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I giardini di Parigi

“Ci sono solo due posti al mondo dove possiamo vivere felicemente: a casa e a Parigi.” Ernest Hemingway

Parigi è verde, Parigi è viva, Parigi è amore, Parigi è arte. Parigi è luce, Parigi è voce, Parigi è aria, Parigi è respiro, Parigi è vita, Parigi è oggi-ieri-domani. Parigi è il tutto che ci avvolge, il verde che ci manca, il respiro che ci affanna, l’amore che ci insegue, gli inizi della primavera che sboccia.
Ho vissuto a Parigi alcuni anni, quanto basta per portarne nel cuore colori e sensazioni. Ma, soprattutto, per ricordarne i giardini, le passeggiate nei vialetti alberati e fioriti o la lettura, sulle panchine, delle intense e romantiche poesie di Jacques Prévert. Con lui ho viaggiato tanto. In quei parchi curati, ho visto bambini giocare, colleghi rilassarsi durante la pausa pranzo, innamorati sussurrarsi dolci parole, giardinieri accarezzare candide rose, turisti sorseggiare acqua fresca, venditori distribuire gelati, ambulanti vendere giornali. Ho osservato lettori assorti, per ritrovarmi fra le loro pagine, per perdermi nei loro sogni e pensieri, per aiutarli a scoprire finali di storie d’amore e di polizieschi intriganti. Li ho guardati da lontano, ad alcuni ho portato un fiore.

La natura è immersa nella città, spesso curata, domata dalle abili mani dell’uomo, ed elegante come nel Jardin du Luxembourg, ma talora anche indomita, come nel Jardin Sauvage di Montmartre.
Partendo, dunque, dal centro, iniziamo con il Jardin du Luxembourg, inaugurato nel 1612 da Maria de’ Medici, tra i più grandi della Ville Lumière. Esso presenta una ricca vegetazione ed è ricco di statue e monumenti, come la celebre Fontana dei Medici, composta da una lunga vasca con gli alberi ai lati che si conclude con un’edicola, la Statua della Libertà realizzata da Frédéric Bartholdi (riproduzione dell’originale donata agli Stati uniti), il busto di Charles Baudelaire, la statua di Beethoven, la Fontana dell’Osservatorio e tante altre riproduzioni di personaggi famosi.

Jardin du Luxembourg, clicca le immagini per ingrandirle.

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Una fresca passeggiata mattutina nel giardino, con sosta di fronte alla romantica Fontana dei Medici, risveglia sensi e sogni di epopee passate ricche in sfarzo, amori e fantasia. Il leggero vento vi accarezzerà capelli e pensieri e vi condurrà per mano, camminando, alla ricerca di altri luoghi incantati simili. Proseguiamo leggeri e alleggeriti, allora, sorridendo a un lettore su una panchina che ha momentaneamente accantonato la sua fiammante e severa bicicletta.

La bellezza unica del giardino più antico della città arriverà con il meraviglioso Jardin des Tuileries, imperioso, severo, squadrato e geometrico, realizzato nel XVII secolo su un progetto dell’architetto André Le Notre. Il giardino è relativamente piccolo, ma riccamente decorato con meravigliosi gruppi di statue allegoriche di grande interesse per la loro importanza storica e artistica, tra le quali alcune realizzate da grandi artisti, come Auguste Rodin o Alberto Giacometti.

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Giardini de Les Tuileries

Ci sono poi i fiori colorati e solari della passeggiata sull’avenue degli Champs-Elysées: i petali delle rose e i toni sgargianti e sguaiatamente allegri della primavera si perdono leggermente fra i fumi della automobili e i sapori intensi delle brasserie, ma il loro profumo audace e tenace rimane aleggiante nell’aria fresca. L’area occupata da questi giardini fu progettata dall’architetto Le Nôtre, alla fine del XVII secolo, per dare al re, che si affacciava dal palazzo delle Tuileries, una vista gradevole. La stessa piacevolezza che cogliamo noi, oggi. Colori e aromi invadono l’aria.

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Giardini degli Champs-Elysées

I vicini giardini del Louvre abbracciano i passanti, ammiccando e inchinandosi, rispettosamente, alla carezza di una bella e sinuosa ragazza mora. Passarvi accanto è sempre eccitante, soprattutto se si è diretti alla pasticceria Angelina sul Quai du Louvre o se s’intende visitare un antiquario che ci porterà indietro nel tempo e nei sogni.

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Giardini del Louvre

Noi, imperterriti, continuiamo nella ricerca degli spazi verdi più affascinanti e intriganti. Un po’ fuori Parigi, nel cuore del Bois de Boulogne, eccovi arrivare, allora, al più bel posto fiorito della città, al Parc de Bagatelle. Il mio preferito. Qui mi sento in un altro mondo, in un altro tempo, con altri abiti e copricapi. Qui siamo sicuramente tornati indietro negli anni. Siamo soli, pur circondati dalla gente. Un vialetto, un po’ tortuoso e intarsiato, degno di una favola, ci conduce, quasi per mano, a parco e castello, costruiti in soli 64 giorni, in seguito a una scommessa tra Maria Antonietta e il Conte D’Artois. Per realizzare quest’opera eccezionale, in così breve tempo, furono necessari circa 900 manovali e il suo progetto fu redatto in una sola notte dall’architetto Belanger. Il Parc de Bagatelle è uno dei più grandi parchi pubblici di Parigi, si estende su oltre ottocento ettari. Fu progettato unendo gli stili inglese e cinese, quasi in un magnifico e possente abbraccio.

Parco della Bagatelle, clicca le immagini per ingrandirle.

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Nella tenuta è curato un giardino di rose di fama mondiale, con più di 9000 piante divise per 1200 specie diverse. Ma non sono solo le rose lo splendore dei giardini: si possono ammirare iris, peonie e ninfee cresciute in un apposito e curato laghetto, oltre che una grande varietà di piante perenni. Il parco, dopo la Rivoluzione francese, fu utilizzato come riserva di caccia da Napoleone e, solo successivamente, fu restituito alla famiglia d’Artois. Dopo vari passaggi di proprietà, nei secoli, fu riqualificato sotto l’amministrazione di Jean-Claude Nicolas Forestier – Commissario ai Giardini di Parigi – nel 1905, che si occupò attentamente di dei giardini mantenendone lo stile originario e aggiungendo zone dedicate ai fiori. ‘Amazing’, direbbe un curioso turista inglese.
I chioschi di tempi passati ci portano lontano con pensieri e immaginazione. Dietro a essi si sussurravano parole dolci, tenerezze infinite fra amanti nascosti dall’ombra dei loro stessi cuori. I cancelli intarsiati come merletti, dalle alte, possenti e nobili punte dorate, svettano verso un cielo azzurro quasi a ricordarci che, anche noi, in fondo, siamo infiniti. Le cascate zampillano, sfiorano le mani socchiuse e zampettano come uccelli innamorati. Le nuvole scompaiono, tutto porta serenità, qui, in questo luogo magico. Solo verde e pace. Qui ci perdiamo fra laghi, cespugli e farfalle racchiuse in cornici di vetro, quasi a voler osservare, immobili, lo scorrere del tempo e l’immutabilità dei luoghi. Un tempo fermato lì, per noi. Qui ci perdiamo fra le ali di una farfalla forse scappata da un libro, da una pagina di pergamena.

Testo pubblicato anche su BioEcoGeo giugno-luglio 2014, oggi modificato per FerraraItalia.
Foto di Simonetta Sandri.

Expo, attesi 20 milioni di visitatori e 10 miliardi di incasso. Anche Ferrara va a traino

‘The great exhibition of the works of industry of all nation’ (La grande esibizione dei lavori dell’industria di tutte le nazioni) fu il nome che venne stabilito per la prima esposizione universale tenutasi a Londra nel 1851, dove in seno alla fioritura della prima rivoluzione industriale, si scelse di mostrare al mondo i nuovi simboli dell’innovazione.
Da allora la portata culturale di quest’evento si è sensibilmente modificata. A 30 giorni dall’inaugurazione di Expo a Milano è iniziato “lo sprint finale” con conseguente intensificazione dei lavori: nonostante le critiche alla scelta, in parte politica, di tenere questo evento, i ritardi e le inchieste, il primo maggio il capoluogo lombardo acquisirà una veste internazionale per affrontare il tema dell’agro-alimentare.
Tra gli obiettivi della manifestazione si enunciano il rafforzamento del circuito turistico, il potenziamento dell’internazionalizzazione delle imprese agro-alimentari, la tutela dei marchi e della qualità connessa all’idea di uno stile di vita salutare e l’incentivazione di connessioni con i poli di ricerca e tecnologia; in questo senso la contraddizione più forte risiede nella scelta di main sponsor come Coca-Cola e McDonald, che però, da un certo punto di vista, rappresenterebbero anch’essi lo slogan “nutrire il pianeta, energia per la vita”.
Per cogliere pienamente il significato economico dell’esposizione ci si avvale di alcune stime, in certi casi ottimistiche, che riferiscono un flusso turistico di circa 20 milioni di visitatori che apporterebbe un’entrata di quasi 10 miliardi di euro alle casse dello Stato.

In riferimento alle imprese che parteciperanno invece, è da considerare l’influenza che possono avere l’aumento delle esportazioni, i potenziali nuovi investimenti, anche esteri, e l’accesso ad un pubblico più ampio e internazionale che, tramite l’interazione, contribuirà indirettamente all’aggregazione o alla creazione di start-up (che a sua volta generano nuovi posti di lavoro).
Insomma, una vera e propria spirale virtuosa che aumenta il raggio dei benefici a tutte le imprese che partecipano all’evento tramite delle esternalità o influenze involontarie come, ad esempio, il valore intangibile legato all’immagine dell’evento che si riflette su tutti gli attori coinvolti.

L’effetto maggiore però, si avrebbe dalla visione di Milano come hub o centro che, come nella ruota di una bicicletta, si collega all’esterno mediante i suoi raggi.
Ferrara, allora, potrebbe costituire un suo raggio e partecipando direttamente all’esposizione con piccole aziende produttrici di vino, birra e ortaggi, potrebbe trarne vantaggio tramite l’aumento della domanda, di conseguenza della produzione ed in questo modo favorire imprese vicine che le forniscono materie prime e che, a loro volta, ne risentiranno con un aumento della propria produzione.
Inoltre, tramite la creazione di iniziative quali Visit Ferrara, di impatto culturale, o contribuendo finanziariamente alla nascita di aggregazioni per favorire la creazione di nuovi prodotti a vantaggio dello sviluppo sostenibile, si è cercato di coinvolgere maggiormente il territorio ed implementare la risposta dei turisti.
In conclusione, che le stime rappresentino o meno l’espressione di voli pindarici si avrà modo di comprenderlo solo a conclusione dell’esposizione mondiale, se non addirittura dopo diversi anni, in relazione ai suoi effetti sullo sviluppo economico; in questo senso viene da ricordare come nel 1878, anno in cui si tenne l’exposition internationale d’eletricitè a Parigi, Edison presentò i brevetti della macchina dinamo elettrica, furono subito acquistati e, a distanza di anni, fu costruita a New York la prima centrale elettrica al mondo, grazie all’evoluzione della sua idea nel tempo.

Il mondo ‘a la fin del mundo’. Viaggio in Patagonia e nella Terra del fuoco

Luoghi enigmatici animati da personaggi coraggiosi e intraprendenti ritratti dalle migliaia di parole che eccellenti scrittori hanno consegnato alla nostra voracità di lettori curiosi e affascinati. Soggetti che hanno acceso nella mia immaginazione lo stimolo a una bramata esperienza da vivere, nel punto geografico del mondo ancora chiamato “la fin del mundo”.
Charles Darwin, Francisco Coloane, Bruce Chatwin in ordine cronologico di nascita, per diverse motivazioni hanno rappresentato al meglio ciò avrei voluto mi rimanesse scolpito nella mente di questo viaggio. Ma vi è anche un quarto narratore, meno famoso, che a mio parere ha lasciato una traccia profondamente poetica del lembo estremo sudamericano: padre Alberto Maria De Agostini.

Canal Beagle
Padre Alberto Maria De Agostini
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Grande esploratore e fotografo della Patagonia

Nato nel 1883, religioso salesiano, grande esploratore, fotografo e presbitero italiano, padre de Agostini era celebre nell’area perché operava in aiuto agli ultimi indios fueguini, e per le sue grandi esplorazioni della Patagonia e della Terra del fuoco nei primi decenni del ‘900. Da ricordare, oltre alla sua attività di fotografo e documentarista, anche il suo contributo alle scienze naturali e all’antropologia: raccolse minerali e fossili, contribuì attivamente alla classificazione di numerose specie vegetali, approfondì le conoscenze sulla morfologia glaciale delle zone esplorate e descrisse la vita e le tradizioni degli ultimi indigeni.

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Patagonia, Terra del fuoco, Canal Beagle

Un viaggio viene intrapreso frequentemente per percorrere le orme di un esploratore, un mito della propria infanzia o una leggendaria figura della storia; nel mio (nostro) caso (ho condiviso questa esperienza con mia moglie Anna, inizialmente in po’ frenata) molto avviene per un innato e insopprimibile desiderio di scoperta.
Il periodo migliore suggerito per visitare questo triangolo estremo del nostro globo terracqueo è l’inverno del nostro emisfero nord, corrispondente all’estate australe. Previsioni di temperature a Capodanno che si aggirano fra lo 0 °C e qualche grado sotto. Siamo volati da Bologna il 27 dicembre 2010 e, via Roma, siamo atterrati a Buenos Aires con Aerolineas Argentinas 14 ore dopo, dall’altro lato del mondo, dell’Equatore e dell’Oceano Atlantico, alla latitudine della città Sudafricana di Cape Town, a circa 35°C di temperatura (a Bologna avevamo lasciato -5°) e con diverse ore di sonno da recuperare per il fuso orario.

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Buenos Aires, vista aerea
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Buenos Aires, favelas

Il trasferimento verso l’albergo ci ricorda che Buenos Aires dopo la crisi del 2000 ha sì un trend di crescita elevato visibile nelle costruzioni che si innalzano al cielo, ma dove le ‘villas miserias’, più note in Brasile come favelas, incombono drammaticamente. Buenos Aires, che visiteremo in parte anche al ritorno dal sud del Paese, è una città di dimensioni enormi con 12 milioni di abitanti (su 40 milioni totali in Argentina ). La nostra guida ci dice che oltre il 50% degli abitanti ha un cognome italiano, frutto di un esodo dall’Italia che, a cavallo fra ‘800 e ‘900, portò milioni di italiani a solcare l’oceano verso il sogno in Sudamerica ma dove le terze e quarte generazioni dalla grande migrazione hanno perduto oggi il legame con la terra dei padri.

Buenos Aires è la citta della Plaza de Maio e delle migliaia di desaparecidos, è la città del quartiere Caminito dove, fra le case in legno colorate, nei primi anni del ‘900 nasce il Tango (ancora ballato nelle strade), dove si mangia la miglior carne di mucca del mondo cotta all’’asado‘, è la citta del Gran Café Tortoni dal 1958 e del Liberty, ancora esibito e palpitante in tantissimi angoli della città.

Da qui inizia un viaggio verso sud nelle distese apparentemente senza confini della Patagonia, fra migliaia di pinguini di Magellano a Punta Tombo, di guanacos, di albatross, di leoni marini, di foche, di megattere gigantesche che risalgono dal profondo marino per respirare in superficie e farsi ammirare da noi turisti avidi di ogni immagine rubata ad una natura che appare qui resistere.

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Ma lo spettacolo da prima fila è certamente il ghiacciaio Perito Moreno raggiungibile da El Calafate, centro abitato sul lago Argentino trafficato da inquietanti iceberg galleggianti. Il ghiacciaio, alto 60 metri per 250 km quadrati, è immenso e schiaccia la dimensione umana, oltre a prestarsi per un whisky on the rock servito con il ghiaccio centenario recuperato a colpi di accetta, riserva colori e sfumature bianche, blu, turchese indimenticabili, che lascio descrivere alle parole di Padre De Agostini “Lo sguardo si spinge avido attraverso quell’immensa estensione di nevi, di ghiacciai e di giogaie che la cristallina trasparenza dell’atmosfera e la sfolgorante luce del giorno rendono ancora più evidente, e cerco di scrutarne i segreti.” (Alberto M. De Agostini, “Ande Patagoniche”, Vivalda Editori, Torino 1999).

