Esther Kinsky è l’autrice del romanzo ‘Hain’, ambientato anche a Ferrara e Comacchio, che sta avendo un’eco straordinaria fra i critici di lingua tedesca: tanto che, notizia di ieri, è stata insignita dell’importantissimo Deutscher Buchpreis 2018 (Premio di Letteratura tedesca 2018). Il testo sarà prossimamente disponibile anche in italiano. Pochi giorni fa, anche grazie al legame che sente con la città e il territorio estense, fra terra e acqua, ha accettato di rispondere ad alcune domande per Ferraraitalia.
E’ difficile definire il suo libro dal punto di vista letterario. E’ un romanzo, un libro di viaggi, un diario o un volume di racconti? Lei stessa lo definisce, nel sottotitolo, un “Geländeroman”. Come dobbiamo interpretare questa definizione e come possiamo tradurla in italiano, forse come romanzo del paesaggio’?
In tedesco potrei definire chiaramente la differenza tra Landschaft, paesaggio, e Gelände, terreno. Gelände è una parola più aperta, con più significati e forse potremmo renderla meglio con il termine luogo, ma ciò di cui sto realmente parlando è la lettura, l’interpretazione soggettiva di un luogo, che conserva tracce di qualcosa che è successo. In francese c’è l’espressione ‘recit‘ che, così come Gelände rispetto a paesaggio, è un termine più aperto. Per quanto riguarda il genere letterario, ogni volta che leggo la traduzione ‘romanzo’, tutto in me si ribella, anche se queste sono solo convenzioni.
Però bisogna ammettere che nelle tre parti in cui è diviso il libro viene raccontata un’unica storia che le comprende tutte e tre, si tratta quindi di un unico percorso, pur con sentieri e deviazioni, che si snoda attraverso i temi di perdita e lutto. Questo giustifica questa definizione di genere.
Sicuramente non è un diario e non sono neanche racconti. Piuttosto direi che nel libro ci sono temi fondamentali, strettamente uniti nelle loro motivazioni profonde più che in avvenimenti precisi. Gli uccelli, come l’airone per esempio, giocano un ruolo importante, e infatti il tema degli uccelli si dipana attraverso tutto il libro, così come quello delle necropoli.
Anche il titolo tedesco, ‘Hain’, non è facile da tradurre in italiano. Nei vocabolari troviamo il termine “boschetto”, ma questa parola esprime davvero il senso del tedesco Hain? Come mai ha scelto questo titolo, che fa pensare molto più al romanticismo che al neorealismo? Hain è una parola antica, che non definisce soltanto un piccolo bosco, ma che richiama un’atmosfera legata a miti e rituali del passato.
Il libro ha come motto principale una citazione della ‘Grammatica filosofica’ di Wittgenstein, che esprime meravigliosamente il mio tema della lettura del mondo attraverso i suoi segni visibili, ed in questo tema si si infiltrano sicuramente associazioni con il romanticismo, le cui tracce mi interessano sempre.
Parlare di romanticismo tedesco crea sempre molta confusione, perché l’appropriazione borghese e reazionaria di questo termine, e la sua volgarizzazione, hanno sempre gettato una pessima fama su molti aspetti che sono invece rivoluzionari.
La traduzione “boschetto” mi piace però, anche perché la scena centrale della seconda parte del libro, la scoperta di piccoli uccelli morti, si svolge proprio in un boschetto. Nel mio immaginario in queste scene il boschetto di oggi si trasforma lentamente in quello antico, anche se forse non riesco a esprimere bene a parole questo concetto. Comunque per me non sussiste nessuna reale contraddizione tra romanticismo e neo-realismo.
In tutti i suoi libri, soprattutto nelle poesie, al centro dell’attenzione sono luoghi dimenticati e perduti. In poche parole: sembra che non le interessino i tramonti lirici, ma molto di più le atmosfere brumose. Ma, soprattutto, lei ha un occhio particolarmente attento ai cespugli ai bordi dei fiumi o delle ferrovie, alle zone industriali, in breve agli angoli ‘sporchi’, ai luoghi “con cui nessuno vuole avere niente a che fare”, per dirla con le sue stesse parole. E’ giusta questa interpretazione?
Sì, mi interessa molto di più ciò che è ai margini, rispetto al centro. Nelle città di oggi, con i loro centri supercontrollati e snaturati da una pesante massificazione tesa solo al profitto, si è sviluppata una dinamica per cui tutte le cose più interessanti sono state spinte verso le periferie, per questo i margini sono più interessanti del centro.
Io sono nata sulle rive di un fiume e i margini mi hanno sempre interessata, perché il fiume stesso è definito dai suoi argini, dai suoi limiti; attraverso la discontinuità dei suoi margini, lo specchio d’acqua diminuisce, aumenta, si libera, divora lo spazio; questa è una dinamica che sfida il controllo.
A me interessano luoghi che contengano tracce, come ho già accennato, ma che sviluppino anche una propria, peculiare vita. Direi che questo è il punto fondamentale.
Uno dei termini più importanti per me è diventato Gestörte Gelände, terreni disturbati, un termine mutuato dalla storia naturale, che definisce così quei terreni che sono stati sovrasfruttati dall’uomo, che presentano tracce di interferenze umane, ma che tuttavia lottano contro queste tracce, sviluppando una flora ed una fauna del tutto peculiari.
Naturalmente spesso accade che i terreni abbandonati siano anche l’unico rifugio rimasto a quelle persone per cui è andato perduto il diritto a un proprio, legittimo spazio.
Mi riferisco per esempio a un boschetto a est di Budapest dove si sono rifugiati i senzatetto, ma anche agli insediamenti provvisori dei Rom intorno alle grandi città, ai molti che sono senza più patria: non parlo solo dei senza tetto, perché l’essere senza patria è uno stato di emarginazione in sé e questo è quello che mi interessa.
I tre capitoli del libro prendono il nome da luoghi italiani: Olevano, nella provincia laziale; Chiavenna, nel Nord della Lombardia, direttamente al confine con la Svizzera; e Comacchio, nel Delta del Po a est di Ferrara. Cosa lega questi tre luoghi?
Sono tutti luoghi che svolgono un ruolo determinante in ogni rispettiva parte del libro. Olevano è la scena dominante nella prima parte, nella seconda Chiavenna è il punto di partenza dei ricordi, per questo volevo che fosse una città di confine. Comacchio è invece un luogo che non si sa se appartenga alla terra o all’acqua, uno stato di indefinizione per me essenziale nell’ultima parte.
Il luogo più significativo in realtà è Spina, che si trova nella prima parte, ma non volevo dirlo chiaramente perché si tratta di una necropoli e avrebbe dato a tutto il libro un’atmosfera completamente diversa.
Una parte del suo libro è dedicata anche a Ferrara e in una frase lei afferma che: “Ferrara non si fa capire troppo facilmente”. Perché per lei Ferrara è una città che non si fa capire facilmente?
Ferrara è per me una città piena di misteri, ha qualcosa quasi di ottomano, si ha la sensazione che dietro queste facciate si dispieghino mondi che a coloro che passeggiano per le strade rimangono completamente nascosti.
Quando passeggiavo per le strade di Ferrara, mi venivano in mente i film di Satyait Ray, quegli sguardi dalle finestre piccole, strette e perfino sbarrate che davano sulla strada, mi immaginavo addirittura che le persone guardassero me in questo modo, che mi vedessero come ‘la straniera’ che passava nel vicolo. È una città dai confini netti dentro e fuori, esattamente come nei film di Ray, dove tutto ciò che è esterno è straniero.
Sicuramente il mio sguardo sulla città è stato condizionato da ‘Il giardino dei Finzi Contini’, il romanzo di Giorgio Bassani, che è un libro pieno di misteri, ma devo anche dire che mi ha sempre interessata il fatto che Ferrara fosse la città italiana che a Goethe non era mai piaciuta. Si ha quasi la sensazione che nel suo ‘Viaggio in Italia’, Goethe avesse paura di Ferrara, naturalmente non lo ha mai ammesso, ma è tuttavia incredibile come egli si sia espresso contro questa città. Io credo che non l’abbia capita.
E spesso ho la sensazione che la gente del Nord Europa abbia bisogno, quando visita la Bassa Padana, dei tesori artistici e del significato culturale dei luoghi per riuscire a entrare in relazione con loro, mentre ha poco amore per questo paesaggio spesso nebbioso e nordico, con la malinconia della pianura che circonda Ferrara, mentre è proprio per questo che trovo questa città così affascinante, anche se dovrò visitarla ancora tante volte prima di riuscire a farle rivelare tutti i suoi segreti.
Ma va bene così, niente batte la curiosità insoddisfatta.
Nel capitolo che riguarda Spina lei scrive che qui ci si trova di fronte ad un “paesaggio, o all’assenza di un paesaggio”. Può spiegarci?
L’area intorno a Spina, questa terra strappata all’acqua, al Delta del Po, è fortemente segnata dall’intervento dell’uomo. Tutto ha qualcosa di molto funzionale, quasi brutale. Tutto il terreno è sfruttato, ma si percepisce che qui c’era qualcosa di originariamente diverso. Come un altro elemento. Quest’area non è ancora un ‘paesaggio’, direi, ma è sicuramente ‘un luogo’. Credo che a volte si perda troppo tempo a cancellare i segni del passato, mentre parallelamente se ne inseguono le tracce attraverso la meticolosa ricerca dei reperti archeologici. Questa, per lo meno, è la mia sensazione.
L’opera di Giorgio Bassani è citata più volte nel suo libro. Lei cerca, come tutti i turisti che si interessano di letteratura, il famoso giardino dei Finzi Contini e, come tutti gli altri, non lo trova. ‘L’airone’ assume addirittura un ruolo centrale nella sua esplorazione del Delta. L’opera di Bassani è significativa anche per il suo modo di scrivere?
Io ammiro la scrittura di Giorgio Bassani: ha una tale sintonia con la gente, una tale comprensione per i dilemmi umani che mi coinvolge sempre. Al tempo stesso i suoi sono anche romanzi e racconti storici: nessun trattato sul giudaismo tra le due guerre mondiali mi ha insegnato tanto quanto ‘Il Giardino dei Finzi Contini’ e nessun saggio sul dopoguerra in Italia tanto quanto ‘L’airone’ di Bassani.
Per me ‘L’airone’ è forse il testo più importante di Bassani, perché sono gli elementi che colpiscono i sensi a dominare la scena: i colori del cielo, l’odore dell’aria, è tutto un mondo di sensazione e ricordo, un dramma straordinario che si svolge contemporaneamente nei pensieri e nel corpo.
Come lettrice ho quasi la percezione che tutto il Delta del Po scorra dentro di me, che la lettura stessa si impadronisca di me ogni volta, ancora e ancora.
Questo mi fa sentire in sintonia con Bassani, ogni volta è così, ma io ho uno stile di scrittura molto diverso e inoltre ho letto i suoi libri nella traduzione tedesca, con solo occasionali digressioni nell’originale, quindi non possiamo parlare di influenza diretta.
Ma di grande ammirazione sì, in ogni caso.
Si ringrazia Emilia Sonni per la traduzione dell’intervista
“E fai l’estetista e fai il laureato
E fai il caso umano, il pubblico in studio
Fai il cuoco stellato e fai l’influencer
E fai il cantautore ma fai soldi col poker
Perché lo fai?”
Così cantano gli Stato Sociale, band bolognese ‘rivelazione’ – come si dice spesso – di questo Sanremo 2018, un po’ per la loro musica un po’ per le loro esibizioni, fra denuncia sociale e ‘vecchie’ che ballano. Rivelazione per il grande pubblico televisivo della kermesse, ma non per occhi e soprattutto orecchie più esperti: quelli della KeepOn LIVE Parade, la classifica – mensile e annuale – di qualità relativa alla musica del vivo scelta e votata dai gestori e direttori artistici dei live club che aderiscono al Circuito KeepOn LIVE.
Nulla di nuovo: l’edizione del 2000 ha visto per esempio in gara Subsonica, approdati sul palco dell’Ariston direttamente nei big grazie a un numero esorbitante di live accumulati durante il loro tour. È capitato anche con i Perturbazione e i Marta sui tubi. Il secondo posto de Lo Stato Sociale, in gara tra i big dopo anni di gavetta e con i numeri dei palazzetti sold out dalla loro, è stato un piccolo grande successo per quella musica che nasce nei club, che si costruisce di data in data per tutta la penisola, spesso senza avere alle spalle network radiofonici e/o talent. Quella musica per la quale lo staff di KeepOn LIVE, il primo circuito nazionale che promuove e sostiene la cultura della musica italiana originale dal vivo, non passa ‘Una vita in vacanza’.
289 club aderenti al circuito, 605 concerti settimanali con 1378 artisti coinvolti e un totale di pubblico di sei milioni e mezzo di persone. A questi numeri vanno poi aggiunti quelli dei festival: 60 rassegne in 15 regioni da Nord a Sud, con 890.000 presenze, 2.892 musicisti, 504 tecnici e 3.983 figure retribuite. Questi gli highlights del 2016 (quelli del 2017 saranno disponibili a giugno – ndr): cifre di tutto rispetto che confermano quanto ci sia “voglia da parte delle persone di tornare a conoscersi dal vivo e provare esperienze. La sfida è spostare questa curiosità in modo diffuso anche ai locali ed eventi medio piccoli, mentre spesso rimane appannaggio dei grossi eventi”. A parlare è Federico Rasetti, ferrarese, direttore di KeepOn LIVE.
Federico Rasetti
Federico, cos’è KeepOn?
KeepOn è un progetto sociale nato tredici anni fa per sostenere la musica dal vivo partendo dalle fondamenta, i palchi dove le band si esibiscono, spesso ancora prima di incidere un disco. Con la crisi del disco, la digitalizzazione e la smaterializzazione della musica, il palco rimane una delle fonti di introito più importanti per gli artisti, ma al di là di questo il palcoscenico di fatto è il luogo dove l’artista espone le sue opere ed esercita – attraverso la musica – un diritto umano che tutti abbiamo, quello di espressione. Ecco perché la musica live originale va tutelata.
KeepOn riunisce e rappresenta i locali e i festival dove si programma prevalentemente musica dal vivo italiana originale, dagli artisti più famosi alle band emergenti, anzi, per queste ultime le attività del circuito hanno ha ancora più valore perché è esibendosi nei live club che fanno la famosa ‘gavetta’. Se togliamo i piccoli locali dove i musicisti si esprimono e possono crescere andiamo a tagliare le gambe a una grossa fetta di creatività e di espressione. Basta pensare a quanto le esibizioni nei locali sono state un percorso tipico dei cantautori e band italiane: da Guccini a De Gregori fino a Levante, Calcutta e gli Afterhours.
Un locale come può aderire al vostro circuito?
I criteri fondamentali per poter aderire a KeepOn sono: dare maggior spazio possibile alla musica live originale, avere un palco e un impianto audio residenti. L’obiettivo è diventare da settembre una vera e propria associazione di categoria. A oggi siamo un circuito inclusivo, ma qualificante, perché se a un locale manca uno dei criteri di adesione facciamo il possibile per aiutarlo a migliorarsi e poter entrare, per esempio li aiutiamo ottenere impianti a prezzi convenzionati attraverso sponsorship con i nostri partner tecnici. Offriamo loro anche rappresentanza europea, facendo parte di una associazione di circuiti simili: Live DMA, che riunisce 17 circuiti nazionali in 13 paesi per un totale di circa 2.500 locali e festival.
Come avviene concretamente questo sostegno? E perché avete deciso di aderire alla rete DocServizi?
La mission di KeepOn è sostenere e aiutare i locali piuttosto che i singoli artisti perché è difficile far suonare gli artisti se non si hanno sale dove farli esibire. Paragonando la musica originale ai film d’autore, è un pò come se cercassimo di aiutare dei cinema d’essai. Agiamo quindi su due livelli per aiutare i gestori, che di fatto sono veri e propri imprenditori culturali che si assumono un rischio programmando musica originale piuttosto che cover band o dj set (anche questi in realtà in crisi).
Da una parte interpretiamo un ruolo di rappresentanza istituzionale, facendo azione ‘lobbistica’, massa critica, nei confronti delle istituzioni locali e nazionali, ma anche a livello europeo tramite Live DMA. Dall’altra parte – e questo ci differenzia rispetto agli altri circuiti europei, è la nostra specificità – agiamo sul versante privato per attivare e facilitare collaborazioni, sponsorship, convenzioni.
Creiamo poi occasioni di formazione e networking, come al KeepOn LIVE Club Fest, un vero e proprio meeting di settore dove tutti i professionisti Italiani – e anche europei – della musica dal vivo si riuniscono insieme a Live Club e Festival per eventi di formazione, scambio buone pratiche e incontro di domanda/offerta fra agenzie di booking e promoter locali.
Inoltre aiutiamo i gestori sul lato della promozione: abbiamo una rivista, KeepOn Magazine, e la Live Parade, la classifica mensile curata dai direttori artistici che ogni mese segnalano la migliore band, la migliore nuova band e il miglior performer che hanno ospitato sui loro palchi. E’ una classifica importantissima e le majors così come le etichette indipendenti cominciano ad accorgersene: c’è una giuria ampia e qualificata che giudica non un disco, ma l’impatto delle performances dal vivo. Brunori, Afterhours, Calcutta, The Giornalisti, solo per farti alcuni esempi erano tutti stati segnalati nella nostra live parade prima di diventare famosi.
Per quanto riguarda Doc Servizi: è il giusto ambiente per regolarizzare contratti e servizi e garantire così la legalità nel settore, inoltre offre una rete molto ampia di contatti. Entrando nella rete di Doc abbiamo avuto l’opportunità di elevare il valore di tutto il Circuito e iniziare a lavorare per promuovere i concetti di legalità e lavoro in regola in tutta la penisola. Il lavoro nero è una grossa piaga in questo settore, l’obiettivo di Doc è contrastarlo per portare più sicurezza sopra e attorno ai palchi, oltre a creare la consapevolezza che vivere e lavorare di musica è possibile e lo si può fare con tutte le tutele di qualsiasi altra professione.
E tu Federico come sei arrivato a KeepOn?
Da appassionato di musica, mentre frequentavo l’università, ho iniziato a lavorare il commesso in un negozio di strumenti. E’ partito tutta da lì fra i clienti c’era il titolare di un’azienda di webmarketing presso la quale, successivamente, iniziai a fare uno stage. Quando mi riconobbe mi volle conoscere meglio e scoprii che era un musicista jazz e titolare anche di un’agenzia di booking: mi propose di organizzare i concerti della sua band. Lì imparai a fare l’agente booking e decisi di buttarmi completamente in questo mondo. Iniziai a collaborare con le realtà culturali di Ferrara come Arci, Ferrara Sotto Le Stelle e il Festival di Internazionale e frequentai un corso a Roma in produzione discografica e organizzazione eventi live al seguito del quale fondai un’agenzia di booking dedicata agli artisti emergenti e dove conobbi Piotta – una persona di un’intelligenza fuori dal comune – che aveva bisogno di qualcuno che gli curasse i live ed iniziai così a lavorare con molte altre band come Africa Unite, Perturbazione, Linea 77, Cisco e molti altri. Nel frattempo fondai una mia agenzia dedicata agli artisti emergenti e continuai a curare le competenze in marketing e comunicazione con un master e un successivo lavoro presso una grossa compagnia di assicurazioni e banking con sede a Bologna. Grazie ad un contatto della mia agenzia conobbi KeepOn che in quel momento cercava una risorsa che tenesse i rapporti con tutti i locali italiani: ci siamo sposati e non ci siamo più lasciati. In questa realtà per la prima volta ho avuto l’opportunità di unire passione per la musica, sull’organizzazione di eventi e competenze più ‘aziendali’, come per esempio sul versante del marketing e delle sponsorship.
So che con DocServizi sei dietro le quinte anche di Internazionale a Ferrara…
Mi occupo della direzione del personale: in poche parole seleziono formo e coordino il personale di staff – tranne i professionisti della produzione, tecnici ed elettricisti – circa 120 persone. E’ un lavoro e un team che adoro!
Torniamo a KeepOn e ai locali live. Quali sono a vostro avviso i problemi principali di questo settore?
Le problematiche più sentite che ci riferiscono locali e Festival sono tre.
La prima riguarda la riconoscibilità dei locali di musica dal vivo: spesso i Live Club vengono scambiati per pub comuni perché fanno somministrazione di bevande e cibo e non vengono riconosciuti come luoghi di cultura per questa parte commerciale del loro lavoro. Il fatto è che proprio questa fonte di introiti rende sostenibile il loro programmare band di musica dal vivo originale, che comporta per altro diverse spese, dalla Siae all’Enpals, al giusto compenso per musicisti e tecnici audio e di palco. Stiamo lavorando molto su questa percezione errata, soprattutto per farla capire agli Enti locali perché agevolino questi locali che non sono discoteche, ma luoghi dove c’è inclusione e aggregazione sociale, dove si fa cultura, luoghi di espressione e scambio di idee.
La seconda, che in parte deriva da quanto ti ho appena detto, riguarda proprio i rapporti con gli enti locali per quanto riguarda permessi, regolamenti ed altri aspetti. Proprio perché a volte non c’è una conoscenza vera e propria del settore musicale e delle tipicità che ha. KeepOn si affianca ai gestori per far capire all’ente locale che c’è una rete, a livello nazionale ed europeo, per fare massa critica, come ti dicevo prima.
Il terzo, sul quale ci stiamo interrogando molto anche a livello europeo, riguarda il ricambio generazionale: si fa fatica a capire i trend che hanno, per esempio, i millennials, il target 18-25, e quindi diventa difficile capire che programmazione fare per andare incontro ai loro gusti. Quelli della mia età, che hanno più di 30 anni, vanno meno ai live: lavoro, famiglia, si arriva spesso troppo stanchi per andare ai concerti, che iniziano sempre più tardi. Nonostante questo, sembra che la fascia 25-35 sia ancora lo zoccolo duro, perché rappresenta la maggior parte del pubblico dei locali e dei festival.
Federico, so che ti metto in una posizione scomoda e me ne assumo tutta la responsabilità: ci puoi fare una sorta di play list dei locali del vostro circuito? Quali sono?
La programmazione dei nostri locali è molto varia: escludendo il punk, il jazz e il dj set, per il resto trovi tutto. Una buona notizia per l’Emilia Romagna: è la regione con più club aderenti al circuito.
La domanda su quali locali mettere in play list è effettivamente scomoda – scherza Federico – per quanto riguarda Ferrara, c’è il Black Star, nella zona di San Giorgio, mentre come festival non posso non menzionare naturalmente Ferrara sotto le stelle. Se poi vogliamo citarne solo alcuni fra i tanti aderenti da Nord a Sud, partendo da quelli più vicini: in regione, a Bologna, c’è il Locomotiv, mentre a Este c’è l’I’m Lab. A Torino il Cap10100, ora chiuso, col quale grazie a KeepOn stiamo facilitando i rapporti col Comune; La Latteria Molloy e il Festival Albori a Brescia; il Magnolia e l’Ohibò a Milano; il Karemaski ad Arezzo; il Lanificio 159, Na’Cosetta, L’Asino che vola e il Monk a Roma; l’Hart a Napoli; l’Off a Lamezia Terme; il Morgana a Benevento e I Candelai a Palermo.
Sul nostro sito comunque si può trovare l’elenco completo, per tutti i gusti e le provenienze.
A Ferrara la bicicletta non è un mezzo per spostarsi da un posto all’altro, è uno stile di vita, si potrebbe quasi dire: dimmi come pedali e ti dirò chi sei… un ferrarese!
Ferrara in tutto il mondo è ‘la città delle biciclette’, ma forse non tutti sanno che la città del Rinascimento vanta anche un altro primato su due ruote: la si potrebbe chiamare anche la città del Giro d’Italia.
Ferrara, infatti, ha ospitato il primo arrivo di una tappa a cronometro nella secolare storia della corsa rosa. Correva l’anno 1933, il giorno erra il 22 maggio, 13esima tappa da Bologna a Ferrara a cronometro individuale. Un anniversario importante, se consideriamo che quella leggendaria frazione, celebrata dai grandi suiveurs, primo fra tutti Orio Vergani, vide primeggiare un grandissimo campione come Alfredo Binda, trionfatore quell’anno del suo 5° Giro d’Italia: un record che appartiene soltanto a 3 campionissimi: Binda, Fausto Coppi e Eddy Merckx.
Quest’anno Ferrara sarà di nuovo protagonista della 13esima tappa del Giro: non l’arrivo ma la partenza, il 18 maggio 2018.
Mentre ci si prepara per questo importante appuntamento ciclistico, questo weekend la città e il territorio sono stati invasi da due ruote d’altri tempi, grazie alla ciclostorica La Furiosa, da quest’anno all’interno del circuito Giro d’Italia d’Epoca. La Furiosa nasce dal desiderio di rivivere le emozioni, le sfide con se stessi tipiche del ciclismo dei tempi passati. Su strade secondarie, alcune bianche per sfidare non i compagni d’avventura ma se stessi e nel caso anche il tempo avverso, su biciclette che hanno fatto la storia del ciclismo degli anni passati attraversando le campagne degli Estensi. Il percorso di 60 chilometri porta alla scoperta del territorio e delle Delizie Estensi, antiche dimore estive della nobile famiglia ferrarese. Al ristoro speciali “integratori” vi aspettano: salame ferarese, salamina da taglio, affettati vari, torte di zucca e di asparago, formaggi, pane ferrarese il tutto accompagnato dal tipico vino della sabbie.
Ecco alcune immagini scattate dal nostro Valerio Pazzi (clicca sulle immagini per ingrandirle).
Ferrara città delle biciclette
Luciano Boccaccini, scrittore e speaker al Giro d’ Italia negli anni ’80 per La Gazzetta dello Sport, e Michela Moretti Girardengo, pronipote del grande campione
Partenza!
Ferrara città delle biciclette
Michela Moretti Girardengo e Michela Piccioni, vice presidente del Giro d’Italia d’Epoca
Tornando al pozzo non ebbero imprevisti. Il solo vero ostacolo fu una condizione fisica portata al limite, perché tutti e tre erano ormai stremati dal freddo e soprattutto dalla fame. Per tutta quella giornata passata sotto la montagna avevano potuto nutrirsi soltanto con una piccola razione di manioca dolce a testa, e questo stava minando la loro resistenza.
Il più provato era di certo Jacques Verdoux, la cui salute si assottigliava di ora in ora. Dal momento in cui il francese aveva rivelato la sua malattia, Sewell lo teneva d’occhio in maniera discreta ma costante ed era seriamente preoccupato, s’aspettava che l’amico potesse avere un crollo improvviso. E tuttavia si sforzava di non fargli pesare i suoi timori, anzi, non perdeva occasione di sdrammatizzare la situazione con la tacita complicità di Juan, che, senza farlo notare, si prodigava in ogni maniera per alleviare le fatiche del vecchio scienziato.
Durante il cammino, la parte più difficile fu superare il ripido dislivello nel quale era caduto lo scozzese. La corda che l’indio aveva saldamente fissato alla roccia in alto era lì ad attenderli.
Juan, con l’agilità di un gatto, fu il primo a salire. Una volta giunto sopra, issò l’equipaggiamento che gli altri due da sotto avevano imbracato. Toccò poi a Greenstone che con qualche impaccio riuscì comunque ad arrivare in cima. Per ultimo rimase Verdoux, per lui venne preparata un’imbracatura da assicurare alla vita e alle braccia, poi non restò che farsi sollevare di peso dai due compagni che, non senza difficoltà, alla fine lo tirarono su.
