Mazzitelli.

Il punto di partenza di questo documento è la presenza sempre più palpabile di un sistema di connessioni fra la società legale e quella mafiosa e di un’area grigia composta da professionisti, politici, imprenditori, burocrati, che rappresenta il «luogo» dove le diverse alleanze si stringono, si modellano e si ricompongono. Da qui la necessità di cogliere i segnali anticipatori di penetrazione della criminalità organizzata. Come avete tentato di cogliere questi segnali? In altre parole da dove siete partiti per l’analisi e come l’avete strutturata?
L’Osservatorio sulla legalità in Emilia-Romagna e i documenti da esso prodotti hanno l’obiettivo di analizzare come si configurano i comportamenti criminali di natura mafiosa che tentano di infiltrarsi nell’economia legale. La conoscenza di quanto accade nel proprio territorio è determinante per indirizzare meglio le politiche di prevenzione nella lotta contro la criminalità organizzata, anche quando si tratta di un fenomeno complesso e per certi aspetti poco visibile come quello dell’infiltrazione nell’economia virtuosa del territorio. Partendo dall’assunto che nessun territorio è immune dalla penetrazione della criminalità organizzata nel tessuto sociale e imprenditoriale, abbiamo condotto l’indagine con una visione interdisciplinare, frutto anche di una condivisione e di una fattiva collaborazione con Unioncamere e con l’Istituto Guglielmo Tagliacarne.

Quali fonti avete usato?
L’analisi condotta ha portato alla selezione e individuazione di specifici indicatori riguardanti la vulnerabilità delle infrastrutture, delle imprese, delle famiglie e del territorio, utilizzando open data, ovvero dati disponibili a livello pubblico e provenienti solo da fonti statistiche ufficiali. Il principale risultato conseguito è che il processo di diffusione territoriale della criminalità organizzata è trasversale a tutte le provincie italiane, anzi prevarica i confini amministrativi perché è interprovinciale e interregionale: ciò consente di definire la vera armatura illegale del territorio e quindi di individuare delle partizioni territoriali funzionali a una migliore interpretazione della distribuzione lungo la nostra Penisola dei reati economici e finanziari e le relative connessioni con i gruppi della criminalità organizzata.

Nel rapporto si parla di una matrice vulnerabilità /criminalità, ci può spiegare meglio? Per esempio con “vulnerabilità economica e sociale”?
L’uso unicamente dei dati della statistica ufficiale può comportare anche la sottostima di alcuni fenomeni a livello provinciale, in base alla percezione che ne hanno i cittadini e gli imprenditori, unicamente perché le fonti ufficiali non sono state in grado di catturarli. I risultati ottenuti sono stati riportati in diverse matrici di dati che hanno consentito di valutare la vulnerabilità territoriale e la criminalità a livello locale. La struttura di una generica matrice prevede che nelle righe vengano collocate le provincie e nelle colonne vengano inserite le variabili delle unità statistiche, vale a dire i diversi indicatori misurati per ogni provincia. La vulnerabilità del territorio è stata calcolata attraverso la costruzione di opportuni indici di sintesi che restituiscono significative informazioni circa i fenomeni di vulnerabilità provinciale osservati in campo economico, finanziario e sociale in relazione anche alle infiltrazioni della criminalità organizzata. In altri termini, la selezione degli indicatori di vulnerabilità è stata condotta con l’intento di individuare le principali criticità del territorio che impediscono uno sviluppo economico e sociale dello stesso in termini di competitività, attrattività e benessere.