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Terra del fuoco, ghiacciaio Perito Moreno

Una escursione al Parque nacional Torres del Paine in territorio cileno, nell’area andina, ci consente di ammirare senza fiato una natura a colori mai vista prima. Scendiamo a Sud, un percorso di centinaia di chilometri in aereo e in autobus nella piatta patagonica fra distese di pecore e di stupende e isolate ‘estancias’ (fattorie); un’emozione unica attraversare lo stretto di Magellano che separa a nord la Terra dei Patagoni e a sud la Terra del fuoco, e poi ancora verso sud ai confini del mondo dove Charles Darwin imbastiva la sua teoria evoluzionista.

Ecco la Terra del fuoco o Tierra del fuego, così chiamata da esploratori spagnoli cinquecenteschi che videro fra le brume tanti fuochi degli indigeni residenti, esplorata a fine ‘700 dallo scienziato antropologo e naturalista a bordo del brigantino inglese Beagle, comandato dal mitico capitano Fitz Roy, oggi scolpito nella toponomastica cilena con una cima altrettanto mitica per gli scalatori, la cima Fitz Roy inglobata nel gruppo Cerro Torre nella catena andina.
Puntiamo ancora a sud sul Canal Beagle, così chiamato oggi, sul quale si rispecchia la città di Ushuaia posta fra il 54° e il 55° parallelo, città considerata la più a sud del mondo abitato, circondata da alte montagne e raggiungibile attraverso un aeroporto che, visto dall’alto, sembra un minuscolo cordone sabbioso circondato dalle acque del canale. Da non dimenticare l’esperienza gastronomica dell”asado’ (arrosto), il ‘cordero’ o agnello cotto alla brace in vertical, e del Tren del fin del mundo, il vecchio e ottocentesco treno del presidio carcerario per detenuti ai lavori forzati, che oggi consente la visita al Parco nazionale della Tierra del fuego. Il cielo terso e le sue stelle, milioni di stelle (a queste latitudini estreme sono uno scenario notturno indimenticabile e impareggiabile) che padre De Agostini descrive così: “Quando… I nostri occhi contemplano di botto la volta azzurra del cielo dove scintillano migliaia di stelle, l’anima si sente come sorpresa e annichilita, e innalza spontaneamente la sua umile preghiera di adorazione a Dio, sommo Fattore di sì grandi meraviglie.”

Poche miglia più a sud ci sono Capo Horn, con i suoi velieri affondati nelle tempeste e, ancora più a sud, l’Antartide. Ma questa è un`altra storia da raccontare.

Le foto della Terra del fuoco sono di Marco Bonora.

Il nuovo Boldini? Digitale e tecnologico ma sempre non allineato

Il Cinema Boldini è l’unica sala d’essai di Ferrara, ci sono passate intere generazioni di cinefili, attori e registi. Chi non ci ha visto un film che gli è rimasto dentro per sempre? Chi non ha formato attraverso le sue proiezioni la propria cultura (e qualcuno magari anche un lavoro nel cinema)? Chi non si è innamorato su quelle poltroncine?

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Il Boldini, per gli amici Boldo, è di proprietà del Comune e la programmazione serale viene gestita dal circolo Louise Brooks dell’Arci. Per lungo tempo il responsabile è stato Roberto Roversi, ora presidente nazionale di Ucca, Unione dei circoli cinematografici Arci. Adesso la referente è Alice Bolognesi, laureata al Dams, ex servizio-civilista poi entrata in forze all’associazione ferrarese. E’ lei che si occupa della programmazione del cinema, e noi l’abbiamo intervistata per capire come funziona.

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Chi sceglie i film che vengono proiettati al Boldini?
“I film hanno una distribuzione nazionale che viene filtrata e di conseguenza gestita dalle agenzie regionali che hanno in esclusiva una serie di titoli da programmare nelle sale cinematografiche”.

Quali sono i criteri?
“Sicuramente incide il profilo della sala cinematografica. In una sala d’essai come il Boldini passano in prevalenza titoli premiati a festival internazionali e film d’essai”.

Cosa viene deciso dalle agenzie di distribuzione e cosa rimane all’autonomia del cinema?
“Il cinema ha pochissima autonomia, la vita di un film in sala dipende molto dalle presenze della prima settimana di uscita, però l’ultima parola è delle agenzie di distribuzione regionale. Abbiamo invece piena autonomia sulle rassegne anche se dobbiamo ovviamente fare i conti con le uscite e le richieste delle distribuzioni”.

Oltre alla programmazione, Arci ha anche lavorato per adeguare la sala all’evoluzione tecnologica. Un passaggio necessario, ma non indolore che ha comportato la sostituzione di schermo e proiettore.
“Lo schermo andava cambiato, quello vecchio credo avesse qualcosa come vent’anni.
Il nuovo proiettore digitale ha un fascio di luce molto più potente rispetto al 35 millimetri. Se avessimo mantenuto il vecchio schermo la qualità delle proiezioni sarebbe stata pessima.
Il digitale ha pro e contro. Sicuramente è semplice gestire più titoli anche per una sala sola come la nostra, possiamo proiettare più contenuti e in diversi formati.
Con il digitale abbiamo la possibilità di proiettare film in lingua originale. Con le pellicole era praticamente impossibile, venivano infatti stampate pochissime copie con dei costi di noleggio altissimi.
Altro aspetto interessante è la trasmissione satellitare: questa tecnologia ci consente di trasmettere contenuti in live streaming.
Lo svantaggio maggiore del digitale riguarda invece la parte tecnica: se il proiettore digitale ha dei problemi il rischio di annullare la proiezione è dietro l’angolo, con il 35 millimetri questo era praticamente impossibile. Se si rompeva la pellicola o si bruciava una lampada si riusciva comunque a proiettare, a risolvere dalla cabina.
Con il proiettore digitale invece si rischia proprio di mandare a casa gli spettatori.
Ulteriore nota negativa è l’usura e l’avanzamento di nuove tecnologie (che non è una cosa negativa in generale, anzi!): i primi proiettori digitali sono già considerati obsoleti e poco performanti rispetto a quelli nuovi. Con il digitale si vive un po’ nel “terrore” di dover cambiare dei componenti della macchina. Con dei costi non indifferenti”.

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Il Boldini ha sempre cercato di associare le proiezioni alla presenza degli autori, l’ultima in ordine di tempo è stata “Qui” di Daniele Gaglianone, dove il regista era in sala per parlare del movimento No Tav. Ultimamente si sta anche sperimentando la formula dell’evento associato al film, come per esempio lo spettacolo di danza di Elisa Mucchi che qualche sera fa ha anticipato il documentario “Dancing with Maria” di Ivan Gergolet. [clicca qui per leggere il nostro articolo]

Quali saranno i prossimi eventi?
“Per il mese di aprile abbiamo in programma la rassegna del Festival dei Diritti, due serate di Doc in Tour e due sorprese italiane: il documentario ‘Smokings’ il 14 aprile e il film ‘The repairman’ il 21 aprile.
Per il mese di maggio stiamo organizzando una rassegna in collaborazione con Arcigay dove non mancheranno prime visioni e incontri con autori.
Finita la programmazione primaverile, durante l’estate, il Boldini sospende la programmazione e si trasferisce all’aperto proponendo il meglio della stagione precedente. La location non è fissa. All’inizio è stata il parcheggio dell’Ipercoop le Mura, poi il Parco Pareschi, infine il giardino di Palazzo dei Diamanti”.

Qual è al momento la situazione dell’arena estiva?
“Ci stiamo lavorando, sicuramente cambieremo location.
Dal 2012 infatti eravamo ospiti di Palazzo dei Diamanti ma quest’anno con il prolungamento della mostra fino al mese di luglio non sarà possibile utilizzare il cortile adiacente per l’allestimento del cinema all’aperto.
Stiamo valutando diverse situazioni per offrire uno spazio alternativo e una proposta culturale valida per il pubblico che resterà in città nel periodo estivo”.

(foto di Stefania Andreotti)

Il programma del cinema è visibile qui [clicca].

IL FATTO
Quando le notizie sono a fumetti

Alcuni giorni fa è nato un portale di notizie, inchieste, approfondimenti e reportage a fumetti, una bella idea, fresca e innovativa, capace di attirare anche i più giovani (ma non solo). Si tratta di una bella scelta, quella di un giornalismo innovativo, che accosta alla notizia un disegno accattivante e invitante. Il primo sito italiano digraphic journalism”, intitolato semplicemente “Graphic News” (www.graphic-news.com), sviluppato dall’intuizione di Gianluca Costantini ed Elettra Stamboulis, in una redazione tutta bolognese. Il progetto è partito dalla cooperativa Pequod [vedi], fondata nel 2014 da Michele Barbolini, Pietro Scarnera, David Biagioni, Federico Mazzoleni, ideato con l’associazione Mirada di Ravenna [vedi], nata nel 1997, e realizzato col sostegno del bando 2014 Culturability della Fondazione Unipolis e del bando 2014 Incredibol del Comune di Bologna. Quale nome più adatto per una partenza… Pequod, d’altronde, era la baleniera di Moby Dick, comandata dal capitano Achab, a caccia di balene e capodogli, e in particolare dell’enorme balena bianca, sfida dell’uomo alle grandi forza della Natura, e Mirada, in spagnolo, significa sguardo. Risuona in essa anche la radice latina di miror, che significa stupirsi. Mirada vuole, dunque, proporre sguardi, stupore e sensibilità visiva. E ci è riuscita.

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La redazione si presenta

Il sito, per ora, parte con nove storie, divise in cinque sezioni, tutte rese possibili dall’esperienza sul campo degli autori: news, economia, cultura, scienze, sport. Tra quelli coinvolti, per il momento, ci sono sia nomi già noti che meno, esordienti: Gianluca Costantini, Marco Garofalo, Mattia Moro, Cristina Portolano, Emanuele Racca, Giulia Sagramola, Pietro Scarnera, Francesca Zoni, Brochendors Brothers. Presto, però, arriveranno anche colleghi internazionali. Un bel gioco di squadra, giovane e vispa.

 

 

 

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Fumetto di Giulia Sagramola
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‘Giovani, carini e tartassati’

Così, tra le news, possiamo leggere “Povere veneri”, di Francesca Zoni, che si sofferma sulla vita delle prostitute bolognesi con curiosità e delicatezza (insieme alle volontarie dell’associazione Libera che portano alle ragazze generi di conforto), “Giovani, carini e tartassati”, di Giulia Sagramola, che racconta di tutte le tasse cui sono esposti i poveri, tartassati e indifesi freelance o “Gli ultimi manicomi”, di Emanuele Racca, che indaga sugli ospedali psichiatrici giudiziari e sostiene la campagna Stop Opg [vedi], che ne sollecita la chiusura.

Anche se la fruibilità va ancora migliorata (leggendo su Ipad, ad esempio, si deve girare il dispositivo e la lettura non è sempre agevole per alcuni titoli che, a volte, si accavallano alla notizia), il primo impatto è, generalmente, positivo e piacevole. Una grafica facile da comprendere, semplice, chiara e accattivante, storie da leggere ma soprattutto da vedere. E ci si può anche immaginare dentro di esse, ci si può vedere scorrazzarvi qua e là, attraversarne le righe. Il tema sociale, per ora, pare prevalere. Ma vi è anche una sezione culturale, che ospita un’intervista immaginaria, di Marco Garofalo, “Il bar non mente mai”, con citazioni di Charles Bukowski che raccontano lo scrittore americano sotto una luce particolare, non solo un grande bevitore. C’è spazio per i commenti dei lettori e i link ai social network e a quelli delle varie iniziative di cui si parla. E’ previsto un aggiornamento settimanale, con nuove storie e una versione inglese. Una sperimentazione costante, con al centro le storie, un laboratorio di idee che parte dall’Italia e guarda il mondo, nuove chiavi di lettura. Da seguire.

Clicca qui per visitare il sito

LA SEGNALAZIONE
Turismo accessibile, Gondola4All

“La libertà è quando si è liberi di poter andare dove si vuole”. Leggendo questa frase che lancia la campagna di crowdfunding dell’iniziativa che mira ad eliminare le barriere a Venezia permettendo ai disabili in carrozzina l’accesso alle gondole, ho ricordato la disagevole sensazione di frustrazione che si prova quando non ci si può muovere come si vuole.

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Un bambino in carrozzina a Venezia di fronte al canale
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Una bambina in carrozzina trasportata a braccia sulla gondola

La mia esperienza era ed è legata all’impossibilità o alla difficoltà di spostarsi liberamente in Paesi dove manca la sicurezza, quando devi sempre essere accompagnato, quando devi guardarti intorno con circospezione, quando non puoi camminare per le strade, salire su un taxi o un autobus qualsiasi, parlare con chi vuoi. Lì capisci quanto sia davvero importante la libertà di potersi muovere, quanto sia bello poter prendere un bus o un treno. L’esperienza di un familiare è invece, e purtroppo, legata all’impedimento fisico, quello motorio, che ti lega agli altri e alla speranza che barriere architettoniche impietose non t’impediscano di accedere a servizi fondamentali o a bellezze architettoniche o paesaggistiche uniche. Ricordo bene, in proposito, il maestro Bernardo Bertolucci quando si era corrucciato per l’impossibilità di accedere al Campidoglio con una sedia a rotelle. Il problema non era solo il suo ma quello, ovviamente, di tante persone nelle sue condizioni.

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Disegno del pontile che si vuole realizzare

Ecco alcuni dei motivi per i quali ci sembra importante segnalarvi un’importante iniziativa che vuole assicurare ai turisti in carrozzina la possibilità di ammirare, da una gondola, la bellissima, magica e romantica Venezia. Si cerca aiuto dalla rete, con il crowdfunding lanciato dalla Onlus Gondola4All che vuole permettere ai disabili l’accesso alle gondole. Si tratta di raccogliere 56.000 dollari per costruire un pontile galleggiante che ospiti una pedana automatica in grado di garantire un inserimento sicuro e controllato della persona con la sua carrozzina. Contribuire è davvero molto facile, basta donare un importo qualsiasi o scegliere un contributo fisso proposto dalla campagna che poi darà diritto anche alla scelta di uno dei premi (dalle t-shirt al giro in gondola in anteprima, fino alla sponsorizzazione con il proprio nome di uno dei quattro pali del pontile).

gondolas4allTutti devono poter provare l’emozione di percorrere i canali e le calli di Venezia affacciandosi ad essi direttamente dalla laguna, di percepire la magia che proviene dai riflessi delle piccole onde che accarezzano, leggere e spensierate, la gondola che sfreccia leggera.
Nessuno deve esserne escluso, la bellezza non va preclusa ad alcun essere umano che voglia sentirla scivolare sulla sua pelle. Tanto più se a impedire sono parti del nostro stesso corpo, di una vita che vuole vivere, comunque. La bellezza è di tutti e deve essere per tutti. Il vostro aiuto è molto importante, dunque, la campagna si conclude il 7 maggio. Pensateci!

Per aderire alla campagna:
Clicca qui per vedere il cartoon promozionale
Clicca qui per vedere il video promozionale
Per informazioni visita il sito di Gondolas4all [vedi] e la pagina Facebook [vedi].

IL FATTO
Caschi Blu della cultura a difesa dei beni artistici

“Una forza internazionale per difendere monumenti e siti archeologici nelle zone di conflitto”. E’ la proposta avanzata dal ministro Franceschini in risposta alla barbarie. Che la distruzione dei beni culturali sia un crimine contro l’umanità era stato sostenuto già a fine febbraio dal Wall Street Journal, a commento del video di 5 minuti postato dall’Isis sulla distruzione delle sculture dell’antica Mesopotamia al Museo di Mosul, in Iraq, “colpevoli” di promuovere l’idolatria. Le denunce pubbliche erano subito arrivate da personalità del calibro di Thomas Campbell, direttore del “Metropolitan Museum of Art” di New York e di Irina Bokova, direttore generale dell’Unesco. Se alcuni esperti avevano indicato che si trattava di copie, era evidente che, comunque, alcuni originali erano coinvolti.

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2009, distruzione delle statue di Buddha (Afghanistan)

L’evento aveva scatenato riflessioni, discussioni, richieste di modifiche di normative ormai obsolete e non adatte a un mondo così diverso e cambiato nel rispetto dei suoi beni culturali (e non solo). Alcuni anni fa, migliaia di libri rari e di manoscritti avevano fatto la stessa fine in Mali (in particolare a Timbuktu), nel 2001, in Afghanistan, un amaro e triste destino era toccato a due imponenti statue di Buddha, tombe e chiese erano state saccheggiate o distrutte in altri luoghi affascinanti del mondo, molti oggetti di valore erano finiti sul mercato nero. Un vero disastro.