Quando i tre esploratori uscirono dalla grande breccia della parete rocciosa, nella gola le ombre della sera avevano ormai oscurato tutto quanto, obbligandoli a lasciare le lanterne accese. Ci volle un’altra mezzora per arrivare al pozzo. Proprio lì, un centinaio di iarde più su, Pedro li attendeva con una certa apprensione. Per tutto il giorno non aveva mai abbandonato la sua posizione accanto al verricello, aspettando un segnale dal basso che tardava ad arrivare.
Poi, all’improvviso, il segnale arrivò e la campanella fissata alla carrucola cominciò a tintinnare: fu Sewell a tirare la corda, annunciando a Pedro che erano finalmente tornati dall’escursione e attendevano di ricevere le provviste.
Greenstone agganciò alla fune un foglio di carta con le consegne per Pedro. Issata la corda, l’indio lo lesse attentamente eseguendo alla lettera tutte le istruzioni dello scozzese. Quando ebbe finito, se ne tornò alla tenda dove s’accinse a trascorrere il resto della nottata.
I compagni in fondo al pozzo s’addormentarono molto più tardi: nonostante la stanchezza generale, l’adrenalina accumulata a causa delle incredibili scoperte di quel giorno venne smaltita soltanto a notte fonda, dopodiché s’abbandonarono a un sonno pesante e senza sogni.
Il mattino seguente Juan, svegliatosi come sempre prima degli altri, sistemò arnesi ed equipaggiamento negli zaini e preparò le provviste per l’imminente ritorno in caverna. Greenstone aveva previsto di rimanere là sotto almeno un paio di giorni, tanto sarebbe bastato, secondo lo scozzese, per iniziare a perlustrare tutta la zona intorno al tempio. La cosa non rendeva felice il ragazzo, che avvertiva il lago sotterraneo come una sorta di minaccia incombente, non sapeva spiegarne la ragione, così pensò bene di tenersi quegli strani pensieri per sé.
Autodisciplina, buoni riflessi e un’intelligenza brillante facevano di Juan un aiutante efficiente e fidato. Nulla traspariva del suo stato d’animo, nemmeno nelle situazioni estreme perdeva il controllo e la freddezza che lo contraddistinguevano. Era un ragazzo forte e coraggioso, dalle indiscusse capacità e sempre pronto ad assolvere qualsiasi compito con diligenza e precisione. Proprio per questo, Greenstone lo apprezzava sempre di più e stava imparando a fidarsi dell’indio in modo quasi incondizionato. Nel tempo, la condivisione di tante avventure e pericoli di ogni genere avrebbe trasformato Sewell e Juan in due inseparabili compagni di viaggio. Quello che era nato come un semplice rapporto di lavoro tra un padrone e il suo aiutante sarebbe diventato un profondo legame d’amicizia. Un’amicizia reciproca e sincera, anche se, all’apparenza, nessuno dei due manifestò mai l’intenzione d’abbandonare il ruolo che si era dato dal giorno del loro primo incontro.
Quella mattina, tuttavia, accadde un fatto che segnò in modo determinante il resto della missione.
L’orologio di Sewell faceva le nove e cinque, e lui e i suoi due compagni erano pronti a incamminarsi nella gola per il ritorno in caverna. Ognuno di loro si caricò sulle spalle il proprio fardello costituito dallo zaino e dal resto delle attrezzature necessarie per il nuovo bivacco.
All’improvviso Jacques Verdoux urlò. Sewell e Juan si girarono e lo videro cadere in ginocchio in una smorfia di dolore e accasciarsi a terra su un fianco.
In un attimo Sewell gli fu sopra, «Che è successo Jacques?… Cosa avete?»
Il francese aveva gli occhi sbarrati, con lo sguardo supplicava aiuto ma non riusciva ad articolare nessuna parola. Poi con uno sforzo disperato sussurrò: «Vi prego Jo…Joseph, aiuta…temi, toglietelo… mon Dieu… vi prego toglietelo!»
Sewell intuì qualcosa e immediatamente liberò il paleontologo dello zaino, poi, aiutato da Juan, gli tolse il pastrano e la camicia.
In quell’istante vide la causa della disperazione dell’amico: un enorme chilopode era penetrato nella camicia attraverso la parte posteriore del colletto ed era rimasto schiacciato, probabilmente quando Verdoux si era sistemato lo zaino sulle spalle. Prima di morire però aveva affondato le forcipule nella carne del suo ospite, inoculando tutto il veleno che aveva.
Il biologo tolse la carcassa della bestiaccia dalla schiena del francese, poi si rivolse a Juan: «Maledizione! Juan non si parte più! Prepara un giaciglio e accendi un fuoco! Dobbiamo evitare che Jacques abbia un collasso… Nelle sue condizioni sarebbe fatale!»
Nell’arco di pochi minuti, le tossine del veleno sarebbero entrate nell’organismo dell’uomo, provocando i primi danni al sistema nervoso centrale, poi via via al sistema linfatico già minato dalla malattia.
Il francese fu cautamente adagiato su un giaciglio di fortuna accanto al fuoco. I sintomi cominciavano a comparire e si sommavano in modo preoccupante: Jacques era ormai in stato confusionale, la schiena era rigida, il collo e le braccia s’erano gonfiate mentre un esteso edema rossastro era comparso sulla schiena attorno al morso.
il morso
In genere, il veleno della scolopendra gigantea non è mortale per un essere umano, ma può recare danni permanenti come necrosi dei tessuti con conseguente infezione. Il morso poi era stato inferto in una parte del corpo relativamente vicina agli organi vitali, il che complicava non poco la situazione.
la testa della scolopendra e le forcipule velenose
Greenstone ordinò a Juan di farsi calare da Pedro la bottiglia di cachaca che si trovava nella tenda assieme alle altre provviste. Praticamente alcool puro che il capo villaggio aveva donato allo scozzese nel giorno del suo arrivo ad Auzangate.
Era la cosa che più si avvicinava a un disinfettante, e sarebbe servita proprio per sterilizzare la ferita qualora fosse diventata purulenta.
Nell’immediato si rese necessario tenere il francese al caldo, per questo fu messa a bollire dell’acqua che venne versata dentro alcuni otri in pelle. Gli otri furono poi sistemati attorno al corpo di Jacques che Sewell si premurò di avvolgere con un pesante panno di alpaca.
Era solo un espediente improvvisato ma servì allo scopo: Sewell sapeva che in quel momento il rischio maggiore era rappresentato dalla pressione del sangue che, per effetto del veleno, poteva alzarsi in modo incontrollato. Così pensò che l’unica misura per cercare di contrastare una simile eventualità era quella di alzare in qualche modo la temperatura corporea dell’amico.
Frattanto Jacques dava segnali di ripresa riacquistando di nuovo lucidità, con lo sguardo cercò lo scozzese e provò a parlare: «Joseph… ho sentito una fitta lancinante alla schiena… Un dolore mai provato! Ora mi sento bruciare tutto… Cosa m’è successo?»
«Siete stato morso Jacques…»
«Un serpente?»
«Nessun serpente! Ve l’ho detto Jacques, qua sotto non ci sono serpenti! Siete stato morso da una scolopendra!»
«Un centopiedi m’ha fatto questo?»
«Se volete chiamarlo così… Comunque un centopiedi corazzato lungo quasi un piede e mezzo, con due uncini da un pollice impregnati di un veleno molto potente… Direi di sì!»
Sewell fece qualche passo, si chinò e raccolse l’animale stecchito per mostrarlo a Jacques, «Eccolo! Che ve ne pare?»
«Mon Dieu! C’est horrible!» esclamò il francese inorridito.
Sewell non avrebbe voluto impressionare il povero Jacques, ma lo fece comunque. Faceva parte del suo carattere, amava la sua professione e si appassionava a qualsiasi creatura gli capitasse tra le mani, e più un animale appariva terrificante e pericoloso più ne era attratto. Se mai avesse potuto addomesticare i ragni, gli scorpioni e le scolopendre dell’Amazzonia, l’avrebbe fatto con entusiasmo.
«Non è orribile, è la natura che ci circonda!» Si sedette di fianco all’amico esternando il resto delle sue elucubrazioni: «Noi quaggiù siamo i veri intrusi, i mostri. Tutti gli esseri che ci circondano sono i figli naturali di quest’ambiente, vivono per riprodursi in armonico equilibrio gli uni con gli altri. Uccidono per mangiare o per non essere mangiati, perfettamente inseriti in un ciclo vitale che vede preda e predatore indissolubilmente legati l’una all’altro e viceversa.»
Jacques non smise di fissare l’animale morto nelle mani dello scozzese, probabilmente non l’ascoltava nemmeno. Sewell non sembrò accorgersene e proseguì: «Credo che questa scolopendra si sia nascosta nelle pieghe della vostra coperta durante la notte, è un predatore notturno… Poi stamane, durante i preparativi, ve la siete presa addosso! Purtroppo, schiacciandola, avete innescato la sua reazione di autodifesa…»
«Capisco… Joseph… ma… non mi sento più le mani… e nemmeno le gambe!», lo sguardo atterrito di Verdoux incrociò quello dell’amico, «Che mi sta succedendo? Ho freddo…»
Sewell gettò in terra la scolopendra morta e si avvicinò al francese, gli esaminò le mani e con delicatezza lo girò sul fianco per osservare la ferita. Gli arti di Verdoux si erano irrigiditi e sembravano rattrappiti. Sulla schiena i fori provocati dal morso della bestia s’erano allargati e, con ogni probabilità, di lì a poco avrebbero iniziato a suppurare. Con una pezzuola imbevuta di cachaca lo scozzese disinfettò accuratamente la ferita, dopodiché la bendò con una fasciatura pulita.
Jacques Verdoux iniziò a lamentarsi con insistenza, il dolore si era diffuso dalla schiena alle spalle e al collo, poi alle braccia e alle gambe, era un dolore paralizzante.
Il respiro si fece frequente e pesante. Era chiaro che stava peggiorando. Sewell gli prese il polso, i battiti erano accelerati e c’erano evidenti sintomi di una crisi in arrivo.
Purtroppo, almeno per il momento, non restava altro da fare che confidare nella tempra del francese. Sperando che il suo organismo potesse resistere in qualche maniera all’azione distruttiva del veleno. Si trattava però di un paziente già indebolito da una grave malattia e la speranza di Sewell che l’amico potesse cavarsela era ridotta al lumicino.
Verdoux tremava, aveva la vista offuscata ma manteneva una certa lucidità. Dopo qualche minuto di silenzio afferrò la mano dello scozzese, la presa era debole come la voce, «Joseph, vi avevo detto che non sarebbe stata la malattia ad abbattermi… ma qualche altra cosa…»
«Amico mio, so dove volete andare a parare, ma non lo sarà nemmeno una dannata scolopendra. Siatene certo!» Sewell cercò di convincere più se stesso che il compagno, «Su Jacques, cercate di stare tranquillo… Io e Juan ci prenderemo cura di voi finché non starete meglio. Siete in buone mani.»
«Lo so Joseph, ma sarei più tranquillo se non avessi questo dolore… Credetemi, è quasi insopportabile, toglie il respiro… Datemi la mia bottiglia per piacere!»
Sewell era indeciso, non sapeva se in quelle condizioni l’azione del laudano mescolato all’assenzio potesse creare più danno che beneficio. Alla fine scelse d’accontentare l’amico.
Jacques iniziò a bere l’assenzio a piccoli sorsi. Sewell volle fargli compagnia versandosi due dita di cachaca in un gotto, ma anche un bevitore esperto come lui dovette ammettere che quell’intruglio alcolico era veramente difficile da buttar giù.
Alla fine Jacques s’addormentò, il respiro era lento e profondo, Sewell gli controllò ancora il polso che stavolta batteva in modo regolare.
Poco più tardi la situazione del paziente parve stabilizzarsi. Probabilmente le proprietà oppiacee del laudano stavano dando i loro effetti regalandogli, anche se per un tempo limitato, un po’ di sollievo.
Sewell fissò la fiaschetta di cachaca che teneva in mano e si chiese come diavolo facevano i Chamboa brasiliani a bere quella roba infuocata come fosse acqua.
In quell’istante Juan si avvicinò, «Sir Joseph, sembra che Monsieur Verdoux stia un po’ meglio…»
«Adesso sì, poi vedremo… La battaglia che sta combattendo sarà lunga. Per oggi dovremo restare qua e occuparci del professore… sperando che possa farcela…»
«Sir Joseph, è appunto di questo che volevo parlarvi.» Fece una pausa, aspettando che lo scozzese focalizzasse tutta l’attenzione su di lui, «Vi chiedo il permesso di salire all’accampamento. Io e Pedro conosciamo delle erbe in grado di curare Monsieur Verdoux dagli effetti del veleno… Le possiamo trovare nella giungla, poi dovremo farle bollire e prepararle… Se tutto va bene questa sera potremo dare la medicina al professore, e domattina vedrete che starà meglio!»
Sewell lo guardò a lungo con un’espressione di finta disapprovazione, poi disse: «Juan, non finisci mai di stupirmi! Mi chiedevo che cosa mi sarei dovuto inventare perché queste ore d’attesa non mi facessero sentire inutile», fece un sospiro. «Ok, vai pure!»
Il ragazzo si congedò in fretta: prese con sé zaino, coltello e una borraccia, fece un cenno di saluto e s’avviò.
Sewell lo vide correre e sparire nella gola, si voltò verso l’amico addormentato e disse: «Caro collega, ora siamo rimasti solo voi ed io… Speriamo che il nostro Juan sappia il fatto suo!»
Jacques Verdoux si svegliò intorno a mezzogiorno.
Sewell stava scrivendo nuovi appunti sull’eccezionale ritrovamento del giorno prima quando sentì l’amico che riprese a lamentarsi. Il francese era pallido e madido di sudore, Sewell gli asciugò la fronte e s’accorse che aveva la febbre alta. Gli fece bere dell’acqua fresca e gli controllò la schiena: l’animale l’aveva morso tra le scapole, e proprio la parte superiore della schiena, fino alla nuca e le spalle, appariva sempre più gonfia e livida. I due fori provocati dall’affondo delle forcipule s’erano ulteriormente allargati lasciando intravedere la carne purulenta, da essi iniziava a fuoriuscire del pus giallo e denso, segno inequivocabile dell’incedere dell’infezione.
Sewell cercò di ripulire e disinfettare la ferita con i pochi mezzi che aveva a disposizione. Poi si rese conto che Jacques non avvertiva più alcun dolore, e la cosa lo preoccupò ulteriormente perché significava che il francese stava perdendo sensibilità. Si fece strada in lui il sospetto di un imminente processo necrotico dei tessuti colpiti dalle tossine.
Quel pomeriggio Sewell vegliò l’amico senza sosta, gli diede conforto nei brevi momenti di lucidità e si premurò di controllare costantemente che le sue condizioni non peggiorassero. Tuttavia le ore passavano e le speranze di salvare il francese si affievolivano sempre di più.
Era già buio quando Juan tornò.
Erano circa le sette di sera e Sewell lo vide arrivare dal fondo della gola tutto trafelato, portava lo zaino sulle spalle ed aveva il viso sporco d’erba e terra mescolate a sudore.
«Allora, hai la medicina?»
«Sì professore, ho tutto nello zaino!»
L’indio posò lo zaino a terra e tirò fuori due vasi di terracotta sigillati da un coperchio, uno lo porse allo scozzese, «Questo servirà come scorta, tenetelo voi Sir Joseph… potrebbe essere prezioso.»
Sewell l’afferrò senza minimamente immaginare cosa potesse contenere. Intanto Juan si mise subito all’opera: s’accovacciò a fianco del francese, aprì il secondo contenitore estraendovi un unguento arancione che applicò sulla ferita in grande quantità, infine coprì il tutto con un panno pulito. Quando ebbe finito si sfilò la borraccia che teneva a tracolla poggiandola sulla bocca di Jacques, che, mezzo assopito, iniziò lentamente a deglutirne il contenuto.
Juan e Sewell si guardarono negli occhi senza dire una parola, poi Jacques, quando ebbe finito di bere, tossì un paio di volte e si riaddormentò. Sewell l’osservava con attenzione e gli parve che avesse finalmente un’espressione serena, non tormentata come durante tutto quel lungo pomeriggio d’attesa. Intimamente temeva che potesse trattarsi solo di un’illusione dettata dalla speranza, ciononostante non gli rimase che aggrapparsi a quest’ultima.
E comunque, ora Jacques dormiva un sonno profondo, un sonno che si sarebbe protratto ininterrottamente fino all’indomani.
Sewell si voltò verso Juan, aveva ancora in mano il vaso di terracotta che l’indio gli aveva consegnato.
«Che cos’è?» chiese guardando il contenitore, «Juan, adesso raccontami cosa c’è qua dentro… Vorrei capire anch’io che roba è questa!»
Il ragazzo si sistemò accanto al fuoco, prese l’altro vaso e lo aprì.
«Sir Joseph, abbiamo cercato le piante che ci servivano nella foresta intorno alla radura e le abbiamo trovate tutte…» disse. «Sentite, l’odore è quello del camote!»
Sewell ne annusò il contenuto, «E’ vero! Sembrerebbe camote… Invece?»
«E’ una miscela di una dozzina di piante diverse… Ogni pianta ha una proprietà specifica. La combinazione di queste proprietà deve essere eseguita secondo un preciso rituale sciamanico. Noi ci siamo attenuti al rituale e abbiamo creato la cura per Monsieur Verdoux.»
«Stai parlando per enigmi Juan, io voglio sapere cosa c’è in questa miscela. Se la medicina dovesse rivelarsi efficace devo capire come posso riprodurla.»
«Professore, non potete… Solo uno sciamano può farlo!»
Sewell fissò il ragazzo con sorpresa, «E tu lo sei?»
«Sono un curandero!»
Juan comprendeva le perplessità dello scozzese e decise di spiegare con chiarezza ciò che fino a quel momento aveva soltanto accennato. «Ho appreso l’arte delle erbe quando vivevo alla missione, a Marquena. Ero ancora un bambino ma imparavo velocemente… C’era un vecchio guaritore nel villaggio, era lo sciamano e diceva che sarebbe morto presto. Mi scelse come suo apprendista e mi volle insegnare i suoi segreti. A me piaceva ascoltarlo e imparai molte cose… Ciò che diceva era vero, infatti poco tempo dopo morì.»
Greenstone fu affascinato dal racconto del ragazzo appena ventenne che gli stava di fronte, e intanto si domandava quali e quanti altri segreti gli avrebbe rivelato nei giorni a venire.
«Professore, io vi posso elencare le piante che ho usato… Ma la loro preparazione dovrete eseguirla voi stesso, e lo farete soltanto se sarete disposto ad accettarne il rituale. Io vi dirò come fare quando sarà il momento. Accettate?»
«Accetto!»
Per la prima volta Greenstone ebbe l’impressione di parlare con l’indio da pari a pari, senza le distanze dovute ai rispettivi ruoli. Questo non lo infastidì affatto, anzi, scoprì d’esserne lieto. Lieto di avere al suo fianco una persona di così grande affidabilità e inaspettatamente così interessante, ma soprattutto una persona che aveva imparato ad ammirare.
Juan, dal canto suo, ricambiava la stima dello scozzese dimostrandosi sempre fedele e rispettoso del suo ruolo, in fondo era stato assunto per eseguire degli ordini e gli andava bene così.
L’indio iniziò a elencare le piante che aveva raccolto, Sewell intanto aveva estratto un taccuino dal suo zaino e si mise a scrivere. La miscela di erbe era composta da parecchi estratti vegetali ricavati da piante, o meglio, da parti di esse, come radici, foglie e fiori. Avevano nomi che provenivano dalla lingua quechua, poi tradotta in spagnolo: maraka, choqueta, asmachilca, retania, cola de caballo, cachalagua, sanguinaria e soprattutto la guayacana. Nomi che per lo più suonavano sconosciuti alle orecchie di Greenstone, ma che le popolazioni locali ben conoscevano. Solo la valeriana e l’eucalipto gli erano familiari, ma erano anche i due ingredienti più marginali, poiché la loro funzione era calmante e tonificante, non curativa.
Sewell ne scrisse l’elenco specificando le proprietà terapeutiche per ognuna di esse. Riempì parecchie pagine di appunti, poi, resosi conto che per il momento Juan non gli avrebbe rivelato nulla riguardo la loro preparazione, ripose il taccuino tra le sue cose.
Più tardi, i due mangiucchiarono un po’ di provviste sorseggiando del caffè d’orzo. Dopo il pasto Sewell andò a controllare Jacques, lo vide tranquillo che dormiva profondamente e gli toccò la fronte: la febbre era scomparsa. Alla fine lo scozzese e l’indio decisero di mettersi a riposare, confidando che il giorno seguente fosse foriero di buone notizie.
Un ciclone. Un uragano. Un terremoto. Comunque la si voglia definire, l’immagine che queste storiche elezioni politiche 2018 restituiscono è quella di un impressionante cataclisma, destinato a segnare in maniera profonda il presente e il futuro del nostro Paese.
Ma se ampiamente atteso e prevedibile, almeno ai nostri occhi, appare il risultato nazionale, lo scenario locale che emerge ha invece un carattere in qualche misura sconvolgente, forse anche perché le scosse sismiche vissute in casa propria hanno un impatto emotivo più forte.
Specchio ed emblema della caduta degli dei è la sonora e inattesa – questa sì, inattesa e clamorosa – debacle del ministro Dario Franceschini, disarcionato da cavallo, proprio sulla pista amica, con la Lega che diventa secondo partito in città a un’incollatura dal Pd.
Tornando al panorama generale, l’affermazione del Movimento cinque stelle si presta a una duplice chiave di lettura: porta con sé la speranza di una politica di cambiamento improntata alla rottura dei rituali e delle liturgia della vecchia politica, delle rendite di posizione, proiettata verso la ricerca del bene comune e la semplificazione delle pastoie burocratiche; ma insieme è gravata dalla zavorra delle non poche ambiguità politiche, da una notevole dose di ingenuità e soprattutto dai sostanziali fallimenti che i Cinque stelle hanno registrato finora nelle loro esperienze amministrative, là dove hanno governato le città in questi anni.
Il risultato del Centro-destra, importante ma probabilmente insufficiente per propiziare la guida dell’esecutivo, era tutt’altro che inatteso, ma inquietante risulta l’affermazione della Lega che conferma nei numeri la sensazione di una cavalcata possente. Ed è questo un elemento che genera forte preoccupazione derivante dal carattere intollerante (sui temi interculturali in genere, non solo per gli aspetti razzisti) di cui il leghismo è espressione.
Inequivocabile e catastrofico invece è il giudizio sul fronte del centrosinistra. Rovinosa è la sconfitta del Pd le cui politiche sempre più moderate e distanti dai tradizionali orizzonti valoriali della sinistra sono sonoramente bocciate dagli elettori. E miseramente sprofondano anche le velleità del nuovo soggetto antagonista, Liberi e uguali, i cui propositi vengono castrati dalla trasformistica presenza fra le proprie fila di molti ingombranti vecchi rottami, emblemi della peggior sinistra ipocrita e affarista, che hanno presidiato (e inquinato) quest’area con la sola ambizione di consumare la propria personale rivincita e magari guadagnare il biglietto per un altro giro di giostra.
Ma, dato per acclarato lo scenario nazionale, la nostra analisi si incentra su quello locale dove il risultato – che pure è sostanzialmente specchio di quello nazionale – appare ancor più sconcertante, se non altro perché l’Emilia Romagna (e con essa Ferrara) è da sempre stata baluardo di una tradizione progressista oggi sonoramente messa all’angolo.
Qui, in casa nostra, ancor più che a livello nazionale, fa impressione la cavalcata delle valchirie leghiste e la loro debordante vittoria. Qui, fra un anno, si vota per il rinnovo dell’amministrazione comunale e l’attuale esecutivo locale unitamente alle forze politiche che lo sostengono, incapaci di fare argine, non possono rifugiarsi semplicemente nella constatazione che ciò che avviene è riflesso di ciò che è capitato in tutto il Paese. Tagliani, primo sindaco eletto in città estraneo alla storia politica della sinistra e in particolare dell’ex Pci, si è trovato catapultato in maggioranza in quanto esponente del Ppi e poi della Margherita, ma la sua vicenda di esponente della ex Democrazia cristiana e fino al 1999 di oppositore dai banchi del consiglio comunale dei sindaci alla guida delle locali amministrazioni di sinistra, ha forse contribuito al disorientamento del tradizionale elettorato cittadino che per decenni ha decretato i successi del Pci con la maggioranza assoluta dei voti.
Ciò che più preoccupa, qui e ora, è che la protervia e la tracotanza dei Naomo Lodi, che popolano le stanzette dei bottoni dell’emergente leghismo, possa trovare consenso e seguito nei prossimi dodici mesi anche nel cuore del futuro esecutivo locale. Occorre quindi, fin da subito e senza indugi, una profonda, seria e impietosa autocritica da parte di tutti i soggetti che gravitano nell’area progressista, una loro coerente presa di coscienza e la conseguente assunzione di responsabilità, con l’immediata discesa in campo di tutte le forze sociali in grado di contrastare una deriva di civiltà che potrebbe risultare devastante. E, accanto a loro, serve l’impegno attivo dei singoli individui che per mille ragioni in questi anni si sono progressivamente distaccati dalla politica attiva: solo così si potrà ridare ossigeno e credibilità al progetto di città futura.
Di fronte a un risultato che anche in città ha proporzioni sconcertanti, il sindaco Tagliani non può fare spallucce e attribuire la responsabilità alle ricadute della politica nazionale. Certo, si è votato per il Parlamento e non per il Consiglio comunale, ma il giudizio degli elettori ferraresi non prescinde dalla considerazione di quello che è il valore dell’azione politico-amministrativa svolta e la qualità degli amministratori che rappresentano a livello cittadino le forze politiche che si propongono per il governo del Paese.
Di certo, quella che è apparsa a molti una sostanziale inerzia, l’assenza di un disegno politico-programmatico per la città – cioè la chiara visione di un futuro sostenibile e e la coerente definizione di un progetto teso a garantire a Ferrara una prospettiva desiderabile, l’incapacità di contrastare i fenomeni di imbarbarimento della vita civile e di fornire serie risposte alle sottovalutate emergenze sul terreno della criminalità – sono macchie che sporcano la pagella dell’esecutivo locale e condizionano il giudizio dell’elettorato, a prescindere dai trend generali.
Prenderne atto con serietà e impegnarsi fin da subito a ridefinire un percorso virtuoso che riporti al centro della scena i valori ideali propri di una comunità che deve tornare ad essere coesa e solidale nel nome della civile convivenza e del reciproco rispetto e che sappia definire un orizzonte programmatico e un modello di sviluppo adeguato ai bisogni alle attese della comunità è ciò che i superstiti di questa squinternata sinistra devono immediatamente impegnarsi a fare. Ma, lo ribadiamo, non nel chiuso dei palazzi, bensì in un’ideale piazza aperta al concorso e al contributo di quella che tradizionalmente si è definita società civile, cioè quelle componenti libere, attive sul territorio, impegnate nel fare e profonde conoscitrici della realtà concreta che scaturisce dalla quotidianità. E questo deve avvenire subito, prima che questi valori di civiltà e di coesione sociale siano fagocitati dal gelido vento del nord.
Ripartire, per le componenti progressiste, non sarà facile. Il rilancio, per avere speranza di successo, dovrà necessariamente avvenire al di fuori degli steccati delle forze partitiche. Lo ribadiamo: la linfa deve arrivare da quei soggetti attivi sul territorio, che vivono a contatto con la cittadinanza, caratterizzati dalla concretezza del fare, capaci di coniugare i valori propri della sinistra con una schietta e realistica analisi del presente e in grado di definire nuove inedite ricette per una società malata che ha bisogno di ritrovare il proprio collante sociale senza ignorare i danni che al proprio interno dissennate politiche tese a tutelare un ipotetico sviluppo senza reale progresso e un imperante individualismo hanno determinato in questi ultimi decenni.