Cosa si intende con “indice di sintesi di criminalità organizzata”?
L’indice di sintesi della criminalità organizzata è stato costruito basandosi su tre indicatori semplici: criminalità tradizionale o di base (associazione a delinquere, associazione mafiosa, omicidi di stampo mafioso, stragi e attentati), illegalità ambientale (ciclo dei rifiuti, ciclo del cemento, incendi boschivi dolosi), reati spia dell’illegalità economica connessi alla criminalità organizzata (contraffazione, contrabbando, truffe e frodi informatiche, delitti informatici, usura ed estorsione, riciclaggio e reati di intimidazione). Particolare attenzione meritano, tra i reati spia, le truffe e le frodi informatiche nonché i delitti informatici, reati commessi all’interno di quei settori che, nella definizione della Knowledge economy, identificano i servizi di informazione e comunicazione, ovvero il comparto dei servizi ad alto contenuto tecnologico. A ciò si aggiunga che i reati spia sono fortemente analizzati dagli investigatori, perché ritenuti maggiormente indicativi di dinamiche riconducibili alla supposta presenza di aggregati di matrice criminale e/o mafiosa.

Nella seconda parte del Rapporto presentate un’analisi dinamica in cui si segue il cambiamento di ogni provincia nel triennio 2010-12, come cambia la geografia della criminalità organizzata usando questa metodologia?
Per comprendere il processo di diffusione della criminalità organizzata è stata condotta un’analisi dinamica dei dati nel triennio 2010-2012 per ciascuna provincia. L’obiettivo è stato evidenziare le nuove aree di attrattività della mafia diverse dal Mezzogiorno, ovvero quali siano le province del Centro-Nord dove la criminalità comincia a radicarsi stabilmente e a investire legalmente. L’analisi condotta ha confermato l’ipotesi di partenza: il fenomeno della criminalità è cresciuto, nel periodo osservato, soprattutto al Nord, nonostante le analisi puntuali del 2010 e del 2012 rivelino che le provincie del Sud siano caratterizzate da valori assoluti della criminalità organizzata superiori rispetto alle altre aree del Paese. Anche a livello globale il fenomeno mostra un trend crescente: il 53,2% delle province è caratterizzato da un aumento dei reati della criminalità organizzata; il 27% dei reati è cresciuto nelle provincie del Nord; il 13,5% al Sud e nelle Isole; il 12,5% al Centro. Parallelamente i reati sono diminuiti più nel Mezzogiorno (23,4%) che al Nord (16,2%) e al Centro (7,2%).

In Emilia Romagna le provincie con un trend crescente sono Rimini e Ferrara, al 2° e 5° posto, come sono interpretabili questi cambiamenti?
Scomponendo l’indice di sintesi dinamico nelle sue componenti più significative emerge che in Emilia-Romagna il fenomeno dell’illegalità economica è prevalente tra le provincie che insistono sul versante adriatico (Ferrara, Forlì-Cesena, Ravenna, Rimini), mentre la dinamica dei reati ambientali è prevalente tra le aree appenniniche (Modena, Parma, Piacenza, Reggio Emilia). Rimini e Ferrara sono tuttavia tra le provincie più vulnerabili in senso dinamico anche per l’illegalità ambientale dato che occupano rispettivamente il secondo e il dodicesimo posto nella graduatoria nazionale. La posizione di Rimini, insieme al fatto che anche Forlì-Cesena presenti valori elevati, conferma il fatto che la riviera romagnola, al pari di alcune provincie adriatiche delle Marche, sia divenuta nel tempo luogo di attrattività e insediamento di gruppi criminali, italiani e stranieri. Da Ferrara, invece, il fenomeno si espande territorialmente tramite Rovigo verso il Triveneto. La criminalità dunque penetra più facilmente per contiguità territoriale o prossimità logistica da infrastrutture. Le mappe della vulnerabilità alla criminalità evidenziano come essa si manifesti in modo particolarmente critico in gruppi di provincie e di importanti aree urbane confinanti tra loro, come se un’infezione criminale in un’area si potesse diffondere alle provincie circostanti similmente a un virus: si è insomma in presenza di fenomeni di migrazione di organizzazioni criminali tra aree contigue.