In quelle occasioni come in Iraq, tutti gli sforzi fatti nel tentativo di proteggere importanti opere d’arte erano falliti, la comunità internazionale aveva assistito, inerme, a un terribile spettacolo di distruzione. Così, il Wall Street Journal aveva invocato la necessità di alzare la voce, tutti insieme. L’applicazione della Convenzione delle nazioni unite dell’Aia (1954), che proibisce l’utilizzo dei monumenti e dei siti a fini militari, non è sufficiente. Una convenzione di tale tipo è sicuramente irrilevante (e impotente) di fronte ad atti come quelli avvenuti in Iraq ed ha un’applicazione ristretta. Bisogna, dunque, essere pronti a dichiarare che la distruzione del patrimonio culturale sia da considerarsi un crimine contro l’umanità, con punizioni adeguate a livello della Corte penale internazionale dell’Aia. Sono necessarie, però, alcune modifiche. Il problema è, infatti, che la distruzione intenzionale di edifici religiosi, di strutture aventi fini educativi o di sviluppo delle arti, o di monumenti storici e ospedali è prevista come crimine dallo Statuto della Corte penale internazionale (art.8.2 IX) solo se commessa, intenzionalmente, nell’ambito di una guerra vera e propria e sempre che non si tratti di obiettivi militari. Purtroppo, oggi, siamo di fronte a conflitti che non rientrano più nella nozione di guerra elaborata dal diritto internazionale. Quasi mai il conflitto investe Stati “ufficialmente” nemici con eserciti tradizionali; quasi sempre la guerra si rivolge contro le popolazioni civili, terrorizzandole, costringendole ad abbandonare le proprie case, le proprie tradizioni, la stessa cultura su cui si fonda la loro esistenza. Il patrimonio culturale non è costituito solo da begli oggetti, pronti per turisti e musei, ma è l’insieme del passato di un popolo, la sua memoria, il suo futuro, un modo per comprenderci l’un l’altro. Distruggerlo significa attaccare la storia, l’identità e la civilizzazione.

Manoscritti di Timbuktu (Mali)
Manoscritti di Timbuktu (Mali)

La distruzione del patrimonio culturale è da considerarsi un crimine di guerra e contro l’umanità. E in tale direzione si è mosso, il Parlamento europeo, lo scorso 12 marzo, con l’approvazione relazione annuale sui diritti umani che include un emendamento dell’eurodeputata del Pd Silvia Costa, per perseguire le forme di distruzione del patrimonio culturale e artistico iracheno e siriano come crimini di guerra e contro l’umanità. L’emendamento pone l’accento sul fatto che “anche sulla base delle Convenzioni Unesco, la diversità culturale e il patrimonio culturale costituiscono un patrimonio universale alla cui protezione e valorizzazione l’intera comunità internazionale ha il dovere di cooperare”, e “ritiene quindi che siano da perseguire fermamente come crimini di guerra e crimini contro l’umanità le forme di distruzione del patrimonio culturale e artistico perpetrate intenzionalmente, come sta avvenendo in Iraq e in Siria”. Non si deve togliere a nessuno il diritto di avere una memoria, che passa anche attraverso reperti e monumenti. L’onorevole Costa, in un’intervista, ha dichiarato di aver voluto richiedere “che nell’ambito dell’universalità dei diritti umani e anche sulla base delle due convenzioni dell’Unesco, la comunità internazionale debba cooperare e verificare quali azioni mettere in campo per proteggere il patrimonio artistico e culturale e chiedere attraverso un voto unanime che queste distruzioni siano perseguite come crimini di guerra e crimini contro l’umanità”. “Nell’ambito dello Statuto della Corte penale internazionale dell’Aia”, continua l’eurodeputata, “sicuramente per crimine di guerra s’intende “dirigere intenzionalmente attacchi contro edifici dedicati al culto, all’educazione, all’arte alla scienza a scopi umanitari, monumenti storici”. Noi già oggi possiamo dichiarare che questo è un crimine di guerra (ma con il limite cui si è accennato, aggiungerei). Secondo la nuova concezione aggiornata dei diritti umani, la cultura fa parte dei diritti umani fondamentali, sia l’accesso alla cultura, sia la libertà di espressione attraverso la cultura. Ci sono due convenzioni dell’Unesco: quella del 1972 sull’identificazione, la protezione e la conservazione del patrimonio mondiale culturale, rafforzata nel 2003 dalla convenzione Unesco sul patrimonio europeo, e quella del 2005, sulla protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali e linguistiche.
Non a caso pochi giorni fa, la direttrice generale dell’Unesco ha ribadito che ormai si può considerare la distruzione del patrimonio culturale protetto dall’Unesco (patrimonio comune) come un crimine commesso ai danni dell’umanità intera. In questo senso si giustifica la dicitura di crimine contro l’umanità, perché il patrimonio fa parte di un popolo, della sua storia, del suo futuro. Concretamente, distruggendo reperti del VII secolo al museo di Mosul, si è tolto all’umanità il diritto di avere una memoria”. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu, lo scorso febbraio, ha approvato una risoluzione per bloccare la distruzione dei beni archeologici in Siria e in Iraq, ma non ha inserito nel mandato dei caschi blu la protezione dei Beni culturali dalla guerra.

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Caschi blu, forze di protezione dell’Onu

E il 20 marzo, il Ministro Franceschini ha proposto, in un’intervista a “The Guardian”, l’istituzione di caschi blu per salvare il patrimonio culturale. Si tratterebbe di una sorta di “caschi blu della cultura”, una forza internazionale di risposta rapida per difendere monumenti e siti archeologici nelle zone di conflitto. Perché se in passato i grandi monumenti erano colpiti accidentalmente nelle guerre, durante i bombardamenti, oggi sono colpiti perché simboli di cultura e di una religione. Lodevole proposta ma che ha provocato anche molte reazioni contrarie o, per lo meno, alcune forti critiche.

In un contesto geopolitico di conflittualità come quello attuale, in cui la stessa comunità internazionale non si è dimostrata in grado di intervenire con risolutezza contro gli eccidi di esseri umani, proporre la creazione di missioni di peacekeeping dedicate alla tutela del patrimonio culturale ad alcuni può risuonare strano. Le missioni di peacekeeping, poi, hanno dei costi e la cultura non è certo in cima alle preoccupazioni della classe politica italiana e mondiale. Il direttore generale dell’Unesco ha, comunque, ringraziato Franceschini, per “l’importante e coraggiosa proposta di istituire una forza delle Nazioni unite dedicata alla tutela dei siti del patrimonio culturale dell’umanità per rispondere ai gravi attacchi del terrorismo”. Entrambi hanno concordato l’urgenza di avviare ulteriori passi in direzione della proposta, coinvolgendo l’Unione europea. E anche la Germania la sostiene “con convinzione”, l’ha riferito il Ministro della cultura tedesca, Monika Gruetters, durante l’incontro con Franceschini, a Berlino, il 24 marzo. L’Italia presenterà, in sede Unesco, una risoluzione per la salvaguardia del patrimonio culturale nelle aree di conflitto. Vedremo se si tratta solo di parole o se da esse si passerà ai fatti.

L’IDEA
Cene vegane per promuovere il territorio

Mettere le persone sedute attorno ad un tavolo è il modo migliore per condividere non solo sapori ma anche saperi. L’ha pensata bene il consorzio Visit Ferrara, nato in seno alla Camera di Commercio e composto da 86 soci, che ha lanciato “I giovedì dei sapori ferraresi” un tour enogastronomico in sei tappe, ognuna in un diverso ristorante della città fino a fine aprile. Menù a prezzo fisso che vanno dai dieci ai trenta euro, per conoscere la tradizione come le perle ferraresi, i vini delle sabbie o il pesce di valle, ma anche le contaminazioni come il cous cous, il carciofo in veste locale, o la cucina vegana fatta con prodotti del territorio, che è stata la scelta di Gaia Ludergnani dello Scaccianuvole, ristorante di via Cassoli che ha ospitato la seconda tappa del tour.

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foto di @Igersferrara

“Per noi – ha spiegato Ludergnani – è importante dare spazio a menù senza prodotti di origine animale, ma con ingredienti nostrani, così questa sera lo chef Marcello Minguzzi, ha preparato un’entrée con schiacciatina alla canapa cotta nel forno a legna, un antipasto con terrina di tofu aromatico e zucca su letto di radicchio, un primo di pasta di canapa con crema di broccoli e mandorle tostate, un secondo di brasato di seitan al Fortana con chips di zucca, e per finire dessert di tartelletta alla canapa con crema di riso e pere al vino rosso. Il tutto degustando i vini delle sabbie. Per noi oltre alla cucina vegana, è anche importante rifornirci da aziende d’eccellenza del territorio, infatti proponiamo i vini dell’azienda Mariotti e la pasta della Romagnola Bio”.

“Abbiamo due poderi a San Giuseppe di Comacchio e uno a Vigarano Mainarda – ha raccontato Mirco Mariotti, dell’azienda vitivinicola – noi produciamo soprattutto Fortana, Trebbiano e Malvasia, ma anche grappa e mosto cotto. Da due generazioni ci siamo specializzati in vitigni autoctoni, in particolari di quelli “franco di piede” dei terreni sabbiosi”.

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“Io produco pasta biologica dal 1987 – dice Paola Fabbri, della Romagnola Bio di San Biagio di Argenta – in un’azienda immersa in dieci ettari di verde, accanto ad un lago, dove lavoriamo farine che acquistiamo e poi trasformiamo noi. Le paste sono come i miei bambini, perché io non ho figli. Mi invento forme e combinazioni usando cereali alternativi al grano come Kamut, farro, mais, riso, grano saraceno, orzo, segale, e anche canapa. Negli anni ’90 siamo stati la prima azienda al mondo a fare la pasta del Kamut, che ora è molto diffusa. Abbiamo anche provato a produrre una pasta di grano Hathor, che il Conase sta sperimentando in alternativa al Kamut che qui da noi alletta e siamo costretti ad importarlo da Usa e Canada. La mia ultima invenzione è una pasta di equiseto che contiene silicio e fa bene a ossa, tendini e capelli. Un’altra cosa che ho ideato è la pasta di riso e lupino, molto proteica, che va bene anche per intolleranti alla soia. Poi ho fatto anche una pasta a basso contenuto di carboidrati con il baobab. Io mi reputo una sovversiva del gusto, guardo quello che fanno gli altri ma non per copiarlo: per farlo in modo diverso!”.

“Questa è la prima iniziativa che organizziamo – ha affermato Chiara Vassalli di Visit Ferrara – di solito promuoviamo quelle degli altri, ma in questo caso ci tenevamo a far conoscere queste realtà e a metterle in rete”.

“Il settore della ristorazione era il meno rappresentato nel consorzio – ha spiegato Matteo Buffoli di Visit Ferrara – che è composto prevalentemente da albergatori e agriturismi, per cui abbiamo voluto incentivare la loro presenza al nostro interno. Chi viene a fare turismo qui, deve anche mangiare, per cui è imprescindibile questa connessione tra ricettività e gastronomia. Nuove connessioni significano nuove possibilità di business”.

Il prossimo appuntamento sarà giovedì al ristornate Orsatti 1860 con una cena a base di pesce.

Qui il programma completo. [clicca]

LA CURIOSITA’
Con #MuseumWeek il museo archeologico di Belriguardo fa vetrina su Twitter

Importanti reperti in ambra, tra i quali un anello con una scena complessa di eroti (o amorini), esemplare unico al mondo, un balsamario in onice, unico esemplare integro al mondo e degli interessanti pettini d’osso e di avorio, provenienti da una necropoli bizantina. Sono alcuni dei cimeli del Museo civico di Belriguardo. Dopo l’inaugurazione della rinnovata sezione archeologica, alla presenza del ministro dei Beni e delle attività culturali e del turismo Dario Franceschini (lo scorso 14 marzo), ora un’altra novità per questa bella realtà di Voghiera. Parliamo della partecipazione, con il proprio account Twitter @M_Belriguardo, a #MuseumWeek, un’occasione, per una settimana, dal 23 al 29 Marzo, di far conoscere al vasto pubblico di Twitter la realtà di Belriguardo, sia quella ufficiale sia quella meno conosciuta, da “dietro le quinte”.
Il museo si trova a Voghiera, all’interno della Delizia di Belriguardo, la residenza estiva degli Este. Al piano terra si trovano esposti i reperti delle 67 tombe scavate nella necropoli di Voghenza, mentre, al primo piano, sono esposti i reperti provenienti dal territorio di Voghiera. Il museo nasce dal vecchio ‘antiquarium’ che si trovava a Voghenza, vicino alla zona archeologica e fu poi trasferito, nel 1994, nell’attuale sede che, nel 2001, è diventato Museo civico. Nel torrione sono presenti alcune opere dell’artista locale Giuseppe Virgili (1884-1968), nella sezione arte moderna. Nella Sala della Vigna, l’unico salone affrescato rimasto degli oltre cento che c’erano nel Rinascimento, oltre agli affreschi di Gerolamo da Carpi, Benvenuto Tisi da Garofalo e dei fratelli Dossi, Battista e Dosso, sono esposti i reperti trovati in una fossa di scarico nel primo cortile di Belriguardo  [vedi].

Ma cosa significa per Belriguardo partecipare al #MuseumWeek 2015 dal 23 al 29 marzo 2015? Molto, come si vede anche dalla pagina facebook del museo [vedi]. Durante questo periodo, infatti, le istituzioni culturali e i musei di tutto il mondo sono invitati a celebrare la cultura su Twitter. Promossa da una dozzina di community manager di musei e istituzioni culturali francesi in collaborazione con i team di Twitter, la #MuseumWeek 2014 ha conquistato 630 musei di tutta Europa [vedi]. Per il 2015 ci si è dati un duplice obiettivo: dare un’eco mondiale a questo evento dedicato alla celebrazione dei musei e attirare un numero di visitatori ancora più ampio, in modo ludico e partecipativo. Ecco i principi di questa seconda edizione:

● 7 giorni, 7 temi da condividere con tutti i partecipanti di ogni parte del mondo;
● ogni tema può essere esteso ai campi in cui sono specializzate le istituzioni (arte, scienza, storia);
● nei giorni feriali i vari temi incoraggeranno la comunicazione online, mentre nel week-end si darà maggiore risalto alla partecipazione attiva dei visitatori in loco;
● saranno promosse interazioni fra istituzioni, incluse quelle estere, e con il pubblico in visita.

Nei giorni scorsi si è fattoscoprire al pubblico la vita quotidiana delle istituzioni, il “dietro le quinte” ( #secretsMW); lo si è invitato a condividere i ricordi che hanno della loro visita al museo, ad esempio attraverso un oggetto (foto, magnete, libro, cartolina) o un incontro / momento che hanno lasciato il segno (#souvenirsMW); si è raccontata la storia dell’edificio, dei suoi giardini e dei suoi luoghi emblematici (#architectureMW); si è invitato il pubblico a catturare, intorno a sé, contenuti correlati alle specializzazioni delle istituzioni (#inspirationMW)

Domani, venerdì (#familyMW) si presenta ciò che offre l’istituzione per rendere una visita un’esperienza indimenticabile.

Sabato (#favMW)
S’incoraggiamo i visitatori a condividere, con foto o video, ciò che hanno amato di più del museo.

Domenica (#poseMW)
S’invitano i visitatori a considerare il museo come un set e a mettersi al centro della scena. Pose, selfie, … il pubblico occuperà lo spazio a modo suo.

Per le istituzioni che vogliono iscriversi (Belriguardo lo ha già fatto): andare sul sito del MuseumWeek2015 [vedi] e invitare, perché no, altre istituzioni a seguire il proprio esempio, ritwittando @MuseumWeek. Noi lettori, invece, seguiamo e (ri)twittiamo tutti Belriguardo! Forza!