Bisognerà mettere da parte per un po’ l’io e tornare al noi, accantonare la vuota retorica e rimboccarsi le maniche, misurarsi con i problemi concreti e gli affanni delle persone in carne ed ossa, affrontare il gorgo della realtà con tutte le sue contraddizioni, sporcarsi le mani mantenendo però sempre lucida la mente, limpido il pensiero e specchiata la coscienza.
Alla vista della bambina vestita da soldato, esibita da Erdogan come possibile martire mentre lei piange a dirotto, le bandiere turche che sventolano e lui che la bacia, lo stomaco mi si rivolta. Vorrei urlare. Il mio è un urlo silenzioso che sale dalle viscere, quanto il rifiuto della piccola bambina che non lo può esprimere, ma che il suo corpo non può nascondere. E così mi sorge spontanea una domanda: uomini, padri, dove siete? Come potete stare in silenzio di fronte a tanto orrore?
Di fronte a un Trump che parla di armare gli insegnanti per rendere più sicure le scuole, di fronte alle parate militari di Kim Jong-un, puro esibizionismo narcisistico, di fronte a un Salvini che, con un ghigno, parla di buttare a mare gli immigrati perché “prima gli Italiani”, ai grillini che si dichiarano salvatori della Patria, utilizzando inconsapevolmente quella retorica, tutta patriarcale, legata al sacrificio del sangue che ha portato i nostri nonni in guerra facendo dell’Europa un cimitero a cielo aperto.
Ora basta! L’urlo deve uscire e fendere l’aria asfittica che mi circonda.
Parlo alla mia generazione, sono una cinquantenne. Dobbiamo scendere al fianco delle giovani studenti della Florida: ragazze che hanno dicharato che non si arrenderanno finché coloro che fanno le leggi non cambieranno le regole per l’acquisto delle armi, finché i politici non smetteranno di accettare i soldi dalla Nra (National Rifle Association), finché noi adulti non faremo qualcosa!
Oggi più che mai gli uomini, i nostri mariti, i padri dei nostri figli/e devono scendere al fianco delle donne, delle loro figlie, sostenere la loro rabbia e frustrazione, perché sarà la loro passione il motore del cambiamento.
Diceva bene Adriano Sofri, alcuni anni fa, in un articolo su La Repubblica: “la terza guerra mondiale è in atto e il campo di battaglia è il corpo delle donne”.
La rivoluzione verrà, sta già venendo, proprio dal quel corpo femminile martoriato, ucciso, torturato, vilipeso, barattato, venduto, esibito in modo strumentale da maschi cinici e ambiziosi.
E’ sano e auspicabile che oggi gli uomini accettino di non essere i protagonisti per smontare la retorica ormai defunta del Padre di Famiglia che in nome del Bene comune sceglie per tutti. Quel padre di famiglia che sceglie quando fare imbracciare i fucili in nome della sicurezza e della salvezza dei propri consanguinei.
Noi donne non ne possiamo più di questa visione: vogliamo difendere la nostra terra, la nostra nazione con la cura affettuosa che si riserva a una madre stanca. Vogliamo un nazionalismo compassionevole, come lo definisce bene Teresa Forcades in ‘Nazione e compassione’ (ed. Castelvecchi); un nazionalismo femminista capace di esprimere riconoscenza alla terra e alla tradizione che ci ha accolto ed educato, ma che non fa delle ‘differenze’ una gerarchia di razza.
È venuto il momento di lasciare uscire allo scoperto “i ragazzi vivi”, quelli che – come racconta bene Michel Serres in ‘Non è un mondo per vecchi perché i giovani rivoluzionano il sapere’ edito da Bollati Boringhieri – dicono “basta con il sangue come coagulante sociale. […] Non vogliamo più costruire collettività sul massacro di un’altra o sulla propria immolazione; è questo il nostro futuro vitale contrapposto alla vostra storia e alla vostre politiche di morte”.
Le bandiere, le divise e gli onori a esse legati sono stracci se a indossarli sono giovani maschi che non riescono a darsi una identità diversa dai vecchi padri. Quei maschi che mostrano tutta la loro alienazione sparando nelle piazze e nelle scuole ai loro simili che invece si stanno già reinventando.
L’unica grande speranza per il futuro è l’alleanza generosa tra femminismo (femmine e maschi due pari e diversi) e le nuove generazioni, tra padri e madri femministe e figli/e con il sorriso compiacente di quei padri e madri cresciute nella cultura patriarcale.
Padri abbiate il coraggio di lasciarli/e andare in una direzione opposta alla vostra.
Sono uno dei fenomeni mediatici del momento. Con i loro video divenuti virali, hanno conquistato tutta l’Italia dei social e con i loro tormentoni sono riusciti ad arrivare fino al teatro Ariston quest’anno. Stiamo parlando di Casa Surace, casa di produzione video, la cui pagina facebook vanta più di un milione di followers. E proprio uno dei personaggi principali, il ‘milanese’ Ricky ha accettato di fare una chiacchierata con FerraraItalia.
Com’è nata l’avventura di casa Surace?
Casa Surace è una vera e propria casa, o meglio lo era.
Casa Surace era la casa di Paolo e Simone Petrella – fondatore e regista della società – ed era la classica dimora di amici dove si facevano le feste in pieno stile americano: bottiglie del discount e musica trash. La pagina Facebook era nata proprio per dar sfogo a questo spirito goliardico e i primi video erano veramente fatti in maniera spontanea e home made. Io e Pasqui (al secolo Bruno Galasso, ndr) siamo sbarcati a Casa Surace come molti per le feste, ma la nostra prima apparizione in un video arriva con ‘Il Primo Maggio ai tempi del social network’ in cui io interpretavo FaviJ, famoso youtuber polentone, e Pasqui un grafico pugliese. Da lì nacquero i nostri personaggi e l’idea di sviluppare un format che parlasse dei fuorisede e del Sud e Nord.
Parlaci un po’ del Riccardo pre Casa Surace e del Riccardo di oggi.
Prima di scoprire che potevo stare tranquillamente davanti a una telecamera, ho sempre pensato e sognato di finire dall’altro lato, infatti ho studiato e lavorato per un lungo periodo come operatore, regista, videomaker, montatore, insomma un tuttofare dell’audiovisuale. Mi sono laureato in lingue (inglese e spagnolo) e ho lavorato a lungo come fotografo e videomaker, continuando a coltivare la mia passione per la musica, suonando la chitarra in vari gruppi, facendo occasionalmente il dj, organizzando serate e facendo radio, in particolare io e Bruno gestivamo una web radio in cui facevamo in coppia un programma comico ricco di imitazioni e dialetti, da lì è nata la nostra coppia comica dagli scambi veloci e serrati.
Com’è nato il tuo personaggio?
Mio nonno era di Tarcento, un paesino vicino Udine, e mio padre ha vissuto a lungo a Milano. Adorava quella città e ne parlava sempre, anche un po’ con rammarico. Fin da quando ero piccolo a tavola volavano aneddoti, battute e racconti con accento meneghino. Crescendo scoprii Aldo, Giovanni e Giacomo e la loro comicità, imparavo a memoria i loro spettacoli teatrali e tutte le battute dei loro film, in particolare mi piaceva molto Giovanni e la sua comicità pungente e riuscivo a imitarlo quasi alla perfezione, credo che sia così che abbia perfezionato il mio dialetto milanese nonostante io abbia vissuto tutta la mia vita in mezzo a pizze, soli e mandolini.
Avete una casa di produzione? Come funziona il vostro lavoro?
Casa Surace ormai è una società strutturata che collabora con una agenzia di produzione media digitali, la Netaddiction, che ci aiuta con le proposte lavorative. Surace srl si divide in tre microgruppi. La produzione, che si occupa della logistica e di tutto quello che serve per girare un video dalla location alla scenografia alle comparse etc. etc. nonché di comunicare con il brand e di stabilire un rapporto lavorativo coerente. La parte autoriale, che si occupa della stesura e delle idee dei video, la scrittura dei post, delle foto meme etc. Infine una parte attoriale, che interpreta le idee della parte autoriale e si occupa di interagire con i fan e di gestire gli eventi live, quali presentazioni, incontri etc. Queste tre aree si incontrano e interagiscono. Spesso chi fa produzione è anche un attore, chi fa l’attore è anche autore e chi scrive i video spesso si occupa anche di parlare con i brand, insomma siamo davvero una bella famiglia, e poi c’è nonno Andrea.
Quest’anno Sanremo, progetti futuri?
Sanremo per noi è stato un punto di arrivo che ha consacrato il nostro essere riconosciuti in ambito nazionale, essere ingaggiati dalla Rai per gestire i social ufficiali di Rai 1 e del Festival è stata una grande soddisfazione (web: lo stai facendo nel modo giusto). Però è stato anche un punto di partenza: partecipare all’evento televisivo più visto d’Italia ti mette in una posizione dalla quale poi puoi solo continuare a salire. L’avventura con la Rai è stata molto positiva e divertente e non escludiamo di continuare la nostra collaborazione, abbiamo scoperto di poter essere anche degli entertainers, i quali se la cavano anche al di fuori del web, quindi un obbiettivo nel breve periodo sarà sicuramente quello di arrivare a fare spettacolo utilizzando altri media. Come dice il detto: “non importa che tu stia in radio al Cinema o in TV, starai sempre sciupato a Nonna!”
Può un sacerdote dubitare della presenza di Cristo nell’ostia? Ma soprattutto, può un’ostia dimostrare di essere carne sanguinando? E’ quello che sarebbe accaduto durante il Medioevo ferrarese, quando non poche erano le voci che mettevano in dubbio i dogmi della Chiesa.
Al 971 risalgono le prime testimonianze sulla chiesa di Santa Maria Anteriore, che si trovava nel luogo del primo nucleo abitativo della città, sulle rive di un guado – o vado – fluviale.
Inizialmente, in realtà, si trattava di un semplice luogo sacro dove si venerava un’immagine greca della Madonna, posta su un capitello, che fu il primo oggetto di devozione a Ferrara. L’edificio venne costruito attorno all’anno Mille, ma nel Quattrocento fu in gran parte demolito per la costruzione di una imponente basilica rinascimentale, ancora oggi viva e visitabile, Santa Maria in Vado. Fu Ercole I a decidere la modernizzazione dell’antico luogo di culto, aiutato dal geniale e fedele ingegnere Biagio Rossetti. Ci vollero quarant’anni per terminare i lavori, al termine dei quali la chiesa venne consacrata all’Annunciazione della Vergine. Presto, però, un nuovo evento avrebbe danneggiato gravemente l’intera struttura: nel 1570 la città fu colpita da un importante terremoto e parte della costruzione dovette essere prontamente rifatta. Qualche anno dopo, il duca Alfonso II volle di nuovo modificare l’edificio, chiamando l’architetto ducale Alessandro Balbi che portò a termine l’impresa.
E dopo gli Estensi, la Santa Sede: alla fine del Cinquecento Ferrara venne devoluta allo Stato della Chiesa e circa vent’anni più tardi l’abate esternò l’intenzione di cambiare volto alla basilica. La decorazione pittorica fu perciò affidata allo straordinario Carlo Bononi, che realizzò un ciclo sui soffitti e sulle volte dedicato alla Trinità e a Maria. Nel Settecento per la chiesa iniziò un momento di degrado, culminato nel suo restauro ottocentesco, ma viene da chiedersi, a questo punto, come mai così tanto interesse nei secoli per preservare e rinnovare continuamente questa costruzione, che non smette ancora di stupirci, se pensiamo alle recenti scoperte di decorazioni cinquecentesche e affreschi settecenteschi nascosti dietro le sue pareti.
Per trovare la risposta, dobbiamo tornare molto indietro nel tempo, prima cioè della vera e propria edificazione di Santa Maria in Vado per come la conosciamo oggi. Il priore Pietro da Verona, da non confondere con l’omonimo santo, non era convintissimo della transustanziazione, cioè della reale presenza di Cristo nel sacramento eucaristico. Quel giorno di Pasqua del 1171, tuttavia, dovette incredibilmente ricredersi: proprio durante la Messa domenicale del 28 marzo, mentre stava elevando l’ostia consacrata, da questa iniziò a zampillare sangue vivo, con una tale intensità da sporcare la volta del catino absidale sopra l’altare, lasciando una macchia indelebile che ha resistito al trascorrere dei secoli. Quella cappella, non a caso, fu in seguito chiamata Cappella del Prodigio: un prodigio riconosciuto ufficialmente dalla Chiesa cattolica come miracolo eucaristico, e da allora diversi furono i pontefici che gli resero omaggio venendo a visitare la basilica. Possiamo ben immaginare lo scalpore che il fatto avvenuto e il segno perfettamente visibile destarono nella popolazione, ma la notizia giunse non solo in tutta Italia bensì anche all’estero.
Esistono infatti documenti inglesi coevi o poco successivi che descrivono l’avvenimento ferrarese correlandolo con gli altri miracoli eucaristici. E non si fa fatica a pensare ai numerosi pellegrinaggi che da allora iniziarono a svolgersi, non per andare a controllare di persona la veridicità di quanto sentito in giro, ma piuttosto per avvicinarsi sempre di più a Dio attraverso i luoghi in cui Egli ha scelto di manifestarsi e rivelarsi.
La Cappella del Prodigio, oggi, si trova nel Santuario del Preziosissimo Sangue, eretto nel 1595 durante il governo di Alfonso II. La fede, certo, non ha bisogno di prove o segni tangibili, ma al di là della religione e delle convinzioni personali, il miracolo del preziosissimo sangue fu un momento saliente e documentato del nostro passato, da studiare e trattare con rispetto e attenzione.
Ecco il sole “a macinare neve”
come dicevano i nostri vecchi,
di un sulacìn che già s’interpretava ingannatore
nell’accento e nel suono a rasoio del dialetto.
Avevano il naso a sniffare le nuvole, i vecchi
gli occhi a vedetta all’orizzonte
le mani affondate nella terra dei campi e della vita cruda,
quando il cuculo e il pipistrello non erano impagliati
c’era il fucile per il tedesco e la volpe
le trappole per la pantegana
la miseria a cottimo.
Era una schiena spaccata
da mettere sui materassi, spagliati ogni tanto,
quando la neve filtrava dai coppi
ed era ospite sulla trapunta – a volte, sulle ciglia –
dei bimbi che crescevano prima delle loro scarpe.
Era la sedia davanti al camino per l’uomo
e le donne, che venivano prese e zitte,
intorno a ricamare di mestolo e santi in terra
con nervi d’acciaio e rughe
anche nel cuore e nel ventre freddo
quando si moriva per un tiro di dadi sbagliato
e c’era il bene dove non c’era il male.
Ride il sulacìn da nev
fuori dalla mia finestra calda e ordinata
qua e là affaccendato a colpire i ragionieri
in riverbero su un grande fiume ormai domato
come il tempo passato in bianco e nero
– favola per chi non ne ha bevuto il fiele
o lo vuol dimenticare nelle pieghe dell’illusione –
come una rena che si sfalda a morsi
come i nuovi sorrisi che guardano avanti
oltre
oltre la chiusa e il mare
ancorati ad un’isola troppo dentro
che non si accorge più, senza un post adeguato sui social,
dell’impegno per una trina di ghiaccio sui vetri,
della geometria arcana di un cristallo di neve.
(Carla Sautto Malfatto – tutti i diritti riservati)
Bologna, una fredda domenica come tante, fra gennaio e febbraio. La città è piena di gente che chiede l’elemosina.
All’entrata di un supermercato una ragazza intabarrata, con un berretto di lana in testa, seduta a gambe incrociate in compagnia di due cani, sorride alla gente che entra ed esce lasciando di tanto in tanto qualche monetina in una ciotola che lei ha posizionato davanti a sè. Oltre a quello che indossa ha con lei solo uno zaino nero, gonfio di roba. Mi fermo, lascio qualcosa, è le chiedo come mai si trova li. Non ha abitazione, dice, ed è di Bologna.
La rivedo alla sera all’entrata di un altro supermercato, con i suoi cani e il suo berretto; mi riconosce, mi accomodo a terra con lei e iniziamo a chiacchierare. Accetta tranquillamente di farsi intervistare.
Come si chiamano i tuoi cani?
Lei Merita ha dodici anni e lui Pupui, nome francese, ha un anno; e poi c’è suo figlio della Merida che però sta con mio marito. Anche mio marito, anni fa a Roma, è stato filmato da una ragazza cinese che ci ha fatto un film… lo hanno visto in Cina.
Mi racconti un poco la tua storia?
Io sono di Bologna. Mio papà e mia mamma si sono conosciuti al Roncati che è l’ospedale psichiatrico di Bologna. Mio padre voleva rimanere lì, da quanto io so:lì dentro si è innamorato di mia mamma. Mio padre è schizofrenico, mia madre aveva psicosi con depressione; aveva perché è morta 8 anni fa, di tumore all’utero. Si sono conosciuti lì, mio padre si è innamorato di mia madre, e quando lei è uscita lui l’ha seguita. Sono andati dove aveva una casa, a C. (nella periferia bolognese, ndr), supportati dai servizi… Ho imparato da loro che una famiglia, anche se con problemi, se è supportata riesce comunque a crearsi, ecco… una coppia riesce a formarsi una famiglia.
Hanno avuto due figlie, io e mia sorella più grande; della la mia infanzia mi ricordo poco… sono venuta a sapere da grande che… fecero un ricovero subito a mia madre quando io ero appena nata. Anzi non dovevo neanche nascere perché mentre era incinta le fecero un tso e volevano farla abortire perché i farmaci potevano aver creato dei danni. Mia mamma si è opposta, era al quinto mese: volevano farla abortire e lei si è opposta e io sono qua.
Devo tutto a lei.
Il primo ricovero di mia mamma l’ho visto a nove anni, io invece non sono mai stata ricoverata. Prima ho conosciuto di più la malattia di mia madre perché ha avuto più ricoveri…
Fino a 9 anni sono stata in un gruppo appartamento, perché quando lei veniva ricoverata mio padre beveva e non mi lasciavano con lui, anche per la sua malattia.
E niente, questo fino a 16 anni circa …
A 17 anni ho preso il mio primo cane, che era il nonno di Fiuto… che sarebbe il suo papà di Merita… adesso sono alla terza generazione, ho preso vari altri cani…
Stavo a casa loro, dei miei genitori, ho iniziato a fare le feste, i rave, giravo un pò la vita quando avevo 17-20 anni. Poi a 22 anni mi sono messa insieme a un ragazzo mezzo marocchino mezzo francese che era stato adottato e col quale ho avuto due figli.
Adesso dove sono i tuoi figli?
In casa famiglia, sai ho avuto dei problemi ultimamente, con un altra persona…
Lui, il padre, è buttato a merda in centro, non mi vede dal 2012. Delira, si fa… sta a merda.
Aveva iniziato ad alzare le mani quando i miei figli erano piccolini, la femmina è nata nel 2008 il maschio nel 2009.
Li vedi?
Li vedo ogni 20 giorni, sono a Genova, perché io stavo lì prima; mi ero trasferita nel 2012 a Chiavari e avevo conosciuto un altro ragazzo, molto più grande di me, aveva 13 anni più di me che adesso ne ho 34.
Un pò a fatica, però facevo le stagioni, lavoravo,
Prima di questo però sono stata anche in una comunità di mamme, ho fatto un anno e mezzo circa, poi tornata la casa lui ha alzato le mani, era agosto, A gennaio, il giorno del mio compleanno, di nuovo è successo: allora ho chiamato i carabinieri e lui ha dato di matto, lo misero in carcere… così… e poi mi decisi a lasciarlo ad agosto 2012.
Poi ho conosciuto quest’altra persona più grande di me che lavorava a Chiavari, un sardo; è andata avanti per 4 anni la storia, ma con molte probematiche, anche perché anche lui è caduto nella tossicodipendenza; quando ho deciso che tanto ormai la cosa non andava, io dormivo in una stanza lui in un altra, ho deciso di lasciarlo.
Ho conosciuto l’attuale marito, l’unico che ho sposato per fortuna, son finita fuori di casa perché il mio ex mi minacciava. I bimbi facevano judo e anche io lo facevo, chiesi alla maestra di judo se me li teneva perché continuassero ad andare a scuola e però poi sono intervenuti i servizi perchè il mio ex sardo mi ha creato dei problemi e a luglio c’è stato un decreto del tribunale di Genova che ha emesso una sentenza dura. Ero venuta qua a Bologna per recuperare una casa, avevo mollato il lavoro e casa non ce l’avevo più per venire intanto a recuperare la casa. Sono andata a casa di mio padre, che stava appunto a C. e niente, da lì non ho potuto fare domanda alle case del comune, perché dovevo essere residente qua da tre anni e non posso fare qui…
Che altro? Siamo venuti qua a Bologna con i bimbi e – al tempo – il mio compagno, Lucas, è arrivato questo decreto e diceva che affidava i bimbi a Chiavari ai servizi sociali, e li hanno quindi rimessi in casa famiglia. Li vado a trovare, e poi non si sa…dipende un pò dai tribunali…
A mio padre gli hanno data un’altra casa, un cambio alloggio, e io avevo la chiave per dormire, a dicembre avendo la chiave andavo a dormire nella casa dove ero cresciuta, dove non c’era niente.
L’altro giorno è venuta qua mia sorella, incazzata, anche perché non sa che vita faccio. Mi ha detto “Vieni che ti apro la porta, è l’unica volta che ti apro la porta, solo per prenderti le tuo cose”.
Tua sorella abita qui? Che vita conduce?
Si abita qui, ma lei ha una vita molto diversa da me, è materialista anche, si fa viaggi, sta dietro a mio padre però. Ha due figli e convive con un senegalese, uno a posto. Ma io non ho rapporti con lei. A Natale per dire, che è anche il suo compleanno, la ho chiamata alle cinque e mezza e mi ha detto “Pensavo che non chiamavi neppure”… Se non chiamavo io lei non chiamava neanche per gli auguri di Natale. Io compio gli anni il 5 gennaio, ma non mi è arrivato neanche un messaggio da lei…
Ding! (un passante getta una moneta nella ciotola) Grazie!
Hai uno sguardo vivo, solare, come ti senti adesso?
Se penso alla situazione dei miei bimbi ci sto male, non sarei neanche qui se li avessi avuti con me, non starei a fare l’elemosina per strada. Quello mi mette giù, mi mette tristezza… perché li ho cresciuti io… anche rispetto al padre naturale: lui se ne è fregato, ma il tribunale ci ha messo anni a fare un decreto… prima quello di Bologna, poi quello di Genova, ci ha messo un tre anni per fare un inizio di decreto e a me in un mese che ho avuto dei problemi che ho cercato di risolvere e mi è arrivata una mazzata così. Due pesi e due misure; ma io i bimbi me li sono tirati su e avevo riscontri positivi dalla scuola: mio figlio l’anno scorso ha fatto un anno un pò difficile a scuola… adesso hanno 8 e 9 anni,
Ding! (un passante getta una moneta nella ciotola) Grazie!
Come fai per guadagnarti da vivere? Prima lavoravi a Chiavari ma qui niente lavoro…
Ho vissuto un pò con i soldini messi da parte, questa vita la faccio da giugno dell’anno scorso, anzi per strada ho iniziato a settembre…
Adesso non ho più la casa, per la verità non ce l’avevo neanche prima, ero abusiva; tramite il consolato ceco (il marito è della repubblica Ceca, ndr) e un associazione di Bologna dovrei avere una casa per un tot per emergenza abitativa, e poi da lì muoverci a prendere un tot che danno a chi e senza fissa dimora, emarginati… solo che ci sono stati dei problemi: dovevamo entrare a ottobre e non siamo ancora entrati… adesso dovremo entrare a fine gennaio, primi di febbraio. Abbiamo dato quello che ci hanno chiesto di pagare, un minimo di quota da pagare, per 10 mesi poi… speriamo!
Tutto il tuo avere sta quindi dentro lo zaino che porti con te?
No, ce l’ho in una cantina qui e anche a Chiavari.
Com’è la tua giornata quando sei per strada?
Inizio la mattina, ma non sempre; di solito ci si alza e si raggiunge il luogo, ci si mette lì… Oggi perché eravamo fuori Bologna e quindi c’era il treno alle 8 e mezza o alle 11 e mezza, mi pare, ci siamo svegliati alle 8, abbiamo raccattati i panni e ci siamo mossi verso qua…
Poi ci siamo divisi, come facciamo quasi sempre… mio marito era qui prima…
Ci sta pochissimo qua insieme a me perché con tre cani, questi due e quello di mio marito è difficile… tendenzialmente qui ci sono io.
Ma come scegli i posti, qualsiasi posto va bene?
Non tutti vanno bene… verso il centro io non ci vado, c’è tanta gente verso il centro, c’è gente a distanza di 20 metri che fanno colletta in tre…
Alla mattina qui, per esempio, c’è un ragazzo di colore, al pomeriggio ci sono io… un giorno ci siamo trovati qui nello stesso orario e ci siamo messi d’accordo ecco…
A volte vado con mio marito Lucas a fare colletta se ci sono altri…
Quindi conosci altri che fanno colletta?
No, non ci si conosce più di tanto… io conoscevo qualcuno, dei vecchi di qualche anno fa che facevano colletta in centro…
Adesso dove vivi, dove passi la notte?
All’ addiaccio e stamattina c’era il ghiaccio sulle macchine… ma se trovi il posto… noi abbiamo trovato un posto bello coperto… riparato.
Ding! (un passante getta una moneta nella ciotola) Grazie!
Hai mai avuto problemi con le forze dell’ordine mentre elemosini?
Mi è successo solo una volta che li hanno mandati e hanno chiesto un documento e mi hanno fatto un po’ di domande… non mi hanno neanche chiesto i documenti dei cani perché hanno visto che stavano bene… e niente, mi hanno lasciata qua.
Certo se magari sei per le vie del centro… mi è capitato di passarci una mattina che dovevo fare gli esami del sangue che… ho visto in centro in via indipendenza, alle 8.30-9.00 gente che dormiva sotto i portici, ma io non ci vado mai, li forse controllano di più…
Sennò c’è la stazione, i dormitori ci stanno, uno è vicino al carcere, ma i cani stanno in gabbia, poi ci si può andare solo per 15 giorni e i cani fuori… e poi ti dividono tra maschi e femmine… un conto se sei da solo ma una coppia ci rinuncia…
E il lavoro?
Il problema e che sono oltre l’apprendistato, a volte fanno problemi anche perché sei donna, ti vogliono automunita o motomunita,…
Io poi ho solo una qualifica di cucina, però in cucina ho lavorato in albergo: facevo le stagioni magari di tre settimane senza fermarmi e senza fare la pausa… e avevo comunque qualcuno che stava dietro ai bimbi…
I servizi sociali fanno qualcosa per te?
C’è l’assistente sociale di Chiavari che segue i bambini, adesso dovrei pagare i denti di mia figlia; la ho sentita e anche se non ho lavoro le ho detto che dividiamo in tre con i nonni paterni e poi pagherò la mia parte… e una parte loro… ma deve sentire perché non essendo residenti lì, non siamo più a Chiavari… dare i contributi a uno di fuori diventa un problema…
Oggi tutti usano smartphone e computer, voi come fate a comunicare?
Abbiamo un telefono in due, vecchio, da 50 euro, il minimo per essere contattati e contattare…
ho anche una mail.
Se guardi al futuro, come lo vedi?