Ferrara ha anche valori elevati per quelli che nel Rapporto vengono definiti “shock territoriali”, cosa significa questo?
Vi è una diffusa preoccupazione circa la possibilità che la crisi economica possa determinare una crescita delle attività criminali nel nostro Paese. Gli economisti poi hanno riconosciuto da tempo che la riduzione delle opportunità nel mercato del lavoro può rendere relativamente più vantaggioso il perseguimento di attività illegali. Tuttavia, alcuni recenti lavori hanno sottolineato che il legame tra crisi economica e criminalità è meno evidente nelle regioni meridionali maggiormente caratterizzate da una presenza più radicata della criminalità organizzata (Campania, Calabria, Puglia, Sicilia), dove la criminalità organizzata detiene il “monopolio” dell’attività illegale: qui risulta difficile per un individuo improvvisare un’attività criminosa a seguito di sopraggiunte difficoltà economiche. In altri termini, le aree del Centro-Nord subiscono veri e propri shock rispetto alla penetrazione dell’illegalità economica perché non abituate a convivere quotidianamente con fenomeni di natura criminale: non hanno ancora piena coscienza a livello culturale e territoriale dei modi di agire tipici della criminalità organizzata. Analizzando le provincie dell’Emilia-Romagna si evince che nessun territorio è immune da tali shock, a cambiare sono velocità e accelerazioni di penetrazione. Ferrara e Rimini, come già ricordato, sono le provincie che presentano i valori più elevati di tale indice. Bologna e Parma, al contrario, denotano valori medio-bassi: questo potrebbe indicare che la criminalità organizzata possa inizialmente aver posto le proprie basi operative nelle suddette provincie, che più di altre hanno subito l’influenza mafiosa nonché l’infiltrazione nel tessuto produttivo negli anni passati.

Lunedì 16 febbraio – ore 17 – biblioteca comunale Ariostea
MAFIA A FERRARA: allarmismo o rischio reale?

(leggi la presentazione dell’incontro)

Leviatano, il mostro dell’intimidazione e della corruzione

Dopo essere stato incoronato miglior film straniero dal Festival di Cannes e aver vinto ai Golden Globe, il film del russo Andrei Zvyagintsev è ora in corsa per gli Oscar. Un tragico dramma di corruzione e d’intimidazione della Russia contemporanea, con ambienti influenzati dall’Antico Testamento e panorami abbandonati, desolati e, lasciatemi dire, a volte grigi, spettrali e tristi ma che danno, anche, una reale sensazione di assoluto, fuori dal tempo.

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La locandina

Controverso e poco apprezzato da parte del pubblico russo (il ministro della Cultura, che pure lo ha in parte finanziato, è stato molto critico), il film è girato in una cittadina sul Mare di Barents, nel freddo nord del paese. Il protagonista è Kolya (Alexey Serebryakov), un meccanico di automobili che vive, con il figlio Roma (Sergey Pokhodaev) e la sua seconda moglie Lilya (Elena Lyadova), in un’umile casa di legno, che costituisce quasi un baluardo opposto alla desolazione del paesaggio. La casa è il riferimento positivo, un’oasi di luce, di speranza e di calore, risalta oltre la sua effettiva bellezza (che non c’è) e diventa l’ultimo rifugio dell’uomo, dalla brutalità interessata dei suoi simili e da quella disinteressata della natura. Alla desolazione del paesaggio corrisponde il crollo dello Stato di diritto. Nel tentativo di salvare la propria casa dal sindaco speculatore che la vuole espropriare a tutti i costi per farvi costruire sopra un moderno villaggio, Kolya s’imbatte, infatti, nel vuoto delle istituzioni: polizia, magistratura, pubblici uffici, sono tutti al servizio dei potenti e dei loro interessi economici. Vadim, il nuovo e prepotente sindaco della città (Roman Madyanov), è appoggiato dalla malavita e ha piena benedizione della potente e onnipresente chiesa ortodossa. L’intervento di Dmitri (Vladimir Vdovitchenkov), un avvocato di Mosca vecchio amico di Kolya, sembra poter cambiare il corso degli eventi, ma, alla fine, la giustizia è solo di chi se la può permettere, un’illusione che ben si comprende nelle due sentenze prolungate, lette a una velocità sconsiderata e incomprensibile.