LA SEGNALAZIONE
Matteo Bianchi e “La metà del letto”

«Per essere poeti, e sentirsi tali, non è necessario portare il ‘peso’ degli anni e della memoria, struggersi nella nostalgia o addirittura nel pessimismo. Basta amare la vita, sentirla, in tutte le micro e macro emozioni che ci riserva, anche e soprattutto nella quotidianità. E’ l’energia che si respira in “La metà del letto” (Barbera Editore), di Matteo Bianchi, collaboratore di varie testate giornalistiche e tra i fautori, nell’estate 2014, della prima edizione di Festival#Giallo Ferrara, una tre giorni di incontri tra scrittori, fumettisti, disegnatori. A conferma che la cultura è eclettica e multidisciplinare e priva di prerogative anagrafiche. Poco più di cento poesie il cui filo rosso, come suggerisce il titolo, è la ricerca dell’altra metà, intesa come femminilità che c’è in ciascuno. A partire dalla tenerezza, dalla dolcezza, dalla generosità, dalla gioia, che non sono requisiti di ‘genere’, anche se il pudore, soprattutto maschile, li imbriglia spesso sul nascere. Bianchi osserva, indaga e scrive di amicizia, amore, di come nascono e si interrompono rapporti e sentimenti universali su cui tutti noi continueremo in eterno ad interrogarci senza giungere mai a una risposta definitiva. Ma racconta anche il terremoto che nel 2012 ha piegato l’Emilia Romagna e Ferrara. Per lui, classe 1987, alla sua quarta pubblicazione, selezionato tra le voci dell’Atlante on line di poesia contemporanea dell’Università di Bologna, Ossigeno Nascente, «la poesia, oggi, deve incidere nel nostro intelletto e nel nostro cuore grazie a una forma efficace, deve trasmettere un ideale, deve condurre alla velocità del suo stesso ritmo non solo a una riflessione, ma a un’azione. Che sia una carezza, una stretta di mano, una presa di posizione. Basta che sia autentica».

Parcheggio dal vescovo. In pieno centro storico soste a pagamento gestite dalla Curia

C’è un grande parcheggio in pieno centro storico. Anzi, ce ne sono due. Ma pochi lo sanno. Fanno capo entrambi alla Curia arcivescovile.
Il primo sta proprio all’interno del palazzo del vescovo. Si entra da corso Martiri, si transita sotto lo storico portone e si raggiunge il cortile sterrato dove c’è spazio per una trentina di vetture. Il costo dell’abbonamento è di 120 euro mensili, ai quali vanno aggiunti 250 euro di tassa annuale da corrispondere al Comune per ottenere il permesso che consente l’accesso alla Ztl monumentale.

park seminarioL’altro è invece posizionato sul retro della dimora del vescovo; l’ingresso è da via Cairoli. Qui si trovano due ampi cortili divisi fra loro dalla storica sala del Borgonuovo, da tempo inagibile. La capienza è ampia: oltre una cinquantina di auto negli stalli a cielo aperto e un buon numero di posti addizionali nel seminterrato. La gestione in questo caso è del seminario arcivescovile, la spesa è un po’ più alta, di 150 euro mensili, oltre ovviamente alla spesa per il permesso annuale di accesso alla Ztl.
Il costo complessivo per gli utenti varia dunque grossomodo fra i 1.700 e i duemila euro all’anno. La rendita per le casse arcivescovile verosimilmente attorno a 150 mila euro annui, mentre il Comune si deve accontentare di una somma di poco superiore a 20mila euro, come proventi per le licenze di accesso alla Ztl.

Proprio la questione Ztl rappresenta il punto delicato. E’ sensato autorizzare un traffico parassitario di un’ottantina di vetture e oltre che per accedere al parcheggio ogni giorno transitano in una zona, quella monumentale, che andrebbe rigorosamente preservata dal traffico? Il cui prodest appare fin troppo chiaro.

ECOLOGICAMENTE
L’evoluzione del sistema dei servizi pubblici

Erano le nostre aziende municipalizzate. Le chiamavamo Amiu e Amga, erano pubbliche. Ora al loro posto c’è Hera, è quotata in borsa, il sindaco (come altri) ne vende le quote, e non capiamo più bene se sia ancora pubblica o privata.
In questi anni c’è stata una grande evoluzione del sistema dei servizi pubblici, avvenuta grazie all’intensa attività delle imprese ex-municipalizzate e alleanza da loro contratte, che hanno saputo sviluppare forti strategie aziendali e innovative politiche industriali. Le trasformazioni societarie, le alleanze, le nuove acquisizioni e soprattutto i processi di unificazione hanno infatti radicalmente modificato il quadro dell’offerta di un nuovo mercato competitivo nei servizi pubblici locali. Tutto questo non è certo una novità, ma rileggere questa evoluzione può essere utile.

E’ ormai avviata da tempo una nuova politica industriale nel settore: è in atto, assieme ad una rinnovata legislazione (che in verità propone cambiamenti da molti anni, con modesti risultati) e ad una crescente sensibilità collettiva sulle problematiche ambientali, una forte consapevolezza “industriale” di interesse economico-imprenditoriale. Il processo di trasformazione è avvenuto sicuramente da una spinta fortemente innovativa sia istituzionale che imprenditoriale orientata a favorire la realizzazione di sistemi integrati, la realizzazione di ambiti territoriali omogenei, lo sviluppo tecnologico ed impiantistico, il coinvolgimento industriale. Forse un poco meno il coinvolgimento dei cittadini.
Nel quadro di economie aperte abbiamo imparato con il tempo che bisogna avere una forte capacità di innovazione degli strumenti di governo del territorio e dunque delle istituzioni. E’ stata infatti necessaria una definizione dei progetti di sviluppo, una nuova ricerca di soluzioni ai problemi di coordinamento (di politiche, di strumenti e di risorse) e di compartecipazione (di soggetti pubblici e privati) a livello territoriale. Il ruolo dell’impresa di servizi pubblici è sicuramente stato una delle questioni di fondo della politica territoriale delle istituzioni. Bisogna allora saper distinguere tra imprese pubbliche (dunque con capitale pubblico) e aziende di servizi pubblici (di cui non interessa a chi appartiene il capitale, ma come e dove operano). L’impresa di servizi pubblici, infatti, è un’impresa che deve operare economicamente perseguendo fini collettivi e risultati sociali e quindi non è valutabile solo per fattori quali efficienza e profitto, ma in particolare modo per il contributo che può dare al benessere della società.

Il settore dei servizi ambientali sta dunque evolvendo verso una struttura reticolare in cui crescono i valori della dimensione di scala e degli ambiti territoriali ottimali come esigenza di integrazione. Attualmente le concentrazioni d’imprese, la politica industriale di miglioramento e la crescita dell’imprenditoria pubblica hanno prodotto crescita del valore, economie di scala ed efficienza economica che però non hanno avuto effetti positivi e benefici sulle tariffe applicate che aumentano sempre.
L’obiettivo generale è stato ed è quello di costruire grandi imprese o comunque alleanze tra imprese per favorire occupazione e investimenti in un settore ambientale sempre più qualificato e rispondente alle esigenze del territorio (tutela dell’interesse pubblico nel rispetto degli indirizzi comunitari), come ad esempio le principali aziende nel settore idrico: Acea con oltre 8 milioni di utenti serviti, seguito dall’Acquedotto Pugliese con 4 milioni, come anche dal gruppo Hera (che ormai rappresenta tutta l’Italia orientale mediterranea dal Friuli alle Marche), poi Iren con 2,4 milioni di utenti e Metropolitana Milanese e Smat rispettivamente con 2 milioni, poi A2A con 800.000.

Nel settore dei servizi pubblici ambientali si pone dunque in misura pressante la questione di quali siano gli strumenti che meglio possono offrire garanzie di qualità complessiva al consumatore. Impiegando diversi approcci, la letteratura economica ha tentato di verificare l’ipotesi che una gestione aziendale attenta alle tematiche inerenti gli effetti sulla qualità complessiva produca più valore di quel che costa e che se quindi aggiunge valore, allora va tutto bene.
Nel contempo però il quadro di riferimento nazionale sui servizi pubblici locali ha proposto una visione articolata e complessa con molti elementi di criticità e qualche prova di debolezza, soprattutto in relazione alla capacità di governo e di programmazione di questi servizi. Vi è dunque ancora un forte squilibrio territoriale, con enormi differenze Nord-Sud, e si è ancora in presenza di un mercato confuso, ma soprattutto vi è una pesante criticità nel sistema di regolazione economica dei servizi (scarsa cultura dei costi e delle tariffe del settore). Tariffe crescenti, aumenti di disagi, preoccupazioni di inquinamenti, ritardi nelle soluzioni e soprattutto scarsa fiducia. I cittadini hanno una percezione scarsa dei servizi, non si fidano delle capacità di risposta ai loro bisogni. Non è un giudizio, ma una constatazione.
La stessa evoluzione normativa e la definizione delle regole sono in palese ritardo, nonostante stia enormemente crescendo il livello di percezione dei cittadini della importanza dell’ambiente. Nonostante questo si può comunque rilevare che è in atto un processo di miglioramento o comunque di trasformazione. Si evidenzia nello specifico un sistema sufficientemente attivato per il ciclo idrico integrato (almeno sulla carta) e ancora un sistema frammentato, ma in evoluzione, per la gestione dei rifiuti.

In Emilia Romagna, forse meglio che da altre parti, il primo importante risultato raggiunto è stato la completa attivazione delle gestioni integrate, sia per il ciclo dell’acqua sia per la gestione dei rifiuti che, com’è noto, risultano essere una peculiarità della nostra regione. Sul piano delle gestioni, in particolare, si è andati ad una graduale eliminazione di quelle in economia e si è attivato con successo un profondo processo di graduale aggregazione che ha portato alla strutturazione di due grandi aziende di riferimento e a una crescente standardizzazione dei servizi per tutto il territorio regionale (un poco meno in questa provincia).
Partiamo dunque da un importante dato di fatto: in questa regione si sta meglio che altrove (qualità paragonata). Con orgoglio si può dire: merito di capaci amministratori, di qualificati gestori e di cittadini seri, ma questa piacevole consapevolezza non deve essere una giustificazione né un eccesso di autostima. Il dibattito rimane aperto.

LA RICORRENZA
Tango e dittatura, note sul golpe d’Argentina

di Michele Balboni

Il 24 marzo 1976 il governicchio della “presidenta” Isabelita Peron (all’anagrafe Maria Estela Martinez) veniva cestinato dalla triade Videla, Massera, Agosti rappresentanti delle forze armate “di terra, di mare, di cielo” (per rifare un verso che risuonava su analoghi balconi di casa nostra anni prima). Era il golpe che stravolse la storia contemporanea dell’Argentina.

Formica della storia del tango, microbo della vicenda argentina, mi accingo a proporre al paziente lettore alcune mie considerazioni: se siete ballerini di tango, quindi fortunati seguaci e praticanti del “ballo più bello di sempre”, l’obiettivo sarà suscitare il vostro interesse per la conterraneità degli avvenimenti, se siete amici l’obiettivo sarà condividere impressioni: verso entrambi la mia attenzione sarà di non suscitare noia e magari fornire alcune informazioni.

Il tango alla metà degli anni ’70, anche nella propria terra di nascita, era confinato ai vivi ricordi dei non lontani anni d’oro. Già da un ventennio la produzione musicale pensata per il ballo dell’abbraccio era rinsecchita. Le pregevoli e raffinate creazioni di Astor Piazzola e di pochi altri, alleviavano l’ascolto ma non ravvivavano l’atmosfera delle milonghe. Permanevano lontani lo splendore e la ricchezza del tango diffuso e praticato dall’altra parte del mondo negli stessi anni in cui da noi si preparava la guerra, la si combatteva, se ne curavano le ferite. Forse per reazione alla mondiale tragedia o per omaggio ai “liberatori” i ritmi americani erano proposti ed apprezzati dai giovani. Il tango dormiva il sonno dei giusti, consapevole che il peggio doveva ancora arrivare.

E venne infatti il giorno in cui le trasmissioni tv furono interrotte (non così la partita di calcio Polonia – Argentina), al pari delle libertà più elementari. I nuovi malvagi al potere, con gradi e stellette, si ripromettevano di salvare il proprio Paese, affrancarlo da problemi economici, battere il terrorismo, e quant’altro di utile… La dittatura civico-militare avrebbe prodotto trentamila desaparecidos, un milione e mezzo di esuli, oltre cinquecento bambini “rubati” (la maggior parte dei quali tuttora non identificati), una economia più disastrata di prima, finanche una vera guerra persa (del tipo a noi noto “armiamoci e partite”) con quasi mille morti: alla faccia del “piano di riorganizzazione nazionale”! I Generali (più o meno, uno era un brigadiere, ma tant’è…) all’inizio, presi dalla loro santa missione, non avevano tempo per la cultura, la musica, il tango anche se trovarono attenzione e denaro per proporre l’edizione più costosa e corrotta dei campionati mondiali di calcio.

Nel prosieguo, preso atto che non portavano consenso i carri armati per strada, i centri di detenzione clandestina, le torture a terroristi (pochi) o presunti tali (tanti), si pensò anche al nostro ballo. Venne inventato il giorno internazionale del tango (l’11 dicembre, data di nascita di Carlos Gardel e di Julio de Caro), si fondò l’Orquesta de tango de la Ciudad de Buenos Aires, si finanziò il tuor europeo del sopracitato innovatore del tango. Parallelamente si procedeva però con il progetto Operativo Claridad per disboscare arte, cultura, cinema, giornalismo, letteratura, da ogni voce o comportamento dissenziente dai canoni consigliati. Trovo così al numero 257 della lista di proscrizione per l’anno 1980 il nome Pugliese Osvaldo Pedro musico-director de orquesta (segue numero di carta di identità), autore che sono invece solito abbinare alla melodia di Recuerdo e alla forza di Negracha. Trovo anche al numero 8 (in virtù dell’ordine alfabetico) il cognome di un amico pianista residente nella mia città da anni. E per fortuna che in quella lista si indicavano i nominativi di individui giudicati scomodi, soggetti da ostacolare sul proprio lavoro o perseguire in vari modi, ma non da sequestrare o far scomparire…

Ma il tango stesso come si rapportava agli aguzzini e ai loro mandanti? Immaginiamolo personificato con i modi aristocratici del compositore e pianista Juan Carlos Cobian e la voce e la presenza scenica del grande Carlos Gardel, probabilmente ci direbbe: “E’ vero c’è stato un periodo in cui malvagi mi hanno utilizzato a mia insaputa e, di questo, pur non avendone io alcuna colpa, resto tuttora affranto e contrito. Chiedo perdono a quelli che, catturati da un regime che ha infestato, per oltre sei anni, il Paese in cui sono nato, vennero sottoposti a vessazioni e torture. I dischi che mi ospitavano erano suonati per coprire le loro urla di dolore, affinché dall’esterno dei campi di prigionia clandestini non si udissero gli scempi che dentro stavano avvenendo. E gli stolti torturatori non si accorgevano nemmeno, presi dalla loro malvagità, che i miei cantores alzavano la voce nell’esecuzione ed altrettanto facevano i musicisti usando i toni più alti degli strumenti, gli uni e gli altri protetti dentro i dischi, perché loro stessi non volevano udire quelle urla di dolore. Tornavano poi i brani nella loro normale tonalità quando di nuovo venivano eseguiti in contesti ordinari. Capisco comunque che chi è scappato dal buio di quei seminterrati e chi piange il dolore dei propri cari scomparsi e mai più ritrovati possa ora odiarmi, confondendomi con i carnefici, ma sappia che io stesso sono stato vittima”.
Se lo dicono i fantasmi di due interpreti di tal portata sarà ben vero…

Declinavano i tempi della picana, proseguivano le marce delle madri in Plaza de Mayo, era ampiamente scemato il consenso popolare nonostante il velleitario tentativo di riconquista militare delle gelide isole Falkland-Malvinas, quando il tango veniva impacchettato e portato al Teatro Chatelet di Parigi. Il successo di pubblico e di critica della prima, il 13 novembre 1983, fu enorme. Il tango risorge e rifiorisce, e non a caso ciò avviene proprio a Parigi, laddove all’inizio del secolo si era raffinato e aveva trovato la spinta per tornare nei suoi luoghi di nascita ed essere finalmente apprezzato. Che spettacolo deve essere stato per i fortunati spettatori: coreografia di Juan Carlos Copes, musica del sexteto Mayor (al piano Horacio Salgan), ballano (tra gli altri) Juan Carlos Copes e Maria Nieves, Virulazo e Elvira, Maria e Carlos Rivarola, canta “el polaco” Roberto Goieneche!