Il futuro non lo vedo cosi, deve cambiare. Adesso ho beccato una signora che può farmi lavorare in un’agenzia di pulizie, mando il curriculum e vediamo. Poi un altro signore, ma ha la ditta un pò ferma e lì dipende… ho fatto un colloquio l’altro giorno ma mi volevano automunita perché era fuori, di sera e non c’erano mezzi per tornare indietro…
Si fa tardi, le ginocchia gemono per l’insolita postura ed è ora di porre fine alla conversazione. G. mi saluta con un sorriso e una stretta di mano, forse con un pò di quella soddisfazione derivante dal puro e semplice contatto umano; forse per la più venale soddisfazione derivante dalla buona raccolta di monetine. Sembrerà strano, ma ogni volta che mi capita di fermarmi a parlare con qualcuno che elemosina in strada, come ben sanno gli psicologi sociali, le donazioni dei passanti aumentano.
Penso alla tenacia di G. e penso che ce la farà a cambiare il proprio futuro: ce la farà perché non ha perso il rispetto per sè stessa, perché riesce ancora a stabilire un rapporto con le persone. Perché malgrado tutto, in un mondo che sembra aver perso il senso dell’umano, la sua esperienza può ancora insegnare qualcosa a chi sa ascoltare.
Il graffio del pennino sulla pergamena. Il fruscìo del foglio, l’inchiostro, il calamaio: una vita che lascia la sua traccia in una lettera. Una storia personale incisa sulla carta e nella memoria.
Ma cento, mille altre storie riecheggiano in quella voce che racconta, che scrive nell’intimità di una stanza.
Si intitola ‘L’ultimo grido’ la nuova web-serie scritta e diretta dall’autore ferrarese Giuseppe Muroni e prodotta dall’Istituto dell’Enciclopedia Treccani in collaborazione con Controluce Produzione in occasione degli ottanta anni dalle Leggi razziali. Monica Guerritore, Francesca Inaudi, Francesco Montanari e Stefano Muroni sono gli attori protagonisti dei quattro video – veri e propri piccoli corti – in onda sul canale Treccani Web Tv (www.treccani.it.): un viaggio a tappe nella memoria del nostro Paese, alla ricerca di storie dimenticate o disperse nel contenitore dell’oblio. Quattro letture della durata di cinque minuti per raccontare poeticamente trame di vita di cittadini italiani di religione ebraica rimaste ai margini della Storia.
‘L’ultimo grido’ – una puntata a settimana a partire dalla Giornata della Memoria 2018 – è il secondo capitolo di una trilogia della memoria, e segue ‘Voci di r-Esistenza’, presentata in occasione del settantesimo anniversario della Liberazione.
“Questa nostra iniziativa indica con chiarezza la decisa apertura nei confronti del mondo digitale che la Treccani ha voluto, con coraggio, percorrere – ha osservato Massimo Bray, direttore dell’Istituto Treccani – Un progetto pensato interamente per la diffusione sul web: questo è un esempio di divulgazione storica interessante, innovativo, fatto con cura, con intelligenza da Giuseppe Muroni”.
Attraverso il ritrovamento e la lettura di quattro lettere, vengono ripercorsi tragici momenti occorsi tra il 1938 e il 1943.
“Nell’Italia delle Leggi razziali compiere gesti eclatanti o urlare non serve più: gli appelli degli ebrei sono inascoltati e stigmatizzati pubblicamente. Prevale l’isolazionismo e la solitudine; quest’ultima è interrotta dalle migliaia di lettere che vengono inviate quasi quotidianamente da una comunità estremamente vivace e attenta a ciò che succede – spiega l’autore – È dalla dimensione privata che bisogna partire per comprendere le vicissitudini degli ebrei italiani durante il regime fascista e non è un caso se la lettera, quindi la capacità di articolare un pensiero personale, intimo, è stata scelta come emblema del viaggio che ci porta a ritroso nel tempo. Nel contrasto tra “spazio privato-libertà” e “spazio pubblico-negazione” si poggiano le fondamenta di una comunità che, come nessun’altra, tentò di non piegarsi alla bieca violenza. Fino a quando le porte di casa rimangono invalicabili viene coltivata una speranza, nutrita dalla fede e dalla cultura; nel momento in cui verrà violata la dimensione privata-familiare, mediante rastrellamenti e deportazioni, inizierà la persecuzione delle vite e il periodo più fosco della storia del Novecento. Le epistole diventano veri e propri luoghi della riflessione, della paranoia, del ripensamento, della scissione, dell’auto-analisi, del malessere, dell’intimità, della resistenza e della libertà”.
La scelta stilistica di Giuseppe Muroni ci affida un’opera garbata, rispettosa, un testo che sa unire rigore scientifico e poesia.
Il titolo è ‘L’ultimo grido’, ma le parole sono sussurrate all’orecchio, soppesate, confidenziali. Sono le lettere scritte nella propria casa, tra gli oggetti che appartengono alla sfera dell’intimità (la tazza nell’abbraccio delle mani, la luce calda dell’abat-jour, i libri) oppure in un campo di internamento, dove la penna offre l’unica via di fuga possibile.
Scrivere diventa il gesto per far cadere le pareti del silenzio.
L’inchiostro sulla pergamena trattiene la caducità degli eventi e dei pensieri, garantisce la persistenza delle cose.
“I personaggi, in un percorso di trasformazione e maturazione, diventano persone: la finzione letteraria lascia il posto al documento, alla testimonianza orale, alla storia. Le molteplici domande che compaiono nelle lettere diventano l’auto-analisi di una nazione, che con le leggi razziali conosce uno dei momenti più drammatici della sua storia, e di una comunità, quella ebraica, qui in grado di leggere criticamente il succedersi degli eventi”.
Il lavoro è stato patrocinato dal Meis (Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah), dal Cdec (Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea), dall’Ucei (Unione Comunità Ebraiche Italiane) e dalla Comunità Ebraica di Ferrara. La consulenza scientifica è stata fornita dall’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara.
Francesca Inaudi
Monica Guerritore
Il tratto distintivo di ogni video è l’attenzione al particolare. “La mano stringe la penna, che oscilla irrequieta da parte a parte del foglio e registra il logorio psichico della persona consapevole che i cambiamenti della società stanno condizionando in modo indelebile la propria vita. Le parole codificano i pensieri volubili, carichi di tensione emotiva e angustia, e riempiono il foglio bianco. C’è sempre un misto di incredulità e pacata preoccupazione nella voce di Stefano, Francesco, Monica e Francesca, i quattro protagonisti di questa storia che si sviluppa tra la fine degli anni Trenta e i primi anni Quaranta del Novecento”.
Le note struggenti della musica di Martina Colli, le luci e le ombre, i pappi del tarassaco rubati dal vento – nella grafica di Giulia Pintus – sono il preludio ad un’interpretazione intensa, appassionata: primissimi piani, sguardi profondi, voci calde che orlano il silenzio.
Testi affidati a quattro attori di forte personalità, professionisti del piccolo e grande schermo. Stefano Muroni interpreta la parte di un ebreo di Venezia, dipendente della Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, che viene improvvisamente licenziato nel dicembre del 1938, dopo molti anni di onorato lavoro. Lui, come altre migliaia di ebrei italiani, invia una lettera al Duce: “Ci viene negato ogni diritto e non ne capiamo il motivo. (…) Attendo le parole che ci facciano di nuovo uguali agli altri”.
Gli appelli restano inascoltati, le persecuzioni diventano più violente e iniziano i primi attacchi fisici. Nell’ottobre del 1941 viene presa di mira la sinagoga di Torino. Una delle attrici italiane più importanti, Monica Guerritore, entra nei panni di un’ebrea torinese che cammina per le strade vuote del ghetto sotto una pioggia incessante: sono passati pochi giorni dall’affissione di manifesti e volantini con i nominativi degli ebrei della città, tra i quali il cognome della donna, che tornata a casa scrive una lettera commovente al marito, morto a New York: “La pioggia mi riconcilia con la vita, Mario, quella che ci toglieranno a breve”.
Dominano i luoghi chiusi: le mura di casa così come la Sala F del convento-caserma di San Bartolomeo a Campagna, in provincia di Salerno, sono la sede dei dubbi esistenziali e della presa di coscienza. Francesco Montanari scrive da uno dei campi di internamento del centro-sud della penisola, nella luce incerta di “due finestrelle che lasciano penetrare la luce sufficiente per sognare di scappare”. Perché, appunta Francesco, “La vita è una questione di spazio e quando non ne hai sei già un po’ morto”.
Come passeggeri su una metropolitana della memoria, si fa sosta nella Ferrara di Giorgio Bassani. Francesca Inaudi interpreta un personaggio ispirato a Matilde Bassani: arrestata perché la sera del 10 giugno 1943 affigge manifesti in ricordo a Giacomo Matteotti, una volta liberata scrive una lettera ad una amica per documentare ciò che le è accaduto. E nelle parole di Francesca, frante dalla sofferenza del ricordo, è racchiuso il senso profondo de ‘L’Ultimo grido’:
“Ti scrivo queste cose non per rivendicare i torti che ho subito, ma per lasciare una traccia di ciò che sta accadendo in questi anni. È una questione di memoria, anche se mi costa ricordare. A volte dimenticare è più facile”.
Erano anni difficili quelli che abbiamo lasciato alle nostre spalle appena un secolo e mezzo fa. Ci è voluta l’annessione della città al Regno d’Italia per porre fine al feroce tribunale della Santa Inquisizione, attivo a Ferrara almeno dal 1265. Fu abolito e ripristinato varie volte, nei suoi periodi migliori il potere che aveva nello Stato estense si estendeva anche a Modena e Reggio Emilia, e non erano rari i casi di confessioni estorte con la tortura senza prove di accusa.
La Biblioteca Ariostea, tra le centinaia di migliaia di opere che custodisce, ci offre al proposito un documento interessante, il ‘Libro dei giustiziati’, una vera e propria raccolta di verbali stilati dagli inquisitori. 853 condanne a morte in pieno Rinascimento, tra il governo di Niccolò III e quello di Alfonso II, non solo per eresia o crimini contra Dei, ma anche per reati legati alla sfera civile, come furti e omicidi. E quanto a eresie o culti proibiti, c’è da dire che Ferrara non si lasciava mancare niente, tra Templari, catari ed ebrei!
Il ‘Libro dei giustiziati’ ci riserva però anche un’altra sorpresa: tra tutti i nomi riportati, solamente ventidue sono femminili, contribuendo a sfatare il mito della caccia alle streghe. L’Inquisizione, nella sua storia ferrarese, si è spesso rivelata magnanima con le donne e non si fa fatica a trovare casi di ragazze liberate dopo che avevano abiurato.
Che si trattasse di donne o uomini, tutti i processi si tenevano tuttavia in un luogo ben definito, una chiesa naturalmente, ancora oggi in piedi nonostante sia stato l’edificio religioso più devastato dal sisma del 2012 nella nostra città. Una vela del campanile di San Domenico, infatti, a causa del terremoto si è staccata, sfondando il tetto e finendo all’interno della costruzione. Le esecuzioni, invece, avvenivano nella piazza di fronte alla facciata, ben visibili dalla popolazione.
L’edificio, un tempo appartenente a un intero complesso domenicano, venne eretto nel 1726 al posto di una chiesa più antica, orientata, come spesso accadeva in passato, sull’asse Ovest-Est: si entrava con l’oscurità di Ponente per avvicinarsi alla luce dell’altare rivolto a Levante. La costruzione attuale ha l’orientamento opposto, ma della vecchia chiesa, risalente al XIII secolo, rimangono il campanile e la cappella Canani, ovvero la primitiva struttura absidale. All’interno, la chiesa ci accoglie con varie meraviglie: si passa dai dipinti di importanti artisti ferraresi, quali lo Scarsellino o Carlo Bononi, al magnifico coro ligneo del 1384, uno dei più antichi della regione, fino ad arrivare al pavimento quasi interamente ricoperto di lapidi sepolcrali antiche.
Noi oggi guardiamo tutto questo con gli occhi dello stupore e del fascino, ma se ci immaginiamo la reale funzione di ciò che resta, l’atmosfera cambia drasticamente. Una vicenda, in particolare, attirerebbe l’attenzione di chiunque: è quella del mago Benato. Accusato di utilizzare la propria magia contro il marchese Leonello d’Este, venne condannato a morte e bruciato sul rogo. Consumatosi il fuoco, però, un terribile terremoto si abbatté sulla città e qualcuno pensò a Lucifero o alle forze degli inferi.
Ma non è questa l’unica storia a nascondere del macabro. Il 1744 è l’anno in cui a Mantova vide la luce un futuro fisico e ingegnere, Bartolomeo Chiozzi, giunto presto a Ferrara, dove prese casa in un grande e curato palazzo. Un giorno, rovistando in cantina, trovò un libro di formule magiche per invocare il demonio. E a questo punto le fonti si dividono: da un lato, sembrerebbe che Chiozzi avesse un fedele servitore di nome Magrino; dall’altro, pare che Magrino fosse addirittura il nome del diavolo che si materializzò dopo le invocazioni dello studioso. Dopo aver venduto l’anima al demonio, comunque, ed essersene pentito, mago Chiozzino, come iniziava a chiamarlo la gente, si recò alla chiesa di San Domenico per purificarsi, contro la volontà di Magrino, servo o diavolo che fosse, che per la rabbia assunse forma caprina e diede una zampata sulla porta.
E ancora oggi, nell’attesa di poterci entrare, fermiamoci davanti all’entrata laterale. L’impronta del diavolo è il ricordo di esseri umani torturati e uccisi da altri esseri umani, un monito austero e tangibile per il futuro.
L’umano porta in sé l’avventura dell’universo e l’avventura della vita. In questo senso, l’umano è un microcosmo, a immagine dell’universo.
Ma l’avventura dell’umanità può trasformarsi in una folle avventura che rischia il sublime e l’orribile, per Edgar Morin la mente umana viaggia verso due avventure disgiunte.
L’una cerca all’esterno di svelare, e perfino di possedere, i segreti del mondo fisico, della vita, della società, e ha sviluppato una scienza capace di conoscere tutto, ma incapace di conoscersi e che oggi produce non solo “elucidazioni benefiche, ma anche accecamenti malefici e poteri terrificanti”.
L’altra avventura cerca, all’interno di sé, di conoscersi, di meditare su ciò che sappiamo e su ciò che non sappiamo, di nutrirsi di poesia vitale, di sentire il commovente, il bello, il mirabile.
La prima è l’avventura conquistatrice della trinità scienza/tecnica/economia. La seconda è l’avventura della filosofia, della poesia, della comprensione, della compassione.
L’ultimo libro del filosofo francese Edgar Morin, “Conoscenza Ignoranza Mistero” chiama all’appello la nostra intelligenza, accende la spia rossa, l’allarme sulla rotta del vascello spaziale Terra guidato dalla supremazia della triade: scienza/tecnica/economia.
Scienza, tecnica, economia conducono la mondializzazione, promettono all’uomo di sconfiggere la morte e di emanciparlo dal lavoro con le macchine intelligenti. Sempre più la prospettiva della post-umanità si fa immaginabile sotto diverse forme.
Ma questa prospettiva necessita imperativamente di noi, umani, e sin da ora di un pensiero della condizione e dell’avventura umane, di una coscienza delle possibilità e dei pericoli che comporta la complessità antropologica, di una coscienza di ciò che di più prezioso c’è nell’uomo. È tragico che la metamorfosi post-umana sia cominciata sotto la spinta cieca del triplo motore scientifico/tecnico/economico, mentre la metamorfosi etica/culturale/sociale, sempre più indispensabile a questa metamorfosi resta ancora nel limbo. Peggio: la regressione etica, psicologica, affettiva accompagna la progressione scientifica, tecnica, economica.
Il sonnambulismo del mondo politico, che vive alla giornata, del mondo intellettuale cieco alla complessità, l’incoscienza generalizzata contribuiscono alla marcia verso i disastri.
Il viaggio e la destinazione sono sempre più verso la metamorfosi del post-umano, se non interviene una guida etica/culturale/sociale.
Per questo l’invito è di continuare a pattugliare ai confini della conoscenza per apprendere e sentire l’inseparabilità di conoscenza, ignoranza e mistero, perché il fiammifero che accendiamo nel buio non solo rischiara un piccolo spazio, ma rivela anche l’enorme oscurità che ci circonda. Fino a quando il sapere produrrà la consapevolezza dell’ignoranza, sarà salva la vera forza rivoluzionaria della conoscenza: l’ignoranza sapiente che conosce se stessa, come direbbe Blaise Pascal.
Altrimenti rimarremo ignoranti della nostra ignoranza, incapaci di comprendere che vivere è una navigazione in un oceano di incertezze con qualche isolotto di certezze per orientarsi e approvvigionarsi.
Conoscenza, ignoranza e mistero sono i nostri compagni in seno all’avventura cosmica, i soli che ci possono soccorrere nell’incertezza di quale parte prendere nel corpo a corpo tra Eros e Thanatos, nel sapere dove andare.
Ma è sempre più necessaria la rigenerazione di un umanesimo planetario, radicato nella Terra-Patria per evitare il regno della nuova specie dei signori che dispongono di tutti i poteri, fra i quali quello del prolungamento della vita, sull’insieme degli altri umani asserviti. La metamorfosi biologica-tecnica-informatica necessita soprattutto di essere accompagnata, regolata, controllata e guidata da una metamorfosi etico-culturale-sociale, per evitare che macchine pensanti pensino per noi e possano dominare il destino post umano.
Per sottrarsi all’inumanità della post-umanità è necessaria una profonda riforma intellettuale e morale come resistenza all’egemonia del calcolo, del profitto, dell’egoismo. Una resistenza animata dai bisogni di realizzazione personale, di condivisione, d’amore, di vita poetica. Un umanesimo antropo-bio-cosmico, una comunità di destino di tutti gli umani sulla Terra con una comune coscienza di Terra-Patria. Da questa aspirazione e da questa doppia coscienza potrebbe nascere una nuova via per un altro avvenire.
In un mondo nel quale sta prendendo piede una struttura burocratica che, anziché fornire un servizio pubblico efficace, si affida al mercato assicurativo privato, la democrazia è in pericolo. Freud aveva previsto il rischio: “le persone sono disposte a cedere gradi di libertà in cambio di una falsa sicurezza”, diceva.
Successivamente il mercato ‘assicurativo’ ha indotto la tendenza alla ricerca di un colpevole che è funzionale alla logica del profitto. Quando si parla di sicurezza bisogna tenere conto che chi la richiede è una persona che o è suddito e non ha nessuna responsabilità, o è cittadino, libero e perciò responsabile. Di conseguenza, bisogna sempre modulare tra la persona che si realizza nella società attraverso una cittadinanza attiva e responsabile e la sicurezza di cui ha bisogno per sé e per chi gli sta attorno. Tuttavia, la sicurezza non deve mai prevalere sulla persona come valore.
Come è arrivata qui la mentalità della sicurezza?
Portando esempi parziali, giocando sull’ignoranza delle persone, confrontando dati non confrontabili e questo è stato fatto dall’informazione sostenuta in parte dai governi, in parte dalle aziende. Con una società sempre più complessa, per il cittadino è difficile raggiungere l’informazione utile e su questo hanno giocato coloro che traggono vantaggio dalla mentalità ‘assicurativa’.
Certo, c’è sempre il rischio che chi ha la possibilità, o per ruolo o per situazioni economiche o sociali, possa giocare sulla buonafede e sull’incompletezza della legge. Ma questo è inevitabile: la libertà comporta rischio. Bisogna accettare il fatto che si può sbagliare. Non prevedendo il futuro, quella di sbagliare è una possibilità concreta.
La convergenza di alcuni fattori culturali, tecnologici e socio-politici, rende urgente la necessità di chiarire il significato di alcune parole fondamentali per la nostra società democratica. Si tratta di termini o concetti che, all’apparenza, sembrano distanti e scollegati, ma che invece interagiscono in un reciproco potenziamento di effetti sulla realtà poco controllabile a causa della complessità e velocità di trasformazione sia nei suoi effetti positivi che, purtroppo, in quelli negativi.
Parliamo di concetti e parole fondamentali e caratterizzanti la nostra realtà, quali:
Sicurezza
Democrazia
Politica
Burocrazia
Uguaglianza
Giustizia
Questi concetti, nel loro interagire, stanno ricomponendosi in modo preoccupante in un pensiero che via via legittima sempre più la sopraffazione di un gruppo di persone sulle altre e che, di conseguenza, finisce per riproporre il modello autoritario del nazi-fascismo come soluzione.
Si deforma il linguaggio perché si usano queste parole sostituendo al significato originale un nuovo significato, oppure scambiando la parte con il tutto o il mezzo con il fine.
Sicurezza. Quando si parla di sicurezza, bisogna tenere conto che quando la si richiede sui luoghi di lavoro, sulle strade o nei trasporti è più che legittima e comprensibile, ma il concetto non deve essere esteso all’ambito del sociale. In questo senso si banalizza il nostro desiderio di vivere in una società accogliente e rassicurante perché pacifica chiamandolo sicurezza.
L’unico modo per rendere la società accogliente ed equa – secondo il modello della polis – è ridurre le ingiustizie sociali e sviluppare le buone relazioni. Per questo si è inventata la democrazia al posto del potere assoluto, per creare un ambiente che permetta questo processo. E’ un processo in positivo e non un processo difensivo.
Chi promette la sicurezza barattandola con spazi di libertà sa di promettere il falso perché non esiste sicurezza assoluta dal momento che il futuro non si conosce. Si può tentare di ridurre il rischio ma non promettere la sua totale e permanente eliminazione.
E’ solo dando a ciascuno pari opportunità – e quindi la possibilità di accedere ai servizi per sviluppare le proprie aspirazioni – che si arriva a una convivenza non solo pacifica, ma gratificante. Una persona soddisfatta della propria esistenza non accumula rabbia e non cerca capri espiatori.
Ma restiamo consapevoli che neanche così si elimina il rischio che qualcuno scelga di sopraffare un altro. L’uomo è tale proprio in quanto libero di scegliere.
Democrazia. Per il secondo termine, la democrazia, si scambia il mezzo con il fine, definendo come democrazia il metodo del voto a maggioranza. La democrazia è, invece, la costruzione di uno spazio di libertà comune per l’esercizio delle libertà personali per cui, nella molteplicità delle proposte possibili per raggiungere questo obiettivo, si usa il metodo di scegliere quello che la maggioranza dei cittadini riconosce come la via da percorrere.
Politica. In questa logica di ambiguità del linguaggio la politica, che è l’arte dell’uso della parola e del confronto – inventata per sostituire la guerra come metodo per conquistare e controllare un territorio – viene invece usata come esercizio del potere attraverso la corruzione e la distribuzione di privilegi.
Burocrazia. Viene usata come sinonimo di insieme dei servizi amministrativi, necessari per la gestione di uno Stato democratico, quando invece è una struttura che nasce perché un potere centralizzato abbia possibilità di controllo sull’intero Stato.
La burocrazia si rende apparentemente funzionale alla democrazia attraverso il concetto di uguaglianza dei cittadini che però riduce il cittadino ad una unità quantitativa. Riducendo il cittadino a un numero si permette la standardizzazione della procedura che è quella che certifica il funzionamento del servizio.
Essendo la procedura la garante del funzionamento del servizio, chi lavora nella burocrazia è solo responsabile di rispettare la procedura, quindi, in questa organizzazione perversa sparisce l’esercizio della responsabilità personale, negando in questo modo la democrazia nella sua essenza.
Uguaglianza. Questa parola ha due effetti perversi: uno il ridurre il soggetto a numero, l’altro il mettere in evidenza le differenze come qualcosa di negativo. Insomma, la diversità marca una distanza e una contrapposizione, anziché sottolineare il valore dell’unicità del soggetto.
La diversità, vista come valore negativo, spinge a fare tribù, a riconoscersi tra simili, perché la solitudine fa paura, e quindi porta a fare gruppo attorno a ciò che si sceglie come valore del simile, che sia il colore della pelle, la divisa o la lingua.
Alla democrazia, invece, sarebbe omogeneo il concetto di parità perché riconoscerebbe il cittadino come un soggetto unico e portatore di valori e di diritti al pari di tutti gli altri cittadini. L’unicità non permetterebbe la standardizzazione ma pretenderebbe sempre l’armonizzazione della norma alla singolarità di ogni cittadino.
Giustizia. Con la parola giustizia si definisce il desiderio umano dell’essere riconosciuti nella propria singolarità e di vedere le cose collocate al loro giusto posto; invece oggi si utilizza per indicare l’insieme delle leggi che definiscono il limite a comportamenti oltre i quali si retrocede dal livello di civiltà raggiunto. Se si sovrappone al desiderio di giustizia il valore sanzionatorio della legge si arriva al giustizialismo o allo sterminio del diverso.
Avvicinandosi il giorno delle elezioni sfruttando gli avvenimenti violenti di Macerata, o strumentalizzando e alimentando la paura dei flussi migratori, il tema della sicurezza diventa sempre più dominante. Si promette sicurezza proponendo leggi di esclusione di categorie e di gruppi sociali, di controllo di polizia e di territorio, modelli che ripropongono schemi nazionalisti e una società classista piramidale che non hanno niente a che fare con la democrazia.
Siamo sicuri che sia realistico pensare che un governo autoritario porti sicurezza?
E’ sicuro un mondo dove ogni comportamento è codificato e quindi nessuno è responsabile?
E’ certo che sia più sicuro un mondo nel quale si permette a chiunque di farsi giustizia da sé?
E’ auspicabile un mondo nel quale si toglie ai bambini e ai giovani il loro spazio di esperienza perché non c’è nessuna assicurazione che voglia coprire il rischio che comporta la loro vitalità?
E’ un mondo che risolve o che crea i problemi?
Tra la burocrazia e la sicurezza siamo arrivati a una società impersonale, senza responsabili, ma composta solo da colpevoli contro i quali soltanto la legge potrà fare ‘giustizia’.
La realtà umana e la società sono complessità che non possono essere semplificate. Bisogna rispettarle e conoscerle. Ci vogliono partecipazione e impegno da parte di ciascuno per risolverne le incompiutezze e migliorare il mondo.
*Grazia Baroni, è nata a Torino nel 1951. Dopo il diploma di liceo artistico e l’abilitazione all’insegnamento si è laureata in architettura e ha insegnato disegno e storia dell’arte nella scuola superiore durante la sua trentennale carriera. Ha partecipato alla fondazione della cooperativa Centro Ricerche di Sviluppo del Territorio (CRST) e collaborato ad alcuni lavori del Centro Lavoro Integrato sul Territorio (CELIT). E’ socia e collaboratrice del Centro Culturale e Associazione Familiare Nova Cana.
Dal 2016, anno della sua fondazione, fa parte del gruppo Molecole, un momento di ricerca e di lavoro sul bene, per creare e conoscere, scoprendo e dialogando con altre molecole positive e provare a porsi come elementi catalizzatori del cambiamento.
GIOVEDÌ 1 MARZO BIBLIOTECA ARIOSTEA FERRARA ORE 17-19
IL CORPO E LA MENTE: COME METTERLI IN RELAZIONE
Chiara Baratelli Psicoanalista
Introduce Cinzia Carantoni Wasp Project Management
Psiche e Soma dialogano continuamente. Soma registra gli eventi del corpo accaduti anche molti anni prima che si trasformano in sintomi psichici e corporei. Il corpo è sensibile a qualsiasi incontro spiacevole, anche alle parole e colpisce gli organi, e questi danno segno di aver ricevuto il colpo: una fitta al cuore, un amaro in bocca (che traduce l’amarezza) un colpo allo stomaco, una nausea reale per qualcosa che è nauseante. Le alterazioni dell’esperienza somatica possono andare da lievi e passeggere preoccupazioni ingiustificate riguardo alla nostra salute fino a convinzioni intense e persistenti per gravi minacce che si ipotizzano incombano sul fisico come nell’ipocondria. Il corpo può esso stesso essere vissuto come minaccioso (nell’anoressia mentale), oppure deformato (nel dismorfismo corporeo), oppure estraneo (nella depersonalizzazione somato-psichica). L’alterazione del rapporto tra mente e corpo può arrivare al “divorzio” tra i due. Questo ha spesso carattere difensivo, avendo lo scopo di circoscrivere alla sfera somatica uno sconvolgimento che, altrimenti, sarebbe vissuto come ancora più minaccioso.