leviatanoleviatanoScheletri di balene, relitti di navi e maree si fronteggiano a uomini che tentano ammirevolmente di prevalere, di aggrapparsi disperatamente alla volontà e al libero arbitrio. Anche se il mare grosso e insidioso lavora gli scogli e il cielo scolora tutto in un grigiore diffuso, freddo, che aspetta solo l’oscurità, il vero nemico di quegli uomini persi e sconsolati non è la natura, ma l’arroganza del potere. E comunque anche quella che era amicizia viene tradita. Vi sono silenzi destabilizzanti, tradimenti, sofferenze, ingiustizia, vodka a fiumi. Tutti i personaggi sono assediati, dentro e fuori, da un vuoto che il regista riconosce insostenibile per qualsiasi essere umano. E qui vengono in mente le parole di Paolo Nori “i russi hanno quaranta verbi diversi per dire ubriacarsi”, una vodka onnipresente che, a volte, è percepita come l’unica via di scampo.

leviatanoLa vodka è sul tavolo della disperazione ma anche su quello dello svago, resta un modo per scaldarsi dal freddo e gustarsi meglio le poche occasioni di calore umano. La bottiglia resiste fino all’ultimo istante, nella scena forse più emotivamente cruenta del film, quando la speranza è fatta in briciole, la bottiglia è l’ultima a cadere dal tavolo. Il regista ha ricordato come il titolo del film rinvii, in parte, al Leviatano, il terribile mostro marino citato nella Bibbia (in Giobbe 40, 20-28, Dio indica di aver generato questo mostro marino, simbolo della potenza del Creatore) e, in parte all’omonimo celebre trattato di filosofia politica di Thomas Hobbes (1651), in cui si giustifica lo Stato assoluto, dove il potere dello Stato è paragonato alla forza del terribile mostro descritto da Giobbe ed è considerato necessario per mantenere pace e convivenza tra gli uomini. Quello stesso Stato che, aggiungerei, qui prevale e può arrivare a soffocare. Il Leviatano è uno Stato spietato che non lascia spazio alla marginalità di un normale Kolia. Il film termina con un sermone del pope ortodosso, che, in maniera quasi paradossale, invita la comunità ad aprirsi alla verità. E benedice. La convinzione dell’inutilità di contare sulla religione, ancora troppo occupata a dare una giustificazione divina all’arbitrio senza limiti del potere temporale, appare qui in tutta la sua forza. Un’opera drammatica, persistente, melanconica e lenta, ambientata nelle atmosfere disperanti, e un po’ perse, della provincia. Zvyagintsev riesce a raccontare la tragedia-commedia umana, con la capacità che solo un grande regista contemporaneo può avere. Se poi si vive in Russia, si arriva anche a comprendere qualcosa di più della “duchà” (anima) russa.

“Autorizzo e cedo il mio diritto di governare me stesso a quest’uomo o a questa assemblea di uomini, a questa condizione, che tu gli ceda il tuo diritto, e autorizzi tutte le sue azioni in maniera simile. Fatto ciò, la moltitudine così unita in una persona viene chiamata uno stato, in latino civitas. Questa è la generazione di quel grande Leviatano o piuttosto – per parlare con riverenza – di quel Dio mortale, al quale noi dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa […]”. Thomas Hobbes, “Leviatano”.

“Ecco, la tua speranza è fallita, al solo vederlo uno stramazza. Nessuno è tanto audace da osare eccitarlo e chi mai potrà star saldo di fronte a lui? Chi mai l’ha assalito e si è salvato? Nessuno sotto questo cielo. Non tacerò la forza delle sue membra: in fatto di forza non ha pari.” Giobbe (41, 1-27)

Leviathan, di Andrei Zvyagintsev, con Aleksei Serebryakov, Elena Lyadova, Vladimir Vdovichenkov, Roman Madyanov, Russia 2014, 141 mn.