Quindi cade la dittatura civico-militare (siamo nell’autunno 1983) e il tango rinasce: una coincidenza? “Il caso non esiste!” dice l’autorevole tartaruga-maestro Oogway nel film “Kung fu Panda”…

In verità il processo di vera rinascita democratica del grande Paese sudamericano, cui dobbiamo il tango, ed anche – non dimentichiamolo – il più grande campione della storia del calcio, non è subitaneo. Così il nostro ballo trova affermazione planetaria un paio di anni dopo quando, lo stesso spettacolo titolato “Tango Argentin” è riproposto a Broadway: sei mesi di repliche. Da allora una crescita e una diffusione continua, perlomeno nella sua componente più spettacolare e praticabile: il ballo. Fino ai giorni nostri.

Tango e dittatura: la rivincita del tango?
Eccoci all’epilogo, abbiamo trascorso alcuni minuti insieme come ballerini e come amici: seguendo il titolo di un recente dvd realizzato dal regista Marco Bechis sulla vita di Vera Vigevani Jarach, una delle fondatrici del movimento Madres de Plaza de Mayo, abbiamo ascoltato insieme, almeno per un po’, “il rumore della memoria”.
Walter Calamita, presidente dell’Associazione 24 marzo – loro sì che hanno titolo per parlare di queste cose – scrive nella sua prefazione al mio romanzo “La Diva del tango – alla ricerca del nino rubato” di un processo dove accanto a Verità e Giustizia si affianca la Memoria, al proposito io nel mio piccolo mi limito a ringraziarvi per avere condiviso con me questa ricorrenza.

IL FATTO
MediCinema, quando il cinema è una terapia

Emozione e sogno sono il primo vero passo verso la guarigione. Per questo Giuseppe Tornatore ha scelto le note oniriche di “Acqua dalla luna” di Claudio Baglioni per il video-spot  da lui diretto a sostegno dell’attività di MediCinema. La presentazione ufficiale alla stampa c’è stata alcuni giorni fa, nella sede romana di Rai Cinema.

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La locandina dello spot di Giuseppe Tornatore

Pochi hanno sentito parlare di MediCinema, un’associazione nata nel 2013 che, ispirandosi a MediCinema UK (organizzazione no-profit attiva in Gran Bretagna dal 1996) si pone l’obiettivo di utilizzare il cinema e la cultura cinematografica a scopo terapeutico negli ospedali italiani.
Il breve spot di Tornatore, tutto realizzato al Policlinico Gemelli di Roma con l’intervento dei soli malati (fra stampelle, barelle e deambulatori), vuole sostenere la campagna di fundraising di MediCinema, volta a costruire la prima sala cinematografica italiana integrata in una struttura ospedaliera pubblica, uno spazio destinato alla ‘cinematerapia’ e alla terapia di sollievo per i degenti del Policlinico Gemelli e i loro familiari. L’idea è di occupare e distrarre, per alcune ore, la mente dei pazienti, allontanarli dalla malattia per un po’, almeno per la durata di una bella pellicola cinematografica. I benefici del cinema (e della cultura in generale) sulla persona, ricorda il regista, sono innegabili, quando si regalano storie, magia e incanto, si creano attimi importanti di emozione, di armonia e di serenità. Bisognerà, quindi, scegliere film che portino all’emozione pura, al sorriso, ma anche alla commozione e all’empatia. Una commissione di medici e psicologi deciderà i titoli più appropriati anche chiedendo a ogni paziente la sua opinione per migliorare quel rapporto difficile, tra chi deve curare e chi deve essere curato.
Vi sono già il sostegno di Rai Cinema (che metterà anche a disposizione il proprio listino) e di Disney Italia. Il regista e sceneggiatore Francesco Bruni assicura l’impegno del Centro autori e dell’Anec (i giovani produttori cinematografici indipendenti). Rai Cinema ha anche annunciato l’avvio della sua più ampia collaborazione con MediCinema Italia, per la quale ha in preparazione varie iniziative di raccolta fondi per completare il progetto di costruzione della sala cinematografica, uno spazio tecnologicamente all’avanguardia, che abbia 120 posti e spazi per i letti dei malati, le loro sedie a rotelle, per i familiari e il personale di assistenza. Il progetto costerà circa 300.000 euro, ci vuole l’impegno di tutti. L’idea è lodevole e pregevole, la si vorrebbe realizzare entro l’estate. Qualcuno l’ha già definita “Nuovo Cinema Gemelli”. Bello.
Il video di Tornatore sarà programmato già in questi giorni nello spazio solidale offerto dal circuito Thespacecinema su tutti i suoi schermi, nelle sue 362 sale per circa 79 mila posti. La cordata di solidarietà continuerà con gli altri circuiti cinematografici che sostengono MediCinema e negli spazi dedicati al sociale delle principali reti televisive.
Per alcune ore di magia in corsia, allora, in un’emergenza col sorriso. Perché, come dice Tornatore, c’è un film di Frank Capra che dà il senso di questa nobile iniziativa, dove la luce della consolazione entra in un’anima ferita. Progetto da sostenere, bello potervi contribuire.

Il brano intonato: Acqua dalla luna di Claudio Baglioni [ascolta]

Per informazioni su MediCinema clicca qui

L’APPUNTAMENTO
Il rischio Isis oggi in Ariostea

L’Iraq, la Siria, la Libia, ora la Tunisia. La progressiva avanzata dell’Isis acuisce la percezione del pericolo. Il terrorismo di matrice islamica appare ormai alle porte dell’Italia. Oggi pomeriggio alle 17 nella sala Agnelli della biblioteca Ariostea si tiene l’atteso incontro organizzato da Ferraraitalia dal titolo “IsIslam? Fanatismi, fondamentalismi, integralismi: terroristi e nuovi crociati”. Fra gli interventi previsti, lo storico Andrea Rossi parlerà di espansionismo e della forza distruttiva di un movimento dogmatico che ha avuto precedenti nel Novecento. Hassan Samid, presidente dell’associazione Giovani Musulmani di Ferrara, non mancherà di tracciare la linea di demarcazione fra i guerriglieri che combattono e compiono barbarie in nome dell’Islam e i principi pacifici di una religione cui aderiscono circa due miliardi e mezzo di persone in tutto il mondo; e al contempo di sottolineare il disagio e le difficoltà che la situazione implica anche per i musulmani residenti. La ricercatrice Zineb Naini parlerà delle origini dell’Isis, dell’influenza dei social media nelal diffusione del loro messaggio, delle rivoluzioni arabe e della Jihad, dei riflessi di stampa nei media italiani e nei media stranieri, delle politiche anti terrorismo e delle strategie adottate per combattere il fenomeno dei ‘freedom fighters’. Menu densissimo con possibilità per il pubblico di intervenire nel dibattito. Coordina i lavori la giornalista di Ferraraitalia Monica Forti.

IL FATTO
In duecentomila per dire no a mafie e corruzione. Don Ciotti: “Urgente una riforma delle coscienze”

Quasi quattro chilometri di strada invasi da una festante e variopinta marea umana. Gente di tutte le età, dagli 8 agli 80 anni, studenti, lavoratori, pensionati, famiglie con bambini e cani al seguito, ieri hanno percorso il cammino fra lo stadio Dall’Ara a piazza VIII agosto a Bologna, per il ventennale di “Venti Liberi”, la manifestazione in memoria delle vittime della mafia.

Cittadini, tra i quali il segretario della Fiom Maurizio Landini e l’ex-magistrato torinese Giancarlo Caselli, e istituzioni, rappresentate dal presidente del Senato Piero Grasso e dalla presidente della Commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi, ma anche dai tanti gonfaloni seguiti dai sindaci presenti in corteo. “Ogni due km si possono contare circa 100.000 persone, i conti sono presto fatti: la piazza già si riempiva, mentre la coda del corteo stava ancora lasciando il Dall’Ara, siamo circa 200.000 persone”, afferma Daniele Borghi, referente d Libera Emilia Romagna. Tutti insieme per affermare con forza insieme a don Ciotti: “La nostra memoria e il nostro impegno perché finalmente la verità illumini la giustizia”.

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Bandiera di Libera

Questo 21 marzo, infatti, non si è festeggiato solo il ventennale di Libera-Associazioni, nomi e numeri contro le mafie, ma ricorrono anche i 25 anni dalla strage del 2 agosto alla stazione di Bologna e dalla strage di Ustica del 27 giugno del 1980: tutti i famigliari sono accomunati dalla richiesta di verità e, insieme a tutti i cittadini italiani, vogliono capire “perché questo Paese si porta dietro questa scia di sangue”, come ha affermato dal palco Margherita Asta, figlia di Barbara e sorella di Giuseppe e Salvatore, morti nella strage di Pizzolungo, nel trapanese, il 2 aprile 1985. “Mi auguro – continua Margherita – che questo sia l’ultimo anno in cui dobbiamo chiedere che il 21 marzo diventi per legge la Giornata nazionale in memoria delle vittime di tutte le mafie”. E dopo la memoria, di nuovo un richiamo all’impegno: “a volte ci chiediamo se questo è un paese realmente democratico”, per cambiarlo “ciascuno di noi può fare qualcosa, pensando che ogni giorno sia il 21 marzo”.

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Il corteo nel centro di Bologna
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Il corteo in Piazza Maggiore

L’intervento don Luigi Ciotti, fondatore e presidente di Libera, si apre con un omaggio al pontefice, che nell’edizione 2014 della Giornata della memoria e dell’impegno a Latina ha voluto incontrare i famigliari delle vittime delle mafie e che quest’oggi era a Scampia a ribadire la scomunica per chi fa parte delle organizzazioni mafiose e ad affermare che “la corruzione puzza, è putrefazione”. Papa Francesco e don Lugi Ciotti: due esempi di una Chiesa che invita a guardare al cielo “senza dimenticare le responsabilità qui sulla terra”.
Anche don Ciotti si scaglia contro i misteri d’Italia: “il nostro è un Paese di stragi, ancora in gran parte impunite, ancora troppe ombre” gravano sulla nostra storia recente, ma “la democrazia è incompatibile con il potere segreto”. Il tono della sua voce si fa ammonitorio nei passaggi sulla prescrizione, sul falso in bilancio, e soprattutto della corruzione, “il più grave rischio della democrazia, l’avamposto delle mafie”. Le sue parole sono pesanti come macigni e inchiodano la classe politica alle proprie responsabilità: “niente negoziati”, “eccessi di prudenza”, “ci sono questioni che chiedono di schierarsi”.

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Il coordinamento di Ferrara
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Presidio Giuseppe Francese, Ferrara

E infine mette in guardia: “chi non vuole una legge contro la corruzione fa un favore alle mafie”. È preoccupato don Ciotti perché ormai “non si può più parlare di infiltrazione, quella delle mafie è occupazione”, resa possibile dal fatto che “in questi anni hanno trovato porte aperte e strade spianate”. Per questo “c’è bisogno di una nuova Liberazione dalla presenza criminale e dalle varie forme di corruzione, c’è bisogno di una nuova Resistenza etica, sociale, politica”. Proprio qui nella terra di don Dossetti, uno dei padri della nostra Costituzione, don Luigi afferma con forza che la riforma più urgente non è quella della Carta Costituzionale, ma “quella delle coscienze” perché “la legalità spesso è scritta più nei codici che nelle coscienze”.
Le prime scintille di questa rivoluzione devono essere nella scuola, dove è necessario far crescere “coscienze inquiete”, che vadano alla ricerca dell’altro da sé e che abbiano il coraggio di seguire la via della verità e della giustizia anche quando è scomoda. La sua speranza sono i tanti ragazzi presenti oggi in piazza e quelli che incontra nel suo costante peregrinare per l’Italia: “giovani determinati e schierati dalla parte della giustizia e della pace”, ma allo stesso tempo “portatori di una nostalgia del futuro” perché troppo spesso le istituzioni italiane e quelle europee ragionano in termini di cifre economiche e di bilancio, piuttosto che in termini di dignità e di diritti dei propri cittadini.
In questi 20 anni, il movimento dell’antimafia ha raggiunto molti traguardi, ora per don Ciotti è giunto il momento di voltare pagina tutti insieme e mettersi ancora una volta in gioco con coraggio. Per tre volte ripete il suo “non basta”: non basta mettere una targa, non basta intitolare una piazza, nemmeno una manifestazione come quella di oggi sembra essere sufficiente. “Questi nomi ci devono scavare dentro: ci devono dare la forza e la motivazione per un impegno ancora più determinato e consapevole”. I nomi scanditi dal palco sono 1035, quelli delle vittime delle mafie e delle stragi, come 1035 sono i palloncini bianchi liberati in cielo al termine della manifestazione: ognuno porta legato un nome e passerà a chi lo raccoglie il testimone della memoria e dell’impegno.

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IL FATTO
Mimetizzata da uomo per sopravvivere

E’ di qualche giorno fa la notizia, diffusa da Al Arabiya, un’emittente televisiva degli Emirati Arabi Uniti, di una donna egiziana costretta a lavorare vestendosi come un uomo per ben 43 anni. La notizia è legata al fatto che, a causa di tale situazione protrattasi nel tempo, la donna, Sisa Abu Daooh, 64 anni, è stata insignita dal governo egiziano del titolo di “madre ideale”. Questo perché Sisa ha dovuto lavorare, optando per la soluzione mimetica, per mantenere la figlia Houda e assicurarle una vita serena e dignitosa. Rimasta vedova quando era incinta, poco dopo la nascita della bambina, Sisa aveva indossato una lunga e coprente tunica, anonime scarpe maschili e un avvolgente turbante. Un copricapo che nascondesse capelli e lineamenti, che oscurasse ogni minima traccia di femminilità. Nessun segno di donna. In una parte del mondo dove la cultura più diffusa non vedeva di buon occhio le donne lavoratrici, Sisa aveva potuto svolgere, indisturbata, diversi lavori, dalla costruzione dei mattoni in un’azienda fino al lustrascarpe per strada, nella trafficata, turbolenta, difficile e frenetica città del Cairo. Inoltre, negli ultimi anni avrebbe aiutato anche la famiglia della figlia, che nel frattempo si era sposata, perché il marito aveva perso il lavoro a causa di una malattia.
Il riconoscimento di “madre ideale” le è stato conferito dalla Direzione della solidarietà sociale del governatorato di Luxor. Nella difficoltà e nel non senso, un segnale positivo.
Questa storia mi ha ricordato subito, oltre che la situazione di molte rappresentanti del gentil sesso in zone “difficili” del mondo, il drammatico ‘Osama’, un,intensa e cruda pellicola afghana del 2003, di Siddiq Barmak, dove tre donne (una ragazzina di 12 anni, la madre e la nonna), sopravvissute alla repressione delle manifestazioni di protesta organizzate dalle donne afgane all’inizio del regime talebano, non possono uscire di casa senza essere accompagnate da un uomo, pena una severa punizione, né, tantomeno, lavorare. Manca il cardine, un uomo, ed ecco allora che la madre (Zubaida Sahar) decide, insieme alla nonna, di travestire la giovane figlia da maschio: l’unico modo per procurarsi un lavoro e un po’ di pane per sopravvivere. Da quel momento, Maria (Marina Golbahari) si chiamerà Osama (nome dal destino tragico) e comincerà a vedere la vita con nuovi occhi. Dopo aver iniziato il suo nuovo lavoro come aiutante di un lattaio, Osama viene portata, insieme a tutti i maschi del quartiere, alla scuola religiosa “Madrassa”, che è anche un centro di addestramento militare… Qui, a differenza di Sisa, vi è un dolore penetrante, una pura tragedia, e se nascere donna non è mai semplice e può portare a incrociare difficoltà di vario genere, in alcuni paesi, come l’Afghanistan, può assomigliare a una vera condanna. Qui, infatti, la condanna è totale, senza via di scampo, perché, senza amore, senza sorriso, senza speranza e senza futuro, si cresce come un uomo, fingendo di esserlo, fino a quando la scoperta porterà a un’altra condanna, ancora peggiore. E, allora, si fissano il buio delle stanze, delle caverne, delle scuole religiose che non perdonano, dell’inganno per sopravvivere che non viene perdonato. Mentre a Sisa si’, è stato perdonato. Almeno in parte.
Avevamo anche già visto un’altra donna travestita da uomo che, da anni, svolgeva il lavoro di maggiordomo presso un albergo, e accarezzava pure l’idea di sposarsi. Il maggiordomo perfetto, Albert Nobbs, nella Dublino del 1890, un lavoratore impeccabile, perfetto perché discreto, attento, efficiente, preciso, silenzioso, perfetto forse proprio perché, in realtà, era una donna, che dall’età di 14 anni si vestiva da uomo, abbandonata dal marito di cui aveva preso sembianze e mestiere. La condizione femminile nell’età vittoriana era anch’essa scandalosa, fatta di abusi e soprusi verso il personale femminile che lavorava (poco e solo in posizioni basse e subordinate), di mancanza di diritto al lavoro e al decoro. Ancora oggi, e troppo spesso, bisogna giocare a ricoprire il ruolo di uomo, essere come un uomo, dal carattere forte (perché a molti pare che solo un uomo lo possegga veramente), dimostrare di assomigliarvi o, semplicemente, travestirsi da uomo, chi come Osama, chi come Albert, chi come Sisa. E anche se facendo questo si ha un qualche riconoscimento, opinabile e discutibile, bisognerebbe riflettere un po’ di più perché questo travestimento, fittizio o reale che sia, non debba essere più necessario. Progressi lenti ve ne sono, ma sempre troppo lenti.