L’incontro sarà seguito Martedi 14-3 e Martedì 21-3 da due Laboratori didattici “Il corpo e la mente: Gli Imbrogli del corpo” condotti da Chiara Baratelli Psicoanalista (2 incontri di 2 ore 17-19 presso Istituto Storia Contemporanea, Vicolo Santo Spirito 11, Ferrara)
Sono ammessi ai laboratori, oltre ai docenti iscritti, anche uditori interessati.
Per il ciclo “I colori della Conoscenza” a cura degli Istituti Gramsci e ISCO
LUNEDÌ 12 MARZO BIBLIOTECA ARIOSTEA FERRARA ORE 17-19 IL CORPO E LA MENTE: EDUCARE ALLO SPORT
Ne parlano Nicola Alessandrini Insegnante e Angela Magnanini Docente UniRoma 4
Il complesso rapporto tra mente e corpo percorre l’intero arco della filosofia occidentale, fino a raggiungere, nella modernità, le sembianze di una vera e propria spaccatura tra res cogitans e res extensa. Il divario tra la sfera psichica e quella fisica, fonte d’inesauribili dibattiti filosofici, sembra conciliarsi improvvisamente di fronte all’armonia di un gesto sportivo, dove mente e corpo cooperano all’unisono. Da qui l’importanza di un’educazione attraverso lo sport quale momento di un processo educativo che sappia concepire l’individuo come unità psico-somatica. In tal modo il corpo diventa progetto, grazie alla sua capacità di guardare avanti, di realizzare quanto ancora non c’è. Se è vero – scrive Foucault – che come corpo siamo irrimediabilmente qui, mai altrove, è anche vero che nel corpo nascono i nostri desideri, «è da lui che escono e risplendono tutti i luoghi possibili, reali o utopici». Per questo il nostro corpo è «luogo d’ogni utopia».
Per il ciclo “I colori della conoscenza” a cura di Istituto Gramsci e Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara
Di fronte a loro apparve dalle ombre una sorta di altare in pietra. Era grande, costituito da una massiccia lastra di forma rettangolare che poggiava su due blocchi squadrati posti alle due estremità della tavola. Subito dietro l’altare spiccava un’imponente colonna cilindrica, probabilmente in granito, alta circa una decina di piedi e sulla cui superficie si distinguevano numerosi bassorilievi. A destra invece, distanziato di una decina di passi, un gigantesco totem, scolpito su una colonna calcarea generata dall’unione tra una stalattite e una stalagmite, era seminascosto dall’oscurità. Il totem raffigurava una strana chimera i cui tratti erano stati probabilmente modificati dall’azione dell’acqua che colava incessantemente dall’alto della colonna facendola brillare alla luce delle lanterne. Dalla parte opposta, a sinistra dell’altare, la superficie nera e perfettamente ferma del lago completava la scena.
I tre uomini erano nuovamente ammutoliti. Restarono immobili a guardare quella visione per parecchio tempo.
Storditi dalla sorprendente scoperta, non si accorsero che qualche passo più in là, dietro la colonna di granito, una strana creatura quasi completamente avvolta nel buio li stava osservando.
Greenstone si avvicinò all’altare. Sul ripiano di pietra si notavano quattro grossi fori levigati, probabilmente dei passanti, e dei legacci di cuoio quasi del tutto consumati che penzolavano dal bordo della tavola, l’uomo vi poggiò sopra la lanterna e, nel farlo, notò diverse macchie scure sulla superficie.
«Questo è sangue!» constatò.
«Mon Dieu, Joseph! Ci troviamo davanti a una scoperta sensazionale: un antico altare sacrificale inca situato sottoterra… Il primo mai scoperto finora!» esclamò il francese in preda all’eccitazione.
«Jacques, forse l’altare sarà antico. Ma questo sangue di sicuro non lo è…» osservò Sewell.
«Ma… che volete dire?» chiese turbato il francese.
Greenstone tirò fuori un coltello dall’astuccio di cuoio che portava agganciato alla cintura e iniziò a grattare il sangue essiccato dalla pietra: «Vedete Jacques, in questo avvallamento della pietra ce n’è una discreta quantità, una vera e propria pozza di sangue… L’incrostazione poi s’allarga sino al bordo della tavola disegnando dei rivoli. Se date un’occhiata in basso, ai piedi dell’altare, ci sono tracce di gocciolamento. Non pensate che ci sia un po’ troppo sangue per essere solo la testimonianza di un evento vecchio di secoli?»
Verdoux non rispose, fissava quelle macchie nerastre cercando di dare un senso logico alle parole dello scozzese.
Sewell continuò: «Ma la cosa che mi ha tolto ogni dubbio è questa…» indicò una chiazza biancastra che ricopriva parte dell’incrostazione, «È muffa! In altre parole la dissoluzione di questo sangue non è iniziata secoli fa… direi piuttosto settimane o giorni!»
Jacques era pallido, gocce di sudore gli imperlavano la fronte a dispetto del freddo che avvolgeva l’intera caverna. Per Greenstone non era chiaro se l’aspetto precario dell’amico fosse imputabile al retaggio della malattia o alla forte emozione del momento. Alla fine pensò che probabilmente fosse la combinazione delle due cose.
Il francese farfugliò qualcosa nella propria lingua che si rivelò incomprensibile alle orecchie dei due compagni, frugò nella bisaccia ed estrasse la bottiglietta di assenzio. Ne bevve due sorsate e, per la prima volta, l’offrì allo scozzese che declinò.
Juan, che si era spinto in avanti in perlustrazione, chiamò i due scienziati: «Professori, da questa parte… prego venite!»
Sewell imbracciò il fucile e corse dall’indio aggirando l’altare, subito imitato da Verdoux.
Arrivarono dove li attendeva Juan. Poco più avanti sulla destra dell’altare, tra la colonna di granito e il totem, alla luce delle lampade apparve un ampio braciere circolare ricavato da un unico blocco di roccia, alto più o meno tre piedi e largo il doppio, l’interno era completamente annerito e conteneva tracce di cenere. Addossata al braciere c’era un’enorme catasta di legna.
Greenstone aveva in testa mille domande a cui non sapeva dare nemmeno una risposta. Tutta la situazione aveva preso una piega strana, quasi surreale: dall’iniziale e ovvio stupore, i tre uomini erano passati a una condizione di tacita accettazione di qualsiasi nuova eventuale sorpresa dovesse via via manifestarsi.
Juan si rivolse ai due esploratori, gli occhi gli brillavano più del solito: «Ora potremo illuminare la caverna!»
«E magari scaldarci un po’…» aggiunse il francese rinfrancato dall’assenzio.
I tre non persero tempo e si adoperarono per accendere subito un fuoco. L’esigenza di doversi scaldare e l’occasione ghiotta di poter finalmente rendere visibile buona parte della caverna li distolsero, almeno momentaneamente, da dubbi ed elucubrazioni sulla provenienza di quelle tracce e l’origine di quegli oggetti apparsi dal nulla.
Misero nel braciere tutta la legna che poteva contenere e, utilizzando le lampade a petrolio, appiccarono il fuoco.
In pochi istanti la legna perfettamente asciutta iniziò a bruciare con vigore e ci vollero alcuni minuti perché le fiamme si sviluppassero fino a creare lingue verticali alte dieci piedi. Ben presto un calore confortante si propagò nello spazio tutt’attorno al braciere. Greenstone stava argomentando sul modo di sfruttare al meglio il fuoco nel prosieguo dell’esplorazione, quando le parole gli si smorzarono in gola. Rimase immobile, la bocca aperta come inceppata nel vano tentativo di terminare un discorso ormai inutile, lo sguardo fisso davanti a sé.
Il bagliore del fuoco si era intensificato a tal punto da permettere alla propria luce d’invadere gran parte della vasta caverna che fino a poco prima era stata celata dall’oscurità. Fu così che i tre esploratori videro apparire la cosa più strabiliante che mai avrebbero potuto immaginare.
Ora davanti a loro, a una cinquantina di passi lungo la linea retta che univa altare, colonna e braciere, era appena apparsa una gigantesca costruzione fatta di grossi blocchi di pietra intagliati. Era addossata alla parete della caverna che si sviluppava in altezza per alcune decine di iarde.
Il manufatto aveva l’aria d’essere antichissimo. La sua forma a piramide lo faceva assomigliare a un tempio maya piuttosto che un edificio inca, tuttavia delle costruzioni inca conservava l’assemblaggio e la forma delle pietre. Al centro spiccava un ampio ingresso che lasciava intuire ai tre spettatori una grande profondità di spazio al suo interno. Il portale era a forma di trapezio ed era sovrastato da un pesante architrave in pietra squadrata come il resto dei blocchi che costituivano il muro di facciata del palazzo, tutti sagomati al punto da ottenere un incastro perfetto. Il muro di facciata, che si elevava verticalmente pendendo verso l’interno, si estendeva dai due lati del portale fino a fondersi con la parete rocciosa ai margini dell’enorme nicchia in cui si trovava l’edificio.
L’imponente costruzione si elevava su quattro volumi concentrici a base quadrata e ampiezza decrescente, con tre larghi terrazzamenti che nel complesso ricordavano appunto un tempio maya. Le facciate dei tre volumi superiori poi, anch’esse inclinate verso l’interno, accentuavano l’impressione della piramide.
Al centro delle tre facciate superiori erano collocate due grandi aperture circolari che davano all’intero edificio, come se ce ne fosse bisogno, un’aria sinistra. Ricordavano vagamente le orbite vuote di un teschio gigante, orbite dietro le quali dominava il buio più totale.
Ma non era finita lì!
Sul lato destro del tempio, distanti poche iarde e anch’esse addossate alla parete della grotta, si scorgevano delle piccole costruzioni in pietra, distribuite lungo il perimetro meridionale della caverna e disposte secondo un preciso schema geometrico. Erano una sorta di cubi costruiti con pietre posate a secco e privi di finestre, vi si poteva accedere all’interno soltanto attraverso delle strette aperture poste sui tetti piani.
L’intero scenario aveva tutta l’aria d’essere una specie di antico villaggio, probabilmente legato alla civiltà inca, raccolto attorno a un tempio dalle origini incerte.
In quei territori la cosa di per sé non era da considerarsi eccezionale, molti siti archeologici erano stati appena scoperti e altri lo sarebbero stati negli anni a venire.
Dunque, c’era un villaggio e un tempio a forma di piramide, poi c’era un lago sulla cui riva era posto un altare sacrificale. E tutto quanto racchiuso dentro un’immensa e buia caverna nelle viscere di una montagna. Ce n’era abbastanza per far precipitare le menti dei suoi scopritori nella confusione più totale.
Peraltro, Greenstone e compagni erano talmente rapiti e sconcertati da quella visione che non s’accorsero d’essere osservati a loro volta.
Erano rimasti in religioso silenzio per parecchi minuti, l’unico rumore era il crepitare del fuoco nel braciere, poi lo scozzese finalmente parlò: «Credevo d’essere preparato a tutto, ma questo non me l’aspettavo… Questa scoperta cambia i nostri piani…» si passò una mano sul volto e poi riprese, «Dobbiamo capire cos’è questo posto! Voi che ne dite Jacques?»
Il francese era sempre più pallido e sudava copiosamente, si schiarì un poco la voce prima di parlare, «Joseph, lasciatemi pensare… Dovremo esaminare bene tutta l’area, occorrerà disegnarla e prendere appunti. Cercare reperti che documentino le cause di questo insediamento… Ci vorrà del tempo.»
Sewell era pensieroso, continuava a osservare il tempio addossato alla parete di roccia, poi abbozzò una proposta: «Abbiamo il fuoco e abbiamo l’acqua, potremmo accamparci qua.»
«Questo posto non mi convince, Joseph! Come avete detto anche voi, ci sono tracce di qualcosa avvenuto non troppo tempo fa… Il sangue… e tutta questa legna per il fuoco, sicuramente è stata portata qua di recente.»
«Concordo con voi Jacques, ma non possiamo andarcene senza prima aver cercato di capire cosa abbiamo trovato… Siamo scienziati!»
Jacques Verdoux, seppure riluttante, dovette dargli ragione. Era vero: il credo di entrambi imponeva la ricerca della verità in ogni situazione, e quella scoperta era un’occasione troppo ghiotta per non farsi coinvolgere.
«In ogni caso staremo in guardia. Abbiamo le armi, se sarà necessario le useremo!» chiarì Sewell per rassicurarlo.
«Io non ho mai sparato Joseph.» confessò il francese.
«Non occorre che lo facciate Jacques, ci siamo già io e Juan per questo!» diede un’occhiata all’indio e aggiunse, «Dovremo comunque tornare al pozzo e aggiornare Pedro sulla nuova situazione. Lui ci calerà l’altro fucile, le provviste e quant’altro sarà necessario.»
Detto questo, Greenstone estrasse dal taschino l’orologio, un Waltham con le iniziali del padre incise sul coperchio d’acciaio placcato in oro, le lancette indicavano poco meno delle sei del pomeriggio.
«Se ci muoviamo adesso, quando saremo fuori sarà già buio… ma almeno arriveremo al pozzo dove potremo rifocillarci e trascorrere la notte senza problemi. Domattina torneremo quaggiù equipaggiati a dovere!»
Jacques e Juan annuirono, poi insieme a Sewell s’accinsero ad abbandonare il luogo della scoperta.
S’avviarono così nella direzione da cui erano venuti, non prima d’aver dato un ultimo sguardo a quelle misteriose pietre.
Il fuoco nel braciere continuò ad ardere per diverse ore dopo che i tre uomini se n’erano andati.
Due piccoli occhi obliqui rimasero a osservare quelle fiamme a lungo. Brillarono di luce riflessa fino a che l’ultima brace si spense facendo ripiombare tutto quanto nell’oscurità più assoluta.
Solo allora, un’ombra nell’ombra si mosse lentamente verso le acque del lago, vi s’immerse e scomparve nell’abisso.
Del reportage su Ferrara di Fabrizio Gatti, che ha destato scalpore e provocato la conseguente replica del sindaco, devo dire che ho trovato molto proficuo lo sforzo di raccontare ‘l’altra Ferrara’, cioé la parte più povera e a volte invisibile della città. Si tratta però di prenderne il buono – la prospettiva, alcuni dati – e lasciar perdere la retorica della disperazione e dell’infelicità. Questo a mio avviso sarebbe utile alla città per comprendersi.
Il giornalista ha infatti usato statistiche socio-economiche quali i dati sull’occupazione, la povertà, gli indici demografici, alcune cifre sull’assistenza sociale. Ha inoltre ricordato la presenza della mafia nigeriana, dello spaccio di droga e, in alcune aree della città come il Gad, la perdita del controllo del territorio da parte delle istituzioni. E per fortuna, bontà sua, ha dimenticato il tasto dolente dell’inquinamento.
La ricostruzione, dicevo, va salvata per farne un dibattito serio e anche per non lasciare l’argomento a una facile ironia o peggio relegarlo a monopolio e strumento di propaganda delle odierne e odiose destre xenofobe. I punti sollevati da Gatti esistono, sono urgenti e meritano attenzione. La risposta del Sindaco invece, soffermandosi sulla crescita del turismo, le nuove fermate dei veloci (e costosi) treni di Italo e Trenitalia, le nuove infrastrutture ecc., ha finito per ricordarmi un famoso film con Gene Wilder intitolato ‘Non guardarmi: non ti sento’. Insomma la sua mi è parsa una difesa d’ufficio dell’amministrazione piccata e tuttavia fuori fuoco poiché i treni veloci o le infrastrutture, le mostre, le piste ciclabili parlano di una Ferrara ampiamente visibile e pubblicizzata che poco ha a che fare con la parte povera e multietnica della città. Non credo fosse in discussione questo.
Come difesa d’ufficio, peraltro, sarebbe bastato incrociare qualche statistica nazionale per confutare i dati utilizzati da Gatti sull’impoverimento, sulla demografia, sull’immigrazione, e sottolineare come queste cifre riguardino dinamiche nazionali e internazionali contro cui nessuna amministrazione comunale ha colpe né può vantare soluzioni. Non è a Ferrara, ma in Italia che ci sono pochi nati. Non è a Ferrara, ma in Italia che la povertà relativa ha raddoppiato le sue percentuali. Non è a Ferrara, ma in Europa e nel mondo che le migrazioni stanno cambiando la realtà di interi continenti. È quindi Ferrara il simbolo di un periodo europeo e non il contrario. Anzi la retorica della disperazione, se paragonata alla realtà e ai numeri di altre aree del Paese, o del Mezzogiorno, dove risiedono la maggior parte delle famiglie povere italiane, risulta del tutto inappropriata.
Su questo però, ripeto, sarebbe utile a tutti discutere, spiegarsi, argomentare.
Tornando al reportage, ebbene i parametri valutativi usati dal giornalista non mettono in discussione di certo la ‘felicità di Ferrara’, bensì il suo benessere. È il binomio ‘benessere-felicità’ o quello ‘povertà relativa-disperazione’ ciò che contesto al giornalista, o meglio ai titoli sensazionalisti dell’articolo.
Allora è il caso di aggiungere altre prospettive al racconto della città e dire magari che, a dispetto di tante altre città padane, Ferrara non è infelice né disperata prima di tutto perché è ancora un luogo. È uno spazio vissuto che genera senso e relazioni umane, memoria, conoscenza e condivisione. Sono le relazioni simmetriche, la capacità di muoversi liberamente e partecipare, è la capacità di vivere la propria sfera privata per poi condividerla in una sfera pubblica che fanno di una città un luogo vivo (costo di un affitto o di una casa, mobilità, gratuità di eventi e servizi, ecc.).
Dunque, Ferrara è ancora un luogo e lo è proprio perché non è particolarmente ricca né industrializzata e non è ancora soffocata né snaturata dal turismo di massa o dalla diseguaglianza. Questi fattori, insieme agli impulsi positivi legati alla sua antica università, le hanno consentito di conservare il suo corpo, la sua forma, e di attirare costantemente nella sua orbita.
Certo, stiamo parlando di un’Italia tremendamente invecchiata e la felicità di Ferrara, va detto, non è eterna né scontata. Essa dipenderà dalle sue capacità residue di generare radicamento nei nuovi ferraresi (le statistiche demografiche restano inesorabili), di generare uguaglianza e di difendersi dal consumo del suolo, dalle speculazioni edilizie, dal proliferare di centri commerciali, dall’inquinamento, che pure ne hanno minacciato e continuano a minacciarne l’essenza.
Ebbene, vale la pena ricordare che una città che genera radicamento è l’antidoto migliore a qualsiasi tipo di fondamentalismo o fanatismo e le città della desolazione italiane sono proprio quelle industriali e postindustriali che vantano pil, cifre e dati più virtuosi. È lì che crescono i focolai d’odio, di rabbia e rancore dovuti allo sradicamento e alla fine delle comunità, ed è lì che nascono e attecchiscono le leghe e i Salvini.
In questa vicenda è chiaro che spetterà un ruolo importante alla nostra classe dirigente, la quale nel complesso, se confrontata al resto d’Italia, viene da diversi mandati positivi, e tuttavia dovrà nell’immediato futuro favorire la maggiore compartecipazione possibile tra la città dei poveri e quella dei ricchi, tra i nuovi e i vecchi ferraresi.
Insomma, Ferrara è anche l’altra città di cui il giornalista Gatti parla, e agire su di essa è un’occasione, forse l’unica, di rigenerazione, per creare nuovi, inediti equilibri.
Il fatto è che, purtroppo, – come la peste di Camus o la cecità di Saramago, – l’odio, la paura, l’isolamento degli italiani, lo stallo politico nazionale, la mancanza di idee e visioni precise del Paese, si propagano su e giù per lo stivale al pari di un morbo inarrestabile, rendendoci disperatamente inermi, soli, a volte miopi.
Un tempo era ‘delazione’, ‘spionaggio’, ‘denuncia anonima’, ‘calunnia’, ‘indagine segreta’. Oggi è diventato ‘dossieraggio’. Un termine semanticamente più soft nel tentativo di apparire politicamente corretti, anche se proprio di politica si tratta e sulla correttezza in politica non mettiamo la mano sul fuoco. E se accanto alle parole delatore e spia abbiamo introdotto il termine di nuovo conio ‘whistleblower’ (colui che soffia nel fischietto), non dimostriamo altro che l’antica prassi continua, anche se quest’ultimo dovrebbe essere un delatore a fin di bene, difensore degli apparati burocratici contro vessazioni psicologiche, illeciti e corruzione, una figura addirittura istituzionalizzata con tanto di legge recentissima.
Una storia lunga, quella dell’accusa anonima, perché la pratica della delazione associata inevitabilmente all’omertà e alla vigliaccheria è antica come l’uomo. Ricerca di giustizia o del consenso screditando l’avversario? C’è sempre una grande ambiguità, spesso una mistificazione, in questi comportamenti che tendono sempre al raggiungimento del potere in forme e modi così sottili e subdoli da spostare frequentemente il confine tra la correttezza etica e l’immoralità. Nonostante i mascheramenti o i tentativi di far apparire legittimo e nobile ciò che è deprecabile, la delazione rimane comunque un segno di stupidità morale, una lacuna interiore, indifferenza profonda verso l’umanità, un dito puntato impietosamente verso ciò che non si vuol capire, un liquidare sbrigativamente chi ci ostacola nei nostri propositi o ambizioni, annullando in tutto questo le relazioni umane.
“Una lince che gira sempre, con occhi che trapassano le muraglie ed esplorano gli abissi”, scrisse Giulio di Saint Felix in ‘L’ultima cena di Nerone’ (1837) e mai definizione più calzante fu scritta. Nella Roma antica, Tacito si scaglia contro i delatores e parla di un’arma politica a contenuto ricattatorio, molto diffusa nel Senato dove i senatori appaiono disposti a tutto per salvare la carriera. Nel periodo d’oro dell’Impero, vennero creati dei veri e propri apparati di intelligence affidati ai pretoriani e con l’Imperatore Tiberio la delazione raggiunse l’apice della sua nefasta efficienza. Egli fece uccidere stuoli di presunti traditori, ne fece arrestare i figli e stuprare le figlie, sulla base di confidenze prezzolate. Contro questo perverso costume tuonarono invece Costantino e Teodosio che proibirono severamente questa pratica, pena la riduzione in schiavitù o addirittura la pena capitale se il colpevole fosse alla terza delazione.
Le tristi pagine del Medioevo sono note a tutti e il delatore assunse in quest’epoca il ruolo del buon cattolico, ligio e premuroso nell’accusare sospettati di eresia, stregoneria e altro. Il sistema inquisitorio dei famigerati tribunali dell’Inquisizione era basato sulla delazione, il sospetto, il carcere preventivo, l’interrogatorio con tortura e il segreto processuale. Repressione e intolleranza segnano per sempre quelle pagine di Storia di oscurantismo, ignoranza e superstizione. Le comunità ebraiche furono particolarmente colpite dalla furia dell’Inquisizione e le popolazioni erano invitate a prestare attenzione a ogni segnale che potesse rivelare la pratica della religione ebraica: accensione di lampade o candele nuove il venerdì sera, cambio di biancheria e pulizie il sabato, astensione da certi cibi, digiuni in giorni diversi dal cristianesimo, mangiare il sabato cibo cucinato il giorno prima, uccisione di polli con il taglio della gola, dare ai bambini nomi dell’Antico Testamento. Nella Spagna del 1488, oltre 700 roghi nella sola Siviglia, cui vanno aggiunti ergastoli, disseppellimenti, roghi in effige, attraverso l’invito pressante e massiccio alla delazione. Della Repubblica di Venezia, famoso rimane il mascherone in bassorilievo sul Palazzo Ducale che raccoglieva al suo interno le delazioni che rivelassero chi occultava proventi da cariche e privilegi, la propria redditività ai fini fiscali.
Nell’Ottocento, sotto il dominio degli Austriaci in Italia, si istituzionalizzarono due forme di delazione: quella pubblica in cui il denunciante si esponeva di persona e quella segreta da parte dei vigilatori pubblici, tutelati nella loro veste di servizio. La delazione veniva vista come prevenzione al crimine, mentre quella riguardante gli aspetti etico-morali riguardanti la vita privata del cittadino non veniva vista di buon occhio. Per non parlare poi del ruolo e degli effetti della delazione in tempi più recenti, nelle grandi dittature del Novecento. Nella Russia staliniana la delazione caratterizzava la massima prova di patriottismo, la prova decisiva dell’attaccamento all’ideale comunista. Emblematico il caso del giovanissimo Pavel Morozov che denunciò il padre con l’accusa di nemico del partito e di aver protetto alcuni kulaki, i contadini che si erano opposti alla collettivizzazione finendo poi nei campi di lavoro del Gulag. Il ragazzo morì a bastonate, colpito dai parenti del padre e questa morte venne celebrata e esaltata dal regime elevandolo ad eroe. A questo fatto seguirono, tragico effetto domino, molte altre denunce. Lo scrittore Michail Bulgakov nei suoi ‘Racconti’ (1925) confiscati all’epoca dalla censura, ricorda il periodo di tenebre dominato dalla propaganda e dalla delazione e nel suo pessimismo la lancinante consapevolezza dell’impossibilità di creare un mondo nuovo su queste premesse. Durante il Nazismo e il Fascismo la delazione gioca un ruolo fondamentale nell’individuazione e persecuzione degli Ebrei. Il delatore poteva essere chiunque: il vicino di casa, il portiere, i familiari, il negoziante. Potevano essere anche quei falsi amici che per soldi estorcevano informazioni utili al regime o assoldati dal regime stesso. Delazione, il cancro dei totalitarismi. Molti delatori furono processati, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, come collaborazionisti. Esiste una blacklist dei delatori presso la Comunità Ebraica di Roma, che rimane a disposizione di studiosi e ricercatori, ricordando per sempre il sangue versato, l’immane sofferenza causata e il dolore delle generazioni a seguire che non potranno dimenticare. ‘La delazione’ di Roberto Cazzola (2009) è un romanzo incentrato sull’effetto e le conseguenze della delazione e sul senso della memoria. Ambientato nella Torino del 1944, racconta la storia d’amore tra l’interprete ebrea Selma Lavàn e l’ingengere Alfredo Dervilles, interrotta drammaticamente e improvvisamente da una denuncia che la individua come ebrea, intrappola e condanna Selma. La giovane viene strappata alla sua vita e condotta al campo di concentramento di Bergen Belsen in seguito alla delazione di una ambiziosa e sradicata diciassettenne vicina di casa. La domanda che percorre e aleggia nel romanzo è: perché Luigia Zonga ha denunciato Selma?
Perché? La strada della delazione è cosparsa di viltà, fragilità, bisogno di denaro, falsi ‘who is who’, ambizione, pretese politiche, mancanza di scrupoli, cinismo, falsi ideali e stupido zelo. Qualche rigurgito è rimasto anche oggi. La parola ‘dossieraggio’, accompagnata dall’esortazione da parte di qualche forza politica alla raccolta di informazioni su qualunque aspetto di vita pubblica e privata per bruciare l’avversario politico e rendere apparentemente il terreno più facile, non regge più. Non è questo il modo per chiedere pulizia, onestà e sani diritti per una buona governabilità, perché se così non fosse, pagine di roghi, processi e giustizia sommaria, menzogne e tradimenti non sarebbero serviti ad arrivare alla vera civiltà. Per dirla con lo scrittore Georges Bernanos: “ Il regime dei sospetti è anche il regime della delazione”. E questo non ci piace.
Onore a Luana Vecchi, una donna che ci ha insegnato il valore della partecipazione e guidato nelle battaglie a difesa dei diritti delle donne e dello stato sociale. E’ venuta a mancare ieri. Era una “storica” figura dell’Udi e della Cgil ferrarese, oltre che una cara amica. Sento il dovere di ricordare pubblicamente il suo valore. Luana ha portato avanti con grande coraggio, coerenza e competenza la difesa dei diritti delle donne, della salute e del lavoro in tutti i contesti in cui era prevista una partecipazione attiva dei cittadini e delle cittadine ferraresi.
Luana Vecchi durante una manifestazione sindacale
La ricordo quando ero ancora bambina e lei già donna adulta, sempre attiva, focosa, disponibile a lottare contro le discriminazioni, le ingiustizie sociali. Abitavamo in quel Borgo di San Luca dove vivevano molti personaggi che, come lei, giovane staffetta partigiana, avevano lottato contro il fascismo e noi giovani, però, lo eravamo venuti a sapere solo molti anni dopo la guerra. Per molti anni ho seguito una strada professionale diversa, pur sempre nella direzione della difesa dei diritti e soprattutto della partecipazione attiva alla vita pubblica, poi la condivisione di idee e principi ha fatto sì che percorressimo negli ultimi anni un comune cammino, fino ai giorni nostri.
Ci siamo ritrovate qualche anno fa nell’ambito dell’attività dell’Udi e sembrava che il tempo non fosse passato. Ho riscoperto il suo dinamismo e soprattutto la sua grande esperienza sorretta da un continuo e puntuale aggiornamento e formazione in diverse direzioni sia normative che sociali, oltre che una conoscenza approfondita delle istituzioni e della possibilità di contribuire, nei vari contesti pubblici, a discutere aspetti non sempre positivi sulle scelte fatte dalle istituzioni o dai sindacati, ma sempre disponibile a dare contributi costruttivi, stando “dentro” al sistema.
Sembrava che per lei il tempo non fosse passato: l’energia e la forza sprigionate a difesa dei diritti l’hanno portata ad avere una conoscenza così profonda dei temi civili, che ben pochi oggi sono in grado di avere. Non è un caso che abbia continuato, nonostante avversità di salute, a mantenere la sua forza per ricominciare sempre verso nuove battaglie, profondamente sostenuta dal valore della partecipazione alla vita civile; è stata un esempio per tutti noi e per ciò che potremmo ancora fare per cambiare le tante cose che non vanno.
La sua umiltà, la competenza e il controllo costante delle scelte fatte a nome e per conto delle cittadine e dei cittadini nel confronto diretto con le istituzioni, sono impresse nella vita stessa della città e molte donne e molti uomini lo possono confermare.
Come Udi abbiamo affrontato con la sua guida e il suo entusiasmo veri e propri studi e ricerche a livello di temi afferenti la salute delle donne, insomma era una forza inesauribile di risorse umane e professionali. Possiamo apertamente dire che è stata una delle protagoniste più attive della storia ferrarese non solo del movimento delle donne, ma della città.
Ancora negli ultimi suoi giorni di vita, lucida anche se dolorante, mi ha chiesto di portare avanti le tante cose che stavamo affrontando nei vari tavoli istituzionali. Le ho promesso che lo farò, anche se senza di lei non sarà la stessa cosa.
Credo che come me, tanti debbano ringraziarla, perché la sua testimonianza è un insegnamento di vita che vale la pena di essere vissuta.
Lavori nel mondo dell’arte e della cultura? Sei un musicista o un fotografo e vuoi dare valore alla tua professione?
Sabato 24 febbraio, dalle 15:30 alle 18:00 presso Spazio Marconi, in via Marconi 4 a Comacchio, si terrà il primo evento di presentazione della cooperativa Doc Servizi.
Doc Servizi è la cooperativa dei lavoratori dello spettacolo, dell’arte, della cultura. Con oltre 5.000 soci e 30 filiali sul territorio italiano, Doc Servizi unisce tutti coloro che condividono l’amore per l’arte, lo spettacolo, la cultura e la conoscenza.
Le persone che si rivolgono a noi per diventare soci, così come gli Enti e gli organizzatori che utilizzano i nostri servizi, hanno la certezza che ogni attività viene svolta in piena regola da professionisti esperti, nel modo economicamente più vantaggioso e nel rispetto dell’unicità di ogni specifica mansione, con la competenza, cortesia ed entusiasmo di chi vede la propria passione diventare lavoro.
I Valori di Doc Servizi: Passione, Onestà, Condivisione e Conoscenza
Insieme a Doc Servizi, musicisti, tecnici dello spettacolo, attori, grafici, fotografi, videomaker, web designer, social media manager, insegnanti e moltissimi altri lavoratori del settore dell’arte e della cultura hanno dato valore alla loro professione.
L’incontro è gratuito ed aperto a tutti gli interessati.
Programma dell’incontro
*** Quali sono le difficoltà, le opportunità e le prospettive per i professionisti della cultura? ***
*** Come si crea valore cooperando? ***
Programma:
SALUTO DI APERTURA
>> Chiara Bertelli – Legacoop Estense
INTERVENGONO
>> Antonello Piparo – Spazio Marconi
>> Francesca Tamascelli – Doc Servizi Ferrara
Per informazioni:
info@spaziomarconi.it
ferrara@docservizi.it
E così si è arrivati alla soglia degli 80. Numero scaramantico che tuttavia nel dormiveglia ci fa intristire se non fosse che la sublime Natalia Aspesi su ‘La Repubblica’ pubblica un commento il cui titolo e contenuto valgono un Perù come diceva la mia nonna millenni fa: “La grande bellezza di noi vecchi” in cui meditando sulle meravigliose possibilità che ci aspettano scrive: “essere vecchi può rendere invisibili. Però basta un bastone e anche il più corrucciato dei taxisti si precipita a fornire un gradino mobile e spingere dentro dal sedere, il corpo in difficoltà” Non occorre che l’amatissima Aspesi racconti della gentilezza dei taxisti avendone noi a Ferrara i migliori in assoluto che ti mettono la spesa dentro l’ascensore, che scambiano con te i progressi e regressi dei nostri pelosi che pur loro stanno raggiungendo età venerabili e che ti prestano libri e dischi e che ti sorridono affettuosamente ai concerti. Ma che ne è dei nostri ragazzi/e a cui per un tempo limitato potevi apparire un maestro? Quei settantenni che ora si vogliono appropriare del potere (?) cacciandoti poco elegantemente dai luoghi e dalle associazioni che avevi contribuito a creare e a difendere? Certo a vedere la nonna ballerina di Sanremo puoi congratularti con l’età che sembra inesistente o puoi piangere d’altra parte su altri ottantenni che firmano contratti con il popolo ‘itagliano’. Dunque i ragazzi settantenni o nel caso gli infanti tra i sessanta e i sessantacinque hanno un loro popolo che li ammira e li segue fatto di giovani che sembrerebbe affidino a loro il senso del tempo. Così mi consolo pensando che l’età incolmabile tra discente e docente, specie negli studi ‘umanitari’ come suona la scellerata gaffe di Mauro Gola della Confindustria di Cuneo (Chi vuole fare gli studi tecnici. Chi vuole fare gli studi economici. Chi vuole fare gli studi umanitari) si sta assottigliando a una manciata di tempo. Perciò m’affanno a scrivere festschrift ai miei valorosi discenti di un tempo che a loro volta sono supportati da altri allievi che li imbalsamano in una visione atemporale. Quando con poca eleganza la mia città pensò che era ora che mi ritirassi nel limbo dei senza tempo – un po’ rudemente – mi aspettavo che quella posizione venisse affidata a bambini/e cinquantenni. Macché! Tutto è tornato in mano ai settantenni che gioiosamente si affidano a questa nuova visione del mondo. Ma, scrive Natalia Aspesi spargendo balsamo sulla età dei vecchi “Commovente la scoperta di quanto i vecchi, in un tempo in cui si smania per prolungare una sfinita giovinezza, possano essere rasserenanti, fisicamente belli di una loro bellezza data proprio dagli anni; i capelli bianchi (illusione per chi scrive in quanto i capelli li perse già nella prima giovinezza) e la pancetta degli uomini, l’irrinunciabile vanità delle donne ben vestite e ben pettinate, con le loro vite di prima in altri luoghi, con altre persone, con altri dolori e speranze.” Sembrerebbe dunque che i seniori o senatori della vita pubblica fossero i pilastri su cui si fonda la società italiana; poi ci s’accorge che quei seniori o presunti tali peccano e di brutto. Non vorrei ritornare allo scandalo della grillineria 5 stelle che definitivamente ha insegnato (se il movimento assegnasse un ruolo all’insegnamento) quanto sa di sale salire le scale del potere. Come i conti che non tornano rinfacciati stupidamente da un Pd che dovrebbe a sua volta tacere. Cosi le polemicuzze della campagna elettorale rinfocolano una nostalgia di ottantenni seri che bacchettino gli scapestrati settantenni il cui compito sarebbe quello di farsi ascoltare dai quaranta-cinquantenni. In questo triste tempo, dove le violenze, le stragi, i femminicidi e gli squartamenti occupano sempre più le prime pagine, la nazione più potente del mondo e il suo presidente versano lacrime di coccodrillo non impedendo il mafioso e spaventoso uso disinvolto delle armi che si possono comprare come caramelle. Poi c’è un quarantatreenne Matteo che infuriandosi sempre di più vuol cacciare i migranti per proteggere gli ‘itagliani’ e paragona a bambola gonfiabile la rispettabile Boldrini. La campagna elettorale raggiunge abissi mai visti come la sceneggiata di B. alla scrivania riesumata (come lui) dall’attrezzeria di Vespa. O il salotto della Gruber i cui occhi esprimono la disperazione per non poter contenere le tesi inesorabilmente distorte dei candidati che le sfuggono dalle mani come serpenti. Un caro amico mi consiglia di ritirarmi dal diario in pubblico perché noi, gli ottantenni, non possiamo più commentare nulla. Il nostro sarebbe il tempo del passato che non sa né può costruire il futuro.
Ma ancora non mi rassegno per rispetto a quei ragazzi che forse pensano di non andare a votare in quanto sarebbe inutile.
E in questo caso, pur per nostra responsabilità, sbagliano in quanto votare deve far parte del loro diritto-dovere di vivere in una società.
Non era necessario attendere le iscrizioni on line tramite il sito del ministero “Scuola in chiaro” per scoprire che il nostro sistema formativo, ancorché inclusivo, è ancora classista. La stessa ripartizione in licei, istituti tecnici e professionali è per sua natura una macchina di selezione sociale, neppure tanto occulta, per cui non è il caso di inscenare la solita commedia all’italiana gridando allo scandalo.
La discriminazione non la compiono i dirigenti scolastici che descrivono il contesto economico-sociale della scuola che dirigono sulla base degli indicatori forniti dal Sistema nazionale di valutazione che sono appunto: provenienza socio-economica delle famiglie, la presenza di alunni stranieri, portatori di handicap, nomadi, ecc.
Servono per compilare il Rav, il Rapporto di Autovalutazione di ogni istituto scolastico, necessario a incrociare dati di contesto e risorse in modo da accompagnare i processi e verificare i risultati.
Per cui non si faccia gli ipocriti, fingendo di accorgersi solo ora che i licei classici nel nostro paese continuano ad essere la scuola delle élite sociali per censo e per cultura. Sarebbe più onesto chiedersi perché questo stato perdura, perché disabili, nomadi, stranieri e figli di famiglie economicamente disagiate non giungono a iscriversi ai vari licei Visconti, Doria, Parini e Falconieri.
Ci sono evidenti contraddizioni in tutto questo. Innanzitutto a partire dalla “Scuola in chiaro” che espone in vetrina l’istruzione come “prodotto” confezionato dalla scuola e “consumato” dallo studente, quasi si trattasse di un mercato dove le marche più blasonate offrono la merce migliore, salvo scoprire poi che per i tempi in cui vivranno i nostri giovani è pure avariata. Il persistere del liceo classico come fastidiosa sensazione di voler continuare a restaurare un mondo morente che si ritaglia la sua isola felice nel 6% di iscrizioni. In fine, è del tutto evidente, che il sistema formativo a monte del liceo seleziona anziché promuovere.
Ciò che c’è di realmente chiaro nella nostra scuola è che così com’è funziona poco e male, è poco efficace e incapace di ridurre le diseguaglianze all’interno del sistema.
Negli Stati Uniti d’America la Chan Zuckerberg Initiative di Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook, e di sua moglie Priscilla Chan, pediatra, investe milioni nell’istruzione pubblica per personalizzare insegnamento e apprendimento. Ogni bambino deve crescere in un mondo migliore, sostengono. Due sono le idee che guidano la Chan Zuckerberg: far progredire il potenziale umano e promuovere le pari opportunità. L’obiettivo è investire su quanto può essere grande ogni vita umana, assicurarsi che tutti abbiano accesso a queste opportunità indipendentemente dalle circostanze.
Questa è la forbice dei tempi, la distanza nel divario: l’ombra del miliardario benefattore che si stende come salvezza sui nostri sistemi formativi ancora d’altri tempi.
Le nostre vetrinette di scuole in chiaro, il nostro mercato degli open day di fronte a tutto ciò fanno sorridere, per non dire che producono tristezza, per la nostra ristrettezza mentale, per le nostre deliranti discussioni sullo smartphone sì, lo smartphone no a scuola.
Prima che arrivi anche da noi la Chan Zuckerberg Initiative, prima di passare dal liceo ginnasio al liceo facebook avremmo bisogno di spremere la materia grigia, di imparare a ripensare alla radice il nostro sistema scolastico, invece di fingere ogni volta di cadere dal pero.
Un sistema scuola che innanzitutto ha necessità di apprendere a funzionare insieme, come corpo di organi affiatati tra loro, a funzionare per un progetto condiviso da tutto il paese, un progetto che accompagni la vita di ogni singola ragazza e di ogni singolo ragazzo dal nido all’università, indipendentemente dalla condizione economica, dall’essere portatore di handicap, straniero, nomade o quant’altro. Una scuola aperta in una società aperta, dalla parte di ogni singola ragazza e di ogni singolo ragazzo.
La grande rivoluzione compiuta dalla tecnologia è quella di consentire a tutti di vivere in ambienti sempre più intelligenti, l’intelligenza ci accompagna ormai dappertutto con i suoi microprocessori, microcomputer, microchip. Questa intelligenza è una grande risorsa per essere noi stessi più intelligenti.
Si sa che un ambiente intelligente cresce l’intelligenza, crea le sinapsi e l’intelligenza si gioca nei primi anni della nostra infanzia.
La scuola in chiaro di cui abbiamo bisogno è una scuola capace di accogliere le nostre bambine e i nostri bambini e sviluppare la loro intelligenza, il pensiero, la mente, capace di offrire ambienti intelligenti ricchi di occasioni di apprendimento e di stimoli dai nidi alle superiori. Non importa se non tutti sapranno tradurre una versione di greco o di latino o risolvere un’equazione differenziale, la cosa che importa è che la cultura diventi per tutti familiare, non qualcosa da temere e da evitare, che ognuno familiarizzi con la propria intelligenza e con quella dell’ambiente che gli sta intorno. Un abito diffuso e quotidiano per tutti in modo che le giovani generazioni vivano immerse nella cultura, nutrendosene e respirandola fin da piccolissimi, e tutti possano decidere liberamente come approfondire i propri interessi e impiegare i propri talenti senza dover più scegliere tra l’angustia selezionatrice di licei, tecnici e professionali, ma tra luoghi di studio dove crescere la propria intelligenza e curare le proprie passioni.
Procedettero spediti nel largo cunicolo avvolto dalle tenebre che avevano già esplorato e superarono il punto in cui si erano imbattuti nella colonia di pipistrelli, anche se degli animali non c’era più traccia a parte il guano che ricopriva il terreno. Giunsero così al crocicchio in cui il giorno prima avevano deciso di fermarsi e di tornare indietro.
Davanti a loro si apriva uno slargo in cui si distingueva, nella luce tenue e tremolante delle lanterne, una serie di tre gallerie disposte a raggiera.
Greenstone si fermò, posò a terra la lanterna e indicò un punto imprecisato oltre il suo sguardo. «Ora dobbiamo decidere da che parte andare…» disse. Poi tirò fuori la bussola d’ottone dal taschino del giubbetto che portava sotto il pastrano, e fece la sua proposta: «Io direi di procedere nella direzione iniziale, e cioè verso est. L’ingresso della galleria a est mi sembra abbastanza ampio, se la sorte ci assiste è probabile che sia la via principale che porta sotto la montagna… Il regno di Alatapec!» Fece un accenno di sorriso e rivolse lo sguardo al francese, «Voi che ne pensate Jacques?»
«Penso che sia la scelta più sensata, non c’è motivo di cambiare direzione… Continuiamo a est e speriamo che questo dio della montagna oggi sia di buon umore!»
Decisa la direzione da prendere, Sewell estrasse la piccozza dallo zaino e fece un solco ben visibile sulla parete della galleria da cui erano provenuti perché servisse come segnale di riferimento per guidarli al ritorno, dopo di che i tre s’incamminarono nella nuova galleria.
Il terreno era molto accidentato e declinava verso il basso con una pendenza ancora più accentuata. La volta della galleria era fitta di stalattiti appuntite che lambivano le teste degli esploratori. Sewell, il primo della fila e il più alto dei tre, aveva non poche difficoltà a evitare di sbattere la fronte contro quei cunei di roccia che nella semioscurità apparivano all’improvviso. Fu forse proprio per questo che, tutto intento a controllare la parte alta del tunnel e ignorando completamente il vuoto che si apriva sotto di lui, cadde in una voragine!
Ruzzolò lungo una discesa ripida e ricoperta di pietrisco. I sassi lo accompagnarono nella caduta e ne attutirono i colpi ricevuti mentre impattava sul terreno. Ciò gli permise di raggiungere il fondo in una nuvola di polvere ma praticamente illeso.
Tentò subito di rialzarsi ma non vedeva nulla, solo il buio più totale. Quasi immediatamente giunse il suono delle voci dei compagni che, da qualche parte sopra di lui, gridavano il suo nome.
«Joseph! Joseph, mi sentite?… Rispondete, Joseph!»
«Sono quaggiù Jacques! Quaggiù… ma non so, non vedo nulla… Ho perduto la lanterna nella caduta!»
«Joseph, state bene?»
«Sono tutto intero… credo… a parte qualche graffio, direi che poteva andarmi peggio!»
«Va bene, ora veniamo a prendervi!»
Juan fece passare una corda attorno a una stalagmite posta a ridosso del buco dov’era precipitato Greenstone, la fissò con un nodo semplice, poi imbracò la fune alla vita del francese aiutandolo a calarsi giù. Jacques scese lentamente puntellando i piedi al ripido terreno franoso. Mentre con una mano si teneva assicurato alla fune, con l’altra impugnava la lanterna cercando di intravedere il fondo della discesa.
Quando fu giunto in basso trovò subito Sewell a riceverlo. In una manciata di secondi i due furono raggiunti dall’indio che nel frattempo aveva recuperato la lanterna dello scozzese che non si era danneggiata, la riaccese e gliela porse.
Greenstone si sistemò alla meglio, raccolse lo zaino e controllò che gli strumenti di lavoro al suo interno non si fossero rotti per la caduta. Fortunatamente era tutto a posto.
«Quando vi ho visto cadere ho pensato al peggio…» disse Jaques.
«Come vi ho detto, amico mio, quest’avventura mette tutte quante le nostre vite sullo stesso piano… ed è un piano assai traballante!» replicò lo scozzese che aveva ripreso il pieno controllo di sé. Probabilmente la caduta gli era servita per recuperare lo spirito e la consapevolezza che credeva d’aver smarrito. «Ho la sensazione che finché ci troveremo qua sotto non avrete tempo di preoccuparvi della vostra salute, preoccupatevi piuttosto di dove mettete i piedi… Avete visto cos’è successo a me, giusto?» aggiunse ironico.
«Concordo in pieno Joseph! Credo che almeno quaggiù la malattia mi darà tregua… Magari lascerà che sia un burrone o una belva affamata oppure una freccia avvelenata a finire il lavoro che ha iniziato… vedremo!» si schernì il francese.
«Bene Jacques! E’ così che vi voglio… Un inguaribile ottimista!» concluse Sewell con un mezzo sorriso velato d’amarezza.
A quel punto i tre uomini dovettero decidere se risalire e tornare indietro oppure proseguire l’esplorazione nonostante l’imprevisto della buca. Sewell sollevò la lanterna cercando d’illuminare più che poteva lo spazio attorno a sé. Ben presto si rese conto che erano scesi in un enorme antro di cui non era possibile calcolare l’ampiezza.
L’aria era ancora più fredda e umida, l’eco delle loro voci pareva confermare un grande spazio vuoto tutt’intorno, ma uno spazio reso invisibile da un implacabile muro di tenebre che solo in minima parte la luce delle lanterne riusciva a perforare.
«Ok, a questo punto, se siete d’accordo, direi di cercare di capire bene dove ci troviamo ora…» propose Sewell dando un’occhiata alla bussola, «la cosa più prudente è proseguire il cammino verso est, mantenendo l’ovest come riferimento per il ritorno. Ci faremo guidare dalla bussola e ogni dieci passi lasceremo un segno sul terreno per più sicurezza!»
Lasciarono la fune legata alla roccia in cima alla salita e ripresero il cammino verso l’ignoto.
la Stanley di Greenstone
Percorsero un centinaio di iarde senza incontrare alcun ostacolo, camminavano su una vasta distesa di roccia piana in gran parte ricoperta di pietre rotondeggianti di varie dimensioni.
I tre procedevano con cautela. Greenstone guidava il gruppo mantenendo alta l’attenzione davanti a sé per evitare altre sgradite sorprese. Juan lo seguiva agitando la sua lanterna per illuminare il più possibile lo spazio tutt’attorno. Infine Jacques Verdoux camminava dietro ai compagni e osservava con interesse i propri passi.
All’improvviso il francese s’arrestò.
Si chinò poggiando a terra la lanterna e iniziò a rovistare il terreno, afferrata una conchiglia andò a mostrarla a Greenstone. «Joseph, guardate che ho trovato!»
Greenstone guardò distrattamente l’oggetto nelle mani del francese e disse: «Jacques, la caverna è piena di fossili… È da quando siamo entrati che vedo trilobiti e ammoniti da ogni parte! Questa è materia vostra… pensavo che li aveste notati pure voi!»
L’orgoglio dell’esperto paleontologo non fu affatto scalfito dalle parole un po’ affrettate di Sewell. Il francese porse la conchiglia nelle mani dell’amico e chiarì: «È vero Joseph, la caverna è piena di fossili… Il fatto è che questa conchiglia non lo è!»
Il biologo osservò meglio il reperto, poi esclamò: «Diavolo, è vero! Questo non è un fossile…»
«Esatto!» l’interruppe il francese, «Questa conchiglia sembra sia stata appena raccolta dalla sabbia di qualche arenile, e ce ne sono altre come questa tutt’intorno!»
«Significa che qua sotto vivono o vivevano fino a poco tempo fa dei molluschi, ma soprattutto che fino a poco tempo fa in questo posto c’era l’acqua!» concluse Sewell.
«Direi proprio di sì, e lo conferma anche la morfologia del terreno. Avrete notato Joseph che le pietre sul terreno sembrano levigate e non abbiamo ancora visto l’ombra di una stalagmite da quando ci siamo calati quaggiù! Ho il sospetto che ci troviamo nel letto prosciugato di un lago sotterraneo!»
La voce di Juan irruppe tra i due scienziati, «Sir Joseph, Monsieur Verdoux, prego signori venite da questa parte… Il lago c’è ancora!»
All’appello dell’indio i due accorsero immediatamente.
Il giovane si trovava a una quindicina di iarde dai due e poco prima, mentre gli altri parlavano, s’era messo a perlustrare la zona scrutando nell’oscurità con la sua lanterna, almeno finché non intravide una vasta distesa liscia come uno specchio e ancor più nera del nero delle tenebre che ammantavano tutto il resto. Era la superficie assolutamente immobile di un lago la cui ampiezza, in quel momento, nessuno era in grado di determinare.
Tutti e tre rimasero in silenzio a osservare quelle acque immote e buie per diversi minuti.
Lo stupore e un vago sentimento mistico accomunò tutti: era forse proprio questo il regno di Alatapec? Il fantomatico e leggendario dio della montagna tanto caro agli incas?
Greenstone si stava convincendo che il mondo sotterraneo in cui si trovava fosse in realtà l’enorme guscio vuoto di una montagna cava. Un mondo in cui un’immensa distesa pianeggiante circondava un lago altrettanto immenso. Un mondo magari popolato da creature evolutesi nell’oscurità e quindi in grado di sopravvivere e riprodursi nella più totale assenza di luce. Era incredibile ma possibile, del resto gli indizi erano lì a dimostrarlo.
Juan si chinò immergendo le mani nell’acqua del lago, le unì catturando una manciata di liquido che portò alla bocca e bevve.
«Quest’acqua è gelata… ma è buona!» sentenziò un attimo dopo.
«Riempiamo le borracce… L’acqua del villaggio che ci ha passato Pedro l’altro giorno ha un saporaccio! Jacques, sono sicuro che almeno di sete non moriremo!» dichiarò euforico lo scozzese.
«Magari avvelenati!» insinuò Jacques, «Ho notato che qua attorno ci sono parecchie rocce di pirite e accanto ho visto dei cristalli di zolfo allo stato puro… C’è una discreta possibilità che queste acque siano contaminate!»
«Alludete all’acido solforico? Ma non si avverte nessun odore…»
Greenstone era pensieroso, in effetti i dubbi di Jacques erano più che giustificati. «Juan, come ti senti?» domandò preoccupato.
L’indio guardò l’acqua ai suoi piedi e si passò una mano sulla pancia, «Io sto bene, per me l’acqua è buona!»
«Se Juan sta bene e dice che l’acqua è buona, significa che probabilmente sono acque sulfuree con una bassa concentrazione di solfuri…» si affrettò a dire il francese, «non sono un chimico, però mi sembrava opportuno stare in guardia… Comunque non credo che possano esserci forme di vita in questo lago!»
«E le conchiglie?» obiettò Sewell.
«Non lo so, può darsi siano arrivate quaggiù dall’esterno.» rispose Jacques.
«Ma in che modo?» insistette lo scozzese.
«Professori, forse io lo so!» s’inserì ancora una volta Juan, «Tempo fa ho sentito uno al villaggio che raccontava che la gola di Valverde raccoglieva le acque di piena del Rio Angraves che scorre a nordovest, dalla parte opposta della vallata. Trent’anni fa poi, il governo ha deviato il corso del fiume per irrigare la piana di Oroya, può darsi che questo lago sia ciò che rimane dell’ultima piena dell’Angraves.»
«Giusto Juan! Ora sappiamo com’è finita l’acqua in questo posto! Resta il fatto che non abbiamo visto nessuna conchiglia percorrendo la gola fino alla grotta!» osservò il francese.