Ferraraitalia raddoppia e diventa quotidiano più settimanale

Ferraraitalia si sdoppia e aggiunge alla propria vetrina il settimanale, che sarà online ogni giovedì pochi minuti dopo la mezzanotte. Confidiamo sia una gradita novità per i nostri lettori, in particolare per i tanti che ci hanno segnalato l’esigenza di fruire di un tempo maggiore per la lettura.

Il nuovo impianto mantiene la cadenza quotidiana di aggiornamento nella sezione superiore del giornale (quella caratterizzata dal mosaico fotografico) che continuerà ad ospitare Accordi, Germogli e Immaginario. Nel medesimo spazio, inoltre, troveranno collocazione le rubriche. Nel corso della giornata pubblicheremo note, commenti, interviste, segnalazioni d’attualità.

Rimane attiva – con aggiornamenti orari – anche la seguitissima sezione “comunicati stampa” nella quale trovano spazio tutti i dispacci a carattere informativo (non commerciale) che gli uffici stampa inviano alla redazione. La nostra regola di pubblicazione è ferrea: nessuna alterazione a testi, titoli e immagini. Garantiamo così un libero luogo di espressione ai comunicatori, mentre il lettore ha la possibilità di conoscere i dispacci integralmente, nella loro versione originale, esattamente come sono stati concepiti ed elaborati dagli estensori, senza modifiche, tagli e interpretazioni proprie del lavoro di rielaborazione tipicamente giornalistica. Abbiamo scelto di fare un passo indietro, per non inficiare il pieno diritto di intervento. Riservandoci ovviamente la possibilità, in altro spazio, di formulare, nel merito dei contenuti trattati, le nostre valutazioni e interpretazioni.

Il settimanale, la grande novità online da stanotte, sarà invece composto da una ventina di articoli, disponibili con evidenza nella sezione primo piano sino al mercoledì successivo, organicamente concepiti per illustrare i vari ambiti di vita comunitaria: società, costume, lavoro, economia, politica, cultura, spettacoli, sport… Racconteremo secondo il nostro uso i personaggi, le vicende, le storie emblematiche. Il taglio informativo non muta: interviste, inchieste, opinioni formulate in prospettiva glocal e seguendo la logica “dell’informazione verticale”, cioè dell’approfondimento.

L’obiettivo di Ferraraitalia è immutato e rafforzato da questo nuovo tassello che arricchisce il mosaico: favorire la conoscenza, stimolare la riflessione, ampliare lo spazio pubblico di intervento mettendo a confronto differenti punti di vista per favorire la formazione di giudizi autonomi basati sulla comprensione dei fatti e il rispetto delle differenti convinzioni.

Emilio Bulfon
l’uomo che sussura agli acini
alla scoperta dei vini perduti

“Antichi vitigni che sembravano scomparsi, fagocitati dai rovi e dall’incuria degli uomini, in un territorio storicamente vocato alla viticoltura, ma che la passione di Emilio Bulfon ha fatto rinascere a nuova vita”. Questo si legge sul raffinato sito che presenta i vini coltivati con passione e cura appunto dall’azienda del signor Bulfon. La piccola didascalia che introduce al suo regno è introdotta dal marchio di casata – un logo dipinto dallo stesso viticoltore – che riproduce una sorta di cenacolo, con Cristo e gli apostoli intenti nella mescita del vino. “Mi diletto di pittura e ho stilizzato un affresco medievale di una chiesa qua vicino, quella di Santa Maria dei Battuti. Ho scelto un particolare dell’Ultima cena di Cristo e l’ho riproposto in varie tonalità cromatiche per le nostre etichette”.

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Il logo della cantina Bulfon

Emilio Buffon è un eclettico, ma la sua vera passione è per l’uva. “Già mio nonno e poi mio padre coltivavano la vite e facevano il vino. Praticamente si può dire che sono nato e cresciuto in cantina”. Da quasi mezzo secolo produce vino nella sua azienda, a Valeriano, in provincia di Pordenone fra la medievale Spilimbergo e San Daniele del Friuli, celebre per l’omonimo prosciutto. “E’ una vita ormai, ho cominciato nel ’64, da Cividale mi sono spostato in questa zona per vinificare per altri produttori. Guardandomi in giro mi sono incuriosito di ceppi secolari coltivati da persone anziane. Lo facevano per autoconsumo, in tempi di miseria il vino è una risorsa importante. Quei vitigni erano mi erano sconosciuti e quegli uomini mi hanno permesso di prenderne le gemme. Il professor Costacurta mi ha aiutato a scegliere i cloni. Da lì è incominciato tutto”.
E poi com’è andata? “Molti si incuriosirono alla nostra ricerca, fra questi Luigi Veronelli e Bruno Pizzul. Ma i produttori non erano interessati. Così nel ’72 ho preso questo appezzamento e ho incominciato a produrre da me, con amore. L’ho fatto per il nostro territorio, per salvaguardare una delle sue tipicità, che sono nel vino, nella gastronomia e nell’arte”. E con grande saggezza aggiunge: “Ho capito una cosa in tutti questi anni: quando credi di sapere in realtà non sai niente”.

La particolarità di questa cantina sta proprio nella ricerca e nella riscoperta di antiche qualità, considerate a lungo perdute, che oggi invece si possono apprezzare ancora, grazie al lavoro del fondatore, unico a coltivarle dopo averle pazientemente recuperate.
I suoi vini hanno nomi inconsueti, derivazione diretta del dialetto friulano: in totale sono otto i vitigni autoctoni coltivati: i rossi Piculìt neri, Forgiarìn, Cjanoria, Cordenossa; i bianchi Ucelùt, Sciaglìn, Cividìn; e il Moscato rosa. Undici le varietà vinificate, fra cui cinque rossi, quattro bianchi (inclusi un frizzante e uno spumante) e un rosato. La produzione si arricchisce ulteriormente di tre grappe monovitigno. Le etichette sono tutte impreziosite dai disegni di Bulfon. “I clienti si aspettano che il vino sia sempre uguale. Ma non può essere così, il vino è vivo e cambia. Solo la chimica lo fa tutto uguale. Ma questo per molti è difficile da capire”.

I rari vini dell’azienda Bulfon sono stati presentati a Ferrara la scorsa settimana al ristorante ‘Le querce’ durante una cena-degustazione dell’Onav, l’Organizzazione degli assaggiatori che in provincia è rappresentata dal delegato Lino Bellini e dal segretario Ruggero Ciammarughi, con la collaborazione di Renzo Cervi di Anag (assaggiatori grappa). Grande in sala era la curiosità fra i convenuti, tutti appassionati di vini, che hanno potuto apprezzare sei differenti qualità, con pieno gradimento in particolare per Sciaglin frizzante, Cividin e Piculìt neri. Sono figli di quegli antichi vitigni coltivati per secoli sulle colline del Friuli occidentale, che fino a una trentina d’anni fa sembravano scomparsi.

onav5Emilio Bulfon, sorretto da tenacia e passione, con l’aiuto della moglie Noemi e dei figli Lorenzo e Alberta, ha il merito di avere ridato vita a ciò che si credeva perduto per sempre. E con la collaborazione degli esperti dell’Istituto sperimentale di Conegliano, con cura ha selezionato, reimpiantato, coltivato e vinificato quei tesori della sua terra. Un lavoro importante, il suo, sotto il profilo della cultura enologica e della tutela della memoria locale. Nel tempo sono giunti numerosissimi, autorevoli e prestigiosi riconoscimenti. Nel 1987 la provincia di Pordenone, riconoscendone il valore, gli ha conferito una medaglia d’oro, cui ha fatto seguito la benemerenza ricevuta nel 2010 nell’ambito di Vinitaly. Traccia di questa paziente e preziosa opera e dei ventiquattro vitigni autoctoni recuperati è conservata in un volume a carattere storico-scientifico intitolato “Dalle colline spilimberghesi nuove viti e nuovi vini”, curato dallo stesso Bulfon con Ruggero Forti e Gianni Zuliani.

L’azienda, immersa nel verde di Valeriano (frazione di Pinzano al Tagliamento), si compone della cantina, di un punto vendita con sala degustazioni e offre anche possibilità di alloggio agrituristico. I visitatori hanno l’opportunità di compiere visite guidate fra i vigneti e di fare escursioni in collina con la bicicletta. I dintorni sono suggestivi e conservano importanti tesori d’arte: il castello dei conti Savorgnan, un sacrario austroungarico, il ponte di Pinzano sul Tagliamento e un ambiente naturale sostanzialmente incontaminato. Alberta, la figlia di Emilio, storica dell’arte, è pronta ad accompagnarli in visita.
“Abbiamo grandi spazi – spiega il figlio Lorenzo -, l’estensione è di quasi sedici ettari, di cui nove coltivati a vigneto esclusivamente di varietà autoctone friulane recuperate. Il nostro tentativo è coniugare l’innovazione tecnologica in campo enologico con la valorizzazione del territorio”. La modernità, che sposa la tradizione nel rispetto dell’ambiente e della storia.

La bontà dell’acqua erogata: in casa, al bar, al ristorante

Uno dei principali aspetti che è necessario tenere in considerazione quando si parla di servizio di erogazione dell’acqua è la qualità del prodotto che viene distribuito agli utenti, cioè la qualità dell’acqua. Gli enti gestori del servizio idrico, nell’ambito del rispetto del principio di trasparenza, hanno l’obbligo di rendere pubblici i principali valori caratteristici (durezza, residuo fisso, concentrazione di ioni di idrogeno, ecc.) relativi all’acqua erogata. Questi valori costituiscono indicatori oggettivi della qualità dell’acqua fornita, ma non bisogna dare per scontato che a una buona qualità oggettiva dell’acqua corrisponda sempre una altrettanto buona qualità percepita della stessa da parte del cittadino-utente fruitore del servizio. Forse è anche per questo che troppe persone preferiscono l’acqua minerale.
Se si considera l’opinione espressa dalle sole utenze domestiche, a livello regionale si può rilevare una discreta e generale soddisfazione per la qualità dell’acqua che esce dai rubinetti di casa.
Elementi informativi dello stesso taglio si ritiene avvengano dalla analisi del “non domestico” ovvero del mondo del lavoro. L’acqua che esce dai rubinetti riveste un ruolo significativamente importante per quanti svolgono un’attività legata alla gestione di ristoranti/trattorie/pizzerie, bar/caffè, forni/pasticcerie, nelle industrie di produzione alimentare e nei negozi di ortofrutta.
Con riferimento alle utenze domestiche, l’analisi dei fattori di soddisfazione/insoddisfazione della qualità dell’acqua che si possono considerare per definire un’acqua di buona qualità sono:
– la durezza, intesa in termini di presenza o assenza di calcare;
– il sapore, l’odore e il colore dell’acqua globalmente intesi, ossia quei fattori che concorrono a qualificare l’acqua come bevanda.
Un indicatore della qualità dell’acqua, che merita una trattazione a sé stante, riguarda infatti la bontà dell’acqua come bevanda. L’indicazione dei parametri di qualità dell’acqua distribuita sono relativi a:
– parametri organolettici e chimico fisici (pH, residuo fisso a 180° , durezza totale);
– principali sostanze indesiderabili (ammoniaca, nitrati, nitriti, ossidabilità Kubel);
– principali sostanze disciolte (cloruri).
Per quanto attiene in particolare la qualità dell’acqua si ritiene che i gestori debbano individuare idonee modalita’ di comunicazione per l’acqua erogata ai vigenti standard di legge; in particolare, si ritiene si debbano impegnare a fornire i valori caratteristici indicativi dei principali parametri relativi all’acqua distribuita, tra cui :
– durezza totale in gradi idrotimetrici (_F) ovvero in mg/l di Ca;
– concentrazione ioni idrogeno in unita e decimi di pH;
– residuo fisso a 180 _C in mg/l;
– nitrati in mg/l di NO in base 3 e nitriti in mg/l di NO in base 2;
– ammoniaca in mg/l di NH in base 4;
– fluoro in micron/l di F e cloruri in mg/l di Cl

Il tema critico non è solo la qualità dell’acqua all’uscita dell’impianto, su cui comunque è utile divulgare le conoscenze di base riguardanti le caratteristiche qualitative dell’acqua di rete per uso domestico grazie alla intensa e qualificata attività degli organi di controllo in materia (Sanità, Aziende Usl, Arpa e Ato), ma si ritiene che si possa anche avviare una maggiore informazione sulla distribuzione, segnalando la differenza tra qualità alla fonte e qualità finale dopo la distribuzione. Più in generale si ritiene anche che si possa iniziare a parlare delle criticità di alcuni depuratori, purificatori, addolcitori, membrana osmotica, filtri composito e meccanici che sono sicuramente strumenti utili per il miglioramento della qualità dell’acqua se ben curati, ma che se non gestiti con una precisa manutenzione, possono essere causa di aumento quantità batterica, di riduzione cloro, di modifica della organoletticità, o comunque possono non essere non sempre funzionali.
Serve dunque un ulteriore sforzo di trasparenza e di corretta informazione e di miglioramento degli strumenti informativi. Non basta dunque assicurare la corrispondenza dell’acqua erogata ai vigenti standard di legge, serve un maggiore impegno verso altri impegni quali, ad esempio, la realizzazione del Manuale della qualità, la certificazione di prodotto e di servizio, e magari la carta d’identità (con etichetta). In questa regione sicuramente abbiamo buoni elementi di eccellenza, ma non ci si deve fermare e anzi dobbiamo rafforzare la consapevolezza che siamo ancora in ritardo sulla cultura dell’acqua: sui consumi, sul suo valore e soprattutto sulla volontà di berla.

LA NOTA
La forza della vita

Subito non l’avevo proprio notata. Poi mi è parso di scorgere qualcosa. Allora mi sono avvicinato, ho osservato meglio: e ho strabuzzato gli occhi. Era nata proprio lì, dove nessuno poteva immaginare: nel basamento di metallo di un posacenere abbandonato in terrazzo. Una graziosa, esile piantina. Poco più di un germoglio incastonato nel freddo metallo. È stata una sorpresa autentica, una meraviglia ancor più grande di quella che si rinnova ogni volta che si vedono fili d’erba o un fiore spuntare dal cemento. Quella piantina, nata fra il metallo, fragile e caparbia testimoniava la potenza dell’essere, la volontà assoluta di esistere: contro ogni logica, contro ogni aspettativa, contro ogni ragione.
Mi ha intenerito, quasi commosso. La forza della vita, più grande d’ogni cosa.

L’EVENTO
Capire gli adolescenti, una giornata di studio promossa da Promeco

Domani a Giurisprudenza, dalle 8,45 alle 17, “Tutti gli adolescenti vanno a scuola”, a cura di Promeco.