Sewell riguardò con attenzione la conchiglia che aveva ancora in mano: era il guscio vuoto di una chiocciola. Era in parte scolorito ma restavano le tracce del suo colore originario, un giallo intenso ornato da striature longitudinali di color marrone. «Conosco solo due tipi di molluschi capaci di galleggiare e di farsi trascinare dalla corrente, uno lo escluderei perché vive nell’oceano, l’altro invece credo proprio sia il proprietario di questo guscio!» spiegò, «Si tratta sicuramente di un’ampullaria! In queste zone i fiumi e i laghi ne sono pieni… La forza della corrente deve averle portate sin qua e qua sono rimaste. Ecco tutto!»
Greenstone osservava il fragile guscio che aveva in mano e pensò che quella doveva essere la spiegazione più logica, anche Jacques ne sembrò convinto.
ampullaria
Rimaneva il fatto che a quel punto bisognava decidere quale direzione prendere, dato che il lago sbarrava loro la strada obbliganodoli a scegliere se andare a sinistra o a destra.
Dopo una breve consultazione, i due scienziati concordarono di proseguire il cammino scegliendo la destra, cioè percorrendo il bordo del lago che, secondo la bussola, si estendeva verso sud.
Il silenzio era totale, l’aria era fredda e pesante. Si sentiva una strana brezza, appena percepibile e a sprazzi, come se da qualche parte in quel luogo di tenebre qualcosa smuovesse l’aria creando dei minuscoli vortici che per brevi tratti investivano i tre esploratori.
Forse quell’ambiente sotterraneo in cui si stavano aggirando era assai più vasto di quanto potessero immaginare, tant’è che la sensazione generale non era affatto claustrofobica, semmai l’esatto contrario.
Per un breve momento Greenstone credette che, alzando lo sguardo sopra la sua testa, avrebbe visto apparire dal buio più totale il bagliore di qualche stella. Prova indiscutibile di non trovarsi più rinchiusi nelle viscere profonde di una montagna, ma in una landa a cielo aperto oscurata da una notte senza luna.
Ma non era affatto così, e Sewell lo sapeva bene. Entro breve avrebbe dovuto decidere di tornare indietro e uscire da lì. La situazione ambientale e soprattutto le loro condizioni fisiche non consentivano ai tre uomini di poter resistere in quel luogo ancora per molto.
Camminavano con passo regolare sul bordo di quell’immenso bacino sotterraneo permeato di mistero. Lo specchio d’acqua alla loro sinistra era assolutamente immobile e silenzioso, tanto che pareva fosse una superficie solida e compatta, un’enorme lastra nera translucida che inghiottiva la debole luce delle lanterne celando tutto ciò che giaceva nelle sue profondità.
Greenstone procedeva in testa al gruppo, gli altri lo seguivano in fila indiana distanziati di due passi l’uno dall’altro. Mentre lo scozzese guardava avanti, Verdoux, che lo seguiva immediatamente dietro, continuava a indugiare lo sguardo in basso cercando di cogliere qualche altro particolare del terreno. Il giovane indio chiudeva la fila e camminava fissando con ostinazione la superficie del lago che, dal primo momento in cui l’aveva scoperto, esercitava su di lui una profonda attrazione.
D’un tratto lo scozzese si fermò, posò la lanterna ai suoi piedi e imbracciò il fucile come aveva già fatto il giorno prima.
Indicò in avanti, puntando il fucile come per prender la mira, e disse: «Credo che davanti a noi ci sia qualcosa di strano, guardate anche voi!»
Gli altri due si portarono al fianco dello scozzese e si misero a scrutare lo spazio di fronte a loro, la luce delle lanterne a malapena rivelò delle sagome insolite poste a una trentina di passi sulla loro direzione di marcia. Sebbene a quella distanza fossero poco più che delle ombre avvolte nel buio, s’intuiva dai loro contorni una forma tutt’altro che naturale.
Dopo poco il mistero fu risolto: i tre uomini percorsero con estrema cautela la poca distanza che li separava da quelle ombre e, quando finalmente le loro lanterne svelarono con chiarezza ciò che li attendeva, rimasero sbalorditi!
L’oscura morte di Pamela e il raid fascista ci raccontano il malessere degli italiani, la cattiva coscienza della politica, il voyerismo dell’informazione.
Macerata 1: Uno, anzi due fascismi
Si può essere più fascista dei fascisti? Si direbbe proprio di sì.
Forza Nuova ha un conto aperto con i cugini di Casa Pound. In questi ultimi anni la storica formazione estremista, che evidentemente si ritiene la legittima depositaria di camicia nera e saluto romano, si è sentita ‘scavalcata a destra’ dai movimentisti di Casa Pound, decisamente più moderni, molto più presenti sul territorio – non solo a Ostia e dintorni – e molto più forti, più organizzati.
Così mentre Casa Pound – che un’Italia distratta (distratta?) ha permesso di presentarsi alle prossime elezioni – si permette il lusso di prendere le distanze dal pistolero vendicatore della razza bianca, Forza Nuova sfila per le strade di Macerata.
Ma la manifestazione era autorizzata? Certo che no, ma una quarantina di militanti di Forza Nuova ci hanno provato lo stesso. Erano in pochi, ma ce l’hanno fatta, in barba a Casa Pound, alla questura e alla decenza costituzionale. E visto che chi doveva impedire la marcia fascista non ha potuto o voluto impedirla, un gruppo dell’area dei Centri Sociali e di Autonomia hanno organizzato una contromarcia. Da qui gli inevitabili scontri, tra i manifestanti e i manifestanti e le forze dell’ordine.
Dopo gli scontri è arrivato il nuovo, rigoroso, invalicabile divieto di manifestazioni pubbliche nella città di Macerata. Divieto per tutti, senza distinzioni: per chi vuole solidarizzare verso gli assalitori, come i gruppi, i comitati e le associazioni chi vogliono marciare a fianco delle vittime.
Da questa presunta decisione salomonica – ché, come noto, il vero Salomone diceva per scherzo ed era assai più saggio – verrà tutto il contrario della calma sociale. Impedire di scendere in piazza a coloro che vogliono manifestare per la democrazia, contro la violenza e per difendere i diritti degli immigrati, dei più deboli, dei senza diritti, porterà a nuova tensione e a nuovi scontri. (Articolo redatto prima del corteo, ndr)
Macerata 2 : ma di chi è la colpa?
Tutti gli altri, cioè il 90 e più per cento delle forze politiche, ha deciso che a Macerata non andrà a manifestare. Non per questo hanno seppellito le asce di guerra. Fra tre settimane si vota e la polemica non si placa.
Naturalmente tutti condannano il raid razzista, a parte i ma… Salvini attacca: l’Islam è incostituzionale e tutta la colpa è del Pd, del governo e della “invasione di migranti” che crea disagio e scontro sociale! Risponde Renzi: è la Lega che pesca nel torbido, scatena la guerra tra i poveri ed è la responsabile ultima del clima da far west!
Eppure, mai come questa volta le condanne e le accuse incrociate non riescono a chiudere la partita, anzi, lasciano a noi spettatori molta confusione e più di un dubbio. Mai come ora il reciproco rimpallo delle responsabilità, come pure gli impegni solenni a risolvere il problema alla radice non sono credibili, non riescono a convincerci della giustezza di questa o quella soluzione.
Il batti e ribatti, tutto in proiezione elettorale, tra i due Matteo, sembra in realtà nascondere un generale imbarazzo, un segretissimo senso di impotenza. Che non riguarda solo Lega e Partito Democratico, ma tutti i partiti e tutta la classe politica italiana.
E’ difficile infatti credere alle ricette proposte da una parte e dall’altra. Gli accordi e i soldi alla Libia e il foglio di via alle Ong umanitarie del prefetto di ferro Minniti? I poliziotti di quartiere e i militari a presidiare le strade invocati da Berlusconi? Le ‘deportazioni di massa’ proposte dalla Lega e Fratelli d’Italia? Non si tratta solo di strade sbagliate e illiberali (anche l’ONU ha bocciato il decreto Minniti), ma di soluzioni irrealistiche, di inutili prove muscolari che mancano l’obiettivo e rischiano di peggiorare i problemi.
La battaglia sulle cifre degli sbarchi ci ha accompagnato negli ultimi sei mesi e tutti i partiti sembrano contenti di aver ridotto i flussi e di aver pagato la Libia per rinchiudere migliaia di disperati nei lager d’oltremare. Ma senza una vera soluzione alla disperazione africana, gli sbarchi continueranno. Arriveranno da nuovi porti, troveranno nuovi approdi e nessun decreto riuscirà a fermarli.
Ma c’è molto altro che sono in pochi a voler considerare. Al di là della continua emergenza profughi, ci sono i milioni di stranieri che già vivono nel nostro Paese – proprio come quelli che camminavano per Macerata e che si sono beccati una pallottola – quelli arrivati da anni e da anni “in attesa di asilo”, quelli costretti a vivere ai margini, senza diritti, senza la prospettiva di una vita dignitosa.
Se vogliamo la pace sociale, promuovere una serena convivenza, combattere la marginalità e il degrado sociale, togliere spazio e occasioni all’estremismo e all’odio razziale, abbiamo una sola strada da percorrere. Affrontare seriamente non solo il problema dell’accoglienza degli ultimi arrivati – lo stiamo facendo troppo poco e spesso male – ma riformare in toto la nostra legislazione e le nostre norme sull’immigrazione.
La chiusura all’immigrazione legale, le strade sbarrate verso il diritto d’asilo, la mancata approvazione della Ius soli, hanno prodotto in ogni città una ‘Italia parallela’, una società parallela di diseredati, figli di un dio minore. E come possiamo offrire agli italiani – a tutti – una convivenza sicura e serena, se condanniamo i nuovi arrivati a una esistenza fuori dalla legalità?
E’ lo stesso ‘sistema italiano’, la porta in faccia alla immigrazione legale e al diritto di cittadinanza, a costringere gli immigrati a essere fuorilegge, a vivere ai margini e nelle periferie, a subire per primi il ricatto del lavoro nero e sottopagato, a diventare, in alcuni casi, manovalanza a costo zero per i mercanti della droga.
Macerata 3 : contro l’Italia guardona
“Ultime nuove sul delitto di Macerata!”
Sì perché, se la politica si interroga o finge di interrogarsi sul raid fascista, televisioni e social preferiscono occuparsi della povera Pamela Mastropietro, solo diciott’anni per morire, essere fatta a pezzi e impacchettata in due trolley.
Anch’io mi auguro che venga fatta luce, sia resa giustizia, trovati colpevoli, complici e tutto il resto. In Italia non accade troppo spesso. Ma confesso che non ne posso proprio più di Chi l’ha visto, Quarto grado e trasmissioni consimili.
Quando i mulini erano bianchi (Barilla), o al tempo delle “Porte aperte” (Sciascia), quando insomma a comandare c’era il “Predappiofesso”, il “Batrace stivaluto” – come Carlo Emilio Gadda scriveva di Mussolini – la cronaca nera non esisteva proprio. Niente furti, niente rapine, niente stupri, omicidi, delitti passionali. Niente sangue sui giornali controllati dal regime.
Ovviamente cosi non era, perché Homo homini lupus vigeva ben prima del Ventennio; nessun contratto sociale è mai riuscito a metterlo in gabbia. La censura fascista aveva solo sotterrato, reso invisibili i comportamenti e gli atti criminali. Così, appena finita la seconda guerra, la stampa libera si buttò a pesce su Rina Fort, subito soprannominata “la belva di San Gregorio”. Il Corriere della Sera del 1° dicembre 1946 titolava in grassetto: “Massacrati in via San Gregorio una madre coi tre figlioletti”.
Con Rina Fort – su di lei, sul processo, fino alla sua oscura uscita di prigione per fine pena, ha scritto pagine memorabili Dino Buzzati – nasce (ri-nasce) la cronaca nera nei media italiani. Da allora, grazie alla pertinace attenzione di stampa e televisione, ogni anno può essere intitolato a un grande delitto: una sorta di storia d’Italia attraverso la cronaca criminale. Il caso Montesi (1953), il mistero di via Veneto (1963), Milena Sutter (1971), il massacro del Circeo (1975), il mostro di Firenze (1968-1985), il delitto di via Carlo Poma (1990), quello dell’Olgiata (1991), quello dell’imprenditore Gucci (1995), le bestie di satana (1998- 2004), l’infanticidio di Cogne (2002), l’omicidio di Meredith Kercher (2007), la strage di Erba (2006), il delitto di Avetrana e quello di Yara Gambirasio (2010).
Ogni “efferato fatto di sangue” – ne tralascio volutamente almeno una trentina – è passato agli annali e alla rete con un nome evocativo, un inconfondibile marchio di fabbrica. Intanto, la passione per il delitto, la vivisezione televisiva del dna, la chiacchiera (idiota) tra improbabili esperti, avvocati rampanti e ‘giornalisti criminalisti’ ha letteralmente invaso i palinsesti.
Il prodotto evidentemente funziona. Le storie si assomigliano tutte ma con un po’ di fiction, qualche modellino, e pugnali, rivoltelle e provette lo spettacolo e gli ascolti sono assicurati. Non c’è pietà per Sarah Scazzi o Pamela Mastropietro, il loro destino è morire altre cento volte per il piacere di un’Italia trattata come un popolo di guardoni.
Davvero ci meritiamo questa vivisezione morbosa e criminale, questa becera istigazione al voyerismo? E cosa c’entra questo commercio con il dovere di cronaca e la libertà di informazione?
Hanno deciso di non mandare in onda le teste mozzate dall’Isis. Giusto, ma date un taglio, una regola, un minimo di misura, un confine anche a questo stillicidio di sangue mediatico. Non per dar ragione alla censura, non per tornare al Ventennio, ma per minimo di buongusto. E per chi, dopo il sangue, dopo l’orrore, ha diritto a un po’ di riposo.
Gentile Presidente Gola*,
Le scrivo questa lettera dopo aver letto la Sua, dedicata ai ragazzi del cuneese, che quest’anno insieme ai genitori dovranno fare una prima grande scelta e cioè quella riferita alla scuola superiore.
Le scrivo questa mia piccola riflessione, a margine di tutto ciò che i giornali hanno detto. Io concordo con Lei. Ecco perché.
Giustamente fa notare che il mondo degli ideali, dei sogni, dovrà scontrarsi con la cruda realtà. Mai cosa fu più azzeccata. In questo mondo globalizzato, sognare fa in qualche modo perdere del tempo, tempo che sta diventando una merce preziosa e molto costosa. Lo saprà bene Lei.
In questo pianeta, in questo sistema capitalistico e liberale, un ragazzo deve essere subito catapultato in quella che è la vita vera: sacrificio, duro lavoro, basse aspettative. Perché l’invito che Lei fa, giustamente, non è quello di essere ambiziosi, di voler osare un passo in più, non è quello di puntare in alto. No. Il suo è un chiaro monito a rimanere con i piedi a terra, magari anche con lo sguardo chino.
Non me ne voglia chi, per aspirazione personale, vorrà fare consapevolmente tale percorso professionalizzante: ha tutta la mia stima.
La mia lettera è rivolta, oltre che a Lei, a quella fetta di indecisi o, peggio ancora, sognatori. A chi, nel suo piccolo, vorrebbe cambiare le cose. A chi, nonostante tutto, nonostante la crisi, nonostante la consapevolezza magari di un futuro difficile, vorrebbe fare una semplice cosa: studiare.
Lei ha ragione, signor Presidente, la vita è fatta di cruda realtà, e la realtà dei fatti sta anche in questo, nel dover tagliare le ali prima che spicchino il volo perché, lo si sa, se poi si cade ci si può far male.
E’ di gran lunga preferibile fermare subito questi sognatori, questi ‘Icaro’ Che vorrebbero lanciarsi in questo volo.
Meglio far capire subito come va il mondo: c’è chi potrà permetterselo, ma non sei tu. Meglio abituare subito chi ha un ideale, un desiderio, a far passare in fretta tali aspettative e appiattirsi in un globo sempre più diviso tra chi può e chi non può.
Io, caro Presidente, non la conosco, ma sono certo che anche a Lei, agli albori della Sua illuminante carriera, avranno fatto lo stesso e identico discorso, sbattendoLe in faccia questa crudele vita.
Sono certo, pur non sapendolo, che se ha figli avrà fatto loro imparare a memoria le Sue lapidarie parole sulla cruda realtà della vita.
Sono certo, infine, che prima o poi la realtà dei fatti Le darà ragione.
Nel frattempo mi perdonerà se io, come tanti altri, vorrò continuare a sognare.
Carnevale in filastrocca,
con la maschera sulla bocca,
con la maschera sugli occhi,
con le toppe sui ginocchi:
sono le toppe d’Arlecchino,
vestito di carta, poverino.
Pulcinella è grosso e bianco,
e Pierrot fa il saltimbanco.
Pantalon dei Bisognosi
“Colombina,” dice, “mi sposi?”
Gianduia lecca un cioccolatino
e non ne da niente a Meneghino,
mentre Gioppino col suo randello
mena botte a Stenterello.
Per fortuna il dottor Balanzone
gli fa una bella medicazione,
poi lo consola: “È Carnevale,
e ogni scherzo per oggi vale”. (Gianni Rodari)
Reportage dal Carnevale di Venezia di Valerio Pazzi e Emanuele Selvatici. Clicca sulle immagini per ingrandirle.
La mattina successiva Juan era già al lavoro quando i due esploratori si svegliarono. Nella gola rocciosa l’aria era particolarmente fredda e umida, e i raggi del sole avrebbero impiegato ancora qualche ora prima di lambire il fondo del pozzo. Fu necessario buttare altra legna sul fuoco per mantenere il bivacco al caldo. La legna però, inumidita durante le ore notturne e una volta a contatto delle braci, produsse un fumo denso e lattiginoso che invase tutto l’emiciclo e che non ne voleva sapere di disperdersi verso l’alto. Era un fumo pesante e intriso di vapore che rese l’aria del pozzo irrespirabile. I tre furono costretti a ripararsi in un anfratto dell’imboccatura del tunnel che conduceva alle grotte e lì attesero che il fumo si diradasse.
Finalmente le fiamme iniziarono a crepitare e il fuoco riprese vigore. La legna, ormai completamente asciutta, cominciò ad ardere illuminando e riscaldando le pareti di roccia circostanti. Ora, nonostante nell’aria vi fosse ancora l’odore acre del legno carbonizzato, il fumo era ridotto a una colonna verticale e rarefatta che puntava velocemente verso l’alto.
Greenstone e gli altri poterono così risistemarsi attorno al fuoco.
Stava iniziando il terzo giorno da quando i membri della spedizione avevano lasciato il villaggio, e fino a quel momento tutti quanti avevano sostenuto sforzi fisici ben superiori a quelli di un qualunque borghese di Londra o Parigi, certamente più abituato alle rassicuranti comodità della vita di città.
Soprattutto loro, i tre scesi nella gola, avevano dovuto subire ogni genere di avversità in un ambiente quanto mai ostile. Un luogo che in quel breve lasso di tempo aveva già palesato buona parte delle difficoltà che di lì a poco avrebbero dovuto affrontare.
Tutto questo si leggeva, manco a dirlo, sul viso stravolto di Jacques Verdoux, che si sforzava di nascondere all’amico scozzese le sue ormai pessime condizioni di salute.
«Jacques come vi sentite? Non mentitemi, lo vedo che non state bene… Se siete mio amico dovete dirmi la verità!» chiese Sewell preoccupato.
«Ma no, che dite! Amico mio, sono solo molto stanco… Queste ultime giornate movimentate mi hanno dato del filo da torcere… Vedrete che mi riprenderò!» s’affrettò a garantire il paleontologo, ostentando una finta sicurezza.
Sewell fissò Verdoux negli occhi. Quest’ultimo accennò un mezzo sorriso imbarazzato e distolse subito lo sguardo. Poi, frugando nella sua borsa di cuoio, estrasse una bottiglietta contenente un liquido verde smeraldo e ne bevve due sorsate.
A quel punto Sewell parlò di nuovo: «Diavolo d’un francese! Nascondete dell’assenzio, ve lo portate appresso in mezzo alla giungla… e non l’offrite nemmeno ad un amico?»
Jacques Verdoux non colse il tono ironico dello scozzese.
«Vedete Joseph, questo non è assenzio… È un preparato di un mio vecchio amico medico, mi serve per curare una dannata ulcera che mi tormenta da parecchi mesi, tutto qui… E poi ha un saporaccio!»
L’espressione di Sewell si fece seria. «Caro Jacques, dimenticate chi avete di fronte? Anche se vado in giro per il mondo in cerca di strani animali sono pur sempre un biologo. Mio padre, come ben sapete, era farmacista… io sono cresciuto tra provette e alambicchi… Insomma dovreste saperlo! I distillati non hanno segreti per me e quello è assenzio… e dall’aroma direi di ottima qualità!»
Sewell fece una pausa aspettandosi un’obiezione del francese che invece rimase ammutolito, poi continuò: «Ieri sera vi eravate addormentato da poco e dalla vostra borsa stava per cadere quel flacone da cui avete appena bevuto, così l’ho raccolto e ho annusato il suo contenuto… Absinthium non c’è dubbio! E capisco anche perché lo bevete di nascosto… Forse per via del laudano che ne è disciolto? Siate sincero con me Jacques, da quanto tempo assumete laudano?»
Verdoux si rese conto che era inutile continuare a nascondere la verità all’amico, non gli rimase che ammettere la sua dipendenza dal laudano. Ma lo fece in modo inaspettato.
«Sto morendo Joseph! Il mio sangue è malato… Ho un cancro! Già un anno fa i medici mi avevano dato pochi mesi di vita, quindi il mio tempo è quasi scaduto… Quando mi parlaste del vostro viaggio e mi diceste che probabilmente sarebbe stato l’ultimo. Quando mi offriste di unirmi a voi… Ebbene in quel momento sentii che avrei potuto dare un senso a quel poco che ancora mi restava da vivere. Non avrei aspettato passivamente la morte, le sarei corso incontro a testa alta in un’impresa che sarebbe stata ricordata anche dopo di me! Il laudano serve solo ad alleviare il dolore, niente di più.»
La sorpresa di Sewell fu evidente e la sua reazione fu istintiva. «Diavolo Jacques! Avreste dovuto dirmelo, io avrei capito… Invece mi avete ingannato! Mi avete nascosto la verità e ora la vostra condizione manderà all’aria l’intera missione! Dovrò portarvi a Lima perché qualche dottore possa prendersi cura di voi… Eravamo a un passo… e non avrò più un’altra occasione!»
«Joseph, non me ne vogliate… Io non tornerò indietro! Ho deciso che rimarrò qui e lo farò con o senza il vostro permesso!»
Il volto del francese appariva più disteso, aver nascosto la verità per tutto quel tempo era stato un fardello troppo pesante. Finalmente se n’era liberato e ciò gli permise di parlare all’amico con franchezza: «Il mio viaggio qui in Perù è un viaggio di sola andata. Sapevo che non avrei avuto un’altra opportunità per vivere un’avventura come questa… Joseph, vi ho nascosto la verità è vero! Ma ho già rimediato…»
«Che intendete dire?»
«Come ben sapete, a Parigi ho una buona reputazione. Ho speso tutta la mia vita dedicandola al Centro di Paleontologia, e il Museo Verdoux mi ha dato tante soddisfazioni e un discreto guadagno. Sono un uomo ricco, sapete bene anche questo… E sapete che ho solo e sempre avuto il mio lavoro. Non ho famiglia, quindi nessuno che possa rivendicare alcunché dopo la mia morte. Prima di partire ho dato incarico a un mio legale di fiducia di trasferire tutte le mie sostanze al vostro Dipartimento di Ricerca di Cambridge, con il vincolo che foste voi l’unico amministratore nonché beneficiario!» Dopo un accenno di sorriso il francese continuò: «Inutile dire che, comunque vadano le cose quaggiù, il vostro rettore, Mr. Hackett, vi accoglierà a braccia aperte quando ritornerete. E anche se questa missione non dovesse dare i risultati sperati avrete abbastanza fondi per finanziarne altre a vostro nome… Comunque sono sicuro che questa spedizione sarà un successo. Lo sento!»
Sewell rimase in silenzio. Le parole del francese avevano lasciato un solco profondo nel suo animo. Un misto di collera, imbarazzo, riconoscenza, ma soprattutto una profonda tristezza lo prostrarono rivelando il lato più nascosto e sensibile del suo carattere. «Jacques, io non so, non so che dire… Non dovevate… Non posso permettere che moriate quaggiù, lontano dalla vostra casa, dalla gente che ha stima di voi…»
«Di stima mi basta la vostra, amico mio… sempre che ne proviate ancora…» s’affrettò a dire il paleontologo, «Ad ogni modo non sono ancora morto mi pare, mi reggo ancora in piedi e sento che aver vuotato il sacco mi ha fatto bene direi… Quando arriverà il mio momento sarete il primo a saperlo. Intanto che ne dite di spiegare a me e a Juan cosa avreste deciso di fare per oggi?»
«E’ difficile adesso… Lasciatemi un po’ di tempo per riordinare le idee. Siete un vecchio pazzo testardo! Però siete anche l’amico migliore che potessi incontrare…»
Sewell si girò e si allontanò, non voleva che l’amico s’accorgesse del subbuglio di emozioni che stavano mettendo a dura prova il suo abituale autocontrollo. Camminò fino all’ingresso della volta arborea e si fermò a riflettere. Guardava dritto verso il fondo del tunnel per scorgere gli ostacoli che avrebbero dovuto superare di lì a poco, ma la vista si era offuscata. Fu allora che con una mano si asciugò le lacrime.
Alle dieci e mezzo del mattino i tre uomini si avviarono nel tunnel della gola diretti alla grotta principale dell’enorme complesso sotterraneo di Arauna. Si erano equipaggiati a dovere: indossavano giacconi di tela grossa trattata con cera d’api e olio di lino per renderla impermeabile. Sotto i giacconi delle maglie di alpaca li avrebbero tenuti al caldo, mentre come attrezzature si portarono corde, picconi, strumenti per la raccolta di eventuali reperti e le indispensabili lanterne.
Greenstone fu l’unico a portarsi un’arma da fuoco: il suo Winchester 1876. Juan invece aveva con sé un Bowie da caccia che, anche se lo considerava un semplice attrezzo da lavoro, nelle sue mani poteva diventare un’arma micidiale.
Poco prima l’indio aveva udito le parole dei due scienziati standosene in disparte, in fondo lui era lì unicamente per svolgere le mansioni per cui era stato assunto. Durante il cammino tuttavia, quando si trovò ad affiancare lo scozzese, sentì il bisogno di dire qualcosa: «Sir Joseph, non preoccupatevi per Monsieur Verdoux. La forza di volontà può fare miracoli, ed egli vuole continuare la missione… Non si arrenderà facilmente! E poi lo terrò d’occhio, quindi state tranquillo!»
Sewell fece un cenno d’assenso senza dire nulla, lo sguardo fisso in avanti esprimeva tutto il suo disagio.
Greenstone era un uomo ancora giovane. Aveva compiuto da poco trentasei anni, ma aveva vissuto una tale quantità di esperienze in giro per il mondo che si era ormai temprato ad affrontare e superare ogni tipo di avversità, o quasi. Era abituato a valutare e risolvere le situazioni accorpando tutto sotto il suo esclusivo controllo. Non si fidava granché del prossimo e fino a quel momento i fatti gli avevano dato ragione.
Ma quella mattina, la confessione dell’amico l’aveva spiazzato.
Era successo tutto all’improvviso e in uno dei momenti forse più delicati dell’intera spedizione. Si rendeva conto che la situazione non era più sotto il suo controllo, anzi. La morte dell’amico era dietro l’angolo e non poteva farci nulla. Non c’era un nemico da cui difendersi, non c’era una scappatoia al destino, era soltanto questione di tempo.