“L’occhio non vede cose ma figure di cose che significano altre cose” scriveva Italo Calvino. È senz’altro quello che ci succede quando guardiamo ai nostri ragazzi, gli adolescenti, specie quelli che sono sempre in lotta con il loro tempo e con la loro esistenza. Possiamo proprio dire che ci accorgiamo di loro come figura, ma poi ci sfugge tutto l’altro che significano. È inutile, non sappiamo vederli, e così sovente ce la caviamo dicendo che hanno problemi, problemi di adattamento. È davvero strano che i problemi ce li abbiano sempre loro, e mai noi adulti, genitori, insegnanti. E allora cercare di cambiare il punto di vista, cercare di andare a fondo, scoprire ‘cosa significano’, che è certo faticoso, non privo del rischio di conflitti, è una responsabilità tutta nostra, bisogna apprendere a farlo, con pazienza.
Da diversi anni, nelle scuole secondarie di primo e secondo grado del nostro territorio si realizza con successo un progetto che non a caso si chiama “Punto di vista”. È condotto dagli operatori di Promeco, un servizio pubblico del Comune di Ferrara, convenzionato con l’Azienda Usl, che dal 1992 supporta scuole, insegnanti e genitori nella loro funzione educativa. Il servizio svolge soprattutto interventi di prevenzione del disagio adolescenziale, legato all’uso e abuso di sostanze, alle difficoltà relazionali, alle prevaricazioni, bullismo e cyberbullismo, che si manifestano all’interno delle realtà scolastiche.
Sebbene siano quasi trentacinquemila i nostri ragazzi che dalla primaria alla secondaria di secondo grado frequentano gli istituti scolastici statali e paritari tra città e provincia, la nostra è una terra pigra a parlare di scuola. A occuparsi seriamente della scuola dei propri figli. Per cui può accadere che esperienze uniche e preziose come quelle realizzate in quasi venticinque anni di attività da Promeco nelle nostre scuole passino inosservate a quanti non siano addetti ai lavori, esperienze accumulate sul campo, costruite giorno dopo giorno nel rumore d’aula, a contatto con i ragazzi, gli insegnanti e i genitori,
L’occasione di richiamare l’attenzione dei nostri lettori sul debito di riconoscenza che come genitori, educatori, insegnanti abbiamo nei confronti di Promeco, dei suoi operatori e dei suoi numerosi progetti messi al servizio della comunità, delle nostre scuole e dei nostri ragazzi, ci è offerta dalla giornata di studio che Promeco terrà domani 18 marzo presso la facoltà di Giurisprudenza, intitolata “Tutti gli adolescenti vanno a scuola”.

Promeco prende avvio nel 1991 attraverso i finanziamenti messi a disposizione dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri per la lotta alla droga e negli anni ha sviluppato e sempre più qualificato la sua presenza nelle scuole attraverso protocolli con gli Enti locali, la Prefettura, l’Ufficio scolastico provinciale fino a lavorare in sintonia con l’Università di Ferrara e di Bologna, consolidando la sua struttura anche in termini di ricerca e innovazione. Ciò ha consentito agli operatori di Promeco di realizzare nelle nostre scuole in modo continuativo interventi di prevenzione, di formazione di operatori e di insegnanti, di sostegno e di counselling ai ragazzi e alle famiglie.
Si tratta di un patrimonio di conoscenze e di esperienze al servizio dei bisogni della adolescenza e della formazione dei nostri giovani, che ci pongono di fronte a problematiche sempre più complesse, quelle che trovano soprattutto noi adulti, genitori e insegnanti spesso disorientati, impreparati ad affrontarle.
In particolare è dal 2008 che Promeco realizza nelle scuole il progetto “Punto di Vista. L’operatore a scuola”. L’operatore a scuola si integra nella vita della classe, costituisce una presenza competente per affrontare positivamente i momenti di crisi che in comunità complesse come sono le scuole richiedono attenzione, cura, delicatezza, rispetto, ma anche competenza nell’affrontarli, nel rispondere alle sfide, alle richieste di attenzione che i giovani rivolgono agli adulti, a volte in modo goffo, poco comprensibile, altre volte con comportamenti provocatori. “Punto di vista” in questi anni ha costituito una risorsa, del tutto originale a livello nazionale, che nella sua articolazione, si è dimostrata efficace nel rispondere ai bisogni di una adolescenza sempre più difficile e complessa, superando i tradizionali interventi specialistici e spesso frammentari, poco efficaci e deresponsabilizzanti.
La giornata di studio di domani è, dunque, un appuntamento importante per la città e per la responsabilità che portiamo nei confronti delle nostre ragazze dei nostri ragazzi, soprattutto perché non capita tutti i giorni che ci si fermi a riflettere su loro, sulla loro crescita, sulla loro scuola. Per Promeco non sarà solo l’occasione per compiere un bilancio dei tanti anni di attività promossa nelle scuole, ma per ricordare a tutti noi di non perdere di vista le nostre scuole e i nostri giovani, il terreno dell’istruzione, dell’educazione, della formazione richiedono che la nostra riflessione si focalizzi sulla loro centralità in ambito preventivo, saldando gli interessi degli insegnanti, delle famiglie e degli operatori del territorio per individuare, affrontare e cercare di risolvere i problemi che ragazze e ragazzi sempre più manifestano.
Nel corso della giornata i ricercatori dell’Università di Bologna presenteranno lo studio di valutazione condotto sulle esperienze realizzate negli ultimi tre anni, mettendolo a disposizione degli esperti e dei decisori politici. Un modo per condividere in ambito pubblico i risultati dell’indagine, di definire concretamente la qualità del progetto e i possibili sviluppi futuri.
Aprirà i lavori l’intervento del sindaco di Ferrara Tiziano Tagliani, ma sono stati chiamati a portare il lor contributo il professor Luigi Guerra, Direttore del Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna, il dottor Stefano Versari, direttore generale dell’Ufficio Scolastico Regionale, l’assessore regionale Patrizio Bianchi, per concludere con l’intervento di Massimo Recalcati dal titolo “Si può apprendere e desiderare. Riflessioni sulla bellezza e sulla crisi della scuola’.
Un programma quello della giornata di studio di domani per ricordarci che tutti gli adolescenti, o quasi, vanno a scuola, non solo per apprendere informazioni e competenze, ma per essere se stessi, per riconquistare la singolare bellezza di crescere e di riuscirci.

“Tutti gli adolescenti vanno a scuola. La prevenzione nei processi formativi: un progetto possibile”
Mercoledì 18 marzo 2015, ore 8.45 – 17
Dipartimento di Giurisprudenza
C.so Ercole I D’Este 37 – Ferrara

Il programma completo [leggi]

La scuola come spazio pubblico

Certo la Finlandia non è l’Italia, né per estensione geografica né per popolazione, ma è un Paese che ha dimostrato come l’istruzione sia una priorità assoluta della politica.
Recentemente si è tenuto a Helsinki un seminario su ‘Istruzione e spazio pubblico’. Solo pensare alla relazione tra i due campi per noi sarebbe inimmaginabile. Noi opteremmo per temi più politicamente impegnati come ‘Istruzione e servizio pubblico’, ma ormai sempre più vuoti e sempre più inutili.
A me sembra che ‘istruzione e spazio pubblico’ abbia già alle spalle ‘istruzione e servizio pubblico’, l’abbia già acquisito come dato permanente del suo Dna, come dato da non rimettere in discussione o minacciare come può accadere da noi.
Al seminario hanno partecipato architetti e scienziati sociali provenienti da diversi Paesi europei per discutere di edilizia scolastica come spazio urbano, didattico e politico. Sono sufficienti questi tre aggettivi per comprendere l’angustia dei nostri ragionamenti intorno all’edilizia scolastica, presi come siamo dal dover rincorrere i nostri ritardi, i pericoli di strutture fatiscenti, mai scaturite da un ragionamento intorno all’istruzione, alla scuola, al suo essere spazio pubblico e urbano.
La scuola come luogo di vita non solo per gli alunni che la frequentano, ma anche per le famiglie, per la gente del quartiere, la scuola che si propone di fornire benessere e comfort.
La scuola spazio pubblico accogliente, aperta alla luce naturale, la scuola dove i bambini vanno a piedi nudi, godono di arredi appositamente studiati, di divani circondati da caldi tappeti dove poter leggere comodamente.
Per gli architetti finlandesi progettare una scuola è una questione di orgoglio e di prestigio, non solo per gli investimenti pubblici messi a disposizione, ma per la centralità sociale che assume ogni edificio destinato a fornire, in dimensiona umana, istruzione e cultura agli alunni come alle persone del quartiere.
Un certo numero di giovani architetti sta progettando nuove scuole con una qualità formale in grado di generare un ambiente educativo invidiabile non solo da noi, ma dalla maggioranza dei Paesi europei.
Sono spazi flessibili che possono ospitare molteplici funzioni, la mensa si trasforma facilmente in un teatro o in auditorium. La flessibilità è necessaria affinché le scuole siano anche spazi urbani al servizio dei cittadini, non solo biblioteche di quartiere, ma luoghi di concerti, luoghi di incontro per gli adolescenti. Potremmo parlare di una scuola porosa, capace di vivere e servire il respiro del quartiere, di assorbirne gli umori e di risponderne alle esigenze. La porosità con l’ambiente si traduce in una buona appropriazione da parte del pubblico e in una buona integrazione nel tessuto urbano.
Non edifici pubblici costruiti all’insegna dell’austerità e del contenimento economico, ma edifici progettati con la premessa dell’eccellenza. Perché la molteplicità d’uso e di funzione degli edifici dell’istruzione pubblica è innanzitutto una scelta di razionalizzazione, perché la polifunzionalità di quartiere, o comunque urbana, consente di evitare la costruzione non necessaria di altri edifici e la relativa spesa pubblica, la densificazione della città, oltre a produrre un notevole risparmio energetico.
Forma e sostanza sono strettamente correlate. Prendersi cura delle scuole, del loro design è il primo passo per raggiungere l’eccellenza nel sistema di istruzione. Creare spazi utili e armoniosi promuove l’efficacia della scuola e di conseguenza il consapevole rispetto per l’istruzione da parte degli studenti.
La scuola come spazio pubblico è questo luogo versatile, integrato nella città, non recintato, aperto e accessibile, in cui bambine e bambini, ragazze e ragazzi imparano a vivere insieme, ma si mescolano anche con estranei, adulti, giovani e anziani. È luogo che può incorporare occasioni e semi del conflitto, ma è soprattutto luogo di cittadinanza viva, di cittadinanza non predicata, ma praticata, luogo di autentica urbanità.

IL RITRATTO
La signora Yulia, ai margini della scena

da MOSCA – La signora Yulia è perplessa. Ne ha viste tante ormai e la prima di questa sera non fa eccezione. Coreografi inglesi, americani, italiani, francesi, spagnoli o russi, sempre la stessa storia. Balletti, opere, operette, concerti, poco cambia. Libri, libretti, cataloghi, cd, dvd, cartoline, fotografie, penne, matite, magliette, tutto uguale. Lei sta lì, spettacolo dopo spettacolo, sipario dopo sipario, passo dopo passo, nota dopo nota, bacchetta dopo bacchetta e vede sempre la stessa scena. Qualche piccola variante, forse, ma di scarso rilievo. Lei che sogna di viaggiare lontano, alla fine del mondo, magari in Polinesia, che a malapena sa dove si trova sulla cartina, si trova sempre lì, ogni sera, ogni settimana.
Vende qualche oggetto, ha un salario minimo fisso ma è pagata anche in base a quanto vende. E di vendite se ne fanno poche, in quel tempio dell’arte. E poi le signore eleganti, dai tacchi alti vertiginosi e le parure sfavillanti hanno borsette piccole, pochette che contengono a malapena un rossetto scintillante, uno specchietto lezioso e un leggero fazzoletto ricamato. Sempre loro, donne eteree, dalle gambe lunghe come quelle delle gazzelle, i colli sottili e adornati di perle, oro e diamanti, le spalle chiare coperte da morbide mantelle di pelliccia, le mani lunghe, affusolate e curate. Certo non come le sue, con qualche macchia e screpolatura a causa del vento che ogni mattina, ogni sera, si scontra con le sue dita, il suo viso oltre che con il suo foulard colorato sempre troppo leggero. Quando va e quando torna, quando rientra nella sua casa normale. Quelle donne eleganti, invece, arrivano spesso con un colbacco di volpe argentata, loro che non ne hanno davvero bisogno, proprio no, loro che sono sempre al caldo, al riparo delle loro autovetture scure e lucide di grande cilindrata. L’autista aspetta fuori, nel parcheggio riservato a pochi, di fronte a quel teatro lussuoso che non tutti si possono permettere. Eppure proprio tante persone normali vorrebbero vedere quei balletti, sentire quelle note, sognare con quelle musiche. Quelle eleganti e bionde signore sembrano sfilare, essere lì solo per quello. Belle, bellissime, splendide, curate, ben pettinate, perfettamente truccate, profumate, laccate, quasi conservate sotto vuoto. Non mancano i barracuda che girano intorno, le api che ronzano invano, le muscolose guardie del corpo sono fuori a prevenire l’avvicinamento alle regine.
Tutte le sere la stessa scena, pensa Yulia, tutte le volte una sfilata simile, una parata di bellezza finta, imbalsamata e vuota. Qualche giovane coppia o qualche straniero curioso e stravagante a volte cambiano un po’ il solito panorama. Ma la scena resta sempre la stessa. Nulla cambia. Sempre la stessa storia.

L’APPUNTAMENTO
Lo spettro di un nuovo medioevo. Lunedì 23 c’è “IsIslam?” con Ferraraitalia, per capire i nuovi fondamentalismi

Esiste un Islam moderato? Cos’è cambiato nel rapporto con le comunità islamiche all’indomani dei sanguinosi attentati in Europa? Quali sono le possibili strategie per combattere il terrorismo dell’Isis, la più aggressiva e ricca organizzazione fondamentalista? Quali strumenti ha la politica per stroncare l’ascesa di un integralismo, che infiamma il Medioriente e ha messo radici nel cuore del nostro continente. Quale ruolo gioca l’informazione italiana nel comunicare quanto sta accadendo? Questi alcuni dei quesiti che saranno affrontati nel corso dell’appuntamento promosso da Ferraraitalia, intitolato “IsIslam? Fanatismi, fondamentalismi, integralismi: terroristi e nuovi crociati”, in programma alle 17 di lunedì 23 marzo nella sala Agnelli della Biblioteca Ariostea. L’incontro, condotto dalla giornalista Monica Forti, vede tra gli ospiti Zineb Naini, giornalista di Mier Magazine e ricercatrice dell’Università di Bologna specializzanda in antiterrorismo, lo storico Andrea Rossi e Hassan Samid, presidente dell’associazione Giovani musulmani di Ferrara.

L’avvento e l’espansione del califfato, supportata anche dalla crescente adesione di foreign fighters – giovani europei spesso arruolati attraverso la chiamata dei social network -, è una delle realtà tra le più inquietanti del mondo contemporaneo su cui si sono concentrate le intelligence dei Paesi occidentali. Secondo un rapporto dell’intelligence americana i foreign fighters confluiti in Isis provengono da 50 Paesi diversi e sono più di 7 mila, abbracciano la guerra santa o rimangono in Europa per seminare il terrore. Sono al servizio dell’Islam oscurantista del califfo Al Bagdadi, fondato sul rifiuto della democrazia e della laicità.

Siamo di fronte all’avanzata di un nuovo medioevo? L’intensificarsi della campagna mediatica contro l’Italia ha avuto il suo effetto dirompente con la comparsa in video della bandiera nera sulla cupola di San Pietro, il simbolo della cristianità. La minaccia ha immediatamente aperto un capitolo attraversato da timori e dall’intensificarsi di un neorazzismo che sta dilagando nel Paese. Il dialogo con gli stranieri e le giovani generazioni di religione musulmana nate in Italia, si è fatto maggiormente difficoltoso e dominato dalla reciproca diffidenza. Nel contempo si sa poco o nulla di questa nuova e fluida ondata di terrorismo, che ad ogni nefandezza commessa può contare su migliaia e migliaia di tweet di simpatizzanti, usa i bambini come kamikaze e fa proseliti tra giovani uomini e donne acculturati oltre che nei ceti meno abbienti come quelli residenti nelle periferie parigine.

Cosa si nasconde dietro l’esasperazione del tema religioso? Che rapporto c’è tra recenti “rivoluzioni” arabe e Jihad? I canali di finanziamento del califfato, il cui controllo si estende su circa 56mila chilometri di terra fra Iraq e Siria, sfuggono ai meccanismi dell’economia internazionale, le risorse accumulate, incassi da 2milioni di euro al giorno – come ha segnalato nel 2012 Matthew Levitt, direttore dell’Intelligence e antiterrorismo di Washington – non possono essere colpite da embargo. Pertanto la sfida consiste nello stroncare il contrabbando di petrolio, le estorsioni, bloccare i rapimenti di occidentali, le donazioni e il contrabbando di reperti archeologici. Sarà possibile? Le nazioni dell’Europa condivideranno realmente la lotta al terrorismo islamico? E quale parte avranno Iran e Arabia Saudita, che oggi, a differenza di quanto è accaduto fino a poco tempo fa, sono inclini a mettere un freno all’avanzata di Al Bagdadi i cui uomini si sono macchiati dei più atroci delitti. Secondo l’osservatorio siriano dei diritti umani dal 28 giugno al 14 dicembre del 2014, Isis ha giustiziato 1878 persone di cui 1175 civili, senza contare le persone scomparse. Numeri sommari quanto raccappriccianti, che l’Onu è intenzionato a catalogare come crimini di guerra contro l’umanità.

LA RICORRENZA
Un’altra primavera per celebrare l’immaginifico Tonino

Quando si parla di Tonino, pensiamo tutti subito solo a lui, a Tonino Guerra che, oggi avrebbe compiuto 95 anni, oggi, a tre anni dalla sua morte, avvenuta nello stesso mese di marzo, il 21. Sempre a Sant’Arcangelo di Romagna, fedele alla sua terra, nonostante un lungo soggiorno a Roma e un intenso girovagare per il mondo.
Chi nasce a primavera, con la vita che sboccia, non può che andarsene a primavera.
Il mese di marzo è dunque il suo, quello dell’indimenticabile e meraviglioso Tonino, un periodo dove le iniziative in suo ricordo si svolgono da Rimini a Riccione, passando per Santarcangelo, Pennabili, San Marino e Urbino fino alla lontana, ma a lui vicina, Mosca. Tutte organizzate dall’associazione culturale a lui dedicata (www.toninoguerra.org).

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Carla Fracci

Cosi, il 12 marzo, a Rimini sono state presentate le ‘Giornate dedicate a Tonino Guerra’, che si tengono dal 13 al 31 marzo in molti luoghi, fra Romagna e Marche, organizzate tra passeggiate, cori per bambini (anche da Kiev) e bellissimi spettacoli. Con una coda, come si diceva, in Russia: una mostra dei mosaici realizzati su suoi disegni sarà inaugurata, il 23 marzo, al Museo statale Puskin di Mosca, seguiranno poi due serate dedicate dai suoi amici intellettuali, una serata alla Casa degli scrittori di Mosca, un nuovo libro di traduzioni, una mostra più grande in settembre a Solianka, mentre il Parco Hermitage progetta ‘il villaggio di uccelli e costruzione della fontana L’albero dell’acqua inventata da Tonino’. Tra le iniziative, il 15 marzo, con i sindaci della Romagna si parlerà di uno dei progetti sospesi di Tonino, il ‘Museo Letterario Diffuso’. Il 16 marzo, giorno del suo compleanno, al Teatro Sanzio di Urbino, ci sarà anche la grande Carla Fracci a danzare per lui, in uno spettacolo del coreografo russo Nicolay Androsov, con la regia del marito dell’indimenticabile e sempre eterea étoile, Beppe Menegatti. Il coreografo russo Androsov ha firmato cinque pezzi ispirati all”Albero dei pavoni’ di Tonino. Insieme alla Fracci si esibiranno Natalia Krapivina, una delle star del Balletto di Mosca (per la precisione, del teatro di Danza Stanislavsky e Nemorivich), e la bambina Emma Colombari. Fra gli ospiti, oltre al regista, anche il compositore Bruno Contini.
Carla ha firmato una nota che ricorda Tonino Guerra come “una luce autentica nel mondo della cultura italiana”.

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La piazza di Sant’Arcangelo con la fontana

Un altro dei bei progetti di Tonino, ora divenuto concreto, sarà, invece, presentato il 21 marzo a Santarcangelo: la fontana con la pigna (Tonino aveva progettato l’intervento di modifica della fontana di piazza Ganganelli a Santarcangelo, aggiungendo l’elemento decorativo della pigna e creando nuovi gradevoli giochi d’acqua).

E, sempre il 21, a Novafeltria si esibiranno al teatro comunale i bambini dell’Istituto Tonino Guerra mentre, a Pennabilli, ci sarà il concerto di Petruscianskij. Anche il Premio Nobel Dario Fo ha inviato una nota, sottolineando l’eclettismo del Maestro dalle ‘poesie sconvolgenti e semplici’, un coltivatore di frutti dimenticati, un artista che faceva ‘cose impossibili impiegando dal legno alla pietra, pezzi di ferro torti e fusi col fuoco’, compresi i ciottoli di fiume. Indimenticabile. Perché, come diceva lui, ‘ la bellezza è già una preghiera’. Dalla Romagna, dunque, alla Russia, con amore.

Dario Fo, messaggio per Tonino:

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Tonino Guerra

A Pennabilli, in provincia di Rimini, su una collina, ci stanno alberi in quantità. Tutti o quasi sono piante che danno frutti, ma non frutti comuni, piuttosto sono di un genere dimenticato e ritrovato grazie a un’idea di Tonino Guerra, aiutato da gente non comune come era lui. Lì crescono l’Azzeruolo, il Giuggiolo, la Corniola, il Biricoccolo. Pensi subito che siano frutti inventati da Tonino Guerra, uno a cui non piaceva il normale, il comune e la banalità. Il tutto ha un nome che ci fa capire quale fosse l’intento straordinario di Tonino: creare l’Orto dei frutti dimenticati. E poi la ricerca delle fonti d’acqua pura e i boschi da dove, seguendo ritmi geometrici antichi, si può proiettare la propria ombra su una meridiana composta di pietre che indicano l’ora. Mi son trovato spesso in strani luoghi della Romagna dove immancabilmente incontravo Tonino da stampatori che decoravano tele tirate a mano e poi poste sotto una pressa che imponeva a colori tratti da radici d’albero, da tuberi e da terra che produce gialli e rossi di raccontare storie impossibili. Un giorno sono entrato in un’antica fabbrica dove si costruiscono porte di legni diversi che fanno subito venire in mente bassorilievi realizzati con tratti di legno incastrati uno nell’altro con ritmi che producono composizioni cromatiche e plastiche inimmaginabili. Erano opere inventate da Tonino per clienti che amavano l’inconsueto e la magia. Tonino Guerra era considerato uno che fa cose impossibili impiegando dal legno alla pietra, pezzi di ferro torti e fusi col fuoco, e poi sapeva scegliere sassi modellati dall’acqua dei fiumi e comporre ritmi legando uno all’altro ciottoli e massi nati proprio per raccontare insieme. Poi scriveva anche poesie sconvolgenti e semplici, così che le potessero recitare soprattutto i bambini.
Il messaggio di Carla Fracci e Beppe Menegatti:
Partecipare al ricordo di una persona, scritto maiuscolo, PERSONA, come Tonino Guerra è un grande onore. Tonino Guerra è stato un grande Italiano ed è una luce autentica nel mondo della cultura Italiana. Tonino Guerra ha toccato tutti i punti della grande autentica cultura Italiana illuminandoli di autenticità. Si parlerà di un testo di alto valore poetico, di una sceneggiatura di altissimo valore che si presta ad una straordinaria rappresentazione teatrale Parole – Poesia – Musica – Canto e Danza. Lo scritto di Tonino Guerra si intitola L’Albero dei Pavoni.
Tonino stato anche uno squisito pittore. Noi a casa abbiamo un ricordo bellissimo che lui stesso ci donò a Rimini per una serata in onore e ricordo di Federico Fellini, un suo quadro-bozzetto.

Il manifesto col programma dettagliato delle iniziative in programma [vedi]

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Quando la passione per l’arte bruciava più della politica: la figura di Alfonso I d’Este nel nuovo volume di Vincenzo Farinella

Venerdì 20 marzo alle ore 15, presso la sala dei Comuni del Castello estense, l’Associazione amici dei musei e dei monumenti ferraresi presenterà in prima nazionale l’importante volume di Vincenzo Farinella* dal titolo “Alfonso I d’Este, le immagini e il potere: da Ercole de’ Roberti a Michelangelo”, esperto di arte italiana del Rinascimento e professore associato di Storia dell’arte moderna all’Università di Pisa.

Alfonso I d’Este (1476-1534) rappresenta un caso esemplare, nell’Italia rinascimentale, del rapporto strettissimo esistente tra mecenatismo artistico e attività politica: il duca di Ferrara fu infatti uno dei mecenati più acuti ed esigenti della sua epoca, mosso da una sincera passione per le arti. Paolo Giovio, il grande storico comasco che di Alfonso I scrisse una fondamentale biografia, ricorda che il signore estense stupiva e in fondo anche scandalizzava i suoi contemporanei per un eccentrico interesse rivolto alle arti meccaniche, praticate in prima persona, senza timore di sporcarsi le mani: non solo partecipava alla fusione dei cannoni che posero Ferrara all’avanguardia della tecnica bellica cinquecentesca, ma si dilettava a lavorare nei laboratori di corte, producendo vasellame in ceramica, oggetti di legno intagliato e forse anche esercitandosi nell’attività pittorica. Questo profondo interesse per le arti, insieme alle inclinazioni famigliari testimoniate da due grandi committenti, i genitori Ercole I d’Este ed Eleonora d’Aragona, e la sorella, Isabella d’Este Gonzaga e rinsaldato dal rapporto di amicizia che lo legò negli anni della giovinezza ad un grande maestro come Ercole de’ Roberti, lo spinsero, una volta diventato duca nel 1505, non solo a servirsi di “artisti di corte” modernissimi, come lo scultore veneziano Antonio Lombardo e il pittore padano Dosso Dossi, ma a richiedere opere anche ai massimi del suo tempo, da Fra’ Bartolomeo a Tiziano, da Raffaello a Michelangelo, con la lucida volontà di trasformare Ferrara in una capitale dell’arte italiana.

Per ricostruire la figura di Alfonso I d’Este è risultato necessario ripartire dalla sua biografia: un’esistenza avventurosa, sempre vissuta da principale protagonista di quel drammatico trentennio iniziale del Cinquecento che vide l’Italia diventare territorio di conquista da parte delle grandi potenze europee. Alfonso si allea prima con la Francia e poi con l’Impero e scontrandosi con la Chiesa romana (tanto da essere scomunicato da ben tre pontefici, Giulio II, Leone X e Clemente VII ), ma riuscendo comunque a salvaguardare la libertà di Ferrara e dello stato estense. Non esistendo una ricostruzione moderna affidabile della vita di Alfonso I, Marialucia Menegatti, con la sua profonda conoscenza degli archivi di Modena, Ferrara e Mantova, si è impegnata in una vastissima ricognizione volta a realizzare una vera e propria cronistoria biografica dove appuntare, anno per anno, gli eventi che videro il duca protagonista: un’appendice che occupa oltre 200 pagine del volume, destinata a diventare una più vasta opera autonoma, con l’obiettivo di fornire finalmente agli studiosi quella base di dati storico-archivistici necessaria per riconsiderare il ruolo storico giocato da Alfonso I nelle “guerre d’Italia”.

Il riesame delle principali commissioni artistiche del signore di Ferrara, a cui Vincenzo Farinella si è dedicato ormai da quasi un quindicennio, seguendo passo passo la vita di Alfonso I d’Este, ha così potuto approdare a una chiara prospettiva del nesso arte/politica evidentissimo nella maggior parte delle opere patrocinate da questo mecenate, così appassionato e al tempo stesso così lucidamente conscio del significato ideologico delle arti visive. Così lo studiolo del duca nel suo appartamento privato in Castello, decorato dallo splendido apparato di marmi cesellati da Antonio Lombardo, viene letto come una risposta alla congiura ordita dai fratelli del duca e come un tentativo di realizzare uno “specchio del principe”, dove delineare le virtù morali e i modelli politici necessari ad un’attività di buon governo. Le scintillanti miniature di Matteo da Milano per il Libro d’Ore di Alfonso risultano una testimonianza della vera e propria guerra per immagini ingaggiata con Giulio II, mentre anche un capolavoro come il Cristo della moneta di Tiziano può essere interpretato come un’arma ideologica nel duello senza esclusione di colpi che ha contrapposto il duca estense a Leone X. Del camerino delle pitture, l’impresa più ambiziosa e prestigiosa del mecenatismo di Alfonso I, viene analizzata la complessa iconografia dei dipinti di Giovanni Bellini, Dosso Dossi e Tiziano, incentrata sulle figure esemplari di Bacco, Venere ed Enea, avanzando anche una nuova ipotesi ricostruttiva dell’ambiente dove si erano concentrati alcuni dei massimi capolavori del primo Cinquecento, come ad esempio il tizianesco Bacco e Arianna ora alla National Gallery di Londra. Infine si dà conto di altre importanti commissioni ducali, tra cui la perduta Leda richiesta a Michelangelo, un’estrema allegoria politica affidata a Tiziano oppure il mirabolante Giove pittore di farfalle di Dosso per la “delizia” del Belvedere. La rievocazione di questo luogo di ozio e di piacere, posto su un’isoletta in mezzo al Po, ad un passo dalle mura della città, completamente distrutto quando Ferrara a fine Cinquecento cadde nelle mani rapaci delle “arpie romane”, è affidata, oltre che all’esame delle opere d’arte realizzate per decorarlo, alla ristampa, in coda al volume, e alla traduzione curata da Giorgio Bacci, del poemetto Pulcher visus di Scipione Balbo, dove, al pari delle celebri ottave dell’Orlando furioso dedicate a questo “paradiso del principe”, viene evocata l’ambizione di creare un’immagine di quella mitica età dell’oro che il principe prometteva ai suoi sudditi.

* Vincenzo Farinella è professore associato di Storia dell’arte moderna all’Università di Pisa. Ha studiato l’arte italiana del Rinascimento nei suoi rapporti con l’antichità classica, pubblicando numerosi libri e contributi. Si occupa inoltre di pittura dell’Ottocento e del primo Novecento. Tra le sue ultime pubblicazioni, “Raffaello” (Milano 2004) e “Dipingere farfalle. Giove, Mercurio e la Virtù di Dosso Dossi” (Firenze 2007).

Vincenzo Farinella, “Alfonso I d’Este, le immagini e il potere: da Ercole de’ Roberti a Michelangelo”, con la “Cronistoria biografica di Alfonso I d’Este di Marialucia Menegatti” e il “Pulcher visus” di Scipione Balbo, a cura di Giorgio Bacci, Milano, Officina Libraria, 2014, pp. 1042 con 319 figg. in bianco e nero e a colori.

L’OPINIONE
Nino Cristofori, il nume protettore della città

Nino Cristofori se n’è andato in silenzio dopo una lunga e penosa malattia. Il rispetto dovuto all’uomo però non implica il silenzio ipocrita e l’annullamento del dissenso su un certo modo di intendere la politica e sulla maniera di praticarla, nel suo caso non da semplice comprimario ma spesso da prim’attore.

L’editoriale del Carlino Ferrara di oggi rappresenta efficacemente l’idea che una certa parte della città aveva di lui. Scrive il caporedattore Cristiano Bendin: “Sono molti i ferraresi che, in questi mesi di tormentata vicenda Carife, hanno sussurrato: se ci fosse stato Cristofori, nessuno avrebbe osato fare ciò che è stato fatto alla Carife”. E conclude: “Non sappiamo se ciò sia vero. Ma quasi certamente, con lui vivo e vitale, Ferrara non sarebbe stata trattata così. E forse starebbe un po’ meglio…”.

Questo è il punto. Con la sua ‘protezione’ la città (forse) starebbe un po’ meglio. Questo afferma Bendin, questo realisticamente pensano in tanti. E’ possibile, anzi, è verosimile, perché così è fatta l’Italia. E la cosa mi deprime.
Io penso che una banca (Carife inclusa), come una qualsiasi impresa, se non è in grado di stare in piedi non debba essere tenuta in vita per compiacenza politica. E invece è stato proprio seguendo questa concezione che negli anni ruggenti della Democrazia cristiana si sono alimentati carrozzoni decotti, sprecando risorse pubbliche e alimentando il debito dello Stato, sino all’attuale voragine.
E la sensazione è che, finita la Dc, non sia finita la logica dello spreco e dell’indebito soccorso agli amici degli amici.

Carife è solo un esempio incidentale, magari la vicenda è diversa e andava semplicemente governata con avvedutezza; ma non parlo di questo, mi riferisco al criterio d’azione che qualcuno sembra rimpiangere, legato all’idea di un nume tutelare in grado di riaggiustare le cose a favore del paesello quando ci sono problemi da risolvere o occasioni da cogliere.

Beh, a me la logica da padrini che sta dietro questa immagine non piace proprio. Mi sembra lo specchio peggiore del nostro Paese.