Per uno come lui era una sensazione d’impotenza quasi insopportabile. Lo scopo stesso della missione che l’aveva portato fin lì rischiava di finire in secondo piano.
Dopo la confessione di Verdoux i due scienziati non si erano più scambiati una parola. Il cammino procedeva di buon passo e Greenstone aveva impartito le istruzioni per l’esplorazione della grotta a voce alta, evitando di guardare in faccia i due compagni. Il suo disagio era evidente, ma non riuscì a trovare nessun modo per superarlo se non quello di rinchiudersi in un silenzio meditabondo. Jacques Verdoux, dal canto suo, si era tenuto in coda al gruppo limitandosi a osservare l’ambiente circostante con apparente noncuranza.
Una volta giunti all’imboccatura della grotta, il francese si portò al fianco di Sewell e gli afferrò un braccio bloccandolo. «Joseph, ho bisogno di sapere se vi fidate ancora di me!» disse con tono quasi implorante. «Ditemi dunque, vi fidate ancora di me?»
La veemente quanto improvvisa iniziativa del francese sortì l’effetto insperato di scuotere Greenstone dal suo isolamento. Lo scozzese si voltò, fissò l’amico con un’aria di sincera riconoscenza e dichiarò: «Jacques, non ho mai smesso di avere fiducia in voi… Come potrei? Mi avete sempre dimostrato di credere in me anche quando tutti i nostri stimati colleghi, da Parigi a Londra, ridevano del sottoscritto. Ricordate? Avete messo in gioco la vostra reputazione per sostenermi! Ora scopro pure che siete mio benefattore, mettendomi nel vostro testamento…» fece una breve pausa poggiandogli una mano sulla spalla. Poi aggiunse: «Sarò sempre in difetto con voi, lo sapete Jacques… E sono onorato che abbiate deciso di affrontare questo difficile momento con me al vostro fianco… E in ogni modo, per quel che ne so, in questo dannato posto abbiamo tutti quanti una discreta probabilità di lasciarci la pellaccia!»
I due risero e si abbracciarono.
Anche Juan, di solito imperturbabile, accennò un sorriso, poi disse: «Sir Joseph, col vostro permesso io accenderei le lanterne…» ficcò una mano nella bisaccia estraendovi un acciarino e un paio di radici sbucciate di manioca, si avvicinò allo scozzese e gliene porse una, «Tenete, è yuca dolce. Stamane non avete ancora mangiato nulla!»
Greenstone accettò volentieri, addentò la radice e s’inoltrò oltre il buio della caverna.
I suoi due compagni fecero altrettanto.
Il giorno seguente il cielo iniziò a schiarire intorno alle sei del mattino. I primi ad alzarsi furono Juan e Pedro. I due si rassettarono alla meglio e, prima che gli scienziati si svegliassero, cominciarono a spianare il terreno per potervi piantare la tenda. Mezz’ora dopo Sewell aprì gli occhi e vide la caffettiera sul fuoco che fumava. Per un attimo pensò d’essere ancora al villaggio, poi allargò lo sguardo sulla vegetazione che avviluppava tutto l’ambiente circostante.
uno scorcio della foresta attorno alla radura
Era una visione stupenda: il cielo completamente sgombro di nuvole era di un azzurro intenso mentre le montagne che chiudevano l’orizzonte erano come gigantesche dune colorate di verde scuro. Il crinale sul lato opposto della gola faceva intravedere l’innumerevole varietà di alberi secolari che ricoprivano tutta la montagna, alberi e felci dalle foglie grandi come lenzuoli. Tutto quanto sembrava lo scenario di un paradiso pullulante di vita.
E in effetti intorno all’accampamento di vita ce n’era parecchia: farfalle con enormi ali dalle livree cangianti svolazzavano sulla radura; più in alto uccelli dal piumaggio multicolore eseguivano le loro evoluzioni aeree come fossero privi di peso; poi, c’erano le scimmie appostate sopra gli alberi.
Le scimmie erano praticamente ovunque, decine e decine. Controllavano a distanza gli strani intrusi capitati nel loro territorio e si allertavano scambiandosi urla assordanti. Erano agili e scattanti, si muovevano nella folta vegetazione come folletti, era difficile seguirne i movimenti: scomparivano e riapparivano qua e là. Alcune erano grandi come gatti mentre altre sembravano più massicce. In ogni caso tutte accomunate da una grande curiosità verso gli umani che avevano occupato la vasta radura sottostante.
scimmia urlatrice
Sewell osservava i primati che si muovevano agili come scoiattoli tra i rami degli alberi tutt’intorno, cercava d’individuarne le varie specie quando una voce rauca dal chiaro accento francese lo distolse dalle sue meditazioni.
«Bonjour mon ami, dunque oggi è il gran giorno!» esclamò Jacques Verdoux.
«Ah vecchio mio, vi siete svegliato finalmente! Bene… avete recuperato le forze? Temo che oggi ne avrete bisogno sapete!»
«Credo di sì, ma sarò più preciso dopo aver messo qualcosa in pancia!»
I due esploratori si sedettero davanti al fuoco e iniziarono a consumare le provviste sorseggiando del caffè bollente.
Dopo essersi rifocillati, Greenstone e Verdoux si unirono ai due giovani inservienti che intanto avevano già fissato i pali della tenda. I quattro uomini impiegarono all’incirca un’ora per terminare i lavori. Già all’alba faceva caldo e ci volle parecchio sudore e olio di gomito, ma tutti fecero la loro parte e alla fine l’accampamento fu completato a regola d’arte.
Alle nove del mattino iniziarono i preparativi per la discesa.
Greenstone aveva individuato un punto della radura lungo il margine del crepaccio che finiva in uno strapiombo. Prese una corda, vi legò un grosso ramo precedentemente levigato per evitare che si potesse impigliare e lo gettò nel baratro. Si sentì un tonfo sordo, segno che il ramo aveva impattato il fondo, iniziò così a recuperare la corda fino a che non trovò la resistenza del peso del ramo adagiato da qualche parte in fondo al crepaccio, allora fece un segno sulla corda e lo issò. L’espediente gli confermò una profondità approssimativa di un centinaio di iarde. Il cordame a loro disposizione per la discesa era più che sufficiente.
In quel preciso punto fece fissare da Juan un verricello a cui applicò la corda con la quale avrebbe calato l’attrezzatura pesante per le probabili operazioni di scavo e che successivamente sarebbe servita per issare gli eventuali reperti. A tale scopo Pedro sarebbe rimasto in cima all’accampamento per provvedere al recupero. Tutto questo perché la difficoltà della discesa era tale da imporre agli uomini di non appesantirsi di fardelli che avrebbero potuto essere d’intralcio, così facendo ognuno di loro si equipaggiò del minimo indispensabile.
Greenstone scrutò il collega francese. «Allora Jacques, siete sicuro di voler scendere? Se non ve la sentite potrete sempre rimanere quassù a dare una mano a Pedro quando dovrà issare il materiale.»
«Monsieur, vi assicuro che è tutto a posto. Vedrete, mi renderò utile anche laggiù.» rispose perentorio Verdoux.
Sewell capì una volta per tutte che, nonostante gli acciacchi e i problemi di salute che da tempo tormentavano il compagno, ormai niente al mondo avrebbe fatto desistere il francese dall’andare fino in fondo.
Sewell, Jacques e Juan iniziarono a scendere. La pendenza andava da un minimo di trenta a un massimo di quarantacinque gradi e per questo motivo era necessario puntellare ogni passo per evitare di scivolare. Era anche indispensabile dover usare le mani per trovare un appiglio nel fitto intrico di rami e liane che ricoprivano il pendio.
Certo la vegetazione intralciava il cammino, ma ben presto si rivelò utilissima a impedire a ciascuno dei tre di rovinare verso il basso rischiando di spezzarsi l’osso del collo. Occorreva comunque stare molto attenti a dove metter le mani per evitare spiacevoli sorprese. Come quella che ebbe Juan quando non si accorse di uno spuntone di roccia nascosto sotto le foglie, inconveniente che gli procurò un lungo taglio all’avambraccio. Fortunatamente la ferita non era profonda e l’indio la fasciò prontamente con una benda.
Juan faceva da battistrada e Greenstone lo seguiva a ruota. Più indietro c’era Jacques, visibilmente impacciato e goffo nei suoi sforzi per non rotolare giù. Greenstone, preoccupato per l’evidente difficoltà del francese, non smetteva di tenerlo d’occhio.
Per arrivare in fondo non ci volle più di mezz’ora e, giunti alla meta provati ma soddisfatti per essere ancora tutti interi, i tre uomini si fermarono per rifiatare.
Fino a quel punto era andato tutto bene e Sewell si compiacque coi compagni per non essersi ancora rotti nulla o quasi. In quel momento Juan si tolse la benda e si controllò la ferita, poi cercò sul terreno qualcosa, la raccolse e la poggiò sull’avambraccio ferito.
Lo scozzese, incuriosito, s’avvicinò al ragazzo per osservarlo meglio. Vide che l’indio raccoglieva delle grosse formiche rosse, le posava sopra la ferita in modo che queste serrassero le mandibole simili a due pinze chiudendone i bordi come i punti di un chirurgo, poi staccava i corpi degli insetti lasciandovi solo la testa con le mandibole conficcate. Finita l’operazione la ferita appariva ben chiusa e curiosamente ornata da una quindicina di teste di formica grosse come chicchi di caffè.
morso di formica
«Sei un tipo pieno di risorse Juan!» commentò Sewell, affascinato da quella strana sutura, «Dove hai imparato questi trucchi da abitante della giungla?»
«Ho fatto da guida nella foresta colombiana per conto di una compagnia americana prima di lavorare per i francesi… e laggiù, dalle tribù locali, ho imparato molte cose!» disse senza distogliere lo sguardo dalla fila di formiche superstiti che scompariva tra le pietre.
«Americani… E cosa cercavano degli yankees in Colombia?»
«Erano di una società mineraria di Boston, almeno così ci dissero. Cercavano dei giacimenti di un minerale chiamato bauxite, vi si estrae un metallo resistente come il ferro ma molto più leggero…»
«Idrossido d’alluminio… il metallo si chiama alluminio!» precisò lo scienziato. «In Europa c’è già chi lo produce in serie… Ricordo che dai nostri cari rivali di Oxford ne esaminai un campione tempo fa.»
«Io credo che in realtà cercassero l’oro… Poi comunque me ne andai, non c’era da fidarsi… Così ho accettato di lavorare a Panama, coi francesi, il resto lo sapete!» aggiunse il ragazzo.
Jacques Verdoux, rimasto in silenzio fino a quel momento, esclamò: «Sentite signori, tutto questo è molto interessante… Volevo solo chiedervi se vi siete accorti che siamo in fondo a una gola in cui la luce del sole filtra a malapena! La discesa che abbiamo appena fatto adesso ha un altro nome: adesso dovremo chiamarla salita! E ho paura che tornare lassù non sarà facile come lo è stato scendere!»
«Avete perfettamente ragione, mio caro Jacques! Non è il posto ideale per chiacchierare, del resto vi avevo avvisato amico mio, ma voi avete insistito a voler venire giù con noi…» ribatté sornione lo scozzese.
«E lo confermo!» ribadì prontamente il francese, «Sono tuttora convinto che non potevo fare scelta migliore, ma Joseph, amico mio, volevo soltanto attirare la vostra attenzione sul posto in cui siamo finiti… Guardatevi attorno, sembra l’anticamera dell’inferno!»
Alle parole del francese Sewell si rese conto che era giunto il momento di dare un’occhiata più attenta all’ambiente circostante.
L’osservazione di Verdoux era quanto mai calzante: i tre uomini si trovavano in una profonda depressione poco illuminata, per nulla accogliente. Era una stretta fenditura che sprofondava tra le montagne incuneandosi verso est per miglia e miglia, un percorso a ostacoli fatto di anse e strettoie irte di spuntoni rocciosi da cui sarebbe stato assai arduo risalire.
Ma ciò che impressionava di più era l’impossibilità di scorgere il cielo. Pareva di essere finiti in un tunnel a malapena illuminato da quel poco di luce che filtrava dal fogliame, la volta del tunnel era formata da un formidabile intreccio di rami e liane reso ancor più omogeneo da una fitta cortina di foglie gigantesche.
Ogni cosa in quella gola appariva sproporzionata, dalle piante che dominavano dall’alto alle rocce disseminate sul fondo, e proprio le rocce rappresentavano l’insidia maggiore. Tra le rocce infatti si nascondevano profonde voragini, trappole mortali per chiunque ci finisse dentro, ma anche gli unici ingressi a una serie di gallerie sotterranee: Le famose grotte di Arauna. Quelle che, secondo l’ipotesi di Greenstone, dovevano essere l’habitat del lithofagus.
Le misteriose grotte di Arauna erano, in definitiva, l’ambita destinazione dei tre esploratori.
Quegli attimi di muta contemplazione fecero notare allo scozzese che in quel posto dominava un silenzio tombale. Si rammentava che la foresta era pur sempre un concentrato di suoni che testimoniavano la vita pulsante di cui era intrisa, neppure di notte la giungla era priva di rumori, anzi. Ma laggiù non si udiva nulla, assolutamente nessun rumore. Le loro stesse voci risuonavano stranamente ovattate, il che contribuiva a rendere tutta quanta la situazione quasi surreale. Eppure non era affatto strano: gli esseri che abitavano quel posto non emettevano né grugniti né nessun altro tipo di suono. Erano assolutamente muti e silenziosi, e questo fatto li rendeva in qualche modo ancor più pericolosi di quanto già non fossero.
La scarsa luce ambientale poi si diffondeva in un insolito grigiore crepuscolare.
“È esattamente come il cielo plumbeo della Scozia durante i temporali dei tardi pomeriggi autunnali” pensò Sewell in quel momento. Del resto, era solito dire che dovunque andasse nel mondo c’era pur sempre un pezzetto di casa propria ad attenderlo. Persino in quel posto alieno riuscì a trovarlo.
A quell’ora del mattino la luce solare stava illuminando la foresta sovrastante riscaldandone l’aria. L’umidità che di notte aveva inzuppato la vegetazione evaporò lentamente creando una bruma pesante che iniziò a scendere nella gola. In basso la temperatura più fredda fece condensare le goccioline di vapore che, cadendo dalla volta arborea di quello strano tunnel, formarono una sorta di pioggerella fitta e pungente.
Tutto questo rese ancor più sgradevole la già brutta impressione che quel posto aveva fatto ai tre uomini, ma non era ancora finita: alla semioscurità, al freddo e alla pioggia si aggiunsero… gli insetti!
Sciami di zanzare imperversavano ovunque, creando fitte nuvole d’insetti attorno alle liane che penzolavano dalla volta. Sul terreno una moltitudine di formiche grosse come grilli marciava in svariate direzioni, formando lunghi torrenti brulicanti color porpora che si perdevano nelle larghe fessure tra le pietre.
E, come se ciò non bastasse, Greenstone sapeva bene che laggiù le vere insidie erano rappresentate da quello che non si vedeva. «Bene signori, temo che dovremo abituarci a questo nuovo ambiente… Comunque vorrei mettervi al corrente di una cosa: questo posto è noto agli indios come la “fossa dei veleni”, quaggiù esistono piante tossiche come la strychnos o come le stesse liane che penzolano sopra di noi, i cacciatori si spingono da queste parti per procurarsele e ricavarci il curaro per le loro frecce.»
«Avete letto il trattato di Bonpland?» chiese a quel punto il francese.
«Ho studiato i resoconti di Von Humboldt e anche gli studi del vostro illustre compatriota, vecchio mio!» precisò Sewell.
«Ma non è solo questo.» proseguì, «Da adesso in poi dovremo stare molto attenti a tutto ciò che si muove! Questo è l’habitat ideale di ragni, scorpioni e scolopendre, il veleno di alcuni di loro può essere letale.»
«Avete dimenticato i serpenti!» eccepì il paleontologo.
«Non sono da escludere in effetti! Tuttavia dei serpenti non mi preoccuperei più di tanto adesso, casomai al nostro ritorno nella giungla. In questo territorio le specie sono quasi tutte arboricole e amano scaldarsi al sole, quaggiù ci sono solo pietre e fredda penombra!»
Juan, che fino a quel momento era rimasto a osservare l’ambiente intorno a sé, s’intromise nella conversazione: «Sir Joseph, dovremmo avvisare Pedro che siamo arrivati e che cominci a calare le attrezzature.»
Seguendo il suggerimento del giovane indio, i tre s’avviarono verso il punto dove era stata gettata la corda: il fondo del crepaccio con le pareti a strapiombo in solido granito, dalle quali affioravano lunghi filoni di quarzo azzurro. Il luogo era spoglio e si allargava in un lato formando una sorta di emiciclo che pareva appunto il fondo di un pozzo. Man mano che i tre esploratori vi si avvicinavano, la volta arborea che li sovrastava diventava più rada lasciando filtrare sempre più luce. D’improvviso sbucarono in uno slargo e finalmente rividero il cielo.
Greenstone e gli altri furono subito investiti dalla luce del sole che a quell’ora era allo zenit facendo capolino sopra di loro, in qualche modo si sentirono come rincuorati, anche se restavano pur sempre in fondo alla gola.
Il biologo intravide la corda che penzolava al centro dello spiazzo e si diresse verso di essa, poi puntò lo sguardo in alto e scorse la carrucola del verricello a cui era appesa la fune che sporgeva dal ciglio. Fece un cenno ai compagni e tirò con forza la corda verso il basso: era il segnale per Pedro.
Pedro era rimasto tutto il tempo appostato a lato del verricello in attesa. Finalmente, quando vide la fune tendersi, poté iniziare a calare le attrezzature ai compagni in fondo al crepaccio.
Furono calati due picconi, due vanghe, tre lampade a petrolio, coperte e impermeabili, una borsa con una scorta di provviste e un fucile. A parte lampade e fucile, tutto fu sistemato in un angolo del pozzo. Poi, distribuiti i rifornimenti da portarsi appresso, Greenstone e compagni tornarono nel tunnel della gola, sotto l’intrico di alberi aggrappati ai due pendii laterali e intrecciati gli uni agli altri.
I tre si diressero verso le fenditure della roccia che avevano scorto appena giunti in fondo alla gola. Quei grossi squarci erano gli accessi ad una complessa rete di cunicoli che scendevano ancora più in basso per aprirsi infine a un mondo sotterraneo fatto di antri enormi collegati da un dedalo di gallerie che si intrecciavano sotto la montagna per diverse miglia.
Le grotte di Arauna erano considerate maledette dagli indios perché molti cacciatori che vi erano entrati non ne erano mai più usciti. Gli indigeni sostenevano che la montagna non voleva essere disturbata dagli uomini, e che da troppo tempo ormai non erano stati più offerti sacrifici umani per placare la sua collera. Per questo motivo il dio Alatapec vegliava su di essa, divorando chiunque osasse profanarla.
Le ataviche superstizioni che condizionavano quei luoghi non scalfirono in alcun modo la determinazione del biologo scozzese. Pur tuttavia, l’atmosfera spettrale che permeava tutto l’ambiente spinse ognuno dei tre esploratori a fare i conti con le proprie inquietudini.
Greenstone era un passo avanti al gruppo quando si trovò di fronte a un’ampia spaccatura della parete rocciosa sul lato settentrionale della gola. Era l’ingresso di una delle tante gallerie che s’inoltravano nella montagna calandosi nel buio, verso abissi inesplorati.
Decise di entrare.
“Quando percorri un sentiero mai battuto da nessuno, quando oltrepassi la soglia dell’ignoto, devi fare i conti con la vera solitudine. È la solitudine dell’uomo al cospetto dell’immensità della natura, intesa come l’Universo e tutti i suoi fenomeni; tutti quei meccanismi, quelle leggi che lo governano e che ogni uomo di scienza rincorre cercando di carpirne i segreti. Oltrepassare i confini della conoscenza dentro le anguste pareti di un laboratorio maneggiando provette e alambicchi e osservando le reazioni di minuscole particelle al microscopio, oppure andare per il mondo inseguendo remote tracce di antiche civiltà o sfidando terre ostili per scoprire nuove forme di vita o per conoscere le cause di eventi naturali ancora avvolti da mistero. Tutte le molteplici facce della ricerca umana hanno uguale dignità nel primato della verità. L’uomo di scienza che, spinto da un’incorruttibile sete di verità, rimane solo davanti alla scoperta di ciò che prima era ignoto, è il vero motore dell’evoluzione umana.”
J. S. Greenstone
Il credo di Joseph Sewell Greenstone era dunque questo.
Era un fuoco che ardeva nel suo cuore fin da bambino e che lo spingeva a porsi continue domande e andare oltre le rassicuranti apparenze. Le sue convinzioni sul primato della conoscenza a ogni costo l’avevano portato fin lì.
Egli aveva messo in gioco la sua stessa vita, rischiandola innumerevoli volte, per poter finalmente risolvere l’enigma che aveva motivato tanti anni di ricerche e di viaggi intorno al mondo.
ingresso della grotta
Entrò attraverso la cavità nella roccia e si trovò in una spelonca buia e fredda. Decise di accendere la lampada a petrolio, dovette farlo con l’acciarino che teneva nella bisaccia poiché i fiammiferi che aveva in tasca e usava per dar fuoco al tabacco della sua pipa di bambù erano stati bagnati dalla pioggia.
Aiutati dalla luce delle lanterne, Greenstone e compagni iniziarono a spingersi all’interno della galleria. Man mano che avanzavano l’aria si faceva sempre più pungente e l’oscurità sempre più impenetrabile. Le lampade riuscivano a malapena a delineare i contorni della grotta che nel tratto iniziale era costituita da un largo cunicolo che declinava verso il basso, puntellato qua e là da spesse stalattiti e stalagmiti che si univano saldandosi in maestose colonne di calcare.
Il terreno in pendenza era viscido, irregolare e disseminato di detriti, e obbligava i tre ad avanzare con cautela per non scivolare.
Greenstone, che si era sempre mantenuto in testa al gruppo, improvvisamente s’arrestò. «Penso ci sia qualcosa là in fondo!» disse con lo sguardo fisso oltre l’oscurità.
Poggiò la lanterna in terra e imbracciò il fucile che aveva con sé, era un Winchester 1876 acquistato da un armaiolo di Richmond nel suo ultimo viaggio in Nord America di due anni prima. Greenstone era un ottimo tiratore e all’epoca quell’arma era il meglio in circolazione.
Jacques Verdoux, allarmato, si rivolse all’amico: «Cosa avete visto Joseph? Io non ho notato nulla… Dobbiamo preoccuparci?»
«Non lo so, ma sono sicuro che là davanti c’è qualcosa che s’è mosso… e non credo si tratti di un gatto!»
Rimasero tutti e tre in allerta per alcuni minuti, la luce tremolante delle lampade non riusciva a scardinare la cortina di tenebre che, a pochi passi da loro, avvolgeva tutto quanto. Poi Juan notò qualcosa ai suoi piedi, si chinò, ne raccolse una piccola quantità e infine disse: «Sir Joseph guardate, è wano de cueva… murcielagos señor!»
«Ma certo! Dovevo immaginarlo! Caro Jacques siamo capitati in mezzo a una colonia di pip…» lo scozzese non poté finire la frase. In un istante i tre esploratori furono travolti da una miriade di grossi chirotteri svolazzanti. Erano migliaia, e invasero tutta la galleria dirigendosi verso l’uscita. Tutti e tre si dovettero accucciare per evitare l’impatto con quelle creature che sembravano non finire mai. Il battito di migliaia di ali provocò un rumore talmente assordante che rischiò di lacerare timpani che fino a quel momento avevano goduto di un silenzio assoluto.
pipistrelli vampiri in volo nella grotta
Poi, così com’era iniziato, il caos cessò all’improvviso. Il tutto durò appena una sessantina di secondi, ma ai tre parvero trascorsi parecchi minuti e si risollevarono guardandosi intorno con cautela, frastornati e intontiti dal rumore che ronzava ancora nelle orecchie.
Greenstone posò il calcio del suo Winchester a terra e riprese a parlare: «Come avete ormai capito, abbiamo messo in fuga una colonia di pipistrelli! Dal colore delle ali azzarderei… diaemus youngi!»
«Vampiri dunque!» tradusse il francese.
diaemus youngi
«Evidentemente il fumo delle nostre lanterne li ha infastiditi e allarmati… tanto che l’istinto li ha fatti fuggire in massa all’esterno della grotta.» rifletté lo scozzese, «Direi di continuare a camminare in questa direzione ancora per un po’ e vedere cosa c’è oltre, poi torneremo indietro, il petrolio delle lampade dovrà bastarci anche per domani.»
Proseguirono il cammino per una buona mezz’ora senza incontrare grossi ostacoli. Anche se percorsero in tutto poche centinaia di iarde, la grotta s’inoltrava nella montagna probabilmente per chissà quante miglia ancora.
I tre esploratori giunsero in un crocicchio di gallerie secondarie, si delineava un vero e proprio labirinto sotterraneo, fu a quel punto che decisero di tornare indietro.
Per una volta il buonsenso, il freddo e le tenebre ebbero la meglio sullo spirito d’avventura del gruppo.
Quando uscirono dalla caverna era ormai tardo pomeriggio, all’esterno le ombre della sera imminente stavano oscurando la foresta sul versante occidentale della vallata. Il buio in fondo alla gola era ormai tale da obbligare Greenstone e gli altri a tenere le lampade accese, almeno finché non giunsero all’emiciclo in fondo al pozzo nel quale penzolava la fune di Pedro. Lì la luce residua del giorno li aiutò a sistemare gli equipaggiamenti per trascorrere la notte nella gola di Valverde.
il cielo rischiara il fondo del crepaccio
Alla fine di quella prima giornata si ritrovarono esausti e infreddoliti. Juan accese un fuoco con dei rami secchi che Pedro, un centinaio di iarde più su, aveva precedentemente calato con la corda, dopodiché iniziò a scaldare un po’ di zuppa.
Era necessario riprendere le forze e un buon pasto caldo, seguito da una notte di riposo, erano ciò che serviva al gruppo per ricaricarsi e affrontare il giorno successivo che si preannunciava intenso e ricco d’incognite.
Dopo aver cenato i tre si sistemarono alla meglio intorno al falò.
Il giovane indio si mise nella sua posizione abituale: seduto in terra avvolto nel suo poncho, le gambe intrecciate, le braccia conserte e la testa reclinata in avanti. Greenstone era affascinato da quello strano ragazzo, e ogni volta si chiedeva come potesse restare per ore immobile in quella posizione senza svegliarsi poi col collo bloccato.
Il francese, che quella sera pareva fosse invecchiato di dieci anni, cercò di modellare il pagliericcio del proprio giaciglio per poter attenuare gli acciacchi che quella notte da passare sulla nuda pietra gli avrebbe certamente procurato. Poi, trovata la posizione giusta, si addormentò dopo pochi istanti.
Lo scozzese invece, come al solito, rimase per lungo tempo a vegliare prima d’addormentarsi. Quella era la parte della giornata in cui era sua abitudine fare un bilancio delle cose fatte per poi fare un programma delle cose da fare l’indomani.
Assorto nei suoi pensieri, sentiva il paleontologo russare e il suo sguardo cadde accidentalmente su una bottiglietta di vetro che sporgeva dalla bisaccia dell’amico poggiata a due passi da lui. Nella bottiglietta intravide un liquido color verde che l’incuriosì, così la raccolse, la guardò e poi, tolto il tappo, ne odorò il contenuto.
Greenstone fece un lungo sospiro e scosse la testa, rimise a posto il flacone nella borsa del francese e s’accucciò sul fianco.
Altri pensieri si sommarono nella sua mente, prima di abbandonarsi a un sonno pesante e tormentato.